ANNO LXXIII - N. 2 
APRILE - GIUGNO 2021 


RASSEGNA 
AV 
V 
O 
C 
AT 
U 
R 
A 
DELLO 
STATO 


PUBBLICAZIONE 
TRIMESTRALE DI SERVIZIO 



COMITATO 
SCIENTIfICO: 
Presidente: 
Michele 
Dipace. 
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Guido 
Di 
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Michele 
Gerardo, 
Sofia 
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Adolfo 
Mutarelli, 
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Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 



indice 
-sommario 


Sintesi 
dell’intervista 
a 
Giuseppe 
Tesauro 
per 
la 
Rivista 
Lo 
Stato 
(giugno 
2021) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 
1 
TEMI 
ISTITUZIONALI 
Soppressione 
di 
Riscossione 
Sicilia 
s.p.a. 
e 
successione 
a 
titolo 
universale 
di 
Agenzia 
delle 
Entrate-Riscossione 
(ADER) 
a 
decorrere 
dal 
1°.10.2021. 
Addendum 
al 
Protocollo 
d’intesa 
sottoscritto 
tra 
l’Avvocatura 
dello 
Stato 
e 
ADER, Circolare 
A.G. prot. 680252 del 23 novembre 2021 n. 63 
. . . . ›› 
15 
CONTENZIOSO 
COMUNITARIO 
ED 
INTERNAZIONALE 
Giulia 
Quagliariello, 
Le 
sanzioni 
sostanzialmente 
penali 
dell’AGCOM 
e 
il 
sindacato 
di 
piena 
giurisdizione 
(Corte 
EDU, 
Sez. 
I, 
sent. 
10 
dicembre 
2020, 
ricorsi 
nn. 
68954/13 
e 
70495/13, 
Edizioni 
del 
Roma società cooperativa a r.l. e Edizioni del Roma s.r.l. c. Italia) 
. . . . . ›› 
17 
Emanuela 
Brugiotti, 
Note 
a 
margine 
della 
sentenza 
J.L. 
c. 
Italia 
della 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo. 
Violenza 
di 
genere 
e 
vittimizzazione 
secondaria: 
la 
pronuncia 
del 
giudice 
nazionale 
tra 
libertà 
di 
espressione 
e 
interferenza 
nella 
protezione 
del 
diritto 
alla 
privacy 
(Corte 
EDU, 
Sez. 
I, 
sent. 
27 
maggio 
2021, 
ricorso 
n. 
5671/16, 
J.L. 
c. 
Italia) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
49 
CONTENZIOSO 
NAZIONALE 
Emanule 
fazio, L’istituto della fungibilità in materia di 
ingiusta detenzione: 
tra monetizzazione 
dell’indennizzo e 
‘compensazione 
legale’ 
con 
diversa pena (ancora) da espiare 
(C. App. Catania, Sez. I pen., ord. 31 
luglio 2020 n. 41) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
85 
Guido 
Di 
Biase, 
Una 
sentenza 
del 
Tribunale 
di 
Venezia 
in 
tema 
di 
demanialità 
delle 
valli 
da 
pesca 
(Trib. 
Venezia, 
Sez. 
I, 
sent. 
8 
ottobre 
2021 
n. 
1980) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
93 
Giuseppe 
Arpaia, Una applicazione 
impropria del 
principio dell’assorbimento 
in 
una 
procedura 
concorsuale 
nella 
quale 
gli 
ammessi 
con 
riserva 
avevano 
lamentato 
la 
violazione 
del 
principio 
dell’anonimato 
nella 
prova preselettiva 
(Cons. St., Sez. IV, sent. 20 luglio 2021 n. 5468) 
. 
. 
. 
›› 
97 
Wally ferrante, Interdittive 
antimafia: una strumentalizzazione 
dell’istituto 
del 
controllo giudiziario ex 
art. 34 bis 
Codice 
antimafia 
(Cons. St., 
Sez. III, ord. 15 ottobre 
2021 n. 5667; 
Cons. St., Sez. III, sent. 4 febbraio 
2021 n. 1049) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
108 
LEGISLAZIONE 
ED 
ATTUALITà 
Gaetana 
Natale, L’interoperabilità: il 
dialogo necessario tra il 
digitale 
e 
il diritto 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
117 



Sofia 
Lanna, 
Il 
rapporto di 
esclusività del 
dipendente 
pubblico ed il 
problema 
della 
incompatibilità 
successiva 
all’interruzione 
del 
rapporto 
di 
lavoro: la questione dell’Avvocato dello Stato. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 
131 
Mariarita 
Romeo, 
Gestione 
dell’emergenza 
sanitaria, 
decisioni 
pubbliche 
ed esercizio dei diritti fondamentali 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
149 
CONTRIBUTI 
DI 
DOTTRINA 
Antonio 
Tallarida, 
Il 
nuovo 
giudizio 
di 
ottemperanza: 
nella 
pratica 
e 
nella 
giurisprudenza 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
163 
Michele 
Gerardo, 
Adolfo 
Mutarelli, 
Intorno 
all’attuazione 
dell’art. 
111 
Cost. nelle 
questioni 
attinenti 
o inerenti 
alla giurisdizione. Proposte 
ricostruttive 
in ordine 
all’ammissibilità del 
ricorso in Cassazione 
avverso 
le sentenze del Consiglio di Stato. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
177 
Gaetana Natale, Il persistente valore della dominicalità 
. . . . . . . . . . . . . ›› 
191 
federico 
Casu, 
Unità 
d’Italia. 
Abolizione 
del 
contenzioso 
amministrativo 
e questione demaniale 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
211 



Sintesi dell’intervista a Giuseppe 
Tesauro 
per la Rivista Lo Stato (giugno 2021) 
(*) 


Non posso che 
essere 
grato alla 
rivista 
Lo Stato 
ed in particolare 
ai 
proff. 
Vignadelli 
e 
Pedrini 
per avermi 
offerto l’occasione 
di 
una 
riflessione 
sui 
numerosi 
stimoli 
culturali 
che 
il 
diritto dell’Unione 
Europea 
offre 
allo studioso 
e 
all’operatore, 
così 
come 
ai 
giovani 
che 
si 
avvicinano 
al 
mondo 
del 
diritto 
con qualche esperienza, anche minima, di diritto interno o internazionale. 


Tra 
le 
premesse 
metodologiche 
e 
teoriche 
che 
Pedrini 
mi 
propone 
c’è 
l’approccio 
internazionalistico 
al 
diritto; 
e 
si 
chiede 
quale 
sia 
lo 
stato 
dell’arte 
in 
un’ottica 
internazionalistica, 
fino 
ad 
una 
riflessione 
sul 
processo 
di 
integrazione 
a 
partire 
dal 
diritto costituzionale 
interno. In proposito, mi 
sembra 
opportuno 
sottolineare 
subito l’ovvia 
origine 
internazionalistica 
della 
Comunità 
europea, disegnata 
dai 
Trattati 
di 
Parigi 
del 
1951 (CECA) e 
del 
1957 (Comunità 
economica 
e 
europea, oltre 
alla 
contestuale 
Comunità 
dell’Energia 
Atomica). 
I 
trattati 
istitutivi 
vanno 
interpretati 
come 
tali, 
secondo 
le 
regole 
d’interpretazione 
fissate 
anche 
dalla 
Convenzione 
di 
Vienna, pur non trascurando 
la 
circostanza 
che 
si 
tratta 
di 
trattati 
istitutivi 
di 
organismi 
internazionali 
e 
dunque 
comportano 
qualche 
complessità 
in 
più. 
Molti 
passaggi 
del 
processo 
di 
integrazione 
vanno misurati 
col 
metro del 
diritto internazionale. Del 
pari, 
il 
rapporto tra 
il 
diritto dell’Unione 
e 
gli 
ordinamenti 
nazionali, cioè 
il 
modo 
di 
essere 
e 
di 
tradurre 
il 
dettato delle 
norme 
esterne 
nel 
contenuto di 
norme 
interne, è fissato dalle conferenti norme costituzionali degli Stati. 


Tuttavia, 
la 
premessa 
tecnico-giuridica 
appena 
ricordata 
non 
combacia 
con la 
logica 
metodologica 
e 
teorica 
del 
diritto internazionale 
e/o del 
diritto 
interno, 
ciò 
che 
specificamente 
rende 
interessante 
lo 
sguardo 
allo 
scenario 
del 
processo 
di 
integrazione 
europea 
e 
ne 
fa 
emergere 
una 
serie 
di 
stimoli 
senz’altro 
nuovi 
rispetto 
ad 
ogni 
altra 
disciplina 
giuridica. 
Lo 
prova 
la 
circostanza 
che 
volere, 
sia 
pure 
istintivamente, 
accostare 
o 
comparare 
le 
problematiche 
del 
diritto dell’Unione 
a 
quelle 
di 
uno Stato o di 
un’organizzazione 
internazionale 
qualsiasi 
è 
sbagliato, tanto da 
creare 
confusione, con evidente 
danno 
nella 
formazione 
dei 
giovani. L’Unione 
non è 
da 
confondersi 
con uno Stato, 
né 
federale, nè 
confederale, né 
altro, nonostante 
gli 
auspici 
o le 
sviste 
di 
certa 


(*) 
Sintesi 
dell’intervista 
pubblicata 
dall’Associazione 
Italiana 
Studiosi 
di 
Diritto 
dell’Unione 
Europea 


-AISDUE; versione integrale consultabile nella rivista Lo Stato, n. 16 (2021), pp. 183-224. 
Un 
sentito ringraziamento alla Professoressa Patrizia De 
Pasquale 
e 
al 
Professore 
Federico Pedrini 
per aver consentito di condividere con la Rassegna Avvocatura dello Stato il prezioso contributo. 


Ed, altresì, all’Avv. dello Stato Sergio Fiorentino, per 
averci 
segnalato l’ultimo intervento del 
‘compianto 
Maestro’ 
nel 
dibattito scientifico ‘denso, come 
di 
consueto, di 
profondi 
insegnamenti, che 
... 
potranno costituire, per 
i 
più 
giovani, spunto per 
approfondire 
la conoscenza e 
la pratica del 
diritto 
comunitario’. 



rASSEGNA 
AVVOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 2/2021 


dottrina, 
che 
da 
tempo 
spingono, 
insieme 
alla 
Commissione 
europea, 
verso 
questa 
direzione, 
come 
appare 
ben 
chiaro 
nella 
sentenza 
della 
Corte 
di 
giustizia 
sulla 
proposta 
di 
adesione 
alla 
CEDU. In breve, l’Unione 
non è 
uno Stato e 
per il 
momento non vuole 
neppure 
esserlo, nel 
senso che 
gli 
Stati 
membri 
non 
danno alcun segnale 
favorevole 
in questo senso. Tale 
considerazione 
ci 
porta 
a 
ritenere 
che 
la 
sensibilità, 
a 
livello 
sia 
scientifico 
che 
pratico, 
è 
cresciuta 
non 
di 
molto, 
precisamente 
per 
la 
tentazione 
di 
guardare 
al 
diritto 
dell’Unione 
con 
logiche 
interne 
o internazionali; 
né 
si 
tratta 
solo di 
orientamenti 
politici, che 
cambiano molto spesso colore, ma 
di 
una 
radicata 
cultura 
giuridica 
che 
non 
riesce 
a 
spaziare 
come 
si 
dovrebbe 
oltre 
i 
confini 
nazionali 
di 
un ordinamento 
giuridico, 
che 
pure 
sarebbe 
richiesto 
da 
un’esigenza 
di 
modernizzazione 
dello 
studio del diritto. 


Io stesso, avendo la 
guida 
del 
grande 
maestro Quadri 
del 
diritto internazionale, 
gli 
feci 
accettare 
dopo 
qualche 
lavoro 
minore 
di 
diritto 
internazionale, 
un argomento di 
diritto dell’Unione, allora 
comunitario, sul 
prelievo CECA, 
e 
di 
fare 
una 
esercitazione 
agli 
(attoniti) studenti 
sulla 
Van Gend en Loos. 
Anch’io 
ero 
curioso 
e 
intimorito 
dalla 
novità 
affascinante 
della 
sentenza, 
della 
quale 
riuscii 
però a 
cogliere 
l’importanza 
fondamentale 
per gli 
sviluppi 
successivi 
del 
processo di 
integrazione. Due 
gli 
aspetti 
che 
soprattutto mi 
colpirono: 
il 
coinvolgimento 
dei 
singoli 
nella 
valutazione 
della 
legittimità 
degli 
atti 
comunitari, 
compresa 
la 
ricaduta 
concreta 
della 
decisione 
della 
Corte, 
e 
la 
particolarità 
del 
meccanismo del 
controllo giurisdizionale 
nel 
suo insieme, con 
la 
cooperazione 
attiva 
tra 
giudice 
dell’Unione 
e 
giudice 
nazionale, rivelatosi 
poi 
il 
meccanismo 
che 
soprattutto 
ha 
contribuito 
allo 
sviluppo 
del 
sistema 
giuridico 
dell’Unione 
e 
che 
ha 
costruito una 
vera 
e 
propria 
Comunità 
di 
diritto, 
nella 
quale 
nessuno dei 
soggetti 
protagonisti 
riesce 
a 
sfuggire 
alla 
verifica 
di 
legalità 
e 
di 
legittimità 
del 
suo agire, né 
gli 
Stati 
membri, né 
le 
Istituzioni, né 
i 
singoli, oltre 
al 
primato del 
diritto dell’Unione 
e 
all’effetto diretto di 
numerose 
sue norme. 


Neppure 
va 
dimenticato 
che 
l’idea 
della 
Comunità 
nacque 
non 
solo 
e 
non 
tanto 
da 
riflessioni 
scientifiche 
o 
filosofiche, 
pure 
di 
antica 
data, 
ma 
soprattutto 
da 
una 
ragione 
politica 
e 
pratica. 
Si 
voleva 
mettere 
fine, 
in 
parallelo 
con 
la 
NATO, 
alle 
continue 
baruffe 
tra 
Francia 
e 
Germania 
e 
trasformare 
in 
collettive 
le 
decisioni 
tedesche 
più rilevanti, anzitutto sul 
carbone 
(=energia) e 
l’acciaio 
(=armamenti), poi 
sul 
resto; 
basti 
leggere 
sul 
punto la 
dichiarazione 
Schuman 
del 
1950, che 
dette 
il 
via 
all’intero percorso che 
oggi 
ci 
ritroviamo. Chi 
pensa 
all’Unione 
europea 
come 
ad un organismo economico con al 
centro gli 
interessi 
economici 
degli 
Stati 
membri, 
dimentica 
che 
il 
primo 
e 
vero 
obiettivo 
da 
realizzare 
era 
la 
pace 
e 
che 
il 
mercato fu solo lo strumento per non suscitare 
malumori 
eccessivi 
sulla 
riduzione, vera 
o presunta, della 
sovranità 
et 
similia, 
considerata 
-ad esempio in Italia 
da 
Einaudi 
-non perfettamente 
compatibile 
con la pace. 



rASSEGNA 
AVVOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 2/2021 


*** 
È 
sicuro che 
qualcosa 
nel 
rapporto tra 
diritto internazionale, diritto costituzionale 
e 
diritto 
dell’Unione, 
è 
cambiato, 
anche 
se 
non 
più 
di 
tanto. 
rispetto 
al 
diritto internazionale, il 
diritto dell’Unione 
oggi 
gli 
è 
meno legato. Più vicino, 
in termini 
di 
collegamento funzionale 
e 
di 
approccio metodologico, è 
al 
diritto interno, in particolare 
costituzionale 
e 
al 
diritto civile, al 
di 
là 
dell’origine 
pattizia 
che 
ancora 
si 
fa 
sentire 
in alcuni 
passaggi. D’altra 
parte, il 
rapporto 
tra 
diritto UE 
e 
diritto interno è 
di 
collegamento e 
di 
quasi-integrazione 
e 
si 
sviluppa 
(come 
ben spiegava 
la 
sentenza 
Granital) in un numero sostanziale 
di 
rivoli, specie 
quanto al 
controllo giurisdizionale, che 
rappresenta 
un 
elemento strutturale fondamentale dell’intero sistema. 


*** 
Quanto alle 
tendenze 
di 
certa 
dottrina 
non adeguatamente 
addentro alla 
complessiva 
vicenda 
dell’Unione, che 
ha 
fatto emergere 
un avvicinamento o 
addirittura 
una 
fusione 
con 
gli 
studi 
costituzionalistici 
e 
internazionalistici, 
compresi 
significativamente 
quelli 
amministrativistici 
di 
una 
diffusa 
e 
ascoltata 
scuola, 
sotto 
l’egida 
di 
un 
misterioso 
global 
law, 
sono 
vigorosamente 
sulla 
negativa. 
Finché 
ci 
saranno 
gli 
Stati, 
e 
l’idea 
di 
uno 
Stato 
mondiale 
non 
prende 
forma 
né 
la 
prenderà 
in pochi 
decenni, il 
diritto globale 
si 
muove 
solo nella 
fantasia 
e 
nel 
vezzo 
di 
quella 
dottrina 
e 
scuola, 
a 
differenza 
di 
alcuni 
fenomeni 
economici che possono avere, quelli sì, una dimensione globale. 


*** 
Quanto al 
diritto, a 
parte 
quello dell’Unione 
europea, sarebbe 
pericoloso 
pensare 
ad 
iniziative 
per 
costruire 
scenari 
comuni 
da 
parte 
di 
gruppi 
del 
mondo 
legale 
(studi 
megagalattici 
plurinazionali), associazioni 
di 
studiosi 
e 
pratici 
di 
finanza, 
liberi 
da 
ogni 
legame 
con 
l’interesse 
né 
di 
pochi 
o 
di 
molti 
ma 
di 
tutti, 
in breve 
il 
vero interesse 
pubblico, come 
viceversa 
è 
necessario nella 
formazione 
e 
produzione 
di 
norme 
giuridiche. 
Gli 
esempi 
dell’alta 
finanza, 
del 
grande armamento marittimo, et similia, non sono lontani. 


*** 
È 
tuttavia 
difficile 
pensare 
al 
diritto 
internazionale 
come 
ad 
una 
sorta 
di 
soft 
law, 
almeno 
nella 
parte 
che 
la 
violazione 
di 
certe 
norme 
appare, 
a 
torto 
se 
non 
si 
riflette 
abbastanza, 
priva 
di 
sanzione. 
Sono 
convinto, 
al 
contrario, 
che 
la 
violazione 
di 
una 
norma 
a 
qualunque 
diritto 
appartenga 
richiede 
e 
comporta 
una 
sanzione, 
che 
consista 
anche 
solo 
nell’isolamento 
sociale, 
che 
poi 
si 
rivela 
non 
meno 
sentita. 
Del 
pari 
sono 
convinto 
che 
l’effettività 
non 
indebolisca 
affatto 
in 
senso 
sociologico 
la 
forza 
della 
norma 
esterna 
ad 
un 
ordinamento 
nazionale 
dato: 
all’opposto 
ne 
rafforza 
la 
capacità 
di 
incidere 
sulla 
condotta 
del 
corpo 
sociale 
e 
dei 
singoli 
membri. 
Certo 



rASSEGNA 
AVVOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 2/2021 


vi 
sono 
aspetti 
che 
possono 
sembrare 
reali 
e 
pertanto 
alimentare 
l’idea 
che 
il 
diritto 
internazionale 
o 
anche 
il 
diritto 
dell’Unione 
avrebbero 
una 
debolezza 
intrinseca 
rispetto 
al 
diritto 
interno. 
Questa 
è 
tuttavia 
solo 
la 
percezione 
di 
chi 
non 
conosce 
la 
materia 
e 
ha 
la 
tentazione, 
l’ambizione 
e 
perfino 
il 
titolo 
accademico 
di 
parlarne 
come 
se 
la 
conoscesse. 
Peraltro, 
non 
posso 
non 
riconoscere 
che 
una 
delle 
ragioni 
che 
mi 
hanno 
spinto 
ad 
approfondire 
il 
diritto 
della 
Comunità 
europea, 
poi 
Unione 
europea, 
non 
è 
certo 
la 
presunta 
natura 
di 
soft 
law 
del 
diritto 
internazionale 
o 
dello 
stesso 
diritto 
UE, 
ma 
comunque 
una 
maggiore 
aderenza 
alla 
storia, 
alla 
politica, 
oltre 
che 
al 
diritto, 
concretamente 
visibili 
e 
rilevanti 
più 
che 
in 
qualunque 
diritto 
interno. 


Così, 
è 
sicuro 
che 
senza 
un 
approfondimento 
teorico 
e 
la 
costruzione 
di 
una 
teoria 
non 
si 
riesce 
ad 
andare 
oltre 
ad 
una 
banale 
e 
semplicistica 
considerazione 
che 
il 
diritto 
è 
in 
definitiva 
buon 
senso, 
anche 
se 
ne 
è 
l’applicazione 
formale 
e 
realistica. 
La 
norma 
deve 
pur 
sempre 
avere 
un 
fondo 
teorico, 
ma 
soprattutto 
un 
taglio 
concreto. 
Monismo 
e 
dualismo 
sono 
un 
esempio 
significativo. 
Il 
dualismo 
è 
una 
costruzione 
giuridica 
sul 
rapporto 
tra 
ordinamenti: 
c’è 
poco 
di 
più, 
quanto 
a 
speculazione 
teorica 
e 
scientifica, 
tanto 
meno 
a 
effetti 
pratici, 
la 
cui 
massima 
espressione 
si 
può 
trovare 
nel 
Voelkerrehcht 
und 
Landesrecht 
di 
Tripel, 
oltre 
che 
nella 
scuola 
italiana 
di 
Anzilotti. 
Il 
monismo 
è 
allo 
stesso 
modo 
una 
costruzione 
giuridica 
con 
punti 
di 
partenza 
diversi. 
Lo 
dimostra 
la 
circostanza 
che 
il 
monismo 
francese 
ha 
finito 
col 
seguire 
lo 
stesso 
percorso 
del 
dualismo 
italiano, 
quanto 
ai 
passaggi 
del 
rapporto 
con 
il 
diritto 
dell’Unione, 
e 
con 
gli 
stessi 
effetti 
del 
dualismo 
italiano, 
nonostante 
la 
costruzione 
del 
rapporto 
tra 
diritto 
francese 
e 
diritto 
italiano 
con 
il 
diritto 
esterno 
fossero 
tecnicamente 
diversi, 
fino 
a 
quando 
il 
Consiglio 
di 
Stato 
francese 
non 
rivide 
la 
sua 
posizione 
dualista 
diffidente 
con 
la 
sentenza 
Nicolo, 
facendo 
prevalere 
il 
Trattato 
comunitario 
anche 
sulla 
legge 
nazionale 
posteriore, 
così 
comportando, 
al 
di 
là 
dei 
dettagli 
e 
delle 
sottigliezze, 
una 
situazione 
analoga 
a 
quella 
determinata 
dalla 
Granital. 


Vero è 
che 
l’una 
e 
l’altra 
teoria 
derivano la 
loro qualificazione 
dalla 
costruzione 
che 
il 
legislatore 
nazionale 
ha 
scelto quanto al 
rapporto col 
diritto 
esterno, nel 
senso che, ad esempio, ne 
ha 
accettato il 
primato anche 
se 
posteriore. 
Del 
resto, ciò deriva 
anche 
da 
un principio più che 
fondamentale 
del 
diritto 
internazionale, 
che 
non 
consente 
di 
giustificare 
la 
violazione 
di 
una 
norma 
di 
quel 
diritto con una 
norma 
interna 
contraria. Preciso, tuttavia, che 
il 
principio 
trova 
un’eccezione 
con 
le 
norme 
sui 
principi 
ineliminabili 
dell’ordinamento 
dello 
Stato 
e 
con 
i 
diritti 
fondamentali 
della 
persona, 
considerando 
però 
la 
differenza 
d’interpretazione 
e 
di 
applicazione 
da 
parte 
del 
diritto 
internazionale 
rispetto al 
diritto UE, come 
ho cercato di 
rappresentare 
nella 
sentenza 
costituzionale 
sul 
risarcimento 
dei 
danni 
alle 
vittime 
del 
nazismo. 
È 
molto 



rASSEGNA 
AVVOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 2/2021 


istruttivo leggere 
le 
pagine 
degli 
atti 
al 
riguardo dell’Assemblea 
Costituente 
italiana, 
in 
particolare 
gli 
interventi 
di 
Leone, 
Mortati 
e 
Perassi. 
Si 
pensi 
inoltre 
all’approccio 
sovranista 
alla 
giurisdizione, 
nell’interpretazione 
da 
parte 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
dell’art. 
111, 
ult. 
comma, 
della 
Costituzione, 
a 
proposito 
dell’obbligo di 
rinvio pregiudiziale 
rispetto a 
quanto sancito dal 
Trattato FUE 
e 
da 
una 
vigorosa 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
giustizia 
al 
riguardo. Peraltro, 
sul 
punto non si 
può dire 
che 
vi 
sia 
contrasto tra 
teoria 
e 
pratica, dal 
momento 
che 
nella 
tesi 
sovranista 
non mi 
pare 
che 
emerga 
un livello teorico-scientifico 
di un importante rilievo. 


Più in generale, le 
vere 
o presunte 
diversità 
tra 
la 
norma 
scritta 
e 
quella 
che 
viene 
rappresentata 
e 
spiegata 
nelle 
aule 
universitarie 
può 
essere 
anche 
una 
ricchezza 
che 
la 
scienza 
del 
diritto certo non preclude, purché 
sia 
il 
risultato 
di 
una 
conoscenza 
non 
solo 
superficiale 
o 
errata 
della 
disciplina, 
come 
purtroppo talvolta si coglie. 


I 
valori 
sui 
quali 
si 
fonda 
il 
processo 
di 
integrazione 
europea 
sono 
a 
mio 
parere 
ancora 
quelli 
delle 
origini, 
magari 
consolidati 
ma 
non 
certo 
indeboliti. 
Si 
pensi 
al 
mercato 
comune, 
cioè 
lo 
strumento 
che 
si 
ritenne, 
come 
accennato, 
più 
prudente 
per 
perseguire 
e 
realizzare 
l’obiettivo 
della 
pace: 
e 
pace 
è 
stata, 
almeno 
per 
il 
periodo 
dalla 
fine 
della 
guerra 
mondiale. 
Ma 
non 
basta. 
Il 
baricentro 
del 
sistema 
si 
è 
progressivamente 
spostato, 
soprattutto 
per 
la 
spinta 
della 
Corte 
di 
giustizia, 
in 
non 
molto 
tempo 
dalla 
dimensione 
mercantile 
a 
quella 
umana, 
dei 
diritti 
del 
singolo, 
fin 
dalla 
Van 
Gend 
en 
Loos, 
significativamente 
lavorando 
sugli 
elementi 
più 
rilevanti 
del 
sistema, 
facendo 
della 
circolazione 
delle 
persone 
in 
luogo 
della 
circolazione 
delle 
merci 
il 
centro 
degli 
interessi 
complessivamente 
considerato. 
Il 
mercato 
comune 
o, 
se 
si 
preferisce 
interno, 
è 
ormai 
il 
nucleo 
centrale 
di 
un 
ordinamento 
articolato, 
nel 
quale 
trovano 
tutela 
e 
riconoscimento 
non 
solo 
le 
quattro 
libertà 
economiche 
fondamentali, 
ma 
anche 
l’insieme 
delle 
istanze 
e 
delle 
esigenze 
che 
sono 
patrimonio 
comune 
e 
inerente 
delle 
moderne 
democrazie: 
tutela 
e 
promozione 
del 
lavoro, 
delle 
donne, 
dei 
giovani, 
dell’ambiente, 
della 
cultura, 
delle 
aree 
sfavorite. 
Oggi 
si 
parla 
spesso, 
anche 
a 
sproposito, 
di 
economia 
e 
delle 
scarse 
iniziative 
dell’UE 
a 
favore 
dello 
sviluppo 
e, 
in 
questi 
tempi 
di 
covid, 
di 
mancato 
sollievo 
almeno 
economico. 
Ma 
si 
dimentica 
il 
resto, 
che 
ha 
avuto 
una 
crescita 
incredibile, 
di 
esempio 
per 
tutti 
i 
Paesi 
almeno 
dell’occidente, 
oltre 
a 
trascurare 
il 
difetto 
di 
competenza 
dell’Unione 
quanto 
alla 
politica 
economica 
e 
a 
quella 
sanitaria. 
E 
adesso 
che 
comincia 
ad 
emergere 
il 
rilievo 
dei 
principi 
democratici, 
dopo 
l’entrata 
di 
molti 
Paesi 
ignari 
di 
certi 
fondamentali 
della 
pace 
e 
dello 
Stato 
di 
diritto, 
le 
cose 
miglioreranno 
ancor 
di 
più. 
È 
per 
questo 
che 
considero 
i 
valori 
dell’Unione 
da 
tenere 
ben 
stretti 
e 
ben 
“conservati” 
per 
le 
generazioni 
future. 



rASSEGNA 
AVVOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 2/2021 


*** 


Il 
diritto 
dell’Unione 
che 
si 
pratica 
in 
un 
contesto 
giudiziario 
o 
di 
fronte 
ad 
una 
platea 
di 
studenti 
universitari 
o 
quello 
che 
si 
usa 
nelle 
paludate 
istituzioni 
politiche, 
sono 
solo 
applicazioni 
del 
sapere, 
non 
necessariamente 
molto 
diverse 
tra 
loro; 
ed 
è 
opportuno 
che 
non 
lo 
siano. 
Quanto 
alla 
mia 
esperienza 
personale, 
ritengo 
di 
avere 
appreso 
molto 
in 
tutti 
i 
campi 
dove 
mi 
sono 
cimentato, 
e 
che 
ricevevo 
stimoli 
importanti 
quale 
che 
fosse 
il 
tavolo 
dove 
poggiavo 
le 
mie 
carte 
e 
ne 
discutevo 
con 
i 
miei 
interlocutori. 
Forse, 
qualche 
soddisfazione 
maggiore 
l’ho 
colta 
nell’esperienza 
dei 
dieci 
anni 
di 
Corte 
di 
giustizia, 
dove 
l’orizzonte 
così 
largo 
dava 
le 
maggiori 
sensazioni 
ed 
emozioni 
culturali. 
Il 
numero 
non 
esagerato 
e 
piuttosto 
omogeneo 
di 
Stati 
membri, 
insieme 
alla 
varietà 
dei 
modelli 
giuridici 
alla 
fine 
mi 
aveva 
convinto 
che 
l’interesse 
legittimo 
non 
è 
solo 
una 
stranezza 
italiana, 
sì 
che 
il 
sorriso 
dei 
giuristi 
stranieri, 
incuriositi 
ma 
comunque 
benevolo, 
confermò 
anche 
il 
mio. 


*** 
L’integrazione 
che 
si 
è 
voluta 
realizzare 
non 
a 
caso 
si 
è 
definita 
da 
sempre 
sovranazionale 
e 
non 
internazionale. 
La 
realtà 
è 
che 
i 
rapporti 
della 
vita 
di 
relazione 
internazionale 
non 
sempre 
possono 
definirsi 
in 
termini 
di 
integrazione 
e 
non 
per 
ogni 
aspetto. 
Per 
il 
gruppo 
dei 
Paesi 
dell’Unione 
europea, 
viceversa, 
l’integrazione 
in 
senso 
proprio, 
cioè 
principalmente 
tra 
ordinamenti, 
è 
precisamente 
ciò 
che 
caratterizza 
questa 
forma 
di 
cooperazione 
organizzata 
tra 
Stati 
e 
non 
anche 
una 
comune 
organizzazione 
internazionale. 
Il 
diritto 
internazionale 
ha 
il 
compito 
di 
regolare 
i 
rapporti 
tra 
i 
componenti 
del 
corpo 
sociale 
internazionale, 
cioé 
la 
comunità 
internazionale, 
direi, 
come 
Pedrini, 
l’an, 
il 
quomodo 
e 
il 
quantum 
dei 
rapporti, 
col 
fine 
naturale 
che 
è 
quello 
della 
pacifica 
convivenza 
pur 
nell’autonomia 
di 
decisione 
di 
ciascun 
componente 
e 
salve 
le 
violazioni 
delle 
regole 
poste 
dal 
diritto 
internazionale. 
E 
su 
alcuni 
momenti 
della 
vita 
di 
relazione, 
come 
qualche 
recente 
scaramuccia 
occasionale 
tra 
navi 
inglesi 
e 
francesi 
per 
motivi, 
mi 
permetto, 
futili 
al 
largo 
della 
Libia, 
la 
crisi 
di 
Suez, 
e 
gli 
emigrati 
lasciati 
annegare 
in 
mare 
accompagnati 
dal 
chiasso 
elettorale, 
possiamo 
anche 
stendere 
un 
velo 
pietoso. 
Questo 
dato 
della 
realtà, 
tuttavia, 
non 
può 
essere 
confuso 
con 
l’integrazione 
realizzata 
tra 
i 
Paesi 
dell’Unione, 
che, 
pur 
avendo 
come 
obiettivo 
primario 
la 
pace, 
lo 
perseguono 
con 
strumenti 
diversi, 
quali 
il 
mercato 
comune 
e 
gli 
atti 
delle 
istituzioni, 
nei 
limiti 
delle 
competenze 
loro 
attribuite 
fino 
a 
far 
valere 
caratteri 
specifici 
e 
non 
certo 
sporadici 
-penso 
all’effetto 
diretto 
e 
al 
primato 
-sì 
che 
la 
posizione 
giuridica 
soggettiva 
dei 
singoli 
è 
in 
numerosissimi 
casi 
direttamente 
tributaria 
della 
norma 
dell’Unione, 
dato 
che 
si 
fa 
a 
meno 
del 
diaframma 
dello 
Stato. 
Ebbene, 
questa 
non 
è 
certo 
l’in



rASSEGNA 
AVVOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 2/2021 


tegrazione 
creata 
dal 
dirittto 
internazionale 
nei 
rapporti 
tra 
i 
componenti 
del 
corpo 
sociale, 
è 
cosa 
ben 
diversa. 
È 
pertanto 
anzitutto 
un 
fatto. 
Creato 
sì 
come 
effetto 
di 
un 
Trattato 
internazionale, 
ma 
senza 
dubbio 
staccato 
dalla 
logica 
del 
diritto 
internazionale, 
come 
del 
dirittto 
interno: 
è 
una 
scelta 
autonoma, 
democratica 
e 
consapevole, 
come 
giustamente 
ha 
colto 
Pedrini. 
Ed 
è 
anche 
un 
valore. 
Su 
questo 
non 
ho 
alcun 
cedimento. 
È 
un 
valore 
che, 
ripeto, 
raggiunge 
la 
vetta 
della 
civiltà 
giuridica 
e 
che, 
nonostante 
alcune 
pause 
di 
criticità 
(dalla 
sedia 
vuota 
sulla 
politica 
agricola 
alla 
iniziale 
solo 
sommessa 
solidariertà 
ai 
tempi 
del 
covid), 
conserva 
ancora 
la 
sua 
forza 
e 
l’ineliminabile 
spinta 
allo 
sviluppo, 
al 
progresso, 
alla 
pace, 
quella 
disegnata 
ed 
effettivamente 
realizzata. 
Viviamo 
in 
una 
Comunità 
di 
diritto 
e 
coloro 
che 
non 
ne 
colgono 
il 
significato 
vero 
e 
profondo 
farebbero 
bene 
ad 
approfondire 
il 
modo 
di 
essere 
e 
di 
agire 
dell’Unione 
per 
il 
bene 
dei 
popoli, 
molto 
più 
accettabile, 
anche 
su 
questo 
non 
ho 
dubbi, 
delle 
baruffe 
armate 
con 
missili, 
invasioni 
e 
occupazioni, 
che 
distruggono 
la 
vita 
di 
donne 
e 
bambini 
oltre 
che 
i 
simboli 
della 
cultura 
che 
dovrebbero 
essere 
eterni, 
pur 
di 
vedere 
soddisfatte 
le 
ambizioni 
elettorali. 
E 
ciò 
per 
motivi 
che 
purtroppo 
spesso 
non 
si 
riescono 
neppure 
a 
capire 
se 
non 
collegandoli 
agli 
egoismi 
di 
singoli 
potenti. 
E 
perché 
non 
potrebbero 
i 
giuristi 
contribuire 
a 
migliorare 
le 
cose? 
La 
Comunità 
di 
diritti, 
fondamentali 
e 
non, 
che 
abbiamo 
realizzato 
tra 
noi 
è 
un 
esempio 
illuminante 
che 
non 
va 
trascurato 
e 
deve 
sempre 
guidare 
l’azione 
degli 
Stati 
e 
dei 
singoli. 
Occorre 
poi 
considerare 
che 
le 
competenze 
dell’Unione 
sono 
esclusivamente 
quelle 
attribuite 
dagli 
Stati 
(principio 
delle 
competenze 
di 
attribuzione) 
e 
che 
molte 
competenze 
che 
sarebbe 
necessario 
l’Unione 
avesse, 
non 
sono 
state 
attribuite 
se 
non 
con 
formule 
vaghe 
e 
deboli, 
come 
il 
coordinamento. 
Ciò 
è 
emerso 
in 
tutta 
la 
sua 
importanza 
soprattutto 
in 
economia, 
staccata 
curiosamente 
dalla 
moneta 
lasciata, 
nella 
sostanza, 
alla 
competenza 
della 
Banca 
Centrale 
Europea, 
e 
ciò 
non 
sembra 
perfettamente 
logico. 
Ad 
esempio, 
quando 
ci 
si 
lamenta 
dell’inerzia 
del-
l’Unione 
o 
della 
sua 
scarsa 
generosità, 
si 
dimentica 
che 
gli 
Stati 
membri 
hanno 
sempre 
rifiutato 
di 
attribuire 
all’Unione 
una 
politica 
economica 
vera 
e 
propria 
ma 
solo 
dei 
frammenti, 
quali 
ad 
esempio 
la 
competenza 
in 
tema 
di 
aiuti 
di 
Stato 
o 
di 
concorrenza 
o 
i 
fondi 
che 
nel 
tempo 
sono 
stati 
creati 
con 
una 
certa 
disinvoltura, 
perché 
tacerlo. 
E 
il 
peggio 
è 
precisamente 
che 
la 
moneta, 
che 
pure 
è 
lo 
specchio 
dell’economia, 
è 
stata, 
ripeto, 
demandata 
senza 
alcun 
serio 
collegamento 
alla 
beata 
solitudine 
della 
BCE. 
E 
lo 
stesso 
vale 
per 
la 
sanità, 
dove 
l’Unione 
ha 
solo 
una 
funzione 
di 
coordinamento, 
lasciata 
alla 
buona 
volontà 
degli 
Stati 
membri; 
e 
taccio 
sull’ambiente 
e 
l’approccio 
superficiale 
ai 
problemi 
climatici. 
L’antieuropeismo 
di 
maniera 
è 
frutto 
di 
non 
conoscenza 
e 
appare 
uno 
strumento 
di 
baruffa 
elettorale, 
come 
accennato, 
più 
che 
un’opinione 
fondata 
su 
una 
riflessione 
e 
letture 
oneste 
ed 
esaurienti. 



rASSEGNA 
AVVOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 2/2021 


*** 


Ho 
già 
accennato 
al 
movimento 
pseudo 
culturale 
del 
diritto 
globale, 
che 
ritengo 
frutto 
e 
al 
contempo 
fonte 
di 
confusione 
-non 
so 
dire 
se 
consapevole 
-sul 
dirittto 
internazionale 
e 
gli 
auspici 
velleitari 
di 
chi 
vorrebbe 
uno 
Stato 
mondiale 
o 
comunque 
un 
diritto 
comune 
a 
tutti 
i 
popoli 
della 
terra. 
Come 
si 
possa 
concepire 
uno 
scenario 
del 
genere 
in 
presenza 
di 
una 
Comunità 
internazionale 
formata 
da 
Stati 
per 
la 
maggior 
parte 
divisi 
dalla 
politica, 
della 
religione, 
da 
vecchie 
memorie 
e 
rancori, 
dalla 
lingua, 
indipendenti 
solo 
per 
alcuni 
aspetti, 
desta 
almeno 
qualche 
curiosità. 
A 
meno 
che 
non 
si 
voglia 
negare 
l’indipendenza 
e 
attribuirla 
esclusivamente 
alle 
grandi 
e 
grandissime 
potenze. 
La 
circostanza 
poi 
che 
esiste 
uno 
jus 
cogens 
significa 
poco 
e 
niente, 
in 
quanto 
si 
tratta 
di 
un 
insieme 
di 
principi 
basati 
su 
valori 
fondamentali 
della 
vita 
di 
relazione, 
che 
richiamano 
sia 
la 
condotta 
degli 
Stati 
sia 
i 
diritti 
dei 
singoli, 
ciò 
che 
ritroviamo 
in 
quasi 
tutti 
gli 
ordinamenti 
di 
normale 
livello 
di 
civiltà 
giuridica. 
D’altra 
parte, 
se 
è 
vero 
che 
la 
tutela 
dei 
diritti 
fondamentali 
da 
parte 
della 
Corte 
di 
giustizia 
è 
stata 
la 
novità 
introdotta 
dalla 
sentenza 
Internationale 
Handelsgesellschaft 
del 
1970, 
va 
considerato 
al 
giusto 
che 
anche 
per 
merito 
della 
stessa 
Corte 
di 
giustizia 
si 
è 
avuto 
lo 
spostamento 
progressivo 
ma 
evidente 
del 
baricentro 
del 
sistema 
complessivo 
dell’Unione, 
come 
abbiamo 
accennatto, 
verso 
la 
circolazione 
delle 
persone. 
Ebbene 
ciò 
ha 
influito 
in 
maniera 
determinante 
sulla 
rilevanza 
dei 
diritti 
fondamentali 
delle 
persone 
che 
si 
spostano 
da 
un 
Paese 
all’altro 
insieme 
al 
bagaglio 
di 
diritti, 
fondamentali 
e 
non, 
che 
la 
Corte 
di 
giustizia 
è 
stata 
chiamata 
a 
tutelare. 


*** 
E 
veniamo 
all’espressione 
“Signori 
dei 
Trattati”, 
molto 
in 
voga 
negli 
ambienti 
sovranisti. 
Fu 
usata 
per 
la 
prima 
volta 
in 
una 
sentenza, 
per 
fortuna 
mai 
applicata, 
del 
12 
ottobre 
1993, 
redattore 
un 
professore 
di 
diritto 
costituzionale 
di 
Heidelberg, 
successivamente 
divenuto 
presidente 
e 
che 
ha 
ripetuto 
lo 
stesso 
slogan 
sostanziale 
più 
di 
recente 
nella 
sentenza 
contro 
la 
BCE 
per 
le 
misure 
di 
Draghi. 
In 
sostanza, 
si 
voleva 
e 
si 
vuole 
dire 
che 
i 
giudici 
tedeschi 
devono 
applicare 
le 
norme 
o 
le 
sentenze 
dell’Unione, 
purché 
siano 
in 
sintonia 
con 
le 
convenienze 
della 
Germania, 
altrimenti 
sono 
ultra 
vires, 
cioè 
fuori 
della 
sfera 
di 
applicazione 
delle 
norme 
dei 
trattati 
così 
come 
approvati 
democraticamente 
e 
consapevolmente 
dal 
Parlamento 
tedesco 
e 
degli 
altri 
Stati 
membri. 
Ora, 
che 
gli 
Stati 
membri 
siano 
i 
Signori 
dei 
Trattati 
comunitari, 
poi 
dell’Unione, è 
frase 
tanto banale 
da 
far sorridere 
più che 
suscitare 
allarmi 
e 
critiche 
varie. Forse 
che 
non furono i 
6 Stati, poi 
qualcuno in più, a 
sottoscrivere 
i 
Trattati? 
E 
non 
sono 
ancora 
gli 
Stati 
membri 
che 
periodicamente 
hanno 
modificato 



rASSEGNA 
AVVOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 2/2021 


o integrato i 
Trattati? 
E 
le 
norme 
dei 
Trattati 
non sono forse 
le 
norme 
primarie 
del 
sistema, che 
danno forza 
agli 
atti 
da 
esse 
previsti: 
regolamenti, direttive, 
decisioni? 
Tuttavia, come 
si 
può pensare 
di 
lasciare 
l’interpretazione 
o applicazione 
di 
questi 
atti 
e 
delle 
norme 
dei 
trattati 
alla 
libertà 
dei 
singoli 
Paesi 
membri? 
Ad 
esempio, 
la 
norma 
sulla 
Corte 
di 
giustizia 
che 
ne 
indica 
il 
naturale 
carattere 
vincolante 
delle 
sentenze 
e 
la 
competenza 
esclusiva 
può solo significare 
che 
quanto 
all’interpretazione 
delle 
norme 
e 
alla 
loro 
validità 
non 
vi 
sono per i 
destinatari 
margini 
per altre 
interpretazioni 
definitive, considerata 
l’esigenza 
primaria 
del 
sistema 
che 
impone 
complessivamente 
l’uniformità 
di 
applicazione 
e 
di 
interpretazione 
in 
tutta 
l’Unione, 
a 
riga, 
come 
a 
Parigi, 
come 
a 
Napoli 
o a 
Bad Gastein. Assisteremmo altrimenti 
ad un “piccolo caos” 
se 
ogni 
giudice 
potesse 
disinteressarsi 
del 
vincolo 
di 
una 
norma 
o 
di 
una 
sentenza 
dell’Unione. 
In definitiva, lo stato di 
salute 
attuale 
del 
sistema 
giuridico dell’Unione 
non mi 
pare 
soffra 
più di 
tanto e 
più che 
in passato. Qualche 
criticità, qualche 
fantasia 
di 
qualche 
giudice 
nazionale 
non sono una 
sofferenza, semmai 
la 
ricchezza 
di 
un dibattito che 
può solo giovare 
alla 
crescita 
del 
sistema. E 
che 
il 
regno Unito abbia 
lasciato la 
famiglia 
dell’Unione 
neppure 
ci 
deve 
preoccupare 
più 
di 
tanto. 
Ha 
sempre 
avuto 
un 
piede 
dentro 
ed 
uno 
fuori 
a 
sua 
esclusiva 
convenienza, 
ora 
ne 
tiene 
uno 
fuori 
e 
l’altro 
dentro. 
Quando 
De 
Gaulle 
sospettava 
sommessamente 
che 
il 
regno Unito avrebbe 
fatto soffrire 
la 
Comunità, 
non aveva 
poi 
tutti 
i 
torti. I vicini 
non sono sempre 
in perfetta 
sintonia 
con il 
nostro modo di 
pensare: 
c’è 
sempre 
un cane 
che 
abbaia 
di 
troppo o un 
bambino che gioca a pallone e rompe un vetro. 


Chi 
poi 
si 
lamenta 
di 
una 
sovranità 
che 
gli 
Stati 
avrebbero 
o 
starebbero 
per 
trasferire 
all’Unione 
dovrebbe 
riflettere 
meglio 
sulla 
nozione 
di 
sovranità. 
D’accordo 
che 
si 
tratta 
di 
una 
nozione 
con 
vari 
significati 
e 
oggetto 
di 
speculazioni 
scientifiche 
più 
varie, 
non 
solo 
di 
giuristi. 
Ma 
è 
anche 
vero 
che 
tutto 
ha 
un 
limite. 
All’Unione 
gli 
Stati 
non 
hanno 
voluto 
fino 
ad 
oggi 
attribuire 
poteri 
sovrani, 
ripeto, 
neppure 
di 
uno 
Stato 
federato. 
Tutto 
qui, 
il 
resto 
lasciamolo 
ai 
posteri. 


Piuttosto, 
si 
dovrebbe 
sempre 
ricordare 
ed 
apprezzare 
la 
mai 
contestata 
formula 
di 
Van 
Gend 
en 
Loos, 
frutto 
dell’elegante 
prosa 
di 
Lecourt 
e 
del-
l’intelligenza 
cattolica 
di 
Alberto 
Trabucchi: 
“la 
Comunità 
costituisce 
un 
ordinamento 
giuridico 
di 
nuovo 
genere 
nel 
campo 
del 
diritto 
internazionale 
(si 
noti 
la 
sottogliezza: 
“nel 
campo” 
piuttosto 
che 
“del”), 
a 
favore 
del 
quale 
gli 
Stati 
hanno 
rinunziato, 
anche 
se 
in 
settori 
limitati, 
ai 
loro 
poteri 
sovrani”. 
Qui 
si 
parla 
di 
sovranità, 
ma 
in 
realtà 
la 
sostanza 
non 
va 
al 
di 
là 
di 
una 
delega 
di 
competenze, 
come 
si 
trova 
conferma 
nel 
progressivo 
affermarsi 
della 
formula. 


La 
domanda 
sulla 
Corte 
di 
giustizia 
e 
sulle 
sue 
competenze 
coglie 
gli 
aspetti 
maggiori 
del 
sistema 
giuridico dell’Unione 
complessivamente 
consi



rASSEGNA 
AVVOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 2/2021 


derato. Investita 
di 
un ricorso abbastanza 
banale 
su un aumento di 
un dazio 
doganale 
da 
parte 
dell’Olanda 
(il 
caso più volte 
ricordato Van Gend en Loos), 
i 
giudici 
di 
Lussemburgo si 
posero una 
questione 
sì 
di 
interpretazione 
di 
una 
norma 
del 
Trattato 
che 
vietava 
con 
fin 
troppa 
chiarezza 
simili 
aumenti, 
ma 
soprattutto 
si 
posero un loro problema 
esistenziale: 
che 
tipo di 
giudici 
siamo, ci 
limitiamo a 
verificare 
se 
uno Stato membro ha 
violato il 
Trattato, anche 
la 
più 
chiara 
delle 
norme, lasciando a 
valle 
della 
sentenza 
di 
condanna 
le 
incontrollate 
conseguenze 
dell’ovvia 
infrazione? 
E, 
più 
specificamente, 
che 
effetti 
provoca 
una 
condanna 
per 
infrazione 
sulla 
posizione 
giuridica 
soggettiva 
del 
soggetto danneggiato? 
Nessuno oppure 
un effetto che 
questa 
Corte 
può individuare 
e imporre? 


Secondo molti, il 
sistema 
prevedeva 
un solo rimedio alla 
violazione 
del 
Trattato da 
parte 
di 
uno Stato membro: 
la 
procedura 
d’infrazione, con tanto di 
condanna 
dello Stato. Ma 
a 
che 
cosa? 
E 
la 
Commissione 
era 
obbligata 
ad attivare 
questa 
procedura 
in caso di 
notitia criminis? 
La 
prima 
domanda 
non riceveva 
risposta 
alcuna, 
per 
cui 
in 
concreto 
era 
tutto 
rimesso 
alla 
buona 
volontà 
dello Stato o qualcosa 
del 
genere: 
peraltro, l’elemento di 
maggior peso negativo 
è 
che 
la 
Commissione 
non 
è 
affatto 
obbligata 
ad 
attivare 
la 
procedura 
d’infrazione, rimessa 
alla 
sua 
valutazione. Sicché 
tutto può finire 
nel 
nulla 
o 


- perché tacerlo - in politica. 
La 
Corte 
di 
giustizia 
dell’UE 
(così 
va 
oggi 
correttamente 
qualificata), 
pertanto, 
considerato 
spesso 
inefficace 
il 
rimedio 
della 
procedura 
d’infrazione, 
ha 
valorizzato 
molto 
-e 
giustamente 
-il 
rinvio 
pregiudiziale 
d’interpretazione, 
che 
in 
effetti 
ha 
finito 
con 
il 
costituire 
una 
forma 
essenziale 
di 
controllo 
giurisdizionale 
della 
legittimità 
non 
solo 
degli 
atti 
dell’Unione 
ma 
soprattutto 
degli 
atti 
degli 
Stati 
membri 
(leggi, 
atti 
amministrativi, 
prassi, 
che 
siano 
di 
attuazione 
del 
diritto 
dell’Unione). 
La 
funzione 
del 
rinvio 
pregiudiziale 
d’interpretazione 
è 
anzitutto 
quella 
di 
soddisfare 
l’esigenza 
di 
uniformità 
d’interpretazione 
del 
diritto 
nell’intera 
area 
dell’Unione, 
come 
già 
sottolineato; 
altra 
funzione 
è 
quella 
di 
compensare 
la 
circostanza 
che 
non 
sempre 
è 
ammissibile 
un 
ricorso 
diretto 
avverso 
un 
atto 
comunitario 
e 
dunque 
ha 
una 
funzione 
compensatrice 
delle 
lacune 
del 
controllo 
di 
validità. 
La 
funzione 
principale 
è 
tuttavia 
quella 
di 
interpretare 
in 
via 
esclusiva 
e 
definitiva 
le 
norme 
dell’Unione 
al 
di 
là 
dell’obiettivo 
dell’uniformità: 
in 
particolare, 
traducendosi 
in 
realtà 
in 
un 
controllo 
giurisdizionale 
sul 
diritto 
nazionale 
di 
cui 
il 
giudice 
nazionale 
mettesse 
in 
dubbio 
la 
compatibilità 
con 
il 
diritto 
dell’Unione. 
Quando 
la 
Corte 
conferma 
il 
dubbio 
del 
giudice 
nazionale, 
che 
poi 
è 
il 
dubbio 
del 
singolo 
rispetto 
ad 
una 
determinata 
interpretazione, 
la 
norma 
interessata 
rivela 
il 
contrasto 
con 
la 
norma 
così 
come 
interpretata 
dalla 
Corte, 
dunque 
inapplicabile 
all’interno 
dello 
Stato 
membro 
del 
foro 
e 
non 
solo 
di 
quello, 
pertanto 
con 
effetti 
concreti 
sulla 
posizione 
giuridica 
soggettiva 
del 
singolo 
nell’intera 
Unione, 
in 



rASSEGNA 
AVVOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 2/2021 


tutto 
o 
nella 
parte 
valutata 
come 
incompatibile 
dalla 
Corte 
di 
giustizia. 
All’inizio 
qualcuno 
ebbe 
a 
criticare 
questo 
uso 
del 
rinvio 
pregiudiziale 
d’interpretazione, 
definendolo 
una 
deviazione 
dalla 
procedura 
pregiudiziale 
e 
in 
sostanza 
alternativo 
della 
procedura 
d’infrazione. 
In 
seguito, 
però, 
la 
critica 
si 
spense 
di 
fronte 
al 
successo 
di 
questo 
rimedio, 
che 
ha 
rappresentato 
uno 
dei 
cardini 
del 
sistema 
di 
controllo 
giurisdizionale 
realizzato 
nel-
l’Unione 
europea, 
come 
in 
nessun’altra 
struttura 
di 
cooperazione 
internazionale 
tra 
Stati. 
E 
ciò 
specie 
quando 
il 
rinvio 
è 
obbligatorio, 
come 
per 
i 
giudici 
di 
ultima 
istanza 
o 
quando 
deve 
accompagnare 
una 
misura 
cautelare 
che 
richiede 
un 
rinvio 
di 
validità. 
Ed 
infatti 
è 
significativo 
che 
sia 
il 
Consiglio 
di 
Stato 
francese 
sia 
quello 
italiano 
fossero 
all’inizio 
molto 
restii 
a 
porre 
quesiti 
pregiudiziali 
alla 
Corte; 
e 
ancora 
oggi 
c’è 
qualche 
criticità 
di 
troppo 
nell’appplicazione 
dell’art. 
267 
del 
TFUE 
nella 
giurisprudenza, 
ad 
esempio 
italiana. 


Forse 
si 
ritiene 
gerarchico il 
rapporto con la 
Corte 
di 
giustizia, ma 
si 
sbaglia 
di 
molto, la 
sinergia 
tra 
giudice 
nazionale 
e 
giudice 
dell’Unione 
è 
solo un 
contributo ad offrire 
la 
più estesa 
tutela 
possibile 
ai 
singoli. Non solo l’Amministrazione 
va tutelata, ma anche gli amministrati. 


In Van Gend en Loos 
i 
giudici 
in sostanza 
ritennero di 
dover dare 
una 
risposta 
di 
efficacia 
concreta 
per i 
singoli 
che 
avesserro sofferto di 
una 
violazione 
del 
Trattato 
da 
parte 
dello 
Stato 
di 
appartenenza 
e 
di 
coinvolgerli 
direttamente 
nel 
controllo di 
legittimità 
degli 
atti 
nazionali 
e 
dell’Unione. Ha 
inaugurato 
in 
questo 
modo 
una 
vera 
cultura 
di 
difesa 
dei 
diritti 
dei 
singoli, 
scolpita 
in 
quella 
sentenza 
ma 
in 
realtà 
diventata 
la 
caratteristica 
principale 
del 
diritto dell’Unione, insieme 
ai 
due 
elementi 
che 
ne 
conseguono necessariamente: 
l’effetto diretto e 
il 
primato del 
diritto dell’Unione 
e 
che 
fanno di 
tale 
diritto un unicum 
nel 
panorama 
della 
cooperazione 
internazionale 
organizzata, 
sul quale sarebbe ultroneo fare commenti. 


In seguito, si 
continuò a 
dibattere 
sui 
rimedi 
alle 
violazioni 
dei 
trattati 
da 
parte 
degli 
Stati 
membri. Il 
regno Unito propose 
la 
sanzione 
pecuniaria 
per 
gli 
Stati 
membri 
“peccatori”. 
Mi 
permetto 
di 
ricordare 
in 
proposito 
che, 
in 
una 
riunione 
generale 
della 
Corte, discutendosi 
di 
tale 
proposta 
del 
regno Unito, 
qualcuno 
la 
criticò 
vigorosamente, 
portando 
l’esempio 
della 
penitenza 
irrogata 
al 
peccatore, 
al 
quale 
è 
sufficiente 
questo 
esito 
della 
confessione 
di 
peccati 
anche 
gravi 
per tornare 
libero già 
nella 
coscienza. E 
non mancò chi 
imputò 
questa 
critica 
alla 
pratica 
cattolica! 
La 
realtà, 
tuttavia, 
è 
che 
uno 
Stato 
che 
viola 
il 
Trattato non lo fa 
per il 
suo godimento, ma 
perché 
ha 
sicuramente 
dei 
problemi, sindacali, sociali, finanziari 
o altro, per cui 
preferisce 
pagare 
il 
balzello 
imposto 
dalla 
Corte 
per 
l’infrazione 
piuttosto 
che 
tentare 
di 
risolvere 
quei problemi. 


E 
fu 
allora 
che 
si 
pensò 
di 
costruire 
una 
responsabilità 
patrimoniale 
dello 
Stato, 
ma 
nei 
confronti 
dei 
singoli, 
profittando 
della 
pendenza 
di 
un 



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AVVOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 2/2021 


ricorso 
(il 
celebre 
caso 
Francovich) 
di 
500 
operai 
di 
una 
fabbrica 
fallita 
e 
impossibilitata 
a 
pagare, 
ma 
in 
presenza 
di 
un 
difetto 
di 
recepimento 
di 
una 
direttiva 
che 
impone 
agli 
Stati 
una 
garanzia 
patrimoniale 
per 
simili 
evenienze 
a 
favore 
dei 
lavoratori. 
L’Italia, 
che 
non 
aveva 
recepito 
la 
direttiva 
e 
creato 
il 
fondo 
di 
garanzia 
imposto, 
fu 
condannata 
a 
risarcire 
il 
danno 
ai 
singoli. 
La 
responsabilità 
patrimoniale 
dello 
Stato 
legislatore, 
per 
omessa 


o 
non 
corretta 
trasposizione 
di 
direttive 
dell’Unione, 
è 
stata 
considerata 
da 
molti 
una 
novità 
quasi 
eccentrica. 
Ma 
si 
deve 
riflettere 
sulla 
circostanza 
che 
anche 
il 
Parlamento 
ha 
dei 
vincoli, 
che 
deve 
rispettare 
pena 
l’annullamento 
da 
parte 
della 
Corte 
costituzionale. 
E 
un 
limite 
è 
anche 
il 
vincolo 
di 
legiferare 
nel 
rispetto 
delle 
norme 
dell’Unione, 
prima 
e 
dopo 
la 
riformulazione 
dell’art. 
117, 
primo 
comma, 
della 
nostra 
Costituzione. 
Il 
mancato 
rispetto 
di 
questo 
limite 
può 
ben 
dar 
luogo 
ad 
una 
sanzione 
pecuniaria 
dello 
Stato 
per 
fatto 
del 
legislatore, 
così 
come 
per 
fatto 
dell’amministrazione 
e 
finanche 
del 
giudice, 
quando 
produca 
un 
danno 
ai 
singoli. 
Nessun 
principio 
lo 
preclude. 
Per 
queste 
ragioni, 
ritengo 
ancora 
oggi 
che 
il 
processo 
di 
integrazione 
europea 
sia, 
oltre 
che 
un 
fatto, 
uno 
stimolo 
culturale 
che 
nonostante 
qualche 
pausa 
debba 
ritenersi 
indispensabile 
per 
una 
pacifica 
convivenza 
tra 
i 
Paesi 
europei. 
Certo, 
il 
numero 
appare 
un 
elemento 
critico, 
non 
tanto 
in 
sè 
ma 
perché 
sarebbe 
stato più saggio procedere 
ad una 
adesione 
dei 
dieci 
Stati 
non contestuale, 
come 
in passato. Le 
esigenze 
politiche 
talvolta 
non riescono a 
combinarsi 
correttamente 
con un reale 
beneficio, specie 
se 
le 
esperienze 
pregresse 
dei 
nuovi 
Paesi 
membri 
non erano le 
più in sintonia 
con il 
modello dello Stato 
di diritto dei Paesi dell’Unione. 


*** 
Nel 
commiato, 
Pedrini 
mi 
chiede 
un 
consiglio 
e 
un 
auspicio, 
sui 
suggerimenti 
che 
potrei 
dare 
a 
un 
giovane 
costituzionalista 
o 
internazionalista 
che 
volesse 
approfondire 
un 
campo 
di 
ricerca 
sull’integrazione 
sovranazionale. 
La 
domanda 
è 
semplice, 
ma 
la 
risposta 
mi 
riesce 
difficile, 
da 
costituzionalista 
di 
complemento 
e 
da 
vecchio 
internazionalista, 
avendo 
privilegiato 
già 
da 
Acciaierie 
San 
Michele 
(1965) 
una 
disciplina 
diversa 
che 
è 
il 
diritto 
del-
l’Unione 
europea. 
Ai 
giovani 
studiosi 
mi 
limito 
a 
suggerire 
che 
sarebbe 
una 
sciocchezza 
sottovalutare 
e 
quindi 
trascurare 
l’approfondimento 
di 
una 
parte 
oggi 
fondamentale 
del 
sapere 
giuridico, 
pena 
la 
rappresentazione 
di 
svarioni 
come 
verità 
e 
l’aumento 
della 
diffidenza 
nei 
confronti 
dell’Europa, 
che 
trova 
alimento 
solo 
nella 
scarsa 
memoria 
e 
nella 
altrettanto 
scarsa 
conoscenza 
del 
processo 
d’integrazione. 
La 
burocratizzazione 
tipicamente 
italiana, 
poi, 
che 
progressivamente 
si 
è 
insinuata 
nelle 
maglie 
della 
carriera 
universitaria, 
evidentemente 
è 
più 
in 
generale 
il 
frutto 
di 
una 
scarsa 
sensibilità 
per 
il 
futuro 
dei 
nostri 
giovani, 
stretti 
tra 
i 
numeri 
piuttosto 
che 
dalla 
qualità 
della 
ricerca 



rASSEGNA 
AVVOCATUrA 
DELLO 
STATO -N. 2/2021 


e 
della 
produzione 
scientifica. 
Anche 
in 
tempi 
di 
magra, 
è 
necessario 
mantenere 
il 
livello 
di 
risorse 
per 
la 
ricerca 
e 
sburocratizzare 
le 
procedure, 
affinché 
se 
ne 
conservi 
ed 
anzi 
se 
ne 
aumenti 
la 
qualità: 
è 
con 
la 
ricerca 
che 
il 
Paese 
cresce 
e 
che 
i 
suoi 
giovani 
possono 
vantare 
primati 
altrimenti 
irragiungibili. 


Giuseppe Tesauro 



TEMIISTITUZIONALI
Avvocatura 
Generaledello 
Stato 


CirColare 
n. 63/2021 


oggetto: 
Soppressione 
di 
riscossione 
Sicilia 
s.p.a. 
e 
successione 
a 
titolo 
universale 
di 
agenzia delle 
entrate-riscossione 
(aDer) a decorrere 
dal 
1° 
ottobre 
2021. addendum 
al 
Protocollo d’intesa sottoscritto tra l’avvocatura 
dello Stato e 
aDer. 


Com'è 
noto l'Agenzia 
delle 
Entrate-Riscossione 
(ADER) ha 
svolto le 
funzioni 
relative 
alla 
riscossione 
nazionale 
(ex art. 3 D.L. 203/2005) sull'intero territorio nazionale, ad esclusione 
della Regione Siciliana, nella quale operava invece Riscossione Sicilia s.p.a. 


L'art. 
76 
del 
D.L. 
25 
maggio 
2021, 
n. 
73, 
convertito 
con 
Legge 
23 
luglio 
2021, 
n. 
106, 
ha 
stabilito 
al 
comma 
1 
che 
"con 
decorrenza 
dal 
30 
settembre 
2021, 
Riscossione 
Sicilia 
S.p.A. 
è 
sciolta, 
cancellata 
d'ufficio 
dal 
registro 
delle 
imprese 
ed 
estinta, 
senza 
che 
sia 
esperita 
alcuna 
procedura 
di 
liquidazione, 
e 
i 
relativi 
organi 
decadono, 
fatti 
salvi 
gli 
adempimenti 
di 
cui 
al 
comma 
6". 


Il 
successivo comma 
2 ha 
disposto che 
"Con decorrenza dal 
1° 
ottobre 
2021, secondo 
quanto previsto dalla legge 
della Regione 
Siciliana 15 aprile 
2021, n. 9, l'esercizio delle 
funzioni 
relative 
alla riscossione 
di 
cui 
all'articolo 2, comma 2, della Legge 
Regionale 
del 
22 
dicembre 
2005 n. 19 della medesima Regione 
Siciliana, è 
affidato all'Agenzia delle 
entrate 
ed è 
svolto dall'Agenzia delle 
entrate-Riscossione 
che, dalla stessa data, vi 
provvede, nel 
territorio 
della Regione, anche relativamente alle entrate non spettanti a quest'ultima". 


Infine, il 
comma 
4 del 
medesimo art. 76 ha 
previsto che 
"Al 
fine 
di 
assicurare 
la continuità 
e 
la 
funzionalità 
nell'esercizio 
delle 
attività 
di 
riscossione 
nella 
Regione 
Siciliana, 
Agenzia 
delle 
entrate-Riscossione 
a far 
data dal 
1 ottobre 
2021 subentra, a titolo universale, nei 
rapporti 
giuridici 
attivi 
e 
passivi, anche 
processuali, di 
Riscossione 
Sicilia S.p.A. con i 
poteri 
e 
secondo le 
disposizioni 
di 
cui 
al 
titolo I, capo II, e 
al 
titolo II, del 
decreto del 
Presidente 
della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602". 


Tenuto 
conto 
dell'impatto 
che 
la 
successione 
di 
ADER 
poteva 
avere 
sull'attività 
dell'Avvocatura 
dello Stato, in data 
l° 
ottobre 
2021, è 
stato sottoscritto un "Addendum" 
(all. 1) al 
vigente 
Protocollo 
d'intesa 
sottoscritto 
il 
24 
settembre 
2020 
tra 
l'Avvocatura 
dello 
Stato 
e 
ADER 
(cfr. la Circolare n. 60/2020, all. 2). 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 2/2021 


In 
particolare 
l'Addendum, 
sul 
presupposto 
che 
"il 
subentro 
a 
titolo 
universale 
dell'Ente, 
a far 
data dal 
1° 
ottobre 
2021, nei 
rapporti 
giuridici 
attivi 
e 
passivi, anche 
processuali, di 
Riscossione 
Sicilia 
S.p.A. 
determina 
un 
inevitabile 
impatto 
sull'operatività 
del 
Protocollo 
d'intesa 
in vigore 
tra le 
parti, con un repentino incremento dei 
volumi 
delle 
attività previste 
in 
capo 
all'Avvocatura, 
allo 
stato 
non 
puntualmente 
quantificabile", 
ha 
previsto 
al 
punto 
2.1, 
che 
"l'Avvocatura 
dello 
Stato 
fino 
al 
31 
marzo 
2022 
non 
presterà 
il 
proprio 
patrocinio 
a 
favore 
dell'Ente 
relativamente 
a tutte 
le 
cause, sia passive 
che 
attive, riferibili 
alle 
attività della disciolta 
Riscossione 
Sicilia S.p.A., e 
ciò indipendentemente 
dal 
grado di 
giudizio e 
dalla magistratura 
adita". 


Al 
punto 2.3 è 
prevista 
come 
deroga 
a 
tale 
previsione, che 
"gli 
Uffici 
Centrali 
dell'Ente 
potranno comunque 
sottoporre 
all'Avvocatura, ai 
fini 
dell'eventuale 
assunzione 
del 
relativo 
patrocinio, specifiche 
controversie, ricomprese 
nel 
perimetro della disciolta Riscossione 
Sicilia 
S.p.A., per 
le 
quali 
appaiano venire 
in rilievo questioni 
di 
massima o particolarmente 
significative 
in 
considerazione 
del 
valore 
economico 
o 
dei 
principi 
di 
diritto 
in 
discussione...". 


Ne 
consegue 
che 
per tutte 
le 
controversie 
"riferibili 
alle 
attività della disciolta Riscossione 
Sicilia S.p.A.", alla 
difesa 
in giudizio provvederà 
direttamente 
ADER (senza, peraltro, 
necessità 
della 
delibera 
motivata 
di 
cui 
all'art. 43, comma 
4, del 
R.D. 1611/1933: 
cfr. al 
riguardo 
Cass. SS.UU. n. 30008/2019). 


Tenuto conto che 
stanno pervenendo presso le 
varie 
sedi 
dell'Avvocatura 
notifiche 
(da 
ritenersi 
irrituali) 
di 
atti 
giudiziari 
diretti 
ad 
ADER 
ex 
Riscossione 
Sicilia, 
si 
ritiene 
opportuno 
che 
l'archivio 
non 
proceda 
all'impianto 
di 
nuovi 
affari, 
inserendo 
l'atto 
notificato 
nel 
pertinente 
Affare 
d'Ordine, con eventuale 
invio dell'atto ad ADER solo qualora 
non risulti 
già 
tra 
i 
destinatari 
della 
notifica 
(ovviamente 
qualora 
già 
esista 
un 
affare 
legale, 
la 
notifica 
andrà 
a 
questo 
associata). 


Allegati: 


1) 
Addendum 
del 
1° 
ottobre 
2021 (pubblicato per estratto sul 
sito Internet 
dell'Avvocatura 
dello Stato e dell'Agenzia delle Entrate-Riscossione); 
2) 
Circolare n. 60/2020. 
L'AVVOCATO GENERALE 
Avv. Gabriella Palmieri Sandulli 


(omissis) 



COntenziOsOCOMunitAriOedinternAziOnALe
Le sanzioni sostanzialmente penali dell’AGCOM 
e il sindacato di piena giurisdizione 


Nota 
a 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo, SezioNe 
prima, SeNteNza 
10 diCembre 
2020, riCorSi 
NN. 68954/13 e 
70495/13, CauSa 
edizioNi 
del 
roma 
SoCietà 
Cooperativa 
a 
r.l. e 
edizioNi 
del 
roma 
S.r.l. C. italia 


Giulia Quagliariello* 


Sommario: 
1. 
premessa 
-2. 
la 
cornice 
fattuale 
-3. 
l’estensione 
delle 
garanzie 
convenzionali 
del 
giusto processo al 
procedimento sanzionatorio dell’aGCom -3.1. i vizi 
procedi-
mentali 
sotto il 
profilo del 
mancato rispetto del 
principio di 
parità delle 
armi, dell’assenza di 
una udienza pubblica e 
del 
difetto di 
imparzialità dell’organo giudicante 
-4. il 
canone 
della 
full 
jurisdiction quale 
meccanismo di 
compensazione 
ex 
post 
delle 
carenze 
procedimentali 



5. Considerazioni conclusive. 
1. premessa. 
Il 
procedimento sanzionatorio azionato dall’AGCOM 
per omessa 
comunicazione 
di 
un 
rapporto 
di 
controllo 
societario, 
prevista 
per 
le 
società 
che 
chiedano 
finanziamenti 
pubblici 
all’editoria, 
non 
viola, 
nel 
caso 
concreto, 
l’art. 
6 
par. 
1 
della 
CEDU 
poiché 
esso, 
pur 
essendosi 
svolto 
essenzialmente 
per 
iscritto 
ed 
essendo 
stata 
offerta 
solo 
in 
parte 
ai 
soggetti 
interessati 
la 
possibilità 
di 
interloquire 
sugli 
elementi 
di 
prova 
raccolti 
dall’Autorità, 
ha 
trovato 
in 
sede 
giurisdizionale 
un 
sindacato 
pieno. 
È 
quanto 
ha 
statuito 
la 
I 
sezione 
della 
Corte 
europea dei diritti dell’uomo con la sentenza del 10 dicembre 2020. 

(*) 
Dottoressa 
in 
Giurisprudenza, 
ammessa 
alla 
pratica 
forense 
presso 
l’Avvocatura 
generale 
dello 
Stato 
(avv. Stato Maurizio Greco). 

Un ringraziamento all’avv. Stato Francesco Meloncelli per l’invio dell’articolo alla Rassegna. 



RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


2. la cornice fattuale. 
A 
seguito di 
indagini 
effettuate 
dal 
nucleo speciale 
della 
Guardia 
di 
Finanza, 
con 
delibera 
adottata 
il 
30 
maggio 
2011, 
l’Autorità 
per 
le 
garanzie 
nelle 
comunicazioni 
(l’AGCOM) aveva 
irrogato nei 
confronti 
delle 
società 
italiane 
Edizioni 
Del 
Roma 
Cooperativa 
a. r.l. ed Edizioni 
Del 
Roma 
S.r.l., operanti 
nel 
settore 
dell’editoria, 
sanzioni 
amministrative 
di 
importo 
pari 
a 
103.300 
euro, per aver violato l’obbligo di 
comunicare 
la 
sussistenza 
di 
una 
situazione 
di 
controllo ai 
sensi 
dell’art. 1, c. 8 della 
legge 
n. 416 del 
1981 (1). A 
seguito 
di 
tale 
provvedimento 
le 
suddette 
imprese 
avevano 
perso 
la 
possibilità 
di 
avere 
accesso 
ai 
finanziamenti 
pubblici 
erogati 
alle 
società 
editoriali 
dal 
Dipartimento 
per l’informazione 
e 
l’editoria 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri, 
circostanza che aveva provocato il fallimento di una di esse. 


Entrambe 
le 
società, con ricorsi 
separati, avevano impugnato le 
sanzioni 
dell’AGCOM 
dinanzi 
al 
TAR Roma 
lamentando, tra 
l’altro, la 
lesione 
del 
diritto 
di 
difesa 
e 
del 
diritto 
al 
contraddittorio, 
in 
conseguenza 
della 
mancata 
audizione 
dinanzi 
all’organo 
collegiale 
dell’AGCOM. 
Con 
sentenza 
del 
25 
maggio 
2012 
il 
TAR, 
dopo 
aver 
disposto 
la 
riunione 
dei 
ricorsi, 
aveva 
respinto 
le 
doglianze 
dei 
ricorrenti, 
sostenendo 
la 
piena 
legittimità 
dell’operato 
del-
l’Autorità 
amministrativa. 
Avverso 
tale 
decisione 
era 
stato 
proposto 
ricorso 
in 
appello 
dinanzi 
al 
Consiglio 
di 
Stato, 
conclusosi 
il 
22 
aprile 
2013 
con 
sentenza 
di rigetto. 

Gli 
amministratori 
delle 
società 
destinatarie 
delle 
sanzioni 
dell’AGCOM 
si 
sono, dunque, rivolti 
alla 
Corte 
di 
Strasburgo, presentando ricorso ai 
sensi 
dell’art. 
34 
della 
Convenzione 
europea 
per 
la 
salvaguardia 
dei 
diritti 
dell’uomo 
e 
delle 
libertà 
fondamentali 
(CEDU), denunciando la 
violazione 
del 
principio 
dell’equo processo di 
cui 
all’art. 6, par. 1 della 
CEDU, sotto il 
profilo della 
mancata 
attuazione 
di 
un contraddittorio pieno e 
paritario nella 
fase 
procedi-
mentale 
di 
irrogazione 
delle 
sanzioni, 
del 
mancato 
svolgimento 
di 
una 
udienza 
pubblica e dell’assenza di imparzialità ed indipendenza dell’AGCOM. 


3. l’estensione 
delle 
garanzie 
convenzionali 
del 
giusto processo al 
procedimento 
sanzionatorio dell’aGCom. 
Prima 
di 
illustrare 
i 
profili 
di 
interesse 
giuridico 
della 
sentenza 
in 
commento, 
occorre 
soffermarsi 
sul 
percorso 
argomentativo 
seguito 
dalla 
Corte 
EDU 
per 
affermare 
l’applicabilità 
dell’art. 
6 
CEDU 
alla 
vicenda 
in 
esame, 
nonostante 
tale 
norma, 
dal 
suo 
tenore 
letterale, 
non 
apparisse 
prima 
facie 
riferibile 
ad 
un 


(1) L’art. 1, c. 8 della 
legge 
n. 416 del 
1981 sancisce 
che 
le 
persone 
fisiche 
e 
le 
società 
che 
controllano 
una 
società 
editrice 
di 
giornali 
quotidiani, anche 
attraverso intestazione 
fiduciaria 
delle 
azioni 
o delle 
quote 
o per interposta 
persona, devono darne 
comunicazione 
scritta 
alla 
società 
controllata 
ed al 
servizio 
dell’editoria 
entro 
trenta 
giorni 
dal 
fatto 
o 
dal 
negozio 
che 
determina 
l’acquisto. 
Costituisce 
controllo la sussistenza dei rapporti configurati nell’articolo 2359 del codice civile. 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


giudizio 
di 
legittimità 
avente 
ad 
oggetto 
un 
procedimento 
amministrativo 
(2). 
L’art. 
6 
della 
CEDU, 
al 
par. 
1, 
statuisce, 
infatti, 
che 
“ogni 
persona 
ha 
diritto 
ad 
un’equa 
e 
pubblica 
udienza 
entro 
un 
termine 
ragionevole, 
davanti 
a 
un 
tribunale 
indipendente 
e 
imparziale 
costituito 
per 
legge, 
il 
quale 
sia 
chiamato 
a 
pronunciarsi 
sulle 
controversie 
sui 
suoi 
diritti 
e 
doveri 
di 
carattere 
civile 
o 
sulla 
fondatezza 
di 
ogni 
accusa 
penale 
formulata 
nei 
suoi 
confronti” 
(3). 


Ciò 
premesso, 
a 
partire 
dalla 
nota 
pronuncia 
sul 
caso 
“engel” 
(4) 
del 
1976, i 
giudici 
di 
Strasburgo, mutando il 
proprio orientamento pregresso (5), 
hanno proceduto ad una 
ridefinizione 
autonoma 
(6) della 
nozione 
di 
“accusa 


(2) 
Sul 
punto 
v. 
G. 
GRECO, 
la 
Convenzione 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo 
e 
il 
diritto 
amministrativo 
in italia, in riv it. dir. pubbl. comunit., 2000, 26. 
(3) 
Sulla 
rilevanza 
che 
l’art. 
6 
par. 
1 
CEDU 
assume 
nell’ambito 
dei 
procedimenti 
amministrativi 
sanzionatori 
nazionali 
si 
segnalano, 
ex 
multis, 
i 
contributi 
di 
E. 
FERRARI 
-M. 
RAMAjOLI 
-M. 
SICA 
(a 
cura 
di), 
il 
ruolo 
del 
giudice 
di 
fronte 
alle 
decisioni 
amministrative 
per 
il 
funzionamento 
dei 
mercati, 
Torino, 
2006, 
227 
e 
ss.; 
S. 
CASSESE 
(a 
cura 
di), 
trattato 
di 
diritto 
amministrativo, 
II 
ed.; 
ID., 
diritto 
amministrativo 
generale, 
I, 
Milano, 
2003, 
173 
e 
ss.; 
G. 
DELLA 
CAnAnEA, 
al 
di 
là 
dei 
confini 
statuali. 
principi 
generali 
di 
diritto 
pubblico 
globale, 
Bologna, 
2009; 
S. 
MIRATE, 
Giustizia 
amministrativa 
e 
Convenzione 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo. 
l’altro 
diritto 
europeo 
in 
italia, 
Francia 
ed 
inghilterra, 
napoli, 
2007; 
B.G. 
MATTARELLA, 
pubblica 
amministrazione 
e 
interessi, 
in 
AA.vv., 
il 
diritto 
amministrativo 
oltre 
i 
confini, 
Milano, 
2012, 
113 
e 
ss.; 
M. 
PACInI, 
diritti 
umani 
e 
amministrazioni 
pubbliche, 
Milano, 
2012; 
A. 
MOzzATI, 
la 
conformità 
europea 
dei 
procedimenti. 
procedimento 
e 
processo 
amministrativo, 
napoli, 
2012; 
M. 
ALLEnA, 
procedimento 
e 
processo 
amministrativo, 
napoli, 
2012; 
ID., 
la 
rilevanza 
dell’art. 
6 
par. 
1, 
Cedu 
per 
il 
procedimento 
e 
il 
processo 
amministrativo, 
in 
dir. 
proc. 
amm., 
2012, 
594 
e 
ss.; 
ID., 
Garanzie 
procedimentali 
e 
giurisdizionali 
alla 
luce 
dell’art. 
6 
della 
Convenzione 
europea 
per 
la 
salvaguardia 
dei 
diritti 
dell’uomo 
e 
delle 
libertà 
fondamentali, 
in 
www.giustamm.it; 
F. 
GOISIS, 
Sanzioni 
amministrative, 
tutele 
procedimentali 
e 
giurisdizionali 
secondo 
la 
Convenzione 
europea 
per 
la 
salvaguardia 
dei 
diritti 
dell’uomo, 
in 
la 
sanzione 
amministrativa. 
principi 
generali,a 
cura 
di 
A. 
CAGnAzzO 
-S. 
TOSChEI, 
Torino, 
2012, 
40; 
ID., 
la 
tutela 
del 
cittadino 
nei 
confronti 
delle 
sanzioni 
amministrative 
tra 
diritto 
nazionale 
ed 
europeo, 
Torino, 
2014; 
ID., 
verso 
una 
nuova 
nozione 
di 
sanzione 
amministrativa 
in 
senso 
stretto: 
il 
contributo 
della 
Convenzione 
europea 
dei 
diritti 
del-
l'uomo, 
in 
riv. 
it. 
dir. 
pubbl. 
com., 
2014, 
337 
ss.; 
ID., 
un'analisi 
critica 
delle 
tutele 
procedimentali 
e 
giurisdizionali 
avverso 
la 
potestà 
sanzionatoria 
della 
pubblica 
amministrazione, 
alla 
luce 
dei 
principi 
dell'art. 
6 
della 
Convenzione 
europea 
dei 
diritti 
dell'uomo. 
il 
caso 
delle 
sanzioni 
per 
pratiche 
commerciali 
scorrette, 
in 
dir. 
proc. 
amm., 
2013, 
669 
ss.; 
ID., 
Garanzie 
procedimentali 
e 
Convenzione 
europea 
per 
la 
tutela 
dei 
diritti 
dell’uomo, 
in 
dir. 
proc. 
amm., 
2009, 
1338 
e 
ss.; 
E. 
FOLLIERI, 
Sulla 
possibile 
influenza 
della 
giurisprudenza 
della 
Corte 
europea 
di 
Strasburgo 
sulla 
giustizia 
amministrativa, 
in 
dir. 
proc. 
amm., 
2014, 
685 
e 
ss. 
(4) 
Corte 
EDU, 
8 
giugno 
1976, 
engel 
e 
altri 
c. 
paesi 
bassi, 
ricorsi 
nn. 
5100/71, 
5101/71, 
5102/71, 
5354/72 e 
5370/72. In merito a 
tale 
pronuncia, autorevole 
dottrina 
ha 
evidenziato che 
proprio a 
partire 
dal 
caso “engel” 
si 
è 
assistito al 
superamento della 
rigida 
distinzione 
tra 
sistema 
sanzionatorio penale 
e 
sistema 
sanzionatorio amministrativo, attraverso l’elaborazione 
da 
parte 
della 
Corte 
europea, della 
c.d. 
concezione 
“autonomista” 
della 
materia 
penale. Così, C.E. PALIERO, “materia penale” 
e 
illecito amministrativo 
secondo la Corte 
europea dei 
diritti 
dell’uomo: una questione 
“classica” 
a una svolta radicale, 
nota a Corte EDU, 21 febbraio 1984, Öztürk c. Germania, in riv. it. dir. proc. pen., 1985, 908. 
(5) 
S. 
CIMInI, 
il 
potere 
sanzionatorio 
delle 
amministrazioni 
pubbliche. 
uno 
studio 
critico, 
napoli, 
2017, 167, osserva 
che 
ab origine 
la 
Corte 
europea 
aveva 
escluso l’applicabilità 
anche 
all’illecito amministrativo 
delle garanzie di cui agli artt. 6 e 7 CEDU. 
(6) Come 
ha 
evidenziato la 
dottrina, la 
Corte 
europea, assolvendo il 
compito affidatole 
dall'art. 
32 
della 
CEDU, 
al 
fine 
di 
assicurare 
l'interpretazione 
uniforme 
della 
Convenzione 
in 
tutti 
gli 
Stati 
membri 
del 
Consiglio d’Europa, procede 
a 
vere 
e 
proprie 
ridefinizioni 
dei 
concetti 
giuridici 
contenuti 
nelle 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


penale”, 
cui 
fa 
riferimento 
l’art. 
6 
CEDU, 
al 
fine 
di 
estendere 
anche 
agli 
illeciti 
di 
carattere 
extra 
penale 
le 
garanzie 
di 
matrice 
penalistica 
contenute 
nella 
Convenzione 
(7). Essi 
hanno, pertanto stabilito che, ai 
fini 
della 
riconducibilità 
di 
una 
fattispecie 
sanzionatoria 
nella 
“matière 
pénale”, con conseguente 
applicabilità 
dell’art. 6 sull’equo processo e 
del 
successivo art. 7, che 
statuisce 
il 
principio nulla poena sine 
lege 
(8), occorre 
considerare, al 
di 
là 
del 
criterio 
formale 
del 
nomen 
iuris, 
ovvero 
della 
qualificazione 
giuridica 
dell’illecito 
nel 
diritto 
nazionale, 
che 
rappresenta, 
come 
espressamente 
chiarito 
dalla 
Corte, 
“no more 
than a starting point” 
(9), altri 
due 
criteri 
sostanziali, costituiti 
dalla 
natura della sanzione e dal grado di severità della stessa (10). 


Si 
tratta 
di 
parametri 
elaborati 
dalla 
giurisprudenza 
europea 
con il 
chiaro 
intento di 
neutralizzare 
in radice 
il 
rischio di 
possibili 
elusioni 
degli 
obblighi 
convenzionali 
da 
parte 
dei 
legislatori 
nazionali 
attraverso la 
c.d. “truffa 
delle 
etichette” 
(11), i 
quali 
hanno permesso alla 
Corte 
EDU 
di 
ampliare 
sensibilmente 
l’ambito 
di 
applicazione 
dei 
principi 
convenzionali 
dell’equo 
processo. 
Con 
riferimento 
al 
criterio 
della 
natura 
della 
sanzione, 
per 
affermare 
il 
carattere 


norme 
convenzionali 
(c.d. 
interpretazione 
“autonoma”), 
poiché 
gli 
stessi 
potrebbero 
avere 
una 
estensione 
semantica 
diversa 
nei 
vari 
ordinamenti 
nazionali. In genere 
tali 
concetti 
sono concepiti 
in modo meno 
rigoroso, 
più 
flessibile 
rispetto 
al 
diritto 
degli 
ordinamenti 
nazionali, 
in 
funzione 
dell'oggetto 
e 
dello 
scopo della 
Convenzione. In tal 
senso, M. ALLEnA, il 
caso Grande 
Stevens 
c. italia: le 
sanzioni 
Consob 
alla prova dei 
principi 
Cedu, cit., 1055, la 
quale 
richiama 
G. UBERTIS, principi 
di 
procedura penale 
europea. le 
regole 
del 
giusto processo, varese, 2009, 27 e 
ss.; 
v. zAGREBELSky, 
le 
sanzioni 
Consob, 
l’equo processo e 
il 
‘ne 
bis 
in idem’ 
nella Cedu, in Giur. it., 2014, 1196 e 
ss.; 
B. RAnDAzzO, i principi 
del 
diritto e 
del 
processo penale 
nella giurisprudenza della Corte 
europea dei 
diritti 
dell'uomo. Quaderno 
predisposto in occasione 
dell'incontro trilaterale 
delle 
Corti 
costituzionale 
italiana, spagnola e 
portoghese 
(Madrid, 
13-15 
ottobre 
2011), 
in 
www.cortecostituzionale.it; 
si 
veda, 
da 
ultimo, 
C. 
FELzIAnI, 
Giustizia 
amministrativa, 
amministrazione 
e 
ordinamenti 
giuridici. 
tra 
diritto 
nazionale, 
diritto 
del-
l'unione e Cedu, napoli, 2018, 180 e ss. 


(7) Successivamente 
alla 
pronuncia 
sul 
caso engel, tra 
i 
primi 
arresti 
con cui 
la 
Corte 
EDU 
ha 
ritenuto 
estendibili 
agli 
illeciti 
di 
carattere 
extra 
penale 
le 
garanzie 
di 
cui 
agli 
artt. 
6 
e 
7 
CEDU 
si 
segnalano 
Corte 
EDU, 27 febbraio 1980, deweer 
c. belgio; 
Corte 
EDU, 25 agosto 1987, lutz 
c. Germania; 
Corte 
EDU, 22 febbraio 1996, putz 
c. austria; 
Corte 
EDU, 21 ottobre 
1997, pierre-bloch c. Francia; 
Corte 
EDU, 24 settembre 1997, Garyfallou aebe c. Grecia, tutte in www.echr.coe.int. 
(8) Come 
evidenziato dalla 
più attenta 
dottrina, in base 
alle 
argomentazioni 
della 
Corte 
di 
Strasburgo, 
alle 
sanzioni 
amministrative 
qualificate 
come 
“penali” 
ai 
fini 
della 
Convenzione 
in virtù del-
l’applicazione 
dei 
criteri 
“engel” 
si 
devono 
ritenere 
applicabili 
non 
solo 
le 
garanzie 
di 
cui 
all’art. 
6 
CEDU 
sul 
giusto processo, ma 
anche 
le 
altre 
norme 
dedicate 
alla 
“materia 
penale”, in particolare 
l’art. 
7, che 
fissa 
il 
principio di 
irretroattività 
della 
norma 
sanzionatoria. In tal 
senso C.E. PALIERO 
-A. TRAvI, 
la sanzione 
amministrativa. profili 
sistematici, Milano, 1988, 157. Si 
veda 
anche 
F. GOISIS, Nuove 
prospettive 
per 
il 
principio 
di 
legalità 
in 
materia 
sanzionatoria-amministrativa: 
gli 
obblighi 
discendenti 
dall’art. 7 Cedu, in Foro amm. tar, 2013, 1228 e ss. 
(9) Così Corte EDU, 8 giugno 1976, engel e altri c. paesi bassi, cit., par. 82. 
(10) Si 
tratta 
dei 
c.d. criteri 
engel, elaborati 
dalla 
Corte 
europea 
per la 
prima 
volta 
proprio con la 
già 
richiamata 
pronuncia 
engel 
del 
1976 ed affinati 
dalla 
successiva 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
Strasburgo. 
(11) COSì 
F. GOISIS, la tutela del 
cittadino nei 
confronti 
delle 
sanzioni 
amministrative 
tra diritto 
nazionale 
ed europeo, 
cit., 4. vedi 
anche 
v. MAnES, profili 
e 
confini 
dell’illecito para-penale, in riv. 
it. dir. e proc. pen., 2017, 994. 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


penale 
di 
una 
norma 
sanzionatoria, la 
Corte 
valuta 
principalmente 
se 
essa 
si 
rivolga 
alla 
generalità 
dei 
consociati 
e 
non esclusivamente 
agli 
appartenenti 
ad un determinato ordine 
(acquistando altrimenti 
natura 
disciplinare) (12), se 
sia 
posta 
a 
presidio 
di 
beni 
giuridici 
la 
cui 
tutela 
è 
normalmente 
assicurata 
mediante 
norme 
di 
diritto 
penale, 
e 
se 
abbia 
uno 
scopo 
non 
meramente 
risarcitorio 
e 
ripristinatorio, ma 
deterrente 
e 
repressivo (13). Con riguardo, invece, al 
criterio 
della 
gravità 
della 
sanzione, considerato con riferimento alla 
pena 
massima 
edittale 
(14), i 
giudici 
di 
Strasburgo hanno a 
più riprese 
affermato che 
non risulta 
dirimente, ai 
fini 
dell’esclusione 
della 
natura 
penale 
di 
un determinato 
illecito, la 
circostanza 
che 
l’autore 
dell’infrazione 
non incorra 
in una 
limitazione 
della 
libertà 
personale, 
in 
quanto 
ciò 
che 
rileva 
è 
che 
la 
misura 
punitiva 
sia 
potenzialmente 
idonea 
ad incidere 
in modo rilevante 
sulla 
sfera 
giuridica 
del 
suo 
destinatario 
(15). 
Pertanto, 
sono 
considerate 
di 
natura 
penale 
anche 
le 
sanzioni 
che 
consistono 
e 
si 
esauriscono 
nell'imposizione 
dell'obbligo, 
in capo al 
soggetto sanzionato, di 
corrispondere 
una 
somma 
di 
denaro e 
ciò 
qualora 
le 
stesse 
siano 
di 
entità 
tale 
da 
comportare, 
per 
il 
soggetto 
cui 
vengono 
irrogate, importanti conseguenze finanziarie (16). 

I criteri 
della 
natura 
e 
della 
gravità 
della 
misura 
sanzionatoria 
sono pacificamente 
considerati 
tra 
di 
loro alternativi 
e 
non cumulativi, per cui 
soltanto 
qualora 
all’esito 
dell’analisi 
separata 
dei 
singoli 
criteri 
residuino 
ancora 
dubbi 
sulla 
natura 
sostanzialmente 
penale 
dell’illecito 
oggetto 
di 
scrutinio, 
è 
possibile 
procedere ad un’indagine cumulativa (17). 

Dall’alternatività 
dei 
suddetti 
criteri 
discende 
che, 
ai 
sensi 
e 
per 
gli 
effetti 
della 
Convenzione, 
possono 
essere 
assimilate 
alle 
sanzioni 
penali 
anche 
sanzioni 
“minori”, 
ovvero 
non 
particolarmente 
severe 
ma 
con 
scopo 
deterrente 
e 
punitivo, 
ovvero 
sanzioni 
prive 
di 
tale 
funzione 
ma 
in 
grado 
di 
comportare 
gravi 
conseguenze 
economiche 
nei 
confronti 
del 
destinatario. 
A 
tal 
proposito, 
a 
titolo 
puramente 
esemplificativo, 
si 
osserva 
che 
la 
Corte 
EDU 
ha 
riconosciuto 
natura 
penale 
a 
sanzioni 
tributarie 
(18), 
a 
sanzioni 
amministrative 
derivanti 
dalla 
vio


(12) Cfr. Corte EDU, 24 febbraio 1994, bendenoun c. Francia. 
(13) Cfr. Corte 
EDU, 1° 
febbraio 2005, ziliberg c. moldavia; 
Corte 
EDU, 2 giugno 2008, paykar 
Yev 
Haghtanak 
ltd c. armenia; 
Corte 
EDU, 20 luglio 2006, taiani 
c. italia; 
Corte 
EDU, 23 novembre 
2006, Jussila c. Finlandia; 
Corte 
EDU, 2 settembre 
1998, Kadubec 
c. Slovacchia; 
Corte 
EDU, 2 settembre 
1998, lauko c. Slovacchia. 
(14) Corte 
EDU, 28 giugno 1984, Campbell 
e 
Fell 
c. regno unito; 
Corte 
EDU, 27 agosto 1991, 
demicoli c. malta. 
(15) P. PROvEnzAnO, Note 
minime 
in tema di 
sanzioni 
amministrative 
e 
“materia penale”, in rivista 
italiana di diritto pubblico Comunitario, fasc. 6, 2018, 1073. 
(16) Corte EDU, 11 giugno 2009, dubus S.a. c. Francia, ricorso n. 5242/04. 
(17) 
Corte 
EDU, 
24 
febbraio 
1994, 
bendenoun 
c. 
Francia, 
cit.; 
Corte 
EDU, 
11 
giugno 
2009, 
dubus 
S.a. 
c. 
Francia, 
cit.; 
Corte 
EDU, 
4 
marzo 
2014, 
Grande 
Stevens 
e 
altri 
c. 
italia, 
ricorsi 
nn. 
18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e 18698/10. 
(18) 
Corte 
EDU, 
23 
novembre 
2006, 
Jussila 
c. 
Finlandia, 
ricorso 
n. 
73053/01; 
Corte 
EDU, 
4 
marzo 2004, Silverster’s Horeca Service c. belgio, ricorso n. 47650/09. 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


lazione 
di 
norme 
sulla 
circolazione 
stradale 
(19) 
e 
di 
importo 
irrisorio 
(20), 
a 
sanzioni 
di 
tipo 
interdittivo 
(21) 
o 
con 
finalità 
ripristinatorie 
(22) 
caratterizzate 
da 
un 
certo 
grado 
di 
severità. 
Ancora, 
nell’ampia 
nozione 
di 
materia 
penale 
elaborata 
dalla 
Corte, 
sono 
state 
fatte 
rientrare 
anche 
contravvenzioni 
per 
il 
disturbo 
del 
vicinato 
(23), 
infrazioni 
alla 
legislazione 
sulla 
previdenza 
sociale 
(24), 
nonché 
sanzioni 
pecuniarie 
per 
violazione 
di 
vincoli 
paesaggistici 
(25). 


Facendo 
applicazione 
dei 
succitati 
parametri, 
i 
giudici 
di 
Strasburgo 
hanno, in più occasioni, qualificato come 
penali, ai 
fini 
della 
Convenzione, le 
sanzioni 
amministrative 
irrogate 
dalle 
Autorità 
Indipendenti, in quanto caratterizzate 
da 
una 
spiccata 
severità 
ed aventi 
una 
finalità 
repressiva 
e 
punitiva 
(26). Con riferimento alle 
authorities 
italiane 
i 
precedenti 
rilevanti 
sono no


(19) Corte 
EDU, 9 novembre 
1999, varuzza c. italia, ricorso n. 35260/97, con cui 
è 
stata 
riconosciuta 
natura 
penale 
ad una 
sanzione 
amministrativa 
pecuniaria 
per eccesso di 
velocità. L’orientamento 
era 
stato inaugurato molti 
anni 
prima 
da 
Corte 
EDU, 21 febbraio 1984, ozturk 
c. Germania, ricorso n. 
8544/79; 
vedi 
anche 
Corte 
EDU, 
25 
agosto 
1987, 
lutz 
c. 
Germania; 
Corte 
EDU, 
23 
ottobre 
1995, 
Schmautzer c. austria; Corte EDU, 23 settembre 1998, malige c. Francia. 
(20) Corte 
EDU, 1° 
febbraio 2005, ziliberg c. moldavia, ricorso n. 61821/00, con cui 
è 
stata 
riconosciuta 
natura 
penale 
ad una 
sanzione 
di 
soli 
3 euro, partendo dall’assunto che 
l’ammontare 
della 
stessa fosse comunque significativo rispetto al reddito del destinatario. 
(21) Con riferimento alle 
sanzioni 
di 
tipo interdittivo si 
veda 
Corte 
EDU, 24 aprile 
2012, mihai 
toma c. romania, ricorso n. 1051/06 che 
ha 
qualificato come 
penale 
la 
sanzione 
di 
ritiro della 
patente 
di 
guida, 
qualificata 
nel 
relativo 
ordinamento 
come 
misura 
di 
natura 
amministrativa; 
Corte 
EDU, 
30 
maggio 2006, matyjec 
c. polonia, ricorso n. 38184/03, con la 
quale 
la 
Corte 
europea 
ha 
riconosciuto 
natura 
penale 
all'interdizione 
per dieci 
anni 
dai 
pubblici 
uffici 
e 
da 
talune 
professioni 
per i 
soggetti 
colpevoli 
di 
aver 
reso 
false 
dichiarazioni 
in 
ordine 
alla 
collaborazione 
con 
il 
regime 
comunista; 
Corte 
EDU, 
20 gennaio 2001, 
vernes 
c. Francia, ricorso n. 7798/08, che 
ha 
assimilato alla 
sanzione 
penale 
l'interdizione 
perpetua 
dall'esercizio di 
attività 
di 
gestione 
di 
altrui 
investimenti 
finanziari; 
tra 
le 
più risalenti, 
vedi 
Corte 
EDU, 27 febbraio 1980, dewer 
c. belgio, ricorso n. 6903/75 che 
ha 
ritenuto di 
natura 
penale 
il provvedimento di chiusura di una macelleria che non aveva rispettato la legislazione sui prezzi. 
(22) 
Con 
riguardo 
alla 
natura 
penale 
delle 
sanzioni 
ripristinatorie 
si 
vedano: 
Corte 
EDU, 
9 
febbraio 
1995, Welch c. regno unito, ricorso n. 17440/90, che 
ha 
riconosciuto la 
natura 
sostanzialmente 
penale 
della 
misura 
della 
confisca, 
qualificata 
nell’ordinamento 
nazionale 
britannico 
come 
amministrativa; 
Corte 
EDU, 27 novembre 
2007, Hamer 
c. belgio, con la 
quale 
si 
è 
riconosciuta 
natura 
penale 
all'ordine 
di 
demolizione 
di 
un 
immobile 
abusivo; 
Corte 
EDU, 
30 
agosto 
2007, 
Sud 
Fondi 
c. 
italia, 
che 
ha 
attribuito 
natura 
penale 
ai 
provvedimenti 
di 
confisca 
dei 
beni 
abusivamente 
lottizzati. Sotto tale 
ultimo profilo si 
veda, da ultimo, Corte EDU, 28 giugno 2018, G.i.e.m. S.r.l. e altri c. italia. 
(23) Corte EDU, 2 settembre 1998, lauko c. Slovacchia. 
(24) Corte EDU, 4 marzo 2008, Huseyin turan c. turchia, ricorso n. 11529/02. 
(25) Corte EDU, 21 marzo 2006, valico srl. c. italia, ricorso n. 70074/01. 
(26) 
Con 
riferimento 
ai 
provvedimenti 
sanzionatori 
di 
Autorità 
Amministrative 
Indipendenti 
francesi, 
si 
segnalano Corte 
EDU, 30 giugno 2011, messier 
c. Francia, ricorso n. 25041/07; 
Corte 
EDU, 20 
gennaio 2011, vernes 
c. Francia; 
Corte 
EDU, 11 giugno 2009, dubus 
S.a. c. Francia, cit.; 
Corte 
EDU, 
9 marzo 1998, Guisset 
c. Francia, ricorso n. 33933/96; 
Corte 
EDU, 27 agosto 2002, didier 
c. Francia, 
ricorso n. 58188/00; 
Corte 
EDU, 3 dicembre 
2002, lilly 
France 
S.a. c. Francia, ricorso n. 53892/00. 
Con 
riguardo, 
invece, 
alle 
sanzioni 
delle 
Autorità 
Indipendenti 
italiane, 
si 
veda 
Corte 
EDU, 
27 
settembre 
2011, menarini 
diagnostics 
s.r.l. c. italia, ricorso n. 43509/08, Corte 
EDU, 4 marzo 2014, Grande 
Stevens 
e 
altri 
c. 
italia, 
cit. 
Sull’incidenza 
della 
giurisprudenza 
della 
Corte 
europea 
sul 
potere 
sanzionatorio 
delle 
Autorità 
Indipendenti 
vedi, ex 
multis, S. CIMInI, op. cit.; 
AA.vv., il 
potere 
sanzionatorio delle 
autorità 
amministrative 
indipendenti, 
a 
cura 
di 
M. 
ALLEnA 
-S. 
CIMInI, 
in 
il 
diritto 
dell’economia, 
Contenuti 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


tissimi: 
con la 
sentenza 
menarini 
(27) è 
stato riconosciuto carattere 
penale 
ad 
una 
sanzione 
pecuniaria 
irrogata 
dall'Autorità 
Garante 
della 
Concorrenza 
e 
del 
Mercato nei 
confronti 
di 
una 
impresa 
farmaceutica 
a 
seguito di 
un'intesa 
restrittiva 
della 
concorrenza. 
Con 
la 
sentenza 
Grande 
Stevens 
(28), 
invece, 
sono 
state 
qualificate 
come 
penali 
le 
sanzioni 
irrogate 
dalla 
Consob in materia 
di 
abusi di mercato ex 
art. 187-septies 
del d.lgs. n. 58 del 1998. 


Con 
la 
pronuncia 
in 
commento, 
la 
Corte 
EDU 
è 
tornata 
ad 
occuparsi 
dell’attualissimo tema 
della 
assimilazione 
tra 
pene 
e 
sanzioni 
amministrative, 
con specifico riguardo alle 
sanzioni 
applicate 
dalle 
authorieties 
italiane, attraendo 
nell’autonoma 
nozione 
di 
“accusa 
penale” 
elaborata 
dalla 
propria 
giurisprudenza 
le 
sanzioni 
amministrative 
irrogate 
dall’AGCOM 
ai 
sensi 
dell’art. 
1, c. 30 della legge n. 249 del 1997. 

Appare 
opportuno 
precisare 
che 
il 
riconoscimento 
della 
natura 
penale, 
ai 
sensi 
e 
per 
i 
fini 
della 
Convenzione, 
delle 
sanzioni 
applicate 
dall’AGCOM, 
non 
rappresenta 
certamente 
un 
dato 
di 
novità, 
costituendo 
nient’altro 
che 
il 
coerente 
sviluppo 
di 
indirizzi 
giurisprudenziali 
già 
emersi 
in 
precedenza 
ed 
ormai 
consolidati. 
Facendo 
applicazione 
dei 
criteri 
“engel”, 
la 
Corte 
europea 
ha, 
infatti, 
rilevato 
che 
le 
sanzioni 
de 
qua, 
al 
pari 
di 
quelle 
irrogate 
dall’Autorità 
Garante 
della 
Concorrenza 
e 
del 
Mercato 
e 
dalla 
Consob, 
erano 
poste 
a 
tutela 
di 
un 
interesse 
generale, 
erano 
state 
concepite 
con 
funzione 
essenzialmente 
deterrente 
e 
punitiva, 
in 
quanto 
finalizzate 
ad 
impedire 
una 
recidiva, 
ed 
infine, 
con 
riguardo 
al 
grado 
di 
severità, 
avevano 
avuto 
conseguenze 
patrimoniali 
importanti 
per 
le 
imprese 
destinatarie, 
le 
quali, 
oltre 
ad 
aver 
do-

extra, approfondimenti, in www.mucchieditore.it, 2013; 
E. BInDI 
-A. PISAnESChI, Sanzioni 
Consob e 
banca 
d’italia. 
procedimenti 
e 
doppio 
binario 
al 
vaglio 
della 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo, 
Torino, 
2018; 
W. 
TROISE 
MAnGOnI, 
il 
potere 
sanzionatorio 
della 
Consob. 
profili 
procedimentali 
e 
strumentalità 
rispetto 
alla 
funzione 
regolatoria, 
Milano, 
2012; 
E. 
BInDI, 
l’incidenza 
delle 
pronunce 
della 
Corte 
edu 
sui 
procedimenti 
sanzionatori 
delle 
autorità amministrative 
indipendenti 
in Giur. Cost., 2014, 3007 e 
ss.; 
L. 
TORChIA, 
il 
potere 
sanzionatorio 
della 
Consob 
dinanzi 
alle 
corti 
europee 
e 
nazionali, 
in 
www.irpa.eu, 2014; 
M. ALLEnA, il 
caso Grande 
Stevens 
e 
altri 
c. italia: le 
sanzioni 
Consob alla prova 
dei 
principi 
Cedu, in Giornale 
di 
diritto amministrativo, 2014; 
v. zAGREBELSky 
le 
sanzioni 
Consob, 
l’equo processo e il ‘ne bis in idem’ nella Cedu, in Giurisprudenza italiana, 2014. 


(27) Corte 
EDU, 27 settembre 
2011, menarini 
diagnostics 
s.r.l. c. italia. Per un commento alla 
pronuncia 
si 
veda 
A.E. BASILICO, il 
controllo del 
giudice 
amministrativo sulle 
sanzioni 
antitrust 
e 
l'art. 
6 Cedu, in rivista telematica giuridica dell'associazione dei costituzionalisti, n. 4/2011. 
(28) 
Corte 
EDU, 
4 
marzo 
2014, 
Grande 
Stevens 
e 
altri 
c. 
italia. 
La 
rilevanza 
della 
pronuncia 
è 
testimoniata 
dalla 
mole 
di 
commenti 
in 
merito: 
si 
segnalano, 
tra 
i 
molti, 
M. 
ALLEnA, 
il 
caso 
Grande 
Stevens 
e 
altri 
c. 
italia: 
le 
sanzioni 
Consob 
alla 
prova 
dei 
principi 
Cedu, 
cit.; 
v. 
zAGREBELSky, 
le 
sanzioni 
Consob, 
l’equo 
processo 
e 
il 
ne 
bis 
in 
idem 
nella 
Cedu, 
cit.; 
M. 
vEnTORUzzO, 
abusi 
di 
mercato, 
sanzioni 
Consob 
e 
diritti 
umani: 
il 
caso 
Grande 
Stevens 
e 
altri 
c. 
italia, 
in 
rivista 
delle 
Società, 
2014, 
693 
e 
ss.; 
G.M. 
FLICk 
-v. 
nAPOLEOnI, 
Cumulo 
tra 
sanzioni 
penali 
e 
amministrative: 
doppio 
binario 
o 
binario 
morto? 
“materia 
penale”, 
giusto 
processo 
e 
ne 
bis 
in 
idem 
nella 
sentenza 
della 
corte 
edu, 
4 
marzo 
2014, 
in 
www.rivistaaic.it, 
2014; 
ID., 
a 
un 
anno 
di 
distanza 
dall’affaire 
Grande 
Stevens: 
dal 
bis 
in 
idem 
all’e 
pluribus 
unum?, 
in 
www.rivistaaic.it, 
2015; 
P. 
MOnTALEnTI, 
abusi 
di 
mercato 
e 
procedimento 
Consob: 
il 
caso 
Grande 
Stevens 
e 
la 
sentenza 
Cedu, 
in 
Giurisprudenza 
commentata, 
2015. 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


vuto 
pagare 
un’ingente 
somma 
di 
denaro, 
erano 
state 
private 
della 
possibilità 
di 
accedere 
ad 
ulteriori 
forme 
di 
finanziamento 
per 
un 
importo 
superiore 
a 


7.000.000 
euro. 
Di 
conseguenza, 
i 
giudici 
europei 
hanno 
statuito 
che 
il 
procedimento 
di 
cui 
i 
ricorrenti 
contestavano 
la 
legittimità 
aveva 
ad 
oggetto 
una 
“accusa 
penale”, 
rispetto 
alla 
quale 
l’AGCOM 
doveva 
essere 
considerata 
come 
un 
“tribunale”. 
3.1. i vizi 
procedimentali 
sotto il 
profilo del 
mancato rispetto del 
principio di 
parità delle 
armi, dell’assenza di 
una udienza pubblica e 
del 
difetto di 
imparzialità 
dell’organo giudicante. 
Appurata 
la 
natura 
“penale” 
delle 
sanzioni 
irrogate 
dall’AGCOM, 
la 
Corte 
di 
Strasburgo ha 
ripercorso lo svolgimento del 
procedimento condotto 
dall’Autorità, 
per 
verificare 
se 
esso 
avesse, 
in 
concreto, 
rispettato 
i 
principi 
dell’equo processo sanciti dall’art. 6 CEDU. 

Dall’esame 
dell’iter 
procedimentale 
è 
emersa, in primis, una 
violazione 
del 
principio di 
parità 
delle 
armi 
tra 
accusa 
e 
difesa 
poiché, nonostante 
i 
ricorrenti 
avessero avuto la 
possibilità 
di 
accedere 
agli 
atti 
e 
di 
presentare 
osservazioni 
durante 
le 
indagini, non era 
stato loro trasmesso il 
rapporto finale 
della 
Guardia 
di 
Finanza, sul 
quale 
la 
Commissione 
aveva 
fondato la 
propria 
decisione, con conseguente 
impossibilità 
di 
replicarvi 
mediante 
il 
deposito di 
memorie 
e 
documenti, 
ovvero 
la 
richiesta 
di 
un’audizione 
orale. 
La 
Corte 
EDU 
ha, inoltre, censurato la 
procedura 
sanzionatoria 
dell’AGCOM 
sotto il 
profilo 
del 
mancato 
svolgimento 
di 
una 
udienza 
pubblica, 
rilevando 
che, 
sebbene 
i 
principi 
di 
oralità 
e 
pubblicità 
delle 
udienze 
non debbano necessariamente 
informare 
qualsiasi 
procedimento 
sanzionatorio 
(29), 
nel 
caso 
di 
specie 
la 
natura 
meramente 
cartolare 
del 
procedimento 
era 
inadeguata, 
a 
causa 
della 
difformità 
di 
versioni 
sullo svolgimento dei 
fatti, dell’entità 
delle 
sanzioni 
irrogate 
e 
del 
loro impatto sulla reputazione dei soggetti coinvolti. 


In terzo luogo, la 
Corte 
ha 
rilevato un difetto di 
imparzialità 
ed indipendenza 
dell’organo 
giudicante, 
evidenziando 
il 
carattere 
meramente 
formale 
della 
separazione, prevista 
dal 
regolamento dell’AGCOM, tra 
l’organo incaricato 
delle 
indagini 
(il 
responsabile 
del 
procedimento) 
e 
l’organo 
preposto 
alla 
decisione 
(la 
Commissione). 
Tali 
soggetti 
erano, 
infatti, 
nient’altro 
che 
suddivisioni 
di 
uno stesso organo amministrativo, operanti 
sotto l'autorità 
e 
la 
supervisione 
di 
uno stesso presidente, il 
che 
denotava 
una 
continuità 
di 
funzioni 
inquirenti 
e 
di 
giudizio in seno ad una 
stessa 
istituzione, assolutamente 
incompatibile con l'esigenza di imparzialità richiesta dall’art. 6 della CEDU. 


(29) Si 
vedano, ex 
multis, Corte 
EDU, 12 novembre 
2002, döry 
c. Svezia, ricorso n. 28394/95; 
Corte 
EDU, 
25 
novembre 
2003, 
pursiheimo 
c. 
Finlandia, 
ricorso 
n. 
57795/00; 
Corte 
EDU, 
23 
novembre 
2006, Jussila c. Finlandia, sopra 
citata; 
Corte 
EDU, 17 maggio 2011, 
Suhadolc 
c. Slovenia, ricorso n. 
57655/08. 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


Alla 
luce 
di 
queste 
considerazioni, la 
Corte 
ha 
giudicato il 
procedimento 
dinanzi 
all’AGCOM 
non rispettoso di 
tutte 
le 
garanzie 
convenzionali 
di 
cui 
all’art. 6 della CEDU. 


4. 
il 
canone 
della 
full 
jurisdiction 
quale 
meccanismo 
di 
compensazione 
ex 
post 
delle carenze procedimentali. 
Le 
carenze 
procedimentali 
riscontrate 
non sono state, tuttavia, sufficienti 
per 
concludere 
nel 
senso 
della 
sussistenza, 
nel 
caso 
di 
specie, 
di 
una 
violazione 
dell’art. 6 CEDU, dovendosi 
preliminarmente 
accertare 
se, successivamente 
all’adozione 
delle 
sanzioni, 
i 
ricorrenti 
avessero 
avuto 
accesso 
ad 
un 
tribunale 
indipendente 
ed 
imparziale, 
dotato 
di 
piena 
giurisdizione, 
in 
grado 
di 
porre 
rimedio 
ai 
vizi 
del 
procedimento e 
di 
assicurare, sia 
pure 
ex 
post, tutte 
le 
garanzie 
di cui all’art. 6. 


Con 
la 
pronuncia 
in 
commento 
i 
giudici 
di 
Strasburgo 
hanno 
confermato, 
infatti, l’orientamento secondo cui, anche 
laddove 
il 
procedimento di 
irrogazione 
della 
sanzione 
da 
parte 
dell’autorità 
amministrativa 
non 
sia 
conforme 
ai 
canoni 
del 
giusto processo, per scongiurare 
una 
violazione 
dell’art. 6 CEDU 
sia 
sufficiente 
assicurare 
al 
destinatario 
della 
sanzione 
la 
possibilità 
di 
ricorrere 
ad un giudice indipendente e dotato di “piena giurisdizione”. 


In base 
alla 
giurisprudenza 
della 
Corte 
EDU, per full 
jurisdiction 
si 
intende, 
in 
estrema 
sintesi, 
l’assenza 
di 
ogni 
limitazione, 
autoimposta 
o 
altrimenti 
prevista, 
all’esame 
da 
parte 
del 
giudice 
dei 
punti 
centrali 
della 
controversia 
tra 
cittadino e 
Amministrazione 
(30). Affinché 
sia 
garantito il 
rispetto 
di 
tale 
canone, il 
cittadino deve 
poter avere 
accesso ad un tribunale 
con 
cognizione 
piena, 
su 
tutti 
i 
punti 
di 
fatto 
e 
di 
diritto, 
ossia 
estesa 
al 
merito 
della 
questione 
ed il 
giudice 
non deve 
considerarsi 
vincolato dai 
precedenti 
accertamenti 
degli 
organi 
amministrativi 
sui 
punti 
decisivi 
per l’esito del 
caso, così 
prescindendo da un esame indipendente di tali questioni (31). 

Ciò premesso, appare 
opportuno focalizzare 
l’attenzione 
su come 
il 
canone 
della 
full 
jurisdiction 
sia 
interpretato ed applicato nel 
nostro sistema 
di 
giustizia 
amministrativa 
nelle 
controversie 
aventi 
ad 
oggetto 
le 
sanzioni 
penali 
delle 
Autorità 
Indipendenti. La 
questione 
si 
inserisce 
all’interno del 
dibattito 
concernente 
il 
rapporto tra 
discrezionalità 
tecnica 
e 
giudice 
amministrativo e 
riguarda 
le 
specifiche 
modalità 
di 
esercizio 
del 
sindacato 
giurisdizionale 
ri


(30) 
Così, 
da 
ultimo, 
Corte 
EDU, 
11 
gennaio 
2018, 
Haralambi 
borisov 
aNCHev 
c. 
bulgaria, 
ricorsi 
nn. 
38334/08 
e 
68242/16. 
Sul 
concetto 
di 
full 
jurisdiction 
vedi, 
ex 
multis, 
F. 
GOISIS, 
la 
full 
jurisdiction 
nel 
contesto 
della 
giustizia 
amministrativa: 
concetto, 
funzioni 
e 
nodi 
irrisolti, 
in 
dir. 
proc. 
amm., 
2015, 
546 
e 
ss.; 
ID., 
il 
canone 
della 
full 
jurisdiction, 
tra 
proteiformità 
e 
disconoscimento 
della 
discrezionalità 
tecnica 
come 
merito. 
riflessioni 
critiche 
sull’art. 
7, 
co. 
1, 
d.lgs. 
19 
gennaio 
2017, 
in 
p.a. 
persona 
e 
amministrazione, 
2018; 
ivi, 
M. 
ALLEnA, 
l’art. 
6 
e 
la 
continuità 
tra 
procedimento 
e 
processo. 
(31) Cosi 
Corte 
EDU, 21 luglio 2011, Stigma radio television ltd c. Cipro, ricorsi 
nn. 32181/04 
e 35122/05, par. 157. 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


spetto alle 
scelte 
tecniche 
ed ai 
relativi 
fatti 
accertati 
dall’Autorità, alla 
luce 
dei principi del giusto processo affermati dalla Corte EDU (32). 

La 
giurisprudenza 
amministrativa 
italiana 
ha 
progressivamente 
approfondito 
il 
tema, spinta 
dalla 
ricerca 
di 
un punto di 
equilibrio tra 
le 
contrapposte 
esigenze 
di 
garantire 
l’effettività 
della 
tutela 
giurisdizionale 
ed evitare 
che 
il 
giudice 
potesse 
riesercitare 
direttamente 
un 
potere 
in 
materie 
rimesse 
alle 
Autorità 
Indipendenti. nelle 
prime 
pronunce 
in materia 
di 
sanzioni 
delle 
authorities 
si 
era 
affermato il 
principio secondo cui 
i 
provvedimenti 
dell’Autorità 
erano 
sindacabili 
per 
vizi 
di 
legittimità 
e 
non 
di 
merito, 
potendo 
il 
giudice 
amministrativo 
verificare 
esclusivamente 
se 
il 
provvedimento impugnato apparisse 
logico, congruo, ragionevole, correttamente 
motivato ed istruito, senza 
la 
possibilità 
di 
sostituire 
le 
proprie 
valutazioni 
di 
merito a 
quelle 
effettuate 
dall’Autorità 
e 
a 
questa 
riservate 
(33). Il 
fatto poteva, dunque, dirsi 
precostituito 
dall’Amministrazione, anche 
in ragione 
dell’atteggiamento di 
deference 
del 
giudice 
nei 
confronti 
delle 
scelte 
di 
carattere 
tecnico 
discrezionale 
operate 
dalle 
Autorità, in virtù della 
particolare 
posizione 
e 
qualificazione 
tecnica 
di 
queste 
ultime. 
nello 
specifico, 
le 
valutazioni 
tecniche 
complesse 
risultanti 
dalla 
applicazione 
di 
concetti 
giuridici 
indeterminati 
(quali, 
ad 
esempio, 
il 
mercato 
rilevante, 
l’abuso 
di 
posizione 
dominante, 
le 
intese 
restrittive 
della 
concorrenza) e 
basate 
sul 
rispetto di 
regole 
proprie 
di 
scienze 
inesatte 
ed opinabili, 
erano oggetto di 
un controllo di 
tipo debole 
(cd. controllo estrinseco o 
esterno) limitandosi 
il 
giudice 
ad attenersi 
alla 
valutazione 
operata 
dall’Autorità, 
salvo 
che 
questa 
non 
fosse 
manifestamente 
irrazionale 
o 
incongrua, 
senza 
spingersi 
a 
verificare 
direttamente 
in positivo se 
fosse 
stata 
ben svolta 
sotto il 
profilo tecnico scientifico (34). 


Successivamente 
il 
Consiglio 
di 
Stato, 
ribaltando 
l’orientamento 
che 
negava 
al 
giudice 
amministrativo l’accesso diretto al 
fatto, nell’ottica 
di 
assicurare 
una 
tutela 
effettiva 
nei 
confronti 
degli 
atti 
delle 
Autorità 
Indipendenti, ha 
stabilito 
che 
i 
fatti 
posti 
a 
fondamento 
dei 
provvedimenti 
dell’Autorità 
possono 
essere 
pienamente 
verificati 
dal 
giudice 
sotto 
il 
profilo 
della 
verità 
degli 
stessi. 
La 
giurisprudenza 
amministrativa 
ha, dunque, trovato un punto di 
equilibrio 
intorno a 
quello che 
viene 
definito come 
“sindacato intrinseco di 
attendibilità 
tecnica”: 
il 
giudice, 
avvalendosi 
delle 
medesime 
regole 
specialistiche 
utilizzate 
dall’Amministrazione, può sindacare 
l’attendibilità 
della 
valutazione 
tecnica 
operata, 
sotto 
il 
profilo 
della 
correttezza 
del 
criterio 
utilizzato 
ed 
applicato, 


(32) 
In 
argomento 
si 
segnala 
il 
contributo 
di 
G. 
SABBATO, 
la 
full 
jurisdiction 
nella 
giurisprudenza 
nazionale. 
un 
quadro 
complesso 
in 
evoluzione, 
in 
p.a. 
persona 
e 
amministrazione, 
cit., 
297 
e 
ss. 
(33) vedi, ex 
multis, Cons. St., Sez. vI, 14 marzo 2000, n. 1348; 
Cons. St., Sez. vI, 20 marzo 
2001, n. 1671; Cons. St., Sez. vI, 26 luglio 2001, n. 4118. 
(34) vedi, ex 
multis, Cons. St., Sez. vI, 1° 
ottobre 
2002, n. 5156, con nota 
di 
F. LIGUORI, il 
sindacato 
debole 
sulle 
valutazioni 
riservate 
delle 
amministrazioni 
indipendenti, in Giornale 
di 
diritto amministrativo, 
2013, 597 e ss. 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


verificando 
se 
la 
soluzione 
tecnica 
individuata 
dall’Autorità 
rientri 
o 
meno 
nella 
ristretta 
gamma 
di 
risposte 
plausibili 
che 
possono essere 
date 
a 
quel 
problema 
alla 
luce 
della 
tecnica, delle 
scienze 
rilevanti 
e 
di 
tutti 
gli 
elementi 
di 
fatto (35). 

L’intensità 
dello 
scrutinio 
non 
supera, 
tuttavia, 
il 
perimetro 
rappresentato 
dalle 
valutazioni 
tecniche 
opinabili. 
Il 
sindacato 
del 
giudice 
amministrativo 
resta, 
infatti, 
un 
sindacato 
non 
sostitutivo, 
in 
quanto 
gli 
è 
consentito 
censurare 
la 
sola 
valutazione 
che 
si 
ponga 
al 
di 
fuori 
dell’ambito di 
opinabilità, non potendo 
il 
giudice 
sostituire 
alla 
valutazione 
opinabile 
effettuata 
dall’Autorità 
una propria valutazione parimenti opinabile (36). 


Tant’è 
vero 
che, 
nonostante 
l’art. 
134 
c. 
1, 
lett. 
c) 
del 
c.p.c. 
abbia 
conferito 
al 
giudice 
amministrativo 
una 
giurisdizione 
estesa 
al 
merito 
sui 
provvedimenti 
sanzionatori 
pecuniari 
delle 
Autorità 
Indipendenti, la 
giurisprudenza 
amministrativa, 
partendo dall’assunto che 
la 
ricostruzione 
dei 
concetti 
giuridici 
indeterminati 
di 
tipo tecnico sia 
esclusivo appannaggio delle 
valutazioni 
riservate 
all’Amministrazione, ha 
interpretato tale 
giurisdizione 
come 
riferita 
esclusivamente 
alla 
quantificazione 
della 
sanzione 
e 
non 
anche 
all’accertamento 
della 
sussistenza dei presupposti (37). 


Il 
giudizio sulla 
decisione 
amministrativa 
si 
configura 
come 
un giudizio 
di 
tipo impugnatorio. Il 
ricorrente 
non può, infatti, dolersi 
di 
tutto il 
provvedimento 
sanzionatorio ponendolo dinanzi 
al 
giudice 
per sollecitare 
il 
riesame 
dell’intero procedimento, ma 
deve 
essere 
in grado di 
individuare 
nei 
vizi-motivi 
i 
punti 
in cui 
la 
decisione, al 
di 
là 
di 
eventuali 
violazioni 
di 
legge, non risponde 
ai 
criteri 
di 
ragionevolezza, proporzionalità 
e 
di 
corretto utilizzo delle 
scienze tecniche, i quali sono necessari per configurare l’illecito (38). 

(35) 
Si 
vedano, 
con 
particolare 
riferimento 
alle 
valutazioni 
tecniche 
affidate 
all’AGCM, 
Cons. 
St., 
Sez. 
vI, 
2 
marzo 
2004, 
n. 
926; 
Cons. 
St., 
Sez. 
vI, 
8 
febbraio 
2007, 
n. 
515. 
In 
quest’ultima 
pronuncia 
si 
afferma 
che 
«al 
giudice 
amministrativo 
è 
consentito 
sindacare 
senza 
alcun 
limite 
tutte 
le 
valutazioni 
tecniche 
compiute 
dall’autorità 
antitrust 
per 
l’individuazione 
del 
c.d. 
mercato 
rilevante 
potendo 
valutare, 
avvalendosene 
a 
tal 
fine 
a 
sua 
volta, 
sia 
la 
correttezza 
delle 
scelte 
tecniche 
dalla 
stessa 
compiute 
sia 
l’esattezza 
dell’interpretazione 
ed 
applicazione 
dei 
concetti 
giuridici 
indeterminati 
alla 
fattispecie 
concreta
». 
Più 
di 
recente, 
i 
giudici 
di 
Palazzo 
Spada, 
con 
una 
serie 
di 
pronunce 
ravvicinate, 
hanno 
confermato 
la 
tecnica 
del 
sindacato 
intrinseco 
di 
attendibilità. 
vedi 
Cons. 
St., 
Sez. 
vI, 
5 
agosto 
2019, 
nn. 
5558, 
5564 
e 
nn. 
6022, 
6023, 
6025, 
6027, 
6030, 
6032, 
6065; 
Cons. 
St., 
Sez. 
vI, 
23 
settembre 
2019, 
n. 
6314. 
(36) Cons. St., Sez. vI, 6 maggio 2014, n. 2302. Anche 
le 
Sezioni 
Unite 
della 
Cassazione 
con la 
pronuncia 
del 
20 gennaio 2014, n. 1013, hanno stabilito, con riferimento ai 
provvedimenti 
dell’AGCM, 
che 
per quegli 
apprezzamenti 
che 
presentano un oggettivo margine 
di 
opinabilità 
(come 
nel 
caso della 
definizione 
di 
mercato 
rilevante 
nell’accertamento 
delle 
intese 
restrittive 
della 
concorrenza), 
il 
sindacato 
giurisdizionale, oltre 
che 
in un controllo di 
ragionevolezza, logicità 
e 
coerenza 
della 
motivazione 
del 
provvedimento impugnato, è 
limitato alla 
verifica 
della 
non esorbitanza 
dai 
suddetti 
margini 
di 
opinabilità, 
non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello dell’Autorità. 
(37) Cons. St., Sez. vI, 21 marzo 2018, n. 1821; 
Cons. St., Sez. vI, 29 maggio 2018, n. 3197; 
Cons. St., Sez. vI, 10 luglio 2018, n. 4211. 
(38) Sul 
punto si 
veda, ex 
multis, F. FOLLIERI, la giurisdizione 
di 
legittimità e 
full 
jurisdiction. le 
potenzialità del sindacato confutatorio, in p.a. persona e 
amministrazione, cit., 158. 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


Oggi, tuttavia, una 
parte 
della 
dottrina 
sostiene 
che 
affinchè 
il 
sindacato 
giurisdizionale 
sulle 
sanzioni 
delle 
authorities 
possa 
considerarsi 
pieno 
e 
dunque 
conforme 
ai 
principi 
indicati 
dalla 
Corte 
EDU, il 
giudice 
amministrativo 
deve 
poter 
riesercitare 
ex 
novo 
il 
potere, 
sostituendosi 
completamente 
all’Amministrazione, 
anche 
in 
presenza 
di 
valutazioni 
tecniche 
di 
carattere 
complesso, 
relative 
all’applicazione 
di 
concetti 
giuridici 
indeterminati, 
ovviamente 
nei 
limiti 
del 
principio dispositivo e 
dei 
motivi 
di 
ricorso (39). Tale 
dottrina 
sostiene 
che 
in base 
alla 
giurisprudenza 
della 
Corte 
EDU 
la 
sede 
privilegiata 
per valutare 
la 
fondatezza 
dell’accusa 
penale 
dovrebbe 
essere 
il 
processo, almeno 
laddove 
il 
procedimento non garantisca 
un contraddittorio pieno ed effettivo. 
In 
questa 
ottica, 
il 
modello 
della 
full 
jurisdiction 
in 
materia 
di 
sanzioni 
amministrative 
dovrebbe, 
dunque, 
configurarsi 
come 
un 
sindacato 
giurisdizionale 
appellatorio puro, invece 
che 
cassatorio. Lo schema 
logico dovrebbe 
essere, 
pertanto, 
quello 
di 
due 
soggetti 
pubblici 
che, 
in 
continuità 
tra 
loro, 
esercitano 
un 
potere 
qualitativamente 
identico, 
con 
conseguente 
piena 
sostituibilità 
della 
scelta 
dell'organo inferiore 
(l'Amministrazione) da 
parte 
dell'organo superiore 
(il giudice dotato di 
full jurisdiction). 

L’art. 
6 
della 
CEDU 
richiederebbe, 
pertanto, 
il 
passaggio 
da 
un 
sindacato 
di 
attendibilità 
(quello oggi 
generalmente 
praticato) ad un sindacato di 
maggiore 
attendibilità: 
il 
giudice 
dovrebbe 
verificare 
se 
la 
scelta 
compiuta 
dal-
l’Autorità 
risulti 
la 
più attendibile 
tra 
quelle 
prospettate, con la 
possibilità 
di 
ritenere 
che 
la 
valutazione 
dell’Autorità, sebbene 
intrinsecamente 
attendibile, 
non 
meriti 
conferma, 
in 
quanto 
meno 
attendibile 
di 
quella 
prospettata 
dal 
soggetto 
sanzionato. 

Aderendo 
a 
tale 
ricostruzione, 
il 
testo 
dell'art. 
134, 
comma 
1, 
lett. 
c), 
c.p.a., 
che 
prevede 
una 
giurisdizione 
di 
merito, 
anziché 
di 
mera 
legittimità, 
sulle 
sanzioni 
amministrative 
pecuniarie, 
potrebbe 
essere 
interpretato 
in 
modo 
diverso 
da 
quel 
che 
fa 
la 
giurisprudenza 
amministrativa, 
sostenendo 
che 
la 
giurisdizione 
di 
merito, 
come 
tale 
interamente 
sostitutiva 
dell'amministrazione, 
non 
riguarda 
solo 
la 
quantificazione 
delle 
sanzioni, 
ma 
anche 
l’an 
dell’illecito 
e, dunque, ogni 
valutazione 
di 
merito, di 
fatto e 
di 
diritto, rilevante 
per il 
suo 
accertamento. 


Il 
dubbio che 
può sorgere 
dall’accoglimento della 
tesi 
sopra 
esposta 
è 
se 
un controllo non sostitutivo nel 
senso illustrato valga 
a 
integrare 
quella 
piena 
giurisdizione 
che 
ha 
un 
effetto 
sanante 
sulla 
violazione 
dei 
parametri 
di 
cui 
all’art. 6 della CEDU. 


In verità, appare 
rassicurante 
quanto stabilito dalla 
Corte 
EDU 
nella 
sen


(39) In tal 
senso, M. ALLEnA, art. 6 Cedu. procedimento e 
processo amministrativo, cit., 66 e 
ss; 
ID. l’art. 6 e 
la continuità tra procedimento e 
processo, cit., 30; 
F. GOISIS, il 
canone 
della full 
jurisdiction 
tra proteiformità e 
disconoscimento della discrezionalità tecnica come 
merito. riflessioni 
critiche 
sull’art. 7 co. 1 d.lgs. 19 gennaio 2017, cit., 204 e ss. 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


tenza 
menarini, in cui 
si 
è 
posto proprio il 
problema 
se 
il 
sindacato esercitato 
sulle 
sanzioni 
delle 
Autorità 
Indipendenti, e, segnatamente, su quelle 
irrogate 
dall’AGCM, 
potesse 
considerarsi 
in 
linea 
con 
le 
previsioni 
della 
Convenzione, 
ed 
in 
particolare 
con 
il 
diritto 
ad 
una 
tutela 
piena 
ed 
effettiva, 
riconosciuto 
dall’art. 6 par. 1 della 
CEDU. La 
Corte 
europea 
è 
giunta 
alla 
conclusione 
positiva, 
ritenendo 
rispettato 
nel 
caso 
concreto 
l’art. 
6 
CEDU, 
nella 
misura 
in 
cui 
il 
giudice 
amministrativo, pur non potendosi 
sostituire 
all’Autorità, aveva 
potuto svolgere 
un sindacato pieno su ogni 
valutazione 
da 
questa 
effettuata, 
anche 
se 
tecnico-discrezionale, 
nonché 
sindacare 
la 
proporzionalità 
della 
sanzione 
ed eventualmente rimodularla (40). 

Dalla 
pronuncia 
resa 
sul 
caso menarini 
si 
evince 
che 
anche 
un sindacato 
di 
legittimità 
può 
risultare 
compatibile 
con 
gli 
obblighi 
convenzionali, 
a 
patto 
che 
il 
giudice 
amministrativo 
eserciti 
una 
piena 
giurisdizione 
di 
legittimità 
(41), 
rispettando 
in 
concreto 
gli 
standards 
di 
giudizio 
che 
si 
sono 
testè 
delineati, 
senza 
ampliare 
la 
riserva 
di 
amministrazione 
per 
il 
merito 
e 
senza 
restringere 
la 
sua 
capacità, 
comunque 
totalizzante, 
di 
accesso 
e 
cognizione 
dei 
fatti. 
nel 
caso 
contrario, 
nel 
singolo 
giudizio 
sarebbe 
riscontrabile 
la 
carenza 
di 
una 
giurisdizione 
piena 
e, 
di 
conseguenza, 
la 
violazione 
dell'art. 
6, 
par. 
1 
CEDU. 


Tutto 
ciò 
premesso, 
con 
riferimento 
al 
caso 
in 
esame 
i 
giudici 
di 
Strasburgo 
hanno 
rilevato 
che 
il 
sindacato 
giurisdizionale 
effettuato 
dal 
giudice 
amministrativo 
sull’esercizio 
dei 
poteri 
sanzionatori 
da 
parte 
dell’AGCOM 
dovesse 
essere 
considerato 
“pieno”. 
I 
ricorrenti, 
infatti, 
avevano 
avuto 
la 
possibilità, 
di 
cui 
si 
erano 
avvalsi, 
di 
impugnare 
le 
sanzioni 
“penali” 
del-
l’AGCOM 
dinanzi 
al 
TAR 
Roma 
e 
proporre 
ricorso 
in 
appello 
al 
Consiglio 
di 
Stato, 
organi 
giudiziari 
dotati 
di 
piena 
giurisdizione 
ai 
fini 
della 
Convenzione, 
in 
quanto 
muniti 
dei 
requisiti 
di 
indipendenza 
ed 
imparzialità 
che 
un 
giudice 
deve 
possedere 
ai 
sensi 
dell’art. 
6 
della 
CEDU 
(42). 
nel 
caso 
di 
specie, 
tali 
giudici 
avevano 
esaminato 
i 
vari 
motivi 
di 
fatto 
e 
di 
diritto 
sui 
quali 
si 
basava 
il 
ricorso 
delle 
società 
e 
valutato 
gli 
elementi 
di 
prova 
raccolti 
dall’AGCOM, 
non 
limitandosi, 
come 
invece 
sostenuto 
dalle 
ricorrenti, 
ad 
un 
semplice 
controllo 
di 
legalità, 
ma 
verificando 
esattamente 
se, 
con 
riguardo 
alle 
particolari 
circostanze 
di 
causa, 
l’Amministrazione 
avesse 
fatto 
un 
utilizzo 
appropriato 
dei 
suoi 
poteri 
ed 
esaminando 
la 
fondatezza 
e 
proporzionalità 
delle 
scelte 
dell’Autorità. 


Alla 
luce 
di 
quanto sopra 
esposto, la 
Corte 
europea 
ha 
concluso che, poi


(40) Corte 
EDU, menarini 
diagnostics 
s.r.l. c. italia, 27 settembre 
2011, cit. par. 64 e 
ss.; 
nello 
stesso senso Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. italia, cit., par. 149. 
(41) Sul 
punto vedi 
F. LIGUORI, il 
sindacato di 
merito nel 
giudizio di 
legittimità, in p.a. persona 
e 
amministrazione, cit., 219 e ss. 
(42) Corte EDU, 8 giugno 1999, predil 
anstalt S.a. c. italia, ricorso n. 31993/96. 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


ché 
la 
decisione 
dell’AGCOM 
era 
stata 
sottoposta 
a 
un controllo a 
posteriori 
da 
parte 
di 
organi 
giudiziari 
dotati 
di 
piena 
giurisdizione, 
non 
fosse 
ravvisabile, 
nel 
caso di 
specie, alcuna 
violazione 
dell’articolo 6 par. 1 della 
Convenzione. 


5. Considerazioni conclusive. 
La 
pronuncia 
della 
Corte 
EDU 
offre 
alcuni 
spunti 
di 
riflessione. 
I 
giudici 
di 
Strasburgo 
riaffermano, 
in 
questa 
sede, 
il 
principio 
per 
cui 
nonostante 
il 
procedimento 
amministrativo 
determinativo 
di 
diritti 
ed 
obblighi 
civili 
o 
di 
sanzioni 
penali 
sia, 
in 
linea 
di 
principio, 
chiamato 
a 
conformarsi 
ex 
se 
e 
fin 
da 
subito 
alle 
garanzie 
di 
cui 
all’art. 
6 
della 
CEDU, 
gli 
Stati 
membri 
non 
incorrono 
in 
violazioni 
della 
Convenzione 
qualora 
assicurino 
il 
rispetto 
di 
tali 
garanzie 
nella 
successiva, 
ed 
eventuale, 
fase 
giurisdizionale. 
È, 
dunque, 
necessario, 
che 
quantomeno 
nel 
giudizio 
di 
opposizione 
siano 
osservati 
i 
canoni 
dell’equo 
processo, 
quali 
la 
terzietà 
ed 
imparzialità 
dell’organo 
giudicante, 
la 
pubblica 
udienza, 
la 
parità 
delle 
armi, 
nonché 
il 
potere 
del 
giudice 
di 
riesaminare, 
punto 
per 
punto, 
in 
fatto 
ed 
in 
diritto, 
le 
decisioni 
amministrative 
impugnate. 


In 
conclusione, 
secondo 
l’orientamento 
dei 
giudici 
di 
Strasburgo, 
qui 
confermato, 
lo 
scrutinio 
circa 
l’esistenza 
di 
una 
lesione 
delle 
prerogative 
difensive 
cristallizzate 
nell’art. 
6 
CEDU 
non 
deve 
limitarsi 
alla 
fase 
amministrativa, 
dovendo 
necessariamente 
estendersi 
anche 
alla 
successiva 
fase 
giurisdizionale. 
In quest’ottica, il 
procedimento amministrativo sanzionatorio viene 
considerato 
come 
un segmento di 
una 
vicenda 
giuridica 
più ampia 
che 
prosegue 
con 
il processo. 


La 
posizione 
assunta 
dalla 
Corte 
EDU 
suscita, 
tuttavia, 
alcune 
perplessità, 
sotto 
il 
profilo 
della 
affermata 
sufficienza 
del 
sindacato 
giurisdizionale 
a 
sanare 
i 
vizi 
della 
fase 
procedimentale 
di 
irrogazione 
delle 
sanzioni 
delle 
Autorità 
Indipendenti, 
nel 
caso di 
specie 
dell’AGCOM. Al 
fine 
di 
comprendere 
dove 
risiedano 
gli 
elementi 
di 
ambiguità 
e 
contraddittorietà 
di 
tale 
impostazione, 
occorre 
fare 
riferimento 
alla 
distinzione 
che 
la 
stessa 
giurisprudenza 
della 
Corte 
EDU 
opera 
all’interno delle 
criminal 
offences 
irrogate 
da 
autorità 
amministrative, 
tra 
sanzioni 
particolarmente 
afflittive, 
rientranti 
nel 
c.d. 
hard 
core 
of 
criminal 
law (43) e 
sanzioni 
di 
lieve 
entità, le 
c.d. minor 
offences 
(44). La 
differenza 
tra 
le 
due 
categorie 
assume 
rilevanza 
ai 
fini 
della 
(necessariamente 
immediata 
o, 
eventualmente, 
anche 
posticipata) 
applicazione 
delle 
garanzie 
procedimentali 
di cui all'art. 6 CEDU. 


nello specifico, la 
Corte 
di 
Strasburgo ha 
stabilito che 
le 
eventuali 
violazioni 
delle 
garanzie 
fissate 
dall'art. 6 CEDU, incorse 
nel 
procedimento di 
irrogazione 
di 
sanzioni 
riconducibili 
alla 
nozione 
di 
minor 
offences, 
possano 
essere 
sanate 
ex 
post 
nella 
successiva 
fase 
giurisdizionale, a 
condizione 
che 


(43) Così Corte EDU, 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia, ricorso n. 73053/01, par. 43 
(44) Così Corte EDU, 21 febbraio 1984, ozturk c. Germania, ricorso n. 8544/79, par. 53. 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


in tale 
fase 
il 
giudice 
adito sia 
abilitato a 
pronunciarsi 
ex 
novo sull'intera 
vicenda. 
viceversa, 
laddove 
si 
sia 
in 
presenza 
di 
una 
sanzione 
rientrante 
nel 
c.d. 
hard core 
penale, l’art. 6 CEDU 
deve 
necessariamente 
applicarsi 
sin dal 
momento 
della 
sua 
irrogazione, 
e 
dunque 
anche 
all’interno 
del 
procedimento 
sanzionatorio. 
Pertanto, 
la 
regola 
è 
quella 
della 
soddisfazione 
fin 
dalla 
fase 
procedimentale, delle 
garanzie 
del 
giusto processo. Solo ove 
ciò non sia 
possibile, 
nei 
limiti 
delle 
minor 
offences, è 
ammessa 
anche 
(in via 
d'eccezione) la 
sanatoria 
ex post, 
in sede giurisdizionale (45). 


Per distinguere 
le 
minor 
offences 
dalle 
criminal 
offences 
la 
Corte 
EDU 
non 
considera 
esclusivamente 
l’entità 
edittale 
della 
sanzione, 
quanto 
piuttosto 
il 
suo carattere 
afflittivo nei 
confronti 
della 
persona, oltre 
che 
del 
suo patrimonio. 
Se 
la 
sanzione 
assume 
anche 
un carattere 
socialmente 
riprovevole, incidendo 
sulla 
vita 
di 
relazione 
e 
sulle 
capacità 
lavorative 
del 
destinatario, 
i 
giudici 
europei 
tendono a 
qualificarla 
come 
particolarmente 
severa 
e 
di 
conseguenza 
ad 
assicurare 
le 
garanzie 
convenzionali 
già 
nel 
procedimento 
amministrativo 
sanzionatorio. 
Ciò 
premesso, 
non 
v’è 
dubbio 
che 
le 
sanzioni 
irrogate 
dalle 
Autorità 
Indipendenti 
siano riconducibili 
alle 
criminal 
offences 
rispetto 
ai 
criteri 
complessivi 
elaborati 
dalla 
Corte 
EDU: 
le 
sanzioni 
in questione, infatti, 
sono ricomprese 
tra 
limiti 
edittali 
molto elevati, sono immediatamente 
esecutive 
e 
non assicurabili 
e 
spesso prevedono misure 
accessorie 
capaci 
di 
incidere 
notevolmente 
sulla 
vita 
professionale 
e 
di 
relazione 
del 
soggetto sanzionato, 
quali, ad esempio, la 
pubblicazione 
del 
provvedimento sanzionatorio 
ovvero 
l’interdizione 
dallo 
svolgimento 
di 
determinate 
attività. 
Da 
ciò 
dovrebbe 
dedursi, senza 
esitazioni, che 
quando si 
sia 
di 
fronte 
ad una 
sanzione 
definibile 
come 
criminal 
offence 
i 
principi 
di 
cui 
all’art. 6 CEDU 
devono applicarsi 
integralmente 
alla 
fase 
procedimentale 
di 
competenza 
dell’Autorità 
Indipendente. 

Se, infatti, la 
criminal 
offence 
è 
equiparata 
in toto 
alla 
sanzione 
penale, 
come 
ha 
sempre 
rilevato 
la 
Corte, 
la 
compensazione 
a 
posteriori 
delle 
garanzie 
dell’equo processo attraverso il 
giudizio di 
opposizione 
si 
porrebbe 
in contrasto 
con 
i 
principi 
di 
nulla 
poena 
sine 
judicio 
e 
di 
presunzione 
di 
innocenza 
previsti 
dal 
secondo 
paragrafo 
dell’art. 
6 
CEDU 
(46). 
Per 
quanto 
concerne, 


(45) Così 
F. GOISIS, la tutela del 
cittadino nei 
confronti 
delle 
sanzioni 
amministrative 
tra diritto 
nazionale 
ed europeo, cit., 69; 
in termini 
analoghi 
si 
esprime 
M. ALLEnA, art. 6 Cedu. procedimento 
e processo amministrativo, cit., 74. 
(46) In tal 
senso, F. GOISIS, Sanzioni 
amministrative, tutele 
procedimentali 
e 
giurisdizionali 
secondo 
la Convenzione 
per 
la salvaguardia dei 
diritti 
dell’uomo, cit., 45. ID., la tutela del 
cittadino nei 
confronti 
delle 
sanzioni 
amministrative 
tra diritto nazionale 
ed europeo, cit., 64 e 
ss. Secondo l’autore, 
nel 
nostro ordinamento, è 
proprio il 
principio di 
presunzione 
di 
innocenza 
di 
cui 
all’art. 6 par. 2 della 
CEDU 
ad 
imporre 
l’anticipazione 
delle 
garanzie 
del 
giusto 
processo 
alla 
fase 
amministrativa, 
considerata 
l’immediata 
esecutività 
dei 
provvedimenti 
sanzionatori 
amministrativi. Infatti, obbligare 
un soggetto a 
farsi 
carico di 
una 
sanzione 
immediatamente 
esecutiva, emanata 
all’esito di 
un procedimento non pienamente 
rispettoso delle 
garanzie 
del 
giusto processo, in attesa 
di 
un giudizio che, a posteriori, le 
assi

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


poi, il 
giudizio di 
opposizione 
alla 
sanzione, considerata 
l’immediata 
esecutività 
(47) 
delle 
sanzioni 
delle 
authorities 
e 
la 
loro 
idoneità 
a 
cagionare 
un 
danno 
reputazionale 
spesso irreversibile 
ed esteso sul 
mercato globale, non sempre 
l’annullamento 
giurisdizionale 
è 
in 
grado 
di 
riportare 
l’impresa 
sanzionata 
allo 
status 
quo ante 
rispetto all’irrogazione. Inoltre, per quanto possa 
essere 
assicurata 
una 
full 
jurisdiction, eventuali 
vizi 
della 
fase 
procedimentale 
si 
ripercuoteranno 
inevitabilmente 
su 
quella 
giurisdizionale: 
infatti, 
se 
la 
decisione 
amministrativa 
viene 
emessa 
a 
seguito di 
una 
istruttoria 
parziale, il 
giudizio 
di 
opposizione 
sarà 
svolto su fatti 
non acclarati 
in contraddittorio e 
dunque, 
in sostanza, il 
giudice 
non potrà 
che 
sindacare 
l’atto impugnato sulla 
prospettazione 
fattuale e giuridica proposta dall’Amministrazione (48). 


Ciò 
nonostante, 
proprio 
sulla 
necessità 
di 
applicare, 
in 
presenza 
di 
tale 
tipologia 
di 
sanzioni, 
le 
garanzie 
dell’equo 
processo 
sin 
dalla 
fase 
procedi-

curi, 
si 
pone 
in 
contrasto 
con 
il 
suddetto 
parametro 
convenzionale. 
Cfr. 
anche 
M. 
ALLEnA, 
art. 
6 
Cedu. 
procedimento e 
processo amministrativo, cit., 74; 
G.M. FLICk 
-v. nAPOLEOnI, a 
un anno di 
distanza 
dall’affaire 
Grande 
Stevens: 
dal 
bis 
in 
idem 
all’e 
pluribus 
unum? 
cit., 
8, 
i 
quali 
dubitano 
che 
l’immediata 
esecutività 
delle 
sanzioni 
amministrative 
sia 
compatibile 
con il 
principio di 
presunzione 
di 
innocenza 
ex 
art. 6, par. 2 CEDU, il 
quale, in linea 
di 
principio dovrebbe 
implicare 
il 
divieto di 
porre 
in esecuzione 
un sanzione “penale” prima che si sia concluso un equo processo. 


(47) Come 
osservato da 
S. CIMInI, op. cit., 185 relativamente 
al 
problema 
dell’immediata 
esecutività 
delle 
sanzioni 
amministrative, per la 
Corte 
EDU 
né 
l’art. 6 CEDU 
né 
qualsiasi 
altra 
disposizione 
convenzionale 
può essere 
letta 
nel 
senso di 
escludere, in linea 
di 
principio, l’adozione 
di 
misure 
di 
esecuzione 
prima 
che 
le 
decisioni 
siano passate 
in giudicato. Ciò che 
viene 
richiesto dalla 
giurisprudenza 
europea 
è 
che 
l’adozione 
di 
tali 
misure 
sia 
contenuta 
entro 
limiti 
ragionevoli, 
in 
modo 
da 
trovare 
un 
giusto 
equilibrio 
tra 
gli 
interessi 
in 
gioco. 
Così 
Corte 
EDU, 
27 
gennaio 
2009, 
Carlberg 
c. 
Svezia, 
ricorso 
n. 9631/04; 
Corte 
EDU, 14 febbraio 2006, paulow c. Finlandia, ricorso n. 43434/99; 
Corte 
EDU, 23 
luglio 
2002, 
Janosevic 
c. 
Svezia, 
ricorso 
n. 
3461/97. 
Pertanto, 
ai 
fini 
convenzionali, 
potrebbe 
essere 
sufficiente 
escludere 
l’immediata 
esecutività 
esclusivamente 
per le 
sanzioni 
amministrative 
più severe, in 
grado 
di 
arrecare 
un 
grave 
vulnus 
al 
soggetto 
sanzionato, 
difficilmente 
ristorabile 
in 
sede 
giurisdizionale, 
rafforzando, negli 
altri 
casi, la 
tutela 
cautelare, senza 
tuttavia 
arrivare 
a 
collegare 
al 
ricorso al 
giudice 
un 
effetto 
sospensivo 
automatico, 
il 
quale 
potrebbe 
incoraggiare 
la 
proposizione 
di 
ricorsi 
dilatori 
e 
pretestuosi. 
nello 
stesso 
senso 
si 
esprime 
la 
giurisprudenza 
italiana: 
vedi 
Cons. 
St., 
Sez. 
vI, 
26 
marzo 
2015, 
nn. 
1595 
e 
1596, 
ove 
si 
afferma 
che 
«l’ampiezza, 
l’efficacia 
e 
l’immediatezza 
della 
tutela 
cautelare, 
anche 
ante 
causam 
e 
monocratica, è 
certamente 
in grado di 
assicurare, tanto nel 
processo amministrativo 
quanto 
in 
quello 
civile 
di 
opposizione 
alle 
sanzioni 
amministrative, 
un 
equilibrato 
contemperamento 
degli 
opposti 
interessi, scongiurando così 
il 
pericolo che 
il 
destinatario del 
provvedimento sia privato 
della 
ineliminabile 
garanzia 
della 
tutela 
effettiva». 
vedi 
anche 
TAR 
Lazio, 
Sez. 
III-ter, 
ord. 
3 
aprile 
2015, n. 1518, secondo cui 
l’art. 6 CEDU 
«non impone 
di 
prevedere 
un effetto sospensivo automatico 
per 
le 
ipotesi 
di 
contestazione 
giurisdizionale 
di 
misure 
amministrative 
afflittive». In senso contrario si 
pone 
E. 
FOLLIERI, 
Sulla 
possibile 
influenza 
della 
Giurisprudenza 
della 
Corte 
europea 
di 
Strasburgo 
sulla giustizia amministrativa, cit., che 
sostiene 
che 
il 
ricorso al 
giudice 
deve 
determinare 
un effetto sospensivo 
automatico per compensare 
la 
mancanza 
di 
imparzialità, indipendenza 
e 
terzietà 
di 
chi 
irroga 
la 
sanzione 
e 
la 
carenza 
del 
contraddittorio pieno; 
M. ALLEnDA, art. 6 Cedu. procedimento e 
processo 
amministrativo, 
cit., 
222, 
la 
quale 
sostiene 
che 
l’esecutività 
delle 
sanzioni 
amministrative 
può 
essere 
accettata 
purchè 
alla 
proposizione 
del 
ricorso 
sia 
collegato 
un 
effetto 
sospensivo 
automatico, 
magari 
con il 
correttivo della 
facoltà 
per l’Amministrazione 
di 
riottenere 
dal 
giudice 
l’immediata 
esecutività 
in 
presenza di gravi ragioni di interesse pubblico. 
(48) In questi 
termini 
si 
esprimono E. BInDI 
-A. PISAnESChI, Sanzioni 
Consob e 
banca d’italia: 
procedimenti e doppio binario al vaglio della Corte europea dei diritti dell’uomo, Torino, 2018, 90. 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


mentale, 
la 
giurisprudenza 
della 
Corte 
EDU 
presenta 
alcune 
oscillazioni: 
infatti, 
mentre 
in 
alcune 
pronunce 
riguardanti 
le 
Autorità 
di 
regolazione 
dei 
mercati 
francesi 
(49) 
i 
giudici 
europei 
non 
hanno 
esitato 
ad 
affermare 
che 
la 
sussistenza 
di 
vizi 
procedimentali 
quali 
la 
carenza 
di 
imparzialità 
dell’organo 
giudicante 
ed 
il 
deficit 
di 
contraddittorio 
comportasse 
di 
per 
sé 
una 
la 
violazione 
dell’art. 
6 
CEDU, 
non 
sanabile 
in 
sede 
giurisdizionale, 
con 
riferimento 
ai 
procedimenti 
sanzionatori 
di 
competenza 
delle 
Autorità 
Indipendenti 
italiane 
le 
decisioni 
sono 
meno 
chiare. 
Infatti, 
nel 
caso 
in 
esame, 
in 
perfetta 
continuità 
con 
quanto 
affermato 
nella 
sentenza 
Grande 
Stevens, 
la 
Corte 
ha 
prima 
impostato 
tutto 
il 
suo 
percorso 
argomentativo 
sulla 
violazione 
dell’art. 
6 
CEDU 
sotto 
i 
profili 
della 
mancanza 
di 
una 
pubblica 
udienza, 
di 
un 
contradditorio 
pieno 
e 
paritario 
e 
sulla 
carenza 
di 
imparzialità 
dell’Amministrazione, 
e 
poi, 
al 
termine 
del 
ragionamento, 
diversamente 
rispetto 
a 
quanto 
aveva 
sostenuto 
nel 
caso 
delle 
analoghe 
sanzioni 
irrogate 
dalle 
autorità 
francesi, 
ha 
ritenuto 
applicabile 
il 
principio 
della 
compensabilità 
ex 
post 
in 
sede 
giurisdizionale 
(50). 


(49) 
Con 
la 
sentenza 
dubus 
(Corte 
EDU, 
11 
giugno 
2009, 
dubus 
S.a.v. 
c. 
France, 
ricorso 
n. 
5242/04) 
la 
Corte 
EDU 
ha 
affermato 
(condannando 
di 
conseguenza 
la 
Francia) 
che 
l’organizzazione 
della 
Comission bancaire, l’autorità 
preposta 
alla 
vigilanza 
prudenziale 
del 
sistema 
bancario, non fosse 
compatibile 
con l’art. 6 CEDU, del 
tutto indipendentemente 
dal 
fatto che 
fosse 
effettivamente 
previsto 
un giudizio ex 
post 
dotato di 
full 
jurisdiction. L’autorità, infatti, pur presentando una 
certa 
distinzione 
tra 
l’organo istruttorio (il 
Secretariat 
General) e 
l’organo decisorio (la 
Commission) non garantiva 
una 
separazione 
sufficiente 
tra 
gli 
stessi, 
dato 
che 
l’organo 
istruttorio 
era 
posto 
in 
una 
posizione 
di 
soggezione 
rispetto 
alla 
Commissione, 
dalla 
quale 
riceveva 
istruzioni 
ed 
era 
controllato. 
Questa 
decisione 
ha 
portato, 
nel 
2010, 
alla 
riforma 
legislativa 
della 
Commission 
bancaire, 
attraverso 
la 
costituzione 
di 
una 
nuova 
autorità, l’autorité 
de 
control 
prudentiel, costruita 
sulla 
base 
delle 
indicazioni 
della 
Corte 
EDU, composta 
da 
organi 
con funzioni 
chiaramente 
distinte. nel 
2011 due 
sentenze 
della 
Corte 
EDU 
hanno riguardato 
la 
Commission 
des 
operations 
de 
bourse 
(COB). 
Con 
la 
sentenza 
vernes, 
(Corte 
EDU, 
20 
gennaio 2011, vernes 
c. Francia, ricorso n. 30183/06) la 
Corte 
europea 
ha 
riscontrato la 
violazione 
del-
l’art. 6 CEDU 
sotto il 
profilo del 
mancato rispetto del 
principio di 
pubblicità 
poiché, all’epoca 
dei 
fatti, 
il 
regolamento dell’Autorità 
non prevedeva 
la 
possibilità 
per l’accusato di 
richiedere 
un’udienza 
pubblica. 
Anche 
in 
questo 
caso 
l’esistenza 
di 
un 
giudizio 
ex 
post 
dotato 
di 
full 
jurisdiction 
non 
è 
stata 
ritenuta 
sufficiente 
a 
compensare 
il 
vizio procedimentale. Con la 
successiva 
sentenza 
messier 
(Corte 
EDU, 30 
giugno 2011, messier 
c. Francia, ricorso n. 25041/07) la 
Corte 
ha 
precisato che 
la 
fase 
procedimentale 
di 
irrogazione 
della 
sanzione 
deve 
assicurare 
la 
parità 
delle 
armi 
tra 
accusa 
e 
difesa, 
per 
cui 
vi 
deve 
essere 
pieno accesso ai 
documenti 
ed al 
fascicolo di 
causa 
e 
l’Autorità 
ha 
l’obbligo di 
comunicare 
all’accusato 
tutte 
le 
prove 
a 
carico 
e 
a 
discarico, 
sollecitando 
sulle 
stesse 
il 
contraddittorio 
in 
udienza 
pubblica. 
(50) Secondo parte 
della 
dottrina, la 
ragione 
del 
contrasto all’interno della 
giurisprudenza 
della 
Corte 
EDU 
in merito alla 
necessità 
di 
applicare 
le 
garanzie 
dell’equo processo già 
dalla 
fase 
procedi-
mentale 
di 
irrogazione 
delle 
sanzioni 
risiede 
nel 
fatto 
che 
i 
giudici 
di 
Strasburgo 
hanno 
inteso 
procedere 
“per gradi”, tenendo conto del 
grado di 
evoluzione 
dell’ordinamento in questione. In altri 
termini, secondo 
tale 
ricostruzione 
la 
Corte 
europea 
ha 
deciso di 
imporre 
nella 
loro pienezza 
le 
garanzie 
dell’art. 
6 CEDU 
solo a 
quegli 
ordinamenti 
che 
hanno già 
mostrato una 
reale 
consapevolezza 
e 
sensibilità 
per il 
problema. Cosi 
M. ALLEnA, il 
caso Grande 
Stevens 
c. italia: le 
sanzioni 
Consob alla prova dei 
principi 
Cedu, cit., 1066, la 
quale 
evidenzia 
come 
mentre 
in Francia 
già 
dal 
1989 il 
Conseil 
constitutionnel 
ha 
iniziato ad affermare 
la 
necessità 
di 
una 
estensione 
delle 
garanzie 
proprie 
delle 
misure 
penali 
alla 
pro

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


Costituisce, senza 
dubbio, un aspetto di 
ambiguità 
la 
circostanza 
che, nel 
caso in esame, la 
Corte 
abbia 
deciso di 
soffermarsi 
sulle 
lacune 
del 
procedimento 
dinanzi 
all’AGCOM 
pur 
riconoscendo 
la 
conformità 
del 
giudizio 
di 
opposizione 
ai 
canoni 
del 
giusto 
processo; 
tanto 
più 
perché, 
mentre 
nella 
sentenza 
Grande 
Stevens 
il 
fatto 
che 
la 
fase 
giurisdizionale 
non 
fosse 
giudicata 
conforme 
all’art. 6 CEDU 
imponeva 
senz’altro di 
verificare 
se 
lo fosse 
almeno 
quella 
amministrativa, 
nella 
pronuncia 
in 
commento 
i 
giudici 
di 
Strasburgo 
avrebbero anche 
potuto ritenere 
il 
problema 
delle 
garanzie 
del 
procedimento 
amministrativo 
“assorbito” 
o, 
comunque, 
non 
meritevole 
di 
particolare 
approfondimento 
(51). 


Pertanto, 
se 
non 
può 
negarsi 
che 
la 
Corte 
Europea 
recupera 
il 
rispetto 
del-
l'art. 
6 
CEDU 
grazie 
al 
sindacato 
giurisdizionale 
di 
full 
jurisdiction, 
con 
la 
conseguenza 
che 
non 
può 
assumersi, 
tout 
court, 
un 
contrasto 
del 
procedimento 
sanzionatorio dell’AGCOM 
con i 
diritti 
fondamentali 
protetti 
nella 
Convenzione, 
dall’altro lato non possono considerarsi 
del 
tutto irrilevanti 
le 
puntuali 
censure 
che 
la 
Corte 
ha 
sollevato in merito a 
specifici 
profili 
della 
fase 
procedimentale, 
né 
dimenticare 
la 
premessa 
che 
le 
sanzioni 
in questione 
sono sostanzialmente 
penali. 


Ecco 
perché 
merita 
di 
essere 
esaminata 
una 
diversa 
tesi, 
prospettata 
in 
dottrina, che 
muove 
dall’assunto che 
quella 
procedimentale 
non sia 
solo una 
fase, bensì 
la 
parte 
più significativa 
della 
fattispecie 
giuridica 
che 
conduce 
al-
l'applicazione 
di 
una 
sanzione, per cui 
l'interprete 
è 
chiamato a 
porsi 
il 
problema 
del 
trattamento 
di 
un 
procedimento 
amministrativo 
di 
tipo 
“penale” 
che 
di per sé non rispetta i principi dell'art. 6, par. 1 CEDU (52). 

Secondo 
tale 
ricostruzione, 
l’art. 
6 
deve 
essere 
necessariamente 
rispettato 
sin 
dalla 
fase 
amministrativa, 
specialmente 
con 
riguardo 
a 
sanzioni, 
quali 
quelle 
applicate 
dalle 
Autorità 
Indipendenti, caratterizzate 
in senso spiccatamente 
afflittivo. È 
naturale 
che 
la 
compiuta 
attuazione 
dell’equo processo già 
nella 
fase 
amministrativa 
sarebbe 
possibile 
solo 
se 
si 
realizzasse, 
in 
primis, 
una 
profonda 
modifica 
strutturale 
nell’organizzazione 
delle 
Autorità 
Indipendenti, 
finalizzata 
a 
dotare 
tali 
soggetti 
di 
tutti 
i 
requisiti 
di 
imparzialità 
ed indipendenza 
richiesti 
dalla 
Convenzione. 
In 
secondo 
luogo, 
si 
dovrebbe 
intervenire 
sul 
procedimento 
amministrativo 
sanzionatorio, 
attualmente 
basato 
sul 
principio 
inquisitorio, 
rivisitandolo 
in 
chiave 
accusatoria, 
con 
la 
conse


cedura 
sanzionatoria 
amministrativa, in Italia 
tutta 
una 
serie 
di 
garanzie, quali 
ad esempio la 
riserva 
di 
legge 
assoluta, 
il 
divieto 
di 
retroattività, 
la 
necessità 
del 
rispetto 
dei 
diritti 
della 
difesa, 
sono 
state 
a 
lungo 
ritenute 
confinate 
all’interno 
dell’ambito 
di 
applicazione 
della 
legge 
di 
depenalizzazione 
(l. 
n. 
689/1981) 
perché ritenute prive di un fondamento costituzionale. 


(51) 
Così 
F. 
MAzzACUvA, 
poteri 
sanzionatori 
delle 
authorities 
e 
principi 
del 
giusto 
processo: 
punti fermi e prospettive nella giurisprudenza di Strasburgo, in www.sistemapenale.it. 
(52) 
In 
tal 
senso, 
F. 
GOISIS, 
la 
tutela 
del 
cittadino 
nei 
confronti 
delle 
sanzioni 
amministrative, 
cit., 54 ss., e ID., le sanzioni amministrative e il diritto europeo, cit., 43 ss. 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


guenza 
che 
l’Amministrazione, 
ovvero 
l’accusa, 
non 
dovrebbe 
disporre 
in 
via 
esclusiva 
della 
gran parte 
del 
materiale 
probatorio, ma 
dovrebbe 
mettere 
a 
disposizione 
del 
cittadino accusato tutti 
gli 
atti 
ed i 
documenti 
rilevanti 
per la 
difesa, 
sollecitando 
sugli 
stessi 
il 
contraddittorio. 
Inoltre, 
per 
garantire 
la 
parità 
tra 
le 
parti, analogamente 
a 
quanto è 
previsto nel 
processo penale, andrebbe 
attuata 
una 
distinzione 
netta 
tra 
organo titolare 
delle 
funzioni 
istruttorie-accusatorie 
ed 
organo 
titolare 
di 
quelle 
decisorie 
(53). 
Ciò 
implicherebbe, 
tuttavia, 
la 
trasformazione 
dell’attuale 
procedimento amministrativo sanzionatorio in 
un processo giurisdizionale 
e 
la 
sostituzione 
delle 
opposizioni 
alle 
decisioni 
amministrative 
con veri 
e 
propri 
appelli. Si 
finirebbe, così, con il 
creare 
nel-
l’ordinamento 
interno 
un 
giudice 
speciale, 
in 
contrasto 
con 
il 
divieto 
posto 
dall’art. 102 della Costituzione. 

Tuttavia, ferma 
restando l’impossibilità 
di 
superare 
la 
distinzione 
ontologica 
tra 
procedimento amministrativo e 
processo, considerata 
la 
natura 
e 
la 
spiccata 
afflittività 
delle 
sanzioni 
delle 
Autorità 
Indipendenti, 
occorrerebbe 
anticipare 
alla 
fase 
procedimentale 
almeno quelle 
tutele 
convenzionali, compatibili 
con la 
natura 
amministrativa 
dell’Autorità 
sanzionatrice, che 
non possono 
essere 
differite 
alla 
successiva 
(ed 
oltretutto 
eventuale) 
fase 
giurisdizionale, in quanto indispensabili 
per tutelare 
l’inviolabile 
diritto di 
difesa 
dell’interessato. Infatti, il 
rispetto di 
garanzie 
fondamentali, come 
quelle 
del 
giusto processo, non dovrebbe 
essere 
affidato alla 
mera 
disponibilità 
del 
privato, attraverso la 
proposizione 
di 
un ricorso avverso i 
provvedimenti 
sanzionatori, 
quando tali 
garanzie 
possono essere 
assicurate 
già 
in fase 
amministrativa 
attraverso il “giusto procedimento”. 


Pertanto, 
indipendentemente 
dai 
poteri 
riconosciuti 
al 
giudice 
in 
sede 
di 
opposizione, 
dovrebbero 
trovare 
applicazione 
sin 
dalla 
fase 
procedimentale 
quantomeno 
i 
fondamentali 
principi 
della 
parità 
delle 
armi 
e 
dell’udienza 
pubblica. 


La 
garanzia 
del 
contraddittorio, 
inteso 
come 
diritto 
del 
destinatario 
della 
sanzione 
ad 
intervenire 
nelle 
fasi 
di 
formazione 
del 
provvedimento 
sanzionatorio, 
esponendo 
le 
proprie 
ragioni 
al 
fine 
di 
fornire 
all’Amministrazione 
elementi 
tali 
da 
indurla 
a 
non 
irrogare 
la 
sanzione 
o 
a 
minimizzarne 
gli 
effetti, 
costituisce 
un 
principio 
generale 
del 
diritto 
amministrativo 
punitivo 
(54), 
ed 
acquista 
un 
valore 
ed 
un’importanza 
particolare 
nei 
procedimenti 
sanzionatori 
di 
competenza 
delle 
Autorità 
Indipendenti. 
Tali 
organismi, 
infatti, 
sono 
sottratti 
ai 
poteri 
di 
indirizzo 
e 
controllo 
dell’Esecutivo 
e 
soffrono, 
pertanto, 
di 
un 
deficit 
democratico, 
colmabile 
proprio 
attraverso 
l’osservanza 


(53) Cosi, M. ALLEnA, il 
caso Grande 
Stevens 
e 
altri 
c. italia: le 
sanzioni 
Consob alla prova dei 
principi Cedu, cit., 1058. 
(54) In tal 
senso A. POLICE, Commento sub art. 24, in Commentario alla Costituzione, a 
cura 
di 
R. BIFULCO 
-A. CELOTTO 
- M. OLIvETTI, vol. I, Torino, 2006, 518 e ss. 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


scrupolosa 
del 
contraddittorio 
procedimentale, 
che 
costituisce 
una 
fonte 
succedanea 
di 
legittimazione 
atta 
a 
bilanciare, 
seppure 
in 
modo 
imperfetto, 
la 
mancanza 
di 
un 
collegamento 
diretto 
delle 
Autorità 
al 
circuito 
Parlamento-
Governo 
(55). 


In secondo luogo, come 
è 
stato correttamente 
osservato (56), all’interno 
dei 
procedimenti 
sanzionatori 
di 
competenza 
delle 
Autorità 
Indipendenti 
l’accertamento 
dei 
fatti 
non avviene 
attraverso uno strumento tecnico o matematico 
(come 
nel 
caso, ad esempio, delle 
sanzioni 
per eccesso di 
velocità 
o per 
il 
superamento 
di 
un 
determinato 
tasso 
alcolemico), 
ma 
riguarda 
fatti 
complessi, 
che 
consistono 
spesso 
in 
concatenazioni 
di 
azioni 
ed 
omissioni, 
nel-
l’ambito 
delle 
quali 
intervengono, 
di 
norma, 
differenti 
soggetti 
con 
responsabilità 
e 
gradi 
di 
operatività 
differenti. 
ne 
consegue 
che 
nella 
fase 
istruttoria, tesa 
alla 
ricostruzione 
del 
fatto storico ed alla 
determinazione 
del 
grado 
di 
partecipazione 
di 
ciascun 
soggetto, 
deve 
essere 
assicurato 
un 
contraddittorio 
pieno, che 
consenta 
ai 
soggetti 
coinvolti 
di 
difendersi 
adeguatamente 
dalla 
contestazione 
dell’illecito, dimostrando di 
non aver commesso il 
fatto, ovvero che 
il 
fatto non è 
quello contestato, o che 
esistono circostanze 
dirimenti 
e 
così 
via. 
Fondamentali 
appaiono, 
pertanto, 
l’accertamento 
del 
fatto 
e 
dell’elemento soggettivo attraverso una 
completa 
disclosure 
degli 
atti 
procedimentali, 
l’assunzione 
della 
prova 
in 
contraddittorio, 
la 
possibilità 
per 
l’interessato 
di 
farsi 
interrogare, 
di 
controinterrogare 
i 
testimoni 
dell’accusa 
e 
proporre prove testimoniali a discarico. 

Il 
pieno 
rispetto 
del 
principio 
della 
parità 
delle 
armi 
implica, 
inoltre, 
il 
diritto della 
difesa 
di 
interloquire 
con gli 
uffici 
competenti 
e 
di 
controdedurre 
rispetto ad ogni 
iniziativa 
degli 
stessi 
in tutte 
le 
fasi 
del 
procedimento. Da 
ciò 
discende 
che 
al 
presunto autore 
dell’illecito deve 
essere 
necessariamente 
comunicata, 
prima 
della 
decisione 
della 
Commissione, 
la 
relazione 
finale 
elaborata 
dall’organo 
istruttorio, 
affinchè 
egli 
possa 
replicarvi, 
soprattutto 
nell’eventualità 
della 
formulazione 
di 
nuove 
valutazioni 
(si 
pensi 
ad una 
diversa 
qualificazione 
giuridica 
del 
fatto), possibili 
considerato che 
il 
procedimento 
non si trova ancora nella fase decisoria. 


Strettamente 
connesso 
al 
diritto 
di 
poter 
interloquire 
ad 
armi 
pari 
con 
l’Autorità 
fino 
al 
momento 
della 
decisione, 
è 
il 
diritto 
alla 
partecipazione 
orale 
(57), 
che 
permette 
da 
un 
lato 
di 
incrementare 
l’effettività 
del 
contrad


(55) M. CLARICh 
-L. zAnETTInI, le 
garanzie 
del 
contraddittorio nei 
procedimenti 
sanzionatori 
dinanzi 
alle 
autorità indipendenti, in Giur. Comm., fasc. 2, 2013. In argomento si 
veda 
anche 
M. CLA-
RICh, Garanzia del 
contraddittorio nel 
procedimento, in Convegno su 
“le 
autorità amministrative 
indipendenti”, 
in 
memoria 
di 
v. 
Caianiello, 
Roma, 
Palazzo 
Spada, 
9 
maggio 
3003, 
in 
www.giustiziaamministrativa.it; 
n. 
LOnGOBARDI, 
poteri 
regolatori, 
giusto 
procedimento 
e 
legittimazione 
democratica, in www.ammiistrazioneincammino.it, 2008; 
R. ChIEPPA, tipologie 
procedimentali 
e 
contraddittorio 
davanti alle 
autorità indipendenti, in www.giustiziaamministrativa.it. 
(56) S. CIMInI, op. cit., 308; E. BInDI 
-A. PISAnESChI, op. cit., 82. 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


dittorio 
(58), 
consentendo 
al 
destinatario 
degli 
effetti 
finali 
della 
decisione 
di 
essere 
ascoltato 
prima 
che 
questa 
venga 
assunta, 
al 
fine 
di 
esporre 
le 
proprie 
ragioni, 
dall’altro 
di 
colmare 
l’asimmetria 
informativa 
dell’Amministrazione 
(59), 
giungendo 
così 
ad 
una 
corretta 
ricostruzione 
dei 
fatti, 
nelle 
ipotesi 
in 
cui 
ci 
sia 
un 
contrasto 
in 
merito 
al 
loro 
svolgimento. 


Alla 
luce 
delle 
considerazioni 
sin qui 
svolte, una 
soluzione 
che 
permetterebbe 
l’effettiva 
attuazione 
dei 
principi 
fondamentali 
dell’equo processo all’interno 
della 
fase 
amministrativa 
di 
irrogazione 
delle 
sanzioni, 
potrebbe 
essere 
quella 
di 
considerare 
l'art. 6, par. 1 CEDU, così 
come 
interpretato dalla 
Corte 
europea, un importante 
canone 
interpretativo per valutare 
la 
legittimità 
delle 
norme 
regolamentari 
che 
delineano 
il 
procedimento 
sanzionatorio: 
quindi, 
lì 
dove 
possibile, 
un 
canone 
utile 
per 
fornire 
un'interpretazione 
che 
porti 
a 
censurare 
prassi 
amministrative 
incompatibili 
con i 
suddetti 
principi, 
salvando 
la 
legittimità 
del 
regolamento; 
lì 
dove 
non 
fosse 
possibile, 
un 
criterio 
che, 
insieme 
ad 
altri 
principi 
e 
norme 
vigenti 
nell'ordinamento 
nazionale, 
porti 
a dichiararne l'illegittimità. 


A 
tal 
proposito, 
occorre 
precisare 
che 
tale 
canone 
interpretativo 
è 
tutt'altro 
che 
isolato, in quanto nel 
nostro ordinamento le 
medesime 
garanzie 
previste 
dall’art. 
6 
CEDU 
possono 
desumersi 
dalle 
norme 
interne 
che 
fanno 
riferimento 
al 
principio del 
giusto procedimento (60). Tale 
principio, definito dalla 
Corte 
Costituzionale 
come 
principio 
generale 
dell’ordinamento 
giuridico 
dello 
Stato 
(61), obbliga 
la 
Pubblica 
Amministrazione 
ad assicurare, nei 
procedimenti 
limitativi 
della 
sfera 
giuridica 
del 
privato, 
come 
quelli 
sanzionatori, 
garanzie 
di 
imparzialità 
ed 
equità, 
nel 
rispetto 
degli 
artt. 
3 
e 
97 
della 
Costituzione. 
Di 
conseguenza, 
il 
giusto procedimento andrebbe 
assicurato in tutti 
i 
procedimenti 
amministrativi 
sanzionatori, 
a 
prescindere 
dal 
dettato 
dell’art. 
6 
CEDU, 
in 
quanto, declinandosi 
nella 
garanzia 
di 
un contraddittorio efficace 
nella 
fase 
di 


(57) Sottolinea 
l’importanza 
di 
un contraddittorio orale 
nei 
procedimenti 
che 
si 
svolgono dinanzi 
alle 
Autorità Indipendenti S.A. FREGO 
LUPPI, l’amministrazione regolatrice, Torino, 1999, 185 e ss. 
(58) Evidenzia 
la 
necessità 
di 
assicurare 
il 
“diritto ad essere 
ascoltati” 
(right 
to be 
heard) nella 
prospettiva 
di 
un contraddittorio effettivo M. DE 
LOnGIS, il 
principio del 
contraddittorio nella giurisprudenza 
Cedu, in www.duitbase.it; 
sul 
punto vedi 
anche 
U. UBERTIS, principi 
di 
procedura penale 
europea. le regole del giusto processo, Milano, 2009, 49 e ss. 
(59) Così 
S. CIMInI, partecipazione 
procedimentale: limiti 
di 
effettività della forma scritta e 
prospettive 
dell’oralità, in procedimento amministrativo e 
partecipazione. problemi, prospettive 
ed esperienze, 
a cura di 
A. CROSETTI 
-F. FRACChIA, Milano, 2002, 25 e ss. 
(60) Sul 
principio del 
giusto procedimento si 
segnalano, ex 
multis, i 
contributi 
di 
v. CRISAFULLI, 
principio 
di 
legalità 
e 
“giusto 
procedimento”, 
in 
Giur. 
cost., 
1962, 
132; 
M.C. 
CAvALLARO, 
il 
giusto 
procedimento 
come 
principio 
costituzionale, 
in 
il 
Foro 
amministrativo, 
2001, 
p. 
1836; 
G. 
COLAvITTI, 
il 
“giusto 
procedimento” 
come 
principio 
di 
rango 
costituzionale, 
in 
www.associazionedeicostituzionalisti.
it; 
G. 
DE 
MARTIn, 
l’amministrazione 
pubblica 
e 
la 
Costituzione, 
Relazione 
svolta 
al 
Convegno 
MEIC 
su 
“Cattolicesimo 
italiano 
e 
riforme 
costituzionali”, 
Roma, 
Istituto 
dell’Enciclopedia 
italiana, 
5/6 
maggio 
2006, 
in 
www.amministrazioneincammino.it; 
G. 
ROEhRSSEn, 
il 
giusto 
procedimento 
nel 
quadro 
dei 
principi 
costituzionali, 
in 
diritto 
amministrativo, 
n. 
1/1987, 
47 
e 
ss. 
(61) Corte Cost., 2 marzo 1962, n. 13. 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


accertamento 
e 
contestazione 
dell’illecito, 
esso 
integra 
un 
momento 
essenziale 
dei 
principi 
costituzionali 
di 
eguaglianza 
e 
ragionevolezza 
sanciti 
dall’art. 3 
Costituzione, nonché 
del 
principio di 
imparzialità 
amministrativa 
sancito dal-
l’art 97 (62). 

L’obbligo 
di 
garantire 
il 
contraddittorio 
nei 
procedimenti 
sanzionatori, 
quale 
espressione 
del 
principio 
del 
giusto 
procedimento, 
è 
altresì 
previsto 
dalla 
legislazione 
ordinaria, in particolare 
dalla 
legge 
generale 
sulle 
sanzioni 
amministrative 
pecuniarie, la 
n. 689 del 
1981 (63), e 
dalle 
altre 
disposizioni 
di 
settore 
relative 
ai 
procedimenti 
sanzionatori 
delle 
Autorità 
Indipendenti 
(64), 
le 
quali 
sanciscono i 
principi 
della 
piena 
conoscenza 
degli 
atti 
istruttori, del 
contraddittorio in forma 
scritta 
e 
orale, della 
verbalizzazione 
e 
della 
separazione 
tra 
funzioni 
istruttorie 
e 
decisorie. Per evitare 
ingiustificate 
ed irragionevoli 
disparità 
di 
trattamento, 
è 
ragionevole 
ritenere 
che 
tali 
garanzie 
debbano 
essere 
assicurate 
all’interno dei 
procedimenti 
sanzionatori 
di 
tutte 
le 
Autorità 
Indipendenti, in considerazione 
della 
particolare 
natura 
e 
severità 
delle 
sanzioni 
che queste possono irrogare. 


Del 
resto, 
anche 
la 
giurisprudenza 
della 
Corte 
Costituzionale 
degli 
ultimi 
anni 
si 
è 
orientata 
nel 
senso di 
adeguare 
il 
sistema 
di 
garanzie 
previsto per le 
sanzioni 
amministrative 
aventi 
carattere 
afflittivo 
agli 
standards 
fissati 
in 
sede 
penale (65). 


(62) In questi 
termini 
si 
è 
espressa 
la 
Corte 
Costituzionale 
(Corte 
Cost., 14 aprile 
1995, n. 126) 
sottolineando che 
l’inosservanza 
delle 
garanzie 
procedimentali 
poste 
a 
presidio della 
difesa 
comporta 
la 
lesione 
non soltanto dei 
principi 
costituzionali 
di 
eguaglianza 
e 
ragionevolezza 
introdotti 
dall’art. 3 
ma 
anche 
del 
canone 
di 
buon 
andamento 
dell’amministrazione 
di 
cui 
all’art. 
97 
della 
Costituzione. 
Sulla 
possibilità 
di 
riconoscere 
un 
fondamento 
costituzionale 
al 
principio 
del 
giusto 
procedimento 
si 
segnalano, 
ex 
multis, 
G. 
ROEhRSSEn, 
il 
giusto 
procedimento 
nel 
quadro 
dei 
principi 
costituzionali, 
in 
dir. 
proc. 
amm., 1987, 47 e 
ss.; 
M.C. CAvALLARO, il 
giusto procedimento come 
principio costituzionale, in Foro 
amm., 2001, 1829 e 
ss.; 
F. CInTOLI, “Nuovo” 
procedimento amministrativo e 
principi 
costituzionali, in 
Quad. cost., 2005, 648 e 
ss.; 
G. COLAvITTI, il 
“giusto procedimento” 
come 
principio di 
rango costituzionale, 
in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2005; 
G. MAnFREDI, Giusto procedimento e 
interpretazione 
della 
Costituzione, 
in 
Foro 
amm.-t.a.r., 
2007, 
2707 
e 
ss., 
L. 
BUFFOnI, 
il 
rango 
costituzionale 
del “giusto procedimento” e l’archetipo del “processo”, in Quad. cost., 2009, 277 e ss. 
(63) In particolare, l’art. 18, comma 
1 della 
suddetta 
legge 
dispone 
che 
“gli 
interessati 
possono 
far 
pervenire 
all’autorità competente 
a ricevere 
il 
rapporto a norma dell'art. 17 scritti 
difensivi 
e 
documenti 
e 
possono chiedere 
di 
essere 
sentiti 
dalla medesima autorità”. nel 
successivo comma 
2 si 
precisa 
che 
l’Autorità 
competente 
dovrà 
decidere 
sulla 
fondatezza 
dell’accertamento 
anche 
“sentiti 
gli 
interessati, 
ove 
questi 
ne 
abbiano 
fatto 
richiesta, 
ed 
esaminati 
i 
documenti 
inviati 
e 
gli 
argomenti 
esposti 
negli scritti difensivi”. 
(64) Con riguardo al 
procedimento sanzionatorio della 
Consob in materia 
di 
abusi 
di 
mercato si 
vedano gli 
artt. 195 e 
187-septies 
del 
d.lgs. n. 58 del 
1998 (TUF). Con riferimento ai 
procedimenti 
sanzionatori 
della 
Consob, della 
Banca 
d’Italia, dell’Ivass 
e 
della 
Covip si 
veda 
l’art. 24 della 
legge 
n. 262 
del 
2005; 
nonché 
l’art. 45, c. 6 del 
d.lgs. n. 93 del 
2011 che 
ha 
esteso il 
principio del 
contraddittorio ai 
procedimenti sanzionatori dell’Aeegesi. 
(65) Con le 
pronunce 
del 
4 giugno 2010, n. 196 e 
del 
18 aprile 
2014, n. 104, la 
Consulta 
ha 
esteso 
alle 
sanzioni 
amministrative 
aventi 
carattere 
afflittivo la 
regola 
della 
irretroattività 
della 
legge 
penale 
più sfavorevole 
prevista 
dall’art. 25, c. 2 Cost. Tra 
le 
pronunce 
più recenti, vedi 
Corte 
cost., sent. 25 novembre 
2018, n. 223; Corte cost., sent. 21 marzo 2019, n. 63; Corte cost., sent. 16 aprile 2021, n. 68. 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell'uomo, 
Prima 
sezione, 
sentenza 
del 
10 
dicembre 
2020 
ricorsi 
nn. 68954/13 e 
70495/13 -Causa edizioni 
del 
roma società cooperativa a r.l. e 
edizioni del roma s.r.l. c. italia. 


Traduzione 
del 
Ministero della Giustizia, Direzione 
Generale 
degli 
Affari 
giuridici 
e 
legali 
(a 
cura 
della 
Sig.ra 
Rita 
Carnevali, 
assistente 
linguistico 
e 
della 
Dott.ssa 
Martina 
Scantamburlo, 
funzionario linguistico). 


art. 6 § 1 (penale) • 
adeguato controllo giudiziario delle 
sanzioni 
irrogate 
a seguito di 
un 
procedimento lacunoso da parte 
di 
un'autorità amministrativa che 
esercita sia funzioni 
di 
indagine 
che 
di 
giudizio • 
parzialità dell'autorità amministrativa di 
regolamentazione 
delle 
telecomunicazioni 
(«l'aGCom») • 
il 
responsabile 
del 
procedimento, che 
conduce 
le 
indagini, 
e 
la commissione 
che 
decide 
le 
sanzioni 
erano suddivisioni 
di 
uno stesso organo amministrativo, 
operanti 
sotto 
l'autorità 
e 
la 
supervisione 
di 
uno 
stesso 
presidente 
• 
Nessuna 
parità 
delle 
armi 
tra l'accusa e 
la difesa • 
assenza di 
udienza pubblica • 
Successivo controllo di 
organi 
giudiziari dotati di piena giurisdizione. 


(...) 


in dirittO 


i. riuniOne dei riCOrsi 
29. Tenuto conto della 
similitudine 
dell'oggetto dei 
ricorsi, la 
Corte 
ritiene 
opportuno esaminarli 
insieme in un'unica sentenza. 
ii. suLLA dedOttA 
ViOLAziOne deLL'ArtiCOLO 6 deLLA COnVenziOne 
30. Le 
ricorrenti 
sostengono che 
il 
procedimento dinanzi 
all'AGCOM 
non è 
stato equo. Denunciano 
una 
mancanza 
di 
imparzialità 
e 
di 
indipendenza 
da 
parte 
di 
tale 
organo e 
invocano 
l'articolo 6 della Convenzione che, nelle sue parti pertinenti, è così formulato 
«1. Ogni 
persona 
ha 
diritto a 
che 
la 
sua 
causa 
sia 
esaminata 
equamente, [e] pubblicamente 
(...) da 
un tribunale 
indipendente 
e 
imparziale 
(...), il 
quale 
sia 
chiamato a 
pronunciarsi 
sulle 
controversie 
sui 
suoi 
diritti 
e 
doveri 
di 
carattere 
civile 
o 
sulla 
fondatezza 
di 
ogni 
accusa 
penale 
formulata 
nei 
suoi 
confronti. La 
sentenza 
deve 
essere 
resa 
pubblicamente, ma 
l’accesso alla 
sala 
d’udienza 
può essere 
vietato alla 
stampa 
e 
al 
pubblico durante 
tutto o parte 
del 
processo 
nell’interesse 
della 
morale, 
dell’ordine 
pubblico 
o 
della 
sicurezza 
nazionale 
in 
una 
società 
democratica, 
quando lo esigono gli 
interessi 
dei 
minori 
o la 
protezione 
della 
vita 
privata 
delle 
parti 
in causa, o, nella 
misura 
giudicata 
strettamente 
necessaria 
dal 
tribunale, quando in circostanze 
speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia. 
2. Ogni 
persona 
accusata 
di 
un reato è 
presunta 
innocente 
fino a 
quando la 
sua 
colpevolezza 
non sia stata legalmente accertata. 
3. In particolare, ogni accusato ha diritto di: 
a) 
essere 
informato, 
nel 
più 
breve 
tempo 
possibile, 
in 
una 
lingua 
a 
lui 
comprensibile 
e 
in 
modo 
dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico; 
b) disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa; 
c) difendersi 
personalmente 
o avere 
l’assistenza 
di 
un difensore 
di 
sua 
scelta 
e, se 
non ha 
i 
mezzi 
per 
retribuire 
un 
difensore, 
poter 
essere 
assistito 
gratuitamente 
da 
un 
avvocato 
d’ufficio, 
quando lo esigono gli interessi della giustizia; 
d) esaminare 
o far esaminare 
i 
testimoni 
a 
carico ed ottenere 
la 
convocazione 
e 
l’esame 
dei 
testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico; 
(...)» 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


A. sulla ricevibilità 
1. Argomentazioni delle parti 
a) il Governo 
31. Il 
Governo sostiene 
che 
la 
procedura 
dinanzi 
all'AGCOM 
non riguardava 
un'«accusa 
in 
materia 
penale» contro le 
ricorrenti, e 
che 
la 
violazione 
prevista 
dall'articolo 1, comma 
30, 
della legge n. 249 del 1997 è classificata come «amministrativa» nel diritto interno. 
32. 
Per 
quanto 
riguarda 
la 
natura 
della 
violazione, 
il 
Governo 
sostiene 
che 
l'importo 
della 
sanzione 
inflitta 
dall'AGCOM 
non 
è 
sproporzionato 
rispetto 
alla 
finalità 
della 
stessa, 
che 
è 
quella 
di 
promuovere 
la 
trasparenza 
nella 
struttura 
delle 
imprese 
e 
delle 
società 
che 
operano nel 
settore 
dell'informazione 
in 
modo 
che 
quest'ultima 
sia 
libera 
e 
accessibile, 
e 
non 
concentrata 
nelle 
mani 
di 
centri 
di 
potere 
economico. Il 
Governo spiega 
che 
i 
contributi 
sono accordati 
alla 
stampa 
per 
assicurare 
la 
pluralità 
dell'informazione 
e, 
in 
particolare, 
l'effettività 
del 
diritto 
garantito 
dall'articolo 
21 
della 
Costituzione. 
È 
quindi 
essenziale 
che 
le 
persone 
che 
presentano 
una 
richiesta 
di 
contributi 
forniscano 
tutti 
i 
documenti 
necessari 
per 
consentire 
al 
Dipartimento 
per l'informazione 
e 
l'editoria 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
di 
assegnare 
i 
contributi 
(il 
cui 
importo è 
fissato ogni 
anno in una 
specifica 
linea 
di 
bilancio) agli 
aventi 
diritto. 
33. Il 
Governo rammenta 
che 
l'importo dei 
contributi 
che 
erano stati 
accordati 
alle 
ricorrenti 
e 
dei 
quali 
era 
stata 
chiesta 
la 
restituzione 
ammontava 
a 
2.429.413,20 EUR per il 
2008 e 
a 
2.530.638,81 EUR per il 
2009. Il Governo ritiene che una sanzione pecuniaria che ammonta 
a 
103.300 
EUR 
non 
sia 
quindi 
troppo 
severa 
in 
considerazione 
della 
sua 
natura 
amministrativa 
espressamente prevista dalla legge. 
b) La prima ricorrente 
34. La 
prima 
ricorrente 
considera 
che, sebbene 
qualificate 
come 
«amministrative» nel 
diritto 
interno, 
le 
sanzioni 
inflitte 
dall’AGCOM 
devono 
essere 
considerate 
come 
«penali», 
nel 
senso 
autonomo che questa nozione ha nella giurisprudenza della Corte. 
35. L'obiettivo perseguito nella 
fattispecie 
sarebbe 
di 
ordine 
preventivo: 
si 
tratterebbe 
della 
tutela 
dell'interesse 
generale 
costituito 
dalla 
promozione 
della 
trasparenza 
nella 
struttura 
delle 
imprese 
e 
delle 
società 
che 
operano nel 
settore 
dell'informazione 
affinché 
quest'ultima 
sia 
libera 
e accessibile e non concentrata. 
36. 
Sulla 
questione 
della 
severità 
della 
sanzione, 
l'aspetto 
dissuasivo 
delle 
misure 
adottate 
nei 
confronti 
della 
prima 
ricorrente 
avrebbe 
avuto 
due 
effetti 
in 
quanto 
le 
autorità, 
da 
un 
lato, 
avrebbero richiesto il 
pagamento di 
somme 
ingenti 
e, dall'altro, l'avrebbero privata 
della 
possibilità 
di 
accedere 
a 
forme 
di 
finanziamento supplementari 
per un importo di 
oltre 
7.000.000 
EUR, fatto che 
avrebbe 
portato alla 
chiusura 
di 
una 
società 
editoriale 
che 
esisteva 
da 
lunga 
data 
e 
di 
un noto organo di 
stampa 
che 
operava 
in questo settore 
dai 
tempi 
dell’unità 
d’Italia. 
37. La 
revoca 
dei 
contributi 
pubblici 
all'origine 
del 
presunto pregiudizio avrebbe 
un carattere 
punitivo-afflittivo. 
c) La seconda ricorrente 
38. La 
seconda 
ricorrente 
ha 
omesso di 
comunicare 
la 
traduzione 
delle 
sue 
osservazioni 
in 
una lingua ufficiale nonostante il richiamo che la cancelleria della Corte le aveva rivolto. 
2. Valutazione della Corte 
39. 
La 
Corte 
richiama 
la 
sua 
giurisprudenza 
consolidata 
secondo 
la 
quale, 
per 
determinare 
se 
sussista 
un'«accusa 
penale», 
occorre 
tener 
conto 
di 
tre 
criteri: 
la 
qualificazione 
giuridica 
della 
misura 
in 
questione 
nel 
diritto 
nazionale, 
la 
natura 
stessa 
di 
quest'ultima, 
e 
la 
natura 
e 
il 
grado 
di 
severità 
della 
«sanzione» 
(Engel 
e 
altri 
c. 
Paesi 
Bassi, 
8 
giugno 
1976, 
§ 
82, 
serie 
A 
n. 
22). 
Questi 
criteri 
sono, 
peraltro, 
alternativi 
e 
non 
cumulativi: 
affinché 
si 
possa 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


considerare 
che 
esiste 
un’«accusa 
in 
materia 
penale» 
ai 
sensi 
dell’articolo 
6 
§ 
1, 
è 
sufficiente 
che 
l'illecito 
in 
questione 
sia, 
per 
sua 
natura, 
«penale» 
rispetto 
alla 
Convenzione, 
o 
abbia 
esposto 
l'interessato 
a 
una 
sanzione 
che, 
per 
natura 
e 
livello 
di 
gravità, 
rientra 
in 
linea 
generale 
nell'ambito 
della 
«materia 
penale». 
Ciò 
non 
impedisce 
di 
adottare 
un 
approccio 
cumulativo 
se 
l'analisi 
separata 
di 
ciascun 
criterio 
non 
permette 
di 
giungere 
a 
una 
conclusione 
chiara 
in 
merito 
alla 
sussistenza 
di 
un'«accusa 
in 
materia 
penale» 
(jussila 
c. 
Finlandia 
[GC], 


n. 
73053/01, 
§§ 
30-31, 
CEDU 
2006-XIII, 
e 
zaicevs 
c. 
Lettonia, 
n. 
65022/01, 
§ 
31, 
CEDU 
2007-IX 
(estratti)). 
40. nella 
fattispecie, la 
Corte 
constata 
anzitutto che 
i 
comportamenti 
hanno dato luogo a 
una 
sanzione 
qualificata 
come 
«amministrativa» dall'articolo 1, comma 
30, della 
legge 
n. 249 del 
1997. Tuttavia, questo punto non è 
determinante 
ai 
fini 
della 
questione 
dell'applicabilità 
del 
profilo 
penale 
dell'articolo 
6 
della 
Convenzione, 
in 
quanto 
le 
indicazioni 
che 
fornisce 
il 
diritto 
interno hanno un valore 
relativo (Öztürk c. Germania, 21 febbraio 1984, § 52, serie 
A 
n. 73, 
A. 
Menarini 
Diagnostics 
S.r.l. 
c. 
Italia, 
n. 
43509/08, 
§ 
39, 
27 
settembre 
2011, 
e 
Grande 
Stevens 
e altri c. Italia, nn. 18640/10 e altri 4, 4 marzo 2014). 
41. 
Per 
quanto 
riguarda 
la 
natura 
dell’illecito, 
la 
Corte 
rammenta 
che 
l’AGCOM, 
autorità 
amministrativa 
indipendente, 
ha 
il 
compito 
di 
promuovere 
la 
trasparenza 
nella 
struttura 
delle 
imprese 
e 
delle 
società 
che 
operano 
nel 
settore 
dell’informazione 
affinché 
quest’ultima 
sia 
libera 
e 
accessibile, e 
non concentrata 
nelle 
mani 
di 
centri 
di 
potere 
economico, e 
rileva 
che 
si 
tratta 
in tal 
caso di 
interessi 
generali 
della 
società 
normalmente 
protetti 
dal 
diritto penale 
(si 
veda, 
mutatis 
mutandis, 
A. 
Menarini 
Diagnostics 
S.r.l., 
sopra 
citata, 
§ 
40; 
si 
veda 
anche 
Società 
Stenuit 
c. 
Francia, 
rapporto 
della 
Commissione 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo 
del 
30 
maggio 
1991, 
§ 62, serie 
A 
n. 232 A). Essa 
osserva 
inoltre 
che 
le 
sanzioni 
pecuniarie 
inflitte 
dall’AGCOM 
miravano per lo più a 
punire 
le 
ricorrenti 
al 
fine 
di 
impedire 
una 
recidiva, ed erano pertanto 
basate 
su norme 
che 
perseguono uno scopo sia 
preventivo -dissuadere 
le 
interessate 
dal 
ricominciare 
- che repressivo (si veda, mutatis mutandis, jussila, sopra citata, § 38). 
42. Per quanto riguarda 
la 
natura 
e 
la 
severità 
della 
sanzione 
«che 
può essere 
irrogata» alle 
ricorrenti 
(Ezeh 
e 
Connors 
c. 
Regno 
Unito 
[GC], 
nn. 
39665/98 
e 
40086/98, 
§ 
120, 
CEDU 
2003X), 
la 
Corte 
constata 
che 
la 
sanzione 
in questione 
non poteva 
essere 
sostituita 
da 
una 
pena 
privativa 
della 
libertà 
in 
caso 
di 
mancato 
pagamento 
(si 
veda, 
a 
contrario, 
Anghel 
c. 
Romania, 
n. 28183/03, § 52, 4 ottobre 
2007). Essa 
osserva, tuttavia, che 
l’AGCOM 
ha 
inflitto alle 
ricorrenti 
una 
sanzione 
pecuniaria 
di 
103.000 EUR e 
che, a 
seguito di 
tale 
sanzione, le 
interessate 
non hanno potuto avere 
accesso a 
ulteriori 
forme 
di 
finanziamento di 
importo superiore 
a 
7.000.000 
EUR, 
e 
considera 
pertanto, 
che 
la 
sanzione, 
considerato 
[l’] 
importo, 
fosse 
severa 
e abbia avuto per le ricorrenti delle conseguenze patrimoniali importanti. 
43. Alla 
luce 
di 
quanto precede, la 
Corte 
ritiene 
che 
le 
sanzioni 
in questione, per la 
loro severità, 
rientrino nell’ambito penale 
(si 
veda, mutatis 
mutandis, Öztürk, sopra 
citata, § 54, e, a 
contrario, Inocêncio c. Portogallo (dec.), n. 43862/98, CEDU 2001 I). 
44. Del 
resto, la 
Corte 
rammenta 
anche 
di 
avere 
già 
dichiarato che 
il 
profilo penale 
dell’articolo 
6 è 
applicabile 
per quanto riguarda 
le 
sanzioni 
inflitte 
dall’Autorità 
Garante 
della 
Concorrenza 
e 
del 
Mercato 
(«l’AGCOM») 
(A. 
Menarini 
Diagnostics 
S.r.l., 
sopra 
citata, 
§ 
44), 
dalla 
Corte 
di 
disciplina 
di 
bilancio 
e 
finanziaria 
(Guisset 
c. 
Francia, 
n. 
33933/96, 
§ 
59, 
CEDU 
2000 
IX), 
dal 
Consiglio 
dei 
mercati 
finanziari 
(Didier 
c. 
Francia 
(dec.), 
n. 
58188/00, 
27 
agosto 
2002), dal 
Consiglio della 
concorrenza 
(Lilly Francia 
S.A. c. Francia 
(dec.), n. 53892/00, 3 
dicembre 
2002), dalla 
Commissione 
delle 
sanzioni 
dell’Autorità 
dei 
mercati 
finanziari 
(Messier 
c. 
Francia 
(dec.), 
n. 
25041/07, 
19 
maggio 
2009), 
dalla 
Commissione 
bancaria 
(Dubus 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


S.A. c. Francia, n. 5242/04, § 38, 11 giugno 2009), e 
dalla 
Commissione 
nazionale 
per le 
Società 
e la Borsa («la COnSOB») (Grande Stevens, sopra citata, § 101). 
45. Tenuto conto dei 
diversi 
aspetti 
della 
causa, debitamente 
bilanciati, la 
Corte 
ritiene 
che 
le 
sanzioni 
pecuniarie 
inflitte 
alle 
ricorrenti 
siano di 
natura 
penale, cosicché, nel 
caso di 
specie, 
si 
applica 
il 
profilo penale 
dell’articolo 6 § 1 (si 
veda, mutatis 
mutandis, A. Menarini 
Diagnostics 
S.r.l., sopra citata). 
46. Constatando che 
i 
ricorsi 
non sono manifestamente 
infondati 
né 
irricevibili 
per uno degli 
altri motivi indicati nell’articolo 35 della Convenzione, la Corte li dichiara ricevibili. 
B. sul merito 
1. sulla questione 
se 
il 
procedimento dinanzi 
all’AGCOM 
sia stato equo e 
se 
l’AGCOM 
fosse un tribunale indipendente e imparziale 
a) Argomentazioni delle parti 
i. La prima ricorrente 
47. La 
prima 
ricorrente 
afferma 
che 
il 
procedimento dinanzi 
all’AGCOM 
era 
essenzialmente 
scritto, che 
non era 
prevista 
alcuna 
udienza 
pubblica 
e 
che 
i 
diritti 
della 
difesa 
non sono stati 
rispettati. 
A 
tale 
riguardo, 
sostiene 
che 
né 
lei 
né 
la 
seconda 
ricorrente 
hanno 
avuto 
la 
possibilità 
di 
interrogare 
le 
persone 
che 
erano state 
sentite 
dal 
servizio di 
ispezione 
dell’AGCOM 
e 
dal 
nucleo 
speciale 
della 
Guardia 
di 
Finanza, 
e 
che 
l’AGCOM 
non 
ha 
tenuto 
alcuna 
udienza 
pubblica. 
48. La 
prima 
ricorrente 
argomenta, inoltre, che 
l’AGCOM 
affida 
i 
poteri 
di 
indagine 
e 
di 
giudizio 
a 
organi 
che 
sono indipendenti 
l’uno dall’altro solo da 
un punto di 
vista 
formale 
e 
che, 
nella 
pratica, sono riconducibili 
a 
uno stesso ente 
che 
dipende 
da 
una 
stessa 
persona. Le 
funzioni 
di 
indagine 
e 
di 
giudizio, pertanto, sarebbero svolte 
da 
una 
stessa 
istituzione, il 
che 
non 
sarebbe 
compatibile 
con il 
dovere 
di 
imparzialità 
che 
qualsiasi 
organo giudiziario è 
tenuto a 
rispettare. 
49. 
La 
decisione 
di 
infliggere 
una 
sanzione 
sarebbe 
adottata 
dal 
responsabile 
del 
procedimento 
in assenza 
di 
contraddittorio. La 
commissione 
non esaminerebbe 
né 
direttamente 
-in mancanza 
di 
udienza 
ad hoc 
-né 
separatamente 
gli 
argomenti 
dell’accusa 
e 
della 
difesa: 
essa 
fonderebbe 
la sua decisione unicamente sulla relazione del responsabile del procedimento. 
50. 
Il 
procedimento 
sanzionatorio 
dell’AGCOM 
sarebbe 
di 
fatto 
essenzialmente 
scritto 
e 
contrario 
all’articolo 6 della Convenzione. 
51. Peraltro, la 
relazione 
finale 
elaborata 
dal 
responsabile 
del 
procedimento e 
inviata 
dal 
servizio 
di 
ispezione 
alla 
commissione 
non sarebbe 
stata 
comunicata 
alla 
prima 
ricorrente, che, 
pertanto, non sarebbe stata messa in condizione di formulare delle controdeduzioni. 
ii. La seconda ricorrente 
52. La 
seconda 
ricorrente 
ha 
omesso di 
comunicare 
la 
traduzione 
delle 
sue 
osservazioni 
in 
una 
lingua 
ufficiale 
nonostante 
l’invito che 
la 
cancelleria 
della 
Corte 
le 
aveva 
rivolto in tal 
senso. 
iii. il Governo 
53. Il 
Governo rammenta 
che 
le 
ricorrenti 
hanno ricevuto una 
notifica 
e 
hanno avuto la 
possibilità 
di presentare la loro difesa. 
54. 
Sostiene 
che 
le 
ricorrenti 
hanno 
avuto 
accesso 
agli 
atti 
il 
29 
marzo 
2011, 
ossia 
nove 
giorni 
prima 
della 
scadenza 
del 
termine 
fissato, vale 
a 
dire 
il 
7 aprile 
2011, per comunicare 
le 
loro 
osservazioni. L’AGCOM 
avrebbe 
tuttavia 
indicato di 
aver preso in considerazione 
dei 
documenti 
comunicati 
dalle 
ricorrenti 
successivamente 
a 
tale 
data. Inoltre, sarebbero stati 
presi 
in 
considerazione soltanto i rapporti del nucleo speciale della Guardia di Finanza. 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


55. 
Le 
ricorrenti, 
avrebbero 
anche 
avuto 
la 
possibilità 
di 
chiedere 
in 
qualsiasi 
momento 
un’audizione 
dinanzi al responsabile del procedimento, ma non se ne sarebbero avvalse. 
b) Valutazione della Corte 
56. 
La 
Corte 
osserva 
che 
alle 
ricorrenti 
è 
stata 
offerta 
la 
possibilità 
di 
presentare 
degli 
elementi 
per la 
loro difesa 
nell’ambito del 
procedimento dinanzi 
all’AGCOM: 
sono state 
informate, 
dal 
responsabile 
del 
procedimento, di 
quanto loro ascritto, e 
sono state 
invitate 
a 
difendersi. 
Inoltre, hanno disposto di 
un termine 
di 
trenta 
giorni 
per presentare 
eventuali 
memorie 
di 
replica. 
Tale 
termine, di 
cui 
le 
ricorrenti 
non hanno mai 
chiesto la 
proroga, non sembrava 
manifestamente 
insufficiente. 
57. Resta 
comunque 
il 
fatto che 
il 
rapporto della 
Guardia 
di 
Finanza 
relativo alle 
misure 
di 
indagine 
adottate 
a 
seguito 
dell’audizione 
delle 
ricorrenti, 
sul 
quale 
la 
commissione 
ha 
fondato 
la 
sua 
decisione, 
non 
è 
stato 
comunicato 
alle 
ricorrenti, 
e 
che 
queste 
ultime, 
pertanto, 
non 
hanno avuto la 
possibilità 
di 
difendersi 
rispetto al 
documento alla 
fine 
sottoposto dagli 
organi 
inquirenti dell’AGCOM all’organo incaricato di decidere sulla fondatezza delle accuse. 
58. 
La 
Corte 
rileva 
anche 
che 
il 
procedimento 
dinanzi 
all’AGCOM 
era 
essenzialmente 
scritto, 
non essendo prevista 
alcuna 
udienza 
pubblica. A 
questo riguardo, essa 
rammenta 
che 
lo svolgimento 
di 
un’udienza 
pubblica 
costituisce 
un principio fondamentale 
sancito dall’articolo 6 
§ 1 (jussila, sopra citata, § 40). 
59. Tuttavia, è 
vero che 
l’obbligo di 
tenere 
un’udienza 
pubblica 
non è 
assoluto (håkansson e 
Sturesson c. Svezia, 21 febbraio 1990, § 66, serie 
A 
n. 171-A) e 
che 
l'articolo 6 non esige 
necessariamente 
che 
si 
tenga 
un’udienza 
in tutti 
i 
procedimenti, soprattutto nelle 
cause 
che 
non 
sollevano questioni 
di 
credibilità 
o non si 
prestano a 
controversie 
sui 
fatti 
che 
rendano necessario 
un confronto orale, e 
nell’ambito delle 
quali 
i 
giudici 
possono pronunciarsi 
in maniera 
equa 
e 
ragionevole 
sulla 
base 
delle 
conclusioni 
scritte 
delle 
parti 
e 
degli 
altri 
documenti 
contenuti 
nel 
fascicolo (si 
vedano, ad esempio, Döry c. Svezia, n. 28394/95, § 37, 12 novembre 
2002; 
Pursiheimo c. Finlandia 
(dec.), n. 57795/00, 25 novembre 
2003; 
jussila, sopra 
citata, § 
41; e Suhadolc c. Slovenia (dec.), n. 57655/08, 17 maggio 2011). 
60. Sebbene 
le 
esigenze 
di 
un processo equo siano più rigorose 
in materia 
penale, la 
Corte 
non esclude 
che, nell’ambito di 
alcuni 
procedimenti 
penali, i 
tribunali 
aditi 
possano, alla 
luce 
delle 
questioni 
che 
si 
pongono, astenersi 
dal 
tenere 
un’udienza. Anche 
se 
si 
deve 
tenere 
presente 
che 
i 
procedimenti 
penali, che 
hanno ad oggetto la 
determinazione 
della 
responsabilità 
penale 
e 
l’imposizione 
di 
misure 
di 
natura 
repressiva 
e 
dissuasiva, 
rivestono 
una 
certa 
gravità, 
è 
evidente 
che 
alcuni 
di 
essi 
non hanno alcun carattere 
infamante 
per gli 
interessati, e 
che 
le 
«accuse in materia penale» non hanno tutte lo stesso peso (jussila, sopra citata, § 43). 
61. 
È 
opportuno 
precisare, 
inoltre, 
che 
la 
notevole 
importanza 
che 
il 
procedimento 
controverso 
può 
avere 
per 
la 
situazione 
personale 
di 
un 
ricorrente 
non 
è 
determinante 
ai 
fini 
della 
questione 
se 
sia 
necessaria 
un’udienza 
(Pirinen 
c. 
Finlandia 
(dec.), 
n. 
32447/02, 
16 
maggio 
2006). 
Resta 
comunque 
il 
fatto che 
il 
rigetto di 
una 
domanda 
volta 
a 
ottenere 
che 
si 
tenga 
un’udienza 
può 
essere 
giustificato 
solo 
in 
rare 
occasioni 
(Miller 
c. 
Svezia, 
n. 
55853/00, 
§ 
29, 
8 
febbraio 
2005, 
e jussila, sopra citata, § 42). 
62. Per quanto riguarda 
la 
presente 
causa, la 
Corte 
considera 
che 
fosse 
necessaria 
un’udienza 
pubblica, orale 
e 
accessibile 
alle 
ricorrenti. A 
tale 
riguardo, essa 
osserva 
che 
vi 
era 
una 
controversia 
sui 
fatti, soprattutto sulla 
questione 
dell'esistenza 
di 
una 
situazione 
di 
controllo tra 
le 
società 
ricorrenti, e 
che, al 
di 
là 
della 
sua 
severità 
sul 
piano economico, la 
sanzione 
nella 
quale 
incorrevano le 
ricorrenti 
era 
di 
natura 
tale 
da 
pregiudicare 
la 
loro rispettabilità 
professionale 
e il loro prestigio. 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


63. La 
Corte 
osserva 
che 
il 
regolamento dell'AGCOM 
prevede 
una 
certa 
separazione 
tra 
gli 
organi 
incaricati 
delle 
indagini 
e 
l'organo competente 
per pronunciarsi 
sull’esistenza 
o meno 
di 
un illecito e 
sull'applicazione 
di 
sanzioni. Essa 
osserva, in particolare, che 
è 
il 
responsabile 
del 
procedimento che 
formula 
le 
accuse 
e 
conduce 
le 
indagini, i 
cui 
risultati 
sono sintetizzati 
in una 
relazione 
contenente 
delle 
conclusioni 
e 
delle 
proposte 
per quanto riguarda 
le 
sanzioni 
da 
applicare, 
e 
che 
la 
decisione 
finale 
per 
quanto 
riguarda 
le 
sanzioni 
che 
dovranno 
essere 
applicate è di esclusiva competenza della commissione. 
64. Resta 
comunque 
il 
fatto che 
il 
responsabile 
del 
procedimento e 
la 
commissione 
sono soltanto 
delle 
suddivisioni 
di 
uno stesso organo amministrativo, operanti 
sotto l'autorità 
e 
la 
supervisione 
di 
uno stesso presidente. A 
tale 
riguardo, la 
Corte 
osserva 
che 
il 
Governo non ha 
dimostrato né 
l’esistenza 
di 
misure 
di 
salvaguardia 
all'interno dei 
diversi 
dipartimenti, né 
la 
natura 
formale 
di 
una 
delle 
due 
funzioni 
del 
presidente. A 
suo parere, ciò si 
traduce 
nell’esercizio, 
all'interno di 
una 
stessa 
istituzione, di 
funzioni 
di 
indagine 
e, successivamente, di 
giudizio; 
ora, in materia 
penale, tale 
cumulo non è 
compatibile 
con l'esigenza 
di 
imparzialità 
che 
pone 
l'articolo 
6 
§ 
1 
della 
Convenzione 
(si 
vedano, 
in 
particolare 
e 
mutatis 
mutandis, 
Piersack 
c. Belgio, 1° 
ottobre 
1982, §§ 30-32, serie 
A 
n. 53, De 
Cubber c. Belgio, 26 ottobre 
1984, §§ 
24-30, serie 
A n. 86, e Grande Stevens, sopra citata § 137). 
65. 
Alla 
luce 
di 
quanto 
sopra 
esposto, 
la 
Corte 
considera 
che 
il 
procedimento 
dinanzi 
al-
l’AGCOM 
non 
abbia 
rispettato 
tutte 
le 
esigenze 
dell'articolo 
6 
della 
Convenzione, 
soprattutto 
per 
quanto 
riguarda 
la 
parità 
delle 
armi 
tra 
accusa 
e 
difesa 
e 
lo 
svolgimento 
di 
un’udienza 
pubblica 
che 
permettesse 
un 
confronto 
orale 
(Grande 
Stevens, 
sopra 
citata 
§ 
123). 
2. sulla questione 
se 
le 
ricorrenti 
abbiano avuto accesso a un 
tribunale 
con 
piena giurisdizione 
66. La 
constatazione 
di 
non conformità 
del 
procedimento dinanzi 
all’AGCOM 
con i 
principi 
del 
processo equo non è 
comunque 
sufficiente 
per concludere 
che 
vi 
è 
stata 
violazione 
del-
l’articolo 6 nel 
caso di 
specie. Al 
riguardo, la 
Corte 
osserva 
che 
le 
sanzioni 
contestate 
dalle 
ricorrenti 
non sono state 
inflitte 
da 
un giudice 
all'esito di 
un procedimento giudiziario in contraddittorio, 
ma 
da 
un'autorità 
amministrativa. Se 
affidare 
a 
tale 
autorità 
il 
compito di 
perseguire 
e 
punire 
gli 
illeciti 
non 
è 
incompatibile 
con 
la 
Convenzione, 
occorre 
tuttavia 
sottolineare 
che 
l’interessato deve 
poter impugnare 
qualsiasi 
decisione 
adottata 
in questo modo nei 
suoi 
confronti 
dinanzi 
a 
un tribunale 
che 
offra 
le 
garanzie 
dell'articolo 6 (kadubec 
c. Slovacchia, 
2 settembre 
1998, § 57, Recueil 
1998-vI, Čanády c. Slovacchia, n. 53371/99, § 31, 16 novembre 
2004, e 
A. Menarini Diagnostics S.r.l., sopra citata, § 58). 
67. Il 
rispetto dell'articolo 6 della 
Convenzione 
non esclude 
dunque 
che, in un procedimento 
di 
natura 
amministrativa, 
una 
«pena» 
sia 
imposta 
in 
primo 
luogo 
da 
un'autorità 
amministrativa 
(G.I.E.M. S.R.L. e 
altri 
c. Italia 
[GC], nn. 1828/06 e 
altri 
2, § 254 28 giugno 2018). Si 
presuppone 
però che 
la 
decisione 
di 
un’autorità 
amministrativa 
che 
non soddisfi 
essa 
stessa 
le 
condizioni 
di 
cui 
all’articolo 6 sia 
sottoposta 
a 
un controllo a 
posteriori 
da 
parte 
di 
un organo 
giudiziario con piena 
giurisdizione 
(Ramos 
nunes 
de 
Carvalho e 
Sá 
c. Portogallo [GC], nn. 
55391/13 e 
altri 
2, § 132, 6 novembre 
2018). Tra 
le 
caratteristiche 
di 
un organo giudiziario 
con 
piena 
giurisdizione 
vi 
è 
il 
potere 
di 
riformare 
interamente, 
in 
fatto 
e 
in 
diritto, 
la 
decisione 
emessa 
da 
un 
organo 
di 
grado 
inferiore. 
Il 
primo 
organo 
deve 
essere 
competente 
per 
esaminare 
tutte 
le 
questioni 
di 
fatto e 
di 
diritto rilevanti 
per la 
controversia 
ad esso sottoposta 
(Chevrol 
c. 
Francia, 
n. 
49636/99, 
§ 
77, 
CEDU 
2003-III, 
Silvester’s 
horeca 
Service 
c. 
Belgio, 
n. 
47650/99, § 27, 4 marzo 2004, e 
A. Menarini Diagnostics S.r.l., sopra citata, § 59). 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


68. nella 
fattispecie, le 
ricorrenti 
hanno avuto la 
possibilità, di 
cui 
si 
sono avvalse, di 
contestare 
le 
sanzioni 
inflitte 
dall’AGCOM 
dinanzi 
al 
tribunale 
amministrativo e 
al 
Consiglio di 
Stato. Resta 
da 
stabilire 
se 
queste 
due 
giurisdizioni 
fossero degli 
«organi 
giudiziari 
con piena 
giurisdizione» ai sensi della giurisprudenza della Corte. 
a) Argomentazioni delle parti 
i. il Governo 
69. Il 
Governo afferma 
che 
il 
TAR ha 
esaminato le 
doglianze 
sollevate 
dalle 
ricorrenti 
relativamente 
al 
procedimento dinanzi 
all’AGCOM, tra 
cui 
quella 
sul 
merito che 
riguardava 
la 
nozione 
di 
«controllo» ai 
sensi 
della 
legge 
n. 416 del 
1981, e 
considera 
dunque 
che 
le 
doglianze 
delle 
ricorrenti 
siano 
state 
esaminate 
nel 
corso 
di 
un 
procedimento 
giudiziario 
equo 
e 
pubblico, 
nel pieno rispetto del contraddittorio. 
70. 
Citando 
la 
causa 
A. 
Menarini 
Diagnostics 
S.r.l. 
(sentenza 
sopra 
citata), 
il 
Governo 
afferma 
che le ricorrenti hanno avuto accesso a un tribunale con piena giurisdizione. 
71. Per quanto riguarda 
la 
doglianza 
con la 
quale 
si 
afferma 
che 
il 
presidente 
dell’AGCOM 
era 
anche 
un magistrato del 
Consiglio di 
Stato e 
che 
tale 
giudice, dunque, non ha 
dimostrato 
imparzialità, 
il 
Governo 
afferma 
che 
l’interessato 
era 
stato 
collocato 
a 
riposo 
e 
non 
esercitava 
più funzioni 
giudiziarie 
dal 
10 maggio 2005, che 
è 
andato in pensione 
l'11 maggio 2008, e 
che 
il 
titolo onorifico di 
presidente 
onorario del 
Consiglio di 
Stato gli 
è 
stato conferito conformemente 
all’uso 
secondo 
il 
quale 
si 
accorda, 
a 
chiunque 
abbia 
esercitato 
tali 
funzioni 
e 
vada 
in pensione, un titolo onorifico superiore 
a 
quello corrispondente 
alle 
ultime 
funzioni 
che 
ha 
esercitato. Il 
Governo ritiene 
che 
nulla 
permetta 
di 
concludere 
che 
tale 
elemento abbia 
potuto minare l'indipendenza e l'imparzialità del Consiglio di Stato. 
ii. La prima ricorrente 
72. La 
prima 
ricorrente 
afferma 
che 
il 
giudice 
amministrativo non può sostituire 
le 
proprie 
valutazioni 
a 
quelle 
dell’AGCOM, 
ma 
può 
soltanto 
verificare 
la 
logica 
e 
la 
coerenza 
delle 
decisioni 
di tale organo. 
73. Essa 
ritiene 
che 
i 
giudici 
amministrativi 
abbiano limitato il 
loro controllo alla 
questione 
della 
legalità 
della 
sanzione, e 
non abbiano dunque 
potuto esaminare 
la 
fondatezza 
della 
decisione 
dell'AGCOM. 
74. Secondo la 
prima 
ricorrente, il 
Consiglio di 
Stato ha 
sempre 
accordato all’AGCOM 
un 
ampio 
potere 
discrezionale 
nell'esercizio 
del 
suo 
potere 
sanzionatorio. 
I 
tribunali 
amministrativi 
non avrebbero pertanto il 
potere, nell'ambito della 
loro funzione 
di 
controllo giurisdizionale, 
di sostituirsi ad autorità indipendenti per infliggere delle sanzioni. 
75. La 
prima 
ricorrente 
ritiene 
di 
non aver avuto accesso a 
una 
protezione 
giuridica 
piena 
ed 
effettiva, e 
a 
sostegno di 
questa 
affermazione 
argomenta 
che 
il 
tribunale 
amministrativo ha 
considerato 
legittime 
delle 
prove 
che 
erano 
state 
ottenute 
nell’ambito 
del 
procedimento 
dinanzi 
all’AGCOM 
in assenza 
di 
contraddittorio, e 
non ha 
dunque 
sostituito la 
propria 
valutazione 
a quella, pregiudizievole per l'interessata, di un'autorità indipendente. 
76. La 
prima 
ricorrente 
afferma 
infine 
che 
il 
Consiglio di 
Stato non era 
un tribunale 
indipendente 
e 
imparziale, dato che 
il 
presidente 
dell’AGCOM 
era 
presidente 
onorario del 
Consiglio 
di Stato. 
iii. La seconda ricorrente 
77. La 
seconda 
ricorrente 
non ha 
trasmesso la 
traduzione 
delle 
sue 
osservazioni 
in una 
lingua 
ufficiale nonostante l'invito rivoltole in tal senso dalla cancelleria della Corte. 
b) Valutazione della Corte 
78. Per stabilire 
se 
un tribunale 
possa 
essere 
considerato «indipendente» ai 
fini 
dell’articolo 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


6 § 1 è 
necessario esaminare, in particolare, le 
modalità 
di 
designazione 
e 
la 
durata 
del 
mandato 
dei 
suoi 
componenti, 
l’esistenza 
di 
una 
tutela 
contro 
le 
pressioni 
esterne 
e 
se 
vi 
sia 
o 
meno 
una 
apparenza 
di 
indipendenza 
(Findlay 
c. 
Regno 
Unito, 
25 
febbraio 
1997, 
§ 
73, 
Recueil 
des 
arrêts 
et 
décisions 
1997-I). La 
Corte 
rammenta 
che 
la 
nozione 
di 
separazione 
dei 
poteri 
esecutivo 
e 
giudiziario 
ha 
acquisito 
un’importanza 
sempre 
maggiore 
nella 
sua 
giurisprudenza 
(Stafford c. Regno Unito [GC], n. 46295/99, § 78, CEDU 
2002-Iv). Tuttavia, né 
l’articolo 6 
né 
altre 
disposizioni 
della 
Convenzione 
obbligano gli 
Stati 
a 
conformarsi 
a 
una 
qualsiasi 
nozione 
costituzionale 
teorica 
relativa 
alla 
possibilità 
di 
limitare 
l’interazione 
tra 
i 
poteri 
(kleyn 
e altri c. Paesi Bassi [GC], nn. 39343/98 e altri 3, § 193, CEDU 2003-vI). 


79. 
La 
Corte 
rammenta 
che 
l’imparzialità 
si 
definisce 
generalmente 
come 
l'assenza 
di 
pregiudizio 
o 
di 
partito 
preso 
e 
può 
essere 
valutata 
in 
vari 
modi. 
Secondo 
la 
giurisprudenza 
consolidata 
della 
Corte, 
ai 
fini 
dell'articolo 
6 
§ 
1, 
l'imparzialità 
deve 
valutarsi 
secondo 
un 
approccio 
soggettivo, 
tenendo 
conto 
della 
convinzione 
personale 
e 
del 
comportamento 
del 
giudice, 
ossia 
della 
questione 
se 
quest'ultimo 
abbia 
dato 
prova 
di 
partito 
preso 
o 
pregiudizio 
personale 
nel 
caso 
di 
specie, 
e 
anche 
secondo 
un 
approccio 
oggettivo, 
che 
consiste 
nel 
determinare 
se 
il 
tribunale 
offrisse, 
soprattutto 
attraverso 
la 
sua 
composizione, 
delle 
garanzie 
sufficienti 
per 
escludere 
qualsiasi 
dubbio 
legittimo 
circa 
la 
sua 
imparzialità 
(si 
vedano, 
ad 
esempio, 
kyprianou 
c. 
Cipro 
[GC], 
n. 
73797/01, 
§ 
118, 
CEDU 
2005-XIII, 
e 
Micallef 
c. 
Malta 
[GC], 
n. 
17056/06, 
§ 
93, 
CEDU 
2009). 
80. 
nella 
grande 
maggioranza 
delle 
cause 
che 
sollevano 
questioni 
relative 
all’imparzialità, 
la 
Corte 
ha 
fatto 
ricorso 
all’approccio 
oggettivo 
(Micallef, 
sopra 
citata, 
§ 
95, 
e 
Morice 
c. 
Francia 
[GC], 
n. 
29369/10, 
§ 
75, 
23 
aprile 
2015). 
Tuttavia, 
il 
confine 
tra 
l’imparzialità 
soggettiva 
e 
l’imparzialità 
oggettiva 
non 
è 
ermetico, 
in 
quanto 
non 
soltanto 
la 
condotta 
stessa 
di 
un 
giudice 
può, 
dal 
punto 
di 
vista 
di 
un 
osservatore 
esterno, 
far 
sorgere 
dei 
dubbi 
oggettivamente 
giustificati 
per 
quanto 
riguarda 
la 
sua 
imparzialità 
(approccio 
oggettivo), 
ma 
può 
anche 
riguardare 
la 
questione 
della 
sua 
convinzione 
personale 
(approccio 
soggettivo) 
(kyprianou, 
sopra 
citata, 
§ 
119). 
Così, 
in 
casi 
in 
cui 
può 
essere 
difficile 
fornire 
prove 
che 
permettano 
di 
contestare 
la 
presunzione 
di 
imparzialità 
soggettiva 
del 
giudice, 
la 
condizione 
di 
imparzialità 
oggettiva 
rappresenta 
una 
garanzia 
importante 
in 
più 
(Pullar 
c. 
Regno 
Unito, 
10 
giugno 
1996, 
§ 
32, 
Recueil 
1996-III). 
81. 
Per 
quanto 
riguarda 
la 
valutazione 
oggettiva, 
è 
opportuno 
chiedersi 
se, 
indipendentemente 
dalla 
condotta 
personale 
del 
giudice, alcuni 
fatti 
verificabili 
autorizzino a 
sospettare 
dell’imparzialità 
di 
quest’ultimo. ne 
risulta 
che, per pronunciarsi 
sull’esistenza, in una 
determinata 
causa, di 
un motivo legittimo per temere 
che 
un giudice 
o un organo collegiale 
manchino di 
imparzialità, 
il 
punto 
di 
vista 
della 
persona 
interessata 
deve 
essere 
tenuto 
presente 
ma 
non 
svolge 
un ruolo decisivo. L’elemento determinante 
consiste 
nello stabilire 
se 
i 
timori 
dell’interessato 
possano essere 
considerati 
oggettivamente 
giustificati 
(Micallef, sopra 
citata, § 96, 
e Morice, sopra citata, § 76). 
82. La 
valutazione 
oggettiva 
riguarda 
principalmente 
i 
legami, gerarchici 
o di 
altro tipo, tra 
il 
giudice 
e 
altre 
parti 
del 
procedimento 
(Micallef, 
sopra 
citata, 
§ 
97). 
Pertanto, 
bisogna 
decidere 
in ciascuna 
fattispecie 
se 
la 
natura 
e 
il 
grado del 
legame 
in questione 
siano tali 
da 
denotare 
una mancanza di imparzialità da parte del tribunale (Pullar, sopra citata, § 38). 
83. I concetti 
di 
indipendenza 
e 
imparzialità 
oggettiva 
sono strettamente 
legati 
e, a 
seconda 
delle 
circostanze, 
possono 
richiedere 
un 
esame 
congiunto 
(Sacilor-Lormines 
c. 
Francia, 
n. 
65411/01, § 62, CEDU 2006 XIII). 
84. 
La 
Corte 
osserva 
anzitutto, 
sulla 
questione 
della 
duplicità 
delle 
funzioni 
del 
presidente 
dell’AGCOM, che 
l’interessato aveva 
indubbiamente 
ricevuto il 
titolo di 
presidente 
onorario 
del Consiglio di Stato, ma non ha mai esercitato funzioni giudiziarie presso tale organo. 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


85. La 
Corte 
rammenta, inoltre, che 
ha 
già 
sottolineato nella 
decisione 
Predil 
Anstalt 
S.A. c. 
Italia 
((dec.), 
n. 
31993/96, 
8 
giugno 
1999) 
che 
la 
maggior 
parte 
dei 
giudici 
amministrativi 
sono 
nominati 
mediante 
concorso 
pubblico 
e 
che, 
ai 
sensi 
della 
Costituzione 
italiana, 
la 
legge 
garantisce l’indipendenza del Consiglio di Stato rispetto al governo. 
86. Si 
deve 
constatare, inoltre, che 
le 
ricorrenti 
non hanno affermato che 
i 
membri 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
che 
hanno 
esaminato 
il 
loro 
caso 
avessero 
agito 
su 
istruzioni 
del 
presidente 
onorario, e 
non hanno affermato nemmeno che 
il 
presidente 
onorario potesse, in altro modo, 
influenzare 
i 
giudici. nella 
fattispecie, non esistono elementi 
tali 
da 
far sorgere, per le 
ricorrenti, 
dei 
timori 
oggettivamente 
giustificati 
(Sacilor-Lormines, 
sopra 
citata, 
§ 
74, 
e 
Ramos 
nunes de Carvalho e Sá c. Portogallo, sopra citata, § 155). 
87. Le 
considerazioni 
sopra 
esposte 
sono per la 
Corte 
sufficienti 
per concludere 
che 
il 
fatto 
che 
il 
presidente 
dell’AGCOM 
sia 
stato anche 
nominato presidente 
onorario del 
Consiglio di 
Stato non è 
di 
natura 
tale 
da 
mettere 
in discussione 
l’indipendenza 
e 
l’imparzialità 
oggettiva 
dell’alta 
giurisdizione 
che 
è 
stata 
chiamata 
a 
decidere 
sui 
ricorsi 
presentati 
dalle 
ricorrenti 
avverso 
la sanzione dell’AGCOM. 
88. 
La 
Corte 
osserva 
inoltre 
che 
le 
doglianze 
delle 
ricorrenti 
riguardano, 
da 
una 
parte, 
il 
diritto 
di 
accesso a 
un tribunale 
dotato della 
piena 
giurisdizione 
e, dall’altra, il 
riesame 
giudiziario, 
a loro avviso incompleto, della sanzione pronunciata dall’AGCOM. 
89. nella 
fattispecie, le 
ricorrenti 
hanno potuto contestare 
la 
sanzione 
controversa 
dinanzi 
al 
TAR 
e 
impugnare 
la 
decisione 
di 
quest’ultimo 
dinanzi 
al 
Consiglio 
di 
Stato. 
La 
Corte 
osserva 
che 
le 
udienze 
si 
sono tenute 
pubblicamente 
dinanzi 
a 
queste 
due 
giurisdizioni 
(si 
vedano i 
paragrafi 
15 
e 
18 
supra), 
il 
che 
ha 
permesso 
un 
confronto 
orale 
tra 
le 
parti 
e 
il 
rispetto 
del 
principio della 
parità 
delle 
armi. Secondo la 
giurisprudenza 
della 
Corte, il 
TAR e 
il 
Consiglio 
di 
Stato rispettano i 
requisiti 
di 
indipendenza 
e 
di 
imparzialità 
che 
il 
«tribunale» deve 
possedere 
ai 
sensi 
dell’articolo 6 della 
Convenzione 
(Predil 
Anstalt 
S.A., sopra 
citata, A. Menarini 
Diagnostics S.r.l., sopra citata). 
90. 
La 
Corte 
rammenta, 
anzitutto, 
che 
merita 
di 
essere 
chiamato 
«tribunale» 
ai 
sensi 
del-
l’articolo 
6 
§ 
1 
soltanto 
un 
organo 
dotato 
di 
piena 
giurisdizione 
e 
che 
rispetta 
una 
serie 
di 
requisiti 
come 
l’indipendenza 
nei 
confronti 
dell’esecutivo 
e 
delle 
parti 
in 
causa 
(si 
vedano, 
tra 
altre, 
le 
sentenze 
Ringeisen 
c. 
Austria, 
16 
luglio 
1971, 
§ 
95, 
serie 
A 
n. 
13, 
Le 
Compte, 
van 
Leuven 
e 
De 
Meyere 
c. 
Belgio, 
23 
giugno 
1981, 
§ 
55, 
serie 
A 
n. 
43, 
Belilos 
c. 
Svizzera, 
29 
aprile 
1988, 
§ 
64, 
serie 
A 
n. 
132, 
e 
Beaumartin 
c. 
Francia, 
24 
novembre 
1994, 
§§ 
38-39, 
serie 
A 
n. 
296 
B). 
91. Inoltre, la 
Corte 
rammenta 
che 
la 
natura 
di 
un procedimento amministrativo può differire, 
sotto diversi 
aspetti, dalla 
natura 
di 
un procedimento penale 
nel 
senso stretto del 
termine. Se 
queste 
differenze 
non 
possono 
esonerare 
gli 
Stati 
contraenti 
dal 
loro 
obbligo 
di 
rispettare 
tutte 
le 
garanzie 
offerte 
dall’articolo 6, esse 
possono tuttavia 
influenzare 
le 
modalità 
della 
loro applicazione 
(A. Menarini Diagnostics S.r.l, sopra citata § 62). 
92. La 
Corte 
osserva 
che, nel 
caso di 
specie, i 
giudici 
amministrativi 
hanno esaminato i 
vari 
motivi 
di 
fatto e 
di 
diritto sui 
quali 
è 
basato il 
ricorso delle 
società 
ricorrenti, e 
hanno pertanto 
valutato gli elementi di prova raccolti dall’AGCOM. 
93. Di 
conseguenza, la 
Corte 
osserva 
che 
la 
competenza 
dei 
giudici 
amministrativi 
non era 
limitata 
a 
un semplice 
controllo di 
legalità. I giudici 
amministrativi 
hanno potuto verificare 
se, con riguardo alle 
circostanze 
particolari 
della 
causa, l’AGCOM 
avesse 
fatto un uso appropriato 
dei 
suoi 
poteri, e 
hanno potuto esaminare 
la 
fondatezza 
e 
la 
proporzionalità 
delle 
scelte dell’AGCOM. 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


94. Poiché 
la 
decisione 
dell’AGCOM 
è 
stata 
sottoposta 
a 
un controllo a 
posteriori 
da 
parte 
di 
organi 
giudiziari 
dotati 
di 
piena 
giurisdizione, non è 
ravvisabile, nella 
presente 
causa, alcuna 
violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione. 
PER QUESTI MOTIvI, LA CORTE, ALL’UnAnIMITÀ, 
1. decide 
di riunire i ricorsi; 
2. dichiara 
i ricorsi ricevibili; 
3. dichiara 
che non vi è stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione. 
Fatta 
in 
francese, 
poi 
comunicata 
per 
iscritto 
il 
10 
dicembre 
2020, 
in 
applicazione 
dell’articolo 
77 §§ 2 e 3 del regolamento. 
ksenija 
Turković 
Presidente 


Abel Campos 
Cancelliere 



COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


note a margine della sentenza J.L. c. italia della Corte 
europea dei diritti dell’uomo. Violenza di genere e 
vittimizzazione secondaria: la pronuncia del giudice 
nazionale tra libertà di espressione e interferenza 
nella protezione del diritto alla privacy 


Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo, SezioNe 
prima, 
SeNteNza 
27 maGGio 
2021, riCorSo 
N. 5671/16, CaSo 
di 
J.l. C. italia 


Emanuela Brugiotti* 


Sommario: premessa -1. la vicenda in sintesi 
-2. la delimitazione 
dell’oggetto del 
ricorso: 
a) quadro normativo di 
riferimento. b) Gli 
obblighi 
positivi 
dello Stato e 
la violazione 
dell’art. 8 Cedu 
(1) 
- 3. la sentenza J.l. c/ italia - Conclusioni. 


premessa. 


La 
sentenza 
j.L. 
c. 
Italia 
della 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo 
(2), 
pubblicata 
lo scorso 27 maggio, ha 
destato subito molta 
attenzione, non solo 
perché 
è 
riferita 
ad un episodio di 
cronaca 
molto seguito, ma 
soprattutto per i 
principi 
applicati 
dai 
giudici 
europei. La 
Corte 
di 
Strasburgo, infatti, sottolineando 
la 
necessità 
di 
una 
tutela 
effettiva 
dei 
diritti 
garantiti 
dalla 
Convezione 
Edu, ha 
evidenziato che 
nel 
“sistema 
italiano”, a 
fronte 
di 
una 
cornice 
legislativa 
ritenuta 
sufficiente, 
si 
riscontrano 
però 
ancora 
troppo 
spesso 
stereotipi 
discriminatori 
di 
genere 
e 
di 
colpevolizzazione 
(3) delle 
persone 
offese. Questi, 


(*) Già 
praticante 
presso l’Avvocatura 
Generale 
dello Stato (vice 
avv. gen. Giuseppe 
Albenzio), Avvocato 
e 
Dottore 
di 
ricerca 
in 
Giustizia 
costituzionale 
e 
diritti 
fondamentali 
(Università 
di 
Pisa), 
attualmente 
in servizio presso la Corte dei Conti, Scuola di 
Alta Formazione “Francesco Staderini”. 


(1) In queste 
note 
non si 
tratterà 
dell’art. 14 Cedu, perché 
sebbene 
la 
sua 
violazione 
sia 
stata 
invocata 
nel 
ricorso in combinato disposto con l’art. 8 Cedu, secondo la 
Corte 
Edu questa 
è 
rimasta 
assorbita 
da quella relativa all’art. 8 Cedu. 
(2) 
Corte 
Edu, 
j.L. 
c. 
Italia, 
prima 
Sezione, 
21 
maggio 
2021, 
ric. 
5671/16. 
La 
sentenza 
è 
consultabile 
in 
lingua 
francese 
sul 
sito 
http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-210299, 
per 
una 
sintesi 
si 
veda 
il 
comunicato 
stampa 
consultabile 
all’indirizzo: 
http://hudoc.echr.coe.int/eng-press?i=003-7030833-9488811. 
Come 
noto, in conformità 
con le 
disposizioni 
degli 
artt. 43 e 
44 Cedu la 
sentenza 
della 
Camera 
non è 
definitiva, infatti, nel 
termine 
di 
tre 
mesi 
dalla 
pronuncia 
tutte 
le 
parti 
possono domandare 
il 
rinvio alla 
Grande 
Camera 
della 
Corte 
Edu. In tali 
ipotesi, un collegio di 
cinque 
giudici 
determina 
se 
la 
questione 
merita 
un esame 
più ampio, nel 
qual 
caso la 
Grande 
Camera 
tratterà 
il 
giudizio e 
pronuncerà 
sentenza 
definitiva. 
Se 
la 
domanda 
di 
rinvio 
al 
contrario 
viene 
rigettata, 
la 
sentenza 
della 
Camera 
diviene 
definitiva 
dalla data del rigetto. 
Una 
volta 
definitiva 
la 
pronuncia 
viene 
trasmessa 
ad un Comitato dei 
Ministri 
del 
Consiglio d’Europa 
che 
ne 
sorveglia 
l’esecuzione, il 
cui 
stato è 
consultabile 
all’indirizzo: 
http://www.coe.int/t/dghl/monitoring/
execution. 
(3) La 
colpevolizzazione 
della 
vittima 
consiste 
nel 
ritenere 
la 
vittima 
di 
un crimine 
o di 
altre 
disgrazie 
parzialmente 
o interamente 
responsabile 
di 
ciò che 
le 
è 
accaduto e 
spesso nell'indurre 
la 
stessa 
ad autocolpevolizzarsi. 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


specie 
se 
inseriti 
nel 
contesto 
del 
sistema 
giurisdizionale 
di 
tutela, 
non 
solo 
ne 
ostacolano 
la 
stessa 
garanzia, 
in 
quanto 
causa 
di 
cd. 
vittimizzazione 
secondaria 


o 
victim 
blaming 
(4), 
ma 
minano 
altresì 
la 
fiducia 
nelle 
istituzioni, 
scoraggiando 
le vittime a rivolgersi alle autorità. 
In 
questa 
cornice 
che 
vede 
l’estensione 
delle 
tutele 
previste 
dalla 
Convenzione 
Edu 
nel 
corso 
delle 
indagini 
e 
dei 
procedimenti 
giudiziari, 
sono 
molto 
interessanti 
le 
indicazioni 
fornite 
sulla 
rilevanza 
ed 
importanza 
delle 
stesse 
pronunce 
dei 
giudici 
nazionali. 
In 
particolare, 
nel 
caso 
di 
specie 
la 
Corte 
europea 
ha 
operato un bilanciamento fra 
libertà 
di 
espressione 
e 
obblighi 
di 
tutela 
previsti 
dall’art. 8 Cedu, sanzionando il 
divieto di 
vittimizzazione 
secondaria 
con riferimento alle 
argomentazioni 
ed al 
linguaggio adottato in un 
provvedimento giurisdizionale. 


Infine, 
non 
può 
non 
sottolinearsi 
ancora 
una 
volta 
l’evidenza 
che 
l’Italia 
è 
ormai 
inserita 
in 
un 
contesto 
più 
ampio 
di 
disciplina 
e 
tutela 
dei 
diritti, 
costituito 
anche 
da 
normative 
sovranazionali 
e 
dalla 
giurisprudenza 
delle 
Corti 
europee. 
Queste 
costituiscono 
non 
solo 
criteri 
da 
utilizzare 
per 
l’interpretazione 
sistematica 
della 
legislazione 
nazionale, 
da 
cui 
l’operatore 
giuridico 
non 
può 
prescindere, 
ma 
devono 
essere 
intese 
anche 
come 
uno 
stimolo 
prezioso 
allo 
sviluppo 
di 
un 
positivo 
dialogo 
multilivello, 
finalizzato 
al 
perfezionamento 
delle 
garanzie 
di 
tutela 
di 
situazioni 
giuridiche, 
nel 
quadro 
dei 
mutamenti 
sociali, 
culturali 
ed 
economici 
con 
cui 
il 
diritto 
è 
chiamato 
a 
tenere 
il 
passo 
(5). 


Il 
concetto di 
"colpevolizzazione 
della 
vittima" 
è 
stato coniato da 
William 
Ryan nel 
libro del 
1971, intitolato 
appunto 
blaming 
the 
victim, 
e 
successivamente 
ripreso 
in 
ambito 
giuridico, 
in 
particolare 
in 
tema 
di 
difesa 
delle 
vittime 
di 
violenza 
sessuale 
accusate 
a 
loro 
volta 
di 
aver 
causato 
o 
favorito 
il 
crimine 
subito. 


(4) 
In 
linea 
di 
massima 
si 
parla 
di 
"vittimizzazione 
secondaria" 
(o 
"post-crime 
victimization") 
quando le 
vittime 
di 
crimini 
subiscono una 
seconda 
"vittimizzazione", cioè 
una 
seconda 
aggressione, 
che 
le 
rende 
di 
nuovo vittime. Questa 
può avvenire 
da 
parte 
dei 
media, dalla 
società 
o da 
parte 
degli 
operatori 
che 
a 
vario titolo si 
relazionano con il 
soggetto, ad esempio medici, personale 
sanitario, forze 
dell’ordine, avvocati, servizi 
sociali, autorità 
giudiziarie 
e 
consiste 
di 
solito nell’accusare 
più o meno 
esplicitamente 
la 
vittima 
di 
aver contribuito al 
verificarsi 
dell’illecito oppure 
lasciarlo intendere, attraverso 
riferimenti impropri alla vita privata, all’abbigliamento ecc. 
(5) 
Il 
tema 
del 
grado 
e 
dei 
livelli 
di 
protezione 
dei 
diritti, 
che 
determina 
la 
reale 
effettività 
dei 
diritti 
stessi 
in 
un 
determinato 
ordinamento 
e 
momento 
storico 
è 
un 
tema 
classico 
del 
diritto 
costituzionale 
e 
per 
questo 
oggetto 
di 
una 
bibliografia 
molto 
vasta. 
In 
questa 
sede 
si 
rinvia 
per 
approfondimenti 
e 
relativa 
bibliografia 
a 
E. 
MALFATTI, 
i 
“livelli” 
di 
tutela 
dei 
diritti 
fondamentali 
nella 
dimensione 
europea, 
Torino, 
Giappichelli, 
terza 
edizione, 
2018; 
R. 
ROMBOLI, 
i 
differenti 
livelli 
di 
protezione 
dei 
diritti: 
un 
invito 
a 
ripensare 
i 
modelli, 
comunicazione 
presentata 
al 
Seminario 
Italo-hispano-Brasileno, 
La 
proteccion 
de 
los 
derechos 
en un ordenamiento plural 
-Barcelona 
17-18 octubre 
2013, consultabile 
all’indirizzo: 
https://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0459_romboli.pd 
f; 
M. 
nISTICò, 
limiti 
e 
prospettive 
del 
circuito 
di 
tutela 
su 
più 
livelli 
dei 
diritti 
fondamentali, 
in 
Costituzionalismo.
it, 
Fascicolo 
1, 
2018, 
consultabile 
all’indirizzo: 
https://www.costituzionalismo.it/costituzionalismo/
download/Costituzionalismo_201801_668.pdf; 
M. 
CECILI, 
la 
tutela 
multilivello 
dei 
diritti: 
i 
differenti 
approcci 
alle 
political 
questions, 
in 
Sofferenze 
ed 
insofferenze 
della 
Giustizia 
costituzionale, 
n. 
15, 
18 
maggio 
2020, 
consultabile 
all’indirizzo: 
https://www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?artid=43440. 



COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


1. la vicenda in sintesi. 
I 
fatti 
da 
cui 
trae 
origine 
il 
caso 
in 
oggetto 
risalgono 
alla 
sera 
del 
26 
luglio 
2008 (6), quando alcuni 
ragazzi 
sono stati 
accusati 
di 
aver abusato di 
una 
giovane 
ragazza 
di 
ventidue 
anni 
nei 
pressi 
della 
Fortezza 
da 
Basso 
a 
Firenze 
(7), 
dove 
questa 
si 
era 
recata 
con 
un 
amico 
per 
partecipare 
agli 
eventi 
estivi 
in 
corso. 


In seguito agli 
accertamenti 
medici 
e 
alle 
indagini 
svolte, sono stati 
arrestati 
sette 
ragazzi 
tra 
i 
20 e 
i 
25 anni. A 
gennaio 2013 il 
Tribunale 
di 
Firenze 
ha 
condannato sei 
di 
loro per violenza 
sessuale 
di 
gruppo aggravata 
dal 
fatto 
che 
la 
vittima 
fosse 
ubriaca, 
cioè 
dal 
fatto 
che 
gli 
imputati 
avessero 
approfittato 
delle sue “condizioni di inferiorità fisiche e psichiche” causate dall’alcol. 


La 
sentenza 
è 
stata 
impugnata 
presso la 
Corte 
d’Appello di 
Firenze. nel 
corso 
del 
suddetto 
procedimento, 
i 
giudici 
di 
secondo 
grado 
hanno 
riesaminato 
tutte 
le 
prove 
precedentemente 
raccolte, ricostruendo l’evento alla 
luce 
di 
valutazioni 
sulla 
persona 
della 
vittima, sulle 
sue 
abitudini 
sessuali 
e 
relazionali. 
Questa 
è 
stata 
definita 
come 
“soggetto femminile 
fragile, ma 
al 
tempo stesso 
creativo, disinibito, capace 
di 
gestire 
la 
propria 
(bi)sessualità”, protagonista, 
nel 
corso 
della 
serata, 
di 
“atteggiamenti 
particolarmente 
disinvolti 
… 
in 
un 
clima 
… 
goliardico 
(e) 
godereccio”, 
arrivando 
in 
tal 
modo 
a 
considerare 
il 
racconto della ragazza come non credibile (8). 


Secondo la 
Corte 
d’Appello, dunque, la 
ragazza 
non versava 
in uno stato 
di 
inferiorità 
fisica 
o psichica 
e 
non avrebbe 
ostacolato in nessun modo l’iniziativa 
del 
gruppo, i 
cui 
membri 
non hanno dunque 
esercitato alcuna 
costrizione 
della volontà della vittima tramite l’uso e l’abuso di alcol. 

La 
questione, nella 
sua 
interezza, è 
stata 
perciò considerata 
come 
una 
vicenda 
“incresciosa, 
non 
encomiabile 
per 
nessuno”, 
tuttavia 
costituente 
“un 
fatto 
penalmente 
non 
censurabile” 
(9). 
Di 
conseguenza, 
con 
sentenza 
del 
2015, 
i 
giudici 
hanno ribaltato la 
pronuncia 
di 
primo grado, assolvendo tutti 
gli 
imputati 
con formula piena perché “il fatto non sussisteva” (10). 


La 
pronuncia 
della 
Corte 
d’Appello ha 
suscitato già 
allora 
un’importante 
reazione 
mediatica 
e 
sociale, 
divenendo 
oggetto 
anche 
di 
un’interrogazione 
parlamentare 
(11), 
con 
cui 
sono 
stati 
stigmatizzati 
sia 
alcuni 
passaggi 
della 
motivazione 
della 
sentenza, 
sia 
la 
scelta 
da 
parte 
della 
Procura 
generale 
di 
non 


(6) Per approfondimenti si rinvia a Corte Edu, j.L. c Italia cit., §§ 12-51. 
(7) Sentenza del 14 gennaio 2013, n. 117, depositata in data 9 aprile 2013. 
(8) Cfr. Corte 
Edu, j.L. c 
Italia 
cit., §§ 38-47 e 
F. TUMMInELLO, la Corte 
edu 
condanna l’italia: 
violenza sulle donne e victim blaming, consultabile all’indirizzo: 
https://www.iusinitinere.it/. 
(9) vedi 
supra. 
(10) Procedimento penale 
R.G. 4607/13, sentenza 
n. 858 del 
4 marzo 2015, depositata 
in data 
3 
giugno 2015 e divenuta definitiva il 18 luglio 2015. 
(11) 
Interrogazione 
Galgano 
n. 
3-01667 
consultabile 
all’indirizzo: 
https://aic.camera.it/aic/scheda.html?numero=
3-01667&ramo=C&leg=17. 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


proporre 
ricorso presso la 
Corte 
di 
Cassazione, sollecitando in merito l'attivazione 
dei poteri ispettivi attribuiti al Ministro della Giustizia. 

La 
risposta 
del 
Sottosegretario 
di 
Stato 
per 
la 
giustizia 
pro 
tempore 
ha 
evidenziato che 
“la 
competente 
articolazione 
ministeriale 
in esito all'interlocuzione 
avuta 
con gli 
uffici 
giudiziari 
interessati 
dalla 
vicenda 
ha 
riferito che 
lo 
sviluppo 
della 
vicenda 
processuale 
in 
esame 
presenta 
caratteri 
fisiologici 
non essendo stati 
ravvisati 
profili 
di 
illegittimità 
o di 
abnormità 
nello svolgimento 
del 
processo, 
né 
all'interno 
del 
percorso 
motivazionale 
seguito 
nelle 
decisioni 
che si sono susseguite”. 

Le 
medesime 
osservazioni 
sono 
state 
poi 
“ribadite 
anche 
con 
riguardo 
alla 
decisione 
della 
procura 
generale 
di 
Firenze 
di 
non 
ricorrere 
in 
Cassazione 
avverso 
la 
sentenza 
della 
corte 
d'appello, 
infatti 
la 
scelta 
di 
impugnare 
o 
meno 
per ragioni 
di 
legittimità 
o di 
merito la 
sentenza 
rientra, secondo i 
principi 
generali 
dell'ordinamento, 
tra 
le 
valutazioni 
insindacabili 
dell'autorità 
requirente 
di 
primo o di 
secondo grado che 
possono fondarsi 
sia 
sulla 
condivisione 
delle 
considerazioni 
svolte 
dal 
giudice 
di 
appello, 
sia 
sulla 
insussistenza 
di 
spazi 
valutativi di competenza del giudice di legittimità” (12). 


A 
gennaio 2016 è 
stato proposto dalla 
ragazza 
ricorso alla 
Corte 
Europea 
dei 
diritti 
dell’uomo per la 
violazione 
dell’art. 8 Cedu e 
dell’art. 14 Cedu in 
combinato disposto con l’art. 8 Cedu (13). 


2. la delimitazione 
dell’oggetto del 
ricorso: a) Quadro normativo di 
riferimento; 
b) Gli 
obblighi 
positivi 
e 
negativi 
dello Stato e 
la violazione 
dell’art. 
8 della Cedu. 
nello specifico, la 
ricorrente 
ha 
lamentato che 
nel 
procedimento penale 
condotto a 
seguito della 
denuncia 
da 
lei 
presentata, i 
giudici 
-quali 
autorità 
nazionali 
-hanno 
disatteso 
l'obbligo 
positivo 
di 
tutelarla 
efficacemente 
contro 
le 
violenze 
sessuali, 
che 
affermava 
di 
aver 
subito, 
nonché 
di 
garantire 
la 
tutela 
del 
suo diritto alla 
privacy 
e 
all’integrità 
personale. Tale 
condotta 
avrebbe 
integrato 
una violazione degli articoli 8 e 14 della Convenzione Edu. 


Per 
meglio 
inquadrare 
e 
delimitare 
l’oggetto 
del 
ricorso 
e 
della 
successiva 
sentenza 
dei 
giudici 
di 
Strasburgo è 
necessario in via 
preliminare 
fare 
riferimento 
a 
due 
profili: 
(a) il 
quadro normativo e 
vincolante 
per lo Stato italiano 
in 
tema 
di 
violenza 
sessuale 
e, 
in 
particolare, 
di 
tutela 
delle 
donne 
che 
ne 
sono 
vittime; 
(b) gli 
obblighi, positivi 
e 
negativi, in materia, scaturenti 
dalle 
previsioni 
dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. 


(12) 
Camera 
dei 
deputati, 
seduta 
n. 
671, 
13 
settembre 
2016, 
consultabile 
all’indirizzo: 
https://www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0671&tipo=stenografico#sed0671.stenografico.tit00020.su 
b00070. 


(13) Ricorso n. 5671/16, proposto dall’avv. Sara 
Menichetti 
e 
dall’avv. Titti 
Carrano e 
curato dal-
l’avv. Sara 
Menichetti, con la 
collaborazione 
dell’avv. Emanuela 
Brugiotti, dell’avv. Gisela 
Suparaku e 
dall’avv. Elena Parlangeli. 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


a) Quadro normativo di riferimento. 
Sotto il 
primo profilo, si 
distingue 
il 
diritto di 
fonte 
interna 
da 
quello sovranazionale 
e 
comunitario. Sono numerosi, infatti, i 
documenti, gli 
atti 
e 
gli 
interventi 
normativi 
che 
a 
diversi 
livelli 
hanno riconosciuto in capo alle 
autorità 
nazionali 
specifici 
obblighi 
di 
tutela 
nei 
confronti 
delle 
donne 
vittime 
di 
violenza. 
In 
tale 
contesto, 
poi, 
è 
posta 
particolare 
attenzione 
alla 
condotta 
degli 
organi 
inquirenti 
e 
giudicanti, ai 
quali 
è 
richiesto di 
attivare 
ogni 
strumento 
per proteggere e assistere la vittima nel corso del procedimento giudiziario. 


Per 
quanto 
concerne 
il 
diritto 
interno, 
in 
questa 
sede 
si 
evidenzia 
la 
legge 
15 
febbraio 
1996 
n. 
66 
(14) 
che 
ha 
eliminato 
la 
distinzione 
tra 
violenza 
carnale 
e 
atti 
di 
libidine, 
per 
tutelare 
la 
libera 
autodeterminazione 
sessuale 
contro 
qualsiasi 
forma 
di 
abuso, 
evitando 
anche 
ingerenze 
nella 
vita 
intima 
della 
persona 
offesa 
durante 
gli 
accertamenti 
processuali. 
È 
stato 
introdotto, 
così, 
il 
comma 
3 
bis 
dell’art. 
472 
c.p.p., 
ai 
sensi 
del 
quale 
nel 
corso 
dei 
procedimenti 
per 
violenza 
sessuale 
“non 
sono 
ammesse 
domande 
sulla 
vita 
privata 


o 
sulla 
sessualità 
della 
persona 
offesa 
se 
non 
sono 
necessarie 
alla 
ricostruzione 
del 
fatto”. 
Inoltre, 
con 
il 
decreto-legge 
23 
febbraio 
2009 
n. 
11, 
convertito 
nella 
Legge 
23 aprile 
2009 n. 38 (15) il 
legislatore 
ha 
adottato “Misure 
urgenti 
in 
materia 
di 
sicurezza 
pubblica 
e 
di 
contrasto alla 
violenza 
sessuale, nonché 
in 
tema di atti persecutori”. 


Con la 
legge 
n. 77 del 
27 giugno 2013 (16), è 
stata 
poi 
ratificata 
la 
Convenzione 
del 
Consiglio 
d’Europa 
sulla 
prevenzione 
e 
la 
lotta 
contro 
la 
violenza 
nei 
confronti 
delle 
donne 
e 
la 
violenza 
domestica, 
firmata 
ad 
Istanbul 
l’11 
maggio 2011 (17). 


Si 
evidenzia, inoltre, la 
recente 
legge 
sul 
c.d. “Codice 
Rosso” 
n. 69/2019 
(18), composta 
da 
ventuno articoli 
ed avente 
tre 
obiettivi 
fondamentali: 
prevenzione 
dei 
reati, 
protezione 
delle 
vittime 
e 
punizione 
dei 
colpevoli. 
vengono, 


(14) 
G.u., 
Serie 
Generale, 
n. 
42 
del 
20 
febbraio 
1996, 
consultabile 
all’indirizzo: 
https://www.gazzettaufficiale.
it/eli/id/1996/02/20/096G0073/sg. 
(15) Il 
testo del 
decreto-legge 
23 febbraio 2009, n. 11 (in Gazzetta ufficiale 
n. 45 del 
24 febbraio 
2009), coordinato con la 
legge 
di 
conversione 
23 aprile 
2009, n. 38 (Gu 
Serie 
Generale 
n. 95 del 
24 
aprile 
2009) 
è 
consultabile 
all’indirizzo: 
https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2009/04/24/09a04793/sg. 
(16) G.u., Serie 
Generale, n. 152 del 
1 luglio 2013, consultabile 
all’indirizzo: 
https://www.gazzettaufficiale.
it/eli/id/2013/07/01/13G00122/sg. 
(17) 
Consultabile 
su 
G.u., 
Serie 
Generale, 
n. 
153 
del 
2 
luglio 
2013, 
all’indirizzo: 
https://www.gazzettaufficiale.
it/do/atto/serie_generale/caricapdf?cdimg=13a0578900000010110002&dgu=2013-0702&
art.datapubblicazioneGazzetta=2013-07-02&art.codiceredazionale=13a05789&art.num=1&art.t 
iposerie=SG. 
(18) 
G.u., 
Serie 
Generale, 
n. 
173 
del 
25 
luglio 
2019, 
consultabile 
all’indirizzo: 
https://www.gazzettaufficiale.
it/eli/id/2019/07/25/19G00076/sg. 
Si 
veda 
in 
merito 
anche 
il 
rapporto, 
violenza 
sulle 
donne. 
un 
anno 
di 
codice 
rosso, 
2020, 
a 
cura 
del 
Ministero 
dell’Interno, 
Dipartimento 
della 
Pubblica 
Sicurezza, 
Servizio 
Analisi 
Criminale, 
consultabile 
all’indirizzo: 
https://www.istat.it/it/files//2018/04/polizia_un_anno_di_codice_
rosso_2020.pdf. 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


così, rafforzate 
le 
tutele 
processuali 
delle 
vittime 
di 
reati 
violenti, con particolare 
riferimento, ai reati di violenza domestica e di genere. 


Sul 
piano 
internazionale, 
invece, 
si 
segnala 
la 
già 
menzionata 
Convenzione 
di 
Istambul, che 
costituisce 
il 
primo strumento internazionale 
giuridicamente 
vincolante, volto a 
creare 
un quadro normativo completo a 
tutela 
delle 
donne 
contro 
qualsiasi 
forma 
di 
violenza 
(19). 
Al 
suo 
interno, 
è 
particolarmente 
rilevante 
il 
riconoscimento 
espresso 
della 
violenza 
contro 
le 
donne 
quale 
violazione 
dei 
diritti 
umani, 
oltre 
che 
come 
forma 
di 
discriminazione 
(art. 3 della Convenzione). 


Anche 
la 
Convenzione 
si 
articola 
su 
tre 
direttive 
fondamentali 
individuate 
nella 
prevenzione, 
protezione 
e 
punizione, 
con 
la 
finalità, 
tra 
le 
altre, 
di 
evitare 
la 
cd. 
vittimizzazione 
secondaria 
(art. 
18) 
e 
di 
non 
fornire 
mai 
un 
contesto 
che 
fornisca 
a 
sua 
volta 
una 
giustificazione 
alla 
presunta 
violenza 
o ne 
vizi 
il 
giudizio 
(artt. 12 e 42) (20). 


La 
Convenzione 
di 
Istanbul 
si 
muove, poi, nel 
solco tracciato in precedenza 
dalla 
Convenzione 
delle 
nazioni 
Unite 
per 
la 
eliminazione 
di 
ogni 
forma 
di 
discriminazione 
contro le 
donne 
del 
1979 (conosciuta 
come 
CEDAW) (21) 
e dalla Dichiarazione di Pechino del 1995 (22). 


nell’ambito 
del 
Comitato 
delle 
nazioni 
Unite 
nel 
quadro 
CEDAW 
si 
deve 


(19) 
Per 
una 
lettura 
della 
Convenzione 
alla 
luce 
dell’ordinamento 
interno 
si 
rinvia 
al 
dossier 
della 
Camera 
dei 
deputati, 
consultabile 
all’indirizzo: 
https://documenti.camera.it/leg17/dossier/testi/ac0173.htm. 
(20) 
nell'ambito 
del 
Consiglio 
d'Europa 
deve 
anche 
tenersi 
in 
considerazione 
quanto 
indicato 
nelle 
Raccomandazioni 
approvate 
dal 
Comitato dei 
Ministri 
del 
Consiglio d'Europa 
sul 
tema 
delle 
vittime. 
Tra 
le 
queste 
si 
segnalano la 
n. 11 (85), approvata 
il 
28 giugno 1985 sulla 
posizione 
della 
vittima 
nell'ambito 
del 
diritto 
penale 
e 
del 
processo 
(consultabile 
all’indirizzo: 
https://search.coe.int/cm/pages/result_details.aspx?objectid=09000016804dccae), 
la 
n. 
21 
(87), 
approvata 
il 
17 settembre 
1987, sull'assistenza 
alle 
vittime 
e 
la 
prevenzione 
della 
vittimizzazione 
(consultabile 
all’indirizzo: 
https://search.coe.int/cm/pages/result_details.aspx?objectid=09000016804e24dc) 
ed, inoltre, la 
Raccomandazione 
Rec. (2006)8 sull'assistenza 
alle 
vittime 
di 
reato (consultabile 
all’indirizzo: 
https://search.coe.int/cm/pages/result_details.aspx?objectid=09000016805d809f). 
Si 
segnala, 
inoltre, 
che 
il 
Gruppo 
di 
esperti 
sulla 
lotta 
alla 
violenza 
contro 
le 
donne 
e 
violenza 
domestica 
del 
Consiglio d'Europa 
(“GREvIO”) ha 
pubblicato il 
13 gennaio 2020 il 
suo primo rapporto di 
valutazione 
sull'Italia. 
nel 
rapporto 
si 
legge 
il 
seguente 
passaggio: 
“Pur 
riconoscendo 
i 
progressi 
compiuti 
nella 
promozione 
dell'uguaglianza 
di 
genere 
e 
dei 
diritti 
delle 
donne, il 
rapporto rileva 
che 
la 
causa 
del-
l'uguaglianza 
di 
genere 
sta 
incontrando resistenza 
in Italia. Il 
GREvIO 
esprime 
preoccupazione 
per i 
segnali 
emergenti 
di 
una 
tendenza 
a 
reinterpretare 
e 
riorientare 
le 
politiche 
di 
parità 
di 
genere 
in termini 
di 
politiche 
per la 
famiglia 
e 
la 
maternità. Per superare 
queste 
difficoltà, il 
GREvIO 
ritiene 
essenziale 
che 
le 
autorità 
continuino a 
progettare 
e 
attuare 
efficacemente 
politiche 
per l'uguaglianza 
di 
genere 
e 
l'emancipazione 
delle 
donne, che 
riconoscano chiaramente 
la 
natura 
strutturale 
della 
violenza 
contro le 
donne 
come 
manifestazione 
di 
relazioni 
di 
potere 
storicamente 
diseguali 
tra 
donne 
e 
uomini". 
Il 
rapporto 
è 
consultabile 
all’indirizzo: 
https://www.coe.int/en/web/istanbul-convention/-/grevio-pubishes-itsreport-
on-italy; cfr anche Corte edu, J.l. c. italia, cit., §66. 
(21) 
Consultabile 
all’indirizzo: 
http://www.cidu.esteri.it/resource/2016/09/48434_f_CedaWmaterialetraduzione2011.
pdf. 
La 
Convenzione 
è 
stata 
ratificata 
dall’Italia 
con 
legge 
n. 
132/1985, 
consultabile 
in 
G.u., 
Serie 
Generale, 
n. 
89 
del 
15 
aprile 
1985 
all’indirizzo: 
https://www.gazzettaufficiale.
it/eli/id/1985/04/15/085u0132/sg. 
(22) Consultabile all’indirizzo: 
http://www.un-documents.net/a40r34.htm. 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


segnalare, 
in 
particolare, 
il 
report 
annuale 
del 
2017, 
con 
cui 
nei 
riguardi 
dell’Italia 
è 
stato 
evidenziato 
come 
le 
autorità 
italiane 
devono 
ancora 
affrontare 
un 
notevole 
problema 
culturale 
legato 
a 
(a) 
radicati 
stereotipi 
di 
genere 
circa 
i 
ruoli 
di 
uomini 
e 
donne 
nella 
famiglia 
e 
nella 
società, 
(b) 
scarsi 
interventi 
culturali 
ed 
educativi 
per 
eliminare 
simili 
stereotipi, 
(c) 
la 
diffusione 
di 
una 
narrativa 
maschilista 
e 
sessista 
e 
(d) 
la 
critica 
situazione 
delle 
donne 
di 
origine 
straniera, 
esposte 
ad 
aggressioni, 
violenze 
e 
discriminazioni 
di 
matrice 
sessista 
e 
xenofoba, 
anche 
alla 
luce 
di 
una 
situazione 
sociale 
non 
favorevole 
(23). 
In 
tale 
sostrato 
culturale 
continua 
il 
rapporto 
-l’Italia 
ha 
un 
numero 
elevato 
di 
femminicidi 
e 
i 
rimedi 
concessi 
alle 
vittime 
sono 
molto 
spesso 
inadatti 
a 
garantire 
adeguato 
supporto 
e 
sostegno 
oltre 
a 
riconoscere 
un 
giusto 
risarcimento 
per 
le 
violenze 
subite 
(24). 


Questi 
rapporti 
(25) 
hanno 
una 
notevole 
importanza 
nella 
giurisprudenza 
della 
Corte 
Edu, 
perché 
forniscono 
un 
quadro 
sistematico 
della 
violazione 
denunciata, 
inquadrandola 
nel 
sistema 
ordinamentale 
e 
sociale 
dello 
Stato 
membro 
(26). 


Proseguendo, 
nell’ambito 
del 
diritto 
comunitario, 
si 
rileva 
la 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
dell'Unione 
europea 
che 
inter 
alia 
all'art. 
21 
vieta 
qualsiasi 
forma 
di 
discriminazione 
fondata, 
in 
particolare, 
sul 
sesso, 
le 
convinzioni 
personali, 
le 
opinioni 
di 
qualsiasi 
natura 
e 
l'orientamento sessuale 
nonché 
l'art. 7 
sul 
rispetto della 
vita 
privata 
e 
familiare, mentre 
l'art. 8 sancisce 
la 
tutela 
dei 
dati di carattere personale (data protection) (27). 


(23) Concluding observations 
on the 
seventh periodic 
report 
of 
italy, 24 luglio 2017, § 25, consultabile 
all’indirizzo: 
https://undocs.org/en/CedaW/C/ita/Co/7. 
(24) ibid., § 27. 
(25) Si veda quello in ambito GREvIO nella nota 
supra. 
(26) Corte EDU, j.L. c. Italia, cit., § 64. 
(27) Come 
noto, la 
Carta 
è 
diventata 
giuridicamente 
vincolante 
nell'UE 
con l'entrata 
in vigore 
del 
trattato di 
Lisbona, a 
dicembre 
2009 ed ora 
ha 
la 
stessa 
forza 
giuridica 
dei 
trattati 
dell'Unione. Tuttavia, 
la 
stessa 
ai 
sensi 
dell’art. 51 della 
Carta 
non estende 
l'ambito di 
applicazione 
del 
diritto dell'Unione 
al 
di 
là 
delle 
competenze 
dell'Unione, né 
introduce 
competenze 
nuove 
o compiti 
nuovi 
per l'Unione, né 
modifica 
le 
competenze 
e 
i 
compiti 
definiti 
nei 
trattati. 
La 
Corte 
di 
giustizia 
a 
partire 
dalla 
nota 
sentenza 
Åkerberg Fransson 
ha 
più volte 
chiarito che 
“i 
diritti 
fondamentali 
garantiti 
nell’ordinamento giuridico 
dell’Unione 
si 
applicano in tutte 
le 
situazioni 
disciplinate 
dal 
diritto dell’Unione, ma 
non al 
di 
fuori 
di 
esse”, 
delimitando 
questo 
anche 
la 
competenza 
della 
stessa 
Corte 
di 
Giustizia. 
Le 
disposizioni 
della 
Carta, si 
applicano, quindi, nelle 
situazioni 
in cui 
la 
norma 
nazionale 
presenta 
un collegamento di 
una 
certa 
consistenza 
con 
una 
norma 
di 
diritto 
UE 
(primario 
o 
derivato) 
diversa 
dalla 
disposizione 
della 
Carta 
di 
cui 
si 
lamenta 
la 
violazione, venendo dunque 
forniti 
al 
giudice 
nazionale 
“tutti 
gli 
elementi 
di 
interpretazione 
necessari 
per 
la 
valutazione 
[della 
conformità 
della] 
normativa 
con 
i 
diritti 
fondamentali 
di 
cui 
essa 
garantisce 
il 
rispetto” 
(Sentenza 
Corte 
di 
Giustizia 
-Grande 
Sezione 
-del 
26 febbraio 2013, 
Causa 
C-617/10 
Åkerberg 
Fransson, 
par. 
21, 
23, 
consultabile 
all’indirizzo: 
https://eurlex.
europa.eu/legal-content/it/tXt/?uri=CeleX%3a62010CJ0617). 
Al 
di 
fuori 
di 
questi 
limiti, 
la 
Carta 
si 
applica, ma 
si 
tratta 
di 
un’applicazione 
“volontaria”, non già 
vincolata 
ovvero obbligatoria, e 
quindi 
non 
gode 
del 
principio 
del 
primato 
(tipico 
del 
diritto 
UE) 
e 
della 
sottoponibilità 
al 
giudizio 
pregiudiziale 
della 
Corte, cfr. B. nASCIMBEnE, Carta dei 
diritti 
fondamentali, applicabilità e 
rapporti 
fra giudici: 
la 
necessità 
di 
una 
tutela 
integrata, 
in 
european 
papers, 
vol. 
6, 
2021, 
no 
1, 
European 
Forum, 
Insight 
of 
22 
April 
2021, 
pp. 
81-99 
consultabile 
all’indirizzo 
https://www.europeanpapers.eu/en/europeanforum/cartadiritti-
fondamentali-applicabilita-e-rapporti-fra-giudici#_ftn10. 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


Riguardo alla 
protezione 
dei 
dati 
personali 
si 
evidenziano poi 
il 
Regolamento 
europeo 
2016/679 
(General 
data 
protection 
regulation 
o 
GDPR) 
(28), 
che 
costituisce 
la 
principale 
normativa 
europea 
in materia, e 
l’art. 16 del 
Trattato 
sul funzionamento dell’Unione europea (29). 


Si 
segnala, 
inoltre, 
la 
Direttiva 
2012/29/UE, 
“che 
istituisce 
norme 
minime 
in 
materia 
di 
diritti, 
assistenza 
e 
protezione 
delle 
vittime 
di 
reato” 
(30), 
attuata 
in Italia 
con il 
decreto legislativo del 
15 dicembre 
2015 n. 212 (31). La 
fonte 
europea 
indica 
una 
normativa 
minima 
che 
assicuri 
alle 
vittime 
di 
reato adeguati 
livelli 
di 
tutela 
e 
assistenza, sia 
nelle 
fasi 
di 
accesso e 
partecipazione 
al 
procedimento penale, sia al di fuori e indipendentemente da esso. 


b) Gli 
obblighi 
positivi 
e 
negativi 
dello Stato e 
la violazione 
dell’art. 8 della 
Cedu. 
I 
principi 
su 
esposti 
sono 
stati 
più 
volte 
ribaditi 
e 
precisati 
dalla 
Corte 
Edu 
in 
applicazione 
dell’art. 
8 
Cedu 
da 
solo 
ed 
in 
combinato 
disposto 
con 
altri 
diritti 
della 
Convenzione, 
soprattutto 
gli 
articoli 
2 
(diritto 
alla 
vita) 
e 
3 
(divieto 
di trattamenti inumani e degradanti). 


Come 
noto, secondo la 
giurisprudenza 
dei 
giudici 
europei 
il 
concetto di 
“vita 
privata” 
garantito dalla 
Convenzione 
Edu è 
ampio e 
non suscettibile 
di 
definizione 
esaustiva 
(32). Questo, infatti, comprende 
anche 
l’integrità 
fisica 
e 
psicologica 
della 
persona 
e 
può dunque 
abbracciare 
molteplici 
aspetti 
della 
sua 
identità, quali 
l’identità 
di 
genere, l’orientamento sessuale, il 
nome 
o elementi 
relativi 
al 
suo 
diritto 
all’immagine. 
Include 
altresì, 
connotandosi 
in 
questo 
caso più propriamente 
come 
tutela 
dei 
dati 
personali, le 
informazioni 
che 
le 
persone 
possono legittimamente 
aspettarsi 
che 
non siano pubblicate 
senza 
il loro consenso. 


Sebbene, 
come 
visto, 
la 
Corte 
di 
Strasburgo 
abbia 
definito 
in 
maniera 


(28) 
Consultabile 
all’indirizzo: 
https://eur-lex.europa.eu/legalcontent/it/tXt/?uri=uriserv:
oJ.l_.2016.119.01.0001.01.ita&toc=oJ:l:2016:119:toC. 
Per 
quanto 
riguarda 
il 
rapporto 
fra 
GDPR 
e 
la 
funzione 
giurisdizionale, 
si 
rinvia 
fra 
gli 
altri 
al 
commento 
della 
recente 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
n. 35548 del 
11 dicembre 
2020 di 
R. BERTI 
e 
F. zUMERLE, consultabile 
all’indirizzo: 
https://www.cybersecurity360.it/legal/privacy-dati-personali/cassazione-il-trattamento-dati-nelleattivita-
giurisdizionali-e-sottoposto-ad-una-disciplina-particolare/. 


(29) 
All’indirizzo: 
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/it/tXt/?uri=celex%3a12012e%2FtXt. 


(30) Direttiva 
2012/29/UE 
del 
Parlamento europeo e 
del 
Consiglio, del 
25 ottobre 
2012 , che 
istituisce 
norme 
minime 
in materia 
di 
diritti, assistenza 
e 
protezione 
delle 
vittime 
di 
reato e 
che 
sostituisce 
la 
decisione 
quadro 
2001/220/GAI, 
consultabile 
all’indirizzo: 
https://eur-lex.europa.eu/legalcontent/
it/tXt/pdF/?uri=CeleX:32012l0029&from=it). Per i 
passaggi 
rilevanti 
ai 
fini 
della 
decisione 
della Corte Edu qui in commento, si veda Corte EDU, j.L. c. Italia, cit., § 69. 
(31) 
Decreto 
legislativo, 
15 
dicembre 
2015 
n° 
212, 
G.u. 
5 
gennaio 
2016, 
consultabile 
all’indirizzo 
https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2016/01/05/15G00221/sg. 
(32) A 
tal 
fine, risultano particolarmente 
utili 
le 
Guide 
giurisprudenziali 
pubblicate 
dalla 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo, 
consultabili 
e 
scaricabili 
dal 
sito 
www.echr.coe.int 
(Giurisprudenza 
-Analisi 
giurisprudenziale 
-Guide 
giurisprudenziali). In particolare, per quanto riguarda 
l’art. 8 Cedu si 
veda 
la 
Guida consultabile all’indirizzo: 
https://www.echr.coe.int/documents/Guide_art_8_ita.pdf. 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


ampia 
il 
campo di 
applicazione 
dell’articolo 8 della 
Convezione 
Edu, tuttavia 
la stessa ne anche circoscritto negli anni i requisiti di applicabilità (33). 


In primo luogo, per invocare 
l’articolo 8 Cedu si 
deve 
dimostrare 
che 
la 
doglianza 
concerna 
almeno uno dei 
quattro interessi 
tutelati 
dall’articolo, ovvero: 
la 
vita 
privata, la 
vita 
familiare, il 
domicilio e 
la 
corrispondenza. Successivamente, 
è 
necessario 
vi 
sia 
stata 
un’ingerenza 
ingiustificata 
in 
tale 
diritto 


o che la causa riguardi gli obblighi positivi dello Stato di tutelare tale diritto. 
Per 
quanto 
riguarda 
gli 
obblighi 
negativi 
(34), 
le 
condizioni 
richieste 
perché 
uno Stato possa 
ingerirsi 
nel 
godimento del 
diritto protetto sono individuate 
nel 
paragrafo 2 dell’articolo 8 Cedu e 
cioè 
se 
questo è 
necessario alla 
sicurezza 
nazionale, 
alla 
pubblica 
sicurezza, 
al 
benessere 
economico 
del 
Paese, 
alla 
difesa 
dell’ordine 
e 
alla 
prevenzione 
dei 
reati, 
alla 
protezione 
della 
salute, 
della 
morale 
o alla 
protezione 
dei 
diritti 
e 
delle 
libertà 
altrui. Tali 
limitazioni 
sono 
consentite 
qualora 
esse 
siano 
“previste 
dalla 
legge” 
o 
“conformi 
alla 
legge” 
e 
siano “necessarie 
in una 
società 
democratica” 
per la 
tutela 
di 
uno dei 
su esposti 
obiettivi. nella 
valutazione 
di 
quest’ultimo criterio, in particolare, 
la 
Corte 
Edu è 
chiamata 
spesso a 
bilanciare 
gli 
interessi 
del 
ricorrente 
previsti 
dall’articolo 8 Cedu e 
gli 
interessi 
di 
terzi, tutelati 
da 
altre 
disposizioni 
della 
Convenzione e dei suoi Protocolli. 


Accanto agli 
obblighi 
negativi, sono poi 
configurabili 
in capo agli 
Stati 
membri 
anche 
obbligazioni 
di 
tipo 
positivo. 
Gli 
Stati, 
infatti, 
ai 
sensi 
della 
Convenzione 
Edu 
hanno 
l’obbligo 
di 
garantire 
ai 
propri 
cittadini 
l’effettivo 
rispetto 
della 
loro integrità 
fisica 
e 
psicologica 
(35), con provvedimenti 
sia 
di 
carattere 
generale 
(quali 
l’adozione 
di 
un 
quadro 
normativo 
che 
instauri 
un 
adeguato 
meccanismo 
giudiziario 
ed 
esecutivo) 
sia 
di 
carattere 
specifico 
(36), 
anche quando il rischio provenga da soggetti terzi privati. 


I 
principi 
applicabili 
alla 
valutazione 
degli 
obblighi 
positivi 
e 
negativi 
sono 
analoghi. 
Anche 
per 
quanto 
riguarda 
gli 
obblighi 
positivi, 
si 
deve 
vagliare 
il 
giusto 
bilanciamento 
cui 
occorre 
pervenire 
tra 
gli 
interessi 
concorrenti 
della 
persona 
e 
della 
collettività 
nel 
suo 
insieme, 
cioè 
se 
l’importanza 
dell’interesse/diritto 
invocato 
esiga 
l’imposizione 
dell’obbligo 
positivo 
invocato 
dal 
ricorrente. 


(33) vedi nota 
supra. 
(34) Corte 
Edu, Kroon e 
altri 
c. paesi 
bassi, del 
27 ottobre 
1994, ricorso n. 18535/91, § 31, consultabile 
all’indirizzo: 
https://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%22:[%22001-57904%22]}. 
(35) Corte Edu, 
odièvre c. Francia, ricorso n. 42326/98, sentenza 13 febbraio 2003, § 42; Corte 
Edu, Glass 
c. regno unito, ricorso n. 61827/00, sentenza 
9 marzo 2004, §§ 74-83; 
Corte 
Edu, Sandra 
Janković 
c. Croazia, ricorso n. 38478/05, sentenza 
5 marzo 2009, § 45. Tutte 
le 
decisioni 
indicate 
sono 
consultabili all’indirizzo: 
https://hudoc.echr.coe.int. 
(36) 
Corte 
Edu, 
a, 
b 
e 
C 
c. 
irlanda, 
ricorso 
n. 
25579/05, 
sentenza 
16 
dicembre 
2010, 
§ 
245; 
Corte 
Edu, airey 
c. irlanda, ricorso n. 6289/73, sentenza 
6 febbraio 1981, § 33; 
Corte 
Edu, mcGinley 
e 
egan 
c. regno unito, ricorsi 
nn. 1825/93 e 
23414/94, sentenza 
28 gennaio 2000, § 101; 
Corte 
Edu, roche 
c. 
regno unito, ricorso n. 32555/96, sentenza 
n. 19 ottobre 
2005, § 162. Tutte 
le 
decisioni 
indicate 
sono 
consultabili all’indirizzo: 
https://hudoc.echr.coe.int. 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


Riguardo poi 
ai 
casi 
di 
violenza 
e 
abusi 
sessuali, i 
giudici 
europei 
hanno 
evidenziato 
come 
il 
rispetto 
delle 
previsioni 
disciplinate 
dalla 
Convenzione 
Edu ponga 
in capo alle 
autorità 
nazionali 
l’obbligo da 
un lato di 
predisporre 
adeguate 
norme 
penali 
(37) 
e, 
dall’altro, 
di 
mettere 
in 
atto 
efficaci 
indagini 
per individuare 
e 
punire 
i 
colpevoli, nonché 
di 
prevedere 
idonei 
strumenti 
di 
riparazione 
e 
risarcimento a 
favore 
delle 
vittime 
(38). Tuttavia, la 
giurisprudenza 
europea 
ha 
più volte 
ribadito anche 
che 
si 
tratta 
di 
un’obbligazione 
di 
mezzi 
e 
non 
di 
risultato 
(39). 
Quindi, 
in 
assenza 
di 
omissioni 
colpose 
negli 
sforzi 
effettuati 
per 
accertare 
la 
responsabilità 
degli 
autori 
di 
reati, 
non 
sussiste 
il 
diritto 
assoluto 
di 
ottenere 
il 
perseguimento 
o 
la 
condanna 
di 
una 
determinata 
persona (40). 


Come 
visto, 
infine, 
la 
tutela 
garantita 
dalla 
Convezione 
Edu 
si 
estende 
anche 
alla 
fase 
processuale 
di 
accertamento 
delle 
responsabilità 
da 
parte 
degli 
imputati. In questo ambito, si 
è 
così 
assistito alla 
condanna 
di 
Stati 
membri 
perché 
nel 
corso 
del 
procedimento 
penale 
non 
avevano 
offerto 
sufficiente 
protezione 
al 
diritto della 
ricorrente 
al 
rispetto della 
sua 
vita 
privata 
ed, in particolare, 
della sua integrità personale (41). 

(37) Corte 
Edu, X 
e 
Y 
c. paesi 
bassi, ricorso n. 8978/80, sentenza 
26 marzo 1985, § 27; 
Corte 
Edu, 
m.C. 
c. 
bulgaria, 
ricorso 
n. 
39272/98, 
sentenza 
4 
dicembre 
2003, 
§ 
150. 
Le 
decisioni 
indicate 
sono 
consultabili all’indirizzo: 
https://hudoc.echr.coe.int. 
(38) Corte 
Edu, C.a.S. e 
C.S. c. romania, ric. n. 26692/05, sentenza 
20 marzo 2012, §72, consultabile 
all’indirizzo: 
https://hudoc.echr.coe.int/fre#{%22itemid%22:[%22001-109741%22]} 
(39) 
Per 
la 
configurazione 
di 
tale 
obbligo 
come 
un’obbligazione 
di 
mezzi 
e 
non 
di 
risultato 
si 
veda, fra 
le 
altre, Corte 
Edu, C.a.S. e 
C.S. c. romania, cit., § 72; 
Corte 
Edu, m.p. e 
altri 
c. bulgaria, ricorso 
n. 22457/08, sentenza 
15 novembre 
2011, §§ 109-110; 
Corte 
Edu, m.C. c. bulgaria, ricorso n. 
39272/98, 
sentenza 
4 
dicembre 
2003, 
§ 
152. 
Le 
decisioni 
indicate 
sono 
consultabili 
all’indirizzo: 
https://hudoc.echr.coe.int. 


(40) Corte 
Edu, brecknell 
c. regno unito, ricorso n. 32457/04, sentenza 
27 novembre 
2007, § 
64, 
consultabile 
in 
inglese 
all’indirizzo: 
https://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22fulltext%22:[%22brecknell%
22],%22itemid%22:[%22001-83470%22]}; 
Corte 
Edu, 
Szula 
c. 
regno 
unito, 
ricorso 
n. 
18727/06, 
sentenza 
4 
gennaio 
2007, 
consultabile 
all’indirizzo 
https://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%
22:[%22001-79049%22]}. 
(41) 
nella 
causa 
Y. 
c. 
Slovenia, 
ad 
esempio, 
tale 
violazione 
è 
stata 
ritenuta 
sussistente 
durante 
il 
suo 
controinterrogatorio 
condotto 
dall’imputato 
(§§ 
114-116), 
ric. 
n. 
41107/10, 
sentenza 
del 
28 
maggio 
2015, 
consultabile 
in 
inglese 
all’indirizzo: 
https://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%22:[%22001154728%
22]}. 
Tale 
posizione 
appare 
perfettamente 
in 
linea 
con 
quanto 
stabilito 
anche 
dalla 
Corte 
Costituzionale 
che, 
nella 
sentenza 
n. 
63 
del 
2005 
-consultabile 
all’indirizzo: 
https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedapronuncia.do?anno=2005&numero=63 
-(concernente 
minori) 
ha 
avuto 
modo 
di 
rilevare 
che 
"rendere 
testimonianza 
in 
un 
procedimento 
penale, 
nel 
contesto 
del 
contraddittorio 
su 
fatti 
e 
circostanze 
legate 
all'intimità 
della 
persona 
e 
connessi 
a 
ipotesi 
di 
violenze 
subite, 
è 
sempre 
esperienza 
difficile 
e 
psicologicamente 
pesante: 
se 
poi 
chi 
e 
chiamato 
a 
deporre 
è 
persona 
particolarmente 
vulnerabile, 
più 
di 
altre 
esposta 
ad 
influenze 
e 
condizionamenti 
esterni 
e 
meno 
in 
grado 
di 
controllare 
tale 
tipo 
di 
situazioni, 
può 
tradursi 
in 
un'esperienza 
fortemente 
traumatizzante". 
nella 
sentenza 
529 
del 
2002 
-consultabile 
all’indirizzo: 
https://www.giurcost.org/decisioni/2002/0529s02.
html 
-la 
Corte 
indica 
che 
l’adozione 
in 
questi 
casi 
di 
speciali 
modalità 
protette, 
nonché 
di 
particolari 
modi 
di 
procedere 
all'esame, 
“non 
solo 
non 
contrasta 
con 
altre 
esigenze 
proprie 
del 
processo, 
ma 
al 
contrario 
concorre 
altresì 
ad 
assicurare 
la 
genuinità 
della 
prova 
medesima, 
suscettibile 
di 
essere 
pre

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


3. la sentenza J.l. c/ italia. 
Pronunciandosi 
sul 
ricorso in oggetto, la 
Corte 
di 
Strasburgo dopo aver 
preliminarmente 
ricostruito 
i 
fatti 
e 
la 
normativa 
pertinente, 
ha 
esaminato 
i 
profili 
di 
ammissibilità/ricevibilità 
dello stesso e 
cioè 
il 
rispetto del 
termine 
di 
sei 
mesi 
dalla 
data 
di 
definitività 
del 
processo, il 
previo esaurimento delle 
vie 
di 
ricorso interne, la 
qualità 
di 
vittima 
della 
richiedente 
e 
la 
non manifesta 
infondatezza della violazione sollevata (42). 


Sotto 
il 
primo 
punto, 
i 
giudici 
europei 
non 
hanno 
aderito 
all’eccezione 
del 
Governo relativa 
alla 
tardività 
del 
ricorso, in quanto la 
data 
per la 
presentazione 
del 
ricorso deve 
ritenersi 
quella 
del 
timbro postale 
di 
spedizione, con 
ciò ribadendo un indirizzo consolidato sul 
punto. Pertanto, il 
termine 
è 
stato 
ritenuto rispettato (43). 


Per 
quanto 
riguarda 
il 
secondo 
profilo, 
la 
Corte 
Edu 
ha 
evidenziato 
che, 
ai 
sensi 
dell’art. 
576 
c.p.p., 
nel 
procedimento 
penale 
la 
parte 
civile 
avrebbe 
potuto 
sollevare 
in 
via 
autonoma 
ricorso 
in 
Cassazione, 
avverso 
la 
sentenza 
della 
Corte 
di 
appello, 
esclusivamente 
riguardo 
ai 
profili 
civilistici. 
In 
relazione 
al 
merito 
penale, 
invece, 
secondo 
l’art. 
572 
c.p.p. 
avrebbe 
potuto 
solo 
chiedere 
al 
pubblico 


giudicata 
ove 
si 
dovesse 
procedere 
ad 
assumere 
la 
testimonianza 
con 
le 
modalità 
ordinarie”. 
Si 
veda, 
in 
senso 
conforme, 
anche 
la 
sentenza 
della 
Corte 
costituzionale 
n. 
14 
del 
14 
gennaio 
2021, 
consultabile 
all’indirizzo: 
https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedapronuncia.do?anno=2021&numero=14. 


(42) Come noto, sulle condizioni di ricevibilità l’art. 35 Cedu prescrive che: 
“1. La 
Corte 
non può essere 
adita 
se 
non dopo l’esaurimento delle 
vie 
di 
ricorso interne, come 
inteso 
secondo i 
principi 
di 
diritto internazionale 
generalmente 
riconosciuti 
ed entro un periodo di 
sei 
mesi 
a 
partire dalla data della decisione interna definitiva. 
2. La Corte non accoglie alcun ricorso inoltrato sulla base dell’articolo 34, se 
(a) è anonimo; oppure 
(b) è 
essenzialmente 
identico a 
uno precedentemente 
esaminato dalla 
Corte 
o già 
sottoposto a 
un’altra 
istanza internazionale d’inchiesta o di risoluzione e non contiene fatti nuovi. 
3. 
La 
Corte 
dichiara 
irricevibile 
ogni 
ricorso 
individuale 
presentato 
ai 
sensi 
dell’articolo 
34 
se 
ritiene 
che: 
(a) 
il 
ricorso 
è 
incompatibile 
con 
le 
disposizioni 
della 
Convenzione 
o 
dei 
suoi 
Protocolli, 
manifestamente 
infondato o abusivo; o 
(b) 
il 
ricorrente 
non 
ha 
subito 
alcun 
pregiudizio 
importante, 
salvo 
che 
il 
rispetto 
dei 
diritti 
dell’uomo 
garantiti 
dalla 
Convenzione 
e 
dai 
suoi 
Protocolli 
esiga 
un 
esame 
del 
ricorso 
nel 
merito 
e 
a 
condizione 
di 
non 
rigettare 
per 
questo 
motivo 
alcun 
caso 
che 
non 
sia 
stato 
debitamente 
esaminato 
da 
un 
tribunale 
interno. 
4. La 
Corte 
respinge 
ogni 
ricorso che 
consideri 
irricevibile 
in applicazione 
del 
presente 
articolo. Essa 
può procedere in tal modo in ogni stato del procedimento”. 
(43) Corte 
Edu j.L. c 
Italia, cit., § 74 e 
Corte 
Edu, vasiliauskas 
v. lituania, ric. n. 35343/05, sentenza 
17 giugno 2009, § 117, consultabile 
in inglese 
all’indirizzo http://hudoc.echr.coe.int/fre?i=001113089. 
Si 
ricorda 
che 
a 
seguito dell’entrata 
in vigore 
del 
Protocollo 15 adottato a 
Strasburgo in data 
24 giugno 
2013, 
il 
termine 
sarà 
ridotto 
a 
4 
mesi. 
In 
particolare, 
lo 
Stato 
italiano 
ha 
depositato 
lo 
strumento 
di 
ratifica 
presso il 
Segretariato Generale 
del 
Consiglio d’Europa 
in data 
21 aprile 
2021, l’ultimo in ordine 
temporale 
ad arrivare 
da 
parte 
delle 
47 Alte 
parti 
contraenti 
della 
Cedu. Il 
Protocollo entrerà 
in vigore 
il 
primo giorno del 
mese 
successivo al 
decorso dei 
tre 
mesi 
dall’ultima 
ratifica, ossia 
il 
primo agosto 
2021. La 
modifica 
del 
termine 
per proporre 
ricorso sarà 
però in vigore 
dopo un periodo transitorio di 
sei 
mesi 
dalla 
data 
di 
entrata 
in vigore 
del 
Protocollo, quindi 
dal 
1° 
febbraio 2022. Il 
protocollo è 
consultabile 
all’indirizzo: 
https://www.echr.coe.int/documents/protocol_15_ita.pdf. 


RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


ministero 
di 
presentare 
ricorso, 
come 
nel 
caso 
di 
specie. 
Dunque, 
ai 
fini 
del 
riconoscimento 
della 
responsabilità 
penale 
degli 
imputati, la 
parte 
civile 
non 
avrebbe 
tratto 
alcuna 
utilità 
dalla 
proposizione 
in 
via 
autonoma 
del 
ricorso, 
dovendo 
quindi 
considerarsi 
esauriti 
i 
rimendi 
interni 
per 
ricorrere 
alla 
stessa 
nel 
momento 
in 
cui 
la 
sentenza 
di 
secondo 
grado 
è 
divenuta 
sul 
punto 
irrevocabile. 
Di 
conseguenza, 
l’eccezione 
sollevata 
dal 
Governo 
è 
stata 
respinta 
(44). 


Anche 
in 
questo 
caso 
la 
Corte 
europea 
ribadisce 
un 
orientamento 
costante 
in 
merito 
all’esaurimento 
delle 
vie 
di 
ricorso 
nazionali. 
Questo 
rappresenta 
un 
requisito 
fondamentale, 
in 
quanto 
costituisce 
un 
aspetto 
del 
principio 
secondo 
il 
quale 
il 
meccanismo di 
salvaguardia, instaurato dalla 
Convenzione 
Edu, assume 
un carattere 
sussidiario rispetto ai 
sistemi 
nazionali 
di 
tutela 
dei 
diritti 
dell’uomo 
(45). 
Tuttavia, 
lo 
stesso 
va 
applicato 
con 
una 
certa 
«souplesse 
et 
sans 
formalisme 
excessif, étant 
donné 
le 
contexte 
de 
la protection des 
droits 
de 
l’homme», 
dando 
così 
rilevanza 
alla 
sostanziale 
utilità, 
effettività 
ed 
accessibilità 
del 
mezzo 
ordinamentale, 
ai 
fini 
della 
tutela 
degli 
interessi 
garantiti 
dalla Cedu (46). 


Successivamente, 
è 
stata 
valutata 
la 
qualità 
di 
vittima 
della 
ricorrente 
(47), 
in 
merito 
alla 
quale 
i 
giudici 
europei 
hanno 
ritenuto 
che 
le 
argomentazioni 
proposte 
dal 
Governo 
attenessero 
essenzialmente 
alla 
questione 
dell’esistenza 
o 
meno 
di 
una 
violazione 
dell’integrità 
personale 
ed 
al 
rispetto 
della 
sua 
vita 
privata, 
rinviando 
quindi 
le 
relative 
valutazioni 
al 
merito 
del 
procedimento 
(48). 


(44) Corte Edu, J.l. c italia, 
cit., §§ 75-87. 
(45) Si 
veda 
principi 
generali 
sul 
previo esaurimento e 
casi 
pratici, consultabile 
e 
scaricabile 
all’indirizzo: 
http://www.unionedirittiumani.it/wp-content/uploads/2015/05/Casi-pratici-esaurimento.doc. 
(46) 
Corte 
Edu, 
Sică 
c. 
roumanie, 
ric. 
12036/05, 
sentenza 
9 
giugno 
2013, 
§ 
47, 
consultabile 
all’indirizzo: 
https://www.doctrine.fr/d/CedH/HFJud/CHamber/2013/CedH001-122171. 
Così 
anche 
Corte 
Edu, 
dinç 
et 
Çakir 
c. 
turquie, 
ric. 
66066/099, 
sentenza 
9 
luglio 
2013; 
Corte 
Edu, 
azinas 
c. 
Chipre, 
ric. 
56679/00, 
sentenza 
28 
aprile 
2004; 
Corte 
Edu, 
Kudła 
c. 
pologne, 
ric. 
30210/96, 
sentenza 
26 
ottobre 
2000; 
Corte 
Edu, 
Fressoz 
et 
roire 
c. 
France, 
ric. 
29183/95, 
sentenza 
21 
gennaio 
1999; 
Corte 
Edu, 
ahmet 
Sadik 
c. 
Grèce, 
ric. 
18877/91, 
sentenza 
15 
novembre 
1996; 
Corte 
Edu, 
ankerl 
c. 
Suisse, 
ric. 
17748/91, 
sentenza 
23 
ottobre 
1996; 
Corte 
Edu, 
akdivar 
et 
autres 
c. 
turquie, 
ric. 
21893/93, 
sentenza 
16 
settembre 
1996; 
Corte 
Edu, 
botten 
c. 
Norvège, 
ric. 
16206/90, 
sentenza 
19 
febbraio 
1996; 
Corte 
Edu, 
Castells 
c. 
espagne 
ric. 
11798/85, 
sentenza 
23 
aprile 
1992; 
Corte 
Edu, 
Cardot 
c. 
France, 
ric. 
11069/84, 
sentenza 
19 
marzo 
1991; 
Corte 
Edu, 
Guzzardi 
c. 
italie, 
ric. 
7367/76, 
sentenza 
6 
novembre 
1980; 
Corte 
Edu, 
van 
oosterwijck 
c. 
belgique, 
ric. 
7654/76, 
sentenza 
6 
novembre 
1980. 
Le 
sentenze 
indicate 
sono 
consultabili 
all’indirizzo: 
https://hudoc.echr.coe.int/. 
Si 
veda 
anche 
zAGREBELSky, 
R. 
ChEnAL, 
L. 
TOMASI, 
manuale 
dei 
diritti 
Fondamentali 
in 
europa, 
Il 
Mulino/Manuali, 
Bologna, 
2016, 
§ 
390; 
v. 
PETRALIA, 
problemi 
sistematici 
nei 
rapporti 
tra 
Corte 
di 
cassazione, 
Corte 
costituzionale 
e 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo, 
consultabile 
all’indirizzo: 
http://www.europeanrights.eu/public/commenti/Commento_petralia.pdf. 
(47) Si 
ricorda 
che 
il 
requisito della 
qualità 
di 
“vittima”, come 
condizione 
necessaria 
per adire 
la 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo, rileva 
solamente 
a 
proposito dei 
ricorsi 
individuali 
previsti 
dall’articolo 
34 Cedu. Per i 
ricorsi 
interstatali, previsti 
dall’articolo 33 della 
Convenzione 
Edu, la 
qualità 
di 
“vittima” 
dello 
Stato 
parte 
ricorrente 
non 
è 
necessaria. 
Per 
un 
approfondimento, 
si 
rinvia 
a 
G. 
RAIMOnDI, 
la 
qualità 
di 
“vittima” 
come 
condizione 
del 
ricorso 
individuale 
alla 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo, 
Università 
di 
Catania 
-Online 
Working 
Paper 
2015/ 
n. 
71, 
consultabile 
all’indirizzo: 
http://www.cde.unict.it/sites/default/files/Quaderno%20europeo_71_2015.pdf. 


COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


Infine, 
non 
ritenendo 
la 
censura 
sollevata 
manifestamente 
infondata 
ai 
sensi 
dell’art. 35, §3 (a) della 
Cedu e 
non rinvenendo ulteriori 
profili 
di 
irricevibilità, 
la Corte Edu ha dichiarato il ricorso ammissibile (49). 


Quanto 
al 
merito 
del 
ricorso, 
i 
giudici 
di 
Strasburgo 
hanno 
preliminarmente 
richiamato 
le 
osservazioni 
delle 
parti 
(50), 
per 
poi 
procedere 
alle 
proprie 
valutazioni. In particolare, queste 
muovono dai 
principi 
precedentemente 
illustrati 
e 
più volte 
espressi 
nella 
propria 
giurisprudenza. Per quanto riguarda 
gli 
obblighi 
positivi 
che 
l’art. 
8 
Cedu 
impone 
agli 
Stati 
membri, 
questi 
si 
estrinsecano 
nell’adottare 
disposizioni 
penali 
che 
perseguano e 
puniscano efficacemente 
qualsiasi 
atto sessuale 
non consensuale, anche 
quando la 
vittima 
non 
abbia 
opposto resistenza 
fisica, e 
nel 
mettere 
in pratica 
tali 
disposizioni 
mediante 
il completamento di indagini e azioni penali efficaci. 


È 
stato altresì 
ribadito che 
si 
tratta 
di 
un’obbligazione 
di 
mezzi 
e 
non di 
risultato. Tuttavia, sebbene 
tale 
requisito non richieda 
che 
tutti 
i 
procedimenti 
penali 
debbano 
concludersi 
con 
una 
condanna 
o 
anche 
con 
l'imposizione 
di 
una 
specifica 
sentenza, 
l'autorità 
giudiziaria 
nazionale 
non 
deve 
in 
nessun 
caso 
essere 
disposta 
a 
lasciare 
impuniti 
i 
reati. Questo anche 
al 
fine 
di 
preservare 
la 
fiducia 
nel 
rispetto 
del 
principio 
di 
legalità 
ed 
evitare 
ogni 
parvenza 
di 
complicità 
o tolleranza 
di 
atti 
illeciti. In tale 
contesto, secondo i 
giudici 
europei, è 
implicito anche un requisito di tempestività e di 
due diligence 
(51). 


Come 
è 
stato 
già 
sottolineato, 
tali 
obblighi 
positivi 
si 
estendono 
anche 
all’interno 
dei 
procedimenti 
penali, nel 
cui 
svolgimento devono essere 
tutelate 
l’integrità 
psico fisica, la 
vita 
privata, l’immagine 
e 
la 
sicurezza 
delle 
vittime, 
specie 
in 
situazioni 
di 
particolare 
vulnerabilità, 
come 
nel 
caso 
di 
procedimenti 
penali 
per reati 
di 
natura 
sessuale. Deve 
essere 
così 
garantita 
un’adeguata 
assistenza 
alle vittime, al fine di evitare una vittimizzazione secondaria (52). 


Una 
volta 
chiarite 
queste 
premesse, 
la 
Corte 
Edu 
ha 
valutato 
nel 
complesso 
la 
condotta 
delle 
autorità 
italiane 
e 
il 
trattamento 
ricevuto 
dalla 
ricorrente. 
È 
stato 
necessario 
cioè 
determinare 
se 
questa 
avesse 
beneficiato 
di 
un’effettiva 
tutela 
dei 
suoi 
diritti 
di 
presunta 
vittima 
e 
se 
il 
meccanismo 
previsto 
dal 
diritto 


(48) Corte Edu, 
j.L. c Italia, cit., §§ 88-90. 
(49) Per una 
disanima 
sui 
requisiti 
di 
ricevibilità, si 
rinvia 
alla 
Guida 
pratica 
alle 
condizioni 
di 
ricevibilità, 
pubblicata 
dalla 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo e 
consultabile 
nella 
traduzione 
a 
cura 
del 
Ministero 
della 
Giustizia 
all’indirizzo 
https://www.echr.coe.int/documents/admissibility_guide_ita.pdf 
e 
per una 
sintesi 
degli 
stessi, L. GALLETTA, Corte 
europea dei 
diritti 
dell’uomo: il 
ricorso individuale. 
Chi 
e 
come 
ha 
diritto 
di 
ricorrere 
alla 
C.e.d.u, 
presupposti 
e 
formalità, 
consultabile 
all’indirizzo: 
https://www.altalex.com/guide/corte-europea-diritti-uomo-ricorso-individuale. 
(50) Corte Edu, j.L. c Italia, cit., §§ 92-116. 
(51) Corte Edu, j.L. c Italia, cit., §§ 117-118. 
(52) 
Corte 
Edu, 
j.L. 
c 
Italia, 
cit., 
§ 
119. 
La 
Corte 
Edu 
indica 
in 
particolare 
i 
precedenti 
Y. 
c. 
Slovenia, 
sopra 
citato, 
§§ 
97 
e 
101, 
a 
e 
b 
c. 
Croazia, 
ric 
n. 
7144/15, 
sentenza 
20 
giugno 
2019, 
§ 
121, 
consultabile 
all’indirizzo: 
https://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%22:[%22001-194217%22]}, 
e 
Corte 
Edu, 
N.Ç. 
contro 
turchia, 
ric. 
n 
40591/11, 
sentenza 
9 
febbraio 
2021, 
§ 
95, 
https://hudoc.echr.coe.int/fre#{%22itemid%22:[%22002-13122%22]}. 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


penale 
italiano 
nella 
fattispecie 
fosse 
stato 
così 
carente 
da 
violare 
gli 
obblighi 
positivi 
incombenti 
allo 
Stato 
convenuto. 
Qui 
i 
giudici 
europei 
hanno 
fatto 
una 
precisazione 
importante, 
chiarendo 
espressamente 
che 
la 
Corte 
Edu 
non 
deve 
andare 
oltre 
tale 
valutazione. 
Questa 
non 
è 
chiamata, 
infatti, 
a 
pronunciarsi 
su 
denunce 
di 
errori 
o 
particolari 
omissioni 
nell'ambito 
delle 
indagini, 
così 
come 
non 
può 
sostituirsi 
alle 
autorità 
nazionali 
nel 
valutare 
i 
fatti 
del 
caso 
né 
può 
pronunciarsi 
sulla 
responsabilità 
penale 
dei 
presunti 
aggressori 
(53). 


In 
merito, 
i 
giudici 
di 
Strasburgo 
hanno 
evidenziato, 
da 
una 
parte, 
la 
completezza 
del 
quadro legislativo italiano (54) e, dall’altro, l’efficienza 
degli 
inquirenti 
nello svolgimento delle 
dovute 
indagini 
e, in seguito, nell’apertura 
di 
un procedimento a carico degli imputati (55). 

In particolare, poi, l’attenzione 
si 
è 
concentrata 
su un elemento più specifico, 
ossia 
le 
circostanze 
in cui 
la 
ricorrente 
è 
stata 
ascoltata 
dagli 
inquirenti 
e le argomentazioni addotte dalla Corte d’Appello nella propria pronuncia. 


Sotto 
il 
primo 
profilo, 
la 
valutazione 
della 
Corte 
Edu 
è 
stata 
essenzialmente 
positiva, 
in 
quanto 
la 
ricorrente 
non 
si 
è 
trovata 
in 
una 
situazione 
di 
particolare 
pericolo o vulnerabilità, non è 
mai 
stata 
a 
contatto diretto con gli 
imputati 
e 
le 
sue 
deposizioni 
sono state 
raccolte 
seguendo procedure 
regolari 
e 
rispettose 
dei 
suoi 
diritti, 
con 
domande 
pertinenti 
e 
puntuali 
rispetto 
alle 
esigenze 
investigative (56). 

Di 
tutt’altro avviso, invece, è 
la 
valutazione 
fatta 
sulla 
decisione 
dei 
giudici 
di 
appello. Anche 
qui, la 
Corte 
Edu ha 
precisato nuovamente 
che 
non può 
sostituirsi 
alle 
autorità 
nazionali 
nella 
valutazione 
dei 
fatti 
del 
caso, essendo 
il 
suo compito quello di 
stabilire 
se 
il 
ragionamento seguito e 
gli 
argomenti 
addotti 
abbiano determinato di 
fatto un ostacolo al 
diritto della 
ricorrente 
al 
rispetto della 
vita 
privata 
e 
dell'integrità 
personale 
e 
se 
abbiano violato gli 
obblighi 
positivi 
insiti 
nell'articolo 
8 
della 
Cedu 
(57). 
Sotto 
questo 
aspetto, 
i 
giudici 
europei 
hanno giudicato come 
inappropriati 
ed ingiustificati 
i 
riferimenti 
alla 
vita 
relazionale 
e 
all’orientamento sessuale 
della 
ricorrente, alla 
sua 
condotta 
e 
persino ai 
suoi 
interessi, così 
come 
sono stati 
considerati 
deplorevoli 
ed irrilevanti 
i 
tentativi 
dei 
giudici 
di 
merito di 
stigmatizzare 
il 
momento di 
fragilità 
della 
ricorrente 
e 
le 
sue 
abitudini 
di 
vita, ritenute 
non convenzionali 
(58). 
Argomentazioni, 
quindi, 
che 
la 
Corte 
europea 
non 
ha 
considerato 
utili 
per 
valutare 
la 
credibilità 
della 
ricorrente 
né 
pertinenti 
né, 
tantomeno, 
decisive 
per giungere ad una sentenza (59). 


(53) Corte Edu, J.l. c. italia, cit., § 122. 
(54) ibid., § 121. 
(55) ibid., §§ 123-124. 
(56) ibid., §§ 126-133. 
(57) ibid., § 135. 
(58) ibid., § 136. 
(59) ibid., § 137. 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


nello specifico, da 
un lato la 
Corte 
di 
Strasburgo ha 
riconosciuto come 
nel 
caso di 
specie 
la 
questione 
della 
credibilità 
della 
ricorrente 
sia 
stata 
particolarmente 
determinante 
e 
potrebbe, quindi, aver giustificato i 
riferimenti 
ai 
suoi 
passati 
rapporti 
con uno o l'altro degli 
imputati 
o ad alcuni 
suoi 
comportamenti 
durante 
la 
serata. Dall’altro lato, invece, non ha 
trovato come 
la 
condizione 
familiare 
della 
ricorrente, 
i 
suoi 
rapporti 
sentimentali, 
i 
suoi 
orientamenti 
sessuali 
o anche 
le 
sue 
scelte 
di 
abbigliamento nonché 
l'oggetto 
delle 
sue 
attività 
artistiche 
e 
culturali 
possano essere 
stati 
rilevanti 
per la 
valutazione 
della 
credibilità 
della 
ragazza 
e 
la 
responsabilità 
penale 
degli 
imputati. 
Pertanto, 
la 
stessa 
ha 
ritenuto 
tali 
ingerenze 
non 
proporzionate 
e 
non 
necessarie 
all’accertamento dei 
fatti 
né 
giustificate 
dalla 
esigenza 
di 
garantire 
i diritti della difesa degli imputati (60). 


Si 
evidenzia 
come 
qui 
la 
Corte 
Edu si 
sia 
pronunciata 
in modo particolarmente 
significativo, sottolineando che 
la 
facoltà 
dei 
giudici 
di 
esprimersi 
liberamente 
nelle 
proprie 
decisioni 
-quale 
manifestazione 
del 
loro potere 
discrezionale 
e 
del 
principio di 
indipendenza 
della 
magistratura 
-è 
tuttavia 
limitata 
dall'obbligo di 
tutela 
dell'immagine 
e 
della 
riservatezza 
dei 
soggetti 
da 
qualsiasi interferenza che sia ingiustificata (61). 


Dopo 
di 
che, 
i 
giudici 
europei 
hanno 
analizzato 
la 
fattispecie 
nel 
contesto 
sociale 
di 
riferimento, ritenendo che 
simili 
espressioni 
non siano state 
occasionali, 
bensì 
abbiano 
riprodotto 
preconcetti 
radicati 
nella 
società 
italiana 
(62). 
I procedimenti 
penali 
e 
le 
conseguenti 
sanzioni 
-ha 
proseguito la 
Corte 
Edu svolgono 
un 
ruolo 
essenziale 
nella 
risposta 
delle 
istituzioni 
alla 
violenza 
e 
alle 
disuguaglianze 
di 
genere. 
Pertanto, 
è 
necessario 
che 
le 
autorità 
giudiziarie 
evitino 
di 
riprodurre 
stereotipi 
sessisti 
nelle 
proprie 
decisioni, 
riducano 
al 
minimo 
la 
violenza 
di 
genere 
e 
l’esposizione 
delle 
donne 
a 
una 
vittimizzazione 
secondaria, 
utilizzando parole 
colpevoli 
e 
moralizzanti 
che 
possano scoraggiare 
la 
fiducia delle vittime nella giustizia (63). 


Di 
conseguenza, pur riconoscendo che 
nel 
caso di 
specie 
le 
autorità 
italiane 
hanno assicurato che 
le 
indagini 
ed il 
procedimento fossero condotti 
nel 
rispetto degli 
obblighi 
positivi 
imposti 
dall’art. 8 Cedu, per i 
giudici 
di 
Strasburgo 
i 
diritti 
e 
gli 
interessi 
della 
ricorrente 
-previsti 
dallo stesso articolo non 
sono stati 
adeguatamente 
garantiti 
dal 
contenuto della 
sentenza. Questa 


(60) ibid., § 138. 
(61) ibid., § 139. non a 
caso nel 
richiamare 
il 
diritto nazionale 
pertinente 
i 
giudici 
europei 
riportano 
anche 
il 
Codice 
deontologico dei 
magistrati 
che 
all’art. 12 prescrive 
che 
“nelle 
motivazioni 
delle 
decisioni 
e 
nello svolgimento delle 
udienze, il 
giudice 
esamina 
i 
fatti 
e 
le 
argomentazioni 
delle 
parti, 
evita 
di 
pronunciarsi 
su fatti 
o persone 
irrilevanti 
per l'oggetto della 
causa, emette 
sentenze 
o considerazioni 
sulla 
capacità 
professionale 
degli 
altri 
magistrati 
e 
difensori 
e 
-se 
non necessario ai 
fini 
della 
decisione 
-sulle 
persone 
coinvolte 
nel 
processo", ibid. § 62. Il 
Codice 
etico dei 
magistrati 
ordinari 
è 
consultabile all’indirizzo: 
https://www.associazionemagistrati.it/codice-etico. 
(62) 
Si 
vedano, 
come 
già 
evidenziato, 
i 
vari 
rapporti 
richiamati 
nella 
sentenza 
della 
Corte 
europea. 
(63) ibid., § 141. 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


rappresenta, 
infatti, 
una 
parte 
del 
procedimento 
penale 
di 
massima 
importanza, 
soprattutto in considerazione della sua natura pubblica (64). 


Pertanto, con cinque 
voti 
a 
favore 
ed uno contrario (65) è 
stata 
respinta 
l’eccezione 
del 
Governo 
relativa 
alla 
mancanza 
dello 
status 
di 
vittima 
della 
ricorrente, concludendo sulla 
sussistenza 
nel 
caso di 
specie 
di 
una 
violazione 
degli obblighi positivi 
ex 
art. 8 Cedu (66). 


Conclusioni. 


La 
sentenza 
oggetto delle 
presenti 
note, da 
un lato, ha 
ribadito principi 
noti 
nella 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
Strasburgo e 
dall’altro si 
caratterizza 
per l’applicazione 
fattane 
all’interno di 
un procedimento penale, arrivando a 
sindacare 
le 
espressioni 
utilizzate 
da 
un 
giudice 
nazionale 
nelle 
argomentazioni 
di una sua decisione. 


L’effettività 
della 
tutela 
garantita 
dalla 
Convenzione 
Edu, infatti, non è 
raggiunta 
dalla 
presenza 
di 
un quadro normativo sufficiente, essendo necessario 
mettere 
in 
pratica 
tali 
disposizioni 
mediante 
il 
completamento 
di 
indagini 
efficaci 
e 
lo svolgimento di 
giusti 
procedimenti, all’interno dei 
quali 
le 
parti, 
specie 
le 
vittime, 
ricevano 
tutela 
e 
assistenza 
adeguata, 
pur 
nel 
rispetto 
del 
principio di difesa (67). 


Tale 
obbligo 
è 
stato 
definito 
inerente 
alla 
funzione 
giurisdizionale 
e 
deriva 
anche 
dal 
diritto 
nazionale, 
che 
la 
Corte 
Edu 
ha 
puntualmente 
richiamato 
(68). 


Sotto questo profilo, i 
giudici 
europei 
hanno delimitato il 
proprio ambito 
di 
competenze 
in 
modo 
piuttosto 
netto 
nel 
precisare 
che 
non 
possono 
sostituirsi 
alle 
autorità 
nazionali 
nella 
valutazione 
dei 
fatti 
del 
caso né 
possono pronunciarsi 
sulla 
responsabilità 
penale 
dei 
presunti 
aggressori, 
essendo 
loro 
compito 
valutare 
se 
nel 
corso del 
procedimento siano stati 
tutelati 
i 
diritti 
garantiti 
dal-
l’art. 8 Cedu e se un’eventuale compromissione sia stata giustificata. 

Tuttavia, 
nell’ambito 
delle 
competenze 
così 
delineate, 
l’importanza 
rivestita 
dalle 
pronunce 
delle 
autorità 
giurisdizionali, 
anche 
per 
la 
loro 
natura 
pubblica, 
ha 
spinto 
la 
Corte 
Edu 
fino 
far 
rientrare 
nell’oggetto 
del 
proprio 
sindacato 
anche 
il 
linguaggio 
in 
esse 
utilizzato. 
Questo 
perché, 
secondo 
la 
stessa, 
la 
facoltà 
dei 
giudici 
di 
esprimersi 
liberamente, 
pur 
rappresentando 
una 


(64) ibid., § 142. 
(65) Per l’opinione dissenziente del Giudice 
Wojtyczet, si rinvia Corte EDU, J.l. c. italia, cit. 
(66) ibid., §§ 142-143. Come 
già 
indicato -vedi 
note 
supra 
-per quanto riguarda 
la 
presunta 
violazione 
dell’art. 14 Cedu in combinato disposto con l’art. 8 Cedu, alla 
luce 
delle 
argomentazioni 
e 
delle 
conclusioni 
fatte 
dalla 
Corte 
Edu 
ai 
sensi 
dell’art. 
8 
Cedu, 
la 
stessa 
non 
ha 
ritenuto 
necessario 
esaminare 
la questione sotto questo ulteriore profilo, ibid., §§ 144-147. 
(67) Cfr. la tutela processuale 
della vittima nel 
diritto dell'unione 
europea, consultabile 
su 
https://temi.camera.it/leg17/post/la_tutela_processuale_della_vittima_nel_diritto_dell_unione_europea.ht 
ml?tema=temi/tutela_delle_vittime_dei_reati, 
L. 
MAGLIARO, 
la 
vittima 
del 
reato 
nel 
processo 
penale, 
https://www.questionegiustizia.it/speciale/articolo/la-vittima-del-reato-nel-processo-penale_113.php. 
(68) ibid., § 139 e 
supra 
nelle presenti note. 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


manifestazione 
del 
loro potere 
discrezionale 
e 
del 
principio di 
indipendenza 
della 
magistratura 
-trova 
comunque 
un limite 
nell’obbligo di 
proteggere 
i 
diritti 
dei soggetti coinvolti da qualsiasi interferenza ingiustificata. 


Si 
tratta, 
anche 
in 
questo 
caso, 
di 
bilanciamenti 
che 
seppur 
difficili 
devono 
essere 
prudentemente 
ponderati 
dalle 
autorità 
italiane 
e, 
fra 
queste, 
per 
i 
giudici 
europei 
le 
autorità 
giurisdizionali 
rivestono un ruolo imprescindibile, nella 
risposta 
istituzionale 
alla 
violenza 
e 
dalla 
discriminazione 
di 
genere. 
Senza 
contare 
che 
ciò 
incide 
su 
un 
altro 
fattore 
determinante, 
cioè, 
sulla 
fiducia 
delle 
vittime nel chiedere protezione (69). 

Questo 
passaggio 
della 
sentenza, 
a 
parere 
della 
scrivente, 
rappresenta 
l’aspetto 
più 
interessante 
da 
un 
punto 
vista 
processuale, 
in 
quanto 
non 
risultano 
alla 
stessa 
precedenti 
nell’applicazione 
del 
divieto di 
vittimizzazione 
secondaria 
con riferimento al 
contenuto argomentativo di 
una 
decisione 
giudiziaria 
(70). Mettendo un limite 
alla 
libertà 
di 
espressione 
del 
giudice 
nazionale, nel-
l’esercizio delle 
proprie 
funzioni, correlato alle 
garanzie 
previste 
dalla 
Convenzione 
Edu, la 
Corte 
europea 
l’attrae 
infatti 
nel 
campo di 
un suo possibile 
sindacato (71). Pertanto, la 
pronuncia 
in oggetto si 
colloca 
in un contesto più 
ampio, relativo ai 
rapporti 
fra 
diversi 
livelli 
di 
tutela 
dei 
diritti 
e 
dei 
confini 
delle rispettive competenze. 


Sarà 
interessante 
vedere 
se 
e 
come 
quanto affermato dai 
giudici 
europei 
sarà sviluppato nelle successive pronunce (72). 


Quanto al 
merito della 
pronuncia, come 
visto la 
Corte 
Edu non solo ha 
stigmatizzato 
le 
espressioni 
colpevolizzanti 
e 
moralizzanti 
utilizzate 
dei 
giudici 
italiani 
(73), 
ma 
le 
ha 
considerate 
espressione 
di 
stereotipi 
radicati 
nella 
cultura 
italiana 
(74). Questo è 
valutato alla 
luce 
dei 
diversi 
rapporti 
delle 
organizzazioni 
internazionali e dell’Istat, riportati nella pronuncia in commento. 

(69) 
L’Istat 
pubblica 
regolarmente 
le 
statistiche 
sulle 
denunce 
e 
le 
condanne 
in 
relazione 
a 
diversi 
reati, per quanto riguarda la violenza sulle donne, cfr. 
https://www.istat.it/it/violenza-sulle-donne. 
(70) 
Come 
già 
sottolineato 
nel 
corso 
delle 
presenti 
note, 
è 
da 
tempo, 
invece, 
che 
il 
concetto 
di 
vittimizzazione 
secondaria 
è 
utilizzato 
dai 
giudici 
europei 
per 
sindacare 
la 
violazione 
dell’art. 
8 
Cedu 
da 
parte 
degli 
Stati 
membri 
nel 
corso 
di 
procedimenti 
nei 
confronti, 
in 
particolare, 
di 
vittime 
specialmente 
vulnerabili. 
(71) In merito, si 
è 
già 
evidenziato come 
la 
Corte 
europea 
richiami 
anche 
lo stesso codice 
deontologico 
nazionale della magistratura, v. supra. 
(72) In merito al 
bilanciamento fra 
libertà 
di 
espressione 
del 
magistrato e 
la 
fiducia 
che 
la 
collettività 
deve 
avere 
nel 
sistema 
giudiziario, elemento che 
nella 
valutazione 
della 
Corte 
europea 
è 
sempre 
stato centrale, si 
veda 
la 
sentenza 
Corte 
Edu, Iv 
Sezione, panioglu v. romania, ric. n. 33794/14, dell’8 
dicembre 
2020, 
consultabile 
all’indirizzo: 
https://hudoc.echr.coe.int/fre#{%22itemid%22:[%22001206352%
22]}. In quel 
caso, la 
Corte 
di 
Strasburgo ha 
ritenuto che 
lo Stato in causa 
non avesse 
violato 
l’articolo 10 della 
Convenzione 
europea, che 
assicura 
il 
diritto alla 
libertà 
di 
espressione, nell’applicare 
una 
sanzione 
disciplinare 
a 
un 
magistrato 
in 
conseguenza 
di 
un 
suo 
duro 
articolo 
di 
stampa 
nei 
confronti 
di 
un altro magistrato. Un altro precedente 
sullo stesso tema 
è 
la 
sentenza, di 
Giovanni 
c. italia, ric. n. 
27510/08 del 
9 luglio 2013, consultabile 
tradotta 
in italiano a 
cura 
del 
Ministero della 
Giustizia 
all’indirizzo 
https://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%22:[%22001-127336%22]}. 
(73) 
Cfr. 
A. 
FORzA, 
G. 
MEnEGOn, 
R. 
RUMIATI, 
il 
giudice 
emotivo. 
la 
decisione 
tra 
ragione 
e 
emozione, 
Il Mulino, 2017. 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


I 
giudici 
europei, 
quindi, 
hanno 
invitato 
le 
autorità 
italiane 
a 
non 
promuovere, 
neppure 
implicitamente, pregiudizi 
di 
genere 
minimizzando le 
violenze 
contro le 
donne 
ed esponendo le 
vittime 
ad episodi 
di 
victim 
blaming, perché 
la 
risposta 
istituzionale 
a 
qualsiasi 
livello deve 
essere 
sempre 
volta 
a 
contrastare 
e 
sradicare 
questa 
cultura. Questo, d’altronde, si 
ribadisce 
essere 
un dovere 
richiesto 
da 
diversi 
documenti 
normativi 
sia 
interni 
sia 
di 
fonte 
internazionale e comunitaria. 


Il 
messaggio della 
Corte 
Edu sul 
punto è 
molto chiaro: 
la 
cd. vittimizzazione 
secondaria 
se 
inserita 
in determinati 
contesti 
non solo lede 
il 
soggetto 
che 
la 
subisce, 
ma 
indirettamente 
ostacola 
a 
livello 
sistematico 
l’effettività 
dei 
diritti 
garantiti 
dalla 
Convezione 
Edu, perché 
da 
un lato mina 
la 
risposta 
istituzionale 
nei 
confronti 
del 
fenomeno e 
dall’altro scoraggia 
le 
vittime 
a 
rivolgersi 
alla giustizia. 

La 
lotta 
alla 
violenza 
ed 
alla 
discriminazione 
di 
genere, 
come 
del 
resto 
numerose 
questioni 
pubbliche, 
passano 
inevitabilmente 
dal 
sostrato 
culturale 
più 


o 
meno 
consolidato 
in 
un 
determinato 
ordinamento 
e 
momento 
storico. 
Senza 
dubbio, 
l’argomento 
rappresenta 
uno 
dei 
temi 
più 
discussi 
nel 
dibattito 
italiano. 
Come 
indicato 
dall’analisi 
dell’Istat 
del 
2018, 
“il 
58,8% 
della 
popolazione 
(di 
18-74 
anni), 
senza 
particolari 
differenze 
tra 
uomini 
e 
donne, 
si 
ritrova 
in 
questi 
stereotipi, 
più 
diffusi 
al 
crescere 
dell’età 
(65,7% 
dei 
60-74enni 
e 
45,3% 
dei 
giovani) 
e 
tra 
i 
meno 
istruiti” 
(75). 
In 
merito 
alla 
violenza 
sessuale, 
il 
documento 
indica 
che 
“persiste 
il 
pregiudizio 
che 
addebita 
alla 
donna 
la 
responsabilità 
della 
violenza 
sessuale 
subita. 
Addirittura 
il 
39,3% 
della 
popolazione 
ritiene 
che 
una 
donna 
è 
in 
grado 
di 
sottrarsi 
a 
un 
rapporto 
sessuale 
se 
davvero 
non 
lo 
vuole. 
Anche 
la 
percentuale 
di 
chi 
pensa 
che 
le 
donne 
possano 
provocare 
la 
violenza 
sessuale 
con 
il 
loro 
modo 
di 
vestire 
è 
elevata 
(23,9%). 
Il 
15,1%, 
inoltre, 
è 
del-
l’opinione 
che 
una 
donna 
che 
subisce 
violenza 
sessuale 
quando 
è 
ubriaca 
o 
sotto 
l’effetto 
di 
droghe 
sia 
almeno 
in 
parte 
responsabile” 
(76). 
Sono dati 
che 
devono far riflettere 
e 
spingere 
le 
autorità 
ad investire 
ancora 
di 
più e 
concretamente 
nella 
prevenzione, nell’istruzione 
e 
nella 
formazione 
a 
tutti 
i 
livelli. Ciò a 
cominciare 
proprio dal 
linguaggio che 
costituisce, 
purtroppo, il primo veicolo di tali stereotipi. 


(74) Oltre 
ai 
rapporti 
internazionali 
indicati 
nel 
testo del 
presente 
lavoro, si 
rinvia 
anche 
alla 
relativa 
indagine 
Istat, 
consultabile 
all’indirizzo: 
https://www.istat.it/it/violenza-sulle-donne/ilfenomeno/
stereotipi. 
(75) Gli 
stereotipi 
sui 
ruoli 
di 
genere 
e 
l’immagine 
sociale 
della 
violenza 
sessuale, Istat, periodo 
di 
riferimento 
2018, 
pubblicazione 
del 
25 
novembre 
2019, 
consultabile 
all’indirizzo: 
https://www.istat.it/it/archivio/235994. 
(76) ibid. 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


Corte 
europea dei 
diritti 
dell'uomo, Prima sezione, sentenza del 
27 maggio 2021 
-ricorso 
n. 5671/16 - Causa J.L contro l'italia. 


Traduzione 
del 
Ministero della Giustizia, Direzione 
Generale 
degli 
Affari 
giuridici 
e 
legali 
(a 
cura 
della 
Sig.ra 
Rita 
Carnevali, 
assistente 
linguistico 
e 
della 
Dott.ssa 
Martina 
Scantamburlo, 
funzionario linguistico). 


art. 8 -obblighi 
positivi 
-«vittimizzazione 
secondaria» di 
una vittima di 
violenza sessuale 
a 
causa 
delle 
affermazioni 
colpevolizzanti, 
moralizzatrici 
e 
veicolanti 
di 
stereotipi 
sessisti 
nelle 
motivazioni 
della sentenza -autorità che 
hanno vigilato sul 
rispetto dell'integrità personale 
della ricorrente durante l'indagine e le udienze del processo. 


(...) 


in dirittO 


i. suLLA dedOttA 
ViOLAziOne deLL’ArtiCOLO 8 deLLA COnVenziOne 
70. La 
ricorrente 
contesta 
alle 
autorità 
nazionali 
di 
non aver protetto il 
suo diritto al 
rispetto 
della 
vita 
privata 
e 
dell’integrità 
personale 
nell’ambito del 
procedimento penale 
condotto nel 
caso di specie. La stessa invoca l’articolo 8 della Convenzione, che recita: 
«1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata (...). 
2. non può esservi 
ingerenza 
di 
una 
autorità 
pubblica 
nell’esercizio di 
tale 
diritto a 
meno che 
tale 
ingerenza 
sia 
prevista 
dalla 
legge 
e 
costituisca 
una 
misura 
che, 
in 
una 
società 
democratica, 
è 
necessaria 
alla 
sicurezza 
nazionale, 
alla 
pubblica 
sicurezza, 
al 
benessere 
economico 
del 
paese, alla 
difesa 
dell’ordine 
e 
alla 
prevenzione 
dei 
reati, alla 
protezione 
della 
salute 
e 
della 
morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui». 
A. sulla ricevibilità 
1. Sulla regola dei sei mesi 
71. Il 
Governo afferma 
che 
la 
ricorrente 
non ha 
presentato il 
suo ricorso entro il 
termine 
di 
sei 
mesi 
a 
decorrere 
dalla 
data 
della 
decisione 
definitiva 
intervenuta 
nell’ambito del 
processo 
di 
esaurimento delle 
vie 
di 
ricorso interne, ossia 
il 
20 luglio 2015, e 
indica, a 
tale 
riguardo, 
che la Corte ha ricevuto il ricorso soltanto il 25 gennaio 2016. 
72. La 
ricorrente 
afferma 
di 
avere 
spedito il 
ricorso entro il 
termine 
di 
sei 
mesi, ossia 
il 
19 
gennaio 2016. 
73. 
La 
Corte 
osserva 
che 
la 
sentenza 
della 
corte 
d’appello 
di 
Firenze 
è 
passata 
in 
giudicato 
il 
20 
luglio 
2015. 
Il 
termine 
di 
sei 
mesi 
di 
cui 
disponeva 
l’interessata 
per 
presentare 
il 
suo 
ricorso 
dinanzi 
alla 
Corte 
ai 
sensi 
dell’articolo 
35 
§§ 
1 
e 
4 
della 
Convenzione 
scadeva 
dunque 
il 
20 
gennaio 
2016. 
Ora, 
la 
busta 
contenente 
il 
ricorso 
è 
stata 
spedita 
il 
19 
gennaio 
2016, 
data 
del 
timbro 
postale. 
74. La 
Corte 
considera 
che 
la 
data 
di 
presentazione 
del 
ricorso sia 
quella 
del 
timbro postale 
(vasiliauskas 
c. 
Lituania 
[GC], 
n. 
35343/05, 
§ 
117, 
CEDU 
2015). 
Di 
conseguenza, 
l’eccezione 
sollevata dal Governo deve essere respinta. 
2. Sull’esaurimento delle vie di ricorso interne 
75. Il 
Governo ritiene 
che 
la 
ricorrente 
non abbia 
esaurito le 
vie 
di 
ricorso interne, e 
spiega 
che 
l’interessata 
non 
ha 
presentato 
ricorso 
per 
cassazione 
avverso 
la 
sentenza 
della 
corte 
d’appello 
di 
Firenze 
e 
non ha 
interposto appello avverso la 
sentenza 
di 
primo grado. Il 
Governo 
sottolinea 
che 
l’articolo 
576 
del 
CPP 
offre 
un 
ricorso 
efficace, 
che 
la 
parte 
civile 
può 
esercitare, 
anche 
in assenza 
di 
un appello presentato dal 
pubblico ministero, per ottenere 
il 
riconoscimento 
di 
un nesso di 
causalità 
tra 
la 
condotta 
dell’autore 
dei 
fatti 
e 
la 
violazione 
dei 
diritti 
civili della vittima. 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


76. Il 
Governo afferma 
che 
ciò è 
dimostrato dal 
fatto che, in varie 
sentenze, la 
Corte 
di 
cassazione 
italiana 
ha 
disposto l’annullamento di 
una 
decisione 
di 
assoluzione 
e 
il 
rinvio della 
causa 
dinanzi 
al 
giudice 
civile 
affinché 
quest’ultimo 
deliberasse 
sulla 
richiesta 
di 
risarcimento 
danni 
della 
parte 
civile. In queste 
circostanze, il 
giudice 
civile 
è 
tenuto ad applicare 
le 
norme 
del 
diritto penale, soprattutto per quanto riguarda 
l’onere 
della 
prova, per determinare 
la 
responsabilità 
dell’autore 
dei 
fatti 
(sentenze 
della 
Corte 
di 
cassazione 
n. 42995 del 
2015 e 
n. 
27045 del 2016). 
77. Il 
Governo conclude 
che 
la 
ricorrente, in tal 
modo, ha 
rinunciato ad avvalersi 
del 
diritto 
che 
le 
offriva 
la 
legislazione 
nazionale 
di 
esercitare 
un tale 
ricorso per riaffermare 
dinanzi 
a 
un giudice la sua versione dei fatti e contestare sia la decisione di assoluzione degli imputati 
che 
le 
motivazioni, comprese 
le 
considerazioni 
inerenti 
alla 
sua 
vita 
privata, sulle 
quali 
era 
fondata. 
78. 
Il 
Governo 
considera, 
inoltre, 
che 
scegliendo 
di 
non 
interporre 
appello 
avverso 
la 
sentenza 
di 
primo grado nella 
parte 
relativa 
all’assoluzione 
degli 
imputati 
per il 
reato di 
violenza 
sessuale 
aggravata, la 
ricorrente 
abbia 
implicitamente 
accettato la 
ricostruzione 
dei 
fatti 
operata 
dai 
giudici. Per quanto riguarda 
la 
domanda 
di 
presentazione 
di 
un ricorso per cassazione 
trasmessa 
dalla 
ricorrente 
al 
pubblico 
ministero 
(paragrafo 
48 
supra), 
il 
Governo 
indica 
che 
quest’ultima 
non è 
stata 
presentata 
nelle 
forme 
previste 
dall’articolo 572 del 
CPP, precisando 
che 
il 
procuratore 
mantiene 
in 
ogni 
caso 
la 
propria 
autonomia 
nel 
decidere 
se 
presentare 
o 
meno un ricorso. 
79. 
La 
ricorrente 
espone, 
da 
parte 
sua, 
che 
solo 
il 
pubblico 
ministero 
può 
presentare 
un 
ricorso 
avverso una 
decisione 
di 
assoluzione 
emessa 
in primo grado o in appello, e 
la 
parte 
civile 
ha 
soltanto 
la 
possibilità, 
ai 
sensi 
dell’articolo 
572 
del 
CPP, 
di 
chiedere 
alla 
procura 
di 
presentare 
tale 
ricorso. Pertanto, trasmettendo alla 
procura 
la 
sua 
memoria, rimasta 
lettera 
morta, il 
13 
luglio 2015, essa 
avrebbe 
fatto ricorso all’ultima 
possibilità 
offerta 
dal 
diritto nazionale 
di 
far 
constatare la responsabilità penale dei suoi aggressori. 
80. 
La 
ricorrente 
afferma 
che 
un 
ricorso 
per 
cassazione 
presentato 
conformemente 
all’articolo 
576 
del 
CPP 
avrebbe 
permesso 
soltanto 
di 
riconoscere 
eventuali 
elementi 
di 
responsabilità 
civile, ma 
non avrebbe 
avuto alcun effetto sull’assoluzione 
degli 
imputati 
per il 
reato di 
cui 
riteneva 
di 
essere 
stata 
vittima, in quanto il 
giudice 
non poteva 
in nessun caso, in assenza 
di 
presentazione 
di 
un ricorso da 
parte 
della 
procura, pronunciarsi 
sugli 
aspetti 
penali 
della 
decisione 
impugnata. A 
tale 
riguardo, la 
ricorrente 
ha 
prodotto delle 
sentenze 
della 
Corte 
di 
cassazione 
da 
cui 
deduce 
che 
un ricorso presentato dalla 
parte 
civile 
avverso una 
decisione 
di 
assoluzione 
deve 
riguardare 
necessariamente 
ed esclusivamente 
la 
responsabilità 
civile 
del-
l’autore 
dei 
fatti, ossia 
le 
richieste 
di 
risarcimento nei 
confronti 
di 
quest’ultimo, cosicché 
un 
ricorso volto a 
ottenere 
che 
sia 
riconosciuta 
la 
responsabilità 
penale 
dell’interessato sarebbe 
inammissibile 
in 
quanto 
contrario 
al 
principio 
dell’intangibilità 
del 
giudicato 
penale 
(sentenze 
della Corte di cassazione n. 41479 del 2011 e n. 23155 del 2012). 
81. 
La 
ricorrente 
afferma, 
inoltre, 
che 
la 
scelta 
del 
pubblico 
ministero 
di 
non 
presentare 
ricorso 
per 
cassazione 
contro 
la 
sentenza 
della 
corte 
d’appello 
di 
Firenze 
l’ha 
privata 
di 
qualsiasi 
possibilità 
di 
ottenere 
che 
fosse 
accertata 
la 
responsabilità 
dei 
suoi 
aggressori 
e, di 
conseguenza, 
che le fosse riconosciuta una riparazione appropriata per quanto da lei denunciato. 
82. La 
Corte 
rammenta 
che 
l'obbligo di 
esaurire 
le 
vie 
di 
ricorso interne, previsto dall'articolo 
35 § 1 della 
Convenzione, riguarda 
le 
vie 
di 
ricorso che 
sono accessibili 
al 
ricorrente 
e 
che 
possono 
porre 
rimedio 
alla 
situazione 
lamentata 
da 
quest'ultimo. 
Questi 
ricorsi 
devono 
esistere 
con 
un 
sufficiente 
grado 
di 
certezza, 
non 
solo 
in 
teoria 
ma 
anche 
nella 
pratica, 
altrimenti 
man

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


cherebbero 
della 
necessaria 
accessibilità 
ed 
effettività; 
spetta 
allo 
Stato 
convenuto 
dimostrare 
che 
questi 
requisiti 
sono soddisfatti 
(si 
veda, tra 
altre, vučković 
e 
altri 
c. Serbia 
(eccezione 
preliminare) [GC], n. 17153/11, §§ 69-77, 25 marzo 2014). 


83. Per potersi 
pronunciare 
sulla 
questione 
se 
la 
ricorrente, nelle 
circostanze 
particolari 
della 
causa, 
abbia 
soddisfatto 
il 
requisito 
dell’esaurimento 
delle 
vie 
di 
ricorso 
interne, 
conviene 
determinare 
anzitutto quale 
sia 
l’azione 
o l’omissione 
delle 
autorità 
dello Stato messo in causa 
che 
l’interessata 
intende 
contestare 
a 
quest’ultimo 
(si 
veda, 
tra 
altre, 
Ciobanu 
c. 
Romania 
(dec.) n. 29053/95, 20 aprile 
1999). La 
Corte 
osserva, a 
tale 
riguardo, che 
la 
doglianza 
della 
ricorrente 
consiste 
nell’affermare 
che 
le 
autorità 
non sono riuscite 
a 
garantire 
la 
protezione 
effettiva 
della 
sua 
autonomia 
sessuale, e 
non hanno adottato misure 
sufficienti 
per proteggere 
il 
suo diritto alla 
vita 
privata 
e 
la 
sua 
integrità 
personale 
nell’ambito del 
procedimento penale 
condotto nel caso di specie. 
84. La 
Corte 
non è 
convinta 
dell’argomentazione 
del 
Governo secondo la 
quale 
la 
ricorrente 
avrebbe 
potuto ottenere 
una 
riparazione 
appropriata 
per quanto da 
lei 
lamentato ricorrendo in 
appello, e 
poi 
in cassazione, conformemente 
all’articolo 576 del 
CPP, per ottenere 
il 
riconoscimento 
della responsabilità civile dei suoi presunti aggressori. 
85. Essa 
rammenta 
che 
gli 
obblighi 
positivi 
che 
incombono agli 
Stati 
membri 
ai 
sensi 
degli 
articoli 
3 e 
8 della 
Convenzione 
impongono l’incriminazione 
e 
la 
repressione 
effettive 
con 
misure 
penali 
di 
qualsiasi 
atto 
sessuale 
non 
consensuale 
(si 
vedano, 
tra 
altre, 
M.C. 
c. 
Bulgaria, 
n. 39272/98, § 166, CEDU 2003‑XII, e 
y. c. Bulgaria, n. 41990/18, § 95, 20 febbraio 2020). 
86. 
Ora, 
la 
Corte 
constata 
che, 
nella 
sua 
qualità 
di 
parte 
civile, 
l’interessata 
poteva 
interporre 
appello 
avverso 
la 
sentenza 
di 
condanna 
di 
primo 
grado 
soltanto 
nella 
parte 
riguardante 
l’azione 
civile. 
Inoltre, 
in 
assenza 
di 
un 
ricorso 
presentato 
dal 
procuratore 
avverso 
la 
sentenza 
della 
corte 
d’appello 
di 
Firenze, 
l’assoluzione 
degli 
imputati 
era 
divenuta 
definitiva 
e, 
pertanto, 
non 
poteva 
essere 
rimessa 
in 
discussione 
in 
virtù 
del 
principio 
dell’intangibilità 
del 
giudicato 
penale. 
87. Di 
conseguenza, qualsiasi 
eventuale 
ricorso presentato dalla 
ricorrente 
in qualità 
di 
parte 
civile 
ai 
sensi 
del 
diritto nazionale 
non avrebbe 
avuto l’effettività 
necessaria. Pertanto, l’eccezione 
di 
mancato 
esaurimento 
delle 
vie 
di 
ricorso 
interne 
sollevata 
dal 
Governo 
deve 
essere 
respinta. 
3. Sulla qualità di vittima della ricorrente 
88. Il 
Governo afferma 
che 
la 
ricorrente 
non ha 
la 
qualità 
di 
vittima, e 
considera 
anzitutto che 
l’interessata 
non 
possa 
lamentare 
una 
violazione, 
nei 
suoi 
confronti, 
dei 
diritti 
riconosciuti 
alle 
vittime 
di 
abusi 
sessuali, in quanto le 
giurisdizioni 
interne 
hanno escluso, con una 
decisione 
divenuta 
definitiva, l’esistenza 
di 
violenza 
sessuale 
nei 
suoi 
confronti. Il 
Governo aggiunge 
che 
le 
autorità 
italiane 
non 
si 
sono 
rese 
responsabili 
verso 
la 
ricorrente 
di 
alcuna 
inosservanza 
degli 
obblighi 
positivi 
derivanti 
dalla 
Convenzione 
e 
volti 
a 
garantire 
la 
protezione 
del 
diritto 
alla 
vita 
privata. 
A 
tale 
riguardo, 
il 
Governo 
rinvia 
alle 
proprie 
argomentazioni 
difensive relative alla fondatezza del ricorso. 
89. La 
ricorrente 
risponde 
affermando che 
il 
fatto che 
gli 
imputati 
non siano stati 
condannati 
all’esito del 
processo durante 
il 
quale 
essa 
ritiene 
che 
siano stati 
violati 
i 
suoi 
diritti 
sanciti 
dagli 
articoli 
8 e 
14 della 
Convenzione 
non può incidere 
sulla 
nozione 
di 
vittima 
ai 
sensi 
del-
l’articolo 34 della Convenzione. 
90. La 
Corte 
constata 
che 
l’eccezione 
relativa 
all’assenza 
della 
qualità 
di 
vittima 
formulata 
dal 
Governo riguarda 
in sostanza 
la 
questione 
dell’esistenza 
o meno di 
un’offesa 
all’integrità 
personale 
della 
ricorrente 
e 
il 
suo diritto al 
rispetto della 
vita 
privata. Pertanto, la 
questione 
sarà esaminata unitamente al merito delle doglianze. 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


4. Conclusione 
91. 
Constatando 
che 
il 
ricorso 
non 
è 
manifestamente 
infondato 
ai 
sensi 
dell’articolo 
35 
§ 
3 
a) 
della 
Convenzione 
e 
non 
incorre 
in 
altri 
motivi 
di 
irricevibilità, 
la 
Corte 
lo 
dichiara 
ricevibile. 
B. sul merito 
1. Osservazioni delle parti 
a) La ricorrente 
92. 
La 
ricorrente 
ritiene 
che 
i 
suoi 
diritti 
di 
vittima 
presunta 
non 
siano 
stati 
sufficientemente 
protetti 
nell’ambito 
del 
procedimento 
per 
violenza 
sessuale 
avviato 
contro 
i 
suoi 
presunti 
aggressori. 
L’interessata 
spiega 
che 
il 
procedimento, 
nel 
complesso, 
è 
stato 
lungo 
e 
penoso. 
Avrebbe 
subìto 
delle 
ingerenze 
continue 
e 
ingiustificate 
nella 
sua 
vita 
privata 
da 
parte 
delle 
autorità, 
quando 
invece 
queste 
ultime, 
a 
suo 
parere, 
erano 
tenute 
a 
proteggerla 
in 
quanto 
donna 
vittima 
di 
violenze 
sessuali 
e, 
pertanto, 
persona 
vulnerabile. 
La 
ricorrente 
ravvisa 
in 
ciò 
una 
violazione, 
da 
parte 
dello 
Stato 
convenuto, 
degli 
obblighi 
positivi 
inerenti 
all’articolo 
8 
della 
Convenzione. 
93. La 
ricorrente 
considera 
che, sotto vari 
aspetti, lo Stato italiano non sia 
riuscito a 
garantire 
delle 
indagini 
e 
un’azione 
penale 
adeguate, 
e 
che, 
in 
tal 
modo, 
sarebbe 
stata 
sottoposta 
a 
varie 
ore 
di 
interrogatorio 
nei 
locali 
della 
polizia 
e 
della 
procura, 
e 
poi 
sentita 
nel 
corso 
delle 
udienze 
pubbliche, durante 
le 
quali 
avrebbe 
dovuto fornire 
dettagli 
sulla 
sua 
vita 
sessuale, familiare 
e 
personale, esponendosi 
al 
giudizio morale 
di 
altri. I suoi 
presunti 
aggressori 
non avrebbero 
dovuto subire lo stesso trattamento. 
94. La 
ricorrente 
afferma, inoltre, che 
la 
corte 
d’appello ha 
deciso di 
assolvere 
gli 
imputati 
basandosi 
su una 
valutazione 
soggettiva 
delle 
sue 
abitudini 
sessuali 
e 
delle 
sue 
scelte 
intime 
e 
personali, 
e 
in 
nessun 
caso 
su 
prove 
oggettive. 
Fa 
riferimento 
alle 
testimonianze 
di 
S.L., 
L.B. 
e 
S.S., 
che 
i 
giudici 
di 
primo 
grado 
avrebbero 
ritenuto 
aver 
fornito 
la 
prova 
incontestabile 
dello stato di 
inferiorità 
fisica 
e 
psicologica 
in cui 
diceva 
di 
essersi 
trovata 
al 
momento dei 
fatti, e 
che 
la 
corte 
d’appello avrebbe 
tuttavia 
ignorato, privilegiando le 
dichiarazioni 
degli 
imputati. 
Secondo 
la 
ricorrente, 
la 
sentenza 
della 
corte 
d’appello 
avrebbe 
rispecchiato 
una 
concezione 
restrittiva 
e 
superata 
della 
nozione 
di 
violenza 
sessuale, in violazione 
dei 
principi 
fissati dalla Corte nella sua sentenza M.C. c. Bulgaria, sopra citata. 
95. La 
ricorrente 
deplora, inoltre, che 
il 
pubblico ministero abbia 
respinto la 
sua 
richiesta 
di 
adire la Corte di cassazione, privandola in tal modo di un’ultima possibilità di beneficiare di 
un 
procedimento 
effettivo, 
e 
che 
l’interrogazione 
parlamentare 
rivolta 
al 
governo 
nel 
2015 
sia rimasta senza risposta. 
96. 
L’interessata 
sostiene 
peraltro 
di 
essere 
stata 
interrogata 
più 
volte 
su 
dettagli 
della 
sua 
vita 
privata 
e 
sessuale 
senza 
alcun rapporto con l’aggressione, ad esempio sulle 
sue 
performance 
artistiche, 
sui 
suoi 
rapporti 
sessuali 
-che 
sarebbe 
stata 
invitata 
a 
descrivere 
nei 
minimi 
dettagli 
-, sulla 
sua 
scelta 
di 
seguire 
un regime 
alimentare 
vegano, e 
anche 
sul 
significato degli 
pseudonimi 
utilizzati 
sui 
social 
network per indicarla. La 
ricorrente 
considera 
che 
tali 
domande 
non mirassero a 
chiarire 
i 
fatti 
ma 
a 
dimostrare 
che 
il 
suo stile 
di 
vita 
e 
i 
suoi 
orientamenti 
sessuali 
erano «anormali», e 
afferma 
che 
i 
giudizi 
di 
valore 
dati 
sulla 
sua 
vita 
privata 
hanno 
avuto un’influenza 
certa 
sull’esito del 
processo, e 
che 
i 
giudici 
hanno scelto di 
condannare 
la 
sua vita privata piuttosto che giudicare i suoi aggressori. 
97. La 
ricorrente 
aggiunge 
che 
durante 
il 
dibattimento il 
presidente 
del 
tribunale 
è 
dovuto intervenire 
molte 
volte 
per 
impedire 
domande 
tendenziose 
e 
per 
permetterle 
di 
riprendersi 
dalle 
sue 
emozioni, 
il 
che 
per 
lei 
costituisce 
una 
prova 
del 
carattere 
penoso 
delle 
sue 
audizioni 
piuttosto 
che 
una 
dimostrazione 
delle 
attenzioni 
che 
le 
autorità 
avrebbero 
avuto 
nei 
suoi 
confronti. 
98. L’interessata 
ritiene 
anche 
che 
le 
autorità 
nazionali 
non abbiano tenuto conto della 
pro

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


fonda 
sofferenza 
che 
affermava 
le 
era 
stata 
causata, che 
non le 
abbiano fornito un sostegno 
psicologico, e 
che 
non abbiano adottato delle 
misure 
idonee 
ad assicurare 
la 
protezione 
della 
sua 
integrità 
personale, 
e 
afferma 
che 
l’unico 
supporto 
psicologico 
di 
cui 
ha 
potuto 
beneficiare 
le 
è 
stato 
fornito 
dal 
centro 
Artemisia, 
specializzato 
nel 
sostegno 
alle 
donne 
vittime 
di 
violenza, 
al quale si era rivolta di sua iniziativa dopo i fatti. 


99. La 
ricorrente 
fa 
riferimento alla 
giurisprudenza 
della 
Corte 
relativa 
alle 
misure 
di 
protezione 
delle 
vittime 
di 
violenza 
sessuale, nonché 
alle 
disposizioni 
della 
Convenzione 
di 
Istanbul, 
che 
condanna 
ogni 
forma 
di 
intimidazione 
e 
di 
vittimizzazione 
secondaria 
nei 
confronti 
delle vittime. 
100. Essa 
lamenta 
che 
i 
giudici 
che 
hanno deliberato sulla 
sua 
causa 
hanno stigmatizzato la 
sua 
vita 
personale, familiare 
e 
sessuale 
per fondare 
le 
loro decisioni, sia 
in primo grado, sia, 
più in particolare, in secondo grado, e 
considera 
che, così 
facendo, tali 
giudici 
non abbiano 
rispettato 
il 
diritto 
nazionale, 
e 
più 
precisamente 
l’articolo 
472, 
comma 
3bis, 
del 
CPP, 
che 
vieta 
qualsiasi 
domanda 
ingiustificata 
sulla 
sessualità 
della 
vittima 
di 
violenze 
sessuali. La 
ricorrente 
lamenta, peraltro, una 
violazione 
del 
suo diritto alla 
riservatezza 
dei 
suoi 
dati 
personali 
nell’ambito del 
processo, che 
è 
stato pubblico e 
ampiamente 
mediatizzato. Per quanto 
riguarda 
la 
facoltà 
che, secondo il 
Governo, la 
ricorrente 
avrebbe 
avuto di 
avvalersi 
dell’articolo 
392 del 
CPP, quest’ultima 
afferma 
che 
la 
possibilità 
per le 
vittime 
vulnerabili 
di 
essere 
sentite 
nell’ambito 
di 
un 
incidente 
probatorio 
è 
stata 
introdotta 
soltanto 
dal 
decreto 
legislativo 
n. 212 del 15 dicembre 2015, entrato in vigore dopo il procedimento in contestazione. 
101. 
In 
generale, 
l’interessata 
critica 
il 
quadro 
legislativo 
e 
istituzionale 
messo 
in 
atto 
in 
Italia 
per 
la 
protezione 
delle 
donne 
contro 
la 
violenza 
di 
genere, 
definendolo 
insufficiente 
sotto 
vari 
punti 
di 
vista 
a 
non conforme 
agli 
obblighi 
derivanti 
dagli 
strumenti 
internazionali 
pertinenti. 
b) il Governo 
102. 
Il 
Governo 
sostiene 
che 
il 
procedimento 
condotto 
dalle 
autorità 
nazionali 
è 
stato 
effettivo 
e 
che 
la 
sua 
durata 
non è 
stata 
eccessiva 
rispetto alla 
complessità 
della 
causa, ed afferma 
che 
la 
procedura 
di 
indagine, che 
è 
durata 
nove 
mesi, è 
stata 
avviata 
rapidamente 
ed è 
stata 
caratterizzata 
da 
un’intensa 
attività. Per quanto riguarda 
il 
procedimento giudiziario, il 
Governo 
considera 
che 
non vi 
sia 
stato alcun rallentamento ingiustificato, e 
fa 
notare 
che 
sono state 
sentite 
molte 
persone, come 
imputati 
o come 
testimoni, e 
che 
molti 
elementi 
di 
prova 
sono 
stati esaminati durante il dibattimento. 
103. Il 
Governo, del 
resto, afferma 
che 
l’effettività 
del 
procedimento è 
dimostrata 
dal 
fatto 
stesso che 
l’indagine 
si 
sia 
chiusa 
con una 
decisione 
di 
rinvio a 
giudizio dei 
sospettati 
e 
che 
sia 
stata 
emessa 
una 
sentenza 
di 
condanna 
in primo grado. L’assoluzione 
pronunciata 
successivamente 
dalla 
corte 
d’appello sarebbe 
soltanto il 
risultato di 
un’analisi 
diversa 
riguardante 
la 
responsabilità 
degli 
imputati, 
che 
sarebbe 
stata 
condotta 
alla 
luce 
di 
tutte 
le 
conclusioni 
dell’indagine 
e 
in applicazione 
della 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
cassazione 
circa 
la 
possibilità 
di 
valutare 
in maniera 
frazionata 
la 
credibilità 
delle 
testimonianze 
nei 
procedimenti 
relativi 
a violenze sessuali. 
104. In queste 
condizioni, il 
Governo considera 
che 
la 
doglianza 
della 
ricorrente 
relativa 
alla 
mancanza 
di 
celerità 
del 
procedimento sia 
generica 
e 
non precisata, e 
aggiunge 
che 
la 
ricorrente 
non 
ha 
suffragato 
nemmeno 
le 
sue 
affermazioni 
secondo 
le 
quali 
le 
modalità 
con 
cui 
sono stati 
condotti 
l’indagine 
e 
il 
processo hanno comportato una 
violazione 
del 
suo diritto 
alla vita privata. 
105. 
Anzitutto, 
il 
Governo 
contesta 
tutti 
i 
riferimenti 
fatti 
dalla 
ricorrente 
ai 
testi 
in 
materia 
di 
protezione 
delle 
vittime 
di 
violenze 
fondate 
sul 
genere 
e 
di 
violenze 
sessuali, 
come 
la 
Conven

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


zione 
di 
Istanbul 
o 
altri 
strumenti 
internazionali, 
che 
ritiene 
non 
pertinenti 
nel 
caso 
di 
specie. 
Il 
Governo 
sottolinea, 
a 
tale 
riguardo, 
che 
la 
qualità 
di 
vittima 
di 
violenze 
sessuali 
non 
è 
stata 
riconosciuta 
alla 
ricorrente 
dalle 
autorità 
giudiziarie 
competenti 
e 
che, 
inoltre, 
l’uso 
di 
violenza 
nei 
suoi 
confronti 
è 
stato 
escluso 
in 
maniera 
definitiva 
fin 
dalla 
sentenza 
di 
primo 
grado. 


106. Inoltre, il 
Governo afferma 
che 
le 
domande 
poste 
alla 
ricorrente 
durante 
l’indagine 
e 
il 
processo non possono essere 
considerate 
un’ingerenza 
sproporzionata 
o ingiustificata 
nella 
sua 
vita 
privata, 
e 
sostiene 
che 
gli 
inquirenti 
hanno 
semplicemente 
risposto 
all’intenzione 
della 
ricorrente 
di 
sporgere 
denuncia 
e 
hanno formulato le 
domande 
necessarie 
alla 
ricostruzione 
dei 
fatti 
da 
lei 
denunciati. 
Il 
Governo 
considera 
che 
le 
autorità 
si 
siano 
limitate 
a 
svolgere 
il 
loro 
ruolo 
di 
inquirenti 
imparziali 
durante 
le 
audizioni 
del 
31 
luglio 
e 
del 
16 
settembre 
2008, 
e 
che 
non abbiano mai 
interferito nella 
vita 
privata 
della 
ricorrente, in quanto hanno semplicemente 
indagato sui fatti evitando qualsiasi giudizio morale. 
107. 
Il 
Governo 
ritiene, 
peraltro, 
che 
il 
procuratore 
e 
il 
presidente 
del 
tribunale 
abbiano 
avuto, 
nel 
corso del 
dibattimento di 
primo grado, un atteggiamento rispettoso, tenendo conto della 
sensibilità 
della 
ricorrente, e 
che 
siano rimasti 
costantemente 
attenti 
al 
suo benessere, anche 
durante 
i 
controinterrogatori 
da 
parte 
degli 
avvocati 
della 
difesa, durante 
i 
quali 
il 
presidente 
sarebbe 
intervenuto 
varie 
volte 
allo 
scopo 
di 
impedire 
qualsiasi 
domanda 
tendenziosa 
e 
di 
permettere 
all’interessata 
di 
ritrovare 
la 
calma. Il 
Governo aggiunge 
che, contrariamente 
alla 
causa 
y. c. Slovenia 
(n. 41107/10, CEDU 
2015 (estratti)), i 
controinterrogatori, nel 
caso di 
specie, 
sarebbero 
stati 
condotti 
dagli 
avvocati 
degli 
imputati, 
in 
quanto 
questi 
ultimi 
non 
hanno 
mai posto le domande direttamente. 
108. In ogni 
caso, il 
Governo considera 
che, conformemente 
all’articolo 392 del 
CPP, la 
ricorrente 
avrebbe 
potuto chiedere 
di 
essere 
sentita 
nell’ambito di 
un incidente 
probatorio organizzato 
nel 
corso delle 
indagini 
preliminari 
e 
di 
evitare 
in tal 
modo di 
essere 
sottoposta 
a 
un controinterrogatorio durante il dibattimento. 
109. Per quanto riguarda 
le 
motivazioni 
della 
sentenza 
della 
corte 
d’appello, il 
Governo afferma 
che 
sono conformi 
alla 
legge 
e 
fondate 
su una 
valutazione 
di 
tutti 
gli 
elementi 
di 
prova 
raccolti 
nel 
corso 
del 
processo. 
Tutti 
gli 
elementi 
inerenti 
alla 
vita 
privata 
della 
ricorrente, 
come 
i 
suoi 
precedenti 
rapporti 
con L.L., la 
sua 
bisessualità 
o la 
descrizione 
della 
biancheria 
intima 
che 
portava 
al 
momento dei 
fatti, sarebbero stati 
citati 
dalla 
corte 
d’appello soltanto 
allo scopo di 
fornire 
la 
descrizione 
più esaustiva 
possibile 
dello svolgimento della 
serata 
del 
25 
luglio 
2008 
e, 
al 
tempo 
stesso, 
di 
evidenziare 
le 
incoerenze 
che 
poteva 
contenere 
la 
versione 
dei 
fatti 
dell’interessata, permettendo in tal 
modo una 
valutazione 
della 
sua 
credibilità. Del 
resto, 
nella 
sua 
sentenza 
di 
assoluzione 
degli 
imputati 
dal 
capo 
di 
accusa 
principale, 
ossia 
quello 
di 
stupro 
commesso 
con 
violenza, 
il 
tribunale 
avrebbe 
già 
rilevato 
tali 
incoerenze. 
non 
interponendo appello avverso questa 
parte 
della 
sentenza, la 
ricorrente 
avrebbe 
perciò rinunciato 
a 
contestare 
le 
conclusioni 
relative 
all’attendibilità 
della 
sua 
versione 
dei 
fatti, 
e 
avrebbe 
implicitamente accettato la presentazione dei fatti fornita dagli imputati. 
110. Il 
Governo afferma 
che 
la 
corte 
d’appello ha 
constatato la 
mancanza 
di 
credibilità 
della 
ricorrente 
basandosi 
su 
vari 
elementi 
oggettivi, 
come 
i 
risultati 
degli 
esami 
scientifici 
eseguiti 
sull’auto 
e 
sui 
vestiti 
dei 
vari 
protagonisti, 
le 
ricerche 
delle 
tracce 
di 
DnA, 
il 
referto 
dell’esame 
ginecologico, l’esame 
dei 
tabulati 
telefonici 
e 
la 
determinazione 
dei 
diversi 
terminali 
attivati, 
e 
dopo avere 
escluso la 
possibilità 
di 
una 
valutazione 
frazionata 
delle 
dichiarazioni 
della 
ricorrente 
alla 
luce 
della 
giurisprudenza 
in 
materia. 
In 
queste 
condizioni, 
il 
Governo 
ritiene 
che 
i 
riferimenti 
fatti 
alla 
personalità 
complessa, disinibita 
e 
creativa 
della 
ricorrente 
fossero volti 
a 
contestualizzare 
le 
argomentazioni 
dell’accusa 
in maniera 
rigorosa, al 
di 
fuori 
di 
qualsiasi 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


giudizio morale 
e 
senza 
che 
si 
possa 
parlare 
di 
una 
ingerenza 
ingiustificata 
nella 
vita 
privata 
dell’interessata. 


111. Il 
Governo considera 
che, alla 
luce 
del 
contesto della 
causa, il 
procuratore 
della 
Repubblica 
abbia 
giustamente 
deciso 
di 
non 
presentare 
ricorso 
per 
cassazione 
contro 
la 
sentenza 
della 
corte 
d’appello, spiegando che 
un tale 
ricorso non avrebbe 
avuto alcuna 
base 
giuridica 
né alcuna possibilità di esito positivo. 
112. Il 
Governo, inoltre, respinge 
tutte 
le 
affermazioni 
secondo le 
quali 
la 
ricorrente 
avrebbe 
subìto 
una 
«vittimizzazione 
secondaria» 
da 
parte 
delle 
autorità 
giudiziarie 
nell’ambito 
del 
processo. La 
semplice 
lettura 
dei 
verbali 
delle 
udienze 
dimostra 
a 
suo parere 
che 
l’approccio 
del 
procuratore 
e 
del 
presidente 
del 
tribunale 
è 
stato caratterizzato da 
sensibilità 
durante 
tutte 
le 
audizioni 
della 
ricorrente 
e 
che 
quest’ultima 
non 
ha 
dovuto 
subire 
inutili 
umiliazioni. 
Il 
Governo considera 
significativo, a 
questo riguardo, il 
fatto che 
la 
ricorrente 
non abbia 
dimostrato, 
né 
dinanzi 
al 
tribunale 
né 
dinanzi 
alla 
corte 
d’appello, il 
danno esistenziale 
e/o fisico 
che affermava di avere subìto. 
113. Il 
Governo aggiunge 
che 
le 
autorità 
giudiziarie 
erano chiamate 
a 
giudicare 
delle 
persone 
imputate 
di 
un grave 
reato, ed erano pertanto tenute 
a 
valutare 
in maniera 
rigorosa 
qualsiasi 
elemento inerente 
alla 
credibilità 
della 
ricorrente 
e 
alla 
condizione 
di 
inferiorità 
fisica 
e 
psicologica 
in cui 
diceva 
di 
essersi 
trovata 
al 
momento dei 
fatti. Il 
rigore 
sarebbe 
stato ancora 
più necessario da 
parte 
dei 
giudici 
d’appello in quanto il 
tribunale 
aveva 
assolto in maniera 
definitiva 
gli 
imputati 
per il 
reato di 
stupro commesso con violenza 
-e 
D.S. da 
tutti 
i 
capi 
di 
imputazione 
-evidenziando le 
incoerenze 
nella 
versione 
dei 
fatti 
della 
ricorrente 
e 
ritenendo 
che sollevassero dubbi sulla sua credibilità. 
114. Il 
Governo si 
riferisce 
a 
questo riguardo al 
dovere 
di 
protezione 
dei 
diritti 
degli 
imputati 
sanciti 
dell’articolo 6 della 
Convenzione 
e 
afferma 
che 
la 
valutazione 
della 
personalità 
di 
un 
testimone 
o di 
una 
vittima 
di 
violenze 
sessuali 
è 
ammessa 
dal 
diritto nazionale 
laddove 
necessaria 
per valutarne la credibilità e la versione dei fatti. 
115. Infine, il 
Governo indica 
che 
la 
ricorrente 
avrebbe 
potuto evitare 
la 
pubblicità 
del 
dibattimento 
chiedendo 
al 
tribunale, 
sulla 
base 
dell’articolo 
472, 
comma 
3bis, 
del 
CPP, 
di 
procedere 
a 
porte 
chiuse, 
e 
ritiene 
che 
l’interessata 
sia 
stata 
adeguatamente 
seguita 
sul 
piano 
psicologico 
per tutta la durata del procedimento. 
116. 
In 
conclusione, 
il 
Governo 
ritiene 
che 
non 
possa 
essere 
rivolta 
alcuna 
critica 
alle 
autorità 
per quanto riguarda 
il 
modo in cui 
il 
procedimento è 
stato complessivamente 
condotto e 
il 
rispetto 
degli obblighi positivi derivanti dall’articolo 8 della Convenzione. 
2. Valutazione della Corte 
117. La 
Corte 
osserva 
che 
l’articolo 8, così 
come 
l’articolo 3, impone 
agli 
Stati 
l’obbligo positivo 
di 
adottare 
delle 
disposizioni 
penali 
che 
incriminino e 
puniscano in maniera 
effettiva 
qualsiasi 
atto sessuale 
non consensuale, anche 
quando la 
vittima 
non ha 
opposto resistenza 
fisica, e 
di 
mettere 
concretamente 
in atto tali 
disposizioni 
mediante 
la 
conduzione 
di 
indagini 
e di procedimenti effettivi (M.C. c. Bulgaria, sopra citata, §§ 153 e 166). 
118. 
Essa 
rammenta, 
inoltre, 
che 
l’obbligo 
positivo 
che 
incombe 
allo 
Stato 
in 
virtù 
dell’articolo 
8 di 
proteggere 
l’integrità 
fisica 
dell’individuo richiede, in casi 
così 
gravi 
come 
la 
violenza 
sessuale, delle 
disposizioni 
penali 
efficaci 
e 
può estendersi, pertanto, alle 
questioni 
inerenti 
all’effettività 
dell’indagine 
penale 
condotta 
ai 
fini 
dell’attuazione 
di 
tali 
disposizioni 
(M.n. 
c. Bulgaria, n. 3832/06, § 40, 27 novembre 
2012). Per quanto riguarda 
l’obbligo di 
condurre 
un’indagine 
effettiva, 
la 
Corte 
rammenta 
che 
si 
tratta 
di 
un 
obbligo 
di 
mezzi 
e 
non 
di 
risultato. 
Anche 
se 
tale 
esigenza 
non impone 
che 
ogni 
procedimento penale 
debba 
chiudersi 
con una 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


condanna, o addirittura 
con la 
pronuncia 
di 
una 
pena 
determinata, gli 
organi 
giudiziari 
non 
devono in ogni 
caso dimostrarsi 
disposti 
a 
lasciare 
impunite 
delle 
violazioni 
dell’integrità 
fisica 
e 
morale 
delle 
persone, per preservare 
la 
fiducia 
del 
cittadino nel 
rispetto del 
principio di 
legalità 
e 
per evitare 
qualsiasi 
parvenza 
di 
complicità 
o di 
tolleranza 
di 
atti 
illegali. Un’esigenza 
di 
celerità 
e 
di 
diligenza 
ragionevole 
è 
ugualmente 
implicita 
in questo contesto. Indipendentemente 
dall’esito 
del 
procedimento, 
i 
meccanismi 
di 
protezione 
previsti 
nel 
diritto 
interno devono funzionare 
in pratica 
entro termini 
ragionevoli 
che 
permettano di 
concludere 
l’esame 
sul 
merito delle 
cause 
concrete 
sottoposte 
alle 
autorità 
(si 
vedano, tra 
altre, M.n. c. 
Bulgaria, sopra citata, §§ 46-49 e n.Ç. c. Turchia, n. 40591/11, § 96, 9 febbraio 2021). 


119. 
Inoltre, 
la 
Corte 
ha 
già 
affermato 
che 
i 
diritti 
delle 
vittime 
di 
reati 
che 
sono 
parti 
in 
un 
procedimento 
penale 
generalmente 
rientrano 
nell’articolo 
8 
della 
Convenzione. 
A 
tale 
riguardo, 
la 
Corte 
rammenta 
che, 
anche 
se 
l’articolo 
8 
ha 
essenzialmente 
lo 
scopo 
di 
premunire 
l’individuo 
contro 
le 
ingerenze 
arbitrarie 
delle 
autorità 
pubbliche, 
esso 
non 
si 
limita 
a 
imporre 
allo 
Stato 
di 
astenersi 
da 
tali 
ingerenze: 
a 
questo 
impegno 
negativo 
possono 
aggiungersi 
degli 
obblighi 
positivi 
inerenti 
a 
un 
rispetto 
effettivo 
della 
vita 
privata 
o 
familiare. 
Tali 
obblighi 
possono 
implicare 
l’adozione 
di 
misure 
che 
mirano 
al 
rispetto 
della 
vita 
privata 
finanche 
nelle 
relazioni 
tra 
gli 
individui 
(X 
e 
y 
c. 
Paesi 
Bassi, 
26 
marzo 
1985, 
§ 
23, 
serie 
A 
n. 
91). 
Di 
conseguenza, 
gli 
Stati 
contraenti 
devono 
organizzare 
la 
loro 
procedura 
penale 
in 
modo 
tale 
da 
non 
mettere 
indebitamente 
in 
pericolo 
la 
vita, 
la 
libertà 
o 
la 
sicurezza 
dei 
testimoni, 
in 
particolare 
quelle 
delle 
vittime 
chiamate 
a 
deporre. 
Gli 
interessi 
della 
difesa 
devono 
dunque 
essere 
bilanciati 
con 
quelli 
dei 
testimoni 
o 
delle 
vittime 
chiamate 
a 
testimoniare 
(Doorson 
c. 
Paesi 
Bassi, 
26 
marzo 
1996, 
§ 
70, 
Recueil 
des 
arrêts 
et 
décisions 
1996‑II). 
Inoltre, 
i 
procedimenti 
penali 
relativi 
a 
reati 
di 
carattere 
sessuale 
sono 
spesso 
vissuti 
come 
una 
prova 
da 
parte 
della 
vittima, 
soprattutto 
quando 
quest’ultima 
viene 
messa 
a 
confronto 
con 
l’imputato 
contro 
la 
sua 
volontà, 
e 
nelle 
cause 
in 
cui 
è 
coinvolto 
un 
minore 
(S.n. 
c. 
Svezia, 
n. 
34209/96, 
§ 
47, 
CEDU 
2002‑v, 
e 
Aigner 
c. 
Austria, 
n. 
28328/03, 
§ 
35, 
10 
maggio 
2012). 
Di 
conseguenza, 
nell'ambito 
di 
procedimenti 
penali 
di 
questo 
tipo, 
possono 
essere 
adottate 
delle 
misure 
di 
protezione 
particolari 
a 
tutela 
delle 
vittime 
(y. 
c. 
Slovenia, 
sopra 
citata, 
§§ 
103 
e 
104). 
Le 
disposizioni 
in 
questione 
implicano 
una 
presa 
in 
carico 
adeguata 
della 
vittima 
durante 
il 
procedimento 
penale, 
allo 
scopo 
di 
proteggerla 
da 
una 
vittimizzazione 
secondaria 
(y. 
c. 
Slovenia, 
sopra 
citata, 
§§ 
97 
e 
101, 
A 
e 
B 
c. 
Croazia, 
n. 
7144/15, 
§ 
121, 
20 
giugno 
2019, 
e 
n.Ç. 
c. 
Turchia, 
sopra 
citata, 
§ 
95). 
120. 
La 
Corte 
osserva 
che 
tutti 
questi 
obblighi 
positivi 
derivano 
anche 
da 
disposizioni 
di 
altri 
strumenti 
internazionali 
(paragrafi 
63, 
64, 
65 
e 
69 
supra). 
La 
Corte 
rammenta 
in 
particolare 
che 
la 
Convenzione 
del 
Consiglio 
d’Europa 
sulla 
prevenzione 
e 
la 
lotta 
contro 
la 
violenza 
nei 
confronti 
delle 
donne 
e 
la 
violenza 
domestica 
impone 
l'obbligo, 
per 
le 
Parti 
contraenti, 
di 
adottare 
le 
misure 
legislative 
e 
di 
altro 
tipo 
necessarie 
per 
proteggere 
i 
diritti 
e 
gli 
interessi 
delle 
vittime, 
in 
particolare 
per 
mettere 
le 
vittime 
al 
riparo 
dai 
rischi 
di 
intimidazione 
e 
di 
nuova 
vittimizzazione, 
per 
permettere 
loro 
di 
essere 
sentite 
e 
di 
presentare 
i 
loro 
punti 
di 
vista, 
le 
loro 
necessità 
e 
le 
loro 
preoccupazioni 
e 
ottenerne 
l'esame, 
e 
infine 
per 
dare 
loro 
la 
possibilità, 
se 
il 
diritto 
interno 
applicabile 
lo 
autorizza, 
di 
testimoniare 
senza 
che 
il 
presunto 
autore 
del 
reato 
sia 
presente. 
Inoltre, 
la 
direttiva 
europea 
del 
25 
ottobre 
2012 
che 
istituisce 
norme 
minime 
in 
materia 
di 
diritti, 
assistenza 
e 
protezione 
delle 
vittime 
di 
reato 
dispone 
che 
le 
vittime 
di 
violenze 
fondate 
sul 
genere 
beneficiano 
di 
misure 
speciali 
di 
protezione 
in 
quanto 
sono 
particolarmente 
esposte 
al 
rischio 
di 
vittimizzazione 
secondaria, 
di 
intimidazione 
e 
di 
ritorsioni. 
121. Passando a 
esaminare 
le 
circostanze 
della 
presente 
causa, la 
Corte 
osserva 
anzitutto che 
il 
diritto italiano sanziona 
penalmente 
la 
violenza 
sessuale, che 
sia 
commessa 
mediante 
vio

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


lenza, minaccia, abuso di 
autorità, o abusando della 
condizione 
di 
inferiorità 
della 
vittima 
o 
con l’inganno. Inoltre, il 
codice 
penale 
prevede 
il 
reato autonomo, punito in maniera 
più severa, 
di 
violenza 
sessuale 
di 
gruppo 
(paragrafi 
52-54 
supra). 
non 
si 
può 
dunque 
attribuire 
allo 
Stato 
italiano 
l'assenza 
di 
un 
quadro 
legislativo 
di 
protezione 
dei 
diritti 
delle 
vittime 
di 
violenze 
sessuali. 


122. 
Pertanto, 
si 
deve 
determinare 
se 
la 
ricorrente 
abbia 
beneficiato 
di 
una 
protezione 
effettiva 
dei 
suoi 
diritti 
di 
vittima 
presunta, e 
se 
il 
meccanismo previsto dal 
diritto penale 
italiano, nel 
caso di 
specie, sia 
stato lacunoso a 
tal 
punto da 
comportare 
una 
violazione 
degli 
obblighi 
positivi 
che 
incombevano 
allo 
Stato 
convenuto. 
La 
Corte 
non 
deve 
andare 
oltre. 
Essa 
non 
è 
chiamata 
a 
pronunciarsi 
su 
presunti 
errori 
od 
omissioni 
particolari 
dell'indagine; 
non 
può 
sostituirsi 
alle 
autorità 
interne 
nella 
valutazione 
dei 
fatti 
di 
causa; 
non può nemmeno decidere 
sulla 
responsabilità 
penale dei presunti aggressori (M.C. c. Bulgaria, sopra citata, § 168). 
123. Per quanto riguarda 
l'effettività 
dell'indagine, la 
Corte 
constata 
anzitutto che 
le 
autorità, 
facendo seguito alla 
segnalazione 
del 
centro antiviolenza 
di 
Careggi, al 
quale 
la 
ricorrente 
si 
era 
rivolta, 
hanno 
avviato 
d'ufficio 
un'indagine 
quattro 
giorni 
dopo 
i 
fatti. 
La 
ricorrente 
è 
stata 
sentita 
senza 
ritardo e 
i 
sette 
uomini 
messi 
in causa 
dalle 
sue 
dichiarazioni 
sono stati 
subito 
sottoposti 
a 
custodia 
cautelare, compreso D.S., la 
cui 
implicazione 
nei 
fatti 
è 
stata 
successivamente 
esclusa 
nel 
corso 
del 
procedimento. 
Si 
è 
poi 
svolta 
una 
procedura 
di 
indagine, 
durata 
nove 
mesi, al 
termine 
della 
quale 
i 
sospettati 
sono stati 
rinviati 
a 
giudizio. In particolare, gli 
inquirenti 
hanno 
organizzato 
una 
procedura 
di 
identificazione 
dei 
sospettati 
ed 
effettuato 
varie 
perizie 
tecniche, soprattutto allo scopo di 
ritrovare 
tracce 
biologiche 
nella 
macchina 
e 
sui 
vestiti 
della 
ricorrente, e 
di 
ricostruire 
i 
suoi 
spostamenti 
e 
quelli 
dei 
sospettati 
per mezzo, tra 
l'altro, dell'esame 
dei 
tabulati 
telefonici 
e 
dei 
terminali 
attivati 
dai 
telefoni 
degli 
interessati 
(paragrafi 
14 e 
15 supra). Successivamente, durante 
il 
dibattimento, sono stati 
sentiti 
molti 
testimoni 
citati 
dalle 
parti, nonché 
alcuni 
periti, i 
sette 
imputati 
e 
la 
ricorrente. Complessivamente, 
il procedimento penale è durato circa sette anni per due gradi di giudizio. 
124. 
Tenuto 
conto 
di 
tutti 
gli 
elementi 
del 
procedimento, 
la 
Corte 
non 
può 
considerare 
che 
le 
autorità 
abbiano 
dimostrato 
passività 
o 
che 
siano 
venute 
meno 
al 
dovere 
di 
diligenza 
e 
alle 
esigenze 
di 
celerità 
richiesti 
nella 
valutazione 
di 
tutte 
le 
circostanze 
della 
causa 
(si 
veda, 
a 
contrario, 
tra 
altre, 
M.n. 
c. 
Bulgaria, 
sopra 
citata, 
§ 
49). 
A 
questo 
proposito, 
la 
Corte 
rammenta 
che 
il 
rispetto 
dell'obbligo 
procedurale 
deve 
essere 
valutato 
sulla 
base 
di 
vari 
parametri 
fondamentali, 
come 
l'avvio 
rapido 
di 
un'indagine 
non 
appena 
i 
fatti 
sono 
stati 
portati 
a 
conoscenza 
delle 
autorità, 
la 
capacità 
dell'indagine 
di 
analizzare 
meticolosamente 
in 
maniera 
obiettiva 
e 
imparziale 
tutti 
gli 
elementi 
pertinenti, 
di 
condurre 
all'accertamento 
dei 
fatti 
e 
di 
permettere 
di 
individuare 
i 
responsabili 
e 
-se 
del 
caso 
-di 
sanzionarli. 
Questi 
parametri 
sono 
tra 
loro 
collegati 
e 
ciascuno 
di 
essi, 
considerato 
separatamente, 
non 
è 
fine 
a 
sé 
stesso. 
Si 
tratta 
di 
criteri 
che, 
considerati 
congiuntamente, 
permettono 
di 
valutare 
il 
livello 
di 
effettività 
dell’indagine 
(S.M. 
c. 
Croazia, 
[GC], 
n. 
60561/14, 
§§ 
312-320, 
25 
giugno 
2020, 
e 
n.Ç. 
c. 
Turchia, 
sopra 
citata, 
§ 
97). 
125. La 
Corte 
osserva, del 
resto, che 
la 
ricorrente 
non sostiene 
che 
la 
gestione 
dell'indagine 
sia 
stata 
caratterizzata 
da 
lacune 
e 
ritardi 
evidenti 
o 
che 
le 
autorità 
abbiano 
omesso 
di 
compiere 
degli 
atti 
istruttori. Ciò che 
afferma 
l'interessata, è 
che 
le 
modalità 
con cui 
sono stati 
condotti 
l'indagine 
e 
il 
processo sono state 
traumatiche 
per lei, e 
che 
l'atteggiamento delle 
autorità 
nei 
suoi 
confronti 
ha 
leso la 
sua 
integrità 
personale. La 
ricorrente 
lamenta, in particolare, le 
condizioni 
in cui 
è 
stata 
interrogata 
per tutta 
la 
durata 
del 
procedimento penale, e 
contesta 
le 
argomentazioni 
sulle 
quali 
si 
sono fondati 
i 
giudici 
per emettere 
le 
loro decisioni 
nel 
caso di 
specie. 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


a) Le audizioni della ricorrente 
126. 
Per 
quanto 
riguarda 
le 
audizioni 
della 
ricorrente, 
la 
Corte 
osserva 
anzitutto 
che 
le 
autorità 
giudiziarie 
si 
trovavano di 
fronte 
a 
due 
versioni 
contraddittorie 
dei 
fatti, e 
che 
gli 
elementi 
di 
prova 
diretti 
di 
cui 
disponevano consistevano in sostanza 
nelle 
dichiarazioni 
fatte 
dalla 
ricorrente 
in qualità 
di 
testimone. Essa 
osserva 
anche 
che 
il 
referto dell'esame 
ginecologico e 
le 
conclusioni 
delle 
numerose 
perizie 
tecniche 
condotte 
dagli 
inquirenti 
avevano 
evidenziato 
varie 
contraddizioni 
nella 
narrazione 
dei 
fatti 
resa 
dalla 
ricorrente 
nella 
sua 
qualità 
di 
testimone 
principale (paragrafi 31-32 supra). 
127. In queste 
condizioni, la 
Corte 
considera 
che 
l’esigenza 
di 
equità 
del 
processo imponesse 
di 
dare 
alla 
difesa 
la 
possibilità 
di 
controinterrogare 
la 
ricorrente 
nella 
sua 
qualità 
di 
principale 
testimone 
a 
carico, 
dato 
che 
quest'ultima 
non 
era 
minorenne 
e 
non 
si 
trovava 
in 
una 
situazione 
di 
vulnerabilità 
particolare 
che 
richiedesse 
misure 
di 
maggiore 
protezione 
(si 
veda, mutatis 
mutandis, B. c. Romania, n. 42390/07, §§ 50 e 
57, 10 gennaio 2012). La 
Corte 
rammenta 
a 
questo 
proposito 
che 
l'esistenza 
di 
due 
versioni 
inconciliabili 
dei 
fatti 
deve 
assolutamente 
condurre 
a 
una 
valutazione 
della 
credibilità 
delle 
dichiarazioni 
ottenute 
dalle 
due 
parti 
alla 
luce 
delle 
circostanze 
del 
caso 
di 
specie, 
che 
devono 
essere 
debitamente 
verificate 
(si 
veda, 
mutatis 
mutandis, M.C. c. Bulgaria, sopra citata, § 177). 
128. Rimane 
comunque 
il 
fatto che 
la 
Corte 
deve 
stabilire 
se 
le 
autorità 
interne 
siano riuscite 
a 
garantire 
un 
giusto 
equilibrio 
tra 
gli 
interessi 
della 
difesa, 
soprattutto 
il 
diritto 
degli 
imputati 
di 
far 
citare 
e 
di 
interrogare 
i 
testimoni 
di 
cui 
all'articolo 
6 
§ 
3, 
e 
i 
diritti 
riconosciuti 
alla 
vittima 
presunta 
dall'articolo 8. Il 
modo in cui 
la 
vittima 
presunta 
di 
reati 
di 
natura 
sessuale 
viene 
interrogata 
deve 
permettere 
di 
garantire 
un giusto equilibrio tra 
l'integrità 
personale 
e 
la 
dignità 
di 
quest'ultima 
e 
i 
diritti 
della 
difesa 
garantiti 
agli 
imputati. 
Anche 
se 
l'imputato 
deve 
potersi 
difendere 
contestando 
la 
credibilità 
della 
vittima 
presunta 
ed 
evidenziando 
eventuali 
incoerenze 
nella 
sua 
deposizione, 
il 
contro 
interrogatorio 
non 
deve 
essere 
utilizzato 
come 
un mezzo per intimidire o umiliare quest'ultima (y. c. Slovenia, sopra citata, § 108). 
129. La 
Corte 
constata 
anzitutto che 
in nessun momento, né 
durante 
le 
indagini 
preliminari 
né 
nel 
corso del 
processo, vi 
è 
stato un confronto diretto tra 
la 
ricorrente 
e 
gli 
autori 
presunti 
delle 
violenze 
che 
essa 
denunciava. Per quanto riguarda 
gli 
interrogatori 
ai 
quali 
la 
ricorrente 
è 
stata 
sottoposta 
durante 
le 
indagini 
preliminari, 
la 
Corte 
osserva 
che 
l'interessata 
è 
stata 
sentita 
dalla 
polizia 
due 
volte, ossia 
il 
30 luglio 2008 a 
Firenze, quando gli 
agenti 
raccolsero le 
sue 
prime 
dichiarazioni 
e 
registrarono la 
sua 
denuncia, e 
il 
31 luglio 2008 a 
Ravenna, città 
nella 
quale 
la 
ricorrente 
si 
trovava 
in vacanza, quando quest'ultima 
fu invitata 
a 
identificare 
i 
sospettati 
per 
mezzo 
di 
fotografie. 
Inoltre, 
il 
16 
settembre 
2008 
l'interessata 
fu 
convocata 
dalla 
procura, che 
la 
interrogò e 
ordinò successivamente 
che 
fossero condotti 
degli 
atti 
di 
indagine 
supplementari. 
130. 
La 
Corte 
ha 
esaminato 
i 
verbali 
delle 
audizioni; 
essa 
non 
ha 
ravvisato 
né 
un 
atteggiamento 
irrispettoso o intimidatorio da 
parte 
delle 
autorità 
di 
indagine, né 
degli 
atti 
volti 
a 
scoraggiare 
la 
ricorrente 
o a 
orientare 
il 
seguito delle 
indagini. La 
Corte 
ritiene 
che 
le 
domande 
poste 
alla 
ricorrente 
fossero 
pertinenti 
e 
mirassero 
a 
ottenere 
una 
ricostruzione 
dei 
fatti 
che 
tenesse 
conto 
delle 
sue 
argomentazioni 
e 
dei 
suoi 
punti 
di 
vista, 
e 
a 
permettere 
di 
costituire 
un 
fascicolo 
istruttorio 
completo 
ai 
fini 
del 
proseguimento 
dell'azione 
giudiziaria. 
Sebbene 
siano 
state 
senz'altro 
dolorose 
per la 
ricorrente, vista 
la 
situazione, non si 
può considerare 
che 
le 
modalità 
delle 
audizioni 
condotte 
durante 
l'indagine 
abbiano esposto l'interessata 
a 
un trauma 
ingiustificato 
o a ingerenze sproporzionate nella sua vita intima e privata. 
131. 
Per 
quanto 
riguarda 
il 
processo, 
la 
ricorrente 
è 
stata 
interrogata 
alle 
udienze 
dell'8 
febbraio 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


e 
del 
13 marzo 2011. La 
Corte 
osserva, a 
questo proposito, che 
quest'ultima 
avrebbe 
potuto 
avvalersi 
dell'articolo 
392 
del 
CPP 
in 
vigore 
all'epoca 
dei 
fatti, 
e 
chiedere 
di 
essere 
interrogata 
nell'ambito di 
un incidente 
probatorio, ossia 
un'udienza 
ad hoc 
tenuta 
in camera 
di 
consiglio 
(paragrafo 
55 
supra). 
Invece, 
poiché 
la 
ricorrente 
non 
era 
minorenne 
e 
non 
aveva 
chiesto 
l'udienza 
a 
porte 
chiuse 
ai 
sensi 
dell'articolo 472 del 
CPP, il 
dibattimento si 
è 
svolto pubblicamente. 
In ogni 
caso, il 
presidente 
del 
tribunale 
ha 
deciso di 
vietare 
ai 
giornalisti 
presenti 
in 
aula 
di 
filmare 
il 
processo, 
soprattutto 
allo 
scopo 
di 
proteggere 
l'intimità 
della 
ricorrente. 
Inoltre, 
è 
intervenuto varie 
volte 
nel 
corso dei 
controinterrogatori 
dell'interessata, interrompendo 
gli 
avvocati 
della 
difesa 
quando 
facevano 
domande 
ridondanti 
o 
di 
natura 
personale, 
o 
quando 
affrontavano argomenti 
senza 
rapporto con i 
fatti. Il 
presidente 
ha 
anche 
ordinato delle 
brevi 
sospensioni di udienza per permettere alla ricorrente di riprendersi dalle sue emozioni. 


132. 
La 
Corte 
non 
dubita 
che 
il 
procedimento, 
nel 
suo 
complesso, 
sia 
stato 
vissuto 
dalla 
ricorrente 
come 
una 
prova 
particolarmente 
penosa, 
tanto 
più 
che 
l'interessata 
ha 
dovuto 
ripetere 
la 
sua 
testimonianza 
molte 
volte, 
e 
soprattutto 
per 
un 
periodo 
superiore 
a 
due 
anni, 
per 
rispondere 
alle 
domande 
poste 
via 
via 
dagli 
inquirenti, 
dalla 
procura 
e 
dagli 
otto 
avvocati 
della 
difesa. 
La 
Corte 
osserva, 
peraltro, 
che 
questi 
ultimi 
non 
hanno 
esitato, 
per 
minare 
la 
credibilità 
della 
ricorrente, 
a 
interrogarla 
su 
questioni 
personali 
relative 
alla 
sua 
vita 
familiare, 
ai 
suoi 
orientamenti 
sessuali 
e 
alle 
sue 
scelte 
intime, 
a 
volte 
senza 
alcun 
rapporto 
con 
i 
fatti, 
il 
che 
è 
decisamente 
contrario 
non 
soltanto 
ai 
principi 
di 
diritto 
internazionale 
in 
materia 
di 
protezione 
dei 
diritti 
delle 
vittime 
di 
violenze 
sessuali, 
ma 
anche 
al 
diritto 
penale 
italiano 
(paragrafo 
57 
supra). 
133. 
Tuttavia, 
tenuto 
conto 
dell'atteggiamento 
adottato 
dal 
pubblico 
ministero 
e 
dal 
presidente 
del 
tribunale, così 
come 
delle 
misure 
adottate 
da 
quest'ultimo per proteggere 
l'intimità 
del-
l'interessata 
allo scopo di 
impedire 
agli 
avvocati 
della 
difesa 
di 
denigrarla 
o di 
turbarla 
inutilmente 
durante 
i 
controinterrogatori, 
la 
Corte 
non 
può 
imputare 
alle 
autorità 
pubbliche 
incaricate 
del 
procedimento 
la 
responsabilità 
della 
prova 
particolarmente 
penosa 
vissuta 
dalla 
ricorrente, né 
considerare 
che 
queste 
ultime 
abbiano omesso di 
vigilare 
a 
che 
l’integrità 
personale 
dell'interessata 
fosse 
adeguatamente 
protetta 
durante 
lo svolgimento del 
processo (a 
contrario, y. c. Slovenia, sopra citata, § 109). 
b) il contenuto delle decisioni giudiziarie 
134. 
La 
Corte 
deve 
ora 
accertare 
se 
il 
contenuto 
delle 
decisioni 
giudiziarie 
adottate 
nell'ambito 
del 
processo della 
ricorrente 
e 
il 
ragionamento su cui 
si 
è 
fondata 
l'assoluzione 
degli 
imputati 
abbiano 
leso 
il 
diritto 
dell'interessata 
al 
rispetto 
della 
sua 
vita 
privata 
e 
alla 
sua 
libertà 
sessuale 
e se l'abbiano esposta a una vittimizzazione secondaria. 
135. 
Per 
quanto 
riguarda 
la 
motivazione 
delle 
decisioni 
giudiziarie, 
la 
Corte 
rammenta 
ancora 
una 
volta 
che 
il 
suo 
ruolo 
non 
è 
quello 
di 
pronunciarsi 
sulle 
deduzioni 
di 
errori 
particolari 
commessi 
dalle 
autorità, né 
quello di 
pronunciarsi 
sulla 
responsabilità 
penale 
dei 
presunti 
aggressori. 
Di 
conseguenza, essa 
non si 
sostituirà 
alle 
autorità 
interne 
nella 
valutazione 
dei 
fatti 
della 
causa. Invece, le 
spetta 
stabilire 
se 
il 
ragionamento seguito dai 
giudici 
e 
gli 
argomenti 
utilizzati 
abbiano o meno costituito un ostacolo al 
diritto della 
ricorrente 
al 
rispetto della 
sua 
vita 
privata 
e 
della 
sua 
integrità 
personale 
e 
se 
ciò abbia 
comportato una 
violazione 
degli 
obblighi 
positivi 
inerenti 
all'articolo 
8 
della 
Convenzione 
(si 
vedano, 
mutatis 
mutandis, 
Sanchez 
Cardenas 
c. norvegia, n. 12148/03, §§ 33-39, 4 ottobre 
2007, e 
Carvalho Pinto de 
Sousa 
Mo-
rais c. Portogallo, n. 17484/15, §§ 33-36, 25 luglio 2017). 
136. Ora, la 
Corte 
ha 
rilevato diversi 
passaggi 
della 
sentenza 
della 
corte 
d'appello di 
Firenze 
che 
evocano la 
vita 
personale 
e 
intima 
della 
ricorrente 
e 
che 
ledono i 
diritti 
di 
quest'ultima 
derivanti 
dall'articolo 
8. 
In 
particolare, 
la 
Corte 
ritiene 
ingiustificati 
i 
riferimenti 
fatti 
dalla 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


corte 
d'appello alla 
biancheria 
intima 
rossa 
«mostrata» dalla 
ricorrente 
nel 
corso della 
serata, 
nonché 
i 
commenti 
concernenti 
la 
bisessualità 
dell'interessata, 
le 
relazioni 
sentimentali 
e 
i 
rapporti 
sessuali 
occasionali 
di 
quest'ultima 
prima 
dei 
fatti 
(paragrafi 
41 e 
42 supra). Analogamente, 
la 
Corte 
ritiene 
inappropriate 
le 
considerazioni 
relative 
all'«atteggiamento ambivalente 
nei 
confronti 
del 
sesso» della 
ricorrente, che 
la 
corte 
d'appello deduce 
tra 
l'altro dalle 
decisioni 
dell'interessata 
in materia 
artistica. Così, la 
corte 
d'appello cita 
tra 
queste 
decisioni 
dubbie 
la 
scelta 
di 
accettare 
di 
partecipare 
al 
cortometraggio 
di 
L.L. 
nonostante 
il 
suo 
carattere 
violento ed esplicitamente 
sessuale 
(paragrafo 46 supra) senza 
tuttavia 
-e 
giustamente 
-che 
il 
fatto di 
aver scritto e 
diretto il 
suddetto cortometraggio sia 
in alcun modo commentato o 
considerato 
rivelatore 
dell'atteggiamento 
di 
L.L. 
nei 
confronti 
del 
sesso. 
Inoltre, 
la 
Corte 
ritiene 
che 
il 
giudizio sulla 
decisione 
della 
ricorrente 
di 
denunciare 
i 
fatti, che 
secondo la 
corte 
d'appello 
sarebbe 
risultato da 
una 
volontà 
di 
«stigmatizzare» e 
di 
rimuovere 
un «momento criticabile 
di 
fragilità 
e 
di 
debolezza», 
così 
come 
il 
riferimento 
alla 
«vita 
non 
lineare» 
dell'interessata (ibidem), siano ugualmente deplorevoli e fuori luogo. 


137. La 
Corte 
ritiene, diversamente 
dal 
Governo, che 
i 
suddetti 
argomenti 
e 
considerazioni 
della 
corte 
d'appello non fossero né 
utili 
per valutare 
la 
credibilità 
della 
ricorrente, questione 
che 
avrebbe 
potuto 
essere 
esaminata 
alla 
luce 
dei 
numerosi 
risultati 
oggettivi 
della 
procedura, 
né 
determinanti 
per 
la 
risoluzione 
del 
caso 
(si 
veda, 
mutatis 
mutandis, 
Sanchez 
Cardenas, 
sopra citata, § 37). 
138. La 
Corte 
riconosce 
che, nella 
fattispecie, la 
questione 
della 
credibilità 
della 
ricorrente 
era 
particolarmente 
cruciale, ed è 
disposta 
ad ammettere 
che 
il 
fatto di 
fare 
riferimento alle 
sue 
relazioni 
passate 
con determinati 
imputati 
o ad alcuni 
suoi 
comportamenti 
nel 
corso della 
serata 
poteva 
essere 
giustificato. Tuttavia, essa 
non vede 
in che 
modo la 
condizione 
familiare 
della 
ricorrente, 
le 
sue 
relazioni 
sentimentali, 
i 
suoi 
orientamenti 
sessuali 
o 
ancora 
le 
sue 
scelte 
di 
abbigliamento nonché 
l'oggetto delle 
sue 
attività 
artistiche 
e 
culturali 
potevano essere 
pertinenti 
per la 
valutazione 
della 
credibilità 
dell'interessata 
e 
della 
responsabilità 
penale 
degli 
imputati. Pertanto, non si 
può ritenere 
che 
le 
suddette 
violazioni 
della 
vita 
privata 
e 
dell'immagine 
della 
ricorrente 
fossero 
giustificate 
dalla 
necessità 
di 
garantire 
i 
diritti 
della 
difesa 
degli imputati. 
139. La 
Corte 
ritiene 
che 
gli 
obblighi 
positivi 
di 
proteggere 
le 
presunte 
vittime 
di 
violenza 
di 
genere 
impongano 
anche 
il 
dovere 
di 
proteggere 
l'immagine, 
la 
dignità 
e 
la 
vita 
privata 
di 
queste 
ultime, 
anche 
attraverso 
la 
non 
divulgazione 
di 
informazioni 
e 
dati 
personali 
senza 
alcun 
rapporto 
con 
i 
fatti. 
Questo 
obbligo 
è, 
peraltro, 
inerente 
alla 
funzione 
giudiziaria 
e 
deriva 
dal 
diritto nazionale 
(paragrafi 
57 e 
62 supra) nonché 
da 
vari 
testi 
internazionali 
(paragrafi 
65, 
68 
e 
69 
supra). 
In 
tal 
senso, 
la 
facoltà 
per 
i 
giudici 
di 
esprimersi 
liberamente 
nelle 
decisioni, 
che 
è 
una 
manifestazione 
del 
potere 
discrezionale 
dei 
magistrati 
e 
del 
principio dell'indipendenza 
della 
giustizia, è 
limitata 
dall'obbligo di 
proteggere 
l'immagine 
e 
la 
vita 
privata 
dei 
singoli 
da ogni violazione ingiustificata. 
140. La 
Corte 
osserva 
peraltro che 
il 
settimo rapporto sull'Italia 
del 
Comitato delle 
nazioni 
Unite 
per 
l'eliminazione 
della 
discriminazione 
nei 
confronti 
delle 
donne 
e 
il 
rapporto 
del 
GREvIO, 
hanno 
constatato 
il 
persistere 
di 
stereotipi 
riguardanti 
il 
ruolo 
delle 
donne 
e 
la 
resistenza 
della 
società 
italiana 
alla 
causa 
della 
parità 
dei 
sessi. Inoltre, sia 
il 
suddetto Comitato delle 
nazioni 
Unite 
che 
il 
GREvIO 
hanno segnalato il 
basso tasso di 
procedimenti 
penali 
e 
di 
condanne 
in Italia, il 
che 
rappresenta 
al 
tempo stesso la 
causa 
di 
una 
mancanza 
di 
fiducia 
delle 
vittime 
nel 
sistema 
giudiziario penale 
e 
la 
ragione 
del 
basso tasso di 
segnalazione 
di 
questo 
tipo di 
delitti 
nel 
paese 
(paragrafi 
64-66 supra). Ora, la 
Corte 
ritiene 
che 
il 
linguaggio e 
gli 
ar

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


gomenti 
utilizzati 
dalla 
corte 
d'appello 
veicolino 
i 
pregiudizi 
sul 
ruolo 
della 
donna 
che 
esistono 
nella 
società 
italiana 
e 
che 
possono ostacolare 
una 
protezione 
effettiva 
dei 
diritti 
delle 
vittime 
di 
violenza 
di 
genere 
nonostante 
un quadro legislativo soddisfacente 
(si 
veda, mutatis 
mutandis, 
Carvalho Pinto de Sousa Morais, sopra citata, § 54). 


141. La 
Corte 
è 
convinta 
che 
le 
azioni 
giudiziarie 
e 
le 
sanzioni 
penali 
svolgano un ruolo cruciale 
nella 
risposta 
istituzionale 
alla 
violenza 
di 
genere 
e 
nella 
lotta 
contro la 
disuguaglianza 
di 
genere. È 
pertanto essenziale 
che 
le 
autorità 
giudiziarie 
evitino di 
riprodurre 
stereotipi 
sessisti 
nelle 
decisioni 
giudiziarie, di 
minimizzare 
la 
violenza 
di 
genere 
e 
di 
esporre 
le 
donne 
a 
una 
vittimizzazione 
secondaria 
utilizzando affermazioni 
colpevolizzanti 
e 
moralizzatrici 
atte 
a scoraggiare la fiducia delle vittime nella giustizia. 
142. Di 
conseguenza, pur riconoscendo che 
le 
autorità 
nazionali 
hanno vigilato nel 
caso di 
specie 
affinché 
l'inchiesta 
e 
il 
dibattimento 
fossero 
condotti 
nel 
rispetto 
degli 
obblighi 
positivi 
derivanti 
dall'articolo 8 della 
Convenzione, la 
Corte 
ritiene 
che 
i 
diritti 
e 
gli 
interessi 
della 
ricorrente 
derivanti 
dall'articolo 
8 
non 
siano 
stati 
adeguatamente 
protetti 
alla 
luce 
del 
contenuto 
della 
sentenza 
della 
corte 
d'appello 
di 
Firenze. 
ne 
consegue 
che 
le 
autorità 
nazionali 
non 
hanno protetto la 
ricorrente 
da 
una 
vittimizzazione 
secondaria 
durante 
tutto il 
procedimento, 
di 
cui 
la 
redazione 
della 
sentenza 
costituisce 
una 
parte 
integrante 
della 
massima 
importanza 
tenuto conto, in particolare, del suo carattere pubblico. 
143. Pertanto, la 
Corte 
respinge 
l'eccezione 
del 
Governo relativa 
alla 
mancanza 
di 
qualità 
di 
vittima 
della 
ricorrente 
e 
conclude 
che, nella 
fattispecie, vi 
è 
stata 
violazione 
degli 
obblighi 
positivi derivanti dall'articolo 8 della Convenzione. 
ii. suLLA dedOttA 
ViOLAziOne deLL’ArtiCOLO 14 deLLA COnVenziOne 
144. La 
ricorrente 
lamenta 
anche 
di 
avere 
subìto una 
discriminazione 
fondata 
sul 
sesso, affermando 
che 
l’assoluzione 
dei 
suoi 
aggressori 
e 
l'atteggiamento negativo delle 
autorità 
nazionali 
durante 
il 
procedimento 
penale 
derivano 
da 
pregiudizi 
sessisti. 
La 
stessa 
invoca 
l'articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con l'articolo 8. 
L'articolo 14 è così formulato: 
«Il 
godimento 
dei 
diritti 
e 
delle 
libertà 
riconosciuti 
nella 
(…) 
Convenzione 
deve 
essere 
assicurato 
senza 
nessuna 
discriminazione, 
in 
particolare 
quelle 
fondate 
sul 
sesso, 
la 
razza, 
il 
colore, 
la 
lingua, 
la 
religione, 
le 
opinioni 
politiche 
o 
quelle 
di 
altro 
genere, 
l’origine 
nazionale 
o 
sociale, 
l’appartenenza 
a 
una 
minoranza 
nazionale, 
la 
ricchezza, 
la 
nascita 
od 
ogni 
altra 
condizione». 
145. 
Invocando, 
in 
particolare, 
la 
risposta 
rapida 
e 
minuziosa 
che 
le 
autorità 
competenti 
avrebbero 
dato 
alla 
denuncia 
dell'interessata 
per 
violenza 
sessuale, 
il 
Governo 
afferma 
che 
quest'ultima 
non è stata vittima di alcun trattamento discriminatorio. 
146. 
La 
Corte 
constata 
che 
questa 
doglianza 
è 
legata 
a 
quella 
sopra 
esaminata, 
e 
deve 
pertanto 
essere dichiarata ricevibile. 
147. Tenuto conto della 
conclusione 
alla 
quale 
è 
giunta 
dal 
punto di 
vista 
dell'articolo 8 e 
del 
ragionamento elaborato a 
tale 
riguardo (paragrafi 
135-143 supra), la 
Corte 
ritiene 
inutile 
esaminare 
la 
questione 
se 
vi 
sia 
stata, nella 
fattispecie, anche 
una 
violazione 
dell'articolo 14 (si 
veda, tra altri precedenti, M.C. c. Bulgaria, sopra citata). 
iii. suLL'APPLiCAziOne deLL'ArtiCOLO 41 deLLA COnVenziOne 
148. Ai sensi dell'articolo 41 della Convenzione, 
«Se 
la 
Corte 
dichiara 
che 
vi 
è 
stata 
violazione 
della 
Convenzione 
o dei 
suoi 
Protocolli 
e 
se 
il 
diritto 
interno 
dell’Alta 
Parte 
contraente 
non 
permette 
se 
non 
in 
modo 
imperfetto 
di 
rimuovere 
le 
conseguenze 
di 
tale 
violazione, la 
Corte 
accorda, se 
del 
caso, un’equa 
soddisfazione 
alla 
parte lesa». 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


A. danno 
149. La 
ricorrente 
chiede 
una 
somma 
di 
80.000 euro (EUR) per il 
danno morale 
che 
ritiene 
di 
avere 
subìto, e 
un’ulteriore 
somma 
di 
30.000 EUR per danno materiale. A 
tale 
riguardo, la 
stessa 
chiede 
in particolare 
il 
rimborso delle 
spese 
mediche 
e 
di 
trasporto che 
avrebbe 
sostenuto 
per 
curare 
i 
disturbi 
psicologici 
che 
afferma 
siano 
risultati 
dai 
fatti 
della 
causa, 
delle 
spese 
universitarie 
che 
avrebbe 
dovuto sostenere 
quando, a 
causa 
delle 
sue 
difficoltà 
psicologiche, 
avrebbe 
perso 
la 
borsa 
di 
studio 
che 
percepiva, 
nonché 
del 
costo 
del 
trasloco 
che 
avrebbe effettuato per allontanarsi dai suoi aggressori. 
150. Il Governo contesta le richieste formulate dalla ricorrente. 
151. 
La 
Corte 
non 
vede 
alcun 
nesso 
di 
causalità 
tra 
la 
violazione 
constatata 
e 
il 
danno 
materiale 
dedotto, e 
respinge 
pertanto la 
domanda 
formulata 
a 
questo titolo. La 
Corte 
ritiene, invece, 
che 
la 
ricorrente 
debba 
aver provato angoscia 
e 
subìto un trauma 
psicologico a 
causa, almeno 
in 
parte, 
delle 
lacune 
della 
mancata 
attuazione 
nei 
suoi 
confronti, 
da 
parte 
delle 
autorità, 
delle 
misure 
di 
protezione 
dei 
diritti 
delle 
vittime 
presunte 
di 
violenze 
sessuali. Deliberando in via 
equitativa, la Corte le accorda la somma di 12.000 EUR per danno morale. 
B. spese 
152. 
La 
ricorrente 
chiede 
la 
somma 
di 
25.600 
EUR 
per 
le 
spese 
che 
afferma 
di 
avere 
sostenuto 
nell'ambito del procedimento condotto dinanzi alla Corte. 
153. 
Il 
Governo 
considera 
che 
la 
ricorrente 
non 
abbia 
dimostrato 
di 
avere 
realmente 
sostenuto 
le spese in questione. 
154. 
Secondo 
la 
giurisprudenza 
della 
Corte, 
un 
ricorrente 
può 
ottenere 
il 
rimborso 
delle 
spese 
sostenute 
solo nella 
misura 
in cui 
ne 
siano accertate 
la 
realtà 
e 
la 
necessità, e 
il 
loro importo 
sia 
ragionevole. 
nella 
fattispecie, 
tenuto 
conto 
dei 
documenti 
in 
suo 
possesso 
e 
dei 
criteri 
sopra 
menzionati, 
la 
Corte 
ritiene 
ragionevole 
accordare 
alla 
ricorrente 
la 
somma 
di 
1.600 
EUR per il procedimento dinanzi ad essa. 
C. interessi moratori 
155. La 
Corte 
ritiene 
opportuno basare 
il 
tasso degli 
interessi 
moratori 
sul 
tasso di 
interesse 
delle 
operazioni 
di 
rifinanziamento marginale 
della 
Banca 
centrale 
europea 
maggiorato di 
tre 
punti percentuali. 
Per Questi MOtiVi LA COrte, 


1. Unisce 
al 
merito, all’unanimità, l’eccezione 
preliminare 
del 
Governo relativa 
alla 
qualità 
di vittima e la respinge; 
2. Dichiara, all’unanimità, il ricorso ricevibile; 
3. Dichiara, con sei 
voti 
contro uno, che 
vi 
è 
stata 
violazione 
dell’articolo 8 della 
Convenzione; 
4. Dichiara, all’unanimità, non doversi 
esaminare 
la 
doglianza 
formulata 
dal 
punto di 
vista 
dell’articolo 14 della Convenzione; 
5. Dichiara, con sei voti contro uno, 
che 
lo Stato convenuto deve 
versare 
alla 
ricorrente, entro tre 
mesi 
a 
decorrere 
dal 
giorno in 
cui 
la 
sentenza 
sarà 
divenuta 
definitiva 
conformemente 
all'articolo 44 § 2 della 
Convenzione, 
le seguenti somme: 
i. 12.000 EUR (dodicimila 
euro), più l’importo eventualmente 
dovuto a 
titolo di 
imposta 
su 
tale somma, per danno morale; 
ii. 
1.600 
EUR 
(milleseicento 
euro), 
più 
l’importo 
eventualmente 
dovuto 
dalla 
ricorrente 
a 
titolo di imposta su tale somma, per le spese; 
che 
a 
decorrere 
dalla 
scadenza 
di 
detto termine 
e 
fino al 
versamento, tali 
importi 
dovranno 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


essere 
maggiorati 
di 
un interesse 
semplice 
ad un tasso equivalente 
a 
quello delle 
operazioni 
di 
rifinanziamento marginale 
della 
Banca 
centrale 
europea 
applicabile 
durante 
quel 
periodo, 
aumentato di tre punti percentuali; 


6. Respinge, all’unanimità, la domanda di equa soddisfazione per il resto. 
Fatta 
in francese, poi 
comunicata 
per iscritto il 
27 maggio 2021, in applicazione 
dell’articolo 
77 §§ 2 e 3 del regolamento. 
Liv Tigerstedt 
Cancelliere aggiunto 

ksenija 
Turković 
Presidente 


Alla 
presente 
sentenza 
è 
allegata, conformemente 
agli 
articoli 
45 § 2 della 
Convenzione 
e 
74 
§ 2 del regolamento, l’esposizione dell’opinione separata del giudice 
Wojtyczek. 
k.T.U. 
L.T. 


OPiniOne dissenziente deL GiudiCe WOJtYCzeK 


1. non posso condividere 
l'opinione 
della 
maggioranza 
secondo cui 
vi 
è 
stata 
violazione 
del-
l'articolo 8 della Convenzione nella presenta causa. 
2. La 
ricorrente 
contesta, in particolare, il 
contenuto delle 
decisioni 
emesse 
nella 
sua 
causa 
dai 
giudici 
nazionali. 
La 
maggioranza 
pone 
questo 
problema 
nel 
modo 
seguente 
nel 
paragrafo 
134 della sentenza: 
«La 
Corte 
deve 
ora 
accertare 
se 
il 
contenuto delle 
decisioni 
giudiziarie 
adottate 
nell'ambito 
del 
processo della 
ricorrente 
e 
il 
ragionamento su cui 
si 
è 
fondata 
l'assoluzione 
degli 
imputati 
abbiano 
leso 
il 
diritto 
dell'interessata 
al 
rispetto 
della 
sua 
vita 
privata 
e 
alla 
sua 
libertà 
sessuale 
e se l'abbiano esposta a una vittimizzazione secondaria». 
Dalla 
motivazione 
della 
presente 
sentenza 
(paragrafi 
135-141) deriva 
che 
il 
contenuto delle 
decisioni 
giudiziarie 
è 
percepito 
-a 
giusto 
titolo 
-come 
un'ingerenza 
nella 
sfera 
della 
vita 
privata 
della 
ricorrente 
protetta 
dall'articolo 
8 
della 
Convenzione. 
Logicamente, 
la 
violazione 
constatata 
dalla 
maggioranza 
avrebbe 
dovuto 
essere 
una 
violazione 
degli 
obblighi 
negativi 
derivanti 
dall'articolo 8 della 
Convenzione. Tuttavia, al 
paragrafo 143 la 
maggioranza 
«conclude 
che 
nella 
fattispecie 
vi 
è 
stata 
violazione 
degli 
obblighi 
positivi 
derivanti 
dall'articolo 8 
della Convenzione» (corsivo aggiunto). È difficile condividere un simile approccio. 
3. La maggioranza esprime nel paragrafo 142 il seguente punto di vista: 
«Di 
conseguenza, 
pur 
riconoscendo 
che 
le 
autorità 
nazionali 
hanno 
vigilato 
nel 
caso 
di 
specie 
affinché 
l'inchiesta 
e 
il 
dibattimento fossero condotti 
nel 
rispetto degli 
obblighi 
positivi 
derivanti 
dall'articolo 8 della 
Convenzione, la 
Corte 
ritiene 
che 
i 
diritti 
e 
gli 
interessi 
della 
ricorrente 
derivanti 
dall'articolo 8 non siano stati 
adeguatamente 
protetti 
alla 
luce 
del 
contenuto 
della 
sentenza 
della 
corte 
d'appello 
di 
Firenze. 
ne 
consegue 
che 
le 
autorità 
nazionali 
non 
hanno protetto la 
ricorrente 
da 
una 
vittimizzazione 
secondaria 
durante 
tutto il 
procedimento, 
di 
cui 
la 
redazione 
della 
sentenza 
costituisce 
una 
parte 
integrante 
della 
massima 
importanza 
tenuto conto, in particolare, del suo carattere pubblico». 
noto 
che 
la 
seconda 
frase 
di 
questo 
paragrafo, 
che 
afferma 
che 
le 
autorità 
nazionali 
non 
hanno 
protetto 
la 
ricorrente 
da 
una 
vittimizzazione 
secondaria 
durante 
tutto 
il 
procedimento, 
è 
in 

RASSEGnA 
AvvOCATURA 
DELLO 
STATO -n. 2/2021 


contraddizione 
logica 
con la 
prima 
frase, che 
dichiara 
che 
le 
autorità 
nazionali 
hanno vigilato 
nel 
caso di 
specie 
affinché 
l'inchiesta 
e 
il 
dibattimento fossero condotti 
nel 
rispetto degli 
obblighi 
positivi derivanti dall'articolo 8 della Convenzione. 


4. 
La 
presente 
causa, 
per 
la 
sua 
stessa 
essenza, 
tocca 
la 
sfera 
di 
vita 
più 
intima 
della 
ricorrente 
e 
degli 
imputati. 
I 
giudici 
nazionali 
dovevano 
stabilire 
circostanze 
fattuali 
di 
grande 
complessità 
che, 
per 
loro 
natura, 
rientrano 
nella 
vita 
privata, 
e 
valutare 
la 
questione 
del 
consenso 
della 
presunta 
vittima. Essi 
dovevano inoltre, e 
in primo luogo, definire 
il 
«perimetro» delle 
circostanze 
pertinenti 
della 
causa. Esercitando il 
proprio potere 
in materia, la 
corte 
d'appello di 
Firenze 
ha 
ritenuto 
che, 
per 
esaminare 
la 
causa 
penale, 
fosse 
indispensabile 
stabilire 
alcuni 
elementi 
fattuali 
appartenenti 
ad un contesto più ampio, che 
comprendeva 
degli 
eventi 
che 
hanno 
preceduto 
o 
fatto 
seguito 
agli 
atti 
in 
questione, 
oggetto 
dei 
capi 
di 
imputazione. 
Inoltre, 
la 
corte 
d'appello 
doveva 
-volens 
nolens 
-valutare 
i 
fatti 
della 
causa 
nel 
loro 
specifico 
contesto 
culturale, quello della società italiana di oggi. 
Occorre 
notare 
che 
la 
corte 
d'appello di 
Firenze, nella 
motivazione 
della 
sua 
sentenza, ha 
iniziato 
l'esame delle questioni giuridiche sollevate in appello con la seguente spiegazione: 
«La 
vicenda 
deve 
essere 
scremata 
innanzitutto dal 
deviante 
contorno inquinato dall'impatto 
emozionale 
e 
mediatico che 
evidentemente 
ha 
connotato i 
fatti 
nell'immediatezza, perché 
nel 
caso 
che 
qui 
occupa, 
al 
di 
là 
di 
giudizi 
moralistici 
o 
pregiudizi 
etici, 
l'unica 
attenzione 
da 
porre, seguendo il 
rigore 
della 
impugnata 
sentenza, è 
quella 
al 
reato contestato ed alla 
sussistenza 
dei suoi connotati essenziali, soggettivi e oggettivi». 
L'approccio 
del 
giudice 
nazionale 
non 
appare 
viziato 
da 
arbitrarietà. 
Le 
affermazioni 
contestate 
devono essere 
lette 
nel 
contesto di 
tutti 
gli 
argomenti 
sui 
quali 
si 
basa 
la 
motivazione 
della 
sentenza 
di 
assoluzione. 
L'approccio 
adottato 
dalla 
maggioranza 
può 
portare 
a 
rimettere 
in 
discussione 
i 
diritti 
della 
difesa, la 
quale 
può avere 
un interesse 
legittimo, in vista 
di 
una 
decisione 
giudiziaria 
favorevole, 
a 
stabilire 
nel 
procedimento 
taluni 
elementi 
fattuali 
molto 
sensibili 
che 
rientrano nella 
vita 
privata, e 
a 
vederli 
confermare 
nella 
motivazione 
della 
sentenza 
emessa. 
5. La 
maggioranza 
rivolge 
il 
seguente 
rimprovero ai 
giudici 
italiani 
(paragrafo 140 della 
sentenza): 
«il 
linguaggio e 
gli 
argomenti 
utilizzati 
dalla 
corte 
d'appello veicolano i 
pregiudizi 
sul 
ruolo della 
donna 
che 
esistono nella 
società 
italiana». Tuttavia, questo rimprovero non è 
suffragato 
da 
alcun 
argomento. 
In 
particolare, 
non 
è 
spiegato 
quali 
pregiudizi 
sul 
ruolo 
della 
donna 
sono veicolati 
dalla 
corte 
d'appello. Constato, peraltro, che 
nella 
presente 
causa 
il 
collegio 
giudicante 
della 
corte 
d'appello 
di 
Firenze 
era 
composto 
da 
tre 
giudici, 
e 
che 
è 
conforme 
ai criteri dell'equilibrio uomo-donna (due donne, tra cui il giudice relatore, e un uomo). 
6. 
La 
maggioranza 
denuncia, 
nel 
paragrafo 
141, 
delle 
«affermazioni 
colpevolizzanti 
e 
moralizzatrici 
atte 
a 
scoraggiare 
la 
fiducia 
delle 
vittime 
nella 
giustizia». 
Questo 
rimprovero 
suscita 
due 
osservazioni. 
In 
primo 
luogo, 
le 
affermazioni 
criticate 
(citate 
nel 
paragrafo 
136, 
ma 
estrapolate 
dal 
loro 
contesto) 
sono 
delle 
proposte 
fattuali 
e 
non 
dei 
giudizi 
di 
valore. 
La 
maggioranza 
non 
spiega 
per 
quali 
ragioni 
queste 
proposte 
fattuali 
siano 
qualificate 
come 
«affermazioni 
colpevolizzanti 
e 
moralizzatrici». 
In 
secondo 
luogo, 
le 
espressioni 
utilizzate 
dalla 
Corte 
costituiscono 
di 
per 
sé 
delle 
«affermazioni 
colpevolizzanti 
e 
moralizzatrici», 
rivolte 
questa 
volta 
ai 
giudici 
italiani. 
Inoltre, 
non 
sono 
idonee 
a 
incoraggiare 
la 
fiducia 
nella 
giustizia. 
7. La 
maggioranza 
esprime 
nel 
paragrafo 141, negli 
obiter dicta, il 
seguente 
punto di 
vista: 
«la 
Corte 
è 
convinta 
che 
le 
azioni 
giudiziarie 
e 
le 
sanzioni 
penali 
svolgano un ruolo cruciale 
nella 
risposta 
istituzionale 
alla 
violenza 
di 
genere 
e 
nella 
lotta 
contro la 
disuguaglianza 
di 
genere
» (corsivo aggiunto). 

COnTEnzIOSO 
COMUnITARIO 
ED 
InTERnAzIOnALE 


In una 
democrazia 
liberale, il 
diritto penale 
deve 
essere 
l'ultima 
ratio Rei 
Publicae 
(si 
veda 
la 
mia 
opinione 
parzialmente 
dissenziente 
allegata 
alla 
sentenza 
L.R. c. Macedonia 
del 
nord, n. 
38067/15, 23 gennaio 2020). Anche 
se 
il 
diritto penale 
è 
uno strumento essenziale 
per lottare 
contro 
la 
violenza, 
non 
bisogna 
sopravvalutare 
il 
suo 
ruolo 
nella 
lotta 
contro 
le 
disuguaglianze. 
nella 
presente 
causa, la 
Corte 
continua 
ad esprimere 
la 
sua 
scelta 
in favore 
di 
una 
cultura 
di 
punizione 
come 
principale 
strumento di 
lotta 
contro le 
diverse 
violazioni 
dei 
diritti 
dell'uomo 
(si 
confronti 
anche 
con 
il 
paragrafo 
20 
dell'opinione 
parzialmente 
dissenziente 
e 
parzialmente 
concordante 
del 
giudice 
koskelo, cui 
aderiscono i 
giudici 
Wojtyczek e 
Sabato, allegata 
alla 
sentenza 
Penati 
c. 
Italia, 
n. 
44166/15, 
11 
maggio 
2021). 
L'approccio 
adottato 
amplifica 
il 
«vento illiberale 
che 
soffia 
a 
Strasburgo», denunciato brillantemente 
dal 
giudice 
Pinto de 
Albuquerque 
nella 
sua 
opinione 
separata 
allegata 
alla 
sentenza 
Chernega 
e 
altri 
c. Ucraina, n. 
74768/10, 18 giugno 2019). 



CONTENZIOSONAZIONALE
L’istituto della fungibilità in materia 
di ingiusta detenzione: tra monetizzazione 
dell’indennizzo e ‘compensazione legale’ 
con la diversa pena (ancora) da espiare 


Nota 
a 
Corte 
di 
appello 
di 
CataNia, SezioNe 
i peNale, ordiNaNza 
31 luglio 
2020, N. 41 


Emanuele Fazio* 

Con l’ordinanza 
in rassegna 
(1) la 
Corte 
etnea 
ha 
fatto innovativa 
applicazione 
dell’istituto della 
“fungibilità” 
di 
cui 
all’art. 314, comma 
4, c.p.p., ritenendo 
di 
potere 
«compensare» 
il 
diritto 
alla 
riparazione 
per 
l’ingiusta 
detenzione 
sofferta 
dal 
ricorrente 
con 
la 
condanna 
della 
reclusione 
e 
della 
multa 
comminata 
in 
relazione 
ad 
un 
altro 
reato; 
condanna 
che, 
al 
momento 
dell’istanza 
di 
riparazione, non era 
ancora 
passata 
in giudicato e 
che, successivamente, 
avrebbe 
visto 
il 
reo 
prosciolto 
in 
Corte 
di 
Cassazione 
con 
sentenza 
dichiarativa della prescrizione. 


Nel 
caso 
di 
specie, 
infatti, 
il 
ricorrente 
aveva 
subito 
ingiustamente 
un 
periodo 
di 
custodia 
cautelare 
in carcere 
per il 
reato di 
cui 
all’art. 416-bis 
c.p., 
contestato tra 
l’8 maggio 2012 e 
il 
7 giugno 2014, senza 
che 
lo stesso, come 
sarebbe 
poi 
risultato 
in 
esito 
al 
procedimento 
di 
riparazione, 
vi 
avesse 
dato 
causa 
per dolo o colpa 
grave 
o per altra 
causa 
(v. art. 314, comma 
1, c.p.p.). 
Tuttavia, il 
21 luglio 2011 -dunque, in data 
anteriore 
alla 
custodia 
cautelare 
patita 
ingiustamente 
(v. art. 657, comma 
4, c.p.p.) -si 
era 
reso responsabile 


(*) 
Dottorando 
di 
ricerca 
in 
diritto 
presso 
la 
Scuola 
Universitaria 
Superiore 
Sant’Anna 
di 
Pisa. 
Ammesso 
alla 
pratica 
forense 
presso l’Avvocatura 
Distrettuale 
dello Stato di 
Catania 
(avv. Stato Domenico Maimone). 


(1) L’ordinanza 
è 
stata 
oggetto di 
ricorso per cassazione, iscritto al 
n. 28360/2020 R.G. (sez. IV 
penale), udienza camerale del 12 novembre 2021. 

RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 2/2021 


del 
delitto 
di 
cui 
all’art. 
256 
d.lgs. 
152/2006, 
in 
relazione 
all’art. 
6 
della 
Legge 
210 del 
2008 (2). Dunque, aveva 
subito un’ingiusta 
detenzione 
per un fatto 
successivo alla 
commissione 
del 
predetto e 
distinto reato, maturando una 
restitutio 
in integrum 
della 
sua 
libertà 
personale 
pari 
ad anni 
2, mesi 
1 e 
giorni 
4, successiva 
alla 
diversa 
pretesa 
punitiva 
dello Stato pari 
ad anni 
2, mesi 
6 di 
reclusione 
e 
€ 2.500,00 di 
multa. In riferimento a 
quest’ultima, come 
già 
riferito, 
il 
reo 
era 
stato 
dapprima 
condannato 
in 
secondo 
grado 
con 
la 
sentenza 
del 
15 
marzo 
2019 
resa 
dalla 
Corte 
d’Appello 
di 
Catania 
e, 
in 
un 
secondo 
momento, 
prosciolto dalla 
Corte 
di 
Cassazione 
con la 
sentenza 
del 
14 novembre 
2019, che aveva dichiarato estinto il reato per prescrizione. 

Secondo quanto indicato dall’art. 314, comma 
4, e 
dall’art. 657 c.p.p., ai 
fini 
della 
determinazione 
della 
pena 
da 
eseguire 
vanno «computati» anche 
i 
periodi 
di 
custodia 
cautelare 
relativi 
ad 
altri 
fatti 
per 
i 
quali 
il 
condannato 
abbia 
già 
ottenuto il 
riconoscimento del 
diritto alla 
riparazione 
per ingiusta 
detenzione, 
stante 
l’inderogabilità 
della 
disciplina 
in 
materia 
e 
dovendosi 
escludere 
l'esistenza 
di 
una 
facoltà 
di 
scelta, da 
parte 
dell'interessato, tra 
il 
ristoro pecuniario 
di 
cui 
alla 
citata 
disposizione 
e 
lo scomputo della 
custodia 
cautelare 
ingiustamente 
sofferta 
dalla 
pena 
da 
espiare 
(Cass. 
Sez. 
Un. 
n. 
31416 
del 
2008). 


Il 
criterio di 
fungibilità 
così 
previsto dall'art. 314, comma 
4, c.p.p., improntato 
al 
favor 
libertatis, 
configura 
cioè, 
in 
combinato 
disposto 
con 
l’art. 
657 
c.p.p., 
una 
«riparazione 
in 
forma 
specifica» 
per 
l'ingiusta 
privazione 
della 
libertà 
personale 
con carattere 
di 
inderogabile 
prevalenza 
rispetto alla 
monetizzazione 
di 
cui 
al 
medesimo art. 314, introducendo una 
forma 
di 
«compensazione
» 
della 
pena 
da 
scontare 
con 
il 
periodo 
di 
detenzione 
ingiustamente 
subito, 
secondo 
un 
meccanismo 
che 
è 
stato 
ritenuto 
compatibile 
con 
l'art. 
5 
della 
CEDU 
e 
con l'art. 6 della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
dell’Unione 
europea 
(Cass. Sez. III n. 43453 del 2014). 


Come 
ritenuto 
nell’ordinanza 
in 
esame, 
il 
fenomeno 
compensativo 
in 
forma 
specifica 
di 
cui 
trattasi 
si 
distingue 
dalla 
«compensazione» civilistica 
di 
cui 
agli 
artt. 1241 e 
ss. c.c. in quanto non opera 
tra 
due 
diritti 
relativi, per i 
quali 
è 
necessario accertare 
i 
requisiti 
della 
certezza, della 
liquidità 
e 
dell’esigibilità 
dei 
crediti 
(Cass. Sez. Un. n. 23225 del 
2016), bensì 
ha 
per oggetto, 
da 
un 
lato, 
il 
diritto 
assoluto 
della 
libertà 
personale 
dell’individuo 
e, 
dall’altro, 
la pretesa punitiva dello Stato-Autorità. 

Sebbene 
in 
passato 
la 
giurisprudenza, 
in 
mancanza 
di 
una 
norma 
che 
prevedesse 
la 
fungibilità 
della 
pena 
sofferta 
sine 
titulo, avesse 
fatto riferimento 
alle 
norme 
del 
Codice 
Civile 
relative 
alla 
«compensazione», 
quale 
modo 
di 
estinzione 
dell’obbligazione 
diverso dall’adempimento, e 
a 
quelle 
sull’impu


(2) Vedasi 
DPCM 
del 
9 luglio 2010 con cui 
è 
stato dichiarato fino al 
31 dicembre 
2012, ai 
sensi 
e 
per gli 
effetti 
dell’art. 5, comma 
I, della 
Legge 
225 del 
1992, lo stato di 
emergenza 
in materia 
di 
gestione 
dei rifiuti urbani, speciali e speciali pericolosi nel territorio della Regione Siciliana. 

CoNTENzIoSo 
NAzIoNALE 


tazione 
di 
pagamento (art. 1241 e 
ss. e 
art. 1193 c.c.), con la 
Legge 
517 del 
1955 
venne 
codificato 
il 
principio 
della 
fungibilità 
delle 
pene, 
modificando 
l’ultimo 
comma 
dell’art. 
271 
dell’abrogato 
codice 
del 
1930, 
principio 
oggi 
confermato dall’art. 657 del vigente codice di procedura penale (3). 

È 
proprio 
rispetto 
a 
quanto 
previsto 
dall’art. 
657 
c.p.p. 
che 
la 
Corte 
di 
Appello di 
Catania 
appare 
particolarmente 
innovativa 
nell’applicazione 
del-
l’istituto 
della 
fungibilità, 
rimarcando 
le 
differenze 
tra 
il 
predetto 
istituto 
di 
diritto 
processuale 
penale 
e 
la 
«compensazione 
legale» 
civilistica 
e 
richiedendo, 
quale 
unica 
condizione 
per attivare 
la 
riparazione 
in forma 
specifica 
dell’ingiusta 
detenzione 
patita, che 
il 
reato per il 
quale 
deve 
essere 
scontata 
la 
pena 
sia 
stato commesso prima 
della 
custodia 
cautelare 
subita 
ingiustamente 
(cfr. Cass. Sez. I, n. 2036 del 
1999; 
Cass. Sez. I, n. 876 del 
1994; 
Cass. Sez. I, 


n. 1450 del 1993; Cass. Sez. I, n. 2349 del 1992). 
Trattandosi, 
ad 
avviso 
della 
Corte 
territoriale 
etnea, 
di 
un 
fenomeno 
compensativo 
che 
avviene 
tra 
due 
diritti 
assoluti 
aventi 
per 
oggetto 
la 
libertà 
personale, 
«non 
siamo 
dinanzi 
a 
una 
statuizione 
costitutiva, 
ma 
innanzi 
a 
una 
statuizione 
dichiarativa 
che 
interviene 
ora 
per 
allora. 
il 
legislatore 
(art. 
314, 
comma 
iV, 
c.p.p.), 
infatti, 
esclude 
il 
diritto 
alla 
riparazione 
[monetaria] 
quando 
l’ingiusta 
detenzione 
patita 
può 
essere 
computata 
con 
la 
determinazione 
della 
misura 
di 
una 
pena, 
pretendendo 
soltanto 
che, 
al 
momento 
della 
maturazione 
del 
diritto 
alla 
restitutio 
in 
integrum 
[il 
diritto 
alla 
riparazione 
per 
l’ingiusta 
detenzione] 
il 
richiedente 
sia 
in 
debito 
verso 
lo 
Stato 
con 
la 
sua 
libertà 
personale 
con 
una 
pena 
già 
determinata 
e 
non 
ancora 
estinta 
per 
prescrizione» 
(4). 


Conseguentemente, 
la 
sentenza 
del 
14 
novembre 
2019 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
che 
ha 
dichiarato 
estinto 
per 
prescrizione 
il 
reato 
anteriormente 
commesso 
non 
rileva, 
secondo 
la 
Corte 
territoriale, 
ad 
escludere 
l’applicazione 
dell’istituto 
della 
fungibilità 
perché 
il 
fenomeno 
compensativo 
ha 
già 
spiegato 
i 
suoi 
effetti. 
In 
altri 
termini, 
gli 
unici 
momenti 
che 
rilevano 
per 
la 
realizzazione 
dell’effetto 
estintivo 
reciproco 
sono 
la 
maturazione 
del 
diritto 
alla 
restitutio 
in 
integrum 
(16 
ottobre 
2018, 
data 
nella 
quale 
è 
divenuta 
irrevocabile 
la 
sentenza 
di 
assoluzione 
per 
il 
delitto 
di 
cui 
all’art. 
416-bis 
c.p.) 
e 
la 
determinazione 
della 
misura 
della 
pena 
per 
l’altro 
reato 
(15 
marzo 
2019, 
data 
della 
sentenza 
di 
condanna 
in 
appello 
per 
il 
distinto 
reato 
di 
cui 
all’art. 
256 
d.lgs. 
n. 
152/2006). 


Ad 
avviso 
della 
Corte 
di 
Appello 
di 
Catania, 
ed 
è 
questo 
il 
punto 
decisivo 
della 
motivazione, operando l’istituto della 
fungibilità 
automaticamente, cioè 
senza 
necessità 
di 
istanza 
di 
parte 
(Cass. Sez. I n. 47001 del 
2007), allorché 
le 


(3) 
Cfr. 
A. 
FUSI, 
Manuale 
dell’esecuzione 
penale, 
Milano, 
2013, 
Giuffrè, 
pp. 
604-608. 
Cfr. 
F. 
SELVAGGI, 
il Manuale pratico dell’esecuzione penale, Latina, 2000, Edizioni Bucalo, pp. 51-54. 
(4) Corte di 
Appello di Catania, Sez. I Penale, ordinanza 31 luglio 2020, n. 41, p. 5. 

RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 2/2021 


due 
opposte 
pretese 
(riparatoria 
e 
punitiva) vengono a 
coesistere, si 
realizza 
ipso iure 
il 
fenomeno estintivo del 
‘credito’ 
da 
ingiusta 
detenzione 
con il 
‘debito’ 
scaturente 
dalla 
condanna 
comminata 
(ancorché 
non ancora 
definitivamente) 
per 
il 
reato 
in 
precedenza 
commesso. 
Pertanto, 
alla 
data 
del 
17 
dicembre 
2019 
di 
deposito 
della 
istanza 
di 
riparazione 
della 
ingiusta 
detenzione, 
la 
Corte 
ha 
potuto “accertare” 
che, anteriormente 
alla 
maturata 
prescrizione 
della 
pretesa 
punitiva 
discendente 
dalla 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Cassazione, 
si 
era 
già 
verificato 
il 
meccanismo 
estintivo 
reciproco 
tra 
la 
pretesa 
punitiva 
dello 
Stato 
per 
traffico 
organizzato 
di 
rifiuti 
e 
il 
diritto 
alla 
riparazione 
della detenzione ingiustamente patita per il reato associativo. 


Considerato 
quanto 
sopra, 
occorre 
a 
questo 
punto 
domandarsi 
se 
la 
Corte 
etnea, 
escludendo 
il 
diritto 
alla 
riparazione 
in 
ragione 
della 
compensazione 
realizzatasi 
con 
una 
pretesa 
punitiva 
dello 
Stato 
non 
ancora 
certa 
in 
mancanza 
di 
sentenza 
definitiva, 
abbia 
fatto 
indebitamente 
prevalere 
l’interesse 
patrimoniale 
dell’erario 
sul 
principio 
di 
inviolabilità 
della 
libertà 
personale 
(art. 
13 
della 
Cost.) e 
sul 
principio di 
presunzione 
di 
innocenza 
(art. 27), ovvero se, al 
contrario, 
abbia 
effettuato 
un 
corretto 
bilanciamento 
con 
l’interesse 
economico 
del ricorrente (5). 

Probabilmente, al 
fine 
di 
chiarire 
se 
effettivamente 
esista 
la 
denunziata 
antinomia, occorre 
chiedersi 
se 
sia 
proprio la 
libertà 
personale 
ad essere 
in discussione 
ovvero 
se 
lo 
sia 
il 
correlato 
diritto 
economico 
all’indennizzo 
che 
dalla 
lesione 
della 
prima 
sia 
derivato in capo al 
ricorrente: 
se, dunque, all’interesse 
dello Stato a 
non corrispondere 
l’indennizzo debba 
contrapporsi 
non 
già la libertà personale dell’individuo ma il suo interesse patrimoniale. 

La 
risposta 
al 
problema 
prova 
a 
fornirla 
l’ordinanza 
in 
rassegna, 
spostando 
tuttavia 
l’attenzione 
su di 
un altro profilo: 
«il 
[…omissis…], avendo 
già maturato il 
16 ottobre 
2018 (giorno della irrevocabilità della sentenza di 
assoluzione 
dal 
delitto di 
cui 
all’art. 416 bis 
c.p.) il 
diritto ad agere 
lege, promuovendo 
l’azione 
di 
riparazione 
per 
ingiusta detenzione, non aveva avuto, 
in 
concreto, 
la 
possibilità 
di 
chiedere 
l’applicazione 
della 
fungibilità 
della 
custodia 
sofferta senza titolo, non essendo ancora passata in giudicato la sentenza 
di 
condanna della Corte 
di 
appello di 
Catania 
[…], per 
un altro reato 
anteriormente 
commesso, 
dalla 
cui 
pena 
avrebbe 
potuto 
detrarre 
(già 
il 
15 
marzo 
2019, 
data 
della 
condanna) 
la 
custodia 
cautelare 
ingiustamente 
subita» 
(6). 
La 
Corte 
valorizza, 
cioè, 
l’argomento 
finalistico 
dell’art. 
314 
comma 
4 
c.p.p.: 
il 
meccanismo 
compensativo 
automatico 
è 
funzionale 
alla 
tutela 
del 
reo 
che, 
proprio 
per 
ciò, 
non 
deve 
attendere 
il 
passaggio 
in 
giudicato 
della 
sentenza 


(5) «una diversa soluzione 
interpretativa escludente 
la fungibilità immediata, non solo sarebbe 
in 
contrasto 
col 
diritto 
della 
libertà 
personale, 
ma 
darebbe 
luogo 
a 
un 
danno 
all’erario 
di 
notevole 
spessore», ibidem. 
(6) ibidem. 

CoNTENzIoSo 
NAzIoNALE 


di 
condanna 
per detrarre 
dalla 
misura 
della 
pena 
da 
scontare 
il 
corrispondente 
periodo di detenzione cautelare già, ingiustamente, patito. 


Seguendo il 
percorso logico-argomentativo della 
Corte 
di 
Appello di 
Catania, 
la 
compensazione 
non 
ha 
pertanto 
avuto 
luogo 
tra 
il 
‘credito’ 
dello 
Stato 
(la 
pretesa 
punitiva) e 
il 
‘debito’ 
dello stesso da 
indennizzo per ingiusta 
detenzione, 
ma 
ha 
avuto 
ad 
oggetto 
il 
medesimo 
diritto 
assoluto 
della 
libertà 
personale 
preso in considerazione 
dal 
punto di 
vista 
del 
reo secondo il 
binomio 
libertà/non libertà. 

Il 
ragionamento non sembra, tuttavia, superare 
l’obiezione 
che, dal 
momento 
in cui 
il 
periodo di 
custodia 
cautelare 
patito ingiustamente 
viene 
computato 
ai 
fini 
della 
determinazione 
della 
misura 
della 
pena 
non 
ancora 
consolidatasi 
e 
da 
eseguirsi 
eventualmente 
in futuro, la 
libertà 
dell’individuo 
(inviolabile 
se 
non nei 
casi 
e 
modi 
previsti 
dalla 
legge) finisce 
per diventare 
l’oggetto del bilanciamento con l’interesse patrimoniale dello Stato. 

Nel 
caso in esame 
deve, pertanto, ritenersi 
che 
la 
Corte 
etnea 
abbia 
finito 
per 
dare 
prevalenza 
all’interesse 
dell’erario 
al 
fine 
di 
non 
recare 
un 
danno 
economico 
allo Stato. 

Corte 
di 
Appello 
di 
Catania, 
Prima 
Sezione 
Penale, 
ordinanza 
31 
luglio 
2020 
n. 
41 
-pres. 
rel. est. R. Pivetti 
-oMiSSiS 
(avv. F. Riccotti) c. Ministero dell’Economia 
e 
delle 
Finanze 
(avv. 
distr. Stato Catania). 


Fatto e Diritto 


oMISSIS 
è 
persona 
che 
in sede 
di 
interrogatorio reso dinanzi 
al 
Gip presso il 
Tribunale 
di 
Catania 
nell'ambito 
del 
Proc. 
Pen. 
n. 
7324/2012 
RGNR 
e 
n. 
1903/2015 
RG 
GIP, 
in 
data 
7.6.2014, in seguito all'ordinanza 
di 
custodia 
cautelare, ha 
reso ampia 
deposizione 
sui 
fatti 
che 
hanno seguito alla 
misura 
cautelare 
in carcere 
per il 
reato di 
cui 
all'art. 416-bis, comma 
I, 
II e III c.p., asseritamente commesso tra l'8 maggio 2012 e il 7 giugno 2014. 


Quel 
che 
rende 
evidente 
che 
il 
oMISSIS 
subiva 
ingiustamente 
un periodo di 
custodia 
cautelare 
pari 
a 
anni 
2, mesi 
1 e 
giorni 
4, ovvero 765 giorni, senza 
che 
lo stesso, con le 
sue 
risposte 
all'interrogatorio, abbia 
dato causa 
a 
tale 
custodia, né 
che 
abbia 
dato causa 
per dolo o colpa 
grave o per altra causa, a detta ingiusta detenzione, è meglio oltre specificato. 


oMISSIS 
è 
persona 
con un grado di 
alfabetizzazione 
scarsa, e, ciononostante, ha 
spiegato al 
Gp perché conosceva ..., precisando di non avere mai avuto l'incarico da ..., di minacciare ... 


Il 
richiedente 
ha 
precisato soltanto di 
essersi 
rivolto al 
... per far sì 
che 
la 
figlia, sua 
dipendente 
addetta 
al 
servizio 
di 
nettezza 
urbana, 
avesse 
turni 
di 
lavoro 
non 
notturni 
perché 
in 
stato 
di gravidanza. 


oMISSIS 
ha 
spiegato di 
essersi 
interessato per ... per far sì 
che 
quest'ultimo avesse 
pagato il 
corrispettivo per la compravendita di un'automobile venduta a tale ... 


In definitiva, il 
oMISSIS, 
ha 
spiegato esattamente 
il 
contenuto di 
determinate 
conversazioni 
intercettate: 
e 
l'unico elemento di 
sospetto per gli 
inquirenti 
va 
ricercato nella 
sua 
condanna 
a 
circa 
quindici 
armi 
di 
reclusione 
per un omicidio commesso in un contesto mafioso e 
per 
una 
condanna 
per estorsione; 
e 
cioè 
delitti 
che 
hanno confermato gli 
stretti 
collegamenti 
con 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 2/2021 


ambienti 
criminosi, 
specie 
in 
considerazione 
a 
numerose 
condanne 
per 
gioco 
d'azzardo, 
in 
relazione 
alle 
bische 
clandestine 
tenute 
in piedi 
dall'organizzazione 
criminale, operante 
in territorio 
di Scicli. 


ovviamente 
tali 
fatti 
hanno dato luogo al 
decreto emesso dal 
Tribunale 
di 
Ragusa 
in data 
10/10/2002, 
nei 
confronti 
di 
oMISSIS, 
in 
parte 
riformato 
dal 
decreto 
7/3/2003 
emesso 
dalla 
Corte 
di 
Appello di 
Catania, che 
riduceva 
il 
periodo di 
sottoposizione 
alla 
misura 
della 
prevenzione 
della sorveglianza speciale di P.S. e ad euro 2.000,00 l'ammontare della cauzione. 


Durante 
l'interrogatorio del 
9 giugno 2014 il 
oMISSIS, però, ha 
spiegato pure 
che, in conseguenza 
di 
questo ultimo provvedimento, ... non potevano certo contare 
su di 
lui, per fantomatici 
viaggi, perché la misura di prevenzione non gli permetteva di lasciare il Paese di Scicli. 


Non esistono contestazioni 
riguardanti 
la 
violazione 
della 
misura 
di 
prevenzione 
predetta, 
ora 
per allora, che 
possono fare 
da 
riscontro estrinseco a 
un'eventuale 
messa 
a 
disposizione 
del 
oMISSIS 
a 
un'associazione 
mafiosa, ritenuta 
addirittura 
inesistente 
con la 
sentenza 
di 
assoluzione 
che riguarda il richiedente 
oMISSIS, ma anche .... 


Né al 
oMISSIS 
sono contestati i cc.dd. delitti satellite. 


Quel 
che 
rimane, allora, è 
un'ingiustificata 
detenzione 
del 
richiedente 
perché, dopo l'interrogatorio 
avvenuto il 
9 giugno 2014, avuti 
i 
chiarimenti 
sulle 
conversazioni 
intercettate, non 
c'era motivo per il Gip di mantenere in vincoli 
oMISSIS. 


Il 
21 
luglio 
2011 
oMISSIS, 
però, 
si 
era 
reso 
responsabile, 
in 
concorso 
con 
... 
della 
violazione 
dell'art. 
256 
d.lgs. 
152/2006, 
in 
relazione 
all'art. 
6 
L. 
210/2008 
(1), 
per 
avere 
con 
i 
menzionati 
..., con le 
condotte 
meglio oltre 
specificate, realizzato e 
gestito una 
discarica 
di 
rifiuti 
speciali 
non pericolosi, costituiti 
dal 
materiale 
misto proveniente 
dall'attività 
di 
demolizione 
di 
cui 
al 
capo 
che 
precede, 
nel 
terreno 
agricolo 
di 
proprietà 
di 
oMISSIS 
e 
di 
... 
in 
Scicli 
C.da 
Purromazza, 
dove 
..., 
dipendente 
della 
... 
srl, 
era 
stato 
incaricato 
di 
realizzare 
una 
stradella 
rurale 
e 
uno 
spiazzo, tramite spianamento e livellamento del terreno. 


Con fatti accertati in Scicli in data 21 settembre 2011. 


La 
condotta 
del 
oMISSIS 
riguarda 
la 
discarica 
realizzata 
da 
...; 
e 
cioè 
il 
reato di 
cui 
agli 
artt. 
110 cod. pen. e 
256 d.lgs. 152/2006, in relazione 
all'art. 6 L. 210/2008, atteso che 
con DPCM 
del 
9 luglio 2010 è 
stato dichiarato fino al 
31 dicembre 
2012, ai 
sensi 
e 
per gli 
effetti 
dell'art. 
5, comma 
1, L. 225/1992, lo stato di 
emergenza 
in materia 
di 
gestione 
dei 
rifiuti 
urbani, speciali 
e speciali pericolosi nel territorio della Regione Siciliana. 


Il 
... rispondeva 
nella 
qualità 
di 
legale 
rappresentante 
della 
società 
... srl 
con sede 
legale 
a 
...., e 
di 
proprietario dell'area 
di 
cantiere 
sita 
a 
Modica 
in ..., ... quale 
Direttore 
Tecnico del 
predetto cantiere 
edile, ... quale 
dipendente 
della 
predetta 
impresa, senza 
la 
prescritta 
autorizzazione, 
smaltito 
rifiuti 
speciali 
non 
pericolosi 
inerti, 
depositati 
temporaneamente 
nell'area 
interna 
ed 
esterna 
al 
cantiere, 
provenienti 
dall’attività 
di 
demolizione 
di 
tre 
strutture 
in 
cemento 
... e 
scaricava 
in modo incontrollato nel 
terreno di 
proprietà 
di 
oMISSIS 
e 
... sito a 
Scicli 
(RG) 
in C.da Purromazza. 


Con fatti accertati a Modica e Scicli in data 21 settembre 2011. 


(1) Vedasi 
DPCM 
del 
9 luglio 2020 con cui 
è 
stato dichiarato fino al 
31 dicembre 
2012, ai 
sensi 
e 
per 
gli 
effetti 
dell'art. 
5, 
comma 
I, 
L. 
225/1992, 
lo 
stato 
di 
emergenza 
in 
materia 
di 
gestione 
dei 
rifiuti 
urbani, 
speciali e speciali pericolosi nel territorio della Regione Siciliana. 

CoNTENzIoSo 
NAzIoNALE 


La 
custodia 
cautelare 
è 
stata 
subita 
dal 
oMISSIS 
dopo la 
commissione 
dei 
reati 
appena 
menzionati, 
per fatto successivo, per cui 
è 
stato assolto e 
asseritamente 
commesso, vista 
l'accusa, 
tra 
1'8 maggio 2012 e 
il 
7 giugno 2014: 
oMISSIS 
ha 
maturato una 
restitutio in integrum 
della 
sua 
libertà 
personale 
pari 
a 
765 giorni 
successiva 
a 
una 
pretesa 
punitiva 
dello Stato-Autorità 
antecedente, pari a 2 anni, 6 mesi di reclusione e euro 2,500,00 di multa. 


I presupposti per ritenere fondata nell’an 
la richiesta di indennità 


Sui 
fatti 
del 
21 settembre 
2011 si 
osserva 
che 
la 
Corte 
di 
Appello di 
Catania, pur riqualificando 
i 
rifiuti 
come 
rifiuti 
speciali 
non 
pericolosi, 
condannava 
oMISSIS 
con 
la 
sentenza 
15 
marzo 2019, alla pena di anni 2, mesi 6 di reclusione e euro 2.500,00 di multa. 


Anche 
se 
la 
Corte 
di 
Cassazione, con la 
sentenza 
14 novembre 
2019 ha 
dichiarato il 
venir 
meno della 
pretesa 
punitiva 
dello Stato, il 
15 marzo 2019, tale 
pretesa, non era 
venuta 
meno 
e 
oMISSIS, solo apparentemente 
aveva 
maturato il 
16 ottobre 
2018, per l'ingiusta 
detenzione 
(con la 
sentenza 
di 
assoluzione 
dal 
delitto ex art. 416 bis 
cp., per la 
custodia 
cautelare 
patita 
dal 
7 
giugno 
2014 
all’11 
luglio 
2016) 
765 
giorni 
del 
suo 
diritto 
alla 
restitutio 
in 
integrum 
della 
sua libertà personale: 


765 giorni 
vanno in compensazione 
con 910 giorni 
di 
detenzione, pari 
a 
2 anni 
e 
6 mesi 
per la condanna patita, in forza della sentenza della Corte il 15 marzo 2019. 


La 
fungibilità 
sancita 
dal 
comma 
IV 
dell'art. 314 del 
cpp la 
si 
ha, in questo giudizio, con 
una 
statuizione 
meramente 
dichiarativa 
della 
Corte, conseguenza 
di 
un fenomeno compensativo 
che 
non 
ha 
per 
oggetto 
due 
diritti 
di 
credito, 
per 
i 
quali 
è 
necessaria 
la 
certezza 
la 
liquidità 
e 
l'esigibilità 
del 
credito, per come 
recentemente 
affermato dalle 
Sezioni 
Unite 
della 
Cassazione 
per i 
diritti 
relativi 
(2), ma 
ha 
per oggetto il 
diritto assoluto della 
libertà 
personale, oggetto 
pure della pretesa punitiva dello Stato-Autorità. 


È 
il 
15 marzo del 
2019, quando ancora 
la 
pretesa 
punitiva 
dello Stato per delitto diverso 
da 
quello per cui 
è 
ingiusta 
detenzione, non era 
estinta 
per prescrizione, che 
ha 
avuto luogo 
la 
compensazione 
legale 
tra 
il 
diritto 
alla 
restitutio 
in 
integrum 
della 
libertà 
personale 
del 
oMISSIS 
per l'ingiusta 
detenzione 
patita 
e 
la 
pretesa 
punitiva 
dello Stato-Autorità 
al 
vincolo 
per la 
libertà 
personale 
del 
detto oMISSIS, per il 
delitto dallo stesso commesso e 
accertato a 
Modica e Sicli in data 21 settembre 2011. 


Trattandosi 
di 
una 
compensazione 
che 
avviene 
tra 
due 
diritti 
fondamentali 
aventi 
per oggetto 
la 
libertà 
personale, non siamo dinanzi 
a 
una 
statuizione 
costitutiva, ma 
innanzi 
a 
una 
statuizione dichiarativa che interviene ora per allora. 


Il 
Legislatore 
(art. 314 comma 
IV, cpp), infatti, esclude 
il 
diritto alla 
riparazione 
quando 
l'ingiusta 
detenzione 
patita 
può essere 
computata 
con la 
determinazione 
della 
misura 
di 
una 
pena, pretendendo soltanto che, al 
momento della 
maturazione 
del 
diritto alla 
restitutio in integrum 
il 
richiedente 
sia 
in debito verso lo Stato con la 
sua 
libertà 
personale 
con una 
pena 
già 
determinata e non ancora estinta per prescrizione. 


Nel 
farlo pone 
solo una 
condizione: 
il 
reato per il 
quale 
deve 
essere 
determinata 
la 
pena 
da 
eseguire 
deve 
essere 
stato commesso prima 
della 
custodia 
cautelare 
patita 
ingiustamente 
(art. 
657 comma IV cpp); circostanza questa che ricorre nel caso in esame. 


Il 
oMISSIS, 
avendo 
già 
maturato 
il 
16 
ottobre 
2018 
(giorno 
della 
irrevocabilità 
della 
sentenza 
di 
assoluzione 
dal 
delitto 
di 
cui 
all'art. 
416 
bis, 
cp) 
il 
diritto 
ad 
agere 
lege, 
promuovendo 


(2) Cfr. Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza 15 novembre 2016, numero 23225. 

RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 2/2021 


l'azione 
di 
riparazione 
per ingiusta 
detenzione, non aveva 
avuto, in concreto, la 
possibilità 
di 
chiedere 
l'applicazione 
della 
fungibilità 
della 
custodia 
sofferta 
senza 
titolo, 
non 
essendo 
ancora 
passata 
in giudicato la 
sentenza 
di 
condanna 
della 
Corte 
di 
Appello di 
Catania 
che 
lo condannava 
il 15 marzo 2019, alla pena di anni 2, mesi 6 di reclusione e euro 1500,00 di multa, per 
un 
altro 
reato 
anteriormente 
commesso, 
dalla 
cui 
pena 
avrebbe 
potuto 
detrarre 
(già 
il 
15 
marzo 
2019, data della condanna) la custodia cautelare ingiustamente subita. 


oMISSIS, 
tuttavia, 
certamente 
poteva 
farlo, 
ottenendo 
quindi 
l'applicazione 
della 
fungibilità, 
che già operava ex lege (3). 


Una 
diversa 
soluzione 
interpretativa 
escludente 
la 
fungibilità 
immediata, non solo sarebbe 
in contrasto col 
diritto della 
libertà 
personale, ma 
darebbe 
luogo a 
un danno all'Erario di 
notevole 
spessore. 


Si 
ribadisce, pertanto, per le 
ragioni 
in fatto e 
in diritto sopra 
riportate 
che, pur se 
la 
Corte 
di 
Cassazione, ha 
dichiarato il 
venir meno della 
pretesa 
punitiva 
dello Stato-Autorità 
con la 
sentenza 
14 novembre 
2019, in data 
15 marzo 2019, tale 
pretesa, non era 
venuta 
meno e 
la 
fungibilità 
era 
già 
operante 
ex 
lege 
facendo venir meno il 
diritto all'indennità 
per ingiusta 
detenzione 
chiesta dal 
oMISSIS 
nella 
res in iudicium deducta. 


ovviamente, 
la 
particolarità 
del 
caso 
esaminato, 
giustifica 
la 
compensazione 
integrale 
delle 
spese tra le parti. 


per questi motivi 
visti 
gli 
artt. 314 e 
657 cpp, dichiara 
la 
fungibilità 
della 
pena 
di 
anni 
2, mesi 
6 di 
reclusione 
e 
euro 
2500.00 
di 
multa, 
giusta 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Appello 
di 
Catania 
emessa 
nei 
confronti 
di 
oMISSIS, con efficacia 
dalla 
data 
della 
sentenza 
emessa 
in data 
15 marzo 2019, e 
per fatti 
commessi 
a 
Modica 
e 
Scicli 
in 
data 
21 
settembre 
2011, 
prima 
dell'8 
maggio 
2012, 
con 
i 
giorni 
765 di 
ingiusta 
detenzione 
per i 
fatti 
successivi 
a 
tale 
ultima 
data, sofferti 
dal 
oMISSIS 
e 
per i 
quali v'è richiesta di indennità e, per l'effetto, rigetta la richiesta. 
Compensa integralmente le spese tra le parti ricorrendo giusti motivi. 
Catania, 6 marzo 2020 


(3) 
Cfr. 
Cassazione 
Penale, 
Sezione 
1, 
Sentenza 
47001 
del 
5 
dicembre 
2007 
Cc. 
(dep. 
18 
dicembre 
2007). 

CoNTENzIoSo 
NAzIoNALE 


Una sentenza del 
Tribunale di 
Venezia 
in tema di demanialità delle valli da pesca 


tribuNale 
di 
VeNezia, SezioNe 
priMa, SeNteNza 
8 ottobre 
2021 N. 1980 


Una 
recente 
sentenza 
del 
Tribunale 
di 
Venezia, in accoglimento della 
domanda 
riconvenzionale 
proposta 
nell’interesse 
del 
Ministero 
dell’Economia 
e 
delle 
Finanze 
e 
dell’Agenzia 
del 
Demanio, ha 
riconosciuto l’appartenenza 
al 
demanio marittimo di 
un fondo edificato finitimo a 
specchi 
acquei 
ricompresi 
nella laguna di 
Venezia. 


La 
pronuncia 
appare 
degna 
di 
interesse 
in quanto sembra 
offrire 
una 
inedita 
interpretazione 
estensiva 
dei 
principi 
enunciati 
da 
Cassazione, Sez. Un., 
14 febbraio 2011, n. 3665, che 
aveva 
affermato la 
demanialità 
delle 
valli 
da 
pesca “con esclusione delle zone emerse dall'acqua”. 

In 
particolare, 
aderendo 
alla 
tesi 
avanzata 
nell’interesse 
delle 
Amministrazioni, 
il 
Tribunale 
ha 
valorizzato un obiter 
dictum 
della 
citata 
pronuncia 
a 
Sezioni 
Unite, a 
mente 
del 
quale 
“la demanialità naturalmente 
acquisita da 
tempo immemorabile 
con l’espandersi 
delle 
acque 
lagunari 
non può cessare 
per 
effetto di 
mere 
attività materiali 
eseguite 
da soggetti 
privati, sia pure 
nel-
l’inerzia o con la tolleranza degli organi pubblici”. 


Alla 
luce 
di 
tale 
affermazione, 
il 
Tribunale 
veneziano 
ha 
ritenuto 
dirimente 
“la circostanza, risultante 
in maniera chiara dall’elaborato peritale 
in 
atti, 
che 
il 
lotto 
1 
era 
qualificato 
come 
barena 
sino 
alla 
metà 
del 
1800 
(si 
veda 
la mappa del 
de 
bernardi), vale 
a dire 
come 
terreno che, nei 
periodi 
di 
bassa 
marea, emergeva dalle 
acque 
lagunari; soprattutto, a rilevare 
è 
il 
fatto che 
detta area non sia (e 
non fosse 
in passato) soggetta a sommersione 
solamente 
grazie 
alla 
realizzazione, 
da 
parte 
dell’uomo, 
di 
opere 
via 
via 
più 
raffinate 
dal 
punto di 
vista tecnico, al 
fine 
di 
assicurare 
il 
contenimento delle 
acque 
ed 
evitare 
così 
il 
fenomeno della sommersione 
del 
lotto. 
[…] 
posto che, nel 
caso 
in esame, il 
lotto 1 è 
stato sottratto alla laguna, nel 
cui 
perimetro è 
incontestatamente 
collocato, solamente 
grazie 
alle 
opere 
realizzate 
dall’uomo (chiaviche, 
cogolere, 
argini 
in 
terra), 
deve 
concludersi, 
in 
applicazione 
dei 
principi 
giurisprudenziali 
sopra 
enunciati, 
che 
detta 
area 
abbia 
mantenuto 
il 
carattere 
di 
demanialità 
e 
che 
i 
privati 
non 
potessero 
separarla 
dalla 
laguna, 
con 
la 
quale era naturalmente in collegamento”. 


Guido Di Biase* 


(*) Procuratore dello Stato, Avvocatura distrettuale dello Stato di 
Venezia. 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 2/2021 


Tribunale 
di 
Venezia, Sezione 
prima, sentenza 8 ottobre 
2021 n. 1980 
-giud. S. Bianchi. 


(...) 
Resta, a 
questo punto, da 
stabilire 
se 
il 
lotto 1, identificato al 
C.F. al 
foglio 3 mappale 
180, 
faccia o meno parte del demanio marittimo. 
Detto 
lotto 
ha 
una 
superficie 
di 
1057 
mq 
e 
sullo 
stesso 
sono 
eretti 
un 
edificio 
a 
uso 
residenziale, 
consistente 
in 
una 
moderna 
villa 
ad 
uso 
ricettivo-turistico, 
e 
un 
edificio 
a 
uso 
magazzino. 
Il 
C.T.U. nominato arch. Stefano Barbazza 
ha 
affermato che, in base 
alle 
risultanze 
storiche, 
l'attuale 
edificio a 
uso residenziale 
costituirebbe 
l'ampliamento di 
quella 
che 
un tempo, nella 
cartografia storica, era denominata 'Casa del Pescatore' o 'Cason di 
Valle'. 
In particolare, nella 
consulenza 
tecnica 
d'ufficio si 
legge 
che 
nel 
catasto napoleonico (18051816), 
avuto riguardo all'area 
oggetto di 
causa 
(lotto 1), 'si 
nota 
una 
porzione 
di 
terra 
emersa, 
come 
una 
sorta 
di 
isola 
contornata 
da 
argini, con soprastante 
edificio ("casa 
da 
pescatore") 
eretto sul 
Mappale 
386 1/2; 
sono bene 
riconoscibili 
anche 
le 
strutture 
denominate 
"cogolere" 
formate 
da 
graticci 
di 
canna 
palustre 
appoggiati 
a 
pali 
verticali 
infissi 
sul 
fondo e 
collegati 
tra 
loro con pertiche 
orizzontali; 
le 
"cogolere" 
consentivano di 
realizzare 
le 
chiusure 
dei 
varchi 
di 
comunicazione 
della 
valle 
con la 
laguna 
permettendo tuttavia 
alla 
marea 
di 
espandersi 
all'interno 
degli specchi d'acqua della valle' (cfr. elaborato peritale in atti, pagina 25). 
Nel 
catasto 
austriaco 
(1825-1838), 
'la 
zona 
oggetto 
della 
presente 
relazione 
viene 
rappresentata 
come 
una 
specie 
di 
isola 
delimitata 
da 
argini 
con 
soprastante 
edificio 
(casa 
da 
pescatore) 
identificata 
con 
il 
Mappale 
841; 
nella 
zona 
di 
comunicazione 
con 
la 
laguna 
sono 
riportate 
graficamente 
le 
"cogolere", 
formate 
da 
graticci 
di 
canna 
palustre 
appoggiati 
a 
pali 
verticali 
infissi 
sul 
fondo 
e 
collegati 
tra 
di 
loro 
con 
pertiche 
orizzontali; 
le 
"cogolere" 
consentivano 
di 
realizzare 
le 
chiusure 
dei 
varchi 
di 
comunicazione 
della 
valle 
con 
la 
laguna, 
permettendo 
tuttavia 
alla 
marea 
di 
espandersi 
all'interno 
degli 
specchi 
d'acqua 
della 
valle' 
(cfr. 
elaborato 
peritale 
in 
atti, 
pagina 
27). 
Nel 
catasto 
austro-italiano 
(1846-1929), 
'la 
mappa 
n. 
14, 
che 
riporta 
l'ambito 
dell'attuale 
Lotto 
1, viene 
rappresentata 
come 
una 
specie 
di 
isola 
con soprastante 
edificio (casa 
da 
pescatore), 
identificata 
con 
il 
Mappale 
841; 
rispetto 
alla 
cartografia 
del 
catasto 
Austriaco, 
in 
questa 
mappa 
non 
compaiono 
più 
(graficamente) 
gli 
argini 
che 
delimitavano 
il 
Mappale 
841 
e 
anche 
il 
tratto 
di 
"cogolere", che 
univa 
il 
suddetto Mappale 
con la 
terraferma, non viene 
più riportato; 
nella 
zona 
di 
comunicazione 
con la 
laguna 
tuttavia 
ci 
sono ancora 
le 
"cogolere" 
per la 
chiusura 
dei 
varchi 
di 
comunicazione 
della 
valle 
con la 
laguna, pur permettendo alla 
marea 
di 
espandersi 
all'interno dei specchi d'acqua della valle' (cfr. elaborato peritale in atti, pagina 29). 
Nella 
carta 
idrografica 
Augusto Denaix (1810), 'sono riconoscibili 
le 
cogolere 
poste 
vicine 
alla 
scritta 
"Chiusa della Valle"; 
si 
evidenzia 
inoltre 
la 
scritta 
"C.one 
da pescatore" 
che 
accompagna 
un quadrettino nero inserito su un terreno emerso a 
forma 
di 
isola 
(cfr. elaborato 
peritale in atti, pagina 35). 
Nella 
mappa 
del 
De 
Bernardi 
del 
1843 'l'edificio è 
riportato graficamente 
(quadratino nero) 
(cfr. elaborato peritale in atti, pagina 57). 
Quanto alle successive mappe, il C.T.U. riporta che: 
-nella 
Carta 
idrografica 
della 
laguna 
di 
Venezia 
(1901) 
è 
riportata 
la 
scritta 
"C. 
del 
pescatore" 
accanto a un quadratino rosso; 


- nella Mappa di impianto del Catasto (1930) l'edificio figura nel Mappale 180; 
-nella 
Carta 
idrografica 
della 
laguna 
del 
Magistrato alle 
Acque 
(1932) il 
"Cason di 
Valle" 
è 
indicato con un rettangolino nero; 
- nella Foto aerea dell'istituto Geografico Militare (1954) tale struttura è visibile'. 

CoNTENzIoSo 
NAzIoNALE 


L'arch. 
Barbazza 
ha, 
quindi, 
concluso 
che 
'da 
quanto 
riportato 
nell'ampia 
documentazione 
storica 
esaminata, ... l'edificio in esame 
è 
presente 
nel 
sito di 
Valle 
Sacchetta 
da 
più di 
due 
secoli. 
Durante 
tutto questo arco di 
tempo, la 
casa 
del 
pescatore 
è 
sempre 
stata 
utilizzata, funzionalmente, 
per 
l'attività 
lavorativa 
di 
allevamento 
del 
pesce 
in 
valle. 
Solo 
in 
tempi 
più 
recenti 
l'edificio è 
stato riattato a 
moderna 
villa 
a 
uso turistico/ricettivo e 
contestualmente 
utilizzata 
dai 
signori 
oMISSIS 
per le 
proprie 
esigenze. Lo scrivente 
sulla 
base 
dei 
documenti 
esaminati 
ritiene 
che 
l'edifico 
in 
esame, 
storicamente 
denominato 
"Casa 
del 
Pescatore" 
o 
"Cason 
di 
Valle", 
sia 
stato 
per 
più 
di 
due 
secoli 
utilizzato 
per 
l'attività 
di 
allevamento 
del 
pesce 
nella 
Valle 
Sacchetta 
e 
Valle 
Sacchettina; 
attualmente 
mantiene 
ancora 
questo aspetto funzionale, 
anche 
se 
le 
principali 
attività, che 
storicamente 
venivano in esso svolte, sono state 
trasferite 
nell'adiacente edificio ad uso magazzino' (cfr. elaborato peritale in atti, pagina 58). 
La 
difesa 
del 
Ministero dell'Economia 
e 
della 
Finanze 
e 
dell'Agenzia 
del 
Demanio critica 
le 
conclusioni 
cui 
è 
pervenuto 
il 
C.T.U., 
ritenendo 
che, 
sovrapponendo 
e 
confrontando 
le 
mappe 
Emo, 
De 
Bernardi 
e 
quella 
dell'attuale 
stato 
dei 
luoghi, 
emergerebbe 
che 
l'edificio 
ad 
oggi 
adibito ad attività 
turistico-ricettive 
non insisterebbe 
nel 
medesimo luogo ove 
sorgeva 
il 
Casone 
del 
Pescatore 
raffigurato da 
De 
Bernardi, Denaix e 
nei 
catasti 
austriaco e 
napoleonico 
(cfr., in particolare, le 
sovrapposizioni 
di 
cui 
alle 
pagine 
24 e 
seguenti 
della 
comparsa 
conclusionale). 
Parte 
opposta 
conclude, quindi, che 
l'edificazione 
è 
da 
collocare 
tra 
il 
1843 e 
il 
1930 e 
che 
l'attuale 
casa 
di 
abitazione 
risulta 
dall'ingrandimento 
esponenziale 
della 
costruzione 
risultante 
dalla mappa di impianto del 1930. 
ora, la 
decisione 
circa 
la 
appartenenza 
o meno al 
demanio del 
lotto 1 prescinde, a 
parere 
di 
questo 
giudice, 
dalla 
risoluzione 
della 
questione 
inerente 
alla 
natura 
di 
nuova 
costruzione 
del-
l'edificio 
attualmente 
esistente 
sul 
mappale 
180, 
così 
come 
sostenuto 
da 
parte 
opposta, 
ovvero 
alla 
sua 
natura 
di 
mero ampliamento dell'originario Casone 
del 
Pescatore, così 
come 
emergente 
dalla consulenza tecnica d'ufficio. 
A 
rilevare 
è, infatti, la 
circostanza, risultante 
in maniera 
chiara 
dall'elaborato peritale 
in atti, 
che 
il 
lotto 1 era 
qualificato come 
barena 
sino alla 
metà 
del 
1800 (si 
veda 
la 
mappa 
del 
De 
Bernardi), vale 
a 
dire 
come 
terreno che, nei 
periodi 
di 
bassa 
marea, emergeva 
dalle 
acque 
lagunari; 
soprattutto, a 
rilevare 
è 
il 
fatto che 
detta 
area 
non sia 
(e 
non fosse 
in passato) soggetta 
a 
sommersione 
solamente 
grazie 
alla 
realizzazione, da 
parte 
dell'uomo, di 
opere 
via 
via 
più 
raffinate 
dal 
punto di 
vista 
tecnico, al 
fine 
di 
assicurare 
il 
contenimento delle 
acque 
ed evitare 
così il fenomeno della sommersione del lotto. 
Come 
sopra 
riportato, infatti, il 
lotto 1 era, nel 
1800, protetto da 
cogolere, che 
però non riuscivano 
a 
garantire 
che 
la 
marea 
non si 
espandesse 
all'interno delle 
valli; 
a 
partire 
dal 
1932 o, 
forse, dal 
1954, le 
cogolere 
sono state 
sostituite 
da 
argini, i 
quali 
erano in grado di 
evitare 
il 
fenomeno della 
sommersione, e, inoltre, la 
strada 
via 
Saccagnana 
è 
stata 
dotata 
di 
muro di 
contenimento 
delle 
maree 
(si 
leggano 
le 
pagine 
56 
e 
57 
dell'elaborato 
peritale: 
'dall'analisi 
storica, dall'esame 
della 
documentazione 
acquisita 
e 
dai 
rilievi 
effettuati, lo scrivente 
ritiene 
che 
l'ambito di 
cui 
al 
Lotto 1 sia 
stato in un passato recente 
(considerando che 
l'indagine 
è 
stata 
svolta 
in un arco temporale 
di 
oltre 
due 
secoli), soggetto a 
sommersione, fino a 
quando 
i 
varchi 
di 
comunicazione 
delle 
valli 
con la 
laguna 
erano chiusi 
da 
"cogolere", le 
quali 
permettevano 
alla 
marea 
di 
espandersi 
all'interno delle 
valli. Nei 
documenti 
esaminati 
l'ultima 
traccia 
evidente 
di 
presenza 
delle 
"cogolere" 
nelle 
valli 
in esame 
si 
riscontra 
nella 
Carta 
Idrografica 
della 
laguna 
di 
Venezia 
redatta 
dal 
Magistrato alle 
Acque 
nel 
1932; 
molto probabilmente 
erano ancora 
presenti 
nel 
1954, in quanto esaminando la 
foto aerea 
del 
1954, (IGM) la 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 2/2021 


conformazione 
dei 
luoghi, 
molto 
simili 
alla 
mappa 
del 
1932, 
fa 
pensare 
che 
il 
regime 
idraulico 
sia 
ancora 
subordinato 
alle 
maree, 
non 
essendo 
ancora 
stata 
realizzata 
la 
strada 
Via 
Saccagnana, 
dotata 
di 
muro di 
contenimento delle 
maree, nell'ambito antistante 
il 
Lotto I. Successivamente, 
quando le 
"cogolere" 
sono state 
sostituite 
da 
chiaviche, che 
permettono di 
gestire 
gli 
specchi 
acquei 
interni 
alle 
valli 
indipendentemente 
dai 
livelli 
di 
marea 
esterni, l'ambito in 
esame 
non 
è 
più 
stato 
oggetto 
di 
sommersione. 
Dal 
rilievo 
altimetrico 
eseguito 
si 
è 
riscontrato 
che: 
-il 
pavimento interno dell'abitazione 
è 
posto a 
quota 
di 
circa 
m. 1,07; 
-il 
pavimento interno 
del 
magazzino è 
a 
quota 
di 
circa 
m. 1,20; 
-la 
quota 
media 
della 
terra 
emersa 
di 
cui 
al 
mappale 
180 
è 
di 
circa 
m. 
0,90; 
da 
cui 
si 
evince 
che 
in 
passato, 
quando 
le 
valli 
non 
erano 
dotate 
di 
chiaviche, in caso di 
maree 
sostenute 
(da 
m. 0,95 a 
m. 1,10) alcune 
zone 
erano soggette 
a 
sommersione 
... 
'l'ambito 
individuato 
al 
Lotto 
I 
all'attualità 
non 
viene 
sommerso 
in 
quanto 
il 
perimento 
delle 
Valli 
Sacchetta 
e 
Sacchettina 
è 
dotato 
di 
argini 
in 
terra 
posti 
ad 
un'altezza 
superiore 
alle 
alte 
maree. Si 
evidenzia 
inoltre 
che 
la 
strada 
Via 
Saccagnana 
è 
dotata 
di 
muretto in cemento e 
marmo che 
funge 
da 
argine 
tra 
l'ambito di 
cui 
al 
Lotto 1 e 
la 
laguna, in 
grado di 
fermare 
maree 
eccezionali 
come 
l'ultima 
registrata 
in data 
12 novembre 
2019 con 
punta 
massima 
di 
m. 1,87. Contestualmente 
sui 
varchi 
di 
comunicazione 
con la 
laguna, sono 
state 
costruite 
chiaviche 
con 
luci 
controllate 
da 
paratoie, 
in 
modo 
da 
controllare 
il 
livello 
d'acqua 
interno alle valli'). 
Secondo l'insegnamento costante 
della 
Suprema 
Corte, la 
demanialità 
naturalmente 
acquisita 
da 
tempo immemorabile 
con l'espandersi 
delle 
acque 
lagunari 
non può cessare 
per effetto di 
mere 
attività 
materiali 
eseguite 
da 
soggetti 
privati, 
sia 
pure 
nell'inerzia 
o 
con 
la 
tolleranza 
degli organi pubblici (così Cass. Sez. Un. 14 febbraio 2011, n. 3665). 
Posto che, nel 
caso in esame, il 
lotto 1 è 
stato sottratto alla 
laguna, nel 
cui 
perimetro è 
incontestatamente 
collocato, 
solamente 
grazie 
alle 
opere 
realizzate 
dall'uomo 
(chiaviche, 
cogolere, 
argini 
in 
terra), 
deve 
concludersi, 
in 
applicazione 
dei 
principi 
giurisprudenziali 
sopra 
enunciati, 
che 
detta 
area 
abbia 
mantenuto 
il 
carattere 
di 
demanialità 
e 
che 
i 
privati 
non 
potessero 
separarla 
dalla 
laguna, con la 
quale 
era 
naturalmente 
in collegamento. Trattandosi 
di 
bene 
demaniale, 
lo stesso non poteva formare oggetto di pignoramento. 
(...) 



CoNTENzIoSo 
NAzIoNALE 


Un'applicazione impropria del principio dell'assorbimento 
in una procedura concorsuale nella quale gli ammessi 
con riserva avevano lamentato la violazione del 
principio dell'anonimato nella prova preselettiva 


Nota 
a 
CoNSiglio 
di 
Stato, SezioNe 
QuiNta, SeNteNza 
20 luglio 
2021, N. 5468 


Giuseppe 
Arpaia* 


La 
sentenza 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
che 
si 
commenta 
ha 
accolto 
l'impugnazione 
proposta 
da 
alcuni 
candidati, partecipanti 
al 
concorso indetto dalla 
Commissione 
Interministeriale 
RIPAM 
per il 
reclutamento a 
tempo indeterminato 
presso 
la 
Regione 
Campania 
ed 
enti 
Locali 
della 
stessa 
Regione, 
risultati 
non idonei 
alla 
prova 
preselettiva 
prevista 
nel 
bando, ritenendo come 
consolidati, meglio, superati, i 
provvedimenti 
cautelari 
di 
ammissione 
con riserva, 
adottati 
in primo e 
secondo grado, in considerazione 
del 
giudizio positivo 
formulato 
dall'Amministrazione 
con 
riguardo 
alla 
successiva 
prova 
scritta 
dagli 
stessi 
superata. Il 
Giudice 
di 
Appello ha 
valutato tale 
ultima 
prova, insieme 
con quelle 
successive, circostanza 
esterna 
e 
sopravvenuta, posta 
in essere 
dall'Amministrazione, 
rispetto 
al 
precedente 
provvedimento 
di 
non 
ammissione 
e, 
in 
applicazione 
del 
consolidato 
principio 
dell'assorbimento, 
tenuto 
anche 
conto che 
la 
prova 
preselettiva 
non concorre 
alla 
determinazione 
del 
punteggio 
finale, 
ha 
dichiarato 
improcedibile 
il 
ricorso 
di 
primo 
grado 
proposto 
avverso la esclusione dal concorso. 


la sentenza di primo grado. 


I candidati 
in parola, non ammessi 
alla 
prova 
scritta, avevano censurato 
innanzi 
al 
TAR 
Campania 
l'operato 
dell'Amministrazione, 
in 
primo 
luogo 
e 
sopratutto, 
per 
violazione 
del 
principio 
dell'anonimato, 
ai 
sensi 
dell'art. 
14, 
commi 
1 e 
6, DPR n. 487/1994, violazione 
attuata 
in ragione 
delle 
modalità 
di 
svolgimento 
della 
prova 
preselettiva, 
(prevista 
nel 
bando 
per 
consentire 
l'accesso 
alla 
prova 
scritta 
ad un numero di 
candidati 
ampio, ma 
non illimitato), 
che 
rendeva 
possibile 
la 
identificazione 
degli 
elaborati, 
stante 
l'apposizione 
sia 
sul 
foglio di 
risposta 
a 
lettura 
ottica 
che 
sulla 
scheda 
anagrafica 
di 
ciascun 
candidato di 
un codice 
numerico a 
sei 
cifre, equiparabile 
a 
segno di 
riconoscimento, 
per 
cui 
concludevano 
per 
l'annullamento 
delle 
graduatorie 
degli 
ammessi 
alla 
prova 
scritta 
e 
per 
l'accoglimento 
dell'istanza 
cautelare. 
L'adito 
TAR 
con decreti 
presidenziali 
prima 
(nn. 1069 e 
1122 del 
2020) e 
con successive 
ordinanze 
collegiali, sussistendo i 
presupposti 
di 
estrema 
gravità 
ed urgenza, 
ammetteva 
i 
ricorrenti 
alle 
prove 
scritte 
con riserva 
rispetto alla 
definizione 


(*) Già 
Avvocato dello Stato. 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 2/2021 


nel 
merito 
della 
controversia. 
Con 
sentenza 
n. 
6542/2020 
del 
30 
dicembre 
2020 
il 
TAR 
si 
pronunciava 
nel 
merito 
del 
ricorso 
dichiarandolo 
inammissibile 
per contraddittorietà 
tra 
causa petendi, vale 
a 
dire 
le 
censure 
dedotte 
dai 
ricorrenti, 
come 
tali, 
implicanti 
la 
caducazione 
dell'intera 
procedura 
concorsuale 
per la 
violazione 
iniziale 
delle 
regole 
sull'anonimato delle 
prove 
preselettive 
e 
petitum, costituito dalla 
richiesta 
di 
consolidamento in via 
definitiva 
della 
ammissione 
con 
riserva 
alle 
prove 
scritte, 
avendo 
gli 
stessi 
insistito, 
prima 
che 
la 
causa 
fosse 
trattenuta 
in decisione, per quest'ultima 
domanda 
e 
non già 
per 
l'annullamento, a 
seguito di 
ordinanza 
ex 
art. 73, co. 3, c.p.a. con la 
quale 
il 
Collegio aveva 
già 
rilevato profili 
di 
incompatibilità 
tra 
le 
censure 
dei 
ricorrenti 
e 
la 
domanda 
di 
ammissione 
alla 
prova 
scritta. Rilevava 
la 
sentenza 
che 
dall'eventuale 
accoglimento dei 
motivi 
del 
ricorso sarebbe 
conseguito il 
travolgimento 
in radice 
dell'intera 
procedura 
concorsuale, contagiando l'illegittimità 
del 
segmento iniziale 
tutte 
le 
successive 
fasi 
selettive, con conseguente 
riedizione 
delle 
contestate 
prove 
preselettive 
e 
non 
già, 
omisso 
medio, 
il 
diretto 
passaggio dei 
ricorrenti 
non ammessi 
alla 
successiva 
prova 
scritta. Né 
la 
contraddizione 
poteva 
essere 
superata 
con la 
limitazione 
della 
domanda 
di 
annullamento 
alla 
sola 
fase 
preselettiva 
delle 
prove, 
così 
escludendo 
un 
annullamento dell'intera 
procedura 
perché 
costituiva 
salto logico incolmabile 
far derivare 
l'ammissione 
alle 
successive 
fasi 
concorsuali 
dalla 
sostenuta 
illegittimità 
del 
procedimento. A 
tanto aggiungasi, rilevava 
il 
TAR, che 
l'art. 40 


c.p.a. richiede, a 
pena 
di 
inammissibilità, un nesso tra 
oggetto della 
domanda, 
motivi 
specifici 
del 
ricorso 
ed 
indicazione 
dei 
provvedimenti 
chiesti 
al 
giudice, 
che 
nella 
fattispecie 
non sussisteva. Né 
a 
diverso esito si 
poteva 
pervenire 
in 
ragione 
del 
meccanismo 
del 
consolidamento 
della 
posizione 
conseguita 
dai 
ricorrenti 
per effetto della 
disposta 
ammissione 
con riserva, essendo prevista 
dalla 
legge 
una 
deroga 
agli 
effetti 
interinale 
del 
giudizio cautelare 
esclusivamente 
per 
gli 
esami 
di 
abilitazione 
professionale 
(art. 
4, 
co. 
2 
bis, 
d.l. 
n. 
115/2005), 
non 
costituendo 
tale 
meccanismo 
un 
istituto 
di 
portata 
generale 
applicabile 
ai 
pubblici 
concorsi 
con conseguente 
impossibilità 
per un candidato 
ammesso con riserva 
alle 
successive 
prove 
selettive 
di 
ottenere 
il 
bene 
della 
vita per il solo fatto di averle superate. 
la sentenza del Consiglio di Stato. 


I 
candidati, 
che 
nelle 
more 
del 
giudizio 
avevano 
superato 
la 
prova 
scritta, 
proponevano appello avverso la 
predetta 
sentenza, sostenendone 
la 
erroneità 
per i 
seguenti 
motivi: 
1) mancanza 
di 
contraddittorietà 
tra 
petitum 
e 
causa petendi, 
in quanto i 
denunciati 
vizi 
della 
procedura 
concorsuale 
erano inidonei 
a 
travolgere 
l'intera 
procedura 
concorsuale 
in 
quanto 
limitati 
alla 
sola 
fase 
preselettiva, 
non funzionale 
alla 
determinazione 
del 
punteggio finale; 
2) il 
consolidamento 
della 
posizione 
di 
essi 
appellanti 
deriverebbe 
dal 
superamento 
della prova scritta. 


CoNTENzIoSo 
NAzIoNALE 


Il 
Consiglio 
di 
Stato, 
nell'accogliere 
l'appello, 
ha 
richiamato 
la 
propria 
giurisprudenza, 
secondo 
la 
quale 
l'effetto 
caducante 
che 
deriverebbe 
dal 
provvedimento 
negativo 
adottato 
dall'Amministrazione, 
originariamente 
impugnato, 
trova 
il 
limite 
nel 
principio, dell'assorbimento, nel 
senso che 
esso non 
si 
esplica 
sugli 
atti 
ulteriori 
che 
assorbono 
il 
predetto 
provvedimento, 
operando 
una 
nuova 
verifica, 
che 
si 
pone 
come 
"circostanza 
esterna 
e 
sopravvenuta". 
Alla 
base 
del 
principio in parola 
é 
il 
compimento di 
atti 
ulteriori 
da 
parte 
del-
l'Amministrazione, che 
hanno come 
presupposto logico e 
giuridico un nuovo 
provvedimento, adottato in esecuzione 
di 
ordinanza 
cautelare 
o di 
sentenza, 
che 
rende 
inutile 
l'atto originariamente 
impugnato, con conseguente 
dichiarazione 
di 
improcedibilità 
del 
ricorso per sopravvenuta 
carenza 
di 
interesse 
di 
parte 
ricorrente 
ad impugnarlo. Al 
riguardo la 
sentenza 
ha 
richiamato il 
precedente 
del 
superamento 
degli 
esami 
di 
maturità 
che 
il 
candidato 
ha 
sostenuto 
a 
seguito 
ammissione 
con 
riserva 
da 
parte 
del 
Giudice 
Amministrativo, 
che 
assorbe 
il 
giudizio negativo di 
ammissione 
del 
Consiglio di 
Classe 
(Consiglio 
di 
Stato, 
sez. 
VI, 
20 
dicembre 
1999, 
n. 
2098) 
e 
l'Adunanza 
Plenaria 
del 
27 
febbraio, n. 3, in tema 
di 
ammissione 
con riserva 
alla 
prova 
orale 
per esame 
di 
avvocato, che 
si 
era 
pronunciata 
per l'improcedibilità 
dell'appello del 
Ministero 
della 
Giustizia, avendo la 
Commissione 
esaminatrice 
adottato un'autonoma 
e 
distinta 
favorevole 
valutazione 
del 
candidato, che 
avrebbe 
superato 
ed assorbito il precedente provvedimento sfavorevole di non ammissione. 


L'applicazione 
del 
principio 
dell'assorbimento 
alla 
fattispecie 
in 
parola 
appare, ad avviso di 
chi 
scrive, poco convincente, in quanto quest'ultima 
non 
presenta 
"analoghe 
caratteristiche" 
rispetto 
agli 
esempi 
innanzi 
richiamati, 
diversamente 
da 
quanto affermato in sentenza. Infatti, il 
provvedimento ulteriore 
adottato nel 
corso della 
procedura, ovvero il 
favorevole 
giudizio di 
superamento 
della 
prova 
scritta 
aveva 
per 
oggetto 
la 
somministrazione 
di 
60 
domande 
intese 
ad 
accertare 
la 
conoscenza 
teorica 
e 
pratica 
delle 
materie 
analiticamente 
elencate 
nel 
bando di 
concorso, corrispondenti 
allo specifico profilo 
professionale 
per 
il 
quale 
i 
candidati 
concorrevano, 
mentre 
la 
prova 
preselettiva, come 
da 
bando, consisteva 
in un test 
composto da 
80 quesiti, comuni 
a 
tutti 
i 
profili 
professionali, prevalentemente 
intesi 
a 
verificare 
le 
capacità 
di 
ragionamento 
logico 
-matematico 
e 
critico 
verbale 
dei 
candidati: 
trattavasi, quindi, di 
due 
prove 
aventi 
contenuto eterogeneo tra 
loro. Come 
ha 
osservato in precedenza 
il 
Consiglio di 
Stato (Sez. V, sentenza 
10 settembre 
2009, 
n. 
5430), 
l'art. 
4, 
co. 
2 
bis, 
del 
d.l. 
n. 
115/2005 
convertito 
nella 
l. 
168/2005, in materia 
di 
assorbimento del 
precedente 
giudizio negativo della 
prova 
preselettiva, nella 
valutazione 
positiva 
ottenuta 
nelle 
prove 
scritte, pratiche 
ed orali, a 
cui 
il 
candidato sia 
stato ammesso con riserva 
a 
seguito del-
l'accoglimento 
di 
istanza 
cautelare 
é 
principio 
che 
deve 
ritenersi 
operante 
solo 
nell'ipotesi 
in cui 
l'oggetto dell'accertamento delle 
prove 
preliminari 
sia 
perfettamente 
sovrapponibile 
a 
quello 
delle 
successive 
e 
più 
analitiche 
prove. 
Per



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 2/2021 


tanto, la 
sovrapponibilità 
tra 
la 
prova 
inizialmente 
non superata 
e 
quella 
successiva, 
svolta 
a 
seguito 
di 
provvedimento 
cautelare 
di 
ammissione 
con 
riserva 
dovrebbe 
costituire 
una 
condizione 
per l'applicazione 
del 
principio dell'assorbimento, 
dovendo le 
prove 
per essere 
sovrapponibili 
riferirsi 
al 
medesimo ordine 
di argomenti e di materie. 


Al 
fine 
implicito di 
rafforzare 
l'assorbimento della 
prova 
preselettiva 
per 
effetto del 
superamento della 
prova 
scritta 
e 
delle 
successive 
prove 
sostenute 
dagli 
appellanti 
il 
Consiglio di 
Stato ha 
dato rilievo alla 
limitazione 
della 
domanda 
di 
annullamento 
proposta 
dai 
ricorrenti 
alla 
sola 
prova 
preselettiva, 
evidenziando 
come 
quest'ultima 
rappresenti 
"il 
segmento concorsuale 
eventuale 
della 
procedura 
concorsuale 
di 
specie, 
non 
funzionale 
alla 
determinazione 
del punteggio finale", come sostenuto da parte appellante. 


L'affermazione 
suscita 
perplessità, in quanto la 
fase 
di 
preselezione 
era 
esplicitamente 
contemplata 
come 
obbligatoria 
nel 
bando 
e 
non 
già 
come 
eventuale 
(ne 
erano 
esentati 
esclusivamente 
i 
candidati 
diversamente 
abili 
con 
percentuale 
di 
invalidità 
pari 
o superiore 
all'80%, ai 
sensi 
dell'art. 20, co. 2 bis, l. 


n. 
104/1992) 
e 
quindi 
da 
considerarsi 
strettamente 
collegata 
a 
quelle 
successive 
al 
fine 
di 
perseguire 
l'obiettivo 
di 
selezionare 
i 
migliori, 
in 
conformità 
a 
quanto 
prescrive 
la 
Costituzione, non potendo darsi 
rilevanza 
determinante 
alla 
circostanza 
che 
essa 
non concorreva 
alla 
formazione 
del 
punteggio finale. L'applicazione 
del 
meccanismo 
dell'assorbimento, 
insieme 
con 
la 
cesura 
creata 
tra 
fase 
preselettiva 
e 
successive 
fasi 
della 
procedura 
concorsuale, ha 
consentito 
al 
Consiglio 
di 
Stato, 
di 
superare 
l'obiezione 
sollevata 
dal 
TAR 
Campania 
sulla 
contraddittorietà 
tra 
petitum 
e 
causa petendi, nonché, sotto il 
profilo processuale, 
di 
non rispondere 
alla 
dedotta 
violazione 
dell'art. 40 c.p.a. da 
parte 
del 
ricorso; 
inoltre, la 
sentenza, più che 
rendere 
definitivi 
ed immodificabili 
gli 
emessi 
provvedimenti 
cautelari, 
ha 
reso 
irrilevante 
il 
mancato 
superamento 
della 
prova 
preselettiva 
attraverso 
la 
esclusione 
del 
giudizio 
di 
merito 
sulle 
censure 
formulate 
dagli 
allora 
ricorrenti, concernenti 
la 
violazione 
dell'anonimato, 
in 
nome 
della 
quale 
avevano 
ottenuto 
l'ammissione 
con 
riserva 
alla 
prova 
scritta. Al 
riguardo appare 
superfluo evidenziare 
che 
il 
provvedimento 
cautelare 
di 
ammissione 
con riserva 
a 
cui 
non fa 
seguito il 
giudizio di 
merito 
contrasta 
con 
le 
regole 
del 
processo 
amministrativo 
sopratutto 
allorché 
le 
prove 
non superate 
e 
quelle 
successive 
non siano sovrapponibili 
e 
che 
il 
principio 
dell'assorbimento non può considerarsi 
istituto di 
carattere 
generale, come 
rilevato 
in 
primo 
grado 
dal 
TAR 
allorché 
ha 
richiamato 
l'art. 
4, 
co. 
2 
bis, 
del 
d.l. 
n. 
115/2005, 
che, 
rendendo 
immodificabili 
i 
provvedimenti 
cautelari 
di 
ammissione 
con 
riserva, 
deroga 
agli 
effetti 
interinali 
del 
giudizio 
cautelare 
esclusivamente 
per i 
candidati 
alla 
abilitazione 
professionale 
che 
superino le 
prove scritte ed orali previste dal bando. 
La 
sentenza 
in 
esame, 
pertanto, 
ha 
lasciato 
del 
tutto 
impregiudicate 
le 
censure 
sollevate 
in 
primo 
grado 
dagli 
attuali 
appellanti, 
relative 
alla 
viola



CoNTENzIoSo 
NAzIoNALE 


zione 
del 
principio dell'anonimato nell'espletamento della 
prova 
preselettiva, 
che 
avrebbe 
meritato 
il 
necessario 
approfondimento, 
tenuto 
conto 
che 
l'art. 
97, 
3° 
co., 
della 
Costituzione 
prevede 
che, 
salvo 
i 
casi 
stabiliti 
dalla 
legge, 
agli 
impieghi 
nelle 
pubbliche 
amministrazioni 
si 
accede 
mediante 
concorso, che 
"rappresenta 
la 
forma 
ordinaria 
di 
reclutamento per le 
pubbliche 
amministrazioni" 
(Corte 
cost., 9 novembre 
2006, n. 363), articolata 
in "una 
selezione 
trasparente, 
comparativa, 
basata 
esclusivamente 
sul 
merito 
e 
aperta 
a 
tutti 
i 
cittadini 
in possesso di 
requisiti 
previamente 
e 
obiettivamente 
definiti" 
(Corte 
cost., 13 novembre 
2009, n. 293): 
conformandosi 
a 
tali 
principi, la 
giurisprudenza 
amministrativa 
é 
attestata 
per il 
rigoroso rispetto di 
tali 
criteri 
che 
rappresentano 
garanzia 
ineludibile 
di 
serietà 
della 
selezione 
e 
dello 
stesso 
funzionamento del 
meccanismo meritocratico (cfr. in tal 
senso: 
Consiglio di 
Stato, 
Adunanza 
Plenaria, 
sentenza 
20 
novembre 
2013, 
n. 
28; 
Sez. 
V, 
sentenza 
6 aprile 2010, n. 1928). 


L'applicazione 
di 
tali 
principi 
costituzionali 
non 
ha 
trovato, 
tuttavia, 
schierata 
in modo uniforme 
la 
giurisprudenza 
amministrativa 
con riferimento alla 
regola 
dell'anonimato 
nelle 
prove. 
Una 
parte 
della 
giurisprudenza 
si 
é 
pronunciata 
per un'applicazione 
rigorosa 
e 
letterale 
di 
tale 
principio, ritenendo che 
non 
sia 
consentito 
nemmeno 
in 
astratto 
che 
la 
commissione 
o 
altri 
soggetti 
possano 
essere 
in 
grado 
di 
identificare 
prima 
del 
momento 
procedimentale 
dell'apertura 
delle 
buste 
i 
dati 
identificativi 
dei 
candidati 
(così, Consiglio di 
Stato, 
Sez. 
VI, 
sentenze 
11 
luglio 
2013, 
n. 
3747 
e 
24 
settembre 
2015, 
n. 
4474); 
da 
ultimo, con riferimento alla 
sussistenza 
della 
violazione 
dell'anonimato in 
caso 
di 
apposizione 
negli 
elaborati 
di 
un 
breve 
codice 
numerico 
facilmente 
memorizzabile 
ed 
abbinabile 
al 
nominativo 
del 
candidato, 
il 
TAR 
Abruzzo, 
Pescara, Sez. I, sentenza 28 gennaio 2021, n. 32. 


In 
modo 
diverso 
ha 
affrontato 
il 
principio 
dell'anonimato 
la 
giurisprudenza 
più recente, con riferimento a 
fattispecie 
analoghe 
al 
caso in esame, costituite 
da 
prove 
consistenti 
in 
quiz 
a 
risposta 
multipla, 
con 
punteggi 
predeterminati 
e 
correzione 
con sistemi 
automatici. In tali 
casi, si 
é 
affermato 
che 
il 
rispetto 
del 
principio 
dell'anonimato 
non 
deve 
ritenersi 
finalizzato 
a 
salvaguardare 
a priori 
ogni 
possibile 
riconoscimento del 
candidato da 
parte 
dei 
componenti 
della 
commissione 
esaminatrice 
o di 
terzi, bensì 
a 
prevenire 
ogni 
possibilità 
di 
scelta 
nell'assegnazione 
dei 
test, nonché 
ogni 
possibilità 
di 
sostituzione 
e 
manipolazione 
del 
foglio di 
risposta, diventando così 
del 
tutto irrilevante 
la 
possibilità 
di 
identificazione 
del 
candidato, 
diversamente 
da 
quanto 
avviene 
con le 
prove 
scritte 
che 
comportano una 
valutazione 
discrezionale 
da 
parte 
della 
commissione 
esaminatrice: 
cfr. Consiglio di 
Stato, Sez. IV, 15 ottobre 
2019, n. 7005 e 
da 
ultimo TAR Campania, Sez. V, sentenza 
12 marzo 
2021, n. 1666. 


Alla 
luce 
di 
tali 
ultimi 
sviluppi 
giurisprudenziali, l'esigenza 
di 
una 
pronuncia 
nel 
merito sulla 
questione 
sollevata 
dai 
candidati 
ammessi 
con riserva 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 2/2021 


nella 
procedura 
concorsuale 
oggetto di 
commento sarebbe 
stata, oltre 
che 
necessaria 
sotto 
il 
profilo 
processuale, 
opportuna, 
essendo 
rimasto 
irrisolto 
il 
dubbio 
giuridico 
sulla 
imparzialità 
della 
selezione 
per 
tutti 
i 
candidati 
risultati 
non idonei 
alla 
fase 
preselettiva 
che 
non hanno voluto o potuto proporre 
ricorso. 


Inoltre, non é 
da 
trascurare 
che 
la 
sentenza 
che 
si 
commenta 
é 
stata 
emanata 
dopo 
solo 
circa 
due 
mesi 
dalla 
entrata 
in 
vigore 
dell' 
art. 
10 
del 
d.l. 
1° 
aprile 
2021, n. 44, convertito nella 
l. 28 maggio 2021, n. 76, che, nell'intento 
di 
semplificare 
le 
modalità 
di 
svolgimento dei 
concorsi 
pubblici, ha 
previsto, 
per quelli 
indirizzati 
al 
personale 
non dirigenziale, l'espletamento di 
una 
sola 
prova 
scritta 
con 
l'utilizzazione 
di 
strumenti 
informatici 
e 
digitali 
e 
di 
una 
prova 
orale. 
Pertanto, 
non 
essendo 
più 
prevista 
la 
prova 
preselettiva, 
se 
venisse 
lamentata 
da 
qualche 
candidato, risultato inidoneo alla 
prova 
scritta, la 
violazione 
del 
principio 
dell'anonimato 
per 
motivi 
analoghi 
a 
quelli 
fatti 
valere 
nella 
procedura 
concorsuale 
in questione, che 
trascende 
quindi 
la 
vicenda 
del 
singolo 
candidato, 
si 
dovrebbe 
imporre 
al 
Giudice 
Amministrativo 
una 
decisione 
sulla 
predetta 
violazione 
già 
in sede 
cautelare 
e 
in ogni 
caso in sede 
di 
merito, 
dovendosi 
escludere, 
ad 
avviso 
di 
chi 
scrive, 
che 
la 
procedura 
concorsuale 
possa 
continuare 
a 
svilupparsi 
nei 
confronti 
dei 
candidati 
inidonei 
alla 
prova 
scritta in virtù di provvedimenti cautelari di ammissione con riserva. 


Consiglio di 
Stato, Sezione 
V, sentenza 20 luglio 2021 n. 5468 
-pres. 
F. Caringella, est. E. 
Quadri 
-F.C.+5 
c. 
Regione 
Campania 
(avv.ti 
A. 
Bove, 
M. 
Cioffi, 
A. 
Marzocchella 
e 
T. 
Monti); 
Formez 
PA, 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri, 
Commissione 
Interministeriale 
Ripam 
(avv. 
gen. Stato). 


È 
improcedibile 
il 
ricorso di 
primo grado proposto da alcuni 
candidati 
avverso il 
provvedimento 
di 
esclusione 
dal 
concorso per 
mancato superamento della prova preselettiva qualora 
gli 
stessi, ammessi 
con riserva per 
effetto di 
provvedimenti 
cautelari, superino la successiva 
prova scritta, in applicazione del principio dell'assorbimento. 


FATTo 
Gli 
appellanti 
hanno partecipato al 
corso-concorso pubblico, per titoli 
ed esami, per il 
reclutamento 
di 
complessive 
2.175 unità 
di 
personale 
a 
tempo indeterminato, di 
cui 
n. 50 unità 
da 
inquadrare 
nella 
categoria 
D, diversi 
profili, e 
n. 1225 unità 
da 
inquadrare 
nella 
categoria 
C, 
diversi 
profili, 
presso 
la 
Regione 
Campania 
e 
presso 
gli 
Enti 
locali 
della 
Regione, 
bandito 
dalla Commissione interministeriale Ripam. 
La 
procedura 
concorsuale 
constava 
di 
una 
prima 
prova 
preselettiva, consistente 
in risposte 
ad 
un questionario articolato in 80 quesiti 
a 
risposta 
multipla, determinata 
senza 
prestabilire 
un 
punteggio minimo, ma 
garantendo l’accesso ad un numero di 
candidati 
pari 
a 
quattro volte 
il 
numero dei posti messi a concorso per ciascuno dei profili. 
Gli 
appellanti, 
avendo 
partecipato 
alla 
prova 
preselettiva 
e, 
tuttavia, 
non 
avendo 
raggiunto 
la 
soglia 
utile 
per 
l’accesso 
alla 
prova 
scritta, 
ne 
hanno 
impugnato 
l’esito 
innanzi 
al 
Tribunale 
am



CoNTENzIoSo 
NAzIoNALE 


ministrativo 
regionale 
per 
la 
Campania, 
il 
quale 
ha 
dichiarato 
inammissibile 
il 
ricorso 
con 
sentenza 
n. 
6542 
del 
2020, 
rilevando 
l’incompatibilità 
tra 
le 
censure 
ivi 
dedotte 
e 
le 
domande 
ivi 
formulate, 
considerata 
l’intrinseca 
contraddittorietà 
fra 
causa 
petendi 
(identificata 
nei 
vizi 
sollevati 
-di 
sostanziale 
violazione 
dell’anonimato, 
oltre 
ad 
altri 
-potenzialmente 
inficianti 
l’intera 
procedura) 
e 
il 
petitum 
espressamente 
limitato 
all’ammissione 
alle 
successive 
fasi 
concorsuali. 
L’appello contro la succitata sentenza è affidato ai seguenti motivi di diritto: 


I) error 
in procedendo/iudicando 
sulla 
ritenuta 
contraddittorietà 
fra 
petitum, espressamente 
limitato alla 
domanda 
d’ammissione 
alle 
successive 
fasi 
concorsuali, e 
causa petendi, identificata 
in vizi 
potenzialmente 
inficianti 
l’intera 
procedura 
concorsuale; 
nell’ottica 
del 
bilanciamento 
dei 
contrapposti 
interessi, si 
ritiene 
valida 
la 
scelta 
processuale 
di 
invocare 
il 
diritto 
all’avanzamento concorsuale quale risarcimento in forma specifica; 
II) 
error 
in 
iudicando, 
in 
merito 
alla 
negata 
tutela 
del 
legittimo 
affidamento 
riposto 
dagli 
odierni 
appellanti 
che, 
avendo 
superato 
le 
prove 
selettive 
dell’esame 
scritto 
ed 
essendo 
iscritti 
al 
percorso formativo/professionale, in fase 
avanzata, hanno confidato nell’intangibilità 
della 
specifica posizione, invocando la cessazione della materia del contendere. 
Si 
sono costituiti 
per resistere 
all’appello la 
Regione 
Campania, Formez 
Pa 
e 
la 
Presidenza 
del Consiglio dei Ministri, Commissione Interministeriale Ripam. 
In sede 
cautelare 
gli 
appellanti 
sono stati 
ammessi 
con riserva 
a 
sostenere 
le 
prove 
successive 
del concorso con ordinanza di questa sezione. 
Successivamente le parti hanno prodotto memorie a sostegno delle rispettive conclusioni. 
All’udienza dell’8 giugno 2021 l’appello è stato trattenuto in decisione. 
DIRITTo 
Giunge 
in decisione 
l’appello contro la 
sentenza 
del 
Tribunale 
amministrativo regionale 
per 
la 
Campania 
n. 
6542 
del 
2020, 
che 
ha 
dichiarato 
inammissibile 
il 
ricorso 
proposto 
dagli 
istanti, 
rilevando l’incompatibilità 
tra 
le 
censure 
ivi 
dedotte 
e 
le 
domande 
ivi 
formulate, considerata 
l’intrinseca 
contraddittorietà 
fra 
causa petendi 
(identificata 
nei 
vizi 
sollevati 
-di 
sostanziale 
violazione 
dell’anonimato, 
oltre 
ad 
altri 
-potenzialmente 
inficianti 
l’intera 
procedura) 
e 
il 
petitum 
espressamente limitato all’ammissione alle successive fasi concorsuali. 
Con il 
primo motivo parte 
appellante 
ha 
lamentato l’erroneità 
della 
sentenza, atteso che 
nessuna 
contraddittorietà 
sarebbe 
ravvisabile 
tra 
un 
petitum, 
che 
si 
sostanzia 
nella 
richiesta 
di 
prosecuzione 
concorsuale, 
anche 
a 
titolo 
di 
risarcimento 
in 
forma 
specifica 
(ex 
art. 
2058 
codice 
civile), e 
una 
causa petendi, manifestata 
nei 
plurimi 
profili 
di 
illegittimità 
denunciati, impropriamente 
ricondotti, dal 
giudice 
di 
prime 
cure, alla 
sola 
violazione 
del 
principio dell’anonimato, 
atteso che 
i 
denunciati 
vizi, afferenti 
il 
segmento concorsuale 
eventuale 
della 
sola 
fase 
preselettiva 
-mera 
scrematura 
iniziale 
non 
funzionale 
alla 
determinazione 
del 
punteggio 
finale, 
nemmeno idonea 
a 
saggiare 
la 
selezione 
meritocratica 
degli 
aspiranti 
-non avrebbero potuto 
travolgere l’intera procedura concorsuale. 
Del 
tutto illogica 
risulterebbe, altresì, la 
deduzione, parimenti 
contestata, in merito alla 
non 
estensione 
del 
gravame 
alla 
“graduatoria 
finale”; 
infatti, 
nessuna 
graduatoria 
definitiva 
è 
stata, 
al 
momento, pubblicata, per i 
profili 
professionali 
rappresentati. Gli 
appellanti 
hanno principalmente 
impugnato le 
graduatorie 
degli 
ammessi 
alle 
prove 
scritte, atti 
immediatamente 
lesivi, 
in 
quanto 
preclusivi 
all’avanzamento 
concorsuale. 
Inoltre, 
a 
fronte 
dell’impugnazione 
del 
bando 
di 
concorso 
-e 
correlati 
atti 
immediatamente 
lesivi 
-non 
potevano 
configurarsi 
controinteressati 
in senso tecnico, fino al 
momento in cui 
non si 
fosse 
provveduto all’approvazione 
di una graduatoria definitiva. 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 2/2021 


Con il 
secondo motivo gli 
appellanti 
hanno dedotto l’erroneità 
della 
sentenza, atteso che, nel 
caso 
de 
quo, 
diversamente 
da 
quanto 
asserito 
dal 
giudice 
di 
prime 
cure, 
il 
consolidamento 
della 
posizione 
degli 
assistiti 
deriverebbe 
dall’effettivo superamento della 
prova 
scritta 
concorsuale, 
step selettivo che 
concorrerà 
alla 
valutazione 
finale, rendendo idonei 
al 
prosieguo, 
ma 
che 
ancora 
non assicura 
la 
“successiva 
immissione 
in ruolo”, posto che 
un’ulteriore 
selezione, 
cosiddetta 
prova 
orale 
finale, dovrà 
essere 
sostenuta. Tale 
consolidamento non è 
invocabile 
in termini 
generali 
ed astratti, riguardando, piuttosto, una 
fattispecie 
concreta, quella 
del 
reclutamento regionale 
in fase 
di 
svolgimento. Tra 
l’altro, per la 
maggior parte 
dei 
profili 
interessati, 
le 
programmate 
assunzioni 
sono 
superiori 
rispetto 
al 
numero 
degli 
ammessi, 
in 
procinto 
di 
completare 
la 
selezione 
concorsuale, 
per 
scelte 
politico/sindacali 
alla 
luce 
del 
fabbisogno 
occupazionale campano e degli enti locali. 
Per 
il 
Collegio 
è, 
innanzitutto, 
da 
disattendere 
l’eccezione 
di 
carenza 
di 
legittimazione 
passiva 
sollevata 
dalla 
Regione 
e 
dalla 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri, Commissione 
Interministeriale 
Ripam, per i quali la legittimazione passiva dovrebbe riconoscersi solo al Formez. 
Invero, la 
procedura 
di 
specie 
si 
sostanzia 
in un concorso unico territoriale 
per le 
amministrazioni 
della 
Regione 
Campania 
nell’ambito del 
quale 
i 
vari 
enti 
pubblici 
interessati 
alle 
assunzioni 
hanno delegato alla 
Regione 
la 
gestione 
degli 
adempimenti 
propedeutici 
all’avvio del 
concorso, promosso dalla 
Giunta 
regionale 
della 
Campania, e 
alla 
Commissione 
Interministeriale 
Ripam 
l’espletamento del 
medesimo corso-concorso, con riferimento ai 
profili 
professionali 
evidenziati sul portale “concorsiuniciregionali.gov.it”. 
Nel 
merito, 
la 
difesa 
delle 
amministrazioni 
appellate 
contesta 
la 
fondatezza 
dell’appello, 
aderendo 
pienamente 
alle 
statuizioni 
della 
sentenza 
appellata, anche 
in considerazione 
della 
limitazione, 
per giurisprudenza 
costante, dell’applicazione 
del 
principio dell’assorbimento ai 
soli esami di abilitazione, e non ai concorsi. 
La 
Regione 
Campania 
rappresenta, altresì, che 
è 
interesse 
assoluto dell’amministrazione 
salvaguardare 
del 
tutto la 
procedura, atteso il 
rilevante 
sforzo amministrativo ed organizzativo 
nonché 
l’imponente 
investimento 
finanziario 
posti 
in 
essere, 
lo 
stato 
avanzato 
della 
procedura 
corso 
-concorsuale 
e 
la 
necessità, 
impellente, 
delle 
amministrazioni 
aderenti 
alla 
copertura 
del 
proprio fabbisogno occupazionale. Una 
eventuale 
pronuncia 
che 
dovesse 
mettere 
in discussione 
la 
legittimità 
della 
procedura 
causerebbe 
danni 
enormi 
a 
tutte 
le 
amministrazioni 
pubbliche 
che 
hanno 
aderito 
al 
progetto 
e 
ai 
candidati 
che 
hanno 
superato 
le 
prove 
concorsuali, 
stanno conducendo la 
fase 
di 
formazione 
e 
di 
rafforzamento presso le 
stesse 
amministrazioni 
e 
stanno percependo la 
borsa 
lavoro pari 
a 
complessivi 
diecimila 
euro per ciascun candidato. 
La 
Regione 
precisa, 
inoltre, 
che 
le 
graduatorie 
hanno 
contemplato 
l’inserimento 
dei 
candidati 
appellanti 
risultati 
idonei 
non 
in 
sovrannumero, 
ma 
annoverando 
gli 
stessi 
all’interno 
del 
contingente 
ammissibile 
previsto 
dal 
bando 
e, 
dunque, 
quali 
concorrenti 
per 
la 
definitiva 
assunzione. 
Tutto ciò premesso, l’appello è fondato. 
Deve, innanzitutto, rilevarsi 
che 
gli 
appellanti 
hanno manifestato interesse 
solo all’annullamento 
del risultato della prova preselettiva, e non all’intera procedura concorsuale. 
Inoltre, deve 
ribadirsi 
che 
il 
principio cosiddetto dell'assorbimento, in forza 
del 
quale 
il 
superamento 
degli 
esami 
di 
maturità 
(o di 
promozione 
a 
classe 
superiore) da 
parte 
del 
candidato 
che 
sia 
stato ammesso con riserva 
da 
parte 
del 
giudice 
amministrativo, assorbe 
l'iniziale 
giudizio 
negativo di 
ammissione 
espresso dalla 
commissione 
di 
classe, con conseguenziale 
improcedibilità 
del 
ricorso 
avverso 
l'originario 
provvedimento 
di 
non 
ammissione, 
è 
stato 
elaborato 
dalla 
giurisprudenza 
amministrativa 
per 
quella 
specifica 
casistica, 
e 
si 
basa 
sulla 
considerazione 
che 
la 
promozione 
alla 
classe 
superiore 
o il 
superamento di 
un esame 
presup



CoNTENzIoSo 
NAzIoNALE 


pongono, la 
prima, una 
valutazione 
positiva 
del 
candidato che 
si 
estrinseca 
su un programma 
più ampio di 
quello svolto nella 
classe 
inferiore, il 
secondo, un apprezzamento globale 
del 
candidato, 
sicché 
in 
entrambe 
le 
ipotesi 
il 
giudizio 
positivo 
si 
pone 
su 
di 
una 
circostanza 
esterna e sopravvenuta rispetto a quella precedente di non ammissione. 
Tale 
principio, in via 
generale, non è 
utilizzabile 
nel 
caso di 
concorso, in cui 
l'accertamento 
di 
determinati 
requisiti 
non 
si 
sovrappone 
in 
relazione 
al 
medesimo 
aspetto 
(maturità 
del 
candidato 
ritenuta 
insussistente 
nel 
previo 
giudizio 
di 
non 
ammissione), 
ma 
riguarda 
anche 
aspetti 
(possesso dei 
titoli 
e 
preparazione, in prove 
scritte 
e 
orali) diversi 
sulle 
capacità 
e 
sul 
rendimento 
(Cons. Stato, IV, 14 febbraio 2005, n. 438). 
La 
giurisprudenza 
di 
questo Consiglio è 
prevalentemente 
orientata 
nel 
senso di 
ritenere 
che 
il 
limite 
all'espansione 
dell'effetto caducante 
sugli 
ulteriori 
atti 
adottati 
dall'amministrazione 
sia 
rappresentato 
dall'operatività 
del 
suddetto 
principio 
di 
assorbimento, 
nel 
senso 
che 
l'effetto 
caducante 
non si 
esplica 
sugli 
atti 
ulteriori 
che 
assorbano, comunque, il 
provvedimento originariamente 
impugnato 
operando 
una 
nuova 
verifica 
che 
si 
ponga 
come 
“circostanza 
esterna 
e 
sopravvenuta”. In tal 
senso si 
è 
ritenuto che 
il 
superamento degli 
esami 
di 
maturità, che 
il 
candidato abbia 
sostenuto a 
seguito di 
ammissione 
con riserva 
da 
parte 
del 
giudice 
amministrativo, 
assorbe 
il 
giudizio negativo di 
ammissione 
espresso dal 
Consiglio di 
classe 
determinando 
l'improcedibilità 
del 
ricorso 
avverso 
l'originario 
provvedimento 
di 
non 
ammissione 
(Cons. Stato, sez. VI, 20 dicembre 1999, n. 2098). 
Tale 
orientamento si 
è, tuttavia, formato con riguardo alla 
specifica 
fattispecie 
dell'esame 
di 
maturità, caratterizzata 
dal 
fatto che 
tale 
esame 
“pur 
vertendo su un numero limitato di 
materie, 
comporta la valutazione 
globale 
del 
candidato, che 
la Commissione 
compie 
attraverso 
l'esame 
del 
curriculum 
scolastico, nel 
quale 
sono ricompresi 
i 
giudizi 
negativi 
espressi 
dal 
Consiglio di classe in sede di ammissione” (Cons. Stato, sez. VI, n. 474 del 1996). 
Il 
giudizio 
di 
ammissione, 
pertanto, 
non 
può 
essere 
considerato 
giudizio 
definitivo, 
nemmeno 
per quanto riguarda 
le 
materie 
oggetto d'esame, essendo sempre 
libera 
la 
Commissione 
di 
discostarsene 
attraverso una valutazione difforme del 
curriculum 
scolastico. 
In 
relazione 
all’ipotesi 
del 
candidato 
che 
abbia 
superato 
la 
prova 
orale 
dell’esame 
di 
avvocato 
a 
seguito di 
un atto di 
ammissione 
alla 
stessa 
adottato dall’amministrazione 
in esecuzione 
di 
una 
sentenza 
di 
primo grado appellata, è 
stato affermato che 
la 
fattispecie 
presenta 
caratteristiche 
in parte 
diverse, in quanto l'ammissione 
alla 
prova 
orale 
costituisce 
senz’altro un presupposto 
indispensabile per l’espletamento della stessa. 
Inoltre, sia 
l’originaria 
valutazione 
di 
non ammissione 
alla 
prova 
orale 
sia 
la 
valutazione 
positiva 
del 
candidato in sede 
di 
prova 
orale 
sono formulate 
dalla 
medesima 
Commissione 
nel-
l’ambito di 
un procedimento unitario. “risulta, quindi, necessario precisare 
se, in presenza 
di 
tali 
presupposti, operi 
o meno il 
c.d. principio di 
assorbimento, determinando eventualmente 
l'improcedibilità del gravame. 
la decisione 
di 
tale 
questione 
incide 
sulla definizione 
di 
numerose 
controversie 
non solo in 
materia 
di 
esami 
di 
abilitazione 
di 
avvocato, 
ma 
anche 
in 
relazione 
ad 
altri 
esami 
o 
a 
concorsi 
che, parimenti, prevedano una prova scritta ed una prova orale 
e 
presentino caratteristiche 
similari” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, ordinanza 7 novembre 2002, n. 6102). 
Il 
Consiglio di 
Stato, con decisione 
del 
27 febbraio 2002, n. 3, resa 
in adunanza 
plenaria 
su 
sollecitazione 
dell’ordinanza 
succitata, ha 
ritenuto applicabile 
il 
principio dell’assorbimento 
anche in questi casi. 
Ed invero, è 
stato ben chiarito come 
l'improcedibilità 
del 
ricorso o dell'appello potrebbe 
discendere 
dalla 
adozione 
di 
atti 
diversi 
e 
ulteriori 
(in sostanza 
un autonomo ripensamento in 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 2/2021 


sede 
amministrativa 
sulla 
negata, 
in 
precedenza, 
ammissione) 
rispetto 
a 
quelli 
costituenti 
esecuzione 
della misura cautelare (o della sentenza) del giudice amministrativo. 
Per la 
sentenza 
dell’adunanza 
plenaria, è 
improcedibile 
per sopravvenuta 
carenza 
di 
interesse 
l'appello 
dell'amministrazione 
avverso 
la 
statuizione 
di 
un 
tribunale 
amministrativo 
regionale 
che 
abbia 
ritenuto 
insufficiente 
la 
motivazione, 
espressa 
in 
punteggio 
numerico, 
di 
insufficienza 
delle 
prove 
scritte 
di 
un candidato (nella 
specie, all'esame 
per il 
conseguimento del 
titolo 
di 
avvocato), qualora 
l'amministrazione 
medesima, in esecuzione 
di 
detta 
decisione, non 
si 
sia 
limitata 
ad ampliare 
la 
motivazione 
del 
giudizio negativo già 
emesso, ma 
abbia 
proceduto 
ad un nuovo ed autonomo giudizio, stavolta favorevole, sugli elaborati del candidato. 
È 
stata, dunque, dichiarata 
la 
sopravvenuta 
carenza 
d'interesse 
ad una 
pronunzia 
d'annullamento 
della 
sentenza 
del 
primo 
giudice, 
in 
considerazione 
della 
suindicata 
nuova 
attività 
della 
commissione e dell'avvenuta iscrizione dell’interessato all'albo professionale. 
A 
questa 
tesi 
la 
sentenza 
è 
pervenuta 
sulla 
considerazione 
che 
l'operato della 
commissione 
non 
si 
è 
limitato 
a 
ribadire 
il 
voto 
già 
dato, 
con 
motivazione, 
ma 
che 
si 
è 
risolto 
in 
un’autonoma 
pronunzia 
sui 
medesimi 
elaborati. 
“la 
sentenza 
di 
primo 
grado 
aveva 
soltanto 
imposto 
di 
motivare, 
non di più”. 
“il 
precedente 
giudizio negativo è 
stato, dunque, assorbito nel 
nuovo giudizio positivo, come 
già 
conclude 
la 
giurisprudenza 
di 
questo 
Consiglio 
in 
tema 
di 
rapporto 
fra 
giudizio 
scolastico 
di 
non ammissione 
ad esami 
e 
di 
giudizio positivo espresso dalla commissione 
d'esame, nei 
casi di ammissione con riserva alle prove” (Cons. St., ad. plen., 27 febbraio 2003 n. 3). 
Il 
provvedimento sfavorevole 
di 
non ammissione 
alla 
prova 
orale 
dell'esame 
di 
avvocato è 
stato, quindi, considerato superato ed assorbito a 
seguito delle 
favorevoli 
valutazioni 
del 
candidato 
espresse 
dalla 
Commissione 
esaminatrice 
in sede 
di 
ricorrezione 
delle 
prove 
scritte 
effettuata 
in esecuzione di tale pronuncia - ed in sede di prova orale. 
Invero, 
l’attività 
amministrativa 
non 
si 
esaurisce 
sempre 
nella 
semplice 
rinnovazione 
del 
provvedimento 
annullato dal 
Tribunale 
amministrativo regionale, ma 
spesso comporta 
il 
compimento 
di 
ulteriori 
atti 
che 
hanno 
come 
presupposto 
logico 
e 
giuridico 
il 
nuovo 
provvedimento 
adottato in esecuzione della sentenza di primo grado. 
Nella 
fattispecie 
esaminata 
dall’adunanza 
plenaria, 
in 
particolare, 
la 
Commissione 
esaminatrice, 
dopo 
aver 
rinnovato 
la 
valutazione 
delle 
prove 
scritte 
ed 
aver 
ammesso 
il 
candidato 
alla 
prova 
orale, 
aveva 
anche 
proceduto 
all’espletamento 
di 
tale 
prova, 
formulando 
un 
giudizio 
positivo. 
La fattispecie all’esame del Collegio presenta analoghe caratteristiche. 
Nella 
procedura 
concorsuale 
di 
specie, il 
segmento concorsuale 
eventuale 
della 
fase 
preselettiva 
rappresenta, come 
ben dedotto da 
parte 
appellante, mera 
scrematura 
iniziale 
non funzionale 
alla 
determinazione 
del 
punteggio 
finale, 
nemmeno 
idonea 
a 
saggiare 
la 
selezione 
meritocratica degli aspiranti. 
Gli 
odierni 
appellanti 
sono stati 
ammessi 
alla 
partecipazione 
alle 
prove 
scritte 
del 
concorso, 
successivamente 
sostenuto 
e 
superato, 
nelle 
calendarizzate 
date 
e 
per 
i 
rispettivi 
profili, 
nonché 
al 
successivo 
tirocinio 
formativo 
-stage 
pratico 
applicativo 
in 
corso 
di 
svolgimento 
-che 
precede 
l’iter d’inserzione nelle graduatorie finali. 
Gli 
appellanti 
sono stati 
autorizzati 
ai 
fini 
partecipativi; 
hanno superato la 
prova 
scritta, che 
a 
differenza 
della 
preselettiva 
concorrerà 
nella 
determinazione 
del 
punteggio 
finale; 
hanno 
avviato il 
tirocinio formativo, presso l’Ente 
locale 
di 
riferimento, in fase 
di 
completamento e 
senza subire alcuna contestazione ai fini partecipativi. 
Il 
giudizio 
positivo 
formulato 
dall’amministrazione 
si 
pone, 
dunque, 
su 
di 
una 
circostanza 
esterna 
e 
sopravvenuta 
rispetto a 
quella 
precedente 
di 
non ammissione, ragion per cui 
il 
prin



CoNTENzIoSo 
NAzIoNALE 


cipio dell’assorbimento, come sopra declinato, ben può trovare applicazione. 
Alla 
luce 
delle 
suesposte 
considerazioni 
l’appello va 
accolto e, per l’effetto, in riforma 
della 
sentenza 
appellata, 
va 
dichiarato 
improcedibile 
per 
sopravvenuta 
carenza 
d’interesse 
il 
ricorso 
di primo grado. 
Sussistono 
giusti 
motivi 
per 
disporre 
l’integrale 
compensazione 
fra 
le 
parti 
delle 
spese 
del 
doppio grado di giudizio. 


P.Q.M. 
Il 
Consiglio di 
Stato in sede 
giurisdizionale 
(Sezione 
Quinta), definitivamente 
pronunciando 
sull'appello, come 
in epigrafe 
proposto, lo accoglie, e, per l’effetto, in riforma 
della 
sentenza 
appellata, dichiara improcedibile il ricorso di primo grado. 
Spese del doppio grado compensate. 
ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. 
Così 
deciso 
nella 
camera 
di 
consiglio 
del 
giorno 
8 
giugno 
2021, 
tenuta 
con 
le 
modalità 
previste 
dagli 
artt. 4 del 
d.l. 30 aprile 
2020, n. 28, convertito dalla 
legge 
25 giugno 2020, n. 70, e 
25 
del 
d.l. 28 ottobre 
2020, n. 137, convertito dalla 
legge 
18 dicembre 
2020, n. 176, come 
modificato 
dall’art. 6, comma 
1, lett. e), del 
d.l. 1 aprile 
2021, n. 44, convertito dalla 
legge 
28 
maggio 2021, n. 76. 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 2/2021 


Interdittive antimafia: una strumentalizzazione dell’istituto 
del controllo giudiziario ex art. 34 bis Codice antimafia 


CoNSiglio 
di 
Stato, SezioNe 
terza, ordiNaNza 
15 ottobre 
2021 N. 5667; 
CoNSiglio 
di 
Stato, SezioNe 
terza, SeNteNza 
4 febbraio 
2021 N. 1049 


Wally Ferrante* 


L’ordinanza 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
del 
15 
ottobre 
2021, 
n. 
5667 
ha 
finalmente 
segnato 
un'inversione 
di 
rotta 
(unitamente 
a 
quella 
ivi 
segnalata 
del 
29 
settembre 
2021, 
n. 
5371) 
rispetto 
alla 
prassi 
di 
rinviare 
non 
solo 
gli 
appelli 
avversari 
in 
caso 
di 
conferma 
della 
legittimità 
dell'interdittiva 
antimafia 
da 
parte 
del 
TAR 
ma 
anche 
gli 
appelli 
dell’amministrazione 
a 
fronte 
di 
un'interdittiva 
annullata 
o 
sospesa 
dal 
giudice 
di 
primo 
grado, 
in 
attesa 
della 
decisione 
dell'istanza 
di 
ammissione 
al 
controllo 
giudiziario 
ex 
art. 
34 
bis 
Codice 
antimafia 
(1). 


L'effetto sospensivo 
ex 
lege 
dell'interdittiva 
antimafia 
derivante 
dall'ammissione 
a 
controllo 
giudiziario 
a 
domanda 
(che 
non 
prevede 
lo 
spossessamento 
gestorio 
dell'impresa 
bensì 
un 
blando 
monitoraggio 
degli 
organi 
societari) 
ha 
comportato 
una 
strumentalizzazione 
dell'istituto 
del 
controllo 
giudiziario, 
del 
tutto contraria 
alla 
ratio 
sottesa 
alla 
sua 
introduzione, al 
fine 
di 
paralizzare 
gli 
effetti 
delle 
interdittive 
antimafia 
e 
l'accertamento 
definitivo 
della 
loro 
legittimità 
in 
sede 
giurisdizionale, 
con 
ogni 
intuibile 
riflesso 
nel 
caso delle c.d. interdittive a cascata. 


L'uso 
distorto 
dell'istituto 
è 
stato 
segnalato 
dall’Avvocatura 
dello 
Stato 
nel 
corso di 
un'audizione 
innanzi 
alla 
Commissione 
parlamentare 
di 
inchiesta 
sul 
fenomeno 
delle 
mafie, 
auspicando 
una 
modifica 
normativa 
che 
elimini 
l'automatismo sospensivo previsto dal 
comma 
7 dell'art. 34 bis 
Codice 
antimafia, 
lasciando al 
giudice 
amministrativo il 
potere 
di 
sospendere, nelle 
more 
della 
decisione 
di 
merito, gli 
effetti 
dell'interdittiva, con una 
valutazione 
caso 
per caso e non aprioristica ed astratta, derivante direttamente dalla legge. 


Con l’ordinanza 
in rassegna, il 
Consiglio di 
Stato ha 
affermato che 
"non 
è 
consentito subordinare 
l'efficacia 
della 
misura 
cautelare 
all'ammissione 
del-
l'impresa 
al 
controllo 
giudiziario, 
in 
quanto 
è 
diverso 
l'oggetto 
del 
giudizio 
avanti 
al 
giudice 
amministrativo, che 
deve 
verificare 
la 
sussistenza 
degli 
elementi 
posti 
a 
base 
del 
provvedimento prefettizio, e 
quello davanti 
al 
giudice 
ordinario, che 
deve 
effettuare 
una 
prognosi 
circa 
il 
recupero dell’impresa 
al 
circuito 
legale 
per 
l’occasionalità 
del 
collegamento 
con 
le 
associazioni 
mafiose, 
e 
non 
si 
può 
dunque 
nemmeno 
vincolare 
temporaneamente 
l’esito, 
anche 
cautelare, del primo giudizio alle sorti del secondo". 


(*) Avvocato dello Stato. 


(1) Prolematica già evidenziata dall’avv. Stato Francesco Pignatone. 

CoNTENzIoSo 
NAzIoNALE 


Di 
rilievo è 
inoltre 
la 
sentenza 
del 
Consiglio di 
Stato n. 1049/2021 che 
si 
sofferma 
diffusamente 
sui 
rapporti 
tra 
interdittiva 
antimafia 
e 
controllo giudiziario, 
ritenendo manifestamente 
infondata 
la 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
ex 
adverso 
sollevata 
in 
relazione 
all'asserita 
disparità 
di 
trattamento 
che 
si 
creerebbe 
tra 
l'impresa 
ammessa 
al 
controllo giudiziario, che 
beneficia 
dell'effetto sospensivo dell'interdittiva, e 
l'impresa 
non ammessa 
al 
controllo 
giudiziario non perché 
l'agevolazione 
è 
più che 
occasionale 
ma 
perché 
l'infiltrazione 
mafiosa non raggiunge nemmeno la soglia dell'occasionalità. 


Con il 
D.L. 6 novembre 
2021, n. 152 recante 
“Disposizioni 
urgenti 
per 
l'attuazione 
del 
Piano nazionale 
di 
ripresa 
e 
resilienza 
(PNRR) e 
per la 
prevenzione 
delle 
infiltrazioni 
mafiose” 
(in G.U. 6 novembre 
2021, n. 265) sono 
state apportate alcune rilevanti modifiche al Codice antimafia. 

L’art. 
49 
recante 
“Prevenzione 
collaborativa” 
introduce 
un 
nuovo 
istituto 
di 
competenza 
del 
Prefetto 
e 
non 
del 
giudice 
della 
prevenzione 
che 
presuppone, 
come 
il 
controllo 
giudiziario, 
l’occasionalità 
del 
condizionamento 
mafioso. 


L’art. 48 recante 
“Contraddittorio nel 
procedimento di 
rilascio dell'interdittiva 
antimafia” 
introduce 
inoltre 
l’obbligo 
del 
contraddittorio 
preventivo 
rispetto 
all’adozione 
dell’interdittiva 
antimafia, 
qualora 
non 
ricorrano 
particolari 
esigenze 
di 
celerità 
del 
procedimento, e 
prevede 
che 
possano essere 
valutate 
le 
modifiche 
societarie 
intervenute 
tra 
la 
comunicazione 
dell’inizio del 
procedimento 
e l’adozione dell’interdittiva. 

L’art. 
47 
recante 
“Amministrazione 
giudiziaria 
e 
controllo 
giudiziario 
delle 
aziende” 
introduce 
infine 
alcune 
modificazioni 
all'articolo 
34-bis: 
in 
particolare, 
ove 
sia 
applicata 
la 
prevenzione 
collaborativa 
ex 
art. 
94-bis, 
il 
Tribunale 
valuta 
l’adozione 
della 
misura 
del 
controllo 
giudiziario; 
per 
il 
controllo 
giudiziario 
“a 
domanda” 
si 
prevede 
che 
sia 
sentito 
non 
solo 
il 
procuratore 
distrettuale 
competente 
ma 
anche 
il 
prefetto 
che 
ha 
adottato 
l’interdittiva 
antimafia; 
il 
comma 
7 
dell’art. 
34-bis 
continua 
a 
prevedere 
che 
l’ammissione 
al 
controllo 
giudiziario 
sospende 
gli 
effetti 
dell’interdittiva 
antimafia 
e 
dispone 
che 
l’ammissione 
al 
controllo 
giudiziario 
è 
valutato 
anche 
ai 
fini 
del-
l'applicazione 
delle 
misure 
derivanti 
dalla 
“prevenzione 
collaborativa” 
nei 
successivi 
cinque 
anni. 


Vista 
l’identità 
del 
presupposto, 
“l’agevolazione 
occasionale”, 
che 
consente 
l’accesso 
al 
controllo 
giudiziario 
ex 
art. 
34 
bis 
codice 
antimafia 
e 
quello 
alla 
prevenzione 
collaborativa 
ex 
art. 
94-bis 
dello 
stesso 
codice, 
il 
primo 
di 
competenza 
del 
giudice 
penale 
-sezione 
misure 
di 
prevenzione 
e 
il 
secondo 
di 
competenza 
del 
prefetto, 
si 
prospettano 
probabili 
sovrapposizione 
dei 
due 
istituti, 
il 
che 
complica 
ulteriormente 
il 
quadro 
applicativo 
che 
si 
è 
sopra 
delineato. 


L’introduzione 
del 
contraddittorio 
prima 
dell’adozione 
dell’interdittiva 
antimafia, sempre 
che 
non ricorrano particolari 
esigenze 
di 
celerità, pur non 



RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 2/2021 


imposto dalla 
giurisprudenza 
dell’Unione 
europea 
e 
costituzionale, comporta 
una 
maggiore 
procedimentalizzazione 
dell’iter che 
conduce 
all’adozione 
del-
l’interdittiva 
antimafia. 
Suscita 
alcune 
perplessità 
la 
valutazione, 
a 
tali 
fini, 
delle 
modifiche 
societarie 
che 
intervengano nell’intervallo temporale 
che 
va 
dalla 
comunicazione 
di 
avvio del 
procedimento all’adozione 
dell’interdittiva, 
che 
rischia 
di 
vanificare 
il 
contrasto ad operazioni 
elusive 
meramente 
formali 
e 
di 
facciata, che 
celano il 
mantenimento di 
fatto della 
gestione 
dell’impresa 
da 
parte 
della 
precedente 
governance, anche 
tenuto conto del 
fatto che 
l’art. 
84, 
comma 
4 
lettera 
f) 
del 
codice 
antimafia 
indica 
proprio 
le 
sostituzioni 
negli 
organi 
sociali, nella 
rappresentanza 
legale 
della 
società 
nonché 
nella 
titolarità 
delle 
imprese 
individuali 
ovvero 
delle 
quote 
societarie, 
quali 
indici 
di 
comportamenti 
elusivi della normativa antimafia. 


Inoltre, il 
perdurante 
effetto 
sospensivo dell’interdittiva 
antimafia 
conseguente 
all’ammissione 
al 
controllo giudiziario non fa 
venir meno le 
criticità 
segnalate 
relative 
alla 
strumentalizzazione 
dell’uso di 
tale 
istituto per finalità 
estranee 
alla 
ratio 
di 
contrasto alla 
criminalità 
organizzata 
e 
di 
recupero del-
l’impresa all’economia legale. 


Consiglio di 
Stato, Sezione 
Terza, ordinanza 15 ottobre 
2021 n. 5667 
-pres. F. Frattini, 
est. R. Sestini 
-oMISSIS 
(avv. G. Stea) c. Ministero dell’Interno, Ufficio Territoriale 
del 
Governo 
di Lecce (avv. gen. Stato). 


(...) 
Preso 
atto 
che 
l’impresa 
edile 
appellante 
dichiara 
che 
“il 
profilo 
devoluto 
alla 
cognizione 
cautelare 
d’appello è 
limitato alla 
sola 
richiesta 
di 
sospensione 
del 
decreto prefettizio impugnato 
fino alla 
decisione 
del 
Tribunale 
ordinario sull’istanza 
di 
controllo ex art. 34-bis, co. 6, d.lgs. 
159/2011, depositata dalla società ricorrente in data 
oMISSIS. 
Vista 
la 
giurisprudenza, 
cui 
questa 
Sezione 
aderisce, 
secondo 
cui 
non 
è 
consentito 
subordinare 
l’efficacia 
della 
misura 
cautelare 
all’ammissione 
dell’impresa 
al 
controllo 
giudiziario, 
in 
quanto è 
diverso l’oggetto del 
giudizio avanti 
al 
giudice 
amministrativo, che 
deve 
verificare 
la 
sussistenza 
degli 
elementi 
posti 
a 
base 
del 
provvedimento prefettizio, e 
quello davanti 
al 
giudice 
ordinario, che 
deve 
effettuare 
una 
prognosi 
circa 
il 
recupero dell’impresa 
al 
circuito 
legale 
per l’occasionalità 
del 
collegamento con le 
associazioni 
mafiose, e 
non si 
può dunque 
nemmeno vincolare 
temporaneamente 
l’esito, anche 
cautelare, del 
primo giudizio alle 
sorti 
del secondo (da ultimo, Cons. St., Sez. III, ordinanza 29 settembre 2021, n. 5371). 
Considerato, in ogni 
caso, che 
secondo la 
documentazione 
agli 
atti 
del 
giudizio non sembra 
possibile 
ricondurre 
l’impugnata 
interdittiva 
antimafia 
a 
contiguità 
meramente 
occasionali 
con 
il 
mondo 
della 
criminalità 
organizzata, 
anche 
alla 
luce 
del 
ruolo 
svolto 
dal 
fratello 
del 
socio unico e amministratore, ritenuto gestore di fatto della medesima società. 
Ritenuto 
pertanto 
di 
dover 
respingere 
la 
domanda 
cautelare, 
con 
condanna 
della 
parte 
soccombente 
alle spese di giudizio; 


P.Q.M. 
Respinge l'appello (Ricorso numero: 8193/2021). 



CoNTENzIoSo 
NAzIoNALE 


Condanna 
l’appellante 
al 
pagamento delle 
spese 
di 
giudizio, liquidate 
in Euro 3.000,00 (tremila) 
oltre ad IVA, CPA ed accessori. 
La 
presente 
ordinanza 
sarà 
eseguita 
dall'Amministrazione 
ed è 
depositata 
presso la 
segreteria 
della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. 
Ritenuto 
che 
sussistano 
i 
presupposti 
di 
cui 
all'articolo 
52, 
commi 
1 
e 
2, 
del 
decreto 
legislativo 
30 giugno 2003, n. 196, e 
dell’articolo 9, paragrafo 1, del 
Regolamento (UE) 2016/679 del 
Parlamento europeo e 
del 
Consiglio del 
27 aprile 
2016, a 
tutela 
dei 
diritti 
o della 
dignità 
della 
parte 
interessata, manda 
alla 
Segreteria 
di 
procedere 
all'oscuramento delle 
generalità 
nonché 
di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare l’appellante. 
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 ottobre 2021. 

Consiglio di 
Stato, Sezione 
Terza, sentenza 4 febbraio 2021 n. 1049 -pres. 
F. Frattini, est. 


G. 
Tulumello 
-oMISSIS 
(avv. 
L.M. 
D’Angiolella) 
c. 
Ministero 
dell’Interno, 
Ufficio 
Territoriale 
del Governo di Caserta (avv. gen. Stato). 
FATTo e DIRITTo 


1. 
Con 
sentenza 
n. 
oMISSIS, 
pubblicata 
il 
29 
aprile 
2020, 
il 
T.A.R. 
Campania, 
sede 
di 
Napoli, 
ha 
dichiarato 
improcedibile 
il 
ricorso 
introduttivo 
proposto 
dalla 
oMISSIS 
contro 
il 
provvedimento 
dell'U.T.G. 
-Prefettura 
di 
Caserta 
prot. 
oMISSIS 
del 
22 
maggio 
2019 
(oMISSIS/ANT./AREA 
1^) 
con 
il 
quale 
era 
stata 
rigettata 
l'istanza 
di 
revoca 
e/o 
revisione 
del 
provvedimento 
interdittivo 
prot. 
n. 
oMISSIS/ANT/AREA 
1 
del 
5 
novembre 
2011, 
ed 
ha 
rigettato 
il 
ricorso 
per 
motivi 
aggiunti 
proposto 
contro 
il 
provvedimento 
prot. 
n. 
oMISSIS/ANT/AREA 
1^ 
(prot. 
oMISSIS) 
del 
4 
novembre 
2019 
con 
il 
quale 
l’U.T.G. 
Prefettura 
di 
Caserta, 
in 
sede 
di 
riesame 
disposto 
con 
provvedimento 
cautelare 
del 
giudice 
di 
primo 
grado, 
ha 
rigettato 
l’istanza 
di 
revoca 
e/o 
revisione 
e 
con 
il 
quale 
è 
stata 
confermata 
la 
sussistenza 
dei 
presupposti 
del 
provvedimento 
interdittivo 
a 
carico 
della 
società 
oMISSIS. 
Con 
ricorso 
in 
appello 
notificato 
il 
2 
luglio 
2020 
e 
depositato 
il 
successivo 
6 
luglio 
la 
oMISSIS 
ha impugnato l’indicata sentenza. 
Si 
sono costituiti 
in giudizio, per resistere 
al 
ricorso, il 
Ministero dell’Interno e 
la 
Prefettura 
di Caserta. 
Il 
ricorso è 
stato trattenuto in decisione 
all’udienza 
del 
28 gennaio 2021, svoltasi 
ai 
sensi 
del-
l’art. 4, comma 
1, del 
decreto-legge 
30 aprile 
2020 n. 28, convertito, con modificazioni, dalla 
legge 
25 
giugno 
2020, 
n. 
70, 
e 
dell'art. 
25 
del 
decreto-legge 
28 
ottobre 
2020, 
n. 
137, 
attraverso 
collegamento in videoconferenza 
secondo le 
modalità 
indicate 
dalla 
circolare 
n. 6305 del 
13 
marzo 2020 del Segretario Generale della Giustizia 
Amministrativa. 
2. 
La 
società 
appellante, 
colpita 
da 
interdittiva 
antimafia, 
ha 
chiesto 
alla 
Prefettura 
di 
revocare 
o 
comunque 
rimuovere 
tale 
provvedimento, 
allegando 
quale 
fatto 
legittimante 
il 
provvedimento 
del 
giudice 
della 
prevenzione 
penale 
con 
il 
quale 
l’impresa 
non 
era 
stata 
ammessa 
al 
controllo 
giudiziario 
ex 
art. 
34-bis 
del 
d.lgs. 
6 
settembre 
2011, 
n. 
159 
“ritenendo 
non 
sussistenti 
i 
presupposti 
tentativi 
di 
infiltrazione 
mafiosa 
dell’azienda” 
(pag. 
2 
del 
ricorso 
in 
appello”). 
La 
Prefettura 
rigettava 
l’istanza, il 
rigetto era 
impugnato davanti 
al 
T.A.R. che, in sede 
cautelare, 
ne ordinava il riesame. 
Eseguito tale 
incombente 
con il 
medesimo esito, la 
ricorrente 
gravava 
con motivi 
aggiunti 
il 
nuovo provvedimento. 

RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 2/2021 


Il 
T.A.R. 
dichiarava 
improcedibile 
per 
sopravvenuta 
carenza 
d’interesse 
il 
ricorso 
introduttivo 
e rigettava i motivi aggiunti. 


3. 
La 
società 
appellante 
contesta 
la 
sentenza 
del 
primo 
giudice 
deducendo 
anzitutto, 
nel 
primo 
motivo, che 
la 
pronuncia 
del 
Tribunale 
della 
prevenzione 
avrebbe 
“attitudine 
di 
giudicato e 
per 
tale 
ragione 
non possono essere 
messi 
in discussione 
in forza dell’art. 654 c.p.p. i 
fatti 
in 
esso accertati 
in esito ad un giudizio caratterizzato da pieno contraddittorio con l’utg 
di 
Caserta e forza probatoria tipica del giudizio penale”. 
Il 
primo 
giudice 
avrebbe 
dunque 
errato 
nel 
respingere 
il 
ricorso 
per 
motivi 
aggiunti, 
nella 
parte 
in cui 
esso deduceva 
che 
il 
provvedimento di 
conferma 
della 
valutazione 
di 
pericolo di 
infiltrazione 
sarebbe 
stato illegittimo per contrasto con il 
provvedimento del 
Tribunale 
della 
prevenzione. 
La censura è infondata. 
Come 
correttamente 
evidenziato 
dal 
primo 
giudice, 
nel 
sistema 
delle 
relazioni 
fra 
prevenzione 
amministrativa 
e 
prevenzione 
penale 
antimafia 
“vanno esclusi 
in capo al 
tribunale 
di 
prevenzione, 
poteri 
di 
controllo dei 
presupposti 
della interdittiva antimafia, venendo altrimenti 
ad introdursi 
nel 
sistema una duplicazione 
del 
controllo sulla legittimità della misura interdittiva 
e 
segnatamente 
sulla 
sussistenza 
o 
meno 
dei 
presupposti 
(cfr. 
in 
tal 
senso 
Cass. 
penale 
sentenza Sez. 6, del 9 maggio 2019, n. 26342)”. 
Anche 
questa 
Sezione 
ha 
avuto recentemente 
modo di 
chiarire, nella 
sentenza 
n. 338/2021, 
che 
la 
valutazione 
del 
giudice 
della 
prevenzione 
penale 
si 
fonda 
su parametri 
non sovrapponibili 
alla 
ricognizione 
probabilistica 
del 
rischio di 
infiltrazione, che 
costituisce 
invece 
presupposto 
del 
provvedimento 
prefettizio, 
e 
rispetto 
ad 
essa 
si 
colloca 
in 
un 
momento 
successivo. 
Non è 
pertanto casuale 
che 
nella 
sistematica 
normativa 
il 
controllo giudiziario (e 
le 
relative 
valutazioni: 
inclusa 
quella 
sull’ammissione) 
presupponga 
l’adozione 
dell’informativa: 
rispetto 
alla quale rappresenta un post factum. 
Pretendere 
di 
sindacare 
la 
legittimità 
del 
provvedimento prefettizio alla 
luce 
delle 
risultanze 
della 
(successiva) delibazione 
di 
ammissibilità 
al 
controllo giudiziario, finalizzato proprio ad 
un’amministrazione 
dell’impresa 
immune 
da 
(probabili) 
infiltrazioni 
criminali, 
appare 
dunque 
operazione 
doppiamente 
viziata: 
perché 
inevitabilmente 
diversi 
sono gli 
elementi 
(anche 
fattuali) 
considerati 
-anche 
sul 
piano diacronico -nelle 
due 
diverse 
sedi, ma 
soprattutto perché 
diversa 
è 
la 
prospettiva 
d’indagine, 
id est 
l’individuazione 
dei 
parametri 
di 
accertamento e 
di 
valutazione dei legami con la criminalità organizzata. 
Non può pertanto sostenersi, come 
fa 
l’appellante, che 
la 
pronuncia 
del 
giudice 
della 
prevenzione 
penale 
produca 
un 
accertamento 
vincolante, 
con 
efficacia 
di 
giudicato, 
sul 
rischio 
di 
infiltrazione 
dell’impresa da parte della criminalità organizzata. 
Nella 
stessa 
prospettazione 
dell’appellante, peraltro, si 
deduce 
che 
la 
Prefettura 
e 
il 
giudice 
della 
prevenzione 
penale 
avrebbero incentrato le 
relative 
valutazioni 
sulle 
medesime 
circostanze 
di 
fatto, giungendo a 
conclusioni 
difformi 
circa 
il 
pericolo di 
infiltrazione: 
il 
che 
-in 
disparte 
il 
rilievo che 
il 
giudicato riguarderebbe 
semmai 
i 
fatti 
e 
non le 
valutazioni, e 
fermo 
restando che 
(come 
si 
dirà 
al 
punto successivo) in concreto le 
prospettate 
difformità 
non sussistono 
-costituirebbe 
comunque 
una 
fisiologica 
conseguenza 
della 
sopra 
descritta 
relazione 
fra i due sistemi preventivi, come ricostruita dalla giurisprudenza richiamata. 
4. Vero è, piuttosto, che 
la 
Prefettura 
ha 
riesaminato la 
posizione 
della 
società 
appellante 
alla 
luce 
della 
pronuncia 
del 
giudice 
della 
prevenzione 
penale, confermando le 
originarie 
valutazioni. 
Peraltro 
gli 
elementi 
che 
l’appellante 
adduce 
per 
dimostrare, 
al 
contrario, 
che 
il 
provvedimento 

CoNTENzIoSo 
NAzIoNALE 


prefettizio sia 
fondato su fatti 
accertati 
come 
inesistenti 
dal 
giudice 
della 
prevenzione 
penale 
dimostrano l’infondatezza di tale prospettazione. 


4.1. 
Solo 
esemplificativamente 
mette 
conto 
segnalare 
che 
nel 
ricorso 
in 
appello 
viene 
dedotto 
che 
“la prefettura di 
Caserta, ad esempio, ha sostenuto, nell’originario provvedimento interdittivo, 
che 
oMiSSiS 
aveva subito plurime 
condanne 
per 
fatti 
sintomatici 
di 
appartenenza 
al 
oMiSSiS. il 
giudice 
della prevenzione 
ha accertato, con i 
mezzi 
e 
poteri 
propri 
del 
giudice 
penale, che 
sono più pregnanti 
di 
quelli 
che 
dispone 
il 
giudice 
amministrativo, che 
non è 
assolutamente 
vero che 
oMiSSiS 
sia stato condannato per associazione mafiosa”. 
In realtà 
i 
due 
dati 
non sono in contraddizione 
logica, perché 
altro è 
la 
compartecipazione 
in 
reati-scopo (o comunque 
in reati 
ritenuti 
sintomatici 
della 
cooperazione 
con gli 
interessi 
del 
sodalizio criminoso) ed altro l’appartenenza all’associazione in qualità di associato. 
4.2. 
Ancora, 
l’appellante 
lamenta 
che 
“la 
prefettura 
di 
Caserta 
ha 
sostenuto, 
nell’originario 
provvedimento 
interdittivo, 
che 
oMiSSiS 
oMiSSiS 
sarebbe 
stato 
segnalato 
dal 
giCo 
della 
finanza 
per 
associazione 
di 
tipo 
mafioso 
e 
per 
aver 
emesso 
fatture 
in 
favore 
della 
oMiSSiS, 
società 
utilizzata 
dal 
oMiSSiS 
per 
la 
creazione 
di 
“fondi 
neri”. 
ebbene 
il 
giudice 
della 
prevenzione 
ha 
accertato 
che 
oMiSSiS 
oMiSSiS 
è 
stato 
assolto 
per 
tali 
contestazioni 
con 
sentenza 
oMiSSiS 
e 
non 
ha 
a 
suo 
carico 
nessun 
precedente 
per 
reati 
di 
criminalità 
organizzata. 
il 
coinvolgimento 
di 
costui 
in 
un 
processo 
per 
fatti 
di 
camorra 
negli 
anni 
novanta 
si 
è 
concluso 
per 
intervenuta 
assoluzione 
del 
oMiSSiS 
con 
formula 
piena 
(insussistenza 
del 
fatto) 
fin 
dal 
oMiSSiS”. 
Anche 
in questo caso, l’assoluzione, e 
l’assenza 
di 
precedenti 
specifici, non smentiscono il 
coinvolgimento in una 
trama 
relazionale 
che 
in sede 
amministrativa 
è 
stata 
correttamente 
valorizzata 
con riguardo all’accertamento del 
fatto operato nel 
segmento investigativo (dunque 
con un’ottica meramente descrittiva e non valutativa in termini di penale responsabilità). 
4.3. 
L’appellante 
deduce 
poi 
che 
“la 
prefettura 
di 
Caserta 
aveva 
affermato 
nel 
provvedimento 
interdittivo 
emesso 
a 
suo 
tempo 
che 
oMiSSiS 
oMiSSiS 
sarebbe 
stato 
controllato 
con 
un 
tal 
oMiS-
SiS 
che, 
a 
dire 
della 
prefettura, 
sarebbe 
gravato 
da 
precedenti 
di 
polizia 
per 
associazione 
mafiosa. 
Sul 
punto 
il 
giudice 
della 
prevenzione 
ha 
accertato 
che 
tale 
circostanza 
non 
corrisponde 
al vero in quanto il 
oMiSSiS 
è persona del tutto incensurata”. 
ora, 
in 
disparte 
il 
rilievo 
che 
il 
presente 
giudizio 
verte 
non 
già 
sulla 
legittimità 
dell’originario 
provvedimento interdittivo, ma 
su quello -impugnato con i 
motivi 
aggiunti 
in primo grado che 
ha 
confermato 
in 
sede 
di 
riesame 
il 
pericolo 
di 
infiltrazione 
mafiosa, 
anche 
in 
questo 
caso 
nessuna 
contraddizione 
sussiste 
fra 
gli 
elementi 
segnalati, dal 
momento che 
la 
Prefettura 
ha 
valorizzato risultanze 
investigative 
conosciute 
dalle 
forze 
di 
polizia 
ma 
non giudicate 
penali. 
oltre 
al 
segnalato vizio d’impostazione 
su cui 
poggia 
il 
gravame 
(relativo all’allegazione 
di 
contrasti 
in realtà 
inesistenti), sfugge 
infatti 
alla 
prospettazione 
dell’appellante, in materia 
di 
rapporti 
fra 
valutazione 
del 
rischio d’infiltrazione 
e 
accertamento della 
responsabilità 
penale, 
che 
“Come 
ha chiarito la sentenza n. 6105/2019, “Ciò che 
connota la regola probatoria del 
"più probabile 
che 
non" 
non è 
un diverso procedimento logico, (…..), ma la (minore) forza 
dimostrativa 
dell'inferenza 
logica”. 
il 
princìpio 
è 
stato 
recentemente 
ribadito 
dalla 
Corte 
costituzionale, 
nella 
sentenza 
n. 
57 
del 
2020: 
“deriva 
dalla 
natura 
stessa 
dell’informazione 
antimafia 
che 
essa risulti 
fondata su elementi 
fattuali 
più sfumati 
di 
quelli 
che 
si 
pretendono in 
sede 
giudiziaria, 
perché 
sintomatici 
e 
indiziari” 
(Consiglio 
di 
Stato, 
sez. 
III, 
sentenza 
n. 
338/2021). 
La sentenza gravata pertanto non risulta affetta dal vizio dedotto nel motivo in esame. 
5. L’appellante 
deduce, in subordine, l’illegittimità 
costituzionale 
dell’attuale 
disciplina 
delle 
relazioni 
fra 
prevenzione 
amministrativa 
e 
prevenzione 
penale 
antimafia 
(“artt. 83 e 
succ. del 

RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 2/2021 


d.lgs. n. 159/2011 in relazione 
all’art. 34 bis 
codice 
antimafia 
per violazione 
degli 
artt. 2, 3, 
24 e 41 della Costituzione”). 
La 
questione 
concerne 
la 
soglia 
di 
ammissione 
al 
controllo giudiziario, e 
la 
pretesa 
disparità 
di 
trattamento che 
si 
creerebbe 
fra 
un’impresa 
-quale 
l’appellante 
-giudicata 
a 
rischio d’infiltrazione 
dalla 
Prefettura 
ma 
non abbastanza 
dal 
giudice 
della 
prevenzione 
penale 
(al 
punto 
da 
non 
essere 
ammessa 
al 
controllo 
giudiziario), 
e 
l’impresa 
che 
invece, 
superando 
tale 
soglia, 
e 
dunque 
presentando 
un 
maggior 
rischio 
d’infiltrazione 
(“non 
occasionale”), 
paradossalmente 
si 
gioverebbe 
di 
un 
regime 
più 
favorevole, 
consistente 
nella 
prosecuzione 
(sia 
pure 
controllata) 
dell’attività d’impresa. 
In 
questi 
termini 
la 
questione, 
in 
disparte 
la 
verosimile 
erroneità 
del 
suo 
presupposto 
interpretativo 
(per 
le 
ragioni, 
indicate 
al 
punto 
precedente, 
relative 
al 
diverso 
oggetto 
della 
valutazione 
del 
giudice 
della 
prevenzione 
penale 
rispetto 
a 
quello 
considerato 
dall’autorità 
amministrativa), 
difetta 
comunque 
del 
requisito 
della 
rilevanza, 
posto 
che, 
riguardando 
le 
condizioni 
di 
accesso 
al 
controllo 
giudiziario, 
andrebbe 
sollevata 
in 
quella 
sede 
giurisdizionale: 
tanto 
che 
la 
questione 
stessa 
è 
argomentata 
dall’appellante 
con 
riferimento 
alle 
pronunce 
(e 
al 
dedotto 
contrasto 
tra 
le 
stesse) 
della 
Prima 
Sezione 
penale 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
e 
delle 
SS.UU. 
penali. 
Né 
può 
ragionevolmente 
accedersi 
alla 
tesi 
dell’appellante, 
allorché 
sollecita 
quale 
esito 
della 
questione 
dedotta 
una 
sentenza 
additiva 
del 
giudice 
delle 
leggi 
che 
imponga 
alla 
Prefettura 
la 
rimozione 
dell’informativa 
(che, 
si 
ripete, 
è 
il 
provvedimento 
che 
si 
colloca 
a 
monte 
dell’intera 
sequenza) allorché 
il 
giudice 
della 
prevenzione 
penale 
abbia 
in concreto ravvisato una 
soglia 
di 
infiltrazione 
inferiore 
a 
quella 
ritenuta 
rilevante 
per l’ammissione 
al 
controllo giudiziario: 
se, infatti, il 
problema 
sollevato concerne 
(la 
soglia 
di 
accesso a) tale 
ultima 
procedura, è 
del 
tutto irragionevole 
ipotizzare 
un intervento normativo (peraltro, mediante 
una 
sentenza 
manipolativa) 
sul suo antecedente logico, vale a dire sull’informativa. 
L’appellante 
fa 
infatti 
discendere 
dalla 
ipotizzata 
irrazionalità 
del 
sistema 
conseguente 
alla 
valutazione 
di 
non ammissione 
al 
controllo giudiziario -che 
è 
un rimedio successivo alla 
(e 
presupponente 
la) adozione 
dell’informativa 
-non già 
una 
diversa 
disciplina 
di 
tale 
valutazione, 
bensì 
l’obbligo 
normativo 
di 
revisione 
o 
di 
rimozione 
del 
giudizio 
prognostico 
ritenuto 
nel provvedimento presupposto: il che, a tacer d’altro, appare illogico e irrazionale. 
Né 
può giungersi 
a 
soluzioni 
difformi 
ove 
si 
pretenda 
di 
incidere 
sulla 
legittimità 
non già 
del-
l’informativa, 
ma 
del 
successivo 
provvedimento 
di 
rigetto 
dell’istanza 
di 
revisione 
della 
stessa 
(motivata in relazione al mancato accesso al controllo giudiziario, in quanto tale). 
Nel 
caso di 
specie, infatti, l’impresa 
non ha 
dedotto che 
dal 
provvedimento del 
giudice 
della 
prevenzione 
penale 
risultasse 
un 
fatto 
sopravvenuto 
(quale, 
ad 
esempio, 
un’operazione 
di 
selfcleaning) 
tale 
da 
implicare 
una 
revisione 
del 
giudizio prognostico originario, ma 
ha 
fatto discendere 
automaticamente 
da 
tale 
provvedimento, 
in 
realtà 
motivato 
unicamente 
con 
riferimento al 
mancato raggiungimento della 
soglia 
rilevante 
in quella 
sede, la 
ritenuta 
inutilizzabilità, 
per l’autorità 
amministrativa, dei 
fatti 
(e 
delle 
relative 
valutazioni) considerati 
al 
diverso scopo di 
determinare 
la 
soglia 
di 
accesso: 
il 
che, per le 
considerazioni 
fin qui 
esposte, 
appare pretesa non assistita da fondamento normativo. 
Infine, 
anche 
la 
circostanza 
-dibattuta 
in 
sede 
di 
discussione 
orale 
-che 
l’appellabilità 
dei 
provvedimenti 
di 
non ammissione 
resi 
dal 
Tribunale 
della 
prevenzione 
è 
stata 
ammessa 
dalla 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
solo in un momento non più utile 
per l’odierna 
appellante, 
costituisce 
anch’essa 
elemento che 
rileva 
in altra 
sede 
giurisdizionale, posto che 
la 
parte 
si 
duole 
dei 
limiti 
dell’effettività 
della 
tutela 
garantita 
dal 
rimedio offerto in sede 
di 
prevenzione 
penale. 



CoNTENzIoSo 
NAzIoNALE 


6. Con l’ultimo motivo di 
gravame 
l’appellante 
censura 
la 
sentenza 
impugnata 
nella 
parte 
in 
cui 
ha 
rigettato i 
motivi 
del 
ricorso per motivi 
aggiunti 
inerenti 
la 
rilevanza 
inferenziale 
dei 
fatti allegati dalla Prefettura come sintomatici di un pericolo d’infiltrazione mafiosa. 
Per 
quanto 
riguarda 
la 
parte 
della 
censura 
che 
fa 
leva 
sulle 
sopravvenienze 
rappresentate 
dagli 
esiti 
dei 
giudizi 
penali 
relativi 
a 
fatti 
considerati 
-in 
relazione 
alle 
fasi 
investigative 
-dai 
provvedimenti 
prefettizi 
impugnati, è 
sufficiente 
in questa 
sede 
richiamare 
quanto già 
in precedenza 
osservato (anche 
mediante 
rinvio alla 
sentenza 
della 
Corte 
costituzionale 
n. 57/2020, e 
alla 
sentenza 
di 
questa 
Sezione 
n. 
338/2021) 
in 
relazione 
alla 
diversità 
strutturale 
e 
funzionale 
della 
valutazione 
dei 
fatti 
compiuta 
in sede 
di 
accertamento della 
penale 
responsabilità 
dei 
soggetti, rispetto al 
valore 
inferenziale 
attribuito ai 
medesimi 
fatti 
nel 
giudizio prognostico 
concernente il pericolo d’infiltrazione criminosa. 
Per quanto riguarda, poi, il 
regime 
di 
tale 
giudizio, è 
necessario in via 
preliminare 
richiamare 
la 
giurisprudenza 
della 
Sezione 
relativa 
ai 
tratti 
dell’esercizio 
del 
potere 
de 
quo 
per 
come 
normativamente 
delineati, 
osservando 
in 
particolare 
che 
gli 
elementi 
di 
fatto 
valorizzati 
dal 
provvedimento 
prefettizio 
devono 
essere 
valutati 
non 
atomisticamente, 
ma 
in 
chiave 
unitaria, 
secondo 
il 
canone 
inferenziale 
-che 
è 
alla 
base 
della 
teoria 
della 
prova 
indiziaria 
-quae 
singula 
non prosunt, collecta iuvant, al 
fine 
di 
valutare 
l’esistenza 
o meno di 
un pericolo di 
una 
permeabilità 
della 
struttura 
imprenditoriale 
a 
possibili 
tentativi 
di 
infiltrazione 
da 
parte 
della 
criminalità 
organizzata, 
“secondo 
la 
valutazione 
di 
tipo 
induttivo 
che 
la 
norma 
attributiva 
rimette 
al 
potere 
cautelare 
dell’amministrazione, il 
cui 
esercizio va scrutinato alla stregua della pacifica 
giurisprudenza 
di 
questa 
Sezione 
(ex 
multis, 
Consiglio 
di 
Stato, 
sez. 
iii, 
sentenza 
n. 
759/2019)” (così da ultimo le sentenze n. 4837/2020 e n. 4951/2020). 
La 
già 
richiamata 
sentenza 
della 
Corte 
costituzionale 
n. 57/2020 ha 
chiarito che 
a 
fronte 
della 
denuncia 
di 
un deficit 
di 
tassatività 
della 
fattispecie, specie 
nel 
caso di 
prognosi 
fondata 
su 
elementi 
non 
tipizzati 
ma 
“a 
condotta 
libera”, 
“lasciati 
al 
prudente 
e 
motivato 
apprezzamento 
discrezionale 
dell’autorità 
amministrativa”, 
un 
ausilio 
è 
stato 
fornito 
dall’opera 
di 
tipizzazione 
giurisprudenziale 
che, a 
partire 
dalla 
sentenza 
di 
questo Consiglio di 
Stato 3 maggio 2016, n. 
1743, ha 
individuato un “nucleo consolidato (…) 
di 
situazioni 
indiziarie, che 
sviluppano e 
completano le indicazioni legislative, costruendo un sistema di tassatività sostanziale”. 
Fra 
tali 
situazioni 
la 
Corte 
costituzionale 
ricorda 
“i 
contatti 
o 
i 
rapporti 
di 
frequentazione, 
conoscenza, 
colleganza, amicizia”. 
7. Nello specifico e in concreto, il primo giudice ha ritenuto che: 
-“il 
rischio di 
infiltrazione 
criminale 
è 
stato desunto dalle 
frequentazioni 
del 
oMiSSiS, socio 
della società ricorrente, con persone 
gravitanti 
nell’orbita della criminalità organizzata di 
tipo camorristico, dai 
suoi 
precedenti 
penali 
e 
dai 
legami 
familiari 
cementati 
da cointeressenze 
societarie con soggetti sui quali pure gravano indizi di collegamento”; 
-che 
“le 
frequentazioni 
del 
oMiSSiS oMiSSiS 
non possono considerarsi 
isolate, trattandosi 
di 
plurimi 
controlli 
che 
si 
dipanano in un lungo arco temporale, dimostrando una continuità di 
relazioni 
che 
diviene 
più solida proprio perché 
perdurano nel 
tempo, dovendosi 
evidenziare 
che 
le 
addotte 
motivazioni 
di 
lavoro, 
lungi 
dallo 
scolorire 
il 
significato 
indiziante 
delle 
stesse, 
le 
rende 
vieppiù pregnanti 
in quanto connesse 
proprio all’attività di 
impresa che, invece, la 
legislazione antimafia intende preservare da influenze criminali”; 
-che 
“il 
profilo delle 
frequentazioni 
non è 
l’unico che 
sia stato oggetto dei 
rilievi 
della prefettura 
nel 
gravato provvedimento, dovendosi 
riguardare 
unitamente 
ai 
precedenti 
penali 
del 
oMiSSiS oMiSSiS 
per 
rapina, violazioni 
urbanistiche, furto e 
violazione 
della legge 
sulle 
armi, 
che 
ben possono fondare 
(pur 
se 
non ricompresi 
nell’elenco di 
cui 
all’art. 84 del 
testo unico 

RASSEGNA 
AVVoCATURA 
DELLo 
STATo -N. 2/2021 


antimafia), unitamente 
agli 
altri 
indizi, la prognosi 
di 
condizionamento, atteso che 
l’autorità 
prefettizia 
è 
chiamata 
compiere 
una 
valutazione 
complessiva 
comprensiva 
di 
elementi 
ritenuti 
significativi 
anche 
se 
atipici 
(cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. iii, 24 aprile 
2020, n. 2651). infine, 
anche 
la 
sussistenza 
di 
rapporti 
di 
contiguità 
tra 
le 
diverse 
società 
riconducibili 
alla 
oMiSSiS 
ravvisata nel 
gravato provvedimento, risulta immune 
da vizi, fondandosi, non solo 
sugli 
stretti 
legami 
familiari, 
ma 
anche 
sulle 
riscontrate 
cointeressenze 
economiche, 
sulla 
coincidenza delle 
sedi 
delle 
rispettive 
società e 
sull’utilizzo di 
dipendenti 
di 
una delle 
società 
da parte 
dell’altra. Ne 
consegue 
che 
ai 
fini 
del 
gravato giudizio formulato dalla prefettura 
non 
potevano 
non 
essere 
considerate 
anche 
le 
frequentazioni 
e 
i 
precedenti 
penali 
del 
oMiSSiS 
oMiSSiS, oMiSSiS 
del 
rappresentante 
legale 
della ricorrente 
e 
oMiSSiS 
dell’altra comproprietaria 
della medesima oMiSSiS”. 
Il 
motivo di 
appello in esame 
opera 
un tentativo di 
ridimensionamento analitico di 
tali 
elementi, 
tralasciando di 
considerare 
anzitutto la 
visione 
d’insieme, che 
sorregge 
con una 
soglia 
certamente 
superiore 
al 
criterio del 
“più probabile 
che 
non” 
la 
valutazione 
di 
un rischio di 
infiltrazione 
dell’attività d’impresa. 
Quanto ai 
singoli 
episodi 
contestati, va 
anzitutto rilevato -come 
peraltro già 
osservato in precedenza 
-che 
in 
molti 
casi 
gli 
argomenti 
su 
cui 
poggia 
il 
mezzo 
in 
esame 
non 
concretano 
reali 
contrasti 
fra 
gli 
elementi 
considerati 
dalla 
Prefettura 
e 
le 
risultanze 
dei 
relativi 
procedimenti 
penali (in argomento si rinvia agli esempi indicati al punto 4.). 
Si 
contesta 
poi 
il 
fatto che 
alcuni 
di 
tali 
elementi 
sarebbero risalenti 
nel 
tempo: 
ma 
tale 
obiezione 
trascura 
di 
considerare 
che 
la 
pluralità, l’univoca 
convergenza 
e 
la 
gravità 
di 
essi 
rendono 
irrilevante 
la 
circostanza 
che 
in alcuni 
casi 
essi 
si 
collocano in un arco temporale 
non 
recente. 
Quanto, infine, al 
fatto che 
alcuni 
contatti 
con soggetti 
controindicati 
sarebbero giustificati 
da 
causali 
lecite, 
tale 
argomentazione 
tralascia 
di 
considerare 
che 
è 
la 
frequentazione 
in 
sé 
(ancorché, in tesi, innescata 
da 
una 
causale 
fornita 
di 
una 
giustificazione 
alternativa 
a 
quella 
infiltrativa), specie 
quando -come 
nel 
caso di 
specie 
-tutt’altro che 
isolata, a 
denotare, unitamente 
agli 
altri 
-numerosi 
-fatti 
gravemente 
indizianti, 
il 
rischio 
che 
l’imprenditore 
sia 
collocato 
in 
un 
contesto 
relazionale 
complessivamente 
sintomatico 
di 
un 
pericolo 
di 
infiltrazione 
della criminalità organizzata nell’impresa. 


8. Il ricorso in appello è pertanto infondato, e come tale deve essere respinto. 
Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la regola della soccombenza. 
P.Q.M. 
Il 
Consiglio di 
Stato in sede 
giurisdizionale 
(Sezione 
Terza), definitivamente 
pronunciando 
sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. 
Condanna 
la 
società 
appellante 
al 
pagamento in favore 
del 
Ministero dell’Interno delle 
spese 
del giudizio, liquidate in complessivi euro cinquemila/00, oltre accessori come per legge. 
ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. 
Ritenuto 
che 
sussistano 
i 
presupposti 
di 
cui 
all'articolo 
52, 
commi 
1 
e 
2, 
del 
decreto 
legislativo 
30 giugno 2003, n. 196, e 
dell’articolo 10 del 
Regolamento (UE) 2016/679 del 
Parlamento 
europeo e 
del 
Consiglio del 
27 aprile 
2016, a 
tutela 
dei 
diritti 
o della 
dignità 
della 
parte 
interessata, 
manda 
alla 
Segreteria 
di 
procedere 
all'oscuramento 
delle 
generalità 
nonché 
di 
qualsiasi 
altro dato idoneo ad identificare 
le 
persone 
fisiche 
e 
giuridiche 
menzionate 
nella 
motivazione 
del presente provvedimento. 
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 gennaio 2021. 


LegisLazioneedattuaLità
L’interoperabilità: il dialogo 
necessario tra il digitale e il diritto 


Gaetana Natale* 


1. Interoperabilità e cooperazione applicativa. 
Il 
termine 
“interoperabilità” 
esprime 
il 
concetto 
moderno, 
oggi 
sempre 
più applicato a 
molteplici 
settori, di 
permettere, mediante 
procedure 
tecniche 
unificanti 
e 
standardizzate, 
l'interscambio 
di 
dati 
e 
l'interazione 
dei 
sistemi 
nei 
campi 
dell'informatica, delle 
comunicazioni, della 
sanità, dell’istruzione, dei 
trasporti ferroviari ed aerei e dei sistemi di sicurezza di un Paese. 


Più 
precisamente, 
il 
Codice 
dell’amministrazione 
digitale 
(D.Lgs. 
n. 
82/2015, in prosieguo “CAD”) definisce 
l’interoperabilità 
come 
la 
“caratteristica 
di 
un sistema informativo, le 
cui 
interfacce 
sono pubbliche 
e 
aperte, di 
interagire 
in maniera automatica con altri 
sistemi 
informativi 
per 
lo scambio 
di 
informazioni 
e 
l’erogazione 
di 
servizi” 
(1). Questa 
definizione 
deve 
essere 
associata 
a 
quella 
di 
cooperazione 
applicativa, 
definita 
nel 
CAD 
come 
“la 
parte 
del 
Sistema Pubblico di 
Connettività finalizzata all’interazione 
tra i 
sistemi 
informativi 
dei 
soggetti 
partecipanti, 
per 
garantire 
l’integrazione 
dei 
metadati, delle 
informazioni, dei 
processi 
e 
procedimenti 
amministrativi” 
(2). 


In breve, la 
combinazione 
e 
l’applicazione 
dei 
due 
principi 
consente 
lo 
scambio 
dati 
tra 
PPAA 
e 
i 
soggetti 
interessati 
in 
modo 
standard, 
al 
fine 
di 
consentire 
lo svolgimento di 
procedimenti 
amministrativi 
complessi, ovvero che 


(*) Avvocato dello Stato, Professore 
a 
contratto di 
Sistemi 
giuridici 
comparati 
presso l’Università 
degli 
Studi di Salerno, Consigliere giuridico del Garante per la Privacy. 
Un ringraziamento alla Dott.ssa 
Valentina Sabatino per la redazione delle note. 


(1) Art. 1, comma 1, lett. dd) D.Lgs. n. 82/2015. 
(2) Art. 1, comma 1, lett. ee) D.Lgs. n. 82/2015. 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2021 


coinvolgono 
più 
amministrazioni, 
ovvero, 
ancora, 
più 
banche 
dati 
anche 
esterne alla Pubblica 
Amministrazione. 


Sempre 
il 
CAD, in più punti, ribadisce 
il 
principio in forza 
del 
quale 
le 
pubbliche 
amministrazioni 
sono 
tenute 
a 
gestire 
i 
procedimenti 
amministrativi 
utilizzando le 
tecnologie 
dell’informazione 
e 
della 
comunicazione 
(cd. ICT). 
Lo specifico procedimento, dunque, deve 
fornire 
opportuni 
servizi 
di 
interoperabilità 
o integrazione/cooperazione 
a 
carico dell’amministrazione 
(3). Tali 
servizi 
devono risultare 
conformi 
alle 
Linee 
Guida 
elaborate 
dall’AgID 
(Autorità 
per l’Italia 
Digitale) (4). L’art. 71 del 
Codice 
dell’Amministrazione 
Digitale, 
norma 
primaria, richiede 
che 
le 
Linee 
Guida 
dell’Agid debbano essere 
adottate 
su parere 
positivo rilasciato dal 
Garante 
per la 
Privacy. I punti 
che 
rilevano 
sono: 
1) nello scambio di 
dati 
tra 
PPAA 
chi 
deve 
considerarsi 
titolare 
del 
trattamento? 
2) che 
tempo di 
durata 
deve 
avere 
la 
conservazione 
dei 
dati 
nell’attività 
di 
caching? 
3) chi 
è 
il 
responsabile 
del 
trattamento dei 
dati 
a 
cui 
il 
privato 
può 
rivolgersi 
per 
eventuali 
osservazioni 
o 
richieste 
di 
chiarimento?; 


4) vi 
è 
una 
modulazione 
dei 
sistemi 
di 
sicurezza 
in relazione 
al 
grado di 
riservatezza 
dei 
dati, ad esempio quelli 
giudiziari? 
5) il 
principio di 
privacy 
by 
design 
and by 
default 
riguarda 
solo la 
fase 
di 
conservazione 
o anche 
la 
fase 
di 
gestione dei dati? 
Siamo oltre 
le 
leggi 
di 
Isac 
Asimov e 
del 
concetto di 
robot 
e 
della 
legge 
di 
Moore. È 
significativo ricordare 
che 
il 
termine 
“robot” 
deriva 
dalla 
lingua 
boema 
“Robota” 
che 
significa 
“lavoro forzato”, nome 
degli 
automi 
che 
agi


(3) 
G. 
MAnCA, 
Interoperabilità 
nella 
pubblica 
amministrazione: 
presente 
e 
futuro 
digitale, 
in 
www.agendadigitale.eu, 6 settembre 2018. 
(4) L’art. 71 del 
CAD 
dispone 
che 
“1. L'AgID, previa consultazione 
pubblica da svolgersi 
entro 
il 
termine 
di 
trenta giorni, sentiti 
le 
amministrazioni 
competenti 
e 
il 
Garante 
per 
la protezione 
dei 
dati 
personali 
nelle 
materie 
di 
competenza, 
nonché 
acquisito 
il 
parere 
della 
Conferenza 
unificata, 
adotta 
Linee 
guida contenenti 
le 
regole 
tecniche 
e 
di 
indirizzo per 
l'attuazione 
del 
presente 
Codice. Le 
Linee 
guida 
divengono 
efficaci 
dopo 
la 
loro 
pubblicazione 
nell'apposita 
area 
del 
sito 
Internet 
istituzionale 
dell'AgID 
e 
di 
essa ne 
è 
data notizia nella Gazzetta Ufficiale 
della Repubblica italiana. Le 
Linee 
guida 
sono aggiornate o modificate con la procedura di cui al primo periodo. 
1-ter. Le 
regole 
tecniche 
di 
cui 
al 
presente 
codice 
sono dettate 
in conformità ai 
requisiti 
tecnici 
di 
accessibilità 
di 
cui 
all'articolo 11 della legge 
9 gennaio 2004, n. 4, alle 
discipline 
risultanti 
dal 
processo 
di standardizzazione tecnologica a livello internazionale ed alle normative dell'Unione europea”. 
Mentre, l’art. 72 del 
CAD 
-abrogato dal 
D.Lgs. 179/2016 -recitava 
espressamente 
“1. Ai 
fini 
del 
presente 
decreto si intende per: 
a) "trasporto di 
dati": i 
servizi 
per 
la realizzazione, gestione 
ed evoluzione 
di 
reti 
informatiche 
per 
la 
trasmissione di dati, oggetti multimediali e fonia; 
b) "interoperabilità di 
base": i 
servizi 
per 
la realizzazione, gestione 
ed evoluzione 
di 
strumenti 
per 
lo 
scambio di documenti informatici fra le pubbliche amministrazioni e tra queste e i cittadini; 
c) "connettività": l'insieme dei servizi di trasporto di dati e di interoperabilità di base; 
d) "interoperabilità evoluta": i 
servizi 
idonei 
a favorire 
la circolazione, lo scambio di 
dati 
e 
informazioni, 
e l'erogazione fra le pubbliche amministrazioni e tra queste e i cittadini; 
e) "cooperazione 
applicativa": la parte 
del 
sistema pubblico di 
connettività finalizzata all'interazione 
tra 
i 
sistemi 
informatici 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
per 
garantire 
l'integrazione 
dei 
metadati, 
delle 
informazioni e dei procedimenti amministrativi”. 

LeGISLAzIone 
eD 
ATTUALITà 


vano come 
operai 
in un dramma 
di 
K. Capek. Il 
termine 
robot, inteso come 
“servitore”, 
richiama 
il 
binomio 
padrone-servitore 
della 
“Fenomenologia 
dello 
spirito” 
di 
Hegel, 
ma 
in 
termini 
giuridici 
ci 
pone 
il 
problema 
di 
definire 
il 
centro 
di 
imputazione 
delle 
responsabilità 
nella 
gestione 
dei 
dati. A 
tal 
riguardo 
una 
precisazione 
importante 
viene 
fatta 
nel 
Decreto 
Legge 
del 
31 
maggio 
2021 


n. 
77 
(“Governance 
del 
Piano 
nazionale 
di 
rilancio 
e 
resilienza 
e 
prime 
misure 
di 
rafforzamento 
delle 
strutture 
amministrative 
e 
di 
accelerazione 
e 
snellimento 
delle 
procedure”): 
l’art. 
39 
rubricato 
“Semplificazione 
dei 
dati 
pubblici” 
modifica 
l’art. 50 comma 
3-bis 
del 
Codice 
dell’amministrazione 
Digitale 
precisando 
che 
la 
condivisione 
dei 
dati 
non 
incide 
sulla 
titolarità 
degli 
stessi, 
“fermo restando le 
responsabilità delle 
amministrazioni 
che 
ricevono e 
trattano 
il dato, in qualità di titolari autonomi del trattamento”. 
Per cogliere 
gli 
aspetti 
problematici 
del 
rapporto tra 
interoperabilità 
e 
tutela 
dei 
dati 
personali, occorre 
chiarire 
il 
concetto di 
interoperabilità, strettamente 
connesso 
a 
quello 
di 
cooperazione 
applicativa. 
Le 
pubbliche 
amministrazioni, infatti, possono dialogare 
in via 
digitale 
non solo con i 
tradizionali 
mezzi 
di 
trasmissione 
telematica, ossia 
la 
posta 
elettronica 
e 
la 
posta 
elettronica certificata, ma anche tramite la cooperazione applicativa. 


La 
cooperazione 
applicativa, 
ai 
sensi 
del 
CAD, 
è 
quella 
parte 
del 
sistema 
pubblico 
di 
connettività 
(di 
seguito 
anche 
“SPC”) 
finalizzata 
all’interazione 
tra 
i 
sistemi 
informatici 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
al 
fine 
di 
garantire 
l’integrazione 
dei 
metadati, 
delle 
informazioni 
e 
dei 
procedimenti 
amministrativi. 


Il 
sistema 
pubblico 
di 
connettività 
(5) 
costituisce 
l’infrastruttura 
telematica 
abilitante 
della 
pubblica 
amministrazione, 
definita 
anche 
la 
cd. 
«autostrada 
del 
sole 
digitale» 
(6); 
è 
l’insieme 
di 
infrastrutture 
tecnologiche 
e 
di 
regole 
tecniche 
per 
lo 
sviluppo, 
la 
condivisione, 
l’integrazione 
e 
la 
diffusione 
del 
patrimonio 
informativo 
e 
dei 
dati 
dell’amministrazione 
pubblica, 
necessarie 
per 
assicurare 
l’interoperabilità 
di 
base 
ed 
evoluta 
e 
la 
cooperazione 
applicativa 
dei 
sistemi 
informatici 
(7) 
e 
dei 
flussi 
informativi, 
garantendo 
la 
sicurezza, 
la 
riservatezza 
delle 
informazioni, 
nonché 
la 
salvaguardia 
e 
l’au


(5) Il 
Sistema 
Pubblico di 
Connettività 
e 
Cooperazione, istituito con D.Lgs. 28 febbraio 2005, n. 
42 quale 
evoluzione 
della 
rUPA 
(rete 
Unitaria 
della 
Pubblica 
Amministrazione) è 
confluito grazie 
al 
D.Lgs. 159/2006 (che 
ha 
abrogato il 
D.Lgs. 42/2005) negli 
artt. 72 ss. del 
D.Lgs. 82/2005, modificato 
dal 
D.Lgs. 179/2016, poi 
dal 
correttivo D.Lgs. 217/17. operativo dal 
2007, un quadro consolidato si 
è 
avuto con il d.p.c.m. 1° aprile 2008, recante regole tecniche e di sicurezza per il suo funzionamento. 
(6) 
L. 
AMADeI, 
Il 
codice 
dell’amministrazione 
digitale, 
in 
L. 
PIeTro 
(a 
cura 
di), 
Dieci 
lezioni 
per 
capire 
e 
attuare 
l’e-government, 
definisce 
l’SPC 
una 
sorta 
di 
“framework” 
nazionale 
di 
interoperabilità. 
Per 
M. 
IASeLLI, 
La 
raccomandata 
on 
line: 
disciplina 
normativa 
ed 
aspetti 
operativi, 
in 
Diritto 
dell’Internet, 
n. 
6, 
2006, 
l’SPC 
costituisce 
“l’asse 
portante 
per 
l’applicazione 
del 
codice 
dell’amministrazione 
digitale”. 
(7) L’art. 72 del 
D.Lgs. 82/2005 abrogato forniva 
una 
serie 
di 
definizioni 
relative 
al 
sistema 
pubblico 
di 
connettività. 
In 
particolare, 
oltre 
alla 
cooperazione 
applicativa 
(lett. 
e), 
l’interoperabilità 
evoluta 
(lett. d). 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2021 


tonomia 
del 
patrimonio 
informativo 
di 
ciascuna 
amministrazione 
(8). 
È 
il 
concetto 
della 
cd. 
“infrastruttura 
immateriale” 
alla 
base 
dell’economia 
della 
conoscenza 
dei 
dati. 


L’art. 73 del 
Codice 
dell’Amministrazione 
Digitale, riguardo al 
Sistema 
Pubblico 
di 
Connettività, 
afferma 
che 
“1. 
Nel 
rispetto 
dell'articolo 
117, 
secondo 
comma, 
lettera 
r), 
della 
Costituzione, 
e 
nel 
rispetto 
dell'autonomia 
del-
l'organizzazione 
interna 
delle 
funzioni 
informative 
delle 
regioni 
e 
delle 
autonomie 
locali 
il 
presente 
Capo definisce 
e 
disciplina il 
Sistema pubblico 
di 
connettività e 
cooperazione 
(SPC), quale 
insieme 
di 
infrastrutture 
tecnologiche 
e 
di 
regole 
tecniche 
che 
assicura l'interoperabilità tra i 
sistemi 
informativi 
delle 
pubbliche 
amministrazioni, 
permette 
il 
coordinamento 
informativo 
e 
informatico dei 
dati 
tra le 
amministrazioni 
centrali, regionali 
e 
locali 
e 
tra 
queste 
e 
i 
sistemi 
dell'Unione 
europea ed è 
aperto all'adesione 
da parte 
dei 
gestori di servizi pubblici e dei soggetti privati. 


2. 
Il 
SPC 
garantisce 
la 
sicurezza 
e 
la 
riservatezza 
delle 
informazioni, 
nonché 
la salvaguardia e 
l'autonomia del 
patrimonio informativo di 
ciascun soggetto 
aderente. 
3. La realizzazione del SPC avviene nel rispetto dei seguenti principi: 
a) sviluppo architetturale 
e 
organizzativo atto a garantire 
la federabilità 
dei 
sistemi; b) economicità nell'utilizzo dei 
servizi 
di 
rete, di 
interoperabilità 
e 
di 
supporto alla cooperazione 
applicativa; b-bis) aggiornamento continuo 
del 
sistema e 
aderenza alle 
migliori 
pratiche 
internazionali; c) sviluppo del 
mercato e 
della concorrenza nel 
settore 
delle 
tecnologie 
dell'informazione 
e 
della comunicazione. 
3-bis. [Le 
regole 
tecniche 
del 
Sistema pubblico di 
connettività sono dettate 
ai sensi dell'articolo 71] 
(9). 
3-ter. Il SPC è costituito da un insieme di elementi che comprendono: 


a) infrastrutture, architetture 
e 
interfacce 
tecnologiche; b) linee 
guida e 
regole 
per 
la cooperazione 
e 
l'interoperabilità; c) catalogo di 
servizi 
e 
applicazioni. 
3-quater. Ai 
sensi 
dell'articolo 71 sono dettate 
le 
regole 
tecniche 
del 
Sistema 
pubblico 
di 
connettività 
e 
cooperazione, 
al 
fine 
di 
assicurarne: 
l'aggiornamento 
rispetto 
alla 
evoluzione 
della 
tecnologia; 
l'aderenza 
alle 
linee 
guida europee 
in materia di 
interoperabilità; l'adeguatezza rispetto alle 
esigenze 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
e 
dei 
suoi 
utenti; la più efficace 
e 
semplice 
adozione 
da 
parte 
di 
tutti 
i 
soggetti, 
pubblici 
e 
privati, 
il 
rispetto 
di 
necessari livelli di sicurezza”. 


Il 
SPC 
ha, 
quindi, 
il 
compito 
di 
assicurare 
la 
sicurezza 
e 
il 
buon 
esito 
della 


(8) Art. 73, co. 2, D.Lgs. 82/2005. 


(9) Il 
comma 
3-bis 
è 
stato abrogato dal 
D.Lgs. 179/2016, il 
quale 
ha 
modificato gran parte 
del-
l’articolo, riportando nell’art. 57, “Modifiche all'articolo 73 del decreto legislativo n. 82 del 2005”. 

LeGISLAzIone 
eD 
ATTUALITà 


trasmissione 
dei 
dati, 
esito 
garantito 
dai 
fornitori 
del 
servizio, 
che 
possono 
svolgere 
questa 
attività 
solo 
laddove 
in 
possesso 
di 
determinati 
requisiti 
di 
qualità 
e 
sicurezza. 
non 
si 
tratta 
quindi 
solo 
ed 
esclusivamente 
di 
una 
rete 
tecnologica, 
ma 
della 
condizione 
abilitante 
per il 
corretto funzionamento dell’egovernment, 
dal 
momento che 
influenza 
fortemente 
le 
scelte 
organizzative 
ed 
è 
volta 
a 
promuovere 
la 
collaborazione 
tra 
amministrazioni, finalità 
quest’ultima 
estremamente 
rilevante 
in un sistema 
pubblico articolato su molte 
istruzioni 
e livelli diversi (10). 


È 
proprio 
la 
cooperazione 
applicativa 
ad 
entrare 
in 
gioco 
nella 
trasmissione 
e 
nello 
scambio 
di 
dati 
e 
informazioni 
tra 
amministrazioni: 
le 
comunicazioni 
telematiche, 
in 
tal 
caso, 
si 
atteggiano 
in 
modo 
molto 
diverso 
rispetto 
alla 
posta 
elettronica 
e 
alla 
posta 
elettronica 
certificata 
che, 
si 
può 
dire, 
riproducono 
a 
livello 
informatico 
rispettivamente 
il 
meccanismo 
della 
posta 
ordinaria 
e 
della 
raccomandata. 
nella 
cooperazione 
applicativa 
la 
comunicazione 
avviene, 
invece, 
attraverso 
l’interfacciamento 
fra 
le 
porte 
di 
dominio 
(11) 
delle 
amministrazioni 
pubbliche, 
in 
quanto 
si 
basa 
sulle 
capacità 
di 
esportare 
i 
propri 
servizi 
applicativi 
e 
di 
accedere 
ai 
servizi 
erogati 
da 
altre 
amministrazioni 
attraverso 
le 
porte 
di 
dominio, 
punto 
di 
contatto 
telematico 
fra 
amministrazioni 
che 
gestiscono 
i 
messaggi 
in 
entrata 
e 
in 
uscita. 
Le 
porte 
di 
dominio 
devono 
rispondere 
a 
determinati 
standard 
e 
regole 
di 
comunicazione 
definite; 
ciò 
le 
distingue 
dai 
domini 
che 
sono 
invece 
l’insieme 
di 
risorse 
software, 
hardware 
e 
di 
comunicazione 
di 
una 
pubblica 
amministrazione, 
da 
intendersi 
come 
lo 
spazio 
di 
competenza 
di 
ciascuna 
amministrazione 
in 
relazione 
al 
proprio 
sistema 
informativo 
e 
informatico, 
che 
per 
questo 
possono 
conservare 
strutture 
autonome, 
dato 
che 
la 
funzione 
di 
adattamento 
è 
compiuta 
dalle 
porte 
di 
dominio 
(12). 


Di 
conseguenza, 
la 
cooperazione 
applicativa 
non 
si 
limita 
all’aspetto 
tecnologico, 
ma 
implica 
una 
vera 
e 
propria 
riorganizzazione 
e 
reingegnerizzazione 
dei 
processi 
all’interno 
delle 
pubbliche 
amministrazioni. 
Segna 
il 


(10) Appare 
la 
traduzione 
della 
nozione, elaborata 
da 
Sabino Cassese, di 
“rete 
come 
figura organizzativa 
della 
collaborazione”. 
Così 
C. 
D’orTA, 
Il 
sistema 
pubblico 
di 
connettività: 
un 
approccio 
nuovo 
alle 
esigenze 
della rete 
delle 
pubbliche 
amministrazioni”, in Giornale 
di 
diritto amministrativo, 2005, 
n. 7, riferendosi 
a 
Cassese, “le 
reti 
come 
figura organizzativa della collaborazione”, in 
S. CASSeSe, Lo 
spazio giuridico globale, roma-Bari, 2003. 
(11) 
La 
porta 
di 
dominio 
rappresenta 
un 
elemento 
concettuale 
che 
ha 
la 
funzione 
di 
proxy 
per 
l’accesso 
alle 
risorse 
applicative 
del 
dominio. 
Fa 
parte 
del 
modello 
organizzativo 
di 
SPCoop 
e, 
come 
tale, 
trova 
naturalmente 
posto 
nella 
progettazione 
concettuale 
piuttosto 
che 
in 
quella 
logica 
o 
fisica. 
La 
PD 
può 
essere 
ricoprire 
due 
ruoli: 
Porta 
Applicativa 
-ruolo 
assunto 
da 
una 
porta 
di 
dominio 
di 
SPCoop 
nell’ambito 
di 
un 
episodio 
di 
collaborazione 
applicativa. 
Assume 
tale 
ruolo 
la 
porta 
di 
dominio 
che, 
a 
seguito 
della 
ricezione 
di 
un 
messaggio 
di 
richiesta 
proveniente 
da 
un’altra 
porta 
di 
dominio 
(porta 
delegata) 
invia 
al 
mittente 
un 
messaggio 
di 
risposta; 
Porta 
Delegata 
-ruolo 
assunto 
da 
una 
porta 
di 
dominio 
di 
SPCoop 
nell’ambito 
di 
un 
episodio 
di 
collaborazione 
applicativa. 
Assume 
tale 
ruolo 
la 
porta 
di 
dominio 
che 
origina 
un 
messaggio 
di 
richiesta 
(di 
servizio) 
destinato 
ad 
un’altra 
porta 
di 
dominio 
(porta 
applicativa). 
(12) In tal 
senso F. MArTInI, 
Il 
sistema informativo pubblico, in Quaderni 
del 
Dipartimento Pubblico, 
Università di Pisa, Torino, 2006. 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2021 


passaggio 
concreto 
dall’informatizzazione 
alla 
vera 
e 
propria 
“digitalizzazione” 
in 
senso 
non 
solo 
formale, 
ma 
anche 
sostanziale 
nel 
rispetto 
del 
principio 
“once 
only”. 


Sebbene 
l’importanza 
del 
meccanismo di 
cooperazione 
si 
colga 
primariamente 
sotto il 
profilo dello scambio di 
informazioni 
e 
delle 
comunicazioni 
che 
intercorrono tra 
soggetti 
pubblici, più in generale 
la 
cooperazione 
costituisce 
l’asse 
portante 
delle 
relazioni 
tra 
amministrazioni 
e, in quanto tale, dovrebbe 
essere 
favorita 
ed 
implementata 
al 
fine 
di 
garantire 
semplificazione, 
efficacia 
e 
sicurezza 
nell’ottica 
di 
una 
profonda 
evoluzione 
e 
modernizzazione 
dell’intero sistema pubblico (13). 


2. La tutela dei dati personali. 
Il 
comma 
2 dell’art. 73 del 
CAD, pone 
in rilievo la 
necessità 
che 
l’SPC 
garantisca 
“sicurezza” 
e 
“riservatezza” 
delle 
informazioni: 
la 
seconda 
è 
da 
intendere 
come 
direttamente 
-sebbene 
non 
unicamente 
-condizionata 
dalla 
prima: 
è 
del 
tutto 
evidente, 
difatti, 
che 
un 
sistema 
non 
sicuro 
è 
potenzialmente 
idoneo 
a 
pregiudicare 
anche 
la 
riservatezza 
delle 
informazioni 
trasmissibili 
ed 
acquisibili 
per 
il 
suo 
tramite. 
Più 
precisamente, 
un 
sistema 
non 
sicuro 
potrebbe 
esporre 
al 
rischio di 
data breach, al 
verificarsi 
dei 
quali 
il 
regolamento Ue 
GDPr (n. 679/16) fa 
discendere 
l’obbligo di 
relativa 
comunicazione 
all’Autorità 
Garante 
Privacy e 
al 
ricorrere 
di 
determinati 
presupposti, anche 
agli 
interessati 
cui 
i 
dati 
si 
riferiscono, in entrambi 
i 
casi 
entro tempi 
assai 
ristretti. 
Senza 
trascurare 
l’evenienza 
di 
possibili 
richieste 
risarcitorie. Gli 
standard di 
sicurezza 
prescritti 
per l’SPC verranno stabiliti, secondo quanto disposto dal 
comma 
3-quater, dall’AgID, attraverso lo strumento delle 
Linee 
Guida 
di 
cui 
all’art. 71 del CAD. 


Tale 
aspetto viene 
ribadito anche 
dal 
Consiglio di 
Stato (14) che, con riferimento 
all’art. 
73, 
precisa 
che 
il 
SPC 
(Sistema 
Pubblico 
di 
Connettività) 
deve 
garantire 
la 
sicurezza 
e 
la 
riservatezza 
delle 
informazioni 
nonché 
la 
salvaguardia 
e 
l’autonomia 
del 
patrimonio informativo di 
ciascun soggetto aderente 
secondo le regole tecniche di cui all’art. 71 del CAD. 


Con Circolare 
n. 1 del 
9 settembre 
2020 ed i 
relativi 
allegati, l’AgID 
ha 
definito 
la 
Linea 
di 
indirizzo 
sull’interoperabilità 
tecnica 
che 
tutte 
le 
Pubbliche 


(13) 
Come 
rileva 
F. 
MArTInI, 
op. 
cit., 
la 
cooperazione 
applicativa 
prospetta 
di 
dissolvere 
i 
confini 
di 
competenza 
fra 
amministrazione 
permettendo ad un’amministrazione 
di 
accedere 
con pieno valore 
giuridico ai 
servizi 
di 
un’altra. I concetti 
di 
interoperabilità 
e 
cooperazione 
applicativa 
sono considerati 
fattori 
chiave 
e 
ricevono impulso dalla 
normativa 
e 
dalle 
politiche 
dell’Unione 
europea, anche 
dall’attuale 
Agenda 
Digitale 
europea. Su interoperabilità 
e 
cooperazione 
applicativa 
cfr. B. DA 
ronCH 
-L. De 
PIeTro, 
Interoperabilità 
e 
cooperazione 
applicativa, 
in 
L. 
De 
PIeTro 
(a 
cura 
di), 
Dieci 
lezioni 
per 
capire 
e attuare l’e-government, cit. Sulla cooperazione applicativa e i suoi modelli, cfr. A. MAGGIPInTo. 
(14) Vedasi 
parere 
n. 785 del 
23 marzo 2016. Più di 
recente 
si 
segnala 
il 
parere 
del 
Consiglio di 
Stato del 26 novembre 2020 n.1940 sull’e-procurement. 

LeGISLAzIone 
eD 
ATTUALITà 


Amministrazioni 
devono 
adottare 
al 
fine 
di 
garantire 
l’interoperabilità 
dei 
propri 
sistemi 
con 
quelli 
di 
altri 
soggetti 
e 
favorire 
l’implementazione 
complessiva 
del 
Sistema 
informativo della 
PA. In particolare, circolare 
ed allegati 
si 
occupano 
di 
individuare 
le 
tecnologie 
e 
gli 
standard che 
le 
PPAA 
devono tenere 
in 
considerazione 
nella 
realizzazione 
dei 
propri 
sistemi 
informatici, 
al 
fine 
di 
permettere 
il 
coordinamento 
informatico 
dei 
dati 
tra 
le 
amministrazioni 
nonché 
tra i gestori di servizi pubblici e i soggetti privati e l’Unione europea. 


L’Agenzia 
per l’Italia 
Digitale 
è, del 
resto, l’autorità 
responsabile 
delle 
attività 
di 
governance 
con 
l’obiettivo 
di 
definire, 
condividere 
e 
assicurare 
l’aggiornamento 
continuo dei seguenti aspetti: 


-l’insieme 
delle 
tecnologie 
che 
abilitano l’interoperabilità 
tra 
PPAA, cittadini 
e imprese; 
-i 
pattern 
di interoperabilità (interazione e sicurezza); 
- i profili di interoperabilità. 
Tutte 
le 
amministrazioni 
devono, 
dunque, 
aderire 
agli 
standard 
tecnologici 
ed 
utilizzare 
pattern 
e 
profili 
del 
nuovo 
Modello 
di 
interoperabilità, 
che 
consentirà 
di 
definire 
ed 
esporre 
Application 
Programming 
Interface 
(cd. 
API) 
conformi 
agli 
standard 
consolidati 
anche 
in 
ambito 
eU. 
Le 
API 
realizzate 
in 
conformità 
con 
il 
nuovo 
Modello 
di 
Interoperabilità 
garantiscono 
in 
particolare: 


-tracciabilità 
delle 
diverse 
versioni 
delle 
API, 
allo 
scopo 
di 
consentire 
evoluzioni non distruttive (versioning); 


-documentazione 
coordinata 
con la 
versione 
delle 
API (documentation); 
-limitazioni 
di 
utilizzo 
collegate 
alle 
caratteristiche 
delle 
API 
stesse 
e 
della classe di utilizzatori (throttling); 
-tracciabilità 
delle 
richieste 
ricevute 
e 
del 
loro 
esito 
(logging 
e 
accounting); 


-un adeguato livello di 
servizio in base 
alla 
tipologia 
del 
servizio fornito 
(SLA); 
- configurazione scalabile delle risorse. 
Il 
nuovo 
Modello 
di 
interoperabilità 
rappresenta 
un 
asse 
portante 
del 
Piano 
triennale 
per 
l'informatica 
nella 
PA 
2020-2022. 
Come 
stabilito 
nel 
Piano, 
l'Agenzia per l'Italia Digitale: 


-fornisce 
un catalogo delle 
API e 
dei 
servizi 
disponibili 
con una 
interfaccia 
di accesso unica; 
-rende 
disponibili 
appositi 
strumenti 
di 
cooperazione 
per 
agevolare 
la 
risoluzione 
di problematiche relative alle 
API; 


- stabilisce e pubblica le metriche di utilizzo delle 
API. 
La 
Circolare 
n. 1 del 
9 settembre 
2020 aggiorna, altresì, il 
Sistema 
pubblico 
di 
cooperazione 
(SPCoop) proseguendo nel 
processo di 
aggiornamento 
avviato con la determinazione 
AgID 219/2017. 

La 
messa 
in opera 
delle 
regole 
di 
interoperabilità, di 
integrazione 
e 
cooperazione 
per lo scambio di 
informazioni 
e 
l’erogazione 
di 
servizi 
nella 
PA 
è 
un percorso che parte da lontano, ma presenta ancora molte criticità. 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2021 


Il 
tema 
dell’interoperabilità 
per 
lo 
scambio 
di 
informazioni 
e 
l’erogazione 
di 
servizi 
nella 
Pubblica 
Amministrazione 
rappresenta, 
infatti, 
un 
tema 
tra 
i 
più importanti 
per lo sviluppo del 
digitale 
nella 
PA 
insieme 
alla 
gestione 
del-
l’identità 
digitale 
anche 
in chiave 
anagrafica 
e 
di 
sicurezza 
dei 
dati 
e 
dei 
sistemi. 


non è 
un caso che 
nell’ultima 
versione 
del 
“recovery Plan” 
si 
citi, tra 
gli 
obiettivi 
di 
“digitalizzazione, innovazione, competitività e 
cultura”, l’implementazione 
dell’interoperabilità 
nella 
Pubblica 
Amministrazione, con uno 
sguardo costante ai dati personali (15). 


non solo. 

nel 
decreto cd. Semplificazioni 
(16), gli 
artt. 24 e 
25 prevedono una 
valorizzazione 
dei 
sistemi 
di 
identificazione 
digitale 
Spid e 
Cie 
per l'accesso ai 
servizi 
on line, rafforzando il 
concetto di 
identità 
digitale 
anche 
attraverso il 
“punto 
di 
accesso 
telematico 
previsto 
dall’art. 
64-bis”, 
ossia 
l’applicazione 
per 
smartphone 
Io, 
la 
piattaforma 
unica 
per 
tutte 
le 
Pubbliche 
amministrazioni 
integrata con le piattaforme abilitanti come pagoPA, Spid e Cie. 

Allo stesso modo, l’art. 26 prevede 
una 
piattaforma 
unica 
per la 
notificazione 
digitale 
degli 
atti 
della 
Pubblica 
Amministrazione, e 
il 
comma 
15 del-
l’art. 26 prevede 
un’articolata 
procedura 
da 
adottarsi 
con uno o più DPCM, 
sentito il 
Ministero dell' 
economia 
e 
il 
Garante 
per la 
Privacy, nel 
termine 
ordinatorio 
di 
120 giorni 
dalla 
data 
di 
entrata 
in vigore 
del 
decreto con cui 
vengano 
stabilite 
le 
regole 
tecniche, 
l’infrastruttura 
tecnologia 
e 
le 
modalità 
di 
inserimento degli 
atti, nonché 
il 
piano test 
per la 
verifica 
del 
corretto funzio


(15) 
Per 
uno 
studio 
più 
approfondito 
si 
consiglia 
di 
consultare 
il 
Piano 
nazionale 
di 
ripresa 
e 
resilienza 
(Pnrr) 
2021, 
pag. 
89, 
che, 
in 
tema 
di 
dati 
e 
interoperabilità, 
si 
esprime 
nei 
seguenti 
termini: 
“Il 
gap 
digitale 
della 
PA 
italiana 
si 
traduce 
oggi 
in 
ridotta 
produttività 
e 
spesso 
in 
un 
peso 
non 
sopportabile 
per 
cittadini, 
residenti 
e 
imprese, 
che 
debbono 
accedere 
alle 
diverse 
amministrazioni 
come 
silos 
verticali, 
non 
interconnessi 
tra 
loro. 
La 
trasformazione 
digitale 
della 
PA 
si 
prefigge 
quindi 
di 
cambiare 
l’architettura 
e 
le 
modalità 
di 
interconnessione 
tra 
le 
basi 
dati 
delle 
amministrazioni 
affinché 
l’accesso 
ai 
servizi 
sia 
trasversalmente 
e 
universalmente 
basato 
sul 
principio 
“once 
only”, 
facendo 
sì 
che 
le 
informazioni 
sui 
cittadini 
siano 
a 
disposizione 
“una 
volta 
per 
tutte” 
per 
le 
amministrazioni 
in 
modo 
immediato, 
semplice 
ed 
efficace, 
alleggerendo 
tempi 
e 
costi 
legati 
alle 
richieste 
di 
informazioni 
oggi 
frammentate 
tra 
molteplici 
enti. 
Investire 
sulla 
piena 
interoperabilità 
dei 
dataset 
della 
PA 
significa 
introdurre 
un 
esteso 
utilizzo 
del 
domicilio 
digitale 
(scelto 
liberamente 
dai 
cittadini) 
e 
garantire 
un’esposizione 
automatica 
dei 
dati/attributi 
di 
cittadini/residenti 
e 
imprese 
da 
parte 
dei 
database 
sorgente 
(dati/attributi 
costantemente 
aggiornati 
nel 
tempo) 
a 
beneficio 
di 
ogni 
processo/servizio 
“richiedente”. 
Si 
verrà 
a 
creare 
una 
“Piattaforma 
Nazionale 
Dati” 
che 
offrirà 
alle 
amministrazioni 
un 
catalogo 
centrale 
di 
“connettori 
automatici” 
(le 
cosiddette 
“API”-Application 
Programming 
Interface) 
consultabili 
e 
accessibili 
tramite 
un 
servizio 
dedicato, 
in 
un 
contesto 
integralmente 
conforme 
alle 
leggi 
europee 
sulla 
privacy, 
evitando 
così 
al 
cittadino 
di 
dover 
fornire 
più 
volte 
la 
stessa 
informazione 
a 
diverse 
amministrazioni. 
La 
realizzazione 
della 
Piattaforma 
Nazionale 
Dati 
sarà 
accompagnata 
da 
un 
progetto 
finalizzato 
a 
garantire 
la 
piena 
partecipazione 
dell’Italia 
all’iniziativa 
Europea 
del 
Single 
Digital 
Gateway, 
che 
consentirà 
l’armonizzazione 
tra 
tutti 
gli 
Stati 
Membri 
e 
la 
completa 
digitalizzazione 
di 
un 
insieme 
di 
procedure/servizi 
di 
particolare 
rilevanza 
(ad 
es. 
richiesta 
del 
certificato 
di 
nascita, 
ecc.)”. 
(16) D.L. n. 76 del 16 luglio 2020, convertito in legge n. 120/20. 

LeGISLAzIone 
eD 
ATTUALITà 


namento. Ultimato il 
test, con atto del 
Capo della 
competente 
struttura 
presso 
la 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
“è 
fissato il 
termine 
a decorrere 
dal 
quale 
le 
amministrazioni 
possono 
aderire 
alla 
piattaforma”. 
Anche 
per 
l’elenco dei 
domicili 
digitali 
il 
comma 
3-bis 
dell’art. 3-bis 
prevede 
che 
sia 
un 
DPCM, 
sentito 
Agid, 
il 
Garante 
per 
la 
Privacy 
e 
la 
Conferenza 
unificata, 
a 
fissare 
la 
data 
in cui 
le 
comunicazioni 
tra 
i 
soggetti 
non digitale 
e 
la 
PA 
avvenga 
“esclusivamente 
in forma elettronica”, mettendosi 
a 
disposizione 
di 
tali 
soggetti 
un domicilio digitale o altre modalità per superare il 
Digital divide. 

occorre 
precisare 
che 
più 
recentemente 
il 
Ministro 
per 
l’Innovazione 
tecnologica 
e 
la 
transizione 
digitale 
Colao ha 
annunciato il 
progetto di 
realizzazione 
di 
una 
rete 
Unica 
Digitale 
entro 
il 
2026 
con 
la 
necessità 
di 
un’unificazione 
dello 
Spid 
con 
la 
carta 
di 
identità 
elettronica. 
La 
tutela 
dei 
dati 
personali 
verrà 
a 
realizzarsi, anche 
in questo caso, con il 
rispetto delle 
procedure 
standardizzate 
contenute 
nelle 
Linee 
Guida 
Agid 
da 
aggiornarsi 
con 
l’evoluzione 
continua 
dei 
protocolli 
informatici 
grazie 
anche 
all’apporto tecnico 
di 
un apposito Dipartimento, il 
Dipartimento per la 
trasformazione 
digitale, 
struttura 
di 
supporto 
al 
Ministro 
per 
l’innovazione 
e 
la 
transizione 
digitale 
per la 
promozione 
il 
coordinamento delle 
azioni 
Governo finalizzate 
alla 
definizione 
di 
una 
strategia 
unitaria 
in 
materia 
di 
trasformazione 
digitale 
e 
di 
modernizzazione 
del 
Paese. 


3. La Blockchain e la tutela dei dati personali. 
Un campo in cui 
la 
tutela 
dei 
dati 
personali 
viene 
messa 
maggiormente 
in discussione 
è 
quello della 
tecnologia 
Blockchain 
(17) che 
si 
sta 
applicando 
in vari 
settori 
dell’agire 
pubblico, sanitario, appalti, transazioni. Tale 
tecnologia 
si 
scontra 
con 
i 
due 
principi 
cardini 
del 
GDPr 
(18): 
i 
dati 
inseriti 
nelle 
blockchain 
sono pubblici 
ed accessibili 
da 
chiunque 
partecipi 
alla 
catena 
e 
i 
dati 
presenti 
nelle 
blockchain 
sono 
conservati 
illimitatamente. 
Le 
parole 
chiave 
del 
GDPr, 
ossia 
centralizzazione, 
limitazione 
e 
rimovibilità, 
si 
pongono 
in 
contrasto con la 
tecnologia 
blockchain 
basata 
su decentralizzazione, distribuzione 
e 
immutabilità. La 
tutela 
del 
dato personale 
risiede 
sempre 
in un hash 
crittografato (19) e nella anomizzazione dei soggetti coinvolti. 


(17) 
La 
blockchain 
è 
una 
particolare 
tecnologia 
di 
registro 
distribuito 
(DLT), 
in 
grado 
di 
registrare 
scambi 
e 
informazioni 
in modo sicuro e 
permanente, mediante 
la 
condivisione 
di 
un database 
che 
rimuove 
essenzialmente 
la 
necessità 
degli 
intermediari 
i 
quali, in precedenza, erano tenuti 
ad agire 
come 
terze parti di fiducia per verificare, registrare e coordinare i dati. 
(18) 
regolamento 
Ce 
del 
Parlamento 
europeo 
n. 
679/2016 
(General 
Data 
Protection 
Regulation). 
(19) 
Una 
funzione 
hash 
crittografica 
fa 
parte 
di 
un 
gruppo 
di 
funzioni 
hash 
adatte 
per 
applicazioni 
crittografiche 
come 
SSL 
/TLS. Come 
altre 
funzioni 
hash, le 
funzioni 
hash crittografiche 
sono algoritmi 
matematici 
unidirezionali 
utilizzati 
per mappare 
i 
dati 
di 
qualsiasi 
dimensione 
su una 
stringa 
di 
bit 
di 
una 
dimensione 
fissa. Le 
funzioni 
hash crittografiche 
sono ampiamente 
utilizzate 
nelle 
pratiche 
di 
sicurezza 
delle 
informazioni, quali 
firme 
digitali, codici 
di 
autenticazione 
dei 
messaggi 
e 
altre 
forme 
di 
autenticazione. 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2021 


I servizi 
di 
gestione 
dei 
dati 
e 
l'architettura 
dei 
dati, progettati 
per conservare, 
utilizzare, riutilizzare 
e 
organizzare 
i 
dati, sono componenti 
decisivi 
della 
catena 
del 
valore 
dell'economia 
digitale 
europea 
(20). 
Per 
questo 
motivo, 
si 
pone 
l’attenzione 
sui 
costi 
e 
sulle 
competenze 
inerenti 
all'accesso 
e 
alla 
conservazione 
dei 
dati, che 
determinano la 
velocità, la 
profondità 
e 
la 
portata 
del-
l'adozione 
di 
infrastrutture 
e 
prodotti 
digitali, 
in 
particolare 
per 
le 
PMI 
e 
le 
start-up (21). 


negli 
ultimi 
anni, infatti, si 
sono sviluppati 
tanto gli 
ecosistemi 
tecnologici 
(22) 
basati 
e 
sviluppati 
sul 
web, 
quanto, 
di 
conseguenza, 
i 
relativi 
problemi 
in ambito di 
sicurezza 
e 
trattamento dei 
dati, non solo delle 
aziende 
o dei 
professionisti, 
ma di tutti gli utenti in generale. 


È 
chiaro 
che 
qualsiasi 
strumento, 
se 
usato 
in 
modo 
improprio, 
può 
causare 
danni, più o meno gravi. Spesso, quindi, non è 
tanto lo strumento in sè 
ad essere 
la 
causa 
del 
danno, 
bensì 
le 
modalità 
attraverso 
cui 
viene 
utilizzato, 
il 
che 
vale anche per gli strumenti più semplici. Tali problematiche investono naturalmente 
anche l’utilizzo della 
Blockchain. 


Molto 
spesso 
si 
è 
inclini 
a 
collocare 
la 
blockchain 
nell’ambito 
dei 
Bitcoin, 
delle 
criptovalute 
o delle 
transazioni 
finanziarie; 
ma 
la 
blockchain 
può dare 
risposte 
assolutamente 
innovative 
anche 
sul 
piano 
della 
creazione 
di 
un 
sistema 
di 
relazioni 
interamente 
basato su un nuovo concetto di 
fiducia. In questo 
caso, occorre 
trovare 
uno strumento di 
disintermediazione, che 
permetta 
di 
dare 
un indirizzo di 
vita 
quotidiana 
per creare 
ecosostenibilità 
e 
benessere 
attraverso il 
digitale. Il 
che 
tradotto significa 
che 
la 
blockchain 
nella 
PA 
può e 
deve apportare dei benefici al cittadino e non la sola funzionalità (23). 


La 
blockchain 
di 
per 
sé 
è 
lo 
strumento 
che, 
se 
usato 
in 
modo 
inappropriato, 
può 
portare 
ad 
incorrere 
in 
situazioni 
contrarie 
alle 
normative 
nazionali 
e/o sovranazionali 
approvate 
a 
tutela 
del 
diritto alla 
riservatezza 
del 
cittadino. 
Il caso lampante è quello del trattamento dei dati personali (24). 


In 
merito 
all’adeguamento 
della 
blockchain 
al 
regolamento 
Ue 
2016/679, 
lo 
scoglio 
apparentemente 
insormontabile 
è 
garantire 
i 
diritti 
dell’interessato, 
disciplinati 
al 
capo 
III, 
negli 
artt. 
12-23 
del 
regolamento 
in 
oggetto. 


In 
particolar 
modo 
la 
peculiarità 
intrinseca 
della 
blockchain 
della 
non 
mo


(20) G. D’ACQUISTo, Blockchain e 
GDPR: verso un approccio basato sul 
rischio, in 
www.federalismi.
it, 18 gennaio 2021. 
(21) C. MoreLLI, Dallo spazio economico europeo allo spazio comune 
dei 
data UE, in www.altalex.
com, 22 marzo 2021. 
(22) r.D. CArDenAS 
eSPInoSA 
e 
altri, “Ecosistemi 
tecnologici 
per 
la ricerca formativa nel 
contesto”, 
ed. Sapienza, 2020. 
(23) W. nonnIS, Blockchain, il 
suo contributo durante 
la pandemia, in www.blockchain4innovation.
it, 19 aprile 2021. 
(24) 
A. 
BeLLo, 
“Blockchain 
e 
privacy: 
soluzioni 
per 
la 
compliance 
alle 
norme”, 
15 
maggio 
2019, 
in agendadigitale.eu; 
M. IASeLLI, “Blockchain e 
privacy, bisogna lavorare 
ancora molto”, luglio 2020, 
in federprivacy.org. 

LeGISLAzIone 
eD 
ATTUALITà 


dificabilità 
e 
cancellazione 
risulta 
essere 
in forte 
contrasto con il 
più noto (per 
il 
clamore 
datogli 
post 
GDPr) 
“diritto 
all’oblio” 
sancito 
nell’art. 
17 
del 
GDPr. 


Secondo 
lo 
studio 
condotto 
dalla 
“Queen 
Mary 
University” 
di 
Londra, 
sarebbe 
ipotizzabile 
una 
blockchain 
compliance 
al 
GDPr mediante 
la 
crittografia 
dei 
dati 
personali 
e 
la 
successiva 
eliminazione 
delle 
corrispettive 
chiavi 
decrittografiche, lasciando su blockchain 
solo i 
dati 
indecifrabili 
o mediante 
l’uso dei cosiddetti modelli di memoria “fuori catena” (25). 


Come 
sostiene 
n. 
Boldrini 
(26), 
infatti, 
le 
tecnologie 
Blockchain 
stanno 
rompendo 
molti 
schemi, 
soprattutto 
quelle 
di 
natura 
pubblica 
su 
cui 
si 
basa 
la 
circolazione 
delle 
criptovalute 
bitcoin 
ed 
ethereum, 
ed 
introducono 
nuovi 
paradigmi 
compresi 
quelli 
di 
natura 
legale. 
In 
quest’ottica, 
diventa 
interessante 
capire 
il 
binomio 
Blockchain 
e 
GDPr, 
ossia 
come 
la 
Blockchain 
potrà 
supportare 
e 
rispettare 
le 
regole 
sulla 
protezione 
dei 
dati 
personali 
introdotte 
dal 
GDPr. 


La 
tecnologia 
Blockchain 
consente 
transazioni 
tra 
le 
parti 
senza 
dover 
rivelare 
la 
propria 
identità 
direttamente. 
Tuttavia, 
ogni 
transazione 
che 
viene 
eseguita 
viene 
pubblicata 
e 
collegata 
a 
una 
chiave 
pubblica 
che 
rappresenta 
perciò 
uno 
pseudonimo 
di 
un 
determinato 
utente. 
Sebbene 
la 
chiave 
pubblica 
non 
contenga 
informazioni 
direttamente 
riconducibili 
all’utente, 
l’utilizzo 
della 
medesima 
chiave 
per 
diverse 
transazioni 
e 
l’incrocio 
con 
altre 
informazioni 
potrebbero 
consentire 
di 
individuare 
gli 
autori 
di 
una 
determinata 
transazione. 


ne 
consegue 
che 
la 
chiave 
pubblica, 
se 
associata 
a 
una 
persona, 
potrà 
eventualmente 
essere 
qualificata 
come 
dato 
personale 
ai 
fini 
della 
legislazione 
europea 
sulla 
protezione 
dei 
dati. Infatti, quando la 
chiave 
pubblica 
è 
ricondotta 
a 
un soggetto identificato, è 
possibile 
ottenere 
informazioni 
su tutte 
le 
transazioni 
che 
il 
soggetto ha 
compiuto sulla 
blockchain. Di 
conseguenza, le 
norme 
sulla 
protezione 
dei 
dati 
potrebbero 
essere 
applicabili 
ad 
almeno 
alcuni 
dei dati coinvolti nelle soluzioni 
Blockchain 
(27). 


Qualora 
si 
intenda 
utilizzare 
la 
blockchain 
come 
storage 
(28) 
di 
tutti 
i 
dati 
degli 
utenti, anziché, per esempio, creare 
una 
linea 
privata 
dove 
immagazzinare 
(cd. 
storare) 
i 
dati 
sensibili 
accoppiandola 
ad 
una 
blockchain 
da 
usare in formato “notarile” è importante sapere che: 


-i 
dati 
archiviati 
in 
una 
blockchain 
sono 
a 
prova 
di 
manomissione: 
questo 
si 
traduce 
in un’impossibilità 
pura 
(derivante 
da 
codifica 
della 
blockchain) di 
cancellazione 
dei 
dati, 
una 
volta 
che 
essi 
verranno 
immessi 
nella 
catena 
distribuita; 


(25) A. BeLLo, Blockchain e 
privacy: soluzioni 
per 
la compliance 
alle 
norme, in www.agendadigitale.
eu, 15 maggio 2019. 
(26) n. BoLDrInI, “Blockchain e 
GDPR: le 
sfide 
(e 
le 
opportunità) per 
la protezione 
dei 
dati”, 
2018, in blockchain4innovation.it. 
(27) V. PorTALe, Quanto è 
legale 
la Blockchain? La compatibilità tra Blockchain e 
normativa 
GDPR, in www.blog.osservatori.net, 31 luglio 2020. 
(28) Supporto di memorizzazione dei dati. 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2021 


-le 
Blockchain 
sono 
distribuite, 
quindi 
nemmeno 
il 
controllo 
sui 
dati 
può 
essere 
centralizzato ed è 
demandato a 
tutti 
i 
partecipanti 
alla 
blockchain 
(29); 


-gli 
Smart 
Contract 
(contratti 
intelligenti) (30) sono creati 
per essere 
automatizzati 
sotto il 
profilo decisionale: 
questo può aprire 
quindi 
criticità 
comprensibilmente 
non banali 
sul 
fronte, per esempio, di 
casi 
di 
impugnazioni 
e 
contestazioni. 
In 
linea 
generale, 
ciò 
che 
si 
pone 
in 
contrasto 
con 
il 
GDPr, 
in 
questo 
caso, sono due 
dei 
principi 
che 
fino ad oggi 
hanno costituito il 
cardine 
su cui 
si sono affermati il valore ed il potere della 
Blockchain 
(31), ossia: 


-i 
dati 
inseriti 
nelle 
blockchain 
sono pubblici 
ed accessibili 
da 
chiunque 
partecipi alla catena; 
- i dati presenti nelle 
blockchain 
sono conservati illimitatamente (32). 
Viceversa, 
se 
volessimo 
riassumere 
in 
breve 
ciò 
che 
caratterizza 
il 
GDPr 
potremmo utilizzare 
tre 
parole 
chiave: 
centralizzazione, limitazione 
e 
rimovibilità 
(cancellazione), 
termini 
che 
ovviamente, 
anche 
solo 
ad 
una 
prima 
lettura, 
si 
pongono 
in 
netto 
contrasto 
con 
i 
fondamenti 
che, 
al 
contrario, 
costituiscono 
la 
base 
della 
blockchain, ossia 
decentralizzazione, distribuzione 
ed immutabilità. 


Come 
noto, 
il 
GDPr 
conferisce 
ai 
residenti 
nel 
territorio 
europeo 
una 
serie 
di 
diritti 
esecutivi 
in relazione 
al 
trattamento dei 
propri 
dati 
personali, i 
quali 
risultano 
comprensibili 
nel 
contesto 
di 
un 
database 
centralizzato 
controllato 
da un singolo controller di dati con un insieme finito di processori (33). 


Se 
partiamo dall’assunto che, in generale, le 
Blockchain 
si 
concentrano 
principalmente 
sulla 
protezione 
dell’identità 
più che 
sui 
dati 
ad essa 
associati, 
il 
parallelismo con la 
“Carta 
dei 
diritti 
digitali” 
delle 
persone 
appare 
evidente, 
dato 
che 
il 
GDPr 
nasce 
come 
volontà 
di 
restituire 
alle 
persone 
(34) 
il 
“potere” 
sui propri dati personali. 


In 
linea 
di 
principio, 
attraverso 
la 
Blockchain 
un 
utente 
è 
sempre 
in 
grado 
di 
controllare 
i 
propri 
dati 
personali, 
anzi, 
è 
l’unico 
a 
sapere 
a 
che 
informazioni 
corrisponde la propria chiave pubblica. 


nonostante 
le 
sfide 
legate 
principalmente 
a 
immutabilità 
e 
replicazione 
siano 
indubbiamente 
delicate 
e 
sarà 
necessario 
attendere 
le 
interpretazioni 
del 
legislatore 
europeo per avere 
un quadro di 
diritto completo, ad oggi 
ci 
sono 


(29) Al 
più ai 
miners, che 
comunque 
non possono essere 
considerati 
dei 
Data 
Protection officer 
come richiesto da GDPr. 
(30) Vedi 
parere 
Consiglio di 
Stato del 
26 novembre 
2020, n. 1940 sullo Schema 
di 
regolamento 
recante le modalità di digitalizzazione delle procedure dei contratti pubblici (cd. e-procurement). 
(31) A. GAMBIno, C. BoMPrezzI, Blockchain e 
titolare 
del 
trattamento dei 
dati 
personali: il 
nodo 
rimane irrisolto, in www.iaic.it, 20 gennaio 2020. 
(32) A garanzia e tutela dell’intero registro distribuito. 
(33) D. MArCIAno, G. CAPACCIoLI, 
La blockchain ed il 
problema del 
trattamento dei 
dati 
personali, 
in www.affidaty.io, 4 giugno 2019. 
(34) In una Blockchain diremmo quindi l’identità. 

LeGISLAzIone 
eD 
ATTUALITà 


delle 
possibili 
“vie” 
di 
prevenzione 
(35), 
ossia 
di 
applicabilità 
della 
blockchain 
in conformità a quanto stabilito dal GDPr. 


Va, 
tuttavia, 
fatta 
un’ulteriore 
precisazione 
sulla 
sicurezza 
crittografica: 
«la 
crittografia 
non 
libera 
persone 
ed 
aziende 
dalle 
proprie 
responsabilità 
sul 
controllo 
dei 
dati 
perché 
-per 
dirla 
senza 
mezzi 
termini 
-tutta 
la 
crittografia 
può 
essere 
violata», 
avverte 
rutjes 
(36). 
«Questo 
vale 
anche 
per 
gli 
hash 
crittografici 
che, 
nell’interpretazione 
del 
gruppo 
di 
lavoro 
di 
esperti 
tecnici 
dell’Unione 
Europea, 
è 
da 
considerarsi 
come 
dato 
personale. 
A 
mio 
avviso 
che 
un 
hash 
sia 
una 
stringa 
di 
codice 
ben 
progettata 
è 
sufficientemente 
sicura 
e 
anonima 
dal 
mettere 
al 
riparo 
i 
dati 
personali 
di 
chi 
possiede 
le 
chiavi 
crittografiche; 
tuttavia, 
sarà 
la 
Corte 
di 
Giustizia 
Europea 
a 
doversi 
pronunciare 
in 
merito». 


Per 
quanto 
riguarda 
i 
conflitti 
attorno 
alle 
caratteristiche 
uniche 
della 
blockchain, la 
soluzione 
è 
semplice, scrive 
rutjes 
nel 
suo post: 
“memorizzare 
i 
dati 
personali 
al 
di 
fuori 
della 
blockchain, 
ad 
esempio 
in 
un 
database 
privato. 
In generale, è 
buona norma limitare 
la quantità di 
informazioni 
condivise 
nel 
libro 
mastro; 
ancora 
di 
più 
con 
informazioni 
personali 
o 
comunque 
sensibili». 


L’opportunità 
potenziale 
è 
l’abilitazione 
di 
un futuro in cui 
la 
fornitura 
di 
servizi 
pubblici 
sia 
più 
vicina 
alla 
persona 
e 
alle 
imprese, 
creando 
delle 
condizioni 
di maggior sviluppo e integrazione economica e sociale. 

I cosiddetti 
smart 
contract 
(37) si 
candidano quali 
strumenti 
adatti 
a 
portare 
miglioramenti 
sostanziali 
in 
termini 
di 
conformità, 
uniformità, 
standardizzazione 
ed implementazione della catena di responsabilità. 


Trattandosi 
di 
tecnologie 
ancora 
in 
fase 
di 
completamento 
del 
proprio 
ciclo 
di 
sviluppo, 
è 
fondamentale 
maturare 
degli 
elementi 
di 
valutazione 
delle 
diverse 
opzioni 
disponibili 
in quanto a 
paradigma 
di 
adozione, considerando 
gli specifici obiettivi dei relativi ambiti di applicazione. 


Temi 
quali 
privacy, sicurezza, solidità 
e 
scalabilità 
diventano ancor più 
centrali 
e 
strategici 
quando 
la 
loro 
contestualizzazione 
avviene 
in 
ambiti 
di 
investimento 
pubblico; 
è 
pertanto 
necessario 
comprendere 
come 
la 
tecnologia 
sia 
lo strumento di 
implementazione 
di 
un modello che 
porta 
un effetto di 
trasformazione 
con implicazioni etiche e sociali. 


In 
questa 
prospettiva 
va 
collocata 
l’iniziativa 
di 
creazione 
della 
European 
Blockchain Service 
Infrastructure 
(eBSI) (38), azione 
congiunta 
della 
Com


(35) Come, ad esempio, la 
crittografia 
o i 
codici 
Qr, protocolli 
informatici 
che 
prevedano htpp 
cache control. 
(36) A. rUTjeS, “Blockchain and GDPR: better safe than sorry”, 2018. 
(37) Protocolli 
informatici 
che 
facilitano, verificano o fanno rispettare 
la 
negoziazione 
o l'esecuzione 
di 
un contratto, permettendo talvolta 
la 
parziale 
o la 
totale 
esclusione 
di 
una 
clausola 
contrattuale. 
Gli 
smart 
contract, 
di 
solito, 
hanno 
anche 
una 
interfaccia 
utente 
e 
spesso 
simulano 
la 
logica 
delle 
clausole 
contrattuali. 
(38) Alla 
base 
dell’avvio del 
progetto eBSI c’è 
l’European Blockchain Partnership 
(promossa 
nel 
2018), ossia 
un’iniziativa 
voluta 
dall’Unione 
europea 
che 
punta 
a 
favorire 
la 
collaborazione 
tra 
gli 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2021 


missione 
europea 
e 
del 
partenariato 
europeo 
Blockchain 
(eBP) 
per 
fornire 
servizi 
pubblici 
transnazionali 
sicuri 
a 
livello dell’Ue 
utilizzando le 
tecnologie 
blockchain. 


Periodi 
di 
difficoltà 
e 
di 
incertezza, 
come 
quelli 
che 
stiamo 
attraversando 
in 
questi 
mesi, 
possono 
essere 
trasformati 
in 
occasioni 
per 
introdurre 
degli 
elementi 
di 
discontinuità 
che 
si 
candidano 
quali 
fattori 
decisivi 
per 
una 
visione 
programmatica di ripresa e sviluppo (naturale appare un richiamo al Pnrr). 


È 
necessario quindi 
affrontare 
resistenze 
culturali 
(e 
a 
volte 
ideologiche) 
che 
spesso ostacolano l’ingresso di 
nuove 
tecnologie, tramutandole 
in opportunità 
concrete 
di 
trasformazione 
attraverso delle 
progettualità 
di 
sistema 
per 
generare nuove prospettive di valore per cittadini e imprenditori (39). 


Stati 
membri 
per lo scambio di 
esperienze 
e 
di 
expertise, sia 
sul 
piano tecnico sia 
su quello della 
regolamentazione. 
L’Italia 
è 
entrata 
a 
far parte 
del 
partenariato il 
27 settembre 
2018. Secondo gli 
obiettivi 
del 
partenariato, 
lo 
sviluppo 
dell’infrastruttura 
permetterà 
di 
condividere 
in 
maniera 
sicura 
informazioni 
come, 
ad 
esempio, 
dati 
doganali 
e 
fiscali 
dell’Ue, 
documenti 
di 
audit 
di 
progetti 
finanziati, 
certificazioni 
transfrontaliere di diplomi e sulle qualifiche professionali e le identità digitali (eIDAS). 


(39) P. GHezzI, Blockchain, quali 
prospettive 
per 
le 
politiche 
pubbliche, in www.blockchain4innovation.
it, 14 aprile 2021. 

LeGISLAzIone 
eD 
ATTUALITà 


il rapporto di esclusività del dipendente pubblico e il 
problema della incompatibilità successiva all’interruzione del 
rapporto di lavoro: la questione dell’avvocato dello stato 


Sofia Lanna* 


SoMMARIo: 1. L’obbligo di 
esclusività del 
dipendente 
pubblico: l’art. 53 del 
T.U.P.I. 


2. 
L’orientamento 
della 
giurisprudenza 
più 
recente 
-3. 
La 
questione 
della 
c.d. 
incompatibilità 
successiva e la categoria degli 
Avvocati dello Stato: conclusioni. 
1. L’obbligo di esclusività del dipendente pubblico: l’art. 53 del T.U.P.I. 
Come 
noto, la 
normativa 
sul 
pubblico impiego, contenuta 
nel 
T.U.P.I. di 
cui 
al 
D.lgs. n. 165 del 
2001, prevede 
un obbligo di 
esclusività 
del 
dipendente 
pubblico, 
il 
quale 
non 
può 
svolgere 
attività 
imprenditoriale, 
professionale 
o 
di 
lavoro autonomo e 
instaurare 
rapporti 
di 
lavoro alle 
dipendenze 
di 
terzi 
o 
accettare cariche o incarichi in società o enti che abbiano fini di lucro. 

La 
ratio 
di 
tale 
scelta 
sta 
nel 
fatto che 
il 
lavoratore, in ragione 
di 
tale 
dovere, 
è 
così 
tenuto a 
riservare 
in via 
esclusiva, per tutta 
la 
durata 
del 
rapporto 
di 
lavoro, 
le 
proprie 
energie 
lavorative 
all'ufficio 
di 
appartenenza 
(s.v. 
sul 
punto la sentenza della Cass. n. 31277/2019). 


L’art. 
53 
del 
T.U. 
sul 
pubblico 
impiego 
rappresenta 
il 
punto 
di 
riferimento 
in materia (1). 

(*) 
Dottoressa 
in 
Giurisprudenza, 
ammessa 
alla 
pratica 
forense 
presso 
l’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato 
(Vice avv. gen. Giuseppe 
Albenzio, avv. Stato Ilia Massarelli). 


(1) art. 53. incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi. 
1. resta 
ferma 
per tutti 
i 
dipendenti 
pubblici 
la 
disciplina 
delle 
incompatibilità 
dettata 
dagli 
articoli 
60 
e 
seguenti 
del 
testo unico approvato con decreto del 
Presidente 
della 
repubblica 
10 gennaio 1957, n. 3, 
salva 
la 
deroga 
prevista 
dall'articolo 
23-bis 
del 
presente 
decreto, 
nonché, 
per 
i 
rapporti 
di 
lavoro 
a 
tempo 
parziale, dall'articolo 6, comma 
2, del 
decreto del 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
ministri 
17 marzo 1989, 
n. 
117 
e 
dall'articolo 
1, 
commi 
57 
e 
seguenti 
della 
legge 
23 
dicembre 
1996, 
n. 
662. 
restano 
ferme 
altresì 
le 
disposizioni 
di 
cui 
agli 
articoli 
267, comma 
1, 273, 274, 508 nonché 
676 del 
decreto legislativo 16 
aprile 
1994, 
n. 
297, 
all'articolo 
9, 
commi 
1 
e 
2, 
della 
legge 
23 
dicembre 
1992, 
n. 
498, 
all'articolo 
4, 
comma 
7, della 
legge 
30 dicembre 
1991, n. 412, ed ogni 
altra 
successiva 
modificazione 
ed integrazione 
della relativa disciplina.. 
1-bis. 
non 
possono 
essere 
conferiti 
incarichi 
di 
direzione 
di 
strutture 
deputate 
alla 
gestione 
del 
personale 
a 
soggetti 
che 
rivestano o abbiano rivestito negli 
ultimi 
due 
anni 
cariche 
in partiti 
politici 
o in organizzazioni 
sindacali 
o che 
abbiano avuto negli 
ultimi 
due 
anni 
rapporti 
continuativi 
di 
collaborazione 
o di 
consulenza con le predette organizzazioni. 
2. 
Le 
pubbliche 
amministrazioni 
non 
possono 
conferire 
ai 
dipendenti 
incarichi, 
non 
compresi 
nei 
compiti 
e 
doveri 
di 
ufficio, che 
non siano espressamente 
previsti 
o disciplinati 
da 
legge 
o altre 
fonti 
normative, 
o che non siano espressamente autorizzati. 
3. Ai 
fini 
previsti 
dal 
comma 
2, con appositi 
regolamenti, da 
emanarsi 
ai 
sensi 
dell'articolo 17, comma 
2, 
della 
legge 
23 
agosto 
1988, 
n. 
400, 
sono 
individuati 
gli 
incarichi 
consentiti 
e 
quelli 
vietati 
ai 
magistrati 
ordinari, amministrativi, contabili 
e 
militari, nonché 
agli 
avvocati 
e 
procuratori 
dello Stato, sentiti, per 
le diverse magistrature, i rispettivi istituti. 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2021 


3-bis. Ai 
fini 
previsti 
dal 
comma 
2, con appositi 
regolamenti 
emanati 
su proposta 
del 
Ministro per la 
pubblica 
amministrazione 
e 
la 
semplificazione, 
di 
concerto 
con 
i 
Ministri 
interessati, 
ai 
sensi 
dell'articolo 
17, comma 
2, della 
legge 
23 agosto 1988, n. 400, e 
successive 
modificazioni, sono individuati, secondo 
criteri 
differenziati 
in rapporto alle 
diverse 
qualifiche 
e 
ruoli 
professionali, gli 
incarichi 
vietati 
ai 
dipendenti 
delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2. 


4. nel 
caso in cui 
i 
regolamenti 
di 
cui 
al 
comma 
3 non siano emanati, l'attribuzione 
degli 
incarichi 
è 
consentita nei soli casi espressamente previsti dalla legge o da altre fonti normative. 
5. In ogni 
caso, il 
conferimento operato direttamente 
dall'amministrazione, nonché 
l'autorizzazione 
all'esercizio 
di 
incarichi 
che 
provengano da 
amministrazione 
pubblica 
diversa 
da 
quella 
di 
appartenenza, 
ovvero da 
società 
o persone 
fisiche, che 
svolgano attività 
d'impresa 
o commerciale, sono disposti 
dai 
rispettivi 
organi 
competenti 
secondo criteri 
oggettivi 
e 
predeterminati, che 
tengano conto della 
specifica 
professionalità, tali 
da 
escludere 
casi 
di 
incompatibilità, sia 
di 
diritto che 
di 
fatto, nell'interesse 
del 
buon 
andamento della 
pubblica 
amministrazione 
o situazioni 
di 
conflitto, anche 
potenziale, di 
interessi, che 
pregiudichino l'esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente. 
6. 
I 
commi 
da 
7 
a 
13 
del 
presente 
articolo 
si 
applicano 
ai 
dipendenti 
delle 
amministrazioni 
pubbliche 
di 
cui 
all'articolo 
1, 
comma 
2, 
compresi 
quelli 
di 
cui 
all'articolo 
3, 
con 
esclusione 
dei 
dipendenti 
con 
rapporto 
di 
lavoro 
a 
tempo 
parziale 
con 
prestazione 
lavorativa 
non 
superiore 
al 
cinquanta 
per 
cento 
di 
quella 
a 
tempo 
pieno, 
dei 
docenti 
universitari 
a 
tempo 
definito 
e 
delle 
altre 
categorie 
di 
dipendenti 
pubblici 
ai 
quali 
è 
consentito 
da 
disposizioni 
speciali 
lo 
svolgimento 
di 
attività 
libero-professionali. 
Sono 
nulli 
tutti 
gli 
atti 
e 
provvedimenti 
comunque 
denominati, 
regolamentari 
e 
amministrativi, 
adottati 
dalle 
amministrazioni 
di 
appartenenza 
in 
contrasto 
con 
il 
presente 
comma. 
Gli 
incarichi 
retribuiti, 
di 
cui 
ai 
commi 
seguenti, 
sono 
tutti 
gli 
incarichi, 
anche 
occasionali, 
non 
compresi 
nei 
compiti 
e 
doveri 
di 
ufficio, 
per 
i 
quali 
è 
previsto, 
sotto 
qualsiasi 
forma, 
un 
compenso. 
Sono 
esclusi 
i 
compensi 
e 
le 
prestazioni 
derivanti. 
a) dalla collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili; 
b) dalla 
utilizzazione 
economica 
da 
parte 
dell'autore 
o inventore 
di 
opere 
dell'ingegno e 
di 
invenzioni 
industriali; 
c) dalla partecipazione a convegni e seminari; 
d) da incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso delle spese documentate; 
e) 
da 
incarichi 
per 
lo 
svolgimento 
dei 
quali 
il 
dipendente 
è 
posto 
in 
posizione 
di 
aspettativa, 
di 
comando 
o di fuori ruolo; 
f) da 
incarichi 
conferiti 
dalle 
organizzazioni 
sindacali 
a 
dipendenti 
presso le 
stesse 
distaccati 
o in aspettativa 
non retribuita; 
f-bis) da 
attività 
di 
formazione 
diretta 
ai 
dipendenti 
della 
pubblica 
amministrazione 
nonché 
di 
docenza 
e di ricerca scientifica. 
7. I dipendenti 
pubblici 
non possono svolgere 
incarichi 
retribuiti 
che 
non siano stati 
conferiti 
o previamente 
autorizzati 
dall'amministrazione 
di 
appartenenza. Ai 
fini 
dell'autorizzazione, l'amministrazione 
verifica 
l'insussistenza 
di 
situazioni, anche 
potenziali, di 
conflitto di 
interessi. Con riferimento ai 
professori 
universitari 
a 
tempo pieno, gli 
statuti 
o i 
regolamenti 
degli 
atenei 
disciplinano i 
criteri 
e 
le 
procedure 
per il 
rilascio dell'autorizzazione 
nei 
casi 
previsti 
dal 
presente 
decreto. In caso di 
inosservanza 
del 
divieto, 
salve 
le 
più 
gravi 
sanzioni 
e 
ferma 
restando 
la 
responsabilità 
disciplinare, 
il 
compenso 
dovuto 
per le 
prestazioni 
eventualmente 
svolte 
deve 
essere 
versato, a 
cura 
dell'erogante 
o, in difetto, del 
percettore, 
nel 
conto dell'entrata 
del 
bilancio dell'amministrazione 
di 
appartenenza 
del 
dipendente 
per essere 
destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti. 
7-bis. L'omissione 
del 
versamento del 
compenso da 
parte 
del 
dipendente 
pubblico indebito percettore 
costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti. 
8. Le 
pubbliche 
amministrazioni 
non possono conferire 
incarichi 
retribuiti 
a 
dipendenti 
di 
altre 
amministrazioni 
pubbliche 
senza 
la 
previa 
autorizzazione 
dell'amministrazione 
di 
appartenenza 
dei 
dipendenti 
stessi. Salve 
le 
più gravi 
sanzioni, il 
conferimento dei 
predetti 
incarichi, senza 
la 
previa 
autorizzazione, 
costituisce 
in ogni 
caso infrazione 
disciplinare 
per il 
funzionario responsabile 
del 
procedimento; 
il 
relativo 
provvedimento è 
nullo di 
diritto. In tal 
caso l'importo previsto come 
corrispettivo dell'incarico, 
ove 
gravi 
su fondi 
in disponibilità 
dell'amministrazione 
conferente, è 
trasferito all'amministrazione 
di 
appartenenza del dipendente ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti. 
9. Gli 
enti 
pubblici 
economici 
e 
i 
soggetti 
privati 
non possono conferire 
incarichi 
retribuiti 
a 
dipendenti 
pubblici 
senza 
la 
previa 
autorizzazione 
dell'amministrazione 
di 
appartenenza 
dei 
dipendenti 
stessi. Ai 

LeGISLAzIone 
eD 
ATTUALITà 


fini 
dell'autorizzazione, 
l'amministrazione 
verifica 
l'insussistenza 
di 
situazioni, 
anche 
potenziali, 
di 
conflitto 
di 
interessi. 
In 
caso 
di 
inosservanza 
si 
applica 
la 
disposizione 
dell'articolo 
6, 
comma 
1, 
del 
de-
creto-legge 
28 marzo 1997, n. 79, convertito, con modificazioni, dalla 
legge 
28 maggio 1997, n. 140, e 
successive 
modificazioni 
ed integrazioni. All'accertamento delle 
violazioni 
e 
all'irrogazione 
delle 
sanzioni 
provvede 
il 
Ministero delle 
finanze, avvalendosi 
della 
Guardia 
di 
finanza, secondo le 
disposizioni 
della 
legge 
24 novembre 
1981, n. 689, e 
successive 
modificazioni 
ed integrazioni. Le 
somme 
riscosse 
sono acquisite alle entrate del Ministero delle finanze. 


10. L'autorizzazione, di 
cui 
ai 
commi 
precedenti, deve 
essere 
richiesta 
all'amministrazione 
di 
appartenenza 
del 
dipendente 
dai 
soggetti 
pubblici 
o 
privati, 
che 
intendono 
conferire 
l'incarico; 
può, 
altresì, 
essere 
richiesta 
dal 
dipendente 
interessato. L'amministrazione 
di 
appartenenza 
deve 
pronunciarsi 
sulla 
richiesta 
di 
autorizzazione 
entro trenta 
giorni 
dalla 
ricezione 
della 
richiesta 
stessa. Per il 
personale 
che 
presta 
comunque 
servizio presso amministrazioni 
pubbliche 
diverse 
da 
quelle 
di 
appartenenza, l'autorizzazione 
è 
subordinata 
all'intesa 
tra 
le 
due 
amministrazioni. In tal 
caso il 
termine 
per provvedere 
è 
per 
l'amministrazione 
di 
appartenenza 
di 
45 giorni 
e 
si 
prescinde 
dall'intesa 
se 
l'amministrazione 
presso la 
quale 
il 
dipendente 
presta 
servizio 
non 
si 
pronunzia 
entro 
10 
giorni 
dalla 
ricezione 
della 
richiesta 
di 
intesa 
da 
parte 
dell'amministrazione 
di 
appartenenza. 
Decorso 
il 
termine 
per 
provvedere, 
l'autorizzazione, 
se 
richiesta 
per incarichi 
da 
conferirsi 
da 
amministrazioni 
pubbliche, si 
intende 
accordata; 
in ogni 
altro 
caso, si intende definitivamente negata. 
11. entro quindici 
giorni 
dall'erogazione 
del 
compenso per gli 
incarichi 
di 
cui 
al 
comma 
6, i 
soggetti 
pubblici 
o privati 
comunicano all'amministrazione 
di 
appartenenza 
l'ammontare 
dei 
compensi 
erogati 
ai dipendenti pubblici. 
12. Le 
amministrazioni 
pubbliche 
che 
conferiscono o autorizzano incarichi, anche 
a 
titolo gratuito, ai 
propri 
dipendenti 
comunicano in via 
telematica, nel 
termine 
di 
quindici 
giorni, al 
Dipartimento della 
funzione 
pubblica 
gli 
incarichi 
conferiti 
o autorizzati 
ai 
dipendenti 
stessi, con l'indicazione 
dell'oggetto 
dell'incarico e 
del 
compenso lordo, ove 
previsto. [La 
comunicazione 
è 
accompagnata 
da 
una 
relazione 
nella 
quale 
sono indicate 
le 
norme 
in applicazione 
delle 
quali 
gli 
incarichi 
sono stati 
conferiti 
o autorizzati, 
le 
ragioni 
del 
conferimento o dell'autorizzazione, i 
criteri 
di 
scelta 
dei 
dipendenti 
cui 
gli 
incarichi 
sono stati 
conferiti 
o autorizzati 
e 
la 
rispondenza 
dei 
medesimi 
ai 
principi 
di 
buon andamento dell'amministrazione, 
nonché 
le 
misure 
che 
si 
intendono adottare 
per il 
contenimento della 
spesa. entro il 
30 
giugno 
di 
ciascun 
anno 
e 
con 
le 
stesse 
modalità 
le 
amministrazioni 
che, 
nell'anno 
precedente, 
non 
hanno 
conferito o autorizzato incarichi 
ai 
propri 
dipendenti, anche 
se 
comandati 
o fuori 
ruolo, dichiarano di 
non aver conferito o autorizzato incarichi]. 
13. entro il 
30 giugno di 
ciascun anno le 
amministrazioni 
di 
appartenenza 
sono tenute 
a 
comunicare 
al 
Dipartimento della 
funzione 
pubblica, in via 
telematica 
o su apposito supporto magnetico, per ciascuno 
dei 
propri 
dipendenti 
e 
distintamente 
per ogni 
incarico conferito o autorizzato, i 
compensi, relativi 
all'anno 
precedente, da 
esse 
erogati 
o della 
cui 
erogazione 
abbiano avuto comunicazione 
dai 
soggetti 
di 
cui al comma 11. 
14. 
Al 
fine 
della 
verifica 
dell'applicazione 
delle 
norme 
di 
cui 
all'articolo 
1, 
commi 
123 
e 
127, 
della 
legge 
23 
dicembre 
1996, 
n. 
662, 
e 
successive 
modificazioni 
e 
integrazioni, 
le 
amministrazioni 
pubbliche 
sono 
tenute 
a 
comunicare 
al 
Dipartimento 
della 
funzione 
pubblica, 
in 
via 
telematica 
o 
su 
supporto 
magnetico, 
entro 
il 
30 
giugno 
di 
ciascun 
anno, 
i 
compensi 
percepiti 
dai 
propri 
dipendenti 
anche 
per 
incarichi 
relativi 
a 
compiti 
e 
doveri 
d'ufficio; 
sono altresì 
tenute 
a 
comunicare 
semestralmente 
l'elenco dei 
collaboratori 
esterni 
e 
dei 
soggetti 
cui 
sono stati 
affidati 
incarichi 
di 
consulenza, con l'indicazione 
della 
ragione 
del-
l'incarico e 
dell'ammontare 
dei 
compensi 
corrisposti. Le 
amministrazioni 
rendono noti, mediante 
inserimento 
nelle 
proprie 
banche 
dati 
accessibili 
al 
pubblico 
per 
via 
telematica, 
gli 
elenchi 
dei 
propri 
consulenti 
indicando l'oggetto, la 
durata 
e 
il 
compenso dell'incarico nonché 
l'attestazione 
dell'avvenuta 
verifica 
dell'insussistenza 
di 
situazioni, 
anche 
potenziali, 
di 
conflitto 
di 
interessi. 
Le 
informazioni 
relative 
a 
consulenze 
e 
incarichi 
comunicate 
dalle 
amministrazioni 
al 
Dipartimento 
della 
funzione 
pubblica, 
nonché 
le 
informazioni 
pubblicate 
dalle 
stesse 
nelle 
proprie 
banche 
dati 
accessibili 
al 
pubblico per via 
telematica 
ai 
sensi 
del 
presente 
articolo, sono trasmesse 
e 
pubblicate 
in tabelle 
riassuntive 
rese 
liberamente 
scaricabili 
in un formato digitale 
standard aperto che 
consenta 
di 
analizzare 
e 
rielaborare, anche 
a 
fini 
statistici, i 
dati 
informatici. entro il 
31 dicembre 
di 
ciascun anno il 
Dipartimento della 
funzione 
pubblica 
trasmette 
alla 
Corte 
dei 
conti 
l'elenco delle 
amministrazioni 
che 
hanno omesso di 
trasmettere 
e 
pubblicare, in tutto o in parte, le 
informazioni 
di 
cui 
al 
terzo periodo del 
presente 
comma 
in formato 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2021 


Tale 
disposizione, che 
si 
applica 
a 
tutti 
i 
dipendenti 
pubblici, al 
comma 
1 
(come 
modificato dalla 
L. n. 145 del 
2002, art. 3, comma 
8, lett. b)), richiama 
espressamente 
il 
principio generale 
in materia 
di 
incompatibilità 
e 
di 
cumulo 
di 
incarichi 
ed 
impieghi 
di 
cui 
al 
D.P.r. 
10 
gennaio 
1957, 
n. 
3, 
art. 
60 
secondo 
il 
quale: 
"l'impiegato non può esercitare 
il 
commercio, l'industria nè 
alcuna 
professione 
o 
assumere 
impieghi 
alle 
dipendenze 
di 
privati 
o 
accettare 
cariche 
in società costituite 
a fine 
di 
lucro", salve 
le 
deroghe 
previste 
dall'art. 23-bis 
del decreto e quelle relative ai rapporti di lavoro a tempo parziale. 


Le 
ultime 
modifiche 
in materia 
sono state 
apportate, in ordine 
cronologico, 
dalla 
L. n. 190 del 
2012 per la 
prevenzione 
e 
la 
repressione 
della 
corruzione 
nella 
Pubblica 
Amministrazione, 
dal 
D.lgs. 
n. 
39 
del 
2013 
in 
tema 
d'incompatibilità 
e 
inconferibilità 
degli 
incarichi, dal 
D.P.r. n. 62 del 
2013, 
recante 
il 
nuovo codice 
di 
condotta 
del 
pubblico dipendente, dal 
D.lgs. n. 75 
del 
2017 (Modifiche 
e 
integrazioni 
al 
testo unico del 
pubblico impiego) con 
riferimento agli 
incarichi 
conferiti 
successivamente 
al 
1 gennaio 2018, che 
è 
intervenuto senza modificare l'art. 53, comma 1 menzionato. 


La 
disciplina 
delle 
incompatibilità, in ragione 
dei 
suoi 
addentellati 
costituzionali, 
è 
interamente 
sottratta 
alla 
contrattazione 
collettiva, 
e 
ciò 
in 
ragione 
di 
quei 
requisiti 
di 
indipendenza 
e 
di 
totale 
disponibilità 
che, come 
affermato 
dalla 
Suprema 
Corte 
nella 
sentenza 
del 
26 marzo 2010, n. 7343, sono preclusivi 
della 
stessa 
costituzione 
del 
rapporto 
di 
lavoro, 
in 
base 
all'art. 
98 
Cost. 
che, affermando che 
"i 
pubblici 
impiegati 
sono al 
servizio esclusivo della Na


digitale 
standard aperto. entro il 
31 dicembre 
di 
ciascun anno il 
Dipartimento della 
funzione 
pubblica 
trasmette 
alla 
Corte 
dei 
conti 
l’elenco delle 
amministrazioni 
che 
hanno omesso di 
effettuare 
la 
comunicazione, 
avente 
ad 
oggetto 
l’elenco 
dei 
collaboratori 
esterni 
e 
dei 
soggetti 
cui 
sono 
stati 
affidati 
incarichi 
di consulenza. 


15. 
Le 
amministrazioni 
che 
omettono 
gli 
adempimenti 
di 
cui 
ai 
commi 
da 
11 
a 
14 
non 
possono 
conferire 
nuovi 
incarichi 
fino a 
quando non adempiono. I soggetti 
di 
cui 
al 
comma 
9 che 
omettono le 
comunicazioni 
di cui al comma 11 incorrono nella sanzione di cui allo stesso comma 9. 
16. 
Il 
Dipartimento 
della 
funzione 
pubblica, 
entro 
il 
31 
dicembre 
di 
ciascun 
anno, 
riferisce 
al 
Parlamento 
sui 
dati 
raccolti, adotta 
le 
relative 
misure 
di 
pubblicità 
e 
trasparenza 
e 
formula 
proposte 
per il 
contenimento 
della 
spesa 
per gli 
incarichi 
e 
per la 
razionalizzazione 
dei 
criteri 
di 
attribuzione 
degli 
incarichi 
stessi. 
16-bis. La 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
-Dipartimento della 
funzione 
pubblica 
può disporre 
verifiche 
del 
rispetto 
delle 
disposizioni 
del 
presente 
articolo 
e 
dell'articolo 
1, 
commi 
56 
e 
seguenti, 
della 
legge 
23 dicembre 
1996, n. 662, per il 
tramite 
dell'Ispettorato per la 
funzione 
pubblica. A 
tale 
fine 
quest'ultimo 
opera 
d'intesa 
con i 
Servizi 
ispettivi 
di 
finanza 
pubblica 
del 
Dipartimento della 
ragioneria 
generale 
dello Stato. 
16-ter. I dipendenti 
che, negli 
ultimi 
tre 
anni 
di 
servizio, hanno esercitato poteri 
autoritativi 
o negoziali 
per conto delle 
pubbliche 
amministrazioni 
di 
cui 
all'articolo 1, comma 
2, non possono svolgere, nei 
tre 
anni 
successivi 
alla 
cessazione 
del 
rapporto 
di 
pubblico 
impiego, 
attività 
lavorativa 
o 
professionale 
presso i 
soggetti 
privati 
destinatari 
dell'attività 
della 
pubblica 
amministrazione 
svolta 
attraverso i 
medesimi 
poteri. 
I 
contratti 
conclusi 
e 
gli 
incarichi 
conferiti 
in 
violazione 
di 
quanto 
previsto 
dal 
presente 
comma 
sono nulli 
ed è 
fatto divieto ai 
soggetti 
privati 
che 
li 
hanno conclusi 
o conferiti 
di 
contrattare 
con 
le 
pubbliche 
amministrazioni 
per 
i 
successivi 
tre 
anni 
con 
obbligo 
di 
restituzione 
dei 
compensi 
eventualmente 
percepiti e accertati ad essi riferiti. 

LeGISLAzIone 
eD 
ATTUALITà 


zione", va 
a 
completare 
e 
rafforzare 
quanto previsto dall’art. 97 Cost. con riguardo 
al principio di imparzialità. 


L’art. 53 del 
D.lgs. n. 165 del 
2001, dunque, disciplina 
la 
materia 
delle 
incompatibilità, cumulo di 
impieghi 
e 
incarichi 
secondo cui, in generale, i 
lavoratori 
dipendenti 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
con rapporto di 
lavoro a 
tempo pieno e 
indeterminato non possono intrattenere 
altri 
rapporti 
di 
lavoro 
dipendente o autonomo o esercitare attività imprenditoriali. 


Di 
conseguenza, i 
dipendenti 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
potranno 
svolgere 
incarichi 
retribuiti 
conferiti 
da 
altri 
soggetti, pubblici 
o privati, solo 
ove 
ricorra 
una 
specifica 
autorizzazione 
conferita 
dall’amministrazione 
di 
appartenenza 
mediante 
criteri 
oggettivi 
e 
predeterminati 
connessi 
alla 
specifica 
professionalità del soggetto. 


Tali 
criteri, 
secondo 
quanto 
stabilito 
dalla 
disposizione, 
sono 
diretti 
ad 
evitare 
che 
i 
dipendenti 
svolgano 
attività 
in 
casi 
di 
incompatibilità, 
sia 
di 
diritto 
che 
di 
fatto, 
nell'interesse 
del 
buon 
andamento 
della 
pubblica 
amministrazione 


o 
in 
situazioni 
di 
conflitto, 
anche 
potenziale, 
di 
interessi, 
che 
pregiudichino 
l'esercizio imparziale delle funzioni ad essi attribuite. 
Il 
conferimento 
dei 
predetti 
incarichi 
senza 
la 
previa 
autorizzazione 
comporta, 
per il 
funzionario responsabile 
del 
procedimento, un’infrazione 
disciplinare, 
la 
nullità 
di 
diritto del 
provvedimento e 
il 
versamento del 
compenso 
previsto come 
corrispettivo dell'incarico direttamente 
all’amministrazione 
di 
appartenenza 
del 
dipendente 
ad 
incremento 
del 
fondo 
di 
produttività 
o 
di 
fondi 
equivalenti. 


Per 
quanto 
riguarda, 
invece, 
la 
figura 
del 
dipendente 
che 
svolge 
l’incarico 
in assenza 
di 
autorizzazione, questi 
sarà 
responsabile 
disciplinarmente 
e 
il 
relativo 
compenso dovuto sarà 
versato, da 
questi 
o dall’erogante, nel 
conto del-
l'entrata 
del 
bilancio dell'amministrazione 
di 
appartenenza 
del 
dipendente 
ad 
incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti. 


A 
tal 
proposito, così 
come 
previsto dall’articolo 16 del 
D.lgs. n. 39 del 
2013, l'Autorità 
nazionale 
anticorruzione, AnAC, vigila 
precipuamente 
sulla 
corretta 
osservanza, 
da 
parte 
delle 
Pubbliche 
Amministrazioni, 
degli 
enti 
pubblici 
e 
degli 
enti 
di 
diritto privato in controllo pubblico, delle 
disposizioni 
in 
materia 
di 
inconferibilità 
e 
incompatibilità 
di 
incarichi, a 
norma 
dell'articolo 
1, commi 
49 e 
50, della 
legge 
6 novembre 
2012, n. 190, anche 
con l'esercizio 
di 
poteri 
ispettivi 
e 
di 
accertamento 
di 
singole 
fattispecie 
di 
conferimento 
degli 
incarichi. 


2. L’orientamento della giurisprudenza più recente. 
Sembra 
opportuno richiamare, sul 
punto, la 
recentissima 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Cassazione, sez. lav., 13 aprile 
2021, n. 9660, in materia 
di 
incompatibilità 
dell'impiego 
pubblico 
part-time 
ed 
esercizio 
dell'azione 
forense 
a 
tutela 
dell'imparzialità della Pubblica 
Amministrazione. 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2021 


Secondo quanto statuito dalla 
Suprema 
Corte, la 
disciplina 
prevista 
dalla 


L. n. 339 del 
2003, che 
sancisce 
l'incompatibilità 
tra 
impiego pubblico parttime 
ed esercizio della 
professione 
forense, essendo diretta 
a 
tutelare 
interessi 
di 
rango 
costituzionale 
quali, 
da 
un 
lato, 
l'imparzialità 
e 
il 
buon 
andamento 
della 
P.A. (art. 97 Cost.), nonché, dall'altro, l'indipendenza 
della 
professione 
forense 
(in 
quanto 
strumentale 
all'effettività 
del 
diritto 
di 
difesa 
ex 
art. 
24 
Cost.), 
trova 
applicazione 
anche 
nei 
confronti 
di 
chi 
abbia 
ottenuto 
l'iscrizione 
all'albo degli 
avvocati 
in epoca 
anteriore 
all'entrata 
in vigore 
della 
L. n. 662 
del 
1996 
atteso 
che 
un'operatività 
limitata 
solo 
per 
l'avvenire 
"otterrebbe 
il 
risultato, 
certamente 
irragionevole, di 
conservare 
ad esaurimento una riserva 
di 
lavoratori 
pubblici 
part 
time, contemporaneamente 
avvocati, all'interno di 
un 
sistema 
radicalmente 
contrario 
alla 
coesistenza 
delle 
due 
figure 
lavorative 
nella stessa persona". 
Sul 
punto, 
sotto 
il 
profilo 
normativo, 
balza 
immediatamente 
in 
primo 
piano l'art. 3, co. 2, del 
r.D.L. n. 1578/1933 di 
disciplina 
dell'ordinamento 
delle 
professioni 
di 
avvocato e 
procuratore, secondo cui 
l'esercizio di 
tali 
professioni 
«è 
incompatibile 
con qualunque 
impiego od ufficio retribuito con stipendio 
sul 
bilancio dello Stato, delle 
Provincie, dei 
Comuni 
... e 
in generale 
di 
qualsiasi 
altra Amministrazione 
o Istituzione 
pubblica soggetta a tutela e 
vigilanza dello Stato, delle 
Provincie 
e 
dei 
Comuni», escludendo peraltro dal-
l'incompatibilità 
(co. 4 lett. a) «i 
professori 
e 
gli 
assistenti 
delle 
Università e 
degli altri Istituti superiori ed i professori degli Istituti secondari». 


Ancora, 
si 
deve 
richiamare 
l'art. 
60 
del 
D.P.r. 
n. 
3/1957 
il 
quale 
stabilisce 
che 
«l’impiegato non può esercitare 
il 
commercio, l'industria, né 
alcuna professione 
o assumere 
impieghi 
alle 
dipendenze 
di 
privati 
o accettare 
cariche 
in 
società 
costituite 
a 
fine 
di 
lucro, 
tranne 
che 
si 
tratti 
di 
cariche 
in 
società 
o 
enti 
per 
le 
quali 
la nomina è 
riservata allo Stato e 
sia all'uopo intervenuta l'autorizzazione 
del 
Ministro 
competente» 
ed 
il 
successivo 
art. 
63 
che 
regola 
l'ipotesi 
di incompatibilità quale ragione di decadenza dall'impiego, previa diffida. 

È 
poi 
stata 
introdotta 
la 
L. 
339/2003, 
contenente 
«norme 
in 
materia 
di 
incompatibilità 
dell'esercizio della professione 
di 
avvocato» la 
quale, all'art. 1, 
esclude 
gli 
avvocati 
dall'applicazione 
dell'art. 1, co. 56 (e 
56-bis) della 
L. n. 
662/1996 
regolando 
all'art. 
2 
una 
facoltà 
di 
opzione 
per 
i 
dipendenti 
iscritti 
all'albo degli 
avvocati 
dopo l'entrata 
in vigore 
della 
L. n. 662/1996, dando la 
possibilità 
di 
scegliere 
nel 
termine 
di 
trentasei 
mesi 
per il 
mantenimento del-
l'impiego 
pubblico 
o 
in 
alternativa 
della 
professione 
forense, 
con 
facoltà 
in 
quest'ultimo caso ed entro cinque 
anni, di 
essere 
riammessi 
all'impiego pubblico. 


Infine, da 
ultimo, l'art. 19 della 
L. n. 247/2012, in ordine 
alla 
«nuova disciplina 
dell'ordinamento 
della 
professione 
forense», 
prevede 
che, 
nonostante 
l'incompatibilità 
con il 
lavoro autonomo, l'attività 
di 
impresa 
e 
il 
lavoro subordinato 
(art. 18 della 
stessa 
legge), l'esercizio della 
professione 
di 
avvocato 



LeGISLAzIone 
eD 
ATTUALITà 


è 
compatibile 
con l'insegnamento o la 
ricerca 
in materie 
giuridiche 
nell'università, 
nelle 
scuole 
secondarie 
pubbliche 
o 
private 
parificate 
e 
nelle 
istituzioni 
ed enti. 


ricordiamo, inoltre, sul 
punto, la 
pronuncia 
della 
Corte 
Costituzionale, 
21 
novembre 
2006, 
n. 
390, 
con 
la 
quale 
è 
stata 
dichiarata 
l’inammissibilità 
della 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
degli 
artt. 1 e 
2 della 
Legge 
del 
25 
novembre 
2003 n. 339, censurati, in riferimento agli 
artt. 3 e 
4 cost., laddove 
stabiliscono, rispettivamente, che 
i 
commi 
56, 56-bis 
e 
57 dell'art. 1 L. 23 dicembre 
1996 n. 662 -i 
quali 
consentono l'iscrizione 
agli 
albi 
professionali 
dei 
dipendenti 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
con 
rapporto 
di 
lavoro 
a 
tempo 
parziale 
quando la 
prestazione 
lavorativa 
non sia 
superiore 
al 
50% di 
quella 
a 
tempo pieno -non si 
applicano all'iscrizione 
all'albo degli 
avvocati 
(art. 1) e 
che 
i 
pubblici 
dipendenti 
che 
hanno ottenuto l'iscrizione 
a 
detto albo successivamente 
alla 
data 
di 
entrata 
in vigore 
della 
L. 23 dicembre 
1996 n. 662 e 
risultanti 
ancora 
iscritti, 
possono 
optare 
per 
il 
mantenimento 
del 
rapporto 
di 
impiego (con conseguente 
cancellazione 
dall'albo) o per l'esercizio della 
professione 
forense (art. 2). 

Infatti, 
a 
detta 
della 
Corte, 
la 
scelta 
del 
legislatore 
di 
escludere 
la 
sola 
professione 
forense 
dall’insieme 
di 
quelle 
quali 
i 
pubblici 
dipendenti 
a 
rapporto 
part-time 
ridotto 
possono 
accedere 
non 
è 
manifestamente 
irragionevole, 
in quanto tale 
professione 
presenta 
maggiori 
e 
più frequenti 
rischi 
di 
inconvenienti 
derivanti 
dalla 
"commistione" 
fra 
pubblico 
impiego 
e 
libera 
professione, 
e 
questo 
proprio 
perché 
il 
divieto 
previsto 
e 
ripristinato 
dalla 
L. 
n. 
339 
del 
2003 ben si 
attaglia 
alla 
caratteristica 
dell'incompatibilità 
con qualsiasi 
"impiego 
retribuito, anche 
se 
consistente 
nella prestazione 
di 
opera di 
assistenza 


o consulenza legale, che 
non abbia carattere 
scientifico o letterario'' 
(art. 3 
r.D.L. 27 novembre 
1933 n. 1578 sull'ordinamento della 
professione 
di 
avvocato), 
e 
perché 
le 
eccezioni 
alla 
regola 
che 
dispone 
l'incompatibilità 
con 
qualsiasi 
rapporto 
di 
lavoro 
subordinato 
non 
implicano 
il 
venir 
meno 
della 
coerenza del sistema legislativo attualmente vigente. 
e 
dunque, 
così 
come 
in 
precedenza 
affermato 
circa 
la 
ragionevolezza 
della 
disciplina 
del 
1996, parimenti 
non può definirsi 
irragionevole 
la 
differente 
e 
contraria 
disciplina 
del 
2003, avendo il 
legislatore, nell'un caso e 
nel-
l'altro, 
esercitato 
legittimamente 
il 
suo 
potere 
discrezionale 
(art. 
28 
della 
L. 
11 marzo 1953 n. 87), risultando, pertanto, infondate 
anche 
le 
censure 
di 
violazione 
degli artt. 4 e 35 della Carta costituzionale. 

nel 
caso 
di 
specie, 
un 
dipendente 
dell’Avvocatura 
dello 
Stato, 
in 
possesso 
dell’abilitazione 
all’esercizio 
della 
professione 
forense, 
aveva 
chiesto 
alla 
propria 
Amministrazione 
-secondo 
quanto 
previsto 
nell’articolo 
1, 
comma 
58, 
della 
legge 
n. 662 del 
1996 -la 
trasformazione 
del 
proprio rapporto di 
lavoro 
a 
tempo pieno in rapporto di 
lavoro a 
tempo parziale, al 
fine 
di 
esercitare 
la 
professione 
di 
avvocato. L’Amministrazione 
non accoglieva 
tale 
richiesta 
in 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2021 


ragione 
di 
un 
ritenuto 
conflitto 
d’interessi 
che 
sarebbe 
sorto 
dalla 
prosecuzione 
del 
rapporto di 
lavoro con l’Avvocatura 
e 
dal 
contestuale 
esercizio della 
professione 
forense. 

Con la 
sentenza 
sopra 
richiamata 
la 
Suprema 
Corte, in definitiva, ritiene 
che 
gli 
interessi 
tutelati 
dall'insieme 
delle 
disposizioni 
di 
legge 
coinvolte 
sono, 
da 
un lato, quello del 
libero esercizio della 
professione 
forense 
e, dall’altro, 
quello dell'imparzialità e del buon andamento della P.A. 

In 
tal 
guisa, 
spetta, 
così 
come 
riconosciuto 
dal 
Collegio, 
al 
Consiglio 
del-
l'ordine 
professionale 
e 
alla 
Pubblica 
Amministrazione 
di 
appartenenza 
il 
compito di 
valutare, nell'esercizio dei 
propri 
poteri, se 
autorizzare 
o negare 
il 
cumulo delle 
attività 
richiesto, in modo tale 
da 
poter bilanciare 
correttamente 
i 
diversi 
interessi 
secondo canoni 
di 
imparzialità 
e 
buon andamento, oltre 
che 
nell’ottica di preservare il corretto esercizio della professione legale. 

La 
Corte 
ha 
sostenuto, 
inoltre, 
che 
l’attività 
della 
ricorrente 
non 
possa 
inserirsi 
neppure 
nell’ambito 
delle 
deroghe 
relative 
all’insegnamento 
e 
alla 
ricerca 
di 
cui 
all'art. 
3 
lett. 
a) 
del 
r.D.L. 
1578/1933 
ed 
ora 
all'art. 
19 
della 
L. 
247/2012, 
in 
quanto 
tali 
interessi 
sono 
ritenuti 
prevalenti 
e 
non 
confliggenti, 
costituendo 
eccezioni 
ad 
una 
regola, 
quella 
dell'incompatibilità, 
che 
è 
stata 
designata 
dal 
legislatore 
al 
precipuo 
fine 
di 
evitare 
tutti 
quei 
rischi, 
concreti 
e 
frequenti, 
che 
possono 
derivare 
dalla 
“commistione” 
tra 
attività 
forense 
e 
pubblico 
impiego. 


3. La questione 
della c.d. incompatibilità successiva e 
la categoria degli 
Avvocati 
dello Stato: conclusioni. 
Premessi 
tali 
brevi 
cenni 
sull’inquadramento 
normativo 
del 
dovere 
di 
esclusività 
nel 
settore 
del 
pubblico impiego, ci 
si 
interroga 
su quale 
sia 
la 
disciplina 
applicabile 
per gli 
Avvocati 
dello Stato che 
decidano di 
esercitare 
la 
libera 
professione 
forense 
successivamente 
al 
collocamento 
a 
riposo, 
così 
come 
stabilito nell’art. 34 del 
r.D. n. 1611/1933. ricordiamo infatti 
che, ai 
sensi 
dell’art. 3 del 
T.U.P.I., gli 
Avvocati 
dello Stato rientrano a 
pieno nella 
categoria dei pubblici impiegati. 


Quid iuris, dunque, del 
dovere 
di 
esclusività 
una 
volta 
interrotto il 
rapporto 
di lavoro per via del raggiungimento del collocamento a riposo? 


Ad 
esempio, 
quali 
ostacoli 
potrebbero 
palesarsi 
all’Avvocato 
dello 
Stato, 
dipendente 
pubblico, 
che 
decida 
di 
proseguire 
la 
propria 
professione 
come 
avvocato 
del libero foro a seguito del raggiungimento della propria pensione? 


Che 
limiti 
potrebbe 
incontrare, 
questi, 
dal 
punto 
di 
vista 
professionale, 
rispetto alle 
Pubbliche 
Amministrazioni 
al 
servizio delle 
quali, in passato, ha 
operato? 
e, 
ancora, 
quali 
vincoli 
avrebbe 
rispetto 
alla 
struttura 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
ministri, dalla 
quale 
dipendono direttamente 
gli 
uffici 
del-
l’Avvocatura Generale dello Stato? 


In primo luogo, al 
fine 
di 
fornire 
una 
risposta 
soddisfacente 
a 
tali 
quesiti, 
è 
necessario far riferimento alla 
ratio 
dell’art. 53 T.U.P.I. Come 
già 
in prece



LeGISLAzIone 
eD 
ATTUALITà 


denza 
affermato, il 
fine 
perseguito dalla 
norma 
è 
quello di 
far sì 
che 
il 
lavoratore 
pubblico impiegato concentri 
le 
proprie 
energie 
lavorative 
nello svolgimento 
delle 
mansioni 
attribuitegli 
dalla 
pubblica 
amministrazione 
di 
appartenenza. 


Partendo da 
tale 
assunto, pertanto, è 
facile 
giungere 
alla 
conclusione 
generale 
per la 
quale, una 
volta 
cessato il 
rapporto di 
lavoro, il 
soggetto che 
decida 
di 
dedicarsi 
a 
nuovi 
incarichi 
sarà 
libero 
di 
svolgerli, 
senza 
alcun 
ulteriore 
vincolo. Viene, infatti, meno la 
stessa 
ragion d’essere 
dell’applicazione 
della 
norma, non essendo, infatti, più necessario preservare 
il 
buon andamento del-
l’attività 
pubblica 
nel 
momento in cui 
lo stesso rapporto di 
servizio con l’amministrazione 
giunge al termine. 

Qualora, 
poi, 
si 
voglia 
derogare 
a 
tale 
regola 
generale, 
sarà 
necessaria 
una specifica puntualizzazione da parte del legislatore. 

Ad 
esempio, 
nel 
comma 
16-ter 
dell’art. 
53 
più 
volte 
menzionato, 
si 
legge 
che: 
“I 
dipendenti 
che, 
negli 
ultimi 
tre 
anni 
di 
servizio, 
hanno 
esercitato 
poteri 
autoritativi 
o negoziali 
per 
conto delle 
pubbliche 
amministrazioni 
di 
cui 
all'articolo 
1, comma 2, non possono svolgere, nei 
tre 
anni 
successivi 
alla cessazione 
del 
rapporto di 
pubblico impiego, attività lavorativa o professionale 
presso 
i 
soggetti 
privati 
destinatari 
dell'attività 
della 
pubblica 
amministrazione 
svolta 
attraverso 
i 
medesimi 
poteri. 
I 
contratti 
conclusi 
e 
gli 
incarichi 
conferiti 
in violazione 
di 
quanto previsto dal 
presente 
comma sono nulli 
ed è 
fatto divieto 
ai 
soggetti 
privati 
che 
li 
hanno conclusi 
o conferiti 
di 
contrattare 
con le 
pubbliche 
amministrazioni 
per 
i 
successivi 
tre 
anni 
con 
obbligo 
di 
restituzione 
dei compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi riferiti”. 


Tale 
disposizione 
sembrerebbe 
proprio confermare 
ed avvalorare 
la 
tesi 
sopraindicata 
in quanto lo stesso legislatore 
ha 
ravvisato l’esigenza 
di 
intervenire 
positivamente 
specificando un’ipotesi 
di 
c.d. “incompatibilità 
successiva” 
alla 
cessazione 
del 
lavoro di 
pubblico impiego, peraltro temporalmente 
e oggettivamente limitata. 


Tornando alla 
specifica 
ipotesi 
concernente 
l’Avvocato dello Stato, dunque, 
sarà 
necessario 
verificare 
se 
esista 
o 
meno 
una 
specifica 
disposizione 
che 
impedisca 
giuridicamente 
a 
questi 
di 
esercitare 
la 
libera 
professione 
forense 
a 
seguito dell’intervenuto raggiungimento del 
collocamento a 
riposo o che, comunque, 
gli 
imponga 
determinati 
vincoli 
nei 
confronti 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
con 
le 
quali, 
nel 
corso 
del 
proprio 
percorso 
lavorativo, 
si 
sia 
relazionato. 


Sarà, dunque, utile 
analizzare 
con attenzione 
quanto disposto dal 
Codice 
etico dell’Avvocatura 
dello Stato (Deliberazione 
del 
Comitato nazionale 
del-
l’Associazione 
Unitaria 
degli 
avvocati 
e 
procuratori 
dello Stato del 
5 maggio 
1994 
e 
modifiche 
della 
Giunta 
e 
del 
Comitato 
nazionale 
dell’Associazione 
ex 
art. 54 del 
T.U. 165 del 
2001 come 
modificato dalla 
legge 
n. 190 del 
2012 Deliberazione 
del 
Comitato direttivo dell’Associazione 
nazionale 
Avvocati 
e 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2021 


Procuratori 
dello Stato del 
12 luglio 2013) (2). Dall’attenta 
lettura 
di 
tale 
documento 
non risulta 
alcun riferimento di 
ordine 
professionalmente 
etico alla 


c.d. incompatibilità successiva. 
Un altro riferimento normativo può essere 
quello dell’art. 24, comma 
1, 
del 
regio 
Decreto 
del 
30 
ottobre 
1933, 
n. 
1611, 
secondo 
il 
quale: 
“I 
funzionari 
dell'Avvocatura dello Stato non possono occupare 
altri 
pubblici 
impieghi, né 
esercitare 
la mercatura o altra professione, né 
senza l'autorizzazione 
dell'Avvocato 
generale 
dello 
Stato, 
assumere 
incarichi 
retribuiti 
di 
qualsiasi 
genere”. 
Anche 
in 
questo 
caso, 
si 
rinviene 
il 
principio 
generale 
dell’esclusività 
del 
pubblico 
impiegato 
nel 
corso 
del 
rapporto 
di 
servizio. 
Ma, 
appunto, 
si 
deve 
far 
esclusivamente 
riferimento al 
rapporto di 
servizio in atto, non essendo d’altronde 
possibile 
immaginare 
la 
necessità 
di 
un’autorizzazione 
dell’Avvocato 
Generale dello Stato una volta terminato il rapporto stesso. 


In 
conclusione, 
dunque, 
a 
parere 
di 
chi 
scrive, 
non 
dovrebbero 
sostanziarsi 
particolari 
ostacoli, 
dal 
punto 
di 
vista 
puramente 
giuridico, 
con 
riguardo 
alla 
scelta 
compiuta 
dall’Avvocato 
dello 
Stato, 
collocato 
a 
riposo, 
di 
proseguire 
la propria carriera nel privato. 

Infatti, 
l’obbligo 
di 
esclusività 
dovrà 
ritenersi 
cessato 
nel 
momento 
in 
cui 
viene 
meno 
il 
medesimo 
rapporto 
di 
lavoro 
che 
ne 
costituisce 
la 
fonte, 
non 
essendo 
presenti 
nell’ordinamento particolari 
norme 
in grado di 
derogare 
a 
tale 
regola generale. 


La 
suprema 
Corte 
si 
pronuncia 
sulla 
questione 
concernente 
l'incompatibilità 
tra 
impiego 
pubblico part-time ed esercizio della professione forense. 


Cassazione 
civile, 
sezione 
Lavoro, 
sentenza 
del 
13 
aprile 
2021, 
n. 
9660 
-Pres. 
L. 
Tria, 
Rel. r. Bellè 
-V.L. (avv.ti 
G. Verde 
e 
n. rizzo) c. Università 
degli 
Studi 
di 
napoli 
Federico 
II (avv. A. Abignente). 


La legge 
n. 339 del 
2003 -concernente 
l’incompatibilità tra impiego pubblico part-time 
ed 
esercizio della professione 
forense 
-è 
applicabile 
anche 
nei 
confronti 
di 
coloro che 
si 
siano 
iscritti 
all’albo degli 
avvocati 
anteriormente 
all’entrata in vigore 
della L. n. 662 del 
1996, 
posto 
che 
tale 
disciplina 
è 
volta 
a 
tutelare 
sia 
interessi 
costituzionalmente 
garantiti, 
quali 
l’imparzialità 
ed 
il 
buon 
andamento 
delle 
Pubbliche 
Amministrazioni, 
sia 
l'interesse 
generale 
al 
corretto 
esercizio 
della 
professione 
forense, 
strumentale 
all’effettività 
dell’esercizio 
del 
diritto 
di 
difesa, 
e 
alla 
fedeltà 
dei 
pubblici 
dipendenti. 
In 
senso 
contrario, 
un'operatività 
limitata 
solo pro futuro condurrebbe, del 
tutto irragionevolmente, ad una conservazione 
ad esaurimento 
di 
una riserva di 
lavoratori 
pubblici 
part-time, contemporaneamente 
avvocati, all'interno 
di 
un sistema radicalmente 
contrario alla coesistenza delle 
due 
figure 
lavorative 
nella 
medesima persona. 


(2) 
Qui 
consultabile: 
https://www.avvocaturastato.it/files/files/Codice_etico_Avvocatura_Stato.pdf. 

LeGISLAzIone 
eD 
ATTUALITà 


FATTI DI CAUSA 


1. La 
Corte 
d'Appello di 
napoli 
ha 
rigettato l'appello proposto da 
V.L. avverso la 
sentenza 
del 
Tribunale 
della 
stessa 
città 
che, pur annullando le 
sanzioni 
disciplinari 
di 
sospensione 
dal 
servizio 
applicate 
dall'Università 
Federico 
II 
nei 
confronti 
della 
medesima 
per 
lo 
svolgimento 
di 
attività 
di 
avvocato 
contestualmente 
al 
servizio 
quale 
dipendente 
dell'Ateneo, 
aveva 
invece 
disatteso 
la 
domanda 
espressamente 
formulata 
dalla 
lavoratrice 
per 
l'accertamento 
dell'assenza 
di incompatibilità tra il rapporto di lavoro dipendente e l'esercizio della professione forense. 
La 
Corte 
territoriale 
richiamava 
Corte 
Costituzionale 
166/2012 
e 
Cassazione 
27266/2013, 
per 
sostenere 
l'impossibilità 
per i 
dipendenti 
pubblici 
di 
svolgere 
la 
professione 
di 
avvocato ed 
escludeva 
la 
possibilità 
di 
ritenere 
che 
le 
limitazioni 
reintrodotte 
ad opera 
della 
L. n. 339 del 
2003, potessero non avere 
effetto per chi 
fosse 
iscritto già 
anteriormente 
alla 
normativa 
permissiva 
del 1996. 
La 
Corte 
territoriale 
negava 
poi 
che 
potesse 
avere 
alcun effetto il 
fatto che 
la 
ricorrente, nel 
proprio ruolo tecnico, avesse 
svolto mansioni 
di 
supporto o ausilio alla 
docenza, in quanto si 
trattava 
di 
attività 
non assimilabile 
a 
quella 
dei 
ricercatori 
e 
comunque 
non potendosi 
ipotizzare 
l'acquisizione 
di 
un diverso inquadramento per effetto dell'assegnazione 
di 
fatto ad incarichi 
di docenza o di ricerca, stante il disposto preclusivo del D.lgs. n. 165 del 2001. 
2. Avverso la 
sentenza 
V.L. ha 
proposto ricorso per cassazione 
con due 
articolati 
motivi, poi 
illustrati da memoria, cui ha resistito l'Università con controricorso. 
rAGIonI DeLLA DeCISIone 


1. Con il 
primo motivo V.L. adduce 
la 
violazione 
(art. 360 c.p.c., n. 3), L. n. 339 del 
2003, 
artt. 1 e 2. 
ella 
sostiene 
che, in esito alla 
normativa 
di 
liberalizzazione 
di 
cui 
al 
D.P.r. n. 137 del 
2012, 
ostativa 
alla 
frapposizione 
di 
limiti 
all'esercizio delle 
attività 
professionali, dovrebbe 
essere 
rivisitato il 
giudizio di 
ragionevolezza 
formulato dalla 
Corte 
Costituzionale 
con riferimento 
soltanto alla normativa anteriore. 
Sarebbe 
seriamente 
da 
dubitare 
altresì 
della 
ragionevolezza 
di 
un'applicazione 
di 
norme 
svolta 
dalla 
Corte 
d'Appello su un piano del 
tutto astratto ed a 
prescindere 
dalle 
funzioni 
per le 
quali 
vi 
era 
stata 
assunzione 
presso 
la 
P.A., 
anche 
tenuto 
conto 
che 
la 
vera 
ed 
esclusiva 
ragione 
del-
l'incompatibilità 
-a 
dire 
della 
ricorrente 
-era 
stata 
ravvisata, anche 
da 
Corte 
Costituzionale 
390/2006, nella libertà dell'attività forense da qualsiasi vincolo od imposizione. 
Da 
altro punto di 
vista, la 
ricorrente 
fa 
rilevare 
come 
Corte 
Costituzionale 
166/2012 avesse 
ritenuto legittima 
la 
disciplina 
sopravvenuta 
di 
incompatibilità 
di 
cui 
alla 
L. n. 339 del 
2003, 
sul 
presupposto che 
essa, per chi 
si 
fosse 
iscritto dopo il 
1996, prevedesse 
uno spatium 
deliberandi, 
finalizzato ad evitare 
lo stravolgimento delle 
scelte 
di 
vita 
impostate 
medio tempore 
ed a 
tal 
fine 
assicurando, per un verso, un triennio entro cui 
decidere 
quale 
lavoro proseguire 
e 
riconoscendo, per altro verso, la 
possibilità 
di 
ritrattare 
l'opzione 
e 
rientrare 
presso la 
P.A., 
nell'ambito 
di 
un 
successivo 
quinquennio. 
A 
questo 
proposito, 
la 
V. 
sottolinea 
come 
la 
propria 
posizione 
non rientri 
nelle 
ipotesi 
regolate 
dalla 
norma, perché 
ella 
era 
già 
iscritta 
all'Albo 
fin 
dal 
1993, 
mentre 
la 
disposizione 
sull'opzione 
riguardava 
solo 
chi 
si 
fosse 
iscritto 
all'ordine 
successivamente 
alla 
L. n. 296 del 
1996, dovendosi 
escludere, in quanto indebitamente 
correttiva, 
una 
lettura 
della 
L. n. 339 cit., nel 
senso di 
rendere 
la 
stessa 
applicabile 
anche 
a 
chi 
fosse 
iscritto già 
anteriormente 
al 
1996 ed evidenziando come, nei 
fatti, alla 
dipendente, nel 
caso di specie, non erano state offerte le possibilità garantite agli altri. 
In 
subordine, 
sul 
punto, 
veniva 
sottoposta 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
per 
contrasto 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2021 


con l'art. 3 Cost. e 
ciò sia 
per disparità 
di 
trattamento, sia 
per irragionevolezza, mancando le 
condizioni 
per 
far 
venir 
meno, 
con 
le 
iniziative 
datoriali 
del 
2016, 
l'aspettativa 
medio 
tempore 
consolidatasi in capo alla ricorrente. 
Il 
secondo motivo denuncia, in via 
principale, la 
violazione 
della 
L. n. 333 del 
2003, art. 1 
(art. 360 c.p.c., n. 3) e, in linea 
subordinata, la 
nullità 
della 
sentenza 
(art. 360 c.p.c., n. 4, in 
relazione 
alla 
L. n. 247 del 
2012, artt. 15 e 
19 e 
al 
D.P.r. n. 137 del 
2012, con riferimento alla 


L. n. 339 del 
2003), in quanto, qualora 
fosse 
da 
ritenersi 
che 
la 
Corte 
di 
merito avesse 
disapplicato 
per implicito la 
determinazione 
del 
Consiglio dell'ordine 
con la 
quale 
era 
stata 
deliberata 
la 
compatibilità 
delle 
funzioni 
svolte 
presso l'Università, in quanto di 
natura 
didattica, 
in 
tal 
modo 
si 
sarebbe 
indebitamente 
annullato 
un 
provvedimento 
amministrativo 
o 
vanificati 
i 
suoi 
effetti, senza 
che 
ci 
fosse 
stata 
domanda 
e 
comunque 
in carenza 
di 
giurisdizione 
(art. 
360 c.p.c., n. 1). 
nel 
contesto di 
tale 
motivo, ribadendo come 
il 
vero bene 
protetto dall'incompatibilità 
sia 
la 
libertà 
di 
esercizio della 
professione 
forense 
e 
non il 
buon andamento della 
P.A., la 
ricorrente 
rimarca 
come 
risulti 
inspiegabile 
che 
solo l'attività 
di 
avvocato sia 
ritenuta 
incompatibile 
con 
gli 
obblighi 
di 
fedeltà, nonché 
con l'imparzialità 
ed il 
buon andamento della 
P.A., mentre 
ciò 
non accadrebbe 
per il 
medico, l'ingegnere 
o l'architetto e 
così 
via, prospettandosi 
anche 
da 
questo punto di 
vista, qualora 
residuassero dubbi, questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
della 
L. n. 339 del 
2003, ove 
essa 
fosse 
da 
intendere 
in senso preclusivo per i 
soli 
avvocati, e 
non 
per 
altri 
professionisti, 
sulla 
base 
di 
un'incompatibilità 
valutata 
in 
astratto 
e 
senza 
tenere 
conto 
delle 
mansioni 
concretamente 
svolte 
dal 
dipendente 
in base 
al 
concorso di 
assunzione 
(art. 3 
Cost.), oltre che determinando un vulnus 
alla libera concorrenza (art. 41 Cost.). 
2. 
I 
motivi, 
essendo 
tra 
loro 
strettamente 
connessi, 
possono 
essere 
esaminati 
congiuntamente. 
Deve 
premettersi, in punto di 
fatto, che 
pacificamente 
V.L. è 
stata 
iscritta 
dall'ordine 
degli 
Avvocati 
fin dal 
1993 ed è 
stata 
poi 
assunta 
dall'Università 
di 
napoli 
nel 
2002, con inquadramento 
in 
categoria 
D 
del 
C.C.n.L. 
di 
comparto, 
posizione 
economica 
D2, 
Area 
tecnica, 
tecnico 
scientifica 
ed 
elaborazione 
dati, 
prescegliendo 
il 
regime 
part 
time 
che 
consentiva 
illo 
tempore 
la prosecuzione dell'attività forense. 
L'Università 
soltanto nel 
2015, facendo leva 
sulle 
modifiche 
normative 
di 
cui 
alla 
L. n. 339 
del 
2003, ha 
mosso contestazioni 
alla 
V., la 
quale, per quanto qui 
ancora 
interessa, chiedeva 
nella 
presente 
causa 
l'accertamento 
dell'insussistenza 
di 
incompatibilità 
tra 
il 
proprio 
impiego 
e 
l'attività 
forense, 
con 
domanda 
decisa 
per 
lei 
negativamente 
sul 
punto 
in 
primo 
grado 
e, 
poi, 
dalla sentenza di appello qui impugnata. 
Successivamente, 
nel 
2016, 
l'Università 
ha 
emesso 
provvedimento 
di 
decadenza 
dall'impiego 
ai 
sensi 
del 
D.P.r. 
n. 
3 
del 
1957, 
art. 
63, 
che 
veniva 
parimenti 
impugnato 
davanti 
al 
Tribunale 
di 
napoli, 
con 
processo, 
quest'ultimo, 
poi 
sospeso 
in 
attesa 
della 
decisione 
pregiudiziale 
della 
presente causa. 
3. Dal 
punto di 
vista 
normativo, in senso cronologico, viene 
in evidenza 
il 
r.D.L. n. 1578 del 
1933, art. 3, comma 
2, di 
disciplina 
dell'ordinamento delle 
professioni 
di 
avvocato e 
procuratore, 
secondo cui 
l'esercizio di 
tali 
professioni 
"è 
incompatibile 
con qualunque 
impiego od 
ufficio retribuito con stipendio sul 
bilancio dello Stato, delle 
Province, dei 
Comuni... e 
in generale 
di 
qualsiasi 
altra Amministrazione 
o Istituzione 
pubblica soggetta a tutela e 
vigilanza 
dello Stato, delle 
Provincie 
e 
dei 
Comuni", escludendo peraltro dall'incompatibilità 
(comma 
4 lett. a) "i 
professori 
e 
gli 
assistenti 
delle 
Università e 
degli 
altri 
Istituti 
superiori 
ed i 
professori 
degli Istituti secondari". 
Il 
D.P.r. n. 3 del 
1957, art. 60, dal 
proprio versante, stabilì 
che 
"l'impiegato non può eserci

LeGISLAzIone 
eD 
ATTUALITà 


tare... alcuna professione" 
ed il 
successivo art. 63, ha 
regolato l'ipotesi 
come 
ragione 
di 
decadenza 
dall'impiego, previa diffida. 
nel 
vigore 
del 
D.lgs. n. 29 del 
1993, art. 58 (poi 
trasfuso nel 
D.lgs. n. 165 del 
2001, art. 53) 
che, 
nel 
fornire 
la 
prima 
disciplina 
organica 
dell'impiego 
pubblico 
privatizzato, 
fece 
richiamo 
espresso la 
L. n. 662 del 
1996, citato artt. 60 e 
segg., comma 
1, escluse 
l'applicazione 
delle 
norme 
"che 
vietano l'iscrizione 
in albi 
professionali... ai 
dipendenti 
delle 
pubbliche 
amministrazioni" 
in regime di part time c.d. ridotto. 
È 
quindi 
sopravvenuta 
la 
L. n. 339 del 
2003, contenente 
"norme 
in materia di 
incompatibilità 
dell'esercizio della professione 
di 
avvocato" 
la 
quale, all'art. 1, escluse 
gli 
avvocati 
dall'applicazione 
della 
L. n. 662 del 
1996 cit., art. 1, comma 
56 (e 
comma 
56-bis) regolando all'art. 
2, 
una 
facoltà 
di 
opzione 
per 
i 
dipendenti 
iscritti 
all'albo 
degli 
avvocati 
dopo 
l'entrata 
in 
vigore 
della 
L. n. 662 del 
1996, nel 
senso della 
possibilità 
di 
scegliere 
nel 
termine 
di 
trentasei 
mesi 
per il 
mantenimento dell'impiego pubblico o in alternativa 
della 
professione 
forense, con facoltà 
in quest'ultimo caso ed entro cinque anni, di essere riammesso all'impiego pubblico. 
Infine, la 
L. n. 247 del 
2012, art. 19, testo contenente 
la 
"nuova disciplina dell'ordinamento 
della professione 
forense", dispone 
che, nonostante 
l'incompatibilità 
con il 
lavoro autonomo, 
l'attività 
di 
impresa 
e 
il 
lavoro subordinato (art. 18 della 
stessa 
Legge), l'esercizio della 
professione 
di 
avvocato è 
compatibile 
con l'insegnamento o la 
ricerca 
in materie 
giuridiche 
nel-
l'università, nelle scuole secondarie pubbliche o private parificate e nelle istituzioni ed enti. 


4. La 
Corte 
Costituzionale 
è 
stata 
dapprima 
investita 
della 
questione 
di 
legittimità 
della 
disciplina 
della 
L. n. 339 del 
2003, con la 
quale, come 
si 
è 
detto, fu esclusa 
la 
compatibilità 
della 
professione forense con il regime di impiego pubblico part time. 
Corte 
Costituzionale 
21 
novembre 
2006, 
n. 
390 
in 
proposito 
osservò, 
per 
un 
verso, 
che 
l'essersi 
in precedenza 
(Corte 
Cost. 189/2001) ritenuta 
non irragionevole 
la 
disciplina 
favorevole 
al 
cumulo 
di 
attività, 
non 
escludeva 
che 
parimenti 
potesse 
dirsi 
ragionevole 
la 
disciplina 
opposta 
di 
divieto, rientrando nell'esercizio della 
discrezionalità 
del 
legislatore 
valorizzare 
esclusivamente 
gli 
inconvenienti 
derivanti 
dalla 
professione 
forense, rispetto a 
quelli 
di 
altre 
professioni, 
sulla base di una scelta di opportunità non sindacabile come tale. 
Corte 
Costituzionale 
27 giugno 2012, n. 166, chiamata 
invece 
a 
valutare 
il 
dubbio in ordine 
ad 
un'illegittima 
lesione 
dell'affidamento 
maturato 
dai 
dipendenti 
pubblici 
che 
successivamente 
alla 
L. n. 662 del 
1996, avevano intrapreso la 
professione 
forense, sotto il 
profilo della 
compatibilità 
con l'art. 3 Cost., ne 
ha 
escluso la 
ricorrenza, valorizzando l'esistenza 
nella 
normativa 
sopravvenuta 
di 
un sistema 
di 
opzione, calibrato nel 
tempo, da 
cui 
derivava 
un assetto 
che 
combinava, attraverso un regolamento non irrazionale, l'intento del 
legislatore 
di 
reintrodurre 
l'incompatibilità, 
con 
le 
esigenze 
organizzative 
di 
lavoro 
e 
di 
vita 
dei 
dipendenti 
pubblici 
a tempo parziale già ammessi dalla legge previgente all'esercizio della professione legale. 
5. Ciò posto, è 
intanto da 
escludere 
che 
l'interesse 
tutelato dall'insieme 
delle 
normative 
coinvolte 
sia 
soltanto 
quello 
al 
libero 
esercizio 
della 
professione 
forense 
e 
non 
anche, 
come 
ritenuto 
dalle 
qui 
condivise 
pronunce 
di 
Cass., 
S.U., 
16 
maggio 
2013, 
n. 
11833, 
Cass., 
S.U., 
5 
dicembre 
2013, n. 27266 e 
Cass., S.U. 16 gennaio 2014, n. 775, quello all'imparzialità 
e 
al 
buon andamento 
della P.A. 
neanche 
può 
condividersi 
l'assunto 
difensivo 
della 
ricorrente 
secondo 
cui 
Corte 
Costituzionale 
390/2006 
individuerebbe 
l'interesse 
protetto 
dalle 
norme 
sull'incompatibilità 
essenzialmente 
in 
quello 
dell'assenza 
di 
qualsiasi 
vincolo 
non 
necessario 
all'esercizio 
della 
professione 
forense. 
È 
vero che 
quest'ultimo aspetto è 
al 
centro della 
disamina 
di 
quella 
pronuncia, nella 
parte 
in 
cui 
essa 
affronta 
il 
tema 
delle 
eccezioni 
al 
regime 
di 
incompatibilità, misurandole 
essenzial

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2021 


mente 
sulla 
libertà 
defensionale 
e 
sottolineando come, nel 
caso degli 
uffici 
legali 
degli 
enti 
pubblici, 
essa 
sia 
garantita, 
rispetto 
al 
rapporto 
di 
impiego, 
da 
regole 
di 
autonomia 
riconosciute 
da 
costante 
giurisprudenza 
(uffici 
legali 
degli 
enti 
pubblici), trovando invece 
fondamento, rispetto 
all'altra 
ipotesi 
(docenti), nella 
superiore 
libertà 
di 
insegnamento, destinata 
ad imporsi 
anche 
al 
rapporto di 
impiego e 
quindi 
a fortiori 
inidonea 
a 
far temere 
interferenze 
della 
posizione 
di dipendente pubblico del docente con il libero esercizio della professione forense. 
Tuttavia, poco prima, la 
medesima 
sentenza, nel 
ritenere 
che 
l'opzione 
legislativa 
non possa 
dirsi 
in sé 
irrazionale 
per il 
fondarsi 
su un'ipotesi 
di 
"maggior 
pericolosità e 
frequenza di... 
inconvenienti" 
della 
"commistione" 
che 
"riguardi 
la professione 
forense", rende 
palese 
l'approccio 
rispetto ad una 
bilateralità 
di 
interessi, insita 
nel 
concetto di 
"commistione", che 
il 
legislatore 
mira 
a 
contemperare, 
secondo 
l'assetto 
dal 
medesimo 
discrezionalmente 
ritenuto 
più 
opportuno. 
Tale 
linea 
interpretativa 
è 
del 
resto confermata 
anche 
da 
Corte 
Costituzionale 
166/2012 allorquando 
essa 
afferma 
che 
la 
L. n. 339 del 
2003, "incide 
non tanto sulle 
modalità di 
organizzazione 
della 
professione 
forense 
in 
termini 
rispettosi 
del 
principio 
di 
concorrenza, 
quanto" 
piuttosto, così 
confermando il 
bilanciamento di 
interessi 
su cui 
si 
incentra 
l'attenzione 
della 
Consulta, 
"sul 
modo 
di 
svolgere 
il 
servizio 
presso 
enti 
pubblici 
ai 
fini 
del 
soddisfacimento 
dell'interesse 
generale 
all'esecuzione 
della prestazione 
di 
lavoro pubblico secondo canoni 
di 
imparzialità e buon andamento, oltre che ad un corretto esercizio della professione legale". 
Ciò 
porta 
a 
non 
condividere 
l'enfasi 
posta 
dalla 
ricorrente 
sulla 
disciplina 
in 
ordine 
alla 
libertà 
nell'esercizio delle 
professioni 
di 
cui 
al 
D.P.r. n. 137 del 
2012, effettivamente 
sopravvenuto 
rispetto alle 
citate 
pronunce 
della 
Corte 
Costituzionale, ma 
indubbiamente 
destinato ad assicurare 
il 
mantenimento dei 
margini 
di 
scelta 
su cui 
muove 
la 
L. n. 339 del 
2003, ove 
si 
consideri 
che 
la 
limitazione 
al 
libero esercizio delle 
professioni 
resta 
consentita 
(art. 2, comma 
2, 
del 
citato D.P.r.) sulla 
base 
di 
"deroghe 
espresse 
fondate 
su ragioni 
di 
pubblico interesse"poi 
esemplificate 
nell'esigenza 
di 
tutela 
della 
salute 
-ma 
che 
certamente, 
proprio 
sulla 
falsariga 
delle 
riportate 
argomentazioni 
della 
Corte 
Costituzionale, 
ricorrono 
anche 
allorquando 
la 
"commistione" 
(Corte 
Cost. 390/2006 cit.) riguardi 
la 
necessità 
di 
equilibrio rispetto all'"interesse 
generale 
all'esecuzione 
della prestazione 
di 
lavoro pubblico secondo canoni 
di 
imparzialità 
e buon andamento" (Corte Cost. 166/2012, cit.). 
È 
dunque 
evidente 
che 
gli 
interessi 
sollecitati 
da 
tali 
nuove 
disposizioni 
sono sempre 
quelli 
su cui 
si 
sono già 
espresse 
-nel 
senso della 
non irrazionalità 
dell'assetto normativo -le 
citate 
pronunce 
della 
Corte 
Costituzionale, 
sicché 
l'ipotesi 
della 
proposizione 
di 
una 
nuova 
questione 
di legittimità da questo punto di vista è manifestamente infondata. 
Questa 
Corte 
(Cass., S.U., 11833/2013 cit.) ha 
del 
resto già 
affermato, con passaggi 
che 
sono 
qui 
condivisi, ragionando sugli 
effetti 
derivanti 
dal 
D.L. n. 138 del 
2011, con mod. in L. n. 
148 del 
2011 (art. 3, comma 
1 e 
5-bis), nonché 
dal 
citato D.P.r. attuativo n. 137 del 
2012, 
che 
è 
da 
escludere 
non 
solo 
"una 
abrogazione 
tacita 
delle 
disposizioni 
della 
L. 
n. 
339 
del 
2003, per 
effetto della normativa sopravvenuta e 
sopra richiamata per 
il 
rilievo decisivo ed 
assorbente 
di 
ogni 
altra considerazione 
che 
l'incompatibilità tra impiego pubblico part-time 
ed esercizio della professione 
forense 
risponde 
ad esigenze 
specifiche 
di 
interesse 
pubblico 
correlate 
proprio alla peculiare 
natura di 
tale 
attività privata ed ai 
possibili 
inconvenienti 
che 
possono scaturire 
dal 
suo intreccio con le 
caratteristiche 
del 
lavoro del 
pubblico dipendente", 
ma 
altresì 
che 
ratio 
di 
fondo della 
normativa 
limitativa 
del 
cumulo è 
quella 
"tendente 
a realizzare 
l'interesse 
generale 
sia al 
corretto esercizio della professione 
forense 
sia alla fedeltà 
dei 
pubblici 
dipendenti", a 
conferma 
della 
coesistenza 
degli 
interessi 
di 
cui 
si 
è 
detto e 



LeGISLAzIone 
eD 
ATTUALITà 


della discrezionale regolazione del loro rapporto ad opera della normativa di legge. 


5.1 
Le 
convergenti 
valutazioni 
della 
Corte 
Costituzionale 
e 
dei 
precedenti 
di 
questa 
Corte 
comportano 
altresì 
un 
giudizio 
di 
manifesta 
infondatezza 
rispetto 
all'asserita 
indebita 
disparità 
di 
trattamento 
tra 
la 
professione 
forense 
ed 
altre 
libere 
professioni, 
avendo 
la 
Consulta 
chiarito 
che 
la 
disciplina 
più restrittiva 
deriva 
appunto da 
una 
non irragionevole 
valutazione 
discrezionale 
del 
legislatore 
(Corte 
Cost. 390/2006) ed avendo le 
Sezioni 
Unite 
rimarcato, nei 
passaggi 
sopra riportati, proprio tale specificità. 
Cass., 
S.U., 
11833/2013 
ha 
poi 
ancora 
chiarito 
che 
"la 
disciplina 
prevista 
dalla 
L. 
25 
novembre 
2003, 
n. 
339, 
che 
sancisce 
l'incompatibilità 
tra 
impiego 
pubblico 
"part-time" 
ed 
esercizio 
della professione 
forense, non determina alcuna discriminazione 
"al 
contrario" 
tra gli 
avvocati 
italiani 
e 
quelli, invece, cittadini 
di 
Stati 
membri 
dell'Unione 
Europea, "stabiliti" 
o "integrati" 
dipendenti 
di 
corrispondenti 
istituzioni 
pubbliche 
degli 
Stati 
di 
appartenenza. 
Difatti, 
in 
base 
alla 
normativa 
nazionale 
di 
recepimento 
della 
direttiva 
intesa 
ad 
agevolare 
l'esercizio 
permanente 
della professione 
di 
avvocato in uno Stato membro diverso da quello di 
acquisizione 
della 
qualifica 
professionale 
(D.lgs. 
comma 
2, 
recante 
attuazione 
della 
direttiva 
del 
Parlamento 
Europeo 
e 
del 
Consiglio 
16 
febbraio 
1998, 
n. 
98/5/CE), 
è 
previsto 
espressamente 
che 
tutte 
le 
norme 
nazionali 
sulle 
incompatibilità si 
applichino anche 
all'avvocato "stabilito" 
o 
"integrato" 
(cfr. 
C. 
Cost. 
sentenza 
n. 
166 
del 
2012 
e 
Corte 
di 
giustizia 
dell'Unione 
Europea, 
sentenza 2 dicembre 2010, in causa C-225/2009)". 
ed una 
lesione 
della 
libera 
concorrenza 
"tra coloro che 
esercitano la professione 
forense 
e 
coloro che 
esercitano altre 
libere 
professioni" 
(così 
il 
ricorso per cassazione, pag. 19), in ipotesi 
da 
riportare 
all'art. 
41 
Cost., 
risulta 
ancora 
manifestamente 
improponibile, 
non 
riuscendosi 
ad apprezzare una competizione di mercato tra chi si occupi di ambiti diversi. 
6. 
Le 
considerazioni 
di 
cui 
sopra 
portano 
altresì 
ad 
escludere 
la 
fondatezza 
delle 
censure 
della 
ricorrente, nella 
parte 
in cui 
esse 
assumono che 
la 
Corte 
d'Appello avrebbe 
finito per disapplicare 
o ritenere nullo il provvedimento autorizzatorio del Consiglio dell'ordine. 
La 
ricorrenza 
di 
interessi 
diversi, 
tutelati 
dalle 
norme 
che 
li 
regolano, 
comportano 
che 
ciascuna 
delle 
autorità 
titolari 
di 
essi 
e 
dunque 
il 
Consiglio dell'ordine 
e 
la 
P.A. datore 
di 
lavoro possa, 
nell'esercizio dei propri poteri, autorizzare o contrastare il cumulo delle attività. 
Il 
Consiglio dell'ordine 
fonda 
i 
propri 
poteri, come 
sottolinea 
la 
ricorrente 
in memoria, sulle 
regole di disciplina dell'albo di cui è tenutario. 
La 
P.A. fonda 
invece 
i 
propri 
poteri 
sul 
D.lgs. n. 165 del 
2001, art. 53, comma 
1 e 
sul 
rinvio 
di 
esso al 
D.P.r. n. 3 del 
1957, artt. 60 e 
segg., secondo cui 
"l'impiegato non può esercitare 
alcuna professione", in mancanza 
di 
una 
diversa 
norma 
autorizzativa, incorrendo altrimenti 
nella decadenza secondo la disciplina del successivo art. 63 del medesimo D.P.r. 
Pertanto, il 
giudice 
adito per la 
cognizione 
sulla 
legittimità 
dell'operato dell'una 
o dell'altra 
autorità, qualora 
ritenga 
che 
il 
dissenso da 
essa 
espresso rispetto al 
cumulo di 
attività 
sia 
legittimo, 
non 
disapplica, 
nè 
sanziona 
di 
nullità 
l'eventuale 
autorizzazione 
che 
sia 
stata 
rilasciata 
dall'altra autorità. 
Tale 
cognizione 
è 
qui 
sollecitata 
dalla 
richiesta 
di 
accertamento 
dell'assenza 
di 
incompatibilità, 
in 
reazione 
alla 
diffida 
intimata 
dalla 
P.A. 
la 
quale 
giustifica 
l'interesse 
ad 
agire 
della 
V., 
senza 
che 
vi 
sia 
da 
porsi 
una 
questione 
di 
giurisdizione, quale 
effetto, secondo l'ipotesi 
di 
cui 
al 
secondo 
motivo, della 
disapplicazione 
indebita 
di 
un provvedimento di 
altra 
autorità, in quanto 
nessuna 
disapplicazione 
o annullamento è 
mai 
stata 
operata 
dai 
giudici 
del 
merito, né 
essa 
è 
in alcun modo necessaria al decidere. 
7. La 
ricorrente, specialmente 
allorquando fa 
leva 
sulla 
menzionata 
autorizzazione 
rilasciata 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2021 


dal 
Consiglio dell'ordine, introduce 
peraltro anche 
una 
diversa 
linea 
difensiva, sintetizzabile 
nel 
senso 
che 
la 
propria 
attività 
si 
collocherebbe 
al 
di 
fuori 
dell'area 
della 
incompatibilità, 
perché 
ricompresa 
nell'ambito delle 
deroghe 
espresse 
rispetto ad essa 
e 
comunque 
in concreto 
sarebbe 
stata 
svolta 
con modalità 
tali 
da 
non comportare 
pregiudizio per la 
P.A., che 
sarebbe 
irrazionale non fossero valorizzate. 


7.1 Iniziando dal 
primo aspetto, il 
tema 
che 
viene 
in evidenza, cui 
già 
si 
è 
in parte 
accennato, 
è 
quello delle 
deroghe 
al 
principio di 
incompatibilità 
di 
cui 
al 
r.D.L. n. 1578 del 
1933, art. 3, 
comma 4, lett. a), ed ora alla L. n. 247 del 2012, art. 19. 
Tali 
deroghe, al 
di 
là 
del 
caso degli 
uffici 
legali 
degli 
enti 
pubblici, che 
qui 
non interessa, riguardano 
il 
pubblico impiegato che, presso la 
P.A. di 
riferimento, operi, con riferimento alle 
Università, come 
professore 
o assistente 
(art. 3, comma 
4, cit., lett. a 
cit.) oppure, nella 
versione 
di cui all'art. 19 cit., si occupi di insegnamento o ricerca in materie giuridiche. 
Affrontando 
il 
problema 
da 
questa 
prospettiva, 
può 
dirsi 
che 
le 
previsioni 
di 
quei 
casi 
di 
compatibilità 
esprimono 
in 
sé 
la 
tutela 
del 
valore 
dell'insegnamento 
(art. 
33 
Cost.) 
e 
di 
quello 
della 
ricerca 
(art. 
9 
Cost.), 
ritenuti 
prevalenti 
oltre 
che 
non 
confliggenti 
con 
l'interesse 
al 
libero 
esercizio 
dell'attività 
forense 
e 
tendenzialmente 
compatibili, 
nel 
bilanciamento 
degli 
interessi, 
rispetto al buon andamento della P.A. 
Tuttavia, 
il 
permanere 
di 
una 
valutazione 
di 
pubblico 
interesse 
anche 
rispetto 
al 
regime 
di 
tali 
compatibilità 
è 
reso 
evidente 
dal 
fatto 
che, 
come 
questa 
Corte 
ha 
già 
ritenuto, 
anche 
l'insegnamento 
può 
comportare 
valutazioni 
preclusive 
da 
parte 
della 
P.A. 
ove 
in 
concreto 
si 
manifesti 
una 
situazione 
di 
confitto 
di 
interessi, 
per 
previsione 
espressa 
dell'art. 
58-bis, 
disposizione 
sopravvissuta, 
rispetto 
agli 
avvocati, 
anche 
alla 
L. 
n. 
339 
del 
2003 
(Cass. 
17 
ottobre 
2018, 
n. 
26016). 
Da 
ciò si 
desume 
che 
i 
casi 
di 
compatibilità 
costituiscono eccezioni 
ad una 
regola, quella 
del-
l'incompatibilità, che, come 
si 
è 
detto, è 
stata 
voluta 
dal 
legislatore 
al 
fine 
di 
evitare 
i 
rischi 
che 
derivano 
dalla 
"commistione" 
tra 
attività 
forense 
e 
pubblico 
impiego 
(Corte 
Cost. 
390/2006 cit.). 
regola 
che 
si 
fonda 
su una 
valutazione 
legislativa, discrezionale 
ma 
non irrazionale, di 
maggior 
pericolosità 
del 
connubio 
avvocatura-pubblico 
impiego, 
che 
la 
Corte 
Costituzionale 
(sempre 
Corte 
Cost. 
390/2006 
cit.) 
ha 
già 
espressamente 
così 
spiegato, 
sicché 
è 
evidente 
la 
manifesta infondatezza di ulteriori dubbi in tal senso. 
L'eccezionalità 
delle 
deroghe 
all'incompatibilità 
esclude 
poi 
che 
i 
corrispondenti 
casi 
siano 
suscettibili di estensione a ipotesi soltanto contigue o similari. 
È 
in effetti 
possibile 
che 
per talune 
figure, ad inquadramento impiegatizio, ma 
la 
cui 
attività 
sia 
caratterizzata 
da 
specifiche 
cognizioni 
tecniche, si 
possa 
porre 
il 
problema 
di 
valutare 
se 
resti 
intercettata 
o meno l'area 
della 
compatibilità 
rispetto all'insegnamento o alla 
ricerca, di 
cui 
si 
è 
detto. Tale 
è 
il 
caso della 
categoria 
D 
del 
C.C.n.L. Comparto Università 
1998-2001, 
di 
inquadramento della 
V., specie 
con riferimento alle 
posizioni 
dell'Area 
tecnico-scientifica. 
È 
però solo il 
pieno esercizio dell'insegnamento, che 
nell'ambito universitario è 
fatto di 
docenza 
e 
ricerca, come 
anche 
il 
pieno esercizio della 
ricerca 
in sé 
considerata, ad integrare 
la 
deroga 
al 
principio, per la 
tutela 
degli 
interessi 
prevalenti 
di 
cui 
si 
è 
detto, che 
si 
manifestano 
come tali solo nel pieno esercizio delle corrispondenti attività professionali. 
Pertanto, lo svolgimento da 
parte 
della 
ricorrente, espressamente 
accertato dalla 
Corte 
territoriale, 
di 
attività 
"a 
supporto" 
della 
docenza, ovvero di 
"ausilio" 
per i 
docenti, è 
stato giustamente 
ricondotto 
nella 
sentenza 
di 
appello 
ad 
una 
condizione 
non 
assimilabile 
neanche 
ad 
uno dei livelli meno elevati, quello dei ricercatori, della docenza universitaria. 
Al 
punto che 
la 
Corte 
di 
merito, con altro accertamento che 
non risulta 
neanche 
in sé 
conte

LeGISLAzIone 
eD 
ATTUALITà 


stato, ha 
desunto che 
la 
stessa 
partecipazione 
agli 
esami 
della 
V. si 
sia 
fondata 
sulla 
nomina 
di essa a "cultore della materia" e non sulle mansioni proprie dell'ambito di assunzione. 
Del 
resto, 
nello 
stesso 
ricorso 
per 
cassazione 
si 
fa 
riferimento 
al 
tutoraggio 
degli 
studenti, 
alla 
partecipazione 
a 
seminari 
o a 
commissioni 
di 
esami 
e 
quindi 
ad attività 
di 
"didattica", sicché 
non 
vi 
è 
neppure 
luogo 
ad 
affrontare 
il 
tema 
della 
compatibilità 
per 
svolgimento 
caratterizzante 
di attività di "ricerca". 


7.2 Il 
secondo aspetto delle 
difese 
sviluppate 
sotto questo profilo ha 
caratura 
più strettamente 
giuridica, in quanto con esso si 
sostiene 
che 
sarebbe 
ingiustificato, anche 
dal 
punto di 
vista 
della 
ragionevolezza 
e 
quindi 
dei 
parametri 
costituzionali 
(art. 3 Cost.) il 
fatto che 
vengano 
coinvolte 
dal 
divieto anche 
attività 
che, in concreto, possono non manifestarsi 
come 
pregiudizievoli. 
In proposito, non vi 
è 
dubbio che 
il 
bilanciamento tra 
i 
contrapposti 
interessi 
di 
cui 
si 
è 
più ampiamente 
detto in precedenza 
possa 
avvenire 
sulla 
base 
di 
assetti 
molteplici, che 
addirittura 
attualmente 
convivono nel 
contesto complessivo del 
D.lgs. n. 165 del 
2001, art. 
53, ove 
la 
regola 
di 
incompatibilità 
assoluta 
di 
cui 
al 
D.P.r. n. 3 del 
1957, art. 60, richiamata 
dall'art. 53, comma 
1, è 
modulata, nella 
stessa 
disposizione, oltre 
che 
dalla 
compatibilità 
con 
il 
part 
time 
(se 
non diversamente 
disposto, come 
è 
per gli 
avvocati), da 
una 
serie 
articolata 
di 
possibili autorizzazioni rispetto a variegati incarichi di terzi. 
Tuttavia, 
la 
fissazione 
di 
un 
divieto 
assoluto 
e 
non 
calibrato 
sulle 
particolarità 
del 
caso 
di 
specie 
non può dirsi 
in sé 
irrazionale, allorquando la 
scelta 
del 
legislatore 
sia 
discrezionalmente 
indirizzata, come 
osservato dalla 
Corte 
Costituzionale, da 
una 
maggior cautela, nella 
regolazione 
dei 
coesistenti 
interessi 
di 
cui 
si 
è 
detto ed in vista 
della 
necessità 
di 
attuare 
altresì 
il 
principio di 
cui 
all'art. 98 Cost. (obbligo di 
esclusiva 
fedeltà 
del 
pubblico dipendente 
alla 
nazione: 
v. sul 
punto Cass., S.U. 1833/2013 cit.), in ragione 
delle 
caratteristiche 
discrezionalmente 
apprezzate della professione forense. 
In 
altre 
parole, 
le 
scelte 
di 
modulazione 
sono 
plurime, 
ma 
il 
legislatore 
può 
discrezionalmente 
valutare, come 
appare 
a 
questa 
Corte 
manifestamente 
evidente, quale 
rigore 
applicare 
ai 
diversi 
casi 
che 
il 
multiforme 
manifestarsi 
della 
realtà 
propone; 
così 
come 
non 
necessariamente 
irrazionale, nella 
medesima 
prospettiva 
e 
con analoga 
evidenza, è 
il 
fatto, tra 
l'altro coerente 
con 
il 
principio 
di 
base, 
che 
i 
casi 
di 
compatibilità 
siano 
regolati 
come 
deroghe 
ad 
un 
principio, 
e si qualifichino quindi come eccezionali. 
8. 
La 
ricorrente, 
sotto 
un 
altro 
profilo, 
mette 
in 
dubbio 
anche 
la 
legittimità, 
rispetto 
alla 
propria 
posizione, del sistema opzionale di cui alla L. n. 339 del 2003, art. 2. 
In fatto risulta 
pacificamente 
che 
la 
V. si 
iscrisse 
all'albo degli 
avvocati 
nel 
1993 e 
fu poi 
assunta 
dall'Università 
nel 
2002, allorquando vi 
era 
compatibilità 
tra 
il 
regime 
di 
part 
time 
e 
la 
professione forense. 
nel 
2003, come 
si 
è 
detto, è 
stato stabilito ex 
novo 
un regime 
di 
incompatibilità 
assoluta, con 
un regime opzionale. 
Tale 
regime 
opzionale 
è 
regolato rispetto a 
chi 
avesse 
"ottenuto l'iscrizione 
all'albo degli 
avvocati 
successivamente 
all'entrata in vigore 
della L. 23 dicembre 
1996, n. 662", con cui 
era 
stata disposta la compatibilità con il part time. 
La 
ricorrente, sul 
presupposto che 
il 
suo caso non sia 
regolato da 
quella 
norma 
sul 
diritto di 
opzione, per essersi 
ella 
(legittimamente) iscritta 
prima 
del 
1996 ed avere 
(altrettanto legittimamente) 
iniziato a 
lavorare 
presso la 
P.A., in part 
time, nel 
2002, sostiene 
l'illegittimità 
costituzionale 
del proprio trattamento. 
Tale prospettazione è tuttavia manifestamente infondata. 
Intanto 
il 
collegio 
ritiene 
che 
una 
corretta 
interpretazione 
della 
norma, 
coerente 
con 
la 
sua 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2021 


ratio, consenta 
in via 
di 
mera 
estensione 
di 
applicare 
l'istituto opzionale 
anche 
al 
caso non 
espressamente 
richiamato, ma 
logicamente 
analogo, ovverosia 
alle 
(legittime) iscrizioni 
all'albo 
anteriori 
al 
1996, il 
che 
comporterebbe 
di 
per sè 
la 
decadenza 
della 
ricorrente 
dalle 
facoltà 
ivi 
regolate. 
Al 
di 
là 
di 
ciò, 
si 
deve 
però 
anche 
osservare 
che 
la 
regola 
introdotta 
nel 
2003 è 
quella 
dell'incompatibilità, con un sistema 
opzionale 
(3 anni 
per la 
scelta 
+ 5 anni 
per 
l'opzione 
di 
rientro 
nel 
rapporto 
di 
impiego) 
che 
è 
destinato 
ad 
esaurire 
i 
propri 
effetti 
nell'arco 
massimo di 
otto anni, ovverosia 
entro il 
2 dicembre 
2011, ma 
che 
comunque 
dopo i 
primi 
3 
anni avrebbe consentito di svolgere solo uno dei due lavori. 
La 
disciplina 
era 
dunque 
dettata 
al 
fine 
di 
permettere 
agli 
interessati 
di 
regolarizzare 
la 
propria 
posizione in un lasso di tempo congruo rispetto all'entrata in vigore della normativa. 
La 
ricorrente, viceversa, nonostante 
l'entrata 
in vigore 
della 
normativa, ha 
proseguito nel 
cumulo 
dei 
due 
lavori 
fino almeno all'ottobre 
2015, epoca 
della 
diffida 
a 
rimuovere 
l'incompatibilità 
e poi anche oltre, fino all'adozione, nel 2016, del provvedimento di decadenza. 
È 
dunque 
evidente 
che 
la 
V. non può dolersi 
del 
mancato esercizio di 
un'opzione 
in quanto, 
stante 
l'inerzia 
dell'Università, 
essa, 
nonostante 
il 
divieto 
di 
cumulo, 
ha 
potuto 
proseguire 
nella 
doppia 
attività 
ben oltre 
ogni 
termine 
regolato dalla 
legge 
anche 
per l'eventuale 
rientro 
ultimo (nei 5 anni dopo i primi 3) presso l'Università. 
Sicché, 
esercitando 
la 
scelta 
al 
momento 
della 
diffida 
infine 
intimata, 
essa 
non 
può 
certamente 
dirsi 
di 
avere 
avuto un trattamento deteriore 
rispetto a 
chi 
avesse 
fruito dell'opzione 
di 
legge. 
D'altra 
parte, la 
V., essendo, dati 
anche 
i 
suoi 
titoli, pienamente 
in grado di 
percepire, al 
di 
là 
di 
convincimenti 
strettamente 
personali 
che 
non rilevano, l'esistenza 
oggettiva 
del 
divieto di 
cumulo 
nelle 
norme 
di 
legge, 
non 
può 
certamente 
far 
leva 
su 
affidamenti 
che 
si 
assuma 
in 
ipotesi possano derivare dalla menzionata inerzia del proprio datore di lavoro pubblico. 
Infine, si 
rammenta 
come 
questa 
Corte 
abbia 
già 
sottolineato che 
le 
norme 
abbiano dovuto 
"contemperare 
la 
doverosa 
applicazione 
del 
divieto 
generalizzato 
reintrodotto 
dal 
legislatore 
per 
l'avvenire 
(con 
effetto 
altresì 
sui 
rapporti 
di 
durata 
in 
corso) 
con 
le 
esigenze 
organizzative 
di 
lavoro 
e 
di 
vita 
dei 
dipendenti 
pubblici 
a 
tempo 
parziale, 
già 
ammessi 
dalla 
legge 
dell'epoca 
all'esercizio 
della 
professione 
legale" 
e 
che 
un'operatività 
limitata 
soltanto 
ai 
futuri 
interessati 
"otterrebbe 
il 
risultato, certamente 
irragionevole, di 
conservare 
ad esaurimento una riserva 
di 
lavoratori 
pubblici 
part 
time, contemporaneamente 
avvocati, all'interno di 
un sistema radicalmente 
contrario 
alla 
coesistenza 
delle 
due 
figure 
lavorative 
nella 
stessa 
persona" 
(Cass., 
S.U., 27266/2013 e Cass., S.U., 775/2014, citt.). 


9. In definitiva, il ricorso va dunque rigettato. 
10. La 
significativa 
novità, almeno per alcuni 
dei 
profili 
della 
prospettazione 
giuridica, giustifica 
la compensazione delle spese anche di questo grado di giudizio. 
P.Q.M. 
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione. 
Ai 
sensi 
del 
D.P.r. n. 115 del 
2002, art. 13, comma 
1 quater, dà 
atto della 
sussistenza 
dei 
presupposti 
processuali 
per 
il 
versamento, 
da 
parte 
della 
ricorrente, 
dell'ulteriore 
importo 
a 
titolo 
di 
contributo 
unificato 
pari 
a 
quello 
previsto 
per 
il 
ricorso, 
a 
norma 
dello 
stesso 
art. 
13, 
comma 
1-bis, se dovuto. 
Così deciso in roma, nella Camera di consiglio, il 25 novembre 2020. 



LeGISLAzIone 
eD 
ATTUALITà 


gestione dell’emergenza sanitaria, decisioni 
pubbliche ed esercizio dei diritti fondamentali 


Mariarita Romeo* 


SoMMARIo: 
1. 
Premessa 
-2. 
L’individuazione 
del 
soggetto 
competente 
a 
decidere: 
i 
rapporti 
Stato-Regioni 
alla prova dell’emergenza sanitaria -2.1 I principi 
di 
sussidiarietà e 
di 
leale 
collaborazione 
-3. Decisioni 
pubbliche 
e 
bilanciamento dei 
diritti 
costituzionalmente 
garantiti 
tra principio di 
precauzione 
e 
principio di 
proporzionalità -4. Il 
sindacato dell’autorità 
giurisdizionale sui provvedimenti emergenziali - 5. Considerazioni conclusive. 


1. Premessa. 
L’anno appena 
passato e 
quello ancora 
in corso hanno visto e 
vedono affrontare 
all’umanità 
una 
sfida 
che, forse, era 
ormai 
ritenuta 
anacronistica 
da 
parte 
delle 
generazioni 
nuove 
e 
meno nuove, soprattutto appartenenti 
ai 
Paesi 
più sviluppati, ovvero quella della lotta per la sopravvivenza. 


Il 
rapido diffondersi 
a 
livello globale 
della 
pandemia, agli 
inizi 
del 
2020, 
ci 
ha 
catapultati, nell’arco di 
pochi 
mesi, in uno scenario completamente 
diverso 
da 
quello ordinario al 
quale 
eravamo abituati 
e 
ci 
ha 
costretto a 
riconsiderare 
ed affrontare sotto una nuova luce la persona in tutta la sua fragilità. 


Se 
Aristotele 
ha 
definito 
l’uomo 
come 
“animale 
sociale”, 
per 
rappresentare 
la 
sua 
tendenza 
ad 
aggregarsi 
e 
vivere 
in 
comunità, 
la 
pandemia 
non 
ancora 
del 
tutto 
superata, 
soprattutto 
nel 
periodo 
di 
lockdown 
più 
rigido, 
da 
un 
lato 
ci 
ha 
impedito 
di 
soddisfare 
il 
nostro 
bisogno 
immediato 
e 
istintivo 
di 
socialità, 
anche 
privandoci 
dei 
gesti 
più 
semplici 
verso 
il 
prossimo; 
dall’altro, 
ci 
ha 
consentito 
di 
riscoprire 
una 
solidarietà 
più 
consapevole 
che 
ha 
valorizzato 
e 
concretizzato 
il 
significato 
di 
comunità, 
un 
po’ 
sbiadito 
a 
causa 
dell’individualismo 
imperante. 


In questo mutato contesto, anche 
il 
nostro ordinamento giuridico e 
l’insieme 
delle 
norme 
che 
lo compongono e 
regolano la 
civile 
convivenza, quale 
primaria 
espressione 
dell’essere 
umano non in quanto singolo, ma 
in rapporto 
con gli 
altri 
individui, sono stati 
duramente 
messi 
alla 
prova 
e 
hanno dovuto 
trovare 
il 
modo più adeguato di 
affrontare 
l’emergenza, al 
fine 
di 
regolamentare 
e dare ordine ad una situazione “extra ordinem”. 


Sebbene 
non siano mancati 
momenti 
di 
maggiore 
tensione 
istituzionale, 
soprattutto nei 
rapporti 
tra 
Stato e 
regioni, è 
possibile 
affermare 
che 
il 
nostro 
ordinamento 
ed 
il 
nostro 
sistema 
di 
valori 
sancito 
a 
livello 
costituzionale 
-pur 
accusando qualche 
“scricchiolio” 
-hanno sostanzialmente 
retto agli 
attacchi 
provenienti 
dall’emergenza 
sanitaria 
ed 
alla 
temporanea 
compromissione 
dell’esercizio di diritti fondamentali della persona. 


(*) esperto giuridico-amministrativo presso il Consiglio regionale della Calabria. 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2021 


2. L’individuazione 
del 
soggetto competente 
a decidere: i 
rapporti 
Stato-Regioni 
alla prova dell’emergenza sanitaria. 
L’emergenza 
sanitaria 
ha 
messo 
ancora 
più 
in 
evidenza, 
se 
solo 
ve 
ne 
fosse 
stato 
bisogno, 
gli 
aspetti 
irrisolti 
del 
rapporto 
tra 
Stato 
e 
regioni, 
emersi 
a 
seguito della 
riforma 
del 
Titolo V 
del 
2001 e, invero, acuiti 
proprio nell’ultimo 
anno precedente 
la 
pandemia, in seguito al 
dibattito accesosi 
sull’attuazione 
del regionalismo differenziato di cui all’art. 116 Cost. 


L’eccezionalità 
della 
situazione 
determinatasi 
con 
la 
rapida 
diffusione 
del 
virus 
Covid-19, la 
necessità 
di 
intervenire 
con la 
massima 
urgenza 
per contrastare 
il 
contagio, lo scarso tempo a 
disposizione 
delle 
autorità 
competenti 
per intervenire 
in modo efficace, hanno favorito la 
gestione 
centralizzata 
del-
l’emergenza. 

Tuttavia, 
è 
possibile 
affermare 
che 
gli 
strumenti, 
legislativi 
e 
amministrativi, 
di 
contrasto alla 
diffusione 
del 
Covid-19, perfezionatisi 
un pò alla 
volta 
nei 
lunghi 
mesi 
di 
questa 
pandemia, sono stati 
il 
risultato di 
una 
dialettica 
che 
ha 
visto il 
contributo di 
tutti 
gli 
attori 
coinvolti, ovvero istituzioni 
politiche, 
organi giurisdizionali e società civile. 


La 
Corte 
costituzionale 
ha 
ricondotto 
la 
gestione 
della 
pandemia 
da 
Covid-19 
nell’ambito 
della 
profilassi 
internazionale, 
materia 
appartenente 
alla 
competenza 
esclusiva 
dello 
Stato, 
secondo 
quanto 
previsto 
dalla 
lettera 
q) 
dell’art. 
117, 
comma 
2, 
Cost., 
ritenuta 
“comprensiva 
di 
ogni 
misura 
atta 
a 
contrastare 
una pandemia sanitaria in corso, ovvero a prevenirla” (1). 


nella 
sentenza 
n. 37/2021, i 
giudici 
costituzionali 
hanno affermato che 
anche 
le 
autonomie 
regionali 
partecipano 
alla 
gestione 
delle 
crisi 
emergenziali 
in 
materia 
sanitaria 
in 
virtù 
delle 
competenze 
concorrenti 
loro 
attribuite 
in 
materia 
di 
tutela 
della 
salute 
e 
della 
protezione 
civile, riconoscendo il 
carattere 
fondamentale 
dell’apporto che 
l’organizzazione 
sanitaria 
regionale 
può assicurare 
per 
il 
comune 
obiettivo 
di 
contrasto 
alla 
pandemia. 
Precisamente, 
la 
Corte 
ha 
chiarito che 
spetta 
anche 
alle 
strutture 
sanitarie 
regionali 
operare 
a 
fini 
di 
igiene 
e 
profilassi, ma 
“…nei 
limiti 
in cui 
esse 
si 
inseriscono armonicamente 
nel 
quadro 
delle 
misure 
straordinarie 
adottate 
a 
livello 
nazionale, 
stante il grave pericolo per l’incolumità pubblica”. 


Il 
contributo 
fornito 
dalle 
autonomie 
alla 
gestione 
dell’emergenza 
può 
variare 
a 
seconda 
del 
carattere 
locale, regionale 
o nazionale 
della 
stessa, imponendo 
l’intervento 
dello 
Stato 
quando 
essa 
assuma 
rilievo 
nazionale, 
ovvero, 


(1) 
Si 
fa 
riferimento 
alla 
recente 
Corte 
cost., 
12 
marzo 
2021, 
n. 
37, 
che 
ha 
dichiarato 
l’illegittimità 
costituzionale 
di 
alcuni 
articoli 
della 
legge 
della 
regione 
Valle 
d’Aosta 
9 dicembre 
2020, n. 11, recante 
“Misure 
di 
contenimento 
della 
diffusione 
del 
virus 
SARS-CoV-2 
nelle 
attività 
sociali 
ed 
economiche 
della Regione 
Valle 
d’Aosta in relazione 
allo stato d’emergenza”. La 
decisione 
de 
qua 
è 
stata 
preceduta 
dall’ordinanza 
n. 4 del 
2021, che 
ha 
disposto la 
sospensione 
dell’efficacia 
dell’intera 
legge 
regionale 
impugnata: 
si 
tratta 
della 
prima 
volta 
in cui 
la 
Corte 
costituzionale 
ha 
esercitato il 
potere 
di 
sospensione 
cautelare di una legge, previsto dall’art. 35 l. n. 87/1953, come modificato dalla l. n. 131/2003. 

LeGISLAzIone 
eD 
ATTUALITà 


come 
nella 
fattispecie, ci 
si 
trovi 
a 
dover fronteggiare 
la 
diffusione 
globale 
di 
malattie 
altamente 
contagiose. Una 
tale 
evenienza 
radica 
la 
necessità 
di 
una 
disciplina 
unitaria 
di 
carattere 
nazionale, che 
sia 
idonea 
“a preservare 
l’uguaglianza 
delle 
persone 
nell’esercizio 
del 
fondamentale 
diritto 
alla 
salute 
e 
a 
tutelare contemporaneamente l’interesse della collettività”. 

Pur 
non 
entrando 
nel 
merito 
della 
questione, 
nella 
pronuncia 
in 
argomento 
la 
Corte 
costituzionale 
ha 
sostanzialmente 
riconosciuto 
la 
legittimità 
delle 
modalità 
di 
intervento 
scelte 
dal 
Governo 
al 
fine 
di 
gestire 
al 
meglio 
la 
pandemia. 
In 
particolare, 
la 
Consulta 
ha 
inquadrato 
l’azione 
di 
Governo 
in 
termini 
di 
“sequenza 
normativa 
e 
amministrativa”, 
articolatasi 
nell’adozione 
di 
decreti-
legge, con i 
quali 
sono stati 
predeterminati 
gli 
ambiti 
materiali, le 
condizioni 
ed 
i 
limiti 
entro 
cui 
il 
Presidente 
del 
Consiglio 
ha 
potuto 
esercitare 
il 
suo 
potere 
emergenziale 
temporaneo tramite 
l’adozione 
di 
decreti, autorizzati 
dalla 
normativa 
primaria 
a 
derogare 
a 
fondamentali 
diritti 
dei 
cittadini 
e 
a 
modulare 
le 
misure restrittive a seconda dell’andamento mutevole della pandemia. 


Ancora 
più 
di 
recente, 
il 
Consiglio 
di 
Stato 
ha 
anch’esso 
riconosciuto 
che 
“il 
Governo ha correttamente 
costruito una nuova impalcatura giuridica fondata 
sull’art. 77 della Costituzione, mediante 
la quale 
-attivando lo schema 
comune 
«legge 
generale 
-atti 
attuativi 
dell’esecutivo», 
ha 
predefinito 
al 
livello 
normativo primario, con un sufficiente 
livello di 
analisi, gli 
ambiti, le 
condizioni 
e 
i 
limiti 
del 
potere 
di 
disciplina 
emergenziale, 
attribuendo 
al 
vertice 
politico-
amministrativo 
dell’esecutivo 
medesimo 
la 
competenza 
ad 
adottare 
decreti 
aventi 
la duplice 
natura, del 
regolamento -sotto il 
profilo della relazione 
attuativa, 
di 
livello 
secondario, 
rispetto 
alla 
norma 
di 
legge 
-e 
delle 
ordinanze 
extra 
ordinem 
contingibili 
e 
urgenti 
-sotto 
il 
profilo 
della 
ragione 
giustificatrice 
del 
potere 
e 
quanto alla modalità della eccezionalità e 
temporaneità” 
(2). 


Dunque, secondo le 
pronunce 
appena 
riportate, legittimamente 
lo Stato 
ha 
assunto 
su 
di 
sé 
la 
gestione 
dell’emergenza 
sanitaria 
in 
corso, 
lasciando 
alle 
regioni 
un 
compito 
collaborativo 
-consultivo 
e 
di 
intervento 
limitato 
allo 
specifico 
ambito 
territoriale 
di 
riferimento, 
consentendo 
loro 
l’adozione, 
nelle 
more 
dei 
successivi 
D.P.C.M., di 
misure 
ulteriormente 
restrittive 
o, in un secondo 
momento 
dell’emergenza, 
anche 
ampliative 
(con 
l‘art. 
1, 
comma 
16, 


d.l. n. 33 del 
2020) e 
sempre 
operando sulla 
base 
dei 
criteri 
previsti 
dal 
Ministero 
della Salute e dagli stessi d.p.c.m. 
2.1. I principi di sussidiarietà e di leale collaborazione. 
Appare 
rilevante 
sottolineare 
che, nelle 
diverse 
decisioni 
che 
hanno dovuto 
dirimere 
controversie 
relative 
alla 
gestione 
della 
pandemia, le 
rispettive 
competenze 
di 
Stato e 
regioni 
sono state 
individuate 
e 
bilanciate 
facendo ri


(2) Così il parere Cons. St., Sez. I, 18 giugno 2021, n. 850. 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2021 


corso a 
due 
principi 
di 
livello costituzionale: 
il 
principio di 
sussidiarietà 
ed il 
principio di leale collaborazione (3). 


Infatti, 
quanto 
al 
primo, 
si 
è 
affermato 
che 
è 
il 
carattere 
globale 
dell’emergenza 
ad 
imporre, 
in 
applicazione 
del 
principio 
di 
sussidiarietà 
di 
cui 
all’art. 
118 
Cost., 
che 
l’individuazione 
delle 
misure 
precauzionali 
avvenga 
a 
livello 
amministrativo 
unitario. 
Si 
tratta 
della 
c.d. 
chiamata 
in 
sussidiarietà 
(in 
questo 
caso 


c.d. 
ascendente) 
(4): 
anche 
in 
materie 
di 
competenza 
concorrente 
(come, 
appunto, 
tutela 
della 
salute 
e 
protezione 
civile) 
o 
residuale, 
allo 
Stato 
è 
consentito 
attrarre 
a 
sé 
competenze 
amministrative 
non 
adeguatamente 
esercitabili 
a 
livello 
regionale 
o 
locale. 
All’avocazione 
della 
funzione 
amministrativa, 
tuttavia, 
deve 
accompagnarsi 
anche 
il 
potere 
di 
dettare 
norme 
che 
regolino 
l’esercizio 
delle 
competenze 
attratte, 
e 
ciò 
in 
ossequio 
al 
principio 
di 
legalità 
dell’azione 
amministrativa, 
ma 
anche 
nel 
rispetto 
dei 
criteri 
di 
proporzionalità 
e 
ragionevolezza. 
Per 
operare 
in 
modo 
costituzionalmente 
legittimo, 
deve 
poi 
essere 
assicurato 
il 
coinvolgimento 
delle 
regioni 
nel 
processo 
decisionale, 
prevedendo 
adeguate 
forme 
di 
collaborazione 
quali 
la 
previa 
stipulazione 
di 
intese 
(5). 
Per questo motivo, l’art. 2 d.l. n. 19 del 
2020 ha 
previsto espressamente 
che 
il 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
ministri 
adotti 
i 
suoi 
decreti 
consultando 
preventivamente 
i 
Presidenti 
delle 
regioni 
interessate, 
quando 
le 
misure 
riguardino 
solo 
una 
regione 
o 
alcune 
specifiche 
regioni, 
ovvero 
il 
Presidente 
della 
Conferenza 
delle 
regioni 
e 
delle 
Province 
autonome, nel 
caso in cui 
le 
stesse debbano applicarsi all’intero territorio nazionale (6). 

Tali 
moduli 
partecipativi 
si 
impongono proprio in virtù del 
principio di 
leale 
collaborazione, ad un tempo regola 
di 
condotta 
che 
va 
a 
permeare 
di 
sé 
qualunque 
relazione 
tra 
Stato 
e 
regioni 
e 
principio 
che 
presiede 
a 
dirimere 
ogni 
ipotesi 
di 
conflitto o di 
interferenza 
tra 
competenze 
statali 
e 
competenze 
regionali. 
Il 
suo 
fondamento 
costituzionale 
deve 
rinvenirsi 
nell’art. 
5 
della 
Costituzione, 
laddove 
la 
repubblica, 
pur 
una 
e 
indivisibile, 
riconosce 
e 
promuove 
le 
autonomie 
locali, adeguando la 
sua 
legislazione 
alle 
esigenze 
dell’autonomia 
e del decentramento. 


(3) V., in particolare, Tar Calabria, Catanzaro, Sez. I, 9 maggio 2020, n. 841; 
18 dicembre 
2020, 
n. 2075 e 
n. 2077; 
Tar Campania, napoli, Sez. V, 9 novembre 
2020, n. 2025; 
Tar Piemonte, Sez. I, 3 dicembre 
2020, n. 580; 
Tar Lazio, Sez. III quater, 4 gennaio 2021, n. 35. 
(4) Sul punto, è sufficiente citare Corte cost., 1 ottobre 2003, n. 303 e 22 luglio 2010, n. 278. 
(5) Al 
riguardo, v. l’attenta 
ricostruzione 
di 
V. nerI, Diritto amministrativo dell’emergenza: tra 
unità 
e 
indivisibilità 
della 
Repubblica 
e 
autonomia 
regionale 
e 
locale, 
in 
Urbanistica 
e 
appalti, 
n. 
3/2020, 
pagg. 346-352; 
in particolare, per quanto riguarda 
la 
c.d. sentenza 
Mezzanotte, n. 303/2003, v. pp. 348349 
con nota 11. 
(6) In questi 
termini 
v. A. SAITTA., F. SAITTA., F. PAGAno, 
Il 
giudice 
amministrativo stoppa la ripartenza 
anticipata della Regione 
Calabria: sul 
lockdown è 
lo Stato a dettare 
legge, 4 giugno 2020, in 
www.giustizia-amministrativa.it, 
secondo 
cui 
“L’allocazione 
in 
capo 
allo 
Stato 
della 
gestione 
dell’emergenza 
sanitaria…e 
le 
correlate 
limitazioni 
al 
potere 
dei 
Presidenti 
di 
Regione 
di 
emanare 
ordinanze 
contingibili 
e 
urgenti 
è 
stata 
temperata, 
quale 
contropartita 
dell’erosione 
delle 
competenze 
amministrative 
in parola, attraverso la previsione della consultazione delle Regioni…”, p. 30. 

LeGISLAzIone 
eD 
ATTUALITà 


Soprattutto nelle 
fasi 
iniziali 
dell’emergenza 
sanitaria, le 
regioni 
hanno 
lamentato uno scarso coinvolgimento da 
parte 
del 
Governo nella 
determinazione 
delle 
misure 
restrittive 
da 
adottare, 
in 
particolar 
modo 
censurando 
le 
modalità 
di 
applicazione 
delle 
restrizioni 
in tutto il 
territorio nazionale, malgrado 
il 
diverso grado di 
diffusione 
del 
contagio. e 
di 
certo, si 
può sostenere 
che 
la 
progressiva 
messa 
a 
fuoco dei 
provvedimenti 
adottati 
a 
livello statale, 
in ordine 
alla 
loro gradualità 
ed alla 
considerazione 
di 
molteplici 
parametri, 
non limitati 
al 
solo indice 
rt, sia 
stata 
determinata 
anche 
dall’apporto critico 
fornito 
dalle 
regioni, 
che 
-quali 
organi 
rappresentativi 
delle 
istanze 
delle 
loro 
comunità 
-sono riuscite, anche 
attraverso l’adozione 
di 
provvedimenti 
disallineati 
e “dirompenti” (7), a far valere punti di vista differenti. 


Allora, se 
è 
possibile 
fare 
già 
una 
breve 
riflessione, è 
quella 
di 
affermare 
che 
l’esigenza 
di 
contrastare 
la 
diffusione 
del 
contagio 
-man 
mano 
che 
questo, 
partito solo da 
alcune 
regioni 
del 
nord, ha 
iniziato ad espandersi 
anche 
nel-
l’Italia 
centrale 
e 
meridionale 
-ha 
riportato in auge 
quel 
principio dell’unità 
ed indivisibilità 
della 
repubblica, sancito anch’esso dall’art. 5 Cost., che 
proprio 
le 
polemiche 
in 
tema 
di 
mancata 
attuazione 
del 
regionalismo 
differenziato 
avevano decisamente 
appannato, mettendo in evidenza 
più gli 
aspetti 
che 
dividono, 
che quelli che uniscono, le pur diverse regioni italiane (8). 


nel 
corso del 
2019, quasi 
tutte 
le 
regioni 
avevano rivolto istanza 
al 
Governo 
per ottenere 
maggiori 
forme 
di 
autonomia 
in ordine 
a 
tutte 
le 
materie 
di 
competenza 
concorrente, comprese 
quindi 
tutela 
della 
salute 
e 
protezione 
civile, 
ma anche istruzione ed ambiente. 

Si 
tratta 
di 
ambiti 
di 
competenze 
estremamente 
delicati 
e 
rilevanti 
per 
l’esercizio 
di 
diritti 
fondamentali 
della 
persona 
(salute, 
lavoro, 
istruzione, 
ambiente 
salubre), 
che 
hanno 
visto 
scontrarsi 
anche 
pesantemente 
Stato 
e 
regioni 
in tempo di pandemia. 

Allora, incentivare 
un’autonomia 
indiscriminata 
delle 
regioni 
rischia 
in 
fase 
di 
prevenzione 
-di 
comportare 
un aumento esponenziale 
delle 
differenze 
tra 
i 
territori 
anche 
nel 
godimento 
dei 
livelli 
essenziali 
delle 
prestazioni, 
mentre 
ex 
post 
-ovvero quando una 
minaccia 
e 
un pericolo si 
sono già 
manifestati 
- di compromettere l’efficace unitarietà dell’azione di contrasto. 

(7) Tra 
questi, rientra 
sicuramente 
l’ordinanza 
della 
Presidente 
della 
regione 
Calabria 
n. 37 del 
29 
aprile 
2020, 
che 
disponeva 
la 
ripresa 
dell’attività 
di 
ristorazione 
sul 
territorio 
regionale, 
non 
solo 
con 
consegna 
a 
domicilio 
e 
con 
asporto 
-secondo 
quanto 
già 
previsto 
dal 
Governo 
nel 
D.P.C.M. 
del 
26 
aprile 
2020 
-ma 
anche 
mediante 
servizio 
al 
tavolo 
all’aperto. 
Per 
una 
rassegna 
sulle 
ordinanze 
assunte 
in 
tempo 
di 
pandemia, 
v. 
L. 
Leo 
(2021), 
L’ascesa 
delle 
ordinanze 
regionali 
ai 
tempi 
del 
Covid-19, 
in 
Diritti 
regionali, n. 2/2021. 
(8) In proposito, va 
ricordato che 
la 
richiesta 
delle 
regioni 
ai 
fini 
dell’attribuzione 
di 
maggiori 
forme 
di 
autonomia, 
ai 
sensi 
dell’art. 
116, 
comma 
3, 
Cost., 
può 
interessare 
tutte 
le 
materie 
rientranti 
nella 
competenza 
legislativa 
concorrente 
(art. 117, comma 
3, Cost.) ed alcune 
materie 
appartenenti 
alla 
potestà 
legislativa 
esclusiva 
statale 
(art. 117, comma 
2), quali 
l’organizzazione 
della 
giustizia 
di 
pace, 
le norme generali sull’istruzione, la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2021 


Soprattutto 
in 
un’ottica 
di 
prevenzione, 
invece, 
sarebbe 
preferibile 
sollecitare, 
ancora 
di 
più, 
forme 
ordinarie 
di 
coordinamento 
e 
collaborazione 
tra 
le 
autonomie 
territoriali, 
onde 
scongiurare 
la 
possibilità 
di 
arrivare 
impreparati 
alla 
fase 
dell’emergenza, 
favorendo 
piuttosto 
un 
c.d. 
“regionalismo 
solidale” 
(9). 


3. 
Decisioni 
pubbliche 
e 
bilanciamento 
dei 
diritti 
costituzionalmente 
garantiti 
tra principio di precauzione e principio di proporzionalità. 
Dopo 
aver 
individuato 
i 
soggetti 
istituzionali 
competenti 
a 
decidere, 
è 
possibile 
adesso 
concentrarsi 
sui 
contenuti 
dei 
provvedimenti 
adottati 
in 
tempo 
di emergenza sanitaria. 


Con 
l’ordinanza 
del 
Capo 
del 
Dipartimento 
della 
protezione 
civile 
n. 
630 
del 
3 febbraio 2020, emanata 
ai 
sensi 
degli 
artt. 25, 26 e 
27 del 
d.lgs. n. 1 del 
2018 (Codice 
della 
protezione 
civile), è 
stato costituito il 
Comitato tecnico-
scientifico, con il 
compito di 
supportare 
il 
Governo dal 
punto di 
vista 
tecnico 
nell’individuazione delle misure di contrasto alla pandemia più adeguate. 


Dunque, 
la 
generalità 
dei 
provvedimenti 
assunti 
in 
materia 
ha 
richiamato, 
a 
sostegno delle 
misure 
di 
contenimento imposte, studi 
e 
dati 
scientifici, oltre 
che statistici. 


Com’è 
stato 
già 
sostenuto 
(10), 
trattandosi 
di 
provvedimenti 
notevolmente 
incidenti 
sull’esercizio 
delle 
libertà 
fondamentali 
degli 
individui, 
le 
autorità 
competenti 
-basandosi 
su pareri 
scientifici 
-hanno tentato di 
attribuire 
loro un grado apprezzabile 
di 
oggettività, al 
fine 
di 
“spoliticizzarli” 
e 
renderli 
maggiormente accettabili da parte dell’opinione pubblica. 


In 
realtà, 
ogniqualvolta 
occorre 
operare 
un 
bilanciamento 
tra 
diritti 
costituzionalmente 
tutelati 
(ed 
in 
effetti, 
le 
misure 
di 
contenimento 
del 
contagio 
sono 
state 
adottate 
all’esito 
di 
un 
tale 
processo), 
la 
ponderazione 
dei 
valori 
coinvolti 
implica 
necessariamente 
una 
valutazione 
che, 
anche 
quando 
prende 
avvio 
da 
dati 
scientifici, 
non 
può 
non 
definirsi 
almeno 
in 
parte 
politica. 
Caratteristica 
che 
-come 
vedremo 
-influisce 
sul 
corrispondente 
sindacato 
giurisdizionale. 


orbene, 
i 
provvedimenti 
legislativi 
e 
i 
D.P.C.M. 
che 
ne 
sono 
seguiti, 
nonché 
le 
ordinanze 
regionali 
e 
sindacali 
talora 
intervenute 
per 
fronteggiare 
l’emergenza 
sanitaria, hanno fatto applicazione 
tanto del 
principio di 
precauzione, 
quanto di quello di proporzionalità (11). 


(9) Al 
riguardo, sia 
consentito citare 
M. roMeo 
(2019), Regionalismo differenziato: in Calabria 
è 
stata approvata una risoluzione 
per 
promuovere 
un regionalismo “solidale”, in Diritti 
regionali, n. 
1/2019; 
sul 
regionalismo differenziato v., di 
recente, V.P. GroSSI, La perdurante 
attualità del 
regionalismo 
differenziato. Un’analisi dei contenuti delle “bozze d’intesa”, in Diritti regionali, n. 2/2021. 
(10) Cfr., in questi 
termini, l’editoriale 
di 
e. GroSSo, Il 
ruolo dei 
dati 
nell’assunzione 
delle 
decisioni 
pubbliche: una grande questione costituzionale, in Il Piemonte delle autonomie, n. 1/2021. 
(11) Sul 
tema, v. l’interessante 
saggio di 
F. SCALIA, Principio di 
precauzione 
e 
ragionevole 
bilanciamento 
dei diritti nello stato di emergenza, in Federalismi.it, n. 32/2020, pp. 183-220. 

LeGISLAzIone 
eD 
ATTUALITà 


Com’è 
noto, il 
principio di 
precauzione, di 
derivazione 
comunitaria, affermatosi 
nell’ambito della 
disciplina 
della 
tutela 
dell’ambiente 
e 
della 
salute 
dei 
cittadini, opera 
nei 
casi 
in cui 
non sia 
possibile 
stabilire 
con certezza 
l’esistenza 
o la 
portata 
di 
rischi 
per l’ambiente 
e 
per la 
salute 
pubblica, a 
causa 
del 
carattere 
non 
concludente 
degli 
studi 
scientifici 
condotti 
in 
materia, 
legittimando 
l’adozione 
in 
chiave 
preventiva 
di 
misure 
restrittive, 
al 
fine 
di 
impedire 
il verificarsi di danni potenziali. 

In tutti 
i 
casi 
in cui 
non siano conosciuti 
con certezza 
i 
rischi 
indotti 
da 
un’attività 
potenzialmente 
pericolosa, quindi, il 
principio in argomento esige 
che 
l’azione 
dei 
pubblici 
poteri 
si 
traduca 
in 
una 
prevenzione 
anticipata 
rispetto 
al consolidamento delle conoscenze scientifiche (12). 

La 
limitazione 
della 
sfera 
soggettiva 
dell’individuo, 
tuttavia, 
non 
può 
avvenire 
in 
modo 
indiscriminato, 
ma 
deve 
presentarsi 
adeguata 
e 
ragionevole 
rispetto 
al rischio che si intende prevenire. 


È 
qui, allora, che 
soccorre 
il 
principio di 
proporzionalità, che 
subordina 
la 
legittimità 
delle 
misure 
limitative 
individuate 
al 
superamento di 
un test 
che 
si 
conduce 
in tre 
passaggi 
(i 
c.d. tre 
gradini): 
idoneità, necessarietà 
e 
proporzionalità 
in senso stretto (o adeguatezza). 

L’idoneità 
valuta 
l’attitudine 
del 
mezzo 
impiegato 
a 
realizzare 
l’obiettivo 
pubblico 
perseguito; 
la 
necessarietà 
indica 
che 
per 
il 
raggiungimento 
del-
l’obiettivo prefissato, non sia 
disponibile 
nessun altro mezzo ugualmente 
efficace 
e 
che 
incida 
meno negativamente 
nella 
sfera 
giuridica 
del 
singolo; 
la 
proporzionalità 
in 
senso 
stretto, 
infine, 
richiede 
che 
la 
misura 
adottata 
dai 
pubblici 
poteri 
non sia 
mai 
tale 
da 
gravare 
in maniera 
eccessiva 
sull’interessato e 
da risultargli quindi intollerabile (13). 

In sintesi, applicare 
il 
principio di 
proporzionalità 
significa 
verificare 
la 
necessità 
della 
misura 
adottata 
dalla 
pubblica 
autorità 
e 
la 
sua 
idoneità 
a 
raggiungere 
l’obiettivo finale. In ogni 
caso, va 
poi 
preferita 
la 
misura 
più mite 
a 
disposizione, ovvero che 
sia 
in grado di 
soddisfare 
l’interesse 
pubblico senza 
sacrificare eccessivamente la posizione del singolo. 


È 
l’ultimo gradino del 
test, quindi, a 
richiedere 
una 
valutazione 
comparativa 
tra 
i 
beni 
che 
vengono 
coinvolti 
dall’intervento 
pubblico, 
potenzialmente 
in conflitto tra loro. 


Com’è 
stato affermato in dottrina 
(14), si 
tratta 
di 
un bilanciamento da 


(12) 
In 
dottrina, 
si 
è 
soliti 
distinguere 
tra 
i 
principi 
di 
prevenzione 
e 
di 
precauzione 
proprio 
facendo 
leva 
sulla 
distinzione 
tra 
certezza 
e 
incertezza 
scientifica 
in ordine 
al 
verificarsi 
di 
danni 
futuri. Cfr. F. 
De 
LeonArDIS, Tra precauzione, prevenzione 
e 
programmazione, in L. GIAnI 
-M. D’orSoGnA 
-A. Po-
LICe, Dal 
diritto dell’emergenza al 
diritto del 
rischio, napoli, 2018, pp. 49 ss.; 
S. GIULIeTTI, I principi 
di prevenzione e precauzione nella materia ambientale, ibidem, pp. 237 ss. 
(13) In argomento v., per tutti, D.U. GALeTTA, Il 
principio di 
proporzionalità fra diritto nazionale 
e 
diritto europeo (e 
con uno sguardo anche 
al 
di 
là dei 
confini 
dell’Unione 
Europea), 31 gennaio 2020, 
in www.giustizia-amministrativa.it. 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2021 


operare 
in concreto e 
mai 
in astratto, considerando l’incisività 
dell’intervento 
nella 
sfera 
giuridica 
del 
singolo; 
il 
peso 
e 
l’urgenza 
dell’interesse 
generale 
che 
si 
intende 
perseguire 
e, 
da 
ultimo, 
il 
diritto 
individuale 
tutelato 
dall’ordinamento. 


Principio di 
precauzione 
e 
principio di 
proporzionalità, quindi, camminando 
insieme, 
impongono 
che, 
qualora 
sia 
possibile 
una 
scelta 
tra 
più 
misure 
appropriate, si 
debba 
ricorrere 
a 
quella 
meno gravosa, di 
modo che 
gli 
inconvenienti 
causati non risultino eccessivi rispetto agli obiettivi perseguiti. 

In 
questi 
termini 
si 
è 
orientata 
l’azione 
dei 
pubblici 
poteri 
in 
tempo 
di 
emergenza sanitaria. 


Così, se 
da 
una 
parte 
è 
venuta 
in rilievo la 
tutela 
della 
salute 
come 
diritto 
del 
singolo e 
bene 
della 
collettività, dall’altra 
si 
è 
considerato l’esercizio di 
libertà 
e 
diritti 
individuali, come 
la 
libertà 
di 
circolazione 
e 
di 
aggregazione, il 
diritto all’istruzione, il diritto al lavoro e la libertà di impresa. 


I 
decisori 
pubblici 
nei 
loro 
provvedimenti 
hanno 
tentato 
di 
trovare 
il 
punto 
di 
equilibrio 
ottimale, 
variabile 
a 
seconda 
dell’indice 
di 
propagazione 
del 
virus, 
che 
arrecasse 
il 
minor 
sacrificio 
possibile 
ai 
valori 
temporaneamente 
sacrificati 
(15). 


A 
loro volta, i 
Tribunali 
amministrativi 
ai 
quali 
si 
sono rivolti 
singoli 
cittadini, 
associazioni 
o 
le 
stesse 
istituzioni, 
hanno 
dovuto 
verificare 
l’operazione 
di 
bilanciamento cristallizzata 
nei 
provvedimenti 
impugnati, al 
fine 
di 
sindacare 
la 
legittimità, la 
proporzionalità 
e 
l’adeguatezza 
delle 
misure 
di 
contenimento 
censurate. 


Così, 
vi 
sono 
state 
ordinanze 
regionali 
che 
hanno 
disposto 
misure 
ampliative, 
impugnate 
dal 
Governo, 
ordinanze 
regionali 
o 
sindacali 
che 
hanno 
imposto 
misure 
ulteriormente 
restrittive 
impugnate 
dai 
cittadini, 
provvedimenti 
del Governo contrastati o non rispettati da ordinanze sindacali (16). 

nelle 
relative 
pronunce 
giurisdizionali 
(17), si 
è 
di 
frequente 
fatto riferimento 
alla 
giurisprudenza 
costituzionale 
formatasi 
sulla 
vicenda 
giudiziaria 
relativa 
allo stabilimento Ilva 
di 
Taranto ed all’affermazione, contenuta 
nella 
celebre 
sentenza 
della 
Corte 
costituzionale 
n. 85 del 
2013, secondo cui 
“Tutti 


(14) In tal 
senso, cfr. D.U. GALeTTA, cit., par. 2, dove 
si 
afferma 
altresì 
che 
il 
principio di 
proporzionalità 
implica 
il 
rapporto 
tra 
due 
grandezze 
ovvero 
tra 
due 
valori 
in 
contrapposizione, 
trovandosi 
pertanto 
in stretto legame con i diritti fondamentali. 
(15) Per tale 
motivo, i 
provvedimenti 
adottati 
dal 
Governo sono stati 
continuamente 
soggetti 
a 
revisione 
in rapporto ai 
dati 
di 
diffusione 
del 
Covid-19 che 
venivano rilevati 
e 
comunicati 
dalle 
autorità 
regionali 
a 
quelle 
centrali, 
in 
modo 
che 
le 
misure 
restrittive 
venissero 
applicate 
per 
il 
tempo 
strettamente 
necessario. 
(16) oltre 
alla 
già 
citata 
ordinanza 
della 
Presidente 
della 
regione 
Calabria 
n. 37/2020, cfr. le 
ordinanze 
del 
Presidente 
della 
regione 
Puglia 
nn. 407 e 
413 del 
2020 e 
la 
n. 1/2021 (in materia 
di 
istruzione); 
nonché 
l’ordinanza 
del 
Sindaco di 
Messina 
n. 105 del 
5 aprile 
2020, che 
dettava 
norme 
per il 
transito da e per la Sicilia. 
(17) In tal senso, per tutte, v, Tar Calabria - Catanzaro, n. 2077/2020, cit. 

LeGISLAzIone 
eD 
ATTUALITà 


i 
diritti 
fondamentali 
tutelati 
dalla Costituzione 
si 
trovano in rapporto di 
integrazione 
reciproca 
e 
non 
è 
possibile 
individuare 
uno 
di 
essi 
che 
abbia 
la 
prevalenza 
assoluta 
sugli 
altri… 
Se 
così 
non 
fosse, 
si 
verificherebbe 
l’illimitata 
espansione 
di 
uno 
dei 
diritti, 
che 
diverrebbe 
“tiranno” 
nei 
confronti 
delle 
altre 
situazioni 
giuridiche 
costituzionalmente 
riconosciute 
e 
protette, che 
costituiscono, 
nel loro insieme, espressione della dignità della persona” (18) 

In quel 
caso, è 
stato il 
diritto al 
lavoro (art. 4 Cost.) a 
prevalere 
sul 
diritto 
alla 
salute 
(art. 
32 
Cost.), 
al 
fine 
di 
mantenere 
stabili 
i 
livelli 
occupazionali 
(19), 
mentre 
nelle 
fasi 
più 
acute 
dell’emergenza, 
il 
giudice 
amministrativo 
si 
è 
spesso 
pronunciato 
nel 
senso 
di 
riconoscere 
prevalenza 
alla 
tutela 
del 
diritto 
alla 
salute 
rispetto 
agli 
altri 
diritti 
costituzionalmente 
garantiti, 
in 
particolare 
quando 
si 
è 
trattato 
di 
limitare 
la 
libertà 
di 
iniziativa 
economica 
(20). 
Solo 
nel 
momento 
in 
cui 
il 
rischio 
di 
contagio 
è 
sembrato, 
non 
tanto 
diminuire, 
ma 
almeno 
stabilizzarsi, 
le 
pubbliche 
autorità 
e 
lo 
stesso 
g.a. 
hanno 
ricominciato 
a 
considerare 
l’esercizio 
anche 
degli 
altri 
diritti, 
in 
primis 
quello 
all’istruzione 
(21). 


D’altronde, come 
ha 
osservato autorevole 
dottrina, è 
connaturale 
ad un 
ordinamento 
democratico 
e 
pluralista 
come 
il 
nostro, 
il 
continuo 
aggiustamento 
e 
la 
costante 
modulazione 
dei 
principi 
e 
diritti 
costituzionali, 
senza 
pretese 
di 
assolutezza 
per 
nessuno, 
nella 
consapevolezza 
che 
l’unico 
valore 
“stabile” 
da 
proteggere 
è 
quello 
della 
dignità 
umana, 
che 
compendia 
in 
sé 
tutti 
gli altri (22). 

È 
altrettanto logico, tuttavia, ritenere 
che 
la 
conservazione 
e 
la 
tutela 
di 
quel 
bene 
fondamentale 
che 
è 
la 
salute, 
costituisca 
il 
presupposto 
e 
la 
condicio 
sine 
qua non 
per il 
godimento di 
tutti 
gli 
altri 
diritti 
riconosciuti 
alla 
persona. 

Dunque, 
non 
è 
certamente 
facile 
trovare 
un 
equilibrio 
tra 
principio 
di 
precauzione 
e 
principio di 
proporzionalità, dovendosi 
condividere 
la 
considerazione 
per cui 
“… 
lo stato di 
emergenza condiziona il 
bilanciamento dei 
diritti 
ed interessi 
operato dal 
legislatore 
e 
dall’amministrazione, rendendo ragionevole, 
per 
la 
salvaguardia 
di 
quello 
più 
direttamente 
minacciato, 
la 
compressione 
di 
diritti 
e 
interessi 
in 
conflitto, 
a 
volte 
attingendo 
anche 
il 
loro 
nucleo essenziale” (23). 


(18) Corte cost., 9 maggio 2013, n. 85, punto 9. 
(19) Fa 
applicazione 
del 
principio di 
precauzione 
anche 
l’ultima 
pronuncia 
sul 
caso Ilva, ovvero 
Cons. St., Sez. IV, 23 giugno 2021, n. 4802, in particolare punto XIII.11.1. 
(20) Così, Tar Lazio, Sez. III quater, n. 35/2021, cit. 
(21) 
Proprio 
sull’esercizio 
del 
diritto 
di 
istruzione 
vi 
è 
stato 
un 
“caso 
Puglia”, 
sul 
quale 
v. 
M. 
TroISI, Il 
diritto all’istruzione 
nelle 
ordinanze 
“creative” 
del 
Presidente 
della Regione 
Puglia in tempi 
di pandemia da Covid-19, in Diritti regionali, n. 1/2021. 
(22) 
Così, 
F. 
SCALIA, 
cit., 
p. 
196, 
che, 
a 
sua 
volta, 
richiama 
G. 
zAGreBeLSKy, 
Il 
diritto 
mite, 
Torino, 
1992, pp. 11-17. 
(23) Così 
F. SCALIA, Principio di 
precauzione 
e 
ragionevole 
bilanciamento dei 
diritti 
nello stato 
di emergenza, cit., pag. 202. 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2021 


4. Il sindacato dell’autorità giurisdizionale sui provvedimenti emergenziali. 
Come 
abbiamo 
visto, 
l’esame 
della 
fattispecie 
concreta, 
che 
l’applicazione 
del 
principio 
di 
proporzionalità 
richiede, 
può 
facilmente 
esondare 
in 
una 
valutazione 
nel 
merito delle 
misure 
individuate 
in via 
precauzionale 
dal 
decisore 
pubblico, finendo col 
divenire 
politica 
(24). Ciò in quanto la 
scelta 
del 


c.d. “rischio zero” 
può risultare 
non ottimale, tenuto conto che 
“… 
non è 
sempre 
vero che 
un divieto totale 
od un intervento di 
contrasto radicale 
costituiscano 
una risposta proporzionale al rischio potenziale” (25). 
Di 
conseguenza, dinanzi 
al 
manifestarsi 
di 
un rischio ed alle 
misure 
precauzionali 
adottate 
per farvi 
fronte, ci 
si 
è 
chiesti 
fino a 
che 
punto possa 
spingersi 
il 
sindacato 
del 
giudice 
amministrativo 
e, 
in 
particolare, 
se 
sussista 
la 
possibilità 
per quest’ultimo di 
sostituire 
la 
propria 
valutazione 
sulla 
proporzionalità 
in senso stretto a quella fatta dall’amministrazione. 

Infatti, un tale 
tipo di 
verifica 
comporterebbe 
-come 
pure 
è 
stato rilevato 


(26) 
-l’attribuzione 
di 
un 
determinato 
peso 
specifico 
all’interesse 
pubblico 
perseguito in concreto dall’amministrazione, al 
fine 
di 
poterlo bilanciare 
col 
sacrificio che 
-sempre 
in concreto -viene 
imposto al 
privato per il 
suo perseguimento. 
In fase 
di 
emergenza 
sanitaria, l’orientamento giurisprudenziale 
manifestato 
sul 
punto si 
è 
dimostrato piuttosto costante 
(27), laddove 
fin dalle 
prime 
decisioni 
adottate, è 
stato affermato che 
“Non è 
compito del 
giudice 
amministrativo 
sostituirsi 
alle 
amministrazioni 
e, dunque, stabilire 
quale 
contenuto 
debbano avere, all’esito del 
bilanciamento tra i 
molteplici 
interessi 
pubblici 


o 
privati 
in 
gioco, 
i 
provvedimenti 
amministrativi… 
In 
questa 
prospettiva, 
l’operato dell’Autorità giurisdizionale… 
è 
meramente 
tecnico, e 
finalizzato a 
verificare 
la conformità del 
provvedimento oggetto di 
attenzione 
al 
modello 
legale” (28). 
Il 
giudice 
amministrativo, in sostanza, applica 
alle 
fattispecie 
in rilievo 
un sindacato analogo a 
quello esercitato nei 
confronti 
dei 
provvedimenti 
amministrativi 
connotati da discrezionalità tecnica (29). 


(24) Ancora 
F. SCALIA, cit., pp. 192-193 “Il 
giudizio di 
proporzionalità si 
sostanzia in una valutazione 
che, se 
riguarda misure 
legislative, ha carattere 
politico: politica è 
la scelta delle 
finalità di 
interesse 
pubblico da perseguire; politica è 
la decisione 
circa le 
utilità che 
vanno privilegiate 
e 
i 
beni 
che 
vanno 
sacrificati 
nell’operazione 
di 
bilanciamento… 
Il 
carattere 
“politico” 
della 
scelta 
si 
riverbera 
anche 
sul 
relativo 
sindacato 
giurisdizionale, 
limitato 
alla 
manifesta 
inappropriatezza 
della 
misura 
adottata, 
sulla base di una valutazione ex ante”. 
(25) V. Cons. St., Sez. III, 3 ottobre 2019, n. 6655. 
(26) Così D.U. GALeTTA, cit., paragrafo 2. 
(27) Tra 
le 
pronunce 
più articolate 
a 
livello motivazionale, malgrado si 
tratti 
di 
un decreto cautelare, 
v. Tar Piemonte, n. 580/2020, cit. 
(28) Così 
Tar Calabria, Catanzaro, n. 841/2020, cit. 
(29) Secondo la 
definizione 
data 
da 
r. CHIePPA, r. GIoVAGnoLI. in Manuale 
di 
diritto amministrativo, 
Milano, 2020, p. 492, per discrezionalità 
tecnica 
si 
intende 
quel 
tipo di 
valutazione 
“che 
viene 

LeGISLAzIone 
eD 
ATTUALITà 


Invero, 
il 
Consiglio 
di 
Stato, 
valutando 
di 
recente 
alcuni 
DPCM 
adottati 
in 
fase 
di 
emergenza, 
ha 
confermato 
la 
loro 
qualificazione 
come 
atti 
di 
alta 
amministrazione, 
caratterizzati 
da 
ampia 
discrezionalità, 
tramite 
i 
quali 
il 
Governo 
ha 
attuato 
“le 
fondamentali 
scelte 
politiche 
e 
amministrative” 
di 
gestione 
della 
crisi 
pandemica. 
Da 
tali 
peculiarità, 
ha 
tratto 
la 
conclusione 
che 
gli 
stessi 
sono 
sindacabili 
dal 
g.a. 
in 
sede 
di 
legittimità 
solo 
per 
“carenze 
e/o 
errori 
gravi 
e 
manifesti 
e 
per 
evidenti 
illogicità, 
irrazionalità, 
sproporzione 
o 
irragionevolezza, 
restando 
precluso 
ogni 
sindacato 
che 
possa 
riguardare 
il 
merito 
e 
la 
condivisibilità 
delle 
decisioni 
adottate, 
né 
la 
loro 
opportunità 
e 
convenienza” 
(30). 


I giudici 
di 
Palazzo Spada, inoltre, precisato che 
i 
decreti 
del 
Presidente 
del 
Consiglio, quali 
atti 
a 
contenuto generale, sfuggono all’applicazione 
delle 
regole 
sulla 
motivazione 
degli 
atti, ai 
sensi 
dell’art. 3, comma 
2, legge 
n. 241 
del 
1990, hanno comunque 
rilevato che 
essi 
sono adeguatamente 
assistiti 
da 
una 
sufficiente 
istruttoria 
tecnico-scientifica, in virtù del 
principio di 
precauzione 
ed in funzione della migliore tutela della salute pubblica. 


Se, 
dunque, 
le 
modalità 
decisionali 
adottate 
dal 
Governo 
in 
tempo 
di 
emergenza 
sono 
state 
sostanzialmente 
“promosse” 
dal 
giudice 
amministrativo 
(31), ciò, tuttavia, non ha impedito alcune critiche. 

Proprio la 
natura 
ibrida 
riconosciuta 
dal 
Consiglio di 
Stato ai 
decreti 
del 
Presidente 
del 
Consiglio, a 
metà 
tra 
regolamento ed ordinanze 
contingibili 
ed 
urgenti, 
ha 
indotto 
taluni 
in 
dottrina 
a 
sostenere 
che 
la 
loro 
emanazione 
avrebbe 
richiesto uno sforzo motivazionale 
maggiore, soprattutto sotto il 
profilo del-
l’osservanza dei canoni di proporzionalità ed adeguatezza. 

Si 
è 
infatti 
osservato che 
tali 
atti, rientranti 
comunque 
nella 
categoria 
dei 
provvedimenti 
amministrativi, pur contenendo prescrizioni 
ampiamente 
condivisibili 
“… 
non rendono manifeste 
le 
ragioni 
che 
hanno orientato le 
singole 
scelte di gestione dell’emergenza sanitaria” (32). 

posta 
in 
essere 
dall’amministrazione 
quando 
l’esame 
di 
fatti 
o 
situazioni 
deve 
essere 
effettuato 
mediante 
il 
ricorso 
a 
cognizioni 
tecniche 
e 
scientifiche 
di 
carattere 
specialistico”; 
in 
proposito, 
si 
pensi 
al 
dibattito 
sviluppatosi 
relativamente 
al 
sindacato 
giurisdizionale 
sugli 
atti 
delle 
Autorità 
indipendenti: 
cfr., 
ex 
multis, 
Autorità indipendenti 
e 
sindacato giurisdizionale, 2019, ad opera 
dell’Ufficio Studi, massimario e 
formazione della Giustizia amministrativa, in www.giustizia-amministrativa.it. 


(30) Così, Cons. St. n. 850/2021, cit. 
(31) 
Sempre 
Cons. 
St. 
n. 
850/2021 
afferma 
che 
“Il 
sistema 
dei 
decreti-legge 
adottati 
dal 
governo… 
lungi 
dal 
sovvertire 
il 
nostro sistema ordinamentale… 
ha dato ordine 
all’esercizio del 
potere 
emergenziale, 
altrimenti 
“libero” 
ed extra ordinem 
con i 
soli 
limiti 
della Costituzione, imbrigliandolo in una 
fitta rete 
di 
condizioni 
e 
limiti 
predefiniti 
dalla legge, assicurando in tal 
modo anche 
un adeguato (e 
necessario) controllo parlamentare” (punto 6.11). 
(32) In questi 
termini, V. nerI, Diritto amministrativo dell’emergenza: tra unità e 
indivisibilità 
della Repubblica e autonomia regionale e locale, cit., p. 352. 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
DeLLo 
STATo -n. 2/2021 


5. Considerazioni conclusive. 
I dubbi 
sollevati 
al 
termine 
del 
paragrafo che 
precede 
ci 
consentono di 
compiere alcune riflessioni, anche di carattere più generale. 

Affinchè 
una 
decisione 
pubblica 
possa 
definirsi 
davvero 
democratica, 
essa 
deve 
riuscire 
a 
compendiare 
in sé 
i 
molteplici 
contributi 
provenienti 
dal 
“basso”, quindi 
dai 
singoli 
individui 
e 
dagli 
enti 
esponenziali 
di 
interesse 
collettivi. 


Ciò vale 
tanto di 
più quando si 
tratta 
di 
emanare 
un provvedimento legislativo, 
applicando 
quello 
che 
può 
definirsi 
un 
principio 
insito 
nella 
nostra 
Costituzione. 


Infatti, tutti 
gli 
istituti 
partecipativi 
costituzionalmente 
previsti, quali 
petizioni 
(art. 
50 
Cost.), 
iniziativa 
legislativa 
popolare 
(art. 
71, 
comma 
2, 
Cost.), 
referendum 
abrogativo 
(art. 
75 
Cost.) 
e 
referendum 
consultivo 
(art. 
132 
Cost.), 
ecc…, sono stati 
configurati 
proprio al 
fine 
di 
garantire 
un contributo democratico 
effettivo, con il 
pluralismo di 
valori 
e 
prospettive 
che 
ne 
consegue. Le 
stesse 
audizioni 
nelle 
Commissioni 
parlamentari 
ed 
in 
quelle 
consiliari 
(per 
le 
leggi 
regionali), che 
solitamente 
caratterizzano il 
procedimento legislativo, 
contribuiscono 
ad 
assicurare 
trasparenza 
e 
partecipazione, 
anche 
tramite 
la 
formazione di gruppi di interesse. 


Dunque, in generale, qualunque 
apporto che 
possa 
contribuire 
ad arricchire 
e 
migliorare 
i 
contenuti 
dell’azione 
amministrativa 
deve 
essere 
accolto 
con favore, compresi 
pareri, studi 
e 
dati 
tecnico-scientifici 
acquisiti 
nel 
corso 
dell’istruttoria procedimentale. 


In questo senso, l’esperienza 
della 
pandemia 
ci 
offre 
notevoli 
spunti 
di 
riflessione. 


In primis, ci 
si 
è 
resi 
conto che 
nessun dato, per quanto scientifico possa 
essere, può definirsi 
“oggettivo” 
e 
neutrale 
in modo assoluto, in quanto la 
sua 
semplice 
lettura 
implica 
già 
di 
per sé 
una 
sua 
interpretazione 
più o meno soggettiva; 
allo stesso modo, il 
dato tecnico viene 
ulteriormente 
manipolato per 
essere 
espresso nel 
provvedimento amministrativo e, quindi, comunicato all’esterno. 


Dal 
canto suo, il 
giudice 
amministrativo, ha 
sì 
verificato che 
le 
determinazioni 
assunte 
in 
ordine 
alle 
misure 
di 
contenimento 
non 
presentassero 
aspetti 
di 
manifesta 
irragionevolezza 
o 
illogicità, 
con 
riguardo 
al 
bilanciamento 
di 
tutti 
gli 
interessi 
in gioco, ma 
-fino alle 
decisioni 
più recenti 
-ha 
ribadito la 
propria 
impossibilità 
di 
sostituirsi 
agli 
organismi 
tecnico-scientifici, 
anche 
internazionali, 
nella 
valutazione 
dei 
rischi 
connessi 
alla 
pandemia, 
basata 
su 
parametri 
altrettanto scientificamente individuati. 

Ciò 
probabilmente 
è 
avvenuto 
proprio 
nel 
timore 
di 
cadere 
in 
valutazioni 
di 
natura 
politica, considerato, peraltro, che 
l’individuazione 
degli 
indicatori 
in 
base 
ai 
quali 
determinare 
le 
zone 
a 
più 
elevata 
emergenza, 
è 
stata 
una 
di 
quelle 
questioni 
che 
più ha 
acceso le 
polemiche 
tra 
Stato e 
regioni. Infatti, lo 



LeGISLAzIone 
eD 
ATTUALITà 


stesso giudice 
amministrativo ha 
riconosciuto che, alla 
base 
delle 
misure 
restrittive 
e 
preventive 
adottate, vi 
è 
una 
scelta 
connotata 
da 
discrezionalità 
non 
solo tecnico-scientifica, ma 
anche 
politico-amministrativa, andando le 
stesse 
ad 
incidere 
in 
modo 
assai 
invasivo 
sul 
normale 
esercizio 
di 
diritti 
fondamentali 
della persona. 


Si 
è 
poi 
registrato 
senz’altro 
sia 
un 
problema 
di 
raccolta 
e 
comunicazione 
dei 
dati 
dal 
livello locale 
a 
quello regionale 
e 
poi 
centrale, sia 
un problema 
di 
trasparenza, conoscibilità 
e 
condivisibilità 
dei 
medesimi 
dati 
raccolti 
da 
parte 
dell’opinione 
pubblica, circostanze 
che 
il 
carattere 
emergenziale 
della 
situazione 
ha, ovviamente, fatto passare in secondo piano. 


Come orientarsi, quindi, per il futuro? 


nel 
protrarsi 
dell’emergenza 
sanitaria, 
appare 
opportuno 
alimentare 
la 
rete 
di 
raccolta 
e 
comunicazione 
dei 
dati, 
che 
dal 
livello 
periferico 
va 
al 
livello 
centrale, rivelatasi 
ex 
post 
il 
punto debole 
nelle 
fasi 
iniziali 
di 
gestione 
della 
pandemia. Il 
policentrismo delle 
fonti 
da 
cui 
le 
informazioni 
provengono, infatti, 
se 
da 
un lato può generare 
confusione, dall’altro può anche 
favorire, soprattutto 
in fase 
preventiva 
e 
tramite 
un adeguato coordinamento, il 
naturale 
confronto 
tra 
le 
stesse 
informazioni 
acquisite, 
utile 
ad 
individuare 
la 
soluzione 
più efficace e - insieme - meno invasiva possibile. 


ContrIbutIdIdottrIna
Il nuovo giudizio di ottemperanza: 
nella pratica e nella giurisprudenza 


Antonio Tallarida* 


Sommario: 
1. 
Premessa 
-2. 
origine 
storica 
-3. 
Evoluzione 
dell’istituto 
-4. 
il 
nuovo 
giudizio di 
ottemperanza -5. oggetto del 
giudizio -6. Giudice 
competente 
-7. Procedimento 


-8. La decisione 
-9. il 
Commissario ad acta -10. impugnazioni 
-11. Titolo esecutivo -12. 
La riedizione del potere amministrativo. 
1. Premessa. 
Spesso vincere 
il 
ricorso non è 
sufficiente, perché 
quando la 
pronuncia 
del 
Giudice 
non 
è 
autoesecutiva, 
occorre 
che 
l’Amministrazione 
soccombente 
si attivi, riprenda il procedimento amministrativo e lo concluda. 


Così, ad esempio, se 
il 
diniego di 
autorizzazione 
di 
polizia 
o di 
concessione 
edilizia 
è 
stato annullato, questo non basta 
per poter esercitare 
l’attività 


o 
costruire 
l’immobile. 
È 
necessario 
infatti 
che 
l’Amministrazione 
si 
conformi 
alla 
sentenza 
di 
annullamento 
del 
diniego 
e 
provveda 
a 
rilasciare, 
nel 
concorso 
di 
tutti 
i 
requisiti 
di 
legge 
e 
di 
regolamento, l’autorizzazione 
o la 
concessione 
richieste, ossia proprio ciò che era stato illegittimamente negato. 
Ma 
non 
è 
tutto 
così 
semplice. 
Perché 
l’Ente, 
che 
mantiene 
il 
potere 
di 
provvedere, 
potrebbe 
restare 
inerte 
o 
magari 
respingere 
nuovamente 
la 
richiesta 
per altri 
motivi 
o invece 
adottare 
un nuovo provvedimento contrario o elusivo 
del 
giudicato ovvero potrebbe 
non essere 
più possibile 
svolgere 
l’attività 


o 
costruire 
(magari 
per 
intervenuti 
mutamenti 
della 
normativa) 
o 
potrebbe, 
per 
il 
tempo 
trascorso, 
non 
essere 
questo 
più 
nell’interesse 
dello 
stesso 
ricorrente. 
Nasce 
da 
qui 
il 
problema 
non 
semplice 
della 
riedizione 
del 
potere 
amministra(*) 
Già 
Vice 
Avvocato Generale dello Stato. 



rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


tivo e 
dei 
suoi 
limiti, su cui 
si 
è 
esercitata 
tanta 
parte 
della 
giurisprudenza 
amministrativa 
ancora di recente. 


A 
queste 
evenienze 
è 
deputato 
a 
sovvenire 
il 
giudizio 
di 
ottemperanza, 
che 
appunto 
serve 
a 
far 
ottenere, 
possibilmente, 
all’interessato 
quel 
bene 
della 
vita, quell’utilità 
cui 
tendeva 
e 
quindi 
a 
poter costruire 
ovvero aprire 
un negozio, 
o conseguire 
un impiego o un passaggio di 
carriera, o vincere 
un appalto 
pubblico o, qualora 
ciò non sia 
oggettivamente 
più possibile, ottenere 
almeno 
un risarcimento per equivalente. 


Tale 
giudizio, nelle 
sue 
forme 
attuali, è 
il 
risultato di 
una 
lunga 
elaborazione 
giurisprudenziale, tutt’altro che 
conclusa, tesa 
a 
realizzare 
in pratica 
il 
dictum 
della sentenza. 


2. origine storica. 
Il 
problema 
della 
effettività 
della 
pronuncia 
si 
è 
posto 
sin 
dalla 
nascita 
dell’ordinamento unitario. La 
legge 
sull’abolizione 
del 
contenzioso amministrativo, 
tuttora 
in vigore, ossia 
la 
legge 
20 marzo 1865, n. 2248, all. E, nel 
concentrare 
la 
giurisdizione 
sui 
diritti 
civili 
e 
politici 
lesi 
dalla 
Pubblica 
Amministrazione, 
nei 
Tribunali 
ordinari, vietava 
a 
questi 
-per rispetto del 
principio 
della 
divisione 
dei 
poteri 
-di 
revocare 
o 
modificare 
qualsiasi 
atto 
amministrativo demandando tale 
compito “sovra ricorso alle 
competenti 
autorità 
amministrative, le 
quali 
si 
conformeranno al 
giudicato dei 
Tribunali 
in 
quanto 
riguarda 
il 
caso 
deciso” 
(art. 
4). 
I 
Tribunali 
potevano 
solo 
disapplicare 
nel 
caso 
concreto 
l’atto 
amministrativo 
ritenuto 
illegittimo. 
L’amministrazione 
doveva conformarsi alla sentenza. 


Già, ma 
se 
queste 
autorità 
non si 
conformavano? 
Come 
si 
faceva, visto 
che 
i 
Tribunali 
non 
potevano 
incidere 
né 
in 
positivo 
né 
in 
negativo 
sull’attività 
della 
P.A.? 
Il 
vuoto di 
tutela 
era 
evidente 
ma 
il 
rimedio non c’era 
nell’ordinamento 
unitario. 
Così 
come 
altro 
vistoso 
vuoto 
era 
rappresentato 
dalla 
mancanza 
di 
tutela 
giurisdizionale 
degli 
interessi 
poi 
denominati 
legittimi. 
Bisognava intervenire. 


1889. È 
l’anno che 
segna 
la 
nascita 
della 
giurisdizione 
amministrativa 
e 
del 
giudizio 
di 
ottemperanza. 
Il 
Governo, 
allora 
presieduto 
da 
Francesco 
Crispi 
-patriota 
siciliano 
antiborbonico, 
garibaldino 
al 
tempo 
dei 
Mille 
e 
politico 
nazionale 
-colse 
l’occasione 
di 
risolvere 
in un colpo solo i 
due 
problemi, evidentemente 
tra 
loro connessi. Venne 
così 
approvata, dopo un acceso dibattito 
parlamentare, la 
legge 
31 marzo 1889, n. 5992, con cui 
si 
istituiva 
la 
IV 
Sezione 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
“per 
la 
giustizia 
amministrativa” 
(cap. 
1) 
con 
competenza 
di 
legittimità 
sui 
“ricorsi 
per 
incompetenza, 
per 
eccesso 
di 
potere 


o per 
violazione 
di 
legge 
contro atti 
e 
provvedimenti 
di 
un’autorità amministrativa 
o 
di 
un 
corpo 
amministrativo 
deliberante, 
che 
abbiano 
per 
oggetto 
un interesse 
d'individui 
o di 
enti 
morali 
giuridici” 
(art. 3), e 
con competenza 
anche 
di 
merito in materia 
“dei 
ricorsi 
diretti 
ad ottenere 
l'adempimento del

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


l'obbligo 
dell'autorità 
amministrativa 
di 
conformarsi, 
in 
quanto 
riguarda 
il 
caso deciso, al 
giudicato dei 
tribunali 
che 
abbia riconosciuto la lesione 
di 
un 
diritto civile o politico” (art. 4, n. 4 e art. 17). 


La 
norma 
verrà 
ripresa 
testualmente 
nel 
T.u. delle 
leggi 
sul 
Consiglio di 
Stato, r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, art. 27 n. 4, a 
sua 
volta 
in seguito richiamato 
nella 
legge 
istitutiva 
dei 
Tribunali 
amministrativi 
regionali 
(TAr), 
legge 
6 dicembre 1971, n. 1034 (art. 27 n. 4). 


Il 
problema 
quindi 
della 
effettività 
delle 
pronunce 
del 
Giudice 
ordinario 
nei 
confronti 
della 
P.A. aveva 
trovato una 
sua 
soluzione 
sulla 
carta 
con l’attribuzione 
della 
relativa 
competenza 
attuativa 
al 
nuovo Giudice 
amministrativo 
che, come 
tale, non incontrava 
nella 
sua 
attività 
e 
decisione, estesa 
al 
merito, 
le 
limitazioni 
del 
G.o., 
e 
poteva 
perciò 
anche 
sostituirsi 
alla 
Amministrazione 
non ottemperante. 


3. Evoluzione dell’istituto. 
Presto 
tuttavia 
ci 
si 
accorse 
che 
lo 
stesso 
problema 
si 
poneva 
per 
l’attuazione 
delle 
pronunce 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
quante 
volte 
non 
fosse 
sufficiente 
l’effetto 
demolitorio 
della 
decisione 
(ossia 
l’annullamento 
dell’atto 
negativo 
impugnato), 
necessitando 
un 
successivo 
provvedimento 
o 
atto 
conformativo 
della 
P.A. 
per 
far 
conseguire 
al 
ricorrente 
il 
bene 
della 
vita 
o 
l’utilità 
perseguita. 


Ad ovviare 
a 
questa 
lacuna 
provvide 
l’opera 
della 
giurisprudenza 
amministrativa 
con una 
serie 
di 
pronunce 
che, pur discusse 
in dottrina 
che 
ne 
evidenziava 
la 
totale 
mancanza 
di 
supporto normativo, tuttavia 
furono alla 
fine 
avallate 
dalle 
Sezioni 
unite 
della 
Cassazione 
(Cass., 
SS.uu., 
n. 
215 
del 
1953). 


Prima 
fu la 
volta 
della 
applicazione 
estensiva 
dell’art. 27 n. 4 del 
t.u. n. 
1054/1924 alle 
decisioni 
del 
Consiglio di 
Stato nelle 
materie 
di 
giurisdizione 
esclusiva 
che 
riguardando 
diritti 
si 
avvertivano 
come 
assimilabili 
alle 
sentenze 
del 
G.o., 
suscettibili 
di 
giudizio 
di 
ottemperanza 
(Cons. 
Stato, 
V, 
31 
marzo 
1931, 
n. 
176, 
secondo 
cui 
“la 
disposizione 
dell’art. 
27, 
n. 
4, 
del 
t.u. 
delle 
leggi 
sul 
Consiglio di 
Stato è 
applicabile 
anche 
quando l’autorità amministrativa 
non si 
uniformi 
ad una decisione 
pronunciata dal 
Consiglio di 
Stato”; 
in precedenza, 
spunti 
in tal 
senso già 
in Cons. Stato, IV, 9 marzo 1928, n. 181). Poi 
l’estensione 
fu applicata 
anche 
alle 
decisioni 
di 
legittimità 
in materia 
di 
interessi 
legittimi 
(Cons. Stato, V, 12 maggio 1937, n. 616; 
V, 22 aprile 
1947, n. 


155) e 
a 
quelle 
dei 
Giudici 
speciali 
(Cons. Stato, VI, 30 aprile 
1957, n. 193; 
IV, 11 dicembre 1962, n. 776). 
A 
questo punto intervenne 
a 
chiudere 
il 
cerchio l’Adunanza 
Plenaria 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
che, 
con 
decisione 
4 
novembre 
1980, 
n. 
43, 
prese 
atto 
“dell’evoluzione 
della 
giurisprudenza 
amministrativa 
che 
fa 
del 
ricorso 
ex 
art. 27, n. 4 del 
t.u. delle 
leggi 
del 
Consiglio di 
Stato un rimedio di 
carattere 
generale, valido ad assicurare 
l’adempimento da parte 
della P.a. degli 
obblighi 
nascenti da qualsiasi giudicato”. 



rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


ulteriori 
sviluppi 
si 
ebbero sotto la 
spinta 
delle 
pronunce 
della 
Corte 
costituzionale 
(sentt. n. 8/1982, n. 175/1991) e 
in forza 
del 
principio della 
effettività 
postulato 
da 
tali 
decisioni, 
pervenendosi 
per 
questa 
via 
ad 
affermare 
l’applicabilità 
dei 
poteri 
dell’ottemperanza 
anche 
alle 
misure 
cautelari 
(Cons. 
Stato, 
Ad. 
Plen., 
nn. 
6 
e 
17/1982) 
e 
alle 
sentenze 
esecutive 
dei 
TAr 
(Cons. 
Stato, IV, 3 maggio 1999, n. 767). 

La 
legislazione 
non tardò ad adeguarsi 
a 
tali 
pronunciati 
e 
ciò avvenne 
con 
la 
legge 
di 
riforma 
della 
giustizia 
amministrativa, 
l. 
21 
luglio 
2000, 
n. 
205 
(artt. 
3 
e 
10), 
pur 
limitandosi 
a 
prevedere 
che 
in 
questi 
casi 
il 
Giudice 
“esercita 
i 
poteri 
inerenti 
al 
giudizio di 
ottemperanza di 
cui 
all’art. 27, n. 4, t.u. delle 
leggi 
sul 
Consiglio di 
Stato”, come 
per dire 
che 
non è 
un vero giudizio di 
ottemperanza 
ma quasi. 


Il 
Codice 
del 
processo 
amministrativo, 
approvato 
con 
d.lgs. 
2 
luglio 
2010, 


n. 
104, 
All. 
1, 
ha 
concluso 
il 
lungo 
iter 
evolutivo 
del 
giudizio 
di 
ottemperanza, 
riconoscendone 
il 
carattere 
di 
rimedio generalizzato e 
inserendolo nel 
Libro 
IV, titolo I, tra i riti speciali. 
Il 
vecchio e 
glorioso art. 27, n. 4, del 
t.u. n. 1054/1924 (come 
l’art. 27, n. 
4, della 
legge 
istitutiva 
dei 
TAr) è 
stato abrogato (v. All. IV, art. 4, c.p.a.) ma 
sulle sue ceneri è nato il nuovo Giudizio di ottemperanza. 


4. il nuovo giudizio di ottemperanza. 
Il 
principio della 
effettività, declinato dall’art. 1 del 
c.p.a. (“La giurisdizione 
amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i 
principi 
della Costituzione 
e 
del 
diritto europeo”) e 
il 
principio del 
giusto processo di 
cui 
all’art. 
2 
del 
c.p.a. 
(“1. 
il 
processo 
amministrativo 
attua 
i 
principi 
della 
parità delle 
parti, del 
contraddittorio e 
del 
giusto processo previsto dall’articolo 
111, primo comma, della Costituzione. 2. il 
giudice 
amministrativo e 
le 
parti 
cooperano per 
la realizzazione 
della ragionevole 
durata del 
processo”) 
sono le basi del nuovo giudizio di ottemperanza. 


Nuovo perché 
più ampia 
è 
la 
categoria 
dei 
provvedimenti 
che 
sono suscettibili 
di 
ottemperanza 
giudiziale 
(non solo più le 
sentenze 
passate 
in giudicato 
del 
G.o., ma 
anche 
le 
sentenze 
del 
G.A., comprese 
quelle 
meramente 
esecutive, i 
provvedimenti 
cautelari 
del 
G.A., i 
lodi 
arbitrali 
esecutivi, ecc.); 
perché 
maggiori 
sono i 
poteri 
di 
cui 
è 
investito il 
giudice 
dell’ottemperanza 
(non solo esecutivi 
ma 
anche 
cognitivi); 
perché 
più ampio è 
lo spettro delle 
azioni 
promuovibili 
(anche 
risarcitorie) 
e 
quindi 
delle 
decisioni 
possibili, 
e 
più 
aderente 
ai 
postulati 
del 
diritto 
europeo, 
comprensivo 
di 
quello 
comunitario 
(TuE 
e 
TFuE) e 
di 
quello della 
Convenzione 
per la 
salvaguardia 
dei 
diritti 
dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEdu). 


Nuova 
è 
anche 
la 
possibilità 
di 
proporre 
il 
giudizio anche 
al 
solo fine 
di 
ottenere 
chiarimenti 
in 
ordine 
alle 
modalità 
dell’ottemperanza 
(art. 
112, 
comma 5, c.p.a.). 



CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


Inoltre 
è 
stato 
introdotto 
espressamente 
il 
principio 
di 
concentrazione, 
secondo 
il 
quale 
“il 
giudice 
conosce 
di 
tutte 
le 
questioni 
relative 
all’ottemperanza, 
nonché, tra le 
parti 
nei 
cui 
confronti 
si 
è 
formato il 
giudicato, di 
quelle 
inerenti agli atti del commissario ad acta” (art. 114, comma 6, c.p.a.). 


La 
fisionomia 
così 
assunta 
dal 
giudizio di 
ottemperanza 
ne 
fa 
un tipo di 
giurisdizione 
mista, comprensiva 
cioè 
dei 
caratteri 
del 
giudizio esecutivo e 
di 
quello cognitorio (specie 
nel 
caso di 
domande 
risarcitorie) ed espressione 
di 
tutte 
le 
tipologie 
della 
giurisdizione 
amministrativa 
a 
seconda 
dei 
casi 
e 
delle 
domande 
proposte 
(di 
legittimità, 
di 
merito 
ed 
esclusiva). 
Per 
questo 
il 
giudizio 
di 
ottemperanza 
è 
stato anche 
definito polisemico (Cons. Stato, Ad. Plen., 15 
gennaio 2013 n. 2). 


Il 
codice 
del 
processo amministrativo dedica 
al 
giudizio di 
ottemperanza 
quattro articoli 
(artt. 112 
-115) oltre 
a 
vari 
richiami 
in altre 
norme 
(v. artt. 7, 
21, 34, 59, 87, 133, 134). 


5. oggetto del giudizio (art. 112 c.p.a.). 
L’art. 
112 
c.p.a. 
esordisce 
affermando 
che 
i 
provvedimenti 
del 
giudice 
amministrativo 
devono 
essere 
eseguiti 
dalla 
P.A. 
e 
dalle 
altre 
parti. 
In 
tal 
modo 
con la 
proclamazione 
del 
principio si 
mettono al 
centro del 
processo le 
decisioni 
del 
giudice 
amministrativo (piuttosto che 
quelle 
del 
G.o.) superando le 
origini 
del 
processo 
come 
sopra 
descritte. 
La 
storia 
ha 
preso 
un’altra 
direzione, 
senza 
peraltro rinunciare 
a 
quella 
precedente 
che 
continua 
a 
restare, anche 
se 
per il 
giudicato civile 
è 
utilizzabile 
anche 
il 
processo ordinario di 
esecuzione. 


La 
norma 
passa 
poi 
ad 
elencare 
quali 
sono 
i 
provvedimenti 
giurisdizionali 
suscettibili 
di 
ottemperanza 
giudiziale, 
riproducendo 
tutti 
quelli 
considerati 
dalla giurisprudenza. Si tratta: 


a) 
delle sentenze del Giudice 
Amministrativo passate in giudicato; 
b) 
delle 
sentenze 
esecutive 
e 
degli 
altri 
provvedimenti 
esecutivi 
del 
giudice 
amministrativo; 
c) 
delle 
sentenze 
passate 
in giudicato e 
degli 
altri 
provvedimenti 
ad esse 
equiparati del Giudice ordinario; 
d) 
delle 
sentenze 
passate 
in giudicato e 
degli 
altri 
provvedimenti 
ad esse 
equiparati per i quali non sia previsto il rimedio dell'ottemperanza; 
e) dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili. 
Come 
si 
vede, mentre 
per le 
sentenze 
del 
G.o. rimane 
fermo il 
classico 
presupposto 
che 
siano 
passate 
in 
giudicato, 
in 
linea 
con 
la 
legge 
del 
1865, 
anche 
se 
vengono 
aggiunti 
“altri 
provvedimenti 
ad 
esse 
equiparati 
del 
giudice 
ordinario” 
(tipo: 
decreto ingiuntivo non opposto; 
ordinanza 
di 
assegnazione 
del 
credito divenuta 
definitiva: 
Cons. Stato, Ad. Plen., 4 febbraio 2012 n. 2), 
per le 
sentenze 
del 
G.A., oltre 
a 
quelle 
passate 
in giudicato, possono azionarsi 
anche 
quelle 
dei 
TAr non ancora 
passate 
in giudicato, essendo per legge 
esecutive 
(art. 
33, 
c. 
2, 
c.p.a.) 
purché 
non 
sospese 
dal 
Consiglio 
di 
Stato. 
In 
questa 



rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


categoria 
rientrano 
anche 
le 
decisioni 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
impugnate 
in 
Cassazione 
(e 
pertanto 
ancora 
non 
passate 
in 
giudicato), 
non 
avendo 
il 
ricorso 
per 
cassazione 
effetto sospensivo, salvo che 
la 
sospensione 
sia 
disposta 
in caso di 
eccezionale 
gravità 
e 
urgenza 
dal 
Consiglio di 
Stato ex 
art. 111 c.p.a. Tra 
gli 
“altri 
provvedimenti 
esecutivi 
del 
giudice 
amministrativo” 
vanno comprese 
le 
misure 
cautelari 
concesse 
dal 
G.A. 
a 
tutela 
della 
posizione 
soggettiva 
azionata 
(art. 59 c.p.a.). 


Vengono 
poi 
annoverate 
le 
sentenze 
dei 
Giudici 
speciali, 
da 
ricondursi 
praticamente 
a 
quelle 
del 
Tribunale 
Superiore 
delle 
Acque 
Pubbliche, 
in 
quanto 
specifiche 
disposizioni 
di 
legge 
hanno sottratto a 
questo giudizio le 
decisioni 
della 
Corte 
dei 
Conti 
(d.lgs. 2 luglio 2010 n. 174, art. 216) e 
dei 
Giudici 
Tributari 
(d.lgs. 
31 
dicembre 
1992 
n. 
546, 
art. 
70), 
così 
derogando 
alla 
tendenziale 
concentrazione 
nel 
giudice 
amministrativo di 
tutte 
le 
azioni 
di 
ottemperanza. 
In questa 
categoria 
vanno ricompresi 
anche 
i 
decreti 
decisori 
del 
ricorso straordinario 
al 
Capo dello Stato, non menzionati 
dal 
codice, ma 
per interpretazione 
giurisprudenziale 
affermatasi 
dopo la 
legge 
n. 69/2009 (Cass., SS.uu., 
28 
gennaio 
2011 
n. 
2065; 
Cons. 
Stato, 
Ad. 
Plen., 
5 
giugno 
2012 
n. 
18, 
annotata 
da 
GIuLIA 
FErrArI, 
in 
Treccani 
enciclopedia, 
Libro 
dell’anno 
2013). 
Infine 
vengono 
inclusi 
i 
lodi 
arbitrali 
esecutivi 
e 
divenuti 
inoppugnabili 
(v. 
Cons. 
Stato, V, 28 aprile 2012 n. 2542). 


La 
norma 
(comma 
5) 
prevede 
la 
innovativa 
possibilità 
di 
proporre 
il 
presente 
giudizio 
(si 
ritiene, 
nel 
silenzio 
della 
norma, 
con 
ricorso) 
anche 
al 
solo 
fine 
di 
ottenere 
chiarimenti 
in 
ordine 
alle 
modalità 
di 
ottemperanza, 
da 
parte 
della 


P.A. 
interessata 
a 
ottemperare 
correttamente 
o 
di 
controinteressati, 
con 
il 
limite 
che 
deve 
trattarsi 
di 
questioni 
strettamente 
inerenti 
al 
caso 
deciso 
e 
non 
questioni 
astratte 
o 
generali 
o 
riguardanti 
terzi 
soggetti 
(per 
esempio, 
è 
stata 
ritenuta 
inammissibile 
la 
questione 
della 
estensibilità 
del 
giudicato 
a 
terzi 
non 
parti 
del 
processo 
definito). 
Trattasi 
peraltro 
di 
un 
giudizio 
avente 
natura 
giuridica 
diversa 
da 
quello 
di 
ottemperanza 
(v. 
Cons. 
Stato, 
IV, 
30 
marzo 
2019 
n. 
3614). 
Si 
discute 
ancora 
se 
il 
giudizio in questione 
sia 
ammissibile 
per crediti 
pecuniari 
riconosciuti 
da 
provvedimento 
giudiziale 
emesso 
nei 
confronti 
di 
Comuni 
in 
stato 
di 
dissesto 
finanziario 
(Cons. 
Stato, 
V, 
21 
aprile 
2021 
n. 
3211, 
ordinanza di rimessione alla 
Adunanza Plenaria). 


Appare 
infine 
condivisibile 
la 
tesi 
secondo 
cui 
non 
è 
esperibile 
il 
giudizio 
di 
ottemperanza 
ad una 
decisione 
del 
G.o. nei 
confronti 
di 
società 
in house 
ove 
questa 
“eserciti 
poteri 
e 
facoltà di 
matrice 
privatistica” 
(Tar Sicilia-Palermo, 
24 maggio 2021 n. 2660; 
Cons. Stato, V, 3 febbraio 2015 n. 502; 
di 
diverso 
avviso, Tar Sicilia, Sez. staccata Catania, 5 settembre 2014 n. 2393). 


6. Giudice competente (art. 113 c.p.a.). 
Per 
quanto 
riguarda 
la 
competenza, 
la 
regola 
è 
che, 
nel 
caso 
di 
sentenze 
e 
provvedimenti 
del 
giudice 
amministrativo, 
il 
ricorso 
vada 
proposto 
allo 
stesso 



CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


giudice 
che 
ha 
emesso 
il 
provvedimento 
della 
cui 
ottemperanza 
si 
tratta 
(quindi 
TAr 
o 
Consiglio 
di 
Stato), 
con 
l’avvertenza 
che 
la 
competenza 
è 
del 
tribunale 
amministrativo 
regionale 
anche 
per 
i 
suoi 
provvedimenti 
confermati 
in 
appello 
con 
motivazione 
che 
abbia 
lo 
stesso 
contenuto 
dispositivo 
e 
conformativo 
della 
sentenza 
di 
primo 
grado. 
Si 
applica 
cioè 
il 
criterio 
funzionale 
nel 
senso 
che 
ciascun 
giudice 
conosce 
dell’esecuzione 
dei 
propri 
provvedimenti. 


Tale 
regola 
può presentare 
qualche 
difficoltà 
applicativa 
quante 
volte 
la 
pronuncia 
di 
appello 
sia 
di 
conferma 
con 
diversa 
motivazione: 
qui 
può 
fungere 
da 
guida 
anzitutto il 
tenore 
della 
decisione 
del 
Consiglio di 
Stato, la 
cui 
formulazione 
può segnare 
il 
distacco più o meno profondo dal 
percorso motivazionale 
di 
primo 
grado 
e 
in 
secondo 
luogo 
il 
contenuto 
conformativo 
che 
è 
richiesto alla 
P.A. sulla 
base 
della 
diversa 
motivazione 
adottata, fermo il 
carattere 
meramente 
residuale, secondo la 
giurisprudenza, della 
competenza 
del 
Consiglio di Stato. 

Negli 
altri 
casi 
(sentenze 
e 
provvedimenti 
del 
G.o., dei 
Giudici 
speciali 
e 
lodi) 
il 
ricorso 
si 
propone 
al 
tribunale 
amministrativo 
regionale 
nella 
cui 
circoscrizione 
ha 
sede 
il 
giudice 
che 
ha 
emesso la 
sentenza 
di 
cui 
è 
chiesta 
l'ottemperanza. 
Si 
applica 
cioè 
il 
criterio 
territoriale, 
riferito 
al 
giudice 
che 
ha 
adottato 
il 
provvedimento 
da 
ottemperare 
e 
non 
più 
all’autorità 
che 
ha 
emesso 
il provvedimento impugnato, come avveniva in precedenza. 


7. Procedimento (art. 114 c.p.a.). 
Per quanto attiene 
a 
forme, modi 
e 
termini 
da 
seguire 
e 
rispettare, il 
Codice 
è 
molto più preciso e 
completo rispetto alla 
scarna 
disciplina 
contenuta 
nel 
regolamento 
per 
la 
procedura 
dinanzi 
al 
Consiglio 
di 
Stato, 
r.d. 
17 
agosto 
1907, n. 642 (artt. 89, 90, 91). 


Anzitutto 
non 
è 
più 
necessario 
far 
precedere 
il 
ricorso 
dalla 
notifica 
della 
diffida 
ad 
adempiere, 
eliminata 
per 
semplificare 
e 
accelerare 
il 
procedimento. 
resta 
però 
fermo 
che 
deve 
trattarsi 
pur 
sempre 
di 
un 
caso 
di 
inadempienza 
del-
l’amministrazione, 
che 
si 
considera 
maturata 
al 
decorso 
di 
30 
giorni 
dalla 
pubblicazione 
della 
sentenza 
e 
non 
del 
mero 
dispositivo, 
dovendo 
l’amministrazione 
conoscere 
la 
motivazione 
nella 
sua 
interezza 
per 
potersi 
conformare 
alla 
stessa. 


Il 
ricorso deve 
essere 
proposto entro il 
termine 
di 
prescrizione 
dell’actio 
judicati, 
ossia 
10 
anni 
dal 
passaggio 
in 
giudicato 
della 
sentenza 
da 
ottemperare. 
Trattandosi 
di 
un termine 
di 
prescrizione 
e 
non di 
decadenza 
esso è 
ritenuto 
suscettibile 
di 
interruzione 
anche 
con 
atti 
stragiudiziali 
(Cons. 
Stato, 
Ad. 
Plen., 
4 dicembre 2020 n. 24). 


Il 
ricorso non differisce 
nella 
forma 
da 
quello esperibile 
in via 
ordinaria, 
salvo per quanto riguarda 
l’oggetto della 
domanda 
che 
non è 
l’annullamento 
del 
provvedimento 
impugnato 
(art. 
40, 
comma 
1, 
lett. 
b, 
c.p.a.) 
ma 
ovviamente 
l’ottemperanza 
alla 
decisione 
inadempiuta. Vanno poi 
esplicitate 
tutte 
le 
varie 
domande 
possibili, quali 
si 
ricavano dalla 
elencazione 
dei 
poteri 
del 
giudice 



rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


indicati 
nella 
norma 
in 
questione 
e 
riguardanti 
l’emanazione 
del 
provvedimento 
richiesto 
o 
la 
nomina 
di 
un 
commissario 
preposto 
a 
ciò, 
la 
dichiarazione 
di 
nullità 
del 
provvedimento elusivo o contrario al 
giudicato, la 
condanna 
al 
risarcimento del danno, l’applicazione eventuale dell’astreinte, ecc. 


In 
particolare, 
tenuto 
conto 
del 
fatto 
che, 
per 
il 
principio 
di 
concentrazione, 
il 
giudice 
conosce 
di 
tutte 
le 
questioni 
relative 
all’ottemperanza, comprese 
quelle 
inerenti 
agli 
atti 
del 
commissario 
ad 
acta, 
è 
possibile 
proporre 
nell’ambito 
del 
giudizio 
di 
ottemperanza, 
anche 
in 
unico 
grado, 
l’azione 
di 
condanna 
al 
pagamento di 
somme 
a 
titolo di 
rivalutazione 
e 
interessi 
maturati 
dopo il 
passaggio in giudicato della 
sentenza, nonché 
azione 
di 
risarcimento 
dei 
danni 
connessi 
all’impossibilità 
o comunque 
alla 
mancata 
esecuzione 
in 
forma 
specifica, totale 
o parziale, del 
giudicato o conseguenti 
alla 
sua 
violazione 
o elusione. Tale 
possibilità 
si 
fonda 
sul 
fatto che 
si 
tratta 
di 
azioni 
connesse 
all’azione 
principale 
e 
che 
pur 
attenendo 
a 
diritti 
soggettivi 
(come 
d’altronde 
la 
stessa 
actio 
judicati) 
ben 
sono 
ammissibili 
avendo 
il 
giudice 
dell’ottemperanza 
giurisdizione 
esclusiva 
(art. 133, n. 5, c.p.a.). Non sono invece 
esperibili 
le 
azioni 
risarcitorie 
di 
condanna 
per lesione 
di 
interessi 
legittimi 
che 
sono 
regolate 
dall’art. 
30 
c.p.a.; 
la 
disposizione 
infatti 
che 
le 
consentiva 
(art. 
112, 
comma 
4, 
c.p.a.) 
è 
stata 
soppressa 
dal 
primo 
decreto 
correttivo, 
d.lgs. 
15 
novembre 
2011 
n. 
195 
(art. 
1, 
comma 
1, 
lett. 
cc, 
n. 
2). 
Queste 
vanno perciò proposte con ricorso ordinario in sede di legittimità. 

Nella 
redazione 
del 
ricorso 
occorre 
rispettare 
il 
limite 
dimensionale 
di 


30.000 
caratteri 
(pari 
a 
circa 
15 
pagine) 
fissato 
dal 
d.P.C.S. 
n. 
167/2016. 
Stesso 
limite 
si 
applica 
alla 
memoria 
di 
costituzione 
mentre 
le 
repliche 
non possono 
superare i 10.000 caratteri (pari a circa 5 pagine). 
Il 
ricorso va 
depositato entro il 
termine 
perentorio dimezzato rispetto a 
quello ordinario, ossia 
entro 15 giorni 
dall’ultima 
notifica, trattandosi 
di 
giudizio 
in camera 
di 
consiglio (art. 87, commi 
2 e 
3, c.p.a.), termine 
questo ritenuto 
congruo dalla Corte costituzionale (sent. 10 novembre 1999 n. 427). 


Per 
la 
medesima 
ragione, 
tutti 
i 
termini 
processuali 
successivi 
sono 
dimezzati 
applicandosi 
la 
disciplina 
dettata 
per 
i 
giudizi 
in 
camera 
di 
consiglio 
(perciò, 
30 
gg. 
per 
la 
costituzione, 
20 
gg. 
liberi 
prima 
dell’udienza 
di 
trattazione 
per 
la 
produzione 
di 
documenti, 
15 
gg. 
liberi 
per 
le 
memorie 
e 
10 
per 
le 
repliche). 


unitamente 
al 
ricorso va 
depositato in copia 
autentica 
il 
provvedimento 
di 
cui 
si 
chiede 
l’ottemperanza, 
con 
l’eventuale 
prova 
del 
suo 
passaggio 
in 
giudicato a 
pena 
di 
inammissibilità 
(v. TAr Veneto, I, 23 gennaio 2020 n. 82; 
Cons. Stato, V, 11 dicembre 2015 n. 5645). 


L’udienza 
di 
trattazione 
in 
camera 
di 
consiglio 
è 
fissata 
di 
ufficio 
alla 
prima 
udienza 
utile 
successiva 
al 
trentesimo giorno decorrente 
dalla 
scadenza 
del 
termine 
di 
costituzione 
delle 
parti 
intimate. 
Nella 
camera 
di 
consiglio 
sono 
sentiti 
i 
difensori 
che 
ne 
fanno 
richiesta. 
Peraltro, 
la 
trattazione 
in 
pubblica 
udienza 
(invece 
che 
in camera 
di 
consiglio) non costituisce 
motivo di 
nullità 



CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


della 
decisione 
e 
non esonera 
dal 
rispetto delle 
norme 
sul 
dimezzamento dei 
termini 
né 
costituisce 
errore 
scusabile 
ai 
fini 
della 
tempestiva 
proposizione 
del giudizio di appello (Cons. Stato, Ad. Plen., 23 dicembre 2011 n. 10). 


8. La decisione. 
Il 
ricorso è 
deciso con sentenza 
in forma 
semplificata, nella 
quale 
cioè 
la 
motivazione 
può consistere 
in un sintetico riferimento al 
punto di 
fatto o di 
diritto ritenuto risolutivo ovvero, se 
del 
caso, ad un precedente 
conforme 
(v. 
art. 
74 
c.p.a.). 
Se 
però 
oggetto 
di 
esecuzione 
è 
una 
ordinanza, 
il 
giudice 
decide 
con ordinanza. 


Il giudice se accoglie il ricorso: 


a) 
ordina 
l'ottemperanza, 
prescrivendo 
le 
relative 
modalità, 
anche 
mediante 
la 
determinazione 
del 
contenuto del 
provvedimento amministrativo o 
l'emanazione dello stesso in luogo dell'amministrazione; 
b) 
dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del giudicato; 
c) 
nel 
caso di 
ottemperanza 
di 
sentenze 
non passate 
in giudicato o di 
altri 
provvedimenti, 
determina 
le 
modalità 
esecutive, 
considerando 
inefficaci 
gli 
atti 
emessi 
in 
violazione 
o 
elusione 
e 
provvede 
di 
conseguenza, 
tenendo 
conto 
degli effetti che ne derivano; 
d) 
nomina, ove occorra, un commissario ad acta; 
e) 
salvo che 
ciò sia 
manifestamente 
iniquo, e 
se 
non sussistono altre 
ragioni 
ostative, fissa, su richiesta 
di 
parte, la 
somma 
di 
denaro dovuta 
dal 
resistente 
per ogni 
violazione 
o inosservanza 
successiva, ovvero per ogni 
ritardo 
nell'esecuzione 
del 
giudicato; 
tale 
statuizione 
costituisce 
titolo esecutivo. Nei 
giudizi 
di 
ottemperanza 
aventi 
ad oggetto il 
pagamento di 
somme 
di 
denaro, 
la 
penalità 
di 
mora 
decorre 
dal 
giorno 
della 
comunicazione 
o 
notificazione 
dell'ordine di pagamento disposto nella sentenza di ottemperanza. 
Come 
è 
evidente, le 
prime 
due 
sono le 
decisioni 
più invasive 
della 
sfera 
della 
P.A. inadempiente, in quanto arrivano a 
comportare 
la 
sostituzione 
del 
giudice 
alla 
stessa 
e 
financo 
a 
dichiarare 
la 
nullità 
di 
suoi 
provvedimenti 
elusivi 


o emessi 
in violazione 
del 
giudicato; 
di 
norma, peraltro, il 
giudice 
si 
limita, 
nel 
caso 
di 
inerzia, 
a 
incaricare 
un 
commissario 
di 
dare 
esecuzione 
in 
concreto 
alla sentenza, misura questa altrettanto invasiva. 
Nel 
caso di 
provvedimenti 
esecutivi 
non passati 
in giudicato, il 
giudice 
deve 
avere 
cura 
di 
determinare 
le 
modalità 
di 
esecuzione 
in modo che 
le 
misure 
attuative 
siano reversibili 
se 
il 
provvedimento verrà 
modificato nel 
prosieguo, 
considerando inefficaci (e non annullando) gli atti elusivi o violativi. 


Nei 
casi 
più gravi 
il 
giudice 
-su richiesta 
di 
parte 
-può arrivare 
ad applicare 
la 
c.d. astreinte, ossia 
può condannare 
l’amministrazione 
riottosa 
al 
pagamento 
di 
una 
somma 
di 
danaro 
aggiuntiva 
per 
ogni 
ulteriore 
ritardo 
nell’adempiere 
(v. sopra, sub 
e). Si 
tratta 
di 
uno strumento di 
coercizione 
indiretta 
derivato 
dal 
diritto 
francese 
e 
già 
recepito 
nel 
codice 
di 
procedura 
civile 



rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


per gli 
obblighi 
di 
fare 
o non fare 
(art. 624-bis 
c.p.c.). L’applicazione 
di 
tale 
misura 
è 
mitigata 
dal 
fatto che 
essa 
non deve 
apparire 
manifestamente 
iniqua 
né 
essere 
impedita 
da 
altre 
ragioni 
ostative 
(quali 
il 
dipendere 
l’esecuzione 
dall’opera 
di 
terzi 
o 
la 
prestazione 
abbia 
carattere 
strettamente 
personale). 
Essa 
peraltro appare 
poco compatibile 
con la 
contemporanea 
nomina 
del 
commissario 
ad acta. 


Il 
c.p.a. 
non 
fornisce 
i 
criteri 
di 
determinazione 
dell’importo 
da 
applicare, 
se 
non in negativo (nel 
senso che 
la 
penalità 
non è 
iniqua 
se 
commisurata 
agli 
interessi 
legali), per cui 
si 
può ricorrere 
a 
quelli 
generici 
indicati 
dalla 
norma 
processualistica 
civile 
(valore 
della 
controversia, 
natura 
della 
prestazione, 
danno subito o prevedibile, ogni altra circostanza utile). 


9. il commissario ad acta. 
La 
figura 
del 
commissario chiamato dal 
giudice 
ad ottemperare 
merita 
di 
essere 
approfondita 
sotto 
alcuni 
aspetti 
(natura 
propria 
e 
degli 
atti 
adottati, 
loro impugnabilità). 


Sintetizzando un lungo e 
controverso dibattito dottrinale 
e 
giurisprudenziale, 
possono 
ritenersi 
per 
acquisiti 
i 
seguenti 
risultati, 
riassunti 
da 
una 
recente 
pronunzia del Cons. Stato (Ad. Plen., 31 maggio 2021 n. 8): 


-il 
commissario ad acta 
non è 
un organo straordinario dell’amministrazione, 
come 
talora 
ritenuto anche 
in giurisprudenza, ma 
un ausiliario del 
giudice, 
come ora espressamente definito dall’art. 21 c.p.a.; 
-gli 
atti 
adottati 
dal 
commissario sono riferibili 
al 
giudice 
che 
l’ha 
nominato 
e 
quindi 
non sono propriamente 
atti 
amministrativi 
e 
non sono di 
norma 
impugnabili 
in 
sede 
di 
legittimità, 
a 
meno 
che 
l’attività 
di 
esecuzione 
non 
consentisse 
margini 
di 
discrezionalità 
amministrativa 
(come 
nel 
caso di 
interessi 
pretensivi); 
-il 
potere 
dell'amministrazione 
e 
quello 
del 
commissario 
ad 
acta 
sono 
poteri 
concorrenti, di 
modo che 
ciascuno dei 
due 
soggetti 
può dare 
attuazione 
a 
quanto 
prescritto 
dalla 
sentenza 
passata 
in 
giudicato, 
o 
provvisoriamente 
esecutiva 
e 
non 
sospesa, 
o 
dall'ordinanza 
cautelare 
fintanto 
che 
l'altro 
soggetto 
non abbia concretamente provveduto; 


-anche 
dopo 
la 
nomina 
e 
l’insediamento 
del 
commissario 
l’amministrazione 
non 
perde 
il 
potere 
di 
provvedere 
ad 
eseguire 
la 
sentenza: 
pertanto 
gli 
atti 
emanati 
dall'amministrazione, 
pur 
in 
presenza 
della 
nomina 
e 
dell'insediamento 
del 
commissario 
ad 
acta, 
non 
possono 
essere 
considerati 
di 
per 
sé 
affetti 
da 
nullità, 
in 
quanto 
gli 
stessi 
sono 
adottati 
da 
un 
soggetto 
nella 
pienezza 
dei 
propri 
poteri, 
a 
nulla 
rilevando 
a 
tal 
fine 
la 
nomina 
o 
l'insediamento 
del 
commissario; 


-gli 
atti 
adottati 
dal 
commissario ad acta 
non sono annullabili 
dall'amministrazione 
nell'esercizio 
del 
proprio 
potere 
di 
autotutela, 
né 
sono 
da 
questa 
impugnabili 
davanti 
al 
giudice 
della 
cognizione, ma 
sono esclusivamente 
reclamabili, 
a 
seconda 
dei 
casi, 
innanzi 
al 
giudice 
dell'ottemperanza, 
ai 
sensi 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


dell'art. 114, comma 
6, c.p.a., ovvero innanzi 
al 
giudice 
del 
giudizio sul 
silenzio, 
ai sensi dell'art. 117, comma 4, c.p.a.; 


-gli 
atti 
adottati 
dal 
commissario 
ad 
acta 
dopo 
che 
l'amministrazione 
abbia 
già 
provveduto a 
dare 
attuazione 
alla 
decisione, ovvero quelli 
che 
l'amministrazione 
abbia 
adottato dopo che 
il 
commissario ad acta 
abbia 
provveduto, 
sono da 
considerare 
inefficaci 
e, ove 
necessario, la 
loro rimozione 
può 
essere 
richiesta 
da 
chi 
vi 
abbia 
interesse, a 
seconda 
dei 
casi, al 
giudice 
dell'ottemperanza 
o al giudice del giudizio sul silenzio; 


-gli 
atti 
emessi 
dal 
commissario 
come 
organo 
ausiliario 
sono 
reclamabili 
dalle 
parti 
avanti 
al 
giudice 
dell’ottemperanza 
con atto depositato, previa 
notifica 
ai 
controinteressati, nel 
termine 
di 
sessanta 
giorni 
(art. 114, c. 6, c.p.a.). 


Invece 
gli 
atti 
emanati 
dal 
giudice 
dell’ottemperanza 
o dal 
suo ausiliario 
sono impugnabili 
dai 
terzi 
estranei 
al 
giudicato ai 
sensi 
dell’articolo 29 c.p.a., 
con il rito ordinario (art. 114, c. 6, c.p.a.). 

Peraltro la 
nomina 
del 
commissario ad acta 
può anche 
essere 
anticipata 
già 
nella 
sentenza 
in sede 
di 
cognizione 
“con effetto dalla scadenza di 
un termine 
assegnato per l’ottemperanza” (art. 34, c. 1, lett. e, c.p.a.). 


Anche 
il 
commissario 
può 
chiedere 
chiarimenti 
in 
ordine 
alle 
modalità 
di ottemperanza (art. 114, comma 7, c.p.a.). 


10. impugnazioni. 
Contro 
i 
provvedimenti 
giurisdizionali 
del 
giudice 
dell’ottemperanza 
sono 
esperibili 
tutti 
i 
normali 
mezzi 
di 
impugnazione, a 
cominciare 
dall’appello, a 
seguire 
con la 
revocazione, l’opposizione 
di 
terzo e 
il 
ricorso per Cassazione. 


Il 
codice 
infatti 
si 
limita 
a 
richiamare 
per le 
impugnazioni 
le 
disposizioni 
relative 
al 
giudizio di 
ottemperanza 
di 
primo grado e 
per i 
termini 
quelle 
del 
giudizio ordinario, ossia l’art. 92 c.p.a. (art. 114, commi 8 e 9). 


Si 
deve 
pertanto ritenere 
che 
l’appello è 
sempre 
proponibile 
(in passato 
lo si 
escludeva 
quante 
volte 
la 
sentenza 
si 
fosse 
limitata 
a 
dettare 
misure 
di 
mera 
esecuzione). Naturalmente 
se 
la 
sentenza 
di 
ottemperanza 
è 
emessa 
dal 
Consiglio 
di 
Stato 
è 
ammissibile 
solo 
il 
ricorso 
per 
Cassazione 
per 
motivi 
inerenti 
i 
limiti 
esterni 
della 
giurisdizione, oltre 
ai 
suddetti 
due 
mezzi 
di 
impugnazione 
straordinari. Si 
ritiene 
esperibile 
in ogni 
caso anche 
il 
regolamento 
preventivo di giurisdizione (Cass. SS.uu., 9 marzo 1981 n. 1299). 


In particolare, la 
Cassazione 
ha 
ritenuto ammissibile 
il 
ricorso contro la 
sentenza 
che 
neghi 
l’ammissibilità 
del 
giudizio 
di 
ottemperanza 
(Cass., 
SS.uu., 20 aprile 2021 n. 10355). 


Il 
termine 
di 
proposizione 
dell’impugnazione 
è 
quello ordinario mentre 
tutti 
gli 
altri 
termini, a 
cominciare 
da 
quello per il 
deposito del 
gravame, sono 
dimezzati in forza dell’art. 87, comma 3, c.p.a. 


da 
notare 
infine 
che 
la 
esecuzione 
spontanea 
della 
sentenza 
esecutiva 
del 
Tar da 
parte 
dell’amministrazione 
soccombente 
non comporta 
di 
per sé, in di



rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


fetto di 
altri 
indizi, l’acquiescenza 
alla 
stessa 
e 
la 
perdita 
del 
potere 
di 
impugnazione, 
trattandosi 
di 
atto 
giuridicamente 
dovuto 
(Cons. 
Stato, 
VI, 
1 
febbraio 
2002 n. 564). 


11. Titolo esecutivo (art. 115 c.p.a.). 
Per 
raggiugere 
il 
loro 
scopo, 
quante 
volte 
non 
siano 
autoesecutive, 
le 
sentenze 
del 
giudice 
di 
ottemperanza 
-in 
omaggio 
al 
principio 
della 
effettività 
della 
tutela 
giurisdizionale 
-devono 
poter 
essere 
portate 
ad 
esecuzione 
forzata, 
come 
quelle 
del 
G.o. A 
tal 
fine 
è 
espressamente 
previsto che 
siano spedite 
in 
forma 
esecutiva 
su richiesta 
di 
parte 
e 
che 
costituiscano titolo per l’iscrizione 
di ipoteca (art. 115, commi 1 e 2, c.p.a.). 


Si 
tratta 
di 
una 
esecuzione 
forzata 
che, 
nel 
caso 
di 
crediti 
pecuniari, 
si 
aggiunge 
a 
quella 
che 
il 
creditore 
avrebbe 
potuto già 
esperire 
in forza 
del 
giudicato 
civile, 
senza 
ricorrere 
al 
giudizio 
di 
ottemperanza. 
Allora 
ci 
si 
può 
domandare, 
perché 
promuovere 
anche 
tale 
procedimento? 
La 
risposta 
sta 
nelle 
difficoltà 
pratiche 
che 
incontra 
il 
creditore 
stante 
la 
normale 
impignorabilità 
dei 
beni 
pubblici. A 
questo si 
aggiunge 
che 
il 
creditore 
non può procedere 
al-
l’esecuzione 
forzata 
nei 
confronti 
delle 
amministrazioni 
pubbliche 
né 
a 
notificare 
il 
precetto 
prima 
che 
siano 
decorsi 
120 
gg. 
dalla 
notifica 
del 
titolo 
esecutivo (art. 14 l. n. 669/1996). 


Quando 
poi 
l’esecuzione 
necessita 
di 
una 
ulteriore 
attività 
cognitoria 
da 
parte 
della 
P.A., 
il 
ricorso 
al 
giudizio 
di 
ottemperanza 
diventa 
una 
necessità, 
tanto 
più 
che 
il 
giudice 
dell’ottemperanza 
ha 
il 
potere 
di 
integrare 
il 
giudicato 
amministrativo 
(non 
invece 
quello 
del 
G.o.: 
Cons. 
Stato, 
V, 
30 
ottobre 
2015 
n. 
2690). 


Tuttavia, esecuzione 
forzata 
civile 
e 
giudizio di 
ottemperanza 
non sono 
del 
tutto assimilabili 
stante 
la 
surricordata 
natura 
mista 
o polisemica 
di 
quest’ultimo 
(al 
riguardo, 
v. 
Cons. 
Stato, 
IV, 
14 
settembre 
2021 
n. 
6290, 
in 
materia 
di 
rilascio della 
attestazione 
del 
passaggio in giudicato di 
sentenza 
del 
G.o. 
non registrata; 
Cons. Stato, IV, 2 marzo 2021 n. 1765 che 
ha 
rimesso la 
questione 
della 
imposta 
di 
registro alla 
Corte 
costituzionale). Anche 
la 
Corte 
costituzionale 
ha 
sottolineato che 
“sono differenti 
e, quindi, non comparabili 
le 
azioni 
esecutive 
esperibili 
davanti 
al 
giudice 
ordinario secondo le 
norme 
di 
procedura civile, trattandosi 
di 
sentenze 
o di 
provvedimenti 
esecutivi 
che 
non 
richiedono 
l'esame 
di 
merito 
proprio 
del 
giudizio 
di 
ottemperanza” 
(Corte 
cost., 8 febbraio 2006 n. 44). 


12. La riedizione del potere amministrativo. 
Il 
tema 
dell’ottemperanza 
è 
strettamente 
connesso, come 
detto all’inizio, 
con quello della 
riedizione 
del 
potere 
amministrativo dopo la 
sentenza 
di 
annullamento. 


Infatti, quante 
volte 
la 
pronuncia 
di 
annullamento non sia 
autoesecutiva, 
nel 
senso 
che 
l’effetto 
demolitorio 
non 
è 
sufficiente 
ad 
assicurare 
il 
bene 
della 



CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


vita 
perseguito 
dal 
ricorrente, 
è 
necessario 
che 
l’amministrazione, 
che 
conserva 
il 
potere 
di 
amministrazione 
attiva 
salvo 
i 
limiti 
derivanti 
dal 
giudicato 
stesso, 
riprenda 
in mano la 
pratica 
e 
provveda 
in merito (v. Cons. Stato, Ad. Plen., 15 
gennaio 2013 n. 4). 


Al 
fine 
però 
di 
evitare 
una 
frammentazione 
di 
provvedimenti 
sfavorevoli 
senza 
fine, 
la 
giurisprudenza, 
con 
l’obiettivo 
di 
perimetrare 
la 
consumazione 
del 
potere 
amministrativo, 
ha 
individuato 
un 
limite 
alla 
attività 
valutativa 
del-
l’amministrazione 
dopo 
una 
sentenza 
di 
annullamento 
di 
un 
diniego, 
consistente 
nel 
c.d. 
one 
shot 
temperato 
secondo 
cui 
l’amministrazione 
nella 
riedizione 
del 
potere 
ha 
il 
dovere 
“di 
esaminare 
l’affare 
nella 
sua 
interezza, 
sollevando, 
una 
volta 
per 
sempre, 
ogni 
questione 
ritenuta 
rilevante, 
senza 
potere 
successivamente 
tornare 
a 
decidere 
sfavorevolmente 
neppure 
in 
relazione 
a 
profili 
non 
ancora 
esaminati” 
(Cons. 
Stato, 
III, 
2 
agosto 
2021 
n. 
5405; 
III, 
2 
febbraio 
2021 


n. 
946; 
IV, 
15 
maggio 
2020 
n. 
3095; 
III, 
14 
febbraio 
2017 
n. 
660). 
Anche 
tale 
orientamento ha 
ricevuto un avallo in sede 
legislativa 
con la 
modifica 
dell’art. 10-bis 
legge 
7 agosto 1990 n. 241, secondo cui 
“in caso di 
annullamento 
in 
giudizio 
del 
provvedimento 
così 
adottato, 
nell'esercitare 
nuovamente 
il 
suo potere 
l'amministrazione 
non può addurre 
per 
la prima volta 
motivi 
ostativi 
già 
emergenti 
dall'istruttoria 
del 
provvedimento 
annullato” 
(d.l. 
16 
luglio 
2020 
n. 
76, 
convertito, 
con 
modificazioni, 
dalla 
L. 
11 
settembre 
2020, 


n. 120, art. 12, comma 1, lett. e). 
Ciò posto, si possono verificare le seguenti evenienze: 
1) 
l’amministrazione 
rimane 
inerte. La 
parte 
può ricorrere 
al 
giudizio di 
ottemperanza 
o al 
giudizio avverso il 
silenzio ai 
sensi 
dell’art. 117 c.p.a., disponendo 
tale 
norma 
che 
“il 
giudice 
conosce 
di 
tutte 
le 
questioni 
relative 
all’esatta 
adozione 
del 
provvedimento 
richiesto, 
ivi 
comprese 
quelle 
inerenti 
agli atti del commissario” (comma 4). 
2) 
l’amministrazione 
adotta 
un provvedimento ancora 
sfavorevole. Qui 
possono darsi 
due 
casi 
e 
cioè 
che 
questo sia 
elusivo o in violazione 
del 
giudicato 
e 
allora 
la 
parte 
interessata 
deve 
adire 
il 
giudice 
dell’ottemperanza, 
unico 
competente 
a 
dichiararne 
la 
nullità, 
ai 
sensi 
dell’art. 
21-septies, 
legge 
7 
agosto 
1990 n. 241 e 
dell’art. 114, comma 
4, lett. b) 
c.p.a.; 
ovvero che 
il 
nuovo provvedimento 
si 
muova 
negli 
spazi 
non coperti 
dal 
giudicato (si 
pensi 
ad un annullamento 
per 
vizi 
formali, 
in 
relazione 
ad 
attività 
amministrativa 
non 
vincolata) 
nel 
qual 
caso 
è 
necessario 
impugnarlo 
in 
via 
ordinaria 
(Cons. 
Stato, 
VI, 15 novembre 
2010 n. 8053). Se 
l’annullamento per motivi 
formali 
invece 
fosse 
intervenuto 
in 
relazione 
ad 
attività 
vincolata, 
opererebbe 
l’art. 
21-octies, 
l. n. 241/1990 e 
si 
ricadrebbe 
nel 
primo caso, perché 
il 
giudice 
deve 
aver valutato 
la fondatezza nel merito della istanza disattesa. 
Ma 
può 
anche 
verificarsi 
il 
caso 
che 
l’amministrazione 
non 
sia 
più 
in 
grado 
di 
adottare 
il 
provvedimento 
richiesto 
per 
intervenuti 
mutamenti 
di 
fatto 


o 
di 
diritto 
(si 
pensi 
al 
caso 
che 
nel 
frattempo 
la 
legge 
sia 
cambiata 
e 
vieti 
l’at

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


tività 
o l’area 
è 
stata 
saturata 
o sono intervenuti 
nuovi 
vincoli 
paesaggistici 
o 
ambientali 
o 
il 
ricorrente 
sia 
stato 
nel 
frattempo 
collocato 
in 
pensione). 
In 
questa 
ipotesi 
lo 
strumento 
utilizzabile 
è 
la 
richiesta 
di 
risarcimento 
danni 
per 
equivalente 
da 
azionarsi 
con il 
giudizio di 
ottemperanza 
(art. 112, comma 
3, 
c.p.a.), 
senza 
possibilità 
per 
l’amministrazione 
di 
fornire 
prova 
liberatoria 
circa 
la 
mancanza 
di 
una 
propria 
colpa, trattandosi 
di 
una 
responsabilità 
di 
tipo oggettivo 
(v. Cons. Stato, V, 20 luglio 2021 n. 5454, nel 
caso di 
prossimo pensionamento; 
Cons. 
Stato, 
Ad. 
Plen., 
12 
maggio 
2017 
n. 
2; 
in 
senso 
parzialmente difforme, v. Cons. Stato, V, 31 maggio 2021 n. 4182). 


Al 
riguardo, 
per 
giurisprudenza 
costante, 
è 
“principio 
generale 
per 
cui 
l'esecuzione 
del 
giudicato 
può 
trovare 
limiti 
solo 
nelle 
sopravvenienze 
di 
fatto 
e 
diritto antecedenti 
alla notificazione 
della sentenza divenuta irrevocabile; 
sicché 
la sopravvenienza è 
strutturalmente 
irrilevante 
sulle 
situazioni 
giuridiche 
istantanee, 
mentre 
incide 
su 
quelle 
durevoli 
nel 
solo 
tratto 
dell'interesse 
che 
si 
svolge 
successivamente 
al 
giudicato, 
determinando 
non 
un 
conflitto 
ma 
una 
successione 
cronologica 
di 
regole 
che 
disciplinano 
la 
situazione 
giuridica 
medesima; anche 
per 
le 
situazioni 
istantanee, però, la retroattività dell'esecuzione 
del 
giudicato 
trova, 
peraltro, 
un 
limite 
intrinseco 
e 
ineliminabile 
(che 
è 
logico e 
pratico, ancor 
prima che 
giuridico), nel 
sopravvenuto mutamento 
della 
realtà 
-fattuale 
o 
giuridica 
-tale 
da 
non 
consentire 
l'integrale 
ripristino 
dello status 
quo ante” 
(Cons. Stato, III, 6 maggio 2021 n. 3529; 
Cons. Stato, 
Ad. Plen., 9 giugno 2016 n. 11). 


Tali 
evenienze 
e 
la 
complessità 
delle 
relative 
valutazioni 
inducono 
sovente 
gli 
interessati 
a 
promuovere 
un 
doppio 
ricorso, 
salvo 
la 
possibilità 
di 
convertire 
quello 
di 
ottemperanza 
in 
ricorso 
di 
legittimità 
(e 
non 
viceversa) 
ove 
ne 
sussistano i 
presupposti 
di 
legge 
(v. Cons. Stato, Ad. Plen., 15 gennaio 
2013 n. 2). 


In sintesi, resta 
confermata 
la 
rilevanza 
centrale 
del 
giudizio di 
ottemperanza 
nel 
quadro 
dell’ordinamento 
processuale 
amministrativo, 
in 
ossequio 
dei 
principi 
costituzionali 
(artt. 
97 
e 
111 
Cost.) 
e 
di 
quelli 
dell’unione 
europea 
(artt. 
19 
TuE 
e 
280 
TFuE) 
e 
della 
Cedu. 
Infatti 
secondo 
la 
giurisprudenza 
della 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo, il 
diritto al 
processo di 
cui 
all’art. 6 
della 
Convenzione 
europea 
dei 
diritti 
comprende, in quanto diritto ad un giudice, 
il 
diritto all’esecuzione 
del 
giudicato, che 
va 
perciò riguardata 
come 
una 
parte 
integrante 
del 
processo 
ai 
sensi 
dell’art. 
6 
(sent., 
19 
marzo 
1997, 
Hornsby 


v. 
Grecia; 
18 
novembre 
2004, 
Zazanis 
v. 
Grecia) 
e 
l’esecuzione 
non 
può 
essere 
indebitamente ritardata (sent., 28 luglio 1999, immobiliare Saffi v. italia). 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


Intorno all’attuazione dell’art. 111 Cost. nelle 
questioni attinenti o inerenti alla giurisdizione. Proposte 
ricostruttive in ordine all’ammissibilità del ricorso in 
Cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato 


Michele Gerardo, Adolfo Mutarelli* 


Sommario: 
1. 
Profili 
generali 
-2. 
Perimetro 
di 
ammissibilità 
del 
ricorso 
per 
Cassazione 


-3. il 
limite 
dei 
soli 
motivi 
inerenti 
(attinenti) alla giurisdizione 
-4. motivi 
inerenti 
alla giurisdizione 
e 
possibili 
antinomie 
costituzionali 
-5. Possibili 
molestie 
iure 
condito (rectius: a 
Costituzione 
invariata) all’assetto disegnato dalla Corte 
Costituzionale 
-6. molestie 
de 
iure 
condendo (rectius: innovando la disciplina costituzionale): unità della giurisizione. 
1. Profili generali. 
L’ambito del 
ricorso per cassazione 
avverso le 
sentenze 
del 
Consiglio di 
Stato 
ha 
determinato 
nell’ultimo 
ventennio 
crescenti 
contrasti 
e 
bella 
intestina 
tra 
i 
massimi 
plessi 
della 
giurisdizione 
(in particolare 
tra 
Corte 
di 
cassazione 
e 
Consiglio 
di 
Stato) 
con 
interventi 
della 
Corte 
Costituzionale 
conseguenti 
agli 
stimoli, in base alle provenienze, delle sue componenti. 


La 
Corte 
di 
Cassazione, spesso, in materie 
considerate 
rilevanti 
istituzionalmente 
-con margini 
non sempre 
nitidi 
con riferimento alla 
giurisdizione 
ha 
talora 
dilatato 
l’ambito 
della 
materia 
della 
giurisdizione 
dell’A.G.o., 
a 
scapito 
della 
giurisdizione 
amministrativa, con l’intuibile 
effetto di 
continuare 
a 
custodire 
quella 
materia 
nel 
plesso del 
giudice 
ordinario. da 
parte 
sua 
il 
Consiglio 
di 
Stato 
è, 
a 
sua 
volta, 
intervenuto 
sulle 
medesime 
materie 
dilatando 
l’ambito della 
giurisdizione 
amministrativa 
per non consentire 
lo spoglio del 
proprio plesso 
in parte qua. 

Tali 
tensioni 
non 
sono 
sfuggite 
in 
dottrina 
che 
ha 
di 
recente 
osservato 
come 
possa 
ritenersi 
in 
atto 
una 
sorta 
di 
guerra 
delle 
giurisdizioni, 
evidenziando 
che 
la 
“situazione 
italiana attuale 
vede 
una coesistenza forzata delle 
Sezioni 
Unite 
della Corte 
di 
Cassazione 
e 
del 
Consiglio di 
Stato, una situazione 
quasi 
da ‘separati 
in casa’” 
(1). Nel 
dichiarato (auspicabile) obiettivo 


(*) Adolfo Mutarelli, già avvocato dello Stato. 
Michele Gerardo, avvocato dello Stato. 


Le considerazioni espresse nel presente scritto impegnano esclusivamente gli 
autori. 


(1) B. SASSANI, L’idea di 
giurisdizione 
nella guerra delle 
giurisdizioni. Considerazioni 
politicamente 
scorrette, in Judicium, 19 maggio 2021, evidenzia, a 
proposito della 
giurisdizione 
esclusiva 
del 
G.A. per blocchi 
di 
materie 
del 
decreto legislativo n. 80 del 
1998, che 
“la nuova giurisdizione 
esclusiva 
fu sabotata immediatamente 
dalla Corte 
Costituzionale 
con la sentenza 292 del 
2000 che 
dichiarò l’incostituzionalità 
dell’art. 33, quello dei 
pubblici 
servizi 
(sotto il 
profilo dell’eccesso di 
delega, poi 
rimediato 
da un intervento legislativo). ma, al 
di 
là dell’ufficialità istituzionale, fa giustizia ai 
fatti 
limitarsi 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


di 
realizzare 
una 
armonica 
coesistenza 
tra 
giurisdizioni 
si 
è 
così 
proposta 
la 
creazione 
di 
un organo misto di 
composizione 
dei 
conflitti: 
“in questo poco 
edificante 
scenario, è 
davvero un peccato capitale 
auspicare 
che 
prima o poi 
si 
pensi 
ad una blanda applicazione 
della logica che 
presiede 
al 
sistema costituzionale 
tedesco, cioè 
ad integrare 
i 
collegi 
delle 
Sezioni 
Unite 
con magistrati 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
per 
costituire 
così 
un 
giudice 
dei 
conflitti 
di 
giurisdizione 
a composizione 
mista? Non se 
ne 
farà nulla, ovviamente: piace 
disputare 
agli 
accademici 
su 
(talora 
fantomatiche) 
questioni 
di 
principio. 
ancor 
più, 
mi 
sembra, 
piace 
disputare 
ai 
giudici 
supremi, 
con 
la 
differenza 
che, 
dietro 
le 
questioni 
di 
principio, 
si 
profilano 
gli 
assetti 
di 
potere 
dei 
relativi 
corpi e le missioni di cui si ritiene questi siano stati investiti” 
(2). 

di 
qui 
la 
legittimità 
della 
riferita 
proposta, che 
mira 
alla 
creazione 
di 
una 
sorta 
di 
stanza 
di 
compensazione 
giurisdizionale 
cui 
prendano parte 
componenti 
dei 
plessi 
coinvolti 
così 
come 
di 
ogni 
altro tentativo ricostruttivo e/o innovativo 
che 
tenda 
a 
depotenziare 
le 
tensioni 
in 
atto 
che, 
come 
è 
evidente, 
costituiscono 
il 
frutto 
avvelenato 
dei 
definiti 
margini 
(motivi 
attinenti 
alla 
giurisdizione) 
(3) in cui 
è 
confinato il 
ricorso per cassazione 
avverso le 
sentenze 
del Consiglio di Stato. 

Nella 
riferita 
prospettiva 
è, 
infatti, 
di 
intuitiva 
evidenza 
l’osservazione 
che 
lo 
status 
di 
parti 
belligeranti 
verrebbe 
del 
tutto 
meno 
se, 
di 
contro, 
venisse 
ammessa 
tout 
court 
la 
ricorribilità 
per violazione 
di 
legge 
avverso le 
sentenze 
del 
Consiglio di 
Stato (e 
della 
Corte 
dei 
Conti) ovvero ampliata 
la 
possibilità 
del ricorso per cassazione oltre i “motivi attinenti la giurisdizione”. 


Il 
condivisibile 
tentativo 
di 
cui 
farsi 
carico 
è 
dunque 
quello 
di 
individuare 
una possibile terra di mezzo condivisa, meglio se a Costituzione invariata. 


2. Perimetro di ammissibilità del ricorso per Cassazione. 
L’art. 111, ottavo comma, Cost., (pleonasticamente 
poi 
confermato dal-
l’art. 110, d.Lvo 2 luglio 2010, n. 104, codice 
processo amministrativo) secondo 
cui 
“Contro 
le 
decisioni 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
[…] 
il 
ricorso 
in 


a parlare 
di 
Corte 
costituzionale? Forse 
no, se 
andiamo a leggere 
(e 
qui 
abbiamo un’altra chiave 
per 
guardare 
alle 
vicende 
ultime) 
la 
composizione 
di 
quella 
Corte 
costituzionale 
-presidente 
ruperto; 
estensore 
Bile 
-troviamo che 
sotto la veste 
della Corte 
costituzionale 
aveva operato di 
fatto la Corte 
di 
cassazione, 
perché 
sia il 
giudice 
ruperto che 
il 
giudice 
Bile 
provenivano dai 
ranghi 
della Cassazione, e 
la 
lettura tra le 
righe 
della sentenza presenta i 
topoi 
tipici 
delle 
Sezioni 
Unite 
di 
quegli 
anni, miranti 
alla 
riduzione 
dell’ambito della giurisdizione 
esclusiva (ancorché 
il 
tutto fu rivestito poi 
del 
motivo formale 
dell’eccesso di delega). Corte di cassazione in salsa Consulta”. 


(2) Così 
ancora, B. SASSANI, L’idea di 
giurisdizione 
nella guerra delle 
giurisdizioni. Considerazioni 
politicamente scorrette, cit. 
(3) Sulla 
problematica: 
A.M. SANduLLI, manuale 
di 
diritto amministrativo, vol. II, XV 
edizione, 
Jovene, 
pp. 
1511-1514; 
V. 
CAIANIELLo, 
manuale 
di 
diritto 
processuale 
amministrativo, 
II 
edizione, 
uTET, 
1994, 
pp. 
299-301; 
A. 
TrAVI, 
Lezioni 
di 
giustizia 
amministrativa, 
XII 
edizione, 
Giappichelli, 
2016, pp. 344-346; 
C.E. GALLo, manuale 
di 
giustizia amministrativa, IX 
edizione, Giappichelli, 2018, 
pp. 357-359. 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


Cassazione 
è 
ammesso 
per 
i 
soli 
motivi 
inerenti 
alla 
giurisdizione” 
si 
presenta 
in linea 
di 
continuità 
rispetto alla 
pregressa 
disciplina 
della 
materia. In particolare, 
l’art. 48 r.d. 26 giugno 1924, n. 1054 (T.u. delle 
leggi 
sul 
Consiglio 
di 
Stato) sanciva 
espressamente 
che 
“Le 
decisioni 
pronunziate 
in sede 
giurisdizionale 
possono, agli 
effetti 
della L. 31 marzo 1877, n. 3761, essere 
impugnate 
con ricorso per 
cassazione. Tale 
ricorso tuttavia è 
proponibile 
soltanto 
per 
assoluto 
difetto 
di 
giurisdizione 
del 
Consiglio 
di 
Stato”; 
così 
pure 
l’art. 
36 


L. 
6 
dicembre 
1971, 
n. 
1034 
(Istituzione 
dei 
tribunali 
amministrativi 
regionali) 
secondo 
cui 
“Contro 
le 
decisioni 
pronunziate 
dal 
Consiglio 
di 
Stato 
in 
secondo 
grado sono ammessi 
[…] il 
ricorso in cassazione 
per 
motivi 
inerenti 
alla giurisdizione”. 
In 
senso 
del 
tutto 
coerente 
è 
stato, 
pertanto, 
interpretato 
l’art. 
362, 
comma 
1, c.p.c. per il 
quale 
“Possono essere 
impugnate 
con ricorso per 
cassazione, 
nel 
termine 
di 
cui 
all'articolo 
325 
secondo 
comma, 
le 
decisioni 
in 
grado 
di 
appello o in unico grado di 
un giudice 
speciale, per 
motivi 
attinenti 
alla giurisdizione 
del 
giudice 
stesso” 
(4). 
Nessuna 
differenza 
disciplinatrice 
è 
stata 
infatti 
colta 
nell’utilizzo dei 
diversi 
sintagmi 
“inerenti”o “attinenti” 
utilizzati 
nelle 
richiamate 
previsioni 
anche 
se 
il 
concetto 
di 
attinenza 
ab 
initio 
sembrava 
poter 
evocare 
una 
nozione 
meno 
rigorosamente 
circoscrivibile 
(5). 
Ciò 
in 
quanto “in definitiva, ‘motivi 
attinenti 
alla giurisdizione” 
possono certo non 
risultare 
“inerenti’ 
alla stessa, e 
cioè 
avere 
natura diversa pur 
ponendosi 
in 
relazione con la giurisdizione”. 

una 
possibile 
diversa 
intonazione 
era 
peraltro 
non 
registrata 
in 
giurisprudenza 
per la 
quale 
sul 
piano ermeneutico non era 
individuabile 
una 
differenza 
ontologica 
tra 
inerenza 
e 
attinenza 
alla 
giurisdizione 
anche 
se, 
nei 
fatti, 
veniva 
ritenuto 
riconducibile 
alla 
giurisdizione 
non 
soltanto 
il 
giudizio 
rigorosamente 
concernente 
l’interpretazione 
della 
norma 
attributiva 
della 
giurisdizione, ma 
anche 
il 
sindacato sull'applicazione 
delle 
disposizioni 
che 
regolano la 
deducibilità 
ed il 
rilievo del 
difetto di 
giurisdizione 
(6) nonché 
di 
quelle 
correlate 
attinenti 
al 
sistema 
delle 
impugnazioni 
(7). 
Pur 
in 
tale 
evoluzione, 
che 
si 
inserisce 
pienamente 
nella 
descritta 
tendenza 
dinamica 
ed evolutiva 
della 
nozione 
di 
giurisdizione 
(8), la 
Corte 
di 
Cassazione 
ha 
in più occasioni 
ribadito 
che 
la 
violazione 
del 
diritto dell'unione 
europea 
da 
parte 
del 
giudice 
ammini


(4) Il 
secondo comma 
dell’art. 362 c.p.c. statuisce: 
“Possono essere 
denunciati 
in ogni 
tempo con 
ricorso per 
cassazione:1) i 
conflitti 
positivi 
o negativi 
di 
giurisdizione 
tra giudici 
speciali, o tra questi 
e 
i 
giudici 
ordinari; 2) i 
conflitti 
negativi 
di 
attribuzione 
tra la pubblica amministrazione 
e 
il 
giudice 
ordinario”. 
(5) 
Testualmente 
da 
F. 
AuLETTA, 
ammissibilità 
del 
ricorso 
“per 
motivi 
attinenti” 
alla 
giurisdizione 
ed 
effetti 
delle 
decisioni 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
sulla 
questione 
pregiudiziale 
del 
giudice 
speciale 
“tenuto” al rinvio alla Corte di Giustizia, in 
Foro it., 2021, I, c. 1019. 
(6) Cass., S.u., 28 gennaio 2021, n. 1914; Cass., 20 ottobre 2016, n. 21260. 
(7) Cass., S.u., 23 novembre 2011, n. 20727. 
(8) Cass., S.u., 9 marzo 2015, n. 4682; Cass. S.u. 23 novembre 2021, n. 20727. 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


strativo non vale, di 
per sé, ad integrare 
un superamento delle 
attribuzioni 
di 
tale giudice (9). 


Nel 
contesto 
normativo 
dato, 
in 
cui 
un 
ruolo 
significativo 
è 
svolto 
dall’art. 
386 
c.p.c. 
secondo 
cui 
“La 
decisione 
sulla 
giurisdizione 
è 
determinata 
dal-
l'oggetto 
della 
domanda 
e, 
quando 
prosegue 
il 
giudizio, 
non 
pregiudica 
le 
questioni 
sulla 
pertinenza 
del 
diritto 
e 
sulla 
proponibilità 
della 
domanda”, 
la 
Suprema 
Corte, seppur timidamente 
e 
con il 
limite 
sopra 
ricordato, è 
apparsa 
imboccare 
nel 
tempo, via 
via 
sempre 
più apertamente, la 
strada 
di 
una 
interpretazione 
evolutiva 
dei 
motivi 
inerenti 
alla 
giurisdizione 
di 
cui 
all’art. 
111 
Cost. proponendo una 
lettura 
del 
controllo sulla 
giurisdizionale 
più ampio dei 
suoi 
tradizionali 
confini 
e 
orientandosi 
verso 
una 
visione 
unificatrice 
della 
giurisdizione. 


Il 
controllo di 
legittimità 
della 
Corte 
di 
Cassazione, limitato all'accertamento 
di 
un eventuale 
sconfinamento dai 
limiti 
esterni 
della 
propria 
giurisdizione 
da 
parte 
del 
Consiglio di 
Stato, è 
sembrata 
volersi 
sintonizzare 
(rectius: 
dilatare) 
verso 
un 
sindacato 
sui 
limiti 
interni 
di 
tale 
giurisdizione, 
ossia 
sul 
modo di 
esercizio della 
funzione 
giurisdizionale, cui 
ineriscono gli 
errores 
in 
iudicando 
o 
in 
procedendo 
(beninteso 
per 
vizi 
non 
coinvolgenti 
i 
limiti 
esterni 
della 
giurisdizione). A 
tale 
stregua 
è 
error 
in procedendo 
l’erronea 
composizione 
del 
collegio 
giudicante. 
un 
canale 
interpretativo 
che 
tende 
ad 
estendersi 
al 
controllo 
della 
"forme 
di 
tutela" 
attraverso 
cui 
la 
giurisdizione 
si 
estrinseca. 


Ad arginare 
la 
descritta 
tendenza 
evolutiva 
della 
Cassazione 
e 
a 
riportare 
l’interpretazione 
della 
norma 
costituzionale 
(art. 
111, 
ottavo 
comma, 
Cost.) 
al 
suo 
ruolo 
tradizionale 
è 
intervenuta 
la 
Corte 
Costituzionale 
(10) 
che 
ha 
ribadito 
che 
il 
sindacato sulla 
giurisdizione 
riguarda 
i 
soli 
casi 
nei 
quali 
si 
discuta 
del-
l'esistenza 
della 
giurisdizione 
tout 
court 
o, se 
esistente, del 
riparto della 
giurisdizione 
tra 
i 
vari 
ordini 
giurisdizionali, e 
che 
ad essa 
deve 
ritenersi 
del 
tutto 
estraneo il 
vaglio di 
errores 
in procedendo (11) o in iudicando 
ancorché 
siano 
in gioco contrasti di giudicato con pronunce di Corti sovranazionali. 

(9) Cass., S.u., 30 gennaio 2017, n. 2219; Cass., S.u., 17 gennaio 2017, n. 956. 
(10) Corte Cost., 18 gennaio 2018, n. 6. 
(11) 
Sicché 
l’erronea 
composizione 
del 
collegio 
giudicante 
non 
rientra 
tra 
i 
motivi 
di 
giurisdizione. 
Conf. 
Cass., 
S.u., 
16 
gennaio 
2007, 
n. 
753 
per 
la 
quale 
l'asserita 
irregolarità 
della 
composizione 
del 
collegio 
costituente 
l'Adunanza 
Plenaria 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
in 
sede 
giurisdizionale, 
-sotto 
il 
profilo 
della 
partecipazione 
al 
collegio stesso, oltre 
al 
presidente 
dell'organo, anche 
di 
tre 
presidenti 
di 
sezione 
e 
non soltanto di 
consiglieri 
di 
Stato -non può essere 
dedotta 
con ricorso alle 
Sezioni 
unite 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
per 
difetto 
di 
giurisdizione, 
atteso 
che 
tale 
ricorso 
è 
esperibile 
solo 
per 
violazioni 
dei 
limiti 
esterni 
delle 
attribuzioni 
giurisdizionali 
di 
detto Giudice 
amministrativo, e 
che 
siffatta 
violazione 
è 
ravvisabile, rispetto ai 
vizi 
di 
costituzione 
dell'organo giudicante, esclusivamente 
quando i 
vizi 
medesimi 
si 
traducano nella 
non coincidenza 
di 
tale 
organo con quello delineato dalla 
legge, per effetto di 
alterazione 
della 
sua 
struttura 
ovvero di 
totale 
carenza 
di 
legittimazione 
di 
uno o più dei 
suoi 
componenti, 
condizione 
che 
non si 
può ravvisare 
nella 
formazione 
del 
collegio giudicante 
con la 
partecipazione 
di 
componenti 
muniti 
dello "status" 
di 
magistrati 
del 
Consiglio. In tal 
senso, in dottrina: 
V. CAIANIELLo, 
manuale 
di 
diritto processuale 
amministrativo, cit., pp. 299-300; 
L. MAzzAroLLI, G. PErICu, A. ro

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


La 
Corte 
Costituzionale 
ha 
perentoriamente 
riaffermato l'autonomia 
dei 
giudici 
speciali 
nella 
sfera 
interna 
alla 
propria 
giurisdizione 
(12) 
ribadendo 
che per “soli motivi attinenti alla giurisdizione” deve intendersi: 


a) 
lo 
sconfinamento 
del 
giudice 
in 
sfere 
riservate 
al 
legislatore 
o 
alla 
pubblica 
amministrazione 
(cosiddetta 
invasione 
o 
sconfinamento). 
Vengono 
invasi 
i 
perimetri 
della 
potestà 
degli 
altri 
classici 
poteri 
dello Stato: 
il 
potere 
legislativo 
ed il 
potere 
esecutivo. Mentre 
sono casi 
di 
scuola 
quelli 
di 
invasione 
del 
potere 
legislativo, sono invece 
più ricorrenti 
i 
casi 
di 
invasione 
della 
potestà 
della 
P.A. 
(ciò 
accade 
nel 
caso 
in 
cui 
il 
giudice 
amministrativo 
abbia 
sindacato 
il 
merito 
delle 
scelte 
della 
P.A. 
per 
le 
materie 
relativamente 
alle 
quali 
possiede, 
in via ordinaria, solo il sindacato di legittimità); 
b) 
il 
diniego di 
giurisdizione 
sul 
presupposto errato che 
nessun giudice 
è 
fornito di giurisdizione (cosiddetto arretramento); 
c) 
difetto 
relativo 
di 
giurisdizione 
consistente 
nell'affermazione 
della 
propria 
giurisdizione 
in un caso che 
invece 
rientra 
nella 
giurisdizione 
di 
un altro 
giudice (o viceversa). 
Bandendo ogni 
incertezza 
e 
superando la 
propria 
giurisprudenza 
la 
Cassazione, 
a 
Sezioni 
unite, con ordinanza, 18 settembre 
2020, n. 19598 ha 
rimesso 
alla 
Corte 
di 
Giustizia 
la 
questione 
pregiudiziale 
del 
se 
gli 
artt. 4, par. 
3, 
19, 
par. 
1, 
T.u.E. 
e 
2, 
parr. 
1 
e 
2, 
e 
267 
T.F.u.E. 
(letti 
anche 
alla 
luce 
dell'art. 
47 
della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
dell'unione 
Europea), 
ostino 
ad 
una 
prassi 
interpretativa 
come 
quella 
concernente 
gli 
artt. 
111, 
comma 
8, 
Cost., 
360, comma 
1, n. 1 e 
362, comma 
1, c.p.c. e 
110 c.p.a. -nella 
parte 
in cui 
tali 
disposizioni 
ammettono 
il 
ricorso 
per 
cassazione 
avverso 
le 
sentenze 
del 
Consiglio 
di 
Stato per "motivi 
inerenti 
alla giurisdizione" 
-come 
si 
evince 
dalla 
sentenza 
della 
Corte 
costituzionale 
n. 
6 
del 
2018 
e 
dalla 
giurisprudenza 
nazionale 
successiva 
secondo cui 
il 
rimedio del 
ricorso per cassazione, sotto il 
profilo del 
cosiddetto "difetto di 
potere 
giurisdizionale", non può essere 
utilizzato 
per impugnare 
sentenze 
del 
Consiglio di 
Stato che 
facciano applicazione 
di 
prassi 
interpretative 
elaborate 
in 
sede 
nazionale 
confliggenti 
con 
sentenze 
della 
Corte 
di 
Giustizia, in settori 
disciplinati 
dal 
diritto dell'unione 


MANo, 
F.A. 
roVErSI 
MoNACo, 
F.G. 
SCoCA, 
Diritto 
amministrativo, 
vol. 
II, 
IV 
edizione, 
Monduzzi, 
2005, 


p. 652.In senso contrario: 
P. VIrGA, La tutela giurisdizionale 
nei 
confronti 
della pubblica amministrazione, 
III edizione, Giuffré, 1982, p. 413 per il 
quale 
è 
ammesso il 
ricorso allorché 
sia 
stata 
irregolare 
la 
composizione del collegio giudicante. 
(12) In dottrina 
al 
riguardo si 
è 
acutamente 
osservato che 
in tal 
modo la 
Corte 
costituzionale 
ha 
sbarrato 
la 
strada 
a 
un'interpretazione 
evolutiva 
più 
ampia 
dei 
motivi 
di 
giurisdizione 
operata 
dalla 
Corte 
di 
cassazione 
in 
anni 
recenti 
che 
includeva 
tra 
questi 
anche 
i 
casi 
di 
radicale 
stravolgimento 
delle 
norme 
processuali 
tali 
da 
implicare 
un diniego di 
giustizia 
(per esempio sentenza 
delle 
Sezioni 
unite 
civili 
29 
dicembre 
2017, n. 31226). Né 
secondo la 
Corte 
può rilevare 
"il 
dato qualitativo della gravità del 
vizio" 
in 
quanto 
incompatibile 
con 
la 
definizione 
degli 
ambiti 
di 
competenza 
dei 
plessi 
giurisdizionali 
e 
foriero 
di 
incertezze 
in sede 
applicativa” 
(così 
M. CLArICh, i motivi 
inerenti 
alla giurisdizione 
nel 
"dialogo" 
tra le corti supreme, in Corriere Giur., 2021, 2, pp. 162 e ss.). 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


Europea 
nei 
quali 
gli 
Stati 
membri 
hanno rinunciato ad esercitare 
i 
loro poteri 
sovrani 
in senso incompatibile 
con tale 
diritto, con l'effetto di 
determinare 
il 
consolidamento 
di 
violazioni 
del 
diritto 
comunitario 
che 
potrebbero 
essere 
corrette 
tramite 
il 
predetto rimedio e 
di 
pregiudicare 
l'uniforme 
applicazione 
del 
diritto 
dell'unione 
e 
l'effettività 
della 
tutela 
giurisdizionale 
delle 
situazioni 
giuridiche 
soggettive 
di 
rilevanza 
comunitaria. 
Quanto 
precede 
in 
contrasto 
con l'avvertita 
esigenza 
che 
tale 
diritto riceva 
piena 
e 
sollecita 
attuazione 
da 
parte 
di 
ogni 
giudice, 
in 
modo 
vincolativamente 
conforme 
alla 
sua 
corretta 
interpretazione 
da 
parte 
della 
Corte 
di 
Giustizia, 
tenuto 
conto 
dei 
limiti 
alla 
"autonomia 
procedurale" 
degli 
Stati 
membri 
nella 
conformazione 
degli 
istituti 
processuali. 


Passo significativo della 
motivazione 
dell’ordinanza 
è 
senz’altro quello 
in cui 
le 
S.u. osservano che 
“alla luce 
di 
una nozione 
evolutiva del 
concetto 
di 
giurisdizione 
e 
della conseguente 
mutazione 
della nozione 
(e 
del 
giudizio) 
sulla giurisdizione 
-la cui 
interpretazione 
è 
riservata alle 
Sezioni 
Unite 
(art. 
111 Cost., comma 8) -nel 
senso di 
tutela giurisdizionale 
dei 
diritti 
e 
degli 
interessi, 
che 
comprende 
le 
diverse 
tutele 
che 
l'ordinamento assegna ai 
giudici 
per 
assicurare 
l'effettività 
dell'ordinamento, 
si 
è 
ritenuto 
che 
è 
norma 
sulla 
giurisdizione 
non solo quella che 
individua i 
presupposti 
dell'attribuzione 
del 
potere 
giurisdizionale, ma anche 
quella che 
dà contenuto a quel 
potere 
stabilendo 
le 
forme 
di 
tutela 
attraverso 
le 
quali 
esso 
si 
estrinseca. 
rientra 
pertanto 
nello schema logico del 
sindacato per 
motivi 
inerenti 
alla giurisdizione 
l'operazione 
che 
consiste 
nell'interpretare 
la norma attributiva di 
tutela, onde 
verificare 
se 
il 
giudice 
amministrativo, ai 
sensi 
dell'art. 111 Cost., comma 8, la 
eroghi concretamente”. 


Al 
di 
là 
dell’esito che 
riceverà 
il 
rinvio pregiudiziale, è 
agevole 
ritenere 
che 
lo 
stesso 
testimonia 
che 
la 
giurisprudenza 
evolutiva 
di 
legittimità 
è 
dichiaratamente 
orientata 
al 
superamento 
degli 
attuali 
confini 
presidiati 
dai 
soli 
motivi 
inerenti 
alla 
giurisdizione 
in 
quella 
che 
è 
stata 
definita 
marcia 
di 
avvicinamento 
verso 
l’unità 
della 
giurisdizione 
(13). 
Va 
in 
ogni 
caso 
preso 
atto 
che 
la 
guerra 
in 
atto 
dalla 
trincea 
delle 
ricostruzioni 
dogmatiche 
è 
divenuta 
a campo aperto per la delimitazione dei confini dei poteri. 


Non 
senza 
osservare, 
da 
ultimo, 
che 
il 
percorso 
imboccato 
dalla 
Corte 
sembra 
accidentato 
e 
ben 
più 
arduo 
rispetto 
alla 
proposta 
riequilibratrice 
degli 
opposti 
fronti 
di 
creare 
un 
nuovo 
“giudice 
dei 
conflitti” 
a 
composizione 
mista. 

3. il limite dei soli motivi inerenti (attinenti) alla giurisdizione. 
Come 
noto il 
sindacato di 
legittimità 
sulle 
sentenze 
dei 
giudici 
speciali 
costituì 
tema 
di 
serrato 
dibattito 
all’interno 
dell’Assemblea 
costituente. 
L’am


(13) 
M. 
MAzzAMuTo, 
il 
giudice 
delle 
leggi 
conferma 
il 
pluralismo 
delle 
giurisdizioni, 
in 
Giur. 
it., 2018, p. 704. 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


missibilità 
di 
un tale 
sindacato sulle 
sentenze 
dei 
giudici 
speciali 
veniva 
ritenuto 
inappropriato 
da 
quanti 
valorizzavano 
il 
rilievo 
che 
il 
proprium 
delle 
giurisdizioni 
speciali 
risiedeva 
per 
l’appunto 
nella 
maggiore 
idoneità 
ad 
interpretare 
le 
leggi 
che 
regolano certi 
specifici 
rapporti. Prevalse 
per tal 
via 
l'orientamento di 
mantenere 
fermo l’esistente 
principio dell'insindacabilità 
in 
Cassazione 
delle 
sole 
decisioni 
del 
Consiglio di 
Stato e 
della 
Corte 
dei 
Conti, 
ribadendo l'attribuzione 
alla 
Cassazione 
della 
funzione 
di 
giudice 
della 
giurisdizione. 


È 
quindi 
questo il 
principio per cui 
la 
Cassazione 
è 
giudice 
della 
giurisdizione 
(affermatosi 
a 
partire 
dal 
1877 (14) con il 
conferimento alla 
Cassazione 
romana 
a 
Sezioni 
unite 
della 
giurisdizione 
sui 
conflitti 
di 
attribuzione) 
ed è 
ancora 
questo a 
fare 
da 
sfondo alla 
regola 
secondo cui 
la 
decisione 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
è 
impugnabile 
solamente 
per 
motivi 
di 
giurisdizione: 
“Questo 
controllo della Corte 
di 
Cassazione 
si 
collega alla funzione 
propria della 
stessa 
Corte 
di 
risolvere 
i 
conflitti 
di 
attribuzione 
tra 
gli 
organi 
del 
potere 
giudiziario 
e quelli dell’esecutivo” (15). 


Secondo 
parte 
della 
dottrina 
la 
limitazione 
de 
qua 
sarebbe 
essenzialmente 
connessa 
alla 
posizione 
costituzionale 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
(e 
della 
Corte 
dei 
Conti): 
posizione 
che 
sarebbe 
menomata 
se 
le 
sentenze 
di 
questi 
due 
organi 
potessero 
essere 
annullate 
da 
altro 
organo 
(la 
Cassazione) 
per 
violazione 
di 
legge 
o per vizio di 
motivazione 
(16). Trattasi 
di 
scelta 
legislativa 
(condivisibile 
o meno) ma 
che 
non è 
stata 
assunta 
a 
tutela 
di 
principi 
o regole 
di 
valenza 
costituzionale: lo è divenuta perché costituzionalizzata nell’art. 111 Cost. 


4. motivi inerenti alla giurisdizione e possibili antinomie costituzionali. 
In 
tal 
modo 
ricostruita 
la 
genesi 
del 
ricorso 
per 
cassazione 
per 
i 
soli 
motivi 
inerenti 
alla 
giurisdizione 
occorre 
chiedersi 
se 
tale 
regola 
(art. 110 c.p.a. e 
art. 
111, 
comma 
8, 
Cost.) 
sia 
attualmente 
conforme 
o 
declinabile 
con 
i 
principi 
costituzionali desumibili, tra l’altro, dall’art. 3 e dall’innovato art. 111 Cost. 

Potrebbe infatti dubitarsene sotto almeno due profili. 


a) 
In 
primo 
luogo 
la 
regola 
del 
ricorso 
per 
cassazione 
avverso 
le 
sentenze 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
solo 
per 
i 
motivi 
inerenti 
alla 
giurisdizione 
contrasta 
con 
la 
disposizione 
contenuta 
nell’art. 
111, 
comma 
7, 
Cost. 
secondo 
cui 
“Contro 
le 
sentenze 
[…], pronunciati 
dagli 
organi 
giurisdizionali 
ordinari 
o speciali, 
è 
sempre 
ammesso ricorso in Cassazione 
per 
violazione 
di 
legge. Si 
può 
derogare 
a tale 
norma soltanto per 
le 
sentenze 
dei 
tribunali 
militari 
in tempo 
(14) L. 31 marzo 1877, n. 3761, recante 
“Norme 
sui 
conflitti 
di 
attribuzioni”, sostituita 
poi 
dal-
l’attuale codice di procedura civile (e in specie: artt. 41, 362 e 368 c.p.c.). 
(15) Così: 
V. CAIANIELLo, manuale di diritto processuale amministrativo, cit., p. 299. 
(16) 
In 
tali 
termini: 
G. 
CorSo, 
manuale 
di 
diritto 
amministrativo, 
VIII 
edizione, 
Giappichelli, 
2017, pp. 601-602. 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


di 
guerra”. Contrasta 
cioè 
apertamente 
con il 
principio secondo cui 
contro le 
sentenze 
pronunciate 
dagli 
organi 
giurisdizionali 
ordinari 
o speciali, è 
“sempre” 
ammesso ricorso in Cassazione 
per violazione 
di 
legge, non rientrandosi 
tra 
i 
casi 
di 
deroga 
consentiti 
(ossia 
quello delle 
sentenze 
dei 
tribunali 
militari 
in tempo di guerra). 


Vi 
è 
una 
antinomia 
evidente 
tra 
due 
disposizioni 
costituzionali: 
l’ottavo 
comma 
dell’art. 111 
Cost. costituisce 
una 
disposizione 
in 
contrasto con 
quella 
contenuta 
nel 
comma 
settimo dell’art. 111 Cost. che 
consente 
“sempre” 
il 
ricorso 
in Cassazione per violazione di legge. 


È 
noto che 
le 
antinomie 
costituzionali 
-sussistendo tra 
norme 
entrate 
in 
vigore 
nello stesso momento e 
di 
eguale 
efficacia 
-non possono essere 
risolte 
con i 
consueti 
criteri, ma 
mediante 
il 
bilanciamento degli 
interessi 
e 
dei 
valori 
coinvolti 
nelle 
norme 
che 
vengono in rilievo in virtù di 
una 
gerarchia 
assiologica 
e mobile (17). 

Con 
il 
criterio 
assiologico, 
nel 
caso 
di 
incompatibilità 
tra 
norme 
sulla 
stessa 
materia, 
si 
applica 
la 
norma 
a 
presidio 
del 
valore 
costituzionalmente 
maggiormente significativo. 

Tale 
criterio consente 
di 
risolvere 
le 
antinomie 
all’interno della 
Costituzione, 
nella 
quale 
non 
esistono 
principi 
tiranni 
(18), 
e 
laddove 
vi 
sono 
principi 
in 
contrasto 
(ad 
es. 
rispetto 
della 
dignità 
umana 
e 
libera 
manifestazione 
del 
pensiero) la 
selezione 
va 
operata 
mediante 
il 
criterio della 
ponderazione 
dei 
valori 
riferita 
allo specifico caso concreto, ponderazione 
che, a 
sua 
volta, non 
è 
definitiva 
bensì 
variabile 
e 
dinamica 
in base 
ai 
valori 
di 
volta 
in volta 
storicamente 
coinvolti (gerarchia assiologica e mobile). 

Se 
nel 
conflitto tra 
principi 
occorre 
operare 
il 
loro bilanciamento al 
fine 
di 
valutare 
quale 
principio “pesi” 
maggiormente 
sulla 
bilancia 
dei 
valori 
costituzionali 
interessati, 
la 
ponderazione 
non 
potrà 
che 
consistere, 
quindi, 
nello 
stabilire 
tra 
i 
due 
principi 
in conflitto una 
gerarchia 
che 
presenti 
due 
caratteri: 
una gerarchia assiologica, ed è al contempo, mobile. 

La 
gerarchia 
assiologica 
è 
una 
relazione 
di 
valore 
creata 
dal 
giudice 
co


(17) 
Sul 
criterio 
assiologico: 
M. 
GErArdo, 
Le 
fonti 
del 
diritto 
nell’ordinamento 
giuridico 
italiano. 
individuazione, tipologie e vicende, in rass. avv. Stato, 2019, 4, pp. 305-306. 
(18) Su tali 
aspetti: 
r. GuASTINI, Le 
fonti 
del 
diritto, Giuffré, 2010, pp. 215-219. La 
Corte 
Costituzionale, 
in varie 
pronunce, ha 
evidenziato che 
“Tutti 
i 
diritti 
fondamentali 
tutelati 
dalla Costituzione 
si 
trovano in rapporto di 
integrazione 
reciproca e 
non è 
possibile 
pertanto individuare 
uno di 
essi 
che 
abbia 
la 
prevalenza 
assoluta 
sugli 
altri. 
La 
tutela 
deve 
essere 
sempre 
«sistemica 
e 
non 
frazionata 
in 
una serie 
di 
norme 
non coordinate 
ed in potenziale 
conflitto tra loro» […]. 
Se 
così 
non fosse, si 
verificherebbe 
l’illimitata espansione 
di 
uno dei 
diritti, che 
diverrebbe 
“tiranno” 
nei 
confronti 
delle 
altre 
situazioni 
giuridiche 
costituzionalmente 
riconosciute 
e 
protette, 
che 
costituiscono, 
nel 
loro 
insieme, 
espressione 
della 
dignità 
della 
persona” 
(sentenza 
9 
maggio 
2013, 
n. 
85 
-sul 
caso 
ILVA 
-sul 
ragionevole 
bilanciamento 
tra 
diritti 
fondamentali 
tutelati 
dalla 
Costituzione, 
in 
particolare 
alla 
salute 
[art. 
32 
Cost.], 
da 
cui 
deriva 
il 
diritto all’ambiente 
salubre, e 
al 
lavoro [art. 4 Cost.], da 
cui 
deriva 
l’interesse 
costituzionalmente 
rilevante 
al 
mantenimento dei 
livelli 
occupazionali 
ed il 
dovere 
delle 
istituzioni 
pubbliche 
di spiegare ogni sforzo in tal senso). 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


stituzionale, mediante 
una 
valutazione 
comparativa 
secondo cui 
si 
attribuisce 
a 
uno dei 
principi 
in conflitto un “peso” 
un valore, una 
“importanza” 
etico-
politica 
maggiore 
rispetto 
all’altro. 
Il 
principio 
ritenuto 
di 
maggior 
valore 
prevarrà 
sull’altro: 
sarà 
applicato 
seppur 
con 
un 
proporzionale 
e 
bilanciato 
sacrificio dell’altro. Sebbene 
(in tutto o in parte) accantonato nella 
specifica 
fattispecie, il 
principio soccombente 
resta 
tuttavia 
pienamente 
in vita 
nell’ordinamento 
pronto per essere 
applicato in altre 
controversie 
o, in caso di 
nuovi 
contrasti 
con altri 
principi, disponibile 
per nuovi 
bilanciamenti 
storicamente 
dinamici. 


una 
gerarchia 
mobile 
è, 
a 
sua 
volta, 
una 
relazione 
di 
valore 
instabile, 
cangiante: 
una 
gerarchia 
che 
vale 
per il 
caso concreto, ma 
che 
potrebbe 
essere 
ribaltata 
in una diversa fattispecie. 


Il 
conflitto 
non 
è 
risolto 
in 
via 
definitiva: 
ogni 
soluzione 
vale 
solo 
per 
una 
controversia 
particolare 
(per una 
specifica 
antinomia 
tra 
la 
Costituzione 
con 
una 
specifica 
legge) sicché 
nessuno può prevedere 
la 
soluzione 
dello stesso 
conflitto 
in 
altre 
controversie 
future, 
nella 
quale 
siano 
coinvolti 
gli 
stessi 
principi 
ma una diversa legge. 


Per 
tal 
via 
la 
Corte 
costituzionale 
in 
alcune 
occasioni 
ha 
applicato 
il 
principio 
di 
eguaglianza 
formale 
(ossia 
uguaglianza 
senza 
ulteriori 
specificazioni) 
e 
accantonato 
il 
principio 
di 
eguaglianza 
sostanziale, 
dichiarando 
l’illegittimità 
di 
una 
legge 
che 
proibiva 
il 
lavoro 
notturno 
alle 
donne 
(19); 
in 
altre 
occasioni 
ha 
applicato 
il 
principio 
di 
eguaglianza 
sostanziale 
e 
accantonato 
il 
principio 
di 
eguaglianza 
formale, 
riconoscendo 
la 
legittimità 
costituzionale 
di 
una 
legge 
che 
prevedeva 
talune 
“azioni 
positive” 
in 
favore 
delle 
donne 
imprenditrici 
(20). 


Alla 
luce 
dei 
ricordati 
principi 
risolutori 
delle 
antinomie 
costituzionali 
(gerarchia 
assiologica 
e 
mobile) nel 
contrasto tra 
la 
norma 
contenuta 
nell’ottavo 
comma 
dell’art. 111 Cost. e 
quella 
contenuta 
nel 
comma 
settimo dell’art. 
111 Cost. dovrebbe 
essere 
privilegiata 
quest’ultima 
ove 
si 
ritenga 
prevalente 
il 
valore 
di 
garantire 
il 
più 
ampio 
spazio 
alle 
tutele 
giurisdizionali 
riconosciute 
dall’ordinamento 
all’individuo 
(art. 
111, 
comma 
7, 
raccordato 
con 
art. 
24, 
comma 
1, Cost.) rispetto al 
diverso peso valoriale 
dei 
principi 
sottesi 
alla 
regola 
del 
ricorso per cassazione 
avverso le 
sentenze 
del 
Consiglio di 
Stato solo 
per motivi 
inerenti 
alla 
giurisdizione. Ciò quantomeno -come 
si 
argomenterà 
alla 
successiva 
lettera 
b) 
-nei 
casi 
in 
cui 
i 
limiti 
attuali 
al 
ricorso 
per 
cassazione 
avverso le sentenze del Consiglio di Stato possano ritenersi irragionevoli. 


b) 
In secondo luogo la 
regola 
del 
ricorso per cassazione 
avverso le 
sentenze 
del 
Consiglio di 
Stato solo per i 
motivi 
inerenti 
alla 
giurisdizione 
contrasta 
con i 
principi 
della 
ragionevolezza 
del 
diritto di 
difesa 
(art. 3 Cost.) e 
del 
diritto 
di 
azione 
(art. 
24, 
comma 
1, 
Cost.), 
in 
particolare 
nei 
casi 
in 
cui 
(19) Corte Cost., 24 luglio 1986, n. 210. 
(20) Corte Cost., 26 marzo 1993, n. 109. 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


tanto 
dinanzi 
al 
giudice 
amministrativo 
quanto 
dinanzi 
al 
giudice 
ordinario 
vengano coinvolte 
situazioni 
soggettive 
che 
si 
caratterizzino cioè 
per una 
sostanziale 
identità 
di 
natura 
e 
per una 
disciplina 
processuale 
non dissimile 
se 
non per individuati e limitati profili. 

Non sembra 
così 
rispondere 
a 
ragionevolezza 
ed effettività 
di 
tutela 
che 
un pubblico dipendente 
(art. 63, d.L.vo 30 marzo 2001, n. 165), purché 
non 
rientrante 
nelle 
categorie 
escluse 
ex 
art. 3 d.L.vo n. 165/2001, dirigenti 
compresi, 
possa 
adire 
la 
Cassazione 
per violazione 
di 
legge 
per conseguire 
la 
condanna 
del 
datore 
di 
lavoro al 
pagamento di 
quanto di 
sua 
competenza, mentre 
un dirigente 
dell’Amministrazione 
penitenziaria 
-o altro lavoratore 
pubblico 
rientrante 
nelle 
categorie 
escluse 
ex 
art. 3 d.L.vo n. 165/2001, le 
cui 
controversie 
spettano 
alla 
giurisdizione 
del 
Giudice 
Amministrativo 
(art. 
133, 
comma 
1, lett. i, c.p.a) -dovrà 
vedere 
arrestarsi 
la 
propria 
tutela, magari 
per il 
medesimo 
compenso, 
dinanzi 
al 
Consiglio 
di 
Stato, 
senza 
possibilità 
di 
adire 
la 
Cassazione 
per violazione di legge. 


All’evidenza 
è 
del 
tutto 
irragionevole 
e 
violativo 
del 
diritto 
di 
azione 
vietare 
in date 
ipotesi 
il 
ricorso per cassazione 
per violazione 
di 
legge 
laddove 
in 
altre 
ipotesi 
lo si 
consente 
in presenza 
degli 
stessi 
elementi 
in gioco (rapporto 
di 
lavoro dove 
vengono in rilievo diritti 
soggettivi). Vuol 
dirsi 
che 
situazioni 
eguali 
vengono -non ragionevolmente 
-trattate 
in modo diverso dando prevalenza 
assorbente 
alla 
scelta 
legislativa 
in ordine 
alla 
giurisdizione 
piuttosto 
che 
ai 
profili 
sostanziali 
la 
cui 
tutela, 
per 
la 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
Giustizia, 
è funzione di effettività. 


Anche 
in questa 
evenienza 
vi 
è 
una 
antinomia 
tra 
due 
disposizioni 
costituzionali. 
Nel 
bilanciamento dei 
valori 
costituzionali 
(da 
una 
parte 
la 
regola 
dell’art. 111, ult. comma, Cost., dall’altra 
il 
principio ex 
artt. 3, comma 
2, e 
24 comma 
1, Cost. della 
ragionevolezza 
del 
diritto di 
difesa 
e 
di 
azione), la 
bilancia 
dovrebbe, 
ictu 
oculi, 
pendere 
verso 
il 
principio 
dell’ammissibilità 
del 
ricorso per cassazione 
avverso le 
sentenze 
del 
Consiglio di 
Stato per motivi 
inerenti 
alla 
giurisdizione 
e 
per violazione 
di 
legge. Trattasi, come 
illustrato, 
di 
soluzione 
mobile 
in 
quanto 
per 
tal 
via 
non 
si 
intende 
affatto 
sostenere 
la 
piena 
ricorribilità 
dinanzi 
alla 
Cassazione 
per 
violazione 
di 
legge 
ma 
la 
necessità 
che 
una 
tale 
esclusione 
non 
operi 
in 
caso 
di 
compromissione 
di 
principi 
costituzionali 
che, 
nel 
bilanciamento, 
possano 
ritenersi 
prevalenti 
(21). 
Esclu


(21) 
Sicché, 
dove 
non 
vi 
è 
la 
descritta 
irragionevolezza 
alcuna 
censura 
potrebbe 
essere 
mossa 
alla 
regola 
della 
esclusione 
del 
ricorso per cassazione 
per violazione 
di 
legge 
avverso le 
sentenze 
del 
Consiglio 
di 
Stato e 
della 
Corte 
dei 
Conti. Si 
prenda 
il 
caso dei 
giudizi 
in tema 
di 
responsabilità 
degli 
amministratori 
verso l’ente 
per i 
danni 
arrecati 
a 
questo. Vi 
è 
diversità 
di 
giudizio a 
seconda 
della 
tipologia 
di 
ente. Nel 
caso dell’amministratore 
di 
società 
privata, il 
giudizio di 
responsabilità 
(artt. 2392-2393 bis 
c.c.) spetta 
alla 
cognizione 
del 
giudice 
ordinario, con due 
gradi 
di 
merito e 
giudizio di 
legittimità 
pieno. 
Nel 
caso di 
amministrazione 
di 
società 
pubblica 
in house 
il 
giudizio di 
responsabilità 
spetta 
alla 
cognizione 
della 
Corte 
dei 
Conti, con due 
gradi 
di 
merito ed esclusione 
del 
giudizio di 
legittimità 
pieno (es

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


sivamente 
in questi 
casi 
l’esclusione 
del 
ricorso per cassazione 
per violazione 
di legge potrebbe avere una sua ragionevolezza. 

Inoltre, e 
a 
completamento del 
discorso in relazione 
a 
quanto precede, è 
tempo oramai 
di 
valorizzare, anche 
agli 
indicati 
fini, i 
primi 
due 
commi 
del-
l’art. 111 Cost. (introdotti 
con l. cost. 23 novembre 
1999, n. 2). Con specifico 
riferimento 
alla 
problematica 
in 
esame 
deve 
osservarsi 
che 
il 
dibattito 
in 
essere 
non 
sembra 
sin 
qui 
aver 
attribuito 
alcun 
rilievo 
al 
principio 
affermato 
al 
primo 
comma 
della 
garanzia 
di 
un 
giusto 
processo 
inteso 
come 
sintesi 
dell’azione 
giurisdizionale 
e 
della 
legittimità 
giurisdizionale 
e 
costituzionale 
del 
suo 
esercizio 
come, seppur parzialmente, declinati 
al 
successivo secondo comma 
secondo 
cui 
“ogni 
processo 
si 
svolge 
nel 
contraddittorio 
tra 
le 
parti, 
in 
condizioni 
di 
parità, 
davanti 
a 
giudice 
terzo 
e 
imparziale. 
La 
legge 
ne 
assicura 
la 
ragionevole 
durata”. 
Se, 
dunque, 
i 
ricordati 
valori 
devono 
ritenersi, 
per 
legge 
costituzionale 
sopravvenuta, 
coessenziali 
alla 
funzione 
della 
giurisdizione 
non possono poi, contraddittoriamente, ritenersi 
“non attinenti”o “non 
inerenti” 
al 
suo esercizio (22). L’innovazione 
di 
cui 
alla 
l. cost. 2/1999 rende 
improrogabile 
la 
necessità 
di 
risolvere 
le 
antinomie 
costituzionali 
sulla 
base 
del 
bilanciamento dei 
valori 
tra 
cui 
assumono rilievo pregnante 
quelli 
scolpiti 
nei 
primi 
due 
commi 
dell’art. 111 Cost. alla 
luce 
dei 
quali 
va, quindi, sintonizzata 
la lettura del successivo ottavo comma dell’art. 111 Cost. 


5. 
Possibili 
molestie 
iure 
condito 
(rectius: 
a 
Costituzione 
invariata) 
all’assetto 
disegnato dalla Corte costituzionale. 
I 
limitati 
margini 
per 
adire 
il 
giudice 
di 
legittimità 
hanno 
avuto, 
quale 
conseguenza, la 
descritta 
“guerra” 
dei 
centotrent’anni 
tra 
Corte 
di 
Cassazione 
e 
Consiglio 
di 
Stato 
(23) 
che, 
bisogna 
darne 
atto, 
anche 
gli 
interventi 
della 
Corte 
Costituzionale 
non sono riusciti 
a 
sedare 
realizzando, al 
più, tregue 
armate. 


La 
proposta 
di 
un giudice 
dei 
conflitti 
-pur percorribile 
a 
Costituzione 
invariata, in quanto sarebbe 
sufficiente 
una 
modifica 
legislativa 
della 
norma


sendo 
in 
questo 
caso 
ammesso 
il 
ricorso 
in 
cassazione 
solo 
per 
motivi 
di 
giurisdizione).Tuttavia 
l’esclusione 
del 
ricorso 
per 
cassazione 
per 
violazione 
di 
legge 
con 
riguardo 
alle 
controversie 
sulla 
responsabilità 
in caso di 
amministrazione 
di 
società 
pubblica 
in house 
non è 
irragionevole, perché 
quello che 
l’interessato 
perde 
in termini 
di 
grado di 
giudizio lo recupera 
in termini 
di 
benefici 
collegati 
con il 
rito contabile 
(più favorevole 
rispetto al 
giudizio ordinario: 
responsabilità 
solo per dolo o colpa 
grave, potere 
riduttivo del 
giudice, ecc.). Vuol 
dirsi 
che 
la 
diversità 
di 
gradi 
di 
giudizio può avere, globalmente 
considerata, 
una 
sua 
ragionevolezza 
tenuto 
conto 
del 
sostanziale 
equilibrio 
dei 
contenuti 
del 
diritto 
di 
azione 
nei due plessi giurisdizionali e del bilanciamento complessivo dei valori in gioco. 


(22) riconduce 
a 
vizio di 
giurisdizione 
anche 
la 
assoluta 
carenza 
di 
motivazione: 
A. LAMorGESE, 
Eccesso di 
potere 
giurisdizionale 
e 
sindacato della Cassazione 
sulle 
sentenze 
del 
Consiglio di 
Stato, in 
www.federalismi.it 
(3 gennaio 2018). 
(23) 
“i 
rapporti 
tra 
le 
Corti 
di 
vertice 
sono 
stati 
da 
sempre 
complessi 
e 
articolati. 
il 
conflitto 
sorge 
con il 
dualismo giurisdizionale, si 
perpetua da più di 
130 anni”: 
così 
B. SASSANI, 
L’idea di 
giurisdizione 
nella guerra delle giurisdizioni. Considerazioni politicamente scorrette, cit. 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


tiva 
regolatrice 
della 
composizione 
dei 
collegi 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
nei 
giudizi 
sui 
conflitti 
di 
giurisdizione, integrando i 
collegi 
delle 
Sezioni 
unite 
con magistrati 
del 
Consiglio di 
Stato (24) -presupporrebbe 
infatti 
l’accordo 
tra 
i 
plessi 
giurisdizionali 
coinvolti 
non agevolmente 
ipotizzabile 
dopo il 
descritto 
rinvio pregiudiziale 
alla 
Corte 
di 
Giustizia 
Europea 
operato dalle 
Sezioni 
unite 
della 
Cassazione 
che 
ha 
il 
sapore 
di 
una 
sorta 
di 
resa 
dei 
conti. 
rinvio che 
si 
caratterizza 
per essere 
la 
prima 
volta 
in cui 
il 
contrasto non attiene 
a 
interpretazione 
di 
leggi 
ma 
allo 
stesso 
ambito 
di 
giurisdizione: 
uno 
scontro tra Corti inerente o attinente alla sfera di attribuzioni giurisdizionali. 


A 
Costituzione 
invariata 
c’è 
da 
chiedersi 
se 
non 
sia 
tempo 
di 
imboccare 
la 
via 
di 
ammettere, 
alla 
luce 
di 
una 
lettura 
costituzionalmente 
orientata, 
il 
ricorso 
per 
cassazione 
avverso 
le 
sentenze 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
per 
violazione 
di 
legge 
allorché 
le 
violazioni 
dedotte 
comportino 
la 
compromissione 
dell’effettività 
di 
tutela 
da 
ritenersi 
prevalente 
nel 
bilanciamento 
dei 
principi 
costituzionali 
coinvolti 
ovvero 
in 
ipotesi 
di 
manifesta 
irragionevolezza 
che 
può 
ritenersi 
ricorrere 
nei 
casi 
in 
cui 
tanto 
dinanzi 
al 
giudice 
amministrativo 
quanto 
dinanzi 
al 
giudice 
ordinario 
vengano 
scrutinate 
situazioni 
soggettive 
del 
tutto 
analoghe. 


6. 
molestie 
de 
iure 
condendo 
(rectius: 
innovando 
la 
disciplina 
costituzionale): 
unità della giurisdizione. 
Soluzione, evidentemente 
radicale 
e 
de 
iure 
condendo, è 
la 
riconduzione 
ad unità della giurisdizione. 


Al 
fine 
di 
una 
razionale 
ed efficiente 
amministrazione 
della 
giustizia 
civile 
potrebbe 
stabilirsi 
-con le 
inevitabili 
modifiche 
costituzionali 
-l’unificazione 
di 
tutte 
le 
giurisdizioni 
speciali 
a 
quella 
ordinaria 
con la 
previsione, in 
via 
esclusiva, di 
un’unica 
giurisdizione, ossia 
di 
“magistrati 
ordinari 
istituiti 
e 
regolati 
dalle 
norme 
sull’ordinamento 
giudiziario” 
(art. 
102, 
comma 
1, 
Cost.) (25). 


Con 
tale 
modifica 
si 
opererebbe 
un 
razionale 
ed 
ottimale 
utilizzo 
di 
mezzi 
e 
delle 
risorse 
per 
il 
corretto 
funzionamento 
del 
mondo 
della 
giurisdizione 
eliminando 
duplicazioni 
e 
questioni 
pregiudiziali 
che 
rallentano 
il 
corso 
della 
giustizia. 
In misura 
non trascurabile 
sovente 
il 
procedimento dinanzi 
alla 
giurisdizione 
ordinaria 
si 
definisce, 
dopo 
alcuni 
anni, 
con 
la 
pronuncia 
di 
carenza 
di 
giurisdizione 
a 
favore 
di 
un 
giudice 
speciale 
e 
viceversa 
e 
la 
traslatio 
è 
a 
tutela 
della 
conservazione 
del 
diritto 
ma 
non 
della 
velocizzazione 
del 
giudizio. 


Con 
l’unificazione 
delle 
giurisdizioni 
troverebbero 
soluzione 
anche 
diverse 
aporie collegate alle giurisdizioni diverse dall’A.G.o. In specie: 


(24) Con novella dell’art. 67, r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 (ordinamento giudiziario). 
(25) Per un più ampio esame 
della 
problematica 
sia 
consentito il 
rinvio a: 
M. GErArdo, A. Mu-
TArELLI, indagine 
sul 
processo civile 
in italia. irragionevole 
durata del 
processo e 
possibili 
“ragionevoli” 
linee di intervento, in rass. avv. Stato, 2010, 4, pp. 224-227. 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


a) con l’eliminazione 
della 
giurisdizione 
attribuita 
alla 
Corte 
dei 
Conti 
e 
al 
Consiglio di 
Stato si 
garantirebbe 
il 
ricorso in Cassazione 
per violazione 
di 
legge 
nelle 
liti 
attribuite 
a 
questi 
giudici 
attualmente 
ammesso avverso le 
sentenze 
pronunciate 
dagli 
organi 
giurisdizionali 
ordinari 
o speciali, ma 
escluso 
(ad eccezione 
dei 
motivi 
inerenti 
la 
giurisdizione) avverso le 
decisioni 
della 
Corte 
dei 
Conti 
e 
del 
Consiglio di 
Stato. Verrebbe 
eliminata 
altresì 
l’irragionevole 
diversità 
di 
mezzi 
probatori 
tra 
giudizio ordinario e 
giudizio amministrativo 
-atteso che 
dinanzi 
a 
quest’ultimo è 
escluso l’interrogatorio formale 
ed 
il 
giuramento 
(art. 
63, 
comma 
5, 
c.p.a.) 
-con 
particolare 
riguardo 
ai 
rapporti 
di lavoro attribuiti alla cognizione dei due giudici; 
b) con l’eliminazione 
della 
giurisdizione 
attribuita 
alla 
Corte 
dei 
Conti 
e 
al 
Consiglio di 
Stato si 
porrebbe 
fine 
ai 
dubbi 
sulla 
imparzialità 
ed indipendenza 
di 
questi 
organi. dubbi 
derivanti 
dalla 
modalità 
di 
nomina 
politica 
(ad 
opera 
del 
Governo e 
in più, come 
accade 
per la 
Corte 
dei 
Conti, ad opera 
del 
Consiglio 
regionale 
e 
del 
Consiglio 
delle 
autonomie 
locali) 
di 
una 
significativa 
aliquota 
dei 
componenti 
ed altresì 
-per il 
Consiglio di 
Stato -dall’esercizio 
anche 
di 
funzione 
consultiva 
e 
dalla 
circostanza 
che 
numerosi 
componenti 
rivestono 
incarichi 
extragiudiziari 
presso i 
Ministeri 
(26). La 
ratio 
della 
specificità 
che 
giustifica 
le 
giurisdizioni 
speciali, 
costituita 
dalla 
creazione 
di 
un 
organo 
particolarmente 
versato 
e 
preparato 
sulla 
materia 
da 
giudicare, 
potrebbe 
essere 
agevolmente 
garantita 
con la 
creazione 
di 
sezioni 
specializzate 
per determinate 
materie 
istituite 
presso gli 
organi 
giudiziari 
ordinari 
(in aderenza 
a 
quanto previsto nell’art. 102, comma 2, Cost.) (27). 
del 
resto 
il 
problema 
della 
unità 
o 
meno 
delle 
giurisdizioni 
è 
in 
funzione 
anche 
delle 
scelte 
di 
politica 
del 
diritto. 
Nei 
Paesi 
di 
civil 
law 
è, 
difatti, 
dato 
constatare 
una 
pluralità 
di 
giurisdizioni; 
in 
quelli 
di 
common 
law, 
invece, 
è 
“sostanzialmente 
realizzato 
il 
principio 
dell’unità 
delle 
giurisdizioni” 
(28). 


L’unificazione 
delle 
giurisdizioni 
dovrebbe 
arrecare 
anche 
un 
sensibile 
contributo 
ad 
abbreviare 
i 
tempi 
del 
processo. 
È 
noto 
che 
la 
durata 
dei 
processi 


(26) dubbi 
chiaramente 
evidenziati 
da 
G. SCArSELLI, La terzietà e 
l’indipendenza dei 
giudici 
del 
Consiglio di 
Stato, in Foro it., 2001, III, cc. 269-273, in ordine 
ai 
quali 
si 
è 
avuta 
la 
replica 
di 
C. CALA-
Brò, 
a 
proposito 
di 
indipendenza 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
in 
Foro 
it., 
2001, 
III, 
cc. 
555-556, 
con 
successiva 
controreplica 
di 
r. roMBoLI, A. ProTo 
PISANI, G. SCArSELLI, ancora sull’indipendenza dei 
giudici 
del 
Consiglio di Stato, in Foro it., 2001, III, cc. 556-558. 
(27) Sulla 
perdita 
di 
giustificazione 
della 
giurisdizione 
speciale 
amministrativa, specie 
in seguito 
alla 
novella 
contenuta 
nel 
d.L.vo 
31 
marzo 
1998, 
n. 
80 
e 
nella 
L. 
21 
luglio 
2000, 
n. 
205, 
e 
sulla 
necessità 
dell’introduzione 
di 
una 
giurisdizione 
unica, si 
veda 
A. ProTo 
PISANI, Verso il 
superamento della giurisdizione 
amministrativa?, in Foro it., 2001, V, cc. 21-29, spec. cc. 26-27. 
(28) 
Così: 
A. 
PIzzoruSSo, 
Corso 
di 
diritto 
comparato, 
1983, 
Giuffrè, 
Milano, 
p. 
177. 
Va 
precisato 
che 
l’unità 
delle 
giurisdizioni 
-costituente 
un 
dato 
costante 
per 
secoli 
del 
sistema 
anglosassone 
-è 
venuta 
meno dopo la 
seconda 
guerra 
mondiale; 
in proposito cfr. M. NIGro, Giustizia amministrativa, III edizione, 
Il 
Mulino, 1983, p. 48 evidenzia 
che 
“oggi 
in inghilterra l’esclusività del 
giudice 
ordinario nella 
tutela del cittadino verso la p.a. è andata perduta”. 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


dinanzi 
ai 
TAr e 
alla 
Corte 
dei 
Conti 
è 
eccessiva 
ed è 
comunque 
superiore 
a 
quella dei processi dinanzi ai giudici ordinari. 


Peraltro 
l’evoluzione 
legislativa 
delle 
giurisdizioni 
amministrativa 
e 
contabile, 
come 
testimoniato 
dall’introduzione 
del 
nuovo 
processo 
amministrativo 
(il 
citato d.L.vo n. 104/2010) e 
del 
nuovo processo contabile 
(d.L.vo 27 agosto 
2016, 
n. 
174) 
e 
lo 
stesso 
istituto 
della 
traslatio 
iudicii 
(art. 
59 
L. 
18 
giugno 
2009 n. 69, poi 
iterato nel 
codice 
del 
processo amministrativo e 
nel 
codice 
di 
giustizia 
contabile) hanno scolorito le 
ragioni 
storiche 
giustificative 
dell’esistenza 
di più giurisdizioni. 


Tale 
evoluzione 
ha 
comportato 
-da 
un 
lato 
-l’attribuzione 
al 
giudice 
amministrativo 
e 
contabile 
di 
strumenti 
istruttori 
e 
cognitori 
un tempo propri 
del 
solo 
giudice 
ordinario. 
Emblematico 
è 
in 
tal 
senso 
il 
giudizio 
pensionistico 
dinanzi 
alla 
Corte 
dei 
Conti 
(artt. 151-171) declinato come 
il 
rito lavoro dinanzi 
al giudice ordinario. 


I dati 
ora 
delineati 
convergono nel 
senso di 
rendere, almeno prospetticamente, 
concepibile l’unificazione delle giurisdizioni. 


Né 
può 
dimenticarsi 
che 
dal 
1933 
(T.u. 
11 
dicembre 
1933) 
opera 
una 
Autorità 
Giudiziaria 
che 
riassume 
in sé 
la 
qualità 
di 
giudice 
dei 
diritti 
e 
degli 
interessi. 
Ed 
infatti 
il 
Tribunale 
Superiore 
delle 
Acque 
Pubbliche 
sedente 
in 
roma 
-oltre 
a 
costituire 
giudice 
di 
secondo grado per le 
sentenze 
emesse 
dai 
Tribunali 
regionali 
delle 
Acque 
-è 
investito 
della 
giurisdizione 
in 
unico 
grado 
per 
i 
ricorsi 
con 
i 
quali 
si 
deduce 
la 
illegittimità 
dei 
provvedimenti 
concernenti 
la 
utilizzazione 
delle 
acque 
(con competenza 
di 
legittimità 
e 
di 
merito) e 
con 
rinvio dinamico agli “istituti tipici del processo civile” (29). 


Proprio partendo dalla 
trasversalità 
dei 
principi 
che 
devono presidiare 
il 
processo in quanto tale 
(a 
prescindere 
cioè 
se 
abbia 
ad oggetto diritti 
od interessi), 
il 
Tribunale 
Superiore 
della 
Acque 
è 
giunto 
a 
ritenere 
-ribaltando 
la 
propria 
monolitica 
giurisprudenza 
-che 
avverso il 
diniego della 
misura 
cautelare 
è 
ammissibile 
il 
reclamo al 
collegio in applicazione 
dell’art. 669 terdecies 
c.p.c. (30). 

(29) P. VIrGA, La tutela giurisdizionale 
nei 
confronti 
della P.a., Giuffré, Milano, 2003, p. 300, 
osserva 
come 
“poiché 
tuttavia 
il 
rito 
speciale 
innanzi 
al 
Tribunale 
Superiore 
delle 
acque 
comporta 
l’applicazione 
degli 
istituti 
tipici 
del 
processo 
civile, 
le 
norme 
del 
T.U. 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
debbono 
essere 
necessariamente 
integrate 
dalle 
norme 
del 
codice 
di 
procedura civile”. Sul 
processo dinanzi 
al 
TSAP 
è 
agevole peraltro il rinvio a G. MASTrANGELo, i Tribunali delle 
acque Pubbliche, Ipsoa, 2009, passim. 
(30) T.S.A.P., 28 maggio 2001, in Foro it., 2002, III, c. 462 con nota 
di 
A. MuTArELLI, L’art. 669 
terdecies 
c.p.c. 
conquista 
il 
processo 
amministrativo 
dinanzi 
al 
Tribunale 
Superiore 
delle 
acque 
e, 
ancor 
prima 
di 
tale 
rivoluzionaria 
pronuncia, A. MuTArELLI, Sull’applicabilità dell’art. 669-terdecies 
c.p.c. 
al processo cautelare dinanzi al TSaP, in Corr. Giur. 
1997, p. 40. 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


Il persistente valore della dominicalità 


Gaetana Natale* 


Il 
concetto 
della 
permanente 
validità 
della 
dominicalità 
induce 
oggi 
il 
giurista 
a 
rinvenire 
nella 
complessità 
del 
tempo 
in 
cui 
si 
trova 
a 
vivere 
“un 
nuovo 
orizzonte 
di 
senso” 
che 
definisca 
il 
concetto 
di 
valore 
Wertbegriff 
della 
proprietà. 


Il 
tema 
del 
presente 
convegno fa 
riferimento ai 
“Diritti 
senza tempo”e 
questo riferimento è 
un invito a 
riflettere 
su come 
il 
tempo possa 
influire 
sulle 
norme, e, più in generale, sui sistemi giuridici. 


Molti 
autori 
hanno scritto sul 
rapporto tra 
tempo e 
diritto (1), cercando 
di 
definire 
un’ermeneutica 
della 
temporalità 
giuridica: 
“nomos”e“chronos”, 
“tempo patico” e “tempo gnosico”. 

Con 
il 
tempo 
un 
diritto 
può 
nascere: 
l’usucapione 
(dal 
lat. 
usu 
capĕre, 
ottenere 
con 
l’uso) 
testimonia 
come 
il 
comportamento 
di 
fatto 
protrattosi 
nel 
diritto 
crea 
un 
diritto 
soggettivo. 
Il 
principio 
giuridico 
del 
“possesso 
vale 
titolo” 
ex 
art. 
1158 
c.c. 
è 
basato 
sulla 
continuità 
temporale 
del 
possesso, 
unitamente 
al 
principio 
della 
buona 
fede, 
good 
faith, 
estoppel 
proprietary 
nel 
sistema 
di 
common 
law. 
Trovandomi 
in 
presenza 
di 
illustri 
romanisti 
non 
posso 
non 
fare 
riferimento 
alla 
manus 
maritalis 
nella 
sua 
dimensione 
temporale. 
La 
moglie 
era 
nel 
diritto 
romano 
soggetto 
di 
diritto, 
in 
quanto 
rimaneva 
proprietaria 
dei 
suoi 
beni 
personali, 
i 
cd. 
paraphernalia 
e 
ciò 
entrava 
in 
stridente 
contrasto 
col 
fatto 
di 
poter 
cadere 
in 
proprietà 
del 
marito. 
Per 
evitare 
il 
conflitto 
normativo 
si 
ricorreva 
ad 
una 
fictio 
iuris: 
ogni 
anno 
la 
moglie 
si 
allontanava 
dalla 
famiglia 
per 
tre 
notti 
(trinoctii 
usurpatio) 
e 
così 
facendo 
interrompeva 
il 
periodo 
temporale 
dell’usus. 


Con 
il 
tempo 
un 
diritto 
muore: 
si 
pensi 
alla 
prescrizione. 
Istituto 
di 
diritto 
pubblico, contrariamente 
alla 
decadenza, rispondente 
ad un’esigenza 
di 
certezza 
giuridica. Le 
norme 
che 
la 
disciplinano sono inderogabili 
ex 
art. 2936 


c.c. e, pertanto, se 
il 
codice 
civile 
ammette 
una 
decadenza 
convenzionale 
(art. 
2965 c.c.), non ammette 
che 
i 
termini 
di 
prescrizione 
possano essere 
derogati 
dalle parti. 
(*) Avvocato dello Stato, Professore 
a 
contratto presso l'università 
degli 
studi 
di 
Salerno e 
Consigliere 
giuridico del Garante per la Privacy. 

Il 
presente 
scritto è 
la relazione 
dell’Autrice 
al 
Convegno “Diritto senza tempo. La terra e 
i 
diritti. 
Dialogo tra giuristi” -Seconda sessione: “La permanente 
validità della dominicalità, proprietà e 
dominio” 
(Ravello, 29 e 
30 ottobre 
2021). Presenti, il 
Prof. Natalino Irti, Emerito presso l’Università 
degli 
Studi 
di 
Roma “La Sapienza”, Accademico dei 
Lincei 
ed il 
Prof. Luigi 
Capogrossi 
Colognesi, 
Emerito presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Accademico dei Lincei. 


un 
ringraziamento 
alla 
dott.ssa 
Giulia 
Arcari, 
ammessa 
alla 
pratica 
forense 
presso 
l’Avvocatura 
generale 
dello Stato, per la redazione delle note. 


(1) Si veda 
L. dI 
SANTo, il diritto nel tempo e il tempo nel diritto, Cedam, 2018. 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


Il 
tempo 
assume 
rilevanza 
nel 
diritto 
penale: 
si 
pensi 
alla 
prescrizione 
del 
reato e 
della 
pena 
ex 
art. 157 c.p. e 
alla 
rilevanza 
del 
decorrere 
del 
tempo in 
ambito processuale (termini ordinatori e perentori). 


Il 
tempo assume 
rilievo non solo nella 
fase 
genetica 
del 
diritto, ma 
anche 
nella 
sua 
fase 
funzionale, determinando gli 
effetti 
giuridici 
di 
una 
norma. Il 
tempo può modulare 
e 
declinare 
l’esercizio di 
un diritto attraverso la 
previsione 
di 
un “termine”: 
anche 
nel 
diritto romano di 
tipo pretorio era 
concesso 
un termine 
di 
30 giorni 
al 
debitore 
per pagare 
il 
debito prima 
di 
ricorrere 
alla 
manus iniectio. 

Viene 
allora 
da 
chiedersi: 
prevale 
la 
norma 
o 
il 
tempo? 
Il 
giurista 
non 
può 
non fare 
riferimento al 
diritto vivente, alla 
consuetudine 
basata 
sul 
protrarsi 
del 
tempo e 
della 
opinio iuris 
ac 
necessitatis 
quale 
fonte 
del 
diritto per affermare 
che 
non è 
la 
norma 
che 
incide 
sul 
tempo, ma 
è 
il 
tempo che 
determina 
la 
norma, non foss’altro negli effetti che essa produce (2). 

Nel 
diritto 
amministrativo 
il 
tempo 
può 
addirittura 
tornare 
indietro 
con 
il 
rimedio 
dell’autotutela 
decisoria 
ed 
esecutiva 
nell’ambito 
dell’esercizio 
del 
“potere 
di 
riedizione” 
volto 
alla 
ponderazione 
comparativa 
degli 
interessi 
pubblico 
e 
privato 
(“Ermessen”) 
nel 
rispetto 
del 
principio 
di 
buon 
andamento 
della 
pubblica 
amministrazione 
ex 
art. 
97 
Cost. 
Si 
pensi 
ancora 
al 
tempo 
impiegato 
nel 
rilascio 
di 
un 
provvedimento, 
alla 
configurazione 
della 
dimensione 
temporale 
in 
ordine 
alla 
responsabilità 
della 
P.A. 
(il 
cd. 
danno 
da 
ritardo, 
la 
questione 
discussa 
dei 
poteri 
sollecitatori 
e 
inibitori 
del 
terzo 
in 
caso 
di 
SCIA 
ex 
art. 
19 
L. 
241/90, 
laddove 
di 
recente 
il 
Consiglio 
di 
Stato 
ha 
affermato 
la 
sussistenza 
di 
un 
controllo 
tardivo 
non 
nell’an, 
ma 
nel 
quomodo) 
(3). 
Si 
può 
affermare 
che 
ciò 
che 
non 
è 
possibile 
alla 
fisica, 
è 
possibile 
al 
diritto; 
la 
dimensione 
del 
tempo 
può 
modulare 
i 
differenti 
livelli 
di 
tutela 
(si 
pensi 
anche 
al 
prospective 
overruling 
per 
la 
modulazione 
degli 
effetti 
temporali 
di 
una 
sentenza). 


Il 
sottotitolo del 
convegno è, però, la 
“terra e 
i 
diritti” 
ed allora 
dalla 
dimensione 
temporale 
occorre 
spostare 
l’analisi 
sulla 
res 
e 
sulla 
permanente 
validità 
della dominicalità, proprietà e dominio. 


occorre 
verificare 
se 
oggi 
la 
res 
conservi 
una 
sua 
dimensione 
temporale 
ed i 
caratteri 
dell’assolutezza, inerenza 
ed immediatezza 
e 
se, la 
dominicalità 
possa 
assumere 
un valore 
non solo naturalistico e 
temporale, ma 
anche 
economico 
e sociale. 


ricordiamo 
che 
Kant 
sosteneva 
(4), 
come 
Locke 
e 
tutti 
i 
giusnaturalisti, 


(2) r. CrISTIN, Diritto e tempo, Saggi di filosofia del diritto, Giuffrè, 1998. 
(3) Consiglio di 
Stato, Sez. VI, 8 luglio 2021, n. 5208; 
si 
veda 
anche 
Consiglio di 
Stato, Sez. II, 
17 febbraio 2021, n. 1448 sul 
risarcimento del 
danno da 
ritardo nella 
definizione 
di 
un procedimento di 
rilascio di un permesso di costruire in virtù del cd. “contatto sociale qualificato tra privato e P.A.”. 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


che 
la 
proprietà 
è 
un 
diritto 
naturale: 
la 
proprietà 
communis 
fundi 
originaria 
esiste 
fin 
dallo 
stato 
di 
natura, 
ma 
in 
una 
forma 
provvisoria, 
in 
quanto 
non 
protetta 
da 
un 
ordinamento 
giuridico. 
I 
temi 
del 
possesso 
e 
della 
proprietà 
si 
inseriscono 
nel 
classico 
fenomeno 
contrattualistico 
del 
passaggio 
dallo 
stato 
di 
natura 
allo 
stato 
di 
diritto 
(si 
pensi 
ad 
hobbes, 
a 
Grozio, 
cd. 
teoria 
contrattualistica 
e 
al 
suo 
dibattito 
con 
Selden 
sul 
mare 
liberum 
e 
marum 
clausum 
sulla 
base 
dell’ontologia 
spaziale). 
“il 
mio 
esterno” 
diceva 
Kant, 
precisando 
che 
il 
fondamento 
del 
diritto 
di 
proprietà 
non 
è 
di 
ordine 
empirico 


o 
sensibile, 
ma 
intelligibile 
e 
razionale 
scaturendo 
dalla 
stessa 
ragion 
pratica. 
Il 
“possesso 
intelligibile” 
distinto 
dal 
“possesso 
empirico”, 
“possessio 
phaenomenon”
e“possessio 
noumenon”: 
la 
proprietà 
come 
esercizio 
spaziale, 
la 
cd. 
presa 
di 
terra 
fattuale 
“landnahme” 
come 
base 
del 
diritto 
di 
proprietà 
(5). 
Il 
tema 
della 
proprietà 
privata 
era 
stato 
ampiamente 
dibattuto 
nella 
repubblica 
di 
Platone 
che 
lo 
ricollegava 
alle 
questioni 
di 
giustizia 
e 
di 
stabilità 
sociale 
(funzione 
sociale 
della 
proprietà 
affermata 
anche 
nella 
nostra 
Costituzione). 
Altra 
concezione 
della 
proprietà 
era 
quella 
di 
Aristotele 
legata 
al 
concetto 
di 
progresso. 
Ancora 
oggi 
l’indice 
di 
sviluppo 
umano 
Human 
Development 
index, 
elaborato 
annualmente 
dalle 
Nazioni 
unite 
è 
strettamente 
correlato 
all’indice 
di 
proprietà 
privata 
Property 
right 
index 
(6). 
In 
una 
visione 
Neokeynesiana, 
quale 
è 
quella 
che 
si 
sta 
affermando 
nel 
periodo 
della 
pandemia 
in 
corso, 
il 
tema 
della 
proprietà 
pone 
anche 
l’annosa 
questione 
dell’intervento 
pubblico 
nell’economia 
(si 
ricorderà 
la 
diversa 
concezione 
tra 
Weber 
e 
Schmitt) 
volto 
ad 
accompagnare 
gli 
assett 
strategici 
del 
paese 
attraverso 
provvedimenti 
in 
equity 
di 
uno 
Stato 
player 
che 
affianca 
ed 
aiuta 
la 
proprietà 
privata 
di 
tipo 
produttivo 
ed 
imprenditoriale. 
Se 
spostiamo tali 
considerazioni 
filosofiche 
sul 
piano dell’applicazione 
pratica 
del 
diritto, 
quale 
scienza 
storica 
e 
scienza 
applicata, 
ci 
rendiamo 
conto 
che 
la 
proprietà 
non è 
strettamente 
correlata 
alla 
materialità, cd. “cultura del-
l’immateriale 
e 
dell’adiacente 
possibile”. 
di 
recente 
il 
premio 
Nobel 
per 
la 
fisica 
Giorgio Parisi 
ci 
ha 
ricordato che 
anche 
la 
materia, «la 
massa 
è 
un fenomeno 
dinamico», 
definendo 
il 
concetto 
di 
caos 
e 
di 
sistemi 
complessi 
a 
scala 
atomica e planetaria. 


Si 
ricorderà 
la 
nota 
sentenza 
della 
Cassazione 
a 
Sezioni 
unite 
del 
5 
marzo 
2014 
n. 
5087 
sul 
tema 
dell’usucapibilità 
dei 
beni 
immateriali. 
In 
tale 
pronunzia 
la 
Suprema 
Corte 
di 
legittimità 
aveva 
affrontato 
l’usucapibilità 
dell’azienda 
(art. 
2555 
c.c.), 
quale 
complesso 
di 
beni 
organizzati 
per 
l’esercizio 
di 
un’impresa: 
secondo 
gli 
ermellini 
l’azienda, 
compreso 
il 
suo 
valore 
di 
avviamento, 
deve 
es


(4) I. KANT, Principi metafisici della dottrina del diritto, 1797. 
(5) Si 
veda 
la 
critica 
di 
Schmitt 
a 
tale 
concezione 
di 
proprietà, C. SChMITT, il 
nomos 
della terra 
nel diritto internazionale dello «Jus publicum europaeum», Adelphi, 2011. 
(6) M. ProSPEro, 
Filosofia del diritto di proprietà. Da aristotele a Kant, FrancoAngeli, 2009. 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


sere 
considerata 
come 
un 
bene 
distinto 
dai 
singoli 
componenti, 
suscettibile 
di 
essere 
unitariamente 
posseduto 
e, 
nel 
concorso 
di 
altri 
elementi 
indicati 
dalla 
legge, 
usucapito. 
In 
applicazione 
di 
tale 
principio 
la 
Cassazione 
ha 
riconosciuto 
a 
favore 
di 
un 
farmacista 
l’usucapibilità 
di 
una 
farmacia, 
al 
cui 
interno 
aveva 
esercitato 
la 
sua 
professione 
per 
oltre 
20 
anni 
come 
se 
fosse 
proprietario. 


L’azienda 
è 
un’universalità 
di 
beni 
ex 
art. 
816 
c.c. 
ed 
in 
virtù 
dell’art. 
1160 c.c. le 
universalità 
di 
beni 
mobili 
sono usucapibili 
in 20 anni. La 
Corte 
di 
legittimità 
afferma, dunque, una 
concezione 
della 
res 
non in senso naturalistico, 
ma 
in 
senso 
funzionale, 
economico-sociale, 
giungendo 
ad 
affermare 
l’usucapibilità 
della 
quota 
ereditaria, della 
quota 
societaria, di 
azioni, di 
titoli 
di 
credito. L’azienda 
può essere 
al 
centro di 
un percorso interpretativo di 
oggettivazione, 
anche se è un bene dinamico finalizzato all’attività di impresa. 


Vi 
è 
da 
chiedersi, però, se 
debbano prevalere 
le 
ragioni 
della 
proprietà 
o 
dell’impresa: 
alcuni 
autori 
ritengono che 
considerare 
applicabile 
il 
termine 
di 
20 anni 
al 
possesso dei 
beni 
finalizzati 
all’attività 
di 
impresa 
non corrisponda 
alla 
dinamicità 
dell’attività 
economica, 
ponendo 
in 
luce 
i 
frequenti 
casi 
di 
operazioni 
cd. 
a 
spezzatino, 
pratiche 
elusive 
per 
poter 
pagare 
in 
un 
caso 
di 
cessione 
di azienda l’Iva piuttosto che l’imposta di registro. 


Si 
pensi 
ancora 
all’impostazione 
data 
al 
Nuovo Codice 
dell’insolvenza 
e 
della 
crisi 
di 
impresa 
di 
cui 
è 
attesa 
ancora 
l’entrata 
in 
vigore 
in 
cui 
i 
cd. 
sistemi 
di 
allerta 
e 
composizione 
negoziata 
o assistita 
mirano a 
salvaguardare 
la 
proprietà 
dell’impresa sotto il profilo della cd. “continuità produttiva”. 


Eppure, 
di 
recente 
la 
Cassazione 
con 
un’altra 
sentenza, 
la 
n. 
25195 
del 
17 settembre 
2021, torna 
da 
affermare 
in materia 
di 
servitù irregolari 
la 
necessità 
del 
carattere 
della 
predialità 
e 
dell’utilità 
del 
fondo. Non venendo in 
rilievo 
esigenze 
legate 
all’attività 
di 
impresa, 
riafferma 
l’inerenza 
della 
servitù 
alla 
res 
e 
il 
principio del 
numerus 
clausus 
dei 
diritti 
reali, statuendo che 
le 
cd. 
servitù irregolari 
hanno natura 
meramente 
obbligatoria 
e 
non reale. Si 
pensi 
alla 
dibattuta 
questione 
della 
natura 
e 
degli 
effetti 
del 
cd. abbandono liberatorio 
del 
fondo servente 
ex 
art. 1070 c.c., in ordine 
alla 
quale 
è 
prevalsa 
la 
tesi 
secondo la 
quale 
la 
proprietà 
non venga 
immediatamente 
perduta 
dal 
titolare 
del 
fondo servente, permanendo per la 
durata 
di 
dieci 
anni 
la 
possibilità 
del-
l’apprensione 
da 
parte 
del 
titolare 
del 
fondo dominante. decorso il 
decennio 
il 
fondo 
rimarrebbe 
definitivamente 
in 
capo 
all’antico 
titolare, 
il 
quale 
tuttavia 
viene 
liberato dalle 
obbligazioni 
accessorie 
(obbligazione 
propter 
rem). L’abbandono 
liberatorio 
si 
distingue 
così 
sia 
dalla 
mera 
derelictio, 
in 
quanto 
questa, 
quale 
atto giuridico in senso stretto, è 
unicamente 
idonea 
a 
produrre 
la 
perdita 
del 
possesso, tanto dalla 
rinuncia 
in senso tecnico, dal 
momento che, a 
differenza 
dell’abbandono, 
questa 
è 
in 
grado 
unicamente 
di 
liberare 
il 
debitore 
dalle 
obbligazioni 
che 
sorgeranno 
successivamente 
alla 
rinunzia. 
Si 
ricorda, 
a 
tal 
proposito, che 
la 
rinuncia 
abdicativa 
della 
proprietà 
è 
nulla 
se 
ha 
lo scopo illecito 
di sottrarsi, ad esempio, all’obbligo di bonifica. 



CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


Il 
tema 
della 
tipicità 
dei 
diritti 
reali 
(in stretta 
connessione 
con la 
norma 
sulla 
trascrizione 
contenuta 
nell’art. 
2645-ter 
c.c.) 
si 
è 
posto, 
ad 
esempio, 
anche 
per i 
diritti 
edificatori, quale 
“conseguenza civilistica” 
della 
cd. perequazione 
urbanistica. Essi 
sono espressione 
di 
commerciabilità 
di 
mere 
“potenzialità 
edificatorie”, per l’appunto denominate 
“diritti 
edificatori”, anche 
a 
prescindere 
dal 
loro attuale 
rapporto con un fondo di 
partenza 
(detto anche 
“di 
decollo”) e 
con un fondo di 
arrivo (detto anche 
“di 
atterraggio”), individuati 
al 
momento dell’atto negoziale 
di 
cessione; 
tanto che 
in alcuni 
comuni 
sono state 
addirittura 
istituite 
vere 
e 
proprie 
“borse 
di 
diritti 
edificatori”, ove 
essi 
possono essere 
acquistati 
alla 
stregua 
di 
veri 
e 
propri 
“valori 
economici 
a 
sé 
stanti”. La 
legge 
fondamentale 
sull’urbanistica 
n. 1150/1942 non parla 
di 
perequazione, ma 
la 
Corte 
Costituzionale 
con la 
nota 
sentenza 
n. 209/2017 ha 
statuito 
che 
la 
perequazione 
è 
coperta 
dalla 
generale 
potestà 
conformativa 
della 
P.A., per cui, ai 
sensi 
dell’art. 11 della 
L. 241/90 il 
provvedimento può essere 
sostituito da 
accordi 
sostitutivi 
con i 
privati. Nella 
pratica 
si 
ricorderà 
come 
i 
notai 
abbiano dovuto qualificare 
gli 
atti 
di 
cessione 
di 
cubatura 
come 
“servitù 
negative 
di 
non 
edificare” 
con 
imposta 
di 
registro 
fissa 
per 
poter 
procedere 
alla 
loro trascrizione 
ex 
art. 2643, n. 2-bis, c.c., introdotto dal 
d.L. 13 maggio 
2011, 
n. 
70, 
convertito 
in 
legge 
12 
luglio 
2011, 
n. 
106 
(tale 
articolo 
ora 
prevede 
la 
possibilità 
di 
trascrivere 
«i 
contratti 
che 
trasferiscono, costituiscono o modificano 
i 
diritti 
edificatori 
comunque 
denominati, 
previsti 
da 
normative 
statali 
o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoriale»). 


Tale 
norma 
non chiarisce, però, la 
natura 
dei 
diritti 
edificatori. Secondo 
una 
prima 
ricostruzione, i 
diritti 
edificatori 
altro non sarebbero che 
diritti 
di 
proprietà, 
aventi, 
però, 
ad 
oggetto 
una 
“cubatura 
reificata” 
(espressione 
del 
Presidente 
Cirillo qui 
presente), cioè 
un “bene 
immateriale 
dotato di 
valore 
economico” 
e, come 
tale, compatibile 
con la 
nozione 
di 
“bene” 
come 
“cosa 
che 
può 
formare 
oggetto 
di 
diritti”, 
rintracciabile 
all’art. 
810 
c.c.; 
si 
parla 
anche 
di 
“beni 
immobili 
virtuali” 
(7), proprio per sottolineare 
“l’inerenza finale” 
del 
diritto 
edificatorio 
al 
fondo 
su 
cui 
il 
manufatto 
dovrà 
essere 
realizzato 
e 
così 
giustificare 
la 
prevista 
sottoposizione 
dei 
relativi 
atti 
traslativi 
alla 
disciplina 
della trascrizione. 


Secondo 
un’altra 
tesi, 
il 
diritto 
edificatorio 
sarebbe 
un 
“nuovo 
diritto 
reale 
parziario”, diverso dal 
diritto di 
proprietà, e 
il 
legislatore 
l’avrebbe 
tipizzato 
proprio 
per 
evitare 
qualunque 
possibile 
vulnus 
al 
principio 
del 
numerus 
clausus 
dei 
diritti 
reali; 
né 
a 
tale 
ricostruzione 
osterebbe 
la 
possibilità 
che, in 
caso 
di 
cessione, 
il 
diritto 
edificatorio 
non 
venga 
dalle 
parti 
riferito 
a 
un 
preciso 
“fondo di 
atterraggio”, perché 
questo aspetto riguarderebbe 
la 
sola 
“fase 
attuativa 
e 
materiale” 
della 
vicenda 
successiva 
al 
trasferimento; 
del 
resto 
la 


(7) A. GAMBAro, “i beni”, in Trattato di 
diritto civile 
e 
commerciale, diretto da 
A. CICu 
e 
F. MES-
SINEo, 2012, ed. Giuffrè, pag. 135. 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


stessa 
impostazione 
della 
novella 
del 
2011 
-che 
ha 
inserito 
la 
norma 
sulla 
trascrizione 
degli 
atti 
traslativi 
di 
diritti 
edificatori 
subito dopo quella 
sui 
“classici” 
diritti 
reali 
parziari 
e 
subito prima 
di 
quella 
sugli 
acquisti 
in comunione 
-dimostrerebbe 
l’intento 
del 
legislatore 
di 
inserire 
la 
nuova 
fattispecie 
nel-
l’alveo dei 
contratti 
traslativi 
di 
diritti 
reali 
immobiliari, valorizzando “l’inerenza 
finale” 
al 
fondo 
sul 
quale 
dovrà 
essere, 
infine, 
“scaricata” 
la 
potenzialità 
edificatoria acquistata. 


Seconda 
una 
terza 
tesi 
(Cirillo), infine, i 
diritti 
edificatori 
altro non sarebbero 
che 
“interessi 
legittimi 
pretensivi”, 
e 
ciò 
sulla 
scorta 
delle 
moderne 
tesi 
sul 
“fondamento 
sostanziale” 
dell’interesse 
legittimo, 
che 
nasce 
dalla 
norma 
attributiva 
del 
potere, emerge 
concretamente 
nel 
procedimento amministrativo 
e 
potrebbe 
essere 
oggetto 
di 
un 
contratto 
traslativo 
(tenuto 
conto 
dell’ampia 
definizione 
di 
tale 
figura 
codificata 
all’art. 1376 c.c.) al 
pari 
delle 
altre 
situazioni 
giuridiche 
soggettive: 
in questo modo risulterebbe 
adeguatamente 
valorizzato il 
dato che 
il 
diritto edificatorio -una 
volta 
acquistato -non 
è 
ancora 
concretamente 
esercitabile, 
dovendo 
prima 
confrontarsi 
con 
il 
residuo 
potere 
amministrativo sotteso al 
rilascio del 
necessario permesso di 
costruire 
(si 
ricorderà 
che 
il 
d.L. 76/2020 ha 
rafforzato i 
titoli 
edilizi 
semplificati, cd. 
minori 
CILA, 
SCILA, 
titoli 
abilitativi 
alternativi 
al 
permesso 
di 
costruire). 
Pertanto, la 
vicenda 
traslativa 
avrebbe 
un oggetto (anche) pubblico e, come 
tale, 
potrebbe 
essere 
ricondotta 
alla 
nozione 
di 
“contratto 
a 
oggetto 
pubblico” 
di 
cui 
all’art. 11 della 
L. 241/90, specie 
laddove 
all’accordo di 
cessione 
partecipi 
anche 
il 
comune, come 
a 
volte 
accade. A 
conforto della 
tesi 
si 
osserva 
che 
l’interesse 
legittimo possiede 
una 
sicura 
“dimensione 
patrimonialistica”, 
essendo da 
tempo previsto il 
risarcimento del 
danno legato alla 
sua 
ingiusta 
lesione, 
per 
cui 
esso 
sarebbe 
la 
figura 
più 
adatta 
a 
descrivere 
il 
reale 
“contenuto 
economico” 
del 
diritto edificatorio, che 
dovendo “confrontarsi 
con il 
potere 
pubblico” 
sarà 
economicamente 
valutato 
tenendo 
conto 
anche 
di 
questo 
aspetto. In questa 
ottica, infine, la 
prevista 
trascrizione 
degli 
atti 
traslativi 
di 
diritti 
edificatori, 
non 
ascrivibili 
ai 
diritti 
reali, 
avrebbe 
funzione 
di 
mera 
“pubblicità 
notizia”, anche 
perché 
un vero e 
proprio conflitto tra 
più aventi 
causa 
dallo stesso autore 
sarebbe 
escluso in apice 
dal 
fatto che 
il 
concreto esercizio 
del 
diritto 
ceduto 
resta 
pur 
sempre 
condizionato 
al 
rilascio 
del 
permesso 
di 
costruire 
da 
parte 
dell’amministrazione; 
in sostanza 
il 
pericolo sarebbe 
nei 
fatti 
scongiurato dal “ruolo di controllo” esercitato dall’amministrazione. 


Sembra, dunque, prevalere 
una 
“concezione 
personalistica del 
diritto di 
proprietà”, incentrata 
non sulla 
res, ma 
sui 
soggetti 
in ordine 
ad un “dovere 
negativo di astensione” (Caringella) (8). 


(8) F. CArINGELLA, manuale di Diritto Civile, dike, 2021. 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


Nel 
diritto romano 
il 
diritto di 
proprietà 
era 
considerato il 
fulcro del 
sistema 
civilistico, “il 
diritto soggettivo per eccellenza”, capace 
di 
assicurare 
al 
suo titolare un potere tendenzialmente incondizionato sul bene. 


Nei 
sistemi 
giuridici 
moderni 
la 
cd. 
“assolutezza 
del 
dominium”, 
risulta 
in 
diversa 
misura, 
attenuata 
dalla 
necessità 
di 
“armonizzare” 
le 
prerogative 
del 
proprietario 
con 
quelle 
degli 
altri 
consociati 
e 
con 
valori 
di 
carattere 
generale. 


Il 
codice 
vigente, 
all’art. 
832 
c.c., 
afferma 
che 
il 
proprietario 
“ha 
il 
diritto 
di 
godere 
e 
di 
disporre 
della cosa in modo pieno ed esclusivo, 
entro i 
limiti 
e 
con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”. 


Nella 
prima 
parte 
tale 
nozione 
corrisponde 
a 
quella 
del 
codice 
del 
1865, 
mentre 
se 
ne 
differenzia 
laddove 
fa 
riferimento 
ai 
limiti 
normativi 
della 
proprietà, 
volti 
a 
renderla 
compatibile 
con 
altri 
valori 
fondamentali: 
è 
questa 
una 
prima 
traccia 
della 
cd. 
“conformazione” 
(o 
“funzionalizzazione”) 
della 
proprietà, 
che, 
peraltro, 
avviene 
in 
modo 
diverso 
a 
seconda 
del 
tipo 
di 
bene 
che 
ne 
è 
oggetto, 
tanto 
che 
la 
dottrina 
moderna 
parla, 
ormai, 
non 
già 
di 
“una 
sola 
proprietà”, 
bensì 
di 
molteplici 
tipologie 
dominicali 
(proprietà 
immobiliare, 
proprietà 
fiduciaria, 
trust 
bilaterale 
e 
trilaterale, 
cd. 
segregazione 
patrimoniale, 
proprietà 
fondiaria, 
proprietà 
gestoria, 
proprietà 
industriale, 
quest’ultima 
oggi 
affidata 
a 
fondi 
di 
investimento 
con 
tutto 
ciò 
che 
ne 
consegue 
sul 
piano 
occupazionale 
qualora 
prevalga 
la 
logica 
speculativa 
delle 
delocalizzazioni). 


Questo peculiare 
atteggiarsi 
del 
diritto di 
proprietà 
-nel 
quale 
convivono 
l’interesse 
personale 
del 
dominus 
con profili 
di 
interesse 
collettivo (si 
pensi, 
ad 
esempio, 
all’esigenza 
di 
evitare 
che 
un 
certo 
utilizzo 
dei 
fondi 
privati 
possa 
incidere 
negativamente 
sull’ambiente) 
-si 
è 
accentuato 
con 
l’avvento 
della 
Costituzione 
repubblicana, 
ove 
è 
definitivamente 
emersa 
una 
“concezione 
funzionale 
e 
solidaristica” 
della 
proprietà, 
come 
chiaramente 
si 
evince 
dall’art. 
42 della 
Carta 
(9). Nell’ottica 
del 
Costituente 
il 
diritto di 
proprietà 
non è 
un 


(9) Eppure, negli 
ultimi 
anni 
stiamo assistendo a 
rilevanti 
cambiamenti 
nel 
nostro ordinamento 
per quanto concerne 
la 
tutela 
del 
diritto dominicale, soprattutto a 
causa 
dell’influenza 
della 
giurisprudenza 
europea. 
Con 
le 
note 
sentenze 
nn. 
348 
e 
349 
del 
2007, 
la 
Corte 
costituzionale 
si 
è 
allontanata 
dalla 
concezione 
tradizionale 
italiana 
del 
diritto di 
proprietà 
e 
ha 
accolto il 
principio del 
valore 
venale 
dei 
beni 
espropriati 
come 
quello cui 
l’indennità 
deve 
essere 
ancorata, dichiarando l’illegittimità 
costituzionale 
della 
normativa 
italiana 
«nella parte 
in cui 
stabilisce 
un criterio di 
calcolo dell’indennità di 
esproprio 
che 
non 
è 
in 
“ragionevole 
legame” 
con 
il 
valore 
di 
mercato 
dell’immobile 
espropriato». 
Anche 
nella 
sentenza 
n. 293 del 
2010 la 
Consulta 
ha 
preso le 
distanze 
dalla 
tradizione 
per concentrarsi 
sulla 
tutela 
del 
legame 
tra 
il 
titolare 
del 
diritto e 
la 
res, riconoscendo valore 
fondamentale 
al 
diritto in 
questione: 
chiamata 
a 
pronunciarsi 
sulla 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 43 T.u. espropriazioni, si 
è 
pronunciata 
sul 
tema 
dell’acquisizione 
sanante, invocando il 
rispetto del 
principio di 
legalità 
non solo 
in senso formale, ma 
anche 
in senso sostanziale. da 
ultimo, con la 
sentenza 
n. 24 del 
2019, incentrata 
sul 
tema 
delle 
misure 
di 
prevenzione 
patrimoniali, la 
Corte 
costituzionale 
è 
tornata 
sul 
tema 
del 
diritto 
di 
proprietà, stabilendo che, pur non avendo natura 
penale, sequestro e 
confisca 
devono sottostare 
alle 
garanzie 
previste 
dalla 
legge 
a 
tutela 
della 
proprietà, tra 
cui 
rientrano: 
a) la 
previsione 
attraverso una 
legge 
che 
sia 
precisa 
e 
“prevedibile”; 
b) 
la 
“necessarietà” 
della 
restrizione 
del 
diritto 
di 
proprietà 
rispetto 
agli 
obiettivi 
perseguiti 
e 
pertanto 
la 
proporzionalità 
della 
misura 
limitativa 
rispetto 
ad 
essi; 
c) 
l’adozione 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


diritto 
fondamentale 
della 
persona 
umana, 
come 
dimostra 
la 
collocazione 
dell’art. 42 Cost. in seno alla 
disciplina 
dei 
“rapporti 
economici”, invece 
che 
in 
quella 
dei 
“diritti 
fondamentali”: 
evidentemente 
si 
è 
ritenuto 
che 
la 
titolarità 
di 
un patrimonio personale, per quanto importante, non presenti 
“caratteri 
di 
stretta inerenza alla persona”, il 
che 
trova 
indiretta 
conferma 
nella 
maggiore 
valorizzazione 
di 
altri 
diritti, 
come 
quello 
al 
lavoro 
e 
all’iniziativa 
economica, 
considerati 
forse 
“più decisivi” 
in chiave 
di 
pieno sviluppo della 
personalità 
umana, ai sensi dell’art. 2 della Cost. 


Tuttavia, su questa 
impostazione 
ha 
poi 
inciso la 
diversa 
concezione 
del 
diritto 
di 
proprietà 
rinvenibile 
in 
alcune 
fonti 
di 
rango 
internazionale, 
cui 
anche 
l’Italia 
ha 
aderito, in particolare 
la 
dichiarazione 
dei 
diritti 
dell’uomo e 
del 
cittadino 
che 
definisce 
la 
proprietà 
come 
diritto 
“sacro 
e 
inviolabile” 
(art. 
17), 
nonché 
la 
Convenzione 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo, 
secondo 
cui 
“ogni 
persona fisica o morale 
ha diritto al 
rispetto dei 
suoi 
beni” 
(art. 1 del 
Protocollo 
Addizionale), 
e 
l’art. 
17 
della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
del-
l’unione 
Europea 
(Nizza, 
2000), 
che 
eleva 
espressamente 
la 
proprietà 
a 
“diritto fondamentale dell’uomo” (10). 

La 
questione 
non 
è 
meramente 
teorica, 
giacché 
il 
fatto 
di 
considerare 
quello di 
proprietà 
un “diritto fondamentale 
della 
persona” 
ne 
comporta 
una 
tutela 
“più piena” 
(11), come 
ora 
emblematicamente 
dimostra 
la 
disciplina 
di 
cui 
all’art. 42 bis 
del 
d.P.r. 8 giugno 2001, n. 327 (T.u. sulle 
espropriazioni) 


-introdotto, non a 
caso, sotto la 
spinta 
di 
note 
pronunce 
della 
Corte 
Europea 
dei 
diritti 
dell’uomo 
-ove 
si 
prevede 
che, 
in 
caso 
di 
“espropriazione 
postuma”, 
debba 
essere 
risarcito al 
proprietario, anche 
il 
danno non patrimoniale, a 
tal 
fine sostanzialmente presunto (12). 
mediante 
un 
procedimento 
che, 
pur 
non 
dovendo 
conformarsi 
agli 
standard 
garantistici 
del 
processo 
penale, 
rispetti 
i 
canoni 
del 
“giusto” 
processo garantito dalla 
legge, assicurando in particolare 
il 
rispetto 
del diritto di difesa. 


(10) 
Per 
una 
breve, 
seppur 
dettagliata, 
analisi 
della 
questione 
si 
veda 
M. 
TrIMArChI, 
La 
proprietà 
europea, in http://www.juscivile.it/contributi/2018/36_Trimarchi.pdf, 2018. 
(11) Invero, la 
nozione 
autonoma 
di 
proprietà 
presente 
nel 
sistema 
convenzionale 
è 
una 
nozione 
estremamente 
ampia 
-posta 
l’originaria 
funzione 
di 
garanzia 
dei 
diritti 
umani 
assolta 
dalla 
CEdu 
-in 
cui 
rientrerebbe 
la 
titolarità 
di 
qualunque 
diritto (o interesse) di 
“valore 
patrimoniale”, dunque 
anche 
crediti, 
brevetti, 
l’avviamento 
commerciale, 
e 
persino 
la 
c.d. 
speranza 
legittima, 
ossia 
la 
ragionevole 
aspettativa 
di 
veder realizzata 
la 
propria 
pretesa 
giuridica 
(Corte 
Edu, Pine 
Valley, 1991; 
Corte 
Edu, 
Beyeler 
c. italia, 2000). Per quanto concerne, invece, le 
nozioni 
di 
«pubblica 
utilità» e 
di 
«interesse 
generale
», 
la 
Corte 
di 
Strasburgo 
ha 
elaborato 
la 
teoria 
del 
«margine 
di 
apprezzamento 
statale» 
(Corte 
Edu, James 
e 
altri 
c. regno Unito, 1986; 
Corte 
Edu, 
malama c. Grecia, 2001), secondo cui, in linea 
di 
principio, è 
rimessa 
alla 
discrezionalità 
degli 
Stati 
la 
scelta 
sul 
contenuto di 
tali 
concetti, purché 
l’ingerenza 
statale 
nel 
diritto al 
pacifico godimento dei 
propri 
beni 
sia 
necessaria 
per motivi 
di 
interesse 
pubblico, risponda 
ai 
requisiti 
di 
legittimità 
e 
proporzionalità, e 
sia 
compensata 
da 
un equo indennizzo. 
(12) Si 
pensi 
alla 
sentenza 
Scordino 
del 
2006, alla 
sentenza 
maggio c. italia 
del 
2011, e 
più di 
recente 
alla 
nota 
sentenza 
della 
Grande 
Camera 
G.i.E.m c. italia 
del 
28 giugno 2018 attinente 
al 
regime 
della “confisca urbanistica”. 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


La 
CEdu 
non 
utilizza 
l’espressione 
proprietà, 
ma 
richiama 
genericamente 
il 
“rispetto dei 
propri 
beni”, mentre 
la 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’unione 
Europea 
considera 
la 
proprietà 
come 
diritto 
al 
libero 
esercizio 
dell’attività 
economica, 
in quanto il 
diritto comunitario nasce 
come 
tutela 
del 
mercato e 
degli 
operatori 
economici 
(13). 
Viene 
in 
rilievo 
una 
“nozione 
europea” 
di 
proprietà, 
una 
nozione 
che 
comprende 
le 
cose 
strutturalmente 
e 
funzionalmente 
suscettibili 
di 
apprezzamento 
economico, 
idonea 
ad 
essere 
oggetto 
di 
diritti 
e 
rapporti 
alla 
stregua 
delle 
“utilità” 
che 
l’ordinamento 
giuridico 
vi 
ricollega 
(14): 
un 
concetto 
che 
richiama 
la 
nozione 
di 
property 
presente 
nella 
Common 
Law 
(15). 

Sulla 
scia 
della 
giurisprudenza 
eurounitaria 
si 
è 
venuta 
consolidando una 
giurisprudenza 
nazionale 
che 
ha 
molto rafforzato la 
tutela 
della 
proprietà 
privata. 
Si 
pensi 
alla 
questione 
dell’acquisto ad usucapionem 
del 
bene 
illegittimamente 
ablato: 
l’adunanza plenaria 9 febbraio 2016 n. 2 
l’ha 
ammessa 
a 
condizione 
che 
sia 
effettivamente 
configurabile 
il 
carattere 
non violento della 
condotta; 
si 
possa 
individuare 
il 
momento 
esatto 
dell’interversio 
possessionis; 
si 
faccia 
decorrere 
la 
prescrizione 
acquisitiva 
dalla 
data 
di 
entrata 
in 
vigore 
del 
T.u. espropriazioni 
(30 giugno 2003), perché 
solo l’art. 43 del 
medesimo 


T.u. 
aveva 
sancito 
il 
superamento 
dell’istituto 
dell’occupazione 
acquisitiva 
e, 
dunque, solo da 
questo momento potrebbe 
ritenersi 
individuato ex 
art. 2935 
c.c. “il 
giorno in cui 
il 
diritto può essere 
fatto valere”. Va 
aggiunto, peraltro, 
che 
tale 
posizione 
è 
avversata 
da 
quanti 
ritengono 
che 
ammettere 
ulteriori 
forme 
di 
acquisto del 
bene 
illegittimamente 
ablato alla 
mano pubblica, alternative 
rispetto allo strumento ex 
art. 42 
bis 
del 
T.u. espropriazioni, comporta 
(13) La 
nozione 
comunitaria 
di 
proprietà 
privata 
risente 
inevitabilmente 
dell’ambito operativo e 
funzionale 
dell’unione 
Europea: 
i 
conflitti 
sovranazionali 
per cui 
viene 
in rilievo diventano spesso la 
culla 
di 
decisioni 
che 
consentono la 
limitazione 
(e 
quindi 
il 
sacrificio) del 
diritto dominicale, alla 
luce 
dell’interesse 
generale 
dell’unione, 
della 
tutela 
del 
mercato 
comune 
e 
della 
concorrenza 
tra 
gli 
operatori 
economici. Eppure, anche 
qui 
troviamo una 
notevole 
estensione 
del 
diritto di 
proprietà: 
nella 
sentenza 
Nold 
del 
1974, al 
diritto ad accedere 
alla 
stipulazione 
di 
contratti, a 
prescindere 
dalle 
dimensioni 
del-
l’impresa; 
nel 
caso Hauer 
del 
1979, al 
diritto di 
impiantare 
viti 
nell’ambito della 
propria 
attività; 
nella 
sentenza 
mettallurgiki 
Halips 
del 
1982, al 
diritto dell’imprenditore 
di 
produrre 
beni 
senza 
limiti 
quantitativi; 
nella 
sentenza 
Valsabbia 
del 
1984, al 
diritto del 
commerciante 
di 
vendere 
i 
propri 
prodotti 
ad un 
prezzo inferiore 
rispetto ai 
minimi 
previsti 
dal 
diritto comunitario; 
nella 
sentenza 
Schraeder 
del 
1989, 
al 
diritto a 
non essere 
assoggettato ad imposte 
od oneri 
sproporzionati; 
nella 
sentenza 
Testa ed altri 
del 
1980, al 
diritto alle 
prestazioni 
di 
sicurezza 
sociale. Inoltre, la 
Corte 
di 
Giustizia 
consente 
la 
limitazione 
del 
diritto di 
proprietà 
pur sempre 
nel 
rispetto del 
canone 
di 
proporzionalità 
e 
purché 
non sia 
lesa 
la 
sostanza 
del diritto. 
(14) M. CoSTANTINo, il 
diritto di 
proprietà tra diritto comunitario e 
diritto interno, in M. CoM-
PorTI 
(a cura di), La proprietà nella Carta europea dei diritti fondamentali, Giuffrè, 2005, pag. 98. 
(15) Si 
ricorda 
che 
in Common Law 
non esistono azioni 
reali 
a 
difesa 
di 
immobili 
come 
l’azione 
di 
rivendicazione 
o l’azione 
negatoria: 
i 
diritti 
sugli 
immobili 
(proprietary 
rights) sono difesi 
da 
azioni 
di 
carattere 
delittuale, regolate 
dalla 
Law of 
Torts, come 
actions 
for 
trespass, nuisance, detinue, conversio, 
mentre 
il 
trust, sulla 
base 
anche 
dell’equity, assume 
una 
sua 
configurazione 
autonoma 
nell’ambito 
dell’impostazione 
dualistica 
tra 
ownership 
e 
management, 
ossia 
tra 
proprietà 
e 
controllo 
del 
capitale 
nelle società per azioni. 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


di 
fatto 
la 
reintroduzione 
di 
meccanismi 
di 
espropriazione 
“larvata 
o 
indiretta” 
in pieno contrasto con i 
dettami 
CEdu 
e 
costituzionali 
sulla 
necessaria 
ed indefettibile 
previa procedura ablatoria legittima. 


Sul 
tema, invero, era 
emerso un contrasto giurisprudenziale 
in relazione 
ai 
poteri 
che 
il 
giudice 
amministrativo può esercitare 
-direttamente 
o per il 
tramite 
di 
un commissario ad acta 
-in sede 
di 
esecuzione 
del 
giudicato restitutorio 
del 
bene 
illegittimamente 
ablato 
e, 
in 
particolare, 
in 
relazione 
al 
potere 
del 
giudice 
di 
ordinare 
alla 
P.A. di 
adottare 
un provvedimento ex 
art. 42 bis 


T.u. espropriazioni 
o anche 
solo di 
sollecitarne 
l’adozione, fissando in caso 
un termine, scaduto il 
quale 
non rimarrebbe 
che 
assicurare 
la 
sola 
tutela 
restitutoria. 
L’Adunanza 
Plenaria 
n. 
2 
del 
2016 
ha, 
sul 
tema, 
affermato 
il 
seguente 
principio di diritto: 


1) 
Il 
commissario ad acta 
può emanare 
il 
provvedimento di 
acquisizione 
coattiva previsto dall’art. 42 bis, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 327: 
a) 
Se 
nominato 
dal 
giudice 
amministrativo 
a 
mente 
degli 
artt. 
34, 
comma 
1, lett. e) e 
114, comma 
4, lett. d) c.p.a., qualora 
tale 
adempimento sia 
stato 
previsto dal giudicato de quo agitur; 
b) 
Se 
nominato dal 
giudice 
amministrativo a 
mente 
dell’art. 117, comma 
3 c.p.a., qualora 
l’amministrazione 
non abbia 
provveduto sull’istanza 
dell’interessato 
che 
abbia 
sollecitato l’esercizio del 
potere 
di 
cui 
al 
menzionato art. 
42 bis. 
Si 
pensi 
ancora 
alla 
giurisprudenza 
della 
Cassazione 
(Sezioni 
unite 
19 
maggio 2016, n. 10318) 
e 
del 
Consiglio di 
Stato (Sez. VI, 21 luglio 2021, n. 
5496) 
che 
si 
è 
venuta 
formando 
in 
materia 
di 
regolamenti 
edilizi 
comunali, 
violazione 
delle 
distanze 
e 
“principio di 
prevenzione”: 
si 
è 
affermato che 
la 
portata 
integrativa 
dell’art. 
36 
d.lgs. 
n. 
380/2001 
non 
riguarda 
solo 
le 
distanze 
di 
cui 
agli 
artt. 871, 872 e 
873 c.c., norme 
che 
impongono una 
distanza 
minima, 
ma 
si 
estende 
all’intero 
impianto 
di 
regole 
e 
principi 
dallo 
stesso 
dettato 
per disciplinare la materia, cd. “leggi urbanistiche di seconda generazione”. 

di 
recente 
è 
stata 
rimessa 
dal 
Consiglio 
di 
giustizia 
amministrativa 
per 
la 
regione 
siciliana, 
27 
luglio 
2021 
n. 
759, 
all’Adunanza 
Plenaria 
la 
questione 
se 
la 
vicinitas 
sia 
di 
per 
sé 
idonea 
non 
solo 
a 
legittimare 
l’impugnazione 
dei 
singoli 
titoli 
edilizi, 
ma 
a 
evidenziare 
il 
profilo 
dell’interesse 
all’impugnazione 
(16). 


Si 
pensi 
ancora 
alla 
recente 
pronuncia 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
sugli 
atti 
unilaterali 
d’obbligo associati 
alla 
concessione 
ad aedificandum 
(Cons. St., 
Sez. 
II, 
6 
aprile 
2021, 
n. 
2773), 
alla 
sentenza 
dell’adunanza 
Plenaria 
9 
aprile 
2021 
n. 
6 
sulle 
azioni 
esperibili 
in 
caso 
di 
giudicato 
civile 
di 
rigetto 
della 
domanda 
di 
risarcimento del 
danno per l’equivalente 
del 
valore 
di 
mer


(16) Si 
veda, dopo la 
sentenza 
Lombardi 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’unione 
Europea, la 
valorizzazione 
dell’interesse strumentale e dell’interesse finale. 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


cato del 
bene 
illegittimamente 
occupato (preclude 
azioni 
di 
rivendicazione 
e 
azioni 
restitutorie 
sulla 
base 
dell’integrazione 
sul 
piano interpretativo del 
dispositivo 
con 
la 
motivazione 
della 
sentenza), 
alla 
sentenza 
del 
CGa 
Sicilia 
19 febbraio 2021, n. 125 
del 
diritto del 
proprietario ad ottenere 
trascrizioni, 
cancellazioni 
ecc. a 
fronte 
di 
un giudicato civile 
che 
ha 
dichiarato sussistente 
l’occupazione appropriativa, attraverso anche il cd. “negozio ricognitivo”. 

Natalino 
Irti 
ci 
dice 
che 
il 
diritto 
ha 
bisogno 
di 
un 
dove, 
Kelsen 
affermava 
che 
la 
norma 
crea 
il 
suo spazio giuridico: 
in tale 
spazio va 
individuato il 
bene 
oggetto di 
tutela 
da 
parte 
dell’ordinamento. Si 
pensi 
alla 
problematica 
della 
chance: bene giuridico autonomo o situazione giuridica soggettiva? (17). 


Il 
Presidente 
Paolo Cirillo, nella 
sua 
recente 
monografia 
(18), nella 
parte 
dedicata 
ai 
beni 
sostiene 
che 
l’alternativa 
pubblico/privato non è 
più in grado 
di 
assorbire 
tutta 
la 
teoria 
dei 
beni 
pubblici 
e 
che 
bisognerebbe 
impiegare 
il 
concetto di 
bene 
comune, termine 
idoneo a 
qualificare 
internet 
e 
i 
nuovi 
beni 
dell’era 
digitale. Lo strumento digitale 
ha 
determinato un mutamento antropologico 
di 
cui 
il 
diritto 
non 
si 
può 
disinteressare. 
Si 
pensi 
agli 
studi 
del 
grande 
giurista 
Gunther 
Teubner 
che 
per 
primo 
ha 
affrontato 
sul 
piano 
giuridico 
il 
tema dell’algoritmo. 


Nell’era 
digitale 
cambia 
il 
concetto 
di 
proprietà: 
rebecca 
mardon 
del-
l’università 
di 
Cardiff 
ha 
scritto 
che 
oggi 
la 
proprietà 
è 
sostituita 
dall’accesso, 
«“età 
dell’accesso”, 
in 
cui 
la 
proprietà 
non 
è 
più 
importante 
per 
i 
consumatori 
e 
diventerà presto irrilevante. Gli 
ultimi 
anni 
hanno visto l’emergere 
di 
una 
serie 
di 
modelli 
basati 
sull’accesso 
nel 
regno 
digitale». 
In 
uno 
studio 
realizzato 
nel 
2018 dalla 
Norton School 
of 
Family 
and Consumer 
Sciences 
dell’università 
della 
Arizona 
è 
emerso 
il 
concetto 
di 
proprietà 
psicologica 
che 
applichiamo 
ad un bene 
digitale 
che, in realtà, non ci 
appartiene. Ecco, così, che 
trasformiamo la 
non-proprietà di 
un bene 
digitale 
in 
percezione 
di 
possesso. 
una 
percezione 
di 
proprietà 
che 
risponde 
principalmente 
a 
3 fattori: 
la 
sensazione 
di 
avere 
il 
controllo sull’oggetto che 
si 
possiede, il 
ruolo che 
l’oggetto 
assume 
per definire 
chi 
siamo, l’aiuto che 
l’oggetto ci 
fornisce 
per migliorare 
il senso di appartenenza nella società. 


Il 
punto è 
che 
comprando un bene 
digitale 
-sia 
un ebook 
come 
un brano 
musicale 
o un film 
-in realtà 
otteniamo una 
licenza 
di 
utilizzo con restrizioni 
più o meno ampie. Non entriamo in possesso del 
bene 
come 
accade 
per i 
beni 
fisici. Non a 
caso ci 
sono esempi 
di 
utenti 
che 
si 
sono trovati 
privati 
della 
possibilità 
di 
utilizzo di 
beni 
digitali 
come 
nel 
caso di 
Microsoft 
che 
ha 
deciso di 


(17) Teoria 
ontologica 
e 
teoria 
eziologica. Si 
veda 
di 
recente 
la 
sentenza 
n. 6268/2021 del 
Consiglio 
di 
Stato che 
fissa 
le 
condizioni 
di 
risarcibilità, affermando che 
il 
risarcimento per perdita 
di 
chance 
non compensa il risultato sperato, ma la privazione della “possibilità qualificata” di conseguirlo. 
(18) P. CIrILLo, Sistema istituzionale di diritto comune, Cedam, 2021. 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


chiudere 
il 
suo servizio di 
ebook, portandosi 
dietro tutte 
le 
librerie 
dei 
clienti 
(anche 
se 
promettendo 
loro 
un 
rimborso). 
Il 
mondo 
digitale 
presenta 
nuove 
minacce 
alla 
proprietà 
a 
cui 
i 
nostri 
beni 
fisici 
non 
ci 
hanno 
preparato. 
Si 
parla 
di 
regolare 
il 
“patrimonio digitale” 
e 
la 
cd. successione 
digitale 
(19), distinguendo 
beni 
digitali 
(cd. 
digital 
assets) 
a 
contenuto 
patrimoniale 
come 
Bitcoin 
basata 
su tecnologia 
blockchain 
e 
beni 
a 
contenuto non patrimoniale, che 
dovrebbero 
essere esclusi da una successione ereditaria, ma così non è. 


rientrano 
nella 
delazione 
ereditaria 
le 
opere 
creative 
dell’ingegno 
nel-
l’ambito 
del 
digitale 
come 
i 
software, 
ma 
anche 
l’account 
che 
può 
avere 
un 
valore 
patrimoniale 
spesso 
rilevante. 
La 
patrimonialità 
dell’account 
può 
derivare 
dal 
contenuto, 
come 
nel 
caso 
di 
account 
di 
pagamento 
automatizzato 
(Paypal, 
ecc.) 
o 
per 
il 
trading 
on 
line 
(iQ 
option, 
markets, 
Binance, 
ecc.), 
dai 
contratti 
di 
sponsorizzazione, 
che 
lo 
corredano, 
dalle 
recensioni 
o 
valutazioni 
degli 
utenti 
(Youtube, 
E.bay, 
Tripadvisor, 
ecc.) 
o 
semplicemente, 
dal 
valore 
acquisito 
per 
essere 
divenuto 
per 
gli 
utenti 
di 
una 
community 
un 
punto 
di 
riferimento 
(si 
prendano 
ad 
esempio 
gli 
account 
social 
di 
personaggi 
famosi 
o 
cd. 
influencer). 


A 
tal 
proposito 
giova 
accennare 
alla 
nuova 
criptovaluta 
annunciata 
da 
Facebook 
per erogare 
servizi 
finanziari 
tramite 
il 
proprio social 
network: 
Libra. 
Attraverso 
Libra 
i 
titolari 
di 
un 
account 
Facebook, 
Whatsapp 
o 
messenger 
potranno inviare 
e 
ricevere 
pagamenti 
in criptovaluta, sulla 
base 
di 
una 
blockchain 
che, 
a 
differenza 
del 
sistema 
Bitcoin, 
sarà 
“permissioned”, 
dunque, 
solo 
un numero limitato di 
utenti 
sarà 
autorizzato a 
tener traccia 
del 
ledger, “libro 
mastro”, della 
rete 
blockchain. Libra 
avrà 
un valore 
predeterminato che 
la 
legherà 
al 
valore 
di 
una 
moneta 
quale 
il 
dollaro. 
Ciò 
renderà 
stabile 
il 
valore 
della 
moneta, 
forzandone 
gli 
equilibri 
di 
cambio, 
affinché 
in 
qualsiasi 
momento 
possano essere 
chiari 
i 
meccanismi 
ed il 
valore 
della 
somma 
inviata 
o 
ricevuta. 
Se 
il 
progetto 
Libra 
dovesse 
avere 
successo, 
l’account 
acquisterà 
anche 
un valore 
patrimoniale, essendo direttamente 
ad esso associato un patrimonio 
di 
criptovalute 
riconducibile 
al 
defunto e 
assumerà 
ancora 
più rilevanza 
in caso di morte dell’utente. 


Alcuni 
gestori 
di 
posta 
elettronica 
tra 
le 
condizioni 
generali 
di 
servizio 
(che 
spesso vengono frettolosamente 
accettate 
con un semplice 
click) prevedono 
la 
non 
trasferibilità 
dell’account. 
L’account 
mail 
Yahoo, 
ad 
esempio, 
non 
è 
trasferibile 
e 
qualsiasi 
diritto relativo all’Id 
o ai 
contenuti 
all’interno del-
l’account 
verrà 
meno in seguito al 
decesso del 
titolare 
dell’indirizzo di 
posta. 
Questo 
significa 
che 
il 
provider 
potrà 
essere 
contattato 
solo 
per 
richiedere, 
previa 
esibizione 
del 
certificato 
di 
morte, 
la 
cancellazione 
dell’account 
e 
tutto 
il 
suo 


(19) G. MArINo, La successione 
digitale, in oss. dir. civ. e 
comm., 2018; 
A. MAGNANI, L’eredità 
digitale, in Notariato, 2014; 
A. SErENA, Eredità digitale, in AA.VV. 
identità ed eredità digitali, stato 
dell’arte 
e 
possibili 
soluzioni, Aracne, 2016; 
C. CAMArdI, L’eredità digitale. Tra reale 
e 
virtuale, in il 
diritto dell’informazione e dell’informatica, 2018. 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


contenuto. 
Così 
per 
apple, 
Linkedin 
e 
Twitter. 
Anche 
se 
si 
decidesse 
di 
andare 
per 
vie 
legali, 
sarebbero, 
comunque, 
applicabili 
leggi 
e 
giurisdizioni 
straniere, 
così 
come 
accede 
nel 
caso 
di 
problematiche 
con 
alcuni 
provider 
statunitensi. 


Vi 
è 
allora 
da 
chiedersi: 
oggi 
la 
nostra 
proprietà 
digitale 
così 
come 
la 
nostra 
identità 
digitale 
legata 
ai 
dati 
(data mining, data drive 
economy) è 
nelle 
mani delle grandi piattaforme? 


L’avvento dell’era 
digitale 
non ha 
stravolto solamente 
il 
nostro modo di 
rapportarci 
con altre 
persone, ma 
ha 
dato vita 
ad un vero e 
proprio patrimonio 
digitale. Sebbene 
in molti 
casi 
il 
valore 
di 
quest’ultimo sia 
solamente 
perso-
nale-sentimentale 
(foto 
digitali, 
messaggi 
Whatsapp, 
files), 
spesso 
accade 
che 
si presenti tuttavia di rilevanza economica tutt’altro che trascurabile. 


È 
evidente, 
allora, 
che 
prevedere 
disposizioni 
precise 
sul 
destino 
del 
proprio 
patrimonio 
digitale 
rappresenta, 
più 
che 
un’opportunità, 
una 
vera 
e 
propria 
esigenza. 


I 
concetti 
di 
proprietà, 
possesso 
e 
dominio 
nell’era 
digitale 
che 
stiamo 
vivendo 
richiedono 
la 
rimodulazione 
dei 
principi 
generali 
di 
autodeterminazione 
individuale 
e 
di 
responsabilizzazione: 
principi 
che 
costituiscono regole 
metagiuridiche 
con 
funzione 
normogenetica 
in 
grado 
di 
regolare 
la 
complessità 
del 
nostro tempo. 


if 
this, then that: 
con questa 
semplice 
espressione, che 
sta 
ad indicare 
il 
concetto di 
algoritmo, ossia 
una 
sequenza 
di 
passaggi 
elementari 
in un tempo 
finito, 
si 
racchiude 
il 
futuro 
della 
tecnologia 
e 
del 
destino 
dell’uomo. 
Nella 
complessità 
che 
caratterizza 
il 
nostro tempo, il 
giurista, spinto da 
una 
visione 
essenzialmente 
antropocentrica, dovrà 
svolgere 
una 
funzione 
“ordinante” 
che 
ponga 
l’algoritmo 
non 
in 
sostituzione 
dell’essere 
umano, 
bensì 
al 
suo 
servizio. 
Come, 
però, 
potrà 
svolgere 
tale 
funzione, 
con 
quali 
strumenti 
normativi 
ed 
interpretativi, 
con quali 
categorie 
giuridiche, con quali 
processi 
di 
modellizzazione 
concettuale idonei a cogliere, gestire e regolare la complessità? 


“il 
limite 
di 
Prometeo invocato dalla cultura greca oggi 
evidenzia il 
rischio 
di 
una tecnologia che 
compie 
un processo di 
mimesi 
e 
di 
superamento 
della razionalità umana. Questo, perché 
l’algoritmo oggi 
non costituisce 
più 
un 
“mere 
tool”, 
ossia 
mero 
elemento 
di 
trasmissione 
della 
volontà 
umana, 
ma 
un 
coelemento 
essenziale 
ed 
imprescindibile 
di 
formazione 
della 
volontà 
stessa 
che 
incide 
sul 
processo 
di 
autodeterminazione 
dell’individuo. 
Le 
neuroscienze 
aprono 
scenari 
inimmaginabili 
nel 
binomio 
“coscienza 
e 
identità”: 
cogito 
ergo 
sum, 
secondo 
Cartesio, 
l’uomo 
è 
il 
pensiero, 
ma 
il 
pensiero 
è 
il 
correlato 
neuronale 
della 
coscienza 
umana, 
quella 
coscienza 
suitas 
che 
nell’antica 
Grecia 
consentiva di 
distinguere 
l’ardire 
dalla Hybris. in fondo, se 
ci 
pensiamo 
bene, Prometeo è 
colui 
che 
vede 
ed agisce 
in tempo nella consapevolezza del 
Katèchon, ossia del 
limite: il 
limite 
di 
ammissibilità etica, giuridica, sociale 
delle 
innovazioni 
tecnologiche. 
Non 
tutto 
ciò 
che 
è 
tecnologicamente 
possibile, 
è 
giuridicamente 
ed eticamente 
accettabile 
e 
condivisibile. Se 
Parmenide 
af



rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


fermava: «il 
pensiero è 
l’essere: è 
la stessa cosa pensare 
e 
pensare 
ciò che 
è, 
perché 
senza 
l’essere 
in 
ciò 
che 
è 
detto 
non 
troverai 
il 
pensare», 
il 
profilo 
della 
libertà cognitiva come 
presupposto di 
autodeterminazione 
individuale 
oggi 
è 
messa 
a 
dura 
prova 
dai 
cd. 
neuro-link: 
gli 
algoritmi 
entrano 
nell’intime 
sphere 
e 
nella 
predittività 
dei 
propri 
pensieri, 
delle 
decisioni 
e 
delle 
scelte 
individuali. 
Se 
l’habeas 
corpus 
ha rappresentato la base 
dello Stato di 
diritto, l’habeas 
data la base 
del 
diritto di 
autodeterminazione 
digitale, l’habeas 
mentem 
diventa 
il 
fulcro 
dei 
cd. 
“neuro-diritti” 
per 
evitare 
la 
deriva 
neurodeterministica, 
cd. “riduzionismo scientifico” 
e 
“determinismo tecnologico”. Sono queste 
le 
autorevoli 
considerazioni 
del 
Garante 
per 
la 
Privacy, 
prof. 
P. 
Stanzione, 
esposte 
in un recente convegno sul tema delle neuroscienze e la tutela dei dati. 

occorre, 
dunque, 
uno 
statuto 
giuridico 
ed 
etico 
che 
coniughi 
l’innovazione 
con 
la 
dignità 
umana, 
intesa 
sempre 
come 
fine, 
e 
mai 
come 
mezzo, 
facendo 
tesoro 
dell’insegnamento 
di 
Kant. 
Vi 
è 
da 
chiedersi, 
però, 
se 
occorra 
oggi 
introdurre 
un 
concetto 
di 
neuroetica, 
ossia, 
di 
etica 
della 
neurotecnologia 
per 
proporre 
un 
approccio 
etico 
sistematico 
e 
integrato 
alle 
tecnologie 
di 
intelligenza 
artificiale. 
Langdon 
Winner 
affermava 
che 
ogni 
disposizione 
tecnologica 
è 
espressione 
di 
potere 
e 
L. 
mumford 
parlava 
di 
“Technical 
arrangements 
as 
forms 
of 
order”: 
oggi 
il 
problema 
che 
si 
affaccia 
all’orizzonte 
non 
è 
solo 
l’implementazione 
della 
tutela 
dei 
dati, 
che 
costituiscono 
i 
new 
oil, 
essential 
facilities 
della 
driven 
data 
economy, 
ma 
anche 
la 
tutela 
della 
facoltà 
cognitiva 
dei 
cittadini, 
utenti, 
consumatori 
o 
fruitori 
dei 
servizi. 


Vi è da chiedersi cosa resta della libertà e responsabilità umana? 


Il 
dato 
neuronale 
con 
le 
cd. 
tecniche 
di 
brain 
reading 
nell’interfaccia 
uomo-computer viene 
immesso per la 
prima 
volta 
nell’area 
dei 
dati 
digitali, 
nella 
cd. infosfera, ecosistema 
digitale, andando al 
di 
là 
delle 
applicazioni 
di 
neuro-enhancement 
nel 
campo bio medico e 
ponendo il 
problema 
della 
«opacità 
del 
machine 
learning». Il 
dato neuronale 
è 
un dato differente 
dagli 
altri: 


1) 
ha 
un’importanza 
ontologica, 
perché 
è 
la 
sede 
dei 
processi 
vitali, 
è 
coscienza, 
pensiero, memoria; 
2) ha 
un’importanza 
antropologica 
nell’autopercezione 
di 
sé, 
dimensione 
fenomenologica 
e 
soggettiva 
della 
persona; 
3) 
importanza 
epistemologica, il 
dato neuronale 
è 
predittivo come 
il 
dato genetico; 
4) importanza 
metodologica, i 
dati 
neuronali 
possono essere 
rimodulati, 
il 
brain reading 
si può trasforma in brain writing. 
Siamo oltre 
il 
test 
di 
Turing, criterio per determinare 
se 
una 
macchina 
sia 
in grado di 
esibire 
un comportamento intelligente. Tale 
criterio, si 
ricorderà, 
fu 
suggerito 
da 
alan 
Turing, 
inventore 
del 
computer, 
nel 
suo 
noto 
articolo 
“Computing 
machinery 
and 
intelligence”, 
apparso 
nel 
1950 
sulla 
rivista 
mind, 
ma 
certamente 
allora 
Turing 
non poteva 
immaginare 
gli 
scenari 
attuali. “il 
futuro 
non 
è 
ciò 
che 
progettiamo, 
ma 
è 
Kairòs, 
ciò 
che 
ci 
sorprende” 
diceva 
San 
Paolo 
di 
Tarso. 
Stiamo 
andando 
verso 
l’iperumano, 
il 
transumano 
e 
postumano, 
il cd. Ubermensh 
di cui parlava Nietzsche? 



CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


Le 
scienze 
contemporanee 
hanno contribuito a 
definire 
l’uomo come 
un 
“sé 
multiplo”, la 
mente 
è 
l’idea 
del 
corpo, il 
corpo è 
brain feeling, siamo un 
complesso di 
mente 
e 
corpo: 
così 
si 
esprime 
antonio Damasio 
nel 
suo scritto 
“l’errore di Cartesio”. 


Ma 
se 
spostiamo 
la 
nostra 
analisi 
nell’universo 
quantistico 
non 
possiamo 
non tener conto di 
quanto ha 
affermato roger 
Penrose, premio Nobel 
per la 
fisica, con riferimento alla 
cd. “libertà dell’evento”. In altri 
termini 
oggi 
noi 
viviamo 
in 
un 
universo 
quantistico 
in 
cui 
il 
possibile 
è 
la 
base 
di 
comprensione 
dell’evento, “brain imaging”. Se 
questo è 
vero, allora 
le 
neurotecnologie 
possono 
anche 
favorire 
uno 
sviluppo 
qualitativo 
dell’uomo, 
inteso 
come 
complesso 
unico di 
mente 
e 
corpo, pensieri, emozioni, coscienza 
critica. È 
questa 
la 
sfida 
che 
attende 
il 
giurista: 
a 
lui 
l’arduo compito di 
individuare 
attraverso 
un 
approccio 
multidisciplinare 
principi, 
regole, 
principles 
and 
model-rules 
capaci 
di 
realizzare 
quello 
che 
è 
stato 
di 
recente 
definito 
“l’umanesimo 
digitale”. 


Sembrerà 
strano, 
ma 
il 
primo 
computer 
è 
stato 
un 
computer 
a 
vapore, 
calcolatore 
universale 
risalente 
alla 
prima 
metà 
dell’800 
e 
la 
prima 
programmatrice 
è 
stata 
una 
donna, 
ada 
Lovelance, 
definita 
da 
Charles 
Babbage 
“incantatrice 
dei 
numeri”. 
Certo 
molti 
anni 
dovettero 
trascorrere 
prima 
che 
tim 
berners-Lee 
nel 
1989 
presso 
i 
laboratori 
Cern 
di 
Ginevra 
presentasse 
il 
primo 
sistema 
di 
“information 
management”, 
called 
mesh, 
il 
primo 
website 
concepito 
come 
“a 
democratic 
arena” 
per 
lo 
scambio 
di 
informazioni 
al 
servizio 
dei 
cittadini 
senza 
royalties 
o 
speculazioni. 
Ma 
tale 
idea 
democratica 
e 
gratuita 
del 
web 
è 
stata 
oggi 
vanificata 
dalle 
grandi 
piattaforme 
Facebook, 
Google 
e 
amazon 
che 
ne 
hanno 
monopolizzato 
l’utilizzo, 
disponendo 
di 
un’enorme 
quantità 
di 
dati, 
senza 
precise 
regole 
volte 
ad 
una 
loro 
effettiva 
responsabilizzazione. 
Tim 
Berners-Lee 
insieme 
ad 
altri 
scienziati 
sta 
lavorando 
oggi 
ad 
un 
progetto 
chiamato 
Solid 
per 
ridecentrare 
il 
web 
e 
renderlo 
di 
nuovo 
uno 
spazio 
libero. 
È 
emblematico 
che 
nel 
1909 
uno 
scrittore 
britannico 
Forster 
abbia 
scritto 
una 
storia 
di 
fantascienza 
intitolata 
“The 
ma-
chine 
stops” 
in 
cui 
l’autore 
immagina 
che 
le 
persone 
vivono 
isolate 
accanto 
ad 
una 
macchina 
che 
provvede 
a 
tutti 
i 
loro 
bisogni. 
Gli 
umani 
in 
tale 
racconto 
vivono 
connessi, 
pur 
rimanendo 
isolati, 
determinando 
in 
loro 
la 
paura 
delle 
esperienze 
dirette. 
Questo 
è 
il 
motivo 
per 
cui 
la 
tecnologia 
deve 
considerarsi 
“as 
a 
tool, 
not 
a 
master”. 

Ma 
dal 
punto 
di 
vista 
giuridico 
come 
deve 
considerarsi 
il 
rapporto 
uomo-
macchina? 
un 
grande 
giurista 
Gunther 
teubner 
ha 
per 
primo 
affrontato 
il 
tema 
dell’algoritmo e 
degli 
agenti 
digitali 
autonomi, ossia 
di 
quelli 
che 
possono 
elaborare 
e 
prendere 
decisioni 
indipendentemente 
dal 
produttore 
e 
dal-
l’utilizzatore 
del 
programma. 
Secondo 
tale 
autore 
occorre 
analizzare 
il 
rapporto che 
si 
instaura 
tra 
l’uomo e 
il 
software 
utilizzato, nonché 
la 
distribuzione 
della 
responsabilità 
per danni 
cagionati 
nella 
sfera 
giuridica 
di 
coloro i 
quali 
hanno fatto affidamento incolpevole 
sulla 
dichiarazione 
dell’agente 
di



rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


gitale 
autonomo, 
soprattutto 
se 
si 
tiene 
conto 
della 
prevalenza 
nel 
sistema 
della 
teoria 
oggettiva 
della 
dichiarazione 
di 
volontà. 
L’assistente 
digitale 
è 
diventato 
sempre 
meno un semplice 
nuncius 
della 
volontà 
della 
persona 
fisica. E 
sicuramente 
non 
è 
tale 
quando 
è 
capace 
di 
prendere 
decisioni 
autonome 
ed 
in 
quanto 
tale 
causare 
danni 
a 
terzi. 
Le 
categorie 
che 
vengono 
in 
rilievo 
sono 
chiaramente la rappresentanza e il rapporto associativo uomo/macchina. 

occorrerà 
soffermarsi 
sul 
nuovo 
concetto 
di 
informazione 
sempre 
più 
alterata 
non 
solo 
dalle 
cd. 
fake 
news, 
ma 
dalla 
cd. 
“information 
pollution”, 
ossia 
dall’inquinamento delle 
informazioni. Tale 
concetto si 
declina 
nei 
fenomeni 
di: 
clickbait, 
sloppy 
journalism, 
misleading headings, 
biased news 
and filter 
bubble. 
Sono 
tutti 
processi 
che 
contengono 
o 
notizie 
false 
o 
notizie 
manipolate 


o informazioni 
modellate 
su profilazioni 
del 
soggetto che 
effettua 
delle 
ricerche 
sul 
web 
riuscendo 
a 
trovare 
le 
informazioni 
sempre 
più 
corrispondenti 
alla 
propria 
formazione 
culturale 
e 
ai 
propri 
interessi 
con una 
selezione 
subdola 
di dati che avviene a sua insaputa. 
Siamo in una 
dimensione 
bel 
lontana 
dalla 
parresìa, ossia 
della 
verità 
di 
cui 
parlavano i 
greci 
nel 
sistema 
democratico della 
polis. Luciano Floridi, docente 
di 
Filosofia 
ed 
Etica 
dell’Informazione 
a 
oxford, 
nel 
suo 
libro 
“Pensare 
l’infosfera”, sostiene 
che 
viviamo ormai 
in un mondo virtuale, l’infosfera 
appunto, 
in cui 
tutti 
siamo degli 
inforgs, organismi 
del 
sostrato informazionale. 
La 
postmodernità 
rifugge 
sempre 
più 
dalle 
cose 
per 
andare 
verso 
relazioni 
con 
inarrestabile 
astrazione 
dal 
materiale. Siamo passati 
da 
una 
posizione 
ontologica 
assoluta 
modellata 
su un mondo letto in termini 
aristotelici 
(cd. primato 
della 
cosa) e 
newtoniani 
(primato nello spazio e 
nel 
tempo) a 
quella 
epistemologica-
relazionale, dominante 
nell’infosfera, un costruzionismo di 
ispirazione 
neo-Kantiana 
definito 
come 
processo 
di 
modellizzazione 
(non 
copia 
platonica 
del 
modello) 
che 
dà 
forma 
alla 
realtà 
rendendola 
intelligibile. 
Se 
Cartesio 
affermava 
“cogito 
ergo 
sum”, 
oggi 
possiamo 
dire 
“videor 
ergo 
sum”: 
la 
costruzione 
del 
sé 
cd. 
Bildung 
passa 
attraverso 
lo 
strumento 
digitale, 
il 
selfie 
è 
il 
sentirsi, il 
realizzarsi 
nello sguardo dell’altro, Leib a Korper, la 
pietrificazione 
del 
sé, di 
cui 
parla 
Sartre 
in pagine 
memorabili 
di 
“L’essere 
e 
il 
nulla”. 
Il 
selfie 
è 
l’esposizione 
del 
corpo on line 
che 
ha 
come 
unità 
di 
misura 
i 
like. 
un 
famoso 
psichiatra 
Giovanni 
Stanghellini 
parla 
di 
“selfie 
come 
sentirsi 
nello 
sguardo dell’altro, l’altro è l’unica possibilità di essere riconosciuti”. 

Tutto questo a che prezzo per l’uomo? 


Il 
cd. “effetto Flynn” 
ci 
dovrebbe 
far riflettere: 
richard Flynn 
ha 
condotto 
uno studio tra 
il 
1990 e 
il 
2009 dimostrando che 
il 
quoziente 
intellettivo 
Qi 
stia 
cominciando 
lentamente, 
ma 
inesorabilmente 
a 
calare. 
un 
calo 
costante 
che 
oggi 
è 
diventato un vero e 
proprio tracollo, se 
pensiamo alla 
percentuale 
di 
persone 
afflitte 
dal 
cd. “analfabetismo funzionale” 
(sanno leggere, ma 
non 
capiscono 
il 
senso 
né 
sono 
in 
grado 
di 
rielaborarlo). 
I 
giovani 
hanno 
oggi 
molte 
informazioni 
e 
poca 
conoscenza, 
o 
meglio 
una 
“conoscenza 
irrelata 
e 
non 
cor



CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


relata”. 
Le 
nuove 
tecnologie 
digitali 
specialmente 
per 
i 
più 
giovani 
rappresentano 
un potentissimo e 
pervasivo elemento di 
degradazione 
delle 
facoltà 
cognitive, 
emotiva e relazionale. 

Perché 
questo 
accade, 
quali 
sono 
le 
ragioni? 
Il 
neurobiologo 
Laurent 
alexandre 
ritiene 
che 
la 
ragione 
risieda 
in 
questa 
considerazione: 
“laddove 
il 
libro 
favoriva una concentrazione 
duratura e 
creativa, internet 
incoraggia la rapidità, 
il 
campionamento distratto di 
piccoli 
frammenti 
di 
informazioni 
provenienti 
da 
fonti 
diverse” 
(20). 
Il 
processo 
che 
consiste 
nell’immagazzinare 
i 
dati, creando così 
la 
memoria, per poi 
elaborarli, creando un ordine 
diverso si 
chiama 
“apprendimento”. Il 
problema 
è 
che 
oggi 
è 
l’intelligenza 
artificiale 
ad 
occuparsi 
del 
processo di 
immagazzinamento dei 
dati, memoria 
ed elaborazione 
dei 
dati, con l’intelligenza 
umana 
ridotta 
a 
svolgere 
un ruolo ausiliario 
e sempre più ininfluente. 

Ecco 
che 
allora 
abbiamo 
assistito, 
alla 
nascita 
del 
GPT3, 
Generative 
Pretrained 
Transformer: 
l’11 
giugno 
2020 
è 
stata 
presentata 
GPT3, 
un’intelligenza 
artificiale 
in grado di 
scrivere 
un romanzo nello stile 
dello scrittore 
che 
si 
preferisce, scrive 
in pochi 
istanti 
il 
racconto che 
si 
preferisce. ricorda 
il 
generatore 
automatico di 
lettere 
d’amore 
che 
alan Turing sperimentò nel 
1952 
a 
Manchester. GPT3 è 
la 
terza 
versione 
di 
un progetto di 
ricerca 
di 
un laboratorio 
fondato a 
San Francisco nel 
2015, open ai, che 
tra 
i 
fondatori 
ha 
Elon 
musk 
e 
tra 
i 
finanziatori 
microsoft. 
Non 
è 
trascorso 
nemmeno 
un 
anno 
e 
GPT3 
non scrive 
romanzi, ma 
è 
già 
utilizzato da 
oltre 
10.000 sviluppatori 
ed è 
presente 
in 
oltre 
300 
applicazioni. 
rientrano 
in 
questo 
processo 
le 
risposte 
ancora 
semplici 
di 
alexa 
e 
Siri 
nei 
nostri 
smartphone 
e 
gli 
assistenti 
vocali, i 
dialoghi 
non facili 
con i 
chatbot 
quando andiamo sul 
sito della 
nostra 
banca 
o di 
una 
grande 
azienda 
che 
fornisce 
telefonia, 
acqua 
e 
luce, 
qui 
sappiamo 
di 
dialogare 
con un risponditore 
automatico. Il 
confine 
tra 
umano e 
artificiale 
nel 
GPT3 è 
meno netto, impercettibile, sarà 
sempre 
più difficile 
distinguere 
volti, suoni 
e 
testi creati da un’intelligenza artificiale da quelli reali. 

È 
innegabile 
la 
difficoltà 
di 
lettura 
di 
algoritmi 
che 
utilizzano 
grandi 
quantità 
di 
dati 
(big data) e, in misura 
crescente, si 
caratterizzano per l’impiego di 
tecnologie 
basate 
sull’intelligenza 
artificiale 
che 
non si 
limitano a 
seguire 
fedelmente 
le 
istruzioni 
del 
programmatore, ma 
diventano intelligenza 
spontaneus, 
autocreativa, autoevolutiva, inventando soluzioni 
e 
percorsi 
inediti, con 
il 
risultato che 
neppure 
colui 
che 
ha 
fornito le 
istruzioni 
alla 
macchina 
attraverso 
l’algoritmo 
è 
pienamente 
in 
grado 
di 
ripercorrere 
il 
processo 
decisionale 
e offrire una spiegazione comprensibile. 

Il 
problema 
del 
carattere 
non neutrale 
dell’algoritmo e 
la 
sua 
scarsa 
trasparenza 
assume 
un ruolo centrale 
nel 
dibattito giuridico recente, da 
qui 
il 
pe


(20) 
L. 
ALEXANdrE, 
La 
guerra 
delle 
intelligenze, 
intelligenza 
artificiale 
contro 
intelligenza 
umana, 
pag. 75, ed. Torino, 2017. 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


ricolo 
che 
la 
società 
possa 
diventare 
una 
grande, 
unica 
scatola 
nera, 
una 
“black 


box society” (21). 

È il cd. “surveillance capitalism” di cui parla 
S. Zuboff 
(22). 

Sulla 
base 
della 
complessità 
di 
tali 
considerazioni 
la 
Commissione 
Europea 
ha 
elaborato 
il 
Digital 
Service 
act 
che, 
considerando 
essenziale 
“la 
legalità 
procedimentale 
della 
conservazione 
dei 
dati”, 
il 
cd. 
Digital 
Due 
Process, 
predispone 
una 
tutela 
del 
cittadino 
basata 
su 
due 
principi 
fondamentali: 
il 
principio 
dell’autodeterminazione 
del 
singolo 
e 
il 
principio 
di 
responsabilizzazione 
delle 
piattaforme 
digitali. 
Sono 
questi 
i 
binari 
lungo 
i 
quali 
dovranno 
essere 
definite 
a 
livello 
europeo 
le 
norme 
che 
saranno 
determinanti 
per 
costruire 
un 
corretto 
rapporto 
uomo-macchina. 


Sul 
piano della 
qualità 
e 
del 
livello della 
regolamentazione 
si 
distingue 
tra 
auto-regolazione, 
co-regolazione 
ed 
eteroregolazione, 
ponendosi 
il 
problema 
se 
e 
in che 
in termini 
la 
regolamentazione 
dei 
social-network 
debba 
essere 
affidata 
alle 
grandi 
società 
monopoliste 
del 
web 
o 
se 
occorra 
un 
intervento 
più incisivo della 
normativa 
nazionale 
e 
sovranazionale. Sappiamo che 
Facebook 
ha 
al 
suo interno sotto forma 
di 
trust 
il 
Facebook 
oversight 
Board 
che 
esamina 
le 
questioni 
poste 
dalla 
Community, ma 
occorre 
un intervento di 
eteroregolazione 
sovranazionale 
capace 
di 
impedire 
che 
pubbliche 
funzioni 
siano 
esercitate da poteri privati. 

In questa 
ottica 
il 
Digital 
Service 
act, attualmente 
al 
livello di 
proposta 
della 
Commissione, si 
pone 
l’obiettivo di 
prevenire 
il 
disordine 
normativo e 
di 
creare 
un mercato digitale 
on line 
sicuro ed affidabile. Nella 
nuova 
regolazione 
delle 
piattaforme 
digitali 
la 
Commissione 
Europea 
sta 
cercando di 
affermare 
uno 
Standard 
Europeo 
regolatorio 
per 
la 
definizione 
del 
nuovo 
capitalismo digitale 
che 
si 
basi 
su un concetto di 
“sicurezza funzionale”, security 
by 
design. La 
Commissione 
europea 
sollecita 
gli 
Stati 
membri 
non con 
regole, ma 
con obiettivi 
per far diventare 
l’Europa 
un Hub 
di 
regole 
digitali, 
il protagonista della trasformazione digitale ed ecologica entro il 2030. 

In un’epoca 
caratterizzata 
da 
un eccesso di 
informazioni, cd. infodemia, 
è 
necessaria 
anche 
un’igiene 
informativa: 
secondo 
Vittorio 
Loreto, 
fisico 
della 
materia 
presso 
l’università 
La 
Sapienza 
di 
roma, 
che 
collabora 
ad 
un 
progetto 
di 
ricerca 
definito “Cartesio, ergo news”, se 
il 
dubbio è 
l’inizio della 
conoscenza, 
occorrono sistemi 
per valutare 
l’affidabilità 
di 
una 
notizia. Viviamo 
attualmente 
in 
delle 
“bolle 
informative”, 
con 
i 
cd. 
“sistemi 
di 
raccomandazione” 
che 
non 
consentono 
di 
esplorare 
“ 
l’adiacente 
possibile”. 
Ma 
come 


(21) F. PASQuALE, The 
Black 
Box 
Society. The 
secret 
algorithms 
that 
Control 
money 
and information, 
Cambridge - Ma 2015. 
(22) 
S. 
zuBoFF, 
Big 
other: 
surveillance 
capitalism 
and 
the 
prospects 
of 
an 
information 
civilization, 
Journal 
of 
information 
Technology 
(2015) 
30, 
75-89; 
Id., 
The 
age 
of 
Surveillance 
Capitalism. 
The 
Fight 
for a Human Future at the New Frontier of Power, London, 2019. 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


controllare 
la 
qualità 
dell’informazione? 
Sono 
sufficienti 
gli 
appositi 
software 
per controllare 
la 
tracciabilità 
della 
notizia? 
Possiamo parlare 
di 
graduazione 
delle 
falsità 
informative? 
Il 
fisico 
Pauli, 
fondatore 
della 
meccanica 
quantistica, 
parlava 
di 
“nothing 
in 
wrong”, 
noi 
possiamo 
parlare 
di 
“nothing 
in 
fake”? 
ognuno 
di 
noi 
è 
alle 
prese 
con 
cookie 
di 
funzionalità, 
cookie 
analitici 
e 
cookie 
di 
profilazione 
di 
terze 
parti. Per prestare 
il 
proprio consenso siamo costretti 
a 
consultare 
la 
Cookie 
policy, con la 
automatica 
conseguenza 
che, chiudendo 
il 
banner 
o accedendo a 
qualunque 
elemento del 
sito, acconsentiamo automaticamente 
all’uso dei 
cookie. La 
credibilità, la 
decentralizzazione, l’intermediazione 
sono 
presenti 
nei 
cd. 
“filter 
bubbles”, 
“gabbie 
virtuali”, 
in 
cui 
gli 
algoritmi 
rinchiudono gli 
utenti, raccogliendo dati 
e 
preferenze 
sulla 
base 
di 
precedenti 
click, cronologia 
delle 
ricerche 
e 
localizzazioni. La 
dottrina 
parla 
di 
disordini 
dell’informazione, 
di 
varie 
categorie 
di 
disturbi 
dell’informazione, 
distinguendo 
tra 
“disinformazione”, 
“misinformazione”e“malainformazione”. 
Le 
stesse 
piattaforme 
digitali 
si 
stanno 
attrezzando 
per 
arginare 
tale 
fenomeno: 
ad 
esempio, 
Facebook 
utilizza 
i 
cd. 
“educational 
pop-ups”, 
pop 
up 
informativi 
con etichettature 
specifiche 
sulle 
notizie 
e 
con rimozione 
automatica 
dei 
contenuti 
falsi; 
Twitter 
distingue 
tra 
notizie 
misleading, disputed and unverified 
con 
sistemi 
cd. 
di 
Strike 
System, 
nel 
senso 
che 
dopo 
alcuni 
richiami 
vi 
è 
il 
blocco dell’account. 


Ma quali 
rimedi 
possono/devono essere 
rimessi 
allo Stato e 
ad 
organismi 
sovranazionali 
e 
quali 
alle 
stesse 
piattaforme? 
La 
comunicazione 
sui 
social-network, infatti, è 
caratterizzata 
da 
pervasività 
ed invasività, dalla 
illimitatezza 
spazio/temporale, dalla 
disintermediazione 
e 
dalla 
semplificazione 
del 
messaggio. In Francia 
è 
stata 
approvata 
nel 
2018 la 
legge 
n. 1202 contro 
la 
manipolazione 
dell’informazione, in Germania 
è 
stata 
approvata 
il 
30 giugno 
2017 la 
legge 
sul 
Hate 
speech 
prevedendo fattispecie 
criminose 
sulle 
figure 
già 
previste 
dal 
codice 
penale 
tedesco con un sistema 
di 
“notice 
and take 
down”, ossia 
di 
reclamo da 
rivolgere 
alla 
stessa 
piattaforma, prima 
di 
un vero 
e 
proprio 
ricorso 
all’autorità 
giurisdizionale. 
In 
Italia 
vi 
è 
stata 
la 
presentazione 
del 
disegno 
di 
legge 
Gambaro 
nel 
2017, 
e 
di 
recente 
un 
nuovo 
ddL 
approvato 
alla 
Camera 
e 
attualmente 
in discussione 
al 
Senato con la 
istituzione 
di 
una 
commissione 
parlamentare 
di 
inchiesta 
sulla 
diffusione 
massiva 
di 
informazioni 
false. 
Presso 
l’AgCom 
è 
stato 
istituito 
un 
tavolo 
Tecnico 
sulle 
piattaforme 
digitali 
e 
il 
pluralismo 
informativo, 
mentre 
al 
livello 
europeo 
è 
stato 
approvato 
il 26 settembre 2018 il 
Code of Practice on Disinformation. 


Ma 
occorre 
chiedersi 
se 
vi 
sia 
la 
necessità 
di 
valutare 
la 
privacy 
policy 
in 
un sistema 
di 
merger 
controll 
attraverso un’azione 
di 
collaborazione 
e 
di 
coordinamento 
tra 
le 
varie 
Autorità 
regolatorie 
e 
se 
sia 
necessario 
affiancare 
agli 
strumenti 
di 
enforcement 
una 
regolazione 
ex 
ante 
con sistemi 
di 
pre-emptive 
remedy, ossia rimedi preventivi e proattivi. 



rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


Soprattutto 
chiarire 
che 
tipo 
di 
regolazione 
introdurre: 
funzionale 
o 
strutturale? 
omogenea o differenziata a seconda dei settori? 


occorre 
un 
coordinamento 
a 
livello 
di 
regolamentazione 
euro-unitaria 
tra 
Digital 
Service 
act, Digital 
Governace 
act 
e 
Digital 
market 
act, sono questi 
i tre elementi nel nuovo pilastro digitale europeo. 


Sono 
in 
gioco 
le 
stesse 
capacità 
cognitive 
dell’uomo, 
in 
quanto 
l’algoritmo 
non è 
più mere 
tool, 
ma 
entra 
nel 
percorso decisionale 
dell’uomo, limitandone 
la 
libertà 
del 
pensiero. 
L’algoritmo 
può 
diventare 
intelligenza 
“spontaneus”, può evolvere 
indipendentemente 
dalla 
volontà 
dell’uomo. Tali 
considerazioni 
inducono il 
giurista 
a 
profilare 
anche 
una 
responsabilità 
“dell’educatore 
dell’algoritmo”, 
basato 
sui 
principi 
di 
proporzionalità 
e 
di 
accountability. 
Wittgenstein, 
filosofo 
del 
linguaggio, 
ci 
ha 
insegnato 
che 
le 
parole 
innestano 
dei 
percorsi 
culturali, 
delineano 
il 
pensiero. 
Se 
ciò 
è 
vero, 
ricavando 
l’etimologia 
del 
termine 
“robot”, 
derivante 
dalla 
lingua 
ceca, 
“lavoro 
forzato”, 
viene 
in mente 
il 
binomio servo-padrone 
della 
Fenomenologia 
dello Spirito 
di 
Hegel. 
Come 
può 
il 
diritto 
sottrarre 
l’uomo 
a 
tale 
schiavitù, 
schiavitù 
di 
quella 
che 
il 
Prof. Natalino Irti 
ha 
definito in termini 
di 
“anomia” 
e 
“atopia” 
della 
dimensione 
digitale? 
una 
strada 
sembra 
essere 
percorsa 
dalla 
cooperazione 
internazionale 
e 
dal 
multilateralismo: 
mentre 
noi 
siamo 
impegnati 
in 
tale 
simposio, un altro si 
sta 
svolgendo all’interno del 
G20, giungendo a 
definire 
una 
“tassa minima globale” 
cd. web 
tax, per colpire 
l’esorbitante 
potere 
economico delle 
grandi 
piattaforme. Sarà 
sufficiente? 
È 
un primo passo, ma 
noi 
giuristi 
dobbiamo comprendere 
la 
complessità 
della 
dimensione 
digitale 
per poterla 
razionalizzare 
e 
regolamentare, attraverso un confronto tra 
saperi 
che 
il 
prof. Palma 
ha 
definito “polifonico”, a 
più voci 
nel 
rispetto del 
metodo 
di 
analisi 
proprio di 
ogni 
specifica 
disciplina. A 
problemi 
complessi, occorre 
dare 
risposte 
articolate, 
integrate 
e 
pluristrutturate. 
È 
un 
nostro 
dovere 
per 
salvaguardare 
lo stesso concetto di “humanitas”, lo stesso concetto di uomo. 


ravello, 30 ottobre 2021 


CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


unità d’Italia. abolizione del contenzioso 
amministrativo e questione demaniale 


Federico Casu* 


Certo 
il 
cammino 
è 
lungo 
e 
pieno 
di 
ostacoli, 
ma 
sembra 
che 
sia 
già 
affiorata 
una 
nuova 
generazione 
capace 
di 
spezzare 
gli 
ultimi 
ceppi del feudalesimo. 


(G. dorso, 1924) 


Sommario: 1. il 
contesto politico -2. il 
contesto costituzionale 
-2.1. L’allegato E 
della 
legge 
2248 del 
1865: origini 
e 
doppio livello di 
lettura del 
dibattito parlamentare 
-3. Brevi 
cenni 
sui 
profili 
giuridici 
dell’abolizione 
del 
contenzioso 
amministrativo 
-4. 
Profili 
economici 
e 
politici 
della 
legge 
abolitrice 
del 
contezioso 
amministrativo: 
la 
questione 
demaniale 
-5. 
riferimenti bibliografici. 


1. il contesto politico. 
Nella 
tarda 
mattinata 
del 
16 
giugno 
1864 
a 
Torino, 
nell’aula 
della 
Camera 
dei deputati… 


Peruzzi, 
ministro 
per 
l’interno. 
Io 
non 
credo 
che 
si 
venga 
a 
questa 
conseguenza. 
Se 
l’onorevole 
rattazzi 
lo crede, non ha 
che 
a 
porre 
un emendamento e 
se 
questo raggiungerà 
lo 
scopo 
a 
cui 
miriamo, 
e 
lo 
esprimerà 
in 
modo 
più 
chiaro, 
io, 
per 
la 
parte 
mia, 
sarò 
ben 
felice 
di 
accettarlo; 
ma 
siccome 
non 
vedrei 
questo 
pericolo, 
così 
non 
mi 
diparto 
dalla proposta della Commissione. 
rattazzi. A 
me 
pare 
che 
basti 
che 
il 
signor ministro si 
attenga 
alla 
sua 
prima 
relazione, 
la 
quale 
sottrae 
bensì 
gli 
affari 
a 
questi 
Consigli 
di 
prefettura, non prescrive 
così 
l’abolizione 
di questi Consigli. 
Presidente. Fa una proposta? 
rattazzi. Io non faccio proposta (1), dico solo che si potrebbe fare così. 
Peruzzi, ministro dell’interno. In una 
discussione 
come 
questa, a 
me 
pare 
che 
non sia 
il 
caso di 
limitarsi 
a 
dare 
consigli. ognuno abbia 
la 
responsabilità 
dei 
propri 
atti; 
io ho 
la responsabilità dei miei, l’onorevole rattazzi l’abbia dei suoi. 
Egli 
in 
conseguenza 
è 
libero 
di 
presentare 
un 
emendamento 
quando 
lo 
creda 
necessario, 
ed io mi farò un dovere di esaminarlo e di pronunziarmi intorno ad esso. 
Lo ringrazio del 
consiglio che 
mi 
ha 
favorito; 
ma 
io non giudicando necessario quanto 
egli 
suggerisce, 
non 
credo 
doverlo 
proporre; 
se 
egli 
stima 
necessario 
l’emendamento 
da 
lui indicato, si compiaccia proporlo. 
rattazzi. Io non sono venuto per dare 
alcun consiglio, poiché 
certo il 
ministro non me 


(*) Viceprefetto. 


Un ringraziamento all’avv. Stato maurizio Borgo per l’invio del presente saggio alla rassegna. 


(1) Così testualmente nel resoconto stenografico. 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


lo domanda, ed io non voglio spontaneamente 
dar consigli 
a 
chi 
non me 
li 
chiede; 
io 
son 
venuto 
a 
proporre 
un 
dubbio 
che 
il 
progetto 
fa 
sorgere: 
se 
il 
ministro 
crede 
che 
questo 
dubbio 
non 
esista, 
o 
se 
malgrado 
il 
dubbio, 
egli 
intende 
che 
il 
medesimo 
rimanga, 
lo faccia 
pure. Io quindi 
lascio che 
il 
ministro provveda 
come 
crede 
più conveniente 
ed 
abbia 
la 
responsabilità 
del 
suo 
progetto, 
senza 
che 
questa 
responsabilità 
venga 
divisa 
da altri (2). 


A 
distanza 
di 
più 
di 
un 
secolo 
e 
pur 
in 
assenza 
di 
una 
registrazione 
audiovideo 
della 
seduta, il 
resoconto stenografico è 
ancora 
in grado di 
trasmettere 
al 
lettore 
contemporaneo 
uno 
stato 
di 
tensione 
tra 
due 
esponenti 
di 
spicco 
della 
classe politica di allora. 


Essi 
stanno 
discutendo 
intorno 
alla 
tematica 
dell’abolizione 
del 
contezioso 
amministrativo, 
ovvero 
su 
una 
questione 
caratterizzata 
da 
un 
non 
comune 
tecnicismo 
giuridico, 
lontano, 
almeno 
all’apparenza, 
da 
qualsiasi 
possibile 
eccesso 
retorico 
che 
pure 
caratterizzava 
i 
dibattiti 
nel 
Parlamento 
del 
neonato 
regno 
d’Italia 
e 
che 
tante 
volte 
aveva 
riempito 
le 
tribune 
della 
vecchia 
Camera 
subalpina, calamitando l’attenzione 
di 
giornalisti, diplomatici 
o semplici 
cittadini. 


Eppure, nel 
giugno del 
1864, si 
cimentano su quello stesso argomento, 
fra 
i 
tanti, 
Filippo 
Cordova, 
Pasquale 
Stanislao 
Mancini 
eppoi 
Crispi, 
Bon 
Compagni, Mosca, Minervini, Giuseppe romano. 


Molti sono giuristi, la più parte avvocati. 


Per comprendere 
più a 
fondo il 
contesto storico in cui 
si 
inserisce 
questo 
spaccato 
di 
vita 
parlamentare, 
potrebbe 
essere 
utile, 
ancora 
per 
un 
attimo, 
zoomare 
su 
rattazzi 
e 
Peruzzi; 
l’uno 
ex 
ministro 
dell’interno, 
l’altro 
ministro 
del-
l’interno in carica, ma 
soprattutto entrambi 
espressione 
di 
due 
mondi, quello 
piemontese 
e 
quello 
toscano, 
che, 
se 
pure 
avevano 
remato 
uniti 
nelle 
acque 
agitate 
del 
processo di 
unificazione, ora 
si 
contendevano la 
leadership 
della 
rivoluzione liberale. 


da 
una 
parte 
il 
Piemonte, a 
trazione 
cavouriana, che, accollandosi 
oneri 
politici 
e 
rischi 
economici, aveva, come 
noto, assunto la 
conduzione 
politica 
e militare della seconda guerra d’indipendenza. 

dall’altra 
la 
Toscana 
che, con Bettino ricasoli, sceglieva 
senza 
indugi 
di 
seguire 
Cavour, 
anteponendo 
rivendicazioni 
autonomistiche, 
probabilmente 
consapevole 
che 
i 
territori 
dell’ex 
Granducato avrebbero, almeno nel 
breve 
e 
medio periodo, pagato il 
prezzo di 
un sistema 
di 
governo di 
stampo centralistico, 
disegnato, proprio da rattazzi, sulla scorta del sistema francese. 


un 
modello 
che, 
fra 
il 
1859 
e 
il 
1861, 
si 
presentava 
ad 
avviso 
di 
molti 
come 
l’unico 
in 
grado 
di 
imbrigliare 
il 
nascente 
Stato 
italiano, 
territorialmente 


(2) Lo stralcio del 
dibattito è 
tratto dal 
resoconto stenografico della 
seduta 
della 
Camera 
dei 
deputati 
del 
16 
giugno 
1864, 
p. 
5394, 
consultabile 
in 
rete 
all’indirizzo 
storia.camera.it, 
sezione 
Legislature, 
regno d’italia, Viii Legislatura, 1864, seduta del 16 giugno. 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


molto 
vasto, 
forse 
troppo, 
culturalmente 
ed 
economicamente 
disomogeneo; 
uno 
Stato 
diviso 
nell’atto 
stesso 
della 
sua 
fondazione, 
ma 
che, 
proprio 
per 
questa 
ragione, la 
gran parte 
della 
classe 
dirigente 
liberale 
voleva 
sin da 
subito 
unito a qualsiasi costo, senza se e senza ma. 

due mondi a confronto, dunque. 


da 
un 
lato 
Torino 
capitale 
del 
regno 
di 
Sardegna 
e 
ora 
del 
più 
grande 
regno 
d’Italia, 
con 
tutti 
gli 
onori 
e 
le 
ricadute 
positive 
che 
ciò 
avrebbe 
comportato; 
dall’altra 
Firenze 
che, 
invece, 
capitale 
non 
lo 
era 
più, 
seppur 
di 
un 
piccolo 
Stato, 
ma 
che, 
tra 
il 
1863 
e 
il 
1864, 
stava 
lavorando 
per 
tornare 
ad 
esserlo. 


da 
una 
parte 
rattazzi, avvocato, figlio della 
provincia 
piemontese, che 
a 
Torino si 
era 
fatto conoscere, apprezzare 
e 
temere. Capo del 
centrosinistra 
subalpino, 
politico accorto, a 
tratti 
sfuggente, capace 
di 
tenere 
testa 
all’ingombrante 
figura 
di 
Cavour. Spregiudicato e 
coraggioso nelle 
alleanze, fu artefice 
nel 
’52, assieme 
al 
Conte, del 
patto passato alla 
storia 
con il 
nome 
di 
“connubio”, 
che 
fu 
la 
base 
delle 
strategie 
politiche 
che 
portarono 
il 
regno 
di 
Sardegna 
ad assumere, in Italia, la guida della rivoluzione risorgimentale. 


Abile 
nell’insinuarsi 
nelle 
pieghe 
del 
difficile 
rapporto 
tra 
Cavour 
e 
Vittorio 
Emanuele, 
di 
cui 
seppe 
guadagnarsi 
la 
fiducia, 
fu 
estimatore 
di 
Garibaldi 
e, 
chi 
lo 
sa, 
intimamente 
convinto 
della 
bontà 
di 
alcune 
idee 
di 
rinnovamento 
sociale 
che 
il 
movimento 
delle 
camicie 
rosse 
aveva 
saputo 
esprimere 
con 
la 
liberazione 
della 
Sicilia 
e 
del 
Mezzogiorno 
continentale. 
E 
a 
quest’ultimo 
riguardo, 
non 
sarà 
mai 
completamente 
chiarito 
il 
ruolo, 
di 
certo 
ambiguo, 
assunto 
dal 
suo 
Governo 
nel 
’62 
di 
fronte 
ai 
tentativi 
insurrezionali 
garibaldini, 
che 
condussero 
alla 
crisi 
dell’Aspromonte 
e 
alle 
dimissioni 
da 
Presidente 
del 
Consiglio, 
segnando 
così 
l’inizio 
della 
parabola 
discendente 
della 
sua 
carriera 
politica. 


Chi 
discuteva 
animatamente, 
dunque, 
con 
il 
ministro 
dell’interno 
pro 
tempore, 
quel 
16 giugno del 
1864, non era 
un personaggio qualsiasi 
della 
politica 
italiana. 


Non è, peraltro, da 
escludere 
che 
dietro allo scontro sul 
disegno di 
legge 
relativo 
alla 
abolizione 
del 
contenzioso 
amministrativo 
vi 
fosse, 
fra 
le 
altre 
motivazioni, 
il 
tentativo 
di 
rattazzi 
di 
difendere 
Torino 
dai 
disegni 
politici, 
più o meno segreti, che 
miravano a 
sottrarre 
alla 
città 
sabauda 
il 
titolo di 
capitale 
del regno italiano in favore di altre città che non fossero roma. 


E 
vi 
era 
anche 
il 
tentativo di 
difendere 
la 
legislazione 
del 
’59 che, bene 
o 
male, aveva 
saputo assicurare 
al 
neo costituito Stato un’ossatura 
amministrativa 
che 
nel 
Governo centrale 
e 
nel 
sistema 
prefettizio aveva 
uno dei 
cardini 
principali. 


E 
che 
cos’era, del 
resto, l’abolizione 
del 
contenzioso amministrativo se 
non la 
soluzione, prospettata 
e 
sostenuta 
non a 
caso dagli 
autonomisti, di 
spostare 
la 
tutela 
di 
situazioni 
giuridiche 
borderline, coinvolgenti 
assetti 
di 
interesse 
riconducibili 
alla 
Pubblica 
amministrazione, dai 
consigli 
di 
prefettura 
e 
dal 
Consiglio di 
Stato, quindi 
in definitiva 
dal 
Governo, alla 
magistratura 
or



rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


dinaria, 
ovvero 
ad 
un 
corpo 
ad 
ordinamento 
tendenzialmente 
orizzontale 
e 
non 
già verticale come la carriera prefettizia? 


un’operazione 
che 
avrebbe 
riorientato 
anche 
tutta 
la 
trattazione 
della 
questione 
demaniale 
e 
della 
divisione 
delle 
terre 
-che 
al 
Sud stava 
procedendo 
pur fra 
mille 
intoppi 
sotto la 
supervisione 
prefettizia, certo scontentando influenti 
potentati 
economici, 
clientelari 
ed 
elettorali 
-verso 
la 
magistratura, 
più 
sensibile 
alla 
tutela 
dei 
diritti 
già 
acquisiti 
dalla 
grande 
proprietà 
terriera 
e 
ora 
messi in discussione dai procedimenti di quotizzazione. 


Se 
ne 
parlerà 
più avanti, ora, invece, qualche 
doveroso cenno biografico 
anche su ubaldino Peruzzi. 


Se 
rattazzi 
era 
figlio del 
Piemonte 
e 
di 
Torino, Peruzzi 
lo era 
della 
Toscana 
e di Firenze. 

Cugino 
di 
Bettino 
ricasoli 
ed 
espressione 
dell’aristocrazia 
fiorentina, 
fu 
attivo 
nei 
moti 
risorgimentali 
e 
convinto 
autonomista, 
ostile, 
quindi, 
alla 
politica 
di 
accentramento 
che 
aveva 
portato 
ad 
accantonare, 
anche 
per 
la 
fragilità 
del 
nascente 
regno 
d’Italia, 
i 
progetti 
regionalistici 
elaborati 
da 
Farini 
e 
da 
Minghetti. 


Fu 
molto 
attivo 
in 
alcune 
operazioni 
societarie 
nel 
redditizio 
campo 
degli 
investimenti 
ferroviari 
e 
non è 
un caso che, nel 
III governo Cavour (1860) e 
nel 
primo ministero ricasoli 
(1861), ricoprisse 
la 
carica 
di 
ministro dei 
lavori 
pubblici. 

dopo 
i 
fatti 
di 
Aspromonte 
e 
la 
caduta 
del 
Governo 
rattazzi, 
divenne 
ministro 
dell’interno nel 
ministero Farini 
e 
in quella 
carica 
giocò un ruolo fondamentale 
nelle 
trattative 
politiche 
che 
portarono 
alla 
Convezione 
di 
settembre 
(1864), 
ovvero 
a 
quell’accordo 
diplomatico 
attraverso 
il 
quale, 
tra 
le 
altre 
cose, 
l’Italia 
si 
impegnava 
con 
la 
Francia 
a 
spostare 
la 
capitale 
da 
Torino 
ad 
un’altra 
città, che non fosse roma, posta in posizione geografica più baricentrica. 


Furono prese 
in considerazione 
Napoli 
e 
Firenze 
e 
alla 
fine, nel 
1865 (3), 
vinse, anche qui non a caso, Firenze. 


Quando 
gli 
articoli 
segreti 
della 
Convezione 
furono 
di 
pubblico 
dominio, 
nelle 
giornate 
tra 
il 
21 e 
il 
22 settembre 
si 
registrarono a 
Torino forti 
proteste 
concentrate 
prevalentemente 
in piazza 
Castello e 
in piazza 
San Carlo, dove 
i 
manifestanti 
incontrarono reparti 
di 
guardie 
di 
pubblica 
sicurezza 
e 
di 
carabinieri 
schierati con intenti non certo amichevoli. 


Morirono più di 50 persone e quasi 200 furono i feriti. 


La 
città 
apparve 
spaesata 
e 
i 
torinesi, 
increduli, 
leggevano 
le 
cronache 
degli eventi dalle pagine dei quotidiani. 

Sotto accusa 
finì 
la 
gestione 
dell’ordine 
pubblico e 
quindi 
Peruzzi, definito 
spregiativamente 
dagli 
avversari 
il 
“mitragliatore”, 
ma 
che, 
tuttavia, 
fu 
scagionato da una commissione d’inchiesta. 


(3) Il trasferimento della corte a Firenze si ebbe nel febbraio ’65. 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


Le 
conseguenze 
sul 
governo 
non 
si 
fecero 
attendere 
e, 
infatti, 
il 
presidente 
del 
consiglio 
Minghetti 
rassegnava 
le 
dimissioni, 
lasciando 
il 
posto 
al 
governo 
La Marmora. 


Con 
i 
fatti 
di 
Torino 
ebbe 
termine 
anche 
la 
carriera 
ministeriale 
di 
Peruzzi 
che, 
di 
lì 
a 
poco, 
si 
dedicò 
alla 
vita 
politica 
locale 
della 
sua 
Firenze, 
che 
intanto 
si apprestava a divenire capitale del regno d’Italia. 


La 
prospettiva 
fece 
gola 
agli 
investitori 
e 
in città 
fu tutto un fiorire 
di 
iniziative 
societarie nel campo edilizio e del riassetto urbanistico. 


Anche 
per 
Peruzzi 
-componente 
del 
consiglio 
municipale 
e, 
dal 
’68, 
primo 
cittadino 
-Firenze 
doveva 
conoscere 
un 
nuovo 
rinascimento, 
la 
sue 
strade 
divenire 
più 
belle 
e 
i 
palazzi, 
vecchi 
e 
nuovi, 
essere 
pronti 
ad 
accogliere 
la nuova burocrazia ministeriale. 


oggi, 
con 
gli 
stilemi 
tipici 
della 
neolingua 
contemporanea, 
si 
direbbe 
che 
la 
città 
che 
fu 
dei 
Medici 
conobbe 
un 
periodo 
di 
restyling 
e 
di 
rigenerazione 
urbana. 


E 
fu 
davvero 
così: 
molti 
si 
arricchirono, 
anche 
se 
l’età 
dell’oro 
durò 
poco 
e, alla fine, rimasero i debiti. 


Quando, infatti, il 
titolo di 
capitale 
passò a 
roma, il 
bilancio del 
comune 
di 
Firenze 
registrava 
oramai 
disavanzi 
per 
oltre 
due 
milioni 
di 
lire 
e, 
in 
ambito 
nazionale, si 
parlava 
della 
necessità 
di 
interventi 
di 
sostegno ad hoc 
per una 
città illusa da un sogno troppo presto tradito. 


Il 
caso di 
Firenze, ovvero il 
business 
delle 
speculazioni 
edilizie 
e 
degli 
appalti 
di 
lavori 
pubblici, riguarderà 
ovviamente 
anche 
roma 
e 
poi, nei 
160 
anni della storia del nostro Paese, altre città. 


Ma questa è davvero tutta un’altra storia... 

2. il contesto costituzionale. 
Le 
prime 
due 
leggi 
tecnicamente 
“italiane”, approvate 
con l’obiettivo di 
stabilizzare 
gli 
esiti 
della 
rivoluzione 
risorgimentale, furono la 
n. 4671 del 
17 
marzo e la n. 1 del 21 aprile 1861. 


Tuttavia, 
tale 
tentativo 
di 
“normalizzazione” 
costituzionale 
non 
riuscì 
del 
tutto e 
già 
allora 
la 
numerazione 
delle 
due 
leggi 
era 
la 
spia 
di 
un sistema 
politico 
ancora in fase di assestamento. 


Mentre, 
infatti, 
la 
legge 
del 
17 
marzo 
continuava 
ad 
essere 
legata 
alla 
serie 
degli 
atti 
normativi 
del 
regno 
di 
Sardegna, 
il 
numero 
identificativo 
della 
seconda 
fu il 
segnale 
di 
un apparente 
nuovo inizio, quasi 
il 
simbolo di 
una 
rifondazione 
del patto sociale. 

Quanto ai 
contenuti, se 
con la 
prima 
Vittorio Emanuele 
II assumeva 
per 
sé 
e 
i 
suoi 
eredi 
il 
titolo di 
re 
d’Italia, la 
seconda, che 
appunto inaugurava 
la 
numerazione 
progressiva 
delle 
leggi 
e 
dei 
decreti 
del 
nuovo regno, stabiliva 
che, d’ora 
in avanti, tutti 
gli 
atti 
pubblici 
da 
intitolarsi 
in nome 
del 
re 
lo dovessero 
essere 
con la 
seguente 
formula: 
“(il 
nome 
del 
re) Per 
grazia di 
Dio e 
per volontà della Nazione re d’italia”. 



rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


In particolare, la 
n. 4671 gettava 
un velo solenne 
sulle 
espansioni 
territoriali 
del 
regno di 
Sardegna, conseguite 
con la 
seconda 
guerra 
d’indipendenza 
e 
la 
spedizione 
dei 
mille. 
Celato 
al 
di 
sotto 
della 
sua 
scarna 
struttura 
linguistica, 
il 
significato 
politico 
era 
che 
la 
grande 
corsa 
verso 
l’unificazione 
nazionale 
fosse stata vinta da Cavour e non già dalle forze progressiste. 


Per anni, esse avevano sognato un’Italia libera. 


riscatto sociale, roma 
capitale, laicità 
dello Stato, repubblica, federalismo, 
unitarismo, 
redistribuzione 
della 
terra 
erano 
tutte 
parole 
d’ordine, 
talvolta 
in 
contraddizione 
reciproca, 
che 
pure 
animavano 
il 
pensiero 
e 
l’azione 
del 
campo progressista. 

Gli 
sconfitti, 
alcuni 
dei 
quali 
non 
avevano 
fatto 
in 
tempo 
a 
conoscere 
l’epopea 
dell’unificazione, ma 
che 
vivevano nella 
memoria 
dei 
più giovani 
o 
dei 
superstiti 
dei 
moti 
del 
’21 
e 
del 
’48-’49, 
avevano 
nomi 
e 
cognomi 
ben 
precisi: 
Filippo 
Buonarroti, 
Carlo 
Pisacane, 
Goffredo 
Mameli, 
Aurelio 
Saffi, 
Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari. 


I 
più 
illustri 
restavano, 
comunque, 
Mazzini 
e 
Garibaldi, 
che 
nei 
mesi 
della 
spedizione 
dei 
mille 
avevano 
operato 
perché, 
una 
volta 
avvenuta 
la 
liberazione 
del 
Meridione 
e 
fatta 
di 
roma 
la 
capitale 
d’Italia, fosse 
avviato un processo 
costituente 
finalizzato a 
conformare 
il 
nascente 
Stato con una 
costituzione 
e 
un ordinamento nuovi di zecca. 


Ma le cose, si sa, andarono diversamente. 


I plebisciti 
del 
1860, riconosciuti 
con decreti 
dei 
Governi 
sardi 
-a 
loro 
volta 
autorizzati 
preventivamente 
o 
ratificati 
dalle 
Camere 
subalpine 
(4) 
-avevano 
in qualche 
modo legittimato l’ingresso di 
ampie 
parti 
del 
territorio della 
penisola 
nella 
sfera 
di 
sovranità 
dell’ordinamento piemontese, nonché 
la 
conseguente 
progressiva estensione nei loro confronti dello Statuto albertino. 


È 
pur 
vero 
che 
i 
plebisciti 
del 
21 
ottobre 
del 
1860, 
riguardanti 
le 
province 
napoletane 
e 
la 
Sicilia, dove 
non a 
caso era 
ancora 
molto forte 
l’influenza 
garibaldina, 
parlavano della 
volontà 
del 
popolo di 
avere 
un’Italia 
«…una e 
indivisibile 
con 
Vittorio 
Emanuele 
re 
Costituzionale 
e 
suoi 
legittimi 
discendenti...» 
e 
non, 
invece, 
come 
gli 
omologhi 
pronunciamenti 
popolari 
della 
Toscana, 
dell’Emilia, 
delle 
Marche 
e 
dell’umbria, 
di 
adesione, 
annessione 
o 
unione 
alla monarchia costituzionale di 
Vittorio Emanuele. 


Ciononostante, al 
di 
là 
delle 
sottigliezze 
linguistiche 
della 
formulazione 


(4) I regi 
decreti 
del 
18 marzo 1860 n. 4004 e 
del 
22 marzo 1860 n. 4014 concernenti, rispettivamente, 
le 
annessioni 
dell’Emilia 
e 
della 
Toscana 
furono 
autorizzati 
all’esecuzione 
con 
leggi 
del 
15 
aprile 
n. 
4059 
(Emilia) 
e 
4060 
(Toscana). 
Con 
legge 
3 
dicembre 
1860 
n. 
4497 
il 
Governo 
fu, 
invece, 
autorizzato 
ad accettare 
e 
stabilire 
con decreti 
reali 
l’annessione 
allo Stato delle 
province 
dell’Italia 
centrale 
e 
meridionale 
a 
seguito di 
esito positivo dei 
plebisciti. Le 
annessioni 
furono formalizzate 
con regi 
decreti 
del 
17 dicembre 
1860 nn. 4498 e 
4499, riguardanti, rispettivamente, le 
province 
del 
meridione 
continentale 
e 
la 
Sicilia. In pari 
data, con regi 
decreti 
nn. 4500 e 
4501, fu formalizzata 
anche 
l’annessione 
delle Marche e dell’umbria. 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


del 
quesito popolare, anche 
il 
plebiscito napoletano e 
quello siciliano passarono, 
per la 
loro validazione, al 
vaglio di 
atti 
normativi 
del 
governo e 
del 
parlamento 
sabaudi. 


dunque 
anche 
Napoli 
e 
Palermo, 
al 
pari 
degli 
altri 
territori, 
entravano 
formalmente a far parte della sfera di influenza piemontese. 


E 
così 
quando, con le 
leggi 
del 
17 marzo e 
del 
21 aprile, il 
regno di 
Sardegna 
mutò 
il 
proprio 
nome 
-e 
ciò 
proprio 
in 
conseguenza 
del 
fatto 
che, 
quasi 
per 
incanto, 
il 
re 
Vittorio 
Emanuele 
si 
fosse 
trasfigurato 
in 
re 
d’italia 
-non 
furono 
necessarie 
né 
assemblee 
costituenti 
né, 
tanto 
meno, 
nuove 
costituzioni. 


una 
costituzione 
c’era 
già 
ed era 
lo Statuto albertino, mentre 
le 
forme 
di 
stato 
e 
di 
governo 
erano 
quelle 
che, 
a 
partire 
dagli 
anni 
’50, 
l’attivismo 
politico 
di 
Cavour 
aveva 
abilmente 
modellato 
in 
Piemonte 
all’insegna 
di 
un 
parlamentarismo 
moderato di stampo liberale. 

Ma il Paese, soprattutto al Sud, ribolliva. 


Il 
18 
aprile 
del 
1861 
gli 
echi 
della 
rivoluzione 
garibaldina 
arrivarono 
fino 
a 
Torino 
fra 
le 
mura 
della 
Camera 
dei 
deputati, 
ove 
tra 
il 
generale, 
presentatosi 
provocatoriamente 
alla 
seduta 
in camicia 
rossa 
e 
poncho 
argentino, e 
Cavour 
si 
consumò 
una 
durissima 
controversia 
in 
tema 
di 
regolarizzazione 
del 
così 
detto esercito meridionale. 


La 
conseguenza 
fu 
un 
acuirsi 
dei 
dissidi 
politici 
fra 
le 
due 
principali 
anime 
del risorgimento italiano, che di lì a poco sarebbero tornate a scontrarsi. 

Appena 
un 
anno 
dopo, 
infatti, 
si 
sarebbe 
consumata 
la 
battaglia 
del-
l’Aspromonte 
e, ancora, nel 
’67, quella 
di 
Mentana, ultimo tentativo di 
Garibaldi 
e 
del 
campo progressista 
di 
trovare 
una 
soluzione 
alla 
questione 
romana 
che 
prescindesse 
dal 
contesto internazionale 
e, in primo luogo, dagli 
interessi 
francesi. 


Intanto il 
debito pubblico, aumentato enormemente 
in conseguenza 
dei 
costi 
derivanti 
dall’unificazione, 
rischiava 
esso 
stesso 
di 
divenire 
un 
fattore 
di 
instabilità, 
mentre 
nel 
Mezzogiorno 
il 
nascente 
fenomeno 
del 
brigantaggio 
già 
imponeva 
scelte 
dolorose 
e 
divisive, 
come 
le 
leggi 
eccezionali 
e 
gli 
stati 
di 
emergenza. 


di fronte a questa situazione lo Stato appariva debole. 


Invero, alcuni 
interventi 
ordinamentali 
avevano sin da 
subito cercato di 
consolidarne 
l’impalcatura 
costituzionale, 
come, 
per 
citare 
solo 
alcuni 
esempi, 
il 
decreto del 
Ministro della 
guerra 
Fanti 
del 
4 maggio del 
1861 volto a 
trasformare 
l’Armata 
sarda 
nel 
regio esercito italiano (5), le 
misure 
in campo 
economico 
come 
l’istituzione 
del 
Gran 
libro 
del 
debito 
pubblico 
del 
regno 


(5) Va, inoltre, ricordata 
l’istituzione 
della 
direzione 
generale 
delle 
leve, Bassa-forza 
e 
matricola 
(agosto 1861). Nel 
’61 furono anche 
approvati 
i 
regolamenti 
del 
servizio militare 
della 
Marina. Il 
Ministero 
della 
marina 
ebbe 
il 
suo definitivo assetto con i 
regi 
decreti 
del 
22 febbraio 1863, n. 1174, e 
del 
26 luglio 1863, n. 1396. 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


d’Italia 
(6) 
o 
quelli 
in 
materia 
di 
corso 
legale 
della 
lira 
(7) 
o 
concernenti 
la 
riorganizzazione 
del 
corpo 
delle 
guardie 
di 
pubblica 
sicurezza 
(8), 
del 
sistema 
carcerario (9) e la repressione del brigantaggio (10). 


Ma questo non bastò. 


Era 
come 
se 
il 
nuovo regno, pur essendo dotato di 
uno scheletro, mancasse 
ancora delle terminazioni nervose e dei muscoli. 


Il 
Governo aveva 
dato priorità 
al 
riassetto organizzativo delle 
Forze 
armate 
e 
delle 
Forze 
di 
polizia, costretto a 
mostrare 
al 
Paese 
reale 
il 
volto duro 
dello Stato per reagire 
alle 
fibrillazioni 
internazionali, dovute 
al 
processo di 
unificazione, e 
all’instabilità 
politica 
e 
sociale 
interna, ancora 
una 
volta 
prevalentemente 
concentrata nel Mezzogiorno. 


ora, 
però, 
divenivano 
improcrastinabili 
riforme 
organiche 
in 
alcuni 
settori 
della vita civile. 


In 
altri 
termini, 
era 
giunto 
il 
momento 
che 
lo 
Stato 
mostrasse 
anche 
il 
volto 
buono 
del 
potere, 
ad 
esempio 
di 
costruttore 
di 
edifici 
pubblici, 
ponti, 
strade, acquedotti 
e 
di 
ferrovie, tanto importanti 
per unire 
a 
livello infrastrutturale 
la penisola. 


Bisognava, 
poi, 
disciplinare 
la 
sanità 
pubblica 
e 
ridisegnare 
il 
rapporto 
tra 
centro e 
periferia, valorizzando il 
ruolo delle 
province 
e 
soprattutto dei 
comuni, 
cui 
delegare 
importanti 
funzioni 
statali 
quali 
l’anagrafe, lo stato civile, 
la leva militare. 


occorreva, inoltre, superare 
con gradualità 
la 
legislazione 
speciale 
sull’ordine 
e 
la 
sicurezza 
pubblica, conferendo stabilità 
all’intero settore, regolamentando 
le 
riunioni, i 
pubblici 
spettacoli, le 
attività 
commerciali, il 
lavoro 
nelle 
fabbriche 
e 
nei 
campi, 
i 
limiti 
della 
libertà 
di 
stampa 
e 
tutte 
quelle 
attività 
che, oggi, ricondurremmo nel settore della polizia amministrativa. 


Si 
pensava, infine, che 
i 
tempi 
fossero maturi 
per intervenire 
in materia 
di 
tutela 
dei 
diritti 
anche 
per circoscrivere 
in modo più chiaro, sulla 
base 
del 
principio tutto liberale 
della 
divisione 
dei 
poteri, l’ambito d’azione 
della 
pubblica 
amministrazione rispetto a quello dei giudici. 

Su queste 
tematiche 
il 
Parlamento italiano cominciò, invero, a 
lavorare 
sin dall’unificazione. 

(6) 
Legge 
10 
luglio 
1861, 
n. 
94, 
cui 
si 
aggiunse 
la 
legge 
4 
agosto 
1861, 
n. 
174 
con 
la 
quale 
furono 
riconosciuti, quali 
debiti 
del 
regno d’Italia, i 
debiti 
degli 
Stati 
preunitari 
con conseguente 
disciplina 
relativa 
alla sostituzione dei vecchi titoli dei debiti pubblici con nuovi titoli garantiti dallo Stato italiano. 
(7) Stabilita con regio decreto 17 luglio 1861, n. 326. 
(8) Con legge 
4 agosto 1861, n. 143 fu riorganizzata 
la 
guardia 
nazionale 
mobile, mentre 
i 
regi 
decreti 
n. 
258 
del 
29 
settembre 
1861 
e 
n. 
378 
del 
22 
dicembre 
1861 
incrementarono 
l’organico 
del 
corpo 
delle 
guardie 
di 
pubblica 
sicurezza. da 
ricordare, ancora, la 
legge 
13 maggio 1862, n. 616, sull’ordinamento 
delle guardie doganali e il correlato regolamento attuativo 13 novembre 1862, n. 989. 
(9) Il 
regio decreto 13 gennaio 1862, n. 413 approvò il 
regolamento generale 
per le 
case 
di 
pena. 
(10) Il 
15 agosto del 
’63 fu emanata 
la 
legge 
“Pica” 
n. 1409. Il 
relativo regolamento di 
attuazione 
fu adottato con regio decreto 30 agosto 1863, n. 1433. 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


Poi la morte inaspettata di Cavour rallentò un po’ tutto. 


Era 
come 
se 
nella 
plancia 
di 
comando 
dello 
Stato 
fossero 
improvvisamente 
venute 
a 
mancare 
le 
mappe 
per proseguire 
nella 
rotta 
finora 
tracciata; 
mappe 
che 
il 
Conte 
sembrava 
essersi 
portato con sé 
nella 
tomba, senza 
condividerne 
i 
contenuti 
se 
non 
con 
quei 
pochi 
fedelissimi 
che, 
tuttavia, 
senza 
il 
loro Capo, non avrebbero potuto o saputo utilizzarle per proseguire da soli. 


Sia 
quel 
che 
sia, dal 
1861 le 
Camere 
iniziarono, comunque, a 
discutere 
e 
ad 
approfondire 
alcune 
ipotesi 
di 
riforma 
istituzionale, 
elaborando 
vari 
progetti 
di 
legge 
rimasti, tuttavia, nei 
cassetti 
delle 
commissioni 
parlamentari 
fino alle 
soglie 
del 
1865, 
quando 
il 
Governo 
diede 
ordine 
di 
recuperarli 
in 
fretta 
in 
furia. 


Nacque 
così 
la 
legge 
20 marzo 1865, n. 2248, composta, come 
noto, da 
5 articoli 
e 
da 
6 allegati 
così 
denominati: 
allegato A, Legge 
sull'amministrazione 
comunale 
e 
provinciale; 
allegato B, Legge 
sulla Sicurezza pubblica; 
allegato C, Legge 
sulla Sanità pubblica; 
allegato d, Legge 
sull'istituzione 
del 
Consiglio 
di 
Stato; 
allegato 
E, 
Legge 
sul 
Contenzioso 
amministrativo; 
allegato 
F, Legge sulle opere pubbliche. 


Per 
dare 
un’idea 
dell’entità 
dell’intervento 
normativo 
in 
questione 
può 
essere 
utile 
evidenziare 
come 
l’intera 
legge 
constasse 
di 
841 
articoli 
(11), 
senza 
considerare, poi, i correlati regolamenti attuativi. 


Solo 
a 
titolo 
esemplificativo, 
il 
regolamento 
attuativo 
dell’allegato 
A 
sull’amministrazione 
comunale 
e 
provinciale, approvato con regio decreto 8 
giugno 1865 n. 2321, era 
composto da 
113 articoli, mentre 
quello relativo all’allegato 
C sulla 
sanità 
pubblica, approvato in pari 
data 
con regio decreto, n. 
2322, poggiava su ben 138 articoli. 


Ai 
fini 
del 
presente 
lavoro, però, è 
importante 
sottolineare 
come 
la 
legge 


n. 2248 si 
inserisse 
perfettamente 
nel 
quadro delle 
iniziative 
normative 
funzionali 
al consolidamento dello Stato liberale. 
Fu, insomma, una 
legge 
molto importante, organica al 
regime 
nascente; 
se si preferisce, fu una legge di 
classe. 
Ciò, 
naturalmente, 
vale 
anche 
per 
l’allegato 
E, 
riguardante 
il 
contenzioso 
amministrativo, cui è dedicato il paragrafo seguente. 


2.1. L’allegato E 
della legge 
2248 del 
1865: origini 
e 
doppio livello di 
lettura 
del dibattito parlamentare. 
Libertà 
di 
circolazione 
sull’intero 
territorio 
dello 
Stato, 
un 
più 
ampio 
mercato 
nazionale, 
massima 
mobilità 
possibile 
degli 
investimenti 
e 
dei 
titoli 
di 
proprietà 
mobiliare 
e 
immobiliare, uniforme 
tutela 
dei 
diritti, ovvero unicità 
di 
procedure 
e 
di 
apparati 
giudiziari: 
a 
tutto ciò guardavano gli 
esponenti 
di 
quelle 
forze 
sociali 
ed economiche 
al 
potere 
nei 
primi 
anni 
dell’unificazione. 


(11) Gli 
articoli 
di 
ogni 
allegato, a 
loro volta, erano suddivisi 
attraverso una 
numerazione 
autonoma 
e progressiva. 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


di 
contro il 
Paese 
reale, anche 
dal 
punto di 
vista 
del 
sistema 
giurisdizionale, 
appariva 
estremamente 
frammentato, un puzzle 
multicolore 
di 
difficile 
composizione. 

All’alba 
del 
18 marzo del 
1861, giorno della 
pubblicazione 
in Gazzetta 
ufficiale 
proprio di 
quella 
legge 
n. 4671 con la 
quale 
Vittorio Emanuele 
assumeva 
il 
titolo di 
re 
d’Italia, poteva, ad esempio, capitare 
che 
un cittadino milanese 
si 
vedesse 
costretto 
a 
difendere 
i 
propri 
diritti 
sulla 
base 
di 
una 
legislazione 
civile 
e 
penale 
diversa, nei 
principi 
e 
negli 
istituti 
di 
diritto sostanziale 
e 
processuale, rispetto a 
quella 
vigente 
per gli 
ex 
sudditi 
del 
regno 
di Sardegna o per i cittadini della 
Toscana o della Sicilia. 


E 
occorrerà 
attendere 
la 
grande 
opera 
di 
codificazione 
del 
1865, 
non 
a 
caso definito l’anno del 
risorgimento giuridico, per elidere 
ed appianare 
tali 
disarmonie ordinamentali (12). 

Ma 
cosa 
c’entra 
tutto ciò con il 
dibattito che, tra 
il 
’61 e 
il 
’65, impegnò 
le Camere sull’opportunità o meno di abolire il contenzioso amministrativo? 


Per la 
verità 
c’entra 
eccome 
perché 
anche 
su questo versante 
si 
riteneva, 
da 
più parti, necessario un chiarimento istituzionale 
volto ad eliminare 
quei 
diaframmi 
di 
natura 
territoriale 
e 
giuridica 
che 
frequentemente 
emergevano 
nei 
casi 
di 
controversie 
fra 
i 
cittadini, da 
un lato, e 
i 
pubblici 
poteri, dall’altro; 
controversie 
che 
nascevano 
nei 
più 
disparati 
campi 
dell’azione 
amministrativa 
come, ad esempio, gli espropri o la riscossione dei tributi. 


Campi 
in 
cui 
uno 
Stato 
ideologicamente 
orientato 
in 
senso 
liberale 
non 
poteva 
più 
ammettere 
differenti 
regimi 
di 
tutela 
degli 
interessi 
pubblici 
e 
delle 
situazioni 
giuridiche 
soggettive, 
specie 
quando 
ad 
essere 
in 
gioco 
erano 
rilevanti 
interessi 
economici 
come, 
ad 
esempio, 
quelli 
del 
redditizio 
settore 
degli 
appalti 
e 
degli 
investimenti 
statali 
per 
l’ammodernamento 
infrastrutturale 
del 
Paese. 


Per esemplificare 
ulteriormente, non era 
più tollerabile 
che 
una 
causa 
di 
esproprio per la 
costruzione 
di 
un tratto di 
ferrovia 
fosse 
risolta 
con tempi 
e 
procedure diverse a seconda del comune o della provincia interessata. 

Ma 
quali 
furono i 
modelli 
ordinamentali 
del 
contenzioso amministrativo 
intorno ai quali si snodò il confronto politico? 


Fondamentalmente quattro. 


Il 
primo, di 
matrice 
austriaca 
e 
in vigore 
in Lombardia 
fino al 
1859, prevedeva 
che 
le 
controversie 
tra 
i 
privati 
e 
i 
pubblici 
uffici 
fossero attribuite 
alla 
stessa amministrazione, che le dirimeva attraverso procedimenti di riesame. 


(12) Nel 
1865 furono emanati 
il 
nuovo Codice 
Civile, il 
Codice 
di 
Procedura 
Civile, il 
Codice 
Penale, il 
Codice 
di 
Procedura 
Penale 
e 
il 
Codice 
della 
marina 
mercantile 
e 
della 
navigazione. Il 
Codice 
penale, invero, era 
quello del 
regno di 
Sardegna 
del 
1959. Alcune 
sue 
disposizioni 
non trovarono applicazione 
in Toscana 
(ad esempio la 
normativa 
sulla 
pena 
di 
morte, non contemplata 
dalla 
legislazione 
dell’ex 
Granducato) 
e 
nei 
territori 
dell’ex 
regno 
delle 
due 
Sicilie. 
Analoghe 
considerazioni 
valgono 
per il 
Codice 
di 
commercio che 
replicava, sostanzialmente, quello albertino del 
1842 così 
come 
modificato 
nel ’53 e nel ’54. 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


Il 
secondo, 
invece, 
di 
derivazione 
francese 
e 
ancora 
in 
vigore 
nel 
regno 
d’Italia 
limitatamente 
alle 
province 
meridionali 
(ivi 
compresa 
la 
Sicilia), 
affidava 
tali 
affari 
a 
dei 
funzionari 
amovibili 
i 
quali, 
oltre 
ad 
essere 
titolari 
di 
competenze 
paragiurisdizionali, 
erano 
anche 
incardinati 
negli 
uffici 
dell’amministrazione 
attiva. 


Più nello specifico, tale 
modello organizzativo prevedeva 
una 
prima 
fase 
di 
natura 
decisionale, attribuita 
ad un collegio di 
livello provinciale 
(13), con 
la 
possibilità, da 
parte 
degli 
interessati, di 
attivare 
un secondo livello, questa 
volta 
consultivo, 
in 
seno 
ad 
un 
organismo 
centrale 
deputato 
a 
rendere 
un 
parere 
che, poi, il 
capo del 
potere 
esecutivo, ovvero il 
re, sarebbe 
stato libero di 
accogliere 
o meno (14). 


In definitiva 
solo il 
decreto del 
re, sempre 
se 
chiamato in causa, avrebbe 
potuto, una 
volta 
per tutte, definire 
il 
procedimento con un atto capace, ad avviso 
di 
alcuni 
giuristi 
dell’epoca, di 
esplicare 
effetti 
simili 
ad un giudicato: 
ad 
ogni 
modo, solo la 
decisione 
regia 
avrebbe 
potuto accertare 
definitivamente 
la 
legittimità 
o 
meno 
dell’originario 
provvedimento 
amministrativo, 
che 
aveva 
dato origine alla controversia. 

Il 
terzo 
modello, 
in 
vigore 
nei 
territori 
dell’ex 
regno 
di 
Sardegna, 
in 
Lombardia 
e 
nelle 
Marche 
e 
in quelli 
dell’ex 
Granducato di 
Parma, prevedeva 
una 
sorta 
di 
giurisdizione 
speciale 
del 
contezioso 
amministrativo 
in 
grado 
di 
emettere 
decisioni, simili a provvedimenti di natura giudiziaria, e non pareri. 


Mentre 
per 
i 
territori 
sabaudi, 
lombardi 
e 
marchigiani 
vigeva 
la 
legislazione 
rattazzi 
del 
’59 
-con 
un 
procedimento 
articolato 
su 
due 
livelli 
di 
cui 
uno 
provinciale, 
affidato 
ai 
consigli 
di 
prefettura, 
e 
uno 
centrale 
presso 
la 
sezione 
del 
contezioso 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
di 
Torino 
-per 
le 
province 
parmensi 
la 
competenza 
era, 
invece, 
riconosciuta 
al 
c.d. 
Tribunale 
del 
contezioso 
amministrativo 
(15). 
Sia 
a 
Torino 
che 
a 
Parma 
sedevano 
giudici 
amovibili, 
anche 
se 
il 
Piemonte 
aveva 
in 
passato 
conosciuto 
un 
modello 
analogo 
a 
quello 
del 
’59, 
ma 
con 
giudici 
inamovibili 
(16). 


Infine 
il 
quarto modello -in vigore 
in alcune 
province 
dell’Italia 
centrale 


(13) I consigli di intendenza (i consigli di prefettura francesi e piemontesi). 
(14) Le 
cc.dd. sezioni 
del 
contenzioso amministrativo delle 
Corti 
dei 
Conti 
di 
Napoli 
e 
Palermo. 
All’epoca 
in 
cui 
la 
Camera 
dei 
deputati 
discute 
intorno 
alla 
problematica 
dell’abolizione 
del 
contenzioso 
amministrativo, i 
pareri 
della 
sezione 
consultiva 
della 
Corte 
dei 
Conti 
di 
Napoli 
potevano ancora 
essere 
rimessi, da 
parte 
del 
re, anche 
su impulso ministeriale, ad un ulteriore 
riesame, sempre 
di 
natura 
consultiva, 
da 
parte 
del 
Supremo consiglio amministrativo per Napoli 
(che 
a 
sua 
volta 
aveva 
sostituito la 
Consulta di Stato di epoca borbonica). 
Per la 
Sicilia 
la 
questione 
era 
più complessa, perché 
si 
discuteva 
in merito a 
quale 
organismo potesse 
essere 
indirizzato il 
riesame 
consultivo di 
secondo grado del 
parere 
espresso dalla 
sezione 
del 
contenzioso 
amministrativo di 
Palermo, ovvero se 
alla 
così 
detta 
Commissione 
dei 
Presidenti 
di 
Palermo o, 
addirittura, 
al 
Consiglio 
di 
Stato 
di 
Torino. 
In 
epoca 
borbonica 
detto 
organismo 
si 
identificava 
nella 
Consulta di Stato di Palermo. 
(15) Il vecchio Consiglio di Stato parmense. 
(16) Il riferimento è alla regia Camera dei conti di Piemonte. 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


(17) -prevedeva 
che 
i 
casi 
di 
contenzioso amministrativo fossero ricondotti 
nell’alveo delle competenze del giudice ordinario. 
La 
Camera 
dei 
deputati 
fu 
impegnata 
a 
discutere 
sul 
tema 
nelle 
sedute 
dal 
9 giugno al 
22 giugno del 
1864 (18) quando, su 204 votanti, fu approvato, 
con 150 voti 
favorevoli, un disegno di 
legge 
per l’abolizione 
del 
contenzioso 
amministrativo e il passaggio delle competenze alla magistratura ordinaria. 


L’atto 
passò 
al 
Senato 
e 
il 
suoi 
uffici 
iniziarono 
di 
buona 
lena 
l’analisi 
del 
testo, suggerendo anche 
alcune 
modifiche 
formali 
(19), ma 
l’Assemblea 
non fu mai investita della discussione (20). 

Si 
sa 
che 
quel 
disegno di 
legge 
costituirà 
la 
base 
su cui, un anno dopo, 
sarà redatto l’allegato E della legge 2248 del 1865 (21). 


Si 
sa 
anche 
che 
da 
quel 
momento 
iniziò 
un 
dibattito 
giurisprudenziale 
e 
dottrinario 
sull’opportunità 
e 
utilità 
della 
riforma, 
che 
comunque 
avrà 
vita 
breve. 


E anche questo è noto. 


Il 
7 maggio del 
1880 Silvio Spaventa 
pronunzierà, infatti, il 
famoso discorso 
di 
Bergamo sulla 
Giustizia nell’amministrazione 
e 
il 
31 marzo 1889, 
con 
la 
legge 
n. 
5992, 
il 
contenzioso 
amministrativo 
risusciterà 
dalla 
sue 
ceneri 
con l’istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato. 


Con il 
senno di 
poi 
si 
può affermare, e 
da 
più parti 
lo si 
è 
pure 
fatto, che 
il 
legislatore 
liberale 
del 
1864-1865 fosse 
stato affetto da 
miopia 
istituzionale 
e 
che 
l’abolizione 
del 
contenzioso amministrativo sia 
stata, in realtà, una 
riforma 
dal corto respiro. 


(17) Toscana, umbria e il territorio della romagna. 
(18) Cenni 
sullo svolgimento del 
dibattito, con particolare 
riferimento alle 
posizioni 
di 
Cordova 
e 
Mancini, in ANToNIo 
SALANdrA, La giustizia amministrativa nei 
governi 
liberi 
con speciale 
riguardo 
al 
vigente 
diritto 
italiano, 
Torino, 
unione 
Tipografica 
Editrice, 
1904, 
pp. 
312 
ss., 
in 
particolare 
pp. 
328373. 
(19) Ad esempio, all’art. 2 dell’Atto Camera 
veniva 
proposta 
la 
sostituzione 
delle 
parole 
«... tutte 
le 
controversie 
che 
riguardano i 
diritti 
civili 
e 
politici…» con le 
parole 
«… 
tutte 
le 
controversie 
nelle 
quali 
si 
faccia 
questione 
di 
un 
diritto 
privato 
civile 
o 
politico 
suscettivo 
di 
azione 
giudiziaria…». 
All’art. 
3, 
invece, 
scompariva 
il 
riferimento 
ai 
ricorsi 
contro 
atti 
di 
pura 
amministrazione 
riguardanti 
gli 
interessi 
(individuali 
e 
collettivi) riconducibili 
alla 
cognizione 
della 
pubblica 
amministrazione. Veniva, quindi, 
meno quella 
contrapposizione 
tra 
interessi 
e 
diritti 
(di 
competenza 
dell’autorità 
giudiziaria 
ordinaria), 
che tanto aveva animato il dibattito alla Camera: 
A. SALANdrA, La giustizia, 
cit., pp. 371-372. 
(20) La 
mancata 
discussione 
viene 
giustificata 
da 
Antonio Salandra 
col 
fatto che 
il 
relatore 
del-
l’Atto Senato, il 
senatore 
Vacca, fosse 
nel 
mentre 
diventato Ministro della 
giustizia: 
A. SALANdrA, La 
giustizia, 
cit., p. 372. 
(21) Il 
cui 
testo, rispetto a 
quello elaborato nel 
’64, recherà, tuttavia, alcuni 
significativi 
accorgimenti 
di 
natura 
terminologica 
e 
formale. Ad esempio, l’articolo 2, nella 
parte 
in cui 
devolveva 
alla 
giurisdizione 
ordinaria 
tutte 
le 
cause 
per contravvenzioni 
e 
tutte 
le 
materie 
nella 
quali 
si 
faccia 
questione 
di 
un diritto civile 
e 
politico, recuperava 
la 
sostanza 
del 
testo dell’art. 2 del 
progetto governativo (poi 
abbandonato in favore 
del 
testo elaborato dalla 
Camera), che 
affidava, fra 
le 
altre 
materie, alla 
giurisdizione 
dei 
tribunali 
ordinari 
« ... tutte 
le 
cause 
contravvenzionali… 
». Ciò consentiva 
alla 
formulazione 
una 
maggiore 
chiarezza 
in 
ordine 
al 
fatto 
che 
alla 
giurisdizione 
ordinaria 
passasse 
anche 
la 
materia 
penale 
c.d. minore, riguardante 
illeciti 
di 
natura 
contravvenzionale 
(la 
materia 
dei 
delitti, invece, come 
noto, era già di pertinenza della magistratura ordinaria). 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


Forse è vero, almeno in parte. 


E 
tuttavia, 
non 
può 
non 
considerarsi 
come 
tra 
il 
1865 
e 
il 
1889 
lo 
scenario 
nazionale 
avesse 
subito rilevanti 
evoluzioni 
tali 
da 
suggerire 
una 
riconsiderazione 
della riforma. 


In altri 
termini, date 
le 
condizioni 
economiche 
e 
sociali 
del 
Paese, è 
probabile 
che 
il 
legislatore 
liberale 
del 
’65 
non 
avrebbe 
potuto 
prendere 
altre 
strade diverse da quella che in realtà scelse, poi, di percorrere. 


Mutate 
erano, innanzi 
tutto, la 
condizioni 
economiche 
del 
Paese: 
se 
agli 
inizi 
dell’unificazione 
lo Stato -anche 
a 
costo di 
drenare 
ricchezza 
dal 
Sud diede 
impulso 
ad 
un 
processo 
di 
accumulazione 
dei 
capitali 
al 
fine 
di 
promuovere 
gli 
investimenti 
infrastrutturali 
e 
quelli 
in campo industriale, nel 
1889 i 
frutti 
di 
tali 
scelte 
cominciavano a 
maturare, se 
si 
pensa 
ai 
nascenti 
impianti 
per la 
produzione 
dell’energia 
idroelettrica 
e 
alle 
industrie 
in campo tessile, 
manifatturiero 
e 
siderurgico, 
concentrate 
soprattutto 
fra 
Milano, 
Genova 
e 
Torino 
(22). 


Mutati 
erano, altresì, i 
rapporti 
di 
forza 
tra 
le 
classi: 
spenti 
gli 
ultimi 
fuochi 
della 
rivoluzione 
in camicia 
rossa, addomesticato il 
movimento azionista 
e 
scomparsi 
Mazzini 
e 
Garibaldi, 
ora 
erano 
le 
masse 
operaie 
e 
i 
loro 
primi 
movimenti 
politici 
(23) 
a 
destare 
le 
preoccupazioni 
della 
classe 
dirigente 
liberale. 


diversi erano, inoltre, i rapporti di forza politici. 


Se, infatti, all’alba 
dell’unificazione 
il 
potere 
era 
saldamente 
nelle 
mani 
degli 
eredi 
di 
Cavour, dal 
1876 il 
Paese 
era 
governato dalla 
sinistra 
storica, la 
cui 
ala 
più estrema, di 
fede 
democratica, aveva 
in passato flirtato 
con mazziniani 
e garibaldini destando sospetti e incertezze (24). 


Altri 
tempi, 
quindi, 
se 
si 
considera 
il 
fatto 
che 
nel 
1889 
presidente 
del 
Consiglio 
era 
Francesco 
Crispi 
(25), 
garibaldino 
fino 
al 
midollo, 
Segretario 
di 
Stato 
della 
Sicilia 
appena 
liberata 
dalle 
camicie 
rosse, 
avversario 
di 
Cavour 
ed esponente di spicco dell’ala sinistra dello schieramento parlamentare. 


oramai 
erano davvero 
acqua passata 
le 
parole 
del 
Ministro dell’interno 
Peruzzi, strenuo sostenitore, come 
sappiamo, dell’abolizione 
del 
contezioso 
amministrativo, che 
a 
Crispi, nella 
seduta 
dell’11 giugno 1864, replicava 
in 
questo modo: 


(22) 
A 
Milano, 
nel 
1886, 
nasceva 
la 
Breda 
per 
la 
fabbricazione, 
fra 
l’altro, 
di 
treni 
e 
binari, 
mentre, 
nel 
1884, nasceva 
a 
Terni 
la 
società 
Acciai 
Speciali 
Terni 
S.p.A. A 
Genova, invece, era 
già 
operativo, 
sin dal 1853, il complesso navalmeccanico dell’Ansaldo. A 
Torino, nel 1899, nasceva invece la FIAT. 
(23) Come, ad esempio, il 
Partito socialista 
rivoluzionario di 
romagna, fondato da 
Andrea 
Costa 
a rimini nel 1881. 
(24) 
L’ala 
più 
estrema, 
di 
impronta 
democratica, 
dello 
schieramento 
parlamentare 
passato 
alla 
storia 
con il 
nome 
di 
“sinistra 
storica”, durante 
le 
vicende 
risorgimentali 
che 
condussero all’unità, tenne 
contatti 
con 
Mazzini 
e 
Garibaldi 
per 
il 
tramite 
dei 
suoi 
esponenti 
di 
punta 
ovvero, 
rispettivamente, 
Angelo Brofferio e Lorenzo Valerio. 
(25) Il 
suo primo governo restò in carica 
dal 
29 luglio 1887 al 
9 marzo 1889. Il 
secondo dal 
9 
marzo 1889 al 6 febbraio 1891. 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


«L’onorevole 
Crispi 
vi 
diceva 
ieri 
che 
il 
contenzioso amministrativo sorse, secondo lui, 
come 
strumento 
di 
rivoluzione, 
che 
esso 
nacque 
gemello 
coi 
tribunali 
rivoluzionari. 
Quest’origine, 
o 
signori, 
la 
quale 
per 
avventura 
può 
spiegare 
il 
patrocinio 
accordato 
dall’onorevole 
Crispi 
al 
contenzioso 
amministrativo, 
chè 
altrimenti 
io 
non 
avrei 
saputo 
intendere, 
questa 
origine 
dovrebbe 
produrre 
un 
effetto 
diametralmente 
opposto 
sopra 
l’animo 
mio 
e 
sopra 
gli 
onorevoli 
miei amici politici…» (26). 

Infine, sembravano lontani 
gli 
anni 
in cui 
i 
più convinti 
sostenitori 
della 
teoria 
del 
laissez 
faire, 
nel 
nome 
di 
un 
liberismo 
radicale, 
teorizzavano 
che 
davanti 
ad 
un 
giudice 
terzo 
e 
imparziale 
non 
vi 
potessero 
essere 
altre 
situazioni 
giuridiche soggettive da garantire se non diritti, diritti e ancora diritti. 


Per la 
prima 
generazione 
dei 
liberali, dunque, la 
giurisdizione 
doveva 
restare 
cieca 
e 
muta 
dinnanzi 
all’esercizio 
di 
pubbliche 
funzioni 
poste 
a 
presidio 
di 
interessi 
generali 
che 
non fossero in grado di 
assurgere 
alla 
qualificazione 
di 
diritti. 


Nel 
1864-’65 si 
riteneva, in definitiva, che 
nessuna 
dignità 
processuale 
dovesse 
essere 
riconosciuta 
a 
vicende 
amministrative 
da 
relegarsi, 
semmai, 
ad eventuali 
mediazioni 
tra 
il 
privato e 
le 
autorità 
amministrative, ombre 
di 
quelle 
che 
un tempo sarebbero state 
le 
procedure 
del 
contezioso amministrativo 
affidate 
ad uffici 
tenuti, quantomeno, ad un minimo di 
imparzialità 
nel-
l’istruttoria dei relativi affari. 


Ma 
nel 
1889 quei 
medesimi 
interessi 
generali 
reclamarono, ottenendolo, 
uno spazio tutto loro di tutela giurisdizionale. 


Ciò, 
tuttavia, 
per 
tornare 
alla 
tesi 
della 
miopia 
istituzionale 
del 
legislatore 
del 
’65, avvenne 
non per reazione 
alla 
riparazione 
di 
un presunto errore 
di 
valutazione 
in ordine 
alla 
scelta 
di 
abolire 
il 
contezioso amministrativo, ma 
in 
ragione 
del 
mutamento 
delle 
condizioni 
economiche, 
politiche 
e 
sociali 
del 
Paese. 


E 
l’azione 
dello Stato vi 
si 
era 
adeguata, modificando competenze 
e 
apparati. 


Non 
più 
uno 
Stato 
leggero, 
rispettoso 
della 
libera 
iniziativa 
privata 
e 
mero 
custode 
dell’ordine 
costituito, ma 
uno Stato presente 
in vari 
ambiti 
della 
vita 
sociale 
con istituti 
e 
uffici 
messi 
in campo, ad esempio, per contrastare 
l’analfabetismo 
o le 
precarie 
condizioni 
in cui 
versavano le 
masse 
contadine, fiaccate 
da 
una 
tassazione 
talvolta 
ritenuta 
iniqua 
e 
dal 
duro 
lavoro 
nelle 
campagne, 
con 
la 
pellagra, 
la 
malaria 
o 
la 
difterite 
sempre 
pronte 
a 
falciare 
vite invecchiate troppo in fretta o non cresciute affatto. 


Adesso sì 
che 
era 
giunto il 
momento di 
costituire 
una 
giurisdizione 
speciale 
in grado di 
schermare 
le 
nuove 
funzioni 
amministrative 
da 
indebite 
in


(26) 
Seduta 
della 
Camera 
dei 
deputati 
in 
data 
11 
giugno 
1864, 
p. 
5219 
del 
resoconto 
stenografico, 
consultabile 
in rete 
all’indirizzo storia.camera.it, sezione 
Legislature, regno d’italia, Viii Legislatura, 
1864, seduta del 11 giugno. 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


terferenze 
dei 
giudici 
ordinari, quest’ultimi 
ancora 
vicini 
alle 
istanze 
del 
cittadino 
privato e 
più propensi, per esemplificare, a 
stare 
dalla 
parte 
dell’espropriato, 
a 
difesa 
del 
diritto 
di 
proprietà, 
rispetto 
all’ufficio 
che 
l’esproprio 
aveva 
disposto per il perseguimento di un interesse generale. 

Tutto ciò, appunto, nello ’89. 


Nel 
1864-’65, 
viceversa, 
le 
priorità 
del 
Paese 
erano 
altre 
e 
furono 
in 
modo 
cristallino espresse 
dal 
Ministro dell’interno, sempre 
nella 
seduta 
dell’11 giugno 
’64: 


«… io credo effettivamente 
che 
la 
questione 
del 
contenzioso amministrativo sia 
dominata… 
dalla 
gran lotta 
che 
si 
è 
sempre 
combattuta 
tra 
l’individuo e 
lo Stato. È 
naturale 
che 
presso i 
popoli, i 
quali 
esercitavano la 
libertà, quasi 
direi 
direttamente, e 
nel 
foro, e 
nelle 
loggie, 
e 
sulle 
piazze, 
è 
naturale 
che 
quest’idea 
dell’assorbimento 
dell’individuo 
nello 
Stato 
fosse 
predominante. Ma 
quando questo Stato si 
trasforma, quando invece 
del 
popolo sovrano, che 
liberamente 
disponeva 
della 
sua 
sorte, 
vennero 
al 
governo 
dei 
despoti, 
questi, 
o 
signori, 
furono 
ben 
contenti 
di 
usufruire 
questo 
principio 
(27), 
ridurlo 
ad 
aforisma 
legale, 
ed 
impiantare 
sopra 
questo il 
loro reggimento politico. Essi 
si 
fecero credenti, e 
tutti 
dovevano credere 
a 
modo 
loro; 
essi 
si 
fecero 
insegnanti, 
e 
tutti 
dovevano 
imparare 
a 
modo 
loro; 
essi 
si 
fecero 
proteggitori 
dell’industria 
nazionale, e 
tutti 
dovevano esercitare 
quelle 
industrie 
che 
ad essi 
sembravano 
migliori 
per 
il 
benessere 
della 
nazione; 
si 
negava 
a 
quelli 
che 
altre 
industrie 
volevano 
esercitare 
or gli arnesi, or la materia greggia…» (28). 


Più in generale, il 
dibattito parlamentare, che 
si 
sviluppò in quel 
mese 
di 
giugno alla 
Camera 
dei 
deputati, è 
interessante 
perché, al 
di 
sotto del 
livello 
di lettura tecnico-giuridico, se ne cela un altro. 


Si 
tratta 
di 
uno 
strato 
più 
profondo 
che, 
con 
particolare 
riguardo 
alla 
questione 
demaniale, 
custodisce 
ancora, 
a 
distanza 
di 
160 
anni, 
la 
cifra 
ideologica 
di quella che sarà poi la legge abolitrice del contenzioso amministrativo. 


3. 
Brevi 
cenni 
sui 
profili 
giuridici 
dell’abolizione 
del 
contenzioso 
amministrativo. 
La 
discussione 
generale 
sul 
disegno 
di 
legge 
elaborato 
dalla 
commissione 
istruttoria 
della 
Camera, in parte 
diverso da 
quello presentato dal 
Governo, si 
aprì 
con 
due 
interventi 
di 
ampio 
respiro 
da 
parte 
di 
due 
fini 
giuristi, 
l’uno 
contro, 
l’altro a favore della riforma. 


Il 
primo era 
Filippo Cordova, consigliere 
di 
Stato, che 
aveva 
partecipato, 
nel 
suo Meridione, ai 
moti 
liberali 
e 
che, esule 
a 
Torino, si 
era 
fatto conoscere 
e 
apprezzare; 
da 
giovane 
avvocato 
aveva 
approfondito, 
nelle 
aule 
dei 
tribunali 
borbonici, 
la 
tematica 
della 
distribuzione 
dei 
beni 
demaniali, 
di 
cui 
egli 
era 
un 


(27) Così letteralmente nel resoconto. 
(28) 
Seduta 
della 
Camera 
dei 
deputati 
in 
data 
11 
giugno 
1864, 
p. 
5219 
del 
resoconto 
stenografico, 
consultabile 
in rete 
all’indirizzo storia.camera.it, sezione 
Legislature, regno d’italia, Viii Legislatura, 
1864, seduta del 11 giugno. 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


sostenitore, 
convinto 
che 
una 
quotizzazione 
delle 
terre 
fosse 
una 
delle 
possibili 
soluzioni 
per il 
riscatto sociale 
del 
Sud e 
la 
nascita 
di 
una 
piccola 
borghesia 
terriera. 

Il 
secondo era 
Pasquale 
Stanislao Mancini, avvocato, fervente 
liberale 
e 
illustre 
rappresentante 
della 
classe 
dirigente 
al 
potere 
in 
quegli 
anni, 
portò 
nelle 
aule 
dell’università 
della 
capitale 
sabauda 
quella 
raffinata 
cultura 
giuridica 
tipica della scuola napoletana. 


Se 
dovessimo, più in generale, delineare 
sinteticamente 
gli 
schieramenti 
in campo potremmo collocare, a 
fianco a 
Cordova, personalità 
del 
calibro di 
rattazzi 
e 
Crispi, mentre 
dal 
lato di 
Mancini, Carlo Bon Compagni, Antonio 
Mosca e il ministro dell’interno Peruzzi. 


Il 
dibattito 
ruotò, 
in 
sostanza, 
intorno 
a 
due 
questioni, 
tra 
loro 
strettamente 
legate. 


La 
prima 
riguardava 
i 
profili 
organizzativi 
della 
gestione 
di 
quelle 
particolari 
controversie 
che, 
in 
qualche 
modo, 
avessero 
coinvolto 
privati 
e 
pubblica 
amministrazione, 
mentre 
la 
seconda 
faceva 
perno 
intorno 
alla 
difficoltà, 
in 
caso 
di 
abolizione 
del 
contenzioso 
amministrativo, 
di 
stabilire 
quali 
situazioni 
giuridiche fossero meritevoli di tutela giurisdizionale e quali no. 


Sugli 
aspetti 
organizzativi 
Filippo 
Cordova 
usò 
argomentazioni 
molto 
sottili per contestare il progetto della commissione. 


In buona 
sostanza, a 
parere 
del 
deputato, l’eventuale 
estensione 
a 
tutto il 
regno del 
modello di 
derivazione 
francese, in uso nei 
territori 
dell’ex 
regno 
delle 
due 
Sicilie, avrebbe 
in nuce 
risolto il 
problema: 
in tale 
ipotesi, infatti, 
non 
vi 
sarebbe 
stato 
nessun 
contenzioso 
amministrativo 
da 
abolire, 
mancando, 
appunto, 
un 
processo 
e 
un 
giudice, 
ovvero 
un 
funzionario 
appartenente 
all’ordine 
giudiziario deputato a 
conoscere 
le 
controversie 
tra 
cittadini 
e 
pubblici 
uffici. 


Quel 
modello, 
infatti, 
prevedeva 
più 
semplicemente 
che 
fosse 
la 
stessa 
pubblica 
amministrazione, con le 
garanzie 
del 
contraddittorio e 
della 
partecipazione 
procedimentale, a 
poter riesaminare 
i 
propri 
provvedimenti 
a 
tutela 
dei cittadini. 


Migliorandolo e 
applicandolo a 
tutta 
la 
penisola 
si 
sarebbe, quindi, per 
Cordova 
potuto evitare 
di 
gettare 
a mare 
tutte 
quelle 
situazioni 
giuridiche 
che 
non fossero veri 
e 
propri 
diritti 
e, al 
contempo, di 
privare 
i 
cittadini 
di 
minime 
garanzie, 
oggi 
diremmo 
di 
pubblicità 
e 
trasparenza, 
dinnanzi 
ai 
provvedimenti 
e alle condotte della pubblica amministrazione. 


urbano rattazzi, invece, da 
buon piemontese, sosteneva 
che 
il 
modello 
sabaudo 
(29), 
con 
giudici 
amovibili 
e 
incardinati 
nella 
stessa 
amministrazione, 


(29) Seppure 
con alcune 
modifiche 
di 
carattere 
normativo per meglio distinguere 
le 
materie 
da 
ricondursi 
alla 
giurisdizione 
ordinaria 
(ad 
esempio 
la 
materia 
dei 
contratti 
in 
cui 
parte 
fosse 
stata 
la 
pubblica 
amministrazione) da quelle da lasciare alla sfera di competenza dell’amministrazione. 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


potesse 
essere 
una 
valida 
soluzione, mentre 
Crispi 
sottolineava 
la 
necessità 
di 
creare 
una 
vera 
e 
propria 
giurisdizione 
speciale 
per assicurare 
l’imparzialità 
delle decisioni dei consigli di prefettura e del Consiglio di Stato. 


da 
buon garibaldino, nella 
seduta 
del 
10 giugno, non mancò poi 
di 
lanciare 
una frecciata agli avversari: 


«Per quanto riguarda 
l’ordinamento della 
giurisdizione, in realtà, signori, non mi 
avete 
ancor dato l’esempio che 
voi 
ne 
vogliate 
l’unità, e 
che 
in conseguenza 
siate 
voi 
i 
nemici 
delle 
giurisdizioni 
eccezionali. È 
ancor fresca 
la 
memoria 
della 
legge 
Pica, la 
quale 
vi 
prova 
come 
voi, tutte 
le 
volte 
che 
ne 
avete 
bisogno, distraete 
dai 
tribunali 
ordinari 
il 
giudizio di 
materie 
di grande importanza per darle ai militari..» (30). 


Il 
campo avversario, invece, tirò dritto per la 
sua 
strada, sostenendo che 
il 
Paese 
dovesse 
essere 
rapidamente 
unificato anche 
sotto il 
profilo giurisdizionale 
e 
che 
per 
raggiungere 
questo 
obiettivo 
ogni 
residuo 
di 
contenzioso 
amministrativo o dovesse 
passare 
nell’alveo delle 
competenze 
del 
giudice 
ordinario, 
ovvero essere lasciato alle cure della pubblica amministrazione. 


Ciò, in primo luogo, in ossequio al 
principio della 
divisione 
tra 
i 
poteri 
e, 
in secondo luogo, per ragioni 
di 
modernizzazione 
in senso liberale 
del 
Paese. 


Pasquale 
Stanislao 
Mancini 
fu, 
sul 
punto, 
molto 
esplicito 
quando 
osservò: 


«L’onorevole 
Cordova 
si 
è 
provato a 
tesservi 
una 
ingegnosa 
storia 
della 
origine 
e 
delle 
vicende 
del 
contenzioso amministrativo… Egli 
ve 
l’ha 
presentata 
sotto una 
luce 
così 
diversa 
da 
quella 
sotto cui 
era 
stata 
finora 
generalmente 
osservata, che 
è 
riuscito a 
sostenere 
che 
il 
contenzioso 
amministrativo 
era 
sorto 
come 
una 
liberale 
guarentigia, 
anziché 
riuscire 
alla 
conseguenza, 
che 
io spero farvi 
accettare, che 
esso fu inventato come 
una 
maschera 
di 
giustizia 
compiacente 
al 
potere, cioè 
come 
un istromento del 
despotismo … (31) vi 
sono… paesi 
dove 
non 
esiste 
una 
giurisdizione 
del 
contenzioso 
amministrativo, 
non 
perché 
l’attribuzione 
di 
giudicare 
di 
questo contenzioso sia 
confusa 
con le 
altre 
della 
stessa 
amministrazione 
pura, ma 
perché 
dessa 
è 
stata, 
non 
dirò 
conceduta, 
bensì 
conservata 
alle 
comuni 
magistrature, 
come 
naturalmente 
propria 
dell’ordine 
giudiziario, ed a 
niuno mai 
venne 
in mente 
l’illiberale 
pensiero 
di 
spogliarnele. E 
quali 
sono questi 
paesi, o signori? 
Sono fra 
i 
più liberi 
e 
i 
più civili 
del 
mondo: 
l’Inghilterra 
e 
gli 
Stati 
uniti 
d’America, 
parecchi 
Cantoni 
della 
Svizzera, 
l’olanda, 
il Belgio, una parte stessa della nostra Italia…» (32). 


L’altro 
versante 
polemico 
riguardò 
quella 
parte 
del 
disegno 
di 
legge 
che 
affermava 
la 
competenza 
del 
giudice 
ordinario 
per 
tutte 
le 
controversie 
concernenti 
i 
diritti 
civili 
e 
politici 
«…, 
comunque 
possa 
esservi 
interessata 
la 
pub


(30) 
Seduta 
della 
Camera 
dei 
deputati 
in 
data 
10 
giugno 
1864, 
p. 
5190 
del 
resoconto 
stenografico, 
consultabile 
in rete 
all’indirizzo storia.camera.it, sezione 
Legislature, regno d’italia, Viii Legislatura, 
1864, seduta del 10 giugno. 
(31) Seduta 
della 
Camera 
dei 
deputati 
in data 
9 giugno 1864, p. 5140 del 
resoconto stenografico, 
consultabile 
in rete 
all’indirizzo storia.camera.it, sezione 
Legislature, regno d’italia, Viii Legislatura, 
1864, seduta del 9 giugno. 
(32) ivi, p. 5144. 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


blica 
amministrazione…» 
(art. 
2) 
(33), 
lasciando 
all’autorità 
amministrativa 
la 
cognizione 
«… 
dei 
ricorsi 
contro 
gli 
atti 
di 
pura 
amministrazione, 
riguardanti 
gl’interessi 
individuali 
e 
collettivi 
degli 
amministrati…» 
(art. 
3) 
(34). 


Questa 
parte 
del 
dibattito 
è, 
fra 
l’altro, 
interessante 
perché 
dagli 
interventi 
dei 
deputati, 
soprattutto 
dei 
giuristi, 
emerge 
la 
vitalità 
del 
confronto 
dottrinario 
dell’epoca, 
anche 
sulla 
scorta 
delle 
esperienze 
francesi 
e 
belghe, 
in 
merito 
alla 
differenza tra diritti ed interessi. 


dalla 
dialettica 
parlamentare 
sembrerebbero, così, emergere 
le 
tracce 
di 
quella 
che, 
solo 
più 
tardi, 
sarebbe 
divenuta 
la 
teoria 
dell’affievolimento 
dei 
diritti 
soggettivi 
(35) 
o, 
ancora, 
i 
primi 
lineamenti 
delle 
future 
elaborazioni 
sulla 
funzione 
amministrativa 
e 
sulla 
natura 
sostanziale 
degli 
interessi 
ad essa 
sottesi. 


da 
segnalare, ad esempio, le 
considerazioni 
del 
deputato Serafino Soldi 


(36) secondo cui distinguere gli 
interessi 
dai 
diritti: 
«… per dividere 
la 
giurisdizione 
dall’amministrazione, la 
cosa 
non mi 
pare 
debba 
procedere 
senza 
grave 
maturità, la 
quale 
non permette, per fermo, di 
accettare 
una 
distinzione 
assai 
nominale, e 
tutto al 
più ristretta 
e 
relativa; 
perocchè 
nel 
fondo è 
inconcepibile 
questa 
distinzione, 
identificandosi 
nel 
fatto e 
nella 
realtà 
il 
diritto e 
l’interesse, e 
come 
le 
cose 
si 
traducono 
in beni, il 
diritto non si 
traduce 
in altro che 
in ciò che 
giova 
o nuoce, o sì 
vero negli 
interessi. 


L’onorevole 
Mancini 
pur soggiungeva: 
se 
non è 
concepibile 
il 
diritto senza 
interesse, 
sonvi 
importanti 
interessi 
senza 
diritti; 
dottissimo 
giureconsulto, 
egli 
comprendeva 
che 
anche 


(33) Il 
testo definitivo dell’art. 2, transitato nell’allegato E 
della 
legge 
n. 2248 del 
1865, era 
leggermente 
diverso: 
«Sono devolute 
alla giurisdizione 
ordinaria tutte 
le 
cause 
per 
contravvenzioni 
e 
tutte 
le 
materie 
nelle 
quali 
si 
faccia questione 
di 
un diritto civile 
o politico, comunque 
vi 
possa essere 
interessata 
la pubblica amministrazione, e 
ancorché 
siano emanati 
provvedimenti 
del 
potere 
esecutivo o 
dell'autorità amministrativa». 
(34) 
Il 
testo 
definitivo 
dell’art. 
3 
dell’allegato 
E 
della 
legge 
n. 
2248 
del 
1865 
era 
di 
diverso 
tenore 
letterale: 
«1.Gli 
affari 
non compresi 
nell'articolo precedente 
saranno attribuiti 
alle 
autorità amministrative, 
le 
quali, 
ammesse 
le 
deduzioni 
e 
le 
osservazioni 
in 
iscritto 
delle 
parti 
interessate, 
provvederanno 
con decreti 
motivati, previo parere 
dei 
Consigli 
amministrativi 
che 
pei 
diversi 
casi 
siano dalla legge 
stabiliti. 2. Contro tali 
decreti 
che 
saranno scritti 
in calce 
del 
parere 
egualmente 
motivato, é 
ammesso 
il ricorso in via gerarchica in conformità delle leggi amministrative». 
(35) 
di 
origine 
tedesca, 
in 
Italia 
questa 
teoria 
fu 
rielaborata 
da 
oreste 
ranelletti, 
il 
quale 
sosteneva 
la 
possibile 
esistenza 
in capo ai 
privati 
-che 
fossero in qualche 
modo venuti 
in contatto con l’attività 
amministrativa 
-di 
veri 
e 
propri 
diritti 
soggettivi 
limitati 
e/o condizionati 
dall’interesse 
generale 
perseguito 
dalla 
pubblica 
amministrazione. Tracce 
di 
questa 
teoria 
iniziano ad emergere 
negli 
studi 
del 
ranelletti, 
dei 
primi 
del 
’900, 
sulle 
autorizzazioni 
e 
sulle 
concessioni 
amministrative: 
orESTE 
rANELLETTI, 
Facoltà create 
dalle 
autorizzazioni 
e 
dalle 
concessioni 
amministrative, rivista italiana per 
le 
Scienze 
giuridiche, 
Volume 
XXII, 
Fratelli 
Bocca 
editori, 
Torino, 
1896, 
pp. 
252-263. 
Proprio 
in 
relazione 
a 
questa 
teoria 
sembrerebbero, 
ad 
esempio, 
riecheggiare 
le 
parole 
di 
Filippo 
Cordova, 
che 
parlava 
di 
diritti 
minori 
in quanto subordinati 
all’interesse 
pubblico (si 
veda, in seguito nel 
testo, lo stralcio del 
suo intervento 
nella 
seduta 
del 
13 
giugno). 
Come 
noto, 
poi, 
negli 
anni 
’30 
del 
XX 
secolo 
alla 
teoria 
dell’affievolimento 
seguirà 
quella, di 
origine 
giurisprudenziale, della 
degradazione 
del 
diritto soggettivo ad interesse 
legittimo. 
(36) Esponente del liberalismo irpino, avvocato. 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


l’ultimo del 
foro avrebbe 
potuto dirgli 
che 
il 
diritto pratico umano è 
l’azione, e 
l’azione 
non 
è 
senza 
interesse; 
però, studiossi 
salvare 
la 
sua 
distinzione 
con un’altra 
distinzione, non dubitando 
asseverare 
che 
diritto 
senza 
interesse 
non 
ci 
sia, 
ma 
che 
ci 
siano 
interessi 
senza 
diritto; 
ed è 
di 
questi 
interessi, che 
secondo lui 
si 
deve 
occupare 
l’amministrazione, lasciando di 
tutti 
i diritti la materia ai tribunali ordinari. 


Ebbene, io, studiando attorno a 
ciò, prima 
che 
egli 
avesse 
annunziato questa 
differenza, 
ho domandato a 
me 
medesimo se 
mai 
ci 
fossero veramente 
interessi 
cui 
non corrispondesse 
un diritto; 
ed ho trovato che 
interessi 
veri, che 
nuocciano o che 
giovino, senza 
diritto corrispondente, 
è raro trovarli. 


Li 
potete 
trovare 
nel 
campo 
dei 
desiderii, 
come 
io 
ho 
interesse 
ad 
esser 
ricco, 
ma 
non 
ne 
ho 
il 
diritto, 
questo 
è 
null’altro 
che 
un 
desiderio; 
io 
ho 
un 
interesse 
che 
si 
faccia 
una 
gran 
piazza 
intorno 
alla 
mia 
casa, 
ma 
non 
ho 
diritto, 
questo 
è 
anch’esso 
un 
desiderio, 
e 
nulla 
più…» 
(37). 


Ancora, per rattazzi: 


«... a 
fianco di 
questi 
diritti 
che 
hanno un fondamento preciso nelle 
disposizioni 
delle 
leggi 
civili, 
ve 
ne 
sono 
altri 
non 
così 
assoluti 
e 
perfetti; 
vi 
sono 
diritti 
subordinati 
all’interesse 
generale, pei 
quali 
sta 
nella 
facoltà 
dell’autorità 
amministrativa 
di 
dare 
provvedimenti 
pregiudicando 
anche 
i 
diritti 
stessi, senzachè 
per altra 
parte 
che 
ne 
resta 
leso possa 
pretendere 
alcuna indennità, sempre quando, e bene inteso, così richiegga l’interesse pubblico…» (38). 


Anche 
Cordova 
intervenne 
in 
merito 
alla 
distinzione 
tra 
diritti 
ed 
interessi 
con le seguenti considerazioni: 


«Signori, questa 
distinzione… anch’io l’ho appresa 
alla 
stessa 
fonte 
alla 
quale 
parecchi 
dei 
miei 
colleghi 
l’avranno 
forse 
anche 
attinta. 
Mi 
ricordo 
anch’io 
che 
l’onorevole 
Bon 
Compagni 
mi 
fece 
l’onore, molti 
anni 
sono, di 
comunicarmi 
nella 
sua 
casa, nella 
sua 
biblioteca 
la 
memoria 
di 
Broglie 
sopra 
il 
contenzioso amministrativo; 
quella 
memoria 
in cui 
egli 
notava 
con compiacenza, mi 
ricordo, con espressione 
esatta, come 
il 
potere 
esecutivo fosse 
a 
considerarsi 
quasi 
potere 
legislativo 
au petit 
pied, quando concede 
lo stabilimento del 
molino, del-
l’usina 
natante 
nel 
fiume 
pubblico e 
via 
discorrendo. Broglie 
pensò di 
chiamare, quelli 
che 
io 
chiamo 
diritti, 
interessi 
legittimi, 
interêts 
à 
apprécier, 
ed 
è 
questa 
in 
rapporto 
ai 
privati 
la 
vera 
funzione 
dell’amministrazione. Ma 
questi 
interessi 
ad apprezzare, questi 
interessi 
a 
valutare, 
cosa 
che 
sta 
bene 
nella 
bocca 
di 
un francese, che 
cosa 
sono se 
non diritti? 
Non vi 
è 
altra 
differenza 
fra 
questi 
diritti 
e 
quelli 
che 
sono confidati 
alla 
tutela 
dell’autorità 
giudiziaria, se 
non 
che 
si 
tratta 
di 
diritti 
che 
sono subordinati 
alla 
considerazione 
dell’utilità 
pubblica, di 
diritti 
minori, diritti subordinati…» (39). 


(37) 
Seduta 
della 
Camera 
dei 
deputati 
in 
data 
10 
giugno 
1864, 
p. 
5186 
del 
resoconto 
stenografico, 
consultabile 
in rete 
all’indirizzo storia.camera.it, sezione 
Legislature, regno d’italia, Viii Legislatura, 
1864, seduta del 10 giugno. 
(38) 
Seduta 
della 
Camera 
dei 
deputati 
in 
data 
11 
giugno 
1864, 
p. 
5228 
del 
resoconto 
stenografico, 
consultabile 
in rete 
all’indirizzo 
storia.camera.it, sezione 
Legislature, regno d’italia, Viii Legislatura, 
1864, seduta dell’11 giugno. 
(39) 
Seduta 
della 
Camera 
dei 
deputati 
in 
data 
13 
giugno 
1864, 
p. 
5265 
del 
resoconto 
stenografico, 
consultabile 
in rete 
all’indirizzo storia.camera.it, sezione 
Legislature, regno d’italia, Viii Legislatura, 
1864, seduta del 13 giugno. 

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AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


L’onorevole 
Gaetano Brunetti, invece, soffermandosi 
in particolar modo 
sul diritto di proprietà e sul potere espropriativo dell’amministrazione, dirà: 


«Ma 
qual 
ragione 
ci 
sarebbe 
per 
cui 
una 
scuola 
voglia 
qui 
competente 
il 
potere 
esecutivo, 
un’altra 
il 
potere 
legislativo? 
Secondo il 
mio modo di 
vedere, una 
scuola 
guarda 
questo come 
un 
diritto 
eminente, 
diritto 
sociale; 
un’altra 
invece 
lo 
guarda 
come 
un 
fatto, 
e 
per 
conseguenza 
come 
un interesse; 
l’utilità 
privata, quando si 
presenta 
contro all’utilità 
pubblica, cessa 
di 
essere 
un diritto e 
diventa 
un interesse, altrimenti 
nè 
il 
Governo, nè 
il 
Parlamento potrebbero 
pretendere il sacrifizio di un diritto» 
(40). 

Ad ogni 
buon conto, mentre 
per gli 
oppositori 
del 
disegno di 
legge 
diritti 
e 
interessi 
apparivano mere 
scatole 
vuote, simulacri 
utili 
solo per giustificare 
l’abolizione 
del 
contenzioso amministrativo, per i 
propugnatori 
della 
riforma, 
invece, si 
configuravano come 
argini 
a 
possibili 
abusi 
della 
pubblica 
amministrazione, 
che 
solamente 
un 
giudice 
libero 
ed 
imparziale 
sarebbe 
stato 
in 
grado 
di contrastare. 


Antonio Mosca 
-rispondendo ad una 
sollecitazione 
dell’onorevole 
Soldi 
sul 
perché 
la 
commissione 
avesse 
sentito il 
bisogno di 
aggettivare 
i 
diritti, da 
affidare alla tutela giurisdizionale, con le parole 
civili 
e 
politici 
- osservava: 


«… che 
noi 
intendiamo che 
nessun diritto, nessun vero diritto debba 
stare 
senza 
la 
sanzione 
delle 
garanzie 
giudiziarie, e 
che 
quindi, se 
noi 
abbiamo detto diritti 
civili 
e 
politici, egli 
è perché crediamo che non vi siano altri diritti all’infuori dei civili e politici; diciamo di più, 
diciamo 
che 
abbiamo 
creduto 
necessario 
di 
esprimere 
anche 
quest’idea. 
L’onorevole 
Soldi 
ne 
sa il perché? 


In favore dei principii di libertà a cui abbiamo dedicato il culto maggiore…» (41). 

Nella 
seduta 
del 
giorno prima, invece, Carlo Buon Compagni 
aveva 
difeso 
il termine 
diritti 
con queste riflessioni: 


«… 
questa 
parola 
diritti, 
oh! 
guardiamoci 
bene 
dal 
crederla 
una 
parola 
misteriosa 
o 
strana; 
è 
una 
parola 
che 
trova 
la 
sua 
definizione 
nell’esame 
di 
tutti 
gli 
atti 
della 
vita 
civile; 
è 
una 
parola 
in cui 
ciò che 
vi 
ha 
di 
generale 
e 
di 
astratto si 
chiarisce 
facilissimamente 
per poco 
che 
tutti 
quelli 
i 
quali 
non sono affatto estranei 
alla 
scienza 
delle 
leggi 
rammentino le 
distinzioni 
elementarissime che ne sono il fondamento…» (42). 


Già, magari era davvero così, o magari no. 

(40) 
Seduta 
della 
Camera 
dei 
deputati 
in 
data 
17 
giugno 
1864, 
p. 
5421 
del 
resoconto 
stenografico, 
consultabile 
in rete 
all’indirizzo storia.camera.it, sezione 
Legislature, regno d’italia, Viii Legislatura, 
1864, seduta del 17 giugno. 
(41) 
Seduta 
della 
Camera 
dei 
deputati 
in 
data 
11 
giugno 
1864, 
p. 
5236 
del 
resoconto 
stenografico, 
consultabile 
in rete 
all’indirizzo storia.camera.it, sezione 
Legislature, regno d’italia, Viii Legislatura, 
1864, seduta dell’11 giugno. 
(42) 
Seduta 
della 
Camera 
dei 
deputati 
in 
data 
10 
giugno 
1864, 
p. 
5205 
del 
resoconto 
stenografico, 
consultabile 
in rete 
all’indirizzo storia.camera.it, sezione 
Legislature, regno d’italia, Viii Legislatura, 
1864, seduta del 10 giugno. 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


4. 
Profili 
economici 
e 
politici 
della 
legge 
abolitrice 
del 
contezioso 
amministrativo: 
la questione demaniale. 
un 
mese 
prima 
che 
iniziasse 
il 
dibattito 
sul 
disegno 
di 
legge 
in 
merito 
all’abolizione 
del 
contenzioso 
amministrativo, 
l’onorevole 
donato 
Cocco, 
avvocato, 
originario della 
provincia 
di 
Chieti, chiedeva 
al 
Ministro dell’agricoltura 
e del commercio: 


«… se 
crede 
egli 
in buona 
fede 
che 
i 
prefetti, dei 
quali 
ha 
voluto fare 
un secondo anno 
d’esperimento, abbiano effettivamente 
raggiunto lo scopo a 
cui 
miravano tutte 
le 
leggi, tutti 
i 
decreti, 
tutti 
i 
regolamenti 
circa 
la 
materia 
demaniale 
sotto 
il 
triplice 
rapporto 
della 
speditezza, 
della 
economia, 
della 
politica. 
Io 
credo 
che 
l’onorevole 
ministro, 
atteso 
tutto 
quello 
che 
sinora 
ho 
potuto 
vedere 
e 
leggere, 
dovrebbe 
dirmi 
nella 
sua 
altissima 
lealtà 
che 
effettivamente 
lo 
scopo non si è raggiunto…» (43). 


E 
invece 
il 
buon Giovanni 
Manna 
rispose 
all’interrogante 
di 
non essere 
affatto 
d’accordo 
con 
la 
sua 
ricostruzione, 
evidenziando, 
al 
contrario, 
come 
l’opera 
della 
ripartizione 
dei 
demani 
avesse 
prodotto buoni 
e, per certi 
versi, 
inaspettati risultati. 


E così proseguiva: 


«ricorderò all’onorevole 
Cocco, che 
le 
operazioni 
dei 
demanii 
si 
distinguono specialmente 
in 
tre 
categorie: 
una 
quella 
dello 
scioglimento 
di 
promiscuità 
di 
uso, 
l’altra 
è 
quella 
della 
rivendicazione 
dei 
terreni 
usurpati, 
e 
finalmente 
l’ultima 
è 
quella 
della 
quotizzazione 
dei 
demanii 
già 
attribuiti 
o rivendicati 
ai 
comuni. Per la 
prima 
operazione 
si 
cerca 
d’integrare 
la 
proprietà 
togliendo tutte 
quelle 
servitù che 
la 
guastano o la 
diminuiscono; 
lo scioglimento 
della 
promiscuità 
di 
uso. Questa 
parte 
di 
operazioni 
procede 
molto celeremente, e 
si 
può vedere 
che 
molte 
migliaia 
di 
ettari 
sono già 
stati 
sciolti 
dalla 
promiscuità, e 
ridonati 
alla 
condizione 
di 
proprietà 
libera. 
La 
seconda 
operazione 
è 
quella 
della 
reintegrazione, 
della 
rivendicazione 
dei 
terreni 
usurpati. Questa 
era 
materia 
d’infiniti 
litigi, i 
quali 
spesso durati 
per 30, 40, 50 anni, avevano prodotti dei processi annosi e dispendiosi… 


Queste 
liti 
annose 
sono per la 
più parte 
venute 
al 
Ministero d’agricoltura 
e 
commercio, 
e 
per quanto ho potuto ho cercato di 
sbrigarle. Ma 
c’era 
un’altra 
infinita 
quantità 
di 
piccole 
controversie 
per 
rivendicazioni 
che 
si 
trovavano 
per 
effetto 
dell’ultima 
determinazione 
cadute 
in mano ai 
prefetti, in quella 
tale 
giurisdizione 
eccezionale 
che 
l’onorevole 
Cocco pur troppo 
conosce. Ebbene, colle 
insinuazioni 
del 
Ministero, colle 
sollecitazioni 
ripetutamente 
fatte 
si 
è 
potuto 
ottenere 
quantità 
di 
conciliazioni 
per 
le 
quali 
infinite 
liti 
sono 
state 
risparmiate; 
e 
giorno 
per 
giorno 
dai 
prefetti 
ci 
vengono 
delle 
così 
dette 
ordinanze 
di 
conciliazione 
per 
le 
quali le reintegrazioni sono fatte senza controversia. 


Finalmente 
l’ultima 
parte… 
era 
quella 
delle 
quotizzazioni 
dei 
demanii, 
cioè 
quei 
demani 
che 
sciolti 
dalla 
promiscuità, che 
liberati 
e 
rivendicati 
ai 
comuni, debbono, secondo le 
leggi, 
dall’amministrazione comunale ripartirsi ai cittadini poveri. 


(43) 
Seduta 
della 
Camera 
dei 
deputati 
in 
data 
27 
maggio 
1864, 
p. 
4694 
del 
resoconto 
stenografico, 
consultabile 
in rete 
all’indirizzo storia.camera.it, sezione 
Legislature, regno d’italia, Viii Legislatura, 
1864, seduta del 27 giugno. 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


Queste 
quotizzazioni 
sono state 
spinte 
moltissimo, e 
molte 
migliaia 
di 
ettari 
sono state 
distribuite… In trenta 
o quarant’anni 
che 
si 
era 
proceduto a 
questo bisogno, appena 
si 
erano 
distribuite, rivendicate 
e 
sciolte 
alcune 
migliaia 
di 
ettari, mentre 
l’opera 
medesima 
spinta 
con 
tutti 
gli 
sforzi 
in questi 
due 
anni, e 
specialmente 
in quest’ultimo, ha 
prodotto più della 
metà 
del 
lavoro che 
non si 
era 
fatto nel 
tempo precedente, cioè 
una 
somma 
di 
circa 
60,000 ettari 
che si sono tolti a questa condizione anormale e sterile in cui erano…» (44). 

Si 
è 
avuto 
già 
modo 
di 
evidenziare 
come 
l’unità 
d’Italia 
abbia 
significato 
tante 
cose: 
fu 
un 
sogno 
per 
intere 
generazioni, 
fu 
una 
speranza 
di 
riscatto, 
per 
alcuni 
anche 
la 
perdita 
di 
un’illusione, 
il 
disinganno 
di 
un’epoca 
che 
aveva 
dimostrato 
l’impossibilità 
di 
realizzare 
i 
propri 
ideali, 
una 
rivoluzione 
tradita. 


Non 
bisogna, 
però, 
dimenticare 
che 
per 
molti 
l’unità 
fu 
soprattutto 
un 
grande affare economico. 


Come 
accennato nelle 
pagine 
precedenti, lo Stato italiano si 
accorse 
ben 
presto di 
avere 
un disperato bisogno di 
denaro, non solo per far fronte 
all’ingente 
debito pubblico (45), ma, altresì, per promuovere 
una 
serie 
di 
investimenti 
nel 
settore 
delle 
infrastrutture 
e 
per 
sostenere 
lo 
sviluppo 
industriale 
nel 
così detto triangolo tra Genova, Torino e Milano. 

una 
parte 
di 
questo denaro giunse 
all’erario attraverso la 
leva 
tributaria, 
mentre 
altre 
risorse 
affluirono 
mediante 
nuove 
emissioni 
di 
titoli 
del 
debito 
pubblico, 
la 
cui 
collocazione 
sul 
mercato 
era 
affidata 
al 
sistema 
bancario, 
molto dinamico in quegli anni (46). 


un altro canale 
di 
finanziamento degli 
investimenti 
fu l’azionariato privato 
da parte di imprese che sceglievano la via della quotazione in borsa. 

Per farla 
breve, l’unificazione 
mise 
in moto un grande 
fiume 
di 
denaro e 
a 
guadagnarci 
furono, ad esempio, gli 
istituti 
di 
credito, italiani 
e 
stranieri, o 
le 
società 
private 
ferroviarie 
e 
gli 
industriali, che 
agevolmente 
potevano accedere 
ai prestiti bancari. 


A 
lucrarci 
furono, inoltre, i 
grandi 
proprietari 
terrieri 
del 
Mezzogiorno, 
molti 
dei 
quali 
appartenenti 
alla 
vecchia 
nobiltà 
borbonica, 
che 
negli 
anni 
ave


(44) Seduta 
della 
Camera 
dei 
deputati 
in data 
27 maggio 1864, p. 4698-4699 del 
resoconto stenografico, 
consultabile 
in rete 
all’indirizzo storia.camera.it, sezione 
Legislature, regno d’italia, Viii 
Legislatura, 1864, seduta del 27 giugno. 
(45) Nel 
1865 il 
deficit 
di 
bilancio ammontava 
a 
2178 milioni 
di 
lire, con un debito pubblico che 
superava 
i 
4800 milioni, di 
cui 
1700 costituiti 
da 
titoli 
in mano straniera: 
VALErIo 
CASTroNoVo, Storia 
economica d’italia. Dall’ottocento ai giorni nostri, Torino, Einaudi, 2013, p. 26. 
(46) 
Tra 
il 
1861 
e 
il 
1862 
la 
circolazione 
del 
buoni 
del 
Tesoro 
passò 
da 
38,9 
milioni 
a 
227,5 
milioni 
di 
lire: 
si 
veda 
in proposito la 
relazione 
del 
Direttore 
generale 
del 
debito pubblico del 
ministero del 
Tesoro 
alla Commissione 
parlamentare 
di 
vigilanza, Debito pubblico in italia, 1861-1987, Vol. I, roma, 
Istituto 
Poligrafico 
e 
zecca 
dello 
Stato, 
1988, 
p. 
17. 
Anche 
le 
dismissioni 
dei 
beni 
ecclesiastici, 
a 
seguito 
delle 
leggi 
del 
1866 e 
del 
1867, contribuiranno ad alimentare 
(seppur in misura 
non incisiva) le 
entrate 
pubbliche, favorendo, al 
contempo, la 
formazione 
di 
una 
classe 
di 
proprietari 
terrieri 
medio-grandi, di 
estrazione borghese, che ben presto si affiancherà a quella di origine nobiliare. 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


vano 
accumulato 
grossi 
appezzamenti 
seppure 
a 
scapito 
del 
pubblico 
demanio, 
con procedure non sempre conformi alle leggi e agli usi locali. 

La 
terra 
poi, si 
sa, veniva 
data 
in gestione 
ai 
contadini 
per il 
tramite 
di 
istituti 
negoziali 
non 
sempre 
di 
facile 
comprensione 
e 
la 
cui 
origine 
si 
perdeva 
nella 
memoria 
delle 
famiglie 
dei 
poveri 
affittuari, 
che 
si 
tramandavano 
la 
storia 
di 
un fazzoletto di 
terra 
cui, talvolta, erano associati 
quattro muri 
di 
pietra 
per 
il ricovero di uomini e animali. 


Certo è 
che 
la 
terra 
rendeva, e 
molto, ai 
proprietari, che 
reinvestivano il 
ricavato non tanto in migliorie 
fondiarie, quanto piuttosto nell’acquisto dei 
titoli 
del tesoro, nell’azionariato privato o nel mero deposito bancario. 


Per 
paradossale 
che 
possa 
sembrare, 
dunque, 
gli 
interessi 
della 
grande 
proprietà 
terriera 
meridionale 
divennero 
presto 
funzionali 
all’esigenza 
della 
classe 
liberale, 
allora 
al 
potere, 
di 
favorire 
una 
rapida 
accumulazione 
di 
capitali. 


Per una 
parte 
degli 
storici 
e 
degli 
economisti 
questo processo fu all’origine 
della 
questione 
meridionale: 
per alcuni 
un prezzo necessario da 
pagare 
per 
lo 
sviluppo 
economico 
del 
Paese, 
per 
altri, 
invece, 
un 
prezzo 
inutile 
ed 
evitabile. 


Sia 
quel 
che 
sia, 
avvenne, 
comunque, 
che 
i 
latifondisti 
del 
Sud 
apparvero 
ad un certo punto più vicini 
a 
Torino di 
quanto la 
geografia 
non facesse 
pensare; 
proprio loro, i 
padroni 
delle 
bellissime 
ville 
di 
campagna, frequentate 
di 
raro, e 
dei 
lussuosi 
palazzi 
nelle 
città, contro i 
quali, solo pochi 
anni 
prima, si 
erano scagliate 
le 
critiche 
dei 
garibaldini, che, durante 
la 
risalita 
dello Stivale, 
ottennero 
l’appoggio 
di 
ampi 
settori 
delle 
masse 
popolari 
in 
cambio 
della 
promessa 
della redistribuzione delle terre. 


dunque, lasciati 
alle 
spalle 
divisioni 
e 
rancori, i 
baroni 
della 
terra 
riuscivano, 
ora, con più incisività, a 
farsi 
ascoltare 
nella 
capitale 
del 
regno d’Italia, 
anche 
grazie 
al 
sistema 
elettorale 
che 
consentiva 
l’espressione 
di 
una 
rappresentanza 
parlamentare più vicina alle istanze della borghesia agraria. 


Ebbene, queste 
dinamiche 
economiche 
e 
sociali 
erano ancora 
in atto nel 
momento in cui 
il 
Ministro dell’agricoltura 
e 
del 
commercio rispondeva, alla 
Camera dei deputati, all’interrogazione dell’onorevole Cocco. 


Proprio le 
cifre 
comunicate 
in aula 
dal 
Ministro, in particolare 
i 
60.000 
ettari 
già 
quotizzati, rappresentano una 
possibile 
spia 
di 
quanto i 
latifondisti 
meridionali, alle 
soglie 
del 
1865, potessero essere 
preoccupati 
e 
infastiditi 
dal 
troppo dinamismo dei 
prefetti, che, evidentemente 
con troppo zelo, stavano 
accertando 
o 
riaccertando 
antichi 
possedimenti 
demaniali, 
sui 
quali 
magari 
qualche proprietario aveva, nel frattempo, elevato muri e staccionate. 


Ma 
quel 
dinamismo 
rischiava 
anche 
di 
infastidire 
gli 
imprenditori 
del 
nord, il sistema bancario e la classe politica allora egemone. 


Indebolire 
la 
rendita 
terriera 
per quali 
fini 
poi? 
Per distribuire 
pochi 
acri 
di 
terreno a 
poveri 
contadini 
che, di 
lì 
a 
poco, non essendo più in grado di 
gestirli, 
avrebbero deciso di rivenderli? (47). 



rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


Eppoi 
chi 
poteva 
davvero 
garantire 
che 
fra 
qualche 
anno 
il 
potere, 
ovvero 
la 
guida 
del 
Governo e, quindi, il 
controllo sull’amministrazione 
prefettizia, 
non 
passasse 
alla 
sinistra 
parlamentare, 
ancora 
troppo 
sensibile 
alle 
sirene 
mazziniane 
e 
agli 
effervescenti 
ambienti 
garibaldini, non ancora 
disposti 
a 
rinunciare 
all’idea 
di 
liberare 
con 
le 
armi 
roma 
e 
sempre 
pronti, 
per 
raggiungere 
questo obiettivo, ad organizzare 
rivolte 
e 
eserciti 
popolari 
e 
ad agitare 
il 
già 
turbolento Sud, magari riproponendo lo slogan della 
Terra ai contadini!? 


Meglio, 
molto 
meglio 
privare 
i 
prefetti 
della 
competenza 
in 
materia 
di 
quotizzazione 
dei 
terreni 
e 
attribuirla 
ai 
giudici 
ordinari, 
espressione 
della 
classe 
dirigente 
al 
potere 
(48), 
ma, 
soprattutto, 
ideologicamente 
convinti 
della 
bontà 
dei 
principi 
liberali 
che 
all’epoca 
permeavano il 
diritto civile; 
un diritto 
civile 
che 
in molte 
parti 
d’Europa, a 
seguito della 
rivoluzione 
francese 
e 
del-
l’esperienza 
napoleonica, 
aveva 
irradiato 
il 
valore 
della 
proprietà 
privata 
quale 
caposaldo etico e giuridico della società (49). 


Ai 
giudici, dunque, e 
non ai 
prefetti, sarebbe 
dovuto spettare 
il 
compito 
di 
tutelare, nel 
processo e 
attraverso il 
processo, la 
proprietà 
fondiaria 
e 
con 
essa 
il 
privato cittadino, i 
cui 
diritti 
erano ora 
messi 
in discussione 
da 
questa 
strana moda delle quotizzazioni. 


E 
poco 
importava 
se 
la 
parte 
in 
giudizio 
fosse 
davvero 
il 
proprietario 
delle 
terre 
che 
diceva 
essere 
sue 
o, più semplicemente, ritenesse 
di 
esserlo in forza 
di 
un possesso di 
fatto di 
terreni 
che, forse 
sì, in altre 
epoche 
lontane, di 
cui 
nessuno aveva 
più memoria, erano appartenuti 
alle 
comunità 
e 
agli 
Enti 
locali 
di riferimento. 


In 
tale 
quadro 
non 
è, 
quindi, 
forse 
un 
caso 
che 
il 
disegno 
di 
legge 
sull’abolizione 
del 
contezioso 
amministrativo, 
elaborato 
dalla 
commissione, 
si 
presentasse, rispetto a 
quello proposto dal 
Governo, con una 
coda 
di 
articoli 
sulle competenze giurisdizionali in materia demaniale. 


(47) Cosa 
che 
in effetti 
avvenne: 
sul 
punto si 
rinvia 
all’oramai 
classico libro di 
EMILIo 
SErENI, 
Storia del paesaggio agrario italiano, Bari - roma, Laterza, 2020, pp. 404-405. 
(48) di 
una 
magistratura 
ordinaria 
espressione 
della 
borghesia 
prevalentemente 
agraria 
e 
portata 
a 
condividere 
la 
concezione 
autoritaria 
dello Stato parla 
MArIo 
NIGro, Giustizia amministrativa, Bologna, 
il 
Mulino, 1976, pp. 76 ss. Gli 
studi 
più recenti 
stanno facendo emergere 
una 
natura 
più composita 
dell’estrazione 
sociale 
della 
magistratura 
postunitaria. Sull’onda 
delle 
opere 
di 
Pietro Saraceno, infatti, 
le 
ricerche 
archivistiche 
hanno consentito di 
dimostrare 
che 
i 
magistrati 
dei 
gradi 
più alti 
della 
Magistratura, 
nel 
periodo 
successivo 
al 
1861, 
erano 
fortemente 
legati 
alle 
élites 
al 
potere 
e 
alle 
classi 
dirigenti 
del 
Paese; 
mentre 
i 
magistrati 
degli 
uffici 
giudiziari 
periferici, più che 
altro relegati 
in un ruolo di 
mediazione 
sociale, 
erano 
maggiormente 
a 
contatto 
con 
interessi 
deboli 
e 
frammentari: 
GuIdo 
MELIS, 
Poche 
note 
sugli 
studi 
di 
storia 
della 
magistratura 
nello 
Stato 
liberale, 
in 
Studi 
storici, 
rivista 
trimestrale 
della 
Fondazione Gramsci, n. 4/2010, pp. 809-818 (ivi ulteriori indicazioni bibliografiche). 
(49) 
CArLo 
GhISALBErTI, 
istituzioni 
e 
società 
civile 
nell’età 
del 
risorgimento, 
roma 
-Bari, 
Laterza, 
2005. 
Più 
in 
generale 
GuIdo 
ALPA, 
Diritto 
civile 
italiano. 
Due 
secoli 
di 
storia, 
Bologna, 
il 
Mulino, 
2018. 
Il 
tema 
dell’abolizione 
del 
contezioso 
amministrativo 
era, 
tuttavia, 
più 
ampio 
perché 
riguardava 
anche 
la 
materia 
degli 
illeciti 
penali 
di 
natura 
contravvenzionali 
nei 
confronti 
dei 
quali 
da 
più 
parti 
si 
auspicava 
un 
chiarimento 
in 
favore 
della 
competenza 
del 
giudice 
ordinario 
(si 
veda 
nota 
21 
del 
presente 
scritto). 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


Non importa 
se 
tra 
il 
Governo e, in particolare, tra 
il 
ministro Peruzzi 
e 
la 
maggioranza 
parlamentare 
fosse 
stato raggiunto un accordo politico in tal 
senso, 
nell’ambito 
di 
una 
precisa 
strategia 
parlamentare 
volta 
a 
portare 
a 
casa 
il 
disegno di 
legge, senza, tuttavia, esporre 
il 
presidente 
del 
Consiglio Minghetti 
su un tema scivoloso e dai delicati risvolti politici. 


Fatto 
sta 
che 
il 
progetto 
della 
commissione 
recava 
un 
articolo 
17 
così 
formulato: 


«I giudizi 
di 
promiscuità 
e 
di 
reintegro, per occupazione 
od illegittima 
alienazione 
del 
demanio 
comunale, 
nelle 
provincie 
meridionali, 
ora 
di 
competenza 
dei 
prefetti, 
apparterranno 
alla 
cognizione 
dei 
tribunali 
circondariali, con le 
forme 
sommarie 
e 
cogli 
ordinari 
mezzi 
di 
gravame». 


Su questa 
disposizione 
il 
dibattito in aula 
si 
animò, segno della 
rilevanza 
del tema e della portata politica di questa parte del disegno di legge. 


Fu ancora una volta Filippo Cordova a porre il tema 


«Voi 
avete 
inteso come, appena 
fatta 
la 
rivoluzione, le 
prime 
manifestazioni 
delle 
popolazioni 
napolitane 
furono di 
sollecitare 
il 
riparto dei 
demanii 
comunali, e 
cominciò anche 
per vie 
di 
fatto l’occupazione 
di 
essi. Ed ora 
vediamo questa 
materia 
amministrativa, che 
ha 
per fine di far progredire l’agricoltura, sottratta ai prefetti» (50). 


L’onorevole Mancini cercò di parare il colpo, sostenendo essere 


«… 
oggi 
un 
accidente 
fortunato 
che 
l’onorevole 
ministro 
d’agricoltura 
e 
commercio 
sia 
un 
valente 
giureconsulto 
del 
mezzogiorno 
d’Italia, 
e 
dell’integrità 
che 
tutti 
onorano. 
Ma 
è 
pur 
vero che 
d’ordinario i 
ministri 
d’agricoltura 
e 
commercio non sogliono essere 
giureconsulti; 
e 
non di 
meno si 
vorrà 
che 
egli 
solo giudichi, sulla 
fede 
altrui, della 
fortuna 
d’interi 
comuni, 
e disponga talvolta di milioni di valore col suo pronunziato, senza garantie di sorta!» (51). 


Ma garanzie per chi? 


Probabilmente 
non 
per 
i 
comuni, 
i 
cui 
demani 
erano 
stati 
usurpati, 
né 
tanto meno per i poveri contadini. 


A Mancini replicò, comunque, Crispi: 


«… esiste 
in Inghilterra 
sin dal 
1836, e 
vi 
avrà 
vita 
per tutto il 
1867, una 
Commissione 
chiamata 
a 
decidere 
del 
riscatto o della 
conversione 
delle 
decime, del 
riscatto o della 
conversione 
dei 
livelli 
feudali, non che 
a 
fare 
i 
riparti 
delle 
terre 
comunali. Voi 
vedete 
dunque 
che 
nel 
paese 
stato preso a 
modello come 
quello in cui 
fosse 
condannato il 
contenzioso amministrativo, 
l’istituzione esiste in tutta la sua pienezza» (52). 


(50) Seduta 
della 
Camera 
dei 
deputati 
in data 
9 giugno 1864, p. 5137 del 
resoconto stenografico, 
consultabile 
in rete 
all’indirizzo storia.camera.it, sezione 
Legislature, regno d’italia, Viii Legislatura, 
1864, seduta del 9 giugno. 
(51) Seduta 
della 
Camera 
dei 
deputati 
in data 
9 giugno 1864, p. 5163 del 
resoconto stenografico, 
consultabile 
in rete 
all’indirizzo storia.camera.it, sezione 
Legislature, regno d’italia, Viii Legislatura, 
1864, seduta del 9 giugno. 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


Cinque 
giorni 
dopo 
a 
Crispi 
diede 
manforte 
l’onorevole 
Emilio 
Civita 
(53), con alcune considerazioni che è interessante riprendere: 


«… se 
si 
conferiscono queste 
attribuzioni 
alle 
autorità 
giudiziarie, le 
quali 
ogni 
giorno 
non fanno altro che 
applicare 
il 
diritto privato, non si 
otterranno mai 
più reintegrazioni 
amministrative… 
Se, o signori, si 
deferisse 
la 
cognizione 
dei 
ricorsi, avverso i 
predetti 
atti 
dei 
prefetti 
all’autorità 
giudiziaria 
o qualche 
cosa 
di 
simile, come 
l’autorità 
giudiziaria 
pronuncia 
unicamente 
sentenze, sentenze 
sulle 
quali 
non si 
può ritornare, mancherebbe 
un modo di 
riparare 
a 
quegli 
inconvenienti 
di 
cui 
vi 
ho 
intrattenuto 
poc’anzi, 
astrazione 
fatta 
dall’intrusione 
dell’autorità giudiziaria in funzioni meramente amministrative…» (54). 


Ma 
l’onorevole 
Civita, poco dopo, dismessi 
i 
panni 
del 
magistrato e 
indossati 
quelli 
dello 
storico 
e 
del 
politico, 
proseguiva 
esortando 
la 
Camera, 
qualunque 
fosse 
stata 
la 
sorte 
del 
progetto 
di 
legge 
sull’abolizione 
del 
contenzioso 
amministrativo, a non trascurare la materia delle quotizzazioni, 


«… la 
quale 
è 
materia 
politica 
della 
più alta 
importanza, poichè 
le 
nostre 
popolazioni 
aspettano la 
risoluzione 
di 
queste 
questioni 
demaniali 
col 
più vivo interesse. Esse 
saranno rimandate 
a’ secoli avvenire, se voi le deferite all’autorità giudiziaria...» (55). 


Poi, così proseguiva nel suo intervento: 


«Signori, 
nello 
scorso 
mese 
di 
marzo 
io 
ho 
girato 
molti 
comuni 
delle 
provincie 
di 
Terra 
di 
Lavori, ed è 
venuto in essi 
anche 
l’onorevole 
prefetto della 
provincia 
di 
Terra 
di 
Lavoro 
(56), 
il 
quale 
si 
occupa 
delle 
popolazioni 
con 
un 
amore 
e 
un 
senno 
del 
quale 
io 
sono 
stato 
spesso testimone 
e 
che 
reputo superiore 
ad ogni 
elogio. Sapete, o signori, quale 
era 
lo scopo 
di questa gita? 


Questioni 
demaniali 
gravissime, 
questioni 
demaniali 
delle 
quali 
gran 
parte 
si 
sono 
composte 
con espedienti 
che 
solo l’autorità 
amministrativa 
può mettere 
in esecuzione, vale 
a 
dire 


(52) 
Seduta 
della 
Camera 
dei 
deputati 
in 
data 
10 
giugno 
1864, 
p. 
5189 
del 
resoconto 
stenografico, 
consultabile 
in rete 
all’indirizzo storia.camera.it, sezione 
Legislature, regno d’italia, Viii Legislatura, 
1864, seduta del 10 giugno. 
(53) originario di Napoli e magistrato. 
(54) 
Seduta 
della 
Camera 
dei 
deputati 
in 
data 
15 
giugno 
1864, 
p. 
5345 
del 
resoconto 
stenografico, 
consultabile 
in rete 
all’indirizzo storia.camera.it, sezione 
Legislature, regno d’italia, Viii Legislatura, 
1864, seduta del 15 giugno. 
(55) 
Seduta 
della 
Camera 
dei 
deputati 
in 
data 
15 
giugno 
1864, 
p. 
5345 
del 
resoconto 
stenografico, 
consultabile 
in rete 
all’indirizzo storia.camera.it, sezione 
Legislature, regno d’italia, Viii Legislatura, 
1864, seduta del 15 giugno. 
(56) In quegli 
anni 
prefetto della 
provincia 
della 
Terra 
di 
Lavoro (la 
futura 
provincia 
di 
Caserta) 
era 
Carlo Mayr, avvocato, originario della 
provincia 
di 
Ferrara. Esule 
in Piemonte 
in ragione 
della 
sua 
partecipazione 
all’esperienza 
della 
repubblica 
romana, fu parlamentare 
e 
prefetto in varie 
province 
del 
regno. di 
fede 
liberale, in gioventù aderì 
alla 
Giovane 
Italia 
e 
a 
Mazzini 
fu vicino, più o meno apertamente, 
fino alla fine. 
di 
Mazzini 
fu, 
ad 
esempio, 
Ministro 
dell’interno 
nella 
breve 
esperienza 
romana 
e, 
da 
prefetto 
di 
Genova, 
si 
dice 
che, 
nel 
1870, 
si 
adoperasse 
per 
evitarne 
l’arresto. 
Quando, 
poi, 
Mazzini 
sarà 
condotto 
agli 
arresti 
nella 
fortezza 
di 
Gaeta, 
pare 
continuasse 
a 
seguire 
da 
lontano 
il 
caso, 
mostrando 
una 
coraggiosa 
vicinanza 
al vecchio rivoluzionario. 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


fusioni 
di 
due 
o 
più 
amministrazioni, 
confinazioni 
riconosciute 
per 
mezzo 
degli 
stessi 
Consigli 
comunali, questioni 
che 
sarebbero state 
interminabili 
presso l’autorità 
giudiziaria, e 
che 
col 
prudente 
arbitrio di 
quell’egregio funzionario, di 
quell’uomo dabbene 
furono messe 
in via 
di 
composizione. 


Sapete 
voi, o signori, come 
il 
rappresentante 
del 
Governo era 
ricevuto in quei 
comuni? 
Al grido: 
Viva la divisione delle terre demaniali! Viva l’italia! Viva Vittorio Emanuele! 


Vedete, o signori, che 
quelle 
popolazioni 
non possono scompagnare 
l’espressione 
dei 
loro bisogni da quella della loro fede nell’Italia e nel suo re. 


Fate, 
o 
signori, 
che 
quest’opera 
benefica 
della 
divisione 
delle 
terre 
demaniali, 
alla 
quale 
il Governo si è messo alacremente, sia continuata e condotta a fine…» (57). 


Intanto iniziavano a 
piovere 
emendamenti 
sull’art. 17, cosicché 
la 
commissione, 
dopo 
aver 
consultato 
i 
Ministri 
dell’interno, 
della 
giustizia 
e 
del-
l’agricoltura, si convinse a riformulare la disposizione. 


È 
significativo 
che, 
fino 
ad 
allora, 
Governo 
e 
commissione 
avessero 
marciato 
compatti 
nella 
difesa 
del 
disegno di 
legge, accettando minime 
riformulazioni 
formali 
del 
testo. ora, invece, probabilmente 
per evitare 
scossoni 
alla 
maggioranza 
parlamentare, 
si 
apriva 
ad 
una 
riconsiderazione 
della 
tematica 
delle quotizzazioni. 

E 
così, 
nella 
seduta 
del 
22 
giugno, 
fu 
ancora 
una 
volta 
Pasquale 
Stanislao 
Mancini 
ad esporsi 
personalmente, quale 
membro della 
commissione 
istruttoria, 
informando 
l’assemblea 
che, 
per 
il 
momento, 
i 
prefetti 
sarebbero 
rimasti 
titolari 
della 
competenza 
a 
curare 
le 
quotizzazioni, pur prevedendosi, in capo 
al 
Governo, 
la 
facoltà 
di 
sostituirli 
con 
altri 
funzionari, 
chiamati 
speciali 
commissari 
riparatori, e 
ferma 
restando la 
possibilità 
di 
ricorrere 
alle 
Corti 
d’appello, 
territorialmente competenti, avverso le ordinanze prefettizie. 


In definitiva, si 
trattava, per alcuni, di 
un accettabile 
compromesso (58) 
e, per altri, di 
un mero “contentino” 
che, comunque, non eliminava 
il 
pericolo 
di 
un’interruzione 
del 
processo 
di 
quotizzazione, 
perché 
l’azione 
prefettizia 
veniva 
indebolita 
e 
sottoposta 
ad incisivi 
contrappesi 
amministrativi 
e 
giurisdizionali. 


In 
effetti, 
la 
nuova 
riformulazione 
dell’articolo 
17 
stabiliva, 
ora, 
che 
i 
prefetti 
fossero affiancati 
o addirittura 
potessero essere 
sostituiti 
nella 
loro opera 
da 
particolari 
funzionari 
governativi 
e 
che 
le 
loro ordinanze 
potessero essere 
ricorribili davanti ai giudici. 

La 
nuova 
disposizione 
che, riformulava 
l’originario articolo 17 e 
inglo


(57) 
Seduta 
della 
Camera 
dei 
deputati 
in 
data 
15 
giugno 
1864, 
p. 
5346 
del 
resoconto 
stenografico, 
consultabile 
in rete 
all’indirizzo storia.camera.it, sezione 
Legislature, regno d’italia, Viii Legislatura, 
1864, seduta del 15 giugno. 
(58) Ad esempio l’onorevole 
Civita 
si 
dichiarerà 
persuaso dalla 
proposta 
della 
commissione: 
Seduta 
della 
Camera 
dei 
deputati 
in data 
22 giugno 1864, p. 5581 del 
resoconto stenografico, consultabile 
in 
rete 
all’indirizzo 
storia.camera.it, 
sezione 
Legislature, 
regno 
d’italia, 
Viii 
Legislatura, 
1864, 
seduta 
del 22 giugno. 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


bava 
anche 
il 
vecchio art. 18 (59) del 
progetto della 
commissione, recitava, 
dunque, così: 


«Sono 
temporaneamente 
mantenuti 
nelle 
provincie 
napoletane 
e 
siciliane 
i 
procedimenti 
riguardanti 
scioglimenti 
di 
promiscuità, divisione 
in massa 
e 
suddivisione 
dei 
demani 
comunali, 
e 
quelli 
di 
reintegra 
per occupazione 
o illegittima 
alienazione 
dei 
demani 
medesimi; 
ed 
i 
prefetti 
continueranno ad esercitare 
in conformità 
delle 
relative 
leggi 
in vigore 
tutte 
le 
attribuzioni 
loro 
conferite 
per 
tali 
oggetti, 
udito 
soltanto 
l'avviso 
di 
funzionari 
aggiunti 
con 
le 
norme 
da 
stabilirsi 
mediante 
decreto reale, il 
quale 
avviso terrà 
luogo di 
quello del 
Consiglio 
di prefettura. 

Il 
Governo avrà 
tuttavia 
facoltà 
di 
confidare 
tali 
attribuzioni 
a 
speciali 
commissari 
ripartitori 
nelle provincie in cui ne riconosca il bisogno. 

I richiami 
contro le 
ordinanze 
dei 
prefetti 
e 
dei 
commissari 
ripartitori, che 
prima 
portavansi 
alla 
Corte 
dei 
conti, saranno di 
cognizione 
delle 
Corti 
d'appello con le 
forme 
del 
procedimento 
sommario. 

Le 
Corti 
d'appello potranno in ogni 
caso ordinare 
la 
sospensione 
della 
esecuzione 
delle 
ordinanze impugnate...» (60). 


Questo 
testo 
sarà, 
come 
noto, 
integralmente 
recepito 
(61) 
nell’art. 
16 
del-
l’allegato 
E 
della 
legge 
n. 
2248 
del 
1865 
e 
il 
25 
giugno 
1865 
verrà 
adottato 
il 
regio 
decreto 
n. 
2361 
che 
stabiliva 
le 
competenze 
dei 
così 
detti 
funzionari 
aggiunti, 
i 
quali 
avrebbero 
affiancato 
i 
prefetti 
in 
luogo 
dei 
consigli 
di 
prefettura. 


Ed è 
curioso notare 
che 
sulla 
materia 
demaniale 
il 
prefetto era, ora, chiamato 
a 
rapportarsi 
non 
più 
ad 
un 
collegio, 
il 
consiglio 
di 
prefettura, 
incardinato 
stabilmente 
presso il 
suo ufficio, ma 
ad un altro organismo composto da 
due 
funzionari 
«scelti, l’uno dal 
Presidente 
del 
Tribunale 
di 
Circondario che 
ha 
sede 
nel 
Capoluogo 
della 
Provincia, 
fra 
i 
Giudici 
dello 
stesso 
Tribunale, 
e 
l’altro 
dal 
Prefetto 
tra 
i 
Consiglieri 
provinciali 
o 
di 
Prefettura» 
(art. 
26, 
comma 2, del r.d. 25 giugno 1865, n. 236). 


Ed 
era 
come 
se, 
per 
il 
tramite 
del 
rappresentante 
dell’autorità 
giudiziaria 
ordinaria, 
anche 
nel 
primo 
livello 
decisionale 
della 
materia 
demaniale 
-appunto 
la 
fase 
contenziosa 
e/o 
di 
conciliazione 
davanti 
al 
prefetto 
-l’ordinamento 
cercasse 
di 
portare 
dentro 
le 
mura 
della 
prefettura 
i 
valori 
liberali 
del 
diritto 
civile, 
i 
quali, 
come 
già 
sopra 
rilevato, 
nella 
proprietà, 
soprattutto 
in 
quella 
fondiaria, 
vedevano 
un 
valore 
costituzionale 
da 
affermare 
e 
difendere 
(62). 


(59) Art. 18 «i procedimenti 
di 
reintegro demaniale 
vertenti, nelle 
province 
meridionali, avanti 
la sezione 
della abolita Corte 
dei 
conti 
di 
Napoli 
e 
di 
Palermo, o il 
Consiglio amministrativo di 
Napoli 
e 
la Commissione 
dei 
presidenti 
di 
Palermo, saranno anch’essi 
giudicati 
dalla Corte 
d’appello delle 
rispettive giurisdizioni territoriali». 
(60) Nel 
testo definitivo votato, il 
22 giugno 1864, dalla 
Camera 
questa 
disposizione 
costituirà 
l’articolo 18. 
(61) Salvo alcune 
lievi 
modifiche 
di 
carattere 
meramente 
formale 
di 
coordinamento con gli 
altri 
articoli del medesimo allegato E. 
(62) Ancora 
EMILIo 
SErENI, nel 
suo Paesaggio agrario italiano, osserverà 
come, alle 
fine 
delle 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


E 
così 
la 
materia 
dei 
demani 
e 
della 
proprietà 
fondiaria 
iniziò 
un 
percorso 
tutto 
suo 
che, 
in 
160 
di 
storia 
patria, 
arriverà 
fino 
alla 
legge 
20 
novembre 
2017, 


n. 168, recante le nuove norme in materia di 
domini collettivi. 
A 
rileggere, oggi, l’allegato E 
della 
legge 
n. 2248 del 
1865, che 
in alcune 
parti 
continua 
ad essere 
in vigore, a 
ulteriore 
testimonianza 
di 
quanto l’ordinamento 
dello Stato italiano abbia 
dimostrato una 
pervicace 
capacità 
di 
resistenza, 
nonostante 
i 
molteplici 
cambi 
di 
regime 
e 
le 
correlate 
mutazioni 
costituzionali, 
giunge 
a 
noi 
solo 
l’eco 
lontana 
del 
suo 
originario 
significato 
politico-ideologico. 


I suoi 
articoli 
sono, infatti, ancora 
oggetto di 
analisi 
giuridica, ma 
in un 
contesto completamente 
mutato, dove 
il 
contenzioso amministrativo, protetto 
da 
una 
copertura 
di 
livello 
costituzionale, 
esiste 
ed 
opera 
come 
ambito 
di 
tutela 
giurisdizionale distinto dalla giurisdizione ordinaria. 


L’articolo 
4 
(63), 
ad 
esempio, 
dell’allegato 
E 
è 
oggi 
particolarmente 
considerato 
sia 
sotto 
il 
profilo 
dei 
limiti 
entro 
i 
quali 
il 
giudice 
del 
diritto 
soggettivo 
può, 
sul 
versante 
dell’efficacia, 
conoscere 
di 
un 
provvedimento 
amministrativo, 
sia 
dal 
punto 
di 
vista 
della 
tipologia 
di 
atti, 
anche 
di 
natura 
normativa 
secondaria, 
che 
ricadono 
nell’ambito 
di 
applicazione 
della 
norma 
in 
parola. 


Le 
disposizioni 
dell’articolo 2 (64) e 
4, poi, assieme 
a 
quelle 
dell’art. 7 


(65) del 
Codice 
del 
processo amministrativo, rappresentano un valido ausilio 
per stabilire 
i 
confini, costituzionali 
e 
costitutivi 
del 
sistema 
italiano, fra 
la 
tutela 
giurisdizionale del diritto soggettivo e quella dell’interesse legittimo. 
operazioni 
eversive 
(con riferimento al 
periodo 1861-1899), fossero stati 
ottenuti 
741.362 ettari 
dallo 
scioglimento 
dei 
diritti 
promiscui, 
ed 
ettari 
521.832 
di 
beni 
del 
demanio 
universale, 
per 
un 
totale 
di 


1.263.194 ettari. di 
questi, 407.941 erano stati 
riservati 
agli 
usi 
civici 
delle 
popolazioni 
stesse, 461.296 
erano 
stati 
quotizzati, 
e 
si 
erano 
riconcentrati 
nelle 
mani 
dei 
grossi 
proprietari 
(perché 
in 
gran 
parte 
riacquistati 
dai 
poveri 
contadini 
n.d.r), mentre 
393.957 ettari 
erano stati 
addirittura 
concessi 
agli 
usurpatori, 
tramite 
il 
così 
detto processo di 
conciliazione: 
E. SErENI, il 
Paesaggio, cit., p. 405. Sarebbe, in 
proposito, interessante 
conoscere 
quanta 
parte 
dei 
393.957 ettari 
sia 
da 
ascriversi 
al 
periodo successivo 
al 
1865, ovvero nel 
periodo a 
decorrere 
dal 
quale 
i 
consigli 
di 
prefettura 
furono sostituiti 
dal 
nuovo organismo 
costituito dai funzionari aggiunti. 
(63) 
«1. 
Quando 
la 
contestazione 
cade 
sopra 
un 
diritto 
che 
si 
pretende 
leso 
da 
un 
atto 
dell'autorità 
amministrativa, 
i 
Tribunali 
si 
limiteranno 
a 
conoscere 
degli 
effetti 
dell'atto 
stesso 
in 
relazione 
all'oggetto 
dedotto 
in 
giudizio. 
2. 
L'atto 
amministrativo 
non 
potrà 
essere 
rivocato 
o 
modificato 
se 
non 
sovra 
ricorso 
alle 
competenti 
autorità amministrative, le 
quali 
si 
conformeranno al 
giudicato dei 
Tribunali 
in quanto 
riguarda il caso deciso». 
(64) «Sono devolute 
alla giurisdizione 
ordinaria tutte 
le 
cause 
per 
contravvenzioni 
e 
tutte 
le 
materie 
nelle 
quali 
si 
faccia questione 
di 
un diritto civile 
o politico, comunque 
vi 
possa essere 
interessata 
la pubblica amministrazione, e 
ancorché 
siano emanati 
provvedimenti 
del 
potere 
esecutivo o dell'autorità 
amministrativa». 
(65) 
«1. 
Sono 
devolute 
alla 
giurisdizione 
amministrativa 
le 
controversie, 
nelle 
quali 
si 
faccia 
questione 
di 
interessi 
legittimi 
e, nelle 
particolari 
materie 
indicate 
dalla legge, di 
diritti 
soggettivi, concernenti 
l'esercizio 
o 
il 
mancato 
esercizio 
del 
potere 
amministrativo, 
riguardanti 
provvedimenti, 
atti, 
accordi 
o comportamenti 
riconducibili 
anche 
mediatamente 
all'esercizio di 
tale 
potere, posti 
in essere 
da pubbliche 
amministrazioni. Non sono impugnabili 
gli 
atti 
o provvedimenti 
emanati 
dal 
Governo nell'esercizio 
del potere politico…». 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


Ciò, però, vuol 
dire 
anche 
che, ai 
nostri 
giorni, l’analisi 
di 
questi 
due 
articoli 
dell’allegato E 
è 
per la 
maggior parte 
tutta 
interna 
al 
tema 
della 
giurisdizione 
(66), 
mentre, 
in 
origine, 
essi 
non 
solo 
fungevano 
da 
presidio 
alle 
attribuzioni 
della 
pubblica 
amministrazione, in ossequio al 
principio della 
divisione 
tra 
i 
poteri 
dello 
Stato, 
ma 
stavano 
anche 
e 
soprattutto 
a 
significare 
che, 
a 
prescindere 
dagli 
aspetti 
concernenti 
la 
legittimità 
di 
un 
provvedimento, 
nell’arena 
del 
processo il 
giudice 
ordinario tornava 
ad essere 
il 
custode 
assoluto 
dei 
valori 
liberali 
affermati 
dalla 
legislazione 
dell’epoca, 
a 
tutela 
dei 
diritti 
civili e sociali del cittadino borghese. 


In 
proposito, 
risulta 
particolarmente 
significativo 
l’articolo 
14 
del 
progetto 
di 
legge 
volto a 
preservare 
la 
funzionalità, in qualità 
di 
giudici 
speciali 
del 
contenzioso amministrativo, della 
Corte 
dei 
conti 
in materia 
di 
pensioni, 
dei 
tribunali 
commerciali, marittimi 
e 
militari, dei 
Consigli 
della 
guardia 
nazionale 
e delle deputazioni provinciali in materie elettorali (67). 


Sul 
punto, infatti, sembrerebbe 
che 
il 
legislatore 
del 
’65 si 
sia 
prefisso un 
obiettivo riformatore 
molto più limitato di 
quanto la 
retorica 
politica 
non lasciasse 
prima facie 
pensare, ovvero la 
sola 
eliminazione 
del 
contezioso amministrativo 
ordinario -affidato alle 
cure 
dei 
consigli 
di 
intendenza 
(68) e 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
-ove 
più 
frequentemente 
si 
registravano 
attriti 
con 
i 
giudici 
ordinari 
nella 
tutela 
di 
situazioni 
giuridiche 
a 
vario 
titolo 
riconducibili 
agli 
interessi 
patrimoniali pubblici e privati (69). 

Sembrava 
quasi 
che 
alle 
classi 
dirigenti 
interessassero non tanto le 
sorti 
di 
possibili 
contenziosi 
in 
materia 
contabile, 
pensionistica 
o 
militare 
(ad 
esempio 
in tema 
di 
leva), quanto, ad esempio, quelli 
sui 
diritti 
di 
sfruttamento di 
una 
miniera, su un procedimento di 
esproprio (70) ivi 
comprese 
le 
ricadute 
in 
termini 
di 
indennizzazioni 
e 
dei 
risarcimenti, 
sull’esecuzione 
di 
un’opera 
pubblica, 
sui 
tributi, nonché 
sulla 
ripartizione 
della 
proprietà 
terriera; 
tutti 
settori, 
questi, nei 
quali 
le 
esigenze 
di 
politica 
economica 
spingevano per favorire, a 


(66) Tema 
che, a 
livello costituzionale, è 
circoscritto dagli 
articoli 
24, primo comma, 103, primo 
comma, e 113, primo comma, della nostra Costituzione. 
(67) Il 
testo dell’articolo 14 era 
il 
seguente: 
«Non è 
fatta innovazione 
nè 
alla giurisdizione 
contenziosa 
della Corte 
dei 
conti 
in materia di 
contabilità e 
di 
pensioni, nè 
alle 
attribuzioni 
esercitate 
dai 
tribunali 
commerciali, marittimi, militari, o dai 
Consigli 
della guardia nazionale, nè 
alle 
attribuzioni 
delle 
deputazioni 
provinciali 
in materie 
elettorali». Nell’allegato E 
verrà 
riformulato e 
incasellato nel-
l’articolo 12 che 
così 
recitava: 
«Colla presente 
legge 
non viene 
fatta innovazione 
né 
alla giurisdizione 
della Corte 
dei 
conti 
e 
del 
Consiglio di 
Stato in materia di 
contabilità e 
di 
pensioni, né 
alle 
attribuzioni 
contenziose 
di 
altri 
corpi 
o collegi 
derivanti 
da leggi 
speciali 
e 
diverse 
da quelle 
fin qui 
esercitate 
dai 
giudici ordinari del contenzioso amministrativo». 
(68) o di intendenza o di Governo che dir si vogliano. 
(69) Molto interessanti 
sul 
punto, con particolare 
riferimento all’ordinamento sardo-piemontese, 
le 
considerazioni 
di 
SALVATorE 
SAMBATAro, L’abolizione 
del 
contenzioso nel 
sistema di 
giustizia amministrativa, 
Milano, Giuffrè, Milano, pp. 41 ss., 145 ss., 177 ss., 224 ss. 
(70) Sul 
punto 
ALBErTo 
roMANo, Giurisdizione 
amministrativa e 
limiti 
della giurisdizione 
ordinaria, 
Giuffrè, Milano, 1975, pp. 56-60. 

CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


qualsiasi 
prezzo, quel 
processo di 
accumulazione 
dei 
capitali 
che 
tanta 
parte 
ebbe 
nella 
formazione 
del 
mercato 
nazionale, 
nello 
sviluppo 
industriale 
di 
fine 
’800 e nei correlati squilibri tra il Nord e il Sud del Paese. 

da 
questo punto di 
vista, la 
legge 
abolitrice 
del 
contenzioso amministrativo 
resta 
una 
straordinaria 
porta 
del 
tempo, 
che 
consente 
di 
andare 
all’origine 
del 
processo unitario per cercare 
di 
comprenderne 
i 
punti 
di 
forza 
e 
i 
punti 
di 
debolezza. 


Sembra 
strano e 
per certi 
versi 
curioso, ma 
attraverso le 
sue 
scarne 
e 
apparentemente 
aride 
formulazioni 
normative 
è 
ancora 
possibile 
risalire 
la 
corrente 
della 
Storia 
fino a 
lambire 
i 
vasti 
confini 
di 
quella 
che 
fu, un tempo, la 
questione 
agraria 
e, 
con 
essa, 
la 
civiltà 
contadina, 
oramai 
scomparsa 
con 
la 
sua 
preziosa 
cultura 
e 
il 
suo bagaglio di 
riti 
e 
tradizioni, con tutte 
le 
sue 
glorie 
e i suoi drammi. 


Alla 
fine 
di 
queste 
pagine, resta 
una 
domanda 
alla 
quale 
non è 
semplice 
rispondere, 
ovvero 
se 
la 
legge 
abolitrice 
del 
contezioso 
amministrativo 
sia 
stata 
una 
legge 
progressista 
(71) 
o 
reazionaria, 
se 
sia 
stata 
effettivamente 
anche 
un fenomeno di 
reazione 
della 
borghesia 
agraria 
del 
Mezzogiorno e, con essa, 
dell’intero sistema 
liberale, che 
da 
rivoluzionario si 
stava 
gradualmente 
trasformando 
in regime. 


rispondere 
a 
questa 
domanda 
significherebbe 
anche 
trovare 
una 
soluzione 
al 
dilemma, ancora 
attuale, se 
la 
questione 
meridionale 
sia 
stata 
una 
rivoluzione 
agraria 
mancata, per citare 
Gramsci 
(72), o una 
rivoluzione 
agraria 
impossibile. 

5. riferimenti bibliografici. 
Si 
segnalano di 
seguito le 
principali 
fonti 
bibliografiche 
prese 
in considerazione 
ai 
fini 
dell’analisi 
delle 
questioni 
analizzate 
nel 
presente 
lavoro, 
escluse 
le 
opere 
di 
volta 
in 
volta 
specificamente 
annotate 
in 
calce 
ai 
precedenti 
paragrafi. 

Tali 
indicazioni, tuttavia, non esauriscono lo sterminato elenco di 
studi 
sulla materia. 


Sul 
risorgimento 
cfr. ACCArdo 
A., Costruire 
la patria, in A. roCCuCCI 
(a 
cura 
di), La costruzione 
dello Stato nazione 
in italia, Viella, roma 
2012; 
ACCArdo 
A., Scegliere 
la patria. 
Classi 
dirigenti 
e 
risorgimento in Sardegna (assieme 
a 
N. GABrIELE), donzelli, roma, 2011; 
ArISI 
roTA 
A., 
i 
piccoli 
cospiratori. 
Politica 
ed 
emozioni 
nei 
primi 
mazziniani, 
il 
Mulino, 
Bologna, 2010; 
ArISI 
roTA 
A., risorgimento. Un viaggio politico e 
sentimentali, il 
Mulino, 


(71) dell’abolizione 
del 
contenzioso amministrativo come 
“atto dichiaratamente 
rivoluzionario” 
del 
regime 
liberale 
parla 
FABIo 
MEruSI, Consiglio di 
Stato (all. D) e 
abolizione 
del 
contenzioso (all. E), 
in amministrare, Fascicolo 1, supplemento 2015, Bologna, il Mulino, p. 225. 
(72) ANToNIo 
GrAMSCI, Scritti 
sul 
risorgimento, ora 
in Sul 
risorgimento 
a 
cura 
di 
ENrICo 
MAN-
NArI, Mind edizioni, Milano, 2011. 

rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


Bologna, 
2019; 
BALzANI 
r., 
memoria 
e 
nostalgia 
nel 
risorgimento, 
il 
Mulino, 
Bologna, 
2020; 
BANTI 
A.M., il 
risorgimento italiano, Laterza, roma 
-Bari, 2004; 
BANTI 
A.M., La nazione 
nel 
risorgimento. 
Parentela, 
santità 
e 
onore 
alle 
origini 
dell’italia 
unita, 
Einaudi, 
Torino, 
2000; 
BANTI 
A.M., Sublime 
madre 
nostra. La nazione 
italiana dal 
risorgimento al 
fascismo, 
Laterza 
-Bari, 
2011; 
BEALS 
dErEK 
-BIAGINI 
EuGENIo 
F., 
il 
risorgimento 
e 
l’unificazione 
del-
l’italia, il 
Mulino, Bologna, 2015; 
BELArdINELLI 
M., il 
risorgimento e 
la realizzazione 
della 
comunità 
nazionale, 
Edizioni 
Studium, 
roma, 
2011; 
BErTI 
G., 
i 
democratici 
e 
l’iniziativa 
meridionale 
nel 
risorgimento, 
Feltrinelli, 
Milano, 
1962; 
dI 
rIENzo 
E., 
il 
regno 
delle 
Due 
Sicilie 
e 
le 
potenze 
europee, 1830-1861, rubbettino, Soveria 
Mannelli, 2012; 
LuPo 
S., L’unificazione 
italiana. 
mezzogiorno, 
rivoluzione, 
guerra 
civile, 
donzelli, 
roma, 
2011; 
MACry 
P., 
Unità 
a 
mezzogiorno 
-Come 
l’italia 
ha 
messo 
assieme 
i 
pezzi, 
il 
Mulino, 
Bologna, 
2012; 
MATurI 
W., 
interpretazioni 
del 
risorgimento, 
Einaudi, 
Torino, 
1962; 
MErIGGI 
M., 
La 
nazione 
populista. il 
mezzogiorno e 
i 
Borboni 
dal 
1848 all’Unità, il 
Mulino, Bologna, 2021; 
PéCouT 
G., il 
lungo risorgimento, Mondadori 
Bruno, Milano, 2011; 
PESCoSoLIdo 
G., Nazione, sviluppo 
economico e 
questione 
meridionale 
in italia, rubbettino, 2017, in particolare 
sul 
risorgimento 
pp. 
35-91; 
PINTo 
C., 
La 
guerra 
per 
il 
mezzogiorno. 
italiani, 
borbonici 
e 
briganti 
(1860-1870), Laterza, roma 
-Bari, 2019; 
roMANELLI 
r., ottocento. Lezioni 
di 
storia contemporanea. 
i, 
il 
Mulino, 
Bologna, 
2011; 
SCIroCCo 
A., 
L’italia 
del 
risorgimento 
(1800-1871), 
il 
Mulino, Bologna, 1993; 
SoNETTI 
S., La guerra per 
l’indipendenza. Francesco ii e 
le 
Due 
Sicilie 
nel 
1860, rubbettino, Soveria 
Mannelli, 2020; 
VILLArI 
L., Bella e 
Perduta. L’italia 
del risorgimento, Laterza, roma - Bari, 2012. 


La 
tematica 
relativa 
al 
rapporto tra 
accumulazione 
dei 
capitali, sviluppo industriale 
del 
nord 
del 
Paese 
e 
questione 
meridionale 
fu introdotta 
nel 
dibattito accademico da 
roSArIo 
roMEo 
in 
due 
scritti: 
La 
storiografia 
politica 
marxista, 
pubblicato 
nella 
rivista 
«Nord 
e 
Sud» 
nel 
1956 
e 
Problemi 
dello 
sviluppo 
capitalistico 
in 
italia 
dal 
1861 
al 
1887, 
parimenti 
pubblicato 
in 
quella 
rivista 
nel 
1958. Entrambi 
i 
saggi 
furono poi 
pubblicati 
nel 
libro, divenuto oramai 
un 
classico, 
risorgimento e 
capitalismo, Laterza, Bari, 1959 (poi 
ripubblicato dalla 
Laterza 
con 
un’edizione del 1998). 
In sintesi, la 
tesi 
di 
romeo fu che 
l’accumulazione 
dei 
capitali, avvenuta 
nei 
primi 
decenni 
dell’unità, anche 
a 
scapito del 
Sud, sia 
stato il 
prezzo necessario da 
pagare 
per porre 
le 
basi 
per lo sviluppo industriale del Paese, avvenuto prevalentemente al nord. 
Questa 
testi 
determinò un ampio dibattito fra 
storici 
ed economisti. Qui 
di 
seguito alcune 
fra 
le 
principali 
fonti 
bibliografiche 
sulla 
tematica: 
CAFAGNA 
L., 
Dualismo 
e 
sviluppo 
nella 
storia 
d’italia, Marsilio, Venezia, 1989; 
CAFAGNA 
L., intorno alle 
origini 
del 
dualismo economico 
in italia, in CArACCIoLo 
A. 
(a 
cura 
di), Problemi 
storici 
dell’industrializzazione 
e 
dello sviluppo, 
Argalia, urbino, 1965, pp. 103 ss.; 
CANdELoro 
G., Storia dell’italia moderna. Vol. V, 
La 
costruzione 
dello 
Stato 
unitario 
1860-1871; 
CANdELoro 
G., 
La 
nascita 
dello 
Stato 
italiano, 
relazione 
svolta 
nel 
corso del 
II convegno di 
Studi 
gramsciani, roma 
19-21 marzo 1960, in 
atti 
del 
ii 
convegno 
di 
studi 
gramsciani, 
Editori 
riuniti, 
roma, 
1962, 
pp. 
19-46; 
CArACCIoLo 
A., 
Stato 
e 
società 
civile. 
Problemi 
dell’unificazione 
italiana, 
Einaudi, 
Torino, 
1960; 
CASTro-
NoVo 
V., Lo sviluppo economico nell’italia unita, rivista storica italiana, 1979, I, 109-113; 
CASTroNoVo 
V., 
il 
dibattito 
sul 
decollo 
industriale 
italiano: 
l'interpretazione 
di 
a. 
Gerschenkron, 
rivista 
storica 
italiana, 
IV, 
1979, 
pp. 
700-703; 
FENoALTEA 
S., 
Decollo, 
ciclo 
e 
intervento 
dello Stato, in CArACCIoLo 
A., La costruzione 
dell’italia industriale, Laterza, Bari, 1963, 95 
ss.; 
GErSChENKroN 
A., 
rosario 
romeo 
e 
l’accumulazione 
originaria 
del 
capitale, 
in 
«rivista 



CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


storica italiana», LXXII, 1960, n. 1 e 
dello stesso autore 
in il 
problema storico dell’arretratezza 
economica, Einaudi, Torino, 1974, pp. 89-97; 
SErENI 
E., Capitalismo e 
mercato nazionale 
in 
italia, 
Editori 
riuniti, 
roma, 
1966; 
SErENI 
E., 
il 
capitalismo 
nelle 
campagne 
(1860-1900), Einaudi, Torino, 1968 (rist. 1977); 
SErENI 
E., mercato nazionale 
e 
accumulazione 
capitalistica nell’unità italiana, relazione 
svolta 
nel 
medesimo convegno e 
parimenti 
pubblicata 
in atti 
del 
ii convegno di 
studi 
gramsciani, Editori 
riuniti, roma, 1962, pp. 583654; 
PESCoSoLIdo 
G., 
agricoltura 
e 
industria 
nell’italia 
unita, 
Laterza, 
roma-Bari, 
1996; 
zAMAGNI 
V., 
Dalla 
periferia 
al 
centro. 
La 
seconda 
rinascita 
economica 
dell’italia 
(18611981), 
il 
Mulino, 
Bologna, 
1990; 
zANGhErI 
r., 
Dualismo 
economico 
e 
formazione 
dell’italia 
moderna, in 
CArACCIoLo 
A., La costruzione 
dell’italia industriale, Laterza, Bari, 1963, 285 
ss.; 
VILLArI 
r., L’interdipendenza fra nord e sud, in «Studi storici», n. 2, 1977. 


Per quanto riguarda, più in generale, la 
questione 
meridionale 
si 
segnala 
ALATrI 
P. 
(a 
cura 
di), 


Le 
condizioni 
dell’italia meridionale 
in un rapporto di 
Diomede 
Pantaleoni 
a marco minghetti 
(1861), 
estratto 
della 
rivista 
movimenti 
operaio, 
n. 
5-6, 
settembre-dicembre, 
1953, 
Milano; 
BArBAGALLo 
F., La questione 
italiana. il 
Nord e 
il 
Sud dal 
1860 ad oggi, Laterza 
ed. 
economica, 
roma 
-Bari, 
2017; 
CASSESE 
S. 
(a 
cura 
di), 
Lezioni 
sul 
meridionalismo, 
Il 
Mulino, 
Bologna, 
2016; 
dE 
FrANCESCo, 
La 
palla 
al 
piede. 
Una 
storia 
del 
pregiudizio 
antimeridionale, 
Feltrinelli, Milano, 2020; 
dE 
rITA 
G., il 
lungo mezzogiorno, Laterza, roma 
-Bari, 2020; 
dE 
VINCENTI 
C., CoCo 
G. 
(a 
cura 
di), Una questione 
nazionale. il 
mezzogiorno da «problema» 
a «opportunità», Astrid, il 
Mulino, Bologna, 2020; 
LuPo 
S., La questione. Come 
liberare 
la 
storia del 
mezzogiorno dagli 
stereotipi, donzelli, roma, 2015; 
LuPo 
S., Storia del 
mezzogiorno, 
questione 
meridionale, meridionalismo, in meridiana, rivista 
di 
storia 
e 
scienze 
sociali, 
1998, n. 32, pp. 17 ss.; 
PETrACCoNE 
C., Le 
‘due 
italie’. La questione 
meridionale 
tra 
realtà e 
rappresentazione, Laterza, roma, 2005; 
SALVAdorI 
M.L., 
il 
mito del 
buongoverno. 
La questione 
meridionale 
da Cavour 
a Gramsci, Einaudi, Torino, 1963; 
zoPPI 
S., Questioni 
meridionali, Astrid, il Mulino, Bologna, 2019. 


Per quanto concerne 
gli 
intellettuali 
meridionalisti 
cfr. AzIMoNTI 
E., il 
mezzogiorno agrario 
quale 
è 
(a 
cura 
di 
ForTuNATo 
G.), 
Laterza, 
Bari, 
II 
ed., 
1921; 
BELLIENI 
C., 
Partito 
Sardo 
d’azione 
e 
repubblica federale 
(scritti 
1919-1925), Gallizzi, Sassari, 1985; 
CoLAJANNI 
N., 
Nel 
regno 
della 
mafia, 
ripubblicato 
da 
Bur, 
rCS, 
Milano, 
2013; 
CoLAJANNI 
N., 
Settentrionali 
e 
meridionali: agli 
italiani 
del 
mezzogiorno, Milano -Palermo; 
r. SANdroN, roma 
presso la 
rivista popolare, 1898; 
CoMPAGNA 
F., il 
meridionalismo liberale. Antologia 
di 
scritti 
a 
cura 
di 
GIuSEPPE 
CIrANNA 
e 
ErNESTo 
MAzzETTI, Laterza, roma 
-Bari, 1988; 
dEFFENu 
A., “Sardegna”. 
La rivista di 
attilio Deffenu 
(1914/reprint), a 
cura 
di 
MANLIo 
BrIGAGLIA, Gallizzi, 
Sassari, 1976; 
dEFFENu 
A., Scritti 
giornalistici 
(1907-1916), il 
maestrale, Nuoro, 2008; 
dE 
VITI 
dE 
MArCo 
A., 
mezzogiorno 
e 
democrazia 
liberale. 
antologia 
degli 
scritti, 
Palomar, 
Bari, 
2008; 
dorso G., appello ai 
meridionali 
e 
altri 
scritti 
(a 
cura 
di 
r. MoLISSE), Aras 
Edizioni, 
Fano, 2015; 
dorSo 
G. La rivoluzione 
meridionale. Saggio storico-politico sulla 
lotta 
politica 
in Italia, edizioni 
di 
Storia 
e 
Letteratura, roma, 2018; 
FIorE 
T., Un popolo di 
formiche, Palo-
mar, 
Bari, 
2020; 
FrANChETTI 
L., 
Condizioni 
economiche 
e 
amministrative 
delle 
Provincie 
napoletane 
(appunti 
di 
viaggio), ristampate 
in mezzogiorno e 
colonie, La 
Nuova 
Italia 
Editrice, 
Firenze, 1950 e, da 
ultimo, in Condizioni 
economiche 
e 
amministrative 
delle 
Provincie 
napoletane. 
appunti 
di 
viaggio -Diario del 
viaggio, a 
cura 
di 
A. JANNAzzo, Collezione 
di 
Studi 
meridionali, Laterza, roma 
-Bari, 1985; 
FrANChETTI 
L., Condizioni 
politiche 
e 
amministra



rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


tive 
della 
Sicilia, 
ristampato 
recentemente 
da 
donzelli, 
roma, 
1993; 
ForTuNATo 
G. 
antologia 
dai 
suoi 
scritti, 
a 
cura 
di 
MANLIo 
roSSI 
dorIA, 
Laterza, 
roma 
-Bari, 
1948; 
FuCINI 
r., 
Napoli 
a occhio nudo, ed. Intra 
Moenia, Napoli, 2014; 
GALASSo 
G., mezzogiorno. Da «questione» a 
«problema 
aperto», 
Collezione 
di 
Studi 
meridionali, 
Lacaita, 
Manduria, 
2005; 
NITTI 
F.S., 
Scritti 
sulla questione 
meridionale, Voll. I-II, Laterza, Bari, 1959; 
roSSI 
-dorIA 
M., mezzogiorno 
d’Europa. 
Lettere, 
appunti 
e 
discorsi 
(1943-1984), 
donzelli, 
roma, 
2015; 
roSSI 
dorIA 
M., Una vita per 
il 
Sud. Dialoghi 
epistolari 
(1944-1987), donzelli, roma, 2012; 
SALVEMINI 
G., L’italia politica nel 
XiX 
secolo, ristampato in medioevo risorgimento Fascismo. 
antologia di 
scritti 
storici, a 
cura 
di 
E. TAGLIACozzo 
e 
S. BuCChI, Collezione 
di 
Studi 
meridionali, 
Laterza, 
roma 
-Bari, 
1992; 
SALVEMINI 
G., 
Scritti 
sulla 
questione 
meridionale 
(18961955), 
Einaudi, 
Torino, 
1955; 
SArACENo 
P., 
Sottosviluppo 
industriale 
e 
questione 
meridionale 
(studi 
degli 
anni 
1952-1963), 
Svimez, 
il 
Mulino, 
Bologna, 
1990; 
SArACENo 
P., 
Studi 
sulla 
questione 
meridionale 
(1965-1975), Svimez, il 
Mulino, Bologna, 1992; 
STurzo 
L., riforma 
statale 
e 
indirizzi 
politici 
(Discorsi), 
Vallecchi, 
Firenze, 
1923; 
VILLArI 
P., 
Lettere 
meridionali 
e altri scritti sulla questione sociale in italia, Ed. Storia e studi sociali, ed. 1953. 
da 
segnalare, 
altresì, 
gli 
articoli 
ospitati 
nella 
rubrica 
“Voce 
meridionale” 
della 
rivista 
di 
Piero Gobetti 
rivoluzione 
Liberale. Si 
tratta 
di 
una 
serie 
di 
contributi 
pubblicati, tra 
il 
1924 e 
il 
1925, a 
firma 
di 
intellettuali 
e 
scrittori 
dell’epoca, a 
vario titolo impegnati 
sui 
temi 
del 
meridionalismo. 
Si 
trattò di 
un esperimento interessante 
che 
avrebbe 
dovuto costituire 
l’inizio 
di 
un 
percorso 
di 
approfondimento 
dei 
problemi 
del 
Sud. 
Esso, 
tuttavia, 
fu 
interrotto 
a 
seguito 
della 
chiusura 
del 
giornale 
gobettiano per volontà 
del 
regime 
fascista. Gli 
articoli 
sono stati 
recentemente 
ripubblicati: 
CICCoNE 
r. 
(a 
cura 
di), 
Vita 
meridionale, 
Aras 
edizioni, 
Fano, 
2020. 


Sulla 
società 
contadina 
in particolare 
cfr. ALVAro 
C., Un treno nel 
Sud, rubbettino, Soveria 
Mannelli, 
2016; 
ANSELMI 
S., 
agricoltura 
e 
mondo 
contadino, 
il 
Mulino, 
Bologna, 
2001; 
FIorE 
T., il 
cafone 
all’inferno, Palomar, Bari, 2003; 
MuSATTI 
r., La via del 
Sud, Edizioni 
di 
Comunità, 
roma, 
2020; 
ProSPErI 
A., 
Un 
volgo 
disperso. 
Contadini 
d’italia 
nell’ottocento, 
Einaudi, 
Torino, 2019; 
ruSSo 
G., Baroni 
e 
Contadini, dalai 
editore, 1979, ed. 2011; 
SCoTELLAro 
r., 
L’uva 
puttanella. 
Contadini 
del 
Sud, 
con 
un’introduzione 
di 
Nicola 
Tranfaglia, 
Laterza, 
roma 
-Bari, 
2017; 
zANGhErI 
r., 
agricoltori 
e 
contadini 
nella 
storia 
d’italia, 
Einaudi, 
Torino, 
1977. 

Per il 
contenzioso amministrativo 
negli 
Stati 
pre-unitari 
cfr., in primo luogo, con particolare 
riferimento 
al 
periodo 
napoleonico 
in 
Italia, 
AIMo 
P., 
Le 
origini 
della 
giustizia 
amministrativa. 
Consigli di prefettura e Consiglio di Stato, Giuffrè, Milano, 1990. 
Per quanto concerne 
l’ordinamento del 
regno di 
Sardegna 
cfr. AzzArITI 
G., Percorsi 
e 
tendenze 
della giustizia amministrativa. indagine 
su origini, formazione 
e 
caratteri 
del 
sistema 
della giustizia amministrativa in italia, Giappichelli, Torino, 1990. 
Sul 
regno 
delle 
due 
Sicilie 
cfr. 
ABBAMoNTE 
o., 
amministrare 
e 
giudicare. 
il 
contenzioso 
nell’equilibrio istituzionale 
delle 
Sicilie, Edizioni 
Scientifiche 
Italiane, Napoli, 1997; 
FEoLA 
r., 
La 
monarchia 
amministrativa. 
il 
sistema 
del 
contenzioso 
nelle 
Sicilie, 
Jovene, 
Napoli, 
1984. 
Sul 
Granducato di 
Toscana 
cfr. BruGIoNI 
r., il 
Consiglio di 
Stato del 
Granducato di 
Toscana 
(1848-1865), istituto Storico Lucchese, Lucca, 2013. 
Per il ducato di Parma e di Piacenza si veda MEruSI 
F. - SPATTINI 
G.C. - FrEGoSo 
E., il contenzioso 
amministrativo 
di 
maria 
Luigia, 
Istituto 
per 
la 
scienza 
dell’amministrazione 
pubblica, 
Milano, 2013. 


CoNTrIBuTI 
dI 
doTTrINA 


Sull’evoluzione 
del 
contenzioso 
amministrativo 
cfr. 
ASTuTI 
G., 
L’unificazione 
amministrativa 
del 
regno d’italia, 
in atti 
del 
XL 
Congresso di 
storia del 
risorgimento italiano (Torino 2630 
ottobre 
1961), Istituto per la 
storia 
del 
risorgimento italiano, roma, 1961, pp. 93 ss. in 
particolare 
pp. 156 ss.; 
BENVENuTI 
F., Giustizia amministrativa 
(voce), Enciclopedia del 
diritto, 
XIX, Giuffrè, Milano, 1970, pp. 589-612; 
CANNAdA 
BArToLI 
E., La tutela giudiziaria 
del 
cittadino verso la pubblica amministrazione, Giuffrè, Milano, 1964; 
CEruLLI 
IrELLI 
V., 
Giurisdizione 
amministrativa e 
pluralità delle 
azioni 
(dalla Costituzione 
al 
Codice 
del 
processo 
amministrativo), Diritto processuale 
amministrativo, 2/2012, Giuffrè, Milano; 
ChIodI 
G.M., 
La 
giustizia 
amministrativa 
nel 
pensiero 
politico 
di 
Silvio 
Spaventa, 
Laterza, 
Bari, 
1969; 
CoNTESSA 
C., L’attualità del 
riparto di 
giurisdizione 
a dieci 
anni 
dall’entrata in vigore 
del 
Codice 
del 
processo amministrativo, 2020, consultabile 
nel 
sito istituzionale 
della 
giustizia 
amministrativa 
www.giustizia-amministrativa.it, 
sezione 
“Studi 
e 
approfondimenti”, 
“dottrina”; 
d’AddIo 
M., 
Politica 
e 
magistratura 
(1848-1876), 
Giuffrè, 
Milano, 
1966; 
GArBAGNATI 
E., La giurisdizione 
amministrativa. Concetto ed oggetto, Giuffrè, Milano, 1950; 
GIANNINI 
M.S., 
La 
Giustizia 
amministrativa, 
Edizione 
riveduta 
dalle 
lezioni 
raccolte 
a 
cura 
del 
dott. 
raffaele 
Juso, Jandi 
Sapi 
Editori, roma, 1966; 
GIANNINI 
M.S. -PIrAS 
A., 
Giurisdizione 
amministrativa 
(voce), 
Enciclopedia 
del 
diritto, 
XIX, 
Giuffrè, 
Milano, 
1970, 
pp. 
229-294, 
in 
particolare 
pp. 231-250; 
GuICCIArdI 
E., 
La giustizia amministrativa, Cedam, Padova, 1942; 
MAzzAMuTo 
M., 
il 
tramonto 
dottrinario 
del 
mito 
della 
giurisdizione 
unica 
alla 
luce 
dell’esperienza 
tra orlando e 
mortara, 2019, consultabile 
nel 
sito istituzionale 
della 
giustizia 
amministrativa 
www.giustizia-amministrativa.it, 
sezione 
“Studi 
e 
approfondimenti”, 
“dottrina”; 
MEruSI 
F., Dal 
contenzioso amministrativo di 
maria Luigia al 
Codice 
del 
processo amministrativo: 
due 
secoli 
per 
tornare, 
in 
Diritto 
e 
processo 
amministrativo, 
4/2015, 
Edizioni 
Scientifiche 
Italiane, Napoli; 
MoNTESANo 
L., Processo civile 
e 
pubblica amministrazione, Giuffrè, 
Milano, 
1960; 
PAJNo 
A., 
Trasformazioni 
della 
giustizia 
amministrativa, 
Lezione 
tenuta 
presso 
l’Accademia 
dei 
Lincei 
il 
12 maggio 2017, nell’ambito delle 
“Conferenze 
istituzionali” 
del-
l’Accademia, consultabile 
nel 
sito istituzionale 
della 
giustizia 
amministrativa 
www.giustiziaamministrativa.
it, 
sezione 
“Studi 
e 
approfondimenti”, 
“dottrina”; 
PATroNI 
GrIFFI 
F., 
La 
giustizia amministrativa tra presente 
e 
futuro, intervento al 
convegno “Stato e 
diritto amministrativo 
tra presente 
futuro”, Parma 
4 ottobre 
2019, consultabile 
nel 
sito istituzionale 
della 
giustizia 
amministrativa 
www.giustizia-amministrativa.it, 
sezione 
“Studi 
e 
approfondimenti”, 
“dottrina”; 
PATroNI 
GrIFFI 
F., 
Una 
giustizia 
(amministrativa) 
in 
perenne 
trasformazione: 
profili 
storico-evolutivi 
e 
prospettive, 2016, consultabile 
nel 
sito istituzionale 
della 
giustizia 
amministrativa 
www.giustizia-amministrativa.it, 
sezione 
“Studi 
e 
approfondimenti”, 
“dottrina”; 
PICCArdI 
L., La distinzione 
fra diritto e 
interesse 
nel 
campo della giustizia amministrativa, 
in il 
Consiglio di 
Stato, Studi 
in occasione 
del 
centenario, Vol. II, Istituto poligrafico dello 
Stato, 
roma, 
1932, 
pp. 
115-321; 
PIrAS 
A., 
interesse 
legittimo 
e 
giudizio 
amministrativo, 
Giuffrè, 
Milano, 1962; 
roMANo 
A., Giurisdizione 
ordinaria e 
giurisdizione 
amministrativa dopo 
la 
legge 
n. 
205 
del 
2000 
(epitaffio 
per 
un 
sistema), 
Diritto 
processuale 
amministrativo, 
3/2001, 
Giuffrè, 
Milano; 
SordI 
B., 
Giustizia 
e 
amministrazione 
nell’italia 
liberale. 
La 
formazione 
della nozione 
di 
interesse 
legittimo, in università 
di 
Firenze, Centro studi 
per la 
formazione 
del 
pensiero giuridico, Giuffrè, Milano, Vol. XX, 1985; 
zANoBINI 
G., Corso di 
Diritto amministrativo, 
Volume secondo La Giustizia amministrativa, sesta ed., Giuffrè, Milano, 1948. 
Per 
quanto 
concerne 
la 
manualistica 
giuridica 
più 
recente, 
di 
più 
agevole 
reperimento, 
cfr. 
CIrILLo 
G.P., Sistema istituzionale 
di 
diritto comune, Cedam 
-Wolters 
Kluwer Italia, Milano, 
2021; 
CLArICh 
M., manuale 
di 
giustizia amministrativa, il 
Mulino, Bologna, 2021, pp. 17



rASSEGNA 
AVVoCATurA 
dELLo 
STATo -N. 2/2021 


47; 
FANTI 
V., Profilo storico della giustizia amministrativa in italia, in VIPIANA 
M.P., FANTI 
V., TrIMArChI 
M., Giustizia amministrativa, CEdAM 
-Wolters 
Kluwer Italia, Milano, 2019, 
pp. 1-38; 
SCoCA 
F.G., Giustizia amministrativa, in particolate 
la 
parte 
I dedicata 
alla 
genesi 
del 
sistema 
delle 
tutele 
nei 
confronti 
della 
pubblica 
amministrazione, 
Giappichelli, 
Torino, 
2020, pp. 4 ss.; 
SCoCA 
F.G., L’interesse 
legittimo. Storia e 
teoria, Giappichelli, Torino, 2017; 
STorTo 
A. -MArINI 
F.S., Diritto processuale 
amministrativo, La Tribuna, Milano, 2020, pp. 
3-20. 

Sull’età 
della 
codificazione 
in Italia 
cfr. ACQuAroNE 
A., L’unificazione 
legislativa e 
i 
codici 
del 
1865, Giuffrè, Milano, 1960 (collana 
L'organizzazione 
dello stato. 
Collana 
di 
studi 
e 
testi 
nel 
centenario 
della 
unita 
d'Italia 
diretta 
da 
A.M. 
GhISALBErTI 
-coordinata 
da 
A. 
CArACCIoLo); 
GhISALBErTI 
C., 
La 
codificazione 
del 
diritto 
in 
italia 
(1865-1942), 
Laterza, 
roma 
-Bari, 
2006. 


In 
merito 
al 
rapporto 
tra 
l’evoluzione 
del 
diritto 
di 
proprietà 
ed 
il 
liberalismo 
ottocentesco 
cfr. 
BoBBIo 
N., 
il 
positivismo 
giuridico, 
Giappichelli, 
Torino, 
1996, 
55-84 
e 
rodoTà 
S., 
il 
terribile 
diritto. Saggi 
sulla proprietà privata e 
i 
beni 
comuni, il 
Mulino, Bologna, 2013, pp. 73-171; 
SALVI 
C., Capitalismo e 
diritto civile. itinerari 
giuridici 
dal 
Code 
civil 
ai 
Trattati 
europei, il 
Mulino, Bologna, 2015. 


Sui 
beni 
comunitari, 
in 
particolare, 
cfr. 
GroSSI 
P., 
il 
mondo 
delle 
terre 
collettive. 
itinerari 
giuridici 
tra 
ieri 
e 
domani, 
Quodlibet, 
Macerata, 
2019; 
GroSSI 
P., 
“Un 
altro 
modo 
di 
possedere”. 
L’emersione 
di 
forme 
alternative 
di 
proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Giuffrè, 
Milano, 1977, rist. 2017. 


Finito di stampare nel mese di novembre 2021 
Stabilimenti 
Tipografici Carlo Colombo S.p.A. 
Vicolo della Guardiola n. 22 - 00186 Roma