ANNO LXXII - N. 4 
OTTOBRE - DICEMBRE 2020 


RASSEGNA 
AV 
V 
O 
C 
AT 
U 
R 
A 
DELLO 
STATO 


PUBBLICAZIONE 
TRIMESTRALE DI SERVIZIO 



COMITATO 
SCIENTIfICO: 
Presidente: Michele 
Dipace. Componenti: Franco Coppi 
-Giuseppe 
Guarino Natalino 
Irti - Eugenio Picozza - Franco Gaetano Scoca. 


DIRETTORE 
RESPONSABILE: 
Giuseppe 
Fiengo 
-CONDIRETTORI: 
Maurizio 
Borgo, 
Danilo 
Del 
Gaizo 
e 
Stefano Varone. 


COMITATO 
DI 
REDAZIONE: 
Giacomo Aiello -Lorenzo 
D’Ascia 
-Gianni 
De 
Bellis 
-Wally 
Ferrante 
-Sergio 
Fiorentino 
-Paolo 
Gentili 
-Maria 
Vittoria 
Lumetti 
-Francesco 
Meloncelli 
-Marina 
Russo. 


CORRISPONDENTI 
DELLE 
AVVOCATURE 
DISTRETTUALI: 
Andrea 
Michele 
Caridi 
-Stefano 
Maria 
Cerillo 
Pierfrancesco 
La 
Spina 
-Marco 
Meloni 
-Maria 
Assunta 
Mercati 
-Alfonso 
Mezzotero 
-Riccardo 
Montagnoli 
-Domenico 
Mutino 
-Nicola 
Parri 
-Adele 
Quattrone 
-Piero 
Vitullo. 


HANNO 
COLLABORATO 
INOLTRE 
AL 
PRESENTE 
fASCICOLO: 
Giuseppe 
Albenzio, 
Attilio 
Barbieri, 
Elena 
Berto, 
Daniela 
Canzoneri, 
Elisabetta 
Chiarelli, 
Alessandro 
D’Amico, 
Gabriella 
D’Avanzo, 
Fabiana 
D’Avino, 
Gesualdo 
d’Elia, 
Andrea 
Fedeli, 
Emanuele 
Feola, 
Luigia 
Michela 
Fera, 
Michele 
Gerardo, 
Antonio 
Grumetto, 
Roberta 
Guizzi, 
Adolfo 
Mutarelli, 
Gaetana 
Natale, 
Melania 
Nicoli, 
Gabriella 
Palmieri 
Sandulli, 
Giancarlo 
Pampanelli, 
Carmela 
Pluchino, 
Diana 
Ranucci, 
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Sica, 
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della 
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di 
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eventuali 
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di 
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AVVOCATURA 
GENERALE 
DELLO 
STATO 
RASSEGNA 
-Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma 
E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it 


Stampato in Italia - Printed in Italy 


Autorizzazione 
Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 



indice 
-sommario 


Comunicato dell’Avvocato Generale 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Carlo Sica, Un saluto 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
TEMI 
ISTITUZIONALI 
Stefano 
Lorenzo 
Vitale, 
Avvocati 
del 
libero 
Foro 
delegati 
dall’Avvocatura 
dello Stato ai 
sensi 
dell’art. 2, R.D. n. 1611/1933: attività oggetto della 
delega e 
compensi 
spettanti 
(parere 
17 febbraio 2021, prot. 107165, AL 
37216/2020) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 
1 
Decreto 
legislativo 
19 
agosto 
2016, 
n. 
177, 
Art. 
18 
“Successione 
nei 
rapporti 
giuridici 
attivi 
e 
passivi 
del 
Corpo 
forestale 
dello 
Stato”. 
Legittimazione 
passiva, Circolare 
A.G. 18 maggio 2021 n. 25 
. . . . . . . . . . . . . ›› 
7 
Pareri 
rimborso spese 
di 
difesa dei 
dipendenti 
(ex 
art. 18 D.L. 25 marzo 
1997 
n. 
67, 
conv. 
L. 
23 
maggio 
1997 
n. 
135), 
Circolare 
A.G.A. 
19 
maggio 
2021 n. 26 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
8 
CONTENZIOSO 
COMUNITARIO 
ED 
INTERNAZIONALE 
Antonio Grumetto, L’impatto della pandemia sul 
sistema giudiziario inglese: 
spunti 
di 
riflessione 
per 
la 
riforma 
della 
giustizia 
civile 
in 
Italia 
(C. 
Suprema 
Regno 
Unito, 
sentenza 
The 
financial 
Conduct 
Authority 
(Appellant) 
v. 
Arch 
Insurance 
(UK) 
Ltd 
and 
others 
(Respondents), 
15 
gennaio 
2021) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
13 
Wally ferrante, Sfavore 
per 
i 
movimenti 
secondari 
del 
Regolamento Dublino 
III 
e 
diritto 
all’unità 
familiare 
(C. 
giustizia 
Ue, 
osservazioni 
in 
causa 
C-720/20) 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
›› 
26 
Gaetana 
Natale, “Digital 
Green Certificate” 
La proposta della Commissione 
Europea 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
32 
Antonio 
Grumetto, 
I 
giudici 
di 
Strasburgo 
sull’obbligo 
vaccinale. 
Il 
riassunto 
della 
sentenza: 
una 
cornice 
di 
principi 
che 
gli 
Stati 
devono osservare 
nel 
creare 
un giusto bilanciamento tra obblighi 
vaccinali 
e 
rispetto 
della 
sfera 
privata 
(Corte 
EDU, 
Grande 
Camera, 
sent. 
Vavřička and others v. the Czech Republic, 8 aprile 2021) 
. . . . . . . . . . . ›› 
43 
CONTENZIOSO 
NAZIONALE 
Adolfo Mutarelli, 
Le 
Sezioni 
Unite 
chiamate 
a ricomporre 
il 
puzzle 
del 
risarcimento 
danni 
da 
illegittima 
occupazione 
in 
tema 
di 
acquisizione 
sanante 
(Cass., Sez. I civ., ord. 24 dicembre 2020 n. 29625) 
. . . . . . . . . . . ›› 
47 
Elisabetta 
Chiarelli, 
L’apparenza e 
i 
limiti 
dell’adempimento del 
dovere 
alla 
luce 
del 
diritto 
interno 
e 
delle 
fonti 
sovranazionali 
vigenti 
in 
materia 
di soccorso in mare 
(Cass., Sez. III pen., sent. 20 febbraio 2020 n. 6626) 
›› 
61 
Elisabetta 
Chiarelli, 
Il 
rapporto 
tra 
recidiva 
reiterata 
e 
seminfermità 
mentale 
nella 
commisurazione 
della 
pena 
(C. 
cost., 
sent. 
24 
aprile 
2020 
n. 
73) 
›› 
79 



Nucleo 
familiare 
omogenitoriale: 
la 
pronuncia 
della 
Cassazione 
sulla 
convalida della trascrizione 
nell’anagrafe 
italiana di 
un atto di 
adozione 
estero (Cass. civ., Sez. Un., sent. 31 marzo 2021 n. 9006). . . . . . . . . . . . 

L’applicabilità 
ai 
giudizi 
di 
incandidabilità 
ex 
art. 
143, 
comma 
11, 
t.u.e.l. 
della 
normativa 
emergenziale 
in 
tema 
di 
sospensione 
dei 
termini 
(art. 
83, 
comma 2, D.L. 8/2020). La ratio della misura interdittiva (Cass., Sez. I 
civ., ord. 5 febbraio 2021 n. 2749) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

La 
Cassazione 
si 
pronuncia 
sulla 
trasparenza 
dell’algoritmo 
utilizzato 
per 
determinare 
il 
rating 
reputazionale 
(Cass., 
Sez. 
I 
civ., 
ord. 
25 
maggio 
2021 n. 14381) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Luigia 
Michela 
fera, Alessandro D’Amico, Analisi 
della sentenza della 
Corte 
di 
appello di 
Venezia n. 2907/2021. Una annosa vicenda di 
esposizione 
ad 
amianto 
e 
morte 
del 
lavoratore, 
il 
giudice 
di 
merito 
dinanzi 
all’incertezza 
scientifica 
(C. appello Venezia, Sez. II pen., sent. 30 ottobre 
2020 - 27 gennaio 2021 n. 2907) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Melania 
Nicoli, 
Un ricorso dell’Avvocatura dello Stato in tema di 
stalking: 
l’ammonimento del 
Questore 
(ex 
art. 8 D.L. n. 11/2009) e 
il 
diritto 
di 
difesa dell’ammonendo (presunto) stalker 
(Cons. St., Sez. III, sent. 24 
aprile 2020 n. 2620) 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Emergenza 
pandemica 
e 
misure 
limitative 
(T.a.r. 
Lazio, 
Sez. 
I, 
ord. 
26 
marzo 2021 n. 1921). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

I PARERI 
DEL 
COMITATO 
CONSULTIVO 


Giuseppe 
Albenzio, L’istituto del 
lavoro agile 
nella fase 
emergenziale 
da 
Covid 19, modalità applicative alle Fondazioni Lirico 
-Sinfoniche 
. . . . 

Daniela 
Canzoneri, Fruizione 
del 
trattamento di 
quiescenza quale 
causa 
di 
incompatibilità 
con 
il 
conferimento 
di 
incarico 
professionale 
presso 
gli ambulatori USMAF-SASN del Ministero della Salute 
. . . . . . . . . . . . 

Carmela 
Pluchino, 
Requisizione 
di 
beni 
mobili 
(mascherine) 
nella 
fase 
emergenziale, problematiche operative 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Gabriella 
D’Avanzo, 
Cessione 
dei 
crediti 
della 
P.A. 
effettuata 
nel 
contesto 
di 
una 
operazione 
di 
c.d. 
cartolarizzazione 
ai 
sensi 
dell’art. 
4 
della 
legge 


n. 130/1999 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Gesualdo 
d’Elia, 
Unioni 
civili. 
Matrimonio 
omoaffettivo 
celebrato 
all’estero, 
trascrizione, decorrenza degli effetti giuridici ed economici 
. . . 

Gabriella 
D’Avanzo, 
Imparzialità 
e 
trasparenza 
dell’azione 
della 
P.A.: 
divieto di 
utilizzare 
lo scorrimento delle 
graduatorie 
a copertura di 
posti 
di nuova istituzione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Lorenzo D’Ascia, 
Problematiche 
concernenti 
contratti 
pubblici 
di 
concessione 
a fronte dell’emergenza pandemica 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Andrea 
fedeli, Problematiche 
concernenti 
contratti 
pubblici 
di 
concessione 
a fronte dell’emergenza pandemica. Altro quesito 
. . . . . . . . . . . . . 

pag. 
88 
›› 
102 
›› 
110 
›› 
114 
›› 
138 
›› 
149 
›› 
151 
›› 
156 
›› 
165 
›› 
170 
›› 
177 
›› 
181 
›› 
184 
›› 
188 



Diana 
Ranucci, Quesiti 
sulla competenza dei 
dirigenti 
scolastici 
in servizio 
all’estero in materia di 
immobili 
da adibilre 
a sede 
delle 
istituzioni 
scolastiche 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 
190 
Emanuele 
feola, 
Obbligazioni 
pecunarie 
della 
pubblica 
amministrazione: 
risarcimento delle 
spese 
sostenute 
per 
il 
recupero dei 
crediti 
ai 
sensi 
del-
l’art. 6 D.Lgs n. 231/2002 e successive modifiche 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
201 
Giancarlo 
Pampanelli, 
Obbligazioni 
pecunarie 
della 
pubblica 
amministrazione: 
risarcimento 
delle 
spese 
sostenute 
per 
il 
recupero 
dei 
crediti 
ai 
sensi 
dell’art. 
6 
D.Lgs 
n. 
231/2002 
e 
successive 
modifiche. 
Altri 
quesiti 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
. 
›› 
210 
Emanuele 
Valenzano, 
Violazione 
dei 
principi 
di 
non 
discriminazione, 
istanza 
al 
Comitato 
per 
i 
Diritti 
Umani 
dell’ONU, 
modalità 
di 
esecuzione 
delle Considerazioni emesse dal Comitato. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
216 
LEGISLAZIONE 
ED 
ATTUALITà 
Michele 
Gerardo, 
I 
quattro 
pilastri 
governativi 
per 
l’utilizzo 
efficiente 
del 
Recovery 
Fund: scelta di 
“buoni” 
progetti, semplificazione 
delle 
procedure, 
reperimento di 
adeguate 
professionalità, limitazione 
delle 
responsabilità 
gestorie. Analisi e rilievi 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
221 
Luca 
Soldini, 
La 
complessa 
attività 
legislativa 
dell’esecutivo: 
ruolo 
e 
funzioni 
del DAGL 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
239 
CONTRIBUTI 
DI 
DOTTRINA 
Gaetana 
Natale, 
Intelligenza artificiale, neuroscienze, algoritmi: le 
sfide 
future per il giurista. L’uomo e la macchina 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
249 
Elena 
Berto, La disciplina fiscale 
applicabile 
in materia di 
Trust 
e 
l’imposta 
indiretta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni: 
il 
recente 
approdo 
ermeneutico 
operato dalla giurisprudenza di legittimità 
. . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
255 
fabiana D’Avino, La successione dello Stato 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 
279 



Comunicato dell’Avvocato Generale 
(*) 


Domani 
lascia 
il 
servizio, per raggiunti 
limiti 
di 
età, dopo oltre 
quaranta 
anni 
di 
prestigiosa 
presenza, l’Avvocato Generale 
Aggiunto Carlo Sica. 
Al 
Collega 
e 
Amico che 
ha 
onorato l’Avvocatura 
e 
il 
Paese 
con la 
Sua 
alta 
professionalità, la 
Sua 
dedizione 
e 
il 
Suo costante 
impegno, vanno i 
saluti 
e 
gli 
auguri 
più affettuosi 
miei 
e 
di 
tutti gli 
Avvocati e Procuratori dello Stato e del Personale dell’Avvocatura. 


Gabriella Palmieri Sandulli 


Un saluto 


Carissimi tutti, 
domenica prossima 23 maggio compirò 70 anni e, quindi, lascerò l’Istituto. 
Lo lascerò fisicamente, ma non con la mente e con il cuore. 
Oltre 42 anni sono indimenticabili. 
E 
lo 
sono 
anche 
perché 
l’Istituto 
mi 
ha 
dato 
l’opportunità 
di 
tali 
e 
tante 
occasioni 
professionali 
in 
quasi 
tutti 
i 
settori 
di 
interesse 
dell’Avvocatura 
che 
ho 
addirittura 
difficoltà 
a 
ricordarle 
tutte. 
(..) A 
voi 
auguro di 
proseguire 
con solita 
dedizione 
e 
usuale 
successo in questa 
professione 
che 
è 
semplicemente 
imparagonabile 
per rilevanza 
istituzionale, giuridica, economica 
e 
per 
la 
sua 
poliedricità 
che 
attribuisce 
agli 
avvocati 
e 
procuratori 
dello 
Stato 
la 
capacità 
di 
affrontare 
ogni 
questione 
esaminandola 
contemporaneamente 
da 
plurimi 
aspetti 
valutativi; 
capacità 
unica 
nel mondo del diritto italiano. 
Ai 
giovani 
colleghi 
l’augurio particolare 
di 
crescere 
rapidamente 
e 
affinare 
quella 
profonda 
preparazione che hanno dimostrato superando il concorso per l’accesso all’Avvocatura. 
Contate 
sui 
consigli 
e 
sull’esperienza 
dei 
colleghi 
più grandi 
di 
voi 
perché 
lo spirito proprio 
dell’Istituto è veramente quello di una famiglia, dove il bene di uno è il bene di tutti. (..) 
Un abbraccio a tutti voi. 

Carlo Sica 


(*) 
E-mail, Segreteria Particolare, sabato 22 maggio 2021. 



TEMIISTITUZIONALI
Avvocati del libero Foro delegati dall’Avvocatura 

dello Stato ai sensi dell’art. 2, R.D. n. 1611/1933: 

attività oggetto della delega e compensi spettanti 


(Parere 
del 
17/02/2021-107165, al 37216/2020, avv. Stefano 
lorenzo 
vitale) 


Con 
il 
presente 
parere 
si 
intende 
esaminare 
e 
dirimere 
questione 
sollevata 
da codesta 
Agenzia con la nota che si riscontra. 


Con detta 
nota 
codesta 
Agenzia, per quanto qui 
interessa, ha 
evidenziato 
delle 
incongruenze 
nelle 
parcelle 
redatte 
da 
Avvocati 
di 
libero 
foro 
delegati 
dalla 
Scrivente 
ad assumere 
la 
rappresentanza 
di 
codesta 
Agenzia 
nell'ambito 
di 
giudizi 
che 
si 
svolgono fuori 
della 
sede 
dell'Avvocatura 
dello Stato competente. 
In particolare, codesta 
Agenzia 
ha 
evidenziato come 
non spetterebbero 
a detti avvocati i compensi per la fase di "studio della controversia". 


Segnatamente, codesta 
Agenzia 
evidenzia 
che 
"nelle 
parcelle 
sono state 
inserite 
spese 
relative 
a fasi 
del 
giudizio che 
esulano dalla competenza degli 
avvocati 
incaricati. Ci 
si 
riferisce, in particolare, all'inserimento dell'attività 
di 
studio della controversia. a 
tal 
proposito, risulta evidente 
l'incongruenza 
di 
un'attività legale 
che 
prevede 
lo studio della controversia, ma non la fase 
introduttiva del 
giudizio (esclusa dalle 
parcelle 
in questione). Peraltro, come 
sancito nel 
Protocollo di 
intesa sottoscritto tra l'avvocatura e 
l'agenzia del 
demanio il 
10 aprile 
2012, la fase 
di 
studio della controversia compete 
alla 
scrivente 
e, nel 
caso, a codesto organo legale 
che 
predispone 
la comparsa a 
difesa degli interessi erariali". 


Al 
riguardo si 
rappresenta 
quanto segue 
precisandosi 
che 
il 
presente 
parere 
viene 
reso con riferimento alle 
liquidazioni 
dei 
compensi 
cui 
si 
applica 
ratione 
temporis 
il 
vigente 
Decreto 
del 
Ministero 
della 
Giustizia 
10 
marzo 
2014, n. 55 (recante 
"regolamento recante 
la determinazione 
dei 
parametri 
per 
la liquidazione 
dei 
compensi 
per 
la professione 
forense, ai 
sensi 
dell'articolo 
13, comma 6, della legge 
31 dicembre 
2012, n. 247"), non venendo in ri



RASSeGnA 
AvvOCATuRA 
DeLLO 
STATO -n. 4/2020 


lievo, 
nella 
nota 
che 
si 
riscontra, 
parcelle 
redatte 
secondo 
i 
previgenti 
parametri. 


Gli 
incarichi 
di 
cui 
si 
discorre, conferiti 
dalla 
Scrivente 
ad avvocati 
del 
libero foro, sono regolati 
dall'art. 2, primo periodo, del 
R.d. 30 ottobre 
1933, 


n. 
1611 
a 
mente 
del 
quale: 
"Per 
la 
rappresentanza 
delle 
amministrazioni 
dello 
Stato nei 
giudizi 
che 
si 
svolgono fuori 
della sede 
degli 
uffici 
dell'avvocatura 
dello Stato, questa ha facoltà di 
delegare 
funzionari 
dell'amministrazione 
interessata, 
esclusi 
i 
magistrati 
dell'ordine 
giudiziario, ed in casi 
eccezionali 
anche 
procuratori 
legali, esercenti 
nel 
circondano dove 
si 
svolge 
il 
giudizio". 
L'art. 2 R.d. n. 1611/1933 cit. è 
richiamato anche 
dal 
Protocollo di 
Intesa 
sottoscritto tra 
l'Avvocatura 
e 
l'Agenzia 
del 
Demanio del 
10 aprile 
2012 che, 
al 
punto 
11.12, 
prevede 
che: 
"Per 
le 
cause 
che 
si 
svolgono 
davanti 
ad 
autorità 
giudiziarie 
aventi 
sede 
diversa da quella della competente 
avvocatura, essa 
garantisce 
l'assistenza, salvo avvalersi 
per 
le 
funzioni 
procuratorie 
dei 
funzionani 
dell'agenzia ai 
sensi 
dell'art. 2 del 
r.d. n. 1611/1933 o, in casi 
eccezionali, 
di 
avvocati 
del 
libero foro esercenti 
nel 
circondario dove 
si 
svolge 
il 
giudizio, scelti 
da un elenco predisposto dall'agenzia previa procedura selettiva 
concorsuale. in tali 
casi 
l'avvocatura trasmette 
l'atto di 
delega alla competente 
struttura territoriale 
dell'agenzia ovvero all'avvocato del 
libero foro 
designato. resta inteso che 
nell'inoltrare 
la parcella presentata dall'avvocato 
corrispondente, l'avvocatura si esprimerà in merito alla congruità". 


La 
delega 
ai 
sensi 
dell'art. 
2 
r.d. 
n. 
1611/1933 
cit., 
che 
instaura 
un 
rapporto 
inquadrabile 
in 
quello 
del 
mandato, 
consente 
alla 
Avvocatura 
dello 
Stato 
di 
affidare 
ad avvocati 
del 
libero le 
attività 
di 
"rappresentanza" 
nei 
giudizi 
che 
si 
svolgono 
fuori 
della 
sede 
dell'Avvocatura 
dello 
Stato 
competente. 
Oggetto 
della 
delega 
possono essere 
le 
sole 
attività 
di 
"rappresentanza", funzioni 
cui 
erano 
in 
precedenza 
abilitati 
i 
"procuratori 
legali" 
individuati 
dalla 
norma 
quali 
possibili 
destinatari 
della 
delega 
(1). 
Detta 
delega 
può 
riguardare, 
quindi, 
solo 
alcuni 
dei 
compiti 
ordinariamente 
svolti 
dall'Avvocatura 
dello 
Stato 
alla 
quale 
sono affidati, la 
"rappresentanza, il 
patrocino e 
l'assistenza" 
ex art. 1 del 
R.d. 


n. 1611/1933 (sulle 
differenze 
tra 
rappresentanza 
e 
patrocinio cfr., tra 
tante, 
Cass. Cassazione 
civile 
sez. III, 08/06/2017, n. 14276; 
Cassazione 
civile 
sez. 
II, 28/10/2019, n. 27466). 
Che 
la 
delega 
de 
qua 
riguardi 
in via 
di 
principio le 
sole 
"funzioni 
procuratorie" 
è 
confermato anche 
dalla 
giurisprudenza 
secondo cui 
"la delega concerne 
la 
sola 
rappresentanza 
in 
giudizio 
(cc. 
dd. 
funzioni 
procuratorie), 
mentre 
l'attività 
defensionale 
vera 
e 
propria 
in 
questo 
caso 
rimane 
affidata 
all'ufficio 


(1) Il 
termine 
"procuratore 
legale" 
deve 
intendersi 
ora 
sostituito con quello di 
"avvocato" 
come 
stabilito 
dall'art. 3 della 
L. 24 febbraio 1997, n. 27 che 
ha 
abolito la 
figura 
del 
procuratore 
legale. Tuttavia, il 
riferimento 
ai 
"procuratori 
legali", contenuto nel 
testo originario dell'art. 2 del 
r.d. n. 1611/1933, rimane 
un 
utile 
riferimento 
per 
individuare 
-secondo 
i 
criteri 
ermeneutici 
dell'interpretazione 
sistematica 
e 
del-
l'intenzione del legislatore - le attività che possono essere oggetto della delega. 

TeMI 
ISTITuzIOnALI 


dell'avvocatura 
competente 
per 
territorio" 
(Cassazione 
civile, 
sez. 
lav., 
05/09/2016, n. 17596). 


nella 
prassi, 
difatti, 
gli 
avvocati 
del 
libero 
foro 
vengono 
delegati 
dalla 
Avvocatura 
dello Stato a 
svolgere, conformemente 
alle 
istruzioni 
impartite 
e 
alle 
difese 
processuali 
svolte 
dalla 
Scrivente, 
attività 
di 
partecipazione 
alle 
udienze 
-ivi 
svolgendo tutti 
gli 
incombenti 
del 
caso, quali 
ad es., difese 
orali, 
deduzioni 
a 
verbale, partecipazione 
all'assunzione 
dei 
mezzi 
istruttori, ecc. ed 
eventuali 
adempimenti 
presso 
le 
cancellerie 
(es. 
deposito 
e 
ritiro 
di 
atti, 
laddove 
non vi 
provveda 
direttamente 
la 
Scrivente 
anche 
in via 
telematica). 
Ciò, ovviamente, comporta 
altresì 
una 
necessaria 
attività 
di 
corrispondenza 
e 
consultazione 
costante 
tra 
l'avvocato 
delegato 
e 
la 
Scrivente 
nonché 
attività 
strettamente 
connesse 
a 
quelle 
oggetto 
della 
delega, 
ad 
es. 
la 
formazione 
della 
posizione 
della 
pratica 
in 
studio 
(ex 
art. 
1708 
c.c. 
secondo 
cui 
"il 
mandato 
comprende 
non solo gli 
atti 
per 
i 
quali 
è 
stato conferito, ma anche 
quelli 
che 
sono necessari al loro compimento"). 


Rimangono di 
competenza 
della 
Scrivente 
tutte 
le 
restanti 
attività 
tra 
cui, 
in 
particolare, 
quelle 
relative 
alla 
predisposizione 
delle 
difese 
scritte, 
all'inoltro 
e 
al 
ricevimento delle 
notifiche 
e 
delle 
comunicazioni 
di 
cancelleria 
(l'Avvocatura 
dello Stato rimane 
domiciliataria 
dell'amministrazione 
patrocinata 
ex 
art. 
11 
R.D. 
n. 
1611/1033, 
in 
caso 
di 
patrocinio 
obbligatorio, 
e 
ex 
art. 
170 
c.p.c. 
in caso di 
patrocinio autorizzato) (2), e 
le 
attività 
consultive 
nei 
confronti 
del-
l'Amministrazione. 


L'attività 
dell'avvocato delegato ai 
sensi 
dell'art. 2 del 
R.d. n. 1611/1933 
è 
assimilabile 
in parte 
a 
quella 
svolta, nell'ambito dei 
rapporti 
tra 
avvocati 
del 
libero foro, dall'avvocato domiciliatario. L'avvocato domiciliatario riceve 
un 
incarico da 
altro collega 
-mercé 
l'art. 82 del 
R.D. n. 37 del 
1934 che 
obbliga 
gli 
avvocati 
di 
libero foro ad eleggere 
domicilio nella 
circoscrizione 
ove 
ha 
sede 
l'autorità 
giudiziaria 
davanti 
alla 
quale 
pende 
il 
processo (3) -in virtù del 
quale 
è 
tenuto 
a 
ricevere 
notifiche 
e 
comunicazioni 
per 
conto 
del 
primo; 
inoltre 
viene 
eventualmente 
incaricato di 
svolgere 
attività 
di 
natura 
processuale 
(sui 
compiti 
e 
funzioni 
dell'avvocato domiciliatario cfr. Consiglio nazionale 
Forense, 
sentenza 
del 
6.11.2017, n. 158). Tale 
figura 
è 
in parte 
assimilabile 
alla 
figura 
dell'avvocato delegato ai 
sensi 
dell'art. 2 r.d. n. 1611/1933 in quanto in 
entrambi 
i 
casi, riconducibili 
al 
contratto di 
mandato, i 
delegati 
svolgono la 
propria 
attività 
in una 
sede 
diversa 
da 
quella 
propria 
del 
soggetto delegante 
nonché 
entrambi 
possono essere 
incaricati 
di 
svolgere 
attività 
processuali 
per 
conto 
del 
delegante 
sebbene 
la 
delega 
ex 
art. 
2 
r.d. 
n. 
1611/1933 
non 
contempla 


(2) L'avvocato delegato ex art. 2 r.d. n. 1611/1933 non è 
abilitato a 
ricevere 
notifiche, cfr. Cassazione 
civile, sez. lav., 05/09/2016, n. 17596 e giurisprudenza ivi citata. 
(3) 
La 
norma 
non 
si 
applica 
all'Avvocatura 
dello 
Stato, 
cfr. 
Cassazione 
civile, 
sez. 
I, 
03/09/2009, 
n. 
19128. 

RASSeGnA 
AvvOCATuRA 
DeLLO 
STATO -n. 4/2020 


anche 
l'attività 
di 
domiciliazione 
in 
senso 
stretto 
rimanendo 
l'Avvocatura 
dello 
Stato 
il 
soggetto 
abilitato 
a 
ricevere 
comunicazioni 
e 
notifiche, 
come 
si 
è 
sopra 
detto. 


L'assimilazione 
dell'avvocato 
delegato 
ai 
sensi 
dell'art. 
2 
del 
R.d. 
n. 
1611/1933 
cit. 
all'avvocato 
domiciliatario, 
ferma 
la 
distinzione 
tra 
le 
due 
figure 
cui 
si 
è 
testé 
fatto cenno, sembra 
fornire 
spunti 
ermeneutici 
utili 
per risolvere 
la 
questione 
del 
compenso spettante 
al 
primo. Pare 
infatti 
opportuno far riferimento 
al 
D.M. n. 55/2014 cit., che 
detta 
una 
specifica 
disciplina 
per l'avvocato 
domiciliatario 
anche 
alla 
luce 
della 
regola 
generale 
in 
materia 
di 
contratto 
di 
mandato per cui, laddove 
non sia 
stata 
stabilita 
la 
misura 
del 
compenso, la 
stessa è determinata in base alle tariffe professionali (art. 1709 c.c.). 


Detto 
D.M. 
n. 
55/2014 
cit., 
a 
differenza 
del 
previgente 
D.M. 
140/2012 
che 
nulla 
prevedeva 
sul 
punto, all'art. 8, co. 2, stabilisce 
che 
"[a]ll'avvocato 
incaricato 
di 
svolgere 
funzioni 
di 
domiciliatario, 
spetta 
di 
regola 
un 
compenso 
non inferiore 
al 
20 per 
cento dell'importo previsto dai 
parametri 
di 
cui 
alle 
tabelle 
allegate 
per 
le 
fasi 
processuali 
che 
lo stesso domiciliatario ha effettivamente 
seguito 
e, 
comunque, 
rapportato 
alle 
prestazioni 
concretamente 
svolte". 


viene 
quindi 
fissata 
la 
regola 
per cui 
i 
compensi 
sono rapportati 
alle 
prestazioni 
concretamente 
svolte 
e 
parametrati 
"di 
regola" 
al 
20 
per 
cento 
dei 
compensi 
tabellari 
previsti 
per ciascuna 
delle 
fasi 
processuali 
in cui 
il 
domiciliatario 
ha 
effettivamente 
prestato la 
propria 
attività. Si 
tratta 
di 
una 
regola 
conforme 
al 
generale 
principio 
di 
sinallagmaticità 
tra 
prestazioni 
svolte 
e 
compenso 
dovuto e 
alla 
medesima 
regola 
è 
informata 
anche 
la 
previsione 
per cui 
"Quando incaricati 
della difesa sono più avvocati, ciascuno di 
essi 
ha diritto 
nei 
confronti 
del 
cliente 
ai 
compensi 
per 
l'opera prestata" 
(art. 8, co. 1, D.M. 
n. 55/2014 cit.). 


venendo più nello specifico alla 
figura 
dell'avvocato delegato dall'Avvocatura 
dello Stato ai 
sensi 
dell'art. 2 del 
r.d. n. 1611/1933 cit., risulta 
che, con 
riferimento 
al 
processo 
civile 
di 
cognizione, 
la 
delega 
attribuita 
dalla 
Scrivente 
non 
comprende 
lo 
svolgimento 
di 
attività 
relative 
alla 
fase 
processuale 
di 
"studio 
della 
controversia" 
(4). 
Tale 
fase 
riguarda, 
difatti, 
una 
serie 
di 
attività 
"pre


(4) Le 
fasi 
processuali 
individuate 
dall'art. 4, co. 5, D.M. n. 55/2014 cit., con riferimento al 
processo 
civile di cognizione, sono le seguenti: 
"a) per 
fase 
di 
studio della controversia: l'esame 
e 
lo studio degli 
atti 
a seguito della consultazione 
con 
il 
cliente, le 
ispezioni 
dei 
luoghi, la ricerca dei 
documenti 
e 
la conseguente 
relazione 
o parere, scritti 
oppure orali, al cliente, precedenti la costituzione in giudizio; 
b) per 
fase 
introduttiva del 
giudizio: gli 
atti 
introduttivi 
del 
giudizio e 
di 
costituzione 
in giudizio, e 
il 
relativo 
esame 
incluso quello degli 
allegati, quali 
ricorsi, controricorsi, citazioni, comparse, chiamate 
di 
terzo ed esame 
delle 
relative 
autorizzazioni 
giudiziali, l'esame 
di 
provvedimenti 
giudiziali 
di 
fissazione 
della 
prima 
udienza, 
memorie 
iniziali, 
interventi, 
istanze, 
impugnazioni, 
le 
relative 
notificazioni, 
l'esame 
delle 
corrispondenti 
relate, l'iscrizione 
a ruolo, il 
versamento del 
contributo unificato, le 
rinnovazioni 
o 
riassunzioni 
della 
domanda, 
le 
autentiche 
di 
firma 
o 
l'esame 
della 
procura 
notarile, 
la 
formazione 

TeMI 
ISTITuzIOnALI 


cedenti 
la 
costituzione 
in giudizio" 
(art. 4, co. 5, lett. a) D.M. n. 55/2014 cit.) 
e 
la 
delega 
della 
Scrivente 
ha 
ad oggetto, come 
si 
è 
detto, solo attività 
successive, 
provvedendo 
direttamente 
questa 
Avvocatura 
alla 
costituzione 
in 
giudizio 
e 
allo svolgimento delle 
attività 
prodromiche 
alla 
stessa. L'avvocato di 
libero 
foro 
delegato, 
invece, 
svolge 
alcune 
delle 
attività 
proprie 
delle 
successive 
fasi 
processuali, segnatamente 
la 
partecipazione 
alle 
udienze, secondo quanto di 
volta in volta viene previsto dalla delega. 


Del 
resto, anche 
con riferimento al 
previgente 
quadro normativo che 
distingueva 
tra 
la 
figura 
dell'avvocato e 
quella 
del 
procuratore 
legale, la 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
ebbe 
ad 
affermare 
che 
qualora 
l'Avvocatura 
dello 
Stato, 
avvalendosi 
della 
facoltà 
di 
cui 
all'art. 
2 
del 
r.d. 
30 
ottobre 
1933 
n. 
1611 
cit., abbia 
delegato le 
funzioni 
di 
rappresentanza 
dell'amministrazione 
statale 
ad un procuratore 
legale 
esercente 
nel 
circondario in cui 
si 
svolge 
il 
giudizio, 
spettano 
a 
detto 
professionista 
per 
l'attività 
professionale 
prestata 
soltanto 
i 
diritti 
di 
procuratore 
e 
non anche 
gli 
onorari 
di 
avvocato (Cassazione 
civile, 
sez. II, 02/06/1992, n. 6650). 


Si 
concorda, 
pertanto, 
con 
codesta 
Amministrazione 
circa 
la 
non 
spettanza 
all'avvocato 
delegato 
dei 
compensi 
relativi 
alle 
attività 
proprie 
della 
fase 
di 
"studio 
della 
controversia". 
Spettano, 
invece, 
in 
parte 
qua 
secondo 
i 
parametri 
fissati 
in 
via 
di 
principio 
dal 
D.M. 
n. 
55/2014 
cit., 
i 
compensi 
e 
le 
relative 
spese, riferiti 
alle 
successive 
fasi 
processuali, in ragione 
di 
quanto di 
volta 
in 


del fascicolo e della posizione della pratica in studio, le ulteriori consultazioni con il cliente; 


c) 
per 
fase 
istruttoria: 
le 
richieste 
di 
prova, 
le 
memorie 
illustrative 
o 
di 
precisazione 
o 
integrazione 
delle 
domande 
o dei 
motivi 
d'impugnazione, eccezioni 
e 
conclusioni, l'esame 
degli 
scritti 
o documenti 
delle 
altre 
parti 
o dei 
provvedimenti 
giudiziali 
pronunciati 
nel 
corso e 
in funzione 
dell'istruzione, gli 
adempimenti 
o 
le 
prestazioni 
connesse 
ai 
suddetti 
provvedimenti 
giudiziali, 
le 
partecipazioni 
e 
assistenze 
relative 
ad attività istruttorie, gli 
atti 
necessari 
per 
la formazione 
della prova o del 
mezzo istruttorio 
anche 
quando 
disposto 
d'ufficio, 
la 
designazione 
di 
consulenti 
di 
parte, 
l'esame 
delle 
corrispondenti 
attività 
e 
designazioni 
delle 
altre 
parti, l'esame 
delle 
deduzioni 
dei 
consulenti 
d'ufficio o delle 
altre 
parti, 
la notificazione 
delle 
domande 
nuove 
o di 
altri 
atti 
nel 
corso del 
giudizio compresi 
quelli 
al 
contumace, 
le 
relative 
richieste 
di 
copie 
al 
cancelliere, le 
istanze 
al 
giudice 
in qualsiasi 
forma, le 
dichiarazioni 
rese 
nei 
casi 
previsti 
dalla 
legge, 
le 
deduzioni 
a 
verbale, 
le 
intimazioni 
dei 
testimoni, 
comprese 
le 
notificazioni 
e 
l'esame 
delle 
relative 
relate, 
i 
procedimenti 
comunque 
incidentali 
comprese 
le 
querele 
di 
falso 
e 
quelli 
inerenti 
alla verificazione 
delle 
scritture 
private. al 
fine 
di 
valutare 
il 
grado di 
complessità della fase 
rilevano, in particolare, le 
plurime 
memorie 
per 
parte, necessarie 
o autorizzate 
dal 
giudice, comunque 
denominate 
ma 
non 
meramente 
illustrative, 
ovvero 
le 
plurime 
richieste 
istruttorie 
ammesse 
per 
ciascuna 
parte 
e 
le 
plurime 
prove 
assunte 
per 
ciascuna 
parte. 
la 
fase 
rileva 
ai 
fini 
della 
liquidazione 
del 
compenso 
quando effettivamente svolta; 
d) 
per 
fase 
decisionale: 
le 
precisazioni 
delle 
conclusioni 
e 
l'esame 
di 
quelle 
delle 
altre 
parti, 
le 
memorie, 
illustrative 
o conclusionali 
anche 
in replica, compreso il 
loro deposito ed esame, la discussione 
orale, 
sia in camera di 
consiglio che 
in udienza pubblica, le 
note 
illustrative 
accessorie 
a quest'ultima, la redazione 
e 
il 
deposito 
delle 
note 
spese, 
l'esame 
e 
la 
registrazione 
o 
pubblicazione 
del 
provvedimento 
conclusivo 
del 
giudizio, comprese 
le 
richieste 
di 
copie 
al 
cancelliere, il 
ritiro del 
fascicolo, l'iscrizione 
di 
ipoteca giudiziale 
del 
provvedimento conclusivo stesso; il 
giudice, nella liquidazione 
della fase, tiene 
conto, 
in 
ogni 
caso, 
di 
tutte 
le 
attività 
successive 
alla 
decisione 
e 
che 
non 
rientrano, 
in 
particolare, 
nella 
fase di cui alla lettera e)”. 

RASSeGnA 
AvvOCATuRA 
DeLLO 
STATO -n. 4/2020 


volta 
previsto 
nella 
delega 
conferita 
nonché 
in 
base 
alle 
attività 
effettivamente 
svolte, in misura 
che 
appare 
congruo stimare, salvo la 
particolarità 
di 
singoli 
casi 
e 
anche 
con riferimento alle 
specificità 
delle 
singole 
fasi 
processuali, in 
un importo tendenzialmente 
pari 
al 
20 per cento della 
relativa 
voce 
di 
tariffa 
sulla base del valore della causa. 


Le 
attività 
svolte 
dovranno essere 
indicate 
analiticamente 
dai 
legali 
delegati 
affinché la Scrivente possa rendere il previsto parere di congruità. 


nei 
termini 
sopra 
esposti 
è 
reso 
il 
parere 
della 
Scrivente 
rinviandosi 
a 
successivi 
pareri 
specifici 
il 
visto di 
congruità 
delle 
tre 
parcelle 
trasmesse 
da 
codesta 
Agenzia con la nota che si riscontra. 


Sulla 
questione 
è 
stato 
sentito 
il 
Comitato 
Consultivo 
che 
nella 
seduta 
del 
16 febbraio 2021 si è espresso in conformità. 


L'Avvocato dello Stato 
Stefano Lorenzo Vitale 
L’Avvocato Generale 
Gabriella Palmieri Sandulli 



TeMI 
ISTITuzIOnALI 


Avvocatura 
Generaledello 
Stato 


CirCoLAre 
n. 25/2021 


oggetto: Decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 177. Art. 18. "Successione 
nei 
rapporti 
giuridici 
attivi 
e 
passivi 
del 
Corpo forestale 
dello Stato". 
Legittimazione passiva. 


Si 
rende 
noto che 
il 
Capo di 
Gabinetto del 
Ministero delle 
politiche 
agricole, alimentari 
e 
forestali 
ha 
segnalato che 
pervengono al 
predetto Dicastero numerosi 
fascicoli 
istruttori 
relativi 
a 
contenzioso 
su 
materie 
gestite 
sino 
al 
31 
dicembre 
2016 
dal 
Corpo 
Forestale 
dello 
Stato, ex Centro di 
Responsabilità 
Amministrativa 
del 
Ministero delle 
politiche 
agricole 
alimentari 
e 
forestali, 
che 
da 
quella 
data 
sono 
transitate, 
ope 
legis, 
nelle 
diverse 
amministrazioni 
del Comparto Sicurezza e Difesa. 


Allo scopo di 
evitare 
gli 
inconvenienti 
che 
ne 
derivano, il 
Capo di 
Gabinetto "auspica 
ogni 
atto 
di 
indirizzo 
diretto 
a 
far 
sì 
che 
lo 
Scrivente 
Ministero 
sia 
estromesso 
ex 
art. 
111 


c.p.c. dai 
giudizi 
in cui 
è 
tutt'ora parte 
in senso formale, con conseguente 
subentro del 
nuovo 
soggetto legittimato passivo e 
che 
siano assicurate 
la contestazione 
del 
difetto di 
legittimazione 
passiva, nonché 
l'impugnazione 
delle 
pronunce 
che 
non accolgano l'eccezione 
conseguente 
alla 
titolarità 
degli 
obblighi 
ratione 
materiae 
del 
Ministero 
delle 
politiche 
agricole 
alimentari 
e 
forestali, nelle 
attribuzioni 
ad esso affidate 
dal 
legislatore 
e 
nelle 
residue 
competenze 
trasferite ai sensi dell'art. 11 del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 177". 
Ritenuta 
la 
fondatezza 
della 
richiesta, 
si 
invitano 
le 
SS.LL. 
a 
tener 
presente, 
nelle 
attività 
di competenza, il segnalato auspicio e quindi a voler dar corso a quanto richiesto. 


L'AvvOCATO GeneRALe 
Avv. Gabriella Palmieri Sandulli 



RASSeGnA 
AvvOCATuRA 
DeLLO 
STATO -n. 4/2020 


Avvocatura 
Generaledello 
Stato 


CirCoLAre 
n. 26/2021 
oggetto: Pareri rimborso spese di difesa dei dipendenti. 


La 
presente 
circolare, 
prendendo 
spunto 
da 
pareri, 
quasi 
esclusivamente 
del 
Comitato 
Consultivo, 
resi 
negli 
ultimi 
4 
anni 
nella 
materia 
del 
rimborso 
delle 
spese 
di 
difesa 
ai 
sensi 
dell'art. 
18 
del 
decreto-legge 
25.03.1997, n. 67, convertito in 
legge 
23.05.1997, n. 135, affronta le 
principali 
problematiche 
derivanti 
dalla 
disposizione 
costituendo 
documento 
di 
base per la predisposizione e redazione dei pareri nella medesima materia. 


Il comma 1 dell'articolo 18 del decreto-legge n. 67 del 1997, convertito in legge n. 135 
del 
1997, recita: 
"le 
spese 
legali 
relative 
a giudizi 
per 
responsabilità civile, penale 
e 
amministrativa, 
promossi 
nei 
confronti 
di 
dipendenti 
di 
amministrazioni 
statali 
in conseguenza di 
fatti 
ed atti 
connessi 
con l'espletamento del 
servizio o con l'assolvimento di 
obblighi 
istituzionali 
e 
conclusi 
con 
sentenza 
o 
provvedimento 
che 
escluda 
la 
loro 
responsabilità, 
sono 
rimborsate 
dalle 
amministrazioni 
di 
appartenenza 
nei 
limiti 
riconosciuti 
congrui 
dall'avvocatura 
dello Stato. le 
amministrazioni 
interessate, sentita l'avvocatura dello Stato, possono concedere 
anticipazioni 
del 
rimborso, salva la ripetizione 
in caso di 
sentenza definitiva che 
accerti 
la responsabilità". 


La disposizione, quindi, subordina il rimborso al ricorrere di due condizioni: 


1) che 
il 
giudizio di 
responsabilità 
sia 
stato promosso in conseguenza 
di 
fatti 
e 
atti 
connessi 
con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali; 
2) che 
il 
giudizio si 
sia 
concluso con sentenza 
o altro provvedimento che 
abbia 
escluso 
la responsabilità dell'istante. 
A 
queste 
due, 
parte 
della 
dottrina 
e 
della 
giurisprudenza 
ritiene 
di 
aggiungerne 
una 
terza: 


3) 
la 
carenza 
di 
conflitto 
d'interessi 
con 
l'amministrazione. 
Al 
riguardo, 
appare 
evidente 
che 
l'origine 
di 
questa 
terza 
condizione 
comporta 
una 
sua 
valutazione 
prudenziale 
(anche 
perché 
la 
legge 
ha 
affidato 
all'Avvocatura 
dello 
Stato 
la 
verifica 
della 
ricorrenza 
dei 
presupposti 
per 
il 
rimborso); 
valutazione 
da 
effettuare 
ex 
post 
e 
non 
ex 
ante 
(per 
la 
semplice 
ma 
decisiva 
ragione 
che 
altrimenti 
tutti 
i 
reati 
propri 
-quali 
inevitabilmente 
tutti 
quelli 
commessi 
da 
dipendenti 
pubblici 
nell'esercizio 
delle 
loro 
funzioni 
-non 
rientrerebbero 
nella 
previsione 
normativa). 
venendo alla 
prima delle 
due 
condizioni, la 
norma 
richiede 
la 
connessione 
dei 
fatti 
e 
atti con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento degli obblighi istituzionali. 


Occorre 
evidenziare 
che 
la 
disposizione 
fa 
espresso riferimento ai 
"fatti 
e 
atti" 
posti 
in 
essere dall'interessato. 


Se 
ne 
deve 
dedurre 
che 
la 
disposizione, contrariamente 
a 
quanto contenuto nella 
relazione 
illustrativa, non tutela 
solo "la 
paura 
della 
firma" 
(cioè, gli 
atti) ma 
anche 
i 
comportamenti 
(cioè, i fatti) purchè connessi al servizio o all'adempimento di obblighi istituzionali. 


Su tale 
connessione, la 
norma 
non specifica 
cosa 
si 
debba 
intendere 
per servizio od obbligo 
istituzionale. 
I 
pareri 
resi 
sono 
nel 
senso 
che 
il 
servizio 
riguarda 
il 
rapporto 
organico, 
nel 
senso 
di 
svolgimento del 
servizio (o meglio del 
munus) cui 
l'interessato è 
preposto; 
mentre 
l'adempi



TeMI 
ISTITuzIOnALI 


mento degli 
obblighi 
istituzionali 
riguarda 
il 
rapporto di 
servizio tra 
l'amministrazione 
di 
appartenenza 
e l'interessato. 


nel 
primo 
rientrano, 
quindi, 
tutti 
gli 
atti, 
essenzialmente 
verso 
gli 
amministrati, 
che 
l'interessato 
pone in essere in connessione con il 
munus 
ricoperto. 


Ma 
vi 
rientrano anche 
quei 
fatti 
addebitati 
all'interessato quali 
comportamenti 
svianti 
e 
sviati 
del 
medesimo munus 
(parere 
Co.Co. AL 
40018/2016; 
parere 
Co.Co. AL 
41083/2016). 
vi rientrano, in tal modo, tutte le ipotesi di reati propri contestati all'interessato. 


nel 
secondo tutto ciò che 
attiene 
al 
rapporto di 
lavoro. Con la 
conseguenza, in questo 
secondo caso, che 
vi 
rientrano anche 
tutti 
gli 
atti 
e 
adempimenti 
che 
l'interessato deve 
porre 
in essere 
verso l'amministrazione 
in quanto rappresentanti 
una 
modalità 
obbligatoria 
(parere 
Co.Co. AL 
40017/2016). Il 
Comitato Consultivo ha 
così 
ritenuto rientranti 
in tali 
categorie 
dichiarazioni 
rese 
all'amministrazione, frasi 
profferite 
verso un superiore 
gerarchico (parere 
Co.Co. 
AL 
24523/2018) 
a 
meno 
che 
non 
derivino 
da 
ragioni 
esclusivamente 
personali 
(parere 
Co.Co. AL 
23464/2918) ovvero asseritamente 
diffamatorie 
(parere 
Co.Co. AL 
32014/2015), 
produzione 
di 
certificazioni 
mediche 
(parere 
Co.Co. AL 
1471/2017), utilizzo vero o presunto 
di 
beni 
dell'amministrazione 
messi 
a 
disposizione 
dell'interessato 
(parere 
Co.Co. 
AL 
7640/2016 
concernente 
caso 
peculiare; 
parere 
Co. 
Co. 
AL 
20297/2016; 
parere 
Co.Co. 
AL 
40418/2016). 


In tali 
sensi 
chiarita 
la 
portata 
della 
prima 
condizione 
di 
legge 
per ottenere 
il 
rimborso 
delle 
spese, necessita, quale 
seconda condizione, che 
il 
giudizio che 
ha 
visto convenuto o indagato/
imputato l'interessato si 
sia 
concluso con sentenza 
o provvedimento che 
abbia 
escluso 
la sua responsabilità. 


La 
sentenza 
deve 
necessariamente 
essere 
passata 
in 
giudicato; 
mentre, 
a 
seconda 
dei 
casi, 
il 
provvedimento 
può 
non 
essere 
definitivo 
quale, 
ad 
esempio, 
un'archiviazione 
nel 
merito 
da parte del GIP. 


Molto si 
è 
discusso se 
la 
norma 
pretenda 
una 
esclusione 
di 
responsabilità 
in senso generale 
oppure 
se 
essa 
vada 
riferita 
allo specifico procedimento. nel 
senso, in particolare, che, 
nella 
prima 
ipotesi, 
la 
decisione 
prima 
e 
la 
carenza 
di 
altre 
iniziative 
dell'amministrazione 
(quale, in particolare, quella 
disciplinare) escludano ogni 
profilo di 
responsabilità 
in capo all'interessato 
(parere 
Co.Co. 
AL 
44991/2015; 
parere 
Co.Co. 
26925/2017); 
nella 
seconda 
ipotesi 
invece, ogni 
procedimento ha 
un suo specifico oggetto e, rispetto a 
questo solo oggetto, va 
valutata 
l'assenza 
di 
responsabilità 
(in tal 
caso, ad esempio, l'irrogazione 
di 
una 
sanzione 
disciplinare 
all'interessato non inciderebbe 
-ai 
fini 
del 
rimborso in esame 
-sulla 
assoluzione 
o 
archiviazione in sede penale). 


numerosi 
pareri 
si 
sono 
da 
ultimo 
espressi 
nel 
senso 
che 
entrambe 
le 
ipotesi 
non 
possano 
essere 
seguite 
in astratto e 
in assoluto, ma 
che 
vada 
compiuto un esame 
riferito alla 
specifica 
fattispecie e allo specifico oggetto dei procedimenti interessati. 


Al 
riguardo, si 
deve 
escludere 
che 
la 
valutazione 
in ordine 
alla 
ricorrenza 
-foss'anche 
eventuale 
-di 
rilievi 
disciplinari 
contenuta 
nella 
sentenza 
o nel 
provvedimento di 
esclusione 
di 
responsabilità 
possa 
incidere 
sul 
parere 
ex 
art. 
18, 
spettando 
quella 
valutazione 
in 
via 
esclusiva 
all'amministrazione. 


Quanto alla 
formula 
assolutoria 
nei 
procedimenti 
penali, è 
ius 
receptum 
che 
qualsiasi 
formula 
di 
merito sia 
utile 
ai 
fini 
del 
rimborso, comprese 
quelle 
ex art. 530, secondo comma, 
c.p.p., ed ex art. 425, terzo comma, c.p.p. (su quest'ultima parere Co.Co. AL 10452/2019). 


Quanto alle 
pronunce 
in rito, si 
è 
ritenuto che 
l'originale 
mancanza 
di 
querela 
o la 
sua 
"sopravvenienza" 
in 
caso 
di 
derubricazione 
dell'ipotesi 
di 
reato 
(parere 
Co.Co. 
AL 



RASSeGnA 
AvvOCATuRA 
DeLLO 
STATO -n. 4/2020 


26941/2017) ovvero -per talune 
ipotesi 
di 
reati 
militari 
-la 
mancanza 
della 
richiesta 
del 
Comandante 
del 
Corpo integrino i 
requisiti 
per il 
rimborso, trattandosi 
di 
fattispecie 
nelle 
quali 
viene 
esclusa 
in 
radice 
la 
rilevanza 
penale 
dei 
fatti 
(sempre 
salva 
la 
valutazione 
dell'eventuale 
incidenza di una rilevanza disciplinare). 


Ovviamente, quanto ora 
detto non trova 
applicazione 
nelle 
ipotesi 
di 
decisioni 
che 
non 
escludano 
la 
responsabilità, 
quali 
remissione 
di 
querela 
(parere 
Co.Co. 
AL 
8533/2019) 
ovvero 
prescrizione 
(entrambe 
rinunciabili) 
(sulla 
prescrizione, 
parere 
Co.Co. 
AL 
55878/2004) 
ovvero 
di 
decisioni 
che 
escludano solo la 
pena 
(ad es., proscioglimento per tenuità 
del 
fatto) e 
che, 
anzi, presuppongono un'affermazione 
-sia 
pure 
implicita 
-di 
responsabilità 
(per un caso peculiare, 
parere Co.Co. AL 38017/2017). 


Da 
ultimo 
sul 
punto, 
i 
pareri 
resi 
hanno 
affrontato 
anche 
il 
tema 
dell'assoluzione 
parziale 
nel 
medesimo procedimento penale, riconoscendo il 
rimborso relativamente 
ai 
reati 
coperti 
da 
assoluzione, con esclusione 
del 
caso in cui 
i 
reati 
stessi 
rinvengano da 
un unico comportamento 
ovvero da comportamenti intimamente legati o conseguenti. 


Il 
criterio del 
rimborso, in tale 
caso, non è 
rigidamente 
matematico ma 
può tenere 
conto 
della 
natura 
e 
gravità 
dei 
reati 
coperti 
da 
assoluzione 
rispetto a 
quelli 
per cui 
è 
intervenuta 
condanna. 


Da 
ultimo, quale 
caso particolare, va 
menzionato il 
parere 
del 
Co.Co. (AL 
27397/2017) 
a 
tenore 
del 
quale 
"l'avvenuta proposizione 
dell'appello incidentale 
da parte 
del 
dipendente 
pubblico non fa venire 
meno la sua posizione 
di 
appellato principale, dovendosi 
riconoscere 
il rimborso delle spese legali inerenti il grado di appello". 


venendo al 
profilo soggettivo della disposizione, essa 
parla 
di 
"dipendenti 
di 
amministrazioni 
statali". 


Al 
riguardo, si 
era 
sempre 
privilegiata 
un'interpretazione 
"aperta" 
affermandosi 
che 
doveva 
trovare 
applicazione 
contenutistica 
il 
disposto dell'art. 44 del 
R.D. n. 1611 del 
1933 e 
che, quindi, il rimborso spettasse ai dipendenti ed anche agli "agenti" dell'amministrazione. 


Tuttavia, la 
Corte 
Costituzionale, nella 
recente 
sentenza 
n. 267 del 
2020, ha 
invece 
interpretato 
restrittivamente 
il 
termine 
"dipendente" 
affermando che 
la 
disposizione 
de 
qua 
"testualmente 
individua i 
beneficiari 
del 
rimborso nei 
dipendenti 
di 
amministrazioni 
statali 
e 
le 
amministrazioni 
di 
appartenenza quali 
obbligate, sicchè 
è 
corretta la premessa da cui 
muove 
il 
remittente, vale 
a dire 
l'impossibilità di 
estendere 
in via interpretativa il 
diritto al 
rimborso 
a soggetti 
che 
operano nell'interesse 
dell'amministrazione 
al 
di 
fuori 
da un rapporto di 
pubblico 
impiego". 


Questa 
affermazione 
appare 
rendere 
assai 
arduo 
il 
mantenimento 
del 
percorso 
argomentativo 
che 
aveva 
portato all'interpretazione 
suaccennata, con inerente 
limitazione 
del 
diritto 
al rimborso in favore dei soli dipendenti. 


Ben vero che, nella 
medesima 
sentenza, la 
Corte 
ha 
poi 
dichiarato l'incostituzionalità 
della 
disposizione 
per 
violazione 
dell'art. 
3 
Cost. 
in 
presenza 
di 
identità 
di 
esercizio 
di 
funzione 
tra 
dipendente 
e 
non 
dipendente 
(nella 
specie, 
si 
trattava 
di 
istanza 
di 
rimborso 
spese 
avanzate 
da 
un giudice 
di 
pace) e, quindi, solo in situazioni 
sostanzialmente 
identiche 
si 
potrebbe 
ipotizzare 
un'interpretazione ampliativa costituzionalmente orientata. 


venendo, ora, al 
profilo oggettivo, l'art. 18 ha 
riguardo ai 
giudizi 
per responsabilità 
civile, 
penale e amministrativa. 


nella 
responsabilità 
amministrativa 
rientra 
pacificamente 
quella 
contabile 
(Corte 
Cost., 
sentenza n. 189/2020). 


Sul 
tema 
si 
richiama 
la 
circolare 
n. 11/2021, da 
completare 
nel 
senso che, a 
tenore 
di 



TeMI 
ISTITuzIOnALI 


tale 
ultima 
sentenza, anche 
la 
fase 
non contenziosa 
del 
giudizio contabile 
può, ricorrendone 


tutti gli altri requisiti, essere oggetto di rimborso. 


Resta a dire dell'attività consultiva dell'Avvocatura dello Stato nella materia. 


va 
anzitutto 
ribadito 
che 
"la 
competenza 
alla 
redazione 
del 
parere 
ex 
art. 
18 
d.l. 
n. 
67/1997 
si 
radica 
in 
capo 
alla 
sede 
dell'avvocatura 
competente 
per 
il 
processo 
a 
quo, 
dal 
quale 
sorge 
il 
diritto 
al 
rimborso" 
(parere 
Co.Co. 
AL 
54161/2019) 
per 
tale 
intendendosi 
il 
grado di giudizio in esito al quale è stata resa la pronuncia divenuta definitiva. 


Sul 
punto, l'art. 18 fa 
riferimento solo al 
parere 
sul 
quantum 
("... sono rimborsate 
dalle 
amministrazioni di appartenenza nei limiti ritenuti congrui dall'avvocatura dello Stato"). 


Ma, 
a 
parte 
il 
caso 
che 
sia 
la 
stessa 
amministrazione 
interessata 
a 
chiedere 
parere 
sull'an 
debeatur 
ai 
sensi 
dell'art. 13 del 
R.D. n. 1611 del 
1933, l'Avvocatura 
ha 
sempre 
rivendicato 
la 
potestà 
di 
valutare 
la 
sussistenza 
dei 
requisiti 
che 
precedono la 
fase 
di 
esame 
di 
congruità. 
e la giurisprudenza univoca la ha seguita. 


va 
dato per pacifico che 
nel 
processo penale 
il 
dipendente 
abbia 
diritto di 
nominare 
due 
difensori 
e, in tal 
caso, ha 
diritto al 
rimborso delle 
spese 
per entrambi, tranne 
l'ipotesi 
in cui 
l'avvalimento dei 
due 
difensori 
risulti 
eccessivo o ultroneo in relazione 
all'oggetto del 
procedimento 
e 
fermo 
che 
(parere 
Co.Co. 
AL 
21709/2016) 
"qualora 
le 
prestazioni 
difensive 
dei 
due 
difensori 
dell'istante 
appaiono 
interamente 
coincidenti, 
l'importo 
del 
rimborso 
deve 
essere 
limitato alla somma erogata ad uno solo dei due". 


Relativamente 
alla 
individuazione 
dei 
criteri 
per 
effettuare 
l'esame 
di 
congruità, 
i 
pareri 
resi 
sono 
nel 
senso 
di 
condividere 
quanto 
statuito 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione 
a 
SS.uu. 
n. 
13861/2015: 
"il 
pubblico 
funzionario 
ingiustamente 
accusato 
per 
fatti 
inerenti 
a 
compiti 
e 
responsabilità 
dell'ufficio 
ha 
diritto 
al 
rimborso 
delle 
spese 
sostenute 
per 
la 
sua 
difesa, 
la 
cui 
entità 
va 
riconosciuta 
nei 
limiti 
dello 
strettamente 
necessario 
secondo 
il 
parere 
di 
congruità, 
di 
natura 
consultiva, 
dell'avvocatura 
(ndr. 
dello 
Stato) 
che, 
-nella 
prospettiva 
di 
un 
contemperamento 
tra 
le 
esigenze 
di 
salvaguardia 
della 
spesa 
pubblica 
e 
di 
protezione 
del 
dipendente 
-non 
può 
limitarsi 
ad 
una 
applicazione 
pedissequa 
delle 
tarjffe 
forensi 
applicata 
ai 
minimi 
tariffari, 
ma, 
nel 
valutare 
le 
necessità 
difensive 
del 
funzionario 
in 
relazione 
alle 
accuse 
mosse 
ed 
ai 
rischi 
del 
processo 
(penale), 
nonchè 
la 
conformità 
della 
parcella 
del 
difensore 
alla 
tariffa 
professionale 
o 
ai 
parametri 
vigenti, 
deve 
considerare 
ogni 
elemento 
nel 
rispetto 
dei 
principi 
di 
affidamento, 
ragionevolezza 
e 
tutela 
effettiva 
dei 
diritti 
riconosciuti 
dalla 
Costituzione". 


La 
regola 
generale 
è 
che 
la 
congruità 
si 
debba 
attenere 
all'applicazione 
dei 
medi 
tariffari, 
salva 
ovviamente 
la 
valutazione 
del 
caso 
specifico 
in 
relazione 
alla 
tipologia 
del 
giudizio, 
alla 
natura 
del 
suo oggetto e 
a 
tutti 
gli 
altri 
criteri 
analiticamente 
indicati 
nei 
D.M. succedutisi 
nel 
tempo. 


In ordine 
al 
D.M. applicabile, va 
considerata 
ogni 
singola 
fase 
processuale 
(fase 
preprocessuale, 
fase di primo grado, fase di secondo grado, etc.). 


numerosi 
pareri 
hanno 
riconosciuto 
rimborsabile 
anche 
le 
spese 
sostenute 
dal 
dipendente 
per l'attività 
professionale 
posta 
in essere 
da 
Ct 
di 
parte 
o similari 
consulenti 
(parere 
Co.Co. AL 34138/2017). 


Quali 
questioni particolari 
vanno segnalati i seguenti pareti del Co.Co.: 


1) parere 
del 
Co.Co. (AL 
37512/2017) che 
ha 
affermato: 
"va escluso il 
rimborso ex 
art. 
18, per 
carenza del 
presupposto della finalizzazione 
della condotta del 
dipendente 
all'espletamento 
del 
servizio 
o 
all'assolvimento 
di 
obblighi 
istituzionali 
nell'ipotesi 
di 
attività 
sindacale 
svolta da personale 
della P.S.; tale 
rimborso è, infatti, ammesso esclusivamente 
nei 
casi 
tassativamente 
descritti 
nell'art. 83 l. n. 121/1981, concernenti 
le 
condotte 
che, poste 
in essere 

RASSeGnA 
AvvOCATuRA 
DeLLO 
STATO -n. 4/2020 


da 
rappresentanti 
sindacali, 
concorrono 
alla 
gestione 
dell'attività 
organizzativa 
e 
amministrativa 
della P.a., connettendosi quindi all'espletamento del servizio"; 


2) 
parere 
Co.Co. 
(AL 
42064/2017) 
che 
ha 
affermato: 
"va 
esclusa 
la 
rimborsabilità 
delle 
spese 
legali 
relative 
a 
un 
giudizio 
svoltosi 
dinanzi 
ad 
un 
organo 
della 
giustizia 
sportiva, 
in 
quanto 
giudizio 
estraneo 
all'apparato 
giurisdizionale 
dell'ordinamento 
statale 
in 
un 
procedimento 
comunque 
non 
volto 
ad 
accertare 
una 
responsabilità 
civile, 
penale 
o 
amministrativa"; 
3) 
parere 
Co.Co. (AL 
15454/2016) che 
ha 
affermato: 
"le 
spese 
di 
assistenza legale 
ex 
art. 197 bis 
c.p.p. sono rimborsabili 
solo nelle 
ipotesi 
in cui 
il 
soggetto audito sia stato destinatario 
di 
provvedimenti 
(archiviazione 
e 
sentenza 
di 
non 
luogo 
a 
procedere) 
ad 
irrevocabilità 
c.d. relativa; tale 
assistenza legale 
costituisce 
obbligo per 
il 
soggetto escusso, il 
quale 
non 
può 
privarsi 
di 
tale 
ausilio 
professionale 
nel 
rendere 
testimonianza, 
così 
garantendo 
l'interesse 
generale sotteso alla normativa di settore"; 
4) 
parere 
del 
Co.Co. (AL 
27397/2017) che 
ha 
affermato: 
"in caso di 
accertata e 
definitiva 
insolvenza della parte 
soccombente 
tenuta al 
pagamento delle 
spese 
legali 
in favore 
del 
dipendente 
sussiste 
l'obbligo per 
la Pa 
di 
erogare 
il 
rimborso ex 
art. 18. l'erogazione 
del 
rimborso 
deve 
essere 
subordinata 
alla 
espressa 
dichiarazione 
del 
dipendente 
di 
surrogare 
l'amministrazione nei propri diritti nei confronti del debitore ex art. 1201 c.c."; 
5) 
parere 
Co.Co. (AL 
28649/2019) che 
ha 
affermato: 
"nel 
giudizio civile, a differenza 
di 
quello penale, la definizione 
di 
rito non è 
necessariamente 
ostativa al 
rimborso ex 
art. 18, 
essendo invece 
consentito all'amministrazione 
di 
valutare 
caso per 
caso; il 
rimborso è 
ammesso 
laddove, 
a 
seguito 
dell'esame 
complessivo 
dell'intera 
vicenda 
processuale, 
emerga 
l'esclusione 
di 
responsabilità del 
dipendente 
che 
non abbia voluto quella definizione 
imputabile 
esclusivamente alla controparte"; 
6) 
parere 
del 
Co.Co. 
(AL 
450/2017) 
che 
ha 
affermato: 
"È 
liquidabile 
la 
somma 
richiesta 
a 
titolo 
di 
rimborso 
ex 
art. 
18 
d.l. 
n. 
67/1997 
anche 
nell'ipotesi 
in 
cui 
le 
fatture 
non 
siano 
state 
redatte 
con 
analitica 
indicazione 
delle 
fasi 
previste 
dal 
d.M 
n. 
55/2014, 
purché 
l'importo 
rientri 
comunque 
nei 
limiti 
(ndr: 
di 
regola 
nei 
medi) 
stabiliti 
dal 
citato d.M. È 
rimborsabile 
la spesa per 
il 
rilascio di 
procura speciale 
al 
difensore 
a mezzo atto notarile 
ove 
il 
rilascio 
della stessa procura direttamente 
al 
difensore 
comporti 
maggiori 
spese 
legate 
ai 
costi 
dello 
spostamento 
dalla 
città 
del 
dipendente 
a 
quella 
del 
legale 
(nella 
specie, 
spostamento 
dalla 
Sardegna a Roma); 
7) 
parere 
(AL 
4055/2021) 
che 
ha 
affermato 
l'inapplicabilità 
dell'art. 
18 
ai 
dirigenti 
e 
dipendenti 
delle 
Autorità 
Portuali, 
in 
quanto 
non 
dipendenti 
di 
amministrazioni 
statali 
in 
ragione 
della 
natura 
di 
enti 
pubblici 
non 
economici 
di 
rilevanza 
nazionale 
a 
ordinamento 
speciale 
delle 
Autorità (art. 6 L. n. 84/1994, come modificato con il D.Lgs. n. 169/2016. 
Ringrazio 
gli 
avvocati 
Giovanni 
Greco, 
Maria 
Francesca 
Severi, 
emanuele 
Manzo 
e 
Luca 
Reali 
per il 
loro essenziale 
contributo nella 
ricerca 
dei 
pareri 
e 
nella 
formulazione 
delle 
massime 
che 
hanno consentito la 
redazione 
della 
presente 
circolare 
certamente 
di 
utilità 
per 
il lavoro professionale nella materia. 


L'AvvOCATO GeneRALe 
AGGIunTO 
Avv. Carlo Sica 



ContenzIoSoComunItarIoedInternazIonaLe
L’impatto della pandemia sul sistema 
giudiziario inglese: spunti di riflessione per 
la riforma della giustizia civile in Italia 


Nota 
a 
Corte 
Suprema 
del 
regNo 
uNito, SeNteNza 
the 
FiNaNCial 
CoNduCt 
authority 
(appellaNt) v. arCh 
iNSuraNCe 
(uK) ltd 
aNd 
otherS 
(reSpoNdeNtS), 15 geNNaio 
2021 


Antonio Grumetto* 


Based on a 
recent 
ruling by the 
UK 
Supreme 
Court, the 
article 
analyses 
how 
the 
loss 
of 
profit 
policy 
market 
works 
while 
elaborates 
some 
proposals 
for 
developments 
of Italian civil 
proceedings 
before 
courts 
that 
could simplify and 
speed up decision-making processes 
in commercial 
sectors 
affecting interests 
of 
tens 
of 
thousands 
of 
people 
thus 
promoting 
economic 
recovery 
after 
the 
COVID-19 pandemic. 


Sommario: 
1. 
l’equilibrio 
fra 
contenimento 
della 
pandemia 
e 
ripresa 
economica 
-2. 
la decisione 
della Suprema Corte 
inglese 
del 
15 gennaio 2021 -2.1. le 
clausole 
lop 
(loss 
of 
profit) 
-2.2. le 
caratteristiche 
del 
procedimento dinanzi 
alla Suprema Corte. la legittimazione 
straordinaria 
per 
la 
risoluzione 
di 
questioni 
giuridiche 
-2.2.1. 
(segue) 
la 
procedura 
accelerata -2.3 le 
questioni 
controverse 
-2.3.1. Clausole 
sul 
rischio assicurato -2.3.2. impossibilità 
di 
accedere 
ai 
locali 
dell’azienda nelle 
clausole 
ibride 
-2.3.3. Nesso di 
causalità 


- 2.3.4. trend clauses - 3. Conclusione. 
1. l’equilibrio fra contenimento della pandemia e ripresa economica. 
Non 
vi 
sono 
dubbi 
sul 
fatto 
che 
l’attuale 
emergenza 
sanitaria 
causata 
dalla 
pandemia 
da 
COVID-19 rappresenti 
la 
causa 
non solo di 
una 
grave 
crisi 
sani


(*) Avvocato dello Stato. 


Sentenza 
consultabile 
all’indirizzo 
https://www.supremecourt.uk/cases/docs/uksc-2020-0177judgment.
pdf. 



RASSEGNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 4/2020 


taria, con i 
suoi 
risvolti 
drammatici 
in termini 
di 
perdita 
di 
vite 
umane 
causata 
dal 
contagio, ma 
anche 
la 
ragione 
di 
una 
altrettanto drammatica 
crisi 
economica 
i 
cui 
effetti 
non tarderanno a 
manifestarsi 
in tutta 
la 
loro ampiezza 
tanto 
sul mercato del lavoro quanto sul tessuto produttivo del nostro Paese. 


La 
necessità 
di 
contemperare 
l’esigenza, da 
un lato, di 
contenere 
il 
diffondersi 
della 
pandemia 
e, dall’altro, di 
limitare 
al 
massimo i 
danni 
per l’economia 
nazionale, già 
così 
duramente 
provata 
da 
anni 
di 
recessione 
economica 
alle 
spalle, è 
non a 
caso alla 
base 
delle 
misure 
economiche 
prese 
dal 
Governo 
in 
favore, 
in 
particolare, 
delle 
imprese 
in 
occasione 
dei 
vari 
provvedimenti 
assunti 
dall’Esecutivo 
per 
limitare 
la 
circolazione 
delle 
persone 
sul 
territorio 
nazionale 
e di conseguenza la diffusione del virus (1). 


Se, 
però, 
la 
crisi 
sanitaria 
sembra 
vedere 
una 
luce 
in 
fondo 
al 
tunnel 
grazie 
alla 
approvazione 
dei 
primi 
vaccini 
contro 
il 
contagio 
da 
COVID-19 
e 
alla 
loro somministrazione 
alle 
categorie 
di 
persone 
più vulnerabili 
o più esposte 
al 
contagio, 
la 
crisi 
economica 
non 
solo 
è 
appena 
iniziata, 
ma 
è 
destinata 
a 
vedere 
i 
suoi 
effetti 
protrarsi 
per diversi 
anni 
a 
venire. La 
speranza 
di 
un miglioramento 
dell’economia 
italiana 
per 
le 
prossime 
generazioni 
di 
cittadini 
è 
rappresentata 
non solo e 
non tanto dal 
programma 
di 
finanziamento messo in 
atto 
dall’Unione 
europea 
attraverso 
il 
Recovery 
Plan, 
ma 
soprattutto 
dalla 
adozione 
delle 
necessarie 
riforme 
strutturali 
del 
nostro Paese 
di 
cui 
tanto si 
è 
parlato 
negli anni scorsi e che ancora tardano a venire. 


Uno dei 
settori 
per i 
quali 
è 
maggiormente 
sentita 
l’esigenza 
di 
uno rinnovamento 
è 
senza 
dubbio quello della 
giustizia 
ed in particolare 
quello della 
giustizia 
civile 
(2). La 
durata 
dei 
giudizi, in particolare 
di 
quelli 
civili, e 
la 
variabilità 
degli 
orientamenti 
giurisprudenziali 
rappresentano 
un 
costo 
troppo 
alto per l’economia 
italiana 
e 
scoraggiano gli 
operatori 
stranieri 
dall’investire 
in Italia. 


Basti 
pensare 
alla 
disciplina 
processuale 
di 
recente 
introdotta 
per le 
con


(1) In particolare, si 
vedano l’art. 25 del 
D.L. 19 maggio 2020, n. 34, convertito in legge, con modificazioni, 
dall'art. 
1, 
comma 
1, 
L. 
17 
luglio 
2020, 
n. 
77; 
nonché 
gli 
artt. 
1, 
1 
bis,1 
ter 
del 
D.L. 
28 
ottobre 
2020 n. 137 conv. in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 
1, L. 18 dicembre 
2020, n. 
176 in cui 
sono confluite 
le 
misure 
di 
sostegno alle 
imprese 
di 
cui 
al 
Decreto Ristori 
1, bis 
ter 
e 
quater. 
Uno studio ragionato di 
tali 
misure 
di 
sostegno alle 
imprese 
è 
contenuto nel 
Focus 
n. 3 del 
23 dicembre 
2020 
dell’Ufficio 
parlamentare 
di 
Bilancio 
reperibile 
all’indirizzo 
https://www.upbilancio.it/focus-tematico-
n-3-23-dicembre-2020/. 
(2) 
Già 
la 
Raccomandazione 
n. 
2 
del 
Consiglio 
europeo 
per 
il 
2019 
-riprendendo 
sostanzialmente 
quanto già 
previsto nelle 
omologhe 
Raccomandazioni 
per il 
2017 e 
2018 -invitava 
l'Italia 
a 
“ridurre 
la 
durata 
dei 
processi 
civili 
in 
tutti 
i 
gradi 
di 
giudizio, 
facendo 
rispettare 
le 
norme 
di 
disciplina 
procedurale, 
incluse 
quelle 
già prese 
in considerazione 
dal 
legislatore”. In tal 
senso si 
sono anche 
espresse, nella 
relazione 
approvata, 
le 
Commissioni 
5a 
e 
14a 
del 
Senato 
in 
occasione 
dell'esame 
delle 
Linee 
guida 
sul 
PNRR (Piano Nazionale 
di 
Ripresa 
e 
Resilienza), laddove 
sottolineano che 
secondo alcuni 
studi 
un efficiente 
sistema 
giudiziario 
consentirebbe 
di 
recuperare 
dall’1,3% 
al 
2,5% 
(da 
22 
miliardi 
a 
40 
miliardi) 
del 
PIL, 
stimolando 
gli 
imprenditori, 
anche 
esteri, 
ad 
investire 
nel 
nostro 
Paese 
in 
quanto 
la 
tempestività 
delle decisioni giudiziarie è elemento essenziale per le imprese, per gli investitori e per i consumatori. 

CONtENzIOSO 
COMUNItARIO 
ED 
INtERNAzIONALE 


troversie 
civili 
originate 
dagli 
effetti 
della 
pandemia 
da 
COVID-19. 
Mentre 
in Italia, al 
fine 
di 
alleggerire 
il 
peso che 
la 
conflittualità 
originata 
dalla 
pandemia 
inevitabilmente 
riverserà 
sul 
sistema 
giudiziario, è 
stato introdotto un 
nuovo 
caso 
di 
mediazione 
obbligatoria 
per 
alcune 
controversie 
in 
materia 
contrattuale 
(3), 
altri 
paesi 
sembrano 
avere 
una 
marcia 
in 
più 
per 
affrontare 
quella 
che 
potrebbe 
rivelarsi 
una 
nuova 
causa 
dell’emergenza 
giudiziaria 
nel 
nostro 
Paese. 


2. la decisione della Suprema Corte inglese del 15 gennaio 2021. 
La 
decisione 
di 
recente 
pubblicata 
dalla 
Suprema 
Corte 
del 
Regno Unito 
ne è un esempio. 


In 
poco 
più 
di 
9 
mesi 
dai 
primi 
provvedimenti 
assunti 
dal 
Governo 
inglese 
a 
seguito 
dello 
scoppio 
della 
pandemia 
da 
COVID-19, 
gli 
operatori 
economici 
inglesi 
hanno avuto a 
disposizione 
una 
decisione 
della 
massima 
Autorità 
giudiziaria 
del 
Regno Unito su una 
questione 
di 
enorme 
impatto per l’economia 
dei 
paesi 
che 
lo 
compongono 
e 
con 
effetti 
vincolanti 
per 
tutti 
i 
giudici 
che 
compongono il sistema giudiziario. 


L’importanza 
della 
decisione 
è 
dichiarata 
nelle 
stesse 
premesse 
della 
sentenza 
della 
Suprema 
Corte, 
in 
cui 
si 
evidenziano 
le 
differenze 
tra 
il 
sistema 
giudiziario italiano e quello anglosassone in termini di rapidità ed efficienza. 


La 
controversia 
è 
stata 
promossa 
dalla 
FCA 
(Financial 
Conduct 
autority) 
nei 
confronti 
di 
otto tra 
le 
maggiori 
compagnie 
inglesi 
di 
assicurazioni, operanti 
in 
particolare 
nel 
ramo 
dell’assicurazione 
contro 
le 
perdite 
da 
interruzione 
dell’attività di impresa. 


La 
decisione 
ha 
riguardato le 
principali 
questioni 
di 
interpretazione 
delle 
clausole 
contenute 
nelle 
polizze 
relative 
agli 
effetti 
indiretti 
causati 
dalla 
pandemia 
sulle imprese. 


2.1. le clausole lop 
(loss of profit). 
Per 
comprendere 
il 
significato 
di 
questo 
tipo 
di 
garanzia, 
occorre 
dire 
che 
quando 
un’azienda 
viene 
colpita 
da 
un 
evento 
che 
ne 
danneggia 
il 
patrimonio, 


(3) Si 
tratta 
del 
comma 
6 ter 
dell’art. 3 del 
D.L. 23 febbraio 2020, n. 6 (convertito dalla 
legge 
5 
marzo 2020, n. 13) come 
inserito dall’art. 3 comma 
1 quater 
del 
D.L. 30 aprile 
2020 n. 38 (convertito 
dalla 
legge 
25 giugno 2020, n. 70), il 
quale 
recita 
“Nelle 
controversie 
in materia di 
obbligazioni 
contrattuali, 
nelle 
quali 
il 
rispetto delle 
misure 
di 
contenimento di 
cui 
al 
presente 
decreto, o comunque 
disposte 
durante 
l'emergenza 
epidemiologica 
da 
Covid-19 
sulla 
base 
di 
disposizioni 
successive, 
può 
essere 
valutato ai 
sensi 
del 
comma 6-bis, il 
preventivo esperimento del 
procedimento di 
mediazione 
ai 
sensi 
del 
comma 1-bis 
dell'articolo 5 del 
decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, costituisce 
condizione 
di 
procedibilità della domanda”. A 
sua 
volta 
l’art. 6 bis 
del 
medesimo art. 3 del 
già 
menzionato D.L. n. 
6 del 
2020 stabilisce 
che 
“il 
rispetto delle 
misure 
di 
contenimento di 
cui 
al 
presente 
decreto è 
sempre 
valutato ai 
fini 
dell'esclusione, ai 
sensi 
e 
per 
gli 
effetti 
degli 
articoli 
1218 e 
1223 del 
codice 
civile, della 
responsabilità del 
debitore, anche 
relativamente 
all'applicazione 
di 
eventuali 
decadenze 
o penali 
connesse 
a ritardati o omessi adempimenti”. 

RASSEGNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 4/2020 


oltre 
ai 
danni 
diretti 
(la 
perdita 
totale 
o parziale 
di 
uno dei 
beni 
dell’azienda, 
per 
esempio 
a 
causa 
di 
un 
incendio) 
si 
possono 
riscontrare 
anche 
grosse 
perdite 
economiche, derivanti 
dall’impossibilità 
di 
svolgere 
la 
normale 
attività 
produttiva. 
L’interruzione 
o riduzione 
dell’esercizio comporta 
effetti 
devastanti 
per l’azienda. 


Il 
fermo dell’attività 
può comportare 
effetti 
di 
varia 
natura: 
quelli 
di 
tipo 
“transitorio”, 
che 
riguardano 
la 
riduzione 
del 
volume 
d’affari 
e 
del 
relativo 
profitto lordo, l’aumento dei 
costi 
di 
esercizio, ovvero di 
lavorazione 
dei 
beni 
prodotti 
e 
di 
acquisizione 
dei 
beni 
da 
trasformare 
o commercializzare; 
quelli 
“permanenti”, che 
comportano la 
perdita 
di 
quote 
di 
mercato; 
quelli 
“contingenti”, 
che 
si 
verificano 
in 
occasione 
di 
esborsi 
per 
multe 
o 
penali 
contrattuali. 
Si 
tratta 
di 
una 
tipologia 
di 
danno 
che 
colpisce 
non 
solo 
i 
singoli 
beni 
ma 
l’azienda 
nel 
suo complesso, e 
le 
conseguenze 
economiche 
che 
ne 
derivano 
possono assumere, rispetto al 
danno diretto, dimensioni 
molto più rilevanti 
e 
talvolta anche drammatiche per la vita dell’azienda. 


Da 
tempo, pertanto, il 
mercato delle 
assicurazioni 
ha 
pensato ad un’adeguata 
copertura 
assicurativa 
in grado di 
ripristinare 
la 
situazione 
finanziaria 
antecedente al sinistro. 

La 
prima 
tipologia 
di 
copertura, attualmente 
in uso, è 
chiamata 
clausola 
di 
indennità aggiuntiva, risale 
alla 
fine 
del 
‘700 e 
vede 
l’assicuratore 
impegnato 
a 
riconoscere 
una 
determinata 
percentuale 
aggiuntiva 
fissa 
rispetto 
al 
danno materiale. 

tale 
forma 
è 
caratterizzata 
da 
semplicità 
di 
calcolo 
e 
velocità 
nel 
processo 
di 
indennizzo, ma 
la 
percentuale 
fissa, qualora 
dovessero sopraggiungere 
sinistri 
gravi, potrebbe rivelarsi un fattore di penalizzazione per l’assicurato. 


La 
garanzia 
diaria 
è 
una 
tipologia 
di 
copertura 
che 
venne 
introdotta 
successivamente, 
e 
prevede 
il 
rimborso 
di 
un 
determinato 
indennizzo 
per 
ogni 
giorno di inattività aziendale, calcolato in base alla durata del fermo. 


La 
clausola 
Selling price, al 
posto di 
far pagare 
l’equivalente 
del 
prezzo 
di 
costo, 
obbliga 
a 
pagare 
quello 
di 
vendita 
dei 
prodotti 
finiti, 
ed 
è 
vantaggiosa 
per il 
fatto che 
il 
prezzo di 
vendita 
include 
la 
quota 
di 
tutti 
i 
costi 
aziendali 
e 
l’utile. 
Può 
essere 
applicata 
solo 
nel 
caso 
vengano 
danneggiati 
dei 
prodotti 
già 
venduti, quindi 
in caso di 
fermo dovuto a 
danni 
a 
fabbricati 
o macchinari 
non 
ha alcuna utilità. 


Ma 
la 
forma 
di 
copertura 
oggi 
più utilizzata 
è 
quella 
a 
margine 
di 
Contribuzione, 
MdC, 
nata 
nel 
1994 
per 
rimediare 
ai 
limiti 
della 
garanzia 
LOP 
(loss of profit). 

La 
formula 
loss 
of 
profit, 
detta 
LOP, 
ovvero 
di 
perdita 
di 
profitto 
lordo, 
venne 
introdotta 
in 
Inghilterra 
nel 
1899. 
Essa 
copre 
la 
perdita 
di 
profitto 
lordo, 
oltre 
alle 
spese 
supplementari 
(al 
netto 
del 
risparmio 
di 
spesa). 
La 
MdC, 
invece, 
assicura 
contro 
la 
perdita 
del 
“margine 
di 
contribuzione” 
(vale 
a 
dire 
la 
somma 
fra 
utili 
e 
costi 
fissi, 
che 
si 
ottiene 
sottraendo 
dal 
fatturato 
i 
costi 
variabili 
che 



CONtENzIOSO 
COMUNItARIO 
ED 
INtERNAzIONALE 


sono 
appunto 
quei 
costi 
che 
non 
si 
sostengono 
con 
il 
fermo 
della 
azienda) 
e 
le 
spese 
supplementari 
sostenute 
dall’assicurato 
per 
limitare 
tale 
perdita. 
I 
vantaggi 
di 
questa 
ultima 
formula 
risiedono 
nella 
velocità 
di 
indennizzo 
e 
semplicità. 


Al 
di 
là 
dei 
tecnicismi 
contabili 
delle 
varie 
formule, la 
loro diffusione 
in 
Europa è molto variegata. 


In 
Italia, 
tuttavia, 
tale 
formula 
assicurativa 
non 
è 
molto 
diffusa 
perché, 
oltre 
ad essere 
ancora 
poco conosciuta, viene 
probabilmente 
etichettata 
come 
troppo costosa 
e 
complessa. Probabilmente 
la 
durata 
dei 
giudizi 
civili 
e 
la 
variabilità 
degli 
esiti 
giudiziari 
hanno 
un 
peso 
non 
secondario 
nell’ostacolare 
l’espansione 
di 
questo 
tipo 
di 
polizza 
tra 
gli 
imprenditori 
italiani: 
l’idea 
di 
dover 
attendere 
anni 
prima 
di 
poter 
ottenere 
l’indennizzo 
per 
le 
perdite 
subite, 
magari 
dopo costose 
e 
defatiganti 
battaglie 
giudiziarie, può scoraggiare 
i 
potenziali 
acquirenti dal ricorrere a questa copertura. 


Proprio applicando tali 
istituti 
e 
in conformità 
allo spirito degli 
stessi, invece, 
il 
sistema 
giudiziario 
inglese 
ha 
risposto 
allo 
sconvolgimento 
causato 
dalla 
pandemia 
da 
COVID-19 con una 
decisione 
rapida, vincolante 
e 
di 
facile 
implementazione. 

2.2. le 
caratteristiche 
del 
procedimento dinanzi 
alla Suprema Corte. la legittimazione 
straordinaria per la risoluzione di questioni giuridiche. 
Con la 
sentenza 
del 
15 gennaio scorso la 
Suprema 
Corte 
ha 
esaminato un 
significativo campione 
di 
polizze 
proposte 
dalle 
compagnie 
di 
assicurazioni 
che 
hanno partecipato al 
giudizio e 
l’esito del 
giudizio, reso in tempi 
record, 
è 
suscettibile 
di 
influenzare 
l’applicazione 
tra 
le 
parti 
contraenti 
di 
qualcosa 
come 
700 
tipi 
di 
polizza 
in 
aggiunta 
a 
quelle 
espressamente 
considerate, 
offerti 
sul 
mercato 
da 
più 
di 
60 
compagnie 
di 
assicurazioni 
e 
di 
riguardare 
circa 


370.000 soggetti assicurati. 
Non c’è 
bisogno di 
ulteriori 
commenti 
per capire 
l’importanza 
di 
tale 
decisione 
per il 
mercato anglosassone 
delle 
imprese, specie 
in un momento così 
delicato 
come 
quello 
della 
conclusione 
dei 
negoziati 
sulla 
Brexit. 
Gli 
operatori 
del 
settore, da 
un lato imprenditori 
assicurati 
e 
dall’altro imprese 
di 
assicurazione, 
hanno 
ora 
un 
chiaro 
e 
definitivo 
indirizzo 
giurisprudenziale 
da 
applicare 
per 
quantificare 
le 
perdite 
subite 
dalle 
attività 
imprenditoriali 
a 
causa 
delle 
misure 
adottate 
dai 
Governi 
inglese 
e 
di 
altri 
Stati 
per i 
quali 
la 
decisione 
della 
Suprema 
Corte 
inglese 
è 
vincolante. Si 
tratterà 
ora 
solo di 
applicare 
i 
paletti 
fissati 
dalla 
decisione 
ai 
vari 
casi 
di 
perdite 
subite 
per l’interruzione 
dell’attività 
economica, 
attraverso 
un 
giudizio 
di 
fatto 
di 
cui 
pure 
la 
decisione 
fornisce 
i 
parametri. 
E 
c’è 
da 
aspettarsi 
che 
nessuno, 
né 
gli 
assicurati 
né 
gli 
assicuratori, 
penserà 
di 
ridiscutere 
i 
termini 
della 
questione 
dinanzi 
ad un giudice, affrontando 
i 
notevoli 
costi 
imposti 
dal 
sistema 
giudiziario anglosassone 
e 
andando 
incontro 
all’effetto 
vincolante 
delle 
decisioni 
della 
Suprema 
Corte 
proprie 
dei 
sistemi 
di 
common law. In questa 
situazione, le 
imprese 
possono contare 
su 



RASSEGNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 4/2020 


un sistema 
di 
regole 
chiaro e 
vincolante 
per avanzare 
le 
loro richieste 
di 
indennizzo 
alle 
assicurazioni, 
recuperando 
così, 
almeno 
in 
parte, 
la 
liquidità 
persa 
a 
causa 
delle 
forzate 
interruzioni 
dell’attività 
economica 
imposte 
dai 
provvedimenti restrittivi adottati dal Governo. 


Certo, 
alcune 
delle 
caratteristiche 
del 
sistema 
anglosassone 
non 
sono 
esportabili nei paesi di 
civil law 
come il nostro. 


A 
cominciare 
dall’effetto 
vincolante 
delle 
decisioni 
della 
Suprema 
Corte, 
la 
cui 
applicazione 
in Italia 
trova 
un ostacolo nel 
principio della 
soggezione 
del 
giudice 
soltanto alla 
legge 
(art. 101 Cost.) e 
nella 
c.d. primazia 
del 
diritto 
euro-unitario con il 
connesso obbligo di 
sottoporre 
alla 
Corte 
di 
giustizia 
le 
questioni di interpretazione della relativa disciplina (art. 267 tFUE). 


Ma 
altre 
sembrano 
mutuabili 
senza 
particolare 
sforzo 
ed 
in 
parte 
già 
operanti 
nel nostro ordinamento processuale. 


Ad esempio, ciò che 
ha 
reso possibile 
concentrare 
le 
questioni 
interpretative 
delle 
clausole 
assicurative 
LOP 
in un unico giudizio è 
stata 
la 
legittimazione 
della 
FCA 
a 
sottoporre 
ai 
giudici 
inglesi 
un test 
case 
senza 
bisogno 
dell’esistenza 
di 
una 
specifica 
disputa 
tra 
le 
parti 
e 
quando 
si 
tratta 
di 
questioni 
di 
particolare 
importanza 
per le 
quali 
è 
richiesto con urgenza 
un indirizzo autorevole 
e rilevante. 


Per 
quanto 
sia 
una 
Autorità 
di 
regolazione 
e 
non 
un 
organismo 
rappresentativo 
degli 
operatori 
del 
settore, 
la 
FCA 
è 
legittimata 
a 
promuovere 
tali 
giudizi 
nell’interesse 
dei 
consumatori. Si 
tratta 
di 
giudizi 
per i 
quali 
le 
parti 
devono accordarsi 
sulle 
questioni 
da 
proporre 
al 
giudice 
attraverso quello che 
si 
chiama 
Accordo quadro e 
deve 
trattarsi 
di 
questioni 
di 
generale 
importanza 
per 
le 
quali 
il 
modo 
di 
sottoporle 
ai 
giudici 
deve 
essere 
previamente 
concordato 
tra 
le 
parti. 
I 
fatti 
controversi 
devono 
poi 
essere 
pacifici: 
nel 
caso 
di 
specie 
l’Accordo 
quadro 
conclusosi 
tra 
le 
parti 
è 
intervenuto 
sia 
sull’ambito 
delle 
misure 
adottate 
dai 
vari 
Governi 
del 
Regno Unito per fronteggiare 
la 
crisi 
sanitaria 
sia 
sui 
testi 
delle 
polizze 
da 
sottoporre 
al 
giudizio. Inoltre, è 
previsto che 
il giudizio, di regola, non dia luogo a condanna alle spese. 


Perché, dunque, non attribuire 
una 
tale 
legittimazione 
anche 
all’Autorità 
italiana 
per 
la 
concorrenza 
ed 
il 
mercato? 
(4). 
Si 
tratterebbe 
perciò 
di 
introdurre 
un 
procedimento 
finalizzato 
ad 
ottenere 
rapidamente 
dalla 
Corte 
di 
cassazione 
una 
advisory 
opinion 
su questioni 
di 
particolare 
rilevanza 
per l’economia 
nazionale 
e 
con l’efficacia 
data 
dalla 
autorevolezza 
della 
pronuncia. Sarebbe 
di 
certo una 
modalità 
di 
risoluzione 
anticipata 
di 
questioni 
giuridiche 
di 
partico


(4) Il 
Governo italiano ha 
presentato il 
disegno di 
legge 
delega 
sulla 
riforma 
della 
giustizia 
(Atto 
Senato N. 1662 http://www.senato.it/service/pdF/pdFServer/Bgt/01141527.pdf 
), attualmente 
fermo 
presso 
la 
seconda 
Commissione 
(Giustizia) 
per 
l’esame 
in 
sede 
referente. 
Il 
disegno 
di 
legge 
comprende 
disposizioni 
sulla 
mediazione, 
sul 
giudizio 
di 
primo 
grado 
e 
di 
appello 
nonché 
sul 
giudizio 
di 
esecuzione, 
ma 
non 
prevede 
casi 
di 
legittimazione 
straordinaria 
di 
Autorità 
indipendenti 
a 
proporre 
test 
cause 
su 
questioni di diritto. 

CONtENzIOSO 
COMUNItARIO 
ED 
INtERNAzIONALE 


lare 
importanza, 
potenzialmente 
rilevanti 
per 
interi 
settori 
economici 
e 
limitata 
alle 
questioni 
di 
diritto 
e 
quindi 
non 
appesantita 
dalla 
necessità 
di 
risolvere 
aspetti 
di 
fatto o inerenti 
al 
quantum 
tipici 
delle 
controversie 
promosse 
dal 
titolare 
del diritto. 


Già 
ci 
sono 
casi 
di 
Autorità 
di 
regolazione 
legittimate 
ad 
agire 
in 
giudizio 
nell’interesse 
dell’applicazione 
obiettiva 
del 
diritto 
e 
come 
espressione 
del 
potere 
di 
vigilanza 
e/o 
regolazione 
del 
settore. 
Basti 
pensare 
che 
nell’ambito 
delle 
attuali 
prerogative 
attribuite 
dalla 
legge 
all’AGCM 
vi 
è 
anche 
la 
legittimazione 
ad 
agire 
ex 
art. 
21-bis 
L. 
n. 
287/90, 
con 
particolare 
riferimento 
all’impugnazione 
di 
regolamenti, 
atti 
amministrativi 
generali 
e 
provvedimenti 
emanati 
da 
qualsiasi 
amministrazione 
(comprese 
altre 
autorità 
indipendenti), 
laddove 
questi 
risultino 
contrari 
alle 
disposizioni 
della 
normativa 
antitrust. 
O 
alla 
possibilità 
per 
l’ANAC 
di 
impugnare 
i 
bandi, 
gli 
altri 
atti 
generali 
e 
i 
provvedimenti 
relativi 
a 
contratti 
di 
rilevante 
impatto, 
emessi 
da 
qualsiasi 
stazione 
appaltante, 
qualora 
ritenga 
che 
essi 
violino 
le 
norme 
in 
materia 
di 
contratti 
pubblici 
relativi 
a 
lavori, 
servizi 
e 
forniture 
(art. 
211 
del 
Codice 
appalti) 
(5). 
Ma 
mentre 
per 
le 
controversie 
dinanzi 
al 
giudice 
amministrativo 
la 
legittimazione 
di 
soggetti 
metaindividuali 
a 
tutela 
di 
un 
interesse 
collettivo 
è 
un 
fenomeno 
frequente 
in 
quanto 
legato 
alla 
natura 
spesso 
indivisibile 
e 
generale 
del 
bene 
giuridico 
oggetto 
del 
provvedimento 
amministrativo, 
nel 
campo 
della 
giurisdizione 
ordinaria 
la 
tutela 
degli 
interessi 
collettivi 
si 
presenta 
spesso 
come 
una 
somma 
della 
tutela 
degli 
interessi 
individuali 
lesi 
da 
comportamenti 
altrui 
(6). 


Perché 
possa 
ammettersi 
una 
legittimazione 
a 
proporre 
azioni 
finalizzate, 
non a 
prevenire 
o riparare 
una 
lesione, ma 
ad acquisire 
una 
interpretazione 
di 
atti 
giuridici, è, perciò, necessaria 
una 
previsione 
normativa 
che 
riconosca 
ad 
un 
soggetto 
giuridico 
il 
potere 
di 
agire 
in 
giudizio 
nell’interesse 
del 
diritto 
obiettivo e 
non a 
tutela 
di 
una 
situazione 
soggettiva, ancorché 
collettiva, o di 
una 
somma 
di 
interessi 
individuali. E 
questo soggetto non può che 
essere 
un 
soggetto pubblico perché 
non si 
tratta 
di 
proteggere 
interessi 
collettivi, omo


(5) Anche 
le 
associazioni 
di 
categoria 
sono titolari 
di 
una 
legittimazione 
ad agire 
in giudizio per 
ottenere 
l’annullamento di 
atti 
amministrativi 
illegittimi: 
le 
associazioni 
individuate 
in base 
all'articolo 
13 
della 
legge 
n. 
349 
del 
1986 
in 
materia 
di 
ambiente 
possono, 
non 
solo 
intervenire 
nei 
giudizi 
per 
danno 
ambientale 
ma 
anche 
ricorrere 
in sede 
di 
giurisdizione 
amministrativa 
per l'annullamento di 
atti 
illegittimi. 
L'art. 4, co. 2, L. 11 novembre 
2011, n. 180 riconosce 
alle 
associazioni 
di 
imprenditori 
maggiormente 
rappresentative 
nei 
diversi 
livelli 
territoriali 
la 
legittimazione 
a 
impugnare 
gli 
atti 
amministrativi 
lesivi 
degli 
interessi 
diffusi. Ma 
in questi 
casi 
si 
tratta 
di 
legittimazione 
ad agire 
a 
tutela 
di 
un interesse 
collettivo 
che 
è 
proprio 
della 
associazione 
e 
non 
di 
un 
interesse 
generale 
all’applicazione 
del 
diritto 
obiettivo (Cons. Stato Ad. Plen., 20 febbraio 2020, n. 6). 
(6) Come 
è 
noto la 
legge 
12 aprile 
2019 n. 31 ha 
modificato la 
disciplina 
della 
azione 
di 
classe 
contenuta 
negli 
artt. 140 e 
140 bis 
del 
codice 
del 
consumo, introducendo nel 
Codice 
civile 
un intero titolo 
VII bis 
del 
libro IV 
interamente 
dedicato ad una 
azione 
di 
classe 
prevista 
non più solo a 
tutela 
dei 
consumatori 
ma 
di 
qualsiasi 
“diritto individuale 
omogenei”. Si 
tratta, tuttavia, sempre 
di 
una 
azione 
generale, 
a 
carattere 
inibitorio o risarcitorio, a 
tutela 
di 
interessi 
individuali 
omogenei 
e 
non di 
una 
azione 
finalizzata ad ottenere la risoluzione di questioni giuridiche astratte. 

RASSEGNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 4/2020 


genei 
o addirittura 
diffusi, quanto quello di 
assicurare 
la 
corretta 
applicazione 
del diritto in ipotesi astratte. 


È 
ovvio 
che 
la 
decisione 
della 
Corte 
di 
cassazione 
non 
potrebbe 
vincolare 
gli 
altri 
giudici 
e 
ciò 
in 
virtù 
dell’art. 
101 
della 
Costituzione 
e 
della 
soggezione 
del 
giudice 
soltanto alla 
legge. tuttavia, il 
sistema 
già 
prevede 
ipotesi 
di 
efficacia 
rafforzata 
di 
decisioni 
assunte 
da 
organi 
di 
ultima 
istanza 
della 
giurisdizione 
ordinaria e di quella amministrativa. 


L’art. 64 del 
t.U. n. 165 del 
2001 prevede 
che 
quando il 
giudice 
non intenda 
conformarsi 
ad una 
decisione 
della 
Corte 
di 
cassazione 
già 
intervenuta 
su una 
questione 
rilevante 
per il 
giudizio, è 
tenuto ad attivare 
il 
meccanismo 
previsto 
dalla 
medesima 
disposizione 
per 
giungere, 
eventualmente, 
ad 
una 
nuova 
decisione 
della 
Corte 
di 
cassazione. L’art. 99 del 
codice 
del 
processo 
amministrativo prevede 
che 
la 
sezione 
del 
Consiglio di 
Stato cui 
è 
assegnato 
il 
ricorso se 
ritiene 
di 
non condividere 
un principio di 
diritto enunciato dal-
l'Adunanza 
plenaria, rimette 
a 
quest'ultima, con ordinanza 
motivata, la 
decisione 
del 
ricorso. 
Ovviamente, 
tale 
meccanismo 
non 
può 
pregiudicare 
il 
funzionamento 
del 
sistema 
del 
rinvio 
pregiudiziale 
di 
cui 
all’art. 
267 
del 
tFUE 


(7) e 
tuttavia, quando si 
sia 
fuori 
da 
questioni 
di 
interpretazione 
ed applicazione 
del 
diritto 
eurounitario, 
un 
sistema 
di 
efficacia 
rafforzata 
del 
precedente, 
che 
non 
precluda 
una 
rimeditazione 
della 
questione 
purché 
motivata 
da 
valide 
ragioni, mi sembrerebbe compatibile con l’art. 101 della Costituzione. 
2.2.1. (segue) la procedura accelerata. 
La 
decisione 
del 
15 gennaio 2021 della 
Suprema 
Corte 
ha, inoltre, concluso 
un giudizio durato appena 
7 mesi 
(l’Accordo quadro tra 
le 
parti 
è 
del 
1 
giugno 2020 e 
il 
processo è 
iniziato il 
9 giugno 2020) ed è 
stata 
emessa 
a 
seguito 
di 
un ricorso per 
saltum 
(in inglese 
leapfrog): 
dopo una 
prima 
decisione 
della 
corte 
di 
primo grado (in composizione 
non monocratica) formata 
da 
due 
giudici 
inseriti 
nell’elenco dei 
giudici 
specializzati 
in materia 
di 
servizi 
finanziari 
(Financial 
list), di 
cui 
uno della 
Court 
of Appeal 
e 
uno della 
High Court, 
la 
causa 
è 
approdata 
subito presso la 
Suprema 
Corte. Quest’ultima 
ha 
tenuto 
4 udienze 
(tra 
il 
16 novembre 
ed il 
20 novembre 
2020) e 
ha 
depositato la 
sentenza 
in data 15 gennaio 2021. 


Sia 
la 
sentenza 
di 
primo 
grado 
che 
quella 
della 
Suprema 
Corte 
affrontano 
in 
maniera 
approfondita 
e 
con 
costante 
riferimento 
ai 
precedenti 
giurispruden


(7) 
Corte 
giustizia 
Unione 
Europea 
Grande 
Sez., 
5 
aprile 
2016, 
n. 
689/13: 
“l'art. 
267 
tFue 
deve 
essere 
interpretato 
nel 
senso 
che 
osta 
a 
una 
disposizione 
di 
diritto 
nazionale 
nei 
limiti 
in 
cui 
quest'ultima 
sia 
interpretata 
nel 
senso 
che, 
relativamente 
a 
una 
questione 
vertente 
sull'interpretazione 
o 
sulla 
validità 
del 
diritto 
dell'unione, 
una 
sezione 
di 
un 
organo 
giurisdizionale 
di 
ultima 
istanza, 
qualora 
non 
condivida 
l'orientamento definito da una decisione 
dell'adunanza plenaria di 
tale 
organo, è 
tenuta a rinviare 
la 
questione 
all'adunanza plenaria e 
non può pertanto adire 
la Corte 
ai 
fini 
di 
una pronuncia in via pregiudiziale”. 

CONtENzIOSO 
COMUNItARIO 
ED 
INtERNAzIONALE 


ziali 
le 
varie 
questioni 
sottoposte 
dalle 
parti. È 
sufficiente 
menzionare 
che 
la 
sentenza 
di 
primo grado consta 
di 
580 paragrafi 
mentre 
quella 
della 
Suprema 
Corte di 326 paragrafi. 


2.3 le questioni controverse. 
Le questioni trattate erano poi di estrema importanza e delicatezza. 


Ne 
accenniamo 
qualcuna, 
lasciando 
ai 
più 
curiosi 
il 
piacere 
(e, 
in 
qualche 
caso, la 
difficoltà 
connessa 
alla 
astrattezza 
delle 
problematiche 
interpretative) 
di leggere la decisione della Suprema Corte. 


2.3.1. Clausole sul rischio assicurato. 
La 
Corte 
Suprema 
ha 
preso 
in 
considerazione 
la 
formulazione 
della 
clausola 
in una 
polizza 
RSA 
("RSA 
3") come 
esemplare. Questa 
clausola 
(come 
molte 
altre 
formulazioni) 
copre 
le 
perdite 
da 
interruzione 
dell'attività 
derivanti 
da 
qualsiasi 
evento 
di 
una 
“malattia 
notificabile” 
(8) 
entro 
un 
raggio 
geografico 
specificato (tipicamente 25 miglia) dai locali assicurati. 

Il 
Collegio di 
primo grado ha 
interpretato la 
clausola 
nel 
senso che 
essa 
assicura 
copertura 
per 
le 
perdite 
per 
interruzione 
dell'attività 
derivanti 
da 
COVID-19 (che 
è 
stata 
resa 
una 
malattia 
soggetta 
a 
obbligo di 
denuncia 
il 
5 
marzo 
2020) 
a 
condizione 
che 
l’assicurato 
dimostri 
l’esistenza 
di 
un 
caso 
della 
malattia entro il raggio geografico (di regola 25 miglia). 


La Suprema Corte ha dato, invece, ragione agli assicuratori che: 


(i) 
ogni 
caso di 
malattia 
subita 
da 
una 
persona 
a 
causa 
di 
COVID-19 è 
un 
"evento" separato ai fini della polizza; 
(ii) 
la 
clausola 
copre 
solo 
le 
perdite 
per 
interruzione 
dell'attività 
derivanti 
da casi di malattia che si verificano nel raggio. 
2.3.2. impossibilità di accedere ai locali dell’azienda nelle clausole ibride. 
Le 
clausole 
di 
impossibilità 
all'accesso 
e 
le 
clausole 
ibride 
(9) 
specificano 


(8) 
In 
Inghilterra, 
il 
5 
marzo 
2020 
tramite 
una 
modifica 
al 
regolamento 
sulla 
protezione 
della 
salute 
(notifica) del 
2010 (SI 2010/659) ("il 
regolamento del 
2010") il 
COVID-19 è 
stato reso una 
"malattia 
soggetta 
a 
obbligo di 
notifica" 
e 
la 
SARS-CoV-2 un "agente 
causale". Ai 
sensi 
dei 
regolamenti 
del 
2010, 
un 
medico 
generico 
abilitato 
ha 
il 
dovere 
di 
comunicare 
all'autorità 
locale 
se 
ha 
ragionevoli 
motivi 
per sospettare 
che 
un paziente 
abbia 
una 
"malattia 
soggetta 
a 
notifica", definita 
come 
una 
malattia 
elencata 
nell'Allegato 1, o un'infezione 
che 
presenta 
o potrebbe 
presentare 
un danno significativo alla 
salute 
umana. L'autorità 
locale 
deve 
riferire 
qualsiasi 
notifica 
di 
questo tipo che 
riceve, tra 
gli 
altri, al 
PHE 
(public 
healt 
england) 
che 
è 
una 
agenzia 
del 
Dipartimento 
della 
Salute 
e 
della 
Assistenza 
sociale. 
L'Allegato 
1 ai 
Regolamenti 
del 
2010 conteneva 
un elenco di 
31 malattie 
comunicabili 
prima 
dell'aggiunta 
di 
COVID-19. Il 
6 marzo 2020, modifiche 
simili 
sono state 
apportate 
ai 
regolamenti 
sulla 
protezione 
della 
salute 
in Galles 
Regolamento 2010 (SI 2010/1546). Il 
COVID-19 era 
stato reso una 
malattia 
soggetta 
a 
notifica 
in 
Scozia 
il 
22 
febbraio 
2020 
e 
in 
Irlanda 
del 
Nord 
il 
29 
febbraio 
2020. 
L'11 
marzo 
2020, 
l'OMS ha dichiarato la infezione da COVID-19 una pandemia. 
(9) Esempi 
di 
queste 
clausole 
sono riportati 
al 
§ 96 della 
decisione 
(ad es: 
“loss 
… 
resulting from 
… 
prevention of 
access 
to the 
premises 
due 
to the 
actions 
or 
advice 
of a government 
or 
local 
authority 

RASSEGNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 4/2020 


una 
serie 
di 
requisiti 
che 
devono 
essere 
tutti 
soddisfatti 
prima 
che 
l'assicuratore 
sia tenuto a pagare. 

Alcune 
clausole 
si 
applicano 
solo 
quando 
ci 
sono 
"restrizioni 
imposte" 
da un'autorità pubblica in seguito al verificarsi di una malattia notificabile. 

Il 
primo collegio aveva 
ritenuto che 
questo requisito è 
rappresentato solo 
da una misura espressa in termini obbligatori che abbia forza di legge. 

La 
Corte 
Suprema 
ha 
respinto 
questa 
interpretazione 
come 
troppo 
ristretta 
e 
ha 
ritenuto che 
un'istruzione 
data 
da 
un'autorità 
pubblica 
(come 
il 
famoso 
“stay 
at 
home”) 
può 
equivalere 
a 
una 
"restrizione 
imposta" 
se, 
in 
base 
al 
modo 
e 
ai 
termini 
con cui 
è 
formulata, è 
da 
ritenere 
o è 
ragionevole 
ritenere 
(tenuto 
conto delle 
conoscenze 
di 
una 
persona 
media) che 
la 
sua 
osservanza 
sia 
obbligatoria 
indipendentemente dall’esercizio di poteri espressamente previsti. 


La 
Corte 
Suprema 
non 
si 
pronuncia 
sul 
se 
singole 
misure 
soddisfino 
questo 
test, ma 
indica 
che 
l'argomento è 
più forte 
in relazione 
ad alcune 
misure 
generali, come 
certe 
istruzioni 
in termini 
obbligatori 
del 
Primo Ministro relative 
alla 
chiusura 
dei 
locali 
commerciali 
del 
21 e 
del 
26 marzo 2020, e 
meno 
in relazione 
ad esortazioni 
o consigli 
relativi 
al 
distanziamento sociale 
e 
allo 
“stay at home”. 

In qualche 
caso, poi, le 
clausole 
prevedevano la 
copertura 
solo quando la 
perdita 
di 
interruzione 
dell'attività 
fosse 
causata 
dall'“impossibilità 
di 
utilizzare" 
i 
locali 
assicurati 
da 
parte 
dell'assicurato. Il 
primo collegio aveva 
sostenuto 
che 
questo 
significasse 
incapacità 
completa 
e 
non 
solo 
parziale 
di 
utilizzare 
i 
locali. 
La 
Corte 
Suprema 
ritiene, 
invece, 
che 
questo 
requisito 
possa 
essere 
soddisfatto sia 
quando un assicurato non è 
in grado di 
utilizzare 
i 
locali 
per 
una 
parte 
soltanto 
della 
sua 
attività 
commerciale 
(10) 
sia 
quando 
la 
sua 
intera 
attività 
commerciale 
è 
impedita 
dalla 
chiusura 
o dalle 
restrizioni 
imposte 
soltanto su alcuni 
locali 
della 
sua 
azienda 
perché 
gli 
altri 
locali 
dell’azienda, 
ancorché 
agibili, non sono idonei 
a 
svolgere 
l’attività 
commerciale 
in modo 
autonomo. In altri 
termini 
ciò che 
conta 
è 
l’incidenza 
sulla 
attività 
commerciale 
e non l’incidenza sui locali in sé. 


2.3.3. Nesso di causalità. 
La 
questione 
del 
nesso di 
causalità 
è 
una 
delle 
più interessanti 
della 
decisione 
per le 
sue 
somiglianze 
con le 
discussioni 
dottrinali 
che 
si 
registrano 
sul tema della causalità in Italia. 


In sintesi, si può dire che la Suprema Corte ritiene: 


(i) 
come 
causa 
delle 
perdite 
finanziarie 
dell’assicurato 
ogni 
episodio 
di 
due 
to an emergency 
which is 
likely 
to endanger 
life 
or 
property” 
oppure 
“loss 
as 
a result 
of 
closure 
or 
restrictions 
placed on the 
premises 
as 
a result 
of 
a notifiable 
human disease 
manifesting itself 
at 
the 
premises or within a radius of 25 miles of the premises”). 


(10) Si 
pensi 
alla 
attività 
di 
ristorazione, che 
può essere 
impedita 
dalle 
restrizioni 
imposte 
al 
servizio 
al tavolo mentre può essere svolta con il servizio da asporto. 

CONtENzIOSO 
COMUNItARIO 
ED 
INtERNAzIONALE 


COVID-19 
verificatosi 
all’interno 
dell’area 
geografica 
indicata 
dalla 
clausola 
della polizza (di regola 25 miglia dai locali aziendali); 


(ii) 
nell’interpretare 
la 
nozione 
di 
pericolo 
assicurato 
e 
le 
clausole 
che 
escludono alcuni 
rischi, non rilevano cause 
sopravvenute 
rispetto a 
tale 
causa 
“prossima” che non siano anomali o abnormi (11); 
(iii) 
ogni 
caso 
di 
COVID-19 
verificatosi 
nell’area 
geografica 
indicata 
dalla 
polizza 
come 
pericolo 
assicurato 
anche 
se 
le 
misure 
del 
Governo 
che 
hanno determinato la 
chiusura 
dei 
locali 
aziendali 
sono state 
prese 
in considerazione 
del 
fenomeno 
della 
pandemia 
nel 
suo 
complesso; 
in 
altri 
termini, 
cause 
concorrenti 
(vale 
a 
dire, altri 
casi 
di 
COVID-19 verificatisi 
all’esterno 
dell’area 
geografica 
indicata 
dalla 
polizza) 
pur 
avendo 
concorso 
a 
determinare 
le 
chiusure 
dei 
locali 
aziendali, costituendo un rischio non escluso dalla 
polizza, 
nemmeno escludono la garanzia; 
(iv) 
non 
applicabile 
il 
giudizio 
controfattuale 
basato 
sulla 
dottrina 
del 
“but 
for” 
test; 
le 
compagnie 
di 
assicurazione 
avevano 
cercato 
di 
sostenere 
che 
il 
nesso 
di 
causalità 
era 
escluso 
dal 
ragionamento 
controfattuale, 
dato 
che 
le 
misure 
restrittive 
sarebbero state 
prese 
ugualmente 
anche 
a 
prescindere 
(but 
for) 
dal 
caso di 
COVID-19 che 
fa 
scattare 
la 
garanzia. La 
Suprema 
Corte 
ha 
respinto 
la 
tesi 
delle 
assicurazioni 
ricordando che 
un limite 
del 
giudizio contro-
fattuale 
è 
dato 
dalla 
ipotesi 
delle 
cause 
indipendenti 
tra 
di 
loro 
che 
sono 
ciascuna 
in 
grado 
di 
determinare 
l’evento: 
in 
questi 
casi 
l’applicazione 
del 
giudizio 
controfattuale 
porterebbe 
a 
negare 
l’efficacia 
causale 
di 
ognuna 
delle 
cause (12); 
(v) 
non applicabile 
il 
criterio, suggerito dalle 
assicurazioni, secondo cui 
il 
rapporto 
causale 
sarebbe 
escluso 
qualora 
i 
rischi 
non 
assicurati 
(precisamente 
i 
casi 
di 
COVID-19 verificatisi 
fuori 
dell’area 
geografica 
richiamata 
nella 
polizza) 
avessero avuto una 
incidenza 
maggiore 
rispetto a 
quelli 
verificatisi 
nel-
l’area geografica (weighing approach) (13). 
(11) 
Viene 
richiamata 
la 
controversia 
leyland 
Shipping 
ltd 
contro 
Norwich 
union 
Fire 
insurance 
Society 
ltd 
[1918] AC 350. Una 
nave 
silurata 
da 
un sottomarino tedesco fu rimorchiata 
fino al 
porto 
più vicino, ma 
dovette 
ancorare 
nel 
porto esterno esposto al 
vento e 
alle 
onde. Dopo tre 
giorni 
la 
nave 
affondò. La 
nave 
era 
assicurata 
contro i 
pericoli 
del 
mare, ma 
c'era 
un'eccezione 
nella 
polizza 
per "tutte 
le 
conseguenze 
delle 
ostilità 
o 
delle 
operazioni 
belliche". 
La 
House 
of 
Lords 
ha 
confermato 
la 
decisione 
dei 
tribunali 
dei 
gradi 
precedenti 
secondo cui 
la 
perdita 
era 
stata 
causata 
dal 
siluro, che 
era 
una 
conseguenza 
delle ostilità, e quindi non era coperta dall'assicurazione. 
(12) Viene 
citato il 
caso dei 
due 
fuochi 
appiccati 
separatamente, ciascuno dei 
quali 
in grado di 
bruciare 
la 
casa 
o 
delle 
due 
pallottole 
sparate 
separatamente 
che 
colpiscono 
entrambe 
mortalmente 
l’escursionista: 
in entrambi 
i 
casi 
il 
giudizio controfattuale 
porterebbe 
ad escludere 
il 
nesso causale 
con 
riferimento ad ognuna 
delle 
cause, dato che 
l’evento si 
sarebbe 
verificato lo stesso a 
prescindere 
da 
ciascuna 
di esse considerata isolatamente. 
(13) La 
Suprema 
Corte 
osserva 
al 
riguardo che 
un tale 
approccio sarebbe 
praticabile 
solo se 
fosse 
possibile 
stabilire 
la 
percentuale 
di 
efficacia 
causale 
dei 
casi 
di 
COVID-19 
suddividendola 
fra 
quelli 
verificatisi 
all’interno e 
quelli 
verificatisi 
all’esterno dell’area 
geografica 
considerata 
da 
ciascuna 
polizza. 

RASSEGNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 4/2020 


2.3.4. trend clauses. 
Sono le 
clausole 
inserite 
nelle 
polizze 
che 
stabiliscono i 
criteri 
per l’indennizzo. 
Il 
metodo 
standard 
utilizzato 
nell'assicurazione 
contro 
l'interruzione 
dell'attività 
per quantificare 
la 
somma 
pagabile 
ai 
sensi 
della 
polizza 
prende 
un periodo commerciale 
precedente 
a 
fini 
comparativi. Nella 
maggior parte 
delle 
formulazioni 
questo è 
l'anno civile 
che 
precede 
l'operazione 
del 
danno 
assicurato. Dal 
fatturato dell'azienda 
in questo periodo si 
ricavano "fatturato 
standard" 
o "entrate 
standard". Questa 
cifra 
viene 
poi 
confrontata 
con il 
fatturato 
o 
le 
entrate 
effettive 
durante 
il 
periodo 
d'indennizzo. 
I 
risultati 
dell'attività 
nel 
periodo 
di 
confronto 
sono 
anche 
utilizzati 
per 
ricavare 
una 
percentuale 
del 
fatturato che 
rappresenta 
l'utile 
lordo. Il 
tasso di 
profitto lordo viene 
poi 
applicato 
alla 
riduzione 
del 
fatturato per calcolare 
la 
perdita 
recuperabile. L’indennizzo 
comprende 
anche 
l'aumento del 
costo del 
lavoro durante 
il 
periodo 
di indennizzo. 


Secondo 
la 
Suprema 
Corte 
questo 
meccanismo 
di 
indennizzo 
deve 
essere 
applicato 
tenendo 
conto 
soltanto 
delle 
circostanze, 
diverse 
da 
quelle 
legate 
alla 
pandemia 
da 
COVID-19, che 
avrebbero riguardato l’attività 
imprenditoriale 
assicurata 
se 
la 
pandemia 
non 
si 
fosse 
verificata. 
Ciò 
al 
fine 
di 
evitare 
che 
il 
meccanismo applicato per calcolare 
l’indennizzo finisca 
per vanificare 
l’interpretazione 
data 
dalla 
Suprema 
Corte 
alla 
definizione 
del 
rischio assicurato, 
in relazione 
al 
quale, come 
si 
è 
visto, sono state 
giudicate 
irrilevanti 
le 
cause 
legate 
alla 
pandemia 
concorrenti 
rispetto al 
rischio assicurato (i 
casi 
di 
COVID-19 verificatisi fuori dall’area geografica indicata nella polizza). 


3. Conclusioni. 
Come 
si 
può 
vedere 
dal 
panorama 
delle 
questioni 
affrontate 
dalla 
Suprema 
Corte 
inglese, si 
è 
trattato di 
affrontare 
anche 
temi 
generali 
da 
tempo 
conosciuti 
anche 
nel 
nostro 
ordinamento, 
quali 
il 
nesso 
di 
causalità, 
la 
rilevanza 
delle 
sopravvenienze 
e 
l’ambito delle 
conseguenze 
dannose 
indennizzabili. 
Si 
tratta 
di 
temi 
sui 
quali 
la 
giurisprudenza 
e 
la 
dottrina 
italiana 
si 
sono 
da 
tempo esercitate 
con risultati 
altamente 
pregevoli 
e 
che 
non hanno nulla 
da 
invidiare 
a 
quelli 
raggiunti 
dalle 
Corti 
supreme 
e 
dagli 
studiosi 
di 
altri 
paesi. 
E 
se 
la 
necessità 
di 
una 
pronuncia 
della 
Corte 
di 
cassazione 
italiana 
sulle 
clausole 
delle 
polizze 
LOP 
non si 
rende 
necessaria 
per la 
scarsa 
diffusione 
di 
tale 
forma 
assicurativa, non è 
difficile 
immaginare 
che 
l’esigenza 
di 
certezza 
giuridica 
possa 
sorgere 
in relazione 
ad altri 
settori 
colpiti 
dal 
carattere 
diffusivo 
degli 
effetti 
della 
pandemia. 
Si 
pensi 
ad 
esempio 
alla 
problematica 
della 
riconduzione 
del 
contratto ad equità 
attraverso la 
rinegoziazione 
delle 
clausole 
quando la 
sua 
esecuzione, così 
come 
programmata 
dalle 
parti, sia 
stata 
impedita 
dal 
sopravvenire 
di 
misure 
restrittive 
legate 
al 
confinamento imposto dal 
Governo. Non richiederebbero i 
concetti 
di 
forza 
maggiore, di 
impossibilità 
sopravvenuta, di 
factum 
principis 
e 
della 
loro incidenza 
sul 
regolamento ne



CONtENzIOSO 
COMUNItARIO 
ED 
INtERNAzIONALE 


goziale 
che 
venisse 
introdotta 
una 
forma 
di 
azione 
come 
quella 
esistente 
nel-
l’ordinamento 
inglese? 
Un 
autorevole 
e 
rapido 
pronunciamento 
della 
Corte 
di 
cassazione 
(14) 
su 
questioni 
interpretative 
astratte 
non 
contribuirebbe 
ad 
orientare 
le 
decisioni 
delle 
corti 
inferiori 
nella 
risoluzione 
delle 
controversie 
proposte 
dinanzi ad esse o addirittura a prevenirne la proposizione? 


(14) 
Un 
inquadramento 
generale 
delle 
questioni, 
assai 
autorevole 
ma 
privo 
di 
efficacia 
vincolante, 
si 
può trovare 
nel 
contributo di 
recente 
fornito dall’Ufficio del 
Massimario e 
del 
Ruolo della 
Corte 
di 
cassazione 
con 
la 
Relazione 
n. 
56 
dedicata 
alle 
“Novità 
normative 
sostanziali 
del 
diritto 
“emergenziale” 
anti-Covid 
19 
in 
ambito 
contrattuale 
e 
concorsuale” 
reperibile 
all’indirizzo 
https://www.portaledelmassimario.
ipzs.it/frontoffice/studipubblicazioni.do. 

RASSEGNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 4/2020 


Sfavore per i movimenti secondari del regolamento 
dublino III e diritto all’unità familiare 


(Corte 
di 
giuStizia 
dell’uNioNe 
europea, oSServazioNi 
del 
goverNo 
italiaNo 
iN 
CauSa 
C-720/20, promoSSa 
CoN 
ordiNaNza 
24 diCemBre 
2020 dal 
verwaltuNgSgeriCht 
CottBuS 
- germaNia) 


1. 
Con 
l’ordinanza 
in 
epigrafe, 
è 
stato 
chiesto 
alla 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’Unione 
europea 
di 
pronunciarsi, 
ai 
sensi 
dell’art. 
267 
tFUE, 
sulle 
seguenti 
questioni pregiudiziali: 
1. Se, alla luce 
dell’esigenza di 
evitare 
movimenti 
secondari 
imposta dal 
diritto 
dell’unione 
e 
del 
principio 
generale 
dell’unità 
familiare 
sancito 
dal 
regolamento 
(ue) 
n. 
604/2013, 
sia 
opportuno 
applicare 
in 
via 
analogica 
l’articolo 
20, 
paragrafo 
3, 
di 
detto 
regolamento 
in 
una 
fattispecie 
in 
cui 
un 
minore 
e 
i 
suoi 
genitori 
presentano domanda di 
protezione 
internazionale 
nel 
medesimo 
Stato membro, ma i 
genitori 
siano già beneficiari 
di 
protezione 
internazionale 
in un altro Stato membro, mentre 
il 
minore 
è 
nato nello Stato membro 
in cui ha presentato la suddetta domanda. 
2. 
in 
caso 
di 
risposta 
affermativa 
alla 
questione, 
se 
debba 
omettersi 
l’esame 
della domanda d’asilo del 
minore 
ai 
sensi 
del 
regolamento (ue) n. 
604/2013 e 
adottare 
una decisione 
di 
trasferimento in forza dell’articolo 26 
del 
regolamento, tenuto conto del 
fatto che, ad esempio, lo Stato membro in 
cui 
i 
suoi 
genitori 
beneficiano della protezione 
internazionale 
sia competente 
per 
l’esame 
della 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
presentata 
dal 
minore. 
3. in caso di 
risposta affermativa alla precedente 
questione, se 
l’articolo 
20, 
paragrafo 
3, 
del 
regolamento 
(ue) 
n. 
604/2013 
sia 
applicabile 
in 
via 
analogica, 
anche 
nella parte 
in cui 
la sua seconda frase 
dichiari 
non necessario 
l’avvio di 
una specifica procedura di 
presa in carico del 
minore 
più giovane, 
benché 
in tal 
caso sussista il 
rischio che 
lo Stato membro ospitante 
non sia a 
conoscenza di 
un’eventuale 
situazione 
legittimante 
l’accoglienza del 
minore 
o, 
rispettivamente, 
rifiuti, 
in 
linea 
con 
la 
propria 
prassi 
amministrativa, 
di 
applicare 
in 
via 
analogica 
l’articolo 
20, 
paragrafo 
3, 
del 
regolamento 
medesimo, 
esponendo così il minore al rischio di diventare un «refugee in orbit». 
4. 
in 
caso 
di 
risposta 
negativa 
alla 
seconda 
e 
alla 
terza 
questione, 
se 
una 
decisione 
di 
inammissibilità ai 
sensi 
dell’articolo 33, paragrafo 2, lettera a), 
della 
direttiva 
2013/32/ue 
possa 
essere 
adottata 
in 
via 
analogica 
nei 
confronti 
di 
un minore 
che 
ha presentato una domanda di 
protezione 
internazionale 
in 
uno 
Stato 
membro 
anche 
qualora 
a 
beneficiare 
della 
protezione 
internazionale 
in un altro Stato membro sia non il minore stesso, bensì i suoi genitori. 
esposizione dei fatti di causa 


2. 
La 
questione 
pregiudiziale 
sollevata 
dal 
Giudice 
tedesco trae 
origine 
dal 
ricorso di 
una 
cittadina 
della 
Federazione 
russa, nata 
in Germania 
il 
21 di

CONtENzIOSO 
COMUNItARIO 
ED 
INtERNAzIONALE 


cembre 
2015 
la 
cui 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
è 
stata 
dichiarata 
irricevibile 
dalle 
Autorità tedesche. 


3. I suoi 
genitori 
e 
i 
cinque 
fratelli 
(alcuni 
dei 
quali 
minori) sono beneficiari, 
in Polonia, della protezione internazionale dal 19 marzo 2012. 
4. 
Nel 
dicembre 
2012, i 
genitori 
hanno lasciato la 
Polonia 
e 
si 
sono trasferiti 
in Germania dove hanno presentato domanda di asilo. 
5. 
L'autorità 
tedesca 
competente 
ha 
chiesto alla 
Polonia 
di 
riprendere 
in 
carico i 
richiedenti, ma 
l'istanza 
è 
stata 
respinta 
in quanto, appunto, la 
Polonia 
aveva già esaminato la loro domanda e riconosciuto lo status 
di rifugiato. 
6. 
Nel 
2016 è 
stata 
presentata 
domanda 
di 
protezione 
in Germania 
anche 
per 
la 
ricorrente, 
ma 
la 
domanda 
è 
stata 
dichiarata 
irricevibile 
in 
quanto 
in 
forza 
del 
regolamento n. 604/2013, in particolare 
gli 
articoli 
9, 10 e 
20, paragrafo 
3, è 
individuabile 
un altro Stato membro competente 
all'esame 
della 
sua 
domanda. 
7. 
Contro 
tale 
decisione 
è 
stato 
presentato 
ricorso 
davanti 
al 
tribunale 
amministrativo di 
Cottbus 
che 
ha 
chiesto il 
rinvio pregiudiziale 
alla 
Corte 
di 
giustizia. 
normativa dell’unione 


8. 
Il 
regolamento 
n. 
604/2013 
che 
stabilisce 
i 
criteri 
e 
i 
meccanismi 
di 
determinazione 
dello Stato membro competente 
per l'esame 
di 
una 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
presentata 
in uno degli 
Stati 
membri 
da 
un cittadino 
di 
un paese 
terzo o da 
un apolide 
(c.d. Dublino III) prevede, all’art. 20, 
paragrafo 
3, 
relativo 
all’avvio 
della 
procedura 
di 
presa 
in 
carico, 
che 
“3. 
ai 
fini 
del 
presente 
regolamento, la situazione 
di 
un minore 
che 
accompagna il 
richiedente 
e 
risponde 
alla 
definizione 
di 
familiare, 
è 
indissociabile 
da 
quella 
del 
suo 
familiare 
e 
rientra 
nella 
competenza 
dello 
Stato 
membro 
competente 
per 
l'esame 
della domanda di 
protezione 
internazionale 
del 
suddetto familiare, 
anche 
se 
il 
minore 
non 
è 
personalmente 
un 
richiedente, 
purché 
ciò 
sia 
nell'interesse 
superiore 
del 
minore. lo stesso trattamento è 
riservato ai 
figli 
nati 
dopo che 
i 
richiedenti 
sono giunti 
nel 
territorio degli 
Stati 
membri 
senza 
che 
sia necessario cominciare 
una nuova procedura di 
presa in carico degli 
stessi” (enfasi aggiunta). 
9. 
Ai 
sensi 
del 
successivo art. 26, paragrafo 1 del 
predetto regolamento, 
“1. Quando lo Stato membro richiesto accetta di 
prendere 
o riprendere 
in carico 
un richiedente 
o un'altra persona di 
cui 
all'articolo 18, paragrafo 1, lettera 
c) o d), lo Stato membro richiedente 
notifica all'interessato la decisione 
di trasferirlo verso lo Stato membro competente e, se del caso, di non esaminare 
la sua domanda di protezione internazionale….”. 
10. A 
norma 
dell’art. 33, paragrafo 1 della 
direttiva 
2013/32/UE 
(c.d. Direttiva 
procedure), recante 
“Domande 
inammissibili” 
, “1. oltre 
ai 
casi 
in cui 
una domanda non è 
esaminata a norma del 
regolamento (ue) n. 604/2013, 
gli 
Stati 
membri 
non 
sono 
tenuti 
ad 
esaminare 
se 
al 
richiedente 
sia 
attribuibile 

RASSEGNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 4/2020 


la 
qualifica 
di 
beneficiario 
di 
protezione 
internazionale 
a 
norma 
della 
direttiva 
2011/95/ue, 
qualora 
la 
domanda 
sia 
giudicata 
inammissibile 
a 
norma 
del 
presente 
articolo”. In base 
al 
successivo paragrafo 2, lettera 
a), “2. gli 
Stati 
membri 
possono giudicare 
una domanda di 
protezione 
internazionale 
inammissibile 
soltanto se: a) un altro Stato membro ha concesso la protezione 
internazionale”. 


risposta al primo quesito 


11. 
Con 
il 
primo 
quesito, 
il 
giudice 
del 
rinvio 
chiede 
in 
sostanza 
alla 
Corte 
di 
giustizia 
di 
chiarire 
se 
l’art. 20, par. 3 del 
regolamento UE 
n. 604/2013 -in 
base 
al 
quale 
la 
situazione 
di 
un minore 
che 
accompagna 
il 
richiedente 
e 
risponde 
alla 
definizione 
di 
familiare, 
è 
indissociabile 
da 
quella 
del 
suo 
familiare 
e 
rientra 
nella 
competenza 
dello Stato membro competente 
per l'esame 
della 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
del 
suddetto familiare, anche 
se 
il 
minore 
non 
è 
personalmente 
un 
richiedente, 
purché 
ciò 
sia 
nell'interesse 
superiore 
del 
minore 
-debba 
essere 
applicato analogicamente 
al 
caso in cui 
un minore 
cittadino 
russo 
nato 
in 
Germania 
nel 
2015 
e 
i 
suoi 
genitori, 
i 
quali 
ultimi 
hanno 
già 
ottenuto 
la 
protezione 
internazionale 
in 
Polonia 
nel 
2012, 
richiedano 
la 
protezione 
internazionale 
in 
Germania 
dove 
si 
sono 
successivamente 
trasferiti. 
12. Il Governo italiano ritiene di dare risposta positiva al quesito. 
13. In sostanza, il 
tribunale 
tedesco si 
chiede 
se, in considerazione 
del-
l'esigenza, imposta 
dal 
diritto dell’Unione, di 
evitare 
movimenti 
secondari 
e 
in considerazione 
del 
principio di 
unità 
familiare 
sancito dal 
regolamento n. 
604/2013, sia 
opportuno interpretare 
analogicamente 
l'articolo 20, paragrafo 
3, del 
regolamento applicandolo a 
un caso in cui 
richiedenti 
siano un minore, 
nato nello Stato membro in cui 
la 
domanda 
è 
stata 
presentata 
(la 
Germania), 
e 
i 
suoi 
genitori, 
i 
quali 
ultimi 
siano 
già 
beneficiari 
di 
protezione 
internazionale 
riconosciuta da altro Stato membro (la Polonia). 
14. Le 
ragioni 
che 
inducono il 
tribunale 
tedesco a 
sollevare 
il 
rinvio pregiudiziale 
scaturiscono dalla 
particolarità 
del 
caso concreto che 
non consente 
la 
mera 
applicazione 
del 
criterio di 
competenza 
previsto dal 
regolamento Dublino 
III ed in particolare 
dall'articolo 20, paragrafo 3, letto in combinazione 
con l'articolo 33, paragrafo 2, lettera 
a) della 
direttiva 
2013/32/UE 
che 
fissa 
il 
principio 
secondo 
cui 
gli 
Stati 
membri 
non 
hanno 
l'onere 
di 
esaminare 
nel 
merito 
una 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
quando il 
richiedente 
abbia 
già 
ottenuto tale protezione da un altro Stato membro. 
15. Nel 
caso oggetto della 
causa 
principale, infatti, la 
Polonia 
ha 
riconosciuto 
la 
protezione 
internazionale 
ai 
genitori 
del 
minore 
richiedente 
asilo in 
Germania 
i 
quali, tuttavia, hanno scelto di 
lasciare 
il 
territorio della 
Polonia 
per trasferirsi 
in Germania, alla 
quale 
hanno nuovamente 
chiesto protezione, 
per sé e per il figlio nato nel frattempo. 
16. Come 
osservato dal 
tribunale 
rimettente, la 
questione 
consegue 
alla 
scelta 
dei 
familiari 
del 
minore 
di 
effettuare 
un "movimento secondario", fe

CONtENzIOSO 
COMUNItARIO 
ED 
INtERNAzIONALE 


nomeno che 
l'intero sistema 
CEAS, di 
cui 
anche 
il 
regolamento Dublino III fa 
parte, tende invece a evitare e intende certamente scoraggiare. 

17. Il 
caso da 
cui 
sorge 
la 
questione 
pregiudiziale 
dimostra 
inoltre 
che 
il 
fenomeno dei 
movimenti 
secondari 
non riguarda 
esclusivamente 
i 
richiedenti 
asilo che 
non hanno ancora 
avuto una 
decisione 
sulla 
loro domanda 
o la 
cui 
domanda 
è 
stata 
rigettata, ma 
anche 
coloro la 
cui 
domanda 
è 
stata 
accolta 
ma 
che 
non 
intendono 
poi 
avvalersi 
della 
protezione 
dello 
Stato 
che 
ha 
esaminato 
la loro domanda. 
18. Nella 
fattispecie 
però, come 
si 
è 
detto, non è 
il 
minore 
richiedente 
ad 
aver già 
ottenuto la 
protezione 
internazionale 
in altro Stato membro ma 
i 
suoi 
genitori (oltre ai suoi cinque fratelli). 
19. tuttavia, una 
interpretazione 
restrittiva 
del 
citato art. 20, paragrafo 3 
del 
regolamento 
Dublino 
III 
nel 
senso 
di 
ritenere 
competente 
ad 
esaminare 
nel 
merito una 
domanda 
di 
asilo di 
un minore 
uno Stato membro diverso da 
quello che 
ha 
già 
deciso sulla 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
dei 
genitori 
dello stesso sarebbe 
in contrasto con la 
ratio dell’intero sistema 
sotteso al 
regolamento 
Dublino 
III 
che 
intende 
scoraggiare 
i 
“movimenti 
secondari” 
che 
si 
verificano, 
come 
dimostra 
la 
fattispecie, 
non 
solo 
qualora 
la 
prima 
domanda 
di 
asilo 
non 
sia 
stata 
ancora 
accolta 
o 
sia 
stata 
respinta 
ma 
anche 
qualora 
detto 
status 
sia già stato riconosciuto. 
20. Ciò potrebbe 
comportare 
un inutile 
aggravio per gli 
Stati 
membri 
ritenuti 
più appetibili 
che 
si 
vedrebbero costretti 
ad esaminare 
la 
domanda 
di 
asilo di 
un minore 
che 
dovrebbe 
invece 
ricadere 
nella 
competenza 
dello Stato 
membro che 
ha 
già 
deciso sulla 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
dei 
genitori. 
21. Una 
diversa 
risposta 
della 
Corte 
al 
quesito sollevato potrebbe 
avere 
un 
impatto 
rilevante 
su 
tutti 
gli 
Stati 
membri 
in 
quanto 
comporterebbe 
che 
qualsiasi 
Stato 
membro, 
pur 
non 
presentando 
alcun 
criterio 
che 
ne 
fondi 
la 
competenza 
secondo 
il 
regolamento 
Dublino 
e 
al 
di 
fuori 
delle 
deroghe 
espressamente 
previste 
dall'articolo 3, paragrafo 2, possa 
essere 
obbligato ad esaminare 
la 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
presentata 
nell'interesse 
di 
un 
minore 
i 
cui 
genitori 
(o 
familiari 
ai 
sensi 
del 
regolamento) 
abbiano 
già 
ottenuto 
l’asilo da un altro Stato membro. 
22. Del 
resto l’inciso “anche 
se 
il 
minore 
non è 
personalmente 
un richiedente” 
di 
cui 
all’art. 20, par. 3 del 
Regolamento Dublino III implica 
che 
tale 
norma 
è 
applicabile 
anche 
se 
il 
minore 
è 
richiedente, come 
nel 
caso di 
specie. 
risposta al secondo quesito 


23. Con il 
secondo quesito il 
giudice 
del 
rinvio chiede, in caso di 
risposta 
positiva 
alla 
prima 
questione, 
se 
debba 
omettersi 
l’esame 
della 
domanda 
di 
asilo del 
minore 
e 
procedersi 
al 
trasferimento in forza 
dell’art. 26 del 
regolamento 
Dublino 
III 
verso 
la 
Polonia, 
in 
quanto 
Stato 
membro 
competente 
a 
decidere 
sulla 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
presentata 
del 
minore, 

RASSEGNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 4/2020 


tenuto 
conto 
che 
la 
domanda 
di 
trasferimento 
presentata 
in 
tal 
senso 
dalla 
Germania 
è stata respinta dalla Polonia. 


24. Anche 
a 
tale 
quesito il 
Governo italiano ritiene 
di 
dare 
risposta 
positiva. 
25. La 
possibilità 
di 
omettere 
l’esame 
della 
domanda 
di 
asilo del 
minore 
nel 
merito e 
di 
procedere 
al 
trasferimento ai 
sensi 
dell’art. 26 del 
regolamento 
Dublino III verso la 
Polonia 
appare 
infatti 
coerente 
con il 
tendenziale 
sfavore 
per i 
movimenti 
secondari 
dei 
richiedenti 
asilo e 
con il 
principio secondo cui 
un 
solo 
Stato 
membro 
esamina 
la 
stessa 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
e 
mantiene 
la 
competenza 
ad 
esaminare 
la 
domanda 
di 
protezione 
di 
un 
minore 
ai cui genitori abbia già riconosciuto detto status. 
26. Se 
pertanto la 
posizione 
di 
un minore 
è 
indissociabile 
da 
quella 
di 
un 
proprio familiare 
che 
abbia 
ottenuto la 
protezione 
internazionale, va 
ribadito 
il 
principio secondo il 
quale 
la 
competenza 
ad esaminare 
la 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
è 
devoluta 
ad un solo Stato membro che 
si 
identifica 
con quello di 
primo approdo nel 
territorio dell’Unione, nel 
caso di 
specie 
la 
Polonia. 
risposta al terzo quesito 


27. Con il 
terzo quesito, il 
giudice 
tedesco chiede, in caso di 
risposta 
positiva 
alla 
seconda 
questione, se 
l’art. 20, par. 3 del 
regolamento Dublino III 
debba 
essere 
applicato in via 
analogica 
anche 
nella 
parte 
in cui 
dispone 
che 
lo 
stesso 
trattamento 
di 
“indissociabilità” 
dal 
proprio 
familiare 
è 
riservato 
ai 
figli 
nati 
dopo che 
i 
richiedenti 
sono giunti 
nel 
territorio degli 
Stati 
membro senza 
che 
sia 
necessario 
cominciare 
una 
nuova 
procedura 
di 
presa 
in 
carico 
degli 
stessi. 
28. Anche 
a 
tale 
quesito il 
Governo italiano ritiene 
di 
dare 
risposta 
positiva. 
29. 
La 
seconda 
frase 
dell’art. 
20, 
paragrafo 
3 
del 
regolamento 
Dublino 
III 
prevede 
espressamente 
che 
“lo 
stesso 
trattamento 
è 
riservato 
ai 
figli 
nati 
dopo 
che 
i 
richiedenti 
sono 
giunti 
nel 
territorio 
degli 
Stati 
membri 
senza 
che 
sia 
necessario 
cominciare 
una 
nuova 
procedura 
di 
presa 
in 
carico 
degli 
stessi”. 
30. Per effetto dell’interpretazione 
estensiva 
dell’art. 20, paragrafo 3 del 
regolamento Dublino III in risposta 
al 
primo quesito non sembra 
peraltro ipotizzabile 
il 
rifiuto dello Stato membro ospitante 
e 
la 
conseguenza 
di 
esporre 
il 
minore al rischio di diventare un “refugee in orbit”. 
risposta al quarto quesito 


31. Infine, con il 
quarto quesito il 
giudice 
del 
rinvio chiede, in caso di 
risposta 
negativa 
alla 
seconda 
e 
alla 
terza 
questione, se 
una 
decisione 
di 
inammissibilità 
ai 
sensi 
dell’art. 
33, 
par. 
2, 
lett. 
a) 
della 
direttiva 
2013/32/UE 
possa 
essere 
adottata 
in 
via 
analogica 
nel 
caso 
di 
specie 
in 
cui 
non 
è 
il 
minore 
richiedente 
ad 
aver 
già 
ottenuto 
la 
protezione 
internazionale 
in 
altro 
Stato 
membro 
ma i suoi genitori. 

CONtENzIOSO 
COMUNItARIO 
ED 
INtERNAzIONALE 


32. La 
risposta 
positiva 
al 
secondo e 
terzo quesito rende 
superflua 
la 
risposata 
al quarto quesito. 
Conclusioni 


33. Il 
Governo italiano propone 
quindi 
alla 
Corte 
di 
rispondere 
positivamente 
al 
primo 
quesito, 
affermando 
che, 
alla 
luce 
dell’esigenza 
di 
evitare 
movimenti 
secondari 
imposta 
dal 
diritto 
dell’Unione 
e 
del 
principio 
generale 
dell’unità 
familiare 
sancito 
dal 
regolamento 
(UE) 
n. 
604/2013, 
è 
opportuno 
applicare 
in via 
analogica 
l’articolo 20, paragrafo 3, di 
detto regolamento in 
una 
fattispecie 
in cui 
un minore 
e 
i 
suoi 
genitori 
presentano domanda 
di 
protezione 
internazionale 
nel 
medesimo 
Stato 
membro, 
ma 
i 
genitori 
siano 
già 
beneficiari 
di 
protezione 
internazionale 
in 
un 
altro 
Stato 
membro, 
mentre 
il 
minore è nato nello Stato membro in cui ha presentato la suddetta domanda. 
34. Il 
Governo italiano propone 
inoltre 
alla 
Corte 
di 
rispondere 
positivamente 
al 
secondo quesito, affermando che 
debba 
omettersi 
l’esame 
della 
domanda 
d’asilo del 
minore 
ai 
sensi 
del 
regolamento (UE) n. 604/2013 e 
debba 
adottarsi 
una 
decisione 
di 
trasferimento 
in 
forza 
dell’articolo 
26 
del 
regolamento, 
tenuto conto del 
fatto che 
lo Stato membro in cui 
i 
suoi 
genitori 
beneficiano 
della 
protezione 
internazionale 
è 
competente 
per 
l’esame 
della 
domanda di protezione internazionale presentata dal minore. 
35. Il 
Governo italiano propone 
inoltre 
alla 
Corte 
di 
rispondere 
positivamente 
al 
terzo quesito, affermando che 
l’articolo 20, paragrafo 3, del 
regolamento 
(UE) n. 604/2013 è 
applicabile 
in via 
analogica, anche 
nella 
parte 
in 
cui 
la 
sua 
seconda 
frase 
dichiari 
non necessario l’avvio di 
una 
specifica 
procedura 
di 
presa 
in 
carico 
del 
minore 
più 
giovane, 
non 
sussistendo 
il 
rischio 
che 
lo 
Stato 
membro 
ospitante 
non 
sia 
a 
conoscenza 
di 
un’eventuale 
situazione 
legittimante 
l’accoglienza 
del 
minore 
o, rispettivamente, rifiuti, in linea 
con 
la 
propria 
prassi 
amministrativa, 
di 
applicare 
in 
via 
analogica 
l’articolo 
20, 
paragrafo 3, del 
regolamento medesimo, esponendo così 
il 
minore 
al 
rischio 
di diventare un «refugee in orbit». 
36. 
Avendo 
risposto 
in 
termini 
positivi 
al 
secondo 
e 
al 
terzo 
quesito, 
il 
Governo italiano ritiene superfluo rispondere al quarto quesito. 
Roma, 18 maggio 2021 

Wally Ferrante 
Avvocato dello Stato 



RASSEGNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 4/2020 


“digital Green Certificate” 
La proposta della Commissione europea 

Gaetana Natale* 


Nell’ambito dell’attività 
internazionale 
svolta 
dal 
Garante 
per la 
Privacy 
assume 
rilievo 
centrale 
nell’attuale 
periodo 
di 
pandemia 
la 
questione 
del 
“digital 
green pass”, ossia 
la 
questione 
dei 
passaporti 
vaccinali, rectius 
dei 
certificati 
verdi digitali. 


È 
importante 
precisare 
che 
non si 
tratta 
di 
un vero e 
proprio passaporto, 
ma 
di 
un 
certificato 
che 
attesta 
l’avvenuta 
vaccinazione 
o 
l’effettuazione 
di 
un test risultato negativo o l’avvenuta guarigione. 


È 
questa 
una 
precisazione 
che 
assume 
rilievo decisivo sul 
piano della 
tutela 
dei 
diritti 
fondamentali 
della 
persona, in quanto la 
previsione 
di 
un vero 
e 
proprio 
passaporto 
vaccinale 
risulterebbe 
lo 
strumento 
per 
introdurre 
di 
fatto 
l’obbligo della 
vaccinazione 
anti-Covid per tutti 
i 
cittadini 
dell’Unione 
Europea, 
superando il criterio della 
“raccomandazione rafforzata”. 


Il 
17 
marzo 
2021, 
la 
Commissione 
europea 
ha 
presentato 
una 
proposta 
intesa 
a 
creare 
un 
certificato 
verde 
digitale 
per 
agevolare 
la 
libera 
circolazione 
sicura 
dei 
cittadini 
nell’UE 
durante 
la 
pandemia 
di 
Covid-19. La 
proposta 
di 
regolamento 
si 
pone, 
innanzitutto, 
quale 
base 
giuridica 
per 
i 
trattamenti 
dei 
dati 
utilizzati 
in tale 
tipo di 
certificato da 
parte 
delle 
autorità 
competenti 
degli 
Stati 
emittenti 
e 
non 
degli 
Stati 
di 
destinazione. 
Si 
legge 
testualmente 
nell’art. 
1 della 
proposta: 
«…it 
provides 
for 
the 
legal 
ground to process 
personal 
data 
necessary 
to issue 
such certificates 
and to process 
the 
information necessary 
to confirm and verify the authenticity and validity of such certificates». 


I 
certificati 
verdi 
digitali 
saranno 
validi 
in 
tutti 
gli 
Stati 
membri 
sulla 
base 
del 
principio 
del 
mutuo 
riconoscimento 
della 
sua 
efficacia 
probatoria. 
Un 
certificato 
verde 
digitale 
è 
da 
considerarsi 
una 
prova 
legale 
digitale 
attestante 
che 
una persona (1): 


1) 
è 
stata 
vaccinata 
contro il 
Covid-19 con la 
eventuale 
specifica 
del 
tipo 
di vaccino utilizzato (“vaccination”); 
2) 
ha 
ottenuto un risultato negativo al 
test 
(“testing”, ad esempio, i 
test 
di 
amplificazione 
degli 
acidi 
nucleici, quello molecolare 
NAAts, tra 
cui 
Rt-
PCR, tMA 
e 
LAMP 
secondo l’interim 
guidance 
sulla 
rivelazione 
dell’anti(*) 
Avvocato dello Stato, Professore 
a 
contratto presso l’Università 
degli 
Studi 
di 
Salerno, Consigliere 
giuridico del Garante per la Privacy. 

(1) 
Commissione 
europea, 
Covid-19: 
certificati 
verdi 
digitali, 
in 
www.ec.europa.eu; 
viene 
infatti 
precisato dalla 
Commissione 
europea 
che 
«Un certificato verde 
digitale 
è 
una 
prova 
digitale 
attestante 
che 
una 
persona: 
è 
stata 
vaccinata 
contro la 
COVID-19; 
ha 
ottenuto un risultato negativo al 
test 
oppure; 
è guarita dalla COVID-19». 

CONtENzIOSO 
COMUNItARIO 
ED 
INtERNAzIONALE 


gene 
pubblicato lo scorso 11 settembre 
2020 dall’OMS, ma 
non saranno ritenuti 
validi i test privati); 


3) 
è 
guarita 
dal 
Covid, 
indicando, 
ad 
esempio, 
il 
livello 
quantitativo 
di 
anticorpi sviluppati, c.d. “switch di classe”, (“recovery”). 
Le caratteristiche principali del certificato sono (2): 


a) 
il suo formato digitale e/o cartaceo; 
b) 
il codice Qr; 
c) 
la sua gratuità; 
d) 
la redazione nella propria lingua nazionale e in inglese; 
e) 
la sua sicurezza e protezione; 
f) 
la 
sua 
validità 
in 
tutti 
i 
Paese 
dell’UE, 
elemento 
che 
porrà 
un 
problema 
di coordinamento con i Paese extra UE. 
Per cogliere 
l’impatto che 
avrà 
tale 
certificato sulla 
tutela 
dei 
dati 
personali 
occorre 
verificare 
la 
sua 
procedura 
e 
di 
rilascio e 
di 
utilizzo, spettando, 
poi, all’implementazione 
tecnica 
la 
definizione 
di 
criteri 
specifici 
per la 
tutela 
della riservatezza dei dati personali. 


Le 
autorità 
nazionali 
sono 
responsabili 
del 
rilascio 
dei 
certificati. 
Potrebbe, 
ad 
esempio, 
essere 
rilasciato 
dagli 
ospedali, 
dai 
centri 
presso 
cui 
si 
effettuano 
i 
test 
molecolari 
o 
rapidi, 
o 
dalle 
autorità 
sanitarie. 
La 
versione 
digitale 
può 
essere 
salvata 
su 
un 
dispositivo 
mobile, 
lasciando 
sempre 
impregiudicato 
il 
diritto 
per 
il 
cittadino 
di 
richiedere 
la 
versione 
cartacea. 
Entrambe 
le 
versioni 
disporranno 
di 
un 
codice 
Qr, 
contenente 
le 
informazioni 
essenziali 
nel 
rispetto 
del 
“principio 
di 
minimizzazione 
dei 
dati”, 
“minimum 
of 
amount 
of 
data” 
(nome, 
cognome, 
data 
di 
nascita 
e 
data 
del 
vaccino 


o 
del 
test, 
data 
di 
guarigione), 
e 
di 
un 
sigillo 
digitale 
per 
garantire 
l’autenticità 
del 
certificato 
(3). 
Il 
certificato verde 
digitale 
contribuirà 
a 
creare 
una 
situazione 
di 
omogeneità 
nello 
spazio 
comune 
europeo: 
il 
suo 
utilizzo 
potrebbe 
portare 
al 
risultato 
da 
molti 
auspicato che 
le 
restrizioni 
attualmente 
in vigore 
possano essere 
revocate 
in modo coordinato secondo il principio dell’one health approach. 


Quando viaggiano tutti 
i 
cittadini 
dell’UE 
o i 
cittadini 
di 
paesi 
terzi 
che 
soggiornano 
o 
risiedono 
legalmente 
nell’UE 
in 
possesso 
di 
un 
certificato 
verde 


(2) ibidem; 
«Il 
certificato verde 
digitale 
contiene 
un codice 
QR con una 
firma 
digitale 
per impedirne 
la 
falsificazione. 
Al 
momento 
del 
controllo 
del 
certificato, 
si 
procede 
alla 
scansione 
del 
codice 
QR e 
alla 
verifica 
della 
firma. Ogni 
organismo autorizzato a 
rilasciare 
i 
certificati 
(ad esempio un ospedale, 
un centro di 
test 
o un'autorità 
sanitaria) ha 
la 
propria 
chiave 
di 
firma 
digitale. tutte 
le 
chiavi 
di 
firma 
sono conservate 
in una 
banca 
dati 
protetta 
in ciascun paese. La 
Commissione 
europea 
creerà 
un 
gateway, 
mediante 
il 
quale 
tutte 
le 
firme 
dei 
certificati 
potranno 
essere 
verificate 
in 
tutta 
l'UE. 
I 
dati 
personali 
codificati 
nel 
certificato non passeranno attraverso il 
gateway dato che 
ciò non è 
necessario per 
verificare 
la 
firma 
digitale. La 
Commissione 
europea 
aiuterà 
inoltre 
gli 
Stati 
membri 
a 
sviluppare 
un 
software che potrà essere utilizzato dalle autorità per controllare i codici QR». 
(3) 
M. 
MANGIA, 
passaporto 
vaccinale 
europeo, 
come 
funzionerà: 
il 
certificato 
e 
la 
firma 
digitale, 
in www.salutedigitale.blog. 

RASSEGNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 4/2020 


digitale 
dovrebbero 
essere 
esentati 
dalle 
restrizioni 
alla 
libera 
circolazione 
allo 
stesso modo dei cittadini dello Stato membro visitato. 


Se 
uno Stato membro continuasse 
ad imporre 
ai 
titolari 
di 
un certificato 
verde 
digitale 
l’obbligo di 
quarantena 
o di 
effettuare 
un test, dovrebbe 
comunicarlo 
alla 
Commissione 
e 
a 
tutti 
gli 
altri 
Stati 
membri 
e 
giustificare 
tale 
decisione. 


Quali sono i profili di sicurezza attinente alla tutela dei dati personali? 


Ogni 
organismo 
autorizzato 
a 
rilasciare 
i 
certificati 
(come 
sopra 
detto, 
un 
ospedale, 
un 
centro 
di 
test 
o 
un’autorità 
sanitaria) 
ha 
la 
propria 
chiave 
di 
firma 
digitale. 
tutte 
le 
chiavi 
di 
firma 
digitale 
sono 
conservate 
in 
una 
banca 
dati 
protetta in ciascun paese. 


Primo problema: 
a 
quale 
tipo di 
firma 
digitale 
si 
fa 
riferimento? 
Firma 
avanzata, firma 
qualificata 
o, come 
è 
logico dedurre, firma 
digitale 
in senso 
proprio 
basata 
su 
un 
certificato 
qualificato 
e 
su 
un 
sistema 
di 
crittografia 
a 
chiavi 
asimmetriche. Il 
documento informatico sottoscritto con firma 
qualificata 
o firma 
digitale 
equivale 
a 
sottoscrizione 
autografa, la 
sua 
efficacia 
probatoria 
è 
quella 
dell’art. 2700 c.c., ossia 
fa 
piena 
prova 
fino a 
querela 
di 
falso. 
Nel 
nostro ordinamento, inoltre, è 
possibile 
l’autenticazione 
ex 
art. 2703 c.c. 
ed ex 
art. 25 C.A.D. (Codice 
dell’Amministrazione 
Digitale) sia 
di 
firma 
qualificata 
e digitale sia di firma avanzata (4). 


L’elemento che 
assicura 
al 
sistema 
un certo livello di 
sicurezza 
è 
il 
c.d. 
gateway 
che 
la 
Commissione 
Europea 
creerà 
per far sì 
che 
tutte 
le 
firme 
dei 
certificati 
potranno 
essere 
verificate 
in 
tutti 
i 
paesi 
dell’Unione 
europea. 
I 
dati 
personali 
codificati 
nel 
certificato non 
passeranno attraverso il 
gateway, 
dato che ciò non è necessario per verificare la firma digitale. 


La 
Commissione 
Europea 
si 
è 
impegnata 
ad 
aiutare 
gli 
Stati 
membri 
a 
sviluppare 
un 
software 
che 
potrà 
essere 
utilizzato 
dalle 
autorità 
per 
controllare 
i codici Qr. 


Il 
certificato 
verde 
digitale 
è 
inteso 
ad 
agevolare 
la 
libera 
circolazione 
all’interno 
dell’UE. 
Non 
costituirà 
un 
prerequisito 
per 
la 
libera 
circolazione 
che 


(4) Secondo l’art. 2703 c.c. «Si 
ha 
per riconosciuta 
la 
sottoscrizione 
autenticata 
dal 
notaio o da 
altro 
pubblico 
ufficiale 
a 
ciò 
autorizzato. 
L'autenticazione 
consiste 
nell'attestazione 
da 
parte 
del 
pubblico 
ufficiale 
che 
la 
sottoscrizione 
è 
stata 
apposta 
in sua 
presenza. Il 
pubblico ufficiale 
deve 
previamente 
accertare 
l'identità 
della 
persona 
che 
sottoscrive». Mentre 
per l’art. 25 C.A.D. «1. Si 
ha 
per riconosciuta, 
ai 
sensi 
dell’articolo 
2703 
del 
codice 
civile, 
la 
firma 
elettronica 
o 
qualsiasi 
altro 
tipo 
di 
firma 
elettronica 
avanzata 
autenticata 
dal 
notaio o da 
altro pubblico ufficiale 
a 
ciò autorizzato; 
2. L’autenticazione 
della 
firma 
elettronica, anche 
mediante 
l’acquisizione 
digitale 
della 
sottoscrizione 
autografa, o di 
qualsiasi 
altro tipo di 
firma 
elettronica 
avanzata 
consiste 
nell’attestazione, da 
parte 
del 
pubblico ufficiale, che 
la 
firma 
è 
stata 
apposta 
in sua 
presenza 
dal 
titolare, previo accertamento della 
sua 
identità 
personale, della 
validità 
dell’eventuale 
certificato elettronico utilizzato e 
del 
fatto che 
il 
documento sottoscritto non è 
in 
contrasto con l’ordinamento giuridico; 
3. L’apposizione 
della 
firma 
digitale 
da 
parte 
del 
pubblico ufficiale 
ha 
l’efficacia 
di 
cui 
all’articolo 24, comma 
2; 
4. Se 
al 
documento informatico autenticato deve 
essere 
allegato 
altro 
documento 
formato 
in 
originale 
su 
altro 
tipo 
di 
supporto, 
il 
pubblico 
ufficiale 
può 
allegare copia informatica autenticata dell’originale, secondo le disposizioni dell’articolo 23». 

CONtENzIOSO 
COMUNItARIO 
ED 
INtERNAzIONALE 


costituisce 
un diritto fondamentale 
nell’UE. Il 
certificato verde 
digitale 
può 
anche 
fornire 
prova 
dei 
risultati 
dei 
test 
che 
spesso sono richiesti 
nell’ambito 
delle restrizioni sanitarie applicabili. 


Offre 
agli 
Stati 
membri 
l’opportunità 
di 
adeguare 
le 
restrizioni 
in vigore 
per 
motivi 
di 
salute 
pubblica. 
L’auspicio 
è 
che 
essi 
tengano 
conto 
di 
questa 
prova 
dello stato Covid-19 delle 
persone 
per agevolare 
gli 
spostamenti. I vaccini 
indicati 
nel 
certificato dovranno essere 
quelli 
approvati 
dall’EMA 
e 
dagli 
enti 
regolatori 
nazionali, ma 
gli 
Stati 
membri 
potranno decidere 
di 
estendere 
questa 
possibilità 
anche 
ai 
viaggiatori 
dell’UE 
che 
hanno 
ricevuto 
un 
altro 
vaccino (ad esempio lo Sputnik). 


Il 
certificato 
verde 
digitale 
contiene 
informazioni 
fondamentali 
necessarie 
quali 
nome, 
data 
di 
nascita, 
data 
di 
rilascio, 
informazioni 
pertinenti 
su 
vaccino/
test/guarigione e identificativo unico. 


I 
certificati 
comprenderanno solo una serie 
limitata di 
informazioni 
necessarie, che non potranno essere conservate dai paesi visitati. 


Ai 
fini 
di 
verifica 
vengono controllate 
solo la 
validità 
e 
l’autenticità 
del 
certificato, verificando da chi è stato rilasciato e firmato. 


tutti 
i 
dati 
sanitari 
sono conservati 
nello Stato membro che 
ha 
rilasciato 
un certificato verde digitale. 


Ma 
nel 
caso 
in 
cui 
queste 
regole 
siano 
violate, 
come 
si 
declinano 
i 
concetti 
di 
“accountability” 
nell’ipotesi 
di 
condivisione 
delle 
responsabilità 
tra 
i 
diversi 
attori 
coinvolti 
nell’attività 
di 
trattamento e 
di 
“privacy 
by 
design and 
by default” 
con riferimento al periodo di conservazione dei dati? 


Non sono previste 
norme 
di 
azione 
in caso di 
violazioni 
né 
norme 
di 
raccordo 
con il 
sistema 
europeo di 
tutela 
dei 
dati 
incentrate 
sul 
profilo della 
responsabilità 
dei titolari del trattamento. 


L’unica 
norma 
che 
contempla 
la 
tutela 
dei 
dati 
è 
quella 
contenuta 
nell’art. 
9 della 
proposta 
della 
Commissione. tale 
articolo, al 
punto 4, si 
limita 
a 
prevedere: 
«the 
authorities 
responsible 
for 
issuing 
the 
certificates 
referred 
to 
art.3 shall 
be 
considered as 
controllers 
referred to in 
art.4 (7) of Regulation 
(EU) 2016/679». 


In 
altri 
termini 
le 
autorità 
competenti 
a 
rilasciare 
il 
certificato 
in 
ogni 
Stato membro sono considerati 
“controller”, ossia 
titolari 
del 
trattamento, ai 
sensi dell’art. 4 del GDPR 2016/679 (5). 


È 
da 
evidenziare, comunque, che 
tale 
proposta 
richiama 
nella 
parte 
relativa 
al 
“legal 
basis” 
nell’explanatory 
memorandum, 
gli 
art. 
77 
del 
tFUE, 
l’art. 5 del 
tUE 
e 
l’art. 21 del 
tFUE 
(6) come 
referenti 
normativi 
dei 
trattati 


(5) L’art. 4, num. 7, del 
GDPR 2016/679, identifica 
il 
“titolare 
del 
trattamento” 
come 
«la 
persona 
fisica 
o giuridica, l'autorità 
pubblica, il 
servizio o altro organismo che, singolarmente 
o insieme 
ad altri, 
determina 
le 
finalità 
e 
i 
mezzi 
del 
trattamento di 
quando le 
finalità 
e 
i 
mezzi 
di 
tale 
trattamento sono determinati 
dal 
diritto dell'Unione 
o degli 
Stati 
membri, il 
titolare 
del 
trattamento o i 
criteri 
specifici 
applicabili 
alla sua designazione possono essere stabiliti dal diritto dell'Unione o degli Stati membri». 

RASSEGNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 4/2020 


e, quindi, come 
base 
legale 
che 
legittima 
l’introduzione 
di 
tale 
tipo di 
certificato. 
tali 
articoli 
sanciscono il 
“principio di 
libera circolazione” 
dei 
cittadini 
europei 
nell’Unione, oltre 
ai 
principi 
di 
subsidiarity, proportionality 
e 
non discrimination. 
Si 
legge 
testualmente 
nel 
memorandum:«it 
is 
important 
to 
stress 
that 
people 
without 
such as 
a certificate 
must 
still 
be 
able 
to travel 
and that 
being 
in 
possession 
of 
a 
certificate, 
is 
not 
a 
prerequisite 
of 
exercising 
the 
right 
to free 
movement 
or 
other 
fundamental 
right. In 
particular 
this 
Regulation 
cannot 
be 
interpreted as 
establishing an 
obligation 
or 
right 
to be 
vac


(6) Art. 77 tFUE, «1. L'Unione 
sviluppa 
una 
politica 
volta 
a: 
a) garantire 
l'assenza 
di 
qualsiasi 
controllo sulle 
persone, a 
prescindere 
dalla 
nazionalità, all'atto dell'attraversamento delle 
frontiere 
interne; 
b) 
garantire 
il 
controllo 
delle 
persone 
e 
la 
sorveglianza 
efficace 
dell'attraversamento 
delle 
frontiere 
esterne; 
c) 
instaurare 
progressivamente 
un 
sistema 
integrato 
di 
gestione 
delle 
frontiere 
esterne. 
2. 
Ai 
fini 
del 
paragrafo 1, il 
Parlamento europeo e 
il 
Consiglio, deliberando secondo la 
procedura 
legislativa 
ordinaria, 
adottano 
le 
misure 
riguardanti: 
a) 
la 
politica 
comune 
dei 
visti 
e 
di 
altri 
titoli 
di 
soggiorno 
di 
breve 
durata; 
b) i 
controlli 
ai 
quali 
sono sottoposte 
le 
persone 
che 
attraversano le 
frontiere 
esterne; 
c) le 
condizioni 
alle 
quali 
i 
cittadini 
dei 
paesi 
terzi 
possono circolare 
liberamente 
nell'Unione 
per un breve 
periodo; 
d) qualsiasi 
misura 
necessaria 
per l'istituzione 
progressiva 
di 
un sistema 
integrato di 
gestione 
delle 
frontiere 
esterne; 
e) l'assenza 
di 
qualsiasi 
controllo sulle 
persone, a 
prescindere 
dalla 
nazionalità, 
all'atto dell'attraversamento delle 
frontiere 
interne. 3. Se 
un'azione 
dell'Unione 
risulta 
necessaria 
per facilitare 
l'esercizio 
del 
diritto, 
di 
cui 
all'articolo 
20, 
paragrafo 
2, 
lettera 
a), 
e 
salvo 
che 
i 
trattati 
non 
abbiano 
previsto poteri 
di 
azione 
a 
tale 
scopo, il 
Consiglio, deliberando secondo una 
procedura 
legislativa 
speciale, 
può adottare 
disposizioni 
relative 
ai 
passaporti, alle 
carte 
d'identità, ai 
titoli 
di 
soggiorno o altro 
documento 
assimilato. 
Il 
Consiglio 
delibera 
all'unanimità 
previa 
consultazione 
del 
Parlamento 
europeo. 
4. 
Il 
presente 
articolo 
lascia 
impregiudicata 
la 
competenza 
degli 
Stati 
membri 
riguardo 
alla 
delimitazione 
geografica delle rispettive frontiere, conformemente al diritto internazionale». 
Art. 5 tUE, «1. La 
delimitazione 
delle 
competenze 
dell'Unione 
si 
fonda 
sul 
principio di 
attribuzione. 
L'esercizio delle 
competenze 
dell'Unione 
si 
fonda 
sui 
principi 
di 
sussidiarietà 
e 
proporzionalità. 2. In 
virtù 
del 
principio 
di 
attribuzione, 
l'Unione 
agisce 
esclusivamente 
nei 
limiti 
delle 
competenze 
che 
le 
sono 
attribuite 
dagli 
Stati 
membri 
nei 
trattati 
per 
realizzare 
gli 
obiettivi 
da 
questi 
stabiliti. 
Qualsiasi 
competenza 
non 
attribuita 
all'Unione 
nei 
trattati 
appartiene 
agli 
Stati 
membri. 
3. 
In 
virtù 
del 
principio 
di 
sussidiarietà, 
nei 
settori 
che 
non 
sono 
di 
sua 
competenza 
esclusiva 
l'Unione 
interviene 
soltanto 
se 
e 
in 
quanto gli 
obiettivi 
dell'azione 
prevista 
non possono essere 
conseguiti 
in misura 
sufficiente 
dagli 
Stati 
membri, né 
a 
livello centrale 
né 
a 
livello regionale 
e 
locale, ma 
possono, a 
motivo della 
portata 
o degli 
effetti 
dell'azione 
in questione, essere 
conseguiti 
meglio a 
livello di 
Unione. Le 
istituzioni 
dell'Unione 
applicano il 
principio di 
sussidiarietà 
conformemente 
al 
protocollo sull'applicazione 
dei 
principi 
di 
sussidiarietà 
e 
di 
proporzionalità. I parlamenti 
nazionali 
vigilano sul 
rispetto del 
principio di 
sussidiarietà 
secondo 
la 
procedura 
prevista 
in 
detto 
protocollo. 
4. 
In 
virtù 
del 
principio 
di 
proporzionalità, 
il 
contenuto 
e 
la 
forma 
dell'azione 
dell'Unione 
si 
limitano a 
quanto necessario per il 
conseguimento degli 
obiettivi 
dei 
trattati. Le 
istituzioni 
dell'Unione 
applicano il 
principio di 
proporzionalità 
conformemente 
al 
protocollo 
sull'applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità». 
Art. 21 tFUE, «1. Ogni 
cittadino dell'Unione 
ha 
il 
diritto di 
circolare 
e 
di 
soggiornare 
liberamente 
nel 
territorio degli 
Stati 
membri, fatte 
salve 
le 
limitazioni 
e 
le 
condizioni 
previste 
dai 
trattati 
e 
dalle 
disposizioni 
adottate 
in applicazione 
degli 
stessi. 2. Quando un'azione 
dell'Unione 
risulti 
necessaria 
per raggiungere 
questo 
obiettivo 
e 
salvo 
che 
i 
trattati 
non 
abbiano 
previsto 
poteri 
di 
azione 
a 
tal 
fine, 
il 
Parlamento 
europeo 
e 
il 
Consiglio, 
deliberando 
secondo 
la 
procedura 
legislativa 
ordinaria, 
possono 
adottare 
disposizioni 
intese 
a 
facilitare 
l'esercizio dei 
diritti 
di 
cui 
al 
paragrafo 1. 3. Agli 
stessi 
fini 
enunciati 
al 
paragrafo 1 e 
salvo che 
i 
trattati 
non abbiano previsto poteri 
di 
azione 
a 
tale 
scopo, il 
Consiglio, deliberando 
secondo 
una 
procedura 
legislativa 
speciale, 
può 
adottare 
misure 
relative 
alla 
sicurezza 
sociale 
o alla 
protezione 
sociale. Il 
Consiglio delibera 
all'unanimità 
previa 
consultazione 
del 
Parlamento europeo
». 

CONtENzIOSO 
COMUNItARIO 
ED 
INtERNAzIONALE 


cinated. Citizens 
must 
be 
able 
to exercise 
their 
rigths 
with 
full 
non-discrimination
». 
In 
altri 
termini 
il 
certificato 
non 
è 
un 
prerequisito 
per 
muoversi 
all’interno 
dello 
spazio 
europeo 
e 
non 
può 
creare 
discriminazioni. 
Il 
riferimento 
anche 
agli 
artt. 7, 8, 45 della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
dell’Unione 
Europea, il 
richiamo alla 
direttiva 
2004/38/EC, il 
riferimento alla 
permanente 
vigenza 
dello Shengen Borders 
Code 
2016/399 
e 
dei 
“green lanes” 
(corsie 
preferenziali 
per il 
trasporto di 
merci) e 
alle 
Raccomandazioni 
2020/1475 del 
Consiglio di 
Europa 
del 
13 ottobre 
2020 e 
n. 2020/1632 del 
30 ottobre 
2020 


(7) 
riguardanti 
un 
approccio 
coordinato 
europeo 
per 
restrizioni 
della 
libertà 
di 
movimento, 
inducono 
a 
considerare 
tale 
proposta 
come 
strumento 
per 
facilitare 
gli 
spostamenti 
nel 
rispetto dei 
criteri 
di 
sicurezza 
e 
non per “create 
a legal 
basis 
for 
retaining personal 
data obtained from 
the 
certificate 
by 
the 
member 
State 
of 
destination or 
by 
the 
cross-border 
passenger 
transport 
service 
opertors 
required 
by 
national 
law 
to 
implement 
health 
measures 
during 
the 
Covid19 
pandemic”. 
tale 
proposta 
della 
Commissione 
ha 
come 
finalità 
la 
creazione 
di 
un trust 
framework 
(8) attraverso la 
interoperabilità 
dei 
sistemi 
di 
validazione 
e 
riconoscimento del 
digital 
green Certificate 
e 
non per creare 
la 
base 
legale 
del 
trattamento dei 
dati 
personali 
da 
parte 
dello Stato di 
destinazione 
e 
da 
parte 
degli 
operatori 
del 
trasporto 
aereo. 
Si 
legge, 
infatti, 
nel 
testo 
(che 
dovrà 
essere, comunque, esaminato dal 
Parlamento e 
dal 
Consiglio Europeo): 
«digital 
green Certificate 
is 
to facilitate 
the 
exercise 
of 
free 
movement. implementation 
of 
the 
digital 
green Certificate 
legislation also needs 
a compatible 
technical 
framework 
to 
be 
defined 
at 
eu 
level 
and 
put 
in 
place 
by 
member 
States. This 
is 
should ensure 
interoperability 
as 
well 
as 
full 
compliance 
with 
personal 
data protection». Si 
precisa 
che 
gli 
art. 6 (“liceità del 
trattamento”) 
(9) 
e 
9 
(“trattamento 
di 
categorie 
particolari 
di 
dati 
personali”) 
(7) La 
Raccomandazione 
2020/1475 del 
Consiglio di 
Europa 
del 
13 ottobre 
2020, riporta 
puntualmente 
le 
disposizioni 
per un approccio coordinato alla 
limitazione 
della 
libertà 
di 
circolazione 
in risposta 
alla 
pandemia 
di 
COVID-19, 
che 
viene 
approfondita 
e 
completata 
dalla 
Raccomandazione 
2020/1632 del 30 ottobre 2020. 
(8) 
European 
Commission, 
Questions 
and 
answers 
-digital 
green 
Certificate, 
in 
www.ec.europa.
eu. 
(9) In particolar modo l’art. 6 precisa 
che 
«1. Il 
trattamento è 
lecito solo se 
e 
nella 
misura 
in cui 
ricorre 
almeno una 
delle 
seguenti 
condizioni: 
a) l'interessato ha 
espresso il 
consenso al 
trattamento dei 
propri 
dati 
personali 
per una 
o più specifiche 
finalità; 
b) il 
trattamento è 
necessario all'esecuzione 
di 
un 
contratto di 
cui 
l'interessato è 
parte 
o all'esecuzione 
di 
misure 
precontrattuali 
adottate 
su richiesta 
dello 
stesso; 
c) il 
trattamento è 
necessario per adempiere 
un obbligo legale 
al 
quale 
è 
soggetto il 
titolare 
del 
trattamento; 
d) il 
trattamento è 
necessario per la 
salvaguardia 
degli 
interessi 
vitali 
dell'interessato o di 
un'altra 
persona 
fisica;e) il 
trattamento è 
necessario per l'esecuzione 
di 
un compito di 
interesse 
pubblico 
o connesso all'esercizio di 
pubblici 
poteri 
di 
cui 
è 
investito il 
titolare 
del 
trattamento; 
f) il 
trattamento è 
necessario 
per 
il 
perseguimento 
del 
legittimo 
interesse 
del 
titolare 
del 
trattamento 
o 
di 
terzi, 
a 
condizione 
che 
non 
prevalgano 
gli 
interessi 
o 
i 
diritti 
e 
le 
libertà 
fondamentali 
dell'interessato 
che 
richiedono 
la 
protezione 
dei 
dati 
personali, in particolare 
se 
l'interessato è 
un minore. La 
lettera 
f) del 
primo comma 
non 
si 
applica 
al 
trattamento di 
dati 
effettuato dalle 
autorità 
pubbliche 
nell'esecuzione 
dei 
loro compiti. 2. 
Gli 
Stati 
membri 
possono 
mantenere 
o 
introdurre 
disposizioni 
più 
specifiche 
per 
adeguare 
l'applicazione 

RASSEGNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 4/2020 


(10) del 
regolamento 2016/679 sono necessari 
«for 
the 
issuance 
and verifica-
delle 
norme 
del 
presente 
regolamento con riguardo al 
trattamento, in conformità 
del 
paragrafo 1, lettere 


c) ed e), determinando con maggiore 
precisione 
requisiti 
specifici 
per il 
trattamento e 
altre 
misure 
atte 
a 
garantire 
un trattamento lecito e 
corretto anche 
per le 
altre 
specifiche 
situazioni 
di 
trattamento di 
cui 
al 
capo IX. 3. La 
base 
su cui 
si 
fonda 
il 
trattamento dei 
dati 
di 
cui 
al 
paragrafo 1, lettere 
c) ed e), deve 
essere 
stabilita: 
a) dal 
diritto dell'Unione; 
o b) dal 
diritto dello Stato membro cui 
è 
soggetto il 
titolare 
del 
trattamento. La 
finalità 
del 
trattamento è 
determinata 
in tale 
base 
giuridica 
o, per quanto riguarda 
il 
trattamento di 
cui 
al 
paragrafo 1, lettera 
e), è 
necessaria 
per l'esecuzione 
di 
un compito svolto nel 
pubblico 
interesse 
o 
connesso 
all'esercizio 
di 
pubblici 
poteri 
di 
cui 
è 
investito 
il 
titolare 
del 
trattamento. 
tale 
base 
giuridica 
potrebbe 
contenere 
disposizioni 
specifiche 
per adeguare 
l'applicazione 
delle 
norme 
del 
presente 
regolamento, tra 
cui: 
le 
condizioni 
generali 
relative 
alla 
liceità 
del 
trattamento da 
parte 
del 
titolare 
del 
trattamento; 
le 
tipologie 
di 
dati 
oggetto 
del 
trattamento; 
gli 
interessati; 
i 
soggetti 
cui 
possono 
essere 
comunicati 
i 
dati 
personali 
e 
le 
finalità 
per cui 
sono comunicati; 
le 
limitazioni 
della 
finalità, i 
periodi 
di 
conservazione 
e 
le 
operazioni 
e 
procedure 
di 
trattamento, comprese 
le 
misure 
atte 
a 
garantire 
un 
trattamento lecito e 
corretto, quali 
quelle 
per altre 
specifiche 
situazioni 
di 
trattamento di 
cui 
al 
capo IX. 
Il 
diritto 
dell'Unione 
o 
degli 
Stati 
membri 
persegue 
un 
obiettivo 
di 
interesse 
pubblico 
ed 
è 
proporzionato 
all'obiettivo legittimo perseguito. […]». 
(10) Mentre 
l’articolo 9 afferma 
che 
«1. È 
vietato trattare 
dati 
personali 
che 
rivelino l'origine 
razziale 
o etnica, le 
opinioni 
politiche, le 
convinzioni 
religiose 
o filosofiche, o l'appartenenza 
sindacale, 
nonché 
trattare 
dati 
genetici, dati 
biometrici 
intesi 
a 
identificare 
in modo univoco una 
persona 
fisica, 
dati 
relativi 
alla 
salute 
o alla 
vita 
sessuale 
o all'orientamento sessuale 
della 
persona. 2. Il 
paragrafo 1 
non 
si 
applica 
se 
si 
verifica 
uno 
dei 
seguenti 
casi: 
a) 
l'interessato 
ha 
prestato 
il 
proprio 
consenso 
esplicito 
al 
trattamento di 
tali 
dati 
personali 
per una 
o più finalità 
specifiche, salvo nei 
casi 
in cui 
il 
diritto del-
l'Unione 
o degli 
Stati 
membri 
dispone 
che 
l'interessato non possa 
revocare 
il 
divieto di 
cui 
al 
paragrafo 
1; 
b) il 
trattamento è 
necessario per assolvere 
gli 
obblighi 
ed esercitare 
i 
diritti 
specifici 
del 
titolare 
del 
trattamento 
o 
dell'interessato 
in 
materia 
di 
diritto 
del 
lavoro 
e 
della 
sicurezza 
sociale 
e 
protezione 
sociale, 
nella 
misura 
in 
cui 
sia 
autorizzato 
dal 
diritto 
dell'Unione 
o 
degli 
Stati 
membri 
o 
da 
un 
contratto 
collettivo 
ai 
sensi 
del 
diritto degli 
Stati 
membri, in presenza 
di 
garanzie 
appropriate 
per i 
diritti 
fondamentali 
e 
gli 
interessi 
dell'interessato; 
c) il 
trattamento è 
necessario per tutelare 
un interesse 
vitale 
dell'interessato o 
di 
un'altra 
persona 
fisica 
qualora 
l'interessato 
si 
trovi 
nell'incapacità 
fisica 
o 
giuridica 
di 
prestare 
il 
proprio consenso; 
d) il 
trattamento è 
effettuato, nell'ambito delle 
sue 
legittime 
attività 
e 
con adeguate 
garanzie, da 
una 
fondazione, associazione 
o altro organismo senza 
scopo di 
lucro che 
persegua 
finalità 
politiche, 
filosofiche, 
religiose 
o 
sindacali, 
a 
condizione 
che 
il 
trattamento 
riguardi 
unicamente 
i 
membri, 
gli 
ex membri 
o le 
persone 
che 
hanno regolari 
contatti 
con la 
fondazione, l'associazione 
o l'organismo 
a 
motivo delle 
sue 
finalità 
e 
che 
i 
dati 
personali 
non siano comunicati 
all'esterno senza 
il 
consenso del-
l'interessato; 
e) il 
trattamento riguarda 
dati 
personali 
resi 
manifestamente 
pubblici 
dall'interessato; 
f) il 
trattamento 
è 
necessario 
per 
accertare, 
esercitare 
o 
difendere 
un 
diritto 
in 
sede 
giudiziaria 
o 
ogniqualvolta 
le 
autorità 
giurisdizionali 
esercitino le 
loro funzioni 
giurisdizionali; 
g) il 
trattamento è 
necessario per 
motivi 
di 
interesse 
pubblico rilevante 
sulla 
base 
del 
diritto dell'Unione 
o degli 
Stati 
membri, che 
deve 
essere 
proporzionato 
alla 
finalità 
perseguita, 
rispettare 
l'essenza 
del 
diritto 
alla 
protezione 
dei 
dati 
e 
prevedere 
misure 
appropriate 
e 
specifiche 
per tutelare 
i 
diritti 
fondamentali 
e 
gli 
interessi 
dell'interessato; 
h) il 
trattamento è 
necessario per finalità 
di 
medicina 
preventiva 
o di 
medicina 
del 
lavoro, valutazione 
della 
capacità 
lavorativa 
del 
dipendente, 
diagnosi, 
assistenza 
o 
terapia 
sanitaria 
o 
sociale 
ovvero 
gestione 
dei 
sistemi 
e 
servizi 
sanitari 
o sociali 
sulla 
base 
del 
diritto dell'Unione 
o degli 
Stati 
membri 
o conformemente 
al 
contratto con un professionista 
della 
sanità, fatte 
salve 
le 
condizioni 
e 
le 
garanzie 
di 
cui 
al 
paragrafo 
3; 
i) il 
trattamento è 
necessario per motivi 
di 
interesse 
pubblico nel 
settore 
della 
sanità 
pubblica, 
quali 
la 
protezione 
da 
gravi 
minacce 
per la 
salute 
a 
carattere 
transfrontaliero o la 
garanzia 
di 
parametri 
elevati 
di 
qualità 
e 
sicurezza 
dell'assistenza 
sanitaria 
e 
dei 
medicinali 
e 
dei 
dispositivi 
medici, sulla 
base 
del 
diritto dell'Unione 
o degli 
Stati 
membri 
che 
prevede 
misure 
appropriate 
e 
specifiche 
per tutelare 
i 
diritti 
e 
le 
libertà 
dell'interessato, in particolare 
il 
segreto professionale; 
j) il 
trattamento è 
necessario a 
fini 
di 
archiviazione 
nel 
pubblico 
interesse, 
di 
ricerca 
scientifica 
o 
storica 
o 
a 
fini 
statistici 
in 
conformità 
dell'articolo 89, paragrafo 1, sulla 
base 
del 
diritto dell'Unione 
o nazionale, che 
è 
proporzionato alla 
finalità 
perseguita, 
rispetta 
l'essenza 
del 
diritto 
alla 
protezione 
dei 
dati 
e 
prevede 
misure 
appropriate 
e 

CONtENzIOSO 
COMUNItARIO 
ED 
INtERNAzIONALE 


tion 
of 
the 
interoperable 
certificates». 
Si 
precisa 
in 
maniera 
opportuna 
che 
tale 
proposta 
«it 
also 
does 
not 
regulate 
the 
processing 
of 
personal 
data 
related 
to 
the 
documentation 
of 
vaccination, 
test 
or 
recovery 
events 
for 
other 
purposes, 
such 
as 
for 
the 
purpose 
of 
pharmacovigilance 
or 
for 
the 
maintance 
of 
individual 
personal 
health 
records. 
the 
legal 
basis 
for 
processing 
for 
other 
purpose 
is 
to 
be 
provided 
in 
national 
law 
which 
must 
comply 
with 
union 
data 
protection 
legislation». 
In 
altri 
termini, 
la 
proposta 
della 
Commissione 
che, 
si 
ribadisce, 
non 
costituisce 
la 
base 
legale 
per 
il 
trattamento 
di 
dati 
personali 
da 
parte 
degli 
Stati 
di 
destinazione, 
rimette 
agli 
Stati 
membri 
la 
possibilità 
di 
prevedere 
con 
legge 
nazionale 
“other 
purposes”, 
ossia 
altri 
scopi 
a 
cui 
destinare 
i 
dati 
contenuti 
nel 
certificato 
(come 
ad 
esempio 
la 
farmacovigilanza), 
sempre 
nel 
rispetto 
della 
legislazione 
a 
tutela 
della 
privacy. 
Si 
precisa, 
inoltre, 
che 
la 
Commissione 
ha 
consultato 
nella 
redazione 
della 
proposta 
l’european 
data 
protection 
Supervisor 
ai 
sensi 
dell’art. 
42(1) 
del 
regolamento 
2018/1725 
(11). 


Il 
certificato 
dovrebbe 
entrare 
in 
vigore 
il 
prossimo 
15 
giugno 
2021 
e 
tale 
termine 
impone 
che 
gli 
Stati 
membri 
debbano apportare 
le 
modifiche 
necessarie 
ai 
rispettivi 
sistemi 
nazionali 
di 
rilascio 
dei 
documenti 
sanitari 
sulla 
base 
del 
principio del 
“common path to safe”, “an interactive 
digital 
tool 
for 
safe 
reopening” 
(12), 
ossia 
di 
un 
comune 
percorso 
e 
un 
comune 
strumento 
digitale 
interattivo per uscire 
dalla 
pandemia 
basato sull’interoperabilità 
dei 
dati 
e 
sul 
criterio dell’one 
only, ossia 
l’acquisizione 
unica 
del 
dato per la 
sua 
validità 
in 
tutta 
Europa. Si 
tratta 
di 
quei 
principi 
di 
coordination, predictability 
e 
transparency 
elaborati 
dall’ECDC, ossia 
l’european Centre 
for 
disease, 
prevention 
and 
Control, 
centro 
europeo 
per 
il 
controllo 
e 
la 
prevenzione 
delle 
malattie. Si 
pone, però, il 
problema 
tecnico degli 
schemi 
di 
certificazione 
sottoposti 
al 
Board, ai 
sensi 
dell’art. 42 del 
GDPR, da 
vari 
enti 
di 
certificazione 
che 
dovranno essere 
esaminati 
per garantire 
la 
sicurezza 
dei 
documenti 
in circolazione. 
Sono candidati 
a 
divenire 
sigilli 
europei 
sia 
l’EUROPRIVACY 
sia 


specifiche 
per tutelare 
i 
diritti 
fondamentali 
e 
gli 
interessi 
dell'interessato. 3. I dati 
personali 
di 
cui 
al 
paragrafo 1 possono essere 
trattati 
per le 
finalità 
di 
cui 
al 
paragrafo 2, lettera 
h), se 
tali 
dati 
sono trattati 
da 
o 
sotto 
la 
responsabilità 
di 
un 
professionista 
soggetto 
al 
segreto 
professionale 
conformemente 
al 
diritto dell'Unione 
o degli 
Stati 
membri 
o alle 
norme 
stabilite 
dagli 
organismi 
nazionali 
competenti 
o da 
altra 
persona 
anch'essa 
soggetta 
all'obbligo di 
segretezza 
conformemente 
al 
diritto dell'Unione 
o degli 
Stati 
membri 
o alle 
norme 
stabilite 
dagli 
organismi 
nazionali 
competenti. 4. Gli 
Stati 
membri 
possono 
mantenere 
o 
introdurre 
ulteriori 
condizioni, 
comprese 
limitazioni, 
con 
riguardo 
al 
trattamento 
di 
dati 
genetici, dati biometrici o dati relativi alla salute». 


(11) L’art. 42 (1) del 
regolamento 2018/1725, afferma 
che 
«Dopo l’adozione 
di 
proposte 
di 
atti 
legislativi 
e 
di 
raccomandazioni 
o proposte 
al 
Consiglio a 
norma 
dell’articolo 218 tFUE 
o durante 
la 
stesura 
di 
atti 
delegati 
o di 
esecuzione, qualora 
essi 
incidano sulla 
tutela 
dei 
diritti 
e 
delle 
libertà 
delle 
persone 
in relazione 
al 
trattamento dei 
dati 
personali, la 
Commissione 
consulta 
il 
Garante 
europeo della 
protezione dei dati». 
(12) AA.VV., Coronavirus: a 
common path to europe’s 
safe 
re-opening, in www.moderndiplomacy.
eu. 

RASSEGNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 4/2020 


il 
GDPR CARPA 
che 
saranno esaminati 
da 
un punto di 
vista 
della 
sicurezza 
tecnica il prossimo 16 aprile. 


Il 
digital 
green 
Certificate 
si 
inserisce 
dal 
punto 
di 
vista 
giuridico 
in 
quelle 
misure 
adottate 
per ragioni 
di 
“public 
security, public 
policy 
or 
public 
health” 
che 
l’art. 
21 
del 
trattato 
sul 
Funzionamento 
dell’Unione 
Europea 
consente 
di 
introdurre 
nel 
rispetto del 
principio di 
proporzionalità 
e 
non discriminazione. 


L’art. 21 sopra richiamato espressamente recita: 


1. “ogni 
cittadino dell’unione 
ha il 
diritto di 
circolare 
e 
di 
soggiornare 
liberamente 
nel 
territorio 
degli 
Stati 
membri, 
fatte 
salve 
le 
limitazioni 
e 
le 
condizioni 
previste 
dai 
trattati 
e 
dalle 
disposizioni 
adottate 
in 
applicazione 
degli stessi. 
2. 
Quando 
un’azione 
dell’unione 
risulti 
necessaria 
per 
raggiungere 
questo 
obiettivo e 
salvo che 
i 
trattati 
non abbiamo previsto poteri 
di 
azione 
a tal 
fine, il 
parlamento europeo e 
il 
Consiglio, deliberando secondo la procedura 
legislativa ordinaria, possono adottare 
disposizioni 
intese 
a facilitare 
l’esercizio 
dei diritti di cui al paragrafo 1. 
3. 
agli 
stessi 
fini 
enunciati 
al 
paragrafo 1 e 
salvo che 
i 
trattati 
non abbiano 
previsto 
poteri 
di 
azione 
a 
tale 
scopo, 
il 
Consiglio, 
deliberando 
secondo 
una 
procedura 
legislativa 
speciale, 
può 
adottare 
misure 
relative 
alla 
sicurezza 
sociale 
o 
alla 
protezione 
sociale. 
il 
Consiglio 
delibera 
all’unanimità 
previa consultazione del parlamento europeo”. 
Non vi 
è 
dubbio che 
il 
digital 
green Certificate 
risponde 
ad esigenze 
di 
sicurezza 
e 
protezione 
sociale: 
sono 
condivisibili 
i 
“principles 
and 
modelrule” 
ed è 
certamente 
sussistente 
la 
c.d. “consistency 
with other 
union policies”, 
ossia 
la 
coerenza 
con altre 
precedenti 
misure 
adottate 
dall’Unione 
per 
arginare 
la 
diffusione 
della 
pandemia 
come 
quelle 
adottate 
dall’health 
Security 
Committee 
e 
dall’ehealth Network, ma 
spetterà 
all’implementazione 
tecnica, 
l’attività 
di 
monitoring, 
evaluation 
e 
reporting 
arrangements 
assicurando 
clear 
rules, 
conditions 
e 
robust 
safeguard 
a 
tutela 
degli 
standards 
di 
sicurezza 
e 
protezione 
dei dati (13). 


La 
Commissione 
Europea 
sta 
collaborando con l’Organizzazione 
mondiale 
della 
sanità 
per 
garantire 
che 
i 
certificati 
rilasciati 
nell’UE 
possano 
essere 
riconosciuti 
anche 
nel 
resto 
del 
mondo. 
La 
Commissione 
è, 
inoltre, 
in 
contatto 
con 
l’ICAO, 
l’organizzazione 
internazionale 
che 
rappresenta 
il 
trasporto 
aereo. 


I 
primi 
problemi 
si 
stanno 
ponendo 
con 
gli 
Stati 
Uniti 
a 
causa 
di 
un 
order 
impartito 
alle 
compagnie 
aeree 
europee 
dal 
Centro 
statunitense 
per 
il 
controllo 


(13) RAISA 
SANtOS, european parliament 
Signals 
approval 
of 
digital 
green Certificate 
Scheme, 
in 
www.healthpolicy-watch.news; 
AA.VV., 
will 
travel 
be 
possible 
this 
summer 
with 
the 
eu’s 
digital 
green Certificate?, in www.euronews.com; 
AA.VV., eu 
unveils 
digital 
green Certificate 
plans 
to support 
free movement and avoid fragmentation, in www.futuretravelexperience.com. 

CONtENzIOSO 
COMUNItARIO 
ED 
INtERNAzIONALE 


e 
la 
prevenzione 
delle 
malattie, 
ai 
sensi 
dell’art. 
361 
del 
public 
Service 
act, 
di 
raccogliere 
e 
conservare 
per 
2 
anni 
alcuni 
dati 
sanitari 
dei 
passeggeri 
relativi 
a 
Covid 
19. 


Si 
pone 
su 
tale 
profilo 
la 
questione 
della 
compatibilità 
delle 
disposizioni 
statunitensi 
con 
la 
legislazione 
UE 
sulla 
protezione 
dei 
dati. 
È 
auspicabile 
un 
confronto 
con 
la 
IAtA 
(the 
International 
Air 
transport 
Association) 
per 
un’attività 
di 
aviation’s 
support, 
volta 
a 
definire 
standard 
globali 
di 
safety, 
security 
e 
efficiency. 


IAtA 
lancerà 
ufficialmente 
il 
travel 
pass 
a 
metà 
aprile. 
A 
riportare 
la 
notizia 
è 
travelmole 
(14), 
la 
fonte 
precisa 
che 
l’app 
è 
ancora 
in 
fase 
di 
test 
con 
più 
compagnie 
aeree 
e 
che 
sarà 
lanciata 
inizialmente 
sulla 
piattaforma 
iOS. 
Poi 
in 
una 
data 
successiva, 
ma 
ancora 
non 
precisata, 
sarà 
implementata 
su 
Android. 


È 
auspicabile 
un’azione 
di 
coordinamento 
con 
IAtA 
per 
evitare 
che 
le 
garanzie 
del 
digital 
green 
pass 
siano 
vanificate 
dal 
travel 
pass 
adottato 
dalle 
compagnie 
aeree 
private. 
Si 
ricorda 
che 
IAtA 
rappresenta 
290 
compagnie 
aeree 
che 
coprono 
l’82 
per 
cento 
del 
traffico 
globale. 
La 
gestione 
dei 
certificati 
vaccinali 
deve 
rimanere 
pubblica, 
affidata 
agli 
Stati 
con 
le 
opportune 
garanzie 
a 
tutela 
dei 
diritti 
fondamentali 
dei 
cittadini, 
ma 
il 
problema 
è 
l’assenza 
di 
uno 
standard 
globale 
per 
le 
certificazioni 
(test 
e 
vaccino) 
che 
possa 
garantire 
un’uniformità di regole nel trasporto aereo. 

In Italia 
sono stati 
introdotti 
i 
voli 
“Covid-tested”, ossia 
i 
voli 
autorizzati 
dal 
Ministero della 
Salute 
mediante 
apposita 
ordinanza. I passeggeri 
sono tenuti 
a 


1) 
a 
consegnare 
al 
vettore 
all’atto 
dell’imbarco, 
e 
a 
chiunque 
sia 
deputato 
a 
effettuare 
i 
controlli, la 
certificazione 
attestante 
il 
risultato negativo del 
test 
molecolare 
(Rt 
PCR) o antigenico, effettuato per mezzo di 
tampone 
non oltre 
48 ore precedenti all’imbarco; 
2) 
a 
consegnare 
al 
vettore 
la 
dichiarazione 
di 
cui 
all’art. 50 del 
DPCM 
2 
marzo 2021; 
3) 
a 
compilare 
il 
modulo 
di 
localizzazione 
dei 
passeggeri 
(passenger 
locator 
Form plF) da esibire prima dell’imbarco; 
4) 
ad effettuare 
nuovamente 
test 
molecolare 
(Rt 
PCR) o antigenico effettuato 
per mezzo di tampone all’arrivo dell’aeroporto di destinazione. 
La 
sperimentazione 
dei 
voli 
“Covid tested” 
(15) individuata 
dalle 
Ordinanze 
del 
23 novembre 
2020 e 
del 
9 marzo 2021 è 
stata 
estesa 
fino al 
30 giugno 
2021 
con 
la 
precisazione 
che 
nel 
caso 
di 
mancato 
imbarco 
sul 
volo 
“Covid-tested”, 
per 
risultato 
positivo 
al 
Covid-19, 
è 
previsto, 
a 
cura 
del 
vettore 
aereo, il 
rimborso del 
biglietto o l’emissione 
di 
un voucher di 
pari 
importo su 


(14) AA.VV., iata 
to launch travel 
pass 
app this 
month, in www.travelmole.com; 
AA.VV., trasporto 
aereo, da metà aprile in funzione iata travel pass, in www.quifinanza.it. 
(15) Ministero della Salute, voli Covid-tested e passenger locator Form, in 
www.salute.gov.it. 

RASSEGNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 4/2020 


richiesta 
del 
passeggero, 
entro 
quattordici 
giorni 
dalla 
data 
di 
effettuazione 
del recesso e valido per diciotto mesi dall’emissione. 


È 
chiaro 
che 
l’introduzione 
a 
livello 
europeo 
del 
digital 
green 
Certificate 
supererà anche tali disposizioni interne. 


Sarà 
questo 
uno 
dei 
profili 
che 
il 
Presidente 
del 
Parlamento 
Europeo 
Sassoli 
dovrà 
esaminare 
nell’assise 
europea 
fissata 
per 
il 
prossimo 
26 
aprile 
2021. 



CONtENzIOSO 
COMUNItARIO 
ED 
INtERNAzIONALE 


I giudici di Strasburgo sull’obbligo vaccinale. Il riassunto 
della sentenza: una cornice di principi che gli Stati 
devono osservare nel creare un giusto bilanciamento tra 
obblighi vaccinali e rispetto della sfera privata 


Corte 
europea 
dei 
diritti 
dell’uomo, graNde 
Camera, SeNteNza 
vavřičKa 
aNd 
otherS 
v. the 
CzeCh 
repuBliC, 8 aprile 
2021 


Antonio Grumetto* 


repubblica Ceca -Vaccinazioni 
obbligatorie 
per 
i 
bambini 
-sanzioni 
pecuniarie 
o interdittive 
-violazione 
dell’art. 8 della Cedu 
(rispetto della vita privata) -condizioni 
esclusione. 


La 
sentenza 
decide 
sei 
ricorsi, di 
cui 
uno presentato da 
un genitore 
che 
era 
stato multato per non aver sottoposto il 
proprio figlio in età 
scolare 
alla 
vaccinazione 
obbligatoria, 
mentre 
gli 
altri 
erano 
stati 
presentati 
da 
genitori 
per 
conto dei 
propri 
figli 
minori 
ai 
quali 
era 
stata 
negata 
l’iscrizione 
al 
nido o all’asilo 
per lo stesso motivo. 


La Corte ha escluso la violazione dell’articolo 8. 


Ha 
osservato, 
innanzitutto, 
che 
l’interferenza 
con 
il 
diritto 
al 
rispetto 
della 
vita 
privata 
non poteva 
essere 
escluso, ma 
che 
tale 
interferenza 
era 
prevista 
dalla 
legge 
ed 
era 
diretta 
a 
perseguire 
lo 
scopo 
di 
proteggere 
la 
salute 
e 
il 
diritto 
anche degli altri cittadini. 


L’interferenza 
è 
stata 
poi 
ritenuta 
necessaria 
in una 
società 
democratica 
sulla base di una serie di presupposti. 


La 
Corte 
ha 
innanzitutto osservato che 
in questa 
materia 
gli 
Stati 
godono 
di 
un margine 
di 
apprezzamento assai 
ampio e 
che 
nel 
caso di 
specie 
la 
legge 
non 
prevedeva 
che 
le 
vaccinazioni 
dovessero 
essere 
comunque 
eseguite 
anche 
contro la volontà dei genitori dei bambini. 


La 
Corte 
ha 
osservato 
inoltre 
che 
tra 
gli 
Stati 
contraenti 
esisteva 
una 
convinzione 
molto forte 
che 
la 
vaccinazione 
costituisca 
uno degli 
strumenti 
più 
efficaci 
di 
intervento per assicurare 
la 
salute 
pubblica 
e 
sull’opportunità 
che 
ogni Stato dovrebbe raggiungere il più alto possibile livello di vaccinazioni. 


tra 
i 
vari 
modelli 
di 
politica 
vaccinale 
(a 
partire 
da 
quello 
che 
si 
basa 
sulla 
semplice 
raccomandazione 
fino 
a 
quello 
che 
prevede 
la 
somministrazione 
obbligatoria 
di 
tutti 
i 
vaccini 
disponibili) 
la 
Repubblica 
Ceca 
aveva 
seguito 
un approccio obbligatorio a 
causa 
di 
una 
diminuzione 
del 
ricorso volontario 
alla vaccinazione ed una conseguente riduzione dell’immunità di gregge. 


(*) Avvocato dello Stato. 


Sentenza reperibile da: http://hudoc.echr.coe.int/fre?i=001-209039. 



RASSEGNA 
AVVOCAtURA 
DELLO 
StAtO -N. 4/2020 


La 
Corte 
ha 
notato altresì 
che, nel 
caso di 
specie, occorreva 
verificare 
se 
la 
Repubblica 
Ceca 
avesse 
raggiunto 
un 
corretto 
bilanciamento 
fra, 
da 
un 
lato, 
la 
prospettiva 
di 
coloro che 
non intendevano sottoporsi 
alla 
vaccinazione 
obbligatoria 
e 
dall’altro l’esigenza, ispirata 
alla 
solidarietà 
sociale, di 
assicurare 
attraverso la 
campagna 
vaccinale 
la 
protezione 
anche 
di 
coloro che 
erano particolarmente 
vulnerabili rispetto ad alcune malattie. 


In 
questo 
campo 
vi 
era 
sicuramente 
un’esigenza 
sociale 
di 
proteggere 
la 
salute 
individuale 
e 
quella 
collettiva 
e 
di 
prevenire 
ogni 
diminuzione 
del 
ricorso 
alla 
vaccinazione 
volontaria 
dei 
bambini. 
In 
questa 
prospettiva 
doveva 
essere 
tenuto 
conto 
dell’interesse 
dei 
minori 
e 
tale 
interesse, 
secondo 
la 
Corte, 
richiedeva 
che 
ogni 
bambino 
venga 
protetto 
contro 
le 
malattie 
gravi 
attraverso 
il 
maggior 
numero 
di 
vaccinazioni 
fin 
dai 
primi 
anni 
di 
vita. 
Ciò 
allo 
scopo 
di 
proteggere 
attraverso 
l’immunità 
di 
gregge 
anche 
coloro 
che 
non 
possono 
essere 
sottoposti 
a 
tale 
vaccinazione 
in 
ragione 
delle 
loro 
condizioni 
di 
salute. 
Sicché 
se 
tale 
obiettivo 
non 
poteva 
essere 
realizzato 
attraverso 
una 
campagna 
di 
vaccinazione 
su 
base 
volontaria 
o 
se 
tale 
immunità 
di 
gregge 
non 
era 
efficace 
per 
la 
natura 
della 
malattia, 
una 
politica 
di 
vaccinazione 
obbligatoria 
appariva 
ragionevole 
al 
fine 
di 
assicurare 
un 
appropriato 
livello 
di 
protezione 
contro 
malattie 
gravi. 


Pertanto, 
nel 
caso 
di 
specie 
la 
politica 
sanitaria 
della 
Repubblica 
ceca 
appariva 
coerente con la tutela degli interessi dei minori. 


La Corte ha poi notato che la misura era anche proporzionata. 


In 
primo 
luogo, 
si 
trattava 
di 
vaccinazioni 
obbligatorie 
riguardanti 
10 
malattie 
nei 
confronti 
delle 
quali 
la 
vaccinazione 
era 
considerata 
efficace 
e 
sicura 
dalla comunità scientifica. 


La 
legge 
prevedeva 
delle 
eccezioni 
all’obbligo 
vaccinale 
basate 
sulla 
condizione 
di 
salute 
del 
minore 
o in base 
a 
ragioni 
di 
coscienza. tali 
eccezioni 
dovevano 
essere 
rigorosamente 
accertate. 
tuttavia, 
nessuno 
dei 
richiedenti 
aveva fatto ricorso a tali eccezioni. 


L’obbligo vaccinale 
non poteva 
essere 
poi 
imposto direttamente, ma 
era 
assicurato dalla 
previsione 
di 
sanzioni 
di 
entità 
lieve 
e 
attraverso il 
rifiuto di 
iscrizione agli asili nido e alla pre-scuola. 


La 
legge 
poi 
prevedeva 
dei 
rimedi 
di 
carattere 
amministrativo giudiziale 
contro le sanzioni previste per il rifiuto di sottoporsi alla vaccinazione. 


La 
Corte 
ha 
inoltre 
notato che 
l’approccio legislativo adottato dalle 
autorità 
era 
caratterizzato 
da 
una 
flessibilità 
rispetto 
agli 
sviluppi 
della 
scienza 
medica 
della farmacologia e che era stato condotto in maniera trasparente. 


Sebbene 
non 
poteva 
escludersi 
l’eventualità 
di 
alcuni 
rari 
effetti 
collaterali 
delle 
vaccinazioni, 
ancorché 
gravi, 
la 
Corte 
ha 
ricordato 
l’importanza 
delle 
precauzioni 
che 
devono precedere 
la 
vaccinazione, come 
il 
controllo della 
sicurezza 
del 
vaccino 
e 
la 
verifica 
di 
ogni 
possibile 
controindicazione. 
La 
Corte 
ha 
poi 
osservato che 
nel 
caso in esame 
era 
prevista 
una 
libertà 
sia 
nella 
scelta 
del vaccino sia nel momento in cui sottoporsi alla somministrazione. 



CONtENzIOSO 
COMUNItARIO 
ED 
INtERNAzIONALE 


La 
Corte 
ha 
poi 
notato che 
sebbene 
la 
previsione 
di 
un risarcimento del 
danno causato dalla 
vaccinazione 
obbligatoria 
sia 
un elemento da 
prendere 
in 
considerazione 
per 
la 
valutazione 
generale 
della 
compatibilità 
della 
misura 
con l’art. 8 della 
Convenzione, nel 
caso di 
specie 
la 
questione 
non assumeva 
rilevanza 
in quanto i 
vaccini 
non erano stati 
somministrati 
ai 
ricorrenti 
e 
comunque 
i 
fatti 
rilevanti 
del 
procedimento 
domestico 
erano 
accaduti 
quando 
un risarcimento era previsto in base alla legge nazionale. 


Secondo la 
Corte, infine, l’interferenza 
con il 
rispetto della 
vita 
privata 
doveva 
considerarsi 
accettabile, considerato che 
uno dei 
richiedenti 
era 
stato 
sottoposto ad una 
multa 
pecuniaria 
di 
entità 
molto lieve, mentre 
l’esclusione 
degli 
altri 
ricorrenti 
dai 
primi 
livelli 
di 
istruzione 
era 
stata 
la 
conseguenza 
della 
scelta 
dei 
genitori 
di 
non 
sottoporli 
alla 
vaccinazione 
ed 
aveva 
comportato 
soltanto 
il 
differimento della 
iscrizione, dato che 
l’inserimento nei 
successivi 
livelli 
scolastici 
non era 
stato influenzato da 
tale 
rifiuto di 
vaccinarsi. Nel 
caso 
di 
specie 
occorreva 
poi 
considerare 
che 
la 
possibilità, per coloro che 
non potevano 
sottoporsi 
alle 
vaccinazioni 
obbligatorie 
in 
ragione 
delle 
loro 
condizioni 
di 
salute, di 
iscriversi 
alla 
pre-scuola 
dipendeva 
dalla 
adesione 
alla 
vaccinazione 
contro 
le 
malattie 
contagiose 
da 
parte 
degli 
altri 
bambini; 
sicché 
non 
poteva 
essere 
considerato irragionevole 
che 
lo Stato richiedesse, a 
coloro per i 
quali 
la 
vaccinazione 
rappresentava 
soltanto 
un 
remoto 
rischio 
sanitario, 
di 
sottoporsi 
a 
vaccinazioni 
obbligatorie 
in ragione 
di 
un principio di 
solidarietà 
sociale 
e 
nell’interesse 
di 
quel 
ridotto numero di 
bambini 
vulnerabili 
che 
non 
potevano sottoporvisi per ragioni di salute. 



ContenzioSonazionaLe
Le Sezioni Unite chiamate a ricomporre 
il 
puzzle 
del risarcimento danni da illegittima 
occupazione in tema di acquisizione sanante 


NotA 
A 
CAssAzioNe 
CiviLe, sezioNe 
PrimA, ordiNANzA 
24 diCembre 
2020 N. 29625 


Adolfo Mutarelli* 


sommArio: 
1. 
Premessa 
-2. 
ermeneusi 
e 
principio 
di 
concentrazione. 
Prove 
di 
resistenza 


- 3. dissonanze processuali - 4. Auspici conclusivi. 
1. Premessa. 
il 
delicato 
tema 
dell’acquisizione 
sanante 
(1) 
sembrava 
aver 
trovato 
definitiva 
sistemazione 
in 
virtù 
della 
condivisione 
da 
parte 
della 
Cassazione 
e 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
dell’orientamento 
secondo 
cui 
in 
tema 
di 
espropriazione 
per 
pubblica 
utilità, 
ove 
si 
discuta 
unicamente 
della 
quantificazione 
dell’importo 
dovuto 
in 
applicazione 
dell’art. 
42-bis, 
d.P.r. 
8 
giugno 
2001, 
n. 
327, 
sussiste 
la 
giurisdizione 
del 
giudice 
ordinario 
e 
le 
relative 
controversie 
sulla 
determinazione 
e 
corresponsione 
dell’indennizzo 
globalmente 
inteso 
sono 
devolute 
in 
unico 
grado 
alla 
Corte 
di 
Appello 
(2). 
Ciò 
in 
quanto 
deve 
ritenersi 
che 
l’acquisizione 
sanante 
integra 
un 
procedimento 
espropriativo 
“semplificato” 
che 
assorbe 
in 
sé 
sia 
la 
dichiarazione 
di 
pubblica 
utilità 
sia 
il 
decreto 
di 
esproprio 
e 
che 
peraltro 
è 
stato 
ritenuto 
immune 
da 
criticità 
di 
carattere 
costituzionale 
(3). 


(*) Già 
Avvocato dello Stato. 


(1) Sul 
tema 
è 
agevole 
il 
rinvio a 
M. BorGo 
-M. Morelli, L’acquisizione 
e 
l’utilizzo di 
immobili 
da parte della P.A., Giuffrè, 2012, pp. 277 e ss. 
(2) 
Cass., 
S.U., 
ord. 
15 
ottobre 
2020, 
n. 
22374; 
Cass. 
S.U. 
8 
novembre 
2011, 
n. 
28573; 
Cons. 
Stato, Sez. iV, 19 ottobre 2015 n. 4777. 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


Al 
di 
là 
dell’impugnazione 
dinanzi 
al 
giudice 
amministrativo 
del 
provvedimento 
acquisitivo 
per 
vizi 
di 
legittimità 
restano 
devoluti 
alla 
giurisdizione 
ordinaria 
anche 
i 
comportamenti 
materiali 
in alcun modo riconducibili 
all’esercizio di 
un potere 
amministrativo tipizzato (4) o l’occupazione 
di 
aree 
non 
previste 
nel 
decreto 
di 
occupazione 
(5) 
ovvero 
di 
sconfinamento 
(6). 
A 
tale 
ultimo 
riguardo 
è 
stato 
di 
recente 
riaffermato 
che 
nell’ipotesi 
di 
c.d. 
sconfinamento, 
ossia 
nel 
caso in cui 
la 
realizzazione 
dell'opera 
pubblica 
abbia 
interessato 
un 
terreno 
diverso 
o 
più 
esteso 
rispetto 
a 
quello 
considerato 
dai 
provvedimenti 
amministrativi 
di 
occupazione 
e 
di 
espropriazione, 
oltre 
che 
dalla 
dichiarazione 
di 
pubblica 
utilità, l'occupazione 
e 
la 
trasformazione 
del 
terreno 
da 
parte 
della 
pubblica 
amministrazione 
costituisce 
un 
comportamento 
di 
mero fatto, perpetrato in carenza 
assoluta 
di 
potere, che 
integra 
un illecito 
a 
carattere 
permanente, lesivo del 
diritto soggettivo (cd. occupazione 
usurpativa), 
onde 
l'azione 
di 
risarcimento 
del 
danno 
che 
ne 
consegue 
rientra 
nella 
giurisdizione del giudice ordinario. 

A 
tale 
conclusione 
non 
è 
di 
ostacolo 
il 
disposto 
del 
d.P.r. 
n. 
327 
del 
2001, 
art. 42-bis, introdotto dal 
d.l. n. 98 del 
2011, mod. con l. n. 111 del 
2011, 
sulla 
c.d. acquisizione 
sanante: 
tale 
norma, infatti, disciplina 
i 
presupposti 
per 
l'adozione 
del 
relativo provvedimento e 
la 
misura 
dell'indennizzo per il 
pregiudizio 
patrimoniale 
conseguente 
alla 
perdita 
definitiva 
dell'immobile, risultando, 
quindi, 
ininfluente 
in 
ordine 
ai 
criteri 
attributivi 
della 
giurisdizione 
sulle 
domande di risarcimento da occupazione 
"sine titulo" 
(7). 

Alla 
giurisdizione 
ordinaria 
resta 
riservata 
anche 
la 
determinazione 
della 
“voce” 
avente 
a 
oggetto il 
riconoscimento dell’interesse 
del 
cinque 
per cento 
del 
valore 
venale 
del 
bene, dovuto, a 
termini 
del 
dettato del 
comma 
3, ultima 


(3) Con la 
nota 
sentenza 
del 
30 aprile 
2015, n. 71 la 
Corte 
Costituzionale 
ha 
ritenuto infatti 
non 
fondata 
“la questione 
di 
legittimità costituzionale 
dell'art. 42-bis 
del 
d.P.r. 8 giugno 2001, n. 327, impugnato, 
in riferimento agli 
artt. 117, primo comma, e 
111 Cost., in quanto prevede 
l'acquisizione, non 
retroattiva, al 
patrimonio indisponibile, contro la corresponsione 
di 
indennizzo, del 
bene 
immobile 
utilizzato 
dalla pubblica amministrazione 
senza titolo per 
scopi 
di 
interesse 
pubblico e 
modificato in assenza 
di 
un valido provvedimento di 
esproprio o dichiarativo della pubblica utilità. il 
provvedimento 
acquisitivo previsto dalla norma impugnata, a differenza del 
provvedimento precedentemente 
previsto 
dall'art. 
43, 
è 
compatibile 
con 
la 
giurisprudenza 
della 
Corte 
edU 
in 
materia 
di 
espropriazioni 
cosiddette 
indirette 
in 
quanto 
presenta 
carattere 
non 
retroattivo 
-così 
che 
l'istituto 
non 
può 
essere 
utilizzato 
in 
presenza di 
un giudicato che 
abbia già disposto la restituzione 
del 
bene 
al 
privato -, si 
fonda su una necessaria 
rinnovazione 
della 
valutazione 
di 
attualità 
e 
prevalenza 
dell'interesse 
pubblico 
a 
disporre 
l'acquisizione 
e 
su 
uno 
stringente 
obbligo 
di 
motivazione. 
in 
particolare, 
l'obbligo 
motivazionale 
deve 
essere 
interpretato nel 
senso che 
l'adozione 
dell'atto è 
consentita solo quando non sia ragionevolmente 
possibile 
la 
restituzione, 
totale 
o 
parziale, 
del 
bene, 
previa 
riduzione 
in 
pristino, 
al 
privato 
illecitamente 
inciso nel suo diritto di proprietà”. 
(4) S. ACCordino, Acquisizione 
coattiva di 
cui 
all’art. 42 bis 
d.P.r. 327/2001: la procedura, in 
ed. exeo, 2020, p. 218. 
(5) T.A.r. Sicilia, Sez. Palermo, Sez. iii, 5 giugno 2015, n. 1317. 
(6) T.A.r. Campania, Sez. V, 1 agosto 2016, n. 3986. 
(7) Cass. S.U. 28 aprile 2020, n. 8237. 

ConTenzioSo 
nAzionAle 


parte, 
dell’art. 
42-bis 
d.P.r. 
327/2001, 
"a 
titolo 
di 
risarcimento 
del 
danno", 
giacché 
esso, ad onta 
del 
tenore 
letterale 
della 
norma, costituirebbe 
solo una 
“voce” 
del 
complessivo "indennizzo per 
il 
pregiudizio patrimoniale" 
di 
cui 
al 
precedente 
comma 
1. 
Conclusione 
ermeneutica 
imposta, 
secondo 
l’orientamento 
giurisprudenziale 
prevalente, dalla 
necessità 
di 
salvaguardare 
il 
principio 
costituzionale 
di 
concentrazione 
della 
tutela 
giurisdizionale 
avverso 
i 
provvedimenti ablatori (8). 

Proprio tale 
pacificante 
ultimo approdo è 
stato messo in discussione 
con 
una 
recente 
ordinanza 
interlocutoria 
(9) della 
Cassazione 
che 
ha 
rinviato gli 
atti 
al 
Primo Presidente 
per la 
rimessione 
alle 
Sezioni 
Unite 
sollecitando un 
ripensamento in ordine 
al 
principio secondo cui, in tema 
di 
acquisizione 
sanante 
ex 
art. 42-bis 
d.P.r. n. 327/2001, è 
stata 
attribuita 
natura 
indennitaria, e 
non 
risarcitoria, 
anche 
agli 
importi 
dovuti 
al 
proprietario 
del 
bene 
per 
il 
periodo 
di 
occupazione 
senza 
titolo. l’ordinanza 
di 
rimessione 
osserva 
come 
il 
tenore 
letterale 
della 
norma 
e 
il 
complessivo sistema 
del 
risarcimento del 
danno in 
materia 
di 
espropriazione 
depongono 
in 
senso 
contrario. 
di 
qui 
la 
necessità 
del richiesto riesame delle Sezioni Unite. 


2. ermeneusi e principio di concentrazione. Prove di resistenza. 
deve 
convenirsi 
con 
l’ordinanza 
di 
rimessione 
come 
sia 
poco 
convincente 
derubricare 
il 
riferimento “a titolo risarcitorio” 
contenuto del 
3° 
comma 
del-
l’art. 42-bis 
cit. a 
mera 
“imprecisione 
lessicale 
che 
non altera la natura della 
corrispondente 
voce 
dell’indennizzo, 
il 
quale 
essendo 
unitario 
non 
può 
che 
avere natura unitaria” 
(10). 


imprecisione 
che, 
invero, 
da 
un 
lato 
dà 
per 
scontata 
una 
grave 
incompetenza 
di 
tecnica 
legislativa 
e, 
dall’altro, 
è 
assai 
poco 
convincente 
in 
quanto 
nel 
medesimo 
art. 
42-bis 
cit. 
il 
termine 
indennizzo 
è 
utilizzato 
ben 
quattro 
volte 
mentre 
un’unica 
volta 
viene 
utilizzata 
la 
locuzione 
“a 
titolo 
di 
risarcimento 
danni”. 


Si 
aggiunga 
che 
allorché 
la 
disposizione 
al 
punto 
4 
illustra 
il 
contenuto 
del 
provvedimento 
acquisitivo 
dichiara 
che 
lo 
stesso 
deve 
liquidare 
“l’indennizzo 
di 
cui 
al 
comma 
1” 
senza 
alcun 
riferimento 
al 
risarcimento 
danni 
di 
cui 
al 
punto 
3. 


il 
ristoro 
del 
5% 
di 
cui 
al 
comma 
3 
(e 
diversamente 
dall’indennizzo 
di 
cui 
al 
comma 
1) 
non 
appare, 
quindi, 
normativamente 
orientato 
a 
ristorare 
l’integrità 
patrimoniale 
derivante 
dall’acquisizione 
ma 
a 
risarcire 
un comportamento 
di 
illegittima 
occupazione: 
cioè 
pregiudizi 
ontologicamente 
diversi 
e 
differenziati. il primo da attività lecita e il secondo da attività 
contra ius. 


Peraltro 
sotto 
il 
profilo 
rigorosamente 
ermeneutico 
il 
ribaltamento 
coper


(8) Cass. S.U. 25 luglio 2016, n. 15283. 
(9) Cass., ord., 24 dicembre 2020, n. 29625. 
(10) Testualmente da Cass. S.U., 12583/2016 cit. 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


nicano della 
locuzione 
“a titolo risarcitorio” 
di 
cui 
al 
punto 3 dell’art. 42-bis 
in esame 
contrasta 
con il 
pacifico orientamento di 
legittimità 
secondo cui 
l'attività 
ermeneutica, in consonanza 
con i 
canoni 
legislativi 
di 
ermeneusi 
dettati 
dall'art. 12 preleggi, deve 
essere 
condotta 
innanzitutto e 
principalmente, mediante 
il ricorso al criterio letterale (11). 

il 
primato 
dell'interpretazione 
letterale 
è, 
infatti, 
costantemente 
confermato 
dalla 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
secondo 
cui 
all'intenzione 
del 
legislatore, 
secondo 
un'interpretazione 
logica, 
può 
darsi 
rilievo 
nell'ipotesi 
che 
tale 
significato 
non 
sia 
già 
tanto 
chiaro 
ed 
univoco 
da 
rifiutare 
una 
diversa 
e 
contraria 
interpretazione. 
Alla 
stregua 
del 
ricordato 
insegnamento, 
l'interpretazione 
da 
seguire 
deve 
essere, 
dunque, 
quella 
che 
risulta 
il 
più 
possibile 
aderente 
al 
senso 
letterale 
delle 
parole, 
nella 
loro 
formulazione 
tecnico 
giuridica 
(12). 


del 
resto 
la 
stessa 
giurisprudenza 
della 
Corte 
costituzionale 
è 
costante 
nel 
ritenere 
che 
l’interpretazione 
adeguatrice, orientata 
a 
rendere 
il 
dato normativo 
conforme 
alla 
Costituzione 
e 
ai 
suoi 
principi, 
è 
percorribile 
sempre 
che non trovi insuperabile limite nel dato letterale della disposizione (13). 

Sicché 
sembra 
non 
agevole 
dilatare 
il 
significato 
della 
locuzione 
“a 
titolo 
risarcitorio”, 
dal 
chiaro 
tenore 
lessicale 
e 
tecnico 
giuridico, 
sino 
a 
qualificarla 
come 
mera 
“voce” 
del 
pregiudizio 
patrimoniale 
derivante 
dall’acquisizione 
di 
cui, 
evidentemente, 
ne 
condividerebbe 
la 
natura 
indennitaria. 
Manipolazione 
ermeneutica 
che 
(seppur 
informata 
a 
condivisibili 
obiettivi 
di 
semplificazione) 
mira 
a 
concentrare, 
oltre 
il 
dato 
testuale 
della 
norma, 
dinanzi 
alla 
giurisdizione 
ordinaria 
il 
“blocco di 
materia” 
dell’indennizzo (globalmente 
inteso) ex 
art. 
42-bis 
cit. 
piuttosto 
che 
consentire 
la 
possibile 
trasmigrazione 
del 
giudizio 
(non 
più 
indennitario 
bensì) 
risarcitorio 
dinanzi 
alla 
giurisdizione 
esclusiva 
del giudice amministrativo. 

3. dissonanze processuali. 
Si 
consideri 
inoltre 
che, sul 
piano rigorosamente 
processuale, l’orientamento 
prevalente 
che 
riconosce 
natura 
(para)indennitaria 
al 
risarcimento del 
danno di 
cui 
al 
punto 3 dell’art. 42-bis 
in esame 
comporta, quale 
ricaduta 
propria 
dell’acquisizione 
sanante 
come 
procedura 
espropriativa 
semplificata, 
che 
legittimata 
passiva 
nei 
relativi 
giudizi 
sia 
la 
sola 
Pubblica 
Amministrazione 
procedente. 
Andrebbe 
in 
tal 
modo 
esente 
da 
responsabilità 
o 
corresponsabilità 
il 
concessionario cui 
magari 
è 
proprio da 
ascrivere 
l’illegittimità 
dell’occupazione 
per erroneità della procedura espropriativa osservata. 

Quanto 
precede 
in 
dissonanza 
rispetto 
alla 
consolidata 
giurisprudenza 
in 


(11) Cass., S.U., 5 luglio 1982, n. 4000. 
(12) Cass., S.U. 23 aprile 
2020, n. 8091; 
Cass., 4 ottobre 
2018, n. 24165; 
Cass. 6 aprile 
2001, n. 
5128. 
(13) Corte Cost. 26 novembre 2020, n. 253; Corte Cost., 23 ottobre 2019, n. 221. 

ConTenzioSo 
nAzionAle 


subiecta 
materia 
secondo 
cui 
in 
tema 
di 
espropriazione 
(14) 
per 
pubblico 
interesse, 
nel 
caso 
di 
sostituzione 
amministrativa, 
l'ente 
sostituto 
agisce 
per 
l'esecuzione 
dell'opera 
non 
in 
rappresentanza 
dell'amministrazione 
sostituita, 
ma 
per 
competenza 
propria 
e 
spendendo 
il 
proprio 
nome 
di 
persona 
giuridica 
diversa, 
assumendo 
di 
fronte 
all'espropriato 
o 
al 
titolare 
del 
bene 
occupato 
tutti 
gli 
obblighi 
concernenti 
il 
pagamento 
dell'indennità 
o 
dell'eventuale 
ristoro 
dei 
danni, 
salvo 
che 
non 
affidi 
in 
concessione 
ad 
altro 
soggetto 
l'esecuzione 
dei 
lavori, 
attribuendo, 
altresì, 
al 
concessionario 
l'espletamento 
delle 
attività 
relative 
al 
procedimento 
di 
espropriazione 
che 
si 
renda 
necessario; 
in 
tal 
caso, 
la 
legittimazione 
passiva 
nelle 
controversie 
promosse 
dall'espropriato 
per 
la 
determinazione 
delle 
indennità 
o 
del 
risarcimento 
del 
danno 
spetta 
a 
detto 
concessionario 
ovvero 
all'affidatario, 
e 
non 
anche 
all'ente, 
pur 
se 
beneficiario 
delle 
opere 
(15). 


Quale 
non 
secondaria 
perplessità 
deve 
evidenziarsi 
che 
l’assorbimento 
del 
risarcimento del 
danno nella 
natura 
indennitaria 
potrebbe 
pregiudicare 
in 
subiecta 
materia 
l’affermarsi 
nei 
fatti 
del 
principio 
di 
integralità 
del 
ristoro 
(16). Ciò non solo, evidentemente, in contrasto con l’assetto ricostruttivo del 
danno contra ius 
ma 
in contrasto altresì 
con lo stesso punto 3 dell’art. 42-bis 
cit. che 
prevede 
la 
corresponsione 
del 
5% del 
valore 
venale 
quale 
mera 
presunzione: 
“salvo prova di 
diversa entità del 
danno”. locuzione 
quest’ultima 
che, 
senza 
alcuna 
“imprecisione 
lessicale”, 
postula 
la 
possibile 
integralità 
del 
ristoro e 
la 
cui 
lesione 
potrebbe, ancora 
una 
volta, far risorgere 
dalle 
ceneri 
sensibilità costituzionali e di compatibilità CedU (17). 

in senso contrario può ancora 
osservarsi 
come 
il 
tenore 
letterale 
dell’art. 
42-bis 
in esame 
tiene 
ben distinti 
il 
piano del 
provvedimento acquisitivo da 
quello dell’occupazione 
illegittima. il 
provvedimento, seppur a 
motivazione 
rinforzata, deve 
contenere 
solo ove 
“possibile” 
l’indicazione 
del 
dies 
a quo 
dell’occupazione 
illegittima, 
e 
deve 
necessariamente 
contenere 
la 
liquidazione 
del 
solo indennizzo di 
cui 
al 
comma 
1 (pregiudizio patrimoniale 
e 
non) e 
solo 
tale 
indennizzo (e 
non il 
ristoro della 
illegittima 
occupazione) costituisce 
la 


(14) Cass., 6 aprile 2012, n. 5630. 


(15) 
in 
tal 
senso 
anche 
la 
giurisprudenza. 
in 
tema 
di 
esecuzione 
di 
opere 
ricomprese 
nel 
programma 
straordinario 
di 
urbanizzazione 
nell'area 
metropolitana 
del 
Comune 
di 
napoli 
previsto 
dalla 
legge 
n. 
219 
del 
1981, 
ciò 
in 
quanto 
le 
norme 
di 
cui 
agli 
artt. 
81 
e 
ss. 
di 
detta 
legge 
demandano 
necessariamente 
all'ente 
concessionario 
il 
compimento 
in 
nome 
proprio 
di 
tutte 
le 
operazioni 
materiali, 
tecniche 
e 
giuridiche 
occorrenti 
per 
la 
realizzazione 
del 
programma 
edilizio, 
ancorché 
comportanti 
l'esercizio 
di 
poteri 
di 
carattere 
pubblicistico, 
quali 
quelli 
inerenti 
all'espletamento 
delle 
procedure 
di 
espropriazione. 
l'ente 
concessionario 
(e 
non 
già 
la 
P.A. 
concedente) 
risponde 
direttamente 
dei 
danni 
cagionati 
a 
terzi 
dall'opera 
pubblica 
e 
delle 
obbligazioni 
strumentalmente 
preordinate 
alla 
sua 
esecuzione, 
derivino 
gli 
stessi 
da 
attività 
legittima 
ovvero 
da 
illecito 
aquiliano 
e, 
in 
questo 
secondo 
caso, 
sia 
dall'illegittima 
occupazione 
temporanea 
di 
immobili 
privati, 
sia 
da 
ogni 
altro 
vizio 
inficiante 
il 
procedimento 
espropriativo 
e 
tale 
da 
determinare 
l'inesistenza 
del 
potere 
ablativo 
(Cass. 
S.U. 
20 
maggio 
2016, 
n. 
10500). 
(16) Cons. Stato, Ad. Plen. 20 gennaio 2020, n. 2. 
(17) Tale 
profilo, pur intercettato dalla 
Corte 
Cost. 71/2015 cit., viene 
di 
fatto non affrontato con 
il 
commodus discessus 
della non necessità di rivalutazione. 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


condicio iuris 
per il 
verificarsi 
dell’effetto traslativo. Si 
ha 
l’impressione 
che 
il 
legislatore, 
non 
senza 
motivo, 
sia 
stato 
particolarmente 
attento 
a 
differenziare 
la 
disciplina 
e 
gli 
effetti 
tra 
riconoscimento 
dell’indennizzo 
da 
acquisizione 
sanante 
e 
ristoro da 
occupazione 
illegittima. Caratterizzazione 
ricercata 
proprio 
per marcare, agli 
occhi 
di 
Strasburgo, meglio tali 
confini 
e 
che 
sembra 
prudente non dissolvere. 


non 
appare 
peraltro 
ex 
se 
dirimente 
il 
rilievo 
secondo 
cui 
l’illegittima 
occupazione 
costituisce 
presupposto per l’esercizio del 
potere 
sanante, da 
cui 
la 
necessaria 
unificazione 
dei 
ristori 
sotto un unico ombrello indennitario. il 
più 
rilevante 
presupposto ai 
fini 
della 
legittimità 
dell’acquisizione 
è 
che 
il 
bene 
immobile 
sia 
stato 
modificato 
(in 
costanza 
di 
occupazione 
illegittima) 
in 
quanto, a 
tenore, del 
punto 3-bis 
cit., ciò che 
viene 
ex 
nunc 
sanato è 
proprio e 
solo la 
intervenuta 
modifica 
del 
bene 
(18). l’occupazione 
illegittima 
rimane 
quel 
che 
è, 
sia 
se 
poi 
intervenga 
l’acquisizione 
sanante 
sia 
se 
il 
bene 
immobile 
sia 
restituito 
tant’è 
che 
la 
misura 
prevista 
per 
il 
ristoro 
è 
sempre, 
al 
di 
là 
di 
ogni problema di giurisdizione, il risarcimento dei danni. 


ed 
è 
altresì 
certo 
che 
l’occupazione 
illegittima, 
pur 
costituendo 
ineludibile 
presupposto 
fattuale 
alla 
base 
dell’esercizio 
del 
potere 
acquisitivo 
di 
cui 
all’art. 
42-bis, 
preesiste 
al 
suo 
esercizio 
e 
permarrà 
nella 
sua 
materialità 
e 
illiceità 
anche 
all’indomani 
dell’eventuale 
possibile 
annullamento del 
provvedimento 
di acquisizione sanante o di sua mancata adozione. 

Peraltro, ove 
investita 
della 
problematica, la 
Corte 
di 
Strasburgo difficilmente 
riuscirebbe 
a 
comprendere 
le 
necessità 
processuali 
che 
hanno indotto 
la 
giurisprudenza 
ad assumere 
una 
visione 
pan-indennitaria 
mimetizzando il 
danno con il 
manto dell’indennizzo, depotenziando in tal 
modo anche 
il 
disvalore 
di 
condotte 
amministrative 
disinvolte 
su cui 
più volte 
la 
stessa 
si 
è 
già 
negativamente pronunciata. 

da 
ultimo 
deve 
osservarsi 
che 
l’attuale 
orientamento 
che 
concentra 
dinanzi 
alla 
Corte 
di 
Appello 
tutti 
i 
ristori 
ex 
art. 
42-bis 
cit. 
dovrebbe 
comportare 
l’applicazione 
del 
rito sommario di 
cognizione. Ciò in quanto l’azione 
per la 
rideterminazione 
dell’indennizzo 
da 
acquisizione 
sanate, 
proprio 
per 
la 
natura 
di 
procedimento espropriativo semplificato, risponde 
al 
principio in tema 
di 
azione 
di 
opposizione 
alla 
stima, e 
pertanto non si 
configura 
quale 
impugnazione 
del 
provvedimento 
limitato 
al 
mero 
controllo 
dell'esattezza 
dei 
criteri 
astratti 
(di 
legge) che 
hanno presieduto in sede 
amministrativa 
alla 
stima 
suddetta, 
ma 
introduce 
un ordinario processo di 
cognizione 
sul 
rapporto, diretto 
all'accertamento giudiziale 
della 
giusta 
indennità, alla 
stregua 
di 
criteri 
legali 
effettivamente 
vigenti 
e 
riconosciuti 
applicabili 
alla 
fattispecie 
(19). Sicché, 


(18) “ecco quindi 
che 
si 
appalesa chiaramente 
come 
la finalità del 
provvedimento di 
cui 
all’art. 
42 
bis 
sia 
appunto, 
il 
mantenimento 
delle 
opere 
già 
realizzate 
e 
indispensabili 
per 
la 
tutela 
dell’interesse 
pubblico coinvolto”, così C. BrAnCATi, in tutelaespropri.it. 

ConTenzioSo 
nAzionAle 


stante 
la 
ritenuta 
natura 
indennitaria 
anche 
del 
compenso 
riconosciuto 
“a 
titolo 
di 
risarcimento danni” 
dal 
punto 3 dell’art. 42-bis 
cit. ne 
deriverebbe 
anche 
per la sua determinazione l’applicazione del rito sommario. 

Balza 
evidente 
tuttavia 
che 
in tema 
di 
danni 
non vi 
è 
mera 
applicazione 
di 
criteri 
di 
legge 
(5% del 
valore 
venale) in quanto alla 
parte 
espropriata 
l’art. 
42-bis 
cit. consente 
la 
prova 
dell’integralità 
del 
danno sofferto senza 
alcuna 
limitazione 
e 
la 
parte 
deve 
essere 
messa 
in grado di 
spiegare 
integralmente 
il 
proprio potere dispositivo. 

ora, 
al 
di 
là 
di 
superate 
querelle 
di 
costituzionalità 
sul 
procedimento 
sommario 
di 
cognizione 
e 
se 
è 
pur 
vero 
che 
la 
sommarietà 
del 
rito 
va 
riferita 
esclusivamente 
alla 
procedura 
e 
non 
anche 
all’ampiezza 
e 
alla 
profondità 
della 
cognizione 
del 
giudice, 
deve 
tuttavia 
ammettersi 
l’ingessatura 
in 
cui 
viene 
calato 
l’espropriato che 
(a 
differenza 
che 
nei 
giudizi 
dinanzi 
al 
Tribunale) non 
potrà 
mai 
godere 
dinanzi 
alla 
Corte 
di 
Appello, in unico grado, di 
un possibile 
cambiamento del 
rito. Ciò in quanto, ai 
sensi 
degli 
artt. 3 e 
29 del 
d.lgs. 1 settembre 
2011, n. 150, sono tassativamente 
escluse 
dalla 
possibilità 
di 
conversione 
le 
cause 
previste 
dal 
capo 
iii 
del 
decreto 
legislativo 
medesimo, 
tra 
le 
quali 
è 
compresa 
l'opposizione 
alla 
stima 
dell'indennità 
di 
espropriazione 
(e, 
quindi, 
per 
la 
proprietà 
transitiva) 
la 
determinazione 
degli 
indennizzi 
di 
cui 
all’art. 42-bis 
cit. (20). 

È 
auspicabile 
che 
tale 
orientamento non si 
radichi 
in via 
definitiva 
consentendo 
che 
il 
giudizio avverso gli 
indennizzi 
(globalmente 
intesi) venga 
introdotto 
con citazione 
e 
segua 
il 
rito ordinario circoscrivendo rigorosamente 
il 
rito sommario di 
cognizione 
alla 
(sola) opposizione 
a 
stima. Ciò avuto riguardo 
anche 
al 
rilievo che 
il 
d.lgs. 150/2011 (art. 29), pur essendo stato emanato 
il 
1° 
settembre 
2011 
e 
cioè 
in 
data 
cioè 
successiva 
all’art. 
42-bis 
cit. 
introdotto (art. 34, comma 
1) con d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. con mod. in 


l. 15 luglio 2011, n. 111, non contiene 
alcun riferimento all’applicabilità 
del 
rito 
sommario 
di 
cognizione 
alla 
liquidazione 
degli 
indennizzi 
da 
acquisizione 
sanante. 
del 
resto 
la 
Cassazione, 
proprio 
con 
riferimento 
agli 
indennizzi 
da 
acquisizione 
sanante, 
si 
è 
di 
recente 
sbarazzata 
del 
termine 
perentorio 
di 
trenta 
giorni, 
previsto 
dall'art. 
54, 
comma 
1 
del 
d.P.r. 
n. 
327/2001 
per 
l'impugnazione 
della 
determinazione 
dell'indennità 
di 
esproprio. 
Ha 
ritenuto, 
infatti, 
non 
applicabile 
il 
predetto 
termine 
all'opposizione 
avverso 
la 
determinazione 
dell'indennizzo 


(19) Cass., S.U., 8 novembre 
2018, n. 28573. nel 
senso dell’applicabilità 
sembra 
potersi 
leggere 
Cass., S.U. 12 giugno 2018, n. 15343 nella 
parte 
in cui: 
“le 
relative 
controversie 
sulla 
determinazione 
e 
corresponsione 
dell'indennizzo, globalmente 
inteso, previsto per la 
cd. acquisizione 
sanante, sono devolute, 
in unico grado, alla 
corte 
di 
appello, secondo una 
regola 
generale 
dell'ordinamento di 
settore 
per 
la 
determinazione 
giudiziale 
delle 
indennità, dovendosi 
interpretare 
in via 
estensiva 
l'art. 29 del 
d.lgs. 
n. 150 del 2011”. 
(20) Previsione ritenuta costituzionalmente conforme da Corte Cost., 23 gennaio 2013, n. 10. 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


contenuta 
nel 
provvedimento 
acquisitivo 
adottato 
a 
norma 
dell'art. 
42-bis 
cit. 
del 
medesimo 
decreto, 
sia 
perché 
tale 
termine 
si 
riconnette 
ad 
un 
iter 
procedi-
mentale 
estraneo 
all'istituto 
dell'acquisizione 
sanante, 
sia 
perché 
l'art. 
42-bis 
cit. 
non 
contiene 
alcun 
richiamo 
all'art. 
54, 
sicché, 
vertendosi 
in 
tema 
di 
termini 
fissati 
per 
la 
tutela 
giurisdizionale 
di 
diritti, 
non 
è 
consentito 
ravvisarne 
la 
natura 
perentoria 
in 
mancanza 
di 
espressa 
previsione 
normativa 
(21). 


4. Auspici conclusivi. 
invero 
deve 
osservarsi 
che 
l’ordinanza 
di 
rimessione, 
pur 
sollevando 
perplessità 
in 
ordine 
alla 
parificazione, 
quoad 
effectum, 
tra 
risarcimento 
e 
indennizzo, 
non 
offre 
poi 
spunti 
per 
possibili 
percorsi 
ricostruttivi 
alternativi 
e 
non 
indaga, 
peraltro, 
sui 
conseguenti 
scenari 
e 
sulle 
ricadute 
processuali 
che 
deriverebbero 
dall’abbandono 
del 
prevalente 
orientamento 
giurisprudenziale 
pan-indennitario 
lasciando, 
in 
tal 
modo, 
alle 
Sezioni 
Unite 
ampio 
spettro 
ricostruttivo. 


Alla 
luce 
di 
tutto quanto precede 
ed anche 
a 
voler far proprio l’indirizzo 
prevalente 
orientato in subiecta materia verso la 
realizzazione 
della 
concentrazione 
di 
tutela 
dinanzi 
al 
G.o. 
(che, 
tuttavia 
potrebbe 
essere 
ribaltato 
anche 
in 
favore 
del 
G.A.) 
(22), 
non 
può 
tuttavia 
condividersi 
la 
forzatura 
ermeneutica 
operata 
dall’orientamento prevalente 
dei 
chiari 
dati 
normativi 
attributivi 
del 
diritto al 
ristoro da 
illegittima 
occupazione 
che 
militano nel 
senso del 
riconoscimento 
al 
privato di 
un diritto di 
natura 
chiaramente 
risarcitoria 
derivante 
dall’illegittima 
violazione 
dell’integrità 
patrimoniale 
della 
situazione 
giuridica 
(illegittima occupazione). 

Al 
fine 
di 
confermare 
il 
principio di 
concentrazione 
dei 
giudizi 
dinanzi 
al 
G.o., quale 
giudice 
unico degli 
indennizzi 
da 
espropriazione 
(ordinaria 
o 
“semplificata”), 
senza 
sacrificare 
la 
natura 
risarcitoria 
del 
ristoro 
per 
l’illegittima 
occupazione, 
potrebbe 
forse 
indagarsi 
se 
nella 
fattispecie 
non 
possano 
ipotizzarsi 
altri 
percorsi 
ivi 
compresa 
la 
possibile 
deroga 
alla 
giurisdizione 
per 
motivi 
di 
connessione. in proposito, se 
è 
infatti 
pacifico che 
le 
Sezioni 
Unite 


(21) Cass., ord., 17 giugno 2020, n. 11687. 
(22) G. TroPeA, Giurisdizione 
e 
acquisizione 
sanante: l’ennesima sciarada 
(nota 
a 
Cass., sez. i, 
ord. 29265/2020) in 
giustiziainsieme.it, sembra 
propendere 
per la 
concentrazione 
dinanzi 
al 
G.A. nella 
parte 
in cui 
osserva 
“e 
così, la questione 
della giurisdizione 
si 
indirizza segnatamente 
proprio sugli 
indennizzi 
e 
i 
risarcimenti 
previsti 
all’art. 
42 
bis, 
che 
per 
il 
principio 
di 
concentrazione 
ed 
effettività 
della 
tutela (art. 7 c.p.a.) forse 
dovrebbero ricadere 
nella cognizione, ormai 
sempre 
più estesa (anche 
alla 
luce 
dell’abbandono della tesi 
della carenza di 
potere 
in concreto), del 
giudice 
amministrativo in sede 
di 
giurisdizione 
esclusiva. e 
tuttavia sul 
punto si 
è 
andata formando una giurisprudenza che, sulla scia 
della fondamentale 
sentenza della Corte 
cost. n. 71/2015, ritiene 
che 
l’art. 42 bis 
del 
d.P.r. n. 327 del 
2001 preveda un autonomo, speciale 
ed eccezionale 
procedimento espropriativo, con la conseguenza 
che, ove 
detto procedimento sia stato legittimamente 
promosso, attuato e 
concluso, il 
corrispettivo per 
il 
pregiudizio 
patrimoniale 
e 
non 
patrimoniale 
liquidato 
con 
il 
provvedimento 
acquisitivo 
ha 
natura 
non 
già risarcitoria ma indennitaria, con l’ulteriore 
corollario che 
le 
controversie 
relative 
alla determinazione 
o alla corresponsione di esso sono attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario”. 

ConTenzioSo 
nAzionAle 


hanno in più occasioni 
ribadito il 
principio contrario (23), tuttavia 
la 
deroga 
è 
stata 
di 
fatto 
applicata 
in 
individuate 
ipotesi 
e 
proprio 
in 
materia 
espropriativa 
(seppur a 
vantaggio della 
giurisdizione 
esclusiva 
del 
G.A.). Si 
è 
così 
statuito 
che 
allorché 
le 
domande 
di 
retrocessione 
parziale 
e 
totale 
siano proposte 
congiuntamente 
ed alternativamente 
in un'unica 
causa, trova 
applicazione 
il 
principio 
del 
giusto 
processo 
per 
cui 
la 
decisione 
avente 
ad 
oggetto, 
in 
astratto, 
diritti 
ed 
interessi, 
spetta 
al 
giudice 
amministrativo 
in 
sede 
di 
giurisdizione 
esclusiva, il 
quale, avendo cognizione 
su interessi 
e 
diritti, ha 
maggiori 
poteri 
rispetto al giudice ordinario, poteri limitati ai diritti soggettivi (24). 

evidentemente 
la 
possibile 
praticabilità 
di 
tale 
sentiero 
(in 
salita) 
potrebbe 
essere 
agevolata 
(solo) 
ritenendo 
l’occupazione 
illegittima 
non 
in 
connessione 
con l’assumendo provvedimento di 
acquisizione 
sanante 
(che 
ne 
determina 
la 
cessazione) ponendosi, pertanto, il 
problema 
solo per la 
occupazione 
illegittima 
c.d. acquisitiva, rientrando il 
danno da 
occupazione 
c.d. usurpativa 
già 
nella 
giurisdizione 
del 
giudice 
ordinario. in tale 
contesto il 
punto 3 dell’art. 
42-bis 
cit. deve 
essere 
considerato quale 
mera 
previsione 
di 
una 
presunzione 
semplice di ammontare del danno. 

diversamente 
opinando 
l’inevitabile 
attrazione 
condurrebbe 
verso 
il 
G.A. 
(25). 


non resta 
che 
attendere 
l’autorevole 
sollecitato intervento delle 
Sezioni 
Unite 
cui 
è 
riservato 
il 
gravoso 
compito 
di 
stabilire 
i 
confini 
e 
la 
direzione 
della 
vis 
espansiva 
del 
principio di 
concentrazione 
di 
tutela, non sempre 
coerentemente 
declinato 
in 
giurisprudenza, 
nel 
contesto 
di 
un 
riesame 
funditus 
dell’intera 
problematica 
e 
perché 
no, 
con 
l’auspicio 
che 
voglia 
fornire 
possibili 
suggerimenti 
di 
ortopedia 
normativa 
che 
rendano 
il 
tutto 
forse 
“meno 
rotondo, 
ma un po' più quadrato” 
(26). 


Cassazione 
civile, Sezione 
i, ordinanza interlocutoria 24 dicembre 
2020 n. 29625 -Pres. 


P. Campanile, rel. l. Scalia 
-Ministero delle 
infrastrutture 
e 
dei 
Trasporti, Ministero della 
Giustizia 
(avv. gen. Stato) c. Sintesi 
S.p.A. (avv.ti 
G. lombardi, G. Gariboldi, e 
M. Pisapia); 
itinera S.p.a. (avv.ti G. Giuffrè, e. Magnoni, A. Mazza e 
A. Cimellaro). 
FATTi di CAUSA 


1. la 
Corte 
di 
appello di 
Milano, con l'ordinanza 
in epigrafe 
indicata, ha 
pronunciato sull'opposizione 
alla 
stima 
proposta 
da 
Sintesi 
S.p.A. in un giudizio di 
determinazione 
dell'indennizzo 
dovuto in seguito all'adozione, in data 
31 luglio 2013, di 
un provvedimento d.P.r. 
n. 327 del 
2001, ex art. 42-bis 
con cui 
il 
Ministero delle 
infrastrutture 
e 
dei 
Trasporti 
(Provveditorato 
interregionale 
alle 
oo.PP. 
per 
la 
lombardia 
e 
la 
liguria) 
ed 
il 
Ministero 
della 
Giu(
23) Cass. S.U., 19 aprile 2013, n. 9534 e, più di recente Cass., 30 settembre 2019, n. 24298. 
(24) Cass., S.U., 24 giugno 2009, n. 14805. 
(25) in tal senso G. TroPeA, Giurisdizione e acquisizione sanante: l’ennesima sciarada, cit. 
(26) da edUArdo 
de 
FiliPPo, il sindaco del rione sanità, (il sogno di 
Antonio Barracano). 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


stizia 
avevano acquisito, con efficacia 
sanante, il 
terreno di 
proprietà 
della 
prima 
su cui 
era 
stato realizzato il carcere di Milano-Bollate. 

la 
Corte 
meneghina 
ha 
così 
rideterminato le 
somme 
dovute 
all'opponente 
-all'esito di 
una 
procedura 
di 
esproprio che, non portata 
a 
formale 
compimento in ragione 
della 
tardività 
del 
decreto ablativo, aveva 
interessato il 
fondo di 
proprietà 
-a 
titolo di 
indennizzo per il 
pregiudizio 
patrimoniale 
e 
non 
le 
somme, 
rispettivamente, 
di 
euro 
28.111.657,30 
e 
di 
euro 
2.811.165,73 e, ancora, per l'occupazione 
illegittima, l'importo di 
euro 13.400.330,48, quest'ultimo 
determinato in applicazione 
del 
criterio legale 
di 
cui 
all'art. 42-bis, comma, 3 d.P.r. 
cit. pari al cinque per cento del valore venale dell'area. 

in giudizio sono state 
rigettate 
le 
eccezioni 
di 
difetto di 
giurisdizione 
e 
di 
competenza 
sollevate 
da 
itinera 
S.p.A., 
concessionaria 
dell'opera 
pubblica 
nella 
procedura 
ablativa, 
anch'essa 
evocata 
in lite 
dalla 
proprietà 
opponente, in applicazione 
dell'indirizzo che, formatosi 
sulle 
sentenze 
della 
Corte 
costituzionale 
e 
di 
questa 
Corte 
di 
cassazione, sostiene, nel 
carattere 
autonomo 
e 
speciale 
della 
procedura 
ex art. 42-bis 
cit., la 
natura 
indennitaria 
e 
non risarcitoria 
anche 
delle 
somme 
previste 
per l'occupazione 
illegittima 
in quanto voce 
del 
complessivo indennizzo 
per il 
pregiudizio patrimoniale 
di 
cui 
al 
precedente 
comma 
1, secondo un'interpretazione 
imposta 
dalla 
necessità 
di 
salvaguardare 
il 
principio costituzionale 
di 
concentrazione 
della tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti ablatori. 

il 
riferimento al 
"titolo risarcitorio", pure 
contenuto all'art. 42-bis, comma 
3 d.P.r. cit. a 
definizione 
delle 
voci 
indennitarie, doveva 
attribuirsi 
ad una 
mera 
"imprecisione 
lessicale" 
secondo la 
dizione, che, fatta 
propria 
dai 
giudici 
di 
appello, era 
stata 
utilizzata 
dalle 
Sezioni 
Unite di questa Corte di cassazione con la sentenza del 25 luglio 2016 n. 15283. 

Sulle 
premesse 
di 
autonomia 
del 
procedimento di 
acquisizione 
sanante, la 
Corte 
di 
merito 
ha 
ritenuto, 
di 
contro 
alle 
deduzioni 
dei 
due 
dicasteri 
e 
per 
quanto 
di 
rilievo 
in 
questo 
giudizio, 
con l'ammissibilità 
del 
ricorso introdotto nelle 
forme 
del 
giudizio di 
opposizione 
alla 
stima 
di 
esproprio, 
il 
difetto 
di 
legittimazione 
della 
concessionaria 
itinera 
S.p.A. 
sulla 
cui 
responsabilità 
per comportamento illecito, insieme 
alle 
Amministrazioni 
opposte, era 
pendente 
un distinto 
giudizio di danno davanti ai giudici amministrativi. 

i 
giudici 
della 
Corte 
di 
appello 
hanno 
quindi 
riconosciuto 
a 
titolo 
di 
indennizzo 
la 
somma 
pari 
a 
quella 
stimata 
dal 
nominato 
consulente 
tecnico 
di 
ufficio 
in 
applicazione 
della 
percentuale 
di 
legge 
sul 
valore 
venale 
del 
bene, 
nell'apprezzata 
irrilevanza, 
agli 
atti, 
del 
corrispettivo 
stabilito 
in 
un 
contratto 
di 
affittanza 
agraria 
stipulato 
tra 
la 
proprietà 
e 
terzi 
coltivatori, 
i 
cui 
effetti 
erano 
cessati 
prima 
dell'adozione 
del 
provvedimento 
di 
acquisizione 
sanante 
del 
31 
luglio 
2013. 


3. Per la 
cassazione 
dell'indicata 
ordinanza 
ricorrono con due 
motivi 
il 
Ministero delle 
infrastrutture 
e dei 
Trasporti ed il Ministero della Giustizia. 
resistono 
con 
controricorso 
Sintesi 
S.p.A., 
che 
propone 
altresì 
ricorso 
incidentale 
affidato 
a 
due 
motivi, 
ed 
itinera 
S.p.A., 
che 
formula 
in 
via 
incidentale 
ricorso 
condizionato 
con 
unico 
motivo. 
in occasione 
dell'odierna 
udienza 
di 
discussione, i 
Ministeri 
ed itinera 
S.p.A. hanno depositato 
memorie. 

rAGioni dellA deCiSione 


1. 
il 
Ministero 
delle 
infrastrutture 
e 
dei 
Trasporti 
ed 
il 
Ministero 
della 
giustizia 
con 
il 
primo 
motivo fanno valere 
la 
violazione 
del 
d.P.r. n. 327 del 
2001, art. 42 bis 
in relazione 
all'art. 
360 c.p.c., comma 1, n. 3. 
i 
ricorrenti 
rilevano 
che 
il 
Consiglio 
di 
Stato, 
pronunciando 
con 
la 
sentenza 
n. 
4817 
del 
2014 sulla 
impugnativa 
avverso la 
decisione 
del 
Tar lombardia 
n. 1276 del 
2012 nel 
distinto 



ConTenzioSo 
nAzionAle 


giudizio 
di 
danno 
incardinato 
davanti 
al 
giudice 
amministrativo, 
aveva 
rimarcato 
la 
corresponsabilità 
della 
concessionaria 
itinera 
S.p.A. (già 
Grassetto S.p.A.), per non essersi 
questa 
attivata 
al 
fine 
di 
sollecitare 
l'adozione 
di 
un provvedimento che 
ponesse 
fine 
alla 
perdurante 
occupazione 
sine 
titulo 
dell'Amministrazione, nell'ambito di 
una 
procedura 
ablativa 
divenuta 
illecita per mancata tempestiva adozione del decreto di esproprio. 

l'opzione 
esercitata 
dall'Amministrazione 
di 
emettere 
un provvedimento di 
acquisizione 
sanante 
del 
terreno, non dando così 
seguito alla 
restituzione 
del 
bene 
e 
ed al 
pagamento del 
relativo risarcimento, non avrebbe potuto esonerare la concessionaria da ogni conseguenza. 

2. Con il 
secondo motivo i 
ricorrenti 
deducono la 
violazione 
del 
d.P.r. n. 327 del 
2001, 
art. 42-bis 
e 
l'omesso esame 
di 
un fatto decisivo per il 
giudizio oggetto di 
discussione 
tra 
le 
parti, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. 
la 
Corte 
di 
appello 
aveva 
erroneamente 
applicato 
il 
criterio, 
indicato 
nell'art. 
42-bis 
d.P.r. 
cit., comma 
3, u.p. del 
cinque 
per cento del 
valore 
venale 
dell'area 
nella 
quantificazione 
del-
l'indennità 
per occupazione 
senza 
titolo, in tal 
modo disattendendo le 
articolate 
censure 
delle 
Amministrazioni resistenti. 

nella 
microzona 
in cui 
rientrava 
anche 
il 
terreno in questione, prima 
del 
P.G.T. (Piano di 
Governo del 
Territorio) del 
2012 erano consentiti 
solo l'esercizio di 
attività 
agricola 
ed edificazioni 
funzionali, 
come 
anche 
attestato 
dalle 
fotografie 
aeree 
e 
dai 
documenti 
in 
atti, 
per 
una 
utilizzazione 
in 
cui 
rientrava 
il 
contratto 
di 
affittanza 
agraria, 
con 
effetti 
dall'11 
novembre 
1993 al 10 novembre 1998, concluso dalla proprietaria. 

3. 
Con 
l'unico 
motivo 
del 
ricorso 
promosso 
in 
via 
incidentale, 
Sintesi 
S.p.A. 
denuncia 
l'omesso esame 
di 
un fatto decisivo per il 
giudizio nei 
termini 
di 
cui 
all'art. 360 c.p.c., comma 
1, n. 5 e 
l'errata 
applicazione 
del 
d.P.r. n. 327 del 
2001, art. 42-bis 
in relazione 
all'art. 360 
c.p.c., comma 1, n. 3. 
le 
Corte 
di 
appello di 
Milano aveva 
omesso di 
esaminare 
la 
domanda 
con cui 
l'esponente 
aveva 
richiesto 
sull'indennità 
per 
l'occupazione 
senza 
titolo, 
calcolata 
anno 
per 
anno 
nella 
misura 
del 
cinque 
per cento sul 
valore 
dell'area, il 
riconoscimento degli 
interessi 
a 
decorrere 
da 
ogni 
singolo 
anno 
di 
occupazione 
fino 
alla 
data 
del 
loro 
effettivo 
pagamento 
e/o 
deposito 
presso la competente tesoreria della Cassa depositi e Prestiti. 

4. itinera S.p.a con i due motivi del ricorso incidentale condizionato fa valere: 
a) la 
violazione 
o falsa 
applicazione 
del 
d.P.r. n. 327 del 
2001, art. 42-bis 
in relazione 
all'art. 
360 c.p.c., comma 
1, n. 3, l'omesso esame 
di 
un fatto decisivo per il 
giudizio ai 
sensi 
dell'art. 360 c.p.c., comma 
1, n. 5, la 
mancanza 
ed apparenza 
della 
motivazione, in relazione 
all'art. 360 c.p.c., comma 
1, n. 5, avendo la 
Corte 
di 
merito quantificato l'indennizzo per l'occupazione 
senza 
titolo nella 
misura 
del 
cinque 
per cento del 
valore 
venale 
pur risultando in 
atti 
una 
diversa 
entità 
del 
danno, in ragione 
della 
stipula 
di 
un contratto di 
affittanza 
agraria 
tra la dante casa di Sintesi S.p.A. ed i signori 
A.; 
b) 
la 
violazione 
o 
falsa 
applicazione 
del 
d.P.r. 
n. 
327 
del 
2001, 
art. 
42-bis 
e 
della 
l.r. 
lombardia 
n. 
12 
del 
2005, 
art. 
46 
in 
relazione 
all'art. 
360 
c.p.c., 
comma 
1, 
n. 
3, 
l'omesso 
esame 
di 
un fatto decisivo per il 
giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 
1, n. 5, la 
nullità 
del 
provvedimento 
in relazione 
all'art. 132 c.p.c., comma 
4, e 
art. 360 c.p.c., comma 
1, n. 4, la 
mancanza 
o apparenza 
della 
motivazione 
in relazione 
all'art. 360 c.p.c., comma 
1, n. 4 in quanto 
la 
determinazione 
dell'indennità 
era 
intervenuta, 
mancando 
la 
motivazione 
di 
dare 
conto 
delle 
dettagliate osservazioni dei consulenti di parte. 
5. 
Per 
la 
fattispecie 
in 
esame 
viene 
all'attenzione 
di 
questa 
Corte 
di 
cassazione 
in 
relazione 
dell'acquisizione 
sanante 
di 
cui 
al 
d.P.r. 
n. 
327 
del 
2001, 
art. 
42-bis 
il 
passaggio, 
fondamentale, 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


nella 
formulazione 
della 
norma, 
che 
attiene 
alla 
quantificazione 
della 
somma 
di 
denaro 
da 
corrispondersi 
"a 
titolo 
risarcitorio" 
al 
proprietario 
in 
ragione 
dell'ablazione 
dell'area 
occupata. 


nella 
più ampia 
disciplina 
contenuta 
nell'art. 42-bis 
d.P.r. cit., comma 
3, si 
riconosce 
al 
proprietario destinatario del 
provvedimento di 
acquisizione 
un indennizzo per il 
pregiudizio 
patrimoniale 
e 
non patrimoniale 
sofferto -il 
primo fissato secondo il 
valore 
venale 
del 
bene, 
determinato in forza 
di 
libera 
contrattazione 
di 
mercato al 
momento in cui 
si 
proceda 
all'acquisizione, 
con 
i 
correttivi 
di 
cui 
all'art. 
37, 
commi 
3, 
4, 
5, 
6 
e 
7 
nel 
caso 
di 
terreno 
edificabile, 
ed il 
secondo determinato in via 
forfettaria 
nella 
misura 
del 
dieci 
per cento del 
valore 
venale 
del 
bene 
-e, "a titolo risarcitorio", una 
somma 
per il 
mancato godimento del 
bene 
durante 
il 
periodo di 
occupazione 
illegittima, fermo restando, sussistendone 
i 
presupposti, il 
diritto alla 
corresponsione dell'indennità di occupazione legittima da determinarsi ex art. 50 d.P.r. cit. 

Segnatamente 
la 
norma, per quanto qui 
in rilievo, stabilisce 
che: 
"per 
il 
periodo di 
occupazione 
senza 
titolo 
è 
computato 
a 
titolo 
risarcitorio, 
se 
dagli 
atti 
del 
procedimento 
non 
risulta 
la prova di 
una diversa entità del 
danno, l'interesse 
del 
cinque 
per 
cento annuo sul 
valore 
determinato 
ai sensi del presente comma". 

Una 
lettura 
della 
cornice 
di 
sistema, 
in 
cui 
l'indicata 
previsione 
si 
inserisce, 
conduce 
questa 
Prima 
Sezione 
civile 
a 
dubitare 
della 
bontà 
della 
soluzione 
data 
nella 
sentenza 
delle 
Sezioni 
Unite 
n. 15283 del 
25 luglio 2016 in punto di 
qualificazione 
dell'indicata 
posta 
e, nel 
vincolo 
di 
coerenza 
nascente 
dall'applicazione 
dell'art. 
374 
c.p.c., 
comma 
3, 
determina 
questo 
Collegio 
a 
rimettere 
la 
questione 
alle 
medesime 
Sezioni 
Unite 
per 
sollecitare 
un 
ripensamento 
del 
principio 
di diritto affermato. 

6. nell'indicata 
occasione 
le 
Sezioni 
Unite 
di 
questa 
Corte, nel 
pronunciare 
sulla 
giurisdizione, 
hanno 
attribuito 
a 
quella 
del 
giudice 
ordinario, 
nella 
competenza 
funzionale 
della 
Corte 
di 
appello, non solo la 
controversia 
relativa 
alla 
determinazione 
e 
corresponsione 
dell'indennizzo 
previsto per la 
fattispecie 
di 
acquisizione 
sanante 
di 
cui 
al 
d.P.r. n. 327 del 
2001, art. 
42-bis 
ma 
anche 
quella 
avente 
ad oggetto l'interesse 
del 
cinque 
per cento del 
valore 
venale 
del 
bene, nel 
rilievo che 
l'utilizzo da 
parte 
del 
legislatore 
della 
locuzione 
"a titolo di 
risarcimento 
del danno" 
sia frutto di una 
"una mera imprecisione lessicale" 
(p. 7 motivazione). 
le 
esigenze 
d'indole 
sistematica 
fatte 
proprie 
dalle 
indicate 
Sezioni 
Unite, 
anche 
attraverso 
la 
riaffermazione 
dei 
contenuti 
della 
propria 
precedente 
ordinanza, 
la 
n. 
22096 
del 
2015 
-per 
le 
quali, 
nella 
fattispecie 
di 
cui 
all'art. 
42-bis 
d.P.r. 
cit., 
l'illecita 
o 
l'illegittima 
utilizzazione 
di 
un 
bene 
immobile 
per 
scopi 
di 
interesse 
pubblico, 
con 
le 
altre 
specifiche 
condizioni 
previste 
dalla 
norma, 
costituisce 
soltanto 
il 
presupposto 
indispensabile 
per 
l'adozione 
del 
provvedimento 
di 
acquisizione 
sanante 
-, 
lasciano 
salda 
l'esigenza 
di 
non 
alterare 
negli 
effetti, 
in 
punto 
di 
giurisdizione 
e 
di 
competenza, 
la 
natura 
legittima 
del 
sotteso 
eccezionale 
procedimento 
espropriativo. 


Tanto dovendo valere 
sia 
quanto agli 
indennizzi 
previsti 
per il 
pregiudizio patrimoniale, e 
non, risentito dal 
privato all'esito della 
perdita 
della 
proprietà 
sia 
quanto alle 
somme 
riconosciutegli 
per il periodo di occupazione illegittima. 

le 
indicate 
poste 
concorrono, tutte, si 
è 
detto, ad integrare 
un unico indennizzo destinato 
a 
ristorare 
l'ablato del 
pregiudizio sofferto per una 
lettura 
che 
è 
imposta 
dalla 
necessità 
di 
salvaguardare 
il 
principio costituzionale 
di 
concentrazione 
della 
tutela 
giurisdizionale 
avverso i 
provvedimenti 
espropriativi 
d.P.r. n. 327 del 
2001, ex art. 53, comma 
2 ed art. 133, lett. g), 


u.p. c.p.a., nella 
correlata 
unicità 
della 
competenza 
funzionale 
della 
Corte 
di 
appello d.lgs. 
n. 150 del 
2011, ex art. 29 (principio ancora 
ripreso, con identica 
motivazione, in sede 
di 
regolamento 
di giurisdizione, da Sezioni Unite del 21/02/2019 n. 5201). 
7. 
ritiene 
questa 
Sezione 
che, 
nella 
dichiarata 
esigenza 
di 
riordino 
della 
giurisdizione 
e 

ConTenzioSo 
nAzionAle 


competenza 
nella 
materia 
dell'indennità 
di 
esproprio, pure 
intesa 
in coerenza 
con i 
principi 
di 
difesa 
e 
del 
giusto processo (artt. 24 e 
111 Cost.), l'indicata 
lettura 
sacrifica, in modo non rispettoso 
del 
dato letterale, il 
ventaglio di 
posizioni 
sostanziali 
vantate 
dai 
soggetti 
coinvolti 
in 
una 
procedura 
espropriativa, 
sovvertendo 
altresì 
le 
regole, 
prioritarie, 
dell'effettività 
del 
diritto 
al risarcimento del danno e del relativo regime dell'onere probatorio. 

l'operata 
esegesi 
dell'istituto 
dell'acquisizione 
sanante 
si 
presta 
così 
a 
critica 
per 
un 
duplice 
profilo. 

7.1. l'interpretazione 
delle 
Sezioni 
Unite, infatti, da 
un canto forza 
il 
dato letterale 
della 
norma 
che, nella 
interpretazione 
datane, è 
destinato a 
collocarsi 
al 
di 
fuori 
di 
ogni 
possibile 
variante 
di 
senso, non vedendosi 
come 
quanto espressamente 
riconosciuto a 
titolo di 
risarcimento 
del 
danno per il 
periodo di 
occupazione 
illegittima 
possa 
tramutarsi 
in un indennizzo 
per 
attività 
lecita 
e 
tanto 
nella 
diversità 
della 
natura 
delle 
poste 
indicate, 
rimarcata, 
se 
del 
caso, 
dall'indole della fonte ovverosia dalla illegittimità dell'occupazione. 
7.2. 
la 
lettura 
data 
non 
rispetta 
neppure 
la 
sistematica 
del 
risarcimento 
del 
danno 
nella 
materia dell'esproprio. 
il 
provvedimento 
di 
accuisizione 
sanante, 
fisiologicamente 
operante 
ex 
nunc 
in 
quanto 
espressivo di 
un'attività 
nuova 
e 
legittima 
della 
P.A., sortisce 
l'effetto di 
distendersi 
anche 
per 
il 
tempo passato, in un'epoca 
in cui 
non era 
stato ancora 
adottato, e 
tanto in ragione 
di 
una 
impropria 
operatività 
ex 
tunc 
destinata 
a 
tramutare, sotto la 
comune 
copertura 
indennitaria, 
in modo irragionevole, in lecito quanto era in precedenza illecito. 

nella 
natura 
autonoma 
e 
speciale 
del 
procedimento 
di 
esproprio 
che 
segue 
alla 
legittima 
adozione 
del 
provvedimento 
di 
acquisizione 
sanante, 
ragionare 
di 
soli 
effetti 
indennitari, 
assorbendo 
attraverso 
il 
richiamo 
all' 
"imprecisione 
lessicale" 
ogni 
distinta 
categoria 
risarcitoria, 
sostiene, 
così, 
ad 
esempio, 
la 
legittimazione 
passiva 
rispetto 
alla 
posta 
risarcitoria 
della 
sola 
p.A. 
che 
quel 
provvedimento 
abbia 
adottato 
e 
nega, 
per 
il 
periodo 
di 
occupazione 
che 
precede 
l'acquisizione, 
insieme 
al 
carattere 
illegittimo 
del 
provvedimento, 
con 
la 
illiceità 
degli 
effetti, 
l'impossibilità 
che 
di 
questi 
ultimi 
venga 
chiamato 
a 
rispondere 
il 
concessionario 
ovverosia 
il 
soggetto 
con 
cui 
l'Amministrazione, 
riservando 
a 
sè 
quantomeno 
i 
poteri 
di 
controllo, 
abbia 
condiviso 
le 
attività 
di 
esproprio, 
nella 
negata 
configurabilità 
di 
forme 
di 
responsabilità 
o 
di 
corresponsabilità. 


in siffatto contesto resta 
altresì 
non ragionevolmente 
soddisfatto ogni 
dubbio sulla 
misura 
di 
sussistenza 
di 
un 
autonomo 
giudizio 
di 
danno 
proposto 
o 
da 
proporsi 
dal 
privato 
per 
l'epoca 
in cui 
l'operato dell'Amministrazione 
non si 
trovava 
sotto l'egida 
del 
provvedimento ex art. 
42-bis 
d.P.r. cit. 

Anche 
il 
principio 
dell'onere 
probatorio 
rimane 
sovvertito 
là 
dove 
non 
si 
chiama 
il 
soggetto 
danneggiato a 
provare 
il 
pregiudizio sofferto (vd. invece 
ex 
plurimis: 
Cass., 24/04/2019, n. 
11203; 
Cass., 25/05/2018, n. 13071) e 
tanto in ragione 
di 
una 
forfettizzazione 
presuntiva 
del 
danno (così 
per la 
percentuale 
del 
cinque 
per cento del 
valore 
venale 
del 
bene) che, prevista 
dalla 
norma 
e 
destinata 
più propriamente 
ad operare 
sul 
piano del 
giudizio, deve 
consentire, 
pure 
nel 
suo predefinito ammontare, non solo modifiche 
in melius, ma 
anche 
in peius 
nello 
scrutinio della posizione del privato. 

Si 
assiste 
altrimenti 
alla 
definizione 
di 
una 
sanzione 
della 
condotta 
della 
p.A. sostenuta 
da 
una 
lettura 
della 
funzione 
sociale 
della 
proprietà 
ex art. 42 Cost. che 
oblitera 
gli 
effetti 
redistribuitivi 
che 
si 
accompagnano 
al 
danno, 
quale 
costo 
da 
ripartirsi 
tra 
tutta 
la 
collettività, 
nella 
sola 
affermata 
necessità 
di 
salvaguardare 
il 
principio costituzionale 
di 
concentrazione 
della 
tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti ablatori. 

8. 
Con 
il 
recupero 
del 
principio 
dell'estraneità 
della 
fase 
risarcitoria 
al 
procedimento 
espro

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


priativo 
propriamente 
detto, 
rispetto 
al 
quale 
nell'ipotesi 
di 
acquisizione 
sanante 
d.P.r. 
n. 
327 
del 
2001, ex art. 42-bis 
cambia 
soltanto lo strumento tecnico-giuridico attraverso il 
quale 
si 
realizza 
l'effetto 
traslativo 
della 
proprietà 
in 
favore 
dell'Amministrazione, 
si 
sollecitano 
le 
Sezioni 
Unite 
di 
questa 
Corte 
a 
ripensare 
al 
principio 
di 
cui 
alla 
sentenza 
n. 
15283 
del 
25/07/2016 
in un quadro in cui 
le 
ragioni 
della 
giurisdizione 
e 
della 
concentrazione 
della 
cognizione, alle 
quali 
si 
connettano più spedite 
modalità 
di 
definizione 
della 
lite 
in un quadro di 
più agevole 
accesso a tutela, restino coerenti con l'assetto sostanziale della materia. 

9. 
Si 
rimette 
la 
decisione 
del 
ricorso 
alle 
Sezioni 
Unite, 
ai 
sensi 
dell'art. 
374 
c.p.c., 
comma 
3. 
P.Q.M. 
rimette la decisione del ricorso alle Sezioni Unite. 
Così 
deciso in roma, nella 
camera 
di 
consiglio della 
Sezione 
Prima 
civile, il 
29 ottobre 


2020. 


ConTenzioSo 
nAzionAle 


L’apparenza e i limiti dell’adempimento 
del dovere alla luce del diritto interno e delle fonti 
sovranazionali vigenti in materia di soccorso in mare 


NotA 
A 
CAssAzioNe 
PeNALe, sezioNe 
terzA, seNteNzA 
20 febbrAio 
2020 N. 6626 


Elisabetta Chiarelli* 


sommArio: 1. il 
caso -2. i presupposti 
di 
legittimità dell’arresto, alla luce 
dell’articolo 
385 
del 
codice 
di 
procedura 
penale 
e 
del 
significato 
di 
“apparenza” 
di 
una 
causa 
di 
esclusione 
della punibilità -3. L’ambito applicativo dell’adempimento di 
un dovere 
in materia di 
soccorso 
in mare, alla luce 
delle 
fonti 
sovranazionali 
vigenti 
in materia -4. i presupposti 
di 
legittimità 
dell’arresto 
in 
caso 
di 
riscontro 
di 
una 
causa 
di 
esclusione 
della 
punibilità 
e 
la 
definizione 
dell’ambito applicativo dell’adempimento di 
un dovere 
in materia di 
soccorso in 
mare, alla luce della sentenza della terza sezione della Corte di Cassazione. 


1. il caso. 
nei 
confronti 
dell’odierno 
ricorrente, 
il 
Procuratore 
della 
repubblica 
presso 
il 
Tribunale 
di 
Agrigento, 
è 
stata 
pronunciata 
dal 
Giudice 
delle 
indagini 
preliminari 
del 
Tribunale 
de 
quo 
un’ordinanza 
con 
la 
quale 
l’anzidetta 
Autorità 
non ha convalidato l’arresto in flagranza del capitano C.r. 


l’arresto in oggetto è 
stato eseguito dagli 
Ufficiali 
della 
Guardia 
di 
Finanza, 
per i 
reati 
di 
cui 
agli 
articoli 
1100 del 
codice 
della 
navigazione 
(“resistenza 
o 
violenza 
contro 
nave 
da 
guerra”) 
e 
337 
del 
codice 
penale 
(“resistenza 
a un pubblico ufficiale”). 


nel 
caso di 
specie, il 
ricorrente 
ha 
eccepito che 
il 
Giudice 
per le 
indagini 
preliminari 
abbia 
travalicato i 
limiti 
del 
suo sindacato sull’operato dei 
Finanzieri. 
il 
sindacato de 
quo, secondo quanto eccepito dal 
ricorrente, avrebbe 
dovuto 
invece 
essere 
circoscritto 
alla 
mera 
verifica 
della 
sussistenza 
dei 
presupposti 
di 
ragionevolezza 
dell’arresto. in particolare, l’Autorità 
anzidetta 
si 
sarebbe 
addentrata 
per riscontrare 
gli 
estremi 
della 
causa 
di 
giustificazione 
dell’adempimento del 
dovere 
in un esame 
della 
vicenda 
concretamente 
svoltasi, 
a 
tal 
punto 
articolato 
e 
complesso, 
da 
tradire 
la 
formulazione 
dell’articolo 
385 c.p.p. essa 
richiede 
per l’appunto l’apparenza 
quale 
immediato riscontro 
di qualsivoglia causa di giustificazione all’uopo richiamata. 


il 
ricorrente 
lamenta 
inoltre 
la 
violazione 
dell’articolo 
1100 
del 
codice 
della 
navigazione 
come 
interpretato dalla 
prevalente 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
relativamente 
alla 
qualificazione 
come 
navi 
da 
guerra 
del 
naviglio 
della 
Guardia 
di 
Finanza 
nei 
cui 
confronti 
dal 
capitano r. sarebbero stati 
commessi 


(*) dottoressa in Giurisprudenza, già praticante forense presso l’Avvocatura dello Stato. 


Riceviamo e pubblichiamo il presente scritto 
(n.d.r.). 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


atti 
di 
resistenza 
o violenza. l’odierno ricorrente 
contesta 
infine 
la 
violazione 
e 
falsa 
applicazione 
dell’articolo 
51 
del 
codice 
penale 
(“esercizio 
di 
un 
diritto 


o 
adempimento 
di 
un 
dovere”), 
sostenendo 
che 
l’adempimento 
del 
dovere 
fosse 
da 
intendersi 
compiutamente 
espletato 
attraverso 
operazioni 
di 
soccorso 
in mare dei naufraghi, a prescindere dallo sbarco di questi. 
la 
Cassazione, Terza 
Sezione 
Penale, con sentenza 
del 
16 gennaio 2020, 
dep. 20 febbraio 2020, n. 6626 si 
è 
occupata 
in particolare 
delle 
seguenti 
questioni: 
se 
il 
sindacato giudiziale 
sulla 
legittimità 
dell’arresto operato possa 
ricostruire 
l’apparenza 
di 
una 
causa 
esclusoria 
della 
punibilità 
ex 
articolo 385 


c.p.p. 
sulla 
scorta 
di 
un 
riscontro 
di 
ragionevole 
verosimiglianza 
degli 
elementi 
costitutivi 
di 
essa; 
se 
l’ambito 
applicativo 
della 
scriminante 
dell’adempimento 
del 
dovere 
in 
materia 
di 
salvataggio 
di 
vite 
umane 
debba 
spingersi 
oltre 
l’espletamento 
delle operazioni di soccorso in mare. 
l’interesse 
della 
sentenza 
in 
commento 
emerge 
con 
particolare 
evidenza, 
poiché 
attraverso una 
lettura 
sistematica 
e 
interdisciplinare 
delle 
norme 
di 
diritto 
penale 
sostanziale 
e 
processuale 
in 
oggetto, 
è 
possibile 
definirne 
i 
relativi 
ambiti 
applicativi. 
Ciò 
è 
possibile 
anche 
alla 
luce 
delle 
fonti 
sovranazionali 
vigenti in materia di salvaguardia dei diritti umani. 


2. 
i 
presupposti 
di 
legittimità 
dell’arresto, 
alla 
luce 
dell’articolo 
385 
del 
codice 
di 
procedura penale 
e 
del 
significato di 
“apparenza” 
di 
una causa di 
esclusione 
della punibilità. 
Ai 
sensi 
dell’articolo 385 del 
codice 
di 
procedura 
penale 
“L’arresto o il 
fermo 
non 
è 
consentito 
quando, 
tenuto 
conto 
delle 
circostanze 
del 
fatto, 
appare 
che 
questo è 
stato compiuto nell’adempimento di 
un dovere 
o nell’esercizio 
di una facoltà legittima ovvero in presenza di una causa di non punibilità”. 


Questa 
norma 
deve 
essere 
letta 
in 
combinato 
disposto, 
in 
particolare, 
con 
le 
disposizioni 
direttamente 
antecedenti; 
la 
ratio 
sottesa 
alla 
previsione 
in 
oggetto, 
ravvisabile 
anche 
nelle 
norme 
successive 
nel 
quadro 
del 
Titolo 
Vi 
del 
codice 
(“Arresto 
in 
flagranza 
e 
fermo”) 
è 
quella 
dell’immediatezza 
dell’intervento 
della 
polizia 
giudiziaria. 
Ciò 
si 
può 
desumere 
direttamente 
dall’articolo 
13 
della 
Costituzione, 
citato 
dalla 
sentenza 
in 
oggetto, 
che 
ricollega 
la 
legittimità 
dell’arresto 
o 
del 
fermo 
alla 
necessità 
e 
all’urgenza 
delle 
situazioni 
che 
ne 
richiedono 
l’adozione. 
l’arresto 
e 
il 
fermo 
sono 
misure 
precautelari 
(1). 
esse 
vengono 
adottate 
per 
evitare 
che 
la 
commissione 
dei 
reati 
produca 
conseguenze 
ulteriori, 
ai 
sensi 
dell’articolo 
55 
del 
codice 
di 
procedura 
penale. 


Pertanto, 
dalla 
lettura 
sistematica 
delle 
norme 
dettate 
in 
materia 
di 
arresto 
e 
fermo si 
desume 
che 
la 
situazione 
di 
“apparenza” 
a 
cui 
l’articolo 385 si 
ri


(1) P. Tonini, manuale 
di 
procedura penale, XV 
ed., Giuffré 
editore, Milano, 2014 -Le 
indagini 
preliminari, capitolo 1, parte iii, il procedimento ordinario, pagg. 558-566. 

ConTenzioSo 
nAzionAle 


ferisce 
non 
può 
che 
sostanziarsi 
nel 
riscontro 
“ictu 
oculi” 
e 
quindi, 
tempestivo, 
circa la configurabilità delle circostanze scriminanti. 


ne 
consegue, perciò, che 
una 
lettura 
“civilistica” 
della 
ratio 
della 
norma 
enucleata 
all’articolo 385, tesa 
a 
tramutare 
l’immediata 
evidenza 
delle 
cause 
di 
non punibilità 
in mera 
verosimiglianza, tradisce 
lo scopo perseguito dal 
legislatore 
con la 
disciplina 
in oggetto. Questi, infatti, attraverso la 
regolamentazione 
dell’arresto 
e 
del 
fermo, 
segue 
una 
logica 
emergenziale, 
volta 
a 
salvaguardare 
l’ordine 
pubblico 
da 
un 
pregiudizio 
imminente. 
Quanto 
esposto 
risulta 
altresì 
coerente 
con la 
normativa 
dettata 
in materia 
di 
misure 
cautelari, 
alla cui adozione il fermo o l’arresto preludono. 


le 
misure 
cautelari 
stesse, infatti, sono sostanzialmente 
adottate 
“a 
sorpresa”, 
sulla 
scorta 
dei 
soli 
elementi 
di 
fatto probatori 
ivi 
prodotti 
dalla 
Pubblica 
Accusa 
(2). in questi 
casi, infatti, ai 
sensi 
dell’articolo 274 del 
codice 
di 
procedura 
penale, 
la 
compressione 
del 
principio 
costituzionale 
del 
contraddittorio 
nella 
formazione 
della 
prova, trova 
ragion d’essere 
nell’esigenza 
di 
evitare 
la 
reiterazione 
della 
condotta 
criminosa, 
ovvero, 
di 
salvaguardare 
la 
fruttuosità degli esiti processuali (3). 


Un siffatto quadro normativo è 
altresì 
coerente 
con i 
requisiti 
connotanti 
il 
diritto 
penale. 
Tale 
disciplina, 
infatti, 
è 
caratterizzata 
per 
antonomasia 
da 
una 
vocazione 
all’assolutezza 
del 
risultato accertativo. la 
condanna 
nei 
confronti 
dell’imputato interviene 
infatti 
ad esito di 
un accertamento della 
sua 
responsabilità, 
che 
aspiri 
a 
riscontrare 
l’intrinseca 
e 
oggettiva 
veridicità 
dei 
fatti 
di 
causa. 
non 
vige, 
infatti, 
la 
logica 
del 
“più 
probabile 
che 
non” 
sottesa 
al 
processo 
civilistico e 
pertanto, anche 
all’adozione 
di 
eventuali 
misure 
cautelari. 
esse 
nel 
diritto civile 
investono profili 
essenzialmente 
patrimoniali 
che 
non 
impattano direttamente sulla libertà personale. 


Ciò spiega, quindi, per quale 
motivo è 
ragionevole 
che 
l’adozione 
di 
misure 
patrimoniali 
veramente 
afflittive 
possa 
seguire 
a 
procedimenti 
cognitivi 
sommari, come, ad esempio, anche 
quello monitorio. Tali 
procedimenti 
sono 
infatti 
connotati 
da 
un giudizio che, per quanto rigoroso nell’esame 
degli 
elementi 
di 
prova, si 
arresta 
al 
riscontro di 
una 
mera, seppur stringente 
verosimiglianza 
circa l’esistenza del diritto da tutelare. 


Applicare 
la 
medesima 
logica 
al 
diritto penale 
e 
processuale 
penale 
ed in 
particolare, all’articolo 385 del 
codice 
di 
procedura 
penale, pregiudicherebbe 
invece 
proprio 
l’effettività 
del 
principio 
di 
favor 
rei. 
Affermare, 
infatti, 
che 
l’apparenza 
a 
cui 
il 
legislatore 
si 
riferisce 
all’articolo 385 si 
sostanzi 
in realtà 
in 
un 
riscontro 
di 
ragionevole 
verosimiglianza 
circa 
la 
configurabilità 
della 
causa 
di 
esclusione 
di 
punibilità, significa 
subordinare 
la 
disapplicazione 
del-
l’arresto 
ad 
una 
valutazione 
degli 
elementi 
di 
fatto 
non 
più 
semplificata, 
bensì 


(2) P. Tonini, op. cit., Capitolo Vi, Le misure cautelari, pagg. 431-451. 
(3) P. Tonini, op. cit., Capitolo Vi, Le misure cautelari, pagg. 431-451. 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


maggiormente 
complessa 
e 
articolata, i 
cui 
esiti 
potrebbero non essere 
necessariamente 
favorevoli per l’interessato. 


3. 
L’ambito 
applicativo 
dell’adempimento 
di 
un 
dovere 
in 
materia 
di 
soccorso 
in mare, alla luce delle fonti sovranazionali vigenti in materia. 
il 
punto 3.1.9. della 
Convenzione 
S.A.r. (Convenzione 
per la 
salvaguardia 
della 
vita 
umana 
in mare, SolAS 
-Safety of life 
at 
Sea, londra 
1974), 
citata 
dalla 
sentenza 
in 
commento, 
statuisce 
che 
“… 
La 
Parte 
responsabile 
della zona di 
ricerca e 
salvataggio in cui 
viene 
prestata assistenza si 
assume 
in primo luogo la responsabilità di 
vigilare 
affinché 
siano assicurati 
il 
coordinamento 
e 
la 
cooperazione… 
affinché 
i 
sopravvissuti 
cui 
è 
stato 
prestato 
soccorso vengano sbarcati 
dalla nave 
che 
li 
ha raccolti 
e 
condotti 
in luogo 
sicuro, 
tenuto 
conto 
della 
situazione 
particolare 
e 
delle 
direttive 
elaborate 
dall’organizzazione 
(marittima internazionale). 
In 
questo caso le 
Parti 
interessate 
devono 
adottare 
le 
disposizioni 
necessarie 
affinché 
lo 
sbarco 
in 
questione 
abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile”. 


dalla 
lettura 
del 
testo della 
Convenzione 
si 
evince 
espressamente 
che 
il 
compito di 
assicurare 
lo sbarco dei 
soggetti 
soccorsi 
in mare 
spetta 
principalmente 
agli 
Stati 
e 
non agli 
operatori 
del 
salvataggio. Per questi 
ultimi 
l’adempimento 
del 
dovere 
che 
li 
scrimini 
quindi 
da 
ogni 
responsabilità 
penale 
ben 
può dirsi 
compiutamente 
perfezionato ex 
articolo 51 del 
codice 
penale, con il 
salvataggio in mare. 


Ciò 
risulta 
coerente 
anche 
con 
la 
stessa 
nozione 
di 
adempimento 
che 
nell’ambito 
del 
diritto 
civile, 
quale 
settore 
giuridico 
di 
elezione, 
deve 
avvenire 
sempre 
con diligenza 
e 
senza 
determinare 
un sacrificio sproporzionato per il 
debitore. 
la 
diligenza, 
quale 
parametro 
valutativo 
della 
condotta 
del 
debitore, 
declinata 
variamente 
a 
seconda 
della 
specifica 
qualità 
sociale 
finanche 
professionale 
del 
debitore, 
obbliga 
questi 
a 
salvaguardare 
le 
ragioni 
del 
creditore, 
ma mai a discapito di sé stesso (4). 


opinando 
diversamente, 
si 
legittimerebbero 
pratiche 
creditorie 
abusive 
ed 
istituti 
come 
lo 
scioglimento 
del 
rapporto 
obbligatorio 
per 
impossibilità 
sopravvenuta 
della 
prestazione 
(articolo 1256 del 
codice 
civile), la 
risoluzione 
del 
contratto per eccessiva 
onerosità 
(articolo 1467 del 
codice 
civile), la 
mora 
del 
creditore 
(articolo 1206 del 
codice 
civile) e 
il 
conseguente 
disfavor 
per la 
perpetuità 
dei 
vincoli 
obbligatori, nonché 
lo stesso principio di 
solidarietà 
sociale 
sancito dall’articolo 2 della 
Carta 
fondamentale, sarebbero destituiti 
di 
fondamento (5). 


(4) M. BiAnCA, diritto civile, Vol. 4 L’obbligazione, Giuffré 
editore, Milano, 2019 -Capitolo iV, 
La prestazione, pagg. 90-97. 
(5) M. BiAnCA, op. cit., Capitolo Viii, i modi 
di 
estinzione 
dell’obbligazione 
diversi 
dall’adempimento, 
pagg. 528-540. 

ConTenzioSo 
nAzionAle 


Posta 
l’intrinseca 
unitarietà 
logica 
del 
diritto, 
non 
si 
può 
che 
applicare 
queste 
argomentazioni 
anche 
al 
diritto 
penale. 
Sarebbe, 
infatti, 
in 
contrasto 
con 
il 
principio 
costituzionale 
di 
solidarietà 
sociale 
e 
con 
lo 
stesso 
principio 
di 
favor 
rei, 
imporre 
al 
prevenuto 
un 
onere 
di 
condotta 
a 
tal 
punto 
gravoso, 
da 
esigere 
l’assolvimento 
di 
compiti 
ultronei, 
ex 
articolo 
51 
del 
codice 
penale 
(6). 


opinare 
diversamente 
significa 
altresì 
tradire 
la 
ratio 
sottesa 
in 
particolare 
alle 
norme 
che 
concernono 
le 
cause 
di 
giustificazione 
(7). 
esse, 
infatti, 
rimandano 
esplicitamente 
ad una 
certa 
“immediatezza” 
e 
unitarietà 
della 
condotta 
da 
scriminare. nel 
caso di 
specie 
essa 
non può che 
consistere 
per l’appunto 
essenzialmente nel sottrarre i naufraghi dall’immediato pericolo di affogare. 


4. i presupposti 
di 
legittimità dell’arresto in caso di 
riscontro di 
una causa di 
esclusione 
della 
punibilità 
e 
la 
definizione 
dell’ambito 
applicativo 
della 
causa 
di 
giustificazione 
dell’adempimento 
di 
un 
dovere 
in 
materia 
di 
soccorso 
in 
mare, alla luce 
della sentenza della terza sezione 
della Corte 
di 
Cassazione. 
relativamente 
al 
quesito se 
l’apparenza 
di 
una 
causa 
di 
non punibilità 
a 
cui 
l’articolo 385 del 
codice 
di 
procedura 
penale 
fa 
riferimento, si 
sostanzi 
in 
un riscontro di 
ragionevole 
verosimiglianza 
nella 
configurabilità 
della 
stessa, 
la 
Terza 
Sezione 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
ha 
erroneamente 
statuito che 
“Non 
si 
richiede 
… 
che 
sia “evidente”, così 
interpretando la locuzione 
“appaia” 
dell’art. 385 cod. proc. pen., la sussistenza della causa di 
giustificazione, ma 
che 
essa sia ragionevolmente/verosimilmente 
esistente 
sulla scorta delle 
circostanze 
di 
fatto conosciute 
o conoscibili 
con l’ordinaria diligenza”. Tale 
assunto 
contrasta 
con la 
ratio 
sottesa 
alle 
norme 
dettate 
in materia 
di 
arresto e 
fermo che 
alla 
luce 
dell’articolo 13 della 
Carta 
fondamentale 
sono ispirate 
ad 
una 
logica 
emergenziale. 
nel 
caso 
di 
specie, 
infatti, 
non 
è 
possibile 
riscontrare 
l’illegittimità 
dell’arresto effettuato, sulla 
scorta 
del 
dettato enucleato all’articolo 
385 del codice di procedura penale. 


la 
complessità 
del 
quadro indiziario, confermata 
dalla 
medesima 
Corte, 
data 
senz’altro anche 
dalla 
singolarità 
delle 
circostanze 
verificatesi, non consentiva, 
infatti, di 
cogliere 
ictu oculi 
la 
configurabilità 
di 
una 
causa 
esclusoria 
della 
punibilità, pena 
una 
distorsione 
interpretativa 
della 
ratio 
sottesa 
all’articolo 
385 del codice di procedura penale. 


Quanto al 
secondo aspetto, la 
Corte 
ha 
altresì 
erroneamente 
statuito circa 
la 
sussistenza 
nel 
caso 
di 
specie 
della 
causa 
di 
giustificazione 
dell’adempimento 
di 
un dovere, affermando che 
“L’obbligo di 
prestare 
soccorso dettato 
dalla 
Convenzione 
internazionale 
sAr 
di 
Amburgo, 
non 
si 
esaurisce 
nell’atto 
di 
sottrarre 
i 
naufraghi 
al 
pericolo 
di 
perdersi 
in 
mare, 
ma 
comporta 
l’obbligo 
accessorio e conseguente di sbarcarli in luogo sicuro”. 


(6) B. roMAno, diritto penale, Parte generale, ii ed., 2013, CedAM lavis (Tn). 
(7) B. roMAno, op. cit. 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


Una 
siffatta 
interpretazione 
contrasta 
con 
la 
portata 
delle 
disposizioni 
enucleate 
nella 
Convenzione 
SAr 
che 
rinviano 
espressamente 
all’operato 
degli 
Stati 
il 
compito 
di 
attivarsi 
per 
consentire 
lo 
sbarco 
dei 
naufraghi 
soccorsi 
in mare. 


in 
rapporto 
poi 
con 
la 
ratio 
sottesa 
alle 
norme 
che 
regolamentano 
le 
cause 
di 
giustificazione, si 
evince 
che 
la 
condotta 
scriminabile 
non possa 
che 
essere 
connotata 
da 
immediatezza 
e 
unitarietà. opinare 
diversamente, prospettando 
un’ulteriore 
frammentazione 
del 
comportamento in oggetto, che 
nel 
caso di 
specie 
dovrebbe 
asseritamente 
sostanziarsi 
oltre 
che 
nel 
soccorso 
in 
mare 
anche 
nell’espletamento delle 
operazioni 
di 
sbarco, significherebbe 
gravare 
il 
prevenuto di 
un onere 
eccessivo in contrasto con i 
principi 
di 
favor 
rei 
e 
di 
solidarietà 
sociale. 


Cassazione 
penale, Sezione 
terza, sentenza 16 gennaio-20 febbraio 2020 n. 6626 -Pres. 


G. laparorcia, rel. e. Gai, P.m. d. Cardia 
(annullamento ordinanza) -Procuratore 
della 
repubblica 
presso 
il 
Tribunale 
di 
Agrigento 
nel 
procedimento 
nei 
confronti 
di 
r.C. 
(avv. 
A. 
Gamberini 
e 
l. Marino) avverso l’ordinanza 
del 
02/07/2019 del 
Giudice 
delle 
indagini 
preliminari 
del 
Tribunale di 
Agrigento. 
riTenUTo in FATTo 


1. il 
Procuratore 
della 
repubblica 
del 
Tribunale 
di 
Agrigento ricorre 
per l’annullamento 
del 
provvedimento del 
Giudice 
delle 
indagini 
preliminari 
del 
Tribunale 
di 
Agrigento di 
non 
convalida 
dell’arresto in flagranza 
di 
C.r., eseguito da 
militari 
della 
Guardia 
di 
Finanza, per 
i 
reati 
di 
cui 
agli 
artt. 1100 cod. nav. e 
art. 337 cod. pen., fatto commesso in lampedusa 
il 
29/06/2019. 
2. deduce 
il 
ricorrente, con il 
primo motivo di 
ricorso, la 
violazione 
dell’art. 606 comma 
1 lett. b) ed e) cod. proc. pen., erronea 
applicazione 
dell’art. 391 comma 
4 cod. proc. pen. e 
illogicità/contraddittorietà della motivazione relativa all’illegittimità dell’arresto. 
Argomenta 
il 
ricorrente 
che, pacifica 
la 
flagranza 
del 
reato per il 
quale 
può essere 
operato 
l’arresto, tenuto conto che 
i 
titoli 
di 
reato lo consentivano, e 
che 
i 
termini 
processuali 
erano 
stati 
rispettati, il 
Giudice 
avrebbe 
travalicato i 
limiti 
cognitivi 
di 
tale 
fase, procedendo ad una 
autonoma 
valutazione 
dei 
dati 
in suo possesso e 
pervenendo ad un giudizio sostanziale 
sulla 
gravità indiziaria. 


Avrebbe 
errato, 
il 
Giudice 
della 
convalida, 
sui 
requisiti 
del 
suo 
sindacato. 
egli 
avrebbe 
dovuto 
unicamente 
valutare, 
in 
presenza 
del 
presupposto 
della 
flagranza 
e 
del 
rispetto 
di 
termini, 
la 
legittimità 
dell’operato 
della 
polizia 
giudiziaria, 
effettuando 
un 
controllo 
di 
ragionevolezza 
sullo stesso, dal 
momento che 
sono preclusi 
in questa 
fase 
apprezzamenti 
relativi 
alla 
responsabilità 
penale ovvero alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. 


il 
Giudice 
delle 
indagini 
preliminari 
del 
Tribunale 
di 
Agrigento avrebbe 
travalicato i 
limiti 
del 
suo sindacato, dal 
momento che 
avrebbe 
ritenuto configurabile 
la 
causa 
di 
giustificazione 
di 
cui 
all’art. 51 cod. pen., fondata 
su un quadro normativo che 
lo stesso Giudice 
definisce 
“complesso”, elemento questo da 
solo sufficiente 
ad escludere 
che 
la 
causa 
di 
giustificazione 
fosse 
emergente 
ictu oculi. del 
resto, l’art. 385 cod. proc. pen. vieta 
l’arresto quando, tenuto 



ConTenzioSo 
nAzionAle 


conto delle 
circostanze 
del 
caso, “appaia” 
che 
il 
fatto sia 
stato compiuto nell’adempimento di 
un dovere. Ciò dovrebbe 
ritenersi 
escluso nel 
caso in esame, dal 
momento che 
sono occorse 
ben dieci 
pagine 
al 
Giudice 
per dimostrare 
la 
sussistenza 
della 
predetta 
causa 
di 
giustificazione. 
la 
stessa 
ricostruzione 
del 
G.i.P. sarebbe 
pertanto incompatibile 
con il 
concetto di 
apparenza. 


Con il 
secondo motivo di 
ricorso, deduce 
la 
violazione 
dell’art. 606 comma 
1 lett. b) ed e) 
cod. proc. pen., erronea 
applicazione 
dell’art. 1100 cod. nav. e 
mancanza, manifesta 
illogicità 
e contraddittorietà della motivazione relativa alla qualità di nave da guerra. 


Secondo il 
ricorrente, il 
Giudice 
avrebbe 
erroneamente 
escluso la 
natura 
di 
nave 
da 
guerra 
della 
motovedetta 
V.808 
della 
Guardia 
di 
Finanza 
e 
sulla 
scorta 
di 
tale 
erronea 
interpretazione 
avrebbe ritenuto insussistente il reato di cui all’art. 1100 cod. nav. 


in particolare, il 
Giudice 
avrebbe 
sostenuto tale 
tesi 
richiamando la 
sentenza 
della 
Corte 
costituzionale 
n. 35/2000, chiamata 
a 
pronunciarsi 
sull’ammissibilità 
del 
referendum 
abrogativo 
del 
carattere 
di 
corpo militare 
della 
Guardia 
di 
Finanza, che, contrariamente 
all’assunto 
del 
Giudice, non conterrebbe 
la 
limitazione 
che 
costui 
ne 
aveva 
tratto (le 
unità 
della 
Guardia 
di 
Finanza 
sono considerate 
navi 
da 
guerra 
solo quando operano fuori 
dalle 
acque 
territoriali 
ovvero in porti esteri ove non vi sia una autorità consolare). 


Al 
contrario, la 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
in più casi 
avrebbe 
qualificato le 
motovedette 
della 
Guardia 
di 
Finanza 
come 
“navi 
da 
guerra”, e 
ciò in quanto esse 
svolgono funzioni 
di 
polizia 
marittima 
e 
sono comandate 
ed equipaggiate 
da 
personale 
militare, nonché 
in quanto 
lo 
stesso 
legislatore 
indirettamente 
le 
iscriverebbe 
in 
questa 
categoria 
(legge 
13 
dicembre 
1956, n. 1409, art. 6). Tale 
conferma 
si 
ricaverebbe 
dalla 
più risalente 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
secondo 
cui 
una 
motovedetta 
armata 
della 
Guardia 
di 
Finanza 
in 
servizio 
di 
polizia 
marittima 
deve essere considerata nave da guerra (Sez. 3 n. 9978 del 1987). 


nel 
caso in esame, la 
motovedetta 
V.808 della 
Guardia 
di 
Finanza 
avrebbe 
tutti 
i 
requisiti 
della 
nave 
da 
guerra: 
è 
iscritta 
nel 
naviglio militare 
dello stato ai 
sensi 
dell’art. 243 Codice 
dell’ordinamento Militare; 
reca 
le 
insegne 
militari 
del 
Corpo di 
appartenenza, quali 
colore, 
scritta, 
bandiera 
e 
guidone; 
il 
comandante 
è 
un 
maresciallo 
ordinario 
della 
Guardia 
di 
Finanza 
e 
riveste 
lo status 
militare; 
è 
armata 
con dispositivi 
di 
armamento individuali 
e 
di 
reparto di 
tipo militare. 


la 
motovedetta 
in argomento sarebbe 
dunque 
da 
qualificarsi 
nave 
da 
guerra 
in servizio, al 
momento dell’arresto, di 
polizia 
marittima 
ovvero di 
attività 
volta 
a 
garantire 
un pacifico, ordinato 
e 
sicuro 
svolgimento 
delle 
attività 
portuali 
e 
del 
mare 
territoriale 
(art. 
524 
reg. 
cod. 
nav.). 


Con il 
terzo motivo di 
ricorso, deduce 
la 
violazione 
dell’art. 606 comma 
1 lett. b) ed e) 
cod. proc. pen., erronea 
applicazione 
dell’art. 51 cod. pen. e 
mancanza, manifesta 
illogicità 
e 
contraddittorietà 
della 
motivazione 
relativa 
alla 
sussistenza 
della 
causa 
di 
giustificazione 
del-
l’adempimento del dovere. 


Secondo il 
ricorrente 
il 
Giudice 
avrebbe 
erroneamente 
motivato la 
sussistenza 
dell’adempimento 
del 
dovere, in particolare 
del 
dovere 
di 
soccorso in mare 
e 
degli 
obblighi 
che 
ne 
scaturiscono, 
sull’errato 
presupposto 
che 
la 
vicenda 
fosse 
da 
valutare 
nel 
suo 
insieme, 
fin 
dal 
momento 
iniziale 
del 
salvataggio 
dei 
naufraghi 
in 
zona 
SAr 
libica, 
per 
continuare 
con 
la 
permanenza 
in 
acque 
territoriali 
di 
fronte 
all’isola 
di 
lampedusa, 
e 
per 
concludere 
con 
la 
condotta 
di 
ingresso nel 
porto di 
lampedusa. A 
giudizio del 
ricorrente, la 
prima 
parte 
della 
vicenda 
in 
parola 
sarebbe 
oggetto di 
diverso e 
autonomo procedimento penale, e 
dunque 
in questa 
sede 
avrebbe 
dovuto 
essere 
considerata 
esclusivamente 
la 
condotta 
finale 
di 
ingresso 
con 
modalità 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


violente 
nel 
porto, in un momento nel 
quale 
il 
dovere 
di 
soccorso dei 
migranti 
sarebbe 
già 
stato 
adempiuto 
e 
avrebbe 
potuto 
dirsi 
terminato, 
anche 
alla 
luce 
delle 
fonti 
internazionali 
(artt. 18 e 
19 della 
convenzione 
di 
Montego Bay). Queste 
ultime 
non richiedono che 
il 
soccorso 
in mare 
debba 
avvenire 
con trasbordo a 
terra 
dei 
naufraghi, in quanto l’attività 
di 
soccorso 
consisterebbe 
nella 
conduzione 
dei 
naufraghi 
in un place 
of 
safety 
e 
non in un “porto 
sicuro”. 
Sul 
punto 
sarebbe 
evidente 
la 
confusione 
del 
Giudice 
nell’interpretazione 
del 
concetto 
di 
place of safety. 


il 
place 
of 
safety 
non richiederebbe, secondo il 
ricorrente, la 
necessità 
di 
condurre 
a 
terra 
i 
naufraghi. la 
stessa 
nave 
Sea 
Watch3 avrebbe 
dovuto essere 
considerata 
“place 
of 
safety”, 
dal 
momento che 
i 
naufraghi 
erano stati 
ivi 
adeguatamente 
messi 
in sicurezza 
ed assistiti 
in 
attesa 
di 
una 
individuazione 
in via 
definitiva 
del 
luogo di 
sbarco. Sebbene 
la 
conduzione 
a 
terra 
dei 
naufraghi 
costituisca 
opzione 
ottimale, 
non 
di 
meno 
non 
poteva 
escludersi, 
come 
apoditticamente 
avrebbe 
fatto 
il 
Giudice, 
la 
loro 
adeguata 
messa 
in 
sicurezza 
nel 
caso 
concreto 
già 
all’atto del 
loro trasbordo sull’unità 
navale, con la 
conseguenza 
che 
il 
dovere 
di 
soccorso 
doveva ritenersi, in quel momento, già adempiuto. 


la 
concreta 
valutazione 
del 
fatto e 
il 
bilanciamento degli 
interessi 
in gioco avrebbero dovuto 
indurre 
il 
giudice 
alla 
valutazione 
della 
circostanza 
che 
i 
migranti, una 
volta 
messi 
in sicurezza 
a 
bordo della 
nave, non erano più esposti 
ad in pericolo imminente 
per la 
loro vita, 
sicché 
la 
condotta 
dell’indagata 
non avrebbe 
potuto ritenersi 
giustificata 
dall’adempimento 
del 
dovere 
di 
soccorso, già 
avvenuto. in secondo luogo, il 
Giudice 
non avrebbe 
considerato 
le 
modalità 
alternative 
con cui 
avrebbe 
potuto essere 
adempiuto il 
dovere 
di 
soccorso, mediante 
il 
trasbordo dei 
naufraghi 
a 
terra 
con le 
scialuppe 
di 
bordo. infine, non si 
ravviserebbe 
nel caso di specie la sussistenza di alcuno stato di necessità. 


inoltre, nel 
caso in esame, la 
condotta 
di 
resistenza 
sarebbe 
avvenuta 
anche 
in violazione 
della 
normativa 
interna 
che 
vietava 
l’ingresso in porto alla 
nave, con esposizione 
dei 
militari 
della Guardia di Finanza a rischio per la propria incolumità. 


il 
provvedimento impugnato avrebbe, poi, fatto un erroneo riferimento all’art. 10 ter 
del 
d.lgs 
286 del 
1998, norma 
diretta 
all’autorità 
nazionale 
e 
non al 
comandante 
di 
una 
privata 
imbarcazione, e 
all’art. 11 comma 
1 ter 
del 
d.lgs 
286 del 
1998 nella 
parte 
in cui 
avrebbe 
affermato 
che 
il 
divieto posto dal 
provvedimento interministeriale 
non potrebbe 
essere 
ritenuto 
legittimo se emanato senza rispetto degli obblighi internazionali dello Stato. 


3. 
il 
Procuratore 
generale 
ha 
depositato 
requisitoria 
scritta 
con 
cui 
ha 
chiesto 
l’annullamento 
senza 
rinvio dell’ordinanza 
impugnata. Argomenta 
il 
Procuratore 
generale 
della 
Corte 
di 
cassazione 
che, 
quanto 
al 
primo 
motivo, 
il 
Giudice 
avrebbe 
travalicato 
i 
limiti 
di 
cognizione 
propri 
di 
tale 
fase, 
finendo 
per 
scendere 
nella 
valutazione 
della 
gravità 
indiziaria, 
che 
non 
è 
consentita 
in sede 
di 
giudizio sulla 
convalida 
dell’arresto; 
condivide, nel 
resto, le 
ragioni 
del 
Pubblico Ministero ricorrente. 
4. i difensori 
di 
C.r., nella 
memoria 
depositata, hanno argomentato, quanto al 
primo motivo, 
la 
correttezza 
del 
controllo di 
ragionevolezza 
effettuato, nel 
caso in esame, dal 
Giudice 
della 
convalida, avuto riguardo alla 
sussistenza 
di 
un divieto di 
arresto, ex art. 385 cod. proc. 
pen., in presenza 
dell’adempimento del 
dovere 
di 
soccorso, come 
emergente 
dai 
documenti 
prodotti 
e 
dalle 
dichiarazioni 
rese 
dall’arrestata; 
la 
correttezza 
dell’interpretazione 
della 
legge 
in 
merito 
al 
presupposto 
applicativo 
dell’art. 
1100 
cod. 
nav., 
non 
essendo, 
la 
motovedetta 
della 
Guardia 
di 
Finanza, 
nave 
da 
guerra; 
la 
contraddittorietà 
della 
richiesta 
di 
sindacato 
sulla 
sussistenza 
del 
dovere 
di 
soccorso alla 
luce 
delle 
convenzioni 
internazionali, sulla 
proporzionalità 
del 
comportamento dell’indagata, incompatibile 
con i 
limiti 
del 
sindacato del 
giudice 

ConTenzioSo 
nAzionAle 


della 
convalida, limiti 
il 
cui 
rispetto era 
invocato, a 
dimostrazione 
dell’illegittimità 
del 
provvedimento 
di non convalida, nello stesso primo motivo di ricorso. 


ConSiderATo in diriTTo 


1. Con il 
primo motivo il 
ricorrente 
censura 
l’impugnato provvedimento di 
non convalida 
dell’arresto in flagranza 
deducendo la 
violazione 
di 
legge 
per avere, il 
Giudice, travalicato i 
limiti del suo sindacato in tale ambito. 
Vanno, anzitutto, richiamati 
i 
principi, più volte 
affermati 
da 
questa 
Corte, cui 
mostra 
di 
aderire 
anche 
il 
Pubblico 
Ministero 
ricorrente, 
secondo 
i 
quali, 
in 
tema 
di 
arresto 
in 
flagranza, 
il 
giudice 
della 
convalida 
deve 
limitarsi 
alla 
verifica 
della 
sussistenza 
dei 
presupposti 
legali 
per l’arresto e 
dell’uso ragionevole 
dei 
poteri 
da 
parte 
della 
polizia 
giudiziaria, cui 
è 
istituzionalmente 
attribuita 
una 
sfera 
discrezionale 
nell’apprezzamento 
dei 
medesimi, 
in 
una 
chiave 
di 
lettura 
che 
non deve 
riguardare 
né 
la 
gravità 
indiziaria 
e 
le 
esigenze 
cautelari, valutazione 
questa 
riservata 
all’applicabilità 
delle 
misure 
cautelari 
coercitive, né 
l’apprezzamento sulla 
responsabilità, riservato alla fase di cognizione del giudizio di merito. 


in 
tema 
di 
arresto 
in 
flagranza, 
il 
giudice 
della 
convalida 
deve 
operare 
un 
controllo 
di 
mera 
ragionevolezza, 
ponendosi 
nella 
stessa 
situazione 
di 
chi 
ha 
operato 
l’arresto 
e 
fondando 
il 
suo 
giudizio 
sulla 
base 
degli 
elementi 
al 
momento 
conosciuti 
(ex 
multis 
Sez. 
6, 
n. 
7470 
del 
26/01/2017, lattarulo, rv. 269428 - 01). 


Al 
fine 
di 
effettuare 
tale 
controllo di 
ragionevolezza, il 
giudice 
deve 
verificare, sulla 
base 
degli 
elementi 
al 
momento conosciuti, se 
la 
valutazione 
di 
procedere 
all’arresto sia 
rimasta 
nei limiti della discrezionalità della polizia giudiziaria. 


2. Secondo il 
Pubblico Ministero ricorrente, nel 
caso in esame, i 
predetti 
limiti 
sarebbero 
stati 
ampiamente 
travalicati. il 
giudice 
avrebbe 
effettuato un penetrante 
giudizio sulla 
insussistenza 
della 
gravità 
indiziaria, ritenendo configurabile 
la 
causa 
di 
giustificazione 
dell’art. 
51 cod. pen., segnatamente 
dell’adempimento del 
dovere 
di 
soccorso in mare, sulla 
scorta 
di 
un 
complesso 
percorso 
argomentativo 
che 
faceva 
ampio 
richiamo 
alle 
fonti 
internazionali, 
laddove 
l’art. 385 cod. pen., facendo riferimento al 
concetto di 
“apparenza”, implicitamente 
escluderebbe 
che 
si 
possa 
pervenire 
alla 
non convalida 
dell’arresto sulla 
base 
di 
argomenti 
o 
ragionamenti complessi. 
3. Va, ulteriormente 
chiarito, per il 
rilievo che 
assume 
nel 
caso in scrutinio, che 
il 
procedimento 
di 
convalida 
dell’arresto e 
di 
applicazione 
di 
misure 
cautelari 
costituisce 
un procedimento 
complesso 
caratterizzato 
dalla 
presenza 
di 
due 
distinte 
fasi. 
la 
prima 
costituita 
dall’intervento straordinario con cui, in via 
precautelare 
e 
nei 
soli 
casi 
eccezionali 
di 
assoluta 
necessità 
ed urgenza 
tassativamente 
indicati 
dalla 
legge 
(come 
previsto dall’art. 13 della 
Costituzione), 
la 
polizia 
giudiziaria 
o il 
pubblico ministero -sostituendosi 
al 
giudice, cui 
è 
unicamente 
permesso, in via 
ordinaria, di 
operare 
limitazioni 
della 
libertà 
personale 
-adottano 
un 
provvedimento 
restrittivo, 
il 
quale 
deve 
tuttavia 
essere 
sottoposto 
-entro 
ristrettissimi 
limiti 
temporali 
-a 
controllo da 
parte 
del 
Giudice, ed un’altra 
successiva, propriamente 
cautelare, 
mediante 
la 
quale, indipendentemente 
dalla 
convalida 
dell’operato della 
polizia 
giudiziaria 
o 
del 
pubblico ministero, il 
giudice, su richiesta 
della 
pubblica 
accusa, decide 
se 
adottare 
o non 
adottare 
una 
misura 
cautelare 
sui 
presupposti 
della 
gravità 
indiziaria 
e 
della 
sussistenza 
di 
esigenze 
cautelari. 
nell’ambio di 
questo schema 
delineato dal 
codice, in attuazione 
del 
dettato costituzionale 
di 
cui 
all’art. 13 Cost., il 
provvedimento di 
convalida 
è 
diretto esclusivamente 
a 
legittimare 
l’intervento d’urgenza della polizia giudiziaria. 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


il 
giudice 
è 
tenuto soltanto a 
valutare 
la 
sussistenza 
degli 
elementi 
che 
hanno legittimato 
l’adozione 
della 
misura 
con una 
verifica 
“ex ante”, dovendo tenere 
conto della 
situazione 
conosciuta 
dalla 
polizia 
giudiziaria 
ovvero 
da 
quest’ultima 
conoscibile 
con 
l’ordinaria 
diligenza 
al 
momento dell’arresto o del 
fermo, e 
con esclusione 
delle 
indagini 
o delle 
informazioni 
acquisite 
successivamente, 
ad 
esclusione 
delle 
dichiarazioni 
dell’arrestato, 
che 
sono 
invece 
pienamente 
utilizzabili 
per 
l’ulteriore 
pronuncia 
sullo 
“status 
libertatis” 
(ex 
multis, 
Sez. 
3, 
n. 
37861 
del 
17/06/2014, 
Pasceri, 
rv. 
260084 
-01; 
Sez. 
3, 
n. 
2454 
del 
20/11/2007, 
nowosielski; 
rv. 238533 - 01; Sez. 3, n. 15137 del 15/02/2019, rohani, rv. 275968 - 01). 


ne 
consegue 
che, come 
efficacemente 
affermato da 
Sez. 3 n. 15137 del 
2019, la 
convalida 
guarda 
al 
passato 
e, 
quindi, 
per 
il 
futuro, 
occorre, 
affinché 
perduri 
una 
limitazione 
della 
libertà 
personale, un autonomo provvedimento idoneo a 
costituire 
titolo autosufficiente 
per fondare 
una limitazione del diritto di libertà. 


4. 
nel 
caso 
in 
esame, 
il 
Giudice 
ha 
adottato 
un 
unico 
provvedimento 
con 
il 
quale 
ha 
stabilito 
di 
non convalidare 
l’arresto per i 
reati 
di 
cui 
all’art. 1100 cod. nav. e 
all’art. 337 cod. pen. e 
contemporaneamente 
ha 
respinto la 
richiesta 
di 
misura 
cautelare 
per assenza 
di 
gravi 
indizi 
di colpevolezza. 
nella 
parte 
della 
motivazione 
del 
provvedimento con cui 
ha 
argomentato le 
ragioni 
della 
non 
convalida 
dell’arresto, 
il 
Giudice 
ha 
escluso, 
quanto 
al 
primo 
reato 
contestato, 
che 
si 
trattasse 
di 
nave 
da 
guerra 
e, quanto al 
secondo, ha 
ritenuto la 
sussistenza 
della 
causa 
di 
giustificazione 
di 
cui 
all’art. 51 cod. pen. nella 
fattispecie 
dell’adempimento del 
dovere 
di 
soccorso 
in mare. 


5. Tutto ciò premesso, ritiene, il 
Collegio, che 
il 
controllo di 
ragionevolezza 
effettuato dal 
giudice 
della 
convalida, 
da 
cui 
discende 
la 
legittimità 
o 
meno 
della 
sua 
decisione, 
debba 
avere 
come 
parametro 
l’art. 
13 
Cost. 
Quest’ultimo, 
al 
primo 
comma, 
sancisce 
che 
la 
libertà 
personale 
è 
inviolabile; 
al 
secondo 
comma, 
che 
non 
è 
ammessa 
forma 
alcuna 
di 
detenzione, 
di 
ispezione 
o 
perquisizione 
personale, 
né 
qualsiasi 
altra 
restrizione 
della 
libertà 
personale, 
se 
non 
per 
atto 
motivato dall’autorità 
giudiziaria 
e 
nei 
soli 
casi 
e 
modi 
previsti 
dalla 
legge; 
al 
comma 
terzo, 
consente 
solo in casi 
eccezionali 
di 
necessità 
ed urgenza, indicati 
tassativamente 
dalla 
legge, 
che 
l’autorità 
di 
pubblica 
sicurezza 
possa 
adottare 
provvedimenti 
provvisori, i 
quali 
devono 
essere 
comunicati 
entro quarantotto ore 
all’autorità 
giudiziaria 
e, se 
questa 
non li 
convalida 
nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. 
dunque, 
la 
libertà 
personale, 
diritto 
inviolabile 
dell’uomo, 
può 
essere 
oggetto 
di 
limitazione 
da 
parte 
della 
polizia 
giudiziaria 
solo in casi 
eccezionali 
tassativamente 
previsti 
dalla 
legge, 
e 
solo 
in 
via 
rigorosamente 
temporanea. 
l’operato 
di 
quest’ultima, 
proprio 
in 
ragione 
del 
rango del 
bene 
tutelato, è 
soggetto a 
controllo in tempi 
ristrettissimi 
da 
parte 
di 
un giudice, 
unico organo titolato a limitare, con provvedimento motivato, la libertà medesima. 


in tale 
ambito, è 
stato affermato che 
il 
meccanismo della 
convalida 
nel 
processo penale 
discende 
proprio dalla 
previsione, di 
rango costituzionale, per cui 
un organo “incompetente” 
è 
autorizzato, 
sussistendo 
determinate 
condizioni, 
a 
sostituirsi 
a 
un 
organo 
“competente” 
e, 
quindi, ad emettere, a 
titolo provvisorio, un atto rientrante, di 
regola, nelle 
attribuzioni 
del-
l’autorità 
legittimata, in via 
ordinaria, all’intervento diretto ad intaccare 
la 
sfera 
di 
libertà 
del 
singolo. 

ne 
consegue 
che 
la 
convalida, quando interviene, non incide 
sugli 
effetti 
dell’atto provvisorio 
convalidato 
e, 
quindi, 
non 
comporta 
il 
consolidamento 
di 
quegli 
effetti, 
risolvendosi 
solo 
in 
un 
controllo 
diretto 
a 
stabilire 
se 
l’intervento 
dell’organo 
“incompetente” 
sia 
stato 
bene o male operato. 



ConTenzioSo 
nAzionAle 


6. il 
controllo di 
ragionevolezza 
del 
giudice 
della 
convalida 
deve 
dunque 
essere 
effettuato 
sulla 
base 
di 
una 
interpretazione 
adeguatrice 
delle 
norme 
di 
rango 
primario 
-le 
norme 
appunto 
che 
disciplinano la 
convalida 
dell’arresto in flagranza 
-a 
quelle 
di 
rango costituzionale 
che 
stabiliscono 
limiti 
tassativi 
al 
potere 
dell’autorità 
di 
polizia 
giudiziaria 
di 
incidere 
sulla 
libertà 
personale 
degli 
individui. nel 
caso concreto, il 
giudice 
di 
Agrigento ha 
correttamente 
interpretato 
quelle 
norme 
di 
legge 
(artt. 385 e 
391 cod. proc. pen.) alla 
luce 
dei 
principi 
di 
rango 
costituzionale. 
egli 
ha 
puntualmente 
ricostruito la 
vicenda 
processuale, ripercorrendo nel 
corpo del 
provvedimento 
la 
scansione 
temporale 
degli 
eventi, riepilogando gli 
antefatti 
dal 
giorno del 
salvataggio 
dei 
naufraghi 
fino 
ai 
contatti 
tra 
la 
capitana 
e 
la 
polizia 
giudiziaria 
nei 
giorni 
successivi, allorché 
la 
Sea 
Whatch3 era 
alla 
fonda 
davanti 
al 
porto di 
lampedusa, nonché 
ciò 
che 
avvenne 
poco 
prima 
dell’ingresso 
in 
porto, 
la 
notte 
del 
29 
giugno 
2019. 
Tale 
ricostruzione 
risultava 
necessaria 
allo scopo di 
inquadrare 
un evento che 
si 
caratterizzava 
per la 
sua 
singolarità, 
oggettivamente 
al 
di 
fuori 
dei 
casi 
normalmente 
affrontati 
in 
sede 
di 
convalida 
di 
arresto. 
Alla 
luce 
di 
tutto ciò, il 
Giudice 
ha 
ritenuto non legittimo l’arresto della 
r. in quanto operato 
in presenza di un divieto stabilito dall’art. 385 cod. proc. pen. 


Secondo 
quanto 
argomentato 
nel 
provvedimento 
impugnato, 
la 
misura 
precautelare 
era 
stata 
adottata 
al 
di 
fuori 
del 
perimetro di 
legalità, in forza 
della 
ricorrenza 
di 
una 
causa 
di 
giustificazione, 
individuata 
nell’adempimento del 
dovere 
di 
soccorso. Tale 
causa 
di 
giustificazione 
trovava 
correttamente 
il 
proprio 
fondamento, 
diversamente 
da 
quanto 
ritenuto 
dal 
ricorrente, 
proprio 
in 
una 
valutazione 
complessiva 
e 
non 
parcellizzata 
di 
tutti 
gli 
elementi 
fattuali 
rilevanti 
per 
comprendere 
la 
situazione 
palesatasi 
agli 
operanti 
nelle 
fasi 
immediatamente 
precedenti 
alla 
condotta 
di 
ingresso nel 
porto, e 
di 
quelli 
ad essi 
antecedenti, tutti 
elementi 
conosciuti da coloro che avevano operato l’arresto. 


Tenuto 
conto 
che 
la 
privazione 
della 
libertà 
personale 
della 
r. 
era 
avvenuta 
in 
quel 
preciso 
contesto 
fattuale, 
descritto 
alle 
pagg. 
8-11 
dell’impugnata 
ordinanza, 
il 
Giudice 
ha 
escluso 
la 
legittimità 
dell’arresto 
perché 
effettuato, 
quanto 
alla 
sussistenza 
del 
reato 
di 
cui 
all’art. 
1100 
cod. 
nav., 
in 
assenza 
del 
requisito 
di 
“nave 
da 
guerra” 
della 
motovedetta 
V.808, 
e, 
quanto 
al 
reato 
di 
cui 
all’art. 
337 
cod. 
pen., 
in 
presenza 
di 
una 
causa 
di 
giustificazione, 
ex 
art. 
51 
cod. 
pen. 


7. 
Tralasciando 
per 
ora 
la 
questione 
dell’attribuibilità 
alla 
motovedetta 
della 
Guardia 
di 
Finanza, 
nel 
caso 
di 
specie, 
della 
qualità 
di 
“nave 
da 
guerra” 
(vedi 
infra), 
e 
tenuto 
peraltro 
conto 
del 
fatto che 
la 
ricorrenza 
di 
una 
causa 
di 
giustificazione 
opererebbe 
comunque 
anche 
con riguardo 
all’ipotesi 
di 
reato di 
cui 
all’art. 1100 cod. nav., il 
provvedimento impugnato ha 
correttamente 
esercitato il 
suo sindacato sull’operato dei 
militari 
della 
Guardia 
di 
finanza 
e 
ha 
congruamente argomentato il proprio convincimento sullo stesso. 
All’esito di 
un percorso esegetico delle 
fonti 
normative 
di 
rango internazionale, che 
sono 
vincolanti 
per 
lo 
Stato 
italiano 
e 
per 
tutti 
coloro 
che 
sono 
tenuti 
nel 
loro 
operare 
all’osservanza 
della 
legge 
italiana, 
il 
Giudice 
ha 
ritenuto 
configurabile 
in 
capo 
alla 
capitana 
della 
nave 
la 
causa 
di 
giustificazione 
dell’adempimento 
di 
un 
dovere 
di 
soccorso 
che, 
a 
mente 
dell’art. 
385 
cod. proc. pen., comporta uno specifico divieto di arresto in flagranza e di fermo. 


È 
ben vero che, sulla 
base 
dell’inequivoco dato testuale 
della 
norma 
processuale, detto divieto 
opera 
a 
condizione 
che 
la 
causa 
di 
non punibilità 
sia 
riconoscibile 
nel 
contesto dei 
fatti 
che 
hanno richiesto l’intervento d’urgenza 
(“quando, tenuto conto delle 
circostanze 
del 
fatto, 
appare”). non di 
meno, contrariamente 
all’assunto del 
ricorrente, non è 
certo la 
presenza 
di 
una 
articolata 
motivazione 
del 
provvedimento ad escludere 
di 
per sé 
che 
l’esimente 
“appaia” 
sussistente. 
l’articolata 
motivazione, 
al 
contrario, 
si 
giustifica 
proprio 
in 
forza 
della 
comples



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


sità 
della 
vicenda, 
della 
delicatezza 
del 
bene 
giuridico 
compresso 
(la 
libertà 
individuale), 
della 
conseguente 
necessità 
di 
ricostruire 
con attenzione 
e 
precisione 
le 
fonti 
normative, anche 
di 
rango internazionale, idonee 
a 
fondare 
la 
sussistenza 
della 
causa 
di 
giustificazione 
dell’art. 
51 cod. pen. e il suo esatto contenuto. 


Sono questi 
gli 
elementi, indicati 
dal 
Giudice, a 
costituire 
il 
parametro della 
valutazione 
della ragionevolezza dell’operato di coloro che hanno eseguito l’arresto. 


8. Muovendo, in primo luogo, dall’interpretazione 
dell’art. 385 cod. proc. pen., ritiene, il 
Collegio, 
che, 
come 
anche 
affermato 
da 
autorevole 
dottrina, 
non 
sia 
richiesto 
che 
la 
sussistenza 
della 
causa 
di 
giustificazione 
dell’adempimento di 
un dovere 
o dell’esercizio di 
una 
facoltà 
legittima 
o della 
causa 
di 
non punibilità 
“appaia 
evidente”, ma 
che 
essa 
sia 
“verosimilmente 
esistente”. 
non 
si 
richiede, 
in 
altri 
termini, 
che 
sia 
“evidente”, 
così 
interpretando 
la 
locuzione 
“appaia” 
dell’art. 385 cod. proc. pen., la 
sussistenza 
della 
causa 
di 
giustificazione, ma 
che 
essa 
sia 
ragionevolmente/
verosimilmente 
esistente 
sulla 
scorta 
delle 
circostanze 
di 
fatto 
conosciute 
o 
conoscibili con l’ordinaria diligenza. 


Tale 
interpretazione 
si 
impone, a 
giudizio del 
Collegio, tenuto conto del 
rango costituzionale 
dei 
beni 
in gioco, e 
della 
previsione, anch’essa 
derivante 
dall’art. 13 Cost., secondo cui 
la 
restrizione 
della 
libertà 
deve 
essere 
adottata 
da 
un giudice 
con provvedimento motivato, 
potendo 
intervenire 
la 
polizia 
giudiziaria 
solo 
in 
casi 
tassativamente 
previsti 
dalla 
legge 
e 
con 
riserva 
di 
giurisdizione, 
essendo, 
il 
provvedimento 
restrittivo 
della 
libertà 
personale 
destinato 
a perdere efficacia se non sostituito da quello adottato dal giudice. 


in 
tale 
ambito, 
la 
disciplina 
codicistica 
è 
coerente 
con 
la 
previsione, 
di 
rango 
costituzionale, 
del 
carattere 
urgente 
e 
temporaneo dell’intervento della 
polizia 
giudiziaria, se 
la 
ricorrenza 
della 
causa 
di 
giustificazione, 
che 
costituisce 
un 
limite 
all’intervento 
urgente 
della 
polizia 
giudiziaria 
in materia 
di 
arresto in flagranza, sia 
intesa 
come 
“verosimilmente 
esistente”. in presenza 
di 
“verosimile” 
rappresentazione 
di 
una 
causa 
di 
giustificazione, 
opera 
quindi 
il 
divieto 
di cui all’art. 385 cod. proc. pen. e l’atto di arresto eventualmente compiuto non è legittimo. 


Che 
tale 
interpretazione 
sia 
l’unica 
percorribile 
si 
ricava, a 
parere 
del 
Collegio, dalla 
circostanza 
che 
l’art. 
273 
cod. 
proc. 
pen. 
impone 
al 
Giudice 
delle 
indagini 
preliminari, 
che 
emette 
un’ordinanza 
di 
custodia 
cautelare, di 
valutare, in sede 
di 
adozione 
della 
misura 
cautelare, se 
“risulta” 
che 
il 
fatto sia 
stato compiuto in presenza 
di 
una 
causa 
di 
giustificazione, accertamento 
che 
non 
richiede, 
come 
affermato 
dalla 
giurisprudenza 
di 
questa 
Corte, 
che 
la 
ricorrenza 
dell’esimente 
sia 
stata 
positivamente 
comprovata 
in termini 
di 
certezza, essendo sufficiente, 
a 
tal 
fine, la 
sussistenza 
di 
un elevato o rilevante 
grado di 
probabilità 
che 
il 
fatto sia 
compiuto 
in presenza 
di 
tale 
causa 
di 
giustificazione 
(Sez. 1, n. 72 del 
26/11/2010, Bocedi, rv. 249287 


-01; 
Sez. 1, n. 6630 del 
28/01/2010, dioodato, rv. 246576 -01). Se 
il 
Giudice, nell’adottare 
una 
misura 
privativa 
della 
libertà 
personale, deve 
valutare 
il 
profilo in questione 
nei 
termini 
sopra 
indicati, 
non 
può 
ritenersi 
che 
la 
polizia 
giudiziaria, 
nell’effettuare 
un 
arresto 
in 
flagranza, 
abbia 
più ampi 
poteri 
rispetto all’autorità 
giudiziaria 
che 
è 
compente 
in via 
generale 
alla restrizione della libertà personale. 
9. Così 
definita 
la 
cornice 
interpretativa 
del 
caso in esame, la 
valutazione 
del 
Giudice 
di 
Agrigento, che 
ha 
ritenuto non ci 
fossero i 
presupposti 
per convalidare 
l’arresto, eseguito in 
quel 
descritto contesto fattuale, poiché 
operante 
il 
divieto di 
cui 
all’art. 385 cod. proc. pen., è 
corretta. 
la 
verosimile 
esistenza 
della 
causa 
di 
giustificazione 
è 
stata 
congruamente 
argomentata. 
in questo ambito, il 
provvedimento ripercorre, necessariamente, le 
fonti 
internazionali 
(Con



ConTenzioSo 
nAzionAle 


venzione 
per 
la 
salvaguardia 
della 
vita 
umana 
in 
mare, 
SolAS 
-Safety 
of 
life 
at 
Sea, 
londra, 
1974, ratificata 
dall’italia 
con la 
legge 
n. 313 del 
1980; 
Convenzione 
SAr di 
Amburgo del 
1979, 
resa 
esecutiva 
dall’italia 
con 
la 
legge 
n. 
147 
del 
1989 
e 
alla 
quale 
è 
stata 
data 
attuazione 
con 
il 
d.P.r. 
n. 
662 
del 
1994; 
Convenzione 
UnCloS 
delle 
nazioni 
Unite 
sul 
diritto 
del 
mare, 
stipulata 
a 
Montego Bay nel 
1982 e 
recepita 
dall’italia 
dalla 
legge 
n. 689 del 
1994), sia 
allo 
scopo di 
individuare 
il 
fondamento giuridico della 
causa 
di 
giustificazione, identificata 
nel-
l’adempimento del 
dovere 
di 
soccorso in mare, sia 
al 
fine 
di 
delinearne 
il 
contenuto idoneo a 
scriminare la condotta di resistenza. 


Proprio le 
citate 
fonti 
pattizie 
in tema 
di 
soccorso in mare 
e, prima 
ancora, l’obbligo consuetudinario 
di 
soccorso in mare, norma 
di 
diritto internazionale 
generalmente 
riconosciuta 
e 
pertanto 
direttamente 
applicabile 
nell’ordinamento 
interno, 
in 
forza 
del 
disposto 
di 
cui 
all’art. 
10 comma 
1 Cost. -tutte 
disposizioni 
ben conosciute 
da 
coloro che 
operano il 
salvataggio in 
mare, ma 
anche 
da 
coloro che, per servizio, operano in mare 
svolgendo attività 
di 
polizia 
marittima 
-, 
sono 
il 
parametro 
normativo 
che 
ha 
guidato 
il 
Giudice 
nella 
valutazione 
dell’operato 
dei 
militari 
per escludere 
la 
ragionevolezza 
dell’arresto della 
r., in una 
situazione 
nella 
quale 
la citata causa di giustificazione era più che “verosimilmente” esistente. 


né 
si 
potrebbe 
ritenere, come 
argomenta 
il 
ricorrente, che 
l’attività 
di 
salvataggio dei 
naufraghi 
si 
fosse 
esaurita 
con il 
loro recupero a 
bordo della 
nave. l’obbligo di 
prestare 
soccorso 
dettato dalla 
convenzione 
internazionale 
SAr di 
Amburgo, non si 
esaurisce 
nell’atto di 
sottrarre 
i 
naufraghi 
al 
pericolo di 
perdersi 
in mare, ma 
comporta 
l’obbligo accessorio e 
conseguente 
di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “place of safety”). 


il 
punto 3.1.9 della 
citata 
Convenzione 
SAr dispone: 
«le 
Parti 
devono assicurare 
il 
coordinamento 
e 
la 
cooperazione 
necessari 
affinché 
i 
capitani 
delle 
navi 
che 
prestano assistenza 
imbarcando persone 
in pericolo in mare 
siano dispensati 
dai 
loro obblighi 
e 
si 
discostino il 
meno possibile 
dalla 
rotta 
prevista, senza 
che 
il 
fatto di 
dispensarli 
da 
tali 
obblighi 
comprometta 
ulteriormente 
la 
salvaguardia 
della 
vita 
umana 
in 
mare. 
la 
Parte 
responsabile 
della 
zona 
di 
ricerca 
e 
salvataggio in cui 
viene 
prestata 
assistenza 
si 
assume 
in primo luogo la 
responsabilità 
di 
vigilare 
affinché 
siano 
assicurati 
il 
coordinamento 
e 
la 
cooperazione 
suddetti, 
affinché 
i 
sopravvissuti 
cui 
è 
stato prestato soccorso vengano sbarcati 
dalla 
nave 
che 
li 
ha 
raccolti 
e 
condotti 
in luogo sicuro, tenuto conto della 
situazione 
particolare 
e 
delle 
direttive 
elaborate 
dall’organizzazione 
(Marittima 
internazionale). 
in 
questi 
casi, 
le 
Parti 
interessate 
devono 
adottare 
le 
disposizioni 
necessarie 
affinché 
lo sbarco in questione 
abbia 
luogo nel 
più breve 
tempo ragionevolmente possibile». 


le 
linee 
guida 
sul 
trattamento 
delle 
persone 
soccorse 
in 
mare 
(ris. 
MSC. 
167-78 
del 
2004) 
allegate 
alla 
Convenzione 
SAr, dispongono che 
il 
Governo responsabile 
per la 
regione 
SAr 
in cui 
sia 
avvenuto il 
recupero, sia 
tenuto a 
fornire 
un luogo sicuro o ad assicurare 
che 
esso 
sia 
fornito. Per l’italia, il 
place 
of 
safety 
è 
determinato dall’Autorità 
SAr in coordinamento 
con il Ministero dell’interno. 


Secondo 
le 
citate 
linee 
guida, 
«un 
luogo 
sicuro 
è 
una 
località 
dove 
le 
operazioni 
di 
soccorso 
si 
considerano 
concluse; 
dove 
la 
sicurezza 
dei 
sopravvissuti 
o 
la 
loro 
vita 
non 
è 
più 
minacciata; 
le 
necessità 
umane 
primarie 
(come 
cibo, 
alloggio 
e 
cure 
mediche) 
possono 
essere 
soddisfatte; 
e 
può 
essere 
organizzato 
il 
trasporto 
dei 
sopravvissuti 
nella 
destinazione 
vicina 
o 
finale» 
(par. 
6.12). «Sebbene 
una 
nave 
che 
presta 
assistenza 
possa 
costituire 
temporaneamente 
un luogo 
sicuro, essa 
dovrebbe 
essere 
sollevata 
da 
tale 
responsabilità 
non appena 
possano essere 
intraprese 
soluzioni alternative», (par. 6.13). 


non può quindi 
essere 
qualificato “luogo sicuro”, per evidente 
mancanza 
di 
tale 
presup



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


posto, una 
nave 
in mare 
che, oltre 
ad essere 
in balia 
degli 
eventi 
metereologici 
avversi, non 
consente 
il 
rispetto dei 
diritti 
fondamentali 
delle 
persone 
soccorse. né 
può considerarsi 
compiuto 
il 
dovere 
di 
soccorso 
con 
il 
salvataggio 
dei 
naufraghi 
sulla 
nave 
e 
con 
la 
loro 
permanenza 
su 
di 
essa, 
poiché 
tali 
persone 
hanno 
diritto 
a 
presentare 
domanda 
di 
protezione 
internazionale 
secondo la 
Convenzione 
di 
Ginevra 
del 
1951, operazione 
che 
non può certo essere 
effettuata 
sulla 
nave. Ad ulteriore 
conferma 
di 
tale 
interpretazione 
è 
utile 
richiamare 
la 
risoluzione 
n. 
1821 del 
21 giugno 2011 del 
Consiglio d’europa 
(l’intercettazione 
e 
il 
salvataggio in mare 
dei 
domandanti 
asilo, 
dei 
rifugiati 
e 
dei 
migranti 
in 
situazione 
irregolare), 
secondo 
cui 
«la 
nozione 
di 
“luogo sicuro” 
non può essere 
limitata 
alla 
sola 
protezione 
fisica 
delle 
persone 
ma 
comprende 
necessariamente 
il 
rispetto dei 
loro diritti 
fondamentali» (punto 5.2.) che, pur non 
essendo fonte 
diretta 
del 
diritto, costituisce 
un criterio interpretativo imprescindibile 
del 
concetto 
di “luogo sicuro” nel diritto internazionale. 


10. in conclusione, la 
verifica 
del 
giudice 
della 
convalida 
è 
stata 
correttamente 
compiuta 
e 
corretta 
è 
la 
sua 
decisione. il 
giudice 
non soltanto ha 
ritenuto configurabile, nella 
situazione 
descritta 
nel 
provvedimento, la 
causa 
di 
giustificazione 
dell’adempimento del 
dovere 
di 
soccorso, 
individuandone 
la 
portata, ma 
ha 
anche 
valutato che 
la 
sussistenza 
di 
tale 
scriminante 
fosse 
percepibile 
da 
parte 
degli 
operanti 
che 
avevano proceduto all’arresto, sulla 
base 
di 
una 
valutazione 
della 
singolarità 
della 
vicenda 
e 
delle 
concrete 
circostanze 
di 
fatto, come 
meticolosamente 
riepilogate. 
non è 
ammessa, infatti, una 
privazione 
della 
libertà 
personale 
da 
parte 
della 
polizia 
giudiziaria 
quando, avuto riguardo alle 
circostanze 
del 
caso, ricorrano nel 
concreto cause 
di 
giustificazione 
idonee 
ad 
escluderne 
la 
rilevanza 
penale, 
in 
termini 
di 
ragionevolezza, 
sulla 
scorta 
degli 
elementi 
di 
conoscenza 
in capo a 
coloro che 
hanno operato la 
misura 
privativa 
della 
libertà 
personale (Sez. 6, n. 49124 del 01/10/2003, P.M. in proc. Todirica, rv. 227721 - 01). 


infine, il 
controllo di 
ragionevolezza 
è 
stato compiuto sulla 
scorta 
dei 
dati 
in possesso del 
Giudice, che 
costui 
poteva 
legittimamente 
valutare, ossia 
gli 
elementi 
indicati 
dal 
pubblico 
ministero nella 
relativa 
richiesta 
e 
segnatamente 
la 
Cnr n. 0369315/2019 della 
Guardia 
di 
Finanza, 
in 
data 
29/06/2019, 
e 
quelli 
derivanti 
dall’interrogatorio 
(Sez. 
3, 
n. 
15137 
del 
15/02/2019, rohani, rv. 275968 - 01). 


11. il secondo motivo di ricorso è infondato. 
la 
questione 
di 
diritto, 
oggetto 
del 
secondo 
motivo 
di 
ricorso, 
concernente 
la 
qualificazione 
della 
motovedetta 
V.808 
della 
Guardia 
di 
Finanza 
quale 
“nave 
da 
guerra”, 
integrante 
elemento 
costitutivo del 
reato di 
cui 
all’art. 1100 cod. nav., deve 
muovere 
dalle 
disposizioni 
contenute 
nel 
Codice 
dell’ordinamento militare 
che 
esplicitamente 
definisce 
le 
navi 
militari 
e 
quelle 
da 
guerra all’art. 239. 


il 
d.lvo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice 
dell’ordinamento militare) reca, all’art. 239, le 
seguenti 
definizioni: 
“1. Sono navi militari quelle che hanno i seguenti requisiti: 


a) sono iscritte 
nel 
ruolo del 
naviglio militare, classificate, per la 
Marina 
militare, in base 
alle 
caratteristiche 
costruttive 
e 
d’impiego, in navi 
di 
prima 
linea, navi 
di 
seconda 
linea 
e 
naviglio 
specialistico e 
collocate 
nelle 
categorie 
e 
nelle 
posizioni 
stabilite 
con decreto del 
Ministro 
della difesa; 
b) 
sono 
comandate 
ed 
equipaggiate 
da 
personale 
militare, 
sottoposto 
alla 
relativa 
disciplina; 
e) 
recano 
i 
segni 
distintivi 
della 
Marina 
militare 
o 
di 
altra 
Forza 
armata 
o 
di 
Forza 
di 
polizia 
a ordinamento militare. 

ConTenzioSo 
nAzionAle 


2. 
Per 
nave 
da 
guerra 
si 
intende 
una 
nave 
che 
appartiene 
alle 
Forze 
armate 
di 
uno 
Stato, 
che 
porta 
i 
segni 
distintivi 
esteriori 
delle 
navi 
militari 
della 
sua 
nazionalità 
ed 
è 
posta 
sotto 
il 
comando 
di 
un 
ufficiale 
di 
marina 
al 
servizio 
dello 
Stato 
e 
iscritto 
nell’apposito 
ruolo 
degli 
ufficiali 
o 
in 
documento 
equipollente, 
il 
cui 
equipaggio 
è 
sottoposto 
alle 
regole 
della 
disciplina 
militare. 
3. la nave da guerra costituisce una parte del territorio dello Stato”. 
il 
quadro 
normativo 
deve 
essere 
completato 
dall’art. 
243 
(iscrizione 
nel 
quadro 
del 
naviglio 
militare 
dello 
Stato 
di 
unità 
dell’esercito 
italiano, 
dell’Aeronautica 
militare, 
dell’Arma 
dei 
carabinieri, 
del 
Corpo 
della 
Guardia 
di 
finanza 
e 
del 
Corpo 
delle 
capitanerie 
di 
porto), 
secondo 
il 
quale 
“le 
unità 
navali 
in dotazione 
all’esercito italiano, all’Aeronautica 
militare, all’Arma 
dei 
carabinieri, al 
Corpo della 
Guardia 
di 
finanza 
e 
al 
Corpo delle 
capitanerie 
di 
porto sono 
iscritte in ruoli speciali del naviglio militare dello Stato”. 


da 
tutto ciò si 
ricava 
che 
le 
navi 
della 
Guardia 
di 
finanza 
sono certamente 
navi 
militari, 
ma 
non possono essere 
automaticamente 
ritenute 
anche 
da 
navi 
da 
guerra. Sono altresì 
navi 
da 
guerra 
solo in presenza 
degli 
ulteriori 
requisiti 
sopra 
indicati: 
qualora 
“appartengano alle 
Forze 
armate”, qualora 
“portino i 
segni 
distintivi 
esteriori 
delle 
navi 
militari”, qualora 
“siano 
poste 
sotto il 
comando di 
un ufficiale 
di 
marina 
al 
servizio dello Stato e 
iscritto nell’apposito 
ruolo 
degli 
ufficiali 
o 
in 
documento 
equipollente”, 
e 
qualora 
il 
loro 
equipaggio 
“sia 
sottoposto 
alle regole della disciplina militare”. 


il 
codice 
dell’ordinamento militare 
approvato nel 
2010, con il 
decreto legislativo n. 66, 
ha 
recepito il 
contenuto dell’art. 29 della 
convenzione 
di 
Montego Bay, ratificata 
dall’italia, 
la 
quale, 
nei 
medesimi 
termini, 
definisce 
“nave 
da 
guerra” 
una 
nave 
che 
“appartenga 
alle 
Forze 
Armate 
di 
uno Stato, che 
porti 
i 
segni 
distintivi 
esteriori 
delle 
navi 
militari 
della 
sua 
nazionalità 
e 
sia 
posta 
sotto 
il 
comando 
di 
un 
Ufficiale 
di 
Marina 
al 
servizio 
dello 
Stato 
e 
iscritto nell’apposito ruolo degli 
Ufficiali 
o in documento equipollente, il 
cui 
equipaggio sia 
sottoposto alle regole della disciplina militare”. 


il 
citato decreto legislativo ha 
abrogato l’art. 133 del 
r.d. n. 1415 del 
1938 che 
forniva 
una 
definizione 
di 
nave 
da 
guerra 
parzialmente 
diversa: 
“Sono navi 
da 
guerra 
quelle 
comandate 
ed 
equipaggiate 
da 
personale 
militare 
o 
militarizzato, 
iscritte 
nelle 
liste 
del 
naviglio 
da 
guerra, 
e 
che 
legittimano 
la 
propria 
qualità 
mediante 
i 
segni 
distintivi 
adottati, 
a 
questo 
fine, 
dallo 
Stato 
al 
quale 
appartengono”. 
È 
quest’ultima 
norma, 
oggi 
abrogata, 
ad 
essere 
stata 
richiamata 
dalla 
memoria 
difensiva 
dell’indagata 
che, dalla 
mancata 
iscrizione 
al 
naviglio da 
guerra, fa 
derivare 
l’esclusione 
della 
qualifica 
di 
nave 
da 
guerra 
per la 
motovedetta 
V.808 della 
Guardia 
di 
finanza. Tale 
riferimento risulta 
peraltro incongruo, alla 
luce 
della 
successione 
di 
leggi 
nel 
tempo sopra richiamata. 


12. Così 
ricostruita 
la 
disciplina 
vigente, e 
di 
conseguenza 
disattesa 
la 
prospettazione 
difensiva 
dell’indagata, 
occorre 
valutare 
la 
sussistenza 
dei 
requisiti 
di 
cui 
all’art. 
239 
cit. 
in 
capo alla motovedetta 
V.808. 
la 
Guardia 
di 
Finanza 
è 
un “Corpo di 
polizia 
ad ordinamento militare”, parte 
integrante 
delle 
Forze 
armate, dipendente 
dal 
Ministero dell’economia 
e 
delle 
Finanze. il 
naviglio ad 
essa 
assegnato appartiene 
dunque 
alle 
Forze 
armate. Tale 
naviglio, inoltre, porta 
i 
segni 
distintivi 
esteriori 
delle 
navi 
militari 
italiane 
(batte 
cioè 
bandiera 
italiana) e 
imbarca 
un equipaggio 
sottoposto 
alle 
regole 
della 
disciplina 
militare. 
Per 
poter 
essere 
qualificata 
come 
“nave 
da 
guerra”, tuttavia, l’unità 
della 
Guardia 
di 
finanza 
deve 
altresì 
essere 
comandata 
da 
“un Ufficiale 
di 
Marina 
al 
servizio dello stato e 
iscritto nell’apposito ruolo degli 
Ufficiali 
o in documento 
equipollente”, 
il 
che 
nel 
caso 
in 
esame 
non 
è 
dimostrato. 
non 
è 
sufficiente 
che 
al 
comando 
vi 
sia 
un 
militare, 
nella 
fattispecie 
un 
maresciallo, 
dal 
momento 
che 
il 
“maresciallo” 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


non è 
ufficiale. né 
peraltro il 
ricorso documenta 
se 
tale 
“maresciallo” 
avesse 
la 
qualifica 
di 
cui 
sopra. dunque, non è 
stata 
dimostrata, nel 
caso concreto, la 
sussistenza 
di 
tutti 
i 
requisiti 
necessari 
ai 
fini 
della 
qualificazione 
quale 
“nave 
da 
guerra” 
della 
motovedetta 
V.808 
della 
Guardia di finanza, nei cui confronti sarebbe stata compiuta la condotta di resistenza. 


13. 
i 
ricorrenti 
ritengono, 
poi, 
che 
la 
natura 
di 
nave 
da 
guerra 
si 
ricavi 
in 
modo 
incontestato 
dalla 
giurisprudenza 
di 
legittimità. Anche 
questa 
affermazione 
richiede 
una 
puntualizzazione 
e non è, sulla base delle considerazioni di seguito eposte, condivisibile. 
nella 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
si 
registrano pronunce 
assai 
risalenti 
nel 
tempo e, comunque, 
precedenti 
alla 
disciplina 
del 
Codice 
dell’ordinamento militare 
adottata 
con il 
d.lvo 
15 marzo 2010, n. 66. 


Una 
risalente 
pronuncia 
aveva 
affermato 
che 
“anche 
ai 
fini 
dell’applicazione 
dell’art. 
1099 
codice 
navigazione 
(rifiuto 
di 
obbedienza 
a 
nave 
da 
guerra) 
una 
motovedetta 
armata 
della 
Guardia 
di 
Finanza, in servizio di 
polizia 
marittima, deve 
essere 
considerata 
nave 
da 
guerra” 
(Sez. 3, n. 9978 del 
30/06/1987, Morleo, rv. 176694 -01) e 
altra 
successiva 
affermava 
che 
“indubbia 
è 
infatti 
la 
qualifica 
di 
nave 
da 
guerra 
attribuita 
a 
tale 
motovedetta 
(G.d.F.), 
non 
solo perché 
essa 
era 
nell’esercizio di 
funzioni 
di 
polizia 
marittima, e 
risultava 
comandata 
ed 
equipaggiata 
da 
personale 
militare, ma 
soprattutto perché 
è 
lo stesso legislatore 
che 
indirettamente 
iscrive 
il 
naviglio della 
Guardia 
di 
Finanza 
in questa 
categoria, quando nella 
legge 
13 dicembre 
1956, n. 1409, art. 6, (norme 
per la 
vigilanza 
marittima 
ai 
fini 
della 
repressione 
del 
contrabbando dei 
tabacchi) punisce 
gli 
atti 
di 
resistenza 
o di 
violenza 
contro tale 
naviglio 
con 
le 
stesse 
pene 
stabilite 
dall’art. 
1100 
codice 
navigazione, 
per 
la 
resistenza 
e 
violenza 
contro una nave da guerra” (Sez. 3, n. 31403 del 14/06/2006, Penzo, rv. 235748 - 01). 


in motivazione 
si 
era 
precisato che 
non rilevava 
il 
fatto che, nel 
caso di 
specie, i 
giudici 
di 
merito 
non 
avessero 
positivamente 
verificato 
-come 
lamentava 
il 
ricorrente 
-se 
la 
motovedetta 
fosse 
concretamente 
iscritta 
nell’apposito ruolo del 
naviglio militare 
e 
se 
recasse 
il 
segno distintivo 
del 
corpo militare 
(bandiera), ma 
che 
“una 
motovedetta 
armata 
della 
Guardia 
di 
Finanza, 
in 
servizio 
di 
polizia 
marittima, 
deve 
essere 
considerata 
nave 
da 
guerra” 
(Sez. 
3, 
n. 
9978 del 30.6.1987, Morleo, rv. 176694). 


14. Tale conclusione non appare condivisibile per molteplici ragioni. 
entrambe 
le 
sentenze 
citate 
sono precedenti 
all’emanazione 
del 
Codice 
dell’ordinamento 
militare, che 
dà 
una 
precisa 
definizione 
della 
nave 
militare 
e 
della 
nave 
da 
guerra 
da 
cui 
non 
si può prescindere. 


dunque, in primo luogo deve 
essere 
oggetto di 
accertamento, secondo le 
vigenti 
disposizioni 
di 
legge, la 
sussistenza 
di 
tutti 
e 
tre 
i 
requisiti 
previsti 
dall’art. 239 comma 
2: 
appartenenza 
alle 
Forze 
Armate 
di 
uno 
Stato, 
segni 
distintivi 
esteriori 
delle 
navi 
militari 
della 
sua 
nazionalità, 
l’essere 
posta 
al 
comando 
di 
un 
Ufficiale 
di 
Marina 
al 
servizio 
dello 
stato 
e 
iscritto 
nell’apposito 
ruolo 
degli 
Ufficiali 
o 
in 
documento 
equipollente. 
in 
difetto 
di 
questi 
presupposti 
normativi, la 
nave 
non è 
qualificabile 
quale 
“nave 
da 
guerra” 
ai 
sensi 
e 
per gli 
effetti 
degli 
artt. 1099 e ss. cod. nav. 


in 
secondo 
luogo, 
non 
è 
decisivo 
il 
richiamo, 
operato 
dalla 
sentenza 
del 
2006 
Penzo, 
all’art. 
6 della 
legge 
13 dicembre 
1956, n. 1409, (norme 
per la 
vigilanza 
marittima 
al 
fine 
della 
repressione 
del 
contrabbando 
dei 
tabacchi) 
che 
così 
recita: 
“il 
capitano 
della 
nave 
nazionale 
che 
commette 
atti 
di 
resistenza 
o di 
violenza 
contro una 
unità 
di 
naviglio della 
guardia 
di 
finanza, 
è punito con le pene stabilite dall’art. 1100 del codice della navigazione”. 


da 
tale 
disposizione 
di 
legge 
si 
trae 
una 
prima 
evidenza, 
di 
segno 
contrario 
rispetto 
alle 
conclusioni 
della 
sopracitata 
sentenza 
del 
2006, 
secondo 
cui 
l’art. 
6 
attribuirebbe 
la 
natura 
di 
“nave 



ConTenzioSo 
nAzionAle 


da 
guerra” 
a 
tutto 
il 
naviglio 
della 
Guardia 
di 
finanza. 
Proprio 
per 
il 
fatto 
che, 
nel 
1956, 
il 
legislatore 
ha 
esplicitamente 
stabilito 
che 
agli 
atti 
di 
resistenza 
commessi 
contro 
navi 
della 
Guardia 
di 
finanza 
si 
applicassero 
le 
medesime 
pene 
previste 
per 
la 
resistenza 
a 
nave 
da 
guerra, 
si 
deve 
concludere 
che 
di 
per 
sé 
tali 
navi 
non 
sono 
annoverabili 
tra 
le 
“navi 
da 
guerra”. 
diversamente 
ragionando 
non 
si 
comprenderebbe 
il 
senso 
di 
tale 
disposizione 
di 
legge, 
che 
sarebbe 
del 
tutto 
superflua. 
inoltre, 
ad 
un’attenta 
lettura, 
si 
ricava 
che 
il 
legislatore 
non 
ha 
neppure 
stabilito 
che 
il 
naviglio 
della 
Guardia 
di 
finanza 
sia 
qualificabile 
“nave 
da 
guerra” 
quando 
operi 
nell’ambito 
di 
attività 
di 
contrasto 
al 
contrabbando, 
giacché 
la 
legge 
dispone 
unicamente 
che 
nell’ambito 
della 
“vigilanza 
marittima 
al 
fine 
della 
repressione 
del 
contrabbando 
dei 
tabacchi” 
si 
applichino 
le 
pene 
dell’art. 
1100 
cod. 
nav. 
il 
mero 
riferimento 
quoad 
penam 
non 
vale 
ad 
estendere 
la 
qualifica 
di 
nave 
da 
guerra 
al 
naviglio 
della 
Guardia 
di 
finanza. 


inoltre, si 
deve 
rilevare 
che 
non sarebbe 
comunque 
suscettibile 
di 
applicazione 
analogica 
la 
suddetta 
disposizione 
incriminatrice 
con 
riguardo 
ad 
altre 
tipologie 
di 
attività 
pur 
ricomprese 
nella 
polizia 
marittima, tra 
cui 
l’attività 
di 
polizia 
rivolta 
al 
contrasto all’immigrazione 
clandestina. 


Così, del 
resto, si 
era 
già 
espressa 
Sez. 6, n. 34028 del 
24/06/2003, Veronese 
rv. 226335 01, 
che 
aveva 
affermato che 
non integra 
il 
reato previsto dall’art. 1100 cod. nav. (resistenza 
o 
violenza 
da 
parte 
del 
comandante 
o dell’ufficiale 
della 
nave 
contro nave 
da 
guerra 
nazionale) 
il 
fatto commesso nella 
laguna 
veneta 
ai 
danni 
di 
unità 
della 
Guardia 
di 
finanza 
in quanto, 
per l’espresso disposto dell’art. 1087 stesso codice, alla 
navigazione 
interna 
(non è 
il 
caso in 
esame) non si 
applicano le 
disposizioni 
dei 
successivi 
articoli 
da 
1088 a 
1160, né 
può operare 
(ciò che 
rileva 
per il 
caso in esame) l’estensione 
introdotta 
dall’art. 6 della 
legge 
13 dicembre 
1956 n. 1409, che 
è 
circoscritta 
all’ambito della 
vigilanza 
marittima 
al 
fine 
della 
repressione 
del contrabbando dei tabacchi e che, come tale, non è suscettibile di applicazione analogica. 


Per 
contro, 
non 
è 
condivisibile 
il 
riferimento 
finalizzato, 
nel 
provvedimento 
impugnato, 
ad escludere 
la 
natura 
di 
nave 
da 
guerra 
della 
motovedetta 
della 
Guardia 
di 
Finanza 
alla 
sentenza 
n. 35/2000 della 
Corte 
Costituzionale, che 
nel 
dichiarare 
l’inammissibilità 
di 
un referendum 
sulla 
smilitarizzazione 
della 
Guardia 
di 
Finanza, ha 
affermato che 
«le 
unità 
navali 
in 
dotazione 
della 
Guardia 
di 
finanza 
sono qualificate 
navi 
militari, iscritte 
in ruoli 
speciali 
del 
naviglio 
militare 
dello 
Stato 
(art. 
1, 
primo 
comma, 
del 
d.P.r. 
31 
dicembre 
1973, 
n. 
1199); 
battono 
“bandiera 
da 
guerra” 
e 
sono assimilate 
a 
quelle 
della 
Marina 
militare 
(artt. 63 e 
156 del 


r.d. 
6 
novembre 
1930, 
n. 
1643 
-Approvazione 
del 
nuovo 
regolamento 
di 
servizio 
per 
la 
regia 
Guardia 
di 
finanza 
-); 
sono quindi 
considerate 
navi 
militari 
agli 
effetti 
della 
legge 
penale 
militare 
(art. 
11 
del 
codice 
penale 
militare 
di 
pace); 
e 
quando 
operano 
fuori 
delle 
acque 
territoriali 
ovvero 
in 
porti 
esteri 
ove 
non 
vi 
sia 
un’autorità 
consolare 
esercitano 
le 
funzioni 
di 
polizia 
proprie 
delle 
“navi 
da 
guerra” 
(art. 
200 
del 
codice 
della 
navigazione) 
e 
nei 
loro 
confronti 
sono 
applicabili 
gli 
artt. 
1099 
e 
1100 
del 
codice 
della 
navigazione 
(rifiuto 
di 
obbedienza 
o 
resistenza 
e 
violenza 
a 
nave 
da 
guerra), 
richiamati 
dagli 
artt. 
5 
e 
6 
della 
legge 
13 
dicembre 
1956, 
n. 
1409 
(norme 
per la 
vigilanza 
marittima 
ai 
fini 
della 
repressione 
del 
contrabbando dei 
tabacchi)». 
non 
solo, 
infatti, 
valgono 
e 
vanno 
richiamate 
le 
stesse 
ragioni 
sopra 
esposte 
in 
ordine 
alla 
inapplicabilità 
dell’art. 
6 
cit. 
a 
qualificare 
la 
nave 
della 
Guardia 
di 
Finanza 
quale 
nave 
da 
guerra, 
ma 
va 
pure 
osservato 
che 
si 
tratta 
di 
decisione 
emessa 
ai 
limitati 
fini 
dell’ammissibilità 
di 
un 
referendum 
abrogativo 
il 
cui 
oggetto 
non 
era 
la 
riconducibilità 
del 
naviglio 
della 
Guardia 
di 
finanza 
alla 
definizione 
normativa 
di 
“nave 
da 
guerra” 
agli 
effetti 
dell’art. 1100 cod. nav. 
e, in ogni 
caso, si 
tratta 
di 
una 
pronuncia 
antecedente 
alla 
emanazione 
del 
Codice 
dell’ordinamento 
militare del 2010. 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


15. 
il 
terzo 
motivo 
di 
ricorso 
è 
inammissibile 
perché 
propone 
una 
censura 
che 
si 
pone 
fuori 
dal 
perimetro 
del 
sindacato 
del 
giudice 
sulla 
non 
convalida. 
Quest’ultimo 
resta 
delineato, 
come 
lo 
stesso 
ricorrente 
evidenzia 
nel 
primo 
motivo 
di 
ricorso, 
al 
controllo 
di 
ragionevolezza 
dell’operato di 
coloro che 
hanno eseguito l’arresto in flagranza. non rilevano quindi 
valutazioni 
alternative 
dei 
fatti 
e 
diverse 
interpretazioni 
delle 
fonti 
normative, ai 
fini 
della 
configurazione 
e 
dei 
confini 
della 
causa 
di 
giustificazione 
di 
cui 
all’art. 
51 
cod. 
pen., 
oppure 
prospettazioni 
alternative 
in 
ordine 
all’adempimento 
del 
dovere 
di 
soccorso 
e 
alla 
sua 
ampiezza, 
fondate 
su 
una 
interpretazione 
diversa 
della 
nozione 
di 
“place 
of 
safety” 
contenuta 
nella 
convenzione 
Sar di 
Amburgo, che 
ne 
delinea 
peraltro puntualmente 
l’ambito e 
i 
confini. 
in 
conclusione, 
il 
motivo 
è 
diretto 
a 
richiedere 
un 
penetrante 
esame, 
non 
consentito 
in 
questa 
sede, della 
motivazione 
del 
provvedimento impugnato alla 
luce 
di 
diversi 
parametri 
di 
valutazione 
in merito alla 
nozione 
e 
all’ambito di 
operatività 
della 
causa 
di 
giustificazione. il 
ricorso quindi nel complesso va rigettato. 


P.Q.M. 
rigetta il ricorso. 
Così deciso il 16/01/2020. 



ConTenzioSo 
nAzionAle 


il rapporto tra recidiva reiterata e seminfermità 
mentale nella commisurazione della pena 

NotA 
A 
Corte 
CostitUzioNALe, seNteNzA 
24 APriLe 
2020 N. 73 


Elisabetta Chiarelli* 

sommArio: 1. il 
caso -2. La seminfermità mentale 
come 
parametro di 
imputazione 
del 
fatto 
autore 
-3. 
La 
legittimità 
costituzionale 
dell’articolo 
69, 
quarto 
comma 
del 
codice 
penale 
in 
rapporto 
al 
riconoscimento 
della 
seminfermità 
mentale, 
alla 
luce 
della 
sentenza 
della 
Corte 
Costituzionale. 


1. il caso. 
Con ordinanza 
del 
29 gennaio 2019 il 
Tribunale 
ordinario di 
reggio Calabria 
ha 
sollevato 
dinanzi 
alla 
Corte 
Costituzionale 
la 
questione 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’articolo 
69, 
quarto 
comma 
del 
codice 
penale. 
Questa 
norma 
prevede 
il 
divieto per il 
giudice 
di 
considerare 
prevalenti 
le 
circostanze 
attenuanti 
ad effetto comune sull’applicazione della recidiva reiterata. 


Tale 
previsione 
sarebbe 
suscettibile 
di 
espandersi 
come 
nel 
caso 
di 
specie 
anche 
alla 
seminfermità 
mentale. infatti, nell’ipotesi 
in oggetto, il 
Giudicante 
si 
è 
trovato nella 
circostanza 
di 
applicare 
l’aggravante 
della 
recidiva 
reiterata 
a 
più 
imputati 
i 
quali 
fossero 
affetti, 
come 
rilevato 
in 
base 
a 
perizia 
psichiatrica, 
da 
un disturbo della 
personalità. i soggetti 
in questione 
al 
contempo risultano 
aver 
commesso 
più 
reati 
contro 
il 
patrimonio 
della 
stessa 
indole 
in 
un 
arco 
temporale 
circoscritto, 
non 
superiore 
al 
quinquennio. 
in 
particolare, 
sono 
stati 
prosciolti 
in precedenti 
procedimenti 
per vizio totale 
di 
mente 
e 
in altrettanti 
è stata loro riconosciuta la seminfermità mentale. 


Secondo 
il 
remittente 
la 
formulazione 
dell’articolo 
69, 
quarto 
comma 
del 
codice 
penale 
impedirebbe 
al 
giudice 
di 
svolgere 
un 
equilibrato 
bilanciamento 
delle 
circostanze 
del 
fatto 
nella 
commisurazione 
della 
pena 
e 
inoltre 
si 
porrebbe 
in contrasto con gli 
articoli 
27 e 
32 della 
Costituzione. il 
primo impone 
infatti 
di 
commisurare 
il 
trattamento 
sanzionatorio 
alla 
personalità 
del 
reo, 
per 
consentirne 
la 
rieducazione 
e 
il 
reinserimento 
sociale; 
l’articolo 
32 
tutelerebbe 
come noto il diritto alla salute. 


la 
questione 
oggetto della 
pronuncia 
emessa 
dalla 
Corte 
Costituzionale, 
è 
di 
particolare 
interesse 
anche 
alla 
luce 
della 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
precedentemente 
formatasi 
sul 
punto. 
infatti, 
è 
fondamentale 
chiarire 
la 
natura 
giuridica 
della 
seminfermità 
mentale 
e, 
in 
particolare, 
se 
essa 
possa 
qualificarsi 
come circostanza attenuante ad effetto comune. 


(*) dottoressa in Giurisprudenza, già praticante forense presso l’Avvocatura dello Stato. 


Riceviamo e pubblichiamo il presente scritto 
(n.d.r.) 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


2. La seminfermità mentale 
come 
parametro di 
imputazione 
del 
fatto al 
suo 
autore. 
Ai 
sensi 
dell’articolo 
89 
cod. 
pen. 
“Chi, 
nel 
momento 
in 
cui 
ha 
commesso 
il 
fatto, 
era, 
per 
infermità, 
in 
tale 
stato 
di 
mente 
da 
scemare 
grandemente 
senza escluderla, la capacità di 
intendere 
o di 
volere, risponde 
del 
reato commesso, 
ma la pena è 
diminuita”. la 
norma 
in oggetto si 
colloca 
nell’ambito 
del 
Titolo iV 
(“del 
reo e 
della persona offesa dal 
reato”) al 
Capo i (“dell’imputabilità”) 
(1). 
Successivamente 
sono 
previste 
le 
norme 
che 
attengono 
al-
l’applicazione 
della 
recidiva, 
all’abitualità, 
nonché 
alla 
professionalità 
nel 
reato e 
alla 
tendenza 
a 
delinquere. la 
recidiva 
è 
una 
circostanza 
aggravante 
ad effetto speciale. Viene 
applicata 
se 
c’è 
una 
reiterazione 
nella 
commissione 
di 
fatti 
criminosi 
per lo più della 
stessa 
indole 
o posti 
in essere 
in tempi 
ravvicinati. 


la 
scelta 
legislativa 
di 
collocare 
la 
recidiva 
tra 
le 
norme 
sull’imputabilità 
e 
quelle 
sull’abitualità, professionalità 
o tendenza 
nel 
delinquere, risponde 
ad 
una 
ratio 
ben precisa. la 
recidiva 
non è 
una 
circostanza 
del 
reato come 
tutte 
altre. 
oltre 
ad 
essere 
ad 
effetto 
speciale, 
cioè 
idonea 
a 
determinare 
un 
aumento 
di 
pena 
superiore 
al 
terzo, 
attiene 
alla 
personalità 
del 
reo. 
il 
legislatore, 
infatti, 
nel 
comparto 
normativo 
in 
cui 
è 
inserita, 
agli 
articoli 
99-109, 
prende 
in 
esame 
la 
tendenza 
del 
prevenuto ad indulgere 
in comportamenti 
criminosi, fin anche 
a 
trarne 
profitto. 
È 
però 
evidente 
che 
tale 
prospettiva 
è 
profondamente 
diversa 
da 
quella 
che 
attiene 
al 
profilo dell’imputabilità. Questa, intesa 
come 
rimproverabilità 
del 
fatto al 
suo autore, è 
disciplinata 
in particolare 
agli 
articoli 
8598 
del 
codice 
penale. essa 
è 
presupposto della 
colpevolezza. Appartiene 
alla 
capacità 
di 
intendere 
e 
di 
volere 
del 
reo; 
afferisce 
cioè 
all’idoneità 
di 
questi 
a 
comprendere la portata e le conseguenze delle sue azioni. 


A 
tali 
aspetti 
si 
ricollega 
infatti 
l’articolo 
5 
del 
codice 
penale. 
Tale 
norma 
prevede 
che 
“Nessuno può invocare 
a propria scusa l’ignoranza della legge 
penale” 
a 
meno che 
essa, appunto, sia 
inevitabile. Questa 
disposizione 
si 
ricollega 
agli 
articoli 
2 e 
27 della 
Costituzione. il 
monito che 
dal 
combinato disposto 
di 
queste 
due 
norme 
è 
rivolto 
al 
legislatore 
è 
il 
seguente: 
la 
norma 
penale 
deve 
essere 
formulata 
in modo chiaro e 
intellegibile 
senza 
ricorrere 
a 
tecnicismi 
o a 
sofisticazioni 
letterarie. in tal 
modo si 
consente 
ai 
consociati 
di 
comprendere 
il 
significato 
e 
la 
portata 
applicativa 
della 
norma 
penale. 
Pertanto, 
essi 
potranno agevolmente 
ponderare 
le 
conseguenze 
di 
un loro operato difforme 
dal 
dictum 
legislativo. 


opinare 
diversamente 
significherebbe 
contrastare 
con 
i 
suesposti 
principi 
costituzionali 
di 
solidarietà 
sociale 
e 
di 
personalità 
della 
responsabilità 
penale. 
Alla 
stregua 
di 
tale 
ultimo principio, presidiato all’articolo 27 della 
Costitu


(1) B. roMAno, diritto penale, Parte generale. CedAM, lavis (Tn), 2013. 

ConTenzioSo 
nAzionAle 


zione, non vi 
può essere 
rimproverabilità 
del 
fatto al 
suo autore 
se 
questi 
non 
si 
trovava 
nelle 
condizioni 
psico-fisiche 
idonee 
a 
ponderare 
i 
rischi 
e 
le 
conseguenze 
del suo agire. 


Alla 
luce 
delle 
suesposte 
considerazioni, 
la 
seminfermità 
mentale 
che 
giustifica 
un’attenuazione 
del 
trattamento 
sanzionatorio 
non 
è 
una 
circostanza 
attenuante 
ad 
effetto 
comune. 
essa 
non 
attiene 
infatti 
alle 
caratteristiche 
dell’agere 
criminoso, 
ma 
si 
correla 
alla 
rimproverabilità 
del 
fatto 
al 
suo 
autore. 
È 
la 
premessa 
logico-giuridica, 
pertanto, 
rispetto 
a 
qualsivoglia 
operazione 
valutativa 
che 
il 
giudice 
possa 
compiere 
della 
vicenda 
in concreto sottoposta 
al suo esame. 


le 
circostanze 
aggravanti 
o attenuanti, sono invece 
elementi 
accessori, 
non 
elementi 
costitutivi 
del 
fatto 
di 
reato. 
esse 
infatti 
inquadrano 
elementi 
fattuali 
che 
per 
l’appunto 
accedono, 
ossia, 
giungono 
a 
connotare 
dall’esterno 
una 
fattispecie 
di 
reato 
già 
perfezionatasi. 
diversamente, 
il 
giudizio 
di 
imputabilità 
e, quindi, di 
rimproverabilità, investe 
il 
fatto criminoso direttamente 
nella 
sua 
dimensione costitutiva. 


il 
giudicante 
prende 
in considerazione 
la 
dimensione 
direttamente 
soggettiva 
dell’agere 
criminoso, 
sino 
alle 
sue 
radici 
psicologiche. 
Viene, 
cioè, 
presa 
in considerazione 
un’alterazione 
nel 
processo volitivo dell’agente, tale 
da impedire la formazione di una sua volontà cosciente. 

Quando ciò accade 
nel 
diritto civile 
si 
procede 
ad invalidare 
il 
contratto 
e 
in particolare 
ad annullarlo se 
stipulato con errore, violenza 
o dolo (2). in 
tali 
casi, infatti, non è 
possibile 
attribuire 
la 
“paternità” 
del 
negozio a 
chi 
non 
ne 
abbia 
coscientemente 
e 
consapevolmente 
condiviso i 
contenuti 
programmatici. 
di 
contro, i 
motivi 
ossia, le 
ragioni 
individuali 
e 
interiori 
per le 
quali 
le 
parti 
hanno stipulato il 
contratto, non assumono alcuna 
incidenza, in linea 
di 
massima, sul 
valido perfezionamento dell’accordo, almeno sotto il 
profilo 
della formazione della su richiamata volontà cosciente (3). 

Parimenti, 
le 
circostanze 
aggravanti 
o 
attenuanti, 
ad 
effetto 
comune, 
prese 
in 
considerazione 
dal 
legislatore, 
agli 
articoli 
61 
e 
62 
del 
codice 
penale, 
come, 
ad 
esempio, 
l’aver 
agito 
in 
stato 
d’ira 
o 
per 
motivi 
abietti 
o 
futili, 
non 
rilevano 
a 
configurare 
o ad escludere 
un qualsivoglia 
coinvolgimento soggettivo consapevole 
dell’autore 
del 
fatto. Siffatti 
elementi 
circostanziali 
possono tutt’al 
più 
connotare 
la 
componente 
soggettiva 
di 
un 
maggiore 
o 
minore 
disvalore 
sociale. 

Alla 
luce 
delle 
suesposte 
considerazioni 
il 
riconoscimento della 
seminfermità 
mentale 
non 
si 
ascrive 
all’accertamento 
delle 
circostanze 
del 
reato, 
nonostante 
incida 
sul 
relativo 
trattamento 
sanzionatorio 
alla 
stregua 
di 
queste. 


(2) M. BiAnCA, il 
contratto, terza 
ed., Giuffré 
editore, Milano 2019 -Capitolo dodicesimo, L’invalidità, 
pagg. 598-623. 
(2) M. BiAnCA, op. cit., Capitolo ottavo, La causa, pagg. 419-421. 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


3. La legittimità costituzionale 
dell’articolo 69, quarto comma del 
codice 
penale 
in 
rapporto 
al 
riconoscimento 
della 
seminfermità 
mentale, 
alla 
luce 
della 
sentenza della Corte Costituzionale. 
relativamente 
al 
quesito 
se 
l’articolo 
69, 
quarto 
comma, 
sia 
legittimo 
costituzionalmente, 
nella 
misura 
in cui 
non consente 
di 
contemperare 
l’applicazione 
della 
recidiva 
aggravata 
con 
il 
riconoscimento 
della 
seminfermità 
mentale, la 
Corte 
Costituzionale 
ha 
erroneamente 
statuito che 
“Un tale 
inderogabile 
divieto di 
prevalenza non può essere 
ritenuto compatibile 
con l’esigenza 
di 
rango costituzionale, di 
determinazione 
di 
una pena proporzionata 
e 
calibrata sull’effettiva personalità del 
reo, esigenza che 
deve 
essere 
considerata 
espressiva… 
di 
precisi 
“ 
equilibri” 
costituzionalmente 
imposti 
dalla 
strutturazione 
della responsabilità penale”. Un tale 
assunto contrasta 
palesemente 
con la 
natura 
della 
seminfermità 
mentale. essa 
non è 
una 
circostanza 
ad effetto comune, ma 
un parametro di 
rimproverabilità 
del 
fatto criminoso al 
suo 
autore. 
Pertanto, 
l’applicazione 
di 
essa 
non 
rientra 
nell’ambito 
applicativo 
dell’articolo 69, quarto comma 
del 
codice 
penale, che 
afferisce 
agli 
elementi 
circostanziali del reato. 


di 
conseguenza, il 
riconoscimento della 
seminfermità 
mentale 
ai 
fini 
di 
una 
riduzione 
del 
trattamento sanzionatorio è 
pienamente 
compatibile 
con un 
riequilibrio 
di 
esso, 
dovuto 
all’applicazione 
di 
circostanze 
del 
reato 
aggravanti 


o attenuanti che siano. 
Corte 
costituzionale, 
sentenza 
24 
aprile 
2020 
n. 
73 
-Pres. 
Cartabia, 
red. 
Viganò 
-Giudizio 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 69, quarto comma, del 
codice 
penale, nella 
parte 
in cui 
prevede 
il 
divieto di 
prevalenza 
della 
circostanza 
attenuante 
del 
vizio parziale 
di 
mente 
di 
cui 
all’art. 
89 
cod. 
pen. 
sulla 
circostanza 
aggravante 
della 
recidiva 
di 
cui 
all’art. 
99, 
quarto 
comma, 
cod. 
pen. 
ordinanza 
29 
gennaio 
2019 
del 
Tribunale 
ordinario 
di 
reggio 
Calabria 
in 
riferimento 
agli artt. 3, 27, primo e terzo comma, e 32 della Costituzione. 


(...) 


Considerato in diritto 


1.– Con l’ordinanza 
indicata 
in epigrafe, il 
Tribunale 
ordinario di 
reggio Calabria 
ha 
sollevato, 
in riferimento agli 
artt. 3, 27, primo e 
terzo comma, e 
32 della 
Costituzione, questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
dell’art. 69, quarto comma, del 
codice 
penale, nella 
parte 
in cui 
prevede 
il 
divieto di 
prevalenza 
della 
circostanza 
attenuante 
del 
vizio parziale 
di 
mente 
di 
cui 
all’art. 
89 
cod. 
pen. 
sulla 
circostanza 
aggravante 
della 
recidiva 
di 
cui 
all’art. 
99, 
quarto 
comma, 
cod. pen. 


in 
sostanza, 
la 
disposizione 
censurata 
impedirebbe 
al 
giudice 
di 
determinare 
una 
pena 
proporzionata 
rispetto 
alla 
concreta 
gravità 
del 
reato, 
e 
pertanto 
adeguata 
al 
grado 
di 
responsabilità 
“personale” 
del 
suo autore, non consentendo di 
tenere 
adeguatamente 
conto -attraverso il 
riconoscimento 
della 
prevalenza 
dell’attenuante 
del 
vizio parziale 
di 
mente 
rispetto all’aggravante 
della 
recidiva 
reiterata 
-della 
minore 
possibilità 
di 
essere 
motivato 
dalle 
norme 
di 
divieto 
da 
parte 
di 
chi 
risulti 
affetto da 
patologie 
o disturbi 
della 
personalità 
che, seppur non esclu



ConTenzioSo 
nAzionAle 


dendola del tutto, diminuiscano grandemente la sua capacità di intendere e di volere. 


Secondo il 
giudice 
rimettente, la 
disposizione 
censurata 
violerebbe 
altresì 
l’art. 32 Cost., 
non 
consentendo 
al 
giudice 
di 
determinare 
una 
pena 
funzionale 
non 
solo 
alla 
rieducazione 
del condannato, ma anche alla tutela della sua salute. 


2.– 
la 
disposizione 
censurata, 
nella 
versione 
attualmente 
in 
vigore, 
è 
-come 
è 
noto 
-il 
frutto di una duplice stratificazione normativa rispetto al testo originario del codice penale. 


nella 
versione 
del 
1930, l’art. 69, quarto comma, cod. pen. sottraeva 
tout 
court 
alle 
regole 
sul 
bilanciamento 
enunciate 
nei 
commi 
precedenti 
le 
«circostanze 
inerenti 
alla 
persona 
del 
colpevole» e 
«qualsiasi 
altra 
circostanza 
per la 
quale 
la 
legge 
stabilisca 
una 
pena 
di 
specie 
diversa 
o determini 
la 
misura 
della 
pena 
in modo indipendente 
da 
quella 
ordinaria 
del 
reato». 
l’art. 70, secondo comma, cod. pen. disponeva 
poi 
-e 
tuttora 
dispone 
-che 
per «circostanze 
inerenti 
alla 
persona 
del 
colpevole» 
si 
intendono 
quelle 
riguardanti 
l’imputabilità 
e 
la 
recidiva. 
il 
legislatore 
intendeva, in tal 
modo, assicurare 
che 
il 
giudice 
fosse 
in ogni 
caso tenuto ad applicare 
separatamente 
le 
diminuzioni 
(o gli 
aggravamenti) di 
pena 
correlati 
alla 
capacità 
di 
intendere 
e 
di 
volere, tra 
i 
quali 
la 
diminuzione 
di 
cui 
all’art. 89 cod. pen. in questa 
sede 
in discussione, 
così come gli aggravamenti di pena dipendenti dalla recidiva. 


il 
quarto comma 
dell’art. 69 cod. pen. fu modificato una 
prima 
volta 
a 
mezzo del 
decreto-
legge 
11 
aprile 
1974, 
n. 
99 
(Provvedimenti 
urgenti 
sulla 
giustizia 
penale), 
convertito, 
con 
modificazioni, 
nella 
legge 
7 giugno 1974, n. 220, che 
estese 
il 
meccanismo del 
bilanciamento 
disciplinato 
nei 
commi 
precedenti 
a 
tutte 
le 
circostanze, 
comprese 
quelle 
inerenti 
alla 
persona 
del 
colpevole: 
conferendo così 
al 
giudice 
il 
potere 
di 
applicare, o non applicare, i 
relativi 
aumenti 
o 
diminuzioni 
di 
pena, 
in 
presenza 
di 
circostanze 
di 
segno 
contrario, 
ritenute 
equivalenti 


o prevalenti. 
infine, la 
legge 
5 dicembre 
2005, n. 251 (Modifiche 
al 
codice 
penale 
e 
alla 
legge 
26 luglio 
1975, 
n. 
354, 
in 
materia 
di 
attenuanti 
generiche, 
di 
recidiva, 
di 
giudizio 
di 
comparazione 
delle 
circostanze 
di 
reato per i 
recidivi, di 
usura 
e 
di 
prescrizione) modificò nuovamente 
la 
disposizione, 
introducendo il 
divieto di 
prevalenza 
di 
qualsiasi 
circostanza 
attenuante, inclusa 
la 
diminuente 
del 
vizio parziale 
di 
mente, nell’ipotesi 
-tra 
l’altro -di 
recidiva 
reiterata; 
precludendo 
così 
in 
modo 
assoluto 
al 
giudice 
di 
applicare, 
in 
tal 
caso, 
la 
relativa 
diminuzione 
di 
pena. 


Come 
meglio si 
dirà 
più innanzi 
(infra, 4.1.), il 
testo risultante 
dalla 
legge 
n. 251 del 
2005 
è 
stato già 
oggetto di 
numerose 
dichiarazioni 
di 
illegittimità 
costituzionale, che 
hanno restaurato 
il 
potere 
discrezionale 
del 
giudice 
di 
ritenere 
prevalenti, rispetto alla 
recidiva 
reiterata, 
varie 
circostanze 
attenuanti 
nominativamente 
individuate. le 
odierne 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
mirano a 
ripristinare 
tale 
potere 
discrezionale 
anche 
con riferimento alla 
circostanza 
attenuante del vizio parziale di mente. 


3.– 
il 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
ministri 
ha 
eccepito 
l’inammissibilità 
delle 
questioni 
per insufficiente 
descrizione 
della 
fattispecie 
oggetto del 
giudizio, non avendo in particolare 
il 
rimettente 
chiarito se 
gli 
imputati 
avessero avuto «piena 
capacità 
di 
recepire 
il 
messaggio 
specialpreventivo» 
derivante 
dalle 
precedenti 
condanne, 
e 
dunque 
se 
fosse 
giustificata 
nei 
loro confronti l’applicazione della recidiva. 


l’eccezione non è fondata. 


È 
ben vero che 
l’applicazione 
della 
recidiva, come 
da 
tempo chiarito dalla 
giurisprudenza 
costituzionale 
e 
di 
legittimità, in tanto si 
giustifica 
in quanto il 
nuovo delitto, commesso da 
chi 
sia 
già 
stato condannato per precedenti 
delitti 
non colposi, sia 
in concreto espressivo non 
solo di 
una 
maggiore 
pericolosità 
criminale, ma 
anche 
di 
un maggior grado di 
colpevolezza, 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


legato 
alla 
maggiore 
rimproverabilità 
della 
decisione 
di 
violare 
la 
legge 
penale 
nonostante 
l’ammonimento individuale 
scaturente 
dalle 
precedenti 
condanne 
(sentenza 
n. 192 del 
2007 
e 
poi, 
ex 
plurimis, 
sentenza 
n. 
185 
del 
2015; 
Corte 
di 
cassazione, 
sezioni 
unite 
penali, 
sentenza 
27 
maggio-5 
ottobre 
2010, 
n. 
35738, 
nonché, 
inter 
alia, 
sezione 
sesta 
penale, 
sentenza 
28 
giugno-
5 agosto 2016, n. 34670); 
maggiore 
rimproverabilità 
che 
non può essere 
presunta 
in via 
generale 
sulla 
base 
del 
solo fatto delle 
precedenti 
condanne, dovendo -ad esempio -essere 
esclusa 
allorché 
il 
nuovo delitto sia 
stato commesso dopo un lungo lasso di 
tempo dal 
precedente, 
o allorché abbia caratteristiche affatto diverse. 


ed è 
ben vero, altresì, che 
questa 
Corte, con la 
sentenza 
n. 120 del 
2017 e 
poi 
con l’ordinanza 
n. 145 del 
2018, ha 
ritenuto irrilevanti 
questioni 
analoghe 
a 
quella 
ora 
all’esame, non 
avendo 
i 
giudici 
rimettenti, 
in 
quelle 
occasioni, 
chiarito 
le 
ragioni 
per 
le 
quali 
avevano 
ritenuto 
applicabile 
la 
recidiva, 
sotto 
il 
profilo 
specifico 
della 
maggiore 
colpevolezza 
rivelata 
dalla 
decisione 
di 
commettere 
il 
delitto, 
nonostante 
il 
contestuale 
riconoscimento 
della 
presenza 
nel 
reo di 
gravi 
patologie 
o disturbi 
della 
personalità, che 
necessariamente 
anch’essi 
incidevano 
-ma 
in direzione 
opposta 
rispetto alla 
ritenuta 
recidiva 
-sul 
grado della 
sua 
colpevolezza. 


Tuttavia, in questo caso il 
giudice 
a 
quo motiva 
ampiamente 
sulle 
ragioni 
per le 
quali, a 
suo 
avviso, 
gli 
imputati 
non 
potevano 
non 
essere 
consapevoli 
dell’ammonimento 
rappresentato 
dalle 
numerose 
condanne 
pronunciate 
nei 
loro confronti, talune 
delle 
quali 
in epoca 
molto recente, 
per reati 
omogenei 
a 
quello per il 
quale 
sono ora 
rinviati 
a 
giudizio; 
ciò che 
dimostrerebbe 
la 
loro 
peculiare 
(e 
specialmente 
riprovevole) 
insensibilità 
nei 
confronti 
della 
legge 
penale, e 
assieme 
giustificherebbe 
l’applicazione 
nei 
loro confronti 
dell’aggravante 
di 
cui 
all’art. 
99, quarto comma, cod. pen. l’applicazione 
della 
recidiva 
-sempre 
ad avviso del 
rimettente 
-non 
contrasterebbe 
peraltro 
con 
il 
contestuale 
riconoscimento 
in 
loro 
favore 
di 
un 
vizio 
parziale 
di 
mente 
tale 
da 
scemare 
grandemente 
in loro la 
capacità 
di 
intendere 
e 
di 
volere, e 
tale 
in particolare 
da 
ridurre 
la 
loro capacità 
di 
orientare 
la 
condotta 
secondo criteri 
di 
«appropriatezza 
e 
di 
opportunità», oltre 
che 
di 
«pesatura 
del 
rischio». le 
due 
valutazioni 
si 
collocherebbero, 
in 
effetti, 
su 
piani 
differenti, 
non 
risultando 
comunque 
mutualmente 
escludentisi. 
dopodiché 
il 
giudice 
potrebbe 
e 
dovrebbe 
comunque 
“pesare” 
entrambi 
questi 
dati 
ai 
fini 
della 
valutazione 
della 
gravità 
del 
reato, 
e 
della 
conseguente 
determinazione 
di 
un 
trattamento 
sanzionatorio effettivamente 
proporzionato e 
calibrato sulla 
personalità 
dei 
suoi 
autori. operazione, 
quest’ultima, che 
sarebbe 
però irragionevolmente 
preclusa 
dal 
divieto di 
prevalenza 
dell’attenuante 
del 
vizio parziale 
di 
mente, contenuto nella 
disposizione 
censurata; 
con conseguente 
rilevanza delle questioni di legittimità formulate. 


Così 
sinteticamente 
riassunta, 
la 
linea 
argomentativa 
del 
giudice 
a 
quo 
in 
punto 
di 
rilevanza 
appare 
a 
questa 
Corte 
senz’altro 
plausibile, 
al 
di 
là 
della 
condivisibilità 
o 
meno, 
sul 
piano 
teorico, 
della 
(notoriamente 
controversa) 
ricostruzione 
dell’imputabilità 
come 
mero 
presupposto 
del giudizio di colpevolezza, ovvero come elemento costitutivo di tale categoria dogmatica. 


Ciò basta 
per ritenere 
ammissibili 
le 
questioni 
prospettate 
(ex multis, sentenza 
n. 250 del 
2018). 


4.– 
nel 
merito, 
le 
questioni 
sollevate 
con 
riferimento 
agli 
artt. 
3 
e 
27, 
primo 
e 
terzo 
comma, 
Cost., che devono qui essere esaminate congiuntamente, sono fondate. 


4.1.– 
Questa 
Corte 
ha 
più 
volte 
affermato 
che 
deroghe 
al 
regime 
ordinario 
del 
bilanciamento 
tra 
circostanze, come 
disciplinato in via 
generale 
dall’art. 69 cod. pen., sono costituzionalmente 
ammissibili 
e 
rientrano 
nell’ambito 
delle 
scelte 
discrezionali 
del 
legislatore, 
risultando sindacabili 
soltanto ove 
«trasmodino nella 
manifesta 
irragionevolezza 
o nell’arbi



ConTenzioSo 
nAzionAle 


trio» 
(sentenza 
n. 
68 
del 
2012; 
in 
senso 
conforme, 
sentenza 
n. 
88 
del 
2019), 
non 
potendo 
però 
giungere 
in alcun caso «a 
determinare 
un’alterazione 
degli 
equilibri 
costituzionalmente 
imposti 
sulla strutturazione della responsabilità penale» (sentenza n. 251 del 2012). 


Sulla 
base 
di 
tali 
criteri, questa 
Corte 
ha 
già 
dichiarato in varie 
occasioni 
l’illegittimità 
costituzionale 
dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella 
parte 
in cui 
prevedeva 
il 
divieto di 
prevalenza 
di 
altrettante 
circostanze 
attenuanti 
particolarmente 
significative 
ai 
fini 
della 
determinazione 
della 
gravità 
concreta 
del 
reato. 
nella 
maggior 
parte 
dei 
casi, 
come 
correttamente 
evidenzia 
il 
rimettente, si 
è 
trattato di 
circostanze 
espressive 
di 
un minor disvalore 
del 
fatto 
dal 
punto di 
vista 
della 
sua 
dimensione 
offensiva: 
così 
la 
«lieve 
entità» nel 
delitto di 
produzione 
e 
traffico 
illecito 
di 
stupefacenti 
(sentenza 
n. 
251 
del 
2012), 
i 
casi 
di 
«particolare 
tenuità» 
nel 
delitto di 
ricettazione 
(sentenza 
n. 105 del 
2014), i 
casi 
di 
«minore 
gravità» nel 
delitto di 
violenza 
sessuale 
(sentenza 
n. 106 del 
2014), il 
«danno patrimoniale 
di 
speciale 
tenuità» nei 
delitti 
di 
bancarotta 
e 
ricorso 
abusivo 
al 
credito 
(sentenza 
n. 
205 
del 
2017). 
nella 
sola 
sentenza 


n. 74 del 
2016, la 
dichiarazione 
di 
illegittimità 
ha 
invece 
colpito il 
divieto di 
prevalenza 
di 
una 
circostanza 
-l’essersi 
il 
reo adoperato per evitare 
che 
il 
delitto di 
produzione 
e 
traffico di 
stupefacenti 
sia 
portato a 
conseguenze 
ulteriori 
-che 
mira 
invece 
a 
premiare 
l’imputato per 
la 
propria 
condotta 
post 
delictum; 
circostanza 
che 
è 
stata 
comunque 
ritenuta 
«significativa, 
anche 
perché 
comporta 
il 
distacco dell’autore 
del 
reato dall’ambiente 
criminale 
nel 
quale 
la 
sua 
attività 
in materia 
di 
stupefacenti 
era 
inserita 
e 
trovava 
alimento, e 
lo espone 
non di 
rado 
a 
pericolose 
ritorsioni, determinando così 
una 
situazione 
di 
fatto tale 
da 
indurre 
in molti 
casi 
un cambiamento di vita». 
4.2.– 
le 
questioni 
ora 
sottoposte 
all’attenzione 
di 
questa 
Corte 
concernono 
una 
circostanza 
attenuante 
espressiva 
non 
già 
-sul 
piano 
oggettivo 
-di 
una 
minore 
offensività 
del 
fatto 
rispetto 
agli 
interessi 
protetti 
dalla 
norma 
penale, né 
di 
una 
finalità 
premiale 
rispetto a 
condotte 
post 
delictum, quanto piuttosto della 
ridotta 
rimproverabilità 
soggettiva 
dell’autore; 
ridotta 
rimproverabilità 
che 
deriva, qui, dal 
suo minore 
grado di 
discernimento circa 
il 
disvalore 
della 
propria 
condotta 
e 
dalla 
sua 
minore 
capacità 
di 
controllo dei 
propri 
impulsi, in ragione 
delle 
patologie 
o disturbi 
che 
lo affliggono (e 
che 
devono essere 
tali, per espressa 
indicazione 
legislativa, 
da 
«scemare 
grandemente» la 
sua 
capacità 
di 
intendere 
e 
di 
volere: 
art. 89 cod. pen.). 


ora, il 
principio di 
proporzionalità 
della 
pena 
rispetto alla 
gravità 
del 
reato, da 
tempo affermato 
da 
questa 
Corte 
sulla 
base 
di 
una 
lettura 
congiunta 
degli 
artt. 3 e 
27, terzo comma, 
Cost. 
(a 
partire 
almeno 
dalla 
sentenza 
n. 
343 
del 
1993; 
in 
senso 
conforme, 
ex 
multis, 
sentenze 


n. 40 del 
2019, n. 233 del 
2018, n. 236 del 
2016), esige 
in via 
generale 
che 
la 
pena 
sia 
adeguatamente 
calibrata 
non solo al 
concreto contenuto di 
offensività 
del 
fatto di 
reato per gli 
interessi 
protetti, 
ma 
anche 
al 
disvalore 
soggettivo 
espresso 
dal 
fatto 
medesimo 
(sentenza 
n. 
222 
del 
2018). 
e 
il 
quantum 
di 
disvalore 
soggettivo 
dipende 
in 
maniera 
determinante 
non 
solo 
dal 
contenuto della 
volontà 
criminosa 
(dolosa 
o colposa) e 
dal 
grado del 
dolo o della 
colpa, 
ma 
anche 
dalla 
eventuale 
presenza 
di 
fattori 
che 
hanno influito sul 
processo motivazionale 
dell’autore, rendendolo più o meno rimproverabile. 
Tra 
tali 
fattori 
si 
colloca, in posizione 
eminente, proprio la 
presenza 
di 
patologie 
o disturbi 
significativi 
della 
personalità 
(così 
come 
definiti 
da 
Corte 
di 
cassazione, sezioni 
unite 
penali, 
sentenza 
25 
gennaio-8 
marzo 
2005, 
n. 
9163), 
come 
quelli 
che 
la 
scienza 
medico-forense 
stima 
idonei 
a 
diminuire, pur senza 
escluderla 
totalmente, la 
capacità 
di 
intendere 
e 
di 
volere 
del-
l’autore 
del 
reato. 
in 
tali 
ipotesi, 
l’autore 
può 
sì 
essere 
punito 
per 
aver 
commesso 
un 
reato 
che 
avrebbe 
pur sempre 
potuto -secondo la 
valutazione 
dell’ordinamento -evitare, attraverso un 
maggiore 
sforzo della 
volontà; 
ma 
al 
tempo stesso merita 
una 
punizione 
meno severa 
rispetto 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


a 
quella 
applicabile 
nei 
confronti 
di 
chi 
si 
sia 
determinato a 
compiere 
una 
condotta 
identica, 
in condizioni di normalità psichica. 


il 
principio di 
proporzionalità 
della 
pena 
desumibile 
dagli 
artt. 3 e 
27, terzo comma, Cost. 
esige 
insomma, 
in 
via 
generale, 
che 
al 
minor 
grado 
di 
rimproverabilità 
soggettiva 
corrisponda 
una 
pena 
inferiore 
rispetto a 
quella 
che 
sarebbe 
applicabile 
a 
parità 
di 
disvalore 
oggettivo del 
fatto, «in modo da 
assicurare 
altresì 
che 
la 
pena 
appaia 
una 
risposta 
-oltre 
che 
non sproporzionata 
-il 
più 
possibile 
“individualizzata”, 
e 
dunque 
calibrata 
sulla 
situazione 
del 
singolo 
condannato, 
in 
attuazione 
del 
mandato 
costituzionale 
di 
“personalità” 
della 
responsabilità 
penale 
di cui all’art. 27, primo comma, Cost.» (sentenza n. 222 del 2018). 


4.3.– la 
disciplina 
censurata 
in questa 
sede 
vieta 
in modo assoluto al 
giudice 
di 
ritenere 
prevalente 
la 
circostanza 
attenuante 
del 
vizio 
parziale 
di 
mente 
in 
presenza 
dello 
specifico 
indicatore 
di 
maggiore 
colpevolezza 
(e 
maggiore 
pericolosità) del 
reo rappresentato dalla 
recidiva 
reiterata; 
laddove 
tale 
maggiore 
colpevolezza 
si 
fonda, a 
sua 
volta, sull’assunto secondo 
cui 
normalmente 
merita 
un maggiore 
rimprovero chi 
non rinuncia 
alla 
commissione 
di 
nuovi 
reati, pur essendo già 
stato destinatario di 
un ammonimento individualizzato sul 
proprio dovere 
di rispettare la legge penale, indirizzatogli con le precedenti condanne. 


nonostante 
il 
carattere 
facoltativo dell’aggravante, un tale 
inderogabile 
divieto di 
prevalenza 
non può essere 
ritenuto compatibile 
con l’esigenza, di 
rango costituzionale, di 
determinazione 
di 
una 
pena 
proporzionata 
e 
calibrata 
sull’effettiva 
personalità 
del 
reo, esigenza 
che 
deve 
essere 
considerata 
espressiva 
-con le 
parole 
della 
sentenza 
n. 251 del 
2012 -di 
precisi 
«equilibri 
costituzionalmente 
imposti 
sulla 
strutturazione 
della 
responsabilità 
penale». Tale 
divieto, infatti, non consente 
al 
giudice 
di 
stabilire, nei 
confronti 
del 
semi-infermo di 
mente, 
una 
pena 
inferiore 
a 
quella 
che 
dovrebbe 
essere 
inflitta 
per un reato di 
pari 
gravità 
oggettiva, 
ma 
commesso da 
una 
persona 
che 
abbia 
agito in condizioni 
di 
normalità 
psichica, e 
pertanto 
pienamente 
capace 
-al 
momento del 
fatto -di 
rispondere 
all’ammonimento lanciato dall’ordinamento, 
rinunciando 
alla 
commissione 
del 
reato. 
e 
ciò 
anche 
laddove 
il 
giudice 
-come 
nel 
caso del 
giudizio a 
quo -ritenga 
che 
le 
patologie 
o i 
disturbi 
riscontrati 
nel 
reo abbiano 
inciso a 
tal 
punto sulla 
sua 
personalità, da 
rendergli 
assai 
più difficile 
la 
decisione 
di 
astenersi 
dalla 
commissione 
di 
nuovi 
reati, 
nonostante 
l’ammonimento 
lanciatogli 
con 
le 
precedenti 
condanne. 


il 
divieto in esame 
d’altra 
parte 
comporta 
una 
indebita 
parificazione 
sotto il 
profilo sanzionatorio 
di 
fatti 
di 
disvalore 
essenzialmente 
diverso, in ragione 
del 
diverso grado di 
rimproverabilità 
soggettiva 
che 
li 
connota: 
con un risultato che 
la 
giurisprudenza 
di 
questa 
Corte 
ha 
da 
tempi 
ormai 
risalenti 
considerato di 
per sé 
contrario all’art. 3 Cost. (sentenza 
n. 26 del 
1979), prima 
ancora 
che 
alla 
finalità 
rieducativa 
e 
all’esigenza 
di 
“personalizzazione” 
della 
pena. 


non osta 
a 
tale 
conclusione 
la 
natura 
di 
circostanza 
a 
effetto comune 
dell’attenuante 
di 
cui 
all’art. 89 cod. pen., che 
determina 
-ai 
sensi 
dell’art. 65 cod. pen. -la 
diminuzione 
fino a 
un 
terzo 
della 
pena 
che 
dovrebbe 
essere 
altrimenti 
inflitta. 
A 
prescindere 
dalla 
considerazione 
che 
l’entità 
concreta 
della 
diminuzione 
di 
pena 
dipende 
ovviamente 
dall’entità 
della 
pena 
base 


-ben potendo tale 
diminuzione 
tradursi, rispetto ai 
delitti 
più gravi, in vari 
anni 
di 
reclusione 
in meno -, va 
infatti 
ribadito che 
la 
circostanza 
attenuante 
in parola 
mira 
ad adeguare 
il 
quantum 
del 
trattamento 
sanzionatorio 
alla 
significativa 
riduzione 
della 
rimproverabilità 
soggettiva 
dell’agente, ed è 
pertanto riconducibile 
a 
un connotato di 
sistema 
di 
un diritto penale 
“costituzionalmente 
orientato”, così 
come 
ricostruito dalla 
giurisprudenza 
di 
questa 
Corte: 
giurisprudenza 
che 
-dalla 
sentenza 
n. 
364 
del 
1988 
in 
poi 
-individua 
nella 
rimproverabilità 

ConTenzioSo 
nAzionAle 


soggettiva 
un presupposto essenziale 
dell’an dell’imputazione 
del 
fatto al 
suo autore, e 
conseguentemente 
dell’applicazione della pena nei suoi confronti. 


4.4.– la 
conclusione 
appena 
raggiunta 
non comporta 
il 
sacrificio delle 
esigenze 
di 
tutela 
della collettività contro l’accentuata pericolosità sociale espressa dal recidivo reiterato. 


Se 
infatti 
è 
indubbio che 
il 
quantum 
della 
pena 
debba 
adeguatamente 
riflettere 
il 
grado di 
rimproverabilità 
soggettiva 
dell’agente, 
cionondimeno 
il 
diritto 
vigente 
consente, 
nei 
confronti 
di 
chi 
sia 
stato condannato a 
una 
pena 
diminuita 
in ragione 
della 
sua 
infermità 
psichica, l’applicazione 
di 
una 
misura 
di 
sicurezza, da 
individuarsi 
secondo i 
criteri 
oggi 
indicati 
dall’art. 
3-ter, 
comma 
4, 
del 
decreto-legge 
22 
dicembre 
2011, 
n. 
211 
(interventi 
urgenti 
per 
il 
contrasto 
della 
tensione 
detentiva 
determinata 
dal 
sovraffollamento delle 
carceri), convertito, con modificazioni, 
nella 
legge 
17 febbraio 2012, n. 9. la 
misura 
di 
sicurezza, non avendo alcun connotato 
“punitivo”, 
non 
è 
subordinata 
alla 
rimproverabilità 
soggettiva 
del 
suo 
destinatario, 
bensì 
alla 
sua 
persistente 
pericolosità 
sociale, 
che 
deve 
peraltro, 
ai 
sensi 
dell’art. 
679 
del 
codice 
di 
procedura 
penale, essere 
oggetto di 
vaglio caso per caso da 
parte 
del 
magistrato di 
sorveglianza 
una 
volta 
che 
la 
pena 
sia 
stata 
scontata 
(sentenze 
n. 1102 del 
1988 e 
n. 249 del 
1983). d’altra 
parte, la 
misura 
di 
sicurezza 
dovrebbe 
auspicabilmente 
essere 
conformata 
in 
modo da 
assicurare, assieme, un efficace 
contenimento della 
pericolosità 
sociale 
del 
condannato 
e 
adeguati 
trattamenti 
delle 
patologie 
o 
disturbi 
di 
cui 
è 
affetto 
(secondo 
il 
medesimo 
principio espresso dalla 
sentenza 
n. 253 del 
2003, in relazione 
al 
soggetto totalmente 
infermo 
di 
mente), 
nonché 
fattivo 
sostegno 
rispetto 
alla 
finalità 
del 
suo 
«riadattamento 
alla 
vita 
sociale» 
-obiettivo quest’ultimo che, come 
recentemente 
rammentato dalla 
sentenza 
n. 24 del 
2020, il 
legislatore 
espressamente 
ascrive 
alla 
libertà 
vigilata 
(art. 228, quarto comma, cod. pen.), ma 
che 
riflette 
un principio certamente 
estensibile, nell’attuale 
quadro costituzionale, alla 
generalità 
delle misure di sicurezza. 


Una 
razionale 
sinergia 
tra 
pene 
e 
misure 
di 
sicurezza 
-purtroppo solo in minima 
parte 
realizzata 
nella 
prassi 
-potrebbe 
così 
consentire 
un’adeguata 
prevenzione 
del 
rischio 
di 
commissione 
di 
nuovi 
reati 
da 
parte 
del 
condannato 
affetto 
da 
vizio 
parziale 
di 
mente, 
senza 
indebite 
forzature 
della 
fisionomia 
costituzionale 
della 
pena, 
intesa 
come 
reazione 
proporzionata 
dell’ordinamento 
a 
un 
fatto 
di 
reato 
(oggettivamente) 
offensivo 
e 
(soggettivamente) 
rimproverabile 
al suo autore. 


5.– resta assorbita la questione formulata in riferimento all’art. 32 Cost. 


Per QUeSTi MoTiVi 
lA CorTe CoSTiTUzionAle 


dichiara 
l’illegittimità 
costituzionale 
dell’art. 69, quarto comma, del 
codice 
penale, nella 
parte 
in cui 
prevede 
il 
divieto di 
prevalenza 
della 
circostanza 
attenuante 
di 
cui 
all’art. 89 cod. 
pen. sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. 


Così 
deciso 
in 
roma, 
nella 
sede 
della 
Corte 
costituzionale, 
Palazzo 
della 
Consulta, 
il 
7 
aprile 2020. 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


nucleo familiare omogenitoriale: la pronuncia 
della Cassazione sulla convalida della trascrizione 
nell’anagrafe italiana di un atto di adozione estero 


ANNotAzioNe 
A 
CAssAzioNe 
CiviLe, sezioNi 
UNite, seNteNzA 
31 mArzo 
2021 N. 9006 
(*) 


Ancorchè 
ci 
veda 
nella 
specie 
soccombenti, 
la 
sentenza 
è 
indiscutibilmente 
articolata 
e 
consequenziale 
e 
si 
colloca 
in un giusto equilibrio rispetto 
ai precedenti di livello nazionale e sovranazionale citati. 


Al 
di 
là 
di 
qualsiasi 
aspetto 
ideologico, 
la 
lacunosità 
della 
nostra 
legislazione 
interna 
continua 
a 
imporre 
ai 
nostri 
giudici 
la 
necessità 
di 
qualche 
sofferenza 
logico-interpretativa, 
laddove 
si 
pone 
il 
presupposto 
della 
perimetrazione 
del 
parametro 
dell’ordine 
pubblico 
internazionale 
anche 
alla 
luce 
del 
diritto 
interno, 
per 
poi 
immancabilmente 
giungere 
alla 
verifica 
“se 
il 
limite 
di 
accesso 
all’adozione 
piena 
alle 
coppie 
coniugate 
e 
la 
non 
estensibilità 
del-
l'equiparazione 
unione 
civile/matrimonio 
stabilita 
dal 
comma 
20 
dell'art. 
1 
della 
l. 
n. 
76 
del 
2016 
al 
medesimo 
istituto 
adottivo 
possa 
determinare 
la 
contrarietà 
dell’atto 
di 
cui 
si 
chiede 
il 
riconoscimento 
ai 
principi 
fondamentali 
che 
disegnano 
la 
trama 
dell’ordine 
pubblico 
internazionale 
attuale”. 


la 
rincorsa 
è 
sempre 
quella 
della 
confutazione 
di 
apparenti 
contraddittorietà. 


Cassazione 
civile, Sezioni 
Unite, sentenza 31 marzo 2021 n. 9006 
-Pres. B. Virgilio, rel. 


M. Acierno. 
FATTi di CAUSA 


1. 
oMiSSiS, 
cittadino 
italiano 
naturalizzato 
statunitense 
e 
residente 
negli 
Stati 
Uniti 
ha 
chiesto 
all'ufficiale 
di 
stato 
civile 
di 
oMiSSiS 
in 
italia, 
la 
trascrizione 
dell'atto 
di 
nascita 
del 
minore 
oMiSSiS, 
nato 
a 
oMiSSiS 
il 
giorno 
oMiSSiS, 
riconosciuto 
negli 
U.S.A. 
quale 
figlio 
adottivo 
del 
ricorrente 
e 
di 
oMiSSiS, 
per 
effetto 
del 
provvedimento 
giurisdizionale 
della 
Surrogate's 
Court 
dello 
Stato 
di 
oMiSSiS 
del 
25/9/2009, 
come 
attestato 
dal 
certificato 
di 
adozione 
del 
2/11/2009 
nel 
quale 
è 
espressamente 
affermato 
che 
oMiSSiS 
e 
oMiSSiS 
sono 
i 
genitori 
adottivi 
del 
minore. 
la 
pronuncia 
statunitense, 
come 
da 
certificazione 
in 
atti, 
attribuisce 
lo 
status 
di 
genitori 
adottivi 
al 
ricorrente 
ed 
al 
suo 
partner 
(successivamente 
sposato), 
dando 
atto 
che 
l'adozione 
è 
stata 
pronunciata 
con 
il 
consenso 
preventivo 
dei 
genitori 
biologici 
e 
dopo 
un'indagine 
effettuata 
sugli 
adottanti, 
effettuata 
da 
agenzia 
pubblica 
equiparabile 
ai 
Servizi 
Sociali. 
2. l'ufficiale 
dello stato civile 
ha 
rifiutato la 
trascrizione, ritenendo applicabile 
il 
regime 
giuridico 
relativo 
all'istituto 
dell'adozione 
internazionale 
e, 
conseguentemente 
competente 
ex 
art. 
36, c. 4 della l. n. 183 del 1984, il 
Tribunale per i minorenni. 
3. il ricorrente ha adito la Corte d'appello di 
oMiSSiS 
ai 
sensi 
dell'art. 67 l. n. 218 del 
1995 al 
fine 
di 
ottenere 
il 
riconoscimento del 
provvedimento estero di 
adozione 
piena 
e 
legittimante 
(*) Annotazione avv. Stato Attilio Barbieri, affidatario della causa. 



ConTenzioSo 
nAzionAle 


del 
figlio minore, così 
come 
attestato nel 
certificato prodotto in modo che 
allo stesso fosse 
attribuito lo stato giuridico di figlio adottivo di 
oMiSSiS 
e 
oMiSSiS. 


4. 
la 
Corte 
d'Appello 
di 
oMiSSiS 
ha 
preliminarmente 
escluso 
la 
legittimazione 
ad 
agire 
del 
Sindaco, in qualità 
di 
Ufficiale 
di 
Governo, reputando che 
gli 
interessi 
pubblici 
in gioco fossero 
adeguatamente tutelati dalla partecipazione al giudizio del Procuratore generale. 
4.1 Ha 
inoltre 
ritenuto inapplicabile, nella 
specie, la 
disciplina 
normativa 
dell'adozione 
internazionale, 
essendo 
incontestato 
che 
il 
ricorrente 
risiedesse 
da 
oltre 
un 
decennio 
negli 
Usa, 
avesse 
acquistato per naturalizzazione, anche 
la 
cittadinanza 
americana 
e 
che 
l'altro genitore 
adottivo fosse 
cittadino americano così 
come 
il 
minore. Ha, infine, ritenuto la 
propria 
competenza 
ex 
art. 
41, 
primo 
comma, 
l. 
n. 
218 
del 
1995, 
secondo 
il 
quale 
i 
provvedimenti 
stranieri 
in materia di adozione sono riconoscibili ex artt. 64, 65, 66 l. n. 218 del 1995. 
4.2 
in 
fatto, 
ha 
precisato 
che 
il 
giudice 
della 
Surrogate's 
Court 
dello 
Stato 
di 
oMiSSiS 
ha 
valutato 
l'idoneità 
della 
coppia 
adottante 
(unitasi 
in matrimonio nel 
2013) all'esito di 
un'indagine 
eseguita 
anche 
attraverso 
le 
informazioni 
dei 
servizi 
sociali 
(Social 
Services 
law) 
e, 
solo 
all'esito 
di 
tale 
indagine, acquisito il 
consenso preventivo dei 
genitori 
biologici 
ha 
emesso l'adoption 
order, ritenendo espressamente 
che 
il 
provvedimento fosse 
conforme 
al 
best 
interest 
of 
the 
child. È 
stato rispettato il 
diritto di 
difesa, essendo stati 
convocati 
in giudizio i 
genitori 
biologici 
(the 
birth mother 
and the 
birth father) i 
quali, prestato il 
consenso, sono rimasti 
estranei 
al giudizio. 
4.3 in diritto, l'oggetto della 
decisione 
è 
la 
verifica 
della 
eventuale 
contrarietà 
ai 
principi 
di 
ordine 
pubblico del 
provvedimento da 
riconoscere. Al 
riguardo la 
Corte 
ha 
affermato che 
la 
nozione 
cui 
far 
ricorso 
è 
quella 
di 
ordine 
pubblico 
internazionale; 
che, 
di 
conseguenza, 
la 
trama 
dei 
principi 
di 
ordine 
pubblico non può essere 
desunta 
esclusivamente 
sulla 
base 
del-
l'assetto normativo interno nel 
sistema 
plurale 
di 
cui 
è 
partecipe 
il 
nostro ordinamento; 
che 
di 
conseguenza 
il 
legame 
con 
l'ordinamento 
interno 
deve 
ritenersi 
limitato 
ai 
principi 
fondamentali 
desumibili 
in 
primo 
luogo 
dalla 
Costituzione 
nonché 
dai 
Trattati 
fondativi 
dell'Unione 
europea 
e 
dalla 
Convenzione 
europea 
dei 
diritti 
umani, così 
come 
inverata 
dalla 
Corte 
edU, 
dalle 
Convenzioni 
sui 
diritti 
fondamentali 
cui 
l'italia 
ha 
aderito. in questo quadro i 
diritti 
fondamentali 
si 
collocano 
su 
un 
piano 
sovraordinato 
rispetto 
alla 
normazione 
interna 
che 
ne 
detta 
le 
regole 
di 
dettaglio. da 
tali 
premesse 
consegue 
che 
il 
giudice 
italiano chiamato a 
valutare 
la 
compatibilità 
dell'atto 
straniero 
dei 
cui 
effetti 
si 
chiede 
il 
riconoscimento 
nel 
nostro 
paese 
deve 
verificare 
non se 
l'atto si 
fondi 
su un tessuto normativo conforme 
o difforme 
da 
una 
o 
più norme 
interne 
ma 
se 
esso contrasti 
con le 
esigenze di 
tutela 
dei 
diritti 
fondamentali 
della 
persona umana come desumibili dalle fonti soprarichiamate. 
4.3.1 Precisa 
la 
Corte 
territoriale 
che, in primo luogo, viene 
in luce, in tema 
di 
filiazione, il 
principio del 
preminente 
interesse 
del 
minore 
che 
costituisce 
una 
vera 
e 
propria 
clausola 
generale 
coerentemente 
riconosciuta 
nell'ordinamento internazionale 
ed interno, essendo declinato 
nelle 
fonti 
costituzionali 
ed essendo inverato nelle 
decisioni 
giurisprudenziali 
nazionali 
e 
sovranazionali. 
l'interesse 
preminente 
del 
minore, 
nel 
caso 
di 
specie, 
consiste 
nel 
poter 
conservare 
anche 
nel 
nostro 
ordinamento 
lo 
status 
filiationis 
acquisito 
all'estero 
in 
forza 
di 
un 
provvedimento 
giudiziario 
valido 
ed 
efficace. 
Ciò 
sia 
in 
relazione 
al 
diritto 
alla 
continuità 
degli 
status, 
stabilito 
nell'art. 
13 
comma 
3, 
e 
33, 
commi 
1 
e 
2 
l. 
n. 
218 
del 
1995, 
sia 
in 
relazione 
al 
diritto 
alla 
vita 
privata 
e 
familiare 
del 
minore 
che 
include 
tra 
le 
sue 
primarie 
manifestazioni 
la 
definizione 
della 
propria 
identità 
come 
essere 
umano relazionale 
e, dunque, all'interno del 
proprio nucleo familiare. ove venisse negato il riconoscimento giuridico del provvedimento 
adottivo resterebbe 
gravemente 
sacrificata 
la 
posizione 
del 
minore 
in relazione 
allo sviluppo 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


equilibrato della 
personalità 
in relazione 
all'identità 
costruita 
nel 
rapporto con i 
genitori, al-
l'impossibilità 
di 
acquistare 
la 
cittadinanza 
italiana 
e 
di 
conseguire 
le 
tutele 
che 
da 
tale 
qualificato 
rapporto parentale conseguono. 


4.4. il 
riconoscimento dello status 
acquisito all'estero, secondo la 
Corte 
d'Appello, non è 
precluso 
dal 
bilanciamento 
con 
altri 
interessi 
coinvolti 
non 
potendo, 
in 
particolare, 
attribuirsi 
copertura 
costituzionale 
alla 
regola 
per 
cui 
nel 
nostro 
ordinamento 
l'adozione 
legittimante 
è 
consentita 
solo a 
coppie 
coniugate, essendo prevista, in via 
derogatoria, l'adozione 
di 
un solo 
coniuge, quando nel 
corso dell'affidamento preadottivo uno dei 
due 
coniugi 
decida 
di 
separarsi. 
né 
può assumere 
rilievo preminente 
e 
costituire 
un limite 
di 
ordine 
pubblico la 
natura 
omoaffettiva 
della 
coppia 
genitoriale, 
avendo 
tali 
unioni 
piena 
dignità 
costituzionale 
e 
dovendo 
assumersi 
come 
parametri 
di 
riferimento in relazione 
al 
riconoscimento di 
status 
filiationis 
non espressamente 
previsti 
nel 
nostro ordinamento interno gli 
artt. 2, 3 e 
31 Cost. e 
non l'art. 
29. la 
giurisprudenza, sovranazionale 
ed interna, di 
legittimità 
e 
di 
merito ha 
ampiamente 
riconosciuto, 
sia 
in materia 
di 
affidamento che 
di 
adozione, l'inesistenza 
di 
pregiudizi, scientificamente 
fondati, per lo sviluppo psico fisico del 
minore 
che 
nasca 
e 
cresca 
in una 
famiglia 
omogenitoriale. ne 
consegue 
che 
l'attuale 
limitazione 
legislativa 
interna 
all'accesso all'adozione 
piena 
stabilita 
nella 
legge 
ordinaria 
non si 
configura 
come 
opzione 
costituzionalmente 
obbligata, tanto più dopo la 
recente 
riforma 
della 
filiazione 
tendente 
alla 
unificazione 
dello 
stato di 
figlio, sia 
di 
derivazione 
biologica 
che 
sociale. il 
matrimonio, nella 
nuova 
disciplina, 
non 
si 
colloca 
più 
al 
centro 
delle 
relazioni 
familiari 
essendo 
sostituito 
dalla 
condizione 
di 
figlio e 
dal 
suo preminente 
interesse 
nelle 
diverse 
declinazioni 
proposte 
dalla 
legislazione 
e 
dalla 
giurisprudenza. 
nel 
rispetto 
della 
ratio 
della 
riforma 
che 
induce 
a 
ricondurre 
la 
filiazione 
biologica 
e 
quella 
adottiva 
ad un unico status, non possono conseguire 
limitazioni 
ai 
diritti 
dei 
figli 
adottivi. Peraltro, anche 
la 
modifica 
dell'art. 74 c.c., unificando il 
regime 
della 
parentela 
discendente 
dalle 
varie 
tipologie 
di 
filiazione 
e 
ricomprendendovi 
anche 
quella 
adottiva, 
con 
esclusione 
dell'adozione 
di 
maggiorenni, 
conduce 
a 
questa 
conclusione, 
prospettando 
come principio ordinante la parificazione assoluta della condizione filiale. 
5. Avverso tale 
pronuncia 
ha 
proposto ricorso per cassazione 
il 
Sindaco di 
oMiSSiS 
in qualità 
di 
ufficiale 
di 
Governo, proponendo quattro motivi 
di 
ricorso. Hanno resistito con controricorso 
oMiSSiS 
in proprio ed in rappresentanza del figlio minore e l'altro genitore adottivo. 
6. 
la 
prima 
sezione 
civile 
con 
ordinanza 
interlocutoria 
29071 
del 
2019 
ha 
rimesso 
alle 
sezioni 
unite come questioni di massima di particolare importanza i seguenti quesiti: 
a) se 
possa 
costituire 
espressione 
di 
principi 
fondamentali 
ed irrinunciabili 
dell'ordinamento 
il 
disfavore 
dell'ordinamento interno all'accesso all'adozione 
legittimante 
per le 
coppie 
dello 
stesso sesso, desumibile 
dall'art. 6 l. n. 184 del 
1983 che 
consente 
tale 
forma 
di 
adozione 
soltanto 
alla 
coppia 
coniugata 
e 
dall'art. 1, c. 20 della 
l. n. 76 del 
2016 che 
introduce 
nel 
nostro 
ordinamento il 
riconoscimento delle 
unioni 
civili 
tra 
persone 
dello stesso sesso ma 
esclude 
l'equiparazione 
con lo status 
coniugale 
in relazione 
alle 
disposizioni 
di 
cui 
alla 
l. n. 184 del 
1983 (fermo quanto previsto e 
consentito in materia 
di 
adozione 
dalle 
norme 
vigenti) oltre 
che 
dalla 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
(S.U. 12193 del 
2019) che 
ha 
limitato all'adozione 
non 
legittimante 
(art. 44 lettera 
d, della 
l. n. 184 del 
1983) la 
genitorialità 
sociale 
per la 
coppia 
omoaffettiva maschile che sia ricorsa alla gestazione per altri; 
b) se 
il 
giudizio di 
compatibilità 
con l'ordine 
pubblico che 
l'autorità 
giudiziaria 
italiana 
deve 
compiere, ai 
sensi 
degli 
artt. 41, 64, 65, 66 della 
l. n. 218 del 
1995, ai 
fini 
del 
riconoscimento 
in 
italia 
di 
un 
provvedimento 
giudiziario 
straniero 
di 
adozione 
cd. 
legittimante, 
debba 
o 
meno 
includere la valutazione estera di adottabilità del minore. 

ConTenzioSo 
nAzionAle 


7. 
in 
vista 
dell'udienza 
davanti 
alle 
S.U., 
il 
Procuratore 
generale 
ha 
depositato 
requisitoria 
scritta, illustrata in udienza, ed il controricorrente memoria illustrativa. 
rAGioni dellA deCiSione 
(...) 


15. 
definito 
l'oggetto 
del 
sindacato 
giurisdizionale, 
deve 
essere 
affrontata 
la 
questione 
relativa 
alla 
compatibilità 
degli 
effetti 
del 
provvedimento straniero con i 
principi 
di 
ordine 
pubblico 
che 
ove 
contrastanti 
possono 
limitarne 
od 
escluderne 
il 
riconoscimento. 
Si 
tratta 
della 
censura 
affrontata 
nel 
quarto motivo e 
nel 
primo dei 
due 
quesiti 
desumibili 
dall'ordinanza 
interlocutoria. 
15.1 l'indagine 
da 
svolgere 
richiede 
in primo luogo il 
corretto inquadramento giuridico del-
l'atto di 
cui 
si 
chiede 
il 
riconoscimento. l'adoption order 
è 
un provvedimento giurisdizionale 
emesso dalla 
surrogate 
Court 
dello Stato di 
oMiSSiS 
che 
attribuisce 
alla 
parte 
ricorrente 
ed al-
l'interveniente 
lo status 
di 
genitore 
adottivo del 
minore 
dopo aver preventivamente 
acquisito 
il 
consenso del 
birth father 
e 
della 
birth mother 
e 
dopo aver valutato l'idoneità 
della 
coppia 
adottante 
al 
fine 
di 
verificare 
la 
conformità 
del 
provvedimento da 
assumere 
al 
best 
interest 
of 
the 
child. 
nel 
provvedimento, 
regolarmente 
depositato 
ed 
esaminato 
dal 
Collegio 
si 
dà, 
infatti, 
atto che 
"un investigation have 
been ordered and made 
and the 
written report 
of 
such investigation 
having been filed with the 
Court, as 
required by 
the 
domestic 
Law". il 
provvedimento 
non è 
dunque 
fondato soltanto sull'acquisito consenso dei 
genitori 
biologici 
ma 
anche 
sul 
risultato 
di 
un'indagine 
svolta 
secondo 
le 
prescrizioni 
normative 
della 
legge 
interna 
(social 
services Law). 
15.2 la 
decisione 
è 
stata 
adottata 
nel 
rispetto del 
diritto di 
difesa 
di 
tutti 
i 
soggetti 
coinvolti 
(par. 8 decisione 
impugnata). la 
circostanza 
non è 
stata, peraltro oggetto di 
contestazione 
né 
della parte ricorrente né del Procuratore Generale. 
15.3 
la 
esposizione 
sintetica 
del 
contenuto 
e 
degli 
effetti 
del 
provvedimento 
estero 
pone 
in 
evidenza 
con 
nettezza 
l'estraneità 
della 
fattispecie 
oggetto 
del 
presente 
giudizio 
da 
quella 
formante 
oggetto 
della 
sentenza 
delle 
S.U. 
n. 
12193 
del 
2019. 
non 
viene 
sottoposto 
al 
controllo 
di 
compatibilità 
con 
i 
principi 
di 
ordine 
pubblico 
il 
riconoscimento 
di 
uno 
status 
genitoriale 
costituito 
all'estero 
per 
mezzo 
della 
tipologia 
di 
procreazione 
medicalmente 
assistita 
eterologa 
(d'ora 
in 
avanti 
p.m.a.) 
definibile 
come 
gestazione 
per 
altri. 
Alla 
base 
della 
costituzione 
dello 
status 
genitoriale 
adottivo 
della 
coppia 
richiedente 
non 
risulta 
esserci 
un 
accordo 
di 
surrogazione 
di 
maternità, 
realizzato 
mediante 
una 
forma 
di 
fecondazione 
eterologa 
penalmente 
vietata 
nel 
nostro 
ordinamento 
e 
per 
tale 
ragione 
ritenuta 
contraria 
ai 
principi 
vigenti 
di 
ordine 
pubblico. 
l'esistenza 
di 
entrambi 
i 
genitori 
biologici 
che 
hanno 
prestato 
il 
loro 
consenso 
all'adozione 
del 
minore 
porta 
ad 
escludere 
dall'esame 
del 
Collegio 
non 
soltanto 
la 
questione 
della 
compatibilità 
con 
i 
nostri 
principi 
di 
ordine 
pubblico 
della 
surrogazione 
di 
maternità 
ma 
anche 
quella, 
più 
generale, 
relativa 
all'incidenza 
diretta 
sui 
principi 
di 
ordine 
pubblico 
internazionale 
del 
divieto 
di 
accesso 
alla 
p.m.a. 
per 
le 
coppie 
omoaffettive, 
oggetto 
di 
un 
recente 
intervento 
della 
Corte 
Costituzionale 
(n. 
221 
del 
2019), 
la 
quale, 
tuttavia, 
in 
un 
passaggio 
motivazionale 
rimanda 
al 
divieto 
di 
accesso 
alla 
genitorialità 
adottiva 
per 
le 
coppie 
formate 
da 
persone 
dello 
stesso 
sesso. 
la 
complessiva 
valutazione 
della 
pronuncia 
sarà 
esaminata 
nel 
par. 
18.2. 
16. definiti 
gli 
effetti 
del 
provvedimento estero e 
precisato che 
oggetto del 
sindacato giurisdizionale 
è 
la 
compatibilità 
dello status 
genitoriale, di 
natura 
intrinsecamente 
adottiva, acquisito 
da 
coppia 
omogenitoriale 
maschile 
con 
i 
principi 
attualmente 
costituenti 
l'ordine 
pubblico internazionale, deve 
procedersi 
alla 
corretta 
individuazione 
del 
predetto parametro. 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


16.1 
in 
astratto, 
la 
soluzione 
non 
appare 
disagevole 
perché 
il 
Collegio 
presta 
convinta 
adesione 
alla 
nozione 
di 
ordine 
pubblico 
internazionale 
elaborata 
nella 
pronuncia 
delle 
S.U. 
n. 
16601 
del 
2017 
e 
ribadita 
nella 
più 
recente 
n. 
12193 
del 
2019. 
entrambe 
le 
pronunce 
si 
collocano 
nel 
solco 
della 
concezione 
aperta 
ed 
universalistica 
dell'ordine 
pubblico 
internazionale, 
già 
espressa 
in 
precedenti 
orientamenti 
(Cass. 
19599 
del 
2016 
e 
14878 
del 
2017) 
riconoscendo 
ai 
principi 
di 
ordine 
pubblico 
internazionale 
non 
soltanto 
la 
funzione 
di 
limite 
all'applicazione 
della 
legge 
straniera 
(art. 
16 
l. 
n. 
218 
del 
1995) 
ed 
al 
riconoscimento 
di 
atti 
e 
provvedimenti 
stranieri 
(art. 
64 
l. 
n. 
218 
del 
1995) 
e 
ma 
anche 
quella 
di 
promozione 
(S.U. 
16601 
del 
2017) 
e 
garanzia 
di 
tutela 
dei 
diritti 
fondamentali 
della 
persona 
(Cass. 
n. 
19405 
del 
2013), 
attraverso 
i 
principi 
provenienti 
dal 
diritto 
dell'Unione 
europea, 
delle 
Convenzioni 
sui 
diritti 
della 
persona 
cui 
l'italia 
ha 
prestato 
adesione 
e 
con 
il 
contributo 
essenziale 
della 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
e 
della 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
umani. 
Ma 
a 
comporre 
il 
complesso 
dei 
principi 
fondamentali 
e 
caratterizzanti 
il 
profilo 
etico 
giuridico 
dell'ordinamento 
di 
un 
determinato 
periodo 
storico, 
secondo 
la 
definizione 
accolta 
da 
dottrina 
internazionalistica 
autorevole, 
concorrono 
non 
soltanto 
il 
sistema 
dei 
principi 
e 
valori 
derivanti 
dalla 
Costituzione 
ma 
anche 
quelli 
desumibili 
dalle 
leggi 
ordinarie 
quando 
"come 
nervature 
sensibili, 
fibre 
dell'apparato 
sensoriale 
e 
delle 
parti 
vitali 
di 
un 
organismo, 
inverano 
l'ordinamento 
costituzionale" 
(S.U. 
16601 
del 
2017). 
la 
più 
ampia 
connotazione 
dei 
principi 
di 
ordine 
pubblico 
internazionale 
si 
è 
infine 
consolidato 
con 
la 
recente 
S.U. 
n. 
12193 
del 
2019 
nella 
quale 
viene 
sottolineata 
"la 
rilevanza 
della 
normativa 
ordinaria, 
quale 
strumento 
di 
attuazione 
dei 
valori 
consacrati 
nella 
Costituzione" 
e 
l'esigenza 
di 
valorizzare 
l'interpretazione 
della 
legge 
che 
"dà 
forma 
a 
quel 
diritto 
vivente 
dalla 
cui 
valutazione 
non 
può 
prescindersi 
nella 
ricostruzione 
dell'ordine 
pubblico 
in 
un 
determinato 
momento 
storico". 
la 
sintesi 
operata 
dalle 
S.U. 
di 
questa 
Corte, 
tra 
il 
rilievo 
dei 
valori 
condivisi 
dalla 
comunità 
internazionale 
ed 
il 
processo 
di 
armonizzazione 
tra 
gli 
ordinamenti 
giuridici 
che 
lo 
accompagna 
ed 
il 
sistema 
assiologico 
proveniente 
dalla 
Costituzione 
unitamente 
alle 
leggi 
che 
ad 
esso 
si 
ispirano, 
deve 
orientare 
nella 
ricognizione 
dei 
principi 
fondamentali 
che 
al 
momento 
del 
vaglio 
giurisdizionale 
costituiscono 
la 
trama 
dell'ordine 
pubblico 
internazionale. 
l'operazione 
da 
svolgere, 
come 
già 
evidenziato, 
non 
ha 
ad 
oggetto 
la 
coerenza 
della 
normazione 
interna 
di 
uno 
o 
più 
istituti 
con 
quella 
estera 
che 
ha 
condotto 
alla 
formazione 
del 
provvedimento 
giurisdizionale 
di 
cui 
si 
chiede 
il 
riconoscimento, 
ma 
la 
verifica 
della 
compatibilità 
degli 
effetti 
che 
l'atto 
produce 
(nella 
specie 
l'attribuzione 
di 
uno 
status 
genitoriale 
adottivo) 
con 
i 
limiti 
non 
oltrepassabili, 
costituiti 
dai 
principi 
fondanti 
l'autodeterminazione 
e 
le 
scelte 
relazionali 
del 
minore 
e 
degli 
aspiranti 
genitori 
(art. 
2 
Cost.; 
art. 
8 
Cedu); 
dal 
principio 
del 
preminente 
interesse 
del 
minore 
di 
origine 
convenzionale 
ma 
ampiamente 
attuato 
in 
numerose 
leggi 
interne 
ed 
in 
particolare 
nella 
recente 
riforma 
della 
filiazione 
(legge 
delega 
n. 
219 
del 
2012, 
d.lg.s 
n. 
153 
del 
2013); 
dal 
principio 
di 
non 
discriminazione, 
rivolto 
sia 
a 
non 
determinare 
ingiustificate 
disparità 
di 
trattamento 
nello 
status 
filiale 
dei 
minori 
con 
riferimento 
in 
particolare 
al 
diritto 
al-
l'identità 
ed 
al 
diritto 
di 
crescere 
nel 
nucleo 
familiare 
che 
meglio 
garantisca 
un 
equilibrato 
sviluppo 
psico-fisico 
nonché 
relazionale 
sia 
a 
non 
limitare 
la 
genitorialità 
esclusivamente 
sulla 
base 
dell'orientamento 
sessuale 
della 
coppia 
richiedente; 
dal 
principio 
solidaristico 
che 
è 
alla 
base 
della 
genitorialità 
sociale 
sulla 
base 
del 
quale 
la 
legge 
interna 
(l. 
n. 
184 
del 
1983 
così 
come 
modificata 
dalla 
l. 
n. 
149 
del 
2001 
e 
dalla 
recente 
legge 
sulla 
continuità 
affettiva 
n. 
173 
del 
2015) 
ed 
il 
diritto 
vivente 
(CedU 
caso 
zhou 
contro 
italia 
sentenza 
21/4/2014 
e 
S.H. 
contro 
italia 
sentenza 
13/10/2015; 
Cass. 
3643 
del 
2020 
e 
1476 
del 
2021) 
hanno 
concorso 
a 
creare 
una 
pluralità 
di 
modelli 
di 
genitorialità 
adottiva, 
unificati 
dall'obiettivo 
di 
conservare 
la 
continuità 
affettiva 
e 
relazionale 
ove 
già 
stabilizzatasi 
nella 
relazione 
familiare. 

ConTenzioSo 
nAzionAle 


16.3 
i 
principi 
enucleati 
peraltro 
risultano 
strettamente 
interconnessi 
essendo 
l'uno 
funzionale 
all'inveramento dell'altro, così 
come 
le 
leggi, in larga 
parte 
riformatrici, che 
li 
esprimono e 
li 
attuano. Sulla 
base 
di 
questo quadro unificante 
di 
principi 
di 
ordine 
pubblico internazionale, 
può svolgersi 
la 
valutazione 
di 
compatibilità 
che 
forma 
oggetto del 
quarto motivo di 
ricorso 
e di uno dei quesiti posti nell'ordinanza interlocutoria. 
17. la 
Corte 
di 
Cassazione, con la 
sentenza 
n. 14007 del 
2018, si 
è 
già 
espressa 
in merito alla 
trascrizione 
di 
una 
sentenza 
straniera 
(francese) con la 
quale 
era 
stata 
pronunciata 
l'adozione 
piena 
ed 
incrociata 
dei 
figli 
minori, 
biologici, 
di 
due 
donne 
cittadine 
francesi 
coniugate 
in 
Francia 
e 
residenti 
in italia. Al 
riguardo, ha 
ritenuto che 
il 
preminente 
interesse 
del 
minore, 
da 
ritenersi 
coincidente 
con il 
diritto al 
mantenimento della 
stabilità 
della 
vita 
familiare 
consolidatasi 
con entrambe 
le 
figure 
genitoriali, positivamente 
e 
specificamente 
valutato dal 
giudice 
straniero, dovesse 
condurre 
ad escludere 
la 
contrarietà 
dell'atto all'ordine 
pubblico, "non 
incidendo l'orientamento sessuale 
sull'idoneità dell'individuo all'assunzione 
della responsabilità 
genitoriale". 
Per 
comprendere 
i 
punti 
di 
contatto 
e 
le 
differenze 
con 
la 
fattispecie 
dedotta 
nel 
presente 
giudizio 
deve 
essere 
precisato 
che 
entrambe 
le 
partners 
dell'unione 
matrimoniale 
omoaffettiva, 
trascritta 
in 
italia, 
sono 
ricorse 
alla 
p.m.a. 
eterologa 
per 
la 
rispettiva 
generazione 
biologica 
dei 
figli 
minori 
ed hanno ottenuto un titolo adottivo pieno come 
madri 
d'intenzione 
o 
madri 
sociali 
del 
figlio 
non 
biologico. 
in 
comune 
le 
due 
fattispecie 
hanno 
sia 
la 
provenienza 
della 
scelta 
genitoriale 
da 
un'unione 
omoaffettiva 
matrimoniale 
sia 
la 
riconduzione 
al 
modello 
dell'adozione 
piena 
o legittimante 
dello status 
genitoriale 
richiesto. il 
provvedimento giurisdizionale 
estero in entrambe 
le 
fattispecie 
è 
rivolto al 
riconoscimento di 
una 
genitorialità 
sociale 
che 
sia 
del 
tutto 
equiparabile 
alla 
genitorialità 
biologica 
sorta 
dentro 
o 
fuori 
il 
matrimonio, ai 
fini 
del 
complesso di 
diritti 
e 
tutele 
dei 
figli 
minori, in particolare 
in relazione 
alla 
linea 
di 
parentela. le 
differenze 
consistono nel 
genere 
femminile 
e 
maschile 
delle 
due 
coppie 
omogenitoriali 
e 
nell'accesso alla 
p.m.a. eterologa 
solo da 
parte 
della 
coppia 
omogenitoriale 
femminile. Si 
tratta, tuttavia, di 
caratteristiche 
recessive. la 
differenza 
di 
genere 
per 
le 
coppie 
omogenitoriali 
maschili 
costituisce 
un discrimine 
soltanto se 
il 
progetto genitoriale 
comune 
si 
fonda 
sul 
ricorso alla 
gestazione 
per altri 
(Cass. S.U. 12193 del 
2019) pur essendo 
espressamente 
previsto che 
il 
preminente 
interesse 
del 
minore 
possa 
essere 
garantito, anche 
in 
questa 
ipotesi, 
mediante 
l'adozione 
in 
casi 
particolari. 
Ma 
il 
modello 
adottivo 
gradato 
è 
esclusivamente 
conseguenza 
del 
grave 
disvalore 
ricondotto, dalle 
S.U., alla 
scelta 
della 
gestazione 
per altri 
e 
alla 
necessità 
di 
trovare 
un bilanciamento che 
tenga 
conto di 
questa 
valutazione. 
Sul 
rapporto 
tra 
il 
preminente 
interesse 
del 
minore 
e 
la 
"legittima 
finalità 
di 
disincentivare 
il 
ricorso ad una pratica che 
l'ordinamento italiano considera illegittima ed 
anzi 
meritevole 
di 
sanzione 
penale" 
è 
intervenuta 
la 
recentissima 
sentenza 
della 
Corte 
Costituzionale 
n. 33 del 
2021 con la 
quale 
è 
stato riaffermato il 
margine 
di 
apprezzamento degli 
Stati 
nel 
non 
consentire 
la 
trascrizione 
di 
atti 
di 
stato 
civile 
o 
provvedimenti 
giudiziari 
stranieri 
che 
fondino gli 
status 
genitoriali 
sulla 
surrogazione 
di 
maternità, pur sottolineando l'esigenza 
di 
un sistema 
di 
tutela 
del 
minore 
più efficace 
che 
non quello garantito dall'adozione 
in casi 
particolari. 
ove, 
tuttavia, 
manchi 
la 
condizione 
negativa 
della 
gestazione 
per 
altri, 
e 
nella 
specie, 
anche 
l'operatività 
del 
divieto 
di 
accesso 
alla 
p.m.a. 
alle 
coppie 
omoaffettive, 
la 
contrarietà 
ai 
principi 
di 
ordine 
pubblico 
appare 
riconducibile 
soltanto 
alle 
norme 
interne 
limitative 
della 
genitorialità adottiva e al paradigma eterosessuale delle unioni matrimoniali. 
17.1 
deve 
rilevarsi 
che 
l'ininfluenza 
dell'orientamento 
sessuale 
nelle 
controversie 
riguardanti 
l'affidamento dei 
minori 
e 
la 
responsabilità 
genitoriale 
all'interno del 
conflitto familiare 
costituiscono 
un approdo fermo nella 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
(Cass. 601 del 
2013), così 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


come 
per l'accesso all'adozione 
non legittimante 
delle 
coppie 
omoaffettive 
(Cass. 12962 del 
2016). 
la 
conclusione 
univocamente 
assunta 
dalla 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
che 
si 
è 
espressa 
al 
riguardo si 
fonda 
sulla 
considerazione 
della 
mancanza 
di 
riscontri 
scientifici 
sulla 
inidoneità 
genitoriale 
di 
una 
coppia 
formata 
da 
persone 
dello stesso sesso. la 
conferma 
più 
rilevante, tuttavia, si 
ritrae 
dalla 
sentenza 
delle 
S.U. n. 12193 del 
2019 che, pur affermando 
la 
contrarietà 
ai 
principi 
fondamentali 
che 
compongono l'ordine 
pubblico della 
genitorialità 
formatasi 
per effetto della 
gestazione 
per altri 
(o surrogazione 
di 
maternità) limitano a 
questo 
aspetto il 
contrasto reputando il 
divieto interno e 
la 
sanzione 
penale 
consequenziale 
espressione 
di 
valori 
fondamentali 
quali 
la 
dignità 
umana 
della 
gestante 
e 
l'istituto dell'adozione 
ma 
escludono che 
sia 
da 
ricondurre 
a 
principio fondamentale 
dell'ordinamento l'eterosessualità 
della 
coppia 
nella 
definizione 
dei 
limiti 
al 
riconoscimento 
di 
atti 
stranieri 
relativi 
a 
status 
filiali. 
nella 
fattispecie 
dedotta 
nel 
giudizio 
che 
ha 
dato 
luogo 
alla 
sentenza 
n. 
12193 
del 
2019, 
la 
caratteristica 
della 
omoaffettività 
e 
del 
genere 
maschile 
della 
coppia 
ha 
costituito un mero 
presupposto 
di 
fatto 
ma 
non 
l'oggetto 
della 
contrarietà 
ai 
principi 
di 
ordine 
pubblico, 
incentrata 
esclusivamente 
sul 
divieto di 
surrogazione 
di 
maternità, divieto già 
affermato nella 
sentenza 


n. 
24001 
del 
2014 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
e, 
a 
determinate 
condizioni, 
confermato 
dalla 
sentenza 
della 
Grand Chambre 
della 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
umani 
del 
24/1/2017, caso Paradiso 
e 
Campanelli, pronunce, queste 
ultime, nelle 
quali 
la 
coppia 
che 
rivendicava 
lo status 
genitoriale era eterosessuale. 
17.2 Completa 
il 
quadro ricostruttivo la 
sentenza 
della 
Corte 
Costituzionale 
n. 272 del 
2017, 
investita 
del 
sospetto d'incostituzionalità 
dell'art. 263 c.c. nella 
parte 
in cui 
non prevede 
che 
l'impugnazione 
del 
riconoscimento del 
figlio minore 
per difetto di 
veridicità 
possa 
essere 
accolta 
solo 
se 
corrispondente 
al 
preminente 
interesse 
dello 
stesso. 
nella 
pronuncia 
è 
stato 
escluso il 
valore 
assoluto del 
favor veritatis 
e 
ribadita 
la 
necessità 
del 
suo bilanciamento con 
l'interesse 
del 
minore 
che 
può prevalere, all'esito della 
concreta 
operazione 
di 
bilanciamento 
cui 
è 
tenuto 
il 
giudice. 
in 
questo 
contesto 
di 
principi 
volto 
a 
valorizzare 
la 
centralità 
della 
tutela 
del 
minore, anche 
la 
Corte 
Costituzionale 
riserva 
una 
peculiare 
valutazione 
alle 
ipotesi 
in cui 
lo status 
genitoriale 
su cui 
si 
concentra 
il 
sindacato giurisdizionale 
si 
fondi 
sul 
ricorso 
alla 
surrogazione 
di 
maternità, in relazione 
alla 
quale 
la 
tutela 
del 
minore, deve 
confluire 
nel 
modello 
gradato 
dell'adozione 
in 
casi 
particolari. 
Ma, 
fuori 
dalla 
gestazione 
per 
altri, 
in 
questa 
rilevante 
pronuncia 
che 
ha 
costituito 
un 
solido 
ancoraggio 
per 
la 
decisione 
delle 
S.U. 
n. 
12193 
del 
2019, non viene 
individuato alcun ostacolo od impedimento alla 
piena 
valutazione 
del-
l'interesse 
preminente 
del 
minore 
nelle 
azioni 
sugli 
status 
genitoriali 
che 
possa 
ricondursi 
all'orientamento 
sessuale 
delle 
coppie, dandosi 
rilievo per un verso al 
profilo consensualistico 
nella 
determinazione 
consapevole 
della 
genitorialità, 
così 
come 
affermato 
espressamente 
nel-
l'art. 
5 
della 
l. 
n. 
40 
del 
2004 
che 
vieta 
l'azione 
di 
disconoscimento 
in 
caso 
di 
p.m.a. 
eterologa, 
e 
per 
l'altro 
alla 
comparazione 
tra 
l'interesse 
effettivo 
del 
minore 
(alla 
stabilità 
dello 
status 
acquisito) 
con la verità della derivazione biologica. 
17.3 in conclusione, nel 
contesto normativo e 
giurisprudenziale 
nel 
quale 
è 
maturata 
la 
sentenza 
delle 
S.U. n. 12193 del 
2019 il 
limite, dovuto alla 
contrarietà 
ai 
principi 
di 
ordine 
pubblico 
internazionale, al 
riconoscimento di 
status 
genitoriali 
contenuti 
in provvedimenti 
esteri, 
richiesti 
da 
componenti 
di 
coppie 
omoaffettive, 
è 
stato 
individuato 
esclusivamente 
nel 
ricorso 
alla 
gestazione 
per 
altri, 
limite 
peraltro 
comune 
anche 
alle 
coppie 
eterosessuali. 
in 
particolare, 
non sono stati 
ritenuti 
incidenti 
sulla 
valutazione 
di 
compatibilità 
della 
omogenitorialità 
con 
i 
nostri 
principi 
di 
ordine 
pubblico internazionale 
i 
limiti 
derivanti 
dalla 
legislazione 
interna 
in tema 
di 
accesso all'adozione 
legittimante 
(art. 6 l. n. 184 del 
1983) previsto soltanto per le 

ConTenzioSo 
nAzionAle 


coppie 
eterosessuali 
coniugate 
e 
dalla 
legge 
sulle 
unioni 
civili 
che 
non 
ha 
espressamente 
esteso 
alle 
coppie 
omoaffettive 
l'accesso 
all'adozione 
legittimante, 
lasciando 
tuttavia 
aperta 
la 
strada 
all'adozione 
in 
casi 
particolari, 
in 
quanto 
già 
riconosciuta 
dalla 
giurisprudenza 
sulla 
base 
delle 
norme 
vigenti 
(art. 
1 
comma 
20 
l. 
n. 
76 
del 
2016). 
non 
è 
stato 
ritenuto 
riconducibile 
ai 
principi 
di 
ordine 
pubblico 
internazionale 
il 
regime 
codicistico 
della 
prova 
della 
filiazione 
in 
relazione 
al 
riconoscimento di 
provvedimento estero costitutivo di 
status 
genitoriale 
in coppia 
omogenitoriale 
femminile 
(Cass. 
19599 
del 
2016). 
la 
valutazione 
di 
compatibilità, 
anche 
in 
coerenza 
con le 
considerazioni 
svolte 
nella 
sentenza 
della 
Corte 
Cost. n. 272 del 
2017, è 
stata, fino ad 
oggi, compiuta 
assumendo come 
principi 
cardine 
il 
diritto del 
minore 
alla 
conservazione 
del-
l'identità 
e 
della 
stabilità 
familiare 
(Cass. 14007 del 
2017) ed il 
favor verso la 
continuità 
degli 
status 
filiali 
da 
bilanciare, 
tuttavia, 
con 
il 
limite 
incomprimibile 
della 
dignità 
dei 
soggetti 
coinvolti 
(S.U. 12193 del 
2019), senza 
includere, però, nel 
perimetro dei 
principi 
di 
ordine 
pubblico 
internazionale 
né 
le 
norme 
interne 
che 
escludono 
l'accesso 
alle 
p.m.a. 
alle 
coppie 
omoaffettive 
né 
quelli 
che 
introducono il 
medesimo limite 
all'adozione 
legittimante, attualmente 
consentita 
soltanto a 
coppie 
unite 
in matrimonio. la 
condizione 
soggettiva 
costituita 
dall'eterosessualità 
della 
coppia 
che 
resiste 
all'interno del 
nostro ordinamento anche 
in relazione 
all'accesso 
all'unione 
matrimoniale, 
introduce 
un 
limite 
che 
definisce, 
allo 
stato 
attuale, 
la 
disciplina 
normativa 
applicabile 
ad 
alcuni 
istituti. 
Fino 
ad 
ora, 
tale 
limite 
non 
è 
stato 
elevato 
al 
rango di 
principio di 
ordine 
pubblico internazionale, alla 
luce 
della 
continua 
e 
crescente 
attenzione 
ad 
una 
prospettiva 
maggiormente 
inclusiva 
dei 
modelli 
relazionali 
e 
familiari 
che 
richiedono 
riconoscimento 
e 
tutela, 
realizzata 
mediante 
un'interpretazione 
aperta 
dell'art. 
2 
Cost. 
(Corte 
Cost. n. 138 del 
2010 e 
170 del 
2014) e 
dell'art. 8 Cedu (Caso X 
ed altri 
contro Austria 
sentenza 
del 
19/2/2013, 
labassee 
contro 
Francia 
e 
Mennesson 
contro 
Francia 
sentenze 
del 
26 
giugno 
2014; 
Avis 
consultatif 
del 
9 
aprile 
2019, 
richiesto 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione 
francese 
in applicazione 
del 
Protocollo 16 in vigore 
dal 
1 agosto 2018, cui 
l'italia 
non ha 
ancora 
aderito). 
in particolare, per le 
coppie 
omoaffettive 
la 
condivisione 
della 
necessità 
di 
un riconoscimento 
giuridico e 
di 
una 
tendenziale 
equiparazione 
al 
sistema 
di 
tutela 
proprio dell'unione 
matrimoniale 
è 
stata 
ampiamente 
realizzata 
con la 
l. n. 76 del 
2016 dopo il 
forte 
monito della 
CedU 
(sentenza 
del 
21 luglio 2015, caso oliari 
più altri 
contro italia). il 
margine 
di 
apprezzamento 
degli 
Stati 
e 
la 
conseguente 
discrezionalità 
legislativa 
interna 
nell'introdurre 
alcune 
condizioni 
a 
tale 
equiparazione 
oltre 
a 
non poter oltrepassare 
il 
limite 
della 
proporzionalità 
tra 
il 
sacrificio del 
diritto fondamentale 
in gioco e 
l'interesse 
di 
rilievo pubblicistico che 
sottende 
la 
limitazione, 
non 
modifica 
il 
riconoscimento, 
costituzionale 
e 
convenzionale, 
delle 
unioni 
omoaffettive 
come 
luoghi 
in cui 
si 
sviluppa 
la 
personalità 
dei 
soggetti 
coinvolti 
(art. 2 
Cost.) anche 
in ordine 
all'aspirazione 
alla 
genitorialità, quando si 
formi 
in un contesto relazionale 
caratterizzato da 
stabilità 
giuridica 
ed effettiva 
(art. 8 Cedu) e, soprattutto non può incidere 
sulla 
centralità 
del 
preminente 
interesse 
del 
minore 
nelle 
decisioni 
che 
riguardano il 
suo 
diritto 
all'identità 
ed 
ad 
uno 
sviluppo 
individuale 
e 
relazionale 
equilibrato 
e 
senza 
strappi. 


18. È 
necessario verificare, tuttavia, anche 
in relazione 
alle 
espresse 
sollecitazioni 
della 
parte 
ricorrente, 
ampiamente 
articolate 
nella 
requisitoria 
del 
Procuratore 
Generale, 
se 
alla 
luce 
delle 
più recenti 
pronunce 
della 
Corte 
Costituzionale 
(la 
già 
citata 
n. 221 del 
2019, n. 237 del 
2019 
e 
230 del 
2020) e 
di 
due 
recenti 
sentenze 
della 
prima 
sezione 
di 
questa 
Corte 
(n. 7668 e 
8029 
del 
2020) non debba 
individuarsi 
una 
diversa 
griglia 
dei 
principi 
fondanti 
l'ordine 
pubblico 
che 
costituiscono 
il 
limite 
non 
valicabile 
ai 
fini 
del 
riconoscimento 
del 
provvedimento 
di 
adozione 
piena 
emesso dalla 
Corte 
dello Stato di 
oMiSSiS, dedotto nel 
presente 
giudizio. in particolare, 
si 
tratta 
di 
verificare 
se 
il 
limite 
di 
accesso all'adozione 
piena 
alle 
coppie 
coniugate 
e 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


la 
non 
estensione 
dell'equiparazione 
unione 
civile/matrimonio 
stabilita 
dal 
comma 
20 
dell'art. 
1 
della 
l. 
n. 
76 
del 
2016 
al 
medesimo 
istituto 
adottivo 
possa 
determinare 
la 
contrarietà 
dell'atto 
di 
cui 
si 
chiede 
il 
riconoscimento ai 
principi 
fondamentali 
che 
disegnano la 
trama 
dell'ordine 
pubblico internazionale attuale. 


18.1 È 
di 
cruciale 
rilievo definire 
con esattezza 
le 
diverse 
situazioni 
in concreto esaminate 
dalla 
Corte 
Costituzionale 
e 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione, al 
fine 
di 
individuare 
il 
perimetro applicativo 
dei principi precettivi in esse contenute. 
18.2 nella 
pronuncia 
n. 221 del 
2019, relativa 
al 
sospetto d'incostituzionalità 
del 
divieto di 
accesso alle 
p.m.a. per le 
coppie 
omoaffettive, stabilito nell'art. 5 l. n. 40 del 
2004, la 
Corte 
Costituzionale 
esclude 
l'illegittimità 
costituzionale 
della 
limitazione 
osservando che 
la 
legge 
n. 
40 
del 
2004, 
è 
una 
legge 
costituzionalmente 
necessaria 
ma 
non 
a 
rime 
obbligate 
in 
relazione 
a 
questa 
specifica 
condizione 
dell'accesso, perché 
"la scelta espressa dalle 
disposizioni 
censurate 
si 
rivela 
non 
eccedente 
il 
margine 
di 
discrezionalità 
del 
quale 
il 
legislatore 
fruisce, 
pur 
rimanendo 
quest'ultima 
aperta 
a 
soluzioni 
di 
segno 
diverso, 
in 
parallelo 
all'evolversi 
del-
l'apprezzamento 
sociale 
della 
fenomenologia 
considerata". 
la 
precisazione 
finale 
conduce 
ad 
escludere 
che 
la 
limitazione 
alle 
coppie 
eterosessuali 
dell'accesso 
alla 
p.m.a 
sia 
espressione 
di 
un valore 
fondante 
l'ordinamento, condiviso ed irrinunciabile, risultando piuttosto il 
frutto 
di 
una 
scelta 
di 
politica 
legislativa, peraltro maturata 
all'interno di 
una 
legge 
marcatamente 
espressiva 
di 
una 
delle 
scelte 
possibili 
in un campo eticamente 
sensibile 
che 
deve 
essere 
contestualizzata 
e 
che 
può essere 
ripensata. dal 
2004 ad oggi 
l'emersione 
giuridica 
e 
la 
riconducibilità 
all'interno 
dei 
diritti 
inviolabili 
della 
persona 
delle 
istanze 
provenienti 
dalle 
coppie 
omoaffettive, anche 
in relazione 
all'aspirazione 
alla 
genitorialità, è 
stata 
crescente 
e 
sempre 
più condivisa 
anche 
grazie 
all'opera 
di 
armonizzazione 
della 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
umani, 
già 
illustrata 
nel 
par. 17.3 e 
al 
nostro interno agli 
interventi 
della 
Corte 
Costituzionale 
e 
della 
Corte 
di 
legittimità 
(Corte 
Cost. 138 del 
2010 e 
170 del 
2014 e 
Cass. 4184 del 
2012). deve 
aggiungersi 
che 
la 
Corte 
Costituzionale, in un altro passaggio motivazionale, nel 
superare 
il 
rilievo 
critico 
dell'effetto 
di 
discriminazione 
inversa 
che 
sarebbe 
prodotto 
dalla 
perdurante 
vigenza 
del 
divieto nel 
nostro ordinamento interno, mostra 
di 
essere 
del 
tutto consapevole 
del 
mutato quadro nella 
prospettiva 
di 
tutela 
multilivello dei 
diritti 
fondamentali 
ed afferma: 
"il 
solo 
fatto 
che 
un 
divieto 
possa 
essere 
eluso 
recandosi 
all'estero 
non 
può 
inoltre 
costituire 
una 
valida ragione 
per 
dubitare 
della sua conformità a Costituzione; diversamente 
opinando, la 
disciplina interna dovrebbe 
essere 
sempre 
allineata, per 
evitare 
una lesione 
del 
principio di 
eguaglianza, alla più permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia". 
in conclusione, pur mantenendo ferma 
la 
vigenza 
del 
divieto interno, ritenuto costituzionalmente 
legittimo, la 
Corte 
esclude 
che 
esso abbia 
carattere 
di 
principio assolutamente 
intangibile 
e 
ne 
riconosce, 
al 
contrario, 
la 
possibile 
mutevolezza, 
accettando, 
in 
particolare, 
la 
coesistenza 
nel 
nostro ordinamento di 
statuti 
giuridici 
diversi 
per fattispecie 
analoghe, divergenti 
solo perché 
gli 
atti 
che 
le 
contengono sono formati 
in uno Stato estero, e 
riconoscendo 
la 
diversità 
del 
paradigma 
normativo 
applicabile, 
a 
maglie 
più 
strette 
quello 
interno, 
a 
tessitura 
più larga quello fondato sui principi di ordine pubblico internazionale. 


18.3 
nella 
successiva 
sentenza 
n. 
237 
del 
2019, 
riguardante 
un 
giudizio 
sorto 
per 
il 
rifiuto 
opposto dall'ufficiale 
dello stato civile 
alla 
trascrizione 
di 
atto di 
nascita 
richiesto da 
coppia 
omogenitoriale 
femminile, 
la 
Corte 
Costituzionale, 
nel 
dichiarare 
l'inammissibilità 
della 
questione 
prospettata 
riafferma 
la 
legittimità 
della 
legislazione 
interna 
relativa 
alle 
limitazioni 
all'accesso 
a 
p.m.a. 
escludendone 
il 
carattere 
discriminatorio 
per 
orientamento 
sessuale 
ed 
evidenzia 
che 
anche 
la 
l. 70 del 
2016 "non consente 
la filiazione 
sia adottiva che 
per 
fecon

ConTenzioSo 
nAzionAle 


dazione 
assistita". Anche 
in questa 
pronuncia, si 
conferma 
che 
le 
limitazioni 
sopra 
indicate 
sono compatibili 
e 
non "in distonia" 
con i 
parametri 
costituzionali 
ed in particolare 
con l'art. 
3 Cost. ma 
senza 
tuttavia 
elevarne 
l'efficacia 
a 
principi 
fondanti 
dell'ordinamento ma, al 
contrario, 
sottolineandone, l'ancoraggio ad un'opzione 
legittima 
ma 
non universalmente 
condivisa. 


18.4 le 
medesime 
considerazioni 
vengono, infine, svolte 
(e 
sono molto valorizzate 
nella 
requisitoria 
del 
Procuratore 
Generale) nella 
recente 
sentenza 
n. 230 del 
2020, sovrapponibile 
quanto alla 
fattispecie 
alla 
n. 237 del 
2019 che 
si 
chiude 
anch'essa 
con una 
pronuncia 
d'inammissibilità. 
il 
percorso motivazionale 
è 
analogo. la 
Corte 
esclude 
che 
un'interpretazione 
costituzionalmente 
e 
convenzionalmente 
orientata 
delle 
limitazioni 
della 
l. n. 40 del 
2004 possa 
condurre 
ad un loro superamento ma 
non ritiene 
che 
tale 
superamento sia 
costituzionalmente 
imposto. 
Anche 
in 
questa 
pronuncia 
viene 
espressamente 
esclusa 
la 
riconducibilità 
del 
divieto 
e 
dello 
speculare 
paradigma 
eterosessuale 
a 
principio 
fondante, 
come 
può 
rilevarsi 
dal 
seguente 
passaggio argomentativo: 
"se, dunque, il 
riconoscimento della omogenitorialità, all'interno 
di 
un 
rapporto 
tra 
due 
donne 
unite 
civilmente, 
non 
è 
imposto, 
vero 
è 
anche 
che 
i 
parametri 
evocati 
neppure 
sono chiusi 
a soluzioni 
di 
segno diverso, in base 
alle 
valutazioni 
che 
il 
legislatore 
potrà 
dare, 
non 
potendosi 
escludere 
la 
capacità 
della 
donna 
sola, 
della 
coppia 
omosessuale 
e 
della 
coppia 
eterosessuale 
in 
età 
avanzata 
di 
svolgere 
validamente 
anch'esse, 
all'occorrenza, le 
funzioni 
genitoriali. L'obiettivo auspicato dal 
rimettente, pertanto, 
è 
perseguibile 
per 
via normativa, implicando una svolta che, anche 
e 
soprattutto per 
i 
contenuti 
etici 
ed 
assiologici 
che 
la 
connotano, 
non 
è 
costituzionalmente 
imposta, 
(..) 
Anche 
l'altro 
profilo della questione, relativo a una diversa tutela del 
miglior 
interesse 
del 
minore, in direzione 
di 
più 
penetranti 
ed 
estesi 
contenuti 
giuridici 
del 
suo 
rapporto 
con 
la 
madre 
intenzionale, 
è 
ben possibile, ma le 
forme 
per 
attuarla attengono, ancora una volta, al 
piano delle 
opzioni 
rimesse alla discrezionalità del legislatore". 
18.5 
Trova, 
infine, 
espresso 
fondamento 
nella 
diversità 
e 
coesistenza 
di 
due 
sistemi 
normativi 
di 
riferimento, il 
recente 
orientamento della 
Corte 
di 
Cassazione 
in tema 
di 
riconoscimento 
dello status 
genitoriale 
della 
madre 
d'intenzione 
nell'ipotesi 
in cui 
il 
minore 
sia 
nato in italia 
mediante 
il 
ricorso a 
p.m.a. eterologa 
realizzata 
all'estero. le 
pronunce 
n. 7668 e 
8029 del 
2020 hanno, coerentemente 
con i 
principi 
dettati 
dalla 
Corte 
Costituzionale 
sopra 
delineati, 
ritenuto che 
nel 
nostro ordinamento non possa 
iscriversi 
nell'atto di 
nascita 
anche 
la 
madre 
d'intenzione 
per l'operatività 
del 
divieto all'accesso alla 
p.m.a. delle 
coppie 
omoaffettive. È 
stato tuttavia, precisato, (Cass. 7668 del 
2020) che 
la 
soluzione 
adottata 
non contrasta 
con la 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
(Cass. 19599 del 
2016 e 
14878 del 
2017) che 
in fattispecie 
analoghe 
aveva 
riconosciuto l'efficacia 
dell'atto di 
nascita 
nel 
quale 
era 
indicata 
anche 
la 
madre 
d'intenzione, formato all'estero, perché 
il 
paradigma 
normativo invocato è 
diverso. nella 
trascrizione 
degli 
atti 
stranieri 
vi 
è 
l'esigenza 
che 
lo status 
acquisito all'estero circoli 
legittimamente 
con il 
solo limite 
dell'ordine 
pubblico internazionale, con il 
limite 
della 
surrogazione 
di 
maternità. Quando si 
deve 
applicare 
esclusivamente 
il 
paradigma 
proveniente 
dal 
diritto 
interno 
(l. 
n. 
40 
del 
2004; 
disciplina 
codicistica 
della 
filiazione) 
questo 
rimane 
saldamente 
ancorato alla 
necessità 
di 
un rapporto biologico tra 
i 
genitori 
(Cass. 8029 del 
2020). lo strumento 
residuale 
dell'adozione 
in 
casi 
particolari 
consente 
comunque 
l'inserimento 
del 
minore 
nel nucleo familiare. 
18.6 oggetto del 
presente 
giudizio non è 
la 
coerenza 
di 
un sistema 
che 
accoglie 
la 
disparità 
di 
trattamento di 
minori 
che 
versano in situazioni 
di 
fatto del 
tutto omologabili 
ma 
soltanto la 
verifica 
della 
compatibilità 
di 
un provvedimento estero di 
adozione 
piena 
che 
attribuisce 
la 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


genitorialità 
ad una 
coppia 
omogenitoriale 
maschile 
con i 
principi 
di 
ordine 
pubblico internazionale. 


19. l'esame 
dei 
più recenti 
interventi 
della 
giurisprudenza 
costituzionale 
e 
di 
legittimità 
non 
consente, in conclusione, d'introdurre 
tra 
i 
principi 
di 
ordine 
pubblico internazionale 
che 
possono 
costituire 
il 
limite 
al 
riconoscimento dell'atto estero che 
forma 
oggetto del 
presente 
giudizio, 
le 
condizioni 
di 
accesso 
alla 
genitorialità 
adottiva 
legittimante 
contenute 
nell'art. 
6 
della 
l. n. 184 del 
1983 e 
dall'art. 1 c. 20 l. n. 76 del 
2016. i divieti 
all'accesso alle 
p.m.a., anch'essi, 
come 
osservato nei 
paragrafi 
immediatamente 
precedenti, non riconducibili 
ai 
principi 
di 
ordine 
pubblico internazionale, sono anche 
estranei 
al 
riconoscimento della 
genitorialità 
esclusivamente 
adottiva 
oggetto 
del 
presente 
giudizio. 
nell'ordinamento 
coesistono 
principi 
di 
derivazione 
costituzionale 
e 
convenzionale 
che 
si 
pongono rispetto ad essi 
in una 
condizione 
di 
netta 
sovraordinazione 
e 
preminenza 
sia 
per 
la 
loro 
collocazione 
tra 
i 
diritti 
inviolabili 
della 
persona sia per il grado di condivisione che ne costituisce un tratto peculiare. 
19.1 in primo luogo, come 
già 
rilevato, il 
principio del 
preminente 
interesse 
del 
minore 
nelle 
determinazioni 
che 
incidono 
sul 
suo 
diritto 
all'identità, 
alla 
stabilità 
affettiva, 
relazionale 
e 
familiare, 
contenuto 
nell'art. 
24 
della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
della 
Unione 
europea, 
nel-
l'art. 
3 
della 
Convenzione 
di 
new 
York 
sui 
diritti 
del 
fanciullo 
e 
divenuto 
parte 
integrante 
della 
costruzione 
del 
diritto 
alla 
vita 
privata 
e 
familiare 
ad 
opera 
della 
Corte 
europea 
dei 
diritti 
umani 
oltre 
che 
fondamento della 
riforma 
della 
l. n. 184 del 
1983 ad opera 
della 
l. n. 149 del 
2001 e 
della 
recente 
legge 
sulla 
continuità 
affettiva 
(n. 173 del 
2015) nonché 
di 
tutta 
la 
disciplina 
legislativa 
relativa 
alla 
responsabilità 
genitoriale, 
ed 
agli 
status 
filiationis 
(anche 
secondo 
la 
citata 
sentenza 
n. 
272 
del 
2017 
della 
Corte 
Costituzionale) 
essendo 
una 
delle 
estrinsecazioni 
più rilevanti dell'art. 2 Cost. 
19.2 in secondo luogo il 
principio della 
parità 
di 
trattamento tra 
tutti 
i 
figli, nati 
all'interno e 
fuori 
del 
matrimonio o adottivi, che 
trova 
la 
sua 
fonte 
costituzionale 
negli 
artt. 3 e 
31 Cost. e 
che 
è 
stato inverato dalla 
recente 
riforma 
della 
filiazione 
(l.n. 219 del 
2012; 
d.lgs 
n. 154 del 
2013). 
Al 
riguardo, 
proprio 
in 
relazione 
alla 
filiazione 
adottiva, 
attualmente 
ripartita 
tra 
l'adozione 
legittimante 
e 
quella 
in casi 
particolare, deve 
essere 
rimarcata 
l'innovazione 
relativa 
all'art. 
74 c.c. che 
ha 
reso unico, senza 
distinzioni, il 
vincolo di 
parentela 
che 
scaturisce 
dagli 
status 
filiali, con la 
sola 
eccezione 
dell'adozione 
dei 
maggiorenni, così 
da 
ingenerare 
perplessità 
in 
dottrina 
sulla 
compatibilità 
costituzionale 
della 
conservazione 
di 
un 
regime 
differenziato 
nei diversi modelli di genitorialità adottiva nel nostro ordinamento. 
19.3 il 
panorama 
dei 
principi 
intangibili 
in tema 
di 
tutela 
degli 
status 
filiali, fortemente 
caratterizzato 
dall'obiettivo di 
non creare 
discriminazioni 
nel 
regime 
giuridico di 
tutela 
dei 
minori 
si 
completa 
con la 
considerazione 
che 
il 
quadro attuale 
della 
genitorialità 
sociale 
è 
più composito 
di 
come 
rappresentato 
dalla 
parte 
ricorrente. 
oltre 
alla 
espressa 
estensione 
alle 
persone 
singole 
della 
adozione 
in casi 
particolari, deve 
rilevarsi 
che 
la 
giurisprudenza 
costituzionale 
(Corte 
Cost. n. 183 del 
1994) e 
la 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
(Cass. 6078 del 
2006; 
3572 
del 
2011) che 
si 
sono trovate 
fin dagli 
anni 
90 a 
confrontarsi 
con le 
richieste 
di 
costituzione 
di 
status 
genitoriali 
adottivi 
da 
parte 
di 
soggetti 
diversi 
dalle 
coppie 
coniugate 
eterosessuali, 
hanno 
unanimemente 
riconosciuto 
l'esigenza 
di 
ampliare 
le 
condizioni 
di 
accesso 
all'adozione 
legittimante 
ed hanno sollecitato il 
legislatore 
al 
riguardo, ritenendo che 
ciò corrispondesse 
non solo ad una 
sensibilità 
condivisa 
ma 
anche 
alle 
indicazioni 
della 
Convenzione 
sulle 
adozioni 
firmata 
a 
Strasburgo il 
24/4/1967 che 
impone 
di 
trovare 
per il 
minore 
un "foyer 
stable 
et 
harmonieux". 
infine, 
in 
tempi 
più 
recenti 
in 
relazione 
alle 
istanze 
delle 
coppie 
omoaffettive 
rivolte 
alla 
realizzazione 
della 
genitorialità 
all'interno di 
un nucleo relazionale 
stabile 
e 
pre

ConTenzioSo 
nAzionAle 


valentemente 
sostenuto 
da 
un 
riconoscimento 
giuridico 
in 
italia 
od 
all'estero 
è 
stata 
individuata 
proprio nel 
modello adottivo indicato nell'art. 44, lettera 
d) l. n. 184 del 
1983 la 
forma 
di 
riconoscimento 
minimo e 
residuale 
anche 
per i 
minori 
venuti 
al 
mondo all'esito di 
un accordo 
di 
surrogazione 
di 
maternità 
(Cass. S.U. 12193 del 
2019, per la 
"residualità" 
di 
questo specifico 
modello adottivo, Corte 
Cost. 383 del 
1999). Alla 
forte 
promozione 
della 
giurisprudenza 
costituzionale, sovranazionale 
e 
di 
legittimità 
di 
un regime 
giuridico interno di 
accesso alla 
genitorialità 
sociale 
meno restrittivo e 
più vicino alla 
evoluzione 
condivisa 
dei 
modelli 
relazionali 
e 
filiali 
si 
collega 
indissolubilmente 
il 
superamento, sotto il 
profilo dei 
principi 
di 
ordine 
pubblico internazionale, della 
limitazione 
alla 
coppia 
eterosessuale 
unita 
in matrimonio 
dell'accesso 
all'adozione 
legittimante 
stabilita 
nell'art. 
6. 
Al 
riguardo 
non 
può 
condividersi 
quanto affermato nel 
ricorso e 
nella 
requisitoria 
del 
P.G. in relazione 
all'inclusione 
dell'art. 
29 Cost. tra 
i 
parametri 
costituzionali 
dai 
quali 
desumere 
il 
limite 
di 
ordine 
pubblico internazionale 
applicabile 
alla 
fattispecie, 
in 
collegamento 
con 
l'art. 
6 
legge 
n. 
184 
del 
1983 
e 
dall'art. 
1, comma 
20 l. n. 76 del 
2016. l'unione 
matrimoniale 
così 
come 
prevista 
nell'art. 29 Cost. 
costituisce 
il 
modello 
di 
relazione 
familiare 
fornito, 
allo 
stato 
attuale 
della 
regolazione 
interna, 
del 
massimo grado di 
tutela 
giuridica 
ma 
in relazione 
agli 
status 
genitoriali 
non costituisce 
più, soprattutto dopo la 
riforma 
della 
filiazione, il 
modello unico o quello ritenuto esclusivamente 
adeguato 
per 
la 
nascita 
e 
la 
crescita 
dei 
figli 
minori 
e 
conseguentemente 
deve 
escludersi 
che 
possa 
essere 
ritenuto un limite 
al 
riconoscimento degli 
effetti 
di 
un atto che 
attribuisce 
la 
genitorialità 
adottiva 
ad 
una 
coppia 
omoaffettiva, 
peraltro 
unita 
in 
matrimonio 
negli 
Stati 
Uniti, tanto più che 
in relazione 
alla 
genitorialità 
sociale 
l'imitatio naturae 
manca 
ab origine 
ed 
è 
ampiamente 
compensata 
dalle 
ragioni 
solidaristiche 
dell'istituto 
e, 
con 
riferimento 
al 
minore, 
dalla 
realizzazione, da 
assoggettarsi 
a 
verifica 
giurisdizionale, del 
processo di 
sviluppo 
personale e relazionale più adeguato alla sua crescita. 


19.4 non può pertanto essere accolto il quarto motivo di ricorso, alla luce del seguente principio 
di 
diritto: 
'Non contrasta con i 
principi 
di 
ordine 
pubblico internazionale 
il 
riconoscimento 
degli 
effetti 
di 
un 
provvedimento 
giurisdizionale 
straniero 
di 
adozione 
di 
minore 
da 
parte 
di 
coppia 
omoaffettiva 
maschile 
che 
attribuisca 
lo 
status 
genitoriale 
secondo 
il 
modello 
dell'adozione 
piena o legittimante, non costituendo elemento ostativo il 
fatto che 
il 
nucleo familiare 
del 
figlio minore 
adottivo sia omogenitoriale 
ove 
sia esclusa la preesistenza di 
un accordo 
di surrogazione di maternità a fondamento della filiazione". 
20. 
rimane, 
tuttavia, 
da 
esaminare, 
la 
seconda 
questione 
di 
massima 
di 
particolare 
importanza 
sollevata, 
tuttavia, 
esclusivamente 
nell'ordinanza 
interlocutoria 
e 
non 
prospettata 
o 
riproposta 
né 
dal 
ricorrente 
né 
dal 
Procuratore 
Generale. Si 
evidenzia, al 
riguardo che 
l'adozione 
estera 
è 
stata 
pronunciata 
dopo aver acquisito il 
consenso dei 
genitori 
biologici 
e 
dunque 
si 
ritiene 
di 
dover 
verificare 
se 
la 
valutazione 
estera 
posta 
a 
base 
dell'adottabilità 
del 
minore 
debba 
comporre lo scrutinio di compatibilità con i principi di ordine pubblico internazionale. 
20.1 
Preliminarmente, 
in 
fatto, 
deve 
osservarsi 
che 
il 
provvedimento 
di 
adozione 
estero 
di 
cui 
si 
chiede 
il 
riconoscimento come 
precisato nel 
par. 15.1 non si 
è 
fondato solo sul 
consenso 
dei 
genitori 
biologici 
ma 
anche 
sugli 
esiti 
di 
un'indagine 
relativa 
all'idoneità 
della 
coppia 
adottante. 
Ciò significa 
che 
il 
controllo giurisdizionale 
non si 
è 
limitato al 
riscontro del 
consenso 
dei 
genitori 
del 
minore 
ma 
ha 
avuto carattere 
complessivo, investendo tutte 
le 
parti 
del 
giudizio. 
20.2 ritiene 
il 
Collegio che 
non possa 
escludersi 
in astratto la 
comparazione 
delle 
condizioni 
di 
adottabilità 
poste 
a 
base 
del 
provvedimento estero di 
cui 
si 
chiede 
il 
riconoscimento con i 
principi 
di 
ordine 
pubblico 
internazionale. 
ove 
venga 
allegato 
dalle 
parti 
ed 
emerga 
con 
obiet

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


tività 
probatoria 
che 
la 
determinazione 
di 
privarsi 
del 
figlio minore 
da 
parte 
dei 
genitori 
biologici 
derivi 
da 
un intervento di 
carattere 
oneroso degli 
adottanti, o il 
consenso prestato sia 
la 
conseguenza 
di 
un accordo vietato e 
sanzionato penalmente 
nel 
nostro diritto interno perché 
incidente 
sui 
diritti 
inviolabili 
della 
persona, come 
l'accordo di 
surrogazione 
di 
minore, alla 
valutazione 
degli 
effetti 
"formali" 
dell'atto, (la 
costituzione 
di 
status 
genitoriale 
adottivo, che 
pure 
incontra 
il 
favor 
legislativo 
interno 
per 
la 
genitorialità 
sociale) 
deve 
collegarsi 
quella 
sulle 
modalità 
di 
produzione 
degli 
effetti 
predetti. Ugualmente 
ove 
sia 
stata 
dedotta 
e 
venga 
accertata 
la 
violazione 
delle 
condizioni 
previste 
dalla 
legge 
estera 
per 
l'accesso 
al 
modello 
genitoriale 
richiesto (secondo le 
indicazioni 
dalla 
sentenza 
della 
Grand Chambre 
CedU, 24 
gennaio 
2017, 
caso 
Paradiso-Campanelli). 
Ma, 
deve 
rilevarsi, 
che 
nel 
presente 
giudizio 
nessun 
rilievo hanno dato le 
parti 
né 
nel 
merito né 
nella 
prospettazione 
delle 
censure 
del 
presente 
ricorso 
alla 
valutazione 
di 
adottabilità, così 
da 
doverne 
escludere 
il 
concreto esame 
non potendosi 
confondere 
il 
limite 
costituito 
dall'ordine 
pubblico 
internazionale 
con 
la 
regolamentazione 
giuridica 
interna 
dell'adozione 
legittimante. Proprio in relazione 
a 
quest'ultimo profilo deve 
rilevarsi 
che 
la 
giurisprudenza 
costituzionale 
e 
di 
legittimità 
hanno 
univocamente 
escluso 
che 
il 
fondamento consensuale 
di 
procedimenti 
adottivi 
esteri 
fosse 
da 
ritenere 
incompatibile 
con 
i 
principi 
di 
ordine 
pubblico. Si 
tratta 
di 
orientamenti 
che 
si 
sono sviluppati 
prima 
della 
regolamentazione 
giuridica 
convenzionale 
ed 
interna 
dell'adozione 
internazionale 
e 
che 
riguardano 
l'adozione 
di 
minori 
stranieri 
da 
parte 
di 
cittadini 
italiani. Si 
tratta, pertanto, di 
fattispecie 
diverse 
rispetto a 
quella 
oggetto del 
presente 
giudizio, perché 
assoggettabili 
a 
controlli 
più incisivi 
e 
alla 
competenza 
del 
Tribunale 
per 
i 
minorenni 
ma, 
anche 
per 
questa 
ragione, 
estremamente istruttive in relazione alla valutazione del profilo della consensualità. 


20.3 la 
Corte 
Costituzionale 
con la 
sentenza 
n. 536 del 
1989, relativa 
a 
procedimenti 
volti 
a 
dichiarare 
l'efficacia 
di 
sentenze 
estere 
di 
adozione 
di 
minori 
fondate 
sul 
consenso espresso 
dai 
genitori 
biologici 
davanti 
ad un notaio e 
successivamente 
omologate 
dall'autorità 
giudiziaria, 
ha 
affermato 
che 
il 
modello 
consensuale 
non 
è 
in 
contrasto 
con 
i 
principi 
ispiratori 
della 
l. n. 184 del 
1983, non soltanto perché 
espressamente 
previsto nel 
nostro ordinamento 
per alcune 
fattispecie 
di 
adozione 
in casi 
particolari 
quanto per la 
"latitudine 
della formula 
usata nell'art. 31 (l. n. 218 del 
1995 n.d.r.) 
per 
definire 
i 
provvedimenti 
stranieri 
a contenuto 
adottivo suscettibili 
di 
considerazione 
ai 
fini 
della declaratoria di 
efficacia in italia" 
( ... ) 
adozione, 
affidamento 
preadottivo, 
altro 
provvedimento 
in 
materia 
di 
tutela 
e 
degli 
altri 
istituti 
di 
protezione 
dei 
minori". 
la 
Corte 
ritiene 
che 
quando si 
possa 
riscontrare 
il 
"rispetto d'irrinunziabili 
garanzie" 
e 
"in 
presenza 
di 
provvedimenti 
a 
contenuto 
effettivamente 
adottivo" 
nel-
l'adozione 
del 
modello 
consensuale 
che 
in 
via 
esclusiva, 
o 
in 
alternativa 
all'adozione 
legittimante 
è 
senz'altro molto diffuso nei 
paesi 
extraeuropei 
ed in molti 
paesi 
europei 
(secondo 
quanto riferito nella 
sentenza) non si 
ravvisa 
un'aprioristica 
contrarietà 
ai 
principi 
fondamentali 
dell'ordinamento, 
dovendosi 
concentrare 
il 
controllo 
giurisdizionale 
sul 
provvedimento con il 
quale 
la 
procedura 
adottiva 
si 
chiude. Sono escluse, ai 
fini 
adottivi, le 
convenzioni 
meramente 
private, 
anche 
se 
recepite 
in 
atto 
notarile, 
ma 
la 
previsione 
normativa 
(ed il 
controllo giurisdizionale 
successivo) dell'effetto della 
recisione 
del 
rapporto con i 
genitori 
biologici 
per effetto della 
libera 
prestazione 
del 
consenso non è 
contrario ai 
principi 
di 
ordine pubblico. 
di 
estremo rilievo anche 
in relazione 
al 
provvedimento estero oggetto del 
presente 
giudizio 
sono le 
considerazioni 
finali 
contenute 
nella 
sentenza 
della 
Corte 
Costituzionale: 
"È 
ben vero 
che 
l'adozione 
consensuale 
può in concreto mascherare 
illecite 
cessioni 
(...) ma la constatazione 
dell'esistenza 
di 
questo 
fenomeno 
(...) 
non 
può 
condurre 
questa 
Corte 
a 
ritenere 
fondata 

ConTenzioSo 
nAzionAle 


una questione 
che 
poggia su generalizzazioni 
indimostrate". 
la 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
coeva 
aveva 
manifestato il 
medesimo orientamento. il 
consenso dei 
genitori 
biologici 
all'allontanamento 
in via 
definitiva 
del 
minore 
che 
garantisca 
al 
minore 
di 
acquisire 
una 
nuova 
famiglia 
idonea, ove 
verificato da 
autorità 
giurisdizionale, non è 
ostativo al 
riconoscimento di 
provvedimenti 
di 
adozione 
esteri 
(Cass. 
n. 
3904 
del 
1986; 
n. 
8506 
del 
1987; 
n. 
9912 
del 
1991). 


20.5 
l'esame 
del 
provvedimento 
giurisdizionale, 
alla 
luce 
delle 
deduzioni 
ed 
allegazioni 
delle 
parti, porta 
ad escludere 
il 
rilievo della 
condizione 
di 
adottabilità, sulla 
valutazione 
di 
compatibilità 
del 
provvedimento estero dedotto nel 
presente 
giudizio con i 
principi 
di 
ordine 
pubblico 
internazionale. 
21. in conclusione 
il 
ricorso deve 
essere 
rigettato con compensazione 
delle 
spese 
processuali 
del presente giudizio, attesa la novità delle questioni esaminate. 
P.Q.M. 
rigetta il ricorso. Compensa le spese processuali del presente giudizio. 
in caso di 
diffusione 
devono essere 
omesse 
le 
generalità 
delle 
parti 
e 
i 
riferimenti 
geografici. 
Così deciso nella camera di consiglio del 12 gennaio 2021. 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


L’applicabilità ai giudizi di incandidabilità ex art. 143, 
comma 11, t.u.e.l. della normativa emergenziale in tema di 
sospensione dei termini (art. 83, comma 2, D.L. 8/2020). 
La ratio della misura interdittiva 


ANNotAzioNe 
A 
CAssAzioNe, sezioNe 
i CiviLe, ordiNANzA 
5 febbrAio 
2021 N. 2749 
(*) 


l’ordinanza 
della 
Corte 
di 
cassazione 
ha 
ritenuto applicabile 
ai 
procedimenti 
di 
incandidabilità 
a 
seguito di 
scioglimento di 
consigli 
comunali 
per infiltrazione 
mafiosa 
la 
sospensione 
dei 
termini 
di 
cui 
«[al]l'art. 83, comma 
2, 


d.l. 
18/2020, 
convertito 
con 
modificazioni 
dalla 
legge 
27/2020, 
che, 
come 
noto, 
ha 
disposto 
che 
"dal 
9 
marzo 
2020 
al 
15 
aprile 
2020 
è 
sospeso 
il 
decorso 
dei 
termini 
per 
il 
compimento 
di 
qualsiasi 
atto 
dei 
procedimenti 
civili 
e 
penali", 
dovendosi 
ritenere 
sospesi, fra 
l'altro, i 
termini 
stabiliti 
"per le 
impugnazioni 
e, in genere, tutti 
i 
termini 
procedurali". il 
termine 
finale 
così 
fissato è 
stato 
poi 
prorogato -dall'art. 36, comma 
1, d.l. 23/2020, convertito con modificazioni 
dalla 
l. 
40/2020 
-all'11 
maggio 
2020, 
sicché 
i 
termini 
processuali 
di 
tutti 
i 
procedimenti 
civili 
risultano sospesi 
dal 
9 marzo 2020 all'11 maggio 2020 e 
hanno 
ripreso 
a 
decorrere 
dalla 
fine 
del 
periodo 
di 
sospensione, 
vale 
a 
dire 
dal 
12 maggio 2020». 
la 
Corte 
di 
cassazione 
ha 
affermato 
che 
«non 
è 
poi 
possibile 
ritenere 
che 
questa 
sospensione 
non operi 
nel 
caso di 
specie 
in ragione 
del 
ricorrere 
delle 
eccezioni 
previste 
rispetto 
alla 
regola 
generale 
(eccezioni 
che, 
per 
loro 
natura, 
devono giocoforza essere oggetto di una lettura restrittiva). 


non ricorre 
l'ipotesi 
prevista 
dal 
3o 
comma 
dell'art. 83 d.l. 18/2020, che 
esclude 
dall'ambito applicativo della 
norma 
i 
"procedimenti 
cautelari 
aventi 
ad oggetto la tutela di diritti fondamentali della persona". 

in 
vero, 
se 
per 
procedimenti 
cautelari 
si 
devono 
intendere 
quei 
procedimenti, 
tipici 
o 
atipici, 
che 
siano 
funzionali 
ad 
ovviare 
ai 
pericoli 
che 
possono 
compromettere 
l'effettività 
della 
tutela 
giudiziaria 
durante 
il 
tempo 
occorrente 
per 
conseguirla, 
è 
evidente 
che 
il 
giudizio 
in 
questione, 
ancorché 
regolato 
dalla 
disciplina 
camerale, 
non 
ha 
natura 
cautelare, 
perché 
non 
è 
volto 
ad 
assicurare 
una 
tutela 
d'urgenza 
e 
anticipata 
strumentale 
a 
un 
successivo 
giudizio 
di 
cognizione. 


Per 
di 
più, 
il 
giudizio 
di 
incandidabilità 
non 
tutela 
un 
diritto 
fondamentale 
della 
persona 
ma 
intende 
assicurare 
(...) 
in 
una 
prospettiva 
generale 
e 
pubblica 
piuttosto 
che 
individuale, 
l'interesse 
della 
comunità 
locale 
a 
che 
non 
si 
perpetui 
potenzialmente 
un'ingerenza 
inquinante 
di 
tipo mafioso nella 
vita 
delle 
amministrazioni 
democratiche locali. 


né 
si 
può 
sostenere 
che 
il 
procedimento 
rimanesse 
escluso 
dall'ambito 
della 


(*) 
Annotazione 
avv. 
Stato 
Wally 
Ferrante 
affidataria 
della 
causa; 
all’esito 
favorevole 
del 
giudizio 
hanno 
inoltre contribuito l’avv. Stato Tito Varrone e l’avv. Stato Alfonso Mezzotero. 



ConTenzioSo 
nAzionAle 


sospensione 
in 
ragione 
del 
grave 
pregiudizio 
arrecato 
alle 
parti 
dalla 
ritardata 
trattazione 
della 
lite, 
a 
mente 
dell'ultima 
parte 
dell'art. 
83, 
comma 
3, 
lett. 
a), 
d.l. 
18/2020, 
perché 
la 
norma 
non 
prevede 
rispetto 
a 
questa 
ipotesi 
un'automatica 
esenzione 
dalla 
disciplina 
generale 
di 
sospensione 
dei 
termini, 
ma 
impone 
che 
l'esistenza 
di 
un 
simile 
pregiudizio 
sia 
verificato 
rispetto 
alla 
singola 
fattispecie 
ed 
espressamente 
dichiarato 
(dal 
capo 
dell'ufficio 
avanti 
al 
quale 
la 
causa 
deve 
essere 
introdotta 
ovvero 
dal 
giudice 
dinnanzi 
al 
quale 
la 
lite 
già 
pende). 


nel 
caso di 
specie 
non risulta 
che 
questa 
dichiarazione 
d'urgenza 
sia 
mai 
stata fatta. 


infine, nessun argomento può essere 
tratto a 
conforto della 
tesi 
sostenuta 
dal 
controricorrente 
dalla 
disciplina 
generale 
di 
sospensione 
feriale 
dei 
termini 
processuali, ai 
sensi 
del 
combinato disposto degli 
artt. 3 1. 742/1969 e 
92 r.d. 
12/1941» che 
la 
Corte 
di 
cassazione 
ha 
ritenuto comunque 
applicabile 
al 
giudizio 
in questione 
sebbene 
nel 
principio di 
diritto, per un evidente 
errore 
materiale 
(con un non di troppo) sia stato affermato il contrario. 


nel 
merito, 
la 
Corte 
di 
cassazione 
ha 
accolto 
il 
ricorso 
del 
Ministero 
(analoghi 
ricorsi, 
spesso, 
sono 
stati 
dichiarati 
inammissibili 
nella 
parte 
in 
cui 
la 
violazione 
di 
legge 
trasmoda 
in 
una 
censura 
della 
valutazione 
in 
fatto 
compiuta 
nei 
gradi 
di 
merito in ordine 
alla 
sintomaticità 
delle 
condotte 
commissive 
od 
omissive 
degli 
amministratori 
dalle 
quali 
è 
conseguito 
lo 
scioglimento 
del 
consiglio 
comunale) affermando il 
seguente 
principio di 
diritto: 
«in tema 
di 
accertamento 
dell'incandidabilità 
a 
cariche 
pubbliche 
negli 
enti 
locali, nel 
caso 
in cui, alla 
luce 
di 
una 
visione 
d'insieme 
della 
congerie 
istruttoria 
disponibile, 
risulti 
che 
l'amministratore, 
anche 
solo 
per 
colpa, 
sia 
venuto 
meno 
agli 
obblighi 
di 
vigilanza, indirizzo e 
controllo previsti 
dagli 
artt. 50, comma 
2, 54, comma 
1, lett. c), e 
107, comma 
1, T.U.e.l., tale 
condotta 
deve 
considerarsi 
di 
per sé 
sufficiente 
a 
integrare 
i 
presupposti 
per 
l'applicazione 
della 
misura 
interdittiva 
prevista 
dall'art. 143, comma 
11, d.lgs. 267/2000, così 
come 
risultante 
dalla 
sostituzione 
operata 
dall'art. 2, comma 
30, l. 94/2009, dato che 
la 
finalità 
perseguita 
dalla 
norma 
è 
proprio quella 
di 
evitare 
il 
rischio che 
quanti 
abbiano 
cagionato 
il 
grave 
dissesto 
dell'amministrazione 
comunale, 
rendendo 
possibili 
ingerenze 
al 
suo interno delle 
associazioni 
criminali, possano aspirare 
a 
ricoprire 
cariche 
identiche 
o simili 
a 
quelle 
già 
rivestite 
e, in tal 
modo, potenzialmente 
perpetuare 
l'ingerenza 
inquinante 
nella 
vita 
delle 
amministrazioni 
democratiche locali». 


Wally Ferrante 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


Cassazione, 
Sezione 
Prima 
civile, 
ordinanza 
5 
febbraio 
2021 
n. 
2749 
-Pres. 
F.A. 
Genovese, 
rel. 
A. 
Pazzi 
-Ministero 
dell’interno 
(avv. 
gen. 
Stato) 
c. 
oMiSSiS 
(avv.ti 
F. 
zaccaria, 
C. 
Argese). 


FATTi di CAUSA 


1. il 
Tribunale 
di 
Crotone, con decreto n. 1243/2019, accoglieva 
la 
richiesta 
presentata 
dal 
Ministro 
dell'interno 
ai 
sensi 
dell'art. 
143, 
comma 
11, 
d.lgs. 
267/2000 
e 
dichiarava, 
fra 
gli 
altri, d.V., già 
sindaco del 
Comune 
di 
oMiSSiS, non candidabile 
alle 
prime 
elezioni 
regionali, 
provinciali, comunali 
e 
circoscrizionali 
successive 
al 
decreto del 
Presidente 
della 
repubblica 
dissolutivo del consiglio comunale della medesima amministrazione municipale. 
2. 
la 
Corte 
d'appello 
di 
Catanzaro, 
a 
seguito 
del 
reclamo 
presentato 
da 
oMiSSiS, 
dato 
atto 
che 
la 
propria 
indagine 
era 
volta 
a 
verificare, 
con 
riguardo 
all'operato 
del 
solo 
amministratore 
coinvolto, 
se 
collusioni 
e 
condizionamenti 
avessero 
determinato 
una 
cattiva 
gestione 
della 
cosa 
pubblica, 
riteneva 
che 
dalla 
documentazione 
prodotta 
non 
fosse 
possibile 
evincere 
né 
un 
chiaro 
collegamento 
tra 
l'operato 
dell'ex 
amministratore 
sul 
piano 
amministrativo 
e 
l'azione 
delle 
consorterie 
criminose, 
né 
un 
asservimento 
del 
medesimo 
alle 
volontà 
e 
agli 
interessi 
delle 
cosche 
locali, 
né 
una 
frequentazione 
del 
oMiSSiS 
con 
esponenti 
di 
spicco 
delle 
consorterie 
locali. 
la 
Corte 
di 
merito, 
con 
sentenza 
pubblicata 
in 
data 
6 
dicembre 
2019, 
accoglieva 
pertanto 
l'impugnazione 
e 
per 
l'effetto 
revocava 
la 
declaratoria 
di 
incandidabilità 
disposta 
nei 
confronti 
di 
oMiSSiS. 
3. Per la 
cassazione 
di 
questa 
sentenza 
ha 
proposto ricorso il 
Ministero dell'interno, prospettando 
un unico motivo di doglianza, al quale ha resistito con controricorso oMiSSiS. 
l'amministrazione 
ricorrente 
ha 
depositato memoria 
ai 
sensi 
dell'art. 380 bis.1 cod. proc. civ. 
Parte 
controricorrente 
ha 
a 
sua 
volta 
depositato memoria, senza 
però rispettare 
i 
termini 
previsti 
dalla norma appena citata. 
rAGioni dellA deCiSione 


4. 
occorre 
preliminarmente 
rilevare 
l'infondatezza 
dell'eccezione 
di 
inammissibilità 
del 
ricorso, 
per tardività della notifica, sollevata dal controricorrente. 
in tesi 
di 
parte 
controricorrente 
non troverebbe 
applicazione 
alla 
fattispecie 
in esame 
la 
sospensione 
straordinaria 
dei 
termini 
processuali 
disposta 
dall'art. 
83 
d.l. 
18/2020, 
poiché 
la 
stessa 
non 
opera 
nell'ipotesi 
di 
procedimenti 
cautelari 
aventi 
ad 
oggetto 
la 
tutela 
di 
diritti 
fondamentali 
della persona. 
A 
riprova 
del 
carattere 
d'urgenza 
che 
rivestirebbe 
questo 
procedimento 
militerebbe 
-aggiunge 
il 
controricorrente 
-"l'esclusione 
dell'operatività 
persino 
della 
sospensione 
feriale 
dei 
termini 
per il giudizi 
de quibus". 
Siffatti assunti non sono condivisibili. 
l'art. 
83, 
comma 
2, 
d.l. 
18/2020, 
convertito 
con 
modificazioni 
dalla 
legge 
27/2020, 
ha 
disposto 
che 
"dal 
9 marzo 2020 al 
15 aprile 
2020 è 
sospeso il 
decorso dei 
termini 
per 
il 
compimento 
di 
qualsiasi 
atto dei 
procedimenti 
civili 
e 
penali", dovendosi 
ritenere 
sospesi, fra 
l'altro, i 
termini 
stabiliti "per le impugnazioni e, in genere, tutti i termini procedurali". 
il 
termine 
finale 
così 
fissato è 
stato poi 
prorogato -dall'art. 36, comma 
1, d.l. 23/2020, convertito 
con modificazioni 
dalla 
l. 40/2020 -all’11 maggio 2020, sicché 
i 
termini 
processuali 
di 
tutti 
i 
procedimenti 
civili 
risultano sospesi 
dal 
9 marzo 2020 all'11 maggio 2020 e 
hanno 
ripreso a decorrere dalla fine del periodo di sospensione, vale a dire dal 12 maggio 2020. 
non è 
poi 
possibile 
ritenere 
che 
questa 
sospensione 
non operi 
nel 
caso di 
specie 
in ragione 
del 
ricorrere 
delle 
eccezioni 
previste 
rispetto alla 
regola 
generale 
(eccezioni 
che, per loro natura, 
devono giocoforza essere oggetto di una lettura restrittiva). 

ConTenzioSo 
nAzionAle 


non ricorre 
l'ipotesi 
prevista 
dal 
3o 
comma 
dell'art. 83 d.l. 18/2020, che 
esclude 
dall'ambito 
applicativo della 
norma 
i 
"procedimenti 
cautelari 
aventi 
ad oggetto la tutela di 
diritti 
fondamentali 
della persona". 
in vero, se 
per procedimenti 
cautelari 
si 
devono intendere 
quei 
procedimenti, tipici 
o atipici, 
che 
siano 
funzionali 
ad 
ovviare 
ai 
pericoli 
che 
possono 
compromettere 
l'effettività 
della 
tutela 
giudiziaria 
durante 
il 
tempo 
occorrente 
per 
conseguirla, 
è 
evidente 
che 
il 
giudizio 
in 
questione, 
ancorché 
regolato dalla 
disciplina 
camerale, non ha 
natura 
cautelare, perché 
non è 
volto ad 
assicurare 
una 
tutela 
d'urgenza 
e 
anticipata 
strumentale 
a 
un 
successivo 
giudizio 
di 
cognizione. 
Per dì 
più, il 
giudizio di 
incandidabilità 
non tutela 
un diritto fondamentale 
della 
persona 
ma 
intende 
assicurare 
-come 
si 
dirà 
da 
qui 
a 
breve 
-in una 
prospettiva 
generale 
e 
pubblica 
piuttosto 
che 
individuale, l'interesse 
della 
comunità 
locale 
a 
che 
non si 
perpetui 
potenzialmente 
un'ingerenza 
inquinante 
di 
tipo mafioso nella 
vita 
delle 
amministrazioni 
democratiche 
locali. 
né 
si 
può sostenere 
che 
il 
procedimento rimanesse 
escluso dall'ambito della 
sospensione 
in 
ragione 
del 
grave 
pregiudizio arrecato alle 
parti 
dalla 
ritardata 
trattazione 
della 
lite, a 
mente 
dell'ultima 
parte 
dell'art. 83, comma 
3, lett. a), d.l. 18/2020, perché 
la 
norma 
non prevede 
rispetto 
a 
questa 
ipotesi 
un'automatica 
esenzione 
dalla 
disciplina 
generale 
di 
sospensione 
dei 
termini, ma 
impone 
che 
l'esistenza 
di 
un simile 
pregiudizio sia 
verificato rispetto alla 
singola 
fattispecie 
ed espressamente 
dichiarato (dal 
capo dell'ufficio avanti 
al 
quale 
la 
causa 
deve 
essere 
introdotta ovvero dal giudice dinnanzi al quale la lite già pende). 
nel caso di specie non risulta che questa dichiarazione d'urgenza sia mai stata fatta. 
infine, nessun argomento può essere 
tratto a 
conforto della 
tesi 
sostenuta 
dal 
controricorrente 
dalla 
disciplina 
generale 
di 
sospensione 
feriale 
dei 
termini 
processuali, 
ai 
sensi 
del 
combinato 
disposto degli artt. 3 1.742/1969 e 92 r.d. 12/1941. 
il 
procedimento volto alla 
dichiarazione 
di 
incandibabilità 
degli 
amministratori 
responsabili 
delle 
condotte 
che 
hanno dato causa 
allo scioglimento del 
consiglio comunale 
o provinciale 
è 
regolato, a 
mente 
dell'art. 143, comma 
11, ultimo periodo, d.lgs. 267/2001, dalle 
regole 
dei 
procedimenti camerali. 
Questi 
procedimenti, 
tuttavia, 
non 
hanno 
natura 
cautelare, 
mancando 
del 
carattere 
di 
strumentalità 
che 
caratterizza 
questo tipo di 
giudizi, né 
rientrano nel 
loro complesso nel 
novero delle 
cause 
tassativamente 
elencate 
dalle 
norme 
sopra 
menzionate 
(v. 
Cass. 
1094/2005, 
Cass. 
2772/1999), sicché 
va 
escluso che 
gli 
stessi, in mancanza 
di 
una 
specifica 
e 
individualizzata 
dichiarazione 
di 
urgenza 
correlata 
alla 
constatazione 
del 
grave 
pregiudizio 
che 
si 
produrrebbe 
per 
la 
loro 
ritardata 
trattazione, 
rientrino 
nell'ambito 
dei 
procedimenti 
non 
ricompresi, 
in 
linea 
generale, nell'applicazione della disciplina comune della sospensione dei termini. 
Sul punto occorre pertanto fissare i seguenti principi: 


-il 
procedimento volto alla 
dichiarazione 
di 
incandibabilità 
degli 
amministratori 
responsabili 
delle 
condotte 
che hanno dato causa 
allo scioglimento del 
consiglio comunale o provinciale, 
di 
cui 
all'art. 
143, 
comma 
11, 
ultimo 
periodo, 
d.lgs. 
267/2001, 
non 
è 
soggetto 
alla 
sospensione 
feriale 
dei 
termini 
prevista 
dagli 
artt. 3 l. 742/1969 e 
92 r.d. 12/1941, poiché 
queste 
norme 
non contemplano, nella 
loro tassativa 
elencazione, tale 
procedimento né, in linea 
generale, i 
procedimenti in camera di consiglio di cui agli artt. 737 e ss. cod. proc. civ.; 
-la 
sospensione 
dei 
termini 
"procedurali" 
stabilita, dal 
9 marzo 2020 all'11 maggio 2020, dal 
combinato disposto degli 
artt. 83, comma 
2, d.l. 18/2020, convertito con modificazioni 
dalla 
legge 
27/2020, e 
36, comma 
1, d.l. 23/2020, convertito con modificazioni 
dalla 
l. 40/2020, 
non si 
applica 
ai 
giudizi 
di 
incandidabilità 
di 
cui 
all'art. 143, comma 
11, d.lgs. 267/2001, per

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


ché 
essi 
non hanno natura 
cautelare, mancando del 
carattere 
di 
strumentalità 
rispetto ad ulteriori 
procedimenti 
finalizzati 
ad 
assicurare 
in 
via 
definitiva 
i 
diritti 
fondamentali 
della 
persona, 
e 
sono volti 
ad assicurare 
-senza 
interlocuzioni 
strumentali 
e 
limitando diritti 
pubblici 
soggettivi 
-l'interesse 
della 
comunità 
locale 
ad essere 
preservata 
da 
ingerenze 
inquinanti 
di 
tipo 
mafioso nella sua ordinata vita democratica. 
in applicazione 
di 
questi 
principi 
nel 
caso di 
specie 
risultano pienamente 
rispettati 
i 
termini 
di 
impugnazione 
previsti 
dall'art. 
327 
cod. 
proc. 
civ., 
tenuto 
conto 
della 
loro 
sospensione, 
come stabilita dagli artt. 83, comma 2, d.l. 18/2020 e 36, comma 1, d.l. 23/2020. 


5. il 
motivo di 
ricorso denuncia 
la 
violazione 
e 
falsa 
applicazione 
dell'art. 143, comma 
11, 
d.lgs. 267/2001 e 
l'omesso esame 
di 
un fatto decisivo: 
in tesi 
di 
parte 
ricorrente 
la 
Corte 
distrettuale, 
pur 
avendo 
correttamente 
enucleato 
la 
natura 
della 
misura 
dell'incandidabilità 
(tesa 
a 
verificare 
l'esistenza 
di 
un collegamento con la 
criminalità 
organizzata 
ovvero di 
forme 
di 
condizionamento 
della 
stessa), 
non 
avrebbe 
tratto 
le 
dovute 
conseguenze 
dai 
principi 
affermati, 
poiché 
a 
questo fine 
era 
sufficiente 
la 
constatazione, sulla 
base 
di 
un'analisi 
d'insieme 
degli 
elementi 
di 
prova 
offerti, 
dell'imputabilità 
anche 
solo 
per 
colpa 
al 
Sindaco, 
obbligato 
a 
vigilare 
e 
sovrintendere 
al 
funzionamento degli 
uffici 
e 
dei 
servizi 
municipali, della 
cattiva 
gestione 
della 
cosa 
pubblica, che 
si 
era 
trovata 
così 
esposta 
a 
ingerenze 
e 
pressioni 
delle 
associazioni 
criminali. 
6. il motivo è fondato. 
6.1 Secondo la 
giurisprudenza 
di 
questa 
Corte 
(Cass., sez. U., 1747/2015; 
Cass. 15038/2018) 
l'incandidabilità 
temporanea 
e 
territorialmente 
delimitata 
degli 
"amministratori 
responsabili 
delle 
condotte 
che 
hanno 
dato 
causa 
allo 
scioglimento" 
del 
consiglio 
dell'ente 
locale 
-a 
mente 
dell'art. 143, comma 
11, d.lgs. 267/2000, così 
come 
risultante 
dalla 
sostituzione 
operata 
dal-
l'art. 2, comma 
30, l. 94/2009 -rappresenta 
una 
misura 
interdittiva 
volta 
a 
porre 
rimedio al 
rischio 
che 
quanti 
abbiano cagionato il 
grave 
dissesto dell'amministrazione 
comunale 
possano 
aspirare 
a 
ricoprire 
cariche 
identiche 
o simili 
a 
quelle 
rivestite 
e, in tal 
modo, consentire 
-per 
dolo o colpa - l'ingerenza inquinante nella vita delle amministrazioni democratiche locali. 
la 
misura 
interdittiva 
dell'incandidatiità 
dell'amministratore 
responsabile 
delle 
condotte 
che 
hanno 
dato 
causa 
allo 
scioglimento 
del 
consiglio 
comunale 
in 
conseguenza 
di 
fenomeni 
di 
infiltrazione 
di 
tipo 
mafioso, 
o 
similare, 
nel 
tessuto 
istituzionale 
locale, 
privando 
temporaneamente 
il 
predetto soggetto della 
possibilità 
di 
candidarsi 
nell'ambito di 
competizioni 
elettorali 
destinate 
a 
svolgersi 
nello 
stesso 
territorio 
regionale, 
rappresenta 
un 
rimedio 
di 
extrema 
ratio 
volto in via 
preventiva 
ad evitare 
il 
ricrearsi 
delle 
situazioni 
che 
la 
misura 
dissolutoria 
ha 
inteso 
ovviare 
e 
a 
salvaguardare 
così 
beni 
primari 
dell'intera 
collettività 
nazionale 
-accanto 
alla 
sicurezza 
pubblica, 
la 
trasparenza 
e 
il 
buon 
andamento 
delle 
amministrazioni 
locali 
nonché 
il 
regolare 
funzionamento dei 
servizi, risorse 
capaci 
di 
alimentare 
la 
"credibilità" 
delle 
medesime 
amministrazioni 
presso 
il 
pubblico 
e 
il 
rapporto 
di 
fiducia 
dei 
cittadini 
verso 
le 
istituzioni 
-, beni 
compromessi 
o messi 
in pericolo non solo dalla 
collusione 
tra 
amministratori 
locali 
e 
criminalità 
organizzata, 
ma 
anche 
dal 
condizionamento 
comunque 
subito 
dai 
primi, 
non 
fronteggiabile, 
secondo 
la 
scelta 
non 
irragionevolmente 
compiuta 
dal 
legislatore, 
con 
altri 
apparati 
preventivi o sanzionatori dell'ordinamento. 
6.2 
il 
procedimento 
giurisdizionale 
volto 
alla 
dichiarazione 
di 
incandidabilità 
assume 
una 
propria 
autonomia 
rispetto 
tanto 
alla 
precedente 
declaratoria 
di 
scioglimento 
del 
consiglio 
comunale, 
che 
costituisce 
l'antecedente 
storico indispensabile 
ma 
non il 
suo oggetto (poiché 
la 
verifica 
della 
legittimità 
di 
tale 
provvedimento è 
rimessa 
al 
giudice 
amministrativo in caso di 
impugnazione), quanto a 
un eventuale 
giudizio penale 
che 
assuma 
l'esistenza 
di 
una 
condotta 

ConTenzioSo 
nAzionAle 


dell'amministratore 
pubblico di 
partecipazione, affiancamento o agevolazione 
del 
sodalizio 
criminale, in ragione dei diversi presupposti che caratterizzano i due giudizi. 
la 
misura 
interdittiva 
di 
cui 
all'art. 
143, 
comma 
11, 
del 
testo 
unico 
delle 
leggi 
sull'ordinamento 
degli 
enti 
locali 
non 
richiede 
infatti 
che 
la 
condotta 
dell'amministratore 
integri 
gli 
estremi 
del-
l'illecito 
penale 
(di 
partecipazione 
ad 
associazione 
mafiosa 
o 
di 
concorso 
esterno 
nella 
stessa), 
giacché 
ai 
fini 
dell'incandidabilità 
alle 
elezioni 
rileva 
la 
responsabilità 
dell'amministratore 
nel 
grave 
stato di 
degrado amministrativo che 
sia 
stato causa 
di 
scioglimento del 
consiglio comunale, 
e 
quindi 
è 
sufficiente 
che 
sussista, per colpa 
dello stesso amministratore, una 
situazione 
di 
cattiva 
gestione 
della 
cosa 
pubblica, 
aperta 
alle 
ingerenze 
esterne 
e 
asservita 
alle 
pressioni inquinanti delle associazioni criminali operanti sul territorio. 
in altri 
termini, la 
misura 
prevista 
dalla 
norma 
in discorso non è 
riconducibile 
al 
concetto di 
sanzione 
penale 
ed 
è 
applicata 
non 
quale 
conseguenza 
automatica 
di 
una 
condanna 
penale 
bensì 
all'esito di 
un giudizio, autonomo, il 
cui 
oggetto è 
costituito dall'accertamento non già 
di 
un reato, ma 
di 
una 
condotta 
anche 
colposa 
dell'amministratore 
che, pur senza 
sconfinare 
necessariamente 
nell'illecito, 
abbia 
oggettivamente 
favorito 
l'ingerenza 
di 
associazioni 
criminali 
o 
il 
condizionamento 
delle 
stesse 
sulla 
gestione 
dell'ente 
territoriale 
(Cass., 
Sez. 
U., 
1747/2015). 


6.3 la 
Corte 
d'appello, attraverso una 
"valutazione 
atomistica" 
dei 
comportamenti 
dell'amministratore, 
ha 
escluso 
che 
potesse 
imputarsi 
all'ex 
sindaco 
"una 
condotta 
quanto 
meno 
agevolativa, 
anche 
attraverso 
un 
agire 
omissivo", 
degli 
interessi 
delle 
associazioni 
criminali 
operanti 
nella 
zona, negando che 
questi 
"abbia favorito, nell'espletamento del 
suo mandato, 
l'agire delle cosche locali". 
Mancherebbe 
in particolare, a 
dire 
dei 
giudici 
distrettuali, l'indicazione 
di 
"alcuna specifica 
condotta 
agevolativa 
dell'agire 
delle 
consorterie 
criminose 
locali" 
e 
di 
"una 
vicinanza 
del 
medesimo ad esponenti 
di 
tali 
consorterie", così 
come 
non vi 
sarebbero "elementi 
concreti 
e 
significativi 
idonei 
a rilevare, in maniera inequivoca, l'esistenza di 
forti 
contiguità fra l'operato 
dei singoli amministratori e gli interessi delle consorterie criminose". 
la 
documentazione 
prodotta 
non 
sarebbe 
"idonea 
a 
rilevare, 
in 
maniera 
significativa, 
una 
collusione 
tra 
lo 
stesso 
e 
la 
criminalità 
organizzata" 
ed 
anzi 
dimostrerebbe 
come 
questi 
abbia 
inteso contrastare, a livello amministrativo e territoriale, il fenomeno mafioso. 
6.4 Simili valutazioni sono minate da un duplice errore di metodo. 
la 
Corte 
di 
merito, 
pur 
avendo 
dato 
correttamente 
atto 
che 
l'indagine 
a 
cui 
era 
chiamata 
aveva 
finalità 
preventive 
e 
non 
sanzionatorie, 
dovendosi 
di 
conseguenza 
prescindere 
dall'accertamento 
di 
una 
responsabilità 
penale, 
si 
è 
posta 
però 
proprio 
nella 
prospettiva 
di 
ricerca 
del 
giudice 
penale 
e 
in 
questo 
modo 
ha 
compiuto 
un'indagine 
miope, 
perché 
orientata 
all'individuazione 
di 
condotte 
che 
deponessero per una 
partecipazione 
dell'ex sindaco, in termini 
diretti o di fiancheggiamento, al sodalizio criminoso. 
depongono chiaramente 
in questo senso plurimi 
passaggi 
della 
decisione 
impugnata, che 
si 
preoccupa 
di 
verificare 
l'esistenza 
di 
un 
"chiaro 
collegamento" 
fra 
l'operato 
del 
sindaco 
e 
l'azione 
delle 
consorterie 
mafiose, il 
suo "asservimento alle 
volontà e 
agli 
interessi 
delle 
cosche 
locali", la 
"frequentazione 
del 
oMiSSiS 
con esponenti 
di 
spicco delle 
consorterie 
locali", 
l'indicazione 
di 
una 
"specifica 
condotta 
agevolativa 
dell'agire 
delle 
consorterie 
criminose 
locali", 
la 
"vicinanza" 
dell'amministratore 
"ad 
esponenti 
di 
tali 
consorterie", 
la 
mancanza 
di 
condotte 
di 
influenza 
o agevolazione 
rispetto ad altri 
amministratori 
collegati 
con i 
sodalizi 
criminali, "l'esistenza di 
forti 
contiguità" 
fra 
amministratori 
e 
consorterie 
criminose, il 
verificarsi 
di 
condotte 
"quantomeno agevolative, anche 
attraverso un agire 
omissivo, degli 
inte

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


ressi 
delle 
cosche", la 
presenza 
di 
un rapporto di 
collusione 
fra 
sindaco e 
criminalità 
organizzata 
e, in definitiva, il ricorrere di un contegno di favoreggiamento dell'agire delle cosche. 
Una 
simile 
indagine, che 
si 
spende 
nella 
ricerca 
di 
comportamenti 
volontari 
di 
agevolazione 
degli 
interessi 
delle 
associazioni 
criminose, 
finisce 
per 
confondere 
il 
giudizio 
di 
accertamento 
della 
responsabilità 
penale 
con quello di 
verifica 
delle 
condizioni 
di 
incandidabilità, quando 
non vi 
era 
alcuna 
necessità 
-come 
detto -di 
acclarare 
una 
simile 
responsabilità, anche 
nelle 
forme 
del 
concorso esterno, in ragione 
dell'autonomia 
del 
processo di 
applicazione 
della 
misura 
in discorso e 
della 
diversità 
dei 
presupposti 
della 
stessa 
rispetto a 
ipotesi 
di 
carattere 
criminoso. 
occorreva 
(e 
bastava), invece, accertare 
l'esistenza 
di 
un'oggettiva 
situazione 
di 
cattiva 
gestione 
della 
cosa 
pubblica, 
tale 
da 
rendere 
possibili 
ingerenze 
esterne 
nel 
suo 
ambito 
e 
un 
concreto 
asservimento 
dell'amministrazione 
alle 
pressioni 
inquinanti 
delle 
associazioni 
criminali 
operanti sul territorio. 
era 
necessaria, altresì, una 
verifica 
del 
fatto che 
una 
simile 
situazione 
fosse 
riconducibile 
non 
solo 
per 
un 
intento 
doloso, 
ma 
anche 
per 
semplice 
colpa 
-all'amministratore 
di 
cui 
è 
stata 
proposta 
l'incandidabilità, 
essendo 
sufficiente 
l'accertamento 
di 
tale 
profilo 
nella 
gestione 
della cosa pubblica per applicare la misura interdittiva in discorso. 


6.5 la 
Corte 
distrettuale 
ha 
assunto a 
metodo per il 
proprio giudizio la 
necessità 
di 
procedere 
a 
una 
valutazione 
individuale 
della 
condotta 
dell'amministratore 
al 
fine 
di 
verificare 
i 
presupposti 
della declaratoria di incandidabilità. 
l'individuazione 
di 
un simile 
programma 
è 
senza 
dubbio corretta 
rispetto alle 
finalità 
dell'indagine, 
in quanto si 
trattava 
di 
verificare 
l'esistenza 
di 
un collegamento eziologico fra 
la 
situazione 
che 
aveva 
portato allo scioglimento dell'organo assembleare 
locale 
e 
le 
specifiche 
condotte tenute dal singolo amministratore. 
la 
prospettiva 
individuale 
dell'indagine, 
tuttavia, 
non 
doveva 
far 
dimenticare 
l'esigenza 
di 
una 
valutazione 
complessiva 
del 
materiale 
probatorio 
acquisito, 
al 
fine 
di 
raggiungere 
una 
visione 
d'insieme 
che 
desse 
modo di 
cogliere 
correlazioni 
diversamente 
non evidenziabili 
ed 
elementi 
capaci 
di 
attestare 
la 
permeabilità 
dell'amministrazione 
scrutinata 
ai 
fenomeni 
di 
infiltrazione 
o condizionamento mafioso (Cass. 10780/2019). 
i 
singoli 
fatti 
emergenti 
dalla 
congerie 
istruttoria 
disponibile 
dovevano 
quindi 
essere 
ricondotti 
a 
una 
chiave 
di 
lettura 
comune, 
onde 
verificare 
se 
gli 
stessi 
fossero 
idonei 
a 
rappresentare 
una 
conduzione 
della 
macchina 
politico-amministrativa 
comunale 
sensibile 
(se 
non 
addirittura 
compiacente) con gli interessi della criminalità mafiosa. 
ne 
discende 
che 
la 
valutazione 
della 
responsabilità 
personale 
dell'amministratore, ai 
fini 
del 
ricorrere 
delle 
condizioni 
di 
ineleggibilità, non poteva 
condurre 
a 
una 
valutazione 
atomistica 
delle 
singole 
risultanze 
probatorie 
acquisite 
che 
privasse 
il 
giudicante 
di 
una 
visione 
d'insieme 
del 
fenomeno 
che 
aveva 
già 
portato, 
in 
precedenza, 
allo 
scioglimento 
del 
consiglio 
comunale. 
6.6 Allo stesso modo era 
necessario evitare 
di 
considerare 
la 
condotta 
del 
singolo amministratore 
estraniandola dal contesto a partecipazione plurima in cui operava. 
il 
che 
significa, rispetto alla 
figura 
apicale 
dell'amministrazione 
comunale 
costituita 
dal 
sindaco, 
che, al 
di 
là 
della 
mancanza 
di 
frequentazioni 
e 
rapporti 
con esponenti 
della 
criminalità 
organizzata 
locale 
o di 
agevolazioni 
dirette 
della 
stessa, occorreva 
comunque 
estendere 
l'indagine 
alla 
condotta 
da 
questi 
tenuta 
nell'ambito amministrazione 
municipale 
al 
fine 
di 
acclarare 
l'apporto 
eventualmente 
dato 
(con 
azioni 
od 
omissioni) 
nel 
provocare 
la 
situazione 
che aveva condotto allo scioglimento dell'organo assembleare. 
e 
nello 
svolgimento 
di 
questa 
indagine 
non 
si 
poteva 
considerare 
il 
sindaco 
come 
una 
monade 

ConTenzioSo 
nAzionAle 


isolata 
dal 
contesto ove 
operava, al 
cui 
interno egli 
era, invece, chiamato ad esercitare 
il 
potere/
dovere: 
di 
vigilare 
e 
sovrintendere 
al 
funzionamento dei 
servizi 
e 
degli 
uffici 
e 
all'esecuzione 
degli 
atti, ai 
sensi 
dell'art. 50, comma 
2, T.U.e.l.; 
di 
indirizzare 
e 
controllare 
l'operato 
dei 
soggetti 
a 
cui 
era 
affidato il 
compito di 
dare 
attuazione 
alle 
scelte 
deliberate 
dall'amministrazione, 
ex art. 107, comma 
1, T.U.e.l.; 
più in generale, di 
sovrintendere 
alla 
vigilanza 
su 
tutto quanto possa 
interessare 
la 
sicurezza 
e 
l'ordine 
pubblico, a 
mente 
dell'art. 54, comma 
1, 
lett. c), T.U.e.l. 
la 
trasgressione 
di 
questi 
doveri 
di 
vigilanza, all'evidenza, non solo è 
capace 
di 
determinare 
una 
situazione 
di 
cattiva 
gestione 
dell'amministrazione 
comunale, ma 
rende 
possibili 
ed agevola 
ingerenze 
al 
suo 
interno 
delle 
associazioni 
criminali, 
finendo 
per 
creare 
le 
condizioni 
per 
un asservimento dell'amministrazione municipale agli interessi malavitosi. 
ne 
discende 
che 
l'accertamento del 
venir meno, anche 
solo colposo, da 
parte 
del 
sindaco agli 
obblighi 
di 
vigilanza 
riconnessi 
alla 
sua 
carica 
è 
di 
per sé 
sufficiente 
a 
integrare 
i 
presupposti 
per l'applicazione 
della 
misura 
interdittiva 
prevista 
dall'art. 143, comma 
11, d. lgs. 267/2000, 
così 
come 
risultante 
dalla 
sostituzione 
operata 
dall'art. 
2, 
comma 
30, 
l. 
94/2009, 
proprio 
perché 
la 
finalità 
perseguita 
dalla 
norma 
è 
quella 
di 
evitare 
il 
rischio che 
quanti 
abbiano cagionato il 
grave 
dissesto dell'amministrazione 
comunale 
possano aspirare 
a 
ricoprire 
cariche 
identiche 


o 
simili 
a 
quelle 
rivestite 
e, 
in 
tal 
modo, 
potenzialmente 
perpetuare 
l'ingerenza 
inquinante 
nella vita delle amministrazioni democratiche locali. 
Sul punto andrà quindi fissato il seguente principio: 
in tema 
di 
accertamento dell'incandidabilità 
a 
cariche 
pubbliche 
negli 
enti 
locali, nel 
caso in 
cui, alla 
luce 
di 
una 
visione 
d'insieme 
della 
congerie 
istruttoria 
disponibile, risulti 
che 
l'amministratore, 
anche 
solo 
per 
colpa, 
sia 
venuto 
meno 
agli 
obblighi 
di 
vigilanza, 
indirizzo 
e 
controllo 
previsti 
dagli 
artt. 50, comma 
2, 54, comma 
1, lett. c), e 
107, comma 
1, T.U.e.l., tale 
condotta 
deve 
considerarsi 
di 
per 
sé 
sufficiente 
a 
integrare 
i 
presupposti 
per 
l'applicazione 
della 
misura 
interdittiva 
prevista 
dall'art. 
143, 
comma 
11, 
d. 
lgs. 
267/2000, 
così 
come 
risultante 
dalla 
sostituzione 
operata 
dall'art. 
2, 
comma 
30, 
l. 
94/2009, 
dato 
che 
la 
finalità 
perseguita 
dalla 
norma 
è 
proprio 
quella 
di 
evitare 
il 
rischio 
che 
quanti 
abbiano 
cagionato 
il 
grave 
dissesto 
dell'amministrazione 
comunale, 
rendendo 
possibili 
ingerenze 
al 
suo 
interno 
delle 
associazioni 
criminali, possano aspirare 
a 
ricoprire 
cariche 
identiche 
o simili 
a 
quelle 
già 
rivestite 
e, in tal 
modo, potenzialmente 
perpetuare 
l'ingerenza 
inquinante 
nella 
vita 
delle 
amministrazioni 
democratiche 
locali. 
7. la 
statuizione 
impugnata 
andrà 
dunque 
cassata, con rinvio alla 
Corte 
d'appello di 
Catanzaro, 
la 
quale, 
nel 
procedere 
a 
nuovo 
esame 
della 
causa, 
si 
atterrà 
ai 
principi 
sopra 
illustrati, 
avendo cura anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità. 
P.Q.M. 


la 
Corte 
accoglie 
il 
ricorso, cassa 
il 
provvedimento impugnato e 
rinvia 
la 
causa 
alla 
Corte 
d'appello 
di 
Catanzaro 
in 
diversa 
composizione, 
cui 
demanda 
di 
provvedere 
anche 
sulle 
spese 
del giudizio di legittimità. 
Così deciso in roma in data 2 dicembre 2020. 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


La Cassazione si pronuncia sulla trasparenza dell’algoritmo 
utilizzato per determinare il rating reputazionale 


CAssAzioNe, sezioNe 
i CiviLe, ordiNANzA 
25 mAGGio 
2021 N. 14381(*) 


«in tema di 
trattamento di 
dati 
personali, il 
consenso è 
validamente 
prestato 
solo se 
espresso liberamente 
e 
specificamente 
in riferimento a un trattamento 
chiaramente 
individuato; ne 
segue 
che 
nel 
caso di 
una piattaforma web (con 
annesso archivio informatico) preordinata all’elaborazione 
di 
profili 
reputazionali 
di 
singole 
persone 
fisiche 
o 
giuridiche, 
incentrata 
su 
un 
sistema 
di 
calcolo 
con 
alla 
base 
un 
algoritmo 
finalizzato 
a 
stabilire 
i 
punteggi 
di 
affidabilità, 
il 
requisito 
di 
consapevolezza 
non 
può 
considerarsi 
soddisfatto 
ove 
lo 
schema 
esecutivo dell’algoritmo e 
gli 
elementi 
di 
cui 
si 
compone 
restino ignoti 
o non 
conoscibili da parte degli interessati» 


Cassazione, Sezione 
i 
civile, ordinanza 25 maggio 2021 n. 14381 
-Pres. F.A. Genovese, 
rel. F. Terrusi 
-Garante 
per la 
Protezione 
dei 
dati 
Personali 
(avv. gen. Stato) c. Associazione 
omissis (avv.ti l. damiano, G. Mazzone, A. Catricalà). 


Fatti di causa 


l'Associazione 
oMiSSiS 
onlus 
chiedeva 
al 
tribunale 
di 
roma 
l'annullamento del 
provvedimento 
in 
data 
24 
novembre 
2016 
col 
quale 
il 
Garante 
per 
la 
protezione 
dei 
dati 
personali 
(breviter 
solo Garante) aveva 
disposto, ai 
sensi 
dell'art. 154, primo comma, lett. d), del 
d.lgs. n. 
163 del 
2016, il 
divieto di 
qualunque 
operazione 
di 
trattamento dei 
dati 
personali 
(presente 
e 
futura) effettuata 
dall'associazione 
medesima 
in connessione 
ai 
servizi 
offerti 
tramite 
la 
"infrastruttura 
immateriale 
oMiSSiS 
per 
la 
Qualificazione 
Professionale", 
per 
contrasto 
con 
gli 
artt. 2, 3, 11, 23, 24 e 26 del codice privacy. 


il 
cd. sistema 
oMiSSiS 
-per quanto è 
dato evincere 
-si 
concretizza 
in una 
piattaforma 
web 
(con annesso archivio informatico) preordinata 
all'elaborazione 
di 
profili 
reputazionali 
concernenti 
persone 
fisiche 
e 
giuridiche, col 
fine 
di 
contrastare 
fenomeni 
basati 
sulla 
creazione 
di 
profili 
artefatti 
o inveritieri 
e 
di 
calcolare, invece, in maniera 
imparziale 
il 
cd. "rating reputazionale" 
dei 
soggetti 
censiti, per modo da 
consentire 
a 
eventuali 
terzi 
una 
verifica 
di 
reale 
credibilità. 


nella 
resistenza 
del 
Garante, l'adito tribunale 
ha 
parzialmente 
accolto il 
ricorso. in particolare 
ha 
annullato il 
provvedimento facendo salva 
l'efficacia 
del 
divieto quanto al 
solo trattamento 
dei 
dati 
personali 
per l'attività 
inerente 
il 
cd. "Profilo Contro", riguardante 
soggetti 
terzi non assodati a 
oMiSSiS 
onlus. 


in simile 
prospettiva 
il 
tribunale 
ha 
ritenuto non condivisibile 
la 
ragione 
di 
illiceità 
della 
piattaforma, e 
del 
connesso trattamento dei 
dati 
personali, ritenuta 
dal 
Garante 
-ragione 
fondamentalmente 
rinvenuta 
nell'"assenza 
di 
una 
idonea 
cornice 
normativa, 
rilevante 
ai 
sensi 
dell'art. 11 lett. a) del 
d.lgvo n. 198/2003" 
quale 
base 
del 
predisposto sistema 
di 
raccolta 
e 


(*) Sentenza 
segnalata 
dall’avv. Stato Gaetana 
natale, Professore 
a 
contratto presso l’Università 
degli 
Studi di Salerno, Consigliere giuridico del Garante per la Privacy. 



ConTenzioSo 
nAzionAle 


di 
trattamento di 
dati 
personali; 
e 
ciò pur essendo il 
sistema 
suscettibile 
di 
incidere 
pesantemente 
sulla 
rappresentazione 
economica 
e 
sociale 
di 
un'ampia 
categoria 
di 
soggetti, con ripercussione 
del rating sulla vita privata degli individui censiti. 


A 
dire 
del 
tribunale, non avrebbe 
potuto negarsi 
-in vero -all'autonomia 
privata 
la 
facoltà 
di 
organizzare 
sistemi 
di 
accreditamento 
di 
soggetti, 
fornendo 
servizi 
in 
senso 
lato 
"valutativi", 
in vista 
del 
loro ingresso nel 
mercato, per la 
conclusione 
di 
contratti 
e 
per la 
gestione 
di 
rapporti 
economici. 


Per 
la 
cassazione 
della 
sentenza, 
notificata 
il 
9 
aprile 
2018, 
l'avvocatura 
generale 
dello 
Stato, per conto del Garante, ha proposto ricorso sulla base di sette motivi. 


l'associazione ha replicato con controricorso e ha poi depositato una memoria. 


il PG ha depositato una requisitoria scritta. 


Ragioni della decisione 


i. 
-Coi 
primi 
quattro 
motivi, 
connessi, 
l'avvocatura 
ricorrente 
denunzia: 
(i) 
l'omesso 
esame 
del 
fatto 
decisivo 
rappresentato 
dalla 
dedotta 
inconoscibilità 
dell'algoritmo 
utilizzato 
per 
l'assegnazione 
del 
punteggio 
di 
rating, 
con 
conseguente 
mancanza 
del 
necessario 
requisito 
di 
trasparenza 
del 
sistema 
automatizzato 
funzionale 
a 
rendere 
consapevole 
il 
consenso 
prestato 
dell'interessato; 
(ii) 
la 
violazione 
dell'art. 
8 
della 
Carta 
dei 
diritti 
fondamentali 
della 
Ue 
e 
degli 
artt. 13, 23 e 
26 del 
d.lgs. n. 196 del 
2003, 7 del 
regolamento (Ue) 2016/679 del 
Parlamento 
europeo e 
del 
Consiglio, e 
dell'art. 1346 cod. civ., in quanto l'omessa 
considerazione 
del 
fatto, 
incidendo 
sul 
requisito 
di 
trasparenza 
dell'algoritmo 
usato 
per 
l'elaborazione 
dei 
dati, 
inficierebbe 
l'affermazione 
del 
tribunale 
circa 
la 
rilevanza 
del 
consenso prestato; 
(iii) la 
violazione 
dell'art. 7 del 
d.lgs. n. 196 del 
2003, poiché 
è 
in generale 
violato il 
diritto all'informazione 
in un sistema 
in cui 
l'interessato non sia 
posto in condizione 
di 
conoscere 
la 
modalità 
di 
funzionamento dell'algoritmo in base 
al 
quale 
è 
trattato il 
dato personale; 
(iv) la 
violazione 
degli 
artt. 11 del 
d.lgs. n. 196 del 
2003 e 
5 del 
regolamento (Ue) 2016/679 del 
Parlamento 
europeo e 
del 
Consiglio, perché 
sarebbe 
altresì 
violato dalla 
manchevolezza 
esposta 
il 
principio 
di liceità, correttezza e trasparenza richiesto dalla legge. 
Col 
quinto, 
sesto 
e 
settimo 
mezzo 
l'avvocatura 
ulteriormente 
deduce: 
(v) 
la 
violazione 
del-
l'art. 8 della 
carta 
fondamentale 
dell'Unione 
europea 
e 
degli 
artt. 13, 23 e 
26 del 
d.lgs. n. 186 
del 
2003 
e 
7.4 
del 
regolamento 
(Ue) 
2016/679 
del 
Parlamento 
europeo 
e 
del 
Consiglio, 
sotto 
il 
profilo delle 
modalità 
di 
inserimento delle 
clausole 
contrattuali 
afferenti 
alla 
pubblicazione 
degli 
atti 
e 
dei 
documenti 
delle 
controparti; 
(vi) 
l'omesso 
esame 
di 
fatto 
decisivo 
in 
ordine 
alla 
previsione 
di 
penali 
in caso di 
revoca 
dell'autorizzazione 
a 
pubblicare 
i 
dati 
relativi 
a 
inadempienze 
contrattuali; 
(vii) la 
violazione 
dell'art. 8 della 
carta 
fondamentale 
dell'unione 
europea 
e 
degli 
artt. 
13, 
23 
e 
26 
del 
d.lgs. 
n. 
186 
del 
2003 
e 
7.4 
del 
regolamento 
(Ue) 
2016/679 
del Parlamento europeo e del Consiglio, come conseguenza dell'omissione di cui sopra. 


ii. - i primi quattro motivi, da esaminare congiuntamente, sono fondati. 
occorre 
dire 
che 
contrariamente 
a 
quanto sostenuto dal 
PG 
il 
ricorso, nel 
riferire 
della 
decisività 
del 
profilo in essi 
menzionato, non difetta 
di 
autosufficienza, poiché 
a 
pag. 6 è 
puntualmente 
riportato il 
corrispondente 
tratto della 
deduzione 
a 
suo tempo fatta 
dal 
Garante 
in 
risposta all'avverso ricorso. 


d'altronde 
emerge 
finanche 
dalla 
sentenza 
(pag. 8) che 
era 
stata 
sollevata 
dal 
Garante 
la 
questione 
della 
impossibilità 
di 
conoscere 
l'algoritmo utilizzato per determinare 
il 
rating reputazionale. 


iii. -ora 
il 
tribunale 
di 
roma 
ha 
ritenuto legittimo il 
trattamento dei 
dati 
personali 
degli 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


aderenti 
al 
sistema 
oMiSSiS 
perché 
validato dal 
consenso, e 
dunque 
perché 
espressione 
di 
autonomia 
privata. 


Ha 
poi 
supportato l'affermazione 
aggiungendo che 
"la 
realtà 
attuale, nazionale 
e 
sovranazionale, 
conosce 
diffusamente 
fenomeni 
di 
valutazione 
e 
di 
certificazione 
da 
parte 
di 
privati, 
riconosciuti 
anche 
a 
fini 
di 
attestazione 
di 
qualità 
e/o di 
conformità 
a 
norme 
tecniche". Cosicché 
la 
mancanza 
di 
una 
disciplina 
normativa 
istitutiva 
del 
"rating 
reputazionale" 
proposto 
dal-
l'associazione, analogo, per esempio, al 
cd. "rating d'impresa" 
di 
cui 
all'art. 83 del 
d.lgs. n. 50 
dei 2016, non poteva intercettare un difetto di liceità del sistema. 


iV. -Sennonché 
questa 
Corte 
ha 
già 
avuto modo di 
considerare 
che, ai 
fini 
della 
liceità 
del 
trattamento basato sul 
consenso, l'art. 23 del 
d.lgs. n. 196 del 
2003 (cd. codice 
privacy) presuppone 
non solo il 
consenso, ma 
anche 
che 
il 
consenso sia 
validamente 
prestato (v. Cass. n. 
17278-18, Cass. n. 16358-18). 


Specificamente 
l'art. 23 dispone 
che 
(a) il 
trattamento di 
dati 
personali 
da 
parte 
di 
privati 


o di 
enti 
pubblici 
economici 
è 
ammesso solo con il 
consenso espresso dell'interessato; 
(b) il 
consenso può riguardare 
l'intero trattamento ovvero una 
o più operazioni 
dello stesso; 
(c) il 
consenso 
è 
validamente 
prestato 
solo 
se 
è 
espresso 
liberamente 
e 
specificamente 
in 
riferimento 
ad un trattamento "chiaramente 
individuato", se 
è 
documentato per iscritto, e 
se 
sono state 
rese 
all'interessato 
le 
informazioni 
di 
cui 
all'art. 
13; 
(d) 
il 
consenso 
è 
manifestato 
in 
forma 
scritta quando il trattamento riguarda dati sensibili. 
Vi. -in simile 
quadro di 
regole 
e 
principi 
l'espressione 
"chiaramente 
individuato" 
-che 
contraddistingue 
il 
trattamento del 
dato personale 
-presuppone 
che 
il 
consenso debba 
essere 
previamente 
informato 
in 
relazione 
a 
un 
trattamento 
ben 
definito 
nei 
suoi 
elementi 
essenziali, 
per modo da 
potersi 
dire 
che 
sia 
stato espresso, in quella 
prospettiva, liberamente 
e 
specificamente. 


A 
tal 
riguardo è 
onere 
del 
titolare 
del 
trattamento fornire 
la 
prova 
che 
l'accesso e 
il 
trattamento 
contestati 
siano riconducibili 
alle 
finalità 
per le 
quali 
sia 
stato validamente 
richiesto e 
validamente ottenuto - un consenso idoneo. 


Vii. 
-nel 
caso 
di 
specie 
il 
trattamento 
era 
(ed 
è) 
funzionale 
alla 
determinazione 
del 
profilo 
reputazionale dei soggetti. 


la 
valutazione 
di 
liceità 
di 
un simile 
trattamento, basata 
sul 
consenso, non poteva 
essere 
prospettata 
dal 
tribunale 
senza 
una 
previa 
considerazione 
degli 
elementi 
suscettibili 
di 
incidere 
sulla 
serietà 
della 
manifestazione, e 
tra 
questi 
anche 
e 
proprio gli 
elementi 
implicati 
e 
considerati 
nell'algoritmo afferente, il funzionamento del quale è essenziale al calcolo del rating. 


la 
scarsa 
trasparenza 
dell'algoritmo impiegato allo specifico fine 
non è 
stata 
ben vero disconosciuta 
dall'impugnata 
sentenza, la 
quale 
ha 
semplicemente 
ritenuto non decisivi 
i 
dubbi 
relativi 
al 
sistema 
automatizzato di 
calcolo per la 
definizione 
del 
rating reputazionale, sul 
rilievo 
che 
la 
validità 
della 
formula 
riguarderebbe 
"il 
momento valutativo del 
procedimento", 
a 
fronte 
del 
quale 
spetterebbe 
invece 
al 
mercato "stabilire 
l'efficacia 
e 
la 
bontà 
del 
risultato 
ovvero del servizio prestato dalla piattaforma". 


Questa 
motivazione 
non 
può 
esser 
condivisa 
giuridicamente, 
in 
quanto 
il 
problema 
non 
era 
(e 
non è) confinabile 
nel 
perimento della 
risposta 
del 
"mercato" 
-sintesi 
metaforica 
per 
indicare 
il 
luogo e 
il 
momento in cui 
vengono svolti 
gli 
scambi 
commerciali 
ai 
più vari 
livelli 


- rispetto alla predisposizione dei rating attribuiti ai diversi operatori. 
il 
problema, per la 
liceità 
del 
trattamento, era 
invece 
(ed è) costituito dalla 
validità 
-per 
l'appunto -del 
consenso che 
si 
assume 
prestato al 
momento dell'adesione. e 
non può logicamente 
affermarsi 
che 
l'adesione 
a 
una 
piattaforma 
da 
parte 
dei 
consociati 
comprenda 
anche 



ConTenzioSo 
nAzionAle 


l'accettazione 
di 
un sistema 
automatizzato, che 
si 
avvale 
di 
un algoritmo, per la 
valutazione 
oggettiva 
di 
dati 
personali, laddove 
non siano resi 
conoscibili 
lo schema 
esecutivo in cui 
l'algoritmo 
si esprime e gli elementi all'uopo considerati. 


Viii. - la sentenza va quindi cassata, con assorbimento dei restanti motivi di ricorso. 


la 
causa 
deve 
essere 
rinviata 
al 
medesimo 
tribunale 
di 
roma, 
in 
diversa 
composizione, 
per nuovo esame. 


il 
tribunale 
si 
uniformerà 
al 
seguente 
principio 
di 
diritto: 
in 
tema 
di 
trattamento 
di 
dati 
personali, 
il 
consenso è 
validamente 
prestato solo se 
espresso liberamente 
e 
specificamente 
in 
riferimento 
a 
un 
trattamento 
chiaramente 
individuato; 
ne 
segue 
che 
nel 
caso 
di 
una 
piattaforma 
web (con annesso archivio informatico) preordinata 
all'elaborazione 
di 
profili 
reputazionali 
di 
singole 
persone 
fisiche 
o giuridiche, incentrata 
su un sistema 
di 
calcolo con alla 
base 
un 
algoritmo finalizzato a 
stabilire 
i 
punteggi 
di 
affidabilità, il 
requisito di 
consapevolezza 
non 
può considerarsi 
soddisfatto ove 
lo schema 
esecutivo dell'algoritmo e 
gli 
elementi 
di 
cui 
si 
compone restino ignoti o non conoscibili da parte degli interessati. 


il 
tribunale 
provvederà 
anche 
sulle 
spese 
del 
giudizio svoltosi 
in questa 
sede 
di 
legittimità. 
p.q.m. 
la 
Corte 
accoglie 
i 
primi 
quattro 
motivi 
di 
ricorso, 
assorbiti 
gli 
altri, 
cassa 
l'impugnata 
sentenza e rinvia al tribunale di roma anche per le spese del giudizio di cassazione. 
deciso in roma, nella 
camera 
di 
consiglio della 
prima 
sezione 
civile, addì 
24 marzo 2021. 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


analisi della sentenza della Corte di appello 
di 
Venezia n. 2907/2021. Una annosa vicenda 
di esposizione ad amianto e morte del lavoratore, 
il giudice di merito dinanzi all’incertezza scientifica 


Corte 
di 
APPeLLo 
di 
veNeziA, sezioNe 
seCoNdA 
PeNALe, 
seNteNzA 
30 ottobre 
2020 - 27 GeNNAio 
2021 N. 2907 


Luigia Michela Fera* 
Alessandro D’Amico** 


La parte 
civile 
si 
può giovare 
del 
principio di 
immanenza, in forza del 
quale 
il 
giudice 
del-
l’impugnazione 
è 
tenuto a pronunciarsi 
anche 
sulla domanda risarcitoria qualora una sentenza 
assolutoria sia stata impugnata dal 
pubblico ministero, solo nell’ipotesi 
in cui 
sia stato 
accolto il gravame proposto dalla parte pubblica. 
Ne 
consegue 
che, 
nell’ipotesi 
in 
cui 
non 
sia 
stata 
accolta 
l’impugnazione 
da 
parte 
del 
pubblico 
ministero, per 
effetto dell’intervenuta estinzione 
del 
reato per 
prescrizione, la mancata impugnazione 
dei 
capi 
della sentenza sfavorevoli 
alla parte 
civile, ex 
art. 576 c.p.p., comporta 
la preclusione dell’esercizio dell’azione civile. 


Nell’ipotesi 
in cui, a seguito dell’impugnazione 
da parte 
del 
pubblico ministerio di 
una sentenza 
di 
assoluzione 
con formula piena, emessa ai 
sensi 
dell’art. 530, comma 2, c.p.p., nel 
corso 
del 
giudizio 
promosso 
mediante 
tale 
impugnazione 
maturi 
la 
prescrizione 
del 
reato, 
l’immediata declaratoria della predetta causa di 
estinzione 
del 
reato prevale 
sulla formula 
assolutoria solo se venga accolto l’appello del pubblico ministero. 


in tema di 
prova scientifica del 
nesso causale 
tra esposizione 
ad amianto e 
morte 
del 
lavoratore, 
mentre 
ai 
fini 
dell'assoluzione 
dell'imputato 
è 
sufficiente 
il 
solo 
serio 
dubbio, 
in 
seno 
alla 
comunità 
scientifica, 
sul 
rapporto 
di 
causalità 
tra 
la 
condotta 
e 
l'evento, 
la 
condanna 
deve, invece, fondarsi 
su un sapere 
scientifico largamente 
accreditato tra gli 
studiosi, richiedendosi 
che la colpevolezza dell'imputato sia provata "al di là di ogni ragionevole dubbio". 


la 
vicenda 
processuale 
definita 
dalla 
sentenza 
in commento trae 
origine 
dalla 
morte 
di 
due 
militari 
della 
Marina 
Militare 
italiana, 
che 
avevano 
prestato 
servizio a 
bordo di 
navi 
militari 
e 
presso altre 
strutture 
a 
terra 
della 
Marina, 
deceduti per mesotelioma pleurico. 


il 
pubblico 
ministero 
di 
Padova 
aveva 
esercitato 
l’azione 
penale 
nei 
confronti 
di 
soggetti 
che 
avevano 
rivestito 
ruoli 
apicali 
all’interno 
della 
Marina 
Militare 
e 
del 
Ministero 
della 
difesa, 
contestando 
il 
reato 
di 
omicidio 
colposo. 


(*) 
dottoressa 
in 
Giurisprudenza, 
ammessa 
alla 
pratica 
forense 
presso 
l’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato. 
(**) dottore in Giurisprudenza, già praticante forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato. 


Articolo redatto su indicazione dell’avv. Stato Alessandra Bruni e dell’avv. Stato Massimo Giannuzzi. 



ConTenzioSo 
nAzionAle 


Agli 
imputati 
era 
stato 
contestato 
di 
aver 
cagionato 
la 
morte 
dei 
predetti 
due 
militari 
per 
aver 
omesso 
di 
rendere 
edotto 
il 
personale 
dipendente 
dei 
rischi 
per 
la 
salute 
provocati 
dalla 
presenza 
di 
amianto 
nelle 
navi 
e 
negli 
ambienti 
di 
vita 
e 
di 
servizio 
a 
terra, 
per 
non 
aver 
svolto 
i 
dovuti 
controlli 
sanitari 
e 
non 
aver 
fornito 
gli 
adeguati 
presidi 
di 
protezione 
individuale 
al 
personale 
della 
Marina. 


Gli 
imputati 
sono stati 
difesi 
dall’Avvocatura 
dello Stato -che 
ha 
rappresentato 
e 
difeso 
anche 
il 
Ministero 
della 
difesa, 
citato 
quale 
responsabile 
civile 


-ex 
art. 44 del r.d. n. 1611/1933. 
All’esito dell’istruttoria 
dibattimentale, il 
Tribunale 
di 
Padova 
(sentenza 
n. 648 del 
22 marzo 2012), pur ritenendo dimostrato che 
le 
malattie 
erano insorte 
nell’esercizio dell’attività 
lavorativa 
alle 
dipendenze 
della 
Marina 
Militare 
da 
parte 
delle 
persone 
offese, perveniva 
alla 
conclusione 
che 
non fosse 
emersa 
la 
prova 
“oltre 
ogni 
ragionevole 
dubbio” 
della 
responsabilità 
degli 
imputati. 
A 
tale 
conclusione 
il 
Giudice 
di 
primo grado perveniva 
sulla 
base 
della 
considerazione 
dell’impossibilità 
di 
accertare 
il 
momento 
dell’insorgenza 
della 
malattia 
tumorale 
e, in secondo luogo, se 
e 
in che 
misura 
le 
esposizioni 
successive 
a 
quella 
di 
innesco della 
patologia 
neoplastica 
avessero avuto rilievo 
causale nella progressione della malattia. 
Avverso 
la 
sentenza 
di 
primo 
grado 
proponevano 
appello 
il 
p.m. 
e 
le 
parti 
civili 
(“Medicina 
democratica 
movimento 
per 
la 
salute 
onlus” 
e 
“Associazione 
italiana 
esposti 
amianto”). 
la 
Corte 
di 
appello 
di 
Venezia 
(sentenza 
n. 
1101 
del 
14 
luglio 
2014), 
pur 
essendo 
giunta 
alla 
conclusione 
della 
sussistenza 
della 
responsabilità 
degli 
imputati 
per 
la 
morte 
delle 
persone 
offese, 
previa 
derubricazione 
del 
reato 
di 
omicidio 
colposo 
aggravato 
ex 
art. 
589, 
comma 
2, 
c.p., 
in 
quello 
di 
omicidio 
colposo 
ex 
art. 
589, 
comma 
1, 
c.p., 
in 
riforma 
della 
sentenza 
impugnata, 
dichiarava 
l’estinzione 
del 
reato 
per 
intervenuta 
prescrizione. 
Tale 
derubricazione 
veniva 
giustificata 
sulla 
base 
dell’applicazione 
dell’art. 20, 
comma 
due, 
della 
legge 
n. 
183/2010, 
che, 
secondo 
la 
Corte 
di 
appello 
di 
Venezia, 
avrebbe 
impedito 
di 
ritenere 
consumato, 
nel 
caso 
di 
specie, 
il 
reato 
di 
omicidio 
colposo 
aggravato, 
ex 
art. 
589, 
secondo 
comma, 
c.p. 
il 
giudice 
di 
seconde 
cure 
ometteva 
di 
pronunciarsi 
sulla 
domanda 
risarcitoria 
delle 
parti 
civili, 
come 
pure 
avrebbe 
dovuto 
fare, 
ai 
sensi 
dell’art. 
576 
c.p.p., 
ma 
la 
sentenza 
non 
veniva 
impugnata 
dalle 
parti 
civili 
che, 
dunque, 
prestavano 
acquiescenza 
alla 
stessa. 


la 
sentenza 
veniva 
impugnata, 
mediante 
ricorso 
per 
cassazione, 
dal 
pubblico 
ministero, dagli 
imputati 
e 
dal 
Ministero della 
difesa 
(costituitosi 
quale 
responsabile 
civile). 
il 
pubblico 
ministero 
censurava 
la 
predetta 
sentenza 
della 
Corte 
di 
appello nella 
parte 
in cui 
aveva 
dichiarato la 
prescrizione 
del 
reato 
contestato 
sebbene, 
dopo 
l’entrata 
in 
vigore 
dell’art. 
20 
l. 
183 
del 
2010, 
gli 
imputati 
avrebbero 
dovuto 
adottare 
le 
opportune 
cautele 
a 
tutela 
della 
sicurezza 
e 
della 
salute 
delle 
due 
persone 
offese, anche 
in riferimento all’attività 
svolta 
dalle 
stesse 
presso 
alcune 
strutture 
a 
terra 
(specificamente 
indicate 
nell’atto 
di 
contestazione 
suppletiva). 
Gli 
imputati 
ed 
il 
responsabile 
civile 
contestavano 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


l’impugnato provvedimento per non aver confermato la 
sentenza 
assolutoria 
di 
primo grado, rilevando, tra 
l’altro, che 
la 
responsabilità 
degli 
imputati 
non 
poteva 
essere 
accertata 
senza 
rinnovazione 
dell’istruttoria 
dibattimentale. la 
Corte 
di 
Cassazione, 
con 
sent. 
n. 
3615/2016, 
accoglieva 
il 
ricorso 
del 
p.g., 
annullando 
con 
rinvio 
la 
sentenza 
impugnata 
per 
nuovo 
giudizio, 
con 
conseguente 
assorbimento 
dei 
ricorsi 
degli 
imputati 
e 
del 
responsabile 
civile. 
la 
Suprema 
Corte, nella 
predetta 
sentenza, invitava 
espressamente 
il 
giudice 
di 
rinvio ad approfondire 
la 
questione 
dell’esistenza 
di 
una 
legge 
scientifica 
attestante 
l’effetto 
acceleratore 
della 
progressione 
del 
mesotelioma 
pleurico, 
attribuibile 
alle esposizioni ad amianto successive a quella di innesco. 


la 
Corte 
di 
appello di 
Venezia, quale 
giudice 
di 
rinvio, con sentenza 
n. 
1097 del 
16 marzo 2017, mostrando di 
condividere 
quanto sostenuto dal 
Tribunale 
di 
Padova 
in ordine 
all’impossibilità 
di 
affermare 
con certezza 
scientifica 
la 
sussistenza 
dell’effetto 
acceleratore 
in 
questione, 
confermava 
l’assoluzione 
degli 
imputati, 
per 
non 
esser 
emersa 
la 
prova 
che, 
con 
riferimento 
ai 
periodi 
in 
cui 
gli 
imputati 
avevano 
ricoperto 
le 
posizioni 
di 
garanzia, 
le 
esposizioni 
ad amianto successive 
a 
quella 
di 
innesco avessero accorciato il 
periodo di 
latenza 
della 
patologia, con conseguente 
anticipazione 
della 
morte 
delle 
persone 
offese. 
il 
Giudice 
del 
rinvio 
condannava, 
altresì, 
alle 
spese 
le 
parti 
civili 
che, pur non avendo proposto ricorso per cassazione, avevano comunque 
partecipato al giudizio di rinvio. 

la 
sentenza 
n. 
1097 
del 
2017 
della 
Corte 
di 
appello 
di 
Venezia 
veniva 
impugnata 
sia 
dalla 
Procura 
Generale 
sia 
dalle 
parti 
civili. la 
parte 
pubblica 
censurava 
la 
sentenza 
impugnata 
per 
la 
violazione 
dell’art. 
627, 
comma 
secondo, 
c.p.p., per aver la 
Corte 
di 
Appello disatteso la 
richiesta 
delle 
parti 
di 
rinnovazione 
dell’istruzione 
dibattimentale, 
per 
l’assunzione 
di 
prove 
rilevanti 
ai 
fini 
della 
decisione. le 
parti 
civili 
sollevavano le 
medesime 
censure 
mosse 
dal 
p.g. e 
lamentavano, in aggiunta, la 
violazione 
dell’art. 592 c.p.p., contestando 
la 
condanna 
al 
pagamento delle 
spese 
processuali. la 
Corte 
di 
Cassazione 
-con la 
sentenza 
n. 11451 del 
6 novembre 
2018, depositata 
il 
14 marzo 
2019 -affermava 
che 
il 
giudice 
di 
rinvio aveva 
ignorato i 
criteri 
interpretativi 
forniti 
dalla 
sentenza 
del 
2015, pervenendo alla 
conclusione 
secondo la 
quale 
il 
contrasto 
di 
opinioni 
scientifiche 
non 
sarebbe 
sufficiente 
ad 
escludere 
la 
sussistenza 
di 
una 
legge 
di 
copertura 
qualora 
non 
si 
verifichi 
l’indipendenza 
degli 
esperti 
e 
la 
validità 
delle 
argomentazioni 
profuse. la 
Suprema 
Corte, dunque, 
annullava 
con rinvio ad altra 
sezione 
della 
Corte 
di 
appello di 
Venezia 
la 
sentenza 
impugnata 
e, contestualmente, annullava 
senza 
rinvio il 
capo della 
sentenza 
relativo 
alle 
spese 
gravanti 
sulle 
parti 
civili, 
prendendo 
atto 
che 
le 
stesse 
non avevano impugnato la prima sentenza della Corte di appello di 
Venezia. 


la 
Corte 
di 
appello 
di 
Venezia, 
con 
la 
sentenza 
n. 
2907 
del 
30 
ottobre 
2020, 
depositata 
il 
21 
gennaio 
2021, 
riteneva 
che 
i 
reati 
contestati 
agli 
imputati 
si 
fossero 
estinti 
per 
intervenuta 
prescrizione, 
sulla 
base 
dell’assunto 
che 
la 



ConTenzioSo 
nAzionAle 


sospensione 
della 
prescrizione 
prevista 
dall’art. 
83 
d.l. 
18/2020 
non 
opererebbe 
nel 
caso di 
specie. Ciò per il 
fatto che, in primo luogo, non era 
stata 
fissata 
alcuna 
udienza 
nel 
primo periodo di 
sospensione 
(9 marzo-11 maggio 2020) e, 
in 
secondo 
luogo, 
poiché 
l’unica 
udienza 
prevista 
nel 
c.d. 
secondo 
periodo 
(18 
maggio-30 giugno 2020) era stata regolarmente celebrata. 

dopo 
aver 
risolto 
in 
senso 
negativo 
le 
problematiche 
relative 
alla 
sospensione 
dei 
termini 
di 
prescrizione, il 
Giudice 
del 
rinvio focalizzava 
la 
sua 
attenzione 
sulle 
tre 
questioni 
principali 
oggetto 
del 
giudizio: 
analisi 
della 
posizione 
processuale 
della 
parte 
civile 
e 
limiti 
al 
principio 
d’immanenza; 
prevalenza 
della 
formula 
assolutoria 
sulla 
declaratoria 
di 
prescrizione 
in 
mancanza 
di 
accoglimento 
dell’appello 
del 
P.M.; 
assenza 
dei 
presupposti 
per 
lo 
svolgimento di 
un ulteriore 
approfondimento scientifico a 
causa 
delle 
persistenti 
incertezze 
in 
merito 
alla 
concretezza 
del 
rischio 
di 
esposizione 
all’amianto 
delle persone offese. 


nelle 
sentenze 
di 
merito 
susseguitesi 
nella 
complessa 
vicenda 
processuale, 
definita 
con 
la 
sentenza 
n. 
2907/2020 
della 
Corte 
d’Appello 
di 
Venezia, 
non 
è 
mai 
intervenuta 
una 
sentenza 
di 
affermazione 
della 
responsabilità 
penale. 
i Giudici 
di 
secondo grado, pertanto, hanno rilevato l’inapplicabilità 
della 
disposizione 
di 
cui 
all’art. 
578 
c.p.p., 
con 
le 
conseguenti 
connessioni 
tra 
prescrizione 
e 
conferma 
della 
responsabilità 
ai 
fini 
civili 
insegnate 
dalla 
storica 
sentenza 35490/2009, ric. Tettamanti. 


le 
pretese 
risarcitorie 
delle 
parti 
civili 
sono 
state 
rigettate 
dal 
momento 
che 
quest’ultime 
hanno 
prestato 
acquiescenza 
in 
relazione 
alla 
sentenza 
14 
luglio 
2014 
n. 
1101, 
con 
cui 
la 
Corte 
di 
Appello 
di 
Venezia 
-a 
seguito 
dell’impugnazione 
proposta 
dal 
P.M. 
e 
dalle 
parti 
civili 
avverso 
la 
sentenza 
assolutoria 
del 
Tribunale 
di 
Padova 
del 
22 
marzo 
2012 
-non 
ha 
provveduto 
sull’autonoma 
domanda 
delle 
parti 
civili 
appellanti, 
in 
manifesta 
violazione 
dell’art. 
576 
c.p.p. 


da 
quel 
momento, 
la 
loro 
presenza 
nel 
giudizio 
è 
proseguita 
nei 
limiti 
previsti e consentiti dal principio di immanenza. 


A 
tal 
proposito è 
stato osservato che 
la 
parte 
civile, in parziale 
deroga 
del 
generale 
obbligo di 
costituzione 
di 
cui 
agli 
artt. 78 e 
ss. c.p.p., possa 
giovarsi 
del 
c.d. principio di 
immanenza, che 
sottrae 
la 
parte 
dall’onere 
di 
rinnovare 
in 
ogni 
fase 
o grado del 
processo la 
costituzione 
già 
validamente 
effettuata 
nel 
primo grado di giudizio. 

Trattasi 
di 
principio codificato dall’art. 76, co. 2, c.p.p., secondo cui: 
“la 
costituzione 
di 
parte 
civile 
produce 
i 
suoi 
effetti 
in ogni 
stato e 
grado del 
processo”. 
oltre 
ad essere 
esonerata 
dalla 
necessità 
di 
rinnovare 
la 
costituzione 
in giudizio per ogni 
stato e 
grado, la 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
è 
concorde 
nel 
ritenere 
che 
la 
parte 
civile 
non sia 
soggetta 
all’obbligo di 
presenziare 
al 
giudizio di appello e presentare le conclusioni all’esito della discussione. 


rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


Tuttavia, 
in 
caso 
di 
proscioglimento 
dell’imputato, 
ove 
la 
parte 
civile 
non 
impugni 
il 
capo 
civile 
a 
lei 
sfavorevole 
-e 
per 
tale 
s’intende 
anche 
un’eventuale 
condanna 
alle 
spese 
e 
al 
risarcimento 
del 
danno 
a 
favore 
dell’imputato 
-il 
suo 
comportamento 
rinunciatario 
potrebbe 
comportare 
la 
formazione 
del 
giudicato 
in 
ordine 
al 
relativo 
rapporto 
con 
effetti 
sia 
sostanziali 
che 
processuali. 


in 
passato, 
l’orientamento 
della 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
era 
sicuramente 
più 
rigoroso. 
Si 
riteneva, 
infatti, 
che: 
«nell'ipotesi 
in 
cui 
la 
parte 
civile 
ottenga 
una 
pronuncia 
di 
merito 
per 
lei 
pregiudizievole, 
al 
fine 
di 
ottenere 
nel 
successivo 
grado 
di 
giudizio 
una 
modifica 
favorevole 
della 
suddetta 
decisione, 
non 
può 
avvalersi 
del 
gravame 
proposto 
dal 
pubblico 
ministero, 
il 
quale 
mira 
a 
conseguire 
finalità 
pubbliche 
volte 
soltanto 
all'attuazione 
della 
pretesa 
punitiva, 
ma 
deve 
presentare 
autonoma 
e 
motivata 
impugnazione. 
Ciascuna 
parte 
ha, 
infatti, 
l'onere 
di 
essere 
vigile 
nella 
difesa 
dei 
propri 
interessi, 
senza 
delega 
ad 
altri 
del 
compito 
della 
relativa 
tutela. 
Ne 
deriva 
che, 
nell'ipotesi 
in 
cui 
la 
parte 
civile 
non 
proponga 
gravame 
avverso 
la 
decisione 
per 
lei 
negativa, 
si 
verifica 
acquiescenza 
e, 
quindi, 
quest'ultima 
acquista 
autorità 
di 
cosa 
giudicata. 
Le 
norme 
civili, 
che 
disciplinano 
(art. 
329 
c.p.p.) 
la 
materia, 
trovano, 
infatti, 
applicazione 
nel 
procedimento 
penale, 
poiché 
non 
v'è 
una 
specifica 
previsione 
contraria 
e 
la 
disposizione 
è 
perfettamente 
compatibile 
con 
il 
diverso 
rito» 
(Cassazione 
penale, 
Sez. 
iii, 
sentenza 
n. 
10305 
del 
3 
dicembre 
1996). 


A 
partire 
dalla 
nota 
Cass. Sez. Un., 10 luglio 2002, n. 30327, ric. Guada-
lupi, si 
sono susseguite 
diverse 
pronunce 
della 
Suprema 
Corte, più attente 
a 
valorizzare 
l’interesse 
della 
parte 
civile 
a 
ottenere 
il 
risarcimento del 
danno a 
seguito 
dell’accoglimento 
dell’appello 
del 
P.M. 
avverso 
la 
sentenza 
di 
proscioglimento, 
con conseguente condanna dell’imputato. 

Per 
granitico 
orientamento 
giurisprudenziale 
si 
ritiene, 
oggi, 
che 
sia 
onere 
del 
giudice 
di 
seconde 
cure 
provvedere 
sulla 
domanda 
civilistica 
pur 
in 
assenza 
di 
autonoma 
impugnazione 
della 
parte 
civile 
ai 
sensi 
dell’art. 
576 
c.p.p.: 
il 
principio 
di 
immanenza 
della 
costituzione 
di 
parte 
civile 
è 
destinato 
a 
produrre 
i 
suoi 
effetti 
in favore 
di 
questa, anche 
in presenza dell’appello del 
solo Pubblico 
ministero contro la sentenza di 
assoluzione, quando gli 
sia favorevole, 
cioè 
si 
tratti 
di 
una sentenza di 
condanna 
(cfr., ex 
multis, Cass. Pen., Sez. V, 
14 novembre 2017, n. 315). 

il 
limite 
all’operatività 
del 
principio di 
immanenza, con consequenziale 
statuizione 
del 
giudice 
sulle 
pretese 
restitutorie 
o 
risarcitorie 
della 
parte 
civile, 
è 
che 
venga 
accolto 
l’appello 
della 
parte 
pubblica 
e 
l’assoluzione 
sia 
convertita 
in condanna. 


Tale 
circostanza 
non si 
è 
verificata 
nel 
caso in esame, pertanto la 
Corte 
d’Appello ha rigettato la pretesa risarcitoria delle parti civili. 

nel 
giungere 
a 
tale 
conclusione, la 
Corte 
lagunare 
ha 
quindi 
analizzato 
le 
possibilità 
di 
cui 
dispone 
la 
parte 
civile 
a 
fronte 
di 
sentenza 
di 
proscioglimento 
deliberata in primo grado. 


ConTenzioSo 
nAzionAle 


la 
prima 
è 
rimettersi 
all’impugnazione 
della 
sola 
parte 
pubblica, confidando 
che 
conduca 
a 
una 
condanna 
agli 
effetti 
penali, con conseguente 
pronuncia 
sull’originaria 
domanda 
civile, 
in 
virtù 
del 
principio 
di 
immanenza. 
Ciò significa 
che 
il 
giudice 
di 
appello, il 
quale 
su gravame 
del 
solo P.M. condanni 
l'imputato assolto nel 
giudizio di 
primo grado, deve 
provvedere 
anche 
sulla 
domanda 
della 
parte 
civile 
che 
non abbia 
impugnato la 
decisione 
assolutoria 
(ex 
art. 597, secondo comma, lett. a 
e 
b, c.p.p.: 
“adottare 
ogni 
provvedimento 
imposto 
o 
consentito 
dalla 
legge”, 
secondo 
Cass., 
Sez. 
Un., 
n. 
30327, 
10 luglio 2002, ric. Guadalupi). 

la 
seconda 
è 
impugnare 
autonomamente, ai 
sensi 
dell’art. 576 c.p.p., divenendo 
titolare 
del 
diritto autonomo alla 
pronuncia 
giurisdizionale 
ai 
fini 
civili, 
anche 
nel 
caso in cui 
l’azione 
penale 
si 
concluda 
senza 
deliberazione 
di 
condanna. 


in questo processo, le 
parti 
civili 
hanno rinunciato consapevolmente 
al-
l’impugnazione 
autonoma 
ai 
sensi 
dell’art. 576 c.p.p. quando hanno deciso di 
non impugnare 
la 
prima 
sentenza 
d’appello, nella 
parte 
in cui 
-avendo riconosciuto 
la 
responsabilità 
degli 
imputati, ma 
avendo ritenuto estinti 
i 
reati 
per 
insussistenza 
delle 
circostanze 
aggravanti 
-ha 
omesso la 
doverosa 
pronuncia 
sul risarcimento del danno. 

A 
partire 
da 
questo momento, la 
loro posizione 
processuale 
si 
è 
consolidata. 
È 
vero che 
la 
parte 
civile, giovandosi 
del 
principio di 
immanenza, non è 
tenuta 
a 
rinnovare 
in 
ogni 
fase 
o 
grado 
del 
processo 
la 
costituzione 
validamente 
effettuata 
in primo grado. Tuttavia, ove 
l’appello del 
P.M. non venga 
accolto 
e, dunque, l’assoluzione 
non venga 
convertita 
in condanna, la 
parte 
civile 
non 
può 
rinnovare 
le 
sue 
pretese 
risarcitorie, 
sulle 
quali 
si 
è 
determinata 
una 
ferrea 
preclusione assimilabile al giudicato. 


da 
tali 
premesse 
deriva 
che 
sulla 
parte 
civile 
incombe 
un preciso onere 
di 
attivarsi, qualora 
sia 
legittimata 
alla 
impugnazione. in assenza 
di 
gravame, 
infatti, 
la 
sua 
posizione 
sostanziale 
è 
legata 
a 
doppio 
filo 
con 
la 
sorte 
della 
domanda 
di parte pubblica. 


la 
Corte 
lagunare, 
pertanto, 
svolte 
le 
suesposte 
considerazioni, 
ha 
rilevato 
la 
maturazione 
del 
termine 
di 
prescrizione 
dei 
reati 
contestati 
ad entrambi 
gli 
imputati 
e 
si 
è 
concentrata 
sul 
rapporto 
intercorrente 
fra 
il 
proscioglimento 
nel 
merito e la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione. 

il 
problema 
che 
si 
è 
posto, a 
questo punto, all’attenzione 
del 
Giudice 
del 
rinvio 
è 
se 
occorresse 
dare 
prevalenza 
alla 
formula 
assolutoria 
rispetto 
alla 
causa estintiva dei reati contestati agli imputati. 

Trattasi 
di 
questione 
di 
forte 
rilevanza 
pratica 
ma 
anche 
di 
spessore 
teorico: 
se 
al 
quesito si 
fosse 
data 
risposta 
positiva, infatti, la 
Corte 
di 
Appello si 
sarebbe 
dovuta 
limitare 
a 
confermare 
la 
sentenza 
di 
proscioglimento del 
Tribunale 
di 
Padova; 
nel 
caso contrario, avrebbe 
dovuto dichiarare 
estinti 
i 
reati 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


per prescrizione 
con sentenza 
di 
non doversi 
procedere 
ai 
sensi 
dell’art. 531 
c.p.p. 


la 
regola 
della 
prevalenza 
dell’assoluzione 
dell’imputato, con il 
suo effetto 
ampiamente 
liberatorio, risponde 
alla 
logica 
del 
favor 
rei, principio che 
permea la disciplina dell’intero processo penale. 

l’interesse 
dell’imputato, tuttavia, deve 
essere 
contemperato con le 
esigenze 
di 
certezza 
del 
diritto 
e 
di 
economia 
processuale, 
che 
impongono 
di 
non 
proseguire 
oltre 
con 
il 
processo 
in 
presenza 
di 
una 
causa 
di 
estinzione 
del 
reato. 


il 
rapporto 
fra 
i 
due 
interessi 
contrapposti 
è 
ben 
rappresentato 
dall’art. 
129, 
comma 
2, 
c.p.p., 
in 
base 
al 
quale: 
“quando 
ricorre 
una 
causa 
di 
estinzione 
del 
reato 
ma 
dagli 
atti 
risulta 
evidente 
che 
il 
fatto 
non 
sussiste 
o 
che 
l'imputato 
non lo ha commesso o che 
il 
fatto non costituisce 
reato o non è 
previsto dalla 
legge 
come 
reato, il 
giudice 
pronuncia sentenza di 
assoluzione 
o di 
non luogo 
a procedere con la formula prescritta”. 


l’orientamento prevalente 
sostiene 
che 
da 
tale 
norma 
sia 
implicitamente 
ricavabile 
il 
principio 
di 
prevalenza 
delle 
formule 
assolutorie 
di 
merito 
su 
quelle dichiarative dell'estinzione del reato. 

risulta, 
tuttavia, 
indubbio 
che 
detto 
principio 
è 
razionalmente 
contemperato 
(proprio ai 
fini 
di 
economia 
processuale) con l'esigenza 
che 
appaia 
del 
tutto “evidente” 
dalle 
risultanze 
probatorie 
che 
il 
fatto non sussiste 
o che 
l'imputato 
non 
lo 
ha 
commesso 
o 
che 
il 
fatto 
non 
costituisce 
reato 
o 
non 
è 
previsto 
dalla legge come reato. 

Pertanto, il 
legislatore 
ha 
voluto perseguire 
la 
massima 
semplificazione 
nello svolgimento del 
processo, con eliminazione 
di 
ogni 
atto o attività 
non 
essenziale 
(come 
la 
rinnovazione 
istruttoria), 
ponendo 
a 
fondamento 
dell'intero 
sistema 
codicistico la 
finalità 
di 
raggiungere 
un accettabile 
risultato in punto 
di durata ragionevole del procedimento penale. 


la 
giurisprudenza 
si 
è 
a 
lungo 
interrogata 
sulla 
portata 
del 
secondo 
comma 
dell’art. 
129 
nella 
parte 
in 
cui 
richiede 
che 
“l’evidenza” 
debba 
risultare 
“dagli 
atti”. in particolare, ci 
si 
è 
chiesto se 
il 
giudice 
possa 
assolvere 
l’imputato 
solo se 
“dagli 
atti” 
emerga 
la 
prova 
positiva 
che 
“il 
fatto non sussiste 
o 
che 
l'imputato non lo ha commesso o che 
il 
fatto non costituisce 
reato o non 
è 
previsto dalla legge 
come 
reato”, o viceversa 
se 
sia 
sufficiente 
una 
“prova 
negativa”. in quest’ultimo caso, l’accertamento può limitarsi 
alla 
mera 
insufficienza 
o contraddittorietà 
della 
prova 
che 
obbliga 
il 
giudice 
di 
pronunciare 
sentenza di assoluzione ai sensi dall’art. 530, comma 2 c.p.p. 


Su tale 
questione 
è 
sorto un contrasto nella 
giurisprudenza 
di 
legittimità. 

Un primo orientamento interpretativo ha 
escluso l'applicabilità 
della 
regola 
di 
cui 
all'art. 530, comma 
2, in presenza 
di 
una 
causa 
estintiva 
di 
reato. 
in 
senso 
contrario, 
si 
è, 
invece, 
sostenuto 
che, 
giusta 
l'equiparazione 
contenuta 
nell'art. 
530, 
comma 
2, 
tra 
la 
prova 
positiva 
dell'innocenza 
a 
quella 
della 
mancanza, 
insufficienza 
e 
contraddittorietà 
della 
stessa, nell'ipotesi 
di 
incertezza 



ConTenzioSo 
nAzionAle 


probatoria 
debba 
prevalere 
la 
formula 
di 
merito di 
cui 
all'art. 530, comma 
2, 
rispetto alla declaratoria della causa estintiva. 


A 
fronte 
del 
contrasto 
emerso 
nella 
giurisprudenza 
di 
legittimità, 
si 
è 
reso 
necessario l'intervento delle 
Sezioni 
Unite, le 
quali, aderendo al 
primo degli 
orientamenti 
sovra 
citati, hanno affermato che, in caso di 
contraddittorietà 
o 
insufficienza 
della 
prova, 
debba 
comunque 
prevalere 
l'immediata 
declaratoria 
di 
non punibilità 
rispetto al 
proscioglimento nel 
merito 
ex 
art. 530, comma 
2, 
«posto 
che 
il 
giudice 
può 
pronunciare 
sentenza 
di 
assoluzione 
ex 
art. 
129, 
comma 2, soltanto nei 
casi 
in cui 
le 
circostanze 
idonee 
a escludere 
l'esistenza 
del 
fatto, 
la 
sua 
rilevanza 
penale 
ovvero 
la 
non 
commissione 
del 
medesimo 
da 
parte 
dell'imputato 
emergano 
dagli 
atti 
in 
modo 
assolutamente 
incontestabile, 
ferme 
restando le 
ipotesi 
in cui 
il 
giudice 
sia chiamato a dover 
approfondire 
ex professo il materiale probatorio acquisito». 


Alla 
luce 
delle 
considerazioni 
svolte 
e 
dell’insegnamento delle 
Sezioni 
Unite 
“Tettamanti”, 
la 
Corte 
di 
Appello 
di 
Venezia 
ha 
preso 
atto 
che 
-nel 
caso 
di 
specie 
-non 
sussistevano 
le 
condizioni 
per 
il 
proscioglimento 
degli 
imputati 
ai sensi dell’art. 129, comma 2, c.p.p. 


Allo 
stesso 
tempo, 
tuttavia, 
la 
Corte 
lagunare 
ha 
chiosato 
che 
la 
formula 
assolutoria 
-nell’esaminanda 
vicenda 
-non 
poteva 
che 
prevalere 
sulla 
declaratoria 
di 
estinzione 
del 
reato 
per 
intervenuta 
prescrizione. 
Questa 
soluzione 
è 
stata 
imposta, 
ancora 
una 
volta, 
dalla 
stessa 
sentenza 
delle 
Sezioni 
Unite 
del 
2009. 


il 
Supremo Consesso, difatti, a 
fronte 
del 
suesposto principio di 
diritto, 
pone due deroghe di considerevole rilievo. 


Per 
le 
SS.UU, 
in 
presenza 
di 
una 
accertata 
contraddittorietà 
o 
insufficienza 
della 
prova, 
la 
formula 
del 
proscioglimento 
nel 
merito 
prevale 
sulla 
causa 
estintiva 
soltanto in due 
ipotesi: 
a) nel 
caso previsto dall'art. 578, ossia 
qualora 
il 
giudice 
di 
appello -pur essendo intervenuta 
una 
causa 
estintiva 
del 
reato -è 
chiamato a 
valutare 
il 
compendio probatorio ai 
fini 
delle 
statuizioni 
civili 
per la 
presenza 
della 
parte 
civile; 
b) nel 
caso in cui 
il 
giudice 
di 
appello 


-nonostante 
il 
sopravvenire 
di 
una 
causa 
estintiva 
-ritenga 
infondato nel 
merito 
l'appello proposto dal 
pubblico ministero avverso la 
sentenza 
di 
assoluzione 
di primo grado resa ai sensi dell'art. 530, comma 2. 
il 
Giudice 
del 
rinvio ha 
valorizzato l’ipotesi 
sub b). nel 
caso di 
specie, 
infatti, il 
Tribunale 
di 
Padova 
aveva 
assolto in primo grado gli 
imputati 
e, secondo 
la 
Corte 
di 
Appello, non sussistevano le 
condizioni 
per dichiarare 
fondato 
-allo stato degli 
atti 
-l’appello del 
pubblico ministero. Pertanto, la 
Corte 
ha 
concluso correttamente 
nel 
senso di 
escludere 
che 
la 
pur rilevata 
prescrizione 
dei 
reati 
contestati 
potesse 
precludere 
la 
conferma 
della 
predetta 
sentenza 
assolutoria. 


Per quanto concerne 
il 
merito della 
controversia, la 
Corte 
di 
Appello di 
Venezia 
ha 
preso 
atto 
di 
quanto 
prescritto 
dalla 
terza 
sezione 
della 
Cassazione 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


nel 
giudizio rescindente 
(sentenza 
del 
14 marzo 2019, n. 11451). la 
Suprema 
Corte, 
in 
particolare, 
ha 
evidenziato 
la 
necessità 
che 
il 
Giudice 
del 
rinvio 
svolgesse, 
anche 
con l'ulteriore 
ausilio di 
esperti 
qualificati 
e 
indipendenti, i 
necessari 
approfondimenti 
istruttori 
volti 
ad accertare 
se 
la 
prosecuzione 
della 
esposizione 
all’amianto dei 
lavoratori 
potesse 
aver prodotto un'accelerazione 
dei 
tempi 
della 
progressione 
della 
malattia, incidendo conseguentemente 
sul 
nesso causale tra l'esposizione stessa e l'evento morte. 

la 
problematica 
concernente 
la 
rilevanza 
eziologica 
delle 
esposizioni 
a 
fibre 
di 
amianto 
rispetto 
all’insorgenza 
e 
lo 
sviluppo 
di 
patologie 
professionali 
costituisce 
oggetto di 
un intenso dibattito giurisprudenziale 
e 
dottrinale, non 
ancora sopito. 

il 
punctum 
dolens 
di 
tale 
complessa 
vicenda 
giudiziaria 
non è 
stato stabilire 
se 
l’inalazione 
di 
fibre 
potesse 
cagionare 
malattie 
(come 
il 
mesotelioma 
pleurico). 
Su 
tale 
questione, 
infatti, 
si 
registra 
un 
consenso 
unanime 
e 
positivo 
della 
comunità 
scientifica. Ciò che 
è 
risultato incerto, invece, è 
se 
vi 
sia 
stata 
un’effettiva 
esposizione 
dei 
lavoratori 
all’amianto nei 
periodi 
in cui 
gli 
imputati 
erano 
titolari 
di 
posizioni 
di 
garanzia 
e, 
in 
caso 
di 
risposta 
affermativa, 
quali 
sono stati 
i 
periodi 
che 
abbiano avuto una 
rilevanza 
causale 
in concreto. 


inoltre, 
permangono 
dubbi, 
in 
seno 
alla 
comunità 
scientifica, 
anche 
in 
merito alla 
scansione 
temporale 
del 
mesotelioma 
pleurico. in relazione 
a 
tale 
patologia, 
gli 
esperti 
distinguono 
la 
fase 
della 
c.d. 
induzione, 
comprensiva 
della 
iniziazione, 
in 
cui 
l’agente 
cancerogeno 
aggredisce 
le 
cellule, 
e 
della 
promozione, 
nella 
quale 
le 
cellule 
compromesse 
iniziano a 
proliferare; 
e 
la 
fase 
della 
c.d. 
latenza, 
a 
partire 
dalla 
quale 
il 
processo 
tumorale 
diviene 
irreversibile 
ed è 
provata 
l’irrilevanza 
di 
tutte 
le 
successive 
esposizioni. risulta, pertanto, 
dirimente 
l’individuazione 
dell’esatto 
momento 
in 
cui 
la 
malattia 
giunge 
al 


c.d. failure 
time, con cui 
si 
chiude 
il 
periodo dell'induzione 
e 
inizia 
la 
fase 
di 
latenza 
clinica. 
Si 
tratta 
di 
un 
cruciale 
spartiacque 
la 
cui 
corretta 
individuazione 
consente 
di 
selezionare, 
a 
ritroso, 
le 
condotte 
rilevanti 
dal 
punto 
di 
vista 
penale, 
realizzate dai singoli titolari di posizioni di garanzia. 
nel 
caso di 
specie, la 
Corte 
di 
Appello di 
Venezia 
ha 
ritenuto che 
-prima 
di 
svolgere 
l’approfondimento 
scientifico 
in 
merito 
alla 
sussistenza 
di 
una 
legge 
di 
copertura 
relativa 
al 
c.d. 
“effetto 
acceleratore” 
richiesto 
dalla 
Suprema 
Corte 
-fosse 
necessario 
disporre 
una 
parziale 
rinnovazione 
probatoria 
proprio 
allo scopo di 
dipanare 
le 
incertezze 
circa 
la 
concretezza 
del 
rischio di 
esposizione 
all’amianto da 
parte 
delle 
persone 
offese, nei 
periodi 
in cui 
gli 
imputati 
ricoprivano le posizioni di garanzia. 


difatti, 
l’accertamento 
del 
contatto 
con 
la 
sostanza 
nociva 
costituisce 
evidentemente 
un approfondimento istruttorio logicamente 
prodromico a 
quello 
volto a 
individuare 
-mediante 
l’ausilio dei 
periti 
-la 
legge 
scientifica 
di 
copertura 
del c.d. “effetto acceleratore”. 

Sul 
punto, la 
Corte 
lagunare 
-dopo aver risentito il 
teste 
che 
per conto 



ConTenzioSo 
nAzionAle 


della 
Procura 
della 
repubblica 
aveva 
svolto 
le 
indagini 
-è 
giunta 
ad 
affermare 
che, sulla 
base 
del 
compendio probatorio e 
di 
tutte 
le 
informazioni 
fornite 
dal 
teste, permanessero forti 
dubbi 
in ordine 
alla 
concretezza 
del 
rischio di 
esposizione 
ad amianto delle 
due 
persone 
offese. Più in particolare, per quanto attiene 
alla 
posizione 
del 
primo 
militare 
deceduto, 
non 
risultava 
provato 
neanche 
che 
lo stesso avesse 
svolto mansioni 
che 
potessero dare 
luogo significativamente 
all'esposizione 
alle 
polveri 
di 
amianto; 
diversamente, rispetto alla 
posizione 
del 
secondo militare, non risultava 
adeguatamente 
dimostrato come, 
in 
che 
entità 
e 
durante 
quali 
lavorazioni 
potesse 
aver 
avuto 
occasione 
di 
venire 
a contatto ravvicinato con le fibre. 


Alla 
luce 
dell’incertezza 
probatoria 
riscontrata 
“a 
monte” 
sul 
piano causale, 
il 
Giudice 
del 
rinvio non ha 
ritenuto necessario svolgere 
alcun ulteriore 
approfondimento 
scientifico 
in 
merito 
al 
c.d. 
“effetto 
acceleratore”, 
così 
come 
richiesto dalla 
Corte 
di 
Cassazione 
ma, tenuto in considerazione 
il 
contrasto 
di 
opinioni 
scientifiche 
vigente 
in 
materia, 
ha 
confermato 
la 
sentenza 
di 
primo 
grado che aveva assolto gli imputati. 

Tale 
soluzione 
si 
è 
rivelata 
una 
scelta 
obbligata 
per la 
Corte 
territoriale, 
dettata 
dal 
fatto che 
-a 
distanza 
di 
ben otto anni 
dalla 
sentenza 
assolutoria 
di 
primo grado -i 
conflitti 
nel 
dibattito scientifico non si 
sono ancora 
sopiti. Ciò 
ha 
determinato, altresì, il 
consolidarsi 
di 
due 
orientamenti 
divergenti 
anche 
in 
seno alla stessa Corte di legittimità. 

in particolare, i 
contrasti 
si 
rinvengono nella 
giurisprudenza 
della 
terza 
e 
della 
quarta 
sezione 
penale 
della 
Cassazione. 
la 
quarta 
sezione 
è, 
notoriamente, 
competente 
a 
conoscere 
i 
procedimenti 
per delitti 
colposi 
in materia 
di 
sostanze 
nocive, mentre 
la 
terza 
sezione 
si 
è 
occupata 
di 
processi 
per amianto 
in conseguenza 
del 
fatto che 
a 
essa 
è 
attribuito il 
compito di 
conoscere 
dei 
ricorsi 
contro 
le 
sentenze 
pronunziate 
in 
sede 
di 
rinvio, 
dopo 
che 
vi 
sia 
stato 
annullamento 
da parte della quarta sezione. 


il 
contrasto 
attiene, 
in 
primo 
luogo, 
all’individuazione 
dell’adeguato 
livello 
di 
condivisione 
di 
una 
data 
legge 
di 
spiegazione 
causale 
nella 
comunità 
degli 
esperti 
ai 
fini 
di 
una 
condanna 
degli 
imputati 
e, 
in 
secondo 
luogo, 
al 
ruolo 
che 
compete 
al 
giudice 
di 
merito 
quando 
-a 
fronte 
di 
un’insanabile 
incertezza 
scientifica 
-si 
trova 
a 
svolgere 
l’arduo 
compito 
del 
peritus 
peritorum. 


di 
recente, si 
assiste 
a 
un progressivo consolidamento dell’orientamento 
di 
maggior favor, secondo il 
quale, mentre 
ai 
fini 
dell’assoluzione 
dell’imputato 
è 
sufficiente 
il 
solo 
serio 
dubbio, 
in 
seno 
alla 
comunità 
scientifica, 
sul 
rapporto 
di 
causalità 
tra 
la 
condotta 
e 
l’evento, 
la 
condanna 
deve, 
invece, 
fondarsi 
su un sapere 
scientifico largamente 
accreditato tra 
gli 
studiosi, richiedendosi 
che 
la 
colpevolezza 
dell’imputato sia 
provata 
al 
di 
là 
di 
ogni 
ragionevole 
dubbio 
(in tal senso, la sentenza “Pesenti”, Cass., Sez. iV, 7 dicembre 2017). 


da 
ultimo, 
siffatto 
orientamento 
si 
è 
ulteriormente 
consolidato 
con 
la 
sentenza 
“Beduschi”, 
la 
quale 
ha 
affermato 
che 
l’oggetto 
della 
valutazione 
dei 
giu



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


dici 
di 
merito 
e 
di 
legittimità 
non 
è 
la 
configurabilità 
o 
meno 
di 
un 
effetto 
acceleratore, 
bensì 
l’esistenza 
di 
un 
adeguato 
consenso 
sul 
punto 
che 
raggiunga 
«quella 
elevata 
probabilità 
logica 
e 
credibilità 
razionale 
richiesta 
per 
poter 
addivenire 
ad 
una 
pronuncia 
di 
condanna 
degli 
imputati 
che 
hanno 
assunto 
posizioni 
di 
garanzia 
nel 
periodo 
successivo 
al 
completamento 
del 
periodo 
di 
induzione 
per 
ciascuno 
dei 
lavoratori» 
(Cass., 
Sez. 
iV, 
12 
ottobre 
2018). 


dunque, 
il 
solo 
serio 
dubbio, 
in 
seno 
alla 
comunità 
scientifica, 
in 
relazione 
al 
nesso causale 
fra 
condotta 
e 
evento è 
motivo più che 
sufficiente 
per 
assolvere 
l’imputato. Viceversa, poiché 
la 
condanna 
richiede 
che 
la 
colpevolezza 
dell’imputato 
sia 
provata 
al 
di 
là 
del 
ragionevole 
dubbio, 
il 
ragionamento 
sulla 
prova 
deve 
trovare 
il 
proprio aggancio e 
la 
propria 
motivazione 
in un sapere 
scientifico largamente 
accreditato tra 
gli 
studiosi. le 
teorie 
scientifiche, 
in altri 
termini, porteranno alla 
condanna 
oltre 
ogni 
ragionevole 
dubbio, solo 
quando siano ampiamente condivise dalla comunità degli esperti. 


risulta, pertanto, evidente 
come 
il 
Giudice 
del 
rinvio si 
sia 
inserito nel 
solco del 
sentiero tracciato dai 
recenti 
arresti 
della 
Suprema 
Corte 
e 
già 
condiviso, 
anni 
prima, 
dal 
Tribunale 
di 
Padova 
con 
la 
prima 
pronuncia 
assolutoria, 
in cui 
si 
legge 
che 
non è 
“rinvenibile 
l’esistenza di 
una legge 
scientifica -dotata 
di 
generale 
consenso nella comunità degli 
esperti 
-da cui 
ricavare 
la dimostrazione 
(…) 
in ordine 
all'esistenza di 
un effetto acceleratore 
(…). Anzi 
si 
può 
dire 
che 
il 
problema 
dell’accelerazione 
rimane 
un 
problema 
sostanzialmente 
irrisolvibile 
sino a quando la scienza medica non sarà in grado di 
conoscere 
il 
funzionamento dei 
complessi 
meccanismi 
biologici 
coinvolti 
nel-
l’insorgenza e nello sviluppo di una patologia tumorale”. 


in conclusione, si 
evidenzia 
che 
-preso atto della 
naturale 
deficienza 
nel 
sapere 
scientifico -il 
giudice 
di 
merito si 
trova 
dinanzi 
a 
una 
scelta 
obbligata: 
pervenire ad una sentenza assolutoria. 


Ciò 
non 
toglie 
che 
le 
vittime 
continuino 
ad 
avere 
diritto 
al 
ristoro 
dei 
danni 
subiti. Tuttavia, è 
evidente 
che 
il 
giudizio penale 
-influenzato dai 
principi 
di 
personalità 
della 
responsabilità 
(art. 27, comma 
primo, Cost.) e 
della 
presunzione 
d'innocenza 
-non 
costituisce 
la 
sede 
più 
idonea 
al 
fine 
di 
ottenere 
la 
giusta 
soddisfazione 
alle 
proprie 
pretese. infatti 
è 
notorio che, nel 
giudizio 
penale, essendo in gioco la 
libertà 
personale 
degli 
individui, la 
prova 
della 
responsabilità 
penale 
deve 
avvicinarsi 
alla 
certezza 
assoluta: 
la 
responsabilità 
deve essere accertata oltre ogni ragionevole dubbio. 

Ben 
diverso 
è, 
invece, 
lo 
statuto 
della 
causalità 
e 
il 
regime 
dell'onere 
probatorio 
nel 
contenzioso civile. la 
prova 
da 
raggiungere 
per ottenere 
il 
risarcimento 
del 
danno 
è 
di 
tipo 
probabilistico, 
secondo 
la 
formula 
del 
“più 
probabile 
che 
non”. 
Pertanto, 
risulta 
più 
semplice 
dimostrare 
la 
sussistenza 
del 
nesso 
causale e ottenere l’integrale riparazione dei danni subiti. 



ConTenzioSo 
nAzionAle 


Corte 
di 
appello di 
Venezia, Sezione 
Seconda Penale, sentenza 30 ottobre 
2020 -27 gennaio 
2021 n. 2907 
-Pres. C. Citterio, rel. V. Sgubbi. 


SVolGiMenTo del ProCeSSo 


1. Con sentenza 
n. 648/12 del 
22.3.2012, il 
Tribunale 
di 
Padova 
ha 
assolto gli 
imputati 
dal 
reato 
di 
omicidio 
colposo 
in 
danno 
di 
G. 
C. 
e 
G.F. 
B., 
deceduti 
rispettivamente 
il 
3.2.2002 
e il 4.9.2005 a causa di mesotelioma maligno. 
l'accusa 
a 
carico 
degli 
imputati 
era 
quella 
di 
aver 
contribuito, 
nella 
loro 
qualità 
di 
vertici 
della 
Marina 
Militare 
ricoperta 
nel 
corso 
degli 
anni, 
a 
causare 
le 
predette 
morti, 
con 
colpa 
consistita 
nell'aver omesso di 
rendere 
edotto il 
personale 
dipendente 
dei 
rischi 
per la 
salute 
provocati 
dalla 
presenza 
di 
amianto all'interno delle 
navi 
militari 
e 
degli 
ambienti 
di 
vita 
e 
di 
servizio a 
terra, oltre 
che 
dei 
rischi 
prodotti 
dalle 
lavorazioni 
cui 
erano adibiti 
e 
dalle 
polveri 
che 
respiravano, nell'aver omesso di 
sottoporre 
i 
lavoratori 
a 
specifici 
controlli 
sanitari 
e 
nel-
l'aver 
omesso 
di 
fornire 
adeguati 
presidi 
di 
protezione 
individuale 
o, 
comunque, 
misure 
idonee 
a impedire o ridurre la diffusione delle polveri di amianto nei luoghi di lavoro. 


le 
vittime 
erano state 
a 
lungo impiegate 
al 
servizio della 
Marina 
Militare 
sia 
a 
bordo 
che 
a 
terra: 
C., 
quale 
militare, 
dal 
1.8.1959 
(data 
del 
primo 
imbarco) 
al 
31.3.1995; 
B., 
in 
qualità 
di 
tecnico di 
macchina/meccanico, dal 
5.1.1974 (data 
del 
primo imbarco) al 
dicembre 
1996. 


All'esito 
dell'istruttoria, 
il 
Tribunale 
di 
Padova 
ha 
ritenuto 
dimostrato 
che 
le 
malattie 
fossero 
state 
contratte 
nell'esercizio 
dell'attività 
lavorativa 
svolta 
alle 
dipendenze 
della 
Marina 
Militare, ma 
ha 
ritenuto non provata 
oltre 
ogni 
ragionevole 
dubbio la 
responsabilità 
degli 
imputati 
poiché 
non era 
dimostrato né 
il 
momento di 
insorgenza 
della 
malattia 
tumorale 
né 
se 
e 
in quale 
misura 
le 
esposizioni 
successive 
a 
quella 
di 
innesco avessero avuto un rilevo causale 
nella progressione della malattia. 


Avverso 
tale 
sentenza 
assolutoria 
hanno 
proposto 
appello 
il 
pubblico 
ministero 
e 
le 
parti 
civili 
(si 
sono costituite 
nel 
processo le 
associazioni 
medicina democratica movimento per 
la 
salute onlus 
e 
Associazione italiana esposti amianto). 


2. Con sentenza 
n. 1101/2014 del 
14.7.2014, la 
Terza 
sezione 
penale 
della 
Corte 
di 
appello 
di 
Venezia 
ha 
riformato la 
sentenza 
impugnata, dichiarando nei 
confronti 
dell'imputato 
B. l'estinzione 
del 
reato a 
causa 
di 
morte 
e 
nei 
confronti 
degli 
altri 
(dei 
quali 
ha 
argomentato 
specificamente 
le 
ragioni 
di 
colpevolezza) l'estinzione 
per prescrizione. nonostante 
le 
parti 
civili 
avessero originariamente 
proposto autonomo appello contro la 
sentenza 
di 
proscioglimento 
ai 
sensi 
dell'art. 576 cod. proc. pen., quindi 
con specifico e 
autonomo impulso procedimentale 
di 
esercizio dell'autonoma 
azione 
civile, la 
Corte 
non ha 
provveduto sull'autonoma 
domanda 
risarcitoria 
delle 
parti 
civili 
appellanti, 
in 
violazione 
appunto 
dell'art. 
576 
cod. 
proc. 
pen. (Cass. Sezioni 
unite 
11.7.2006 n. 25083). Tuttavia 
le 
parti 
civili 
hanno prestato acquiescenza 
all'omessa 
pronuncia 
sulla 
loro 
autonoma 
domanda, 
non 
impugnando 
la 
pertinente 
deliberazione. 
2.1. 
la 
Corte 
ha 
innanzitutto 
affermato 
la 
riconducibilità 
delle 
patologie 
tumorali 
al-
l'esposizione 
alle 
fibre 
di 
asbesto 
durante 
il 
servizio 
alle 
dipendenze 
della 
Marina 
Militare 
(cfr. pagg. 144-160, in particolare), con argomentazione 
specifica 
che 
ha 
analizzato i 
fatti 
accertati 
e 
le 
contrapposte 
conclusioni 
dei 
numerosi 
consulenti 
delle 
parti, esaminandole 
partitamente 
(da 
pag. 96 a 
pag. 144), anche 
nei 
risvolti 
di 
apprezzamento e 
valutazione 
scientifica 
riconosciuta 
ai 
singoli 
apporti 
ed all'attendibilità 
delle 
fonti 
acquisite. Ha 
spiegato poi 
perché 
il 
reato contestato in astratto fosse 
in concreto ascrivibile 
ai 
singoli 
imputati, gravando su di 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


loro, 
in 
quanto 
figure 
apicali 
della 
Marina 
Militare, 
il 
dovere 
di 
protezione 
e 
di 
collaborazione 
finalizzati 
alla 
prioritaria 
attività 
di 
valutazione 
dei 
rischi 
per 
la 
salute 
dei 
dipendenti 
e 
al 
conseguente 
dovere di informazione (cfr., in particolare, le pagg. 161-164 della sentenza). 


la 
colpa 
degli 
imputati 
è 
stata, 
quindi, 
individuata 
nella 
mancanza 
di 
organizzazione 
esigibile 
da 
una 
struttura 
di 
eccellenza 
come 
la 
Marina 
Militare, 
posto 
che, 
in 
base 
al 
contesto 
normativo e 
alle 
conoscenze 
dell'epoca, sarebbe 
stato possibile, con un migliore 
e 
più tempestivo 
coordinamento tra 
le 
direzioni 
Generati 
e 
gli 
Uffici 
competenti 
del 
Capo di 
Stato Maggiore, 
anticipare 
le 
valutazioni 
inerenti 
alle 
cautele 
necessarie 
nelle 
lavorazioni 
in 
determinati 
ambienti. 


2.2. 
Tuttavia, pur ritenendo configurabile 
il 
delitto di 
omicidio colposo, la 
Corte 
ha 
interpretato 
l'art. 20, comma 
2, l. 183/2010 (c.d. Collegato lavoro) -secondo cui 
"fermo restando 
il 
diritto 
al 
risarcimento 
del 
danno 
del 
lavoratore, 
le 
norme 
aventi 
forza 
di 
legge 
emanate 
in attuazione 
della delega di 
cui 
all' 
articolo 2, lettera b), della Legge 
12 febbraio 
1955, 
n. 
51 
[delega 
al 
potere 
esecutivo 
ad 
emanare 
norme 
generali 
e 
speciali 
in 
materia 
di 
prevenzione 
e 
igiene 
del 
lavoro] 
si 
interpretano nel 
senso che 
esse 
non trovano applicazione 
in relazione 
al 
lavoro a bordo del 
naviglio di 
stato e, pertanto, le 
disposizioni 
penali 
di 
cui 
al 
decreto del 
Presidente 
della repubblica 19 marzo 1956, n. 303 
[contenenti 
norme 
generali 
per l'igienene 
del 
lavoro] 
non si 
applicano, per 
il 
periodo di 
loro vigenza, ai 
fatti 
avvenuti 
a 
bordo dei 
mezzi 
del 
medesimo naviglio" 
-nel 
senso di 
imporre 
la 
disapplicazione 
delle 
circostanze 
aggravanti 
ex 
art. 589, comma 2, cod. pen. 
Pertanto, dopo aver derubricato il 
reato aggravato nella 
fattispecie 
ordinaria, la 
Corte 
ne ha dichiarato l'intervenuta prescrizione. 


Avverso questa 
sentenza 
hanno appunto proposto ricorso per cassazione 
solo il 
procuratore 
generale, i 
responsabili 
civili 
e 
gli 
imputati: 
questi 
ultimi 
hanno evidenziato che 
il 
passaggio 
dall'assoluzione 
alla 
prescrizione 
non 
sarebbe 
potuto 
avvenire, 
in 
ogni 
caso, 
senza 
previa rinnovazione istruttoria. 


il 
ricorso 
del 
procuratore 
generale 
ha 
dichiaratamente 
posto 
un 
unico 
motivo: 
quello 
dell'erronea 
interpretazione 
dell'art. 
20, 
comma 
2, 
legge 
183/2020. 
Abbandonato 
il 
punto 
della 
decisione 
relativo 
all'eventuale 
applicazione 
dell'art. 
2087 
cod. 
civ. 
quale 
fonte 
dell'aggravante 
di 
cui 
all'art. 589, comma 
2, seconda 
parte, cod. pen., la 
parte 
pubblica 
ha 
sostenuto che 
per 
le 
lavorazioni 
a 
terra 
non trovasse 
applicazione 
l'eccezionale 
disciplina 
dell'art. 20, comma 
2, 
sicché 
erroneamente 
era 
stata 
dichiarata 
la 
prescrizione, per tale 
esclusiva 
ragione 
dovendosi 
ritenere 
sussistente 
l'aggravante, 
con 
i 
suoi 
effetti 
sui 
tempi 
di 
prescrizione. 
Quindi, 
affermata 
la responsabilità, si sarebbe solo dovuto procedere alla determinazione della pena. 


3. 
Accogliendo 
il 
ricorso 
proposto 
dal 
procuratore 
generale 
e 
motivando 
esclusivamente 
con riferimento al 
suo contenuto, poi 
dichiarando assorbiti 
i 
ricorsi 
di 
imputati 
e 
responsabile 
civile, 
la 
Quarta 
sezione 
penale 
della 
Corte 
di 
cassazione, 
con 
la 
sentenza 
5.11.2015-27.1.2016 
n. 3615, ha 
annullato la 
pronuncia 
impugnata 
e 
rinviato per nuovo giudizio ad altra 
sezione 
della Corte d'appello lagunare. 
3.1. 
la 
Corte 
di 
cassazione 
ha 
osservato 
che 
i 
giudici 
di 
secondo 
grado 
non 
si 
erano 
confrontati 
con la 
richiesta 
della 
procura 
generale 
di 
considerare 
il 
complesso dell'attività 
lavorativa 
prestata 
dalle 
vittime, dal 
momento che 
la 
clausola 
di 
esenzione 
introdotta 
nel 
2010, 
da 
interpretarsi 
in senso restrittivo, valeva 
solo per l'attività 
prestata 
sui 
navigli 
e 
non anche 
per quella prestata a terra. 
3.2. 
ribadendo la 
rilevanza 
della 
questione, destinata 
ad incidere 
sul 
decorso della 
prescrizione, 
la 
Corte 
di 
legittimità 
ha 
poi 
tuttavia 
rilevato che 
in appello si 
era 
omessa 
di 
appro

ConTenzioSo 
nAzionAle 


fondire 
se 
l'esposizione 
dei 
lavoratori 
alle 
fibre 
di 
amianto, in assenza 
di 
dispositivi 
di 
protezione 
o misure 
di 
riduzione 
delle 
polveri, avesse 
potuto incidere 
anche 
solo sul 
tempo di 
latenza 
o sul decorso del mesotelioma. 


3.3. 
la 
Corte 
di 
cassazione 
ha 
dunque 
evidenziato 
la 
necessità 
di 
analizzare 
nel 
caso 
di 
specie, 
"anche 
con 
l'ulteriore 
ausilio 
di 
esperti 
qualificati 
e 
indipendenti, 
se 
la 
prosecuzione 
della 
esposizione 
possa 
aver 
prodotto 
un'accelerazione 
dei 
tempi 
della 
progressione 
della 
malattia, 
incidendo 
conseguentemente 
sul 
nesso 
causale 
tra 
l'esposizione 
stessa 
e 
l'evento 
morte, 
occorrendo 
cioè 
comprendere 
se 
costituisce 
legge 
universale 
o 
probabilistica 
quella 
sul 
cd. 
effetto 
acceleratore, 
in 
base 
alla 
quale 
sono 
rilevanti 
non 
solo 
le 
esposizioni 
iniziali, 
che 
conducono 
all'affermazione 
del 
processo 
cancerogenetico, 
ma 
pure 
quelle 
successive 
fino 
all'induzione 
della 
patologia, 
dotate 
appunto 
di 
effetto 
acceleratore 
e 
abbreviatore 
della 
latenza". 
infine, 
la 
Corte 
di 
legittimità 
ha 
censurato 
la 
motivazione 
della 
sentenza 
impugnata 
nella 
parte 
in cui, nel 
valutare 
la 
configurabilità 
delle 
circostanze 
aggravanti, aveva 
negato l'applicabilità 
dell'art. 
2087 
cod. 
civ., 
escludendo 
apoditticamente 
l'equiparabilità 
del 
datore 
di 
lavoro 
all'imprenditore. 


in sostanza, parrebbe 
doversi 
constatare 
che 
a 
fronte 
di 
un ricorso della 
parte 
pubblica 
che 
devolveva, 
quanto 
alla 
configurabilità 
della 
fattispecie 
di 
omicidio 
colposo 
aggravato 
dalla 
violazione 
di 
norme 
per la 
prevenzione 
degli 
infortuni 
sul 
lavoro, solo il 
tema 
dell'applicazione 
alla 
fattispecie 
concreta 
della 
rilevanza 
del 
periodo di 
lavorazione 
a 
terra, la 
Corte 
suprema 
ha 
prima 
accolto 
la 
doglianza, 
poi 
trattato 
il 
diverso 
tema 
della 
eventuale 
applicabilità 
dell'art. 2087 cod. civ. e 
quindi 
quello generale 
del 
nesso causale 
nella 
materia 
di 
esposizione 
ad 
amianto, 
sollecitando 
una 
rivisitazione 
e 
tuttavia 
senza 
spiegare 
quali 
vizi 
presentasse 
l'analitica 
specifica 
valutazione 
operata 
dalla 
Corte 
d'appello 
(che 
aveva 
concluso 
per 
la 
sussistenza 
del 
nesso 
causale 
dopo 
aver 
esaminato 
e 
messo 
a 
confronto 
approfonditamente 
i 
diversi 
apporti 
dei 
numerosi 
consulenti, 
anche 
con 
riferimento 
alle 
ritenute 
pertinenti 
prevalenti 
convergenze 
scientifiche). il 
mancato esame 
dei 
ricorsi 
di 
imputati 
e 
responsabile 
civile, ritenuti 
assorbiti, 
impediva 
di 
comprendere 
le 
ragioni 
della 
trattazione 
grafica 
dei 
due 
ultimi 
temi 
nel 
contesto 
della risposta all'unico motivo di ricorso della parte pubblica. 


4. in sede 
dunque 
di 
primo rinvio, la 
Prima 
sezione 
penale 
della 
Corte 
d’appello di 
Venezia, 
con 
sentenza 
16.3.2017 
n. 
1097 
ha 
condiviso 
l'impostazione 
problematica 
del 
Tribunale 
di 
Padova 
-il 
quale 
aveva 
dato atto della 
significativa 
incertezza, nella 
comunità 
scientifica 
internazionale, circa 
il 
c.d. effetto acceleratore 
delle 
esposizioni 
professionali 
all'agente 
cancerogeno 
-e 
ritenuto perciò superflua 
un'ennesima 
indagine 
peritale 
sul 
punto, stante 
la 
perdurante 
divisione nella comunità scientifica. 
la 
Corte 
lagunare, tranne 
che 
con riferimento alla 
posizione 
di 
F.r. nei 
confronti 
del 
quale 
ha 
pronunciato declaratoria 
di 
estinzione 
del 
reato per morte 
dell'imputato, ha 
confermato 
quanto era 
stato stabilito dal 
giudice 
di 
prime 
cure 
nel 
2012, pervenendo così 
all'assoluzione 
degli 
imputati 
poiché, pur accedendo alla 
tesi 
dell’efficacia 
acceleratoria 
con valenza 
probabilistica 
di 
tutte 
le 
esposizioni 
dell'amianto successive 
a 
quella 
di 
innesco, non era 
stato 
sufficientemente 
provato che, per effetto delle 
esposizioni 
successive, da 
riferirsi 
ai 
singoli 
periodi 
in 
cui 
gli 
imputati 
ricoprirono 
la 
posizione 
di 
garanzia 
nei 
confronti 
di 
B. 
e 
C., 
si 
fosse 
verificato l'accorciamento del periodo di latenza della patologia che portò all'evento morte. 


le 
parti 
civili, 
che 
non 
avevano 
presentato 
ricorso 
per 
cassazione 
e 
tuttavia 
avevano 
partecipato al giudizio di rinvio, sono state condannate alle spese. 
Hanno 
presentato 
nuovo 
ricorso 
per 
cassazione 
sia 
il 
procuratore 
generale 
presso 
la 
Corte 
d'appello di 
Venezia 
(che 
aveva 
già 
proposto il 
ricorso avverso la 
precedente 
sentenza 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


di 
appello), sia 
le 
parti 
civili 
medicina democratica movimento di 
lotta per 
la salute 
onlus 
e 
Associazione 
italiana esposti 
Amianto 
(che 
invece, come 
si 
è 
visto, non avevano proposto ricorso 
avverso la 
precedente 
sentenza 
di 
appello che 
pure 
non aveva 
provveduto sulla 
loro domanda 
ex 
art. 576 cod. proc. pen.). 


4.1. 
la parte pubblica ha enunciato due motivi: 
-con 
il 
primo 
motivo, 
lamentando 
la 
mancanza 
di 
motivazione 
sulla 
violazione 
di 
legge 
oggetto 
del 
primo 
ricorso 
per 
cassazione, 
ovvero 
il 
riconoscimento 
dell'ipotesi 
della 
colpa 
specifica 
di 
cui 
al 
comma 
2 dell'articolo 589 cod. pen., l'applicazione 
del 
quale 
-prevedendo 
una 
pena 
maggiore 
e, ex 
articolo 157 cod. pen., un termine 
prescrizionale 
più lungo -avrebbe 
impedito di considerare il reato prescritto; 


-con il 
secondo motivo, lamentando la 
violazione 
dell'articolo 627 comma 
2 cod. proc. 
pen. 
ed 
evidenziando 
che 
-nonostante 
la 
Quarta 
sezione 
penale 
della 
Corte 
di 
cassazione 
(con 
la 
sentenza 
n. 
3615/2016) 
avesse 
disposto 
che 
la 
questione 
inerente 
al 
c.d. 
effetto 
acceleratore 
alla 
esposizione 
all'amianto venisse 
esaminata 
a 
fondo, anche 
con l'ulteriore 
ausilio di 
periti 
qualificati 
e 
indipendenti 
-la 
Corte 
d'appello in sede 
di 
rinvio (con la 
sentenza 
n. 1097/2017) 
aveva 
omesso 
di 
disporre 
la 
perizia, 
disattendendo 
altresì 
le 
sollecitazioni 
formulate 
in 
udienza 
dal procuratore generale e dalle parti civili. 
4.2. le 
parti 
civili 
hanno enunciato tre 
motivi, i 
primi 
due 
esattamente 
sovrapponibili 
a 
quelli 
enunciati 
dal 
procuratore 
generale 
ed il 
terzo che 
lamentava 
la 
violazione 
dell'articolo 
592 cod. proc. pen., contestando la 
condanna 
al 
pagamento delle 
spese 
processuali 
ordinata 
dalla 
Corte 
d'appello nei 
loro confronti, rivendicando in proposito di 
non aver impugnato la 
prima 
sentenza 
d'appello 
pur 
sfavorevole, 
avendo 
partecipato 
al 
nuovo 
giudizio 
solo 
a 
seguito 
dell'accoglimento del 
ricorso del 
procuratore 
generale: 
del 
resto, la 
sentenza 
assolutoria 
del 
Tribunale 
di 
Padova, della 
quale 
ancora 
una 
volta 
si 
controverteva, era 
stata 
impugnata 
pure 
dal p.m. e non solo da loro (donde l'erroneità della condanna alle spese). 
5. 
Con la 
sentenza 
6.11.2018-14.3.2019 n. 11451, la 
Terza 
sezione 
penale 
della 
Corte 
di 
cassazione 
ha 
ritenuto 
che 
i 
motivi 
dei 
due 
ricorsi, 
in 
quanto 
sovrapponibili, 
fossero 
suscettibili 
di 
trattazione 
unitaria 
(con eccezione 
del 
terzo motivo del 
ricorso delle 
parti 
civili, inerente 
la 
condanna alle spese processuali in capo alle parti civili). 
5.1. 
Secondo 
la 
Corte 
di 
legittimità, 
i 
giudici 
di 
appello 
avevano 
ignorato, 
in 
sede 
di 
rinvio, 
i 
criteri 
interpretativi 
da 
essa 
forniti 
con la 
sentenza 
del 
2015, violando così 
l'obbligo assoluto 
e 
inderogabile 
"di 
uniformarsi 
alla 
sentenza 
della 
Corte 
di 
cassazione, 
per 
quanto 
riguarda ogni questione di diritto con essa decisa" (cfr. pag. 8). 
Si 
constatava, 
pertanto, 
come 
nella 
vicenda 
in 
esame 
la 
Corte 
lagunare 
avesse 
"sostanzialmente 
eluso 
le 
direttive 
ermeneutiche 
fissate 
nel 
giudizio 
di 
legittimità, 
dovendosi 
al 
riguardo 
precisare 
che 
la 
questione 
demandata 
alla 
Corte 
territoriale 
era 
quella 
di 
approfondire, 
«anche 
con 
l'ulteriore 
ausilio 
di 
esperti 
qualificati 
e 
indipendenti», 
la 
questione 
se 
l'esposizione 
prolungata 
dei 
lavoratori, 
in 
assenza 
di 
strumenti 
di 
protezione 
individuale 
e 
senza 
l'adozione 
delle 
misure 
di 
riduzione 
delle 
polveri, 
possa 
aver 
inciso 
anche 
solo 
sul 
tempo 
di 
latenza 
o 
sul 
decorso 
della 
malattia, 
con 
particolare 
riferimento 
alle 
lavorazioni 
a 
terra, 
per 
le 
quali 
non 
operava 
la 
clausola 
di 
esenzione 
ex 
lege 
n. 
183 
del 
2010" 
(pagg. 
8 
e 
9). 


Secondo la 
Corte 
di 
cassazione, il 
tema 
precipuamente 
devoluto al 
giudice 
del 
rinvio 
non 
era 
tanto 
l'affidamento 
o 
meno 
di 
un 
incarico 
peritale, 
quanto 
piuttosto 
"l'approfondimento 
della questione, che 
certo lo svolgimento della perizia qualificata suggerita dalla Corte 
di 
legittimità 
avrebbe 
agevolato, 
relativa 
all'esistenza 
o 
meno 
di 
una 
legge 
scientifica 
(precisandone 
eventualmente 
la natura universale 
o probabilistica) a proposito del 
c.d. effetto ac



ConTenzioSo 
nAzionAle 


celeratore, in base 
al 
quale 
sono rilevanti 
non solo le 
esposizioni 
iniziali, ma anche 
quelle 
successive 
che 
abbreviano la latenza, essendo certo nella comunità scientifica che 
la latenza 
diminuisce con l'incremento delle esposizioni, in particolare con quelle lavorative" (pag. 9). 


la Corte di cassazione ha affermato che: 


-il 
contrasto di 
opinioni 
scientifiche 
non è 
di 
per sé 
sufficiente 
a 
escludere 
l'esistenza 
di 
una 
legge 
di 
copertura, qualora 
non si 
verifichi 
il 
grado di 
indipendenza 
degli 
esperti 
e 
la 
validità delle argomentazioni profuse; 
-l'impostazione 
dubitativa 
elaborata 
dal 
giudice 
di 
prime 
cure 
(e 
seguita 
dalla 
Corte 
d'appello in sede 
di 
rinvio) era 
stata 
già 
superata 
dalla 
prima 
sentenza 
della 
Corte 
lagunare, 
sul 
punto non censurata 
dalla 
Corte 
di 
cassazione, essendo stata 
cioè 
affermata 
non solo la 
riconducibilità 
del 
mesotelioma 
all'esposizione 
all'amianto 
da 
parte 
delle 
vittime 
durante 
gli 
anni 
di 
servizio alle 
dipendenze 
della 
Marina 
Militare, ma 
anche 
l'esistenza 
del 
nesso causale 
tra 
l'evento mortale 
e 
le 
condotte 
omissive 
colpose 
attribuibili 
agli 
imputati, quali 
titolari 
di 
posizioni 
di 
garanzia 
in 
virtù 
delle 
posizioni 
apicali 
rivestite 
all'interno 
della 
Marina 
Militare. 


Secondo 
la 
Corte 
di 
legittimità, 
in 
sede 
di 
rinvio 
non 
era 
stata 
adeguatamente 
trattata 
la 
questione 
circa 
l'eventuale 
incidenza 
di 
ciascuna 
esposizione 
delle 
vittime 
al 
fattore 
cancerogeno 
né 
era 
stato 
affrontato 
l'altro 
tema 
devoluto 
al 
giudice 
d'appello, 
ossia 
quello 
relativo 
all'applicabilità 
dell'art. 
2087 
cod. 
civ., 
rispetto 
all'equiparazione 
tra 
datore 
di 
lavoro 
e 
imprenditore. 


Per tali 
ragioni, la 
Terza 
sezione 
penale 
della 
Corte 
di 
cassazione 
ha 
disposto l'annullamento 
della 
sentenza 
impugnata 
con rinvio ad altra 
sezione 
della 
Corte 
d'appello di 
Venezia 
per un nuovo giudizio nei 
confronti 
di 
tutti 
gli 
imputati, tranne 
il 
M. nel 
frattempo deceduto. 


5.2. 
la 
Corte 
di 
cassazione 
ha 
annullato poi, senza 
rinvio, la 
condanna 
delle 
parti 
civili 
al 
pagamento delle 
spese 
processuali, prendendo atto (pag. 11) che 
il 
ricorso per cassazione 
avverso la 
prima 
sentenza 
di 
appello non era 
stato proposto dalle 
parti 
civili 
e 
che, però, "la 
sentenza del 
tribunale 
di 
Padova fu appellata sia dal 
P.m. che 
dalle 
parti 
civili, per 
cui 
al 
rigetto 
delle 
impugnazioni 
non poteva conseguire 
la condanna alle 
spese 
delle 
parti 
civili", in 
ossequio alla giurisprudenza già citata. 
6. 
All'udienza 
del 
12.11.2019 dinanzi 
a 
questa 
Corte 
le 
parti 
hanno esposto le 
loro conclusioni. 
in particolare, il 
procuratore 
generale 
ha 
chiesto declaratoria 
di 
estinzione 
dei 
reati, 
con riferimento all'imputato P. M., per morte 
dello stesso; 
con riferimento agli 
altri 
imputati, 
ha 
chiesto che 
fosse 
pronunciato non doversi 
procedere 
per prescrizione 
con riferimento al 
reato in danno di C. (maturata al 3.2.2017). 
la 
Corte 
ha 
ammesso i 
documenti 
richiesti 
ed ha 
rinviato al 
successivo 19.2.2020, autorizzando 
nel 
frattempo lo scambio di 
memorie 
tra 
le 
parti; 
in detta 
udienza 
ha 
ordinato la 
rinnovazione 
istruttoria 
mediante 
l'esame, fissato per la 
successiva 
udienza 
del 
9.6.2020, del-
l'ispettore 
n., ufficiale 
di 
polizia 
giudiziaria, sulla 
specifica 
questione 
dell'individuazione 
dei 
periodi 
di 
servizio prestato a 
terra 
dalle 
due 
vittime 
nei 
periodi 
rilevanti 
nel 
presente 
processo 
(cioè 
nei 
periodi 
nei 
quali 
gli 
odierni 
imputati 
hanno 
rivestito 
le 
posizioni 
di 
vertice 
menzionate 
nel capo d'imputazione). 


la 
successiva 
udienza 
del 
9.6.2020 è 
stata 
dedicata 
all'assunzione 
del 
citato mezzo di 
prova, disponendosi rinvio per la prosecuzione al 30.10.2020. 


A 
tale 
nuova 
udienza, dopo brevi 
dichiarazioni 
del 
teste 
n. a 
rettifica 
di 
alcuni 
aspetti 
di 
contorno della 
propria 
deposizione 
precedente, il 
procuratore 
generale 
ha 
chiesto l'acquisizione 
di 
nuovi 
documenti 
e 
verbali 
di 
sommarie 
informazioni 
acquisite 
a 
seguito dell'audizione 
del 
teste 
n., e 
ciò ai 
sensi 
dell'art. 603, comma 
1, cod. proc. pen. le 
parti 
civili 
si 
sono 
associate alla richiesta, mentre vi si sono opposte le altre parti. 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


Secondo il 
procuratore 
generale, dal 
9 marzo 2020 all'11 maggio 2020 il 
termine 
di 
prescrizione 
è 
da 
ritenersi 
sospeso, ai 
sensi 
dell'art. 83, comma 
4, decreto-legge 
18/2020 convertito 
nella 
legge 
27/2020. Per conseguenza, la 
prescrizione 
del 
secondo reato (quello in danno 
di 
B.G.) non sarebbe 
maturata 
al 
4.9.2020, come 
potrebbe 
apparire 
sulle 
prime 
calcolando il 
termine massimo di quindici anni dall'evento-morte (intervenuto il 4.9.2005). 


Ciò premesso, e 
previa 
richiesta 
di 
ulteriore 
approfondimento istruttorio, nel 
merito il 
procuratore 
generale 
si 
è 
riportato alle 
conclusioni 
già 
rassegnate 
all'udienza 
del 
12.11.2019 
(dunque, estinzione 
del 
reato per morte 
con riguardo all'imputato P.; 
estinzione 
per prescrizione 
con riferimento al 
decesso C.; 
condanna, ritenuto il 
reato non ancora 
prescritto, per il 
decesso B.); 
le 
parti 
civili 
hanno aderito alle 
richieste 
del 
procuratore 
generale; 
imputati 
e 
responsabili 
civili hanno chiesto la conferma della sentenza assolutoria. 


rAGioni dellA deCiSione 


1. 
Va 
anzitutto 
pronunciata 
sentenza 
di 
non 
doversi 
procedere 
nei 
confronti 
dell'imputato 
M.P., il 
cui 
decesso è 
stato documentato all'udienza 
del 
12.11.2019 mediante 
produzione 
del 
certificato di morte. 
2. 
occorre poi prendere atto che i reati sono, in ogni caso, entrambi ad oggi prescritti. 
la 
questione 
è 
pacifica 
per quanto riguarda 
il 
contestato omicidio colposo nei 
confronti 
di G.C., deceduto il 3.2.2002. 
Analogamente 
deve 
concludersi, 
però, 
anche 
con 
riguardo 
al 
reato 
contestato 
come 
commesso 
in 
danno 
di 
G.B., 
deceduto 
il 
4.9.2005. 
il 
termine 
massimo 
di 
prescrizione, 
pari 
ad 
anni 
quindici 
di 
reclusione, 
è 
decorso 
alla 
data 
del 
4.9.2020 
(cfr. 
Cass. 
Sez. 
2 
19.11.2019 
n. 
50719, 
Sez. 
3 
29.4.2015 
n. 
23259, 
Sez. 
5 
6.5.2010 
n. 
21947, 
Sez. 
6 
16.3.1998 
n. 
4698), 
perché 
la 
normativa 
emergenziale 
introdotta 
dal 
decreto-legge 
17.3.2020 n. 18 non ha 
prodotto effetti 
sospensivi in questo processo. 


2.1. 
l'art. 83, comma 
1, del 
citato decreto-legge, come 
risultante 
a 
seguito delle 
modifiche 
operate 
dalla 
legge 
di 
conversione 
(n. 27/2020) e 
della 
proroga 
dei 
termini 
disposta 
dal-
l'art. 36, comma 
1, del 
decreto-legge 
23/2020 convertito nella 
legge 
n. 40/2020, prevedeva 
il 
rinvio di 
tutte 
le 
udienze, nel 
periodo 9 marzo-11 maggio 2020, a 
data 
successiva, con conseguente 
sospensione 
dei 
termini 
di 
prescrizione 
del 
reato per il 
predetto periodo, ai 
sensi 
del 
comma 
4 della 
disposizione 
in esame. il 
comma 
7 consentiva, poi, ulteriori 
rinvii 
nel 
periodo 
immediatamente 
successivo, 
rinvii 
cui 
conseguiva 
la 
sospensione 
della 
prescrizione 
per 
il 
tempo 
corrispondente 
alla 
sospensione 
del 
procedimento, 
purché 
non 
oltre 
il 
30 
giugno, 
ai 
sensi del comma 9. 
Con riferimento al 
primo periodo (64 giorni, dal 
9 marzo all'11 maggio 2020), la 
Corte 
di 
Cassazione 
ha 
messo 
in 
evidenza, 
nella 
decisione 
n. 
25222 
pronunciata 
dalla 
Quinta 
Sezione 
il 
14.7.2020 e 
depositata 
il 
7.9.2020, che 
rinvio dell'udienza 
e 
sospensione 
della 
prescrizione 
sono inscindibilmente 
legati, tanto è 
vero che 
quest'ultima, quale 
conseguenza 
di 
un rinvio 
generalizzato 
delle 
udienze 
imposto 
dalla 
normativa 
emergenziale, 
deriverebbe 
comunque 
dalla 
previsione 
dettata 
dall'art. 
159 
cod. 
pen., 
con 
ciò 
escludendosi 
che 
il 
decreto-legge 
18/2020 
abbia 
introdotto 
una 
norma 
di 
natura 
sostanziale 
(tale 
essendo 
la 
natura 
della 
prescrizione 
del reato) con effetto retroattivo, in violazione dell'art. 25 Cost. 


Proprio tale 
interpretazione 
è 
stata 
posta 
dalla 
Corte 
costituzionale, chiamata 
a 
pronunciarsi 
sui 
profili 
di 
legittimità 
costituzionale 
della 
norma 
in questione 
(art. 83, comma 
4, d.l. 
cit.) per possibile 
violazione 
del 
principio di 
irretroattività 
in materia 
penale 
(art. 25, comma 
2, Cost.), a 
fondamento della 
decisione 
di 
rigetto della 
questione, resa 
con sentenza 
pronun



ConTenzioSo 
nAzionAle 


ciata 
e 
depositata 
nelle 
more 
della 
stesura 
della 
presente 
decisione 
(sentenza 
n. 278, pronunciata 
il 
18.11.2020 e 
depositata 
il 
23.12.2020): 
tale 
corretta 
ricostruzione 
della 
normativa, infatti, 
consente 
di 
collocare 
la 
causa 
di 
sospensione 
prevista 
dall'art. 83, comma 
4, nell'alveo 
delle 
ipotesi 
dettate 
dall'art. 159, comma 
1, cod. pen., con ciò escludendo che 
si 
tratti 
di 
una 
nuova norma penale retroattiva. 


2.2. Con riferimento al 
c.d. secondo periodo, la 
Corte 
di 
Cassazione, con sentenza 
n. 
26215 
della 
medesima 
Sezione 
Quinta, 
pronunciata 
in 
data 
13.7.2020 
e 
depositata 
il 
17.9.2020, ha 
precisato che 
la 
sospensione 
della 
prescrizione 
(non oltre 
il 
30 giugno) opera 
solo a 
condizione 
che 
si 
sia 
realmente 
verificato un rinvio (non reso obbligatorio dalla 
legge) 
ai sensi dell'art. 83, comma 7. 
la 
corretta 
interpretazione 
della 
normativa 
è 
stata 
rimessa 
alle 
Sezioni 
unite 
che, con 
decisione 
resa 
in 
data 
26.11.2020 
(motivazione 
non 
ancora 
depositata), 
ha 
stabilito 
che 
"il 
corso della prescrizione 
è 
rimasto sospeso ex 
lege, ai 
sensi 
dei 
commi 
1, 2 e 
4 ... dell'art. 83, 
dal 
9 
marzo 
all'11 
maggio 
2020, 
nei 
procedimenti 
nei 
quali 
nel 
suddetto 
periodo 
era 
stata 
originariamente 
fissata udienza e 
questa sia stata rinviata ad una data successiva al 
termine 
del 
medesimo. Analogamente, ai 
sensi 
del 
successivo comma 9 dello stesso art. 83, la prescrizione 
è 
rimasta sospesa dal 
12 maggio al 
30 giugno 2020 nei 
procedimenti 
in cui 
in tale 
periodo era stata fissata udienza e 
ne 
è 
stato disposto il 
rinvio a data successiva al 
termine 
del 
medesimo 
in 
esecuzione 
del 
provvedimento 
emesso 
dal 
capo 
dell'ufficio 
giudiziario 
ai 
sensi 
dell'art. 83, comma 7 lett. g). Nel 
caso in cui 
il 
provvedimento ex 
art. 83, comma 7, lett. 


g) del 
citato decreto-legge 
sia stato adottato successivamente 
al 
12 maggio 2020, la sospensione 
decorre 
dalla data della sua adozione. Le 
sezioni 
Unite 
hanno, altresì, precisato che 
i 
due 
periodi 
di 
sospensione 
suindicati 
si 
sommano in riferimento al 
medesimo procedimento 
esclusivamente 
nell'ipotesi 
in cui 
l'udienza, originariamente 
fissata nel 
primo periodo di 
sospensione 
obbligatoria, sia stata rinviata a data compresa nel 
secondo periodo e, quindi, ulteriormente 
rinviata 
in 
esecuzione 
del 
provvedimento 
del 
capo 
dell'ufficio" 
(informazione 
provvisoria n. 23 nel proc. n. 3349/20 r.G.). 
2.3. 
nel 
caso di 
specie, non è 
stata 
prevista 
alcuna 
udienza 
nel 
c.d. primo periodo (9.311.5.2020), 
sicché 
non è 
stato necessario disporre 
differimenti; 
l'unica 
udienza 
prevista 
nel 
c.d. secondo periodo, in data 9 giugno 2020, è stata regolarmente celebrata. 
Pertanto, 
non 
si 
sono 
verificate 
cause 
di 
sospensione 
della 
prescrizione 
del 
reato 
ai 
sensi 
dell'art. 83 decreto-legge 18/2020. 
entrambi i reati sono pertanto ad oggi prescritti. 


3. 
la 
Corte, 
come 
si 
è 
detto, 
ha 
svolto 
una 
parziale 
rinnovazione 
istruttoria, 
risentendo 
nel 
contraddittorio 
delle 
parti 
il 
teste 
o. 
n., 
che 
per 
conto 
della 
Procura 
della 
repubblica 
di 
Padova 
aveva 
svolto 
le 
indagini; 
ciò 
allo 
scopo 
di 
verificare 
se 
i 
marinai 
deceduti 
fossero 
stati 
sottoposti 
ad 
esposizione 
prolungata 
ad 
amianto, 
durante 
il 
servizio 
da 
loro 
prestato 
a 
terra, 
nei 
periodi 
rilevanti 
in 
ragione 
delle 
attribuzioni 
rivestite 
dagli 
imputati, 
comportanti 
posizioni 
di 
garanzia. 
È 
stato, cioè, svolto un approfondimento istruttorio prodromico all'eventuale 
decisione 
di procedere ad un nuovo accertamento peritale. 


3.1. 
Quanto ai 
periodi 
rilevanti, va 
precisato che 
l'imputato C. era 
stato direttore 
Generale 
di 
navalcostarmi 
dal 
21.12.1985 al 
7.6. 1989, l'imputato d. d. direttore 
Generale 
di 
Sanità 
Militare 
dal 
1.1.1988 
al 
31.12.1990 
e 
ispettore 
di 
Sanità 
dal 
1.1.1983 
al 
31.12.1987, 
l'imputato C. direttore Generale di Sanità Militare dal 1.1.1991 al 31.12.1991. 
della 
complessiva 
vita 
lavorativa 
delle 
vittime 
alle 
dipendenze 
della 
Marina 
Militare 
interessa 
dunque, 
ai 
fini 
del 
presente 
processo, 
il 
periodo 
compreso 
tra 
l'1.1.1983 
(data 
di 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


inizio della 
qualifica 
astrattamente 
rilevante 
in capo all'imputato d. d.) e 
il 
31.12.1991 (data 
di cessazione dell'incarico dell'imputato C.). 


3.2. limitando l'esame 
a 
questi 
periodi, la 
prima 
sentenza 
di 
appello aveva 
individuato 
i seguenti periodi di imbarco delle vittime: 
- C. dal 24.11.1983 all'11.8.1985 e dal 29.6.1987 al 3.7.1987; 
-B. dal 
11.2.1984 al 
28.2.1984, dal 
9.11.1984 al 
30.11.1984, dal 
1.4.1984 al 
31.5.1987, 
dal 
7.9.1987 al 
31.12.1987 e 
dal 
1.7.1990 in avanti 
(fino a 
periodo successivo al 
31.12.1991). 
A 
contrario 
da 
quanto sopra, si 
deduce 
che, con riferimento al 
periodo di 
tempo che 
qui 
rileva, le 
persone 
offese 
abbiano lavorato a 
terra: 
-C., fino al 
novembre 
1983, poi 
dall'agosto 
1985 al giugno 1987 e di nuovo dal luglio 1987 in avanti; 


-B., fino al 
marzo 1986 quale 
addetto alla 
sezione 
carburanti 
della 
stazione 
elicotteri 
di 
Grottaglie 
(tranne 
40 giorni 
di 
imbarco), poi 
dal 
giugno 1987 al 
settembre 
1987 e 
infine 
dal 
gennaio 1988 al giugno 1990, in locali siti a 
Taranto e Brindisi. 
il 
teste 
n., nel 
corso dell'esame 
reso all'udienza 
del 
9 giugno 2020, ha 
evidenziato la 
presenza 
di 
amianto nei 
locali 
dell'Arsenale 
di 
Venezia, frequentati 
dal 
C. nel 
periodo di 
interesse, 
durante 
il 
servizio 
a 
terra; 
locali 
che 
sono 
stati 
bonificati 
in 
epoca 
successiva 
(nel 
2004: 
cfr. esame n., in particolare pagg. 18-10 verb. ud. 9.6.2020). 


lo stesso teste 
ha 
riferito circa 
la 
presenza 
di 
amianto sia 
nei 
locali 
di 
Grottaglie, frequentati 
da 
B. fino ai 
primi 
mesi 
del 
1986, sia 
nei 
locali 
di 
Brindisi 
e 
Taranto ove 
egli 
lavorò 
nel 
periodo 
successivo 
(cfr. 
in 
particolare, 
per 
questi 
aspetti, 
le 
pagine 
27 
e 
ss. 
verb. 
ud. 
9.6.2020 e i documenti richiamati). 


non è 
stato però possibile 
quantificare 
la 
presenza 
di 
amianto nei 
locali 
dell'Arsenale 
di 
Venezia, 
mentre 
il 
teste 
ha 
reperito 
registri 
relativi 
alla 
quantità 
di 
amianto 
presenti 
nel 
complesso dei locali di 
Taranto e Brindisi frequentati dalla vittima. 


il 
teste 
ha 
fornito tutte 
le 
informazioni 
disponibili, che 
non hanno però consentito di 
dipanare 
le 
incertezze 
che 
sarebbe 
stato necessario sciogliere 
prima 
di 
passare 
all'approfondimento 
scientifico. 


Si 
possono richiamare 
due 
affermazioni 
già 
svolte 
nella 
prima 
sentenza 
di 
appello sui 
punti 
di 
interesse: 
"incerte 
sono 
poi 
le 
emergenze 
processuali 
relative 
alle 
mansioni 
svolte 
durante 
il 
periodo di 
servizio a terra presso l'Arsenale 
di 
venezia che 
non consentono di 
apprezzare 
la concretezza del 
rischio di 
esposizione 
ad amianto" 
(pag. 149, relativamente 
alla 
posizione 
di 
C.); 
"non 
è 
da 
escludere 
che 
nei 
periodi 
a 
terra 
di 
questi 
anni 
b. 
possa 
aver 
avuto 
occasione 
di 
venire 
a contatto ravvicinato con fibre 
di 
crisotilo utilizzando dispositivi 
di 
sicurezza 
a base 
di 
amianto presso la stazione 
elicotteri 
di 
Grottaglie 
o quando era l'addetto 
al 
rifornimento 
delle 
unità 
navali 
presso 
il 
commissariato 
della 
mm 
taranto. 
tuttavia 
siffatta 
eventualità 
configura 
una 
situazione 
di 
rischio 
ambientale 
generico..." 
(pag. 
159, 
relativamente 
alla posizione di B.). 


4. 
Come 
si 
è 
detto, dopo l'assunzione 
della 
testimonianza 
dell'ispettore 
n. è 
maturata 
la 
prescrizione anche del reato contestato come commesso ai danni di G. B. 
5. Tutto ciò premesso, a 
fronte 
della 
assoluzione 
in primo grado, dell'assenza 
di 
alcuna 
sentenza 
che 
abbia 
nei 
giudizi 
successivi 
deliberato positivamente 
l'affermazione 
di 
responsabilità 
ai 
fini 
penali 
e 
della 
intervenuta 
prescrizione 
dei 
reati, 
è 
opportuno 
riepilogare 
i 
termini 
essenziali, in rito, della 
complessa 
vicenda 
processuale 
che 
ci 
occupa, per orientarsi 
sui 
due 
temi che debbono a questo punto occupare la deliberazione della Corte: 
-la 
conclusione 
dell'esercizio dell'azione 
penale 
con la 
conferma 
dell'assoluzione 
o la 
riforma con dichiarazione di estinzione per prescrizione, 

ConTenzioSo 
nAzionAle 


- la sorte dell'azione civile a suo tempo esercitata dalle parti civili. 
Perché 
anche 
la 
eventuale 
prosecuzione 
dell'attività 
istruttoria 
sollecitata 
dal 
procuratore 
generale 
e 
dalle 
due 
parti 
civili 
è: 
preclusa, 
quanto 
all'azione 
penale 
in 
ragione 
in 
ogni 
caso 
del-
l'intervenuta 
prescrizione 
dei 
reati, 
e 
subordinata, 
quanto 
all'azione 
civile, 
alla 
valutazione 
di 
attuale 
effettiva 
efficace 
autonoma 
esercitabilità 
della 
stessa 
ai 
sensi 
dell'art. 
576 
cod. 
proc. 
pen. 


non 
essendo 
mai 
intervenuta 
una 
sentenza 
di 
affermazione 
di 
responsabilità 
penale, 
siamo 
infatti 
al 
di 
fuori 
della 
peculiare 
situazione 
procedimentale 
disciplinata 
dall'art. 
578 
cod. proc. pen., con le 
peculiari 
connessioni 
tra 
prescrizione 
e 
conferma 
della 
responsabilità 
ai 
fini 
civili 
insegnate 
dalla 
storica 
e 
non 
superata 
sentenza 
Cass. 
Sezioni 
unite 
sent. 
35490/2009, ric. Tettamanti. 


5.1. orbene, la 
prima 
sentenza 
resa 
nel 
presente 
processo è 
stata 
la 
pronuncia 
del 
Tribunale 
di 
assoluzione, impugnata 
dal 
pubblico ministero e 
autonomamente 
dalle 
parti 
civili 
ex 
art. 576 cod. proc. pen. 
Ad 
essa 
è 
seguita 
una 
sentenza 
che 
ha 
ritenuto 
sussistente 
la 
responsabilità 
ma 
dichiarato 
la 
prescrizione, 
avendo 
giudicato 
insussistente 
la 
circostanza 
aggravante 
del 
capoverso 
dell'art. 
589 (siamo pertanto fuori 
anche 
in questo caso dalla 
diversa 
disciplina 
dell'art. 578 cod. proc. 
pen.), 
tuttavia 
omettendo 
la 
contestuale 
doverosa 
deliberazione 
sul 
risarcimento 
del 
danno 
invocato 
dalle 
parti 
civili 
ex 
art. 576, quindi 
autonomamente 
ed a 
prescindere 
dalla 
sorte 
del-
l'azione penale. 


Questa 
palese 
ed evidente 
omessa 
pronuncia 
sulla 
domanda 
ex 
art. 576 non è 
stata 
fatta 
oggetto 
di 
ricorso 
dalle 
parti 
civili, 
unico 
soggetto 
legittimato 
all'impugnazione 
quanto 
all'autonomo 
esercizio 
dell'azione 
civile 
rispetto 
ad 
una 
sentenza 
di 
proscioglimento 
che 
in 
concreto 
negasse 
la 
pretesa 
risarcitoria. il 
ricorso per cassazione 
avverso la 
prima 
sentenza 
d'appello 
che 
ha 
dichiarato 
la 
improcedibilità 
per 
prescrizione 
senza 
provvedere 
sull'autonoma 
domanda 
civile 
è 
stato 
infatti 
presentato 
dal 
procuratore 
generale, 
dagli 
imputati 
e 
dai 
responsabili 
civili 
(il 
primo invocando il 
riconoscimento della 
mancata 
prescrizione 
e 
la 
conseguente 
necessità 
solo di 
determinare 
la 
pena, i 
secondi 
invocando la 
conferma 
dell'assoluzione 
già 
ottenuta 
in 
primo grado, anche 
per la 
ragione 
in rito che 
il 
passaggio da 
assoluzione 
a 
prescrizione 
era 
avvenuto senza procedere a rinnovazione istruttoria). 


Tale 
omessa 
impugnazione 
è 
stata 
poi 
espressamente 
evidenziata 
e 
rivendicata 
dalle 
parti 
civili 
nel 
contesto del 
ricorso da 
loro proposto pure 
avverso la 
subita 
condanna 
al 
pagamento 
delle spese processuali con la prima sentenza di rinvio. 


la 
prima 
sentenza 
di 
rinvio ha 
confermato l'assoluzione, venendo annullata 
dalla 
sentenza 
della 
Terza 
sezione 
della 
Corte 
di 
cassazione, di 
cui 
si 
è 
dato conto nei 
paragrafi 
5-5.2 
della prima parte, attivata dai ricorsi della parte pubblica e delle parti civili. 


Questo è 
il 
secondo giudizio di 
rinvio, nel 
quale 
è 
intervenuta 
la 
prescrizione 
anche 
del 
secondo reato. 
in tutto il 
processo, pertanto, non vi 
è 
finora 
stata 
una 
sentenza 
di 
condanna 
efficace 
ai 
fini penali. 


6. 
Quanto 
alla, 
sorte 
dell'azione 
civile, 
osserva 
questa 
Corte 
che 
nei 
giudizi 
di 
impugnazione 
la parte civile partecipa innanzitutto per il principio di immanenza. 
Tale 
principio, 
normativamente 
ancorato 
alla 
previsione 
dell'art. 
76, 
comma 
2, 
cod. 
proc. 
pen., secondo cui 
"la 
costituzione 
di 
parte 
civile 
produce 
i 
suoi 
effetti 
in ogni 
stato e 
grado 
del 
procedimento" 
(ed in effetti 
ex 
art. 601, comma 
4, nel 
giudizio di 
appello la 
parte 
civile 
deve 
essere 
comunque 
sempre 
citata) esclude 
sia 
la 
necessità 
di 
una 
rinnovazione 
della 
costituzione 
in giudizio per ogni 
grado o fase 
sia 
l'applicazione 
al 
giudizio di 
appello della 
regola 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


processuale 
dell'obbligo di 
presenziare 
al 
processo e 
presentare 
le 
conclusioni 
all'esito della 
discussione 
(ex 
art. 523, comma 
2, cod. proc. pen., secondo l'attuale 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
non ritenendosi 
tale 
norma 
richiamata 
dal 
pur generale 
rinvio disposto dall'art. 598). 
Anche 
nel 
caso di 
mancata 
partecipazione 
della 
parte 
civile 
all'udienza, il 
giudizio di 
appello 
può pertanto svolgersi 
e 
concludersi 
con la 
conferma 
delle 
statuizioni 
civili 
disposte 
in primo 
grado e addirittura con l'accoglimento del suo appello ex 
art. 576. 


il 
principio di 
immanenza 
della 
parte 
civile 
opera 
poi 
quando la 
sentenza 
di 
proscioglimento 
venga 
impugnata 
dalla 
sola 
parte 
pubblica: 
in 
tal 
caso, 
se 
il 
giudice 
d'appello 
pronuncia 
sentenza 
di 
condanna 
penale 
per 
il 
fatto 
in 
relazione 
al 
quale 
è 
stata 
esercitata 
nel 
primo 
grado 
l'azione 
civile 
risarcitoria 
o di 
restituzione, deve 
provvedere 
anche 
sulla 
domanda 
civilistica 
pur in assenza 
di 
autonoma 
impugnazione 
della 
parte 
civile 
ai 
sensi 
dell'art. 576 cod. proc. 
pen.: 
"il 
principio 
di 
immanenza 
della 
costituzione 
di 
parte 
civile 
è 
destinato 
a 
produrre 
i 
suoi 
effetti 
in 
favore 
di 
questa, 
anche 
in 
presenza 
dell'appello 
del 
solo 
Pubblico 
ministero 
contro la sentenza di 
assoluzione, quando gli 
sia favorevole, cioè 
si 
tratti 
di 
una sentenza di 
condanna": 
così 
Cass. Sez. 5 14.11.2017-dep. 2018, n. 315, tra 
le 
numerose 
altre 
seguite 
al 
mutamento di 
giurisprudenza 
operato da 
Cass. Sezioni 
unite 
10.7.2002 n. 30327, ric. Guada-
lupi, 
che 
aveva 
mutato 
indirizzo 
rispetto 
a 
quello 
più 
rigoroso 
sostenuto 
da 
Cass. 
Sezioni 
unite 
5.11.1998-dep. 1999 n. 5, ric. loparco, secondo cui 
l'omessa 
impugnazione 
della 
parte 
civile 
contro la 
sentenza 
assolutoria 
comportava 
passaggio in giudicato dei 
capi 
civili, nonostante 
l'impugnazione del pubblico ministero. 


6.1. 
in definitiva, a 
fronte 
di 
una 
sentenza 
di 
proscioglimento deliberata 
in primo grado, 
la parte civile ha due possibilità: 
-sollecitare 
l'impugnazione 
agli 
effetti 
penali 
del 
pubblico 
ministero 
(art. 
572 
cod. 
proc. 
pen.) o comunque, rimettersi 
all'impugnazione 
della 
sola 
parte 
pubblica, confidando nel 
suo 
accoglimento che 
conduca 
ad una 
condanna 
agli 
effetti 
penali 
la 
quale, in virtù del 
principio 
di 
immanenza, comporterebbe 
pure 
una 
deliberazione 
sull'originaria 
domanda 
civile 
(ex 
art. 
597, 
comma 
2, 
lett. 
a 
e 
b: 
"adottare 
ogni 
altro 
provvedimento 
imposto 
o 
consentito 
dalla 
legge", secondo Cassazione Sezioni unite ric. Guadalupi) 


-impugnare 
autonomamente 
ai 
sensi 
dell'art. 576 cod. proc. pen., in tal 
caso divenendo 
titolare 
del 
diritto autonomo alla 
pronuncia 
giurisdizionale 
ai 
fini 
civili 
pure 
nel 
caso in cui 
l'azione penale si concluda senza una deliberazione di condanna. 
6.2. 
orbene, 
nel 
nostro 
processo, 
come 
ripetutamente 
avvertito, 
le 
parti 
civili 
hanno 
consapevolmente 
rinunciato all'impugnazione 
autonoma 
ai 
sensi 
dell'art. 576, quando consapevolmente 
(e 
rivendicandolo 
poi 
nel 
ricorso 
avverso 
la 
condanna 
al 
pagamento 
delle 
spese 
processuali) hanno rinunciato ad impugnare 
la 
prima 
sentenza 
d'appello laddove, avendo riconosciuto 
la 
responsabilità 
degli 
imputati 
ma 
avendo ritenuto estinti 
i 
reati 
per insussistenza 
delle 
circostanze 
aggravanti, 
pur 
essendo 
stata 
attivata 
anche 
dall'appello 
autonomo 
sull'azione 
civile 
ai 
sensi 
dell'art. 576 cod. proc. pen., ha 
omesso la 
doverosa 
pronuncia 
che 
era 
invece 
tenuta 
a 
deliberare, quella 
delle 
parti 
civili 
essendo impugnazione 
autonoma 
rispetto a 
quella 
della 
parte 
pubblica 
e 
non condizionata 
da 
una 
condanna 
positiva 
anche 
per gli 
effetti 
penali. 
da 
quel 
momento 
la 
loro 
presenza 
nel 
giudizio 
è 
proseguita 
nei 
limiti 
previsti 
e 
consentiti 
dal 
solo principio di 
immanenza: 
un'attivazione 
il 
cui 
esito positivo finale 
era 
appunto subordinato 
all'intervento di 
una 
condanna 
agli 
effetti 
penali, in grado, per sé 
e 
per le 
ragioni 
giurisprudenziali 
appena 
ricordate, di 
determinare 
anche 
la 
condanna 
agli 
effetti 
civili 
in favore 
dei 
due 
soggetti 
danneggiati 
(laddove 
fosse 
stato riconosciuto sussistente 
un loro danno connesso 
ai due reati). 



ConTenzioSo 
nAzionAle 


Venuta 
ora 
certamente 
meno 
la 
possibilità 
di 
una 
condanna 
agli 
effetti 
penali, 
per 
la 
prescrizione 
dei 
reati 
che 
al 
più potrebbe 
determinare 
nel 
nostro caso una 
deliberazione 
di 
improcedibilità 
sopravvenuta, 
è 
preclusa 
l'ulteriore 
autonoma 
procedibilità 
dell'azione 
civile, 
con l'attività 
istruttoria 
sollecitata 
e 
quella 
in ipotesi 
ulteriore 
ritenuta 
necessaria 
dalla 
Corte, 
che 
solo un'attuale 
efficace 
impugnazione 
ai 
sensi 
dell'art. 576 cod. proc. pen. avrebbe 
potuto 
determinare. 


non 
impongono 
conclusione 
diversa 
le 
due 
argomentazioni 
svolte 
dall'attento 
e 
diligente 
attuale difensore delle parti civili: 


-l'annullamento 
della 
prima 
sentenza 
d'appello 
(quella 
che 
ha 
dichiarato 
la 
prescrizione 
senza 
doverosa 
deliberazione 
sulle 
statuizioni 
civili, non ricorsa) avrebbe 
riportato la 
situazione 
procedimentale 
al 
primo 
stato, 
la 
sentenza 
di 
assoluzione 
del 
Tribunale, 
impugnata 
anche 
dalle 
parti 
civili. 
Ma 
tale 
annullamento 
è 
conseguenza 
di 
un 
ricorso 
presentato 
dalla 
sola 
parte 
pubblica, nell'acquiescenza 
della 
parte 
civile 
(originaria 
appellante 
autonoma 
ex 
art. 576 cod. 
proc. pen.) alla 
sentenza 
annullata. Quando si 
celebra 
il 
giudizio di 
rinvio, esso muove 
sì 
dal-
l'assoluzione 
del 
Tribunale, ma 
è 
già 
maturata 
la 
preclusione 
all'ulteriore 
corso di 
iniziativa 
impugnatoria 
della 
parte 
civile 
autonoma 
e 
indifferente 
al 
presupposto necessario dell'esito 
di 
condanna 
ai 
fini 
penali. le 
parti 
civili, infatti, partecipano al 
primo giudizio di 
rinvio solo 
in ragione 
del 
generale 
principio di 
immanenza, le 
loro pretese 
non essendo più da 
quel 
momento 
indipendenti dalla sorte dell'azione penale; 


-l'accoglimento 
del 
ricorso 
presentato 
autonomamente 
dalle 
parti 
civili 
avverso 
la 
prima 
sentenza 
di 
rinvio, da 
parte 
della 
sentenza 
della 
Terza 
sezione 
che 
ha 
annullato con rinvio a 
questo Giudice, andrebbe 
considerato o una 
sorta 
di 
restituzione 
in termini 
per procedere 
autonomamente 
ai 
sensi 
dell'art. 576 o il 
riconoscimento che 
nessuna 
preclusione 
sarebbe 
avvenuta 
per 
l'iniziativa 
autonoma 
delle 
parti 
civili, 
appunto 
a 
prescindere 
dalla 
sorte 
dell'azione 
penale; 
in ogni 
caso, l'eventuale 
errore 
nel 
quale 
sarebbe 
incorsa 
la 
Corte 
di 
cassazione 
nel 
non 
rilevare, 
o 
commentare, 
l'effetto 
procedimentale 
della 
mancata 
impugnazione 
della 
prima 
sentenza 
di 
appello imporrebbe 
ormai 
al 
giudice 
del 
rinvio l'obbligo di 
deliberare 
sulla 
domanda 
civile 
ex 
art. 
576. 
Va 
in 
proposito 
constatato 
che 
effettivamente 
la 
questione 
non 
è 
stata 
trattata 
nella 
sentenza 
che 
ha 
annullato con rinvio a 
questo Giudice, dove 
neppure 
si 
dà 
alcun 
atto, 
nella 
ricostruzione 
delle 
pregresse 
vicende 
processuali, 
della 
peculiarità 
della 
parte 
di 
vicende 
precedente 
la 
prima 
sentenza 
di 
rinvio 
oggetto 
dell'annullamento. 
osserva 
tuttavia 
questa 
Corte 
che: 
in ogni 
caso il 
terzo motivo del 
ricorso delle 
parti 
civili 
(sulla 
condanna 
al 
pagamento 
delle 
spese 
processuali) 
aveva 
una 
sua 
originaria 
autonomia 
legittimante 
comunque 
la 
pertinente 
impugnazione 
in 
ragione 
della 
sopravvenuta 
condanna 
alle 
spese, 
mentre 
i 
primi 
due 
motivi 
potevano trovare 
legittimazione 
nel 
riferimento ad un principio generale 
riconducibile 
all'art. 587 (questo nel 
termini 
descritti 
da 
Cass. Sez. 6 3.7.2019 n. 41960) per effetto 
del 
principio di 
immanenza, stante 
la 
pendenza 
dell'azione 
penale 
e 
l'allora 
sussistente 
prospettiva 
di 
una 
possibile 
utile 
deliberazione 
finale 
in termini 
di 
condanna 
agli 
effetti 
penali 
(con l'effetto ex 
art. 597, comma 
2, lett. a 
e 
b). in altri 
termini, i 
capi 
assolutori 
della 
seconda 
sentenza 
di 
appello sono stati 
dunque 
esaminati 
dalla 
Corte 
di 
cassazione 
nella 
seconda 
sentenza 
di 
annullamento (quella 
da 
cui 
scaturisce 
il 
presente 
giudizio di 
rinvio) a 
seguito del-
l'ammissibile 
ricorso 
del 
procuratore 
generale, 
ai 
cui 
motivi 
hanno 
aderito 
anche 
le 
parti 
civili. 


6.3. 
Conclusivamente 
sul 
punto, 
in 
questa 
sede 
non 
si 
va 
a 
rilevare, 
in 
violazione 
dell'art. 
627 
comma 
4 
cod. 
proc. 
pen., 
una 
inammissibilità 
del 
ricorso 
delle 
parti 
civili 
avverso 
la 
prima 
sentenza 
di 
rinvio non colta 
dalla 
Corte 
di 
cassazione. Ma 
si 
deve 
constatare 
che 
il 
solo principio 
di 
immanenza 
non permette 
più di 
procedere 
autonomamente 
e 
solo per la 
trattazione 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


dell'azione 
civile 
con 
eventuale 
ulteriore 
corposa 
istruttoria, 
essendo 
venuta 
ormai 
meno 
anche 
la 
mera 
possibilità 
di 
una 
pronuncia 
"utile" 
ai 
fini 
penali 
in ragione 
della 
maturata 
prescrizione. 


deve 
pertanto dichiararsi 
precluso l'esercizio autonomo ex 
art. 576 cod. proc. pen. del-
l’azione 
civile 
promossa 
dalle 
parti 
civili 
Associazione 
italiana esposti 
amianto 
e 
medicina 
democratica movimento per 
la salute 
onlus. Al 
che 
consegue 
anche 
il 
rigetto della 
richiesta 
di produzione dei documenti presentata dalle parti civili. 


7. Venendo alla definizione dell'azione penale, osserva la Corte. 
intervenuta 
la 
prescrizione 
dei 
reati, 
sono 
inammissibili 
le 
integrazioni 
istruttorie 
chieste 
dal 
procuratore 
generale 
sul 
presupposto 
di 
una 
ancora 
possibile 
affermazione 
di 
responsabilità 
penale 
(affermazione 
che 
sarebbe 
preclusa 
persino se 
le 
integrazioni 
istruttorie 
fossero tali 
da 
condurre alla prova della responsabilità). 


la 
prima 
sentenza 
di 
annullamento non aveva 
preso in esame 
le 
specifiche 
doglianze 
proposte 
dalla 
difesa 
in ordine 
alla 
necessaria 
riassunzione 
delle 
prove 
dichiarative 
decisive, 
e 
ciò perché 
ha 
ritenuto assorbiti 
i 
ricorsi 
degli 
imputati 
e 
del 
responsabile 
civile, una 
volta 
accolto il 
ricorso del 
procuratore 
generale. Ma 
il 
passaggio dall'assoluzione 
alla 
prescrizione, 
in quanto deteriore 
rispetto alla 
pronuncia 
impugnata, passerebbe 
necessariamente 
dalla 
riassunzione 
delle 
prove 
dichiarative 
decisive 
(Cass. Sezioni 
unite 
19.1.2017 n. 18620, ric. Patalano). 


Proprio tali 
richieste 
ed esigenze 
procedimentali 
ex 
art. 603, comma 
3-bis, cod. proc. 
pen. tuttavia, attestano che 
allo stato non vi 
sono le 
condizioni 
per il 
proscioglimento ai 
sensi 
dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen. 


Quanto all'esito del 
rapporto tra 
la 
originaria 
formula 
di 
proscioglimento secondo i 
parametri 
dell'art. 530, comma 
2, cod. proc. pen., e 
la 
causa 
estintiva 
sopravvenuta 
di 
prescrizione, 
è 
sempre 
la 
sentenza 
Cass. 
Sezioni 
unite 
28.5.2009 
n. 
35490, 
ric. 
Tettamanti 
che 
impone 
la 
conferma 
della 
statuizione 
assolutoria. 
l'insegnamento 
consolidato 
è 
infatti 
che 
l'immediata 
declaratoria 
di 
prescrizione 
prevale 
sulla 
formula 
assolutoria 
solo quando venga 
accolto l'appello 
del 
pubblico ministero (cfr. p. 21 sent. Tettamanti). nel 
nostro caso non ci 
sono le 
condizioni 
per dichiarare 
già 
allo stato fondato l'appello del 
pubblico ministero, l'accoglimento 
delle 
doglianze 
dovendo passare 
attraverso una 
rinnovazione 
istruttoria 
che 
potesse 
comportare 
il 
venir 
meno 
del 
dubbio 
e 
far 
conseguire 
la 
certezza 
processuale 
della 
responsabilità 
degli imputati, pur senza alcuna conseguenza sotto il profilo penale (a reato prescritto). 


la pronuncia assolutoria va dunque confermata. 


8. 
la 
complessità 
delle 
questioni 
da 
esaminare 
giustifica 
la 
previsione 
di 
un termine 
di 
novanta giorni per il deposito della sentenza, ai sensi dell'art. 544, comma 3, cod. proc. pen. 
PQM 
Visti gli artt. 627, 605 cod. proc. pen., 
decidendo in sede 
di 
rinvio dalla 
Corte 
di 
Cassazione, che 
con sentenza 
n. 11451/2019 


ha 
annullato la 
sentenza 
della 
Corte 
d'Appello di 
Venezia 
di 
data 
16.3.2017, di 
rinvio dalla 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
n. 3615/2016, che 
aveva 
annullato la 
sentenza 
della 
Corte 
d'Appello di 
Venezia 
di 
data 
14.7.2014, che 
riformando la 
sentenza 
assolutoria 
del 
Tribunale 
di 
Padova 
di 
data 
22.3.2012 
aveva 
dichiarato 
estinti 
per 
prescrizione 
i 
reati 
ascritti 
agli 
imputati 
C., C., d. d. e P.: 


1) dichiara 
non doversi 
procedere 
nei 
confronti 
di 
P. M. in ordine 
ai 
reati 
ascrittigli 
perché 
estinti per morte dell'imputato; 
2) 
ammessa 
la 
dichiarazione 
del 
teste 
n., 
di 
rettifica 
di 
parte 
del 
contenuto 
del 
suo 
esame 

ConTenzioSo 
nAzionAle 


testimoniale, 
e 
dato 
atto 
dell'intervenuta 
prescrizione 
di 
entrambi 
i 
reati 
anche 
nella 
forma 
aggravata: 


-conferma 
nei 
confronti 
di 
C. F., C. G. e 
d. d. A. la 
sentenza 
del 
Tribunale 
di 
Padova 
di data 22.3.2012; 
-dichiara 
la 
preclusione 
all'esercizio autonomo ex 
art. 576 cod. proc. pen. dell'azione 
civile 
promossa 
dalle 
parti 
civili 
Associazione 
italiana esposti 
amianto 
e 
medicina democratica 
movimento per la salute onlus. 
Visto l'art. 544, comma 
3, cod. proc. pen. indica 
in giorni 
novanta 
il 
termine 
di 
deposito 
della sentenza. 


Venezia, 30 ottobre 2020. 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


Un ricorso dell’avvocatura dello Stato in tema di stalking: 


l’ammonimento del Questore (ex art. 8 D.L. n. 11/2009) 

e il diritto di difesa dell’ammonendo (presunto) stalker 


(CoNsiGLio 
di 
stAto, sezioNe 
terzA, seNteNzA 
24 APriLe 
2020 N. 2620 
) 


CT 38753/19 - Avv. Melania nicoli 


aVVoCatURa GeneRaLe DeLLo Stato 


eCC.Mo ConSiGLio Di Stato 


in SeDe GiURiSDizionaLe 


RiCoRSo in 
aPPeLLo 


per il 
Ministero dell'interno (C.F. 80014130928) -in persona 
del 
Ministro pro 
tempore, 
rappresentato 
e 
difeso 
dall'Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato 
(C.F. 
80224030587), Fax 0696514000, PeC: 
ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it, 
presso i cui uffici domicilia in roma, alla via dei Portoghesi n. 12 


ContRo 


oMiSSiS, rappresentato e 
difeso dall'Avvocato Giampaolo la 
Cognata, con domicilio 
eletto 
in 
Genova, 
Via 
SS. 
Giacomo 
e 
Filippo 
1915, 
presso 
il 
suo 
studio, 
PeC: 
giampaolo.lacognata@ordineavvgenova.it 


propone appello 


avverso 
la 
sentenza 
n. 
oMiSSiS 
del 
TAr 
liguria, 
Sez. 
ii, 
depositata 
il 
09/05/2019, 
con la 
quale 
veniva 
annullato il 
provvedimento adottato in data 
12/12/2014, 
con cui 
il 
Questore 
di 
Genova, ha 
ammonito il 
Sig. oMiSSiS 
ai 
sensi 
dell'art. 8 
del d.l. n. 11/2019; 


Fatto 


Con la 
sentenza 
oMiSSiS 
in data 
18/4/2019, il 
TAr della 
liguria 
ha 
annullato 
l'ammonimento 
del 
Questore 
di 
Genova, 
in 
data 
12/12/2014, 
irrogato 
al 
Signor 
oMiSSiS 
ex art. 8, del decreto legge n. 11/2009. 
il 
giudice 
a 
quo, 
dopo 
avere 
passato 
in 
rassegna 
i 
momenti 
procedimentali 
che 
avevano portato il 
questore 
ad emettere 
il 
provvedimento, conclude 
stigmatizzando 
il 
fatto che 
l'Amministrazione 
avesse 
concluso il 
procedimento, con 
l'emanazione 
dell'ammonimento, senza 
avere 
ascoltato, quale 
persona 
informata 
dei 
fatti, il 
oMiSSiS, assumendo, il 
giudice, che 
quello dell'audizione 
del 
destinatario 
del 
provvedimento 
ex 
art. 
8, 
d.l. 
n. 
11/2009, 
sarebbe 
vero 
e 
proprio 
obbligo 
incombente 
sull'amministrazione, 
dovendosi 
annoverare, 
l'ammonendo, 
tra 
le 
persone 
informate 
dei 
fatti, alla 
stregua 
di 
ogni 
altra. la 
violazione 
di 
tale 
obbligo, 
secondo 
il 
giudice, 
sarebbe 
di 
per 
sé 
fatto 
idoneo 
e, 
anzi, 
sufficiente 
a 
inficiare 
il 
procedimento amministrativo e 
a 
invalidare 
il 
provvedimento 
finale adottato. 



ConTenzioSo 
nAzionAle 


il 
giudice 
argomenta, infatti, che 
tale 
adempimento sarebbe 
funzionale 
a 
garantire 
i 
diritti 
di 
difesa 
dell'ammonendo, "destinatario di 
un provvedimento 
repressivo di 
durata potenzialmente 
illimitata", osservando, altresì, che 
l'assolvimento 
dell'obbligo in parola 
non confliggerebbe 
"con la 
natura 
cautelare 
e 
urgente 
del 
provvedimento in esame 
allorché 
il 
quadro fattuale 
non denoti 
una 
situazione 
di 
inequivoca 
gravità 
in 
danno 
della 
vittima", 
non 
ravvisata, 
evidentemente, nel 
caso che 
occupa. dopo avere 
passato in rassegna 
alcune 
delle 
condotte 
vessatorie 
poste 
a 
base 
del 
provvedimento, depotenziandone, 
peraltro, 
la 
portata 
sotto 
il 
profilo 
della 
motivazione, 
e 
dopo 
avere 
assunto 
come 
-in qualche 
misura 
-rilevante, ai 
fini 
della 
validità 
dell'ammonimento, 
il 
ricongiungimento successivo della 
coppia, avvenuto nelle 
more 
della 
decisione, 
il 
giudice 
conclude 
affermando 
che 
"dal 
quadro 
narrativo 
così 
come 
delineato 
dalle 
parti 
non si 
evince 
una 
univoca 
gravità 
fattuale 
tale 
da 
escludere 
l'audizione del ricorrente in sede di istruttoria procedimentale". 
la sentenza qui appellata è illegittima ed erronea e va respinta per i seguenti 


MotiVi 


Violazione e falsa applicazione dell'art. 8 D.L. n. 11/2009. 


1) Si 
tratta, anzitutto, di 
chiarire, se, per il 
caso che 
occupa, in punto di 
diritto, 
l'audizione 
del 
oMiSSiS, nell'ambito del 
procedimento amministrativo per il 
suo 
ammonimento, 
fosse 
attività 
effettivamente 
dovuta 
dall'Amministrazione 
e 
se 
la 
sua 
omissione 
sia 
fatto rilevante, idoneo, di 
per sé, sotto il 
profilo procedi-
mentale, a travolgere la validità del provvedimento finale. 
Un primo approccio alla 
questione 
deve 
essere 
necessariamente 
di 
tipo lessicale, 
prima 
ancora 
che 
procedurale, essendo necessario tentare 
di 
chiarire, in 
primis, 
la 
portata 
del 
termine 
"persona 
informata 
dei 
fatti", 
dalla 
legge 
usato 
per 
indicare 
le 
persone 
che, 
ex 
art. 
8, 
l'Amministrazione 
deve 
sentire 
prima 
dell'emissione 
del 
provvedimento, se 
esso possa, cioè, intendersi 
in senso a-
tecnico 
o 
se, 
al 
contrario, 
debba 
essere 
inteso 
avuto 
riguardo 
alla 
disciplina 
processual-penalistica 
che 
regola 
l'assunzione 
di 
informazioni 
da 
parte 
della 
polizia 
giudiziaria, senza 
perdere 
di 
vista 
il 
fatto che, nel 
caso dell'art. 8, d.l. 
n. 11/2009, destinatario del 
provvedimento finale 
è 
colui 
che 
nel 
momento in 
cui 
si 
verificherà 
la 
condizione 
di 
procedibilità, 
vale 
a 
dire 
a 
seguito 
della 
proposizione 
di 
querela 
da 
parte 
della 
vittima 
-assumerà 
anche 
la 
veste 
formale 
di 
persona 
sottoposta 
a 
indagini 
per il 
reato di 
atti 
persecutori, e 
che 
in considerazione 
di tale qualità, egli gode (da subito) di una serie di diritti. 
Va 
rilevato, a 
riguardo, che 
nel 
plesso processuale-penale, la 
categoria 
delle 
persone 
informate 
dei 
fatti 
è 
tenuta 
ben distinta 
da 
quella 
delle 
persone 
sottoposte 
alle 
indagini, 
in 
quanto 
l'acquisizione 
di 
dichiarazioni 
rilevanti 
ai 
fini 
delle 
investigazioni 
da 
soggetti 
chiamati 
dalla 
polizia 
giudiziaria 
a 
riferire 
intorno 
a 
essi 
è 
assistita 
o 
meno 
da 
garanzie 
difensive 
a 
seconda 
se 
si 
versi 
nell'un 
caso o nell'altro. 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


nel 
caso 
di 
persone 
informate 
dei 
fatti, 
tout 
court, 
vale 
a 
dire 
persone 
che 
possono, 
potenzialmente, assumere 
la 
veste 
di 
testimoni 
nel 
processo penale, ma 
che 
nulla 
hanno a 
che 
vedere 
con il 
reato sul 
piano della 
personale 
responsabilità, 
non è 
prevista 
alcuna 
garanzia 
difensiva, dacché 
la 
legge 
impone 
a 
siffatte 
persone 
di 
presentarsi 
alla 
polizia 
giudiziaria, 
ove 
siano 
da 
essa 
chiamate, 
e 
di 
rispondere 
alle 
domande, avendo, anche 
l'obbligo di 
farlo secondo verità. 
diverso è 
il 
caso, invece, delle 
persone 
sottoposte 
alle 
indagini, la 
cui 
audizione 
da 
parte 
della 
polizia 
giudiziaria 
presenta 
profili 
di 
estrema 
complicazione 
che non si rinvengono nell'ipotesi precedente. 
Per il 
caso della 
persona 
ch'è 
indagata, l'attività 
di 
assunzione 
delle 
informazioni 
da 
parte 
della 
polizia 
giudiziaria 
riposa 
sopra 
una 
rigida 
disciplina 
processuale, 
la 
quale 
è 
tesa 
alla 
salvaguardia 
delle 
garanzie 
difensive 
postulate 
dall'art. 24 e 
dall'art. 111 della 
Costituzione, che, a 
partire 
dalla 
necessaria 
assistenza 
di 
un avvocato, senza 
il 
quale 
non possono assumersi 
dichiarazioni 
[art. 
350, 
comma 
3, 
del 
codice 
di 
procedura 
penale], 
si 
sgrana 
lungo 
il 
filo 
del-
l'art. 64 dello stesso codice, che, al 
comma 
3, stabilisce 
che, prima 
che 
abbia 
inizio l'esame, la persona deve essere avvertita che: 


a) le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti; 
b) (...) ha 
facoltà 
di 
non rispondere 
ad alcuna 
domanda, ma 
comunque 
il 
procedimento 
seguirà il suo corso; 
b) se 
renderà 
dichiarazioni 
su fatti 
che 
concernono la 
responsabilità 
di 
altri, 
assumerà, in ordine a tali fatti, l'ufficio di testimone (...). 
All'elenco si 
aggiunga, infine, la 
possibilità, di 
derivazione 
pretoria, attribuita 
a 
chi 
sia 
sottoposto ad indagini 
financo, di 
mentire, posto che 
costoro non abbiano 
l'obbligo di dire la verità alla polizia giudiziaria. 
Si 
vede 
bene 
come 
la 
disciplina 
che 
assiste 
l'assunzione 
di 
dichiarazioni 
dalla 
persona 
indagata, 
sopra 
solo 
sommariamente 
descritta, 
mal 
si 
concilia 
con 
l'obbligo che 
il 
giudice 
a 
quo vorrebbe 
incombente 
sull'Amministrazione 
di 
annoverare 
l'autore 
dello 
stalking 
tra 
le 
persone 
informate 
dei 
fatti 
e, 
per 
giunta, 
impone 
all'Amministrazione 
di 
convocarlo 
e 
di 
sentirlo 
su 
fatti 
che 
siano a 
lui 
stesso addebitabili 
sotto il 
profilo della 
penale 
responsabilità, ciò 
che 
determinerebbe 
un 
cortocircuito 
procedurale 
con 
ogni 
evidenza 
insanabile, 
a 
partire 
dalla 
dubbia 
utilità 
(rectius, 
utilizzabilità) 
di 
tali 
dichiarazioni, 
le 
quali 
potrebbero 
anche 
rivelarsi 
false, 
stante 
il 
diritto 
dell'indagato 
di 
(impunemente) 
mentire. 
in 
altri 
termini, 
l'autore 
delle 
attività 
persecutorie 
a 
carico 
del 
quale 
il 
Questore 
abbia 
instaurato 
un 
procedimento 
amministrativo 
per 
il 
suo 
ammonimento, 
non 
può 
essere 
considerato 
persona 
informata 
dei 
fatti, 
a 
cagione 
della 
sua 
peculiare 
veste 
di 
[presunto] responsabile 
del 
reato. egli, infatti, è, sì, a 
conoscenza 
dei 
fatti, 
ma 
lo 
è 
sol 
perché 
ne 
è 
anche 
[il 
presunto] 
autore. 
in 
altri 
termini, il 
fatto che 
egli 
conosca 
i 
fatti 
non deve 
far perdere 
di 
vista 
il 
fatto ulteriore 
che 
in 
quanto 
[possibile] 
autore 
dei 
reati 
e, 
quindi, 
in 
potenza, 
indagato, 

ConTenzioSo 
nAzionAle 


egli 
ancorché 
si 
versi 
nell'ambito 
di 
un 
procedimento 
amministrativo 
perde 
nient'affatto il 
diritto alle 
garanzie 
difensive, le 
quali, ancor prima 
che 
dal 
codice 
di 
procedura 
penale, 
gli 
derivano 
direttamente 
dall'art. 
24 
della 
nostra 
Carta 
costituzionale, garanzie 
che 
mal 
si 
accorderebbero con il 
procedimento 
amministrativo, a cagione della loro peculiare natura. 
Vuol 
dirsi, in termini 
ancora 
diversi, che 
la 
natura 
"solo" 
amministrativa 
del 
procedimento 
finalizzato 
all'adozione 
dell'ammonimento 
non 
può 
esimere 
l'Autorità 
di 
polizia 
procedente 
dal 
garantire 
al 
soggetto 
che 
dall'eventuale 
provvedimento 
verrà 
inciso 
le 
garanzie 
difensive 
cui 
egli, 
in 
quanto 
[presunto] 
responsabile del reato, comunque, ha diritto. 
V'è 
di 
più, 
in 
quanto, 
a 
deporre 
contro 
la 
ricostruzione 
ermeneutica 
del 
Tar 
della 
liguria 
pare 
essere, altresì, il 
dato letterale 
dell'art. 63 del 
codice 
di 
procedura 
penale, il quale stabilisce che ... 
"se 
davanti 
all'autorità 
giudiziaria 
o 
alla 
polizia 
giudiziaria 
una 
persona 
non 
imputata 
ovvero 
una 
persona 
non 
sottoposta 
alle 
indagini 
rende 
dichiarazioni 
dalle 
quali 
emergono indizi 
di 
reità a suo carico, l'autorità procedente 
ne 
interrompe 
l'esame, avvertendola che 
a seguito di 
tali 
dichiarazioni 
potranno 
essere 
svolte 
indagini 
nei 
suoi 
confronti 
e 
la invita a nominare 
un difensore. 
Le 
precedenti 
dichiarazioni 
non possono essere 
utilizzate 
contro la persona". 


*** 


Si 
vorrebbe, nell'ermeneutica 
dell'art. 8 del 
d.l. n. 11/2009 assunta 
dal 
giudice 
a 
quo, che 
la 
polizia 
di 
sicurezza 
[ch'è, si 
badi, anche 
polizia 
giudiziaria], la 
quale 
abbia 
instaurato un procedimento amministrativo per l'irrogazione 
del-
l'ammonimento a 
un soggetto accusato di 
atti 
persecutori, ex art. 612 bis 
del 
Codice 
penale, 
convocasse 
costui 
e 
che 
lo 
ascoltasse 
come 
"persona 
informata 
dei 
fatti". in ciò v'è 
un paradosso, poiché, come 
già 
s'è 
visto, costui, una 
volta 
che 
fosse 
convocato, 
potrebbe 
anche 
decidere 
di 
non 
rispondere 
o 
di 
rispondere 
il 
falso [perché 
no?], posto che 
la 
legge 
glielo consenta. Ma 
anche 
ammesso 
che 
risponda, 
come 
potrebbe 
mai 
conciliarsi 
la 
sua 
audizione 
in 
qualità 
di 
persona 
informata 
dei 
fatti 
da 
parte 
della 
polizia 
con il 
principio costituzionale 
dell'inviolabilità 
del 
diritto di 
difesa, ex art. 24 della 
Costituzione, posto che 
l'ammonendo 
dovrebbe 
riferire 
su 
fatti 
per 
i 
quali 
potrebbe 
aprirsi 
in 
ogni 
momento 
procedimento penale a suo carico? 
A 
riguardo, per tutte, è 
forse 
opportuno citare 
quel 
recentissimo arresto della 
Corte 
di 
Cassazione, nel 
quale 
i 
giudici 
della 
legittimità 
hanno chiarito la 
portata 
dell'art. 220 del 
codice 
di 
procedura 
penale 
in relazione 
all'ipotesi 
in cui 
in un procedimento amministrativo (una 
verifica 
fiscale, nel 
caso in specie) 
siano raccolte 
dichiarazioni 
dalle 
quali 
emergano indizi 
di 
reato a 
carico del 
dichiarante. 
orbene, 
la 
Corte 
ha 
stabilito 
che 
in 
tal 
caso, 
sull'organo 
procedente, 
incombe 
l'obbligo -ai 
sensi 
dell'art. 220 delle 
disposizioni 
di 
attuazione 
del 
codice 
di 
procedura 
penale 
-di 
osservare 
le 
disposizioni 
del 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


codice 
di 
rito 
per 
assicurare 
le 
fonti 
di 
prova 
e 
raccogliere 
quant'altro 
possa servire ai fini dell'applicazione della legge penale. 


Si 
vede 
bene, 
allora, 
come 
l'acquisizione 
-da 
chicchessia 
-di 
dichiarazioni 
che 
siano, anche 
solo in potenza, autoaccusatorie, sia 
attività 
da 
non sottovalutare, 
dati 
i 
numerosi 
limiti 
posti 
dalla 
legge 
a 
tutela 
dell'imprescindibile 
e 
indefettibile 
diritto di 
difesa 
della 
persona 
accusata, diritto che 
non ammette 
eccezioni, 
neppure 
ove 
tali 
informazioni 
dovessero 
essere 
raccolte 
nell'ambito 
di 
un procedimento solo amministrativo. il 
principio è 
chiaramente 
stabilito 
anche 
a 
livello 
unionale, 
dacché 
la 
direttiva 
del 
Parlamento 
europeo 
e 
del 
Consiglio, 
22 maggio 2012, n. 2012/13/Ue, in materia 
di 
diritti 
di 
informazione 
dell'indagato, all'art. 3, stabilisce 
che 
debba 
essere 
data 
adeguata 
garanzia 
da 
parte 
degli 
Stati 
membri 
a 
che 
alle 
persone 
indagate 
o imputate 
sia 
data 
tempestivamente 
informazione 
circa 
il 
diritto 
di 
avvalersi 
di 
un 
legale 
e 
del 
diritto 
al 
silenzio. né 
il 
fatto che 
la 
parte 
offesa 
abbia 
preferito richiedere 
l'ammonimento 
al 
questore, 
anziché 
presentare 
da 
subito 
querela, 
sposta, 
in 
qualche 
modo, 
i 
termini 
della 
questione 
sotto 
il 
profilo 
delle 
garanzie 
dell'indagato. 
Ciò, a 
tacer d'altro, si 
desume, anche, dal 
contenuto dell'art. 346 del 
codice 
di 
procedura 
penale, il 
quale 
dispone 
che 
... fermo quanto disposto dall'articolo 
343, in mancanza di 
una condizione 
di 
procedibilità che 
può ancora sopravvenire, 
possono essere 
compiuti 
gli 
atti 
di 
indagine 
preliminare 
necessari 
ad 
assicurare 
le 
fonti 
di 
prova 
e, 
quando 
vi 
è 
pericolo 
nel 
ritardo, 
possono 
essere 
assunte le prove previste dall'articolo 392. 


le 
questioni 
problematiche 
sottese 
all'ermeneutica 
dell'art. 
8, 
del 
decreto 
legge 
n. 11/2019, sono note, peraltro, alla 
stessa 
giurisprudenza 
amministrativa, 
la 
quale, dopo alcune 
iniziali 
pronunce 
inclini 
a 
considerare 
persona 
informata 
dei 
fatti 
anche 
il 
(presunto) 
responsabile 
degli 
atti 
persecutori, 
è 
addivenuta, 
successivamente, 
a 
un 
orientamento 
più 
coerente, 
più 
in 
linea, 
cioè, col 
dettato normativo e 
in accordo con la 
tesi 
sostenuta 
da 
questa 
stessa 
Amministrazione. Secondo tale 
opposta 
e 
più condivisibile 
impostazione, infatti, 
la 
persona 
informata 
dei 
fatti 
è 
soggetto diverso sia 
dall'ammonendo e 
sia 
dalla 
vittima, 
rispondendo 
tale 
distinzione 
concettuale 
alla 
ratio 
stessa 
della 
disposizione, 
la 
quale 
esige 
che 
il 
Questore 
formi 
correttamente 
il 
suo 
convincimento 
sulla 
base 
di 
informazioni 
raccolte 
da 
soggetti 
non emotivamente 
coinvolti nella vicenda. 
il 
quadro dogmatico sopra 
solo sommariamente 
tracciato induce, con grande 
chiarezza, ad escludere 
il 
destinatario dell'ammonimento, che 
dei 
fatti 
su cui 
deve 
riferire 
sia, 
anche 
solo 
in 
potenza, 
autore, 
dal 
novero 
di 
quelle, 
informate 
dei 
fatti, che, ex art. 8 del 
decreto legge 
n. 11/2009, l'Autorità 
di 
pubblica 
sicurezza 
è tenuta a sentire nel procedimento. 
in ogni 
caso, anche 
a 
volere 
considerare 
l'esistenza 
di 
un obbligo dell'amministrazione 
a 
sentire 
l'ammonendo 
(presunto) 
stalker, 
tale 
obbligo 
deve 
comunque 
intendersi 
assolto con la 
comunicazione 
di 
avvio del 
procedimento e 



ConTenzioSo 
nAzionAle 


con l'invito all'interessato a 
presentare 
memorie 
o scritti 
difensivi, posto che 
la 
norma 
non implichi 
necessariamente 
che 
la 
persona 
sia 
convocata 
per rendere 
oralmente 
le 
dichiarazioni 
che 
egli 
ben 
può 
esporre 
per 
iscritto, 
oltretutto 
con maggior ponderazione, quindi 
con maggior completezza 
ed efficacia 
(cfr. 


C. di St., Sez. iii, n. 2599/2015). 
*** 


Chiarita 
la 
questione 
nei 
termini 
appena 
indicati, resta 
da 
chiarire 
quali 
siano, 
allora, gli 
strumenti 
che 
l'ordinamento appresta 
a 
tutela 
del 
soggetto il 
quale 
sia 
parte 
nel 
procedimento amministrativo per l'adozione 
dell'ammonimento 
nei 
suoi 
stessi 
confronti; 
in qual 
modo, cioè 
egli 
possa 
dire 
la 
sua 
e 
difendersi, 
conciliando in una 
sintesi 
giuridicamente 
fondata 
le 
varie 
posizioni 
in campo 
avuto riguardo al 
fatto che 
egli 
non sia 
una 
persona 
informata 
dei 
fatti 
nell'accezione 
processual-penalistica del termine. 
Tale 
tutela 
va 
ricercata, 
evidentemente 
e 
necessariamente, 
nel 
plesso 
di 
riferimento 
del 
procedimento 
amministrativo, 
ovverosia 
la 
legge 
generale 
7 
agosto 
1990, 
n. 
241, 
e, 
in 
particolare, 
nei 
suoi 
articoli 
7 
e 
10. 
È 
nel 
momento 
procedimentale 
per 
l'adozione 
del 
provvedimento 
dell'ammonimento 
-e 
nella 
sua 
partecipazione 
a 
esso 
-che 
lo 
stalker 
(rectius, 
il 
presunto 
stalker) 
deve 
pretendere 
di 
trovare 
-ed 
effettivamente 
trovare 
-il 
proprio 
coinvolgimento, 
che, 
beninteso, 
non 
dev'essere, 
meramente, 
un 
fatto 
di 
forma, 
dacché 
esso 
deve 
effettivamente 
e 
concretamente 
permettergli 
di 
approntare 
tutte 
le 
sue 
difese, 
mediante 
una 
partecipazione 
che 
gli 
consenta 
di 
rispondere 
alle 
accuse 
mosse 
dalla 
(presunta) 
vittima, 
anche 
avuto 
riguardo 
al 
principio 
di 
imparzialità 
dell'azione 
amministrativa 
dal 
quale, 
comunque, 
non 
può 
prescindersi. 
Proprio 
da 
questo 
versante, 
infatti, 
il 
massimo 
Consesso 
della 
giustizia 
amministrativa 
ha 
sanzionato 
il 
ritardo 
nella 
comunicazione 
di 
avvio 
del 
procedimento 
e 
la 
scarsa 
attenzione 
rivolta 
dal 
Questore 
alle 
controdeduzioni 
dell'ammonendo. 
Si 
vede 
con estrema 
nitidezza, allora, come 
consentire 
al 
presunto colpevole 
di 
difendersi 
nel 
procedimento amministrativo con lo strumento della 
partecipazione 
attiva 
e 
stimolata 
da 
parte 
dell'Amministrazione, ai 
sensi 
dell'art. 10 
della 
legge 
241/1990, 
sia 
l'unico 
strumento 
in 
grado 
di 
conciliare 
in 
una 
sintesi 
giuridicamente 
equilibrata 
l'obbligo di 
garantire 
al 
(presunto) responsabile 
il 
suo diritto a 
difendersi 
nel 
procedimento amministrativo con la 
sua 
qualità 
di 
(presunto) responsabile 
del 
reato, senza 
che, per questo, i 
suoi 
diritti 
e 
le 
sue 
garanzie 
difensive, quale 
presunto responsabile 
del 
reato, ne 
escano intaccati. 
la 
questione 
che 
deve 
rilevare, 
infatti 
è, 
ad 
avviso 
di 
questa 
Amministrazione, 
la 
spontaneità 
della 
partecipazione 
(rectius, 
delle 
dichiarazioni), 
sia 
pur 
stimolata 
dall'Amministrazione 
con 
la 
comunicazione 
dell'avvio 
del 
procedimento 
e 
con 
l'informazione 
ai 
partecipanti 
al 
procedimento 
(ammonendo 
compreso) dei 
diritti 
loro accordati 
dalla 
legge. l'acquisizione 
delle 
dichiara



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


zioni 
spontanee, 
infatti, 
è 
lecita 
-e 
come 
tale 
si 
concilia 
-anche 
avuto 
riguardo 
alla 
qualità 
di 
(futuro) indagato di 
chi 
tali 
dichiarazioni 
renda, posto che 
l'art. 
350, 
comma 
7, 
del 
codice 
di 
procedura 
penale 
consenta 
alla 
polizia 
giudiziaria 
di 
ricevere 
tali 
dichiarazioni 
dall'indagato 
anche 
in 
assenza 
del 
difensore 
e 
senza 
la 
somministrazione 
degli 
avvisi 
previsti 
dall'art. 64 del 
codice 
di 
procedura 
penale, 
posto 
che, 
in 
tal 
guisa, 
la 
legge 
non 
consideri 
violata 
alcuna 
garanzia difensiva. 


*** 


nel 
caso che 
occupa, il 
diritto del 
Signor oMiSSiS 
a 
dire 
la 
sua, a 
difendersi, a 
portare 
argomenti 
a 
confutazione 
e 
prove 
utili 
a 
consentire 
al 
Questore 
di 
pervenire 
a 
un convincimento e 
a 
una 
decisione 
diversi 
rispetto a 
quelli 
cui 
è 
pervenuto, 
è 
stato garantito attraverso la 
tempestiva 
comunicazione 
di 
avvio del 
procedimento, ex art. 10 della 
legge 
241/1990, diritto che 
il 
oMiSSiS 
non ha 
inteso, 
peraltro, esercitare, posto che nel procedimento sia rimasto "muto". 
di 
talché, 
fondare 
l'annullamento 
dell'ammonimento 
sopra 
l'omessa, 
presunta, 
violazione 
dell'art. 8 del 
decreto legge 
n. 11/2009, opinando che 
l'Amministrazione 
non 
abbia 
dato 
spazio 
al 
oMiSSiS 
per 
difendersi 
dalle 
accuse 
della 
(presunta) 
vittima 
degli 
atti 
persecutori 
è 
fatto 
che 
non 
risponde 
alla 
realtà 
dei 
fatti, 
oltre 
che 
contraddittorio in termini, visto che 
il 
diritto del 
oMiSSiS 
a 
dire 
la 
sua 
sia 
stato garantito proprio attraverso la 
comunicazione 
dell'avvio del 
procedimento, 
in cui 
l'uomo fu esplicitamente 
invitato a 
presentare 
memorie 
o scritti 
difensivi, a difendersi, in altre parole. 
invito rispetto al quale egli è rimasto inerte. 
Ad avviso di 
questa 
difesa, la 
validità 
del 
procedimento e 
quella 
del 
discendente 
ammonimento, 
è 
sotto 
ogni 
profilo 
incontestabile, 
innegabile, 
posto 
che 
il 
Questore 
abbia 
osservato tutti 
i 
doveri 
istruttori 
previsti 
dall'art. 8, co. 2, del 
decreto 
legge 
n. 
11/2009, 
armonizzando 
tale 
disciplina 
con 
quella 
generale 
di 
cui 
alla 
legge 
n. 241/1990. il 
Questore, infatti, ha 
formato il 
proprio convincimento 
sulla 
sussistenza 
della 
pericolosità 
sociale 
del 
presunto 
stalker 
mediante 
la puntuale valutazione de: 


1. fatti narrati dalla presunta vittima; 
2. le informazioni degli organi investigativi; 
3. le dichiarazioni rese dalle persone informate sui fatti. 
non ha, invece, tenuto conto (rectius, non ha 
potuto tenere 
conto) della 
posizione 
dell'ammonendo 
poiché, 
come 
s'è 
visto, 
costui 
non 
ha 
inteso 
partecipare 
al 
procedimento, omettendo, consapevolmente 
di 
fornire 
la 
propria 
versione 
dei 
fatti, ancorché 
a 
ciò fosse 
stato sollecitato con lo strumento della 
comunicazione 
del 
suo avvio. e 
ciò, in punto di 
diritto vivente, ancorché, nel 
caso in 
specie, 
l'istruttoria 
si 
sarebbe 
potuta 
ritenere 
formalmente 
completa 
anche 
senza 
l'instaurazione 
del 
contradditorio, essendo le 
prove 
raccolte 
idonee 
di 
per sé a dimostrare l'evento ed essendo l'urgenza dell'intervento in re ipsa. 

ConTenzioSo 
nAzionAle 


in punto conclusionale, la 
sentenza 
de 
qua 
è 
da 
ritenersi 
errata, illegittima 
in 
punto di diritto e carente di motivazione. 


P.Q.M. 


il 
Ministero 
dell'interno, 
come 
sopra 
rappresentato 
e 
difeso 
chiede 
che 
codesto 
Consiglio di 
Stato voglia 
annullare 
la 
sentenza 
de 
qua 
perché 
illegittima, con 
vittoria di spese. 
roma, 28/10/2019 


Avvocato dello Stato 
Melania Nicoli 


Consiglio di 
Stato, Sezione 
terza, sentenza 24 aprile 
2020 n. 2620 
-Pres. Franco Frattini, 
est. Giovanni Pescatore - Ministero interno (avv. gen. Stato) c. oMiSSiS 
(n.c.) 


FATTo 


1. nel 
giudizio di 
primo grado l’attuale 
appellato oMiSSiS 
ha 
impugnato il 
provvedimento datato 
12 dicembre 
2014 con il 
quale 
il 
Questore 
di 
Genova 
lo ha 
ammonito ai 
sensi 
dell’art. 8 
del 
d.l. n. 11/2009, ritenendolo responsabile 
di 
atti 
persecutori 
in danno della 
ex compagna 
oMiSSiS. 
2. l’atto è 
fondato, per un verso, sulle 
dichiarazioni 
della 
parte 
lesa, descrittive 
del 
contegno 
aggressivo e 
persecutorio assunto dall’uomo, concretatosi 
in minacce 
e 
molestie 
volte ad indurre 
la 
donna 
a 
riallacciare 
la 
relazione 
sentimentale 
in precedenza 
intrattenuta 
con il 
suo 
molestatore; 
e, 
per 
altro 
verso, 
sulle 
risultanze 
investigative 
emerse 
all’esito 
dell’acquisizione 
di sommarie informazioni rese da soggetti terzi. 
3. Con la 
sentenza 
n. oMiSSiS, il 
giudice 
di 
primo grado ha 
accolto l’impugnativa, ritenendola 
fondata 
in 
relazione 
alla 
dedotta 
violazione 
dell’art. 
8 
del 
d.l. 
n. 
11/2009, 
per 
difetto 
di 
istruttoria. 
A 
tal 
fine 
ha 
osservato come 
la 
norma 
violata 
imponga 
all’amministrazione 
questorile 
di 
sentire 
le 
persone 
informate 
sui 
fatti, e 
tra 
queste 
anche 
il 
presunto autore 
delle 
condotte 
persecutorie; 
come 
questo 
incombente 
non 
confligga 
con 
la 
natura 
cautelare 
e 
urgente 
del 
provvedimento 
in 
esame, 
non 
quantomeno 
laddove 
il 
quadro 
fattuale 
non 
denoti 
una 
situazione 
di 
inequivoca 
gravità 
in 
danno 
della 
vittima; 
e 
come, 
nel 
caso 
specifico, 
le 
contestazioni 
mosse 
al 
sig. 
oMiSSiS 
non 
potessero 
legittimare 
l’attenuazione 
dell’attività 
istruttoria 
imposta 
dall’art. 
8 citato, e 
ciò anche 
alla 
luce 
del 
fatto che, nel 
periodo intercorrente 
tra 
gli 
episodi 
contestati, 
la 
sig.ra 
oMiSSiS 
non solo aveva 
intenzionalmente 
ripreso la 
relazione 
sentimentale 
con l’attuale 
appellato, ma si era anche trasferita con le figlie nella di lui casa di campagna. 
4. 
Appella 
in 
questa 
sede 
l’amministrazione 
dell’interno, 
sulla 
base 
delle 
deduzioni 
di 
seguito 
riportate. 
5. l’appellato, pur ritualmente intimato, non si è costituito in giudizio. 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


6. in assenza 
di 
istanze 
cautelari, la 
causa 
è 
stata 
discussa 
e 
posta 
in decisione 
all’udienza 
del 
16 aprile 2020, tenuta in videoconferenza ex art. 84, co. 6, d.l. n. 18/2020. 
diriTTo 


1. il 
Ministero appellante 
propone 
una 
interpretazione 
restrittiva 
del 
termine 
"persona informata 
dei 
fatti", impiegato dall’art. 8 d.l. n. 11/2009 per indicare 
le 
persone 
che 
l'Amministrazione 
deve sentire prima dell'emissione del provvedimento. 
Mutuando 
l’impostazione 
invalsa 
nel 
sistema 
processual-penalistico, 
la 
difesa 
erariale 
osserva 
che: 
-se 
la 
posizione 
del 
destinatario 
dei 
fatti 
va 
assimilata 
a 
quella 
del 
soggetto 
indagato, 
per 
“persone 
informate 
dei 
fatti”, viceversa, devono intendersi 
quei 
soli 
soggetti 
che 
potenzialmente 
possono assumere 
la 
veste 
di 
testimoni 
nel 
processo penale, ma 
che 
nulla 
hanno a 
che 
vedere 
con il 
reato sul 
piano della 
personale 
responsabilità. diverse 
sono, infatti, il 
regime 
procedimentale, 
le 
garanzie 
difensive 
e 
l’utilizzabilità 
probatoria 
che 
caratterizzano 
le 
dichiarazioni 
rese agli organi inquirenti da tali due distinte categorie di soggetti; 
-d’altra 
parte, anche 
a 
volere 
considerare 
l'esistenza 
di 
un obbligo per l'amministrazione 
di 
sentire 
il 
presunto stalker, tale 
obbligo dovrebbe 
comunque 
intendersi 
assolto con la 
comunicazione 
di 
avvio del 
procedimento e 
con l'invito all'interessato a 
presentare 
memorie 
o scritti 
difensivi 
(artt. 7 e 
10 l. 241/1990), posto che 
la 
norma 
non implica 
necessariamente 
che 
la 
persona 
sia 
convocata 
per rendere 
oralmente 
le 
dichiarazioni 
che 
ben può esporre 
per iscritto, 
oltretutto 
con 
maggior 
ponderazione, 
completezza 
ed 
efficacia 
(cfr. 
Cons. 
Stato, 
sez. 
iii 
n. 
2599/2015); 
-l'acquisizione 
delle 
dichiarazioni 
spontanee, infatti, è 
lecita, e 
come 
tale 
si 
concilia 
anche 
con la 
qualità 
di 
(futuro) indagato di 
chi 
tali 
dichiarazioni 
renda, posto che 
l'art. 350, comma 
7, del 
codice 
di 
procedura 
penale 
consente 
alla 
polizia 
giudiziaria 
di 
riceverle 
dall'indagato 
anche 
in assenza 
del 
difensore 
e 
senza 
la 
somministrazione 
degli 
avvisi 
previsti 
dall'art. 64 
del codice di procedura penale; 
-dette 
garanzie, 
osserva 
il 
Ministero 
appellante, 
nel 
caso 
di 
specie 
sono 
state 
offerte 
alla 
parte 
attraverso 
la 
tempestiva 
comunicazione 
di 
avvio 
del 
procedimento, 
ex 
art. 
10 
della 
legge 
241/1990, della 
quale 
il 
sig. oMiSSiS 
ha 
liberamente 
e 
immotivatamente 
scelto di 
non avvalersi. 
2. l’appello è fondato. 
2.1. l’art. 8 comma 
2 del 
d.l. n. 11/2009 prevede 
che 
“il 
questore, assunte 
se 
necessario informazioni 
dagli 
organi 
investigativi 
e 
sentite 
le 
persone 
informate 
dei 
fatti, ove 
ritenga fondata 
l'istanza, 
ammonisce 
oralmente 
il 
soggetto 
nei 
cui 
confronti 
è 
stato 
richiesto 
il 
provvedimento, invitandolo a tenere 
una condotta conforme 
alla legge 
e 
redigendo processo 
verbale”. 
2.2 la 
norma, nella 
parte 
in cui 
subordina 
ad una 
valutazione 
di 
“necessità” 
(“.. se 
necessario..”) 
l’acquisizione 
di 
informazioni, 
evidentemente 
affida 
alla 
valutazione 
discrezionale 
dell’autorità 
competente 
la 
modulazione 
degli 
strumenti 
di 
approfondimento istruttorio, implicitamente 
offrendole, 
per 
quanto 
qui 
rileva, 
la 
possibilità 
di 
una 
interlocuzione 
con 
il 
diretto 
interessato 
nella 
duplice 
e 
alternativa 
forma 
delle 
deduzioni 
scritte 
(ex 
artt. 
7 
legge 
n. 
241/1990), oppure dell’audizione diretta, in forma orale. 
2.3. È 
quindi 
rimessa 
al 
Questore, nell'ambito dei 
suoi 
poteri 
discrezionali, non solo la 
scelta 
di 
emettere 
o meno la 
misura, ma 
anche 
di 
stabilire 
la 
tempistica 
della 
sua 
iniziativa 
e 
le 
modalità 
della previa indagine istruttoria. 

ConTenzioSo 
nAzionAle 


l'inoltro 
della 
comunicazione 
di 
avvio 
del 
procedimento, 
previsto 
dall'art. 
7, 
l. 
n. 
241 
del 
1990, 
si 
impone 
come 
obbligatorio 
solo 
se 
le 
circostanze 
effettivamente 
consentono 
di 
avvisare 
il 
possibile 
destinatario dell'atto, in quanto non si 
evidenziano, in senso contrario, specifiche 
ragioni 
di 
urgenza, non altrimenti 
fronteggiabili 
se 
non attraverso un intervento illico et 
immediate 
(Cons. Stato, sez. iii, n. 4187/2018 e 5259/2018). 


2.4. il 
quadro delle 
garanzie 
partecipative, pertanto, si 
articola 
in forme 
composite 
e 
diversamente 
modulabili, conseguenti 
sia 
alle 
specifiche 
e 
contingenti 
circostanze 
del 
caso, sia 
alla 
varietà degli strumenti offerti dall’ordinamento. 
È 
oramai 
consolidato 
l’indirizzo 
interpretativo 
che 
annette 
al 
provvedimento 
in 
questione 
(del 
quale 
non 
possono 
disconoscersi 
gli 
effetti 
particolarmente 
lesivi, 
dal 
momento 
che 
esso 
comporta 
non solo la 
procedibilità 
d'ufficio, ma 
anche 
l'aumento di 
pena, per il 
delitto previsto 
dall'art. 
612 
bis 
c.p.) 
una 
funzione 
tipicamente 
cautelare 
e 
preventiva, 
essendo 
esso 
preordinato 
a 
che 
gli 
"atti 
persecutori" 
posti 
in essere 
contro la 
persona 
non siano più ripetuti, e 
non abbiano 
a cagionare esiti irreparabili. 
Queste 
essendo le 
finalità 
proprie 
del 
provvedimento questorile, è 
del 
tutto palese 
l'esigenza 
che 
la 
sua 
adozione 
avvenga 
in tempi 
rapidi, in ragione 
della 
necessità 
di 
interrompere 
con 
immediatezza 
l'azione 
persecutoria. e 
del 
resto è 
lo stesso legislatore 
a 
configurare 
l'"ammonimento" 
come 
provvedimento 
caratterizzato 
da 
"esigenze 
di 
celerità", 
laddove 
ne 
ha 
previsto 
la 
esternazione 
in 
forma 
orale 
(art. 
8, 
2° 
comma), 
ed 
ha 
stabilito 
che 
la 
richiesta 
della 
sua 
emissione sia trasmessa al Questore "senza ritardo" (art. 8, 1° comma). 
2.5. nella 
fase 
procedimentale 
propedeutica 
all’emissione 
del 
provvedimento, il 
punto di 
intollerabile 
compressione 
dei 
diritti 
difensivi 
del 
destinatario della 
misura 
preventiva 
si 
raggiunge 
nella 
sola 
ipotesi 
in 
cui, 
pur 
difettando 
una 
situazione 
di 
concreta 
ed 
insuperabile 
urgenza, 
allo 
stesso 
vengano 
immotivatamente 
negate 
tutte 
le 
possibilità 
(scritte 
e 
orali) 
di 
interlocuzione con l’autorità competente. 
2.6. nella 
diversa 
ipotesi 
-coincidente 
con quella 
per cui 
è 
lite 
-in cui 
via 
sia 
stata 
comunicazione 
di 
avvio del 
procedimento e 
a 
questa 
non abbia 
fatto seguito né 
una 
risposta 
scritta, 
né 
una 
specifica 
richiesta 
di 
audizione 
orale, il 
quadro istruttorio non può dirsi 
inficiato dalla 
violazione 
dell’art. 
8, 
e 
ciò 
sia 
perché 
nulla 
preclude 
che 
le 
stesse 
informazioni 
possono 
essere 
rese, con altrettanta 
ponderazione, completezza 
ed efficacia, nella 
modalità 
scritta, in alternativa 
a 
quella 
orale; 
sia 
perché 
proprio l’interlocuzione 
scritta 
offre 
alla 
parte 
la 
possibilità 
di 
manifestare 
l’esigenza 
di 
essere 
sentita 
oralmente, 
illustrando 
le 
specifiche 
ragioni 
che 
rendono, 
a 
suo dire, quel 
passaggio istruttorio essenziale 
e 
indefettibile 
ai 
fini 
della 
completezza 
e della fruttuosità dell’indagine condotta dall’amministrazione. 
A 
valle 
dell’adozione 
del 
provvedimento, 
infine, 
il 
sistema 
offre 
ulteriori 
strumenti 
attraverso 
i 
quali 
il 
destinatario 
di 
tali 
atti 
può 
esporre 
quelle 
deduzioni 
di 
merito 
che 
non 
ha 
avuto 
modo 
di 
formulare 
in precedenza: 
la 
motivata 
richiesta 
di 
riesame, il 
ricorso gerarchico e 
l’impugnativa 
giurisdizionale. 
3. 
nel 
caso 
di 
specie, 
il 
sig. 
oMiSSiS 
non 
ha 
dimostrato 
per 
quale 
specifica 
ragione 
la 
sua 
mancata 
audizione 
non potesse 
trovare 
adeguata 
compensazione 
nella 
formulazione 
di 
osservazioni 
scritte 
e 
sotto 
quale 
profilo, 
nel 
descritto 
quadro 
di 
circostanze, 
tale 
omissione 
possa 
aver 
determinato 
un 
irreparabile 
vulnus 
del 
suo 
diritto 
di 
difesa 
(cfr., 
in 
questo 
senso, 
Tar 
Trento, sez. i, n. 276/2018, n. 239/2018 e 
n. 329/2016). neppure 
ha 
chiarito cosa 
gli 
abbia 
impedito di 
fare 
presente, attraverso le 
note 
procedimentali, la 
necessità 
di 
essere 
ascoltato o 
di 
arricchire 
il 
quadro istruttorio attraverso l’audizione 
di 
terze 
persone 
informate 
dei 
fatti, 
delle quali ha indicato i nominativi solo nel ricorso giurisdizionale di primo grado (pag. 8). 

rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


4. 
ne 
consegue 
che 
appare 
irricevibile, 
alla 
luce 
del 
testo 
oltre 
che 
della 
ratio 
delle 
disposizioni 
normative 
invocate, l’esasperato irrigidimento interpretativo che 
l’appellato pretende 
di 
introdurvi 
con 
riguardo 
alle 
modalità 
di 
possibile 
interlocuzione 
tra 
l’amministrazione 
e 
la 
parte 
destinataria 
del 
provvedimento. del 
pari, e 
per l’effetto, appare 
non accoglibile 
la 
tesi 
della 
infungibilità 
dell’audizione 
orale 
del 
presunto stalker, come 
avallata 
-in pedissequo recepimento 
delle deduzioni di parte - dalla pronuncia di primo grado. 
5. la 
sentenza 
appellata 
merita 
quindi 
di 
essere 
riformata, con conseguente 
reiezione 
del 
ricorso 
di primo grado. 
6. 
le 
spese 
di 
lite 
dei 
due 
gradi 
di 
giudizio 
seguono 
la 
soccombenza 
e 
vengono 
liquidate 
come 
da dispositivo. 
P.Q.M. 
il 
Consiglio di 
Stato in sede 
giurisdizionale 
(Sezione 
Terza), definitivamente 
pronunciando 
sull'appello, come 
in epigrafe 
proposto, lo accoglie 
e, per l’effetto, in riforma 
della 
sentenza 
impugnata, respinge il ricorso di primo grado. 
Condanna 
l’appellato 
a 
rifondere 
in 
favore 
della 
parte 
appellante 
le 
spese 
dei 
due 
gradi 
di 
giudizio 
che 
liquida 
nell’importo complessivo di 
€. 2.000,00 (duemila), oltre 
accessori 
di 
legge. 
ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. 
ritenuto 
che 
sussistano 
i 
presupposti 
di 
cui 
all'articolo 
52, 
commi 
1 
e 
2, 
del 
decreto 
legislativo 
30 giugno 2003, n. 196, e 
dell’articolo 9, paragrafo 1, del 
regolamento (Ue) 2016/679 del 
Parlamento europeo e 
del 
Consiglio del 
27 aprile 
2016, a 
tutela 
dei 
diritti 
o della 
dignità 
della 
parte 
interessata, manda 
alla 
Segreteria 
di 
procedere 
all'oscuramento delle 
generalità 
nonché 
di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le parti private. 
Così 
deciso in roma 
nella 
camera 
di 
consiglio del 
giorno 16 aprile 
2020, svoltasi 
in videoconferenza 
ex art. 84, comma 6, d.l. n. 18 del 2020. 



ConTenzioSo 
nAzionAle 


emergenza pandemica e misure limitative 


ANNotAzioNe 
A 
tribUNALe 
AmmiNistrAtivo 
reGioNALe 
Per 
iL 
LAzio, 
sezioNe 
i, ordiNANzA 
26 mArzo 
2021 N. 1921 
(*) 


l’ordinanza 
del 
Tar 
lazio 
in 
rassegna, 
resa 
in 
un 
contenzioso 
concernente 
la 
contestazione 
delle 
misure 
limitative 
all'attività 
dei 
teatri 
per 
finalità 
di 
contrasto 
dell'emergenza pandemica, ha rigettato l’avversa istanza cautelare. 

l'ordinanza 
si 
segnala, 
oltre 
che 
per 
l'affermazione 
del 
carattere 
estrinseco 
del 
sindacato 
del 
GA 
sui 
dPCM, 
per 
la 
delibazione, 
sia 
pur 
evidentemente 
sommaria, -la 
prima, a 
quanto ci 
consta 
-dell'insussistenza 
di 
profili 
d'incostituzionalità 
dei 
dl 
posti 
a 
base 
dei 
vari 
dPCM. in particolare, richiamiamo 
all’attenzione 
quest’affermazione 
che 
dà 
conto 
della 
legittimità 
dell’intero 
“procedimento” 
“la 
catena 
di 
regolazione 
così 
posta 
in 
essere, 
basata 
sull’adozione 
di 
una 
normativa 
primaria 
che 
ha 
individuato 
una 
serie 
di 
strumenti 
per 
fronteggiare 
la 
crisi 
sanitaria 
e 
affidato 
ai 
dPCm 
la 
funzione 
di 
attuarne 
il 
concreto 
contenuto, 
appare 
rispettosa 
dell’obbligo 
per 
il 
legislatore 
di 
introdurre, 
nel 
rispetto 
dei 
limiti 
costituzionalmente 
imposti, 
misure 
a 
titolo 
di 
profilassi 
internazionale 
rapide 
ed efficaci 
e 
che 
tengano conto della specificità 
connesse alla gestione della pandemia”. 


tribunale 
amministrativo Regionale 
per 
il 
Lazio, Sezione 
Prima, ordinanza 26 marzo 
2021 n. 1921 
-Pres. A. Savo Amodio, est. l.M. Brancatelli 
-Teatro Franco Parenti 
Società 
Cooperativa 
impresa 
Sociale 
(avv.ti 
A. 
Segato, 
S. 
Valaguzza 
e 
M. 
Clara) 
c. 
Presidenza 
del 
Consiglio dei Ministri (avv. gen. dello Stato). 


(...) 


Considerato 
che 
il 
Teatro 
Franco 
Parenti 
con 
gli 
ultimi 
motivi 
aggiunti 
ha 
impugnato 
il 
dPCM 
del 
2 
marzo 
2021, 
sia 
nella 
parte 
in 
cui 
reitera 
la 
sospensione 
dell’attività 
degli 
spettacoli 
aperti 
al 
pubblico fino al 
27 marzo 2021 sia 
laddove 
prevede, successivamente 
a 
tale 
data, 
per i 
territori 
ricadenti 
nella 
cosiddetta 
“zona 
gialla”, che 
simili 
attività 
sono consentite 
limitatamente 
alla 
capienza 
massima 
non superiore 
al 
25% di 
quella 
autorizzata 
e 
comunque 
del 
numero massimo di spettatori di 200 all’interno e di 400 all’aperto; 
ritenuto che 
le 
misure 
impugnate 
sono state 
adottate 
a 
seguito di 
una 
specifica 
e 
articolata 
istruttoria 
(cfr. il 
verbale 
n. 159 del 
Comitato tecnico scientifico) e 
che, nell’ambito del 
sindacato 
consentito al 
giudice 
amministrativo su scelte 
di 
tale 
tipo, le 
determinazioni 
assunte 
non appaiono inficiate da manifesta illogicità e arbitrarietà; 
Considerato, inoltre, che 
le 
questioni 
di 
legittimità 
costituzionale 
prospettate 
in relazione 
ai 
decreti 
legge 
che 
hanno autorizzato l’emanazione 
dei 
dPCM 
non appaiono, sulla 
base 
del-
l’analisi 
propria 
della 
fase 
cautelare, suscettibili 
di 
favorevole 
apprezzamento, tenuto conto 
che: 


(*) Segnalazione 
1 aprile 
2021 avv. Stato roberta 
Guizzi, affidataria 
della 
causa 
unitamente 
all’avv. St. 
eugenio de Bonis. 



rASSeGnA 
AVVoCATUrA 
dello 
STATo -n. 4/2020 


l’intervento 
legislativo 
ricade 
nella 
competenza 
esclusiva 
dello 
Stato 
a 
titolo 
di 
«profilassi 
internazionale
» (art. 117, secondo comma, lettera 
q, Cost.), che 
è 
comprensiva 
di 
ogni 
misura 
atta a contrastare una pandemia sanitaria in corso, ovvero a prevenirla; 
a 
fronte 
della 
diffusione 
del 
virus 
Sars-CoV-2 
il 
legislatore 
è 
stato 
chiamato 
a 
fronteggiare 
una 
emergenza 
sanitaria 
di 
portata 
mondiale, 
correlata 
alla 
rapidissima 
diffusione 
del 
CoVid19, 
malattia 
in grado di 
compromettere 
non solo la 
salute 
dei 
singoli 
individui 
ma 
anche 
di 
determinare, 
a 
causa 
del 
rischio 
di 
“sovraccarico” 
del 
sistema 
ospedaliero, 
un 
pericolo 
per 
l’incolumità 
pubblica; 
ciò ha 
richiesto, a 
causa 
della 
rapidità 
e 
della 
imprevedibilità 
di 
espansione 
del 
contagio, “l’impiego di 
strumenti 
capaci 
di 
adattarsi 
alle 
pieghe 
di 
una 
situazione 
di 
crisi in costante divenire” (così Corte Cost., sent. n. 37/2021); 
le 
misure 
via 
via 
introdotte, dall’inizio della 
pandemia, per contrastare 
e 
contenere 
il 
diffondersi 
del 
virus 
si 
sono basate 
sull’adozione 
di 
norme 
di 
rango primario (in particolare: 
il 
d.l. 


n. 
19/2020, 
convertito 
in 
legge 
n. 
35/2020 
ed 
il 
d.l. 
n. 
33/2020, 
convertito 
in 
legge 
n. 
74/2020) 
e 
sono 
state 
adottate 
nel 
rispetto 
di 
principi 
di 
adeguatezza 
e 
proporzionalità 
al 
rischio 
effettivamente 
presente 
su 
specifiche 
parti 
del 
territorio 
nazionale 
ovvero 
sulla 
totalità 
di 
esso; 
al 
fine 
di 
rispettare 
il 
principio di 
riserva 
di 
legge, la 
normativa 
primaria 
ha 
indicato puntualmente 
una 
serie 
di 
misure 
temporaneamente 
limitative 
di 
talune 
libertà 
individuali, 
da 
adottare 
attraverso lo strumento del 
dPCM, di 
modo che 
le 
misure 
di 
contenimento prescelte 
fossero 
concretamente modulate in relazione all’andamento mutevole dell’epidemia; 
la 
catena 
di 
regolazione 
così 
posta 
in essere, basata 
sull’adozione 
di 
una 
normativa 
primaria 
che 
ha 
individuato 
una 
serie 
di 
strumenti 
per 
fronteggiare 
la 
crisi 
sanitaria 
e 
affidato 
ai 
dPCM 
la 
funzione 
di 
attuarne 
il 
concreto contenuto, appare 
rispettosa 
dell’obbligo per il 
legislatore 
di 
introdurre, nel 
rispetto dei 
limiti 
costituzionalmente 
imposti, misure 
a 
titolo di 
profilassi 
internazionale 
rapide 
ed efficaci 
e 
che 
tengano conto della 
specificità 
connesse 
alla 
gestione 
della pandemia; 
ritenuto, infine, che 
la 
domanda 
cautelare, oltre 
che 
sfornita 
di 
adeguato 
fumus 
boni 
iuris, 
non presenta 
neppure 
il 
prescritto requisito del 
periculum 
in mora, tenuto conto che 
la 
parte 
ricorrente 
svolge 
la 
sua 
attività 
in una 
regione 
attualmente 
classificata 
“zona 
rossa” 
e 
che 
la 
totale 
sospensione 
degli 
spettacoli 
in 
presenza 
dipende 
all’elevato 
grado 
di 
diffusione 
del 
virus 
Sars-CoV-2 registrato in tali 
aree; 
a 
fronte 
del 
grave 
quadro epidemiologico, l’interesse 
di 
cui 
è 
portatore 
l’esponente 
deve 
considerarsi 
recessivo rispetto all’esigenza 
di 
tutelare 
la 
salute 
pubblica; 
Considerato, in conclusione 
che 
la 
domanda 
cautelare 
non può trovare 
accoglimento, potendosi 
tuttavia 
compensare 
le 
spese 
della 
presente 
fase 
in ragione 
della 
novità 
delle 
questioni 
sottoposte; 
P.Q.M. 
il 
Tribunale 
Amministrativo 
regionale 
per 
il 
lazio 
(Sezione 
Prima) 
respinge 
la 
domanda 
cautelare. 
Compensa le spese. 
la 
presente 
ordinanza 
sarà 
eseguita 
dall'Amministrazione 
ed è 
depositata 
presso la 
segreteria 
del tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti. 
Così 
deciso in roma 
nella 
camera 
di 
consiglio mediante 
collegamento da 
remoto del 
giorno 
24 marzo 2021. 



ParerideLComitatoConSuLtivo
L’istituto del lavoro agile nella fase emergenziale da Covid 
19, modalità applicative alle Fondazioni Lirico 
-Sinfoniche 


Parere 
del 
06/06/2020-283300/283301/283302, al 17023/2020, V.a.G. GiusePPe 
albenzio 


1. 
Con 
la 
nota 
cui 
si 
porge 
riscontro 
codesta 
Distrettuale 
ha 
sottoposto 
al-
l'esame 
della 
Scrivente, 
valutandone 
un 
rilievo 
di 
portata 
generale 
per 
tutte 
le 
istituzioni 
nazionali, 
la 
questione 
proposta 
dalla 
Fondazione 
fiorentina 
in 
ordine 
ai 
limiti 
e 
condizioni 
dell'applicazione 
delle 
modalità 
di 
cd 
lavoro 
agile 
previste 
dalla 
normativa 
emergenziale 
adottata 
in 
occasione 
dell'epidemia 
COVID-19; 
specifica 
anche 
codesta 
Consorella 
di 
aver 
reso 
all'istituzione 
fiorentina 
un 
primo 
parere 
in 
via 
d'urgenza 
che 
propone, 
comunque, 
alla 
valutazione 
di 
massima 
ritenuta 
opportuna. 
Effettivamente, 
la 
questione 
de 
qua 
ha 
una 
portata 
di 
carattere 
generale 
e 
richiede 
l'espressione 
di 
un 
parere 
di 
massima 
da 
parte 
del 
Comitato 
Consultivo. 


2. 
Il 
lavoro 
agile 
quale 
"modalità 
di 
esecuzione 
del 
rapporto 
di 
lavoro 
subordinato 
stabilita 
mediante 
accordo 
tra 
le 
parti" 
(art. 
18, 
l. 
n. 
81/2017), 
è 
stato 
ripetutamente 
preso 
in 
considerazione 
dal 
Governo 
per 
consentire, 
nel 
corso 
dell'emergenza 
dettata 
dalla 
situazione 
epidemiologica, 
lo 
svolgimento 
dei 
rapporti 
di 
lavoro 
subordinati, 
in 
alternativa 
al 
ricorso 
a 
misure 
di 
sostegno 
del 
reddito 
dei 
dipendenti, 
come 
quelle 
di 
cui 
all'art. 
19 
dl 
18/20, 
da 
considerarsi 
come 
"ultima 
ratio" 
e 
da 
attivare 
solo 
a 
fronte 
della 
assoluta 
impossibilità 
di 
prestazione 
lavorativa. 
Si 
tratta 
di 
un 
istituto 
disciplinato 
ordinariamente 
dalla 
legge 
22 
maggio 
2017, 
n. 
81, 
artt. 
18 
e 
ss. 
che, 
tuttavia, 
ha 
subito 
diverse 
deroghe 
per 
far 
fronte 
alla 
fase 
emergenziale. 
È 
stata 
prevista, 
infatti, 
la 
possibilità 
di 
prescindere 
dagli 
accordi 
individuali 
(dpcm 
8 
marzo 
2020 
art. 
2, 
lett. 
r) 
nonché 
la 
possibilità 
di 
svolgere 
la 
prestazione 
lavorativa 
attraverso 
strumenti 
informatici 
nella 
disposizione 
del 
dipendente 
con 
la 
conseguente 
non 
applicazione, 
in 
tali 
casi, 
della 
previsione 
ordinaria 
di 
cui 
all'art. 
18, 
comma 
2, 
l. 
n. 
81/2017 
che 
prevede 
la 



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


responsabilità 
del 
datore 
di 
lavoro per la 
sicurezza 
e 
il 
funzionamento degli 
strumenti 
tecnologici 
assegnati 
al 
lavoratore 
(art. 
87, 
d.l. 
18/2020). 


Nonostante 
sia 
stato 
previsto 
espressamente 
che 
fino 
alla 
cessazione 
dello 
stato 
di 
emergenza 
il 
lavoro 
agile 
costituisca 
la 
modalità 
ordinaria 
di 
svolgimento 
della 
prestazione 
lavorativa 
"nelle 
pubbliche 
amministrazioni 
di 
cui 
all'art. 
1, 
comma 
2 
del 
decreto 
legislativo 
30 
marzo 
2001, 
n. 
165" 
(art. 
87, 
comma 
1, 
d.1. 
18/2020), 
in 
plurimi 
interventi 
normativi 
è 
stato 
fatto 
riferimento 
anche 
a 
soggetti 
diversi 
dalla 
pubblica 
amministrazione. 


In 
particolare, 
dalla 
lettura 
di 
numerose 
disposizioni 
contenute 
nei 
diversi 
provvedimenti 
adottati 
per 
far 
fronte 
alla 
situazione 
emergenziale, 
emerge 
chiaramente 
il 
ruolo 
fondamentale 
assegnato 
a 
tale 
modalità 
di 
svolgimento 
del 
rapporto 
lavorativo, 
fino 
ad 
ora 
assolutamente 
marginale. 
Difatti, 
in 
diverse 
occasioni 
è 
stato 
previsto 
che 
il 
lavoro 
agile 
potesse 
essere 
applicato 
"dai 
datori 
di 
lavoro 
a 
ogni 
rapporto 
di 
lavoro 
subordinato" 
(dpcm 
8 
marzo 
2020, 
art. 
2 
lett. 
r) 
raccomandando 
il 
massimo 
utilizzo 
di 
tale 
modalità 
lavorativa 
anche 
da 
parte 
delle 
imprese, 
con 
riferimento 
sia 
all'attività 
produttiva 
che 
professionale 
(dpcm 
11 
marzo 
2020, 
art. 
1, 
7 
lett. 
a) 
e 
consentendo 
di 
evitare 
la 
sospensione 
delle 
attività 
produttive 
se 
organizzate 
in 
modalità 
a 
distanza 
o 
lavoro 
agile 
(dpcm 
22 
marzo 
2020, 
art. 
1 
c). 
Infine, 
anche 
il 
dpcm 
10 
aprile 
2020, 
art. 
1, 
lett. 
gg), 
ha 
ribadito 
quanto 
già 
previsto 
dal 
dpcm 
8 
marzo 
2020, 
art. 
2, 
lett. 
r), 
facendo 
riferimento 
non 
più 
ai 
"datori 
di 
lavoro" 
ma 
ai 
"datori 
di 
lavoro 
privati", 
probabilmente 
per 
chiarire 
i 
dubbi 
in 
ordine 
alla 
possibilità 
per 
questi 
ultimi 
di 
applicare 
la 
modalità 
lavorativa 
in 
esame, 
al 
pari 
dei 
datori 
di 
lavoro 
pubblici 
per 
i 
quali, 
come 
detto 
in 
precedenza, 
si 
è 
previsto 
che 
il 
lavoro 
agile 
costituisca 
la 
modalità 
ordinaria 
di 
svolgimento 
della 
prestazione 
lavorativa 
(art. 
87, 
d.l. 
18/2020 
e 
art. 
90, 
d.l. 
34/2020). 


Dal 
quadro 
normativo 
sopra 
delineato, 
come 
si 
legge 
nella 
Circolare 
n. 
2/20 
del 
Ministro 
per 
la 
Pubblica 
Amministrazione, 
emerge 
"un 
evidente 
favor 
verso 
l'attivazione 
quanto 
più 
estesa 
possibile 
del 
lavoro 
agile, 
fermo 
restando 
il 
ricorso 
agli 
istituti 
alternativi 
che 
le 
pubbliche 
amministrazioni 
possono 
applicare 
qualora 
non 
vi 
siano 
le 
condizioni 
per 
il 
ricorso 
al 
lavoro 
agile 
". 
Inoltre, 
dalla 
Direttiva 
n. 
3 
del 
2020 
del 
medesimo 
Ministro 
si 
evince 
che 
il 
lavoro 
agile 
non 
sia 
destinato 
a 
ritornare 
a 
svolgere 
un 
ruolo 
marginale 
ma, 
al 
contrario, 
sicuramente 
nell'ambito 
della 
pubblica 
amministrazione, 
costituisca 
una 
misura 
che 
deve 
essere 
incrementata. 
Difatti, 
come 
si 
legge 
nella 
stessa 
Direttiva 
"la 
sfida 
che 
dovranno 
affrontare 
le 
amministrazioni 
è 
rappresentata 
dalla 
necessità 
di 
mettere 
a 
regime 
e 
rendere 
sistematiche 
le 
misure 
adottate 
nella 
fase 
emergenziale 
al 
fine 
di 
rendere 
il 
lavoro 
agile 
lo 
strumento 
primario 
nell'ottica 
del 
potenziamento 
dell'efficacia 
e 
dell'efficienza 
dell'azione 
amministrativa". 


3. 
Con 
riferimento 
ai 
soggetti 
diversi 
dalla 
pubblica 
amministrazione, 
viene 
in 
rilievo 
nel 
caso 
di 
specie 
la 
Fondazione 
Maggio 
Musicale, 
derivante 
dalla 
trasformazione 
del 
preesistente 
Ente 
Lirico 
"Teatro 
comunale 
di 
Firenze" 

PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


(d.lgs. 
n. 
134/1998), 
la 
quale 
ha 
personalità 
giuridica 
di 
diritto 
privato 
e 
integra 
gli 
estremi 
della 
figura 
di 
organismo 
di 
diritto 
pubblico 
di 
cui 
all'art. 
3, 
comma 
1, 
lett. 
d) 
del 
d.lgs. 
50 
del 
2016 
(cfr. 
-da 
ultimo 
-Consiglio 
di 
Stato, 
sez. 
V, 
12 
febbraio 
2018, 
n. 
858). 


Alla 
luce 
del 
quadro 
normativo 
delineatosi 
nel 
corso 
dell'emergenza 
epidemiologica, 
si 
deve 
ritenere 
che 
sia 
consentito 
a 
tali 
organismi 
ricorrere 
allo 
smart 
working. 
A 
tal 
riguardo, 
infatti, 
vengono 
in 
rilievo 
non 
solo 
i 
plurimi 
interventi 
normativi, 
già 
richiamati 
in 
precedenza, 
con 
cui 
è 
stato 
fortemente 
raccomandato 
il 
ricorso 
a 
modalità 
di 
lavoro 
agile 
non 
solo 
alle 
pubbliche 
amministrazioni 
ma 
anche 
a 
datori 
di 
lavoro 
privati 
ma, 
anche, 
il 
Protocollo 
condiviso 
Governo/OO.SS. 
del 
14 
marzo 
2020 
che 
incentiva 
le 
imprese 
a 
utilizzare 
lo 
smart 
working 
per 
tutte 
le 
attività 
che 
possono 
essere 
svolte 
presso 
il 
domicilio 
o 
a 
distanza 
nonché 
il 
d.l. 
18/20, 
art. 
87 
bis 
(già 
d.l. 
9/20, 
art. 
18) 
che 
nel 
disciplinare 
le 
misure 
di 
ausilio 
allo 
svolgimento 
del 
lavoro 
agile 
da 
parte 
dei 
dipendenti, 
nella 
rubrica, 
fa 
espresso 
riferimento 
agli 
organismi 
di 
diritto 
pubblico. 
ulteriore 
riferimento 
a 
tali 
organismi 
è 
presente 
nella 
Direttiva 
n. 
3/2020 
del 
Ministro 
per 
la 
Pubblica 
Amministrazione 
in 
cui 
si 
legge 
che 
"lo 
scenario 
che 
si 
è 
delineato 
con 
la 
situazione 
emergenziale 
dovrà 
auspicabilmente 
rappresentare 
un'occasione 
utile 
per 
individuare 
gli 
aspetti 
organizzativi 
da 
migliorare... 
è 
necessario 
che 
già 
nella 
fase 
attuale 
le 
amministrazioni 
programmino 
i 
propri 
approvvigionamenti 
ricorrendo 
alle 
misure 
di 
ausilio 
allo 
svolgimento 
del 
lavoro 
agile 
da 
parte 
dei 
dipendenti 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
e 
degli 
organismi 
di 
diritto 
pubblico". 


4. 
Se 
da 
un 
lato 
è 
pacifica 
la 
possibilità 
per 
tali 
organismi 
di 
collocare 
il 
personale 
amministrativo 
in 
modalità 
di 
lavoro 
agile, 
dall'altro 
lato 
la 
questione 
che 
si 
è 
posta 
riguarda 
l'applicabilità 
di 
tale 
misura 
anche 
al 
personale 
artistico 
e 
tecnico 
in 
una 
situazione 
contingente 
nella 
quale 
tutte 
le 
attività 
di 
spettacolo 
sono 
sospese 
per 
legge. 
Difatti, 
sebbene 
la 
misura 
del 
lavoro 
agile 
abbia 
assunto 
un 
ruolo 
centrale 
nella 
legislazione 
emergenziale, 
sono 
comunque 
state 
previste, 
in 
alternativa, 
misure 
di 
supporto 
e 
di 
soccorso 
del 
reddito 
dei 
lavoratori 
momentaneamente 
privi 
di 
retribuzione. 
Si 
fa 
riferimento 
non 
solo 
alla 
cassa 
integrazione, 
ordinaria 


o 
in 
deroga 
(artt. 
19 
ss. 
d.l. 
n. 
18/2020), 
applicabile 
a 
tutti 
i 
datori 
di 
lavoro 
ma, 
anche, 
alle 
misure 
specificatamente 
destinate 
ai 
settori 
dello 
spettacolo, 
del 
cinema 
e 
dell'audiovisivo 
(art. 
89 
d.l. 
n. 
18/2020). 
Sulla 
base 
di 
una 
valutazione 
complessiva 
delle 
misure 
testé 
passate 
in 
rassegna 
e 
dei 
principi 
generali 
dell'organizzazione 
del 
lavoro 
e 
delle 
prerogative 
delle 
parti 
del 
rapporto 
di 
lavoro 
(datore/prestatore), 
si 
deve 
ritenere 
che 
compete 
al 
datore 
di 
lavoro 
la 
valutazione 
pregiudiziale 
sulla 
effettiva 
possibilità 
di 
trattenere 
in 
servizio 
pieno 
i 
dipendenti 
o 
parte 
di 
essi, 
eventualmente 
in 
modalità 
smart 
working. 


Tuttavia, 
si 
deve 
precisare 
che 
si 
tratta 
di 
una 
scelta 
di 
carattere 
imprendi



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


toriale 
che 
deve 
prescindere 
dall'obbligo 
del 
personale 
tecnico 
e 
amministrativo 
(come 
di 
ogni 
altro 
prestatore 
di 
lavoro) 
di 
mantenersi 
sempre 
"all'altezza" 
della 
prestazione 
richiesta: 
si 
tratta 
di 
un 
obbligo 
che 
grava 
su 
tutti 
i 
lavoratori 
e 
che, 
in 
particolare, 
caratterizza 
l'attività 
del 
personale 
altamente 
qualificato 
e 
che, 
pertanto, 
ricade 
sul 
lavoratore 
e 
non, 
invece, 
sul 
datore 
di 
lavoro. 


Sul 
punto, 
sembra 
opportuno 
sottolineare 
come 
anche 
il 
CCNL 
1 
marzo 
2018 
(art. 
5), 
nella 
parte 
relativa 
alla 
formazione, 
pur 
prevedendo 
che 
nei 
confronti 
dei 
Quadri 
(a 
cui 
appartengono 
i 
lavoratori 
dell'area 
tecnico-amministrativa 
che 
siano 
inquadrati 
nel 
livello 
Funzionari 
A, 
ossia 
lavoratori 
con 
funzioni 
direttive 
ed 
elevato 
grado 
di 
professionalità, 
autonomia 
e 
responsabilità) 
sia 
attuato 
un 
piano 
specifico 
di 
interventi 
formativi, 
lo 
collega 
ai 
mutamenti 
tecnologici 
ed 
organizzativi. 


5. 
Sembra, 
quindi, 
a 
questa 
Avvocatura 
Generale 
che 
non 
possa 
farsi 
ricorso 
alla 
modalità 
di 
lavoro 
dello 
smart 
working 
per 
semplicemente 
consentire 
al 
personale 
tecnico 
e 
al 
personale 
artistico 
la 
possibilità 
di 
mantenersi 
in 
costante 
e 
quotidiano 
esercizio, 
nella 
misura 
in 
cui 
tali 
attività 
siano 
da 
ricomprendere 
nel 
generale 
obbligo 
gravante 
su 
ogni 
lavoratore 
di 
conservare 
le 
proprie 
capacità 
lavorative 
e, 
come 
tali, 
non 
siano 
ricomprese 
nel 
normale 
orario 
di 
lavoro, 
così 
che, 
in 
assenza 
di 
mutamenti 
tecnologici 
ed 
organizzativi 
che 
richiedano 
la 
necessità 
di 
formazione 
ad 
hoc, 
ovvero 
di 
una 
nuova 
programmazione 
che 
necessiti 
di 
specifica 
preparazione 
ed 
esercizio, 
sembra 
sia 
opportuno 
preferire 
-nel 
contesto 
della 
normativa 
dell'emergenza 
Covid-19 
il 
ricorso 
a 
misure 
di 
supporto 
del 
reddito, 
considerando 
che 
è 
obbligo 
del 
lavoratore, 
e 
non 
del 
datore 
di 
lavoro, 
tenersi 
pronto 
a 
rendere 
la 
prestazione 
lavorativa 
che 
gli 
compete 
nel 
momento 
in 
cui 
tale 
ripresa 
sarà 
possibile 
e 
potrà 
essere 
superata 
l'attuale 
contingenza 
nella 
quale 
per 
le 
Fondazioni 
lirico-sinfoniche 
non 
è 
possibile 
ottenere 
comunque 
una 
prestazione 
"utile" 
da 
parte 
dei 
dipendenti 
ed 
allestire 
spettacoli 
(contingenza 
che, 
come 
ritenuto 
nel 
parere 
reso 
da 
questa 
Avvocatura 
al 
MIBACT 
in 
data 
16 
aprile 
2020 
-cs. 
15305/20, 
integra 
gli 
estremi 
della 
forza 
maggiore). 
In 
conclusione, 
le 
linee-guida 
che 
dovrebbero 
essere 
a 
base 
delle 
determinazioni 
che 
le 
Fondazioni 
andranno 
ad 
assumere 
nella 
materia 
possono 
così 
sintetizzarsi: 
a) 
spetta 
al 
datore 
di 
lavoro 
la 
determinazione 
pregiudiziale 
sulla 
possibilità/opportunità 
di 
trattenere 
in 
servizio 
pieno 
ed 
effettivo 
i 
dipendenti 


o 
parte 
di 
essi, 
eventualmente 
in 
modalità 
smart 
working; 
questa 
determinazione 
è 
riservata 
alla 
scelta 
e 
responsabilità 
imprenditoriale 
del 
datore 
di 
lavoro 
ed 
è 
connessa 
alla 
effettiva 
possibilità 
di 
continuare 
nella 
propria 
attività 
ed 
alle 
modalità 
attuabili 
di 
detta 
continuazione; 
solo 
nel 
caso 
di 
esito 
positivo 
di 
questa 
valutazione 
pregiudiziale, 
l'imprenditore, 
anche 
in 
coordinamento 
con 
i 
lavoratori 
e 
le 
loro 
rappresentanze 
sindacali, 
determinerà 
le 
modalità 
della 
prestazione 
lavorativa, 
ivi 
compresa 
quella 
del 
lavoro 
a 
distanza; 
b) 
nel 
caso, 
invece, 
di 
esito 
negativo 
di 
quella 
valutazione 
troveranno 
applicazione 
le 
misure 

PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


di 
supporto 
e 
soccorso 
del 
reddito 
dei 
lavoratori 
momentaneamente 
privi 
di 
retribuzione 
(ma 
trattenuti 
in 
servizio, 
anche 
in 
applicazione 
del 
divieto 
di 
licenziamento 
contestualmente 
disposto 
e 
salvo 
quanto 
consentito 
dall'art. 
19 
CCNL 
18 
aprile 
2018 
sulle 
cause 
di 
"forza 
maggiore", 
secondo 
la 
citata 
precedente 
consultazione 
resa 
da 
questa 
Avvocatura 
Generale 
a 
codesto 
Ministero) 
previste 
dalla 
normativa 
emergenziale 
(cassa 
integrazione, 
ordinaria 
o 
in 
deroga, 
ecc.). 


Sul 
parere 
come 
sopra 
formulato 
è 
stato 
sentito 
il 
Comitato 
Consultivo 
di 
questa 
Avvocatura 
Generale 
che 
si 
è 
espresso 
in 
conformità 
nella 
seduta 
del 
4 
giugno 
2020. 



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


Fruizione 
del 
trattamento 
di 
quiescenza 
quale 
causa 
di 
incompatibilità 
con 
il 
conferimento 
di 
incarico 
professionale 
presso 
gli 
ambulatori 
uSmaF-SaSn 
del 
ministero 
della 
Salute 


Parere 
del 
11/06/2020-293830, al 38674/2017, aVV. daniela 
Canzoneri 


Con nota 
del 
29 settembre 
2017 n. 5044 codesta 
amministrazione 
ha 
sottoposto 
alla 
Scrivente 
una 
serie 
di 
quesiti 
inerenti 
la 
questione 
in oggetto descritta, 
manifestando, con nota 
in riferimento, il 
permanere 
dell’interesse 
alla 
consultazione. 

Nella 
richiesta 
di 
parere 
viene 
premesso 
in 
fatto 
che 
la 
D.G. 
della 
prevenzione 
sanitaria 
ha 
riscontrato, dalle 
dichiarazioni 
sostitutive 
rese 
annualmente 
dai 
medici 
e 
da 
altri 
professionisti 
sanitari 
che 
operano 
negli 
ambulatori 
per l’assistenza 
sanitaria 
e 
medico legale 
al 
personale 
navigante, marittimo e 
dell’aviazione 
civile, in relazione 
agli 
incarichi 
loro conferiti 
sulla 
base 
del-
l’Accordo Collettivo Nazionale 
per la 
disciplina 
dei 
relativi 
rapporti, che 
alcuni 
di essi fruiscono del trattamento di quiescenza. 

Questi i quesiti: 


“se 
le 
previsioni 
di 
cui 
all’art. 5 del 
d.l. n. 95 del 
2012 siano applicabili 
anche 
agli 
incarichi 
conferiti 
ai 
professionisti 
medici, 
biologi, 
veterinari 
e 
psicologi 
operanti 
presso 
gli 
ambulatori 
degli 
usMaF-sasn 
del 
Ministero 
della 
salute; 
se 
-anche 
nelle 
more 
del 
recepimento 
del 
nuovo 
a.C.n. 
sulla 
medicina 
specialistica 
ambulatoriale 
interna 
da 
parte 
dell’a.C.n. 
di 
settore 
-debba 
considerarsi 
incompatibile 
lo svolgimento delle 
attività presso gli 
ambulatori 
usMaF- sasn del 
Ministero della salute 
da parte 
dei 
professionisti 
che 
fruiscano 
del 
“trattamento 
di 
quiescenza 
come 
previsto 
dalla 
normativa 
vigente” 
(cfr. articolo 25 del 
nuovo a.C.n. sulla medicina specialistica ambulatoriale 
interna): se, nelle 
ipotesi 
sopra prospettate, gli 
incarichi 
che 
attualmente 
risultano 
conferiti a professionisti in quiescenza debbano essere revocati”. 


Codesta 
amministrazione 
compendia 
nei 
termini 
che 
seguono 
la 
questione 
sottoposta all’esame della Scrivente. 

L’art. 5, comma 
9, del 
D.L. 6 luglio 2012, n. 95, conv. in L. n. 135/2012, 
novellato dall’art. 6 del 
D.L. n. 90/2014, conv. in L. 114/2014 (e, successivamente, 
dall’art. 17, comma 
3, della 
L. n. 124/2015) vieta 
alle 
Pubbliche 
Amministrazioni 
di 
attribuire 
“incarichi 
di 
studio e 
di 
consulenza a soggetti 
già 
lavoratori 
privati 
o 
pubblici 
collocati 
in 
quiescenza” 
(su 
tale 
disposizione 
non 
ha 
inciso, ai 
fini 
che 
qui 
interessano, la 
previsione 
derogatoria 
contenuta 
nel-
l’art. 2-bis, comma 
5, del 
d.l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, 
dalla l. 24 aprile 2020, n. 27). 

Con circolari 
n. 6 del 
4 dicembre 
2014 e 
n. 4 del 
10 novembre 
2015 l’allora 
Ministero per la 
semplificazione 
e 
la 
pubblica 
amministrazione 
ha 
precisato 
le 
finalità 
e 
le 
modalità 
applicative 
di 
detta 
norma 
rilevando: 
1) che 
per 



PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


“lavoratori 
privati 
o 
pubblici 
collocati 
in 
quiescenza” 
debbano 
intendersi 
solo 
i 
lavoratori 
dipendenti 
e 
non 
quelli 
autonomi; 
2) 
che 
l’obiettivo 
perseguito 
dalla 
norma 
è 
quello di 
evitare 
che 
il 
conferimento di 
incarichi 
sia 
utilizzato 
per aggirare l’istituto del collocamento in quiescenza. 

Si 
rammenta 
alla 
Scrivente 
che 
ai 
sensi 
dell’art. 18, comma 
7, del 
D.lgs. 


n. 502/1992 i 
rapporti 
di 
cui 
si 
discute 
sono disciplinati 
con regolamento ministeriale, 
in conformità, per la 
parte 
compatibile, alle 
disposizioni 
dell’art. 8, 
che, a 
sua 
volta, prevede 
che 
il 
rapporto tra 
il 
SSN 
con i 
medici 
di 
medicina 
generale 
ed i 
pediatri 
di 
libera 
scelta 
è 
disciplinato da 
convenzioni 
di 
durata 
triennale 
conformi 
agli 
accordi 
collettivi 
nazionali 
e 
che 
quindi, il 
personale 
sanitario 
attraverso 
il 
quale 
vengono 
rese 
le 
prestazioni 
assistenziali 
e 
medico-
legali 
a 
favore 
del 
personale 
navigante 
è 
titolare 
di 
rapporti 
di 
lavoro analoghi 
a 
quelli 
instaurati 
con 
i 
medici 
di 
medicina 
generale 
ed 
i 
pediatri 
di 
libera 
scelta 
del 
SSN, che 
esulano dal 
rapporto di 
pubblico impiego configurandosi 
come 
rapporti 
di 
prestazione 
d’opera 
professionale 
con connotati 
di 
“parasubordinazione” 
(Cass. SS.uu. n. 2725/1991). 
Tenuto conto che 
l’art. 5, comma 
9, del 
D.L. 95/2012 si 
riferisce 
solo ai 
lavoratori 
“dipendenti” 
collocati 
in quiescenza, secondo codesta 
amministrazione 
i 
professionisti 
di 
cui 
si 
discute, nell’ipotesi 
in cui 
non godano del 
trattamento 
di 
quiescenza 
quali 
ex 
lavoratori 
dipendenti, 
dovrebbero 
ritenersi 
esclusi 
dalla 
sfera 
soggettiva 
di 
applicazione 
del 
divieto 
di 
conferimento 
di 
incarichi. 

Sul 
punto 
non 
può 
che 
richiamarsi 
la 
deliberazione 
n. 
66/2018/SrCPIE/PAr 
della 
Corte 
dei 
Conti 
-Sezione 
regionale 
di 
Controllo 
per il 
Piemonte, citata 
nella 
nota 
n. 5062 del 
3 ottobre 
2019 di 
codesta 
amministrazione, 
nella 
quale 
il 
Giudice 
Contabile, su quesito posto da 
Ente 
Locale, 
ha 
chiarito 
che 
l’incompatibilità 
di 
cui 
trattasi 
trova 
applicazione 
anche 
nei 
confronti dei lavoratori autonomi. 

Viene 
soggiunto che 
secondo il 
Giudice 
Contabile 
il 
divieto di 
cui 
si 
discute 
si 
applica 
esclusivamente 
agli 
incarichi 
di 
studio e 
consulenza, incarichi 
dirigenziali 
o direttivi, incarichi 
di 
governo nelle 
amministrazioni 
e 
negli 
enti 
e 
società 
controllati, con la 
conseguenza 
che 
non sarebbe 
escluso neanche 
il 
conferimento a 
soggetti 
in quiescenza 
di 
incarichi 
professionali, quali 
quelli 
inerenti 
ad 
attività 
legale 
o 
sanitaria 
non 
aventi 
carattere 
di 
studio 
o 
consulenza. 

A 
supporto 
della 
tesi 
propugnata 
codesta 
amministrazione 
richiama 
anche 
giurisprudenza 
amministrativa, 
segnalando 
che 
il 
MEF, 
prima 
che 
il 
Giudice 
contabile 
e 
quello 
amministrativo 
si 
esprimessero 
nel 
senso 
rammentato, 
nel 
fornire 
un 
parere 
alla 
SISAC 
(Struttura 
interregionale 
sanitari 
convenzionati) 
con 
nota 
n. 
104123 
del 
16 
dicembre 
2013 
, 
ha 
invece 
così 
ritenuto: 
“non 
sembrano 
sussistere 
dubbi 
sull’applicabilità 
del 
divieto 
di 
cui 
all’articolo 
5, 
comma 
9, 
del 
decreto 
legge 
6 
luglio 
2012, 
n. 
95, 
convertito 
con 
modificazioni 
della 
legge 
135/2012, 
anche 
al 
conferimento 
di 
incarichi 
di 
medico 
convenzionato 



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


con 
il 
servizio 
sanitario 
nazionale, 
ove 
il 
soggetto 
interessato 
sia 
cessato 
da 
un 
rapporto 
di 
dipendenza 
con 
il 
medesimo 
servizio 
sanitario 
nazionale” 
. 


Indirizzo fatto proprio da 
codesta 
amministrazione 
in risposta 
ad una 
interpellanza 
parlamentare nel giugno del 2014. 

Viene 
evidenziato 
che 
i 
rapporti 
con 
il 
personale 
che 
opera 
presso 
gli 
ambulatori 
di 
codesta 
amministrazione 
sono 
regolati, 
oltre 
che 
dal 
D.M. 
di 
cui 
all’art. 
18 
del 
D.lgs. 
n. 
502/1992, 
per 
la 
parte 
compatibile, 
dalla 
normativa 
e 
dagli 
istituti 
economici 
di 
cui 
all’Accordo 
Collettivo 
Nazionale 
per 
la 
disciplina 
dei 
rapporti 
con 
i 
medici 
specialistici 
ambulatoriali 
interni, 
veterinari 
ed 
altre 
professionalità 
sanitarie 
del 
23 
marzo 
2005, 
come 
successivamente 
modificato 
ed 
integrato 
e 
che 
il 
nuovo 
accordo 
del 
17 
dicembre 
2015, 
all’art. 
25 
comma 
1 
lett. 
l), 
rectius 
e), 
prevede 
che 
sia 
incompatibile 
con 
lo 
svolgimento 
delle 
attività 
previste 
nell’Accordo 
medesimo, 
la 
fruizione, 
da 
parte 
del 
professionista, 
“di 
trattamento 
di 
quiescenza 
come 
previsto 
dalla 
normativa 
vigente”. 


Si 
riferisce 
che, allo stato, le 
disposizioni 
contenute 
in detto Accordo del 
17 
dicembre 
2015 
non 
sono 
state 
tuttavia 
ancora 
recepite 
dall’A.C.N. 
di 
settore 
per 
i 
medici 
operanti 
presso 
gli 
uSMAF-SASN 
del 
Ministero 
della 
Salute, 
reso esecutivo con il 
D.M. 3 ottobre 
2012 n. 202, e, pertanto, la 
fruizione 
di 
un 
“trattamento 
di 
quiescenza 
come 
previsto 
dalla 
normativa 
vigente” 
non 
rientra 
tra 
le 
cause 
di 
incompatibilità 
con lo svolgimento della 
professione 
di 
medico convenzionato. 

• 
Le 
questioni 
sottoposte 
all’esame 
della 
Scrivente 
non 
paiono 
di 
agevole 
soluzione. 
Occorre 
premettere 
che 
è 
stato di 
recente 
approvato, il 
31 marzo 2020, 
l’Accordo Collettivo Nazionale 
di 
lavoro per la 
disciplina 
dei 
rapporti 
con gli 
specialisti 
ambulatoriali 
interni, 
veterinari 
ed 
altre 
professionalità 
sanitarie 
(biologi, chimici, psicologi) ambulatoriali 
il 
cui 
art. 27, comma 
1, lett. l) conferma 
la 
precedente 
previsione 
sancendo 
l’incompatibilità, 
con 
lo 
svolgimento 
delle 
attività 
previste 
nell’Accordo medesimo, la 
fruizione, da 
parte 
del 
professionista 
“di 
trattamento di 
quiescenza come 
previsto dalla normativa vigente” 
disponendo 
che 
tale 
“incompatibilità 
non 
opera 
nei 
confronti 
dei 
medici 
che 
beneficino 
delle 
sole 
prestazioni 
delle 
quote 
a 
e 
b 
del 
fondo 
di 
previdenza 
generale 
dell’enPaM e 
degli 
altri 
enti 
previdenziali, ove 
previsto, o 
che 
fruiscano 
dell’anticipo 
delle 
prestazioni 
di 
previdenza 
(aPP) 
di 
cui 
all’art. 
54”. 

• 
Il 
quadro 
giurisprudenziale 
appare 
scarno 
e 
la 
prassi 
amministrativa 
non 
uniforme. 
Consta 
un 
solo 
arresto 
dell’Alto 
Consesso 
amministrativo 
(sentenza 
n. 
2949/2016 richiamata 
da 
codesta 
amministrazione) che 
ha 
riformato la 
sentenza 
del 
T.A.r. Veneto n. 1214/2015. 


PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


In detta 
sentenza 
il 
Giudice 
di 
prime 
cure 
così 
aveva 
ritenuto: 
“il 
legislatore 
con l'art. 5 del 
d.l. n. 95 del 
2012 ha inteso prevedere 
un generalizzato 
divieto 
di 
conferire 
consulenze 
e 
incarichi 
di 
studio 
ai 
soggetti 
collocati 
in 
quiescenza, specificando che 
è 
«altresì» vietato agli 
stessi 
soggetti 
anche 
il 
conferimento 
di 
incarichi 
dirigenziali 
o 
cariche 
in 
organi 
di 
governo 
delle 
amministrazioni; 
ne 
consegue 
che 
il 
divieto 
relativo 
agli 
incarichi 
dirigenziali 
non esaurisce 
il 
contenuto della disposizione, costituendo una limitazione 
ulteriore, 
rispetto 
al 
divieto 
contenuto 
nella 
prima 
parte 
della 
stessa 
disposizione. 
È 
evidente 
come 
detto divieto sia applicabile 
anche 
al 
caso di 
specie 
e, 
ciò, 
considerando 
che 
l'attività 
svolta 
dal 
medico 
convenzionato 
con 
il 
servizio 
sanitario 
nazionale 
viene 
inquadrata 
nell'ambito 
delle 
prestazioni 
d'opera 
intellettuale, 
fattispecie 
quest'ultima suscettibile 
di 
rientrare 
nell'ambito degli 
incarichi di consulenza”. 

Si 
controverteva 
sulla 
deliberazione 
del 
Direttore 
Generale 
dell'Azienda 
uLSS 
12 “Veneziana” 
con la 
quale 
veniva 
conferito ad un medico l'incarico 
temporaneo per l'attività 
specialistica 
ambulatoriale, relativo al 
periodo intercorrente 
tra il 1 luglio 2015 e il 30 giugno 2016. 

La 
ricorrente, 
in 
precedenza, 
aveva 
presentato 
domanda 
e 
preso 
parte 
alla 
prova 
d'esame 
per 
l'assegnazione 
dell'incarico 
sopra 
citato, 
collocandosi 
al 
secondo 
posto della graduatoria. 

Nell'impugnare 
il 
provvedimento 
sopra 
citato 
(in 
uno 
alla 
graduatoria) 
la 
ricorrente 
sosteneva, con il 
primo motivo, la 
violazione 
dell'art. 6 della 
L. n. 
114 del 
2014, in quanto il 
D.L. n. 95 del 
2012 sancisce 
il 
divieto delle 
Amministrazioni 
pubbliche 
di 
conferire 
contratti 
relativi 
ad incarichi 
di 
studio e 
di 
collaborazione 
a 
soggetti 
collocati 
in 
quiescenza, 
status 
che 
caratterizzava 
appunto 
il controinteressato. 

Il 
Tribunale 
ha 
ritenuto 
che 
il 
divieto 
di 
cui 
all’art. 
5 
del 
D.L. 
95/2012 
fosse 
applicabile 
al 
caso di 
specie 
in quanto l'attività 
svolta 
dal 
medico convenzionato 
con il 
Servizio sanitario nazionale 
deve 
essere 
inquadrata 
nell'ambito 
delle 
prestazioni 
d'opera 
intellettuale 
(T.A.r. Campania 
Napoli 
Sez. I, 23 
settembre 
2015, n. 4595), fattispecie 
quest'ultima 
suscettibile 
di 
rientrare 
nel-
l'ambito degli incarichi di consulenza di cui all'art. 5 comma 9 sopra citato. 

Soggiunge 
il 
Tribunale 
che 
“detta 
interpretazione 
era 
stata, 
peraltro, 
fatta propria anche 
dallo stesso Ministero dell'economia e 
delle 
Finanze 
con 
la nota del 
07 Gennaio 2014 (prot. 104123), [prot. in partenza 
n. 104123 del 
16 
dicembre 
2013], 
nota 
diretta 
alle 
strutture 
regionali 
interessate, 
nella 
parte 
in 
cui 
aveva 
sancito 
l'applicabilità 
del 
divieto 
di 
incarichi 
di 
consulenza 
anche 
ai 
medici 
convenzionati 
con il 
servizio sanitario nazionale, atteso che 
il 
rapporto 
convenzionale 
viene 
inquadrato 
fra 
le 
prestazioni 
d'opera 
professionale 
di 
natura privatistica 
(…) e 
ribadita anche 
dalla Circolare 
interpretativa del 
Ministero della Funzione 
Pubblica n. 6 del 
4 dicembre 
2014. in quest'ultima, 
infatti, 
si 
afferma 
che 
"gli 
incarichi 
di 
studio 
e 
consulenza 
sono 
quelli 
che 
pre



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


suppongono competenze 
specialistiche 
e 
rientrano nelle 
ipotesi 
di 
contratto 
d'opera intellettuale di cui agli articoli 2229 e seguenti del codice civile". 


Detta 
sentenza, come 
sopra 
anticipato, è 
stata 
annullata 
dal 
Consiglio di 
Stato con la sentenza n. 2949/2016. 

Questa 
la 
motivazione 
dell’Alto 
Consesso: 
“3.3.a. 
l'appello 
è 
fondato 
nel 
merito. la controversia riguarda la stipula di 
un contratto di 
prestazione 
d'opera professionale. Tale 
contratto, è 
palese, può avere 
oggetti 
diversi, addirittura 
attinenti 
all'esercizio 
di 
professioni 
quanto 
mai 
differenti. 
il 
suddetto 
contratto 
può 
comportare 
lo 
svolgimento 
di 
attività 
di 
studio 
e 
consulenza 
(tali 
prestazioni 
sono 
anzi 
frequenti 
nell'esercizio 
della 
professione 
di 
avvocato) 
ma 
può 
anche 
prevedere 
prestazioni 
del 
tutto 
differenti. 
in 
particolare, 
ciò 
avviene 
quando la prestazione 
richiesta si 
sostanzi 
nella soluzione 
concreta di 
uno 
o 
più 
casi, 
affidati 
alle 
cure 
del 
professionista. 
in 
tali 
casi 
il 
professionista 
svolge 
attività 
di 
studio, 
come 
necessario 
nell'esercizio 
di 
qualsiasi 
professione 
intellettuale, ma tale 
attività non esaurisce 
la prestazione, che 
giunge 
invece 
all'individuazione 
dell'intervento più opportuno. inoltre, esclude 
il 
contenuto 
consulenziale 
il 
fatto che 
l'intervento in questione 
sia svolto dallo stesso professionista. 
Tali 
riflessioni 
consentono 
di 
risolvere 
il 
caso, 
soggiungendo 
come 
il 
giudice 
non 
sia 
vincolato 
dalle 
circolari 
interpretative 
successivamente 
pubblicate, 
oltre 
tutto nel 
caso di 
specie 
non concordanti. il 
procedimento di 
cui 
si 
discute 
è 
infatti 
finalizzato ad affidare 
al 
medico selezionato la soluzione 
di 
casi 
concreti 
rientranti 
nella 
sua 
specializzazione, 
senza 
alcuna 
attività 
di 
studio 
escluso quello necessario per 
la soluzione 
di 
ogni 
singolo caso; il 
successivo 
intervento 
è 
poi 
affidato 
allo 
stesso 
medico, 
ovviamente 
in 
collaborazione 
con 
le 
strutture 
dell'azienda, 
fatto 
che 
esclude 
la 
configurabilità 
dell'incarico 
in 
termini 
di 
mera 
consulenza. 
l'incarico 
di 
cui 
si 
tratta 
non 
costituisce, 
quindi, incarico di 
studio o consulenza; è 
palese 
poi 
che 
il 
suo contenuto non 
è 
dirigenziale, 
atteso 
che 
al 
medico 
selezionato 
non 
viene 
affidata 
la 
direzione 
di 
alcuna 
struttura. 
afferma, 
in 
conclusione, 
il 
Collegio 
che 
l'art. 
5, 
nono 
comma, del 
decreto legge 
6 luglio 2012, n. 95/2012, convertito in l. 7 agosto 
2012, n. 135, poi 
modificato dall'art. 6 comma 1 del 
d.l. 24 giugno 2014, n. 
90, a sua volta convertito con la legge 
11agosto 2014, n. 114, non preclude 
ai 
soggetti 
già lavoratori 
privati 
o pubblici 
collocati 
in quiescenza di 
assumere 
gli 
incarichi 
di 
cui 
si 
tratta. infine, non rileva l'accordo collettivo nazionale 
per 
la 
disciplina 
dei 
rapporti 
con 
gli 
specialisti 
ambulatoriali 
interni. 
Tale 
atto disciplina l'esercizio concordato di 
facoltà discrezionali, non interpreta 
la legge 
vigente. lo stesso non è 
poi 
applicabile 
nel 
caso che 
ora occupa essendo 
stato stipulato il 
17 dicembre 
2015, quindi 
in data successiva all'adozione 
dei provvedimenti impugnati”. 

All’evidenza, anche 
se 
non enunciato in modo esplicito, l’Alto Consesso 
privilegia 
l’interpretazione 
strettamente 
letterale 
dell’art. 5, comma 
9, del 
decreto 
legge 6 luglio 2012, n. 95 propugnata dal Giudice Contabile. 


PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


Non 
consta 
invece 
proposizione 
di 
gravame 
avverso 
la 
sentenza 
del 


T.A.r. Friuli-V. Giulia 
Trieste 
Sez. I, 12 aprile 
2016, n. 125 secondo cui 
“È 
legittimo il 
provvedimento di 
esclusione 
da una selezione 
pubblica per 
il 
conferimento 
di 
incarichi 
sanitari 
di 
un ex 
medico convenzionato in quiescenza, 
ove 
motivato con riferimento alla clausola del 
bando che, richiamandosi 
all'art. 
5, 
comma 
9 
del 
d.l. 
n. 
95/2012, 
precludeva 
l'ammissione 
alla 
procedura 
comparativa dei lavoratori collocati in quiescenza”. 
L’appello proposto avverso la 
sentenza 
n. 298/2015 del 
TAr Emilia-romagna 
-Parma, citata 
da 
codesta 
amministrazione, è 
stato invece 
dichiarato 
perento. 

Diversamente 
che 
nella 
pronuncia 
appena 
richiamata 
del 
TAr Veneto, il 
Collegio 
parmense 
ha 
ritenuto 
che 
il 
divieto 
previsto 
dalla 
norma 
riguardi 
esclusivamente 
incarichi 
“di 
studio e 
consulenza”, e 
che 
la 
norma, limitando 
un diritto costituzionalmente 
garantito, quale 
quello di 
esplicare 
attività 
lavorative 
sotto 
qualunque 
forma 
giuridica, 
non 
consenta 
interpretazioni 
estensive 


o analogiche. 
La 
fattispecie 
decisa 
atteneva 
a 
prestazione 
specialistica 
ambulatoriale 
in 
favore della 
ASL. 
Nella 
sentenza 
si 
richiama 
la 
circolare 
del 
4 
dicembre 
2014 
dell’allora 
Ministro per la 
semplificazione 
e 
la 
pubblica 
amministrazione, relativa 
all'applicazione 
della 
norma 
in esame, dandosi 
rilievo alla 
circostanza 
che 
a 
pagina 
6 della 
stessa, si 
esplicitasse 
come 
non fosse 
affatto escluso il 
conferimento a 
soggetti 
in 
quiescenza 
di 
incarichi 
professionali 
quali 
quelli 
inerenti 
ad 
attività 
sanitaria, proprio perché 
la 
limitazione 
prevista 
dall’art. 5, comma 
9, del 
decreto 
legge 
6 luglio 2012, n. 95 riguarda 
solo determinati 
contratti 
d'opera 
intellettuale. 


Sempre 
sul 
versante 
giurisprudenziale, merita 
infine 
di 
essere 
ricordata 
la 
recentissima 
sentenza 
della 
Corte 
di 
Giustizia 
-VIII sez., del 
2 aprile 
2020 
resa 
nella 
causa 
C-670/18 e 
le 
difese 
spiegate 
nell’ambito di 
questo giudizio 
dal Governo Italiano. 

La 
domanda 
di 
pronuncia 
pregiudiziale 
verteva 
sull’interpretazione 
degli 
articoli 
1 e 
2 della 
direttiva 
2000/78/CE 
del 
Consiglio, del 
27 novembre 
2000 


-che 
stabilisce 
un quadro generale 
per la 
parità 
di 
trattamento in materia 
di 
occupazione 
e 
di 
condizioni 
di 
lavoro 
-ed 
era 
stata 
proposta 
nell’ambito 
di 
una 
controversia 
in cui 
era 
stata 
sollevata 
la 
questione 
della 
natura 
discriminatoria, 
in relazione 
all’età, del 
divieto di 
conferimento di 
incarichi 
di 
studio 
e 
consulenza 
al 
personale 
in quiescenza 
recato dall’art. 5, comma 
9, del 
de-
creto-legge 
6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla 
legge 
7 
agosto 
2012, 
n. 
135, 
così 
come 
modificato 
dall’articolo 
6 
del 
decreto-legge 
24 
giugno 
2014, 
n. 
90, 
convertito, 
con 
modificazioni, 
dalla 
legge 
11 
agosto 
2014, n. 114. 
La 
Corte 
ha 
ritenuto, anche 
sulla 
base 
delle 
osservazioni 
scritte 
del 
Go



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


verno 
italiano, 
che 
la 
disposizione 
in 
parola 
persegua 
un 
duplice 
obiettivo, 
ossia, 
da 
un 
lato, 
realizzare 
un’effettiva 
revisione 
della 
spesa 
pubblica 
mediante 
la 
riduzione 
dei 
costi 
di 
funzionamento 
dell’amministrazione, 
evitando 
il 
cumulo tra 
il 
trattamento di 
quiescenza 
proveniente 
da 
fondi 
pubblici 
e 
la 
retribuzione, senza 
nel 
contempo danneggiare 
la 
sostanza 
dei 
servizi 
forniti 
ai 
cittadini; 
dall’altro, facilitare 
il 
ringiovanimento del 
personale 
delle 
amministrazioni, 
favorendo l’accesso di persone più giovani alla funzione pubblica. 

Su 
tale 
presupposto 
il 
Giudice 
Europeo 
ha 
osservato 
che 
se 
l’obiettivo 
della 
riduzione 
effettiva 
della 
spesa 
pubblica 
può certamente 
influire 
sulla 
natura 
e 
sulla 
portata 
delle 
misure 
di 
tutela 
dell’occupazione, quello del 
ringiovanimento 
del 
personale 
in attività 
attraverso la 
promozione 
di 
un livello di 
occupazione 
elevato rientra 
tra 
gli 
obiettivi 
espressamente 
enunciati 
dall’articolo 
6, paragrafo 1, primo comma, della 
direttiva 
2000/78 e, conformemente 
all’articolo 3, paragrafo 3, primo comma, TuE, costituisce 
una 
delle 
finalità 
perseguite dall’unione. 

Alla 
stregua 
di 
tali 
considerazioni 
la 
Corte 
ha 
quindi 
dichiarato che 
la 
direttiva 
2000/78 -e 
in particolare 
l’articolo 2, paragrafo 2, l’articolo 3, paragrafo 
1, e 
l’articolo 6, paragrafo 1, della 
stessa 
-, dev’essere 
interpretata 
nel 
senso che 
essa 
non osta 
a 
una 
normativa 
nazionale 
che 
vieti 
alle 
amministrazioni 
pubbliche 
di 
assegnare 
incarichi 
di 
studio e 
consulenza 
a 
persone 
collocate 
in 
quiescenza 
purché, 
da 
un 
lato, 
detta 
normativa 
persegua 
uno 
scopo 
legittimo di 
politica 
dell’occupazione 
e 
del 
mercato del 
lavoro e, dall’altro, i 
mezzi 
impiegati 
per conseguire 
tale 
obiettivo siano idonei 
e 
necessari, accertamento 
che viene rimesso al giudice nazionale del rinvio. 

• 
Quanto alla 
prassi 
amministrativa, ed in particolare 
alla 
Circolare 
del 
Ministro della 
Funzione 
Pubblica 
4 dicembre 
2014 n. 6 richiamata 
in alcune 
delle 
sentenze 
citate, essa 
si 
muove 
in un’ottica 
sostanzialmente 
in linea 
con 
i 
principi 
espressi 
dalla 
giurisprudenza 
dell’Alto Consesso amministrativo e 
del Giudice Contabile. 
Detta 
Circolare, nel 
premettere 
che 
è 
da 
ritenersi 
esclusa 
qualunque 
interpretazione 
estensiva 
o 
analogica 
della 
norma 
oggetto 
di 
interpretazione, 
quanto agli 
incarichi 
vietati 
si 
esprime, per quel 
che 
qui 
rileva, nel 
senso che 
tra 
questi 
rientrano 
quelli 
di 
“studio 
e 
consulenza” 
i 
quali 
presuppongono 
competenze 
specialistiche 
sussumibili 
nelle 
ipotesi 
di 
contratto 
d’opera 
intellettuale 
di cui agli articoli 2229 e seguenti del codice civile. 

Si 
legge 
nella 
Circolare 
che 
“scopo delle 
disposizioni 
in esame 
non è 
di 
escludere 
la possibilità che 
i 
soggetti 
in quiescenza operino presso le 
amministrazioni, 
ma di 
evitare 
che 
il 
conferimento di 
incarichi 
a questi 
soggetti 
sia 
utilizzato per 
aggirare 
lo stesso istituto del 
collocamento in quiescenza. esse 
non impediscono di 
prestare 
attività lavorativa nelle 
amministrazioni 
pubbliche 
ai 
soggetti 
che 
possano aspirarvi 
in relazione 
ai 
rispettivi 
limiti 
di 
età. di 



PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


conseguenza non è 
escluso che 
un soggetto, collocato in quiescenza per 
aver 
raggiunto i 
relativi 
requisiti 
nella propria carriera, possa concorrere 
per 
un 
impiego 
con 
una 
pubblica 
amministrazione, 
relativo 
a 
una 
carriera 
nella 
quale 
può 
ancora 
prestare 
servizio. 
Ciò 
può 
dipendere 
dalla 
particolarità 
della 
carriera 
(pubblica 
o 
privata) 
di 
provenienza 
che 
consenta 
il 
collocamento 
in 
quiescenza 
a un'età relativamente 
bassa, o di 
quella di 
destinazione, che 
preveda 
una 
più 
alta 
età 
pensionabile 
(quali 
quella 
universitaria 
o 
quella 
giudiziaria). 
in tali 
ipotesi 
si 
applicherà ovviamente 
la vigente 
disciplina in ordine 
ai 
requisiti 
di 
accesso 
all'impiego 
nelle 
pubbliche 
amministrazioni 
e 
ai 
rapporti 
tra trattamento economico e 
trattamento di 
quiescenza. in secondo luogo, il 
divieto 
riguarda 
determinati 
contratti 
d'opera 
intellettuale, 
ma 
non 
gli 
altri 
tipi 
di 
contratto 
d'opera. 
Non 
è 
escluso, 
dunque, 
il 
ricorso 
a 
personale 
in 
quiescenza 
per 
incarichi 
che 
non 
comportino 
funzioni 
dirigenziali 
o 
direttive 
e 
abbiano oggetto diverso da quello di 
studio o consulenza 
(in questo senso 
la citata deliberazione 
[n. 23/2014/prev del 
30 settembre 
2014] 
della Corte 
dei 
Conti 
sezione 
centrale 
del 
controllo di 
legittimità sugli 
atti 
del 
Governo e 
delle 
amministrazioni 
dello stato). non è 
escluso neanche 
il 
conferimento a 
soggetti 
in quiescenza di 
incarichi 
professionali, quali 
quelli 
inerenti 
ad attività 
legale 
o sanitaria, non aventi 
carattere 
di 
studio o consulenza. anche 
in 
questo caso, rimane 
ovviamente 
ferma la disciplina vigente 
in materia. con 
particolare 
riferimento 
alle 
modalità 
di 
scelta 
del 
contraente” 
(enfasi 
aggiunta). 


• 
Sulla 
scorta 
di 
quanto 
sopra 
la 
Scrivente 
ritiene 
dunque 
di 
poter 
concludere 
nel 
senso che 
la 
norma 
di 
cui 
all’art. 5, comma 
9, del 
d.l. n. 95/2012 
non è 
suscettibile 
di 
interpretazione 
estensiva 
od analogica 
e, per quanto qui 
interessa, non è 
quindi 
applicabile 
ad incarichi 
professionali 
diversi 
da 
quelli 
di 
studio e 
di 
consulenza 
stricto sensu 
intesi 
e, perciò, neppure 
agli 
incarichi 
conferiti 
ai 
professionisti 
medici, 
biologi, 
veterinari 
e 
psicologi 
operanti 
presso 
gli ambulatori degli uSMAF-SASN del Ministero della Salute. 
Dal 
canto suo, l’accordo collettivo di 
settore 
vigente 
per il 
personale 
sanitario 
incaricato dell’assistenza 
al 
personale 
navigante 
non prevede, attualmente, 
alcuna 
incompatibilità 
e, 
quindi, 
non 
può 
di 
per 
sé 
giustificare 
una 
revoca degli incarichi in corso. 

Quanto 
all’incompatibilità 
invece 
prevista 
dagli 
accordi 
collettivi 
vigenti 
per il 
restante 
personale 
sanitario convenzionato, il 
rinvio a 
quanto “previsto 
dalla 
normativa 
vigente” 
in 
tutti 
contenuto 
non 
è 
risolutivo 
nella 
misura 
in 
cui 
esso 
lascia 
aperta 
la 
questione 
se 
esso 
rinvio 
si 
riferisca 
all’incompatibilità 


-per come 
prevista 
“dalla normativa vigente” 
e, quindi, ai 
limiti, anche 
oggettivi, 
nei 
quali 
essa 
opera 
-ovvero 
alla 
fruizione 
del 
trattamento 
di 
quiescenza 
-“come 
previsto dalla normativa vigente”, vale 
a 
dire 
alle 
condizioni 
alle quali è subordinato il godimento di un trattamento di quiescenza -. 

rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


Se 
il 
rinvio 
viene 
inteso 
come 
riferito 
all’incompatibilità, 
resta 
comunque 
aperta 
la 
questione 
dell’estensione 
della 
sancita 
incompatibilità, 
nel 
senso 
che 
rimane 
pur sempre 
da 
stabilire 
se 
questa 
-per i 
medici 
convenzionati 
che 
fruiscono 
di 
un trattamento di 
quiescenza 
-operi 
con riferimento a 
qualsiasi 
incarico 
professionale 
oppure 
soltanto 
in 
relazione 
a 
incarichi 
di 
studio 
o 
di 
consulenza. 

Se 
il 
rinvio 
alla 
“normativa 
vigente” 
contenuto 
negli 
accordi 
collettivi 
viene 
invece 
riferito alla 
sola 
e 
semplice 
fruizione 
di 
un trattamento di 
quiescenza 
-con 
conseguente 
incompatibilità 
della 
qualità 
di 
pensionato 
con 
lo 
svolgimento 
di 
qualsiasi 
incarico 
professionale 
-, 
occorrerebbe 
accertare 
la 
legittimità 
di 
una 
previsione 
contrattuale 
del 
genere, 
ponendosi 
non 
senza 
ragione 
il 
problema 
di 
verificare 
se 
l’autonomia 
collettiva 
sia 
legittimata 
in 
questa 
materia 
a 
derogare 
in senso più restrittivo ad una 
norma 
di 
legge 
che 
disponga 
invece 
in senso meno restrittivo, limitando il 
novero degli 
incarichi 
professionali incompatibili. 

Del 
pari 
non 
può 
assumere 
dirimente 
rilevanza 
la 
deliberazione 
n. 
66/2018/SrCPIE/PAr 
della 
Corte 
dei 
Conti 
-Sezione 
regionale 
di 
Controllo 
per il 
Piemonte, avendo essa 
riguardo esclusivamente 
al 
conferimento di 
“incarichi 
negli 
organi 
di 
governo 
degli 
enti 
e 
società 
controllate 
da 
pubbliche 
amministrazioni con corresponsione del relativo compenso”. 

• 
Tuttavia, se 
sulla 
base 
della 
lettera 
dell’art. 5 del 
d.l. n. 95 del 
2012 così 
come 
interpretata 
dalla 
prevalente 
giurisprudenza 
anche 
in ragione 
della 
natura 
eccezionale 
della 
norma 
-, 
il 
divieto/incompatibilità 
in 
parola 
deve 
dunque 
ritenersi, de 
jure 
condito, limitato ai 
soli 
incarichi 
di 
studio e 
consulenza 
intesi 
in senso stretto, le 
finalità 
di 
politica 
sociale 
ed economica 
dell’intervento 
legislativo -quali 
enunciate 
dal 
Governo nelle 
difese 
svolte 
avanti 
alla 
Corte 
di 
Giustizia 
dell’unione 
nella 
causa 
C-670/18, ovverosia 
l’accesso dei 
giovani 
alle 
professioni 
ed il 
contenimento della 
spesa 
pubblica 
-potrebbero 
legittimare, 
de 
jure 
condendo, 
un’estensione 
dell’ambito 
di 
applicazione 
della 
norma 
attualmente 
impedita 
dal 
dato letterale: 
donde 
l’invito a 
valutare 
l’opportunità 
di 
un intervento normativo che, anche 
alla 
luce 
delle 
previsioni 
contenute 
negli 
accordi 
collettivi 
nazionali 
di 
riferimento, 
valga 
ad 
individuare 
l’esatta 
portata 
della 
disposizione 
di 
legge 
anche 
riguardo agli 
incarichi 
professionali 
dei quali si discute. 
Sulla 
questione 
è 
stato sentito il 
Comitato Consultivo che, nella 
seduta 
del 10 giugno 2020, si è espresso in conformità. 



PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


requisizione di beni mobili (mascherine) nella 
fase emergenziale, problematiche operative 


Parere 
del 
24/06/2020-320211/15, al 18362/2020, aVV. CarMela 
PluChino 


Con nota 
prot. 17060 del 
18 maggio 2020 codesta 
Avvocatura 
ha 
rappresentato 
alla 
Scrivente 
alcune 
problematiche 
segnalate 
dalla 
Prefettura 
di 
Firenze, 
emerse 
al 
momento 
di 
dar 
corso 
alla 
procedura 
di 
requisizione 
di 
un 
ingente 
quantitativo 
di 
mascherine 
(sia 
chirurgiche, 
sia 
FPP2), 
oggetto 
di 
contestazione 
e contestuale sequestro da parte della Guardia di Finanza. 


Premesso 
che 
il 
Commissario 
Straordinario 
per 
l’Emergenza, 
avvalendosi 
dei 
poteri 
conferiti 
dagli 
artt. 6 e 
122 del 
D.L. n. 80/2020, con ordinanza 
n. 
8/2020, ha 
individuato il 
Comando Generale 
della 
Guardia 
di 
Finanza 
quale 
soggetto 
attuatore 
(con 
facoltà 
di 
subdelega), 
“al 
fine 
di 
procedere, 
a 
richiesta 
del 
Commissario 
straordinario, 
alle 
requisizioni 
dei 
beni 
mobili 
indicati 
dallo 
stesso” 
e 
che, successivamente, con nota 
prot. n. 385 del 
22 aprile 
2020, ha 
richiesto al 
Prefetto di 
Firenze 
di 
procedere 
all’adozione 
del 
provvedimento 
di 
requisizione 
(“vista la nota Prot. 108882 del 
28 marzo u.s. del 
Comando 
Provinciale 
di 
Firenze 
relativa 
al 
sequestro 
eseguito, 
su 
mandato 
dell’a.G. 
competente, 
atteso 
il 
nulla 
osta 
da 
parte 
della 
Procura 
della 
repubblica 
competente”), 
“con mandato al 
Comando Generale 
iii reparto della Guardia di 
Finanza….. 
per 
il 
tramite 
dei 
reparti 
competenti, 
ad 
eseguire 
la 
requisizione”, 
viene 
richiamata 
la 
Circolare 
del 
15 aprile 
2020 diramata 
dal 
Comando Generale 
ai 
Comandi 
Provinciali, contenente 
le 
modalità 
operative 
per la 
requisizione 
dei beni sottoposti a sequestro. 


In 
tale 
Circolare 
è 
disposto 
che 
“i 
Comandi 
Provinciali 
competenti, 
in 
occasione 
di 
sequestri 
di 
prodotti 
di 
potenziale 
interesse 
ai 
fini 
di 
un provvedimento 
ablatorio in argomento e 
previo conforme 
avviso dell’autorità giudiziaria/
amministrativa 
procedente, 
comunichino 
alla 
struttura 
del 
Commissario straordinario: tutti 
gli 
elementi 
di 
dettaglio riferiti 
al 
sequestro 
funzionali 
all’emissione 
di 
un 
eventuale 
provvedimento 
espropriativo 
e, 
se 
del 
caso, alla successiva quantificazione dell’indennizzo”. 
Viene 
precisato che 
“l’assenso al 
dissequestro dei 
beni 
dovrà essere 
formalmente 
richiesto 
ed 
ottenuto 
dalle 
autorità 
interessate, 
prima 
di 
attivare 
il 
Commissario 
straordinario, 
al 
quale 
sarà 
trasmessa 
tale 
autorizzazione. 
resta 
comunque 
inteso che 
la requisizione 
dei 
beni 
è 
subordinata all’avvenuto dissequestro 
degli 
stessi 
da 
parte 
dell’autorità 
(Giudiziaria 
o 
amministrativa) 
da effettuarsi 
a seguito del 
formale 
provvedimento emesso a cura di 
quest’ultima”. 


Viene 
poi 
indicato che 
“il 
Commissario straordinario, in caso di 
favorevole 
avviso, adotterà gli 
atti 
che 
riterrà opportuni, tra cui 
il 
relativo provvedimento 
di 
requisizione 
dei 
citati 
beni, 
inviando 
quest’ultimo 
-direttamente 



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


o per 
il 
tramite 
dei 
soggetti 
indicati 
sub 1.b. -al 
Comando Generale/iii reparto 
operazioni, che 
ne 
curerà il 
successivo inoltro direttamente 
al 
reparto 
che 
ha 
eseguito 
il 
sequestro, 
notiziando 
la 
gerarchia 
intermedia”, 
evidenziando 
che 
“per 
i 
sequestri/fermi 
di 
merce 
effettuati 
negli 
spazi 
doganali 
congiuntamente 
agli 
uffici 
dell’agenzia delle 
dogane 
e 
Monopoli, le 
procedure 
volte all’eventuale requisizione saranno curate da questi ultimi”. 
Tanto premesso in linea 
generale, la 
Prefettura 
di 
Firenze 
ha 
anche 
rappresentato, 
più 
in 
dettaglio, 
in 
relazione 
ai 
procedimenti 
di 
contestazione 
e 
sequestro 
di 
mascherine 
chirurgiche 
importate 
e/o 
immesse 
in 
commercio 
senza 
marchiatura 
CE 
o 
attestato 
di 
conformità, 
ai 
sensi 
degli 
artt. 
11 
e 
23 
del 
D.Lgs. 


n. 46/1997 e 
della 
L. n. 689/1981, che 
sono alla 
stessa 
pervenute 
dai 
Nuclei 
Operativi 
istanze 
volte 
a 
conseguire 
l’adozione: 
a) 
di 
un 
provvedimento 
di 
dissequestro 
del 
materiale 
sequestrato, condizionato all’adozione 
del 
provvedimento 
di 
requisizione 
da 
parte 
del 
Commissario 
Straordinario; 
b) 
di 
un 
provvedimento 
di 
autorizzazione 
all’invio 
di 
un 
determinato 
quantitativo 
di 
beni presso un Istituto preposto all’analisi e alla certificazione dei prodotti. 
A 
tali 
richieste 
ha 
fatto 
seguito 
la 
succitata 
nota 
prot. 
n. 
385/2020 
del 
Commissario Straordinario. 


La 
Prefettura 
rileva 
che, 
laddove 
si 
dovesse 
procedere 
al 
dissequestro 
prima 
di 
esercitare 
il 
potere 
di 
requisizione 
-considerato che, secondo la 
Circolare 
succitata, il 
provvedimento di 
requisizione 
dovrebbe 
essere 
preceduto 
da 
un atto formale 
di 
“dissequestro” 
dei 
dispositivi 
interessati 
-potrebbe 
sorgere 
la 
questione 
della 
legittimità 
di 
un tale 
provvedimento emesso su istanza 
della 
Guardia 
di 
Finanza, 
considerato 
che, 
ai 
sensi 
dell’art. 
19, 
comma 
2, 
della 


L. 
n. 
689/1981, 
la 
restituzione 
della 
merce 
può 
essere 
disposta 
soltanto 
a 
favore 
di “chi prova di averne diritto”. 
Chiede 
quindi 
parere 
in merito alle 
seguenti 
questioni: 
1) se 
possa 
ipotizzarsi 
di 
procedere 
direttamente 
alla 
requisizione 
dei 
beni 
sottoposti 
a 
sequestro, 
senza 
necessità 
di 
un 
preventivo 
dissequestro 
degli 
stessi, 
dal 
momento che 
l’atto ben potrebbe 
essere 
qualificato provvedimento ablativo 
extra ordinem; 
2) se 
possa 
adottarsi, risultando invero problematica, un provvedimento 
di 
autorizzazione 
all’invio di 
un determinato quantitativo di 
beni 
presso un Istituto preposto all’analisi 
e 
alla 
certificazione 
dei 
prodotti, di 
cui 
alle istanze dei Nuclei Operativi della Guardia di Finanza. 


In 
conclusione, 
la 
Prefettura 
chiede 
che 
venga 
indicato 
l’iter 
procedimentale 
che 
si 
ritiene 
legittimo e 
più opportuno per superare 
le 
difficoltà 
interpretative 
ed 
applicative 
segnalate, 
anche 
al 
fine 
di 
scongiurare 
contenziosi 
e 
profili 
di responsabilità. 


***** 


Esaminata 
la 
documentazione 
trasmessa 
ed approfondite 
le 
questioni 
segnalate, 
la 
Scrivente 
condivide 
la 
ricostruzione 
giuridica 
e 
le 
considerazioni 
espresse da codesta 
Avvocatura, osservando quanto segue. 



PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


Innanzitutto, 
occorre 
distinguere 
i 
casi 
di 
sequestro 
disposti 
dall’Autorità 
giudiziaria 
da 
quelli 
-a 
cui 
si 
riferisce 
la 
richiesta 
di 
parere 
-disciplinati 
dalla 


L. n. 689/1981, all’art. 13, a 
mente 
del 
quale 
“Possono altresì 
procedere 
al 
sequestro cautelare 
delle 
cose 
che 
possono formare 
oggetto di 
confisca amministrativa, 
nei 
modi 
e 
con 
i 
limiti 
con 
cui 
il 
codice 
di 
procedura 
penale 
consente 
il sequestro della polizia giudiziaria”. 
Per 
tale 
seconda 
ipotesi 
l’art. 
19, 
al 
comma 
due, 
prevede 
che 
“anche 
prima 
che 
sia 
concluso 
il 
procedimento 
amministrativo, 
l’autorità 
competente 
può 
disporre 
la 
restituzione 
della 
cosa 
sequestrata, 
previo 
pagamento 
delle 
spese 
di 
custodia, 
a 
chi 
prova 
di 
averne 
diritto 
e 
ne 
fa 
istanza, 
salvo 
che 
si 
tratti di cose soggette a confisca obbligatoria”. 


Costituisce 
ius 
receptum 
l’autonomia 
del 
sequestro, misura 
cautelare, rispetto 
alla 
confisca 
quale 
sanzione 
accessoria 
(cfr. 
Corte 
di 
Cassazione 
n. 
10143/06, n. 11293/94). 


Conseguentemente, 
nella 
fattispecie 
in 
esame, 
è 
da 
ritenere 
che, 
solo 
dopo 
che 
si 
è 
provveduto a 
disporre 
la 
requisizione 
-ai 
sensi 
e 
per gli 
effetti 
degli 
artt. 6 e 
122 del 
D.L. n. 18/2020 succitato -, il 
soggetto che 
requisisce 
il 
bene 
acquisti 
la 
legittimazione 
a 
chiedere 
il 
dissequestro, in qualità 
di 
“avente 
diritto”. 


D’altra 
parte, come 
evidenziato da 
codesta 
Avvocatura, la 
requisizione, 
la 
cui 
fonte 
normativa 
è 
rinvenibile 
tuttora 
nell’art. 7 del 
r.D. n. 2248/1865 
all. E 
(sebbene 
il 
comma 
9 dell’art. 6 del 
D.L. n. 18/2020 richiami, per quanto 
concerne 
l’esecutorietà 
dei 
provvedimenti 
di 
requisizione, 
l’art. 
458 
del 
D.Lgs. 


n. 
66/2010), 
date 
le 
peculiarità 
e 
l’eccezionalità 
dell’istituto, 
si 
ritiene 
attuabile 
nei 
confronti 
del 
proprietario, anche 
nel 
caso in cui 
il 
bene 
sia, a 
qualsiasi 
titolo, 
nel possesso o nella detenzione di altri soggetti. 
Appare 
quindi 
condivisibile 
il 
“modus 
operandi” 
enucleato nei 
termini 
suesposti 
-nei 
casi 
prospettati 
di 
materiale 
sequestrato 
secondo 
il 
disposto 
dell’art. 13 della 
L. n. 689/1981 -, nel 
senso che 
il 
dissequestro dovrebbe 
seguire 
(e 
non 
precedere) 
la 
requisizione 
ed 
avvenire 
a 
richiesta 
della 
Prefettura, 
nei 
casi 
in 
cui 
la 
stessa 
venga 
interessata 
dal 
Commissario 
Straordinario, 
ai 
sensi dell’art. 122 del D.L. n. 18/2020. 


Si 
ritiene 
inoltre 
che 
si 
possa 
procedere 
alla 
requisizione 
solo sul 
presupposto 
che 
i 
beni 
mobili 
requisendi 
siano 
effettivamente 
idonei 
all’utilizzo, 
con 
l’accortezza 
comunque 
-come 
suggerito 
da 
codesta 
Avvocatura 
-, 
di 
escludere 
dalla 
requisizione 
e 
dal 
successivo dissequestro una 
minima 
parte, da 
mantenere 
nello stato attuale 
per fini 
probatori, anche 
ai 
sensi 
dell’art. 10 del 
DPr 


n. 571/1982 -norme 
per 
l’attuazione 
degli 
articoli 
15, ultimo comma, e 
17, 
penultimo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689. 
Ed infatti, come 
chiarito nella 
stessa 
Circolare 
della 
Guardia 
di 
Finanza 
sopra 
richiamata, sono da 
escludersi 
i 
prodotti 
(ad es. mascherine, dispositivi 
di 
protezione 
individuale, 
etc.) 
che 
risultino 
viziati, 
non 
essendo 
in 
tal 
caso 



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


possibile 
il 
successivo 
utilizzo. 
Conseguentemente, 
sarebbe 
inutile 
-in 
tale 
ultima 
ipotesi - disporre la requisizione e il correlato dissequestro. 


La 
stessa 
Prefettura 
riconosce 
che 
“è 
di 
tutta 
evidenza 
come, 
prima 
di 
procedere 
alla 
requisizione 
dei 
dispositivi 
di 
protezione 
individuale 
e 
delle 
mascherine 
chirurgiche, 
sussista 
la 
necessità 
di 
effettuare 
un 
esame 
degli 
stessi 
che 
consenta di 
verificarne 
l’idoneità all’uso, anche 
al 
fine 
di 
accertare 
che 
non siano nocivi per i futuri utilizzatori”. 


Occorre 
inoltre 
assicurare 
che 
i 
beni 
requisiti, prima 
di 
essere 
distribuiti 
ai 
soggetti 
terzi 
individuati 
dall’Autorità 
commissariale, non siano attinti 
da 
vincolo cautelare 
reale, penale 
o amministrativo; 
rendendosi 
a 
tal 
fine 
necessaria 
la 
preventiva 
acquisizione 
del 
provvedimento 
di 
dissequestro 
da 
parte 
dell’Autorità competente. 


Per quanto riguarda 
la 
segnalata 
problematica 
concernente 
le 
previsioni 
dell’art. 
19 
della 
L. 
n. 
689/1981, 
che 
(al 
comma 
2) 
esclude 
la 
“restituzione 
della 
cosa 
sequestrata” 
nei 
casi 
in 
cui 
si 
tratti 
di 
“cose 
soggette 
a 
confisca 
obbligatoria”, 
individuate 
dal 
successivo 
art. 
20, 
la 
stessa 
appare 
più 
apparente 
che 
sostanziale, 
se 
si 
pone 
mente 
alla 
distinzione 
formulata 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione 
(sentenza 
n. 
8517/11) 
fra 
cose 
soggette 
a 
confisca 
obbligatoria, 
in 
quanto intrinsecamente 
pericolose, e 
cose 
soggette 
a 
confisca 
eventuale 
quale 
possibile 
sanzione 
accessoria, in quanto oggetto di 
attività 
illecita 
perché 
non 
autorizzata, ma comunque autorizzabile. 

Ed infatti, le 
merci 
suscettibili 
di 
confisca 
obbligatoria, in quanto intrinsecamente 
pericolose, 
non 
presentano 
nemmeno 
l’inidoneità 
all’uso 
che 
ne 
giustifica la requisizione e la correlata necessità del dissequestro. 


Per quanto concerne, infine, il 
secondo quesito posto dalla 
Prefettura 
di 
Firenze, non si 
ravvisa 
nell’art. 15 della 
citata 
legge 
n. 689/81 un ostacolo al-
l’adozione 
di 
un provvedimento di 
autorizzazione 
all’invio di 
un determinato 
quantitativo di 
beni 
presso un Istituto preposto all’analisi 
e 
alla 
certificazione 
dei 
prodotti 
(come 
richiesto dai 
Nuclei 
Operativi 
della 
Guardia 
di 
Finanza), 
in quanto la 
ratio 
della 
normativa 
di 
riferimento e 
le 
considerazioni 
che 
precedono, 
nonché 
le 
peculiarità 
delle 
fattispecie 
in esame 
giustificano un provvedimento 
di 
tale 
fatta, che 
appare 
anzi 
prodromico ed essenziale 
rispetto alla 
requisizione ed al dissequestro, per quanto sopra esposto. 


D’altra 
parte, non appare 
configurabile 
nella 
fattispecie 
in esame 
esclusivamente 
una 
“violazione 
di 
tipo 
formale-documentale”, 
“ragione 
per 
cui 
l’esito dell’esame 
non sembrerebbe 
avere 
alcuna rilevanza a fini 
della sussistenza 
dell’illecito”, in quanto -nella 
richiesta 
di 
parere 
-si 
fa 
riferimento a 
“procedimenti 
di 
contestazione 
e 
sequestro di 
mascherine 
chirurgiche 
importate 
e/o 
immesse 
in 
commercio 
senza 
marchiatura 
Ce 
o 
attestato 
di 
conformità 
di 
cui 
sopra, elevati 
ai 
sensi 
degli 
artt. 11 e 
23 del 
decreto legislativo 24 febbraio 
1997, 
n. 
46 
e 
della 
citata 
legge 
689/81”, 
con 
conseguente 
rilevanza 
anche 
“sostanziale” 
delle 
violazioni 
contestate, 
basti 
considerare 
che 
la 
dichia



PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


razione 
di 
conformità 
CE 
è 
anche 
garanzia 
di 
qualità 
della 
produzione 
(cfr. 
art. 11 da ultimo citato). 


Stesse 
considerazioni 
valgono per le 
violazioni 
enucleate 
nella 
nota 
del 
28 marzo 2020 della 
Guardia 
di 
Finanza 
(all. 4), i 
cui 
procedimenti 
ammnistrativi 
sono pendenti presso la Prefettura di Firenze. 


Alla 
luce 
delle 
considerazioni 
che 
precedono 
il 
percorso 
procedurale 
sopra 
individuato, tenendo conto della 
Circolare 
del 
Comando della 
Guardia 
di 
Finanza 
e 
delle 
segnalate 
problematiche 
in sede 
di 
prima 
applicazione, appare 
più 
coerente 
con 
l’assetto 
normativo 
vigente, 
implementato 
nella 
materia 
da 
specifici 
provvedimenti 
adottati 
nella 
fase 
emergenziale, e 
giuridicamente 
sostenibile in una eventuale sede contenziosa. 


Nei 
termini 
suesposti 
è 
reso il 
parere 
richiesto che 
viene 
esteso, data 
la 
portata generale ed ai fini di raccordo, alle 
Amministrazioni interessate. 



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


Cessione dei crediti della P.a. effettuata nel contesto 

di una operazione di c.d. cartolarizzazione 


ai sensi dell’art. 4 della legge n. 130/1999 


Parere 
del 
17/07/2020-367481, al 52446/2019, aVV. Gabriella 
d’aVanzo 


Con la 
nota 
a 
riscontro, è 
sottoposto all'esame 
l'avviso di 
codesta 
Avvocatura 
Distrettuale 
sulla 
questione 
di 
massima 
riguardante 
l'efficacia 
di 
una 
cessione 
di 
crediti 
vantati 
nei 
confronti 
della 
P.A. ed effettuata 
all'interno di 
un'operazione 
di 
cartolarizzazione 
di 
cui 
all'art. 4 della 
legge 
n. 130 del 
1999. 


Viene 
segnalato che 
i 
crediti 
ceduti 
da 
M. S.c.p.A 
a 
L. SPV 
nascono da 
contratti 
stipulati 
dalla 
prima 
Società 
per l'affidamento dei 
servizi 
di 
pulizia 
e 
del 
servizio di 
ausiliariato in favore 
di 
numerosi 
Istituti 
scolastici 
della 
Campania, 
i 
quali 
hanno, però, rifiutato le 
cessioni 
di 
cui 
trattasi 
"in analogia alla 
condotta tenuta rispetto alle 
cessioni 
di 
crediti 
operate 
dalla stessa M. in favore 
della banca F. s.p.a., anche 
sulla scorta di 
quanto indicato dall'ufficio 
scolastico della Campania con nota prot. 15109 del 28 giugno 2019". 


riferisce 
codesta 
Avvocatura 
che, a 
fronte 
delle 
diffide 
di 
pagamento dei 
crediti 
ceduti 
avanzate 
dalla 
cessionaria 
L., 
secondo 
la 
quale 
il 
rifiuto 
"non 
può in alcun modo rappresentare 
elemento ostativo al 
perfezionamento della 
cessione, 
giusta 
quanto 
espressamente 
previsto 
nell'art. 
4 
della 
legge 
n. 
130/1999", 
i 
medesimi 
Istituti 
hanno 
chiesto 
"indicazioni 
operative 
sulle 
azioni 
da intraprendere", oltre 
che 
"ragguagli 
in ordine 
alla Circolare 
n. 21649 del 
27 
settembre 
2019 
del 
Miur, 
e, 
in 
particolare, 
se 
sussistano 
i 
presupposti 
per 
considerare 
la 
singola 
istituzione 
scolastica 
<stazione 
appaltante> 
(pur 
avendo 
stipulato 
solo 
contratto 
attuativo), 
nonché, 
conseguentemente, 
se 
possa 
considerarsi 
legittimata al 
pagamento diretto dei 
lavoratori 
alle 
dipendenze 
di 
M., ai 
sensi 
dell'art. 30, comma 6 del 
d.l.vo n. 50/2016". In caso di 
esito 
positivo, se 
il 
pagamento delle 
retribuzioni 
arretrate 
sia 
da 
considerarsi 
comprensivo 
di 
ogni 
voce 
spettante 
a 
ciascun 
lavoratore, 
compresi 
gli 
oneri 
fiscali 
e previdenziali. 


Ciò 
precisato, 
codesta 
Avvocatura 
Distrettuale 
ha 
fornito 
la 
seguente 
analisi 
della questione: 


1-per 
quanto 
riguarda 
l'interpretazione 
dell'art. 
4, 
comma 
4 
bis 
della 
legge 
130/1999 -nella 
parte 
in cui 
la 
norma 
stabilisce 
che, alle 
"cessioni 
effettuate 
nell'ambito di 
operazioni 
di 
cartolarizzazione 
non si 
applicano gli 
artt. 69 e 
70 
del 
regio 
decreto 
n. 
2440 
del 
1923" 
-sono 
prospettate 
due 
diverse 
soluzioni 
circa 
l'ambito 
applicativo 
della 
norma, 
rispetto 
al 
regime 
speciale 
previsto 
dal-
l'art. 106, comma 13 del Codice degli appalti; 


2-quanto 
all'efficacia 
della 
clausola 
recante 
il 
divieto 
di 
cessione 
dei 
crediti 
nascenti 
dai 
contratti 
a 
suo tempo stipulati 
tra 
M. e 
la 
singola 
Istituzione 



PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


scolastica, secondo codesta 
Avvocatura 
Distrettuale 
la 
disciplina 
speciale 
del 
codice 
degli 
appalti 
non sarebbe 
"... interamente 
derogatoria dei 
principi 
codicistici, 
sicchè 
la disciplina di 
cui 
all'art. 1260 c.c. continuerebbe 
a trovare 
applicazione 
in quanto non espressamente 
derogata o in quanto non incompatibile". 
Da 
ciò 
conseguirebbe 
la 
possibilità 
di 
"pattuire 
il 
divieto 
di 
cessione", 
ai 
sensi 
del 
comma 
2 del 
citato art. 1260 c.c., pattuizione 
compatibile 
anche con l'art. 106, comma 13 del D.Lgs n. 50 del 2016. 


3-codesta 
Avvocatura 
Distrettuale 
ritiene, 
infine, 
che 
l'Istituto 
scolastico, 
in 
quanto 
"stazione 
appaltante", 
secondo 
la 
definizione 
rinvenientesi 
alla 
lettera 


a) 
ed 
o) 
di 
cui 
al 
comma 
1 
dell'art. 
3 
del 
D.Lgs 
n. 
50/2016, 
sia 
legittimato 
a 
porre 
in 
essere 
"un 
intervento 
sostitutivo 
in 
favore 
dei 
lavoratori", 
ai 
sensi 
del-
l'art. 
30, 
comma 
6 
del 
D.Lgs. 
n. 
50/2016, 
provvedendo, 
quindi, 
al 
pagamento 
delle 
retribuzioni 
arretrate, 
"comprensivo 
di 
ogni 
voce 
spettante 
a 
ciascun 
lavoratore, 
compresi 
gli 
oneri 
fiscali 
e 
previdenziali", 
anche 
al 
fine 
di 
scongiurare 
il 
più 
grave 
problema 
dell'interruzione 
dell'erogazione 
del 
servizio. 
*** 


1 -Sul 
primo quesito, considerati 
i 
suoi 
profili 
di 
massima, è 
stato sentito 
il 
Comitato Consultivo che, nelle 
sedute 
del 
29 gennaio 2020 e 
del 
7 luglio 
2020, si è espresso in conformità. 


Al riguardo, si osserva quanto segue. 


Com'è 
noto, 
la 
cessione 
dei 
crediti 
nell'ordinamento 
pubblicistico 
prevede 
una 
serie 
di 
deroghe 
al 
regime 
generale 
previsto dal 
codice 
civile 
(artt. 1260 


(1) e 
ss.), sia 
per quanto riguarda 
la 
redazione 
della 
cessione 
che 
richiede 
la 
forma 
dell'"atto pubblico o scrittura privata autenticata da notaio" 
(art. 69, 
comma 
3 del 
rD 
18 novembre 
1923, n. 2440), la 
cui 
mancanza 
incide 
sull'efficacia 
dell'atto 
negoziale, 
e 
sia 
per 
quanto 
riguarda 
l'obbligo 
di 
notifica 
al-
l'Amministrazione 
del 
relativo 
accordo 
(art. 
69, 
comma 
1, 
rD 
n. 
2440 
del 
1923) (2). 
Inoltre, per i 
contratti 
in corso è 
necessario il 
previo consenso della 
PA 
debitore 
ceduto, 
alla 
cessione 
del 
credito, 
come 
si 
desume 
dall'art. 
9 
della 
legge 
20 marzo 1865, n. 2248, all. E), richiamato dall'art. 70, comma 
3 del 
del 
rD 


n. 
2440 
del 
1923, 
a 
mente 
del 
quale, 
"sul 
prezzo 
dei 
contratti 
in 
corso 
non 
potrà avere 
effetto alcun sequestro, né 
convenirsi 
cessione 
se 
non vi 
aderisca 
l'amministrazione interessata" 
(3). 
(1) c.c. art. 1260. Cedibilità dei crediti. 
Il 
creditore 
può trasferire 
a 
titolo oneroso [c.c. 1266] o gratuito il 
suo credito [c.c. 1198, 1889, 2559], 
anche 
senza 
il 
consenso del 
debitore 
[c.c. 1264, 1375, 1379, 2015], purché 
il 
credito non abbia 
carattere 
strettamente personale o il trasferimento non sia vietato dalla legge [c.c. 323, 378, 447, 1261, 1471]. 
Le 
parti 
possono 
escludere 
la 
cedibilità 
del 
credito 
[c.c. 
1823], 
ma 
il 
patto 
non 
è 
opponibile 
al 
cessionario, 
se non si prova che egli lo conosceva al tempo della cessione. 
(2) Diversamente 
da 
quanto dispone 
l'art. 1260 comma 
2 c.c., non vi 
è 
possibilità 
di 
dimostrare 
in altro 
modo, se non con la notificazione, l'avvenuta conoscenza della cessione da parte della PA. 

rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


Ne 
consegue 
che 
il 
principio 
generale 
della 
cedibilità 
dei 
crediti 
anche 
senza 
il 
consenso 
del 
creditore, 
sancito 
all'art. 
1260, 
comma 
1, 
c.c., 
è 
derogato 
dal 
citato 
art. 
9, 
legge 
n. 
2248 
del 
1865, 
all. 
E), 
deroga 
che 
cessa 
solo 
alla 
conclusione 
del 
rapporto 
contrattuale, 
come 
si 
desume 
dall'inciso 
"contratti 
in 
corso", 
con 
la 
conseguenza 
che 
restano 
opponibili 
alla 
PA 
le 
cessioni 
di 
credito 
fatte 
valere 
e 
realizzate 
senza 
la 
sua 
preventiva 
adesione, purchè 
intervenute 
dopo 
la 
conclusione 
del 
rapporto 
(Cass. 
Sez. 
I, 
n. 
11475/2008; 
id. 
n. 
13261 
del 2000 citata nella nota 3). 


Quanto ai 
pubblici 
appalti, sussiste 
una 
disciplina 
speciale 
della 
cessione 
del 
credito nei 
confronti 
delle 
stazioni 
appaltanti 
che 
sono pubbliche 
amministrazioni. 


Occorre 
rilevare 
che, 
in 
base 
al 
citato 
art. 
70, 
comma 
3 
del 
rD 
n. 
2440/1923, la 
cessione 
del 
credito derivante 
da 
"somministrazioni, forniture 
e 
appalti" 
deve 
essere 
effettuata 
tenendo conto delle 
"disposizioni 
dell'art. 9 
allegato e, della legge 
20 marzo 1865, n. 2248, ...", e, cioè, occorre 
la 
preventiva 
accettazione della PA (4). 


Tale 
disciplina, riguardante 
la 
cessione 
del 
credito nascente 
da 
contratti 
pubblici 
affidati 
all'aggiudicatario all'esito di 
apposita 
procedura 
ad evidenza 
pubblica, 
risulta 
confermata 
dall'art. 
106, 
comma 
13 
del 
D.Lgs. 
18 
aprile 
2016, 


n. 50 -Codice 
dei 
contratti 
pubblici 
-che 
ricalca 
la 
previsione 
di 
cui 
al 
previgente 
art. 117 del 
D.L.gs 
n. 163 del 
2006 -e 
che 
riproduce, "con linguaggio 
più moderno, quanto dispongono in termini 
generali, gli 
artt. 69 e 
70, r.d. n. 
2440/1923 tutt'oggi in vigore" 
(5). 
In particolare, il 
comma 
13 dell'art. 106 -"Modifica di 
contratti 
durante 
il periodo di efficacia" 
- del D.L.vo n. 50 del 2016 è così formulato: 


"si 
applicano le 
disposizioni 
di 
cui 
alla legge 
21 febbraio 1991, n. 52. ai 
fini 
dell'opponibilità alle 
stazioni 
appaltanti, le 
cessioni 
di 
crediti 
devono essere 
stipulate 
mediante 
atto pubblico o scrittura privata autenticata e 
devono 
essere 
notificate 
alle 
amministrazioni 
debitrici. 
Fatto 
salvo 
il 
rispetto 
degli 
obblighi 
di 
tracciabilità, 
le 
cessioni 
di 
crediti 
da 
corrispettivo 
di 
appalto, 
concessione, 
concorso 
di 
progettazione, 
sono 
efficaci 
e 
opponibili 
alle 
stazioni 
appaltanti 
che 
sono 
amministrazioni 
pubbliche 
qualora 
queste 
non 
le 
rifiutino 
con 
comunicazione 
da notificarsi 
al 
cedente 
e 
al 
cessionario entro quaran


(3) ratio 
della 
norma 
-applicabile 
per i 
rapporti 
di 
durata 
come 
l'appalto, in relazione 
a 
fattispecie 
sottratte, 
"ratione 
temporis" 
alla 
disciplina 
introdotta 
dalla 
legge 
109 del 
1994 -è 
di 
evitare 
che 
durante 
l'esecuzione 
contrattuale 
possano venire 
a 
mancare 
i 
mezzi 
finanziari 
al 
soggetto obbligato alla 
prestazione 
in favore della PA (Cass. 13261/2000; id. n. 18610/2005). 
(4) A 
differenza 
di 
quanto avviene 
per la 
cessione 
di 
un credito derivante 
da 
un ordinario contratto di 
compravendita 
con la 
PA, il 
quale 
soggiace 
in tutto e 
per tutto alla 
disciplina 
codicistica, salvo che 
per 
la 
forma 
che 
rimane 
quella 
stabilita 
all'art. 
69, 
comma 
3 
del 
rD 
n. 
2240/1923 
(Cass. 
Sez. 
III, 
n. 
981/2002). 
(5) In dottrina, "i nuovi appalti pubblici", pagg. 1551 e ss., rOSANNA 
DE 
NICTOLIS. 

PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


tacinque 
giorni 
dalla notifica della cessione. 
le 
amministrazioni 
pubbliche, 
nel 
contratto 
stipulato 
o 
in 
atto 
separato 
contestuale, 
possono 
preventivamente 
accettare 
la cessione 
da parte 
dell'esecutore 
di 
tutti 
o di 
parte 
dei 
crediti 
che 
devono venire 
a maturazione. in ogni 
caso l'amministrazione 
cui 
è 
stata notificata 
la cessione 
può opporre 
al 
cessionario tutte 
le 
eccezioni 
opponibili 
al 
cedente 
in 
base 
al 
contratto 
relativo 
a 
lavori, 
servizi, 
forniture, 
progettazione, 
con questo stipulato". 


La 
disposizione 
all'esame, dunque, disciplina 
un regime 
speciale 
per la 
cessione 
dei 
crediti 
da 
corrispettivo di 
appalto, incentrata 
sul 
potere 
di 
rifiuto 
della cessione da azionarsi entro il termine legale ivi stabilito. 


Occorre, 
poi, 
considerare 
che 
la 
norma 
richiama, 
per 
la 
cedibilità 
dei 
crediti 
verso 
le 
stazioni 
appaltanti, 
le 
"disposizioni 
di 
cui 
alla 
legge 
21 
febbraio 
1991, 


n. 
52" 
-recante 
"disciplina 
della 
cessione 
dei 
crediti 
di 
impresa", 
con 
conseguente 
applicazione, 
ai 
sensi 
dell'art. 
1, 
comma 
1, 
della 
medesima 
legge 
n. 
52/1991, 
della 
cessione 
in 
favore 
di 
una 
"banca 
o 
un 
intermediario 
finanziario 
disciplinato 
dal 
testo 
unico 
della 
legge 
in 
materia 
bancaria 
e 
creditizia... 
il 
cui 
oggetto 
sociale 
preveda 
l'esercizio 
dell'attività 
di 
acquisto 
di 
crediti 
di 
impresa". 
Si 
è 
posto 
il 
problema 
se, 
in 
ragione 
del 
rinvio 
operato 
dall'art. 
106, 
comma 
13 del 
Codice 
alla 
legge 
52/1991, trovi 
applicazione 
anche 
la 
previsione, 
di 
cui 
al 
comma 
2 dell'art. 1 di 
quest'ultima 
legge, che 
fa 
"salva l'applicazione 
delle 
norme 
del 
codice 
civile 
per 
le 
cessioni 
di 
credito 
prive 
dei 
requisiti" 
di 
qualificazione 
di 
cui 
al 
sopra 
citato 
articolo 
1, 
comma 
1 
della 
medesima 
legge 52 del 1991. 


Con la 
sentenza 
n. 19571 del 
2007, la 
Corte 
di 
Cassazione 
ha, tuttavia, 
chiarito 
che 
"la 
disciplina 
concernente 
la 
cessione 
dei 
crediti 
nei 
confronti 
della pubblica amministrazione 
ha natura derogatoria rispetto alla comune 
disciplina 
della 
cessione 
dei 
crediti 
prevista 
dal 
codice 
civile.., 
e 
che 
il 
richiamo 
contenuto 
all'art. 
26, 
comma 
5 
(6) 
della 
legge 
109 
del 
1994 
(legge 
quadro 
in 
materia 
di 
lavori 
pubblici) 
nel 
rendere 
applicabile 
ai 
contratti 
di 
appalto 
di 
lavori 
pubblici 
la 
disciplina 
della 
legge 
n. 52 del 
1991 "abbia inteso 
rendere 
operante 
la disciplina derogatoria posta da tale 
legge 
per 
i 
crediti 
di 
impresa, 
ma 
non 
anche 
procedere 
all'abrogazione 
delle 
norme 
speciali 
che 
regolavano in precedenza la cessione 
dei 
crediti 
nei 
confronti 
della Pa, rendendo 
applicabile, per 
le 
cessioni 
non rispondenti 
alle 
prescrizioni 
di 
cui 
alla 
legge n. 52 del 1991 la disciplina codicistica". 


Alla 
luce 
di 
quanto sin qui 
esposto, si 
può quindi 
concludere 
che 
la 
disci


(6) Legge 11 febbraio 1994, n. 109 Legge quadro in materia di lavori pubblici 
art. 26, comma 5 
“le 
disposizioni 
di 
cui 
alla legge 
21 febbraio 1991, n. 52 sono estese 
ai 
crediti 
verso le 
pubbliche 
amministrazioni 
derivanti 
da contratti 
di 
appalto di 
lavori 
pubblici, di 
concessione 
di 
lavori 
pubblici 
e 
da 
contratti di progettazione nell’ambito della realizzazione di lavori pubblici”. 



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


plina 
concernente 
la 
cessione 
del 
credito da 
corrispettivo di 
appalto verso la 
PA 
prevista 
all'art. 106, comma 
13 del 
codice 
dei 
contratti 
abbia 
carattere 
speciale 
e 
derogatorio anche 
della 
"comune 
disciplina della cessione 
dei 
crediti 
prevista dal codice civile". 


Sulla 
base 
di 
tale 
premessa, è, dunque, possibile 
esaminare 
la 
questione 
prospettata, concernente 
la 
cessione 
del 
credito nell'ambito della 
cartolarizzazione 
di cui alla legge 30 aprile 1999, n. 130 (7). 


In particolare, per quanto qui 
interessa, l'art. 4, comma 
4 bis 
della 
legge 


n. 130 del 
1999 stabilisce, che 
"alle 
cessioni 
effettuate 
nell'ambito di 
operazioni 
di 
cartolarizzazione 
non 
si 
applicano 
gli 
articoli 
69 
e 
70 
del 
regio 
decreto 
18 novembre 
1923, n. 2440, nonché 
le 
altre 
disposizioni 
che 
richiedano formalità 
diverse 
o ulteriori 
rispetto a quelle 
di 
cui 
alla presente 
legge. dell'affidamento 
o 
trasferimento 
delle 
funzioni 
di 
cui 
all'articolo 
2, 
comma 
3, 
lettera 
c), a soggetti 
diversi 
dal 
cedente 
è 
dato avviso mediante 
pubblicazione 
nella 
Gazzetta 
ufficiale 
nonché 
comunicazione 
mediante 
lettera 
raccomandata 
con 
avviso di ricevimento alle pubbliche amministrazioni debitrici". 
La 
previsione 
dell'inapplicabilità 
degli 
artt. 69 e 
70 del 
regio decreto n. 
2440 del 
1923 -introdotta 
dal 
legislatore 
solo con l'art. 12, recante 
"Misure 
per 
favorire 
il 
credito alla piccola e 
media impresa", comma 
1, lettera 
d) 
n. 3) 
del 
D.L. 
23 
dicembre 
2013, 
n. 
145, 
come 
modificato 
dalla 
legge 
di 
conversione 
21 
febbraio 
2014, 
n. 
9 
-sembrerebbe 
letteralmente 
escludere 
che 
sia 
possibile, 
per l'Amministrazione, quale 
debitore 
ceduto, opporsi 
alle 
cessioni 
di 
credito 
operate all'interno di un'operazione di cartolarizzazione. 


La 
Scrivente, tuttavia, pur dando atto che 
il 
contesto normativo di 
riferimento 
presenta 
profili 
di 
non immediata 
chiarezza, è 
dell'avviso che 
la 
soluzione 
sia 
da 
ricercare 
nel 
regime 
specifico 
che 
l'art. 
106, 
comma 
13 
del 
D.L.vo 


n. 50 del 2016 riserva alle cessioni di credito in materia di appalto. 
Si 
è 
già 
in 
precedenza 
osservato 
come 
la 
norma 
all'esame, 
avente 
carattere 
di 
specialità, 
abbia 
espressamente 
sancito 
che 
le 
cessioni 
in 
commento 
sono 
"efficaci 
e 
opponibili" 
solo 
nel 
caso 
in 
cui 
le 
stazioni 
appaltanti/amministrazioni 
pubbliche 
non 
le 
rifiutino 
espressamente 
entro 
il 
termine 
previsto 
dalla 
norma. 


Difatti, l'art. 106, comma 
13, del 
D.Lgs 
n. 50 del 
2016 non si 
limita 
ad 
indicare 
le 
condizioni 
formali 
e 
procedurali 
che 
devono 
essere 
rispettate 
al 
fine 
di 
rendere 
la 
cessione 
del 
credito 
opponibile 
all'Amministrazione, 
ma, 
come 
condivisibilmente 
rileva 
codesta 
Avvocatura 
Distrettuale, conferisce 
al-
l'Amministrazione 
una 
specifica 
potestà/facoltà 
di 
opporsi 
alla 
cessione, nei 
termini e con le modalità stabilite dal legislatore (8). 


(7) Com’è 
noto, nell’operazione 
finanziaria 
in esame 
si 
combinano i 
principi 
alla 
base 
dell’istituo della 
cessione 
del 
credito e 
quelli 
della 
teoria 
dei 
titoli 
di 
credito. Nella 
c.d. cartolarizzazione 
del 
credito, infatti, 
il 
creditore 
cede 
il 
suo credito ad un terzo che 
si 
obbliga 
a 
incorporare 
il 
credito in uno o più titoli 
da cedere a loro volta, a terzi. 

PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


La 
disposizione, che, come 
si 
è 
sopra 
detto, ricalca, con poche 
modifiche 
il 
previgente 
art. 117 del 
D.L.vo 163 del 
2006, è 
tuttora 
vigente, né, proprio in 
ragione 
della 
sua 
specialità, potrebbe 
ritenersi 
tacitamente 
abrogata, considerato 
che 
essa 
è 
cronologicamente 
successiva 
all'art. 
4, 
comma 
4 
bis 
della 
legge 


n. 130 del 1999, introdotto con l'art. 12, D.L. 23 dicembre 2013, n. 145. 
In 
risposta 
al 
primo 
quesito 
può, 
quindi, 
concludersi 
per 
l'applicabilità 
dell'art. 
106, 
comma 
13 
del 
D.L.vo 
n. 
50 
del 
2016 
anche 
alle 
cessioni 
di 
credito 
nell'ambito delle 
operazioni 
di 
cartolarizzazione, con conseguente 
possibilità 
per 
l'Amministrazione, 
quale 
debitore 
ceduto, 
di 
opporsi 
alle 
cessioni 
di 
credito 
operate all'interno di un'operazione di cartolarizzazione. 


Va 
da 
sè 
che 
la 
tesi 
che 
si 
sostiene 
nell'interesse 
dell'Amministrazione, 
per quanto basata 
sul 
tenore 
letterale 
delle 
disposizioni 
in commento (art. 4, 
comma 
4 bis 
della 
legge 
n. 130 del 
1999 e 
art. 106, comma 
13 del 
D.L.vo n. 
50 
del 
2016) 
e 
della 
ratio 
della 
disciplina 
speciale 
del 
codice 
degli 
appalti, 
non 
è 
tuttavia 
scevra 
da 
profili 
di 
incertezza 
in 
un 
settore 
che, 
anche 
in 
ragione 
della sua rilevanza economica, è indubbiamente delicato. 


Sarebbe, 
pertanto, 
auspicabile 
eliminare 
ogni 
situazione 
di 
dubbio 
sul 
corretto svolgimento dell'operazione finanziaria in commento. 


2 -Codesta 
Avvocatura 
Distrettuale 
si 
interroga, quindi, sull'effettiva 
valenza 
del 
divieto di 
cessione 
dei 
crediti 
apposto ai 
contratti 
stipulati 
tra 
M. e 
Istituzione scolastica. 


Questa 
Avvocatura 
Generale, 
esaminato 
l'atto 
aggiuntivo 
qui 
inviato, 
sottoscritto 
il 
14 gennaio 2019, ritiene 
che 
l'anzidetta 
clausola, in quanto preventivamente 
e 
validamente 
apposta 
dalle 
parti, possa 
intendersi 
di 
per sé 
idonea 
ad impedire 
la 
cessione 
da 
parte 
della 
stazione 
appaltante 
del 
credito vantato 
nei confronti dell'Amministrazione scolastica. 


A 
tale 
riguardo, preme 
chiarire 
che 
nella 
precedente 
consultazione, citata 
da 
codesta 
Avvocatura 
(CS 
30674/2019 avv. De 
Vergori) si 
era 
ritenuto che 
la 
clausola 
ostativa 
alla 
cessione 
del 
credito non fosse 
"un vero e 
proprio divieto 
di 
cessione 
(a dispetto della rubrica), bensì 
un mero rinvio alla disciplina applicabile 
contenuta 
nel 
codice 
dei 
contratti 
pubblici 
", 
considerato 
che 
la 
clausola 
di 
cui 
trattasi 
era 
così 
redatta: 
"È 
fatto divieto di 
cedere, a qualsiasi 
titolo 
il 
presente 
contratto e 
i 
crediti 
derivanti 
dall'avvenuta esecuzione 
dei 
lavori 
relativi allo stesso ai sensi dell'art. 106, comma 13 del d.lgs 50/2016". 


Nel 
caso all'esame, invece, in cui 
l'accordo di 
cui 
all'Atto Aggiuntivo del 
14 gennaio 2019 (all. 2) reca, in via 
preventiva, un divieto di 
cessione 
senza 


(8) Peraltro, i 
rilevanti 
effetti 
giuridici 
prodotti 
dalla 
manifestazione 
di 
volontà 
dell'Amministrazione 
nei 
rapporti 
con il 
cedente, e 
i 
significativi 
riflessi 
nei 
rapporti 
tra 
questi 
e 
il 
cessionario, valgono ad 
escludere 
la 
valenza 
meramente 
procedurale 
o 
formalistica 
delle 
prescrizioni 
contenute 
all'art. 
106, 
comma 
13, 
del 
D.Lgs 
n. 
50 
del 
2016, 
ed 
a 
ritenere, 
pertanto, 
non 
percorribile 
l'ipotesi 
prospettata 
al 
punto sub a) del quesito, ai fini e per gli effetti di cui all'art. 4, comma 4-bis, della l. n. 130 del 1999. 

rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


nessun espresso riferimento all'art. 106, comma 
13, del 
D.Lgs 
n. 50 del 
2016, 
non v'è 
ragione 
per escludere 
che 
trovi 
applicazione 
la 
disciplina 
voluta 
dalle 
parti, con ogni 
consequenziale 
effetto in ordine 
all'efficacia 
inter 
partes 
e 
al-
l'opponibilità della relativa cessione del credito. 


3 -Nel 
terzo quesito, si 
chiede 
se 
l'Istituto scolastico possa 
considerarsi 
"stazione 
appaltante", secondo la 
definizione 
rinvenientesi 
alla 
lettera 
a) ed 


o) 
di 
cui 
al 
comma 
1 
dell'art. 
3 
del 
D.Lgs 
n. 
50/2016, 
e 
se, 
quindi, 
il 
medesimo 
Istituto sia 
legittimato a 
porre 
in essere 
"un intervento sostitutivo in favore 
dei 
lavoratori", 
ai 
sensi 
dell'art. 
30, 
comma 
6 
del 
D.Lgs. 
n. 
50/2016, 
provvedendo, 
quindi, al pagamento delle retribuzioni arretrate. 
Al 
riguardo 
si 
osserva 
che 
il 
ruolo 
di 
stazione 
appaltante 
degli 
Istituti 
scolastici 
oltre 
a 
rientrare 
tra 
le 
ipotesi 
normative 
di 
cui 
all'art. 3, comma 
1 del 
D.Lgs 
n. 50 del 
2016, è 
stata 
espressamente 
prevista, proprio per lo specifico 
settore 
dei 
servizi 
di 
pulizia 
ed ausiliari 
all'esame, all'art. 2 del 
D.L. 7 aprile 
2014, n. 58 -Misure 
urgenti 
per 
garantire 
il 
regolare 
svolgimento del 
servizio 
scolastico 
-il 
quale 
dispone 
che 
"al 
fine 
di 
consentire 
la 
regolare 
conclusione 
delle 
attività 
didattiche 
nell'anno 
scolastico 
2016/2017 
in 
ambienti 
in 
cui 
siano 
garantite 
le 
idonee 
condizioni 
igienico-sanitarie, nelle 
regioni 
ove 
non è 
ancora 
attiva, 
ovvero 
sia 
stata 
sospesa 
o 
sia 
scaduta, 
la 
convenzione-quadro 
Consip per 
l'affidamento dei 
servizi 
di 
pulizia e 
altri 
servizi 
ausiliari, dal 
1° 
aprile 
2014 
alla 
data 
di 
effettiva 
attivazione 
della 
citata 
convenzione 
e 
comunque 
fino a non oltre 
il 
31 agosto 2017, le 
istituzioni 
scolastiche 
ed educative 
provvedono 
all'acquisto 
dei 
servizi 
di 
pulizia 
ed 
ausiliari 
dai 
medesimi 
raggruppamenti e imprese 
che li assicurano alla data del 31 marzo 2014". 


Quanto alla 
liquidazione 
delle 
spettanze 
direttamente 
ai 
dipendenti 
M., 
ai 
sensi 
dell'art. 
30, 
comma 
6 
del 
D.L.vo 
n. 
50/2016, 
si 
rappresenta 
che 
la 
Scrivente 
si 
è 
già 
espressa, 
in 
fattispecie 
analoga, 
con 
il 
parere 
in 
data 
4 
aprile 
2018, n. 177129 (CT 
4465/2018 avv. De 
Vergori), al 
quale 
si 
rinvia 
integralmente. 



PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


unioni civili. matrimonio omoaffettivo celebrato all’estero, 
trascrizione, decorrenza degli effetti giuridici ed economici 


Parere 
del 
28/09/2020-464419, al 43976/2017, aVV. Gesualdo 
d’elia 


Codesta 
Amministrazione 
ha 
chiesto 
un 
parere 
sulla 
seguente 
fattispecie. 


un 
dipendente 
di 
codesta 
Amministrazione 
ha 
contratto 
matrimonio 
in 
Spagna 
con persona 
del 
medesimo sesso in data 
13 settembre 
2012, secondo 
la 
legge 
di 
detto Paese. Intervenuta 
la 
legge 
sulle 
unioni 
civili 
(L. 20 maggio 
2016 
n. 
76), 
detto 
dipendente 
ha 
ottenuto 
la 
trascrizione 
del 
matrimonio 
in 
Italia 
ed ha 
presentato, in data 
6 dicembre 
2016, istanza 
di 
riconoscimento dei 
trattamenti 
di 
famiglia 
previsti 
dall'art. 173 del 
D.P.r. n. 18/1967 per coniuge 
a 
carico. Codesta 
Amministrazione 
ha 
proceduto al 
versamento di 
detti 
trattamenti 
per il 
periodo dal 
5 giugno al 
18 settembre 
2016, data 
di 
cessazione 
del 
servizio all'estero. 


In data 
4 maggio 2017 il 
dipendente 
ha 
rinnovato la 
propria 
istanza 
chiedendo 
di 
estendere 
il 
trattamento 
di 
famiglia 
al 
periodo 
del 
precedente 
servizio 
all'estero, presso l'Ambasciata 
di 
Italia 
a 
New 
Delhi 
dal 
26 novembre 
2012 al 
24 
agosto 
2014 
e 
presso 
l'Ambasciata 
d'Italia 
a 
Wellington 
dal 
25 
agosto 
2014 
al 
4 
giugno 
2016. 
Ha 
osservato 
che, 
in 
assenza 
di 
una 
indicazione, 
sia 
nell'atto 
di 
trascrizione 
sia 
nella 
legge, della 
data 
di 
decorrenza 
degli 
effetti, questi 
dovrebbero 
decorrere dalla data stessa del matrimonio. 


Codesta 
Amministrazione 
chiede 
quindi 
se, 
a 
parere 
di 
questa 
Avvocatura, 
gli 
effetti 
giuridici 
ed 
economici 
del 
matrimonio 
celebrato 
all'estero 
e 
trascritto 
in Italia 
possano prodursi 
soltanto a 
decorrere 
dalla 
data 
di 
entrata 
in vigore 
della 
legge 
sulle 
unioni 
civili 
ovvero se 
possano retroagire 
alla 
data 
di 
celebrazione 
del matrimonio. 


Questa 
Avvocatura osserva quanto segue. 


IL CONTESTO NOrMATIVO 


In 
primo 
luogo, 
è 
opportuno 
richiamare 
l'articolo 
32-bis 
della 
legge 
n. 
218/95, inserito dal 
D.lgs. n. 7 del 
19 gennaio 2017, rubricato "Matrimonio 
contratto all'estero da cittadini 
italiani 
dello stesso sesso", ai 
sensi 
del 
quale: 
"il 
matrimonio 
contratto 
all'estero 
da 
cittadini 
italiani 
con 
persona 
dello 
stesso 
sesso 
produce 
gli 
effetti 
dell'unione 
civile 
regolata 
dalla 
legge 
italiana". 


Dalla 
disposizione 
sopra 
citata 
si 
evince 
inequivocabilmente 
che 
il 
matrimonio 
contratto 
all'estero 
da 
cittadini 
italiani 
con 
persona 
del 
medesimo 
sesso, italiana 
o straniera, produce 
gli 
stessi 
effetti 
dell'unione 
civile 
ai 
sensi 
della legge italiana. 


La 
portata 
di 
tale 
disposizione 
è 
stata 
oggetto di 
un recente 
arresto della 
Sezione 
I 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
(sentenza 
n. 
11696/2018) 
che 
ha 
ammesso 
la 
trascrizione 
del 
matrimonio 
omoaffettivo 
celebrato 
all'estero 
tra 
un 
cittadino 



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


italiano ed uno straniero, ma 
sub specie 
di 
unione 
civile 
ai 
sensi 
dell'art. 32 
bis 
della 
L. n. 218/1995, poiché 
l'istituto dell'unione 
civile 
rappresenta 
l'unico 
ed esclusivo "modello normativo" 
mediante 
il 
quale 
può assumere 
rilevanza 
il vincolo tra persone dello stesso sesso nel nostro ordinamento. 


La 
Corte, infatti, ha 
ritenuto che 
una 
tale 
soluzione 
-e 
cioè 
il 
c.d. "downgrading" 
del 
matrimonio 
alla 
stregua 
dell'unione 
civile 
-sia 
coerente 
rispetto 
a 
quanto 
previsto 
dagli 
artt. 
8 
e 
14 
della 
CEDu: 
la 
scelta 
del 
modello 
di 
unione 
riconosciuta 
tra 
persone 
dello stesso sesso negli 
ordinamenti 
facenti 
parte 
del 
Consiglio 
d'Europa 
è 
rimessa 
al 
libero 
apprezzamento 
degli 
Stati 
membri, 
purché 
garantisca 
a 
tali 
unioni 
uno standard 
di 
tutele 
coerente 
con il 
diritto alla 
vita familiare 
ex 
art. 8 come interpretato dalla Corte EDu. 


In 
secondo 
luogo, 
va 
ricordata 
la 
disposizione 
di 
cui 
all'art. 
1, 
comma 
21, 
della 
L. 
n. 
76/2016 
che, 
al 
fine 
di 
assicurare 
l'effettività 
della 
tutela 
dei 
diritti 
ed 
il 
pieno 
adempimento 
degli 
obblighi 
derivanti 
dall'unione 
civile 
tra 
persone 
del 
medesimo 
sesso, 
ha 
previsto 
che 
le 
disposizioni 
che 
si 
riferiscono 
al 
matrimonio 
e 
le 
disposizioni 
contenenti 
le 
parole 
"coniuge", 
"coniugi" 
o 
termini 
equivalenti, 
ovunque 
ricorrano 
nelle 
leggi, 
negli 
atti 
aventi 
forza 
di 
legge, 
nei 
regolamenti 
nonché 
negli 
atti 
amministrativi 
e 
nei 
contratti 
collettivi, 
si 
applichino 
anche 
ad 
ognuna 
delle 
parti 
dell'unione 
civile 
tra 
persone 
dello 
stesso 
sesso. 


Va 
anche 
ricordato che 
la 
L. n. 76/2016, al 
comma 
28, lett. b, dell'art. 1 
delega 
il 
Governo ad adottare 
uno o più decreti 
legislativi 
che 
prevedano l'applicazione 
della 
disciplina 
dell'unione 
civile 
alle 
coppie 
del 
medesimo sesso 
che 
"abbiano contratto" 
all'estero matrimonio od altro istituto analogo. 


risulta 
evidente 
come 
l'intervento normativo del 
2016 sia 
diretta 
esplicazione 
di 
quanto 
statuito 
dalla 
Corte 
EDu 
nella 
sentenza 
21 
luglio 
2015 
(caso 
"oliari"), che 
ha 
affermato il 
diritto delle 
coppie 
omosessuali 
ad ottenere 
dal-
l'ordinamento giuridico dello Stato di 
cui 
sono cittadini 
una 
forma 
di 
riconoscimento 
della 
loro 
relazione; 
principio 
successivamente 
ribadito 
nella 
sentenza 
del 
14 dicembre 
2017 resa 
nel 
caso 
"orlandi", ove 
si 
è 
affermata 
la 
necessità 
che 
siano 
garantiti 
alle 
coppie 
formate 
da 
persone 
del 
medesimo 
sesso protezione 
e 
riconoscimento legale 
al 
fine 
di 
realizzare 
"un giusto equilibrio 
tra gli interessi di competenza dello stato e le coppie". 


IL QuESITO 


Premesso 
il 
contesto 
normativo 
e 
fattuale 
sopra 
richiamato, 
è 
possibile 
esaminare 
il 
quesito oggetto del 
presente 
parere, ossia 
se, ai 
fini 
della 
decorrenza 
degli 
effetti 
giuridici 
ed economici 
(diretti 
ed indiretti) del 
matrimonio 
del 
dipendente 
di 
codesta 
Amministrazione, 
possa 
o 
meno 
tenersi 
conto 
anche 
del 
periodo intercorso tra 
la 
data 
di 
costituzione 
del 
matrimonio all'estero (in 
Paesi, quindi, nei 
quali 
era 
già 
giuridicamente 
disciplinata 
l'unione 
coniugale 
tra persone del medesimo sesso) e l'entrata in vigore della L. n. 76/2016. 


Al 
riguardo si 
deve 
necessariamente 
partire 
dall'esame 
del 
testo della 
L. 



PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


n. 76/2016 e 
dal 
D.lgs. 19 gennaio 2017 n. 7 citato, che 
ha 
attuato la 
delega 
di 
cui 
al 
citato comma 
28, lett. 
b, dell'art. 1. Quest'ultima 
disposizione, in particolare, 
nel 
disporre 
l'inserimento, dopo l'art. 32 della 
L. 31 maggio 1995, n. 
218, dell'art. 32-bis, a 
tenore 
del 
quale 
"- 1. il 
matrimonio contratto all'estero 
da 
cittadini 
italiani 
con 
persona 
dello 
stesso 
sesso 
produce 
gli 
effetti 
del-
l'unione 
civile 
regolata dalla legge 
italiana", nulla 
precisa 
in ordine 
all'efficacia 
nel 
tempo 
della 
sua 
disciplina; 
né 
alcuna 
precisazione 
di 
tal 
genere 
compare nella Legge n. 76/2016 citata. 
In 
effetti 
è 
solo 
con 
l'entrata 
in 
vigore 
della 
L. 
n. 
76/2016 
che 
i 
matrimoni 
celebrati 
all'estero da 
cittadini 
italiani 
del 
medesimo sesso hanno ricevuto riconoscimento 
giuridico 
nel 
nostro 
ordinamento 
(equiparabili 
alle 
unioni 
civili), 
con conseguente loro trascrivibilità nei registri dello stato civile italiano. 


Orbene, 
se, 
da 
un 
lato, 
è 
vero 
che 
la 
trascrizione 
dell'unione 
matrimoniale 
nell'ordinamento italiano, non avendo natura 
costitutiva, si 
traduce 
in attività 
meramente 
certificativa 
e 
di 
pubblicità 
di 
un atto di 
per sé 
già 
valido ed esistente, 
sebbene 
in altro ordinamento (in proposito si 
veda 
anche 
la 
già 
citata 
Cass. n. 11696/2018); 
dall'altro, va 
anche 
dato atto che 
per l'ordinamento interno 
quell'atto 
viene 
a 
giuridica 
esistenza 
e, 
per 
quello 
che 
qui 
specificamente 
interessa, diventa 
efficace 
solo con la 
trascrizione, disposta 
sulla 
base 
di 
una 
esplicita 
disposizione 
di 
legge 
e 
che, 
affinché 
possa 
ritenersi 
che 
esso 
produca 
effetti 
in 
epoca 
precedente 
alla 
stessa 
trascrizione, 
sarebbe 
necessaria 
una 
esplicita 
previsione 
normativa, che, allo stato della 
legislazione 
positiva, non 
è dato rinvenire. 


Anche 
il 
rilievo del 
tenore 
della 
norma 
di 
cui 
al 
citato comma 
28, lett. b, 
dell'art. 
1 
della 
L. 
n. 
76/2016, 
che, 
esprimendosi 
al 
passato 
("che 
abbiano 
contratto 
all'estero matrimonio"), potrebbe 
far pensare 
a 
una 
volontà 
di 
rendere 
efficaci 
nell'ordinamento italiano i 
matrimoni 
già 
contratti, non appare 
sufficiente 
a 
concludere 
in tal 
senso, in quanto una 
simile 
(presunta) volontà 
del 
legislatore 
delegante 
non 
risulta 
essersi 
tradotta, 
nel 
decreto 
legislativo, 
in 
una 
esplicita 
previsione 
di 
efficacia 
retroattiva, sicché 
l'uso di 
quella 
locuzione 
lascia 
impregiudicata 
la 
questione 
della 
decorrenza 
-ex 
tunc 
o ex 
nunc 
-degli 
effetti del riconoscimento. 


Deve 
essere 
rilevato, 
peraltro, 
che 
la 
normativa 
positiva 
emanata 
in 
materia 
difetta 
della 
previsione 
di 
una 
adeguata 
copertura 
finanziaria 
dei 
costi 
che 
una 
applicazione 
ex 
tunc, 
ossia 
a 
tutte 
le 
fattispecie 
già 
verificatesi, 
comporterebbe. 


Oltre 
a 
ciò, 
non 
può 
non 
rilevarsi 
che 
la 
già 
citata 
decisione 
sul 
c.d. 
"caso 
orlandi", intervenuta 
quando la 
legge 
n. 76/2016 era 
già 
in vigore 
nell'ordinamento 
italiano, 
ha 
concluso 
per 
la 
condanna 
dell'Italia 
al 
pagamento 
di 
un'equa 
riparazione 
in relazione 
a 
un caso verificatosi 
prima 
dell'emanazione 
di 
detta 
legge, il 
che 
fa 
supporre 
che 
la 
Corte 
EDu 
non abbia 
ritenuto che 
la 
normativa 
introdotta 
potesse 
riferirsi 
ai 
casi 
precedenti 
la 
sua 
emanazione 
e 
fosse quindi produttiva di effetti per essi. 



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


In conclusione, pur dandosi 
atto della 
complessità 
del 
problema 
e 
degli 
aspetti 
dubbi 
che 
esso 
presenta, 
le 
considerazioni 
che 
precedono 
inducono 
questa 
Avvocatura 
a 
concludere 
che, 
allo 
stato 
della 
normativa 
attualmente 
vigente, 
ai 
fini 
dell'individuazione 
del 
dies 
a quo 
rilevante 
al 
fine 
della 
produzione 
degli 
effetti 
giuridici 
ed 
economici 
del 
vincolo 
coniugale, 
non 
è 
possibile 
guardare 
al 
momento in cui 
l'unione 
è 
venuta 
giuridicamente 
ad esistenza 
in 
altro ordinamento e 
che 
la 
decorrenza 
degli 
effetti 
giuridici 
nel 
nostro ordinamento 
non può prodursi che dal momento della trascrizione. 


Sulla 
presente 
questione 
è 
stato sentito il 
Comitato Consultivo dell'Avvocatura 
dello Stato che, nella 
seduta 
del 
23 settembre 
2020, si 
è 
espresso in 
conformità. 



PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


imparzialità e trasparenza dell’azione della P.a.: 
divieto di utilizzare lo scorrimento delle graduatorie 
a copertura di posti di nuova istituzione 


Parere 
del 
01/10/2020-472864, al 31871/2020, aVV. Gabriella 
d’aVanzo 


Codesta 
Avvocatura 
Distrettuale 
ha 
sottoposto 
alla 
previa 
condivisione 
della 
Scrivente 
la 
bozza 
di 
parere 
con cui 
intenderebbe 
fornire 
riscontro sfavorevole 
alla 
possibilità, 
prospettata 
dall'università 
degli 
Studi 
OMISSIS, 
di 
procedere 
"allo 
scorrimento 
di 
graduatorie 
interne 
e/o 
di 
altri 
atenei/enti", 
possibilità 
che, 
secondo 
l'università 
emergerebbe 
da 
"un'interpretazione 
teleologica 
oltre che letterale" delle vigenti disposizioni. 


Il 
punto 
centrale 
della 
questione 
giuridica 
è 
se, 
come 
sostiene 
l'università, 
sia 
configurabile 
una 
sorta 
di 
"abrogazione 
implicita" 
del 
divieto 
di 
utilizzare 
lo 
strumento 
dello 
scorrimento 
per 
la 
copertura 
di 
posti 
di 
nuova 
istituzione 
contenuto 
all'art. 
91, 
comma 
4 
(1) 
del 
D.Lgs 
n. 
267 
del 
2000 
-T.u. 
degli 
Enti 
locali 
(TuEL). 


Secondo la 
tesi 
dell'Ateneo, infatti, tale 
divieto "non ha più portata applicativa" 
per gli 
Enti 
locali, per effetto dell'art. 17, comma 
1 bis 
(2) del 
D.L. 
31 dicembre 
2019, n. 162 (c.d. milleproroghe, convertito in legge 
n. 8 del 
28 
febbraio 2020), il 
quale 
stabilisce, per il 
"personale 
delle 
province, delle 
città 
metropolitane 
e 
dei 
comuni", che 
per la 
copertura 
di 
posti 
previsti 
nel 
Piano 
triennale 
dei 
fabbisogni 
del 
personale 
di 
cui 
all'art. 6 D.Lgs 
n. 165 del 
2001 
può 
provvedersi 
utilizzando 
lo 
scorrimento 
delle 
graduatorie 
ancora 
valide, 
"anche 
in 
deroga" 
alla 
previsione 
di 
cui 
al 
citato 
articolo 
91, 
comma 
4 
T.u.E.L. 


(1) D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali. 
Pubblicato nella Gazz. Uff. 28 settembre 2000, n. 227, S.O. 
Articolo 91 Assunzioni 
(312) (313) 
In vigore dal 13 ottobre 2000 
Art. 91... 
comma 
4. 
Per 
gli 
enti 
locali 
le 
graduatorie 
concorsuali 
rimangono 
efficaci 
per 
un 
termine 
di 
tre 
anni 
dalla 
data 
di 
pubblicazione 
per 
l'eventuale 
copertura dei 
posti 
che 
si 
venissero a rendere 
successivamente 
vacanti 
e 
disponibili, 
fatta 
eccezione 
per 
i 
posti 
istituiti 
o 
trasformati 
successivamente 
all'indizione 
del 
concorso 
medesimo. 
(2) d.l. 30 dicembre 2019, n. 162 
disposizioni 
urgenti 
in materia di 
proroga di 
termini 
legislativi, di 
organizzazione 
delle 
pubbliche 
amministrazioni, 
nonché di innovazione tecnologica. 
Pubblicato nella Gazz. uff. 31 dicembre 2019, n. 305. 
Art. 17. Personale delle province, delle città metropolitane e dei comuni 
In vigore dal 1 marzo 2020 
... 
1-bis. 
Per 
l'attuazione 
del 
piano triennale 
dei 
fabbisogni 
di 
personale 
di 
cui 
all'articolo 6 del 
decreto 
legislativo 30 marzo 2001, n. 165, gli 
enti 
locali 
possono procedere 
allo scorrimento delle 
graduatorie 
ancora 
valide 
per 
la 
copertura 
dei 
posti 
previsti 
nel 
medesimo 
piano, 
anche 
in 
deroga 
a 
quanto 
stabilito 
dal 
comma 4 dell'articolo 91 del 
testo unico delle 
leggi 
sull'ordinamento degli 
enti 
locali, di 
cui 
al 
decreto 
legislativo 18 agosto 2000, n. 267. 
(66) 



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


rammenta 
l'università 
che 
il 
divieto 
di 
cui 
trattasi 
è 
stato 
considerato, 
dalla 
consolidata 
giurisprudenza, espressione 
di 
un principio generale 
estensibile 
a 
tutte 
le 
pubbliche 
amministrazioni, sicchè 
esso non è 
più applicabile 
non 
solo 
agli 
Enti 
locali, 
essendo 
"il 
legislatore... 
intervenuto 
in 
maniera 
esplicita", 
ma anche nei confronti di tutte le 
Amministrazioni pubbliche. 


La 
Scrivente, 
esaminato 
il 
parere 
reso 
da 
codesta 
Avvocatura 
Distrettuale, 
non può che 
condividerne 
le 
conclusioni, in quanto in linea 
con il 
quadro normativo 
vigente 
e 
con la 
consolidata 
giurisprudenza 
della 
quale 
sono stati 
riportati 
ampi 
stralci 
di 
diverse 
pronunce 
(sia 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
che 
del 
Consiglio di Stato, oltre alcuni recenti arresti della Corte dei Conti). 


Può, infatti, ritenersi 
determinante 
l'argomento secondo cui 
il 
divieto di 
scorrimento 
"per 
i 
posti 
istituiti 
o 
trasformati 
successivamente 
all'indizione 
del 
concorso 
medesimo" 
è 
sì 
stabilito 
all'art. 
91, 
comma 
4 
TuEL, 
ma, 
per 
consolidato 
insegnamento 
giurisprudenziale, 
esso 
è 
espressivo 
di 
un 
principio 
generale 
(non 
riferibile, 
quindi, 
solo 
agli 
Enti 
locali) 
finalizzato 
a 
garantire 
imparzialità 
e 
trasparenza 
dell'azione 
della 
pubblica 
amministrazione 
e 
ad 
evitare 
che 
le 
scelte 
sulla 
programmazione 
del 
fabbisogno 
di 
personale 
e 
sulla 
indivuazione 
della 
modalità 
di 
reclutamento 
possano 
essere 
condizionate 
dal 
fatto che 
siano noti 
i 
nominativi 
dei 
soggetti 
collocati 
in posizione 
utile 
nella 
graduatoria già formata (Cass. Sez. Lav. 31 gennaio 2020, n. 2316). 


In sostanza, anche 
se, come 
giustamente 
si 
legge 
nel 
parere 
all'esame, il 
divieto normativo è 
stato espressamente 
codificato dal 
legislatore 
con riferimento 
al 
rapporto 
di 
impiego 
per 
gli 
enti 
locali, 
esso 
risponde 
al 
generale 
principio 
di buon andamento dell'azione amministrativa di cui all'art. 97 Cost. 


L'indubbia 
valenza 
generale 
del 
divieto di 
cui 
trattasi, quale 
canone 
regolatorio 
immanente 
nel 
sistema, consente 
di 
superare 
i 
dubbi 
interpretativi 
sotto un duplice profilo. 


Da 
un lato, e 
con specifico riferimento alla 
ritenuta 
"abrogazione 
implicita" 
del 
divieto 
stabilito 
all'art. 
91, 
comma 
4, 
si 
osserva 
che, 
pur 
nella 
non 
estrema 
chiarezza 
della 
nuova 
previsione 
e 
della 
sua 
efficacia 
temporale, 
certo 
è 
che 
il 
legislatore 
ha 
inteso espressamente 
introdurre 
una 
disciplina 
"derogatoria" 
e 
non abrogativa 
del 
divieto di 
cui 
trattasi, come 
depone, del 
resto, il 
dato letterale 
della 
previsione 
che 
consente 
lo scorrimento "anche 
in deroga". 


Si 
condivide, 
pertanto, 
quanto 
rilevato 
da 
codesta 
Avvocatura 
nel 
ritenere 
che 
"non emergono elementi 
sufficienti 
e/o comunque 
idonei 
a sostenere 
l'intervenuta 
abrogazione implicita dell'art. 91, comma 4, Tuel". 


Dall'altro lato, si 
osserva 
che 
la 
nuova 
disciplina 
-riferibile, secondo la 
rubrica 
dell'art. 17, D.L. n. 162 del 
2019, al 
"personale 
delle 
province, delle 
città metropolitane 
e 
dei 
comuni" 
-in quanto derogatoria 
del 
divieto di 
carattere 
generale, 
sembra 
rientrare 
nel 
novero 
delle 
ipotesi 
regolate 
dall'art. 
14 
delle 
disposizioni 
sulla 
legge 
in generale, che 
ne 
esclude 
l'applicazione 
"oltre 
i casi e i tempi in esse considerati". 



PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


In sostanza, dalla 
possibilità 
di 
derogare 
a 
quanto stabilito, per gli 
Enti 
Locali, dall'art. 17, comma 
1-bis, DL 
n. 162/2019 -convertito con modificazioni 
in L. n. 8/2020 -non è 
dato inferire 
il 
venir meno del 
divieto generale 
di 
utilizzare, tramite 
scorrimento, le 
graduatorie 
vigenti 
per la 
copertura 
di 
posti 
di nuova istituzione o "trasformati". 


A 
tale 
riguardo, 
va 
da 
sé 
che 
resta 
ferma 
la 
possibilità 
di 
attingere 
alle 
graduatorie 
già 
esistenti 
per la 
copertura 
delle 
posizioni 
vacanti 
che 
siano già 
previste 
nei 
precedenti 
atti 
di 
programmazione 
del 
fabbisogno di 
personale, 
secondo quanto chiarito anche 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione 
-Sezione 
Lavoro nella 
citata 
ordinanza 
n. 
3126/2020, 
secondo 
la 
quale 
"il 
divieto, 
peraltro, 
resta 
circoscritto 
alle 
posizioni 
di 
nuova 
istituzione 
e 
non 
può 
essere 
esteso, 
nei 
casi 
di 
aumento 
della 
complessiva 
dotazione 
organica, 
anche 
a 
quelle 
posizioni 
vacanti 
già 
previste 
nei 
precedenti 
atti 
di 
programmazione 
del 
fabbisogno 
del 
personale". 


Le 
questioni 
oggetto 
del 
presente 
parere, 
avendo 
carattere 
di 
massima, 
sono state 
sottoposte 
al 
Comitato Consultivo che 
si 
è 
espresso in conformità 
nella seduta del 23 settembre 2020. 



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


Problematiche concernenti contratti pubblici 
di concessione a fronte dell’emergenza pandemica 


Parere 
del 
16/11/2020-568719, al 27856/2020, aVV. lorenzo 
d’asCia 


Si 
riscontra 
la 
nota 
con 
cui 
si 
chiedeva 
alla 
Scrivente 
un 
parere 
in 
ordine 
alle 
attività 
più 
opportune 
da 
porre 
in 
essere 
a 
tutela 
dell'Amministrazione 
per 
effetto 
della 
mancata 
esecuzione 
da 
parte 
della 
società 
concessionaria 
dell'obbligo 
di 
versamento 
della 
prima 
rata 
trimestrale 
del 
canone 
concessorio. 


La 
questione 
sottoposta 
all'esame 
della 
Scrivente, 
in 
particolare, 
verte 
sugli 
effetti 
che 
l'art. 
3, 
comma 
6-bis, 
decreto 
legge 
23 
febbraio 
2020 
n. 
6 
spiega 
nel 
rapporto 
intercorrente 
con 
la 
società 
in 
oggetto, 
cui 
è 
stata 
affidata 
la 
gestione 
di 
servizi 
aggiuntivi 
ex 
art. 
117, 
comma 
2, 
del 
d.lgs. 
n. 
42/2004, 
in 
forza 
di 
una 
concessione 
di 
servizio 
pubblico 
soggetta, 
come 
tale, 
alla 
disciplina 
del 
d.lgs. 
n. 
50/2016. 


Il 
citato 
art. 
3 
è 
norma 
di 
carattere 
generale 
che 
introduce 
una 
specifica 
causa 
di 
esonero 
del 
debitore 
dall'inadempimento 
ed 
è 
quindi 
estensibile 
anche 
al 
caso 
in 
esame. 
Tuttavia, 
proprio 
in 
ragione 
del 
suo 
vasto 
ambito 
operativo, 
l'applicazione 
della 
norma 
non 
può 
che 
essere 
verificata 
in 
concreto 
anche 
in 
relazione 
alle 
peculiarità 
della 
singola 
fattispecie. 
In 
tale 
prospettiva, 
dunque, 
si 
collocano 
le 
seguenti 
considerazioni 
che, 
peraltro, 
intervengono 
in 
un 
quadro 
giurisprudenziale 
non 
ancora 
consolidato 
e 
in 
una 
situazione 
di 
emergenza 
pandemica, 
ad 
oggi, 
ancora 
in 
evoluzione. 


Dalla 
documentazione 
trasmessa 
emerge 
quanto 
segue: 


a) 
la 
concessionaria 
ha 
dato 
avvio 
alle 
attività 
oggetto 
del 
contratto 
in 
data 
2 
dicembre 
2019; 
b) 
a 
causa 
dell'emergenza 
epidemiologica 
COVID-19 
il 
Monumento 
è 
stato 
chiuso 
al 
pubblico 
dall'8 
marzo 
2020 
al 
20 
giugno 
2020; 
c) 
la 
concessionaria 
ha 
l'obbligo 
di 
versare 
in 
rate 
trimestrali 
posticipate 
un 
canone 
fisso 
annuo 
di 
€ 
210.000 
e 
una 
royalty 
di 
importo 
pari 
al 
25,30 
% 
del 
fatturato 
annuo 
(art. 
7, 
commi 
1 
e 
2 
del 
contratto 
concessorio); 
in 
caso 
di 
mancato 
versamento, 
come 
di 
inadempimento 
di 
qualsiasi 
altro 
obbligo 
ivi 
previsto, 
l'art. 
11 
del 
contratto 
concessorio 
prevede 
che 
il 
concedente, 
fermo 
il 
diritto 
al 
risarcimento 
del 
danno, 
ha 
la 
facoltà 
di 
dichiarare 
risolto 
di 
diritto 
il 
contratto, 
l’art. 
15 
del 
contratto 
prevede 
poi 
l'applicazione 
di 
penali 
a 
carico 
del 
concessionario 
inadempiente; 
d) 
l'art. 
7, 
comma 
6 
del 
contratto 
concessorio 
prevede 
che 
"in 
nessun 
caso 
il 
Concessionario 
potrà 
pretendere 
riduzioni 
del 
canone 
o 
della 
royalty, 
o 
rimborsi 
o 
indennizzi 
di 
alcun 
genere, 
per 
le 
eventuali 
minori 
entrate 
dovute 
a 
chiusure 
tecniche 
del 
Monumento" 
e 
che 
"nessun 
indennizzo, 
a 
nessun 
titolo, 
verrà 
inoltre 
riconosciuto 
al 
Concessionario 
in 
caso 
di 
scioperi 
o 
analoghe 
manifestazioni 
poste 
in 
essere 
dai 
dipendenti 
del 
Concedente". 

PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


Lo 
stato 
di 
emergenza 
dovuto 
alla 
pandemia 
da 
coronavirus 
è 
stato 
dichiarato 
il 
31 
gennaio 
2020. 


L'art. 
3, 
comma 
6-bis, 
decreto 
legge 
23 
febbraio 
2020 
n. 
6 
ha 
stabilito 
che 
"il 
rispetto 
delle 
misure 
di 
contenimento 
di 
cui 
al 
presente 
decreto 
è 
sempre 
valutato 
ai 
fini 
dell'esclusione, 
ai 
sensi 
e 
per 
gli 
effetti 
degli 
articoli 
1218 
e 
1223 
del 
codice 
civile, 
della 
responsabilità 
del 
debitore, 
anche 
relativamente 
all'applicazione 
di 
eventuali 
decadenze 
o 
penali 
connesse 
a 
ritardati 
o 
omessi 
adempimenti". 


La 
norma, 
come 
detto, 
introduce 
una 
specifica 
causa 
di 
esonero 
della 
responsabilità 
del 
debitore 
che 
appare 
assimilabile 
all'impossibilità 
sopravvenuta 
della 
prestazione 
dovuta 
a 
factum 
principis 
(artt. 
1256 
e 
1464, 
c.c.). 


Da 
quanto 
precede 
emerge 
che, 
con 
specifico 
riguardo 
alla 
fattispecie 
oggetto 
di 
parere, 
l'inadempimento, 
intervenuto 
in 
relazione 
al 
versamento 
della 
prima 
rata 
(maturata, 
peraltro, 
in 
un 
periodo 
in 
cui 
l'emergenza 
epidemiologica 
si 
era 
già 
palesata) 
potrebbe 
dover 
essere 
valutato 
in 
termini 
di 
impossibilità 
sopravvenuta 
temporanea 
della 
prestazione 
in 
ragione 
della 
grave 
situazione 
venutasi 
a 
creare 
che 
ha 
determinato 
una 
crisi 
anche 
economica 
senza 
precedenti. 


Si 
osserva, 
inoltre, 
con 
una 
prospettiva 
rivolta 
all'intero 
arco 
temporale 
di 
durata 
del 
rapporto 
concessorio, 
che 
il 
contratto 
quantifica 
il 
canone 
e 
la 
royalty 
annualmente, 
ripartendole 
in 
rate 
trimestrali. 
Deve 
ritenersi, 
dunque, 
che 
gli 
eventi 
verificatisi 
per 
effetto 
dell'emergenza 
epidemiologica 
possano 
influire, 
complessivamente, 
su 
detto 
importo 
e, 
dunque, 
anche 
sulla 
prima 
rata. 


La 
crisi 
pandemica 
può 
aver 
determinato 
(anche 
al 
di 
là 
del 
periodo 
di 
chiusura 
obbligatoria 
del 
sito) 
o 
comunque 
potrebbe 
determinare 
anche 
in 
futuro, 
una 
sensibile 
contrazione 
del 
numero 
dei 
visitatori 
tale 
da 
integrare 
una 
ipotesi 
di 
eccessiva 
onerosità 
sopravvenuta 
del 
contratto 
che, 
in 
quanto 
dovuta 
al 
verificarsi 
di 
eventi 
straordinari 
e 
imprevedibili, 
può 
creare 
uno 
squilibrio 
nel 
rapporto 
tra 
le 
prestazioni 
e 
dar 
luogo 
in 
generale, 
da 
un 
lato, 
a 
una 
domanda 
di 
risoluzione 
del 
contratto 
ai 
sensi 
dell'art. 
1467 
c.c. 
ad 
opera 
della 
parte 
che 
ha 
patito 
il 
fatto 
emergenziale 
sopravvenuto, 
e, 
dall'altro 
lato, 
alla 
possibile 
offerta 
del 
concedente 
di 
una 
reductio 
ad 
aequitatem 
del 
contratto 
per 
scongiurare 
la 
risoluzione 
del 
contratto. 


I 
rilievi 
che 
precedono 
portano 
a 
ritenere 
che, 
nell'ambito 
della 
disciplina 
speciale 
dei 
contratti 
pubblici 
di 
concessione, 
il 
periodo 
di 
chiusura 
obbligatoria 
del 
sito 
pare 
rifluire 
nella 
fattispecie 
di 
cui 
all'art. 
107, 
d.lgs. 
n. 
50/2016 
(richiamato 
dall'art. 
4, 
par. 
3 
del 
contratto 
concessorio), 
che 
prevede 
la 
possibile 
sospensione 
dell'esecuzione 
del 
contratto 
quando 
circostanze 
speciali 
impediscano 
la 
regolare 
esecuzione 
delle 
prestazioni. 


Detta 
sospensione 
comporterebbe 
la 
non 
debenza 
del 
canone 
concessorio 
per 
i 
periodi 
di 
chiusura 
obbligatoria 
del 
sito. 


Per 
il 
periodo 
di 
apertura 
del 
sito, 
nel 
quale 
l'equilibrio 
economico 
finan



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


ziario 
del 
rapporto 
sia 
stato, 
comunque, 
pregiudicato 
dall'emergenza 
pandemica 
(che 
può 
aver 
influito 
sul 
numero 
di 
visitatori 
e 
dunque 
sulle 
entrate 
effettivamente 
conseguite 
dal 
concessionario 
in 
modo 
anche 
sensibile), 
potrebbe 
trovare 
applicazione 
l'art. 
165, 
comma 
6, 
d.lgs. 
n. 
50/2016, 
che 
prevede 
che 
"il 
verificarsi 
di 
fatti 
non 
riconducibili 
al 
concessionario 
che 
incidono 
sull'equilibrio 
del 
piano 
economico 
finanziario 
può 
comportare 
la 
sua 
revisione 
da 
attuare 
mediante 
la 
rideterminazione 
delle 
condizioni 
di 
equilibrio" 
e 
che 
"la 
revisione 
deve 
consentire 
la 
permanenza 
dei 
rischi 
trasferiti 
in 
capo 
all'operatore 
economico 
e 
delle 
condizioni 
di 
equilibrio 
economico 
finanziario 
relative 
al 
contratto". 


Il 
comma 
6 
dell'art. 
165, 
dispone 
inoltre 
che 
"in 
caso 
di 
mancato 
accordo 
sul 
riequilibrio 
del 
piano 
economico 
finanziario, 
le 
parti 
possono 
recedere 
dal 
contratto" 
e 
che 
"al 
concessionario 
sono 
rimborsati 
gli 
importi 
di 
cui 
all'articolo 
176, 
comma 
4, 
lettere 
a) 
e 
b), 
ad 
esclusione 
degli 
oneri 
derivanti 
dallo 
scioglimento 
anticipato 
dei 
contratti 
di 
copertura 
del 
rischio 
di 
fluttuazione 
del 
tasso 
di 
interesse". 


Ovviamente, 
se 
si 
procede 
alla 
sospensione 
dell'esecuzione 
del 
contratto 
ai 
sensi 
dell'art. 
107 
cit. 
per 
il 
periodo 
di 
chiusura 
obbligatoria 
del 
sito, 
la 
valutazione 
dell'alterazione 
dell'equilibrio 
economico 
finanziario 
non 
potrebbe 
prendere 
in 
considerazione 
detto 
periodo, 
nel 
quale 
la 
circostanza 
speciale 
della 
pandemia 
non 
avrebbe 
alcuna 
capacità 
di 
incidenza. 


Tanto 
premesso, 
e 
considerato 
che 
gli 
eventi 
sopravvenuti 
non 
rientrano 
tra 
quelli 
a 
cui 
l'art. 
7, 
comma 
6 
del 
contratto 
concessorio 
nega 
espressamente 
rilevanza, 
si 
ritiene 
che 
sussistano 
le 
condizioni 
per 
procedere 
alla 
sospensione 
dell'esecuzione 
del 
contratto 
ex 
art. 
107, 
d.lgs. 
n. 
50/2016 
per 
i 
periodi 
di 
chiusura 
obbligatoria 
del 
sito. 


Per 
il 
restante 
periodo, 
ove 
si 
ritenga 
-valutate 
tutte 
le 
circostanze 
concrete, 
ivi 
inclusa 
l'eventuale 
fruizione 
da 
parte 
del 
concessionario 
di 
forme 
di 
sostegno 
pubblico 
riconosciute 
alle 
imprese 
dal 
legislatore 
per 
1'emergerua 
epidemiologica 
da 
Covid-19 
-che 
la 
crisi 
pandemica 
abbia 
determinato 
un'alterazione 
del-
l'equilibrio 
economico 
finanziario 
malgrado 
l'applicazione 
dell'art. 
107 
per 
il 
periodo 
di 
chiusura 
obbligatoria, 
si 
potrebbe 
procedere, 
negoziandola 
con 
il 
concessionario 
che 
ne 
faccia 
richiesta, 
alla 
revisione 
del 
contratto 
ai 
sensi 
del-
l'art. 
165 
cit. 
in 
relazione 
al 
periodo 
in 
cui 
si 
è 
palesata 
la 
crisi 
epidemiologica 
con 
ripercussioni 
sull'equilibrio 
del 
piano 
economico 
finanziario, 
fino 
a 
quando 
questa 
inciderà 
sullo 
stesso. 
Detta 
revisione 
avrebbe 
efficacia 
ex 
nunc, 
ma 
potrebbe 
influire, 
come 
detto, 
sull'entità 
della 
prima 
rata 
del 
canone, 
ove 
modificato 
nella 
sua 
quantificazione 
annuale. 


In 
mancanza 
di 
un 
accordo 
in 
tal 
senso 
si 
potrà 
agire 
per 
la 
riscossione 
del 
dovuto 
sulla 
base 
del 
contratto 
di 
concessione 
ancora 
vigente 
oltre 
a 
dichiarare 
la 
risoluzione 
di 
diritto 
del 
contratto 
ai 
sensi 
dell'art. 
11 
del 
contratto 
medesimo. 



PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


Si 
resta 
a 
disposizione 
per 
qualsiasi 
ulteriore 
chiarimento. 


Considerata 
la 
rilevanza 
e 
la 
delicatezza 
delle 
questioni 
affrontate, 
il 
parere 
è 
stato 
sottoposto 
al 
Comitato 
Consultivo 
che 
si 
è 
espresso 
in 
conformità 
nella 
seduta 
del 
12 
novembre 
2020. 



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


Problematiche concernenti contratti pubblici 
di concessione a fronte dell’emergenza pandemica. 
altro quesito 


Parere 
del 
21/11/2020-582619, al 18348/2020, aVV. andrea 
Fedeli 


Con 
nota 
del 
18 
marzo 
2020 
una 
ditta 
titolare 
di 
un 
contratto 
denominato 
"cessione 
di 
spazi 
per 
la 
installazione 
e 
la 
gestione 
di 
distributori 
autornatici.." 
presso 
un 
Istituto 
Scolastico 
nell'evidenziare 
l'evento 
di 
forza 
maggiore 
rappresentato 
dalla chiusura dell'Istituto stesso a causa dell'emergenza epidemiologica 
COVID-19 
ha 
chiesto 
l'avviamento 
di 
un 
procedimento 
di 
revisione 
delle 
condizioni 
contrattuali. 


La 
questione 
sottoposta 
all'esame 
della 
Scrivente, 
in 
particolare, 
verte 
sugli 
effetti 
che 
l'art. 
3, 
comma 
6-bis, 
decreto legge 
23 febbraio 2020 n. 
6 spiega 
sulla 
suindicata 
concessione. 


Il 
citato 
art. 
3 
è 
norma 
di 
carattere 
generale 
che 
introduce 
una 
specifica 
causa 
di 
esonero 
del 
debitore 
dall'inadempimento 
ed 
è 
quindi 
estensibile 
anche 
al 
caso 
in 
esame. 
Tuttavia, 
proprio 
in 
ragione 
del 
suo 
vasto 
ambito 
operativo, 
l'applizione 
della 
norma 
non 
può 
che 
essere 
verificata 
in 
concreto 
anche 
in 
relazione 
alle 
peculiarità 
della 
singola 
fattispecie. 
In 
tale 
prospettiva, 
dunque, 
si 
collocano 
le 
seguenti 
considerazioni 
che, 
peraltro, 
intervengono 
in 
un 
quadro 
giurisprudenziale 
non 
ancora 
consolidato 
e 
in 
una 
situazione 
di 
emergenza 
pandemica, 
ad 
oggi, 
ancora 
in 
evoluzione. 


Occorre, 
preliminarmente, 
evidenziare 
che 
gli 
eventi 
verificatisi 
per 
effetto 
dell'emergenza 
epidemiologica, 
con 
particolare 
riferimento 
alla 
chiusura 
di 
tutte 
le 
scuole 
di 
ogni 
ordine 
e 
grado, 
hanno 
certamente 
determinato, 
in 
capo 
ai 
concessionari, 
l'impossibilità 
di 
vendere 
i 
prodotti 
attraverso 
i 
distributori 
installati 
nelle 
scuole 
stesse 
a 
fronte 
della 
corresponsione 
di 
un 
canone 
quantificato 
proprio 
sulla 
base 
del 
numero 
stimato 
di 
erogazioni 
in 
un 
dato 
periodo. 


L'art. 
3, 
comma 
6-bis, 
decreto 
legge 
23 
febbraio 
2020 
n. 
6 
ha 
stabilito 
che 
"il 
rispetto 
delle 
misure 
di 
contenimento 
di 
cui 
al 
presente 
decreto 
è 
sempre 
valutato 
ai 
fini 
dell'esclusione, 
ai 
sensi 
e 
per 
gli 
effetti 
degli 
articoli 
1218 
e 
1223 
del 
codice 
civile, 
della 
responsabilità 
del 
debitore, 
anche 
relativamente 
all'applicazione 
di 
eventuali 
decadenze 
o 
penali 
connesse 
a 
ritardati 
o 
omessi 
adempimenti". 


La 
norma, 
come 
detto, 
introduce 
una 
specifica 
causa 
di 
esonero 
della 
responsabilità 
del 
debitore 
che 
appare 
assimilabile 
all'impossibilità 
sopravvenuta 
della 
prestazione 
dovuta 
a 
factum 
principis 
(artt. 
1256, 
1464 
e 
1467 
c.c.). 


Nel 
caso 
di 
specie 
trattandosi 
di 
impossibilità 
parziale 
temporanea 
(senza 
colpa, 
ma 
per 
factum 
principis) 
il 
riflesso 
sull'obbligo 
di 
corrispondere 
il 
canone 
concessorio 
sarà 
quello 
di 
subire, 
ex 
art. 
1464 
c.c. 
una 
riduzione 
del 
canone 
stesso 
limitatamente 
al 
solo 
periodo 
di 
impossibilità 
parziale. 



PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


Sotto 
tale 
profilo, 
la 
buona 
fede 
oggettiva 
nella 
fase 
esecutiva 
del 
contratto 
ex 
art. 
1375 
c.c. 
postula 
la 
rinegoziazione 
come 
cammino 
necessitato 
di 
adattamento 
del 
contratto 
alle 
circostanze 
ed 
esigenze 
sopravvenute 
ai 
fine 
di 
portare 
a 
compimento 
il 
risultato 
negoziale 
prefigurato 
ab 
initio 
dalle 
parti, 
allineando 
il 
regolamento 
pattizio 
a 
circostanze 
che 
sono 
mutate; 
ciò 
nel 
pieno 
rispetto 
dell'autonomia 
negoziale 
delle 
parti 
che 
un 
siffatto 
dovere 
non 
abbiano 
manifestamente 
escluso 
(in 
tal 
senso 
anche 
la 
relazione 
tematica 
n. 
56 
dell'8 
luglio 
2020 
redatta 
dall'ufficio 
del 
Massimario 
e 
del 
ruolo 
presso 
la 
Corte 
Suprema 
di 
Cassazione). 


Tanto 
premesso 
si 
ritiene 
che 
sussistano 
le 
condizioni, 
in 
capo 
ai 
Dirigenti, 
per 
procedere, 
con 
il 
concessionario 
che 
ne 
faccia 
formale 
richiesta, 
alla 
rinegoziazione 
del 
contratto 
in 
relazione 
al 
periodo 
in 
cui 
si 
è 
palesata 
la 
crisi 
epidemiologica 
e 
fino 
a 
quando 
questa 
ha 
concretamente 
inciso 
sullo 
stesso. 


Ciò 
detto, 
l'obbligo 
di 
rinegoziare 
impone 
alle 
parti 
di 
intavolare 
nuove 
trattative 
e 
di 
condurle 
correttamente, 
ma 
non 
anche 
di 
concludere 
il 
contratto 
modificativo. 


Si 
testa 
a 
disposizione 
per 
qualsiasi 
ulteriore 
chiarimento 


Considerata 
la 
rilevanza 
e 
la 
delicatezza 
delle 
questioni 
affrontate, 
il 
parere 
è 
stato 
sottoposto 
al 
Comitato 
Consultivo 
nella 
seduta 
del 
12 
novembre 
2020 
che 
ha 
deliberato 
in 
conformità. 



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


Quesiti sulla competenza dei dirigenti scolastici 


in servizio all’estero in materia di immobili 


da adibire a sede delle istituzioni scolastiche 


Parere 
del 
17/11/2020-573057-573058, al 21401/2020, aVV. diana 
ranuCCi 


1) 
Con la 
nota 
in riscontro, codesta 
Direzione 
chiede 
di 
conoscere 
il 
parere 
della 
Scrivente 
in ordine 
alla 
questione 
in oggetto, relativa 
alla 
eventuale 
competenza 
dei 
dirigenti 
scolastici, in servizio presso istituzioni 
scolastiche 
all’estero, in materia 
di 
gestione 
di 
immobili 
ad uso scolastico sia 
che 
questi 
appartengano al 
patrimonio dello Stato italiano sia 
che 
si 
tratti 
di 
immobili 
in 
locazione, 
ed 
in 
tale 
ultima 
ipotesi 
se 
i 
dirigenti 
scolastici 
possano 
ritenersi 
competenti 
a 
stipulare 
i 
relativi 
contratti 
in luogo dell’Ambasciata 
o del 
Consolato 
di riferimento. 
Precisa 
codesta 
Direzione 
che 
la 
questione 
riveste 
particolare 
rilievo per 
le 
istituzioni 
scolastiche 
statali 
all’estero ubicate 
in immobili 
condotti 
in locazione 
(Atene, 
Barcellona 
e, 
temporaneamente, 
Zurigo), 
ove 
non 
sembra 
potersi 
applicare 
l’art. 45, comma 2, lettera c) del 
d.i. miur 
n. 129/18 
-che 
prevede 
la 
possibilità 
per 
i 
dirigenti 
scolastici 
di 
stipulare 
contratti 
di 
locazione 
per l’utilizzo di 
immobili 
previa 
delibera 
del 
consiglio d’istituto -in quanto 
tale organo collegiale nelle scuole statali all’estero non è previsto. 


In 
dettaglio, 
codesta 
Direzione, 
anche 
rilevato 
che 
una 
organizzazione 
sindacale 
contesta 
la 
competenza 
dei 
dirigenti 
scolastici 
all’estero in materia 
di immobili, prospetta i seguenti tre quesiti: 


a. 
se 
un dirigente 
scolastico all’estero sia 
o meno competente 
alla 
firma 
di 
contratti 
di 
locazione 
di 
immobili 
ad uso scolastico, in luogo dell’Ambasciata 
o 
del 
Consolato 
di 
riferimento 
(in 
dettaglio 
la 
questione 
attiene 
alla 
scuola statale di Barcellona); 
b. le 
modalità 
con cui 
la 
gestione 
di 
un immobile 
appartenente 
al 
patrimonio 
dello 
Stato 
italiano 
debba 
essere 
formalmente 
conferita 
ad 
un 
dirigente 
scolastico all’estero; 
c. 
la 
possibilità 
per 
un 
dirigente 
scolastico, 
che 
gestisce 
una 
scuola 
statale 
ubicata 
in un immobile 
appartenente 
al 
patrimonio dello Stato, di 
concedere 
in comodato d’uso parte 
dei 
locali, in luogo dell’Ambasciata 
o del 
Consolato 
di riferimento. 
2) La normativa di riferimento. 
La 
normativa 
applicabile 
in materia 
è 
recata 
dal 
d.lgs. 13 aprile 
2017, n. 
64 (disciplina della scuola italiana all’estero), che 
all’art. 1 
-ambito di 
applicazione 
-dispone 
che 
fine 
della 
legge 
è 
quello di 
attuare 
un effettivo e 
sinergico 
coordinamento 
tra 
MAECI 
e 
MIur 
nella 
gestione 
della 
rete 
scolastica 
estera. 



PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


Già 
sotto questo profilo appare 
evidente 
come 
la 
ratio 
sottesa 
alla 
disciplina 
normativa 
sia 
quella 
di 
valorizzare 
il 
ruolo 
del 
miur 
all’estero, 
e 
quindi 
delle 
relative 
istituzioni 
scolastiche 
di 
cui 
il 
dirigente 
scolastico, 
soggetto legato al 
miur 
da un 
rapporto di 
servizio, è 
organo rappresentativo 
sia in territorio metropolitano che estero. 


Ciò comporta 
la 
necessità 
di 
coordinare 
le 
norme 
contenute 
nel 
d.P.r. n. 
18/67 -e 
segnatamente 
gli 
artt. 79 e 
80 -con il 
nuovo testo normativo, considerato 
anche 
che 
le 
scuole 
italiane 
all’estero 
sono 
all’attualità 
di 
numero 
assai 
maggiore 
ed hanno finalità 
diverse 
ed ulteriori 
rispetto a 
quelle 
che 
avevano 
nel 
previgente 
sistema, 
in 
punto, 
per 
esempio, 
di 
organizzazione 
di 
eventi 
culturali. 


Tanto premesso, le 
norme 
del 
d.lgs 
n. 64/17 che 
si 
ritengono più rilevanti 
al fine di dare soluzione ai quesiti prospettati sono le seguenti: 


art. 
4, 
comma 
2 
-scuole 
statali 
all’estero 
-: 
2. 
le 
scuole 
di 
cui 
al 
comma 
1 
conformano 
il 
proprio 
ordinamento 
a 
quello 
delle 
corrispondenti 
scuole 
del 
sistema nazionale italiano di istruzione e formazione. 

art. 5 -gestione 
delle 
scuole 
statali 
all’estero -: 
1. 
a 
ciascuna scuola 
statale 
all'estero è 
assegnato un dirigente 
scolastico. in caso di 
assenza o di 
impedimento dello stesso, le 
funzioni 
sono temporaneamente 
svolte 
da un docente 
individuato 
dal 
dirigente 
stesso, 
o, 
in 
mancanza, 
dal 
capo 
dell'ufficio 
consolare o della rappresentanza diplomatica. 


2. la gestione 
amministrativa e 
contabile 
delle 
scuole 
statali 
all'estero è 
regolata 
dalle 
disposizioni 
applicabili 
alle 
rappresentanze 
diplomatiche. 
i 
poteri 
attribuiti 
da dette 
disposizioni 
ai 
commissari 
amministrativi 
e 
ai 
capi 
di 
ufficio all'estero sono rispettivamente 
esercitati 
dal 
direttore 
dei 
servizi 
generali 
ed amministrativi e dal dirigente scolastico. 
art. 6 -scuole 
paritarie 
all’estero -: 
3. Ciascuna scuola paritaria individua 
un coordinatore 
dell'attività didattica, che 
si 
raccorda con il 
dirigente 
scolastico 
assegnato 
all'ambasciata 
o 
all'ufficio 
consolare 
o, 
in 
mancanza, 
con il capo dell'ufficio consolare. 


art. 
13 
-gestione, 
coordinamento 
e 
vigilanza 
-: 
Per 
gestire, 
coordinare 
e 
vigilare 
il 
sistema della formazione 
italiana nel 
mondo, la selezione 
e 
la destinazione 
all'estero 
del 
personale 
di 
cui 
all'articolo 
18, 
nonché 
le 
ulteriori 
attività 
di 
cui 
al 
presente 
decreto 
legislativo, 
il 
MaeCi 
e 
il 
Miur 
si 
avvalgono 
di dirigenti scolastici, docenti e personale amministrativo della scuola. 


art. 
18. 
-categorie 
e 
contingenti 
di 
personale 
-: 
2. 
i 
dirigenti 
scolastici 
possono essere 
assegnati 
a scuole 
statali 
all'estero, ad ambasciate 
o a uffici 
consolari. i dirigenti 
scolastici 
assegnati 
ad ambasciate 
o a uffici 
consolari 
promuovono e 
coordinano le 
attività scolastiche 
di 
cui 
al 
capo i, sulla base 
delle 
indicazioni 
del 
titolare 
della sede 
o del 
funzionario da lui 
delegato e 
in 
raccordo con gli 
istituti 
italiani 
di 
cultura. 3. i docenti 
non assegnati 
a scuole 
statali 
all'estero sono coordinati 
dal 
dirigente 
scolastico assegnato all'amba



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


sciata 
o 
all'ufficio 
consolare 
o, 
in 
caso 
di 
sua 
assenza 
o 
impedimento, 
dal 
capo 
dell'ufficio consolare. 


art. 
25 
-sanzioni 
disciplinari 
-: 
2. 
il 
procedimento 
disciplinare 
compete 
al dirigente scolastico o, in sua assenza, al capo del consolato. 


3) La nota di uiL Scuola rua. 
In 
concreto, 
il 
problema 
delle 
competenze 
dei 
dirigenti 
scolastici 
si 
è 
posto a 
seguito di 
una 
nota 
in data 
24 aprile 
2020, con cui 
la 
uIL 
Scuola 
rua 


-Dipartimento estero segnalava 
che 
la 
Console 
generale 
d’Italia 
a 
Barcellona 
aveva 
richiesto al 
dirigente 
scolastico presso l’Istituto Comprensivo Italiano 
di 
Barcellona 
di 
sottoscrivere 
il 
nuovo 
contratto 
di 
locazione, 
rilevando 
trattarsi 
di 
atto che 
ricadrebbe 
“sotto la 
responsabilità” 
del 
dirigente 
scolastico in base 
a 
quanto 
disposto 
dalla 
medesima 
con 
messaggio 
n. 
18076 
del 
20 
giugno 
2018, 
con 
il 
quale 
anche 
richiedeva 
al 
Dirigente 
scolastico 
di 
occuparsi 
della 
ricerca 
degli 
immobili 
da 
adibire 
a 
sede 
della 
scuola; 
tanto 
in 
considerazione 
“dei 
compiti 
del 
Capo missione 
a cui 
il 
dirigente 
scolastico viene 
dichiaratamente 
equiparato che 
prevedono l’obbligo di 
occuparsi 
della ricerca di 
locali 
che 
possano ospitare la scuola”. 
Sul 
punto, al 
contrario, la 
uIL 
Scuola 
rua 
sostiene 
che 
le 
norme 
vigenti 
non 
attribuiscono 
al 
dirigente 
scolastico 
alcuna 
competenza 
in 
merito 
alla 
sottoscrizione 
del 
contratto 
di 
locazione 
né 
specifici 
obblighi 
di 
ricerca 
dei 
locali 
scolastici. 

La 
uIL 
osserva 
che 
l’art. 5 del 
d.lgs. 64/2017 estende 
alla 
“gestione 
amministrativa 
e 
contabile 
delle 
scuole 
statali 
all'estero” 
le 
“disposizioni 
applicabili 
alle 
rappresentanze 
diplomatiche”, 
al 
fine 
di 
realizzare 
l’autonomia 
amministrativo-contabile 
delle 
scuole 
statali 
italiane 
all’estero e 
che 
l’art. 80 


d.P.r. n. 18/67 prevede 
l’esclusiva 
competenza 
del 
MAECI, tramite 
la 
Commissione 
per gli 
immobili 
che 
esprime 
al 
Ministro il 
parere 
relativo “…alla 
locazione degli immobili all’estero..”. 
Secondo 
la 
uIL, 
tale 
sistema 
tenderebbe 
a 
realizzare 
un 
allineamento 
delle 
funzioni 
delle 
scuole 
italiane 
all’estero a 
quelle 
previste 
per le 
scuole 
situate 
in territorio metropolitano, ma 
non interverrebbe 
sulle 
competenze 
relative 
agli 
immobili 
assegnate 
in 
Italia 
agli 
enti 
locali, 
così 
come 
stabilito 
dall’art. 14, co. 1, lett. i) della 
legge 
8 giugno 1990, n. 142, secondo il 
quale 
questi 
ultimi 
“provvedono alla realizzazione, alla fornitura e 
alla manutenzione 
ordinaria e straordinaria degli edifici”. 

A 
parere 
della 
Scrivente, il 
richiamo operato alla 
disciplina 
degli 
enti 
locali 
non appare 
corretto, considerato che 
i 
dirigenti 
scolastici 
“metropolitani” 
non si 
trovano, di 
regola, nella 
necessità 
di 
stipulare 
locazioni 
passive 
perché 
la 
provvista 
degli 
immobili 
da 
adibire 
a 
sede 
delle 
istituzioni 
scolastiche 
fa 
carico agli 
enti 
locali 
(comuni 
e 
province) in base 
alla 
l. 11 gennaio 1996, n. 


23: 
donde 
appare 
inconferente, 
per 
i 
dirigenti 
scolastici 
“esteri”, 
sia 
tale 
ri

PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


chiamo 
legislativo 
e, 
ancor 
prima, 
quello 
alla 
l. 
8 
giugno 
1990, 
n. 
142, 
comunque 
abrogata 
e 
superata 
dal 
TuEL 
-d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 -, il 
quale, 
peraltro, 
contiene 
analoghe 
disposizioni 
quanto 
alla 
competenza 
in 
materia 
degli enti locali. 


Si 
aggiunge 
poi 
che, nella 
specie, non si 
discute 
delle 
funzioni 
attribuite 
agli 
enti 
locali 
in materia 
di 
scuole 
ma 
delle 
competenze 
di 
soggetti 
-dirigenti 
scolastici 
e 
capi 
missioni 
-che 
svolgono servizio all’estero per i 
quali 
sussiste 
una 
disciplina 
ad hoc 
recata 
in primis 
dal 
d.P.r. n. 18/67 e, per le 
scuole 
all’estero 
in 
particolare, 
dal 
d.lgs. 
n. 
64/17 
-in 
nulla 
equiparabili 
agli 
organi 
degli enti locali che in territorio nazionale si occupano di scuole. 


Diverso 
è 
invece 
il 
problema 
del 
coordinamento 
di 
tali 
poteri 
del 
dirigente 
scolastico 
con 
le 
disposizioni 
di 
cui 
agli 
artt. 
79 
e 
80 
del 
d.P.r. 
5 
gennaio 
1967, 


n. 
18 
i 
quali 
dettano 
una 
specifica 
disciplina 
(anche) 
per 
i 
beni 
immobili 
situati 
all’estero, pure richiamati dal Sindacato e di cui si dirà infra. 
A 
parere 
della 
Scrivente, 
infatti, 
tali 
disposizioni 
devono 
essere 
coordinate 
con lo ius 
superveniens 
recato dal 
d.lgs. n. 64/17, che 
ha 
notevolmente 
ampliato 
le competenze del MIur e dei suoi dirigenti all’estero. 


Ferme 
pertanto le 
esigenze 
di 
carattere 
pratico rappresentate 
dal 
Sindacato, 
non 
sembra 
tuttavia 
che 
le 
tesi 
giuridiche 
ivi 
prospettate 
possano 
ritenersi 
condivisibili. 


4) 
La 
scheda 
di 
approfondimento 
sugli 
immobili 
in 
italia 
redatta 
dalla dGSP uff. v, in data 11 giugno 2020. 
Codesta 
Direzione, 
in 
allegato 
alla 
nota 
a 
margine, 
ha 
altresì 
inviato 
la 
scheda in oggetto. 


Tale 
nota, a 
parere 
di 
questa 
Avvocatura, non sembra 
contenere 
elementi 
idonei 
al 
fine 
della 
soluzione 
dei 
quesiti 
prospettati, considerato che 
ivi 
si 
fa 
riferimento, in via 
quasi 
esclusiva, alla 
disciplina 
delle 
scuole 
in territorio nazionale 
e 
si 
evidenzia 
che 
le 
relative 
funzioni 
sono di 
competenza 
degli 
enti 
locali, Comuni e Province. 


Il 
richiamo agli 
artt. 79 e 
80 d.P.r. n. 18/67, come 
si 
dirà 
più avanti, non 
appare 
dirimente, 
dovendosi 
comunque 
le 
norme 
regolamentari 
coordinare 
con il successivo testo legislativo, peraltro di rango superiore. 

5) 
L’appunto 
operativo, 
reso 
in 
data 
20 
maggio 
2020 
dal 
Servizio 
Giuridico del maeCi. 
Codesta 
Direzione 
ha 
inoltre 
qui 
trasmesso 
l’appunto 
in 
oggetto, 
a 
tenore 
del 
quale 
“il 
d.lgs. 64 del 
13 aprile 
2017, “disciplina della scuola italiana 
all’estero”, non contiene 
alcuna disposizione 
ad hoc 
sulla gestione 
amministrativa 
degli 
immobili 
adibiti 
ad edifici 
scolastici 
all’estero. Così, il 
d.P.r. 


n. 18 del 
5 gennaio 1967. Pertanto la relativa disciplina deve 
essere 
individuata 
mediante integrazione analogica”. 

rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


Il Servizio giuridico evidenzia che: 


-l’art. 20, co. 2, del 
d. lgs 
n. 64/17 
si 
limita 
a 
collocare 
il 
dirigente 
scolastico 
fuori ruolo presso il MAECI; 
-l’art. 5, co. 2, affida 
al 
MAECI, sentita 
la 
sede, l’approvazione 
dei 
bilanci 
delle scuole; 
-la 
gestione 
amministrativa 
delle 
scuole 
all’estero 
sembra 
essere 
regolata 
dalle stesse regole applicabili alle rappresentanze diplomatiche e 


-al 
dirigente 
scolastico sono attribuiti 
gli 
stessi 
poteri 
del 
capo di 
ufficio 
all’estero; 
-l’art. 
13 
statuisce 
che 
“per 
gestire, 
coordinare 
e 
vigilare 
il 
sistema 
della 
formazione 
italiana 
nel 
mondo, 
la 
selezione 
e 
la 
destinazione 
all’estero 
del 
personale 
[…], nonché 
le 
ulteriori 
attività di 
cui 
al 
presente 
decreto legislativo, 
il 
Ministero degli 
affari 
esteri 
e 
della cooperazione 
internazionale 
e 
il 
Ministero dell’istruzione 
dell’università e 
della ricerca si 
avvalgono di 
dirigenti 
scolastici”; 


-l’art. 18, co. 2, prevede 
che 
i 
dirigenti 
scolastici 
“promuovono e 
coordinano 
le 
attività 
scolastiche 
[…] 
sulla 
base 
delle 
indicazioni 
del 
titolare 
della 
sede 
o del 
funzionario da lui 
delegato e 
in raccordo con gli 
istituti 
italiani 
di 
cultura”. 
ritiene 
il 
Servizio 
giuridico 
che, 
in 
base 
a 
tali 
disposizioni, 
sembra 
potersi 
dedurre 
che 
l’art. 5, co. 2, e 
l’art. 13 del 
d.lgs. 64/2017 tendano ad affidare 
i 
poteri 
di 
gestione 
amministrativa 
in 
prima 
battuta 
al 
dirigente 
scolastico, 
equiparato 
a un capo missione. 


Al 
contempo, l’art. 18, co. 2, e 
l’art. 13 prevedono delle 
prerogative 
in 
capo al 
titolare 
della 
sede 
o al 
funzionario da 
lui 
delegato, che, tuttavia, a 
parere 
del 
Servizio, sembrerebbero tradursi 
in meri 
poteri 
di 
vigilanza 
o al 
massimo 
di 
sovra-ordinazione 
funzionale, ma 
non anche 
di 
natura 
organizzativa, 
con 
la 
conseguenza 
che 
la 
titolarità 
primaria 
dei 
poteri 
di 
gestione 
e 
spesa, 
anche sugli immobili, resterebbe di competenza dei dirigenti scolastici. 


6.1) 
L’analisi 
delle 
disposizioni 
regolamentari 
e 
legislative 
applicabili 
nella 
specie 
e 
dei 
pareri 
resi 
dagli 
uffici 
competenti 
in 
materia 
induce 
a 
ritenere 
che 
il 
d.lgs 
n. 64/17 abbia 
profondamente 
inciso sulla 
posizione 
e 
sulle 
funzioni 
del 
dirigente 
scolastico 
all’estero, 
avendogli 
riconosciuto 
poteri 
di 
natura 
organizzativa, amministrativa 
e 
contabile 
analoghi 
a 
quelli 
attribuiti 
al 
capo 
missione 
(art. 5), nonchè 
tutte 
le 
funzioni 
previste 
dall’art. 13, mentre, in conformità 
alla 
ratio 
ispiratrice 
della 
legge 
64/17, 
l’art. 
18 
espressamente 
dispone 
che 
“quando i 
dirigenti 
scolastici 
sono assegnati 
ad ambasciate 
o uffici 
consolari 
agiscono sulla base 
delle 
indicazioni 
del 
titolare 
della sede”, per cui, 
argomentando 
a 
contrario, 
dovrebbe 
dedursi 
che 
quando 
sono 
invece 
assegnati 
a scuole statali all’estero 
non sono soggetti a tali indicazioni. 
Come 
sopra 
rilevato, l’art. 5, comma 
2, del 
d.lgs. 13 aprile 
2017, n. 64 



PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


stabilisce 
che 
“la gestione 
amministrativa e 
contabile 
delle 
scuole 
statali 
all’estero 
è 
regolata 
dalle 
disposizioni 
applicabili 
alle 
rappresentanze 
diplomatiche. 
i poteri 
attribuiti 
da dette 
disposizioni 
ai 
commissari 
amministrativi 
e 
ai 
capi 
di 
ufficio 
all’estero 
sono 
rispettivamente 
esercitati 
dal 
direttore 
dei 
servizi generali ed amministrativi e dal dirigente scolastico”. 


La 
risposta 
al 
quesito 
formulato 
-se 
il 
dirigente 
scolastico 
preposto 
ad 
una 
scuola 
statale 
all’estero sia 
o meno competente 
alla 
sottoscrizione 
di 
un 
contratto di 
locazione 
avente 
ad oggetto un immobile 
da 
adibire 
ad uso della 
scuola 
-dipende 
quindi 
in via 
preliminare 
dall’individuazione 
dei 
poteri 
attribuiti 
ai capi missione. 

Sul 
punto, 
appare 
pacifico 
che 
il 
capo 
missione 
abbia, 
nell’ambito 
dei 
poteri 
dirigenziali 
attribuiti 
dall’art. 101 d.P.r. n. 18/67, anche 
il 
potere 
di 
sottoscrivere 
contratti 
di 
locazione 
diretti 
ad acquisire 
la 
disponibilità 
di 
immobili 
da 
adibire 
ad uso della 
sede 
diplomatica, per cui 
non sembra 
sussistano valide 
ragioni 
per le 
quali 
i 
dirigenti 
scolastici, che, per disposto di 
legge, hanno gli 
stessi 
poteri, non dovrebbero avere 
anche 
quello di 
stipulare 
contratti 
di 
locazione 
riferiti 
al 
loro specifico ambito di 
competenza 
e, ancor prima, di 
effettuare 
le 
ricerche 
di 
mercato 
e 
condurre 
le 
trattative 
a 
tal 
fine 
preordinate, 
coadiuvati, per l’attività 
istruttoria, dal 
direttore 
dei 
servizi 
generali 
ed amministrativi. 


Né, in senso contrario, può deporre 
il 
fatto, evidenziato nella 
nota 
in riscontro, 
che 
non possa 
trovare 
nella 
specie 
applicazione 
l’art. 45, comma 
2, 
lettera 
c) del 
D.I. MIur n. 129/18 -che 
prevede 
la 
determinazione, da 
parte 
del 
consiglio d’istituto, dei 
criteri 
e 
dei 
limiti 
per lo svolgimento, da 
parte 
del 
dirigente 
scolastico, di 
attività 
negoziale 
in materia 
di 
locazione 
di 
immobili 


-in quanto tale 
organo collegiale 
nelle 
scuole 
statali 
all’estero non è 
previsto. 
È 
infatti 
evidente 
come 
la 
posizione 
giuridica 
del 
dirigente 
scolastico all’estero 
sia 
regolata 
da 
una 
disciplina 
-contenuta 
nella 
l. 
n. 
64/2017 
-peculiare 
e 
specifica 
rispetto 
a 
quella 
che 
regola 
la 
posizione 
giuridica 
del 
dirigente 
metropolitano, 
così 
che 
le 
due 
situazioni 
non 
sembrano 
essere 
completamente 
sovrapponibili. 


Se 
infatti 
in 
territorio 
metropolitano 
i 
poteri 
contrattuali 
del 
dirigente 
scolastico 
sono 
esercitabili 
nell’ambito 
dei 
criteri 
e 
dei 
limiti 
stabiliti 
dal 
consiglio 
d’istituto, 
l’assenza 
di 
tale 
organo 
nell’ordinamento 
delle 
scuole 
italiane 
all’estero 
è 
per così 
dire 
“supplita” 
dalle 
previsioni 
contenute 
negli 
artt. 79 e 
80 
del 
d.P.r. n. 18/67 che, come 
si 
dirà 
infra: 
v. paragrafo 6.2, rimettono all’Amministrazione 
centrale 
la 
fissazione 
dei 
criteri 
e 
dei 
limiti 
entro i 
quali 
il 
dirigente 
scolastico estero può esercitare i poteri negoziali dei quali è titolare. 

D’altro canto, se 
i 
dirigenti 
scolastici 
“esteri” 
hanno, al 
pari 
dei 
dirigenti 
scolastici 
“metropolitani” 
(v. 
art. 
25 
d.lgs. 
30 
marzo 
2001, 
n. 
165, 
in 
particolare 
il 
comma 
4), 
poteri 
gestionali 
e 
di 
spesa, 
deve 
logicamente 
ritenersi 
che 
a 
tali 
poteri 
si 
accompagnino 
necessariamente 
poteri 
negoziali, 
compreso 
quello 



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


di 
concludere 
contratti 
-passivi 
-dai 
quali 
derivino obbligazioni 
a 
carico del-
l’istituzione scolastica. 


Poteri 
che 
devono 
poi 
ritenersi 
propri 
ed 
esclusivi 
del 
dirigente 
scolastico, 
perché 
riferiti 
all’istituto 
scolastico 
al 
quale 
questi 
è 
preposto, 
come 
tali 
in 
alcun modo surrogabili, se 
non in via 
sostitutiva, in caso di 
inerzia 
o assenza 
del primo, da quelli - analoghi - del capo dell’ufficio estero. 


E 
conferma 
di 
ciò si 
rinviene 
nelle 
disposizioni 
del 
regolamento di 
cui 
al 


d.i. 28 agosto 2018, n. 129, in 
particolare 
nell’art. 43, che 
afferma 
la 
piena 
capacità 
ed autonomia 
negoziale e 
contrattuale delle istituzioni 
scolastiche, e 
nel 
combinato disposto degli 
artt. 44 e 
45, che 
individuano nel 
dirigente 
scolastico 
il 
soggetto titolato allo svolgimento, nei 
limiti 
stabiliti 
dalla 
normativa 
vigente 
in 
materia 
e 
nell’osservanza 
dei 
criteri 
e 
dei 
limiti 
fissati 
dal 
Consiglio 
d’istituto, 
dell’attività 
negoziale, 
segnatamente 
e 
per 
quanto 
qui 
specificamente 
interessa, di 
quella 
relativa 
alla 
locazione 
di 
immobili 
e 
alla 
utilizzazione, da 
parte 
di 
soggetti 
terzi, di 
locali 
appartenenti 
alla 
istituzione 
scolastica 
o in uso 
alla medesima. 
Alla 
luce 
di 
tali 
osservazioni 
questa 
Avvocatura 
concorda 
quindi 
con il 
parere 
reso dal 
Servizio giuridico, nel 
senso che 
rientra 
tra 
le 
competenze 
del 
dirigente 
scolastico all’estero la 
sottoscrizione 
di 
contratti 
di 
locazione 
di 
immobili 
ad uso scolastico, e 
ciò in virtù di 
poteri 
propri 
legislativamente 
attribuiti. 


6.2) 
Tale 
soluzione 
comporta 
la 
necessità 
di 
affrontare 
il 
problema 
del 
coordinamento di 
tali 
poteri 
del 
dirigente 
scolastico con le 
disposizioni 
di 
cui 
agli 
artt. 
79 
e 
80 
del 
d.P.r. 
5 
gennaio 
1967, 
n. 
18 
i 
quali 
dettano 
una 
specifica 
disciplina 
(anche) 
per 
i 
beni 
immobili 
situati 
all’estero, 
prevedendo 
specifiche 
competenze 
di 
organi 
ed uffici 
dell’Amministrazione 
centrale 
anche 
relativamente 
alla 
locazione 
degli 
stessi, 
ed 
in 
particolare 
con 
l’art. 
80 
d.P.r. 
n. 
18/67 
che, 
per 
quanto 
riguarda 
la 
locazione 
di 
immobili 
all’estero, 
disciplina 
la 
competenza 
esclusiva 
del 
MAECI, 
per 
il 
tramite 
della 
Commissione 
per 
gli 
immobili, 
la 
quale 
“esprime 
al 
Ministro 
parere 
circa 
la 
scelta, 
l'acquisto, 
la 
costruzione, 
il 
riattamento, 
la 
locazione 
e 
l'arredamento 
degli 
immobili 
all'estero 
per 
uffici, residenze 
e 
sedi 
di 
istituti 
scolastici 
e 
culturali 
o comunque 
necessari all'amministrazione”. 
L’art. 
79 
individua 
le 
Direzioni 
generali 
competenti, 
tramite 
i 
loro 
uffici, 
ad 
attendere 
“alle 
questioni” 
relative, 
tra 
l’altro, 
“alla 
locazione 
degli 
immobili 
all’estero destinati 
a uffici 
e 
residenze” 
-ma 
le 
scuole 
non sono né 
“uffici” 
né 
“residenze” 
-e, più genericamente, degli 
immobili 
“comunque 
necessari 
al-
l’attività dell’amministrazione” o “destinati ad attività all’estero”. 


L’art. 80, invece, prevede, più specificamente, e 
come 
s’è 
già 
detto, l’intervento 
di 
una 
Commissione 
consultiva 
nel 
caso di 
locazione 
di 
immobili 
all’estero 
da destinare, fra l’altro, a “sedi di istituti scolastici”. 



PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


Premesso che 
la 
questione 
riguarda, a 
ben vedere, anche 
i 
capi 
missione 


-cui 
i 
dirigenti 
scolastici 
sono equiparati 
per quanto attiene 
alla 
gestione 
amministrativa 
e 
contabile 
delle 
scuole 
-, si 
ritiene 
che 
tali 
disposizioni 
non interferiscano 
con 
la 
specifica 
competenza 
del 
dirigente 
scolastico 
alla 
locazione 
degli 
immobili 
da 
destinare 
a 
sede 
della 
scuola, qualora 
si 
tenga 
opportunamente 
distinto il 
profilo programmatorio/autorizzatorio 
da 
quello più specificamente 
operativo/gestionale: 
nel 
senso che 
la 
ricerca, l’individuazione, 
la 
trattativa 
e 
la 
stipula 
del 
contratto di 
locazione 
da 
parte 
del 
dirigente 
scolastico 
dovranno 
svolgersi, 
previo 
parere 
della 
Commissione 
consultiva, 
nel 
quadro 
delle 
linee 
programmatiche 
e 
delle 
direttive 
impartite 
dai 
competenti 
uffici 
dell’Amministrazione 
centrale, in costante 
raccordo con gli 
stessi 
e 
solo a 
seguito 
di autorizzazione da parte di questi. 
In tal 
senso dovrà 
perciò essere 
intesa 
la 
locuzione 
(cfr. art. 79, comma 
1, 
d.P.r. 
n. 
18/67): 
“attende 
… 
alle 
questioni 
relative 
… 
alla 
locazione”, 
la 
quale 
identifica, all’evidenza, un’attività 
di 
supervisione 
e 
di 
coordinamento 
diversa dalla semplice ricerca e locazione dell’immobile. 


Tale 
conclusione 
sembra 
anche 
conforme 
al 
disposto 
dell’art. 
625, 
comma 
2, d.lgs. 16 aprile 
1994, n. 297, secondo cui 
“l’azione 
dello stato nei 
riguardi 
delle 
scuole 
e 
delle 
altre 
istituzioni 
educative 
di 
cui 
al 
comma 1 è 
esercitata 
dal MaeCi per mezzo degli 
agenti diplomatici e consolari”. 


7) 
Con il 
secondo quesito prospettato, codesta 
Direzione 
chiede 
di 
conoscere 
il 
parere 
della 
Scrivente 
circa 
le 
modalità 
con cui 
la 
gestione 
di 
un immobile 
appartenente 
al 
patrimonio dello Stato italiano possa 
essere 
conferita 
ad un dirigente scolastico all’estero. 
Sul 
punto, il 
Servizio giuridico, evidenziato che, in materia 
di 
edifici 
di 
proprietà 
pubblica, l’art. 29 del 
DI MIur n. 129/2018 fa 
espressamente 
salve 
le 
“disposizioni 
degli 
enti 
proprietari” 
e 
che 
tale 
norma 
è 
applicabile 
agli 
immobili 
comunali 
e 
provinciali 
(scuole 
primarie 
e 
secondarie), osserva 
che 
“in 
virtù 
di 
una 
interpretazione 
estensiva, 
il 
disposto 
in 
parola 
potrebbe 
valere 
pure 
per 
gli 
immobili 
dello 
stato, 
tra 
cui 
rientrano 
gli 
immobili 
adibiti 
a 
scuola 
all’estero, 
la 
cui 
proprietà 
non 
è 
dell’agenzia 
del 
demanio 
ma 
delle 
sedi, 
fatto 
salvo il coordinamento di dGai”. 


Codesta 
Direzione 
non chiarisce 
in base 
a 
quale 
disposizione 
si 
affermi 
la proprietà di tali immobili in capo alle Sedi. 
In ogni 
caso -e 
fermo che 
comunque 
ai 
fini 
della 
soluzione 
del 
quesito 
proposto è 
indifferente 
individuare 
quale 
sia 
il 
soggetto proprietario del 
bene 


-si 
osserva 
che, in linea 
generale 
e 
salve 
diverse 
disposizioni 
specificamente 
riferite 
al 
Ministero 
degli 
Esteri, 
anche 
per 
il 
MAECI 
dovrebbe 
valere 
la 
regola 
generale 
fissata 
dall’art. 1 del 
r.d. 18 novembre 
1923, n. 2240 -legge 
di 
contabilità 
generale 
dello 
Stato 
-, 
che 
individua 
nel 
Ministero 
dell’Economia 
e 
delle 
Finanze 
il 
titolare 
del 
diritto di 
proprietà 
dei 
beni 
immobili 
dello Stato i 

rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


quali 
sono poi 
concessi 
in uso gratuito (così, d’altra 
parte, dispone 
l’art. 79, 
comma 
3, 
d.P.r. 
n. 
18/67) 
all’Amministrazione 
dalla 
quale 
dipende 
il 
servizio 
governativo cui sono assegnati. 


Ciò dovrebbe 
riguardare 
anche 
gli 
immobili 
statali 
ubicati 
all’estero adibiti 
ad edifici 
scolastici, che 
il 
Ministero degli 
Esteri, assegnatario ed usuario 
degli 
immobili, assegna 
a 
sua 
volta 
in uso, con un provvedimento amministrativo, 
al 
dirigente 
scolastico (rectius: 
alla 
scuola 
e, per essa, al 
dirigente) 
preposto all’istituto scolastico cui ciascuno di essi è destinato. 


La 
relazione 
che 
intercorre 
tra 
il 
Ministero 
e 
la 
singola 
Scuola 
deve 
quindi 
correttamente 
qualificarsi 
come 
una 
relazione 
interorganica e 
non 
intersoggettiva. 


Analogamente 
a 
quanto accade 
in territorio metropolitano -a 
mente 
del-
l’art. 
4, 
comma 
2, 
del 
d.lgs. 
n. 
64/2017, 
le 
scuole 
statali 
all’estero 
conformano 
infatti 
il 
proprio ordinamento a 
quello delle 
corrispondenti 
scuole 
del 
sistema 
nazionale 
italiano di 
istruzione 
e 
formazione 
-, le 
istituzioni 
scolastiche 
e 
gli 
istituti 
educativi 
sono organi 
dello Stato, anche 
se 
muniti 
di 
personalità 
giuridica 
e 
autonomia 
didattica, 
organizzativa, 
finanziaria 
ed 
amministrativa 
(v. 
l’art. 
21 
della 
l. 
15 
marzo 
1997, 
n. 
59 
e 
il 
regolativo 
regolamento 
di 
attuazione 
di cui al d.P.r. 8 marzo 1999, n. 275). 


La 
giurisprudenza 
-(cfr. tra 
tante, C.d.S., sez. VI, n. 3202/2015 e 
Cass. 


n. 
19158/2012) 
-ha 
al 
riguardo 
chiarito 
che 
la 
personalità 
giuridica 
delle 
scuole 
è 
rilevante 
nei 
soli 
confronti 
dei 
terzi, essendo finalizzata 
all’imputazione 
alla 
scuola 
prima 
di 
tutto dell’attività 
negoziale 
posta 
in essere 
dai 
suoi 
organi 
-in primis, dal 
dirigente 
scolastico, che 
ne 
ha 
la 
legale 
rappresentanza 
(v. art. 25, comma 
2, d.lgs. n. 165/2001) -in funzione 
di 
una 
maggiore 
agilità 
di 
azione: 
ferma 
restando 
la 
natura 
di 
organo 
dello 
Stato, 
sia 
pure 
personificato 
ed autonomo. 
Le 
istituzioni 
educative 
statali, 
pur 
essendo 
munite 
di 
personalità 
giuridica 
autonoma, conservano perciò la 
natura 
di 
organi 
periferici 
dello Stato, stabilmente 
inseriti 
nell’organizzazione 
statale 
(così 
C.d.S., sez. VI, n. 8081/2019), 
come 
risulta 
del 
resto confermato dall’imputazione 
allo Stato di 
almeno una 
parte 
dei 
loro atti, dallo status 
del 
relativo personale, in particolare 
di 
quello 
docente 
che 
appartiene 
ai 
ruoli 
statali 
e 
dalla 
fonte 
(statale) del 
loro finanziamento 
-(sul 
punto, in senso conforme 
si 
è 
espressa 
la 
Scrivente 
con parere 
n. 
30282/2005). 


Ne 
consegue 
perciò che 
la 
relazione 
tra 
lo Stato e 
le 
scuole 
-comprese 
quelle 
all’estero -continua 
ad atteggiarsi, come 
detto, in termini 
di 
relazione 
interorganica, 
mentre 
quella 
tra 
le 
scuole 
e 
i 
terzi 
si 
configura, 
in 
ragione 
della 
personalità 
giuridica 
della 
quale 
le 
prime 
sono munite, in termini 
di 
relazione 
intersoggettiva. 


Tali 
considerazioni 
risultano 
ad 
avviso 
della 
Scrivente 
dirimenti 
ai 
fini 
della soluzione degli ulteriori quesiti proposti. 



PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


Se 
la 
relazione 
tra 
lo Stato -Ministero/Sede 
diplomatica 
-e 
la 
Scuola 
è 
una 
relazione 
interorganica, è 
evidente 
che 
l’assegnazione 
al 
dirigente 
scolastico 
della 
gestione 
dell’edificio di 
proprietà 
statale 
dovrà 
avvenire, come 
anticipato 
e 
come 
accade 
in tutti 
i 
casi 
in cui 
un’Amministrazione 
assegna 
beni 
(ai 
preposti) ai 
propri 
organi, sulla 
base 
ed in forza 
di 
un provvedimento amministrativo 
-di 
assegnazione, appunto -, autonomo o eventualmente 
contenuto 
nello 
stesso 
verbale 
di 
consegna 
che 
dovrà 
comunque 
identificare 
e 
descrivere il bene, le sue condizioni e il suo stato di manutenzione. 


In questo senso, il 
riferimento operato dal 
Servizio giuridico alla 
disciplina 
codicistica 
del 
contratto di 
comodato -non ulteriormente 
qualificabile 
come 
comodato “d’uso” 
posto che, per definizione, il 
comodato è 
proprio un 
contratto 
traslativo 
dell’uso 
di 
una 
cosa 
-, 
riferimento 
che 
non 
sembra 
neanche 
contenuto 
nella 
deliberazione 
della 
Corte 
dei 
Conti 
citata 
dal 
Servizio 
giuridico 
(Corte 
dei 
conti, Sez. reg. Contr. Lombardia, n. 172/2014), può avere 
unicamente 
la 
funzione 
di 
individuare 
il 
criterio di 
riparto delle 
spese 
di 
manutenzione, 
con 
riserva 
di 
quelle 
straordinarie, 
funzionali 
alla 
conservazione, 
a 
carico del 
Ministero “proprietario” 
-rectius: 
assegnatario -del 
bene 
e 
accollo 
di 
quelle 
ordinarie 
alla 
Scuola, 
in 
quanto 
conseguenti 
e 
funzionali 
all’uso 
dello 
stesso da parte di questa. 


8) 
Con 
il 
terzo 
quesito, 
codesta 
Direzione 
chiede 
di 
sapere 
se 
un 
dirigente 
scolastico, 
che 
gestisce 
una 
scuola 
statale 
ubicata 
in 
un 
immobile 
appartenente 
al 
patrimonio 
dello 
Stato, 
possa 
concedere 
in 
comodato 
a 
terzi 
parte 
dei 
locali, 
in luogo dell’Ambasciata o del Consolato di riferimento. 
Quanto 
sopra 
osservato 
consente 
di 
risolvere 
anche 
l’ulteriore 
quesito 
posto da codesta Direzione. 


Ed 
infatti, 
se 
la 
relazione 
tra 
la 
Scuola 
e 
i 
terzi 
è 
-in 
ragione 
della 
soggettività 
giuridica 
della 
quale 
l’istituzione 
educativa 
è 
munita: 
e, 
sotto 
questo 
profilo, 
non 
vi 
è 
invero 
motivo 
di 
distinguere 
tra 
scuole 
“metropolitane” 
e 
scuole 
“estere” 
-una 
relazione 
intersoggettiva, 
è 
allora 
altrettanto 
evidente 
che 
l’attribuzione 
a 
terzi 
del 
godimento 
di 
parte 
dei 
locali 
assegnati 
potrà 
avvenire 
solo 
se 
e 
nella 
misura 
in 
cui 
il 
provvedimento 
di 
assegnazione 
lo 
consenta 
e 
nella 
forma 
-concessione 
amministrativa 
o 
contratto 
di 
locazione 
-coerente 
con 
la 
natura 
pubblica 
(demaniale 
o 
patrimoniale 
indisponibile) 
o 
privata 
(patrimoniale 
disponibile) 
del 
bene 
del 
quale 
di 
volta 
in 
volta 
si 
tratta: 
fermo 
restando 
che, 
in 
considerazione 
del 
generale 
principio 
di 
redditività 
dei 
beni 
pubblici, 
richiamato 
nella 
citata 
deliberazione 
della 
Corte 
dei 
Conti, 
la 
concessione 
dovrà 
essere, 
di 
regola, 
onerosa 
e 
potrà 
solo 
in 
via 
eccezionale 
essere gratuita. 


Va 
da 
sé 
che, 
alla 
luce 
delle 
considerazioni 
che 
precedono, 
la 
competenza 
alla 
concessione 
a 
terzi 
del 
godimento di 
parte 
dei 
locali 
della 
scuola 
spetta 
al 
dirigente 
scolastico, trattandosi 
di 
atto gestorio delle 
risorse 
materiali 
-beni 
a 
lui assegnate. 



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


Il 
presente 
parere 
viene 
esteso al 
MIur che, invitato dalla 
Scrivente 
ad 
interloquire sulla questione, non ha ritenuto di far pervenire osservazioni. 
Sulla 
questione 
è 
stato sentito il 
Comitato Consultivo che 
si 
è 
espresso in 
conformità nella seduta in video conferenza del 12 novembre 2020. 



PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


obbligazioni pecuniarie della pubblica amministrazione: 
risarcimento delle spese sostenute per il recupero dei crediti 
ai sensi dell’art. 6, d.Lgs n. 231/2002 e successive modifiche 


Parere 
del 
23/02/2021-122186, al 45810/2020, aVV. eManuele 
Feola 


Con 
la 
nota 
in 
riscontro, 
codesta 
Amministrazione 
ha 
chiesto 
alla 
Scrivente 
di 
esprimere 
il 
proprio 
parere 
in 
merito 
all'ambito 
di 
applicazione 
oggettivo 
dell'art. 
6 
del 
decreto 
legislativo 
9 
ottobre 
2002, 
n. 
231, 
così 
come 
sostituito 
dall'art. 
1, 
comma 
1, 
lett. 
f), 
del 
decreto 
legislativo 
9 
novembre 
2012, 
n. 
192. 


In particolare, si 
è 
chiesto di 
chiarire 
i 
presupposti 
in presenza 
dei 
quali 
la 
disposizione 
citata 
attribuisce 
al 
creditore 
il 
diritto a 
riscuotere, oltre 
agli 
interessi 
moratori, 
anche 
i 
costi 
di 
recupero 
forfetari, 
quantificati 
dal 
legislatore 
nella somma di 40 euro. 


Preliminarmente, 
si 
precisa 
che 
il 
quesito 
sottoposto 
all'esame 
della 
Scrivente 
concerne 
esclusivamente 
le 
obbligazioni 
pecuniarie 
della 
pubblica 
amministrazione 
che 
rientrano 
nell'ambito 
di 
applicazione 
del 
decreto 
legislativo 
9 
ottobre 
2002 
n. 
231, 
intitolato 
"attuazione 
della 
direttiva 
2000/35/Ce 
relativa 
alla 
lotta 
contro 
i 
ritardi 
di 
pagamento 
nelle 
transazioni 
commerciali". 


Pertanto, 
il 
presente 
parere 
si 
riferisce 
ai 
soli 
pagamenti 
effettuati 
"a 
titolo 
di 
corrispettivo 
in 
una 
transazione 
commerciale" 
(art. 
1, 
comma 
1, 
enfasi 
aggiunte). 


In 
relazione 
a 
tale 
fattispecie, 
l'art. 
6, 
rubricato 
"risarcimento 
delle 
spese 
di 
recupero", 
stabilisce 
che 
-nei 
casi 
in 
cui 
il 
debitore 
non 
dimostri 
che 
il 
ritardo 
nel 
pagamento 
del 
prezzo 
è 
stato 
determinato 
dall'impossibilità 
della 
prestazione 
derivante 
da 
causa 
a 
lui 
non 
imputabile 
-il 
creditore 
ha 
diritto, 
oltre 
alla 
corresponsione 
degli 
interessi 
moratori 
(art. 
3), 
"anche 
al 
rimborso 
dei 
costi 
sostenuti 
per 
il 
recupero 
delle 
somme 
non 
tempestivamente 
corrisposte" 
(comma 
1). 


Gli 
anzidetti 
costi 
di 
recupero 
sono 
dovuti, 
senza 
che 
sia 
necessaria 
la 
costituzione 
in mora 
del 
debitore, nell'importo forfettario di 
40 euro, tuttavia, 
resta 
salva 
per 
il 
creditore 
la 
possibilità 
di 
fornire 
la 
prova 
del 
maggior 
danno 
subito, comprensivo -inter 
alia 
-dei 
costi 
di 
assistenza 
sostenuti 
per recuperare 
il credito insoluto (comma 2). 


Le 
disposizioni 
in esame 
hanno recepito nell'ordinamento interno l'art. 6 
della 
direttiva 
2011/7/ue 
del 
Parlamento 
europeo 
e 
del 
Consiglio 
del 
16 
febbraio 2011, "relativa alla lotta contro i 
ritardi 
di 
pagamento nelle 
transazioni 
commerciali". 


Tale 
articolo, intitolato "risarcimento delle 
spese 
di 
recupero", obbliga 
gli 
Stati 
membri 
ad assicurare 
che, nei 
casi 
in cui 
siano esigibili 
gli 
interessi 
di 
mora, 
il 
creditore 
abbia 
anche 
il 
diritto 
alla 
corresponsione, 
da 
parte 
del 
debitore, 
di un importo forfettario minimo 
di 40 euro (paragrafo 1). 


Inoltre, 
gli 
Stati 
membri 
sono 
tenuti 
a 
garantire 
che 
l'importo 
in 
questione 



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


sia 
esigibile 
senza 
necessità 
di 
sollecito 
a 
titolo 
di 
risarcimento 
forfetario 
dei 
costi di recupero sostenuti dal creditore (paragrafo 2). 


La 
disposizione 
precisa 
che 
l'importo 
de 
quo 
è 
un 
importo 
minimo, 
in 
quanto, ai 
sensi 
del 
paragrafo 3, resta 
fermo il 
diritto del 
creditore 
ad "esigere 
dal 
debitore 
un risarcimento ragionevole 
per 
ogni 
costo di 
recupero che 
ecceda 
tale 
importo forfettario", come 
-a 
titolo esemplificativo -le 
spese 
derivanti 
dall'affidamento dell'incarico 
a 
un avvocato 
oppure 
ad una 
società di 
recupero crediti. 


La 
ratio 
delle 
disposizioni 
in esame 
è 
esplicitata 
nel 
preambolo 
della 
direttiva, 
dove si chiarisce che: 


a) 
"i ritardi 
di 
pagamento costituiscono una violazione 
contrattuale 
resa 
finanziariamente 
attraente 
per 
i 
debitori 
nella 
maggior 
parte 
degli 
stati 
membri 
dai 
bassi 
livelli 
dei 
tassi 
degli 
interessi 
di 
mora applicati 
o dalla loro assenza 
e/o 
dalla 
lentezza 
delle 
procedure 
di 
recupero. 
È 
necessario 
un 
passaggio deciso verso una cultura dei 
pagamenti 
rapidi, in cui, tra l'altro, 
l'esclusione 
del 
diritto di 
applicare 
interessi 
di 
mora sia sempre 
considerata 
una clausola o prassi 
contrattuale 
gravemente 
iniqua, per 
invertire 
tale 
tendenza 
e 
per 
disincentivare 
i 
ritardi 
di 
pagamento. 
Tale 
passaggio 
dovrebbe 
inoltre 
includere 
l'introduzione 
di 
disposizioni 
specifiche 
sui 
periodi 
di 
pagamento 
e 
sul 
risarcimento dei 
creditori 
per 
le 
spese 
sostenute 
e 
prevedere, tra 
l'altro, 
che 
l'esclusione 
del 
diritto 
al 
risarcimento 
dei 
costi 
di 
recupero 
sia 
presunta 
essere gravemente iniqua" (considerando n. 12); 
b) 
"un risarcimento equo dei 
creditori, relativo ai 
costi 
di 
recupero sostenuti 
a 
causa 
del 
ritardo 
di 
pagamento, 
serve 
a 
disincentivare 
i 
ritardi 
di 
pagamento. 
Tra 
i 
costi 
di 
recupero 
dovrebbero 
essere 
inclusi 
anche 
i 
costi 
amministrativi 
ei 
costi 
interni 
causati 
dal 
ritardo di 
pagamento, per 
i 
quali 
la 
presente 
direttiva dovrebbe 
determinare 
un importo minimo forfettario 
che 
possa 
cumularsi 
agli 
interessi 
di 
mora. 
Il 
risarcimento 
sotto 
forma 
di 
importo 
forfettario dovrebbe 
mirare 
a limitare 
i 
costi 
amministrativi 
e 
i 
costi 
interni 
legati 
al 
recupero. 
il 
risarcimento 
delle 
spese 
di 
recupero 
dovrebbe 
essere 
determinato 
fatte 
salve 
le 
disposizioni 
nazionali 
in 
base 
alle 
quali 
l'autorità 
giurisdizionale 
nazionale 
può 
concedere 
al 
creditore 
un 
risarcimento 
per 
eventuali 
danni 
aggiuntivi 
connessi 
al 
ritardo 
di 
pagamento 
del 
debitore" 
(considerando n. 19, enfasi aggiunte); 
c) 
"oltre 
ad avere 
diritto al 
pagamento di 
un importo forfettario per 
coprire 
i 
costi 
interni 
legati 
al 
recupero, 
il 
creditore 
dovrebbe 
poter 
esigere 
anche 
il 
risarcimento delle 
restanti 
spese 
di 
recupero sostenute 
a causa del 
ritardo 
di 
pagamento 
del 
debitore. 
Tali 
spese 
dovrebbero 
comprendere, 
in 
particolare, 
le 
spese 
sostenute 
dal 
creditore 
per 
aver 
affidato 
un 
incarico 
a 
un avvocato 
o a un'agenzia di 
recupero crediti" 
(considerando n. 20, enfasi 
aggiunte). 
Dunque, 
l'obiettivo 
perseguito 
dal 
legislatore 
sovranazionale 
è 
quello 
di 



PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


apprestare 
efficaci 
strumenti 
di 
contrasto 
contro 
il 
ritardo 
dei 
pagamenti 
nelle 
transazioni 
commerciali: 
ritardi 
che 
costituiscono, ai 
sensi 
del 
considerando 


n. 
12, 
una 
violazione 
contrattuale 
resa 
finanziariamente 
attraente 
per 
i 
debitori 
dai 
bassi 
livelli 
dei 
tassi 
degli 
interessi 
di 
mora 
applicati 
oppure 
dalla 
loro assenza 
(cfr. 
Corte 
di 
Giustizia 
uE, 
sentenza 
del 
16 
febbraio 
2017, 
causa 
C555/
14, punto 24). 
In 
altri 
termini, 
la 
direttiva 
in 
esame 
ha 
lo 
scopo 
di 
tutelare 
efficacemente 
i 
creditori 
contro i 
ritardi 
di 
pagamento (cfr. Corte 
di 
Giustizia 
uE, sentenza 
del 
15 dicembre 
2016, causa 
C-256/15, punto 50) e 
tale 
tutela 
implica 
necessariamente 
il 
diritto 
dei 
medesimi 
creditori 
a 
conseguire 
l'integrale 
ristoro 
delle 
spese 
di 
recupero che 
hanno sostenuto (cfr. Corte 
di 
Giustizia 
uE, sentenza 
del 13 settembre 2018, causa C-287/17, punto 26). 


Tuttavia, 
i 
predetti 
creditori 
potrebbero 
incontrare 
delle 
difficoltà 
-sul 
piano probatorio 
-nel 
fornire 
una 
esatta 
quantificazione 
dei 
costi 
sostenuti 
per il 
recupero del 
credito, qualora 
si 
tratti 
di 
costi 
amministrativi 
o, comunque, 
di 
costi interni all'organizzazione aziendale. 


Per 
questa 
ragione, 
il 
considerando 
n. 
19 
prevede 
l'introduzione 
di 
un 
importo 
forfettario 
minimo, 
il 
cui 
obiettivo 
è 
proprio 
quello 
di 
coprire 
tali 
costi, 
esonerando il 
creditore 
dall'onere 
della 
relativa 
prova 
mediante 
la 
previsione 
di una 
presunzione 
iuris et de iure. 


Naturalmente, 
per 
il 
recupero 
del 
credito, 
potrebbero 
essere 
sostenuti 
costi 
ben superiori 
a 
quello forfetario minimo, soprattutto ove 
il 
creditore 
sia 
costretto 
a 
rivolgersi 
ad un professionista 
esterno all'impresa 
oppure 
ad una 
società 
di recupero crediti. 


In questi 
casi, il 
considerando n. 20 prevede 
la 
possibilità 
per il 
creditore 
di 
pretendere 
anche 
il 
pagamento di 
tali 
ulteriori 
spese, ma 
-conformemente 
alle 
regole 
ordinarie 
in materia 
di 
riparto dell'onere 
probatorio -è 
richiesta 
la 
prova 
del danno subito. 


In considerazione 
delle 
finalità 
indicate 
nel 
preambolo e 
del 
tenore 
letterale 
dell'art. 6, la 
Corte 
di 
Giustizia dell'unione 
europea 
ha 
dichiarato che 
l'anzidetto articolo "deve 
essere 
interpretato nel 
senso che 
riconosce 
al 
creditore, 
che 
chiede 
il 
risarcimento 
delle 
spese 
derivanti 
dai 
solleciti 
inviati 
al 
debitore 
a causa del 
ritardo di 
pagamento di 
quest'ultimo, il 
diritto di 
ottenere, 
a tale 
titolo, oltre 
all'importo forfettario di 
eur 
40 previsto al 
paragrafo 1 
del 
suddetto articolo, un risarcimento ragionevole, ai 
sensi 
del 
paragrafo 3 
dello stesso articolo, per 
la parte 
di 
tali 
spese 
che 
eccede 
tale 
importo forfettario" 
(cfr. sentenza del 13 settembre 2018, causa C-287/17, cit., punto 38). 


Siffatto principio di 
diritto è 
stato enunciato dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
nel-
l'ambito 
di 
un 
procedimento 
principale 
avente 
ad 
oggetto 
il 
recupero 
-da 
parte 
di 
una 
compagnia 
assicurativa 
-dei 
premi 
dovuti 
dal 
debitore 
per 
il 
periodo 
intercorrente 
tra il 
7 novembre 
2014 e 
il 
25 febbraio 2015, rimasti 
insoluti 
nonostante i 
numerosi solleciti 
di pagamento. 



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


In 
particolare, 
il 
giudice 
nazionale 
chiedeva 
al 
giudice 
europeo 
di 
chiarire 
se 
-in tale 
ipotesi 
-il 
creditore 
avesse 
diritto al 
solo rimborso dei 
costi 
di 
recupero 
forfetari 
quantificati 
dall'art. 6, paragrafo 2, in 40 euro oppure 
se 
potesse 
cumulare 
tale 
importo con quello previsto col 
diritto nazionale, che 
già 
prevedeva 
la 
possibilità 
-per il 
creditore 
-di 
ripetere 
le 
spese 
sostenute 
per 
sollecitare l'adempimento dell'obbligazione. 


Ebbene, nel 
fornire 
la 
soluzione 
al 
quesito, la 
Corte 
di 
Giustizia 
ha 
precisato 
che 
"il 
summenzionato paragrafo 1 si 
riferisce 
solo al 
diritto del 
creditore 
di 
ottenere, 
come 
minimo, 
un 
importo 
forfettario 
di 
eur 
40. 
inoltre, 
il 
paragrafo 
2 
del 
menzionato 
articolo 
6 
impone 
agli 
stati 
membri 
di 
assicurare, 
da 
un 
lato, 
che 
l'importo 
forfettario 
sia 
dovuto 
automaticamente, 
anche 
senza 
un sollecito al 
debitore, e, dall'altro, che 
costituisca un risarcimento del 
creditore 
per 
i 
costi 
di 
recupero da esso sostenuti 
[...]. Per 
quanto riguarda il 
paragrafo 
3 
dello 
stesso 
articolo 
6, 
esso 
stabilisce 
che 
il 
creditore 
ha 
il 
diritto 
di 
chiedere 
al 
debitore, oltre 
all'importo forfettario di 
cui 
al 
paragrafo 1 del 
medesimo articolo, un risarcimento ragionevole 
per 
ogni 
costo di 
recupero 
che 
ecceda 
tale 
importo. 
[...] 
al 
riguardo, 
si 
deve 
rilevare, 
da 
un 
lato, 
che, 
utilizzando 
all'articolo 
6, 
paragrafo 
3, 
della 
direttiva 
2011/7 
l'espressione 
«che 
ecceda 
tale 
importo», 
il 
legislatore 
dell'unione 
ha 
inteso 
sottolineare 
che 
possono 
pertanto costituire 
oggetto di 
un risarcimento ragionevole 
i 
costi 
di 
recupero, 
di 
qualunque 
entità, 
che 
eccedono 
l'importo 
di 
eur 
40" 
(punti 
20-22, 
enfasi aggiunte). 


La 
Corte 
-inoltre 
-rammenta 
che 
"la direttiva 2011/7 sostituisce 
la direttiva 
2000/35/Ce 
del 
Parlamento 
europeo 
e 
del 
Consiglio, 
del 
29 
giugno 
2000, relativa alla lotta contro i 
ritardi 
di 
pagamento nelle 
transazioni 
commerciali 
[...], il 
cui 
articolo 3, paragrafo 1, lettera e), prevedeva che 
il 
creditore 
aveva diritto a un 
risarcimento ragionevole 
per 
tutti 
i 
costi 
di 
recupero 
sostenuti 
a 
causa 
del 
ritardo 
di 
pagamento 
del 
debitore" 
(punto 
28, 
enfasi 
aggiunte). 


Pertanto, 
"dal 
momento 
che 
nulla 
indica 
che 
il 
legislatore 
dell'unione 
abbia 
inteso, 
adottando 
la 
direttiva 
2011/7, 
ridurre 
la 
tutela 
accordata 
al 
creditore 
dalla 
direttiva 
2000/35, 
sarebbe 
incoerente 
ritenere 
che 
in 
vigenza 
della 
direttiva 2011/7 il 
creditore 
possa ottenere 
solo limitatamente 
a eur 
40 un 
risarcimento dei 
costi 
derivanti 
dai 
solleciti 
inviati 
al 
debitore 
a causa del 
ritardo di 
pagamento 
di 
quest'ultimo, anche 
qualora detti 
costi 
siano 
più 
elevati, 
mentre 
avrebbe 
potuto 
ottenere 
un 
risarcimento 
ragionevole 
e, 
se 
del 
caso, superiore 
a tale 
importo in vigenza della direttiva 2000/35" 
(punto 29, 
enfasi aggiunte). 


Tuttavia, pur enunciando il 
principio di 
diritto sopra 
richiamato, i 
giudici 
europei 
hanno ritenuto opportuno precisare 
che 
"poiché 
il 
risarcimento previsto 
all'articolo 6, paragrafo 3, della direttiva 2011/7 deve 
essere 
ragionevole 
esso non 
può comprendere 
né 
la parte 
di 
tali 
costi 
già coperta dall’importo 



PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


forfettario di 
EUR 40 
di 
cui 
al 
paragrafo 1 dello stesso articolo, né 
costi 
che 
appaiano 
eccessivi 
tenuto 
conto 
di 
tutte 
le 
circostanze 
del 
caso 
di 
specie" 
(punto 30, enfasi aggiunte). 


Dall'esame dell'iter 
motivazionale seguito dalla 
Corte 
di 
Giustizia, 
si 
evincono i seguenti elementi: 


a) 
la 
somma 
forfettaria 
di 
40 euro è 
tesa 
a 
compensare 
i 
costi 
di 
recupero 
del 
credito a prescindere 
dal 
numero di 
solleciti 
inviati 
al 
debitore 
e 
dal 
numero 
delle rate rimaste insolute; 
b) 
il 
creditore 
potrebbe 
-in concreto -aver sostenuto costi 
maggiori 
rispetto 
all'importo forfetario di 
cui 
alla 
lett. a) e, in tal 
caso, potrà 
chiedere 
tali 
spese nella parte eccedente la predetta somma forfetaria; 
c) 
in ogni 
caso, il 
risarcimento in questione 
deve 
essere 
"ragionevole" 
e, 
pertanto, esso non può comprendere 
né 
la 
parte 
dei 
costi 
già 
coperta 
dall'importo 
forfettario 
di 
40 
euro 
né 
i 
costi 
che 
appaiano 
eccessivi 
tenuto 
conto 
della 
fattispecie concreta. 
Dunque, è 
alla 
luce 
di 
tale 
approdo ermeneutico che 
occorre 
interpretare 
anche 
la 
disposizione 
nazionale 
con la 
quale 
il 
legislatore 
italiano ha 
recepito 
la normativa sovranazionale. 


Come 
anticipato, 
si 
tratta 
dell'art. 
6 
del 
decreto 
legislativo 
9 
ottobre 
2002, 


n. 
231, 
così 
come 
sostituito 
dall'art. 
1, 
comma 
1, 
lett. 
f), 
del 
decreto 
legislativo 
9 novembre 
2012, n. 192, applicabile 
ai 
contratti 
stipulati 
a 
decorrere 
dal 
1° 
gennaio 
2013 
(art. 
3, 
comma 
1, 
del 
medesimo 
decreto 
legislativo 
n. 
192/2012). 
Tale 
articolo testualmente 
dispone 
che: 
"1. nei 
casi 
previsti 
dall'articolo 
3, il 
creditore 
ha diritto anche 
al 
rimborso dei 
costi 
sostenuti 
per 
il 
recupero 
delle somme non tempestivamente corrisposte. 


2. al 
creditore 
spetta, senza che 
sia necessaria la costituzione 
in mora, 
un importo forfettario di 
40 euro a titolo di 
risarcimento del 
danno. È 
fatta 
salva la prova del 
maggior 
danno, che 
può comprendere 
i 
costi 
di 
assistenza 
per il recupero del credito". 
Pertanto, 
il 
comma 
1 
prevede 
-mediante 
il 
rinvio 
all'art. 
3 
-che 
il 
diritto 
al 
rimborso 
delle 
spese 
di 
recupero 
sorga 
in 
caso 
di 
ritardo 
colposo 
del 
debitore 
e 
precisa 
come 
esso 
si 
riferisca 
alle 
"somme 
non 
tempestivamente 
corrisposte". 


Inoltre, 
il 
comma 
2 
stabilisce 
espressamente 
che 
l'importo 
risarcibile 
non 
può essere 
inferiore 
a 
40 euro, ai 
quali 
tuttavia 
occorre 
aggiungere 
-qualora 
documentati 
- i costi ulteriori sostenuti "per il 
recupero 
del credito". 


In 
altri 
termini, 
l'articolo 
in 
questione 
appare 
chiaro 
nel 
parametrare 
l'importo 
forfetario 
de 
quo 
all'azione 
(stragiuziale 
o 
giudiziale) 
di 
recupero 
a 
prescindere 
dal 
numero di 
solleciti 
inviati 
al 
debitore 
e 
dal 
numero delle 
rate 
rimaste insolute. 

La 
reiterazione 
dei 
solleciti, peraltro, pur non dando titolo ad ulteriori 
rimborsi 
forfettari, 
potrebbe 
-tuttavia 
-incrementare 
la 
misura 
del 
risarcimento 
a 
titolo di 
"maggior 
danno", qualora 
il 
creditore 
documenti 
i 
costi 
so



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


stenuti 
per 
gli 
anzidetti 
solleciti 
ed 
essi 
eccedano 
l'importo 
forfettario 
previsto 
dal cit. art. 6, comma 2. 


Dunque, 
nel 
caso 
di 
contratti 
ad 
esecuzione 
continuata 
oppure 
periodica, 
il 
diritto del 
creditore 
al 
risarcimento in questione 
sorge 
nel 
momento in cui 
il 
medesimo si 
attivi 
per il 
recupero 
e 
si 
riferisce 
unitariamente 
a 
tutte 
le 
rate 
di 
credito 
venute 
a 
scadenza 
durante 
il 
rapporto 
negoziale 
e 
che 
siano 
rimaste 
insolute 
a 
causa 
dell'inadempimento 
del 
debitore, 
prescindendo 
-sia 
pure 
con 
le predette precisazioni - dal 
numero dei solleciti 
inviati. 


Tale 
interpretazione 
della 
norma 
in esame 
non solo è 
coerente 
con il 
suo 
tenore 
letterale, 
ma 
è 
altresì 
conforme 
alle 
disposizioni 
sovranazionali 
recepite 
dal 
legislatore 
nazionale, così 
come 
interpretate 
dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
del-
l'unione europea nella sentenza sopramenzionata. 


Inoltre, 
siffatto 
approdo 
ermeneutico 
non 
sembra 
svuotare 
di 
tutela 
il 
creditore, 
dato che 
il 
citato art. 6, comma 
2, coerentemente 
a 
quanto disposto in 
ambito euro-unitario, fa 
sempre 
salva 
la 
possibilità 
-per il 
medesimo -di 
fornire 
la prova del maggior danno subito a causa del ritardo nell'adempimento. 


Anzi, tale 
interpretazione 
sembra 
contemperare 
in modo ragionevole 
le 
esigenze 
di 
tutela 
del 
credito 
con 
il 
contrapposto 
principio 
del 
favor 
debitoris, 
che 
vieta 
di 
aggravare 
ingiustificatamente 
la 
posizione 
di 
quest'ultimo in violazione 
dei 
principi 
di 
correttezza 
e 
buona 
fede 
desumibili 
dagli 
artt. 2 Cost., 
1175, 1366 e 
1375 cod. civ. (cfr., ex 
plurimis, Corte 
di 
cassazione, sezione 
VI 
civile, ordinanza n. 19898 del 27 luglio 2018). 


E 
invero, 
nella 
prassi 
commerciale, 
gli 
operatori 
economici 
sono 
soliti 
gestire 
unitariamente, 
per 
ciascuna 
transazione 
commerciale, 
le 
posizioni 
debitorie 
rimaste 
insolute. 
Ciò 
accade 
soprattutto 
nell'ambito 
dei 
contratti 
di 
somministrazione 
dove 
le 
reciproche 
poste 
debitorie 
e 
creditorie 
sono soggette 
a 
modificazioni, 
a 
volte 
anche 
significative, 
nel 
corso 
del 
rapporto 
contrattuale. 


Si 
pensi, 
ad 
esempio, 
ai 
frequenti 
scostamenti 
tra 
consumi 
stimati 
e 
consumi 
effettivi, che 
-nell'ambito dei 
contratti 
di 
somministrazione 
di 
energia 
elettrica 
e 
gas 
-rendono 
necessaria, 
da 
parte 
dei 
fornitori, 
l'emissione 
di 
note 
di credito 
per importi spesso significativi. 


Proprio in considerazione 
di 
ciò, la 
prassi 
commerciale 
appare 
orientata 
a 
gestire 
unitariamente 
i 
ratei 
fatturati 
rimasti 
insoluti, i 
quali 
-di 
sovente 


-costituiscono l'oggetto di 
un successivo contratto di 
factoring 
stipulato dal 
creditore con un'impresa speciliazzata nel recupero del credito. 
Pertanto, 
la 
corresponsione 
del 
predetto 
importo 
forfetario 
per 
ciascun 
singolo rateo rimasto insoluto darebbe 
luogo ad una 
evidente 
sovra-compensazione 
dei 
costi 
di 
recupero, andando ben al 
di 
là 
del 
risarcimento "ragionevole" 
previsto dal diritto euro-unitario. 


Per 
questa 
ragione, 
la 
Scrivente 
ritiene 
che 
l'art. 
6 
del 
decreto 
legislativo 


n. 231/2002 
non possa 
che 
essere 
interpretato 
nel 
senso di 
parametrare 
l'im

PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


porto forfetario ivi 
previsto alla 
procedura di 
recupero 
del 
credito unitariamente 
considerato e 
riferito, quindi, a 
tutti 
i 
ratei 
scaduti 
rimasti 
insoluti 
nel-
l'ambito del rapporto negoziale. 


Inoltre, si 
precisa 
che 
l'importo forfetario in esame 
-come 
sopra 
evidenziato 
-ha 
lo scopo di 
compensare 
i 
costi 
di 
recupero amministrativi 
o, comunque, 
interni 
all'organizzazione 
aziendale 
difficilmente 
documentabili 
dal 
creditore; 
pertanto, la 
corresponsione 
del 
medesimo prescinde 
dalla previa 
proposizione 
di 
un'azione 
giurisdizionale, 
essendo 
sufficiente 
anche 
una 
semplice richiesta stragiudiziale di pagamento. 


Si 
chiarisce, altresì, che 
l'anzidetto importo è 
parametrato dall'art. 6 alla 
procedura 
di 
recupero 
e 
non 
al 
credito 
oppure 
ai 
crediti 
che 
ne 
costituiscono 
l'oggetto; 
dunque, anche 
nel 
caso di 
crediti 
derivanti 
da 
rapporti 
negoziali 
distinti, l'importo in questione 
sarà 
dovuto per una volta soltanto, qualora 
vi 
sia stata 
una sola procedura di recupero. 


Infine, 
occorre 
esaminare 
le 
conseguenze 
giuridiche 
che 
deriverebbero 
nell'ipotesi 
in cui 
il 
creditore 
-al 
fine 
di 
moltiplicare 
i 
costi 
forfetari 
de 
quibus 
-avviasse 
distinte 
procedure 
di 
recupero 
per 
ciascuna 
singola 
fattura 
rimasta 
insoluta. 


Ebbene, la 
questione 
è 
stata 
già 
affrontata 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione, la 
quale 
ha 
chiarito 
come 
"alla 
luce 
della 
costante 
giurisprudenza 
di 
questa 
corte 
regolatrice 
(ex 
multis, Cass. n. 15746 del 
2008), anche 
a sezioni 
unite 
(Cass. 
sez. un., n. 23726 del 
2007), deve 
ribadirsi 
che 
non 
è 
consentito al 
creditore 
di 
una determinata somma di 
denaro dovuta in 
forza di 
un 
unico rapporto 
obbligatorio, di 
frazionare 
il 
credito in 
plurime 
richieste 
giudiziali 
di 
adempimento, 
contestuali 
o 
scaglionate 
nel 
tempo, 
in 
quanto 
tale 
scissione 
del 
contenuto 
dell'obbligazione, 
operata 
dal 
creditore 
per 
sua 
esclusiva 
utilità 
con 
unilaterale 
modicazione 
peggiorativa 
della 
posizione 
del 
debitore, 
si 
pone 
in 
contrasto sia con 
il 
principio di 
correttezza, che 
deve 
improntare 
il 
rapporto 
fra le 
parti 
non solo durante 
l'esecuzione 
del 
contratto ma anche 
nel-
l'eventuale 
fase 
dell'aggiudicazione 
per 
ottenere 
l'adempimento, 
sia 
con 
il 
principio costituzionale 
del 
giusto processo, traducendosi 
la parcelizzazione 
della domanda giudiziale 
diretta alla soddisffazione 
della pretesa creditoria 
in 
un 
abuso 
degli 
strumenti 
processuali 
che 
l'ordinamento 
offre 
alla 
parte, 
nei 
limiti 
di 
una corretta tutela del 
suo interesse 
sostanziale. in conseguenza 
del 
suddetto principio, pertanto, tutte 
le 
domande 
giudiziali 
aventi 
ad oggetto 
una 
frazione 
di 
un 
unico 
credito 
sono 
da 
dichiararsi 
improponibili 
(in 
termini, 
Cass. n. 24539 del 2009). 


nel 
caso in esame, i 
criteri 
identifìcativi 
delle 
domande 
erano gli 
stessi, 
il 
rapporto obbligatorio era identico e 
le 
conseguenze 
derivate 
dall'inadempimento 
della società subappaltante 
già tutte 
maturate 
al 
momento del 
deposito 
del primo ricorso in monitorio. 


emerge, 
infatti, 
dagli 
atti 
che, 
al 
momento 
della 
proposizione 
della 
prima 



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


domanda davanti 
all'unico giudice 
competente, avvenuta con deposito del 
ricorso 
per 
decreto 
ingiuntivo 
in 
data 
28 
maggio 
2008, 
l'odierna 
ricorrente 
fosse 
pienamente 
conscia della maturazione 
dei 
crediti 
portati 
nelle 
successive 
fatture 
[...]. in tale 
situazione, alla luce 
delle 
considerazioni 
che 
precedono, 
non 
è 
giustificabile 
la 
disarticolazione 
della 
tutela 
giurisdizionale 
richiesta mediante la proposizione di distinte domande. 


la strumentalità 
di 
una tale 
condotta frazionata è 
-come 
già detto -evidente, 
ma non 
è 
consentita dall'ordinamento che 
le 
rifiuta protezione 
per 
la 
violazione 
di 
precetti 
costituzionali 
e 
valori 
costituzionalizzati, concretizzandosi, 
in 
questo 
caso, 
la 
proposiziione 
della 
seconda 
domanda, 
in 
un 
abuso 
della tutela processuale, ostativa al suo esame. 


né 
la ricorrente 
-al 
di 
là delle 
affermazioni 
circa la diversità fra esigibilità 
immediata 
della 
c.d. 
fattura 
a 
rimessa 
diretta 
ed 
esigibilità 
differita 
chiarisce 
le 
ragioni 
per 
cui 
avrebbe 
avuto un interesse 
concreto ed attuale 
al 
frazionmento 
del 
credito 
de 
quo. 
Correttamente, 
pertanto, 
il 
giudice 
del 
merito 
ha, sotto questo profilo, dichiarato improcedibili 
le 
domande" 
(cfr. Corte 
di 
Cassazione, ord. n. 19898/2018, cit.). 

In considerazione 
di 
siffatti 
principi 
di 
diritto, la 
Scrivente 
ritiene 
che 
-a 
fronte 
di 
una 
pluralità 
di 
fatture 
scadute 
inerenti 
la 
medesima 
transazione 
commerciale 
-il 
creditore 
non potrebbe 
avviare 
azioni 
di 
recupero distinte, 
al 
solo fine 
di 
aggravare 
la 
posizione 
del 
debitore, ma 
ha 
l'onere 
di 
intraprendere 
un'unica procedura di 
recupero, a 
fronte 
della 
quale 
può richiedere 
una 
sola 
volta 
-l'importo 
forfetario 
di 
40 
euro, 
fermo 
restando 
il 
diritto 
agli 
ulteriori 
costi di recupero documentati. 


Ciò posto, si 
evidenzia 
-tuttavia 
-che 
il 
diritto al 
risarcimento dei 
costi 
di recupero non 
costituisce un diritto indisponibile 
del creditore. 


La 
Corte 
di 
Giustizia, invero, ha 
precisato che 
"la direttiva 2011/7, e 
in 
particolare 
l'articolo 
7, 
paragrafi 
2 
e 
3, 
della 
medesima, 
deve 
essere 
interpretata 
nel 
senso che 
non osta a una normativa nazionale, come 
quella di 
cui 
al 
procedimento 
principale, 
che 
consente 
al 
creditore 
di 
rinunciare 
a 
richiedere 
gli 
interessi 
di 
mora e 
il 
risarcimento per 
i 
costi 
di 
recupero quale 
corrispettivo 
del 
pagamento immediato del 
capitale 
di 
crediti 
esigibili, 
a condizione 
che 
una 
simile 
rinuncia 
sia 
effettuata 
liberamente" 
(cfr. 
Corte 
di 
Giustizia 
uE, sentenza 
del 
16 febbraio 2017, causa 
C-555/14, cit., punto 36, enfasi 
aggiunte). 


Dunque, al 
fine 
di 
evitare 
la 
corresponsione 
dell'importo dovuto a 
titolo 
di 
spese 
di 
recupero 
ed eventualmente 
a quota parte 
degli 
interessi 
moratori, 
la 
Scrivente 
non 
ravvisa 
ostacoli 
ad 
un 
pagamento 
immediato 
dei 
crediti 
esigibili 
maturati 
dai 
creditori 
nei 
confronti 
di 
codesta 
Amministrazione 
a 
fronte 
di 
una 
dichiarazione 
-da 
parte 
dei 
medesimi 
-di 
remissione 
parziale 
del credito ai sensi dell'art. 1236 cod. civ. 

Si 
tratta, peraltro, di 
una 
prassi 
già instaurata 
con alcuni 
operatori 
eco



PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


nomici 
da 
parte 
dell'ufficio 
Generale 
di 
Pianificazione 
Finanziaria 
del-
l'esercito, 
che 
-nel 
corso 
dell'ultimo 
esercizio 
finanziario 
-ha 
comportato 
un 
significativo risparmio di 
spesa a vantaggio dell'erario 
non solo per il 
cospicuo 
abbattimento 
degli 
interessi 
moratori, 
ma 
anche 
per 
la 
rinuncia 
da 
parte 
dei creditori 
ai costi di recupero del credito. 


La 
Scrivente, 
pertanto, 
auspica 
la 
prosecuzione 
della 
strategia 
in 
atto 
e 
l'implementazione 
-a 
regime 
-di 
procedure 
contabili 
e 
amministrative 
in 
grado 
di 
prevenire 
il 
ritardo 
dei 
pagamenti 
di 
competenza 
di 
codesto 
Dicastero. 
Ciò 
anche 
al 
fine 
di 
contribuire 
alla 
rimozione 
delle 
criticità 
rilevate 
dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
nella 
sentenza 
del 
28 
gennaio 
2020, 
causa 
C122/
18, 
dove 
ha 
accertato 
che 
la 
repubblica 
Itiliana 
"non 
assicurando 
che 
le 
sue 
pubbliche 
amministrazioni 
rispettino 
effettivamente 
i 
termini 
di 
pagamento 
stabiliti 
all'articolo 
4, 
paragrafi 
3 
e 
4, 
della 
direttiva 
2011/7" 
è 
venuta 
meno 
agli 
obblighi 
ad 
essa 
incombenti 
in 
forza 
del 
diritto 
dell'unione 
(punto 
66). 


La 
questione 
è 
stata 
sottoposta 
al 
Comitato Consultivo dell'Avvocatura 
dello Stato, che 
si 
è 
espresso in conformità 
nella 
seduta 
del 
16 febbraio 2021. 



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


obbligazioni pecuniarie della pubblica amministrazione: 
risarcimento delle spese sostenute per il recupero dei crediti 
ai sensi dell’art. 6, d.Lgs n. 231/2002 e successive modifiche. 
altri quesiti 


Parere 
del 
01/03/2021-134637, al 29378/2020, aVV. GianCarlo 
PaMPanelli 


1 -Con la 
nota 
sopra 
indicata, codesto Ministero dell'Interno -Dipartimento 
Vigili 
del 
Fuoco, Soccorso Pubblico e 
Difesa 
Civile 
-Direzione 
Centrale 
per 
le 
risorse 
Logistiche 
e 
Strumentali 
ha 
esposto 
che 
con 
l'art. 
6 
del 
D.lg. 
n. 
231/2002, 
come 
modificato 
dal 
D.lg. 
n. 
192/2012 
di 
recepimento 
della 
Direttiva 
n. 2011/7/uE, sono state 
introdotte 
disposizioni 
in tema 
di 
risarcimento 
delle 
spese 
sostenute 
per il 
recupero dei 
crediti 
prevedendo, al 
comma 
1, 
che 
"nei 
casi 
previsti 
dall'art. 
3 
il 
creditore 
ha 
diritto 
al 
rimborso 
delle 
spese 
sostenute 
per 
il 
recupero delle 
somme 
non tempestivamente 
corrisposte" 
e, al 
comma 
2, che 
"al 
creditore 
spetta, senza che 
sia necessaria la costituzione 
in 
mora, un importo forfettario di 
40 euro a titolo di 
risarcimento del 
danno. È 
fatta salva la prova del 
maggior 
danno che 
può comprendere 
i 
costi 
di 
assistenza 
per il recupero del credito". 


Dall'esame 
della 
predetta 
disposizione 
e 
di 
quelle 
contenute 
negli 
articoli 
3 
e 
4 
del 
predetto 
decreto 
legislativo, 
si 
evince 
che 
per 
aver 
diritto 
al 
rimborso 
forfettario di 
euro 40 occorra 
che 
ricorrano i 
presupposti 
di 
cui 
all'art. 3 per la 
corresponsione 
degli 
interessi 
moratori 
secondo quanto previsto dagli 
articoli 
4 
e 
5, 
salvo 
che 
sia 
possibile 
dimostrare 
che 
il 
ritardo 
nel 
pagamento 
del 
prezzo 
sia 
determinato da 
impossibilità 
della 
prestazione 
derivante 
da 
causa 
non imputabile 
al debitore. 


Prosegue 
codesta 
Direzione 
esponendo che 
emerge 
quindi 
che 
il 
diritto 
al 
rimborso forfettario di 
euro 40, di 
natura 
risarcitoria, risulta 
connesso alla 
sussistenza 
dei 
presupposti 
per il 
riconoscimento del 
diritto agli 
interessi 
moratori, 
la 
cui 
decorrenza 
risulta 
ancorata, come 
previsto dal 
comma 
1 dell'art. 
4, alla scadenza del termine per il pagamento. 


Al 
riguardo, 
essendo 
pervenute 
al 
Dicastero 
istanze 
di 
pagamento 
da 
parte 
di 
Istituti 
bancari 
cessionari 
del 
credito 
delle 
Imprese, 
con 
la 
nota 
che 
si 
riscontra 
è 
stato chiesto alla 
Scrivente 
se 
anche 
in tali 
casi 
sia 
confermata 
l'applicabilità 
delle disposizioni contenute nel predetto D.lg. n. 231/2002. 


2 -Prima 
di 
dare 
risposta 
al 
quesito posto, si 
ritiene 
opportuno preliminarmente 
rammentare 
che 
le 
disposizioni 
in esame 
hanno recepito nell'ordinamento 
interno l'art. 6 della 
Direttiva 
2011/7/uE 
del 
Parlamento europeo e 
del 
Consiglio del 
16 febbraio 2011, "relativa alla lotta contro i 
ritardi 
di 
pagamento 
nelle transazioni commerciali". 


Tale 
articolo, rubricato "risarcimento delle 
spese 
di 
recupero", obbliga 
gli 
Stati 
membri 
ad assicurare 
che, nei 
casi 
in cui 
siano esigibili 
gli 
interessi 



PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


di 
mora, il 
creditore 
abbia 
anche 
il 
diritto alla 
corresponsione, da 
parte 
del 
debitore, 
di un importo forfettario minimo di 40 euro (paragrafo 1). 


Inoltre, 
gli 
Stati 
membri 
sono 
tenuti 
a 
garantire 
che 
l'importo 
in 
questione 
sia 
esigibile 
senza 
necessità 
di 
sollecito, a 
titolo di 
risarcimento forfettario dei 
costi di recupero sostenuti dal creditore (paragrafo 2). 


La 
disposizione 
precisa 
che 
l'importo 
de 
quo 
è 
un 
importo 
minimo, 
in 
quanto, ai 
sensi 
del 
paragrafo 3, resta 
fermo il 
diritto del 
creditore 
ad "esigere 
dal 
debitore 
un risarcimento ragionevole 
per 
ogni 
costo di 
recupero che 
ecceda 
tale 
importo forfettario", come 
-a 
titolo esemplificativo -le 
spese 
derivanti 
dall'affidamento 
dell'incarico 
ad 
un 
avvocato 
oppure 
a 
una 
società 
di 
recupero crediti. 


La 
ratio 
delle 
disposizioni 
in esame 
è 
esplicitata 
nel 
preambolo della 
direttiva, 
in particolare dove si chiarisce che: 


a) 
"i ritardi 
di 
pagamento costituiscono una violazione 
contrattuale 
resa 
finanziariamente 
attraente 
per 
i 
debitori 
nella 
maggior 
parte 
degli 
stati 
membri 
dai 
bassi 
livelli 
dei 
tassi 
degli 
interessi 
di 
mora applicati 
o dalla loro assenza 
e/o 
dalla 
lentezza 
delle 
procedure 
di 
recupero. 
È 
necessario 
un 
passaggio deciso verso una cultura dei 
pagamenti 
rapidi, in cui, tra l'altro, 
l'esclusione 
del 
diritto di 
applicare 
interessi 
di 
mora sia sempre 
considerata 
una clausola o prassi 
contrattuale 
gravemente 
iniqua, per 
invertire 
tale 
tendenza 
e 
per 
disincentivare 
i 
ritardi 
di 
pagamento. 
Tale 
passaggio 
dovrebbe 
inoltre 
includere 
l'introduzione 
di 
disposizioni 
specifiche 
sui 
periodi 
di 
pagamento 
e 
sul 
risarcimento dei 
creditori 
per 
le 
spese 
sostenute 
e 
prevedere, tra 
l'altro, 
che 
l'esclusione 
del 
diritto 
al 
risarcimento 
dei 
costi 
di 
recupero 
sia 
presunta 
essere gravemente iniqua" (considerando n. 12); 
b) 
"un 
risarcimento 
equo 
dei 
creditori, 
relativo 
ai 
costi 
di 
recupero 
sostenuti 
a 
causa 
del 
ritardo 
di 
pagamento, 
serve 
a 
disincentivare 
i 
ritardi 
di 
pagamento. 
Tra i 
costi 
di 
recupero dovrebbero essere 
inclusi 
anche 
i 
costi 
amministrativi 
e 
i 
costi 
interni 
causati 
dal 
ritardo 
di 
pagamento, 
per 
i 
quali 
la 
presente 
direttiva 
dovrebbe 
determinare 
un 
importo 
minimo 
forfettario 
che 
possa 
cumularsi 
agli 
interessi 
di 
mora. 
il 
risarcimento 
sotto 
forma 
di 
importo 
forfettario 
dovrebbe 
mirare 
a 
limitare 
i 
costi 
amministrativi 
e 
i 
costi 
interni 
legati 
al 
recupero. 
il 
risarcimento 
delle 
spese 
di 
recupero 
dovrebbe 
essere 
determinato 
fatte 
salve 
le 
disposizioni 
nazionali 
in 
base 
alle 
quali 
l'autorità 
giurisdizionale 
nazionale 
può 
concedere 
al 
creditore 
un 
risarcimento 
per 
eventuali 
danni 
aggiuntivi 
connessi 
al 
ritardo 
di 
pagamento 
del 
debitore" 
(considerando 
n. 
19); 
c) "oltre 
ad avere 
diritto al 
pagamento di 
un importo forfettario per 
coprire 
i 
costi 
interni 
legati 
al 
recupero, 
il 
creditore 
dovrebbe 
poter 
esigere 
anche 
il 
risarcimento delle 
restanti 
spese 
di 
recupero sostenute 
a causa del 
ritardo 
di 
pagamento 
del 
debitore. 
Tali 
spese 
dovrebbero 
comprendere, 
in 
particolare, 
le 
spese 
sostenute 
dal 
creditore 
per 
aver 
affidato un incarico a un avvocato o 
a un'agenzia di recupero crediti" (considerando n. 20). 

rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


Dunque, l'obiettivo perseguito dal 
legislatore 
sovranazionale 
è 
quello di 
apprestare 
efficaci 
strumenti 
di 
contrasto contro il 
ritardo dei 
pagamenti 
nelle 
transazioni 
commerciali, ritardi 
che 
costituiscono, ai 
sensi 
del 
considerando 


n. 
12, 
una 
violazione 
contrattuale 
resa 
finanziariamente 
attraente 
per 
i 
debitori 
dai 
bassi 
livelli 
dei 
tassi 
degli 
interessi 
di 
mora 
applicati 
oppure 
dalla 
loro assenza 
(cfr. 
Corte 
di 
Giustizia 
uE, 
sentenza 
del 
16 
febbraio 
2017, 
causa 
C555/
14, punto 24). 
In 
altri 
termini, 
la 
direttiva 
in 
esame 
ha 
lo 
scopo 
di 
tutelare 
efficacemente 
i 
creditori 
contro i 
ritardi 
di 
pagamento (cfr. Corte 
di 
Giustizia 
uE, sentenza 
del 
15 dicembre 
2016, causa 
C-256/15, punto 50) e 
tale 
tutela 
implica 
necessariamente 
il 
diritto 
dei 
medesimi 
creditori 
a 
conseguire 
l'integrale 
ristoro 
delle 
spese 
di 
recupero che 
hanno sostenuto (cfr. Corte 
di 
Giustizia 
uE, sentenza 
del 13 settembre 2018, causa C-287/17, punto 26). 


Tuttavia, 
i 
predetti 
creditori 
potrebbero 
incontrare 
delle 
difficoltà 
-sul 
piano 
probatorio 
-nel 
fornire 
una 
esatta 
quantificazione 
dei 
costi 
sostenuti 
per 
il 
recupero del 
credito, qualora 
si 
tratti 
di 
costi 
amministrativi 
o, comunque, 
di costi interni all'organizzazione aziendale. 


Per 
questa 
ragione, 
il 
considerando 
n. 
19 
prevede 
l'introduzione 
di 
un 
importo 
forfettario minimo, il 
cui 
obiettivo è 
proprio quello di 
coprire 
tali 
costi, 
esonerando il creditore dall'onere della relativa prova. 


3 -Ciò 
premesso, 
in 
ordine 
nello 
specifico 
alla 
problematica 
rappresentata 
da 
codesta 
Amministrazione 
e 
sopra 
cennata, 
questo 
Organo 
legale 
osserva 
che 
il 
soggetto 
cessionario 
del 
credito 
(nella 
specie 
Istituto 
bancario) 
subentra 
nella 
medesima 
posizione 
giuridica 
del 
creditore 
cedente 
e, quindi, deve 
ritenersi 
che 
-come 
quest'ultimo -abbia 
diritto ad ottenere 
in proprio favore 
la 
corresponsione 
delle 
somme 
a 
rimborso delle 
spese 
sostenute 
per il 
recupero 
dell'importo non tempestivamente 
pagato, 
ex 
art. 6 del 
D.lg. n. 231/2002 così 
come modificato. 


Ciò 
salvo 
espresse 
diverse 
previsioni 
contenute 
nell'atto 
con 
cui 
il 
credito 
è 
stato ceduto, il 
quale 
andrà 
al 
riguardo esaminato dall'Amministrazione 
debitrice. 


4 -Codesta 
Direzione 
Centrale 
ha 
poi 
chiesto chiarimenti 
in merito all'accertamento 
dell'inadempimento 
del 
debitore 
ed 
alla 
eventuale 
prova 
da 
parte 
del 
debitore 
della 
non imputabilità 
del 
ritardo nel 
pagamento, come 
previsto 
dall'art. 3 del citato decreto legislativo. 


Sul 
punto, non può che 
rilevarsi 
da 
questo Organo legale 
che 
ci 
si 
dovrà 
attenere 
a 
quanto espressamente 
contemplato dall'art. 6 del 
D.lg. n. 231, per 
cui 
il 
diritto 
al 
rimborso 
di 
che 
trattasi 
in 
favore 
del 
creditore 
potrà 
essere 
escluso 
soltanto 
qualora 
l'Amministrazione 
sia 
in 
grado 
di 
addurre 
e 
dimostrare 
che 
il 
ritardo nel 
pagamento del 
dovuto sia 
stato determinato da 
impossibilità 
della prestazione derivante da causa non imputabile al debitore. 


Peraltro, 
è 
appena 
da 
rammentare 
in 
merito 
che, 
in 
linea 
generale, 
non 



PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


costituisce 
causa 
non imputabile 
all'Amm.ne 
debitrice 
la 
mancanza 
di 
provvista 
finanziaria per far fronte tempestivamente ai pagamenti dovuti. 


5 -Circa 
l'applicazione 
dell'art. 6, comma 
2, del 
decreto legislativo, codesto 
Dicastero ha 
chiesto altresì 
se 
la 
liquidazione 
del 
rimborso forfettario di 
euro 
40 
debba 
conseguire 
ad 
esplicita 
richiesta 
o 
se, 
riconosciute 
le 
condizioni 
di diritto, esso debba essere liquidato dal debitore di propria iniziativa. 


Al 
riguardo, ritiene 
la 
Scrivente 
che 
la 
previsione 
del 
diritto al 
rimborso 
forfettario "senza 
che 
sia 
necessaria 
la 
costituzione 
in mora" 
vada 
intesa 
nel 
senso che 
il 
creditore, in presenza 
dei 
presupposti 
di 
legge, ha 
pieno diritto a 
detto rimborso senza 
che 
ne 
debba 
fare 
apposita 
formale 
domanda 
con diffida 
e costituzione in mora del debitore. 


Tuttavia, 
d'altro 
canto, 
la 
norma, 
così 
come 
formulata, 
se 
facoltizza 
l'Amministrazione 
a 
procedere 
direttamente 
al 
pagamento 
del 
rimborso, 
non 
sembra 
però 
che 
imponga 
un 
"obbligo 
giuridico" 
di 
corrispondere 
l'importo 
forfettario 
a prescindere da qualsiasi richiesta della parte interessata. 


Ciò in quanto è 
da 
ritenere 
che 
il 
conferimento, ex 
lege, del 
diritto di 
credito 
in parola 
(certamente 
non "indisponibile" 
-cfr. Corte 
Giustizia 
uE 
-sent. 
del 
16 
febbraio 
2017, 
causa 
C-555/14), 
non 
esima 
l'interessato 
-secondo 
i 
principi 
generali 
-dal 
volerlo concretamente 
esercitare 
e, quindi, nella 
fattispecie, 
dal manifestare l'intento di ottenere il rimborso. 


6 -Infine, si 
dà 
esito all'ultimo quesito posto, esponendo che 
ad avviso 
di 
questo 
Organo 
legale 
il 
diritto 
al 
rimborso 
in 
questione 
ex 
art. 
6 
menzionato, 
in linea 
di 
principio, insorge 
in favore 
del 
creditore 
ogni 
volta 
che 
sussista 
un 
"ritardo 
imputabile" 
all'Amm.ne 
nel 
singolo 
pagamento 
dovuto 
cui 
si 
riferisca 
una 
corrispondente 
attività 
di 
"recupero" 
da 
parte 
del 
creditore 
delle 
somme 
spettanti. 


In particolare, circa 
il 
rimborso forfettario previsto dall'art. 6, comma 
2, 
l'attività 
di 
recupero del 
creditore 
può anche 
consistere 
in un mero invito stragiudiziale 
ad adempiere. 


Dalla 
connessione 
di 
detto 
comma 
2 
con 
il 
precedente 
comma 
1, 
che 
fa 
riferimento 
"nei 
casi 
previsti 
all'art. 
3" 
al 
rimborso 
dei 
costi 
sostenuti 
per 
il 
recupero 
delle 
somme 
non tempestivamente 
corrisposte, nonché 
con 1'art. 3 
(prevedente 
che 
il 
creditore 
ha 
diritto 
agli 
interessi 
moratori 
sull’"importo 
dovuto") 
e 
l'art. 
2, 
lett. 
g, 
del 
medesimo 
D.lg. 
n. 
231/2002 
cit., 
il 
quale 
ultimo 
definisce 
1’"importo 
dovuto" 
come 
"la 
somma 
che 
avrebbe 
dovuto 
essere 
pagata 
entro 
il 
termine 
contrattuale 
o 
legale 
di 
pagamento, 
comprese 
le 
imposte, 
i 
dazi, 
le 
tasse 
e 
gli 
oneri 
applicabili 
indicati 
nella 
fattura 
o 
nella 
richiesta 
equivalente 
di 
pagamento", 
sembra 
doversi 
evincere 
che 
la 
circostanza 
-meramente 
estrinseca 
-per 
cui 
con 
un'unica 
operazione 
cumulativa 
l'Amministrazione 
liquidi 
in 
favore 
del 
creditore 
più 
pagamenti 
dovuti 
(ad 
es. 
gli 
importi 
relativi 
a 
più 
stati 
di 
avanzamento 
lavori, 
più 
fatture 
ecc.), 
non 
possa 
comportare, 
stante 
il 
predetto 
dato 
normativo, 
la 
riduzione 
ad 
un 
unico 
diritto 
al 
rimborso 
forfettario, 
sussi



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


stendo 
comunque 
in 
favore 
del 
creditore 
il 
diritto 
ad 
ottenere 
i 
rimborsi 
corrispondenti 
alle 
spese 
amministrative 
connesse 
alla 
tempestiva 
attivazione 
del 
creditore 
medesimo 
in 
riferimento 
ai 
singoli 
ritardi 
ed 
inadempimenti 
finanziari. 


7 -Ciò 
posto, 
va 
tuttavia 
in 
disparte 
precisato 
che, 
nell'ipotesi 
in 
cui 
il 
creditore 
si 
attivi 
-anche 
mediante 
un 
sollecito 
di 
pagamento 
-ma 
soltanto 
dopo il 
venire 
a 
scadenza 
di 
più "importi 
dovuti" 
(ad es. dopo la 
scadenza 
di 
più 
rate 
insolute 
inerenti 
un 
rapporto 
di 
somministrazione) 
che 
vengano 
saldate 
cumulativamente 
dall'Amministrazione, 
è 
da 
ritenere 
che 
al 
creditore 
spetti 
un unico rimborso forfettario di euro 40. 


A 
tale 
conclusione 
si 
giunge 
considerando 
che 
l'art. 
6 
del 
DLg. 
n. 
231/2002 in esame 
riconnette 
il 
rimborso 
de 
quo 
non ai 
singoli 
importi 
dovuti 
saldati 
in ritardo, ma 
alle 
spese 
di 
recupero del 
credito, che 
ove 
derivanti 
da 
un'unica 
attività 
dell'avente 
diritto 
implicano 
di 
conseguenza 
un 
unico 
rimborso 
forfettario. 


Quanto sopra 
esposto appare 
trovare 
conferma 
nella 
sentenza 
del 
13 settembre 
2018, causa C-287/17, della Corte di Giustizia dell'unione Europea. 


In considerazione 
delle 
finalità 
indicate 
nel 
preambolo e 
del 
tenore 
letterale 
del 
prefato 
art. 
6 
della 
Direttiva 
2011/7/uE, 
la 
Corte 
di 
Giustizia 
del-
l'unione 
europea 
ha 
dichiarato 
che 
l'anzidetto 
articolo 
"deve 
essere 
interpretato nel 
senso che 
riconosce 
al 
creditore, che 
chiede 
il 
risarcimento 
delle 
spese 
derivanti 
dai 
solleciti 
inviati 
al 
debitore 
a causa del 
ritardo di 
pagamento 
di 
quest'ultimo, il 
diritto di 
ottenere, a tale 
titolo, oltre 
all'importo 
forfettario di 
eur 
40 previsto al 
paragrafo 1 del 
suddetto articolo, un risarcimento 
ragionevole, 
ai 
sensi 
del 
paragrafo 
3 
dello 
stesso 
articolo, 
per 
la 
parte 
di 
tali 
spese 
che 
eccede 
tale 
importo 
forfettario" 
(cfr. 
sentenza 
del 
13 
settembre 
2018, causa C-287/17, cit., punto 38). 


Siffatto principio di 
diritto è 
stato enunciato dalla 
Corte 
di 
Giustizia 
nel-
l'ambito 
di 
un 
procedimento 
principale 
avente 
ad 
oggetto 
il 
recupero 
-da 
parte 
di 
una 
compagnia 
assicurativa 
-dei 
premi 
dovuti 
dal 
debitore 
per il 
periodo 
intercorrente 
tra 
il 
7 novembre 
2014 e 
il 
25 febbraio 2015, rimasti 
insoluti 
nonostante 
i 
numerosi 
solleciti 
di 
pagamento, 
lasciando 
così 
intendere 
che 
la 
somma 
forfettaria 
di 
euro 
40 
può 
valere 
a 
compensare 
il 
creditore 
anche 
in 
caso di più ratei scaduti, salvo prova di maggiori spese sostenute. 


Nella 
situazione 
appena 
descritta 
di 
attivazione 
soltanto 
dopo 
la 
scadenza 
di 
più 
importi 
dovuti, 
occorre 
altresì 
rappresentare 
le 
conseguenze 
giuridiche 
che 
deriverebbero 
nell'ipotesi 
in 
cui 
il 
creditore 
-al 
fine 
di 
moltiplicare 
i 
costi 
forfettari 
de 
quibus 
-avviasse 
distinte 
azioni 
processuali 
di 
recupero 
per 
ciascuna 
singola 
fattura 
rimasta 
insoluta, 
invece 
che 
in 
riferimento 
al 
credito 
complessivo 
maturato. 


Ebbene, la 
questione 
è 
stata 
già 
affrontata 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione, la 
quale 
ha 
chiarito 
come 
"alla 
luce 
della 
costante 
giurisprudenza 
di 
questa 
corte 
regolatrice 
(ex 
multis, Cass. n. 15746 del 
2008), anche 
a sezioni 
unite 
(Cass. 
sez. un., n. 23726 del 
2007), deve 
ribadirsi 
che 
non è 
consentito al 
creditore 



PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


di 
una 
determinata 
somma 
di 
denaro, 
dovuta 
in 
forza 
di 
un 
unico 
rapporto 
obbligatorio, di 
frazionare 
il 
credito in plurime 
richieste 
giudiziali 
di 
adempimento, 
contestuali 
o 
scaglionate 
nel 
tempo, 
in 
quanto 
tale 
scissione 
del 
contenuto 
dell'obbligazione, 
operata 
dal 
creditore 
per 
sua 
esclusiva 
utilità 
con 
unilaterale 
modificazione 
peggiorativa della posizione 
del 
debitore, si 
pone 
in 
contrasto 
sia 
con 
il 
principio 
di 
correttezza, 
che 
deve 
improntare 
il 
rapporto 
tra 
le 
parti 
non 
solo 
durante 
l'esecuzione 
del 
contratto 
ma 
anche 
nell'eventuale 
fase 
dell'azione 
giudiziale 
per 
ottenere 
l'adempimento, 
sia 
con 
il 
principio 
costituzionale 
del 
giusto 
processo, 
traducendosi 
la 
parcellizzazione 
della 
domanda 
giudiziale 
diretta 
alla 
soddisfazione 
della 
pretesa 
creditoria 
in 
un 
abuso 
degli 
strumenti 
processuali 
che 
l'ordinamento 
offre 
alla 
parte, 
nei 
limiti 
di 
una corretta tutela del 
suo interesse 
sostanziale. in conseguenza del 
suddetto 
principio, 
pertanto, 
tutte 
le 
domande 
giudiziali 
aventi 
ad 
oggetto 
una 
frazione 
di 
un 
unico 
credito 
sono 
da 
dichiararsi 
improponibili 
(in 
termini, 
Cass. n. 24539 del 2009). 


nel 
caso in esame, i 
criteri 
identificativi 
delle 
domande 
erano gli 
stessi, 
il 
rapporto obbligatorio era identico e 
le 
conseguenze 
derivate 
dall'inadempimento 
della società subappaltante 
già tutte 
maturate 
al 
momento del 
deposito 
del primo ricorso in monitorio. 


emerge, 
infatti, 
dagli 
atti 
che, 
al 
momento 
della 
proposizione 
della 
prima 
domanda davanti 
all'unico giudice 
competente, avvenuta con deposito del 
ricorso 
per 
decreto 
ingiuntivo 
in 
data 
28 
maggio 
2008, 
l'odierna 
ricorrente 
fosse 
pienamente 
conscia 
della 
maturazione 
dei 
crediti 
portati 
nelle 
successive 
fatture 
[...]. 
in tale 
situazione, alla luce 
delle 
considerazioni 
che 
precedono, 
non 
è 
giustificabile 
la 
disarticolazione 
della 
tutela 
giurisdizionale 
richiesta 
mediante la proposizione di distinte domande. 


la strumentalità di 
una tale 
condotta frazionata è 
-come 
già detto -evidente, 
ma non è 
consentita dall'ordinamento che 
le 
rifiuta protezione 
per 
la 
violazione 
di 
precetti 
costituzionali 
e 
valori 
costituzionalizzati, concretizzandosi, 
in 
questo 
caso, 
la 
proposizione 
della 
seconda 
domanda, 
in 
un 
abuso 
della 
tutela 
processuale, 
ostativa 
al 
suo 
esame" 
(cfr. 
Corte 
di 
Cassazione, 
ord. 
n. 
19898/2018). 


8 -Il 
rimborso 
di 
cui 
all'art. 
6, 
comma 
1, 
infine, 
consisterà, 
qualora 
ne 
sussistano i 
presupposti, nella 
refusione 
dei 
costi 
sostenuti 
complessivamente 
dal creditore per il recupero del credito eccedenti l'importo forfettario. 


Al 
riguardo, 
il 
creditore 
è 
gravato 
-in 
conformità 
ai 
principi 
generali 
(onus 
probandi 
incumbit 
ei 
qui 
dicit) 
-dall'onere 
della 
prova 
di 
tali 
costi 
di 
recupero. In tal senso è l'avviso di questo Organo legale. 


il 
presente 
parere 
è 
stato 
sottoposto 
all'esame 
del 
Comitato 
consultivo 
dell'avvocatura dello stato, che 
lo ha approvato nella seduta del 
16 febbraio 
2021. 



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


violazione dei principi di non discriminazione, istanza 
al Comitato per i diritti umani dell’onu, modalità di 
esecuzione delle Considerazioni emesse dal Comitato 


Parere 
del 
02/04/2021-216911, al 22771/2009, aVV. eManuele 
Valenzano 


Domanda 
di 
riarcimento 
del 
danno 
formulata 
dalla 
sig.ra 
OMISSIS 
nei 
confronti 
dello 
Stato 
italiano 
in esecuzione 
delle 
Considerazioni 
adottate 
dal 
Comitato per i 
Diritti 
umani 
dell’ONu 
del 
30 aprile 
2020 per violazione 
dei 
principi 
di 
non discriminazione 
di 
cui 
al 
Patto Internazionale 
relativo ai 
diritti 
Civili 
e 
Politici 
del 
16 dicembre 
1966 da 
parte 
di 
legislazione 
nazionale 
che 
imponeva 
medesimi 
requisti 
di 
altezza 
tra 
uomini 
e 
donne 
per 
l’accesso 
ai 
ruoli 
permanenti dei 
Vigili del Fuoco. 


Con la 
nota 
in epigrafe, il 
Ministero dell'Interno-Dipartimento dei 
Vigili 
del 
Fuoco, del 
Soccorso Pubblico e 
della 
Difesa 
Civile 
ha 
chiesto un parere 
in 
ordine 
alle 
modalità 
di 
esecuzione 
delle 
Considerazioni 
emesse, 
in 
data 
30 
aprile 
2020, dal 
Comitato per i 
Diritti 
umani 
dell'ONu 
che 
ha 
ritenuto discriminatoria 
la 
normativa 
vigente 
nello Stato italiano che 
imponeva 
un'altezza 
minima 
uguale 
tra 
uomini 
e 
donne 
(m. 1,65) ai 
fini 
dell'accesso ai 
ruoli 
permanenti 
dei 
Vigili del Fuoco. 


In particolare, dagli atti trasmessi è emerso quanto segue: 


a) 
la 
sig.ra 
OMISSIS 
partecipava 
alla 
procedura 
selettiva 
per la 
stabilizzazione 
del 
personale 
volontario 
dei 
Vigili 
del 
Fuoco 
indetto 
con 
D.M. 
n. 
3747/2007; 
b) 
in tale 
bando erano previsti 
requisiti 
di 
statura 
minima 
per i 
candidati 
(m. 1,65 sia 
per gli 
uomini 
che 
per le 
donne) come 
era 
stato previsto sin dal 
DPCM 
n. 411 del 
22 luglio 1987 e, poi, confermato dal 
DPCM 
n. 233 del 
27 
aprile 
1993 e 
successive 
integrazioni 
e 
modificazioni; 
inoltre, in base 
all'art. 
31, comma 
2, D.Lgs. 11 aprile 
2006, n. 198 (Codice 
delle 
pari 
opportunità 
fra 
uomo e 
donna, a 
norma 
dell'art. 6 legge 
28 novembre 
2005, n. 246) le 
norme 
antidiscriminatorie 
in materia 
di 
requisiti 
di 
statura 
per l'accesso ai 
pubblici 
impieghi 
non 
valevano 
per 
il 
Corpo 
Nazionale 
dei 
Vigili 
del 
Fuoco 
cui, 
quindi, 
continuavano ad applicarsi le anzidette disposizioni; 
c) 
alla 
luce 
di 
tale 
quadro normativo la 
sig.ra 
OMISSIS, con D.M. n. 62 del 
15 
aprile 
2009, 
veniva, 
pertanto, 
dichiarata 
inidonea 
per 
deficit 
di 
statura, 
avendo una 
statura 
di 
m. 1.60 e, quindi, inferiore 
al 
minimo previsto dai 
citati 
regolamenti; 
d) 
avverso 
il 
bando 
di 
concorso 
di 
cui 
al 
D.M. 
n. 
3747/2007 
e 
il 
decreto 
di 
esclusione 
di 
cui 
al 
D.M. 
n. 
62/2009 
la 
sig.ra 
OMISSIS 
proponeva 
ricorso 
al 
TAr 
Lazio 
lamentando 
la 
natura 
discriminatoria, 
per 
le 
donne, 
di 
tale 
requisito 
minimo 
di 
altezza 
che, 
di 
fatto, 
veniva 
raggiunta 
in 
larghissima 
prevalenza 
solo 
dagli 
uomini; 
la 
OMISSIS 
proponeva 
anche 
un 
incidente 
di 
costituzionalità 
avverso 
il 
D.Lgs. 
n. 
198/206 
che 
aveva 
fatto 
salvo 
tale 
re

PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


gime 
discriminatorio 
nei 
concorsi 
indetti 
per 
l'accesso 
ai 
ruoli 
permanenti 
dei 
Vigili 
del 
Fuoco; 


e) 
il 
TAr 
LAZIO 
respingeva 
l'impugnativa 
proposta 
dalla 
OMISSIS 
in 
quanto l'esclusione 
dal 
concorso era 
conforme 
alla 
normativa 
vigente 
da 
ritenersi 
conforme alla Costituzione; 
f) la 
OMISSIS 
impugnava 
la 
pronuncia 
del 
TAr Lazio dinanzi 
al 
Consiglio 
di Stato che respingeva l'appello; 
g) 
la 
OMISSIS, quindi, ricorreva 
alla 
Corte 
Europea 
dei 
Diritti 
dell'uomo 
che dichiarava irricevibile il ricorso per tardività; 
h) 
la 
OMISSIS, da 
ultimo, adiva 
il 
Comitato per i 
Diritti 
umani 
delle 
Nazioni 
unite 
lamentando l'illegittimità 
della 
normativa 
nazionale 
relativa 
ai 
requisiti 
di 
statura 
per 
l'accesso 
ai 
ruoli 
permanenti 
dei 
Vigili 
del 
Fuoco 
in 
quanto 
penalizzante 
per 
le 
donne; 
la 
OMISSIS, 
quindi, 
denunziava 
la 
violazione, 
da 
parte 
dello Stato italiano, degli 
artt. 25 e 
26 del 
Patto internazionale 
relativo 
ai 
diritti 
civili 
e 
politici 
siglato 
dall'Italia 
in 
data 
16 
dicembre 
1966 
in 
sede 
ONu e ratificato con la legge 25 ottobre 1977, n. 881; 
i) 
il 
Comitato per i 
Diritti 
umani 
dell'ONu, ritenuta 
l'istanza 
ricevibile, 
con 
le 
Considerazioni 
del 
30 
aprile 
2020, 
accertava 
la 
violazione 
da 
parte 
dello 
Stato italiano del 
Patto internazionale 
relativo ai 
diritti 
civili 
e 
politici 
con riferimento 
alla 
mancata 
differenziazione 
dei 
requisiti 
di 
statura 
tra 
uomini 
e 
donne 
stabiliti 
per l'accesso ai 
ruoli 
permanenti 
dei 
Vigili 
del 
Fuoco; 
in particolare, 
il Comitato così disponeva: 
1) 
invitava 
lo Stato italiano a 
fornire 
un'adeguata 
riparazione 
alla 
sig.ra 
OMISSIS; 
2) 
invitava 
lo Stato italiano ad ammettere 
la 
cittadina, qualora 
lo desiderasse, 
nei ruoli permanenti dei 
Vigili del Fuoco; 
3) 
invitava 
lo Stato italiano a 
prevenire 
in futuro la 
medesima 
violazione 
dei diritti umani modificando la normativa interna discriminatoria; 
4) 
invitava 
lo Stato italiano ad informare 
entro 180 giorni 
(con proroga 
di 
due 
mesi 
per emergenza 
COVID) il 
Comitato delle 
misure 
prese 
per dare 
attuazione alle "Considerazioni" emesse; 
l) 
con 
diffida 
del 
23 
giugno 
2020 
la 
sig.ra 
OMISSIS, 
a 
mezzo 
dell'Avv. 
OMISSIS, 
intimava 
alla 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
e 
al 
Ministero dell'Interno 
di 
eseguire 
le 
Considerazioni 
del 
Comitato 
dei 
Diritti 
umani 
ed 
in 
particolare di: 
1) 
ricostruire 
la 
carriera 
della 
sig.ra 
OMISSIS, a 
livello giuridico ed economico, 
dal 
27 
gennaio 
2010 
(momento 
in 
cui 
sarebbe 
potuta 
già 
entrare 
nel 
ruolo dei 
Vigili 
del 
Fuoco permanenti) sino all'immissione 
in tali 
ruoli 
avvenuta 
con D.M. del 
238 del 
14 novembre 
2018 a 
seguito dell'entrata 
in vigore 
della 
legge 
12 gennaio 2015, n. 2 che 
aveva 
modificato i 
requisiti 
di 
accesso 
ai 
ruoli 
permanenti 
dei 
Vigili 
del 
Fuoco eliminando il 
vulnus 
discriminatorio 
della statura; 

rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


2) 
riconoscere 
alla 
sig.ra 
OMISSIS 
un indennizzo di 
€ 20.000,00 a 
titolo di 
compensazione 
delle 
ingenti 
spese 
sostenute 
per 
il 
lungo 
contenzioso 
giurisdizionale 
e per i danni morali; 
m) 
con 
nota 
prot. 
n. 
0046623 
del 
23 
settembre 
2020 
la 
Direzione 
Centrale 
del 
Dipartimento dei 
Vigili 
del 
Fuoco, del 
Soccorso Pubblico e 
della 
Difesa 
Civile 
comunicava 
che 
alcun 
riconoscimento 
dell'anzianità 
pregressa, 
sia 
ai 
fini 
giuridici 
sia 
a 
quelli 
economici, poteva 
farsi 
discendere 
dalle 
Considerazioni 
del 
Comitato dei 
Diritti 
umani 
dell'ONu 
in favore 
della 
sig.ra 
OMISSIS 
in 
quanto 
l'esclusione 
dal 
concorso 
era 
avvenuta 
in 
piena 
osservanza 
della 
normativa 
all'epoca vigente. 
Il 
Ministero 
dell'Interno 
chiede, 
quindi, 
alla 
Scrivente 
di 
esprimere 
un 
parere 
sulla 
sussistenza 
di 
un danno risarcibile 
e 
se 
possa 
attribuirsi 
alla 
sig.ra 
OMISSIS 
un ristoro economico anche parziale. 


Ciò posto, la Scrivente esprime il seguente parere. 


In via 
preliminare, si 
osserva 
che 
ogni 
cittadino di 
uno Stato firmatario 
del 
Patto 
internazionale 
relativo 
ai 
diritti 
civili 
e 
politici, 
siglato 
in 
ambito 
ONu, può adire 
il 
Comitato dei 
Diritti 
umani 
delle 
Nazioni 
unite 
in base 
al 
Protocollo Opzionale 
relativo al 
Patto internazionale 
relativo ai 
diritti 
civili 
e 
politici, adottato in data 
16 dicembre 
1966 e 
ratificato dall'Italia 
con la 
legge 


n. 881/1977, in caso di 
assunte 
violazioni 
del 
diritti 
umani 
ed esauriti 
tutti 
i 
ricorsi 
interni avviati per ovviare a tali violazioni. 
In 
merito 
alle 
"Comunicazioni" 
di 
violazione 
dei 
diritti 
umani 
da 
parte 
del 
singolo 
cittadino, 
il 
Comitato 
dei 
Diritti 
umani 
emette 
una 
"Considerazione" 
sulla 
violazione 
del 
Patto da 
parte 
dello Stato membro comunicandola 
a 
detto Stato, ai 
sensi 
dell'art. 5 del 
Protocollo Addizionale, con l'invito a 
indicare 
le misure prese per ovviare alla detta violazione. 


In proposito, l'art. 2 del 
Patto internazionale 
relativo ai 
diritti 
civili 
e 
politici 
dispone 
che 
"ciascuno degli 
stati 
parti 
del 
presente 
Patto si 
impegna a 
rispettare 
ed a garantire 
a tutti 
gli 
individui 
che 
si 
trovino sul 
suo territorio 
e 
siano 
sottoposti 
alla 
sua 
giurisdizione 
i 
diritti 
riconosciuti 
nel 
presente 
Patto, 
senza 
distinzione 
alcuna, 
sia 
essa 
fondata 
sulla 
razza, 
il 
colore, 
il 
sesso, 
la 
lingua, 
la 
religione, 
l'opinione 
politica 
o 
qualsiasi 
altra 
opinione, 
l'origine 
nazionale 
o 
sociale, 
la 
condizione 
economica, 
la 
nascita 
o 
qualsiasi 
altra 
condizione. 
2. 
Ciascuno 
degli 
stati 
parti 
del 
presente 
Patto 
si 
impegna 
a 
compiere, 
in armonia con le 
proprie 
procedure 
costituzionali 
e 
con le 
disposizioni 
del 
presente 
Patto, 
i 
passi 
necessari 
per 
l'adozione 
delle 
misure 
legislative 
o 
d'altro 
genere 
che 
possano occorrere 
per 
rendere 
effettivi 
i 
diritti 
riconosciuti 
nel 
presente 
Patto qualora non vi 
provvedano già le 
misure 
legislative 
o d'altro 
genere, in vigore. 3. Ciascuno degli 
stati 
parti 
del 
presente 
Patto s'impegna 


a: 
a) 
garantire 
che 
qualsiasi 
persona, 
i 
cui 
diritti 
o 
libertà 
riconosciuti 
dal 
presente 
Patto siano stati 
violati, disponga di 
effettivi 
mezzi 
di 
ricorso, anche 
nel 
caso in cui 
la violazione 
sia stata commessa da persone 
agenti 
nell'eser

PArErI 
DEL 
COMITATO 
CONSuLTIVO 


cizio delle 
loro funzioni 
ufficiali; b) garantire 
che 
l'autorità competente, giudiziaria, 
amministrativa 
o 
legislativa, 
od 
ogni 
altra 
autorità 
competente 
ai 
sensi 
dell'ordinamento giuridico dello stato, decida in merito ai 
diritti 
del 
ricorrente, 
e 
sviluppare 
le 
possibilità 
di 
ricorso 
in 
sede 
giudiziaria; 
c) 
garantire 
che 
le 
autorità competenti 
diano esecuzione 
a qualsiasi 
pronuncia di 
accoglimento 
di tali ricorsi". 


Coordinando tali 
disposizioni 
si 
deduce 
che 
le 
Considerazioni 
del 
Comitato 
dei 
Diritti 
umani 
delle 
Nazioni 
unite 
non attribuiscono/accertano un diritto 
soggettivo in favore 
del 
singolo cittadino ma 
sono rivolte 
solo allo Stato 
contraente 
che 
è 
invitato ad attuare 
il 
Patto ed a 
rimuovere 
atti, anche 
legislativi, 
che si pongono in violazione del Patto medesimo. 


In 
sostanza, 
le 
decisioni 
del 
Comitato 
dei 
Diritti 
umani 
non 
avrebbero 
un'efficacia 
verticale 
di 
attribuzione 
di 
una 
posizione 
giuridica 
direttamente 
tutelabile 
dal 
cittadino nell'ambito dell'ordinamento interno, in quanto tale 
efficacia 
non 
è 
prevista 
da 
alcuna 
disposizione 
del 
Patto 
internazionale 
e 
del 
Protocollo 
Addizionale 
(come, 
invece, 
avviene 
nei 
Trattati 
istitutivi 
del-
l'unione 
Europea 
e 
nella 
Convenzione 
Europea 
dei 
Diritti 
dell'uomo), 
ma 
sono 
rivolte 
al 
solo Stato membro, invitato -sul 
piano etico e 
politico -a 
porre 
in 
essere 
le 
condotte 
idonee 
a 
rimuovere 
la 
condotta 
lesiva 
dei 
diritti 
umani 
riconosciuti 
dal Patto e a porre in essere gli strumenti riparatori ritenuti congrui. 


Esclusa 
l'idoneità 
delle 
Considerazioni 
de 
quibus 
ad assumere 
efficacia 
diretta 
nell'ambito 
dell'ordinamento 
nazionale, 
è 
possibile 
ipotizzare 
-tuttavia 


-una 
loro valenza 
ermeneutica 
in sede 
di 
interpretazione 
della 
normativa 
interna 
che 
riconosca 
in 
ambito 
nazionale 
i 
medesimi 
diritti 
riconosciuti 
dal 
Patto, così come enunciati dal Comitato. 
Nel 
caso di 
specie, peraltro, la 
questione 
attinente 
alla 
pretesa 
discriminazione 
dell'interessata 
è 
già 
stata 
delibata 
nei 
giudizi 
intrapresi 
dalla 
medesima 
davanti 
alla 
giurisdizione 
amministrativa, 
che 
però 
-con 
sentenza 
passata 
in giudicato -ha 
ritenuto legittima 
l'esclusione 
della 
sig.ra 
OMISSIS 
dalla 
procedura 
concorsuale. 


Dunque, 
nella 
fattispecie 
in 
esame, 
si 
ritiene 
non 
sussistente 
un 
danno 
"ingiusto" 
-cioè 
contra jus 
-risarcibile 
-sul 
piano nazionale 
-in sede 
giurisdizionale, 
dato che 
l'esclusione 
della 
sig.ra 
OMISSIS 
dal 
concorso è 
avvenuta 
in piena conformità alla disciplina normativa vigente 
ratione temporis. 


Difatti, 
il 
risarcimento 
del 
danno 
-da 
inquadrarsi 
nell'ambito 
dell'art. 
2043 


c.c. 
-derivante 
dall'asserita 
condotta 
discriminatoria 
dell'Amministrazione 
statale 
presuppone 
la 
sussistenza 
di 
un 
fatto 
illecito 
che, 
nella 
fattispecie, 
è 
escluso 
non 
solo 
dalla 
conformità 
del 
comportamento 
della 
P.A. 
alla 
disciplina 
applicabile 
al 
concorso de 
quo, ma 
anche 
dalla 
declaratoria 
di 
legittimità 
del 
medesimo da parte dei giudici amministrativi. 
Peraltro, tenuto conto che 
l'ordinamento italiano aveva 
già 
da 
tempo modificato 
la 
disposizione 
interna 
ritenuta 
discriminatoria 
con la 
legge 
n. 2/2015 



rASSEGNA 
AVVOCATurA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


ed esclusa 
la 
possibilità 
di 
riconoscere 
in favore 
dell'interessata 
un diritto al 
risarcimento del 
danno, l'adempimento richiesto dalla 
Considerazioni 
del 
Comitato 
è limitato solo al profilo riparatorio nei confronti della interessata. 


A 
tale 
fine, 
potrebbe 
essere 
di 
utile 
riferimento 
il 
principio 
di 
diritto 
espresso dalla 
giurisprudenza 
del 
Consiglio di 
Stato che 
ha 
chiarito che, al 
dipendente 
illegittimamente 
escluso da 
una 
procedura 
concorsuale, può essere 
riconosciuta 
la 
decorrenza, 
dalla 
data 
della 
mancata 
assunzione, 
dell'anzianità 
di 
servizio ai 
soli 
fini 
giuridici 
e 
non anche 
ai 
fini 
economici, in quanto il 
trattamento 
economico, 
"in 
forza 
della 
sua 
natura 
sinallagmatica, 
presuppone 
necessariamente 
l'avvenuto 
svolgimento 
dell'attività 
di 
servizio" 
(cfr., 
tra 
le 
altre, 
CDS 
n. 
1029/2015, 
CDS 
n. 
955/2017); 
dunque, 
pur 
in 
assenza 
di 
un 
fatto 
illecito 
"colposo" 
generatore 
di 
un 
danno 
"ingiusto" 
risarcibile, 
potrebbe 
essere 
riconosciuta, al 
più, in adempimento delle 
Considerazioni 
del 
Comitato, la 
ricostruzione 
della 
carriera 
ai 
soli 
fini 
giuridici, con decorrenza 
dal 
27 gennaio 
2010 (data 
in cui 
la 
sig.ra 
OMISSIS 
sarebbe 
già 
potuta 
entrare 
nei 
ruoli 
permanenti 
dei 
Vigili del Fuoco), e non ai fini economici. 


Su 
tali 
premesse 
(assenza 
di 
un 
fatto 
illecito 
"colposo" 
generatore 
di 
danno 
"ingiusto" 
ex 
art. 
2043 
c.c.) 
va 
anche 
ritenuta 
non 
accoglibile 
la 
domanda 
di 
danno 
morale 
e 
per 
spese 
legali 
sostenute 
negli 
anni 
dalla 
sig.ra 
OMISSIS 
e 
quantificate 
in € 20.000,00, tenuto anche 
conto che 
la 
procedura 
dinanzi 
al 
Comitato dei 
Diritti 
umani 
è 
gratuita 
e 
non necessita 
dell'assistenza 
legale. 


In conclusione, la 
Scrivente, pur ritenendo che 
le 
Considerazioni 
del 
Comitato 
dei 
Diritti 
umani 
non abbiano valore 
cogente 
nell'ambito dell'ordinamento 
interno, 
esprime 
l'avviso 
che 
le 
Amministrazioni 
in 
indirizzo, 
per 
quanto 
di 
rispettiva 
competenza, vogliano compiere 
le 
opportune 
valutazioni 
al 
fine 
dell'individuazione 
dei 
provvedimenti 
riparatori 
da 
assumere 
per ottemperare 
nel 
modo migliore, nel 
quadro di 
corretti 
rapporti 
internazionali, alle 
Considerazioni 
del 
Comitato, 
provvedimenti 
che 
potrebbero, 
ad 
esempio, 
consistere 
nella 
ricostruzione 
-sia 
pure 
ai 
soli 
fini 
giuridici 
-della 
carriera 
dell'interessata 
sulla 
base 
delle 
coordinate 
tracciate 
dalla 
citata 
giurisprudenza 
del 
Consiglio 
di 
Stato, 
fornendone, 
quindi, 
tempestiva 
comunicazione 
al 
Comitato 
medesimo, 
come 
prescritto dall'art. 4 del 
Protocollo Addizionale 
al 
Patto internazionale 
relativi ai diritti civili e politici. 


Attesa 
la 
valenza 
di 
massima, è 
stato sentito il 
Comitato Consultivo che, 
nella seduta del 18 marzo 2021, si è espresso in conformità. 



LEGISLAZIONEEDATTUALITÀ
I quattro pilastri governativi per l’utilizzo efficiente del 
Recovery Fund: scelta di “buoni” progetti, semplificazione 
delle procedure, reperimento di adeguate professionalità, 
limitazione delle responsabilità gestorie. Analisi e rilievi 


Michele Gerardo* 


Sommario: 
1. 
introduzione 
-2. 
Scelta 
di 
“buoni” 
progetti 
-3. 
Semplificazione 
delle 
procedure 
-4. reperimento di 
adeguate 
professionalità -5. Limitazione 
delle 
responsabilità gestorie 
-6. Limitazione 
delle 
responsabilità gestorie. (segue) 
La (parziale) “buona” 
novella 
dell’art. 
23 
D.L. 
n. 
76/2020 
-7. 
Limitazione 
delle 
responsabilità 
gestorie. 
(segue) 
La 
“cattiva” 
novella dell’art. 21 D.L. n. 76/2020. aspetti 
generali 
ed obiettivi 
perseguiti 
-8. Limitazione 
delle 
responsabilità 
gestorie. 
(segue) 
aspetti 
critici 
della 
disciplina 
contenuta 
nell’art. 
21 


D.L. n. 76/2020 - 9. Conclusioni. 
1. introduzione. 
In conseguenza 
dei 
pregiudizi 
arrecati 
a 
partire 
dal 
marzo 2020 dalla 
diffusione 
della 
pandemia 
da 
COVID 
19, l’Unione 
Europea 
ha 
messo in campo 
misure 
straordinarie, 
tra 
cui 
finanziamenti 
di 
progetti 
finalizzati 
alla 
ripresa 
economica 
e 
sociale 
(il 
c.d. 
recovery 
Fund) 
ammontanti 
per 
l’Italia, 
all’attualità, 
a circa 209 miliardi di euro. 

All’uopo è 
stato adottato il 
Regolamento (UE) 2021/241 del 
Parlamento 
europeo e 
del 
Consiglio del 
12 febbraio 2021 che 
istituisce 
il 
dispositivo per 
la 
ripresa 
e 
la 
resilienza. Sono sei 
i 
pilastri 
dei 
piani 
di 
intervento: 
“a) transizione 
verde; b) trasformazione 
digitale; c) crescita intelligente, sostenibile 
e 
inclusiva, 
che 
comprenda 
coesione 
economica, 
occupazione, 
produttività, 


(*) Avvocato dello Stato. 


Le posizioni espresse nel presente scritto impegnano esclusivamente l’Autore. 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


competitività, ricerca, sviluppo e 
innovazione, e 
un mercato interno ben funzionante 
con 
Pmi 
forti; 
d) 
coesione 
sociale 
e 
territoriale; 
e) 
salute 
e 
resilienza 
economica, sociale 
e 
istituzionale, al 
fine, fra l'altro, di 
rafforzare 
la capacità 
di 
risposta alle 
crisi 
e 
la preparazione 
alle 
crisi; e 
f) politiche 
per 
la prossima 
generazione, l’infanzia e 
i 
giovani, come 
l'istruzione 
e 
le 
competenze” 
(art. 3 
del Reg. 2021/241). 


Per la 
prima 
volta 
in tanti 
anni 
lo Stato italiano si 
trova 
a 
poter fare 
investimenti 
significativi 
con il 
solo vincolo che 
siano fatti 
bene, cioè 
che 
aumentino 
la 
crescita 
del 
Paese 
e 
quindi 
contribuiscano 
anche 
a 
rendere 
il 
nostro 
debito 
sostenibile, 
sicché 
-intuitivamente 
-è 
importante 
che 
questi 
investimenti 
siano ben scelti e ben eseguiti (1). 


Trattasi 
di 
risorse 
straordinarie 
richiedenti 
una 
capacità 
organizzativa 
per 
tutte 
le 
fasi 
coinvolte: 
redazione 
di 
progetti, attuazione, rendicontazione. Nel 
momento attuale 
si 
è 
nella 
fase 
iniziale 
della 
filiera, quella 
della 
predisposizione 
dei progetti. 


L’Italia, 
dopo 
la 
Polonia, 
è 
il 
paese 
che 
-storicamente 
-beneficia 
dei 
maggiori 
contributi 
provenienti 
dall’U.E.; 
tuttavia 
la 
gran parte 
dei 
detti 
fondi 
è 
stata 
perduta 
per 
l’incapacità 
di 
rispettare 
le 
procedure. 
Sono 
tante 
le 
cause 
del 
deficit 
gestorio: 
inidonea 
programmazione, 
intervento 
-nella 
filiera 
del 
procedimento 
-di 
più 
enti, 
disorganizzazione, 
mancata 
preparazione 
specifica 
delle risorse umane dedicate (2). 


Forte 
è 
il 
timore 
che 
anche 
per 
il 
recovery 
Fund 
possano 
ripetersi 
le 
scarse 
performance 
che 
nel 
tempo 
hanno 
connotato 
la 
gestione 
dei 
fondi 
strutturali 
dell’U.E. (tra cui FESR, FSE, FEASR). 


In questa 
fase 
emergenziale 
sono state 
formulate 
proposte 
ed adottate 
disposizioni 
funzionali 
ad 
una 
efficiente 
gestione 
della 
macchina 
amministrativa 
italiana, anche e soprattutto per la gestione del 
recovery Fund. 


Allo stato attuale 
difetta 
un piano di 
interventi 
sistematico e 
unitario funzionale 
alla 
ottimale 
gestione 
del 
recovery 
Fund. 
Sono 
annunciate 
ed 
adottate 
misure episodiche. 


Con il 
presente 
studio si 
tenterà 
di 
analizzare 
tali 
misure 
formulando rilievi 
sulle 
stesse, 
con 
l’obiettivo 
-comune 
a 
qualsivoglia 
osservatore 
sensibile 
all’interesse 
nazionale 
-di 
contribuire 
ad individuare 
le 
migliori 
misure 
per 
effettuare 
“spesa buona” 
per il successo di questa storica occasione. 


2. Scelta di “buoni” progetti. 
Nei 
cicli 
passati 
della 
programmazione 
comunitaria 
di 
durata 
settennale, 


(1) Per tali 
rilievi, tra 
l’altro, si 
cita 
il 
discorso del 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
Ministri 
all’inaugurazione 
dell’anno giudiziario della Corte dei Conti del 19 febbraio 2021. 
(2) Sul 
punto: 
M. GERARDO, La selezione 
della burocrazia in italia nell’attuale 
momento storico, 
in rassegna della avvocatura dello Stato 
2018, 4, pp. 259 e ss. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


nei 
quali 
non si 
è 
speso in modo efficiente, è 
accaduto spesso che 
a 
fine 
ciclo, 
preso atto dei 
ritardi, le 
amministrazioni 
hanno proceduto alla 
“accelerazione 
della 
spesa”. Pur di 
spendere 
qualcosa, dunque, si 
sono fatte 
spese 
inutili, ad 
esempio il rifacimento delle piazze dei comuni. 


Questo, in generale, non possiamo più permettercelo. 


Con quale modalità scegliere i progetti? 


In ipotesi le modalità sono tre. 


a) Scelta da parte del corpo elettorale in sede di elezioni. 
Il tipo di progettualità è condizionato da visioni politiche. 


Una 
visione 
politica 
prevalentemente 
orientata 
allo sviluppo industriale, 
con 
il 
conseguente 
indotto 
occupazionale, 
conduce 
a 
una 
progettualità 
mirante 
ad 
un 
reinsediamento 
di 
impianti 
industriali 
e 
manifatturieri, 
a 
fronte 
della 
delocalizzazione 
operata 
nell’ultimo 
trentennio 
in 
Paesi 
a 
basso 
costo 
del 
lavoro. 


Una 
visione 
politica 
prevalentemente 
orientata 
al 
sociale 
punterà 
a 
progetti 
miranti alla costruzione/ammodernamento di scuole ed asili nido. 


Una 
visione 
politica 
prevalentemente 
orientata 
allo sfruttamento delle 
risorse 
naturali potrà avere come obiettivo un ritorno all’agricoltura. 


Dovrebbero svolgersi 
nuove 
elezioni, nelle 
quali 
le 
forze 
politiche 
propongano 
un loro programma al corpo elettorale. 


b) Scelta da parte della Conferenza Unificata. 
In subordine 
alla 
scelta 
da 
parte 
del 
corpo elettorale, attesa 
la 
strategicità 
dei 
progetti, 
è 
necessario 
coinvolgere 
nelle 
decisioni 
almeno 
gli 
enti 
territoriali. 
Strumento 
di 
raccordo 
e 
cooperazione 
allo 
scopo 
-tenuto 
conto 
della 
sua 
composizione: 
Stato, Regioni, Province 
autonome, Città 
ed autonomie 
locali 
-è 
la 
Conferenza 
unificata 
(disciplinata 
dal 
D.L.vo 
28 
agosto 
1997, 
n.281), 
la 
quale 
interviene 
in 
relazione 
alle 
materie 
ed 
ai 
compiti 
di 
interesse 
comune 
allo Stato, alle regioni, alle province, ai comuni e alle comunità montane. 


c) Scelta di politiche infrastrutturali. 
Ultima 
Thule, 
atteso 
lo 
stato 
delle 
nostre 
infrastrutture, 
non 
vi 
sono 
dubbi 
che 
i 
progetti 
dovrebbero 
riguardare 
esclusivamente 
la 
rete 
infrastrutturale 
(nuovi insediamenti, ristrutturazioni, completamenti). 


Circa 
la 
metà 
dell’acqua 
trasportata 
nella 
rete 
idrica 
si 
disperde 
prima 
di 
arrivare 
a 
destinazione, a 
causa 
della 
fatiscenza 
degli 
impianti. Con il 
primo 
progetto occorre rifare la rete idrica del Paese. 


Tanta 
parte 
degli 
edifici 
pubblici, 
specie 
scuole 
ed 
ospedali, 
sono 
non 
adeguati, anche 
sotto l’aspetto del 
risparmio energetico. Con il 
secondo progetto 
occorre ammodernare scuole ed ospedali (almeno nei casi più gravi). 


Grande 
e 
crescente 
è 
il 
divario 
infrastrutturale 
Nord-Sud 
del 
Paese. 
Cristo 
si 
è 
fermato ad Eboli: 
la 
rete 
ferroviaria 
calabrese 
e 
la 
rete 
stradale 
ed idrica 
siciliana 
si 
trovano 
in 
condizioni 
di 
grave 
deficienza. 
Con 
il 
terzo 
progetto 
occorre 
eliminare 
o ridurre 
il 
detto gap, ricorrendo a 
un criterio oggettivo, come 
quello utilizzato in occasione 
della 
riunificazione 
tedesca 
per superare 
il 
gap 



RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


Germania 
ovest-Germania 
est: 
il 
Sud del 
Paese 
deve 
avere 
al 
stessa 
quantità 
di rete infrastrutturale del Nord del Paese. 

In conclusione 
quello che 
va 
evitato è 
l’inerzia 
e/o dispersione 
delle 
risorse 
del 
recovery Fund. 


3. Semplificazione delle procedure. 
Fatta 
la 
scelta 
dei 
progetti, 
occorre 
poi 
gestirli. 
Qui 
cominciano 
le 
dolenti 
note, 
attesa 
la 
storica 
incapacità 
di 
realizzare 
una 
spesa 
efficiente, 
specie 
in 
sede di gestione dei fondi strutturali. 


Questa 
incapacità 
ha 
varie 
cause, tra 
le 
quali 
la 
numerosità 
dei 
procedimenti 
amministrativi 
riguardanti 
la 
realizzazione 
di 
una 
unica 
opera 
pubblica 
ed altresì la complicatezza degli stessi. 


Sotto 
il 
primo 
profilo, 
per 
le 
opere 
coinvolte 
nel 
recovery 
Fund 
andrebbe 
previsto un “procedimento unico”, che 
consenta 
di 
convogliare 
ed acquisire 
tutte le valutazioni ed introdurre tutti gli interessi presenti (3). 


La 
complicatezza 
dei 
procedimenti 
amministrativi 
è 
ben 
rappresentata 
da 
quelli 
specificamente 
diretti 
alla 
acquisizione 
di 
opere, servizi 
e 
forniture 
delineati 
nel Codice dei contratti (D.L.vo 12 aprile 2016, n. 50). 

Primo 
fattore 
di 
complicatezza 
-preclusivo 
di 
procedimenti 
rapidi, 
attesa 
la 
funzione 
orientativa 
della 
norma 
giuridica 
regolatrice 
della 
materia 
è 
la 
nebulosità 
ed 
incertezza 
del 
quadro 
normativo, 
la 
difficoltà 
del 
quadro 
conoscitivo. 


Il 
Codice 
dei 
contratti 
si 
compone 
di 
220 
articoli 
e 
26 
allegati. 
Gli 
articoli 
non sono del 
tipo codice 
civile 
o codice 
di 
procedura 
civile 
al 
momento della 
loro 
entrata 
in 
vigore 
(per 
intenderci: 
disposizioni 
essenziali, 
chiare, 
sintetiche 
(4). L’art. 3 del 
Codice 
dei 
contratti 
si 
compone 
di 
oltre 
5.000 parole, il 
successivo 
art. 80 si 
compone 
di 
circa 
2.400 parole. Patente 
è 
l’incapacità 
di 
sintesi, 
la 
provvedimentalizzazione 
del 
contenuto 
della 
legge. 
Il 
Codice 
dei 
Contratti raggiunge le dimensioni dell’intero Codice Civile. 


Dal 
2016 ad oggi, ossia 
in cinque 
anni, il 
Codice 
dei 
contratti 
è 
stato modificato 
cinque 
volte 
(D.L.vo 19 aprile 
2017, n. 56; 
D.L. 14 dicembre 
2018, 


n. 135, conv. L. 11 febbraio 2019, n. 12; 
D.L.vo 12 gennaio 2019, n. 14; 
D.L. 
18 aprile 
2019, n. 32, conv. L. 14 giugno 2019, n. 55; 
D.L. 16 luglio 2020, n. 
76, 
conv. 
L. 
11 
settembre 
2020, 
n. 
120), 
con 
oltre 
1.100 
modifiche. 
L’instabilità 
(3) In tal 
senso anche 
S. DE 
FELICE, alcune 
idee 
per 
una Pa 
migliore 
per 
il 
Paese. Non solo per 
il 
recovery, p. 1, in 
Sito Giustizia amministrativa, approfondimenti 
Dottrina, pubblicato il 
20 febbraio 
2021. 
(4) 
L’art. 
105 
c.p.c. 
-con 
dictum 
tacitiano, 
in 
una 
materia 
complessa 
quale 
l’intervento 
volontario 
-così 
recita: 
“Ciascuno può intervenire 
in un processo tra altre 
persone 
per 
far 
valere, in confronto di 
tutte 
le 
parti 
o 
di 
alcune 
di 
esse, 
un 
diritto 
relativo 
all'oggetto 
o 
dipendente 
dal 
titolo 
dedotto 
nel 
processo 
medesimo. 
Può 
altresì 
intervenire 
per 
sostenere 
le 
ragioni 
di 
alcuna 
delle 
parti, 
quando 
vi 
ha 
un 
proprio 
interesse”. Meglio e con minori parole non si poteva dire. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


del 
quadro normativo, all’evidenza, non consente 
la 
sedimentazione 
di 
orientamenti 
(5). 

A 
ciò 
aggiungasi 
che 
il 
Codice 
dei 
contratti 
deve 
essere 
integrato 
da 
circa 
cinquanta 
atti 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
Ministri, del 
Ministero delle 
Infrastrutture, dell’ANAC, aventi 
la 
più disparata 
natura 
e 
da 
adottare 
entro 
determinati 
termini. L’operatore 
che 
vuole 
conoscere 
la 
disciplina 
di 
una 
materia 
deve 
disporre 
-in luogo di 
un unico testo -di 
una 
congerie 
di 
fonti, da 
controllare 
nella 
loro vigenza. Una 
sorta 
di 
vestito di 
Arlecchino, per intenderci. 
Con 
l’aggravante 
che, 
laddove 
non 
vengano 
adottati 
i 
provvedimenti 
normativi 
entro 
i 
termini 
prefissati 
(termini 
giustamente 
definibili, 
con 
Redenti, 
“canzonatori”), 
la 
disciplina 
è 
quanto 
mai 
problematica. 
Ed 
è 
quanto 
avvenuto 
proprio 
con 
il 
Codice 
degli 
Appalti. 
Valga 
il 
caso 
della 
qualificazione 
delle 
stazioni 
appaltanti, ex 
art. 38, comma 
2, del 
detto Codice: 
il 
D.P.C.M. 
definitorio 
dei 
requisiti 
tecnico 
organizzativi 
per 
l’iscrizione 
doveva 
essere 
adottato entro novanta 
giorni 
dalla 
data 
di 
entrata 
in vigore 
del 
Codice. Il 
decreto 
in esame, a 
cinque 
anni 
della 
entrata 
in vigore 
del 
Codice 
degli 
Appalti, 
non 
ha 
ancora 
visto 
la 
luce. 
L’operatore, 
all’evidenza, 
non 
dispone 
di 
un 
unico 
testo per orientare 
la 
propria 
condotta, ma 
deve 
cercare 
i 
provvedimenti 
completivi 
(se ci sono) ed i successivi aggiornamenti. 


Secondo 
fattore 
di 
complicatezza 
è 
l’estrema 
difficoltà 
di 
delineare 
la 
progettazione 
a 
base 
di 
gara 
ed altresì 
la 
complessità 
delle 
procedure 
di 
scelta 
del 
contraente, 
che 
rende 
non 
facile 
il 
raccordo 
tra 
regimi 
ordinari, 
regimi 
speciali 
ed eccezioni ai due regimi. 

La 
sommatoria 
dei 
detti 
fattori 
sono i 
notevoli 
costi 
preliminari 
e 
le 
lungaggini 
delle procedure. 


Come uscire da tale 
impasse? 


Un primo modello è 
il 
c.d. modello Genova 
-rectius: 
i 
lavori 
per la 
ricostruzione 
del 
viadotto 
Polcevera 
(c.d. 
ponte 
Morandi), 
crollato 
nell’agosto 
del 
2018 - e quindi procedure in deroga al regime ordinario. 


Questo primo modello non è 
condivisibile: 
l’efficienza 
deve 
esistere 
in 
tutte 
le 
procedure 
negoziali 
della 
P.A. per procurarsi 
lavori, servizi 
e 
forniture 
e 
non 
solo 
per 
alcune, 
siano 
esse 
la 
ricostruzione 
del 
ponte 
Morandi 
o 
i 
progetti 
coinvolti nel 
recovery Fund. 


È 
auspicabile, quindi, una 
semplificazione 
generalizzata 
di 
tutte 
le 
procedure 
negoziali. 
Un 
modello 
di 
pronta 
fruizione 
è 
il 
c.d. 
modello 
inglese, 
ossia 
l’attuazione 
immediata 
delle 
direttive 
U.E. in materia 
negoziale. Gli 
inglesi 
-ma 
questa 
è 
storia 
perché 
sono usciti 
dall’U.E. -con il 
loro taglio pra


(5) Virgilio Andrioli, di 
fronte 
all’ondivago orientamento del 
giudice 
di 
legittimità 
sul 
modo di 
computare 
i 
termini 
processuali 
in 
presenza 
della 
sospensione 
feriale, 
così 
sollecitò 
i 
giudicanti: 
prendete 
un 
univoco 
orientamento, 
anche 
sbagliato, 
e 
tenetelo 
fermo 
in 
modo 
che 
gli 
operatori 
abbiano 
un 
quadro 
stabile; 
ma 
anche 
l’invito di 
Virgilio Andrioli, oggi, risulterebbe 
vano, in presenza, di 
una 
legislazione 
che cambia alla giornata. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


tico, preso atto che 
le 
direttive 
in materia 
sono dettagliate, si 
sono limitati 
a 
tradurle in inglese 
tout court 
senza adottare norme di recezione. 


All’uopo potrebbe 
essere 
adottata 
una 
legge 
con un articolo unico del 
seguente 
tenore: 


“articolo unico 


1. 
il 
D.L.vo 
12 
aprile 
2016, 
n. 
50 
è 
abrogato; 
le 
relative 
disposizioni 
continuano 
ad applicarsi alle procedure pendenti. 
2. 
L’aggiudicazione 
dei 
contratti 
di 
concessione 
è 
regolata 
dalla 
direttiva 
2014/23/UE 
del 
Parlamento 
europeo 
e 
del 
Consiglio, 
del 
26 
febbraio 
2014; 
l’aggiudicazione 
dei 
contratti 
di 
appalto 
pubblico 
è 
regolata 
dalla 
direttiva 
2014/24/UE 
del 
Parlamento 
europeo 
e 
del 
Consiglio, 
del 
26 
febbraio 
2014; 
l’aggiudicazione 
dei 
contratti 
di 
appalto 
degli 
enti 
erogatori 
nei 
settori 
dell'acqua, 
dell'energia, 
dei 
trasporti 
e 
dei 
servizi 
postali 
è 
regolata 
dalla 
direttiva 
2014/25/UE 
del 
Parlamento 
europeo 
e 
del 
Consiglio, 
del 
26 
febbraio 
2014. 
Per 
tutto 
quanto 
non 
previsto 
dalle 
direttive 
innanzi 
indicate 
si 
applicano 
il 
Codice 
Civile 
ed 
i 
principi 
generali 
di 
correttezza 
e 
buona 
fede. 
3. La presente 
legge 
entra in vigore 
il 
giorno successivo alla pubblicazione 
sulla Gazzetta ufficiale” 
(6). 
4. reperimento di adeguate professionalità. 
Vi 
è 
consapevolezza 
che 
non 
si 
può 
fallire 
nella 
gestione 
del 
recovery 
Fund. Vi 
è 
altresì 
consapevolezza 
che 
le 
risorse 
umane 
delle 
PP.AA. attualmente 
disponibili 
sono 
insufficienti 
e 
qualitativamente 
inidonee 
allo 
scopo, 
specie 
con riguardo ai 
profili 
tecnici 
(ingegneri, architetti, informatici, esperti 
di 
procedure 
amministrative 
e 
contabili 
relative 
ai 
fondi 
strutturali 
dell’U.E.). 


Un 
primo 
strumento, 
ovvio, 
per 
reperire 
risorse 
umane 
con 
adeguate 
professionalità 
è 
il 
concorso pubblico con tempi 
rapidizzati. Cosa, invero, facile 
a 
dirsi 
ma 
non a 
farsi, anche 
per le 
difficoltà 
organizzative 
collegate 
ai 
disagi 
provocati dalla pandemia. 


Altro strumento, necessariamente 
contingente, è 
il 
ricorrere 
alle 
tradizionali 
formule dei contratti di consulenza e di assistenza tecnica. 


(6) 
Tale 
proposta 
non 
è 
isolata 
nella 
comunità 
giuridica. 
Si 
rileva 
che 
“recentemente 
il 
Presidente 
del 
Consiglio 
di 
Stato 
Filippo 
Patroni 
Griffi, 
ha 
espresso 
in 
modo 
chiaro 
che 
la 
materia 
dei 
contratti 
pubblici 
potrebbe 
essere 
in 
poco 
tempo 
semplificata 
ritornando 
alle 
direttive 
UE 
e 
abbattendo 
il 
cosiddetto 
goldplating, 
l’“indoramento”, 
l’aggravamento 
anomalo 
attuato 
di 
solito 
dallo 
Stato 
italiano 
nelle 
leggi 
(spesso 
decreti 
delegati) 
di 
recepimento 
delle 
direttive” 
S. 
DE 
FELICE, 
alcune 
idee 
per 
una 
Pa 
migliore 
per 
il 
Paese. 
Non 
solo 
per 
il 
recovery, 
cit., 
p. 
1, 
ove 
si 
rileva 
altresì 
“Certo, 
c’è 
la 
esigenza 
di 
disciplinare 
gli 
aspetti 
interni, 
ma 
in 
una 
materia 
caratterizzata 
da 
tante 
fonti 
del 
diritto 
quali 
regolamenti 
e 
direttive 
europee, 
normativa 
statale 
primaria 
e 
secondaria 
(allo 
stato, 
non 
l’auspicato 
regolamento 
unico, 
ma 
varie 
decine 
di 
regolamenti, 
linee 
guida 
anac 
e 
anche 
leggi 
regionali 
su 
materie 
secondarie, 
quali 
la 
composizione 
delle 
commissioni), 
bandi 
(il 
bando 
è 
definito 
la 
lex 
specialis 
della 
gara), 
capitolati, 
contratti, 
si 
può 
e 
si 
deve 
provare 
a 
espungere 
il 
troppo 
e 
il 
vano, 
e 
guarire 
dal 
“morbo” 
del 
troppo 
diritto”. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


a) Contratti di consulenza e/o collaborazione. 
La 
legge 
(art. 
7, 
D.L.vo 
30 
marzo 
2001, 
n.165) 
consente 
alle 
amministrazioni 
pubbliche 
-per specifiche 
esigenze 
cui 
non possono far fronte 
con personale 
in servizio -di 
conferire 
incarichi 
individuali, con contratti 
di 
lavoro 
autonomo, ad esperti 
di 
particolare 
e 
comprovata 
specializzazione 
anche 
universitaria, 
in presenza dei determinati presupposti di legittimità (7). 

Vi sono dei paletti ragionevoli ed ovvi. All’uopo si è statuito che: 


-è 
fatto 
divieto 
alle 
amministrazioni 
pubbliche 
di 
stipulare 
contratti 
di 
collaborazione 
che 
si 
concretano in prestazioni 
di 
lavoro esclusivamente 
personali, 
continuative 
e 
le 
cui 
modalità 
di 
esecuzione 
siano 
organizzate 
dal 
committente 
anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro; 


-le 
amministrazioni 
pubbliche 
disciplinano 
e 
rendono 
pubbliche, 
secondo 
i 
propri 
ordinamenti, 
procedure 
comparative 
per 
il 
conferimento 
degli 
incarichi 
di collaborazione. 


b) 
assistenza 
tecnica 
in 
virtù 
di 
contratti 
di 
servizio 
con 
operatori 
esterni 
o contratti di servizio con enti in house. 
Fenomeno diffuso nelle 
dinamiche 
delle 
pubbliche 
amministrazioni 
è 
la 
stipula 
di 
un 
peculiare 
contratto 
di 
servizio 
il 
cui 
oggetto 
è 
costituito 
dalla 
fornitura 
di 
assistenza 
tecnica. Con tale 
contratto l’ente 
pubblico mira 
a 
conseguire, 
ad esempio, le 
attività 
di: 
affiancamento, supporto per il 
monitoraggio 
e 
supporto 
specialistico 
per 
particolari 
progetti; 
di 
assistenza 
di 
marketing 
territoriale; 
di 
assistenza 
tecnica 
di 
attuazione 
della 
strategia 
di 
comunicazione 
di 
policy; 
di 
assistenza 
tecnica 
in materia 
di 
programmazione 
economica; 
di 
progettazione 
e 
gestione 
di 
procedure 
informatiche 
ancillari 
ad 
una 
attività 
produttiva; 
di 
supporto nella 
certificazione 
della 
spesa 
di 
programmi 
comunitari; 
di 
assistenza 
tecnica 
alle 
attività 
di 
coordinamento, attuazione, monitoraggio, 
controllo di programmi comunitari; ecc. 


In conseguenza 
della 
stipula 
dei 
contratti 
di 
servizio sopradescritti 
determinate 
risorse 
umane, inglobate 
nel 
complessivo servizio erogato dall’appaltatore, 
contribuiscono 
allo 
svolgimento 
dei 
compiti 
degli 
enti 
pubblici 
committenti. 


Con tali 
contratti 
lo Stato e 
gli 
enti 
territoriali, utilizzano -indirettamente 


-risorse 
esterne 
per lo svolgimento di 
attività 
che 
richiedono una 
elevata 
spe(
7) 
“a) 
l'oggetto 
della 
prestazione 
deve 
corrispondere 
alle 
competenze 
attribuite 
dall'ordinamento 
all'amministrazione 
conferente, ad obiettivi 
e 
progetti 
specifici 
e 
determinati 
e 
deve 
risultare 
coerente 
con le 
esigenze 
di 
funzionalità dell'amministrazione 
conferente; b) l'amministrazione 
deve 
avere 
preliminarmente 
accertato l'impossibilità oggettiva di 
utilizzare 
le 
risorse 
umane 
disponibili 
al 
suo interno; 
c) la prestazione 
deve 
essere 
di 
natura temporanea e 
altamente 
qualificata; non è 
ammesso il 
rinnovo; 
l'eventuale 
proroga dell'incarico originario è 
consentita, in via eccezionale, al 
solo fine 
di 
completare 
il 
progetto 
e 
per 
ritardi 
non 
imputabili 
al 
collaboratore, 
ferma 
restando 
la 
misura 
del 
compenso 
pattuito 
in sede 
di 
affidamento dell'incarico; d) devono essere 
preventivamente 
determinati 
durata, oggetto e 
compenso della collaborazione” 
(art. 7, comma 6, D.L.vo n. 165/2001). 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


cializzazione, sopperendo ad un deficit 
interno di 
idonee 
risorse 
umane. Questo 
è quanto accade per il ciclo della gestione dei fondi comunitari. 

All’evidenza, 
per 
il 
successo 
della 
gestione 
dei 
progetti 
del 
recovery 
Fund 
occorre 
fare 
un uso ragionevole 
delle 
due 
formule 
indicate, specie 
la 
seconda. 


Anche 
in questa 
fase 
di 
avvio del 
recovery 
Fund 
si 
sta 
facendo ricorso a 
consulenze 
esterne: 
come 
risulta 
da 
notizie 
di 
stampa 
(8), 
il 
Ministero 
del-
l’Economia 
e 
delle 
Finanze 
ha 
conferito 
una 
consulenza 
alla 
società 
McKinsey 
per uno studio sui 
piani 
Next 
Generation 
già 
predisposti 
dagli 
altri 
paesi 
UE 
ed un supporto tecnico-operativo di 
project 
management 
per il 
monitoraggio 
dei 
diversi 
filoni 
di 
lavoro 
per 
la 
finalizzazione 
del 
Piano. 
Questa 
scelta 
ha 
suscitato 
critiche 
nella 
stampa 
circa 
la 
necessità 
di 
ricorrere 
all’esterno in luogo 
dell’utilizzo di risorse interne (9) e la vaghezza dell’incarico conferito. 


Come 
evidenziato, occorre 
fare 
un uso ragionevole 
delle 
due 
formule: 
né 
demonizzarle, né 
utilizzarle 
in modo scriteriato quale 
strumento clientelare. 
Ma 
ricorrere 
alle 
stesse 
quale 
mezzo contingente 
e 
necessario per fare 
fronte 
all’attuale 
momento, con meccanismi 
di 
conferimento trasparenti 
ed evitando 
conflitti di interessi. 


5. Limitazione delle responsabilità gestorie. 
L’inosservanza 
delle 
obbligazioni 
assunte 
dal 
dipendente 
pubblico 
con 
la 
stipulazione 
del 
contratto di 
lavoro comporta 
le 
conseguenze, rectius: 
le 
responsabilità, 
normativamente stabilite. 


A 
seconda 
della 
natura 
degli 
interessi 
saranno configurabili 
varie 
specie 
di 
responsabilità: 
penale 
(10), civile, amministrativa 
(11), contabile, disciplinare 
(12), manageriale. 


L’art. 21 D.L. 16 luglio 2020, n. 76, conv. L. 11 settembre 
2020, n. 120, 
rubricato “responsabilità erariale”, enuncia: 


(8) A. BACCARO, L’Economia, voce economica del 
Corriere della Sera, 15 marzo 2021, p. 22. 
(9) “resta difficile 
capire 
perché 
l’esame 
dei 
piani 
altrui 
non possa essere 
affidato a risorse 
interne 
alla nostra amministrazione 
pubblica. Chi 
abbia la curiosità di 
consultare 
il 
sito del 
ministero 
dell’Economia 
(mef) 
può 
constatare 
che 
dispone 
di 
un 
notevole 
numero 
di 
dirigenti. 
il 
solo 
dipartimento 
del 
Tesoro, poi, può contare 
su un “Consiglio tecnico-scientifico degli 
esperti” 
che 
conta nove 
“prof.” 
e 
quattro “dott.” 
Se 
non fanno un lavoro di 
questo genere, si 
può sapere 
che 
cosa fanno? E 
se 
quegli 
esperti 
non ne 
avessero voglia, ci 
sarebbe 
per 
esempio l’Ufficio V 
della ragioneria, tra i 
cui 
compiti 
c’è 
lo “Studio e 
analisi 
comparata delle 
discipline 
contabili 
adottate 
nei 
Paesi 
dell'UE. analisi 
comparata 
a livello internazionale 
sulle 
procedure 
di 
bilancio e 
delle 
relative 
discipline 
contabili, sulle 
metodologie 
dei 
sistemi 
di 
controllo interno e 
di 
misurazione 
delle 
performance. analisi, studi 
e 
proposte 
per 
l'applicazione 
degli 
standards 
internazionali 
di 
contabilità pubblica”. Eccetera. mentre 
studiano 
le 
procedure 
di 
bilancio, non possono dare 
anche 
un’occhiata ai 
piani 
Next 
Generation, che 
comunque 
nei 
bilanci 
ci 
devono entrare?”: 
così 
C. CLERICETTI 
per https://clericetti.blogautore.repubblica.it 
del 
6 
marzo 2021. 
(10) Specie 
per i 
delitti 
dei 
pubblici 
ufficiali 
contro la 
pubblica 
amministrazione 
(artt. 314-335 
c.p.), tra i quali l’abuso d’ufficio (art. 323 c.p.). 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


“1. all’articolo 1, comma 1, della legge 
14 gennaio 1994, n. 20, dopo il 
primo 
periodo 
è 
inserito 
il 
seguente: 
“La 
prova 
del 
dolo 
richiede 
la 
dimostrazione 
della volontà dell'evento dannoso”. 


2. 
Limitatamente 
ai 
fatti 
commessi 
dalla 
data 
di 
entrata 
in 
vigore 
del 
presente 
decreto e 
fino al 
31 dicembre 
2021, la responsabilità dei 
soggetti 
sottoposti 
alla 
giurisdizione 
della 
Corte 
dei 
conti 
in 
materia 
di 
contabilità 
pubblica 
per 
l’azione 
di 
responsabilità 
di 
cui 
all’articolo 
1 
della 
legge 
14 
gennaio 
1994, 
n. 20, è 
limitata ai 
casi 
in cui 
la produzione 
del 
danno conseguente 
alla condotta 
del 
soggetto agente 
è 
da lui 
dolosamente 
voluta. La limitazione 
di 
responsabilità 
prevista dal 
primo periodo non si 
applica per 
i 
danni 
cagionati 
da omissione o inerzia del soggetto agente”. 
L’art. 
23 
D.L. 
n. 
76/2020, 
rubricato 
“modifiche 
all'articolo 
323 
del 
codice 
penale”, poi, enuncia: 


“1. 
all’articolo 
323, 
primo 
comma, 
del 
codice 
penale, 
le 
parole 
“di 
norme 
di 
legge 
o 
di 
regolamento” 
sono 
sostituite 
dalle 
seguenti: 
“di 
specifiche 
regole 
di 
condotta espressamente 
previste 
dalla legge 
o da atti 
aventi 
forza di 
legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità””. 


(11) Gli 
elementi 
costitutivi 
della 
responsabilità 
amministrativa 
possono così 
sinteticamente 
individuarsi: 
a) rapporto di 
servizio; 
b) comportamento dannoso; 
c) danno; 
d) nesso causale 
tra 
comportamento 
dannoso 
e 
danno; 
e) 
elemento 
psicologico. 
La 
responsabilità 
è 
circoscritta 
ai 
fatti 
e 
alle 
omissioni 
commessi 
con dolo o colpa 
grave. Il 
dolo, in ragione 
della 
diversa 
intensità, può assumere 
diverse 
qualificazioni 
(in specie: 
dolo intenzionale, dolo diretto, dolo eventuale). Si 
rileva 
in dottrina 
che 
è 
“controverso 
il 
criterio 
di 
individuazione 
dell'elemento 
soggettivo 
del 
dolo 
nelle 
fattispecie 
di 
danno 
erariale. 
a 
fronte 
di 
un orientamento, in cui 
si 
afferma, in linea con la nozione 
penalistica dell'art. 43 c.p., che, 
per 
integrare 
il 
dolo erariale 
non si 
può prescindere 
dalla volontà dell'evento dannoso, oltre, naturalmente, 
alla 
volontarietà 
della 
condotta 
illecita 
o 
illegittima, 
la 
tesi 
più 
diffusa 
nella 
giurisprudenza 
contabile 
è 
stata 
finora 
quella 
per 
cui 
il 
dolo 
di 
radice 
penalistica 
non 
è 
necessariamente 
e 
meccanicamente 
applicabile 
al 
processo contabile 
per 
responsabilità finanziarie, essendo piuttosto operanti, per 
qualificare 
l'azione 
dolosa 
dei 
dipendenti 
pubblici, 
i 
criteri 
relativi 
al 
dolo 
c.d. 
contrattuale 
o 
in 
adimplendo. 
in 
base 
a 
questo 
indirizzo 
giurisprudenziale, 
per 
aversi 
dolo 
è 
sufficiente 
che 
i 
soggetti 
legati 
da 
un 
rapporto (solitamente 
di 
servizio) alla P.a., tengano scientemente 
un comportamento che 
violi 
un loro 
obbligo, 
senza 
che 
sia 
necessaria 
la 
diretta 
e 
cosciente 
intenzione 
di 
nuocere, 
cioè 
di 
agire 
ingiustamente 
a danno delle 
pubbliche 
finanze. il 
dolo in adimplendo, infatti, si 
identifica nella cosciente 
violazione 
di 
una speciale 
obbligazione 
preesistente, quale 
che 
ne 
sia la fonte, ed è 
ben diverso da quello di 
cui 
all'art. 
43 c.p. (sulla cui 
base 
si 
modella anche 
il 
dolo extracontrattuale 
o aquiliano), ovverossia quale 
volontà dell'evento dannoso”: 
così 
D. IROLLO, responsabilità erariale 
sempre 
più "light", in il 
quotidiano 
per 
la 
p.a. 
(22 
luglio 
2020). 
La 
colpa 
grave 
consiste 
nella 
violazione 
della 
diligenza 
minima 
(mentre 
integra 
la 
colpa 
lieve 
la 
violazione 
della 
ordinaria 
diligenza). La 
colpa 
grave 
esclude 
la 
volontarietà, 
ma 
non si 
esaurisce 
solo -come 
la 
colpa 
c.d. lieve 
-nella 
negligenza, imprudenza 
o imperizia, dovendo 
le 
stesse 
esser elevate, macroscopiche. Si 
deve 
trattare, insomma, di 
violazioni 
grossolane 
del 
dovere 
di 
diligenza, 
di 
prudenza 
e 
di 
perizia 
(non 
intelligere 
quod 
omnes 
intelligunt). 
L’illustrato 
regime 
normativo 
esonera 
da 
responsabilità 
il 
dipendente 
che 
versa 
in colpa 
lieve 
nell’evidente 
obiettivo di 
non gravare 
il 
dipendente 
di 
preoccupazioni 
eccessive 
in ordine 
alle 
conseguenze 
patrimoniali 
della 
propria 
condotta. 
Preoccupazioni 
che 
-in particolare 
in una 
fase 
storica 
legislativamente 
dinamica, in cui 
la 
P.A. si 
trova 
a 
operare 
in una 
realtà 
normativa 
estremamente 
complessa 
e 
talvolta 
disarticolata 
-condurrebbero fatalmente 
all’inerzia e alla paralisi amministrativa. 
(12) 
Quest’ultima 
non 
è 
applicabile 
ove 
non 
sussista 
un 
rapporto 
di 
pubblico 
impiego 
(ad 
esempio 
nei rapporti onorari). 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


Nella 
Relazione 
illustrativa 
al 
D.L. 
Semplificazioni 
relativamente 
all’art. 
21 
si 
enuncia 
che 
“in 
materia 
di 
responsabilità 
dei 
soggetti 
sottoposti 
alla 
giurisdizione 
della Corte 
dei 
conti, la norma chiarisce 
che 
il 
dolo va riferito 
all’evento dannoso in chiave 
penalistica e 
non in chiave 
civilistica, come 
invece 
risulta da alcuni 
orientamenti 
della giurisprudenza contabile 
che 
hanno 
ritenuto raggiunta la prova del 
dolo inteso come 
dolo del 
singolo atto compiuto. 
inoltre, fino al 
31 luglio 2021 [poi 
modificato in 31 dicembre 
2021], la 
responsabilità dei 
soggetti 
sottoposti 
alla giurisdizione 
della Corte 
dei 
conti 
in 
materia 
di 
contabilità 
pubblica 
per 
l’azione 
di 
responsabilità 
viene 
limitata 
al 
solo profilo del 
dolo per 
le 
azioni 
e 
non anche 
per 
le 
omissioni, in modo 
che 
i 
pubblici 
dipendenti 
abbiano maggiori 
rischi 
di 
incorrere 
in responsabilità 
in caso di 
non fare 
(omissioni 
e 
inerzie) rispetto al 
fare, dove 
la responsabilità 
viene 
limitata 
al 
dolo”. 
Invece, 
a 
proposito 
dell’art. 
23 
la 
detta 
Relazione 
evidenzia 
che 
“La disposizione 
interviene 
sulla disciplina dettata 
dall’articolo 323 del 
codice 
penale 
(abuso d’ufficio), attribuendo rilevanza 
alla 
violazione 
da 
parte 
del 
pubblico 
ufficiale 
o 
dell’incaricato 
di 
pubblico 
servizio, 
nello 
svolgimento 
delle 
pubbliche 
funzioni, 
di 
specifiche 
regole 
di 
condotta 
espressamente 
previste 
dalla 
legge 
o 
da 
atti 
aventi 
forza 
di 
legge, 
attribuendo, al 
contempo, rilevanza alla circostanza che 
da tali 
specifiche 
regole 
non residuino margini 
di 
discrezionalità per 
il 
soggetto, in luogo della 
vigente 
previsione 
che 
fa 
generico 
riferimento 
alla 
violazione 
di 
norme 
di 
legge 
o 
di 
regolamento. 
Ciò 
al 
fine 
di 
definire 
in 
maniera 
più 
compiuta 
la 
condotta 
rilevante ai fini del reato di abuso di ufficio” 
(13). 


La 
legge, prendendo spunto dalla 
necessità 
dell’adozione 
di 
misure 
per 
contenere 
la 
pandemia 
da 
diffusione 
del 
COVID 
19, 
interviene 
sul 
punto 
della 
responsabilità 
amministrativa 
e 
penale 
dei 
pubblici 
dipendenti. 
Ciò 
nel 
dichiarato 
intento di 
disinibire 
gli 
amministratori 
pubblici 
nella 
gestione 
dei 
finanziamenti 
attesi 
dall’Unione 
Europea 
con 
il 
recovery 
Fund 
onde 
evitare 
l’inerzia per il timore della responsabilità da “firma”. 


Ciò evidenziato, deve 
rilevarsi 
che, mentre 
l’intervento sulla 
responsabilità 
penale 
è 
stato 
timido, 
quello 
sulla 
responsabilità 
amministrativa 
è 
stato 
eccessivo, 
incoerente 
e 
contrastante 
con i 
principi 
generali 
sulla 
responsabilità 
e 
buon andamento della P.A. 

6. Limitazione delle responsabilità gestorie. 
(segue) 
La (parziale) “buona” novella dell’art. 23 D.L. n. 76/2020. 
L’art. 23, novellando l’art. 323 c.p., cerca 
di 
specificare 
l’ambito applicativo 
del 
reato di 
abuso d’ufficio connotato da 
margini 
di 
indeterminatezza, 
con deficit di tassatività. 


(13) 
Su 
tale 
intervento 
normativo: 
A. 
GIORDANO, 
La 
responsabilità 
amministrativa 
tra 
legge 
e 
necessità. 
Note sull’art. 21 d.l. n. 76/2020, in 
rivista della Corte dei Conti, 2021, 1, pp. 14 e ss. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


Sulla 
materia, parte 
autorevole 
della 
dottrina 
(14) ha 
consigliato l’abrogazione 
della 
disposizione, anche 
a 
fronte 
dell’insuccesso pratico della 
fattispecie 
incriminatrice (15). 

Il 
dubbio 
è 
che 
l’abuso 
d’ufficio 
costituisca 
un 
reato 
“spia” 
in 
mano 
al-
l’inquirente 
allorché 
questi 
abbia 
il 
sospetto 
di 
illeciti, 
consentendogli 
di 
indagare 
alla 
ricerca 
della 
“vera” 
fattispecie 
delittuosa 
(es.: 
corruzione); 
l’abuso 
d’ufficio 
diviene, 
quindi, 
uno 
strumento 
puramente 
tattico, 
almeno 
là 
dove 
manchino 
ulteriori 
elementi 
rispetto 
alla 
semplice 
illegittimità 
amministrativa 
(16). 


L’indeterminatezza 
della 
fattispecie 
può 
alimentare 
la 
c.d. 
amministrazione 
difensiva, 
il 
timore 
o 
i 
rallentamenti 
dell’agire 
per 
lo 
spauracchio 
della 
responsabilità 
penale. 
Si 
osserva 
che 
“gli 
amministratori 
onesti 
potrebbero 
temere 
non 
tanto 
una 
condanna 
definitiva 
-dovendo 
auspicare 
che 
al 
termine 
del 
processo 
la 
giustizia 
venga 
comunque 
acquisita 
-quanto, 
piuttosto, 
di 
rimanere 
intrappolati 
in 
un 
procedimento 
penale, 
che 
si 
risolva 
in 
un 
circuito 
pieno 
di 
insidie, 
poco 
o 
per 
nulla 
dominabile. 
a 
prescindere 
dall’esito 
della 
vicenda 
giudiziaria, 
l’accusa 
penale 
rischierebbe 
di 
offendere 
la 
dignità 
dell’imputato, 
compromettendo 
le 
prospettive 
di 
affermazione 
professionale, 
provocando 
danni 
personali 
e 
familiari, 
talvolta 
irrecuperabili, 
in 
quanto 
perduranti 
nel 
tempo” 
(17). 
Come 
suol 
dirsi, 
già 
il 
procedimento 
è 
pena. 


Miglior 
partito 
sarebbe 
stato 
l’abrogazione 
della 
fattispecie 
incriminatrice. 
In mancanza 
di 
ciò, tuttavia, l’intervento, diretto a 
meglio delineare 
il 
volto 
della 
condotta 
tipica, va 
apprezzato, in quanto coerente 
con il 
volto costituzionale 
dell’illecito penale 
e, in specie, con i 
principi 
della 
necessaria 
offesa 
al bene giuridico, di tassatività e determinatezza della fattispecie. 


7. Limitazione delle responsabilità gestorie. 
(segue) La “cattiva” 
novella dell’art. 21 D.L. n. 76/2020. aspetti 
generali 
ed 
obiettivi perseguiti. 
L’art. 
21 
per 
le 
condotte 
commissive 
elimina, 
in 
tema 
di 
responsabilità 


(14) Il 
dibattito è 
riportato, tra 
l’altro, in A.R. CASTALDO 
(a 
cura 
di), migliorare 
le 
performance 
della Pubblica amministrazione. riscrivere l’abuso d’ufficio, Giappichelli, 2018. 
(15)Un 
operatore 
pratico 
-in 
A.R. 
CASTALDO 
(a 
cura 
di), 
migliorare 
le 
performance 
della 
Pubblica 
amministrazione. riscrivere 
l’abuso d’ufficio, cit., pp. 113-114 -ha 
evidenziato: 
“durante 
i 
miei 
dodici 
anni 
di 
attività, in funzione 
di 
giudice 
di 
primo grado, presso una sezione 
del 
Tribunale 
di 
Napoli 
specializzata 
in delitti 
contro la Pubblica amministrazione, tutti 
i 
processi 
per 
abuso d’ufficio che 
si 
sono 
svolti 
innanzi 
a tale 
sezione 
si 
sono conclusi 
con assoluzioni, ad eccezione 
di 
uno soltanto. Una sola 
condanna in dodici anni è un dato eloquente”. 
(16) A.R. CASTALDO 
(a 
cura 
di), migliorare 
le 
performance 
della Pubblica amministrazione. riscrivere 
l’abuso d’ufficio, cit., p. 110. 
(17) A.R. CASTALDO 
(a 
cura 
di), migliorare 
le 
performance 
della Pubblica amministrazione. riscrivere 
l’abuso d’ufficio, cit., p. 108. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


amministrativa, 
il 
requisito 
della 
colpa 
grave 
(18), 
residuando 
solamente 
l’elemento 
del 
dolo, per il 
quale 
è 
richiesta 
la 
prova 
della 
dimostrazione 
della 
volontà 
dell’evento 
dannoso 
(19). 
Il 
che 
significa 
-essendo 
prevalenti 
le 
pronunce 
di 
condanna 
per colpa 
grave, come 
confermato da 
una 
superficiale 
lettura 
della 
casistica 
giurisprudenziale 
in materia 
-introdurre 
una 
sostanziale 
irresponsabilità 
erariale 
degli 
operatori 
pubblici. Ciò a 
maggior ragione, vista 
la connotazione novellistica del dolo quale dolo intenzionale. 


L’obiettivo dichiarato è 
quello di 
disinibire 
la 
burocrazia 
nella 
gestione 
delle 
risorse 
pubbliche 
a 
fronte 
della 
incapacità 
-acclarata 
nel 
tempo -di 
utilizzare 
le 
risorse 
dell’Unione 
Europea; 
incapacità 
tanto più grave 
nell’attuale 
momento storico. 


Il 
messaggio 
del 
legislatore 
è 
chiaro: 
occorre 
essere 
disinibiti 
nella 
gestione 
delle 
risorse 
pubbliche, occorre 
agire, spendere. All’uopo si 
offre 
uno 
scudo 
rispetto 
alla 
responsabilità 
amministrativa 
per 
chi 
agisce, 
mentre 
-a 
mo’ 
di stimolo all’azione - chi è inerte risponde nel modo ordinario. 


La 
disciplina 
descritta 
circa 
la 
sterilizzazione 
della 
colpa 
grave 
nelle 
condotte 
commissive 
è 
dichiaratamente 
transitoria 
(fino 
al 
31 
dicembre 
2021). 
Tuttavia, tenuto conto della 
occasio legis, è 
possibile 
-atteso che 
il 
recovery 
Fund è 
solo agli 
inizi 
-che 
il 
termine 
del 
31 dicembre 
2021 venga 
differito, 
per 
poi 
magari 
stabilizzare, 
a 
regime, 
la 
novella. 
Orienta 
verso 
tale 
previsione, 
tra 
l’altro, 
la 
circostanza 
che 
in 
occasione 
della 
conversione 
del 
D.L. 
n. 
76/2020 
tutte 
le 
forze 
politiche 
presenti 
in 
Parlamento 
abbiano 
approvato 
l’art. 
21 citato (20). 


(18) “con il 
risultato, invero alquanto paradossale, di 
mandare 
esente 
da mende 
i 
funzionari 
e 
gli 
amministratori 
pubblici 
che 
agiscono 
con 
grave 
superficialità 
ed 
in 
maniera 
platealmente 
maldestra, 
sanzionando nel 
contempo quanti 
siano rimasti 
semplicemente 
inoperosi”. Per tale 
rilievo: 
D. IROLLO, 
responsabilità erariale sempre più “light”, cit. 
(19) Si 
rileva 
in dottrina 
che 
“in esito alla novella in esame, in definitiva, viene 
codificato l’indirizzo 
minoritario per 
cui 
il 
dolo c.d. “erariale” 
da oggi 
deve 
intendersi 
sostanziato dalla volontà del-
l’evento 
dannoso, 
che 
si 
accompagni 
alla 
volontarietà 
della 
condotta 
antidoverosa. 
Di 
talché 
per 
accreditare 
la sussistenza del 
“dolo erariale"” 
d’ora in avanti 
non basterà più dare 
prova della consapevole 
violazione 
degli 
obblighi 
di 
servizio ma servirà dimostrare 
la volontà di 
produrre 
l’evento dannoso. 
il 
dolo si 
potrà concretare 
pertanto ove 
si 
cumulino, con la conoscenza della causa del 
danno, 
dati 
della realtà che 
comprovino il 
ricorrere 
di 
ulteriori 
consapevolezze 
circa l’effettività e 
lo specifico 
contenuto del 
danno medesimo. in altri 
termini, il 
dolo “erariale” 
deve 
essere 
adesso inteso come 
stato 
soggettivo 
caratterizzato 
dalla 
consapevolezza 
e 
volontà 
dell’azione 
o 
omissione 
contra 
legem, 
con 
specifico 
riguardo alla violazione 
delle 
norme 
giuridiche 
che 
regolano e 
disciplinano l’esercizio delle 
funzioni 
amministrative 
ed 
alle 
sue 
conseguenze 
dannose 
per 
le 
finanze 
pubbliche”: 
così 
D. 
IROLLO, 
responsabilità erariale sempre più “light”, cit. 
(20) L’art. 21 ha 
avuto un antecedente 
prossimo nella 
disposizione 
di 
cui 
al 
comma 
3 dell’art. 5 
quater 
D.L. 17 marzo 2020, n. 18, conv. L. 24 aprile 
2020, n. 27 secondo cui 
“in relazione 
ai 
contratti 
relativi 
all’acquisto dei 
dispositivi 
di 
cui 
al 
comma 1, nonché 
per 
ogni 
altro atto negoziale 
conseguente 
alla urgente 
necessità di 
far 
fronte 
all’emergenza di 
cui 
allo stesso comma 1, posto in essere 
dal 
Dipartimento 
della protezione 
civile 
della Presidenza del 
Consiglio dei 
ministri 
e 
dai 
soggetti 
attuatori, non 
si 
applica l’articolo 29 del 
decreto del 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
ministri 
22 novembre 
2010, recante 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


8. Limitazione delle responsabilità gestorie. 
(segue) 
aspetti 
critici 
della disciplina contenuta nell’art. 21 D.L. n. 76/2020. 
La 
disciplina 
contenuta 
nella 
disposizione 
di 
cui 
all’art. 
21 
D.L. 
n. 
76/2020 presenta vari aspetti di criticità. 


a) Sotto l’aspetto di politica del diritto. 
Se 
l’obiettivo 
perseguito 
dal 
legislatore 
-spesa 
pubblica 
efficiente 
-è 
meritorio, 
tuttavia 
lo strumento della 
sostanziale 
irresponsabilità 
erariale 
non costituisce 
uno strumento funzionale al detto obiettivo. 


Anzi, 
di 
fronte 
all’esigenza 
della 
corretta 
gestione 
delle 
risorse 
pubbliche, 
potrebbe 
ben 
prevedersi 
un 
rafforzamento 
della 
responsabilità 
in 
capo 
agli 
operatori 
pubblici, richiedendo il 
requisito del 
dolo e 
della 
colpa, anche 
lieve. 
All’uopo occorre 
esigere 
dalla 
dirigenza 
pubblica 
italiana, chiamata 
a 
gestire 
la 
spesa 
per 
la 
ripartenza 
del 
Paese 
in 
epoca 
pandemica, 
il 
massimo 
sforzo. 
Laddove 
si 
ritenga 
che 
le 
forze 
della 
dirigenza 
pubblica 
siano 
insufficienti 
occorre 
esternalizzare, attingendo dal 
mercato le 
risorse 
umane 
funzionali 
alla 
bisogna. 
La 
sostanziale 
irresponsabilità 
erariale 
può 
condurre 
a 
danni 
maggiori 
rispetto a quelli che si cerca di evitare (21). 


"Disciplina dell'autonomia finanziaria e 
contabile 
della Presidenza del 
Consiglio dei 
ministri", pubblicato 
nella Gazzetta Ufficiale 
n. 286 del 
7 dicembre 
2010, e 
tali 
atti 
sono altresì 
sottratti 
al 
controllo 
della 
Corte 
dei 
conti. 
Per 
gli 
stessi 
atti 
la 
responsabilità 
contabile 
e 
amministrativa 
è 
comunque 
limitata 
ai 
soli 
casi 
in cui 
sia stato accertato il 
dolo del 
funzionario o dell'agente 
che 
li 
ha posti 
in essere 
o che 
vi 
ha 
dato 
esecuzione. 
Gli 
atti 
di 
cui 
al 
presente 
comma 
sono 
immediatamente 
e 
definitivamente 
efficaci, 
esecutivi 
ed esecutori, non appena posti 
in essere”. Con questa 
disposizione 
non solo si 
è 
prevista 
una 
sostanziale 
immunità 
dalla 
giurisdizione 
contabile, ma 
sono stati 
anche 
eliminati 
i 
controlli 
della 
Corte 
dei Conti. 


(21) E. AMANTE, La “nuova” 
responsabilità amministrativa a seguito del 
D.L. n. 76 del 
2020, in 
Urbanistica e 
appalti 
1/2021, p. 63 rileva: 
“il 
legislatore 
ripropone, per 
tale 
via, l’assunto secondo cui 
dalla limitazione 
di 
responsabilità conseguirebbe 
vantaggio per 
l’efficacia dell’azione 
amministrativa: 
convincimento, quest’ultimo, diffuso e 
radicato (anche 
a livello dottrinario e 
di 
giurisprudenza costituzionale), 
quanto indimostrato; anzi, l’esperienza insegna che 
le 
conclamate 
inefficienze 
della pubblica 
amministrazione 
dipendono 
non 
solo 
da 
altri 
fattori 
strutturali 
(tra 
i 
quali, 
in 
primis, 
il 
caos 
normativo), 
ma soprattutto aumentano laddove 
minore 
è 
la responsabilità degli 
agenti 
(si 
pensi 
all’ingiustificata 
durata 
dei 
processi, 
fonte 
di 
continue 
condanne 
dello 
Stato 
ex 
lege 
n. 
89 
del 
2001, 
prive 
in 
ultima 
analisi 
di 
responsabili)”. Anche 
A. CANALE, il 
d.l. semplificazioni 
e 
il 
regime 
transitorio in tema di 
responsabilità 
amministrativa: i 
chiaroscuri 
della riforma, in Diritto & 
Conti 
30 marzo 2021, rileva 
che 
“la premessa 
da cui 
si 
è 
mosso il 
Legislatore 
è 
che 
il 
rischio di 
incorrere 
nella responsabilità amministrativa 
indurrebbe 
i 
dirigenti 
alla c.d. burocrazia difensiva, alla quale 
si 
deve 
la colpa dei 
ritardi 
nella realizzazione 
di 
piani, progetti, opere. Tuttavia la “premessa”, opportunamente 
rilanciata dagli 
organi 
di 
informazione, 
tanto da assurgere 
a verità assoluta (nel 
senso che 
si 
dà oramai 
per 
scontato che 
l’azione 
amministrativa sia bloccata per 
la paura del 
processo contabile 
e 
della Corte 
dei 
conti), non è 
dimostrata, 
non è 
stata oggetto di 
alcun serio approfondimento, non è 
stata supportata da alcuna analisi, né 
da alcun dato, né 
sono stati 
forniti 
esempi, anche 
ricavabili 
ex 
post 
da un’analisi 
delle 
migliaia di 
sentenze 
pronunciate 
dalle 
sezioni 
giurisdizionali 
della Corte 
dei 
conti, tutte 
accessibili 
nella banca dati 
della stessa Corte 
dei 
conti. in verità, illustri 
studiosi 
hanno evidenziato che 
la “paralisi 
del 
fare”, che 
esiste 
e 
certamente 
va contrastata, è 
tuttavia ascrivibile 
in larga misura alla farraginosità delle 
regole, 
alla esondazione 
o ipertrofia normativa, alla tortuosità dei 
percorsi 
decisionali, alla impreparazione 
della 
dirigenza 
o 
almeno 
di 
parte 
di 
essa, 
ad 
una 
serie 
di 
concause 
che 
potremmo 
cumulativamente 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


È 
sotto gli 
occhi 
di 
tutti 
la 
circostanza 
che 
in questo primo anno di 
gestione 
della 
pandemia 
sono state 
fatte 
spese 
-coinvolgenti 
rilevantissime 
risorse 
pubbliche 
in 
un’epoca 
già 
segnata 
da 
grave 
deficit 
di 
bilancio 
-che 
presentano vari aspetti di criticità ed aporie. 


b) Sotto l’aspetto dell’orientamento dei comportamenti. 
Il 
diritto morirà 
-osservò un giurista 
-quando il 
mondo sarà 
composto 
solo da 
buoni, che 
del 
diritto non hanno bisogno, o solo da 
cattivi, che 
del 
diritto 
non hanno paura. Essendo il 
mondo composto da 
varia 
tipologia 
di 
persone, 
il 
diritto ha 
una 
essenziale 
funzione 
di 
orientamento dei 
comportamenti 
con 
la 
fissazione 
di 
regole 
e 
conseguenze 
(spiacevoli) 
nel 
caso 
di 
inosservanza. 


Eliminare 
il 
requisito della 
colpa 
nella 
responsabilità 
amministrativa 
indebolisce 
la 
funzione 
del 
diritto. Secondo la 
communis 
opinio, nella 
colpa 
vi 
è 
un rimprovero all’agente 
per non avere 
osservato regole 
precauzionali 
(22) 
cagionando un danno. Regole 
che, se 
osservate, avrebbero consentito di 
prevedere 
e, quindi, di evitare il danno. 


Nel 
momento in cui 
si 
rinuncia 
al 
requisito della 
colpa, l’ordinamento rinuncia 
a 
pretendere 
dal 
dipendente 
il 
rispetto 
delle 
regole 
precauzionali. 
Il 
che 
è 
una 
grande 
incoerenza 
sistematica. 
Il 
rispetto 
di 
tali 
regole 
è 
coessenziale 
alla qualità della prestazione resa dal dipendente. 

Il 
rispetto delle 
direttive, delle 
leges 
artis 
-indirizzanti 
l’attività 
del 
prestatore 
di 
attività 
lavorativa 
affinché 
questa 
conduca 
ad 
un 
risultato 
utile 
e 
non 
fonte 
di 
danni 
per la 
controparte 
-è 
un elemento costitutivo nei 
contratti 
di 
lavoro, 
sia 
subordinato (art. 2094 c.c.) che 
autonomo (art. 2222 c.c.) anche 
sub 
specie 
professionale 
(art. 
2236 
c.c.). 
Finanche 
nei 
casi 
in 
cui 
la 
prestazione 
lavorativa 
è 
gratuita 
è 
prevista 
la 
responsabilità 
per colpa, tutt’al 
più la 
stessa 
è 
valutata 
con minor rigore 
(arg. ex 
artt. 1710 comma 
1, 1768 comma 
2, 2030, 
comma 2 c.c.). 


Quale 
datore 
di 
lavoro ragionevole 
pagherebbe 
mai 
un dipendente 
rinunciando 
a priori 
a certe qualità della prestazione? 


c) Sotto l’aspetto della coerenza complessiva del 
sistema della responsabilità 
del dipendente pubblico. 
L’art. 
21 
vale 
unicamente 
per 
la 
responsabilità 
erariale. 
Restano 
immutate 
le 
altre 
fattispecie 
di 
responsabilità 
del 
dipendente: 
penale 
(salva 
la 
novella 
dell’art. 
323 
c.p.), 
civile, 
amministrativa, 
contabile, 
disciplinare, 
manageriale. 


qualificare 
come 
“cattiva amministrazione”. (io aggiungo anche 
la riduzione 
dei 
controlli 
preventivi; 
e 
con riferimento ai 
cantieri 
bloccati 
anche 
le 
lacune 
progettuali 
e 
le 
criticità delle 
analisi 
di 
fattibilità)”. 


(22) Di 
fonte 
sociale 
(regole 
di 
diligenza, di 
prudenza, di 
perizia: 
colpa 
generica) o di 
fonte 
normativa 
(legge, regolamenti, ordini, discipline: 
colpa 
specifica). Tanto argomentandosi 
dall’art. 43 c.p. 
per il 
quale 
la 
fattispecie 
presenta 
l’elemento psicologico della 
colpa 
“quando l'evento, anche 
se 
preveduto, 
non è 
voluto dall’agente 
e 
si 
verifica a causa di 
negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per 
inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


Per i 
principi, vi 
può essere 
un concorso di 
fattispecie, ossia 
uno stesso 
comportamento può integrare 
più ipotesi 
di 
responsabilità 
(23). La 
redazione 
e 
gestione 
di 
una 
linea 
di 
interventi 
in violazione 
colposa 
di 
direttive 
ad hoc 
con sperpero di 
danaro pubblico può, in ipotesi, integrare 
responsabilità 
erariale 
e responsabilità disciplinare. 


In 
questa 
evenienza, 
un 
dirigente, 
pur 
non 
rispondendo 
verso 
l’ente 
di 
appartenenza 
per il 
danno arrecato, sarebbe 
passibile 
di 
sanzione 
disciplinare 
ed 
esposto alla 
responsabilità 
manageriale. Il 
che 
è 
incoerente. Tale 
incoerenza 
non è 
altro che 
un corollario dell’intervento settoriale 
del 
legislatore, che 
non 
ha tenuto conto dell’architettura del sistema. 


d) Sotto l’aspetto della coerente 
integrazione 
degli 
ordinamenti, unioni-
stico e nazionale. 
È 
stato 
rilevato 
che 
strutturalmente 
il 
nostro 
Paese 
non 
sfrutta 
adeguatamente 
le 
risorse 
dell’U.E. 
e 
che 
l’occasio 
legis 
della 
novella 
dell’art. 
21 
è 
stata 
la 
predisposizione 
di 
misure 
per 
spendere 
adeguatamente 
le 
risorse 
rese 
disponibili 
con 
il 
recovery 
Fund 
ammontanti, 
all’attualità, 
a 
circa 
209 
miliardi 
di 
euro. 


Nel 
procedimento 
di 
spesa 
per 
il 
recovery 
Fund 
intervengono 
organi 
delle 
istituzioni 
dell’Unione 
Europea 
ed organi 
delle 
istituzioni 
della 
Repubblica 
Italiana. 


Per 
quanto 
detto 
innanzi, 
gli 
organi 
delle 
istituzioni 
della 
Repubblica 
Italiana 
beneficiano 
di 
una 
sostanziale 
irresponsabilità 
amministrativa 
(in 
gergo: 
scudo 
contabile), 
laddove 
gli 
organi 
delle 
istituzioni 
dell’Unione 
Europea, 
in 
assenza 
di 
“scudi”, 
sottostanno 
alle 
ordinarie 
regole 
sulla 
responsabilità 
amministrativa 
giusta 
l’art. 
340, 
comma 
4, 
T.F.U.E. 
secondo 
cui 
“La 
responsabilità 
personale 
degli 
agenti 
nei 
confronti 
dell'Unione 
è 
regolata 
dalle 
disposizioni 
che 
stabiliscono 
il 
loro 
statuto 
o 
il 
regime 
loro 
applicabile” 
in 
uno 
all’art. 
22 
dello 
Statuto 
dei 
funzionari 
dell’Unione 
europea 
secondo 
cui 
“il 
funzionario 
può 
essere 
tenuto 
a 
risarcire, 
in 
tutto 
o 
in 
parte, 
il 
danno 
subito 
dall'Unione 
per 
colpa 
personale 
grave 
da 
lui 
commessa 
nel-
l'esercizio 
o 
in 
occasione 
dell'esercizio 
delle 
sue 
funzioni. 
La 
decisione 
motivata 
è 
presa 
dall'autorità 
che 
ha 
il 
potere 
di 
nomina, 
secondo 
la 
procedura 
prescritta 
in 
materia 
disciplinare. 
La 
Corte 
di 
Giustizia 
dell'Unione 
europea 
ha 
competenza 
anche 
di 
merito 
per 
decidere 
delle 
controversie 
cui 
possa 
dar 
luogo 
la 
presente 
disposizione”. 


Orbene, 
nel 
medesimo 
procedimento 
di 
spesa 
si 
assiste 
-a 
fronte 
dei 
danni 
conseguenza 
della 
colpa 
personale 
grave 
nella 
gestione 
di 
risorse 
pubbliche 
alla 
responsabilità 
erariale 
ove 
nella 
filiera 
intervenga 
un 
funzionario 
dell’U.E. 


(23) Circostanza 
confermata 
dall’art. 2, comma 
9, L. n. 241/1990 secondo cui: 
"La mancata o 
tardiva 
emanazione 
del 
provvedimento 
costituisce 
elemento 
di 
valutazione 
della 
performance 
individuale, 
nonché 
di 
responsabilità disciplinare 
e 
amministrativo-contabile 
del 
dirigente 
e 
del 
funzionario 
inadempiente”. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


(24) e 
all’immunità 
erariale 
ove 
nella 
filiera 
intervenga 
un funzionario della 
Repubblica Italiana. Ed anche questo non è coerente, oltre che ingiusto. 
e) Sotto l’aspetto della configurazione dell’elemento del dolo. 
La 
volontà 
dei 
conditores 
-nello 
statuire 
che 
“La 
prova 
del 
dolo 
richiede 
la dimostrazione 
della volontà dell’evento dannoso” 
-è 
esplicita: 
non solo si 
richiede il dolo, ma questo deve essere intenzionale (25). 


Applicato 
alla 
responsabilità 
erariale, 
il 
dolo 
intenzionale 
implica 
che 
l’agente 
debba 
avere 
la 
specifica 
volontà 
di 
cagionare 
il 
danno erariale. Tale 
ipotesi 
è 
irrealistica, 
come 
confermato 
dalle 
(scarse) 
fattispecie 
di 
acclara-
mento 
giurisdizionale 
di 
responsabilità 
erariale 
con 
dolo 
intenzionale, 
le 
quali 
si caratterizzano per la sussistenza del dolo diretto o del dolo eventuale (26). 


Difatti, ad esempio, nella 
ipotesi 
di 
danno erariale 
per assunzione 
di 
collaboratori 
in 
violazione 
dell’art. 
7, 
comma 
6, 
D.L.vo 
n. 
165/2001, 
l’agente 


(24) 
Particolare 
attenzione, 
a 
livello 
unionistico, 
è 
data 
al 
profilo 
del 
recupero 
dei 
fondi 
indebitamente 
versati. 
A 
tal 
fine, 
il 
Regolamento 
n. 
241 
del 
2021 
all’art. 
8 
fa 
espresso 
rinvio 
alla 
normativa 
generale 
del 
Regolamento 
finanziario, 
che 
prevede 
la 
responsabilità 
degli 
agenti 
finanziari, 
che 
sono 
tenuti 
“a 
risarcire 
il 
danno 
alle 
condizioni 
dello 
statuto” 
(art. 
92 
Reg. 
finanziario 
UE); 
il 
riferimento 
è 
al 
citato 
art. 
22 
dello 
Statuto 
dei 
funzionari 
UE. 
A. 
CANALE, 
il 
d.l. 
semplificazioni 
e 
il 
regime 
transitorio 
in 
tema 
di 
responsabilità 
amministrativa: 
i 
chiaroscuri 
della 
riforma, 
cit., 
osserva: 
“il 
rinvio 
all’art. 
22 
dello 
Statuto 
dei 
funzionari 
U.E., 
che 
espressamente 
richiama 
la 
colpa 
grave 
per 
il 
risarcimento 
del 
danno 
è 
poi 
di 
particolare 
rilievo, 
in 
quanto, 
oltre 
all’azione 
recuperatoria, 
pare 
prevedere 
anche 
la 
risarcibilità 
dei 
danni 
arrecati 
con 
colpa 
grave: 
è 
ovvio, 
con 
riferimento 
agli 
interventi 
finanziati 
con 
fondi 
europei 
del 
recovery 
Fund. 
E 
dunque, 
l’Europa, 
in 
estrema 
sintesi, 
ci 
fornisce 
i 
mezzi 
finanziari 
per 
la 
ripresa, 
ma 
esige, 
giustamente, 
una 
sana 
gestione 
finanziaria 
ed 
efficaci 
azioni 
di 
contrasto, 
non 
solo 
di 
carattere 
penale 
ma 
anche 
recuperatorie, 
nei 
casi 
di 
impiego 
illecito 
dei 
fondi 
del 
recovery 
Fund, 
nonché 
risarcitorie 
nei 
termini 
di 
cui 
all’art. 
22 
dello 
Statuto 
funzionari 
UE, 
che 
entra 
nel 
quadro 
normativo 
che 
regola 
l’attuazione 
del 
recovery 
Fund 
per 
effetto 
del 
già 
menzionato 
art. 
8 
del 
reg. 
241. 
Queste 
ultime 
azioni, 
quella 
recuperatoria 
e 
quella 
risarcitoria, 
chiamano 
in 
causa 
innegabilmente 
la 
“giustizia 
contabile”, 
che 
deve 
poter 
contare, 
con 
specifico 
riferimento 
alle 
misure 
da 
attuare 
con 
il 
recovery 
Fund, 
su 
tutti 
gli 
strumenti 
giuridici 
necessari 
per 
adempiere 
agli 
obblighi 
posti 
dal 
regolamento 
a 
carico 
dello 
Stato 
italiano”. 
(25) Diversamente, si 
ritiene 
che 
“Un’esegesi 
che 
intendesse 
la prova della “volontà dell’evento 
dannoso” 
come 
dimostrazione 
del 
dolo 
intenzionale 
o 
diretto, 
privando 
di 
terreno 
il 
dolo 
eventuale, 
snaturerebbe 
il 
sistema della responsabilità amministrativo-contabile”, così: 
A. GIORDANO, La responsabilità 
amministrativa tra legge e necessità. Note sull’art. 21 d.l. n. 76/2020, cit., p. 18. 
(26) 
Si 
è 
osservato 
che 
“nella 
realtà 
del 
concreto 
operare, 
la 
stragrande 
fattispecie 
delle 
condotte 
antigiuridiche, lesive 
dell’erario non sono animate 
da una precisa e 
specifica volontà di 
cagionare 
il 
“danno 
conseguenza”. 
Sono 
piuttosto 
finalizzate, 
infatti, 
ad 
ottenere 
illeciti 
tornaconti 
e/o 
vantaggi, 
quali 
ad esempio: la tangente, l’acquisizione 
di 
crediti 
personali 
e/o favori 
elettorali 
mediante 
la distribuzione 
di 
consulenze 
illecite, la mancata riscossione 
di 
canoni 
locatizi 
e 
così 
via. Se 
certamente 
la 
condotta 
antigiuridica 
può 
essere 
animata 
dalla 
consapevolezza 
e 
conseguente 
volontà 
di 
violare 
le 
norme 
ed i 
propri 
doveri 
di 
servizio pur 
di 
ottenere 
quei 
vantaggi, l’ulteriore 
conseguenza concretizzantesi 
nel 
concreto danno erariale 
rimane, per 
la verità, sotto lo specifico profilo psicologico, sullo 
sfondo o meglio, senza dubbio viene 
prefigurata ed “accettata”, ma non direttamente 
“voluta”” 
: 
così 
M. 
ATELLI, 
F. 
CAPALBO, 
P. 
GRASSO, 
U. 
MONTELLA, 
D. 
PERROTTA, 
R. 
SChüLMERS 
VON 
PERNwERTh, 
il 
dolo 
contabile 
dopo l’art. 21 del 
decreto-legge 
semplificazioni 
fra contraddizioni 
e 
incoerenze 
di 
sistema, in 
rivista della Corte dei Conti, 2020, 6, p. 31. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


può avere 
la 
scienza 
di 
cagionare 
un danno per una 
spesa 
inutile, ma 
è 
poco 
plausibile che vi sia una specifica volontà in tal senso. 

Analogamente, 
nella 
ipotesi 
di 
danno 
erariale 
per 
ricezione 
di 
una 
tangente, 
il 
funzionario corrotto ha 
sicuramente 
la 
volontà 
di 
arricchirsi 
illecitamente, 
ma 
è 
poco 
plausibile 
che 
vi 
sia 
una 
specifica 
volontà 
di 
arrecare 
il 
danno erariale. 


Ancora, nella 
ipotesi 
di 
danno erariale 
per erogazione 
da 
parte 
del 
dirigente 
di 
premi 
non 
dovuti 
a 
dipendenti, 
l’agente 
ha 
semmai 
la 
volontà 
di 
“coccolare” 
i 
dipendenti. 
Anche 
in 
questa 
ipotesi 
al 
massimo 
si 
può 
avere 
la 
scienza 
di cagionare un danno per una spesa indebita. 


All’evidenza, richiedere 
la 
dimostrazione 
della 
volontà 
dell’evento dannoso 
implica 
dissolvere 
la 
responsabilità 
erariale, trattandosi 
di 
ipotesi 
-secondo 
l’id 
quod 
plerumque 
accidit 
-irrealistica. 
Solo 
un 
dipendente 
folle 
potrebbe 
porre 
in essere 
condotte 
pregiudizievoli 
per l’ente 
per cui 
lavora 
con 
la 
specifica 
volontà 
di 
arrecare 
danno 
al 
detto 
ente: 
potrebbe 
trattarsi 
di 
chi 
vuole, magari 
per ragioni 
filosofiche 
o politiche, deliberatamente 
affondare 
i 
bilanci 
pubblici; 
oppure 
di 
un 
dipendente 
risentito 
e 
vendicativo. 
Ma 
sono, 
appunto, 
ipotesi estreme ed irrealistiche. 

f) Sotto l’aspetto del 
mutamento dei 
connotati 
delle 
istituzioni 
coinvolte 
nella vicenda. 
Come 
innanzi 
evidenziato, la 
novella 
di 
cui 
all’art. 21 introduce 
una 
sostanziale 
irresponsabilità 
erariale 
degli 
operatori 
pubblici 
determinando, per 
l’effetto, una 
metamorfosi 
occulta 
della 
natura 
e 
dei 
compiti 
della 
Corte 
dei 
Conti. Con la 
detta 
novella 
si 
svuota 
dall’interno la 
funzione 
giurisdizionale 
della 
Corte 
dei 
Conti 
in tema 
di 
responsabilità 
erariale, con vulnus 
della 
“giurisdizione 
nelle materie di contabilità pubblica” 
ex 
art. 103, comma 2, Cost. 


La 
Corte 
dei 
Conti, come 
il 
Consiglio di 
Stato, è 
un ente 
ausiliario che 
svolge 
due 
essenziali 
funzioni 
costituzionalmente 
previste: 
quella 
di 
controllo 
(art. 100, comma 
2, Cost.) e 
quella 
giurisdizionale 
(art. 103, comma 
2, Cost.). 


Con la 
novella 
di 
cui 
all’art. 21 l’attribuzione 
principale 
-il 
giudizio di 
responsabilità 
-nell’ambito 
della 
funzione 
giurisdizionale 
della 
Corte 
dei 
Conti 
viene 
depotenziata. 
Ciò 
conduce, 
per 
l’effetto, 
a 
connotare 
il 
giudice 
contabile 
quale 
istituzione 
fondamentalmente 
di 
controllo. La 
Corte 
dei 
Conti, quindi, 
cambia pelle. 


È 
sicuramente 
possibile 
una 
modifica 
delle 
attribuzioni 
delle 
istituzioni, 
anche 
costituzionalmente 
rilevanti, 
ma 
l’importante 
è 
che 
tali 
modifiche 
siano 
consapevoli, chiare e coerenti con l’intero ordinamento giuridico. 


9. Conclusioni. 
È 
compito 
dell’interprete 
evidenziare 
le 
distorsioni 
del 
sistema, 
potenzialmente 
causative 
di 
“cattiva” 
spesa 
pubblica, 
individuando 
anche 
i 
possibili 
correttivi. 


RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


Arrivati a questo punto le conclusioni, nel contesto dato, sono intuitive: 


a) occorre 
predisporre 
progetti 
produttivi 
di 
buona 
spesa, che 
non si 
risolvano 
nel 
buttare 
danaro nel 
fuoco ma 
che 
conducano a 
qualcosa 
che 
resti, 
ossia opere infrastrutturali; 
b) è 
necessario un procedimento unico con procedure 
semplificate 
regolate 
direttamente 
dalle 
tre 
direttive 
dell’U.E. in materia 
di 
contratti 
pubblici 
(nn. 23, 24 e 25 del 2014), con abrogazione del D.L.vo n. 50/2016; 
c) 
occorre 
utilizzare 
adeguate 
risorse 
umane, ricorrendo anche 
a 
risorse 
esterne; 
d) 
occorre 
abrogare 
l’art. 323 c.p. ed altresì 
l’art. 21 D.L. n. 76/2020, dovendo 
gli 
operatori 
rispondere 
-a 
titolo 
di 
responsabilità 
amministrativa 
quantomeno 
per dolo o colpa grave. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


La complessa attività legislativa dell’Esecutivo: 
ruolo e funzioni del DAGL 


Luca Soldini* 


Sommario: 1. Premessa -2. il 
Governo come 
“esecutore”: declino di 
una lettura tradizionale 
-3. Le 
strutture 
della Presidenza del 
Consiglio dei 
ministri: ruolo, funzioni 
e 
fonti 
normative 
del 
DaGL 
-3.1. L’iter 
legislativo endogovernativo -4. Conclusioni: verso una razionalizzazione 
del DaGL. 


1. Premessa. 
Molto 
è 
stato 
scritto 
sul 
procedimento 
legislativo 
parlamentare. 
Certamente, 
la 
relativa 
funzione 
ha 
rappresentato (e 
rappresenta 
tutt’ora) un utile 
metro di 
paragone 
per saggiare, per così 
dire, la 
funzionalità 
dei 
Parlamenti 
contemporanei. È 
altrettanto vero, peraltro, che 
poco si 
è 
indagato sul 
procedimento 
legislativo 
governativo, 
nonostante 
gli 
Esecutivi 
(da 
qualche 
decennio 
a 
questa 
parte) abbiano oramai 
assunto il 
ruolo di 
propulsori 
(quasi 
esclusivi) 
dell’attività 
legislativa. 
Basti 
pensare, 
a 
conferma 
di 
quanto 
detto, 
che 
nel 
corso 
della 
XVIII legislatura 
i 
disegni 
di 
legge 
di 
iniziativa 
parlamentare 
approvati 
sono stati 31, a fronte degli 81 di iniziativa governativa (1). 

Il 
presente 
elaborato, senza 
pretese 
di 
esaustività, intende 
fornire 
una 
panoramica 
proprio 
sul 
complesso 
procedimento 
relativo 
alla 
funzione 
legislativa 
governativa, 
prendendo 
le 
mosse 
dal 
ruolo 
svolto 
dal 
Dipartimento 
per 
gli 
Affari 
Giuridici 
e 
Legislativi 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
e, 
in 
conclusione, fornendo qualche 
spunto di 
riflessione 
in merito allo 
status 
quo 
del processo di razionalizzazione della disciplina afferente al DAGL. 

In 
prima 
approssimazione, 
sembrerebbe 
potersi 
affermare 
che 
lo 
sviluppo 
dei 
rapporti 
tra 
Governo 
e 
Parlamento, 
per 
come 
in 
concreto 
articolatosi, 
abbia 
contribuito a 
rendere 
più evidente 
la 
distanza, secondo una 
felice 
classificazione, 
tra Costituzione formale e Costituzione materiale. 


2. il Governo come “esecutore”: declino di una lettura tradizionale. 
Come 
anticipato in premessa, da 
qualche 
decennio a 
questa 
parte 
si 
è 
andata 
via 
via 
rafforzando 
l’incidenza 
del 
Governo 
nell’ambito 
della 
normazione 
di 
rango primario (2), tanto da 
un punto di 
vista 
qualitativo quanto sotto un 
profilo quantitativo. 

(*) 
Già 
praticante 
forense 
presso l’Avvocatura 
Generale 
dello Stato (avv. 
St. 
Marina 
Russo), 
Cultore 
della materia in Diritto Parlamentare presso l’Università “La Sapienza” di Roma. 


(1) 
Si 
v. 
le 
statistiche 
pubblicate 
sul 
sito 
del 
Senato: 
http://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Statistiche/
Leggi//DDLLeggiapprovatePeriniziativa.html. 
(2) P. DE 
LUCA, il 
DaGL 
nel 
processo normativo endogovernativo italiano, in http://www.forumcostituzionale.
it/wordpress/wp-content/uploads/2017/05/deluca.pdf. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


Si 
assiste, 
per 
quanto 
attiene 
alle 
funzioni 
normative, 
come 
da 
alcuni 
sottolineato 
(3), ad un vero e 
proprio “scollamento tra la riflessione 
teorica e 
la 
prassi”. 

Sull’inquadramento 
sistematico 
della 
potestà 
normativa 
dell’Esecutivo 
sembrerebbe 
pesare 
l’esperienza 
dell’epoca 
fascista 
(4), 
che 
sembrerebbe 
aver 
indotto il costituente ad agire animato dalla c.d. “paura del tiranno”. 

Il 
“prodotto” 
di 
questa 
impostazione 
di 
fondo parrebbe 
potersi 
rinvenire, 
ad 
esempio, 
nel 
disposto 
dell’art. 
70 
della 
Costituzione, 
il 
quale 
-al 
fine 
di 
cristallizzare 
in 
maniera 
inequivoca 
il 
principio 
di 
separazione 
dei 
poteri 
-stabilisce 
che 
la 
funzione 
legislativa 
è 
esercitata 
“collettivamente” 
dalle 
due 
Camere 
(5). Non è 
sfuggita 
a 
numerosi 
autori 
la 
valenza 
“esclusiva” 
(6), per così 
dire, 
della 
disposizione 
appena 
richiamata, 
la 
quale 
sembrerebbe 
escludere 
che 
qualsivoglia 
organo 
costituzionale 
diverso 
dal 
Parlamento 
possa 
essere 
legittimato 
ad 
adottare 
norme 
di 
rango 
legislativo. 
In 
questo 
stesso 
senso, 
gli 
artt. 
76 
e 
77 
avrebbero 
carattere 
“derogatorio 
ed 
eccezionale”, 
e 
manifesterebbero 
la 
“diffidenza” 
del 
Costituente 
nei 
confronti 
del 
potere 
di 
normazione 
primaria da parte dell’Esecutivo (7). 


Quanto 
sin 
qui 
affermato 
induce 
a 
rivedere 
criticamente 
il 
principio 
di 
separazione dei poteri. 


Accogliendo 
una 
lettura 
tradizionale 
del 
medesimo 
-e 
confrontandola 
con 
la 
concreta 
articolazione 
dei 
rapporti 
tra 
Governo 
e 
Parlamento 
-si 
dovrebbe 
(ma 
non 
è 
nell’intenzione 
di 
chi 
scrive) 
concludere 
nel 
senso 
di 
una 
vera 
e 
propria 
“invasione 
di 
campo” 
da 
parte 
del 
primo 
(8). 
Tuttavia, 
anche 
se 
l’immagine 
di 
un 
Governo 
come 
mero 
esecutore 
della 
legge 
sembrerebbe 
aver 
esercitato 
una 
profonda 
suggestione 
“sia 
sul 
Costituente, 
sia 
su 
gran 
parte 
della 
dottrina 
giuspubblicistica”, 
la 
stessa 
sarebbe 
effettivamente 
un 
“mito” 
(9). 
Tale 
ultimo 
rilievo 
troverebbe 
conferma 
nella 
circostanza 
che 
la 


(3) M. CARTABIA, Legislazione 
e 
funzione 
di 
governo, in riv. Dir. Cost., 2006, pp. 50-95, spec. p. 
52. 
(4) In questo senso si v. M. CARTABIA, op. cit., p. 52. 
(5) 
In 
questo 
senso 
si 
v. 
L. 
CARLASSARE, 
regolamenti 
dell’esecutivo 
e 
principio 
di 
legalità, 
Cedam, 
Padova, 1966, p. 129. 
(6) In questo senso si v. M. CARTABIA, op. cit., p. 54. 
(7) 
Si 
v. 
G. 
zAGREBELSKy, 
manuale 
di 
diritto 
costituzionale, 
Vol. 
I, 
il 
sistema 
delle 
fonti 
del 
diritto, 
UTET, Torino, 1992, pp. 161 e 
174. In tal 
senso, sarebbe 
altresì 
indicativa 
del 
fenomeno illustrato la 
circostanza 
che 
l’art. 113 Cost. subordini 
rigidamente 
gli 
atti 
regolamentari 
al 
rispetto della 
legge. Si 
rammenti, d’altro canto, il 
vivace 
dibattito che 
ha 
sollevato in dottrina 
l’introduzione 
dell’art. 17 della 
legge 
23 agosto 1988 n. 400 in materia 
di 
regolamenti 
indipendenti, diretti 
ad operare 
in ambiti 
non coperti 
dalla 
legge. Basti 
ricordare 
i 
contributi 
di 
L. CARLASSARE, il 
ruolo del 
Parlamento e 
la nuova disciplina 
del 
potere 
regolamentare, in Quad. cost. 
1990, pp. 7 e 
ss. e 
E. ChELI, ruolo dell’esecutivo e 
sviluppi recenti del potere regolamentare, in Quad. cost., 1990, 5, pp. 3 e ss. 
(8) Per una 
descrizione 
completa 
del 
principio di 
separazione 
dei 
poteri 
si 
v. G. BOGNETTI, La divisione 
dei poteri, Giuffrè, Milano, 1994, pp. 25 e ss. 
(9) Virgolettati e concetti sono tratti da M. CARTABIA, op. cit., p. 60. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


prassi 
sembrerebbe 
essersi 
progressivamente 
allontanata 
dal 
testo 
della 
c.d. 
Costituzione 
formale, 
incrementando 
i 
poteri 
normativi 
del 
Governo 
(10) 
e 
destando 
non 
poche 
voci 
critiche 
da 
parte 
della 
dottrina, 
in 
specie 
per 
quanto 
concerne 
le 
forme 
di 
produzione 
normativa 
del 
Governo 
di 
cui 
alla 
l. 
n. 
400 
del 
1988 
(11). 


Questa 
diversa 
collocazione 
del 
Governo 
nell’ordinamento 
costituzionale 
italiano 
ha 
indotto 
parte 
della 
dottrina 
-anche 
politologica 
-a 
valorizzarne 
vieppiù il 
ruolo ponendo l’accento sulla 
natura 
programmatica 
dell’indirizzo 
politico (12), che 
si 
attuerebbe 
nel 
momento di 
elaborazione 
del 
programma 
e 
troverebbe 
la 
propria 
attuazione 
“attraverso 
lo 
svolgimento 
della 
politica 
generale” 
(13). 
Sempre 
più 
diffuse 
sono 
le 
posizioni 
finalizzate 
ad 
inquadrare 
il 
Governo come 
titolare 
di 
una 
“funzione 
di 
governo” 
di 
“matrice 
spiccatamente 
politica” 
(14). 


Pertanto, il 
rafforzamento del 
ruolo -e 
della 
posizione 
-del 
Governo troverebbe 
una prima conferma negli elementi di prassi. 

Tuttavia, 
parrebbero 
potersi 
individuare 
ulteriori 
circostanze 
che 
inducano 
a 
concludere 
nel 
senso 
qui 
prospettato. 
in 
primis, 
la 
crescita 
esponenziale 
dello 
stato 
amministrativo 
ha 
indotto 
il 
legislatore 
a 
sollevare 
sempre 
più 
il 
Governo 
dalle 
funzioni 
strettamente 
e 
spiccatamente 
amministrative, 
risultando 
impossibile 
per il 
singolo ministro essere 
effettivamente 
a 
conoscenza 
di 
quanto accadeva 
all’interno 
dei 
propri 
dicasteri 
(15). 
In 
seconda 
battuta, 
anche 
la 
proliferazione 
di 
Autorità 
svincolate 
dalle 
amministrazioni 
ministeriali 
sembrerebbe 
muovere 
in questa 
direzione, pur dovendosi 
evidenziare 
non poche 
perplessità per quanto attiene al rigoroso rispetto dell’art. 95 Cost. (16). 

Incidentalmente, 
sembrerebbe 
essere 
opportuno 
altresì 
sottolineare 
il 
collegamento 
che 
intercorre 
tra 
sistema 
delle 
fonti 
-e 
relativa 
concreta 
articolazione 
-e 
forma 
di 
Governo (17), la 
quale 
ultima 
definisce 
“il 
modo in cui 
il 


(10) C. MORTATI, atti 
con forza di 
Legge 
e 
sindacato di 
costituzionalità, Giuffrè, Milano, 1961, 
pp. 41 e 
ss. e 
E. ChELI, L’ampliamento dei 
poteri 
normativi 
dell’esecutivo nei 
principali 
ordinamenti 
occidentali, in riv. trim. dir. pubbl., 1959, pp. 463 e ss. 
(11) 
Tale 
discrasia 
è 
stata, 
in 
materia 
di 
potere 
regolamentare 
del 
Governo, 
egregiamente 
descritta 
come 
uno “stridente 
contrasto tra una realtà effettuale 
in forte 
espansione 
ed una impalcatura concettuale 
ormai 
insufficiente 
a contenere 
e 
spiegare 
i 
profili 
essenziali 
di 
questa realtà” 
in E. ChELI, Potere 
regolamentare e struttura costituzionale, Giuffrè, Milano, p. 3. 
(12) G. BURDEAU, Traitè de Science Politique, 1950, p. 412. 
(13) M. CARTABIA, op. cit., p. 71. 
(14) Virgolettati 
tratti 
da 
M. CARTABIA, op. cit., p. 78. Per il 
contenuto si 
v. altresì 
G. BOGNETTI, 
Governo, in Enc. Scienze 
soc. Treccani, Vol. IV, Roma, 1994, pp. 405 e 
ss. e 
P.A. CAPOTOSTI, Governo, 
in Enc. Giur. it., Vol. XV, Roma, 1989, 
ad vocem, spec. pp. 1 e 12. 
(15) Si 
v. espressamente 
in tal 
senso 
G. AMATO, Nuove 
tendenze 
nella formazione 
degli 
atti 
governativi 
di indirizzo, in riv. trim. dir. pubbl., 1970, pp. 92 e ss., spec. p. 148. 
(16) G. MORBIDELLI, Sul 
regime 
amministrativo delle 
autorità indipendenti, in Le 
autorità indipendenti 
nei 
sistemi 
istituzionali 
ed economici, A. PREDIERI 
(a 
cura 
di), Passigli, Firenze, 1997, pp. 145 
e ss. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


potere 
supremo 
è 
distribuito 
fra 
gli 
organi 
dello 
Stato 
apparato” 
(18). 
Orbene, 
questo 
nesso 
pone 
in 
evidenza 
la 
circostanza 
che 
ad 
uno 
rafforzamento 
del 
ruolo dell’Esecutivo, in punto di 
forma 
di 
Governo, corrisponda 
una 
tendenziale 
diversa 
allocazione 
del 
“centro di 
produzione 
normativa” 
(19). Il 
fenomeno 
da 
ultimo 
richiamato 
trova 
una 
conferma 
-seppure 
parziale 
e 
certamente 
non esaustiva 
-nei 
dati 
quantitativi 
richiamati 
supra 
(20), che 
dimostrano una 
certa 
preminenza 
nell’esercizio 
della 
funzione 
legislativa 
dell’Esecutivo 
e, 
conseguentemente, un deciso rafforzamento del 
ruolo dello stesso nella 
concreta 
architettura istituzionale italiana. 

In 
conclusione, 
è 
d’uopo 
sottolineare 
che 
ad 
un 
tale 
rafforzamento 
si 
debba 
necessariamente 
accompagnare 
la 
configurazione 
di 
una 
struttura 
di 
supporto di notevole solidità. 

3. Le 
strutture 
della Presidenza del 
Consiglio dei 
ministri: ruolo, funzioni 
e 
fonti normative del DaGL. 
Dalla 
breve 
rassegna 
di 
cui 
supra 
si 
è 
potuto concludere 
nel 
senso di 
un 
rafforzamento del 
ruolo dell’Esecutivo sotto numerosi 
punti 
di 
vista 
(21). A 
ciò, 
come 
appare 
evidente, 
si 
è 
accompagnato 
altresì 
un 
rafforzamento 
del 
ruolo, delle 
funzioni 
e, dunque, delle 
strutture, della 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri. 
Preliminarmente, 
si 
tenga 
presente 
che 
l’art. 
95 
della 
Costituzione 
attribuisce 
al 
Presidente 
del 
Consiglio il 
compito di 
dirigere 
“la politica generale 
del 
Governo” 
-della 
quale 
è 
responsabile 
-nonché 
di 
mantenere 
“l'unità di 
indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e 
coordinando 
l'attività dei ministri”. 

È 
d’uopo, prima 
di 
passare 
ad una 
analisi 
più puntuale 
dell’attività 
svolta 
dal 
Presidente 
del 
Consiglio e 
dalla 
struttura 
a 
supporto dello stesso preposta, 
rammentare 
che 
l’Assemblea 
Costituente 
sembrerebbe 
aver delineato un vertice 
dell’Esecutivo non già 
quale 
vero e 
proprio “Capo”, quanto più alla 
stregua 
di un Primus inter pares. 


La 
complessità 
delle 
attribuzioni 
governative 
si 
rispecchia 
nella 
parimenti 
complessa 
articolazione 
delle 
strutture 
interne 
della 
Presidenza. In prima 
approssimazione 
è 
possibile 
affermare 
che 
la 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
mini


(17) Si 
v. B. CARAVITA 
e 
M. LUCIANI, La ridefinizione 
del 
sistema delle 
fonti: note 
e 
materiali, in 
Pol. dir., 1986, pp. 263 e ss. 
(18) F. MODUGNO, Diritto pubblico, p. 63; 
L. ELIA, Governo (forme 
di), voce, in Enciclopedia del 
diritto, 
Vol. 
XIX, 
Milano, 
pp. 
747 
e 
ss.; 
C. 
MORTATI, 
Le 
forme 
di 
Governo, 
Padova; 
L. 
ELIA, 
L’evoluzione 
della forma di Governo, in Studi in onore di Gianni Ferrara, Torino, 2005. 
(19) Per un’analisi più completa del fenomeno richiamato si v. M. CARTABIA, 
op. cit., p. 81. 
(20) Si 
v. Premessa 
e, maggiormente 
e 
per una 
trattazione 
più esaustiva, N. LUPO, il 
ruolo normativo 
del Governo, in il Filangieri, Napoli, 2010, pp. 81-134. 
(21) Per una 
disamina 
dell’accrescimento della 
normazione 
di 
rango primario del 
Governo si 
v., 
oltre 
ai 
contributi 
già 
segnalati, altresì 
P. DE 
LUCA, il 
DaGL 
nel 
processo normativo endogovernativo 
italiano, in Forum di Quaderni costituzionali, pp. 1 e ss. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


stri 
rappresenta 
la 
struttura 
posta 
a 
supporto del 
Presidente 
del 
Consiglio per 
l'esercizio 
delle 
funzioni 
di 
impulso, 
indirizzo 
e 
coordinamento 
attribuitegli 
dalla 
Costituzione 
(22). In realtà, come 
meglio si 
dirà 
infra, la 
Presidenza 
è 
ben 
più 
di 
una 
semplice 
struttura 
amministrativo-burocratica 
e 
rappresenta, 
per 
certi 
versi, 
centro 
nevralgico 
e 
crocevia 
obbligato 
per 
l’esercizio 
della 
funzione 
normativa del Governo. 

Innanzitutto, può darsi 
una 
prima 
partizione 
interna 
delle 
strutture 
afferenti 
alla 
Presidenza: 
da 
un 
lato, 
i 
Dipartimenti 
che 
svolgono 
funzioni 
nell’amministrazione 
attiva 
e, 
dall’altro 
i 
Dipartimenti 
che, 
invece, 
svolgono 
funzioni 
di 
diretta 
collaborazione 
con i 
Ministri 
senza 
portafoglio -quali, ad esempio, 
il 
Dipartimento per le 
Politiche 
Comunitarie 
ovvero per i 
Rapporti 
con il 
Parlamento 
(23). Giova 
altresì 
rammentare 
il 
ruolo essenziale 
svolto dal 
Segretario 
Generale (24). 

Accanto a 
tali 
strutture 
spicca, per funzioni 
e 
rilevanza, il 
Dipartimento 
per gli 
Affari 
Giuridici 
e 
Legislativi 
(di 
seguito anche 
solo “DAGL”). Quest’ultimo, 
lungi 
dal 
potersi 
qualificare 
come 
pura 
e 
semplice 
struttura 
burocratica 
di 
supporto, rappresenta, come 
è 
stato correttamente 
sottolineato (25), 
“lo 
strumento” 
attraverso 
il 
quale 
il 
Presidente 
del 
Consiglio 
esercita 
le 
proprie 
funzioni costituzionali. 

È d’uopo, pertanto, analizzare brevemente la normativa di riferimento. 

Il 
terzo comma 
dell’art. 95 Cost. contiene 
una 
riserva 
di 
legge 
in merito 
alla 
disciplina 
dell’ordinamento 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio. 
Siffatta 
riserva 
ha 
trovato attuazione 
con l’emanazione 
della 
legge 
23 agosto 1988 n. 400, rubricata 
“Disciplina 
dell'attività 
di 
Governo 
e 
ordinamento 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
ministri”. 
L’art. 
23, 
nella 
formulazione 
originaria, 
prevedeva 
la 
costituzione 
di 
un Ufficio Centrale 
per il 
Coordinamento dell’iniziativa 
legislativa 
e 
dell’attività 
normativa 
del 
Governo: 
un antesignano del 
DAGL. A 
tale 
Ufficio venne 
attribuito il 
compito di 
curare 
tutti 
gli 
adempimenti 
relativi 
alla 
predisposizione 
degli 
“atti 
necessari 
alla 
formulazione 
e 
al 
coordinamento 
delle 
iniziative 
legislative” 
(26). 
Incidentalmente, 
al 
fine 
di 
meglio 
inquadrare 
il 
contesto 
nel 
quale 
la 
Presidenza 
-e, 
in 
generale, 
l’Esecutivo 
-si 
trova 
ad 
operare, occorre 
tenere 
presente 
che 
negli 
ultimi 
anni 
si 
è 
andato rafforzando 
il 
fenomeno della 
c.d. “fuga dalla legge” 
(27), e 
la 
consequenziale 
acquisi


(22) 
C. 
zUCChELLI, 
il 
coordinamento 
normativo 
del 
Governo: 
il 
DaGL 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio, 
in associazione Studi e ricerche parlamentari, Quaderno 14, Torino, 2004, p. 199. 
(23) C. zUCChELLI, op. cit., p. 199. 
(24) Si 
v. per una 
panoramica 
completa 
e 
schematica 
delle 
strutture 
interne 
alla 
Presidenza 
del 
Consiglio dei 
ministri 
il 
sito web della 
medesima: 
http://www.governo.it/it/organizzazione/uffici-dipartimenti-
strutture/69#Dipartimenti. 
(25) C. zUCChELLI, op. cit., 
p. 201. 
(26) C. zUCChELLI, op. cit., p. 201. 
(27) Si 
v., ad esempio, R. zACCARIA, Fuga dalla legge?, Brescia, 2011 e 
P. DE 
LUCA, op. cit., p. 
3. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


zione 
di 
importanza 
dei 
provvedimenti 
normativi 
di 
rango 
secondario, 
ciò 
avendo comportato un significativo rafforzamento del 
ruolo e 
delle 
funzioni 
del 
DAGL, 
nell’ambito 
della 
funzione 
legislativo-regolamentare 
svolta 
dal 
Governo. 

La 
legge 
n. 400 del 
1988 ebbe 
il 
merito, come 
correttamente 
osservato 
da 
alcuni, di 
trasformare 
quel 
“grosso, mastodontico gabinetto” 
(28) in una 
organizzazione 
funzionale 
al 
sostegno 
del 
Presidente 
del 
Consiglio 
nell’adempimento 
del suo ruolo costituzionale. 

Con legge 
15 marzo 1997, n. 59, il 
Parlamento attribuì 
al 
Governo una 
delega 
per 
l’emanazione 
di 
un 
decreto 
per 
la 
riforma 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
ministri, 
specificandone 
i 
princìpi 
all’art. 
12 
(29). 
In 
attuazione 
della 
delega 
parlamentare, il 
Governo ha 
adottato due 
decreti 
legislativi 
-i 
nn. 300 
e 
303 del 
1999 -con i 
quali 
si 
è 
proceduto ad una 
ulteriore 
razionalizzazione 
e 
ripartizione 
delle 
funzioni 
burocratiche, 
per 
così 
dire, 
interne 
alla 
Presidenza 
del 
Consiglio. È 
stato con l’art. 6 del 
D.lgs 
n. 303 del 
1999 che 
il 
legislatore 
delegato 
ha 
dato 
vita 
al 
DAGL, 
il 
quale 
è 
divenuto 
assegnatario 
delle 
funzioni 
precedentemente 
di 
competenza 
dell’Ufficio 
centrale 
per 
il 
coordinamento 
dell’iniziativa legislativa e dell’attività normativa del Governo (30). 

Nell’ambito 
delle 
fonti 
che 
disciplinano 
il 
DAGL 
-stratificatesi 
nel 
corso 
dei 
decenni 
-una 
notevole 
rilevanza 
è 
altresì 
rivestita 
dai 
Decreti 
del 
Presidente 
del 
Consiglio dei 
Ministri, l’ultimo dei 
quali, del 
15 dicembre 
2017, ha 
modificato il 
precedente 
dell’1 ottobre 
2012, nonché 
dal 
regolamento interno 
del Consiglio dei Ministri del 10 novembre del 1993. 

3.1. L’iter legislativo endogovernativo. 
Ad una 
struttura 
complessa 
ed articolata 
quale 
quella 
che 
si 
è 
sinteticamente 
supra 
descritta fa da 
pendant 
un procedimento altrettanto complesso. 

in primis, l’art. 3 del 
regolamento interno stabilisce 
che 
“il 
ministro che 
intende 
proporre 
l’iscrizione 
di 
un provvedimento o questione 
all’ordine 
del 
giorno del 
Consiglio dei 
ministri, ne 
fa richiesta al 
Presidente 
del 
Consiglio 
allegando 
lo 
schema 
relativo, 
con 
la 
necessaria 
documentazione”, 
la 
quale 
ultima 
si 
estrinseca 
in: 
relazione 
illustrativa 
-ossia 
un documento che 
accompagna 
il 
provvedimento, esplicandone 
presupposti, rationes, finalità 
e 
analiz


(28) Virgolettato ripreso da 
A. PAjINO, La Presidenza del 
Consiglio dei 
ministri 
dal 
vecchio al 
nuovo 
ordinamento, 
in 
A. 
PAjINO 
e 
L. 
TORChIA 
(a 
cura 
di), 
La 
riforma 
del 
Governo. 
Commento 
ai 
decreti 
legislativi 
n. 300 e 
303 del 
1999 sulla riorganizzazione 
della Presidenza del 
Consiglio dei 
ministri, Bologna, 
p. 199; P. DE 
LUCA, op. cit., p. 8. 
(29) Tra 
questi 
giova 
segnalare, come 
indicato in C. zUCChELLI, op. cit., p. 202, che 
il 
decreto delegato 
avrebbe 
dovuto: 
assicurare 
il 
collegamento funzionale 
ed operativo con le 
amministrazioni 
interessate 
nonché 
potenziare 
le 
autonome 
funzioni 
di 
impulso, indirizzo e 
coordinamento del 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri, 
eliminando 
e 
riallocando 
funzioni 
di 
carattere 
eminentemente 
amministrative. 
(30) Tale 
ultimo organo fu, infatti, abrogato dall’art. 12, co. 4, lett 
e) del 
d.P.C.M. del 
10 marzo 
1994. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


zandolo 
articolo 
per 
articolo; 
relazione 
tecnica 
-nella 
quale 
si 
analizzano 
i 
costi 
del 
provvedimento, 
in 
ossequio 
al 
disposto 
dell’art. 
81 
Cost.; 
la 
relazione 
Air - ossia il documento concernente l’Analisi di Impatto della Regolazione. 

Il 
medesimo art. 3, inoltre, prevedrebbe 
l’acquisizione 
preventiva 
di 
tutti 
i 
concerti 
da 
parte 
delle 
Amministrazioni 
coinvolte. Non è 
raro, in un ordinamento 
caratterizzato da 
un forte 
pluralismo amministrativo, che 
un provvedimento 
incida 
su interessi 
pubblici 
diversi 
e 
tra 
di 
loro confliggenti. Ebbene, 
nonostante 
tale 
previsione 
si 
è 
attestata 
una 
prassi 
secondo 
la 
quale 
il 
concerto 
delle 
diverse 
Amministrazioni 
coinvolte 
venga 
acquisito durante 
l’iter 
istruttorio 
in 
seno 
al 
DAGL 
e 
che, 
pertanto, 
sia 
quest’ultimo 
a 
dover 
coordinare 
“lo 
scontro 
di 
interessi 
che 
è 
connaturato 
alla 
presentazione 
di 
ogni 
provvedimento” 
(31). 

Conclusa 
la 
fase 
della 
iniziativa 
segue 
una 
fase 
di 
vera 
e 
propria 
istruttoria, 
che 
principia 
dalla 
c.d. 
“diramazione” 
del 
provvedimento, 
che 
rappresenta 
l’atto 
attraverso 
il 
quale 
le 
bozze 
-rectius, 
schemi 
-degli 
adottandi 
provvedimenti 
vengono 
trasmessi 
a 
tutte 
le 
amministrazioni, 
al 
fine 
di 
essere 
iscritti 
all’ordine 
del 
giorno 
della 
riunione 
preparatoria 
al 
Consiglio 
dei 
ministri 
-comunemente 
definita 
pre-Consiglio. 
In 
proposito, 
l’art. 
4 
del 
regolamento 
interno 
sopracitato 
stabilisce 
che 
“gli 
schemi 
dei 
provvedimenti, 
dopo 
la 
loro 
diramazione, 
nonché 
eventuali 
documenti 
relativi 
ad 
altre 
questioni 
di 
competenza 
del 
Consiglio 
dei 
ministri, 
sono 
esaminati 
in 
una 
riunione 
preparatoria 
tenuta 
presso 
la 
sede 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio, 
almeno 
due 
giorni 
prima 
della 
riunione 
del 
Consiglio, 
al 
fine 
di 
pervenire 
alla 
loro 
redazione 
definitiva”. 


Il 
passaggio in pre-Consiglio rappresenta 
un momento centrale 
dell’iter. 
In primo luogo, poiché 
l’art. 4 cit., al 
co. 2, stabilisce 
che 
nessun provvedimento 
ovvero questione 
possa 
essere 
inserita 
all’ordine 
del 
giorno del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
se 
prima 
non è 
passato al 
vaglio del 
pre-Consiglio. Durante 
tale 
riunione, difatti, le 
Amministrazioni 
condividono dubbi 
e 
rilievi 
tecnici, 
superati 
il 
DAGL 
propone 
al 
Presidente 
del 
Consiglio di 
iscrivere 
il 
provvedimento 
all’ordine del giorno del Consiglio dei Ministri. 

Può accadere 
-e, nella 
prassi, accade 
non di 
rado -che 
nei 
giorni 
che 
separano 
il 
pre-Consiglio dal 
Consiglio dei 
Ministri 
vero e 
proprio il 
DAGL 
indica 
una 
serie 
di 
riunioni 
al 
fine 
di 
sciogliere 
i 
nodi 
di 
natura 
tecnica 
che 
ancora 
insistono sul provvedimento. 


Una 
volta 
approdato 
in 
Consiglio 
dei 
Ministri, 
il 
provvedimento 
viene 
deliberato. Tuttavia, anche 
in questo particolare 
momento, in via 
di 
prassi 
si 
è 
introdotta 
l’approvazione 
c.d. “salvo intese”, nel 
senso che 
su di 
un eventuale 


(31) C. zUCChELLI, op. cit., p. 205. In tal 
senso, si 
ritiene 
opportuno sottolineare 
altresì 
che, alla 
luce 
di 
quanto riferito, il 
DAGL 
è 
ben più di 
una 
semplice 
struttura 
burocratica 
di 
“assistenza” 
ad un organo 
politico. 
Nell’ambito 
dell’iter 
legislativo 
endogovernativo, 
difatti 
-con 
specifico 
riferimento 
al 
ruolo 
di 
“mediatore” 
tra 
interessi 
contrapposti 
-il 
Dipartimento 
in 
esame 
rappresenta 
propriamente 
una 
esplicazione dei poteri di coordinamento del Presidente del Consiglio dei ministri. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


problema 
-sia 
esso di 
carattere 
tecnico ovvero politico -il 
Consiglio dei 
Ministri 
ha 
raggiunto una 
intesa 
di 
massima, la 
quale 
peraltro necessita 
di 
una 
attuazione 
tecnica, demandata 
al 
DAGL. In altri 
termini, ove 
si 
pervenga 
ad 
una 
intesa 
di 
carattere 
politico spetta 
poi 
al 
DAGL 
tradurre 
tale 
indirizzo in 
una norma. 

Con l’approvazione 
del 
provvedimento in seno al 
Consiglio dei 
Ministri 


-e 
sua 
eventuale 
“correzione” 
tecnica 
da 
parte 
del 
DAGL 
-il 
procedimento 
legislativo endogovernativo 
si 
avvia 
a 
conclusione. Giova, peraltro, rammentare 
che 
il 
procedimento, nel 
suo complesso, è 
appena 
iniziato, poiché 
dopo il 
passaggio 
governativo 
il 
provvedimento 
dovrà 
essere 
sottoposto, 
ove 
previsto, 
al Parlamento. 
4. Conclusioni: verso una razionalizzazione del DaGL. 
È 
del 
tutto evidente 
che 
tirare 
definitivamente 
le 
fila 
di 
un processo risalente 
e 
tuttavia 
in pieno svolgimento, come 
è 
quello del 
progressivo rafforzamento 
del 
Governo, 
del 
Presidente 
del 
Consiglio 
dei 
Ministri 
e, 
conseguentemente, delle 
strutture 
al 
supporto dello stesso -in ambito legislativo, 
per quanto qui d’interesse - sia complicato. 

Epperò, può essere 
utile 
fornire 
qualche 
spunto di 
riflessione 
in merito a 
possibili futuri interventi. 

Come 
ampiamente 
dimostrato supra 
e 
da 
altri 
sostenuto (32) da 
un lato 
il 
DAGL 
rappresenta 
una 
struttura 
essenziale, 
centrale 
ed 
indefettibile 
dell’iter 
legislativo endogovernativo. Eppure, ad una 
simile 
centralità 
si 
accompagna 
una 
rilevante 
disomogeneità 
e, per certi 
versi, inefficacia 
della 
disciplina 
allo 
stesso afferente. 

Gli 
sviluppi 
sociali 
ed 
economici 
divampati 
dagli 
anni 
’80 
del 
secolo 
scorso 
hanno 
oltremodo 
caricato 
gli 
Esecutivi 
della 
necessità 
di 
procedere 
speditamente. 
Il 
Governo deve 
occuparsi 
di 
moltissime 
questioni 
e, al 
contempo, 
stare al passo con una società che va sempre più veloce. 

Parrebbe 
potersi 
altresì 
accennare 
al 
fatto che 
il 
DAGL, in qualità 
di 
catalizzatore 
degli 
impulsi 
normativi 
atti 
ad attuare 
il 
programma 
di 
Governo, 
stia 
contribuendo a 
quel 
processo di 
razionalizzazione 
de 
facto 
della 
forma 
di 
Governo parlamentare, perseguito in via di prassi a Costituzione vigente. 

In quest’ottica, sembrerebbe 
doversi 
condividere 
l’opinione 
di 
chi 
ha 
auspicato 
un 
intervento 
sulla 
disciplina 
concernente 
funzioni, 
attribuzioni 
e 
qualificazione 
del 
DAGL 
(33) 
come 
organo 
che 
si 
pone 
a 
cavallo 
“tra 
il 
momento 
di 
impulso 
dell’attività 
normativa” 
e 
“quello 
di 
coordinamento 
della 
funzione 
di attuazione dell’attività stessa” 
(34). 


(32) P. DE 
LUCA, op. cit., p. 14. 
(33) P. DE 
LUCA, op. cit., p. 14. 
(34) P. DE 
LUCA, op. cit., p. 15. 

LEGISLAzIONE 
ED 
ATTUALITà 


Un 
simile 
intervento, 
difatti, 
andrebbe 
nella 
direzione 
di 
valorizzare 
l’essenziale 
ruolo 
di 
filtro 
svolto 
dal 
DAGL, 
onde 
evitare 
che 
“la 
lunghezza 
della 
denominazione 
dell’Ufficio 
(continui 
ad essere, 
ndr) 
direttamente 
proporzionale 
alla sua inefficacia” 
(35). 


Si 
intende, nondimeno, concludere 
questo breve 
approfondimento sottolineando 
-ancora 
una 
volta 
-che 
un ripensamento, profondo, del 
ruolo, delle 
funzioni 
e 
delle 
attribuzioni 
del 
DAGL 
sembrerebbe 
potersi 
-o, meglio, doversi 
-inserire 
in 
un 
progetto 
riformatore 
più 
ampio, 
che 
persegua 
oculatamente 
l’obiettivo di 
razionalizzazione 
della 
forma 
di 
Governo che, per certi 
versi (36), già i Costituenti auspicavano. 


Bibliografia e sitografia 


AMATO 
G., Nuove 
tendenze 
nella formazione 
degli 
atti 
governativi 
di 
indirizzo, in riv. trim. 
dir. pubbl., 1970; 
BOGNETTI 
G., Governo, in Enc. Scienze soc. Treccani, Vol. IV, Roma, 1994, pp. 405 e ss.; 
BONETTI 
P., 
il 
coordinamento 
della 
progettazione 
degli 
atti 
normativi 
del 
Governo: 
problemi 
e 
prospettive, 
in 
astrid 
online 
(http://www.astridonline.it/static/upload/protected/05_a/05_astridrassegna_
Qr_Bonetti_0709.pdf); 
BURDEAU 
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S., 
introduzione allo studio della normazione, in riv. trim. dir. pubbl., 1992; 
ChELI 
E., L’ampliamento dei 
poteri 
normativi 
dell’esecutivo nei 
principali 
ordinamenti 
occidentali, 
in riv. trim. dir. pubbl., 1959; 
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ChELI 
E., 
ruolo 
dell’esecutivo 
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sviluppi 
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regolamentare, 
in 
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COCOzzA 
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it/wordpress/wp-content/uploads/2017/05/deluca.pdf; 
ELIA 
L., Governo (forme 
di), voce, in Enciclopedia del 
diritto, Vol. IXI, Milano, pp. 747 e 
ss.; 


(35) S. CASSESSE, introduzione allo studio della normazione, in riv. trim. dir. pubbl., 1992. 
(36) Si 
prenda 
in considerazione 
il 
ben noto Ordine 
del 
giorno “Perassi”, nel 
quale 
si 
affermava 
che 
“La seconda sottocommissione 
[...], ritenuto che 
né 
il 
tipo del 
governo presidenziale 
né 
quello del 
governo direttoriale 
risponderebbero alle 
condizioni 
della società italiana, si 
pronuncia per 
l'adozione 
del 
sistema parlamentare, da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi 
idonei 
a tutelare 
le 
esigenze 
di 
stabilità 
dell'azione di governo e ad evitare degenerazioni del parlamentarismo”. 

RASSEGNA 
AVVOCATURA 
DELLO 
STATO -N. 4/2020 


ELIA 
L., L’evoluzione 
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2005; 
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autorità indipendenti 
nei 
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(a 
cura 
di), Passigli, Firenze, 
1997, pp. 145 e ss.; 
MORTATI 
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Legge 
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costituzionalità, Giuffrè, Milano, 1961, p. 
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PAjINO 
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La Presidenza del 
Consiglio dei 
ministri 
dal 
vecchio al 
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PAjINO 
A. 
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TORChIA 
L. 
(a 
cura 
di), 
La 
riforma 
del 
Governo. 
Commento 
ai 
decreti 
legislativi 
n. 
300 
e 
303 
del 
1999 
sulla 
riorganizzazione 
della 
Presidenza 
del 
Consiglio 
dei 
ministri, 
Bologna; 
SPAGNA 
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E., L’iniziativa nella formazione 
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leggi 
italiane, I, il 
potere 
di 
iniziativa 
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http://www.governo.it/it/organizzazione/uffici-dipartimenti-strutture/69; 
http://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Statistiche/Leggi//DDLLeggiapprovatePeriniziativa.
html. 



ContrIbutIdIdottrIna
Intelligenza artificiale, neuroscienze, 
algoritmi: le sfide future per il giurista. 
L’uomo e la macchina 


Gaetana Natale* 


If 
this, thant 
that: 
con questa 
semplice 
espressione, che 
sta 
ad indicare 
il 
concetto di 
algoritmo, ossia 
una 
sequenza 
di 
passaggi 
elementari 
in un tempo 
finito, si racchiude il futuro della tecnologia e del destino dell’uomo. 

Nella 
complessità 
che 
caratterizza 
il 
nostro 
tempo, 
il 
giurista, 
spinto 
da 
una 
visione 
essenzialmente 
antropocentrica, 
dovrà 
svolgere 
una 
funzione 
“ordinante” 
che 
ponga 
l’algoritmo 
non 
in 
sostituzione 
dell’essere 
umano, 
bensì 
al 
suo 
servizio. 
Come, 
però, 
potrà 
svolgere 
tale 
funzione, 
con 
quali 
strumenti 
normativi 
ed 
interpretativi, 
con 
quali 
categorie 
giuridiche, 
con 
quali 
processi 
di 
modellizzazione 
concettuale 
idonei 
a 
cogliere, 
gestire 
e 
regolare 
la 
complessità? 


Il 
limite 
di 
Prometeo 
invocato 
dalla 
cultura 
greca 
oggi 
evidenzia 
il 
rischio 
di 
una 
tecnologia 
che 
compie 
un processo di 
mimesi 
e 
di 
superamento della 
razionalità 
umana. 
Questo, 
perché 
l’algoritmo 
oggi 
non 
costituisce 
più 
un 
“mere 
tool”, 
ossia 
mero 
elemento 
di 
trasmissione 
della 
volontà 
umana, 
ma 
un 
coelemento essenziale 
ed imprescindibile 
di 
formazione 
della 
volontà 
stessa 
che incide sul processo di autodeterminazione dell’individuo. 

Le 
neuroscienze 
aprono 
scenari 
inimmaginabili 
nel 
binomio 
“coscienza 
e 
identità”: 
cogito 
ergo 
sum, 
secondo 
Cartesio, 
l’uomo 
è 
il 
pensiero, 
ma 
il 
pensiero 
è 
il 
correlato 
neuronale 
della 
coscienza 
umana, 
quella 
co


(*) Avvocato dello Stato, Professore 
a 
contratto presso l’Università 
degli 
Studi 
di 
Salerno, Consigliere 
giuridico del Garante per la Privacy. 


Il presente scritto costituisce l'abstract di una monografia dell'Autrice di prossima pubblicazione. 


rASSeGNA 
AVVOCATUrA 
deLLO 
STATO -N. 4/2020 


scienza 
suitas 
che 
nell’antica 
Grecia 
consentiva 
di 
distinguere 
l’Ardire 
dalla 
Hybris. 
In 
fondo, 
se 
ci 
pensiamo 
bene, 
Prometeo 
è 
colui 
che 
vede 
ed 
agisce 
in 
tempo 
nella 
consapevolezza 
del 
catéchon, 
ossia 
del 
limite: 
il 
limite 
di 
ammissibilità 
etica, 
giuridica, 
sociale 
delle 
innovazioni 
tecnologiche. 
Non 
tutto 
ciò 
che 
è 
tecnologicamente 
possibile, 
è 
giuridicamente 
ed 
eticamente 
accettabile 
e 
condivisibile. 


Se 
Parmenide 
affermava: 
“il 
pensiero 
è 
l’essere: 
è 
la 
stessa 
cosa 
pensare 
e 
pensare 
ciò 
che 
è, 
perché 
senza 
l’essere 
in 
ciò 
che 
è 
detto 
non 
troverai 
il 
pensare”, il 
profilo della 
libertà 
cognitiva 
come 
presupposto di 
autodeterminazione 
individuale 
oggi 
è 
messa 
a 
dura 
prova 
dai 
c.d. 
neuro-link: 
gli 
algoritmi 
entrano nell’intime 
sphere 
e 
nella 
predittività 
dei 
propri 
pensieri, delle 
decisioni 
e delle scelte individuali. 

Se 
l’habeas 
corpus 
ha 
rappresentato 
la 
base 
dello 
Stato 
di 
diritto, 
l’habeas 
data 
la 
base 
del 
diritto 
di 
autodeterminazione 
digitale, 
l’habeas 
mentem 
diventa 
il 
fulcro 
dei 
c.d. 
“neuro-diritti” 
per 
evitare 
la 
deriva 
neurodeterministica, 


c.d. “riduzionismo scientifico” 
e 
“determinismo tecnologico”. Occorre, dunque, 
uno statuto giuridico ed etico che 
coniughi 
l’innovazione 
con la 
dignità 
umana, intesa 
sempre 
come 
fine, e 
mai 
come 
mezzo, facendo tesoro dell’insegnamento 
di Kant. 
Occorre 
introdurre 
un concetto di 
neuroetica, etica 
della 
neurotecnologia 
per proporre un approccio etico alle tecnologie? 


Langdon Winner 
affermava 
che 
ogni 
disposizione 
tecnologica 
è 
espressione 
di 
potere 
e 
L. Mumford 
parlava 
di 
“Technical 
arragements 
as 
forms 
of 
order”: 
oggi 
il 
problema 
che 
si 
affaccia 
all’orizzonte 
non è 
solo l’implementazione 
della 
tutela 
dei 
dati, 
che 
costituiscono 
i 
new 
oil, 
essential 
facilities 
della 
driven data economy, ma 
anche 
la 
tutela 
della 
facoltà 
cognitiva 
dei 
cittadini, 
utenti, consumatori o fruitori dei servizi. 

Vi è da chiedersi cosa resta della libertà e responsabilità umana? 


Il 
dato 
neuronale 
con 
le 
c.d. 
tecniche 
di 
brain 
reading 
nell’interfaccia 
uomo-computer viene 
immesso per la 
prima 
volta 
nell’area 
dei 
dati 
digitali, 
nella 
c.d. infosfera, ecosistema 
digitale 
andando al 
di 
là 
delle 
applicazioni 
di 
neuro-enhansement 
nel 
campo bio medico, ponendo il 
problema 
della 
“opacità 
del 
machine 
learning”. Il 
dato neuronale 
è 
un dato differente 
dagli 
altri: 


1) 
ha 
un’importanza 
ontologica, 
perché 
è 
la 
sede 
dei 
processi 
vitali, 
è 
coscienza, 
pensiero, memoria; 
2) ha 
un’importanza 
antropologica 
nell’autopercezione 
di 
sé, 
dimensione 
fenomenologica 
e 
soggettiva 
della 
persona; 
3) 
importanza 
epistemologica, il 
dato neuronale 
è 
predittivo come 
il 
dato genetico; 
4) importanza 
metodologica, i 
dati 
neuronali 
possono essere 
rimodulati, 
il 
brain reading 
si può trasformare in brain writing. 
Siamo oltre 
il 
test 
di 
Turing, criterio per determinare 
se 
una 
macchina 
sia 
in grado di 
esibire 
un comportamento intelligente. Tale 
criterio, si 
ricorderà, 
fu 
suggerito 
da 
Alan 
Turing, 
inventore 
del 
computer, 
nel 
suo 
noto 
articolo 



CONTrIBUTI 
dI 
dOTTrINA 


“Computing 
machinery 
and 
intelligence”, 
apparso 
nel 
1950 
sulla 
rivista 
Mind, 
ma certamente allora 
Turing non poteva immaginare gli scenari attuali. 

“Il 
futuro non è 
ciò che 
progettiamo, ma è 
kairos, ciò che 
ci 
sorprende” 
diceva 
San Paolo di 
Tarso. Stiamo andando verso l’iperumano, il 
transumano 
e 
postumano, il 
c.d. Ubermensh 
di 
cui 
parlava 
Nietzsche 
o verso l’androide 
antropomorfo di cui parlava Philipp dick? 


Le 
scienze 
contemporanee 
hanno contribuito a 
definire 
l’uomo come 
un 
“sé 
multiplo”, la 
mente 
è 
l’idea 
del 
corpo, il 
corpo è 
brain feeling, siamo un 
complesso di 
mente 
e 
corpo: 
così 
si 
esprime 
Antonio Damasio 
nel 
suo scritto 
“l’errore di Cartesio”. 


Ma 
se 
spostiamo 
la 
nostra 
analisi 
nell’universo 
quantistico 
non 
possiamo 
non tener conto di 
quanto ha 
affermato Roger 
Penrose, premio Nobel 
per la 
fisica, con riferimento alla 
c.d. “libertà dell’evento”. In altri 
termini 
oggi 
noi 
viviamo 
in 
un 
universo 
quantistico 
in 
cui 
il 
possibile 
è 
la 
base 
di 
comprensione 
dell’evento, 
“brain 
imaging”. 
Se 
questo 
è 
vero, 
allora 
le 
neurotecnologie 
possono 
anche 
favorire 
uno 
sviluppo 
qualitativo 
dell’uomo, 
inteso 
come 
complesso 
unico di 
mente 
e 
corpo, pensieri, emozioni, coscienza 
critica. È 
questa 
la 
sfida 
che 
attende 
il 
giurista: 
a 
lui 
l’arduo compito di 
individuare 
attraverso 
un 
approccio 
multidisciplinare 
principi, 
regole, 
principles 
e 
model-rules 
capaci 
di realizzare quello che è stato di recente definito “l’umanesimo digitale”. 


Sembrerà 
strano, 
ma 
il 
primo 
computer 
è 
stato 
un 
computer 
a 
vapore, 
calcolatore 
universale 
risalente 
alla 
prima 
metà 
dell’800 
e 
la 
prima 
programmatrice 
è 
stata 
una 
donna, 
ada 
Lovelance, 
definita 
da 
Charles 
Babbage 
“incantatrice 
dei 
numeri”. 
Certo 
molti 
anni 
dovettero 
trascorrere 
prima 
che 
tim 
berners-
Lee 
nel 
1989 
presso 
i 
laboratori 
Cern 
di 
Ginevra 
presentasse 
il 
primo 
sistema 
di 
“information 
management”, 
chiamato 
Mesh, 
il 
primo 
website 
concepito 
come 
“a 
democratic 
arena” 
per 
lo 
scambio 
di 
informazioni 
al 
servizio 
dei 
cittadini 
senza 
royalties 
o 
speculazioni. 
Ma 
tale 
idea 
democratica 
e 
gratuita 
del 
web 
è 
stata 
oggi 
vanificata 
dalle 
grandi 
piattaforme 
Facebook, 
Google 
e 
Amazon 
che 
ne 
hanno 
monopolizzato 
l’utilizzo, 
disponendo 
di 
un’enorme 
quantità 
di 
dati, 
senza 
precise 
regole 
volte 
ad 
una 
loro 
effettiva 
responsabilizzazione. 
Tim 
Berners-Lee 
insieme 
ad 
altri 
scienziati 
sta 
lavorando 
oggi 
ad 
un 
progetto 
chiamato 
Solid 
per 
ridecentrare 
il 
web 
e 
renderlo 
di 
nuovo 
uno 
spazio 
libero. 


È 
emblematico 
che 
nel 
1909 
uno 
scrittore 
britannico 
Forster 
abbia 
scritto 
una 
storia 
di 
fantascienza 
intitolata 
“The 
machine 
stops” 
in cui 
l’autore 
immagina 
che 
le 
persone 
vivono isolate 
accanto ad una 
macchina 
che 
provvede 
a 
tutti 
i 
loro 
bisogni. 
Gli 
umani 
in 
tale 
racconto 
vivono 
connessi, 
pur 
rimanendo 
isolati, determinando in loro la 
paura 
delle 
esperienze 
dirette. Questo è 
il motivo per cui la tecnologia deve considerarsi 
“as a tool, not a master”. 


Ma 
dal 
punto 
di 
vista 
giuridico 
come 
deve 
considerarsi 
il 
rapporto 
uomo-
macchina? 


Un 
grande 
giurista 
Gunther 
teubner 
ha 
per 
primo 
affrontato 
il 
tema 



rASSeGNA 
AVVOCATUrA 
deLLO 
STATO -N. 4/2020 


dell’algoritmo 
e 
degli 
agenti 
digitali 
autonomi, 
ossia 
di 
quelli 
che 
possono 
elaborare 
e 
prendere 
decisioni 
indipendentemente 
dal 
produttore 
e 
dall’utilizzatore 
del 
programma. Secondo tale 
autore 
occorre 
analizzare 
il 
rapporto che 
si 
instaura 
tra 
l’uomo e 
il 
software 
utilizzato, nonché 
la 
distribuzione 
della 
responsabilità 
per danni 
cagionati 
nella 
sfera 
giuridica 
di 
coloro i 
quali 
hanno 
fatto 
affidamento 
incolpevole 
sulla 
dichiarazione 
dell’agente 
digitale 
autonomo, 
soprattutto 
se 
si 
tiene 
conto 
della 
prevalenza 
nel 
sistema 
della 
teoria 
oggettiva 
della 
dichiarazione 
di 
volontà. 
L’assistente 
digitale 
è 
diventato 
sempre 
meno 
un 
semplice 
nuncius 
della 
volontà 
della 
persona 
fisica. 
e 
sicuramente 
non è 
tale 
quando è 
capace 
di 
prendere 
decisioni 
autonome 
ed in quanto tale 
causare 
danni 
a 
terzi. Le 
categorie 
che 
vengono in rilievo sono chiaramente 
la 
rappresentanza e il rapporto associativo uomo/macchina. 


Occorrerà 
soffermarsi 
sul 
nuovo 
concetto 
di 
informazione 
sempre 
più 
alterata 
non solo dalle 
c.d. fake 
news, ma 
dalla 
c.d. “information 
pollution”, 
ossia 
dall’inquinamento delle 
informazioni. Concetto che 
si 
declina 
nei 
fenomeni 
di: 
clickbait, 
sloppy 
journalism, 
misleading 
headings, 
biased 
news 
e 
filter 
bubble. 
Sono 
tutti 
processi 
che 
contengono 
o 
notizie 
false 
o 
notizie 
manipolate 


o informazioni 
modellate 
su profilazioni 
del 
soggetto che 
effettua 
delle 
ricerche 
sul 
web 
riuscendo 
a 
trovare 
le 
informazioni 
sempre 
più 
corrispondenti 
alla 
propria 
formazione 
culturale 
e 
ai 
propri 
interessi 
con una 
selezione 
subdola 
di dati che avviene a sua insaputa. 
Siamo 
in 
una 
dimensione 
ben 
lontana 
dalla 
parresia, 
ossia 
della 
verità 
di 
cui 
parlavano 
i 
greci 
nel 
sistema 
democratico 
della 
polis. 
Luciano 
Floridi, 
docente 
di 
Filosofia 
ed 
etica 
dell’Informazione 
a 
Oxford, 
nel 
suo 
libro 
“Pensare 
l’infosfera”, 
sostiene 
che 
viviamo 
ormai 
in 
un 
mondo 
virtuale, 
l’infosfera 
appunto, 
in 
cui 
tutti 
siamo 
degli 
inforgs, 
organismi 
del 
sostrato 
informazionale. 
La 
postmodernità 
rifugge 
sempre 
più 
dalle 
cose 
per 
andare 
verso 
relazioni 
con 
inarrestabile 
astrazione 
dal 
materiale. 
Siamo 
passati 
da 
una 
posizione 
ontologica 
assoluta 
modellata 
su 
un 
mondo 
letto 
in 
termini 
aristotelici 
(c.d. 
primato 
della 
cosa) 
e 
newtoniani 
(primato 
nello 
spazio 
e 
nel 
tempo) 
a 
quella 
epistemologica-relazionale, 
dominante 
nell’infosfera, 
un 
costruzionismo 
di 
ispirazione 
neo-Kantiana 
definito 
come 
processo 
di 
modellizzazione 
(non 
copia 
platonica 
del 
modello) 
che 
dà 
forma 
alla 
realtà 
rendendola 
intelligibile. 


Se 
Cartesio 
affermava 
“cogito 
ergo 
sum”, 
oggi 
possiamo 
dire 
“videor 
ergo 
sum”: 
la 
costruzione 
del 
sé 
c.d. 
Bildung 
passa 
attraverso 
lo 
strumento 
digitale, 
il 
selfie 
è 
il 
sentirsi, 
il 
realizzarsi 
nello 
sguardo 
dell’altro, 
Leib 
e 
Körper, 
la 
pietrificazione 
del 
sé, 
di 
cui 
parla 
Sartre 
in 
pagine 
memorabili 
di 
“L’essere 
e 
il 
nulla”. 
Il 
selfie 
è 
l’esposizione 
del 
corpo 
on 
line 
che 
ha 
come 
unità 
di 
misura 
i 
like. 
Un 
famoso 
psichiatra 
Giovanni 
Stanghellini 
parla 
di 
“selfie 
come 
sentirsi 
nello 
sguardo 
dell’altro, 
l’altro 
è 
l’unica 
possibilità 
di 
essere 
riconosciuti”. 



CONTrIBUTI 
dI 
dOTTrINA 


Tutto questo a che prezzo per l’uomo? 


Il 
c.d. “effetto Flynn” 
ci 
dovrebbe 
far riflettere: 
Richard Flynn 
ha 
condotto 
uno studio tra 
il 
1990 e 
il 
2009 dimostrando che 
il 
quoziente 
intellettivo 
Qi 
stia 
cominciando 
lentamente, 
ma 
inesorabilmente 
a 
calare. 
Un 
calo 
costante 
che 
oggi 
è 
diventato un vero e 
proprio tracollo, se 
pensiamo alla 
percentuale 
di 
persone 
afflitte 
dal 
c.d. “anafalbetismo funzionale” 
(sanno leggere, ma 
non 
capiscono il 
senso né 
sono in grado di 
rielaborarlo). Le 
nuove 
tecnologie 
digitali 
specialmente 
per 
i 
più 
giovani 
rappresentano 
un 
potentissimo 
e 
pervasivo 
elemento 
di 
degradazione 
delle 
facoltà 
cognitive, 
emotiva 
e 
relazionale. 
Perché 
questo 
accade, 
quali 
sono 
le 
ragioni? 
Il 
neurobiologo 
Laurent 
Alexandre 
ritiene 
che 
la 
ragione 
risieda 
in 
questa 
considerazione: 
“laddove 
il 
libro 
favoriva 
una 
concentrazione 
duratura e 
creativa, internet 
incoraggia la rapidità, il 
campionamento 
distratto 
di 
piccoli 
frammenti 
di 
informazioni 
provenienti 
da 
fonti 
diverse” 
(1). Il 
processo che 
consiste 
nell’immagazzinare 
i 
dati, creando così 
la 
memoria, per poi 
elaborarli, creando un ordine 
diverso si 
chiama 
“apprendimento”. 
Il 
problema 
è 
che 
oggi 
è 
l’intelligenza 
artificiale 
ad occuparsi 
del 
processo 
di 
immagazzinamento 
dei 
dati, 
memoria 
ed 
elaborazione 
dei 
dati, 
con l’intelligenza 
umana 
ridotta 
a 
svolgere 
un ruolo ausiliario e 
sempre 
più 
ininfluente. 

ecco 
che 
allora 
abbiamo 
assistito, 
alla 
nascita 
del 
GPT3, 
Generative 
Pretrained 
Transformer: 
l’11 
giugno 
2020 
è 
stata 
presentata 
GPT3, 
un’intelligenza 
artificiale 
in grado di 
scrivere 
un romanzo nello stile 
dello scrittore 
che 
si 
preferisce, scrive 
in pochi 
istanti 
il 
racconto che 
si 
preferisce. ricorda 
il 
generatore 
automatico di 
lettere 
d’amore 
che 
Alan Turing sperimentò nel 
1952 
a 
Manchester. GPT3 è 
la 
terza 
versione 
di 
un progetto di 
ricerca 
di 
un laboratorio 
fondato a 
San Francisco nel 
2015, Open AI, che 
tra 
i 
fondatori 
ha 
elon 
Musk 
e 
tra 
i 
finanziatori 
Microsoft. 
Non 
è 
trascorso 
nemmeno 
un 
anno 
e 
GPT3 
non scrive 
romanzi, ma 
è 
già 
utilizzato da 
oltre 
10.000 sviluppatori 
ed è 
presente 
in 
oltre 
300 
applicazioni. 
rientrano 
in 
questo 
processo 
le 
risposte 
ancora 
semplici 
di 
Alexa 
e 
Siri 
nei 
nostri 
smartphone 
e 
gli 
assistenti 
vocali, 
i 
dialoghi 
non facili 
con i 
chatbot 
quando andiamo sul 
sito della 
nostra 
banca 
o di 
una 
grande 
azienda 
che 
fornisce 
telefonia, 
acqua 
e 
luce, 
qui 
sappiamo 
di 
dialogare 
con un risponditore 
automatico. Il 
confine 
tra 
umano e 
artificiale 
nel 
GPT3 è 
meno netto, impercettibile, sarà 
sempre 
più difficile 
distinguere 
volti, suoni 
e 
testi creati da un’intelligenza artificiale da quelli reali. 

È 
innegabile 
la 
difficoltà 
di 
lettura 
di 
algoritmi 
che 
utilizzano 
grandi 
quantità 
di 
dati 
(big data) e, in misura 
crescente, si 
caratterizzano per l’impiego di 
tecnologie 
basate 
sull’intelligenza 
artificiale 
che 
non si 
limitano a 
seguire 
fedelmente 
le 
istruzioni 
del 
programmatore, ma 
diventano intelligenza 
sponta


(1) 
L. 
ALexANdre, 
“La 
guerra 
delle 
intelligenze, 
intelligenza 
artificiale 
contro 
intelligenza 
umana”, edT 
Torino, 2018. 

rASSeGNA 
AVVOCATUrA 
deLLO 
STATO -N. 4/2020 


neus, autocreativa, autoevolutiva, inventando soluzioni 
e 
percorsi 
inediti, con 
il 
risultato che 
neppure 
colui 
che 
ha 
fornito le 
istruzioni 
alla 
macchina 
attraverso 
l’algoritmo 
è 
pienamente 
in 
grado 
di 
ripercorrere 
il 
processo 
decisionale 
e 
offrire 
una 
spiegazione 
comprensibile. 
Il 
problema 
del 
carattere 
non 
neutrale 
dell’algoritmo 
e 
la 
sua 
scarsa 
trasparenza 
assume 
un 
ruolo 
centrale 
nel 
dibattito 
giuridico recente, da 
qui 
il 
pericolo che 
la 
società 
possa 
diventare 
una 
grande, 
unica scatola nera, una 
“black box society” 
(2). 

È il c.d. “surveillance capitalism” 
di cui parla S. Zuboff (3). 


Sulla 
base 
della 
complessità 
di 
tali 
considerazioni 
la 
Commissione 
europea 
ha 
elaborato 
il 
Digital 
Service 
Act 
che 
considerando 
essenziale 
“la 
legalità 
procedimentale 
della 
conservazione 
dei 
dati”, 
il 
c.d. 
Digital 
Due 
Process, 
predispone 
una 
tutela 
del 
cittadino basata 
su due 
principi 
fondamentali: 
il 
principio 
dell’autodeterminazione 
del 
singolo e 
il 
principio di 
responsabilizzazione 
delle 
piattaforme 
digitali. Sono questi 
i 
binari 
lungo i 
quali 
dovranno essere 
definite 
a 
livello europeo le 
norme 
che 
saranno determinanti 
per costruire 
un 
corretto rapporto uomo-macchina. 


(2) F. PASQUALe, 
“The 
Black 
Box 
Society.The 
secret 
Algorithms 
that 
Control 
Money 
and Information”, 
Cambridge, Ma 2015. 
(3) S. ZUBOFF, “Big other: surveillance 
capitalism 
and the 
prospects 
of 
an information civilization”, 
Journal 
of 
Information 
Technology 
(2015) 
30, 
75-89; 
Id., 
“The 
Age 
of 
Surveillance 
Capitalism.The 
Fight for a Human Future at the New Frontier of Power”, London 2019. 

CONTrIBUTI 
dI 
dOTTrINA 


La 
disciplina 
fiscale 
applicabile 
in 
materia 
di 
trust 
e 
l’imposta 
indiretta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni: 
il 
recente 
approdo 
ermeneutico 
operato 
dalla 
giurisprudenza 
di 
legittimità 


Elena Berto* 


SoMMARIo: 1. Brevi 
cenni 
ricostruttivi 
dell’istituto del 
Trust 
-2. Inquadramento della 
questione 
giuridica: l’applicazione 
della disciplina delle 
imposte 
indirette 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
all’istituto del 
Trust 
-3. La posizione 
ermeneutica dell’Agenzia delle 
Entrate 
-4. 
La 
posizione 
della 
Corte 
di 
Cassazione: 
l’evoluzione 
dell’orientamento 
-5. 
L’attuale 
approdo 
ermeneutico 
dei 
giuridici 
di 
legittimità: 
l’ordinanza 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
del 
16 
febbraio 
2021, n. 3986 -6. Il 
regime 
fiscale 
del 
Trust 
Auto-dichiarato -7. Prospettive 
de 
iure 
condito: 
la 
necessità 
di 
un 
nuovo 
intervento 
chiarificatore 
del 
legislatore 
-8. 
Il 
cambio 
di 
orientamento 
dell’Agenzia delle 
Entrate 
ed il 
recepimento della decisione 
della Corte 
di 
Cassazione: Risposta 
all’Istanza di Interpello dell’AE n. 106 del 15/02/2021. 


1. Brevi cenni ricostruttivi dell’istituto del Trust. 
L’istituto del 
Trust, di 
derivazione 
anglosassone, ha 
trovato ingresso nel-
l’ordinamento 
giuridico 
italiano 
con 
la 
ratifica 
della 
Convenzione 
dell’Aja 
(1) 


(*) Già 
Praticante 
forense 
presso l’Avvocatura 
dello Stato (avv. Stato Pasquale 
Pucciariello), avvocato 
del Foro di roma. 


(1) Ai 
sensi 
dell’articolo 2 della 
Convenzione 
dell’Aja, rientrano nella 
nozione 
internazionale 
di 
Trust:“i 
rapporti 
giuridici 
istituiti 
da una persona, il 
costituente, con atto tra vivi 
o mortis 
causa”; 
si 
tratta, 
in 
altri 
termini, 
di 
un 
negozio 
giuridico 
unilaterale, 
inter 
vivos 
o 
mortis 
causa, 
che 
non 
si 
perfeziona 
con l’incontro delle 
volontà 
di 
due 
o più soggetti, essendo sufficiente 
la 
sola 
dichiarazione 
di 
volontà 
del 
disponente 
che, tra 
l’altro, non necessita 
di 
accettazione 
da 
parte 
dei 
beneficiari, implicando una 
segregazione 
patrimoniale, 
grazie 
al 
meccanismo 
pubblicitario 
della 
trascrizione 
o 
degli 
adempimenti 
correlati. 
La 
Convenzione 
non 
sembra 
potersi 
applicare 
a 
qualsiasi 
tipo 
di 
Trust, 
bensì 
soltanto 
a 
quei 
rapporti 
giuridici 
che, comunque 
denominati, appartengano all’area 
giuridica 
delimitata 
dal 
medesimo 
strumento 
di 
diritto 
internazionale. 
La 
disposizione 
normativa 
di 
cui 
all’art. 
2, 
in 
tal 
senso, 
chiarisce 
che 
la 
definizione 
di 
Trust 
collocata 
nel 
medesimo articolo è 
stata 
redatta 
“per 
i 
fini 
di 
questa convenzione”. 
La 
Comunità 
degli 
Interpreti, 
in 
modo 
pacifico, 
ritiene 
pertanto 
che 
l’art. 
2 
non 
rechi 
in 
sé 
la 
definizione 
del 
concetto di 
“Trust”, limitandosi 
la 
stessa 
a 
definire 
il 
mero campo di 
applicazione 
dell’esaminata 
Convenzione. 
Per 
queste 
ragioni, 
non 
si 
ritiene 
opportuno 
attribuire 
all’art. 
2 
della 
Convenzione 
il 
merito 
di 
aver 
dettato 
una 
definizione 
generale 
dell’istituto 
giuridico 
del 
Trust, 
tenuto 
anche 
conto 
del 
fatto 
che 
si 
tratta 
di 
una 
norma 
di 
diritto privato internazionale, volta 
a 
regolare 
rapporti 
giuridici 
che 
interessino 
più ordinamenti 
nazionali. La 
prova 
di 
detto assunto si 
rinviene 
nel 
fatto che 
esistono tipologie 
di 
Trust 
non rientranti 
nell’art. 2 (si 
pensi, ad esempio, al 
“blind trust”) e, viceversa, esistono istituti 
giuridici 
formalmente 
distinti 
dal 
Trust 
che, di 
contro, possono farvisi 
rientrare 
(è 
il 
caso, ad esempio, del 
“waqf” 
degli 
ordinamenti 
giuridici 
musulmani). In questo senso, si 
veda 
il 
“Rapporto esplicativo” 
accluso alla 
Convenzione, 
che 
si 
può 
leggere 
in 
“Actes 
et 
documents 
de 
la 
Quinziè
me 
session”, 
La 
Haye, 
1985, 
tome 
II, pp. 370 ss., pp. 372 ss., spec. al 
n. 26 e 
al 
n. 36. Si 
veda, inoltre, il 
“Rapporto finale” 
accluso alla 
Convenzione: 
“Rapporto esplicativo”, n. 36, dove 
viene 
chiarito come 
l’articolo 2 della 
Convenzione 
può sembrare 
una 
definizione 
del 
Trust, eppure 
esso indica 
le 
caratteristiche 
che 
un istituto deve 
possedere 
per rientrare 
nel 
campo di 
applicazione 
della 
Convenzione. A 
tal 
riguardo, giova 
richiamare 
il 
testo 
originale: 
"l'article 
2 veut 
simplement 
indiquer 
les 
caractéristiques 
que 
doit 
présenter 
une 
institution 



rASSeGNA 
AVVOCATUrA 
deLLO 
STATO -N. 4/2020 


del 
1985, 
ad 
opera 
della 
Legge 
n. 
364 
del 
1989, 
entrata 
in 
vigore 
il 
1992. 
detto 
istituto si 
sostanzia 
in un rapporto giuridico fiduciario, mediante 
il 
quale 
un 
soggetto definito “disponente”o “settlor” 
-con un negozio unilaterale, inter 
vivos 
o 
mortis 
causa, 
cui 
generalmente 
seguono 
uno 
o 
più 
atti 
dispositivi 
-trasferisce 
ad un altro soggetto, definito “trustee”, beni 
di 
qualsiasi 
natura, affinché 
quest’ultimo 
li 
gestisca 
e 
li 
amministri, 
coerentemente 
con 
quanto 
previsto dall’atto istitutivo del 
Trust, per il 
raggiungimento delle 
finalità 
individuate 
dal 
disponente 
medesimo, 
nell’interesse 
e 
a 
vantaggio 
del 
destinatario 
finale: il c.d. “beneficiary”. 

Sovente, nella 
prassi 
contemporanea 
e, soprattutto, nel 
mondo anglosassone, 
il 
“trustee” 
viene 
affiancato da 
un “protector”; 
locuzione 
questa 
che, in 
italiano, sembra 
potersi 
tradurre 
con il 
termine 
“guardiano”. Nello specifico, 
si 
tratta 
di 
un soggetto, necessariamente 
distinto dal 
“trustee”, il 
cui 
consenso 
è 
richiesto 
per 
il 
valido 
compimento 
di 
un 
atto 
dispositivo 
ad 
opera 
di 
quest’ultimo. 
A 
detto soggetto, pertanto, è 
rimesso il 
controllo sul 
potere 
gestorio 
del 
trustee, anche 
in via 
preventiva, prestando ovvero negando il 
proprio consenso 
al compimento di determinati e specifici atti negoziali. 

Ne 
consegue 
che, da 
una 
parte, al 
trustee 
è 
affidato il 
compito di 
controllare 
e 
gestire 
i 
beni 
del 
trust, nell’interesse 
del 
beneficiary; 
dall’altra, tuttavia, 
il 
beneficiary, 
il 
settlor 
ed 
il 
protector 
hanno 
la 
capacità 
di 
controllare 
e 
vigilare 
sull’operato del 
trustee. Accanto a 
questi 
poteri 
di 
controllo (2), esistono poi 
delle 
fattispecie 
legali 
cc.dd. di 
“legittima 
influenza” 
sulle 
determinazioni 
del 
trustee, mediante 
le 
cc.dd. “Letter 
of 
Wishes”o “Wish Letters”, molto diffuse 
in 
alcuni 
ordinamenti 
stranieri, 
con 
le 
quali 
il 
settlor 
e 
il 
beneficiary 
esprimono 
le 
proprie 
volontà 
al 
trustee, 
affinché 
egli 
ne 
tenga 
conto 
nell’esercizio 
dei 
propri 
poteri 
di 
gestione 
del 
patrimonio devoluto in Trust. Questo strumento 
giuridico di 
“influenza” 
trova 
una 
sua 
definizione 
normativa 
nella 
Legge 
di 
Guernsey (“Trust 
Guernsey 
Law”, 2007, “sect. 38”): 
“A 
Letter 
of 
Wishes 
is 
a 
letter 
or 
other 
document 
intimating how the 
settlor 
or 
beneficiary 
wishes 
the 
trustees to exercise any of their functions”. 


Quanto 
alla 
sua 
struttura, 
nel 
Trust 
(3) 
si 
ravvisa: 
(i) 
un 
atto 
istitutivo, 
vale 
a 
dire 
l’atto con il 
quale 
il 
disponente 
esprime 
la 
volontà 
di 
costituire 
un 
Trust, 
(ii) 
un 
atto 
dispositivo 
che, 
invece, 
è 
l’atto 
con 
il 
quale 
il 
disponente 
trasferisce, a 
titolo gratuito, i 
beni 
del 
trust 
al 
trustee 
e, infine, (iii) un atto di 
ri-trasferimento della titolarità dei beni del 
Trust 
dal 
trustee 
al 
beneficiary. 

qu'il 
s'agisse 
d'un trust 
d'un pays 
de 
common law ou d'une 
institution analogue 
d'un autre 
pays 
-pour 
tomber 
sous 
le 
coup 
de 
la 
Convention". 
In 
generale, 
per 
una 
più 
approfondita 
disamina, 
si 
veda: 
M. 
LUPOI, Istituzioni del diritto dei trust negli ordinamenti di origine e in Italia, Padova, 2020, cap. III. 


(2) 
Per 
una 
completa 
trattazione 
della 
figura 
del 
“protector”, 
si 
veda 
P. 
PANICO, 
International 
Trust 
Laws, Oxford University Press, 2017, pp. 523-569. 
(3) 
M. 
LUPOI, 
Istituzioni 
del 
diritto 
dei 
trust 
negli 
ordinamenti 
di 
origine 
e 
in 
Italia, 
Padova, 
2020, 
cap. III. 

CONTrIBUTI 
dI 
dOTTrINA 


Appare 
evidente 
la 
circostanza 
per 
cui 
-per 
ciò 
che 
concerne 
l’ordinamento 
italiano -la 
mancanza 
di 
una 
disciplina 
interna 
ad hoc 
abbia 
imposto 
alla 
Comunità 
degli 
Interpreti 
(4) di 
ricorrere 
a 
figure 
negoziali 
affini, anche 
se 
non 
sempre 
pienamente 
sovrapponibili, 
al 
fine 
di 
individuare 
la 
struttura 
tipica 
dei 
cc.dd. 
“trust 
interni”, 
costituiti 
su 
beni 
interamente 
ricompresi 
nel 
territorio 
nazionale. 

Il 
“minimo 
comune 
denominatore” 
tra 
le 
diverse 
figure 
ipotizzabili 
di 
“Trust 
interno” 
potrebbe 
essere 
desunto dall’insieme 
dei 
seguenti 
fattori: 
(i) 
una 
causa 
concreta 
c.d. “mista”, nascente 
dalla 
combinazione 
dello scopo di 
destinazione 
con quello, precipuamente 
strumentale, di 
“segregazione 
patrimoniale”; 
(ii) 
l’attuazione 
ed 
esecuzione 
del 
vincolo 
di 
destinazione 
per 
mezzo 
di 
una 
intestazione 
meramente 
formale 
dei 
beni 
al 
trustee, avente 
lo scopo di 
attribuirgli 
poteri 
gestori 
per 
amministrare 
il 
Trust; 
(iii) 
l’individuazione, 
in 
capo al 
beneficiario, di 
una 
posizione 
giuridica 
soggettiva, che 
non è 
di 
diritto 
soggettivo 
perfetto, 
bensì 
di 
aspettativa 
legalmente 
qualificata 
e 
rilevante 
a 
una 
gestione 
del 
“Trust-fund” 
conforme 
alla 
realizzazione 
dello 
scopo 
della 
destinazione patrimoniale. 


L’elemento indefettibile, che 
deve 
essere 
presente 
in ogni 
tipo di 
Trust 
e, 
in particolare, che 
deve 
animare 
ogni 
fase 
dell’operazione 
complessiva, è 
costituito 
dall’effetto segregativo, in forza 
del 
quale 
i 
beni 
conferiti 
in Trust 
non 
entrano nel 
patrimonio del 
trustee, se 
non per la 
realizzazione 
dello scopo indicato 
dal 
settlor 
e 
con l’unico e 
precipuo fine 
di 
restare 
separati 
dai 
suoi 
beni 
personali; 
detto effetto si 
determina 
attraverso l’intestazione 
formale 
dei 
beni 
al 
trustee 
e 
l’attribuzione 
al 
medesimo di 
poteri 
gestori 
finalizzati 
alla 
realizzazione 
dello scopo, mentre 
al 
beneficiary 
è 
attribuita, come 
detto, una 
mera 
“aspettativa 
di 
diritto”, suscettibile 
di 
trasformarsi 
in un vero e 
proprio diritto 
di 
credito, al 
verificarsi 
delle 
condizioni 
stabilite 
dal 
settlor, nel 
programma 
originario. 


Per ciò che 
concerne 
invece 
la 
causa 
negoziale, va 
rilevato che 
il 
Trust 
può rispondere 
a 
finalità 
anche 
molto eterogenee 
tra 
loro. Anzitutto, può ravvisarsi 
una 
finalità 
di 
garanzia. Altre 
funzioni 
che 
il 
Trust 
può svolgere 
sono: 


(4) Ciò posto, va 
rilevato che 
la 
peculiarità 
dell’istituto del 
Trust 
risiede 
nello “sdoppiamento del 
concetto di 
proprietà”, tipico dei 
paesi 
di 
Common Law. La 
“prima 
forma 
di 
proprietà” 
è 
quella 
c.d. legale, 
vale 
a 
dire 
la 
proprietà 
dei 
beni 
attribuiti 
al 
Trust, 
la 
quale 
spetta 
al 
trustee. 
essa, 
in 
sostanza, 
risulta 
indirizzata 
a 
rendere 
quest’ultimo unico titolare 
dei 
relativi 
diritti, sia 
pure 
nell’interesse 
dei 
beneficiari 
e, in particolare, per il 
perseguimento dello scopo definito dall’operazione. A 
questo passaggio formale 
di 
beni 
in proprietà, dal 
settlor 
al 
trustee, tuttavia, non segue 
un sostanziale 
trasferimento di 
ricchezza, 
giacché 
i 
beni 
restano 
segregati 
e, 
quindi, 
diventano 
“estranei” 
non 
soltanto 
al 
patrimonio 
del 
disponente, 
ma 
anche 
a 
quello personale 
del 
trustee 
che, in definitiva, deve 
solamente 
amministrarli 
e 
disporne 
secondo 
il 
programma 
del 
Trust, nell’interesse 
del 
beneficiary. ecco, dunque, che 
si 
ravvisa 
una 
“seconda 
forma 
di 
proprietà”, non imputabile 
né 
al 
trustee 
né 
al 
settlor, bensì 
facente 
capo al 
beneficiary 
finale 
dell’operazione, in forza 
della 
quale 
può parlarsi 
dei 
beni 
devoluti 
in Trust 
come 
di 
un “patrimonio segregato” 
e destinato a una specifica funzione. 

rASSeGNA 
AVVOCATUrA 
deLLO 
STATO -N. 4/2020 


(i) quella 
di 
liquidazione 
di 
un dato patrimonio, ai 
fini 
del 
pagamento di 
uno 
o 
più 
creditori 
(c.d. 
“Trust 
liquidatorio”); 
(ii) 
la 
realizzazione 
di 
un’opera 
pubblica 
e/o di 
solidarietà 
sociale; 
(iii) la 
realizzazione 
di 
interessi 
meritevoli 
di 
tutela 
a 
favore 
di 
persone 
disabili, pubbliche 
amministrazioni 
o altri 
soggetti, 
secondo il 
modello delineato dall’Art. 2645-ter 
del 
Codice 
Civile, con riferimento 
all’istituto dei 
cc.dd. “vincoli 
di 
destinazione 
patrimoniale”; 
e, da 
ultimo, 
(iv) 
la 
disciplina 
dei 
conflitti 
di 
interesse, 
nei 
rapporti 
societari 
di 
Corporate Governance, grazie alla istituzione di un c.d. “Blind-Trust”. 
Allo 
stato, 
manca 
una 
disciplina 
organica 
dell’istituto, 
al 
punto 
che 
può 
parlarsi 
del 
negozio 
costitutivo 
di 
un 
Trust 
come 
di 
un 
atto 
che 
-ancorché 
nominato 
-risulta 
tuttavia 
tuttora 
“atipico”, 
richiedendo 
pertanto 
l’applicazione 
di 
norme 
previste 
per 
istituti 
affini, 
sul 
piano 
strutturale 
e 
funzionale. 
Il 
legislatore 
nazionale, 
come 
anticipato, 
si 
è 
limitato 
a 
disciplinare 
la 
trascrizione 
dei 
cc.dd. 
“Atti 
di 
Destinazione” 
con 
la 
Legge 
30 
dicembre 
2005, 
n. 
273, 
in 
vigore 
dal 
1° 
marzo 
2006, 
con 
la 
quale 
è 
stato 
introdotto, 
nel 
Libro 
Sesto, 
Titolo 
I, 
Capo 
I, 
del 
Codice 
Civile, 
il 
nuovo 
Articolo 
2645-ter 
(rubricato 
“Trascrizione 
di 
atti 
di 
destinazione 
per 
la 
realizzazione 
di 
interessi 
meritevoli 
di 
tutela 
riferibili 
a 
persone 
con 
disabilità, 
a 
pubbliche 
amministrazioni, 
o 
ad 
altri 
enti 
o 
persone 
fisiche”). 
La 
disposizione 
in 
esame, 
dall’ampia 
e 
generale 
vocazione 
semantica, 
consente 
la 
trascrizione 
di 
determinati 
atti 
“al 
fine 
di 
rendere 
opponibile 
ai 
terzi 
il 
vincolo 
di 
destinazione”, 
vale 
a 
dire 
di 
“isolare” 
i 
beni 
oggetto 
dell’atto 
di 
destinazione, 
sottraendoli 
alle 
più 
svariate 
vicende 
che 
possono 
verificarsi 
in 
capo 
all’originario 
disponente, 
con 
ciò 
introducendo 
una 
rilevante 
eccezione 
all’Articolo 
2740 
cod. 
civ., 
per 
effetto 
del 
quale 
ciascun 
soggetto 
risponde 
delle 
proprie 
obbligazioni 
“con 
tutti 
i 
propri 
beni 
presenti 
e 
futuri”. 


In 
ambito 
fiscale, 
invero, 
il 
legislatore 
è 
intervenuto, 
nel 
corso 
del 
tempo, 
inserendo diverse 
disposizioni 
sia 
in tema 
di 
imposte 
sui 
redditi, sia 
in tema 
di 
imposizione 
indiretta 
sui 
c.d. “vincoli 
di 
destinazione” 
(di 
cui 
si 
parlerà 
nei 
paragrafi 
successivi). Per quanto riguarda 
la 
disciplina 
dei 
redditi 
prodotti 
dal 
Trust 
che 
svolgano 
un’attività 
commerciale, 
l’analisi 
dell’art. 
73 
del 
TUIr 


(d.P.r. 
n. 
917 
del 
1986) 
risulta 
essere 
interessante 
ai 
fini 
della 
valutazione 
della 
soggettività 
giuridica, da 
un punto di 
vista 
fiscale, dell’istituto de 
quo. Il 
comma 
2 della 
richiamata 
disposizione 
stabilisce 
che 
“nei 
casi 
in cui 
i 
beneficiari 
del 
trust 
siano individuati, i 
redditi 
conseguiti 
dal 
trust 
sono imputati 
in ogni 
caso ai 
beneficiari 
in proporzione 
alla quota di 
partecipazione 
individuata 
nell’atto costitutivo del 
trust 
o in altri 
successivi 
documenti 
ovvero in 
loro 
mancanza 
in 
parti 
uguali”. 
Si 
evince 
pertanto 
che 
il 
beneficiario, 
per 
poter 
divenire 
centro 
d’imputazione, 
sul 
piano 
fiscale, 
dei 
redditi 
prodotti 
attraverso 
la 
gestione 
dei 
beni 
devoluti 
in Trust, deve 
essere 
previamente 
individuato e, 
soprattutto, deve 
risultare 
titolare 
del 
diritto di 
pretendere 
dal 
trustee 
l’assegnazione 
di 
quella 
parte 
di 
reddito che 
gli 
viene 
imputata 
“per trasparenza”. 

CONTrIBUTI 
dI 
dOTTrINA 


Nell’ipotesi 
in 
cui, 
viceversa, 
queste 
condizioni 
non 
ricorrano, 
deve 
desumersi 
che 
i 
redditi 
imponibili 
siano imputabili 
direttamente 
al 
Trust, attraverso una 
“fictio iuris” 
che 
attribuisce 
-a 
quest’ultimo -soggettività 
di 
diritto e 
natura 
di 
centro di 
imputazione 
di 
situazioni 
giuridiche 
ai 
limitati 
fini 
fiscali, senza 
che 
questo 
possa 
comportare 
l’acquisto 
della 
personalità 
giuridica 
(5). 
Occorre 
infatti 
tenere 
distinti 
i 
due 
concetti 
giuridici: 
da 
un lato, quello della 
soggettività 
fiscale 
(presupposto 
per 
l’applicazione 
dell’IreS) 
e, 
dall’altro, 
la 
soggettività 
giuridica 
civilistica 
in senso proprio. Come 
noto (6), la 
Cassazione 
ha 
ribadito, 
a 
più 
riprese, 
proprio 
sulla 
base 
di 
tali 
assunti, 
l’inesistenza 
della 
soggettività 
giuridica 
del 
Trust, riaffermando la 
netta 
distinzione 
tra 
le 
due 
forme 
di soggettività: quella fiscale e quella civilistica. 

2. 
Inquadramento 
della 
questione 
giuridica: 
l’applicazione 
della 
disciplina 
delle imposte indirette sulle successioni e donazioni all’istituto del Trust. 
Con riferimento ai 
diversi 
“momenti” 
rilevanti 
della 
“vita” 
del 
Trust 
(e, 
segnatamente, l’istituzione, la 
dotazione 
patrimoniale, i 
trasferimenti 
e 
la 
devoluzione 
ai 
beneficiari), sembrano potersi 
rinvenire, ai 
fini 
dell’applicazione 
delle imposte indirette, le seguenti considerazioni (7). 

Nello specifico, per ciò che 
riguarda 
l’imposta 
sulle 
successioni 
e 
sulle 
donazioni, 
sembra 
essersi 
affermato 
un 
orientamento 
della 
Corte 
di 
Cassazione, 
ribadito altresì 
dalla 
recentissima 
ordinanza 
oggetto del 
presente 
commento, 
secondo 
cui 
il 
“conferimento” 
di 
beni 
e 
diritti 
in 
trust, 
ai 
fini 
dell’applicazione 
dell’imposta 
indiretta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni, non dà 
luogo, di per sé, ad un trasferimento di ricchezza imponibile. 

Invero, a 
parere 
dei 
giudici 
di 
legittimità, ai 
fini 
dell’applicazione 
della 
predetta 
imposta, 
occorre 
avere 
riguardo 
non 
“all’utilità 
economica” 
della 
quale 
il 
costituente 
dispone, 
per 
lo 
più 
indeterminata, 
bensì 
all’effettivo 
incremento 
patrimoniale finale del beneficiario. 

Si 
è 
così 
riaffermata 
l’idea 
secondo cui 
l’imposta 
in commento richiede 
un effettivo e 
definitivo trasferimento di 
ricchezza 
da 
un soggetto a 
un altro, 
che 
sia 
indice 
di 
un’acquisita 
e 
maggiore 
capacità 
contributiva 
(8). 
Conseguentemente, 
la 
mera 
costituzione 
del 
Trust, 
al 
pari 
del 
relativo 
e 
conseguente 


(5) Cass. sez. un. 25767/2015; Cass. n. 16550/2019. 
(6) detto principio trova 
conferma 
nella 
giurisprudenza 
di 
legittimità, secondo la 
quale 
il 
Trust 
traslativo non costituisce 
un ente 
dotato di 
personalità 
giuridica; 
l’effetto proprio del 
Trust 
non è 
quello 
di 
dare 
vita 
ad un nuovo soggetto di 
diritto, ma 
quello di 
istituire 
un patrimonio destinato ad un fine 
prestabilito (Cass. 9 maggio 2014, n. 10105) e, pertanto, deve 
escludersi 
che 
possa 
ritenersi 
che 
esso 
possa 
essere 
considerato 
titolare 
di 
diritti 
e 
tanto 
meno 
soggetto 
passivo 
di 
imposta 
(v. 
Cass. 
n. 
2043/2017; 
n. 12718/2017). Si 
tratta, invece, di 
un insieme 
di 
beni 
e 
rapporti 
destinati 
ad un fine 
determinato 
e 
formalmente 
intestati 
al 
trustee 
(Cass. civ. sez. I, n. 3456/2015; 
Cass. civ. sez. V 
25478/2015; 
Cass. civ. sez. II n. 28363/2011). 
(7) Circolari n. 48/e del 6 agosto 2007 e n. 3/e del 22 gennaio 2008. 
(8) Cassazione civile, sez. trib., 24/12/2020, sentenza n. 29505. 

rASSeGNA 
AVVOCATUrA 
deLLO 
STATO -N. 4/2020 


atto di 
dotazione 
patrimoniale, non determinando un arricchimento definitivo 
né 
in capo al 
beneficiary 
né 
tantomeno in capo al 
trustee, non può assurgere 
al 
rango di 
atto imponibile 
alla 
stregua 
della 
disciplina 
tributaria 
cui 
si 
è 
pocanzi 
fatto riferimento. 

La 
strumentalità 
dell’atto 
istitutivo 
e 
dell’atto 
di 
dotazione 
del 
Trust 
comporta 
che 
gli 
stessi 
debbano 
considerarsi 
atti 
giuridici 
caratterizzati 
da 
una 
neutralità 
fiscale che non permette l’integrazione del presupposto impositivo. 

La 
posizione 
dell’Amministrazione 
Fiscale, propensa 
ad applicare 
le 
imposte 
indirette, ivi 
compresa 
l’imposta 
sulle 
successioni 
e 
sulle 
donazioni, all’atto 
costitutivo 
del 
Trust, 
o 
perlomeno 
al 
relativo 
atto 
di 
dotazione 
patrimoniale, è 
stata 
contrastata 
da 
parte 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
la 
quale, 
di 
contro, ha 
voluto dare 
continuità 
all’orientamento giuridico di 
legittimità 
di 
recente 
affermazione 
(9). 
Ciò 
poiché 
come 
è 
ben 
noto 
(10), 
a 
mente 
dell’art. 
53 Cost., ai 
fini 
dell’applicazione 
delle 
imposte 
di 
successione, donazione, di 
registro e 
ipotecarie 
è 
necessario che 
si 
realizzi 
un trasferimento effettivo di 
ricchezza, 
mediante 
un’attribuzione 
patrimoniale 
stabile 
e 
non 
meramente 
strumentale. 


Ne 
consegue 
che 
l’attribuzione 
patrimoniale 
imponibile 
si 
rinviene 
soltanto 
al momento dell’eventuale attribuzione finale del bene al 
beneficiary. 

Alla 
luce 
di 
queste 
primissime 
considerazioni, è 
possibile 
comprendere 
il 
principio 
di 
diritto 
recentemente 
enunciato 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione, 
la 
quale 
ha 
statuito 
che 
l’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni, 
reintrodotta 
nell’ordinamento dall’art. 2, comma 
47, del 
d.l. n. 262 del 
2006, non è 
dovuta 
al 
momento 
della 
costituzione 
del 
Trust 
e, 
segnatamente, 
al 
momento 
dell’atto 
istitutivo o della 
dotazione 
patrimoniale, giacchè 
si 
tratta 
di 
atti 
fiscalmente 
neutri 
e 
meramente 
attuativi 
degli 
scopi 
di 
segregazione 
patrimoniale. detta 
imposta, pertanto, deve 
essere 
applicata 
solo ex-post, sull’eventuale 
trasferimento 
patrimoniale 
del 
bene 
-oggetto del 
vincolo di 
destinazione 
-in capo al 
beneficiario, giacché 
solamente 
questo atto di 
disposizione 
patrimoniale 
costituisce 
un effettivo indice 
di 
ricchezza, meritevole 
di 
imposizione 
fiscale, a 
mente dell’art. 53 della Costituzione. 

Per 
il 
medesimo 
principio, 
l’atto 
istitutivo 
(o 
l’atto 
di 
dotazione 
tra 
di


(9) Già 
nel 
2019, la 
Corte 
di 
Cassazione, con sentenza 
n. 19167, aveva 
escluso la 
possibilità 
di 
applicare 
l’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
al 
momento della 
costituzione 
di 
un Trust, ritenendo 
più opportuno applicare 
detta 
imposta 
al 
momento del 
trasferimento dei 
beni 
oggetto del 
vincolo di 
destinazione 
al 
beneficiario. 
Testualmente, 
la 
Cassazione 
ha 
chiarito 
come: 
“In 
tema 
di 
trust, 
l’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni, 
prevista 
dall’art. 
2, 
comma 
47, 
del 
d.l. 
n. 
262 
del 
2006 
(conv. 
con 
modifiche 
dalla l. n. 286 del 
2006) anche 
per 
i 
vincoli 
di 
destinazione, è 
dovuta non al 
momento della costituzione 
dell’atto istitutivo o di 
dotazione 
patrimoniale, fiscalmente 
neutri 
in quanto meramente 
attuativi 
degli 
scopi 
di 
segregazione 
ed apposizione 
del 
vincolo, bensì 
in seguito all’eventuale 
trasferimento finale 
del 
bene 
al 
beneficiario, in quanto solo quest’ultimo costituisce 
un effettivo indice 
di 
ricchezza ai 
sensi 
del-
l’art. 53 Cost.” (Vedi Cass. 19167 del 2019). 
(10) Si veda, in tal senso, la sentenza della Corte di Cassazione n. 16699 del 2019. 

CONTrIBUTI 
dI 
dOTTrINA 


sponente 
e 
trustee) è 
soggetto a 
tassazione 
in misura 
fissa, per quanto attiene 
a 
tutte 
le 
imposte 
indirette, 
di 
registro, 
sulle 
successioni 
e 
donazioni, 
ipotecaria 
e catastale. 

Il 
sopraesposto principio si 
comprende 
pienamente 
anche 
se 
si 
analizza 
la 
ratio 
dell’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
che, come 
noto, è 
volta 
a 
tassare 
gli 
arricchimenti 
economico-patrimoniali 
esperiti 
a 
titolo di 
liberalità 
o, 
perlomeno, 
con 
causa 
gratuita 
(11), 
i 
quali 
comportano 
un 
arricchimento 
del 
beneficiario con contestuale 
depauperamento del 
soggetto che 
pone 
in essere 
l’atto dispositivo. 

dunque 
(12), il 
presupposto per l’applicazione 
dell’imposta 
de 
qua 
è 
costituito 
dall’arricchimento patrimoniale 
attuale 
e 
definitivo e, ai 
fini 
della 
sua 
applicazione 
in 
misura 
proporzionale, 
occorre 
necessariamente 
valutare 
se, 
sin 
dall’istituzione 
del 
trust, 
si 
sia 
realizzato 
un 
trasferimento 
definitivo 
di 
beni e diritti dal 
trustee 
al 
beneficiary. 


Una 
volta 
inquadrato in questi 
termini 
l’orientamento attualmente 
dominante, 
giova 
precisare 
come 
la 
questione 
controversa 
non risieda 
nella 
scelta 
della 
disciplina 
fiscale 
applicabile, giacchè 
l’art. 2 del 
d.l. n. 262 del 
2006 individua, 
espressamente, tra 
gli 
atti 
soggetti 
all’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
anche i vincoli di destinazione. 

Al 
contrario, risulta 
essere 
assolutamente 
incerto il 
momento in cui 
l’applicazione 
della disciplina fiscale deve avere luogo. 

L’incertezza 
applicativa, 
pertanto, 
riguarda 
i 
differenti 
momenti 
negoziali 
nei 
quali, il 
Trust, normalmente, si 
articola: 
(i) l’atto istitutivo di 
beni 
o diritti, 
avente 
una 
natura 
non traslativa, bensì 
meramente 
preparatoria 
e 
programmatica; 
(ii) l’atto di 
dotazione, dal 
quale 
consegue 
il 
momentaneo trasferimento 
strumentale 
del 
bene 
o del 
diritto, al 
trustee, in funzione 
della 
realizzazione 
degli 
obiettivi 
prefissati; 
e, infine, (iii) l’atto di 
trasferimento finale 
del 
bene 


o del 
diritto al 
beneficiario. Invero, è 
discusso quale 
tra 
questi 
momenti 
debba 
essere 
assoggettato 
all’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni, 
ovvero 
alle 
altre 
imposte 
indirette 
previste 
dall’ordinamento. Secondo un primo orientamento 
(13), l’imposta 
dovrebbe 
applicarsi 
all’atto di 
costituzione 
del 
Trust; 
diversa(
11) La 
Corte 
di 
Cassazione, con sentenza 
n. 975 del 
2018, ha 
ribadito la 
natura 
gratuita 
ed il 
carattere 
non traslativo del 
negozio di 
trasferimento con cui, nell’ambito di 
un Trust, il 
disponente 
conferisce 
i 
beni 
al 
trustee, al 
fine 
di 
conferirgli 
la 
gestione 
e 
l’amministrazione 
patrimoniale 
degli 
stessi, in 
favore 
del 
beneficiario. Testualmente, è 
stato affermato come: 
“il 
trasferimento del 
bene 
dal 
“settlor” 
al 
“trustee” 
avviene 
a titolo gratuito e 
non determina effetti 
traslativi, poiché 
non ne 
comporta l’attribuzione 
definitiva allo stesso, che 
è 
tenuto solo ad amministrarlo ed a custodirlo, in regime 
di 
segregazione 
patrimoniale, 
in 
vista 
del 
suo 
ritrasferimento 
ai 
beneficiari 
del 
“trust”: 
detto 
atto, 
pertanto, 
è 
soggetto 
a 
tassazione 
in 
misura 
fissa, 
sia 
per 
quanto 
attiene 
all’imposta 
di 
registro 
che 
alle 
imposte 
ipotecaria e catastale”. 
(12) Si veda, a tal riguardo, la sentenza della Corte di Cassazione n. 31445 del 2018. 
(13) La 
Corte 
di 
Cassazione 
civile 
sez. trib., 30/05/2018, n. 13626, ha 
statuito che 
il 
Trust 
costitutivo 
di 
un vincolo di 
destinazione 
che 
produce 
un effetto traslativo in favore 
del 
trustee 
è 
soggetto a 

rASSeGNA 
AVVOCATUrA 
deLLO 
STATO -N. 4/2020 


mente, 
secondo 
altra 
impostazione, 
il 
presupposto 
impositivo 
richiesto 
dall’art. 
53 della 
Costituzione, si 
realizzerebbe 
solo al 
momento del 
definitivo trasferimento 
dei beni oggetto del 
Trust 
in capo al beneficiario dello stesso. 

Secondo 
detta 
impostazione 
(14), 
pertanto, 
l’imposta 
non 
potrebbe 
applicarsi 
né 
all’atto 
della 
costituzione 
del 
Trust 
né 
all’atto 
del 
conferimento 
strumentale dei beni al 
trustee 
a fini meramente gestori. 

d’altronde, 
sulla 
base 
di 
una 
esegesi 
letterale 
del 
d.l. 
n. 
262 
del 
2006, 
art. 
2, 
comma 
47, 
non 
è 
certamente 
possibile 
trarre 
il 
fondamento 
normativo 
di 
un’imposta 
volta 
a 
colpire 
la 
costituzione 
dei 
vincoli 
di 
destinazione, 
indipendentemente 
dal 
fattore 
traslativo della 
ricchezza, dal 
momento che 
la 
norma 
individua 
solamente 
l’elencazione 
dei 
vari 
atti 
che 
sono assoggettabili 
all’imposta 
sulle 
donazioni 
e 
successioni 
e, segnatamente, (i) i 
trasferimenti 
di 
beni 
e 
diritti 
mortis 
causa, (ii) i 
trasferimenti 
per donazione 
o a 
titolo gratuito, (iii) 
la costituzione di vincoli di destinazione. 

deve 
inoltre 
escludersi 
che 
la 
costituzione 
del 
vincolo 
di 
destinazione 


imposta 
di 
successione 
e 
donazione, tenuto conto del 
fatto che: 
“il 
trust 
mediante 
il 
quale 
si 
costituisce 
un vincolo di 
destinazione 
idoneo a produrre 
un effetto traslativo in favore 
del 
trustee, sebbene 
funzionale 
al 
successivo ed eventuale 
trasferimento della proprietà dei 
beni 
vincolati 
ai 
soggetti 
beneficiari, 
deve 
essere 
assoggettato all'imposta sulle 
successioni 
e 
donazioni, facendo emergere 
la potenziale 
capacità 
economica, 
ex 
art. 
53 
Cost., 
del 
destinatario 
del 
trasferimento”. 
Nella 
specie, 
in 
applicazione 
del 
principio, la 
S.C. ha 
ritenuto assoggettato a 
detta 
imposta, in luogo di 
quella 
di 
registro, un Trust 
finalizzato 
alla liquidazione di beni nell'interesse dei creditori. 


(14) 
Nello 
stesso 
identico 
senso, 
propende 
anche 
la 
Corte 
di 
Cassazione, 
civile 
sez. 
trib., 
del 
29/05/2020, con sentenza 
n. 10256, la 
quale 
ha 
chiarito come 
non risulta 
legittimo applicare 
l'imposta 
del 
4% sulle 
successioni 
all'atto istitutivo di 
un Trust 
c.d. auto-dichiarato, che 
preveda 
lo stesso disponente 
come 
beneficiario, giacché 
“ai 
fini 
dell'applicazione 
delle 
imposte 
proporzionali 
di 
successione 
e 
donazione, di 
registro ed ipotecaria è 
necessario un trasferimento effettivo di 
ricchezza mediante 
un'attribuzione 
patrimoniale 
stabile 
e 
non 
meramente 
strumentale. 
Tale 
condizione 
non 
è 
realizzata 
dall'atto 
istitutivo di 
trust, né 
da quello di 
dotazione 
patrimoniale 
di 
esso, ma solo dall'eventuale 
attribuzione 
finale 
al 
beneficiario. Pertanto, non è 
legittimo applicare 
l'imposta sulle 
successioni 
e 
donazioni 
del 
4% 
all'atto istitutivo di 
trust 
che 
preveda quale 
beneficiario lo stesso disponente 
ed in caso di 
premorienza 
i 
suoi 
figli, in quanto tale 
atto non è 
in grado di 
determinare 
un arricchimento/trasferimento stabile 
e 
reale 
in capo ad alcuno”. Ancora, secondo la 
Corte 
di 
Cassazione 
civile 
sez. VI, 03/03/2020, n. 5766, 
l'atto di 
dotazione 
di 
un trust 
liquidatorio sconta 
le 
imposte 
di 
registro, catastale 
ed ipotecaria 
in misura 
fissa: 
“dato 
il 
carattere 
meramente 
strumentale 
dell'attribuzione 
al 
trustee, 
l'atto 
di 
dotazione 
di 
un 
trust 
liquidatorio sconta le 
imposte 
di 
registro, catastale 
ed ipotecaria in misura fissa, salvo il 
caso in cui 
sin 
dall'istituzione 
del 
trust 
si 
sia realizzato un trasferimento definitivo di 
beni 
e 
diritti 
dal 
trustee 
al 
beneficiario 
soggetto 
all'applicazione 
dell'imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni”. 
La 
Comm. 
trib. 
reg., 
(Lombardia) 
sez. 
xI, 
03/01/2019, 
n. 
46, 
infine, 
in 
materia 
di 
costituzione 
o 
conferimento 
in 
un 
Trust 
auto-dichiarato, ha 
affermato che: 
“in caso di 
costituzione 
o conferimento in un trust 
auto-dichiarato 
(nel 
quale 
cioè 
coincidono il 
disponente 
e 
il 
trustee), pur 
dopo l'entrata in vigore 
dell'art. 2, comma 47, 
d.l. n. 262 del 
2006, conv., con modificazioni, in l. n. 286 del 
2006, deve 
restare 
fermo il 
principio secondo 
il 
quale 
la mera segregazione 
di 
beni 
e 
diritti 
conferiti 
in trust 
non può realizzare 
il 
presupposto 
impositivo 
dell'imposta 
di 
successione 
e 
donazione, 
che, 
anche 
con 
l'estensione 
ai 
vincoli 
di 
destinazione, 
in 
coerenza 
con 
i 
principi 
costituzionali 
di 
cui 
all'art. 
53 
Cost., 
è 
rimasto 
quello 
dell'arricchimento 
(gratuito) 
del 
patrimonio del 
beneficiario, sì 
che 
l'imposta proporzionale 
sarà se 
mai 
dovuta da detti 
beneficiari 
al momento dell'ingresso dei beni nel loro patrimonio”. 

CONTrIBUTI 
dI 
dOTTrINA 


sulle 
somme 
di 
denaro conferite 
in Trust 
produca 
un effetto traslativo immediato, 
giacché 
emerge 
con 
evidenza 
il 
carattere 
meramente 
strumentale 
del-
l’atto 
di 
disposizione 
patrimoniale, 
volto 
non 
a 
trasferire 
ricchezza, 
bensì 
a 
garantire 
il 
conferimento di 
un incarico di 
gestione 
al 
trustee, il 
quale 
dovrà 
amministrare 
i 
beni 
in favore 
del 
beneficiario, unico soggetto arricchito del-
l’operazione 
tout court 
considerata. 

Pertanto, 
alla 
luce 
della 
funzione 
svolta 
dall’atto 
di 
disposizione 
patrimoniale 
del 
conferimento, 
non 
sembra 
potersi 
giustificare 
la 
soggezione 
di 
tale 
atto 
di 
dotazione 
all’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni, 
in 
misura 
proporzionale. 


3. La posizione ermeneutica dell’Agenzia delle Entrate. 
L’Agenzia 
delle 
entrate, sovente, ha 
evidenziato che 
il 
Trust 
si 
sostanzia 
in un rapporto giuridico complesso, dotato di 
un’unica 
causa, avente 
natura 
fiduciaria. 
Tutte 
le 
vicende 
del 
Trust 
e, 
segnatamente, 
(i) 
la 
sua 
istituzione, 
(ii) 
la 
dotazione 
patrimoniale, (iii) la 
sua 
gestione, (iv) la 
realizzazione 
dell’interesse 
del 
beneficiario e, da 
ultimo, (v) il 
raggiungimento dello scopo, sono inscindibilmente 
collegate dalla medesima causa. 

Ne 
consegue 
che 
la 
costituzione 
del 
vincolo 
di 
destinazione, 
secondo 
questa 
impostazione, avviene 
sin dall’origine 
in favore 
del 
beneficiario e 
risulta 
essere 
espressione 
dell’unico disegno volto a 
consentire 
la 
realizzazione 
del-
l’attribuzione liberale. 


È 
proprio sull’assunto dell’unicità 
della 
causa 
che 
si 
è 
fondata 
l’interpretazione 
dell’Amministrazione 
fiscale, 
secondo 
la 
quale 
l’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni, nonché 
l’imposta 
ipotecaria 
e 
catastale, sono dovute 
al 
momento 
in 
cui 
si 
realizza 
la 
costituzione 
del 
vincolo 
di 
destinazione, 
indipendentemente 
dal tipo di 
Trust. 


Invero, secondo l’Amministrazione 
tributaria, l’atto istitutivo, con cui 
il 
disponente 
esprime 
la 
volontà 
di 
dare 
vita 
al 
Trust, dovrebbe 
essere 
assoggettato 
all’imposta 
di 
registro in misura 
fissa; 
al 
contrario, l’atto dispositivo, con 
cui 
il 
disponente 
vincola 
i 
beni 
in 
Trust, 
sarebbe 
soggetto 
all’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
in 
misura 
proporzionale, 
con 
conseguente 
applicazione 
dell’aliquota dell’otto per cento. 

Invece, il 
trasferimento dei 
beni 
ai 
beneficiari 
non realizzerebbe, ai 
fini 
dell’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni, un presupposto impositivo, risultando 
la 
complessiva 
operazione 
già 
tassata, in via 
proporzionale, “a 
monte”. 

Il 
discorso varrebbe, ovviamente, anche 
per le 
imposte 
ipotecaria 
e 
catastale, 
a 
loro volta 
applicate 
in misura 
proporzionale 
sull’atto di 
dotazione 
patrimoniale 
del 
Trust 
e 
conseguente 
devoluzione 
dei 
relativi 
beni 
al 
trustee, 
dovendo viceversa 
darsi 
luogo all’applicazione 
delle 
corrispondenti 
imposte 
-in 
misura 
fissa 
-su 
tutti 
gli 
altri 
atti 
nei 
quali 
si 
articoli 
la 
complessiva 
vicenda 
negoziale. 

Per ciò che 
concerne, invece, le 
operazioni 
di 
gestione 
compiute 
dal 
tru



rASSeGNA 
AVVOCATUrA 
deLLO 
STATO -N. 4/2020 


stee 
durante 
la 
vita 
del 
Trust 
(quali, ad esempio, eventuali 
atti 
di 
acquisto o di 
vendita 
di 
beni), esse 
sono soggette 
ad autonoma 
imposizione, secondo la 
natura 
e 
gli 
effetti 
giuridici 
che 
le 
caratterizzano, da 
esaminare 
volta 
per volta, 
con riferimento al caso concreto. 


4. La pozione della Corte di Cassazione: l’evoluzione dell’orientamento. 
La 
Corte 
di 
Cassazione, in una 
prima 
fase, sembrava 
aver condiviso la 
posizione interpretativa dell’Amministrazione fiscale. 

In particolare, la 
Suprema 
Corte, in tema 
di 
Trust 
di 
garanzia, con le 
ordinanze 
24 febbraio 2015, nn. 3735 e 
3737 e 
25 febbraio 2015, n. 3886, ha 
ritenuto 
legittima 
ed opportuna 
l’applicazione 
dell’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni, in misura 
proporzionale, all’atto del 
conferimento di 
beni 
e 
diritti 
in Trust, sottintendendo che 
già 
con la 
semplice 
costituzione 
del 
Trust 
si 
verifica 
il 
presupposto impositivo di 
cui 
all’art. 53 della 
Costituzione, non potendosi 
rinvenire, 
al 
contrario, 
detto 
presupposto 
al 
momento 
del 
passaggio 
finale 
della 
ricchezza 
dal 
trustee 
in 
capo 
al 
beneficiary; 
la 
Corte, 
testualmente, 
ha 
affermato 
che 
detta 
imposta 
“è 
istituita 
non 
già 
sui 
trasferimenti 
di 
beni 
e 
diritti 
a causa della costituzione 
di 
vincoli 
di 
destinazione, come, invece, accade 
per 
le 
successioni 
e 
le 
donazioni, in relazione 
alle 
quali 
è 
espressamente 
evocato il 
nesso causale: l’imposta è 
istituita direttamente, ed in sé, sulla costituzione 
dei vincoli”. 


Tale 
posizione 
è 
stata 
ulteriormente 
confermata 
anche 
con la 
successiva 
ordinanza 
18 marzo 2015, n. 5322 e 
con la 
sentenza 
7 marzo 2016, n. 4482, 
ove 
la 
Suprema 
Corte 
ha 
affermato il 
principio di 
diritto, secondo cui 
“la costituzione 
di 
un vincolo di 
destinazione 
su beni 
(nel 
caso di 
specie 
attraverso 
l’istituzione 
di 
un trust), costituisce 
-di 
per 
sé 
ed anche 
quando non sia individuabile 
uno 
specifico 
beneficiario 
-autonomo 
presupposto 
impositivo 
in 
forza della L. n. 286 del 
2006, art. 2, comma 47, che 
assoggetta tali 
atti, in 
mancanza 
di 
disposizioni 
di 
segno 
contrario, 
ad 
un 
onere 
fiscale 
parametrato 
sui criteri di cui alla imposta sulle successioni e donazioni”. 

da 
ultimo, i 
Giudici 
di 
legittimità 
sono giunti 
ad un radicale 
mutamento 
dell’orientamento brevemente esposto. 

In particolare, negli 
arresti 
più recenti 
in materia, la 
Corte 
di 
Cassazione 
ha 
statuito che 
il 
conferimento di 
beni 
e 
diritti 
in Trust 
non integra, di 
per sé, 
un 
trasferimento 
imponibile, 
bensì 
“rappresenta 
un 
atto 
generalmente 
neutro, 
che 
non dà luogo ad un trapasso di 
ricchezza suscettibile 
di 
imposizione 
indiretta, 
per 
cui 
si 
deve 
fare 
riferimento non già alla -indeterminata -nozione 
di 
‘utilità 
economica, 
della 
quale 
il 
costituente, 
destinando, 
dispone’ 
(Cfr. 
Cass. n. 3886/2015), ma a quella di 
effettivo incremento patrimoniale 
del 
beneficiario”(
ex 
multis 
(15), ordinanze 
30 ottobre 
2020, n. 24153 e 
24154; 
ordinanza 
8 luglio 2020, n. 14207; 
3 marzo 2020, n. 5766; 
11 marzo 2020, n. 
7003; 19 febbraio 2020, n. 4163; 7 febbraio 2020, nn. da 2897 a 2902). 



CONTrIBUTI 
dI 
dOTTrINA 


In conclusione, la 
Suprema 
Corte, inizialmente, ha 
ritenuto che 
il 
Legislatore 
del 
2006 
avesse 
introdotto 
uno 
specifico 
ed 
autonomo 
presupposto 
impositivo, 
ossia 
la 
“costituzione 
di 
un 
vincolo 
di 
destinazione”, 
assoggettato, 
ex 
se, 
a 
imposizione 
in 
misura 
proporzionale. 
diversamente, 
in 
seguito, 
è 
giunta 
ad 
affermare 
-con 
un 
orientamento 
che 
allo 
stato 
non 
appare 
suscettibile 
di 
ulteriori 
ripensamenti, essendo stato confermato da 
recenti 
pronunce 
del-
l’ultimo biennio -che 
detti 
vincoli 
di 
destinazione 
devono essere 
comunque 
ricondotti 
alla 
“reintrodotta imposta sulle 
successioni 
e 
sulle 
donazioni”, imponendo 
la 
sussistenza 
“del 
reale 
trasferimento di 
beni 
o diritti 
e 
quindi 
del 
reale arricchimento dei beneficiari”. 


5. 
L’attuale 
approdo 
ermeneutico 
dei 
giuridici 
di 
legittimità: 
l’ordinanza 
della 
Corte di Cassazione del 16 febbraio 2021, n. 3986. 
Giunti 
a 
questo punto della 
dissertazione, occorre 
rilevare 
come 
l’orientamento 
più recente 
della 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
propenda 
per l’applicazione 
dell’imposta 
indiretta 
al 
momento del 
passaggio dei 
beni 
oggetto del 
Trust 
in capo al 
beneficiary, e 
non al 
momento della 
istituzione 
del 
Trust 
ovvero 
nel 
momento in cui 
avviene 
il 
conferimento dei 
beni 
da 
parte 
del 
settlor 


(15) dirimente, in tal 
senso, risulta 
essere 
altresì 
la 
recentissima 
ordinanza 
n. 13 del 
4 gennaio 
2021, con cui 
la 
Corte 
di 
Cassazione 
si 
è 
ulteriormente 
cimentata 
sull’annosa 
questione 
legata 
al 
tema 
dell’imposizione 
indiretta, in materia 
di 
Trust, aderendo al 
consolidato orientamento giurisprudenziale 
pregresso, che 
afferma 
l’inapplicabilità 
dell’imposta 
di 
successione 
e 
donazione, nonché 
delle 
imposte 
ipotecaria 
e 
catastale 
in misura 
proporzionale, alla 
segregazione 
in Trust 
di 
beni 
immobili 
e 
partecipazioni 
poiché 
il 
trasferimento avviene 
a 
titolo gratuito, giacchè 
detto atto di 
disposizione 
patrimoniale 
non determina 
effetti 
traslativi 
e, pertanto, non realizza 
il 
presupposto impositivo richiesto dall’art. 53 
della 
Costituzione, ai 
fini 
fiscali. È 
stato ribadito, in questa 
occasione, come 
il 
trasferimento della 
titolarità 
dei 
beni 
dal 
settlor 
al 
trustee 
non configuri, in capo a 
quest’ultimo, un vero e 
proprio atto di 
trasferimento 
patrimoniale, 
poiché 
il 
vincolo 
di 
destinazione 
insito 
nell’atto 
dispositivo 
e 
istitutivo 
del 
Trust 
limita, con grande 
evidenza, i 
poteri 
gestori 
del 
trustee, tenuto, di 
contro, unicamente 
ad amministrare 
e 
gestire 
il 
patrimonio conferito in Trust, in virtù del 
regime 
di 
segregazione 
patrimoniale, fino al 
suo trasferimento definitivo in capo ai 
beneficiari. In sostanza, secondo i 
giudici 
di 
legittimità: 
“il 
trasferimento 
effettivo di 
ricchezza, mediante 
un’attribuzione 
patrimoniale 
stabile 
e 
non meramente 
strumentale, 
non è 
ravvisabile 
né 
al 
momento dell’atto istitutivo né 
a quello della dotazione 
patrimoniale 
del 
trust, 
ma 
soltanto 
all’atto 
di 
eventuale 
attribuzione 
finale 
dei 
beni 
ai 
beneficiari, 
in 
quanto 
solo 
quest’ultimo costituisce 
un effettivo indice 
di 
ricchezza ai 
sensi 
dell’art. 53 Cost.”. Ne 
consegue 
che 
la 
mera 
individuazione 
dei 
soggetti 
beneficiari 
del 
Trust, 
nell’atto 
istitutivo, 
non 
giustifica 
l’immediata 
applicazione 
dell’imposta 
proporzionale, giacché 
la 
sola 
designazione 
soggettiva 
del 
destinatario del-
l’attività 
di 
gestione 
non equivale 
a 
considerare 
l’atto di 
trasferimento dei 
beni 
quale 
immediato e 
definitivo 
passaggio del 
diritto di 
proprietà, a 
meno che 
detto trasferimento non determini 
un vero e 
proprio 
“diritto di 
apprensione” 
dei 
redditi 
del 
Trust. Giova 
segnalare 
che 
l’ordinanza 
de 
qua 
è 
stata 
preceduta 
da 
due 
ordinanze 
della 
Corte 
di 
Cassazione, le 
nn. 24153 e 
24154 del 
30 ottobre 
2020, le 
quali, oltre 
ad 
aver ribadito quanto sopra 
esposto, hanno altresì 
precisano che, anche 
nell’ipotesi 
di 
Trust 
auto-dichiarato, 
nel 
quale 
si 
rinviene 
la 
coincidenza 
tra 
la 
persona 
del 
disponente 
e 
quella 
del 
trustee, l’imposta 
di 
successione 
e 
donazione 
non 
è 
da 
ritenere 
applicabile 
in 
fase 
di 
conferimento 
dei 
beni, 
essendo 
in 
questi 
casi 
ancora 
più 
evidente 
l’impossibilità 
di 
tassare 
l’atto 
istitutivo 
o 
quello 
di 
conferimento 
del 
Trust, 
mancando, addirittura, l’alterità 
soggettiva 
tra 
settlor 
e 
trustee, insita 
nel 
meccanismo del 
trasferimento 
patrimoniale. 

rASSeGNA 
AVVOCATUrA 
deLLO 
STATO -N. 4/2020 


in capo al 
trustee. Tale 
trend 
ermeneutico è 
stato ulteriormente 
avallato dagli 
ermellini, con una recentissima ordinanza, del febbraio 2021. 

Con 
riferimento 
alla 
fattispecie 
oggetto 
del 
recente 
provvedimento, 
giova 
precisare 
come 
l’Agenzia 
Fiscale, 
nel 
ricorso 
per 
cassazione, 
deduceva 
la 
violazione 
e 
falsa 
applicazione 
dell’art. 2 del 
d.l. n. 262/2006, convertito in l. n. 
286/2006, nonché 
degli 
artt. 1 e 
10 d.lgs. n. 347/90 in relazione 
all’art. 360, 
comma 
1, n. 3), c.p.c. In particolare, secondo la 
tesi 
patrocinata 
dall’Amministrazione, 
l’atto di 
costituzione 
del 
Trust 
doveva 
essere 
assoggettato all’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni, poiché 
con lo stesso erano stati 
conferiti 
beni 
a 
titolo 
gratuito 
al 
trustee, 
con 
efficacia 
segregante, 
in 
applicazione 
diretta 
dell’art. 
2, 
comma 
47, 
del 
d.l. 
n. 
262 
del 
2006, 
il 
quale 
sembrerebbe 
includere 
tra 
gli 
atti 
di 
disposizione 
patrimoniale 
tassati 
l’atto costitutivo di 
un vincolo 
di destinazione. 


Il 
motivo de 
quo 
non ha 
tuttavia 
incontrato l’avallo della 
Suprema 
Corte 
di cassazione. 


Secondo 
l’indirizzo 
recentemente 
consolidatosi 
-cui 
l’ordinanza 
in 
commento 
aderisce 
-il 
trasferimento 
del 
bene 
dal 
settlor 
al 
trustee 
avviene 
a 
titolo 
gratuito e 
non determina 
effetti 
traslativi, poiché 
non comporta 
un passaggio 
patrimoniale 
definitivo, giacché 
il 
trustee 
è 
titolare 
di 
un mero potere 
gestorio 
e 
di 
custodia, in virtù del 
regime 
di 
segregazione 
patrimoniale, nell’ottica 
del 
suo ritrasferimento ai 
beneficiari 
del 
Trust. detto atto, pertanto, è 
soggetto a 
tassazione 
in 
misura 
fissa, 
sia 
per 
quanto 
attiene 
all’imposta 
di 
registro 
che 
alle imposte ipotecaria e catastale. 

Invero 
(16), 
dal 
momento 
che 
ai 
fini 
dell’applicazione 
delle 
imposte 
sulle 
successioni 
e 
donazioni, di 
registro e 
ipo-catastali 
è 
necessario, a 
mente 
del-
l’art. 53 Cost., che 
si 
realizzi 
un trasferimento effettivo di 
ricchezza 
mediante 
un’attribuzione 
patrimoniale 
stabile 
e 
non meramente 
strumentale, detto trasferimento 
imponibile 
non può rinvenirsi 
né 
nell’atto istitutivo del 
Trust 
né 
in 
quello di dotazione patrimoniale intercorsi fra disponente e 
trustee 
(17). 

detta 
impostazione 
ha 
superato 
sia 
una 
prima 
interpretazione 
dell’art. 
2, 
comma 
47, 
del 
d.l. 
n. 
262 
del 
2006, 
secondo 
la 
quale 
la 
novella 
evidenzierebbe 
“la 
volontà 
del 
legislatore 
di 
istituire 
una 
vera 
e 
propria 
nuova 
imposta 
che 
colpisce 
tout 
court 
degli 
atti 
che 
costituiscono 
vincoli 
di 
destinazione” 
(Cass. 
Sez. 
6, 
Sentenza 
n. 
4482 
del 
2016), 
che 
quella 
successiva, 
sostenuta 
da 
decisioni 
di 
legittimità, 
(Cass. 
n. 
13626 
del 
2018; 
Cass. 
n. 
31445 
del 
2018; 
n. 
31446 
del 


(16) Cass. n. 16699 del 21/06/2019. 
(17) “In tema di 
trust, l’imposta sulle 
successioni 
e 
donazioni, prevista dall’art. 2, comma 47, del 
d.l. n. 262 del 
2006 (conv. con modif. dalla l. n. 286 del 
2006) anche 
per 
i 
vincoli 
di 
destinazione, è 
dovuta 
non 
al 
momento 
della 
costituzione 
dell’atto 
istitutivo 
o 
di 
dotazione 
patrimoniale, 
fiscalmente 
neutri 
in quanto meramente 
attuativi 
degli 
scopi 
di 
segregazione 
ed apposizione 
del 
vincolo, bensì 
in seguito 
all’eventuale 
trasferimento finale 
del 
bene 
al 
beneficiario, in quanto solo quest’ultimo costituisce 
un 
effettivo indice di ricchezza ai sensi dell’art. 53 Cost.” (Cass. n. 19167 del 17/07/2019). 

CONTrIBUTI 
dI 
dOTTrINA 


2018; 
n. 
734 
del 
2019) 
che, 
pur 
riconoscendo 
la 
non 
assoggettabilità 
-tout 
court 
-del 
Trust 
alla 
imposta 
sulle 
successioni 
e 
sulle 
donazioni, 
hanno 
operato 
distinzioni 
a 
seconda 
delle 
funzioni 
e 
strutture 
che 
l’istituto 
può 
assumere. 


L’orientamento 
al 
quale 
la 
Corte 
di 
legittimità 
è 
da 
ultimo 
pervenuta 
(Cass. n. 1131 del 
2019 cit.; 
Cass. n. 19167/2019; 
Cass. n. 16699/2019) è, invece, 
in grado di 
riferirsi 
a 
tutte 
le 
molteplici 
tipologie 
di 
Trust 
astrattamente 
prospettabili, dando così una risposta unitaria alla problematica sollevata. 

Viene 
affermato, 
a 
tal 
riguardo, 
il 
seguente 
principio 
di 
diritto: 
“in 
ogni 
tipologia 
di 
trust, 
dunque, 
l’imposta 
proporzionale 
non 
andrà 
anticipata 
né 
all’atto 
istitutivo, 
né 
a 
quello 
di 
dotazione, 
bensì 
riferita 
a 
quello 
di 
sua 
attuazione 
e 
compimento 
mediante 
trasferimento 
finale 
del 
bene 
al 
beneficiario” 
(18). 


6. Il regime fiscale del Trust 
Auto-dichiarato. 
L’istituto 
del 
trust 
auto-dichiarato 
si 
ha 
quando 
non 
vi 
è 
alterità 
soggettiva 
tra 
il 
settlor 
ed il 
trustee, nel 
senso che 
questi 
due 
soggetti 
coincidono nella 
medesima 
persona. 
Solitamente 
nel 
Trust, 
come 
è 
stato 
ampiamente 
affermato 
in precedenza, il 
disponente 
è 
colui 
che 
istituisce 
l’operazione 
e 
conferisce 
i 
beni 
nel 
patrimonio 
separato, 
trasferendone 
la 
proprietà 
formale 
in 
capo 
al 
trustee, 
per la 
gestione 
degli 
stessi 
in favore 
del 
beneficiary. È 
stato chiarito, invero, 
come 
il 
soggetto disponente 
abbia 
vari 
poteri 
di 
controllo sull’operato 
del 
trustee. 

Orbene, giova 
precisare 
come 
esista 
un caso specifico di 
esclusivo controllo 
del 
disponente 
-non sull’operato del 
trustee 
-bensì 
sui 
beni 
devoluti 
in 
Trust: 
ciò accade 
quando il 
disponente 
è 
anche 
trustee, vale 
a 
dire 
in presenza 
della 
c.d. “unilateral 
declaration of 
trust”, formula 
che 
si 
suole 
generalmente 
tradurre con l’espressione “trust 
auto-dichiarato”. 

In altri 
termini, detta 
tipologia 
di 
Trust 
si 
caratterizza 
per il 
fatto che 
il 
medesimo soggetto, da 
un lato, istituisce 
il 
Trust 
in qualità 
di 
disponente 
del 
relativo 
compendio 
patrimoniale 
e, 
dall’altro 
lato, 
gestisce 
l’intera 
operazione 
negoziale 
derivante 
dal 
vincolo di 
destinazione, in favore 
del 
beneficiario finale. 
Anche 
in questa 
fattispecie 
sembra 
potersi 
ravvisare, nonostante 
la 
man


(18) 
Pertanto 
“la 
circostanza 
che 
il 
beneficiario 
sia 
individuato 
fin 
dall’atto 
istitutivo 
non 
giustifica 
l’immediata tassazione 
proporzionale, dal 
momento che 
la sola designazione, per 
quanto contestuale 
e 
palese 
(c.d. trust 
‘trasparente’), non equivale 
in alcun modo a trasferimento immediato e 
definitivo del 
bene, 
con 
quanto 
ne 
consegue 
in 
ordine 
all’applicazione 
dei 
già 
richiamati 
principi 
impositivi; 
nell’ipotesi 
del 
trust 
liquidatorio 
non 
si 
dubita 
della 
effettività 
del 
trasferimento 
al 
trustee 
dei 
beni 
da 
liquidare, 
ma 
ciò 
non 
esclude 
che, 
anche 
in 
tal 
caso, 
sia 
connaturato 
al 
trust 
che 
tale 
trasferimento 
sia 
mero 
veicolo tanto dell’effetto di 
segregazione 
quanto di 
quello di 
destinazione. Ancora una volta, dunque, si 
tratterà di 
individuare 
e 
tassare 
gli 
atti 
traslativi 
propriamente 
detti 
(che 
sono quelli 
di 
liquidazione 
del 
patrimonio immobiliare 
di 
cui 
il 
trust 
sia stato dotato), non potendo assurgere 
ad espressione 
di 
ricchezza 
imponibile, né 
l’assegnazione-dotazione 
di 
taluni 
beni 
alla liquidazione 
del 
trustee 
in funzione 
solutoria e 
nemmeno, in tal 
caso, la ripartizione 
del 
ricavato ai 
beneficiari 
a dovuta soddisfazione 
dei 
loro crediti”. 

rASSeGNA 
AVVOCATUrA 
deLLO 
STATO -N. 4/2020 


canza 
di 
un 
trasferimento 
patrimoniale, 
sia 
la 
volontà 
di 
segregazione 
sia 
quella di destinazione. 


Questa 
fattispecie 
presenta, 
con 
ogni 
evidenza, 
forti 
analogie 
con 
almeno 
tre 
istituti 
del 
diritto civile 
italiano: 
(i) la 
costituzione 
del 
fondo patrimoniale 
da 
parte 
di 
un coniuge; 
(ii) il 
patrimonio destinato a 
uno specifico affare 
da 
parte 
di 
una 
società 
per 
azioni; 
(iii) 
il 
vincolo 
di 
destinazione 
su 
beni 
immobili, 
qualora essi rimangano nella titolarità del disponente. 


La 
sopra 
esaminata 
Convenzione 
de 
L’Aja 
non sembra 
includere 
questa 
tipologia 
di 
Trust 
nel 
suo 
ambito 
applicativo, 
tenuto 
conto 
del 
fatto 
che, 
all’art. 
4, si 
richiede 
espressamente 
un “trasferimento” 
dei 
beni 
oggetto del 
conferimento 
nel 
patrimonio 
separato; 
inoltre, 
all’art. 
2, 
si 
prevedere 
il 
fatto 
che 
il 
patrimonio separato sia posto “sotto il controllo di un trustee”. 

In passato, in Italia, si 
discuteva 
sulla 
possibilità 
(o meno) di 
far rientrare 
il 
Trust 
auto-dichiarato nell’ambito della 
Convenzione 
e, secondo parte 
della 
dottrina, la 
configurazione 
del 
Trust 
richiedeva 
necessariamente 
un trasferimento 
di 
beni 
-seppur meramente 
formale 
e 
con fini 
precipuamente 
gestori 
dal 
disponente al 
trustee. 


di 
recente, 
più 
correttamente, 
la 
Corte 
di 
cassazione 
(19) 
si 
è 
espressa 
nel 
senso dell’ammissibilità 
di 
detta 
inclusione 
ed è 
stata 
seguita 
da 
varie 
pronunce 
di 
merito dello stesso segno e, soprattutto, da 
numerose 
pronunce 
della 
Cassazione 
stessa 
(Sezione 
Tributaria), che 
hanno trattato degli 
effetti 
fiscali 
dei 
Trust 
auto-dichiarati, senza 
sollevare 
alcuna 
eccezione 
circa 
la 
loro riconoscibilità. 


Altra 
questione 
piuttosto controversa 
era 
quella 
legata 
al 
sistema 
di 
tassazione 
del c.d. Trust 
auto-dichiarato (20). 

Tuttavia, 
dalle 
recentissime 
statuizioni 
della 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
(21), si 
evince 
chiaramente 
il 
principio secondo cui, in qualsiasi 
tipologia 
di 
Trust, anche 
se 
auto-dichiarato, l’imposta 
proporzionale 
non andrà 
anticipata 
né 
all’atto istitutivo né 
al 
momento dell’atto di 
dotazione, bensì 
dovrà 
essere 
riferita 
al 
solo 
trasferimento 
finale 
del 
bene 
dal 
trustee 
al 
beneficiario. 
La 
ravvisata 
coincidenza 
soggettiva 
tra 
disponente 
e 
trustee, 
propria 
del 
Trust 
“autodichiarato”, 
rende 
ancor più forte 
l’applicazione 
del 
principio sopra 
esposto, 
risultando 
vieppiù 
evidente 
l’assenza 
di 
un 
reale 
trasferimento 
di 
ricchezza 
imponibile 
da 
un soggetto a 
un altro, fintanto che 
non vi 
sia 
il 
ri-trasferimento 
finale in favore del “beneficiary”. 


(19) Cass. 26 ottobre 
del 
2016, n. 21614; 
Cass. 21 giugno 2019, n. 16700; 
Cass. 7 giugno 2019, 
n. 15456; Cass. 5 dicembre 2018, n. 31446. 
(20) L’applicazione 
dell’imposta 
al 
momento dell’istituzione 
del 
Trust, nel 
Trust 
auto-dichiarato, 
è 
stata 
esclusa 
dalla 
Corte 
di 
Cassazione 
con una 
prima 
sentenza 
n. 21614/16 e, successivamente, con 
una ulteriore statuizione, la n. 16699 del 2019. 
(21) Ordinanza della Corte di cassazione n. 22182 del 14 ottobre 2020. 

CONTrIBUTI 
dI 
dOTTrINA 


7. Prospettive 
de 
iure 
condito: la necessità di 
un nuovo intervento chiarificatore 
del legislatore. 
Punto 
centrale 
della 
controversia 
è, 
come 
sopra 
esposto, 
l’individuazione 
del 
presupposto 
impositivo, 
nell’ambito 
della 
complessa 
operazione 
del 
Trust, 
che 
vede 
interagire 
una 
serie 
di 
atti 
giuridici 
connessi 
in 
modo 
consequenziale 
e, soprattutto, in modo causalmente orientato. 

Come 
noto, l’art. 2, comma 
47, del 
d.l. n. 262 del 
2006 statuisce 
quanto 
segue: 
“è 
istituita l’imposta sulle 
successioni 
e 
donazioni 
sui 
trasferimenti 
di 
beni 
e 
diritti 
per 
causa di 
morte, per 
donazione 
o a titolo gratuito e 
sulla costituzione 
di 
vincoli 
di 
destinazione, 
secondo 
le 
disposizioni 
del 
testo 
unico 
delle 
disposizioni 
concernenti 
l’imposta sulle 
successioni 
e 
donazioni, di 
cui 
al 
decreto legislativo 31 ottobre 
1990, n. 346, nel 
testo vigente 
alla data del 
24 
ottobre 
2001”. 
È 
indubbio 
che 
nel 
novero 
dei 
“vincoli 
di 
destinazione” 
debbano 
essere 
ricondotti, non solo gli 
“atti 
di 
destinazione”, di 
cui 
parla, in linea 
generale, 
l’art. 
2645-ter 
cod. 
civ., 
bensì 
qualunque 
fattispecie 
prevista 
dall’ordinamento 
tesa 
alla 
costituzione 
di 
patrimoni 
vincolati 
ad uno scopo. In tale 
perimetro 
normativo, 
pertanto, 
va 
ricondotto 
anche 
il 
negozio 
giuridico 
del 
Trust. 

Orbene, 
il 
pomo 
della 
discordia 
nasce 
proprio 
dalla 
corretta 
interpretazione 
del 
termine 
“costituzione” 
dei 
vincoli 
di 
destinazione, 
cui 
fa 
riferimento 
l’art. 2, comma 
47, d.l. n. 262 del 
2006. Invero, se 
si 
prende 
alla 
lettera 
la 
disposizione 
normativa 
de 
qua, 
sembrerebbe 
che 
l’intento 
del 
legislatore 
sia 
stato quello di 
individuare 
il 
momento temporale 
esatto in cui 
far intervenire 
l’imposta 
indiretta, 
vale 
a 
dire: 
la 
costituzione 
del 
Trust. 
detto 
approccio 
“prudenziale”, 
patrocinato 
dall’Amministrazione 
Finanziaria, 
nasce 
dalla 
necessità 
di 
applicare 
l’imposizione 
indiretta 
appena 
l’operazione 
negoziale 
del 
Trust 
viene 
ideata, 
per 
evitare 
di 
dover 
attendere 
il 
momento 
in 
cui 
il 
beneficiary 
usufruirà, 
in 
concreto, 
della 
ricchezza 
economica 
e 
patrimoniale 
allo 
stesso 
indirizzata. Tale 
momento finale 
di 
passaggio della 
ricchezza 
in capo al 
beneficiario 
del 
Trust, infatti, potrebbe 
verificarsi 
dopo moltissimi 
anni 
dalla 
costituzione 
della 
segregazione 
patrimoniale 
e, pertanto, potrebbe 
verificarsi 
un 
ritardo 
nell’acquisizione 
del 
gettito 
fiscale 
in 
favore 
dell’erario. 
In 
altri 
termini, 
il 
timore 
serbato dall’Agenzia 
è 
quello derivante 
dal 
fenomeno della 
“tassazione 
sine die”. 

Il 
problema, come 
sopra 
esposto, sorge 
però nel 
momento in cui 
si 
conviene 
con l’assunto secondo cui 
il 
presupposto impositivo non può coincidere 
con 
un 
atto 
fiscalmente 
neutro, 
come, 
appunto, 
l’atto 
istitutivo 
del 
Trust 
e 
quello del 
conferimento dei 
beni 
da 
parte 
del 
settlor 
in capo al 
trustee; 
poiché 
il 
passaggio effettivo di 
ricchezza 
si 
ha 
-solamente 
-quando il 
beneficiary 
riceve 
i 
beni 
in proprietà 
e, pertanto, usufruisce 
di 
quella 
ricchezza 
che, in precedenza, 
gli era stata destinata con l’ideazione dell’intera operazione. 

Le 
ragioni 
esposte 
portano 
a 
ritenere 
senz’altro 
meritevole 
di 
accogli



rASSeGNA 
AVVOCATUrA 
deLLO 
STATO -N. 4/2020 


mento l’orientamento da 
ultimo sposato dalla 
Corte 
di 
Cassazione, secondo 
cui 
l’imposta 
proporzionale 
non 
andrà 
anticipata 
né 
all’atto 
istitutivo 
né 
a 
quello di 
dotazione 
patrimoniale, bensì 
dovrà 
essere 
riferita 
a 
quello di 
sua 
attuazione 
e 
compimento 
mediante 
trasferimento 
finale 
del 
bene 
al 
beneficiario. 

Tuttavia, per quanto lodevole 
possa 
considerarsi 
questo “correttivo” 
ermeneutico, 
operato 
in 
via 
pretoria, 
risulta 
comunque 
auspicabile 
un 
intervento 
legislativo, 
volto 
a 
chiarire 
-con 
la 
medesima 
chiarezza 
e 
logicità 
assertiva 
posta 
in essere 
dagli 
ermellini 
-quale 
debba 
essere, esattamente, l’atto giuridico 
che 
deve 
individuarsi 
come 
presupposto impositivo, ai 
fini 
dell’applicazione 
delle 
imposte 
indirette 
dovute 
sui 
Trusts. Ciò tenuto conto del 
fatto che, 
da 
un lato, la 
logica 
e 
i 
principi 
che 
sovrintendono alle 
imposte 
indirette 
impediscono 
di 
tassare 
atti 
che 
non 
importino 
un 
trasferimento 
attuale 
e 
definitivo 
di 
ricchezza 
imponibile 
da 
un soggetto ad un atro; 
ma, dall’altro lato, restano 
le 
esigenze 
ed istanze 
di 
celere 
e 
tempestiva 
riscossione 
delle 
dovute 
imposte, 
di cui l’Agenzia delle entrate si è, da sempre, fatta portatrice. 


8. 
Il 
cambio 
di 
orientamento 
dell’Agenzia 
delle 
Entrate 
ed 
il 
recepimento 
della 
decisione 
della 
Corte 
di 
Cassazione: 
Risposta 
all’Istanza 
di 
Interpello 
dell’AE 
n. 106 del 15/02/2021. 
L’Agenzia 
delle 
entrate, 
con 
risposta 
all’Interpello 
n. 
106 
del 
16 
febbraio 
2021, 
sembra 
avere 
aderito 
alla 
ormai 
consolidata 
posizione 
ermeneutica 
della 
giurisprudenza 
di 
legittimità, 
affermando 
la 
non 
applicabilità 
delle 
imposte 
indirette 
all’atto 
di 
conferimento 
dei 
beni 
in 
Trust, 
per 
via 
dell’assenza 
di 
un 
tangibile trasferimento di ricchezze. 


L’istante, nel 
caso in esame, (al 
contempo “disponente” 
e 
“beneficiario” 
del 
Trust), aveva 
chiesto un parere 
in merito al 
trattamento impositivo, ai 
fini 
dell'imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni, 
gravante 
sui 
beni 
detenuti 
all'estero 
per 
il 
tramite 
di 
un 
Trust 
straniero 
revocabile, 
avente 
ad 
oggetto: 
“il 
trattamento 
impositivo ai 
fini 
dell'imposta sulle 
successioni 
e 
donazioni 
di 
cui 
all'art. 
2 del 
d.l. n. 262 del 
2006, gravante 
sulle 
attribuzioni 
al 
beneficiario di 
beni 
vincolati 
in un trust 
estero revocabile, a seguito della revoca dello stesso 
trust”. 
Secondo 
la 
soluzione 
interpretativa 
prospettata 
dal 
contribuente, 
né 
l'atto di 
dotazione 
del 
Trust 
(vale 
a 
dire 
il 
momento di 
"entrata" 
dei 
beni) né i 
(ri)trasferimenti 
in suo favore 
degli 
assets 
costituenti 
il 
fondo del 
Trust 
revocabile 
-(e, 
dunque, 
i 
momenti 
di 
"uscita" 
dei 
beni, 
ivi 
incluso 
quello 
della 
"revoca") 
-devono 
scontare 
alcuna 
imposizione 
ai 
fini 
dell'imposta 
sulle 
successioni e donazioni. 

A 
detta 
del 
contribuente, pertanto, un'eventuale 
argomentazione 
di 
segno 
contrario sarebbe 
in contrasto “sia con l'ormai 
consolidato orientamento giurisprudenziale 
di 
legittimità 
formatosi 
sul 
punto 
sia 
con 
la 
prassi 
dell'Agenzia 
delle Entrate (i.e., circolare n. 43/E del 2009)”. 

Come 
sopra 
anticipato, 
a 
seguito 
della 
predetta 
Istanza 
di 
Interpello, 



CONTrIBUTI 
dI 
dOTTrINA 


l'Agenzia 
delle 
entrate 
ha 
emanato un parere 
con cui 
sembra 
essersi 
definitivamente 
allineata 
alle 
recenti 
statuizioni 
della 
Corte 
di 
Cassazione. Anzitutto, 
si 
ribadisce 
che, 
ai 
fini 
della 
tassazione 
in 
materia 
di 
imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni, con riferimento alla 
materia 
del 
Trust, “occorre 
far 
riferimento 
alle 
disposizioni 
di 
cui 
all'articolo 2 del 
decreto legge 
3 ottobre 
2006, n. 262 
ed al 
decreto legislativo 31 ottobre 
1990, n. 346”, in base 
ai 
quali 
l'imposta 
si 
applica 
in caso di 
“costituzione 
di 
vincoli 
di 
destinazione”. In secondo luogo, 
si 
chiarisce 
come, in linea 
di 
principio, l'attribuzione 
di 
beni 
e/o diritti 
ai 
beneficiari 
di 
Trusts 
da 
parte 
del 
trustee 
potrebbe 
determinare 
l'applicazione 
del-
l'imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
“al 
verificarsi 
dei 
presupposti 
previsti 
dalle disposizioni di cui al decreto legislativo n. 346 del 1990”. 


Non 
può 
non 
rilevarsi 
come 
la 
fattispecie 
analizzata 
risulti 
essere 
piuttosto 
peculiare, giacché 
si 
è 
in presenza 
di 
una 
“ri-attribuzione” 
di 
beni, dal 
disponente 
al 
Trust, 
tale 
per 
cui 
sarebbe 
stato 
evidentemente 
problematico, 
oltreché 
fiscalmente 
inammissibile, 
sostenere 
la 
tassazione 
di 
tale 
ri-attribuzione 
“in 
entrata”. Con specifico riferimento alla 
fattispecie 
in questione, invero, viene 
evidenziata 
la 
circostanza 
che 
il 
soggetto disponente 
coincide 
con il 
soggetto 
beneficiario del 
Trust. Nella 
fattispecie 
in esame, pertanto, l'assenza 
di 
un trasferimento 
intersoggettivo precluderebbe 
l'applicazione 
dell'imposta 
di 
donazione 
per 
carenza 
del 
presupposto 
oggettivo 
imponibile 
di 
cui 
all'articolo 
1 
del citato decreto legislativo, mancando un trasferimento di ricchezza. 

Ciò 
posto, 
deve 
essere 
messo 
in 
evidenza 
come 
l’Amministrazione, 
in 
questa 
occasione, 
abbia 
definitivamente 
preso 
atto 
dell’orientamento 
giurisprudenziale 
attualmente 
maggioritario, 
richiamando, 
espressamente, 
gli 
estremi della sentenza della Corte Costituzionale n. 10256 del 2020 (22). 


Cassazione 
civile, 
Sezione 
Quinta, 
ordinanza 
16 
febbraio 
2021 
n. 
3986 
-Pres. 
L.M.T. 
Zoso, 
Rel. 
M. 
Balsamo 
-Agenzia 
delle 
entrate 
(avv. 
gen. 
Stato) 
c. 
Trust 
Corona 
(avv.ti 
L. 
Pallotta, G.L. Battagliese). 


Svolgimento del processo 


1. L’Agenzia 
delle 
entrate 
liquidava 
-in relazione 
all’atto notarile 
del 
10.12.2012 con il 
quale 
OMISSIS 
costituiva 
il 
Trust 
autodichiarato “Corona”, di 
cui 
si 
nominava 
trustee 
riservandosi 
di 
nominare 
i 
beneficiari 
-le 
imposte 
ipotecarie 
e 
catastali 
in 
misura 
proporzionale, 
come 
previsto dall’art. 2 comma 
49 d.L. n. 262/2006, dovute 
sul 
valore 
delle 
quote 
della 
OMISSIS 
(22) 
L’Agenzia 
delle 
entrate, 
nell’aderire 
al 
recente 
orientamento 
ermeneutico 
della 
giurisprudenza 
di 
legittimità, afferma 
come 
l’assunto dell’impossibilità 
di 
applicare 
l’imposta 
all’atto costitutivo 
del 
Trust 
trovi 
riscontro nella 
recente 
giurisprudenza 
della 
Corte 
di 
Cassazione 
che, nella 
Sentenza 
n. 
10256 del 
29 maggio 2020, ha 
chiarito che 
“solo l'attribuzione 
al 
beneficiario, che 
come 
detto deve 
essere 
diverso 
dal 
disponente 
può 
considerarsi, 
nel 
trust, 
il 
fatto 
suscettibile 
di 
manifestare 
il 
presupposto 
dell'imposta sul trasferimento di ricchezza”. 

rASSeGNA 
AVVOCATUrA 
deLLO 
STATO -N. 4/2020 


devolute 
nel 
trust 
auto-dichiarato. Il 
trustee 
si 
opponeva 
dinanzi 
alla 
commissione 
tributaria 
provinciale 
di 
Milano la 
quale 
respingeva 
il 
ricorso, ritenendo la 
sussistenza 
della 
legittimazione 
passiva 
del 
Trust 
e 
ritenendo applicabili 
le 
imposte 
in misura 
proporzionale 
sul 
vincolo 
di destinazione ex art. 47 della L. n. 262/2006. 


L’appello proposto dal 
trustee 
veniva 
accolto con sentenza 
n. 2150/19/17, depositata 
il 
18 
maggio del 2017. 


In particolare, i 
giudici 
regionali 
escludevano la 
soggettività 
passiva 
del 
trust, trattandosi 
di 
un insieme 
di 
beni 
destinati 
ad un fine 
determinato e 
formalmente 
intestati 
al 
trustee 
ed affermavano 
la 
debenza 
in 
misura 
fissa 
delle 
imposte 
di 
donazione-successione, 
non 
ravvisando 
nella 
costituzione 
del 
trust 
un trasferimento di 
ricchezza 
e 
difettando dunque 
il 
presupposto 
di imposta. 


Per la 
cassazione 
della 
sentenza 
indicata 
in epigrafe, l’Agenzia 
delle 
entrate 
ha 
proposto 
ricorso affidato a due motivi. 


Parte intimata resiste con controricorso. 


ragioni della decisione 


2. Con il 
primo motivo di 
ricorso, l’Agenzia 
delle 
entrate 
denuncia 
violazione 
dell’art. 73 
del 
Tuir ex art. 360, n. 3), c.p.c., per avere 
i 
giudici 
regionali 
erroneamente 
escluso la 
legittimazione 
passiva 
del 
trust, in contrasto con il 
disposto della 
norma 
citata 
in rubrica 
che 
ha 
incluso 
il 
trust 
tra 
i 
soggetti 
passivi 
di 
imposta 
sul 
reddito delle 
società 
(IreS). In particolare, 
l’ufficio deduce 
che 
la 
norma 
citata 
distingue 
tra 
trust 
trasparenti 
in cui 
sono individuati 
i 
beneficiari, 
nel 
qual 
caso i 
redditi 
sono ad essi 
imputati 
in proporzione 
della 
quota 
di 
partecipazione 
individuata 
dal 
costituente 
e 
trust 
opachi, 
in 
cui 
il 
trust 
è 
individuato 
quale 
soggetto 
passivo di imposta. 
3. Con il 
secondo motivo rubricato «Violazione 
e 
falsa applicazione 
dell’art. 2 del 
d.l. n. 
262/2006, convertito in l. n. 286/2006, nonché 
degli 
artt. 1 e 
10 d.lgs. n. 347/90 in relazione 
all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.», l’Ufficio deduce 
che 
con l’art. 2, commi 
47 e 
ss., del 
d.l. 
3 ottobre 
2006 n. 262, conv. con modif. in l. 24 novembre 
2006 n. 286, è 
stata 
«reintrodotta 
nell’ordinamento giuridico l’imposta sulle 
successioni 
e 
donazioni 
estendendone 
l’ambito di 
applicazione 
alla costituzione 
di 
vincoli 
di 
destinazione», 
ai 
quali 
doveva ricondursi 
anche 
la costituzione 
del 
trust 
oggetto di 
controversia atteso che 
con lo stesso erano stati 
conferiti 
beni 
a titolo gratuito al 
trustee 
da immettere 
in trust 
con efficacia «segregante», così 
come 
in effetti 
previsto dall’art. 2, comma 
47 ss., d.l. n. 262 cit. che 
espressamente 
assoggetta 
all’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
ex 
d.lgs. 
31 
ottobre 
1990 
n. 
346 
gli 
atti 
di 
costituzione 
dei 
«vincoli 
di 
destinazione»; 
con la 
conseguenza 
che 
la 
CTr avrebbe 
errato nel 
ritenere 
che 
mancasse 
il 
presupposto della 
tassazione, vale 
a 
dire 
il 
trasferimento di 
ricchezza 
a 
titolo di 
liberalità e l’arricchimento di un soggetto conseguente alla liberalità ricevuta. 
4. La prima censura è destituita di fondamento. 
4.1 
La 
legge 
finanziaria 
del 
2007 
riconosce 
la 
soggettività 
tributaria 
del 
Trust, 
inserendolo 
tra 
i 
soggetti 
passivi 
delle 
imposte 
dirette 
(Ires) 
alla 
stregua 
di 
un 
ente. 
Più 
precisamente, 
il 
comma 
74 
dell’articolo 
1 
della 
citata 
legge 
ha 
modificato 
l’articolo 
73 
del 
Tuir, 
introducendo 
nelle 
lettere 
b), 
c) 
e 
d) 
del 
comma 
1 
anche 
il 
trust 
tra 
i 
soggetti 
passivi 
dell’imposta 
sul 
reddito 
delle 
società, 
a 
seconda 
dell’attività 
svolta 
(commerciale 
o 
non 
commerciale) 
e 
della 
residenza. 
Sulla 
base 
della 
flessibilità 
dell’istituto 
in 
questione, 
il 
legislatore, 
all’art. 
73, 
ha 
individuato, 
ai 
fini 
della 
imposizione 
dei 
redditi, due 
principali 
tipologie 
di 
trust, ovvero quelli 
con beneficiari 
individuati, 
i 
cui 
redditi 
vengono 
imputati 
per 
trasparenza 
ai 
beneficiari 
stessi 
(trust 



CONTrIBUTI 
dI 
dOTTrINA 


trasparenti) 
e, 
in 
secondo 
luogo, 
i 
trust 
senza 
beneficiari 
individuati, 
i 
cui 
redditi 
vengono 
tassati 
direttamente 
in capo al 
trust 
(trust 
opachi). dopo aver determinato il 
reddito del 
trust, il 
trustee 
deve 
indicare 
la 
parte 
attribuita 
al 
trust 
e 
assoggettata 
all’IreS, 
oltre 
alla 
parte 
imputata 
per trasparenza 
ai 
beneficiari, sulla 
quale 
gli 
stessi 
devono assolvere 
le 
imposte 
sul 
reddito. 
Per quanto riguarda 
la 
disciplina 
dei 
redditi 
del 
beneficiario del 
trust 
il 
comma 
74, lett. b), 
dell’articolo 
unico 
della 
finanziaria 
2007 
dispone 
al 
nuovo 
comma 
2 
dell’art. 
73 
del 
TUIr 
che 
“nei 
casi 
in cui 
i 
beneficiari 
del 
trust 
siano individuati, i 
redditi 
conseguiti 
dal 
Trust 
sono 
imputati 
in ogni 
caso ai 
beneficiari 
in proporzione 
alla quota di 
partecipazione 
individuata 
nell’atto costitutivo del 
Trust 
o in altri 
successivi 
documenti 
ovvero in loro mancanza in parti 
uguali”. 
dal 
momento 
che 
il 
presupposto 
di 
applicazione 
dell’imposta 
è 
il 
possesso 
di 
redditi, 
per “beneficiario individuato” 
si 
deve 
intendere 
il 
beneficiario di 
reddito individuato, ovvero 
il 
soggetto che 
ha 
in rapporto al 
reddito una 
capacità 
contributiva 
attuale. Pertanto, occorre 
che 
il 
beneficiario non solo sia 
previamente 
individuato, ma 
che 
risulti 
titolare 
del 
diritto di 
pretendere 
dal 
trustee 
l’assegnazione 
di 
quella 
parte 
di 
reddito che 
gli 
viene 
imputata 
per trasparenza. 
In definitiva, con l’emanazione 
della 
Legge 
n. 296 del 
27 dicembre 
2006, il 
legislatore 
nel 
rilevare 
l’impossibilità 
di 
attribuire 
la 
soggettività 
passiva 
ai 
soggetti 
coinvolti 
nel 
trust 
(settlor, trustee 
e 
beneficiari), ha 
optato per la 
soggettivazione 
del 
trust 
stesso, dato che 
consente 
un’imputazione 
autonoma 
della 
capacità 
contributiva; 
il 
trust 
viene 
considerato, 
pertanto, 
secondo 
la 
previsione 
normativa, 
un 
soggetto 
passivo 
delle 
imposte 
dirette 
(v. 
Cass. 
Sentenza 
21 giugno 2019, n. 16700), benché 
privo di 
soggettività 
giuridica 
di 
tipo civilistico. 


4.2 Per quanto concerne 
le 
imposte 
indirette, norma 
di 
riferimento è 
stata 
considerata 
-ma 
con esiti 
interpretativi 
molto diversi 
-l’art. 2 co. 47 d.l. 262/06 conv. in l. 286/06, secondo 
cui: 
“È 
istituita l’imposta sulle 
successioni 
e 
donazioni 
sui 
trasferimenti 
di 
beni 
e 
diritti 
per 
causa 
di 
morte, 
per 
donazione 
o 
a 
titolo 
gratuito 
e 
sulla 
costituzione 
di 
vincoli 
di 
destinazione, 
secondo le 
disposizioni 
del 
testo unico delle 
disposizioni 
concernenti 
l’imposta sulle 
successioni 
e 
donazioni, di 
cui 
al 
decreto legislativo 31 ottobre 
1990, n. 346, nel 
testo vigente 
alla 
data del 
24 ottobre 
2001, fatto salvo quanto previsto dai 
commi 
da 48 a 54”. Per quanto concerne 
l’imposta 
di 
registro 
(ma 
tematica 
analoga 
investe 
anche 
l’imposta 
ipotecaria 
e 
catastale), 
la 
controversia 
applicativa 
riguarda, 
segnatamente, 
la 
quota 
di 
imposta 
eccedente 
la 
misura 
fissa, secondo quanto stabilito in via 
residuale 
dall’articolo 9 della 
Tariffa 
allegata 
al 
d.P.r. 
131/86, 
secondo 
cui 
la 
tassazione 
proporzionale 
(3 
%) 
si 
applica 
per 
la 
sola 
circostanza 
che l’atto abbia per oggetto “prestazioni a contenuto patrimoniale”. 
4.3 rileva 
anche 
l’art. 6, l. n. 112 del 
2016 (c.d. legge 
del 
“Dopo di 
noi”) in base 
al 
cui 
comma 
1: 
«I beni 
e 
i 
diritti 
conferiti 
in trust 
ovvero gravati 
da vincoli 
di 
destinazione 
di 
cui 
all’articolo 2645-ter 
del 
codice 
civile 
ovvero destinati 
a fondi 
speciali 
di 
cui 
al 
comma 3 del-
l’articolo 
1, 
istituiti 
in 
favore 
delle 
persone 
con 
disabilità 
grave 
(…) 
sono 
esenti 
dall’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
prevista dall’articolo 2, commi 
da 47 a 49, del 
decreto-legge 
3 
ottobre 
2006, n. 262, convertito, con modificazioni, dalla legge 
24 novembre 
2006, n. 286, e 
successive 
modificazioni». 
Aspetti 
ancora 
diversi 
riguardano 
l’imposizione 
locale, 
la 
quale 
appare 
però 
segnata 
da 
presupposti 
impositivi 
del 
tutto 
autonomi 
e 
divergenti 
da 
quelli 
invece 
riconducibili 
(in 
termini 
di 
attribuzione 
traslativa 
di 
ricchezza) 
all’imposta 
di 
registro, 
a 
quella 
ipotecaria 
e 
catastale 
nonché 
a 
quella 
sulle 
successioni 
e 
donazioni; 
ciò perché 
normalmente 
ricollegati 
al 
dato oggettivo, immediato e 
contingente 
costituito, ad esempio, dalla 
fruizione 
di 
un 
servizio 
pubblico 
(“tassa 
rifiuti”), 
dallo 
sfruttamento 
di 
una 
risorsa 
pubblica 
(come 
nella 
TOSAP) 
o 
dall’esercizio 
sugli 
immobili 
di 
un 
diritto 
reale 
o 
di 
un 
possesso 
ad 
esso 
corrispondente 
(come nell’ICI-IMU). 

rASSeGNA 
AVVOCATUrA 
deLLO 
STATO -N. 4/2020 


4.4 Tornando alle 
imposte 
indirette, la 
previsione 
dell’art. 73, comma 
1, del 
Tuir che 
individua 
espressamente 
i 
trust 
tra 
i 
soggetti 
passivi 
Ires 
(nei 
soli 
casi 
in cui 
dall’atto istitutivo 
ovvero da 
altri 
documenti 
anche 
redatti 
in epoca 
successiva, manchi 
del 
tutto 
l’indicazione 
dei 
beneficiari) non comporta 
una 
loro soggettività 
assoluta 
ai 
fini 
dell’imposizione 
diretta. È 
infatti 
un concetto ormai 
elaborato dalla 
dottrina 
che 
il 
legislatore 
possa 
disporre 
della 
soggettività 
tributaria 
prescindendo dalle 
altre 
forme 
di 
soggettività, e 
che 
il 
sostrato minimo sul 
quale 
il 
legislatore 
può 
costruire 
la 
soggettività 
tributaria 
stessa 
è 
la 
separazione 
o 
l’autonomia 
patrimoniale, e non già la soggettività civilistica. 
Vale 
osservare, quindi, come 
dalla 
soggettività 
IreS 
non possa 
inferirsi 
il 
riconoscimento 
di 
una 
capacità 
generalizzata 
del 
trust 
di 
essere 
soggetto passivo anche 
di 
altri 
tributi. Questa 
tesi 
appare 
difatti 
contrastare 
con 
il 
divieto, 
posto 
dall’art. 
14 
delle 
preleggi, 
di 
interpretazione 
analogica 
delle 
norme 
eccezionali, 
qual 
è 
quella 
che, 
a 
fini 
specifici 
e 
determinati 
dallo 
stesso 
legislatore, riconosce 
una 
limitata 
forma 
di 
soggettività, ai 
soli 
fini 
tributari, ad una 
organizzazione 
priva di personalità giuridica. 


Ne 
deriva 
che 
non può, in ogni 
caso, leggersi 
l’art. 73 del 
TUIr nel 
senso che 
il 
legislatore 
abbia 
attribuito al 
trust 
la 
personalità 
giuridica, né, tantomeno, può la 
giurisprudenza 
elevare 
a 
soggetto giuridico i 
centri 
di 
interessi 
e 
rapporti 
che 
non lo sono, posto che 
l’attribuzione 
della 
soggettività 
giuridica 
è 
appannaggio 
del 
solo 
legislatore 
(cfr. 
in 
arg. 
Cass. 
sez. 
un. 
25767/2015; Cass. n. 16550/2019). 


Si 
deve 
ribadire 
in 
questa 
sede 
l’inesistenza 
della 
soggettività 
del 
trust, 
il 
quale 
-come 
chiaramente 
traesi 
dall’art. 
2 
della 
afferente 
Convenzione 
dell’Aja 
del 
1° 
luglio 
1985, 
resa 
esecutiva 
in Italia 
con l. 16 ottobre 
1989, n. 364 -costituisce 
un insieme 
di 
beni 
e 
rapporti 
con effetto di 
segregazione 
patrimoniale 
“istituiti 
da una persona, il 
disponente 
-con atto tra 
vivi 
o mortis 
causa -qualora dei 
beni 
siano stati 
posti 
sotto il 
controllo di 
un trustee 
nell’interesse 
di un beneficiario o per un fine determinato”. 


Principio 
che 
trova 
conferma 
nella 
giurisprudenza 
di 
questa 
Corte, 
secondo 
la 
quale 
il 
trust 
traslativo non è 
un ente 
dotato di 
personalità 
giuridica; 
l’effetto proprio del 
trust 
non è 
quello 
di 
dare 
vita 
ad un nuovo soggetto di 
diritto, ma 
quello di 
istituire 
un patrimonio destinato ad 
un fine 
prestabilito (Cass. 9 maggio 2014, n. 10105), per cui 
va 
escluso che 
possa 
ritenersi 
che 
esso possa 
essere 
titolare 
di 
diritti 
e 
tanto meno essere 
considerato soggetto passivo di 
imposta 
(v. Cass. n. 2043/2017; 
n. 12718/2017), contrariamente 
a 
quanto assume 
l’amministrazione 
finanziaria. Si 
tratta, invece, di 
un insieme 
di 
beni 
e 
rapporti 
destinati 
ad un fine 
determinato 
e 
formalmente 
intestati 
al 
trustee 
(Cass. civ. sez. I, n. 3456/2015; 
Cass. civ. sez. V 
25478/2015 Cass. civ. sez. II n. 28363/2011). 


4.5 
La 
peculiarità 
dell’istituto 
risiede 
nello 
“sdoppiamento 
del 
concetto 
di 
proprietà”, 
tipico 
dei 
paesi 
di 
common law: 
la 
proprietà 
legale 
del 
trust, attribuita 
al 
trustee, ne 
rende 
quest’ultimo 
unico titolare 
dei 
relativi 
diritti 
(sia 
pure 
nell’interesse 
dei 
beneficiari 
e 
per il 
perseguimento 
dello 
scopo 
definito), 
ma 
i 
beni 
restano 
segregati 
e 
quindi 
diventano 
estranei 
non 
soltanto al 
patrimonio del 
disponente, ma 
anche 
a 
quello personale 
del 
trustee 
che 
deve 
amministrarli 
e 
disporne 
secondo il 
programma 
del 
trust 
(Cass. civ. sez. IlI n. 9320/2019; 
Sez. V 
n. 16550/2019). Quanto alla 
sua 
struttura, nel 
trust 
si 
ravvisa 
un atto istitutivo, che 
è 
l’atto 
con il 
quale 
il 
disponente 
esprime 
la 
volontà 
di 
costituire 
un trust, e 
l’atto dispositivo che, invece, 
è 
l’atto con il 
quale 
il 
disponente 
trasferisce, a 
titolo gratuito, i 
beni 
in trust 
al 
trustee, 
atti 
collegati 
sebbene 
distinti. 
La 
recente 
sentenza 
di 
Cass. 
29 
maggio 
2018, 
n. 
13388 
ha 
espressamente 
differenziato, sia 
pure 
in materia 
revocatoria, l’atto di 
disposizione 
patrimoniale, 
e 
cioè 
l’atto 
mediante 
il 
quale 
il 
bene 
viene 
intestato 
in 
capo 
al 
trustee 
dall’atto 
istitutivo 

CONTrIBUTI 
dI 
dOTTrINA 


del 
trust, il 
quale 
costituisce 
il 
fascio di 
rapporti 
che 
circonda 
l’intestazione 
del 
bene, ma 
non 
l’intestazione 
stessa, ed è 
neutrale 
dal 
punto di 
vista 
patrimoniale. Sulla 
stessa 
linea 
di 
fondo 
si 
era 
già 
posta, del 
resto, la 
precedente 
pronuncia 
di 
Cass., 3 agosto 2017, n. 19376, distinguendo 
tra atto istitutivo del trust e atti dispositivi dei beni immessivi. 


4.6 
Vale 
inoltre 
precisare 
che, 
ai 
sensi 
dell’articolo 
2 
della 
Convenzione 
dell’Aja, 
“per 
trust 
s’intendono 
i 
rapporti 
giuridici 
istituiti 
da 
una 
persona, 
il 
costituente, 
con 
atto 
tra 
vivi 
o 
mortis 
causa”; 
si 
tratta, 
quindi, 
di 
un 
negozio 
giuridico 
unilaterale, 
inter 
vivos 
o 
mortis 
causa, 
che 
non si 
perfeziona 
con l’incontro delle 
volontà 
di 
due 
o più soggetti, essendo sufficiente 
la 
sola 
dichiarazione 
di 
volontà 
del 
disponente 
(Cass. n. 3697/2020) e 
non necessita 
di 
accettazione 
da 
parte 
dei 
beneficiari, implicando una 
segregazione 
patrimoniale 
grazie 
al 
meccanismo 
pubblicitario della trascrizione o degli adempimenti correlati. 
L’atto 
istitutivo 
del 
trust, 
dunque, 
è 
atto 
unilaterale 
formato 
esclusivamente 
dal 
disponente, 
sul 
quale 
grava 
l’onere 
di 
corrispondere 
le 
imposte 
ipotecarie 
e 
catastali, non potendosi 
neppure 
configurare 
alcuna 
responsabilità 
solidale 
del 
trustee 
e 
del 
disponente 
sulla 
base 
dell’articolo 
57 del 
TUr, in quanto l’atto in disamina 
non è 
sussumibile 
nell’ambito dei 
contratti; 
l’eventuale 
responsabilità 
patrimoniale 
del 
trustee 
può sorgere 
solo per atti 
e 
fatti 
compiuti 
nell’esercizio della 
propria 
funzione 
a 
seconda 
della 
legge 
regolatrice 
applicabile. In altri 
termini, 
la 
responsabilità 
del 
trustee 
-che 
non 
risulta 
aver 
partecipato 
all’atto 
costitutivo 
-deriva 
dall’intestazione 
formale 
del 
bene 
(in conformità 
all’art. 2 L. 364/1989 di 
ratifica 
della 
convenzione 
dell’Aja 
sulla 
legge 
applicabile 
al 
trusts, comma 
2 lett. b laddove 
si 
stabilisce 
che 
beni 
del 
trust 
sono 
intestati 
a 
nome 
del 
trustee) 
ovvero 
dall’esercizio 
di 
attività, 
in 
detta 
qualità, 
rilevanti verso l’esterno. 


4.7 Quando, invece, il 
vincolo di 
destinazione 
è 
già 
stato costituito -secondo quanto prevede 
l’art. 2 della 
Convenzione 
dell’Aja 
del 
luglio 1985, resa 
esecutiva 
in Italia 
con la 
legge 
16 ottobre 
1989, n. 364 -proprio perché 
il 
trust 
non possiede 
personalità 
giuridica, è 
allora 
il 
trustee 
-cui 
è 
demandato di 
“amministrare, gestire 
o disporre 
dei 
beni 
in conformità alle 
disposizioni 
del 
trust 
e 
secondo le 
norme 
imposte 
dalla legge 
al 
trustee” 
-l’unico soggetto legittimato 
nei 
rapporti 
con i 
terzi, in quanto dispone 
in esclusiva 
del 
patrimonio vincolato alla 
predeterminata 
destinazione 
(Cass. 
22 
dicembre 
2015, 
n. 
25800). 
Quale 
ulteriore 
conseguenza, 
va 
escluso che 
possa 
ritenersi 
in alcun modo il 
trust 
titolare 
di 
diritti 
e 
tanto meno essere 
considerato 
soggetto passivo di 
imposta 
(v. Cass. n. 2043/2017; 
n. 12718/2017). Ciò trova 
conferma 
nel 
fatto che 
l’effetto proprio del 
trust 
non è 
quello di 
dare 
vita 
ad un nuovo soggetto 
di 
diritto, 
ma 
quello 
di 
istituire 
un 
patrimonio 
destinato 
ad 
un 
fine 
prestabilito 
(Cass. 
9 
maggio 
2014, n. 10105), sulla 
base 
delle 
ampie 
argomentazioni 
sviluppate 
nei 
precedenti 
di 
questa 
Corte, ai quali ritiene il Collegio di dare continuità mediante un mero richiamo. 
5. Anche la seconda censura è priva di pregio. 
Punto centrale 
della 
controversia 
è 
l’individuazione 
del 
presupposto impositivo. Il 
d.l. n. 
262 del 
2006, convertito con modifiche 
dalla 
l. n. 286 del 
2006, e 
l’art. 1, commi 
77, 78 e 
79, 
della 
l. n. 296 del 
2006 (Legge 
finanziaria 
per il 
2007), hanno, com’è 
noto, reintrodotto nel-
l’ordinamento 
l’imposta 
sulle 
successioni 
e 
donazioni 
che, 
fino 
alla 
sua 
abrogazione 
ad 
opera 
dell’art. 
13, 
della 
l. 
n. 
383 
del 
2001, 
era 
disciplinata 
dal 
d.lgs. 
n. 
346 
del 
1990. 
Ai 
sensi 
dell’art. 
2, comma 
47, d.l. n. 262 del 
2006, “è 
istituita l’imposta sulle 
successioni 
e 
donazioni 
sui 
trasferimenti 
di 
beni 
e 
diritti 
per 
causa di 
morte, per 
donazione 
o a titolo gratuito e 
sulla costituzione 
di 
vincoli 
di 
destinazione, secondo le 
disposizioni 
del 
testo unico delle 
disposizioni 
concernenti 
l’imposta sulle 
successioni 
e 
donazioni, di 
cui 
al 
decreto legislativo 31 ottobre 
1990, 
n. 
346, 
nel 
testo 
vigente 
alla 
data 
del 
24 
ottobre 
2001”, 
disciplina 
quest’ultima 
che 



rASSeGNA 
AVVOCATUrA 
deLLO 
STATO -N. 4/2020 


trova 
applicazione 
(art. 2, comma 
50), in quanto compatibile 
con le 
nuove 
disposizioni. La 
novella 
legislativa 
ha 
esteso 
il 
presupposto 
impositivo 
ai 
trasferimenti 
a 
titolo 
gratuito, 
nonché 
alla 
costituzione 
dei 
vincoli 
di 
destinazione. Nell’ambito concettuale 
dei 
“vincoli 
di 
destinazione” 
vanno, poi, ricondotti 
non solo gli 
“atti 
di 
destinazione” 
di 
cui 
all’art. 2645 ter c.c., ma 
qualunque 
fattispecie 
prevista 
dall’ordinamento tesa 
alla 
costituzione 
di 
patrimoni 
vincolati 
ad 
uno 
scopo, 
ed 
in 
tal 
senso 
si 
è 
espressa 
anche 
l’Amministrazione 
finanziaria 
(cfr. 
Circolare 
3/e 
del 
22 gennaio 2008), secondo la 
quale 
per vincoli 
di 
destinazione 
si 
intendono “I negozi 
giuridici 
mediante 
i 
quali 
determinati 
beni 
sono destinati 
alla realizzazione 
di 
un interesse 
meritevole 
di 
tutela da parte 
dell’ordinamento, con effetti 
segregativi 
e 
limitativi 
della disponibilità 
dei beni medesimi”. 


In 
tale 
perimetro 
normativo 
va 
ricondotto 
anche 
il 
negozio 
giuridico 
denominato 
trust, 
istituto 
di 
derivazione 
anglosassone. L’ordinamento italiano ha 
conosciuto l’istituto del 
trust 
attraverso 
la 
“Convenzione 
sulla legge 
applicabile 
ai 
trusts 
e 
sul 
loro riconoscimento” 
adottata 
a 
L’Aja 
in 
data 
1 
luglio 
1985; 
al 
testo 
convenzionale 
è 
stata 
data 
ratifica 
(senza 
apporre 
alcuna 
riserva) con la 
Legge 
9 ottobre 
1989 n. 364 e 
la 
Convenzione 
è 
entrata 
in vigore 
l’1 gennaio 
1992. 


Ai 
fini 
della 
Convenzione 
de 
L’Aja, il 
trust 
è 
il 
rapporto giuridico in cui 
il 
costituente 
-con 
atto tra 
vivi 
o mortis 
causa 
-pone 
dei 
beni 
sotto il 
controllo di 
un trustee 
nell’interesse 
di 
un 
beneficiario o per un fine 
specifico; 
i 
beni 
in trust 
“costituiscono una massa distinta e 
non 
sono 
parte 
del 
patrimonio 
del 
trustee”; 
-tali 
beni 
sono 
intestati 
a 
nome 
del 
trustee 
o 
di 
un’altra 
persona 
per conto del 
trustee; 
-il 
trustee 
è 
investito del 
potere 
e 
onerato dell’obbligo, di 
cui 
deve 
rendere 
conto, di 
amministrare, gestire 
o disporre 
dei 
beni 
“in conformità alle 
disposizioni 
del 
trust” 
e 
secondo le 
norme 
impostegli 
dalla 
legge; 
-non è 
necessariamente 
incompatibile 
con l’esistenza 
di 
un trust 
il 
fatto che 
il 
disponente 
conservi 
alcuni 
diritti 
e 
facoltà, o 
che il trustee stesso abbia alcuni diritti in qualità di beneficiario. 


In particolare, il 
trust 
può rispondere 
a 
finalità 
eterogenee: 
di 
garanzia; 
di 
liquidazione 
e 
pagamento; 
di 
realizzazione 
di 
un’opera 
pubblica; 
di 
solidarietà 
sociale; 
di 
realizzazione 
di 
interessi 
meritevoli 
di 
tutela 
a 
favore 
di 
persone 
disabili, 
pubbliche 
amministrazioni 
o 
altri 
soggetti 
(art. 2645 ter cod. civ.); 
può essere 
costituito per atto tra 
vivi 
oppure 
per testamento, 
con efficacia 
dopo la 
morte 
del 
disponente; 
ovvero a 
seconda 
delle 
prescelte 
modalità 
di 
individuazione 
del 
beneficiario (al 
momento della 
istituzione 
o in un momento successivo; 
da 
parte 
del 
disponente 
o dello stesso trustee; 
con possibilità 
di 
revoca 
o meno); 
ovvero, ancora, 
a 
seconda 
che 
il 
trustee 
ed il 
beneficiario vengano individuati 
in soggetti 
terzi 
oppure 
nello 
stesso disponente (c.d. trust autodichiarato). 


6. L’elemento comune 
è 
l’effetto segregativo che 
si 
verifica 
perché 
i 
beni 
conferiti 
in trust 
non 
entrano 
nel 
patrimonio 
del 
trustee 
se 
non 
per 
la 
realizzazione 
dello 
scopo 
indicato 
dal 
settlor e 
col 
fine 
specifico di 
restare 
separati 
dai 
suoi 
averi 
(pena 
la 
mancanza 
di 
causa 
del 
trasferimento): 
effetto che 
si 
determina 
attraverso l’intestazione 
formale 
dei 
beni 
al 
trustee 
e 
l’attribuzione 
al 
medesimo di 
poteri 
gestori 
finalizzati 
alla 
realizzazione 
dello scopo, mentre 
al beneficiario (se individuato) è attribuito solo un diritto di credito. 
7. Secondo un indirizzo recentemente 
consolidatosi 
che, allo stato, risulta 
prevalente, «il 
trasferimento ‘del 
bene 
dal 
“settlor” 
al 
“trustee” 
avviene 
a titolo gratuito e 
non determina 
effetti 
traslativi, 
poiché 
non 
ne 
comporta 
l’attribuzione 
definitiva 
allo 
stesso, 
che 
è 
tenuto 
solo ad amministrarlo ed a custodirlo, in regime 
di 
segregazione 
patrimoniale, in vista del 
suo ritrasferimento ai 
beneficiari 
del 
“trust”: detto atto, pertanto, è 
soggetto a tassazione 
in 
misura fissa, sia per 
quanto attiene 
all’imposta di 
registro che 
alle 
imposte 
ipotecaria e 
ca

CONTrIBUTI 
dI 
dOTTrINA 


tastale» 
(Cass. 
n. 
975 
del 
17/01/2018); 
«Poiché 
ai 
fini 
dell’applicazione 
delle 
imposte 
di 
successione, 
registro ed ipotecaria è 
necessario, ai 
sensi 
dell’art. 53 Cost., che 
si 
realizzi 
un trasferimento 
effettivo 
di 
ricchezza 
mediante 
un’attribuzione 
patrimoniale 
stabile 
e 
non 
meramente 
strumentale, nel 
“trust” 
di 
cui 
alla l. n. 364 del 
1989 (di 
ratifica ed esecuzione 
della Convenzione 
dell’Aja 1° 
luglio 1985), detto trasferimento imponibile 
non è 
costituito 
né 
dall’atto 
istitutivo 
del 
“trust”, 
né 
da 
quello 
di 
dotazione 
patrimoniale 
fra 
disponente 
e 
“trustee” 
in quanto gli 
stessi 
sono meramente 
attuativi 
degli 
scopi 
di 
segregazione 
e 
costituzione 
del 
vincolo di 
destinazione, bensì 
soltanto dall’atto di 
eventuale 
attribuzione 
finale 
del 
bene 
al 
beneficiano» 
(Cass. n. 16699 del 
21/06/2019); 
«In tema di 
“trust”, l’imposta sulle 
successioni 
e 
donazioni, prevista dall’art. 2, comma 47, del 
d.l. n. 262 del 
2006 (conv. con 
modif. dalla l. n. 286 del 
2006) anche 
per 
i 
vincoli 
di 
destinazione, è 
dovuta non al 
momento 
della 
costituzione 
dell’atto 
istitutivo 
o 
di 
dotazione 
patrimoniale, 
fiscalmente 
neutri 
in 
quanto 
meramente 
attuativi 
degli 
scopi 
di 
segregazione 
ed apposizione 
del 
vincolo, bensì 
in seguito 
all’eventuale 
trasferimento finale 
del 
bene 
al 
beneficiario, in quanto solo quest’ultimo costituisce 
un 
effettivo 
indice 
di 
ricchezza 
ai 
sensi 
dell’art. 
53 
Cost.» 
(Cass. 
n. 
19167 
del 
17/07/2019). 


8. La 
giurisprudenza 
sopra 
richiamata 
e 
da 
ritenersi 
consolidata, ha 
superato sia 
una 
prima 
interpretazione 
dell’art. 2, comma 
47, l. 286 del 
2006, secondo la 
quale 
la 
novella 
evidenzierebbe 
«la volontà del 
legislatore 
di 
istituire 
una vera e 
propria nuova imposta che 
colpisce 
tout 
court 
degli 
atti 
che 
costituiscono vincoli 
di 
destinazione» (Cass. Sez. 6 -5, Sentenza 
n. 
4482 del 
2016), che 
quella 
successiva, sostenuta 
da 
decisioni 
di 
legittimità 
(Cass. n. 13626 
del 
2018; 
Cass. 
n. 
31445 
del 
2018; 
n. 
31446 
del 
2018; 
n. 
734 
del 
2019) 
che, 
pur 
riconoscendo 
la 
non assoggettabilità 
-tout 
court 
-del 
trust 
alla 
imposta 
di 
donazione, hanno operato dei 
distinguo 
a seconda delle diverse architetture dell’istituto. 
L’orientamento al 
quale 
questa 
Corte 
di 
legittimità 
è 
da 
ultimo pervenuta 
(Cass. n. 1131 
del 
2019 
cit.; 
Cass. 
n. 
19167/2019; 
Cass. 
n. 
16699/2019) 
è, 
invece, 
in 
grado 
di 
dare 
conto 
delle 
diverse 
forme 
di 
trust, apprestando una 
soluzione 
che 
deve 
ritenersi 
estensibile 
a 
tutte 
le 
diverse 
forme 
di 
manifestazione. In ogni 
tipologia 
di 
trust, dunque, l’imposta 
proporzionale 
non andrà 
anticipata 
né 
all’atto istitutivo, né 
a 
quello di 
dotazione, bensì 
riferita 
a 
quello di 
sua attuazione e compimento mediante trasferimento finale del bene al beneficiario. 


Pertanto la 
circostanza 
che 
il 
beneficiario sia 
individuato fin dall’atto istitutivo non giustifica 
l’immediata 
tassazione 
proporzionale, dal 
momento che 
la 
sola 
designazione, per quanto 
contestuale 
e 
palese 
(c.d. trust 
‘trasparente’), non equivale 
in alcun modo a 
trasferimento immediato 
e 
definitivo del 
bene, con quanto ne 
consegue 
in ordine 
all’applicazione 
dei 
già 
richiamati 
principi 
impositivi; 
nell’ipotesi 
del 
trust 
liquidatorio non si 
dubita 
della 
effettività 
del 
trasferimento al 
trustee 
dei 
beni 
da 
liquidare, ma 
ciò non esclude 
che, anche 
in tal 
caso, 
sia 
connaturato al 
trust 
che 
tale 
trasferimento sia 
mero veicolo tanto dell’effetto di 
segregazione 
quanto di 
quello di 
destinazione. Ancora 
una 
volta, dunque, si 
tratterà 
di 
individuare 
e 
tassare 
gli 
atti 
traslativi 
propriamente 
detti 
(che 
sono 
quelli 
di 
liquidazione 
del 
patrimonio 
immobiliare 
di 
cui 
il 
trust 
sia 
stato dotato), non potendo assurgere 
ad espressione 
di 
ricchezza 
imponibile, 
né 
l’assegnazione-dotazione 
di 
taluni 
beni 
alla 
liquidazione 
del 
trustee 
in 
funzione 
solutoria 
e 
nemmeno, in tal 
caso, la 
ripartizione 
del 
ricavato ai 
beneficiari 
a 
dovuta 
soddisfazione 
dei loro crediti. 


Si 
tratta, in conclusione, di 
risoluzione 
che 
può ricondurre 
ad unità 
anche 
quegli 
indirizzi 
che, 
pur 
condivisibilmente 
discostandosi 
dall’originaria 
posizione 
interpretativa 
di 
cui 
in 
Cass. 
nn. 3735, 3737, 3886, 5322 del 
2015 cit., hanno tuttavia 
ritenuto di 
dover mantenere 
dei 
di



rASSeGNA 
AVVOCATUrA 
deLLO 
STATO -N. 4/2020 


stinguo in relazione 
a 
fattispecie 
di 
trust 
reputate 
peculiari 
ed in qualche 
modo divergenti 
dal 
paradigma convenzionale. 


10. Ciò divisato, giova 
osservare 
che, da 
quanto si 
evince 
dalla 
pronuncia 
impugnata, il 
trust 
in 
questione 
è 
un 
trust 
“auto-dichiarato”, 
istituito 
dal 
disponente 
che 
ha 
nominato 
se 
stesso quale trustee; istituendo come beneficiario omissis. 
Quindi, nel 
caso del 
c.d. trust 
auto-dichiarato, connotato dalla 
coincidenza 
di 
disponente 
e 
trustee 
è 
ravvisabile, in mancanza 
di 
un trasferimento patrimoniale 
intersoggettivo con funzione 
di 
dotazione, sia 
la 
volontà 
di 
segregazione, sia 
quella 
di 
destinazione. Anzi, è 
proprio 
la 
mancanza 
di 
quel 
trasferimento patrimoniale 
intersoggettivo a 
rendere, in tal 
caso, ancor 
più evidente 
e 
radicale 
l’incongruenza 
dell’applicazione 
dell’imposta 
proporzionale 
sull’atto 
istitutivo 
e 
su 
quello 
di 
apposizione 
del 
vincolo 
all’interno 
di 
un 
patrimonio 
che 
rimane 
in 
capo 
allo 
stesso 
soggetto 
(applicazione 
già 
esclusa, 
nel 
trust 
autodichiarato, 
da 
Cass. 
n. 
21614/2016 
e 
da 
Cass. 
n. 
22756/2019; 
n. 
22758/2019; 
Cass. 
n. 
16699/2019; 
Cass 
n. 
19167/2019; Cass. n. 30821/2019; Cass. n. 30816/2019). 


In definitiva, deve 
qui 
affermarsi 
che: 
-la 
costituzione 
del 
vincolo di 
destinazione 
di 
cui 
all’art. 2, comma 
47, d.l. n. 262 del 
2006, conv. in l. n. 286 del 
2006, non integra 
autonomo e 
sufficiente 
presupposto di 
una 
nuova 
imposta, in aggiunta 
a 
quella 
di 
successione 
e 
di 
donazione; 
un trasferimento imponibile 
non è 
riscontrabile, né 
nell’atto istitutivo, né 
nell’atto di 
dotazione 
patrimoniale 
tra 
disponente 
e 
trustee 
-in 
quanto 
meramente 
strumentali 
ed 
attuativi 
degli 
scopi 
di 
segregazione 
e 
di 
apposizione 
del 
vincolo 
di 
destinazione 
-ma 
soltanto 
in 
quello 
di 
eventuale 
attribuzione 
finale 
del 
bene 
al 
beneficiario, 
a 
compimento 
e 
realizzazione 
del 
trust medesimo. 


8. In conclusione, il ricorso non merita accoglimento. 
Le 
spese 
del 
giudizio di 
legittimità 
vanno integralmente 
compensate 
tra 
le 
parti, avuto riguardo 
alle 
obiettive 
incertezze 
indotte 
dal 
quadro normativo di 
riferimento, alle 
antinomie 
ed oscillazioni, emerse 
negli 
orientamenti 
della 
giurisprudenza 
di 
legittimità 
che 
giustificano 
la compensazione delle spese del presente giudizio. 


rilevato che 
risulta 
soccombente 
una 
parte 
ammessa 
alla 
prenotazione 
a 
debito del 
contributo 
unificato, 
per 
essere 
amministrazione 
pubblica 
difesa 
dall’Avvocatura 
Generale 
dello 
Stato, non trova applicazione il citato art. 13. 


P.Q.M. 


rigetta il ricorso e compensa le spese del presente giudizio. 


Così 
deciso 
il 
3.11.2020, 
nell’adunanza 
camerale 
tenutasi 
da 
remoto 
della 
sezione 
tributaria 


della Corte di cassazione. 



CONTrIBUTI 
dI 
dOTTrINA 


La successione dello Stato 


Fabiana D’Avino* 


SoMMARIo: 1. Ratio e 
presupposti 
del 
fenomeno -1.1 Mancanza di 
successibili. La non 
notorietà 
del 
chiamato 
rientra 
nei 
presupposti 
della 
successione 
dello 
Stato? 
-1.2 
Eredità 
lasciata da un cittadino italiano all’estero ovvero da un cittadino straniero in Italia. Criterio 
per 
l’individuazione 
della legge 
applicabile 
alla successione: residenza del 
defunto, regolamento 
UE 
n. 650/2012 -2. Excursus 
storico, disciplina e 
natura del 
fenomeno -3. Qualificazione 
della posizione giuridica dello Stato. 

1. Ratio e presupposti del fenomeno. 
La 
successione 
dello 
Stato 
è 
disciplinata 
dall’art. 
586 
c.c., 
ai 
sensi 
del 
quale 
“in mancanza di 
altri 
successibili, l’eredità è 
devoluta allo Stato. L’acquisto 
si 
opera di 
diritto senza bisogno di 
accettazione 
e 
non può farsi 
luogo 
a 
rinunzia. 
Lo 
Stato 
non 
risponde 
dei 
debiti 
ereditari 
e 
dei 
legati 
oltre 
il 
valore 
dei beni acquistati”. 


Ai 
fini 
del 
preliminare 
inquadramento 
della 
fattispecie, 
in 
primis 
è 
opportuno 
circoscrivere 
l’operatività 
del 
fenomeno nell’ambito della 
disciplina 
della 
successione 
legittima 
di 
cui 
al 
titolo II del 
libro II del 
codice 
civile 
(artt. 
565 e 
ss.), escludendo quindi 
quella 
testamentaria, prevista 
nel 
titolo immediatamente 
successivo dello stesso libro, agli artt. 587 e ss. 

Muovendo dall’assunto dell’art. 457 comma 
1 c.c. per cui 
“l’eredità si 
devolve 
per 
legge 
o per 
testamento”, si 
desume 
a contrario 
che 
tali 
due 
categorie 
del 
sistema 
successorio 
ereditario 
si 
differenziano 
in 
ordine 
alla 
modalità 
di 
assegnazione 
dell’eredità: 
rispettivamente, designazione 
ope 
legis 
a 
favore 
di 
determinate 
categorie 
di 
individui 
versus 
designazione 
per precisa 
volontà 
testamentaria del 
de cuius. 


Lo 
Stato, 
in 
quanto 
persona 
giuridica 
dotata 
di 
soggettività 
e 
personalità 
(rectius 
in 
quanto 
soggetto 
di 
diritto 
titolare 
di 
situazioni 
giuridiche 
soggettive 
che 
gode 
di 
autonomia 
patrimoniale 
perfetta), 
è 
capace 
di 
ricevere 
per 
testamento 
e, 
al 
verificarsi 
di 
questa 
ipotesi, 
il 
fenomeno 
rientra 
a 
pieno 
titolo 
nella 
disciplina 
della 
successione 
testamentaria, 
con 
tutti 
i 
limiti 
che 
le 
appartengono. 


Ne 
dipende 
l’applicazione 
di 
tre 
principi. In primo luogo, il 
principio di 
certezza 
della 
volontà 
testamentaria 
di 
cui 
all’art. 
628 
c.c., 
che 
afferma 
che 
“è 
nulla ogni 
disposizione 
fatta a favore 
di 
persona che 
sia indicata in modo da 
non essere 
determinata” 
in applicazione 
della 
regola 
generale 
dell’art. 1346 


c.c. ai 
sensi 
del 
quale 
“l’oggetto del 
contratto deve 
essere 
… 
determinato o 
determinabile”. Segue 
il 
principio di 
personalità 
della 
volontà 
testamentaria 
(*) 
dottoressa 
in 
Giurisprudenza, 
ammessa 
alla 
pratica 
forense 
presso 
l’Avvocatura 
generale 
dello 
Stato 
(avv. St. Amedeo elefante). 


rASSeGNA 
AVVOCATUrA 
deLLO 
STATO -N. 4/2020 


sancito 
dall’art. 
631 
comma 
1 
c.c. 
per 
cui 
“è 
nulla 
ogni 
disposizione 
testamentaria 
con la quale 
si 
fa dipendere 
dall’arbitrio di 
un terzo l’indicazione 
dell’erede 
o del 
legatario, ovvero la determinazione 
della quota di 
eredità”. 
Infine, vige 
altresì 
il 
principio della 
libertà 
testamentaria, in merito al 
quale 
l’ereditando può discrezionalmente 
decidere 
dei 
propri 
beni, arginato dalla 
riserva 
di 
una 
quota 
indisponibile, la 
cosiddetta 
quota 
di 
legittima, imposta 
dal 
legislatore 
in 
favore 
degli 
stretti 
congiunti 
(figli, 
coniugi 
e, 
quando 
non 
vi 
siano figli, ascendenti). 


A 
ben vedere 
però, per quanto lo Stato possa 
essere 
designato in qualità 
di 
erede 
per 
precisa 
volontà 
testamentaria 
del 
de 
cuius 
integrando 
così 
gli 
estremi 
del 
fenomeno 
della 
successione 
testamentaria, 
l’ipotesi 
sottesa 
alla 
previsione 
dell’art. 
586 
c.c., 
non 
è 
ascrivibile 
a 
detta 
categoria, 
ma 
vede 
lo 
Stato 
annoverato 
dal 
legislatore 
nella 
categoria 
dei 
successibili 
ex 
lege 
insieme 
al 
coniuge, 
ai 
discendenti, 
agli 
ascendenti, 
ai 
collaterali 
e 
agli 
altri 
parenti 
entro 
il sesto grado, come elencati dall’art. 565 c.c. 


La 
fattispecie 
de 
qua 
rispetto 
alla 
successione 
legittima 
si 
pone 
in 
un 
rapporto 
di 
species 
a 
genus, pertanto in quest’ottica 
di 
comparazione 
se 
ne 
possono 
evidenziare 
ratio 
e presupposti. 

In merito al 
fondamento 
della 
categoria 
in analisi, la 
dottrina 
è 
divisa 
tra 
chi 
ne 
rinviene 
uno unico (1) in tutte 
le 
ipotesi 
e 
chi 
invece 
distingue 
(2) a 
seconda 
delle categorie di successibili. 


Per i 
primi, il 
fenomeno successorio risponde 
sempre 
alla 
stessa 
finalità 
di 
interesse 
generale 
di 
garantire 
la 
titolarità 
del 
patrimonio (3), il 
che 
comporta, 
come 
extrema 
ratio 
e 
in 
mancanza 
di 
familiari 
e 
parenti 
nei 
gradi 
ritenuti 
idonei 
dalla 
legge, 
la 
chiamata 
dello 
Stato 
in 
quanto 
ente 
rappresentativo 
della 
collettività. 
L’unico 
distinguo 
in 
quest’ultimo 
caso, 
è 
il 
carattere 
residuale 
della 
vocazione. 


Ad avviso dei 
secondi 
invece, la 
successione 
dei 
componenti 
della 
famiglia 
risponde 
alla 
presunta 
volontà 
del 
de 
cuius 
e 
all’intensità 
del 
vincolo tra 
i 
congiunti 
e 
il 
defunto, 
mentre 
quella 
dello 
Stato 
prescinde 
da 
una 
ratio 
di 
solidarietà 
familiare 
e 
ha 
la 
funzione 
di 
garantire 
la 
conservazione 
dei 
beni 
assicurando 
la 
continuità 
dei 
rapporti 
giuridici 
e 
la 
valorizzazione 
dell’utilità 
economica dei beni. 


Quale 
delle 
due 
si 
condivida, 
è 
intuitivo 
che 
la 
scelta 
di 
configurare 
lo 
Stato 
quale 
successore 
di 
ultima 
istanza 
si 
spiega 
in 
considerazione 
della 
presunta 
as


(1) TAMBUrrINO 
G., Successione legittima (Dir. Priv.), Enciclopedia del Diritto, xLIII, 1990. 
(2) MeNGONI 
L., Delle 
successioni 
legittime, Libro secondo (Artt. 565-586), in Comm. SCIALOjA 
e 
BrANCA, 
Bologna-roma, 
1985, 
17 
ss.; 
TOrreNTe 
A. 
-SCHLeSINGer 
P., 
Manuale 
di 
diritto 
privato, 
Milano, 
2019, xxIV ed., p. 1346. 
(3) Così 
TAMBUrrINO 
G.: 
“onde 
in primis 
la concessione 
all'autonomia privata di 
indicare 
a chi 
si 
vuole 
che 
il 
proprio 
patrimonio 
si 
trasmetta 
e 
secondariamente, 
quando 
l'autonomia 
privata 
non 
funzioni, 
è la legge che determina i successibili”. 

CONTrIBUTI 
dI 
dOTTrINA 


senza 
di 
un 
vincolo 
familiare 
per 
i 
parenti 
oltre 
il 
sesto 
grado 
(fino 
al 
regio 
decreto 
n. 
1686/1916 
il 
grado 
dei 
successibili 
si 
estendeva 
fino 
al 
decimo). 


rispetto ai 
presupposti, la 
regola 
perché 
possa 
aversi 
successione 
legittima, 
è 
la 
necessaria 
concorrenza 
di 
tre 
condizioni 
(4): 
a) l’apertura 
della 
successione, 
che 
avviene 
nel 
momento della 
morte 
naturale: 
la 
morte 
è 
l’effetto 
causale 
della 
successione, fino a 
quel 
momento non c’è 
alcun tipo di 
aspettativa 
giuridicamente 
tutelata, 
b) 
il 
titolo 
a 
succedere, 
quindi 
l’appartenenza 
alla 
categoria 
di 
successibili 
individuati 
dalla 
legge 
e 
c) la 
mancanza, totale 
o parziale, 
della 
successione 
testamentaria, per tale 
intendendosi: 
l’inesistenza 
di 
un testamento, l’esistenza 
di 
un testamento contenente 
solo disposizioni 
a 
titolo 
particolare, l’esistenza 
di 
un testamento contenente 
disposizioni 
a 
titolo 
universale 
che 
non coprano tutto l’asse 
ereditario, un testamento revocato, un 
testamento 
nullo 
o 
annullato, 
un 
testamento 
inefficace 
per 
deficienza 
della 
condizione 
sospensiva 
o 
avveramento 
della 
condizione 
risolutiva, 
la 
risoluzione 
della 
disposizione 
testamentaria 
provocata 
dall’inadempimento 
del-
l’onere, 
la 
mancanza 
di 
accettazione 
dell’eredità 
(rinuncia 
prescrizione 
decadenza) 
senza 
che 
si 
faccia 
luogo 
a 
sostituzione, 
la 
rappresentazione 
o 
l’accrescimento, 
la 
pronunzia 
dell’indegnità 
dell’erede, i 
nascituri 
che 
non vengano 
ad esistenza (5). 


Oltre 
a 
queste 
tre 
condizioni, il 
quid pluris 
perché 
possa 
aversi 
la 
devoluzione 
del 
patrimonio ereditario secondo successione 
(legittima) dello Stato 
è 
consacrato dal 
legislatore 
nell’espressione 
negativa 
di 
apertura 
della 
disposizione 
“la mancanza di 
altri 
successibili” 
ed è 
altresì 
sottinteso nel 
rapporto 
di 
cittadinanza 
tra 
il 
de 
cuius 
e 
lo Stato italiano, ovvero, trattandosi 
di 
defunto 
apolide, nella sua residenza nello stesso. 

Tralasciando il 
rapporto tra 
successione 
testamentaria 
e 
legittima, si 
precisa 
che 
anche 
qualora 
il 
de 
cuius 
abbia 
disposto 
di 
solo 
una 
parte 
dei 
suoi 
beni, è ben possibile che lo Stato succeda per la restante parte. 

1.1 Mancanza di 
successibili. La non notorietà del 
chiamato rientra nei 
presupposti 
della successione dello Stato? 
Con la 
dicitura 
del 
primo presupposto negativo espresso 
“mancanza di 
altri 
successibili”, si 
intende 
il 
caso in cui 
manchino altri 
successibili 
testamentari 
o 
successibili 
legittimi 
(coniuge 
e 
parenti 
entro 
il 
sesto 
grado), 
ovvero 
siano indegni 
(artt. 463 e 
ss.), ovvero il 
testamento sia 
invalido, ovvero non 
accettino 
nel 
termine 
(art. 
480 
c.c.), 
ovvero 
rinunzino 
all'eredità 
(art. 
519 
c.c.). 

La 
prima 
ipotesi, alla 
quale 
è 
parificato il 
caso in cui 
gli 
eredi 
non siano 
noti 
(infra), integra 
gli 
estremi 
di 
una 
delazione 
immediata. Nei 
restanti 
casi, 
lo Stato viene alla successione in base ad una delazione successiva (6). 


(4) TAMBUrrINO 
G., op. cit., passim. 
(5) CAPOZZI 
G., Successioni e Donazioni, I, IV ed., Milano, 2015, pp. 605-606. 

rASSeGNA 
AVVOCATUrA 
deLLO 
STATO -N. 4/2020 


Chiarito come 
vada 
interpretata 
la 
locuzione 
“mancanza di 
altri 
successibili”, 
è 
discusso 
se 
possa 
sottintendersi 
nella 
dizione 
anche 
l’ipotesi 
della 
non notorietà del chiamato, non desumile dal dato letterale. 


Sotto 
il 
vigore 
dell’abrogato 
codice 
civile 
Pisanelli 
del 
1865, 
l’allora 
art. 
980 
prevedeva 
espressamente 
che 
questa 
ipotesi 
costituisse 
condizione 
per 
l’operatività 
dell’istituto 
dell’eredità 
giacente, 
preposto 
allo 
scopo 
di 
assicurare 
la 
conservazione 
del 
patrimonio, 
nei 
casi 
in 
cui 
il 
chiamato 
non 
vi 
provveda 
(7). 


Ne 
dipendeva, dunque, il 
ricorso ad un sistema 
di 
amministrazione 
e 
gestione 
dei 
beni 
del 
de 
cuius, 
affidato ad un curatore 
nominato giudizialmente 
d’ufficio o su istanza degli interessati (chiamati, legatari, creditori, etc.). 

Medio 
tempore, 
e 
fino 
all’accertamento 
dell’insussistenza 
dei 
successibili, 
era quindi preclusa la successione dello Stato (8). 


L’attuale 
disciplina 
della 
giacenza, 
come 
formulata 
dell’art. 
528 
introdotto 
nel 
1942, prevede 
che 
si 
configuri 
tale 
istituto al 
ricorrere 
di 
tre 
condizioni: 
a) 
la 
mancata 
accettazione 
dell’eredità 
dal 
chiamato, b) il 
mancato possesso dei 
beni 
ereditari 
da 
parte 
dello stesso e 
c) la 
nomina 
del 
curatore 
con decreto del 
Tribunale del circondario in cui si è aperta la successione. 

dal 
dettato codicistico si 
evince, l’omissione 
di 
qualsiasi 
riferimento all’ipotesi 
della 
non notorietà: 
quindi, deve 
ritenersi 
parificata 
(rectius 
sottesa) 
a 
quelle 
espressamente 
elencate 
dall’art. 
528 
c.c.? 
O 
deve 
rientrare 
nella 
“mancanza 
di successibili” 
di cui all’art. 586 c.c.? 


detto altrimenti, qualora 
si 
ignori 
se 
vi 
siano chiamati 
all’eredità, si 
ritengono 
sussistenti 
gli 
estremi 
della 
giacenza 
o 
segue 
l’immediata 
devoluzione 
allo Stato? 


Il 
risvolto pratico dell’interrogativo sta, evidentemente, nella 
individuazione 
del soggetto deputato all’amministrazione e alla gestione dell’eredità. 


La 
risposta 
non è 
pacifica, la 
dottrina 
oscilla 
tra 
le 
due 
soluzioni 
opposte 
ed una terza intermedia. 


La 
prima 
tesi 
(9) 
sostiene 
la 
necessità 
della 
fase 
dell’eredità 
giacente 
e 
argomenta 
dalla 
relazione 
al 
re 
n. 255, dalla 
quale 
risulta 
che 
nel 
corso dei 
lavori 
preparatori 
al 
nuovo 
codice, 
la 
questione 
della 
non 
notorietà, 
pur 
affrontata, 
si 
ritenne 
superflua 
da 
disciplinare 
in modo espresso poiché 
“è 
evidente 
che 
essa è 
già compresa in quella del 
chiamato che 
non accetti 
e 
non si 
trovi nel possesso dei beni”. 


(6) VASSALLI 
M.N., La successione 
dello Stato, in Successioni 
e 
donazioni, a 
cura 
di 
P. reSCIGNO, 
Padova, 1994, pp. 685 e ss. 
(7) dI 
LOreNZO 
G., L’eredità giacente, in Tratt. dir. successioni 
e 
donazioni, I, 
La successione 
ereditaria, Milano, 2009, p. 1177. 
(8) 
Così 
ricostruito 
da 
SPOTTI 
F., 
Il 
problema 
della 
giacenza 
dell’eredità 
nel 
caso 
in 
cui 
i 
chiamati 
siano ignoti, in Famiglia, Persone e Successioni, 2009, pp. 981-982. 
(9) AZZArITI 
G., Successioni 
dei 
legittimari 
e 
successioni 
dei 
legittimi, in Giust. sist. Bigiavi, Torino, 
1989, 2 ed., pp. 379 e ss. 

CONTrIBUTI 
dI 
dOTTrINA 


In 
particolare, 
afferma 
che 
detta 
fase 
transitoria 
serve 
a 
scopo 
di 
indagine, 
al 
fine 
di 
effettuare 
accertamenti 
circa 
l’esistenza 
di 
parenti 
entro 
il 
sesto 
grado 
ed, 
eventualmente, 
al 
fine 
di 
verificare 
la 
mancanza 
di 
successibili 
che 
sarà 
oggetto di 
declaratoria 
ope 
iudicis 
su istanza 
del 
curatore. La 
garanzia 
giudiziaria 
è 
necessaria 
ed ha 
luogo nella 
misura 
in cui 
l’indagine 
non potrebbe 
essere 
demandata al mero diretto interessato (Stato). 


In 
posizione 
intermedia, 
tra 
quest’ultimo 
e 
l’orientamento 
opposto, 
un 
secondo filone (10) sostiene la tesi della giacenza ponte. 


In 
quest’ottica, 
la 
non 
notorietà 
del 
chiamato 
rientra 
della 
“mancanza 
di 
successibili” 
ex 
art. 
586 
c.c., 
ma 
non 
osta 
alla 
nomina 
di 
un 
curatore 
ex 
art. 
528 
c.c. 


Precisamente, 
tale 
ultimo 
assolve 
al 
compito 
di 
liquidare 
le 
passività 
e 
una 
volta 
espletato, 
ha 
luogo 
la 
fine 
della 
giacenza. 
Il 
che 
costituisce 
una 
deroga 
alla 
disciplina 
regolare 
della 
curatela, 
che 
cessa 
ope 
legis 
con 
l’acquisto 
dell’eredità. 


La 
terza 
ed 
ultima 
tesi 
(11), 
attenendosi 
al 
dato 
letterale, 
deduce 
che 
l’art. 
528 c.c., per ritenere 
integrati 
gli 
estremi 
dell’istituto della 
giacenza, postula 
espressamente 
la 
presenza 
di 
un chiamato, e 
precisamente 
di 
un chiamato che 
non abbia 
accettato o che 
non sia 
nel 
possesso dei 
beni, ma 
che 
pur sempre 
sia 
già 
individuato. Il 
che 
nulla 
ha 
a 
che 
vedere 
con la 
situazione 
di 
incertezza 
propria 
dell’ipotesi 
discussa: 
se 
il 
chiamato non è 
noto, allora 
non può esserci 
mancata accettazione né mancato possesso dei beni. 


Non può farsi 
rientrare 
nei 
presupposti 
di 
cui 
all’art. 528, la 
condizione 
in 
cui 
un 
chiamato 
non 
vi 
sia, 
proprio 
in 
quanto 
ignoto. 
Il 
che, 
piuttosto, 
rientra 
esattamente 
nella 
“mancanza 
di 
successibili” 
che 
determina 
l’acquisto 
del-
l’eredità da parte dello Stato ipso iure. 


A 
fortiori 
in tal 
senso depone 
l’analisi 
della 
ratio 
dell’istituto della 
giacenza 
(12), che 
nel 
caso di 
non notorietà, non ha 
ragion d’essere: 
serve 
a 
garantire 
l’amministrazione 
e 
la 
gestione 
dei 
beni 
nelle 
more 
dell’acquisto 
dell’eredità, 
ma 
visto 
che 
lo 
Stato 
è 
per 
definizione 
erede 
noto 
e 
visto 
che 
succede 
senza 
bisogno di 
accettazione, allora 
non può configurarsi 
un’ipotesi 
di 
mancata 
accettazione 
e 
non può rispondere 
a 
nessuna 
esigenza 
la 
nomina 
giudiziale 
di un curatore. 

Tutto 
quanto 
sostenuto, 
non 
osta 
alla 
possibilità 
che 
entro 
la 
scadenza 
del 
termine 
di 
prescrizione 
del 
diritto 
di 
accettazione 
dell’eredità, 
si 
rinvenga 
l’esistenza 
di 
altri 
successibili 
o anche 
di 
un testamento. In tal 
caso, la 
delazione 
a 
favore dello Stato decade con efficacia retroattiva. 


(10) CICU 
A., Successioni 
per 
causa di 
morte. Parte 
generale. Delazione 
e 
acquisto dell’eredità, 
in Tratt. 
CICU 
-MeSSINeO, Milano, 1954, pp. 139 e 
ss.; 
FerrI 
L., Successioni 
in generale. Dell’eredità 
giacente. Artt. 528-532, in Comm. 
SCIALOjA 
e BrANCA, Bologna - roma, 1970, pp. 190 e ss. 
(11) MeNGONI 
L., Le 
Successioni, in Riv. trim. dir. e 
proc. civ., 1987, pp. 1077 e 
ss.; 
Id., Delle 
successioni legittime, cit., p. 126; 
TrIMArCHI 
V.M., L’eredità giacente, Milano, 1954, p. 30, nt. 36. 
(12) SPOTTI 
F., Il 
problema della giacenza dell’eredità nel 
caso in cui 
i 
chiamati 
siano ignoti, cit., 
p. 983. 

rASSeGNA 
AVVOCATUrA 
deLLO 
STATO -N. 4/2020 


Ulteriore 
argomento a 
sostegno della 
conclusione 
nel 
senso della 
successione 
Stato, 
è 
la 
corretta 
lettura 
dell’art. 
70 
c.c., 
in 
tema 
di 
chiamata 
di 
persona 
della 
quale 
si 
ignori 
l’esistenza, che 
prevede 
la 
devoluzione 
ai 
chiamati 
ulteriori, 
anche 
provvisoria, 
in 
quanto 
sottoposta 
a 
condizione 
risolutiva. 
Il 
che 
ne comporta l’esclusione dall’ambito di applicazione del fenomeno de qua. 


A 
ben 
vedere 
infatti, 
prescindendo 
dalle 
dispute 
che 
attribuiscono 
alla 
disposizione 
di 
cui 
sopra 
valore 
processuale 
o sostanziale, ogni 
suo impiego ai 
fini 
del 
sostegno alle 
tesi 
contrarie 
all’applicazione 
dell’art. 586 c.c., è 
strumentale 
e 
infondato: 
l’art. 
70 
c.c. 
presuppone 
l’ipotesi 
di 
chiamato 
scomparso 


o 
assente, 
vale 
a 
dire 
di 
un 
chiamato 
noto 
di 
cui 
si 
ignora 
l’esistenza 
(13). 
Altra 
è l’ipotesi in cui si ignori se un chiamato esista o sia mai esistito (14). 
1.2 Eredità lasciata da un cittadino italiano all’estero ovvero da un cittadino 
straniero in Italia. Criterio per 
l’individuazione 
della legge 
applicabile 
alla 
successione: residenza del defunto, regolamento UE n. 650/2012. 
Al 
primo 
presupposto 
positivo 
espresso 
della 
“mancanza 
di 
successibili” 
se 
ne 
aggiunge 
un 
secondo 
positivo 
inespresso, 
ovvero 
il 
rapporto 
di 
residenza 
del defunto con lo Stato. 

Per 
quest’ultimo 
fungono 
da 
spartiacque 
prima 
la 
riforma 
del 
sistema 
italiano 
di 
diritto internazionale 
privato di 
cui 
alla 
L. 218/1995 che 
al 
capo VII 
disciplina 
le 
successioni 
(artt. 
46-50) 
e 
poi 
l’intervento 
del 
legislatore 
unionale 
con 
regolamento 
n. 
650/2012 
del 
4 
luglio 
“relativo 
alla 
competenza, 
alla 
legge 
applicabile, 
al 
riconoscimento 
e 
all’esecuzione 
delle 
decisioni 
e 
all’accettazione 
e 
all’esecuzione 
degli 
atti 
pubblici 
in materia 
di 
successioni 
e 
alla 
creazione 
di un certificato successorio europeo”. 


La 
questione 
oggetto 
dell’excursus 
normativo 
è 
volta 
concretamente 
a 
dirimere 
le 
problematiche 
legate 
ai 
casi 
di 
eredità 
lasciata 
da 
uno 
straniero 
in 
Italia 
ovvero da 
un cittadino italiano all’estero (15), individuando la 
legge 
applicabile 
ad una successione, rectius 
i criteri da impiegare a tale fine. 


La 
conseguenza 
applicativa 
dell’indagine 
si 
riscontra 
nella 
qualificazione 
giuridica 
della 
posizione 
dello 
Stato 
in 
relazione 
all’eredità 
e 
precisamente 
nel 
rapporto di 
diritto privato successorio versus 
di 
diritto pubblico per sovranità, 
in quanto manifestazione della potestà d’imperio (infra 
§ 3). 

Il 
quadro normativo precedente 
all’intervento della 
riforma 
del 
sistema 
italiano 
di 
diritto 
internazionale 
privato 
si 
risolveva 
nell’art. 
23 
delle 
preleggi, 
ai 
sensi 
del 
quale 
“le 
successioni 
per 
causa di 
morte 
sono regolate, ovunque 
siano i 
beni, dalla legge 
dello Stato al 
quale 
apparteneva, al 
momento della 
morte, la persona della cui eredità si tratta”. 

(13) TrIMArCHI 
V.M., op. cit., p. 31; 
AZZArITI 
G., op. cit., p. 385. 
(14) SPOTTI 
F., op. cit., p. 984. 
(15) VASSALLI 
M.N., op. cit., pp. 690 e ss. 

CONTrIBUTI 
dI 
dOTTrINA 


dunque, 
vigeva 
un 
criterio 
di 
collegamento 
oggettivo 
rimandando 
alla 
legge nazionale del defunto (16). 

Assumendo che 
la 
legge 
italiana 
qualifica 
la 
successione 
dello Stato iure 
privatorum 
(infra 
§ 3), la 
problematica 
sorgeva 
quando la 
legge 
nazionale 
del 
defunto la qualificava 
iure imperii. 


A 
ben 
vedere, 
nel 
caso 
di 
cittadino 
straniero 
che 
avesse 
lasciato 
la 
propria 
eredità 
in Italia, se 
lo Stato estero rivendicava 
la 
propria 
eredità 
iure 
imperii, 
questa 
norma 
non poteva 
fare 
ingresso nel 
sistema 
interno italiano, poiché 
ai 
sensi 
dell’art. 31 delle 
disposizioni 
preliminari 
vige 
il 
divieto di 
applicazione 
del 
diritto 
straniero 
se 
incompatibile 
con 
l’ordinamento 
pubblico. 
Quindi 
si 
ricorreva 
al 
criterio della 
lex 
loci 
di 
cui 
all’art. 22 delle 
stesse 
preleggi 
e 
nel 
rispetto della 
legge 
del 
luogo nel 
quale 
si 
trovano le 
cose, succedeva 
lo Stato 
italiano. 
Per 
alcuni 
(17) 
succedeva 
ai 
sensi 
dell’art. 
586 
c.c. 
e 
per 
altri 
(18) 
non 
potendosi 
applicare 
l’art. 
586 
c.c. 
perché 
nel 
caso 
di 
defunto 
straniero 
mancava 
il 
rapporto di 
cittadinanza 
con lo Stato, questo succedeva 
per occupazione 
ex 
art. 827 c.c. nei beni immobili e 
ex 
art. 923 c.c. nei beni mobili. 


Con 
la 
L. 
218/1995, 
il 
legislatore 
ha 
parzialmente 
risolto 
l’empasse 
dando 
un riconoscimento positivo a quest’ultima soluzione. 

dapprima 
ha 
ribadito all’art. 46 il 
criterio della 
nazionalità 
del 
testatore, 
con clausola 
di 
salvezza 
nel 
caso in cui 
il 
de 
cuius 
avesse 
scelto con dichiarazione 
testamentaria 
la 
legge 
dello Stato di 
residenza. A 
ben vedere, infatti, si 
prevede 
che 
“la successione 
per 
causa di 
morte 
è 
regolata dalla legge 
nazionale 
del 
soggetto della cui 
eredità si 
tratta, al 
momento della morte” 
sebbene 
“il 
soggetto 
della 
cui 
eredità 
si 
tratta 
può 
sottoporre, 
con 
dichiarazione 
espressa in forma testamentaria, l'intera successione 
alla legge 
dello Stato in 
cui risiede 
[…]”. 


In 
secondo 
luogo, 
ha 
esplicitamente 
disciplinato 
il 
caso 
dell’eredità 
lasciata 
in 
Italia 
da 
un 
cittadino 
straniero 
il 
cui 
Stato 
estero 
qualifica 
la 
successione 
dello 
Stato 
iure 
imperii 
all’art. 
49, 
specificando 
che 
“quando 
la 
legge 
applicabile 
alla 
successione, 
in 
mancanza 
di 
successibili, 
non 
attribuisce 
la 
successione 
allo 
Stato, 
i 
beni 
ereditari 
esistenti 
in 
Italia 
sono 
devoluti 
allo 
Stato 
italiano”. 


È 
equiparato 
il 
caso 
di 
cittadino 
italiano 
che 
lasci 
i 
beni 
in 
uno 
Stato 
estero: 
lo Stato italiano subentra 
al 
de 
cuius 
solo se 
la 
legge 
dello Stato in cui 
si trova l’eredità qualifica la successione 
iure hereditario. 

Ne 
dipende 
quindi 
la 
soluzione 
all’ipotesi 
di 
conflitto negativo, ovvero 
all’ipotesi 
in cui 
nessuno Stato, né 
straniero né 
italiano, avrebbe 
titolo ad entrare 
nel possesso dei beni. 


(16) ONdeI 
e., Per 
un ampio diritto di 
successione 
dello Stato sui 
beni 
privati, in Riv. dir. civ., 
1963, I, pp. 324 e ss. 
(17) Sotto il 
vigore 
del 
codice 
abrogato: 
ZANZUCCHI 
M.T., Successioni 
legittime, Milano, 1929, 
p. 211. 
(18) MeNGONI 
L., Delle successioni legittime, cit., pp. 210 e 231. 

rASSeGNA 
AVVOCATUrA 
deLLO 
STATO -N. 4/2020 


A 
partire 
dall’entrata 
in vigore 
del 
regolamento eU 
n. 650/2012, per natura 
self 
executing 
e 
quindi 
efficace 
a 
prescindere 
da 
atti 
nazionali 
di 
recepimento, 
l’art. 21 comma 
1, sovvertendo la 
precedente 
gerarchia, risolve 
anche 
l’ipotesi 
di 
conflitto positivo, quindi 
l’ipotesi 
in cui 
sia 
lo Stato straniero sia 
quello 
italiano 
avanzino 
pretese 
sull’eredità 
senza 
successibili, 
prevedendo 
che 
“… 
la legge 
applicabile 
all’intera successione 
è 
quella dello Stato in cui 
il 
defunto 
aveva 
la 
propria 
residenza 
abituale 
al 
momento 
della 
morte”. 
Il 
comma 
2 dello stesso articolo ammette 
una 
clausola 
di 
salvezza 
per il 
caso in 
cui 
“il 
defunto aveva collegamenti 
manifestamente 
più stretti 
con uno Stato 
diverso da quello la cui 
legge 
sarebbe 
applicabile 
ai 
sensi 
del 
paragrafo 1”, 
riconoscendo applicabile alla successione la legge di tale altro Stato. 

resta poi valida la facoltà di scelta della legge da parte del testatore. 


2. Excursus storico, disciplina e natura del fenomeno. 
Una 
delle 
questioni 
più 
discusse 
della 
fattispecie 
disciplinata 
dall’art. 
586 
c.c., 
riguarda 
la 
effettiva 
natura 
del 
fenomeno: 
è 
da 
ricondursi 
nell’ambito 
degli acquisti a titolo originario o a titolo derivativo? 


Si impone una premessa sull’inquadramento dogmatico del tema. 


L’acquisto è 
la 
vicenda 
iniziale 
del 
rapporto giuridico: 
questo si 
costituisce 
“quando il 
soggetto attivo acquista il 
diritto soggettivo” 
(19). In particolare, 
è 
il 
fenomeno 
avente 
ad 
oggetto 
il 
collegamento 
tra 
un 
diritto 
e 
la 
persona 
che ne diventa titolare. 

Nell’acquisto a 
titolo originario, tale 
diritto sorge 
ex 
novo; 
in quello a 
titolo 
derivativo, si trasmette. 

detto 
altrimenti, 
nel 
secondo 
caso 
si 
verifica 
una 
successione: 
il 
passaggio 
di 
un 
diritto 
dal 
patrimonio 
giuridico 
di 
un 
soggetto 
a 
quello 
di 
un 
altro, 
il 
che, 
in 
prospettiva 
opposta, 
si 
risolve 
nel 
mutamento 
del 
titolare 
di 
un 
diritto 
soggettivo. 


La 
successione 
è 
suscettibile 
di 
classificazioni 
alla 
stregua 
di 
vari 
criteri: 
può riguardare 
il 
lato attivo o quello passivo; 
può essere 
a 
titolo universale, se 
investe 
la 
totalità 
dei 
rapporti 
facenti 
capo ad un soggetto, nella 
componente 
attiva 
e 
in quella 
passiva, oppure 
a 
titolo particolare, se 
concerne 
solo alcuni 
di essi, determinati. 

Le 
modalità 
più 
frequenti 
con 
le 
quali 
si 
verifica 
una 
successione, 
e 
quindi 
ha 
luogo 
un 
acquisto 
a 
titolo 
derivativo, 
sono 
il 
contratto 
e 
la 
successione 
mortis 
causa. 

rispetto ai 
modi 
d’acquisto a 
titolo originario, invece, nell’elencazione 
rientrano: 
l’occupazione, 
l’invenzione, 
l’accessione, 
l’usucapione 
e 
il 
possesso 
in buona fede dei beni immobili. 

Ai 
fini 
dell’analisi 
della 
fattispecie 
di 
cui 
all’art 
586 
c.c., 
è 
sufficiente 
soffermarsi 
solo sull’occupazione. 


(19) TOrreNTe 
A. - SCHLeSINGer 
P., op. cit., p. 84. 

CONTrIBUTI 
dI 
dOTTrINA 


Ex 
art. 
923 
c.c., 
“Le 
cose 
mobili 
che 
non 
sono 
in 
proprietà 
di 
alcuno 
si 
acquistano 
con 
l’occupazione. 
Tali 
sono 
le 
cose 
abbandonate 
[…]”. 
Se 
ne 
deduce 
che 
l’occupazione 
consiste 
“nella 
presa 
di 
possesso 
con 
l’intenzione 
di 
acquisirle” 
(20) 
di 
res 
nullius 
e 
res 
derelictae, 
dunque 
ha 
ad 
oggetto 
solo 
cose 
mobili. 


Per i 
beni 
immobili, invece, l’art. 827 c.c. dispone 
che 
“se 
non sono di 
proprietà di alcuno, spettano al patrimonio dello Stato”. 

Ciò premesso, da dove 
origina il 
dubbio in 
ordine 
alla natura del 
fenomeno 
della 
successione 
dello 
Stato? 
da 
alcune 
peculiarità 
della 
disciplina 
che 
la 
rendono 
un’ipotesi 
sui 
generis. 
Il 
riferimento 
è 
in 
primis 
al 
carattere 
necessario 
dell’acquisto, cioè 
alla 
sua 
operatività 
ipso iure 
senza 
bisogno di 
accettazione. 
Seguono 
l’irrinunziabilità, 
quindi 
l’esclusione 
del 
potere 
di 
rinuncia, e la responsabilità limitata del successore 
intra vires. 


Non 
è 
l’unica 
ipotesi 
di 
automatismo 
dell’acquisto 
prevista 
dall’ordinamento. 
Accedono 
ad 
un 
acquisto 
ipso 
iure 
anche 
il 
chiamato 
nel 
possesso 
dei 
beni 
ereditari 
che 
non 
compie 
l’inventario 
o 
non 
fa 
la 
dichiarazione 
nei 
termini 
previsti 
dall’articolo 
485 
c.c. 
e 
il 
chiamato 
che 
sottrae 
o 
nasconde 
beni 
ereditari, 
che 
ai 
sensi 
dell’articolo 
527 
c.c. 
è 
considerato 
direttamente 
erede 
puro 
e 
semplice. 


L’eccezionalità 
della 
disciplina 
importa 
l’esclusione 
dell’operatività 
di 
alcune 
norme 
di 
portata 
generale. In primis 
nella 
disciplina 
della 
successione 
dello Stato non trova 
applicazione 
l’istituto dell’accettazione 
con beneficio di 
inventario (art. 473), né 
logicamente 
le 
disposizioni 
ad esso collegate 
quali 
le 
cause 
di 
decadenza 
dallo 
stesso 
beneficio, 
come 
l’alienazione 
dei 
beni 
ereditari 
senza 
autorizzazione 
giudiziaria 
(art. 493 c.c.) o l’ipotesi 
di 
omissioni 
ed infedeltà 
nell’inventario 
(art. 
494 
c.c.). 
Lo 
Stato 
sarà 
sempre 
tenuto 
a 
rispondere 
intra vires 
e 
cum viribus hereditatis. 

È 
quindi 
preclusa 
anche 
l’applicabilità 
di 
ogni 
previsione 
volta 
alla 
perdita 
del 
beneficio della 
responsabilità 
limitata, tra 
cui 
l’istituto della 
separazione 
dei 
beni 
(art. 512 c.c.) che 
per di 
più determina 
anche 
l’incompatibile 
conseguenza 
della confusione dei patrimoni. 


In ultimo luogo, evidentemente 
non figura 
neppure 
il 
termine 
decennale 
per l’accettazione, salvo poi cadere in prescrizione (art. 480) (21). 

In 
passato, 
parte 
della 
dottrina 
(22) 
ha 
ritenuto 
di 
ricondurre 
la 
fattispecie 
ad un’ipotesi 
di 
acquisto a 
titolo originario iure 
accessionis. Oggi 
è 
pacifico 
ritenere 
prevalente 
la 
posizione 
che 
sostiene 
l’acquisto a 
titolo derivativo iure 
successionis, sebbene 
ciò non equivalga 
a 
riconoscere 
allo Stato la 
qualifica 
di 
erede. In effetti, resta 
aperta 
la 
diatriba 
in ordine 
al 
titolo giuridico a 
fondamento 
della successione: 
mortis causa versus iure imperii 
(infra 
§ 3). 


(20) TOrreNTe 
A. - SCHLeSINGer 
P., op. cit., p. 291. 
(21) VASSALLI 
M.N., op. cit., pp. 687-688. 
(22) CICU 
A., Le 
successioni. Parte 
generale. Successione 
legittima e 
dei 
legittimari. Testamento, 
Milano, 1947, p. 207; BArSI 
L., Le successioni per causa di morte, II ed., Milano, 1944, pp. 239 e ss. 

rASSeGNA 
AVVOCATUrA 
deLLO 
STATO -N. 4/2020 


Operando una 
ricostruzione 
dell’evoluzione 
storica 
(23), l’istituto affonda 
le 
proprie 
radici 
nel 
periodo del 
diritto romano. Inizialmente 
i 
bona vacantia 
potevano 
diventare 
di 
proprietà 
di 
chiunque 
per 
usucapione, 
poi 
vennero 
attribuiti 
al 
fiscus 
che 
le 
acquistava 
ipso 
iure, 
seppur 
per 
ragioni 
pubblicistiche 
e 
senza 
subentrare 
in locum 
et 
ius 
defuncti, quindi 
senza 
assumere 
la 
qualifica 
di 
heres. 


Nell’epoca 
medievale, 
ha 
preso 
piede 
la 
teoria 
del 
dominio 
eminente, 
per 
la 
quale 
su ciascun bene 
insistono un dominus 
eminens 
e 
un dominus 
utilis, 
dove 
il 
primo 
ha 
diritto 
di 
ricevere 
i 
frutti 
della 
cosa 
e 
il 
secondo 
gode 
del 
bene 
stesso. Alla 
morte 
del 
dominus 
utilis 
i 
diritti 
che 
gli 
facevano capo si 
assumevano 
alla 
titolarità 
del 
dominus 
eminens, nelle 
figure 
prima 
del 
re, poi 
dei 
comuni, 
dei signori e dei principi e, in ultimo, dello Stato. 

L’impronta 
evidentemente 
feudale 
di 
tale 
costruzione 
ne 
ha 
consentito 
un 
largo 
impiego 
nel 
diritto 
francese. 
Il 
code 
Napoléon 
l’ha 
recepita 
interamente 
agli 
articoli 
539 
e 
713 
i 
cui 
dettati 
riportano 
rispettivamente 
“Les 
biens 
des 
personnes 
qui 
décèdent 
sans 
héritiers 
ou 
dont 
les 
successions 
sont 
abandonnées 
appartiennent 
à 
l'Etat” 
e 
“Les 
biens 
qui 
n'ont 
pas 
de 
maître 
appartiennent 
à 
la 
commune 
sur 
le 
territoire 
de 
laquelle 
ils 
sont 
situés. 
Toutefois, 
la 
propriété 
est 
transférée 
de 
plein 
droit 
à 
l'Etat 
si 
la 
commune 
renonce 
à 
exercer 
ses 
droits”. 


Ne 
dipende 
che 
per il 
diritto francese 
lo Stato acquista 
a 
titolo originario 
per consolidazione. 

Minor seguito della 
teoria 
del 
dominio eminente 
si 
registra, invece, nel-
l’ordinamento italiano, nel 
quale 
è 
tendenzialmente 
pacifica 
la 
natura 
di 
acquisto 
a titolo derivativo (infra 
§ 2). 

In questo modo si 
supera 
anche 
la 
teoria 
dell’acquisto per occupazione, 
pure 
ascrivibile 
al 
titolo originario e 
non successorio e 
che 
aveva 
trovato sostenitori 
(24) sotto il vigore del codice del 1865. 


In effetti, la 
previsione 
normativa 
contenuta 
nell’attuale 
art. 586 trae 
origine 
dal 
disposto 
dell’art. 
758 
contenuto 
nel 
codice 
Pisanelli 
ai 
sensi 
del 
quale 
“in 
mancanza 
di 
persone 
chiamate 
a 
succedere 
secondo 
le 
regole 
stabilite 
nelle sezioni precedenti, l’eredità si devolve al patrimonio dello Stato”. 

Per entrare 
nell’ottica 
della 
teoria 
in parte 
condivisa 
prima 
del 
1942, va 
premesso che 
all’epoca 
non figurava 
una 
disposizione 
analoga 
all’attuale 
articolo 
827, che riconosce la titolarità allo Stato dei beni immobili vacanti. 


dunque, 
sotto 
il 
vecchio 
codice, 
vigeva 
la 
regola 
per 
cui 
i 
beni 
mobili 
e 
immobili 
potevano 
essere 
occupati 
con 
l’osservanza 
del 
principio 
della 


(23) rICCIOTTI 
G., La successione dello Stato, in Riv. not., 1969, pp. 455 e ss. 
(24) GABBA 
C.F., Indole 
del 
diritto dello Stato sulle 
successioni 
vacanti, in Nuove 
questioni 
di 
diritto 
civile, 
II, 
Torino, 
1914, 
pp. 
191 
e 
ss. 
In 
giurisprudenza 
seguono 
questa 
tesi: 
Corte 
d’Appello 
di 
Lucca, 16 marzo 1886, in Legge 
1887, 2, 414; 
Cass. Palermo, 25 luglio 1896, in Foro italiano 
1897, I, 
936. 

CONTrIBUTI 
dI 
dOTTrINA 


pubblicità, 
anche 
dai 
singoli 
privati. 
ebbene, 
per 
evitare 
che 
fosse 
quest’ultimo 
il 
caso, 
si 
è 
teorizzato 
(25) 
che 
nell’ipotesi 
dei 
beni 
ereditari, 
trattandosi 
di 
universitas, 
potevano 
essere 
occupati 
solo 
dallo 
Stato, 
in 
qualità 
di 
“occupante 
privilegiato”. 


Con 
l’introduzione 
del 
dettato 
che 
oggi 
impone 
un 
residuo 
di 
dominio 
eminente 
sui 
beni 
immobili 
vacanti, 
si 
argomenta 
a 
contrario 
confutando 
la 
teoria 
in 
contestazione: 
se 
effettivamente 
l’art. 
586 
attribuisse 
allo 
Stato 
un 
diritto 
di 
occupazione 
sulle 
eredità, 
allora 
l’art. 
827 
non 
avrebbe 
ragion 
d’essere 
(infra). 


Ulteriore 
obiezione 
alla 
teoria 
dell’acquisto per occupazione 
si 
rinviene 
nella 
constatazione 
che 
l’occupazione 
stessa 
per natura, in quanto atto materiale, 
ha 
effetto solo sulle 
singole 
cose 
materiali, non anche 
sui 
rapporti 
giuridici 
obbligatori 
attivi 
e 
passivi. 
Ne 
dipende 
che 
per 
poter 
essere 
oggetto 
di 
occupazione, 
l’universum 
ius 
defuncti, 
nel 
divenire 
res 
nullius, 
vedrebbe 
estinguere 
tutti 
i 
rapporti 
di 
credito e 
di 
debito ad esso inerenti. Anche 
questa 
è 
una 
conseguenza inammissibile (26). 


Sul 
tema 
della 
natura 
della 
successione 
dello Stato, si 
è 
registrato un apporto 
giurisprudenziale 
dirimente 
(27), 
una 
pronuncia 
non 
troppo 
recente, 
della 
Suprema 
Corte 
di 
Cassazione, intervenuta 
sul 
ricorso proposto dalla 
regione 
Trentino-Alto Adige contro l’Amministrazione Finanze dello Stato. 

Si 
precisa 
che 
la 
disciplina 
statutaria 
delle 
regioni 
a 
Statuto Speciale, in 
merito 
al 
regime 
proprietario 
dei 
bona 
vacantia 
(immobili), 
ne 
predispone 
l’attribuzione 
in favore 
delle 
stesse, derogando quindi 
al 
diritto statuale 
alla 
relativa 
acquisizione. 

Nella 
ricostruzione 
del 
fatto, 
la 
vicenda 
ha 
riguardato 
la 
titolarità 
dell’eredità 
di 
una 
donna 
deceduta 
senza 
lasciare 
testamento né 
successibili, dunque 
la titolarità era contesa tra Stato e regione a Statuto Speciale. 


Nella 
parte 
in diritto, il 
giudizio verteva 
sull’interpretazione 
dell’art. 67 
comma 
2 
dello 
Statuto 
della 
regione, 
approvato 
con 
d.p.r. 
n. 
670/1972, 
il 
quale 
art. dispone 
che: 
“I beni 
immobili 
situati 
nella Regione, che 
non sono di 
proprietà 
di alcuno, spettano al patrimonio della Regione”. 


Posto che 
si 
tratta 
di 
norma 
dal 
valore 
costituzionale, sovraordinata 
alle 
fonti 
codicistiche 
aventi 
rango di 
leggi 
ordinarie 
e 
dunque 
preferita 
nell’applicazione, 
l’art. 
67 
comma 
2 
di 
cui 
sopra, 
deve 
interpretarsi 
nel 
senso 
che 
costituisce 
una 
deroga 
solo all’art. 827 c.c., in tema 
di 
beni 
immobili 
vacanti? 
O 
ad entrambi gli artt. 586 e 827 c.c.? 


(25) GABBA 
C.F., op. cit., p. 195. 
(26) rICCIOTTI 
G.B., op. cit., p. 461. 
(27) 
Cass. 
Sez. 
II, 
11 
marzo 
1995, 
n. 
2862. 
Con 
nota 
di 
CArINGeLLA 
F., 
Lo 
Stato 
quale 
erede 
necessario 
nelle 
regioni 
a 
statuto 
speciale 
/ 
verso 
un 
raccordo 
tra 
disciplina 
codicistica 
e 
normativa 
statutaria, 
Il 
Corriere 
Giuridico, 
VIII, 
1995, 
pp. 
954 
e 
ss. 
e 
di 
OrLANdONI 
M., 
Devoluzione 
allo 
Stato 
dell'eredità 
in 
assenza 
di 
ulteriori 
successibili: 
natura 
dell'acquisto, 
in 
Notariato, 
n. 
1/1996, 
pp. 
18 
e 
ss. 

rASSeGNA 
AVVOCATUrA 
deLLO 
STATO -N. 4/2020 


Propedeutica 
alla 
risposta 
all’interrogativo, è 
la 
definizione 
del 
rapporto 
tra i due articoli del codice. 


Il 
Trentino-Alto 
Adige, 
avocava 
a 
sé 
la 
titolarità 
dell’eredità, 
argomentando 
dalla 
parificazione 
degli 
stessi, 
rispondenti 
alla 
medesima 
ratio, 
“avendo 
l’unico 
scopo 
di 
impedire 
che 
i 
beni 
diventino 
res 
nullius”. 
dunque, 
la 
regione 
riteneva 
entrambi 
gli 
articoli 
destinati 
a 
soccombere 
a 
favore 
dell’applicazione 
della 
norma 
statutaria, 
in 
quanto 
fonti 
in 
posizione 
gerarchica 
inferiore 
a 
quest’ultima. 


L’Avvocatura 
dello Stato, d’altro canto, rivendicava 
la 
devoluzione 
del-
l’eredità 
sostenendo che 
agli 
artt. 586 e 
827 c.c. per nulla 
fossero preposti 
al 
soddisfacimento della 
stessa 
esigenza, ma 
anzi 
fossero collocati 
su due 
piani 
diversi: 
rispettivamente 
acquisto a 
titolo derivativo e 
acquisto a 
titolo originario. 
Ne 
dipendeva 
che 
l’art. 67 comma 
2 dello Statuto, per quanto sovraordinato 
al 
dettato 
codicistico, 
prevalesse 
tuttalpiù 
solo 
sull’art. 
827, 
a 
cui 
evidentemente 
deroga, 
lasciando 
tuttavia 
impregiudicata 
l’operatività 
dell’art. 
586 c.c., nel quale era invece perfettamente sussumibile il caso di specie. 


Nell’iter 
giudiziale, il 
Tribunale 
di 
Trento prima 
e 
la 
Corte 
d’Appello del 
capoluogo, 
poi, 
hanno 
condiviso 
la 
soluzione 
ermeneutica 
della 
difesa 
erariale, 
confermata poi anche in ultimo grado. 

A 
ben vedere, i 
Giudici 
della 
Suprema 
corte 
hanno ritenuto che 
“L'indicazione 
dello 
Stato 
tra 
i 
successibili 
nell'art. 
565 
c.c., 
la 
collocazione 
dell'art. 
586 
c.c. 
nel 
titolo 
dedicato 
alle 
successioni 
legittime, 
l'uso 
del 
verbo 
devolvere, 
adoperato da entrambe 
tali 
norme, e 
la previsione 
del 
principio secondo cui 
lo 
Stato 
risponde 
nei 
limiti 
del 
valore 
dei 
beni 
assegnati 
(art. 
586, 
ultimo 
comma, c.c.), sono elementi 
decisivi 
per 
ritenere 
che 
l'acquisto di 
cui 
all'art. 
586 c.c. avvenga iure 
successionis 
e, quindi, a titolo derivativo, e 
non costituisca 
specificazione 
di 
quello 
a 
carattere 
chiaramente 
originario, 
contemplato 
dalla 
disposizione 
dell'art. 
827 
c.c. 
Né 
può 
indurre 
a 
conclusione 
diversa 
l'automaticità dell'acquisto statale, nell'ipotesi 
disciplinata dall'art. 586 c.c., 
perché 
questa norma si 
riferisce 
al 
patrimonio ereditario comprensivo anche 
di 
mobili 
e 
di 
crediti, mentre 
quella dell'art. 827 c.c. riguarda soltanto i 
beni 
immobili. Pertanto, l'art. 67 dello Statuto per 
il 
Trentino-Alto Adige 
[…] 
ha 
apportato deroga all'art. 827 c.c., cui 
è 
legato da un evidente 
nesso, ma non 
ha 
modificato 
l'art. 
586 
c.c., 
il 
quale 
è 
tuttora 
in 
vigore 
nel 
territorio 
della 
Regione 
Trentino-Alto Adige, perché 
opera nel 
diverso campo della successione 
a causa di morte” . 


In 
questo 
senso, 
quindi, 
la 
Cassazione, 
per 
interpretare 
la 
norma 
statutaria 
di 
cui 
si 
controverteva, ha 
preliminarmente 
inquadrato i 
due 
modi 
di 
acquisto 
della 
proprietà 
da 
parte 
dello Stato, classificando l’art. 586 alla 
stregua 
di 
un 
acquisto 
iure 
successionis 
e 
l’art. 827 come 
acquisto 
iure 
occupationis. In subordine, 
ha 
dedotto 
che 
l’art. 
67 
comma 
2 
dello 
Statuto 
del 
Trentino-Alto 
Adige, che 
deroga 
solo all’art. 827 c.c. e 
che 
solo su questo prevale, non si 
estende a fattispecie del campo successorio. 



CONTrIBUTI 
dI 
dOTTrINA 


In conclusione, si 
assume 
il 
primato della 
tesi 
dell’acquisto a 
titolo derivativo 
e 
manca 
individuare 
se 
lo Stato succeda 
a 
titolo di 
erede 
o a 
titolo particolare 
per 
diritto 
di 
sovranità, 
dunque 
lo 
scenario 
resta 
circoscritto 
alla 
teoria 
ereditaria e a quella pubblicistica. 


3. Qualificazione della posizione giuridica dello Stato. 
Se 
la 
ricostruzione 
del 
dibattito sviluppatosi 
intorno alla 
natura 
del 
fenomeno 
giunge 
ad una 
conclusione 
tendenzialmente 
pacifica, altrettanto condivisa 
non è la qualificazione della posizione giuridica dello Stato (28). 


Pur considerando il 
fenomeno di 
cui 
all’art. 586 c.c. avente 
natura 
di 
acquisto 
a 
titolo derivativo iure 
successionis, qual 
è 
il 
titolo giuridico di 
tale 
acquisto? 


esclusa 
la 
natura 
di 
acquisto a 
titolo originario iure 
occupationis 
ed appurata 
quella 
di 
stampo derivativo 
iure 
successionis, non è 
unanimemente 
affermato 
il corollario della qualifica di erede o di legatario allo Stato. 


A 
ben 
vedere, 
altro 
è 
riconoscere 
la 
natura 
dell’acquisto 
a 
titolo 
derivativo 
per successione, altro è 
riconoscere 
la 
natura 
dell’acquisto a 
titolo derivativo 
per successione 
mortis 
causa 
e 
quindi 
qualificare 
la 
posizione 
giuridica 
dello 
Stato come erede o legatario. 

Per quanto la 
premessa 
sia 
ormai 
condivisa, lo stesso non può dirsi 
delle 
implicazioni. 

Nulla quaestio 
che 
l’erario subentri 
nella 
posizione 
di 
un precedente 
titolare 
del 
diritto 
e 
che 
questo 
non 
sorga 
ex 
novo, 
ma 
la 
successione 
dello 
Stato 
è 
a 
titolo ereditario o extra 
ereditario? 
Laddove 
il 
titolo extra 
ereditario si 
rinviene 
nello ius imperii, quindi nella potestà sovrana che gli fa capo. 

Quanto 
osta 
alla 
pacifica 
ascrivibilità 
del 
fenomeno 
alla 
modalità 
della 
successione 
mortis 
causa 
è 
la 
peculiarità 
della 
disciplina 
nelle 
componenti 
di: 
acquisto ipso iure, irrinunziabilità e responsabilità limitata 
intra vires. 


Ad avviso di 
una 
parte 
della 
dottrina 
(29), fautrice 
della 
teoria 
pubblicistica, 
l’interesse 
pubblico 
e 
la 
necessità 
sociale 
che 
un 
patrimonio 
non 
resti 
privo di 
titolare 
spiegano le 
deroghe 
alla 
impostazione 
del 
fenomeno successorio 
in generale, ma 
l’eccezionale 
esclusione 
del 
potere 
di 
rinuncia 
preclude 
la 
configurazione 
dello Stato successore 
a 
titolo di 
erede 
o di 
legatario e 
distingue 
la 
sua 
vocazione 
da 
quella 
dei 
privati, la 
cui 
la 
sfera 
privata 
non è 
modificabile 
senza 
il 
relativo 
consenso. 
L’operatività 
dell’articolo 
588 
c.c. 
che 
impone 
l’assunzione 
della 
qualità 
di 
erede 
a 
chi 
succede 
nell’universalità 
o in 


(28) MOreTTI 
M., Art. 586 c.c. Della successione 
dello Stato, in Commentario del 
codice 
civile 
diretto da e. GABrIeLLI, Torino, 2010, p. 128. 
(29) 
Sostenitori 
della 
teoria 
della 
successione 
a 
titolo 
particolare 
per 
diritto 
di 
sovranità: 
SANTOrO 
PASSAreLLI 
F., Teoria della successione 
legittima dello Stato, in Scritti 
in onore 
di 
Alfredo Ascoli, Messina, 
1931, pp. 23 e 
ss.; 
rICCIOTTI 
G.B., op. cit., pp. 469 e 
ss.; 
CArrArO 
L., La vocazione 
legittima alla 
successione, Padova, 1979, pp. 211-212. 

rASSeGNA 
AVVOCATUrA 
deLLO 
STATO -N. 4/2020 


una 
quota 
dei 
beni 
del 
de 
cuius 
è 
circoscritta 
alla 
sola 
successione 
mortis 
causa 
a titolo privato e volontario. 


Il 
fenomeno 
ha 
natura 
successoria 
perché 
lo 
Stato 
subentra 
sì 
nell’universum 
ius 
defuncti, sebbene 
non in quanto erede 
né 
in quanto legatario. Vi 
subentra 
nell’esercizio 
dello 
ius 
imperii 
che 
gli 
fa 
capo, 
adempiendo 
ad 
un 
munus 
publicum. L’acquisto avviene 
ispo iure 
e 
senza 
possibilità 
di 
rinuncia 
perché 
tale 
è 
la 
funzione 
pubblica 
che 
la 
successione 
dello Stato è 
preposta 
ad 
assolvere: necessaria ed irrinunciabile. 


La 
ratio 
dell’istituto, 
quindi, 
giustifica 
la 
peculiarità 
della 
disciplina 
e 
tale 
peculiarità, 
giustifica 
altresì 
il 
titolo 
della 
vocazione 
dello 
Stato 
(non 
ereditario 
ma 
per diritto di 
sovranità) e 
quindi 
la 
posizione 
giuridica 
sui 
generis 
che 
riveste 
(non essendo erede né legatario). 

Se 
ne 
deduce 
altresì 
che 
l’universitas 
del 
de 
cuius 
costituisce 
un 
patrimonio 
separato che 
non si 
fonde 
con quello dello Stato e 
che 
per questo ne 
consente 
la responsabilità 
intra vires 
(30). 

Sul 
versante 
opposto (31), a 
favore 
dell’inquadramento nei 
termini 
di 
acquisto 
per 
successione 
mortis 
causa, 
e 
quindi 
della 
teoria 
ereditaria, 
depongono 
alcuni 
elementi 
di 
carattere 
letterale: 
l’indicazione 
dello 
Stato 
tra 
i 
successibili 
ex 
lege 
nell’art. 565 c.c., la 
collocazione 
dell’art. 586 c.c. nel 
titolo dedicato 
alle 
successioni 
legittime, 
l’impiego 
del 
verbo 
“devolvere” 
e 
la 
limitazione 
delle responsabilità dello Stato nei limiti del valore dei beni assegnati. 

Chi 
ritiene 
che 
lo Stato acquisti 
iure 
hereditario 
e 
non 
iure 
imperii 
non 
contesta 
la 
ratio 
del 
fenomeno, che 
conviene 
nella 
funzione 
pubblica 
di 
provvedere 
alla 
cura 
di 
interessi 
generali, ma 
contesta 
che 
la 
sovranità 
assurga 
a 
titolo giuridico della successione. 

In 
conclusione, 
la 
dottrina 
maggioritaria, 
riconosce 
che 
l’istituto 
è 
preposto 
all’adempimento 
di 
una 
funzione 
pubblica, 
ma 
sostiene 
che 
questa 
si 
realizzi 
attraverso 
uno 
strumento 
di 
diritto 
privato 
quale 
è 
la 
successione 
ereditaria. 


Un’evidenza 
pratica 
che 
dipende 
dall’adozione 
di 
una 
delle 
due 
tesi 
si 
palesa 
nel 
procedimento 
che 
lo 
Stato 
deve 
seguire 
per 
provvedere 
al 
pagamento 
dei debiti e al soddisfacimento dei legati. 


Nell’ottica 
della 
teoria 
pubblicistica 
(32), lo Stato è 
tenuto a 
provvedere 
in base 
all’ordine 
cronologico delle 
domande, salve 
le 
cause 
legittime 
di 
prelazione, 
in ossequio al principio prior in tempore potior in iure. 


Seguendo 
invece 
l’impostazione 
della 
teoria 
ereditaria 
(33), 
lo 
Stato 
deve 


(30) SANTOrO 
PASSAreLLI 
F., op. cit., pp. 38-39. 
(31) Sostenitori 
della 
teoria 
della 
successione 
mortis 
causa. Sotto il 
vigore 
del 
vecchio codice: 
BeTTI 
e., Successione 
legittima intestata e 
successione 
legittima necessaria, I, Milano, 1929, p. 128. Si 
vedano gli 
Autori 
citati 
da 
rICCIOTTI 
G.B., op. cit., p. 462, nota 
33. Sotto il 
vigore 
del 
nuovo codice: 
MeNGONI 
L., Successioni 
per 
causa di 
morte 
-Parte 
speciale. Successione 
legittima, in Tratt. 
CICU 
-
MeSSINeO, Milano, 1990, p. 210. 
(32) CArrArO 
L., op. cit., p. 216. 

CONTrIBUTI 
dI 
dOTTrINA 


procedere 
alla 
liquidazione 
concorsuale 
per 
tutelare 
gli 
aventi 
causa 
del 
de 
cuius 
indipendentemente 
dalle 
opposizioni 
promosse 
da 
creditori 
e 
legatari, 
quindi 
in deroga 
al 
criterio dell’articolo 498 che 
prevede 
questo iter 
solo in 
caso 
di 
notifica 
dell’opposizione. 
Il 
che 
si 
spiega 
perché 
nella 
fattispecie 
in 
analisi 
non 
trova 
applicazione 
neppure 
la 
regola 
generale 
di 
cui 
all’articolo 
505 c.c. che 
prevede 
la 
decadenza 
dal 
beneficio della 
responsabilità 
limitata 
nel 
caso in cui 
l’erede, nonostante 
l’opposizione, paghi 
creditori 
e 
legatari 
rispettando 
l’ordine cronologico. 

detto altrimenti, posto che 
lo Stato in ogni 
caso non può rispondere 
ultra 
vires, 
allora 
non 
è 
tenuto 
a 
rispettare 
tale 
ordine 
per 
evitare 
di 
perdere 
quel 
beneficio 
che 
a 
prescindere 
non gli 
verrebbe 
meno, ma 
deve 
invece 
procedere 
direttamente alla liquidazione. 


(33) MeNGONI 
L., Successioni 
per 
causa di 
morte 
-Parte 
speciale. Successione 
legittima, cit., p. 
224, nota 39. 

Finito di stampare nel mese di giugno 2021 
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