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ANNO L-N. 3-4 LUGLIO-DICEMBRE 1998 


ISTITUTO POLIGRAFICO E ZECCA DELLO STATO 
ROMA 1999 


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Progetto grafico dell'architetto CAROLINA VACCARO. 


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ANNO L-N. 3-4 LUGLIO -DICEMBRE 1998 


RA��EGNA 
AVVOCATURA 
DELLO STATO 


PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO 

ISTITUTO POLIGRAFICO E ZECCA DELLO STATO 
ROMA 1999 




ABBONAMENTI ANNO 1999 

ABBONAMENTO A.NNuo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L. 70.000 
UN NUMERO SEPARATO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . � 18.000 


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Stampato in Italia -Printed in Italy 
Autorizzazione Tribunale di Roma-Decreto n. ll089 del 13 luglio 1966 


(2219010) Roma, 1999 -Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato -P.V. 



INDICE 

Parte prima: GIURJSPRUDENZA 

Sezione prima: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE (a cura di Ignazio 
Francesco Caramazza) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 219 
Sezione seconda: GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 
(a cura di Oscar Fiumara) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . � 332 
Sezione terza: GIURISPRUDENZA DI 
(a cura di Sergio Laporta) 
DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . � 386 
Sezione quarta: GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA (a cura di Raffaele 
Tamiozzo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . � 435 
Sezione quinta: GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA (a cura di Carlo Bafile) . . . . � 482 
Sezione sesta: GIURISPRUDENZA PENALE (a cura di Paolo di Tarsia 
di Be/monte) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . � 537 
Parte seconda: DOTTRINA -RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 
OSSERVATORIO LEGISLATIVO -CONSULTAZIONI 
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA ........................................... 
OSSERVATORIO LEGISLATIVO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
CONSULTAZIONI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
pag. 
� 
� 
21 
25 
37 
Comitato di redazione: C. Aiello -F. Basilica P. 
Gentili -D. Giacobbe G. 
Mangia G. 
Palmieri P. 
Palmieri G.
P. Polizzi -F. Quadri -F. Scia/ani L. 
Ventrella 
Hanno collaborato inoltre al presente numero: Giuseppe Albenzio 
Massimo Bachetti -Luigi Mazzella 

La pubblicazione � diretta da 
PLINIO SACCHETTO 



ARTICOLL NOTE, DOTTRINA, RECENSIONI 


F. 
BASILICA, Brevi osservazioni zn materia di rimborso della tassa sulle 
societ�: dalla decadenza triennale all'art. 11 della legge n. 44811998 collegata 
alla legge finanziaria. . ............................................ . 
F. BASILICA, Brevi osservazioni in ordine ali' accesso agli atti interni. . . . . . . . . . . . 
F. 
BASILICA, Interessi e rivalutazione sui crediti dei pubblici dipendenti: il 
chiarimento del! 'Adunanza Plenaria. . ............................... . 
I. F. CARAMAZZA, Brevi note sul! 'incidente di costituzionalit� nella fase cautelare. . 
P. DI TARSIA DI BELMONTE, Sull'art. 513 del Codice di Procedura Penale: un difficile 
equilibrio tra ius puniendi e ius libertatis. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
O. 
FIUMARA, Le sentenze della Corte di Giustizia delle Comunit� europee pronunciate 
nel corso del 1998, in cause alle quali ha partecipato l'Italia. . ..... . 
O. 
FIUMARA, Somiglianza dei marchi e dei prodotti o servizi da essi contraddistinti 
e rischio di confusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ........... . 
O. FIUMARA, La tutela comunitaria di denominazioni di prestigio: whisky e bevande 
spiritose . ..................................................... . 
G. MANGIA, Il problema del �metodo Di Bella� davanti alla Corte Costituzionale . .. . 
L. 
MAzzELLA, La disapplicazione di un bando di gara (o pi� in generale di concorso) 
nella giurisidizione amministrativa . ............................ . 
G. 
PALMIERI, Brevi osservazioni in tema di questione di giurisdizione sollevata 
dal Prefetto. . .................................................. . 
G. P. POLIZZI, La questione del �numero chiuso� all'Universit�. . ............. . 
F. QUADRI, Recensione a: �Lo Stato autonomista. Funzioni statali, regionali e locali 
nel decreto legislativo n. 112 del 1998 di attuazione della legge Bassanini 
n. 59 del 1997�. Commento a cura di Giandomenico Falcon .............. . 
I, 525 
I, 464 


I, 435 
I, 255 


I, 261 
I, 332 
I, 380 
I, 353 

I, 220 
I, 453 
I, 402 

I, 
316 

Il, 21 


PARTE PRIMA 

INDICE ANALITICO -ALFABETICO 
DELLA� GIURISPRUDENZA 


AMBIENTE: PROTEZIONE E RISANAMENTO 


-Contributo concesso ai sensi dell'art. 14 
comma 3 del decreto legge 31 agosto 1987 

n. 361 conv. in legge 29 ottobre 1987 n. 
441 -Revoca del beneficio -Attribuzione 
al Ministero dell'Ambiente di un autonomo 
potere di valutazione della congruit� 
dell'intervento autorizzato -Esclusione Previo 
parere della commissione tecnico 
scientifica per la valutazione della 
congruit� dei progetti -Necessit�, 473. 
ATTO AMMINISTRATIVO 

-Diritto d'acesso alla relazione riservata della 
direzione dei lavori -Sussiste, con nota di F. 
BASILICA, 464. 

BELLEZZE NATURALI 

-Annullamento ministeriale di nulla-osta 
paesaggistico -Termine -Decorrenza Deliberazione 
Giunta Comunit� Montane Esclusione 
-Provvedimento Presidente Invio 
documentazione -Motivazione -
Pretermissione valutazione compatibilit� 
ambientale -Sufficienza, 476. 

CALAMIT�-PUBBLICHE 

-Terremoto 1980 in Campania e Basilicata Occupazione 
d'urgenza d'immobile Durata 
-Proroga oltre il quinquennio -
Leggittimit�, 389. 

COMPETENZA CIVILE 

-Competenza per territorio -Foro della 
Pubblica Amministrazione -Indegorabilit� 
-Procedimenti cautelari -Provvedimento 
d'urgenza o possessorio -Reclamo ex art. 
669-terdecies c.p.c. -Applicabilit� Deroga 
ex art. 7 R.D. n. 1611 del 1933 Esclusione, 
424. 

COMUNIT� EUROPEE 

-Concorrenza -Trasporti su strada -Tariffa 
obbligatoria -Normativa nazionale 


Nozioni di interesse generale e di interesse 
pubblico, 343. 

-Definizione, designazione e presentazione 
delle bevande spiritose -Modalit� d'uso 
del termine generico �whisky� -Bevande 
composte esclusivamente di whisky ed 
acqua, con nota di O. FIUMARA, 353. 

-Diritto di marchio -Rischio di confusione Somiglianza 
fra prodotti e servizi, con nota 
di O. FIUMARA, 380. 

-Disposizioni fiscali -Imposizioni interne 
discriminatorie -Imposta nazionale di 
consumo sui prodotti audiovisivi e 
fotoottici -Incompatibilit� eventuale con il 
diritto comunitario, 338. 

-Libera circolazione delle merci -Tutela 
della propriet� industriale e commerciale Diritto 
di marchio -Esaurimento -Merce 
messa in commercio nella Comunit� o in 
un paese terzo, 360. 

-Libera circolazione delle merci -Tutela 
della propriet� industriale e commerciale Diritto 
di marchio -Mezzi di tutela 
nazionali, 360. 

-Ricorso per inadempimento -Intesa Fissazione 
di tariffe professionali Spedizionieri 
doganali -Normativa che 
rafforza gli effetti dell'intesa, 343. 

-Tasse di concessione governativa Ripetizione 
dell'indebito -Interessi, 366. 

-Tasse di concessione governativa Ripetizione 
dell'indebito Termini 
processuali nazionali, 365. 

CONCESSIONI GOVERNATIVE (TASSE 
SULLE) 

-Tassa sulle societ� -Azione di rimborso Competenza 
territoriale, con nota di F. 
BASILICA, 524. 

-Tassa sulle societ� -Termine triennale di 
decadenza dell'azione di rimborso Decorrenza, 
con nota di F. BASILICA, 524. 

CORTE COSTITUZIONALE 

-Conflitto fra poteri dello Stato -Immunit� 
dalla giurisdizione del parlamentare per le 
opinioni espresse -Limiti, 230. 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

VI 

-Giustizia Amministrativa -Composizione 
del relativo organo di autogoverno -Sua 
conformit� a Costituzione -Manifesta 
inammissibilit�, con nota di I. F. 
CARAMAZZA, 254. 

DELIBAZIONE (GIUDIZIO DI) 

-Sentenza straniera recante condanna agli 
alimenti -Sopravvenienza di sentenza 
italiana recante diversa decorrenza 
dell'obbligazione alimentare -Delibazione 
della sentenza straniera per il periodo 
anteriore a quello considerato dal giudicato 
italiano -Ammissibilit�, 386. 

ESECUZIONE FORZATA 

-Pignoramento presso terzi -Contabilit� 
speciale delle Prefetture -Impignorabilit� 
fondi speciali -Onere notifica 
pignoramento al direttore di ragioneria Nullit� 
rilevabile d'ufficio -Legittimit�, 
con nota di G. P. Pouzzr, 239. 

ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA 
UTILIT� 

-Occcupazione d'urgenza -Opere militari Trasformazione 
irreversibile del terreno Danni, 
410. 

-Retrocessione totale -Prescrizione Decorrenza, 
399. 

-Retrocessione -Totale -Presupposti, 398. 

FAMIGLIA 

-Marito affetto da impotentia generandi Consenso 
all'inseminazione artificiale 
etewloga della moglie -Disconoscimento 
della paternit� ai sensi dell'art. 235 primo 
comma, n. 2) codice civile -Questione di 
legittimit� costituzionale -Inammissibilita, 

236. 
GIUDIZIO INCIDENTALE DI COSTITUZIONALIT� 


-Costituzione del pubblico ministero Inammissibilit� 
-Questione di legittimit� 
costituzionale degli artt. 23 e 25 della legge 
Il marzo 1953, n. 87 -Infondatezza (artt. 23 
e 25 legge Il marzo 1953, n. 87; Cost. art. 3), 
con nota di P. DI TARSIA DI BELMONTE, 260. 

GIUDIZIO PENALE 

-Avvocatura dello Stato -Costituzione di 
parte civile per l'Amministrazione 


Manifestazione esplicita della volont� di 
esercitare la pretesa risarcitoria prova Non 
� richiesta, 547. 

-Decreto di rinvio a giudizio -Nullit� Ordinanza 
di restituzione degli atti G .l.P. -
Abnormit� -Non esiste, 537. 

-Udienza preliminare -Costituzione di parte 
civile -Termine -Non sussiste, 547. 

GIURISDIZIONE 

-Comitato per la formazione e la revisione 
degli albi dei consulenti tecnici del giudice 
-Natura -Organo amministrativo Deliberazioni 
-Ricorribilit� ex art. 111 
cost. -Esclusione, 396. 

-Contabilit� pubblica Ordinamento 
contabile regionale -Fermo amministrativo 
(provvedimenti di) Carenza di potere Giurisdizione 
dell' A.G.O., 406. 

GIURISDIZIONE CIVILE 

-Giurisdizione civile e amministrativa Opere 
pubbliche -Equiparazione ex,art. 
31-bis della legge n. 109 del 1994 delle 
concessioni di opere pubbliche agli appalti 
ai fini della tutela giurisdizionale Applicabilit� 
ai giudizi pendenti alla data 
di entrata in vigore della legge Sussistenza 
-Art. 5 codice procedura civile 
-Influenza -Esclusione, 413. 

-Regolamento di giurisdizione sollevato dalla 
pubblica amministrazione che non � parte in 
causa -Ricorso alle Sezioni Unite -Parte pi� 
diligente -Termine perentorio -Inosservanza 
-Conseguenze -Inammissibilit�, con nota di 

G. PALMIERI, 402. 
GIURISDIZIONE CIVILE E AMMINISTRATIVA 


-Giudicato amministrativo di rigetto del 
ricorso -Successiva disapplicazione 
dell'atto da parte dell' A.G.O. 
Ammissibilit� -Condizioni, 388. 

GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA 

-Bando di gara -Disapplicazione Possibilit� 
-Esclusione, con nota di L. 
MAzZELLA, 453. 

-Disapplicazione -Possibilit� -Limiti, con 
nota di L. MAzZELLA, 453. 
-Giudicato -Estensione agli estranei alla lite 
-Discrezionalit�, 478. 



INDICE ANALITICO ALFABETICO DELLA GIURISPRUDENZA 

-Giudicato -Estensione ai soli soggetti 
titolari di giudizi pendenti-Legittimit�, 479. 

IMPIEGO PUBBLICO 

-Cessazione della materia del contendere Provvedimento 
pienamente satisfattorio 
dell'interesse giuridico a base del ricorso 
originario, 469. 

-Decreto legislativo 29/1993 -Trattamenti 
economici fissati dai contratti collettivi -
Indegorabilit� anche in melius, 458. 

-Indennit� particolare percepite solo dal 
personale medico a parit� di stipendio 
tabellare con dirigenti amministrativi Legittimit� 
-Estensione per analogia ai 
dirigenti amministrativi -Esclusione, 458. 

-Servizi pubblici essenziali -Ordinanza di 
precettazione -Presupposti procedimentali 
-Obbligo di richiesta della proposta dalla 
Commissione di vigilanza -Violazione Conseguenze 
-Ordinanza di precettazione 
e sanzione -Illegittimit�, 419. 

-Stipendi assegni ed indennit� -Interessi e 
rivalutazione su crediti previdenziali e 
retributivi -Rapporti pendenti ed ambito 
applicativo delle leggi n. 412/1991 e n. 
724/1994 -Criteri di computo di interessi e 
rivalutazione, con nota di F. BASILICA, 435. 

ISTRUZIONE E SCUOLE 

-Professore associato -Diritto di svolgere 
attivit� assistenziale presso un Policlinico Non 
sussiste -Vincolo di dipendenza 
gerarchica dal primario -Sussiste, 471. 

-Professori ordinari ed associati -Unitariet� 
della funzione docente -Sussiste Equiparazione 
quanto allo status, compiti e 
responsabilit� -Esclusione, 4 71. 

ISTRUZIONE PUBBLICA 

-Universit� -Limitazione del numero degli 
accessi. Potere del Ministro -Riserva di 
legge -Direttive comunitarie e decreto 
legislativo di attuazione -Legittimit�, con 
nota di G. P. Pouzz1, 316. 

PROCEDIMENTI CAUTELARI 

-Provvedimento d'urgenza o possessorio Reclamo 
ex art. 669-terdecies c.p.c. Allegazione 
di fatti preesistenti o di nuove 
circostanze di fatto o di diritto Produzione 
di nuovi documenti 
Ammissibilit�, 424. 

-Reclamo -Provvedimento d'urgenza o 
possessorio -Reclamo ex art. 669-terdecies 

c.p.c. -Natura devolutiva-sostitutiva, 423. 
- 
Reclamo -Provvedimento d'urgenza o 
possessorio reso inter alias -Terzo 
pregiudicato -Reclamo ex art. 669terdecies 
c.p.c. -Ammissibilit�, 424. 

PROCEDIMENTO PENALE 
-Art. 21 O, comma IV codice procedura 
penale -Contrasto con gli artt. 2, 3, 24, 
25, 101, 102, 111 e 112 Cost. Infondatezza, 
con nota di P. DI TARSIA DI 
BELMONTE, 260. 
-Art. 238 -Commi II-bis e IV codice 
procedura penale -Contrasto con gli artt. 3, 
1O1 e 111 Cost. -Infondatezza, con nota di 

P. DI TARSIA DI BELMONTE, 260. 
-Art. 238 codice procedura penale, IV 
comma -Imputato in procedimento 
connesso -Rifiuto di rispondere in 
dibattimento su fatti oggetto di sue 
precedenti dichiarazioni -Non prevista 
applicazione dell'art. 500, commi 2-bis e 4 
-Incostituzionalit�, con nota di P. DI 
TARSIA DI BELMONTE, 260. 
-Art. 513, codice procedura penale, II 
comma -Art. 500, codice procedura penale 
-Diversit� di disciplina -Irragionevolezza Incostituzionalit� 
per violazione dell'art. 3 
Cost., con nota di P. DI TARSIA DI 
BELMONTE, 260. 
-Art. 513, II comma codice procedura 
penale, questione di costituzionalit� per 
violazione art. 3 Cost. -Contrasto con il 
comma I dell'art. 513, codice procedura 
penale -Inammissibilit�, con nota di P. DI 
TARSIA DI BELMONTE, 260. 
-Giudizio immediato Richiesta 
dell'imputato -Poteri del G.I.P. -Riunione 
e separazione dei processi -Interesse 
dell'imputato alla rinuncia all'udienza 
preliminare -Prevalenza, 544. 
-Questione di costituzionalit� dell'art. 514 
codice procedura penale -Contrasto con gli 
artt. 3, 24, 101 e 112 Cost. 
Inammissibilit�, con nota di P. DI TARSIA 
DI BELMONTE 260. 

SANIT� PUBBLICA 

-Assistenza sanitaria -Farmaci antitumorali 
non compresi nel provvedimento di 
classificazione della commissione unica del 
farmaco ma sottoposti per legge a 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

VIII 

sperimentazione clinica -Erogazione 
gratuita a favore di soggetti privi di 
sufficienti disponibilit� economiche Esclusione 
-Incostituzionalit�, con nota di 

G. MANGIA, 219. 
-Assistenza sanitaria -Farmaci antitumorali 
non compresi nel provvedimento di 
classificazione della commissione unica del 
farmaco ma sottoposti per legge a 
sperimentazione clinica -Modalit� della 
sperimentazione -Disparit� di trattamento Legge 
provvedimento Questione 
infondata di costituzionalit�, con nota di G. 
MANGIA, 219. 

TRATTATI INTERNAZIONALI 

-Regioni -Conflitto di attribuzione per 
riserva allo Stato del �potere estero� Inammissibilit� 
del ricorso proposto oltre il 
termine perentorio di sessanta giorni dalla 
effettiva conoscenza dell'atto impugnato Fattispecie 
-Subordinazione dell'efficacia 
del trattato stipulato dalla Regione e 
successiva approvazione -Irrilevanza, 234. 

TRIBUTI (IN GENERALE) 

-Accertamento -Metodo induttivo Accertamento 
dell'imponibile I.V.A. 
mediante utilizzazione di elementi acquisiti 
per la determinazione del reddito -Impiego 
degli studi di settore -Legittimit� -Limiti, 
504 

-Accertamento -Motivazione -Prova dei 
fatti -Non attiene alla motivazione, 504 

-Accertamento -Prova -Fatti accertati nel 
giudizio penale Sentenza di 
proscioglimento o di assoluzione Dichiarazione 
d'estinzione del reato per 
prescrizione a seguito del riconoscimento 
di attenuanti -Enunciazione di fatti 
rilevanti sulla decisione -Efficacia nel 
giudizio civile o amministrativo fra le parti 
presenti, 495 

-Contenzioso tributario -Rimborsi -Diritto 
al rimborso gi� accertato con sentenza Giurisdizione 
delle commissioni per la 
condanna,515 

-Contenzioso tributario -Tributi soppressi 
con la riforma del 1973 -Imposta di 
ricchezza mobile Rimborsi 
Giurisdizione delle commissioni, 515 

-Riscossione delle imposte sul reddito Esecuzione 
esattoriale -Opposizione di 
terzo -Limiti di prova circa l'appartenenza 
di beni pignorati -Legittimit�, 252 

TRIBUTI ERARIALI DIRETTI 

-Accertamento -Prova -Presunzioni Indicazione 
dei fatti -� sufficiente Dimostrazione 
dei fatti -Pu� essere data in 
giudizio, 493 

-Imposta sul reddito delle persone fisiche Redditi 
di capitale -Capitali dati a mutuo Presunzione 
di fruttuosit� -� assoluta, 493 

-Imposta sul reddito delle persone fisiche Redditi 
di lavoro dipendente 
Trattamento di fine rapporto -Polizza 

l.N.A. Pagamento del caP.itale da parte 
dell'istituto assicuratore -� soggetto alla 
ritenuta di acconto -Parte eccedente la 
misura legale del trattamento -Quota 
corrispondente ai premi a carico del 
dipendente, 519 
- 
Rimborsi -Ritenute -Dichiarazione del 
reddito relativo -� necessaria, 513 

TRIBUTI ERARIALI INDIRETTI 

-Imposta di registro -Concordato con 
cessione dei beni -� soggetto alla imposta 
fissa, 485 

-Imposta di registro -Decreto ingiuntivo 
per il pagamento di crediti per prestazioni 
soggette all'imposta sul valore aggiunto Registrazione 
ad imposta fissa -Si 
estende al rapporto accessorio di 
fideiussione, 491 

-Imposta di registro -Privilegio speciale Esecuzione 
contro il terzo possessore Preventiva 
esecuzione del debitore Esclusione, 
490 

-Imposte doganali -Incompatibilit� con 
norme comunitarie Rimborso 
Traslazione del tributo -Prova -Richiesta 
di esibizione di fatture e scritture contabili 
-Legittimit� -Rifiuto -Valutazione ai fini 
della prova -Scadenza dell'obbligo di 
conservazione -Irrilevanza, 482 

-Riscossione -Ingiunzione -Gil!dizio di 
opposizione -Onere della prova -E sempre 
a carico dell'Amministrazione -Opponente 
attore -Irrilevanza, 495 


INDICE CRONOLOGICO 
DELLA GIURISPRUDENZA 


CORTE COSTITUZIONALE 

26 maggio 1998, n. 18S .............................................. . pag. 219 
18 luglio 1998, n. 289 ............................................... . � 230 
24 luglio 1998, n. 332 ................................................ . � 234 
26 settembre 1998, n. 347 ............................................ . � 236 
9 ottobre 1998, n. 3SO ............................................... . � 239 
9 ottobre 1998, n. 3Sl ............................................... . � 2S2 
ordinanza 13 ottobre -20 novembre 1998 n. 377 ........................... . � 2S4 
2 novembre 1998, n. 361 ............................................. . � 260 
27 novembre 1998, n. 383 ............................................ . � 316 


CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNIT� EUROPEE 

6a sez. 17 giugno 1998, nella causa C-68/96 .............................. . pag. 338 
Sa sez., 18 giugno 1998, nella causa C-3S/96 .............................. . � 343 
Sa sez., 16 luglio 1998, nella causa C-136/96 ............................. . � 3S3 
Plenum, 16 luglio 1998, nella causa C-3SS/96 ............................. . � 360 
Plenum, I S settembre 1998, nella causa C-231/96 .......................... . � 36S 
Plenum, IS settembre 1998, nelle cause riunite C-279, 280 e 281/96 ............ . � 366 
Plenum, 29 settembre 1998, nella causa C-39/97 ........................... . � 380 
2a sez., 1� ottobre 1998, nella causa C-38/97 .............................. . � 343 


GIURISDIZIONI CIVILI 

CORTE DI CASSAZIONE 

Sez. I, 20 marzo 1998, n. 29S3 ........................................ . pag. 482 
Sez. I, 20 marzo 1998, n. 29S7 ........................................ . � 48S 
Sez. I, 4 aprile 1998, n. 3481 .......................................... . � 386 
Sez. I, 4 aprile 1998, n. 3488 .......................................... . � 490 
Sez. I, 7 aprile 1998, n. 3S72 .......................................... . � 491 
Sez. I, 8 aprile 1998,.n. 3661 .......................................... . � 493 
Sez. I, 18 aprile 1998, n. 3937 ......................................... . � 49S 
Sez. I, 18 aprile n. 39S3 .............................................. . � S04 
Sez. I, 23 aprile 1998, n. 4202 ......................................... . � Sl3 
Sez. Un., 6 maggio 1998, n. 4S73 ...................................... . � 388 
Sez. Un., ordinanza 21maggio1998, n. 460 .............................. . � 396 
Sez. Un., 8 giugno 1998, n. S619 ....................................... . � 398 
Sez. Un., 8 luglio 1998, n. 662S ........................................ . � SIS 
Sez.Un., 27 luglio 1998, n. 7340 ....................................... . � 402 
Sez. Un., 29 luglio 1998, n. 7414 ....................................... . � 406 
Sez. I, 18 agosto 1998, n. 8128 ........................................ . � S19 



INDICE CRONOLOGICO DELLA GIURISPRUDENZA 

X 

Sez. I, 27 agosto 1998, n. 8522 ........................................ . pag. 524 
Sez. I, 12 settembre 1998, n. 9094 ...................................... . � 410 
Sez. Un., 15 settembre 1998, n. 9167 .................................... . � 413 
Sez. I, 3 novembre 1998, n. 10970 ...................................... . � 419 


TRIBUNALE DI CATANZARO 

Sez. I, ordinanza 25 marzo 1997 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 423 
Sez. I, ordinanza 27 maggio 1997 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . � 424 

GIURISDIZIONI AMMINISTRATIVE 

CONSIGLIO DI STATO 

Ad. Plen., 15 giugno 1998, n. 3 ........................................ . pag.435 
Ad. Plen., 20 luglio 1998, n. 6 ......................................... . � 435 
Sez. IV, 27 agosto 1998, n. 568 ........................................ . � 453 
Sez. IY, 15 settembre 1998, n. 1161 ..................................... . � 458 
Sez. IY, IO dicembre 1998, n. 1171 ..................................... . � 464 
Sez. VI, 15 luglio 1998 n. 1078 ........................................ . � 469 
Sez. VI, l 7luglio 1998 n. 1097 ........................................ . � 471 
Sez. VI, 17 luglio 1998 n. Il00 ........................................ . � 473 
Sez. VI, 4 settembre 1998 n. 1210 ...................................... . � 476 
Sez. VI, 29 settembre 1998 n. 1317 ..................................... . � 478 


GIURISDIZIONI PENALI 

CORTE DI CASSAZIONE 

Sez. Un., 12 febbraio 1998, n. 17 ........................................ pag. 537 


TRIBUNALE DI ROMA 

Sez. IV, ordinanza 27 novembre 1998 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 547 

TRIBUNALE DI BRINDISI 

G.l.P., decreto 17 novembre 1998 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 544 



PARTE SECONDA 

RASSEGNA BIBLIOGRAFICA . .'. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 21 
OSSERVATORIO LEGISLATIVO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . � 25 
CONSULTAZIONI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ... . . . . . . . � 37 


PAR TE PRIMA 



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GIURISPRUDENZA 


SEZIONE PRIMA 

GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

CORTE COSTITUZIONALE, 26 maggio 1998, n. 185 -Pres. Granata-Red. Guizzi 
-Presidente del Consiglio dei Ministri (avv. Stato Pagano). 

Sanit� pubblica -Assistenza sanitaria -Farmaci antitumorali non compresi nel 
provvedimento di classificazione della commissione unica del farmaco ma 
sottoposti per legge a sperimentazione clinica -Erogazione gratuita a favore 
di soggetti privi di sufficienti disponibilit� economiche -Esclusione Incostituzionalit�. 
(Cost. artt. 3 e 32; d. I. 17 febbraio 1998, n. 23, Disposizioni urgenti in materia di 

sperimentazioni cliniche in campo oncologico e altre misure in materia sanitaria, artt. 2, 3; 
legge 8 aprile 1998, n. 94, conversione in legge, con modificazioni, del d. I. 17 febbraio 1998, 

n. 23, art. 1). 
Sanit� pubblica -Assistenza sanitaria -Farmaci antitumorali non compresi nel 
provvedimento di classificazione della commissione unica del farmaco ma 
sottoposti per legge a sperimentazione clinica -Modalit� della 
sperimentazione -Disparit� di trattamento -Legge provvedimento Questione 
infondata di costituzionalit�. 
(Cost. artt. 3, 70, 77; d. I. 17 febbraio 1998, n. 23, artt. 2, 3; legge 8 aprile 1998, n. 94, 

art. 1 ). 

� incostituzionale il combinato disposto dell'art. 2, comma 1, ultima 
proposizione, e dell'art. 3, comma 4, del decreto-legge 17 febbraio 1998, n. 23 
(Disposizioni urgenti in materia di sperimentazioni cliniche in campo oncologico e 
altre misure in materia sanitaria), convertito, con modificazioni, nella legge 8 aprile 
1998, n. 94, nella parte in cui n�n prevede l'erogazione a carico del servizio 
sanitario nazionale dei medicinali impiegati nella cura delle patologie tumorali, per 
le quali � disposta la sperimentazione di cui all'art. 1, a favore di coloro che versino 
in condizioni di insufficienti disponibilit� economiche, secondo i criteri stabiliti dal 
legislatore, nei seguenti limiti oggettivi, soggettivi e temporali: a) di oggetto, e cio� 
in relazione ai farmaci rientranti nel multitrattamento Di Bella, di cui all'art. 1 del 
decreto-legge n. 23 del 1998; b) di soggetti, e cio� in relazione ai soli pazienti affetti 
da patologie tumorali comprese tra quelle sottoposte alla sperimentazione in corso, 
di cui all'art .1, rispetto ai quali il medico ritenga sotto la propria responsabilit�, e 
sulla base di elementi obiettivi, che non esistano valide alternative terapeutiche 
tramite medicinali o trattamenti gi� autorizzati per tali patologie; e) di tempo, in 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO ,

220 

relazione al periodo della sperimentazione di cui all'art. 1, cio� fino al momento in 
cui sia possibile disporre di dati scientificamente attendibili, in base ai quali si possa 
uscire dalla situazione di incertezza attuale. 

� infondata la questione di legittimit� costituzionale del!' art. 2, comma 1, ultima 
proposizione, e dell'art. 3, comma 4, del decreto-legge n. 23 del 1998, sollevata in 
riferimento agli artt. 3 -in relazione alla disparit� di trattamento che si sarebbe 
determinata a danno dei farmaci compresi nella multiterapia Di Bella -70 e 77 
della Costituzione (1). 

(omissis) 

1. -Il Consiglio di Stato dubita della legittimit� costituzionale dell'art. 2, comma 
1, ultima proposizione, del decreto-legge n. 23 del 1998 (Disposizioni urgenti in 
materia di sperimentazioni cliniche in campo oncologico e altre misure in materia 
sanitaria), convertito, con modificazioni, nella legge 8 aprile 1998, n. 94, con 
riguardo, innanzitutto, all'art. 3 della Costituzione, che risulterebbe violato sotto due 
profili: 
-per disparit� a danno dei farmaci che compongono il �multitrattamento Di 
Bella�, poich� soltanto per essi -sostiene il rimettente -il decreto-legge n. 23 
richiede la disponibilit� di risultati di studi clinici di fase seconda quale condizione 
per il loro inserimento nell'elenco dei medicinali innovativi, mentre l'art. 1, comma 
4, del decreto-legge n. 536 del 1996 reputa sufficiente che il medicinale sia sottoposto 
a sperimentazione clinica, indipendentemente dalla fase in cui � giunta, o che esso sia 
gi� autorizzato per diverse indicazioni terapeutiche; 

-per disparit� di trattamento fra i malati terminali selezionati ai fini della 
sperimentazione (per i quali la somministrazione � gratuita) e quelli che non vi sono 
stati ammessi, e sono autorizzati, s�, a utilizzare detti farmaci, ma a loro spese (art. 3, 

(1) Il problema del �metodo Di Bella� davanti alla Corte Costituzionale. 
1. Con la sentenza in esame, la Corte Costituzionale ha fissato degli importanti principi in 
una mtiteria in cui si era creata una preoccupante confusione a seguito di una serie di diverse e 
contraddittorie pronunce sia del giudice ordinario che del giudice amministrativo. 
Come � noto, della questione �Di Bella� si sono occupati, a partire circa da luglio 1997, 
svariati Pretori sparsi in tutta Italia, che, con una serie cospicua di provvedimenti d'urgenza, 
hanno in alcuni casi ordinato e in altri casi negato la somministrazione urgente e gratuita dei 
costosi farmaci contemplati nel cosiddetto metodo Di Bella. 

Successivamente � stato coinvolto in tale delicato settore anche il giudice amministrativo, che 
ha emanato le due ordinanze sulle quali � stata chiamata a pronunciarsi la Corte Costituzionale. 

2. La vicenda trae origine da un ricorso notificato in data 20 gennaio 1998 dal CODACONS, 
Associazione per la tutela dei diritti del malato, De Lipsis Emilio, Sposetti Maria, Primerano Maria 
Rosa, Spadoni Santino al T.A.R. Lazio per l'annullamento previa sospensiva della nota prot. n. 
800/uff. Xl/AG 13/1995 in data 7 novembre 1997 a firma del Dirigente dell'Ufficio XII del 
Dipartimento Valutazioni Medicinali e Farmaco-vigilanza del Ministero della Sanit�, nonch� di 
altri atti presupposti e conseguenziali, tra cui due pareri della C.U.F. dell'8 gennaio e del 10-12 
settembre 1997, con l'ultimo dei quali la C.U.F. aveva ritenuto non accettabile l'inclusione della 
somatostatina nell'elenco previsto dall'art. 1, comma 4�, decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536, 

PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

221 

comma 4, del decreto-legge n. 23 del 1998): disposizione sospetta, considerato il tipo 
di patologia, giacch� non sarebbe ragionevole pretendere il completamento della 
�seconda fase� nella sperimentazione quale condizione per la somministrazione 
gratuita dei farmaci. 

Sarebbe leso, altres�, il diritto alla salute, salvaguardato dall'art. 32 della 
Costituzione. 

Si eccepisce, infine, il carattere singolare della norma denunciata, in violazione 
del principio di generalit� e astrattezza delle leggi nonch� del principio di divisione 
tra potere legislativo e amministrativo, senza che si riscontri alcun ragionevole 
motivo per l'adozione di una legge-provvedimento (e qui si richiamano gli artt. 3, 70 
e 77 della Costituzione). 

2. -Appare evidente, dal tenore delle ordinanze di rimessione, che il giudice a quo 
intende censurare tutte le norme del decreto-legge n. 23 del 1998 che precludono la 
somministrazione gratuita dei farmaci in esame ai malati esclusi dalla sperimentazione, 
ai quali si riconosce libert� di cura, ma a loro spese (art. 3, comma 4). 
Le disposizioni che formano oggetto della questione sono quindi l'art. 2, comma 
1, ultima proposizione, e l'art. 3, comma 4, del decreto-legge; va cos� precisata 
l'incompleta indicazione delle disposizioni sottoposte al vaglio di questa Corte ( cfr. 
l'ordinanza n. 350 del 1994, e ivi i richiami alle sentenze nn. 115 del 1990, 138 del 
1986, 47 del 1962). 

Stante l'identit� delle due ordinanze di rimessione, i giudizi vanno riuniti e decisi 
con unica sentenza. 

3. -� ammissibile la costituzione in giudizio della regione Emilia-Romagna, 
parte intimata nel giudizio pendente innanzi al tribunale amministrativo regionale per 
il Lazio, seppur non costituita nel procedimento cautelare d'appello: quest'ultimo non 
convertito nella legge 23 dicembre 1996, n. 648, in quanto �dall'analisi critica delle informazioni 
disponibili dalla letteratura scientifica si evince la mancanza di evidenza di efficacia per la 
somatostatin� e per il suo analogo di pi� lunga durata octreotide nel trattamento dei tumori, con 
l'eccezione per quest'ultimo del trattamento delle sindromi da tumori endocrini 
gastroenteropancreatici, indicazione gi� approvata�. 

Il T.A.R. Lazio, Sez. 1-bis, con ordinanza n. 225/98 (1), ha ritenuto che l'art. l, comma 4�, 
decreto-legge n. 536/96, convertito nella legge n. 648/96, consente, sempre che non vi sia valida 
alternativa terapeutica, l'erogazione del farmaco a carico del S.S.N. quando sussista una concreta 
possibilit� dell'efficacia del farmaco stesso, e non soltanto nei casi in cui sia accertata l'evidenza 
della sua efficacia, e ritenuta altres� esulante dai propri poteri l'inserzione della somatostatina 
nell'apposito elenco in sostituzione della Commissione Unica del Farmaco, cui tale potere 
compete, ha disposto che la C.U.F. procedesse al riesame della questione, �al fine di valutare se 
ricorrano le condizioni per consentire l'erogazione gratuita (ai sensi della cit. disposizione del 
decreto-legge n. 536/96, come sopra interpretata), fino al termine della sperimentazione in atto, 
della somatostatina in ambiente ospedaliero, laddove i sanitari ospedalieri la considerino utile per 
il malato in quanto non esista valida alternativa terapeutica, ed ha accolto la domanda incidentale 
di sospensiva nei termini indicati nella parte motiva�. 

(1) Si veda il testo in Guida al diritto 1998, fase. 12, 10. 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

222 


sottende, infatti, un diverso rapporto processuale, ma si configura soltanto come una 
fase del processo in ordine alla quale � intervenuta l'impugnazione del provvedimento 
cautelare devoluta alla cognizione del Consiglio di Stato; e la Regione � comunque 
titolare di un evidente interesse sostanziale, con riguardo sia all'oggetto della 
controversia di merito, sia all'incidente di costituzionalit� (v. sentenze nn. 223 e 171 
del 1996; cfr. pure la recente ordinanza n. 67 del 1998). 

4. -Sono da respingere le eccezioni di inammissibilit� avanzate dalla Regione 
Emilia-Romagna. 
Non � fondata l'eccezione di manifesta irrilevanza, perch� il decreto-legge n. 23 
del 1998, ius .superveniens, incide direttamente sul quadro normativo che il giudice 
rimettente deve considerare, anche in vista dell'esercizio del potere cautelare. La 
valutazione del giudice a quo, su questo punto, � plausibile. 

Non fondata �, altres�, la seconda eccezione per difetto di incidentalit�, perch� 
non pu� ritenersi che le due ordinanze si risolvano in una �critica in astratto� del 
decreto-legge sopravvenuto; n� appare esaurito il potere di dec.idere sulla domanda 
cautelare, secondo quanto si evince dalla lettura delle stesse ordinanze. 

5. -Si deve dunque passare al merito, e per meglio comprendere la questione � 
necessario muovere dal decreto-legge n. 536 del 1996, e dagli atti conseguenti alla 
sua conversione in legge. 
La C.U.F., nella seduta del 27 gennaio 1998, ha riesaminato la questione e, rilevato che allo 
stato erano stati disposti protocolli di sperimentazione del multitrattamento Di Bella, includente 
tra l'altro anche l'impiego della somatostatina, ha escluso che vi fossero elementi tali da fondare 
quella �concreta possibilit� di efficacia� cui fa riferimento l'ordinanza del T.A.R., e che potranno 
soltanto eventualmente derivare dai risultati delle preannunciate sperimentazioni, ma non trarsi 
dalla semplice pianificazione di esse, in quella data soltanto resa possibile dalla disponibilit� del 
prof. Di Bella a fornire precisi elementi conoscitivi della terapia da lui praticata. 

Di qui da parte del solo CODACONS �istanza per l'esecuzione dell'ordinanza n. 225/98 e 
nuova .istanza di sospensiva nonch� istanza di riesame dell'ordinanza n. 225/98 e istanza per 
l'accesso�, notificata il 30 gennaio 1998. 

Con l'ordinanza n. 384/98 (2) il T.A.R. Lazio la Sezione bis, rilevato che la C.U.F. ha espresso 
la sua valutazione in modo compatibile con l'interpretazione della normativa contenuta 
nell'ordinanza n. 225/98, ma, ritenuto che il criterio seguito dalla C.U.F. <<llOn si appalesi logico e 
congruo in riferimento al protocollo n. 10 (�Proposta di sperimentazione della MDB nel paziente 
oncologico in fase critica molto avanzata�) in quanto il giudizio predetto di concreta possibilit� non 
pu� non essere correlato anche alla gravit� ed all'imminenza del pericolo cui � esposto tale tipo di 
paziente, cosicch� non � consentito di differirlo in questa ipotesi al momento in cui saranno noti i 
risultati delle avviate sperimentazioni�, ha accolto la sospensiva �in quanto ricorrono le condizioni 
per consentire l'erogazione gratuita del farmaco (ai sensi della citata disposizione del decreto-legge 

n. 536/1996), fino al termine della sperimentazione in atto, in ambiente ospedaliero, qualora il malato, 
a giudizio dei sanitari ospedalieri, appartenga alla categoria contemplata dal citato protocollo n. 10�. 
Con atto notificato il 14 febbraio 1998, il CODACONS ha proposto ricorso per l'esecuzione 
delle ordinanze nn. 225/98 e 384/98. 

(2) Si veda il testo in Foro it. 1998, III, 250. 

PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

223 

L'art. 1, comma 4, di tale decreto, contempla uno speciale elenco di �farmaci 
innovativi�, erogabili a totale carico del servizio sanitario nazionale �qualora non 
esista valida alternativa terapeutica�; esso conferisce alla Commissione unica del 
farmaco (d'ora in poi CUF) il potere di dettare procedure e criteri per la redazione e 
l'aggiornamento periodico di detto elenco. Il decreto-legge del 1996 non definisce, 
dunque, la natura dei farmaci innovativi, n� le procedure, n� le metodologie 
prescrittive, rinviando alla discrezionalit� tecnica della CUF. Che con atto del 17 
gennaio 1997 (poco dopo la conversione del decreto n. 536, avvenuto con legge 23 
dicembre 1996, n. 648) ha dettato prescrizioni sulla documentazione da presentare, a 
cura delle associazioni di malati, delle societ� scientifiche, di organismi sanitari 
pubblici o privati; richiedendo, fra le informazioni necessarie, quella sul 
�completamento favorevole di studi clinici di fase 1 e 2�, con particolare riferimento 
�ai problemi della qualit� e della sicurezza�. 

Il decreto-legge n. 23 del 1998, all'art. 2, comma 1, ultima proposizione, fa 
anch'esso riferimento ai risultati di studi clinici di fase seconda, integrando la 
previsione originaria del decreto-legge n. 536 del 1996 e vincolando in negativo con 
tale criterio (che acquista forza di legge) l'attivit� dell'organo tecnico per quanto 
attiene alla redazione dell'elenco dei farmaci innovativi. Esso recepisce e rende 
normativamente vincolante, a questi fini, le fasi della sperimentazione, quanto meno 
la seconda, che consiste di studi terapeutici pilota, volti a dimostrare l'attivit� 
biologica e la sicurezza, a breve termine, del principio attivo. 

Il Ministero della Sanit�, con separati atti, ha proposto ricorso in appello al Consiglio di 
Stato avverso tali ordinanze, chiedendo che, in riforma delle stesse, fosse rigettata la domanda 
incidentale di sospensione proposta in primo grado. 

Il Consiglio di Stato, Sez. IV, con ordinanza n. 348/98 (3), ritenuto di dover valutare l'ius 
superveniens, e, in particolare, l'art. 2 del decreto-legge 17 febbraio 1998, n. 23, giusta il quale 
�in nessun caso, comunque, possano essere inseriti nell'elenco previsto dall'art. 1, comma 4�, del 
citato decreto-legge n. 536 del 1996, medicinali per i quali non siano disponibili risultati di studi 
clinici di fase seconda�, ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di 
legittimit� costituzionale di tale disposizione, in relazione agli artt. 3, 32, 70 e 77 della 
Costituzione, rimettendo gli atti alla Corte Costituzionale e confermando, fino all'esito del 
giudizio dinanzi alla Corte Costituzionale, la sospensione dell'atto impugnato con il ricorso di 
primo grado, gi� disposta dal T.A.R. del Lazio. 

3. Ha ritenuto il Consiglio di Stato che l'art. 2, ultimo inciso, del decreto-legge 17 gennaio 1998, 
n. 23, contrasti con l'art. 3 della Costituzione, perch� crea un'irragionevole discriminazione in danno 
dei farmaci del metodo Di Bella rispetto agli altri farmaci che la C.U.F. pu� inserire nell'elenco di 
cui all'art. 1, comma 4�, decreto-legge n. 536/96, atteso che in relazione alla generalit� dei farmaci 
di cui all'art. 1, comma 4�, decreto-legge n. 536/96 non si richiede, per la loro somministrazione 
gratuita, che �siano gi� disponibili risultati clinici di fase seconda>>, requisito imposto solo per i 
medicinali del Metodo Di Bella, quale limite all'esercizio dei poteri tecnici della C.U.F. 
Discriminazione, secondo il Consiglio di Stato, irragionevole, atteso che sarebbe stata 
scientificamente assodata la non tossicit� del metodo Di Bella e che sarebbe esistito un certo 
<ifumus� di efficacia terapeutica quanto meno �palliativa�. 

(3) Si veda, tra i primi commenti all'ordinanza del Consiglio di Stato, PROTTO M., Nihil magis 
aegris prodest quam ab eo curari, a quo volunt: il giudice amministrativo e il caso Di Bella, in Giur. It. 
1998, 1058 ss. 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

224 

Questi dati consentono di inquadrare le censure di legittimit� costituzionale 
mosse dal rimettente. ~ 

ii1�: 

6. -Non � fondato il dubbio, avanzato con riguardo all'art. 3 della Costituzione, I circa la disparit� che si sarebbe determinata a danno dei farmaci che compongono la 
�multiterapia Di Bella�, per i quali soltanto -sostiene il Consiglio di Stato -il I-: 
decreto-legge n. 23 richiederebbe la disponibilit� di risultati di studi clinici di fase 
seconda quale condizione per il loro inserimento nell'elenco dei medicinali 
innovativi. 
L'esame dei tre periodi di cui consta l'art. 2 del decreto-legge dimostra che la 
premessa esegetica da cui muove il giudice a quo non �, su questo punto, corretta. 
Il primo periodo si lega alla sperimentazione della �terapia Di Bella�, e dunque 
vi si riferisce. � 

Il secondo precisa che la disciplina speciale per detta sperimentazione non 
altera le competenze della CUF circa la redazione dell'elenco dei farmaci 
innovativi, e ne conferma i poteri di valutazione sulla base dei criteri tecnici dalla 
stessa adottati. 

Il terzo periodo stabilisce che �in nessun caso� -e anche tale inizio rivela 
l'intento del legislatore di porre una prescrizione di carattere generale -possono 
essere inseriti nell'elenco dei farmaci innovativi, di cui all'art. 1, comma 4, del 
decreto-legge n. 536 del 1996, �medicinali per i quali non siano gi� disponibili 

I

f:risultati di studi clinici di fase seconda�. La disposizione concerne, dunque, le % 
modalit� di redazione e di aggiornamento dell'elenco, e vale per tutti i medicinali ~ 
innovativi. 
Si pu� aggiungere, inoltre, che il decreto-legge, pur riguardando precipuamente 

I 

le sperimentazioni cliniche in campo oncologico, introduce -come si desume dallo 

I 

I

L'art. 3 della Costituzione sarebbe poi violato per la �irragionevole discriminazione che 
determina tra malati terminali selezionati per la sperimentazione (per i quali la somministrazione 

I

dei farmaci � gratuita) e malati terminali che non partecipano alla sperimentazione�. 

l:a norma censurata sarebbe stata, ad avviso del Consiglio di Stato, di dubbia legittimit� 
anche in relazione all'art. 32 della Costituzione, atteso che a tutela del diritto alla salute non si 
pu� negare la somministrazione gratuita di farmaci di cui sia nota una certa efficacia terapeutica 
a malati terminali. 
I 

La norma suddetta sarebbe, infine, di dubbia legittimit� in relazione al combinato disposto 
dagli artt. 3, 70 e 77, trattandosi di una norma �provvedimento�, in violazione del principio di 

I generalit� ed astrattezza delle leggi e in violazione del principio della divisione tra potere ~ 
legislativo ed amministrativo, e senza alcun ragionevole motivo che giustifichi, nella specie, fil 

I 
% 

l'adozione di una legge-provvedimento. ~ 

4. La Corte Costituzionale, con la tempestivit� e l'attenzione che la questione comportava, 
ha depositato, in data 26 maggio 1998, la sentenza che si commenta, con la quale ha s� dichiarato 
l'illegittimit� costituzionale del combinato disposto dall'art. 2, comma l, ultima proposizione, e 
dell'art. 3, comma 4, del decreto-legge 17 febbraio 1998, n. 23 (Disposizioni urgenti in materia 
di sperimentazioni cliniche in campo oncologico e altre misure in materia sanitaria), convertito, 
con modificazioni, nella legge 8 aprile 1998, n. 94, nella parte in cui non prevede l'erogazione a 
I 

carico del Servizio nazionale dei medicinali impiegati nella cura delle patologie tumorali, per le 



PARTE I, SEZ. I, GWRISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

225 

stesso titolo -�altre misure in materia sanitaria�; e nel preambolo si fa certo 
riferimento al �multitrattamento Di Bella�, ma anche, in via generale, all'impiego 
di medicinali per indicazioni terapeutiche non autorizzate. 

Pur trovando la propria essenziale ragion d'essere nell'esigenza di 
�disciplinare, in via eccezionale, la sperimentazione clinica� del �multitrattamento 
Di Bella� e di dare risposta ai problemi correlati, il decreto-legge non si limita a tale 
vicenda, per cui non v'� discriminazione oggettiva a danno dei farmaci che 
compongono detta terapia. 

7. -Neppure � fondata la censura che si basa sul presunto carattere 
provvedimentale -e comunque singolare -dell'art. 2, ultima proposizione. 
Quantunque il primo periodo dell'art. 2 richiami la sperimentazione in campo 
oncologico, tuttora in corso, l'ultima proposizione ha obiettivamente valenza 
generale, perch� si salda con il decreto-legge n. 536 del 1996, con la normativa sulla 
sperimentazione e con quella che detta i compiti della CUF. 

In ogni caso, non pu� dirsi illegittima, di per s�, la legge-provvedimento 
(sentenza n. 306 del 1995, e ivi ulteriori riferimenti alla giurisprudenza), anche se 
per essa si impone uno �scrutinio stretto� di costituzionalit� per il pericolo di 
disparit� di trattamento insito in previsioni di tipo particolare o derogatorio 
(sentenze nn. 153 del 1997 e 2 del 1997). 

Tale conclusione non viene infirmata dal fatto che il Governo, con il decretolegge 
n. 23, abbia inteso contrastare un orientamento giurisprudenziale favorevole 
all'erogazione gratuita della somatostatina al di fuori delle indicazioni terapeutiche 
gi� approvate. La circostanza che il decreto-legge n. 23 incida sui procedimenti 
giurisdizionali pendenti non porta infatti a ravvisare la violazione dei parametri 
indicati dal giudice a quo (artt. 3, 70 e 77 della Costituzione) con riferimento al 

quali � disposta la sperimentazione di cui all'art. 1, a favore di coloro che versino in condizioni. 
di insufficienti disponibilit� economiche, ma ha precisato che la suddetta erogazione deve. i 
awenire secondo i criteri stabiliti dal legislatore, nei limiti oggettivi, soggettivi e temporali di cui'' 
in motivaziove. ~ 

Solo per tale aspetto, e con i limiti espressamente indicati, si � ravvisato un profilo d,i 
illegittimit� costituzionale della norma: infatti, la Corte ha espressamente dichiarato non fondata 
la questione di legittimit� costituzionale delle medesime disposizioni sollevata in riferimento agli 
artt. 3 -per profili diversi da q�elli sui quali si fonda la precedente dichiarazione di illegittimit� 
costituzionale -, 70 e 77 della Costituzione. 

La censura riguardante la violazione dell'art. 3 Cost. si affidava, come si � visto, a due rilievi. 

Secondo il primo di essi, l'art. 2, ultimo inciso, del decreto-legge 17 febbraio 1998, n. 23, 
crea una irragionevole discriminazione in danno dei farmaci del metodo Di Bella rispetto agli altri 
farmaci che la C.U.F. pu� inserire nell'elenco di cui all'art. 1, comma 4�, decreto-legge n. 
536/1996, senza il limite, per la loro somministrazione gratuita, che siano gi� disponibili risultati 
di studi clinici di fase seconda. 

La Corte ha espressamente statuito che non v'� discriminazione oggettiva a danno dei 
farmaci che compongono detta terapia: infatti, il decreto-legge, come � precisato in sentenza, pur 
riguardando precipuamente le sperimentazioni cliniche in campo oncologico, introduce �altre 
misure in materia sanitaria�; di conseguenza, tale provvedimento normativo riguarda, in via 
generale, l'impiego di medicinali per indicazioni terapeutiche non autorizzate. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

226 

�principio di generalit� e astrattezza della legge� e alla �divisione tra poteri�. In 
proposito basta sottolineare che il decreto-legge non ha, a questo riguardo, carattere 
retroattivo. 

8. -� fondata la censura avanzata per lesione dell'art. 3 della Costituzione, nei 
limiti di seguito precisati. 
� appena il caso di ricordare che questa Corte non � chiamata a pronunciarsi, in 
alcun modo, circa gli effetti e l'efficacia terapeutica di detto trattamento, per il cui 
accertamento � in corso la sperimentazione prevista dall'art. 1. Non � chiamata, n� 
potrebbe esserlo, a sostituire il proprio giudizio alle valutazioni che, secondo legge, 
devono essere assunte nelle competenti sedi, consapevole com'� dell'essenziale 
rilievo che, ih questa materia, hanno gli organi tecnico-scientifici. E neppure � 
chiamata a pronunciarsi sul divieto, in s�, che vengano inseriti nell'elenco dei 
�farmaci innovativi�, contemplato dall'art. 1, comma 4, del decreto-legge n. 536 del 
1996, medicinali privi, allo stato, di risultati di studi clinici di fase seconda; divieto 
stabilito dall'art. 2, ultima parte, del decreto-legge n. 23 del 1998. 

La Corte � chiamata a pronunciarsi, sotto il profilo del rispetto del principio di 
uguaglianza, in riferimento al diritto alla salute (artt. 3 e 32 della Costituzione), sulla 
conseguenza di tale divieto d'inserimento, che consiste nella non erogabilit�, a 
carico del servizio sanitario nazionale, dei medicinali occorrenti per il 
�multitrattamento�; medicinali -mette conto notare -singolarmente validati in 
relazione a specifiche e diverse destinazioni terapeutiche, ma soltanto ora sottoposti 
a sperimentazione cumulativa in campo oncologico. 

La questione ha ad oggetto la valutazione, alla stregua dei parametri anzidetti, 
della conformit� alla Costituzione di un atto normativo che con disposizione 
singolare e in deroga alle procedure ordinarie prevede, da un lato, una 
sperimentazione clinica semplificata e accelerata dei medicinali impiegati nel 
�multitrattamento�, consentendo ai medici, sino al termine della sperimentazione, il 

A seguito della sentenza in esame, come � noto, � stato poi emanato il decreto-legge 16 
giugno.1998, n. 186 (Gazzetta Ufficiale 17 giugno 1998, n. 139). 

Con tale decreto � tra l'altro stato disposto (art. 1) che, fino al termine della sperimentazione 
in atto, hanno accesso agli studi osservazionali, i cui protocolli sono stati approvati dalla 
Commissione oncologica nazionale, tutti i pazienti oncologici per i quali ricorrono, 
congiuntamente, le seguenti condizioni: 

a) la patologia da trattare � compresa tra quelle specificate nell'allegato l; 
b) il medico attesta, sotto la propria responsabilit� e sulla base di elementi obiettivi, che 
non esistono valide alternative terapeutiche tramite l'impiego di medicinali o trattamenti gi� 
autorizzati per tale patologia e richiede, con il consenso informato del paziente, l'accesso al 
Metodo Di Bella; 
e) la richiesta di cui alla lett. b) prevede la somministrazione di somatostatina, o in 
alternativa, di octreotide, con l'eventuale aggiunta di uno o pi� medicinali indicati nell'allegato 2. 

L'accesso di cui al comma 1 � effettuato in uno dei centri della Regione o della Provincia 
autonoma di residenza del paziente, indicati nell'allegato 3, o in altro centro pubblico 
individuato da detti enti e immediatamente comunicato al Ministero della Sanit� e all'Istituto 
Superiore di Sanit�. 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

227 

loro impiego nel campo oncologico (art. 3, comma 3); e, dall'altro, per l'effetto del 
divieto di inserimento nell'elenco dei farmaci innovativi, conseguente all'art. 2 qui 
in esame, e della successiva norma introdotta dall'art. 3, comma 4, fa ricadere sui 
privati non ammessi alla sperimentazione le spese necessarie all'acquisto di tali 
medicinali. 

9. -La determinazione del legislatore di avviare la sperimentazione di un 
complesso di sostanze e l'autorizzazione al loro impiego nei confronti di altri soggetti 
estranei alla sperimentazione, prima che siano noti gli esiti di essa (in deroga alla 
regola posta dal comma 1 dell'art. 3 del decreto-legge n. 23), non sottendono, certo, 
un �riconoscimento della utilit� di impiego� dei medicinali compresi nel 
multitrattamento (art. 1). Costituiscono, per�, un �fatto legislativo� che ha una sua 
oggettivit�, tale da differenziarlo da un qualsiasi mero �fatto sociale� spontaneo. 
Ora, nei casi di esigenze terapeutiche estreme, impellenti e senza risposte 
alternative, come quelle che si verificano in alcune patologie tumorali, va considerato 
che dalla disciplina della sperimentazione, cos� prevista, scaturiscono indubbiamente 
aspettative comprese nel contenuto minimo del diritto alla salute. S� che non pu� 
ammettersi, in forza del principio di uguaglianza, che il concreto godimento di tale 
diritto fondamentale dipenda, per i soggetti interessati, dalle diverse condizioni 
economiche. 

Sotto il profilo della garanzia costituzionale della salute come diritto, in 
relazione al campo oncologico di cui al comma 3 dell'art. 3 del decreto-legge, non 
appaiono sufficienti n� la previsione dell'art. 4, volta alla determinazione di un 
ridotto prezzo di vendita dei medicinali facenti parte del �multitrattamento Di Bella�, 
concordato tra il Ministro della sanit� e le aziende farmaceutiche; n� lo stanziamento, 
di cui all'art. 5-ter, introdotto dalla legge di conversione, di una somma assegnata ai 
comuni, per l'anno 1998, destinata al finanziamento di contributi agli indigenti per 
spese sanitarie particolarmente onerose. 

Con il suddetto intervento legislativo, conforme alle indicazioni della Corte Costituzionale, 
� stata dunque �in parte qua� resa conforme ai principi costituzionali la disciplina del decretolegge 
n. 23/1998 che, per il resto, ha resistito del tutto alle censure di incostituzionalit� sollevate 
nelle ordinanze di rimessione. 

5. Si rende, a questo punto, necessario porre in evidenza che, a seguito delle incertezze, 
oscillazioni, polemiche e sostanziale grande confusione che si � creata in una vicenda drammatica 
e delicata quale � quella della corretta somministrazione di farmaci antitumorali, la Corte 
Costituzionale, con autorevolezza, chiarezza e sinteticit�, ha con la sua sentenza, definitivamente 
chiarito che la sperimentazione farmacologica non pu� e non deve avvenire al di fuori delle regole 
vigenti, e cio� delle regole espressamente disposte dagli organi competenti. 
Come gli stessi primi commentatori alle ordinanze di rimessione della questione alla Corte 
Costituzionale hanno sottolineato, la Corte � stata chiamata a svolgere un �ruolo chiarificatore� 
per garantire il richiamo alle �regole del gioco� (4). 

(4) Si veda M. BONA e A. CASTELNUOVO, <<li 'caso Di Bella' e le nuove frontiere del diritto 
costituzionale alla salute: quali limiti al c.d. 'diritto alla libert� terapeutica'�?, in Giur. It. 1998, 1148 e ss. 
In particolare, sulle cosiddette �regole del gioco�, si veda BoBBIO, Il faturo della democrazia, Torino 1984. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO �� 


228 

1O. -La dichiarazione d'illegittimit� costituzionale delle norme censurate � 
circoscritta entro i limiti che seguono: 

a) limite di oggetto, in relazione ai farmaci rientranti nel �multitrattamento Di 
Bella�, di cui all'art. 1 del decreto-legge n. 23 del 1998. Soltanto per tali farmaci, 
oggetto di sperimentazione clinica e di un'autorizzazione speciale temporanea all'uso 
terapeutico, fuori della sperimentazione, disposte con normativa ad hoc si verificano 
le condizioni che distinguono questo da tutti gli altri possibili casi di �speranza 
terapeutica� riposta in qualsivoglia terapia che si supponga efficace; 

b) limite di soggetti, in relazione ai pazienti affetti da patologie tumorali comprese 
tra quelle sottoposte alla sperimentazione in corso, di cui all'art. 1, rispetto ai quali il 
medico ritenga sotto la propria responsabilit�, e sulla base di elementi obiettivi, che non 
esistano valide alternative terapeutiche tramite medicinali o trattamenti gi� autorizzati per 
tali patologie. Negli altri casi -quando cio� esista la possibilit� di un trattamento gi� 
sperimentato e validato -la pretesa che lo Stato debba essere comunque tenuto a fornire 
gratuitamente altre prestazioni mediche, anche solo ipoteticamente efficaci, non sarebbe 
ragionevole. Non possono ricadere, infatti, sul servizio sanitario nazion~le le conseguenze 
di libere scelte individuali circa il trattamento terapeutico preferito, anche perch� ci� 

E nella sentenza della Corte (che avrebbe potuto forse adottare processualmente anche la 
formula della sentenza interpretativa di rigetto) si possono evidenziare precise affermazioni in cui 
tale ruolo � svolto magistralmente, perch� sono enunciati una serie di principi di eccezionale 
rilievo ed importanza (5). 

Infatti, proprio nella motivazione della sentenza in cui la Corte ha dichiarato fondata la 
censura avanzata per lesione dell'art. 3 della Costituzione, con i precisi limiti di cui si � detto, 
la stessa Corte testualmente afferma: Ǐ appena il caso di ricordare che questa Corte non � 
chiamata a pronunciarsi, in alcun modo, circa gli effetti e l'efficacia terapeutica di detto 
trattamento, per il cui accertamento � in corso la sperimentazione prevista dall'art. 1. Non � 
chiamata, n� potrebbe esserlo, a sostituire il proprio giudizio alle valutazioni che, secondo 
legge, devono essere assunte nelle competenti sedi, consapevole com'� dell'essenziale rilievo 
che, in questa materia, hanno gli organi tecnico-scientifici. E neppure � chiamata a 
pronunciarsi sul divieto, in s�, che vengano inseriti nell'elenco dei farmaci innovativi 
contemplato dall'art. l, comma 4�, del decreto-legge n. 536 del 1996, medicinali privi, allo 
stato, di risultati di studi clinici di fase seconda: divieto stabilito dall'art. 2, ultima parte, del 
decreto-legge n. 23 del 1998�. 

La Corte enuncia un principio di fondamentale importanza, valevole per il giudice delle 
leggi come per ogni altro, secondo cui non pu� il giudice sostituire il proprio giudizio alle 
valutazioni che, secondo legge, devono essere assunte nella competente sede dagli organi tecnicoscientifici 
dell'Amministrazione. 

Non �, quindi, giuridicamente ammissibile che un giudice, qualunque esso sia, possa 
sostituirsi alla Commissione Unica del Farmaco, organo cui per legge compete di inserire in 
apposito elenco i farmaci in corso di sperimentazione ai fini dell'erogazione gratuita a carico del 
Servizio Sanitario Nazionale (art. 1, comma 4, decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536, convertito 
nella legge 23 dicembre 1996, n. 648). 

(5) La sentenza in esame pu� configurarsi come una sentenza �additiva di principio�, come rilevato da 
CELOTTO, in Giur. It. 1998, fase. 6 -Recentissime; sull'argomento vedi ANZON, Nuove tecniche decisorie 
della Corte Costituzionale, in Giur. Cost. 1992, 3199 e ss. 

PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

229 

disconoscerebbe il ruolo e le responsabilit� che competono allo Stato, attraverso gli organi 
tecnico-scientifici della sanit�, con riguardo alla sperimentazione e alla certificazione 
d'efficacia, e di non nocivit�, delle sostanze farmaceutiche e del loro impiego terapeutico 
a tutela della.salute pubblica; 

c) limite di tempo, in relazione al periodo della sperimentazione di cui all'art. 
1, cio� fino al momento in cui sia possibile disporre di dati scientificamente 
attendibili, in base ai quali si possa uscire dalla situazione di incertezza attuale circa 
la non implausibile efficacia del �multitrattamento Di Bella�, momento in cui dovr� 
operare la disciplina a regime. 

Entro i limiti suddetti, il legislatore � costituzionalmente tenuto a provvedere, 
nella sua discrezionalit�, agli interventi volti a garantire che possano usufruire del 
�multitrattamento Di Bella� anche i soggetti, non ammessi alla sperimentazione, che 
non sono nelle condizioni di affrontare i relativi costi a causa di insufficienti 
disponibilit� economiche, alla stregua di criteri che spetta esclusivamente al 
legislatore stabilire secondo ragionevolezza. Necessario per ricondurre la disciplina 
legislativa a conformit� costituzionale, tale intervento dovr� aver luogo con la pi� 
grande tempestivit� in ragione della particolare urgenza. (omissis) 

E non sono ammissibili provvedimenti giurisdizionali �additivi�, assunti in patente 
sconfinamento dai poteri della giurisdizione, invasivi, sino alla soppressione, di ogni ambito 
valutativo di competenza della C.U.F., oltre che confliggenti con la normativa che regola 
l'erogazione gratuita dei farmaci a carico del Servizio Sanitario Nazionale. 

Al punto 10, lett. b, la stessa Corte Costituzionale, dopo aver indicato il limite di soggetti, 
cui si riferisce la dichiarazione d'illegittimit� costituzionale delle norme censurate, afferma che 
�negli altri casi -quando cio� esista la possibilit� di un trattamento gi� sperimentato e validato 
-la pretesa che lo Stato debba essere comunque tenuto a fornire gratuitamente altre prestazioni 
mediche, anche solo ipoteticamente efficaci, non sarebbe ragionevole. Non possono ricadere, 
infatti, sul Servizio Sanitario Nazionale le conseguenze di libere scelte individuali circa il 
trattamento terapeutico preferito, anche perch� ci� disconoscerebbe il ruolo e le responsabilit� 
che competono allo Stato, attraverso gli organi tecnico-scientifici della Sanit�, con riguardo alla 
sperimentazione e alla certificazione d'efficacia, e di non nocivit�, delle sostanze farmaceutiche 
e del loro impiego terapeutico a tutela della salute pubblica�. 

Principi'o, anche questo, di fondamentale importanza, perch� fa giustizia di ogni pretesa, 
che, attraverso un malinteso richiamo al diritto alla salute sancito dall'art. 32 della Costituzione 
( 6), si sostanzia in un, inesistente, diritto alla libert� di cura a spese dello Stato, e perch� 
incisivamente riafferma la competenza e le responsabilit� che in materia competono allo Stato, 
attraverso i suoi organi tecnico-scientifici, rispetto alle quali, anche per quanto sopra rilevato, 
ogni invasiva pronuncia giurisdizionale costituisce un inammissibile sconfinamento nelle 
attribuzioni proprie dell'Amministrazione. 

Va sottolineato, infine, che la Corte Costituzionale, proprio nel dichiarare il legislatore 
costituzionalmente tenuto ad emanare norme che pongano rimedio alla dichiarata 
incostituzionalit� di quelle censurate, incisivamente afferma il principio che � compito del 
legislatore �nella sua discrezionalit�� provvedere in materia �alla stregua di criteri che spetta 
esclusivamente al legislatore "stesso" stabilire secondo ragionevolezza�. 

GABRIELLA MANGIA 

(6) Sull'art. 32 Cost. e sulle problematiche inerenti il diritto alla salute si veda da ultimo: CoccoNI, Il 
diritto alla tutela della salute, Padova 1998; DoGLIOTTI, Profili di responsabilit� civile nella tutela della 
persona, in ALPA-BESSONE, La Responsabilit� civile, Aggiornamento 1988-1996, I, Torino, 1997, 421; 
CARETTI e DE SERVIO, Istituzioni di diritto pubblico, 3 ed., Torino 1996, 636. 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO "'

230 

CORTE COSTITUZIONALE, 18 luglio 1998, n. 289 -Pres. Granata -Rei. Contri Tribunale 
di Bergamo c. Camera dei Deputati (avv. Abbamonte). 

Corte Costituzionale -Conflitto fra poteri dello Stato -Immunit� dalla 
giurisdizione del parlamentare per le opinioni espresse -Limiti. 

La prerogativa dell'insindacabilit� delle opinioni espresse dal parlamentare ha 
per oggetto soltanto quelle funzionali all'esercizio delle attribuzioni proprie del 
potere legislativo. L'accertamento dell'esistenza di tale collegamento funzionale 
compete alla Corte Costituzionale, cui spetta anche il potere di annullare, in quanto 
lesiva delle attribuzioni del giudiziario, la deliberazione di insindacabilit� 
erroneamente adottata dalla Camera di appartenenza (1). 

(omissis) 

1. -La Corte costituzionale � chiamata a decidere se la Camera dei deputati deliberando, 
il 31 gennaio 1996, che i fatti per i quali � in corso un procedimento 
civile davanti al Tribunale di Bergamo nei confronti del deputato Roberto Calderoli 
riguardano opinioni espresse da quest'ultimo nell'esercizio delle sue funzioni, ai 
sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione -abbia fatto un uso non 
corretto del potere ad essa spettante di decidere in ordine alla sussistenza dei 
presupposti di applicabilit� dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, sotto il 
profilo del necessario collegamento delle opinioni espresse dal deputato con le 
funzioni parlamentari e, conseguentemente, se debba essere annullata la 
deliberazione di insindacabilit� adottata il 31 gennaio 1996. 
2. -Con la deliberazione adottata il 31 gennaio 1996 la Camera ha approvato 
la proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere e dichiarato 
l'insindacabilit� delle opinioni espresse dal deputato Calderoli. Nella relazione 
della Giunta si osserva che le affermazioni del deputato Calderoli traggono spunto 
dalla sua posizione di parlamentare e di leader locale della Lega Nord, apparendo 
(1). La sentenza in rassegna segna una svolta in quella difficile opera di bilanciamento fra 
autonomia parlamentare e attribuzioni del giudiziario che da anni la Corte svolge, annullando per 
la prima volta una delibera di insindacabilit� adottata dalla camera di appartenenza a seguito di 
un penetrante sindacato di merito della delibera stessa. 

In precedenza il potere di sindacato che la Corte si riconosceva era stato, infatti, delineato 
in termini assai pi� tenui e sfumati, concessivi solo di un potere di controllo meramente estrinseco 
e formale. 

Vedasi, per tutte, Corte Cost. 23 luglio 1997, n. 265 (in Foro it., 1997, I, 2361, con nota di 

R. ROMBOLI) che testualmente afferma: �N� la corte pu� essere chiamata a rivedere -quasi 
come un giudice dell'impugnazione -vuoi le sentenze pronunciate dai giudici, che abbiano fatto 
erronea applicazione dell'art. 68, 1� comma, Cost., vuoi le decisioni delle camere che abbiano 
deliberato in assenza o con erronea o arbitraria valutazione dei relativi presupposti. Da un lato 
infatti il controllo delle pronunce dei giudici, anche sotto questo profilo, spetta ai giudici delle 
eventuali impugnazioni e in definitiva all'organo di nomofilachia; dall'altro lato la deliberazione 
della camera di appartenenza del parlamentare, espressione della sua autonomia costituzionale, 
non � soggetta ad impugnazioni, e ad essa il giudice � normalmente vincolato�. 

PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

evidente alla Giunta �il collegamento tra gli apprezzamenti critici rivolti tanto nei 
confronti del Presidente della Repubblica quanto nei confronti della magistratura 
bergamasca e l'attivit� parlamentare svolta dal deputato convenuto in giudizio, in 
quanto, tra l'altro, i temi trattati sono tipici e caratteristici del gruppo parlamentare 
al quale il deputato appartiene�. 

3. -Ancora preliminarmente, va poi dichiarato inammissibile l'atto di 
intervento nel presente giudizio del dottor Buonanno. A prescindere da ogni 
considerazione sulla sua legittimazione a esser parte del presente giudizio, il suo atto 
di intervento � comunque tardivo. 
4. -Occorre, innanzitutto, confermare l'ammissibilit� del conflitto di 
attribuzione in questione, che questa Corte ha gi� dichiarato, in linea di prima e 
sommaria delibazione, con l'ordinanza n. 442 del 1997. 
Sotto il profilo soggettivo, il Tribunale di Bergamo � legittimato a sollevare il 
conflitto, in quanto organo competente a dichiarare definitivamente la volont� del 
potere cui appartiene, nell'ambito delle funzioni giurisdizionali da esso esercitate 
per definire il giudizio di responsabilit� promosso nei confronti del deputato 
Calderoli, in accordo con il principio ripetutamente affermato da questa Corte 
secondo cui i singoli organi giurisdizionali, svolgendo le loro funzioni in posizione 
di piena indipendenza, costituzionalmente garantita, sono legittimati attivamente 
e passivamente -ad essere parte nei conflitti di attribuzione tra i 
poteri dello Stato (v. ordinanze nn. 254 e 177 del 1998, nn. 325, 251, 132 del 1997, 
nn. 339, 269, 6 del 1996, n. 68 del 1993; sentenze nn. 375 e 265 del 1997, n. 379 
del 1996, n. 231 del 1975). 

Sotto il medesimo profilo, anche la legittimazione a resistere nel presente 
conflitto deve essere riconosciuta alla Camera dei deputati, in quanto organo 
competente, al pari del Senato della Repubblica, a dichiarare definitivamente la 
volont� del potere che rappresenta, in ordine all'applicabilit� dell'art. 68, primo 
comma, della Costituzione (v. ordinanze nn. 254, 177 e 37 del 1998, 325 e 251 del 
1997, n. 339 del 1996; sentenze nn. 375 e 265 del 1997, n. 129 del 1996, n. 443 del 
1993, n. 1150 del 1988). 

Anche sotto il profilo oggettivo il conflitto � ammissibile, il Tribunale di 
Bergamo lamentando la menomazione della propria sfera di attribuzioni, 
costituzionalmente garantita, in conseguenza di un esercizio ritenuto illegittimo, 
per erronea valutazione dei presupposti, del potere, spettante alla Camera di 
appartenenza del parlamentare, di dichiarare l'insindacabilit� delle opinioni di 
quest'ultimo, a norma dell'art. 68, primo comma, della Costituzione (v. 
ordinanze n. 254 del 1998, nn. 469, 325, 251 e 132 del 1997, n. 339 del 1996, n. 
68 del 1993; sentenze nn. 1150 del 1988, n. 443 del 1993, n. 129 del 1996; nn. 
375 e 265 del 1997). 

5. -Nel merito, il ricorso � fondato. 
5 .1. -Secondo l'ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte, il giudice 
costituzionale, che non � chiamato a riesaminare nel merito la valutazione 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO � �

232 

compiuta dalla Camera, deve verificare se vi sia stato un corretto esercizio del 
potere, riservato alla Camera di appartenenza, di dichiarare l'insindacabilit� del 
comportamento contestato al membro del Parlamento, anche sotto il profilo della 
sussistenza e della non arbitraria valutazione dei presupposti ai quali il primo 
comma dell'art. 68 condiziona l'operare della prerogativa di irresponsabilit�. 
Sotto questo profilo, il giudice del conflitto deve accertare se l'esercizio di tale 
potere abbia determinato la lamentata illegittima interferenza nelle attribuzioni 
dell'autorit� giudiziaria (v. le sentenze nn. 375 e 265 del 1997, 129 del 1996, 1150 
del 1988). 

Nell'ambito del sindacato sul corretto esercizio, da parte delle Camere, del 
potere loro spettante di qualificare i comportamenti dei parlamentari alla stregua 
dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, costituisce premessa ormai costante 
il principio, concernente i presupposti di applicabilit� della prerogativa di 
insindacabilit�, per cui quest'ultima non si estende a tutti i comportamenti di chi 
sia membro delle Camere, ma solo a quelli funzionali all'esercizio delle 
attribuzioni proprie del potere legislativo (v. spec. le sentenze nn. 375 del 1997 e 
379 del 1996). 

Questa Corte ha recentemente avuto occasione di precisare che proprio il nesso 
funzionale costituisce il discrimine fra quell'insieme di dichiarazioni, giudizi e 
critiche -che ricorrono cos� di frequente nell'attivit� politica di deputati e senatori 
-e le opinioni che godono �della particolare garanzia prevista dall'art. 68, primo 
comma, della Costituzione (sentenza n. 375 del 1997). 

Nella vicenda che ha originato il presente conflitto non � dato ravvisare -alla 
luce degli elementi desumibili dalla delibera di insindacabilit� e dalla relazione della 
Giunta in essa richiamata, nonch� dalle deduzioni svolte dalla difesa della Camera 
-un collegamento tra le espressioni contestate come diffamatorie al deputato e la 
sua attivit� parlamentare. Nei comportamenti sottoposti alla cognizione del 
Tribunale di Bergamo, in altri termini, non � possibile rintracciare una connessione 
con atti tipici della funzione, n� risulta possibile individuare un intento divulgativo 
di una scelta o di un'attivit� politico-parlamentare. 

In particolare, dalla relazione della Giunta non emerge alcuna indicazione 
idonea ad evidenziare il necessario collegamento con le funzioni, richiesto dall'art. 
68 della Costituzione, ma in essa si legge semplicemente che �tutte le affermazioni 
rese dal deputato Calderoli traggono spunto dalla sua posizione di deputato e di 
leader locale della Lega Nord�. 

N� alcun elemento chiarificatore pu� trarsi dal seguito della -per altro molto 
sintetica -relazione della Giunta per le autorizzazioni a procedere dove si legge 
che Ǐ apparso evidente alla Giunta il collegamento tra gli apprezzamenti critici ... 
rivolti, tanto nei confronti del Presidente della Repubblica quanto nei confronti della 
magistratura bergamasca, e l'attivit� ... svolta nella sede parlamentare, in quanto, tra 
l'altro, i temi trattati sono tipici e caratteristici del gruppo parlamentare al quale il 
deputato appartiene�. 

Dalla asserita omogeneit� tematica di tali apprezzamenti all'attivit� politica del 
gruppo parlamentare di appartenenza non si vede come si possano, mancando 
l'indicazione di qualsiasi elemento di fatto, derivare elementi idonei a dimostrare la 

E 

-



PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

connessione funzionale richiesta come condizione di applicabilit� dell'art. 68, primo 
comma, della Costituzione. 

Quanto poi al collegamento dei comportamenti portati alla cognizione del 
giudice civile con l'�attivit� parlamentare� richiamata nella relazione della Giunta, 
� da rilevare che nella stessa si rinviene una pura affermazione apodittica, non 
suffragata da alcun puntuale riferimento. 

5.2. -Sotto questo profilo non pu� rilevare una interrogazione presentata dal 
deputato Calderoli nel giugno 1994, in epoca successiva, quindi, al ricevimento 
dell'avviso di garanzia all'origine delle dichiarazioni diffamatorie contestate al deputato. 
Come attivit� libera nel fine e di natura generale, ha di recente precisato questa 
Corte, la funzione parlamentare non si risolve solo negli atti tipici, ricomprendendo 
anche quanto di essi sia presupposto o conseguenza. Nondimeno, non si pu� 
ricondurvi l'intera attivit� politica svolta dal deputato o dal senatore: tale 
interpretazione finirebbe per vanificare il nesso funzionale posto dall'art. 68, primo 
comma, e comporterebbe il rischio di trasformare la prerogativa in un privilegio 
personftle (sentenza n. 375 del 1997). 

Un collegamento funzionale non pu� ravvisarsi tra le ripetute allusioni, 
pronunciate in occasione di comizi, conferenze stampa e trasmissioni televisive, a 
scorrettezze od illeciti asseritamente compiuti da magistrati, ed una interrogazione 
successivamente rivolta al Ministro di grazia e giustizia per chiedere al medesimo 
se intenda promuovere attivit� ispettive volte ad accertare l'effettivo compimento 
delle. scorrettezze e degli illeciti stessi. 

Con indebita inversione, si pretende in tal modo di attrarre nell'area 
dell'insindacabilit� la divulgazione di gravi addebiti nelle pi� diverse occasioni 
pubbliche, ma non nella sede parlamentare. 

Diversamente opinando, qualsiasi affermazione, anche ritenuta gravemente 
diffamatoria e-ci� che conta-estranea alla funzione od all'attivit� parlamentare, 
potrebbe diventare insindacabile a seguito della semplice presentazione in data 
successiva al fatto di un'interrogazione ad hoc. 

5.3. -Parimenti inidonea ad asseverare il nesso funzionale che condiziona 
l'operativit� della prerogativa dell'irresponsabilit� per le opinioni espresse dai 
membri del Parlamento � l'affermazione -anch'essa contenuta nella relazione 
della Giunta e non sorretta da alcuna argomentazione -secondo la quale appare 
�del tutto evidente� come la polemica nei confronti del procuratore della 
Repubblica di Bergamo �risulti strettamente collegata con la vicenda delle frasi 
rivolte al Presidente della Repubblica�. 
6. -La palese mancanza di un nesso funzionale intercorrente tra i 
comportamenti per i quali il deputato Calderoli � chiamato a rispondere davanti al 
Tribunale di Bergamo e l'esercizio -anteriore o successivo a tali comportamenti 
-della funzione parlamentare, rende dunque la deliberazione di insindacabilit� 
adottata dalla Camera dei deputati il 31 gennaio 1996, nella parte in cui si riferisce 
al procedimento civile pendente davanti al Tribunale ricorrente, lesiva delle 
attribuzioni di quest'ultimo. 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

234 

PER QUESTI MOTIVI 

LA CORTE COSTITUZIONALE 

dichiara che non spetta alla Camera dei deputati dichiarare l'insindacabilit�, ai 
sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dal 
deputato Roberto Calderoli, secondo quanto deliberato dalla stessa Camera dei 
deputati il 31 gennaio 1996, in relazione ai fatti per i quali � stato promosso contro il 
suddetto un procedimento civile davanti al Tribunale di Bergamo, e conseguentemente 
annulla la deliberazione adottata dalla Camera dei deputati il 31 gennaio 1996, nella 
parte in cui si riferisce al medesimo procedimento civile. (omissis) 

CORTE COSTITUZIONALE, 24 luglio 1998, n. 332 -Pres. Vassalli -Red. 
Mirabelli -Presidente del Consiglio dei Ministri (avv. Stato Caramazza) c. 
Regione Siciliana (avv.ti Castaldi e Ingargiola). 

Trattati internazionali -Regioni -Conflitto di attribuzione per riserva allo 
Stato del �potere estero� -Inammissibilit� del ricorso proposto oltre il 
termine perentorio di sessanta giorni dalla effettiva conoscenza dell'atto 
impugnato -Fattispecie -Subordinazione dell'efficacia del trattato 
stipulato dalla Regione e successiva approvazione -Irrilevanza. 

La pronuncia di inammissibilit� del ricorso per conflitto di attribuzione per 
decorso del termine perentorio di sessanta giorni dalla effettiva conoscenza 
del!' atto impugnato � subordinata alla prova rigorosa di tale effettiva conoscenza 
da data anteriore (1). 

La sottoscrizione da parte di una Regione di accordi con organi o enti esteri 
senza che la Regione abbia preventivamente informato il Governo e senza quindi la 
necessaria intesa o assenso (necessari per verificare la compatibilit� degli accordi 
con g/.i indirizzi di politica estera riservati alla competenza dello Stato) � di per s� 
lesiva della sfera di attribuzioni statali, a nulla rilevando la subordinazione 
dell'efficacia dell'accordo ad una successiva approvazione �in base alla 
legislazione statale e/o regionale� (2). 

(1 -2) La sentenza in rassegna si segnala non tanto per la riaffermata riserva del �potere 
estero� allo Stato, in linea con un indirizzo ormai da tempo consolidato (oltre alla sentenza citata 
in motivazione, vedansi per tutte Corte Cost. 28 giugno 1985 n. 187, 22 maggio 1987 n. 179; 21 
aprile 1993 n. 204) quanto per le affermazioni in materia di prova della eccepita intempestivit� 
del ricorso e di efficacia dell'intesa internazionale. 

Sul primo punto la Corte afferma espressamente un principio di rigore elaborato dalla 
giurisprudenza amministrativa -e di portata panprocessuale -in tema di irricevibilit� dei 
ricorsi. Nella specie, il Dipartimento del Turismo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, 
con lettera in cui si faceva riferimento a precorsa corrispondenza con il Ministero degli 
Esteri, aveva trasmesso copia dei protocolli esteri stipulati dalla Regione Sicilia al 



PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

235 

(omissis) 

1. -Il conflitto di attribuzione proposto dal Presidente del Consiglio dei Ministri 
nei confronti della Regione Siciliana investe l'accordo di cooperazione nel campo del 
turismo ed il primo protocollo riguardante tale accordo, sottoscritti a Malta il 17 
marzo 1997 dall'Assessorato per il turismo, sport, spettacolo, comunicazioni e 
trasporti della Regione e dal Ministero del turismo della Repubblica di Malta. 
Il ricorrente ritiene che questi atti, sottoscritti dalla Regione senza averne dato 
preventiva comunicazione al Governo -come invece richiederebbe il principio di 
leale cooperazione, per consentire di verificarne la conformit� degli stessi con gli 
indirizzi di politica internazionale -siano lesivi di attribuzioni statali. Essi 
sarebbero stati stip�lati non con un ente omologo alla Regione, ma con uno Stato, 
determinando l'appropriazione da parte della Regione di un ruolo che non le spetta. 
Il contenuto degli atti toccherebbe materie di competenza statale, quali la 
costituzione di societ� miste, la disciplina delle formalit� di frontiera e della 
navigazione marittima ed aerea, sino a prefigurare una collaborazione di politica 
internazionale mediante un protocollo di alleanza per la penetrazione congiunta sui 
mercati esteri nel settore del turismo. 

2. -Le eccezioni di inammissibilit� del ricorso, proposte dalla Regione 
Siciliana, non sono fondate. 
Anzitutto non pu� essere accolta l'eccezione di inammissibilit� per tardivit� del 
ricorso, non avendo la Regione provato che esso sia stato proposto dopo la scadenza 
del termine di sessanta giorni dalla conoscenza degli atti impugnati (art. 39, secondo 
comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87). Difatti non risulta che la Regione abbia 
trasmesso al Governo l'accordo ed il protocollo ad esso relativo, n� che abbia 
altrimenti informato della sottoscrizione di tali atti e del loro contenuto, in modo da 
far decorrere dalla conoscenza di essi il termine per proporre ricorso. Il primo 
documento che denota la conoscenza degli atti impugnati, depositato dal Presidente 
del Consiglio dei Ministri, � costituito dalla comunicazione con la quale il 
Dipartimento del turismo ha trasmesso al Dipartimento affari regionali copia di tali 
atti (19 maggio 1997): non �, dunque, certo che il ricorrente ne avesse piena e 
completa conoscenza in una data diversa da quest'ultima, dalla quale decorrono i 
termini per ricorrere previsti dall'art. 39 della legge n. 87 del 1953. Il ricorso, 
notificato il 17 luglio 1997, � dunque da considerare tempestivo. 

Dipartimento affari regionali il sessantesimo giorno precedente la notifica del ricorso per 
conflitto. 

Assumeva la difesa della Regione che da tali fatti era giocoforza presumere una piena 
conoscenza anteatta. La Corte ha superato l'eccezione sulla scorta della considerazione che una piena 
conoscenza anteriore, per quanto assai probabile, non era comunque comprovata con assoluta certezza. 

Sul secondo punto la Corte ha fatto applicazione di un principio di teoria generale del diritto 
internazionale, secondo il quale la sottoscrizione di un accordo internazionale, pur non essendo 
sufficiente a far sorgere le norme pattizie in esso previste (per il che � necessaria la ratifica: cfr. 

G. MORELLI, Nozioni di diritto internazionale, IV ed., 286 ss.) costituisce tuttavia attivit� 
rilevante sul piano del diritto internazionale ed � quindi, in linea di principio, riservata allo Stato. 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

236 

Parimenti infondata � la seconda eccezione di inammissibilit�, formulata 
supponendo che manchi la deliberazione del Consiglio dei Ministri, al quale � 
riservata la competenza a deliberare sulle proposte di sollevare conflitti di 
attribuzione (art. 2, comma 3, lettera g) della legge 23 agosto 1988, n. 400). Difatti 
dagli atti depositati dal ricorrente risulta che, su proposta del Ministro per la funzione 
pubblica e gli affari regionali, il Consiglio dei Ministri, nella riunione dell'll luglio 
1997, ha adottato la determinazione di sollevare conflitto di attribuzione nei confronti 
della Regione Siciliana avverso l'accordo di cooperazione ed il relativo protocollo. 

Egualmente infondata � l'eccezione di inammissibilit� proposta dalla Regione 
Siciliana sull'asserito presupposto che la eventuale lesione delle competenze statali 
non sarebbe attuale, giacch� l'accordo impugnato stabilisce (art. 9) che esso Ǐ 
soggetto ad approvazione in base alla legislazione nazionale e/o regionale di ogni 
Parte e sar� esecutivo nel giorno in cui lo scambio delle note confermer� la predetta 
approvazione�. Questa clausola risponde alla procedura di stipulazione degli 
accordi sottoscritti da chi rappresenta le parti, alle quali � successivamente rimessa 
la deliberazione diretta a formare la volont�, che viene comunicata poi all'altra parte 
contraente con lo scambio degli atti di approvazione, determinando in tal modo il 
perfezionamento del vincolo. La clausola considerata non fa alcun riferimento 
all'autorizzazione governativa, la quale, si assume dalla difesa della Regione, 
avrebbe avuto efficacia condizionante l'accordo. In ogni caso la stessa 
sottoscrizione da parte della Regione di un accordo con uno Stato estero � tale da 
interferire con attualit� nelle attribuzioni statali, essendo suscettibile di essere 
valutata in relazione agli indirizzi della politica internazionale. 

3. -Nel merito il ricorso � fondato. 
La giurisprudenza costituzionale ha pi� volte affermato che la sottoscrizione di 
accordi con organi o enti esteri senza che la Regione abbia preventivamente 
informato il Governo, quindi senza la necessaria intesa o assenso, � di per s� lesiva 
della sfera di attribuzioni statali (sentenze nn. 204 e 290 del 1993; n. 212 del 1994). 

Ancor prima, quindi, di valutare in modo puntuale il contenuto degli atti 
denunciati come lesivi e di analizzare le materie che essi trattano, gli stessi risultano 
illegittimi per essere stati sottoscritti dal rappresentante della Regione senza che sia 
stato preventivamente informato il Governo, il quale deve essere messo in grado, in 
osservanza del principio di leale cooperazione, di verificare la compatibilit� di tali 
atti con gli indirizzi di politica estera, riservati alla competenza dello Stato. 

Gli atti denunciati devono essere, pertanto, annullati. (omissis) 

CORTE COSTITUZIONALE, 26 settembre 1998, n. 347 -Pres. Granata -Red. 
Santosuosso. 

Famiglia -Marito affetto da impotentia generandi -Consenso all'inseminazione 
artificiale eterologa della moglie -Disconoscimento della paternit� ai sensi 
dell'art. 235 primo comma, n. 2) codice civile -Questione di legittimit� 
costituzionale -Inammissibilit�. 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

237 

Ai sensi dell'art. 235, primo comma, n. 2 codice civile riguardante 
esclusivamente la generazione che segue ad un rapporto adulterino -il padre 
affetto da impotentia generandi che abbia acconsentito alla fecondazione artificiale 
eterologa della moglie in costanza di matrimonio non � legittimato ad esercitare 
l'azione per il disconoscimento della paternit�, pertanto � inammissibile la 
questione di legittimit� costituzionale di tale norma in riferimento agli artt. 2, 3, 29, 
30 e 31 della Costituzione (1). 

(omissis) 

1. -Il tribunale di Napoli dubita della legittimit� costituzionale dell'art. 235, 
codice civile, in relazione agli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 della Costituzione, in quanto il 
primo comma, n. 2, consentirebbe di esperire l'azione per il disconoscimento di 
paternit� al marito che, affetto da impotenza nel periodo che va dal trecentesimo al 
centottantesimo giorno prima della nascita del figlio concepito durante il 
matrimonio, abbia dato il proprio consenso all'inseminazione artificiale eterologa 
della moglie. Il giudice a quo presuppone che nell'attuale sistema, stante il tenore 
letterale della disposizione in esame, al consenso prestato dal marito 
all'inseminazione eterologa della moglie non possa essere collegato alcun effetto 
preclusivo dell'azione di disconoscimento, ove ricorra una delle ipotesi (nel caso, 
impotenza a generare) previste dalla legge. 
Ad avviso del giudice rimettente la norma anzidetta sarebbe in contrasto con gli 
evocati parametri costituzionali, in quanto: 

� interesse del minore non vedersi privato del nome, dell'identit� personale e 
della stessa possibilit� di avere un padre; 

risponde a fondamentali princ�pi costituzionali che ogni figlio abbia diritto ad 
essere mantenuto, istruito ed educato dai propri genitori, tali dovendosi considerare 
quelli che hanno preso la decisione della sua procreazione; mentre nessun rapporto 
di paternit� potrebbe essere instaurato col padre biologico. 

2. -La questione � inammissibile. 
Il giudice rimettente -pur rilevando la mancanza di una puntuale disciplina 
legislativa che stabilisca la legittimit� o meno ed i limiti della fecondazione assistita, 

(1) La Corte sottolinea che la ratio dell'art. 235 codice civile � di disciplinare il 
disconoscimento della paternit� nelle tassative ipotesi, ivi indicate, in cui si presume che la 
gravidanza sia riconducibile ad un rapporto sessuale adulterino. Pertanto il caso 
dell'inseminazione eterologa (effettuata con il consenso del coniuge), non prevedibile all'epoca 
dell'approvazione della norma, non presenta la necessaria identit� di ratio per essere disciplinato 
anch'esso dall'art. 235 codice civile. 
Resta per� una carenza normativa che, secondo la Corte, il legislatore dovr� colmare 
tenendo conto delle preminenti prerogative del figlio il quale, non potendo ragionevolmente 
stabilire alcun rapporto con chi si � limitato a donare il seme (peraltro restando anonimo) non 
potr� essere del tutto privato di un suo status nel rapporto di filiazione patema. 

A ci� si aggiunge che il consenso prestato dal marito all'inseminazione eterologa della 
moglie costituisce una assunzione di responsabilit� anche nei confronti del figlio che appare 
incompatibile con il successivo disconoscimento della paternit�. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

238 

regolando inoltre i rapporti fra i soggetti coinvolti nelle relative vicende, tra cui la 
posizione del minore -parte dal presupposto che il caso particolare sul quale � 
chiamato a decidere (nascita di un bambino mediante fecondazione assistita 
eterologa, in costanza di matrimonio, col consenso di entrambi i coniugi) rientri 
nella portata dell'art. 235, primo comma, n. 2, codice civile, ma solleva dubbi di 
legittimit� costituzionale, considerate le conseguenze che egli ritiene di dover trarre 
da questa disposizione. 

Sennonch� questa norma riguarda esclusivamente la generazione che segua ad 
un rapporto adulterino, ammettendo il disconoscimento della paternit� in tassative 
ipotesi, quando le circostanze indicate dal legislatore facciano presumere che la 
gravidanza sia riconducibile, in violazione del dovere di reciproca fedelt�, ad un 
rapporto sessuale con persona diversa dal coniuge. 

La possibilit� che ipotesi nuove, non previste al tempo dell'approvazione di una 
norma, siano disciplinate dalla stessa non � da escludersi in generale. Ma tale 
possibilit� implica un'omogeneit� di elementi essenziali e un'identit� di ratio; nella cui 
carenza l'estensione della portata normativa della legge si risolverebbe in un arbitrio. 

� quanto accadrebbe una volta che, ai fini dell'esperibilit� dell'azione di 
disconoscimento di paternit�, l'ipotesi in esame fosse equiparata a quelle, tanto 
dissimili, previste dall'art. 235 del codice civile. 

3. -L'estraneit� della fattispecie oggetto del giudizio alla disciplina censurata 
comporta l'inammissibilit� della sollevata questione; dalla quale tuttavia emerge 
una situazione di carenza dell'attuale ordinamento, con implicazioni costituzionali. 
Non si tratta in alcun modo, in questa occasione, di esprimersi sulla legittimit� 
dell'inseminazione artificiale eterologa, n� di mettere in discussione il principio di 
indisponibilit� degli status nel rapporto di filiazione, principio sul quale sono 
suscettibili di incidere le varie possibilit� di fatto oggi offerte dalle tecniche 
applicate alla procreazione. Tutto ci� resta fuori dal presente giudizio di 
costituzionalit�. Si tratta invece di tutelare anche la persona nata a seguito di 
fecondazione assistita, venendo inevitabilmente in gioco plurime esigenze 
costituzionali. 

Preminenti in proposito sono le garanzie per il nuovo nato (v. le sentenze n. 10 
del 1998; n. 303 del 1996; n. 148 del 1992; nn. 27 e 429 del 1991; e nn. 44 e 341 
del 1990), non solo in relazione ai diritti e ai doveri previsti per la sua formazione, 
in particolare dagli artt. 30 e 31 della Costituzione, ma ancor prima -in base all'art. 
2 della Costituzione -ai suoi diritti nei confronti di chi si sia liberamente 
impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilit�: diritti che � 
compito del legislatore specificare. 

4. -L'individuazione di un ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni 
costituzionali coinvolti, nel rispetto della dignit� della persona umana, appartiene 
primariamente alla valutazione del legislatore. Tuttavia, nell'attuale situazione di 
carenza legislativa, spetta al giudice ricercare nel complessivo sistema normativo 
l'interpretazione idonea ad assicurare la protezione degli anzidetti beni 
costituzionali (omissis). 

PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

239 

CORTE COSTITUZIONALE, 9 ottobre 1998, n. 350 -Pres. Granata -Red. 
Mirabelli -Presidenza del Consiglio dei Ministri (avv. Stato Polizzi). 

Esecuzione forzata -Pignoramento presso terzi -Contabilit� speciale delle 
Prefetture -Impignorabilit� fondi speciali -Onere notifica pignoramento 
al direttore di ragioneria -Nullit� rilevabile d'ufficio -Legittimit�. 
(Cost. artt. 3, 24, 25, 28 e 113; d. l. 25 maggio 1994 n. 313, conv. in legge 22 luglio 1994 n. 

460, art. 1, comma 3). 

� legittima la norma che ha reso impignorabili i fondi speciali delle Prefetture, 
disponendo, a pena di nullit� rilevabile di ufficio, che il pignoramento presso terzi 
sia notificato al direttore di ragioneria responsabile presso la Prefettura nella cui 
circoscrizione risiede il creditore (1). 

(omissis) 

1. -Con ordinanza emessa il 21 novembre 1996 nel corso di un giudizio 
promosso da un creditore che, avendo notificato atto di pignoramento presso terzi 
in danno del Ministero dell'interno alla Banca d'Italia -servizio di tesoreria 
provinciale di Avellino, e non essendo questa comparsa a rendere dichiarazione 
sulla esistenza di quali somme destinate alla prefettura si trovasse in possesso, 
aveva chiesto che si procedesse ad accertare l'esistenza di somme dovute dalla 
tesoreria alla prefettura, il pretore di Avellino ha sollevato, in riferimento agli artt. 
3, 24, 25, 28 e 113 della Costituzione, questione di legittimit� costituzionale 
dell'intero art. 1 del decreto-legge 25 maggio 1994, n. 313 (Disciplina dei 
pignoramenti sulle contabilit� speciali delle prefetture, delle direzioni di 
amministrazione delle Forze armate e della Guardia di finanza), convertito, con 
modificazioni, nella legge 22 luglio 1994, n. 460. 
La norma denunciata prevede che i pignoramenti sui fondi di contabilit� 
speciale a disposizione delle prefetture, destinati a servizi e finalit� di protezione 
civile, di difesa nazionale e di sicurezza pubblica, al rimborso delle spese anticipate 
dai comuni per l'organizzazione delle consultazioni elettorali, nonch� al pagamento 
di emolumenti e pensioni a qualsiasi titolo dovuti al personale amministrativo, non 

(1) Per evidenziare la rilevanza della sentenza in rassegna giova ripercorrere le tappe della 
vicenda che ha portato alla pronuncia della Corte, ricordando che essa fa seguito ad altra (263/96) 
avente ad oggetto la medesima questione, sollevata dallo stesso Pretore nello stesso giudizio di 
merito ed in relazione alla quale la Corte Costituzionale aveva cos� deliberato: 
(omissis) �Preliminarmente deve essere esaminata l'eccezione, proposta dall'Avvocatura 

dello Stato, di inammissibilit�, per irrilevanza, della questione di legittimit� costituzionale. 
L'eccezione � fondata. 
La questione � stata sollevata nel corso di un procedimento di espropriazione presso terzi, 

dopo che il creditore procedente aveva provveduto a notificare l'ingiunzione al debitore e 
l'intimazione al terzo (art. 543, codice procedura civile), citato a comparire dinanzi al pretore per 
dichiarare di quali somme del debitore sottoposto ad esecuzione fosse in possesso (art. 547, 
codice procedura civile). La mancata comparizione del terzo conclude questa fase, ed il 
procedimento esecutivo si estingue, a meno che il creditore procedente, a seguito della mancata 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

240 

sono soggetti ad esecuzione forzata (comma 1 ). La stessa disposizione prevede: che 
i pignoramenti ed i sequestri aventi ad oggetto le somme affluite nelle contabilit� 
speciali delle prefetture, come pure ogni altro atto consequenziale, si eseguono 
esclusivamente, a pena di nullit� rilevabile d'ufficio, con atto notificato al direttore 
di ragioneria responsabile presso le prefetture nella cui circoscrizione risiedono i 
soggetti privati interessati; che il funzionario di prefettura, cui sia stato notificato 
atto di pignoramento o di sequestro, � tenuto a vincolare l'ammontare, sempre che 
esistano sulla contabilit� speciale fondi la cui destinazione sia diversa da quelle 
indicate al comma 1 (commi 2 e 4). Inoltre la stessa disposizione prevede che non 
sono ammessi atti di sequestro o di pignoramento presso le sezioni di tesoreria dello 
Stato, a pena di nullit� rilevabile anche d'ufficio (comma 3). 

Il pretore di Avellino ritiene che questa disciplina introduca nuovamente la 
regola della impignorabilit� delle somme di denaro e dei crediti pecuniari dello 
Stato, basata sulla discrezionalit� della pubblica amministrazione nell'uso delle 
proprie risorse patrimoniali e sulla destinazione ad un pubblico servizio delle 
somme che, con l'iscrizione nel bilancio, sarebbero vincolate sia per 
l'amministrazione che per i terzi. Il principio della divisione dei poteri non 
consentirebbe ingerenze nell'azione amministrativa mediante l'azione esecutiva, 
che incontrerebbe perci� un limite nello stanziamento di bilancio e nella emissione 
del titolo di spesa; in tal modo l'amministrazione rimarrebbe arbitra nella scelta dei 
crediti da soddisfare. Questa concezione -ricorda il giudice rimettente -sarebbe 
da tempo superata, giacch� � stata affermata l'ammissibilit� della condanna della 
pubblica amministrazione al pagamento di somme di denaro, e di conseguenza 
anche l'esecuzione per espropriazione; mentre il vincolo di destinazione ad un 
pubblico servizio, che rende i beni non disponibili e non suscettibili di esecuzione 
forzata, dovrebbe essere specificatamente accertato. 

Il giudice rimettente richiama la giurisprudenza costituzionale che ha affermato 
la necessit� di individuare i limiti di pignorabilit� in relazione alla natura ed alla 
destinazione dei beni dei quali di volta in volta si chiede l'espropriazione (sentenza 

(o della contestata) dichiarazione del terzo, proponga istanza per l'accertamento del diritto del 
debitore nei confronti del terzo. Solo in tal caso la questione di legittimit� costituzionale, 
sollevata dal giudice rimettente, si configurerebbe come pregiudiziale rispetto al suo giudizio. 

Non risulta dall'ordinanza di rimessione, n� dagli atti, che, successivamente alla mancata 
comparizione del terzo chiamato a rendere la sua dichiarazione, il creditore abbia esperito 
l'azione per il giudizio di cognizione, proponendo la relativa istanza. La questione di legittimit� 
costituzionale, dunque, nel momento in cui � stata sollevata non era rilevante nel giudizio 
principale e deve essere dichiarata inammissibile� (omissis). 

A seguito di tale pronuncia il V.P.O. di Avellino riproponeva la questione con ordinanza 21 
novembre 1996, che pure merita riportare nella sua integrit�: 

(omissis) �Con atto di pignoramento presso terzi il creditore Adamo Giuseppe pignorava, in 
danno del debitore Ministero dell'interno e presso il terzo Banca d'Italia, servizio di Tesoreria 
provinciale di Avellino, quanto dovutogli in virt� di sentenza esecutiva. 

Non si costituivano n� il debitore n� il terzo. 

Il creditore chiedeva disporsi il giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo. 

Il V.P.O. G.E. si riservava. 



PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

241 

n. 138 del 1981). L'art. 1 del decreto-legge n. 313 del 1994 tenderebbe, invece, a 
realizzare una impignorabilit� generalizzata, sul presupposto, prima richiamato ed 
oramai superato, che sia esclusa l'esecuzione forzata nei confronti della pubblica 
amministrazione. La disposizione denunciata finirebbe cos� con il tutelare il 
soggetto e non gi� la funzione pubblica, con la conseguenza che l'amministrazione 
non sarebbe pi� tenuta al principio per il quale il debitore risponde 
dell'adempimento delle sue obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri, e che 
verrebbe anche meno la parit� di condizioni dei creditori. Inoltre la deroga alla 
competenza territoriale ed il divieto di utilizzare i comuni strumenti processuali 
dell'esecuzione forzata sarebbero in contrasto con gli artt. 3, 24 e 25 della 
Costituzione. 
2. -Si � costituito in giudizio il creditore che procedeva alla esecuzione nel 
giudizio principale, ribadendo e sviluppando le argomentazioni dell'ordinanza che 
ha sollevato la questione di legittimit� costituzionale e sostenendo che l'art. 1 del 
decreto-legge n. 313 del 1994 ripristinerebbe la discrezionalit� dell'amministrazione 
nell'adempimento in sede esecutiva. 
Difatti la capillare classificazione dei cespiti qualificati come non soggetti ad 
esecuzione tenderebbe a realizzare una impignorabilit� generalizzata, riproponendo 
principi oramai superati dalla giurisprudenza costituzionale. 

Inoltre la possibilit� di procedere all'esecuzione solo nella circoscrizione nella 
quale risiede il creditore, travolgerebbe le regole della competenza territoriale e 
limiterebbe la responsabilit� del debitore, che risponderebbe soltanto con i beni che 
si trovano in quella circoscrizione. 

Infine contenere l'attivit� dell'ufficiale giudiziario entro la sola notifica del 
pignoramento, lasciando al funzionario di prefettura la verifica dell'esistenza di 
fondi pignorabili, affiderebbe ad un'attivit� amministrativa del debitore, al di fuori 
del controllo giurisdizionale, la valutazione se vincolare o meno le somme delle 
quali si chiede il pignoramento. 

DIRITTO 

Il V.P.O. G.E., ritiene sussista una questione di costituzionalit� della legge 22 luglio 1994, 

n. 460 per la conversione in legge con modificazioni del decreto-legge 25 maggio 1994, n. 313 
recante la disciplina dei pignoramenti sulla contabilit� speciale delle prefetture, delle direzioni di 
amministrazioni delle Forze armate e della Guardia di Finanza, in relazione agli articoli 3, 24, 25, 
28 e 113 della Costituzione. 
Tale questione � pregiudiziale al richiesto giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo. 

Peraltro � ben noto che la mancata comparizione del terzo � legata ad un'interpretazione 
della legge n. 460/1994 in virt� della quale si ritiene nullo di ufficio il pignoramento che si 
considera non proposto con le modalit� di cui alla legge stessa. 

Orbene, la questione di costituzionalit� non � manifestamente infondata per i motivi che 
seguono. 

Con la legge n. 460 del 1994, il legislatore ripropone tesi e principi gi� superati dalla Consulta. 

La norma vorrebbe infatti introdurre nuovamente il superato principio della impignorabilit� 

delle somme di denaro e di crediti pecuniari dello Stato e degli enti pubblici in base al principio 
della divisione dei poteri. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

242 

3. -� intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, 
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la 
questione di legittimit� costituzionale sia dichiarata inammissibile o, nel merito, 
infondata. 
L'inammissibilit� � dedotta per pi� profili. La questione di legittimit� 
costituzionale non sarebbe rilevante nel giudizio principale, giacch� nella fase di 
passaggio tra il processo esecutivo e quello di cognizione, destinato 
all'accertamento del debito del terzo per il quale era stato chiesto il pignoramento, 
il giudice non avrebbe dovuto fare applicazione della disciplina denunciata, potendo 
solo dar corso al giudizio di accertamento, se competente per valore, o rimettere 
altrimenti gli. atti al giudice competente. 

Inoltre l'ordinanza di rimessione, pur denunciando l'intero art. 1 del decretolegge 
n. 313 del 1994, sarebbe motivata soltanto con riferimento al primo comma, 
che stabilisce l'impignorabilit� delle somme iscritte nelle contabilit� speciali di 
alcune amministrazioni, destinate a specifici fini pubblici di particolare rilevanza. 
La stessa ordinanza non motiverebbe affatto sugli altri commi della stessa 
disposizione, che riguardano le modalit� dei pignoramenti, da effettuare 
sostanzialmente nella forma del pignoramento diretto, ed escludono il pignoramento 
presso le sezioni di tesoreria dello Stato. La questione di legittimit� costituzionale 
sarebbe pertanto inammissibile per la parte che investe queste norme. Ma sarebbe 
inammissibile anche con riferimento al primo comma, perch� sarebbe stato 
necessario preliminarmente accertare che esistevano soltanto fondi di contabilit� 

Argomentavano i sostenitori di quell'orientamento che la tutela dell'indipendenza 
dell'amministrazione esigeva che il g.o. non avesse ingerenza nella condotta degli affari 
amministrativi n� influenzasse i tempi ed i modi necessari a soddisfare gli interessi pubblici. 

La discrezionalit� della pubblica amministrazione nell'uso delle proprie risorse patrimoniali 
doveva restare integra, con la conseguenza che, nell'eventualit� di condanna pecuniaria, la 
soddisfazione del credito con l'azione esecutiva incontrava il duplice limite nello stanziamento in 
bilancio della relativa spesa e dell'emissione del titolo, ad ottenere il quale non vi sarebbe stato 
diritto soggettivo stante la discrezionalit� dell'amministrazione nella scelta dei crediti da soddisfare. 

Corollario di questa impostazione era che bastava l'iscrizione di somme o di crediti nei 
bilanci preventivi dello Stato o degli enti pubblici per farli qualificare �beni destinati ad un 
pubblico servizio� ex art. 828, ultimo comma, codice civile, quindi inalienabili e correlativamente 
inespropriabili sostenendosi, in particolare, che la legge di approvazione del bilancio non 
vincolava soltanto la pubblica amministrazione ma operava anche nei confronti dei terzi. 

Senonch� questa giurisprudenza � stata modificata dalla Consulta che, con le sentenze nn. 
32/1970 e 16111971, aveva negato che la intangibilit� dell'atto amministrativo traesse origine dal 
principio della divisione dei poteri perch� l'art. 113 della Costituzione, ultimo comma, lascia al 
legislatore ordinario di determinare quali organi di giurisdizione possano annullare gli atti 
amministrativi. 

Su questo presupposto la dottrina ha sostenuto che la pubblica amministrazione ha una 
posizione di preminenza non in quanto soggetto, ma in quanto esercita una potest� specificamente 
ed esclusivamente attribuitale nelle forme loro proprie. 

In altre parole � protetto non il soggetto, ma la funzione, ed alle singole manifestazioni della 
pubblica amministrazione che � assicurata efficacia per il raggiungimento di fini ad essa 
assegnati. 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

243 

speciale presso la tesoreria a disposizione della prefettura e destinati alle finalit� che 
li rendono impignorabili; inoltre la questione avrebbe potuto essere sollevata solo 
subordinatamente a quella che investe i commi successivi. 

Ad avviso dell' Awocatura, le questioni sollevate con riferimento ai commi 2 e 3 
della disposizione denunciata sarebbero in ogni caso infondate, giacch� non 
contraddice al principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) una diversa disciplina 
processuale del pignoramento di speciali somme di pertinenza di determinate 
amministrazioni pubbliche, con esclusione del ricorso al pignoramento presso terzi. Il 
creditore non sarebbe privato di tutela giudiziaria (art. 24 Cost.), n� vi sarebbe deroga 
al principio del giudice naturale (art. 25 Cost.), che spetta alla legge precostituire. 

Anche la questione di legittimit� costituzionale riferita al primo comma della 
stessa disposizione �, ad avviso dell'Avvocatura, infondata. L'impignorabilit� 
riguarderebbe solo i fondi di contabilit� speciale di un limitatissimo numero di 
soggetti pubblici, tra i quali le prefetture, semprech� destinati a specifiche finalit� 
essenziali di preminente interesse pubblico (servizi di protezione civile, di difesa 
nazionale e di sicurezza pubblica) o per spese obbligatorie ed inderogabili. La 
disciplina speciale � dettata non per una tutela privilegiata del soggetto, ma per 
assicurare il perseguimento di specifiche finalit� pubbliche essenziali. 
Ricorrerebbero, quindi, le condizioni che la giurisprudenza costituzionale indica per 
consentire l'impignorabilit� di somme destinate a specifiche fmalit� pubbliche 
(sentenza n. 138 del 1981). Non sussisterebbe, inoltre, la denunciata violazione degli 
artt. 24 e 113 della Costituzione, non essendo in discussione la tutela giurisdizionale, 

Di contro, fuori dall'esercizio delle predette funzioni, l'azione della pubblica 
amministrazione rientra nella disciplina di diritto comune e, ove venga a ledere quello di altro 
soggetto, � completa la potenzialit� di tutela del g.o., incontrando il solo limite di non avere egli 
il potere di sostituirsi all'amministrazione nell'emanare un atto n� condannarla ad emanarlo. 

Su questa piattaforma logica la giurisdizione � pervenuta all'affermazione che 
l'ammissibilit� della condanna della pubblica amministrazione al pagamento di somme di denaro 
comporta come conseguenza l'ammissibilit� dell'esecuzione per espropriazione. 

� vero che gli artt. 826, 828 ed 830 del codice civile definiscono la condizione giuridica dei 
beni del patrimonio indisponibile dello Stato e degli Enti Pubblici: per� la individuazione dei beni 
diversi da quelli che per loro natura sono destinati a far parte del patrimonio indisponibile 
necessita l'accertamento del vincolo di destinazione al pubblico servizio. 

La sentenza n. 138/1981 della Consulta affronta il tema della individuazione delle modalit� 
per l'apposizione del vincolo alle somme di denaro, attesa la loro natura fungibile e strumentale. 

Quei giudici, in quell'occasione, affermarono i pregressi principi e chiarirono che i limiti di 
pignorabilit� vanno individuati correttamente in relazione alla natura ed alla destinazione degli 
specifici beni dei quali di volta in volta si chiede l'espropriazione. 

Nel caso in esame la verifica da effettuare � se sia legittimo, sotto il profilo costituzionale, 
il vincolo imposto dalla legge n. 460/1994 sulle somme che destinerebbe al soddisfacimento di 
specifiche finalit� pubbliche. 

La prima osservazione che si impone � che l'art. 1, comma primo, recita: �I fondi di 
contabilit� speciale delle prefetture, delle ... non soggetti ad esecuzione forzata�. 

Un principio questo che tende a realizzare una impignorabilit� generalizzata, con il solo 
limite -a contrario -del reperimento di somme non destinate: ovvero un'irnpignorabilit� che 
pu� trovare il suo presupposto solo nella superata dottrina, della separazione dei poteri, facendo 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

244 

una volta affermata dal legislatore la indisponibilit� di determinati beni che non 
possono essere sottratti alla loro destinazione. 

Infine, ad avviso dell'Avvocatura, sarebbe incomprensibile il richiamo all'art. 
28 della Costituzione, indicato nel dispositivo dell'ordinanza di rimessione, ma del 
quale non vi � cenno nella motivazione. 

4. -Ha depositato memoria di costituzione e di intervento la Banca d'Italia, 
anche quale sezione di tesoreria provinciale dello Stato di Avellino, concludendo per 
l'inammissibilit� della questione di legittimit� costituzionale e, nel merito, per la 
manifesta infondatezza. 
La Banca d'Italia sostiene di essere legittimata ad intervenire nel giudizio 
incidentale di legittimit� costituzionale, pur non essendo ancora parte processuale 
nel giudizio principale, giacch� potrebbe essere considerata potenzialmente e 
virtualmente parte in causa, e l'interesse all'intervento nascerebbe solo a seguito 
dell'ordinanza di rimessione. 

Inoltre la Banca d'Italia, nell'esercizio del servizio di tesoreria, affidatole per 
legge (n. 104 del 1991) ed in base ad una convenzione con il Ministero del Tesoro 
(17 gennaio 1992), dovrebbe essere considerata organo dello Stato, il cui diritto ad 
intervenire nei giudizi di legittimit� costituzionale troverebbe fondamento nell'art. 
20, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87. Infine la Banca d'Italia, 

peraltro paradossalmente rientrare nella impignorabilit� anche quei cespiti destinati al 
soddisfacimento del creditore precedente. 

Precetti in sostanza, lo si ribadisce, che ci riportano indietro nel tempo e cio� alla tutela del 
soggetto e non della funzione. 

Senza contare l'integralista cancellazione in favore del precetto in virt� del quale: �il 
debitore risponde dell'adempimento con tutti i suoi beni presenti e futuri�. 

Un venir meno, peraltro, della par condicio creditorum proprio a danno di un creditore, il 
portatore di handicap, sul soddisfacimento del quale poggia la funzione istituzionale che 
giustifica l'ente. 

Qamorosa � poi la violazione degli artt. 3, 24 e 25 della Costituzione realizzata attraverso 
la inspiegata deroga alla competenza territoriale, o al divieto di utilizzare consolidati strumenti 
processuali di cui all'art. l della legge: deroghe e divieti che confliggono nella maniera cos� 
decisa con principi attentare ai quali significherebbe incrinare significativamente l'intero assetto 
normativo� (omissis). 

Intervenendo in tale nuovo giudizio l'Avvocatura dello Stato ribadiva la inammissibilit� per 
difetto di rilevanza osservando che il remittente non aveva compreso il significato della sentenza 
263/96 nella quale la Corte rilevava che non poteva essere rilevante il dubbio di legittimit� 
costituzionale della norma nel corso della procedura di esecuzione presso terzi quando il terzo 
non era comparso per la dichiarazione ed il creditore non aveva chiesto il giudizio di 
accertamento dell'obbligo di quest'ultimo. 

Osservando che �solo in tal caso la questione di legittimit� costituzionale... si 
configurerebbe come pregiudiziale rispetto al suo giudizio� la Corte non intendeva 
evidentemente sostenere che fosse sufficiente la richiesta di un giudizio di accertamento il cui 
oggetto non � prevedibile finch� non si conoscono le ragioni del terzo pignorato, volendo invece 
fare riferimento alla eventualit� che nel contesto di tale procedimento il terzo potesse costituirsi 
eccependo la propria indisponibilit� alla dichiarazione ai sensi della legge 460/1994. 


PARTE I, SEZ. I, GWRISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

245 

avendo interesse nella contestazione, potrebbe intervenire nel giudizio in base 
all'art. 37 delle norme del regolamento di procedura innanzi al Consiglio di Stato 
in sede giurisdizionale (regio decreto 17 agosto 1907, n. 642), da applicare nei 
giudizi di legittimit� costituzionale in forza del richiamo operato dall'art. 22 della 
legge n. 87 del 1953. 

5. -In prossimit� dell'udienza, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha 
depositato una memoria per ribadire l'eccezione di inammissibilit� della 
questione, sostenendo che essa � meramente ipotetica, essendo stata sollevata nel 
cors.o della procedura di esecuzione presso terzi, quando il terzo non era comparso 
per rendere la dichiarazione, mentre la questione potrebbe essere rilevante solo nel 
giudizio di accertamento. 
Nel merito l'Avvocatura ribadisce che la norma denunciata non tende a 
realizzare una impignorabilit� generalizzata, giacch� le somme escluse 
dall'esecuzione sono solo quelle destinate a necessit� essenziali per l'esercizio di 
funzioni primarie dello Stato (protezione civile, difesa nazionale e sicurezza 
pubblica), e le prefetture dispongono di altri fondi con diversa destinazione, 
suscettibili di pignoramento con le modalit� previste dalla disposizione 
denunciata, la cui capienza non � posta in discussione e che sono solitamente 
adeguati alle corrispondenti pretese creditrici. Il contenimento dell'azione 

Anche nel nuovo giudizio a quo il Pretore non aveva inteso attendere il momento in cui una 
parte del giudizio avesse a sostenere l'applicabilit� della legge citata a sostegno della propria tesi, 
ma si era spinto ad ipotizzare che la norma denunciata fosse il presupposto della condotta 
processuale della parte che non aveva reso la dichiarazione. In tal modo il giudice di merito aveva 
sollevato una questione meramente ipotetica e quindi per definizione priva della caratteristica 
essenziale della concreta rilevanza. 

� appena il caso di notare che se si dovesse ammettere una siffatta possibilit� il giudizio di 
costituzionalit� perderebbe la sua connotazione specifica, potendo essere promosso dal giudice a 
prescindere dallo svolgimento del processo, ogni volta che egli lo ritenga opportuno. 

Al di l� di tale eccezione preliminare la difesa del Presidente del Consiglio contestava nel merito 
la fondatezza dell'eccezione di incostituzionalit� rilevando che il Pretore di Avellino denunciava un 
preteso contrasto dell'articolo unico della legge 460/1994 con gli articoli 3, 24, 25, 28 e 113 della 
Costituzione risalendo ad un antico orientamento della giurisprudenza che in ossequio al principio 
della divisione dei poteri e quindi a tutela dell'indipendenza dell'Amministrazione riteneva 
intangibile la discrezionalit� della P.A. nella gestione delle proprie risorse patrimoniali, che non 
doveva essere coartata dalle azioni esecutive esercitate dai suoi creditori. 

Opportunamente era stata richiamata la sentenza 138/1981 della Corte nella quale 
prendendosi atto dell'evoluzione della giurisprudenza si chiarivano i limiti entro i quali era ed � 
ancora possibile ed anzi necessario contenere le pretese esecutive a danno della pubblica 
amministrazione per non pregiudicare la sua funzione stessa. 

Si concludeva infatti quella pronuncia di rigetto, in parte qua interpretativa, con il rilievo 
che se la pubblica amministrazione ha una posizione non diversa dagli altri creditori di fronte ad 
una sentenza di condanna e se l'iscrizione nel bilancio preventivo dello Stato di somme di varia 
provenienza (escluse quelle tributarie) non pu� valere a paralizzare l'azione esecutiva, rimane 
salva �l'ipotesi che determinate somme o crediti siano vincolati con apposita norma di legge al 
soddisfacimento di specifiche finalit� pubbliche ... �. 



246 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 
esecutiva nell'ambito della prefettura della circoscnz10ne di residenza degli 
interessati risponderebbe a principi di buon andamento e la notifica al direttore 
di ragioneria responsabile presso tale prefettura consentirebbe una adeguata 
organizzazione delle procedure di pagamento, seguendo l'ordine cronologico 
degli atti esecutivi e senza possibilit� di arbitrio. L'Avvocatura ritiene, inoltre, 
impropriamente invocati i principi costituzionali enunciati dagli artt. 24, 25, 28 e 
113, giacch� dalla disposizione denunciata non deriverebbe alcuna limitazione 
del diritto di difesa, non vi sarebbe alcuna incidenza sul giudice naturale 
precostituito per legge e sarebbe persino difficile ipotizzare quali siano le 
supposte lesioni degli artt. 28 e 113. 
Considerato in diritto 
1. -La questione di legittimit� costituzionale investe la disciplina dei 
pignoramenti sulle contabilit.� speciali delle prefetture, dettata dall'art. 1 del decretolegge 
25 maggio 1994, n. 313, convertito, con modificazioni, nella legge 22 luglio 
1994, n. 460. Secondo questa disciplina, i fondi di contabilit� speciale a disposizione 
delle prefetture e destinati a determinati servizi e finalit� (protezione civile, difesa 
Su questo caposaldo si fonda la piena legittimit� della norma in esame la quale recita: �I fondi 
di contabilit� speciale a disposizione delle Prefetture, delle direzioni di amministrazione delle Forze 
armate e della Guardia di Finanza, nonch� le aperture di credito a favore dei funzionari delegati 
degli enti militari, degli uffici o reparti della Polizia di Stato e dei comandi del Corpo nazionale dei 
vigili del fuoco, destinati a servizi e finalit� di protezione civile, di difesa nazionale e di sicurezza 
pubblica, nonch� al pagamento di emolumenti e pensioni a qualsiasi titolo dovuti al personale 
amministrato, non sono soggetti ad esecuzione forzata, salvo che per i casi previsti dal capo V del 
titolo VI del libro I del codice civile, nonch� dal testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il 
pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti delle pubbliche 
amministrazioni, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1950, n. 180�. 
Questa norma infatti soddisfa la condizione della riserva di legge posta nella sentenza 
richiamata e soprattutto identifica delle specifiche destinazioni delle somme escluse 
dall'esecuzione che sottendono necessit� essenziali per la sopravvivenza stessa dello Stato in 
relazione all'esercizio delle sue funzioni primarie. 
Tanto vale evidentemente per la protezione civile, la difesa nazionale e la sicurezza 
pubblica, compiti primari dello Stato apparato, ma vale altres� per il pagamento di emolumenti a 
pensioni dovuti al personale amministrato che sono la provvista attraverso cui lo Stato alimenta i 
propri organi vitali tanto pi� che si tratta del personale delle Forze armate e della Guardia di 
Finanza dei reparti della Polizia di Stato e dei comandi dei Vigili del Fuoco. , 
Il limite cos� posto alla soddisfazione dei creditori della pubblica amministrazione � in tal 
modo ristretto al minimo essenziale consistente nei fondi speciali destinati a tali fini e trova sua 
ffi 
1~ 
occasione prossima nelle vicende che sono ricordate nei lavori preparatori della legge. 
In particolare ricordava il relatore nella presentazione al Senato della legge di conversione che 
la norma nasceva dalla necessit� di evitare la paralisi delle Prefetture a seguito dei pignoramenti dei 
, 
~~:.,:_.. 
....
=,�.�.:.,
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giacenti nelle contabilit� speciali intestate ai Prefetti per consentire le erogazioni delle ~jj 
provvidenze economiche a favore degli invalidi civili, poich� in tal modo le Prefetture venivano a ~ 
trovarsi nella impossibilit� di corrispondere stipendi e pensioni al personale della Polizia e di @ 
fronteggiare ogni altra spesa connessa al funzionamento dei servizi di ordine e sicurezza pubblica. f~ 

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PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

247 

nazionale e sicurezza pubblica, organizzazione delle consultazioni elettorali, 
pagamento di emolumenti e pensioni al personale) non sono soggetti, salvo casi 
particolari, ad esecuzione forzata (comma 1 ). I pignoramenti ed i sequestri che 
hanno per oggetto somme affluite nelle contabilit� speciali, come pure ogni altro 
atto consequenziale, si eseguono esclusivamente, a pena di nullit� rilevabile 
d'ufficio, con atto notificato al direttore di ragioneria delle prefetture nella cui 
circoscrizione risiedono i privati interessati; il funzionario � tenuto a vincolare 
l'ammontare sui fondi che hanno destinazioni diverse da quelle prima indicate 
(commi 2 e 4). Non sono ammessi atti di sequestro o pignoramento sui fondi di 
contabilit� speciale presso le sezioni di tesoreria dello Stato, a pena di nullit� 
rilevabile d'ufficio (comma 3). 

Il pretore di Avellino -giudice dell'esecuzione al quale il creditore che 
procedeva ad espropriazione forzata presso terzi aveva chiesto di disporre il giudizio 
per accertare le somme che la Banca d'Italia, quale sezione di tesoreria provinciale 
dello Stato, terzo non comparso per rendere dichiarazione del debito, avesse 
disponibili per la prefettura del luogo -ritiene che questa disciplina sia in contrasto 
con gli artt. 3, 24, 25, 28 e 113 della Costituzione, giacch� da essa deriverebbe 
l'impignorabilit� generalizzata delle somme di denaro dello Stato, con una tutela 
che riguarderebbe il soggetto e non la funzione pubblica, mentre i creditori non 

Si evidenziava quindi la erroneit� della deduzione del giudice remittente che legge nella 
norma denunciata un principio tendente a realizzare una impignorabilit� generalizzata con il solo 
limite del reperimento delle somme non destinate. 

Con tale inversione logica il Pretore dimostra di sapere che le stesse Prefetture dispongono 
di altri fondi quali quelli cui � dedicato il comma 2 dell'articolo in esame, che riguarda proprio le 
contabilit� speciali con destinazione diversa da quella del comma l, ma considera tale dotazione 
insufficiente a garantire il principio della responsabilit� patrimoniale della pubblica 
amministrazione debitrice. 

Naturalmente nel giudizio di costituzionalit� non pu� trovare spazio una valutazione 
quantitativa delle proporzioni dei fondi esistenti presso le Prefetture, che peraltro risultavano di 
regola adeguate alle corrispondenti pretese creditrici (anche quando le dimensioni 
dell'incremento imprevedibile del fenomeno dell'invalidit� comportano qualche ritardo nel 
pagamento, compensato ampiamente dall'aumento di interessi e rivalutazione), essendo lo 
scrutinio di legittimit� rivolto alla conformit� della legge rispetto ai canoni costituzionali. 

Secondo tale prospettiva risulta quindi palesemente infondato sostenere che la norma 
riproponga la tutela dello Stato come soggetto anzich� come funzione che l'evoluzione 
giurisprudenziale ricordata avrebbe superato. 

L'impignorabilit� sancita va a tutela di funzioni essenziali dello Stato senza le quali esso non 
avrebbe pi� ragione d'essere e solo in questo senso garantiscono la sopravvivenza del soggetto 
senza il quale le funzioni non potrebbero essere esercitate. Non � impignorabile il denaro in 
quanto appartenente allo Stato, ma quella parte di esso senza cui lo Stato non potrebbe sussistere. 
Il limite �. essenziale e non diventa regola generale bens� necessaria eccezione alla generale 
disponibilit� del patrimonio della pubblica amministrazione. 

Erroneamente il giudice a quo lamenta una pretesa violazione della par condicio creditorum 
a danno dei soggetti portatori di handicap da parte di una legge che ha voluto solo mantenere 
separate le partite debitorie dello Stato onde non pregiudicare alcune specifiche funzioni 
essenziali che vanno a vantaggio di tutta la collettivit�, portatori di handicap compresi. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

248 

verrebbero in alcun modo garantiti, potendo agire esecutivamente solo presso la 
prefettura del luogo di loro residenza e senza poter utilizzare gli ordinari strumenti 
del processo esecutivo. 

2. -L'intervento nel giudizio di legittimit� costituzionale della Banca d'Italia, 
quale tesoreria provinciale dello Stato, non � ammissibile. 
Nel processo principale, di espropriazione presso terzi, la Banca d'Italia ha 
veste di terzo chiamato dal creditore pignorante a dichiarare di quali somme fosse 
debitore nei confronti dell'espropriato. In tale veste non � comparsa all'udienza 
stabilita per fare la dichiarazione, n� pu� essere considerata parte del procedimento 
esecutivo, divenendo tale solo nel giudizio di accertamento che eventualmente si 
instauri ad istanza del creditore che procede all'esecuzione. Ci� che accadrebbe solo 
a seguito della citazione o della notifica del verbale d'udienza con l'istanza del 
creditore che ha chiesto di procedere al giudizio di cognizione nei confronti, 
appunto, oltre che del debitore sottoposto ad esecuzione, anche del terzo ( cfr. 
ordinanza allegata alla sentenza n. 263 del 1996). 

Neppure pu� essere accolta la pretesa della Banca d'Italia di intervenire nel 
giudizio di legittimit� costituzionale, pur non essendo parte del giudizio 
principale, quale organo dello Stato, invocando l'art. 20, secondo comma, della 
legge 11 marzo 1953, n. 87. Questa disposizione stabilisce che gli organi dello 

Gli stessi principi di buon andamento ed organizzazione della pubblica amministrazione 
spiegano la deroga alla competenza territoriale cui il Pretore accenna nella concisa conclusione 
dell'ordinanza. 

A prescindere dall'impropria definizione come �deroga� del contenimento dell'azione 
esecutiva alla Prefettura della circoscrizione di residenza degli interessati, essa si comprende 
agevolmente quando si pensi che in passato il ricorso ad esecuzioni presso Prefetture di altre 
province ha comportato talora duplicazioni di pagamenti e necessit� di gravosi recuperi 
successivi. N� si vede per quale ragione costituzionalmente vincolata, gli invalidi di una provincia 
dovrebbero essere autorizzati a pignorare i fondi destinati agli invalidi di altra circoscrizione. 

In realt� il comma 2 dell'articolo in esame, prevedendo un sistema di esecuzione preciso ed 
efficace attraverso la notifica al direttore di ragioneria responsabile presso la Prefettura di 
appartenenza del creditore, consente un'adeguata organizzazione delle procedure di pagamento che 
torna vantaggiosa per gli stessi creditori che vengono indirizzati verso i fondi di loro pertinenza. 

Nella stessa logica si pone il comma 3, ammesso che il giudice a quo abbia inteso 
lamentarne l'illegittimit� facendo fuggevole richiamo al �divieto di utilizzare consolidati 
strumenti processuali�. 

Gi� nella relazione al Senato precedentemente citata si rilevava che �la necessit� che i 
pignoramenti ed i sequestri avvengono con atto notificato al direttore di ragioneria ... � finalizzata 
all'individuazione della quota del fondo di contabilit� speciale necessaria al pagamento degli 
emolumenti... Tale individuazione non � invece consentita presso la Tesoreria provinciale, ove il 
fondo di detta contabilit� � indistinto�. 

Ecco perch� a prescindere dalla natura dell'esecuzione presso la tesoreria (pignoramento 
diretto o esecuzione presso terzi) questo sistema rischierebbe di pregiudicare l'ordinato riparto 
dei fondi e la tutela delle funzioni essenziali di cui al comma l. 

Senza peraltro che tale divieto aggravi in alcun modo la posizione dei creditori, i quali 
anzich� notificare l'atto di pignoramento presso la tesoreria possono farlo direttamente al direttore 
di ragioneria di Prefettura che dispone dei fondi destinati alla soddisfazione dei rispettivi creditori. 

A tal proposito, peraltro, venivano decisamente respinte le insinuazioni della parte 
interveniente sulla finalit� di tale sistema a rendere il funzionario della Prefettura arbitro di 



PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

249 

Stato (e delle Regioni) hanno diritto di intervenire in giudizio, nel contesto della 
disciplina della rappresentanza e della difesa dinanzi alla Corte costituzionale, 
affidata, per il Governo, all'Avvocato generale dello Stato (terzo comma) e, per le 
altre parti, ad avvocati abilitati al patrocinio innanzi alla Corte di cassazione 
(primo comma). Anche quella relativa agli organi dello Stato �, dunque, una 
regola che riguarda la rappresentanza e difesa nel giudizio, giacch� si stabilisce 
che non � richiesta, per tali organi, una difesa professionale. Ci�, tuttavia, non 
riguarda, n� vale quindi a modificare, la disciplina della legittimazione ad essere 
parte o ad intervenire in giudizio. 

Tuttavia anche se, come vorrebbe la Banca d'Italia, si attribuisse all'art. 20, 
secondo comma, della legge n. 87 del 1953 il significato del pi� ampio 
riconoscimento di un diritto di qualsiasi organo statale ad intervenire in qualsiasi 
giudizio, egualmente l'intervento della Banca d'Italia sarebbe inammissibile, perch� 
ad essa, quale esercente il servizio di tesoreria provinciale, non pu� essere attribuita 
l'asserita qualifica di organo dello Stato. Difatti, la gestione del servizio di tesoreria 
� affidata alla Banca d'Italia quale ente concessionario di pubblico servizio ed i 
rapporti con l'amministrazione dello Stato sono disciplinati, in base alla legge, 
mediante apposite convenzioni (v. legge 28 marzo 1991, n. 104), senza che in ragione 
della gestione di tale servizio lente venga a configurarsi come organo dello Stato. 

decidere se vincolare o meno l'ammontare di cui si chiede il pignoramento, come se la 
destinazione dei fondi disponibili fosse rimessa alla scelta di tale soggetto e non fosse invece 
determinata secondo le necessit� delle spese di competenza della Prefettura. 

Posto che non risultava dagli atti del giudizio a quo che i funzionari di Prefettura 
dichiarassero sistematicamente di non avere fondi, n� l'ordinanza di rimessione era stata 
pronunciata in una simile evenienza, rimane comunque che la norma in esame, prevedendo 
l'annotazione nel libro giornale degli atti esecutivi, consentirebbe all'Amministrazione di pagare, 
secondo l'ordine cronologico, tutti i debiti esecutati mano mano che vengono accreditati i 
necessari fondi sui conti non destinati ai fini speciali del comma l . 

Il che conferma la piena legittimit� della norma misurata secondo il parametro 
costituzionale e non in relazione alla quantit� della provvista economica, che � un dato di fatto 
non modificabile per legge. 

Peraltro sulla validit� dell'impostazione di un regime debitorio articolato secondo 
contabilit� speciali la Corte aveva gi� avuto occasione di pronunciarsi con la sentenza 285/1995. 

In tale pronuncia fu dichiarata l'illegittimit� dell'art. 1 comma 5 decreto-legge 9/1993 che 
limitava la pignorabilit� delle somme dovute dalle unit� sanitarie locali in base alle semplici 
previsioni di bilancio di tali enti (e quindi non per una destinazione stabilita ex lege) non per 
contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., ma per la comparazione con la parallela disciplina dell'art. 1 
decreto-legge 8/1993 dei debiti degli enti locali. 

Tale norma richiamata quale parametro di legittimit� si limita a subordinare la destinazione 
delle somme impignorabili ad una preventiva periodica determinazione da parte della giunta degli 
enti locali, che non si differenzia dalle determinazioni governative sulle attribuzioni dei fondi alle 
Prefetture e consente l'emissione di ulteriori mandati seguendo l'ordine cronologico delle fatture, 
non diversamente da come l'art. 1 in esame prevede un giornale cronologico degli atti esecutivi 
preventivi. 

In sostanza ci� che si richiede � una predeterminazione dei fondi non pignorabili ed una 
garanzia di pagamento dei crediti ad essi estranei secondo un rigoroso ordine cronologico, 
caratteri che non mancano nella norma oggetto dell'attuale giudizio. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

250 

3. -La questione di legittimit� costituzionale, riferita all'intero art. 1 del 
decreto-legge n. 313 del 1994, comprende due distinti complessi di prescrizioni 
normative che, pur collegati, devono essere esaminati separatamente. 
Il primo, essenzialmente riferibile al terzo comma, non ammette atti di 
sequestro o di pignoramento sui fondi delle contabilit� speciali delle prefetture 
presso le sezioni di tesoreria dello Stato. Tali atti sono nulli e non determinano alcun 
obbligo di accantonamento n� sospendono l'accreditamento delle somme nelle 
contabilit� speciali intestate alle prefetture. In corrispondenza al divieto di 
pignoramento o sequestro presso la tesoreria, l'esecuzione pu� e deve essere 
effettuata direttamente presso le prefetture, con atto notificato al direttore di 
ragioneria responsabile, cui � affidata la gestione contabile dei fondi. 

Il secondo complesso di prescrizioni normative, riferibile agli altri commi dello 
stesso art. 1, stabilisce l' impignorabilit� o insequestrabilit� dei fondi che hanno le 

Giova ricordare la suddetta decisione anche perch� essa evidenzia come non sia possibile 
lamentare la disparit� di trattamento senza identificare un termine di paragone rispetto al quale 
venga ipotizzata una discriminazione. 

Solo il raffronto con .una posizione similare consente al giudice delle leggi di operare una 
precisa comparazione come quella che nella sentenza richiamata � stata operata tra i creditori 
delle unit� sanitarie locali e quelli degli enti locali, secondo un parallelismo reso evidente dalla 
natura degli enti debitori. 

Per contro nel caso di specie il giudice remittente accennava ad un'ipotetica violazione della 
par condicio creditorum senza considerare che tutti i creditori delle Prefetture incontrano gli 
stessi limiti nell'esecuzione, fatta eccezione per i creditori del personale amministrativo le cui 
pretese di pagamento (peraltro limitate al quinto di stipendio e pensioni) discendono dagli stessi 
titoli per la cui soddisfazione sono istituite le contabilit� speciali. 

Parafrasando un costante orientamento della Corte recentemente ribadito nella sentenza 
432/1997 si pu� dire che �in questo modo il giudice a quo si sottrae all'onere di individuare il 
tertium comparationis, dal cui confronto dovrebbe derivare l'asserita palese discriminazione�. 

Altrettanto impropriamente infine venivano evocati i principi costituzionali dedotti dagli 
artt. 24, 25, 28 e 113, dal momento che quanto al primo nessuna limitazione al diritto alla difesa 
deriva dalla norma in esame, la quale, come si � visto, consente al contrario la soddisfazione delle 
pretese. esecutive secondo un sistema di bene organizzata ripartizione delle competenze dei 
funzionari addetti al pagamento, volta a realizzare una procedura di liquidazione dei creditori 
secondo un rigoroso ordine cronologico. 

Non vi � incidenza sul giudice naturale precostituito poich� le modalit� locali e formali del 
pignoramento consentite nella norma denunciata, lungi dal forzare i creditori verso pi� onerose 
procedure di realizzazione dei propri diritti, li incanalano secondo un criterio territoriale ed 
operativo unitario e semplificato che consente all'Amministrazione di soddisfare le pretese di 
tutti senza privilegiare i pi� avveduti nella ricerca di modalit� anormali ed abbreviate. 

In mancanza di motivazione sul punto era infine persino difficile ipotizzare quali lesioni 
dell'art. 28 supponesse il remittente: si pu� pensare solo alla mancanza dell'obbligo di 
accantonamento e della sospensione dell'ordine di accreditamento sancita nel comma 3 per le ~ 
sezioni della tesoreria dello Stato; disposizione che tuttavia si giustifica come corollario del li 
sistema di pignoramento del comma 2 e dell'intangibilit� dei fondi speciali del comma 1, per cui li~: 
la norma non fa che autorizzare il funzionario a non tenere conto di atti nulli che altrimenti ii 
paralizzerebbero la comune provvista degli uffici destinatari dei fondi speciali. \~ 

Ancora pi� imperscrutabile la dedotta violazione dell'art. 113, posto che la norma denunciata ~ 
non sottrae alcun atto amministrativo al sindacato del giudice ma fissa essa stessa il riparto dei [ 
fondi secondo classificazioni rigide che non possono essere modificate in via amministrativa. 

I 

~~ 



PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

251 

destinazioni indicate dalla stessa disposizione e disciplina le operazioni che deve 
compiere il funzionario responsabile, al quale i pignoramenti o i sequestri che hanno 
per oggetto somme affluite nelle contabilit� speciali vanno notificati con le modalit� 
previste per l'espropriazione mobiliare presso il debitore. 

3 .1. -La prima delle due questioni � ammissibile, ma nel merito non � 
fondata. 
Nel giudizio principale, la nullit�, rilevabile d'ufficio, del pignoramento 
presso la sezione di tesoreria dello Stato, stabilita dalla disposizione 
denunciata, impedisce di dare ingresso al giudizio di cognizione, richiesto dal 
creditore che procede all'esecuzione forzata per accertare di quali somme del 
debitore il terzo, quale tesoriere, sia in possesso. La questione �, dunque, 
rilevante. 

In questo contesto si pu� apprezzare l'importanza della pronuncia resa dalla Corte nella 
delicata questione che metteva a repentaglio lo stesso funzionamento di organi nevralgici dello 
Stato quali sono le Prefetture. Difatti la breve ma significativa motivazione mette in luce che non 
viola i principi costituzionali il sistema imperniato sulla norma denunciata, in quanto sono legittime 
le contabilit� speciali ed � consentito per realizzarle che si escluda il pignoramento indifferenziato 
presso le tesorerie dello Stato con gli obblighi di accantonamento che esso comporterebbe, 
indirizzando invece il creditore esecutante verso il direttore di ragioneria della Prefettura. 

Poich� infatti tale funzionario � tenuto a vincolare l'ammontare pignorato nella misura in cui 
esistano fondi non destinati ai servizi ed alle finalit� che il comma 1 ha inteso salvaguardare, si 
perviene al risultato di garantire nel contempo la salvaguardia di questi fondi e la tutela dei 
creditori secondo l'ordine cronologico della annotazione dei relativi atti nel libro giornale. 

Non manca infatti la Corte di sottolineare che l'operato del funzionario non ha alcun 
margine di discrezionalit�, ed � soggetto alla verifica giurisdizionale che coinvolge la 
responsabilit� personale dello Stato. 

Ritenuta cos� infondata la questione concernente il comma 3 la Corte ha respinto quelle 
riferite ai commi 1 e 2 con una pronuncia di inammissibilit� che apparentemente lascerebbe 
spazio a nuove eccezioni. 

Si tratta tuttavia di un'ipotesi da scartare poich� il giudizio positivo espresso dalla Corte 
sulle modalit� del pignoramento presso il direttore di ragioneria in quanto �direttamente 
responsabile della gestione contabile dei fondi ed in grado di conoscerne l'ammontare e la 
disponibilit�, come pure di verificare se e quali vincoli di destinazione siano imposti e per quali 
somme vi siano cause di impignorabilit�� presuppone che la ritenuta legittimit� si estenda anche 
ai ridetti vincoli di impignorabilit� senza i quali tutto l'apparato procedurale non avrebbe 
ragione d'essere. A ben vedere infatti con la disposizione del comma 3 il legislatore ha inteso 
�blindare� ovvero rafforzare la tutela dei fondi speciali, che, non solo non sono suscettibili di 
esecuzione, ma non devono neppure essere in qualche modo vincolati attraverso un 
pignoramento presso la tesoreria, che comporterebbe comunque obblighi di accantonamento e 
sospensione degli accreditamenti. 

Per cui, una volta escluso tale effetto con il comma 3, che sancisce la nullit� rilevabile di 
ufficio di siffatta forma di pignoramento, � giocoforza ammettere che il funzionario della 
Prefettura unico possibile destinatario del pignoramento vincoli esclusivamente fondi estranei 
alle contabilit� speciali, per le quali peraltro la stessa Corte gi� ritiene che sussistano i presupposti 
di una disciplina differenziata in relazione agli essenziali servizi cui sono finalizzate. 

GIAN PAOLO Pouzzr 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO .�.

252 

Essa �, tuttavia, non fondata, giacch� la disciplina stabilita per i pignoramenti 
sulle contabilit� speciali non configura una procedura tale da determinare 
l'impignorabilit� dei fondi assegnati alle prefetture, ma tende invece ad adeguare la 
procedura di esecuzione forzata alle particolari modalit� di gestione contabile dei 
fondi stessi ed alla impignorabilit� di quella parte di essi che risulti gi� destinata a 
servizi qualificati dalla legge come essenziali. 

Questa disciplina, uniformandosi a quanto gi� previsto in altri casi nei quali 
opera il sistema delle contabilit� speciali (art. I-bis, comma 4-bis, aggiunto 
dall'art. 11 del decreto-legge 18 gennaio 1993, n. 8 alla legge 29 ottobre 1984, n. 
720), esclude il pignoramento presso il tesoriere dei fondi gestiti con questa 
particolare procedura e prevede, invece, il pignoramento presso il funzionario 
direttamente responsabile della gestione contabile dei fondi ed in grado di 
conoscerne l'ammontare e la disponibilit�, come pure di verificare se e quali 
vincoli di destinazione siano imposti e per quali somme vi siano cause di 
impignorabilit�. In questo contesto � giustificato disporre che gli atti di 
pignoramento delle somme affluite nelle contabilit� speciali siano notificati al 
direttore di ragioneria responsabile, il quale, senza esercitare alcun potere 
discrezionale, � tenuto a vincolare l'ammontare pignorato assumendone la 
correlativa responsabilit�, con atti non sottratti a verifica o accertamento 
giurisdizionale. 

3.2. -La questione di legittimit� costituzionale degli altri commi dello stesso 
art. 1 � inammissibile. 
La questione � stata sollevata in una procedura di espropriazione presso terzi, a 
seguito di atto di pignoramento notificato alla tesoreria. 
Ritenuto non fondato il dubbio di legittimit� costituzionale della norma che non 
ammette, a pena di nullit� da rilevare d'ufficio, tale forma di pignoramento per i 
fondi affluiti nelle contabilit� speciali, prevedendo invece quello presso il 
funzionario responsabile della gestione contabile dei fondi, non trova alcuna 
applicazione nel giudizio principale la disciplina relativa sia alla impignorabilit� di 
quella parte delle somme affluite nelle contabilit� speciali che hanno una specifica 
destinazione prevista dalla legge, sia alla determinazione della prefettura 
competente, individuata in quella nella cui circoscrizione risiede il privato 
interessato (omissis). 

CORTE COSTITUZIONALE, 9 ottobre 1998, n. 351 -Pres. Granata -Red. 
Mirabelli -Presidenza del Consiglio dei Ministri. 

Tributi (in generale) -Riscossione delle imposte sul reddito -Esecuzione 
esattoriale -Opposizione di terzo -Limiti di prova circa l'appartenenza dei 
beni pignorati -Legittimit�. 

L'art. 65 del decreto del Presidente della Repubblica 29settembre1973, n. 602 
(Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) non contrasta con gli 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

253 

articoli 3 e 24 della Costituzione nella parte in cui dispone che in sede di 
opposizione di terzo nell'ambito dell'esecuzione esattoriale la dimostrazione 
dell'appartenenza dei beni pignorati a persona diversa dal debitore pu� essere 
offerta solo mediante specifiche prove documentali (1 ). 

(omissis) 

La questione di legittimit� costituzionale investe la disciplina dell'opposizione 
di terzo nell'esecuzione esattoriale. 

Il pretore di Bologna, chiamato a giudicare, quale giudice dell'esecuzione, 
sull'opposizione proposta da un terzo che affermava di essere proprietario dei 
beni mobili pignorati dall'ufficiale esattoriale nella casa di abitazione di un 
contribuente moroso, ritiene che l'art. 65 del decreto del Presidente della 
Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle 
imposte sul reddito), che consente di dimostrare che i beni appartengono a 
persona diversa dal debitore soltanto con atto pubblico o scrittura privata 
autenticata di data anteriore all'anno cui si riferisce il tributo iscritto a ruolo 
ovvero con sentenza passata in giudicato pronunciata su domanda propqsta 
anteriormente allo stesso anno, possa essere in contrasto con gli artt. 3 e 24 della 
Costituzione. 

Aderendo all'interpretazione della giurisprudenza di legittimit�, il giudice 
rimettente ritiene che la norma denunciata non si limiti a disciplinare gli atti che 
compie l'ufficiale esattoriale, disponendo che egli non possa procedere al 
pignoramento o che debba desistere dal procedimento di riscossione coattiva 
quando gli siano esibiti documenti che, senza necessit� di altre valutazioni, 
dimostrino la propriet� dei beni, ma stabilisca un limite alla prova destinato ad 
operare anche nel giudizio di opposizione promosso dal terzo. Questa 
interpretazione della disposizione denunciata, pur non essendo l'unica possibile, 
giacch� il giudice potrebbe esprimere quella valutazione delle prove sottratta 
all'ufficiale esattoriale, � tuttavia plausibile e ad essa si riferisce la verifica di 
legittimit� costituzionale. 

Il pretore di Bologna, considerata identica la posizione del terzo rispetto ad 
ogni procedimento di esecuzione forzata, ritiene che la disciplina della prova 
nell'esecuzione forzata esattoriale, pi� restrittiva rispetto al regime 
dell'esecuzione comune (art. 621 codice procedura civile), determini, in 
contrasto con l'art. 3 della Costituzione, una ingiustificata disparit� di 
trattamento. Inoltre, consentire al terzo opponente solo la prova documentale 
(con atto pubblico, scrittura privata autenticata o sentenza passata in giudicato) 
per dimostrare la propriet� di beni mobili il cui acquisto non � solitamente 
formalizzato con una scrittura, limiterebbe in modo irragionevole, in contrasto 

(1) La Corte ribadisce ancora una volta che l'esigenza di pronta realizzazione del credito 
fiscale giustifica sia presunzioni in ordine all'appartenenza dei beni da pignorare sia limiti e 
preclusioni nel sistema delle opposizioni stante l'esigenza di evitare il rischio di fraudolente 
elusioni (da ultimo sent. 415/96 e 444/95). 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

254 

anche con l'art. 24 della Costituzione, la garanzia per il terzo di agire in 

giudizio per la tutela dei propri diritti. 

La questione di legittimit� costituzionale non � fondata. 

La disciplina speciale della riscossione coattiva delle imposte non pagate, 
mediante l'espropriazione forzata alla quale provvede lo stesso esattore, risponde 
all'esigenza di pronta realizzazione del credito fiscale, attuata con una procedura 
improntata a criteri di semplicit� e di speditezza, che possono comportare non solo 
presunzioni in ordine all'appartenenza dei beni e preclusioni nelle opposizioni 
(sentenze n. 415 del 1996, n. 444 del 1995 e n. 358 del 1994), ma anche limiti probatori. 

La disciplina dell'ammissibilit� e del regime delle prove � rimessa, sempre 
nei limiti della ragionevolezza, alla discrezionalit� del legislatore (sentenze n. 560 
e n. 251 del 1989, n. 94 del 1973 e n. 128 del 1972; ordinanze n. 307 del 1995 e 

n. 233 del 1986), il quale pu�, per determinati rapporti, ammettere solo la prova 
documentale ed escludere quella testimoniale, ponendo limitazioni che non 
incidono sul diritto di azione, ma disciplinano il regime delle prove quando 
l'azione sia esercitata o esprimono profili della disciplina sostanziale. 
Ammessa la presunzione di appartenenza al contribuente dei beni mobili 
pignorati nella sua casa di abitazione, non � di per s� arbitrario, n� manifestamente 
irrazionale, porre limiti alla prova contraria. N� una disciplina di tali limiti, diversa 
e differenziata rispetto a quella prevista per la comune esecuzione forzata, � di per 
s� irragionevole o lesiva del principio di eguaglianza, potendo trovare 
giustificazione nelle specifiche finalit� del procedimento di esecuzione esattoriale e 
nella diversit� di condizione del credito fiscale e di posizione dei soggetti coinvolti 
nella riscossione coattiva delle imposte. Inoltre richiedere una prova pi� onerosa, 
quale � quella documentale, che dia inequivoca certezza della propriet� dei beni in 
base a un titolo di acquisto anteriore al verificarsi del presupposto al quale � 
collegato il rapporto obbligatorio tributario, non comporta una preclusione 
dell'azione del terzo, diretta a dimostrare in giudizio il proprio diritto sui beni 
pignorati (omissis). 

CORTE COSTITUZIONALE, ordinanza 13 ottobre -20 novembre 1998 n. 377 -
Pres. Granata -Est. Vari -Interv. Presidente del Consiglio dei Ministri (avv. 
Stato Caramazza). 

Corte Costituzionale -Giustizia Amministrativa -Composizione del relativo 
organo di autogoverno -Sua conformit� a Costituzione -Manifesta 
inammissibilit�. 

La questione di legittimit� costituzionale dell'art. 7 secondo comma legge 27 
aprile 1982 n. 186, che disciplina la composizione del Consiglio di Presidenza 
della giustizia amministrativa, sollevata con riferimento agli artt. 3, 1� comma, 97, 
1� comma, 101, 2� comma, 107, 3� comma e 108, 2� comma della Costituzione, � 
manifestamente inammissibile, in quanto la diversa auspicata composizione 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

255 

implica scelte spettanti alla discrezionalit� del legislatore per la pluralit� delle 
soluzioni prospettabili (1 ). 

(omissis) 

Ritenuto che, nel corso di un giudizio di impugnazione del decreto 18 luglio 
1997, con il quale il Presidente del Consiglio di Stato ha indetto le elezioni per il 
rinnovo del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, il Tribunale 
amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, con ordinanza 
emessa il 26 novembre 1997 (R.O. n. 271 del 1998), nel ricorso proposto dal dott. 
Leonardo Spagnoletti, ha sollevato questione di legittimit� costituzionale dell'art. 7 
della legge 27 aprile 1982, n. 186 (Ordinamento della giurisdizione amministrativa 
e del personale di segreteria ed ausiliario del Consiglio di Stato e dei tribunali 
amministrativi regionali), per contrasto con gli artt. 3, 97, 101, 107, terzo comma, e 
108, secondo comma, della Costituzione; 

che la predetta disposizione, concernente la composizione del menzionato 
organo, � stata, in analoghi giudizi, denunciata, nel suo secondo comma, anche: 

-dal Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sezione staccata di 
Reggio Calabria, con ordinanza emessa il 5 novembre 1997 (R.0. n. 888 del 1997), nel 
ricorso proposto dal dott. Giuseppe Caruso, e dal Tribunale amministrativo regionale 
per l'Emilia-Romagna, con ordinanze emesse il 19 novembre 1997 (R.O. n. 72 e 73 del 
1998), nei ricorsi proposti, rispettivamente, dai dottori Silvio Ignazio Silvestri e Linda 
Sandulli, per violazione degli artt. 3, primo comma, 97, primo comma, 101, secondo 
comma, 107, terzo comma, e 108, secondo comma, della Costituzione; 

-dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con ordinanza emessa il 
26 novembre 1997 (R.0. n. 379 del 1998), nel ricorso proposto dal dott. Franco 
Bianchi, per contrasto con gli artt. 3, primo comma, e 97, primo comma, della 
Costituzione; 

che, nel giudizio iscritto al R.O. n. 379 del 1998, si � costituito il dott. Franco 
Bianchi invocando l'accoglimento della sollevata questione di costituzionalit�; 

che in tutti i giudizi � intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, 
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le 
questioni vengano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate; 

che le ordinanze sono state tutte emesse in sede di giudizio sulla richiesta 
avanzata dai ricorrenti, ai sensi dell'art. 21 della legge n. 1034 del 1971, per la 
sospensione del menzionato provvedimento di indizione delle elezioni. 

(1) Brevi note sull'incidente di costituzionalit� nella fase cautelare. 
L'ordinanza in rassegna si segnala non tanto per il principio di diritto affermato, che, in 
accoglimento di una delle difese pregiudiziali svolte dall'Avvocatura dello Stato, ribadisce un 
consolidato orientamento della Corte (basti per tutti citare un caso assolutamente analogo e 
relativo al Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti: Corte Cost. 17 giugno 1987 n. 230) 
quanto per la delicatezza delle questioni sottoposte al vaglio della Corte sia sotto il profilo del 
merito che sotto altro profilo di ammissibilit�, non affrontato dalla Corte stessa. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

256 

Considerato che i giudizi, aventi ad oggetto questioni identiche ovvero tra loro 
connesse, vanno riuniti per essere decisi con un'unica pronunzia; 

che, ad avviso dell'ordinanza iscritta al R.O. n. 271 del 1998, l'art. 7 della legge 
27 aprile 1982, n. 186, viola: 

-l'art. 101 della Costituzione, in quanto la mancanza di componenti c.d. 
�laici� nel Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa rende tale organo, 
�pi� che come espressione dell'autogoverno della magistratura amministrativa, 
come un'entit� gerarchica nella struttura funzionale del settore, senza alcun 
collegamento con il restante assetto costituzionale dello Stato�; 

-gli artt. 3, 97, 107, terzo comma, e 108, secondo comma, in quanto la �netta 
prevalenza� dei componenti provenienti dal Consiglio di Stato (per i quali, inoltre, 
�in virt� della funzione consultiva assegnata�, sussiste �una stretta correlazione� 
con il potere esecutivo) porta a ritenere che si sia voluto �privilegiare l'aspetto 
funzionale e gerarchico rispetto a quello, pi� corretto, di autonoma gestione 
dell'assetto organizzativo della giurisdizione�, incidendosi, altres�, �in modo 
rilevante sull'indipendenza del giudice amministrativo�; 

-gli artt. 3, 97, 107, terzo comma, e 108, secondo comma, in quanto �non 
risponde alla funzione riservata� al Consiglio di presidenza della giustizia 
amministrativa la circostanza della presenza di tre membri di diritto, tutti di 
provenienza del Consiglio di Stato, sui tredici componenti complessivi, �minandosi, 
in tal modo, alla base� l'indipendenza di giudizio �dei magistrati dei T.A.R.�; 

che, quanto alle ordinanze iscritte al R.O. n. 888 del 1997, nonch� nn. 72 e 73 
del 1998, le stesse -nel richiamare il �principio di cui all'art. 104, quarto 
comma, della Costituzione� -censurano la disposizione dell'art. 7, secondo 

Il giudizio a quo nasceva dai ricorsi di numerosi magistrati amministrativi, che avevano 
impugnato dinanzi a vari TT.AA.RR. il decreto del Presidente del Consiglio di Stato 18 luglio 
1997. di indizione delle elezioni per il rinnovo del Consiglio di presidenza della giustizia 
amministrativa. Quale unico motivo di illegittimit� veniva dedotta la incostituzionalit� della 
norma che regola la composizione del Consiglio di presidenza. 

Nel ricorso si chiedeva altres� la sospensione del provvedimento impugnato ex art. 21 legge 
6 dicembre 1971, n. 1034. 

Con due ordinanze in pari data i TT.AA.RR. aditi sospendevano, da un lato, il giudizio 
cautelare, rimettendone la definizione all'esito dell'incidente di costituzionalit�, sollevavano, 
dall'altro, questione di costituzionalit�. I giudici remittenti dubitavano della legittimit� 
costituzionale della normativa che regola la composizione del Consiglio di Presidenza della 
giustizia amministrativa, rilevando in proposito come tale Consiglio sia l'unico organo di 
autogoverno a non contemplare la presenza di membri laici: il che revocherebbe in dubbio la 
possibilit� di garantire la reale indipendenza della magistratura amministrativa. 

Inoltre, lo stesso organo di autogoverno sarebbe l'unico in cui la composizione non si basa 
su un criterio di rappresentativit� dei magistrati appartenenti alla stessa giurisdizione, ma su un 
criterio di gerarchia, che contrasterebbe con il principio secondo cui i magistrati sono sottoposti 
soltanto alla legge e si distinguono tra di loro solo per diversit� di funzioni. Ci� in quanto l'attuale 
composizione farebbe s� che i sette membri che sono espressione del Consiglio di Stato (quattro 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

257 

comma, della legge 27 aprile 1982, n. 186, �nella parte in cui non � prevista la 
presenza di componenti 'laici' nell'organo di autogoverno della giustizia 
amministrativa�, per violazione: 

-dell'art. 3 della Costituzione, all'uopo invocando il principio �ormai da 
tempo attuato� sia nell'organo di autogoverno della Corte dei conti, che in quello 
della magistratura militare, nonch� in quello della giustizia tributaria; 

-dell'art. 97 della Costituzione, assumendo che la presenza di componenti 
laici realizza un �sistema 'aperto all'esterno' in funzione del buon andamento e 
dell'imparzialit�� dell'organo e (solo R.O. n. 888 del 1997) �in funzione di garanzia 
da inclinazioni curtensi nell'attivit�� dell'organo stesso; 

che i rimettenti -muovendo dall'assunto che i giudici dei tribunali 
amministrativi regionali, �a parit� di funzioni giurisdizionali�, esprimano 
nell'ambito dell'organo un numero di rappresentanti �irragionevolmente� inferiore 
rispetto a quelli della componente del Consiglio di Stato e non rinvenendo, peraltro, 
alcuna �esigenza e logica istituzionale� a supporto della previsione che attribuisce 
la partecipazione di diritto ai due Presidenti di sezione del Consiglio di Stato pi� 
anziani -reputano la disposizione in contrasto, altres�, con: 

-l'art. 3, primo comma, della Costituzione, per la �irragionevole 
discriminazione quanto alla rappresentativit� nell'organo di autogoverno fra 
magistrati appartenenti alla stessa giurisdizione con violazione del canone di 
coerenza dell'ordinamento giuridico�; 

-l'art. 97, primo comma, della Costituzione, perch� la prevalenza data �ad 
una componente minoritaria e, quindi, a visioni ed interessi della medesima, appare 
violare il principio di buon andamento ed imparzialit� dell'organo di autogoverno�; 

eletti dai magistrati del Consiglio di Stato e tre membri di diritto) siano sempre in maggioranza 
rispetto ai sei membri espressi dai magistrati TAR. 

Tale situazione, poi, risulterebbe tanto pi� grave in considerazione del fatto che il numero 
dei magistrati TAR � tre volte superiore a quello dei magistrati del Consiglio di Stato e 
configurerebbe quindi in senso oligarchico l'attuale struttura del Consiglio di Presidenza. La 
sperequazione cos� denunciata sarebbe, poi, aggravata dal fatto che i consiglieri di Stato non 
svolgono soltanto funzioni giurisdizionali ma anche funzioni consultive ed altre funzioni 
caratterizzate dalla <<Vicinanza al potere esecutivo�. 

Inoltre, il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa sarebbe l'unico organo di 
autogoverno che prevede la partecipazione di diritto di due membri oltre il vertice dell'istituto; 
ci� configurerebbe il Consiglio di Presidenza non come organo di autogoverno, ma come vero e 
proprio organo di governo della categoria da parte del Consiglio di Stato. 

Ovvi motivi di riserbo impongono di astenersi da qualunque osservazione sul merito della 
questione non affrontata dalla Corte. Sia consentita invece qualche breve osservazione su di una 
ulteriore questione pregiudiziale, sulla quale la Corte -anche se non in questa sede -ha avuto 
gi� modo di pronunciarsi: i limiti di ammissibilit� del giudizio di costituzionalit� in fase cautelare. 

Si tratta di un problema la cui soluzione presuppone la composizione a sistema di tre principi 
del nostro ordinamento. Tali principi sono: 1) il diritto di difesa in giudizio di cui � momento 
essenziale la fase cautelare, indispensabile per evitare che il tempo necessario ad aver ragione tomi 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO� 

e�

258 

-gli artt. 101, secondo comma, e 108, secondo comma, della Costituzione, 
per l'incidenza che �lo sperequato sistema di rappresentativit� nell'organo di 
autogoverno� ha sull'indipendenza del giudice; 

-l'art. 107, terzo comma, della Costituzione, per il vulnus che la predetta 
sperequazione reca al principio della distinzione interna dei magistrati �soltanto per 
diversit� di funzioni�; 

che, secondo l'ordinanza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio 

(R.O. n. 379 del 1998), la disposizione medesima si pone in contrasto gli artt. 3, 
primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione in quanto, da un lato, la 
presenza, nell'organo in questione, dei due Presidenti di sezione del Consiglio di 
Stato pi� anziani �non trova simmetrica previsione per i Presidenti dei T.A.R.�, e, 
dall'altro, non � prevista �la presenza di componenti di nomina parlamentare�, a 
differenza di quanto stabilito, invece, per il Consiglio superiore della magistratura 
(art. 104 della Costituzione), per il Consiglio di presidenza della Corte dei conti (art. 
1O della legge n. 117 del 1988) ed il Consiglio della magistratura militare (art. 1 
della legge n. 561 del 1988); 
che le ordinanze, nel denunciare l'attuale disciplina sulla composizione del 
Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, appuntano la loro attenzione 
su due aspetti della medesima senza, peraltro, considerare che i problemi di struttura 
dell'organo, soprattutto nel quadro della comparazione con gli altri modelli presi a 
riferimento, vanno, invece, necessariamente apprezzati nell'ambito dell'intero 
sistema, quale risultante dai diversi elementi che in esso intervengono e fra loro si 
combinano, con particolare riguardo a modalit� di estrazione e provenienza delle 
varie componenti, nonch� alle proporzioni in cui si risolve la partecipazione dei 
membri elettivi e di diritto; 

a danno di chi ha ragione; 2) il principio del sindacato accentrato di costituzionalit�, riservato alla 
Corte Costituzionale in sede di incidente pregiudiziale sollevato dal giudice a quo; 3) il principio 
della indipendenza del giudice, soggetto solo alla legge, con il conseguente corollario 
dell'inipossibilit� per il giudice di applicare una norma che egli sospetti di incostituzionalit�. 

Attesa la compresenza nel nostro ordinamento di questi tre principi, quali alternative si 
prospettano al giudice della cautela quando l'accoglimento della domanda presuppone la 
declaratoria di incostituzionalit� di una norma ed il giudice stesso ritenga la questione non 
manifestamente infondata? 

Il giudice della cautela non pu� rigettare la domanda per difetto di fumus boni iuris in 
vigenza della norma che ostacola la pretesa del ricorrente, atteso il difetto in capo a s� del potere 
di sindacato diffuso, perch� cos� facendo violerebbe il principio della sua indipendenza (sopra 
rubricato sub 3); non pu� accoglierla per la opposta ragione: rispetterebbe il principio di 
indipendenza ma violerebbe quello di sindacato accentrato (sopra sub 2), n� a ci� potrebbe 
rimediarsi con una contestuale (o successiva) remissione della questione in Corte Costituzionale 
perch� con l'ordinanza di sospensiva il giudice della cautela avrebbe esaurito i suoi poteri, e la 
questione sarebbe dunque inammissibile (Corte Cost. 22 dicembre 1989 n. 579). 

Nemmeno pu�, infine, a nostro avviso, sollevare la questione di costituzionalit� rinviando la 
decisone sulla cautela alla definizione della questione pregiudiziale di costituzionalit� perch� ci� 
facendo incorrerebbe, in alternativa, in uno dei due seguenti errori: violazione del diritto di difesa 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

259 

che, in ogni caso, i rimettenti segnalano l'esigenza di un diverso assetto che, 
anche in relazione agli elementi test� richiamati, si presta ad una pluralit� di 
soluzioni fra le quali solo il legislatore � legittimato a scegliere nella sua 
discrezionalit�, non potendosi invece richiedere a questa Corte di indicare possibili 
diverse configurazioni dell'organo in questione; 

che, pertanto, le questioni, prima ancora di delibarne la fondatezza o meno, 
vanno dichiarate manifestamente inammissibili. 

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo 
comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. 

PER QUESTI MOTIVI 

LA CORTE COSTITUZIONALE 

riuniti i giudizi, 

dichiara la manifesta inammissibilit�: 

a) della questione di legittimit� costituzionale dell'art. 7 della legge 27 aprile 
1982, n. 186 (Ordinamento della giurisdizione amministrativa e del personale di 
segreteria ed ausiliario del Consiglio di Stato e dei tribunali amministrativi 
regionali), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 97, 101, 107, terzo comma, e 108, 
secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la 
Puglia, sezione staccata di Lecce, con l'ordinanza in epigrafe indicata; 

(sopra sub 1) perch� l'urgenza, che � coessenziale con la cautela, non tollera sospensioni in attesa 
della definizione di una questione pregiudiziale; ammissione -implicita ma non per d� meno 
chiara -che non sussiste nella specie il presupposto dell'urgenza e che quindi la questione di 
costituzionalit� non ha una specifica rilevanza in fase cautelare e rileva invece soltanto ai fini 
della decisione di merito. 

Sembrerebbe dunque doversi concludere per una impossibilit� tecnica di un incidente 
costituzionale in fase cautelare in quanto la conciliazione dei tre principi di cui sopra somiglia da 
vicino alla soluzione del problema della duplicazione del cubo. La Corte Costituzionale ha 
tuttavia suggerito un escamotage che realizza tale duplicazione. Il giudice della cautela potr� 
adottare un provvedimento in via provvisoria ed interinale rimettendo quindi la questione alla 
Corte Costituzionale e riservando all'esito del giudizio la definitiva pronuncia sulla cautela, salve 
sempre le ulteriori definitive determinazioni di merito (Corte Cost. 12 ottobre 1990, n. 444). Si 
concilierebbe in tal modo il diritto di difesa (con la concessione della cautela in via di urgenza), 
il sindacato accentrato (con l'incidente di costituzionalit� che condiziona la decisione cautelare 
definitiva ed � ammissibile, in quanto la potest� cautelare non si � esaurita) ed infine, il principio 
di indipendenza del giudice che non � costretto ad applicare una norma della cui costituzionalit� 
dubita. � una soluzione che mescola fantasia, rigore giuridico e pragmatismo e favorisce 
comunque una sostanziale garanzia di giustizia. 

IGNAZIO F. CARAMAZZA 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

260 

b) delle questioni di legittimit� costituzionale del medesimo art. 7, secondo 
comma, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 97, primo comma, 101, 
secondo comma, 107, terzo comma, e 108, secondo comma, della Costituzione, dal 
Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sezione staccata di Reggio 
Calabria, e dal Tribunale amministrativo regionale per l'Emilia-Romagna, nonch�, 
in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, dal 
Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con le ordinanze in epigrafe indicate 

(omissis). 

CORTE COSTITUZIONALE, 2 novembre 1998, n. 361 -Pres. Granata -Rei. 
Neppi Modona -Presidente del Consiglio dei Ministri (avv. Stato di Tarsia di 
Belmonte) Provincia di Bologna, ( avv. Guerini), Bertino F. (avv. Chiappero ), 
Bertino G. (avv.ti Siracusano e Chiusano), Nicola S. (avv. Longo), Bonfanti C. 
(avv.ti Bruni e Frigo), Fameti L. (avv.ti Trombetti e Pecorella), Gioi P. (avv. 
Rovelli) e dott. Marcello Maddalena, aggiunto procuratore della Repubblica 
presso il Tribunale di Torino. 

Giudizio incidentale di costituzionalit� -Costituzione del pubblico ministero Inammissibilit� 
-Questione di legittimit� costituzionale degli artt. 23 e 25 
della legge 11marzo1953, n. 87 -Infondatezza (artt. 23 e 25legge11 marzo 
1953, n. 87; Cost. art. 3). 
(Legge 11 marzo 1953, n. 87, artt. 20, 23 e 25) 

Procedimento penale -Art. 513, codice procedura penale, II comma -Art. 500, 
codice procedura penale -Diversit� di disciplina -Irragionevolezza Incostituzionalit� 
per violazione dell'art. 3 Cost. 

Procedimento penale -Art. 238 codice procedura penale, IV comma -Imputato 
in procedimento connesso -Rifiuto di rispondere in dibattimento su fatti 
oggetto di sue precedenti dichiarazioni-Non prevista applicazione dell'art. 
500, commi 2-bis e 4 -Incostituzionalit�. 

Procedimento penale -Art. 513, II comma codice procedura penale, questione 
di costituzionalit� per violazione art. 3 Cost. -Contrasto con il comma I 
dell'art. 513, codice procedura penale -Inammissibilit�. 

Procedimento penale -Questione di costituzionalit� dell'art. 514 codice 
procedura penale -Contrasto con gli artt. 3, 24, 101 e 112 Cost. Inammissibilit� 
. 

Procedimento penale -Art. 238 -Commi II-bis e IV codice procedura penale Contrasto 
con gli artt. 3, 101 e 111 Cost. -Infondatezza. 

Procedimento penale -Art. 210, comma IV codice procedura penale Contrasto 
con gli artt. 2, 3, 24, 25, 101, 102, 111 e 112 Cost. -Infondatezza. 
(Artt. 210, 38, 513, 514 codice procedura penale; Cost. artt. 2, 3, 24, 25, 101, 102, 111 e 112). 


-


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

261 

La peculiarit� del ruolo del P.M fa ritenere non irragionevole la scelta del 
legislatore di escludere tale organo dalla legittimazione a costituirsi nel giudizio 
sulle leggi (1). 

� affetto da illegittimit� costituzionale l'art. 513, comma 2, ultimo periodo del 
codice di procedura penale nella parte in cui non prevede che, qualora il 
dichiarante rifiuti o comunque ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti 
concernenti la responsabilit� di altri gi� oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, 
in mancanza dell'accordo delle parti alla lettura si applica l'art. 500, commi 2-bis 
e 4, del codice di procedura penale (2). 

� affetto da illegittimit� costituzionale l'art. 21O del codice di procedura penale 
nella parte in cui non ne � prevista l'applicazione anche all'esame dell'imputato nel 
medesimo procedimento su fatti concernenti la responsabilit� di altri, gi� oggetto 
delle sue precedenti dichiarazioni rese all'autorit� giudiziaria o alla polizia 
giudiziaria su delega del pubblico ministero (3). 

� affetto da illegittimit� costituzionale l'art. 238, comma 4, del codice di 
procedura penale nella parte in cui non prevede che, qualora in dibattimento la 
persona esaminata a norma dell'art. 210 del codice di procedura penale rifiuti o 
comunque ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti concernenti la 
responsabilit� di altri gi� oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, in mancanza 
di consenso dell'imputato alla utilizzazione si applica l'art. 500, commi 2-bis e 4, 
del codice di procedura penale (4). 

Sono inammissibili le questioni di legittimit� costituzionale dell'art. 513, 
comma 2, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento all'art. 3 della 
Costituzione, sotto il profilo della disparit� di trattamento in relazione al comma 1 
dello stesso articolo, dal Tribunale di San Remo e dal Tribunale di Savona con le 
ordinanze in epigrafe (5). 

� inammissibile la questione di legittimit� costituzionale dell'art. 514 del 
codice di procedura penale sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 1O1 e 112 della 
Costituzione, dal Tribunale di San Remo (6). 

Non � fondata la questione di legittimit� costituzionale dell'art. 238, commi 
2-bis e 4, ciel codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 
101, secondo comma, e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Perugia con 
l'ordinanza in epigrafe (7). 

Non sono fondate le questioni di legittimit� costituzionale dell'art. 210, comma 
4, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, 
secondo comma 101, secondo comma, 102, primo comma, 111 e 112 della 
Costituzione, dal Tribunale di Bergamo, dal Tribunale militare di Torino e dal 
Tribunale di Trani, con le ordinanze in epigrafe (8). 

(1 -8) Sull'art. 513 del codice di procedura penale: un difficile equilibrio tra ius 
puniendi e ius libertatis. 

La tormentata vicenda dell'art. 513 codice di procedura penale alla quale si � accennato nel 
precedente numero di questa Rassegna (1998, I, 187) sia con riguardo all'interpretazione delle 
norme transitorie fomite dalla nota sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 4265 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

262 

(omissis) 

1. -Nel corso di un procedimento penale a carico di un minorenne imputato dei 
delitti aggravati di banda armata, strage per attentare alla sicurezza dello Stato, 
pluriomicidio, porto di esplosivi e altro, commessi in concorso con maggiorenni nei 
confronti dei quali si era proceduto separatamente, il tribunale per i minorenni di 
Bologna, all'udienza iniziale del dibattimento, in data 18 aprile 1997, aveva 
disposto, a norma dell'art. 238 del codice di procedura penale, l'acquisizione dei 
verbali delle dichiarazioni dibattimentali rese dagli imputati maggiorenni, nonch� 
dei verbali delle dichiarazioni dai medesimi rese nelle precedenti fasi istruttorie 
innanzi al pubblico ministero o al giudice istruttore. 
Nel prosieguo del dibattimento si era proceduto all'esame di persone citate a 
norma dell'art. 210, codice procedura penale, alcune delle quali si erano avvalse 
della facolt� di non rispondere. 

All'udienza del 16 settembre 1997, uno degli imputati in procedimento 
connesso si avvaleva parzialmente della facolt� di non rispondere, in relazione ad 
alcuni specifici temi di prova relativi a un fatto di omicidio. Il pubblico ministero 
chiedeva darsi lettura di quanto in precedenza dichiarato da tale imputato. La difesa 
si opponeva alla richiesta, invocando il disposto dell'art. 513, comma 2, codice 
procedura penale, come novellato dalla legge 7 agosto 1997, n. 267 (Modifica delle 
disposizioni del codice di procedura penale in tema di valutazione delle prove), 
acconsentendo invece alla lettura di alcune delle precedenti dichiarazioni, rese nel 
diverso dibattimento, da altri imputati in procedimento connesso. Il pubblico 
ministero si opponeva a tale acquisizione parziale e, a seguito di eccezione del 
medesimo organo, il tribunale, con ordinanza in data 19 settembre 1997 (registro 
ordinanze n. 776/1997), sollevava questione di legittimit� costituzionale degli artt. 
513, comma 2, 23 8, commi 2-bis e 4, codice procedura penale, e 6 della legge n. 267 
del 1997, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 112 della Costituzione. 

Osserva il tribunale che l'art. 513, comma 2, codice procedura penale, come 
novellato, viola il principio di ragionevolezza, ex art. 3 della Costituzione, perch� da 
un lato consente la utilizzabilit� delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini 
preliminari dalle persone imputate in un procedimento connesso di cui non sia 
possiOile ottenere la presenza in dibattimento, dall'altro, qualora dette persone, pur 
comparendo, si rifiutino di rispondere, subordina la utilizzabilit� all'accordo delle 
parti. La norma sarebbe inoltre in contrasto con gli artt. 111 e 112 della Costituzione, 

del 7 aprile 1998, sia con riguardo alla inammissibilit� della costituzione del Pubblico Ministero 
innanzi al giudice delle leggi che con questa sentenza ha condiviso le valutazioni dell'Avvocatura 
Generale dello Stato, � giunta a questo epilogo. Dopo la riforma del 1997 (legge 7 agosto 1997, 

n. 267) numerosissime ordinanze di remissione per non manifesta infondatezza furono emanate. 
Con questa sentenza la Corte Costituzionale ne ha preso in considerazione una cospicua parte, che 
tuttavia prospetta nella sua globalit� i profili di contrasto con la normativa costituzionale ripresi 
da altre ordinanze in relazione alle quale le udienze di fronte al Giudice Costituzionale non sono 
ancora fissate. 
La sentenza che si annota prospetta una soluzione di equilibrio fra le contrapposte esigenze 
della tutela dell'ordinamento e della garanzia del diritto dell'imputato a vedersi sottoposto ad un 
giusto processo che costituisce un laborioso punto d'arrivo di una marcia iniziata, praticamente 



PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

263 

poich� subordina all'accordo delle parti la possibilit� per il giudice di prendere 
conoscenza complessiva del materiale probatorio. 

Quanto all'art. 238 codice procedura penale, anch'esso lede il principio di 
ragionevolezza, perch� discrimina, quanto a utilizzabilit�, le dichiarazioni 
testimoniali, che sono sempre utilizzabili, e quelle rese ex art. 21 O codice procedura 
penale, che sono utilizzabili solo se il difensore dell'imputato sia stato presente nel 
procedimento connesso nel momento in cui le dichiarazioni venivano rese. A 
giudizio del rimettente, atteso che le dichiarazioni testimoniali e quelle provenienti 
da persona esaminata ex art. 21 O codice procedura penale �hanno entrambe valenza 
processuale�, �non si giustificano le diverse conseguenze che la legge attribuisce 
al sopravvenuto silenzio del testimone in sede dibattimentale, rispetto all'analogo 
silenzio della persona esaminata ex art. 21 O codice procedura penale�, potendosi 
solo nel primo caso procedere alla contestazione e alla utilizzazione delle 
precedenti dichiarazioni ai sensi dell'art. 500, commi 2-bis, 3, 4 e 5, codice 
procedura penale. 

Il medesimo art. 238 codice procedura penale sarebbe inoltre in contrasto con 
il diritto di difesa, ex art. 24 Cost., perch� mentre non sono utilizzabili le 
dichiarazioni rese a norma dell'art. 210 codice procedura penale, possono essere 
utilizzate le sentenze irrevocabili, in forza dell'art. 238-bis dello stesso codice. 

Quanto al comma 4 del medesimo art. 238 codice procedura penale, anch'esso 
violerebbe gli artt. 3, 111 e 112 Cost., perch� tale norma fa irragionevolmente 
dipendere la utilizzabilit� delle dichiarazioni dal consenso dell'imputato, 
determinando una disparit� tra accusa e difesa. 

Infine, il giudice a quo sospetta che anche la norma transitoria (art. 6 della legge 

n. 267 del 1997) sia incostituzionale, perch�, prevedendosi la immediata 
applicazione della normativa, non � dato alcun rimedio diretto alla conservazione 
delle dichiarazioni rese ex art. 21 O codice procedura penale, mentre nel caso di 
procedimento nella fase delle indagini preliminari � possibile ricorrere all'incidente 
probatorio a norma dell'art. 392, lett. e) ed) codice procedura penale. 
1.1. -Si � costituito il prof. Vittorio Prodi, nella qualit� di Presidente protempore 
della provincia di Bologna, parte lesa nel procedimento a quo, 
rappresentato e difeso dall'avvocato Umberto Guerini, chiedendo che la questione 
sia dichiarata manifestamente infondata. 
poco tempo dopo l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale e che val la pena di 
richiamare per la miglior comprensione del problema. 

I principi ispiratori del nuovo processo (oralit�, contraddittorio, terziet� dell'organo 
chiamato al controllo della seriet� dell'accusa, parit� dei poteri riconosciuti ai tutori dei 
contrapposti interessi, centralit� del dibattimento come sede privilegiata dell'acquisizione delle 
prove) erano stati attuati con una serie di norme, molte delle quali (artt. 95, 210, 238, 347, 348, 
350, 351, 357, 360, 362, 370, 373, 380, 405, 407, 431, 495, 500, 513) sono state dichiarate 
incostituzionali, o modificate da disposizioni successive di legge. Norme che nel preordinato 
tessuto del nuovo codice costituivano l'attuazione della scelta accusatoria. Questa scelta, che si 
richiamava ad una bozza di codice redatta all'inizio degli anni '60 da una Commissione 
presieduta da Francesco Carnelutti, come amava ricordare nella sua premessa alla relazione al 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

264 

In particolare, con riferimento alle censure mosse all'art. 513, comma 2, codice 
procedura penale, il difensore della persona offesa rileva che la possibilit� per il 
giudice di conoscere o non conoscere le dichiarazioni rese precedentemente al 
dibattimento dalla persona che si avvalga della facolt� di non rispondere in sede di 
esame ex art. 21 O codice procedura penale � conseguenza fisiologica del principio 
del contraddittorio, che presuppone la facolt� delle parti di sottoporre all'esame 
incrociato la persona che rende dichiarazioni rilevanti ai fini della decisione. 

Quanto alle censure mosse all'art. 238 codice procedura penale, il difensore 
della persona offesa ritiene ragionevole la differenza di disciplina in ragione della 
qualit� di testimone o di imputato di reato connesso del dichiarante, poich�, in tale 
ultima situazione, a differenza della prima, il dichiarante ha facolt� di non rispondere, 
sicch� del tutto logicamente la legge condiziona la utilizzazione delle precedenti 
dichiarazioni alla circostanza che queste siano state rese in contraddittorio con chi, 
nell'ulteriore procedimento, ne debba subire le conseguenze. 

Infine, relativamente alla disciplina transitoria, si sottolinea che essa del tutto 
ragionevolmente rende applicabile ai procedimenti in corso la �nuova� regola recata 
dal novellato art. 513 codice procedura penale. 

1.2. -� intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e 
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione, nei suoi 
vari profili, sia dichiarata infondata. 
Nell'atto di intervento, relativo anche al distinto giudizio di costituzionalit� di 
cui alla ordinanza iscritta al n. 787 del registro ordinanze del 1997, l'Avvocatura 
rileva, quanto alla disciplina dell'art. 513, comma 2, codice procedura penale, che 
l'impossibilit� di ottenere la presenza del dichiarante per fatti o circostanze 
imprevedibili, in presenza della quale � consentita la lettura delle precedenti 
dichiarazioni, non � equiparabile al caso in cui il soggetto si avvalga della facolt� di 
non rispondere, per il quale la norma ragionevolmente condiziona la lettura 
all'accordo delle parti. N� a sorreggere la valutazione di irragionevolezza della 
norma denunciata pu� valere il richiamo alla sentenza n. 254 del 1992 di questa 
Corte, che aveva ad oggetto un quadro normativo affatto diverso. 

Quanto al presunto contrasto con gli artt. 111 e 112 Cost., la limitazione del 
giudicante nella conoscenza del materiale probatorio sarebbe conseguente alla scelta 

testo del codice l'allora guardasigilli Giuliano Vassalli, era giustificata dalla constatazione che nel 
codice del 1930, nonostante le riforme intervenute dal 1955 in poi, non si era riusciti ad eliminare gli 
aspetti pi� tipicamente negativi dell'impianto inquisitorio, come la mancanza nel giudice istruttore 
della posizione di terziet�, l'ampia segretezza e la formazione istruttoria della prova, con la riduzione 
del dibattimento a luogo di verifica e di valutazione delle prove precedentemente acquisite (G. 
Vassalli op. !oc. cit.). Quella scelta era inoltre rafforzata dalla convinzione che le probabilit� di una 
decisione giusta sono maggiori quando la prova si forma nella dialettica processuale anzich� nella 
solitaria ricerca dell'organo istruttore, sia esso un pubblico ministero o un giudice, le cui acquisizioni 
diventano fonte di pregiudizio ineliminabile per il giudice del dibattimento (G. Vassalli, ivi). 

Sul sistema delineato dal nuovo processo sono per� intervenute modificazioni salienti, a 
cominciare dalla sentenza n. 26 del 1992 della Corte Costituzionale che dichiarava 

l'illegittimit� costituzionale dell'art. 195, IV comma, c. p. p. nella parte in cui vietava 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

265 

del legislatore di negare valore probatorio alle pregresse dichiarazioni in mancanza 
del vaglio dibattimentale. 

Con riferimento alle censure rivolte all'art. 238-bis codice procedura penale, 
l'utilizzabilit� condizionata dei verbali delle dichiarazioni rese dalle sole persone di 
cui all'art. 210 codice procedura penale, a fronte della ampia utilizzabilit� delle 
dichiarazioni di fonte testimoniale, troverebbe giustificazione nella minore 
attendibilit� di tali soggetti. N� potrebbe ravvisarsi alcuna violazione dell'art. 112 
Cost., poich� l'esercizio dell'azione penale non pu� che avvenire nei limiti 
consentiti dalla legge. 

Infine, nessuna censura meriterebbe la disciplina transitoria, per sua natura 
rimessa alla discrezionalit� sovrana del legislatore, che del resto equilibratamente 
consente il ricorso all'incidente probatorio pur dopo l'esercizio dell'azione 
penale. 

1.3. -In prossimit� dell'udienza, il Presidente della provincia di Bologna ha 
presentato una articolata memoria, ove si ripercorrono le vicende legislative e gli 
interventi della Corte costituzionale sull'art. 513 codice procedura penale, 
rilevando, tra l'altro, che la vera origine delle tensioni costituzionali in materia 
andrebbe ricercata nella disciplina del diritto al silenzio configurata dall'art. 210, 
comma 4, codice procedura penale in relazione sia alle dichiarazioni 
autoaccusatorie, sia a quelle eteroaccusatorie; disciplina che sarebbe peraltro 
difficilmente superabile, a causa del rischio di incidere sul principio nemo tenetur se 
detegere. Vengono poi esaminati i vari parametri costituzionali con riferimento a 
tutte le ordinanze di rimessione; infine la memoria si sofferma sulle peculiarit� della 
specifica situazione processuale su cui si � innestata l'ordinanza di rimessione del 
tribunale per i minorenni di Bologna. 
In particolare, la difesa eccepisce il difetto di rilevanza della questione, non 
essendo adeguatamente motivate le ragioni per cui, a fronte del rifiuto solo parziale 
del dichiarante di rispondere alle domande nel corso dell'esame, non sarebbe stato 
possibile fare ricorso in via analogica alla disciplina prevista dall'art. 500, comma 
2-bis, codi�e procedura penale per le contestazioni in sede di esame dei testimoni, 
identica essendo la ratio che sottost� alla posizione dei testimoni e delle persone che 
rendono dichiarazioni ex art. 21 O codice procedura penale. Al riguardo, viene 

l'utilizzazione agli effetti del giudizio attraverso la testimonianza della stessa polizia giudiziaria, 
delle dichiarazioni ad essa rese da testimoni. 

In seguito all'assassinio del giudice Giovanni Falcone e della progressione della criminalit� 
organizzata, fu emanata nello stesso anno, la legge 7 agosto 1992 n. 356 di conversione del 
decreto-legge 8 giugno 1992 n. 306 che, modificando gran parte delle norme dianzi citate ed 
introducendone di nuove (190-bis, 238-bis, secondo comma bis dell'art. 281, terzo comma 
dell'art. 295, 406, quarto comma dell'art. 468, 500, quinto comma dell'art. 503, 511-bis, 512-bis, 
722-bis codice procedura penale) contiene una articolata modificazione del sistema, limitando il 
contraddittorio, accentuando, a favore della ratio ispiratrice -quella della conservazione della 
prova raccolta fuori dal processo -la possibilit� della lettura di atti formati fuori del 
dibattimento, consentendo l'introduzione, con rango e dignit� di prova, dei risultati dell'attivit� 
svolta dal P.M. e dalla polizia giudiziaria. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

266 

sollecitato un intervento interpretativo di questa Corte. In ogni caso, la difesa rileva 
che nel processo a quo � stato acquisito un imponente materiale probatorio, a fronte 
del quale sarebbe carente di motivazione l'affermazione circa l'impossibilit� di 
definire il giudizio senza acquisire le dichiarazioni delle persone esaminate a norma 
dell'art. 21 O codice procedura penale. 

2. -Il tribunale di Torino, in un procedimento a carico di vari imputati per i 
delitti di cui agli artt. 323 e 426 del codice penale, aveva esaminato in dibattimento, 
su richiesta del pubblico ministero, un ex coimputato prosciolto in udienza 
preliminare, nonch�, ex art. 507 codice procedura penale, un coimputato nel 
medesimo procedimento. Entrambi si erano avvalsi della facolt� di non rispondere 
ed erano state acquisite le dichiarazioni da loro rese in precedenza al pubblico 
ministero e al giudice per le indagini preliminari. 
Nelle more tra la chiusura dell'istruzione dibattimentale e l'inizio della 
discussione era entrata in vigore la legge n. 267 del 1997 e il tribunale aveva 
disposto la riapertura dell'istruzione dibattimentale e la citazione dell'ex coimputato 
in procedimento connesso e del coimputato: entrambi comparivano e dichiaravano 
di avvalersi della facolt� di non rispondere. A seguito dell'opposizione della difesa 
degli imputati del procedimento a quo alla acquisizione delle dichiarazioni 
predibattimentali rese dall'ex coimputato (gi� prosciolto in udienza preliminare) e 
dal coimputato, i relativi verbali venivano espunti dal fascicolo processuale. 

Il pubblico ministero eccepiva questione di legittimit� costituzionale dell'art. 
513 codice procedura penale, come modificato dalla legge n. 267 del 1997, e della 
relativa disciplina transitoria. Il tribunale, revocata 1'ordinanza con la quale erano 
stati espunti i verbali delle dichiarazioni predibattimentali, sollevava con ordinanza 
in data 12 novembre 1997 (registro ordinanze n. 915/1997) questione di legittimit� 
costituzionale dell'art. 6, comma 5, della legge n. 267 del 1997, in riferimento agli 
artt. 3, 24, comma secondo, 101, comma secondo, e 112 della Costituzione. 

Il collegio rimettente ritiene che la disposizione transitoria, contraddicendo il 
principio tempus regit actum, attribuisce alle dichiarazioni di cui al comma 2 
dell'articolo 6 della legge n. 167 del 1997 (gi� acquisite ai sensi dell'art. 513 codice 
procedura penale previgente, rese da soggetti che nuovamente citati dopo l'entrata 

Dal canto suo la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 254 del 1992 (richiamata in 
quella oggetto di questa nota) dichiar� l'illegittimit� costituzionale dell'art. 513, secondo 
comma codice procedura penale nella parte in cui non prevede che il giudice, sentite le parti, 
disponga la lettura dei verbali delle dichiarazioni di cui al primo comma del medesimo 
articolo rese dalle persone indicate nell'art. 210, qualora queste si avvalgano della facolt� di 
non rispondere; con la successiva sentenza n. 255 del 1992, dichiar� l'illegittimit� 
costituzionale del terzo e quarto comma dell'art. 500 codice procedura penale nella parte in 
cui non prevede l'acquisizione nel fascicolo per il dibattimento, se sono state utilizzate per le 
contestazioni previste dai commi primo e secondo, delle dichiarazioni rese dal testimone e 
contenute nel fascicolo del pubblico ministero (l'intero art. 500 codice procedura penale, 
successivamente alla citata pronuncia, � stato modificato dal decreto-legge 306/1992 
convertito nella legge 356/1992). 



PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

267 

in vigore della legge n. 267 del 1997 si avvalgono della facolt� di non rispondere) 
�una valenza probatoria di segno intermedio per i processi in corso, ossia attenuata 
rispetto al vecchio testo dell'art. 513 codice procedura penale, preclusa invece dal 
nuovo testo�, con conseguente disparit� di trattamento per i reati commessi 
anteriormente all'entrata in vigore della legge (art. 3 Cost.). Mentre il fatto che la 
diversa utilizzazione dello stesso tipo di prova, in relazione a reati in ipotesi 
commessi tutti prima della nuova legge, sia ricollegata a circostanze del tutto 
casuali, quali lo stato del procedimento, costituirebbe altres� palese violazione del 
diritto di difesa e dunque dell'art. 24, comma secondo, della Costituzione. 

A parere del tribunale, inoltre, la norma transitoria, cos� come il nuovo testo 
dell'art. 513 codice procedura penale, consente la utilizzazione delle dichiarazioni 
precedentemente rese dall'imputato in procedimento connesso solo con il consenso 
delle parti; ma poich� per l'opposizione non � richiesta alcuna motivazione, il diritto 
di veto attribuito alle parti in relazione alla acquisizione della prova costituirebbe 
violazione del principio per il quale il giudice � soggetto soltanto alla legge, e quindi 
dell'art. 1O1, comma secondo, della Costituzione. Infine, �l'utilizzo variabile della 
stessa prova, confligge con il principio, pi� volte riconosciuto dalla Corte 
costituzionale, della necessit� di non dispersione della prova�; il potere di vietare 
l'ingresso di una prova, rimesso alla volont� anche di una sola delle parti, 
contrasterebbe, dunque, con l'art. 112 della Costituzione, in quanto l'esercizio 
dell'azione penale verrebbe �incrinato� da una facolt� attribuita ad una delle parti e 
il processo penale subirebbe per tale via �un completo stravolgimento�. 

D'altro canto, a parere del tribunale rimettente, il rifiuto di rendere 
dichiarazioni in dibattimento dei soggetti indicati al comma 1 e al comma 2 dell'art. 
513 codice procedura penale �rende le precedenti dichiarazioni da costoro rese, 
'irripetibili', al pari delle altre situazioni 'imprevedibili' di cui all'art. 512 codice 
procedura penale�, mentre � invece completamente diverso il trattamento 
processuale riservato a chi si rende irreperibile per non rispondere, rispetto a chi �a 
viso aperto dichiari di non volere rendere la dichiarazione�. 

2.1. -Si sono costituiti gli imputati S.N., rappresentato e difeso dall'avvocato 
Ennio Festa, G.B. rappresentato e difeso dagli avvocati Vittorio Chiusano e Delfino 
Siracusano, F.B., rappresentato e difeso dall'avvocato Luigi Chiappero. 
Tali modificazioni furono ampiamente criticate, considerate espressione di reazioni emotive 
che rischiavano di segnare passi indietro verso un sistema inquisitorio. In realt� esse apparvero 
come il giusto rimedio alla constatata lentezza con la quale il nuovo processo si era messo in 
moto, con la conseguente scarsa efficienza e tempestivit� dell'accertamento probatorio 
dibattimentale. Sopperire alla inadeguatezza del nuovo sistema con il rafforzamento dei poteri 
inquisitori e con la conservazione delle prove comunque raccolte � stato valutato male minore 
rispetto alla garanzia dei diritti dell'imputato, mentre la-non meno degna di considerazionegaranzia 
dei cittadini contro il crimine veniva anch'essa tutelata, nella mens legis, da 
provvedimenti che potrebbero definirsi conservativi -cautelari. 

Il punto nodale per�, nel quale si concentrano le massime tensioni -difficilmente risolvibile, 
nonostante gli elaborati studi -si ha quando le esigenze di conservazione -di per s� per 
definizione meramente cautelari, quindi provvisorie. quindi non pregiudizievoli -si attuano con 
strumenti che divengono definitivi e determinanti dell'accertamento delle responsabilit� penali. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO.

268 

I difensori degli imputati, nei loro atti di costituzione sostanzialmente identici, 
chiedono che la questione venga dichiarata inammissibile e comunque infondata, 
rinviando per quanto riguarda la non rilevanza alle deduzioni illustrate nel processo 
a quo. Per quanto concerne la non fondatezza, i difensori osservano che non basta 
denunciare genericamente una violazione del principio di razionalit� perch� una 
norma sia da ritenere incostituzionale. Al contrario, la previsione di diverse 
discipline a seconda dello stadio del procedimento (incidente probatorio per i 
procedimenti nuovi, possibilit� di nuova audizione, a richiesta, per i procedimenti in 
corso) appare ragionevolmente contemperare le esigenze di conservazione dei 
mezzi di prova e del contraddittorio. D'altro canto, ogni modifica legislativa 
irrimediabilmente comporta diversit� di �trattamento� in relazione al momento di 
entrata in vigore delle nuove disposizioni, e la disciplina transitoria ha solamente 
voluto temperare gli effetti dell'immediata applicazione in base alla regola tempus 

I

regit actum, proprio in vista della non totale dispersione �dei mezzi di prova 
precedentemente acquisiti, nel rispetto dell'esigenza prioritaria di garantire il 
principio del contraddittorio e contestualmente il diritto di difesa. 

2.2. -Si � costituita la Procura della Repubblica di Torino, in persona del 
Procuratore della Repubblica aggiunto. 
Il Procuratore della Repubblica aggiunto insiste preliminarmente sulla 
ammissibilit� della propria costituzione. Pur tenendo presenti i precedenti di 
questa Corte, il Procuratore della Repubblica confida in un mutamento di 
giurisprudenza, fondato sul non dubitabile connotato di parte del pubblico 
ministero, tanto pi� in sede dibattimentale (al riguardo si richiamano le sentenze 

n. 249 del 1990, n. 353 del 1990, n. 190 del 1991, n. 363 del 1991, n. 96 del 1997), 
e argomenta come parrebbe irragionevole far discendere dalla, pur peculiare, 
posizione di parte pubblica del pubblico ministero la sua totale esclusione dalla 
partecipazione ad un giudizio incidentale che � fondamentale per l'esito del 
processo. In particolare non potrebbe ritenersi che l'interesse del pubblico 
ministero sia assorbito dalla possibilit� di intervento del Presidente del Consiglio 
dei Ministri, poich� questi rappresenta l'indirizzo politico del Governo, mentre il 
pubolico ministero agirebbe �in qualit� di (neutro) tutore e promotore di 'legalit�' 
(anche costituzionale)�. 

Questo per� � un tema d'indagine che parte da troppi se (se l'attuazione del nuovo processo 
avesse trovato strutture pronte ed efficienti, se la ricerca e l'assicurazione della prova avesse 
potuto avvenire in tempi reali, se i tempi delle indagini preliminari avessero potuto essere 
rispettati nelle previsioni �di regola� e non �d'eccezione�, se l'accusato avesse potuto essere 
tratto a giudizio in termini brevi, se avesse potuto essere garantita di fatto la parit� di accusa e 
difesa, se il rigoroso rispetto di ogni norma fosse stata un'esigenza diffusamente avvertita e se 
perci� l'abuso, ogni abuso e da chiunque commesso, avesse potuto essere punito) per poter essere 
sviluppato in una nota di commento ad una sentenza della Corte Costituzionale che affronta, si 
potrebbe dire �allo stato degli atti e dei tempi�, con pensoso e responsabile approfondimento, un 
problema del giusto processo. 

Tornando perci� al pi� concreto esame della sentenza e delle norme costituzionali che 
secondo le ordinanze di rimessione sarebbero violate, le pi� articolate ordinanze che hanno 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

269 

Nel merito, il Procuratore della Repubblica di Torino conduce una articolata 
disamina, anche con riferimento a norme e parametri costituzionali non richiamati 
nell'ordinanza di rimessione. Premesso che nel corso dei lavori parlamentari erano 
stati sollevati dubbi e perplessit� sulla costituzionalit� delle nuove disposizioni, le 
deduzioni insistono soprattutto sulla portata del principio di non dispersione degli 
elementi di prova, quale delineato dai precedenti di questa Corte, sulla 
�irragionevolezza� di riservare un diverso trattamento, quanto alla loro 
utilizzabilit�, alle dichiarazioni testimoniali e a quelle rese contra alios 
dall'imputato in procedimento connesso, sulla assimilabilit� della facolt� di non 
rispondere alle altre situazioni di irripetibilit� delle dichiarazioni rese in precedenza, 
sul fatto che si attribuisca non solo alle parti, ma anche ad un terzo estraneo rispetto 
al processo, quale � appunto l'imputato in procedimento connesso, la facolt� di 
condizionare la qualit� e la quantit� del bagaglio di conoscenze destinato ad essere 
utilizzato dal giudice per la decisione. 

Infine, per quanto concerne la disciplina transitoria, rileva come sarebbe 
irragionevole far dipendere la dichiarazione di innocenza o di colpevolezza 
dell'imputato dalla sola circostanza occasionale che il processo fosse o no in corso 
alla data di entrata in vigore della legge n. 267 del 1997. 

2.3. -Si � costituito il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e 
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga 
dichiarata infondata. 
L'Avvocatura dello Stato si richiama in generale alle considerazioni gi� 
espresse nell'atto di intervento relativo al giudizio di costituzionalit� promosso con 
le ordinanze iscritte ai nn. 776 e 787 del registro ordinanze del 1997, rilevando in 
particolare: quanto alla censura di irragionevolezza mossa alla disciplina 
transitoria, che la scelta di fissare il discrimine della avvenuta lettura degli atti ai 
fini della operativit� della normativa transitoria appare ragionevolmente volta a 
contemperare le esigenze di economia processuale e le ragioni di garanzia che 
hanno portato alla novella legislativa, mentre l'ampliamento richiesto dal 
rimettente costituirebbe invasione della sfera di discrezionalit� riservata al 
legislatore; _quanto alla dedotta violazione del principio di non dispersione dei 
mezzi di prova per il tramite dell'art. 112 Cost., che perlomeno di pari rilievo 
costituzionale sono le esigenze di garanzia dell'imputato . 

. 

ravvisato la non manifesta infondatezza della questione, si incentravano sulle seguenti 
considerazioni: 

-l'art. 25 e l'art. 111 Cost. sarebbero violati da una nonna che non consentirebbe la 
completezza delle indagini e l'accertamento della verit�, fine primario ed ineludibile del processo 
penale e dalla impossibilit� di pervenire ad una giusta decisione a causa della dispersione delle 
prove e del diritto potestativo, riconosciuto all'imputato chiamante in correit�, di disporre 
sostanzialmente delle prove stesse; 

-l'art. 112 sarebbe violato, oltre che dalla dispersione delle prove e dal potere dispositivo 
riconosciuto all'imputato o agli imputati, anche dal fatto che il materiale probatorio raccolto dal 

P.M. nel corso delle indagini preliminari e che gli ha consentito di esercitare l'azione penale, 
venga posto nel nulla dall'esercizio della facolt� di non rispondere, violando cosi il principio 
dell'obbligatoriet� dell'azione penale; 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

e

270 

2.4. -Con successiva memoria, l'Avvocatura dello Stato, richiamandosi tra 
l'altro ai rilievi contenuti nelle deduzioni del pubblico ministero, secondo cui la 
nuova disciplina esporrebbe l'imputato in procedimento connesso a coercizioni e 
intimidazioni perch� si avvalga della facolt� di non rispondere, rileva che la scelta 
del legislatore � coerente con le cautele che debbono circondare la chiamata in 
correit�; inoltre, con riferimento alla supposta violazione del principio di 
obbligatoriet� dell'azione penale, l'interveniente precisa che il contemperamento tra 
ius puniendi e ius libertatis giustifica i limiti eventualmente introdotti all'art. 112 
Cost., alla luce delle garanzie che debbono essere riservate all'imputato. Infine, con 
riferimento all'art. 111, comma 2, Cost. e ai principi di non dispersione e di 
indisponibilit� delle prove che da tale norma vengono fatti discendere, l'Avvocatura 
rileva che tali principi non costituiscono precetti costituzionali, ma canoni 
processuali dettati da norme ordinarie, suscettibili di interventi legislativi volti a 
consentire il contraddittorio e a meglio garantire l'attendibilit� del materiale 
probatorio. 
3. -Il Tribunale di Bergamo, nel corso di un procedimento penale per i reati di 
cui agli artt. 11 O e 319 del codice penale, all'udienza dibattimentale del 28 
novembre 1997 ammetteva l'esame di imputati in procedimento connesso, gi� 
giudicati ai sensi degli artt. 444 e segg. codice procedura penale. 
Poich� uno di questi si avvaleva della facolt� di non rispondere, il pubblico 
ministero e i difensori della parte civile chiedevano l'acquisizione delle sue 
precedenti dichiarazioni ai sensi dell'art. 513 codice procedura penale, come 
modificato dall'art. 1 della legge n. 267 del 1997; oppostasi la difesa 
dell'imputato, il pubblico ministero reiterava la richiesta ai sensi dell'art. 6 della 
legge n. 267 del 1997. 

Il tribunale, rilevato che nel caso in esame non poteva trovare applicazione la 
disciplina transitoria dettata dall'art. 6 della legge n. 267 del 1997, poich� alla data 
di entrata in vigore di detta legge (12 agosto 1997) non solo non era stata data 
lettura, a norma dell'art. 513 codice procedura penale previgente, delle precedenti 
dichiarazioni dell'imputato di reato connesso, ma non era ancora in corso il 
dibatt�mento de quo, con ordinanza del 15 dicembre 1997 (registro ordinanze 

n. 81/1998) sollevava, in riferimento agli artt. 2 (non riprodotto nel dispositivo), 
-l'art 101 Cost. sarebbe violato per il fatto che sia alla parte attribuito un diritto di �veto� 
aprioristico all'acquisizione come prova di un atto che, senza tale opposizione, avrebbe pieno 
ingresso nel processo, il che violerebbe il principio di cui all'art. 101, comma 2, della 
Costituzione, secondo cui il giudice � soggetto soltanto alla legge e non pu� di conseguenza 
essere condizionato dalla volont� di una delle parti del processo, a seconda che si opponga o 
meno, senza alcuna motivata ragione, all'acquisizione di uno stesso atto. 

L'osservazione ricorrente poi dei denuncianti la violazione costituzionale � quella secondo 
la quale la scelta legislativa �pur ispirata alla giusta esigenza di garantire che il diritto di difesa 
degli accusati si attui nel contraddittorio orale, avrebbe comportato la lesione di altri principi, 
pure di rilievo costituzionale, senza alcun ragionevole tentativo di contemperamento� (v. Trib. 
Cagliari, ord. 18 marzo 1998 proc. c. Lo Gerfo). 

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PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

271 

3, 24, comma 2, 25, comma 2, 101, 102, comma 1, 111e112 della Costituzione, 
questione di legittimit� costituzionale: 1) degli artt. 210, comma 4, e 513 codice 
procedura penale, nella parte in cui prevedono che le persone indicate nell'art. 
21 O codice procedura penale le quali abbiano reso al pubblico ministero 
dichiarazioni indizianti a carico di determinati soggetti, possono avvalersi, nel 
dibattimento a carico di questi soggetti, della facolt� di non rispondere; 2) 
dell'art. 513, comma 2, codice procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della 
legge n. 267 del 1997, nella parte in cui subordina all'accordo delle parti la lettura 
dei verbali contenenti dichiarazioni rese al pubblico ministero dalle persone 
indicate nell'art. 21 O codice procedura penale qualora esse si siano avvalse della 
facolt� di non rispondere o, nel caso di accoglimento della questione sub a) si 
siano rifiutate di rispondere. 

Nel merito il rimettente rileva che: 

a) l'art. 513, comma 2, codice procedura penale, nel testo sostituito dall'art. 
1 della legge n. 267 del 1997, nella parte in cui subordina all'accordo delle parti la 
lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni predibattimentali delle persone 
indicate nell'art. 21 O codice procedura penale che si siano avvalse a dibattimento 
della facolt� di non rispondere, si pone in contrasto con gli artt. 3, 24, comma 2, 25, 
comma 2, 101, 102, comma l, 111 e 112 della Costituzione: 1) apparendo priva di 
ragionevolezza (viene richiamata la sentenza n. 254 del 1992) la diversa disciplina 
di utilizzabilit� degli atti �a seconda che si tratti di dichiaranti in relazione ai quali 
non � possibile ottenere la presenza o procedere all'esame(...) per fatti o circostanze 
imprevedibili al momento delle dichiarazioni, ovvero che si tratti di dichiaranti che 
si presentano a dibattimento, ma che si avvalgono della facolt� di non rispondere�, 
poich� � evidente che l'irripetibilit� dell'atto � imprevedibile anche quando dipende 
da una scelta rimessa all'arbitrio del soggetto (viene richiamata la sentenza n. 179 
del 1994); 2) risultando vulnerato il principio di non dispersione della prova, 
enucleato dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 254 e 255 del 1992 e tendente 
a contemperare il rispetto del principio guida dell'oralit� con l'esigenza di evitare la 
perdita di quanto acquisito prima del dibattimento, nonch�, in virt� di un malinteso 
principio dispositivo (viene richiamata la sentenza n. 111 del 1993 ), i principi di 
indefettibilit� della giurisdizione, del libero convincimento del giudice e della sua 
soggezione solo alla legge, in quanto il diritto riconosciuto all'imputato di opporsi 

Tale argomento critico tuttavia si bloccava nel suo sviluppo logico, perch� i giudici 
remittenti non si erano dati carico di verificare se nelle more ordinarie fosse stato fatto un 
tentativo di conciliazione di contrapposti interessi costituzionalmente tutelati. In realt� venivano 
di solito indicati soltanto i pi� stretti ambiti nei quali la legge del 1997 n. 267 costringe l'azione 
penale e l'accertamento giudiziario, individuandone magari gli �inconvenienti� (rectius: le 
differenze) rispetto al sistema precedente, senza darsi carico di una imprescindibile indagine: la 
portata delle norme costituzionali richiamate in relazione ad altre, di pari (quanto meno) valore, 
con le quali necessariamente vanno coordinate. C'� stata in altri termini nella prospettazione delle 
questioni di non manifesta infondatezza, una tendenza a dare valore assoluto e prioritario alle 
norme �di azione� giudiziaria, quasi tacendo su quelle di �garanzia� dei cittadini e di tutela dei 
diritti di libert�. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

272 

ad libitum all'utilizzazione di prove a suo carico gli consentirebbe di disporre del 
processo e impedirebbe al giudice di conoscere i fatti del processo e di valutare 
complessivamente il materiale probatorio; 3) discendendo, infine, dalla normativa 
impugnata, la violazione dei principi di obbligatoriet� dell'azione penale e di 
legalit� nell'uguaglianza affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 88 del 
1991, nonch� del diritto di difesa della parte civile; 

b) gli artt. 210, comma 4, e 513 codice procedura penale, nella parte in cui 
prevedono che l'imputato in procedimento connesso, che abbia reso dichiarazioni 
accusatorie a carico di soggetti non presenti all'atto di assunzione davanti al 
pubblico ministero, possa avvalersi, nel dibattimento a carico di quei soggetti, della 
facolt� di non rispondere, si porrebbero inoltre in contrasto con gli artt. 3, 24, 
comma 2, 25, comma 2, 101, 102, comma 1, 111 e 112 della Costituzione, poich�, 
tutelandosi sino all'estremo limite per un verso il diritto all'assunzione delle prove 
nel contraddittorio delle parti e per l'altro il diritto degli imputati a non sottoporsi 
all'esame dibattimentale, si finisce per sacrificare: 1) l'esercizio della funzione 
giurisdizionale e la possibilit� di emettere �una giusta decisione� attraverso la piena 
conoscenza dei fatti ad opera del giudice (artt. 2, 3, 25, comma 2, 101, comma 2, 
102 e 111 della Costituzione); 2) l'equilibrio tra i diritti di difesa di cui sono titolari 
i diversi soggetti del procedimento. A tal proposito il tribunale rimettente osserva 
che �il conflitto reale non � tra diritto di difesa e giurisdizione, ma tra i diritti di 
difesa di cui sono titolari i diversi soggetti� e che tale conflitto Ǐ stato 
erroneamente risolto (dal legislatore del 1997) a tutto danno della giurisdizione�, 
con conseguente lesione degli artt. 3 e 24, comma 2, della Costituzione. Unica via 
razionale per la soluzione del problema sarebbe, dunque, ammettere che �il diritto 
di difesa del dichiarante si affievolisca di fronte al diritto di difesa dei chiamati in 
causa, ai quali deve essere riconosciuta la possibilit� di interrogarlo� sulle accuse 
loro mosse: posto che l'indagato o imputato che accusa altri da un lato esercita il 
proprio diritto di difesa, ma dall'altro pone a carico dell'autorit� giudiziaria l'onere 
di approfondire e indagare quelle dichiarazioni, non pare possibile �esimere il 
dichiarante da una assunzione di responsabilit� che comporti, quanto meno, 
l'obbligo di rispondere alle domande rivoltegli in sede di esame e controesame�, 
ferma la sua facolt� di �dare versioni diverse, ritrattare, perfino mentire�. 

Sui vari gruppi di accusa si era sostenuto, in sede di intervento e di discussione innanzi 
alla Corte Costituzionale, che erano erronei i riferimenti agli artt. 25, 101 e 111 Cost. in 
relazione alla violazione dei principi della conservazione e della indisponibilit� delle prove. 
Infatti le nuove norme ordinarie non impediscono l'applicazione dei suddetti principi, 
limitandosi a variare le regole dell'osservazione delle stesse per consentire il contraddittorio 
dibattimentale e meglio garantire quindi la genuinit� e veridicit� degli accertamenti 
probatori. Del resto quei principi, sono principi di norme ordinarie certamente coerenti con 
le affermazioni della Carta Costituzionale che, prevedendo la necessit� della motivazione d,ei 
procedimenti giurisdizionali, la soggezione dei giudici alle leggi, l'obbligo di non distogliere 
alcuno dal giudice naturale precostituito dalla legge possono s� essere intesi anche nel senso 
di un giusto processo, con il conseguente fondamentale requisito di un accertamento non 
condizionato della verit� da parte di un giudice libero di decidere, ma non sono essi stessi 
norme costituzionali, n�, soprattutto, sono talmente assoluti da non potere legittimamente 



PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE ' 

273 

Al legislatore rimarrebbe da valutare, secondo il rimettente, se il dichiaranteaccusatore 
debba essere equiparato al testimone o, in caso contrario, se debba 
introdursi un nuovo reato contro l'amministrazione della giustizia, costituito dal 
rifiuto di rispondere. 

La declaratoria di illegittimit� dell'art. 513, comma 2, codice procedura penale, 
nella parte in cui subordina al consenso delle parti l'acquisizione delle dichiarazioni 
di colui il quale si sia illegittimamente avvalso della facolt� di non rispondere, 
sarebbe comunque conseguenziale alla declaratoria di illegittimit� dell'art. 21 O 
codice procedura penale, nella parte in cui consente all'imputato di reato connesso 
di avvalersi della facolt� di non rispondere. 

3.1. -Si � costituito l'imputato C.B., rappresentato e difeso dagli avvocati 
Giuseppe Frigo e Roberto Bruni, chiedendo che la questione sia dichiarata 
infondata. In particolare i difensori rilevano, in ordine alla denunciata illegittimit� 
costituzionale dell'art. 513, comma 2, codice procedura penale, che l'esercizio da 
parte del dichiarante dello ius tacendi a dibattimento rientra pienamente nel novero 
delle evenienze prevedibili, tanto che la nuova legge disciplina pi� ampiamente la 
possibilit� di far ricorso all'incidente probatorio per scongiurarne gli effetti, ed � 
proprio l'incidente probatorio il sistema per contemperare esigenze di oralit� e di 
non dispersione dei mezzi di prova. � errato poi, a giudizio della parte privata, 
l'assunto per il quale sarebbe lasciato alle parti il potere di disporre della prova: al 
contrario, in via di principio il sistema � improntato al canone per cui �in tanto un 
atto pu� assumere efficacia probatoria nei confronti di un soggetto, in quanto questi 
abbia potuto partecipare alla sua formazione in contraddittorio�; cos� le 
dichiarazioni di una delle persone indicate dall'art. 21 O codice procedura penale, 
assunte unilateralmente dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria, non 
hanno attitudine probatoria, mentre il consenso delle parti pu� conferire efficacia 
di prova ad atti che ab origine tale efficacia non hanno, come nel caso del giudizio 
abbreviato. Di conseguenza l'art. 513, comma 2, codice procedura penale vieta la 
lettura in via di principio, riconoscendo peraltro all'imputato che consenta ad essa, 
e cos� rinunci al suo diritto al contraddittorio per la prova, la facolt� di accettare di 
quell'atto'un effetto probatorio che altrimenti l'atto non avTebbe. 
soffrire i condizionamenti dovuti al rispetto di altri diritti previsti dalla Costituzione. Per quanto 
concerne poi il principio dell'obbligatoriet� dell'azione penale (art. 112 Cost.) si era osservato 
che fosse innanzi tutto da rilevare che nel sistema costituzionale ed ordinario tale obbligo � in 
funzione della necessit� della imparzialit� dell'amministrazione della giustizia ed � riferito al suo 
destinatario -il titolare dell'azione penale -per evitarne scelte arbitrarie. Perci� le conseguenti 
qualificazioni e caratteristiche, di irretrattabilit�, di pubblicit� e di ufficialit� marcano s� l'aspetto 
doveroso dell'officium e consentono, � vero, di fame coerentemente derivare l'esigenza di non 
frapporre ostacoli all'esercizio dell'azione penale. Tuttavia � indiscutibile che il precetto 
costituzionale sia rivolto all'organo della Pubblica Accusa per escludere che la stessa abbia un 
potere discrezionale di scegliere quali reati perseguire e quali no, e non per garantire un esercizio 
della sua funzione incondizionato e prioritario su ogni altro interesse. 

La Costituzione prevede infatti da un lato che l'azione penale sia obbligatoria, ma dall'altro 
riconosce i diritti di libert� dei cittadini sancendo come strumento di garanzia l'inviolabilit� del 



274 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO � � 

Quanto al libero convincimento esso � principio deputato ad operare 
nell'ambito di ci� che il legislatore disciplina come idoneo ad avere efficacia 
probatoria, e non � da confondere con l'arbitraria utilizzazione di ogni materiale 
comunque strutturato o acquisito. 

In conclusione, la difesa sostiene che nel rispetto del principio del 
contraddittorio (che non necessariamente coincide con oralit� e immediatezza) sta il 
discrimine tra ci� che il legislatore considera prova e ci� che tale non �, e che 
proprio tale principio, tutt'altro che irragionevole, costituisce uno dei principi 
cardine del �giusto processo� (anche alla stregua delle convenzioni internazionali 
sui diritti dell'uomo). 

Per quanto concerne, poi, la questione di legittimit� costituzionale dell'art. 210, 
comma 4, codice procedura penale, la difesa da un lato mette in luce le difficolt� di 
distinguere tra dichiarazioni sul fatto proprio (per le quali il diritto al silenzio non 
potrebbe mai affievolirsi) e dichiarazioni sul fatto altrui, dall'altro segnala che la 
soluzione -auspicata dal rimettente -di imporre un obbligo di rendere l'esame 
in dibattimento in ordine alle dichiarazioni sul fatto altrui comporterebbe una 
molteplicit� di opzioni: si dovrebbe ad esempio stabilire se sia sufficiente, quale 
presupposto dell'obbligo di sottoporsi all'esame, la rinuncia al diritto al silenzio 
espressa davanti al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria; ed ancora, 
dovrebbero essere stabilite idonee garanzie contro il rischio che comunque le 
dichiarazioni dibattimentali possano essere utilizzate contro il dichiarante. 

La materia non si presterebbe pertanto ad essere oggetto di una decisione, sia 
pure additiva, della Corte, ma potrebbe solo porsi come futuro impegno del 
legislatore. 

3.2. -Si � costituito il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e 
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, riportandosi integralmente all'atto di 
intervento relativo al giudizio di costituzionalit� promosso con le ordinanze iscritte 
ai nn. 776 e 787 del registro ordinanze del 1997. 
3.3. -Con memoria del 4 maggio 1998 l'Avvocatura dello Stato ha precisato 
e integrato quanto dedotto nell'atto di intervento, insistendo per la infondatezza 
della questione. 
diritto della difesa in ogni stato e grado del giudizio: il contemperamento che cos� la Costituzione 
pone fra lo ius puniendi e lo ius libertatis non consente di individuare nell'art. ll2 l'attribuzione 
di un potere che non soffra limiti, n� di censurare il legislatore ordinario quando, con valutazione 
insindacabile di politica legislativa, ritiene di offrire alla difesa dell'imputato garanzie maggiori 
di quelle offerte dalla normativa precedente. Altrimenti ogni norma prevista a garanzia dei diritti 
della difesa diventa ostacolo illegittimo all'esercizio dell'azione ed alla giurisdizione, compreso 
il diritto dell'imputato di tacere o di mentire. 

In realt� lo sviluppo del discorso che ha portato la sentenza in nota alle dichiarazioni di 
illegittimit� costituzionale degli art. 210, 238 e 513 codice procedura penale nei limiti indicati, � 
coerente con le precedenti decisioni della Corte. Vedi infatti la sentenza n. 255 del 1992, nella 
quale si legge che �l'oralit�, assunta a principio ispiratore del nuovo sistema, non rappresenta, 
nella disciplina del codice, il veicolo esclusivo della formazione della prova nel dibattimento, 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

275 

4. -Il tribunale di Bologna, nel corso di un procedimento penale a carico di 
numerose persone imputate di molteplici reati (in particolare, corruzioni proprie 
connesse a una truffa pluriaggravata, a vari reati fiscali e a falsi in bilancio), 
disponeva per l'udienza dell' 11 giugno 1997 la citazione ai sensi dell'art. 21 O codice 
procedura penale di due ex coimputati, gi� giudicati ai sensi dell'art. 444 codice 
procedura penale. 
In tale udienza, precedente all'entrata in vigore della legge n. 267 del 1997, tali 

soggetti si avvalevano della facolt� di non rispondere, sicch� su richiesta del 

pubblico ministero venivano �acquisite� al fascicolo del dibattimento, ma non 

materialmente lette, le dichiarazioni da essi rese nel corso delle indagini preliminari. 

Nel prosieguo del dibattimento, entrata ormai in vigore la legge n. 267 del 1997, 

alcuni difensori chiedevano, ai sensi dell'art. 6, comma 2, della legge citata, un 

nuovo esame di uno dei due imputati nel procedimento connesso, il quale si 

avvaleva nuovamente della facolt� di non rispondere. 

Nelle udienze successive tutti gli altri soggetti citati a comparire ai sensi 
dell'art. 21 O codice procedura penale rifiutavano di rispondere e il pubblico 
ministero chiedeva che fossero acquisite al fascicolo del dibattimento tramite lettura 
. le dichiarazioni rese durante le indagini preliminari. Alla richiesta si opponevano i 
difensori degli imputati in base a quanto disposto dall'art. 513, comma 2, codice 
procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge n. 267 del 1997, di 

immediata applicabilit� nel processo in corso. 

Su eccezione del pubblico ministero, il tribunale di Bologna, con ordinanza del 

1� dicembre 1997 (registro ordinanze n. 143/1998), sollevava quindi, in riferimento 

agli artt. 3, 24, 101, 112 Cost., questione di legittimit� costituzionale dell'art. 6, 

commi 2 e 5, legge n. 267 del 1997, in quanto rende immediatamente applicabile il 

nuovo regime di acquisizione della prova ai giudizi di primo grado, anche quando 

non sia possibile, come nella specie, ricorrere all'incidente probatorio perch� si � 

ormai pervenuti a dibattimento. 

Il tribunale, richiamando la giurisprudenza costituzionale in argomento 
(sentenze nn. 255 del 1992, 24 e 254 del 1992, 179 del 1994, 111 del 1993, 88 del 
1991, 56 de,11992, 92 del 1992, 56 del 1993), pone in evidenza come -alla luce 
di principi fondamentali del processo penale, quali quello della ricerca della verit� 
e della non disponibilit�, se non entro determinati limiti, della prova -l'art. 6, 

perch� il fine primario ed ineludibile del processo penale non pu� che rimanere quello della 
ricerca della verit��. Nella stessa sentenza, in particolare, si afferma �che la volont� del 
legislatore esprima anche un principio di non dispersione dei mezzi di prova emerge con evidenza 
da tutti quegli istituti che recuperano al fascicolo del dibattimento, e quindi alla utilizzazione 
probatoria, atti non suscettibili di essere surrogati (o compiutamente o genuinamente surrogati) 
da una prova dibattimentale�. Tali atti, che vengono indicati dalla Corte Costituzionale nella 
sentenza del 1992, sono gli atti ad irrepetibilit� originaria compiuti dal P.M. o dalla P.G. (art. 43, 
lett. b) e e) codice procedura penale) l'incidente probatorio, la lettura in dibattimento degli atti a 
irripetibilit� sopravvenuta della polizia giudiziaria, del P.M. e del G.U.P., l'art. 513 codice 
procedura penale (nella vecchia formulazione, che prevede un solo caso di deroga al metodo della 
formulazione dialettica della prova in dibattimento, rappresentato dalle dichiarazioni 
extradibattimentali rese dall'imputato o da una delle persone indicate nell'art. 21.0 codice 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO ..

276 

commi 2 e 5, legge n. 267 del 1997 sia censurabile in riferimento all'art. 3 della 
Costituzione in quanto determina una irragionevole disparit� di trattamento fra 
situazioni processuali equipollenti. Ed infatti la norma impugnata, pur 
introducendo ai commi 2 e 5 una disciplina di salvaguardia delle situazioni in cui 
il dichiarante sia gi� stato esaminato prima dell'entrata in vigore della legge, nulla 
dispone in ordine alla situazione del tutto analoga in cui il dichiarante, esaminato 
in dibattimento dopo l'entrata in vigore della legge, si avvalga della facolt� di non 
rispondere senza che vi sia stata neppure la possibilit� di esperire tempestivamente 
un eventuale incidente probatorio, con conseguente dispersione degli elementi di 
prova legittimamente acquisiti. 

Tale conseguenza -dipendente dalla circostanza del tutto casuale dello 
svolgimento dell'esame anteriormente o successivamente all'entrata in vigore della 
legge -si rivela, a parere del rimettente, tanto pi� irragionevole quando, come nella 
specie, il procedimento riguarda numerosi imputati, alcuni esaminati prima 
dell'entrata in vigore della legge ed altri citati successivamente ad essa: invero, in 
un caso trova applicazione la disciplina transitoria (e, dunque, il particolare criterio 
di valutazione delle dichiarazioni rese anteriormente al dibattimento, previsto al 
comma 5 dell'art. 6 della legge n. 267 del 1997), nell'altro la disciplina a regime 
(con conseguente impossibilit� di utilizzare le dichiarazioni precedentemente rese in 
assenza di accordo delle parti). Ne deriva che il giudice � costretto a ignorare nei 
confronti di alcuni imputati quanto � invece tenuto a valutare nei confronti di altri, 
cos� seguendo �metodiche decisionali poco comprensibili e praticabili�, contrarie 
non solo ai principi di legalit�, soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 1O1 
Cost.) e obbligatoriet� dell'azione penale (art. 112 Cost.), ma anche al principio di 
ragionevolezza (art. 3 Cost.). 

Il rimettente dubita, inoltre, della ragionevolezza della disciplina transitoria nel 
suo funzionamento interno (oltre che nei rapporti con la normativa a regime), 
censurando il fatto che l'utilizzabilit� delle dichiarazioni precedentemente rese sia 
condizionata dalla scelta del soggetto di non sottoporsi all'esame dibattimentale, 
scelta che, oltre a poter risultare �arbitraria e casuale, non pu� neppure facilmente 
giustificarsi con ragioni difensive dell'interessato quando si tratti di ex coimputato 
nei cui confronti sia divenuta irrevocabile, come nella specie, una sentenza di 
applicazione della pena ex art. 444 codice procedura penale�. 

procedura penale, che potevano essere utilizzate a carico di altra persona imputata in dibattimento 
che non aveva partecipato alla loro assunzione) e infine, l'acquisizione al fascicolo del 
dibattimento, se usate per le contestazioni delle dichiarazioni rese da un testimone al P.M. o alla 

P.G. nel corso della perquisizione ovvero sul luogo e nell'immediatezza del fatto e le 
dichiarazioni dell'imputato al P.M. alle quali il difensore aveva diritto di assistere. 
Nella valutazione perci� del giudice delle leggi il processo nuovo mostrava un impianto solo 
parzialmente accusatorio e ci� anche se taluni degli istituti sui quali tale conclusione si sorregge, 
consentirebbero altre valutazioni. Cos� ad esempio l'incidente probatorio che, costituendo, pur 
nell'eccezionalit� della previsione, un'anticipazione dell'istruttoria dibattimentale, non sacrifica 
il principio del contraddittorio. 

La soluzione adottata dalla Corte Costituzionale si pone pertanto su una linea di coerenza 
con le precedenti decisioni: l'equiparazione dell'imputato chiamante in correit� o comunque 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

277 

4.1. -Si sono costituiti gli imputati L.F. e A.D., rappresentati e difesi 
dall'avvocato Paolo Trombetti, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata. 
A giudizio della parte privata, la disciplina transitoria di cui ai commi 2 e 5 
dell'art. 6 della legge n. 267 del 1997 non violerebbe il principio di ragionevolezza, 
in quanto il legislatore ha derogato al principio tempus regit actum (in base al quale 
l'art. 513 codice procedura penale novellato avrebbe dovuto trovare immediata 
applicazione nei procedimenti in corso) solo nell'ipotesi in cui la lettura sia gi� stata 
disposta prima dell'entrata in vigore della legge. Tale deroga, ad avviso della difesa, 
risulta ispirata non gi� dal principio di non dispersione della prova, ma all'intento di 
�temperare il valore di dichiarazioni assunte -pur validamente, a fronte della 
precedente formulazione della norma-fuori dal contraddittorio�. 

Sotto tale profilo la questione dovrebbe essere pi� esattamente dichiarata 
irrilevante perch� intempestiva, dal momento che, con riferimento al comma 2, l'art. 
6 impugnato dovrebbe aver gi� trovato applicazione e, con riferimento al comma 5, 
la sua applicazione � rimandata al momento della decisione. 

Del resto -osserva ancora la difesa -l'intervento richiesto dal rimettente 
(sostanzialmente rivolto ad introdurre una disciplina transitoria diversa -e 
derogatoria in malam partem -rispetto al principio tempus regit actum) esula 
dall'ambito del controllo di costituzionalit�, poich� si tradurrebbe in una 
inammissibile pronuncia additiva e rappresenterebbe uno sconfinamento in spazi 
riservati alla discrezionalit� legislativa. 

Da ultimo nell'atto di costituzione si sottolinea che la disciplina transitoria 
racchiusa nei commi 2 e 5 dell'art. 6 legge n. 267 del 1997, costituendo una 
eccezione in bonam partem al principio tempus regit actum (e alla regola di giudizio 
contenuta nell'art. 192, comma 3, codice procedura penale), non pu� essere estesa 
al caso -ritenuto analogo dal rimettente -di esercizio della facolt� di non 
rispondere successivo all'entrata in vigore della legge, poich� essa si trasformerebbe 
inevitabilmente in �una eccezione in malam partem di quel principio�, come tale 
non consentita in sede di scrutinio di legittimit�. 

4.2. -� intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e 
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia 
dichiarata infondata e riportandosi integralmente, stante l'analogia delle questioni, 
all'atto di intervento relativo ai giudizi di costituzionalit� promossi con le ordinanze 
iscritte ai nn. 776 e 787 del registro ordinanze del 1997. 
dichiarante �erga alias� al testimone � fatta con estrema cautela. La sentenza infatti, valuta priva 
�di ragionevolezza una disciplina che precluda a priori l'acquisizione in dibattimento di elementi 
di prova raccolti legittimamente nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare e 
afferma che la tutela del diritto di difesa impone che l'ingresso di tali elementi nel patrimonio di 
conoscenze del giudice sia subordinato alla possibilit� di instaurare il contraddittorio tra il 
dichiarante e il destinatario delle dichiarazioni�. Stabilita per�, su tale base l'incostituzionalit� 
della norma laddove consente la perdita definitiva delle dichiarazioni rese e affermata la 
possibilit� del riferimento al sistema dell'art. 500 codice procedura penale, comma 2-bis, il 
Giudice delle leggi avverte la necessit� di precisare, a tutela di una delicata situazione di difesa 
dei diritti dell'imputato dichiarante, che �poich� l'acquisizione mediante contestazione di singoli 
contenuti narrativi potrebbe ... esporre l'imputato in procedimento connesso a nuovi pi� gravi 
profili di responsabilit� ... la garanzia di un consapevole esercizio del diritto di difesa del 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

278 

4.3. -Con memoria del 4 maggio 1998 1'Avvocatura dello Stato ha precisato e 
integrato quanto dedotto nell'atto di intervento, insistendo per la infondatezza della 
questione. 
5. -Nel corso di un procedimento penale pendente dinanzi al Tribunale di 
Cagliari a carico di diversi imputati del delitto di rapina aggravata, nelle more della 
celebrazione del dibattimento il pubblico ministero, entrata in vigore la legge n. 267 
del 1997, formulava ai sensi dell'art. 6 della legge citata richiesta di incidente 
probatorio, onde procedere all'esame di due coimputati che in sede di indagini 
avevano reso ampia confessione, chiamando in correit� altri due imputati. 
In sede di incidente probatorio tali soggetti si avvalevano della facolt� di non 
rispondere, ribadendo detta volont� in dibattimento, ove tuttavia rendevano 
dichiarazioni spontanee negando la loro responsabilit�. Su richiesta del pubblico 
ministero venivano acquisiti al fascicolo del dibattimento, previa lettura, i verbali 
delle dichiarazioni da costoro rese nel corso delle indagini preliminari e gi� acquisiti 
in sede di incidente probatorio. Tutti i difensori degli imputati negavano il consenso 
alla utilizzazione nei confronti dei loro assistiti delle suddette dichiarazioni, ai sensi 

I

del comma 1 dell'art. 513 codice procedura penale novellato. 

All'esito del dibattimento il pubblico ministero concludeva nel merito per la 
condanna di tutti gli imputati, ritenendo utilizzabili, ai sensi del comma 5 dell'art. 6 

I

della legge n. 267 del 1997, le dichiarazioni rese in sede di indagini preliminari dai r: 
due coimputati che si erano avvalsi della facolt� di non rispondere, ed eccepiva in fil 
~ 
subordine l'illegittimit� costituzionale degli artt. 513 codice procedura penale e 6 
della legge n. 267 del 1997. 

I 

Il Tribunale con ordinanza del 22 dicembre 1997 (registro ordinanze fil 

n. 153/1998) sollevava, in riferimento agli artt. 3, 25, 101, 111 e 112 Cost., questione 
I

di legittimit� costituzionale dell'art. 513, comma 1, codice procedura penale �nella 
parte in cui, in assenza di consenso degli altri imputati, esclude l'utilizzabilit� nei 
confronti di ciascuno di essi delle dichiarazioni rese da un imputato nel corso delle 
indagini preliminari qualora in dibattimento questi si sia avvalso della facolt� di non 

!

rispondere� e dell'art. 6 della legge n. 267 del 1997 �nella parte in cui non consente 

fil 

l'applicazione della disciplina transitoria di cui al quinto comma della medesima 
disposizione ai procedimenti in cui sia gi� stato disposto il giudizio�. 

dichiarante, nel rispetto del principio nemo tenetur se detegere, e, nello stesso tempo, quella del 
diritto al contraddittorio di tutte le parti, sono assicurate dalla pi� ampia esplicazione del metodo 
dialettico-contestativo proprio del dibattimento, cui � funzionale l'onere, per la parte che chiede 
l'esame ex art. 21 O codice procedura penale, di presentare la lista dei soggetti da esaminare con 
l'indicazione delle circostanze su cui deve vertere l'esame, secondo il disposto dell'art. 468, 
comma l, codice procedura penale, implicitamente richiamato dal rinvio, contenuto nell'art. 210, 
comma 2, codice procedura penale, alle norme per la citazione dei testimoni�. 

La Corte Costituzionale perci� ha avuto ben chiara la delicatezza della posizione di chi si 
trova in bilico fra la ineliminabile tutela del proprio diritto e quella di non ostacol�re 
l'accertamento dei fatti e la punizione dei colpevoli. Il compito ora passa ai giudici ordinari ed 
alla loro accorta tutela delle contrapposte esigenze. 

PAOLO DI TARSIA DI BELMONTE 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

In ordine alla rilevanza della questione, il collegio rimettente osserva in primo 
luogo che, contrariamente all'assunto del pubblico ministero, il comma 5 dell'art. 6 
della legge n. 267 del 1997 non � applicabile alla situazione dei coimputati che 
abbiano esercitato la facolt� di non rispondere nell'incidente probatorio disposto ai 
sensi del comma 1 della medesima disposizione (e successivamente abbiano 
ribadito detta volont� in dibattimento), dovendosi la disciplina contenuta nel comma 
5 intendersi riferita solo alle ipotesi, contemplate nel comma 2 dell'art. 6, in cui alla 
data di entrata in vigore della legge sia stata gi� disposta la lettura dei verbali delle 
dichiarazioni rese dai soggetti indicati nell'art. 513 codice procedura penale. Di qui 
la rilevanza della questione, che per il rimettente si appalesa pregiudiziale rispetto 
alla decisione da adottare in ordine alla responsabilit� di tutti gli imputati, le cui 
posizioni non possono essere definite senza l'apporto delle indicate dichiarazioni, 
per un verso confessorie e per l'altro accusatorie: tali dichiarazioni infatti, precisa il 
giudice a quo, pur utilizzabili nei confronti di chi le ha rese, non potrebbero essere 
valutate quali prove dei fatti in esse affermati in relazione alla responsabilit� degli 
altri due imputati, n� potrebbero essere utilizzate �ai fini del riscontro reciproco� 
stante il dissenso espresso dai difensori. 

Nel merito il rimettente, richiamando la sentenza n. 254 del 1992 di questa 
Corte, ritiene che l'art. 513 codice procedura penale, nel testo modificato dalla legge 

n. 267 del 1997, violi l'art. 3 della Costituzione in quanto determina una 
irragionevole disparit� di trattamento fra la disciplina riservata agli atti irripetibili 
(per cause originarie o sopravvenute), di cui � consentita la utilizzabilit� a fini 
decisori, e quella prevista in relazione alle dichiarazioni dell'imputato che si avvalga 
della facolt� di non rispondere, che pure a quella categoria appartengono, per le 
quali invece il nuovo art. 513 codice procedura penale vieta l'utilizzazione contra 
alias in mancanza del loro consenso. Fra le situazioni �consimili� eppure 
diversamente disciplinate, il giudice a quo indica quella dell'esercizio della facolt� 
dei prossimi congiunti di astenersi dal deporre, esercizio che, quale causa di 
irripetibilit� sopravvenuta, non preclude, secondo l'interpretazione che di tale 
disciplina ha dato la Corte nella sentenza n. 179 del 1994, l'utilizzabilit� delle 
dichiarazioni precedentemente rese. 
Inoltre. si osserva nell'ordinanza, l'art. 513 codice procedura penale nella sua 
attuale formulazione, allorquando �fa dipendere il dispiegarsi del contraddittorio 
dibattimentale dall'esercizio della facolt� di non sottoporsi all'esame da parte di 
imputati che in sede di indagini abbiano reso dichiarazioni accusatorie nei confronti 
di altri e alla mancanza del contraddittorio fa conseguire l'impossibilit� per il 
giudice di conoscere e valutare le dichiarazioni rese�, contrasta con il principio di 
non dispersione della prova pi� volte affermato da questa Corte (sentenze n. 255 del 
1992, n. 88 del 1991, n. 111del1993). 

Ulteriore profilo di irragionevolezza del nuovo art. 513 codice procedura penale 
deriverebbe, a giudizio del rimettente, dalla impossibilit� di valutare le ragioni del 
silenzio opposto dall'imputato, quanto meno nei termini nei quali ad esse � data 
rilevanza nella pur diversa situazione dell'esame del testimone (art. 500, comma 5, 
codice procedura penale). 

Sarebbe inoltre violato il principio dell'obbligatoriet� dell'azione penale di cui 
all'art. 112 Cost., teso a realizzare nell'ambito del principio di legalit� (art. 25 Cost.) 
l'uguaglianza fra i cittadini, in quanto la disciplina impugnata produrrebbe l'effetto 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

280 

di paralizzare l'iniziativa penale, subordinando ad �insondabili scelte del 
dichiarante� la conoscenza delle prove da parte del giudice, con violazione anche 
del principio della sottoposizione del giudice soltanto alla legge (art. 101 Cost.). 

Altro profilo di illegittimit� sarebbe ravvisabile nella mancata estensione della 
disciplina transitoria introdotta nel comma 5 dell'art. 6 della legge n. 267 del 1997 
a tutti i casi in cui il pubblico ministero abbia gi� esercitato l'azione penale. Sarebbe 
infatti lesivo del principio di obbligatoriet� dell'azione penale il fatto che il 
medesimo materiale probatorio, sulla base del quale il pubblico ministero pu� nel 
corso delle indagini chiedere l'applicazione di misure cautelari o addirittura il rinvio 
a giudizio dell'imputato, venga all'improvviso reso �indisponibile� a causa 
dell'esercizio della facolt� di non rispondere da parte dell'imputato. Tale situazione 
si presenta pi� grave nei casi, come quello di specie, in cui � �gi� stata esercitata 
l'azione penale con il rinvio a giudizio degli attuali imputati�: in questi casi infatti 
il materiale probatorio non � pi� surrogabile, avendo il pubblico ministero perduto 
la �disponibilit� delle indagini�. 

5.1. -Si � costituito in giudizio l'imputato P.G., rappresentato e difeso 
dall'avvocato Patrizio Rovelli, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata. 
In particolare, il difensore contesta che al principio di non dispersione della 
prova possa essere riconosciuta valenza costituzionale: la stessa giurisprudenza 
richiamata dal rimettente attribuirebbe, invece, a tale principio il valore di semplice 
�espressione della volont� del legislatore�, di volta in volta derogabile in ragione 
del suo contemperamento con altri valori altrettanto rilevanti (oralit� e 
contraddittorio). In questa direzione, quindi, rientrerebbe nella discrezionalit� del 
legislatore modificare e correggere le proprie precedenti scelte e determinazioni. 

A giudizio del difensore non sussisterebbe, inoltre, la asserita irragionevole 
disparit� di trattamento tra la disciplina prevista per le dichiarazioni rese durante le 
indagini preliminari dal teste che si avvalga della facolt� di astenersi e quella 
prevista per le dichiarazioni rese dall'imputato che esercita il diritto al silenzio, 
stante la diversit� delle situazioni poste a confronto. 

Quanto alla censura mossa dal giudice a quo alla disciplina impugnata sotto il 
proti.lo della impossibilit� di valutare le ragioni dell'esercizio della facolt� di non 
rispondere, nell'atto di costituzione si osserva che essa andrebbe pi� correttamente 
rivolta all'art. 210 codice procedura penale, che tale diritto riconosce, piuttosto che 
all'art. 513 codice procedura penale, che regolamenta il regime di utilizzabilit� delle 
dichiarazioni precedentemente rese. � 

Ancora, la difesa mostra di dissentire dal giudizio di irragionevolezza espresso 
dal giudice a quo in ordine ai �meccanismi di recupero delle dichiarazioni rese dagli 
indagati� predisposti dalla disciplina transitoria, che sarebbero invece 
opportunamente differenziati a seconda della fase in cui si trova il processo al 
momento dell'entrata in vigore della nuova legge. Apodittica apparirebbe, inoltre, 
l'affermazione del contrasto di tale normativa con il principio di obbligatoriet� 
dell'azione penale. 

Infine, si ricorda come, per costante giurisprudenza di questa Corte, rientra 
nella discrezionalit� del legislatore regolare nella maniera ritenuta pi� opportuna i 
rapporti processuali pendenti mediante il diritto transitorio (si richiama la sentenza 

n. 268 del 1986). 

PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

5.2. -Nel giudizio � intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, 
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato chiedendo che la 
questione sia dichiarata infondata e riportandosi, stante l'analogia delle questioni, 
all'atto di intervento relativo al giudizio di costituzionalit� promosso con ordinanza 
iscritta al n. 861 del registro ordinanze del 1997. 
5.3. -In prossimit� dell'udienza il difensore dell'imputato ha depositato una 
lunga e articolata memoria, nella quale vengono premesse considerazioni di ordine 
generale sull'impianto accusatorio del codice del 1988, sul diritto al contraddittorio 
e sulla portata dell'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti 
dell'uomo e delle �libert� fondamentali. La parte iniziale della memoria � inoltre 
dedicata all'esame delle varie formulazioni degli attuali artt. 513 e 21 O codice 
procedura penale nel corso dei lavori preparatori del codice e delle antinomie che 
alla fine sono derivate dal confronto tra il testo definitivo delle due norme; 
antinomie in cui, ad avviso del difensore, va ricercata la spiegazione degli interventi 
pendolari della Corte costituzionale e, poi, del legislatore del 1997 in tema di 
utilizzazione delle dichiarazioni relative alla responsabilit� di terzi rese 
dall'imputato nel medesimo o in separato procedimento. 
Sulla base di queste premesse, la difesa ribadisce che non sussistono le 
violazioni dei principi di non dispersione degli elementi di prova, di obbligatoriet� 
dell'azione penale, dell'essenza della funzione giurisdizionale, di indisponibilit� 
della prova, di uguaglianza e di ragionevolezza, con riferimento sia all'art. 513, 
comma 1, codice procedura penale che alla disciplina transitoria. 

5.4. -In prossimit� dell'udienza l'Avvocatura dello Stato ha presentato una 
memoria integrativa, nella quale ha eccepito l'inammissibilit� per difetto di 
motivazione, in quanto l'ordinanza di rimessione, pur denunciando il mancato 
contemperamento tra principi di rilevanza costituzionale, avrebbe omesso di 
verificare se tale contemperamento sia stato attuato dalle norme impugnate, 
attribuendo valore assoluto alle norme di �azione�, e sacrificando quelle di garanzie 
e di tutela della libert�. 
Quanto al merito, l'Avvocatura assume che � inesatto tacciare di 
irragionevolezza la diversit� di trattamento tra testimone prossimo congiunto e 
imputato di reato connesso, poich� tra le due situazioni non � possibile alcuna 
analogia. A parere dell'Avvocatura, poi, non sussisterebbe neppure il contrasto con 
l'art. 112 Cost.: il principio dell'obbligatoriet� dell'azione penale sarebbe, infatti, 
deputato a garantire l'imparzialit� dell'amministrazione della giustizia, per 
escluderne ogni potere discrezionale nella scelta dei reati da perseguire, non per 
garantire un esercizio di quella funzione incondizionato e prioritario su ogni altro 
interesse; il contemperamento che la Costituzione impone tra ius puniendi e ius 
libertatis non consente di individuare l'attribuzione di un potere che non soffra 
limiti, n� di censurare scelte di politica legislativa che offrano alla difesa 
dell'imputato garanzie pi� ampie rispetto alla disciplina previgente. 

Sarebbe, del pari, infondata la censura relativa ai principi di non dispersione e 
di indisponibilit� delle prove, in riferimento agli artt. 25, 101 e 111 Cost., in quanto 
quei principi non costituiscono precetti costituzionali ma principi processuali, 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

282 

desumibili dunque dalla normativa ordinaria, seppure funzionali alla realizzazione 
del �giusto processo�. Peraltro, a parere dell'Avvocatura, le norme impugnate non 
impediscono l'attuazione di tali principi, ma si limitano a variarne le regole per 
consentire il contraddittorio e meglio garantire l'attendibilit� del materiale 
probatorio. 

Quanto all'osservazione secondo la quale sarebbe incongruo rispetto ai principi 
costituzionali far discendere il dispiegarsi del contraddittorio dibattimentale 
dall'esercizio da parte degli imputati della facolt� di non sottoporsi al 
contraddittorio dibattimentale, potrebbe, secondo l'Avvocatura, agevolmente 
controbattersi che non � irragionevole che la scelta legislativa del 1997 trovi 
fondamento nel sospetto sulla genuinit� delle chiamate di correo fatte innanzi al 
pubblico ministero senza contraddittorio o contro-esame. 

Infine, in ordine alla censura, riferita agli artt. 3 e 101 Cost., di irragionevolezza 
della disciplina che consente al dichiarante di sottrarsi all'esame dibattimentale nel 
procedimento a carico di alcuni coimputati e non in quello a carico di altri, 
l'Avvocato dello Stato osserva che la legge prevede per la generalit� dei casi gli 
strumenti per evitare contrasti tra giudicati: ma ogni processo ed ogni sentenza 
restano autonomi, per cui l'opposta tesi condurrebbe a ritenere incostituzionali tutte 

I I~le norme della procedura penale e della procedura civile che consentono che i 
giudizi su casi identici vengano definiti in modo diverso. 


i� 

6. -Nel corso di un procedimento penale a carico di un imputato del delitto di ti 
I ~ 

falsa testimonianza (art. 372 codice penale), il Tribunale di Perugia nell'udienza ill 
dibattimentale del 19 dicembre 1996 acquisiva a norma dell'art. 238 codice ;-;, 
procedura penale alcuni verbali di dichiarazioni rese nell'ambito di separato 
dibattimento da soggetti imputati di reato connesso. 

Successivamente, entrata in vigore la legge n. 267 del 1997, il difensore I 
dell'imputato, che non aveva partecipato al separato dibattimento, dichiarava di non I.: 
acconsentire alla utilizzazione di alcuni di detti verbali, a norma del novellato ~; 
art. 238, comma 4, codice procedura penale. I 

All'udienza del 24 settembre 1997 il Tribunale, rilevato che non era stato I"' 

prestato consenso alla utilizzazione di alcune dichiarazioni rese da un soggetto 
esaminato nel separato procedimento a norma dell'art. 21 Ocodice procedura penale, 
ritenute influenti ai fini del decidere, sollevava con ordinanza in pari data (registro ~ 

ordinanze n. 787/1997) questione di costituzionalit� dell'art. 238, comma 2-bis, 

Icodice procedura penale, introdotto dall'art. 3 della legge n. 267 del 1997, in 
riferimento agli artt. 112, 3, 101, comma 2, e 111 Cost., �nella parte in cui limita 
l'utilizzabilit� delle dichiarazioni rese dalle persone indicate nell'art. 21 O codice -~,� 
procedura penale agli imputati i cui difensori abbiano partecipato alla loro , 
assunzione ovvero, in subordine, nella parte in cui non prevede che nei procedimenti ~: 
nei quali i verbali siano stati acquisiti prima dell'entrata in vigore della legge di 

1.l,l,� 

modifica, sia applicabile il regime transitorio di cui all'art. 6 legge n. 267 cit. e 1: 
comunque, in generale, nella parte in cui non prevede l'utilizzabilit� attenuata di cui \:: 

all'art. 6, comma 5, legge n. 267 cit.�. ''~:~_.�,�,_.'_,',�

Osserva il Tribunale che l'art. 238, comma 2-bis, codice procedura penale si ;~ 
pone, innanzi tutto, in contrasto con l'art. 112 della Costituzione, perch�, facendo 

.. I 

l�Mll.MllMlfl�._,�1~1�411�1'�111' 



PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

dipendere dalla partecipazione del difensore nel separato procedimento 
l'utilizzabilit� delle dichiarazioni rese ex art. 21 O codice procedura penale, rende 
inefficace l'esercizio dell'azione penale (che su tali fonti si sia legittimamente 
fondata) nella fase del giudizio, tanto pi� quando, come nel caso in esame, al 
momento di entrata in vigore della nuova disciplina fosse gi� avvenuto il rinvio 
giudizio e, quindi, non fosse pi� attivabile l'incidente probatorio. 

La norma censurata, inoltre, violerebbe sotto vari profili il principio di 
ragionevolezza, ex art. 3 Cost. 

In primo luogo, la radicale inutilizzabilit� stabilita in favore dell'imputato il cui 
difensore non abbia partecipato all'assunzione delle pregresse dichiarazioni viola il 
fondamentale principio di non dispersione dei mezzi di prova, che informa il sistema 
processuale penale, preordinato all'accertamento della verit�; e ci� a differenza del 
regime previsto per altre dichiarazioni (quelle testimoniali o quelle divenute 
irripetibili), delle quali � invece consentito il recupero in sede dibattimentale. 

� inoltre irragionevole far dipendere il regime di utilizzazione non dal 
meccanismo di acquisizione delle dichiarazioni, ma da contingenti valutazioni 
opportunistiche circa il loro contenuto, rimesse al consenso dell'imputato. 

La norma violerebbe ancora il canone della ragionevolezza in quanto postula un 
contraddittorio che non poteva essere realizzato nel procedimento a quo: non solo 
perch� in tale sede non si procedeva a carico dell'imputato, divenuto tale solo 
successivamente, ma anche perch� l'istituto dell'estensione del contraddittorio � 
realizzabile solo nell'incidente probatorio e non nel dibattimento. 

Irragionevolmente, poi, il legislatore impone una serie indeterminata di 
ripetizioni delle dichiarazioni nei vari processi, a scapito non solo 
dell'economia processuale, ma anche della chiarezza e della verit� (in 
considerazione del progressivo affievolirsi della memoria), mentre rende 
utilizzabile la sentenza irrevocabile pronunciata a carico di terzi, ex art. 238-bis 
codice procedura penale. 

Ancora, la norma in questione appare irragionevole perch�, ove il dichiarante 
nel precedente dibattimento abbia avuto la veste di testimone, e solo 
successivamente sia divenuto, per indizi sopraggiunti, imputato di reato connesso, il 
pubblico ministero poteva confidare nella utilizzabilit� delle dichiarazioni, senza poi 
essere pi� in grado di richiedere l'incidente probatorio. 

Inoltre, l'art. 238, comma 2-bis, codice procedura penale irragionevolmente 
discrimina tra soggetti che hanno, da un lato, la �qualit� di imputato di reato 
connesso, ex art. 210 codice procedura penale, e, dall'altro, di imputato nello stesso 
procedimento qualora quest'ultimo abbia reso dichiarazioni in un separato 
procedimento. 

Mentre, poi, per le dichiarazioni acquisite ai sensi dell'art. 513 codice 
procedura penale l'art. 6 della legge n. 267 del 1997 introduce una disciplina 
transitoria che consente una utilizzazione attenuata, correlata alla sussistenza di altri 
elementi di conferma, in caso di nuovo rifiuto di rispondere del soggetto chiamato 
all'esame ex art. 21 O codice procedura penale, nulla di simile � previsto per le 
analoghe dichiarazioni acquisite (prima dell'entrata in vigore della legge) da altro 
procedimento a norma dell'art. 238 codice procedura penale, le quali, in mancanza 
di consenso dell'imputato, restano radicalmente inutilizzabili. 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

284 

Infine, il giudice a quo ravvisa il contrasto tra la norma denunciata e il 
combinato disposto degli artt. 1O1, comma 2, e 111 Cost., perch� fa dipendere 
l'esercizio della giurisdizione non dal convincimento del giudice, espresso sulla 
base del materiale probatorio raccolto, ma da elementi spuri, quali il consenso 
immotivato dell'imputato, e cio� del soggetto la cui condotta forma oggetto 
dell'accertamento penale, tanto pi� quando, come nella specie, ad esso sia 
consentita la selezione del materiale utilizzabile. 

6.1. -� intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e 
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione, nei suoi 
vari profili, sia dichiarata infondata. 
Osserva l'Avvocatura nell'atto di intervento, relativo anche all'ordinanza 
iscritta al n. 776 del registro ordinanze del 1997, che, quanto alle censure che si 
dirigono contro l'art. 238-bis codice procedura penale, la condizionata utilizzabilit� 
dei verbali delle dichiarazioni rese dalle sole persone di cui all'art. 210 codice 
procedura penale, a fronte della ampia utilizzabilit� delle dichiarazioni di fonte 
testimoniale, trova giustificazione nella minore attendibilit� di tali soggetti. N� pu� 
ravvisarsi alcuna violazione dell'art. 112 Cost., poich� l'esercizio dell'azione penale 
non pu� che avvenire nei limiti consentiti dalla legge. 

Non viola, poi, il principio della soggezione del giudice soltanto alla legge, la 
scelta non irragionevole del legislatore di far dipendere la utilizzabilit� di 
dichiarazioni ad efficacia probatoria �incompleta� dal consenso dell'imputato, e 
cio� del soggetto contro il quale le medesime potrebbero gravare. 

L'interveniente osserva inoltre che nessuna censura merita la disciplina 
transitoria, per sua natura rimessa alla discrezionalit� sovrana del legislatore, che del 
resto equilibratamente consente il ricorso all'incidente probatorio pur dopo 
l'esercizio dell'azione penale. 

7. -Nel corso di un dibattimento innanzi al Tribunale di San Remo, dopo che 
erano stati acquisiti i verbali degli interrogatori resi nel corso delle indagini 
preliminari da due persone che, esaminate in dibattimento ex art. 21 O codice 
proc~dura penale, si erano avvalse della facolt� di non rispondere, essendo 
successivamente intervenuta la legge 7 agosto 1997, n. 267, veniva disposto il 
nuovo esame di tali � soggetti e di una terza persona, imputata in procedimento 
connesso. Tutti si avvalevano della facolt� di non rispondere. 
Preso atto del difetto di consenso da parte della difesa alla lettura delle 
dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari da tali soggetti, il Tribunale, 
su eccezione del pubblico ministero, sollevava, con ordinanza emessa alla predetta 
udienza (registro ordinanze n. 861/1997), questione di costituzionalit� degli artt. 513 
e 514 codice procedura penale, e 6, comma 2, della legge n. 267 del 1997, in 
riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 112 Cost. 

Osserva il Tribunale che il nuovo testo dell'art. 513 codice procedura penale 
introduce una irragionevole differenziazione di disciplina tra le dichiarazioni sul 
fatto di altri precedentemente rese dall'imputato nello stesso procedimento e quelle 
della persona esaminata ex art. 21 O codice procedura penale, �in quanto solo per il 
primo si � ritenuta in concreto sussistente l'ipotesi della sopravvenuta irripetibilit� 
dell'atto in caso di non presenza in dibattimento o di esercizio della facolt� di non 



PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

rispondere, ritenute quindi situazioni di pari rilevanza, considerando invece in modo 
diverso e con differente trattamento sul piano probatorio delle relative dichiarazioni, 
le identiche fattispecie se rilevate nei confronti delle persone ex art. 21O codice 
procedura penale�. Il giudice a quo rileva al riguardo che proprio in considerazione 
di un diverso ingiustificabile regime tra i commi 1 e 2 dell'art. 513 codice procedura 
penale la Corte costituzionale aveva dichiarato incostituzionale, con la sentenza 

n. 254 del 1992, la disciplina del comma 2. 
Un ulteriore profilo di incostituzionalit�, con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., 
viene desunto �dalla circostanza che l'ingresso del materiale probatorio sottoposto 
alla valutazione del giudice si fa discendere dalla volont� delle parti, violandosi cos� 
anche i principi informatori del codice di rito come la parit� tra accusa e difesa nella 
partecipazione al processo, la garanzia del diritto delle parti e del P.M. ad ottenere 
l'ammissione e l'acquisizione dei mezzi di prova, l'obbligo del giudice di assumere 
le prove a discarico e a carico dell'imputato�. 

Tale intrinseca illogicit� della scelta del legislatore determinerebbe anche 
una violazione degli artt. 111 e U 2 Cost., perch� l'evidente sperequazione tra le 
parti processuali �porta ad incidere sulla possibilit� del giudice di conoscere i 
fatti del processo con impedimento di una valutazione complessiva del materiale 
probatorio�. 

I medesimi aspetti di incostituzionalit�, osserva da ultimo il Tribunale, 
riguardano anche il regime transitorio di cui all'art. 6, comma 2, della legge n. 267 
del 1997, rilevante nel caso di specie con riferimento specifico alla posizione dei due 
soggetti le cui dichiarazioni predibattimentali, stante la loro dichiarata volont� di 
non rispondere all'esame dibattimentale, erano state gi� acquisite prima della entrata 
in vigore della predetta legge. 

7 .1. -� intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e 
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia 
dichiarata infondata, e riportandosi, stante l'analogia delle questioni, all'atto di 
intervento relativo ai giudizi di costituzionalit� promossi con le ordinanze iscritte ai 
nn. 776 e 7.87 del registro ordinanze del 1997. 
8. -Nel corso di un dibattimento innanzi al Tribunale militare di Torino il 
pubblico ministero chiedeva l'esame di un imputato di reato connesso, il quale 
tuttavia non si presentava e anzi, tramite missiva inoltrata a mezzo del difensore, 
dichiarava di avvalersi della facolt� di non rispondere. 
Il Tribunale, rilevato che, stante il mancato consenso della difesa dell'imputato 
nel presente procedimento, non era possibile acquisire il verbale delle dichiarazioni 
rese dal soggetto indicato in sede di indagini preliminari, e che tali dichiarazioni 
erano indispensabili ai fini del decidere, con ordinanza in data 13 novembre 1997 
(registro ordinanze n. 898/1997) sollevava questione di costituzionalit�: 1) degli artt. 
210, comma 4, e 513 codice procedura penale, in riferimento agli artt. 3, 24, comma 
2, 25, comma 2, 101, 102, comma 1, 111 e 112 della Costituzione, �nella parte in cui 
prevedono che l'imputato in un procedimento connesso, che abbia reso al pubblico 
ministero dichiarazioni direttamente od indirettamente indizianti a carico di 
determinati soggetti, possa avvalersi, nel dibattimento a carico di quei soggetti, della 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

e

286 

facolt� di non rispondere�; 2) dell'art. 513, comma 2, codice procedura penale, come 
sostituito dall'art. 1 della legge n. 267 del 1997, in riferimento agli artt. 3, 25, comma 
2, 101, 102, comma 1, 111 e 112 Cost., �nella parte in cui subordina esclusivamente 
all'accordo delle parti la lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese al 
pubblico ministero dalle persone indicate nell'art. 210 codice procedura penale, 
qualora queste si siano avvalse della facolt� di non rispondere o, nel caso di 
accoglimento della eccezione sub 1), si siano rifiutate di rispondere�. 

Osserva il Tribunale come la giurisprudenza costituzionale abbia in varie 
pronunce evidenziato che il rispetto del principio dell'oralit� debba essere 
contemperato con la esigenza di evitare la perdita, ai fini della decisione, di quanto 
acquisito prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede. 

In particolare, con la sentenza n. 179 del 1994, la Corte ha affermato che 
nell'ipotesi in cui il prossimo congiunto dell'imputato, dopo avere reso 
dichiarazioni nella fase delle indagini preliminari, si avvalga della facolt� di non 
rispondere solo in sede di testimonianza dibattimentale, le precedenti dichiarazioni, 
ritualmente acquisite, non possono subire una successiva invalidazione per il tardivo 
esercizio da parte del testimone della facolt� di astensione, sicch� esse possono 
essere utilizzate, quali atti irripetibili, a norma dell'art. 512 codice procedura penale. 
Anche nel caso delle persone esaminate ex art. 21 Ocodice procedura penale si � in 
presenza di soggetti che nella fase delle indagini preliminari non si sono avvalse 
della facolt� di non rispondere; con la conseguenza che la loro decisione di non 
rispondere in sede di esame dibattimentale rende l'atto oggettivamente e 
imprevedibilmente irripetibile. 

Ne consegue, secondo il giudice a quo, che la disciplina introdotta dal novellato 
art. 513 codice procedura penale � doppiamente censurabile: non solo perch� 
differenzia ingiustificatamente la posizione di chi non si presenti all'esame 
dibattimentale rispetto a quella di chi, comparendo, si avvalga della facolt� di non 
rispondere (in quanto nel primo caso, a differenza del secondo, le precedenti 
dichiarazioni possono essere utilizzate), ma, pi� in generale, perch� irragionevolmente 
sacrifica il potere del giudice del dibattimento di pervenire alla piena conoscenza dei 
fatti oggetto del processo affinch� possa essere emessa una giusta decisione, e, ad un 
tempo, i principi di uguaglianza, legalit�, esercizio dell'azione penale, funzione 
conoscitiva del processo e indefettibilit� della giurisdizione, in violazione degli artt. 2, 
3, 24, comma 2, 25, comma 2, 101, comma 2, 102, comma 1, 111 e 112 della 
Costituzione. 

La salvaguardia del contraddittorio dibattimentale, costituente un principio 
cardine della riforma del 1988, pu� essere realizzata, osserva il Tribunale, solo se il 
soggetto che � sottoposto all'esame incrociato, e che abbia consapevolmente 
rilasciato dichiarazioni nella fase delle indagini preliminari, sia gravato dell'obbligo 
di rispondere alle domande che gli vengono rivolte; fermo restando che una 
eventuale declaratoria di incostituzionalit� non equivarrebbe di per s� a parificare 
tale soggetto al testimone (in particolare quanto all'obbligo di dire la verit�), 
essendo una simile scelta rimessa al legislatore, che sarebbe libero di stabilire se 
sanzionare, e in quali forme, la violazione del dovere di rispondere all'esame. In 
presenza dell'attuale disciplina, invece, il soggetto esaminato resterebbe arbitro di 
vanificare l'altrui diritto all'esame e controesame. 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

Il Tribunale ritiene inoltre che l'art. 513, comma 2, codice procedura penale, 
nella parte in cui rimette all'accordo delle parti la utilizzabilit� delle dichiarazioni 
rese nella fase predibattimentale clal soggetto che in sede di esame dibattimentale ex 
art. 21 O codice procedura penale abbia deciso di non rispondere, determini, per altro 
verso, un irragionevole ostacolo all'esercizio della giurisdizione penale. 

Un simile potere immotivato, discrezionale e incontrollabile delle parti di 
disporre della prova, contrastante con reiterate affermazioni di principio della 
giurisprudenza costituzionale (in particolare viene richiamata la sentenza n. 111 del 
1993), inciderebbe sul principio di soggezione del giudice soltanto alla legge: la 
disponibilit� della prova rende infatti disponibile, indirettamente, la stessa res 
judicanda, che viene cos� a sfuggire all'esercizio della giurisdizione, in violazione 
dell'art. 1O1, comma secondo, Cost. 

Il giudice a quo prospetta anche la violazione dell'art. 25, comma 2, Cost., che 

implica la punibilit� dei colpevoli di reati: infatti, condizionandosi l'utilizzo da parte 

del giudice di elementi di prova irripetibili al consenso dell'imputato, si consente 

che quest'ultimo, mediante una scelta totalmente discrezionale, impedisca 

l'accertamento del fatto e perci� delle sue eventuali responsabilit�. 

8.1. -� intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e 
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia 
dichiarata infondata, e riportandosi, stante l'analogia delle questioni, all'atto di 
intervento relativo ai giudizi di costituzionalit� promossi con le ordinanze iscritte ai 
nn. 776 e 787 del registro ordinanze del 1997. 
9. -Nel corso di un procedimento penale nei confronti di diversi imputati, il 
Tribunale di Savona alla udienza del 27 giugno 1996 disponeva, su richiesta del 
pubblico ministero, l'acquisizione dei verbali delle dichiarazioni rese nella fase 
delle indagini preliminari da un ex coimputato, la cui posizione era gi� stata definita 
ex art.� 444 codice procedura penale, il quale, comparso in dibattimento per essere 
esaminato a norma dell'art. 210 codice procedura penale, si era avvalso della facolt� 
di non rispondere. 
Entrata in vigore la legge n. 267 del 1997, alla udienza del 20 ottobre 1997 il 

pubblico ministero chiedeva, a norma dell'art. 6, comma 2, della predetta legge, che 

venisse disposta nuova citazione di tale soggetto, nonch� di altro imputato di reato 

connesso, nei cui confronti, al pari del primo, era precedentemente intervenuta 

sentenza di patteggiamento. 

Entrambi i soggetti si avvalevano della facolt� di non rispondere e, non avendo 
i difensori degli imputati acconsentito alla lettura delle relative dichiarazioni 
predibattimentali, il Tribunale, su eccezione del pubblico ministero, sollevava, con 
ordinanza in data 3 novembre 1997 (registro ordinanze n. 908/1997), questione di 
costituzionalit�, in riferimento agli artt. 3, 25, 101 e 112 Cost., dell'art. 6, commi 2 
. e 5, della legge n. 267 del 1997, nonch� dell'art. 513, comma 2, codice procedura 

penale. 

Nel merito della questione relativa alla disciplina transitoria, rilevante in 
ordine alle dichiarazioni rese dall'imputato in procedimento connesso e gi� 
acquisite prima dell'entrata in vigore della legge n. 267 del 1997, il Tril;>_unale 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

288 

denuncia, in primo luogo, la violazione degli artt. 3, 25, 101 e 112 della 
Costituzione in quanto la norma impugnata �attribuisce rilevanza al consenso 
espresso dalla difesa ai fini della valutazione della prova, consistente in 
dichiarazioni rese da coimputati e da imputati o indagati in procedimento connesso 

o probatoriamente collegato di cui sia stata data lettura ai sensi dell'art. 513 codice 
procedura penale previgente�. 
Al riguardo il rimettente osserva che �il principio di eguaglianza e il principio 
di legalit� in materia penale, da cui discende l'indisponibilit� pubblica e privata 
della pretesa punitiva dello Stato, il principio di obbligatoriet� dell'azione penale e 
la regola dell'obbligo di motivazione delle sentenze (con il corollario della 
necessaria coerenza intrinseca tra premesse e conclusioni) conducono a ritenere 
incompatibile con l'ordinamento costituzionale una interferenza tra volont� delle 
parti del processo e valutazione della prova, che potrebbe costringere il giudice a 
pervenire ad una pronuncia irragionevolmente discriminatrice e contraddittoria, che 
si fondi non sulla valutazione razionale degli elementi legittimamente acquisiti, ma 
anche sulla volont� insindacabile delle parti processuali�. 

In particolare, risulterebbe evidente la lesione del principio di eguaglianza in 
quanto, in conseguenza di differenti condotte processuali della difesa (consenso 
prestato o meno dai vari difensori prima della entrata in vigore della legge), il 
giudice, utilizzando nei confronti di ciascun imputato un materiale probatorio 
diverso, potrebbe pervenire alla condanna dell'uno e alla assoluzione dell'altro, pur 
in presenza di una identica posizione processuale. 

In secondo luogo il Tribunale, con riferimento agli artt. 3, 101, comma 2, 111, 
comma 1, Cost., ravvisa la �intrinseca irrazionalit� dell'art. 6 comma 5 legge n. 
267/1997 nella parte in cui vieta di valutare le dichiarazioni acquisite ai sensi del 
testo previgente dell'art. 513 codice procedura penale�: infatti la norma transitoria, 
�mentre consente l'utilizzazione a fini di prova delle dichiarazioni precedentemente 
rese dalle persone indicate dall'art. 513 se la loro intrinseca attendibilit� � 
riscontrata anche soltanto da altri elementi di natura logica, vieta al giudice di 
utilizzare come riscontro dichiarazioni della stessa natura provenienti da persone 
div~rse delle quali abbia riconosciuto l'attendibilit� e l'autonomia rispetto a quella 
da riscontrare, cos� imponendogli di contraddire la propria motivata convinzione 
nel contesto della medesima decisione�. 

In terzo luogo il giudice a quo ritiene violato l'art. 3 Cost. per disparit� di 
trattamento �tra chi � raggiunto da pi� chiamate in correit� convergenti, acquisite ex 
art. 513 e chi lo � soltanto, o anche, da dichiarazioni acquisite ex art. 503 codice 
procedura penale per avere il dichiarante rifiutato di rispondere soltanto a singole 
domande, o, ancora, da dichiarazioni predibattimentali acquisite ex art. 512 codice 
procedura penale�. 

In ordine alla questione relativa all'art. 513, comma 2, codice procedura penale, 
rilevante in ordine alle dichiarazioni rese dall'imputato in procedimento connesso 
citato a comparire per rendere esame dopo l'entrata in vigore della legge n. 267 del 
1997, il Tribunale deduce, innanzi tutto, la violazione dell'art. 3 Cost., �nella parte 
in cui prevede un diverso regime di lettura e conseguente utilizzabilit� delle 
dichiarazioni del coimputato a seconda che questi sia giudicato contestualmente o 
separatamente�. 



PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

Si osserva al riguardo che la coesistenza di due regimi di utilizzabilit�, a 
seconda che si tratti di imputato giudicato contestualmente (art. 513, comma 1) o 
separatamente (art. 513, comma 2) evidenzia una irragionevole disparit� di 
trattamento, analoga a quella che aveva dato luogo alla declaratoria di 
incostituzionalit� pronunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 254 
del 1992. 

Inoltre, il giudice a quo ravvisa la violazione degli artt. 3 e 112 Cost., �nella 
parte in cui (l'art. 513, comma 2, codice procedura penale novellato) non consente 
la lettura di dichiarazioni rese al P.M., alla P.G. delegata o al G.I.P. nella fase delle 
indagini ovvero al G.U.P. senza le forme degli artt. 498 e 499 codice procedura 
penale da persone indagate o imputate in procedimento connesso o probatoriamente 
collegato che si siano avvalse della facolt� di non rispondere nel caso che le 
dichiarazioni siano state assunte prima dell'entrata in vigore della novella�. 

Rileva il Tribunale che tale assetto normativo si risolve in una pura e semplice 
sottrazione al processo di materiale probatorio ritualmente assunto, senza che fosse 
possibile, prima della entrata in vigore della novella, rimediare a tale conseguenza 
con il ricorso all'incidente probatorio: ci� non solo determina una irragionevole 
disparit� di trattamento tra imputati, a seconda che il dichiarante si sia o meno 
avvalso della facolt� di non rispondere, ma anche un impedimento alla utilizzazione 
di prove raccolte dal pubblico ministero, non pi� in grado di chiederne l'assunzione 
con modalit� tali da impedirne la dispersione. 

Ancora, sarebbe ravvisabile la violazione degli artt. 3 e 24 Cost. �nella parte 
in cui la norma subordina l'acquisizione delle dichiarazioni al consenso di tutte 
le parti�. 

Ed infatti, attribuire ad una qualsiasi delle parti, sia pubbliche che private, 
compresa la parte civile, la facolt� di paralizzare l'acquisizione della prova nel 
processo, anche favorevole a questo o a quello imputato, mentre conduce a 
conseguenze inammissibili con gli stessi principi del processo accusatorio, dove la 
iniziativa della parte � mezzo per ampliare, e non per restringere, la conoscenza del 
giudice, determina conseguenze lesive degli stessi interessi difensivi, che 
potrebbero essere sacrificati dalle peculiari strategie difensive di ciascuna parte. 

9 .1. -� intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e 
difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, che, riportandosi, stante l'analogia 
delle questioni, all'atto di intervento relativo ai giudizi di costituzionalit� promossi 
con le ordinanze iscritte ai nn. 776 e 787 del registro ordinanze del 1.997, ha chiesto 
che la questione sia dichiarata infondata. 
10. -Nel corso di un procedimento penale a carico di diversi imputati dei delitti 
di falsit� ideologica e abuso di ufficio, il Tribunale di Trani disponeva ex art. 21 O 
codice procedura penale la citazione per l'udienza del 16 ottobre 1997 di un ex 
coindagato nei cui confronti era stata disposta l'archiviazione ai sensi dell'art. 408 
codice procedura penale. 
All'udienza indicata, successiva all'entrata in vigore della legge n. 267 del 
1997, tale soggetto si avvaleva della facolt� di non rispondere e il pubblico 
ministero chiedeva che fossero acquisite le dichiarazioni dallo stesso rese in sede di 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

290 

interrogatorio. All'acquisizione si opponevano i difensori degli imputati in base a 
quanto disposto dall'art. 513, comma 2, codice procedura penale come sostituito 
dall'art. 1 della legge n. 267 del 1997, di immediata applicabilit� nel processo in 
corso. Il pubblico ministero eccepiva l'illegittimit� costituzionale della suddetta 
norma per contrasto con gli artt. 3, 97 e 112 Cost. 

Il Tribunale, valutata la rilevanza e la non manifesta infondatezza della 
questione di legittimit� prospettata e ritenuto di dover estendere d'ufficio, in 
riferimento agli stessi parametri costituzionali, la c�nsura, formulata dal pubblico 
ministero in relazione all'art. 513 codice procedura penale, agli artt. 238 codice 
procedura penale e 6 della legge n. 267 del 1997, con ordinanza del 16 ottobre 1997 
(registro ordinanze n. 913 del 1997) rimetteva il giudizio dinanzi alla Corte. 

A giudizio del Tribunale rimettente l'art. 513, comma 2, codice procedura 
penale, novellato dalla legge n. 267 del 1997, viola in primo luogo l'art. 3 Cost., in 
quanto determina una irragionevole disparit� di trattamento fra situazioni 
processuali equipollenti: mentre, infatti, nel caso in cui il testimone rifiuti di 
rispondere � possibile ai sensi dell'art. 500, comma 2-bis, codice procedura penale 
procedere alle contestazioni e cos� �recuperare� le dichiarazioni precedentemente 
rese, quando a deporre sia un imputato di reato connesso il �recupero� delle sue 
dichiarazioni pu� avvenire solo su accordo delle parti. 

Al riguardo il rimettente osserva che a venire in discussione �, sotto questo 
profilo, direttamente l'art. 210, comma 4, codice procedura penale, che attribuisce 
la facolt� di non rispondere all'indagato o imputato in un procedimento connesso 
anche con riferimento a fatti riguardanti la responsabilit� di terzi, ipotesi nella quale 
il dichiarante ex art. 21 O codice procedura penale � in una situazione equiparabile a 
quella del testimone. Di qui la censura mossa, in riferimento all'art. 3 Cost., anche 
all'art. 21 O codice procedura penale per i riflessi sull'attuale disciplina dell'art. 513 
codice procedura penale. 

Un ulteriore profilo di disparit� di trattamento viene ravvisato dal giudice a quo in 
relazione alla disciplina transitoria prevista dall'art. 6 della legge n. 267 del 1997. Infatti 
la norma impugnata, pur introducendo ai commi 2 e 5 una disciplina di salvaguardia 
delle situazioni in cui il dichiarante sia gi� stato esaminato prima dell'entrata in vigore 
della legge, nulla dispone in ordine alla situazione del tutto equipollente in cui, come 
nella specie, il dichiarante, esaminato in dibattimento dopo l'entrata in vigore della 
legge, si avvalga della facolt� di non rispondere e tuttavia il pubblico ministero non 
abbia avuto alcuna possibilit�, ai sensi del comma 1, di ricorrere all'incidente 
probatorio, essendo gi� esaurite le fasi in cui tale mezzo � consentito. 

L'art. 513, comma 2, codice procedura penale violerebbe inoltre il principio del 
buon andamento della pubblica amministrazione �in quanto determina un rilevante 
spreco di attivit� amministrativa, finalizzata all'espletamento delle indagini e 
all'introduzione del giudizio dibattimentale, allorch� tale attivit� venga vanificata in 
conseguenza della impossibilit� non prevedibile di poter utilizzare una fonte di 
prova�, nonch� l'art. 112 della Costituzione in quanto la norma impugnata � di 
ostacolo al valido esercizio dell'azione penale promossa. 

10.1. -� intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e 
difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato che, richiamandosi integralmente 

PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

all'atto di intervento relativo ai giudizi di costituzionalit� promossi con le ordinanze 
iscritte ai numeri 776 e 787 del registro ordinanze del 1997, ha chiesto che la 
questione sia dichiarata infondata. 

Considerato in diritto 

1. -Preliminarmente la Corte deve prendere in esame le questioni della 
ammissibilit� della costituzione in giudizio del Procuratore della Repubblica presso 
il Tribunale di Torino (registro ordinanze n. 915 del 1997) e della provincia di 
Bologna, qualificatasi come persona offesa nel procedimento avanti al tribunale per 
i minorenni di Bologna (registro ordinanze n. 776 del 1997). 
1.1. -Come questa Corte ha pi� volte avuto occasione di affermare (sentenze 
numeri 1 e 375 del 1996 e ordinanza n. 327 del 1995), la costituzione del pubblico 
ministero nel giudizio incidentale di costituzionalit� deve ritenersi inammissibile: 
infatti, nonostante al pubblico ministero debba riconoscersi la qualit� di parte nel 
processo a quo, da un lato la peculiarit� della sua posizione ordinamentale e 
processuale, dall'altro l'attuale disciplina (articoli 20, 23 e 25 della legge 11 marzo 
1953, n. 87; articoli 3 e 17 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte 
costituzionale), che tiene distinti il �pubblico ministero� e le �parti�, inducono ad 
escludere la costituzione in giudizio di tale soggetto. 
La peculiarit� del ruolo del pubblico ministero fa poi ritenere non irragionevole 
la scelta discrezionale del legislatore di distinguere tale organo rispetto alle parti del 
procedimento a quo, non prevedendone la legittimazione a costituirsi nel giudizio 
sulle leggi. Appare pertanto priva di fondamento la questione di legittimit� 
costituzionale degli artt. 23 e 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87, nella parte in cui 
non contemplano il pubblico ministero tra i soggetti che possono costituirsi, 
prospettata, in riferimento all'art. 3 Cost., dal procuratore della Repubblica presso il 
Tribunale di Torino nelle deduzioni scritte presentate sotto forma di atto di 
costituzione, nonch� nell'illustrazione delle ragioni che � stato ammesso a rendere 
nell'udienz.a pubblica. 

1.2. -� del pari inammissibile la costituzione della persona offesa provincia di 
Bologna, che non era parte nel procedimento a quo. 
2. -Le numerose questioni di legittimit� costituzionale sottoposte all'esame 
della Corte riguardano l'art. 210, comma 4, codice procedura penale, nonch� gli artt. 
238, commi 2-bis e 4, e 513, commi 1 e 2, codice procedura penale -questi ultimi 
nelle parti modificate, rispettivamente, dagli artt. 3 e 1 della legge 7 agosto 1997, n. 
267 (Modifica delle disposizioni del codice di procedura penale in tema di 
valutazione delle prove) -e l'art. 6, commi 2 e 5, della predetta legge, contenente 
norme transitorie circa la nuova disciplina dell'art. 513 codice procedura penale. 
In estrema sintesi, tutte le questioni attengono alle regole di acquisizione 
probatoria di dichiarazioni sul fatto altrui rese in precedenza da imputati, sia nel 
medesimo procedimento, sia in procedimento separato, non comparsi in 
dibattimento, ovvero che rifiutino di sottoporsi all'esame o si avvalgano della 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO �

292 

facolt� di non rispondere. Le questioni si riferiscono dunque, nell'ambito 
dell'articolato e complesso sistema normativo che disciplina la formazione della 
prova in dibattimento, ad una peculiare categoria di dichiarazioni, caratterizzate 
dall'essere rese da imputati e dall'avere per oggetto fatti concernenti la 
responsabilit� di altri imputati. 

In particolare, le questioni investono: 

-con riguardo all'art. 513, comma 1, codice procedura penale, la regola che 
subordina al consenso degli altri imputati l'utilizzazione delle dichiarazioni rese in 
precedenza dall'imputato nel medesimo procedimento che in dibattimento rifiuti di 
sottoporsi all'esame; 

-con riguardo all'art. 513, comma 2, codice procedura penale, la regola che 
condiziona all'accordo delle parti la lettura delle dichiarazioni rese in precedenza 
dall'imputato in procedimento separato che in dibattimento si avvale della facolt� di 
non rispondere; 

-con riguardo alle disposizioni transitorie dettate dall'art. 6 della legge n. 267 
del 1997 in relazione all'art. 513 codice procedura penale, la diversit� di disciplina 
circa l'utilizzazione delle dichiarazioni nei giudizi in corso, a seconda che, al 
momento di entrata in vigore della legge, non fosse ancora ovvero fosse gi� stata 
disposta la lettura delle dichiarazioni rese in precedenza; 

-con riguardo all'art. 238, commi 2-bis e 4, codice procedura penale, la 
disciplina che prevede la utilizzazione delle dichiarazioni rese in altro dibattimento 
soltanto nei confronti degli imputati i cui difensori hanno partecipato all'assunzione 
della prova nel procedimento separato, ovvero soltanto nei confronti dell'imputato 
che vi consenta; 

-infine, con riguardo all'art. 210, comma 4, codice procedura penale, non 
modificato dalla legge n. 267 del 1997, la facolt� di non rispondere riconosciuta 
all'imputato in procedimento connesso o probatoriamente collegato. 

Poich� le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche o analoghe, 
comup.que coinvolgenti complessivamente gli articoli del codice di procedura 
penale sostituiti o modificati dalla legge n. 267 del 1997 e le relative norme 
transitorie, nonch� l'art. 210, comma 4, codice procedura penale, ad essi 
strettamente collegato, � opportuno disporre la riunione dei relativi giudizi. 

2.1. -L'esame delle molteplici questioni prospettate dai giudici rimettenti 
presuppone l'individuazione preliminare dei valori costituzionali coinvolti dal 
complesso sistema normativo sottoposto al giudizio della Corte. 
Viene innanzitutto in gioco l'inviolabilit� del diritto di difesa dell'imputato, 
nella sua dimensione di diritto fondamentale della persona, garantito dall'art. 24 
della Costituzione, con particolare riferimento, per quanto qui interessa, sia 
all'imputato che ha reso dichiarazioni sul fatto altrui, sia all'imputato nei cui 
confronti tali dichiarazioni sono rivolte. 

Quanto al primo, l'intangibilit� del diritto di difesa, sotto forma del rispetto del 
principio nemo tenetur se detegere, e conseguentemente del diritto al silenzio, si 



PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

manifesta nella garanzia dell'esclusione, anche quando l'imputato abbia reso 
dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilit� di altri, dell'obbligo di rispondere 
in dibattimento a domande che potrebbero coinvolgere responsabilit� proprie. 

Quanto al secondo, � manifestazione irrinunciabile del diritto di difesa che 
all'imputato sia assicurata la possibilit�, salvo che egli stesso vi abbia rinunciato, di 
sottoporre al vaglio del contraddittorio le dichiarazioni che lo riguardano, in conformit� 
al metodo di formazione dialettica della prova davanti al giudice chiamato a decidere. 

Sul piano costituzionale, viene inoltre in gioco la funzione del processo penale, 
che � strumento, non disponibile dalle parti, destinato all'accertamento giudiziale 
dei fatti di reato e delle relative responsabilit�. Tale funzione non pu� essere 
utilizzata per attenuare la tutela -piena e incoercibile -del diritto di difesa, 
coessenziale allo stesso processo. Sono invece censurabili, sotto il profilo della 
ragionevolezza, soluzioni normative che, non necessarie per realizzare le garanzie 
della difesa, pregiudichino la funzione del processo. 

3. -La maggior parte delle ordinanze sollevano problemi di costituzionalit� 
dell'art. 513, comma 2, codice procedura penale riguardante il rifiuto di rispondere 
in dibattimento della persona imputata in separato procedimento connesso o 
collegato, che abbia in precedenza reso dichiarazioni sul fatto altrui. 
Il Tribunale per i minorenni di Bologna (registro ordinanze n. 776/1997), il 
Tribunale di Bergamo (registro ordinanze n. 81/1998), il Tribunale militare di 
Torino (registro ordinanze. n. 898/1997), il Tribunale di Savona (registro ordinanze 

n. 908/1997), il Tribunale di Trani (registro ordinanze n. 913/1997) e il Tribunale di 
San Remo (registro ordinanze n. 861/1997) dubitano della legittimit� costituzionale 
dell'art. 513, comma 2, codice procedura penale, nella parte in cui subordina 
all'accordo delle parti la lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni 
predibattimentali delle persone indicate nell'art. 21 O codice procedura penale 
(imputati del medesimo reato, di reati connessi ovvero di reati probatoriamente 
collegati nei confronti dei quali si procede o si � proceduto separatamente), che si 
avvalgano in dibattimento della facolt� di non rispondere. 
Il Tribunale di San Remo (registro ordinanze n. 861/1997) formalmente impugna, 
unitamente� all'art. 513, comma 2, codice procedura penale, che detta i criteri cui � 
subordinata la lettura delle suddette dichiarazioni, anche l'art. 514 codice procedura 
penale, che, al contrario, quale norma di chiusura, disciplina le letture vietate. 

Il Tribunale di Bergamo (registro ordinanze n. 81/1998), il Tribunale militare di 
Torino (registro ordinanze n. 898/1997) e il tribunale di Trani (registro ordinanze n. 
913/1997) impugnano inoltre il regime processuale delle letture dettato dall'art. 513, 
comma 2, codice procedura penale in relazione al comma 4 dell'art. 210, codice 
procedura penale, che attribuisce la facolt� di non rispondere ai soggetti indicati nel 
comma 1 del medesimo articolo. 

3.1. -A parere dei rimettenti l'art. 513, comma 2, violerebbe gli artt. 3 e 24 
della Costituzione: 
a) perch� l'ingresso delle dichiarazioni rese in precedenza fra il materiale 
probatorio sottoposto alla valutazione del giudice viene fatto dipendere dalla 
volont� delle parti (registro ordinanze n. 776/1997 con esclusivo riferimento alla 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO ..

294 

intrinseca irragionevolezza): in particolare, attribuendo ad una qualsiasi di essa, 
compresa la parte civile, la facolt� di paralizzare l'acquisizione della prova, anche ~ 

se favorevole ad un imputato (registro ordinanze n. 908/1997), violando la parit� tra ~ 
accusa e difesa nella partecipazione al processo, la garanzia del diritto delle parti 

I

private e del pubblico ministero ad ottenere l'ammissione e l'acquisizione dei mezzi 
di prova, ed impedendo al giudice di assumere le prove a discarico e a carico I 
dell'imputato (registro ordinanze n. 861/1997); 

I 

b) in quanto tale disposizione determina una irragionevole disparit� di 
trattamento tra la disciplina della utilizzazione delle dichiarazioni rese nel corso 

I 

delle indagini dal testimone che rifiuti in dibattimento di rispondere e quella delle 
dichiarazioni rese dagli imputati in un procedimento connesso, �giacch� mentre nel 
caso in cui il testimone si rifiuti di rispondere possono, ai sensi del comma 2-bis 
dell'art 500 codice procedura penale, recuperarsi le sue dichiarazioni, viceversa nel 
caso in cui il dichiarante ex art. 21 O codice procedura penale (che sostanzialmente 
altri non � che un testimone seppure fornito di particolari garanzie) si rifiuta di 
rispondere, il recupero delle sue dichiarazioni non pu� avvenire che con l'accordo 
delle parti� (registro ordinanze n. 913/1997); 

e) perch�, in riferimento anche agli artt. 2, 25, 101, 102, 111 e 112 Cost., la 
norma impugnata -comportando la perdita, ai fini della decisione, di quanto 

I 

acquisito prima del dibattimento e che sia oggettivamente irripetibile in tale sede, 
per via della decisione di non rispondere a dibattimento di persone che avevano I 

f; 

precedentemente scelto di non avvalersi di tale facolt� rendendo dichiarazioni 

I ~ 

indizianti nei confronti di altri -pone il giudice nell'impossibilit� di emettere una 
giusta decisione e viola ad un tempo i principi di uguaglianza, legalit�, esercizio 
dell'azione penale, funzione conoscitiva del processo, indefettibilit� della 
giurisdizione ed essenzialmente lo stesso diritto al contraddittorio (�il conflitto reale 
non � tra diritto di difesa e giurisdizione, ma tra i diritti di difesa di cui sono titolari 

Ii diversi soggetti� -registro ordinanze n. 898/1997). 

3.2. -Facendo riferimento agli stessi parametri sopra indicati, richiamati per 
lo piu congiuntatnente, alcune ordinanze denunciano inoltre la violazione: 
I 

a) del principio di indefettibilit� della giurisdizione, del libero convincimento 
del giudice e della sua soggezione solo alla legge, in quanto il diritto riconosciuto 

I

all'imputato di opporsi ad libitum all'utilizzazione di prove a suo carico gli 
consentirebbe di disporre del processo e impedirebbe al giudice di conoscere i fatti 

J 

del processo oggetto del giudizio, nonch� di valutare complessivamente il materiale 
probatorio (registro ordinanze n. 81/1998, registro ordinanze n. 776/1997, registro I 

I ~ 

ordinanze n. 861/1997, in riferimento agli articoli 111 e 112 Cost. e registro 
ordinanze n. 898/1997, in riferimento all'art. 101, comma 2, Cost.); 

b) del principio di non dispersione della prova, enucleato dalla Corte 
costituzionale con le sentenze nn. 254 e 255 del 1992, e tendente a contemperare il 
rispetto del principio guida dell'oralit� con l'esigenza di evitare la perdita di quanto l ~'. 
acquisito prima del dibattimento, cos� che non sia sacrificato lo scopo essenziale del 
processo penale, che consiste nella ricerca della verit� e in una decisione giusta, 

I 

�~ 

! 

~ 

� 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

nonch�, sotto altro profilo, del diritto di difesa della parte civile la quale, non potendo 
chiedere n� partecipare all'incidente probatorio nella fase delle indagini preliminari, 
potrebbe vedere irrimediabilmente compromesso il suo interesse alla acquisizione 
della prova a carico dell'imputato, e tuttavia potrebbe anche, per il suo singolare 
interesse, opporsi alla acquisizione di dichiarazione che scagionino l'imputato (registro 
ordinanze n. 81/1998, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 101, 102, 111 e 112 Cost.); 

e) del principio dell'obbligatoriet� dell'azione penale, in quanto la disciplina 
impugnata produrrebbe l'effetto di paralizzare ex post l'iniziativa penale, cos� di 
fatto violando il principio dell'obbligatoriet� dell'azione penale che comporta che 
l'organo della pubblica accusa sia messo nelle condizioni di esercitare validamente 
l'azione promossa (registro ordinanze n. 913/1997, in riferimento all'art. 112 Cost.). 

Per il Tribunale militare di Torino e per il tribunale di Trani sarebbero inoltre 
violati l'art. 25, comma 2, Cost., perch� i principi in esso affermati implicano la 
punibilit� dei colpevoli di reati (registro ordinanze n. 898/1997), e l'art. 97 Cost., in 
quanto la norma impugnata �determina un rilevante spreco di attivit� 
amministrativa, finalizzata all'espletamento delle indagini e all'introduzione del 
giudizio dibattimentale, ( ...) vanificata in conseguenza della impossibilit� non 
prevedibile di poter utilizzare una fonte di prova� (registro ordinanze n. 913/1997). 

3.3. -Il Tribunale di Savona e il Tribunale di San Remo censurano il 
medesimo art. 513, comma 2, codice procedura penale per la irragionevole diversit� 
dei regimi di utilizzabilit� dettati nel caso in cui l'imputato -dello stesso reato, di 
reato connesso o di reato probatoriamente collegato -sia giudicato contestualmente 
(art. 513, comma 1, codice procedura penale) o separatamente (art. 513, comma 2, 
codice procedura penale) (registro ordinanze n. 861/1997 e n. 908/1997). 
4. -Le censure mosse all'art. 513, comma 2, codice procedura penale sono 
sostanzialmente riconducibili a quattro profili, sovente prospettati come concorrenti 
o interdipendenti. 
In primo luogo, viene eccepita, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., 
l'illegittimit� costituzionale della norma in esame per l'irragionevolezza di una 
disciplina che subordina alla volont� delle parti l'acquisizione del materiale 
probatorio suscettibile di essere valutato dal giudice ai fini della decisione, 
attribuendo ad una qualsiasi delle parti, ivi compresa la parte civile, la facolt� di 
paralizzare l'acquisizione della prova. Verrebbe cio� introdotto un inammissibile 
principio dispositivo in materia di prova, e si consentirebbe allo stesso imputato di 
disporre del processo, attribuendogli ad libitum il diritto di opporsi all'utilizzazione 
di prove a suo carico e impedendo correlativamente al giudice di conoscere i fatti di 
causa e di valutare complessivamente il materiale probatorio. Consequenziali a 
questo profilo sarebbero la violazione del principio della parit� tra accusa e difesa e 
del diritto delle parti di ottenere l'ammissione e l'acquisizione dei mezzi di prova. 

La violazione del principio di ragionevolezza viene eccepita anche sotto il 
diverso profilo della ingiustificata disparit� di trattamento tra la disciplina delle 
dichiarazioni rese nel corso delle indagini dal testimone, che poi rifiuta o omette in 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

n

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tutto o in parte di rispondere durante l'esame in dibattimento, e quella riservata alle 
dichiarazioni rese in precedenza dall'imputato in un procedimento connesso, che poi 
si avvale in dibattimento della facolt� di non rispondere: nel primo caso, infatti, le 
dichiarazioni del testimone possono essere �recuperate� mediante il meccanismo 
delle contestazioni, operante ex art. 500, comma 2-bis codice procedura penale 
anche nel caso di rifiuto parziale o totale di rispondere, mentre nel caso in cui 
l'imputato in procedimento connesso, che sostanzialmente non sarebbe altro che un 
testimone, seppure fornito di particolari garanzie, si avvale in dibattimento della 
facolt� di non rispondere, le dichiarazioni rese in precedenza possono essere 
recuperate solo se vi � l'accordo delle parti. 

Un ulteriore profilo pone l'accento sulla violazione del diritto al 
contraddittorio, in riferimento all'art. 24 Cost.: a seguito della disciplina impugnata, 
�il conflitto reale� non si porrebbe tra diritto di difesa ed esercizio della 
giurisdizione, ma tra i diritti di difesa di cui sono rispettivamente titolari l'imputato 
in procedimento connesso �dichiarante contra alias� che si avvale della facolt� di 
non rispondere, e l'imputato destinatario delle dichiarazioni, che perderebbe il 
diritto al contraddittorio. 

Infine, un quarto gruppo di censure chiama in causa anche la violazione degli 
artt. 101, comma 2, 102, comma 1, 111 e 112 Cost.: la norma impugnata, in quanto 
comporta la perdita, ai fini della decisione, di elementi di prova divenuti 
oggettivamente irripetibili in dibattimento a causa della decisione di non rispondere 
di persone che in precedenza non si erano avvalse di tale facolt� ed avevano reso 
dichiarazioni a carico di altri, porrebbe il giudice nell'impossibilit� di emettere una 
giusta decisione e inciderebbe sul libero convincimento del giudice e sulla sua 
soggezione solo alla legge, sulla funzione conoscitiva del processo, 
sull' indefettibilit� della giurisdizione, sull'obbligatoriet� dell'esercizio dell'azione 
penale. 

4.1 -Le questioni sono fondate, nei limiti di seguito precisati, in riferimento 
agli artt. 3 e 24 Cost. 
L'art. 513, comma 2, codice procedura penale prevede i casi in cui � possibile 
procedere alla lettura in dibattimento delle dichiarazioni rese in precedenza al 
pubblico ministero o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero o al 
giudice nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare dalle persone 
indicate nell'art. 210 codice procedura penale (imputati in un procedimento 
connesso a norma dell'art. 12 codice procedura penale e imputati di un reato 
probatoriamente collegato a norma dell'art. 3 71, comma 2, lettera b), codice 
procedura penale, nei cui confronti si procede o si � proceduto separatamente). Si 
tratta di persone che, proprio in quanto esaminate in un procedimento diverso da 
quello a loro carico, sono necessariamente sentite su fatti concernenti la 
responsabilit� di altri imputati. 

In base all'originaria disciplina del codice, ove il dichiarante, presente, si fosse 
avvalso della facolt� di non rispondere, riconosciutagli dall'art. 210, comma 4, 
codice procedura penale, secondo la prevalente interpretazione giurisprudenziale 
non era possibile disporre la lettura delle precedenti dichiarazioni, espressamente 
ammessa solo nel caso in cui lo stesso non fosse presente. Alla stregua di tale 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

interpretazione, si ritenne che la disciplina differisse da quella stabilita nell'art. 513, 
comma 1, codice procedura penale in caso di rifiuto dell'imputato nel medesimo 
procedimento di sottoporsi all'esame:. tale norma prevedeva infatti che, a richiesta 
di parte, poteva esser disposta la lettura-acquisizione delle precedenti dichiarazioni 
sia nei casi di contumacia o assenza, sia in quello di rifiuto dell'imputato, presente, 
di sottoporsi all'esame. 

La ritenuta disparit� di trattamento tra il comma 2 e il comma 1 dell'art. 513 
codice procedura penale venne giudicata da questa Corte (v. sentenza n. 254 del 
1992) �del tutto sfornita di ragionevole giustificazione�: da un lato la Corte ha 
rilevato che, essendo riconosciuta anche all'imputato in procedimento connesso la 
facolt� di non rispondere, e di sottrarsi quindi, in tutto o "in parte, all'esame, si 
versava in una situazione di impossibilit� sopravvenuta di ripetizione dell'atto del 
tutto analoga alla indisponibilit� dell'imputato di sottoporsi all'esame, che a norma 
del comma 1 determinava la lettura delle precedenti dichiarazioni; dall'altro, che la 
palese irragionevolezza della norma impugnata si manifestava con particolare 
evidenza ove si considerasse che la diversit� di disciplina in ordine alla possibilit� 
di lettura delle dichiarazioni rese in precedenza, a seconda che si procedesse in un 
unico processo cumulativo ovvero separatamente, dipendeva da �Scelte o 
valutazioni contingenti di natura strettamente processuale ..., se non da eventi del 
tutto casuali�; con la conseguenza che �la circostanza che al simultaneus processus 
non si addivenga per qualsiasi causa non pu� ragionevolmente mutare il regime di 
leggibilit� in dibattimento (e quindi di utilizzabilit� ai fini della decisione) delle 
dichiarazioni rese durante le indagini preliminari dagli imputati di detti 
procedimenti�. 

L'art. 513, comma 2, codice procedura penale � stato pertanto dichiarato 
illegittimo nella parte in cui non prevedeva la lettura dei verbali delle dichiarazioni 
rese dalle persone indicate nell'art. 21 O codice procedura penale, che si erano 
avvalse della facolt� di non rispondere. 

La disciplina risultante da tale intervento additivo � stata radicalmente 
modificata dalla legge n. 267 del 1997. Dalla nuova formulazione dell'art. 513, 
comma 2, �odice procedura penale emerge in primo luogo che � stata reintrodotta, 
ai fini della disciplina della lettura, la distinzione tra impossibilit� di ottenere la 
presenza del dichiarante (ovvero di procedere all'esame a domicilio o alla rogatoria 
internazionale o all'esame in altro modo previsto dalla legge con le garanzie del 
contraddittorio) e esercizio da parte del dichiarante presente della facolt� di non 
rispondere. 

Ove ricorra la prima situazione, il giudice, a richiesta di parte, dispone a norma 
dell'art. 512 codice procedura penale la lettura delle dichiarazioni rese in 
precedenza qualora la impossibilit� di ripetizione dipenda da fatti o circostanze 
imprevedibili al momento delle dichiarazioni. Ove il dichiarante, presente, si 
avvalga della facolt� di non rispondere, la lettura dei verbali delle precedenti 
dichiarazioni pu� invece essere disposta soltanto con l'accordo delle parti. 

Si � quindi ritornati, sia pure con alcune variazioni, ad una disciplina analoga 
a quella vigente prima della sentenza n. 254 del 1992: in caso di esercizio della 
facolt� di non rispondere, la lettura non � preclusa in modo assoluto, ma risulta 
condizionata all'accordo delle parti; in caso di impossibilit� di ottenere la presenza 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

298 

del dichiarante, la lettura non � ammessa sempre, ma solo nelle ipotesi in cui la 
impossibilit� di ripetizione dell'atto dipenda da fatti o circostanze imprevedibili al 
momento delle dichiarazioni. 

4.2. -La scelta del legislatore del 1997 � venuta incontro all'indiscutibile 
esigenza di precludere, in mancanza del consenso dei soggetti interessati, 
l'acquisizione meramente �cartolare� delle dichiarazioni precedentemente rese sul 
fatto altrui dall'imputato" di reato connesso o collegato che in dibattimento rifiuti di 
rispondere: il metodo di acquisizione di queste dichiarazioni, raccolte in un contesto 
in cui non � assicurata la garanzia del contraddittorio, impediva infatti all'imputato 
a cui erano rivolte di esercitare in dibattimento il fondamentale diritto di 
confrontarsi con la fonte di accusa. Lo stesso legislatore del 1997 ha poi allargato le 
ipotesi in cui � possibile disporre con incidente probatorio l'esame su fatti 
concernenti la responsabilit� di altri sia della persona sottoposta alle indagini nel 
medesimo procedimento, sia delle persone indicate nell'art. 210 codice procedura 
penale (art. 392, comma 1, lett. e) e d), codice procedura penale), ed ha esteso 
all'udienza preliminare la possibilit� di esaminarle con le forme dell'esame diretto 
e del controesame (art. 421, comma 2, codice procedura penale), ampliando, 
mediante strumenti attivabili anche per iniziativa della difesa dell'imputato, gli 
spazi del contraddittorio (sia pure anticipato) su atti destinati ad essere utilizzati in 
dibattimento. 
Ci� che invece nella legge n. 267 del 1997 delinea un sistema privo di 
ragionevole giustificazione � che la utilizzabilit� delle precedenti dichiarazioni 
venga fatta dipendere dalla scelta meramente discrezionale dell'imputato in 
procedimento connesso di rispondere in dibattimento su fatti concernenti la 
responsabilit� di altri, dopo che il medesimo imputato, pur avendo la facolt� di non 
rispondere a norma dell'art. 210, comma 4, codice procedura penale, si era in 
precedenza consapevolmente risolto a rendere dichiarazioni erga alios. 

Va infatti considerato che, da un lato, l'ordinamento consente di assumere nel 
corso delle indagini preliminari dichiarazioni dell'indagato o dell'imputato su fatti 
concernenti la responsabilit� di altri; dall'altro lato, la norma impugnata subordina 
la possibilit� di fare rientrare le precedenti dichiarazioni tra il materiale suscettibile 
di valutazione probatoria alla scelta del dichiarante, assolutamente discrezionale e 
potestativa, di non avvalersi della facolt� di non rispondere. Specularmente, la scelta 
del dichiarante di rifiutare in dibattimento di sottoporsi al contraddittorio con il 
destinatario delle sue precedenti dichiarazioni viene a combinarsi con la prevedibile 
mancanza dell'accordo di tutte le parti -portatrici di contrastanti interessi 
processuali -alla lettura. 

L'irragionevolezza e l'incoerenza di tale meccanismo sono di immediata 
evidenza: l'esclusione delle dichiarazioni rese in precedenza dal patrimonio di 
conoscenze del giudice risulta infatti rimessa alla concorrente volont� dell'imputato 
in procedimento connesso e della parte processualmente interessata a impedire 
l'acquisizione e l'utilizzazione delle dichiarazioni stesse. 

Ne risulta pregiudicata la stessa funzione essenziale del processo, che � appunto 
quella di verificare la sussistenza dei reati oggetto del giudizio e di accertare le 
relative responsabilit�. 


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PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

Da un lato, non � conforme al principio costituzionale di ragionevolezza una 
disciplina che precluda a priori l'acquisizione in dibattimento di elementi di prova 
raccolti legittimamente nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza 
preliminare; dall'altro, la tutela del diritto di difesa impone che l'ingresso di tali 
elementi nel patrimonio di conoscenze del giudice sia subordinato alla possibilit� di 
instaurare il contraddittorio tra il dichiarante e il destinatario delle dichiarazioni. 

La mancata previsione di contestazioni in caso di esercizio della facolt� di non 
rispondere preclude invece in modo assoluto la possibilit� di esaminare il dichiarante. 
L'effetto che ne consegue -perdita definitiva delle precedenti dichiarazioni impedisce, 
proprio in virt� della disciplina contenuta nell'art. 513, comma 2, codice 
procedura penale, la formazione dialettica della prova davanti al giudice. 

Diversamente, nel disciplinare l'esame dei testimoni, i commi 2-bis e 4 dell'art. 
500, codice procedura penale -introdotti dal decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, 
convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, dopo che questa Corte, con sentenza n. 
255 del 1992, aveva dichiarato illegittima la precedente disciplina nella parte in cui 
non prevedeva l'acquisizione nel fascicolo per il dibattimento, se erano state 
utilizzate per le contestazioni, delle dichiarazioni precedentemente rese dal 
testimone -stabiliscono che le parti possono procedere alle contestazioni anche 
quando il teste rifiuta o comunque omette, in tutto o in parte, di rispondere sulle 
circostanze riferite nelle precedenti dichiarazioni, e che le dichiarazioni utilizzate 
per le contestazioni sono acquisite nel fascicolo per il dibattimento e valutate come 
prova dei fatti in esse affermati se sussistono altri elementi di prova che ne 
confermano l'attendibilit�. 

Ebbene, il meccanismo disegnato dall'art . .500, comma 2-bis codice procedura 
penale indica la soluzione, offerta dallo stesso ordinamento, per porre rimedio ai vizi 
di legittimit� costituzionale dell'art. 513, comma 2, codice procedura penale. 

Va tenuto infatti presente che sul terreno processuale l'imputato in 
procedimento connesso � in gran parte gi� sottoposto alla disciplina propria dei 
testimoni: l'art. 210, comma 2, codice procedura penale prevede la citazione 
mediante le norme per i testimoni, l'obbligo di presentazione al giudice e 
l'accompagnamento coattivo. Tali simmetrie trovano appunto spiegazione e 
giustificazione nella analogia tra le posizioni processuali di soggetti le cui 
dichiarazioni sono contraddistinte dall'essere rivolte, e dall'essere destinate a 
valere, nei confronti di altri. 

� dunque coerente con il rispetto dei principi costituzionali di cui � stata 
denunciata la violazione che alle persone indicate nell'art. 21 O codice procedura 
penale vengano applicate le regole relative alle contestazioni previste per i testimoni 
anche in caso di rifiuto di rispondere: mediante il sistema delle contestazioni di cui 
all'art. 500, comma 2-bis codice procedura penale, alla parte che ha chiesto l'esame 
� infatti data la possibilit� di portare direttamente davanti al giudice il contenuto 
delle dichiarazioni rese in precedenza e alle controparti di sottoporle al vaglio 
critico, sollecitando e favorendo eventuali ritrattazioni, correzioni e chiarimenti. 

Risulta cos� possibile: 

-superare la manifesta irragionevolezza di disposizioni che consentono 
all'autorit� giudiziaria di raccogliere legittimamente dichiarazioni nel corso delle 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

300 

indagini preliminari e che, poi, ne affidano la possibilit� di acqmslZlone in 
dibattimento alla scelta discrezionale di chi in precedenza ha liberamente reso quelle 
dichiarazioni; 

-salvaguardare il diritto di difesa dell'imputato dichiarante e insieme 
dell'imputato destinatario delle dichiarazioni: il diritto al silenzio non viene scalfito 
ove il dichiarante venga sottoposto alle contestazioni sulle circostanze riferite nelle 
precedenti dichiarazioni; il diritto al contraddittorio dell'accusato non pu� 
identificarsi con il potere di veto, ma va correttamente inteso come diritto a 
contestare tali dichiarazioni in contraddittorio con le altre parti e davanti al giudice, 
adottando il meccanismo gi� previsto dal legislatore in caso di rifiuto totale o 
parziale di rispondere del testimone. 

Al riguardo, � opportuno precisare che, ove le dichiarazioni sul fatto altrui 
risultino inscindibilmente connesse con i profili di responsabilit� sul fatto proprio, 
la contestazione ad iniziativa delle parti di singoli contenuti narrativi appare un 
meccanismo idoneo a consentire al soggetto chiamato all'esame di identificarne 
concretamente la portata probatoria e, quindi, l'eventuale pregiudizio che potrebbe 
derivarne alla sua difesa. 

In particolare, poich� l'acquisizione mediante contestazione di singoli contenuti 
narrativi potrebbe in ipotesi esporre l'imputato in procedimento connesso a nuovi o 
pi� gravi profili di responsabilit�, diversi e ulteriori rispetto a quelli risultanti dalle 
sue precedenti dichiarazioni, la garanzia di un consapevole esercizio del diritto di 
difesa del dichiarante, nel rispetto del principio nemo tenetur se detegere, e, nello 
stesso tempo, quella del diritto al contraddittorio di tutte le parti, sono assicurate 
dalla pi� ampia esplicazione del metodo dialettico-contestativo proprio del 
dibattimento, cui � funzionale l'onere, per la parte che chiede l'esame ex art. 210 
codice procedura penale, di presentare la lista dei soggetti da esaminare �con 
l'indicazione delle circostanze su cui deve vertere l'esame�, secondo il disposto 
dell'art. 468, comma 1, codice procedura penale, implicitamente richiamato dal 
rinvio, contenuto nell'art. 210, comma 2, codice procedura penale, alle norme per la 
citazione dei testimoni. 

4.3. -In accoglimento delle questioni elencate sub 3.1.a), 3.1.b) e 3.1.c), in 
riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., l'art. 513, comma 2, ultimo periodo, codice 
procedura penale va pertanto dichiarato illegittimo nella parte in cui non prevede 
che, qualora il dichiarante rifiuti o comunque ometta in tutto o in parte di rispondere 
su fatti concernenti la responsabilit� di altri gi� oggetto delle sue precedenti 
dichiarazioni, in mancanza dell'accordo delle parti alla lettura si applica l'art. 500, 
commi 2-bis e 4 codice procedura penale. 
Risultano cos� assorbite le questioni -indicate sub 3.1.c) e 3.2. -sollevate in 
riferimento agli artt. 2, 25, 97, 1O1, 102, 111 e 112 Cost. 

� opportuno precisare che nell'intervento additivo sull'art. 513, comma 2, 
codice procedura penale il richiamo anche al comma 4 dell'art. 500 codice 
procedura penale � funzionale a rendere applicabile il meccanismo di acquisizione 
nel fascicolo per il dibattimento delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni: il 
criterio di giudizio che subordina il valore probatorio delle precedenti dichiarazioni 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

alla sussistenza di altri elementi di prova che ne confermino l'attendibilit�, stabilito 
per i testimoni nello stesso comma 4, � infatti dettato dall'analoga regola prevista in 
via generale dall'art. 192, comma 3, codice procedura penale per il coimputato e per 
l'imputato in procedimento connesso. 

Non � invece necessario alcun richiamo all'art. 500, comma 5, codice procedura 
penale, in quanto la situazione ivi contemplata rimane attratta nella disciplina delle 
contestazioni prevista in via generale in caso di rifiuto o di omissione totale o 
parziale di rispondere; n� vi � motivo di applicare la regola di valutazione probatoria 
dettata dal comma 5, in quanto le dichiarazioni sul fatto altrui rese dall'imputato in 
procedimento connesso continuano ad essere sottoposte, proprio perch� provenienti 
da un imputato, alla regola di giudizio dettata dall'art. 192, comma 3, codice 
procedura penale. 

La valutazione dell'efficacia probatoria di tali dichiarazioni -raccolte 
dall'autorit� giudiziaria fuori del contraddittorio, rese da un imputato che si � poi 
avvalso in dibattimento della facolt� di non rispondere, acquisite mediante il 
meccanismo delle contestazioni .......,.. dovr� avvenire con la cautela e il rigore richiesti 
da tali caratteristiche, ferma restando la facolt� del legislatore di tradurre queste 
ovvie esigenze in una appropriata formula normativa. 

4.4. -Le questioni sollevate dal Tribunale di San Remo e dal Tribunale di 
Savona esposte sub 3.3., relative al comma 2 dell'art. 513 codice procedura penale, 
in riferimento all'art. 3 Cost. per disparit� di trattamento rispetto al regime di 
utilizzabilit� dettato dal comma 1 del medesimo articolo, difettano di rilevanza. 
Tenendo presenti le differenze di disciplina tra il comma 1eilcomma2 dell'art. 
513 codice proc�dura penale, risulta che entrambe le ordinanze di rimessione si 
riferiscono all'ipotesi del rifiuto di rispondere del soggetto citato ex art. 210 codice 
procedura penale, accompagnato dal dissenso sulla utilizzazione da parte 
dell'imputato a cui si riferiscono le dichiarazioni rese in precedenza: situazione nella 
quale la disciplina dei commi 1 e 2 dell'art. 513 codice procedura penale conduce 
alle medesime conseguenze in punto di lettura e di utilizzabilit� erga alios delle 
dichiaraziop.i predibattimentali. 

Le questioni vanno pertanto dichiarate inammissibili per difetto di rilevan:za. 

4.5. -Il Tribunale di San Remo (registro ordinanze n. 861/1997) impugna, 
unitamente all'art. 513, comma 2, codice procedura penale, anche l'art. 514 dello 
stesso codice. 
In realt�, la disciplina cui si riferiscono i dubbi di legittimit� costituzionale � 
interamente contenuta nell'art. 513, comma 2, mentre l'art. 514 non ha autonomo 
contenuto normativo rispetto alle regole di utilizzazione probatoria delle 
dichiarazioni rese in precedenza. 

Ne consegue che, essendo l'art. 514 codice procedura penale erroneamente 
evocato dal rimettente, la relativa questione deve essere dichiarata inammissibile. 

5. -Il Tribunale di Cagliari (registro ordinanze n. 153/1998) dubita della 
legittimit� costituzionale dell'art. 513, comma 1, codice procedura penale, nella 
parte in cui, in assenza di consenso degli altri imputati, esclude l'utilizzabilit� 

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302 

nei confronti di ciascuno di essi delle dichiarazioni rese da un imputato nel 
corso delle indagini preliminari qualora in dibattimento questi si sia avvalso 
della facolt� di non rispondere. 

5 .1. -A giudizio del rimettente sarebbero violati: 
a) l'art. 3 Cast., in quanto irragionevolmente la norma impugnata �fa 
dipendere il dispiegarsi del contraddittorio dibattimentale dall'esercizio della facolt� 
di non sottoporsi all'esame da parte di imputati che in sede di indagini abbiano reso 
dichiarazioni accusatorie nei confronti di altri� e alla mancanza del contraddittorio 
fa conseguire l'impossibilit� per il giudice di conoscere le dichiarazioni sul fatto 
altrui da essi precedentemente rese, sacrificando il principio di non dispersione degli 
elementi di prova; 

b) l'art. 3 Cast., per la irragionevole disparit� di trattamento che la norma 
impugnata determina fra la disciplina delle dichiarazioni in precedenza rese dal 
coimputato che si avvalga in dibattimento della facolt� di non rispondere, 
dichiarazioni delle quali � vietata l'utilizzabilit� nei confronti di altri senza il loro 
consenso, e quella riservata agli atti irripetibili per cause originarie o sopravvenute, 
delle quali � invece sempre consentita la lettura; 

e) ancora l'art. 3 Cast., in quanto sarebbe irragionevole non attribuire alcun 
rilievo alle ragioni sopravvenute di irripetibilit� dell'atto, mentre tali ragioni 
comportano che, previo ricorso al meccanismo delle contestazioni di cui all'art. 500 
codice procedura penale, venga attribuito valore di prova alle precedenti 
dichiarazioni del testimone che sia stato indotto a non deporre o a deporre il falso in 
dibattimento; 

d) gli artt. 3 e 101 Cast., in quanto la norma impugnata determinerebbe 
�l'aberrante conseguenza� che il dichiarante potrebbe in un determinato 
procedimento sottrarsi all'esame dibattimentale e in un diverso pro�edimento 
sottoporsi all'esame nei confronti di altri imputati, consentendo o negando a suo 
arbitrio l'ingresso in dibattimento delle stesse precedenti dichiarazioni. 

5.2. -Ad avviso del rimettente la norma impugnata si pone inoltre in 
contrasto con: 
a) gli artt. 25 e 112 Cast., in quanto produrrebbe l'effetto di paralizzare ex 
post l'iniziativa penale, cos� di fatto violando il principio dell'obbligatoriet� 
dell'azione penale il quale comporta che l'organo della pubblica accusa sia messo 
nelle condizioni di esercitare validamente l'azione promossa; 

b) l'art. 101 Cast., in quanto la norma censurata, subordinando ad 
�insondabili scelte del dichiarante� la conoscenza delle prove da parte del 
giudice, si pone in contrasto con il principio della sottoposizione del giudi1e 
soltanto alla legge. . 

6. -L'art. 513, comma 1, codice procedura penale, sia nella formulazione 
originaria, sia a seguito delle modifiche introdotte dalla legge n. 267 del 1997, si 
riferisce alle dichiarazioni rese in precedenza (al pubblico ministero o alla polizia 

PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

giudiziaria su delega del pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini 
preliminari o nell'udienza preliminare) dall'imputato nel medesimo procedimento, 
sia sul fatto proprio, sia su fatti concernenti la responsabilit� di altri. 

Al riguardo, va precisato che le eccezioni di legittimit� costituzionale, si 
riferiscono esclusivamente alle dichiarazioni aventi per oggetto la responsabilit� di 
altri, la cui utilizzazione � subordinata, in caso di contumacia, assenza o rifiuto 
dell'imputato di sottoporsi all'esame, al consenso degli altri imputati. Rimane ferma 
la disciplina relativa alla utilizzazione delle dichiarazioni sul fatto proprio, per la 
quale non sono stati sollevati dubbi di costituzionalit�. 

6.1. -Le questioni di legittimit� costituzionale ricalcano sostanzialmente quelle 
prospettate in ordine all'art. 513, comma 2, codice procedura penale. 
Viene in primo luogo eccepita l'intrinseca irragionevolezza di una disciplina 
che fa dipendere il dispiegarsi del contraddittorio dibattimentale dall'insindacabile 
scelta di non sottoporsi all'esame dell'imputato che in precedenza aveva reso 
dichiarazioni nei confronti di altri, e poi, in caso di dissenso degli imputati alla loro 
utilizzazione, comporta l'esclusione di tali dichiarazioni dal patrimonio di 
conoscenze del giudice. 

Sotto un diverso profilo, viene denunciata l'irragionevole disparit� di 
trattamento tra la disciplina riservata a tali dichiarazioni, utilizzabili solo se vi � il 
consenso degli altri imputati, e la disciplina degli atti irripetibili per cause originarie 

o sopravvenute, dei quali � invece sempre consentita la lettura, con particolare 
riferimento alla sentenza n. 179 del 1994, con la quale sono state ritenute utilizzabili 
le dichiarazioni testimoniali rese nel corso delle indagini preliminari dal prossimo 
congiunto che in dibattimento abbia poi esercitato la facolt� di astenersi. 
La disciplina impugnata viene denunciata sotto il profilo dell'irragionevole 
disparit� di trattamento anche perch� non attribuisce alcun rilievo alle ragioni della 
sopravvenuta irripetibilit� dell'atto, mentre di tali ragioni il legislatore tiene conto in 
tema di esame dei testimoni, attribuendo valore di prova piena, previo ricorso al 
meccanismo delle contestazioni di cui all'art. 500 codice procedura penale, alle 
precedenti �lichiarazioni del teste che sia stato indotto a non deporre o a deporre il 
falso in dibattimento. 

In riferimento anche all'art. 101 Cost., viene infine denunciata l'irragionevolezza 
della disciplina impugnata in quanto consentirebbe al dichiarante di 
rifiutarsi di sottoporsi all'esame dibattimentale in un determinato procedimento, 
cos� rendendo non conoscibili al giudice di quel procedimento le precedenti 
dichiarazioni, e di sottoporsi all'esame in un diverso procedimento a carico di altri 
imputati, cos� facendo entrare nel patrimonio di conoscenze di quel giudice le 
medesime dichiarazioni e attribuendovi valore di prova. 

6.2. -I dubbi di costituzionalit� sono fondati in riferimento all'art. 3 Cost., nei 
termini di seguito precisati, ma vanno pi� propriamente risolti intervenendo sull'art. 
21 O, codice procedura pena1e. 
Occorre in via preliminare tenere presente che, mediante la modifica dell'art. 
513, comma 1, codice procedura penale, la legge n. 267 del 1997 ha introdotto una 
particolare disciplina per il caso in cui si intenda utilizzare nei confronti di altri le 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

304 

dichiarazioni rese in precedenza dall'imputato: ove l'imputato sia contumace, 
assente o rifiuti di sottoporsi all'esame, la norma impugnata prevede appunto che le 
precedenti dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilit� di altri non siano 
utilizzabili senza il loro consenso, mentre continuano ad essere utilizzabili a 
richiesta di parte le dichiarazioni riguardanti il fatto proprio. 

Tale differenza di regole in tema di utilizzabilit� implica un'autonomia 
concettuale e sistematica dell'esame su fatti concernenti la responsabilit� di altri, del 
resto gi� desumibile dalla specifica disciplina ad esso riservata nella fase delle 
indagini preliminari e in tema di valutazione della prova. Il codice del 1988 ha infatti 
preso atto dell'indiscutibile fenomeno processuale, sempre pi� frequente non solo 
nei procedimenti per fatti di criminalit� organizzata, rappresentato da soggetti che 
abbinano alla qualit� di imputati quella di �dichiaranti� sulla posizione di altri 
imputati, dettando appunto regole peculiari per l'esame su fatti concernenti la 
responsabilit� di altri, comuni sia per l'imputato nel medesimo procedimento, sia 
per l'imputato in procedimento connesso. 

Tra i casi in cui � possibile ricorrere all'incidente probatorio -non ammesso 
per l'esame dell'imputato sul fatto proprio -l'art. 392, comma 1, lettera e), codice 
procedura penale contempla l'esame della persona sottoposta alle indagini su fatti 
concernenti la responsabilit� di altri e la lettera d) l'esame delle persone indicate 
nell'art. 21 O codice procedura penale, cio� dei soggetti nei cui confronti si � 
proceduto o si procede separatamente e che vengono quindi esaminati su fatti 
concernenti la responsabilit� di altri. Ove si presenti la necessit� di anticipare 
rispetto al dibattimento la formazione della prova relativa a dichiarazioni 
concernenti la responsabilit� di altri, le due categorie di imputati risultano cos� 
accomunate dalla possibilit� di sottoporli ad esame mediante incidente probatorio. 

Al fine di procedere all'esame mediante incidente probatorio sui fatti 
concernenti la responsabilit� di altri, � inoltre possibile ordinare 
l'accompagnamento coattivo sia dell'imputato nel medesimo procedimento, sia 
dell'imputato in procedimento connesso. Previsto dall'art. 399 codice procedura 
penale quando la persona sottoposta alle indagini non compaia senza addurre alcun 
legittimo impedimento e la sua presenza sia necessaria per compiere un atto da 
ass�mere mediante incidente probatorio, l'accompagnamento coattivo � 
espressamente richiamato in via generale dall'art. 210, comma 2, codice procedura 
penale per l'esame dell'imputato in procedimento connesso e, quindi, anche per 
l'esame di cui all'art. 392, comma 1, lettera d), codice procedura penale. 

Infine, in tema di valutazione della prova l'art. 192, comma 3, codice procedura 
penale detta una specifica regola di giudizio per le dichiarazioni su fatti concernenti 
la responsabilit� di altri, rese sia dal coimputato, sia dall'imputato in un 
procedimento connesso. 

Ma tali simmetrie di disciplina vengono meno nella fase dibattimentale. Mentre 
per l'esame dell'imputato in procedimento connesso o collegato sono sempre 
previsti l'obbligo di presentarsi al giudice e l'accompagnamento coattivo (art. 21d, 
comma 2, codice procedura penale), in dibattimento l'esame dell'imputato nel 
medesimo procedimento su fatti concernenti la responsabilit� di altri � in tutto e per 
tutto assimilato all'esame sul fatto proprio. L'art. 503 codice procedura penale 
prevede, infatti, che l'esame venga disposto solo se l'imputato ne abbia fatto 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

richiesta o vi abbia consentito, a norma dell'art. 208 codice procedura penale; non � 
revisto l'obbligo di comparire e non � consentito l'accompagnamento coattivo 
dell'imputato (art. 490 codice procedura penale). 

Tali regole sono conformi all'intangibilit� del diritto di difesa dell'imputato 
esaminato sul fatto proprio: la decisione di chiedere l'esame ovvero di consentirvi, 
alla stregua della valutazione dei rischi che pu� rispettivamente comportare il 
contro-esame ovvero l'esame diretto ad iniziativa della parte che lo ha chiesto, 
rientra tra le insindacabili scelte relative alla strategia difensiva adottata; 
conseguentemente, � congeniale all'esercizio del diritto di difesa che non sia 
contemplato l'obbligo di comparire e che non possa essere ordinato 
l'accompagnamento coattivo. Ma quando l'esame verte su fatti non propri, bens� 
concernenti la responsabilit� di altri, assumono prevalenza la specificit� di tale 
istituto rispetto all'esame sul fatto proprio, la sostanziale coincidenza tra questa 
forma di esame e l'esame dell'imputato in procedimento connesso, che dal primo si 
distingue solo perch� disposto in un separato procedimento, l'esigenza di non 
escludere a priori il diritto dell'imputato destinatario delle dichiarazioni di 
confrontarsi con il dichiarante in contraddittorio. 

La disciplina dell'esame dibattimentale dell'imputato nel medesimo 
procedimento sul fatto altrui risulta pertanto priva di ragionevole giustificazione 
sotto una duplice prospettiva. Ove la si confronti, da un lato, con quanto previsto per 
l'esame mediante incidente probatorio, che altro non � che una anticipazione della 
prova assunta in dibattimento, dall'altro con la disciplina dell'esame dell'imputato 
in procedimento connesso, che si svolge separatamente solo per circostanze 
processuali meramente occasionali e contingenti, � incoerente che per l'esame 
dell'imputato nel medesimo procedimento sul fatto altrui non siano contemplati 
anche nella fase dibattimentale l'obbligo di presentarsi e l'eventuale 
accompagnamento coattivo, analogamente a quanto disposto, rispettivamente, dagli 
artt. 399 e 210, comma 2, codice procedura penale. 

Questa duplice asimmetria si � ovviamente riflessa sulle regole dettate dall'art. 
513, comma 1, codice procedura penale in tema di lettura e di utilizzazione delle 
dichiarazioni rese in precedenza sul fatto altrui; il suo superamento costituisce 
pertanto la "premessa logica e sistematica per ricondurre a legittimit� costituzionale 
la disciplina riservata all'esame dell'imputato nel medesimo procedimento su fatti 
concernenti la responsabilit� di altri. 

6.3. -Al riguardo, occorre tenere presente che, come sopra precisato, le 
censure del rimettente, significativamente coincidenti con quelle sollevate nei 
confronti del comma 2 dell'art. 513 codice procedura penale, attengono 
esclusivamente all'esame dell'imputato nel medesimo procedimento su fatti 
concernenti la responsabilit� di altri. 
L'esame di tali censure deve pertanto muovere dalla constatazione che la 
figura del dichiarante erga alios, sia esso imputato nel medesimo procedimento 

o in separato procedimento connesso, � sostanzialmente identica, in quanto 
l'esame sul fatto altrui viene condotto su un imputato che assume l'una piuttosto 
che l'altra veste per ragioni meramente processuali e occasionali (v. sentenza 
n. 254 del 1992). 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO �..

306 

Ne deriva che le censure, bench� formalmente rivolte all'art. 513, comma 1, 
codice procedura penale, debbono pi� propriamente intendersi riferite all'art. 21 O 
codice procedura penale, del quale va pertanto dichiarata l'illegittimit� 
costituzionale, per contrasto con l'art. 3 Cost., nella parte in cui non ne � prevista 
l'applicazione anche all'esame dell'imputato nel medesimo procedimento su fatti 
concernenti la responsabilit� di altri, gi� oggetto delle sue precedenti dichiarazioni 
rese all'autorit� giudiziaria o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico 
ministero. 

L'equiparazione tra imputato nel medesimo procedimento e imputato in 
procedimento connesso consente di concentrare nell'art. 513, comma 2, codice 
procedura penale la disciplina, unitaria, di tutti i casi di rifiuto del dichiarante di 
rispondere sul fatto altrui, rendendo omogenea la disciplina dell'esame avente ad 
oggetto fatti concernenti la responsabilit� di altri, e cos� superando anche le 
ulteriori disparit� di trattamento tra il comma 1 e il comma 2 dell'art. 513 codice 
procedura penale; conseguentemente, il comma 1 risulta ora riservato esclusivamente 
all'esame dell'imputato sul fatto proprio (art. 208 codice procedura 

~

penale), per il quale � pienamente conforme all'esercizio del diritto di difesa che 
l'imputato scelga di rimanere assente o contumace, ovvero rifiuti di sottoporsi 
all'esame. 

Le questioni formalmente sollevate nei confronti dell'art. 513, comma 1, codice 
procedura penale rimangono pertanto risolte attraverso l'intervento additivo sull'art. ..:-;

I 

I;.::

21 Ocodice procedura penale. 

6.4. -La sfera di applicazione rispettivamente riservata al primo e al secondo W 
comma dell'art. 513 codice procedura penale implica che, ove le dichiarazioni rese ~~ 
in precedenza dall'imputato nel medesimo procedimento riguardino fatti ,
I1

concernenti la responsabilit� di altri, spetter� al pubblico ministero, o alle parti 
private interessate, fare richiesta perch� l'imputato venga sottoposto ad esame su tali , 
dichiarazioni a norma dell'art. 210 codice procedura penale. ~ 

Anche nei confronti dell'esame dell'imputato nel medesimo procedimento su 'I; 
fatti concernenti la responsabilit� di altri giova precisare che, ove le dichiarazioni 
sul fatto altrui risultino inscindibilmente connesse con i profili di responsabilit� sul 

I fatto proprio e il meccanismo della contestazione-acquisizione di singoli contenuti , 
narrativi possa in concreto recare pregiudizio alla posizione dell'imputato 
dichiarante, valgono le considerazioni svolte in precedenza (par. 4.2.) per rendere I 
effettivo il rispetto del principio nemo tenetur se detegere e garantire il diritto al 

I 

contraddittorio di tutte le parti. ~ 

Ove, invece, nessuna delle parti abbia presentato specifica richiesta di esame ill 
sui fatti concernenti la responsabilit� di altri, n� tale esame sia stato disposto dal r:. 
giudice a norma dell'art. 507 codice procedura penale, � coerente con la piena �.� 
esplicazione del diritto di difesa che l'imputato nel medesimo procedimento ;ll 
rimanga contumace, assente o rifiuti di sottoporsi all'esame, anche se le sue ~ii 
precedenti dichiarazioni si riferiscono a fatti concernenti la responsabilit� di altri; t:: 
specularmente, � coerente con l'esercizio del diritto di difesa degli altri imputati che } 

tali dichiarazioni possano essere utilizzate solo con il loro consenso, seco.ndo quanto 

li;:;::,;�:i::,:��' 

previsto dall'art. 513, comma 1, codice procedura penale. . ~. 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

7. -Il Tribunale per i minorenni di Bologna (registro ordinanze n. 776/1997) e 
il Tribunale di Perugia (registro ordinanze n. 787 /1997) dubitano della legittimit� 
costituzionale dei commi 2-bis e 4 dell'art. 238 codice procedura penale, nella parte 
in cui limitano l'utilizzabilit� delle dichiarazioni rese dalle persone indicate nell'art. 
21 O codice procedura penale agli imputati i cui difensori abbiano partecipato alla 
loro assunzione, o che consentano a tale utilizzazione. 
7 .1. -Ad avviso del Tribunale per i minorenni di Bologna le norme censurate 
violano l'art. 3 Cost., perch� discriminano irragionevolmente, quanto a 
utilizzabilit�, le dichiarazioni testimoniali, che sono sempre utilizzabili, e quelle rese 
ex art. 21 O codice procedura penale, che sono utilizzabili solo se il difensore 
dell'imputato era presente nel momento in cui le dichiarazioni venivano rese nel 
procedimento connesso. 
7.2. -Sarebbero inoltre violati: a) l'art. 24 Cost., perch� mentre non sono 
utilizzabili le dichiarazioni rese a norma dell'art. 21 O codice procedura penale, 
possono essere utilizzate le sentenze irrevocabili, in forza dell'art. 238-bis dello 
stesso codice; b) gli artt. 3, 111 e 112 Cost., perch� la normativa impugnata fa 
irragionevolmente dipendere la utilizzabilit� delle dichiarazioni dal consenso 
dell'imputato, determinando una disparit� tra accusa e difesa. 
7.3. -Per il Tribunale di Perugia le medesime norme si pongono in contrasto con 
l'art. 3 Cost.: a) perch�, in riferimento alle dichiarazioni rese dalle persone indicate 
nell'art. 21 O codice procedura penale, assunte senza la presenza del difensore 
dell'imputato, derogano irragionevolmente al principio di non dispersione dei mezzi 
di prova e determinano una ingiustificata diversit� di disciplina rispetto al regime 
previsto per altre dichiarazioni (quelle testimoniali o quelle divenute irripetibili), delle 
quali � invece consentito il recupero in sede dibattimentale; b) perch� � irragionevole 
far dipendere il regime di utilizzazione da contingenti valutazioni opportunistiche 
dell'imputato sul contenuto degli atti da utilizzare; e) perch� la disposizione del 
comma 2-bis postula un contraddittorio che a volte non avrebbe potuto essere 
realizzato, �ome nel caso del procedimento a quo, nel quale non si procedeva a carico 
del dichiarante divenuto imputato solo successivamente; d) perch�, ove il dichiarante 
nel precedente dibattimento abbia avuto la veste di testimone, e solo successivamente 
sia divenuto, per indizi sopraggiunti, imputato di reato connesso, il pubblico 
� ministero avrebbe potuto confidare nella utilizzabilit� delle sue dichiarazioni; e) 
perch� � irragionevole che si imponga una serie indeterminata di ripetizioni delle 
dichiarazioni nei vari processi a scapito dell'economia processuale, della chiarezza e 
della verit�, quando � utilizzabile la sentenza irrevocabile pronunciata a carico di 
terzi, ex art. 238-bis codice procedura penale;}) perch� si discrimina tra soggetti che 
hanno la qualit� di imputato di reato connesso, ex art. 21 O codice procedura penale, e 
di imputato nello stesso procedimento qualora quest'ultimo abbia reso dichiarazioni 
in un separato procedimento. 

Secondo lo stesso rimettente sarebbero inoltre violati gli artt. l O 1, comma 2, 
e 111 Cost., in quanto la giurisdizione non viene esercitata dal giudice in base al 
suo convincimento, espresso sulla base del materiale probatorio raccolto, ma � 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO..

308 


condizionata da elementi spuri, quali la selezione del materiale utilizzabile ad 
opera dell'imputato, e cio� del soggetto la cui condotta forma oggetto 
dell'accertamento penale. 

7.4. -Ancora, per il Tribunale di Perugia l'art. 238 codice procedura penale 
violerebbe l'art. 3 Cast. perch� mentre per le dichiarazioni acquisite ai sensi dell'art. 
513 codice procedura penale l'art. 6 della legge n. 267 del 1997 introduce una 
disciplina transitoria che consente, in caso di nuovo rifiuto di rispondere del soggetto 
chiamato all'esame ex art. 210 codice procedura penale, una utilizzazione attenuata 
(correlata alla sussistenza di altri elementi di conferma), irragionevolmente nulla di 
simile � previsto per le analoghe dichiarazioni acquisite (prima dell'entrata in vigore 
della legge) da altro procedimento a norma dell'art. 238, le quali, in mancanza di 
consenso dell'imputato, restano radicalmente inutilizzabili. 
8. -L'art. 238 codice procedura penale, inserito nel Libro III (Prove), Titolo II 
(Mezzi di prova), Capo VII (Documenti), disciplina l'acquisizione dei verbali di 
prove provenienti da altri procedimenti; prove che, appunto perch� non formate 
nello stesso procedimento in cui sono destinate ad essere utilizzate, sono considerate 
documenti, aventi natura giuridica di mezzi di prova. 
Nella formulazione precedente alle modifiche introdotte dalla legge n. 267 del 
1997, l'art. 238 codice procedura penale prevedeva che i verbali delle prove assunte 
nell'incidente probatorio o in dibattimento fossero in ogni caso utilizzabili come 
prove nel procedimento ad quem. Mediante l'inserimento nell'art. 238 codice 
procedura penale di un apposito comma 2-bis questa regola generale, contenuta nel 
comma 1, rimasto formalmente immutato, ha subito una deroga per le dichiarazioni 
rese dalle persone indicate nell'art. 21 O codice procedura penale: l'utilizzabilit� di 
tali dichiarazioni come prova nel procedimento ad quem � stata infatti subordinata 
al presupposto della partecipazione alla loro assunzione nel procedimento a quo dei 
difensori degli imputati nei cui confronti dovrebbero essere utilizzate. 

In mancanza di tale partecipazione, la nuova formulazione dell'art. 238, comma 
4, ca.dice procedura penale prevede che le dichiarazioni rese dalle persone indicate 
nell'art. 21 O codice procedura penale siano utilizzabili come prova nel dibattimento 
ad quem solo nei confronti dell'imputato che vi consenta. L'ultima parte del comma 
4 stabilisce poi che, in mancanza di consenso, le dichiarazioni possono essere 
utilizzate solo per le contestazioni, a norma, per quanto qui interessa, dell'art. 503 
codice procedura penale, che disciplina l'esame delle parti, tra cui rientra, appunto, 
l'esame dell'imputato in procedimento connesso. Al riguardo, si deve precisare che 
1'art. 503 codice procedura penale non consente, a differenza di quanto previsto per 
l'esame dei testimoni dall'art. 500 codice procedura penale, anch'esso richiamato 
per la prova testimoniale dall'art. 238, comma 4, codice procedura penale, di 
impiegare per le contestazioni le dichiarazioni rese in precedenza nel caso in cui il 
dichiarante rifiuti o ometta in tutto o in parte di rispondere: ne deriva che, in 
mancanza di consenso dell'imputato, il silenzio del dichiarante determina la non 
utilizzabilit� delle dichiarazioni da lui rese in precedenza in sede di incidente 
probatorio o nel dibattimento del procedimento a quo. 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

Si deve inoltre tenere presente che l'art. 238 codice procedura penale costituisce 
il veicolo di trasmigrazione da altri procedimenti non solo di atti costituenti �mezzi 
di prova�, assunti in incidente probatorio o in dibattimento, ma anche di atti di 
natura investigativa (o, comunque, predibattimentali), assunti nel corso delle 
indagini preliminari o nell'udienza preliminare. 

Come si ricava dall'esordio dell'art. 238, comma 4, codice procedura penale, 
ove si fa riferimento a �verbali di dichiarazioni� diversi da quelli relativi agli atti 
menzionati nel comma 1 (prove assunte nell'incidente probatorio o in dibattimento), 
le �dichiarazioni diverse� non possono che riferirsi agli atti assunti dal pubblico 
ministero o dalla polizia giudiziaria o dal giudice nel corso delle indagini preliminari 

o nell'udienza preliminare. Si tratta, cio�, di atti formati in un contesto 
predibattimentale, utilizzabili in giudizio per le contestazioni nel corso dell'esame a 
norma degli artt. 500 e 503 codice procedura penale, a seconda della loro natura di 
deposizioni testimoniali o di dichiarazioni delle parti, e presi in considerazione 
anche da varie altre disposizioni che ne ammettono a determinate condizioni la 
lettura, tra cui l'art. 513 codice procedura penale, che fa appunto riferimento a 
dichiarazioni rese in precedenza dall'imputato all'autorit� giudiziaria o alla polizia 
giudiziaria su delega del pubblico ministero. 
Anche tale categoria di atti dichiarativi risulta pertanto compresa nella 
disciplina prevista dell'art. 238, comma 4, codice procedura penale, cos� come 
modificato dalla legge n. 267 del 1997. 

8.1. -Le questioni relative all'art. 238, commi 2-bis e 4, codice procedura 
penale ricalcano sostanzialmente le argomentazioni poste a sostegno delle censure 
sollevate nei confronti dell'art. 513, comma 2, codice procedura penale. 
In sintesi, viene denunciata l'irragionevole disparit� tra la disciplina riservata 
alle dichiarazioni testimoniali, recuperabili, in caso di rifiuto o di omissione totale o 
parziale di rispondere, mediante il meccanismo delle contestazioni di cui all'art. 
500, comma 2-bis codice procedura penale, e quella prevista dalle norme 
impugnate, che in caso di rifiuto di rispondere da parte dell'imputato in 
procedimento connesso subordinano la utilizzazione delle precedenti dichiarazioni 
al dato estrinseco ed eventuale della partecipazione dei difensori nel momento della 
loro assunzione nel procedimento a quo ovvero, in mancanza della partecipazione, 
al consenso degli imputati nel procedimento ad quem. 

8.2. -Le censure rivolte all'art. 238, comma 4, codice procedura penale 
muovono dal rilievo che, ove le dichiarazioni delle persone indicate nell'art. 21 O 
codice procedura penale siano state acquisite a norma dell'art. 238 codice procedura 
penale in quanto assunte in un diverso procedimento, non vi � ragione di non 
assoggettarle alle regole previste per le dichiarazioni raccolte nel medesimo 
procedimento. 
In effetti, la disciplina di cui all'art. 238, comma 4, codice procedura penale 
appare priva di ragionevole giustificazione proprio in quanto non prevede che trovi 
applicazione una normativa analoga a quella stabilita dall'art. 513, comma 2, codice 
procedura penale, cos� come modificato dalla contestuale declaratoria di illegittimit� 
della Corte. L'analogia tra le due situa~ioni (tanto pi� stretta ove si consideri che le 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

310 

dichiarazioni rese nell'incidente probatorio o in dibattimento hanno natura di veri e 
propri mezzi di prova), comporta di conseguenza che, in caso di rifiuto del 
dichiarante di rispondere e di mancanza di consenso dell'imputato alla utilizzazione 

I di tali dichiarazioni, ne venga prevista la possibilit� di recupero stabilita in tema di 
deposizioni testimoniali dall'art. 500, commi 2-bis e 4, codice procedura penale. 

I 

In accoglimento delle questioni indicate sub 7.1. e 7.2., va pertanto dichiarata 
l'illegittimit� costituzionale dell'art. 238, comma 4, codice procedura penale, per 
contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede che, qualora in 
dibattimento la persona esaminata a norma dell'art. 21 O codice procedura penale 
rifiuti o comunque ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti concernenti la 
responsabilit� di altri gi� oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, in mancanza di 
consenso dell'imputato alla utilizzazione si applica l'art. 500, commi 2-bis e 4 
codice procedura penale. 

La dizione �precedenti dichiarazioni� consente, formalmente, di comprendere 
nella disciplina delle contestazioni non solo le dichiarazioni assunte in sede di 
incidente probatorio o in dibattimento, ma anche quelle altrimenti rese all'autorit� 
giudiziaria o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero. 

Tale conseguenza, peraltro, discende gi� dall'intervento additivo sull'art. 513, 
comma 2, codice procedura penale: come si ricava implicitamente dalla sentenza 
della Corte n. 254 del 1992 -riguardante appunto un caso di rifiuto di un imputato 
di reato connesso di rispondere su fatti gi� oggetto di sue precedenti dichiarazioni 
rese nel corso delle indagini preliminari di altro procedimento -deve infatti 
ritenersi che, una volta confluite nel fascicolo del pubblico ministero, tali 
dichiarazioni siano assoggettate, al pari di quelle rese nel medesimo procedimento, 
alla disciplina dell'art. 513, comma 2, codice procedura penale. 

� opportuno, infine, rilevare che l'intervento sull'art. 238, comma 4, codice 
procedura penale, collegato con quello sull'art. 210 codice procedura penale, 
consente di eliminare una irragionevole disparit� di trattamento provocata dalla 
disciplina impugnata. Tenendo presente che le dichiarazioni concernenti il fatto 
altrui acquisite da altro procedimento possono essere state rese da un soggetto 
che nel procedimento ad quem riveste la qualit� di imputato, alla stregua della 
disciplina dichiarata costituzionalmente illegittima tali dichiarazioni erano 
incondizionatamente e direttamente utilizzabili, mentre l'utilizzazione delle 
analoghe dichiarazioni rese dall'imputato in procedimento connesso o collegato 
era subordinata al consenso dell'imputato nei cui confronti dovevano essere 
utilizzate. 

Questo profilo di irragionevolezza viene appunto a cadere a seguito 
dell'unificazione sub art. 210 codice procedura penale dell'esame dell'imputato nel 
medesimo procedimento all'esame dell'imputato in procedimento connesso o 
collegato quando sia l'uno che l'altro abbiano comunque reso dichiarazioni 
concernenti la responsabilit� di altri: risulta infatti applicabile ad entrambi la 
disciplina delle contestazioni conseguente all'intervento additivo sull'art. 238, 
comma 4, codice procedura penale. 

8.3. -Sono infondate tutte le censure indicate sub 7.3., prospettate dal 
Tribunale di Perugia. Il rimettente chiede, infatti, esclusivamente il recupero delle 

PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

precedenti dichiarazioni mediante la lettura dei verbali assunti in altro procedimento 
(senza che si sia proceduto, in quanto non richiesto da alcuna delle parti, all'esame 
del dichiarante, e senza che il giudice abbia provveduto a disporlo d'ufficio ex art. 
507 codice procedura penale), mentre il meccanismo che consente la salvaguardia 
di tutti i beni costituzionali coinvolti � quello delle contestazioni, secondo le 
modalit� indicate nel paragrafo 8.2. 

8.4. -Infine, circa la questione indicata sub 7.4., la censura, bench� 
formalmente rivolta all'art. 238, comma 4, codice procedura penale, � riferita in 
realt� alla disciplina transitoria contenuta nell'art. 6 della legge n. 267 del 1997, 
nella parte in cui non prevede un meccanismo di recupero delle dichiarazioni gi� 
acquisite ex art. 238 codice procedura penale nel momento di entrata in vigore della 
legge, analogo a quello stabilito per le dichiarazioni gi� acquisite a norma dell'art. 
513, comma 2, codice procedura penale. La questione verr� pertanto trattata 
unitamente alle altre relative alla disciplina transitoria (paragrafi 11 e 12). 
9. -Il Tribunale di Bergamo (registro ordinanze n. 81/1998), il Tribunale 
militare di Torino (registro ordinanze n. 898/1997) e il Tribunale di Trani (registro 
ordinanze n. 913/1997) dubitano della legittimit� costituzionale dell'art. 210, comma 
4, codice procedura penale nella parte in cui prevede che l'imputato in procedimento 
connesso, per il quale si procede o si � proceduto separatamente, che abbia in 
precedenza reso dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilit� di terzi, possa 
avvalersi, nel dibattimento a carico di quei soggetti, della facolt� di non rispondere. 
L'art. 210, comma 4, codice procedura penale viene impugnato unitamente all'art. 
513, comma 2, codice procedura penale, per i riflessi che l'eliminazione del diritto al 
silenzio produrrebbe sulla disciplina delle letture nel caso in cui i soggetti indicati 
dall'art. 210, comma 1, rifiutino di rispondere in dibattimento. 
9.1. -A parere dei rimettenti risulterebbero violati: 
a) l'art. 3 Cost., in quanto si determina una irragionevole disparit� di 
trattamento tra la disciplina delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini dal 
testimone che rifiuti in dibattimento di rispondere (dichiarazioni di cui � consentita, 
ex art. 500, comma 2-bis, codice procedura penale, l'utilizzazione attraverso le 
contestazioni) e la disciplina delle dichiarazioni rese dagli imputati in un 
procedimento connesso (la cui utilizzazione in caso di esercizio della facolt� di non 
rispondere � possibile solo su accordo delle parti) (registro ordinanze n. 913/1997); 

b) l'art. 24 Cost., perch� la salvaguardia del contraddittorio dibattimentale 
pu� essere realizzata solo se il soggetto che � sottoposto all'esame incrociato, e che 
abbia consapevolmente rilasciato dichiarazioni nella fase delle indagini preliminari, 
sia gravato dell'obbligo di rispondere alle domande che gli vengono rivolte, mentre 
l'attuale disciplina consente al soggetto esaminato di essere arbitro di vanificare 
l'altrui diritto all'esame e controesame (registro ordinanze n. 898/1997); 

e) gli artt. 3 e 24 Cost. perch�, escludendo l'obbligo di rispondere del soggetto 
sottoposto ad esame, viene irragionevolmente sacrificato l'equilibrio tra i diritti di 
difesa di cui sono titolari i soggetti del procedimento (registro ordinanze n. 81/1998); 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO �

312 

d) gli artt. 2, 3, 25, comma 2, 101, comma 2, 102 e 111 Cost. perch�, 
tutelandosi sino all'estremo limite, con la norma impugnata, il diritto degli imputati 
a non sottoporsi all'esame dibattimentale, e mediante l'art. 513, comma 2, codice 
procedura penale il diritto all'assunzione delle prove in contraddittorio, viene ad 
essere sacrificato l'esercizio della giurisdizione penale e la possibilit� di una 
decisione giusta (registro ordinanze n. 81/1998). 

10. -L'art. 210 codice procedura penale, non modificato dalla legge n. 267 del 
1997, detta specifiche regole per l'esame delle persone imputate in un procedimento 
connesso a norma dell'art. 12 codice procedura penale ovvero imputate di un reato 
probatoriamente collegato, nei confronti delle quali si � proceduto o si procede 
separatamente. La peculiarit� della disciplina -sostanzialmente analoga a quella 
dettata dall'art. 9 della legge 8 agosto 1977, n. 534, con il quale venne introdotto nel 
codice di procedura penale del 1930 l'art. 348-bis sotto la rubrica �Interrogatorio 
libero di persona imputata di reati connessi� -rispecchia la particolare condizione 
dell'imputato in procedimento connesso esaminato su fatti concernenti la 
responsabilit� di altri. Mentre sono previsti l'obbligo di presentarsi al giudice, con 
la possibilit� di ordinare l'accompagnamento coattivo, nonch� la citazione mediante 
le norme sui testimoni (art. 21 O, comma 2, codice procedura penale), ed � 
contemplata l'applicazione dell'art. 194 codice procedura penale, relativo 
all'oggetto e ai limiti della testimonianza (art. 210, comma 5, codice procedura 
penale), il permanere della qualit� di imputato emerge dal diritto di essere assistito 
da un difensore (art. 210, comma 3, codice procedura penale), dal richiamo all'art. 
503 codice procedura penale, relativo all'esame delle parti private (comma 5) e dal 
riconoscimento della facolt� di non rispondere (comma 4), nei cui confronti sono 
appunto dirette le censure di legittimit� costituzionale. 
1 O .1. -Le doglianze dei giudici rimettenti sono sostanzialmente riconducibili a due 
profili, entrambi connessi alle ricadute della disciplina denunciata sul regime di 
utilizzazione probatoria dettato dall'art. 513, comma 2, codice procedura penale, cos� 
come modificato dalla legge n. 267 del 1997: in riferimento all'art. 3 Cost., viene 
denunciata l'irragionevole disparit� di trattamento tra il regime previsto per le 
dichiarazioni rese in precedenza dall'imputato in procedimento �connesso che si sia 
avvalso in dibattimento della facolt� di non rispondere, la cui utilizzazione � 
subordinata all'accordo delle parti, e la disciplina riservata alle dichiarazioni 
testimoniali rese nel corso delle indagini preliminari, delle quali, in caso di rifiuto o 
omissione totale o parziale del testimone di rispondere, � consentita l'utilizzazione, 
previa contestazione a norma dell'art. 500, comma 2-bis, codice procedura penale; in 
riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., viene censurato lo squilibrio tra i diritti di difesa degli 
imputati, a causa dell'irragionevole sacrificio del diritto al contraddittorio dell'imputato 
nei cui confronti sono rivolte le dichiarazioni e della prevalenza della tutela del diritto 
al silenzio del dichiarante, che diviene cos� arbitro del diritto degli altri imputati di 
sottoporre al contraddittorio dibattimentale la fonte delle accuse a loro mosse. 

10.2. -Nei termini in cui sono poste, e in riferimento all'attuale formulazione 
dell'art. 210, comma 4, codice procedura penale, le questioni sono infondate. 

PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

Cosi come regolato dalla norma impugnata, il diritto al silenzio non � 
suscettibile di censure di costituzionalit�. Il carattere ibrido della disciplina 
contenuta nell'art. 21 O codice procedura penale, ove sono appunto richiamate alcune 
delle regole operanti nei confronti dei testimoni, � una conseguenza della peculiarit� 
della posizione dell'imputato in procedimento connesso, chiamato a rendere 
dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilit� di altri, ma comunque non 
identificabile, sul terreno sostanziale, con la figura del testimone, sicch� appare 
coerente la scelta del legislatore di attribuirgli la facolt� di non rispondere, 
irrinunciabile manifestazione del diritto di difesa dell'imputato. 

Altri sono gli strumenti offerti dall'ordinamento processuale penale per porre 
rimedio alle censure dei giudici rimettenti, gi� indicati da questa Corte mediante il 
contestuale intervento additivo sull'art. 513, comma 2, codice procedura penale (par. 

4.2. e 4.3.). L'estensione della disciplina delle contestazioni prevista dall'art. 500, 
comma 2-bis, codice procedura penale all'esame dell'imputato in procedimento 
connesso su fatti concernenti la responsabilit� di altri consente infatti di garantire sia 
il diritto dell'imputato dichiarante di avvalersi della facolt� di non rispondere, sia il 
diritto al contraddittorio dell'imputato destinatario delle dichiarazioni, nel rispetto del 
principio della formazione dialettica della prova in dibattimento. 
Le questioni sollevate vanno pertanto dichiarate infondate, non essendo 
riscontrabili i denunciati vizi di costituzionalit� nell'attuale disciplina del diritto al 
silenzio riconosciuto dall'art. 210, comma 4, codice procedura penale anche agli 
imputati in procedimento connesso chiamati a rendere dichiarazioni su fatti 
concernenti la responsabilit� di altri. 

11. -Il Tribunale di Torino (registro ordinanze n. 915/1997) e il Tribunale di 
Bologna (registro ordinanze n. 143/1998) impugnano la disciplina transitoria 
introdotta dall'art. 6 della legge n. 267 del 1997; la stessa disciplina � censurata, 
unitamente alle norme a regime, dal Tribunale per i minorenni di Bologna (registro 
ordinanze n. 776/1997), nonch� dal Tribunale di Cagliari (registro ordinanze n. 
153/1998), dal Tribunale di San Remo (registro ordinanze n. 861/1997), dal 
Tribunale d;i Savona (registro ordinanze n. 908/1997), dal Tribunale di Trani (registro 
ordinanze n. 913/1997). Il Tribunale di Perugia (registro ordinanze n. 787/1997) 
denuncia poi, in riferimento all'art. 238, commi 2-bis e 4, codice procedura penale, 
la mancata previsione di una disciplina transitoria analoga a quella prevista per le 
dichiarazioni acquisite ai sensi dell'art. 513 codice procedura penale, mentre il 
Tribunale di Savona, che pure impugna autonomamente la disciplina transitoria, e 
specificamente i commi 2 e 5 dell'art. 6 della legge n. 267 del 1997, solleva nei 
confronti della disciplina a regime (art. 513, comma 2, codice procedura penale) 
censure che in realt� afferiscono alla regola di valutazione di cui all'art. 6, comma 5. 
Tutti i rimettenti denunciano la disciplina transitoria nella parte in cui esclude o 
limita l'utilizzabilit� delle dichiarazioni rese in altra fase del procedimento o in altro 
dibattimento da coimputati o imputati in procedimento connesso, gi� acquisite ai 
sensi dei previgenti art. 513, comma 2 (Tribunale di Torino, di Bologna, di San 
Remo, di Savona e di Trani) e comma 1 (Tribunale di Cagliari), nonch� art. 238 
codice procedura penale (Tribunale per i minorenni di Bologna e Tribunale di 
Perugia). Le censure appaiono quindi rivolte ai commi 2 e 5 dell'art. 6 della legge 


RASSEGNA AVVOCAT.RA DELLO STATO 

314 

n. 267 del 1997, anche quando non vi � formale impugnativa di tali commi (registro 
ordinanze nn. 776/1997, 153/1998, 913/1997), ovvero quando il vulnus viene r, 
I riferito alla disciplina a regime in quanto immediatamente applicabile (registro 
ordinanze n. 787/1997 e 908/1997, per quanto sopra specificato). 

I 

11.1. -I rimettenti dubitano della legittimit� costituzionale della disciplina ~ 
transitoria perch�, in relazione ad atti gi� acquisiti prima della entrata in vigore della 
legge n. 267 del 1997, irragionevolmente contraddice il principio tempus regit 
actum, limitandone o escludendone la utilizzabilit� in ragione dello stato del 
procedimento nonostante la prova concerna reati commessi anteriormente 
all'entrata in vigore della legge, senza offrire rimedio diretto alla conservazione 
delle dichiarazioni erga alias rese, da coimputati o imputati in procedimento 
connesso, quando la normativa in vigore non consentiva di ricorrere all'incidente 
probatorio a norma dell'art. 392, comma 1, lettere e) ed), codice procedura penale 
ovvero all'assunzione ai sensi degli artt. 498 e 499 codice procedura penale in 
udienza preliminare a norma dell'art. 421 codice procedura penale, come novellati 
dalla legge n. 267 del 1997. 
La censura viene formulata in riferimento all'art. 3 Cost. dal Tribunale per i 
minorenni di Bologna, nonch� dai Tribunali di Torino, San Remo e Trani; in 
riferimento anche all'art. 24 dal Tribunale di Torino; in riferimento agli artt. 3 e 112 
Cost. dal Tribunale di Savona; in riferimento all'art. 112 dal Tribunale di Cagliari. 

Il Tribunale di Savona e il Tribunale di Trani prospettano la violazione dell'art. 
3 Cost. anche sotto il profilo della irragionevole disparit� di trattamento, in quanto il 
giudice pu� pervenire alla condanna di un imputato e alla assoluzione di un altro 
imputato pur in presenza di una identica posizione processuale, utilizzando nei 
confronti di ciascun imputato un materiale probatorio diverso, a causa: a) del 
consenso prestato o meno dagli imputati alla utilizzazione delle dichiarazioni 
acquisite prima dell'entrata in vigore della legge (registro ordinanze n. 908/1997); b) 
della circostanza che alcuni imputati siano stati raggiunti da dichiarazioni acquisite 
ex art. 503 codice procedura penale per avere il dichiarante rifiutato di rispondere a 
singole domande, altri solo da dichiarazioni acquisite in virt� del previgente art. 513, 
altri "infine da dichiarazioni acquisite ex art. 512 codice procedura penale (registro 
ordinanze n. 90811997); e) ovvero della scelta del chiamante in correit� di avvalersi 
della facolt� di non rispondere, occasionalmente esercitata prima invece che dopo 
l'entrata in vigore della legge (registro ordinanze n. 913/1997). 

Il Tribunale di Bologna ritiene che la normativa transitoria violi anche gli artt. 
24, 101 e 112 Cost., perch� impone al giudice, soprattutto in processi con numerosi 
imputati, alcuni dei quali soltanto esaminati prima dell'entrata in vigore della legge, 
�metodiche decisionali� contrarie ai principi di legalit�, di soggezione del giudice 
soltanto alla legge e dell'obbligatoriet� dell'azione penale, costringendolo ad 
ignorare nei confronti di alcuni (per effetto della immediata applicabilit� ad essi 
della nuova disciplina a regime) quanto � tenuto invece a valutare in relazione alla 
posizione di altri (in virt� della disciplina transitoria contenuta nei commi 2 e 5 
impugnati). 

Il Tribunale di Savona prospetta inoltre la lesione degli artt. 3, 101, comma 2, 
111, comma 1, Cost., ritenendo che la disciplina in questione sia irrazionale nella 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

parte in cui prevede l'utilizzabilit� ai fini della decisione delle dichiarazioni 
precedentemente rese dalle persone indicate dall'art. 513 codice procedura penale se 
la loro intrinseca attendibilit� � confermata anche soltanto da altri elementi di natura 
logica, ma vieta l'utilizzazione come riscontro di dichiarazioni della stessa natura, 
cos� imponendo al giudice una motivazione contrastante con la propria intima 
convinzione. 

Infine, il Tribunale di Torino rivolge alla disciplina transitoria censure analoghe 
a quelle espresse in relazione alla disciplina a regime da altri rimettenti, in 
particolare censurando il comma 5 dell'art. 6 in riferimento: a) all'art. 3 Cost., 
perch� � irragionevole il diverso trattamento processuale riservato a chi si rende 
irreperibile per non rispondere, rispetto a chi �a viso aperto dichiari di non volere 
rendere la dichiarazione�, in quanto il rifiuto dei soggetti di cui al comma 1 o al 
comma 2 dell'art. 513 codice procedura penale di rispondere in dibattimento rende 
le precedenti dichiarazioni da costoro rese �irripetibili�, al pari delle altre situazioni 
�imprevedibili� di cui all'art. 512 codice procedura penale; b) all'art. 1O1, secondo 
comma, Cost., perch� risulterebbe vulnerato il principio per il quale il giudice � 
soggetto soltanto alla legge, in quanto consente che la utilizzazione delle 
dichiarazioni precedentemente rese dal coimputato in procedimento connesso sia 
impedita dal �veto� delle parti; e) all'art. 112 Cost., in quanto l'esercizio dell'azione 
penale verrebbe ostacolato da facolt� attribuite ad una delle parti, con conseguente 
�completo stravolgimento� del processo; d) al principio di non dispersione della 
prova pi� volte riconosciuto dalla Corte costituzionale. 

12. -Pur nella loro articolazione assai analitica, le censure di illegittimit� delle 
norme transitorie sono tutte riconducibili alla denuncia di irragionevolezza, e delle 
relative ricadute in termini di ingiustificata disparit� di trattamento, di una 
disciplina che subordina la valutazione probatoria delle dichiarazioni acquisite a 
norma dell'art. 513, commi 1 e 2, codice procedura penale ad un nuovo criterio di 
giudizio, ovvero ne sottopone l'utilizzazione alle nuove regole introdotte dalla 
legge n. 267 del 1997, in base al dato meramente occasionale che al momento di 
entrata in vigore della legge le dichiarazioni fossero gi� state acquisite mediante 
lettura, ovvero, pur essendo gi� stato disposto il rinvio a giudizio, non si fosse 
ancora proceduto all'esame del dichiarante. In sostanza, i rimettenti vorrebbero 
ripristinare integralmente nei procedimenti in corso la disciplina antecedente alla 
riforma del 1997, e conseguentemente mantenere ferma la gi� intervenuta 
acquisizione delle precedenti dichiarazioni, ovvero, se il dichiarante non � ancora 
stato sottoposto all'esame, procedere, in caso di rifiuto di rispondere, 
all'acquisizione mediante lettura. 
Occorre al riguardo considerare che la disciplina risultante dal contestuale 
intervento della Corte sugli artt. 513, comma 2, e 210 codice procedura penale 
incide su entrambi i termini di riferimento delle censure rivolte alle norme 
transitorie: il meccanismo di acquisizione, previa contestazione, di singoli contenuti 
narrativi delle precedenti dichiarazioni delinea, infatti, una disciplina diversa sia da 
quella antecedente al 1997, che prevedeva l'acquisizione delle precedenti 
dichiarazioni mediante la loro lettura integrale, sia da quella introdotta dalla legge 

n. 267 del 1997, che subordinava l'acquisizione al consenso delle parti. 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

316 

Si impone pertanto la restituzione degli atti ai giudici rimettenti, perch� valutino 

se le questioni sollevate sulle norme transitorie conservano la loro rilevanza, oppure 

I 
r 

se risultano superate alla luce della disciplina che ora permette di recuperare 
mediante il sistema delle contestazioni singoli contenuti narrativi delle dichiarazioni 
rese in precedenza (omissis). 

I 

CORTE COSTITUZIONALE, 27 novembre 1998, n. 383 -Pres. Granata -Red. 
Zagrebelsky -Presidente del Consiglio dei Ministri (avv. Stato Sacchetto). 

Istruzione pubblica -Universit� -Limitazione del numero degli accessi. Potere 
del Ministro -Riserva di legge -Direttive comunitarie e decreto legislativo 
di attuazione -Legittimit�. 

(Cost. art. 33, 34; art. 17, comma 116, legge 15 maggio 1997, n. 127; art. 9, comma 4, legge 
19 novembre 1990, n. 341). 

Non viola il principio della riserva relativa di legge la norma che attribuisce al 
Ministro per la ricerca scientifica il potere di delimitare il numero degli accessi 
all'Universit�, poich� i criteri cui tale potere � vincolato possono trarsi dalle 
previgenti direttive comunitarie sul reciproco riconoscimento dei titoli di studio 
negli Stati membri, che hanno trovato attuazione nei relativi decreti legislativi (1). 

omissis) 1. -Con undici ordinanze di rimessione, di analogo tenore (registro 
ordinanze nn. 64, 190, 199, 296, 323, 335, 336, 345, 390, 391 e 421 del 1998), 
alcuni Tribunali amministrativi regionali (Lazio, Abruzzo, Liguria e Marche) hanno 
sollevato questione di legittimit� costituzionale dell'art. 9, comma 4, della legge 19 
novembre 1990, n. 341 (Riforma degli ordinamenti didattici universitari), come 
modificato dall'art. 17, comma 116, della legge 15 maggio 1997, n. 127 (Misure 

.(1) La questione del <<numero chiuso� all'Universit�. 

La sentenza che si annota costituisce una delle pi� interessanti pronunce degli ultimi anni 
della Corte, ricca come � di pregevoli spunti e di definizioni di concetti che sono andati 
maturando nel tempo, sia in materia di interpretazione� della Carta costituzionale, sia in tema di 
compiti e poteri del giudice delle leggi, sia infine per quanto concerne i rapporti tra l'ordinamento 
nazionale e quello comunitario. 

� ben nota l'annosa questione che ha provocato l'intervento della Corte, derivata da anni di 
reiterate contestazioni giudiziarie, promosse da studenti esclusi dalla ammissione a quelle 
Universit� che hanno in vario modo attuato un sistema di selezione degli iscritti, indotte dalla 
urgente necessit� di contenere il numero degli immatricolabili in limiti compatibili con le strutture 
esistenti (alcuni Atenei hanno persino lamentato pericoli per la stessa incolumit� fisica degli 
studenti in relazione alla ristrettezza ed alla �agibilit� dei locali�). 

Senza entrare nel merito di questo delicato aspetto della selezione, che oggi si ripropone non 
meno gravosamente anche negli esami per l'accesso a diverse professioni, basti qui ricordare che 
il vastissimo contenzioso prodotto da quelle insoddisfatte domande di formazione universitaria 
ha prodotto catene di ricorsi il pi� delle volte accolti in sede cautelare da TTAARR e CDS, con 
un'immissione massiccia di studenti ammessi con riserva, tale da far saltare tutti gli equilibri 
organizzativi studiati degli organi accademici, ed inoltre -� bene sottolinearlo -una palese 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

317 

urgenti per lo snellimento dell'attivit� amministrativa e dei procedimenti di 
decisione e di controllo), che ha attribuito al Ministro dell'universit� e della ricerca 
scientifica e tecnologica il potere di determinare la limitazione degli accessi ai corsi 
di laurea universitari. Tale disposizione sarebbe in contrasto con gli artt. 33 e 34e 
con il principio della riserva relativa implicita di legge, ivi desumibile -nonch� 
con gli artt. 3 e 97 della Costituzione. 

I rimettenti ritengono la questione rilevante, trattandosi di giudizi promossi da 
studenti non ammessi alla immatricolazione al primo anno dei corsi di laurea per i 
quali le rispettive universit� hanno stabilito un numero massimo di iscrizioni e 
l'amministrazione ha dettato, con il decreto ministeriale 21 luglio 1997, n. 245 
(Regolamento recante norme in materia di accessi all'istruzione universitaria e di 
connesse attivit� di orientamento), norme regolamentari queste che trovano, 
dichiaratamente, supporto normativo nel richiamato art. 9, comma 4, della legge 

n. 341 del 1990, come modificato dall'art. 17, comma 116, della legge n. 127 del 1997. 
Secondo tutte le ordinanze di rimessione, in materia di accesso agli studi, anche 
universitari, sussisterebbe, in base agli artt. 33 e 34 della Costituzione, una riserva 
relativa di legge, come affermato da una consolidata giurisprudenza amministrativa: 
infatti l'art. 33, secondo comma, della Costituzione stabilisce espressamente che �la 
Repubblica detta le norme generali sull'istruzione e istituisce scuole statali di ogni 
ordine e grado�, mentre l'art. 34, primo comma, sancisce che �la scuola � aperta a 
tutti�. 

Nelle ordinanze si osserva che la previsione costituzionale di una riserva 
relativa di legge in una determinata materia non preclude al legislatore ordinario di 
demandare ad altre fonti la disciplina della mateija stessa, ma ci� � possibile 
soltanto previa la determinazione, da parte del legislatore medesimo, di una serie di 
precetti idonei a vincolare e indirizzare la normazione secondaria, o, comunque, 
previa la individuazione delle linee essenziali della disciplina, come precisato dalla 
giurisprudenza costituzionale. 

discriminaziQne tra gli studenti privilegiati che hanno potuto (per maggiori disponibilit� 
economiche o per la casuale conoscenza dei collaudati strumenti processuali) usufruire 
dell'ammissione giudiziale, rispetto a quelli che erano rimasti esclusi o peggio erano stati 
ammessi per merito (avendo superato le selezioni) e si trovarono poi sommersi da una massa di 
iscritti, che impediva loro di ottenere la formazione specifica in relazione alla quale essi avevano 
optato per una Universit� c.d. a numero chiuso. 

In realt� tutti gli operatori giuridici che si sono interessati della questione in questi anni di 
aspri confronti giudiziari, sull'uno e sull'altro fronte, hanno sempre convenuto sulla necessit� di 
adottare adeguati sistemi di selezione, i quali, nell'inerzia del legislatore, sono stati attentamente 
studiati e pi� volte proposti dalle autorit� accademiche e dagli organi ministeriali interessati, 
incontrando tuttavia il dissenso, spesso scontato ed aprioristico, dei soggetti esclusi. 

In questo sconcertante panorama � maturata la scelta legislativa dell'art. 17 comma 116 
legge 15 maggio 1997, n. 127, che ha indotto il TAR del Lazio a chiedere l'intervento della Corte, 
nel tentativo di fare chiarezza in questa materia attraverso una pronuncia che, per la sua 
autorevolezza, potesse costituire un punto di orientamento sia per i giudici e l'amministrazione, 
sia per il legislatore, la cui difficolt� di risolvere problemi di tale rilevanza politico sociale � 
testimoniata dalla stessa tecnica �chirurgica� con cui � stato novellato il testo dell'art. 9 comma 
4 legge 341/1990. � 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO .....

318 

La disposizione censurata, al contrario, conferisce al Ministro il potere di 
determinare la limitazione degli accessi all'istruzione universitaria, senza alcuna 
previa fissazione dei principi generali della disciplina, ma addirittura attribuendo al 
Ministro stesso il compito di definire, con l'ausilio di altro organo della pubblica 
amministrazione e cio� il Consiglio universitario nazionale, quei criteri generali per 
la regolamentazione dell'accesso. La violazione del principio della riserva di legge 
comporterebbe in tal modo anche la violazione del principio della tutela del diritto 
allo studio, di cui agli artt. 33 e 34 della Costituzione. 

Secondo il Tribunale amministrativo regionale per l'Abruzzo, poi, la norma in 
questione, demandando direttamente a uno strumento amministrativo la disciplina 
delle limitazioni all'accesso ai corsi universitari senza prescrizioni di limiti e criteri, 
si porrebbe anche in contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, sia per il profilo 
della incongruit� dello strumento utilizzato in relazione alla riserva di legge, sia per 
il profilo della non coerenza con i principi di buon andamento e di imparzialit� 
dell'amministrazione dell'attribuzione nella materia di un potere non 
legislativamente delimitato. 

2. -In tutti i giudizi di fronte alla Corte costituzionale (tranne in quelli di cui al 
registro ordinanze nn. 335 e 336 del 1998) � intervenuto il Presidente del Consiglio 
dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, sostenendo 
l'infondatezza della questione. 
Precisa l'Avvocatura che l'art. 33, comma 2, della Costituzione, nel quale si 
suole individuare una riserva �implicita� di legge, � stato dettato per assicurare 
l'uniformit� dell'istruzione impartita anche dalle scuole private, mentre il comma 1 
dell'art. 34, che si limita a porre un principio di natura programmatica, deve essere 
coordinato con il successivo comma 3 che, prevedendo il diritto di accesso dei 
�capaci e meritevoli� ai �gradi pi� alti degli studi�, non solo legittima, ma comporta 
limitazioni del diritto di accesso fondate sulla preparazione degli aspiranti. Inoltre, 
il comma 6 del medesimo art. 33, riconoscendo un'autonoma capacit� normativa 
degli atenei di provvedere all'organizzazione delle facolt� e dei corsi di laurea, 
secondo le linee generali gi� definite dall'art. 6 della legge 9 maggio 1989, n. 168, 
consente di contingentare le immatricolazioni mediante la fissazione di un numero 

La lettura e l'esame della sentenza in commento consentono di affermare che l'iniziativa del 
TAR del Lazio � stata proficua, non perch� la Corte ha riconosciuto la legittimit� delle norme 
oggetto del dubbio di costituzionalit�, ma bens� in quanto, come gi� accennato, la pronuncia ha 
introdotto una certa chiarezza nell'interpretazione del sistema, offrendo dei punti di orientamento, 
che possono risultare preziosi anche per il futuro. 

La prima parte della decisione � dedicata alla ricostruzione dell'ordinamento costituzionale 
dell'istruzione sulla base degli artt. 33 e 34 della Carta Costituzionale, in cui vengono individuati 
gli assetti dell' �Organizzazione� e dei �diritti�. � interessante osservare come la Corte definisca 
una specularit� dei due concetti che ne comporta un reciproco condizionamento. 

Si tratta di un collegamento che rischia di limitare la pi� ampia ed articolata distinzione in 
cui si pongono le due norme; difatti il profilo propriamente speculare dell'organizzazione � il 
�servizio� e non il diritto, dal momento che qualunque apparato � strutturato istituzionalmente 
per erogare dei servizi, rispetto ai quali� la legge pu� connotare la posizione soggettiva dei 
consociati secondo le pi� adeguate valutazioni. 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

319 

massimo di studenti compatibile con il potenziale didattico disponibile, cos� come 
ormai espressamente contemplato dall'art. 9 della legge n. 341 del 1990, senza che 
ci� contrasti con la liberalizzazione dell'accesso agli studi universitari sancita 
dall'art. 1 della legge 11 dicembre 1969, n. 910. 

Il contingentamento degli iscritti attuato su base concorsuale -con procedure 
selettive cui sono ammessi tutti gli aspiranti in possesso dei requisiti legali -� 
inquadrabile nell'ambito delle misure di carattere essenzialmente organizzatori o, 
che mirano ad assicurare l'efficiente funzionamento delle facolt� e delle relative 
strutture, in attuazione del principio costituzionale di autonomia delle universit�. 

3. -In alctll1-i giudizi (registro ordinanze nn. 190, 199, 335, 345 e 390 del 1998) 
si sono costituite le parti private, aspiranti studenti ricorrenti nei giudizi a quibus, 
chiedendo l'accoglimento della questione per violazione del principio della riserva 
di legge. 
In particolare, nelle memorie si rileva che, nella vigenza della normativa 
precedente alla legge n. 127 del 1997, non vi era dubbio che il Ministro potesse 
disciplinare l'accesso ai corsi solo nel caso in cui una limitazione a tale accesso 
fosse gi� prevista, e solo ove tale previsione fosse dettata da una legge. Viceversa, 
con la disposizione censurata, al Ministro sarebbe stato riconosciuto il potere 
illimitato, arbitrario e privo di ogni vincolo, non pi� di regolare l'accesso ai corsi 
ad iscrizione limitata, ma addirittura di stabilire quali corsi siano di tal genere, in 
violazione della riserva di legge contenuta nell'art. 33, comma 2, della 
Costituzione. Anche a ritenere tale riserva una riserva relativa, gli aspetti generali 
della materia (in questo caso, l'accesso all'universit�) dovrebbero essere regolati 
con legge, e, come gi� evidenziato dalla giurisprudenza costituzionale in 
riferimento all'art. 23 della Costituzione, in modo �sufficiente�, mentre alla 
normativa di livello secondario dovrebbe essere affidata la disciplina pi� specifica 
nell'ambito della legge stessa. 

Nel caso di specie si sarebbe verificata una vera e propria delegificazione, in 
materia coperta da riserva di legge e al di fuori del meccanismo previsto dall'art. 17, 
comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, in quanto la disciplina dell'accesso ai 
corsi universitari viene affidata a una fonte �terziaria� (regolamento ministeriale) in 

Evidentemente la Corte, interpretando in modo rigoroso la sua funzione di tutore dei diritti 
costituzionali, attribuisce valore preponderante all'enunciazione secondo cui �la scuola � aperta 
a tutti� e quindi privilegia questo diritto rispetto all'aspetto propriamente �organizzativo� 
presupposto dall'art. 33. 

In altre parole l'angolazione garantista prescelta dalla Corte la porta a superare la ristrettezza 
della disciplina costituzionale, che � propriamente riferita alla libert� di insegnamento ed 
all'autonomia universitaria, per ricondurre tutta questa materia nell'ambito delle �norme 
generali� che devono essere dettate dalla Repubblica. 

Per quanto il profilo rimanga in ombra, � opportuno segnalare che questa impostazione 
comporta una diversa configurazione dei limiti in cui si muove l'autonomia universitaria, non 
solo perch� essi si riferiscono anche al c.d. aspetto funzionale che coinvolge il diritto di accesso, 
ma anche perch� la c.d. legge cornice sulla Universit� ne esce qualificata non come un limite 
positivo (operante cio� solo dal momento della sua adozione) ma come un presupposto essenziale 
per la disciplina universitaria. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

320 

assenza, nella legge delegificante, di qualsiasi norma generale, regolatrice della 
materia. N� il vincolo del numero chiuso nel corso di laurea in odontoiatria pu� 
ritenersi discendere direttamente dalla normativa comunitaria, come sostenuto 
dall'Avvocatura generale dello Stato, perch� non � da questa imposto, e nemmeno 
pu� essere rimesso all'autonomia delle singole universit�, in quanto anche tale 
autonomia, ai sensi del comma 6 dell'art. 33 della Costituzione, deve svolgersi nei 
limiti stabiliti dalle leggi dello Stato. La disposizione censurata, attribuendo al potere 
regolamentare del Ministro sia di definire i criteri generali di accesso all'universit�, 
sia di prevedere le eventuali limitazioni di accesso ai singoli corsi di studio, 
violerebbe in tal modo anche il principio dell'autonomia universitaria: la riserva di 
legge prevista a garanzia di detta autonomia � una riserva relativa nei confronti delle 
fonti espressive di essa, ma assoluta nei confronti delle fonti prodotte dall'esecutivo. 

La violazione del principio della riserva di legge sarebbe tanto pi� grave in un 
settore nel quale � in gioco il diritto fondamentale dell'accesso all'istruzione di cui 
agli artt. 33 e 34 della Costituzione, a fronte del quale vi sarebbe l'obbligo della 
Repubblica di istituire scuole di ogni ordine e grado in misura corrispondente alla 
diversificata domanda formativa, in nome anche della piena libert� di scelta degli 
insegnamenti sancita dal primo comma dell'art. 33, diritto che neppure il legislatore 
(e, tanto meno, una fonte secondaria) pu� limitare. 

Fondata sarebbe, infine, la censura che invoca a parametro gli artt. 3 e 97 della 
Costituzione: la violazione del principio della riserva di legge comporterebbe infatti 
anche la violazione del buon andamento e dell'imparzialit� dell'amministrazione, in 
quanto l'intervento della legge rappresenta la condizione necessaria, ancorch� non 
sufficiente, per il rispetto di quei principi. 

4. -Secondo la difesa della parte privata costituita in uno dei giudizi di 
costituzionalit� (registro ordinanze n. 390 del 1998) la questione dovrebbe essere 
dichiarata inammissibile in quanto la normativa censurata non troverebbe 
applicazione nel giudizio di fronte al Tribunale amministrativo regionale; difatti 
l'universit� degli studi (in quel caso, Ancona) avrebbe determinato il numero di 
stu<;tenti da ammettere al Corso di laurea in odontoiatria per l'anno accademico 19971998 
con delibera del 5 giugno 1997, cio� in una data molto anteriore rispetto a quella 
Per altro verso la sentenza non riconosce particolare rilievo all'esigenza di garantire ai 
capaci ed ai meritevoli, anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi pi� alti degli studi, poich� 
si limita a fame menzione, senza trarre tutte le conseguenze di tale principio in materia di numero 
chiuso; difatti anche se la rilevanza di uno studio adeguato sul piano tecnico-strumentale sar� poi 
recuperata con il richiamo alla regolamentazione comunitaria, la decisione sembra sottovalutare 
il fatto che per i capaci e meritevoli privi di mezzi, l'Universit� "di massa" costituisce un 
impedimento sostanziale al raggiungimento effettivo dei pi� alti gradi di studio. 

� ben noto l'attuale sempre maggiore diffusione delle c.d. libere universit� che, in quanto 
private, possono mantenere un numero ristretto di iscritti; ci� comporta evidentemente un regime 
di sostanziale favore per i pi� abbienti che possono optare per un'universit� privata �qualificata�, 
rispetto a meritevoli e capaci privi di mezzi che nelle Universit� pubbliche non ricevono la stessa 
preparazione tecnica per la mancanza di strutture, che � tale in relazione all'eccedenza degli 
studenti. In questa ottica si sarebbe potuto fare leva sull'esigenza di garantire non solo il rispetto 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

321 

di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (16 agosto 1997, n. 190) del decreto 
ministeriale 31 luglio 1997 (Limitazione all'accesso ai corsi di laurea in odontoiatria 
e protesi dentaria per l'anno accademico 1997-1998), e anche il bando di concorso 
(del 1� agosto 1997 per l'immatricolazione al primo anno di quel corso di laurea) 
sarebbe anteriore a tale data, per cui gli atti andrebbero restituiti al giudice rimettente. 

5. -In prossimit� dell'udienza hanno depositato memorie le parti private 
costituitesi in alcuni giudizi (registro ordinanze nn. 199, 345 e 390 del 1998), 
replicando alle considerazioni contenute nell'atto di intervento dell'Avvocatura 
dello Stato e ribadendo le argomentazioni gi� sostenute nei rispettivi atti di 
costituzione. 
Considerato in diritto 

1. -I Tribunali amministrativi regionali del Lazio, dell'Abruzzo, della Liguria 
e delle Marche, con undici ordinanze di analogo contenuto, sollevano questione di 
legittimit� costituzionale dell'art. 9, comma 4, della legge 19 novembre 1990, n. 341 
(Riforma degli ordinamenti didattici universitari), come modificato dall'art. 17, 
comma 116, della legge 15 maggio 1997, n. 127 (Misure urgenti per lo snellimento 
dell'attivit� amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo). 
La disposizione impugnata, nell'originaria formulazione contenuta nell'art. 9, 
comma 4, della legge n. 341 del 1990, stabiliva che il �Ministro dell'universit� e 
della ricerca scientifica e tecnologica definisce, su conforme parere del CUN, i 
criteri generali per la regolamentazione dell'accesso alle scuole di specializzazione 
ed ai corsi per i quali sia prevista una limitazione nelle iscrizioni�. L'art. 17, 
c.omma 116, della legge n. 127 del 1997, disponendo sulla formulazione testuale 
della disposizione anzidetta, ha stabilito che �le parole 'per i quali sia prevista' 
sono sostituite dalle seguenti: 'universitari, anche a quelli per i quali l'atto emanato 
dal Ministro preveda'�. Pertanto, la disposizione risultante da tale maniera di 
legiferare � la seguente: �Il Ministro dell'universit� e della ricerca scientifica e 
tecnologica� definisce, su conforme parere del CUN, i criteri generali per la 

degli standard di formazione europea (della cui portata si dir� poi) ma anche e soprattutto il 
riconoscimento agli studenti capaci, meritevoli e privi di mezzi di un livello di insegnamento che 
pu� essere ottenuto solo con una adeguata selezione degli aspiranti alla iscrizione. In altre parole 
questa necessit� potrebbe costituire un criterio, elementare ma indiscutibile, da applicare per la 
determinazione del numero di studenti immatricolabili nei vari Atenei, poich� qualunque 
quantificazione dovrebbe muovere dal presupposto che, oltre un certo livello, l'adeguatezza della 
preparazione professionale viene di fatto esclusa con pregiudizio proprio dei soggetti che la 
Costituzione vuole portare ai gradi pi� alti degli studi. 

Determinante � invece la cura con cui il giudice delle leggi ritiene di ricondurre questa 
materia nell'ambito dei princ�pi generali informatori dell'ordinamento democratico, per 
riconoscere un ruolo preminente ed insostituibile allo strumento legislativo, trattandosi da una 
parte di imporre un limite ai diritti dei cittadini e dall'altra di prendere in considerazione �il 
quadro complessivo degli interventi statali nell'economia�. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STAT6.

322 I 

regolamentazione dell'accesso alle scuole di specializzazione ed ai corsi 

I

universitari, anche a quelli per i quali l'atto emanato dal Ministro preveda una 
limitazione nelle iscrizioni�. 

Ritenendo che, in questo modo, attraverso la proposizione finale della 

I

disposizione, la legge abbia istituito un libero potere del Ministro dell'universit� e 
della ricerca scientifica e tecnologica, relativamente alla determinazione delle 
scuole e dei corsi universitari ad accesso limitato, tutti i giudici rimettenti ne 
mettono in dubbio la legittimit� costituzionale con riferimento agli artt. 33 e 34 in 
particolare. per quanto riguarda la riserva di legge che si afferma valere nella 
materia in esame -e alcuni anche in riferimento agli artt. 3 e 97 della 
Costituzione. 

2. -Poich� le ordinanze di rimessione sollevano una questione di legittimit� 
costituzionale concernente la stessa disposizione legislativa e per motivi in larga 
parte coincidenti, se ne pu� disporre la riunione per la decisione con unica 
sentenza. 
3. -Preliminarmente, deve essere esaminata l'eccezione di inammissibilit�, 
proposta in riferimento alla questione di costituzionalit� sollevata con una delle due 
ordinanze dell' 11 marzo 1998 dal Tribunale amministrativo regionale delle Marche 
(registro ordinanze n. 390 del 1998). 
Si sostiene dalla difesa della parte ricorrente che il giudizio innanzi al 
Tribunale -vertendo sulla legittimit� di un provvedimento di esclusione dal 
corso di laurea in odontoiatria preso in un procedimento amministrativo iniziato 
con una delibera del Senato accademico dell'Universit� degli studi di Ancona, 
successivo all'entrata in vigore della disposizione attributiva al Ministro del 
potere di prevedere limitazioni alle iscrizioni, ma anteriore all'esercizio di tale 
potere e quindi indipendente dalla nuova disciplina legislativa -debba essere 
definito sulla base della normativa anteriore all'entrata in vigore della norma 
impugnata. L'iniziativa del giudice rimettente sarebbe pertanto inammissibile per 
irrilevanza della questione proposta o, quantomeno, si imporrebbe la restituzione 
degli atti al fine di una nuova valutazione della questione alla stregua dello ius 
superveniens. 

Nel fare ci� la Corte si richiama ad un antico ma autorevole precedente, non senza avvertire 
che esso riguardava diritti di iniziativa economica e non un servizio pubblico come nel caso di 
specie, e tuttavia non ravvisa differenze poich� nel caso all'esame sono coinvolti diritti 
costituzionali della persona umana. 

Non si pu� non convenire sulla seriet� dell'approccio seguito dalla Corte, dal momento che 
limitare l'esercizio dei diritti della persona umana � operazione costituzionalmente cos� delicata 
da richiedere, per principio, l'intervento della legge quale espressione pi� diretta della volont� 
popolare; ma lascia qualche dubbio la necessit� di affidare a tale superiore istanza normativa 
anche quel compito di valutare la compatibilit� con le risorse economiche disponibili, che di fatto 
spetta al Governo di amministrare, spesso in un quadro di non agevole composizione, e che 
diviene tanto pi� articolata e contestata quando � portata all'esame di tutte le forze politiche in 
sede parlamentare. 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

323 

Senonch�, l'ordinanza che solleva la questione di costituzionalit�, avendo 
dato atto del rapporto temporale intercorrente tra gli atti compiuti dagli organi 
dell'universit�, da un lato, e la nuova disciplina legislativa e gli atti ministeriali 
conseguenti, dall'altro, afferma che l'iniziale deliberazione del Senato 
accademico Ǐ stata superata� da tali atti, in quanto il contestato limite di 
accesso al corso di laurea in questione non sarebbe pi� riferibile all'autonoma 
decisione delle autorit� accademiche ma alle determinazioni del Ministro 
dell'universit� e della ricerca scientifica e tecnologica, i cui provvedimenti 
limitativi trovano fondamento nella norma di legge sottoposta al vaglio di 
costituzionalit�. 

Cos� argomentando, il giudice rimettente mostra dunque di considerare 
applicabile nel suo giudizio la norma denunciata. E, poich� le valutazioni relative 
alla disciplina che deve trovare applicazione per la definizione del giudizio 
spettano al giudice che solleva la questione di costituzionalit�, essendo dato a 
questa Corte un mero riscontro circa l'avvenuta effettuazione di tali valutazioni e 
circa il loro carattere non manifestamente arbitrario o pretestuoso e poich�, nella 
specie, nulla di ci� � dato verificare, la riferita eccezione di inammissibilit� deve 
essere respinta. 

4. -Nel merito, la questione non � fondata, la disposizione in esame dovendosi 
intendere secondo le considerazioni che seguono. 
4.1. -L'accesso ai corsi universitari � materia di legge. 
4.1.1. -Gli artt. 33 e 34 della Costituzione pongono i principi fondamentali 
relativi all'istruzione con riferimento, il primo, all'organizzazione scolastica 
(della quale le universit�, per quanto attiene all'attivit� di insegnamento sono 
parte: sentenza n. 195 del 1972); con riferimento, il secondo, ai diritti di 
accedervi e di usufruire delle prestazioni che essa � chiamata a fornire. 
Organizzazione e diritti sono aspetti speculari della stessa materia, l'una e gli 
altri implicandosi e condizionandosi reciprocamente. Non c'� organizzazione 
che, direttamente o almeno indirettamente, non sia finalizzata a diritti, cos� 
come non c'� diritto a prestazione che non condizioni l'organizzazione. Questa 
Vale a dire che, una volta ottenuto l'assenso legislativo all'istituzione del c.d. numero 
chiuso, non sembrerebbe altrettanto costituzionalmente necessario che anche i criteri cui ispirare 
tale limitazione siano da definire in sede legislativa. 

La sentenza fa derivare dalla necessit� dell'intervento legislativo l'automatica conseguenza 
che esso debba concernere anche i criteri di accesso alla universit�, mentre era proprio su questa 
impostazione che verteva il dubbio di legittimit� sollevato dal TAR, assumendo trattarsi di una 
disciplina che non dettava criteri, lasciandoli alla valutazione discrezionale del Ministro per la 
Ricerca Scientifica e l'Universit�. 

Si potrebbe invece ritenere che le norme generali della Repubblica sulla istruzione, il 
rispetto dell'apertura a tutti della scuola e della libert� di insegnamento possano imporre il ricorso 
ad una legge per istituire la possibilit� del numero chiuso, ma che poi esso vada articolato 
secondo criteri generali dettati in sede centrale del Ministero ed attuati dalle singole universit�, 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO .

324 

connessione richiede un'interpretazione complessiva dei due articoli della 

Costituzione. 

L'art. 33, dopo aver stabilito, al primo comma, che �l'arte e la scienza sono 

libere e libero ne � l'insegnamento� e, al secondo comma, che la �Repubblica detta 

le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e 

gradi�, prevede per le istituzioni di alta cultura e, tra esse, per le universit� �il 

diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato� (art. 

33, sesto comma). Secondo la Costituzione, l'ordinamento della pubblica 

istruzione � dunque unitario ma l'unit� � assicurata, per il sistema scolastico in 

genere, da �norme generali� dettate dalla Repubblica; in specie, per il sistema 

universitario, in quanto costituito da �ordinamenti autonomi�, da �limiti stabiliti 

dalle leggi dello Stato�. 

Gli �ordinamenti autonomi� delle universit�, cui la legge, secondo l'art. 33 

della Costituzione, deve fare da cornice, non possono considerarsi soltanto sotto 

l'aspetto organizzativo interno, manifestantesi in amministrazione e in normazione 

statutaria e regolamentare. Per l'anzidetto rapporto di necessaria reciproca 

implicazione, l'organizzazione deve considerarsi anche sul suo lato funzionale 

~sterno, coinvolgente i diritti e incidente su di essi. La necessit� di leggi dello Stato, 

I

quali limiti dell'autonomia ordinamentale universitaria, vale pertanto sia per 

l'aspetto organizzativo, sia, a maggior ragione, per l'aspetto funzionale che I 

coinvolge i diritti di accesso alle prestazioni. ~ 

In questo modo, all'ultimo comma dell'art. 33 viene a conferirsi una funzione, I per cos� dire, di cerniera, attribuendosi alla responsabilit� del legislatore statale la 

fil

predisposizione di limiti legislativi all'autonomia universitaria relativi tanto 

I: all'organizzazione in senso stretto, quanto al diritto di accedere all'istruzione ' 
' 
universitaria, nell'ambito del principio secondo il quale �la scuola � aperta a tutti� 

(art. 34, comma 1) e per la garanzia del diritto riconosciuto ai �capaci e meritevoli, 

I 
. 
anche se privi di mezzi� �di raggiungere i gradi pi� alti degli studi� (art. 34, 

comma 3). I 

La conclusione cui cos� si perviene attraverso la specifica interpretazione degli .,

:lf~ 

artt. 33 e 34 della Costituzione �, del resto, confermata e avvalorata dai �principi 
generali informatori dell'ordinamento democratico, secondo i quali ogni specie di 


I 

come in effetti l'Amministrazione aveva ritenuto di poter fare sulla base del cit. comma 116 art. 

7 legge 128/1997. 

Qui vengono in rilievo la portata del consenso necessario per imporre un limite al diritto del 
. cittadino allo studio, l'esigenza di valutare il contesto economico, la natura di servizio pubblico 

e l'esigenza di favorire capaci e meritevoli non abbienti, con misure articolate che di regola non 

si addicono ad una fonte normativa di I grado. 

Ma qui la Corte � proceduta direttamente verso la soluzione che le consentiva di 

contemperare la riserva di legge relativa con una specificazione dei criteri gi� ricavabile 

dall'ordinamento previgente. 

Sia consentito allora rilevare che in mancanza di un'espressa riserva di legge negli artt. 33 

e 34 Cost., sarebbe stato importante che venisse messo pi� a fuoco come la Corte ritenga di 

evincere da un sistema di norme quella che la dottrina ha denominato riserva implicita, tenendo 

conto del fatto che anche imporre al Parlamento di rispettare riserve non esplicitate nel testo 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

325 

limite imposto ai diritti dei cittadini abbisogna del consenso dell'organo che trae da 
costoro la propria diretta investitura� e dall'esigenza che �la valutazione relativa 
alla convenienza dell'imposizione di uno o di altro limite sia effettuata avendo 
presente il quadro complessivo degli interventi statali nell'economia inserendolo 
armonicamente in esso, e pertanto debba competere al Parlamento, quale organo da 
cui emana l'indirizzo politico generale dello Stato�. 

Queste proposizioni, enunciate con riguardo a diritti di iniziativa economica e 
contenute in una decisione di questa Corte (sentenza n. 4 del 1962) risalente nel 
tempo ma la cui validit� nel vigente assetto costituzionale non pu� non essere 
confermata, valgono ugualmente e, per certi aspetti, a maggior ragione nel caso ora 
in discussione, nel quale l'organizzazione dell'universit�, come servizio pubblico, 
da una parte, coinvolge diritti costituzionali della persona umana come il diritto alla 
propria formazione culturale (art. 2 della Costituzione) e quello alle proprie scelte 
professionali (art. 4 della Costituzione), a sua volta mezzo essenziale di sviluppo 
della personalit� (sentenza n. 61 del 1965) e, dall'altra parte, implica decisioni 
pubbliche d'insieme, inerenti alla determinazione delle risorse necessarie per il 
funzionamento delle istituzioni scolastiche in genere e universitarie in specie, che 
influisce sulle prestazioni da esse erogabili. 

La conclusione che ne deriva � che i criteri di accesso all'universit�, e dunque 
anche la previsione del numerus clausus non possono legittimamente risalire ad altre 
fonti, diverse da quella legislativa. 

4.1.2. -Ai fini della risoluzione della presente questione di costituzionalit�, non 
� sufficiente il riferimento a una �riserva� di normazione primaria in materia di 
accesso all'istruzione universitaria. Occorre infatti precisarne la portata, prendendo 
in considerazione la possibilit� di una normazione non legislativa ulteriore, quale 
svolgimento e completamento di quella riservata al legislatore. 
La �riserva di legge� assicura il monopolio del legislatore nella 
determinazione delle scelte qualificanti nelle materie indicate dalla 
Costituzione, sia escludendo la concorrenza di autorit� normative �secondarie�, 
sia imponendo all'autorit� normativa �primaria� di non sottrarsi al compito che 
solo a essa' � affidato. 

costituzionale pu� essere -paradossalmente -un modo per limitarne l'autonomia, che si 
esercita sia col dettare criteri sia col ritenere di non esservi tenuto. 

In realt� la Corte, muovendo dall'assunto che la riserva di legge sussista, dedica prevalente 
attenzione a definirne la natura -relativa od assoluta -ed in questo argomentare indica quali 
sono gli elementi rivelatori della volont� del Costituente di stabilire tale riserva: senza mai 
menzionare la norma impositiva della riserva, la sentenza fa leva sull'art. 33 ultimo comma, per 
rilevare che se le leggi dello Stato possono imporre alla autonomia universitaria solo dei limiti, 
questi non devono essere cos� specifici da ridurre gli Atenei al ruolo di meri passivi recettori di 
direttive assunte dal centro. 

Tale argomentazione tuttavia vale nel rapporto tra Universit� ed autorit� centrale, che 

potrebbe essere sia il legislatore, sia il Governo, vale a dire che la legge potrebbe rispettare la sua 

funzione di limite anche stabilendo soltanto che si pu� applicare il numero chiuso e lasciando poi 

i criteri al Governo. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

326 

Tale valenza � generale e comune a tutte le �riserve�. Dipende invece dalle 
specifiche norme costituzionali che le prevedono, secondo la loro interpretazione 
testuale, sistematica e storica, il carattere di ciascuna riserva, carattere chiuso o 
aperto alla possibilit� che la legge stessa demandi ad atti subordinati le valutazioni 
necessarie per la messa in atto concreta delle scelte qualificanti la materia ch'essa 
stessa ha operato. 

Nella specie, la riserva di legge in tema di accesso ai corsi universitari, come 
prevista dalla Costituzione, non � tale da esigere che l'intera disciplina della materia 
sia contenuta in legge. Viene in considerazione, innanzitutto, il rapporto tra la legge 
e l'autonomia universitaria prevista dall'ultimo comma dell'art. 33 della 
Costituzione, rapporto nel quale le previsioni legislative valgono come �limiti�, che 
non sarebbero pi� tali ove le disposizioni di legge fossero circostanziate al punto da 
ridurre le universit�, che la Costituzione vuole dotate di ordinamenti autonomi, al 
ruolo di meri ricettori passivi di decisioni assunte al centro. 

Inoltre, sotto l'aspetto dei rapporti tra potest� legislativa e potest� normativa 
del Governo, nulla nella Costituzione esclude l'eventualit� che un'attivit� 
normativa secondaria possa legittimamente essere chiamata dalla legge stessa a 
integrarne e svolgerne in concreto i contenuti sostanziali, quando -come nella 
specie -si versi in aspetti della materia che richiedono determinazioni bens� 
unitarie, e quindi non rientranti nelle autonome responsabilit� dei singoli atenei, ma 
anche tali da dover essere conformate a circostanze e possibilit� materiali varie e 
variabili, e quindi non facilmente regolabili in concreto secondo generali e stabili 
previsioni legislative. 

In sintesi, la riserva di legge in questione � tale da comportare, da un lato, la 
necessit� di non comprimere l'autonomia delle universit�, per quanto riguarda gli 
aspetti della disciplina che ineriscono a tale autonomia; dall'altro, la possibilit� che 
la legge, ove non disponga essa stessa direttamente ed esaustivamente, preveda 
l'intervento normativo dell'esecutivo, per la specificazione concreta della disciplina 
legislativa, quando la sua attuazione, richiedendo valutazioni d'insieme, non � 
attribuibile all'autonomia delle universit�. 

Rispetto alle linee costituzionali di questo quadro composito, le possibilit� che 
si aprono alle scelte legislative di ordinamento, anche con riferimento all'accesso 
all'istruzione universitaria, sono evidentemente molto ampie e diversificate, in 

Ma quello che � pi� interessante sottolineare � la pregevole tecnica interpretativa seguita 
dalla Corte, che evidenzia quanto non c'� nella Costituzione, per verificare quale spazio � lasciato 
al legislatore in materia. Cos� essa afferma che �nulla nella Costituzione esclude l'eventualit� che 
un'attivit� normativa secondaria possa legittimamente essere chiamata dalla legge stessa ad 
integrarne e svolgerne in concreto i contenuti sostanziali�. 

Dunque non c'� una riserva assoluta, ma dov'� la riserva relativa? Evidentemente anch'essa 
� ricavata per esclusione, poich�, in mancanza di una riserva assoluta, la semplice previsione di 
un generale intervento legislativo in materia di istruzione e di limiti agli ordinamenti universitari 
comporta un onere di specificit� per il legislatore che si sostanzia in riserva relativa di legge. 

Vale a dire che se un limite bisogna dare in materia di accesso alle iscrizioni entro cui le 
Universit� possano poi autonomamente determinarsi, questo deve essere definito dal legislatore 
e non dal Governo, poich� solo il primo garantisce quel livello di espressione del volere popolare 



PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

327 

relazione ai numerosi aspetti della disciplina, i quali possono comportare le pi� varie 
soluzioni circa l'allocazione e la combinazione procedurale delle competenze 
decisionali, nei rapporti tra l'autonomia delle universit� e la normazione nazionale, 
nonch� tra le determinazioni legislative e quelle ch'esse possono demandare 
all'esecutivo, a loro volta influenzate dall'assetto che sia stato dato dalla legge ai 
rapporti tra autorit� universitarie nazionali e autonomia degli atenei. 

Se tali sono le esigenze di composizione del quadro ordinamentale anzidetto 
-esigenze cui, con riferimento alla materia in esame, non si pu� dire che, finora, 
il legislatore abbia organicamente prestato la sua opera -, nel presente giudizio 
di costituzionalit�, secondo la prospettazione della questione da parte dei giudici 
rimettenti, viene in considerazione direttamente solo il problema dei rapporti tra 
le determinazioni del legislatore e quelle dell'amministrazione, sotto il profilo 
della riserva di legge, relativamente all'individuazione dei corsi universitari ad 
accesso limitato. 

4.2. -La disposizione di legge sottoposta al controllo di costituzionalit� 
attribuisce al Ministro dell'universit� e della ricerca scientifica e tecnologica il 
potere di disciplinare con proprio atto l'accesso alle scuole di specializzazione e 
ai corsi universitari, �anche a quelli per i quali l'atto stesso preveda una 
limitazione nelle iscrizioni�. Una formula, questa, che, certamente, vale ad 
affermare l'esistenza di un potere ministeriale in materia, l� dove la formula 
originaria del censurato art. 9, comma 4, (il quale trattava di criteri generali, 
definiti dal Ministro, �per la regolamentazione dell'accesso alle scuole di 
specializzazione ed ai corsi per i quali sia prevista una limitazione�) aveva 
indotto, per lo pi�, a ritenerlo escluso. Ma tale affermazione, nel nuovo articolo 9, 
comma 4, � fatta pi� sotto forma di riconoscimento della sua esistenza che non 
attraverso la sua previsione ex novo per mezzo di una compiuta disciplina. Se il 
caso fosse questo secondo, se cio� dalla disposizione censurata dovesse 
necessariamente trarsi -come sarebbe se si dovesse seguire l'interpretazione 
prospettata dai giudici rimettenti -la volont� del legislatore di istituire un potere 
ministeriale, svincolato da adeguati criteri di esercizio, di determinare le scuole e 
i corsi universitari a iscrizioni limitate, la violazione della riserva di legge prevista 
dalla Costituzione risulterebbe palese. 
che � compatibile con l'autonomia universitaria. Il che � certamente corretto ed apprezzabile in 
astratto, salvo verificare che in concreto non vi � mai stato un conflitto tra Governo ed Universit� 
per la imposizione del numero chiuso, avendo anzi le seconde chiesto ripetutamente all'esecutivo 
di intervenire, sicch� l'incidente di costituzionalit� nasceva non per tutelare l'autonomia degli 
Atenei, bens� proprio per contestare la possibilit� di un concerto Governo -Universit�, idoneo a 
determinarsi sulla base di una norma di legge che aveva riconosciuto il loro potere senza dettare 
propri criteri o limiti. 

Esaminando pi� attentamente il potere del Ministro di disciplinare l'accesso ai corsi 
universitari prescritto dalla norma sottoposta al vaglio di costituzionalit�, la Corte rileva che gli 
orientamenti maturati prima dell'entrata in vigore della legge 129/97 tendevano ad escluderne 
l'esistenza e tuttavia la novella stessa usa una formula che appare pi� come il riconoscimento di 
un potere preesistente che non una previsione ex novo. 



RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO'. 

328 

Poich� per� non � cos�, � possibile dare alla disposizione censurata 
un'interpretazione adeguata alle esigenze della riserva di legge esistente in materia: 
interpretazione secondo la quale il potere che la legge riconosce al Ministro pu� 
essere esercitato solo se e nei limiti in cui da altre disposizioni legislative risultino 
predeterminati criteri per l'individuazione in concreto delle scuole e dei corsi 
universitari rispetto ai quali valgono esigenze particolari di contenimento del 
sovraffollamento e si giustifichi quindi la previsione -con l'atto ministeriale cui 
l'impugnato art. 9, comma 4, si riferisce -delle limitazioni nelle iscrizioni. 

In breve, la disposizione censurata riconosce. un potere senza precisarne le 
condizioni di esercizio. Perch� essa possa ritenersi non incompatibile con la 
Costituzione sotto l'aspetto della riserva di legge, occorre interpretarla nel senso 
che il potere ch'essa afferma essere conferito all'amministrazione non sia libero 
e, perch� esso non sia libero, occorre che la disposizione che lo riconosce sia 
integrata da altre determinazioni che lo circoscrivano. Tali determinazioni, 
infine, possono essere ricavate, e cos� le esigenze della riserva di legge possono 
essere soddisfatte, con riferimento all'ordinamento nel suo insieme e non devono 
necessariamente essere contenute nella disposizione specifica istitutiva del 
potere dell'amministrazione ch'esse valgono a limitare (cos�, ad esempio, 
sentenza n. 34 del 1986). 

4.3. -Affinch� dunque il principio di riserva di legge nella materia in esame 
possa dirsi rispettato, occorre che il denunciato art. 9, comma 4, della legge n. 341 
del 1990 sia inserito in un contesto di scelte normative sostanziali predeterminate, 
tali che il potere dell'amministrazione sia circoscritto secondo limiti e indirizzi 
ascrivibili al legislatore. 
Analoga funzione nella composizione di tale contesto, e quindi di delimitazione 
della discrezionalit� dell'amministrazione, deve essere riconosciuta alle norme 
comunitarie dalle quali derivino obblighi per lo Stato incidenti sull'organizzazione 
degli studi universitari. 

Ed �, principalmente e particolarmente, a queste norme che, nella specie, in 
carenza di un quadro organicamente predisposto dal legislatore nazionale per la 
disciplina del numero delle iscrizioni ai corsi universitari, deve farsi riferimento. 

Questo contrasto � evidenziato perch� la sentenza vuole sottolineare come si debba tenere 
conto della previgenza di criteri, in base ai quali si � orientato il potere del ministero, previgenza 
che consente di salvare la norma della pronuncia di incostituzionalit�, seguendo una tecnica 
interpretativa che privilegia la lettura conforme al dettato costituzionale. 

� interessante notare la raffinatezza di questa modalit� di ricostruzione del sistema che 
diluisce nel tempo i consueti canoni, presupponendo che nel sistema normativo siano stati prima 
definiti gli indirizzi generali, poi sia stato attribuito al Ministro il potere di dettare i criteri e solo 
alla fine di questo iter sia venuta l'attribuzione del potere di stabilire il numero chiuso. 

Ma quello che � pi� importante considerare � che la Corte non limita il proprio esame al 
panorama legislativo nazionale, estendendolo invece in modo decisivo a varie direttive CEE che, 
pur essendo vincolanti per gli Stati solo sul risultato da raggiungere, vengono fatte entrare a pieno 
titolo nell'ordinamento di settore in forza dei decreti legislativi che vi hanno dato attuazione. 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

329 

Vengono in considerazione, a questo proposito, e hanno valore decisivo varie 
direttive (78/686/CEE del Consiglio, del 25 luglio 1978; 78/687/CEE del Consiglio, 
di pari data; 78/1026/CEE del Consiglio, del 18 dicembre 1978; 7811027/CEE del 
Consiglio, di pari data; 85/384/CEE del Consiglio, del 10 giugno 1985; 89/594/CEE 
del Consiglio, del 30 ottobre 1989 e 93116/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993). 
Esse concernono il reciproco riconoscimento, negli Stati membri, dei titoli di studio 
universitari sulla base di criteri uniformi di formazione, l'esercizio del diritto di 
stabilimento dei professionisti negli Stati dell'Unione nonch� la libera prestazione 
dei servizi e riguardano, al momento, i titoli accademici di medico, medicoveterinario, 
odontoiatra e architetto. 

Le ricordate direttive prescrivono, in vista dell'analogia dei titoli universitari 
rilasciati nei diversi Paesi e del loro reciproco riconoscimento, standard di 
formazione minimi a garanzia che i titoli medesimi attestino il possesso effettivo 
delle conoscenze necessarie all'esercizio delle attivit� professionali corrispondenti. 
In tutti i casi cui le direttive si riferiscono, si prescrive che gli studi teorici si 
accompagnino necessariamente a esperienze pratiche, acquisite attraverso attivit� 
cliniche o, in genere, operative svolte nel corso di periodi di formazione e di 
tirocinio aventi luogo in strutture idonee e dotate delle strumentazioni necessarie, 
sotto gli opportuni controlli. E ci� implica e presuppone che tra la disponibilit� di 
strutture e il numero di studenti vi sia un rapporto di congruit�, in relazione alle 
specifiche modalit� dell'apprendimento. 

Alla stregua dell'art. 189 del Trattato CEE, le direttive vincolano gli Stati 
membri cui sono rivolte per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva 
restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. Esse 
richiedono dunque attuazione, da parte del legislatore e dell'amministrazione, 
secondo le regole costituzionali che ne configurano i poteri e ne disciplinano i 
rapporti. 

Le direttive sopra menzionate hanno trovato attuazione nei decreti legislativi 
27 gennaio 1992, n. 129 e 2 maggio 1994, n. 353. Essi dettano analitiche discipline 
relativamente al riconoscimento dei titoli rilasciati dalle universit� e al diritto di 
stabilimento dei professionisti e, quanto alla garanzia degli standard di formazione 
universitaria che condizionano il reciproco riconoscimento dei titoli accademici, 

Si tratta evidentemente di una fase dell'integrazione della normativa comunitaria nel sistema 
nazionale particolarmente significativa nell'attuale momento storico della CEE, in cui emerge 
altres� la possibilit� per gli organi comunitari di esercitare una importante funzione di stimolo per 
il legislatore nazionale, ai fini dell'allineamento dell'ordinamento italiano alle esigenze di 
unificazione europea. 

Peraltro un'attenta lettura delle direttive richiamate dalla Corte rivela che esse -pur 
richiamando gli aspetti tecnico-pratici degli insegnamenti di architettura, medicina, 
odontoiatria e veterinaria -sono prevalentemente orientate a stabilire una parificazione tra 
i titoli rilasciati dai vari Paesi, che ne consenta il riconoscimento reciproco negli altri, 
realizzando una libera circolazione dei servizi che quelle professioni forniscono, e tuttavia 
esse sono bastate, secondo la Corte, a definire quei criteri che sono postulati da una riserva 
di legge relativa. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

330 

richiamano gli obiettivi delle direttive, cio� �la formazione prevista dalla 
normativa comunitaria� e �l'insieme delle esigenze minime di formazione� 
richieste dalla stessa normativa. Tali obiettivi, obbligatori per lo Stato in forza 
dell'art. 189 del Trattato CEE, valgono per dettato legislativo indipendentemente 
dalla loro forza cogente diretta -nei confronti 
dell'amministrazione, comportando che i poteri di cui essa sia dotata, nella materia 
oggetto di direttive, sono da esercitare secondo gli obblighi di risultato che la 
normativa comunitaria impone, non rilevando poi la circostanza che tali poteri 
siano definiti in occasione della attuazione delle direttive medesime o siano 
legislativamente previsti -come � nella specie -altrimenti. 

Quanto ai compiti del legislatore nelle riserve di legge che, come nel caso in 
esame, la Costituzione configura �aperte� a svolgimenti da parte della 
amministrazione, l'esistenza di direttive comunitarie esecutive comporta che 
l'obbligo di predisposizione diretta della normativa sostanziale entro la quale deve 
ridursi la discrezionalit� dell'amministrazione viene alleggerendosi, per cos� dire, in 
conseguenza e proporzione alla consistenza delle direttive medesime (salva sempre, 
ovviamente, la. possibilit� per il legislatore di andare oltre, ma non contro, la 
normativa comunitaria). 

5. -Tanto premesso, una volta che l'impugnato art. 9, comma 4, della legge 
n. 341 del 1990 sia interpretato nel senso che esso non conferisce 
all'amministrazione un potere svincolato dai limiti sostanziali derivanti 
dall'ordinamento, risultano, negli stessi limiti, destituiti di fondamento i dubbi di 
costituzionalit� su di esso sollevati, sotto il profilo della violazione del principio di 
riserva di legge ricavabile dagli artt. 33 e 34 Cost. 
Infatti, nelle sopra citate direttive comunitarie si rinviene un preciso obbligo di 
risultato, che gli Stati membri sono chiamati ad adempiere predisponendo, per 

Appunto la necessaria reciprocit� ha portato la Corte a considerare che non si pu� pretendere 
dai professionisti comunitari un patrimonio di esperienza pratica, senza garantire lo stesso 
bagaglio culturale ai professionisti italiani, il che implica la necessit� per gli stessi di usufruire di 
�periodi di formazione e tirocinio aventi luogo in strutture idonee e dotate dalle strumentazioni 
necessarie� e quindi la �definizione di un rapporto di congruit�, in relazione alle specifiche 
modalit� dello apprendimento�. 

Ne deriva un vincolo per il potere del Ministro di conseguire questo risultato, che � 
sufficiente a delimitare la discrezionalit� conferita con la riserva di legge. 

Ma ne discende altres� che cos� decidendo la Corte mostra di ritenere idonei ad escludere la 
violazione della riserva relativa non solo dei criteri puntuali, intesi come concetti cui adeguare la 
normativa di esecuzione, bens� anche solo una generica finalit� di adeguatezza del corso 
universitario a garantire la qualit� teorica e pratica dell'apprendimento, il che riduce assai poco il 
potere discrezionale del Ministro. 

N� sembra che l'intendimento della Corte sia stato quello di richiedere un adeguamento agli 
standard di insegnamento degli altri paesi europei, poich�, a prescindere dall'estrema variet� che 
si riscontra nelle varie tabelle allegate alle direttive comunitarie circa i titoli rilasciati nei vari 
paesi che vengono considerati reciprocamente idonei all'esercizio delle relative professioni 
nell'ambito comunitario, anche tali titoli non indicano con precisione quale sia un minimo 
comune denominatore di questa istruzione universitaria europea. 


PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 

331 

alcuni corsi universitari aventi particolari caratteristiche -tra cui quelli cui si 
riferiscono i ricorsi presentati davanti ai giudici rimettenti -, misure adeguate a 
garantire le previste qualit�, teoriche e pratiche, dell'apprendimento. 

In tali direttive, invero, non si tratta degli strumenti. Questi sono infatti rimessi 
alle determinazioni nazionali e il legislatore italiano, come per lo pi� i suoi 
omologhi degli altri Paesi dell'Unione, ha per l'appunto previsto la possibilit� di 
introdurre il numerus clausus per tali corsi. Ma una volta attribuito il giusto rilievo 
ai doveri che sul nostro Paese incombono per la partecipazione all'Unione europea, 
e una volta considerato come essi incidano nel rapporto tra legislazione e 
amministrazione, in tale possibilit� non � pi� dato scorgere quel carattere arbitrario 
in base al quale i giudici rimettenti si sono indotti a sollevare la presente questione 
di costituzionalit�. 

Parallelamente cadono i dubbi prospettati in relazione agli artt. 3 e 97 della 
Costituzione, la cui pretesa violazione � motivata sulla premessa, dimostratasi 
inesatta, che il potere ministeriale sia esercitabile, alla stregua della norma 
impugnata, con piena discrezionalit�. 

6. -Sebbene possa dunque essere superato, in considerazione degli obblighi 
comunitari e nei limiti in cui essi sussistono, lo specifico dubbio di 
costituzionalit� sollevato dai giudici rimettenti circa la legittimit� costituzionale 
della previsione del potere ministeriale di limitare gli accessi universitari, 
occorre aggiungere che l'intera materia necessita di un'organica sistemazione 
legislativa, finora sempre mancata: una sistemazione chiara che, da un lato, 
prevenga l'incertezza presso i potenziali iscritti interessati e il contenzioso che 
ne pu� derivare e nella quale, dall'altro, trovino posto tutti gli elementi che, 
secondo la Costituzione, devono concorrere a formare l'ordinamento 
universitario (omissis). 
Ora se � vero che gli ordinamenti didattici delle varie facolt� sono stati definiti con atti di 
normazione secondaria e quindi non soddisfano la riserva di legge come il combinato disposto 
delle direttive comunitarie e dei decreti legislativi indicati dalla Corte, � pur vero che se si ritiene 
sufficiente come criterio delimitativo del potere ministeriale un obbligo di risultato, sembra a chi 
scrive di dover ribadire la ben maggiore rilevanza del criterio di rango costituzionale ricavabile 
dall'art. 34 comma 3; difatti anche esso postula, su un piano sostanziale, un'adeguatezza dei corsi 
tale da consentire ai capaci ed ai meritevoli l'esercizio del diritto di raggiungere i pi� alti gradi 
dello studio, adeguatezza che pu� esservi solo in quanto il rapporto tra il numero degli studenti e 
l'entit� della struttura consenta ai primi di ottenere una preparazione teorica ma anche pratica, in 
funzione dell'esercizio della futura professione. 

Se ne dovrebbe pertanto dedurre che la legittimit� costituzionale della norma pu� essere 
predicata anche in relazione ad altre facolt� universitarie e non solo a quelle che hanno nel caso 
di specie determinato l'intervento della Corte. 

Poich� peraltro la stessa sentenza si conclude con l'invito al legislatore per un'organica 
sistemazione della materia, non resta che augurarsi un sollecito intervento in tal senso, che ponga 
fine, una volta per tutte, alla grave turbolenza che naturalmente suscita nel mondo universitario 
il tema in esame. 

GIAN PAOLO POLIZZI 



SEZIONE SECONDA 

GIURISPRUDENZA 
COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 


Le sentenze della Corte di Giustizia delle Comunit� europee pronunciate nel 
corso del 1998, in cause alle quali ha partecipato l'Italia. 

La Corte di Giustizia delle Comunit� europee ha emesso, nel corso del 1998, 34 
sentenze in cause alle quali ha partecipato l'Italia, di cui 6 in ricorsi della 
Commissione contro l'Italia, 2 in ricorsi dell'Italia contro il Consiglio e la 
Commissione, 26 in cause pregiudiziali promosse, ai sensi dell'art. 177 del Trattato 
CE, da giudici italiani (19) o di altri paesi comunitari (7). 

Oltre quelle pubblicate per esteso nella presente annata di questa Rassegna, le 
sentenze emesse sono state le seguenti: 

-28 gennaio 1998, nella causa C-280/95, Commissione c. Italia, con la quale 
la Corte ha accolto il ricorso della Commissione dichiarando che la Repubblica italiana 
� venuta meno agli obblighi che le incombono in forza del Trattato CE, non 
essendosi conformata alla decisione della Commissione stessa n. 93/496/CEE, che, 
ritenuti contrari al trattato gli aiuti corrisposti, sotto forma di credito di imposta, agli 
autotrasportatori professionisti, ne aveva imposto il recupero. 

-12 febbraio 1998, nella causa C-139/97, Commissione c. Italia, con la quale 
la Corte ha dichiarato che �la Repubblica italiana, non avendo emanato, entro il termine 
stabilito, le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative necessarie 
per conformarsi alla direttiva della Commissione 21 gennaio 1994, 94/2/CE, che 
stabilisce modalit� di applicazione della direttiva 92/75/CEE per quanto riguarda 
l'etichettatura indicante il consumo di energia dei frigoriferi elettrodomestici, dei 
congelatori elettrodomestici e delle relative combinazioni, � venuta meno agli obblighi 
che le incombono in forza dell'art. 4 della stessa direttiva�. 

-12 febbraio 1998, nella causa C-163/96, Raso, con la quale in tema di libera 
circolazione dei servizi, � stato statuito che �gli artt. 86 e 90 del Trattato CE devono 
essere interpretati nel senso che essi ostano ad una disposizione nazionale che 
riservi a una compagnia portuale il diritto di fornire lavoro temporaneo alle altre 
imprese operanti nel porto in cui essa � stabilita, qualora tale compagnia sia essa 
stessa autorizzata all'espletamento di operazioni portuali�. 

-19 febbraio 1998, nella causa C-318/96, SPAR Osterreichische 
Warenhaendels c. Finanzlandesdirektion Salzburg, con la quale la Corte ha dichiarato 
che �la sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia 
di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla 
cifra di affari -Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, 
e, in particolare, gli artt. 17, n. 2, e 33 della medesima, non osta a un contributo 
avente le caratteristiche della Kammerumlage, disciplinata dall'art. 57, nn. 1-6, 


PARTE !, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 

dello Handelskammergesetz, dovuto dai membri delle Camere di commercio la cui 
cifra d'affari supera un determinato importo, calcolato, in linea di principio, in base 
all'IVA compresa nel prezzo dei beni e dei servizi loro fomiti, e che non � deducibile 
dall'IVA dovuta dagli stessi per le operazioni commerciali da essi effettuate�. 

-12 marzo 1998, nella causa C-313/95, Commissione c. Italia, con la quale � 
stato dichiarato che �la Repubblica italiana, non avendo emanato, entro il termine 
stabilito, le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per 
conformarsi alla direttiva del Consiglio 22 novembre 1994, 94/57/CE, relativa alle 
disposizioni ed alle norme comuni per gli organi che effettuano le ispezioni e le visite 
di controllo delle navi e per le pertinenti attivit� delle amministrazioni marittime, 
� venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell'art. 16 detta direttiva�. 

-2 aprile 1998, nella causa C-296/95, EMU Tabac SARL, con la quale la 
Corte, ha statuito che �la direttiva del Consiglio 25 febbraio 1992, 92/12/CEE, relativa 
al regime generale, alla detenzione, alla circolazione ed ai controlli dei prodotti_
soggetti ad accisa, come modificata dalla direttiva del Consiglio 14 dicembre 1992, 
92/108/CEE, va interpretata nel senso che non osta alla riscossione nello Stato membro 
A dei diritti di accisa sulle merci immesse in consumo in uno Stato membro B 
ove le stesse sono state acquistate presso la societ� X per uso personale di privati stabiliti 
nello Stato membro A per il tramite della societ� Y che interviene in qualit� di 
agente per tali privati e dietro compenso, essendo noto che il trasporto della merce 
dallo Stato membro B verso lo Stato membro A � stato del pari organizzato dalla 
societ� Y per conto dei privati ed effettuato da un corriere agente a titolo oneroso�. 

-7 maggio 1998, nelle cause riunite c-52,53, 54/97, Viscido c. Ente Poste 
Italiane, con la quale la Corte ha stabilito che �una disposizione nazionale che esoneri 
una sola impresa dall'obbligo di osservare la normativa di applicazione generale 
riguardante i contratti di lavoro a tempo determinato non costituisce un aiuto di 
Stato ai sensi dell'art. 92, n. 1, del Trattato CE�. 

-12 maggio 1998, nella causa C-336/96, coniugi Gilly c. Services Fiscaux 
Bas Rhin, con la quale, sulla parit� di trattamento dei lavoratori, ha statuito che: 

�1. -l'art. 220, secondo trattino, del Trattato CE non ha effetto diretto; 2. -l'art. 
48 del trattato CE dev'essere interpretato nel senso che esso non osta all'applicazione 
di disposizioni come quelle contenute negli artt. 13, n. 5, lett. a), 14, n. 
1, e 16 della Convenzione firmata a Parigi il 21 luglio 1959, diretta ad evitare la 
doppia imposizione tra le Repubblica francese e la Repubblica federale di 
Germania, come modificata dagli atti aggiuntivi firmati a Bonn il 9 giugno 1969 
e il 28 settembre 1989, che stabiliscono un regime di imposizione diverso, da un 
lato, per i lavoratori frontalieri a seconda che essi lavorino nel settore privato o 
nel settore pubblico e, qualora lavorino nel settore pubblico, a seconda che 
abbiano o meno la cittadinanza dello Stato cui appartiene l'amministrazione da 
cui dipendono, e, dall'altro, per gli insegnanti, a seconda che soggiornino o 
meno brevemente nello Stato in cui svolgono la loro attivit� lavorativa; 3. -l'art. 
48 del Trattato dev'essere interpretato nel senso che esso non osta all'applicazione 
di un sistema di credito d'imposta come quello istituito dall'art. 20, n. 2, 
lett. a), cc), della Convenzione�. 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STAT6~

334 

-9 giugno 1998, nelle cause riunite C-129 e 130/97, Chichak, con la quale � 
stato dichiarato che: � 1 -Il regolamento (CEE) del Consiglio 14 luglio 1992, n. 
2081, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni 
d'origine dei prodotti agricoli ed alimentari, dev'essere interpretato nel senso che, 
dopo la sua entrata in vigore, uno Stato membro non pu�, adottando disposizioni 
nazionali, modificare una denominazione d'origine per la quale ha chiesto la registrazione 
conformemente all'art. 17 e non pu� proteggerla a livello nazionale; 2. nel 
caso di una denominazione d'origine �composta�, il fatto che per quest'ultima 
non esistano indicazioni sotto forma di note a pi� di pagina nell'allegato del regolamento 
(CE) della Commissione 12 giugno 1996, n. 1107, relativo alla registrazione 
delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine nel quadro della procedura 
di cui all'art. 17 del regolamento (CEE) n. 2081/92, le quali precisino che la 
registrazione non � stata richiesta per una parte di questa denominazione, non implica 
necessariamente che ogni sua singola parte � protetta.� 

-18 giugno 1998, nella causa C-266/96, Corsica Ferries c. Gruppo Antichi 
Ormeggiatori del porto di Genova ed altri, con la quale la Corte, in materia di libera 
prestazione dei servizi, ha dichiarato che: <d. -l'art. 30 del Trattato CE non si 
oppone ad una normativa di uno Stato membro quale quella di cui trattasi nella presente 
fattispecie, che impone alle imprese di trasporto marittimo stabilite in un altro 
Stato membro, le cui navi fanno scalo nei porti del primo Stato membro, di fare 
ricorso, versando un corrispettivo superiore al costo effettivo del servizio reso, ai 
servizi dei gruppi di ormeggiatori locali titolari di concessioni esclusive; 2. -il combinato 
disposto degli artt. 5, 85, 86 e 90, n. 1 del Trattato CE non si oppone ad una 
normativa di uno Stato membro quale quella di cui trattasi nella presente fattispecie, 
-che conferisce ad imprese stabilite in questo Stato il diritto esclusivo di assicurare 
il servizio di ormeggio; -che impone il ricorso a questo servizio per un prezzo 
che, oltre al costo effettivo delle prestazioni, comprende il supplemento che il 
mantenimento di un servizio universale di ormeggio comporta; e -che prevede tariffe 
differenti a seconda dei porti per tener conto delle caratteristiche proprie di ciascuno 
di questi; 3. -le disposizioni del regolamento (CEE) del Consiglio, 22 
dicembre 1986, n. 4055, che applica il principio della libera prestazione dei servizi 
ai trasporti marittimi tra Stati membri e tra Stati membri e paesi terzi, e dell'art. 
59 del Trattato non si oppongono ad una normativa di uno Stato membro quale 
quella di cui trattasi nella presente fattispecie, che impone alle imprese di trasporto 
marittimo stabilite in un altro Stato membro, quando le loro navi fanno scalo 
nei porti del primo Stato membro, di far ricorso contro corrispettivo ai servizi dei 
gruppi di ormeggiatori locali titolari di concessioni esclusive. Una tale normativa, 
anche se costituisse un ostacolo alla libera prestazione dei servizi di trasporto 
marittimo, sarebbe infatti giustificata da considerazioni di pubblica sicurezza ai 
sensi dell'art. 56 del Trattato CE�. 

-14 luglio 1998, nella causa C-284/95, Safety Hi Tech s.r.l. c. S. e T. s.r.l., e, 
in pari data, nella causa C-341/95, Bettati c. Safety Hi Tech s.r.l., relative alle misure 
di protezione dello strato di ozono, con le quali la Corte ha dichiarato che �l'art. 
5 del regolamento (CE) del Consiglio 15 dicembre 1994, n. 3093, sulle sostanze che 



PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 

riducono lo strato di ozono, dev'essere interpretato nel senso che esso vieta totalmente 
l'uso e, di conseguenza, l'immissione in commercio degli idroclorofluorocarburi 
destinati alla lotta antincendio e che l'esame delle questioni sottoposte non 
ha rilevato alcun elemento atto a inficiare la validit� del regolamento stesso�. 

-17 settembre 1998, nella causa C-372/96, Pontillo c. Donatab s.r.l., con la 
quale, in tema di organizzazione comune del mercato del tabacco greggi-o, la Corte ha 
dichiarato che �l'esame delle questioni proposte non ha rivelato alcun elemento tale da 
inficiare la validit� del regolamento (CEE) del Consiglio 13 giugno 1991, n. 1738, che 
fissa, per il raccolto 1991, i prezzi d'obiettivo, i prezzi d'intervento e i premi concessi 
agli acquirenti di tabacco in foglia, i prezzi d'intervento derivati del tabacco in colli, le 
qualit� di riferimento, le zone di produzione nonch� i quantitativi massimi garantiti e 
che modifica il regolamento (CEE) n. 1331/90�, respingendo cos� le censure relative ad 
una ritenuta violazione del principio della tutela del legittimo affidamento, per l'effetto 
retroattivo della riduzione del premio per una determinata variet� di tabacco. 

-1� ottobre 1998, nella causa C-242/96, Italia c. Commissione, con la quale 
la Corte ha respinto il ricorso italiano contro la decisione della Commissione relativa 
alla liquidazione dei conti FEAOG per gli esercizi 1992 e 1993: nel ricorso si era 
dedotta la illegittimit� della esclusione dell'imputabilit� al Fondo comunitario di 
alcune spese sopportate dalle autorit� italiane in relazione: ad ammasso pubblico per 
procedura di aggiudicazione di carne bovina; ad ammasso pubblico di carne bovina 
per insufficienza di controlli e acquisto di merci non ammissibili; a premi per gli 
ovini per inadeguatezza della gestione e dei controlli; ad ammasso pubblico di 
cereali per carenza del sistema e insufficienza dei controlli; al ritiro irregolare di 
seminativi in Sicilia; al rimborso spese di ammasso pubblico dello zucchero per 
mancanza di controlli. 

-1� ottobre 1998, nella causa C-285/96, Commissione c. Italia, dove � stato 
statuito che: � 1 -non avendo adottato i programmi di riduzione dell'inquinamento 
comprendenti obiettivi di qualit� per 99 sostanze pericolose enumerate nell'elenco I 
dell'allegato della direttiva del Consiglio 4 maggio 1976, 76/464/CEE, concernente 
l'inquinam�nto provocato da certe sostanze pericolose scaricate nell'ambiente idrico 
della Comunit�, la Repubblica italiana � venuta meno agli obblighi che le incombono 
in forza della detta direttiva; 2. -non avendo fornito alla Commissione le 
informazioni richieste sul grado di inquinamento delle acque in Italia al fine di permetterle 
di accertare la portata degli obblighi derivanti dall'art. 7 della suddetta 
direttiva, la Repubblica italiana � venuta meno agli obblighi che le incombono ai 
sensi dell'art. 5 del Trattato CE�. 

-15 ottobre 1998, nella causa C-324/97, Commissione c. Italia, con la quale 
la Corte ha dichiarato che �non avendo emanato entro il termine prescritto le disposizioni 
legislative regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla 
direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 29 giugno 1995, 95/27/CE, che 
modifica la direttiva 86/662/CEE per la limitazione del rumore prodotto dagli escavatori 
idraulici e a funi, apripiste e pale caricatrici, la Repubblica italiana � venuta 
meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi di tale direttiva. 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

336 

-22 ottobre 1998, nelle cause riunite C-1 O e 22/97, Min. Finanze c. 
IN.CO.GE. ed altri, con la quale la Corte, in tema di rimborsi di tasse di concessione 
governativa per l'iscrizione delle Societ� nel registro delle imprese, ha statuito 
che �l'obbligo incombente al giudice nazionale di disapplicare una normativa nazionale 
che abbia istituito un tributo contrario al diritto comunitario deve portarlo, di 
regola, ad accogliere le domande di rimborso del detto tributo. Tale rimborso 
dev'essere garantito conformemente alle disposizioni del suo diritto nazionale, 
fermo restando che queste ultime non devono essere meno favorevoli di quelle che 
riguardano ricorsi analoghi di natura interna n� rendere praticamente impossibile o 
eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico 
comunitario. Un'eventuale riqualificazione dei rapporti giuridici sorti tra l'amministrazione 
fiscale di uno Stato membro e singole societ� del detto Stato all'atto della 
riscossione di un tributo nazionale successivamente riconosciuto contrario al diritto 
comunitario rientra, pertanto, nella sfera dell'ordinamento nazionale�. 

-27 ottobre 1998, nella causa C-4/97, Manifattura italiana Nonwoven c. Min. 
Finanze, nella quale la Corte ha dichiarato che �la direttiva del Consiglio 17 luglio 
1969, 69/335/CEE, concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali, come 
modificata dalla direttiva del Consiglio 10 giugno 1985, 85/303/CEE, non osta alla 
riscossione, a carico delle societ� di capitali, di un'imposta come l'imposta sul patrimonio 
netto delle imprese�. 

-27 ottobre 1998, nella causa C-152/97, Abbruzzi Gas c. Min. Finanze, nella 
quale, analogamente al caso precedente, la Corte ha dichiarato che �la direttiva del 
Consiglio 17 luglio 1969, 69/335/CEE, concernente le imposte indirette sulla raccolta 
di capitali, come modificata dalla direttiva del Consiglio 10 giugno 1985, 
85/303/CEE, non osta alla riscossione di un'imposta di registro in caso di incorporazione 
di societ� ad opera di un'altra societ� che gi� detiene la totalit� delle azioni 
e delle quote delle societ� incorporate�. 

-29 ottobre 1998, nella causa C-375/96, Zaninotto c. Min. risorse agricole, 
con la quale, in materia di organizzazione comune del mercato vitivinicolo, la Corte 
ha dichiarato che dall'esame delle questioni sollevate non sono emersi elementi atti 
ad inficiare la validit�: -dell'art. 1, n. 3, quarto trattino, del regolamento (CE) della 
Commissione 15 febbraio 1994, n. 343, recante apertura della distillazione obbligatoria 
di cui all'articolo 39 del regolamento (CEE) del Consiglio n. 822/87 e recante 
deroga ad alcune modalit� di applicazione ad essa relative per la campagna 
1993/1994; dell'art. 1, nn. 1, lett. c), e 2, del regolamento (CE) della Commissione 
1� marzo 1994, n. 465, che fissa, per la campagna 1993/1994, le percentuali della 
produzione di vini da tavola da consegnare alla distillazione obbligatoria di cui 
all'art. 39 del regolamento (CEE) n. 822/87 del Consiglio per le regioni 3 e 6, come 
modificato dal regolamento (CE) della Commissione 18 marzo 1994, n. 610; -dell'art. 
39, nn. 1e4, del regolamento (CEE) del Consiglio 16 marzo 1987, n. 822, rel,ktivo 
all'organizzazione comune del mercato vitivinicolo; -e dell'art. 4, n. 2, quarto 
trattino, del regolamento (CEE) della Commissione 17 febbraio 1988, n. 441, recante 
modalit� d'applicazione per la distillazione obbligatoria di cui all'art. 39 del regolamento 
n. 822/87�. 


PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 

337 

-12 novembre 1998, nella causa C.-352/96, Italia c. Consiglio dell'Unione 
europea, con la quale la Corte ha respinto il ricorso italiano con il quale era stato 
chiesto l'annullamento degli artt. 3, 4 e 9 del reg. CE del Consiglio 24 luglio 1996 

n. 1522, recante apertura e modalit� di gestione di taluni contingenti tariffari per 
l'importazione di riso e rotture di riso , per incompatibilit� con l'art. XXIV, paragrafo 
6, del GATT, con l'accordo concluso con il Commonwealth d'Australia e con 
la decisione 95/592, recante approvazione di quest'ultimo, con l'art. 43 del Trattato 
CE nonch� con il principio generale di proporzionalit�. 
-17 novembre 1998, nella causa C-228/96, Fall. Aprile c. Min. Finanze, 
ancora in tema di ripetizione di tasse doganali percepite in violazione di norme 
comunitarie, dove la Corte ha statuito che: � 1. -il diritto comunitario non osta 
all'applicazione di una disposizione nazionale che mira a sostituire, per tutte le azioni 
di rimborso in materia doganale, un termine speciale di decadenza, quinquennale 
e poi triennale, che deroga al termine ordinario di prescrizione di ripetizione dell'indebito 
di dieci anni, purch� il detto termine di decadenza, analogo a quello gi� 
previsto per diverse imposizioni, si applichi allo stesso modo alle azioni di ripetizioni 
fondate sUl diritto comunitario e a quelle fondate sul diritto interno; 2. -in circostanze 
come quelle della causa a qua, il diritto comunitario non vieta a uno Stato 
membro di opporre un termine nazione di decadenza alle azioni di rimborso di tributi 
percepiti in violazione di disposizioni comunitarie, anche se questo Stato membro 
non ha ancora modificato la propria normativa interna per renderla compatibile 
con tali disposizioni�. 

-24 novembre 1998, nella causa C-274/96, Bickel e Franz, con la quale la 
Corte, relativamente al regime linguistico applicabile ai procedimenti penali in provincia 
di Bolzano, la cui applicazione era stata invocata da cittadini tedeschi, ha 
dichiarato che: �1. -Il diritto riconosciuto da una normativa nazionale di ottenere 
che il procedimento penale si svolga in una lingua diversa dalla lingua principale 
dello Stato interessato rientra nella sfera di applicazione del Trattato C.E. e deve 
conformarsi all'art. 6 di quest'ultimo; 2. -l'art. 6 osta ad una normativa nazionale 
che riconosce ai cittadini di una lingua determinata, diversa dalla lingua principale 
dello Stato membro interessato, i quali risiedono nel territorio di un determinato ente 
locale, il diritto di ottenere che il procedimento penale si svolga nella loro lingua, 
senza garantire il medesimo diritto ai cittadini degli altri Stati membri, della stessa 
lingua, che circolano e soggiornano nel detto territorio�. 

-25 novembre 1998, nella causa C-308/97, Manfredi c. Regione Puglia, con 
la quale la Corte ha precisato che �durante gli anni 1991 e 1992, l'art. 6, n. 1, del 
regolamento (CEE) del Consiglio 16 marzo 1987, n. 822, relativo all'organizzazione 
comune del mercato vitivinicolo, quale modificato dal regolamento (CEE) del 
Consiglio 14 maggio 1990, n. 1325, vietava i nuovi impianti di vigneti destinati alla 
produzione di uve da tavola�. 

-1� dicembre 1998, nella causa C-200/97, Ecotrade s.r.l. c. Altiforni e 
Ferrerie di Servola s.p.a. dove la Corte ha sentenziato, in ordine alla procedura di 
amministrazione straordinaria di grandi imprese in crisi, disciplinata dalla legge 

.................., �� 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

338 

3 aprile 1979 n. 95 (la c.d. �legge Prodi�) limitatamente al settore siderurgico, 
che �si deve ritenere che l'applicazione ad un'impresa ai sensi dell'art. 80 del 
Trattato CECA di un regime quale quello introdotto dalla legge 3 aprile 1979, n. 
95/1979 e derogatorio alle regole normalmente vigenti in materia di fallimento 
d� luogo alla concessione di un aiuto di Stato, vietato dall'art. 4, lett. c), del 
Trattato CECA, allorch� � dimostrato che questa impresa: -� stata autorizzata 
a continuare la sua attivit� economica in circostanze in cui una tale eventualit� 
sarebbe stata esclusa nell'ambito dell'applicazione delle regole normalmente 
vigenti in materia di fallimento, o -ha beneficiato di uno o pi� vantaggi, quali 
una garanzia di Stato, un'aliquota d'imposta ridotta, un'esenzione dall'obbligo di 
pagamento di ammende e altre sanzioni pecuniarie o una rinuncia effettiva, totale 
o parziale, ai crediti pubblici, dei quali non avrebbe potuto usufruire un'altra 
impresa insolvente nell'ambito dell'applicazione delle regole normalmente 
vigenti in materia di fallimento�. 

OSCAR FIUMARA 

CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNIT� EUROPEE, sez. 6a, 17 giugno 1998, 
nella causa C-68/96 -Pres. Ragnemalm -Rei. Murray -Avv. Gen. Lenz Domanda 
di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale di Trento nella 
causa Grundig Italiana s.p.a. c. Ministero delle Finanze. Interv.: Governo 
Italiano (avv. Stato Braguglia) e Commissione delle C.E. (ag. Traversa). 

Comunit� europee -Disposizioni fiscali -Imposizioni interne discriminatorie Imposta 
nazionale di consumo sui prodotti audiovisivi e fotoottici Incompatibilit� 
eventuale con il diritto comunitario. 

(Trattato C.E., art. 95; decreto legge 30 dicembre 1982, n. 953, conv. in legge 28 febbraio 
1983, n. 53, art. 4; decreto ministeriale 23 marzo 1983 e succ. mod.). 

L'art. 95 del Trattato CE deve essere interpretato nel senso che osta a che uno 
Stato� membro istituisca e riscuota un 'imposta di consumo qualora la base imponibile 
e le modalit� di riscossione del! 'imposta siano diverse per i prodotti nazionali 
e per i prodotti importati da altri Stati membri (1). 

(1) La Corte fa un'ulteriore applicazione del principio secondo cui l'art. 95 del Trattato CE 
mira a garantire la libera circolazione delle merci fra gli Stati membri in condizioni normali di 
concorrenza, tramite l'eliminazione di qualsiasi forma di protezione che possa risultare dall'applicazione 
di imposte interne discriminatorie nei confronti di prodotti di altri Stati membri. 
La Corte si era gi� occupata dell'imposta di consumo di cui alla legge italiana n. 53/1983 
(successivamente soppressa con il d.!. 30.8.1993 n. 331, conv. in legge 29.10.1993 n. 427) con la 
sentenza, citata in motivazione, 13 luglio 1994, n. C-130/92, OTO s.p.a. contro Min. Finanze (in 
questa Rassegna, 1994. I, 428, con nota di FmMARA, Imposta erariale di consumo su taluni prodotti 
audiovisivi importati da paesi terzi: valore imponibile), affermando che essa non costituisce 
una tassa di effetto equivalente ad un dazio doganale all'importazione, ai sensi dell'art. 12 del 
Trattato e che, nella misura in cui si applica alle merci importate direttamente da paesi terzi, non 
rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 95 del Trattato stesso. 


PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 

(Omissis) 

1. -Con ordinanza 15 febbraio 1996, pervenuta in cancelleria il 14 marzo successivo, 
il Tribunale di Trento ha sottoposto alla Corte, ai sensi dell'art. 177 del 
Trattato CE, una questione pregiudiziale relativa all'interpretazione dell'art. 95 
dello stesso Trattato. 
2. -Tale questione � stata sollevata nell'ambito di una controversia tra la 
Grundig Italiana SpA (in prosieguo: la �Grundig Italiana�) ed il Ministero delle 
Finanze a proposito della restituzione dell'importo di 112.236.330. 770 Lit., pi� gli 
interessi legali, versato dalla detta societ� a titolo di imposta erariale di consumo sui 
prodotti audiovisivi e fotoottici tra il 1� gennaio 1983 ed il 31 dicembre 1992. 
3. -In forza dell'art. 4 del decreto legge 30 dicembre 1982, n. 953 (GURI 
n. 359 del 31 dicembre 1982), successivamente convertito nella legge 28 febbraio 
1983, n. 53 (GURI, Supplemento ordinario n. 58 del 1� marzo 1983, pubblicato nel 
testo coordinato nella GURI n. 65 dell'8 marzo 1983; in prosieguo: la �legge 
n. 53�), era stata istituita in Italia un'imposta di consumo sui prodotti audiovisivi e 
fotoottici a partire dal 10 gennaio 1983. Tale imposta veniva riscossa sia sui prodotti 
fabbricati in Italia sia sui prodotti importati. Per il primo gruppo di prodotti, la base 
imponibile dell'imposta era data dal valore �franco fabbrica�, mentre, per il secondo 
gruppo, l'imposta era applicata al �valore in dogana franco frontiera nazionale�. 
L'aliquota dell'imposta era fissata, qualunque fosse l'origine del prodotto, al 16% 
del suo valore, mentre per i televisori era prevista un'aliquota ridotta dell'8%. 
4. -Il 23 marzo 1983 il Ministero delle Finanze aveva adottato un decreto 
di attuazione della legge n. 53 (GURI n. 83 del 25 marzo 1983, successivamente 
modificato dai decreti ministeriali 10 giugno 1983, 23 ottobre 1984 e 10 aprile 
1985, in seguito pubblicati rispettivamente nelle GURI n. 193 del 15 luglio 1983, 
n. 303 del 3 novembre 1984 e n. 92 del 18 aprile 1985; in prosieguo: il �decreto 
di attuazione�). L'art. 2, settimo comma, di tale decreto stabiliva che, per le 
merci importate in Italia, il valore in dogana franco frontiera nazionale era determinato 
in base al valore in dogana ai sensi del regolamento (CEE) del Consiglio 
28 maggio 1980, n. 1224, relativo al valore in dogana delle merci (Gazzetta 
Ufficiale fogge 134, pag. 1), aumentato degli eventuali costi ed oneri per la resa 
alla frontiera italiana e diminuito degli eventuali componenti del prezzo pagato o 
da pagare che concernono il trasporto e la commercializzazione all'interno del 
territorio doganale italiano. L'art. 2, quinto comma, del decreto di attuazione stabiliva 
inoltre che, per i prodotti fabbricati in Italia, la base imponibile poteva 
essere .costituita dal prezzo addebitato per la vendita dei prodotti, dedotta una 
percentuale forfettaria del 35%. 
5. -L'art. 4, terzo comma, seconda frase, della legge n. 53 precisava che i produttori 
nazionali dovevano presentare agli uffici competenti una dichiarazione contenente 
gli elementi necessari per l'accertamento dell'imposta entro il mese successivo 
al trimestre cui si riferiva la detta dichiarazione, mentre la liquidazione 
dell'imposta dovuta veniva effettuata con riferimento all'insieme delle cessioni di 
apparecchi audiovisivi e fotoottici effettuate nel trimestre. L'art. 2, nono comma, del 
decreto di attuazione prevedeva per gli importatori che l'imposta di consumo fosse 
accertata e riscossa al momento dell'importazione in dogana. 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

340 

6. -L'imposta erariale di consumo � stata soppressa, con decorrenza 1� gennaio 
1993, dal decreto legge 30 agosto 1993, n. 331, convertito nella legge 29 ottobre 
1993, n. 427. 

7. -Il 22 luglio 1993 la Grundig Italiana ha adito il Tribunale di Trento per 
far dichiarare incompatibili con la normativa comunitaria le disposizioni che avevano 
istituito l'imposta di consumo sui prodotti audiovisivi e fotoottici e per veder 
condannare il Ministero delle Finanze a restituirle l'importo di 112.236.330.770 Lit., 
pi� gli interessi legali, da essa versato in vigenza delle dette disposizioni. 
8. -Ritenendo che l'esito della controversia dipendesse dall'interpretazione 
dell'art. 95 del Trattato, il Tribunale di Trento ha sospeso il procedimento sottopo-,*' 
nendo alla Corte la seguente questione pregiudiziale: i? 
�Se l'art. 95 del Trattato CE debba essere interpretato nel senso che vieta ad 
uno Stato membro di istituire e riscuotere un'imposta erariale di consumo quale 
quella prevista dall'art. 4 del decreto legge 30 dicembre 1982, convertito dalla legge 
28 febbraio 1983 n. 53, ed ulteriorinente disciplinata dal decreto del Ministro delle 
Finanze 23 marzo 1983, laddove viene determinato un differente valore imponibile 
per i prodotti nazionali e per quelli importati da altri Stati membri e sono contemplate 
differenti modalit� di riscossione dell'imposta per i medesimi prodotti�. 

9. -Dall'ordinanza di rinvio emerge che il Tribunale di Trento chiede in sostanza 
se l'art. 95 del Trattato osti a che uno Stato membro istituisca e riscuota un'imposta 
di consumo qualora la base imponibile e le modalit� di riscossione di tale imposta 
siano diverse per i prodotti nazionali e per i prodotti importati da altri Stati membri. 
�10. -Va preliminarmente rilevato che, come la Corte ha precisato nella sentenza 
13 luglio 1994, causa C-130/92, OTO (Racc., 1-3281, punto 11), che concerneva 
l'interpretazione del diritto comunitario con riguardo alla medesima normativi1; 
italiana, un'imposta quale l'imposta erariale di consumo di cui trattasi nella causa 
a qua dev'essere considerata parte integrante di un regime generale di imposte interne 
ai sensi dell'art. 95 del Trattato e la sua compatibilit� con il diritto comunitario 
dev'essere valutata alla luce di questo articolo. 

11. -Inoltre, secondo una costante giurisprudenza, l'art. 95 del Trattato mira 
a garantire la libera circolazione delle merci fra gli Stati membri in condizioni normali 
di concorrenza, tramite l'eliminazione di qualsiasi forma di protezione che 
possa risultare dall'applicazione di imposte interne discriminatorie nei confronti di 
prodotti di altri Stati membri. Tale norma � diretta ad essere applicata a tutti i prodotti 
provenienti dagli Stati membri ivi compresi i prodotti originari di paesi terzi 
che si trovano in libera pratica negli Stati membri (v. sentenza 7 maggio 1987, causa 
193/85, Co-Frutta, Racc., 2085, punti 25, 26 e 29). 
12. -Ne consegue che un sistema fiscale � compatibile con l'art.. 95 del 
Trattato solo qualora esso sia congegnato in modo da escludere in ogni caso che i 
prodotti importati vengano assoggettati ad un onere pi� gravoso rispetto ai prodotti 
nazionali (v., in particolare, sentenza 26 giugno 1991, causa C-152/89, 
Commissione/Lussemburgo, Racc., 1-3141, punto 21). 
13. -Al fine di valutare il carattere discriminatorio o meno di un sistema fiscale, 
� necessario prendere in considerazione non solo le aliquote dei tributi, ma anche 
la base imponibile e le modalit� di riscossione delle varie imposte (v. sentenza 27 feb

PARTE I, SEZ. li, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 

braio 1980, causa 55/79, Commissione/Irlanda, Racc., 481, punto 8). Infatti, il criterio 
di comparazione decisivo ai fini dell'applicazione dell'art. 95 � costituito dall'incidenza 
effettiva di ciascun tributo sulla produzione nazionale, da un lato, e sui prodotti 
importati, dall'altro. Anche a parit� di aliquota fiscale, l'incidenza di tale onere 
pu� variare a seconda delle modalit� di determinazione della base imponibile e di 
riscossione applicate alla produzione nazionale e ai prodotti importati. 

14. -In ordine all'imposta di consumo controversa nella causa a qua, dal 
fascicolo emerge in primo luogo che, per i prodotti fabbricati in Italia, nella base 
imponibile non sono incluse le spese di trasporto o di distribuzione, mentre, per i 
prodotti importati da altri Stati membri, la base imponibile � data dal valore in dogana, 
aumentato degli eventuali costi ed oneri sostenuti per raggiungere la frontiera 
italiana e diminuito delle spese di trasporto o di distribuzione sostenute in Italia. 
15. -Il governo italiano sottolinea che, poich� l'imposta nazionale colpisce i 
prodotti destinati al consumo sul mercato nazionale, l'imposta di cui trattasi va 
determinata sul valore dei detti prodotti al momento in cui sono messi a disposizione 
del consumatore italiano, valore che comprenderebbe le spese di trasporto sino 
alla frontiera italiana. 
16. -Risulta da una giurisprudenza costante che il divieto di discriminazioni 
sancito dall'art. 95 del Trattato viene violato nel caso di un tributo calcolato sul 
valore del prodotto quando, in relazione al solo prodotto importato, si prendano in 
considerazione elementi di valutazione tali da aumentarne il valore rispetto al prodotto 
nazionale corrispondente (sentenza 22 marzo 1977, causa 74/76, Iannelli e 
Volpi, Racc., 557, punto 21). 
17. -In secondo luogo, dall'ordinanza del giudice nazionale emerge che, per i 
prodotti nazionali, tutte le spese sostenute sul territorio italiano in ragione della commercializzazione 
su tale mercato sono escluse dalla base imponibile, mentre, per i 
prodotti importati, vi rientrano le spese relative alla commercializzazione sul territorio 
italiano sostenute al di fuori di quest'ultimo. Tali regole si applicano altres�, come 
ha sottolineato l'avvocato generale nel paragrafo 37 delle conclusioni, qualora le 
spese di commercializzazione abbiano formato oggetto di un pagamento accentrato. 
18. -Cos�, contrariamente al produttore nazionale, l'importatore dei prodotti 
in questione non pu� dedurre dalla base imponibile dell'imposta la totalit� delle 
spese di commercializzazione relative al mercato italiano. 
19. -In terzo luogo, risulta dall'ordinanza di rinvio che i produttori nazionali 
hanno la possibilit� di dedurre dalla base imponibile dei loro prodotti una percentuale 
forfettaria pari al 35% del prezzo addebitato, mentre tale possibilit� non � 
offerta per i prodotti importati dagli altri Stati membri. 
20. -Il governo italiano fa valere che siffatta percentuale forfettaria si riferisce 
alla parte del prezzo di vendita che corrisponde alle spese di commercializzazione 
del prodotto nazionale. Certo, la concessione ai soli produttori nazionali di tale 
possibilit� di deduzione forfettaria consentirebbe loro di determinare pi� rapidamente 
e pi� facilmente la base imponibile dei prodotti nazionali. Tuttavia tale prassi 
servirebbe solo a ricollocare in situazioni analoghe le merci nazionali e le merci 
importate. Infatti la base imponibile sarebbe di ben pi� ardua determinazione per i 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

342 

produttori nazionali, i quali devono stabilire il valore franco fabbrica, che per gli 
importatori, i quali possono basarsi sul valore in dogana e, di conseguenza, sulle formalit� 
che accompagnano le dichiarazioni in dogana. 

21. -Occorre rilevare che gli importatori ed i produttori nazionali si trovano 
in situazioni analoghe in quanto cercano di dedurre le spese di trasporto e di commercializzazione. 
22. -Infine dall'ordinanza del giudice a quo emerge che, per le merci importate, 
l'obbligo di pagamento dell'imposta sorge al momento dell'importazione in 
dogana delle stesse, mentre, per le merci nazionali, esso sorge soltanto al momento 
della presentazione della dichiarazione da parte del produttore nazionale presso le 
autorit� tribtttarie nel corso del mese successivo al trimestre in cui le merci sono 
state immesse sul mercato, mentre il fatto generatore dell'imposta si verifica al 
momento dell'immissione sul mercato nazionale del prodotto destinato al consumo. 
23. -Si deve sottolineare in proposito che, secondo una costante giurisprudenza, 
un vantaggio riservato alla produzione nazionale, sotto forma di dilazioni di 
pagamento, implica una disparit� di trattamento a danno dei prodotti importati da 
altri Stati membri in violazione del divieto di cui all'art. 95 del Trattato (v. la citata 
sentenza Commissione/Irlanda). 
24. -Di conseguenza, non pu� accogliersi l'argomento del governo italiano 
secondo cui la differenza tra le modalit� di riscossione applicate alle merci nazionali 
e quelle applicate alle merci importate � diretta a consentire ai produttori nazionali 
di dover evitare di presentare una dichiarazione d'imposta per ciascun prodotto. 
Infatti, dal momento che la discriminazione � provata, l'art. 95 non prevede 
alcuna possibilit� di giustificazione per lo Stato in questione. 
25. -Alla luce di quanto precede, l'art. 95 del Trattato deve ritenersi violato 
da una normativa nazionale che istituisce un'imposta di consumo 
-qualora, per i prodotti fabbricati in tale Stato, nella base imponibile non 
siano incluse le spese di trasporto o di distribuzione, mentre, per i prodotti importati 
da altri Stati membri, la base imponibile � data dal valore in dogana, aumentato 
degli eventuali costi ed oneri sostenuti per raggiungere la frontiera italiana e diminuito 
delle spese di trasporto o di distribuzione sostenute in Italia; 

-qualora, per i prodotti nazionali, tutte le spese sostenute sul territorio nazionale 
in ragione della commercializzazione su tale mercato siano escluse dalla base 
imponibile, mentre, per i prodotti importati, vi rientrano le spese relative alla commercializzazione 
sul territorio nazionale sostenute al di fuori di quest'ultimo; 

-qualora la possibilit� di procedere ad una deduzione forfettaria ai fini del 
calcolo della base imponibile sia riservata ai prodotti nazionali, e 

-qualora, per le merci importate, l'obbligo di pagamento dell'imposta sorga 
al momento dell'importazione in dogana delle merci, mentre, per le merci nazionali, 
esso sorge soltanto al momento della presentazione della dichiarazione da parte 
del produttore nazionale presso le autorit� tributarie nel corso del mese successivo 
al trimestre in cui le merci sono state immesse sul mercato, mentre il fatto genera


, 
tore dell'imposta si verifica al momento dell'immissione sul mercato nazionale del 
prodotto destinato al consumo. 


PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 

26. -Occorre quindi risolvere la questione dichiarando che l'art. 95 del 
Trattato dev'essere interpretato nel senso che osta a che uno Stato membro istituisca 
e riscuota un'imposta di consumo qualora la base imponibile e le modalit� di 
riscossione dell'imposta siano diverse per i prodotti nazionali e per i prodotti importati 
da altri Stati membri. (omissis) 
I 

CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNIT� EUROPEE, sez. 5\ 18 giugno 1998, 
nella causa C -35196 -Pres. Gulmann -Re!. Wathelet -Avv. Gen. Cosmas. 
Commissione delle C.E. (ag. Traversa) c. Rep. italiana (avv. Stato Ferri). 

Comunit� europee -Ricorso per inadempimento -Intesa -Fissazione di tariffe 
professionali -Spedizionieri doganali -Normativa che rafforza gli effetti 
dell'intesa. 

(Trattato CE, artt. 5 e 85; legge 22 dicembre 1960, n. 1612; d.m. 10 marzo 1964; decreto 
ministeriale 6 luglio 1988) 

Adottando e mantenendo in vigore una legge che, nel conferire il relativo potere 
deliberativo, impone al Consiglio nazionale degli spedizionieri doganali (CNSD) l'adozione 
di una decisione d'associazione di imprese in contrasto con l'art. 85 del 
Trattato CE, consistente nel fissare una tariffa obbligatoria per tutti gli spedizionieri 
doganali, la Repubblica italiana � venuta meno agli obblighi imposti/e dagli artt. 5 e 
85 dello stesso Trattato (1). 

II 

CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNIT� EUROPEE, sez. 2a, 1� ottobre 1998, 
nella causa C-38/97 -Pres. rei. Schintgen -Avv. Gen. Alber -Domanda di pronuncia 
'pregiudiziale proposta dal Giudice di pace di Genova nella causa 
Autotrasporti Librandi s.n.c. c. Cuttica spedizioni e servizi internazionali s.r.l. -
Interv.: Governi italiano (avv. Stato Del Gaizo) e francese (ag. Loosli -Surrans 
e Rispal -Bellanger) e Commissione delle C.E. (ag. Marenco e Pignataro). 

Comunit� europee -Concorrenza -Trasporti su strada -Tariffa obbligatoria Normativa 
nazionale -Nozioni di interesse generale e di interesse pubblico. 

(Trattato CE, artt. 3 f) e g), 85 e 86; legge 6 giugno 1974, n. 298; decreto del Presidente della 
Repubblica 9 gennaio 1978, n. 56; decreto ministeriale 18 novembre 1992; decreto ministeriale 
2 febbraio 1994). 

Gli artt. 3, lett. j) e g), 5, 85 86 e 90 del Trattato CE non ostano a una normativa 
di uno Stato membro che preveda che le tariffe dei trasporti di merci su strada siano 
approvate e rese esecutive ad opera dei pubblici poteri, sulla base di proposte di un 
comitato centrale, composto in maggioranza di rappresentanti degli operatori economici 
interessati, e che estenda le tariffe obbligatorie applicabili in materia di contratti 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

344 

di trasporto merci su strada ad altri tipi di contratti, relativi a diversi servizi, quali, in 
particolare i contratti su gara d'appalto e i contratti di noleggio, a condizione che le 
tariffe siano determinate nel rispetto dei criteri di interesse pubblico definiti dalla 
legge e che i pubblici poteri non rinuncino alle proprie prerogative a favore di operatori 
economici privati, ma tengano conto, prima del! 'approvazione delle proposte, 
delle osservazioni di altri organismi pubblici e privati, o addirittura fissino le tariffe 
d'ufficio. La nozione di interesse generale corrisponde a quella di interesse pubblico 
e spetta agli Stati membri determinare i criteri concreti di fissazione delle tariffe, come 
quelli in vigore nel! 'ordinamento giuridico italiano, e ai giudici nazionali controllare 
se, nella pratica, i criteri cos� definiti siano rispettati. La possibilit� di concludere 
accordi collettivi, come quelli figuranti ali'art. 13 del decreto ministeriale 18 novembre 
1982, efficaci, in virt� del diritto nazionale, anche nei confronti degli operatori 
che non li hanno sottoscritti, non ha per effetto di restringere la concorrenza ai sensi 
dell'art. 85 del Trattato (2). 

I 

(omissis). 

1. -Con ricorso depositato in cancelleria il 9 febbraio 1996, la Commissione 
delle Comunit� europee ha proposto, ai sensi dell'art. 169 del Trattato CE, un ricorso 
diretto a far dichiarare che, avendo emanato e mantenendo in vigore una legge 
che, nel conferire il relativo potere deliberativo, impone al Consiglio nazionale degli 
spedizionieri doganali (in prosieguo: il �CNSD�) l'adozione di una decisione di 
associazione di imprese in contrasto con l'art. 85 del Trattato CE in quanto fissa una 
tariffa obbligatoria per tutti gli spedizionieri doganali, la Repubblica italiana � venuta 
meno agli obblighi ad essa imposti dagli artt. 5 e 85 del medesimo Trattato. 
(omissis). 

(1-2) Due sentenze di segno opposto ma coerenti fra loro. 

Gi� con la sentenza 5 ottobre 1995 nella causa C-96/94, CENTRO SERVIZI SPEDIPORTO, 
ampiamente citata nella motivazione della seconda sentenza annotata, la Corte aveva statuito che 
�gli artt. 3, lett. g), 5, 85, 86 e 90 nonch� l'art. 30 del Trattato CE non ostano a che la normativa 
di uno Stato membro preveda che le tariffe dei trasporti di merci su strada siano approvate e rese 
eseoutive dalla pubblica autorit�, sulla base di proposte di un comitato, se quest'ultimo � composto 
da una maggioranza di rappresentanti dei pubblici poteri, a fianco di una minoranza di rappresentanti 
degli operatori economici interessati, e deve rispettare nelle sue proposte determinati 
criteri di interesse pubblico e se, peraltro, i pubblici poteri non rinunciano alle loro prerogative, 
tenendo conto, prima della approvazione delle proposte, dei rilievi di altri enti pubblici e privati 

o addirittura fissando le tariffe d'ufficio�. 
Intervenuta una modifica nella composizione nel comitato centrale dell'albo dei trasportatori, 
che ha determinato in seno ad esso una maggioranza dei rappresentanti delle associazioni 
nazionali di categoria, la Corte ha cionondimeno escluso che le determinazioni del comitato possano 
ora configurarsi come un'intesa ai sensi dell'art. 85 del Trattato, �dal momento che, conformemente 
alla normativa nazionale in esame, il comitato centrale deve continuare a rispettare, 
nell'adottare le sue proposte, i criteri di pubblico interesse definiti dalla legge italiana�. 

E proprio la carenza di un interesse pubblico nella fissazione della tariffa delle prestazioni 
professionali degli spedizionieri doganali (� .... nessuna norma della legislazione nazionale di cui 
trattasi obbliga e neanche induce i membri tanto del CNSD quanto dei consigli compartimentali 
a tener conto di criteri di interesse generale .... �) ha indotto la Corte, nella prima sentenza annotata, 
ad individuare un'intesa, rilevante ai sensi dell'art. 85 del Trattato per la sua indubbia incidenza 
sugli scambi intracomunitari. 



PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 

33. -Al fine di statuire sul ricorso per inadempimento proposto dalla 
Commissione, occorre, in primo luogo, esaminare se la tariffa costituisca una decisione 
di .n'associazione di imprese ai sensi dell'art. 85 del Trattato. 
34. -All'udienza, il governo italiano ha sostenuto che, sebbene lo spedizioniere 
doganale sia un lavoratore indipendente, in quanto esercita una professione liberale, 
come un avvocato, un geometra o un int~rprete, egli non pu� tuttavia essere 
considerato un'impresa, ai sensi dell'art. 85 del Trattato, poich� i servizi da lui forniti 
sono di natura intellettuale e in quanto l'esercizio della sua professione richiede 
un'autorizzazione e implica il rispetto di talune condizioni. Il Trattato distinguerebbe 
del resto fra i lavoratori indipendenti e le imprese, di modo che qualsiasi attivit� 
non subordinata non sarebbe necessariamente esercitata nell'ambito di un'impresa. 
Inoltre, mancherebbe l'elemento organizzativo indispensabile, vale a dire la combinazione 
di elementi personali, materiali e immateriali durevolmente destinati al perseguimento 
di un determinato scopo economico. 
35. -Non essendo imprese gli spedizionieri doganali indipendenti, il CNSD 
non pu� costituire, a maggiore ragione, un'associazione di imprese ai sensi dell'art. 
85 del Trattato. 
36. -Occorre ricordare anzitutto che, per giurisprudenza costante, la nozione di 
impresa abbraccia qualsiasi entit� che eserciti un'attivit� economica, a prescindere 
dallo status giuridico di detta entit� e dalle sue modalit� di finanziamento (sentenze 
23 aprile 1991, causa C-41/90, Hofner e Elser, Racc., 1-1979, punto 21; 16 novembre 
1995, causa C-244/94, F �d�ration fran�aise des soci�t�s d 'assurances e a., Racc., 
I-4013, punto 14, e 11 dicembre 1997, causa C-55/96, Job Centre, Racc., I-7119, 
punto 21), e che costituisce un'attivit� economica qualsiasi attivit� che consista nell'offrire 
beni o servizi su un determinato mercato (sentenza 16 giugno 1987, causa 
118/85, Commissione/Italia, Racc., 2599, punto 7). 
37. -Orbene, l'attivit� degli spedizionieri doganali presenta natura economica. 
Infatti, questi offrono, contro retribuzione, servizi che consistono nell'espletare 
formalit� doganali, concernenti soprattutto l'importazione, l'esportazione 
e il transito di merci, nonch� altri servizi complementari, quali i servizi 
appartenenti ai settori monetario, commerciale e tributario. Inoltre, essi assumo. 
no a proprio carico rischi finanziari connessi all'esercizio di tale attivit� (sentenza 
16 dicembre 1975, cause riunite 40/73-48/73, 50/73, 54/73-56/73, 111/73, 
113/73 e 114/73, Suiker Unie e a./Commissione, Racc., 1663, punto 541). In caso 
di squilibrio fra uscite ed entrate, lo spedizioniere doganale deve sopportare 
direttamente i disavanzi. 

38. -Di conseguenza, il fatto che l'attivit� di spedizioniere doganale sia intellettuale, 
richieda un'autorizzazione e possa essere svolta senza la combinazione di 
elementi materiali, immateriali e umani non � tale da escluderla dalla sfera di applicazione 
degli artt. 85 e 86 del Trattato CE. 
39. -Occorre inoltre esaminare in quale misura un'organizzazione professionale 
quale il CNSD si comporti come un'associazione di imprese, ai sensi dell'art. 
85, n. 1, del Trattato, in occasione dell'elaborazione della tariffa. 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATCY

346 

40. -A questo proposito si deve ricordare che lo status di diritto pubblico di un 
organismo nazionale quale il CNSD non osta all'applicazione dell'art. 85 del 
Trattato. Questo articolo, stando alla sua lettera, si applica agli accordi fra imprese 
e alle decisioni di associazioni di imprese. Pertanto, l'ambito giuridico entro il quale 
ha luogo la conclusione di detti accordi e sono adottate dette decisioni nonch� la 
definizione giuridica di tale ambito data dai vari ordinamenti giuridici nazionali 
sono irrilevanti ai fini dell'applicazione delle regole comunitarie di concorrenza e in 
particolare dell'art. 85 del Trattato (sentenza 30 gennaio 1985, causa 123/83, Clair, 
Racc., 391, punto 17). 
41. -Inoltre, i membri del CNSD sono rappresentanti degli spedizionieri professionisti 
e nessuna disposizione della normativa nazionale considerata impedisce 
loro di agire nell'esclusivo interesse della professione. 
42. -Infatti, da un lato, i membri del CNSD possono essere soltanto spedizionieri 
doganali iscritti negli albi poich� sono eletti fra i membri dei Consigli compartimentali, 
i quali riuniscono soltanto spedizionieri doganali (artt. 13 della legge 
n. 1612/1960, 8, secondo comma, e 22, secondo comma, del decreto del ministro 
delle Finanze 10 marzo 1964). Al riguardo, occorre sottolineare che, a partire dalla 
modifica apportata dal decreto legge n. 331/1992, il direttore generale delle dogane 
non partecipa pi� al CNSD in qualit� di presidente. Infine, il ministro italiano delle 
Finanze, che � incaricato della vigilanza sull'organizzazione professionale considerata, 
non pu� intervenire nella designazione dei membri dei Consigli compartimentali 
e del CNSD. 
43. -Dall'altro, il CNSD ha il compito di stabilire la tariffa delle prestazioni 
professionali degli spedizionieri doganali in base alle proposte dei Consigli compartimentali 
[art. 14, lett. d), della legge n. 1612/1960]. Al riguardo, nessuna norma 
della legislazione nazionale di cui trattasi obbliga e neanche induce i membri tanto 
del CNSD quanto dei Consigli compartimentali a tener conto di criteri d'interesse 
pubblico. 
44. -Ne consegue che i membri del CNSD non possono essere qualificati 
esperti indipendenti ( v., in tal senso, sentenze 17 novembre 1993, causa C-185/91, 
Reiff, Racc., 1-5801, punti 17 e 19; 9 giugno 1994, causa C-153/93, Delta 
Schiffahrts-und Speditionsgesellschaft, Racc., 1-2517, punti 16 e 18, e 17 ottobre 
1995, cause riunite da C-140/94 a C-142/94, DIP e a., Racc., 1-3257, punti 18 e 19) 
e che essi non sono tenuti dalla legge a fissare le tariffe prendendo in considerazione 
non soltanto gli interessi delle imprese o delle associazioni di imprese del settore 
che li ha designati, ma anche l'interesse generale e gli interessi delle imprese degli 
altri settori o degli utenti dei servizi di cui trattasi (precitate sentenze Reiff, punti 18 
e 24; Delta Schiffahrts-und Speditionsgesellschaft, punto 17, e DIP e a., punto 18). 
45. -In secondo luogo, va constatato che le decisioni con le quali il CNSD ha 
fissato una tariffa uniforme e vincolante per tutti gli spedizionieri doganali limitano 
la concorrenza ai sensi dell'art. 85 del Trattato e che esse possono incidere sugli 
scambi intracomunitari. 
46. -La tariffa fissa, infatti, direttamente i prezzi dei servizi degli spedizionieri 
doganali. Essa prevede, per ciascun tipo distinto di operazioni, i prezzi massimi e 

PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZ�ON�LE 

347 

minimi che possono essere chiesti ai clienti. Inoltre, la tariffa determina vari scaglioni 
in funzione del valore o del peso della merce da sdoganare o del tipo specifico 
di merce, e anche del tipo di prestazione professionale (art. 1). 

47. -Infine, la tariffa � vincolante (art. 5), di modo che uno spedizioniere doganale 
non pu� discostarsene motu proprio. Solo il CNSD � autorizzato a disporre 
deroghe (art. 6). 
48. -Quanto all'incidenza sugli scambi intracomunitari, � sufficiente ricordare 
che un'intesa che si estenda a tutto il territorio di uno Stato membro ha, per 
natura, l'effetto di consolidare la compartimentazione dei mercati a livello nazionale, 
ostacolando cos� l'integrazione economica voluta dal Trattato (sentenze 17 
ottobre 1972, causa 8/72, Vereeniging van Cementhandelaren/Commissione, 
Racc., 977, punto 29, e 11 luglio 1985, causa 42/84, Remia e a./Commissione, 
Racc., 2545, punto 22). 
49. -Tale incidenza � tanto pi� sensibile nella specie in quanto vari tipi di operazioni 
d'importazione o di esportazione di merci all'interno della Comunit� nonch� 
operazioni effettuate fra operatori comunitari richiedono lo svolgimento di formalit� 
doganali e possono, di conseguenza, rendere necessario l'intervento di uno spedizioniere 
doganale indipendente iscritto all'albo. 
50. -Ci� vale per le cosiddette operazioni di "transito interno", che riguardano 
l'invio di merci dall'Italia verso uno Stato membro, vale a dire da un punto ad un 
altro del territorio doganale della Comunit�, facendole transitare per un paese terzo 
(ad esempio, la Svizzera). Tale tipo di operazioni riveste particolare importanza per 
l'Italia, poich� gran parte delle merci spedite dalle regioni del Nord-Ovest del paese 
verso la Germania e i Paesi Bassi transita per la Svizzera. 
51. -Dalle precedenti considerazioni emerge che, adottando la tariffa, il CNSD 
ha violato l'art. 85, n. 1, del Trattato. 
52. -In terzo luogo, si deve esaminare in quale misura tale violazione possa 
essere imputata alla Repubblica italiana. 
53. -A questo proposito, occorre ricordare che, anche se, di per s�, l'art. 85 
del Trattato riguarda esclusivamente la condotta delle imprese e non le disposizioni 
legislative o regolamentari emanate dagli Stati membri, � pur vero che detto 
articolo, in combinato disposto con l'art. 5 del Trattato, fa obbligo agli Stati membri 
di non adottare o mantenere in vigore provvedimenti, anche di natura legislativa 
o regolamentare, che possano rendere praticamente inefficaci le regole di concorrenza 
applicabili alle imprese (per l'art. 85 del Trattato, v. sentenze 21 
settembre 1988, causa 267/86, Van Eycke, Racc., 4769, punto 16; Reiff, gi� citata, 
punto 14, e Delta Schiffahrts-und Speditionsgesellschaft, gi� citata, punto 14; 
per l'art. 86 del Trattato, v. sentenza 16 novembre 1977, causa 13/77, GB-InnoBM, 
Racc., 2115, punto 31). 
54. -Ricorre in particolare siffatta ipotesi allorquando uno Stato membro 
imponga o agevoli la conclusione di accordi in contrasto con l'art. 85, o rafforzi gli 
effetti di siffatti accordi, ovvero qualora privi la propria normativa del carattere statuale 
che le � proprio, demandando la responsabilit� di adottare decisioni d'interven

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

348 

to in materia economica ad operatori privati (sentenze gi� citate Van Eycke, punto 16; 
Reiff, punto 14, e Delta Schi:ffahrts-und Speditionsgesellschaft, punto 14). 

55. -Si deve constatare che, adottando la normativa nazionale di cui trattasi, la 
Repubblica italiana ha non soltanto prescritto la conclusione di un accordo in contrasto 
con l'art. 85 del Trattato e rinunciato ad influire sul suo contenuto, ma concorre 
anche a garantirne l'osservanza. 
56. -In primo luogo, l'art. 14, lett. d), della legge n. 1612/1960 obbliga il 
CNSD ad elaborare una tariffa obbligatoria ed uniforme per le prestazioni degli spedizionieri 
doganali. 
57. -In secondo luogo, come emerge dai punti 41-44 della presente sentenza, 
la normativa nazionale di cui trattasi ha completamente demandato ad operatori 
economici privati il potere delle autorit� pubbliche in materia di determinazione 
delle tariffe. 
58. -In terzo luogo, la normativa italiana vieta espressamente agli spedizionieri 
doganali iscritti all'albo di derogare alla tariffa (art. 11 della legge n. 1612/1960), 
a pena di interdizione, di sospensione o di radiazione dall'albo (artt. 38-40 del decreto 
del ministro delle Finanze del 10 marzo 1964). 
59. -In quarto luogo, anche se nessuna disposizione legislativa o regolamentare 
conferisce al ministro delle Finanze il potere di approvare la tariffa, � pur vero che 
il decreto del ministro delle Finanze 6 luglio 1988 ha conferito alla tariffa l'apparenza 
di una disciplina pubblica. Anzitutto, la pubblicazione nella �Serie generale� 
della Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana ha comportato una presunzione di 
conoscenza della tariffa da parte di terzi di cui la decisione del CNSD non avrebbe 
mai potuto fruire. Inoltre, il carattere ufficiale cos� conferito alla tariffa agevola l'applicazione 
da parte degli spedizionieri doganali dei prezzi con essa fissati. Infine, 
esso � tale da dissuadere i clienti che vorrebbero contestare i prezzi praticati dagli 
spedizionieri doganali. 
60. -Alla luce delle precedenti considerazioni, si deve dichiarare che, adottando 
e mantenendo in vigore una legge che, nel conferire il relativo potere deliberativo, 
impone al CNSD l'adozione di una decisione di associazione di imprese in contrasto 
con l'art. 85 del Trattato, consistente nel fissare una tariffa obbligatoria per 
tutti gli spedizionieri doganali, la Repubblica italiana � venuta meno agli obblighi 
impostile dagli artt. 5 e 85 del Trattato. (omissis) 
II 

(omissis) 

1. -Con ordinanza 30 dicembre 1996, pervenuta in cancelleria il 27 gennaio 
1997, il Giudice di pace di Genova ha sottoposto alla Corte, ai sensi dell'art. 177 del 
Trattato CE, sei questioni pregiudiziali relative all'interpretazione degli artt. 3, lett. 
j) e g), 5, 85 e 86 del Trattato CE, questioni dirette a consentirgli di statuire sulla 
compatibilit� con il diritto comunitario della normativa italiana relativa alla determinazione 
delle tariffe dei trasporti di merci su strada. 



PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZI�NALE 

349 

2. -Tali questioni sono state sollevate nell'ambito di una controversia tra la 
Autotrasporti Librandi Snc di Librandi F. & C. (in prosieguo: la �Librandi�) e la 
Cuttica spedizioni e servizi internazionali S.r.l. (in prosieguo: la �Cuttica�) per ottenere 
il pagamento del saldo del prezzo di trasporti stradali effettuati per conto di 
quest'ultima. 
(omissis) 

Sulle due prime questioni 

25. -Con le due prime questioni, che occorre esaminare congiuntamente, il 
giudice a quo domanda sostanzialmente se gli artt. 3, lett..f) e g), 5, 85, 86 e 90 del 
Trattato ostino a una normativa di uno Stato membro che preveda che le tariffe dei 
trasporti di merci su strada siano approvate e rese esecutive dai pubblici poteri, 
sulla base di proposte di un comitato centrale composto in maggioranza di rappresentanti 
degli operatori economici interessati, e che estenda le tariffe obbligatorie 
applicabili in materia di contratti di trasporto di merci su strada ad altri tipi di contratti, 
relativi a servizi diversi, quali, in particolare, i contratti su gara d'appalto e i 
contratti di noleggio. 
26. -A questo proposito occorre ricordare, in primo luogo, che, secondo una 
costante giurisprudenza, si � in presenza di una violazione degli artt. 5 e 85 del 
Trattato quando uno Stato membro imponga o agevoli la conclusione di accordi 
in contrasto con l'art. 85, o rafforzi gli effetti di siffatti accordi, ovvero tolga alla 
propria normativa il suo carattere pubblico delegando ad operatori privati la 
responsabilit� di adottare decisioni d'intervento in materia economica (v. sentenze 
21 settembre 1988, causa 267/86, Van Eycke Racc., 4769, punto 16; 17 
novembre 1993, causa C-185/91, Reiff, Racc., II-5801, punto 14, e 9 giugno 
1994, causa C-153/93, Delta Schiffahrts-und Speditionsgesellschaft, Racc., 12517, 
punto 14). 
27. -Occorre ricordare, di seguito, che la Corte ha di�hiarato che gli artt. 3, lett. 
g), 5 e 86 del Trattato possono applicarsi ad una normativa del tipo della legge italiana 
nella sola ipotesi in cui fosse provato che siffatta legge conferisce ad un'impresa 
una situazione di potenza economica grazie alla quale l'impresa che la detiene 
� in grado di ostacolare la persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato di 
cui trattasi ed ha la possibilit� di tenere comportamenti alquanto indipendenti nei 
confronti dei suoi concorrenti, dei suoi clienti e, in ultima analisi, dei consumatori 
(sentenza 13 febbraio 1979, causa 85/76, Hoffman-La Roche/Commissione, Racc., 
461, punto 38). 
28. -Occorre infine ricordare che nella citata sentenza Centro Servizi 
Spediporto la Corte era stata investita di una questione analoga rispetto alla normativa 
italiana in vigore all'epoca, la quale si distingueva in sostanza da quella applicabile 
nella causa a qua per il solo fatto che le associazioni nazionali di categoria 
dei trasportatori di merci su strada avevano dodici rappresentanti in seno al comitato 
centrale in luogo di diciassette. 
29. -Orbene, in quella sentenza la Corte ha dichiarato che gli artt. 3, lett. g), 5, 
85, 86 e 90 nonch� l'art. 30 del Trattato CE non ostano a che la normativa di uno 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO'

350 

Stato membro preveda che le tariffe dei trasporti di merci su strada siano approvate 
e rese esecutive dalla pubblica autorit�, sulla base di proposte di un comitato, se quest'ultimo 
� composto da una maggioranza di rappresentanti dei pubblici poteri, a 
fianco di una minoranza di rappresentanti degli operatori economici interessati, e 
deve rispettare nelle sue proposte determinati criteri di interesse pubblico e se, peraltro, 
i pubblici poteri non rinunciano alle loro prerogative tenendo conto, prima dell'approvazione 
delle proposte, dei rilievi di altri enti pubblici e privati, o addirittura 
fissando le tariffe d'ufficio. 

30. -Per concludere, in primo luogo, che, in un regime di fissazione delle tariffe 
dei trasporti di merci su strada come quello instaurato dalla legge italiana, le proposte 
deliberate in seno al comitato non potevano essere considerate alla stregua di 
intese tra operatori economici che i pubblici poteri hanno imposto o favorito o delle 
quali hanno rafforzato gli effetti, la Corte ha rilevato, ai punti da 22 a 24 della citata 
sentenza Centro Servizi Spediporto, che il comitato centrale era composto da una 
maggioranza di rappresentanti dei pubblici poteri e da una minoranza di rappresentanti 
delle associazioni degli operatori economici e che doveva osservare, allorquando 
adottava le sue proposte, un certo numero di criteri di interesse pubblico 
definiti nella legge. 
31. -Per dichiarare, in secondo luogo, che i pubblici poteri non avevano delegato 
le loro competenze in materia di fissazione delle tariffe ad operatori economici 
privati, la Corte ha constatato, ai punti da 26 a 28 della citata sentenza Centro 
Servizi Spediporto, che, secondo la legge italiana, il comitato centrale propone al 
ministro competente le tariffe di trasporto e le loro condizioni particolari di esecuzione. 
La legge investe peraltro il ministro del potere di approvarle, di respingerle o 
di modificarle prima di renderle esecutive e prevede che il ministro, prima di approvare 
e di rendere esecutive le tariffe, consulti le regioni nonch� i rappresentanti dei 
settori economici interessati e tenga conto delle direttive del comitato interministeriale 
dei prezzi. 
32. -Infine, per decidere che una normativa nazionale che prevede la determinazione 
delle tariffe dei trasporti di merci su strada da parte dei pubblici poteri non 
porti ad attribuire agli operatori economici una posizione dominante collettiva che 
sarebbe caratterizzata dall'assenza di rapporti concorrenziali tra loro, la Corte ha 
rilevato, ai punti 33 e 34 della citata sentenza Centro Servizi Spediporto, l'assenza 
di un legame sufficiente tra le imprese interessate ad adottare una stessa linea d'azione 
comune sul mercato. 
33. -Orbene, quanto sopra constatato non viene rimesso in questione dalla circostanza 
che, a seguito del decreto ministeriale 2 febbraio 1994, che ha elevato da 
dodici a diciassette il numero dei rappresentanti delle associazioni nazionali di categoria 
dei trasportatori di merci su strada in seno al comitato centrale, i rappresentanti 
degli operatori economici non sono pi� in minoranza in seno a detto comitato; 
che, secondo le informazioni fomite dal governo italiano, l'organo consultivo, che 

PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 

era il �comitato interministeriale dei prezzi�, � stato sostituito da un organismo 
denominato �osservatorio italiano dei prezzi e delle tariffe� e che la legge italiana 
ha mantenuto l'estensione delle tariffe a diversi servizi, quali i contratti su gara d'appalto 
e i contratti di noleggio. 

34. -Da un lato, infatti, la modifica dei rapporti di maggioranza in seno al 
comitato centrale non consente di concludere nel senso dell'esistenza di un'intesa ai 
sensi dell'art. 85 del Trattato dal momento che, conformemente alla normativa 
nazionale in esame, il comitato centrale deve continuare a rispettare, nell'adottare le 
sue proposte, i criteri di pubblico interesse definiti dalla legge italiana. 
35. -Dall'altro; la modifica della legge italiana non comporta una delega da 
parte dei poteri pubblici delle loro competenze ad operatori economici privati, dal 
momento che la facolt� per il ministro competente di respingere o modificare le 
tariffe dei trasporti propostegli dal comitato centrale nonch� il suo obbligo di consultare 
le regioni e i rappresentanti dei settori economici restano immutati. 
36. -Spetta tuttavia al giudice nazionale controllare, nell'ambito della sua competenza, 
che, nella pratica, le tariffe siano determinate nel rispetto dei criteri d'interesse 
pubblico definiti dalla legge e che i pubblici poteri non rinuncino alle proprie 
prerogative a vantaggio di operatori economici privati. 
37. -Occorre quindi risolvere le prime due questioni nel senso che gli artt. 3, 
lett. ./) e g), 5, 85, 86 e 90 del Trattato non ostano a una normativa di uno Stato 
membro che preveda che le tariffe dei trasporti di merci su strada siano approvate 
e rese esecutive ad opera dei pubblici poteri, sulla base di proposte di un comitato 
centrale, composto in maggioranza di rappresentanti degli operatori economici 
interessati, e che estenda le tariffe obbligatorie applicabili in materia di 
contratti di trasporto di merci su strada ad altri tipi di contratti, relativi a diversi 
servizi, quali, in particolare, i contratti su gara d'appalto e i contratti di noleggio, 
a condizione che le tariffe siano determinate nel rispetto dei criteri di interesse 
pubblico definiti dalla legge e che i pubblici poteri non rinuncino alle proprie prerogative 
a fa_vore di operatori economici privati, ma tengano conto, prima dell'approvazione 
delle proposte, delle osservazioni di altri organismi pubblici e privati, 
o addirittura fissino le tariffe d'ufficio. 
Sulla terza questione 

38. -Con la terza questione, il giudice a quo domanda se la nozione di interesse 
generale cui la Corte ha fatto riferimento nelle citate sentenze Reiff e Delta 
Schiffahrts-und Speditionsgesellschaft corrisponda alla nozione di interesse pubblico 
di cui fa menzione la citata sentenza Centro Servizi Spediporto. 
39. -A questo proposito si deve rilevare, come ha fatto l'avvocato generale al 
paragrafo 40 delle sue conclusioni, che, in ciascuna di queste tre sentenze, la Corte ha 
esaminato, alla luce degli stessi criteri, se il comitato tariffario di cui si tratta, nel fissare 
le tariffe, dovesse tener conto anche di interessi diversi da quelli degli operatori 
economici rappresentati nel suo seno e se il ministro, dal canto suo, prima di adottare 
le tariffe, dovesse domandare il parere di soggetti terzi rispetto a tali operatori. 

�.. 
RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

352 

40. -Cos� facendo, la Corte ha inteso evidenziare che gli interessi della collettivit� 
devono prevalere sugli interessi particolari dei singoli operatori. 
41. -Ci� considerato, si deve dichiarare che le nozioni di interesse generale e 
I

di interesse pubblico hanno significato equivalente. 

42. -La terza questione va pertanto risolta nel senso che la nozione di interesI


se generale richiamata dalla Corte nelle citate sentenze Reiff e Delta Schiffahrtsund 
Speditionsgesellschaft corrisponde a quella di interesse pubblico di cui � menzione 
nella citata sentenza Centro Servizi Spediporto. 

Sulla quarta e sulla quinta questione 

43. -Con la quarta e la quinta questione, che occorre esaminare congiuntamente, 
il giudice a quo domanda se criteri concreti di fissazione delle tariffe, come 
quelli in vigore nell'ordinamento giuridico italiano, siano conformi all'interesse 
pubblico nel senso della citata sentenza Centro Servizi Spediporto. 
44. -Al fine di fornire una soluzione utile al giudice a quo, si deve rammentare 
che, secondo una costante giurisprudenza, il combinato disposto degli artt. 85 e 
86 con l'art. 5 del Trattato fa obbligo agli Stati membri di non adottare o mantenere 
in vigore provvedimenti, anche di natura legislativa o regolamentare, che possano 
rendere praticamente inefficaci le norme sulla concorrenza applicabili alle imprese 
(sentenza Centro Servizi Spediporto, cit., punto 20). 
45. -Cos�, al fine di evitare che la loro azione conduca ad impedire, restringere 
o falsare il gioco della concorrenza, gli Stati devono necessariamente tenere conto 
dell'interesse pubblico. 
46. -Spetta quindi agli Stati membri determinare i criteri che consentono il 
rispetto ottimale delle regole comunitarie della concorrenza. 
47. -Spetta poi ai giudici nazionali controllare se, nella pratica, i criteri di interesse 
pubblico definiti nell'ambito normativo nazionale siano rispettati. 
48. -Si deve quindi risolvere la quarta e la quinta questione nel senso che spetta 
1tgli Stati membri determinare i criteri concreti di fissazione delle tariffe, come 
quelli in vigore nell'ordinamento giuridico italiano, e ai giudici nazionali controllare 
se, nella pratica, i criteri cos� definiti siano rispettati. 
Sulla sesta questione 

49. -Con l'ultima questione, il giudice a quo domanda se la possibilit� di stipulare 
accordi collettivi che, per il diritto nazionale, hanno efficacia nei confronti di 
operatori che non li hanno sottoscritti, come quelli di cui si tratta nella causa a qua, 
sia atta a violare l'art. 85 del Trattato. 
50. -A questo proposito occorre ricordare, in primo luogo, che la Corte ha gi� 
dichiarato che la possibilit� di concludere accordi collettivi, ai sensi dell'art. 13 del 
decreto ministeriale 18 novembre 1982, non � diretta a limitare la concorrenza, 
bens� consente talune deroghe alle tariffe obbligatorie ed � idonea pertanto ad 
aumentare le possibilit� di concorrenza (sentenza Centro Servizi Spediporto, cit., 
punto 29). 

PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 

353 

51. -Occorre poi rilevare che, come la Commissione ha osservato e l'avvocato 
generale rilevato al paragrafo 55 delle sue conclusioni, spetta allo Stato membro 
interessato definire e delimitare la cerchia degli operatori nei cui confronti accordi 
collettivi spiegano la loro efficacia. 
52. -Si deve quindi risolvere la sesta questione nel senso che la possibilit� di 
concludere accordi collettivi, come quelli figuranti all'art. 13 del decreto ministeriale 
18 novembre 1982, efficaci, in virt� del diritto nazionale, anche nei confronti 
degli operatori che non li hanno sottoscritti, non ha per effetto di restringere la concorrenza 
ai sensi dell'art. 85 del Trattato. (omissis) 
CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNIT� EUROPEE, sez. sa, 16 luglio 1998, 
nella causa C-136/96 -Pres. Gulmann -Rei. Wathelet -Avv. Gen. Mischo. 
Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunal de grande instance di 
Parigi nella causa The Scotch Whisky Association c. Cotepp, Prisunic SA e SARL. 
Interv.: Governi francese (ag. Dobelle e Nadal), tedesco (ag. Roder), spagnolo (ag. 
P�rez de Ayala Becerril), irlandese (ag. Buckley), italiano (avv. Stato Fiumara) e 
del Regno Unito (ag. Ridley) e Commissione della C.E. (ag. Iglesias e Lewis). 

Comunit� europee -Definizione, designazione e presentazione delle bevande 
spiritose -Modalit� d'uso del termine generico �whisky>> -Bevande composte 
esclusivamente di whisky ed acqua. 

(direttiva del Consiglio 18 dicembre 1978, n. 79/112/CEE, artt. 2, 3 e 7; regolamento CEE 
del Consiglio 29 maggio 1989, n. 1576, artt. 1, 3, 5, 6, 7, 8, 9, 12; regolamento CEE della 
Commissione 24 aprile 1990 n. 1014 e succ. mod., art. 7). 

L'art. 5 del regolamento (CEE) del Consiglio 29 maggio 1989, n. 1576, che stabilisce 
le regole generali relative alla definizione, alla designazione e alla presentazione 
delle bevande spiritose, osta all'inclusione del termine generico �whisky� 
tra i termini della denominazione di vendita di una bevanda spiritosa contenente 
whisky diluito con acqua avente un titolo alcolometrico volumico inferiore al 40%, 
oppure all'�ggiunta del termine �whisky� alla denominazione �bevanda spiritosa� 
applicata a una bevanda del genere (1). 

(Omissis). 

1. -Con ordinanza 23 febbraio 1996, pervenuta alla Corte il 25 aprile successivo, 
il Tribunal de grande instance di Parigi ha presentato, ai sensi dell'art. 177 del 
Trattato CE, una questione pregiudiziale vertente sull'interpretazione del regolamento 
(CEE) del Consiglio 29 maggio 1989, n. 1576, che stabilisce le regole gene(
1) La tutela comunitaria di denominazioni di prestigio: whisky e bevande spiritose. 
Il regolamento CEE del Consiglio 29 maggio 1989 n. 1576, adottato a norma degli articoli 
43 e 1 OOA del Trattato di Roma, stabilisce le regole generali relative alla definizione, alla designazione 
e alla presentazione delle bevande spiritose. Dichiarato scopo della normativa � impedire 
che denominazioni di prestigio possano essere utilizzate come denominazioni di vendita di 
bevande di imitazione ottenute con costi di produzione notevolmente inferiori. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

354 

rali relative alla definizione, alla designazione e alla presentazione delle bevande 
spiritose (Gazzetta Ufficiale legge 160, pag. 1). 

2. -Tale questione � stata sollevata nell'ambito di una controversia che oppone 
la The Scotch Whisky Association; societ� di diritto scozzese avente ad oggetto 
la tutela e la promozione degli interessi del commercio del whisky scozzese nel 
mondo e la difesa in giudizio di tali interessi, alla Compagnie financi�re europ�enne 
de prises de participation (in prosieguo: la �Cofepp�, precedentemente denominata 
La Martiniquaise LM), alla Prisunic SA e alla Centrale d'achats et de services 
alimentaires SARL (Casal), riguardo alla distribuzione da parte di queste ultime di 
una bevanda dal titolo alcolometrico volumico pari a 30� con una denominazione 
comprendente il termine �whisky�. 
(omissis) 

22. -La Cofepp � titolare del marchio �Gold Rivern, depositato il 30 marzo 
1988, utilizzato per vini, bevande spiritose, liquori e in particolare whisky che 
essa adopera per una bevanda avente titolo alcolometrico minimo di 30�, elaborata 
attraverso l'unione di taluni whisky di origine scozzese, canadese e nord americana 
con acqua. Sull'etichetta delle bottiglie contenenti tale bevanda vi sono i 
termini �Blended Whisky Spirit� e �spiriteux au whisky� (bevanda spiritosa a 
base di whisky). 
23. -La Scotch Whisky Association ha fatto accertare dall'ufficiale giudiziario, 
in due occasioni, nel 1992 e nel 1993, che la Prisunic SA vendeva, in svariati 
negozi parigini, bevande alcoliche di marca Gold River sugli stessi scaffali in cui si 
trovavano i whisky. 
24. -La Scotch Whisky Association ha citato davanti al Tribuna! de grande 
instance di Parigi le societ� Cofepp, Prisunic SA e la Centrale d'achats et de services 
alimentaires SARL (Casal) al fine, in particolare, di far accertare gli atti di concorrenza 
sleale che queste ultime avevano commesso nei suoi confronti. 
La Corte, affrontando il problema della vendita di un prodotto formato da whisky miscelato 
con acqua s� da portare la gradazione complessiva della bevanda a soli 30% voi., ha adottato 
una soluzione rigida, cos� come proposto dal Governo italiano e da alcuni degli altri Governi 
intervenuti nell'intento di assicurare una tutela reale ed effettiva ai vari prodotti di classe. 

L'art. 1 n. 2 del reg. 1576/89 definisce �bevanda spiritosa� il liquido alcolico destinato al 
consumo umano, con determinate caratteristiche organolettiche e ottenuto con determinati procedimenti, 
che abbia un titolo alcolometrico minimo di 15%: � bevanda spiritosa innanzitutto una 
bevanda destinata al consumo umano. 

Il successivo n. 4 lett. b) dello stesso articolo definisce �whisky� la bevanda spiritosa, cio� 
una bevanda destinata al consumo umano, ottenuta per distillazione di un mosto di cereali avvenuto 
attraverso uno specifico procedimento. 

E infine l'art. 3 n. 1 precisa che per poter essere �destinata al consumo umano� la bevanda 
spiritosa specificamente classificata come �whisky� deve possedere un titolo alcolometrico 
minimo di 40%. 

Queste tre disposizioni -aveva osservato il Governo italiano -vanno lette congiuntamente. 
Se � bevanda spiritosa il liquido alcolico �destinato al consumo umano� (prima disposizione), 
vuol dire che il titolo alcolometrico minimo di 40% perch� una bevanda spiritosa possa essere 


PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 

355 

25. -Secondo la Scotch Whisky Association, poich� il regolamento n. 1576/89 
fissa al 40% il titolo alcolometrico minimo del whisky, � contrario ad esso smerciare 
una bevanda spiritosa a 30� con una denominazione comprendente il termine 
�whisky�. 
26. -La Cofepp afferma di non far pi� uso, dopo l'entrata in vigore del regolamento 
n. 1576/89, della denominazione �whisky>> per la distribuzione di whisky a gradazione 
alcolica ridotta. Essa l'ha sostituita con quella di �Blended Whisky Spirit� in inglese e 
di �spiriteux au whisky>> in francese, denominazione che essa ritiene conforme al regolamento 
n. 1576/89. Essa ritiene tale regolamento. non chiaro a causa dell'introduzione 
del regolamento n. 2.675/94 che definisce le bevande per le quali nell'etichettatura deve 
essere utilizzata la denominazione di bevande spiritose senza altri aggettivi. La Cofepp 
interpreta il regolamento n. 1576/89 nel senso che � necessario distinguere tra l'aggiunta 
di alcol etilico di origine agricola da un lato, nel qual caso � vietato l'utilizzo del termine 
�whisky� nella denominazione di una bevanda spiritosa, e la diluizione dall'altro. 
Quest'ultima, dato il modo in cui � ottenuta, e cio� attraverso un aggiunta di acqua tale 
da abbassare da 40� a 30� il tasso di alcol della miscela di whisky da essa smerciata, non 
si vedrebbe colpita dal divieto di utilizzazione del termine generico �whisky>>. 
27. -Ritenendo necessario per la soluzione della lite un'interpretazione del 
regolamento n. 1576/89, il Tribuna! de grande instance de Paris ha deciso di sospendere 
il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione: 
�Se, tenuto conto della disciplina europea e, in particolare, dell'art. 5 del regolamento 
(CEE) del Consiglio 29 maggio 1989, n. 1576, il termine generico 
�whisky� possa comparire tra i termini della denominazione di vendita delle bevande 
spiritose composte esclusivamente di whisky diluito in acqua in modo che il titolo 
alcolometrico volumico � inferiore a 40��. 

28. -Per risolvere tale questione, occorre anzitutto chiarire che una bevanda 
come il Gold River costituisce una bevanda spiritosa ai sensi dell'art. 1, n. 2, del regolamento 
n. 1576/89 e che, di conseguenza, rientra nel suo campo di applicazione. 
destinata al consumo umano con la denominazione di �whisky� (terza disposizione) caratterizza 
e individua lo �whisky� al di l� e in pi� della composizione del prodotto e del procedimento di 
fabbricazione indicati nella seconda disposizione. 

In altre parole � �whisky� solo la bevanda spiritosa ottenuta conformemente a quanto dispone 
il n. 4 lett. b) e che abbia una gradazione alcolica di almeno 40%. Se manca uno di questi 
due elementi, abbiamo una �bevanda spiritosa� (sempre che il titolo alcolometrico sia di almeno 
15%), ma non abbiamo uno �whisky�. 

Non pu�, quindi, ritenersi (come pur era stato sostenuto in giudizio da alcuni) che una 
bevanda che abbia le caratteristiche di cui all'art. 1 n. 4 punto b) sia pur sempre uno �whisky�, 
sol che -a norma del successivo articolo 3 -non potrebbe essere denominato tale. Se cos� fosse 
sarebbe �whisky� anche un prodotto con un titolo alcolometrico di 16% che di whisky non ha 
nulla se non forse un vago odore. 

Certamente una bevanda che abbia come sua componente un qualcosa proveniente dalla 
distillazione di mosto di cereali con il procedimento di cui al n. 4 lett. b) o pi� specificatamente 
un qualcosa che gi� sia formato come �whisky�, sar� senz'altro, dal punto di vista naturalistico, 
una �bevanda al whisky�: una �bevanda spiritosa al whisky� se la gradazione � di almeno 15%, 
ovvero una pura e semplice �bevanda al whisky� (coca cola al whisky; pepsi cola al whisky) se 
la gradazione � inferiore. Ma non � whisky e non pu� essere denominata whisky. 



356 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 
29. -Si deve rilevare, poi, che l'art. 5, n. 1, primo comma, del regolamento 
n. 1576/89 riserva la denominazione �whisky� alle bevande spiritose aventi le caratteristiche 
di cui agli artt. 1, n. 4, lett. b), e 3, n. 1. 
30. -Ne risulta che una bevanda come il Gold River, composta esclusivamente 
di whisky diluito con acqua in modo che il titolo alcolometrico volumico sia inferiore 
a 40�, non costituisce un �whisky� ai sensi del regolamento n. 1576/89 e non 
pu� essere venduta sotto tale denominazione, cosa che d'altronde non � contestata 
nel giudizio a quo. 
31. -L'art. 5, n. 1, secondo comma, prima e seconda frase, del regolamento 
n. 1576/89 dispone che per le bevande che non rispondono ai requisiti prescritti 
all'articolo 1, n. 4, non possono essere utilizzate le denominazioni ivi precisate e 
devono essere denominate �bevande spiritose�. 
32. -Secondo la Cofepp, l'art. 5, n. 1, secondo comma, seconda frase, del regolamento 
n. 1576/89 dovrebbe essere interpretato nel senso che le bevande ivi contemplate 
devono presentare nella loro denominazione di vendita i termini �bevanda 
spiritosa�, ma che altri termini, come �whisky�, potrebbero esservi aggiunti dal 
momento che tale disposizione non disciplina il caso in cui altri termini diretti ad 
informare il consumatore sui componenti della miscela e in particolare sull'unico 
componente alcolico vi siano aggiunti. 
33. -Tale interpretazione non pu� essere accolta. Come rilevato dall'avvocato 
generale ai paragrafi 17 e 18 delle sue conclusioni, l'art. 5, n. 1, del regolamento 
n. 1576/89 prescrive che un prodotto come il Gold River deve essere denominato 
�bevanda spiritosa� e non pu� ricevere le denominazioni di cui all'art. 1, n. 4, di tale 
regolamento, ossia il termine �whisky� non pu� figurare nella denominazione di 
vendita di tale prodotto. 
34. -La Cofepp e il governo francese si sono anche fondati sull'art. 6 del regolamento 
n. 1576/89, in forza del quale disposizioni particolari possono disciplinare 
Pu� chiamarsi allora �bevanda al whisky�? Se non vi fosse alcuna regolamentazione, certamente 
s�, perch� la denominazione corrisponde alla realt� della composizione. 
Ma una regolamentazione c'�, per quanto riguarda le bevande spiritose, quelle cio� il cui 
grado alcolometrico � come minimo 15%. Ed � appunto l'art. 5 n. 1 a dire che le �bevande spiritose
� che non rispondono ai requisiti minimi di cui agli articoli precedenti possono essere chiamate 
solo e semplicemente �bevande spiritose�; cio� una bevanda spiritosa che abbia in s� una componente 
di whisky, non solo non pu� essere chiamata whisky, perch� whisky non �, ma non pu� essere 
neppure chiamata �bevanda spiritosa al whisky� (o espressione similare), ma solo �bevanda 
spiritosa�. Non v'� alcuna altra disposizione che consenta una aggiunta alla mera dizione di bevanda 
spiritosa: non lo consente l'art. 6 dello stesso regolamento 1576/89, perch� non esistono disposizioni 
particolari che lo prevedano; non lo consente l'art. 7quater del reg. 1014/90 mod. dal reg. 
2675/94, perch� esso riguarda specificamente tutt'altra fattispecie. Ma il divieto di aggiunta della 
componente specifica � confermato addirittura testualmente dall'art. 8 del reg. 1576/89, che vieta 
l'associazione di parole o formule quali �genere�, �tipo�, �modo�, ecc. 
Tutto ci� � dovuto ad una precisa scelta legislativa, che trova la sua logica ragione nella 
opportunit� di proteggere:-da un lato la reputazione di qualit� di certe bevande spiritose di 
grande rinomanza (che richiedono un certo investimento e un certo costo, anche fisca-
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PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 

357 

le indicazioni aggiunte alla denominazione di vendita, per sostenere che l'uso di 
indicazioni aggiunte alla denominazione di vendita �bevande spiritose� imposta 
dall'art. 5, n. 1, secondo comma, seconda frase, del regolamento n. 1576/89, � libero, 
dal momento che non sono state adottate disposizioni ai sensi dell'art. 6 per 
escluderlo espressamente. 

35. -A questo proposito si deve osservare, come ha fatto l'avvocato generale 
ai paragrafi 23 e 25 delle sue conclusioni, che l'aggiunta di indicazioni alla denominazione 
di vendita non � libera. 
36. -In primo luogo, essa presuppone un'autorizzazione da parte della 
Commissione in base al potere di deroga conferitole dall'art. 6, n. 1 del regolamento 
n. 1576/89. 
3 7. -Infatti dalla sentenza 7 luglio 1993 (causa C-217 /91, Spagna/Commissione 
Racc., 1-3923, punto 20) emerge che il divieto posto dall'art. 5, n. 1, del regolamento 
n. 1576/89 di utilizzare una denominazione di cui all'art. 1, n. 4, del regolamento 
per designare bevande spiritose diverse da quelle ivi definite, � pienamente applicabile 
fatta salva unicamente la facolt�, attribuita dal Consiglio alla Commissione, di 
derogarvi espressamente nell'ambito delle competenze che le sono devolute dall'art. 
6, n. 1. 
38. -In secondo luogo, dal dettato stesso dell'art. 6 del regolamento n. 1576/89 
emerge che il potere di deroga riconosciuto alla Commissione dal n. 1 � limitato, 
ai sensi del n. 3, a quanto necessario per evitare che le denominazioni di vendita 
comportanti indicazioni addizionali �creino confusione, tenuto conto specialmente 
dei prodotti esistenti al momento dell'entrata in vigore del presente regolamento
�. 
39. -L'uso di un'indicazione addizionale come �whisky� nella denominazione 
di vendita � dunque escluso dall'art. 5 del regolamento n. 1576/89, salvo il caso di 
deroghe ai sensi dell'art. 6 del regolamento, che mancano nel caso di specie. 
le);-da un altro lato il consumatore che pu� essere tratto in inganno dalla presentazione e 
dalla denominazione di un prodotto che visivamente richiami un altro prodotto (non tutti i consumatori 
sono in grado di distinguere <<prima facie� un prodotto originale da un prodotto similare). 

Diverso � il caso delle bevande non spiritose: per esse -con gradazione alcolica inferiore 
al 15% -non v'� una regolamentazione specifica, evidentemente perch�, proprio per la bassissima 
percentuale alcolica, non v'� pericolo di confusione (si pensi alle gi� citate confezioni in lattina 
di coca cola o pepsi cola al whisky). 

Sia ben chiaro. Non v'� nulla che impedisca la libera circolazione di una bevanda spiritosa 
che abbia fra le sue componenti lo whisky; solo che essa non pu� chiamarsi �whisky� (perch� 
whisky non �), n� pu� chiamarsi �bevanda spiritosa al whisky� (perch� lo vieta il legislatore). 

Esclusa la possibilit� di inserire il termine �whisky� nella denominazione di vendita di una 
bevanda con gradazione alcolica complessiva inferiore al 40%, la Corte si � data cura anche di 
verificare se il termine dovesse in tal caso essere escluso comunque dall'etichettatura del prodotto. 
Ed accogliendo anche sul punto il suggerimento del Governo italiano, essa ha dato una risposta 
negativa. 

Invero una cosa � la denominazione di vendita e altra cosa � l'etichettatura. La prima fa parte 
della seconda ma non si identifica con essa. L'etichettatura ben pu� contenere qualcosa di pi� 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

358 


40. -La Cofepp ha d'altronde sostenuto che l'art. 5 del regolamento n. 1576/89 
non poteva essere interpretato come un divieto di utilizzazione di un termine generico 
di cui all'art. 1, n. 4, del regolamento nella denominazione di vendita di una 
bevanda non corrispondente alle specificazioni previste per il prodotto in questione, 
poich� nel regolamento esiste una disposizione distinta che prevederebbe l'unico 
divieto esplicito in materia. Infatti l'art. 9 del regolamento n. 1576/89 vieterebbe 
espressamente l'uso di un termine generico riservato come �whisky� nella presentazione 
di una bevanda spiritosa composta del prodotto in questione e di alcol etilico 
di origine agricola. Tale disposizione non si giustificherebbe se l'art. 5 contenesse 
gi� un divieto del genere. 

41. -Questa interpretazione non pu� essere accolta. Infatti l'art. 5 disciplina la 
denominazione di vendita mentre l'art. 9 impone, quanto alla presentazione del prodotto 
nel suo complesso, un divieto generale di utilizzare sotto qualsiasi forma il termine 
riservato. 
42. -La Cofepp si � poi basata sul regolamento n. 1014/90 modificato, che � 
un regolamento d'attuazione del regolamento n. 1576/89, sostenendo che, poich� 
l'art. 7 ter del regolamento n. 1O14/90, introdotto dal regolamento n. 1781/91, prevede 
che una denominazione generica rientrante nella composizione di un termine 
composto pu� essere utilizzata nella presentazione di una bevanda spiritosa allorch� 
l'alcol della bevanda in esame proviene esclusivamente dalla bevanda citata nel termine 
composto, un prodotto che non contenga sostanze alcol�che se non whisky 
dovrebbe poter includere tale termine nella sua denominazione di vendita. 
D'altronde, visto che l'art. 7 quater, introdotto dal regolamento n. 2675/94, prescrive 
l'uso della denominazione di vendita senza altri aggettivi nell'etichettatura allorch� 
si tratti di bevande spiritose miscelate con altre bevande spiritose o con distillati 
di origine agricola, l'aggiunta di aggettivi nella denominazione di vendita sarebbe 
ammessa in tutti gli altri casi. 
43. -Come rilevato dall'avvocato generale al paragrafo 43 delle sue conclusioni, 
i termini �spiriteux au whisky� non costituiscono termini composti ai sensi 
della mera denominazione di vendita del prodotto. Ed appunto appar bene condivisibile la possibilit� 
riconosciuta dalla Corte di inserire la menzione della componente �whisky� in una eventuale 
lista degli ingredienti, anche, in ipotesi, in prossimit� della denominazione di vendita, sempre 
che non crei confusione con la denominazione stessa: sar� poi compito del giudice nazionale 
verificare se tale indicazione non sconfini proditoriamente nella stessa denominazione di vendita, 
venendo cos� a cadere nel divieto di far figurare in essa aggiunte non consentite. 

Non appare invece condivisibile la soluzione pi� drastica da alcuni proposta, secondo cui la 
parola �whisky� non pu� figurare neanche nella eventuale lista degli ingredienti. E ci� anche se 
� suggestivo l'argomento in ordine alla illogicit� di ammettere che un prodotto abbia quali suoi 
componenti lo whisky, che � gi� formato di distillato di mosto di cereali pi� acqua, allorch� si 
eleva puramente e semplicemente la percentuale di acqua abbassando cos� il tenore alcolico: ci 
sembra, per�, che questa considerazione urti contro il fatto che la bevanda di cui si discute non � 
un distillato di mosto in cui la percentuale di acqua sia maggiore, ma un composto di whisky (o 
di pi� qualit� di whisky) gi� completo che �successivamente� viene diluito in altra acqua, ottenendo 
un prodotto meno alcolico. 

OSCAR FIUMARA 



PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 

dell'art. 7 ter del regolamento n. 1014/90. Anzitutto emerge dal secondo 'considerando' 
del regolamento n. 1781191 che questo si applica ai liquori. Inoltre, con 
l'espressione �termine composto� il legislatore comunitario ha inteso far riferimento 
all'associazione della denominazione di due bevande distinte, e non a 
quella di bevande spiritose e whisky, quest'ultima costituendo essa stessa una 
bevanda spiritosa. Riguardo all'art. 7 quater del regolamento n. 1014/90, introdotto 
dal regolamento n. 2675/94, esso si riferisce a prodotti diversi da una 
miscela di whisky ed acqua e s'inserisce, come indicato dai 'considerando' del 
regolamento n. 2675/94, in un contesto generale volto a garantire una concorrenza 
leale tra le bevande alcoliche tradizionali protette e le altre e ad evitare confusione 
per il consumatore. Non pu� servire da base per una interpretazione che 
priverebbe d'effetto l'art. 5 del regolamento n. 1576/89 e porterebbe ad un risultato 
non conforme a tali scopi. 

44. -La Cofepp si � infine fondata sulla direttiva 79/112 ed in particolare sull'art. 
5, n. 1, per sostenere il suo diritto all'uso del termine �a base di whisky� nella 
denominazione di vendita del prodotto Gold River. Ai sensi dell'art. 5, n. 1, della 
direttiva, la denominazione di vendita di un prodotto alimentare sarebbe la denominazione 
prevista dalle disposizioni vincolanti in vigore e, in mancanza, consisterebbe 
in una descrizione del prodotto alimentare. 
45. -Poich� l'art. 5 del regolamento n. 1576/89 costituisce una disposizione 
vincolante in materia di denominazione di vendita di una bevanda come il Gold 
River, non si pu� ricorrere ad una denominazione descrittiva per designare tale 
bevanda. 
46. -Tuttavia, riguardo alla direttiva 79/112, occorre precisare che, ai sensi del1'
art. 7, n. 1, se l'etichettatura di un prodotto alimentare pone in rilievo la presenza 
o il limitato tenore di uno o pi� ingredienti essenziali per le caratteristiche di tale 
prodotto, o se la denominazione di quest'ultimo comporta lo stesso effetto, dev'essere 
indicata, a seconda dei casi, la quantit� minima o massima di utilizzazione di 
tali ingredienti, espressa in percentuale, e tale indicazione deve figurare nell'etichettatura, 
in prossimit� immediata della denominazione di vendita di tale prodotto 
oppure ne li' elenco degli ingredienti. 
47. -Di conseguenza sebbene, in forza dell'art. 5, n. 1, del regolamento n. 1576/89, 
il termine �whisky� non possa figurare in alcun modo nella denominazione di vendita 
di un prodotto come il Gold River, pu� tuttavia, ai sensi dell'art. 7, n. 1, della direttiva 
79/112, figurare sull'etichettatura di tale prodotto a condizione, come previsto in 
maniera generale dall'art. 2, n. 1, della direttiva 79/112, che l'etichettatura di un prodotto 
alimentare non sia tale da indurre in errore l'acquirente sulle caratteristiche del 
prodotto alimentare e specialmente sulla sua natura e sulle sue qualit�. A questo proposito 
occorre precisare, come fatto dall'avvocato generale al paragrafo 33 delle sue 
conclusioni, che il regolamento n. 1576/89 � una disposizione specifica che prevale 
dunque sulla direttiva 79/112. Di conseguenza, bench� il termine �whisky� possa figurare 
senza riserve nell'elenco degli ingredienti, tale indicazione pu� apparire in prossimit� 
immediata della denominazione di vendita solo se in modo chiaramente distinto e 
pi� discreto, pena l'inefficacia del divieto di uso del termine �whisky� nella denominazione 
di vendita. 

RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO

360 

48. -Occorre pertanto risolvere la questione sollevata nel senso che l'art. 5 del 
regolamento n. 1576/89 osta all'inclusione del termine generico �whisky� tra itermini 
della denominazione di vendita di una bevanda spiritosa contenente whisky 
diluito con acqua avente un titolo alcolometrico volumico inferiore al 40% o all'aggiunta 
del termine �whisky� alla denominazione �bevanda spiritosa� applicata a 
una bevanda del genere. (omissis) 
CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNIT� EUROPEE, Plenum, 16 luglio 1998, 
nella causa C-355/96 -Pres. Rodriguez Iglesias -Rei. Gulmann -Avv. Gen. 
J acobs '-Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall'Oberster 
Gerichtshof (Austria) nella causa Silhouette Intemational Schmied Gmbh c/ 
Hartlauer -Interv.: Governi austriaco (ag. Okresek), tedesco (ag. Dittrich e 
Kloke), francese (ag. de Salins), italiano (avv. Stato Fiumara), svedese (ag. 
Brattgard, Norstrom e Simfors) e del Regno Unito (ag. Lindsey e avv. 
Silverleaf) e Commissione delle C.E. (ag. Grunwald e Drijber). 

Comunit� europee -Libera circolazione delle merci -Tutela della propriet� 
industriale e commerciale -Diritto di marchio -Esaurimento -Merce 
messa in commercio nella Comunit� o in un paese terzo. 

I

(Trattato CE, artt. 30 e 36; direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, n. 89/104/CEE; accordo 
sullo Spazio economico europeo 2 maggio 1992). 

I 

Comunit� europee -Libera circolazione delle merci -Tutela della propriet� m 
industriale e commerciale -Diritto di marchio -Mezzi di tutela nazionali. 
(Trattato CE, artt. 30 e 36; direttiva del Consiglio 21dicembre1988, n. 89/104/CEE, art. 7). 

I 

L'art. 7, n. 1, della prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 
89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di 
marchi d'impresa, come modificata dall'accordo sullo Spazio economico europeo 2 

I

maggio 1992, osta a norme nazionali che prevedano l'esaurimento del diritto con
�' 
ferito. da un marchio d'impresa per prodotti messi in commercio al di fuori dello 

Spazio economico europeo con detto marchio dal titolare o con il suo consenso (1). 

(1) Soluzione conforme a quella proposta dal Governo italiano, dalla Commissione e dagli 
altri Governi intervenuti, con l'eccezione del Governo svedese, il quale non negava la portata 
dell'art. 4 della direttiva, secondo cui l'esaurimento del marchio si avrebbe solo nell'ambito 
comunitario, ma sosteneva che la disposizione non costituisce un vincolo assoluto per gli Stati 
membri, in quanto essi sarebbero pur sempre liberi di prevedere il pi� vasto esaurimento internazionale: 
e ci� perch� la direttiva ha come base giuridica l'art. 100 A del Trattato CE e questo 
consente alla Comunit� di adottare misure comuni sempre che abbiano per oggetto l'instaurazione 
e il funzionamento del mercato interno, con esclusione dei rapporti con i paesi terzi. 

La Corte ha confermato che, a norma dell'art. 7 n. 1 della direttiva, non pu� parlarsi di altro 
che di esaurimento comunitario (cio� nell'ambito del territorio comunitario e poi, in virt� del successivo 
accordo sullo Spazio economico europeo, nell'ambito di tale spazio). Conforta questa 
interpretazione sia la lettera che la ratio della norma. La lettera, perch� si parla di �immissione 
in commercio nella Comunit�� (e poi nello Spazio economico europeo) e la limitazione � stata 


PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAtIONALE 

361 

L'art. 7, n. 1, della direttiva 891104 non pu� essere interpretato nel senso che, 
sulla base di questa sola disposizione, il titolare di un marchio ha la facolt� di ottenere 
che venga inibito a un terzo di usare il marchio per prodotti che sono stati 
messi in commercio al di fuori dello Spazio economico europeo con detto marchio 
dal titolare stesso o con il suo consenso (2). 

(omissis) 1. -Con ordinanza 15 ottobre 1996, pervenuta in cancelleria il 30 
ottobre seguente, l'Oberster Gerichsthof ha sottoposto a questa Corte, ai sensi dell'art. 
177 del Trattato CE, due questioni pregiudiziali vertenti sull'interpretazione 
dell'art. 7 della Prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 891104/CEE, sul 
ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d'impresa 
(Gazzetta Ufficiale 1989, L 40, 1, in prosieguo: la �direttiva�), come modificata 
dall'accordo sullo Spazio economico europeo 2 maggio 1994 (Gazzetta Ufficiale 
1994, L 1, 3, in prosieguo: l'�accordo SEE�). 

2. -Tali questioni sono state sollevate nell'ambito di una controversia che vede 
opposta la societ� austriaca Silhouette Intemational Schmied GmbH & Co. KG (in 
prosieguo: la �Silhouette�) alla societ� austriaca Hartlauer Handelsgesellschaft 
mbH (in prosieguo: la �Hartlauern). 
(omissis) 

specificamente voluta dal legislatore, che ha corretto una precedente proposta normativa cheprevedeva 
l'esaurimento internazionale. La ratio della norma � quella di assicurare la libera circolazione 
nell'ambito del territorio del mercato comune, eliminando le barriere fra gli Stati contraenti: 
a una logica completamente diversa risponderebbe invece la previsione di un 
esaurimento internazionale, che troverebbe giustificazione solo se reciprocamente fosse previsto 
da tutti gli altri Stati terzi coinvolti nell'esaurimento stesso. 

E -ha precisato la Corte -la direttiva non consente ad uno Stato membro di prevedere da solo 
l'esaurimento internazionale, perch� sarebbe frustrato altrimenti l'intento di armonizzazione, sia pure 
parziale, perseguito dalla direttiva accordandosi una minor tutela al marchio. E non � di ostacolo a tale 
interpretazione l'art. 100 A del Trattato, sulla cui base � stata emessa la direttiva. Essa, infatti, cos� 
come interpr~tata, non regola affatto i rapporti con gli Stati terzi: in realt�, infatti, la protezione del marchio 
� gi� assicurata dal Trattato e la disciplina dell'esaurimento si presenta come una deroga a tale 
protezione, sicch� ben pu� la Comunit� dettare una disciplina, in forza dell'art. 100 A, che limiti 
questa deroga al solo ambito comunitario, definendo cos� i diritti di cui godono i titolari di marchi 
all'interno della Comunit�. 

Per altri aspetti del c.d. esaurimento comunitario, cfr. la sentenza della Corte 5 dicembre 
1996, nelle cause riunite C-267 e 268/95, MERCK Il, in questa Rassegna, 1996, I, 250, con nota 
di FIUMARA, Le importazioni parallele di prodotti farmaceutici non brevettabili e il principio dell'esaurimento 
comunitario, e la giurisprudenza ivi citata. 

(2) Fermo che la direttiva non ha un'efficacia diretta orizzontale, secondo la ben nota giurisprudenza 
della Corte, il giudice austriaco voleva sapere se in base alla regola fissata dalla direttiva, 
in quanto trasfusa tal quale nell'ordinamento interno, il titolare del marchio possa invocare 
un'inibitoria. In tal senso inteso il quesito posto, una volta riconosciuto che il titolare del marchio 
pu� opporsi all'uso del marchio se il prodotto � stato immesso in commercio con il suo consenso 
in un paese terzo con il divieto di ritorno nell'ambito comunitario, sembrerebbe conseguenziale al 
riconoscimento del suo diritto all'uso esclusivo, salve le sole deroghe ammesse, la concessione di 
una inibitoria in suo favore: ma sar� pur sempre il giudice nazionale a dover stabilire, secondo le 
norme del diritto interno, in qual modo l'opposizione possa trovare idonea soddisfazione. 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STA!O'c. 

362 

Sulla prima questione 

15. -Con la prima questione l'Oberster Gerichtshof chiede in sostanza se l'art. 7, 
n. 1, della direttiva osti a norme nazionali che prevedano l'esaurimento del diritto conferito 
da un marchio per prodotti messi in commercio con detto marchio al di fuori del 
SEE dal titolare o con il suo consenso. 
16. -Occorre innanzi tutto ricordare che l'art. 5 della direttiva delimita i �diritti 
conferiti dal marchio di impresa� e che l'art. 7 contiene la regola relativa 
all'�esaurimento del diritto conferito dal marchio di impresa�. 
17. -Ai sensi dell'art. 5, n. 1, della direttiva, il marchio di impresa registrato 
conferisce al titolare un diritto esclusivo. Il medesimo paragrafo dispone inoltre, al 
punto a), che il diritto esclusivo d� la facolt� di vietare ai terzi, salvo consenso del 
titolare, di usare nel commercio, in particolare, un segno identico al marchio di 
impresa per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso � stato registrato. Ai termini 
dell'art. 5, n. 3, il quale enumera in modo non esaustivo i tipi di uso che il titolare 
pu� vietare in forza del n. 1, detta facolt� riguarda in particolare l'importazione 
e l'esportazione dei prodotti contraddistinti dal marchio di cui trattasi. 
18. -Al pari delle norme contenute nell'art. 6 della direttiva, che stabiliscono 
talune limitazioni degli effetti del marchio, l'art. 7 precisa che, nelle condizioni da 
esso stabilite, il diritto esclusivo conferito dal marchio � esaurito di modo che il titolare 
non ha pi� la facolt� di vietare l'uso del marchio stesso. L'esaurimento � innanzi 
tutto condizionato dal fatto che i prodotti siano stati immessi sul mercato dal titolare 
o con il suo consenso. Ora, secondo il testo stesso della direttiva, l'esaurimento 
ha luogo solo nel caso in cui i prodotti siano stati messi in commercio nella 
Comunit� (nel SEE dopo l'entrata in vigore dell'accordo SEE). 
19. -Occorre poi rilevare come non sia stato affatto sostenuto dinanzi alla Corte 
che la direttiva possa essere interpretata nel senso che essa sancisce l'esaurimento dei 
diritti conferiti dal marchio per prodotti posti in commercio dal titolare o con il suo consenso 
indipendentemente dal luogo in cui la messa in commercio � stata effettuata. 
20. -Per contro, la Hartlauer ed il governo svedese hanno sostenuto che la 
diretfiva lascia agli Stati membri la facolt� di prevedere nel proprio diritto nazionale 
un esaurimento non solo relativamente a prodotti posti in commercio nel SEE, ma 
anche per quelli messi in commercio in paesi terzi. 
21. -L'interpretazione della direttiva proposta dalla Hartlauer e dal governo svedese 
presuppone, tenuto conto della lettera dell'art. 7, che la direttiva si limiti, conformemente 
alla giurisprudenza della Corte relativa agli artt. 30 e 36 del Trattato CE, a fare 
obbligo agli Stati membri di stabilire l'esaurimento comunitario, ma che l'art. 7 non 
disciplini esaurientemente la questione relativa all'esaurimento dei diritti conferiti dal 
marchio, lasciando cos� agli Stati membri la facolt� di stabilire norme relative all' esaurimento 
che vadano oltre quelle espressamente sancite dall'art. 7 della direttiva. 
22. -Ora, come hanno fatto valere tanto la Silhouette, i governi austriaco, tedesco, 
francese, italiano e del Regno Unito, quanto la Commissione, siffatta interpretazione 
contrasta con la lettera dell'art. 7, nonch� con il sistema e con la finalit� 
delle norme della direttiva relative ai diritti conferiti dal marchio al suo titolare. 

PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 

23. -Al riguardo, va innanzi tutto rilevato che, anche se, a tenore del terzo 'considerando' 
della direttiva, �non appare attualmente necessario procedere ad un ravvicinamento 
completo delle legislazioni degli Stati membri in tema di marchi di 
impresa�, � pur vero che la direttiva contiene un'armonizzazione relativa a norme 
sostanziali che rivestono un'importanza fondamentale in materia, vale a dire, secondo 
lo stesso 'considerando', norme relative a disposizioni nazionali che hanno 
un'incidenza pi� diretta sul funzionamento del mercato interno, e che detto 'considerando' 
non esclude che l'armonizzazione relativa a dette norme sia completa. 
24. -Infatti, viene ricordato, al primo 'considerando' della direttiva, che le 
legislazioni che si applicano ai marchi d'impresa negli Stati membri presentano disparit� 
che possono ostacolare la libera circolazione dei prodotti e la libera prestazione 
dei servizi, nonch� falsare le condizioni di concorrenza nel mercato comune, 
cosicch�, nella prospettiva dell'instaurazione e del funzionamento del mercato interno, 
� necessario ravvicinare le legislazioni degli Stati membri. Al nono 'considerando' 
si sottolinea che � fondamentale, per agevolare la libera circolazione dei prodotti 
e la libera prestazione dei servizi, procurare che i marchi di impresa registrati 
abbiano negli ordinamenti giuridici di tutti gli Stati membri la medesima tutela, e 
che ci� non priva tuttavia gli Stati membri della facolt� di tutelare maggiormente i 
marchi di impresa che abbiano acquisito una notoriet�. 
25. -Alla luce di detti 'considerando' occorre interpretare gli artt. 5-7 della 
direttiva nel senso che essi contengono un'armonizzazione completa delle norme 
relative ai diritti conferiti dal marchio d'impresa. Tale interpretazione � peraltro corroborata 
dal fatto che l'art. 5 lascia espressamente agli Stati membri la facolt� di 
mantenere in vigore o di emanare talune norme specificamente delimitate dal legislatore 
comunitario. Cos�, secondo il n. 2 di detto articolo, al quale si fa riferimento 
nel nono 'considerando', gli Stati membri hanno la facolt� di accordare una tutela 
pi� estesa ai marchi che abbiano acquisito notoriet�. 
26. -Pertanto, la direttiva non pu� essere interpretata nel senso che essa lasci 
agli Stati membri la possibilit� di stabilire nel loro diritto nazionale l'esaurimento 
dei diritti conferiti dal marchio per prodotti posti in commercio in paesi terzi. 
27. -Tale interpretazione �, per di pi�, l'unica pienamente atta a realizzare la finalit� 
della direttiva, che � quella di salvaguardare il funzionamento del mercato interno. 
Infatti, una situazione nella quale alcuni Stati membri possano stabilire l'esaurimento 
internazionale, e altri soltanto l'esaurimento comunitario creerebbe inevitabilmente 
ostacoli alla libera circolazione delle merci e alla libera prestazione dei servizi. 
28. -Avverso detta interpretazione non si pu� obiettare, alla stregua di quanto 
fatto dal governo svedese, che la direttiva, essendo stata adottata in forza dell'art. 
100 A del Trattato CE, che disciplina il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati 
membri relative al funzionamento del mercato interno, non pu� regolare le relazioni 
tra gli Stati membri e i paesi terzi, cosicch� l'art. 7 della direttiva dovrebbe essere 
interpretato nel senso che questa riguarda unicamente i rapporti intracomunitari. 
29. -Infatti, anche ammettendo che l'art. lOOA del Trattato sia interpretato nel 
senso proposto dal governo svedese, si deve rilevare che l'art. 7, come � stato indicato 
nella presente sentenza, non mira a disciplinare i rapporti tra gli Stati membri e i paesi 
terzi, ma a definire i diritti di cui godono i titolari di marchi all'interno della Comunit�. 

RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO"� 

364 

30. -Infine, va osservato che le autorit� comunitarie competenti potrebbero 
sempre estendere, mediante la conclusione di accordi internazionali in materia come 
� stato fatto nell'ambito dell'accordo SEE -l'esaurimento previsto dall'art. 7. 
ai prodotti posti in commercio in paesi terzi. 
31. -Tenuto conto di quanto precede, occorre risolvere la prima questione nel 
senso che l'art. 7, n. 1, della direttiva, come modificata dall'accordo SEE, osta a 
norme nazionali che prevedano l'esaurimento del diritto conferito da un marchio 
d'impresa per prodotti messi in commercio al di fuori del SEE con detto marchio dal 
titolare stesso o con il suo consenso. 
Sulla seconda questione 

32. -Con la seconda questione l'Oberster Gerichtshof chiede in sostanza se 
l'art. 7, n. 1, della direttiva possa essere interpretato nel senso che, sulla base di questa 
sola disposizione, il titolare di un marchio ha la facolt� di ottenere che venga inibito 
a un terzo di usare il suo marchio per prodotti che sono stati messi in commercio 
al di fuori del SEE con detto marchio dal titolare stesso o con il suo consenso. 
I 

33. -Nella sua ordinanza di rinvio, quale precisata da una comunicazione successiva, 
l'Oberster Gerichtshof ha rilevato quanto segue: 
-la seconda questione � stata sollevata perch� il Markenschutzgesetz non disci


I plina alcuna azione inibitoria e non contiene neppure disposizioni corrispondenti 
all'art. 5, n. 1, lett. a), della direttiva. Di fronte alla violazione di un marchio l'azione 

I 

inibitoria potrebbe essere esperita solo qualora sussista, allo stesso tempo, una viola


IIzione dell'art. 9 dell'UWG, la cui applicazione presuppone un rischio di confusione, 
rischio che non esiste qualora si tratti di prodotti originali del titolare del marchio; 

-nel diritto austriaco, per lo meno secondo l'attuale dottrina, il titolare del 
marchio non pu� avvalersi di alcuna azione inibitoria nei confronti dell'importatore 
parallelo o del reimportatore di prodotti di marca, se l'azione inibitoria non discen


I

de direttamente dall'art. 1O a, n. 1, del Markenschutzgesetz. In base al diritto 

austriaco si pone pertanto la questione se l'art. 7, n. 1, della direttiva sui marchi, di ~ 
contenuto identico all'art. 1 Oa, n. 1, del Markenschutzgesetz, disciplini una siffatta 
azione inibitoria e se il titolare del marchio possa chiedere, unicamente sulla base di 
tale disposizione, che il terzo si astenga dal fare uso di un marchio per prodotti che 
sono stati messi in commercio con detto marchio al di fuori del SEE. 

34. -Al riguardo, occorre ricordare che, nel sistema della direttiva, i diritti conferiti 
dal marchio sono definiti dall'art. 5, mentre l'art. 7 contiene una precisazione 
importante riguardo a tale definizione in quanto dispone che i diritti conferiti dal1'
art. 5 non consentono al titolare di vietare l'uso del marchio quando siano soddisfatte 
le condizioni relative all'esaurimento previste da detta disposizione. 
35. -Di conseguenza, anche se � innegabile che la direttiva obbliga gli Stati 
membri ad emanare disposizioni in base alle quali il titolare di un marchio, in caso 
di violazione dei propri diritti, abbia la facolt� di ottenere che venga inibito ai terzi 
l'uso del marchio, si deve tuttavia rilevare che detto obbligo discende dall'art. 5 
della direttiva e non dall'art. 7. 

PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 

36. -Alla luce di tale considerazione, occorre ricordare, in primo luogo, che 
secondo una giurisprudenza costante, una direttiva non pu� di per s� creare obblighi 
a carico di un singolo e non pu� quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti. 
Ora, in secondo luogo, va sottolineato che, secondo la stessa giurisprudenza, 
nell'applicare il diritto nazionale, a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti 
o successive alla direttiva, il giudice nazionale chiamato ad interpretarlo 
deve farlo quanto pi� possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva per 
conseguire il risultato da questa perseguito e conformarsi pertanto all'art. 189, terzo 
comma, del Trattato CE (v., in particolare, sentenze 13 novembre 1990, causa C106/
89, Marleasing, Racc., 1-4135, punti 6 e 8, e 14 luglio 1994, causa C-91/92, 
Faccini Dori, Racc., I-3325, punti 20 e 26). 
37. -Occorre quindi risolvere la seconda questione come segue: con riserva 
di quanto si � appena osservato circa l'obbligo del giudice a quo di interpretare il 
diritto nazionale quanto pi� possibile in conformit� al diritto comunitario, I 'art. 7, 
n. 1, della direttiva non pu� essere interpretato nel senso che, sulla base di questa 
sola disposizione, il titolare di un marchio ha la facolt� di ottenere che venga inibito 
a un terzo di usare il marchio per prodotti che sono stati messi in commercio 
al di fuori del SEE con detto marchio dal titolare stesso o con il suo consenso. 
(omissis) 

I 

CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNIT� EUROPEE, Plenum, 15 settembre 
1998, nella causa C-231/96 -Pres. Rodriguez Iglesias -Rei. Puissochet -Avv. 
Gen. Ruiz -Jarabo Colomer -Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal 
Tribunale di Genova nella causa Edilizia Industriale Siderurgica s.r.l. (Edis) c. 
Ministero delle Finanze -Interv.: Governi italiano (avv. Stato Braguglia), francese 
(ag. de Salins e Mignot) e del Regno Unito (ag. Ridley e Paines) e 
Commissione delle C.E. (ag. Traversa). 

Comunit� europee -Tasse di concessione governativa -Ripetizione dell'indebito 
-Termini processuali nazionali. 
(Trattato CE, art. 5; direttiva del Consiglio 17 luglio 1969, n. 69/335/CEE; decreto del 
Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 641, art. 13; decreto legge 19 dicembre 
1984, n. 853, convertito in legge 17 febbraio 1985, n. 17; decreto legge 30 agosto 1993, 

n. 331 conv. in legge 29 ottobre 1993, n. 427; codice civile, art. 2946). 
1. -La circostanza che la Corte abbia pronunciato una sentenza pregiudiziale 
avente ad oggetto l'interpretazione di una disposizione di diritto comunitario senza 
limitare gli effetti nel tempo della detta sentenza non incide sul diritto di uno Stato 
membro di opporre alle azioni di ripetizione di tributi riscossi in violazione della 
detta disposizione un termine nazionale di decadenza. 2. -Il diritto comunitario non 
vieta a uno Stato membro di opporre alle azioni di ripetizione dei tributi riscossi in 
violazione del diritto comunitario un termine nazionale di decadenza triennale che 
deroga al regime ordinario del! 'azione di ripetizione dell'indebito tra privati, assoggettata 
a un termine pi� favorevole, purch� il detto termine di decadenza si applichi 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO.

366 

allo stesso modo alle azioni di ripetizione di tali tributi fondate sul diritto comunitario 
e a quelle fondate sul diritto interno. 3. -In circostanze come quelle della causa 
principale, il diritto comunitario non vieta a uno Stato membro di opporre alle azioni 
di ripetizione di tributi riscossi in violazione di una direttiva un termine nazionale 
di decadenza che decorra dalla data del pagamento dei tributi di cui trattasi, 
anche se, a tale data, la direttiva non era stata ancora correttamente attuata nel/'
ordinamento nazionale (1). 

II 

CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNIT� EUROPEE, Plenum, 15 settembre 
1998, nelle cause riunite C-279, 280 e 281/96 -Pres. Rodriguez Iglesias -Rei. 
Puissochet -Avv. Gen. Ruiz -Jarabo Colomber -Domande di pronuncia pregiudiziale 
proposte dal Tribunale di Genova nelle cause Ansaldo Energia s.p.a. 
ed altri c. Ministero delle Finanze -Interv.: Governi italiano (avv. Stato 
Braguglia), francese (ag. de Salins e Mignot)) e del Regno Unito (ag. Ridley e 
Paines) e Commissione delle C.E. (ag. Traversa). 

Comunit� europee -Tasse di concessione governativa -Ripetizione dell'indebito 
-Interessi. 
(Trattato C.E., art. 5; direttiva del Consiglio 17 luglio 1969 n. 69/335/CEE; decreto del 
Presidente della Repubblica 26 ottobre 1992, n. 641, art. 13; decreto legge 25 maggio 1994, 

n. 307, convertito in legge 22 luglio 1994, n. 457, art. 3). 
In caso di rimborso di imposte riscosse in violazione del diritto comunitario, 
quest'ultimo non osta al versamento di interessi secondo modalit� di calcolo meno 
favorevoli di quelle vigenti nel/' ambito del regime ordinario del/' azione di ripeti


. 
zione del/ 'indebito tra privati, purch� le dette modalit� si applichino allo stesso 
modo alle azioni proposte contro tali tributi fondate sul diritto comunitario e a quelle 
fondate sul diritto interno (2). 

(1-2) Della seconda sentenza si omette la pubblicazione della prima parte, in quanto ripete 
gli argomenti della prima sentenza. N elio stesso senso anche una terza sentenza, in pari data, 
nella causa C-260/96, SPAC s.p.a .. La Corte ha accolto le tesi prospettate dal Governo italiano 
(cfr. ora l'art. 11 della legge 23 dicembre 1998 n. 448 -c.d. collegato alla legge finanziaria 
1999 -che ha disciplinato il �rimborso della tassa sulle concessioni governative per l 'iscrizione 
nel registro delle imprese�). 

�La Corte -si era detto nelle osservazioni scritte -ha pi� volte affermato che soltanto 
essa � legittimata a limitare nel tempo gli effetti delle sue sentenze, in analogia a quando dispone 
l'art. 174, 2� comma, del trattato C.E .. 

�Va tuttavia rilevato -come del resto � evidente -che disciplinare le modalit� procedurali 
delle azioni giudiziarie a tutela dei diritti riconosciuti dalla sentenza della Corte, ovvero stabilire 
termini di prescrizione e/o di decadenza, non significa limitare nel tempo gli effetti della 
sentenza stessa. Non si incide, invero, sull'esistenza e/o sul contenuto dei diritti attribuiti dall'or



PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA EINTERNAZIONALE 

367 

I 

(omissis) 

1. -Con ordinanza 18 giugno 1996, pervenuta alla Corte l' 8 luglio seguente, il 
presidente del Tribunale di Genova ha proposto, a norma dell'art. 177 del Trattato 
CE, tre questioni pregiudiziali vertenti sull'interpretazione del diritto comunitario in 
materia di ripetizione dell'indebito. 
2. -Tali questioni sono state sollevate nell'ambito di una controversia tra la 
Edilizia Industriale Siderurgica Sri (Edis), societ� a responsabilit� limitata (in prosieguo: 
la �Edis�), gi� societ� per azioni, e il Ministero delle Finanze italiano in 
merito alla tassa di concessione governativa per l'iscrizione delle societ� nel registro 
delle imprese (in prosieguo: la �tassa di concessione�). 
3. -La tassa di concessione � stata istituita dal decreto del Presidente della 
Repubblica 26 ottobre 1972, n. 641 (GURI n. 292, dell'll novembre 1972, 
Supplemento n. 3, in prosieguo: il �decreto n. 641172�). Essa � stata oggetto, in 
quanto applicata all'iscrizione nel registro dell'atto costitutivo delle societ�, di 
modifiche successive in relazione ai suoi importi e alla sua periodicit�. 
4. -Gli importi della tassa di concessione sono stati anzitutto notevolmente 
aumentati con decreto legge 19 dicembre 1984, n. 853 (GURI n. 347, del 19 dicembre 
1984), convertito nella legge 17 febbraio 1985, n. 17 (GURI n. 41 bis, del 17 
febbraio 1985), il quale ha anche stabilito che il versamento della tassa sarebbe 
dovuto avvenire, in futuro, non solo al momento dell'iscrizione nel registro dell'atdinamento 
comunitario e riconosciuti dalla sentenza della Corte. Si incide invece soltanto sull'esercizio 
di tali diritti, disciplinandone le modalit� ed i tempi di azione. 

�Del resto, la giurisprudenza consolidata della Corte ha affermato che appartiene agli ordinamenti 
interni dei singoli Stati membri (in mancanza di norme comunitarie in materia) disciplinare 
le modalit� procedurali delle azioni giudiziarie a tutela dei diritti attribuiti dalla normativa 
comunitaria: sempre che tali modalit� non siano meno favorevoli di quelle relative ad azioni analoghe 
di diritto interno e sempre che esse non finiscano per rendere praticamente impossibile od 
eccessivamente difficile l'esercizio del diritto attribuito dall'ordinamento comunitario (si vedano, 
a partire dalle sentenze REwE e CoMET del 16 dicembre 1976 in cause 33/76 e 45/1976, Racc. 
1976, rispettivamente pagg. 1989 e 2043; sent. SAN GIORGIO del 9 novembre 1983, in causa 
199/82, ivi, 1983, 3595; sent. STEENHORST-NEERINGS del 27 ottobre 1993, in causa C-338/91, ivi, 
1993, I, 5475; sent. JoHNSON del 6.12.1994, in causa C-410/92, ivi, 1994, I, 5483; sent. FMC 
dell'8 febbraio 1996, in causa C-212/94, non ancora pubblicata). 

�Orbene, se si riconosce il potere degli Stati membri in questa materia -sia pure a certe 
condizioni -non si pu� neppure ipotizzare che l'esercizio di tale potere vada a confliggere con 
il potere della Corte, derivato dall'art. 174, 2� comma, del trattato C.E., di limitare nel tempo gli 
effetti di una sua sentenza. 

�In linea generale, il primo quesito merita dunque risposta decisamente negativa. Si pu� 
aggiungere che la sentenza PONENTE CARNI non ha essa stessa accertato l"'incompatibilit�" con 
la direttiva n. 69/335/CEE della tassa italiana (di iscrizione ed annuale) di concessione governativa 
sulle societ�. La suddetta sentenza ha invece riconosciuto che la tassa poteva in astratto rientrare 
tra i diritti di carattere remunerativo, fatti salvi dall'art. 12, n. 1, lett. e, della direttiva, ed ha 
indicato al giudice nazionale i criteri per effettuare il relativo accertamento. 

�La sentenza PONENTE CARNI non ha dunque comportato nessun effetto diretto ed � perci� 
infondato ipotizzare una limitazione di tale �non -effetto� da parte della norma nazionale che ha 
stabilito, ventuno anni prima di tale sentenza, la decadenza triennale dell'azione di rimborso�. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

368 

to costitutivo della societ�, ma anche il 30 giugno di ciascun anno solare successivo. 
Gli importi della tassa sono stati poi di nuovo modificati nel 1988 e nel 1989. In 
quest'ultima occasione, essi hanno raggiunto il livello di 12 milioni di LIT per le 
societ� per azioni e in accomandita per azioni, di 3,5 milioni di LIT per le societ� a 
responsabilit� limitata e di 500.000 LIT per le altre societ�. 

5. -Nella sentenza 20 aprile 1993, cause riunite C-71191 e C-178/91, Ponente 
Carni e Cispadana Costruzioni (Racc., I-1915; in prosieguo: la �sentenza Ponente 
Carni�), pronunciata in merito alla tassa di concessione, la Corte ha dichiarato che 
l'art. 10 della direttiva del Consiglio 17 luglio 1969, 69/335/CEE, concernente le 
imposte indirette sulla raccolta di capitali (GU L 249, 25), dev'essere interpretato nel 
senso che, fatte salve le disposizioni derogatorie dell'art. 12, esso vieta un tributo 
annuale dovuto in ragione dell'iscrizione delle societ� di capitali anche qualora il gettito 
di tale tributo contribuisca al finanziamento del servizio incaricato della tenuta del 
registro in cui sono iscritte le societ�. La Corte ha parimenti deciso che l'art. 12 della 
direttiva 69/335 dev'essere interpretato nel senso che i diritti di carattere remunerativo 
di cui al n. 1, lett. e), dello stesso articolo possono essere remunerazioni riscosse 
come corrispettivo di operazioni imposte dalla legge per uno scopo di interesse generale, 
come, ad esempio, l'iscrizione delle societ� di capitali. L'entit� di tali diritti, che 
pu� variare a seconda della forma giuridica della societ�, dev'essere calcolata in base 
al costo dell'operazione, che pu� essere determinato forfettariamente. 
Quanto al fatto che l'azione di rimborso della tassa di concessione governativa sia soggetta 
ad un termine di decadenza di tre anni dalla data del pagamento indebito,�... decadenza non prevista, 
invece, dall'ordinamento nazionale per le azioni di ripetizione di indebito tra privati�, si era 
osservato che �l'azione di rimborso della tassa di concessione governativa pagata in contrasto con 
la direttiva n. 69/335/CEE introduce una controversia tributaria (in questo senso si sono pronunciate 
le Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione nella sentenza 12 aprile 1996, n. 3458, e 
la stessa conclusione si ricava dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 56 del 1995)�. 

�Il termine di decadenza triennale -si era precisato -, decorrente dalla data del pagamento indebito, 
non � tale da rendere praticamente impossibile od eccessivamente difficile l'esercizio del diritto 
al-rimborso; si tratta invero di tre anni dalla data del pagamento. Come ha ricordato l'avvocato 
generale Jacobs nelle sue conclusioni per la causa C-2/94, DENKAVIT (punto 68 delle conclusioni; 
causa poi decisa con la sentenza 11 giugno 1996), nella causa CoMET (sentenza 16 dicembre 1976, 
causa 45176, cit.) veniva in rilievo un termine di ricorso di trenta giorni stabilito dalla legislazione 
olandese e la Corte " ...confermando il diritto degli Stati membri di fissare dei termini ragionevoli, 
... non ha lasciato intendere che questo termine fosse troppo breve" (libera traduzione dal testo francese 
delle conclusioni). A fortiori si deve ritenere per il termine stabilito dall'art. 13, 2� comma, del 
decreto del Presidente della Repubblica n. 641/72 che � di tre anni, non di trenta giorni. 

�Il termine del quale si discute fa parte di un sistema che nell'ordinamento nazionale delle 
tasse e delle imposte indirette sugli affari assoggetta le azioni di rimborso dei tributi indebitamente 
pagati alla decadenza triennale dalla data del pagamento. 

�Cos� � per l'imposta di bollo (art. 37, 3� comma decreto del Presidente della Repubblica 26 
ottobre 1972, n. 642, suppi. ord. n. 3 alla g.u. n. 292 dell'll novembre 1972) per l'imposta sulle 
assicurazioni (art. 30 legge 29 ottobre 1961, n. 1216, g.u. n. 299 del 2 dicembre 1961), per le 
imposte doganali (art. 91 del decreto del Presidente della Repubblica 23gennaio 1973, n. 43, suppi. 
ord. alla g.u. n. 80 del 28 marzo 1973, come modificato dall'art. 29, comma l, della legge 29 
dicembre 90, n. 428, suppi. ord. alla g.u. n. 10 del 12 gennaio 1991), per l'imposta sugli spettacoli 
(art. 40, 2� comma, decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 640, suppi. ord. 


PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 

369 

6. -In seguito a tale sentenza, il decreto legge 30 agosto 1993, n. 331 (GURI 
n. 203, del 30 agosto 1993), convertito nella legge 29 ottobre 1993, n. 427 (GURI 
n. 255, del 29 ottobre 1993), ha ridotto la tassa di concessione a 500.000 lire per 
tutte le societ� e soppresso la sua riscossione annuale. 
7. -Dall'ordinanza di rinvio risulta che, tra il 1986 e il 1992, la Edis ha versato 
al pubblico erario la somma di 64.500.000 lire a titolo di versamento annuale 
della tassa di concessione. 
8. -Ritenendo che questo importo fosse stato indebitamente versato in quanto 
la tassa di cui trattasi era incompatibile con la direttiva 69/335, la detta societ� ne ha 
chiesto invano il rimborso alla competente amministrazione finanziaria. 
Successivamente essa ha proposto dinanzi al presidente del Tribunale di Genova un 
ricorso diretto ad ottenere un'ingiunzione di pagamento nei confronti del Ministero 
delle Finanze per la restituzione del detto importo, maggiorato degli interessi spettanti 
a decorrere dalla data di ciascun versamento effettuato. 
9. -Nell'ordinanza di rinvio il presidente del Tribunale di Genova osserva che 
l'incompatibilit� della tassa di concessione � stata confermata dalla sentenza 
Ponente Carni, i cui effetti non sono stati limitati nel tempo, ed aggiunge che la 
Corte costituzionale, nella sentenza 24 febbraio 1995, n. 56 (GURI, Serie speciale 
n. 9, del 1� marzo 1995), e la Corte Suprema di cassazione, nella sentenza 23 febbraio 
1996, n. 4468, hanno in seguito confermato il carattere indebito dei versamenti 
effettuati in pagamento della detta tassa. 
n. 2 alla g.u. n. 292 dell'll novembre 1972), per l'imposta di registro (art. 77 decreto del 
Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, suppl. ord. alla g.u. n. 99 del 30 aprile 1986), 
per l'imposta sulle successioni e donazioni (art. 42, comma 2, drcreto legislativo 31 ottobre 1990, 
n. 346, suppl. ord. alla g.u. n. 277 del 27 novembre 1990), per tutte le tasse di concessione governativa, 
e non soltanto per quella sulle societ� (art. 13, 2� comma, decreto del Presidente della 
Repubblica 26 ottobre 1972. n. 641, suppl. ord. n. 3 alla g.u. n. 292 dell'll novembre 1972). 
�� dunque da escludere che il termine triennale di decadenza, stabilito dall'art. 13, 2� comma, 
del decreto del Presidente della Repubblica n. 641/72 integri una modalit� dell'azione di rimborso 
della tassa di concessione governativa in questione meno favorevole di quelle relative ad azioni 
analoghe di c}.iritto interno. 

�Va al riguardo ancora una volta sottolineato che la decadenza triennale di cui al citato art. 
13 si applica alle azioni di rimborso di tutte le tasse di concessione governativa, qualunque sia la 
causa dell'indebito, e che lo stesso termine di decadenza triennale si applica alle azioni di rimborso 
delle altre tasse e imposte indirette sugli affari, come sopra si � visto. 

�Non � quindi fondato assumere come parametro di riferimento le "azioni di ripetizione 
d'indebito tra privati" per ipotizzare una discriminazione vietata dall'art. 5 del trattato C.E. 

�Anzitutto, come � palese, il richiamo al suddetto art. 5 non � affatto pertinente. 

�In secondo luogo, il raffronto -come la giurisprudenza iniziata con le sentenze REwE e 
CoMET insegna -va fatto con riguardo ad analoghe azioni di diritto interno. Ed analoghe azioni 
di diritto interno sono le azioni di rimborso di tasse di concessione governativa, di altre tasse o imposte 
indirette sugli affari, per le quali azioni � stabilito -come si � visto -lo stesso termine di decadenza 
triennale dalla data del pagamento indebito. Non costituiscono invece �analoghe azioni di 
diritto interno� quelle di ripetizione di indebito tra privati, di cui all'art. 2033 del cod. civile. 

�Infine, si avrebbe una discriminazione opposta a quella ipotizzata nel secondo quesito se 
ad analoghe (per non dire identiche) azioni di rimborso di tributi indebitamente pagati si applicasse: 
la prescrizione decennale, con possibilit� di interruzioni all'infinito, ai sensi degli articoli 
2033 e 2946 codice civile, ove l'indebito abbia matrice comunitaria; la decadenza triennale, senza 
possibilit� di interruzioni, ove l'indebito abbia matrice nazionale. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

370 

1O. -Il presidente del Tribunale di Genova sottolinea per� che, nella sentenza 

n. 3458 pronunciata in pari data, la Corte Suprema di cassazione ha considerato che 
il rimborso della tassa di concessione � disciplinato dall'art. 13, secondo comma, del 
decreto n. 641/72, ai sensi del quale �il contribuente pu� chiedere la restituzione 
delle tasse erroneamente pagate entro il termine di decadenza di tre anni a decorrere 
dal giorno del pagamento(... )�. 
11. -Il presidente del Tribunale di Genova nutre dubbi in merito alla compatibilit� 
di siffatte modalit� di rimborso con la giurisprudenza della Corte in materia di 
ripetizione delle tasse riscosse in violazione del diritto comunitario. Egli osserva in 
particolare che, in base alle norme generali dell'ordinamento giuridico italiano, l'esercizio 
dell'azione di ripetizione dell'indebito non � soggetto a nessun termine di 
decadenza, ma solo alla prescrizione decennale ordinaria di cui all'art. 2946 del 
codice civile. 
12. -Il presidente del Tribunale di Genova ha pertanto sospeso il procedimento 
ed ha sottoposto alla Corte le tre questioni pregiudiziali seguenti: 
�1) Se, ad integrazione e chiarimento di quanto gi� statuito con sentenza 20 
aprile 1993, nei procedimenti riuniti C-71/91 e C-78/91, resa nel caso Ponente Carni 

S.p.A. contro Amministrazione delle Finanze dello Stato, le disposizioni del Trattato 
vadano interpretate nel senso che ostano all'introduzione e/o al mantenimento da 
parte di uno Stato membro di una normativa nazionale quale quella introdotta dal 
�Come ha giustamente osservato l'avvocato generale Jacobs nelle gi� citate conclusioni per 
la causa C-2/94, la certezza del diritto deve tutelare anche i bilanci degli Stati e di altri organismi 
pubblici in generale, evitando che tali bilanci vengono ad essere sconvolti a causa di ricorsi 
tardivi relativi a periodi anteriori o attuali; anche se l'iniziativa giudiziaria tardiva sia stata suggerita, 
come nel caso, da una sentenza della Corte intervenuta circa otto anni dopo l'istituzione 
della tassa controversa (cfr. i punti 67 e 79 delle citate conclusioni Jacobs)�. 

Quanto al quesito con il quale si chiedeva di conoscere se uno Stato membro possa opporre a chi 
agisce per il rimborso di una tassa giudicata in contrasto con una direttiva comunitaria, un termine di 
decadenza decorrente da una data anteriore a quella di corretta trasposizione della direttiva stessa nel1'
ordinamento nazionale, il Governo italiano, aveva proposto una risposta affermativa riportandosi alla 
stessa giurisprudenza sulla riconosciuta competenza degli Stati membri a stabilire le modalit� procedurali 
delle azioni a tutela dei diritti attribuiti dalla normativa comunitaria, con le note limitazioni: 
rispetto a tale giurisprudenza la sentenza EMMOTT 25 luglio 1991 nella causa C-208/90, invocata ex 
adverso, -secondo cui "finch� la direttiva non � correttamente trasposta nel diritto nazione, i singoli 
non sono stati posti in grado di avere piena conoscenza dei loro diritti.. . ; solo la corretta trasposizione 
della direttiva porr� fine a tale stato d'incertezza e solo al momento di tale trasposizione si � creata 
la certezza giuridica necessaria per pretendere dai singoli che essi facciano valere i loro diritti" -, 
rappresentava una deroga soltanto apparente, essendo il principio in essa affermato legato alla particolarit� 
della causa allora decisa, e non rappresentava affatto l'espressione di un principio fondamentale 
del diritto comunitario. La Corte ha confermato la risposta affermativa gi� data nella sentenza, nel 
frattempo intervenuta, 11 dicembre 1997, nella causa C-188/95, F ANTASK, secondo la quale �allo stato 
attuale, il diritto comunitario non vieta ad uno Stato membro, che non ha attuato correttamente la direttiva 
69/335, come modificata, di opporre alle azioni dirette al rimborso di tributi riscossi in violazione 
di tale direttiva un termine di prescrizione nazionale che decorra dalla data di esigibilit� dei tributi di 
cui trattasi, qualora tale termine non sia meno favorevole per i ricorsi basati sul diritto comunitario di 
quello dei ricorsi basati sul diritto interno e non renda praticamente impossibile o eccessivamente difficile 
l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario�. 

I 


i x 

f: 
f: 
f: 

PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 

legislatore italiano con il comma secondo dell'art. 13 del decreto del Presidente 
della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 641, nel caso in cui dall'applicazione di tale 
normativa derivi la conseguenza di limitare nel tempo gli effetti di una sentenza resa 
dalla Corte di giustizia. 

2) Se l'art. 5 del Trattato CE, cos� come interpretato dalla giurisprudenza della 
Corte, sia compatibile con una normativa nazionale (art. 13 del decreto del 
Presidente della Repubblica 641/72) che, nelle modalit� procedurali delle azioni 
giudiziali intese a garantire la ripetizione di tasse pagate in violazione della direttiva 
del Consiglio 69/335/CEE, preveda un termine di decadenza triennale a far data 
dal pagamento, decadenza non prevista, invece, dall'ordinamento nazionale per le 
azioni di ripetizione d'indebito fra privati. 

3) In caso di risposta affermativa al quesito che precede, dica la Corte di giustizia 
se l'ordinamento comunitario sia compatibile con una normativa nazionale la 
quale preveda che un termine di decadenza decorra (in danno di un cittadino di uno 
Stato membro, che si richiami, al fine di ottenere la restituzione di una tassa indebitamente.
corrisposta, alle norme di una direttiva) prima che tale direttiva sia stata correttamente 
trasposta in diritto nazionale�. 

Sulla prima questione 

13. -Con la sua prima questione il giudice a quo chiede se il diritto comunitario 
vieti a uno Stato membro di opporre alle azioni di ripetizione di imposte riscosse 
in violazione di una disposizione del diritto comunitario un termine nazionale di 
decadenza, qualora dall'applicazione del detto termine discenda la limitazione nel 
tempo degli effetti di una pronuncia pregiudiziale della Corte, interpretativa della 
detta disposizione. 
14. -La Edis suggerisce di risolvere la questione in senso affermativo. I 
governi che hanno presentato osservazioni, nonch� la Commissione nelle sue 
osservazioni scritte, ritengono viceversa che l'applicazione di un termine di decadenza 
non .porti a limitare per il passato gli effetti di una sentenza pronunciata 
dalla Corte. Infatti, un termine siffatto non inciderebbe sull'esistenza n� sul contenuto 
dei diritti attribuiti dall'ordinamento giuridico comunitario, bens� soltanto 
sull'esercizio di questi diritti. Del resto, secondo una giurisprudenza consolidata 
della Corte, in mancanza di una specifica disciplina comunitaria, spetta a ciascuno 
Stato membro stabilire le modalit� procedurali delle azioni giudiziali intese a 
garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme comunitarie 
(sentenze 16 dicembre 1976, causa 33/76, Rewe, Racc., 1989, e causa 45/76, 
Comet, Racc., 2043, e, pi� di recente, 8 febbraio 1996, causa C-212/94, FMC e a., 
Racc., 1-389). 
15. -Secondo una giurisprudenza costante, l'interpretazione di una norma di 
diritto comunitario data dalla Corte nell'esercizio della competenza ad essa attribuita 
dall'art. 177 chiarisce e precisa, quando ve ne sia il bisogno, il significato e la portata 
della norma, quale deve, o avrebbe dovuto, essere intesa ed applicata dal 
momento della sua entrata in vigore. Ne risulta che la norma cos� interpretata pu� e 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO, 

372 

deve essere applicata dal giudice anche a rapporti giuridici sorti e costituiti prima 
della sentenza interpretativa se, per il resto, sono sbddisfatte le condizioni che permettono 
di portare alla cognizione dei giudici competenti una controversia relativa 
all'applicazione di detta norma (v., in particolare, sentenze 27 marzo 1980, causa 
61/79, Denkavit italiana, Racc., 1205, punto 16, e 13 febbraio 1996, cause riunite C197/
94 e C-252194, Bautiaa e Soci�t� fran�aise maritime, Racc., I-505, punto 47). 

16. -Sempre secondo tale giurisprudenza, sulla scorta di detti principi, la limitazione 
da parte della Corte degli effetti di una sentenza interpretativa deve rimanere 
assolutamente eccezionale (sentenze Denkavit italiana, punto 17, e Bautiaa e 
Soci�t� fran�aise mari time, punto 48, gi� citate). 
17. -Da quanto precede discende che, bench� gli effetti di una sentenza interpretativa 
della Corte retroagiscano normalmente sino alla data di entrata in vigore della 
norma interpretata, perch� quest'ultima venga applicata dal giudice nazionale a fatti 
precedenti a tale sentenza occorre inoltre che siano state rispettate le modalit� processuali 
nazionali, di natura sia sostanziale sia formale, stabilite per agire in giudizio. 
18. -L'applicazione di siffatte modalit� non pu� essere pertanto confusa con 
una limitazione degli effetti di una sentenza della Corte avente ad oggetto l'interpretazione 
di una disposizione di diritto comunitario. Infatti, la conseguenza di una 
limitazione del genere � quella di privare i singoli, che sarebbero normalmente in 
grado, conformemente alle rispettive norme processuali nazionali, di esercitare i 
~ 
diritti ad essi spettanti in forza della disposizione comunitaria di cui trattasi, della I 
facolt� di avvalersene a sostegno delle loro domande. 
I

19. -Del resto, risulta da una giurisprudenza consolidata che, in mancanza di 
disciplina comunitaria in materia di ripetizione di tributi nazionali indebitamente ' 
riscossi, spetta all'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro desiI


gnare i giudici competenti e stabilire le modalit� procedurali dei ricorsi giurisdizionali 
intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme di 
diritto comunitario, fermo restando che le dette modalit� non possono essere meno 

I

favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna n� rendere praticar.ente 
impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento 
giuridico comunitario (citate sentenze Rewe, punto 5, Carnet, punti 
13 e 16, e, pi� di recente, 14 dicembre 1995, causa C-312/93, Peterbroeck, Racc., I4599, 
punto 12). 

I

20. -La Corte ha pertanto riconosciuto compatibile con il diritto comunitario la 
fissazione di termini di ricorso ragionevoli a pena di decadenza, nell'interesse della 
certezza del diritto, che tutela nello stesso tempo il contribuente e l'amministrazione 
interessati (citate sentenze Rewe, punto 5, Carnet, punti 17 e 18, e Denkavit italiana, 
punto 23; v. anche sentenze 10 luglio 1997, causa C-261/95, Palmisani, Racc., 
I-4025, punto 28, e 17 luglio 1997, causa C-90/94, Haahr Petroleum, Racc., I-4085, 
punto 48). � irrilevante a tal proposito la circostanza che la Corte abbia pronunciato 
una sentenza pregiudiziale avente ad oggetto l'interpretazione delle controverse 
disposizioni di diritto comunitario (v., in tal senso; sentenza Rewe, cit., punto 7). 
21. -La Commissione ha tuttavia asserito in udienza che, con la sentenza 23 
febbraio 1996, n. 3458, la Corte Suprema di cassazione avrebbe modificato la pro

PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 

373 

pria giurisprudenza in quanto essa limitava, sino a quel momento, l'applicazione dei 
termini di decadenza come quello controverso alle ipotesi di errori nel calcolo dei 
tributi. Dichiarando, in epoca posteriore alla pronuncia della sentenza Ponente 
Carni, che il rimborso della tassa di concessione � soggetto al termine di decadenza 
triennale di cui all'art. 13 del decreto n. 641/72 e non a quello ordinario di prescrizione 
decennale, il supremo organo giurisdizionale italiano avrebbe cos� specificamente 
ridotto la facolt� per gli interessati di esperire un'azione di ripetizione di un 
tributo indebitamente riscosso in violazione del diritto comunitario, ignorando le 
sentenze 2 febbraio 1988, causa 309/85, Barra (Racc., 355), e 29 giugno 1988, causa 
240/87, Deville (Racc., 3513). 

22. -Occorre ricordare che, nella citata sentenza Barra, punto 19, la Corte ha 
affermato che il diritto comunitario osta a una disposizione legislativa nazionale che 
limiti il rimborso di una tassa dichiarata contraria al Trattato da una sentenza della 
Corte solo a coloro che abbiano proposto un'azione di ripetizione prima della pronuncia 
della detta sentenza. Infatti, una disposizione siffatta priva puramente e semplicemente 
le persone fisiche o giuridiche che non soddisfano questa condizione del 
diritto di ottenere il rimborso di somme indebitamente pagate e rende quindi impossibile 
l'esercizio da parte dei singoli dei diritti loro attribuiti dall'ordinamento 
comunitario. 
23. -Analogamente, nella citata sentenza Deville, la Corte ha dichiarato che il 
legislatore nazionale, dopo una sentenza della Corte che stabilisca che una determinata 
normativa � incompatibile con il Trattato, non pu� adottare alcuna norma processuale 
che riduca specificamente le possibilit� di agire per la ripetizione dei tributi 
indebitamente versati in forza di detta normativa. 
24. -Da tali sentenze discende che uno Stato membro non pu� adottare disposizioni 
che subordinino il rimborso di un tributo, dichiarato incompatibile col diritto 
comunitario da una sentenza della Corte o la cui incompatibilit� con il diritto 
comunitario derivi da una sentenza del genere, a condizioni concernenti specificamente 
il detto tributo e che siano meno favorevoli di quelle che sarebbero state 
applicate, iti mancanza di esse, al rimborso del tributo di cui trattasi. 
25. -Di conseguenza, e senza che occorra chiedersi quali siano le condizioni 
d'applicazione di tale giurispruqenza ai giudici degli Stati membri, basta rilevare, da 
un lato, che l'interpretazione della Corte Suprema di cassazione aveva ad oggetto 
una disposizione nazionale gi� in vigore da molti anni alla data della pronuncia della 
sentenza Ponente Carni e, dall'altro, che questa disposizione concerne non solo il 
rimborso della tassa controversa in tale sentenza, ma anche quello di tutte le tasse di 
concessione governativa italiane. Ne discende che la soluzione cui si � giunti nelle 
citate sentenze Barra e Deville � inapplicabile alla fattispecie. 
26. -Occorre pertanto risolvere la prima questione nel senso che la circostanza 
che la Corte abbia pronunciato una sentenza pregiudiziale avente ad oggetto l'interpretazione 
di una disposizione di diritto comunitario senza limitare gli effetti nel 
tempo della detta sentenza non incide sul diritto di uno Stato membro di opporre alle 
azioni di ripetizione di tributi riscossi in violazione della detta disposizione un termine 
nazionale di decadenza . 
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RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

374 

Sulla seconda questione 

27. -Con la sua seconda questione il giudice a quo chiede alla Corte se l'art. 5 
del Trattato CE sia compatibile con una normativa nazionale la quale, fra le modalit� 
procedurali delle azioni giudiziali intese a garantire il rimborso delle tasse pagate 
in violazione della direttiva 69/335, preveda un termine di decadenza triennale a 
far data dal pagamento, mentre, secondo il diritto nazionale, un termine del genere 
� inapplicabile alle azioni di ripetizione dell'indebito tra privati. 
28. -La Commissione ritiene che la questione verta sull'interpretazione del 
diritto italiano e che essa sia pertanto, come tale, irricevibile. Essa suggerisce pertanto 
di riformularla. La questione sollevata equivarrebbe, a suo parere, a chiedersi 
se il diritto comunitario osti a una normativa nazionale la quale assoggetti le azioni 
di ripetizione di una tassa riscossa in violazione della direttiva 69/335 a un termine 
di decadenza, che presuppone l'esistenza di un potere impositivo e di un credito 
fiscale dello Stato, in luogo di un termine di prescrizione che, secondo la medesima 
normativa, � applicabile in caso di indebito oggettivo derivante dalla mancanza di 
un potere e di un credito siffatti. 
29. -Dalla questione sottoposta emerge che il giudice a quo chiede alla Corte 
se il diritto comunitario vieti a uno Stato membro di opporre alle azioni di ripetizione 
di tributi riscossi in violazione del diritto comunitario un termine nazionale di 
decadenza triennale in deroga al regime ordinario dell'azione di ripetizione dell'indebito 
tra privati, assoggettata a un termine pi� favorevole. Il giudice a quo invita 
in tal modo la Corte a precisare la sua giurisprudenza secondo la quale le modalit� 
procedurali nazionali delle azioni giudiziali intese a garantire la tutela dei diritti 
spettanti ai singoli in forza delle norme comunitarie non devono essere meno favorevoli 
di quelle relative ad analoghe azioni del sistema processuale nazionale. 
30. -Ne consegue che occorre risolvere la questione. 
31. -La Edis ritiene che la detta questione vada risolta in senso affermativo dal 
momento che, conformemente alla giurisprudenza della Corte, le modalit� procedurali 
nazionali per il ricorso giurisdizionale destinate a garantire la salvaguardia dei 
diritti che l'ordinamento comunitario conferisce agli amministrati non devono essere 
meno favorevoli di quelle relative ad analoghi ricorsi di diritto interno. Ora, la 
Corte costituzionale avrebbe espressamente dichiarato che l'azione di ripetizione 
della tassa di concessione rientra, nell'ordinamento giuridico italiano, nell'ambito di 
applicazione della disciplina della ripetizione dell'indebito. 
32. -Secondo i tre governi che hanno presentato osservazioni, uno Stato membro 
ha il diritto di prevedere, in materia tributaria, un termine di decadenza diverso 
dal termine di diritto comune, purch� questo termine si applichi allo stesso modo 
alle domande di rimborso fondate sul diritto comunitario e a quelle fondate sul diritto 
interno, come avverrebbe nel caso di specie. 
33. -Come sottolineato dalla Corte in pi� occasioni, dall'esame comparativo 
dei sistemi nazionali risulta che il problema della contestazione di tasse illegittimamente 
pretese, o della restituzione di tasse indebitamente pagate, � risolto in modi 
diversi nei diversi Stati membri e, persino, all'interno di uno stesso Stato, a seconda 

PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 

dei diversi tipi di imposte e di tasse in questione. In determinati casi, contestazioni o 
richieste del genere sono assoggettate dalla legge a precise condizioni di forma e di 
termine per quanto riguarda sia i reclami rivolti all'amministrazione fiscale sia i 
ricorsi giurisdizionali. In altri casi, i ricorsi diretti ad ottenere il rimborso di tasse non 
dovute devono essere proposti dinanzi ai giudici ordinari, sotto forma, in particolare, 
di azioni di ripetizione dell'indebito. Tale diritto d'agire si esercita entro termini pi� 

o meno lunghi, in determinati casi entro il termine di prescrizione ordinaria (v. sentenze 
27 febbraio 1980, causa 68/79, Just, Racc., 501, punti 22 e 23; Denkavit italiana, 
cit., punti 23 e 24; 10 luglio 1980, causa 811/79, Ariete, Racc., 2545, punti 10 e 
11, e causa 826/79, Mireco, Racc., 2559, punti 11 e 12). 
34. -Questa diversit� dei sistemi nazionali deriva in particolare dalla mancanza di 
una disciplina comunitaria in materia di ripetizione di imposte nazionali indebitamente 
riscosse. In una situazione del genere, come gi� ricordato nel punto 19 della presente 
sentenza, spetta infatti all'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro 
designare i giudici competenti e stabilire le modalit� procedurali dei ricorsi giurisdizionali 
intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme di 
diritto comunitario, purch� le dette modalit�, da un lato, non siano meno favorevoli di 
quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza) n�, 
dall'altro, rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei 
diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario (principio di effettivit�). 
35. -Per quanto concerne quest'ultimo principio, la Corte, come � gi� stato ricordato 
nel punto 20 della presente sentenza, ha riconosciuto compatibile con il diritto 
comunitario la fissazione di termini di ricorso ragionevoli a pena di decadenza, nel1'
interesse della certezza del diritto, che tutela nello stesso tempo il contribuente e 
l'amministrazione interessati. Infatti, termini del genere non sono tali da rendere praticamente 
impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti attribuiti dall'ordinamento 
giuridico comunitario. A tal proposito appare ragionevole un termine 
nazionale di decadenza triennale, che decorra dalla data del pagamento contestato. 
36. -Il rispetto del principio di equivalenza presuppone, per parte sua, che la 
modalit� controversa si applichi indifferentemente, per lo stesso tipo di tasse o 
canoni, ai ricorsi fondati sulla violazione del diritto comunitario e a quelli fondati 
sull'inosservanza del�diritto interno (v., in tal senso, sentenza 27 marzo 1980, cause 
riunite 66/79, 127/79 e 128/79, Salumi, Racc., 1237, punto 21). Viceversa, questo 
principio non pu� essere interpretato nel senso che obblighi uno Stato membro ad 
estendere a tutte le azioni di ripetizione di tasse o canoni riscossi in violazione del 
diritto comunitario la sua disciplina interna pi� favorevole in materia di rimborso. 
37. -Il diritto comunitario non osta pertanto a che la normativa di uno Stato membro 
contempli, accanto a un termine di prescrizione ordinario applicabile alle azioni di 
ripetizione dell'indebito tra privati, modalit� particolari di rivendicazione e di azione 
giudiziale meno favorevoli per la contestazione delle tasse e degli altri tributi. La soluzione 
sarebbe diversa solo qualora le dette modalit� fossero applicabili unicamente 
alle azioni di ripetizione di tali tasse o tributi fondate sul diritto comunitario. 
38. -Nella fattispecie, come la Corte ha sottolineato nel punto 25 della presente 
sentenza, il termine di decadenza di cui trattasi si applica non solo alla tassa di 
concessione controversa, ma anche a tutte le tasse di concessione governative. Per 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

376 

di pi�, secondo precisazioni, non contestate, fomite dal governo italiano, un termine 
analogo � parimenti applicabile alle azioni di ripetizione di un certo numero di 
imposte indirette. Inoltre, dal dettato della disposizione controversa non si evince 
che essa si applichi unicamente ai ricorsi fondati sul diritto comunitario. Del resto, 
come rilevato dall'avvocato generale nei paragrafi 62-64 delle sue conclusioni, dalla 
giurisprudenza della Corte Suprema di cassazione risulta che i termini in materia tributaria 
si applicano anche alle azioni di ripetizione di tasse o tributi riscossi in base 
a leggi dichiarate in contrasto con la Costituzione italiana. 

39. -Occorre pertanto risolvere la seconda questione nel senso che il diritto 
comunitario non vieta a uno Stato membro di opporre alle azioni di ripetizione dei 
tributi riscossi in violazione del diritto comunitario un termine nazionale di decadenza 
triennale che deroga al regime ordinario dell'azione di ripetizione dell 'indebito 
tra privati, assoggettata a un termine pi� favorevole, purch� il detto termine di 
decadenza si applichi allo stesso modo alle azioni di ripetizione di tali tributi fondate 
sul diritto comunitario e a quelle fondate sul diritto interno. 
Sulla terza questione 

40. -Con la sua terza questione, il giudice a quo chiede alla Corte se il diritto 
comunitario vieti a uno Stato membro di opporre alle azioni di ripetizione di tributi 
riscossi in violazione di una direttiva un termine nazionale di decadenza che decorra 
dalla data del pagamento dei tributi di cui trattasi, mentre, a tale data, la direttiva 
non era stata ancora correttamente attuata nell'ordinamento nazionale. 
41. -I tre governi che hanno presentato osservazioni propongono di' risolvere 
la questione in senso negativo. Essi ritengono infatti che uno Stato membro abbia il 
diritto di avvalersi di un termine nazionale di decadenza come il termine di cui trattasi, 
purch� quest'ultimo soddisfi i presupposti fissati dalle citate sentenze Rewe e 
Comet. Secondo tali governi, la sentenza 25 luglio 1991, causa C-208/90, Emmott 
(Racc., 1-4269), dev'essere ricondotta nell'ambito delle circostanze del tutto particolari 
di tale causa, come la Corte ha d'altronde confermato nelle sentenze 27 ottobre 
1993, causa C-338/91, Steenhorst-Neerings (Racc., 1-5475), e 6 dicembre 1994, 
causa C-410/92, Johnson (Racc., 1-5483). 
42. -Secondo la Edis, discende da queste due ultime sentenze che il mero fatto 
che le disposizioni di una direttiva non siano state correttamente attuate non vieta a 
uno Stato membro inadempiente, in assenza di altre circostanze, di avvalersi dei suoi 
termini di ricorso interni. Questa societ� ritiene tuttavia che la giurisprudenza 
Emmott vada applicata alla fattispecie, tenuto conto del comportamento dilatorio 
che le autorit� italiane avrebbero tenuto nei confronti delle domande di rimborso 
proposte dalle societ�. 
43. -In un primo tempo, la Commissione ha sostenuto che le citate sentenze 
Steenhorst-Neerings e Johnson riguardavano pretese vertenti su prestazioni sociali 
indebitamente negate ed erano pertanto irrilevanti nella fattispecie. Essa riteneva 
cos� che la soluzione della sentenza Emmott dovesse applicarsi alle azioni di ripetizione 
delle tasse riscosse in violazione del diritto comunitario, a meno di non con-
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PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 

sentire allo Stato membro inadempiente di trarre profitto dalla violazione da esso 
commessa. Tuttavia, all'udienza, la Commissione ha rinunciato a difendere questa 
tesi, riconoscendo che essa era stata inficiata dalla sentenza 2 dicembre 1997, causa 
C-188/95, Fantask e a. (Racc., I-6783). 

44. -Dalla soluzione data alla seconda questione si evince che il diritto comunitario 
non vieta, in linea di principio, a uno Stato membro di opporre alle azioni di 
ripetizione di tributi riscossi in violazione del diritto comunitario un termine nazionale 
di decadenza triennale. 
45. -Vero � che, nella citata sentenza Emmott (punto 23), la Corte ha affermato 
che, fino al momento della trasposizione corretta di una direttiva, lo Stato membro 
inadempiente non pu� eccepire la tardivit� di un'azione giudiziaria avviata nei 
suoi confronti da un singolo al fine della tutela dei diritti che ad esso riconoscono le 
disposizioni di una direttiva e che un termine di ricorso di diritto nazionale pu� 
decorrere solo da tale momento. 
46. -Tuttavia, come confermato nella citata sentenza Johnson (punto 26), dalla 
menzionata sentenza Steenhorst-Neerings deriva che la soluzione sviluppata nella 
sentenza Emmott era giustificata dalle circostanze tipiche di detta causa, nelle quali 
la decadenza arrivava a privare totalmente la ricorrente nella causa principale della 
possibilit� di far valere il suo diritto alla parit� �i trattamento in virt� di una direttiva 
comunitaria (v. anche sentenze Haahr Petroleum, cit., punto 52, e 17 luglio 1997, 
cause riunite C-114/95 e C-115/95, Texaco e Olieselskabet Danmark, Racc., I-4263, 
punto 48). 
47. -La Corte ha cos� dichiarato, nella citata sentenza Fantask e a., che il diritto 
comunitario non vieta a uno Stato membro che non ha attuato correttamente la 
direttiva 69/335 di opporre alle azioni dirette al rimborso di tributi riscossi in violazione 
di tale direttiva un termine di prescrizione nazionale quinquennale che decorra 
dalla data di esigibilit� di tali tributi. 
48. -Inoltre, alla luce degli atti e del dibattimento svoltosi all'udienza, non sembra 
che il comportamento delle autorit� italiane, unitamente all'esistenza del termine 
controvetso, sia giunto, nella fattispecie di cui alla causa principale, al punto di 
privare totalmente la societ� ricorrente della possibilit� di far valere i suoi diritti 
dinanzi ai giudici nazionali come nella causa Emmott. 
49. -Occorre di conseguenza risolvere la terza questione nel senso che, in circostanze 
come quelle della causa principale, il diritto comunitario non vieta a uno 
Stato membro di opporre alle azioni di ripetizione di tributi riscossi in violazione di 
una direttiva un termine nazionale di decadenza che decorra dalla data del pagamento 
dei tributi di cui trattasi, anche se, a tale data, la direttiva non era stata ancora 
correttamente attuata nell'ordinamento nazionale (omissis). 
II 

(omissis) 

24. -Con la sua seconda questione, il giudice a quo chiede in sostanza se, in 
caso di rimborso di imposte riscosse in violazione del diritto comunitario, quest'ul

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

378 

timo osti al versamento di interessi secondo modalit� di calcolo meno favorevoli di 


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quelle vigenti nell'ambito del regime comune dell'azione di ripetizione dell'indebito 
e che, per di pi�, sarebbero state determinate dall'autorit� nazionale all'origine 
della violazione di cui trattasi. 

25. -Le societ� ricorrenti nella causa principale nonch� la Commissione fanno 
valere, fondandosi sulla sentenza 9 marzo 1978, causa 106/77, Simmenthal (Racc., 
629), che uno Stato membro non � competente ad adottare una disposizione fiscale 
incompatibile con il diritto comunitario e che una disposizione del genere e l'obbligazione 
tributaria corrispondente debbono essere considerate inesistenti. Di conseguenza, 
il diritto comunitario osterebbe nella fattispecie all'applicazione, in luogo 
del termine d� prescrizione decennale di diritto comune, di un termine di decadenza 
come quello vigente nell'ordinamento italiano, il quale presuppone l'esistenza di un 
potere impositivo e di un credito fiscale in capo allo Stato. Per le stesse ragioni, gli 
interessi dovrebbero essere determinati secondo le modalit� applicabili all'azione di 
ripetizione dell'indebito del codice civile. 
26. -Viceversa, secondo i tre governi che hanno presentato osservazioni, uno 
Stato membro ha il diritto di prevedere, in materia tributaria, modalit� per il calcolo 
degli interessi diverse da quelle di diritto comune, purch� le dette modalit� si applichino 
ugualmente nei casi di rimborso di tasse riscosse in violazione del diritto comunitario 
e di tasse riscosse in violazione del diritto interno. I governi francese e del 
Regno Unito ritengono peraltro irrilevante al riguardo la circostanza che il tasso di 
interesse applicabile rientri nella competenza dell'autorit� nazionale responsabile 
della violazione del diritto comunitario commessa dallo Stato membro. Il governo 
italiano, dal canto suo, sostiene che questa parte della questione � irrilevante in quanto 
il ministro competente non si � avvalso della facolt� di fissare con decreto il tasso 
di interesse di cui trattasi e che quest'ultimo � tuttora fissato dalla legge. 
27. -Come ricordato nel punto 16 della presente sentenza, in mancanza di disciplina 
comunitaria in materia, spetta all'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato 
membro designare i giudici competenti e stabilire le modalit� procedurali dei ricorsi 
giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle 
norr�e di diritto comunitario. Tuttavia, dette modalit� non possono essere meno favorevoli 
di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza) 
n� rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei 
diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario (principio di effettivit�). 
28. -La Corte ha infatti dichiarato che, in mancanza di disposizioni comunitarie 
in materia di restituzione di canoni indebitamente riscossi in base a regolamenti 
comunitari dichiarati illegittimi, spetta alle autorit� nazionali risolvere tutte 
le questioni accessorie a detta restituzione, come il pagamento di interessi, applicando 
le norme interne relative al tasso e alla decorrenza degli stessi (sentenza 12 
giugno 1980, causa 130/79, Express Dairy Foods, Racc., 1887, punti 16 e 17; v. 
anche sentenza 21 maggio 1976, causa 26/74, Roquette/Commissione, Racc., 677, 
punti 11 e 12). 
29. -Occorre inoltre ricordare che, in due sentenze pronunciate in data odierna 
(Edis, punto 36, e Spac, punto 20, citt.), la Corte ha dichiarato che una modalit� di rim-
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PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZI�NALE 

borso nazionale rispetta il principio di equivalenza qualora si applichi indifferentemente, 
per lo stesso tipo di tasse o canoni, ai ricorsi fondati sulla violazione del diritto 
comunitario e a quelli fondati sull'inosservanza del diritto interno. Viceversa, questo 
principio non pu� essere interpretato nel senso che obblighi uno Stato membro ad 
estendere a tutte le azioni di ripetizione di tasse o canoni riscossi in violazione del 
diritto comunitario la sua disciplina interna pi� favorevole in materia di rimborso. 

30. -Ne discende che il diritto comunitario non osta a che la normativa di uno 
Stato membro preveda in materia di interessi, per la restituzione di imposte indebitamente 
riscosse, modalit� di calcolo meno favorevoli di quelle vigenti per la ripetizione 
dell'indebito tra privati, purch� le modalit� di cui trattasi si applichino indifferentemente 
alle azioni fondate sul diritto interno e a quelle fondate sul diritto 
comunitario. Ebbene, nella fattispecie, dal dettato della norma controversa non risulta 
che essa riguardi soltanto quest'ultima categoria di azioni. 
31. -Con la sua seconda questione, il giudice a quo chiede anche chiarimenti 
sull'incidenza che pu� avere sull'interpretazione test� formulata la circostanza che 
le modalit� di calcolo degli interessi siano state determinate dall'autorit� nazionale 
responsabile della violazione del diritto comunitario in base alla quale sono state 
proposte le domande di rimborso. 
32. -Il giudice a quo fa riferimento, a tale proposito, all'art. 3 del decreto legge 
n. 307 /94, il quale autorizza il Ministro del Tesoro a determinare, con decreto ad 
hoc, i tassi di interesse da applicare ai crediti e debiti fiscali dello Stato, con riferimento 
all'andamento del mercato monetario e finanziario. 
33. -Conformemente a una giurisprudenza costante, la Corte non � competente 
a fornire una soluzione al giudice a quo qualora le questioni pregiudiziali ad esso 
sottoposte non vertano su un'interpretazione del diritto comunitario obiettivamente 
necessaria ai fini della soluzione della controversia nella causa principale ( ordinanze 
26 gennaio 1990, causa C-286/88, Falciola, Racc., 1-191, punti 9 e 10, e 16 maggio 
1994, causa C-428/93, Monin Automobiles, Racc., 1-1707, punti 15 e 16). 
34. -Ebbene, sia dall'ordinanza di rinvio sia dalle osservazioni del governo italiano 
e della Commissione risulta che il Ministro del Tesoro non ha ancora fatto uso 
della facolt� concessagli dall'art. 3 del decreto legge n. 307/94. Come sottolineato 
dal governo italiano e dalla Commissione, il tasso di interesse applicabile � infatti 
rimasto quello stabilito dal decreto legge 30 dicembre 1993, n. 557 (GURl n. 305, 
del 30 dicembre 1993), a sua volta convertito in legge, cui l'art. 3 del decreto legge 
n. 307 /94 fa espresso riferimento. 
35. -Pertanto, questa parte della seconda questione del giudice a quo verte su 
un problema di carattere ipotetico e non occorre darvi soluzione. 
36. -La seconda questione va quindi risolta nel senso che, in caso di rimborso 
di imposte riscosse in violazione del diritto comunitario, quest'ultimo non osta 
al versamento di interessi secondo modalit� di calcolo meno favorevoli di quelle 
vigenti nell'ambito del regime ordinario dell'azione di ripetizione dell'indebito tra 
privati, purch� le dette modalit� si applichino allo stesso modo alle azioni proposte 
contro tali tributi fondate sul diritto comunitario e a quelle fondate sul diritto 
interno (omissis) 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO'

380 

CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNIT� EUROPEE, Plenum, 29 settembre 
1998, nella causa C-39/97 -Pres. Rodriguez Iglesias -Rei. Gulmann -Avv. Gen. 
Jacobs -Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Bundesgerichtshof 
(Germania) nella causa Canon Kabushiki Kaisha c. Metro-Goldwyn-Mayer Inc. 
-Interv.: Governi francese (ag. Rispal-Bellanger e Martinet), italiano (avv. 
Stato Fiumara) e del Regno Unito (ag. Lindsey Nicoll e avv. Alexander) e 
Commissione delle C.E. (ag. Grunwald e Drijber). 

Comunit� europee -Diritto di marchio -Rischio di confusione -Somiglianza 
fra prodotti e servizi. 
(direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, n. 89/l 04/CEE, artt. 4 e 9). 

L'art. 4, n. 1, lett. b), della prima direttiva del Consiglio 21dicembre1988, 
891104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di 
marchi d'impresa, dev'essere interpretato nel senso che il carattere distintivo del 
marchio anteriore, in particolare la sua notoriet�, va preso in considerazione per 
valutare se la somiglianza tra i prodotti o i servizi contraddistinti dai due marchi sia 
sufficiente per provocare un rischio di confusione. Pu� sussistere un rischio di confusione 
ai sensi dell'art. 4, n. 1, lett. b), della direttiva 891104 anche qualora, per il 
pubblico, i prodotti e servizi di cui trattasi abbiano luoghi di produzione diversi. Per 
contro, l'esistenza di un tale rischio � esclusa se non risulta che il pubblico possa 
credere che i prodotti o servizi provengano dalla stessa impresa o, eventualmente, 
da imprese economicamente legate tra loro (1 ). 

(omissis) 

1. -Con ordinanza 12 dicembre 1996, pervenuta in cancelleria il 28 gennaio 
1997, il Bundesgerichtshof ha sottoposto a questa Corte, a norma dell'art. 177 del 
Trattato CE, una questione pregiudiziale relativa all'interpretazione dell'art. 4, n. 1, 
lett. b), della prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento 
delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d'impresa 
(GU 1989, L 40, 1; in prosieguo: la �direttiva�). 
(1) Somiglianza dei marchi e dei prodotti o servizi da essi contraddistinti e rischio di 
confusione. 
Con il quesito, -posto in occasione di una controversia fra il titolare del notorio marchio 
�Canon�, che attiene ad apparecchi per la registrazione e la riproduzione d'immagini e del suono, 
e un'impresa che chiedeva la registrazione di un marchio �Cannon�, il quale contrassegnava 
videocassette preregistrate, -si chiedeva in sostanza quali fossero i criteri in base ai quali va 
interpretata la nozione di �somiglianza dei prodotti o servizi contraddistinti dai due marchi� in 
connessione con l'impedimento relativo, per motivi di tutela, costituito dal rischio di confusione 
ai sensi dell'art. 4, n. 1, lett. b), della prima direttiva sui marchi n. 89/104/CEE del Consiglio del 
21 dicembre 1988. 

La Corte ha accolto sostanzialmente il punto di vista espresso dal Governo italiano intervenuto 
in causa. 

L'art. 4, n. 1, lett. a), della suddetta direttiva-si era detto nelle osservazioni presentate alla 
Corte -accorda una tutela (che � definita �assoluta� nel suo decimo �considerandm>) al marchio 
di impresa anteriore rispetto ad un successivo marchio allorch� vi sia identit� fra i due e identit� 


PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 

381 

2. -Detta questione � stata sollevata nell'ambito di una controversia sorta tra la 
societ� giapponese Canon Kabushiki Kaisha (in prosieguo: la �CKK�) e la societ� 
americana Metro-Goldwyn-Mayer Inc., gi� Pathe Communications Corporation, (in 
prosieguo: la �MGM�), dopo che quest'ultima aveva depositato in Germania, nel 
1986, una domanda di registrazione del marchio denominativo �CANNON� destinato 
a contraddistinguere i seguenti prodotti e servizi: �film registrati su videocassette 
(videocassette preregistrate); produzione, locazione e proiezione di film per 
sale di proiezione e aziende televisive�. 
(omissis) 

11. -Il Bundesgerichtshof ha sospeso il procedimento per sottoporre alla Corte 
la seguente questione pregiudiziale: 
�Se, nel valutare la somiglianza dei prodotti o dei servizi contraddistinti dai due 
marchi, si debba tener conto del carattere distintivo, in ispecie della notoriet�, del 
marchio anteriore (al momento determinante per il rango nel tempo del marchio successivo), 
di modo che, in particolare, il rischio di confusione ai sensi dell'art. 4, n. 
1, lett. b), della direttiva 89/104/CEE deve ritenersi sussistere anche qualora per il 
pubblico i prodotti o i servizi di cui trattasi hanno luoghi d'origine 
( �Herkunftsstatten�) diversi�. 

12. -Con la prima parte della questione, il Bundesgerichtshof chiede in sostanza 
se l'art. 4, n. 1, lett. b), della direttiva vada interpretato nel senso che il carattere 
distintivo del marchio anteriore, in particolare la sua notoriet�, vada preso in considerazione 
per valutare se la somiglianza tra i prodotti o i servizi contraddistinti dai 
due marchi sia sufficiente per provocare un rischio di confusione. 
13. -La CKK, il governo francese, quello italiano, nonch� la Commissione 
sono concordi in sostanza per dare soluzione affermativa a detta questione. 
14. -La MGM e il governo del Regno Unito ritengono invece che la somiglianza 
tra i prodotti o i servizi vada valutata in modo obiettivo ed autonomo, e quinfra 
i prodotti o servizi che vengono con essi contraddistinti. La successiva lett. b) della stessa 
norma accorda una tutela anche allorch� vi sia identit� o somiglianza fra i due marchi e identit� 
o somiglianza fra i prodotti o servizi, se ci� �pu� dar adito a un rischio di confusione per il 
pubblico comportante anche un rischio di associazione fra il marchio di impresa ed il marchio 
di impresa anteriore�. La valutazione del rischio di confusione -spiega il citato decimo �considerando
� -dipende da numerosi fattori, e segnatamente dalla notoriet� del marchio d'impresa 
sul mercato, dall'associazione che pu� essere fatta fra il marchio di impresa e il segno usato 

o registrato, dal grado di somiglianza fra il marchio di impresa e il segno e tra i prodotti o servizi 
designati...�. 
Se la nozione di �identit�� non pu� dar luogo a dubbi, consistendo l'identit� in una perfetta 
uguaglianza verificabile attraverso tutti i valori o gruppi di valori che caratterizzano i due termini 
del raffronto s� da dare una perfetta coincidenza di essi (nel caso sottoposto all'attuazione 
della Corte v'era una identit� fonetica ma non grafica dei due marchi e non v'era identit� fra i 
prodotti), la nozione di �somiglianza� si presta per sua natura ad una gamma di ipotesi che vanno 
da un minimo, che sfiora la diversit�, ad un massimo che sfiora la identit�: se � somiglianza ci� 
che � simile, vuoi per l'aspetto esteriore, vuoi per aspetti, qualit� o caratteri intrinseci, essa potr� 
essere pi� o meno accentuata, pi� o meno rilevante. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO' 

382 

di prescindendo dal carattere distintivo del marchio anteriore, ed in particolare dalla 
sua notoriet�. 

15. -A questo proposito si deve ricordare anzitutto che nel decimo 'considerando' 
della direttiva si rileva che la tutela che � accordata dal marchio di impresa registrato 
e che mira in particolare a garantire la funzione di origine del marchio di impresa, 
� assoluta in caso di identit� tra il marchio di impresa e il segno e tra i prodotti o 
servizi;(...) la tutela � accordata anche in caso di somiglianza tra il marchio di impresa 
e il segno e tra i prodotti o servizi; ( ...) � indispensabile interpretare la nozione di 
somiglianza in relazione al rischio di confusione; ( ...) il rischio di confusione, la cui 
valutazione dipende da numerosi fattori, e segnatamente dalla notoriet� del marchio di 
impresa sul mercato, dall'associazione che pu� essere fatta tra il marchio di impresa e 
il segno usato o registrato, dal grado di somiglianza tra il marchio d'impresa e il segno 
e tra i prodotti o servizi designati, costituisce la condizione specifica della tutela�. 
16. -In secondo luogo si deve osservare che, secondo la giurisprudenza della 
Corte, il rischio di confusione nella mente del pubblico, che determina l'applicazione 
dell'art. 4, n. 1, lett. b), della direttiva, dev'essere valutato globalmente, prendendo 
in considerazione tutti i fattori pertinenti del caso di specie (sentenza 11 
novembre 1997, causa C-251/95, SABEL, Racc., I-6191, punto 22). 
17. -La valutazione globale del rischio di confusione implica una certa interdipendenza 
tra i fattori che entrano in linea considerazione, e in particolare la somiglianza 
dei marchi e quella dei prodotti o dei servizi designati. Cos�, un tenue grado 
di somiglianza tra i prodotti o i servizi designati pu� essere compensato da un elevato 
grado di somiglianza tra i marchi e viceversa. L'interdipendenza tra questi fattori 
trova in effetti espressione nel decimo 'considerando' della direttiva, secondo il 
quale � indispensabile interpretare la nozione di somiglianza in relazione al rischio 
di confusione, la cui valutazione a sua volta dipende in particolare dalla notoriet� del 
Implicando la somiglianza un giudizio di comparazione, non pu� prescindersi in esso dalla 
posizione del destinatario del prodotto o servizio, cio� di colui che deve percepire la somiglianza, 
di c�lui nei confronti del quale � rilevante il rapporto fra i due termini a raffronto. E considerato che 
la norma in questione esplicitamente fa riferimento ad un �rischio di confusione per il pubblico�, � 
all'impatto con il pubblico, cio� con l'uomo medio cui i prodotti in questione sono destinati, che 
occorre far riferimento per verificare la �somiglianza� dei prodotti stessi (fuori discussione essendo, 
nel caso di specie, la somiglianza ad ogni livello dei due marchi, identici foneticamente e marcatamente 
simili per la composizione grafica, al di l� dell'aspetto ornamentale del nuovo marchio, 
che non era noto in causa). Sono simili, quindi, due prodotti che alla percezione del pubblico come 
sopra inteso possono essere ritenuti avere aspetti esteriori, funzionali o di qualit�, di collegamento 

o completamento in tutto o in parte comuni, si da poter essere confusi l'uno con l'altro. 
La flessibilit� della norma, che fluttua nella zona intermedia fra la identit� e la diversit�, 
rende necessario il ricorso ad una valutazione del caso in concreto, valutazione che va eseguita 
tenendo conto dell'impatto che l'immagine rappresentata dai segni distintivi in conflitto e dai prodotti 
o servizi offerti sotto l'uno o l'altro segno possa avere sul pubblico medio, cio� sul consumatore 
finale cui i prodotti o i servizi sono destinati. E questa valutazione va quindi fatta tenendo 
conto del �rischio di confusione� cui � soggetto tale consumatore, valutabile attraverso una 
serie di elementi che, esemplificativamente e non tassativamente, lo stesso legislatore comunitario 
ha indicato nel decimo considerando della direttiva. 


PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 

383 

marchio sul mercato e dal grado di somiglianza tra il marchio e il contrassegno e tra 
i prodotti o servizi contraddistinti. 

18. -D'altro canto, emerge dalla giurisprudenza della Corte che il rischio di 
confusione � tanto pi� elevato quanto pi� rilevante � il carattere distintivo del marchio 
anteriore (sentenza SABEL, cit., punto 24). Dunque, poich� la tutela di un marchio 
depositato dipende, ai sensi dell'art. 4, n. 1, lett. b), della direttiva, dall'esistenza 
di un rischio di confusione, i marchi che hanno un elevato carattere distintivo 
o intrinsecamente o a motivo della loro notoriet� sul mercato, godono di una tutela 
pi� ampia rispetto ai marchi il cui carattere distintivo � inferiore. 
19. -Ne consegue che, ai sensi dell'art. 4, n. 1, lett. b), della direttiva, pu� esservi 
motivo di negare la registrazione di un marchio, nonostante il minor grado di somiglianza 
tra i prodotti o servizi designati, allorch� la somiglianza dei marchi � grande 
e grande � il carattere distintivo del marchio anteriore, in particolare la sua notoriet�. 
20. -A questa interpretazione la MGM ed il governo del Regno Unito hanno 
obiettato che la presa in considerazione del carattere distintivo pi� o meno rilevante 
del marchio anteriore durante l'esame della somiglianza tra i prodotti o i servizi designati 
rischia di ritardare il procedimento di registrazione. Il governo francese invece 
ha sostenuto che, secondo la sua esperienza, la presa in considerazione di questo fattore 
durante l'esame della somiglianza tra i prodotti o i servizi designati non ha l'effetto 
di ritardare oltre misura o di complicare il procedimento di registrazione. 
21. -A questo proposito si deve rilevare che, anche supponendo che l'interpretazione 
auspicata abbia l'effetto di ritardare notevolmente il procedimento di registrazione, 
ci� non potrebbe essere determinante per l'interpretazione dell'art. 4, n. 1, 
lett. b), della direttiva. � comunque opportuno, per motivi di certezza del diritto e di 
buona amministrazione, assicurarsi che i marchi il cui uso potrebbe venir contestato 
validamente in sede giudiziaria non vengano registrati. 
Questo aspetto era stato gi� esattamente espresso dalla Corte, nella sentenza, citata in motivazione, 
11 no~embre 1997, nella causa C-25/95, SABEL, laddove essa -pur esaminando una problematica 
parzialmente diversa, relativa alla rilevanza del �rischio di associazione� -aveva precisato 
che una somiglianza pu� assumere rilevanza ai fini dell'esclusione del riconoscimento del 
marchio posteriore allorch� possa dar adito ad un �rischio di confusione�. E questo rischio deve 
essere oggetto di una valutazione globale, in considerazione di tutti i fattori pertinenti nel caso di 
specie: valutazione globale che deve fondarsi, per quanto attiene alla somiglianza visuale, auditiva 
o concettuale dei marchi di cui trattasi. sull'impressione complessiva prodotta dai marchi in 
considerazione, in particolare, degli elementi distintivi e dominanti dei marchi medesimi. 

� poco utile stabilire se occorra prima verificare il grado di somiglianza e poi, solo in caso 
positivo, verificare se c'� un rischio di confusione, o viceversa se occorra prima verificare se c'� 
un rischio di confusione per poi capire se c'� somiglianza. � lo stesso decimo considerando della 
direttiva che stabilisce che Ǐ indispensabile interpretare l'azione di somiglianza in relazione al 
rischio di confusione� cio� praticamente una somiglianza � rilevante solo se c'� rischio di confusione. 
Le nozioni di somiglianza e di rischio di confusione sono quindi strettamente legate, pur 
se costituiscono due nozioni giuridiche indipendenti che, sul piano dell'economia giuridica, 
vanno esaminate separatamente. 

La somiglianza dei marchi pu� essere grafica o auditiva, ma va da una vaghissima comunanza 
di elementi, visivi o fonetici, a una coincidenza quasi assoluta: basti pensare proprio al caso 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

384 

22. -Tuttavia, si deve sottolineare che, ai fini dell'applicazione dell'art. 4, n. 1, 
lett. b), resta necessario, anche nell'ipotesi in cui sussista identit� con un marchio il cui 
carattere distintivo � particolarmente forte, dimostrare che sussiste somiglianza tra i 
prodotti o servizi contraddistinti. Infatti -e contrariamente a quanto � previsto, ad 
esempio, dall'art. 4, n. 4, lett. a), che riguarda esplicitamente l'ipotesi in cui i prodotti 
o servizi non siano somiglianti-l'art. 4, n. 1, lett. b), stabilisce che un rischio di confusione 
presuppone un'identit� o una somiglianza tra i prodotti o i servizi designati. 
23. -Per valutare la somiglianza tra i prodotti o i servizi in questione, si deve 
tener conto, come hanno ricordato i governi francese e del Regno Unito nonch� la 
Commissione, di tutti i fattori pertinenti che caratterizzano il rapporto tra i prodotti 
o i servizi. Questi fattori includono, in particolare, la loro natura, la loro destinazione, 
il loro impiego nonch� la loro concorrenzialit� o complementarit�. 
24. -In considerazione di quanto precede, la prima parte della questione pregiudiziale, 
dev'essere risolta come segue: l'art. 4, n. 1, lett. b), della direttiva dev'essere 
interpretato nel senso che il carattere distintivo del marchio anteriore, in particolare 
la sua notoriet�, va preso in considerazione per valutare se la somiglianza tra 
i prodotti o i servizi contraddistinti dai due marchi sia sufficiente per provocare un 
rischio di confusione. 
25. -Con la seconda parte della questione il Bundesgerichtshof chiede in 
sostanza se possa sussistere un rischio di confusione ai sensi dell'art. 4, n. 1, lett. b), 
della direttiva anche qualora per il pubblico i prodotti o i servizi abbiano luoghi d'origine 
('Herkunftsstatten') diversi. 
26. -A questo proposito si deve rilevare che un rischio di confusione sussiste, 
ai sensi dell'art. 4, n. 1, lett. b), della direttiva, allorch� il pubblico pu� sbagliare 
quanto all'origine dei prodotti o dei servizi in questione. 
27. -Infatti, da un lato emerge dall'art. 2 della direttiva che un marchio deve 
essere idoneo a distinguere i prodotti o servizi di un'impresa da quelli di un'altra 
di specie dove la fonetica � uguale (CANON e CANNON, con una o due �N�). Ma la grafica, pur 
quasi identica per la composizione delle lettere alfabetiche, potrebbe essere anche assai diversa 
per 1a forma assunta nella rappresentazione. 

La somiglianza dei prodotti e/o dei servizi offre una gamma ancora pi� vasta. Si � parlato di 
raffronto fra la loro natura, la loro destinazione, la loro utilizzazione la loro origine, il circuito di 
distribuzione, il luogo di vendita. Sono tutti elementi indicativi, ma nessuno � tassativo. Basti pensare 
che un tempo il giornalaio vendeva i giornali, il tabaccaio i prodotti da fumo, il fruttivendolo 
la frutta, mentre oggi il giornalaio oltre ai giornali vende i libri, le musicassette, le videocassette e 
tanti altri prodotti, che il tabaccaio a volte � una specie di bazar, che il fruttivendolo vende anche 
il vino, la birra ecc.; per non parlare delle reti di grande distribuzione dei supermercati, che affiancano 
i prodotti della pi� varia natura a volte in scaffali difficilmente distinguibili l'uno dall'altro. 

Ecco perch� il concetto di somiglianza resta molto vago ed ha bisogno di essere caratterizzato 
da un qualcosa che prescinda da un discutibile criterio oggettivo, fondato sul raffronto fra 
una somma di elementi differenziali, e che tenga conto invece dell'impressione che ne ricava il 
pubblico, della percezione che esso ha della realt� del prodotto, onde evitare che esso possa fare 
confusione fra un prodotto e l'altro, fra un servizio e l'altro. 

E il pubblico dovrebbe essere il �consumatore finale�, cio� colui cui il prodotto � essenzialmente 
destinato, che potr� essere pi� o meno colto, pi� o meno smaliziato, pi� o meno 
competente, a seconda della natura del prodotto stesso, se di massa o destinato a un pubblico 
selezionato. 


PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 

385 

impresa; d'altro canto, � precisato nel decimo 'considerando' della direttiva che lo 
scopo della tutela conferita dal marchio consiste, in particolare, nel garantire la sua 
funzione d'origine. 

28. -Si deve inoltre ricordare che, secondo una giurisprudenza costante, la funzione 
essenziale del marchio consiste segnatamente nel garantire al consumatore o 
all'utilizzatore finale l'identit� di origine del prodotto o del servizio contrassegnato 
consentendo loro di distinguere senza confusione possibile questo prodotto o questo 
servizio da quelli di provenienza diversa; inoltre, per poter svolgere la sua funzione 
di elemento essenziale del sistema di concorrenza non falsato che il Trattato intende 
istituire, il marchio deve costituire la garanzia che tutti i prodotti o servizi che ne 
sono contrassegnati sono stati fabbricati sotto il controllo di un'unica impresa alla 
quale possa attribuirsi la responsabilit� della loro qualit� (v., in particolare, sentenza 
17 ottobre 1990, causa C-10/89, HAG II, Racc., 1-3711, punti 13 e 14). 
29. -Costituisce perci� un rischio di confusione ai sensi dell'art. 4, n. 1, lett. 
b), della direttiva la possibilit� che il pubblico possa credere che i prodotti o servizi 
in questione provengono dalla stessa impresa o eventualmente da imprese economicamente 
legate tra loro (v. in questo senso sentenza SABEL, cit., punti 16-18). 
Di conseguenza, come ha osservato l'avvocato generale nel paragrafo 30 delle sue 
conclusioni, per escludere l'esistenza di tale rischio di confusione, non � sufficiente 
dimostrare semplicemente l'insussistenza del rischio di confusione nella mente del 
pubblico quanto al luogo di produzione dei prodotti o servizi di cui trattasi. 
30. -Si deve quindi risolvere la seconda parte della questione pregiudiziale 
dichiarando che pu� sussistere un rischio di confusione ai sensi dell'art. 4, n. 1, lett. 
b), della direttiva anche qualora, per il pubblico, i prodotti e i servizi di cui trattasi 
abbiano luoghi di produzione diversi. Per contro, l'esistenza di un tale rischio � 
esclusa se non risulta che il pubblico possa credere che i prodotti o i servizi provengano 
dalla stessa impresa, o eventualmente, da imprese economicamente legate 
tra loro (omissis). 
Avvalora queste considerazioni la previsione da parte della stessa normativa comunitaria 
(trasponibile 0 pur con un margine di discrezionalit� nelle legislazioni nazionali) di un grado sia 
pur limitato di tutela per i marchi �notori� anche allorch� i prodotti in concorrenza non siano 
�simili� (art. 4 n. 3 e n. 4 della direttiva): qui la �ratio� della norma appare essere quella di 
proteggere il marchio anteriore �notorio� a causa della confusione in cui potrebbe cadere il 
pubblico, il quale potrebbe ritenere �simili� i prodotti con il nuovo marchio solo in conseguenza 
della loro �presentazione� sotto un segno �identico o simile� a quello preesistente che 
gi� caratterizza e garantisce prodotti ampiamente immessi e conosciuti sul mercato. Si tratterebbe 
cio� in sostanza di una similitudine indotta, pur non derivante dall'esistenza di aspetti 
oggettivi comuni ma desumibili dal rischio di una sussumibilit� di entrambi i prodotti sotto l'unico 
marchio notorio per il solo fatto di tale notoriet� (cfr. il citato decimo �considerando�). 

L'accertamento dell'impatto cio� del rischio di confusione (correlato alla verifica dell'esistenza 
di una indispensabile serie di elementi comuni oggettivi) non pu� essere compiuta che dal 
giudice nazionale, con riferimento al caso di specie, come si desume dallo stesso decimo considerando 
della direttiva che rimanda alle normative nazionali per la disciplina dei �mezzi grazie a 
cui pu� essere constatato il rischio di confusione e in particolare l'onere della prova�. 

OSCAR FIUMARA 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

386 

SEZIONE TERZA 

GIURISPRUDENZA DI DIRITTO 
E PROCEDURA CIVILE 


CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 4 aprile 1998, n. 3481 -Pres. Grieco -Re!. 
Felicetti -P.M. Buonajuto (diff.) -Ministero dell'interno (avv. Stato Tortora) 

c. Di Tonno. 
Delibazione (giudizio di) -Sentenza straniera recante condanna agli alimenti Sopravvenienza 
di sentenza italiana recante diversa decorrenza dell'obbligazione 
alimentare -Delibazione della sentenza straniera per il periodo 
anteriore a quello considerato dal giudicato italiano -Ammissibilit�. 

(Codice procedura civile, art. 797 n. 5) 

La sentenza di divorzio pronunciata da un giudice italiano, passata in giudicato, 
la quale abbia attribuito ad uno dei coniugi, ponendolo a carico dell'altro, un 
assegno di mantenimento in favore del figlio minore da una certa data, non osta alla 
delibabilit�, con efficacia sino al passaggio in giudicato della sentenza italiana, del 
capo della sentenza di divorzio anteriormente pronunciata dal giudice straniero e 
passata in giudicato, la quale abbia attribuito allo stesso coniuge, ed a carico dell'altro, 
un assegno di mantenimento in favore del figlio minore, con diversa misura 
e per un periodo anteriore alla sentenza di divorzio pronunciata fra le stesse parti 
dal giudice italiano (1 ). 

(1) Massima ufficiale, formulata in relazione all'ormai abrogato art. 797 n. 5 codice procedura 
civile (art. 73, legge 31 maggio 1995, n. 218). Nella disciplina vigente, la corrispondente disposizione 
� contenuta nell'art. 64, lett. e) della citata legge n. 218/1995 che espressamente richiede, 
tra le altre condizioni per il riconoscimento della sentenza straniera (definitiva), la non 
contrariet� di questa al �giudicato� italiano. Per questo aspetto, la norma del 1995 non introduce 
alcun elemento di novit� rispetto alle acquisizioni giurisprud�nziali (ricordate nella motivazione 
della sentenza in rassegna) consolidatesi a riguardo di quella abrogata, che pure, proponendosi di 
�impedire la contemporanea operativit� nell'ordinamento italiano di giudicati contrastanti�, era 
stata interpretata nel senso reso, ora, esplicito dalla nuova disposizione. 
Sulle convenzioni (di New York e dell' Aja) in tema di recupero di crediti alimentari in favore 
di minori, e segnatamente sul ruolo di �istituzione intermediaria� svolto dal Ministero dell'interno 
e sulla prescrittibilit� (esclusa) dell'azione per il riconoscimento di sentenza straniera, v. in 
generale P. PALMIERI, L'imprescrittibilit� del! 'azione di delibazione ecc., in questa Rassegna, 
1996, I, 285. 


PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 

(omissis) 

1. -Con i due motivi di ricorso, il Ministero dell'Interno deduce la violazione del1'
art. 797, n. 5 codice procedura civile, nonch� la contraddittoria motivazione su un 
punto decisivo della controversia, per avere la sentenza impugnata dato atto che la sentenza 
della quale si chiedeva la delibazione aveva data anteriore a quella emessa in Italia, 
en-oneamente e contraddittoriamente negando la delibazione della sentenza straniera 
anche per il periodo anteriore all'emissione della sentenza italiana e cio� in relazione 
agli alimenti dovuti in forza della sentenza straniera dal 1 �marzo 1984 al 3 ottobre 1988. 
2. -Il ricorso � fondato. 
Va premesso che il Ministero ricorrente aveva chiesto, ai sensi della Convenzione 
di New York 20 giugno 1956, resa esecutiva nell'ordinamento italiano con 
legge 23 marzo 1958, n. 338, la dichiarazione di efficacia di una sentenza di divorzio 
del Tribunale di grande Istanza di Annecy il giorno 1 � marzo 1984, con la quale 
Di Tonno Piero era stato condannato a pagare in favore del coniuge divorziato, 
Tochon-Danguy Christine, quale contributo al mantenimento del figlio minore Alexander, 
la somma mensile di 1500 franchi francesi, da rivalutarsi annualmente in 
base ad apposito indice. Va premesso, altres�, che, secondo la giurisprudenza di questa 
Corte, alla stregua della su detta Convenzione, il capo della sentenza relativo alla 
obbligazione alimentare deve considerarsi scindibile da ogni altro e suscettibile di 
autonoma delibazione (Cass. 16 novembre 1988, n. 6196; 28 luglio 1980, n. 4854). 

La Corte di appello di Torino, con la sentenza impugnata, ha rigettato la domanda, 
motivando il rigetto in base al disposto dell'art. 797, n. 5 codice procedura civile 
-il quale esclude la delibabilit� della sentenza straniera quando essa sia contraria 
ad altra sentenza pronunciata da un giudice italiano -poich� nel caso di specie, 
in data 3 ottobre 1988 il Tribunale di Torino, parimenti decidendo in una causa di 
divorzio tra le parti, con sentenza passata in giudicato, aveva quantificato il su detto 
assegno nella minor misura di lire 280.000 mensili, da rivalutarsi annualmente 
secondo gli indici Istat. 

Tali essendo la ratio decidendi e la motivazione della sentenza impugnata, va 
considerato -al fine di identificare la ratio dell'art. 797, n. 5, codice procedura 
civile e stabilire se in relazione ad essa il ricorso sia fondato -che, secondo la giurisprudenza 
di questa Corte, a norma dell'art. 797, applicabile alla fattispecie ratione 
temporis, l'azione di delibazione � preclusa solo nel caso in cui si sia gi� formato 
il giudicato nel giudizio interno, non costituendo impedimento alla delibazione il 
solo fatto della pronuncia di una sentenza da parte del giudice italiano in quanto, 
dalla disciplina dettata da tale articolo del rapporto di litispendenza fra il giudizio di 
delibazione e il giudizio di merito proposto in Italia ed avente lo stesso oggetto, si 
evince che la prevenzione � operante a favore del giudizio di delibazione quando il 
passaggio in giudicato della sentenza straniera sia anteriore all'instaurazione del 
giudizio interno di merito, e ci� anche se l'azione di delibazione sia stata promossa 
quando era gi� pendente il giudizio interno e anche se, nel corso di tale giudizio, sia 
gi� stata emessa una sentenza non ancora passata in giudicato (Cass. 15 maggio 
1978, n. 2363). Ci� perch� la voluntas legis espressa nei nn. 5 e 6 dell'art. 797 era 
quella di dare prevalenza al giudicato in precedenza formatosi, cosicch� l'esistenza 
del giudicato italiano escludeva la delibabilit� della sentenza straniera, mentre la 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STAT6"

388 

domanda di delibazione di questa, se compiuta nel corso del giudizio pendente in 
Italia prima del formarsi del giudicato interno, precludeva la prosecuzione di questo 
ove in esso dedotta e, ove non dedotta, precludeva la delibabilit� della sentenza straniera 
dal momento del formarsi del giudicato italiano. Ne deriva che la ratio della 
preclusione posta dall'art. 797, n. 5 deve ritenersi unicamente quella di impedire la 
contemporanea operativit� nell'ordinamento italiano di giudicati contrastanti. 

Tale essendo detta ratio, in relazione al ricorso in esame, va ritenuto che, ove si 
siano formati due giudicati, uno anteriore in un ordinamento straniero ed uno posteriore 
nell'ordinamento italiano ed entrambe le sentenze, quella straniera della quale 
si chiede la delibazione, e quella italiana, abbiano statuito in materia di alimenti in 
favore di Un coniuge divorziato ed a carico dell'altro per il mantenimento di un 
figlio minore, ma con decorrenze iniziali diverse, al limitato fine che viene in considerazione 
in questa sede, della delibabilit� del solo capo della sentenza straniera 
che ha statuito sull'assegno alimentare in favore del figlio minore, va considerato 
che il sovrapporsi di giudicati diversi, in relazione a detto petitum, costituito da prestazioni 
protraentesi nel tempo, deve ritenersi operante unicamente dal momento in 
cui si � reso operante al riguardo il giudicato italiano che ha diversamente statuito 
sulla misura di esse, cosicch� solo da tale momento il �giudicato� straniero, se reso 
operante in Italia, confliggerebbe con quello italiano. 

In relazione ad una simile evenienza deve, pertanto, affermarsi che l'art. 727, n. 
5, codice procedura civile -interpretato in relazione alla sua ratio, che secondo le 
considerazioni che precedono � quella di impedire l'operativit� nell'ordinamento italiano 
di giudicati contrastanti -non esclude la delibabilit� del capo della sentenza 
straniera relativo agli alimenti, con efficacia nell'ordinamento interno sino al momento 
del passaggio in giudicato della sentenza italiana, riguardando la prima, sino a tale 
momento, un petitum sul quale la sentenza italiana non ha disposto ed in relazione al 

I

quale, pertanto, non esiste una statuizione con la quale possa esistere un contrasto. 
Ne deriva che, in conseguenza di dette considerazioni, il ricorso � fondato e deve 
essere accolto, e la sentenza impugnata cassata, con rinvio alla Corte di appello di 

I

Torino affinch� faccia applicazione del seguente principio di diritto: �La sentenza di 
divorzio pronunciata da un giudice italiano, passata in giudicato, la quale abbia attriI 
buito ad uno dei coniugi, ponendolo a carico dell'altro, un assegno di mantenimento 
in favore del figlio minore da una certa data, non osta alla delibabilit�, con efficacia 
sino al passaggio in giudicato della sentenza italiana, del capo della sentenza di divorzio 
anteriormente pronunciata dal giudice straniero e passata in giudicato, la quale 
abbia attribuito allo stesso coniuge, ed a carico dell'altro, un assegno di mantenimento 
in favore del figlio minore, con diversa misura e per un periodo anteriore alla 
sentenza di divorzio pronunciata fra le stesse parti dal giudice italiano� (omissis). 

CORTE DI CASSAZIONE, Sez. Un., 6 maggio 1998 n. 4573 -Pres. La Torre -Rei. 
Vittoria -P.M. Morozzo Della Rocca (conf.) -Baiano (avv. D'Acunto) c. Funzionario 
C.I.P.E. (avv. Stato Polizzi) e Consorzio C.O.R.I. (avv. Magri). 

Giurisdizione civile e amministrativa -Giudicato amministrativo di rigetto del 
ricorso -Successiva disapplicazione dell'atto da parte dell' A.G.O. Ammissibilit� 
-Condizioni. 


PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 

389 

Calamit� pubbliche -Terremoto 1980 in Campania e Basilicata -Occupazione 
d'urgenza d'immobile -Durata -Proroga oltre il quinquennio Legittimit�. 


Il giudicato amministrativo di rigetto dei motivi di ricorso non preclude al giudice 
ordinario la disapplicazione dell'atto per inesistenza del potere, quando tale 
questione non sia stata prospettata davanti al giudice amministrativo(!). 

In situazioni straordinarie � legittima, sempre che tempestiva e motivata da 
concrete ragioni di pubblico interesse, la proroga della durata dell'occupazione 
d'urgenza d 'immobili oltre il limite massimo fissato, in materia, dalla norma 
comune(2). 

(omissis) 

2. -Il ricorso contiene cinque motivi. 
3.1. -Il primo ed il secondo dovranno essere esaminati insieme: per meglio 
comprendere il senso delle questioni che essi propongono conviene ripercorrere, per 
quanto concerne tali questioni, lo sviluppo del procedimento amministrativo e delle 
modificazioni normative, nonch� quello del processo. 
3.2.1. -L'ordinanza n. 1 del 28 maggio 1981 d� avvio al procedimento amministrativo. 
Il sindaco di Napoli, commissario straordinario di governo, individua con 
tale ordinanza le aree disponibili ed immediatamente utilizzabili per la realizzazione 
di un programma straordinario di edilizia residenziale nell'area metropolitana 
di Napoli. 

Quando l'ordinanza � emessa, l'art. 80, comma 4, legge 14 maggio 1981, n. 219 
le attribuisce, in rapporto alla vicenda espropriativa, il solo valore di una dichiarazione 
di indifferibilit� ed urgenza delle opere da realizzare. 

L'ordinanza n. 2 del 3 giugno 1981, che segue la precedente, autorizza l'occupazione 
di urgenza e ne stabilisce la durata. 

Dopo c.he questa ordinanza � stata emessa ed eseguita, entra in vigore il decreto 
legge 26 giugno 1981, n. 333, convertito in legge 6 agosto 1981, n. 456 -per 
questa parte senza modifiche -il cui art. 4, al comma 2, sostituisce il comma 4 del1'
art. 80 della legge n. 219 del 1981 : vi si dispone che l'individuazione delle aree 
comporta anche la dichiarazione di pubblica utilit�; vi si dispone, altres�, che �I 

(1) Chiave di volta del principio affermato a precisazione dell'orientamento risultante dalla 
pi� recente giurisprudenza (richiamata in motivazione), sembra essere la sottolineata estraneit� 
della �domanda di nullit�� del provvedimento amministrativo alla competenza giurisdizionale 
del G.A. 
(2) L'interpretazione della norma speciale, attributiva di poteri d'ordinanza ai Commissari 
straordinari di Governo per le zone terremotate della Campania e della Basilicata, si affida alla 
constatazione dell'inesistenza, nella Carta fondamentale e nel complesso della legislazione in 
materia di espropriazione per p.u., d'un principio generale per cui la durata dell'occupazione non 
possa oltrepassare un predeterminato limite massimo di tempo . 
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RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

390 

commissari straordinari del governo sono competenti per tutti gli atti relativi alle 
procedure di occupazione e di espropriazione�. 

Successivamente, la legge 18 aprile 1984, n. 80 -di conversione del decreto 
legge 28 febbraio 1984, n. 19 -all'art. 11, dettando disposizioni per l'edilizia a 
Napoli, introduce nella legge 14 maggio 1980, n. 219, dopo l'art. 84, oltre ad un art. 
84-bis, un art. 84-ter. 

Questo -nell'ambito di un complesso di disposizioni che prevedono varie 
possibilit� attuative del programma straordinario -al comma 7 stabilisce: �I poteri 
per l'occupazione temporanea e per l'espropriazione per pubblica utilit� conferiti 
ai commissari straordinari hanno decorrenza dal 18 maggio 1981�. 

3.2.2. -Il punto della decisione contro cui si rivolgono il primo e secondo motivo 
del ricorso � quello in cui la Corte d'appello ha esaminato la questione se all'ordinanza 
n. 2 del 3 giugno 1981 corrispondeva o no, nel Sindaco commissario straordinario 
di governo, il potere di autorizzare l'occupazione di urgenza. 
Il tribunale lo aveva negato, in base alla considerazione che quel potere, al 
commissario, era stato attribuito successivamente; il funzionario delegato del 

C.I.P.E. aveva sostenuto dovesse trovare applicazione l'art. 11, comma 7, della legge 
18 aprile 1984, n. 80. 
La Corte d'appello ha ritenuto di non dover esaminare il merito di tale questione: 
ha considerato che al riguardo operava una preclusione e che questa derivava dal 
fatto che l'ordinanza fosse stata fatta oggetto di impugnazione davanti al giudice 
amministrativo, che per� l'aveva rigettata. 

3.2.3. -L'argomento su cui ha basato la propria decisione la Corte d'appello � 
oggetto della critica svolta nel secondo motivo. 
Il ricorrente denunzia vizi riconducibili allo schema della violazione di norme 
di diritto, di norme sul procedimento e di difetto di motivazione (art. 360, nn. 3, 4 e 
5, codice procedura civile): sostiene che, davanti al giudice amministrativo, non 
s'era discusso del se il commissario avesse il potere di autorizzare l'occupazione di 
urgenza, ma di come l'aveva esercitato, sicch� sulla questione non s'era formato 
alcun giudicato; sostiene che, invece, ad essere passata in giudicato sul punto � la 
sentenza del Tribunale e ci� come conseguenza del fatto che la Corte d'appello ha 
omesso di esaminare nel merito il motivo di impugnazione proposto contro questo 
punto della decisione. 

Comunque, con il primo motivo -nel quale denunzia vizi di violazione 
di norme di diritto e di difetto di motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 codice procedura 
civile, in relazione all'art. 11, comma 7, della legge 18 aprile 1984, n. 
80) -il ricorrente sostiene che la questione non esaminata dal giudice di 
secondo grado non potrebbe essere risolta nel modo postulato dagli appellanti, 
cio� sulla base della disposizione contenuta nell'art. 11, comma 7, della 
legge 18 aprile 1984, n. 80. 

Quanto a tale norma poi, gradatamente, il ricorrente solleva una questione di 
legittimit� costituzionale per contrasto gli artt. 42 e 97 Cost. 

3.2.4. -Le questioni poste con i due motivi debbono essere risolte attraverso la 
correzione della motivazione, che non � conforme a diritto, mentre lo � il dispositivo 
(art. 384, comma 2, codice procedura civile). 

PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 

3.2.5. -Il giudice amministrativo, al quale, in sede di giurisdizione generale di 
legittimit�, � proposta domanda di annullamento di un provvedimento amministrativo, 
conosce di tale domanda sulla base dei motivi di illegittimit� dell'atto che la 
parte prospetta, sicch� la sua decisione, quando � di rigetto, mentre nega alla parte 
il bene della vita rappresentato dall'effetto di annullamento dell'atto, lo fa sul presupposto 
che i vizi del medesimo atto, dedotti come ragioni della domanda di annullamento, 
non sussistono. 
Si tratta di stabilire quali limiti incontri il giudice, amministrativo od ordinario, 
nel conoscere di una domanda con la quale la parte, in relazione al medesimo provvedimento, 
ma sulla base di diversi motivi, chieda o al giudice amministrativo una 
pronuncia di annullamento o al giudice ordinario una pronuncia incidentale di disapplicazione, 
nel caso in cui egli possa proporre al giudice ordinario una domanda 
di accertamento di un suo diritto. 

La questione pu� trovare in linea di principio pi� soluzioni. Fondamentalmente 
la scelta � tra postulare l'esistenza di un diritto all'annullamento dell'atto illegittimo 
o di tanti diritti all'annullamento quanti sono i motivi per cui pu� essere richiesto: 
la parte, se si accoglie la prima soluzione, non potr� dedurre in un secondo 
giudizio i motivi che avrebbe potuto ma in concreto non ha dedotto nel primo giudizio; 
lo potr� invece fare se si accoglie la seconda soluzione. 

La conclusione cui la giurisprudenza della Corte � pervenuta, nell'individuare 
gli effetti del giudicato amministrativo, � stata quella di negare alla parte 
la possibilit� di ottenere dal giudice ordinario la disapplicazione del provvedimento 
inutilmente, anche se per altri motivi, impugnato davanti al giudice amministrativo: 
in tal senso le sentenze 3 agosto 1990 n. 7806, 3 febbraio 1997 n. 982 
e 27 marzo 1997 n. 2721. 

Si � affermato, in particolare, che �la pronuncia di rigetto della domanda dichiarativa 
dell'illegittimit� copre il provvedimento impugnato sia sotto l'aspetto dell'esistenza 
del potere dell'organo che ha emesso il provvedimento, sia della sostanza 
dello stesso, precludendo al giudice ordinario ogni indagine al riguardo�. 

Questa conclusione non appare peraltro poter essere seguita, quando a venire in 
questione � il motivo di invalidit� del provvedimento rappresentato da ci� che l'autorit� 
amministrativa che lo ha posto in essere mancava del potere di farlo. 

Se anche questo motivo sia stato dedotto davanti al giudice amministrativo, sia 
stato esaminato e rigettato e la decisione sia passata in giudicato, l'accertamento formatosi 
pure su questo punto non consente di rimetterlo in discussione. 

Ma, quando, come nell'ipotesi che si viene discutendo e come viene sostenuto 
dal ricorrente nel caso concreto, la questione dell'inesistenza del potere non sia stata 
prospettata davanti al giudice amministrativo, il suo esame da parte del giudice ordinario 
in sede di disapplicazione non pu� essere considerato precluso. 

Ed invero, ci� su cui si forma il giudicato, in caso di rigetto del ricorso da parte 
del giudice amministrativo, non � la legittimit� dell'atto, ma la mancanza nel ricorrente 
del diritto ad ottenerne l'annullamento; e l'ostacolo a che il giudice esamini un 
diverso motivo di illegittimit�, se lo si ammette, deriver� da un fenomeno di preclusione, 
cio� dal fenomeno per cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile, 
ossia non solo i motivi per cui la parte ha agito, ma anche quelli per cui avrebbe 
potuto agire e non lo ha fatto. 


RASSEGNA AVVOCATURA DE�-LO STATO

392 

Se non che la ragione di invalidit� del provvedimento, che la giurisprudenza 
assegna all'area dell'inesistenza giuridica ed � rappresentata dal fatto che l'autorit� 
amministrativa che ha emanato l'atto non aveva il corrispondente potere, sostanzia 
una domanda non di annullamento, ma di nullit� ed � estranea all'area della 
competenza giurisdizionale del giudice amministrativo: ed allora, rispetto ad essa 
non pu� operare la preclusione cui vanno incontro le questioni deducibili, ma non 
dedotte. 

Orbene, la Corte d'appello, non si � attenuta a tali principi di diritto quando, 
sulla base del fatto che l'ordinanza era stata impugnata e che il ricorso era stato 
rigettato, ha affermato che ci� le precludeva l'esame della questione consistente nel1'
accertare se il commissario straordinario di governo aveva il potere di autorizzare 
l'occupazione di urgenza. 

La Corte d'appello avrebbe dovuto invece accertare se l'ordinanza fosse stata 
impugnata per questo motivo, il che non era. 

Le pur fondate critiche mosse per questa parte dal ricorrente non traggono per� 
con s� la conseguenza che la sentenza del Tribunale sia sul punto passata in giudicato, 
perch�, sebbene in base ad una motivazione non conforme a diritto, la sentenza 
di primo grado � stata riformata. 

Si tratta allora di stabilire in qual modo la questione andasse decisa e deve affermarsi 
che avrebbe dovuto esserlo nel senso sostenuto nell'appello, con conseguente 
accertamento che l'ordinanza aveva prodotto gli effetti propri di un provvedimento 
di autorizzazione all'occupazione di urgenza. 

Questi effetti le sono stati infatti, con norma retroattiva, attribuiti dall'art. 11, 
comma 7, della legge 18 aprile 1984, n. 80. 

La successione delle disposizioni richiamate al punto precedente mostra che la 
disciplina dell'attuazione del programma straordinario previsto dall'art. 80, comma 
1, della legge n. 219 del 1981, per quanto attiene all'impiego dei necessari strumenti 
ablatori, � stata oggetto di successivi interventi da parte del legislatore, volti a completarne 
la strutturazione e ad eliminare incertezze interpretative che traevano origine 
dalle sue originarie imperfezioni. 

Cos�, all'individuazione delle aree, che inizialmente comportava la sola 
dicliiarazione di indifferibilit� ed urgenza delle opere (art. 80, comma 4, legge 

n. 219 del 1981) � stata aggiunta l'idoneit� a fungere da dichiarazione di pubblica 
utilit� (art. 4, comma 2, decreto legge 26 giugno 1981, n. 333); il commissario 
straordinario, cui gi� spettava di adottare il provvedimento di individuazione, � 
stato dichiarato competente a porre in essere tutti gli atti relativi alle procedure di 
occupazione e di espropriazione (art. 4, comma 2, decreto legge 333 del 1981); la 
portata di tale attribuzione � stata resa esplicita dal punto di vista effettuale e temporale 
con la disposizione dell'art. 11, comma 7, legge n. 80 del 1984, che ha disposto 
nel senso che �i poteri per l'occupazione temporanea e per l'espropriazione 
di pubblica utilit� conferiti ai commissari straordinari hanno decorrenza dal 18 
maggio 1981�, cio� dal giorno di pubblicazione della legge n. 80 del 1981 (nello 
stesso senso si � espresso Consiglio di Stato, con la decisione 23 novembre 1988 
n. 892 della sezione IV). 
Manifestamente infondata deve d'altro canto ritenersi la questione di legittimit� 
costituzionale della norma, cos� interpretata, in rapporto agli artt. 42 e 97 Cost. 



PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 

393 

L'art. 42, comma 3, Cost. consente che la propriet� privata, nei casi previsti 
dalla legge, sia espropriata per motivi di interesse generale. 

L'art. 80 della legge n. 219 del 1981 contiene l'indicazione del motivo di pubblico 
generale interesse, individuato nella realizzazione del programma di edilizia 
residenziale nell'area metropolitana di Napoli. 

La circostanza che il legislatore non abbia eccettuato dall'espropriazione immobili 
per i quali fosse stata gi� rilasciata concessione edilizia non rileva in rapporto 
all'art. 42 Cost., che, in presenza di un motivo di pubblico generale interesse, non 
pone limiti all' espropriabilit�. 

La norma neppure presenta profili di contrasto con l'art. 97 Cost. ed i principi 
di buon andamento ed imparzialit� dell'amministrazione fissati nel suo primo 
comma. 

La legge generale sulle espropriazioni per causa di utilit� pubblica attribuisce al 
prefetto il potere di autorizzare l'occupazione di urgenza (artt. 71 e 72 legge 25 giugno 
1865, n. 2359), potere che, dopo l'entrata in vigore dell'ordinamento regionale, 
il prefetto ha mantenuto in relazione alle opere di competenza statale, ma che, quanto 
alle opere di interesse regionale, � stato trasferito alle regioni ( artt 2 e 3 decreto 
del Presidente della Repubblica 15 gennaio 1972, n. 105), le quali, non infrequentemente, 
per le opere di competenza degli enti locali territoriali, lo hanno delegato agli 
stessi enti. 

Orbene, l'attribuzione di tale competenza ad un commissario straordinario di 
governo � consentanea al disegno volto ad accentrare presso il medesimo organo, 
dotato di una propria struttura di supporto (art. 84, comma 1) e di poteri di ordinanza 
(art. 84, comma 3), anche le attribuzioni inerenti ai procedimenti espropriativi, 
nell'intento di accelerare l'attuazione del programma di edilizia residenziale voluto 
dal legislatore statale con l'art. 80 della legge n. 219 del 1980 e dichiarato di preminente 
interesse nazionale. 

La norma, per questa ragione, deve essere considerata attuare l'esigenza di buon 
andamento della pubblica amministrazione, mentre, come la Corte costituzionale ha 
pi� volte affermato, appunto a proposito della legislazione regionale prima richiamata, 
la riunione, presso un unico organo, dell'insieme dei poteri ordinati a rendere possibile 
la realizzazione delle opere pubbliche programmate dall'amministrazione, non 
� contraria al principio di imparzialit� (Corte cost. 20 ottobre 1983 n. 319), il cui 
rispetto non impone la distinta attribuzione di tali funzioni a diversi organi. 

4.1. -Il terzo motivo denunzia vizi di violazione di norme di diritto e di norme 
sul procedimento, nonch� di difetto di motivazione (art. 360 nn. 3, 4 e 5, codice procedura 
civile, in relazione all'art. 84 della legge 14 maggio 1981, n. 219). 
Il ricorrente osserva d'aver sostenuto, davanti ai giudici di merito, che il commissario 
di governo non aveva il potere di prorogare la durata dell'autorizzazione 
all'occupazione di urgenza oltre il limite massimo preveduto dalla legge 22 ottobre 
1971, n. 865. 

La sentenza impugnata presenterebbe i vizi denunciati, da un lato per aver considerato 
tale questione estranea all'ambito della giurisdizione del giudice ordinario, 
dall'altro per averla decisa nel senso che il commissario aveva quel potere, in ci� 
argomentando da quanto disposto dall'art. 84, comma 3, della legge n. 219 del 1980 . 

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RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

394 

Il motivo non � fondato. 

4.2. -La questione � stata esaminata e decisa nel merito dalla Corte d'appello 
e, poich� essa ha riguardo all'interpretazione di una norma di diritto, come non sussiste 
il vizio di difetto di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, cos� non pu� profilarsi 
un vizio di difetto di motivazione. 
Deve essere dunque verificata la corrispondenza a diritto della soluzione che al 
punto � stata data dalla Corte d'appello. 

4.3. -L'art. 84, comma 3, legge 14 maggio 1981, n. 219 -al comma 3 dispone: 
�Nell'espletamento delle funzioni attribuite con le disposizioni del presente 
titolo, .il sindaco di Napoli ed il presidente della giunta regionale agiscono 
nella qualit� di commissari straordinari di governo nominati dal Presidente del 
Consiglio dei ministri e sono soggetti soltanto alle norme di cui al presente titolo, 
della Costituzione e dei principi generali dell'ordinamento�. 
l 

Come si � gi� veduto, attraverso le modificazioni subite dall'art. 80 della legge, 
incluso nel medesimo titolo dell'art. 84, tra le funzioni attribuite ai commissari sono 
da considerare comprese quelle attinenti all'espropriazione per pubblica utilit� ed 
all'occupazione di urgenza. 

I

Dal collegamento tra l'art. 80 e l'art. 84 si trae che, nell'esercizio di tali funzioni, 
i commissari sono tenuti al rispetto della Costituzione, dei principi generali 
dell'ordinamento e delle norme che, in tema di occupazione di urgenza ed espro


I

priazione per pubblica utilit� sono dettate nello stesso titolo della legge: poich�, queste 
ultime, nulla dispongono a riguardo della durata dell'occupazione di urgenza e 
del suo rapporto con l'espropriazione per pubblica utilit�, per individuare i limiti 
entro i quali debbono svolgersi i poteri dei commissari di governo nel campo che si 

IIconsidera si deve avere riguardo alle norme della Costituzione ed ai principi generali 
dell'ordinamento. 

I ~ 

Il primo profilo che viene all'esame consiste nello stabilire se dalle norme della 
Costituzione e dal complesso della legislazione in tema di espropriazione per pub. 
blica utilit� si tragga il principio per cui l'autorit� competente ad autorizzare l'occupazione 
di urgenza abbia anche il potere di disporne la proroga. 

II

La risposta al quesito � certo positiva. 

Determinare la durata degli effetti di un provvedimento costituisce un aspetto 
del potere di cura dell'interesse pubblico che si esercita attraverso quel tipo 
di provvedimento: l'ordinamento pu� eventualmente porre limiti alla durata di 
quegli effetti, imponendo che la situazione una volta presa in considerazione, 
decorso un certo lasso di tempo, sia rivalutata o disciplinata con l'impiego di 
altri strumenti; per�, nell'ambito dl tali limiti, qualora esistano, la durata degli 

I

p

effetti pu� essere dimensionata nel tempo con successivi provvedimenti, adotta


(:

re i quali spetta, se diversamente non � disposto, all'autorit� cui � attribuita la 

l~

funzione. 

L'ordinamento conosce specifiche norme che, nel settore dell'espropriazione I� 
per causa di utilit� pubblica dispongono in tal senso (l'art. 13, comma 2, legge 25 i 
giugno 1865, n. 2359, in tema di proroga della durata della dichiarazione di pub! 


I 
~ 

blica utilit�; l'art. 11, comma 3, legge 24 luglio 1961, n. 729, in tema di proroga != 
dell'occupazione di urgenza oltre i limiti di durata previsti dall'art. 73 della legge 

. I 


PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 

395 

n. 2359 del 1865; l'art. 20, comma 2, legge 22 ottobre 1971, n. 865, che, nell'interpretazione 
della giurisprudenza, consente di protrarre a cinque anni la durata del1 
'occupazione anche con provvedimenti di proroga: in tal senso, Sez. Un. 3 febbraio 
1978 n. 481 e, tra le altre, nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, la 
decisione 3 luglio 1979 n. 558 della sezione IV). 
Il secondo profilo che viene all'esame � se dalle norme della Costituzione e dal 
complesso della legislazione in tema di espropriazione per pubblica utilit� si tragga 
il principio per cui la durata dell'occupazione non possa oltrepassare un predeterminato 
limite temporale massimo. 

� avviso della Corte che la risposta al quesito debba essere negativa. 

La legge generale sull'espropriazione per causa di utilit� pubblica contiene 
indubbiamente una norma in tal senso (l'art. 73 della legge n. 2359 del 1865), 
che, per�, come si � veduto, ha conosciuto deroghe (l'art. 11, comma 3, della 
legge n. 729 del 1861, che approvava un piano di nuove costruzioni stradali ed 
autostradali, ha infatti disposto che quel termine, prima della sua scadenza, potesse 
essere prorogato dal prefetto, se, per esigenze sopravvenute, i progetti approvati 
avessero dovuto essere modificati: e, di questa norma, la Corte costituzionale, 
con la sentenza 21 dicembre 1972 n. 188, ha escluso il contrasto con lart. 42, 
comma 2, Cost. ). 

La durata del termine biennale preveduto dall'art. 73 � stata per� portata a cinque 
anni dall'art. 20 della legge 22 ottobre 1971, n. 865 e, nello stesso tomo di anni 
in cui si � venuta sviluppando la vicenda che qui si esamina, l'ordinamento ha conosciuto 
l'introduzione di numerose leggi, che hanno avuto la comune portata di attuare 
una protrazione della durata delle occupazioni gi� in atto. 

Si ha qui riguardo alla legge 1� marzo 1985, n. 42-che ha aggiunto un comma 
5-bis all'art. 1 del decreto legge 22 dicembre 1984, n. 901, prorogando di un anno 
la scadenza dei termini di cui al secondo comma dell'art. 20 della legge n. 865 del 
1971; al decreto legge 29 dicembre 1987, n. 534 -il cui art. 14, comma 2, convertito 
senza modifiche nella legge 29 febbraio 1988, n. 47, ha prorogato di altri due 
anni la scadenza di quel termine; ed infine alla legge 20 maggio 1991, n. 158 -il 
cui art. 22 ha ancora prorogato quella scadenza di due anni -s� che, occupazioni 
iniziate dopo l'l gennaio 1983, hanno potuto conoscere una durata complessiva di 
dieci anni. 

Orbene, appunto vagliando la legittimit� costituzionale di tali norme in 
rapporto agli artt. 24 e 42 Cost., la Corte costituzionale (con la sentenza 19 
maggio 1993 n. 244) � pervenuta alla conclusione che, in presenza di una ragione 
concreta che le giustifichi, norme che protraggono per il tempo corrispondente 
la durata di occupazioni gi� in atto, non realizzino per s� una violazione 
delle norme considerate, perch� se determinano remore temporali alla conclusione 
del procedimento espropriativo, non tolgono intanto al privato il diritto al 
ristoro del pregiudizio che egli risente in quanto � nel frattempo privato del 
godimento del bene. 

Si pu� allora attingere la conclusione che, in presenza di situazioni straordinarie 
le quali giustificano la scelta del legislatore ordinario di attribuire all'autorit� 
governativa poteri di ordinanza, non contrasta con gli artt. 23 e 42 Cost. assegnare, 
alla norma attributiva di tale potere ed in rapporto all'esercizio della funzione di 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STAT� 

396 

autorizzare l'occupazione di urgenza, la portata di consentire che la durata dell 'occupazione, 
dopo che l'occupazione medesima sia stata decretata, possa essere protratta 
anche oltre il limite massimo altrimenti fissato dalla legge, purch� in presenza 
di circostanze che facciano apparire giustificato nel caso concreto il ricorso alla 
indicata proroga. 

Assegnare alla norma tale portata in rapporto al potere di autorizzare l'occupazione 
di urgenza non � poi in contrasto con principi generali dell'ordinamento nel 
campo del rapporto tra propriet� privata e potere dell'amministrazione di disporne 
per motivi di pubblico generale interesse. 

Principio generale in tal senso appare essere non gi� quello per cui l'occupazione 
non possa protrarsi oltre i termini che il solo legislatore pu� stabilire (l'art. 11, 
comma 3, della legge n. 729 del 1961 ne costituisce una smentita), quanto che la 
durata dell'autorizzazione all'occupazione debba essere determinata nel provvedimento 
iniziale e non possa essere protratta se non nel duplice presupposto che l'esigenza 
di pubblico generale interesse che ne � stata alla base resti attuale e che il procedimento 
di espropriazione non abbia potuto essere completato per effe:ttive ed 
incolpevoli difficolt�. 

N� il privato, da una tale norma, risulta sottoposto ad un potere dell'amministrazione 
suscettibile d'essere arbitrariamente esercitato. 

La proroga non potr� che essere disposta prima della scadenza del termine, ch�, 
altrimenti, il provvedimento cesser� d'essere riconducibile al suo schema legale; 
l'atto dovr� presentare la motivazione necessaria a dare conto delle situazioni concrete 
che hanno impedito la pronuncia dell'espropriazione come del permanere delle 
ragioni di pubblico generale interesse che sono all'origine del procedimento; la 
legittimit� del provvedimento sar� sindacabile in sede giurisdizionale. 

E per� tale sindacato spetta non al giudice ordinario, ma a quello amministrativo. 

Concludendo, deve affermarsi che la Corte d'appello ha compiuto la verifica 
dell'esistenza del potere in capo al commissario e lo ha fatto in modo corrispondente 
a diritto, mentre non avrebbe potuto compiere sindacato sul modo in cui il commissario 
aveva esercitato il suo potere di prorogare la durata dell'autorizzazione all' occupazione 
di urgenza (omissis). 

CORTE DI CASSAZIONE, Sez. Un., ordinanza 21 maggio 1998 n. 460 -Pres. 
Sgroi -Est. Finocchiaro -P. G. Delli Prisco li ( concl. conf.) -Jacobini Marco 
(avv. Recchia, Mastroviti, Spinelli) c. Ministero Grazia e Giustizia (avv. Stato 
Palmieri G.). 

Giurisdizione -Comitato per la formazione e la revisione degli albi dei consulenti 
tecnici del giudice -Natura -Organo amministrativo -Deliberazioni -
Ricorribilit� ex art. 111 cost. -Esclusione. 

(Artt. 14,15,18 disp. art. codice procedura civile; art. 111 Cost). 

I Comitati previsti dagli artt. 14 e 15 delle disposizioni di attuazione al codice 
di procedura civile hanno natura di organi amministrativi e non giurisdizionali e, 


PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO EPROCEDURA crVILE 

397 

pertanto, avverso le loro deliberazioni non � proponibile il ricorso per Cassazione 
ex art. 111 Costituzione(!). 

(omissis) 

La Corte di cassazione, a sezioni unite, 
-considerato che Marco Jacobini ha proposto ricorso per cassazione avverso 
il provvedimento dell'l dicembre 1995 del Comitato costituito presso la Corte d'appello 
di Bari, con il quale � stato respinto il reclamo dallo Jacobini stesso presentato 
avverso provvedimento, con il quale il Comitato costituito presso il Tribunale di Bari 
di cui all'art. 14 disp. att. codice procedura civile, preposto alla formazione e alla 

revisione degli albi dei consulenti tecnici del giudice, aveva deliberato la cancellazione 
dall'albo predetto in cui era iscritto nella categoria dei dottori commercialisti; 
-considerato che a sostegno del ricorso lo Jacobini deduce che erroneamen


te con il provvedimento impugnato � stata affermata la non reclamabilit� del provvedimento 
emesso dal Comitato istituito presso il tribunale; 

-considerato che i Comitati di cui agli artt. 14 e 15 disp. att. codice procedura 
civile hanno natura di organi amministrativi e non giurisdizionali, con la conseguenza 
che i provvedimenti dagli stessi adottati non sono ricorribili per cassazione 

ai sensi dell'art. 111 cost.; 

(1) In base agli artt. 61, 2� comma e 22 disp. att. c.p.c., la nomina del consulente tecnico 
d'ufficio deve essere effettuata tra le persone iscritte nell'albo del tribunale nella cui circoscrizione 
ha sede il giudice che la dispone. 
La formazione e la tenuta dell'albo sono disciplinate dagli artt. 13 e ss. delle disp. att. codice 
procedura civile, in particolare, dall'art. 14, per quanto riguarda la composizione del comitato 
che provvede alla tenuta dell'albo e dall'art. 15, che indica le modalit� per l'iscrizione all'albo 
dei consulenti e i rimedi contro i provvedimenti del Comitato. 

Sulla natura del Comitato va osservato che si tratta di una commissione che non esiste nella 

sua organicit� se non di volta in volta ed occasionalmente, (A. LEVONI, Le disposizioni di attua


zione al codice di procedura civile, Giuffr�, Milano, 1992, 22; R. V ACCARELLA, G. VERDE, Codi


ce di proced�ra civile commentato, UTET, Torino, 1997, 574), costituendosi soltanto in conse


guenza di una domanda di iscrizione all'albo da parte di un candidato, e non ha, quindi, natura di 

organo permanente. La dottrina, comunque, distingue l'organismo comitato sotto due diversi pro


fili: il primo che attiene al procedimento previsto dall'art. 15 citato; il secondo che riguarda l'at


tivit� disciplinare prevista dai successivi articoli 19 e 21. 

Nel primo caso, che concerne la fattispecie sottoposta all'esame della Commissione (can


cellazione dall'albo dei CTU categoria dei dottori commercialisti), il Comitato � preposto a svol


gere esami ed assumere delibere con ampie indagini di forma e di sostanza (LEVONI, op. cit., 25). 

Secondo la dottrina prevalente le attivit� svolte dal Comitato hanno i caratteri propri della 
funzione amministrativa ed il procedimento d'iscrizione ha natura di procedimento amministrativo 
(V ACCARELLA, VERDE, op. cit., 575) o meglio di processo amministrativo, privo, per�, del 
connotato giurisdizionale e pi� esattamente ascrivibile al quadro dell'autotutela decisoria della P. 

A. (LEVONI, ivi, 26). 
Vi � contrasto, poi, in ordine alla tutela giurisdizionale riconosciuta al richiedente avverso il 
provvedimento finale. Secondo alcuni, concludendosi il procedimento in questione con la formazione 
di un atto amministrativo non giurisdizionale, il provvedimento di diniego e impugnabile 
innanzi al TAR in base agli artt. 2, lett. b), e 4 legge n. 1134/71 (LEVONI, ivi, 27); secondo 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATOC

398 

-considerato che, pertanto, in conformit� alle conclusioni del Procuratore 
Generale presso questa Corte, il ricorso va dichiarato inammissibile; 

-considerato che la natura della controversia giustifica la compensazione fra 
le parti delle spese di questa fase di giudizio; 

P.Q.M. 
La Corte di cassazione, a sezioni unite, dichiara inammissibile il ricorso. 

(omissis) 

CORTE DI CASSAZIONE, Sez. Un., 8 giugno 1998, n. 5619 -Pres. Sgroi V. -Rei. 

Pigna taro -P.M. Morozzo Della Rocca ( conf.) -Ministero Difesa ( avv. Stato 

Cosentino) c. Ziino (avv. Conte). 

Espropriazione per pubblica utilit� -Retrocessione -Totale -Presupposti. 

(Legge 25 giugno 1865, n. 2359, art. 63). 

altri, invece, per il fatto che contro il provvedimento non � previsto uno specifico rimedio, � esperibile 
il ricorso al Consiglio di Stato per vizio di legittimit� (FRANCHI, Del consulente tecnico, in 
Commentario Allorio, I, UTET, Torino, 1973, 693); o, ancora, secondo una dottrina meno recente, 
sarebbe proponibile il reclamo al Ministro di Grazia e Giustizia che decide nell'esercizio del 
generale potere di controllo e di sorveglianza spettantegli in materia di ausiliari del giudice e, successivamente, 
il decreto ministeriale sarebbe impugnabile con ricorso al Consiglio di Stato in 
sede di legittimit� o con ricorso straordinario (ANDREOLI, Commento al codice procedura civile, 
II, 12 e 13 ss.; per una fattispecie in materia decisa dal Consiglio di Stato su ricorso straordinario 

v. Cons. Stato. Sez. III, 30 gennaio 1996, n. 1550/1995, in Cons. Stato, 1996, I, 1671). 
Infine, va ricordato che l'albo dei consulenti � permanente e, quindi, le iscrizioni, una volta 
avvenute, restano ferme, salvo eventi sopravvenuti che portino alla cancellazione ex art. 18 disp. 
att. codice procedura civile. 

Parte della dottrina ritiene, perci�, che contro il provvedimento di cancellazione possa sperimentarsi 
lo stesso reclamo previsto, contro il provvedimento di diniego di ammissione, dal1'
art. 15, 4� comma, cit., ricorrendone l'�eadem legis ratio�, essendo le delibere di revisione dell'albo 
riconducibili al quadro dell'attivit� formativa in senso di conservazione funzionale 
(LEVONI, ivi, 32). 

Nel caso di specie, comunque, correttamente la Cassazione ha dichiarato l'inammissibilit� del 
ricorso proposto ex art. 111 Cost. contro la deliberazione del Comitato con la quale era stato dichiarato 
inammissibile il reclamo avverso il provvedimento di cancellazione dall'albo dei C.T.U. 

Si tratta, infatti, di ricondurre la questione sotto l'esatta prospettiva della natura (amministrativa) 
dell'attivit� svolta che, come si � detto supra, non assume alcun connotato giurisdizionale 
e non definisce un conflitto inerente a diritti soggettivi; rispondendo tale attivit� ad una e$igenza 
di garanzia di buon funzionamento dei giudizi e, quindi, ad un interesse pubblico e 
trattandosi, comunque, di provvedimenti modificabili e revocabili in ogni tempo, come sottolineato 
anche dal Procuratore Generale nelle sue conclusioni. 

G.P. 

PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 

399 

Espropriazione per pubblica utilit� -Retrocessione totale -Prescrizione Decorrenza. 


(Legge 25 giugno 1865 n. 2359, art. 63; codice civile, art. 2935). 

Ricorre l'ipotesi della retrocessione totale, con conseguente giurisdizione del1'
A. G. O. a conoscere del relativo diritto soggettivo azionato dal proprietario espropriato, 
allorch� l'immobile abbia ricevuto da parte dell'espropriante una destinazione 
diversa da quella prevista nella dichiarazione di p. u. (Nella specie, i beni, 
espropriati per la costruzione di opere di fortificazione militare, erano stati in concreto 
utilizzati, nello stato originario, per uffici della Marina Militare e, poi, per 
alloggi del personale da questa dipendente) (1). 

Il termine, ordinario, di prescrizione del diritto alla retrocessione decorre dal 
momento in cui la situazione di fatto sia tale da dare certezza della sopravvenuta 
impossibilit� del compimento del!' opera considerata nella dichiarazione di p. u. (2). 

(Omissis) 

2. -Col primo, secondo e quarto motivo del ricorso principale (ancorch� prospettati 
in via gradata) il Ministero della difesa ripropone l'eccezione di difetto di 
giurisdizione dell'autorit� giudiziaria ordinaria. 
Con i primi due motivi, denunziando violazione degli artt. 60, 61 e 63 della 
legge 25 giugno 1865 n. 2359 in relazione all'art. 360 nn. 1 e 3 codice procedura 
civile, il ricorrente addebita alla Corte d'appello l'errore di avere ritenuto applicabile 
alla fattispecie l'istituto della retrocessione totale senza considerare: a) che non 
era neppure ipotizzabile la decadenza dalla dichiarazione di pubblica utilit� per la 
mancata attuazione dell'opera programmata, poich� l'espropriazione era stata pronunciata 
-col decreto prefettizio del 22 agosto 1942 -per generiche esigenze 
militari e non per realizzare un'opera pubblica; b) che ricorreva un'ipotesi assimilabile 
alla retrocessione parziale in quanto, non essendo stato fissato un termine per la 
realizzazione dell'opera pubblica, rientrava nella discrezionalit� della pubblica 
amministrazione stabilire se e quando dichiarare l'inutilizzabilit� del complesso 
immobiliarn espropriato. 

(l) Nella fattispecie, la �preveduta destinazione� di un edificio e del terreno circostante, 
espropriati nel 1942, era stata la �costruzione di opere di fortificazione dello stretto e della piazza 
di Messina� (mai realizzate mentre l'edificio, facente parte del complesso, era stato utilizzato 
-allo stato originario -nei modi ricordati in sentenza). 
Da notare, peraltro, che questa, ritenendolo non decisivo, non s'� data carico del punto relativo 
alla scadenza dei termini assegnati con la dichiarazione di p.u. (v. art. 63 legge n. 2359/1865), 
verosimilmente -ancorch� per implicito -rifacendosi alla sclassificazione, intervenuta nel 
1954, da �demanio� a �patrimonio� del compendio immobiliare espropriato: circostanza che, 
meritevole forse di pi� specifica illustrazione, finisce col rendere sostanzialmente condivisibile la 
soluzione offerta al caso concreto. 

(2) Tale momento, alla stregua della sottolineata insindacabilit� -in proposito -della pronuncia 
di merito, � fatto, nella specie, coincidere col 1954 e dunque con quello dell'atto formale di 
sclassificazione che torna cos� a proporsi, anche per altro verso, come punto nodale della vicenda. 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

400 

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione su punti decisivi 
e deduce che la Corte d'appello: a) sarebbe incorsa in contraddizione nell'affermare 
la giurisdizione del giudice ordinario sul rilievo che non erano state esegui~ 
te opere di interesse militare e nel riconoscere (respingendo l'eccezione di 
prescrizione del diritto fatto valere dagli attori) che fino al 1954 vi era stata una utilizzazione 
del fabbricato destinato agli uffici della marina; b) avrebbe affermato in 

Imodo illogico che, �per carenza documentale non poteva darsi per certo che gli 
adempimenti prescritti dalla legge n. 2359/1865 (circa i termini ed il piano particolareggiato 
di esecuzione dell'opera) fossero stati effettivamente omessi�. 

I motivi, da esaminarsi congiuntamente essendo strettamente connessi, non 
meritano accoglimento. 

Ai fmi della risoluzione della prospettata questione di giurisdizione si rileva: che 
il fondamento del provvedimento di espropriazione del prefetto di Messina in data 22 
agosto 1942 era costituito dalla dichiarazione di pubblica utilit� della �costruzione 
delle opere di fortificazione dello stretto e della piazza di Messina�, contenuta, nel 
regio decreto 7 dicembre 1882 n. 1128; che questo decreto era specificamente indicato 
nell'atto del Ministero della marina in data 20 dicembre 1941, di approvazione 
dell'elenco degli immobili da espropriare in Messina; che il decreto prefettizio emesso 
ai sensi della legge n. 2359/1865 sull'espropriazione per pubblica utilit� richiamava 
il predetto atto di approvazione; che sul complesso immobiliare espropriato 
agli Ziino non fu compiuta alcuna opera poich� esso fu utilizzato dal Ministero nello 

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stato e con le caratteristiche in cui si trovava al tempo dell'espropriazione. 
� pertanto evidente che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente facendo 
leva sulla intitolazione del decreto prefettizio, l'espropriazione fu pronunciata 

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non gi� per generiche esigenze militari, ma al fine specifico della costruzione di 
opere di fortificazione prevista dal regio decreto di dichiarazione di pubblica utilit�; 
con la conseguenza che, non essendo stata compiuta l'opera prevista da tale dichiarazione 
n� alcun' altra opera, la fattispecie � stata correttamente inquadrata dalla 
Corte d'appello nell'ipotesi della retrocessione totale prevista dall'art. 63 della legge 

n. 2359/1865. ~=: 
La giurisprudenza di queste Sezioni Unite (v., tra le altre, le sentenze 4 novembre 
1994 n. 9131, 6 febbraio 1984 n. 870) � costante nel distinguere l'ipotesi prevista 
da tale norma per il caso in cui l'opera non sia stata eseguita neppure in parte, da 
quella contemplata dagli artt. 60 e 61 per il caso di parziale esecuzione dell'opera, 
e nell'affermare l'esistenza -nel primo caso -di un diritto soggettivo alla retrocessione 
immediatamente tutelabile davanti al giudice ordinario, e -nel secondo 
-di un interesse legittimo tutelabile davanti al giudice amministrativo, in relazione 
al provvedimento dell'amministrazione con il quale si dichiari che taluni beni 
non servono pi� all'opera pubblica. 

Si � inoltre precisato che, al fine di stabilire se ricorra l'una o l'altra ipotesi, 

deve considerarsi non solo il decreto di espropriazione ma anche e soprattutto la ~ 

e 

dichiarazione di pubblica utilit� e l'opera in essa indicata e che non si pu� prescin


fil 

dere dal considerare, contemporaneamente, la condizione dei beni inutilizzati per 11 
accertare se si sia verificata una causa che, escludendone la destinazione all'opera ~~ 
programmata, abbia reso inoperante la dichiarazione di pubblica utilit� rispetto al 
provvedimento ablatorio che li riguarda. .

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.

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~=~~.,A:~~�'~@,=�=-
~ 


PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 

Sotto questo profilo si � affermato che cessa il rapporto che vincola il bene alla 
realizzazione dell'opera e si versa, quindi, nella fattispecie di cui all'art. 63 cit. 
quando l'opera programmata risulti realizzata in luogo diverso dagli immobili 
all'uopo espropriati (v. sentenze nn. 240/1979, 290811969), quando la pubblica 
amministrazione abbia dato ad essi una destinazione diversa ed incompatibile con 
l'attuazione dell'opera (v. sentenze nn. 3353/1976, 3632/1968), ovvero questa sia 
radicalmente diversa da quella in concreto realizzata (v. sentenze nn. 3851/1975, 
870/1984 gi� cit., 539/1991). 

La Corte territoriale ha accertato la mancata esecuzione dell'opera pubblica 
prevista nella dichiarazione di pubblica utilit� -costituente peraltro circostanza 
incontroversa -e �ha indicato in modo logico ed adeguato le ragioni del proprio 
convincimento. 

Non sussistono, infatti, i vizi di motivazione su punti decisivi denunziati dal 
ricorrente col quarto motivo e sopra indicati. La Corte territoriale non ha, in realt�, 
affermato che l'utilizzazione del fabbricato per uffici potesse ricondursi allo scopo 
giustificativo della dichiarazione di pubblica utilit� (esecuzione di opere di fortificazione) 
e, di fronte ad una totale mancanza di esecuzione di siffatte opere, ha ritenuto 
sostanzialmente irrilevante l'accertamento del termine della dichiarazione di 
pubblica utilit� e della sua scadenza (con la conseguenza che le censure mosse al 
riguardo dal ricorrente non attengono ad un punto decisivo). 

3. -Con il terzo motivo di ricorso il Ministero della difesa, denunziando violazione 
degli artt. 2934, 2935 e 2946 codice civile, deduce: a) che, ai fini della decorrenza 
della prescrizione decennale del diritto fatto valere dagli attori si sarebbe 
dovuto tener conto della data di cessazione giuridica dello stato di guerra (15 aprile 
1946) a norma dell'art. 1 del d.l.lgt. 8 febbraio 1946 n. 49 per essere stata disposta 
l'espropriazione per esigenze militari in periodo bellico; b) che la Corte d'appello 
avrebbe errato nel fissare il dies a quo del termine di prescrizione nella data (26 
maggio 1954) del verbale di passaggio del complesso immobiliare dal demanio al 
patrimonio, poich� detto verbale costituiva un atto predisposto a fini contabili interni 
dell' amn;i.inistrazione ed era, perci�, inidoneo a far decorrere la prescrizione a sfavore 
dei privati. 
Il motivo non merita accoglimento. 

La Corte territoriale ha correttamente considerato, in conformit� al costante 
orientamento di questa Suprema Corte ribadito anche di recente (v., tra le 
altre, la sentenza 26 gennaio 1993 n. 954) che, al fine di verificare il momento 
in cui l'espropriato pu� esercitare il diritto potestativo alla retrocessione, occorre 
far riferimento alla situazione di fatto, obiettiva e concreta, tale da dare la certezza 
della sopravvenuta impossibilit� del compimento dell'opera considerata 
nella dichiarazione di pubblica utilit� (che nella specie, come si � sopra rilevato, 
non era stata emessa -nel 1942 -in periodo bellico n� era collegata allo 
stato di guerra). 

In applicazione di tale principio la stessa Corte d'appello ha individuato detta 
situazione nell'utilizzazione, dal 1954 in poi, del fabbricato per alloggi degli ufficiali 
di marina e tale accertamento di fatto, adeguatamente motivato, si sottrae al sindacato 
di legittimit� di questa Corte (omissis). 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

402 


CORTE DI CASSAZIONE, Sez. Un., 27 luglio 1998 n. 7340 -Pres. Sgroi -Rei. 
Carbone -P.G. Morozzo della Rocca (concl. conf.) -Consorzio Italiano Oleificio 
Sociale CIOS (avv. Vitale) c. Prefetto di Bari (avv. Stato G. Palmieri), Pinoli 
Alimentari (avv. Bracciodieta), Elaiopolio Cooperativo s.r.l. (avv. Conserva e 
avv. Prof. Lipari), Curatela fallimento CIOS (avv. De Palo). 

Giurisdizione civile -Regolamento di giurisdizione sollevato dalla pubblica 

amministrazione che non � parte in causa -Ricorso alle Sezioni Unite 


Parte pi� diligente -Termine perentorio -Inosservanza -Conseguenze 


Inammissibilit�. 

(Art. 41,.2� comma, e art. 368 codice procedura civile). 

Nel caso in cui la P.A. che non sia parte in causa abbia fatto valere il difetto di 
giurisdizione del giudice ordinario ex art. 41, 2� comma, codice procedura civile ed 
abbia ottenuto la sospensione del processo, la parte pi� diligente deve investire la 
Corte di Cassazione della questione di giurisdizione con ricorso da proporsi nel termine 
perentorio di trenta giorni dalla notificazione del decreto prefettizio a pena 
d'inammissibilit� (1). 

(1) Brevi osservazioni in tema di questione di giurisdizione sollevata dal Prefetto. 
La decisione si segnala non solo perch� � la pi� recente pronuncia in questa materia, in cui 
peraltro i precedenti non abbondano, ma anche perch� nella motivazione � ricostruito l'iter storico-
giuridico dell'istituto contemplato dalla norma di cui all'art. 41, 2� comma, citato. Si tratta di 
uno strumento processuale del quale solo raramente si sono avvalsi i Prefetti, ma di recente sembra 
che l'utilizzo stia diventando pi� frequente e, quindi, la sentenza che si annota costituisce uno 
spunto di riflessione su quest'istituto che sembrava quasi obsoleto. 

Il quadro di riferimento normativo � scarno ed � costituito da due articoli del codice di procedura 
civile. 

L'art. 41, 2� comma, codice procedura civile, il quale prevede che la Pubblica Amministrazione, 
che non � parte in causa, possa chiedere in ogni stato e grado del processo che sia dichiarato 
dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione il difetto di giurisdizione del giudice ordinario 
a causa dei poteri attribuiti dalla legge ali' Amministrazione stessa, finch� la giurisdizione non sia 
stata affermata con sentenza passata in giudicato. 

Il successivo art. 368 che disciplina le modalit� del procedimento avviato ex art. 41 citato ed, in 
particolare, statuisce che la Corte di Cassazione � investita della questione di giurisdizione �con ricorso 
a cura della parte pi� diligente� nel termine, dalla norma stessa definito perentorio, di trenta giorni 
dalla notificazione del decreto prefettizio con il quale � stata sollevata la questione di giurisdizione. 

In concreto il meccanismo delineato dalla legge processuale non appare pienamente idoneo 
a tutelare le ragioni di pubblico interesse che il Prefetto intende far valere soprattutto perch�, in 
mancanza del ricorso delle parti private, le Sezioni Unite della Cassazione non possono pronunciarsi 
sulla questione di giurisdizione sollevata dal Prefetto. 

Infatti, in dottrina prevale l'orientamento secondo il quale la P.A. non pu� essere considerata 
�parte diligente� ai fini predetti; argomentando essenzialmente dalla netta distinzione contenuta 
nell'art. 41 c.p.c. tra gli oneri e i poteri attribuiti alla P.A., al pubblico Ministero ed alle parti ed 
individuando l'intento del legislatore nel senso di non conferire alla P.A. che non sia parte in causa 
poteri immediati sul processo vertente fra altri soggetti (G. FLORE, voce Giurisdizione, (regolamento 
di), in Enc. Dir., voi. XIX, Milano, Giuffr�, 323-324; R. VILLATA, Il conflitto di attribuzioni 
sollevato dal Prefetto, in Riv. Trim. di Proc. Civ., 1967, 894 e ss., in particolare p. 936). 


PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO EPROCEDURA CIVILE 

403 

(omissis) 

Con carattere pregiudiziale si presenta l'esame della tempestivit� del ricorso, tenuto 
conto che nel caso di specie si tratta di questione di giurisdizione sollevata dal Prefetto, 
ai sensi dell'art. 368 codice procedura civile e il ricorso alle sezioni unite deve 
essere proposto nel termine perentorio di 30 giorni dalla notifica del decreto prefettizio. 

La disposizione, che ha trovato scarsa applicazione nella vita dell'attuale codice di 
rito, regola una forma del tutto particolare di regolamento di giurisdizione, che si pu� 
esercitare in ogni stato e grado del processo, finch� la giurisdizione non sia stata affermata 
con sentenza passata in giudicato (cos�, Cass. 4 aprile 1969, n. 1103). Le poche 
applicazioni di questa norma si riscontrano in materia fallimentare nei rapporti tra liquidazione 
coatta amministrativa e dichiarazione di fallimento (Cass. 23 novembre 1994, 

n. 912, ord.; Cass., sez. un., 30 ottobre 1992, n. 11848; Cass. 17 luglio 1980, n. 4681). 
Con una norma di raccordo, per evitare conflitti di attribuzione, il capoverso 
dell'art. 41 codice procedura civile consente alla P.A., che non sia parte in causa, tramite 
il Prefetto, di far dichiarare il difetto di giurisdizione del giudice ordinario dalle 
sezioni unite della Corte di cassazione. 

Alla P.A., quando non � parte del giudizio, � consentito di far valere il difetto di 
giurisdizione del giudice ordinario, senza il limite temporale della preclusione della 

Non seguono questa impostazione S. SATTA, (Commentario al codice di procedura civile, II, 
238), il quale ritiene che per parte diligente possa intendersi anche la P.A. e E. CANNADA BARTOLI, 
il quale, alla luce del dettato costituzionale, riconduce l'istituto nell'ambito della teoria del 
processo ed ammette che la P.A. che non sia parte in causa possa assumere tale qualit� nei limiti 
del processo incidentale di c.d. giurisdizione, nel quale fa accertare i propri poteri in relazione 
all'oggetto dedotto in un giudizio in concreto (voce Giurisdizione (conflitti di), in Enc. Dir., vol. 
XIX, 302 e ss.). 

La giurisprudenza ha affrontato la questione sotto questo particolare profilo solo una volta, 
con la sentenza delle Sezioni Unite Civili 13 marzo 1965, n. 425 (in Foro Jt., 1965, I, 618; in 
Giust. Civ., 1965, I, 434 e in questa Rassegna, 1965, I, 2, 293, con nota Osservazioni sul conflitto 
di attribuzioni di G. DEL GRECO, nella quale � anche pubblicato integralmente l'atto difensivo 
presentato dall'Avvocatura Generale, nella cui prima parte sono esaminati i problemi connessi al 
conflitto soilevato dal Prefetto ed alla sua rilevanza anche costituzionale, e nella cui seconda parte 
� trattata la questione di merito). 

Infatti, nelle decisioni sinora intervenute la parte privata ha sempre (tempestivamente) provveduto 
ad investire la Corte di Cassazione. 

In una fattispecie, peraltro molto particolare, la Corte si � pronunciata espressamente, ed in 
senso positivo, sull'ammissibilit� del ricorso del Prefetto proposto per tutelare le ragioni dello 
Stato del Giappone (SS. UU., 30 settembre 1968, n. 3029, in Giust. Civ., 1968, 962). 

In ogni caso, una volta che la parte privata pi� diligente abbia investito la Cassazione, si 
deve ritenere che anche il Prefetto possa costituirsi in giudizio attraverso l'Avvocatura dello Stato 
al fine di far presenti le tesi e le argomentazioni della P.A. nel giudizio di risoluzione del conflitto 
(VILLATA, op. cit., 937). 

Secondo parte della dottrina, nell'ipotesi d'inosservanza del termine previsto dall'art. 368 
cit. per investire la Cassazione, il processo deve ritenersi estinto ex art. 307 codice procedura civile 
(VILLATA, ivi) e se nessuno si fa parte diligente, manca la decisione del giudice di merito e sar� 
escluso ogni pregiudizio dell'autorit� amministrativa (CANNADA BARTOLI). 

2. -Inoltre, dalla proposizione del regolamento ex art. 41 cit. scaturisce l'obbligo per il 
capo dell'ufficio giudiziario davanti al quale pende la causa di sospendere il procedimento 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

404 


decisione nel merito di primo grado, caratteristica peculiare del regolamento preventivo 
di giurisdizione, esperibile dalle parti del processo. 

La disposizione trova corrispondenza nel comma 1� dell'art. 37 codice procedu-< 
ra civile -che consente la rilevabilit� d'ufficio del difetto di giurisdizione in qualunque 
stato e grado del processo -e legittima a sollevare la questione di giurisdizione 
il Prefetto del luogo ove pende il giudizio di merito, quale rappresentante della 

P.A. che non sia parte in causa (art. 19 comma 2, regio decreto 3 marzo 1934 n. 383). 
L'attuale disciplina del regolamento di giurisdizione, di cui agli artt. 41, 367 e 
368 codice procedura civile, risale alla legge 31 marzo 1877, n. 3761, sui conflitti 
di attribuzione, dovuta alla riforma del guardasigilli del tempo Pasquale Stanislao 
Mancini, � rimasta sostanzialmente intatta. Sintomatico di quanto sopra, ed a livello 
di vero e proprio antiquariato giuridico, l'articolo in esame, non toccato dalla 
riforma del 1990, consente, ancora oggi, al Prefetto, competente per territorio, di 
sollevare la questione di giurisdizione. Con la semplice differenza che l'effetto 
sospensivo non � pi� connesso direttamente al decreto prefettizio, ma a un meccanismo 
procedimentale che parte dalla notifica alla magistratura requirente -ali' epoca 
dell'introduzione del codice di rito del 1942 ancora sottoposta all'esecutivo la 
quale ne d� comunicazione al capo dell'ufficio giudiziario che provvede a 

(art. 368, 3� comma, codice procedura civile) ed � dubbio in dottrina se tale effetto sospensivo 
decada o meno per effetto della mancata proposizione del ricorso alle Sezioni Unite. fil 
In un remoto precedente attinente ad una fattispecie analoga a quella oggetto della decisio-I~.'.. 
ne che si annota, il Tribunale di Milano, con un decreto in data 15 ottobre 1979, (in Giur. It., 1979, 

I, 2, 296, con nota Il prefetto ed il processo civile di F. CrPRJANI), ha precisato che la proposizio-I',:� 
ne del regolamento di giurisdizione da parte del Prefetto nei confronti di una sentenza dichiarativa 
di fallimento obbliga il capo dell'ufficio giudiziario a sospendere sia il processo di opposizione 
alla sentenza stessa sia la procedura esecutiva concorsuale. 

Nel citato commento a tale provvedimento � stato sottolineato come il regolamento ex art. 41 
costituisca uno strumento �pi� micidiale� di quello su istanza di parte proprio perch� consente di 

scavalcare il giudice naturale investito della causa, sottraendogli il potere di sospendere il processo 
e perch� non assume alcuna particolare importanza la fondatezza della �richiesta� prefettizia. 

Inoltre, il regolamento per decreto del Prefetto si differenzia da quello su istanza di parte non 
solo quanto ai presupposti (la P.A. che non sia parte in causa), ma anche per i termini finali per 
proporlo (il giudicato sulla giurisdizione) e l'oggetto (difetto della giurisdizione dell'autorit� giudiziaria 
ordinaria a causa dei poteri attribuiti dalla legge all'Amministrazione). 

Altro connesso profilo di rilievo riguarda l'interpretazione della locuzione contenuta nel 
terzo comma dell'art. 368 codice procedura civile �capo dell'ufficio giudiziario davanti al quale 
pende la causa�. 

Secondo la dottrina (VILLATA, op. cit., 929; CIPRIANI, op. cit., 298), � il capo dell'ufficio giudiziario 
al quale appartiene il giudice davanti al quale pende la causa (nella specie, il Presidente ~ 
Capo del Tribunale). ~ 

Inoltre, il giudice deve solo accertare l'esistenza delle condizioni oggettive (I'Amministra-?J 
zione non sia parte in causa e non vi sia stato il giudicato sulla giurisdizione) per emanare il prov


li_, 

vedimento di sospensione. i: 

3. -Resta da esaminare un ultimo aspetto: la disposizione di cui all'art. 41 � stata emanata !i 
prima della entrata in vigore della Costituzione e della legge 11 marzo 1957, n. 87, sulla costitu-~ 
zione e sul funzionamento della Corte Costituzionale, e ci� rende necessario non solo e non tanto ~ 
valuWe la compatibmt� dell'fatituto pmi�to dal codice di pmcedura civile con l~ dIBpo�i,mn~ . 

~~~........,.... 



PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 

405 

sospendere immediatamente il processo in corso. Questo tipo di intervento va inquadrato 
storicamente, perch� collegato alla fine dell'avocazione reale, che consentiva 
al re di attribuirsi qualsiasi processo civile o penale per deciderlo nel merito. Si 
ritenne, intorno all'ultimo quarto del secolo scorso, sotto la spinta di una forte corrente 
di pensiero, sostenuta dalla dottrina dell'epoca, di introdurre l'istituto dei conflitti, 
al fine di bloccare le eventuali invasioni del potere giudiziario nel campo riservato 
all'esecutivo, non pi� protetto dall'avocazione reale. Il Governo del 1877 
risolse il problema mediante �l'arma di guerra�, cos� qualificata dal guardasigilli 
Mancini, costituita dall'intervento del Prefetto posto in grado di bloccare l'autorit� 
giudiziaria, anche quando la P.A. non � parte in causa, come, ancor oggi, recita l'attuale 
art. 41, comma 2�. In questo modo si consente al Governo, tramite il Prefetto, 
di far valere il difetto assoluto del potere giurisdizionale, in ogni stato e grado del 
giudizio, finch� la giurisdizione non sia coperta dal giudicato, mediante un potere di 
veto con cui la P.A. ottiene la sospensione del processo, ai sensi dell'art. 368, 
comma 3, codice procedura civile. 

La regolamentazione attuale prevede, infatti, che costituisce onere dell'altra parte, 
rimasta bloccata dal veto con cui la P.A. ha ottenuto la sospensione del processo, di 
ricorrere alle sezioni unite affinch� provvedano sulla questione di giurisdizione. 

costituzionali successive, ma soprattutto valutare se l'interesse pubblico possa essere pi� convenientemente 
fatto valere sollevando il conflitto di attribuzioni con il giudice ordinario. 

Infatti, nei casi verificatisi in concreto il Prefetto ha contestato la competenza giurisdizionale 
del giudice ordinario a dichiarare il fallimento di una societ�, ritenendo, invece, quest'ultima 
soggetta alla procedura di liquidazione coatta amministrativa. 

In sostanza, il Prefetto ha contestato l'esercizio del potere giurisdizionale del giudice ordinario 
nella particolare fattispecie a causa dei poteri invece spettanti alla Pubblica Amministrazione. 
Tanto che il regolamento de quo viene anche denominato regolamento di giurisdizione �per 
conflitto di attribuzioni�. 
La questione potrebbe, quindi, essere utilmente fatta valere anche sollevando conflitto di 
attribuzione fra poteri dello Stato innanzi alla Corte Costituzionale. 

Sebbene la dottrina ed anche la giurisprudenza della Corte Costituzionale traccino una decisa 
linea di demarcazione fra questioni di giurisdizione e conflitti di attribuzione fra poteri dello 
Stato, escludendo che sia sottoponibile a sindacato di costituzionalit� il modo come un determinato 
organo abbia concretamente esercitato i poteri che gli spettano, nel particolare caso di specie, il 
conflitto potrebbe essere sollevato ricorrendo alla categoria concettuale, elaborata dalla dottrina, di 
�conflitto da menomazione� (L. PALADIN, Diritto Costituzionale, CEDAM, Padova, 1991). 

Non occorre, quindi, che si contenda circa la spettanza dell'attribuzione stessa, ma � sufficiente 
che sussista la menomazione di una sfera di attribuzioni costituzionalmente assegnata al 
soggetto che solleva il conflitto di attribuzioni. 

Infine, va ricordato che in un recente passato (nota vicenda Baffi-Sarcinelli, in cui la divergenza 
di vedute fra la Banca d'Italia e l'autorit� giudiziaria, a proposito dell'esistenza o meno di un obbligo 
di denuncia a quest'ultima da parte della prima, delle irregolarit� riscontrate in certi finanziamenti 
effettuati dal Credito Industriale Sardo alla SIR, sfoci� in un conflitto fra l'autorit� giudiziaria stessa 
e governo), si sostenne da autorevole dottrina (Sandulli) la possibilit� di deferire da parte dei Governo 
alla Corte Costituzionale la soluzione del conflitto di attribuzione insorto con l'autorit� giudiziaria, 
al fine di assicurare la coordinata funzionalit� dello Stato nelle sue varie articolazioni, rimettendo 
alla Corte la definizione dei limiti e delle prerogative dei due poteri in dissonanza. 

GABRIELLA PALMIERI 



' ~.


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

406 

La richiesta del prefetto � contenuta in un decreto motivato, notificato alle parti 
e al pubblico ministero presso il Tribunale, se si tratta di un processo di primo grado, 

o al procuratore generale presso la Corte d'Appello, se il processo sia in grado di 
appello. Il P.M. o il P.G. si rivolge non al giudice investito della causa, ma al capo 
dell 'u:fficio giudiziario, il quale, senza alcuna delibazione (a differenza di quanto previsto 
dal comma 2� dell'art. 2 legge 31 marzo 1877, n. 3761 per i conflitti di attribuzione) 
sospende il processo, dandone notizia alle parti e mettendo in grado quella pi� 
diligente di rivolgersi -entro il termine perentorio di 30 giorni dalla notifica del 
decreto prefettizio -alla Corte di Cassazione perch� si pronunci sulla giurisdizione. 
Sebbene la legge definisca il decreto del prefetto come richiesta per la decisione 
sulla giurisdizione della Corte di cassazione, in realt� si tratta non di una domanda, 
ma piuttosto dell'esercizio di un potere di veto, con cui la P.A. da un lato ottiene 
la sospensione del processo, e dall'altro, su ricorso a carico della parte pi� 
diligente, la decisione sulla giurisdizione ad opera delle sezioni unite. 

Nel caso in esame, il decreto del prefetto risulta notificato, ai sensi dell'art. 
3 68 codice procedura civile in data 18 dicembre 1996 e di ci� d� atto lo stesso 
decreto di sospensione del presidente del Tribunale, quando richiama la nota del 

P.M. del 20 dicembre 1996, contenente, appunto, notizia del decreto ai fini della 
sospensione di rito. 
La disposizione contenuta nell'art. 368 codice procedura civile prevede che il 
ricorso contenente la questione di giurisdizione deve essere proposto �nel termine 
perentorio di 30 giorni dalla notifica del decreto prefettizio�, avvenuta nella specie 
il 18 dicembre 1996. Orbene, il C.I.O.S. avrebbe dovuto proporre il ricorso entro 
trenta giorni dalla notifica del decreto prefettizio. 

Nel caso di specie, il termine perentorio non risulta rispettato perch� il ricorso per 
regolamento di giurisdizione � stato tardivamente notificato, in data 29 gennaio 1997. 
La giurisprudenza � ferma nel ritenere che il ricorso notificato oltre il termine 
perentorio sia inammissibile (Cass., 12 agosto 1995, n. 8857). 
In considerazione della natura della controversia le spese possono essere interamente 
compensate tra le parti. 

P.Q.M. 
La Corte a sezioni unite, dichiara il ricorso inammissibile (omissis). 

CORTE DI CASSAZIONE, Sez. Un., 29 luglio 1998, n. 7414 -Pres. Vessia -Rei. 
Paolini -P.M Dettori (diff.) -SOGEMA s.r.l. (avv. Colarizi) c. Regione Valle 
d'Aosta (avv. Stato Sica). 

Giurisdizione -Contabilit� pubblica -Ordinamento contabile regionale Fermo 
amministrativo (provvedimenti di) -Carenza di potere -Giurisdizione 
dell' A.G.O. 

(Regio decreto 18 novembre 1923 n. 2440, art. 69; legge regionale V dA 27 dicembre 
1989 n. 90). 


PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 

40T 

Per il carattere di eccezionalit� che lo connota, oltre che per la diversit� delle 
strutture organizzative statuale e regionale, l'istituto del fermo amministrativo, di 
cui all'art. 69 del regio decreto 18 novembre 1923 n. 2440, non pu� ritenersi inserito 
nell'ordinamento contabile della Valle d'Aosta in forza del generale rinvio operato, 
con disposizione di legge regionale, alle norme di contabilit� generale dello 
Stato. Con la conseguenza che spetta al giudice ordinario la cognizione delle controversie 
sulla esigibilit� dei crediti oggetto di provvedimenti di <<fermo� adottati, 
dagli organi regionali, in assoluta carenza di potere (1). 

(omissis) 

Il Consiglio di Stato, con la decisione qui impugnata, ha disatteso le istanze 
come in narrativa azionate dalla �SO.GE.MA.� s.r.l. per far dichiarare l'illegittimit� 
dei pi� sopra indicati provvedimenti della Regione Valle d'Aosta recanti fermo 
amministrativo di somme da detta Regione dovutele, rilevando che �l'art. 90 della 
legge regionale della Valle d'Aosta 27 dicembre 1989 n. 90 (recante norme in materia 
di bilancio e di contabilit� generale della Regione), richiamato in entrambe le 
deliberazioni di Giunta regionale impugnate in primo grado, rinvia, per �quant'altro 
attinente la materia della contabilit� regionale non espressamente disciplinato� in 
detta legge locale �alle norme di cui alla legge 19 maggio 197 6 n. 3 3 5 e, in quanto 
applicabili, alle norme di contabilit� generale dello Stato�; non si tratta di un richiamo 
generico, ma di un espresso rinvio, per quanto non previsto dalla legge regionale, 
alle norme della contabilit� generale dello Stato, in quanto applicabili; � pur vero 
che tale rinvio opera in quanto le norme statali siano applicabili, ma non si ravvisano 
nell'ordinamento motivi ostativi a tale applicazione nell'ambito della Regione 
Autonoma Valle d'Aosta (a statuto speciale); facendo discendere, quindi, dalle 
riportate considerazioni il corollario dell'operativit� nel quadro della normativa contabile 
regionale dell'istituto del fermo amministrativo, inserito nell'ordinamento statuale 
dall'art. 69, comma 6, regio decreto 18 novembre 1923 n. 2440, sull'amministrazione 
del patrimonio e sulla contabilit� generale dello Stato, nella ritenuta 
inclusione di tale disposizione tra quelle alle quali afferisce il rinvio risultante dal 
ripetuto art. 90 legge regionale n. 90 del 1989, prec. cit. 

La SO.GE.MA.� s.r.l., con il prodotto ricorso, deduce dover essere cassata la 
decisione cennata perch� resa da giudice carente di giurisdizione in ordine alla vertenza 
con essa definita: premesso che, a fronte di un atto della p.a., il riparto della 
giurisdizione fra il giudice amministrativo e quello ordinario va fatto �con specifico 
riguardo all'oggetto della contestazione formulata�, riconoscendo la giurisdizione 
del primo �ove l'atto amministrativo costituisce esercizio di potere discrezionale 
(esistente) del quale si contesta il corretto esercizio�, e quella del secondo 
tutte le volte che �venga in discussione un atto che soltanto all'apparenza ha i connotati 
di un provvedimento discrezionale (perch� assunto in difetto di una norma 
attributiva del potere esercitato)� e sia, perci�, esclusa �la ricorrenza di una pote


(1) Da sottolineare, con la rilevanza del principio affermato, le riserve affacciate, in motivazione, 
sulla legittimit� costituzionale di una norma regionale che introducesse nell'ordinamento 
dell'ente una disposizione analoga a quella dell'art. 69 regio decreto n. 2440/1923. 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

408 

st� di imperio�; prospetta che le deliberazioni regionali da essa ricorrente revocate 
in discussione �dell'atto amministrativo� avrebbero soltanto �la mera parvenza�, 
�per essere state assunte in evidente carenza di potere�, in quanto l'art. 69, comma 
6, regio decreto n. 2440 del 1923, contemplante l'istituto del fermo amministrativo, 
siccome attributivo agli organi statuali di �una prerogativa assolutamente peculiare, 
intimamente connessa ad una potest� di imperio riconoscibile soltanto al 
massimo livello della sovranit� dello Stato, e palesemente derogatoria delle disposizioni 
sostanziali e processuali che disciplinano i rapporti di debito e di credito�, 
non sarebbe applicabile in favore di pp.aa. diverse da quelle statuali, e, in particolare 
in favore delle Regioni; soggiunge che, in nessun caso, l'operativit� dell'istituto 
in argomento nell'ambito della normativa in materia di contabilit� regionale 
potrebbe essere correlata al rinvio contenuto nell'art. 35 legge 19 giugno 1976 n. 
335 alle �norme sulla contabilit� dello Stato, in quanto applicabili�, posto che �tale 
generico richiamo non pu� valere a rendere operante nell'ambito regionale una 
norma di stretta interpretazione che contempla una prerogativa tipica dello Stato�, 
dovendo, a tal proposito, considerarsi che �per costantissimo insegnamento della 
Corte Costituzionale, � precluso alle Regioni di dettare, nelle materie di propria 
competenza .... , norme incidenti sia su rapporti privatistici, che sulla disciplina processuale, 
materie queste ultime riservate alla competenza istituzionale dello Stato�; 
conclude affermando che �non pu� pertanto il legislatore valdostano mutuare, 
anche mediante il semplice richiamo alla disciplina di contabilit� dello Stato, un 
precetto legislativo (art. 69 regio decreto n. 2440/ 1923) che incide direttamente sui 
rapporti di credito di diritto privato e sui correlativi mezzi processuali di tutela�, e 
che �ogni diversa interpretazione della normativa di riferimento finirebbe per porsi 

I m

in stridente contrasto con il dettato costituzionale�. 

Il ricorso, pur nella non condivisibilit� di talune delle deduzioni articolate per 
supportarlo, va tenuto per fondato e per meritevole di accoglimento nei termini di 
seguito precisati. 

A) -L'Istituto del fermo amministrativo � stato introdotto nell'ordinamento 
della contabilit� dello Stato dall'art. 69, comma 6, regio decreto 18 novembre 1923 

n. 2440, per il quale �qualora un'amministrazione dello Stato che abbia, a qualsiasi 
titolo, ragioni di credito verso aventi diritto a somme dovute da altre amministrazioni, 
richieda la sospensione del pagamento, questa deve essere eseguita in attesa 
del provvedimento definitivo�. 
L'istituto considerato si configura come uno strumento cautelare diretto a 
legittimare la sospensione del pagamento di debiti liquidi ed esigibili da parte dello 
Stato a salvaguardia dell'eventuale compensazione di tali debiti con crediti, anche 
se non liquidi ed esigibili, che l'amministrazione statuale, considerata nella sua 
unit�, accampi nei confronti dei soggetti titolari delle ragioni correlative ai debiti 
cennati (cfr., al riguardo, Cass. SS.UU. civ., sent. n. 1389 del 15 giugno 1967, id. 
sez. I civ., sent. n. 391del19 gennaio 1979, id. SS.UU. civ., sent. n. 423 del 25 gennaio 
1989), ed integra, in definitiva, una peculiarissima misura di autotutela accordata 
all'amministrazione dello Stato in funzione della protezione del pubblico interesse 
connesso alle sue esigenze finanziarie (cfr., in merito, Corte cost., sent. n. 67 
del 19 aprile 1972). 


PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA dvrLE 

Nell'intervenuta attuazione dell'ordinamento regionale, ed in presenza di una 
tendenza all'applicazione estensiva di norme e di principi dettati per la disciplina 
della contabilit� dello Stato al di fuori dell'apparato di questo e con riferimento 
all'amministrazione contabile di enti diversi dal medesimo, si � posto il problema 
dell'utilizzabilit� del fermo amministrativo da parte delle Regioni a garanzia dei 
propri crediti. 

Sul tema, in conformit� all'avviso manifestato da un'autorevole, e condivisibile, 
dottrina, � da ritenere che una trasposizione dell'istituto in argomento nell'ordinamento 
contabile delle Regioni non possa essere correlata al dettato di disposizioni 
legislative, nazionali o regionali, del genere di quelle di cui all'art. 35 legge 19 
maggio 1976 n. 335, recante principi fondamentali e norme di coordinamento in 
materia di bilancio e di contabilit� delle Regioni, o all'art. 90 legge regionale della 
Valle d'Aosta 27 dicembre 1989 n. 90, disciplinante il bilancio e la contabilit� della 
Regione, che prevedano, per quanto in tali testi normativi non espressamente disciplinato 
con riferimento alla materia regolata, un rinvio alle norme di contabilit� 
generale dello Stato �in quanto applicabili�. Ci�, non solo, e non tanto, perch� la 
disposizione dell'art. 69, comma 6, regio decreto n. 2440 del 1923, dettata per lo 
Stato, � essenzialmente procedimentale e, stante la diversit� delle strutture organizzative 
statuale e regionale, non appare direttamente applicabile alle Regioni, ma, 
soprattutto, perch� la traslazione di un istituto cos� peculiare, se non eccezionale, 
quale � il fermo amministrativo, suscettibile di importare un, per molti versi anomalo, 
affievolimento di diritti subiettivi di credito di privati (cfr., in argomento, 
Cass. SS.UU. civ., sent. n. 423 del 1989, prec. cit.) al di fuori dell'alveo originario 
assegnatogli dal legislatore nazionale ed il suo inserimento nell'ordinamento contabile 
di enti diversi dallo Stato potrebbero ravvisarsi consentiti esclusivamente in presenza 
di un'espressa, ed inequivoca, normazione al riguardo (ch�, anzi, a questo 
proposito, nel solco di autorevoli opinioni dottrinarie, non pu� sottacersi che l'eventuale 
ricorso delle Regioni alla propria autonomia legislativa per introdurre nei 
loro ordinamenti contabili norme di contenuto analogo, se non identico, a quello del1'
art. 69, comma 6, della legge di contabilit� generale dello Stato potrebbe rivelarsi 
costituzionalmente poco ortodosso). 

B) -In applicazione dei principi enunciati nella lettera precedente, in contrasto 
con quanto ritenuto dalla decisione impugnata, deve affermarsi che la disposizione 
dell'art. 90 della legge regionale della Valle d'Aosta n. 90, per la quale �per quanto 
attinente la materia della contabilit� regionale non espressamente disciplinato nella 
presente legge si applicano le norme contenute nella legge 19 maggio 1976 n. 335, 
recanti principi fondamentali e norme di coordinamento in materia di bilancio e di 
contabilit� delle regioni, e, in quanto applicabili, le norme di contabilit� generale 
dello Stato�, non ha importato l'inserimento nell'ordinamento contabile della 
Regione Valle d'Aosta dell'istituto del fermo amministrativo, e che, perci�, alla stregua 
della legislazione vigente, l'amministrazione di detta Regione non ha il potere 
di adottare misure cautelari ai termini dell'art. 69, comma 6, regio decreto n. 2440 
del 1923, intese a disporre la sospensione del pagamento dei propri debiti a salvaguardia 
dell'eventuale compensazione di questi con ragioni da s� vantate verso il 
titolare dei crediti correlativi. 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO, 

410 

Discende da ci� che i provvedimenti della giunta della Regione anzidetta 

n. 5435 del 30 giugno 1994 e n. 7123 del 2 settembre 1994, revocati in discussione 
dalla �SO.GE.MA.� s.r.l. con gli atti istitutivi della vertenza, vanno ravvisati adottati 
in totale carenza di potere, al di fuori dei presupposti suscettibili di giustificarli: 
nella conseguente inidoneit� degli stessi ad importare affievolimento delle posizioni 
di diritto soggettivo del titolare dei crediti fermati, la cognizione della vertenza 
relativa alla verifica dell'esigibilit� di questi va ritenuta riservata alla cognizione, 
non gi� del giudice amministrativo, ma dell'autorit� giudiziaria ed ordinaria. 
C) -Corollario di quanto precede � che il ricorso va accolto e che, dichiarata la 
giurisdizione del giudice ordinario in ordine all'esaminata vertenza, la decisione 
impugnata deve essere cassata senza rinvio (omissis). 

CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 12 settembre 1998 n. 9094 -Pres. Sensale -Rei. 
Spirito -P.M Maccarone (conf.) -Ministero difesa (avv. Stato Sica) c. Cascino 
(avv. Specchi). 

Espropriazione per pubblica utilit� -Occupazione d'urgenza -Opere militari Trasformazione 
irreversibile del terreno -Danni. 


(Legge 25 giugno 1865 n. 2359, art. 76). 

I 

Realizzata l'opera per la cui esecuzione l'Autorit� militare abbia ordinato, ai I 

~ 

sensi dell'art. 76 legge 25 giugno 1865 n. 2359, l'occupazione immediata di terrer~ 
ni privati e mancata, nel corso della occupazione, l'emanazione del provvedimento 

ili 

d'esproprio, il proprietario ha diritto al risarcimento dei danni per la perdita del 

I ~ 

bene irreversibilmente trasformato (1 ). 

(omissis) 

Con il primo motivo di ricorso, il Ministero -nel lamentare la violazione e ~ 
falsa applicazione dell'art. 76 della legge n. 2359 del 1865, nonch� l'insufficien


(1) La pronuncia segna un'ulteriore tappa del percorso giurisprudenziale di omogeneizzazione 
delle occupazioni per l'esecuzione di opere militari a quelle �ordinarie�, bench�-in motiIIvazione 
-non manchi un ossequio, solamente formale, al principio dell'inapplicabilit� alle 
prime del termine di durata legislativamente fissato per le seconde ed al criterio di �ragionevolezza
� in precedenti sentenze indicato come parametro di giudizio della legittimit� delle occupazioni 
militari. Il passo ulteriore compiuto, nell'opera di adeguamento all'art. 42 Cost. e di �armo


I nizzazione� delle ipotesi di occupazioni preliminari, si coglie nelle considerazioni alla cui stregua fil 
-nella specie -il periodo di �ragionevole durata� dell'occupazione militare � portato a coin


I

cidere, esattamente, col termine d'efficacia delle occupazioni d'urgenza (ordinarie). Ed � verosif: 
mile, a tal punto, che il criterio della �ragionevolezza� sia destinato a restare relegato tra le quin1: 
te, per esserne evocato le sole volte in cui si trattasse di risolvere un problema di decorrenza del f: 
termine di prescrizione delle pretese risarcitorie del proprietario. 

li 

In argomento, cfr. Cass. 7 marzo 1991 n. 2427, in questa Rass. 1991, 482 (ed, ivi nota 
di richiami). . 

. 

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PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 

411 

te e contraddittoria motivazione -sostiene, sotto un primo profilo, che non 
possa essere fissato un termine di scadenza per le occupazioni militari, neanche 
in relazione al principio della �ragionevolezza�, in quanto la citata norma (a differenza 
dell'art. 73 della stessa legge, che prevede il termine biennale per le 
occupazioni ordinarie) non prevede alcun termine in proposito. Sotto altro profilo, 
il ricorrente afferma che la fissazione del termine di sei anni � apodittica e non 
tiene conto che, nella specie, si trattava di ben ventinove espropriazioni (tutte 
bisognevoli di istruttoria procedimentale e deliberativa); che, inoltre, la scadenza 
del sesto anno andrebbe, comunque, riferita alla data dell'effettiva occupazione, 
ossia al 3 luglio 1984 e non a quella di emissione del provvedimento di autorizzazione 
all'occupazione. 

Con il secondo motivo di ricorso, il Ministero pone in evidenza che il giudice 
non ha tenuto conto del fatto che la legge n. 385 del 1980 ha prorogato di un anno 
il quinquennio di durata massima delle occupazioni previste dall'art. 20 della legge 

n. 865 del 1971, portandolo a sei anni. 
Entrambi i motivi, che possono essere congiuntamente trattati, sono infondati e 
vanno respinti. 
L'art. 73 della legge 20 giugno 1865, n. 2359, stabilisce che le occupazioni temporanee 
di urgenza non possono in nessun caso essere protratte oltre il termine di 
due anni. Il successivo art. 76 stabilisce, poi, in relazione alle espropriazioni per l'esecuzione 
di opere militari, che, in caso di assoluta urgenza l'autorit� militare che 
ha il comando locale pu� ordinare l'occupazione immediata dei beni necessari all' esecuzione 
delle opere stesse. A differenza del precedente art. 73, la norma non prevede 
nessun termine massimo di durata dell'occupazione, n� tale termine � stato mai 
fissato da alcuna disciplina successiva. 

Si � posto, dunque, sia il problema della compatibilit� di una siffatta disposizione 
normativa -che attraverso l'indeterminata protrazione dell'occupazione porterebbe 
ad una sostanziale soppressione del diritto di propriet�, senza indennizzo 
alcuno in favore del privato -con il precetto dell'art 42 Cost., sia dell'armonizzazione 
delle ipotesi di occupazione per esigenze espropriative militari con la disciplina 
relativa al regime delle occupazioni e delle espropriazioni ordinarie. 

A tale �ltimo proposito, va ricordato, solo brevemente, che, ai fini dell'operativit� 
dell'istituto dell'occupazione acquisitiva -in virt� del quale la realizzazione 
dell'opera pubblica comporta l'estinzione del diritto di propriet� del privato e la 
contestuale acquisizione, a titolo originario, dello stesso in capo all'ente costruttore, 
conseguentemente tenuto al risarcimento del danno -ci� che rileva non � soltanto 
la circostanza, in s�, della realizzazione suddetta, ma altres� quella dell'illegittimit� 
dell'occupazione per difetto originario della sua autorizzazione o per sua protrazione 
oltre i termini di legge. Si � individuata, dunque, la scadenza del termine posto 
alla legittima occupazione come una sorta di linea di demarcazione: se l'opera pubblica 
� stata realizzata prima di essa, l'effetto acquisitivo-estintivo si realizza alla 
scadenza del citato termine, in quanto fino a quel momento l'occupazione del fondo 
privato da parte del costruttore ha rivestito i caratteri della legittimit�; se l'opera � 
stata realizzata dopo di essa, il menzionato effetto si consegue al momento in cui la 
costruzione ha assunto le caratteristiche volute dal fine pubblico perseguito e s'� 
resa irreversibile la trasformazione del fondo. 

��----ᥥ1�11111J1�11���1 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

412 

Tornando, dunque, all'ipotesi di occupazione disposta per esigenze militari la 
quale, come si diceva in precedenza, pur non essendo soggetta al termine biennale 
di durata di cui all'art. 73 della legge fondamentale, nondimeno risponde ad esigenze 
di carattere temporaneo, che non possono protrarsi per un tempo indefinito, 
in modo da sopprimere di fatto il diritto di propriet� senza corresponsione di indennizzo 
-bisogna distinguere le ipotesi in cui. dopo l'occupazione del fondo, l' opera 
sia o non realizzata. Nel secondo caso al privato (il cui diritto soggettivo perfetto 
� degradato ad interesse legittimo a seguito dell'atto di autorizzazione dell'occupazione) 
compete la tutela restitutoria che pu� essere esercitata provocando un provvedimento 
con il quale l'amministrazione militare constati il venir meno delle condizioni 
legittimanti l'occupazione o il riconoscimento in tal senso derivante da un 
comportamento inequivoco dell'amministrazione stessa o, infine, l'accertamento ad 
opera del giudice amministrativo dell'illegittimit� del diniego dell'autorit� militare 
di provvedere in tal senso (Cass. 24 novembre 1983, n 7027). 

Nel caso in cui, invece, l'opera militare venga effettivamente realizzata nel 
corso dell'occupazione, la tutela restitutoria non ha possibilit� di essere realizzata, 
in quanto la definitiva ed irreversibile utilizzazione del bene occupato rendono 
impossibile non solo la restituzione attuale dell'immobile, ma anche la sua astratta 
restituibilit�. In questa ipotesi � dunque indispensabile indagare circa il momento in 
cui il venir meno delle esigenze militari ha comportato la sopravvenuta irragionevolezza 
della persistente occupazione, con la conseguenza che se la trasformazione 
irreversibile del bene espropriato si � verificata prima di questo momento e ad essa, 
entro il medesimo termine, sopraggiunga il formale provvedimento ablatorio, questo 
non pu� considerarsi inutiliter datum, siccome emesso nell'arco di tempo durante 
il quale la P.A. ha la possibilit� giuridica di divenire proprietaria del bene occupato 
mediante il decreto all'uopo previsto dalla legge e secondo il procedimento da 
questa delineato. Ove, invece, non sopravvenga alcun provvedimento ablativo, il 
privato pu� convenire in giudizio l'amministrazione militare per conseguire il risarcimento 
del danno in relazione alla perdita del fondo irreversibilmente trasformato 
attraverso la realizzazione dell'opera militare (su quest'ultimo punto, cfr., in particolare, 
Cass. 7 marzo 1991, n. 2427; in generale, sulla �ragionevolezza� come criterio 
guida per la fissazione di un termine di legittimit� all'occupazione militare, cfr. 
Cass. 21aprile1997, n. 3406, 28 marzo 1995, n. 3612, 20 ottobre 1994, n. 8554, 20 
ottobre 1994, n. 8567, 24 novembre 1983, n. 7027, 29 marzo 1977, n. 1213, 15 aprile 
1976, n. 1345, 12 maggio 1975, n. 1843, sez. un. 4 gennaio 1975, n. 7; cfr. anche 
Cass. 12 maggio 1975, n 1843, quanto alla decorrenza del termine prescrizionale 
quinquennale per l'azione risarcitoria). 

Venendo, dunque, alla fattispecie in esame, in cui non risulta emesso alcun 
provvedimento ablatorio, � agevole rilevare, sulla base di quanto premesso, l'assoluta 
infondatezza della tesi, tuttora propugnata dall'Amministrazione, dell' inapponibilit� 
di ogni termine finale di legittimit� all'occupazione disposta per esigenze 
militari; cosi, come, correlativamente si pu� apprezzare la correttezza della sentenza 
impugnata nella parte in cui ha ritenuto necessario apporre quel termine ed utilizzare, 
a tal fine, il criterio della �ragionevolezza�. 

Quanto, poi, all'individuazione del termine di scadenza della legittima occupazione 
(che, ricordiamo, la Corte territoriale ha ritenuto ragionevole fissare in sei anni 



PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA cIYILE 

a decorrere dalla data del provvedimento che autorizz� l'occupazione, prendendo a 
base l'ordinario termine biennale dell'art. 73 della legge n. 2359 del 1865, protratto 
a cinque anni dall'art 20 della legge n. 865 del 1971), la sentenza impugnata non 
merita censura. � pur vero, infatti, che, come rileva il Ministero ricorrente, il giudice 
ha dimenticato che il termine delle ordinarie occupazioni legittime si compie in 
sei e non in cinque anni (il termine di cinque anni fissato dall'art. 20 della legge n. 
865 del 1971 � stato prorogato di un anno dall'art. 5 della legge 29 luglio 1980, n. 
385, senza tener conto che il termine stesso � stato ulteriormente prorogato -relativamente 
alle occupazioni in corso al momento dell'entrata in vigore dei singoli 
provvedimenti normativi -di un anno dall'art. 1, comma 5-bis, del decreto legge 
22 dicembre 1984, n. 901, convertito in legge 1� marzo 1985, n. 42, di altri due anni 
dall'art. 14, comma 2, del decreto legge 29 dicembre 1987, n. 534, convertito in 
legge 29 febbraio 1988, n. 47, ed, infine, di altri due anni dall'art 22 della legge 20 
maggio 1991, n. 158) e che, quindi, il giudice stesso ha finito per il ritenere ragionevole 
un periodo di legittima occupazione militare pari a quello delle ordinarie 
occupazioni. Tuttavia, tale giudizio di merito appare congruamente e logicamente 
motivato in relazione alla sufficienza di un tale periodo affinch� l'amministrazione 
portasse a compimento la procedura espropriativa; giudizio tanto pi� valido se si 
tien conto dell'ulteriore circostanza (assolutamente incontroversa tra le parti e sottaciuta 
dal giudice di merito) che l'opera fu ultimata nel corso dell'anno 1981, ben 
tre anni e mezzo prima della scadenza fissata dalla Corte catanese all'occupazione 
legittima (5 giugno 1984). 

Resta ora da esaminare il profilo del primo motivo del ricorso in cui si sostiene 
che, in ogni caso, la scadenza del sesto anno di legittimit� doveva essere computato 
dalla data di occupazione ( 4 luglio 1978) e non da quella del provvedimento di 
autorizzazione (5 giugno 1978). Tale censura � infondata. Non v'� motivo, infatti, 
per non applicare anche alle occupazioni militari il principio pacificamente affermato 
in relazione alle occupazioni ordinarie, secondo cui il periodo di occupazione 
legittima decorre dal giorno dell'emanazione del decreto autorizzativo, in quanto 
quest'ultimo � munito di immediata operativit� in favore dell'occupante, con conseguente 
compressione delle facolt� del proprietario, mentre non rileva l'eventuale 
diversa data della notificazione di tale provvedimento o della materiale immissione 
in possesso (per le occupazioni ordinarie, cfr., tra le varie, Cass. 24 luglio 1997, n. 
6921; 28 dicembre 1990, n. 12197) (omissis). 

CORTE DI CASSAZIONE, Sez. Un., 15 settembre 1998 n. 9167 -Pres. Favara Rei. 
Sabatini -P.M. Dettori -Universit� degli Studi della Calabria (avv. Tortorici) 
c. Ministero dei Lavori pubblici (avv. Stato Quadri). 

Giurisdizione civile -Giurisdizione civile e amministrativa -Opere pubbliche Equiparazione 
ex art. 31-bis della legge n. 109 del 1994 delle concessioni di 
opere pubbliche agli appalti ai fini della tutela giurisdizionale -Applicabilit� 
ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge -Sussistenza 
-Art. 5 codice procedura civile -Influenza -Esclusione. 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO .

414 

L'equiparazione ai fini della tutela giurisdizionale delle concessioni in materia 
di lavori pubblici agli appalti, prevista dall'art. 31 bis, quarto comma, della legge 

n. 109 dei 1994, � espressamente estesa dal comma quinto di tale articolo anche alle 
controversie relative ai lavori appaltati o concessi anteriormente alla data di entra-I'.. 
ta in vigore di detta disposizione. Tale norma deve essere interpretata nel senso che 
il legislatore ha inteso derogare all'art. 5 codice procedura civile(l). 

(omissis) 

Con l'unico motivo del ricorso la ricorrente deduce che il Consiglio di Stato difettava 
di giurisdizione a conoscere della controversia sotto un duplice profilo: 1) spetta 
infatti al giudice ordinario -afferma -la determinazione del maggior compenso revisionale, 
richiesto dall'appaltatore di opere pubbliche, in caso, come nella specie, di non 
negato riconoscimento del diritto alla revisione prezzi; 2) la defmizione della controversia 
richiedeva inoltre la interpretazione di pattuizioni contrattuali, rimessa all'Autorit� 
giudiziaria ordinaria essendo il titolo di natura paritetica e non autoritativa. 

(1) La decisione affronta la questione relativa all'applicabilit� della disposizione contenuta 
nell'art. 31-bis, quarto comma, della legge n. 109 del 1994, cos� come modificato dalla legge n. 
216 del 1995, ai giudizi pendenti nel momento dell'entrata in vigore della legge. Come � noto, la 
norma pone un'equiparazione, ai fini della tutela giurisdizionale, delle concessioni agli appalti e, 
al comma 5, espressamente estende tale equiparazione alle controversie relative ai lavori appaltati 
o concessi anteriormente alla data di entrata in vigore della legge. L'importanza della norma 
risiede nella individuazione del giudice ordinario quale organo munito di giurisdizione a decidere 
delle controversie relative ai rapporti nascenti da concessioni la cui cognizione, ai sensi del!'
art. 5 della legge n. 1034 del 1971, � normalmente devoluta in via esclusiva al giudice amministrativo. 
�, pertanto, evidente che la modificazione dei criteri di riparto di giurisdizione, in tale 
materia, comporta la possibilit� di adire la via arbitrale anche per risolvere questioni -sempre, 
naturalmente, relative a diritti soggettivi -che trovano fondamento in un rapporto concessorio. 
Sul riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in tema di concessioni 
si veda Cass., SU, 12 giugno 1997, n. 5292; Cass., SU, 9 dicembre 1996, n. 10955, secondo cui 
nelle �concessioni di sola costruzione sono devolute alla cognizione del giudice ordinario le controversie 
aventi ad oggetto la determinazione del corrispettivo; Cass., SU, 13 giugno 1996, n. 
5450, in Giornale dir. amm., 1996, 756, secondo cui la nuova disciplina sottopone le controversie 
relative alle concessioni ai normali criteri di riparto di giurisdizione; Cass., SU, 28 maggio 
1994, n. 5244; Cass., SU, 10 dicembre 1993, n. 12166, in Foro it., 1994, I, 2474 e in Corr. giur., 
1994, 599 con nota di PAGANO, Sul riparto di giurisdizione in tema di concessione di opera pubblica, 
secondo cui rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario le controversie che attengono 
al quantum del corrispettivo; Cass., S.U., 10 dicembre 1993, n. 12164, in Foro it., 1994, I, 
2148, la quale ha precisato che la controversia relativa ai canoni di concessione � devoluta al giudice 
ordinario quando l'oggetto � limitato alla questione della spettanza di un determinato canone; 
Cass., SU, 13 dicembre 1991, n. 10692, in Giur. it., 1992, I, 1, 1528 e in Giust. civ., 1992, I, 
2162, che ha incluso nell'ambito della giurisdizione ordinaria le controversie aventi ad oggetto la 
pretesa di adeguamento del canone; Cons. Stato, sez. VI, 13 dicembre 1990, n. 1057, in Riv. 
amm., 1991, IV, 401 e in Giust. civ., 1991, I, 1889, la quale ha precisato che non ogni controversia 
in materia di canoni ed indennit� di concessione � devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario. 
Ne restano, infatti, escluse le controversie relative al corretto esercizio, da parte dell'amministrazione 
concedente, del potere discrezionale di determinazione del canone di concessione. 

PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO EPROCEDURA CIVILE 

415 

La Corte -premesso che il proprio sindacato sulle decisioni del Consiglio di 
Stato � circoscritto all'osservanza dei limiti esterni della giurisdizione (da ultimo, in 
tal senso, Cass. Sez. Un. 26 marzo 1997 n. 2667), talch� il ricorso, il quale adduce vizi 
riguardanti appunto tali limiti, � ammissibile: ammissibilit� che non forma del resto 
oggetto di specifiche contestazioni da parte dei resistenti -osserva che, in ordine 
logico, la prima questione da esaminare investe la tesi, sostenuta dal Ministero controricorrente, 
secondo la quale la controversia appartiene alla giurisdizione esclusiva 
del giudice amministrativo, a norma dell'art. 5 primo comma della legge 6 dicembre 
1971 n. 1034, traendo essa origine da un rapporto di concessione: n�, precisa lo stesso 
Ministero, riguardo ad essa pu� riconoscersi alcun effetto -per il principio della 
perpetuatio jurisdictionis, di cui al novellato art. 5 codice procedura civile -al quarto 
comma dell'art. 31-bis legge 11 febbraio 1994 n. 109, introdotto dall'art. 9 decreto 
legge 3 aprile 1995 n. 101, convertito in legge 2 giugno 1995 n. 216, trattandosi di 
norma intervenuta successivamente alla proposizione della domanda. 

Osserva la Corte che, a' sensi del richiamato quarto comma, ai fini della tutela 
giurisdizionale le concessioni in materia di lavori pubblici sono equiparate agli 

Nella giurisprudenza amministrativa si veda Cons. Stato, sez. IV, 31 ottobre 1996, n. 1174, in 
Giust. civ., 1997, I, 549, secondo cui resta attribuita al giudice amministrativo la cognizione relativa 
alle vicende che interessano lo svolgimento del rapporto concessorio. La questione sottoposta 
all'esame rileva sotto un duplice profilo: il primo, di carattere intertemporale, relativo all'individuazione 
dei rapporti cui trova applicazione la nuova disciplina; il secondo, attinente al 
coordinamento di quest'ultima con la nuova formulazione dell'art. 5 codice procedura civile. Per 
quanto riguarda il primo profilo la sentenza in esame si uniforma ad un precedente indirizzo giurisprudenziale 
che interpreta la locuzione �controversia relativa a lavori appaltati o concessi anteriormente 
alla data di entrata in vigore della legge�, di cui al citato quinto comma dell'art. 31 bis, 
come indicativa dell'applicazione della nuova norma alle liti pendenti in sede giurisdizionale. Cos� 
Cass., SU, 12 giugno 1997, n. 5299; Cass., SU, 26 settembre 1997, n. 9481. La decisione non pu� 
essere condivisa ove si consideri che il chiaro tenore letterale della norma si riferisce ai �lavori 
appaltati o concessi� in epoca precedente all'entrata in vigore della legge ed alle controversie ad 
essi relative. �, tuttavia, evidente che �controversia� � cosa diversa da �lite in corso�, ben potendo 
la prima non essere ancora sfociata in sede giurisdizionale. La dottrina, del resto, ha sottolineato 
che con l'art. 31 bis non sono affatto stati risolti i problemi relativi al riparto di giurisdizione nella 
materia in esame. Cos� CARBONE, La disciplina delle controversie nella legge 109194 e successive 
modifiche (decreto legge 101195 e legge di conversione 216195), in Arch. giur. 00.PP., 1995, 
1398. Sembra, pertanto, preferibile l'interpretazione che considera la norma in esame riferita alla 
regolamentazione del rapporto sostanziale piuttosto che a quello processuale relativo alle liti pendenti. 
Tale considerazione �, del resto, conforme -con ci� venendo al secondo dei profili esaminati 
-alla disciplina introdotta dall'art. 5 codice procedura civile, secondo cui per l'individuazione 
del giudice munito di competenza o di giurisdizione sono considerati irrilevanti, tra l'altro, i 
mutamenti della legge intervenuti successivamente alla proposizione della domanda. Sulla ratio 
che ha ispirato la nuova formulazione della norma si veda: GIUSSANI, La �perpetuatio iurisdictionis
�, in Le riforme della giustizia civile, 1993, 183 ss.; ORIANI, Ultimissime sull'art. 5 c.p.c., nota 
a Pret. Parma, 5 novembre 1992, in Foro it., 1993, I, 2058; VULLO, Brevi osservazioni sulla natura 
della competenza per territorio di cui al nuovo comma 4 dell'art. 413 codice procedura civile e 
sul principio della perpetuatio iurisdictionis dopo la riforma dell'art. 5 codice procedura civile nota 
a Pret. Parma, 5 novembre 1992, cit., in Giust. civ., 1993, I, 113; Lurso, in CoNSOLO-LUiso-SAsSANI, 
La riforma del processo civile, Giuffr�, 1991, 7 ss.; PROTO PISANI, La nuova disciplina del 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

416 

appalti. Il successivo quinto comma dello stesso art. 31 bis stabilisce a sua volta 
che le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle controversie relative 
ai lavori appaltati o concessi anteriormente alla data di entrata in vigore della 
presente legge. 

Orbene, la tesi sostenuta dal resistente Ministero � stata gi� esaminata da questa 
C.S. e ritenuta peraltro infondata (Sez. Un., 26 settembre 1997 n. 9481) con il 
rilievo che il menzionato quinto comma acquista una portata utile solo se interpretato 
nel senso che il legislatore ha inteso derogare all'art. 5 codice procedura civile, 
stabilendo che, anche per le controversie, gi� pendenti alla data di entrata in vigore 
della legge n. 109 del 1994, la giurisdizione va determinata tenuto conto della equiparazione, 
stabilita dal precedente quarto comma, delle concessioni in materia di 
lavori pubblici agli appalti: conclusione cui la Corte � pervenuta sulla base del termine 
(controversie), impiegato dal legislatore nonch� della considerazione che, se 
non avesse inteso derogare al menzionato art. 5 codice procedura civile, il quinto 
comma dell'art. 31-bis, cit., non avrebbe avuto ragion d'essere. 

La tesi in esame � basata su affermazioni apodittiche e senza che siano addotte 
argomentazioni contrastanti con detti rilievi: che vanno, pertanto, condivisi, ed ai 
quali pu� anzi aggiungersi che il doppio regime, propugnato dal Ministero, � altres� 
in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza (art. 3 cost. ), alla stregua 
del quale devono essere anche interpretate le leggi ordinarie, dal momento che 
esso fa dipendere l'applicazione dell'uno o dell'altro (regime) da circostanze del 
tutto casuali quali appunto la pendenza o meno della controversia alla data in entrata 
in vigore della nuova legge, di portata dichiaratamente retroattiva. 

Premesso che nella specie si versa come � incontestato, in tema di concessione 
in materia di lavori pubblici, la equiparazione di essa all'appalto, disposta ex lege, 
ed ancorch� successivamente alla instaurazione della controversia, esclude pertanto 
l'applicabilit� dell'art. 5 comma 1 della legge n. 1034/71, ed importa invece il riparto 
della giurisdizione secondo gli ordinari criteri in materia di appalti pubblici. 

proc~sso civile, Iovene, 1991, 36 ss. Gi� in precedenza la dottrina aveva ritenuto che le modificazioni 
di legge in corso di causa non potevano incidere sull'individuazione della competenza o della 
giurisdizione. Cos� ORIANI, La <<perpetuazio iurisdictionis�, in Foro it., 1989, V, 73 ss. Sul problema 
del momento determinativo della giurisdizione prima della riforma si veda inoltre FRANCHI, 
voce �Giurisdizione civile� -Diritto processuale civile, in Enc. giur., 1989, XV, 11 ss. 

Sul punto la giurisprudenza ha affermato che tale disposizione non opera nell'ipotesi in 

cui il giudice non munito di giurisdizione o di competenza, originariamente adito, acquisti ~ 
l'una o l'altra in virt� di una normativa sopravvenuta. Ci� per asserite ragioni di economia & 

~ 

processuale che consiglierebbero di non spogliare il giudice di una cognizione che gli � stata ~ 
successivamente attribuita. Cos� Cass., SU, 29 ottobre 1997, n. 10634, in Giust. civ., 1998, I, f: 
1377; Cass., 22 aprile 1997, n. 3474, secondo cui il giudice deve applicare la norma soprav-~ 
venuta in corso di causa se � attributiva della competenza di cui egli era privo; Cass., SU, 8 !i 
luglio 1996, n. 6231, la quale interpreta il principio della perpetuatio iurisdictionis nel senso f 
della necessit� di mantenere il giudizio davanti al giudice adito, ancorch� originariamente 

ii�:,:�:. 

incompetente; Cass., 15 novembre 1994, n. 9627, cit.; Cass., 21febbraio1990, n. 1292, secondo 
cui il giudice privo di competenza al momento dell'instaurazione del processo non pu� 
rilevare la propria incompetenza se sopravviene in corso di causa una norma attributiva della ,, 

.. I 


PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA clV�LE 

417 

Orbene, secondo la costante giurisprudenza di questa C.S., in tema di revisione 
dei prezzi dell'appalto per la realizzazione di opere pubbliche, nel regime sia del 
decreto leg. c.p.s. 6 dicembre 1947 n. 1501 che della legge 10 dicembre 1981 n. 741, 
appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie sulla pretesa 
concernente la revisione stessa -riferita all'intera opera o a parti di essa od 
anche a specifiche partite di lavori -quando, in ordine a tali oggetti, manchi, o non 
sia ad essi estensibile, il riconoscimento dell'ente pubblico committente. Spettano, 
invece, alla cognizione del giudice ordinario tutte le altre controversie relative alla 
concreta determinazione del maggior compenso dovuto all'appaltatore sul presupposto 
dell'intervenuto riconoscimento del diritto alla revisione e dell'assunzione della 
corrispondente obbligazione da parte dell'amministrazione: riconoscimento che, si � 
anche precisato, pu� essere anche parziale (con la conseguente persistenza della giurisdizione 
amministrativa per pretese revisioni eccedenti il riconoscimento), allorch� 
esso non si riferisce all'intera opera, ma risulta inequivocabilmente limitato a particolari 
lavori, con esplicita od implicita esclusione di altri, avuto riguardo alla loro 
natura oggettiva ovvero al tempo della esecuzione (Cass., Sez. Un., 7 novembre 1997 

n. 10931, 2 giugno 1997 n. 4907, 3 novembre 1993 n. 10827). 
Le parti non pongono in discussione tale indirizzo, che mostrano anzi di condividere, 
e, tuttavia, mentre la ricorrente afferma la giurisdizione ordinaria -rilevando 
che la controversia attiene al quantum debeatur essendo nella specie intervenuto 
il riconoscimento di essa stazione appaltante e, comunque, costituendo la 
revisione oggetto di disposizioni pattizie -, il Ministero e l'impresa sostengono che 
il dibattito investe invece l'an debeatur, con conseguente devoluzione di esso al giudice 
amministrativo 

Come accennato in narrativa, il Consiglio di Stato ha risolto la controversia 
attribuendo decisivo rilievo alle pattuizioni contrattuali intercorse tra le parti, ed 
in particolare agli artt. 4 e 12 dell'atto di concessione del 21 luglio 1986, al punto 
D della lettera di invito alla gara di appalto concorso, all'espressa salvezza del 

competenza stessa. In dottrina si veda ORIANI, La �perpetuatio iurisdictionis�, cit., 73 ss., cui si 
rinvia per ulteriori riferimenti in dottrina e giurisprudenza. Non sembra, tuttavia, che un tale 
orientamento possa essere condiviso alla luce del chiaro tenore letterale del citato art. 5 che, 
peraltro, ha espressamente previsto un'ipotesi -la legge sopravvenuta -che gi� nel vigore 
della pecedente formulazione si riteneva ricompresa tra quelle irrilevanti per l'individuazione 
della giurisdizione e della competenza. Per tutti ancora 0RIANI, La �perpetuatio iurisdictionis�, 
cit, 37. La giurisprudenza ha, peraltro, particolarmente insistito sulla portata della nuova formulazione 
dell'art 5 codice procedura civile proprio con riferimento all'irrilevanza dei mutamenti 
normativi intervenuti successivamente alla proposizione della domanda. Cos� Cass., SU. 1 luglio 
1997, n. 5899; Cass., SU, 19 agosto 1996, n. 7625; Cass., SU, 22 ottobre 1995, n. 11154. In definitiva, 
si deve ritenere che con la nuova formulazione dell'art. 5 si sia voluto fissare in un determinato 
momento, coincidente con la proposizione della domanda, la giurisdizione o la competenza 
del giudice adito. Tale principio, di evidente carattere generale, non pu� ritenersi derogato 
da una disposizione relativa ad una fattispecie particolare che, oltre a non contenere espressamente 
una simile deroga, si presta ad un'interpretazione conforme al citato dettato normativo. 

D.G. 

RASSEGNA AVVOCATVRA DELLO STAT6

418 


�diritto aggiuntivo alla revisione dei prezzi� -cos� come contemplato nel citato 
art. 12 -contenuta nei successivi atti aggiuntivi, ed alla unicit� della fattispecie 
contrattuale. 

Proprio sulla base di tale premessa, la ricorrente, a sostegno del ricorso, 
richiama la sentenza dell'8 marzo 1993 n. 2757 di questa C.S., affermativa del 
principio per cui il potere autoritativo dell'amministrazione di procedere o meno 
alla revisione del prezzo di appalto di opere pubbliche -con conseguente riconduzione 
alla categoria dell'interesse legittimo della posizione soggettiva dell'appaltatore 
al riguardo -pu� configurarsi nei soli casi di assenza di esplicite clausole 
contrattuali riguardanti la revisione stessa, mentre nell'ipotesi in cui il 
fenomeno revisionale sia stato comunque preso in considerazione dai contraenti in 
apposita clausola contrattuale, la successiva controversia in ordine alla validit� o 
alla portata del contenuto precettivo dell'atto negoziale sfugge all'esame del giudice 
amministrativo, in quanto investe la cognizione di posizioni soggettive che 
traggono titolo da un atto di natura paritetica, rispetto al quale sono, dunque, configurabili 
solo conflitti intersoggettivi sulla sussistenza o meno del diritto dell'appaltatore 
alla revisione. 

Oppone l'impresa che tale pronuncia riguarda una fattispecie diversa da quella 
ora in esame, e non � pertanto ad essa estensibile: rileva infatti che la controversia 
allora decisa, concerneva un contratto stipulato nel 1969 -prima, quindi, che 
la legge 22 febbraio 1973 n. 3 7 disponesse, all'art. 2, che �la facolt� di procedere 
alla revisione dei prezzi � ammessa, secondo le norme che la regolano, con esclusione 
di qualsiasi patto in contrario o in deroga� -, e, in secondo luogo, che nella 
specie � mancato, ed anzi � stato espressamente negato, il riconoscimento della 
revisione prezzi in ordine al dieci per cento dell'importo di ciascun atto aggiuntivo 
ed in relazione ai lavori eseguiti nel primo anno successivo alla sottoscrizione di 
ciascuno di tali atti. 

Tali rilievi non possono essere condivisi: il primo sembra, infatti, porre in discussione 
la validit� delle pattuizioni contrattuali de quibus, perch� successive alla 
citata legge n. 37 /1973 (in tal senso esplicito � anzi il rilievo contenuto nella memoria 
depositata dal Ministero, nella parte in cui fa riferimento alla sentenza in data 14 
maggio 1998 n. 4873 di queste sezioni unite, la quale ha tra l'altro precisato che il 
giudice amministrativo, �se davanti a lui sia eccepito che il contratto conteneva patti 
comportanti il riconoscimento del diritto al compenso, pu� in via incidentale risolvere 
la questione relativa alla loro validit��: eccezione che, nella specie, non risulta 
per� proposta n�, comunque, la relativa questione � stata esaminata dal Consiglio di 
Stato), e, dunque, non rileva agli effetti del riparto di giurisdizione, essendo anche 
tale questione riservata al giudice investito della relativa competenza giurisdizionale; 
il secondo � resistito dalla pronuncia impugnata, la quale ha deciso la controversia 
esclusivamente alla stregua delle disposizioni pattizie che, implicitamente, ha 
ritenuto del tutto valide. 

In conformit�, pertanto, alla citata sentenza n. 2757/93 -che la Corte 
condivide e fa propria -il ricorso deve essere accolto, resta assorbito ogni 
altro profilo, e deve conseguentemente essere dichiarata la giurisdizione del 
giudice ordinario previa cassazione senza rinvio della decisione impugnata 

(omissis). 



PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO EPROCEDURA CIVILE 

419 

CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 3 novembre 1998 n. 10970 -Pres. Sensale -Rei. 
Luccioli -P.M. Frazzini -Presidenza del Consiglio dei Ministri (avv. Stato 
Mangia) c. Marchini. 

Impiego pubblico -Servizi pubblici essenziali -Ordinanza di precettazione Presupposti 
procedimentali -Obbligo di richiesta della proposta dalla 
Commissione di vigilanza -Violazione -Conseguenze -Ordinanza di precettazione 
e sanzione -Illegittimit�. 

Con riguardo alla disciplina dello sciopero nei servizi pubblici essenziali costituisce 
indefettibilepresupposto procedimentale per l'emissione dell'ordinanza di 
precettazione -che esprime un eccezionale potere pubblico di conformazione delle 
condotte di soggetti pubblici e privati al fine di tutela di diritti costituzionalmente 
garantiti della persona -che il Presidente del Consiglio dei ministri (o il Ministro 
da lui delegato, come nella specie il Ministro per la funzione pubblica) non solo 
inviti le parti a desistere da comportamenti che determinano tale situazione di pericolo 
e che proponga (ed esperisca) un tentativo di conciliazione, ma anche che, in 
caso di esito negativo, inviti le parti ad attenersi al rispetto della proposta even,. 
tua/mente formulata dalla Commissione di garanzia. Ci� implica non gi� la mera 
facolt�, ma l'obbligo di investire la Commissione medesima affinch� la stessa sia 
posta in condizione di interloquire formulando -se ritiene che ne sussistano le condizioni 
per non essere sufficientemente assicurate le prestazioni indispensabili e 
quindi per essere posti a rischio i diritti costituzionalmente garantiti della persona 
-una proposta alle parti in conflitto, sicch� � illegittima (e va disapplicata incidentalmente 
dal giudice ordinario) l'ordinanza di precettazione emessa senza il previo 
invito rivolto alla Commissione di formulare la sua proposta e di conseguenza 
� altres� illegittimo il provvedimento sanzionatorio a carico di dipendenti in sciopero 
per inosservanza dell'ordinanza medesima. (Massima ufficiale)(l). 

(omissis) 

Con il .secondo motivo di ricorso, denunciando violazione degli artt. 8 e 1 O della 
legge n. 146 del 1990 con riferimento all'art. 360 n. 3 e 5 codice procedura civile ed 
in relazione ai principi in materia di impugnazione tempestiva dei provvedimenti 

(1) Riferimenti: 1) Sulla questione, negli stessi termini, si � espressa Cass., sez. lav., 6 
novembre1997, n. 10889, in Dir. lav., 1998, II, 188 con note di MARAZZA, Vincoli e contenuti procedimentali 
dell'ordinanza di precettazione dello sciopero nei S.P.E.; in Giust. Civ., 1998, I, 1693 
con nota di CoRSINOVI, Sui requisiti di legittimit� procedurale del!' ordinanza di precettazione nel 
contesto dell'art. 8, legge n. 146 del 1990, in Riv. giur. lav. e prev. soc., 1998, II, 119 con nota di 
RAFFI, L'ordinanza di precettazione vista dalla Cassazione: rigoroso rispetto della procedura e 
richiesta della proposta della Commissione di garanzia non ancora pronunciata; in Mass. Giur. 
lav., 1998, 34 con nota di SUPPIES, La Cassazione legifera sulla precettazione per sciopero. Per 
quanto riguarda il problema relativo alla giurisdizione -con riferimento all'opposizione avverso 
la ingiunzione irrogativa della sanzione -nel senso della giurisdizione del Giudice ordinario 
si � espressa oltre a Cass., S.U., 16 aprile 1998 n. 3881, citata nella sentenza, Cass., S.U., 27 febbraio 
1998, n. 2185, in questa Rassegna, 1998, parte I, sez. III, 113. 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

420 


amministrativi, violazione di legge e difetto di motivazione, si deduce che il Pretore 
avrebbe dovuto preliminarmente rilevare la inammissibilit� dell'opposizione per g 

non essere stata tempestivamente impugnata l'ordinanza ministeriale posta a fondamento 
dell'ingiunzione. 

La censura � infondata. 

Ed invero il giudizio dinanzi al giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 10 
della legge n. 146 del 1990, che investe direttamente la legittimit� dell'ordinanza 
prevista dall'art. 8, � pienamente compatibile, e non alternativo, con quello riguardante 
la legittimit� della sanzione irrogata per inottemperanza all'ordinanza stessa: 
diversi sono infatti i soggetti legittimati a proporre le relative domande -individuati 
nell'art. 10 in determinate categorie di soggetti portatori di un interesse qualificato 
alla caducazione del provvedimento, ed identificabili nell'ipotesi di impugnazione 
ai sensi dell'art. 9 ultimo comma nei destinatari del decreto sanzionatorio 
-, cos� come diverse sono sia le posizioni soggettive dedotte sia la portata e l'efficacia 
delle due pronunzie, atteso che il giudice ordinario � tenuto soltanto a verificare 
con accertamento incidenter tantum l'illegittimit� dell'atto, in applicazione 
del principio generale di cui all'art. 5 della legge n. 2248 all. E del 1865, onde il 
mancato esperimento dell'azione dinanzi al TAR non incide sulla sua cognizione. 

Peraltro la stessa pronuncia a Sezioni Unite che, rigettando il primo motivo di 
ricorso, ha dichiarato la giurisdizione dell'autorit� giudiziaria ordinaria ha ben chiarito 
che, mentre la posizione di interesse legittimo dei soggetti interessati alla corretta 
emanazione dell'ordinanza pu� esser fatta valere esclusivamente dinanzi al 
giudice amministrativo, la posizione del privato destinatario del provvedimento sanzionatorio 
per la violazione dell'atto amministrativo generale � tutelabile dinanzi 
all'autorit� giudiziaria ordinaria, cui spetta verificare l'esistenza del potere dell' autorit� 
competente di esigere la sanzione, e che in tale giudizio la valutazione della 
legittimit� dell'atto amministrativo generale costituisce mezzo al fine della pronunzia 
sull'opposizione. 

Con il terzo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1 
comma 2 lett. d), 4,8 e 9 della legge n. 146 del 1990 in relazione all'art. 360 n. 3 e 
5 codice procedura civile, si deduce che l'art. 1 di detta legge, individuando il servizio' 
istruzione come essenziale, prevede che l'astensione dall'attivit� lavorativa 
non possa mai estendersi agli scrutini ed agli esami finali, quali �prestazioni indispensabili
�. 

Si osserva altres� che l'ordinanza di precettazione non � subordinata ad un generale 
accordo tra le forze sociali, ma viene emessa sulla base di una previa valutazione 
dell'Autorit� competente circa la sussistenza di un pericolo di pregiudizio 
grave ed imminente ai diritti della persona costituzionalmente garantiti. Si rileva al 
riguardo che nella specie, dopo che era stato comunque ritenuto inadeguato dalla 
Commissione di garanzia il livello delle prestazioni garantite dai sindacati e poich� 
le modalit� dell'agitazione contrastavano con quelle concordate nel protocollo di 
intesa stipulato tra la parte pubblica ed i sindacati stessi il 25 luglio 1991, si era correttamente 
posto con l'ordinanza in oggetto un divieto assoluto di sciopero in occasione 
delle operazioni di scrutinio finale, siccome prestazioni indispensabili, il cui 
mancato espletamento era tale da produrre disfunzioni non suscettibili di specifica 
indagine, in quanto in re ipsa. 


PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 

Si deduce ancora, in relazione alla rilevanza attribuita alla mancanza del tentativo 
di conciliazione, che l'art. 8 non prevede detto tentativo come una fase procedurale 
necessariamente fom1ale. Si rileva in proposito che il Ministro per la Funzione 
Pubblica, richiesto da quello della Pubblica Istruzione, aveva rivolto rituale 
�invito a desistere� ai promotori dello sciopero e che nonostante tale invito era rimasta 
immutata la situazione di pericolo, onde legittimamente era stata emanata l'ordinanza 
in oggetto. 

La complessa censura � priva di fondamento, in tutte le sue articolazioni. 

Le questioni in essa proposte sono state di recente affrontate e risolte nella sentenza 
della sezione lavoro di questa Suprema Corte n. 10889 del 1997, concernente 
impugnazione avverso ingiunzioni di pagamento di sanzioni pecuniarie emesse per 
adesione alla medesima astensione collettiva dal lavoro. 

Ritiene il Collegio che la soluzione accolta e le argomentazioni offerte in detta 
decisione debbano essere in questa sede confermate. 

Come � noto, nel sistema della legge n. 146 del 1990 -che tende al dichiarato 
fine di contemperare l'esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti 
della persona costituzionalmente tutelati, collocati l'uno e gli altri su di un piano 
di assoluta parit� -il diritto di sciopero pu� essere compresso soltanto in presenza 
di ben identificati presupposti, ritenuti dal legislatore necessari e sufficienti a realizzare 
quel bilanciamento tra contrapposti interessi cui il suo intervento riformatore 
si ispira. In tale prospettiva va inteso il potere di precettazione disciplinato dallo 
art. 8, che al secondo comma significativamente ribadisce che nell'emanare l'ordinanza 
motivata diretta a garantire le prestazioni indispensabili occorre contemperare
� l'esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona costituzionalmente 
garantiti�. 

Discostandosi dal preesistente sistema della �precettazione� prefettizia, il 
legislatore del 1990 ha adottato la scelta tecnica della procedimentalizzazione del 
potere di precettazione, delineando un'articolata procedura che coinvolge diversi 
soggetti a vario titolo interessati al conflitto -cos� rispondendo anche all'esigenza 
di attenuare la natura intrinsecamente autoritaria del provvedimento -e che 
impone al titolare del potere di compiere tutti i tentativi per la sua soluzione, onde 
l'emissione dell'ordinanza viene a configurarsi come rimedio di ultima istanza o 
momento di chiusura, quando sia infine evidente che non sono praticabili altre 
soluzioni per tutelare i diritti della persona costituzionalmente garantiti. 

Pi� specificamente, come nella richiamata pronunzia n. 10089 del 1997 si � 
osservato, l'art. 8 della legge n. 146 del 1990 fonda il potere di precettazione su un 
duplice presupposto sostanziale e formale. Quello sostanziale si identifica nel fondato 
pericolo di pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona costituzionalmente 
garantiti, mentre quello formale consiste in un articolato procedimento scandito, 
nell'ipotesi di conflitti sindacali di rilevanza nazionale o interregionale, 
dall'invito del presidente del Consiglio o del ministro da lui delegato, ovvero del 
prefetto o del corrispondente organo nelle regioni a statuto speciale negli altri casi, 
a desistere dai comportamenti che determinano la situazione di pericolo; dall'esperimento 
del tentativo di conciliazione; dall'invito alle parti, in caso di esito negativo, 
ad attenersi al rispetto della proposta eventualmente formulata dalla Commissione 
di garanzia; ed ancora dall'audizione, se la situazione di pericolo permanga ed 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

422 


PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 

indurre a ritenere, in mancanza di una precisa indicazione normativa in tal senso, 
che detta indispensabilit� comporti l'assoluta indifferibilit� della prestazione stessa. 
Al contrario, l'art. 2 non esclude in via generale la possibilit� dello sciopero in relazione 
alle prestazioni individuate come indispensabili, ma piuttosto dispone richiamando 
l'essenziale finalit� di contemperamento di diritti costituzionali in conflitto, 
che lo sciopero sia esercitato �nel rispetto di misure dirette a garantire l'erogazione 
delle prestazioni indispensabili�, con un preavviso minimo e con l'indicazione della 
durata dell'astensione. 

N� pu� addursi da parte dell'Amministrazione ricorrente che le modalit� dell'agitazione 
contrastavano con quelle concordate nel protocollo d'intesa del 25 
luglio 1991, avente ad oggetto la disciplina pattizia sui servizi pubblici essenziali 
per il personale della scuola, e che tale circostanza valeva di per s� a legittimare l'ordinanza 
di precettazione. Va al riguardo osservato, richiamando ancora quanto rilevato 
nella pronunzia n. 10889 del 1997, che la forza vincolante dell'ordinanza di 
precettazione deriva direttamente dalla legge che la prevede e si fonda sull'osservanza 
delle prescrizioni nella stessa legge indicate, e che tra i presupposti legittimanti 
il potere di ordinanza non � ricompresa la previa conclusione degli accordi di 
cui all'art. 2 n. 2, nei quali il protocollo pu� inquadrarsi, cos� che la loro eventuale 
violazione � da considerare non rilevante ai fini in esame. 

Deve pertanto riaffennarsi in questa sede che il mancato esperimento del tentativo 
di conciliazione costituisce violazione di legge tale da determinare un vizio del1'
ordinanza di precettazione, accertabile incidenter tantum in forza del principio 
generale di cui all'art. 5 della legge n. 2248 del 1865 all. E. 

Dei suesposti principi la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione, rilevando 
che l'omissione del tentativo di conciliazione -risultante peraltro dallo stesso 
preambolo dell'ordinanza-, dopo l'invito a desistere rivolto dal Ministro ai promotori 
dello sciopero, e la mancata richiesta alla Commissione di garanzia di 
formulare la proposta da sottoporre alle parti sociali, valevano a determinare l'illegittimit� 
dell'ordinanza di precettazione, che andava quindi disapplicata, con la conseguenza 
che il provvedimento di irrogazione della sanzione in oggetto doveva considerarsi 
illegittimo. 

L'accertamento dell'insussistenza del presupposto procedimentale, quale motivo 
di per s� determinativo della illegittimit� dell'ordinanza, assorbe ogni ulteriore 
questione circa la ricorrenza di quello sostanziale del quale il Pretore ha parimenti 
negato la sussistenza. 

Il ricorso deve essere pertanto rigettato (omissis). 

I 

TRIBUNALE DI CATANZARO, sez. I, ordinanza 25 marzo 1997 -Pres. Caparello 
-Rei. Tanfema -Ministero Trasporti c. Geracitano. 

Procedimenti cautelari -Reclamo -Provvedimento d'urgenza o possessorio Reclamo 
ex art. 669-terdecies c. p. c. -Natura devolutiva-sostitutiva. 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

424 

Procedimenti cautelari -Provvedimento d'urgenza o possessorio -Reclamo ex 
art. 669-terdecies c. p. c. -Allegazione di fatti preesistenti o di nuove circostanze 
di fatto o di diritto -Produzione di nuovi documenti -Ammissibilit�. 

Il reclamo ex art. 669-terdecies ha natura di mezzo di gravame con effetto 
devolutivo al giudice superiore di tutte le questioni di fatto o di diritto prospettate 
nella fase del rilascio della misura cautelare; il provvedimento reso dal giudice 
del reclamo, pertanto, ha carattere sostitutivo ed implica il riesame della 
domanda cautelare nel suo complesso e non del solo provvedimento reso dal giudice 
di prime cure(l). 

Dalla natura sostitutivo-devolutiva del reclamo deriva la possibilit� di allegare 
sia fatti preesistenti non dedotti nella fase di rilascio della misura cautelare, sia 
nuove circostanze di fatto e di diritto; in particolare deve ritenersi ammissibile la 
produzione di nuovi documenti, con l'unico limite costituito dal rispetto del contradditorio 
(2). 

II 

TRIBUNALE DI CATANZARO, sez. I, ordinanza 27 maggio 1997 -Pres. Caparello 
-Rei. Tanfema -Ministero Lavori Pubblici (Avvocatura Distrettuale di 
Catanzaro) c. Scarfone (avv. Contro). 

Procedimenti cautelari -Reclamo -Provvedimento d'urgenza o possessorio 
reso inter alios -Terzo pregiudicato -Reclamo ex art. 669 terdecies c. p.c. Ammissibilit�. 


Competenza civile -Competenza per territorio -Foro della Pubblica Ammini


strazione -Inderogabilit� -Procedimenti cautelari -Provvedimento d'ur


. genza o possessorio -Reclamo ex art. 669-terdecies c. p. c. -Applicabilit� 

-Deroga ex art. 7 R. D. n. 1611 del 1933 -Esclusione. 

� ammissibile il reclamo proposto da un terzo avverso il provvedimento cautelare 
reso inter alios, qualora questi subisca un pregiudizio diretto e non meramente 
occasionale che si concreti nella lesione non di un generico interesse, ma di una 
situazione soggettiva tutelata come tale dall'ordinamento, dimodoch� il terzo, 

(1-2) Non constano precedenti in termini. La motivazione del Tribunale della natura sostitutiva-
devolutiva del rimedio ex art. 669 terdecies c. p. c. sembra, tuttavia, richiamare l'opinione 
della Suprema Cmte che qualifica il reclamo come mezzo di impugnazione destinato a provocare 
il riesame delle questioni decise in primo grado (Cass. 1� luglio 1977, n. 5902; Cass. 7 maggio 
1996 n. 4220), ritenendo che la relativa decisione sia munita di efficacia sostitutiva del provvedimento 
reclamato, del quale mantiene identica natura e funzione (Cass. 9 giugno 1997 n. 5118; 
Cass. SS.UU., 24 gennaio 1995 n. 824). 


-


,. 

PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 

425 

appaia come il destinatario effettivo e sostanziale del provvedimento formalmente 
reso nei confronti di un 'altra parte(l). 

Per il carattere assoluto ed inderogabile del foro erariale, competente a decidere 
sul reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. proposto da un 'Amministrazione dello 
Stato � il Tribunale che sarebbe competente secondo le norme ordinarie, non potendo 
trovare applicazione la deroga prevista dall'art. 7, R.D. n. 1611del1933 per le 
ipotesi di opposizione di terzo e di intervento volontario nel giudizio (2). 

I 

(omissis) 

Deve preliminarmente essere esaminata la domanda, proposta dall'Amministrazione 
reclamante, di dichiarazione dell'interruzione del processo per l'avvenuta 
cessazione della Gestione Commissariale Governativa disposta dall'art. 2, legge 
662/1996 ed attuata con decreto ministeriale 30 dicembre 1996. 

La domanda � infondata e deve essere rigettata. 

Si osserva in proposito, infatti, che l'ultimo comma dell'art. 300 codice procedura 
civile, che deve ritenersi analogicamente applicabile anche alla fase cautelare, 
stabilisce che la notificazione degli eventi interruttivi riguardanti la parte non produce 
effetto, se non nel caso di riapertura dell'istruzione, qualora venga fatta dopo 
la chiusura della discussione davanti al Collegio. Nel procedimento de quo, l'Amministrazione 
reclamante ha dedotto l'avvenuta cessazione della Gestione Commissariale 
Governativa solo in sede di note autorizzate, dopo che il Collegio, all'udienza 
del 22 gennaio 1997, esaurita la discussione della causa, si � riservato la 
decisione. Pertanto, la notificazione dell'evento interruttivo deve ritenersi tardiva e, 
in quanto tale, priva di effetto, con la conseguenza che il procedimento deve continuare 
nei confronti delle parti originarie. 

(1) La pronuncia in esame ammette il terzo, pregiudicato direttamente e non occasionalmente 
da un provvedimento cautelare reso inter alias, alla proposizone del reclamo di cui 
all'art. 669 terdecies c.p.c., verificata l'inutilizzabilit� -per tale caso -dell'opposizione di 
terzo e motivando sulla base delle esigenze di tutela del soggetto che non abbia partecipato 
alla fase di concessione della misura cautelare. Contra, Trib. Verona, ord. 25 marzo 1996, in 
Foro it. 1996, I, 3220, richiamata in sentenza e Trib. Padova, 11 agosto 1995, in Foro it., 1996, 
I, 1445, per il solo caso in cui il terzo sia intervenuto nel corso del procedimento cautelare 
assumendo la qualit� di �parte interessata�. Ammette l'impugnazione ex art. 669 terdecies 
c.p.c. da parte del solo litisconsorte pretermesso, Trib. Torino, ord. 3 gennaio 1994, in Giur. 
it. 1994, I, 2, 118. 
(2) La decisione si segnala per l'affermazione della regola del �foro erariale� per il caso in 
cui il terzo proponente il reclamo sia un'Amministrazione dello Stato, stante la non assimilabilit� 
di tale rimedio all'opposizione di terzo ovvero all'intervento di terzo che ne giustificherebbero 
la deroga. 
Sulla inderogabilit� delle regole sul foro dello Stato la consolidata giurisprudenza; tra le 
tante, Cass. 25 maggio 1995 n. 5732; Cass. 27 maggio 1983 n. 3676; Cass. 5 marzo 1979 n. 1365. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

426 


Stante il disposto dell'art. 5 c. p. c., che sancisce l'irrilevanza rispetto alla 
determinazione della competenza dei mutamenti di fatto e di diritto intervenuti successivamente 
alla domanda deve ritenersi, inoltre, infondata l'eccezione sollevata da 
parte resistente all'udienza del 22 gennaio 1997 di incompetenza sopravvenuta del 
Tribunale di Catanzaro, foro erariale, per la trasformazione delle FF.SS. in ente privato 
e per la cessazione della gestione commissariale governativa da parte del Ministero 
dei trasporti. 

Sempre in via preliminare deve essere esaminata l'eccezione di inammissibilit� 
del reclamo sollevata dai resistenti per l'omessa notifica del reclamo all'impresa 
Canu, gi� parte del procedimento possessorio. 

L'eccezione � infondata e va rigettata. 

Si osserva, invero, che non sussiste litisconsorzio necessario n� inscindibilit� 
di cause nei giudizi di reintegrazione e manutenzione del possesso, quando lo spoglio 
o la turbativa lamentati siano riferibili, come nel caso in esame, a pi� soggetti, 
perch� tali eventi rivestono carattere di fatti illeciti e determinano quindi una 
responsabilit� individualmente legata ad ogni singolo autore dei fatti stessi (Cass., 
sez. Il, 30 maggio 1994 n. 5281 ). A ci� si aggiunga che il contraddittorio, a seguito 
della notifica del reclamo ai coniugi Geracitano, si � regolarmente instaurato nei 
confronti dell'unico ed effettivo controinteressato. Nessuna lesione del contraddittorio 
� pertanto imputabile alla mancata notifica del reclamo all'impresa Canu, che 
riveste processualmente la posizione di cointeressato dell'Amministrazione reclamante. 
Deve ulteriormente considerarsi, peraltro, che la mancata notifica del reclamo 
all'impresa appaltatrice dei lavori non comporta alcuna lesione del diritto di 
difesa della parte resistente atteso che rispetto a quest'ultima l'impresa Canu si 
pone come controinteressato nel procedimento de quo. Non appare conferente, infine, 
l'ordinanza del Tribunale di Roma alla quale ha inteso riferirsi parte resistente, 
che dev� ritenersi emessa il 23 agosto 1994 e non, come da quest'ultima indicato 
nelle note autorizzate, il 28 marzo 1994, in quanto non si riferisce a procedimento 
cautelare con pluralit� di parti. Conseguentemente, il reclamo deve ritenersi 
ammissibile e non deve essere disposta l'integrazione del contraddittorio nei confronti 
dell'impresa appaltatrice dei lavori. 

Del pari infondata deve ritenersi l'eccezione sollevata dai resistenti di inammissibilit� 
della produzione documentale e della allegazione di prove e fatti effettuata 
per la prima volta dall'Amministrazione reclamante in sede di reclamo. 

Al riguardo il Collegio osserva, condividendo l'opinione espressa in proposito 
da autorevole dottrina e da parte della giurisprudenza, che il reclamo ex art. 669-terdecies 
c. p. c. ha natura di mezzo di gravame con effetto devolutivo al giudice del 
reclamo di tutte le questioni di fatto e di diritto prospettate nella fase del rilascio 
della misura cautelare e che nel giudizio di reclamo � altres� possibile far valere fatti 

o prove non dedotte in quella fase, al di l� del limite dei motivi sopravvenuti. Il 
provvedimento reso dal giudice del reclamo, pertanto, � un provvedimento a carattere 
sostitutivo, che implica riesame della domanda cautelare nel suo complesso e 
non del solo provvedimento reso dal giudice di prime cure (in giurisprudenza, cfr. 
Trib. Milano, ord. 15 marzo 1993; Trib. Frosinone, ord. 19-24 aprile 1996). 
In favore della soluzione indicata depongono diverse ragioni, gi� evidenziate da 
parte della dottrina e che il Collegio ritiene di dover accogliere. 


PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 

In primo luogo, sul piano della esegesi testuale della norma contenuta nell'art. 
669 terdecies c. p. c., occorre evidenziare che la previsione legislativa di un potere 
di modifica del provvedimento cautelare mal si concilia con l'asserita natura solo 
rescindente del reclamo. � vero, piuttosto, che la modifica del provvedimento cautelare 
sembra potersi ragionevolmente ricondurre al potere del giudice del reclamo 
di riesaminare il merito cautelare e di riformulare il giudizio sull'opportunit� e sull'esistenza 
delle condizioni di concessione del provvedimento reclamato. 

La natura sostitutiva del reclamo appare altres� confermata, o perlomeno non 
contraddetta, dalla struttura del reclamo come rimedio a critica libera con il quale 
possono esser fatti valere tutti i possibili errores in procedendo o in iudicando del 
provvedimento cautelare. Si � notato in dottrina, invero, che pur non essendovi un 
rapporto di conseguenzialit� necessaria tra la struttura del mezzo come rimedio a 
critica libera e il suo eventuale effetto devolutivo-sostitutivo, tuttavia la completa 
assenza di dati legislativi che circoscrivano l'ambito dei motivi deducibili con il 
reclamo rende probabile una configurazione dello stesso quale mezzo diretto a una 
pronuncia sostitutiva. 

Sul piano della ratio, si osserva inoltre che la natura di gravame con effetto 
devolutivo-sostitutivo del reclamo ben risponde all'esigenza di concedere al destinatario 
della misura cautelare un rimedio che gli consenta di ottenere in tempi ragionevoli, 
all'interno di un unico procedimento ispirato ai principi della concentrazione 
e della speditezza, una nuova pronuncia sul merito cautelare da parte di un 
giudice diverso da quello che ha pronunciato il provvedimento. 

Si osserva, infine, che la ricostruzione nei termini prospettati dell'istituto in 
esame non pone particolari problemi di coordinamento con la possibilit�, riconosciuta 
dal legislatore, di riproporre l'istanza per la concessione della misura cautelare 
allorch� sopravvengano nuove circostanze di fatto o ragioni di diritto. In dottrina, 
infatti, � stato esattamente notato che in caso di esperimento contemporaneo di 
entrambi i mezzi possono trovare applicazione gli istituti della litispendenza ex art. 
39 codice procedura civile o della sospensione per pregiudizialit� del giudizio frutto 
della proposizione dell'azione cautelare, in quanto l'esito del reclamo potrebbe 
cagionare la cessazione della materia del contendere attraverso il rilascio della misura 
cautelare� richiesta in primo grado. 

Dalla natura devolutiva-sostitutiva del reclamo deriva anche, a giudizio di questo 
Collegio, la possibilit� di allegare nel giudizio di reclamo sia fatti preesistenti 
ma non allegati nella fase di rilascio della misura cautelare, sia i c.d. nova, comprensivi 
di nuove circostanze di fatto e di nuovi mezzi di prova. In particolare, deve 
ritenersi ammissibile, in questa fase, la produzione di nuovi documenti ( cfr. Trib. 
Frosinone, ord. 19-24 aprile 1996, cit.). E evidente, infatti, che il riconoscimento di 
potere cautelare al giudice del reclamo implica l'esigenza e l'opportunit� che lo 
stesso acquisisca il maggior numero di elementi di valutazione sui quali fondare la 
propria decisione che spesso � suscettibile di avere un'incidenza pratica notevole 
ed immediata. 

D'altra parte, la produzione di nuovi documenti nella fase di gravame non � 
affatto preclusa nel nostro ordinamento, n� avuto riguardo alla disciplina del procedimento 
cautelare, n� alle regole generali in materia di impugnazione. Anzi, 
sotto tale ultimo profilo, la dottrina pi� autorevole, con riferimento alla nuova 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATOC.

428 

disciplina delle preclusioni posta dall'art 345 c. p. c. ritiene i documenti liberamente 
producibili nella fase di appello e anche la giurisprudenza formatasi sul 
processo del lavoro ritiene ammissibile la produzione di documenti nella fase di 
appello, nonostante le preclusioni poste dall'art. 437 comma 2 c. p. c., ritenute 
applicabili alle sole prove costituende (Cass. 4 febbraio 1993, n. 1359; Cass. 29 
marzo 1993, n. 3759). 

Il Collegio ritiene che l'unico limite all'ammissibilit� di nuovi documenti nella 
fase del reclamo sia costituito dal rispetto del principio del contraddittorio. Ci�, 
peraltro, postula soltanto che le parti del giudizio debbono avere la possibilit� di formulare 
deduzioni e contestazioni in merito ai documenti prodotti, e non anche che 
le parti debbano avere cognizione di tali documenti in entrambe le fasi del procedimento 
(omissis). 

II 

(omissis) ~ 
A) SULL'AMMISSIBILIT�, IN ASTRATTO, DEL RECLAMO, EX ART. 669 TERDECIES C.P.C PROPOSTO 
DAL TERZO AVVERSO IL PROVVEDIMENTO CAUTELARE O POSSESSORIO RESO 

I

INTER ALIOS. 

1) Sulla proponibilit� dell'opposizione di terzo avverso il provvedimento cau


I

telare reso inter alios. @ 

I 
~ 

Deve essere preliminarmente esaminata l'eccezione di improponibilit� del & 
reclamo, ex art. 669-terdecies c. p. c., proposto dal terzo avverso il provvedimento 
possessorio reso inter alias. 

Al riguardo, si osserva che il legislatore non ha disciplinato il profilo relativo 
alla reclamabilit� del provvedimento cautelare da parte del terzo che deduca di esse


I 

re stato leso dal rilascio del provvedimento cautelare inter alias. 
Gli interpreti, pertanto, nel tentativo di individuare i possibili mezzi di tutela del 

I 

terw, hanno inizialmente incentrato il dibattito sulla impugnabilit� del provvedimento 
con l'opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. 

Si tende a ritenere, tuttavia, che l'accesso a tale rimedio sia precluso al terzo che 
intenda opporsi al provvedimento cautelare reso inter alias. 

In merito, deve preliminarmente precisarsi che l'ambito di applicazione 
dell'opposizione di terzo ex art. 404 comma 1 c.p.c. � stato esteso dalla Corte 
Costituzionale, la quale, nelle sentenze n. 167/1984, 237/1985 e 192/1995, ha 
affermato l'impugnabilit�, con il suddetto mezzo, della ordinanza di convalida 
di sfratto per finita locazione e morosit� e della convalida di licenza per finita 
locazione, in ragione della natura sostanzialmente decisoria di questi provvedimenti, 
a fronte delle caratteristiche di cognizione sommaria del relativo procedimento. 


Anche la Corte di Cassazione, d'altra parte, ha ritenuto che l'opposizione di 
terzo debba trovare applicazione nei confronti dei provvedimenti che, anche se non 
formalmente configurabili come sentenze, si concretino tuttavia, da un punto di vista 


PARTE I, SEZ. III, GIURJSPRUDENZA DI DIRJTTO E PROCEDURA �tVILE 

sostanziale, in comandi giurisdizionali. Seguendo questa impostazione, la Suprema 
Corte ha ritenuto che sia applicabile l'opposizione di terzo nei confronti del provvedimento 
emesso dal Pretore ai sensi dell'art. 28 legge 300/1970 (Cass., sez. lav., 

n. 5039 del 23 novembre 1989). 
Decisiva appare, pertanto, ai fini dell'applicabilit� dell'opposizione di terzo, la 
natura decisoria del provvedimento, indipendentemente dalla sua qualificazione formale 
come sentenza, ossia la sua idoneit� a disciplinare in modo definitivo una 
situazione giuridica. 

Sulla base di queste premesse, occorre allora accertare se il provvedimento possessorio 
abbia effettivamente carattere di provvisoriet� e di inattitudine al giudicato, 
ci� che varrebbe ad escluderne, per quanto detto, la natura decisoria e quindi 
l'impugnabilit� mediante l'opposizione di terzo. 

Secondo una tesi, largamente seguita sia in dottrina che in giurisprudenza, e in 
passato autorevolmente sostenuta, il provvedimento possessorio si configurerebbe 
come un provvedimento di natura cautelare e di quest'ultimo condividerebbe, pertanto, 
il carattere di provvisoriet� e di inattitudine al giudicato. 

Tale impostazione non viene recepita da altra parte della dottrina, facendosi 
osservare, al riguardo, che all'inquadramento del provvedimento possessorio tra i 
provvedimenti cautelari osta la mancanza del necessario rapporto di strumentalit� 
rispetto al processo a cognizione piena, che deriva dall'impossibilit� di individuare 
nell'ordinamento giuridico un diritto rispetto al quale il provvedimento possessorio 
abbia funzione di anticipazione cautelare di tutela. 

Invero, il provvedimento possessorio non � idoneo a svolgere funzione cautelare 
anticipatoria, n� rispetto al giudizio petitorio, n� rispetto ad un eventuale giudizio 
ordinario avente oggetto identico a quello del giudizio sommario. 

Appare decisiva, sotto tale ultimo aspetto, la considerazione che, in primo 
luogo, il possessore non � titolare di una situazione di diritto soggettivo, risolvendosi 
il possesso in una situazione di fatto giuridicamente tutelata nei confronti delle 
sole forme tipiche di lesione previste dagli artt. 1168 e 1170 c. c.. D'altra parte, il 
possesso appare una situazione �debole�, in quanto destinata a cedere di fronte a 
contrastanti ragioni di diritto; cosicch� l'accertamento contenuto nel provvedimento 
possessorio mai potrebbe essere opposto all'attore vittorioso in un successivo giudizio 
di revindica. 

Quanto ai rapporti tra petitorio e possessorio appare risolutiva, rispetto all'impossibilit� 
di istituire una relazione strumentale tra i due giudizi, la considerazione 
che l'ordinamento sembra accordare la tutela possessoria indipendentemente 
da qualsiasi delibazione sul merito petitorio; tanto che, da un lato, vi � il divieto 
per il convenuto nel giudizio possessorio di proporre giudizio petitorio finch� il 
primo giudizio non sia concluso, e, d'altra parte, � accordata azione possessoria 
anche al convenuto in petitorio che lamenti lo spoglio ad opera dell'attore effettivo 
proprietario. 

Pare al Collegio che, sulla base delle riportate osservazioni, sia preferibile la 
impostazione che pone in rilievo la struttura non cautelare del provvedimento possessorio. 
Pi� precisamente, appare fondata la tesi che configura i provvedimenti possessori 
come provvedimenti sommari-semplificati-esecutivi, in quanto tali, tral'altro, 
reclamabili sia in ipotesi di accoglimento che di rigetto. 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO" 

430 

Pertanto, stante la natura non cautelare del provvedimento possessorio, il carattere 
non decisorio e, conseguentemente, l'inattitudine al giudicato dello stesso, deve 
essere necessariamente ricercato altrove. 

Il Collegio ritiene, seguendo l'opinione di autorevole dottrina, che la non decisoriet� 
e provvisoriet� del provvedimento possessorio derivi dalla funzione del 
suddetto provvedimento, il quale � diretto alla tutela di una situazione di fatto, giuridicamente 
rilevante solo in ipotesi di lesione e destinata a cedere di fronte all'accertamento 
della propriet�. Deve considerarsi, infatti, la necessaria correlazione 
che lega, nel nostro ordinamento, il giudicato all'accertamento di una situazione di 
diritto. Ci� rende l'accertamento compiuto nel giudizio possessorio, in quanto 
avente ad oggetto �un fatto nella sua storicit��, privo di qualsiasi efficacia di giudicato 
sostanziale. 

Per i chiariti motivi, nei confronti del provvedimento possessorio reso inter 

alios il terzo pregiudicato non pu� proporre l'opposizione di terzo. 

2) Sull'esistenza di rimedi diversi dall'opposizione di terzo, eventualmente 
esperibili dal terzo nei confronti del provvedimento cautelare o possessorio reso 

Iinter alios. 

� necessario, a questo punto, accertare se il terzo abbia a disposizione altri 

t

rimedi per far valere le proprie ragioni e se tali rimedi si pongano in rapporto di 

!

altemativit� con il reclamo ex art. 669-tertecies c.p.c.. 

~ 

La giurisprudenza Ghe sinora ha ritenuto di dover concludere nel senso dell' 
inammissibilit� del reclamo proposto dal terzo nei confronti del provvedimento cauI 
telare reso inter alios ha. sostenuto che il terzo sarebbe comunque adeguatamente 
tutelato dall'ordinamento in quanto potrebbe far valere le sue ragioni intervenendo ml~ . ' 
nella fase di merito e chiedendo eventualmente la modifica o revoca del provvedimento 
cautelare ex art. 669-decies c.p.c. (Tribunale Verona, ord. 25 marzo 1996). 
Inoltre, qualora il provvedimento reso inter alios vada attuato in forma specifica, il 
terzo che lamenti un pregiudizio ad un proprio diritto correlato alla disposizione 
cautelare potr� far valere le proprie motivazioni innanzi al giudice dell'attuazione ai 

I

~ 

sensi dell'art. 669-duodecies c.p.c. (Trib. Verona, ord. ult. cit.). 

Tali conclusioni, a giudizio del Collegio, non sono da condividere. 

In primo luogo, infatti, la possibilit� di intervento del terzo nel giudizio di merito 
va attentamente vagliata con riferimento al giudizio possessorio e presuppone la 
soluzione del delicato problema dell'esistenza del c.d. merito possessorio. 

� evidente, infatti, che la possibilit� di intervento del terzo sarebbe frustrata 
se, come il Collegio ritiene alla luce delle considerazioni svolte, dovesse concludersi 
per l'inesistenza di un giudizio a cognizione piena sul merito possessorio che ~ 
segua la fase sommaria e dovesse ritenersi, conseguentemente, che il procedi~ 


~ 

mento possessorio debba svolgersi in un'unica fase sommaria e urgente, destina


~ 

ta a chiudersi con ordinanza in contraddittorio (come ritenuto da Cass., n. 7655 del 

i: 
13 luglio 1995). � ~: 
D'altra parte, il Collegio ha gi� avuto modo di affermare, pi� in generale, che ! 
~: 
gi� nella fase di rilascio del provvedimento cautelare debbono essere adeguatamen


!.

te rappresentate le ragioni degli effettivi controinteressati alla richiesta di tutela. Ci� 

I ~ 

per la ragione determinante che altrimenti non verrebbe assicurata una completa 

I

...... , ......, ...... , ... 



PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 

attuazione del principio del contraddittorio in una fase, come quella cautelare, 
suscettibile di sfociare in provvedimenti idonei ad incidere sensibilmente sulla sfera 
del destinatario. 

Per quanto riguarda poi la possibilit� per il terzo di ricorrere allo strumento 
della richiesta di revoca ex art. 669-decies c.p.c. si osserva, in primo luogo, che la 
revoca � comunque subordinata al sopravvenire di nuove circostanze di fatto o di 
diritto. Parte della dottrina identifica tali nuove circostanze soltanto con quegli 
eventi che abbiano per effetto il sopravvenuto venir meno dei presupposti cautelari 
del periculum e del fumus, escludendo, con ci�, che la revoca abbia funzione di 
riesame del merito cautelare. Pertanto, l'ambito della difesa del terzo risulterebbe 
gi� in partenza notevolmente limitata. Inoltre, i problemi di legittimazione che si 
pongono per la proponibilit� del reclamo da parte del terzo dovrebbero, a rigore, 
porsi anche con riferimento alla possibilit� per il terzo di richiedere la revoca di un 
provvedimento reso in un giudizio nel quale egli non � stato parte processuale. Pertanto 
delle due l'una: o si ritiene che al terzo, in quanto sia direttamente ed effettivamente 
leso dal provvedimento cautelare reso inter alios, siano concessi tutti 
rimedi previsti dall'ordinamento nei confronti del provvedimento cautelare, o si 
esclude che il terzo, in quanto non � stato parte del giudizio in sede sommaria, 
possa insorgere contro il provvedimento che pure lo riguarda sostanzialmente, con 
la conseguenza che allo stesso non pu� essere consentito l'accesso n� al reclamo ex 
art. 669-terdecies c.p.c. n� alla revoca ex art. 669-decies c.p.c. Tertium non datur. 
E alle stesse conclusioni deve giungersi, a ben vedere, con riferimento alla possibilit� 
per il terzo di ricorrere al giudice dell'attuazione nelle forme previste dall'art. 
669-duodecies c.p.c. 

3) Sul/ 'ammissibilit� del reclamo da parte del terzo. 

� evidente tuttavia che tale ultima impostazione, che avrebbe come conseguenza 
quella di lasciare il terzo privo di tutela nei confronti di un provvedimento che 
incide sulla sua sfera giuridica, contrasta palesemente con il principio del contraddittorio 
e con il diritto costituzionale di difesa. 

Tali principi appaiono salvaguardati, invero, soltanto ove si riconosca al 
terzo la possibilit� di insorgere contro il provvedimento che interessa la sua 
sfera giuridica con lo strumento del reclamo. Il rispetto del principio del contraddittorio 
impone, in altri termini, che alle ragioni del controinteressato al rilascio 
del provvedimento cautelare sia dato ingresso gi� in sede di procedimento 
cautelare, senza attendere la fase di merito che, peraltro, come si � detto con specifico 
riferimento al provvedimenti possessori, pu� anche non seguire la fase 
sommaria. 

Con le esposte conclusioni non appaiono di ostacolo le ulteriori ragioni addotte 
da una parte della dottrina e della giurisprudenza per sostenere l'inammissibilit� 
del reclamo da parte del terzo, ragioni che il Collegio ritiene egualmente non condivisibili. 


Si � osservato da pi� parti, invero, che ritenere l'ammissibilit� del reclamo da 
parte del terzo equivarrebbe in primo luogo ad allargare eccessivamente l'area dei 
soggetti legittimati al reclamo e, inoltre, condurrebbe ad una sostanziale elusione 
della disciplina dei termini. 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

432 

Al riguardo si osserva, in primo luogo, che il terzo legittimato al reclamo � soltanto 
colui il quale abbia subito, per effetto del provvedimento cautelare, la lesione, 
in via immediata e diretta, di una propria situazione soggettiva. In altre parole, affinch� 
il terzo sia legittimato a proporre reclamo sono necessarie due condizioni. In 
primo luogo il terzo deve subire un pregiudizio che sia ricollegabile al provvedimento 
in modo diretto e non meramente occasionale. E' necessario, inoltre, che il 
pregiudizio che il terzo subisce per effetto del provvedimento reso inter alias si concreti 
nella lesione non di un generico interesse ma di una situazione soggettiva tutelata 
come tale dall'ordinamento. Il terzo deve apparire, in definitiva, come il destinatario 
effettivo e sostanziale del provvedimento, formalmente reso nei confronti di 
un'altra parte. 

Con riferimento ai termini, si osserva che � necessario che il termine di dieci 
giorni per il reclamo decorra, per il terzo, dal momento in cui questi abbia avuto 
conoscenza del provvedimento. Tuttavia, a giudizio del Collegio, il rischio della elusione 
del suddetto termine � scongiurato dal fatto che il reclamante deve comunque 
offrire la prova del giorno in cui � avvenuta, da parte sua, la conoscenza del provvedimento 
e il reclamato potr� eccepire, a sua volta, la tardivit� del reclamo provando 
che il terzo ha avuto conoscenza del provvedimento in un momento anteriore 
rispetto a quello da quest'ultimo rappresentato. 

Conclusivamente, alla luce delle esposte argomentazioni, il Collegio ritiene 
astrattamente ammissibile il reclamo del terzo, ex art. 669-terdecies c.p.c., avverso 
il provvedimento cautelare o possessorio reso inter alias. 

4) Sull'ammissibilit�, in concreto, del reclamo ex art. 669-terdecies, proposto 
dal Ministero dei lavori pubblici. 

Occorre a questo punto verificare se sussistano in concreto le condizioni per 
ritenere ammissibile il reclamo del Ministero dei lavori pubblici nei confronti del 
provvedimento possessorio del Pretore di Scalea impugnato ai sensi dell'art. 669 

terdecies. 

Il Collegio ritiene che il reclamo sia ammissibile sia sotto il profilo della legittimazione 
dell'Amministrazione reclamante, sia sotto il profilo della tempestivit�. 

Sotto il primo dei profili indicati si osserva infatti che il Ministero dei 
lavori pubblici appare, sulla base delle prospettazioni contenute nel reclamo, il 
soggetto effettivamente leso dal provvedimento reclamato, ancorch� terzo 
rispetto al giudizio possessorio. La ditta appaltatrice dei lavori nei confronti 
della quale � stato emesso il provvedimento pretorile reclamato ha agito, invero, 
quale �longa manus� dell'Amministrazione, la quale ha ordinato i lavori 
per la costruzione della caserma dei vigili del fuoco. Pertanto, il provvedimento 
reclamato incide in modo diretto nella sfera giuridica del reclamante, in 
quanto comprime, asseritamente, il potere pubblicistico dell'Amministrazione, 
conferitole sulla base di provvedimenti amministrativi, di procedere all'arprensione 
del fondo privato per la costruzione di un'opera pubblica. La P.A., 
pertanto, ha un interesse diretto ad insorgere contro il provvedimento medesimo 
che le deriva dalla prospettata lesione della propria potest� autoritativa. 
Conseguentemente, non ha pregio, e deve essere disattesa, l'eccezione formulata 
sul punto dai resistenti. 


PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 

Sul piano dei termini per il reclamo, si osserva che agli atti di causa � allegata 
la certificazione del rilascio di copia del provvedimento reclamato al Provveditorato, 
avvenuta in data 3 marzo 1997. 

Orbene, in mancanza di prova contraria da parte dei reclamati, deve presumersi 
che soltanto in tale data sia avvenuta la piena conoscenza del provvedimento da 
parte dell'Amministrazione. Pertanto, poich� il deposito del reclamo � avvenuto in 
data 10 marzo 1997, deve ritenersi che lo stesso sia tempestivo. Anche l'eccezione 
sollevata sul punto dai resistenti deve conseguentemente ritenersi infondata e va 
rigettata. 

Sempre in via preliminare deve essere rigettata l'eccezione di incompetenza territoriale 
del giudice adito. 

Si osserva al riguardo, invero, che l'Amministrazione dello Stato ha proposto 
reclamo avverso il provvedimento possessorio del Pretore di Scalea ai sensi dell'art. 
669-terdecies c. p. c., con la conseguenza che l'art. 7 R. D. 1611/1933 invocato da 
parte resistente � inapplicabile al caso in esame non venendo in rilievo, in tale ipotesi, 
n� un'opposizione di terzo n� un intervento volontario. 

Non pu� fondatamente sostenersi, d'altra parte, l'estensione analogica della 
norma invocata da parte resistente anche all'ipotesi di reclamo da parte dell' Amministrazione. 
A ci� osta, infatti, sia il carattere assoluto ed inderogabile della competenza 
del foro erariale, sia la diversa natura e funzione del reclamo rispetto agli istituti 
contemplati nel citato art. 7, che non consente, come � viceversa necessario per 
l'applicazione analogica di una qualsiasi norma giuridica, di estendere a tale ipotesi 
la ratio legis della disciplina della competenza stabilita, per l'opposizione di terzo 
e per l'intervento, dalla suddetta norma. 

Infatti, il reclamo, che si configura come un vero e proprio mezzo di gravame, 
non pu� essere assimilato n� all'opposizione di terzo, la cui natura non � inquadrabile 
facilmente, ma che comunque non presenta tutti i caratteri propri dell'impugnazione, 
pur essendo considerata tale dalla dottrina pi� recente, n�, tanto meno, 
all'intervento volontario, che certamente non ha natura e funzione di gravame. 

Orbene, la norma contenuta nell'art. 7 cit. si giustifica essenzialmente tenendo 
conto dell.a peculiarit� dei due istituti ivi considerati. 

Precisamente, nel caso dell'opposizione di terzo la deroga al principio del foro 
erariale trova la sua ragion d'essere nel fatto che in tal c�so il giudizio non � destinato 
a sfociare in una pronuncia di conferma o riforma della sentenza che travolga 
l'accertamento giurisdizionale ivi contenuto, bens� in una eventuale dichiarazione di 
inefficacia del giudicato nei confronti del terzo. In altri termini, il giudizio di opposizione 
di terzo � limitato all'accertamento del pregiudizio che al terzo pu� derivare 
dalla sentenza opposta e, pertanto, in esso non � possibile discutere dell'eventuale 
erroneit� di tale pronuncia. Appare opportuno conseguentemente, che a decidere 
sulla eventuale inefficacia nei confronti del terzo sia, come stabilito dal codice di rito, 
lo stesso giudice che ha emanato la sentenza dalla quale il terzo si assume leso. Nell'ipotesi 
dell'intervento volontario la suddetta deroga si giustifica tenendo conto che 
in tal caso gi� pende un giudizio tra altre parti, instaurato a seguito di una domanda 
proposta al giudice competente per legge, sulla quale tale giudice dovr� pronunciarsi. 
In tal caso � opportuno, pertanto, che la causa gi� pendente tra le parti attragga la 
domanda successivamente proposta dall'Amministrazione nei loro confronti. 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

434 


Le cose si pongono in maniera del tutto differente rispetto al reclamo il quale 
ha invece ad oggetto l'impugnazione di un provvedimento del quale si chiede la 
caducazione. In tal caso, non vi � n� l'esigenza n� l'opportunit�, attesa la evidenziata 
natura impugnatoria del reclamo, che a pronunciarsi sulla domanda sia lo stesso 
giudice che ha pronunciato il provvedimento, e infatti il codice di rito stabilisce 
che il reclamo va proposto al giudice superiore. 

D'altra parte, il secondo comma dell'invocato art. 7, confermando quanto 
osservato precedentemente, stabilisce che il giudice dell'appello, anche nell'ipotesi 
delle sentenze emanate nei giudizi di opposizione di terzo e in quelli in cui sia intervenuta 
l'amministrazione dello Stato, deve comunque essere determinato nel rispetto 
del principio della competenza del foro erariale. 

Deve ulteriormente aggiungersi che secondo la giurisprudenza della Cassazione 
la competenza del foro erariale � assoluta e inderogabile e prevale su ogni altra 
competenza. Per tale ragione, le ipotesi di deroga al foro erariale contemplate dal1 
'art. 7 R. D. 30 ottobre 1933 devono considerarsi tassative (Cass., sez. I civ., n. 
1365 del 5 marzo 1979). Sempre la Cassazione ha stabilito che la regola del foro erariale 
non soffre eccezioni per la circostanza che l'Amministrazione non sia stata ab 
origine parte del giudizio (Cass., sez. lav., n. 3276 del 13 maggio 1983), e che nel 
giudizio in cui sia parte, ancorch� non ab origine, un'Amministrazione dello Stato, 
la competenza a conoscere dell'appello si determina con riferimento al principio del 
foro erariale (Cass., sez. lav., n. 3155 del 23 maggio 1984). 

Per tutte le illustrate ragioni, deve essere ritenuta la competenza del Tribunale 
di Catanzaro in qualit� di foro erariale. 

Ancora in via preliminare deve essere disattesa l'eccezione sollevata da parte 
resistente di inammissibilit� del reclamo perch� avente ad oggetto doglianze fondate 
su circostanze preesistenti al momento del rilascio del provvedimento cautelare 
che potevano essere fatte valere, a giudizio dei resistenti, unicamente in quella sede 
e non in sede di reclamo, costituendo quest'ultimo un mezzo diretto a far valere soltanto 
eventuali errores in procedendo o in iudicando del provvedimento oppure soltanto 
fatti sopravvenuti. 

Questo Tribunale, invero, ha gi� avuto modo di affermare la natura interamente 
dev--olutiva del reclamo con il quale viene attribuito al giudice superiore il riesame 
del merito cautelare in funzione di rinnovazione di giudizio. Ne deriva che il giudice 
del reclamo ha lo stesso potere cautelare che spetta al giudice della prima fase. 
Pertanto, il reclamo si configura come un gravame a critica libera e non a critica vincolata, 
con il quale � possibile far genericamente valere l'ingiustizia della decisione 
del giudice di prime cure, adducendo fatti sopravvenuti o preesistenti rispetto al rilascio 
della misura cautelare e producendo nuovi documenti (omissis). 


SEZIONE QUARTA 

GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

I 

CONSIGLIO DI STATO, Ad. Plen., 15 giugno 1998, n. 3 -Pres. Laschena, Est. 
Costantino -Rivolta c. Consorzio provinciale per il risanamento idraulico del 
Magentino. 

Impiego pubblico -Stipendi, assegni ed indennit� -Interessi e rivalutazione 
su crediti previdenziali e retributivi -Rapporti pendenti ed ambito applicativo 
delle leggi n. 412/1991 e n. 724/1994-Criteri di computo di interessi 
e rivalutazione. 

II 

CONSIGLIO DI STATO, Ad. Plen., 20 luglio 1998, n. 6 -Pres. Laschena, Est. 
Costantino -Musei c. Ministero della Difesa. 

Impiego pubblico -Stipendi, assegni ed indennit� -Interessi e rivalutazione 
su crediti previdenziali e retributivi -Rapporti pendenti ed ambito applicativo 
delle leggi n. 412/1991 e n. 724/1994 -Criteri di computo di interessi 
e rivalutazione. 

Il divieto del cumulo di interessi e rivalutazione posto dall'art. 16, comma VI, 
della legge n. 41211991 per i crediti previdenziali tardivamente adempiuti ed esteso ai 
crediti retributivi dall'art. 22, comma 36, della legge n. 72411994 si applica anche ai 
rapporti in corso al momento della sua entrata in vigore, ma solo limitatamente ai 
ratei matur.ati -rispettivamente -dopo il 1� gennaio 199 2 e dopo il 31 dicembre 1994. 

Per i crediti maturati prima di tali date, il cumulo di interessi e rivalutazione 
deve essere determinato calcolando separatamente gli interessi e la rivalutazione 
sull'importo nominale del credito (1). 

(1) Interessi e rivalutazione sui crediti dei pubblici dipendenti: il chiarimento dell'Adunanza 
Plenaria. 
I. L'Adunanza Plenaria, con la decisione che si commenta, torna ad affrontare il problema 
del ritardato adempimento dei crediti previdenziali e retributivi dei pubblici dipendenti, ribadendo 
la precedente soluzione data alla questione del cumulo di interessi e rivalutazione, alla luce dei 
ben noti interventi normativi che ne hanno generalizzato il divieto (art. 16, comma VI, della legge 
n. 412/1991 e art. 22, comma 36, della legge n. 724/1994). 
L'importanza della sentenza in rassegna non risiede certo nella soluzione del problema di 
diritto intertemporale posto dagli interventi legislativi del 1991 e 1994 (che, nel superare la regola 
del �cumulo� di interessi e rivalutazione, avevano lasciato aperti non pochi dubbi sull'applicabilit� 
ed i limiti del divieto per i rapporti pendenti). La parte pi� innovativa della decisione �, 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

436 

I 

(omissis). 

1. La prima delle questioni prospettate � volta a stabilire se, e in che misura, le 
modifiche introdotte dal legislatore in tema di disciplina del ritardato adempimento 
delle obbligazioni previdenziali e retributive producano effetti allorch�, come si � 
verificato nella specie, gli emolumenti retributivi, maturati entro il 31 dicembre 
1994, siano pagati (limitatamente alla sorte capitale) in epoca successiva a tale data. 
A questo riguardo, conviene ricordare che il principio (tradotto in vera e propria 
regola di �diritto vivente�), secondo cui in caso di ritardo nella corresponsione di crediti 
retributivi opera il �cumulo di interessi e rivalutazione�, in luogo della meno efficace 
tutela apprestata dall'art. 1224 codice civile -principio costantemente seguito, 
dopo alcune oscillazioni interpretative, dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, 
conformemente del resto all'orientamento espresso dalla Corte di Cassazione risulta 
ormai superato, per effetto di due successivi interventi legislativi. 

L'art. 16, comma 6, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 stabilisce, infatti, che 
�gli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria sono tenuti a corrispondere gli 
interessi legali, sulle prestazioni dovute, a decorrere dalla data di scadenza del ter-� 
mine previsto per l'adozione del provvedimento sulla domanda. L'importo dovuto a 
titolo di interessi � portato in detrazione dalle somme eventualmente spettanti a 
ristoro del maggior danno subito dal titolare della prestazione per la diminuzione del 
valore del suo credito�. 

Inoltre, a decorrere dal 1� gennaio 1995 il divieto di cumulo di interessi e rivalutazione 
monetaria, gi� prescritto per i crediti previdenziali, trova applicazione 
anche per i crediti di altra natura, in forza del disposto di cui all'art. 22, comma 36, 
secondo periodo, della legge 23 dicembre 1994, n. 724. 

infatti, quella in cui viene risolta la complessa questione delle modalit� di computo di rivalutazione 
ed interessi. 

II. E' stata, come � noto, la Quinta Sezione del Consiglio di Stato, con una puntuale e approfondita 
decisione del 6 agosto 1997, n. 881 (in Foro it., 1997, n. 10, III, 473, con nota di PARDOLESI) 
!l rimettere all'Adunanza Plenaria le questioni che oggi trovano una convincente soluzione 
nella decisione che si pubblica. 
Accanto alla questione dell'operativit� del divieto del �cumulo� di interessi e rivalutazione 
per i rapporti pendenti, si era posto il ben pi� delicato problema interpretativo, che riguardava la 
concreta determinazione della rivalutazione e degli interessi sulla sorta capitale. 

Sul punto, la Quinta Sezione suggeriva una soluzione estremamente rigorosa: tenuto conto 
che, nel periodo dal 1991 al 1996, il tasso legale di interessi era stato raddoppiato e che perci� 
ogni forma di cumulo si sarebbe tradotta in un privilegio ingiustificato per il dipendente, non rapportato 
a reali esigenze di salvaguardia della retribuzione reale, si proponeva di aderire a quel1 
'indirizzo minoritario della Cassazione (espresso dalle sentenze 26 gennaio 1995, n. 907 e 19 
maggio 1995), secondo il quale gli interessi legali si computano sull'importo originario del credito 
�al suo valore nominale� e non su quello risultante sulla somma capitale �integralmente� 
rivalutata (Cass., Sez. Un., n. 9205/1990), n� sulla somma �via via� rivalutata (sulla scorta di un 
indirizzo tralaticiamente espresso dalla giurisprudenza giuslavoristica: ex plurimis, Cass. 29 
settembre 1988, n. 5299 e Cass. 3 febbraio 1989, n. 688, avallato da Cass., Sez. Un., 17 febbraio 
1995, n. 1712, in Corr. Giur., 1995, 462, con nota di DI MAJO ed accolto anche dalla Sesta Sezione 
del Consiglio di Stato con sent. 1 Oluglio 1996, n. 931, in Foro it., Rep., 1996, voce Imp. dello 
Stato, n. 704). 

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PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

437 

Tale norma prescrive l'applicazione del citato art. 16, comma 6, della legge 30 
dicembre 1991, n. 412, �anche agli emolumenti di natura retributiva, pensionistica 
ed assistenziale, per i quali non sia maturato il diritto alla percezione entro il 31 
dicembre 1994, spettanti ai dipendenti pubblici e privati in attivit� di servizio o in 
quiescenza�. 

Come ricorda la stessa ordinanza di rimessione i dubbi interpretativi derivanti 
dalla formulazione dell'art. 16 avevano dato luogo a tre diversi orientamenti della 
Corte di Cassazione, poi composti dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione con 
sentenza 26 giugno 1996, n. 5895. 

Secondo un primo filone, la nuova disciplina che impedisce il cumulo di interessi 
e rivalutazione non sarebbe applicabile allorch� la mora dell'amministrazione 
debitrice sia iniziata prima dell'entrata in vigore della nuova normativa, ancorch� si 
protragga nel periodo successivo, con la conseguenza che la regola del cumulo continuerebbe 
ad applicarsi anche in relazione ai ratei pensionistici maturati successivamente, 
ma pur sempre connessi ad un unico fatto generatore dell'inadempimento, 
verificatosi prima del 1� gennaio 1992. 

Secondo una diversa tesi, al contrario, la nuova norma si applica a tutti i casi di 
mora in atto all'entrata in vigore della legge n. 412/1991, con la conseguenza che, 
per i singoli ratei maturati prima di tale data, il cumulo � consentito, ma solo fino a 
tale momento. 

Infine, secondo un terzo indirizzo, che ha preferito seguire una via mediana, 
occorre distinguere tra i ratei maturati prima del 1 � gennaio 1992 e quelli maturati 
successivamente, indipendentemente dal fatto che la mora relativa alla prestazione 
sia iniziata in precedenza, ed ha concluso nel senso che il cumulo di interessi e rivalutazione 
� ammesso nel primo caso ed escluso nel secondo. 

III. Dopo pochi mesi dalla decisione della Quinta Sezione, l'Adunanza Plenaria aveva avuto 
l'occasione di risolvere i problemi che si ponevano in materia di interessi e rivalutazione, con la 
sentenza 17 novembre 1997, n. 21 (in questa Rassegna, 1997, I, 210, annotata), che tuttavia affront� 
solo la questione di diritto intertemporale, recependo la soluzione indicata dalle Sezioni Unite 
(Cass., set. un., n. 5895/96, in Foro it., 1996, II, 3027). In quell'occasione, fu perci� chiarito che 
il divieto di cumulo di interessi e rivalutazione posto dall'art. 16, comma 6, legge 412/1991 per i 
crediti previdenziali tardivamente adempiuti si applica anche ai rapporti in corso al momento della 
sua entrata in vigore ma solo limitatamente ai ratei maturati dopo il 1� gennaio 1992. 
Rimaneva irrisolta, in tal modo, l'altra spinosissima questione, relativa alle modalit� concrete 
di computo degli interessi e rivalutazione, nei casi in cui il cumulo era ancora possibile. 

A tale problema fornisce ora risposta la sentenza che si annota, per illustrare la quale sembra 
opportuno ripercorrere sinteticamente gli itinerari della giurisprudenza amministrativa e civile 
sui criteri di determinazione di interessi e rivalutazione, il cui esame consentir� di inquadrare 
il contesto in cui si colloca il nuovo dictum dell'Adunanza Plenaria ed evidenziarne la novit�. 

IV. Sul finire degli anni '70 era prevalente l'indirizzo, secondo cui il maggior danno da svalutazione 
ex art. 429, 3� comma, codice procedura civile, costituiva un incremento funzionalmente 
diverso rispetto agli interessi, che dunque andavano calcolati sull'unitario titolo, che comprendeva 
l'importo base del credito e la maggiorazione per rivalutazione. Nello stesso senso si 
affermava che gli interessi legali andavano applicati non sull'originario ammontare dei crediti di 
lavoro, bens� sull'intero importo risultante dalla rivalutazione e, avendo carattere di interessi 
compensativi, decorrevano dal giorno della maturazione dei singoli crediti, indipendentemente 
dalla originaria liquidit� e dalla sussistenza di una mora (Cass. 12 marzo 1979, n. 1540). 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

438 

A tale ultimo indirizzo -che sembra ora confermato dall'art. 22, comma 36, 
il quale, nella sua formulazione letterale, fa espresso riferimento, al plurale, agli 
�emolumenti� per i quali non sia maturato il diritto alla percezione entro il 31 
dicembre 1994 -ha dato il suo avallo la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con 
la richiamata sentenza 26 giugno 1996, n. 5895. 

La Corte ha osservato che dal rapporto assistenziale e da quello previdenziale 
non scaturisce una singola e complessiva obbligazione, avente ad oggetto una prestazione 
unitaria da assolvere ratealmente, ma deriva una serie di obbligazioni a 
cadenza periodica, ciascuna delle quali realizza l'intera prestazione dovuta in quel 
determinato periodo, per cui ogni rateo della prestazione � soggetto, in caso di inadempimento, 
al regime previsto dalla legislazione vigente al momento della sua 
maturazione. 

Ha aggiunto che la nozione di �maturazione del credito� ai sensi dell'art. 429 
codice procedura civile coincide con quella di �esigibilit��, atteso che non � configurabile 
ritardo nell'adempimento, quale presupposto per l'attribuzione della rivalutazione 
e degli interessi, anteriormente alla scadenza dell'obbligazione, con l'ulteriore 
precisazione che, stante l'autonomia dei singoli ratei della prestazione 
previdenziale, ciascuno dei quali rappresenta un credito primario, il momento della 


I

maturazione si ha con la scadenza di ciascuno. 
Tale orientamento, gi� condiviso dalla Sezione Sesta di questo Consiglio (deci


I

sione 13 novembre 1996, n. 1558), � stato fatto proprio da questa Adunanza plenaf, 
ria con decisione 17 novembre 1997, n. 21, con la quale si � precisato che l'art. 16, ili 
comma 6 della legge n. 412 del 1991 � norma che incide sugli effetti e non sulla 
fattispecie generatrice, per cui, quando prevede, per i crediti previdenziali tardivamente 
corrisposti, che l'importo degli interessi sia portato in detrazione delle 
somme eventualmente spettanti a titolo di rivalutazione, si applica anche ai rapporti 

I 

A partire dalla met� degli anni '80 si fece strada un nuovo indirizzo, secondo cui il credito di 
capitale e quello di interessi, previsti dal 3� comma dell'art. 429 codice procedura civile, costituirebbero 
due entit� distinte, con autonoma funzione, sia pure tra loro in rapporto di accessoriet�. 

Mentre il credito di lavoro � assistito dalla progressiva rivalutazione commisurata agli indici 
di svalutazione determinati per la scala mobile dei lavoratori dell'industria, gli interessi costi-

I tuiscono una prestazione accessoria, periodica e proporzionale, che si aggiunge al capitale per 
effetto del decorso del tempo, secondo l'aliquota commisurata al tasso legale. Ne conseguiva che 
il calcolo degli interessi legali doveva essere effettuato non gi� dalla data della sentenza o della ,~ 
domanda, ma dalla data di scadenza dei singoli crediti sulle frazioni di capitale, via via rivalutate 
in base agli indici di svalutazione, fino alla pubblicazione della sentenza e al saldo effettivo. 
Solo cos�, infatti, si sarebbe realizzato l'effettivo rapporto di accessoriet� tra capitale ed interes-' 
si, con il rispetto del principio di produttivit� del reddito non goduto e, quindi, un concreto ade-~ 
guamento del capitale iniziale (Cass. 3 febbraio 1989, n. 688, in Rep., Foro it., 1989). fil 

Si �, altres�, chiarito che gli interessi legali sui crediti di lavoro hanno natura corrispetti-~~ 
va e debbono computarsi, dalla data di scadenza dei singoli crediti (come la rivalutazione di ~~ 

questi), prima sul capitale originario e successivamente sulle frazioni di capitale via via riva-!1 
lutate, in base agli indici di svalutazione, fino alla pubblicazione della sentenza e non possono !~ 
invece essere separatamente accordati sull'ammontare originario del credito, come interessi I=' 
compensativi, e sulla somma aggiuntiva liquidata a titolo di rivalutazione, come interessi moratori, 
oppure una sola volta sulla somma globale comprensiva della rivalutazione (Cass. 23 apri-~ 
le 1991, n. 4386). r,

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PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

439 

pendenti al momento della sua entrata in vigore (Cfr. Cass. Sez. lavoro 21 gennaio 
1995, n. 680). 

Le medesime considerazioni devono ovviamente valere anche per il ritardato 
pagamento di crediti retributivi, ai quali l'art. 22, comma 36 della legge n. 724 del 
1994 ha esteso l'art. 16, comma 6 della legge n. 412 del 1991. 

Deve, pertanto, ribadirsi che la previgente normativa, che consente il cumulo di 
interessi e rivalutazione, � applicabile anche nel caso in cui gli emolumenti retributivi, 
maturati entro il 31 dicembre 1994, siano pagati (limitatamente alla sorte capitale) 
in epoca successiva a tale data. Ci� in quanto il tardivo pagamento non pu� 
considerarsi alla stregua di un nuovo fatto generatore di autonomi e distinti crediti 
retributivi accessori, ma costituisce un adempimento solo parziale della precedente 
obbligazione, che non esclude la persistenza della mora, gi� in atto alla data del 31 
dicembre 1994. 

Del resto una tale conclusione trova conforto anche nell'orientamento manifestato, 
sia pure attraverso obiter dictum, dalla Corte di Cassazione (Sez. lavoro, 4 febbraio 
1997, n. 1023) e dalla Corte costituzionale (Ordinanza 27 aprile 1995, n. 139). 

Alla luce delle precisazioni svolte, nel caso in esame, la domanda di interessi e 
rivalutazione va interamente accolta per i ratei maturati fino al 31 dicembre 1994, 
con la corresponsione, oltre agli interessi legali (secondo i vari tassi in vigore alla 
scadenza dei singoli ratei), del danno da svalutazione, mentre per i ratei maturati 
successivamente al 31 dicembre 1994 la domanda va accolta solo in parte. A partire, 
infatti, dal 1� gennaio 1995, per effetto del divieto di cumulo sancito dall'art. 22, 
comma 36 della legge n. 724 del 1994, al ricorrente spettano, sui ratei maturati da 
tale ultima data, solo gli interessi -calcolati sulla somma nominale secondo i vari 
tassi in vigore alla scadenza dei singoli ratei (pari al 5% annuo fino al 15 dicembre 
1990, al 10% annuo dal 16 dicembre 1990 e fino al 31 dicembre 1996, al 5% annuo 

Tale orientamento � stato fatto proprio dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato che, con 
pronuncia della VI Sezione ( 10 luglio 1996, n. 931, in Rep., Foro it., 1996) ha disposto che �gli 
interessi al saggio legale vanno calcolati sulla sommatoria determinata tra singolo credito e sua 
rivalutazione, anch'essi dal giorno della maturazione del singolo rateo fino alla data di effettivo 
pagamento�, nonch� dalla stessa la magistratura contabile, orientata nello stesso senso che �gli 
interessi devono essere commisurati non al valore del credito originario ma al valore di questo 
come continuamente ed automaticamente rivalutato� (Corte Conti, Sez. contr., 10 novembre 
1988, n. 2014, in Rep., Foro it.,1989). 

A fronte di questo indirizzo prevalente, un nuovo orientamento si � fatto strada, sviluppando 
l'obiezione, sollevata da pi� parti, che, in seguito all'innalzamento del tasso di interessi al 10%, nel 
periodo compreso tra il 1991 e il 1996, i crediti accessori attribuiti al dipendente hanno assunto una 
misura eccessiva, non pi� rapportata a concrete esigenze di salvaguardia della retribuzione reale. 

Tanto il giudice amministrativo (TAR Puglia, sez. I, Bari 2 giugno 1994, n. 998, in Rep., 
Foro it.,1994), quanto il giudice ordinario (Pret. Brescia, 15 maggio 1995, n.180, in Rep., Foro 
it., 1996) cominciano a dubitare che, anche prima della riforma introdotta con la legge n. 
724/1994, fosse operante la regola del cumulo tra interessi e rivalutazione. L'ultimo comma dell'art. 
429 � da intendersi, infatti, nel senso che il giudice, quando pronuncia sentenza di condanna 
al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro, deve determinare, oltre gli interessi 
nella misura legale, anche la rivalutazione monetaria solo qualora la perdita di valore della moneta 
superi la misura percentuale dell'interesse legale e per la sola differenza tra quella e questa; in 
nessun caso, poi, gli interessi legali possono essere calcolati sul capitale rivalutato. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

440 

dal 1 � gennaio 1997 per effetto dell'art. 21, comma 185 della legge 23 dicembre 
1996, n. 662) -mentre la rivalutazione spetta a titolo di �maggior danno�, eccezionalmente 
ritenuto in re ipsa, solo se (e nella misura in cui) risulti superiore al 

I 
tasso dell'interesse legale (c.d. eventuale differenziale tra interesse legale e il maggior 
danno da svalutazione). 

I 

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2. Ci� chiarito in relazione ai problemi di diritto intertemporale, occorre definire 
i criteri di computo -e si passa cos� all'esame della seconda delle questioni prospettate 
-di interessi e rivalutazione da calcolare sui ratei retributivi spettanti fino al 31 
dicembre 1994, sui quali, come sopra chiarito, opera ancora la regola del cumulo. 

Per un'esatta soluzione delle varie questioni implicate, appare utile ripercorrere, 
sia pure brevemente, l'itinerario argomentativo che � alla base dell'attuale orientamento 
della giurisprudenza civile ed amministrativa, che, com'� noto, ritiene che 
gli interessi debbano calcolarsi sulla sorte capitale rivalutata. 

2.1. L'art. 429, comma 3 codice procedura civile, avente, secondo l'opinione 
dominante, natura di norma essenzialmente sostanziale, ha introdotto, relativamente 
agli accessori dei credit� di lavoro, una disciplina speciale, derogatoria e sostitutiva 
rispetto alla disciplina comune del ritardo nell'adempimento dei debiti pecuniari 
di cui all'art. 1224 codice civile, le cui peculiarit�, secondo l'indirizzo 
I 

giurisprudenziale ormai consolidato, possono essere cos� sintetizzate: 

a) La svalutazione monetaria nel regime speciale dei crediti di lavoro 


I

f.:

diversamente da quanto avviene nella disciplina comune dei debiti pecuniari, nel-j� 
1'ambito dei quali, in virt� del principio nominalistico, si configura come semplice 

m 
presupposto di un eventuale �danno maggiore� (art. 1224, comma 2 codice civile) f: 

I fil

che il creditore pecuniario ha l'onere di provare -integra un danno in re ipsa, per 
il solo fatto del ritardato soddisfacimento del credito. 

I 
I
l~ 

La stessa Cassazione con sentenza n. 5525/1995 (in Foro it., 1995, I, 2829) afferma che gli 
interessi legali si devono computare sull'importo originario del credito, al suo valore nominale e ,.., 
non su quello risultante dalla rivalutazione o sulle somme via via rivalutate. � 

. Il ragionamento della Cassazione, particolarmente complesso, pu� sintetizzarsi nel principio m 
secondo cui gli interessi legali che, ai sensi del 3� comma dell'art. 429, il giudice deve determinare 
sulle somme dovute per crediti di lavoro si computano sull'importo originario del credito e non sulle 
somme via via rivalutate, restando al riguardo ininfluente l'assimilabilit� di detti crediti ai crediti di 
valore, poich�, indipendentemente dalla diversa funzione della rivalutazione monetaria nelle due 
ipotesi (risarcimento del danno per i crediti di lavoro, determinazione dell'equivalente monetario 
per i crediti di valore), un principio di rivalutazione degli interessi non � deducibile, neppure in riferimento 
ai debiti di valore, dalla disciplina del danno da ritardato adempimento dell'obbligazione. 

Questa soluzione � tutt'altro che consolidata nella stessa giurisprudenza della Cassazione, la ~-i 
quale, ancora di recente, ha affermato che ai sensi dell'art. 429, a differenza della rivalutazione � 
monetaria (la quale partecipa della medesima natura della sorte capitale, con la conseguenza che [_._�. 
il credito retributivo rivalutato non rappresenta altro che l'originario credito del lavoratore nel suo i: 
valore reale aggiornato), gli interessi legali (da qualificarsi come compensativi in quanto dipen-!.�.�, 
dono dal mero ritardo nell'adempimento e prescindono dalla colpa) costituiscono un diritto auto-: 
nomo, sebbene accessorio e necessario rispetto a quello concernente il capitale rivalutato, di natu-~-_�:_:�� 
ra risarcitoria, con la conseguenza che gli interessi legali devono essere calcolati, s�, il 

separatamente non potendo~bi~?nsi~erare pda~~ integra~te de(Cldebito prin~ipa, sulla somm)a riva


!:_._:_._

19

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1utata, ma non sono suscett1 i i essi stessi 1i nva1utaz1one ass. 15 apn1e 16, n. 3513 . , 

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.. !'';

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PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

441 

Anche se sul piano testuale la norma non precludeva un'interpretazione che tendesse 
a garantire il ristoro della perdita di valore del credito pecuniario eccedente gli 
interessi legali, l'esegesi subito prevalsa e successivamente consolidatasi fu quella 
del cumulo, automatico e necessario, di rivalutazione ed interessi. 

b) La rivalutazione, al pari degli interessi, decorre dal �giorno della maturazione 
del diritto� e la relativa pretesa risarcitoria non richiede la previa costituzione in 
mora, prevista invece nella disciplina comune (art. 1224, comma 1 codice civile), non 
� condizionata dal dolo o dalla colpa del debitore-datore di lavoro nel ritardato adempimento, 
e non � influenzata dalla prevedibilit� del danno (art. 1225 codice civile). 

e) Per la liquidazione del danno da svalutazione monetaria devono essere utilizzati 
inderogabilmente gli indici di cui all'art. 150 delle disposizioni di attuazione 
al codice procedura civile, essendo precluso al giudice di scegliere il criterio ritenuto 
pi� idoneo al caso concreto e in particolare di avvalersi del criterio equitativo, 
consentito invece nel regime comune (art. 1226 codice civile). 

Gli unici dissensi che affioravano nel panorama giurisprudenziale e dottrinale 
attenevano al problema della collocazione sistematica della disposizione, dovendosi 
stabilire se l'art. 429, comma 3 codice procedura civile, con la tutela privilegiata 
introdotta per i crediti di lavoro, avesse comportato un mutamento della loro natura, 
attraendoli nella categoria dei crediti di valore (sia pure con le deroghe in tema di 
onere della prova del danno e della colpa), oppure dovesse intendersi come semplice 
eccezione al principio nominalistico, in virt� della natura del credito, tutelato dal1'
art. 36 della Costituzione. La tesi prevalente di dottrina e giurisprudenza � stata per 
questa seconda soluzione, sicch� i crediti di lavoro sono tuttora qualificabili come 
crediti di valuta, sia pure indicizzabili secondo una particolare disciplina. 

Ma la Quinta Sezione del Consiglio di Stato (nella citata dee. 6 agosto 1997, n. 881) accoglie, 
con coraggio, la soluzione pi� rigorosa, considerata idonea a soddisfare adeguatamente la 
pretesa del dipendente, evitando ingiustificate forme di duplicazione di elementi di calcolo del 
credito retribqtivo e correlative situazioni di arricchimento, in contrasto con la pi� recente produzione 
legislativa e con lo spirito che ne informa l'evoluzione. 

Si arriva cos� al nuovo intervento dell'Adunanza Plenaria che risolve finalmente l'annoso 
problema del criterio del computo di rivalutazione ed interessi nel caso di ritardo nell'adempimento 
dei crediti di lavoro. 

V. Con la sentenza n. 311998, l'Adunanza Plenaria, facendo proprie le conclusioni del suo 
precedente intervento (sent. n. 2111997), partendo dal presupposto che, il divieto di cumulo, ex 
art. 16, 6� comma, legge n.412/1991, incide sugli effetti e non gi� sulla fattispecie generatrice dell'obbligo, 
conclude, risolvendo il problema della �natura� della rivalutazione monetaria, nel 
senso che essa non � riconducibile al contenuto del credito al quale si applica, non partecipa della 
stessa natura di questo come sua componente inscindibile, ma � diversa (distinta da esso) e si 
atteggia solo come tecnica liquidatoria del danno da ritardo, con la conseguenza che il credito di 
lavoro non ha un contenuto diverso da quello dei comuni crediti pecuniari, diversi sono solo gli 
effetti dell'inadempimento (in tal senso Cass., Sez. lavoro, 21 gennaio 1995, n. 680). 
Rivalutazione ed interessi, quindi, sono solo effetto del ritardo dell'adempimento: sono 
accessori rispetto alla prestazione dovuta ma, pur essendo autonomi e distinti tra loro, partecipano 
alla funzione riparatoria del danno concretamente realizzato e perci� devono essere computati 
separatamente sulla somma capitale. 



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RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

442 

I

Com'� noto la sfera di applicazione dell'art. 429, normativamente limitata ai 
crediti retributivi, � stata poi estesa sul piano soggettivo sia ai crediti risarcitori del I 
lavoratore subordinato (Cass., S.U., 5 aprile 1991 n. 3561 a proposito di equo inden


l

nizzo di dipendente FF.SS.) sia a crediti di soggetti non propriamente qualificabili 
lavoratori subordinati-quali quelli parasubordinati (Cass., S.U., 24 agosto 1989, n. ! 
!t 
3752) o associati in agricoltura (Cass., S.U., 22 febbraio 1994, n. 1682) -sia, infiI 
ne, a soggetti non ancora divenuti lavoratori ( Cass., 17 gennaio 1990 a proposito di I 
credito risarcitorio per mancata assunzione di lavoratore avviato al lavoro in base alla 
disciplina sul collocamento obbligatorio a norma della legge n. 482 del 1968). 

� certo che la massima espansione della regola del cumulo di rivalutazione ed 
interessi di cui all'art. 429, comma 3 codice procedura civile si � verificata allorch�, 
dopo un acceso dibattito in dottrina e nella giurisprudenza di merito, la Corte 
costituzionale, mutando opinione rispetto alla precedente presa di posizione negativa 
(sentenza 29 dicembre 1977, n. 162), ne ha esteso l'applicabilit� prima ai crediti 
previdenziali (Corte cast., 12 aprile 1991, n. 156), assimilabili ai crediti di 
retribuzione in ragione della comune finalit� di sostentamento del lavoratore e 
della sua famiglia ed aventi, altres�, la funzione di surrogare o integrare un reddito 
di lavoro cessato o ridotto a causa di uno degli eventi considerati dall'art. 38, 

I

comma 2, della Costituzione, e successivamente a quelli assistenziali (Corte cast., 
27 aprile 1993, n. 196) per ragioni equitative e di razionalit�, che imponevano anaJ 
logia di trattamento per il ritardo nell'erogazione di prestazioni deputate a garan~ 
tire il puro mantenimento. 

I 

2.2. Dal canto suo la giurisprudenza amministrativa, dopo un orientamento consolidato 
nettamente negativo, ha riconosciuto anche al pubblico dipendente, che I 
vanti nei confronti dell'amministrazione di appartenenza crediti per stipendi ed 
I 

Per ancorare a solide basi la propria soluzione, l'Adunanza pone l'attenzione sulla ratio che 
sottostava al precedente orientamento (Cass. Sez. Un. 16 febbraio 1984 n. 1146) che configurava 

I 
la rivalutazione come parte integrante del credito. Essa doveva individuarsi nella stretta connessione 
che avvinceva �il meccanismo della scala mobile�, posto a protezione della retribuzione 
corrente e �la rivalutazione�, da operarsi secondo gli stessi indici di scala mobile, ex art. 150 disp. 

I

att. codice procedura civile, che assicurava lo stesso risultato per le retribuzioni pagate in ritardo, 
meccanismi questi finalizzati a realizzare una retribuzione con connotati di realit�, sia pure entro 

I

i limiti del meccanismo dell'indennit� di contingenza (in tale contesto l'art. 429, 3�comma codice 
procedura civile, come regola del cumulo tra rivalutazione ed interessi, assolveva perfettamente 
sul piano processuale alla funzione di garanzia sostanziale del salario). 

Il venir meno, per�, del meccanismo della �Scala mobile�, per gli accordi intervenuti tra 
Governo e sindacati tra il 1991 e 1993, nonch� l'innovazione legislativa (il divieto di cumulo, in 
materia previdenziale), introdotta dall'art. 16, 6� comma, legge n. 412/1991, rendono insostenibile 
la precedente tesi. 

Se, infatti, la ratio del 3� comma dell'art. 429 deve essere individuata nella garanzia di conservazione 
del valore reale della prestazione pecuniaria dovuta al creditore, nella fase successiva 
alla maturazione del credito in connessione con l'analoga funzione svolta nella fase precedente f 
dall'indennit� di contingenza, ne discende che una volta venuta meno quest'ultima, anche la t 

f

prima non ha pi� alcuna ragion d'essere. t 
Ci� posto si ricava una duplice conclusione: a) per �i dipendenti pubblici e privati in attivit 
t� di servizio o in quiescenza�, gli interventi legislativi hanno prodotto una sorta di abrogazione 1: 
t 

I' 

! 


PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

443 

assegni arretrati, il diritto alla maggiorazione di interessi e rivalutazione secondo gli 
indici ISTAT. 

Tale svolta si deve, com'� noto, alla decisione di questa Adunanza plenaria 30 
ottobre 1981, n. 7, la quale, per superare la posizione negativa assunta dalla Corte 
costituzionale (sentenze 27 gennaio 1977, n. 43 e 26 maggio 1981, n. 71) -che 
aveva escluso in modo inequivoco la possibilit� di invocare l'art. 429 codice procedura 
civile per i crediti di lavoro relativi ai rapporti di impiego con lo Stato e gli enti 
pubblici non economici -� pervenuta al medesimo risultato attraverso un percorso 
argomentativo imperniato sulla combinata lettura degli artt. 1182, 1219 e 1224 
codice civile, nei quali sarebbero rinvenibili meccanismi idonei a garantire anche ai 
crediti di lavoro pubblici, il trattamento privilegiato di cui, a norma dell'art. 429 
codice procedura civile, godevano i crediti di lavoro privati. 

Il �fatto notorio�, che consentiva di dare rilevanza, senza necessit� di prova, 
alla svalutazione monetaria dovuta a titolo di maggior danno derivante al dipendente 
in conseguenza del ritardo o dell'inadempimento della prestazione, e la �mora ex 
re� che eliminava la necessit� dell'atto di costituzione in mora in connessione con 
la qualificazione di portable del credito medesimo, sono i meccanismi utilizzati dal1 
'Adunanza plenaria per attribuire rilevanza automatica alla svalutazione monetaria 
con riferimento a tutti indistintamente i crediti di lavoro, in essi compresi, quindi, 
anche quelli dei dipendenti pubblici. 

Detto orientamento, che non aveva mancato di suscitare le perplessit� della dottrina 
perch� si sostanziava in una trasposizione al settore pubblico dell'art. 429 codice procedura 
civile, veniva successivamente ribadito dall'Adunanza con decisione 16 dicembre 
1983, n. 27, per la quale �la rivalutazione monetaria dei crediti di lavoro di pubblici dipendenti 
si calcola in relazione agli indici ISTAT (e dunque con riferimento, talvolta implicito, 
ma sempre evidente, all'art. 150 disp. att. codice procedura civile nel testo modificato 

implicita della regola che, in caso di ritardo nell'adempimento di emolumenti di natura retributiva, 
previdenziale ed assistenziale, cumulava interessi e rivalutazione e calcolava i primi sulla 
somma rivalutata; b) interessi legali e rivalutazione, elementi accessori del credito, autonomi ma 
concorrenti alla funzione globalmente riparatoria, debbono essere calcolati, per i casi in cui, ancora, 
opera il cuillulo, separatamente sull'importo nominale dei singoli ratei dalla data di maturazione 
di ciascun rateo e fino all'adempimento tardivo. 

Il diritto agli interessi �, dunque, un diritto autonomo, sia pure accessorio e necessario rispetto 
al diritto al capitale, che va calcolato separatamente. Gli interessi dunque non vanno ad accrescere 
il capitale da rivalutare, non possono, per il divieto di anatocismo ex art. 1283 codice civile, 
produrre a loro volta interessi, salvo specifica e tempestiva domanda del creditore -all'atto 
introduttivo del giudizio di primo grado (Cass. Sez. Il, n. 1655/1994)-e non devono essere rivalutati 
perch� altrimenti verrebbero considerati parte integrante del capitale. Parimenti per la rivalutazione 
che, in quanto entit� autonoma sia pure accessoria del credito al quale si applica, non 
pu� essere soggetta ad ulteriore rivalutazione, ma che tuttavia in quanto credito sar� produttiva di 
interessi ma solo a far data dalla costituzione in mora. 

VI. Una conferma di quest'indirizzo si � avuta successivamente con la sentenza dell'Adunanza 
Plenaria n. 6 del 20 luglio 98 (Pres. Laschena -Rei. Salvatore C.), con cui si ribadisce che 
per effetto delle disposizioni introdotte nell'ordinamento dalle sentenze della Corte costituzionale 
numeri 156 del 12 aprile 1991 e 394 del 19 ottobre 1992, la rivalutazione monetaria deve 
essere tenuta distinta dal credito al quale viene applicata e va ricondotta, con gli interessi legali, 
non gi� al contenuto del diritto, ma quale tecnica liquidatoria del danno, agli effetti del ritardato 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO'

444 

dalla legge n. 533 del 1973)�, e veniva autorevolmente convalidato dalla Corte costituzionale 
(sentenza 24 marzo 1986, n. 52) che lo elevava al rango di vera e propria regola 
di �diritto vivente�, alla quale si sarebbe adeguata la successiva giurisprudenza. 

Come �, altres�, noto, proprio le argomentazioni poste a base di quest'ultima 
decisione della Corte costituzionale inducevano l'Adunanza plenaria a riconoscere 
il diritto ad interessi e rivalutazione monetaria anche per i crediti connessi a trattamenti 
pensionistici integrativi e all'indennit� di buonuscita spettante ai dipendenti 
dello Stato e degli enti pubblici non economici (Ad. plen., 15 marzo 1989, n. 7). 

L'Adunanza, per ribaltare l'orientamento nettamente negativo della Cassazione, 
della Corte costituzionale e di questo stesso Consiglio di Stato in ordine alla rivalutabilit� 
dell'indennit� di buonuscita per la sua natura notoriamente previdenziale, ha 
posto l'accento sulla natura rinforzata del credito di lavoro, in ragione della sua funzione 
di sostentamento della famiglia, e sulla regola di �diritto vivente� che, secondo 
la giurisprudenza civile ed amministrativa, assicura parit� di trattamento ai 
dipendenti pubblici e privati, regola che aveva portato la Corte dei conti, con decisione 
di poco anteriore (SS. UU. 27 gennaio 1987, n. 525/A), a riconoscere, con 
argomenti identici, la rivalutazione automatica dei crediti pensionistici dei dipendenti 
degli enti pubblici non economici e dello Stato. 

3. � su questo panorama giurisprudenziale, che aveva assimilato, agli effetti del 
cumulo di interessi e rivalutazione monetaria, qualsiasi tipo di credito di lavoro, sia 
pubblico che privato, avente natura retributiva o previdenziale, che sono intervenute 
le nuove disposizioni legislative avanti richiamate, la cui portata interpretativa 
pu� essere compiutamente intesa solo alla luce delle sentenze della Corte costituzionale 
che ne hanno condizionato la nascita. 
L'art. 16, comma 6 della legge 23 dicembre 1991, n. 412 -secondo cui gli enti 
gestori di forme di previdenza obbligatoria sono tenuti a corrispondere gli interessi 

pagamento con l'ulteriore conseguenza che il credito di lavoro non ha un contenuto diverso da 
quello dei comuni crediti pecuniari, diversi essendo solo gli effetti dell'inadempimento; pertanto 
rivalutazione ed interessi sono solo effetto del ritardo e non possono essere inglobati ab origine 
nel contenuto del credito e, in particolare, la rivalutazione monetaria del credito di lavoro assolve, 
rispetto alla prestazione dovuta, ad una funzione accessoria, parallela a quella degli interessi, 
con i quali concorre nella funzione globalmente riparatoria e deriva da ci� che entrambi gli accessori 
devono essere computati separatamente sulla somma capitale. 

VII. Si deve segnalare, per concludere, un successivo intervento normativo, con il quale si � 
cercato di dissipare ogni ulteriore dubbio in materia, provvedendo ad una puntuale enucleazione dei 
criteri e delle modalit� per la corresponsione degli interessi legali e della rivalutazione monetaria per 
ritardato pagamento di crediti di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale a favore dei dipendenti 
pubblici e privati in attivit� di servizio o in quiescenza delle amministrazioni pubbliche. 
La nuova disciplina, introdotta con decreto del Ministero del Tesoro l 0 settembre 1998 n. 
352, che risulta per certi versi innovativa rispetto alla stessa sentenza n. 3/1998 dell'Adunanza 
Plenaria, sembra risolvere definitivamente le spinose questioni -di diritto intertemporale e di 
individuazione dei criteri di calcolo -che in passato avevano caratterizzato la materia. 

Il regolamento disciplina separatamente i criteri di corresponsione degli interessi legali e 
della rivalutazione monetaria ed i criteri di calcolo. 

Per quanto attiene ai criteri di corresponsione, dopo aver disposto che esso ha efficacia 
retroattiva con decorrenza dal l 0 gennaio 1995, statuisce che l'importo degli interessi legali sui 
crediti di ogni natura � portato in detrazione dalle somme spettanti a titolo di rivalutazione mone



PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

445 

legali, sulle prestazioni dovute, a decorrere dalla data di scadenza del termine previsto 
per l'adozione del provvedimento sulla domanda. L'importo dovuto a titolo di 
interessi � portato in detrazione dalle somme eventualmente spettanti a ristoro del 
maggior danno subito dal titolare della prestazione per la diminuzione del valore del 
suo credito� -deve certamente la sua nascita alla sentenza della Corte costituzionale 
12 aprile 1991, n. 156. 

L'estensione ai crediti previdenziali del regime del cumulo di cui al menzionato 
art. 429, comma 3 codice procedura civile, con i conseguenti negativi riflessi sulla 
spesa previdenziale ed il quasi concomitante aumento dal 5 al 10 per cento dell'interesse 
legale, operato con l'art. 1 della legge 26 novembre 1990, n. 353, alla vigilia 
di un notevole e progressivo raffreddamento dell'inflazione, inducevano non solo 
una parte della dottrina a riproporre la necessit� di recuperare un'interpretazione 
dell'art. 429, comma 3, codice procedura civile, che fosse pi� aderente al dato 
testuale, ma anche il legislatore ad intervenire per modificare la situazione normativa 
creatasi a seguito della decisione della Corte. 

All'intervento della Corte, questa volta sotto forma di suggerimento, sembra sia 
da ascrivere pure l'art. 22, comma 36, secondo periodo, della legge 23 dicembre 1994, 

n. 724, che prescrive l'applicazione del citato art. 16, comma 6, della legge 30 dicembre 
1991, n. 412, �anche agli emolumenti di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale, 
per i quali non sia maturato il diritto alla percezione entro il 31 dicembre 
1994, spettanti ai dipendenti pubblici e privati in attivit� di servizio o in quiescenza�. 
Con una prima sentenza (7 ottobre 1992, n. 394), in relazione all'asserito sostanziale 
ripristino della disciplina comune dichiarata in precedenza incostituzionale, la 
Corte -pur dichiarando la relativa questione inammissibile per non essere la norma 
impugnata applicabile ai giudizi a quibus, che concernevano fattispecie costitutive 
della responsabilit� del debitore per ritardato pagamento perfezionatesi anteriormen


taria, ex art.16, 6� comma, legge n. 41211991. A tal fine � rilevante la distinzione tra crediti 
il cui diritto alla percezione sia maturato �prima� del 16 dicembre 1990 e quelli il cui diritto 
alla percezione sia maturato �prima� del 1� gennaio 1995. 

Mentre rispetto ai primi si dispone che gli interessi sono dovuti nella misura legale del 5% 
e la rivalutazione monetaria va calcolata in base agli indici ISTAT; rispetto ai secondi sono dovuti 
�soltanto� gli interessi ma nella misura legale del 10%. 

Per quel che riguarda, invece, i criteri di calcolo, dopo aver ribadito che gli interessi legali 

o la rivalutazione monetaria decorrono dalla data di maturazione del credito principale e sono 
dovuti fino alla data di emissione del titolo di pagamento, il regolamento introduce una novit�, 
disponendo che il loro calcolo venga effettuato sulle somme dovute al �netto� delle ritenute previdenziali, 
assistenziali ed erariali. 
L'intero quadro legislativo dei rapporti di lavoro risulta in tal modo profondamente modificato: 
il principio del cumulo di interessi e rivalutazione -sul quale si sono versati fiumi di 
inchiostro -viene definitivamente abbandonato e sostituito dal medesimo criterio applicabile 
per i crediti di valuta (originariamente pecuniari). Si � in tal modo compiuta quella che Di Majo 
-con formula efficace -ha battezzato come �opera di normalizzazione�, con il ridimensionamento 
della regola �speciale� di favore del cumulo automatico fondato ex art. 429 3� comma 
codice procedura civile rispetto a quella generale (di diritto comune) ex art. 1224 codice civile 
(DI MAJO, Interessi e rivalutazione nei crediti di lavoro: ritorno al diritto comune?, in Corr. 
Giur., 1998, n. 12, 1450). 

FEDERICO BASILICA 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STAID

446 

te all'entrata in vigore della norma medesima -ha da un lato premesso che �la legge 

n. 412 del 1991 non ha ripristinato la disciplina dei crediti previdenziali dichiarata 
costituzionalmente illegittima� con sentenza n. 156 del 1991 i cui effetti restano 
fermi nei termini risultanti dal dispositivo della sentenza e, dall'altro lato, ha precisato 
che l'art. 16, comma 6 legge n. 412 del 1991 �ha ristabilito (per i crediti previdenziali) 
l'interpretazione rigorosamente letterale, che ascrive all'art. 429, 3� comma, 
il significato di norma speciale all'interno del sistema dell'art. 1224 codice civile�. 

Con una seconda sentenza (23 maggio 1994, n. 207), occasionata dalla prospettata 
discriminazione sotto i profili della razionalit� e dell'eguaglianza, dei datori 
di lavoro (soggetti alla regola del cumulo) rispetto agli altri debitori inadempienti 
(sottoposti al regime dell'art. 1224 codice civile), la Corte ha dichiarato 
inammissibile la prima perch� impegna la sfera riservata alle valutazioni discrezionali 
del legislatore e infondata la seconda prospettazione. 

Per il primo aspetto e con riguardo alla tesi del giudice rimettente, secondo il 
quale l'incremento al 10% del tasso legale risponderebbe all'esigenza di inglobare nel 
saggio degli interessi legali, oltre al corrispettivo per l'uso del denaro, anche un compenso 
forfetario per il diminuito potere di acquisto della somma capitale a causa dei 

I

processi inflattivi, la Corte ha escluso che la prospettata �razionalizzazione dell'art. � 
1284 codice civile sia trasferibile tout court nell'analisi giuridica delle fattispecie di 
mora debendi, dove non si tratta di regolare un rapporto che d� titolo (oneroso) al 
godimento temporaneo di una somma di denaro spettante ad altri, bens� di valutare la 

I

diminuzione patrimoniale sofferta dal creditore per la mancata disponibilit� immediata 
di liquidit� a causa dell'inadempimento del debitore� ed ha respinto la possibilit� di 
utilizzare un tale criterio in relazione alla norma speciale dell'art. 429, comma 3 codice 
civile, che prevede una tutela privilegiata fondata sulla rilevanza costituzionale dei I 

crediti di lavoro, cui Ǐ sotteso un bilanciamento, tra la razionalit� economica e i valori 
personali evocati dall'art. 36 Cost., che coinvolge la scelta tra una pluralit� di soluzioni 
(eventualmente incidenti sulla stessa natura dell'obbligazione del datore di lavo


I 

ro) e perci� appartiene alla sfera riservata alla discrezionalit� legislativa�. 

I

Peraltro, in relazione al metodo dell'analisi economica del diritto sotteso all'ordinanza 
di rimessione, la Corte ha ritenuto di precisare che, in una prospettazione 
pi� ampia della razionalit� economica, il problema posto dal giudice rimettente 
potrebbe essere risolto, anzich� con un intervento diretto sull'art. 429, mediante tecniche 
di determinazione del tasso legale diverse da quella attuale di cui dell'art. 
1284 codice civile, �la cui rigidit�, in contrasto con l'odierna tendenza al ribasso dei 
tassi di interesse, appare inopportuna in una economia fluida come quella attuale, I 
caratterizzata da continui mutamenti dei parametri economici e finanziari�. 

La precisazione sembra alludere alla possibilit� che l'intervento del legislatore :. 
si dispieghi nei riguardi degli elementi accessori del credito, come risulta confer-. 
mato, con una sorta di interpretazione autentica, dal passo della successiva decisio-!i 
ne della Corte costituzionale 24 ottobre 1996, n. 361, che -nel dichiarare infonda-!i 
ta la questione di legittimit� dell'art. 16, comma 6 legge n. 412 del 1991, nella parte 

!:_:, 

in cui non prevede, per il caso di ritardato pagamento di crediti previdenziali, il 1 
cumulo degli interessi legali con la rivalutazione monetaria -sottolinea (punto 3, i'I';__:. 
terzo periodo della motivazione) che la possibilit� consentita al legislatore dall'art. , 
38 Cost. di ridurre, per inderogabili esigenze di contenimento della spesa pubblica, ~ 

.. �--�11 


PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

in maniera definitiva, un trattamento pensionistico in precedenza spettante, �tanto 
pi� deve essere ammessa per gli accessori del credito, in relazione a una normativa 
che, in deroga al diritto comune dell'art. 1224 codice civile, aggrava la responsabilit� 
dell'ente pubblico previdenziale attribuendo al creditore il privilegio del coacervo 
della rivalutazione monetaria con gli interessi�. 

4. Ora non sembra possano sussistere dubbi sul fatto che, per effetto di detti 
interventi legislativi, la regola di �diritto vivente� del cumulo automatico e necessario 
della rivalutazione monetaria e degli interessi sui crediti di lavoro e dei relativi 
criteri di computo, nei termini in cui si � affermata -sia pure in base a percorsi 
argomentativi differenti -nella interpretazione omogeneizzante della giurisprudenza 
civile, amministrativa e contabile, debba ormai considerarsi superata. 
L'art. 16, comma 6, della legge n. 412/1991, sotto il profilo testuale, � norma che 
non interferisce sulla fattispecie generatrice dell'obbligo di corrispondere interessi e 
rivalutazione ma solo sulla misura di tale obbligo, perch� ci� che viene intaccato non 
� il diritto del creditore alla corresponsione di un credito rivalutato, bens� l'entit� 
della rivalutazione che viene limitata a quella che eccede la misura degli interessi. 

A tale affermazione � aderente l'orientamento gi� espresso in ordine al citato 
articolo 16 sia da questo Consiglio di Stato (Ad. plen. 17 novembre 1997 n. 21) sia 
dalla Corte di cassazione (Sez., lavoro 21 gennaio 1995 n. 680), secondo cui la 
norma predetta non ha inciso sugli elementi costitutivi del fatto generatore, da individuare 
nel comportamento omissivo dell'ente, ma semplicemente sugli effetti del 
ritardo nell'adempimento. 

Appare evidente che a tale orientamento � sottesa l'idea che, contrariamente 
all'interpretazione dominante che cumula i benefici di cui all'art. 429, comma 3 
codice procedura civile, tra quest'ultima norma e l'art. 1224 codice civile vi sia una 
comune matrice e che il credito di lavoro sia un credito di valuta mentre interessi e 
rivalutazione sono solo effetto del ritardo. 

Una conferma di ci� sembra potersi ricavare dalle sentenze della Corte costituzionale 
12 aprile 1991 n. 156 e 27 aprile 1993 n. 196, relative rispettivamente ai crediti 
previdenziali ed assistenziali, nelle quali emerge esplicitamente il rapporto di 
specialit� intercorrente tra le due norme avanti richiamate, e in particolare che l'art. 
429 �trae d�l sistema della responsabilit� contrattuale del codice civile, in cui si 
inserisce come norma speciale, il criterio di determinazione del dies a quo della rivalutazione 
e degli interessi�. 

Orientamento che la Corte Costituzionale ha confermato con sentenza 19 ottobre 
1992, n. 394, con la quale, nel dichiarare inammissibile la questione di illegittimit� 
costituzionale dell'art. 16, comma 6, della legge n. 412/1991, ha rilevato che la norma 
citata ha ristabilito �l'interpretazione rigorosamente letterale, che ascrive all'art. 429, 
comma 3, codice procedura civile il significato di norma speciale all'interno del sistema 
dell'art. 1224 codice civile: gli interessi si calcolano sulla somma nominale e la 
rivalutazione spetta a titolo di "maggior danno'', eccezionalmente ritenuto in re ipsa 
per il solo fatto della svalutazione, quando risulti superiore al dieci per cento�. 

E ci� ha affermato dopo avere premesso che la disciplina degli effetti del ritardato 
pagamento dei crediti previdenziali resta ferma nei termini risultanti dal dispositivo 
della sentenza 12 aprile 1991 n. 156, essendo escluso qualsiasi effetto innovatore 
da parte della legge n. 412 del 1991. 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

448 

Alla stregua delle considerazioni che precedono, si deve convenire che per effetto 
delle disposizioni introdotte nell'ordinamento dalle sentenze della Corte costituzionale 
del 1991 e del 1993, la rivalutazione monetaria debba essere tenuta distinta 
dal credito al quale viene applicata e vada ricondotta, con gli interessi legali, non gi� 
al contenuto del diritto, ma, quale tecnica liquidatoria del danno, agli effetti del ritardato 
pagamento (in tal senso Cass., Sez. lavoro 21 gennaio 1995 n. 680), con l'ulteriore 
conseguenza che il credito di lavoro non ha un contenuto diverso da quello dei 
comuni crediti pecuniari, diversi essendo solo gli effetti dell'inadempimento. 

Rivalutazione ed interessi sono, quindi, solo effetto del ritardo e non possono 
essere inglobati ab origine nel contenuto del credito e, in particolare, la rivalutazione 
monetaria del credito di lavoro assolve, rispetto alla prestazione dovuta, ad una 
funzione accessoria, parallela a quella degli interessi, con i quali concorre nella funzione 
globalmente riparatoria. 

Deriva da ci� che entrambi detti elementi accessori devono essere computati 
separatamente sulla somma capitale. 

5. Le conclusioni raggiunte in ordine ai crediti retributivi maturati successivamente 
al 1� gennaio 1995, non possono non riflettersi anche sui criteri di computo 
di interessi e rivalutazione monetaria per i ratei che, come quelli di specie, sono gi� 
maturati al 31 dicembre 1994 e soggiacciono, quindi, alla regola di �diritto vivente
� del cumulo, indirettamente avallato dallo stesso legislatore con l'art. 16, comma 
6 legge n. 412 del 1991. 
Com'� noto, l'orientamento nettamente prevalente, secondo il quale gli interessi 
devono essere calcolati sulla somma di capitale via via rivalutata, � stato nuovamente 
sottoposto a critica da parte di quella dottrina che ne predicava la non aderenza 
al dato testuale dell'art. 429 codice procedura civile, osservandosi come la 
riferita interpretazione, nata in un periodo storico in cui l'inflazione a due cifre era 
di molto superiore al tasso legale di interesse fissato al 5%, non appare pi� sostenibile 
nel momento attuale, nel quale, come pure � notorio, il tasso di inflazione � 
andato scemando fortemente fino ad attestarsi in questi giorni al 2%. 

Da qui la necessit� di recuperare una interpretazione pi� conforme al tenore 
testuale della norma, la quale appare finalizzata a garantire al lavoratore, che sia creditore 
di retribuzioni arretrate, solo lo scarto tra il maggiore tasso inflazionistico e il 
minore interesse legale. 

Ci� allo scopo di evitare che la regola del cumulo, nata per salvaguardare, 
mediante un meccanismo d'indicizzazione automatica, il potere di acquisto del salario 
reale, finisca per determinare ingiustificate forme di duplicazione di elementi di 
calcolo del credito retributivo e correlative situazioni di arricchimento in contrasto 
con i principi informatori delle recenti modifiche legislative. L'Adunanza ritiene che 
le considerazioni svolte in ordine alla natura della rivalutazione dopo la novella del 
1991 -mero elemento accessorio del credito e non componente inscindibile di questo 
-siano argomenti pi� che idonei a riportare il criterio di applicazione del cumulo 
nei limiti derivanti dalla formulazione letterale dell'art. 429 codice procedura civile, 
che appare soluzione idonea a soddisfare adeguatamente la pretesa del dipendente. 

La relazione fra rivalutazione ed interessi si pone, infatti, tra entit� autonome e 
concorrenti nella complessiva funzione riparatoria, per cui, se pure � vero che, in 


PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

base alla regola del cumulo, la prima si aggiunge ai secondi, e non si riduce alla sola 
misura eccedente il tasso legale degli interessi, � altrettanto vero che i due accessori 
devono essere computati separatamente (entrambi con decorrenza dal giorno della 
maturazione del diritto) sulla somma capitale, e solo su questa. 

La rivalutazione monetaria del credito di lavoro, se costituisce un accessorio 
della prestazione dovuta, parallelo agli interessi e concorrente con questi nella funzione 
globalmente riparatoria, non pu� comportare un calcolo degli interessi anche 
sugli importi corrispondenti alla progressiva rivalutazione del credito, perch� cos� 
operando si sovrappone l'accessorio all'accessorio e si finisce per determinare una 
arbitraria ed inspiegabile duplicazione. 

Del resto questa conclusione � perfettamente in linea con il testo dell'art. 429, 
comma 3, codice procedura civile, il quale prevede che al capitale debbano aggiungersi 
prima gli interessi legali e solo successivamente l'eventuale maggiore danno, 
nonch� con le considerazioni svolte a proposito della questione intertemporale ai 
fini dell'applicazione della novella del 1991. 

Affermare, infatti, che la nuova regola del divieto del cumulo incide sugli effetti 
e non sulla fattispecie generatrice del danno postula necessariamente che la rivalutazione 
non � pi� compenetrata con il credito retributivo, non partecipa della stessa 
natura di questo quale sua componente inscindibile, ma � distinta da questo e si 
atteggia solo come tecnica liquidatoria del danno da ritardo. 

N� tale conclusione vale a fare perdere al lavoratore la tutela privilegiata apprestata 
dall'art. 429 citato, perch�, come la stessa Corte costituzionale ha avuto modo 
di precisare con la sentenza 2 giugno 1994 n. 207, rispetto al regime di diritto comune 
la tutela differenziata del credito retributivo del lavoratore permane pur sempre 
sotto il profilo che il maggior danno � liquidato d'ufficio, senza bisogno di domanda 
o di prova e che la mora ex re opera dal giorno della maturazione del credito e 
senza alcuna rilevanza dell'imputabilit� del ritardo alla colpa del debitore. 

Sotto quest'ultimo aspetto, la stessa Corte costituzionale, nella parte finale della 
medesima sentenza (punto 4 della motivazione) pone l'accento, per rimarcare la 
specialit� della tutela, pi� sul suo automatismo che sulla regola del cumulo fra interessi 
e rivalutazione. 

A sostegno della soluzione raggiunta possono svolgersi le seguenti ulteriori 
considerazioni, che attengono alle tecniche utilizzate per assicurare le esigenze di 
protezione del credito di lavoro postulate dall'art. 36 Costituzione. 

Com'� noto, l'orientamento prevalente (cfr. Cass. SS.UU., 16 febbraio 1984 

n. 1146) che configurava la rivalutazione come parte del credito, traeva argomento 
dal parallelismo tra il meccanismo della scala mobile, posto a protezione della retribuzione 
corrente, e la rivalutazione, da operarsi secondo gli stessi indici di scala 
mobile (ex art. 150 disp. att. codice procedura civile), che assicurava lo stesso risultato 
per le retribuzioni pagate in ritardo; entrambi detti meccanismi erano sostanzialmente 
deputati a realizzare una retribuzione con connotati di realit�, sia pure nei 
limiti del meccanismo dell'indennit� di contingenza. 
Anche se questa impostazione aveva sollevato critiche da parte della dottrina la 
quale aveva sottolineato come indennit� di contingenza e rivalutazione monetaria, 
operando in momenti diversi, non fossero assimilabili -non sembra esservi 
dubbio che in base a tale orientamento, l'art. 429, comma 3 codice procedura civi



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

450 

le, interpretato in termini di cumulo fra rivalutazione ed interessi, assolveva sul 

piano processuale a�la funzione di garanzia sostanziale del salario. 

Orbene, gli indicati meccanismi sono ormai venuti meno. 

Ed, infatti, gli accordi intervenuti tra Governo e sindacati tra il 1991 e 1993, 
hanno segnato il superamento definitivo del meccanismo della c.d. scala mobile, 
prevedendosi una limitata indicizzazione solo attraverso l'indennit� di vacanza contrattuale, 
che costituisce per� una componente eventuale e comunque provvisoria 
della retribuzione, il cui incremento � legato al tasso programmato di inflazione, 
restando del tutto irrilevante il tasso effettivo. 

Sul versante delle retribuzioni pagate in ritardo, la modifica legislativa introdotta 
con l'art 16, comma 6 legge n. 412 del 1991, ha privato il credito previdenziale 
di un carattere peculiare che aveva in precedenza per effetto delle sentenze 
della Corte costituzionale, vale a dire la indicizzazione (in tal senso Corte di cassazione, 
SS.UU. 26 giugno 1996 n. 5895), per cui la tesi della cumulabilit� fra rivalutazione 
ed interessi ai sensi dell'art. 429, comma 3 codice procedura civile, non 
appare pi� sostenibile neppure sotto i profili ora considerati. 

D'altra parte se la funzione dell'art. 429 deve essere individuata anche nella garanzia 
di conservazione del valore reale delle prestazioni pecuniarie dovute al lavoratore, 
nella fase successiva alla maturazione del credito in connessione con l'analoga funzione 
svolta nella fase precedente dall'indennit� di contingenza, appare conseguente ritenere 
che venuta meno quest'ultima, anche la prima perde la sua ragion d'essere. 

Le conclusioni che, pertanto, si devono trarre dalle considerazioni che precedono 
non possono che essere nel senso che, almeno per i �dipendenti pubblici e privati 
in attivit� di servizio o in quiescenza�, gli interventi legislativi hanno prodotto 
una sorta di abrogazione implicita dell'orientamento che, in caso di ritardo nell'adempimento 
di �emolumenti di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale�, 
cumulava interessi e rivalutazione e calcolava i primi sulla somma rivalutata. 

Ne consegue che gli interessi legali e la rivalutazione debbono essere calcolati 
separatamente sull'importo nominale del credito retributivo. 

6. Alla luce delle considerazioni che precedono deve darsi risposta negativa alle 
domande se sulla somma dovuta quale rivalutazione vadano calcolati gli interessi e 
la rivalutazione ulteriore, e se sulla somma dovuta a titolo di interessi vadano computati 
ulteriori interessi e rivalutazione monetaria. 
Il diritto agli interessi -i quali, dipendendo dal mero ritardo nell 'adempimento 
e prescindendo dalla colpa, vanno inquadrati nella categoria residuale degli interessi 
compensativi -� un diritto autonomo, sebbene accessorio e necessario rispetto 
a quello al capitale, che va calcolato separatamente, non potendosi considerare 
parte integrante del debito principale; gli interessi, dunque, non vanno ad accrescere 
il capitale da rivalutare. 

Da ci� deriva che gli interessi non possono, a loro volta, produrre ulteriori interessi 
per il divieto di anatocismo di cui all'art. 1283 codice civile, il quale ammette 
eccezionalmente tale fenomeno solo su apposita, specifica domanda del creditore che 
deve essere avanzata tempestivamente, cio� fin dall'atto introduttivo del giudizio di 
primo grado, non essendo sufficiente la semplice domanda di condanna al pagamento 
genericamente degli interessi (Cass. civ., Sez. II, 21 febbraio 1994 n. 1655). 


PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

Per le medesime considerazioni gli interessi non devono essere neppure rivalutati, 
perch� in caso diverso verrebbero inaccettabilmente considerati parte del capitale. 

Quanto alla rivalutazione, una volta ricondotta ad entit� distinta e separata dal 
credito al quale si applica, ad elemento cio� che non partecipa della stessa natura del 
credito, � chiaro che neppure essa, stante la sua natura accessoria, pu� essere a sua 
volta soggetta ad ulteriore rivalutazione. 

Naturalmente la rivalutazione � un credito e, come tutti i crediti, � produttivo di 
interessi ma ci� solo dalla costituzione in mora, cio� di regola dalla domanda, che 
nel caso in esame deve essere individuata in quella con la quale � stato instaurato il 
giudizio di ottemperanza. 

7. Facendo applicazione dei principi anzi detti al caso concreto, al ricorrente 
spettano, per il periodo in cui opera il cumulo, interessi e rivalutazione secondo i 
seguenti criteri: 
a) gli interessi legali sono dovuti sugli importi nominali dei singoli ratei, dalla 
data di maturazione di ciascun rateo e fino all'adempimento tardivo, e le somme da liquidare 
a tale titolo devono essere calcolate sugli importi nominali dei singoli ratei, secondo 
i vari tassi in vigore alle relative scadenze (pari al 5% annuo fino al 15 dicembre 
1990, al 10% annuo dal 16 dicembre 1990 fino al 31 dicembre 1996 e al 5% annuo dal 
1� gennaio 1997 per effetto dell'art. 21, comma 185 della legge 23 dicembre 1996 n. 
662). Gli interessi non possono, a loro volta, produrre ulteriori interessi -non risultando 
che l'interessato abbia chiesto l'applicazione dell'art. 1283 codice civile, con apposita, 
specifica domanda avanzata fin dall'atto introduttivo del giudizio di primo grado; 

b) la rivalutazione deve essere calcolata sull'importo nominale dei singoli 
ratei e va computata con riferimento all'indice di rivalutazione operante al momento 
della presente decisione. La somma dovuta a tale titolo, stante la sua natura accessoria, 
non deve essere a sua volta ulteriormente rivalutata. Su tale somma spettano 
solo gli interessi legali dalla data della costituzione in mora -cio� di regola dalla 
domanda, che nel caso in esame deve essere individuata in quella con la quale � stato 
instaurato pgiudizio di ottemperanza -e fino all'effettivo soddisfo (omissis). 

II 

(omissis). 

1. Come risulta dall'ordinanza di rimessione i quesiti sottoposti all'esame di 
questa Adunanza plenaria attengono alla possibilit� che al ricorrente, in dipendenza 
della riliquidazione della pensione, debbano essere corrisposti, oltre alla rivalutazione 
monetaria e agli interessi legali, ulteriori crediti accessori. Pi� precisamente si 
tratta di stabilire se: 
a) sulla somma dovuta quale rivalutazione vadano calcolati gli interessi e la 
rivalutazione ulteriore; 

b) sulla somma dovuta a titolo d'interessi vadano computati ulteriori interessi 
e rivalutazione monetaria. 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

452 

Va, in proposito, precisato che la sentenza della quale si chiede l'esatta esecuzione, 
nel dichiarare il diritto del ricorrente alla riliquidazione della pensione che gli 
sarebbe spettata se fosse rimasto in servizio sino al raggiungimento dei limiti di et� 
come previsto dall'art. I-bis decreto legge 23 dicembre 1978 n 814, aggiunto dalla 
legge di conversione 19 febbraio 1979 n. 52, ha espressamente statuito, inoltre, che 
�sulle somme spettanti va riconosciuta la rivalutazione monetaria secondo gli indici 
ISTAT correnti alle date da prendere in considerazione. Sulle somme previamente 
rivalutate spettano altres� gli interessi legali a decorrere da ciascuna scadenza 
debitoria e fino al pagamento�. 

Ci� premesso, l'Adunanza non pu� che ribadire quanto gi� affermato con 
recente decisione (15 giugno 1998 n. 3), e cio� che, alla stregua delle innovazioni 
legislative introdotte di recente (art. 16, comma 6 legge 30 dicembre 1991 n. 412 e 
art. 22, comma 36 legge 23 dicembre 1994 n. 724) anche per effetto di sentenze 
della Corte costituzionale, la rivalutazione monetaria � distinta dal credito al quale 
viene applicata e va ricondotta, con gli interessi legali, non gi� al contenuto del diritto, 
ma, quale tecnica liquidatoria del danno, agli effetti del ritardato pagamento, con 
l'ulteriore conseguenza che il credito di lavoro non ha un contenuto diverso da quello 
dei comuni crediti pecuniari, diversi essendo solo gli effetti dell'inadempimento. 

Rivalutazione ed interessi sono, quindi, solo effetto del ritardo e non possono 
essere inglobati ab origine nel contenuto del credito e, in particolare la rivalutazione 
monetaria del credito di lavoro costituisce un accessorio della prestazione dovuta, 
parallelo agli interessi, con i quali concorre nella funzione globalmente riparatoria. 

Deriva da ci� che entrambi detti elementi accessori devono essere computati 
separatamente sulla somma capitale. 

La relazione fra rivalutazione ed interessi si pone, infatti, tra entit� autonome e 
concorrenti nella complessiva funzione riparatoria, per cui, se pure � vero che, in 
base alla regola del cumulo, la prima si aggiunge ai secondi, e non si riduce alla sola 
misura eccedente il tasso legale degli interessi, � altrettanto vero che i due accessori 
devono essere computati separatamente (entrambi con decorrenza dal giorno della 
maturazione del diritto) sulla somma capitale, e solo su questa. 

La rivalutazione monetaria del credito di lavoro, se costituisce un accessorio 
della prestazione dovuta, parallelo agli interessi e concorrente con questi nella funzion~ 
globalmente riparatoria, non pu� comportare un calcolo degli interessi anche 
sugli importi corrispondenti alla progressiva rivalutazione del credito, perch� cos� 
operando si sovrappone l'accessorio all'accessorio e si finisce per determinare una 
arbitraria ed inspiegabile duplicazione. 

In conclusione, sia gli interessi legali che la rivalutazione debbono essere calcolati 
separatamente sull'importo nominale del credito retributivo. 

2. Alla luce delle considerazioni che precedono la risposta ai quesiti proposti, 
se cio� sulle somme dovute a titolo di rivalutazione vadano calcolati gli interessi e 
la rivalutazione ulteriore e se sulle somme dovute a titolo di interessi vadano computati 
ulteriori interessi e rivalutazione, non pu� che essere negativa. 
Il diritto agli interessi -i quali dipendendo dal mero ritardo nell'adempimento 
e prescindendo dalla colpa, vanno inquadrati nella categoria residuale degli interessi 
compensativi -� un diritto autonomo, sebbene accessorio e necessario rispetto 
a quello al capitale, che va calcolato separatamente, non potendosi considerare 
parte integrante del debito principale; gli interessi, dunque, seguono una strada 
distinta quanto al computo e non vanno ad accrescere il capitale da rivalutare. 



PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

453 

Da ci� deriva che gli interessi non possono, a loro volta, produrre ulteriori interessi 
per il divieto di anatocismo di cui all'art. 1283 codice civile, il quale ammette 
tale fenomeno solo su apposita, specifica domanda del creditore che deve essere 
avanzata tempestivamente, cio� fin dall'atto introduttivo del giudizio di primo 
grado, non essendo sufficiente la semplice domanda di condanna al pagamento 
genericamente degli interessi (Cass. Civ., Sez. Il, 21 febbraio 1994 n. 1655). 

Per le stesse considerazioni gli interessi non devono essere neppure rivalutati, 
perch� in caso diverso verrebbero inaccettabilmente considerati parte del capitale. 

Quanto alla rivalutazione, una volta chiarito che essa non � pi� compenetrata 
con il credito di lavoro, non partecipa della stessa natura di questo quale sua componente 
inscindibile, ma � distinta da questo e si atteggia solo come tecnica liquidatoria 
del danno da ritardo, � evidente che neppure essa, stante la sua natura accessoria, 
pu� essere a sua volta soggetta ad ulteriore rivalutazione. 

Naturalmente la rivalutazione, come tutti i crediti, � produttiva di interessi ma 
ci� solo dalla costituzione in mora, cio� di regola dalla domanda (omissis). 

CONSIGLIO DI STATO, sez. IV, 27 agosto 1998 n. 568 -Pres. Catallozzi -Est. 
Lamberti -Corsicato Pasquale s.p.a. (avv.Romanelli) c. Costruzioni Perregrini 

s.r.l. ( avv. Ratti) e Ministero dei Lavori Pubblici (avv. Stato Mazzella). 
Giustizia amministrativa -Disapplicazione -Possibilit� -Limiti. 

Giustizia amministrativa -Bando di gara -Disapplicazione -Possibilit� -Esclusione. 


La possibilit� del giudice amministrativo di disapplicare, ai sensi del!' art. 5 
legge 20 marzo 1865 n. 2248, allegato E, l'atto della pubblica autorit� discende 
dalla natura della posizione garantita dall'ordinamento giuridico e opera solo 
quando tale posizione assuma la valenza di diritto soggettivo perfetto e l'ordinamento 
non attribuisca alcun potere di degradarlo. 

Le prescrizioni di un bando di gara pubblica, ancorch� illegittime, non sono 
disapplicabili dal giudice amministrativo, rilevato che si tratta di manifestazioni di 
volont� provvedimentale, non riconducibili ad atto regolamentare o, comunque normativo, 
e immediatamente impugnabili qualora contengano prescrizioni suscettibili 
di arrecare una lesione diretta e immediata (l). 

(omissis). 

1. I due appelli -di identico contenuto -devono essere riuniti ai sensi del1' 
art.335 c.p.c., in quanto proposti avverso la stessa decisione. 
(1) La disapplicazione di un bando di gara (o pi� in generale di concorso) nella giurisdizione 
amministrativa. 
Con la decisione che sopra si pubblica, la Quarta Sezione Giurisdizionale del Consiglio di 
Stato, riformando una decisione della Terza Sezione del T.A.R. della Lombardia, sede di Milano, 
� ritornata sul delicato problema dei poteri di disapplicazione, riconosciuti, come � noto dall'art. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

454 

2. � incontroverso che l'esclusione dell'impresa Perregrini, appellata nel presente 
giudizio, sia avvenuta per le ragioni riportate nel verbale di gara redatto il 24 
Iaprile 1996, ove si legge a pag. 6: �L'impresa Costruzioni Perregrini ha presentato 
la dichiarazione di cui al punto n. 4 del bando di gara con la firma del dichiarante 
non resa ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 20 e 26 della legge n. 15/1968, come 
espressamente richiesto dal bando di gara e pertanto viene esclusa�. Infatti, la disposta 
(ed impugnata) esclusione dal pubblico incanto ha costituito rigorosa applicazione 
di quanto prescritto nel bando di gara [pagg. 6-7 punto 4 e pag. 16] laddove: 
a) si impone ai partecipanti alla gara di produrre una dichiarazione, ai sensi 
dell'art. 18, comma 3, punto l della legge 19 marzo 1990 n. 55, come modificato 
dall' art.34 del decreto legislativo 19 dicembre 1991 n. 406, relativa alle opere che 
l'impresa intende subappaltare o affidare in cottimo; b) si prevede che la mancata 
presentazione di tale dichiarazione, cos� come qualsiasi irregolarit� o inosservanza 
delle formalit� prescritte per la stessa o la sua incompletezza invalidano l'offerta 

I ~ 
comportando l'esclusione dalla gara; e) si stabilisce che, tra le altre, la dichiarazione 
di cui al punto 4 deve essere resa nelle forme e per gli effetti di cui agli artt. 20 
e 26 della legge 4 gennaio 1968 n. 15, inerenti rispettivamente, l'autenticazione 
delle sottoscrizioni e le responsabilit� penali del sottoscrittore. 

La conclusione cui perviene il T.A.R. della Lombardia nella sentenza qui cen


I 

surata, si snoda attraverso i seguenti passaggi fondamentali: 

I 

1) Al bando di gara deve riconoscersi natura normativa, anche se la sua rilevanza 
ed i suoi effetti sono limitati al solo ordinamento interno della pubblica ammi


I 
I
ill

nistrazione che lo ha emanato. Al bando appare, quindi, applicabile quella elabora


�~

zione giurisprudenziale, avviata dal Consiglio di Stato in anni recenti e fatta propria, m 
. 
con ulteriori sviluppi, anche dallo stesso T.A.R. della Lomba~dia, che ammette la '

I

possibilit�, per il Giudice amministrativo, di disapplicare atti amministrativi a contenuto 
normativo illegittimi (nel caso in cui, evidentemente, non ne venga chiesto fili,, 

l'annullamento in via di diretta impugnazione). 

2) Nell'ambito della giurisdizione esclusiva, � coerente con i principi genera


I li de1l'ordinamento attribuire al Giudice amministrativo (che in tale opera � anche 
giudice naturale dei diritti soggettivi) i medesimi poteri di disapplicazione, ricono


5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, ali. E al Giudice Ordinario e ritenuti da una giurispruden.> 
za piuttosto recente attribuibili anche al Giudice Amministrativo a determinate condizioni. 

Il caso di specie era il seguente. Un'impresa, esclusa da una gara per avere prodotto un documento 
non sottoscritto secondo le modalit� prescritte dal bando, aveva impugnato davanti al 

T.A.R. competente la delibera di aggiudicazione dell'appalto, ritenendo illegittima la prescrizione. 
Il T.A.R., rilevato che effettivamente la prescrizione del bando risultava in contrasto con l'articolo 
18 della legge 55/1990 oltre che con altri principi dell'ordinamento vigente, accoglieva il ricorso 
�previa disapplicazione delle disposizioni del bando di gara� che imponevano l'autenticazione 
della sottoscrizione ed annullava conseguentemente il provvedimento di aggiudicazione. 
Il Consiglio di Stato, con la sentenza in esame, ha dichiarato, invece, che il ricorso di primo 
grado doveva essere dichiarato inammissibile dal Tribunale Regionale Amministrativo. 
La decisione � importante perch� pone principi molto chiari in materia ed evita i fraintendimenti 
che pure vi erano stati sia in dottrina che in giurisprudenza. 


PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

455 

sciuti ex art. 5 legge 20 marzo 1865 n. 2248, allegato E, al Giudice ordinario. Detto 
potere pu� esercitarsi contro tutti gli atti amministrativi incidenti su diritti. Sulla 
base di tali considerazioni, si distingue tra la disapplicazione �normativa� e quella 
�provvedimentale�, la prima inerente ad atti regolamentari e la seconda a provvedimenti 
puntuali della pubblica Amministrazione. 

3) La gerarchia delle fonti � di per s� sufficiente a supportare giuridicamente 
il riconoscimento in capo al Giudice amministrativo del potere di disapplicare gli 
atti normativi illegittimi, indipendentemente dalla natura della posizione giuridica 
coinvolta (diritto soggettivo o interesse legittimo). 

4) La disapplicazione delle clausole del bando di gara discende direttamente 
dal suo contrasto con le previsioni legislative, che non contengono elementi atti a 
sostenere la scelta dell'Amministrazione. Nel caso esaminato, il bando -ad avviso 
del T.A.R. non fornisce alcuna indicazione circa le modalit� che il concorrente 
deve seguire nel manifestare la propria volont� in ordine al profilo da cui � scaturita 
l'esclusione della ricorrente, n� appaiono altrimenti desumibili ragioni idonee a 
giustificare la decisione della Amministrazione di imporre alle imprese aspiranti a 
partecipare alla gara l'onere di autenticare la sottoscrizione della dichiarazione. 
L'art. 18 della legge 19 marzo 1990 n. 55 (come modificata dall'art. 34 del decreto 
legislativo 19 dicembre 1991 n.406) subordina, una volta esaurita la procedura concorsuale, 
l'affidamento di opere in subappalto o a cottimo alla previa autorizzazione 
della stazione appaltante ed impone all'aggiudicatario di comunicare i nominativi 
dei soggetti a cui intende subappaltare o dare in cottimo i lavori. � evidente che 
la dichiarazione richiesta prima della gara a tutti i concorrenti, seppur finalizzata ad 
esigenze di conoscenza e di tutela dell'Amministrazione, � funzionale alla produzione 
di effetti che si determineranno solo nella fase successiva alla scelta del contraente, 
esclusivamente in capo dello stesso ed a condizione che quest'ultimo adempia 
ad ulteriori oneri. 

A fronte della posizione assunta dal T.A.R. della Lombardia, l'inammissibilit� 
del ricorso di primo grado, dedotta con i due appelli, comporta per il Collegio il 
dovere di definire i precisi limiti della disapplicazione oltre a quello di esaminare la 
natura delle clausole del bando di gara. 

In primo luogo, il Consiglio di Stato esclude che la disapplicazione possa operare quando le 
posizioni soggettive oggetto di lesione abbiano la struttura dell'interesse legittimo, restringendo 
la possibilit� del Giudice Amministrativo di disapplicare l'atto della Pubblica Autorit� solo quando 
la natura della posizione garantita dall'ordinamento giuridico assuma la valenza di diritto soggettivo 
perfetto e l'ordinamento non attribuisca alcun potere di degradarlo. 

In secondo luogo, il Consiglio di Stato esige per la disapplicazione normativa che la norma 
-legislativa o regolamentare -disciplini direttamente il rapporto facendo essa immediatamente 
sorgere la situazione di diritto soggettivo perfetto. 

In terzo luogo, in modo conseguente, il Consiglio di Stato esclude la disapplicazione quando 
tale rapporto diretto non sussiste a causa dell'intermediazione di atti autoritativi e quindi provvedimentali 
in senso proprio, qual' � da ritenersi un bando di gara. Atti immediatamente impugnabili qualora 
contengano prescrizioni illegittime suscettibili di arrecare una lesione. 

LUIGI MAZZELLA 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

456 


Nel disapplicare le prescrizioni del bando, che ponevano a carico dei partecipanti 
l'onere di produrre, a pena di esclusione, la dichiarazione delle opere da affidare 
a subappalto o a cottimo con l'autentica delle firme, la sentenza impugnata 
muove da recenti affermazioni della Sezione V di questo Consiglio intese, nel caso 
conflitto, a dare preminenza alla norma legislativa rispetto a quella regolamentare 
allorch� quest'ultima precluda al privato l'esercizio di un diritto soggettivo: la V 
Sezione ha, invero, superato la precedente giurisprudenza che riteneva preclusa al 
Giudice amministrativo la disapplicazione degli atti regolamentari, ravvisando, in 
sede di giurisdizione esclusiva, la possibilit� di disapplicare i regolamenti, gli atti 
generali e anche quelli a contenuto puntuale, sebbene non tempestivamente impugnati, 
allorch� dalla loro applicazione vengano compromessi diritti soggettivi: tali 
sono state ravvisate, da ultimo, le posizioni dei professionisti costituiti in societ� 
interessate a stipulare convenzioni con le unit� sanitarie locali (Cons. Stato, V, 7 
aprile 1995 n. 531) o quelle del lavoratore dipendente, divenuto inabile, ad essere 
adibito ad altra mansione compatibile con il suo stato (Cons. Stato, V, 19 settembre 
1995 n. 1332). L'orientamento segue quello gi� manifestato in sede di esecuzione 
del giudicato (Cons. Stato, V, 27 gennaio 1989 n. 7) che ritiene il giudice amministrativo, 
limitatamente agli atti paritetici, destinatario -come il giudice ordinario 
-del generale disposto dell'art. 5 legge 20 marzo 1865 n. 2248, allegato E, circa 
la possibilit� di disapplicare gli atti amministrativi riconosciuti illegittimi. 

Pur condividendo l'orientamento della V Sezione, il Collegio non ritiene che la 
disapplicazione possa operare quando le posizioni soggettive oggetto di lesione abbiano 
la struttura dell'interesse legittimo, anche a fronte di disposizioni di supposto carattere 
regolamentare, come sembrerebbe avere qualificato il T.A.R. della Lombardia le 
clausole del bando. N�, tantomeno, considera possibile affermare che la posizione 
vantata dalla impresa Perregrini abbia conservato natura di diritto soggettivo a fronte 
del preciso onere di autenticazione prescritto dal bando, nonostante che l'art. 18 della 
legge 19 marzo 1990 n. 55 (come modificata dall'art. 34 del decreto legislativo 19 
dicembre 1991 n. 406) non preveda l'autenticazione della firma relativa alla dichiarazione 
delle opere che il partecipante voglia affidare in subappalto o a cottimo. 

Va, innanzitutto ribadito che la possibilit� del Giudice amministrativo di disapplicare 
l'atto della pubblica autorit� discende dalla natura della posizione garantita 
dall'ordinamento giuridico: opera solo quando tale posizione assuma la valenza di 
diritto soggettivo perfetto e l'ordinamento non attribuisca alcun potere di degradarlo. 
In questo caso il rapporto si instaura pariteticamente fra l'Amministrazione e il 
privato, s� che il Giudice lo conosce direttamente in quanto tale, e indipendentemente 
dalla sua funzione di Giudice amministrativo. La potest� che egli esercita in 
sede di disapplicazione �, pertanto, analoga a quella del Giudice ordinario, non esistendo 
alcuna ragione, neanche ravvisabile nell'art. 4 legge legge 20 marzo 1865 

n. 2248, allegato E, per la quale gli sia preclusa la conoscenza del rapporto sostanziale 
dedotto nel giudizio, nonostante l'esistenza dell'atto. Di fronte agli atti paritetici, 
il giudice amministrativo non esercita, invero, alcun potere di annullamento, ma 
prescrive i comportamenti necessari a ricondurre alla legalit� la condotta dell 'Amministrazione, 
disattendendo gli atti posti in essere difformemente dagli obblighi 
previsti dall'ordinamento e ripristinando le posizioni soggettive violate. 

PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

Ricondotta in questi termini la disapplicazione cosiddetta normativa, � evidente 
la sua possibilit� di operare solo quando la norma -legislativa o regolamentare 
-che si assume violata regoli direttamente e congiuntamente il rapporto, instaurando 
situazioni aventi spessore di diritto perfetto e non di interesse. 

La disapplicazione nel processo amministrativo, in quanto limitata a realizzare 
le sole pretese discendenti direttamente dalla legge, viene meno di fronte ad atti 
aventi carattere squisitamente autoritativo e, pertanto, provvedimentale in senso 
proprio, ove il rapporto non � regolato direttamente dalla legge, ma tramite l'esercizio 
di un potere che la legge stessa conferisce all'amministrazione. Il sindacato giurisdizionale 
si esercita, in questo caso, sulle modalit� con le quali il rapporto � stato 
regolato in via autoritativa dall'amministrazione. 

Esso non pu� spingersi sino al punto di disattendere, anche con lo strumento 
della disapplicazione, un assetto d'interessi oramai divenuto definitivo per la generalit� 
dei soggetti, una volta scaduto il tempo prescritto per la sua impugnazione. 

Il divieto della disapplicazione cosiddetta �provvedimentale� per il Giudice 
amministrativo deriva, pertanto, dall'assetto concreto del rapporto, che non � dettato 
in via primaria dalla legge, ma dall'Amministrazione, nell'esercizio di una sua 
potest� discrezionale. 

Che il bando di gara sia riconducibile a manifestazione di volont� provvedimentale 
e non ad atto regolamentare o, comunque, normativo, � stabilito dall'unanime 
giurisprudenza che stabilisce l'immediata impugnabilit� del bando stesso, qualora 
contenga prescrizioni suscettibili di arrecare una lesione diretta ed immediata 
(Cons. Stato, V, 17 dicembre 1991n.1369). 

Ancorch� illegittime, le prescrizioni del bando di gara entrano a far parte del1'
ordinamento come regola concreta del rapporto, da osservare per tutti i partecipanti 
in sostanziale posizione di parit�, stante il principio dell'imperativit� del provvedimento 
amministrativo, nei cui confronti il criterio teleologico che impone 
l'applicazione della gerarchia delle fonti � sicuramente recessivo (Cons. Stato, VI, 11 
ottobre 1990 n. 891; id. V, 20 novembre 1987 n. 711; id. VI, 31gennaio1984 n. 38). 

3. Nella gara indetta dal Provveditorato regionale alle opere pubbliche per la 
Lombardiii;, al fine dell'appalto dei lavori relativi alla sede del Tribunale per i minorenni 
di Milano, il bando (pubblicato il 27 marzo 1993) prevedeva espressamente l'onere 
di produrre una dichiarazione nella quale indicare espressamente, ai sensi del1'
art. 18, comma 3, punto 1, della legge n. 55 del 1990 quali opere il partecipante 
intendeva subappaltare o affidare in cottimo e avvertiva, altrettanto, espressamente 
che tale dichiarazione, valida alla data fissata per la gara, si sarebbe dovuta rendere 
forme e per gli effetti di cui agli artt. 20 e 26 della legge 4 gennaio 1968 n. 15. 
Subordinare tale dichiarazione a dette formalit� corrisponde, invero, ad una 
specifica potest� attribuita all'Amministrazione dall'art. 65, n. 6, del regolamento di 
contabilit� dello stato di cui al regio decreto 23 maggio 1924 n. 827, che considera 
requisito dell'avviso di asta pubblica (bando), la indicazione dei �documenti comprovanti 
l'idoneit� o le altre condizioni prescritte per essere ammessi all'asta� 
medesima, condizioni fra le quali ben pu� essere ricompresa la formalit� dell'autenticazione 
della sottoscrizione del documento da produrre. 

�, pertanto, da disattendere la sentenza impugnata, ove ritiene che le prescrizioni 
dell'art. 18, comma 3, della legge 19 marzo 1990 n. 55, come modificata dall'art. 34 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO e

458 

del decreto legislativo 19 dicembre 1991 n. 406, circa l'affidamento in subappalto o in 
cottimo delle lavorazioni oggetto della gara, attribuiscano uno specifico diritto dell'appaltatore 
non assoggettabile a specifici limiti e condizioni dall'Amministrazione e, conseguentemente, 
non degradabile alla posizione d'interesse legittimo dal bando di gara. 

A fronte dei suesposti rilievi, sono prive di fondamento le deduzioni riportate 
nel controricorso della societ� appellata, circa il contrasto delle disposizioni del 
bando con il citato art. 18, che non esclude per la stazione appaltante la potest� di 
regolare sotto l'aspetto formale, con specifiche prescrizioni le dichiarazioni alla cui 
produzione sono tenuti i partecipanti. Da ci� deriva la legittimit� dell'esclusione 
della societ� Costruzioni Perregrini in assenza della richiesta autenticazione, senza 
che sia possibile disapplicare la relativa clausola del bando di asta pubblica. 

4. I due appelli sono, quindi, fondati e meritano accoglimento, data la inammissibilit� 
del ricorso di primo grado per omessa impugnazione del bando in parola. 
(omissis) 

CONSIGLIO DI STATO, sez. IV, 15 settembre 1998 n. 1161 -Pres. !annotta -Est. 
De Nictolis -Magarotto Elia (avv. Testa e Manzi) c. Co.re.co. della Regione 
Veneto (avv. Stato Aiello C.). 

Impiego pubblico -Indennit� particolari percepite solo dal personale medico a 
parit� di stipendio tabellare con dirigenti amministrativi -Legittimit� Estensione 
per analogia ai dirigenti amministrativi -Esclusione. 

Impiego pubblico -Decreto legislativo 29/1993 -Trattamenti economici fissati 
dai contratti collettivi -Inderogabilit� anche in melius. 

� da ritenere pienamente legittimo il sistema normativo in base al quale a parit� 
di stipendio tabellare con i dirigenti amministrativi, il personale medico gode di 
particolari indennit� (indennit� medico-professionale di tempo pieno e sue maggiorazioni, 
indennit� di dirigenza medica e per strutture specialistiche) per cui percepisce, 
globalmente, un compenso mensile maggiore. 

Le peculiari indennit� percepite dai medici non possono essere estese per analogia 
ai dirigenti amministrativi, perch� connesse alla specificit� della prestazione 
professionale sanitaria (1). 

� da ritenere, alla luce di una interpretazione sistematica, che anche nel disegno 
del decreto legislativo 29 del 1993 i trattamenti economici fissati dai contratti 
collettivi siano inderogabili anche in melius oltre che in peius (2). 

(omissis). 

1. Con il ricorso di primo grado erano stati dedotti, con il primo motivo, i vizi 
di violazione e falsa applicazione degli artt. 4 7 legge n. 833 del 1978, 30 del decre(
1 -2) La sentenza che si annota riafferma il costante orientamento del Consiglio di Stato sul 
trattamento retributivo dei dirigenti amministrativi delle uu.ss.11. 

Il ricorrente, dirigente amministrativo di una u.s.l. veneta, aveva in primo grado impugnato 
il provvedimento di controllo negativo del Co.re.Co. di annullamento della delibera del Comitato 

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PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

459 

to del Presidente della Repubblica n. 761 del 1979, 2, 3, 4, 9, 17 e 18 legge n. 93 del 
1983, 3, 5, 36, 51 e 97 della Costituzione, nonch� eccesso di potere sotto il profilo 
della violazione del principio di perequazione retributiva, dell'ingiustizia manifesta 
e della disparit� ingiustificata di trattamento; con il secondo motivo, l'eccesso di 
potere per incongruit� ed erroneit� della motivazione. 

1.1. Il T.A.R. adito, con la sentenza in epigrafe, ha disatteso tutte le censure 
osservando che il ricorrente, quale direttore amministrativo, � inquadrato nel 10� 
livello retributivo funzionale ai sensi dell'art. 3 7 decreto del Presidente della 
Repubblica n. 348 del 1983, e percepisce uno stipendio tabellare identico a quello 
dei medici che esercitano pari funzioni (coadiutore sanitario, vice direttore sanitario, 
aiuto corresponsabile). Tuttavia, a parit� di stipendio tabellare, il personale medico 
gode di particolari indennit� (indennit� medico professionale di tempo pieno e sue 
maggiorazioni, indennit� di dirigenza medica e per strutture specialistiche), per cui 
percepisce, globalmente, un compenso mensile maggiore. 
Tale sistema non �, ad avviso del T.A.R., illegittimo. 

Vero � che nell'ordinamento anteriore alla istituzione delle uu.ss.ll. gli enti 
ospedalieri godevano di una certa discrezionalit� in tema di trattamento economico 
dei propri dipendenti, e potevano stabilire per essi un trattamento pi� favorevole di 
quello previsto dalla contrattazione collettiva, ritenuto inderogabile solo nel minimo; 
specie dopo la sentenza della Corte Costituzionale 29 luglio 1982 n. 161, che 
aveva dichiarato illegittimo l'art. 7 della legge 17 agosto 197 4 n. 3 86, nella parte in 
cui faceva divieto agli enti ospedalieri di corrispondere al proprio personale un trattamento 
economico superiore a quello previsto dagli accordi sindacali nazionali, era 
pacifico che gli enti ospedalieri potessero equiparare il trattamento economico dei 
dirigenti amministrativi a quello dei dirigenti sanitari. 

Tuttavia, il contesto normativo � radicalmente mutato con la legge n. 833 del 
1978, in base alla quale, secondo il Tribunale, gli ospedali non hanno pi� persona-

di gestione della u.s.l., con cui si concedeva l'equiparazione del trattamento economico tra personale 
ammfoistrativo e personale medico svolgente corrispondenti funzioni, ritenendo ingiustificata 
la sperequazione retributiva tra gli stessi. 

Il T.A.R. adito disattendeva tutte le censure prospettate dal ricorrente e, in secondo grado, il 
Consiglio di Stato ha integralmente confermato la sentenza appellata. 

La decisione annotata, che si muove del resto nel solco tracciato dalle precedenti pronunce 
dello stesso Consiglio di Stato (v. Cons. Stato, V, 13 dicembre 1993 n. 1282; Cons. Stato, V, 6 
aprile 1991 n. 449) appare pienamente condivisibile. 

Ritenendo legittima la mancata corresponsione ai dirigenti amministrativi di indennit� connesse 
con l'esercizio della professione medica, che nulla hanno a che vedere con l'espletamento 
di funzioni amministrative, il Consiglio di Stato ribalta la prospettiva del ricorrente, profilando 
semmai dubbi di legittimit� sulla corresponsione ai dirigenti sanitari di indennit� connesse con le 
prestazioni mediche qualora ci si trovi in presenza esclusiva di identit� o analogia di funzioni con 
i dirigenti amministrativi. 

Del resto, anche alla luce di un criterio di ragionevolezza, appare legittima la non attribu


zione ai dirigenti amministrativi delle indennit� connesse alla specificit� della prestazione pro


fessionale sanitaria, sia a causa di una diversa posizione funzionale dei direttori sanitari e ammi


nistrativi, sia per la diversit� di preparazione professionale loro richiesta. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO"' 

460 

lit� giuridica, ma sono elementi dell'organizzazione delle uu.ss.11., le quali a loro 
volta sono prive di personalit� giuridica e di autonomia finanziaria. In tale quadro 
va letto l'art. 47 legge 23 dicembre 1978 n. 833, che demanda al contratto collettivo 
nazionale la determinazione del trattamento economico del personale delle 
uu.ss.11., facendo divieto alle stesse di concedere al proprio personale compensi, 
indennit� o assegni di qualsiasi natura che modifichino direttamente o indiretta


mente il trattamento economico stabilito in sede di contrattazione collettiva. 
Tale disposizione appare pienamente legittima, essendo le uu.ss.ll. prive di 
risorse finanziarie proprie, di proprio patrimonio, e di autonomia contabile. 

Inoltre, il contratto collettivo (decreto del Presidente della Repubblica 25 giugno 
1983 n. 348) attua la perequazione tra dirigenti amministrativi e dirigenti sanitari, 
essendo identico lo stipendio tabellare. Ci� che diversifica in concreto le retribuzioni 
sono le peculiari indennit� percepite dai medici, che non possono essere 
estese per analogia, perch� connesse alla specificit� della prestazione professionale 
sanitaria. 

Aggiunge la sentenza appellata che non � pertinente, nel caso di specie, la giurisprudenza 
del Consiglio di Stato invocata dal ricorrente, in quanto la stessa si riferisce 
ad un caso diverso, in cui l'equiparazione del trattamento economico era stata 
chiesta dagli interessati gi� agli enti ospedalieri, prima della loro soppressione: limim 
tatamente a tale ipotesi, la u.s.l. pu� disporre l'equiparazione del trattamento eco


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nomico, ora per allora, permanendo la pretesa degli interessati a che l'ente si prom 
nunciasse sulla loro domanda. 0 

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2. L'appellante critica la sentenza impugnata rilevando, anzitutto, che oggetto 
.

del ricorso di primo grado era l'atto negativo di controllo del Co.Re.Co.; invece, 
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parte della motivazione della sentenza del T.A.R. sarebbe dedicata a contestare la 
legittimit� della delibera u.s.l. di equiparazione dei trattamenti economici, delibera 
. 
annullata dal Co.Re.Co., sotto profili diversi da quelli esaminati dall'organo di conill 
trollo. L'appellante ripropone, pertanto, i motivi del ricorso di primo grado. 

I 
.
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Il Consiglio di Stato perviene alla decisione in esame attraverso un'apprezzabile ed armonica 
ricostruzione dell'intero sistema normativo, a livello legislativo e di contrattazione collettiva, 
che disciplina la materia de qua. 

Il punto di partenza, nell'ambito della materia del pubblico impiego in generale, � costituito, 
come � noto, dalla legge n. 93 del 1983 che all'art. 11 ha previsto l'inderogabilit� dei trattamenti 
economici stabiliti dalla contrattazione collettiva sia in peggio che in meglio. 

Il Consiglio di Stato, approvando l'operato del legislatore, ritiene nella sentenza annotata che la 
ratio del principio della inderogabilit� in melius debba rinvenirsi sia nell'esigenza di contenimento 
della spesa pubblica che in esigenze di omogeneizzazione e di perequazione della retribuzione. 

I

Ma lo stesso Consiglio di Stato si spinge anche oltre, affermando che il decreto sulla privam 
tizzazione del pubblico impiego, decreto legislativo 29/1993, il quale si limita a stabilire che �le ID 
amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti ........ parit� di trattamento contrattuale 
e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi� (art. 

I

49, 2� comma) � da interpretare sistematicamente nel senso che i trattamenti economici fissati dai 
contratti collettivi sono inderogabili anche in melius oltre che in peius. r f:'. 

Quindi lo strumento della contrattazione collettiva � ritenuto tanto dal legislatore che dalla 
giurisprudenza amministrativa quello maggiormente idoneo a disciplinare i trattamenti economici ~ 

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dei dipendenti pubblici per diverse ragioni: in primo luogo, perch� i trattamenti economici fissa1!: 


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PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

461 

3. L'appello � infondato. 
Non sussiste, nella decisione impugnata, il lamentato vizio di extrapetizione. 

Il provvedimento di controllo negativo impugnato afferma che con l'entrata in 
vigore della riforma sanitaria attuata con la legge 23 dicembre 1978 n. 833, in base 
all'art. 47 di detta legge � preclusa alla u.s.l. ogni autonoma potest� in materia di 
trattamento economico; la stessa, pertanto, non � legittimata ad attribuire ai dirigenti 
amministrativi lo stesso trattamento economico dei dirigenti sanitari, con decorrenza 
anteriore a quella di costituzione delle uu.ss.ll. 

Rispetto a tale contenuto della delibera del Co.Re.Co., e considerati i motivi del 
ricorso di primo grado, la motivazione della sentenza gravata, sopra sintetizzata, 
appare del tutto pertinente e puntuale. 

3 .1. Passando all'esame delle censure di primo grado, riproposte con l'atto di 
appello, il Collegio ritiene che la sentenza appellata meriti integrale conferma. 
Il ricorrente, quale direttore amministrativo, � inquadrato nel 10� livello retributivo 
funzionale ai sensi dell'art. 37 decreto del Presidente della Repubblica n. 348 
del 1983, e percepisce uno stipendio tabellare identico a quello dei medici che esercitano 
pari funzioni (coadiutore sanitario, vice direttore sanitario, aiuto corresponsabile). 
Tuttavia, a parit� di stipendio tabellare, il personale medico gode di particolari 
indennit� (indennit� medico professionale di tempo pieno e sue maggiorazioni, 
indennit� di dirigenza medica e per strutture specialistiche), per cui percepisce, globalmente, 
un compenso mensile maggiore. 

Tale sistema � da ritenere pienamente legittimo. 

Vero � che nell'ordinamento anteriore alla istituzione delle uu.ss.11. gli enti ospedalieri 
godevano di una certa discrezionalit� in tema di trattamento economico dei propri 
dipendenti, e potevano stabilire per essi un trattamento pi� favorevole di quello previsto 
dalla contrattazione collettiva, ritenuto inderogabile solo nel minimo; specie dopo 
la sentenza della Corte Costituzionale 29 luglio 1982 n. 161, che aveva dichiarato illegittimo 
l'art. 7 del decreto-legge 8 luglio 1974 n. 264, convertito nella legge 17 agosto 

ti dalla contrattazione collettiva sono sottoposti, prima dell'autorizzazione alla sottoscrizione 
dei contratti collettivi, a verifica di compatibilit� finanziaria; in secondo luogo, la legge disciplina 
compiutamente i tempi e le modalit� di formazione del contratto collettivo nazionale (art. 
47, legge. 833/1978; artt. 3, 5 ss. e 13 legge 93/1983; artt. 24, 45 ss., 49 decreto legislativo 
2911993). 

In tale sistema normativo si inquadra dunque perfettamente l'art. 47 della legge 833 del 
1978 che riserva al contratto collettivo nazionale la determinazione del trattamento economico 
del personale delle uu.ss.ll., facendo divieto alle stesse di concedere al proprio personale 
compensi, indennit� o assegni di qualsiasi natura che modifichino, direttamente o indirettamente, 
il trattamento economico stabilito in sede di contrattazione collettiva. Viene quindi 
anche per questa via legittimato quanto stabilito nella materia de qua dal contratto collettivo 
nazionale, recepito con decreto del Presidente della Repubblica n. 348 del 1983, cos� come 
riaffermato nella sentenza che si commenta, che i dirigenti amministrativi e q�elli sanitari percepiscono 
un identico stipendio tabellare, anche se le retribuzioni degli stessi risultano in concreto 
diverse perch� i medici hanno diritto a peculiari indennit� che non possono essere estese 
per analogia al personale non medico, in quanto connesse alla specificit� della prestazione 
professionale sanitaria. 

L.V. 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STArcr


462 

1974 n. 386, nella parte in cui faceva divieto agli enti ospedalieri di corrispondere al 
proprio personale un trattamento economico superiore a quello previsto dagli accordi 
sindacali nazionali, fu affermato che gli enti ospedalieri potessero equiparare il trattamento 
economico dei dirigenti amministrativi a quello dei dirigenti sanitari. 

Tuttavia, il contesto normativo � radicalmente mutato con la legge n. 833 del 
1978, in base alla quale gli ospedali, per il periodo anteriore al decreto legislativo n. 
502 del 1992, non hanno pi� personalit� giuridica, ma sono strutture dell'organizzazione 
delle uu.ss.11. In tale quadro va letto l'art. 47 legge n. 833 del 1978, che demanda 
al contratto collettivo nazionale la determinazione del trattamento economico del 
personale delle uu.ss.11., facendo divieto alle stesse di concedere al proprio personale 
compensi, indennit� o assegni di qualsiasi natura che modifichino direttamente o 
indirettamente il trattamento economico stabilito in sede di contrattazione collettiva. 

3.2. Tale disposizione appare pienamente conforme al dettato costituzionale: anzitutto 
le uu.ss.ll., in base alla legge n. 833 del 1978, sono prive di risorse finanziarie proprie 
e di autonomia contabile. Va ancora ricordato che anche la successiva legislazione 
relativa all'impiego pubblico si � mossa nell'ottica di considerare inderogabili i trattamenti 
economici stabiliti dalla contrattazione collettiva, non solo in peggio, ma anche 
in meglio ( v. art. 11, comma 2, legge 29 marzo 1983 n. 93). E siffatta inderogabilit� in 
melius ha la sua giustificazione, da un lato, in esigenze di contenimento della spesa pubblica, 
e, dall'altro lato, in esigenze di omogeneizzazione e perequazione delle retribuzioni. 
E sebbene l'art. 49, comma 2 del decreto legislativo n. 29 del 1993 (contenente 
la riforma del pubblico impiego), si limiti ad affermare che le pubbliche amministrazioni 
sono tenute a rispettare i trattamenti economici minimi fissati dalla contrattazione 
collettiva, non ponendo alcun divieto di attribuzione di trattamenti economici superiori, 
tuttavia � da ritenere, alla luce di una interpretazione sistematica, che anche nel 
disegno del decreto legislativo n. 29 del 1993 i trattamenti economici fissati dai contratti 
collettivi siano inderogabili anche in melius oltre che in peius. Da un lato, i trattamenti 
economici fissati dalla contrattazione collettiva sono sottoposti, prima dell'autorizzazione 
alla sottoscrizione dei contratti collettivi, a verifica di compatibilit� 
finanziaria, e, dall'altro lato, sono stabilite specifiche autonomie e corrispondenti 
resppnsabilit� dei dirigenti, di talch� l'eventuale attribuzione di trattamenti economici 
superiori a quelli fissati in sede di contrattazione collettiva esigerebbe la preventiva 
verifica della capienza di bilancio e comporterebbe, in caso di insufficienza dei fondi 
disponibili, specifiche responsabilit� dirigenziali. 
3.2.1. N� potrebbe invocarsi l'illegittimit� costituzionale dell'art. 47 legge n. 833 
del 1978 alla luce della decisione della Corte Costituzionale n. 161 del 1982, che ha 
dichiarato incostituzionale l'art. 7 decreto legge 8 luglio 1974 n. 264, conv. nella 
legge 17 agosto 197 4 n. 3 86, che conteneva analogo divieto, per gli enti ospedalieri, 
di modificare i trattamenti economici stabiliti con la contrattazione collettiva. La citata 
decisione afferm� l'incostituzionalit� della norma perch� demandava l'autorit� pi 
porre nel nulla clausole di contratti individuali e di contratti sindacali locali a una 
contrattazione collettiva nazionale, quella di cui all'art. 40 legge 12 febbraio 1968 n. 
132, di cui non erano delineate sufficienti garanzie quanto ai tempi e le modalit� di 
formazione, e ci� in contrasto con l'art. 97 Cast.; a dire del giudice delle leggi, l'art. 
7 in commento riconosceva �alla contrattazione collettiva nazionale e soltanto alla 

PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

contrattazione collettiva nazionale senza limiti di tempo n� prescrizioni procedimentali 
autorit� per la quale l'art. 97 comma 1� esige il rispetto della riserva di legge�. 

Ma il quadro normativo, in ordine alla contrattazione collettiva, � radicalmente 
mutato rispetto a quello avuto presente dalla Corte Costituzionale, che faceva riferimento 
ai contratti collettivi nazionali di cui all'art. 40 legge 12 febbraio 1968 n. 
132, che si limitava a rinviare genericamente agli accordi collettivi, senza nulla dire 
a tempi e modi di formazione. 

L'art. 47 legge n. 833 del 1978 non si espone alle medesime censure dell'art. 7 
decreto-legge n. 264 del 1974, in quanto non demanda sic et simpliciter alla contrattazione 
collettiva la determinazione dei trattamenti economici, senza il tramite 
del rispetto della riserva relativa di legge, in quanto disciplina compiutamente i 
tempi e le modalit� di formazione del contratto collettivo nazionale, il che � quanto 
era richiesto dalla Corte Costituzionale con la decisione n. 161 del 1982. 

Anche la successiva legislazione, che ha disciplinato la contrattazione collettiva 
nel pubblico impiego, dalla legge 29 marzo 1983 n. 93 al decreto legislativo 3 
febbraio 1993 n. 29, ha compiutamente delineato tempi e modalit� di formazione dei 
contratti collettivi, e regolato con legge gli aspetti essenziali della disciplina del trattamento 
economico dei dipendenti pubblici (v. artt. 3, 5 ss., 13 legge n. 93 del 1983; 
artt. 24, 45 ss., 49, decreto legislativo n. 29 del 1993). 

Ne consegue la piena legittimit� costituzionale dell'art. 47 legge n. 833 del 1978. 

3.3. Inoltre, il contratto collettivo (decreto del Presidente della Repubblica 25 giugno 
1983 n. 348) attua la perequazione tra dirigenti amministrativi e dirigenti sanitari, 
essendo identico lo stipendio tabellare. Ci� che diversifica in concreto le retribuzioni 
sono le peculiari indennit� percepite dai medici, che non possono essere estese 
per analogia, perch� connesse alla specificit� della prestazione professionale sanitaria. 
E se � vero che si potrebbe obiettare che i dirigenti sanitari svolgono funzioni 
per certi versi omogenee a quelle dei dirigenti amministrativi, a tale obiezione pu� 
replicarsi che il ragionamento del ricorrente deve essere rovesciato, vale a dire che 
in presenza di identit� o analogia di funzioni deve dubitarsi della legittimit� della 
corresponsione ai dirigenti sanitari di indennit� connesse con le prestazioni mediche, 
ma non pu�, viceversa, ritenersi illegittima la mancata corresponsione ai dirigenti 
amministrativi di indennit� connesse con l'esercizio della professione medica, 
che nulla hanno a che vedere con l'espletamento di funzioni amministrative. 

Va inoltre considerato che dalla normativa vigente si desume la diversa posizione 
funzionale di direttori sanitari e amministrativi (decreto del Presidente della 
Repubblica 20 dicembre 1979 n. 761, allegato E), e la diversit� di preparazione professionale 
loro richiesta (decreto ministeriale 30 gennaio 1982 in Gazzetta Ufficiale 
22 febbraio 1982 n. 51, s.o., come integrato dal decreto ministeriale 3 dicembre 
1982, in Gazzetta Ufficiale 7 febbraio 1983 n. 36), di talch� non appare irragionevole 
la non attribuzione ai dirigenti amministrativi delle indennit� connesse alla specificit� 
delle prestazioni dei dirigenti sanitari. 

3.4. Deve per completezza ricordarsi che il Consiglio di Stato si � gi� pronunciato 
sulla questione dell'equiparazione del trattamento economico dei dirigenti amministrativi 
a quelli sanitari dopo l'entrata in vigore della legge n. 833 del 1978, risolvendolo, 
alla luce dell'art. 4 7 di detta legge, nel senso che non � pi� consentita siffatta equipara

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STAT�, 

464 

zione (C.d.S., sez. V, 13 dicembre 1993 n. 1282; Id., 6 aprile 1991 n. 449: �dopo l'entrata 
in vigore della legge 23 dicembre 1978 n. 833, non � pi� consentito alle Unit� sanitarie 
locali di modificare il trattamento economico del direttore amministrativo, fissato 
dagli accordi sindacali recepiti con decreto del Presidente della Repubblica, ai sensi del1'
art. 47 della legge citata, al fine di equipararlo a quello del direttore sanitario�). 

3.5. N� a sostegno della tesi del ricorrente possono essere poste le precedenti 
decisioni del Consiglio di Stato invocate nell'atto di appello (C.d.S., sez. V, 21 
dicembre 1992 n. 1539; C.d.S., sez. V, 13 ottobre 1993 n. 1043), in quanto le stesse 
si riferiscono a fattispecie concrete diverse, in cui l'equiparazione del trattamento 
economico era stata gi� chiesta agli enti ospedalieri di appartenenza prima della loro 
soppressione, e pertanto la u.s.l. aveva provveduto in quanto ente subentrante in rapporti 
giuridici pregressi, in cui erano gi� maturate aspettative degli interessati in 
base alla normativa previgente. Nel caso di specie, invece, la domanda di equiparazione 
� stata presentata solo nel 1986, direttamente alla u.s.l., e pertanto quest'ultima 
non poteva provvedere alla equiparazione in un mutato contesto normativo, e 
non poteva neppure accordare tale equiparazione, come ha fatto, a decorrere dal 1� 
luglio 1979, in quanto a detta data era gi� in vigore l'art. 47 legge n. 833 del 1978. 
3.6. Quanto, infine, al rilievo dell'appellante secondo cui la delibera del Co.Re.Co. 
sarebbe viziata da eccesso di potere per incongruit� ed erroneit� della motivazione, perch� 
la u.s.l. non avrebbe modificato il trattamento economico del ricorrente pure per il 
passato a decorrere dal 1� luglio 1979, ma avrebbe eliminato, con effetto retroattivo, 
una sperequazione di carattere economico, valgono le considerazioni svolte nel paragrafo 
che precede. La u.s.l. non poteva disporre la richiesta equiparazione in un mutato 
contesto normativo, attribuendovi oltretutto una decorrenza -1� luglio 1979 -che 
ricade nel periodo in cui l'art. 47 legge n. 833 del 1978 era gi� vigente. 
4. In conclusione, l'appello va respinto (omissis). 
CONSIGLIO DI STATO, sez. IV, 10 dicembre 1998 n. 1171 -Pres. !annotta -Est. 
�Falcone -Carpineto Nicola Costruzioni Generali S.r.l. (avv. Biasiotti Mogliazza) 
c. ANAS (avv. Stato Linguiti). 

Atto amministrativo -Diritto d'accesso alla relazione riservata della direzione 
dei lavori -Sussiste. 

La relazione del direttore dei lavori, sebbene costituisca un atto interno, non si 
sottrae al diritto di accesso (1). 

(1) Brevi osservazioni in ordine all'accesso agli atti interni. 
a) Il caso. 

Un'impresa di costruzioni proponeva ricorso al T.A.R., ex art. 25 legge n. 241/1990, chiedendo 
l'accesso alla relazione riservata del Direttore lavori e alla relazione riservata della Commissione 
di collaudo sulla riserva relativa ad una vertenza insorta con l'A.N.A.S., nel corso dell'esecuzione 
di un contratto d'appalto. 



PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

465 

(omissis). 

1. Con ricorso in primo grado, la societ� Carpineto Nicola Costruzioni ha chiesto 
al T.A.R. del Lazio di ordinare all'A.N.A.S. Ente Nazionale per le Strade di fornire 
copia della relazione riservata della Direzione lavori, redatta dall'Ing. Gianluigi 
Oliva, concernente l'esecuzione dei lavori di cui al contratto di appalto n. 18724 
del 4 settembre 1996, e successivi atti aggiuntivi, per la eliminazione di strettoie e 
gravi viziosit� piano-altimetriche mediante costruzione di una variante tra i Km. 
3+700 e 4+700 della S.S. 313 di Passo Corese, nonch� copia della relazione riservata 
del Collaudatore Ing. Roberto Lucietti relativa al contratto di cui sopra. 
La societ� ha fatto presente che la richiesta � motivata dalla necessit� di apprestare 
le proprie difese nel giudizio arbitrale, attivato con la costituzione del relativo Collegio. 

L'Avvocatura dello Stato si era opposta sostenendo che l'accesso -finalizzato ad assicurare 
la trasparenza dell'attivit� amministrativa -ha ad oggetto qualunque documento anche �interno
�, formato ed utilizzato ai fini della �attivit� amministrativa�, mentre la relazione oggetto della 
richiesta d'accesso sarebbe un atto che l'Amministrazione contraente non utilizza per svolgere 
un'attivit� �amministrativa�, ma per fare delle scelte nello svolgimento di una attivit� contrattuale 
(perci� di tipo privatistico). 

Il T.A.R. del Lazio respingeva il ricorso, escludendo la possibilit� di accesso sul presupposto 
della strumentalit� della relazione all'esercizio di un'attivit� privatistica della P.A. 
Questa tesi � stata contestata dall'impresa, che ha impugnato la decisione dei giudici di 
prime cure proponendo l'appello accolto dal Consiglio di Stato, con la sentenza che si pubblica. 

b) La soluzione del Consiglio di Stato. 

Il Consiglio di Stato, con la decisione in epigrafe, riconosce la sussistenza del diritto di accesso, 
�posto che la natura di un atto interno non esclude l'applicazione di tale disciplina�. In sostanza, 
la sentenza che si pubblica ribadisce la soluzione data in un precedente caso analogo, chiarendo che 
�la relazione del direttore dei lavori si inserisce nella fase amministrativa dell'esame e della decisione 
sulle riserve, nella quale la pubblica amministrazione compie un'attivit� di valutazione che ha le 
caratteristiche di un procedimento amministrativo di definizione delle controversie, soggetto al principio 
di imparzialit� ed i cui atti, anche se relativi ad un rapporto sostanziale di diritto privato, sono 
sottoposti alla disciplina della legge 7 agosto 1990 n. 241� (Cons. Stato sez. VI, 11 dicembre 1996, 

n. 1744, in Giust. Civ., 1997, I, 547; Giur. It., 1997, III,l, 187; Riv. Giur. Edil., 1997, I, 342). 
Per il Consiglio di Stato, la relazione del direttore dei lavori inerisce ad un rapporto meramente 
professionale con l'Amministrazione per l'assolvimento dei compiti della medesima e non 
ha pertanto alcuna esigenza di riservatezza idonea a sottrarla al diritto di accesso ai sensi degli 
artt. 22 ss. della legge 7 agosto 1990 n. 241. L'Amministrazione ha l'obbligo di consentire ali'appaltatore 
l'accesso alla relazione �separata e segreta� del collaudatore, prevista dall' art.100 regio 
decreto n. 350 del 1895, in quanto atto necessario del procedimento di collaudo, reso nei confronti 
dell'Amministrazione e dell'appaltatore. 

Si aggiunge che, nella fattispecie, troverebbe applicazione il principio per cui non pu� essere 
negato l'accesso ad un atto, la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi 
giuridici, anche se, al momento della domanda, sia pendente un giudizio fra le parti riguardante 
l'esecuzione del contratto di appalto. 

e) I dubbi della tesi contraria. 

La premessa teorica da cui prende le mosse tale indirizzo giurisprudenziale risulta chiaramente 
indicata in una recente decisione, in cui si � infatti precisato che �il diritto di accesso ai 
documenti amministrativi si configura come autonoma posizione giuridica, tutelata indipendentemente 
dalla pendenza di un procedimento giurisdizionale, ed � finalizzato ad assicurare la tra




RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

466 

L'adito T.A.R. ha respinto il ricorso. 

2. La societ� appellante sostiene di aver diritto d'accesso ai documenti in questione, 
contestando le affermazioni della sentenza appellata. 
In quella sede, il primo giudice ha negato il diritto d'accesso, assumendo che la 
relazione del Direttore dei lavori sulle riserve dell'appaltatore � prevista dall'art. 63, 
comma 4, lett. i), del regio decreto 25 maggio 1895 n. 350, mentre quella del collaudatore, 
prevista dall'art. 100, penultimo comma, � qualificata �separata e segreta
�; nella specie, trattasi di relazione che l'amministrazione contraente non utilizza 
per svolgere una attivit� amministrativa, ma per operare delle scelte nel dispiegamento 
di una attivit� contrattuale (privatistica). 

3. L'amministrazione intimata, costituitasi in giudizio, ha sostenuto l'infondatezza 
del ricorso, chiedendone il rigetto. 
4.Ad avviso del Collegio, il ricorso merita accoglimento. 

4.1. Nell'ambito delle norme in materia di procedimento amministrativo, di cui 
alla legge 7 agosto 1990 n. 241, il Capo V pone un principio generale di diritto d'acsparenza 
dell'azione amministrativa ed a favorirne lo svolgimento imparziale per la tutela di 
situazioni giuridiche rilevanti, cos� concorrendo alla visibilit� del potere pubblico. Ne consegue 
che tale diritto � azionabile sia allorquando si manifesta in sede partecipativa al procedimento 
amministrativo (accesso partecipativo) sia quando attiene alla conoscenza di atti che abbiano 
spiegato effetti diretti o indiretti nei confronti dell'istante (accesso informativo)� (Cons. Stato, 
sez. IV, 15 gennaio 1998 n. 14, resa nella nota controversia tra la Soc. Salini costruzioni e la 
SACE, in Foro Amm., 1998, 26; ed in Cons. Stato, 1998, I, 2). 

Si aggiunge che �l'attivit� amministrativa, alla quale il diritto di accesso � correlato, comprende 
sia l'attivit� di diritto amministrativo sia l'attivit� di diritto privato, che, come la prima, 
costituisce cura concreta di interessi della collettivit�. Pertanto, pu� essere escluso il diritto di 
accesso solo nei casi di attivit� di tipo puramente privatistico, ancorch� svolta dalla p.a., e del tutto 
disancorata dall'interesse pubblico di settore istituzionalmente rimesso alle cure dell'apparato 
amministrativo� (Cons. Stato, sent. n. 14/1998, cit., nello stesso senso: Cons. Stato, sez. IV, 4 febbraio 
1997 n. 82). Ci� in quanto sono considerati �documenti amministrativi, nei confronti dei 
quali"pu� essere esercitato il diritto di accesso, sia i documenti relativi ad atti di diritto pubblico e 
sia quelli relativi ad atti di diritto privato della P.A.: infatti, la legge n. 241 del 1990 correla il diritto 
di accesso all'attivit� amministrativa, la quale comprende non solo le ipotesi in cui l'amministrazione 
agisca con poteri autoritativi, ma anche quelle in cui sussista una connessione dell'attivit� 
con le finalit� di ordine generale, per il perseguimento delle quali il soggetto ha ricevuto 
l'investitura di diritto pubblico� (sent. ult. cit.). Si va dunque consolidando la tesi secondo la quale 
�il diritto di accesso ai documenti amministrativi � correlato all'attivit� e non agli atti della p.a., e 
pertanto esso pu� esercitarsi anche con riferimento ad atti di diritto privato della medesima amministrazione
� (Cons. Stato, sez. IV, 30 aprile 1998 n. 716, in Foro Amm., 1998, 1041; Cons. Stato, 
1998, I, 583; ma si veda pure Cons. Stato, sez. VI, 14 aprile 1998 n. 484, in Foro Amm., 1998, 
1118, in cui si esclude il diritto di accesso �per acquisire la conoscenza di atti e documenti inerenti 
ad attivit� di diritto privato, quale � quella svolta dall'Ente poste italiane nell'ambito di rapporto 
giuridici privatistici di risarcimento di danni extracontrattuali per fatto di privati�). 

Non sembra, tuttavia, che simili postulati teorici possano giustificare appieno la conclusione 
cui perviene la decisione in rassegna, che ad un esame attento non resiste ad una serie di obiezioni. 
Come � noto, infatti, lo stesso Consiglio di Stato ha chiarito che �l'accesso agli atti amministrativi 
non pu� risolversi in uno strumento di controllo generalizzato sull'intero operato del



PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

467 

cesso ai documenti amministrativi, con le modalit� stabilite dalla stessa legge, al 
fine di assicurare la trasparenza dell'attivit� amministrativa e di favorirne lo svolgimento 
imparziale. 

Il diritto � riconosciuto a chiunque vi abbia interesse per la tutela di situazioni 
giuridicamente rilevanti e concerne i documenti amministrativi, ivi compresi gli atti 
interni, formati dalle pubbliche amministrazioni o, comunque, utilizzati ai fini del1'
attivit� amministrativa (art. 22). 

Il successivo art. 24 della legge n. 241/1990 autorizza il Governo a disciplinare 
le modalit� di esercizio del diritto d'accesso, per contemperarlo con l'esigenza di 
salvaguardare altri interessi pubblici e privati, tra cui la riservatezza di terzi, persone, 
gruppi ed imprese; in tal caso, per�, � garantita agli interessati la visione degli 
atti relativi ai procedimenti amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per 
curare o per difendere i loro interessi giuridici. 

4.2. In base ai principi sopraenunciati, la natura �interna� della relazione del 
direttore dei lavori non vale a sottrarla al diritto di accesso posto che la natura di un 
atto interno non esclude l'applicazione di tale disciplina (Cons. Stato sez. VI, 11 
dicembre 1996 n. 1744). 
l'amministrazione, come se fosse un'azione popolare� (Cons. Stato, sez. IV, 9 dicembre 1997 n. 
1359, in Cons. Stato 1997, I, 1658 (s.m.); nello stesso senso: Cons. Stato, sez. V, 14 aprile 1997 

n. 362, in Foro amm. 1997, 1095 (s.m.) ed in Cons. Stato 1997, I, 508). Invero, il diritto di accesso 
rappresenta una sorta di contrappeso in favore del privato nei confronti dell'Amministrazione, 
che si trovi in una posizione di supremazia speciale ed eserciti poteri pubblicistici (Cons. Stato, 
sez. IV, 5 giugno 1995 n. 4121; 17 dicembre 1996 n. 1559 e 11 dicembre 1996 n. 1734). Ne deriva 
che laddove, come nel caso di specie, il privato e la P.A. siano in condizione di sostanziale 
pariteticit�, perch� parti di un rapporto contrattuale, qual � quello di appalto, non esiste la materia 
oggetto dell'istituto dell'accesso. La stessa finalit� dell'accesso -come evidenziata dalla 
legge n. 241/1990 -e cio� la verifica della trasparenza ed imparzialit� dell'attivit� amministrativa 
renderebbe chiaro che l'accesso � utilizzabile solo in presenza di posizioni di interesse legittimo 
e cio� dove vi sia stato esercizio di attivit� amministrativa in senso tecnico. 
La circostanza che il contratto di appalto di opere pubbliche conosca ed applichi, per la fase 
della scelta ciel contraente, regole a tutela di interessi pubblici, non consente di estendere alla fase 
dello svolgimento del rapporto l'esercizio di poteri pubblicistici che giustifichino l'utilizzabilit� del 
contrappeso dell'accesso da parte del privato. Soprattutto tale utilizzabilit� non ha ragione d'essere 
con riferimento al profilo della soluzione delle vertenze nascenti nel corso della esecuzione del contratto 
d'appalto: trattasi di vertenze la cui soluzione � affidata al giudice ordinario (o al collegio arbitrale) 
per la natura sostanziale di diritti soggettivi delle posizioni fatte valere in giudizio, dove il giudice 
� chiamato ad interpretare ed applicare i patti contrattuali, non gi� a valutare eventuali 
difformit� del comportamento dell'Amministrazione contraente dall'interesse pubblico perseguito. 

Infatti, nelle vertenze nascenti dalle riserve (o domande) dell'appaltatore l'Amministrazione contraente 
ha come suo interlocutore solo il proprio appaltatore e come metro di giudizio le norme contrattuali. 
Il procedimento attraverso il quale l'Amministrazione opera le sue scelte interpretative e, 
quindi, comportamentali resta del tutto irrilevante ai fini della soluzione delle vertenze proposte dal1 
'appaltatore. Voler conoscere gli atti interni e prodromici a tali scelte significa voler entrare nei processi 
di formazione della volont� dell'Amministrazione e come ci� per il privato non � consentito, n� 
� rilevante ai fini del decidere, altrettanto non � consentito ed � irrilevante per il soggetto pubblico. 

Si osserva poi, con riferimento al caso di specie, che la natura assolutamente interna della 
relazione del Direttore dei lavori e della relazione separata e segreta del collaudatore discendono, 
oltre che dalla loro qualificazione di atti segreti (la qualifica � espressamente dettata per la rela




RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

468 

Peraltro, la relazione del direttore dei lavori si inserisce nella fase amministrativa 
dell'esame e della decisione sulle riserve, nella quale la pubblica amministrazione 
compie un'attivit� di valutazione che ha le caratteristiche di un procedimento 
amministrativo di definizione delle controversie, soggetto al principio di imparzialit� 
ed i cui atti, anche se relativi ad un rapporto sostanziale di diritto privato, sono 
sottoposti alla disciplina della legge 7 agosto 1990 n. 241 (Cons. Stato -sez. VI, 

n. 1744/1996 cit.). 
4.3. Parimenti, l'amministrazione ha l'obbligo di consentire all'appaltatore 
l'accesso alla relazione �separata e segreta� del collaudatore, prevista dall'art. 100 
regio decreto n. 350 del 1895, in quanto atto necessario del procedimento di collaudo, 
reso nei confronti dell'amministrazione e dell'appaltatore. 
Peraltro, nella fattispecie, trova applicazione il principio per cui non pu� essere 
negato l'accesso ad un atto, la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere 
i propri interessi giuridici, anche se, al momento della domanda, sia pendente 
un giudizio fra le parti riguardante l'esecuzione del contratto di appalto. 

5. Per le considerazioni svolte, il ricorso va accolto, con conseguente riforma 
della sentenza appellata. 
Sussistono equi motivi per compensare integralmente tra le parti le spese del 
doppio grado di giudizio. 

zione del collaudatore, ed � per coerenza da attribuirsi anche a quella del decreto legge finalizzata 
allo stesso scopo), dal fatto che rappresentano manifestazioni di opinioni rese da organi straordinari 
e provvisori della P.A. nell'esercizio di speciali attivit� intellettuali affidate a soggetti molto 
spesso estranei alla P.A. ed altrettanto spesso dotati di qualifiche professionali che rappresentano 
le ragioni dell'incarico. Sono dunque pareri tecnici nei quali vengono rappresentati tutti gli argomenti 
a sostegno di una certa soluzione del caso sottoposto che l'amministrazione deve acquisire 
senza per� dovervisi conformare (si tratta di pareri non vincolanti), senza dover neppure motivare 
la ragione di eventuale dissenso e senza doverli neppure menzionare nelle proprie determinazioni. 

Quest'impostazione sembra peraltro chiaramente avallata dal dato normativo che, espressamente 
per la relazione dell'organo di collaudo (art. 700 penultimo comma Reg. 350/1895) ed 
implicitamente, secondo una nota prassi, per la relazione del decreto legge, vuole che detti documenti 
siano destinati solo ali' Amministrazione appaltante con i caratteri della separatezza e 
segretezza. Tali caratteri sono evidentemente finalizzati a consentire scelte consapevoli dell'opinione 
di due organi tecnici, ma non condizionate da queste. E, soprattutto, ci� deve essere vero e 
valido quando lAmministrazione, come qualsiasi altro soggetto, deve difendersi in giudizio contro 
pretese che nella sua scelta definitiva ed autonoma abbia ritenuto di respingere. 

Riservatezza, separatezza e segretezza sono dettate e volute per lasciare alla amministrazione 
contraente libert� di scelta ed autonomia di difesa. 

Lo stesso Consiglio di Stato, del resto, aveva sempre circoscritto in passato la sfera dell'accesso 
ai soli atti inerenti all'esercizio di potest� pubblicistiche (v. per tutte: Cons. Stato, sez. IV, 
sent. 5 giugno 1995, n. 412, in Giorn. dir. amm., 1995) finch� non ha mutato orientamento con la 
sentenza n. 82/97, che accoglieva l'opposto principio dell'accesso agli atti di diritto privato. Ma 
la sentenza n. 14/98 (gi� citata) ha notevolmente ridimensionato il revirement giurisprudenziale, 
riconoscendo che potrebbe �condurre ad effetti ultronei ... arrivando a rendere estensibile -sempre 
e comunque -ogni tipo di documento posto in essere ... da una Pubblica Amministrazione�. 

La sentenza che si pubblica non pu� dunque essere condivisa, perch� mostra di ignorare tali precedenti 
insegnamenti, accogliendo un'interpretazione eccessivamente estensiva che mal si coniuga 
con l'esatta portata delle norme di cui agli artt. 22 e segg. della legge 241/90. 

FEDERICO BASILICA 



PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

469 

P.Q.M 
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, accoglie il ricorso 
in epigrafe specificato (omissis). 

CONSIGLIO DI STATO, sez. VI, 15 luglio n. 1078 -Pres. Giovannini -Est.Caringella 
-De Cristofaro Antonio (avv. Zampone) c. Sovrintendenza scolastica 
della Lombardia e Ministero della Pubblica Istruzione (avv. Stato Guida). 

Impiego pubblico -Cessazione della materia del contendere -Provvedimento pienamente 
satisfattorio dell'interesse giuridico a base del ricorso originario. 

Deve dichiararsi la cessazione della materia del contendere quando l 'amministrazione, 
adottando provvedimento pienamente satisfattorio in ordine all'interesse 
giuridico posto a sostegno del ricorso originario, ha annullato il provvedimento 
impugnato (1 ). 

(1) La decisione del Consiglio di Stato in epigrafe offre lo spunto per riesaminare l'istituto 
della cessazione della materia del contendere alla luce delle pronunce della giurispmdenza 
amministrati va. 
Per cause di cessazione della materia del contendere si intendono in genere tutte quelle che 
assicurano soddisfacimento delle pretese e degli interessi del ricorrente da parte dell'amministrazione. 
Il giudice amministrativo dovr� in tal caso pronunciare una sentenza dichiarativa di improcedibilit� 
e di conseguente estinzione del giudizio. 

Si � soliti distinguere tra sentenze di improcedibilit� per cessazione della materia del contendere 
e sentenze di improcedibilit� per sopravvenuta carenza di interesse, ancorch� l'art. 23, 7� 
comma della legge 1034/1971 faccia riferimento soltanto alla cessata materia del contendere, stabilendo 
che �se entro il termine per la fissazione dell'udienza l'amministrazione annulla o riforma 
l'atto impugnato in modo conforme all'istanza del ricorrente, il tribunale amministrativo 
regionale d� atto della cessata materia del contendere e provvede sulle spese�. 

In realt�, a ben vedere, dichiarare il ricorso improcedibile per cessata materia del contendere 
o per sopr�vvenuta carenza di interesse non comporta alcuna differenza pratica, posto che in 
entrambi i casi si produce l'estinzione del giudizio, venendo meno l'interesse del ricorrente. 

Il giudice dichiarer� la cessazione della materia del contendere quando l'amministrazione 
avr� provveduto ad annullare o a riformare l'atto nel senso richiesto dal ricorrente; nei giudizi non 
impugnatori, quando l'amministrazione abbia versato al ricorrente il pagamento delle somme che 
le sono state richieste. 

Effetti satisfattivi per il ricorrente possono aversi anche attraverso l'emanazione di nuovi atti 
che gli attribuiscono una posizione di vantaggio, ed anche in seguito ad un intervenuto mutamento 
della situazione di fatto o di diritto, attraverso l'emanazione di nuove norme. 

I casi di sopravvenuta carenza di interesse sono costituiti invece da situazioni che non si 
pongono come satisfattive dell'interesse del ricorrente, ma impediscono o vanificano il risultato 
vantaggioso che il ricorrente voleva perseguire attraverso l'accoglimento del ricorso. Si pensi 
all'ipotesi in cui il provvedimento abbia esaurito i suoi effetti, o all'emanazione di nuove norme 

o al mutamento della situazione di fatto o di diritto che non consentano pi� l'adozione in favore 
del ricorrente di provvedimenti ampliativi della sua sfera giuridica. 
La carenza di interesse pu� essere altres� causata dal venir meno dell'oggetto stesso del 
provvedimento impugnato o dal venir meno del soggetto o ancora dal venir meno della sua posizione 
legittimante. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

470 


(omissis). 

Il Collegio, aderendo all'istanza formulata dalla difesa del ricorrente, deve 

dichiarare la cessazione della materia del contendere in quanto l'Amministrazione, 
adottando provvedimento pienamente satisfattorio in ordine all'interesse giu


!

Ma il vero nodo da sciogliere in relazione alle pronunce di cessata materia del contendere � 
se sia sufficiente la mera eliminazione dell'atto impugnato da parte della pubblica amministrazione, 
oppure occorra che tale annullamento produca il pieno ed integrale soddisfacimento dell'interesse 
del ricorrente. 

Prima dell'entrata in vigore della legge n. 1034 si dividevano il campo due distinti orientamenti 
giurisprudenziali del Consiglio di Stato: l'uno (v. per tutte Cons. Stato, V, 27 agosto 1966 

n. 1079; Cons. Stato, V, 9 marzo 1963 n. 933; Cons. Stato, VI, 9 dicembre 1959 n. 930) riteneva 
che la cessazione della materia del contendere si verificasse solo quando l'atto impugnato fosse 
rimosso dall'amministrazione e ne venissero completamente eliminati gli effetti, in modo che il 
ricorrente potesse ottenere il medesimo risultato che avrebbe ottenuto attraverso la sentenza del 
giudice di accoglimento del ricorso. 
Altra parte della giurisprudenza (Cons. Stato, IV, 12 ottobre 1967 n. 477; Cons. Stato, V, 4 
dicembre 1964 n. 1455; Cons. Stato, IV, 17 settembre 1965 n. 544), di segno opposto all'orienta


mento precedente, riteneva invece che la dichiarazione di cessazione della materia del contendere ~ 
potesse intervenire in seguito all'eliminazione formale dell'atto ed alla sua sostituzione con altro 
atto, ancorch� tale ultimo atto si ponesse come lesivo dell'interesse sostanziale del ricorrente. 

1

Il legislatore ha accolto il primo orientamento, richiedendo nell'art. 23, ultimo comma della ffi 
legge 1034 del 1971 l'annullamento o la riforma dell'atto impugnato �in modo conforme alla I 
istanza del ricorrente�. ~ 

La giurisprudenza prevalente successiva sembra aver tenuto in debito conto la portata innovati-ID 
va di tale disposizione normativa richiedendo ai fini della pronuncia della sentenza di rito per cessa-ru 
zione della materia del contendere che il nuovo atto emanato dall'amministrazione soddisfi piena-~ 
mente le richieste del ricorrente ( Cons. Stato, IV, 7 maggio 1974 n. 348; Cons. Stato, IV, 11 aprile 1978 ~ 

n. 207; Cons. Stato, V, 22 giugno 1979 n. 335). Tuttavia, nonostante il disposto restrittivo dell'art. 23 fil 
ultimo comma della citata legge 1034, si riscontra ancora qualche pronuncia contraria che ammette la ~ 
declaratoria di improcedibilit� anche se il nuovo provvedimento, completamente sostitutivo del pre-~ 
cedente, risulti ugualmente negativo per il ricorrente: v. per tutte Cons. Stato, VI, 18 marzo 1994 n. 
I 
386, laddove si afferma che cessa la materia del contendere e dev'essere dichiarata la improcedibilit� ~j 
del giudizio, in relazione all'art. 23 comma ultimo, legge 6 dicembre 1971 n. 1034, ogni qualvolta si ~:: 
verifichi la sostituzione del provvedimento impugnato ad opera di altro atto, non meramente confer-~ 
mativo o elusivo, che senza essere propriamente satisfattivo della specifica pretesa dedotta in giudizio, ,~ 
modifichi la situazione di diritto e di fatto -in senso favorevole o no -in guisa tale da togliere al 
ricorrente ogni interesse alla pronuncia in ordine alla legittimit� dell'atto impugnato. 

Permane dunque nel tempo l'oscillare della giurisprudenza dei supremi giudici amministra-ID 
tivi circa l'esatta individuazione della formula della cessazione della materia del contendere. 

I 

Tuttavia, a ben vedere, sembra scorgersi nel percorso evolutivo della medesima giurispru-

I denza una linea di tendenza sempre pi� garantista dell'interesse del ricorrente, richiedendosi pre-,._ 
valentemente che il nuovo atto produca effetti pienamente satisfattivi e sia conforme alle istanze ,. 
del ricorrente medesimo (in tal senso Cons. Stato, V, 11 aprile 1991 n. 546; Cons. Stato, VI, 6 ~-�� 
marzo 1992 n. 158; Cons. Stato, VI, 13 aprile 1992 n. 258; Cons. Stato, VI, 22 maggio 1992 n. ffi 
416; Cons. Stato, V, 3 maggio 1994 n. 400; Cons. Stato, IV, 9 ottobre 1997 n. 1125). f~_:. 

Si segnala tuttavia, pur nel solco del riferito orientamento prevalente, una decisione del Consi-~ 
glio di Stato resa in sede di ottemperanza (Cons. Stato, IV, 4 settembre 1996 n. 1007) che ha ritenu-~: 
to sufficiente, ai fini della declaratoria della cessazione della materia del contendere, l'adozione di un , 
autonomo provvedimento o di una serie di atti o comportamenti �denotanti una chiara volont� del-I':: 
l'autorit� amministrativa di soddisfare -ancorch� con programmi e tempi rimessi alla sua valuta-:: 
zione discrezionale -l'interesse che il privato ha fatto valere nel giudizio principale�. te 

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PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

471 

ridico posto a sostegno del ricorso originario, ha annullato il provvedimento impugnato 
con il quale il De Cristoforo era stato escluso dalla sessione riservata di 
insegnamento per la classe LXII/Inglese di cui all'O.M. n. 395/1989 (cfr. decreto 
sovrintendentizio 24 luglio 1997, prot. n. 5056 allegato all'istanza 
difensiva).(omissis) 

CONSIGLIO DI STATO, sez. VI, 17 luglio 1998, n. 1097 -Pres. de Lise -Est. Millemaggi 
Cogliani -Cagossi (avv. Paoletti) c. Ministero dell'Universit�; Universit� 
Cattolica del Sacro Cuore; Regione Lazio (avv. Stato Arena G.). 

Istruzione e scuole -Professori ordinari ed associati -Unitariet� della funzione 
docente -Sussiste -Equiparazione quanto allo status, compiti e responsabilit� 
-Esclusione. 

Istruzione e scuole -Professore associato -Diritto di svolgere attivit� assistenziale 
presso un Policlinico -Non sussiste -Vincolo di dipendenza gerarchica 
dal primario -Sussiste. 

L'unitariet� della funzione docente, alla quale si accompagna uguale garanzia 
di libert� didattica e di ricerca per i professori ordinari e per quelli associati, ha 
riguardo alla prestazione didattica che l'istituzione universitaria fornisce alla collettivit� 
studentesca ma non esclude la persistenza di un differente status, comportante 
compiti e responsabilit� differenziate nell'ambito dell'organizzazione universitaria 
in cui il docente � inserito. 

� legittimo, pertanto, il provvedimento con cui l'universit� cattolica del Sacro 
Cuore non riconosce ai professori associati il diritto di svolgere attivit� assistenziale 
presso il Policlinico Gemelli in completa autonomia, libert� didattica e scientif�ca, 
senza vincolo di dipendenza dal primario (1 ). 

(l) La sentenza in esame approfondisce il problema relativo alla equiparazione dei professori 
ordinari e dei professori associati, riferibile, secondo il Consiglio di Stato, esclusivamente al 
piano dell'attivit� didattica e della libert� scientifica e ci� nel pieno rispetto dell'art. 33 Cost. 
Diverso il rapporto tra le due figure di docenti sotto il profilo dell'espletamento della funzione 
assistenziale e considerata l'equiparazione del professore associato ad aiuto ospedaliero e 
del professore ordinario al medico in posizione apicale ai sensi dell'art. 102 del decreto del Presidnete 
della Repubblica 11 luglio 1980 n. 382, dove le differenze di responsabilit� e di compiti 
ad essi rispettivamente attribuite riemergono alla luce della normativa in materia. 

Sebbene non constino precedenti in termini, la problematica della unitariet� della funzione 
docente contrapposta alle differenze di status e di compiti risulta gi� affrontata in C. Cost. 24/25 
ottobre 1988 n. 990. 

Sulla operativit� della equiparazione dei professori associati alla qualifica di aiuto solo a 
condizione che vi sia stata una previa stipulazione delle convenzioni tra Universit� e Regione, 
ovvero nei limiti di spesa e di organico previsti dalle preesistenti convenzioni tra Regioni, universit� 
ed enti ospedalieri: Cons. di St., sez. V, 10 agosto 1992 n. 725; Cons. di St., sez. V, 5 agosto 
1992 n. 699 e la consolidata giurisprudenza in materia. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

472 


(omissis). 

2.1. Nel merito l'appello � infondato. 
2.2. L'unitariet� della funzione docente, alla quale si accompagna �uguale 
garanzia di libert� didattica e di ricerca� per i professori ordinari e per i professori 
associati, ha riguardo alla prestazione didattica che l'istituzione universitaria fornisce 
alla collettivit� studentesca, ma non esclude la persistenza di una differenza di 
status, comportante compiti e responsabilit� differenziate, nell'ambito dell' organizzazione 
universitaria, in cui il docente � inserito. 
2.3. Alla suddetta differenziazione si ricollega la disciplina contenuta nell'art. 
102 del decreto del Presidente della Repubblica n. 382 del 1980, che prevede l'equiparazione 
dei professori di prima fascia (ordinari) al medico del servizio sanitario 
nazionale in posizione apicale (primario) e di quelli di seconda fascia (associati) 
al medico della posizione intermedia (aiuto). 
La norma in questione non lascia adito a dubbi interpretativi nella parte in cui 
attribuisce ai professori associati una posizione in tutto corrispondente a quella dei 
medici in posizione intermedia dei ruoli regionali, per quanto concerne le �posizioni 
funzionali� (art. 102 4� comma), rispetto alle quali, l'equiparazione economica � 
del tutto conseguenziale, restando dunque escluso che la norma abbia inteso disciplinare 
soltanto il trattamento economico, come erroneamente sostenuto dall'interessato 
nel ricorso introduttivo e ribadito in appello. 

Lo stesso appellante, del resto, sembra avere, da ultimo, abbandonato l'originaria 
linea difensiva (note di udienza del 13 giugno 1997), dando per pacifica la differente 
posizione giuridica dei professori di prima e seconda fascia, alla stregua di quanto disposto 
dall'art. 102 del decreto del Presidente della Repubblica n. 382 del 1980. 

2.4. Del pari non pu� essere condiviso il dubbio di illegittimit� costituzionale 
sollevato dall'appellante con riferimento alla pretesa violazione della legge di delega 
e dell'art. 33 della Costituzione, ad opera del citato art. 102 del decreto del Presidente 
della Repubblica n. 382 del 1980. 
Il principio della piena equiparazione dei compiti e delle responsabilit� dei 
docetJ.ti delle due fasce sopra indicate non trova riscontro nella legge di delega e non 
� salvaguardato dall'art. 33 della Costituzione il quale fa riferimento esclusivamente 
alla funzione docente in s� considerata, e non anche a quella assistenziale, alla 
quale si accompagnano esigenze organizzative della Universit� che esercita il governo 
sulle strutture di ricovero e di cura. 

La Corte costituzionale -come correttamente ricordato dalla Universit� resistente 
-ha avuto modo di precisare (sia pure con riferimento a diversa fattispecie) che le 
differenziazioni inerenti ai compiti ed alle responsabilit� delle due categorie di personale 
docente (mantenute presenti nell'assetto universitario malgrado l' �unitariet� della 
funzione docente� e �l'uguale garanzia di libert� didattica e di docenza�) non � in contrasto 
con gli artt. 3 e 97 della Costituzione (Corte cost. 990 del 24-25 ottobre 1988). 

A maggior ragione non � ravvisabile alcun contrasto con l'art. 33 Cost., ove sia 
ben chiaro che la relazione con i discenti, cui inerisce la garanzia costituzionale, non 
si riferisce ai compiti ed alle responsabilit� dei docenti nell'assetto organizzativo 
dell'Universit�, i quali ben possono essere differenziati sulla base delle differenze di 
status tuttora presenti fra professori di prima e seconda fascia. 


PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

In tale ambito devono essere ricondotte le corrispondenze funzionali tra personale 
medico dei ruoli universitari ed il personale medico del servizio sanitario nazionale 
e le correlative differenze fra doveri e compiti, del tutto coerenti con la prescrizione 
dell'art. 3 1� comma della legge di delega 21 febbraio 1980 n. 28 la quale 
non ipotizza alcun ruolo unico dei professori delle due fasce e pone invece l'accento 
sulla differenziazione dei compiti e delle responsabilit�, come dato distinto dalla 
unitariet� della funzione docente. 

Quest'ultima, del resto, per la correlazione esistente con la funzione assistenziale 
espletata dai sanitari universitari negli Istituti di ricovero e cura di cui l'Universit� 
si avvale, trova sufficiente garanzia nella posizione di �aiuto� riservata al 
professore associato, ove si consideri il rilevante grado di autonomia di cui gode il 
sanitario in questione, nell'area dei servizi a lui affidati (art. 63 decreto del Presidente 
della Repubblica n. 761 del 1979) in contrapposizione al potere generale di 
indirizzo e verifica attribuiti al primario (nel rispetto dell'autonomia professionale 
operativa del personale dell'unit� operativa assegnatagli). 

3. L'appello pertanto deve essere respinto, restando indifferenti nel presente 
giudizio, le modifiche intervenute nella dirigenza del ruolo sanitario (art. 15 del 
decreto legislativo n. 502 del 1992) e quelle statutarie della Universit� cattolica del 
Sacro cuore (art. 42). 
La norma da ultimo citata fra l'altro, non ha eliminato la differenziazione di status 
fra le due categorie di professori, ma ha semplicemente reso possibile (come 
anche reso evidente dalle successive determinazioni adottate dal consiglio di amministrazione 
e dagli accordi intervenuti con le organizzazioni sindacali) l'inquadramento 
�provvisorio e per la durata dell'incarico� -nel II livello, proprio dei dirigenti 
medici -dei professori associati, ai quali sono state assegnate funzioni di 
primario o di aiuto dirigente. 

4. Sulla base di tutte le considerazioni che precedono l'appello deve essere 
respinto (omissis). 
CONSIGLIO DI STATO, sez. VI, 17 luglio 1998 n. 1100 -Pres. Giovannini -Est. 
Millemaggi Cogliani -Ministero Ambiente, Tesoro e Industria ( avv. Stato 
Figliolia) c. Soc. ITA -Industria trasformazioni agroalimentari S.r.l. (avv.ti 
Alba e Manzi). 

Ambiente: protezione e risanamento -Contributo concesso ai sensi dell'art. 14 
comma 3 del decreto legge 31 agosto 1987 n. 361 conv. in legge 29 ottobre 
1987 n. 441 -Revoca del beneficio -Attribuzione al Ministero dell' Ambiente 
di un autonomo potere di valutazione della congruit� dell'intervento 
autorizzato -Esclusione -Previo parere della commissione tecnico scientifica 
per la valutazione della congruit� dei progetti -Necessit�. 

� illegittima la revoca del contributo concesso ad una societ� a norma del/'art. 
14, comma 3, del decreto legge 31agosto1987 n. 361 conv. in legge 29ottobre1987 

n. 441, senza che il Ministero del/ 'Ambiente acquisisca il parere della Commissio

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO .

474 

ne tecnica di cui all'art. 14 comma 7 legge 4111986 alla quale � demandata, ai sensi 

dell'art. 4 del decreto ministeriale 5 luglio 1988 la valutazione degli interventi ai 
fini della loro ammissibilit� al contributo (1). 

(omissis) 

1. Nella controversia in esame, concernente il provvedimento con il quale � 
stato revocato il contributo concesso ad una societ� (allo stato dichiarata fallita) a 
norma dell'art. 14 comma 3 del decreto legge 31agosto1987, n. 361, convertito in 
legge, con modificazioni, dall'art. 1, 1� comma, legge 29 ottobre 1987, n. 441, 
assumono preminente rilievo le disposizioni contenute negli artt. 1, 2 e 4 del decreto 
5 luglio 1988, n. 283, emanato dal Ministro dell'ambiente, su parere conforme 
della commissione tecnico-scientifica per la valutazione dei progetti di protezione 
e risanamento ambientale di cui all'art. 14, comma 7, della legge 28 febbraio 1986, 
n. 41, i quali, rispettivamente, hanno disposto l'ammissione a contributo de �la 
gestione e lo smaltimento di qualsiasi tipo di rifiuti� (art. 1), sulla base di un programma 
sommariamente rappresentato in una �scheda progetto� da compilarsi 
secondo l'allegato A) al decreto ministeriale cit. (art. 3), e la rimessione dell'istruttoria 
e della valutazione alla commissione tecnico-scientifica per la valutazione 
dei progetti di protezione e risanamento ambientale di cui all'art 14, comma 7, 
della legge n. 41 dei 1986, sopra citata, da effettuarsi �sulla base dell'analisi delle 
schede progetto, con particolare riferimento ai costi previsti, ai benefici attesi, al 
valore attuale netto, al saggio di rendimento interno, alle ipotesi di gestione ed alla 
soluzione tecnica prospettata� (art. 4). 
2. Nel suddetto quadro regolamentare, mentre � demandato al Ministro dell'ambiente 
di determinare la lista degli interventi ammessi al contributo, e di definire �le 
modalit� per il trasferimento dei fondi e le fasi dell'attivit� per il controllo e la verifica 
degli interventi medesimi� non si rinviene n� l'attribuzione, alla medesima Autorit�, di 
alcun potere autonomo di valutazione della congruit� dell'intervento autorizzato, in 
relazione, in particolare, �ai benefici attesi, al valore attuale netto, al saggio di rendimento 
interno, alle ipotesi di gestione ed alla soluzione tecnica prospettata�, n�, tanto 
meno, la comminatoria di un'automatica ipotesi decadenziale per effetto della non 
coincii:lenza della realizzazione con il progetto di larga massima delineato nella scheda. 
Ne consegue che la revoca del beneficio accordato, proprio in quanto basantesi 
su accertamenti e valutazioni tecniche di organi differenti da quello normativamente 
deputato alla valutazione tecnico-scientifica dell'intervento, avrebbe richie


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(1) Non constano precedenti in termini. 
La decisione respinge la tesi, proposta dal Ministero dell'Ambiente, in ordine alla configurabilit� 
della revoca del contributo quale misura sanzionatoria nei confronti della societ� inizial


ii 

mente ammessa al finanziamento, derivante dalla non corrispondenza tra la scheda -progetto pre


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sentata ai fini dell'ammissione e l'impianto di smaltimento realizzato, ovvero quale effetto 
risolutivo conseguente alle rilevate inadempienze. 

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Il Consiglio di Stato, configurando la misura applicata quale atto di revoca vero e proprio, 

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richiede, secondo il principio del contrarius actus, la valutazione tecnico-scientifica del medesi.


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mo organo deputato alla verifica della congruit� dell'intervento autorizzato. 

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PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

sto (a prescindere dalla osservanza delle prescrizioni di cui alla legge n. 241 del 
1990, delle quali pure parte ricorrente ha denunciato la violazione con il ricorso 
introduttivo) il previo, vincolante parere della medesima Commissione tecnicoscientifica 
per la valutazione dei progetti di protezione e risanamento ambientale di 
cui all'art. 14, comma 7, della legge n. 41 del 1986, alla quale, in definitiva, doveva 
essere rimesso l'apprezzamento discrezionale della rilevanza delle diversit� 
riscontrate fra la realizzazione ed il progetto rappresentato nella scheda, in relazione 
agli obiettivi che avevano giustificato l'ammissione al finanziamento. 

3 .1. Alla luce delle considerazioni che precedono, il provvedimento impugnato 
non si sottrae n� alla censura di genericit� della motivazione, n� a quella di violazione 
del decreto ministeriale n. 283 del 1988 (rispettivamente contenute nel terzo e 
nel secondo motivo del ricorso originari), sulla cui base il Tribunale � pervenuto alla 
decisione di accoglimento. 
3.2. Per il primo profilo, deve rilevarsi che le diversit� tardivamente riscontrate 
in sede di sopralluogo erano state, al contrario opportunamente evidenziate e giustificate 
dalla stessa impresa mediante la presentazione di un ulteriore progetto di 
massima sul finire del 1990, senza che a ci� avessero fatto seguito osservazioni del1 
'Amministrazione o interruzioni delle erogazioni dei ratei di contributo. 
Ci� posto, considerata la sommariet� della progettazione richiesta in sede di 
presentazione della domanda, a norma del pi� volte citato decreto ministeriale del 
1988, l'irrilevanza della tipologia del rifiuto trattato o della forma di recupero ai fini 
della ammissibilit� al contributo, secondo quanto previsto dall'art. 14 3� comma 
dell'art. 14 decreto legge n. 361 del 1987, e la mancanza di tempestive contestazioni 
dell'Amministrazione al nuovo progetto di massima presentato dalla societ� interessata, 
avvalora i rilievi mossi dalla ricorrente e condivisi dal giudice di primo 
grado in ordine alla inidoneit� delle ragioni addotte a giustificare il provvedimento 
di revoca, adottato sulla mera base di un sopralluogo tecnico ed in assenza della 
valutazione dell'organo tecnico-scientifico a ci� deputato. 

3.3. Sotto differente ed assorbente profilo, deve ritenersi illegittimo il provvedimento 
con il quale il Ministro dell'ambiente revoca il contributo in conto capitale 
accordato a norma dell'art. 14, comma 3, del decreto legge 31 agosto 1987, n. 
361, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, 1� comma, legge 29 ottobre 
1987, n. 441 (per i programmi di investimento destinati a realizzare o adeguare 
impianti per il recupero dai rifiuti di materiali e di fonti energetiche, ovvero ad 
attuare progetti pilota per la gestione e lo smaltimento di qualsiasi tipo di rifiuti) sulla 
base di sopralluoghi tecnici che abbiano accertato modifiche strutturali rispetto 
alle indicazioni di massima contenute nella scheda progetto, implicanti la valutazione 
della mancanza di collegamento funzionale degli impianti realizzati con il 
recupero energetico prefigurato nel progetto -senza la previa acquisizione del 
parere della Commissione tecnico-scientifica per la valutazione dei progetti di protezione 
e risanamento ambientale di cui all'art. 14, comma 7, della legge 28 febbraio 
1986, n. 41, alla quale � demandata, a norma dell'art. 4 del decreto ministeriale 
5 luglio 1988, n. 283 la valutazione degli interventi, ai fini della loro 
ammissibilit� al contributo. 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO' 

476 

4. Per completezza di indagine, va poi detto che -abbandonato dalla stessa 
appellante l'argomento relativo alla garanzia fideiussoria -l'ipotesi sanzionatoria 
sulla quale si incentra la difesa dell'Amministrazione non appare legittimamente 
sostenibile neppure alla luce delle ulteriori ragioni poste alla base del provvedimento 
impugnato, essendo sufficientemente emerso, nel giudizio di primo grado come 
la mancanza delle prescritte autorizzazioni fosse riconducibile esclusivamente a difficolt� 
frapposte dalle varie amministrazioni (regionale, comunale e sanitaria) di 
volta in volta superate, anche con l'intervento dell'autorit� giudiziaria. 
5. Sulla base, dunque, di tutte le considerazioni che precedono, l'appello deve 
essere respinto (omissis). 
CONSIGLIO DI STATO, sez. VI, 4 settembre 1998 n. 1210 -Pres. de Lise -Est. 
Caringella -Ministero dei beni culturali ed ambientali (avv. Stato Ferri) c. 
Comunit� Montana degli Alburni (avv. Marenghi e avv. Lanocita) e nei confronti 
di Societ� Italiana per condotte d'acqua S.p.A. (avv. Clarizia) e Associazione 
italiana per il WWF e Associazione Lega per L'Ambiente (avv. Petretti). 

Bellezze naturali -Annullamento ministeriale di nulla-osta paesaggistico -Termine 
-Decorrenza -Deliberazione Giunta Comunit� Montane -Esclusione 
-Provvedimento Presidente -Invio documentazione -Motivazione -Pretermissione 
valutazione compatibilit� ambientale -Sufficienza. 

(Art. 82, comma 9 d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616). 

La delibera di giunta della Comunit� Montana, limitandosi alla mera ricognizione 
del parere favorevole della Commissione beni ambientali della Comunit� 
Montana, assume i connotati di atto endoprocedimentale, dovendosi riconoscere al 
provvedimento autorizzativo del Presidente della Comunit� Montana l'effetto di 
rimuovere il limite legale del!' attivit� da autorizzare cui � ricollegabile il decorso 
del termine per l'esercizio de potere di annullamento ministeriale (1). 

� tempestivo il decreto adottato nel termine calcolato dal giorno in cui la 
Comunit� ha inviato al Ministero la documentazione richiesta (2). 

(1) Non si rinvengono precedenti in termini. Va, peraltro, richiamata quella giurisprudenza 
del Consiglio di Stato in tema di deliberazioni di Giunta Regionale secondo cui, nel quadro del 
nostro ordinamento, pur spettando alla Giunta il compito di formare la volont� dell'Ente, ovvero 
di determinare il contenuto dei provvedimenti amministrativi ad esso imputabili, tale volont� non 
� tuttavia in grado di attuarsi autonomamente necessitando dell'intervento dell'organo che ha la 
rappresentanza esterna dell'Ente, ossia del suo Presidente, il quale porta ad effetto la precedente 
deliberazione mediante un proprio decreto dotato di rilevanza esterna (C.d.S., sez. IV, 23 ottobre 
1991 n. 847). Ai fini della decorrenza del termine per impugnare il relativo atto vedasi C.d.S., 
A.P., 12 gennaio 1984 n. 2, secondo cui, una volta conosciuto il decreto del Presidente della Giunta 
Regionale, emesso previa conforme delibera della Giunta, la tardiva conoscenza dell'atto collegiale 
non vale a riaprire il termine per il ricorso. 
(2) Sulla perentoriet� del termine di sessanta giorni per l'adozione del provvedimento di 
annullamento ministeriale adottato ai sensi dell'art. 82, 9� comma del decreto del Presidente della 
Repubblica n 61611977 come modificato dalla legge 8 agosto 1985 n. 431, decorrente dalla rice

PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

477 

� legittimo l'annullamento che si limiti a rilevare il vizio di legittimit� del 
nulla-osta consistente nella pretermissione del vaglio di compatibilit� dell'opera 
con il contesto ambientale (3). 

(omissis). 

Con il primo motivo di appello il Ministero appellante si duole che il Giudice 
di prime cure, nel fissare il dies a quo del termine di cui all'art. 82, 9� comma, del 
decreto del Presidente della Repubblica n. 61611977 per l'esercizio del potere di 
annullamento del nulla osta paesaggistico, abbia considerato la delibera della gil,mta 
della comunit� montana, avente carattere meramente interno, e non il provvedimento 
autorizzatorio adottato dal Presidente. 

La censura � fondata. 

Dalla documentazione in atti si ricava che la delibera giuntale, non prodotta in 
giudizio ma riportata nel provvedimento presidenziale, non riveste rilevanza esterna 
ma si limita, in un'ottica endoprocedimentale, alla mera ricognizione (�presa 
d'atto�) del parere favorevole della Commissione beni ambientali della Comunit� 
montana. Per converso, la rimozione del limite legale all'esercizio dell'attivit� autorizzanda, 
id est la manifestazione esterna di volont� precettiva alla quale il legislatore 
ricollega il decorso del termine per l'esercizio del potere di annullamento, � sancita 
dal provvedimento del Presidente delle Comunit�, il quale, �Visto il parere 
favorevole della Commissione beni ambientali, vista la delibera della Giunta esecutiva 
n. 334 del 17 giugno 1988, con la quale si prende atto del parere favorevole 
della commissione beni ambientali, autorizza i lavori di realizzazione della strada a 
scorrimento veloce Fondovalle Calore�. 

Posto che, alla luce del tenore letterale della determinazione impugnata, con il 
solo provvedimento presidenziale � stata resa definitiva ed efficace all'esterno la 
volont�, precedentemente espressa in sede endoprocedimentale, di consentire la realizzazione 
dei lavori stradali, devesi ritenere che da questo momento sia decorso il 
termine per l'attivazione del potere ministeriale di annullamento, non potendosi 
agganciare detto termine ad una pregressa delibera giuntale che, limitandosi ad una 

zione da parte dell'autorit� centrale (e non dei suo organi periferici) delle relative autorizzazioni 
con riferimento alla sola fase di esercizio del potere di annullamento con esclusione dell'ulteriore 
comunicazione o notificazione, v. C.d.S., sez. VI, 3 marzo 1994 n. 241; C.d.S., sez. VI, 16 
luglio 1990 n. 728; C.d.S., sez. VI, 25 luglio 1994 n. 1267; C.d.S., sez. VI, 13 gennaio 1994 n. 
19; C.d.S., sez. VI, 21febbraio1997 n. 313, oltre alle decisioni citate in sentenza. Sulla necessit� 
di motivazione del relativo provvedimento cfr. C.d.S., sez. VI, 19 luglio 1996 n. 968. 

(3) Riguardo ai motivi dell'annullamento, costante � la giurisprudenza del Consiglio di Stato 
che tende a circoscrivere il potere ministeriale alla sola verifica di legittimit� della autorizzazione 
(cfr. C.d.S., sez. VI, 29 gennaio 1994 n. 75; C.d.S., sez. VI, 12 maggio 1994 n. 772 favorevoli 
ad un sindacato esteso al merito T.A.R. Puglia, sez. I Lecce, 21 giugno 1993, n. 520; T.A.R. 
Lombardia, sez. III 2 maggio 1994 n. 289). Ci� � da riconnettersi al riconoscimento in capo 
all'autorit� statale di un potere di vigilanza rispetto all'esercizio di funzioni delegate alle regioni 
in materia di gestione del vincolo che esclude un riesame del merito della valutazione tecnicodiscrezionale 
di compatibilit� ambientale. 
F.Q. 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STA1U" 

478 

mera presa d'atto, non si appalesava diretta ad esprimere in forma precettiva la 
volont� dell'ente. In questa prospettiva non assume rilievo la valutazione della spettanza 
in capo al Presidente della competenza ad autorizzare i lavori, non essendo 
suscettibile di sindacato incidentale il provvedimento sul punto ed assumendo ai 
presenti fini rilievo il momento in cui il Ministero, legittimato ad un controllo successivo 
e non gi� ad un vaglio preventivo di carattere endoprocedimentale, ha avuto 
contezza della definitiva autorizzazione all'effettuazione delle opere de quibus. 

Tanto premesso, considerato che il termine va individuato nel giorno in cui la 
Comunit�, su sollecitazione ministeriale, ha inviato la documentazione richiesta (30 
maggio 1990), deve concludersi per la tempestivit� del decreto impugnato, adottato 
il 19 luglio 1990 (per il carattere non recettizio dell'annullamento ministeriale cfr., 
Cons. Stato, Sez. VI, 16 aprile 1998 n. 496; 9 aprile 1998 n. 460). 

Parimenti fondato � il secondo motivo con cui l'Amministrazione appellante 
censura la decisione di primo grado nella parte in cui la stessa ha stigmatizzato il 
difetto motivazionale del provvedimento ministeriale, limitatosi ad una mera enunciazione 
di valutazioni di merito reiterative di formule di stile senza considerare 
l'importanza della costruenda strada. 

Le conclusioni dei primi giudici non sono condivisibili. 

La determinazione ministeriale di ritiro, lungi dal trasbordare in una inammissibile 
valutazione di merito riservata nella specie alla Comunit� montana, ha rimarcato 
la sussistenza di un vizio di legittimit� rappresentato dalla �mancanza�, alla 
luce dei vincoli ex lege gravanti sulla zona, �di un minimo di motivazione� atto a 
giustificare il rilascio dell'autorizzazione. 

L'esame della documentazione in atti conforta l'esattezza della valutazione 
ministeriale. Il provvedimento presidenziale si limita a rinviare sul punto alla delibera 
giuntale, la quale a sua volta si concreta in una presa d'atto del parere della 
Commissione beni ambientali del 20 febbraio 1987. Detto ultimo parere pretermette 
expressis verbis qualsiasi verifica in merito alla compatibilit� ambientale dei lavori 
autorizzandi nell'assunto che �trattandosi di una infrastruttura attesa dalle popolazioni 
interessate da tempo immemore�, � da ritenersi �superflua ogni ulteriore 
disc.ssione�. In sostanza la valutazione della rilevanza sociale dell'opera si traduce 
nell'illegittima pretermissione del vaglio di armonizzabilit� e compatibilit� dell'opera 
con il contesto ambientale, alla luce del vincolo ex lege gravante sulla zona, 
ossia nella volontaria omissione della verifica che, anche in caso di notevole utilit� 
sociale dell'opera, costituisce il proprium del provvedimento autorizzatorio. 

Le considerazioni che precedono impongono l'accoglimento dell'appello e, in 
riforma della sentenza appellata, la reiezione del ricorso introduttivo (omissis). 

CONSIGLIO DI STATO, sez. VI, 29 settembre 1998 n. 1317 -Pres. De Roberto 
Est. Minicone -Pagano (avv. Capunzo) c. Ministero dell'Universit� e della 
Ricerca Scientifica e Tecnologica (avv. Stato Bruni N.). 

Giustizia amministrativa -Giudicato -Estensione agli estranei alla lite Discrezionalit�. 



PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

479 

Giustizia amministrativa -Giudicato -Estensione ai soli soggetti titolari di 
giudizi pendenti -Legittimit�. 

L'estensione degli effetti di un giudicato a soggetti estranei alla lite costituisce, 
per l'Amministrazione, esercizio di un potere ampiamente discrezionale, e non 
adempimento di uno specifico obbligo, a fronte del quale non � dato rinvenire, di 
norma, posizioni di pretesa azionabili in sede di giudizio di legittimit� (1 ). 

Non pu� qualificarsi discriminatorio il comportamento dell'Amministrazione 
che si sia risolta ad estendere il giudicato a dipendenti estranei alla lite, i quali avessero 
in corso giudizi pendenti per motivi analoghi a quelli positivamente risolti dalla 
sentenza passata in giudicato, senza disporre in ugual modo nei confronti di altri, le 
cui situazioni fossero divenute insuscettibili di annullamento in sede giurisdizionale, 
attesa la diversit� delle posizioni dei dipendenti fra loro e dell'Amministrazione circa 
il pericolo di annullamento di atti da cui tali situazioni derivano (2). 

(omissis). 

1. Il prof. Emilio Pagano, docente universitario partecipante con esito sfavorevole 
al concorso a 15 posti di prima fascia del raggruppamento Ml5 (prima disciplina: 
Diritto amministrativo internazionale), ripropone, in sede di appello, le proprie 
doglianze contro il provvedimento in data 7 agosto 1992, con cui il Ministero dell'Universit� 
e della Ricerca Scientifica e Tecnologica ha negato l'estensione, in suo favore, 
del giudicato di cui alle sentenze del T.A.R. del Lazio, sez. I, n. 1773 del 1987 e di 
questa Sezione, n. 5 del 1989, che avevano annullato, per difetto di motivazione, il giudizio 
negativo formulato nei confronti di un altro candidato al medesimo concorso. 
2. L'appello � infondato. 
3. � principio consolidato in giurisprudenza che l'estensione degli effetti di un 
giudicato a soggetti estranei alla lite costituisce, per l'Amministrazione, esercizio di 
un potere ampiamente discrezionale -e non adempimento di uno specifico obbligo 
-a fronte del quale non � dato rinvenire, di norma, posizioni di pretesa azionabili 
in sede di giudizio di legittimit�. 
(1) Con la decisione in esame il Consiglio di Stato ribadisce la propria giurisprudenza in 
materia di estensione del giudicato a soggetti estranei alla lite, affermando che tale estensione 
rientra in un potere discrezionale dell'Amministrazione e non costituisce un vero e proprio obbligo 
giuridico, sindacabile sotto il profilo della manifesta ingiustizia e della disparit� di trattamento 
(cfr., in termini, Cons. Stato, sez. V, n. 1195 del 1997; sez. VI, n. 20, 21e22 del 1997; sez. VI, 
n. 1290 del 1996; sez. V, n. 888 del 1996; sez. VI, n. 1731del1994; sez. V, n. 411del1992). 
(2) In particolare, il Consiglio di Stato evidenzia che non � discriminatorio il comportamento 
dell'Amministrazione che estende il giudicato a soggetti che avevano in corso giudizi analoghi, 
senza disporre in egual modo nei confronti di altri soggetti le cui situazioni fossero divenute insuscettibili 
di annullamento in sede giurisdizionale: cfr., in termini, Cons. Stato, sez. VI, 6 giugno 
1989, n. 729, in Il Consiglio di Stato 1989, I, 757. 
Sulla natura e i limiti soggettivi del giudicato amministrativo, si veda, specificamente, F. 
BENVENUTI, Giudicato (dir. amm.), in Enc. del diritto, 893 e ss. ; SATTA, Giustizia amministrativa, 
Padova, Cedam 1997, 498 e ss. 

G.M. 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

e

480 

Ci� in quanto, una volta che il rapporto giuridico si sia consolidato in capo ad 
un soggetto per effetto della mancata impugnazione dell'atto dal quale derivi, la possibilit� 
di beneficiare degli effetti di un giudicato formatosi aliunde deve considerarsi 
un evento eccezionale, il quale deve risultare sorretto da un pubblico interesse 
di notevole spessore, che giustifichi, appunto, il riesame di situazioni da tempo gi� 
portate ad effetto, con tutti i loro risultati conseguenziali. 

3.1. D'altra parte, la regola codificata dall'art. 22 decreto del Presidente della 
Repubblica 1� febbraio 1986 n. 13, invocata dall'appellante (secondo la quale �ove una 
pubblica amministrazione intenda procedere ad estendere in forma generalizzata gli 
effetti soggettivi di giudicati amministrativi in materia di impiego pubblico, le relative 
decisioni sono adottate previa consultazione con le confederazioni sindacali maggiormente 
rappresentative su base nazionale�), persegue unicamente lo scopo di ricondurre 
ad unit� le iniziative di ciascuna Amministrazione volte all'estensione a terzi di 
giudicati amministrativi, per esigenze di uniformit� e di contenimento della spesa pubblica, 
ma non crea certo diritti di estensione erga omnes dei giudicati stessi. 
3.2. Nel caso che interessa, oltretutto, non � dato neppure ravvisare quella omologazione 
di posizioni soggettive, che costituisce il presupposto ineliminabile di 
qualsiasi iniziativa amministrativa volta a valutare l'opportunit� di applicare su un 
piano pi� generale una statuizione particolare resa in sede giurisdizionale, giacch�, 
indipendentemente dalla circostanza concreta, rilevata dal primo giudice, che il prof. 
Pagano non era stato ammesso (a differenza del prof. Miele) alla valutazione finale, 
non pu� non osservarsi che i giudizi nei confronti dei candidati ad una procedura 
concorsuale sono, per loro intrinseca natura, strettamente individuali, onde la caducazione 
di uno di essi, per vizio di difetto di motivazione, non � immediatamente trasferibile 
ai giudizi resi nei confronti degli altri. 
3.3. Ed invero, quel che il ricorrente pone a presupposto per invocare, in via 
estensiva, la rinnovazione del giudizio formulato nei propri confronti dalla Commissione 
esaminatrice (assenza della indicazione delle ragioni che avevano indotto 
quest'ultima a ritenere prevalenti, nel caso esaminato, gli elementi negativi) non � 
vizio desumibile automaticamente dalla sua valutazione come non idoneo, ma 
postula che l'Amministrazione debba compiere una ulteriore analisi per verificare 
se, in detta valutazione, possano o no rinvenirsi le stesse carenze logiche rilevate dal 
giudice amministrativo nel caso sottoposto alla sua cognizione. 
In altri termini, l'attivit� che si pretende, nel caso di specie, non si esaurisce nel 
mero esercizio del potere discrezionale di far luogo, per ragioni di equit�, al trattamento 
uguale di posizioni incontestatamente identiche, ma comporta il previo accertamento, 
in via amministrativa, della sussistenza di elementi di assimilabilit� fra la 
posizione dell'istante e quella interessata dal giudicato, ovverosia un riesame dell'operato 
della Commissione nel singolo caso, non esigibile, una volta che si sia prestata 
acquiescenza, attraverso la mancata impugnazione, al provvedimento negativo. 

4. Per superare un siffatto ostacolo concettuale all'accoglimento della propria pretesa, 
l'istante, con il secondo motivo di appello, individua, peraltro, un vizio di disparit� 
di trattamento nell'operato dell'Amministrazione, desumibile dalla circostanza 
che quest'ultima si sarebbe, in realt�, risolta ad operare l'estensione del giudicato nei 

PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 

confronti di altro concorrente (il prof. Valenti), anch'esso estraneo alla lite e versante 
nella medesima posizione di non idoneo, onde il diniego a lui opposto concreterebbe 
una manifesta ingiustizia, come tale sindacabile dal giudice amministrativo. 

4.1. La doglianza, con riguardo alla fattispecie concreta, non appare condivisibile. 
4.2. � bens� vero che, come � stato ripetutamente affermato dalla giurisprudenza, 
la insindacabilit� del potere di far luogo o no all'estensione del giudicato nei confronti 
di terzi trova un limite, allorch� l'Amministrazione, illogicamente, si determini 
in senso favorevole solo per alcuni soggetti, omettendo, per contro, di 
considerare posizioni di altri assimilabili a quelle positivamente valutate. 
Senonch�, nel caso che interessa, il Ministero dell'Universit�, dopo una iniziale 
incertezza circa l'atteggiamento da assumere, ha, per la verit�, negato l'estensione 
del giudicato non solo al prof. Pagano, ma anche a tutti gli altri concorrenti, provvedendo, 
anzi, a ritirare alcuni provvedimenti favorevoli gi� emessi (e non registrati), 
fra i quali anche quello relativo al prof. Valenti. 

Questi, per�, che aveva gi� contestato il giudizio negativo emesso nei propri 
confronti, ha impugnato l'atto di ritiro, ottenendo dal T.A.R. l'affermazione della 
fondatezza della propria pretesa a tener ferma la estensione gi� disposta. 

4.3. Ci� posto, appare evidente la diversit� della posizione del prof. Valenti 
rispetto all'appellante 
Nei confronti del primo, infatti, come si evince dalla stessa decisione depositata 
dall'istante, l'Amministrazione si era originariamente determinata in senso favorevole, 
allo scopo di evitare una probabile soccombenza nel giudizio in corso. 

E, come questa Sezione ha gi� avuto modo di affermare (dee. 6 giugno 1989, n. 
729), non pu� qualificarsi discriminatorio il comportamento dell'Amministrazione, 
che si sia risolta ad estendere il giudicato a dipendenti estranei alla lite, i quali avessero 
in corso giudizi pendenti per motivi analoghi a quelli positivamente risolti dalla 
sentenza passata in cosa giudicata, senza disporre in ugual modo nei confronti di 
altri, le cui situazioni fossero divenute insuscettibili di annullamento in sede giurisdizionale, 
attesa la diversit� delle posizioni dei dipendenti fra loro e dell' Amministrazione 
circa il pericolo di annullamento degli atti da cui tali situazioni derivano. 

Ne consegue che la decisione di adeguarsi al giudicato del T.A.R., che ha, successivamente, 
annullato il provvedimento di ritiro, non concreta un trattamento 
immotivatamente ingiusto nei confronti dell'appellante, tale da incorrere nel dedotto 
vizio di eccesso di potere, dal momento che il rapporto intercorrente con il prof. 
Valenti, in ordine all'esito negativo del concorso, era ancora aperto e suscettibile, 
quindi, di risolversi sfavorevolmente per l'Amministrazione, mentre il rapporto 
intercorrente con il prof. Pagano era, ormai, definitivamente esaurito. (omissis) 


SEZIONE QUINTA 

GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 20 marzo 1998 n. 2953, Pres. Grieco -Est. 
Panebianco -P.M. Buonajuto (diff.) -Ministero delle Finanze (avv. Stato De 
Bellis) -c. Soc. Grosoli. 

Tributi erariali indiretti -Imposte doganali -Incompatibilit� con norme 
comunitarie -Rimborso -Traslazione del tributo -Prova -Richiesta di 
esibizione di fatture e scritture contabili -Legittimit� -Rifiuto Valutazione 
ai fini della prova -Scadenza dell'obbligo di conservazione Irrilevanza. 


(Legge 30 settembre 1982, n. 688, art. 19; legge 29 dicembre 1990, n. 428, art. 29; codice 
civile art. 2220, 2709, 2711, 2714; codice procedura civile artt. 116, 118, 210, 212). 

Poich� il rimborso delle imposte doganali incompatibili con le norme 
comunitarie � escluso quando l'Amministrazione abbia dato la prova della 
traslazione a terzi dell'onere economico a norma dell'art. 29 della legge 29 
dicembre 1990 n. 428, l'Amministrazione medesima ha il potere di domandare 
l'esibizione delle fatture e delle scritture contabili o, ricorrendone i presupposti, 
l'ispezione dei locali nei quali i documenti possono essere custoditi; il rifiuto di 
esibizione o di consentire l'ispezione pu� essere valutato dal giudice a norma 
dell'art. 116 codice procedura civile mentre non pu� invocarsi la scadenza del 
termine dell'art. 2220 codice civile per l'obbligo di conservazione delle 
scritture (1 ). 

(omissis) 

Il presente ricorso � articolato in tre distinte censure. 

Con le prime due, si duole il Ministero delle Finanze, sia pure sotto distinti 
profili, della dichiarata impossibilit� da parte della Corte d'Appello di servirsi di 
presunzioni ai fini della prova relativa all'avvenuta traslazione del tributo a terzi, 
incombente all'Amministrazione sulla scorta dello ius superveniens (art. 29 
comma 2 legge 428/1990). 

(1) Ancora una importante conferma della tendenza ad ammettere la possibilit� di un 
concreto ricorso ai mezzi istruttori per la dimostrazione della traslazione dell'onere economico 
del tributo. Notevole in particolare l'applicabilit� dell'art. 116 codice procedura civile e 
l'ammissibilit� dell'ispezione. Per i precedenti v. Cass. 12 marzo 1993 n. 3006 in questa 
Rassegna, 1993, 249; 26 ottobre 1994 n. 8764, ivi, 1995, liO. 

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PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

Essendo rimesso, per�, al giudice di merito l'apprezzamento in ordine alla 
presenza dei requisiti richiesti per far ricorso alla prova per presunzioni, appare 
prioritario su piano logico l'esame del terzo motivo il cui eventuale accoglimento 
potrebbe avere ripercussioni in sede di rinvio anche per un riesame in ordine a dette 
presunzioni. 

Con il terzo motivo di ricorso, infatti, il Ministero delle Finanze denuncia 
violazione e falsa applicazione dell'art. 210 codice procedura civile in relazione 
all'art. 360 n. 3 codice procedura civile nonch� difetto di motivazione in relazione 
all'art. 360 n. 5 codice procedura civile. Sostiene il ricorrente Ministero che, 
erroneamente, la Corte di Appello abbia respinto l'istanza di esibizione delle fatture 
di vendita delle merci importate sul presupposto che mancasse la prova in ordine 
all'esistenza di tali documenti nonch� la richiesta di produzione dei �conti profitti e 
perdite� e della dichiarazione dei redditi della societ� in quanto volta a finalit� 
meramente esplorative. Richiama al riguardo il diverso indirizzo della 
giurisprudenza di questa Corte. 

Orbene, � opportuno premettere per una migliore comprensione del problema 
che l'azione di ripetizione esercitata per ottenere il rimborso dei diritti erariali, 
corrisposti in occasione di importazioni di merci ma dichiarati incompatibili con le 
norme comunitarie, era disciplinata dall'art. 19 del decreto-legge 30 settembre 1982, 

n. 688, convertito con modificazioni nella legge 27 novembre 1982, n. 873, che 
faceva carico al solvens di fornire la prova documentale della mancata traslazione a 
terzi dell'onere tributario. 
In forza dei principi fissati dalla Corte Costituzionale con sentenze n. 170 del 
1984 e n. 113 del 1985 nonch� delle indicazioni fomite in materia dalla Corte di 
Giustizia europea ( sent. 1 O luglio 1980 in cause nn. 811 ed 826 del 1979; sent. 9 
novembre 1983 in causa n. 199 del 1982; sent. 24 marzo 1988 in causa n. 104/1986), 
tale norma � stata ritenuta inapplicabile per incompatibilit� con il diritto comunitario 
in quanto, condizionando l'esito delle richieste alla prova documentale della 
mancata traslazione dell'onere su altri soggetti (peraltro anche per le somme versate 
prima dell'entrata in vigore della legge), incideva sostanzialmente sulla possibilit� 
di far valere in giudizio il diritto di rimborso. 

L'azione di ripetizione risultava, cos�, assoggettata alle disposizioni generali 
della condictio indebiti (art. 2033 codice civile) fino all'entrata in vigore della legge 
29 dicembre 1990 n. 428 che all'art. 29 ne ha nuovamente disciplinato l'esercizio 
(comma 2) nella particolare materia in esame con espressa efficacia retroattiva 
(comma 7). 

Tale disposizione, a differenza del richiamato art. 19 del decreto-legge n. 
688/1982, che considerava la mancata traslazione del tributo (o di altro onere ad 
effetto equivalente) come elemento costituivo del diritto al rimborso il cui onere 
probatorio incombeva al solvens, prefigura invece tale fatto negativo come elemento 
impeditivo con la conseguenza che � onere dell'Amministrazione Finanziaria 
fornire la relativa prova. 

In altri termini, in linea con la normativa comunitaria, la nuova disciplina non 
esclude che si tenga conto dell'avvenuto trasferimento ad altri soggetti dell'onere 
dei tributi indebitamente riscossi per impedirne in tal caso la ripetizione, ma si limita 
a rendere meno difficoltoso in giudizio il suo esercizio. 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

484 

Ora, proprio con la presente censura l'Amministrazione Finanziaria si duole 
dell'impossibilit� (di assolvere ad un tale onere) in cui � stata posta dall'impugnata 
sentenza con il rigetto di tutte le richieste istruttorie intese ad ottenere l'esibizione 
delle fatture e delle scritture contabili. 

La doglianza � certamente fondata. 

Per quanto riguarda in particolare la documentazione contabile, � sfuggita alla 
Corte di merito la portata degli artt. 2709 e 2711 codice civile che attribuiscono 
valenza di prove, anche contro l'imprenditore, ai libri ed alle scritture contabili e che 
consentono al giudice di ordinare, anche d'ufficio, �l'esibizione delle singole 
scritture contabili, lettere, telegrammi o fatture concernenti la controversia�. 

Non pu� esservi alcun dubbio quindi sull'ammissibilit� della loro esibizione 
quale mezzo di acquisizione della prova documentale. 

In correlazione con le norme sostanziali ora richiamate ( artt. 2709 e 2711 codice 
civile), l'ordine di esibizione alla parte � espressamente previsto del resto per i 
documenti dall'art. 210 codice procedura civile, nonch�, con specifico riferimento 
alle scritture contabili (artt. 2714 e segg. codice civile), dall'art. 212 codice 
procedura civile. 

N� una tale esibizione, contrariamente a quanto � stato sostenuto, potrebbe 
ritenersi nel caso in esame meramente esplorativa, essendo ben determinata invece 
nella sua finalit� in quanto volta ad accertare l'avvenuta traslazione a terzi dei 
corrisposti diritti erariali gravanti sulle merci e di cui si pretende il rimborso. 

Del pari ammissibile, peraltro anche senza una formale e specifica richiesta 
delle parti, deve ritenersi anche l'ispezione dei locali nei quali possono essere 
custoditi detti documenti necessari ai fini della decisione, anche se in tal caso, data 
l'indispensabilit� richiesta dall'art. 118 codice procedura civile, � necessario che il 
giudice verifichi che la prova non possa essere fornita se non attraverso l'ispezione 
la quale assume, quindi, il carattere di extrema ratio di cui deve es$ere data adeguata 
motivazione. 

Ovviamente, l'eventuale mancata conservazione dei documenti od il rifiuto di 
esibizione o di consentire ad ispezioni ben potrebbe essere valutato dal giudice di 
merito ai sensi dell'art. 116 codice procedura civile per fame discendere in base a 
tale comportamento processuale conseguenze sul piano probatorio. 

N� pu� ritenersi giustificata una eventuale tesi difensiva basata sulla 
sopravvenuta distruzione, da parte della societ�, della documentazione contabile 
risalente ad oltre un decennio, come consentirebbe l'art. 2220 codice civile. 

Questa Corte ha gi� avuto modo di affermare che la parte � tenuta a conservare 
la documentazione richiest3: finch� il giudice non abbia definitivamente provveduto 
sulla relativa istanza e che nessuna rilevanza pu� assumere, a tal fine, la 
maturazione, medio tempore, del termine decennale dell'obbligo di conservazione 
(Cass. 19 novembre 1994 n. 9839). Del resto, essendo l'inversione dell'onere della 
prova intervenuta con lo ius superveniens, nel corso del giudizio, lo stesso 
contribuente avrebbe dovuto possedere la documentazione contabile al tempo in cui 
la legge poneva a carico del solvens l'onere della prova dell'avvenuta traslazione. 

Assolutamente carente sotto il profilo motivazionale �, poi, l'assunto contenuto 
nell'impugnata sentenza secondo cui l'ammissibilit� di tali mezzi istruttori 
presuppone l'esistenza dei documenti di cui � chiesta l'esibizione e che non 


PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

485 

potrebbe invece escludersi la loro inesistenza, spiegabile con l'utilizzo nella 
produzione dei beni importati anzich� nella loro vendita. 

Trattasi, infatti, di un'eventualit� meramente ipotetica, tutta da verificare e 
priva quindi dei necessari elementi di concretezza alla cui acquisizione tendono 
proprio le prove richieste. 

Deve ritenersi, pertanto, che la prova dell'avvenuta traslazione possa essere 
fornita dall'Amministrazione con ogni mezzo consentito dall'ordinamento giuridico 
(omissis). 

CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 20 marzo 1998 n. 2957 -Pres. Sgroi -Est. Ferro 
-P.M Cafiero (conf.) -Ministero delle Finanze (avv. Stato De Bellis) c. 
Fallimento Soc. Immobiliare Prato. 

Tributi erariali indiretti -Imposta di registro -Concordato con cessione dei 
beni -� soggetto all'imposta fissa. 
(Decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 634, tariffa A, art. 8 lett. c),j). 

Il concordato con cessione dei beni non da luogo a trasferimento di beni, 
risolvendosi in una forma particolare di mandato, n� alla assunzione di 
obbligazioni ed � quindi soggetto alla sola imposta fissa di registro (1 ). 

(omissis). 

Con l'unico motivo di ricorso l'Amministrazione delle Finanze deduce 
�violazione ed errata applicazione dell'art. 8 lettere j) e c) della tariffa all. A parte I 
del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 634, in relazione 
all'art. 360 comma 1 n. 3 codice procedura civile�, censurando specificamente la 
motivazione della denunziata sentenza nella parte in cui si afferma che il concordato 
preventivo con cessione dei beni �non ha natura diversa da quella prevista dal 
codice civile (art. 1977 e seg.) che costituisce una fattispecie di mandato 
irrevocabile a liquidare in rem suam in favore dei creditori: in favore di questi non 
si verifica alcun trasferimento di beni n� il debitore assume l'obbligo di pagare loro 
una determinata somma, ma mette a loro disposizione il proprio patrimonio con il 
rischio che essi possano ricevere, in soddisfazione delle loro ragioni, una 
percentuale anche minore del 40%�. Assume l'Amministrazione ricorrente che tali 
affermazioni sarebbero, da un lato, erronee, e, dall'altro, non influenti, osservando: 
sotto il primo profilo, che anche nel caso di cessione dei beni come nel concordato 
per garanzia dovrebbe ritenersi che il debitore concordatario assuma l'obbligo di 
pagare la percentuale prevista ai creditori chirografari, e che anche nel concordato 

(1) Questione nuova affrontata con approfondita motivazione. Per l'assoggettamento alla 
imposta proporzionale, qui confermata, del concordato con garanzia v. Cass. 3 maggio 1994, n. 
4253 in questa Rassegna, 1994, I, 355 con richiami. Resta confermata l'imponibilit� della 
cessione di beni di terzi (i soci di societ�) cosa gi� ritenuta da Cass. 9 novembre 1981, n. 5913, 
ivi, 1982, I, 364. 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

486 


per cessione dei beni si verifica l'effetto remissorio con la liberazione del debitore 
da ogni altra obbligazione verso i creditori; sotto il secondo aspetto, che la soluzione 
del problema dovrebbe essere comunque rinvenuta, su base normativa testuale, nel 
disposto dell'art. 8 tariffa ali. A parte I let. e) del decreto del Presidente della 
Repubblica 26 ottobre 1972 n. 634 che fa riferimento agli atti giudiziali aventi per 
oggetto beni e diritti diversi da quelli indicati nelle lett. a) e b). 

L'assunto dell'Amministrazione ricorrente si palesa infondato. 

Il problema se la sentenza di omologazione del concordato preventivo per 
cessione dei beni, previsto dall'art. 160 comma 2, n. 2 del regio decreto 16 marzo 
1942 n. 267, sia soggetta all'imposta proporzionale di registro di cui all'art. 8 
lettera e) della tariffa allegata sub A al decreto del Presidente della Repubblica 26 
ottobre 1972 n. 634, applicabile ratione temporis in relazione alla fattispecie in 
esame, ovvero alla tassa fissa di registro di cui alla let. j) dello stesso articolo che 
contempla gli atti di omologazione (problema che non risulta essere stato, con 
riferimento al vigore del citato testo normativo, prima di oggi affrontato ex professo 
dalla giurisprudenza di legittimit�, nella quale si rinvengono invece molteplici 
precedenti relativi alla tassazione della omologazione del concordato per garanzia), 
esige di essere risolto sulla base di una interpretazione contenutistica e sistematica 
che al di l� del dato normativo testuale tenga conto del fondamentale principio 
enunciato nell'art. 19 della legge secondo cui �le imposte sono applicate secondo 
la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti�, non disgiunta da una 
interpretazione storica per la quale si rende utile una preliminare disamina del 
regime che nella legislazione precedentemente vigente era riservato alle sentenze 
in questione. 

Nella tariffa allegata al regio decreto 23 dicembre 1923 n. 3269 trovavano 
collocazione le seguenti distinte disposizioni: l'art. 26 prevedeva l'applicazione 
della tassa fissa per le �cessioni volontarie di beni fatte dal debitore alla massa dei 
suoi creditori per la vendita�; l'art. 32 prevedeva l'imposta proporzionale da 
applicarsi a �convenzioni o concordati tra i creditori e il loro debitore stipulati tanto 
prima che dopo la dichiarazione di fallimento e contenenti obbligazioni di somma�; 
e l'art. 126 sottoponeva a tassa fissa le �sentenze di omologazione di concordati nei 
giudizi di fallimento�, con la espressa precisazione -di cui alla nota marginale che 
questa era dovuta indipendentemente dall'imposta proporzionale. Nel vigore di 
tale normativa, nel caso di concordato con garanzia l'Amministrazione sottoponeva 
all'imposta proporzionale il verbale di accertamento del voto nel quale veniva 
individuato il momento perfezionativo della convenzione privata, nonch�, 
concorrentemente, alla tassa fissa la sentenza di omologazione; e tale duplice 
imposizione veniva riconosciuta legittima dalla giurisprudenza, espressa nelle 
sentenze della Corte di Cassazione 119/1980 e 5401/1981, e veniva ritenuta 
giustificata dalla prevalente dottrina in considerazione della rilevanza novativa del 
contenuto vincolante del concordato rispetto alle preesistenti obbligazioni facenti 
capo al debitore, ravvisandosi tale effetto novativo sia in ordine al titolo costitutivo, 
sia in ordine all'ammontare degli obblighi assunti in percentuale, sia in ordine alle 
scadenze per i pagamenti. In relazione all'ipotesi del concordato con cessione dei 
beni si riteneva invece che dovesse applicarsi soltanto la tassa fissa di cui all'art. 26 
osservandosi che in tal caso non risultava configurabile alcun trasferimento di beni 


PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

n� l'assunzione di un obbligo di pagare una determinata entit� pecuniaria ai 
creditori, i quali si accollavano il rischio di ricevere un soddisfacimento maggiore o 
minore rispetto alla misura minima del 40% stabilita dalla legge fallimentare (Cass. 
1793/1966; Cass. 1464/1972). E il dubbio circa la eventuale illegittimit� 
costituzionale del coordinato disposto dei citati articoli 26 e 32 della tariffa all. A al 
regio decreto 30 dicembre 1923 n. 3269, sollevato in relazione all'art. 3 e all'art. 53 
della Costituzione -sul rilievo che lo stato di insolvenza pone il debitore, 
relativamente alla capacit� contributiva, sullo stesso piano qualunque sia il modo 
prescelto al fine di addivenire al concordato -� stato dapprima ritenuto superabile 
nella giurisprudenza di merito osservandosi che il rapporto di imposta doveva 
ritenersi riferibile non al debitore ma al creditore che assume una diversa posizione 
nell'una e nell'altra forma di concordato, e poi, sottoposto alla Corte Costituzionale, 
ha ricevuto da questa risposta negativa (con la sentenza n. 212/197 5) sul rilievo che 
il concordato con garanzia implica l'obbligo del pagamento di somme determinate 
mentre la cessione dei beni per la vendita conferisce ai creditori soltanto la facolt� 
di procedere alla liquidazione dei beni del debitore nell'interesse comune 
(atteggiandosi cos� come cessio pro solvendo e non pro soluto). 

Nel decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 634 non � stata 
riprodotta la specifica menzione delle convenzioni e dei concordati stipulati tra 
creditori e debitori sia prima che dopo la dichiarazione del fallimento e portanti 
obbligazioni al pagamento di somme n� quella delle cessioni volontarie dei beni alla 
massa dei creditori per la vendita; manca inoltre la esplicita menzione della sentenza 
omologativa del concordato tra i provvedimenti giurisdizionali soggetti a tassazione 
proporzionale. 

Con riferimento a tale situazione di diritto positivo, fermo restando -quale 
supporto dogmatico dell'indagine -il superamento della remota concezione 
contrattualistica e l'accoglimento di una ricostruzione dell'istituto del concordato in 
termini processualistici e quindi pubblicistici come procedimento complesso il cui 
momento conclusivo giudiziale assorbe il contenuto pattizio che in esso viene 
recepito, ritiene questo Collegio che, nella persistente invariata rilevanza delle 
caratteristkhe specifiche del concordato con cessione dei beni (considerato nella sua 
struttura giuridica e nel contenuto economico ad essa sotteso), debba essere 
affermata, come gi� veniva affermata in relazione alla disciplina precedentemente 
vigente, l'applicabilit� alla sentenza di omologazione della sola imposta fissa di cui 
alla let. j) dell'art. 8 della tariffa e non invece dell'imposta proporzionale che 
potrebbe trovare il suo presupposto soltanto in una fattispecie giuridica risolventesi 
in un trasferimento di beni (o di diritti) o nell'assunzione di obbligazioni (per tali 
intendendosi quelle che, non essendo meramente riproduttive della situazione 
debitoria del proponente, possano essere assunte come fonte genetica di una 
situazione giuridica autonomamente rilevante inter partes). Dell'una e dell'altra 
ipotesi � infatti da escludere la configurabilit� nel concordato per cessione dei beni, 
che in ci� manifesta una connotazione intrinseca radicalmente differenziata rispetto 
al concordato per garanzia, in relazione al quale la giurisprudenza di legittimit� 
riconosce l'assoggettabilit� della sentenza omologativa all'imposta proporzionale 
prevista dalla let. e) dell'art. 8 della tariffa (v. Cass. 681/1986, 1951/1986, 
2970/1990, 4665/1990, 576911990, 11967 /1992). 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

488 


Il fatto, comunemente riconosciuto come rispondente alla realt� giuridica, che 
dopo l'omologazione e durante la fase di liquidazione, fino al momento della 
alienazione (unitaria o frazionata) i beni del debitore concordatario rimangano 
oggetto di sua propriet�, ancorch� assoggettati ad un vincolo di destinazione al quale 
non possono essere sottratti, dimostra con carattere di evidenza che dalla 
omologazione della sentenza non deriva alcun trasferimento. Invero, il 
riconoscimento dell'assenza, nel concordato preventivo con cessione dei beni, di 
una finalit� e di un effetto immediatamente traslativi emerge dalla giurisprudenza di 
questa Suprema Corte che con la sentenza 417711981 ha inquadrato l'istituto in 
esame nell'ambito della figura della cessio bonorum di cui all'art. 1977 codice 
civile, mediante la quale il debitore incarica i propri creditori (o alcuni di essi) di 
liquidare tutte le sue attivit� patrimoniali (o una parte di esse) e di ripartirne tra loro 
il ricavato in soddisfacimento dei loro crediti, e, in altra occasione ha affermato 
espressamente che la cessione non produce in se stessa alcun effetto traslativo, 
integrando essa una forma particolare di mandato conferito anche nell'interesse del 
mandatario. E proprio sulle esigenze connesse all'attuazione di un mandato del 
genere risulta modellata la figura del liquidatore, che domina lo scenario della fase 
di esecuzione del concordato con cessione dei beni, e risultano determinati i poteri 
e i doveri a lui attribuiti dalla legge in una prospettiva che ovviamente non � 
meramente privatistica e come tale rimessa all'autonomia negoziale delle parti, ma 
si colloca in un contesto istituzionalizzato. 

Sotto altro punto di vista, � agevole constatare che dalla cessione 
concordataria non scaturisce a carico del debitore un obbligo giuridico in senso 
proprio, del quale infatti sarebbe vano ricercare un atto di adempimento da parte 
del debitore stesso nello sviluppo fisiologico della procedura. Il debitore non 
propone (e non sottopone all'approvazione dei creditori e al controllo giudiziale) 
l'assunzione di un nuovo obbligo bens� una particolare modalit� (almeno 
parzialmente) satisfattoria che possa essere giudicata conveniente nell'interesse 
comune: per contro i creditori si onerano del rischio della eventualit� che la 
liquidazione non dia luogo in concreto ad un risultato satisfattorio corrispondente 
a quello previsto dalla legge in astratto e verificato preventivamente in concreto 
dai �reditori stessi con l'approvazione e dall'autorit� giudiziaria con 
l'omologazione, ma soltanto in via di attendibile probabilit�, la cui mancata 
realizzazione non trova nel concordato con cessione, per espressa disposizione di 
legge, la sanzione della risoluzione, a differenza di quanto avviene nel concordato 
di garanzia nel caso di inadempimento (a prescindere dai temperamenti che la 
giurisprudenza tende a introdurre a tale principio a maggior tutela dei creditori). 
Viene meno quindi la possibilit� di rinvenire nell'obbligo (inesistente) la 
fattispecie novativa della situazione obbligatoria pregressa che, nell'altro tipo di 
concordato, assume il rilievo di fatto costitutivo della pretesa tributaria: il 
�differente sistema di soddisfacimento dei crediti�, di cui l'Amministrazione 
ricorrente non pu� non ammettere l'esistenza, si risolve, per tal modo, in una 
diversit� di fenomenologia giuridica alla quale non pu� restare indifferente il 
modo di atteggiarsi del presupposto impositivo. Non appare, invece, significativo 
il rilievo che in entrambe le ipotesi si verifica (o quanto meno tende a verificarsi) 
lo stesso effetto remissorio a favore del debitore concordatario. 


PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

Sotto il profilo della natura e degli effetti dell'atto, la distinzione tra il regime 
applicabile al concordato con garanzia e quello che si ritiene congruente al 
concordato con cessione dei beni trova giustificazione razionale nella diversit� che 
emerge dalla considerazione sostanziale del significato economico dei rispettivi 
presupposti impositivi, la quale non � sfuggita all'attenzione del giudice delle leggi. 
Invero, come ha osservato la Corte Costituzionale nella citata sentenza 21211975 
(pronunciata, come si � detto, in relazione alla normativa di cui al regio decreto 2369 
del 1923, ma sulla scorta di considerazioni significative anche nel vigore del decreto 
del Presidente della Repubblica n. 634 del 1972), la cessione dei beni �, 
generalmente, prodromica alla cessazione dell'impresa (quanto meno con riguardo 
alla sua individualit� soggettiva, cio� con riguardo alla titolarit� giuridica 
dell'attivit� imprenditoriale in capo al debitore concordatario, pur nella prospettiva 
-bene spesso dominante -della conservazione del valore dell'azienda 
oggettivamente considerata), mentre l'altra forma di concordato ne consente la 
continuazione ed anzi tende a renderla praticamente possibile evitando la 
dichiarazione del fallimento; inoltre, il fatto stesso che un debitore abbia potuto 
reperire i mezzi e ottenere le garanzie occorrenti per rendere accettabile 
l'obbligazione di un adempimento parziale sta a dimostrare una capacit� 
contributiva ben diversa da quella di altro debitore che per ottenere lo stesso scopo 
esdebitatorio debba cedere ogni suo avere: il che ha condotto la Corte Costituzionale 
a escludere la violazione del principio di uguaglianza. Per contro, non sembra che la 
citata sentenza della Corte Costituzionale possa offrire determinante contributo 
ermeneutico con l'obiter dictum col quale riconduce le convenzioni e i concordati 
tra creditori e debitori e le cessioni volontarie di beni, gi� contemplate come tali dal 
regio decreto 3 269 del 1923, rispettivamente, alla categoria degli �atti a contenuto 
patrimoniale� cos� genericamente definiti dall'art. 9 della tariffa del decreto del 
Presidente della Repubblica n. 634 del 1972, soggetti ad imposta proporzionale, e a 
quella dei �contratti preliminari di ogni specie� di cui all'art. 10 a cui si applica la 
tassa fissa. 

Del tutto inconferente si palesa, rispetto alla presente materia del contendere, il 
richiamo dell'Amministrazione ricorrente alla gi� citata sentenza 681/1986, la quale 
attiene ad una ipotesi di concordato preventivo con garanzia e contiene la espressa 
precisazione che al suo fondamento motivazionale rimane estranea la 
considerazione del concordato con cessione dei beni, onde a tale precedente non 
risulta attribuibile una valenza generale che esso non pu� (e dichiaratamente non 
vuole) assumere, e che risulterebbe smentito nella non riferibilit� delle 
argomentazioni ivi svolte alle segnalate peculiarit� del concordato preventivo con 
cessione dei beni. 

Esula dalla attuale materia del contendere, non essendo stata la decisione della 
Commissione Centrale censurata sul punto specifico dall'Amministrazione 
ricorrente, la esclusione dell'applicazione dell'imposta proporzionale 
all'ammontare delle fideiussioni complementarmente prestate: giova ricordare che 
nella giurisprudenza formatasi in ordine al concordato per garanzia tale esclusione 
viene riconosciuta fondata, peraltro sul rilievo -che non sembra sic et simpliciter 
ripetibile in tema di cessione dei beni -della obbligatoriet� delle garanzie previste 
dalla legge in quella forma di concordato. 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO'

490 


� opportuno aggiungere, per completezza, che la ratio decidendi qui esposta 
non impedisce di ritenere che nell'ipotesi -estranea alla vicenda concordataria 
sottoposta a questa Corte -in cui la cessione dei beni di una societ� sia 
accompagnata dall'offerta dei beni personali dei soci possa configurarsi una 
fattispecie novativa nei confronti dei soci che per tal modo concorrono all'estinzione 
di un debito altrui (attesa l'alterit� soggettiva tra la societ� e i soci) caratterizzata da 
una certa analogia rispetto alla posizione dell'assuntore, e che, in tali limiti, possa 
risultare legittima la tassazione proporzionale, senza che, peraltro, ne venga a 
risultare snaturato il regime fiscale da riservarsi, nel senso di cui sopra, al 
concordato con cessione dei beni del debitore principale. 

Osservasi poi, conclusivamente, che l'interpretazione qui accolta e le 
conclusioni a cui essa conduce valgono anche con riferimento alla disciplina 
attualmente vigente di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986 

n. 131, dappoich� la formulazione dell'art. 8 della nuova legge di registro non � 
sostanzialmente diversa da quella precedente, essendo state unificate nella nuova let. 
a) le previsioni delle lett. a), a bis), b) del precedente testo normativo nonch� la prima 
parte della let. c) contenente la locuzione �aventi per oggetto beni e diritti diversi da 
quelli indicati nelle lett. a), b)� in modo da rendere possibile la completa applicazione 
delle aliquote previste in relazione alle corrispondenti fattispecie: sotto il quale 
profilo la giurisprudenza di legittimit� ha riaffermato, in relazione all'ipotesi del 
concordato con garanzia, l'assoggettabilit� della sentenza di omologazione 
all'imposta proporzionale (Cass. 4665/1990) (omissis). 
CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 4 aprile 1998, n. 3488 -Pres. Sgroi -Est. 
Pignataro -P.M. Sepe (conf.) -Ministero delle Finanze (avv. Stato Gentili) c. 
Siviglia. 

Tributi erariali indiretti -Imposta di registro -Privilegio speciale -Esecuzione 

contro il terzo possessore -Preventiva esecuzione del debitore -Esclusione. 

(I)ecreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 634, art. 54; decreto del 

Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 643, art. 28 codice civile art. 2772). 

La preventiva escussione del debitore principale opera soltanto in virt� di 
espressa previsione normativa; non � pertanto richiesta preliminarmente alla 
esecuzione contro il terzo possessore del bene gravato di privilegio speciale in 
materia di imposta di registro e di JNVIM (1 ). 

(omissis). 

Col primo motivo del ricorso principale l'amministrazione finanziaria 
denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 28 del decreto del Presidente 
della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 643 in relazione all'art. 360, n. 3 codice 

(1) Giurisprudenza ormai costante. 

PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

491 

procedura civile per avere la commissione tributaria centrale ritenuto 
necessaria, per la realizzazione del privilegio sull'immobile, non gi� la 
semplice intimazione di pagamento al venditore, ma la preventiva escussione 
dello stesso. 

Il motivo � fondato per le considerazioni -condivise dal collegio -poste a 
base della sentenza delle sezioni unite di questa corte 8 maggio 1997 n. 4021 che ha 
affermato il principio secondo il quale l'amministrazione finanziaria pu� far valere 
il privilegio sull'immobile trasferito, al fine della realizzazione dei crediti di cui 
all'art. 28 del decreto del Presidente della Repubblica n. 643/1972, senza necessit� 
della preventiva escussione dei soggetti passivi dell'INVIM indicati nell'art. 4 dello 
stesso decreto del Presidente della Repubblica. 

La subordinazione dell'adempimento di una obbligazione prevista dalla legge o 
sorta per convenzione alla preventiva escussione di altro soggetto opera, infatti, oltre 
che in ipotesi di espressa pattuizione (artt. 1267, 1944 codice civile), solo in virt� di 
espressa previsione normativa (artt. 2268 e 2304, 2356, 2481 codice civile); e questo 
principio di carattere generale si applica anche in materia tributaria che prevede solo 
nell'art. 41, comma 2 del decreto del Presidente della Repubblica n. 43 del 1973 
(legge doganale) la responsabilit� dello spedizioniere in caso di inutile escussione 
del proprietario delle merci (omissis). 

CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 7 aprile 1998 n. 3572 -Pres. Sensale -Est. 
Graziadei -P.M. Buonajuto (conf.) -Ministero delle Finanze (avv. Stato De 
Stefano) c. Banca Agricoltura. 

Tributi erariali indiretti -Imposta di registro -Decreto ingiuntivo per il 
pagamento di crediti per prestazioni soggette all'imposta sul valore 
aggiunto -Registrazione ad imposta fissa -Si estende al rapporto 
accessorio di fideiussione. 
(Decreto legislativo 26 aprile 1986 n. 131, art. 40 e tariffa, art. 8 nota II). 

Il decreto ingiuntivo emesso per il recupero di un credito nascente da 
operazione soggetta all'imposta sul valore aggiunto va registrato con imposta fissa 
a norma dell'art. 40 e dell'art. 8 nota II della tariffa, anche se diretto contro il 
fideiussore (1). 

(omissis). 

L'art. 8 lett. b) della tariffa allegata al testo unico sull'imposta di registro di cui 
al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 sottopone alla 
tassazione proporzionale, con aliquota del 3%, il decreto ingiuntivo esecutivo che 
rechi condanna al pagamento di somma di denaro o di valori (ovvero ad altre 
prestazioni od alla consegna di beni). 

(1) Si deve prendere atto dell'indirizzo della Corte. 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO,

492 

La nota II, apposta in calce a detta disposizione dall'art. 23 del decreto legge 2 
marzo 1989 n. 69 (convertito, con modificazioni, in legge 27 aprile 1989 n. 154), 
stabilisce che non si applica tale tassazione, e che si rende quindi esigibile la sola 
imposta fissa, per il caso in cui la condanna inerisca a corrispettivo soggetto 
all'imposta sul valore aggiunto ai sensi dell'art. 40 di detto testo unico. 

Il fatto influente ai fini impositivi, per le riportate norme, � il conseguimento da 
parte del creditore di titolo esecutivo per il soddisfacimento del proprio diritto, a 
prescindere dalla fonte del diritto stesso nel rapporto con l'intimato (separatamente 
tassabile, ove integri atto da registrare). 

La delineata natura del fatto tassabile comporta, come logico corollario, 
l'unicit� del prelievo fiscale, anche quando la condanna sia impartita contro due o 
pi� condebitori in solido, indipendentemente dalla circostanza che l'obbligazione 
di uno di essi discenda da contratto fideiussorio ed abbia connotazioni di 
sussidiariet�. 

Nella solidariet� passiva, infatti, senza eccezione per la predetta ipotesi, i 
coobbligati devono eseguire la medesima prestazione (art. 1292 codice civile); ne 
deriva che l'ordine di adempimento, a loro carico impartito con provvedimento 
giudiziale, configura condanna ad un solo pagamento. 

Tali osservazioni generali, con le quali si aderisce a quanto gi� affermato da 
questa Corte con la sentenza n. 9007 del 27 luglio 1992, portano alla soluzione del 
problema dell'individuazione dell'unica imposta applicabile, quando astrattamente 
concorrano l'I.V.A. ed il tributo proporzionale di registro, e trovi cos� ingresso il 
criterio di alternativit� fissato dal citato art. 40 (e dalla nota che lo richiama). 

Decisiva in proposito � la posizione del creditore, dato che, come si � visto, la 
tassazione investe il titolo esecutivo dallo stesso ottenuto. 

Se il creditore abbia la qualit� di �soggetto-I.V.A.�, e se l'adempimento 
reclamato sia riconducibile nell'ambito di una fattispecie che potenzialmente 
implichi l'insorgenza del suo obbligo di pagare l'I.V.A. con rivalsa nei confronti del 
solvens, come appunto si verifica, per chi conceda un prestito, quando consegua la 
controprestazione dovutagli (ai sensi degli artt. 3 e 6 del decreto del Presidente della 
Repubblica 26 ottobre 1972 n. 633), il provvedimento giudiziale in discorso assume 
la consistenza di condanna ad un pagamento sottoposto all'I.V.A. medesima. 

Tanto basta per l'operativit� del canone della prevalenza dell 'I. V.A. 
sull'imposta proporzionale di registro, atteso che la relativa regola, come 
esattamente considerato dalla Commissione regionale, si ricollega al mero 
assoggettamento di quel pagamento all'I.V.A., mentre non risente dell'eventualit� 
che il prestito goda dell'esenzione dell'art. 1 O n. 1 del decreto del Presidente della 
Repubblica n. 633 del 1972, non essendo questa compresa fra le specifiche e 
tassative ipotesi di esenzione per le quali il menzionato art. 40 deroga a detta 

I 

prevalenza. r:

i

Il principio poi dell'unicit� della tassazione esige, a fronte del rientrare f. 
dell'ingiunzione di pagamento nella disciplina dell'I.V.A., di ritenere non conferente 

! 

il rivolgersi dell'ordine giudiziale nei soli confronti, ovvero anche nei confronti di l 
un obbligato in solido con il beneficiario del prestito, pure se la sua esposizione alla 
pretesa creditoria nasca da un rapporto distinto (quale il negozio costitutivo della 
fideiussione), perch� la condanna ha sempre ad oggetto un versamento sottoposto ad 

I

! 

'i 
f.

i 

f 


PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

493 

I.V.A., in ragione della sua natura di controprestazione del prestito accordato dalla 
banca, quale che sia il soggetto tenuto al pagamento (il beneficiario del prestito, od 
il terzo che abbia offerto garanzia). 

In conclusione, il decreto ingiuntivo esecutivo, che un istituto di credito ottenga 
per il recupero delle somme dovutegli sulla scorta di finanziamento, configura 
condanna ad un pagamento soggetto all'I.V.A., ai sensi ed agli effetti dell'art. 40 del 
decreto del Presidente della Repubblica n. 131 del 1986 e della nota II dell'art. 8 
della relativa tariffa, di modo che va registrato a tassa fissa, non con aliquota 
proporzionale, senza che rilevi l'indirizzarsi dell'ingiunzione contro il solo debitore 
principale od il solo fideiussore, ovvero contro entrambi. 

Il ricorso, pertanto, deve essere respinto (omissis). 

CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 8 aprile 1998, n. 3661 -Pres. Reale -Est. Sotgiu 
-P.M. Lo Cascio (conf.) -Foci c. Ministero delle Finanze (avv. Stato Criscuoli). 

Tributi erariali diretti -Accertamento -Prova -Presunzioni -Indicazione dei 
fatti -� sufficiente -Dimostrazione dei fatti -Pu� essere data in giudizio. 
(Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n. 600, art. 42). 

Tributi erariali diretti -Imposta sul reddito delle persone .fisiche -Redditi di 
capitale -Capitali dati a mutuo -Presunzione di fruttuosit� -� assoluta. 
(Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n. 597, art. 43). 

Requisito per la validit� dell'avviso di accertamento e, tra gli altri, quando sia 
utilizzato il metodo induttivo o sintetico, la enumerazione degli elementi di fatto che 
suffragano la valutazione ma non la dimostrazione della sussistenza di tali fatti che 
potr� essere data nel successivo giudizio (1 ). 

La presunzione di fruttuosit� dei capitali dati a mutuo, tranne che per i 
versament{ dei soci alla societ� in conto capitale, � assoluta e non richiede la prova 
della percezione; questa prova � invece richiesta per affermare l'obbligo della 
ritenuta da parte del sostituto di imposta (2). 

(1-2) La prima massima chiarisce un punto importante: l'accertamento deve fondarsi su 
fatti allegati; la prova ha la sua sede nel processo perch�, come � ovvio, le prove si producono, 
non si descrivono a parole. Anche nell'I.V.A. vale la stessa regola bench� l'art. 56 secondo 
comma del decreto del Presidente della Repubblica 633/1972 richieda che nella motivazione 
dell'accertamento siano indicati gli elementi probatori; anche in questo c:aso si tratta di fatti 
allegati la cui veridicit� sar� dimostrata ( cfr. Cass. 18 aprile 1998 n. 3953, in questo fascicolo 
pag. 504). 

La seconda massima riconferma che per l'imponibilit� dei redditi di capitale vale la 
presunzione assoluta di fruttuosit� dei capitali dati a mutuo; tuttavia per affermare l'obbligo del 
sostituto di eseguire la ritenuta non basta la presunzione di fruttuosit� ed � richiesta la prova 
della percezione effettiva (Cass. 29 dicembre 1995 n. 13151 in questa Rassegna, 1996, I, 357). 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

494 

(omissis). 

Il primo motivo del ricorso principale � infondato. 

L'art. 42 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n. 600 
prescrive infatti, in tema di imposte dirette, che l'avviso di accertamento debba 
contenere, a pena di nullit�, l'indicazione dell'imponibile, dell'aliquota applicata e 
dell'imposta liquidata, nonch� delle norme giustificative dell'operato dell'Ufficio e, 
qualora sia utilizzato il metodo induttivo o sintetico, esige anche la specifica 
enumerazione degli elementi di fatto che suffragano la valutazione; l'avviso non deve 
dunque contenere notizie delle prove poste a fondamento del verificarsi di taluni fatti, 
n� riportare sinteticamente il contenuto di tali fatti. Soltanto dopo l'impugnazione del 
contribuente J'Amministrazione sar� tenuta, se richiesta, a dare dimostrazione degli 
elementi costitutivi del proprio diritto (Cass. 8685/1993; 6726/1995; 5506/1996; 
10812/1996), non essendo la prova dei fatti dedotti a sostegno della pretesa tributaria 
richiesta come elemento costitutivo dell'avviso di accertamento, dovendo essere 
fornita in un momento successivo, in sede processuale. 

Ci� che rileva, in sostanza, ai fini della validit� dell'avviso di accertamento � 
che il contribuente sia stato posto in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi 
elementi essenziali (come indicati nel citato art. 42 del decreto del Presidente della 
Repubblica n. 600 del 1973) e quindi di contestarne l'an e il quantum. 

Ci� posto, non pu� il ricorrente riproporre all'esame di questa Corte circostanze 
contestate e vagliate in sede di merito, sulla scorta di un preteso vizio di motivazione 
della sentenza impugnata, che non pu� comunque riflettersi sulla motivazione 
dell'avviso di accertamento nei confronti del ricorrente; il quale null'altro addebita 
ai giudici d'appello se non la pretesa rinuncia a verificare la legittimit� 
dell'accertamento nei confronti del ricorrente stesso in raffronto ad avviso notificato 
ad altro soggetto, di cui la Corte d'Appello ha affermato di sconoscere l'esito, pur 
escludendo la legittimit� di una medesima contestazione rivolta a soggetti diversi. 
L'assunto, che, come si � detto, non intacca la legittimit� dell'avviso di 
accertamento notificato al Foci, mira a reintrodurre in sede di legittimit� la tesi del 
contribuente circa la invalidit� delle presunzioni poste a fondamento dell'avviso 
stesso, mediante diniego della titolarit� dei redditi imputati al contribuente, rispetto 
ad altro soggetto, senza tuttavia deduzioni di specifiche circostanze, valutabili in 
questa sede sotto il profilo del vizio di motivazione, in ordine alla comparazione dei 
due atti impositivi, che restano dunque distinti e autonomi l'uno dall'altro. 

Le argomentazioni della Corte d'Appello in ordine alla verifica dei redditi di 
partecipazione attribuiti al ricorrente appaiono pertanto suffragate da congrua 
motivazione, a fronte delle generiche contestazioni contenute nel primo motivo di 
ricorso, il quale va pertanto disatteso. 

� infondato altres� il secondo motivo del ricorso principale. 

Infatti, secondo il costante indirizzo giurisprudenziale di questa Corte, la 
presunzione di percezione degli interessi per i capitali dati a mutuo, di cui all'art. 43 
del decreto del Presidente della Repubblica n. 597 del 1973 � assoluta, salvo che per 
gli interessi ricollegabili ai versamenti dei soci �in conto capitale� (Cass. 8587/1995; 
2947/1996; 1412/1997), riguardando il problema della effettiva percezione degli 
interessi soltanto la diversa ipotesi della ritenuta d'acconto sugli interessi stessi da 
parte dei sostituti d'imposta (Cass. 13153/1995; 3155/1996), non potendo detta 
ritenuta essere operata su un capitale presunto ma non corrisposto (omissis). 


PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

495 

CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 18 aprile 1998 n. 3937 -Pres. Sensale -Est. 
Ferro -P.M. Giacalone (diff.) -Ministero delle Finanze (avv. Stato Lancia) -c. 
Benincasa. 

Tributi erariali indiretti -Riscossione -Ingiunzione -Giudizio di opposizione Onere 
della prova -� sempre a carico dell'Amministrazione -Opponente 
attore -Irrilevanza. 

Tributi in genere -Accertamento -Prova -Fatti accertati nel giudizio penale Sentenza 
di proscioglimento o di assoluzione -Dichiarazione d'estinzione 
del reato per prescrizione a seguito del riconoscimento di attenuanti Enunciazione 
di fatti rilevanti sulla decisione -Efficacia nel giudizio civile 

o amministrativo fra le parti presenti. 
(Codice procedura penale artt. 529, 530, 531 e 654). 
Nel giudizio di opposizione ad ingiunzione fiscale, non diversamente dal 
giudizio innanzi alle commissioni tributarie, l'onere della prova � a carico 
dell'Amministrazione che vanta la pretesa fiscale, mentre a carico del contribuente 
opponente � l'onere della dimostrazione dei fatti impeditivi modificativi ed estintivi. 
Non contraddice a tale principio generale la posizione processuale del contribuente 
e la presunzione di legittimit� dell'atto amministrativo di accertamento (1 ). 

La sentenza penale che, a seguito della concessione di attenuanti, dichiara la 
estinzione del reato per prescrizione pu� fare stato nel giudizio civile o 
amministrativo fra le stesse parti relativamente a fatti enunciati, anche solo in 
motivazione, come rilevanti ai fini della decisione, indipendentemente dalla 
qualificazione della sentenza come di proscioglimento (art. 529 codice procedura 
penale) o di assoluzione (art. 530 codice procedurra penale) (2). 

(omissis). 

Col ptjmo motivo del ricorso principale, avente ad oggetto �violazione e falsa 
applicazione art. 2697 codice civile, 112 e 115 codice procedura civile, regio decreto 
639/1910 (art. 31 in particolare) e del loro combinato disposto; motivazione omessa, 
insufficiente, contraddittoria su punto decisivo della controversia�, 

(1-2) Il principio della presunzione di legittimit� dell'accertamento e conseguentemente 
dell'onere della prova a carico del contribuente, un tempo affermato in termini generali, � caduto da 
gran tempo ( cfr. BAFILE, Presunzione di legittimit� del!' accertamento tributario e onere della prova, 
in questa Rassegna 1980, I, 377 a commento di Cass. 23 maggio 1979 n. 2990 e 15 novembre 1979 

n. 5951); � tuttavia rimasta sul campo la regola che nel giudizio di opposizione ad ingiunzione 
fiscale grava sul contribuente, quale attore, l'onere della dimostrazione della mancanza dei 
presupposti della pretesa della Amministrazione (Cass. 30 agosto 1995 n. 9161, ivi, 1995, I, 495) 
mentre si ribadisce che nel giudizio innanzi alle commissioni la prova deve essere fornita 
dall'Amministrazione. In verit� questa diversificazione non era molto corretta sia perch� l'onere 
delle prove, che indubbiamente ha natura sostanziale, non dovrebbe dipendere dallastruttura del 
processo e dalle relative variazioni (a seconda della giurisdizione ordinaria o speciale ovvero del 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

496 

l'Amministrazione delle Finanze censura la ratio decidendi della impugnata sentenza 
nella parte in cui la Corte di merito ha disatteso l'assunto, di rilevanza pregiudiziale, 
dall'Amministrazione stessa sostenuto in sede di appello, secondo cui l'opponente 
era tenuto a fornire la prova dell'infondatezza della pretesa tributaria, in assolvimento 
dell'onere a lui incombente, che non era venuto meno per l'intervenuta cessazione 
del procedimento penale. La Corte di Brescia ha negato -col conforto dei rilievi 
formulati dalla Corte di Cassazione nelle richiamate sentenze 23 maggio 1979 n. 
2990 e 16 novembre 1979 n. 5951 -la sussistenza di una connessione necessaria tra 
il principio della presunzione di legittimit� dell'atto amministrativo di accertamento 
nelle sue varie forme e l'onere della prova nel processo di contestazione del debito, 
ed ha affermato che in tale processo il regime della prova non � diverso da quello 
delineato in via generale per i giudizi contenziosi e non pu� porsi in conflitto col 
detto principio, perch� l'accertamento si pone al di fuori del processo che ha ad 
oggetto l'obbligazione tributaria indipendentemente dall'atto che la accerta, pur 
riconoscendo che di fatto l'accertamento della pretesa, non per la presunzione di 
legittimit� che lo assiste, ma per il valore sostanziale delle fonti di prova su cui si 
basa, pu� porre il contribuente nella necessit� di prendere posizione contro una prova 
precostituita. La ricorrente sostiene -richiamando e invocando al riguardo Cass. 29 
giugno 1986n. 4335-che, invece, l'opposizione ad ingiunzione fiscale rappresenta 
l'atto introduttivo di un'azione di accertamento negativo della pretesa tributaria, nel 
quale l'attore in opposizione assume non solo formalmente ma anche 
sostanzialmente la veste di attore, con la conseguenza che nessun onere di prova 
sarebbe configurabile a carico dell'Amministrazione in ordine ai fatti costitutivi della 
sua pretesa creditoria, e che quindi, nella vicenda processuale in esame, la Corte di 
appello non avrebbe dovuto far dipendere la decisione dalla soluzione del quesito (a 
cui ha dato in c.;oncreto risposta negativa) se l'Ufficio avesse dato la prova dei fatti 
costitutivi del proprio diritto, ma verificare piuttosto se l'opponente avesse fornito la 
prova della infondatezza della pretesa fiscale, e, in esito alla constatazione della 
mancanza di tale prova contraria, rigettare l'opposizione. La critica per tal modo 
formulata si palesa priva di fondamento. Pur dovendosi dare atto dell'esistenza 
nell'�mbito della giurisprudenza di legittimit� di una opinione secondo cui �nel 
giudizio ad opposizione fiscale attore, anche in senso sostanziale deve ritenersi 
l'opponente, giacch�, stante la presunta legittimit� dell'atto amministrativo, � su di 
lui che incombe l'onere di provare la mancanza dei presupposti della pretesa 
impositiva avanzata dall'Amministrazione� (cos�, da ultimo, Cass. 30 agosto 1995 n. 
9161; v., in conformit�, oltre al precedente citato dall'Amministrazione: Cass. 16 
marzo 1981 n. 1473, Cass. 30 maggio 1978 n. 2372, Cass. 13 giugno 1975 n. 2362, 
Cass. 10 gennaio 1975), appare coerente con i principi generali e meritevole di 
conferma il diverso orientamento recentemente ribadito da questa stessa Sezione con 

provvedimento che da occasione al processo: ingiunzione accertamento, ruolo), sia perch� anche nel 
giudizio innanzi alla commissione ricorrente -opponente (se non attore) � ugualmente il contribuente. 
Non � poi il caso di parlare ancora di presunzione di legittimit� dell'atto amministrativo 
incidente su diritti soggettivi. Va pertanto giudicata corretta la presa di posizione della sentenza 


PARTE I, SEZ. V, GWRISPRUDENZA TRIBUTARIA 

497 

la sentenza 22 giugno 1995 n. 7048 (in sostanziale adesione alle precedenti sentenze 
30 luglio 1984 n. 4536, 2 maggio 1983 n. 3023, 6 aprile 1981 n.1937, 16 novembre 
1979 n. 5951, 23 maggio 1979 n. 2990) nel senso che il thema probandum del quale 
deve ritenersi onerato il contribuente � circoscritto ai fatti impeditivi, modificativi o 
estintivi ai quali debba riconoscersi rilevanza a fronte dell'assolvimento da parte 
dell'amministrazione della prova dei fatti costitutivi dell'obbligazione tributaria. 
Infatti, � ben vero che, costituendo l'ingiunzione disciplinata dal regio decreto 14 
aprile 1910 n. 639 un atto amministrativo suscettibile di autotutela, la stessa non 
potrebbe essere considerata alla stregua di domanda introduttiva di un processo 
giurisdizionale, a differenza di quanto avviene nel procedimento monitorio regolato 
dagli artt. 633 e segg. codice procedura civile, dal quale perci� non potrebbe essere 
mutuata la consueta affermazione che nella fase di piena cognizione conseguente alla 
proposta opposizione la posizione di attore compete al creditore istante pur 
assumendo egli la qualit� formale di convenuto in opposizione. Peraltro, la 
qualificazione del giudizio di opposizione quale accertamento negativo promosso dal 
contribuente in veste di attore, troppo spesso affermata in termini del tutto generici 
ed ambigui, va precisata -come viene precisata dalla citata sentenza 7048 del 1995 
-nel senso che l'oggetto e la dimensione dell'onere probatorio dell'opponente si 
atteggiano concretamente in funzione della misura in cui sono certi e noti i 
presupposti costitutivi dell'obbligazione tributaria, dei quali spetta all'opponente 
elidere la rilevanza dimostrando eventuali fatti impeditivi, modificativi o estintivi. N� 
pu� valere in contrario il richiamo alla presunzione di legittimit� dell'atto 
amministrativo, della quale non pu� essere invocata l'operativit� all'interno del 
processo al fine di invertire la distribuzione dell'onere probatorio accollando al 
contribuente la prova negativa in ordine agli elementi generatori della fattispecie 
tributaria (cos� Cass. 2990/1979 cit.; Cass. 7048/1995 cit.). L'affermazione che qui si 
ribadisce dei suddetti criteri generali appare, tra l'altro, coerente con i concetti 
costantemente accolti dalla giurisprudenza in materia di ripartizione dell'onere della 
prova in sede di contenzioso tributario davanti alle competenti Commissioni, con 
l'affermazione che l'Amministrazione non pu� limitarsi ad allegare ma deve, in 
presenza di �contestazione, dimostrare i fatti posti a fondamento della sua pretesa (v. 
Cass. 25 agosto 1995 in tema di accertamento di maggior valore ai fini dell'imposta 
di registro, e Cass. 3 aprile 1995 n. 3904 in tema di accertamento di maggior reddito 
soggetto a I.R.P.E.F., I.R.P.E.G., I.L.O.R.): senza che possa risultare in alcun modo 
giustificabile una discriminazione sul piano probatorio correlata alla pura e semplice 
peculiarit� degli strumenti processuali esperibili. Possono quindi essere recepite nella 
presente sede le parole conclusive della citata sentenza 7048 del 1995 secondo cui 
�nei giudizi di opposizione a ingiunzione fiscale la cognizione del giudice ordinario 
non � limitata alla verifica della legittimit� dell'atto impositivo impugnato, ma si 

in esame che, secondo le regole generali, assegna all'ufficio l'onere di dimostrare il fatto 
presupposto dell'obbligazione e al contribuente il fatto impeditivo, modificativo o estintivo, e 
segnatamente, il presupposto delle agevolazioni invocate. 

La seconda nomina, molto persuasiva, propone una trattazione esaustiva del problema. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO . '

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estende, nell'ambito delle deduzioni delle parti, alla cognizione del merito completo 
della pretesa fiscale al fine di riconoscerla fondata o non fondata ... e ci� comporta 
che, sempre nell'ambito delle deduzioni delle parti, si debba procedere all'analisi di 
tutti gli elementi dell'obbligazione tributaria, compresa la riferibilit� della medesima 
al presunto contribuente, elementi che vanno allegati e dimostrati secondo i principi 
generali che governano l'onere della prova (art. 2697 codice civile)�: non senza 
ricordare, a definitivo complemento della disamina, che l'onere della prova 
dell'obbligazione sostanziale non si identifica e non si esaurisce nell'obbligo della 
motivazione del provvedimento impositivo, in quanto �motivazione 
dell'accertamento e onere della prova stanno su piani diversi, in quanto la prima 
attiene alla (mera) enunciazione degli elementi utilizzati dall'Amministrazione nelle 
sue determinazioni, il secondo alla dimostrazione di tali elementi (fattuali) in 
giudizio: l'onere della prova dei fatti costitutivi della pretesa in via di principio 
incombe sempre all'Amministrazione anche quando l'atto sia compiutamente 
motivato, e il carattere sommario della motivazione pu� solo comportare -tenuto 
conto in ogni caso dei limiti della contestazione -un maggior impegno probatorio 
e richiedere una ulteriore allegazione con le modalit� e nei termini stabiliti dalle 
norme sul processo� (cos� ex pluribus Cass. S.U. 3 giugno 1987 n. 4853). 


La problematica inerente al secondo motivo di cui al ricorso principale attiene 
alla rilevanza attribuibile all'esito decisionale del procedimento penale svoltosi a 
carico di Boccia Luigi agli effetti della prova degli elementi costitutivi della 
controversa responsabilit� del medesimo in ordine all'obbligazione tributaria di cui 
trattasi. La questione trova la sua ragione di essere nel principio secondo cui, in tema 
di imposta di fabbricazione sugli oli minerali e loro derivati, mentre nel caso di 
evoluzione normale del rapporto il solo produttore pu� considerarsi soggetto passivo 
del debito tributario, per contro nell'ipotesi di sviluppo anomalo correlato a fattispecie 
di fraudolenta evasione dell'imposta, non solo il fabbricante o produttore ma anche 
tutti i soggetti coinvolti nell'illecito per avere sottratto o essere concorsi a sottrarre i 
prodotti petroliferi all'accertamento e all'assolvimento del tributo devono ritenersi 
compartecipi di tale qualificazione soggettiva e come tali tenuti all'adempimento 
dell'obbligazione tributaria, con la conseguenza che nei confronti di qualunque autore 

o coautore della frode l'amministrazione pu� agire per il recupero dell'imposta evasa 
(v. in tal senso, da ultimo: Cass. 28 maggio 1997 n. 4728; Cass. 2 maggio 1997 n. 
3793). La sentenza qui impugnata non contiene alcuna enunciazione in se stessa 
confliggente con il principio ora ricordato; ma la Corte di appello ha escluso che 
argomenti a sostegno della prova degli atti di evasione fiscale possano essere desunti, 
in relazione alla posizione del Boccia, dalle statuizioni emesse in sede penale 
richiamate dall'Amministrazione, essendo stata la sentenza di primo grado riformata fil 
in appello, ed essendo stato in secondo grado dichiarato non doversi procedere per I 
estirizione del reato conseguente a prescrizione previo giudizio di equivalenza tra !i! 
circostanze aggravanti e attenuanti; ed ha affermato, a ~
tal fine, che �il costante ,,_::!: 
riferimento legislativo alle sentenze dibattimentali di condanna o di assoluzione e la : 
logica interna di quel richiamo rendono impossibile equiparare ad esse, sotto il profilo 

1

dell'efficacia vincolante, ogni differente decisione, dal decreto di condanna alle 

'I�:: 

sentenze di non doversi procedere�. L'Amministrazione finanziaria deduce, al :'. 

riguardo: violazione e falsa applicazione dell'art. 28 del codice di procedura penale J 

PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA 'TRIBUTARIA 

precedentemente vigente (o comunque dell'art. 654 del codice attuale) e dell'art. 23 
del regio decreto-legge n. 334 del 1939 convertito nella legge n. 739 del 1939; 
violazione e falsa applicazione dell'art. 2909 codice civile e del citato art. 23; omessa, 
insufficiente, contraddittoria motivazione sul punto. L'Amministrazione ricorrente 
assume che, essendo stata la prescrizione dichiarata in seguito a una comparazione 
delle circostanze favorevole all'imputato, �il giudice di appello ha dunque ritenuto 
sussistente il fatto, la qualit� di reato da questo rivestita e di poi, solo in virt� della 
prevalenza delle circostanze attenuanti, dichiarata l'estinzione del reato per 
prescrizione�, e che conseguentemente la Corte di appello civile �avrebbe dovuto, 
assegnato alla sentenza della Corte penale di appello il valore che le competeva giusta 
il riferito art. 28 (o 654 codice procedura penale, vigente), concludere che il Boccia 
aveva commesso il delitto di cui all'art. 23 regio decreto-legge n. 334/1939 
relativamente a kg 1.237.130 di gasolio nazionale, eppertanto era tenuto a pagare il 
relativo tributo�. La censura come sopra formulata risulta, nel senso e nei limiti di cui 
in appresso, fondata e meritevole di accoglimento. Occorre premettere che il 
problema, che permane irrisolto sia nella ratio decidendi della Corte territoriale sia 
nella prospettazione di parte, dell'alternativa tra l'applicazione dell'art. 28 del codice 
di procedura penale precedentemente vigente e l'applicazione dell'art. 654 
dell'attuale codice, trova soluzione nel disposto dell'art. 260 del decreto legislativo 28 
luglio 1989 n. 271 (norme di coordinamento e transitorie del codice di procedura 
penale), in virt� del quale �nelle materie regolate dal libro decimo del codice si 
osservano le disposizioni ivi previste anche per i provvedimenti emessi anteriormente 
alla data di entrata in vigore del codice e per i procedimenti gi� iniziati a tale data�. 
E nel libro decimo del codice dedicato alla materia della �esecuzione�, sono 
ricompresi, nel titolo primo relativo al �giudicato�, l'art. 651 e l'art. 652 concernenti 
rispettivamente l'efficacia della sentenza penale di condanna e l'efficacia della 
sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile o amministrativo di danno, e, per 
quanto specificamente qui interessa, l'art. 654 il quale disciplina l'efficacia della 
sentenza penale di condanna o di assoluzione in altri giudizi civili o amministrativi, 
disponendo che nei confronti dell'imputato, della parte civile e del responsabile civile 
che si sia costituito o che sia intervenuto nel procedimento penale, la sentenza penale 
irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha 
efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo quando in questo si 
controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento 
dipende dall'accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio 
penale, purch� i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale 
e purch� la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva 
controversa. Il citato art. 654 riproduce, nell'impostazione sistematica, il disegno 
normativo che trovava precedentemente espressione nell'art. 28, con alcune 
innovazioni tra le quali importa segnalare, in quanto rilevanti ai fini della presente 
decisione: la limitazione dell'efficacia della sentenza penale ai soli soggetti che nel 
procedimento penale abbiano rivestito la qualit� di imputato, di parte civile o di 
responsabile civile (e ci� in armonia con i principi di cui alla sentenza 22 marzo 1971 

n. 55 della Corte Costituzionale con cui era stata dichiarata la illegittimit� 
costituzionale dell'art. 28 nella parte in cui consentiva che l'accertamento dei fatti 
materiali oggetto di un giudizio penale fosse vincolante anche nei confronti di coloro 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO''

500 

che a tale giudizio fossero rimasti estranei perch� non posti in condizione di 
intervenire); l'espressa previsione che possono fare stato, oltre ai fatti accertati con 
sentenza di condanna dibattimentale, solo quelli accertati con sentenza, sempre 
pronunciata in dibattimento (il che esclude la rilevanza della sentenza pronunciata a 
seguito di giudizio abbreviato) di assoluzione, in difformit� dalla previsione dell'art. 
28 dove era menzionata pi� genericamente la sentenza di proscioglimento; l'ulteriore 
previsione (in adesione a quello che gi� costituiva un indirizzo giurisprudenziale 
affermatosi con riguardo all'art. 28) che l'efficacia vincolante pu� essere attribuita 
solo a quei fatti materiali che siano stati dal giudice penale ritenuti rilevanti ai fini 
della decisione penale. Orbene, sotto il profilo della riconducibilit� della fattispecie in 
esame nell'ambito della dimensione soggettiva come sopra delimitata dell'efficacia 
dell'accertamento penale, � sufficiente dare atto che l'Amministrazione finanziaria si 
era costituita parte civile nel processo penale a carico del Boccia nei cui confronti 
aveva ottenuto in primo grado condanna generica al risarcimento del danno da 
liquidarsi in separata sede con statuizione poi venuta meno col proscioglimento 
dell'imputato in grado di appello. Per quanto riguarda poi la natura del provvedimento 
decisorio in cui ha avuto sbocco il giudizio penale, occorre ricordare che la Corte di 
appello ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del Boccia per essere il 
reato a lui ascritto estinto per prescrizione della quale sono stati ritenuti sussistenti gli 
estremi a seguito dell'applicazione in favore dell'imputato di circostanze attenuanti 
generiche giudicate equivalenti all'aggravante contestata. Di tale peculiarit� della 
decisione sull'azione penale non pu� non tenersi conto ai fini della corretta 
individuazione del significato e della rilevanza ermeneutica che assume il raffronto 
testuale tra il riferimento contenuto nell'art. 654 codice procedura penale alla 
sentenza di assoluzione e la classificazione tipologica delle sentenze di 
proscioglimento contenuta nella sezione prima del capo secondo del titolo terzo del 
libro settimo dello stesso codice, dove sono definite sentenze di non doversi 
procedere quelle che vengono pronunciate quando l'azione penale non doveva essere 
iniziata o non doveva essere proseguita o quando � insufficiente o contraddittoria la 
prova dell'esistenza di una condizione di procedibilit� (art. 529), ed inoltre (art. 531) 
quelle con cui viene dichiarata l'estinzione del reato anche per il ritenuto dubbio 
sull'esistenza di una causa di estinzione del reato, all'infuori dell'ipotesi in cui risulti 
evidente che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto 
non costituisce reato (art. 129 comma 2), e vengono invece qualificate come sentenze 
di assoluzione (art. 530) quelle che vengono emesse perch� il fatto non sussiste, o 
perch� l'imputato non lo ha commesso o perch� il fatto non costituisce reato o non � 
previsto dalla legge come reato, ovvero perch� � stato commesso da persona non 
imputabile o non punibile per altra ragione, o quando manca o � insufficiente o 
contraddittoria la prova della sussistenza del fatto, della sua commissione da parte 
dell'imputato, della sussistenza degli estremi di reato, della imputabilit� dell'autore, 

o in caso di prova dell'esistenza (o di dubbio sull'esistenza) di una causa di 
giustificazione o di una causa personale di non punibilit�. Al riguardo, non pare 
giustificata una interpretazione strettamente letterale del dato normativo, quale quella 
accolta dalla Corte di merito, secondo la quale, intendendosi per sentenza di 
assoluzione ai sensi e per gli effetti dell'art. 654 del codice di procedura penale solo 
quella come tale qualificabile in base all'art. 530, debbasi ritenere carente di efficacia 

PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

vincolante in ordine all'accertamento dei fatti qualsiasi sentenza con la quale sia stata 
pronunciata declaratoria di non doversi procedere non solo per le ragioni di cui all'art. 
529 ma anche nei casi di cui all'art. 531 dello stesso codice. Non si ignora che 
l'opinione che qui viene criticata e disattesa trova riscontro nella recente sentenza 20 
febbraio 1996 n. 1319 della III sezione civile di questa Corte, secondo cui l'attuale 
codice di procedura penale �in conformit� dei criteri mirati a ridurre l'efficacia 
extrapenale del giudicato contenuti nella legge delega 16 febbraio 1987 n. 81 ... e 
anche in conseguenza dei reiterati interventi della Corte Costituzionale . . . ha 
delineato agli artt. 651-654 una drastica revisione degli effetti extrapenali della 
decisione marcata dal reiterato riferimento alle sole sentenze dibattimentali 
irrevocabili di condanna o di assoluzione, onde non sembra pi� possibile 
l'equiparazione a queste di ogni differente decisione, come la sentenza di non doversi 
procedere de qua� (nella specie, appunto, per prescrizione conseguente 
all'applicazione di attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti). In 
meditato dissenso da tale precedente, ritiene questo Collegio, ispirandosi ad esigenze 
di interpretazione logica e sistematica prevalenti sulla suggestione creata dalla 
coincidenza dei termini tecnici usati dal legislatore, che la categoria delle decisioni 
alle quali viene nel senso di cui sopra affidata l'efficacia del giudicato penale nel 
giudizio civile non possa essere delineata mediante la pura e semplice meccanica 
trasposizione della letterale enunciazione delle nozioni normative che nello stesso 
codice di rito penale qualificano formalmente i provvedimenti conclusivi del giudizio, 
ma debba essere modellata, in sostanziale e quindi pi� appagante considerazione della 
sua ragione di essere, in funzione di una duplice coincidente rilevanza, penale e civile, 
di un nucleo di fatti materiali la cui verifica -con esito positivo o negativo -siasi 
inserita con carattere di essenzialit� nell'iter logico-giuridico della formazione di una 
decisione penale la quale abbia acquisito il valore del giudicato formale correlato al 
crisma della irrevocabilit� che l'art. 648 codice procedura penale conferisce alle 
sentenze pronunciate in dibattimento contro le quali non possa pi� essere proposta 
alcuna impugnazione ordinaria quale che ne sia la formulazione decisoria, e risulti 
altres� idonea ad inserirsi con lo stesso carattere di decisivit� nella formazione del 
convincimento del giudice civile in quanto avente ad oggetto i fatti che si configurano 
come costitutivi, impeditivi o estintivi rispetto alla situazione giuridica dedotta nel 
giudizio civile (ovvero in quegli altri che nel processo civile siano rilevanti sul piano 
probatorio quali premesse per l'affermazione o la negazione dei primi): col risultato 
del venire in essere di un rapporto di dipendenza giuridica tra l'uno e l'altro 
accertamento, che non nasce dalla sentenza (e quindi dal proscioglimento o dalla 
condanna in se stesse considerate) ma da un giudizio categorico, ad essa funzionale, 
di affermazione della sussistenza o della insussistenza di determinati fatti storici da 
considerarsi, per quanto qui interessa, nella loro oggettivit�, indipendentemente dalla 
qualificazione giuridica ad essi attribuita nel campo penale. Sul modo d.i operare del 
fenomeno come sopra descritto non influisce la soluzione del quesito di natura teorica 
se esso vada inquadrato dogmaticamente, in coerenza con la sedes materiae in cui � 
collocato dal legislatore, nell'ambito dell'istituto del giudicato, o debba essere invece 
ricondotto alla nozione di prova legale, come e stato ritenuto in dottrina sulla base del 
rilievo che il giudicato consiste per definizione nell'accertamento di una situazibne 
giuridica. Importa piuttosto rilevare che, tale essendo la chiave di lettura della 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO '

502 

previsione di cui all'art. 654 codice procedura penale attualmente vigente, ne 
consegue che, a questi fini, la categoria ivi menzionata delle sentenze di assoluzione, 
costituente species (accanto alla contigua species delle sentenze di non doversi 
procedere) del pi� ampio genus delle sentenze di proscioglimento (contrapposto, 
quest'ultimo, al finitimo genus delle sentenze di condanna), non pu� ritenersi 
esattamente sovrapponibile a quella che risulta configurabile sulla scorta del solo art. 
530 codice procedura penale in contrapposizione al coordinato disposto degli art. 529 
e 531, ma -ferma restando l'esclusione delle sentenze nelle quali l'adozione della 
formula dell'improcedibilit� sia correlata all'accertamento e alla valutazione di 
elementi meramente processuali -viene a risultare caratterizzata da una maggiore 
estensione, ricomprendente anche eventuali sentenze di non doversi procedere 
relativamente e limitatamente alla parte in cui queste contengano enunciazione 
(conseguente a specifico accertamento) di elementi di fatto che nel contesto 
motivazionale risultino dotati di apprezzabile rilevanza nel duplice senso di costituire 
ostacolo alla pronuncia di proscioglimento con formula di merito prevista dall'art. 
129 codice procedura penale e di aprire l'adito allo sviluppo della qualificazione della 
fattispecie concreta mediante l'integrazione apportata dalla considerazione di ulteriori 
elementi subordinatamente influenti sulla decisione, ivi compresi i cosiddetti 
accid�ntalia delicti. Ed invero, la classificazione definitoria del codice, la quale 
recepisce (con un maggior rigore formale rispetto al codice precedente) la distinzione 

l

tra le sentenze dotate di contenuto sostanziale suscettibili di esplicare valore di cosa 
giudicata per effetto della conseguita irrevocabilit�, e sentenze aventi contenuto 
meramente processuale come tali carenti di tale efficacia quand'anche divenute 

I irrevocabili, ignora evidentemente la possibilit� della coesistenza, in determinate I fattispecie la cui configurabilit� � espressamente prevista dal legislatore, di una 
formula terminativa specifica espressa in termini di improcedibilit�, e di un 
accertamento -conoscibile attraverso la motivazione -di elementi di fatto i quali, 

I

in quanto essenziali per la configurazione in concreto del reato ritenuto in sentenza, 
nella struttura logica della ratio decidendi del giudice penale si pongono quale I 
indefettibile premessa dell'ulteriore affermazione della sussistenza (e della 
valutazione dell'incidenza) degli elementi accidentali rappresentati dalle circostanze 

I 

applrcabili -e, per quanto occorra, della comparazione di circostanze di segno 
opposto -che pu� condurre alla modificazione dell'imputazione originariamente 
contestata mediante la cosiddetta derubricaziqne o alla determinazione della pena 

I

irrogabile in misura tale da far risultare perfezionata una fattispecie estintiva del reato 
alla quale risulta formalmente congruente la declaratoria di non doversi procedere. 
Tale ipotesi pu� verificarsi in tema di prescrizione, in base al coordinato disposto degli 

I artt. 157 e 69 codice penale, e in virt� del principio secondo cui al fine di stabilire il 
termine di prescrizionale operante in concreto occorre aver riguardo non alla pena 

I

comminata dalla norma incriminatrice per la fattispecie criminosa astratta bens� al 
~ 
!

reato nella sua specifica configurazione ritenuta dal giudice del merito, anche a seguito 

' 

' 

dell'applicazione di circostanze aggravanti e attenuanti (non escluse, fra queste, le ~ 
attenuanti generiche) e al correlativo giudizio di comparazione. In tali casi, infatti, la ~ 

I 
~ 
sentenza esprime in tali parti un vero e proprio giudizio di merito sui fatti (che non 
ricorre, invece, qualora l'estinzione del reato sia dichiarata in considerazione della sola 
assenza della prova evidente dell'innocenza dell'imputato ai sensi dell'art. 129); n� 

I

f. 
' 

~ 

! ~ 

-



PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

rileva in contrario il fatto che tale giudizio trovi estrinsecazione e fonte di 
conoscibilit�, anzich� nel dispositivo, nella motivazione che del dispositivo costituisce 
presupposto integrante. Le considerazioni fin qui svolte non risultano incompatibili 
con la configurazione che l'istituto della pregiudizialit� penale viene ad assumere nel 
disegno generale, delineato nel nuovo codice, dei rapporti tra il giudicato penale e 
l'azione civile, del quale vengono soltanto a precisare una particolare fattispecie; n� 
ricevono smentita da alcuna contraria indicazione da parte del legislatore delegante, il 
quale si � limitato a prevedere, nella legge 16 febbraio 1987 n. 81, il �vincolo per il 
giudice civile, adito per le restituzioni o per il risarcimento del danno, alla sentenza 
penale irrevocabile, limitatamente all'accertamento della sussistenza del fatto, 
all'affermazione o alla esclusione che l'imputato lo abbia commesso e alla illiceit� 
penale del fatto� (n. 22), la �statuizione che la sentenza di assoluzione non pregiudica 
l'azione civile per le restituzioni o per il risarcimento del danno� sotto le condizioni 
indicate nel n. 23, la �disciplina degli effetti del giudicato penale in altri giudizi civili 
o amministrativi� senza ulteriori specificazioni limitative (se non relativamente al 
giudizio disciplinare) nel n. 24, e la �statuizione che le sentenze di proscioglimento 
pronunciate nell'udienza preliminare non fanno stato nel giudizio civile� (n. 25). E 
non � chi non veda, del resto, la assoluta irrazionalit� -suscettibile di attingere gli 
estremi del sospetto di illegittimit� costituzionale -di una discriminazione tra le 
fattispecie processuali in cui l'accertamento di determinati fatti si tradurrebbe in una 
sentenza formalmente di merito vincolante agli effetti civili e quelle in cui lo stesso 
accertamento sarebbe destinato a restare confinato all'interno della dinamica del 
giudizio penale, non giustificata da alcuna apprezzabile differenza inerente al valore 
e al significato attribuibili all'accertamento stesso in ragione dell'organo da cui 
promana e della sede processuale in cui viene effettuato. In questo senso, 
l'interpretazione a cui si affida la presente decisione viene a coincidere con quella 
accolta da Cass. 22 giugno 1993, n. 6906 dove gi� si affermava che �la sentenza 
dibattimentale di proscioglimento per amnistia o per prescrizione in conseguenza 
della concessione di attenuanti dichiarate prevalenti sulle aggravanti pu�, ai sensi 
dell'art. 654 ... spiegare effetti nel giudizio civile in ordine alla sussistenza di fatti 
materiali in concreto accertati dal giudice penale quando da questi fatti dipende il 
riconoscimento del diritto fatto valere in sede civile�. Si rende quindi palese, alla luce 
delle considerazioni esposte, la sussistenza nella impugnata sentenza della violazione 
delle norme di diritto precedentemente esaminate e come sopra interpretate, insita 
nella perentoria affermazione della irrilevanza della sentenza penale di non doversi 
procedere pronunciata in grado di appello nei confronti di Boccia Luigi. Ci� non 
consente, tuttavia, di pervenire sic et simpliciter -come vorrebbe l'Amministrazione 
ricorrente -alla conclusione che debba aversi, hic et nunc, per �irrefragabilmente 
accertato� nei rapporti tra le parti dell'attuale giudizio civile, che il Boccia abbia 
commesso il fatto-reato a lui addebitato, e che, conseguentemente, sussista, 
originariamente a carico dello stesso e ora a carico dei suoi aventi causa, l'obbligo del 
pagamento del tributo evaso. Infatti, l'esigenza, gi� segnalata, della ritenuta rilevanza 
dei fatti ai fini della decisione sull'azione penale, conduce a precisare che al 
riconoscimento dell'efficacia vincolante dell'accertamento nel procedimento civile 
non si pu� pervenire se non previa verifica che la dichiarazione di estinzione del reato 
non sia stata emessa sulla base di un giudizio di comparazione formulato in via 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

504 

astratta con esclusivo riferimento al capo di imputazione in se stesso considerato e 
senza valutazione concreta della fondatezza o meno dell'incolpazione (v. in proposito 
Cass. 28 marzo 1994 n. 3002): si rende necessaria, quindi, in ogni caso, una 
interpretazione del giudicato penale da compiersi -come in ogni ipotesi in cui si 
faccia questione della rilevanza di un giudicato esterno -dal giudice civile 

nell'esercizio del potere, a lui istituzionalmente riservato, di valutazione del merito, 
destinata a sfociare in un apprezzamento non soggetto a sindacato di legittimit� se ed 
in quanto esente da errori di diritto e sorretto da adeguata motivazione. Devesi, 
inoltre, tener presente che l'accertamento, nel senso di cui sopra vincolante, ha ad 
oggetto i fatti nella loro oggettiva realt� fenomenica e non anche nella loro specifica 
rilevanza civilistica, la quale, in ossequio al principio dell'autonomia della cognizione 
civile, resta a sua volta affidata alla ulteriore imprescindibile valutazione del giudice 
civile e soggetta alle regole della materia civile, come risulta sottolineato dalla 
menzione, contenuta nell'art. 654, dei limiti probatori posti dalla legge civile. Nel 
contesto di tale ulteriore indagine di merito -la cui mancanza rende palese, nella 
sentenza impugnata, accanto alla violazione di legge rilevante ai sensi dell'art. 360 n. 
3, anche il difetto di motivazione concorrentemente denunciato ai sensi dell'art. 360 

I

n. 5 codice procedura civile -potr� e dovr� essere individuata, in particolare, la & 
ragione per la quale al Boccia, imputato del reato di cui agli artt. 11 O, 81 cpv. codice 
penale e 23 regio decreto-legge 28 febbraio 1938 n. 334 modificato con l'art. 9 della 
legge 2 luglio 1957 n. 474 �per avere concorso con Angelo Merati, Michele Graziani 
I

e altri con pi� azioni esecutive del medesimo disegno criminoso a sottrarre 

I.' 
all'imposta di fabbricazione quantitativi di prodotti petroliferi per kg 1.237.130 di 

i" 

gasolio nazionale per autotrazione�, non risulti contestato il reato-mezzo (previsto 

I .dagli artt. 110, 81 cpv., 483 in relazione al 479 e 61 n. 2 codice penale) integrato dal . 
comportamento del Boccia consistente, nella tesi dell'accusa penale, nell'avere 
apposto sui documenti emessi dai coimputati la mendace attestazione di aver 
effettuato il trasporto: e ci� al fine di una necessaria opzione interpretativa tra 
l'opinione della Corte territoriale, che attribuisce rilevanza alla caducazione di tale 
incolpazione relativa al reato-mezzo nel senso della esclusione della prova della 

i:~

commissione del reato-fine, e la spiegazione che ne offre l'Amministrazione ii1 

<

ricorrente con riferimento alla pregressa estinzione del solo reato-mezzo per amnistia 

(omissis). 

CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 18 aprile 1998, n. 3953 -Pres. Cantillo -Est. Criscuolo 
-P.M. Cafiero (conf.) -Nasi c. Ministero delle Finanze (avv. Stato Di Carlo). 

1�ibuti in genere -Accertamento -Metodo induttivo -Accertamento dell'imponibile 

I.V.A. mediante utilizzazione di elementi acquisiti per la determinazione del 
reddito -Impiego degli studi di settore -Legittimit� -Limiti. 
(Decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 633, art. 54; decreto del 
Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n. 600, art. 39). 

Tributi in genere -Accertamento -Motivazione -Prova dei fatti -Non attiene 
alla motivazione. 


PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

505 

Legittimamente l'ufficio pu� rettificare l'imponibile ai fini I.V.A., anche 
utilizzando elementi raccolti ai fini delle imposte sul reddito, sulla base di dati 
attinenti ali' attivit� del/ 'impresa (nella specie per la determinazione del volume di 
affari di un ristorante si � tenuto conto del numero dei titolari, dei collaboratori 
familiari e dei dipendenti, del numero dei giorni di apertura, dei quantitativi di cibi 
e bevande acquistati, del prezzo medio di un pasto, del numero di tavoli, dei 
tovaglioli e dei copriinacchia) anche avvalendosi degli studi di settore in concorso 
con altri dati istruttori (1 ). 

La prova dei fatti addotta a sostegno della pretesa tributaria non � richiesta 
come elemento costitutivo dell'avviso di accertamento e pu� essere fornita nel corso 
del successivo giudizio; la motivazione � sufficiente quando indica fatti ipotizzati (2). 

(omissis). 

Con il primo mezzo di cassazione (articolato in pi� profili) la ricorrente 
denunzia l'illegittimit� del ricorso al metodo analitico -induttivo di accertamento, 
con violazione dell'art. 54 decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 

n. 633, in relazione all'art. 360 n. 3 codice procedura civile. 
Premesso che l'ufficio I.V.A. si sarebbe avvalso del metodo di rettifica analitica 
previsto dal citato art. 54, afferma che esso avrebbe motivato l'impugnato 
accertamento con rinvio all'accertamento analitico-induttivo spiccato contro essa 
ricorrente dal 1 � ufficio distrettuale delle imposte sui redditi di Genova e tale 
motivazione sarebbe stata considerata sufficiente e legittima dalla Corte territoriale. 

Invece nella specie non sarebbe riscontrabile alcuna delle tassative ipotesi in 
relazione alle quali gli artt. 54 decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 
1972 e 39 comma 1 decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973 
consentirebbero l'adozione di quel metodo di rettifica. In particolare: a) 
l'accertamento in questione non sarebbe ricollegato ad alcuno specifico accesso, 
ispezione o verifica effettuata presso l'impresa ricorrente; b) nessuno specifico 
rilievo sarebbe stato elevato con riguardo alle scritture contabili, la cui irregolarit� 
mai sarebbe stata contestata; c) la societ� contribuente avrebbe regolarmente 
risposto al questionario, esibendo tutta la documentazione richiesta e nessuna 
contestazione in proposito sarebbe stata elevata nei suoi confronti; d) nella specie 
non si contesterebbe l'applicazione di alcuna specifica disposizione in materia di 
I.V.A., bens� si provvederebbe alla ricostruzione dell'intero ammontare dei ricavi 
della ricorrente; e) comunque lo studio di settore utilizzato dall'ufficio non 
rientrerebbe nell'ambito dei dati e notizie in possesso dell'ufficio, trattandosi di 
elaborato predisposto dalla stessa amministrazione procedente, cio� di uno studio di 

(1-2) La prima massima segna una svolta decisiva per il recepimento in giurisprudenza delle 

nuove vie dell'accertamento. Superando le numerose e tenaci eccezioni, riassunte nella prima 

parte della motivazione, la sentenza da rilevanza palpabile dei metodi di accertamento basati su 

dati sintomatici e studi di settore. 

La seconda massima segue, ma ne fa una applicazione incisiva, una regola ormai consolidata 

(Cass. 8 aprile 1998 n. 3661, in questo fascicolo pag. 493 con richiami). 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

506 

parte, mancante del requisito della terziet� cos� come richiesto dall'art. 54 del 
decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972. 

Sotto altro profilo si deduce l'illegittimit� dell'accertamento fondato sullo 
studio di settore, con violazione dell'art. 54, comma terzo, decreto del Presidente 
della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 633, in relazione all'art. 360 n. 3 codice 

procedura civile. 

L'ufficio, rettificando i ricavi, avrebbe disatteso i risultati emergenti dalle 
scritture contabili regolarmente tenute dalla ricorrente, perch� in contrasto con 
�verifiche effettuate presso altri contribuenti�, con �dati in possesso dell'ufficio�, 
con lo studio di settore curato dal medesimo. Ma i primi due elementi mai sarebbero 
stati portati a conoscenza della contribuente o dei giudici per cui l'inattendibilit� dei 
ricavi dichiarati dall'impresa ricorrente sarebbe stata desunta induttivamente dalle 
valutazioni effettuate dall'ufficio, sulla scorta dello studio di settore. Poich� il detto 
ufficio avrebbe operato nel campo delle presunzioni semplici, alla base del 
ragionamento dovrebbe esserci un fatto certo e noto dal quale risalire al fatto ignoto. 
Nel caso in esame il fatto ignoto sarebbe costituito dai ricavi dell'impresa F.lli Nasi, 
i quali sarebbero il risultato della moltiplicazione del numero dei pasti erogati 
nell'anno per il prez~o di ciascun pasto. Sarebbe quindi necessario che il 
moltiplicando e il moltiplicatore fossero il risultato di un procedimento presuntivo 
corretto che, per esser tale, dovrebbe essere fondato su fatti conferenti. Cos� nella 
specie non sarebbe. 

La ricorrente quindi censura il ragionamento seguito dall'ufficio per 
determinare i prodotti alimentari acquistati, le porzioni medie, il numero delle 
portate e dei pasti serviti, desunti dall'impiego dello studio di settore, da cui 
emergerebbero dati non comprensibili e quindi non impiegabili in ragionamenti 
presuntivi, al fine di ricostruire i ricavi della ricorrente (pag. 5, 6, 7 del ricorso). In 
effetti la determinazione degli elementi utilizzati dall'ufficio per la rettifica dei 
ricavi non avrebbe fondamento nella realt� dell'impresa, sicch� i dati tratti dallo 
studio di settore per la determinazione delle porzioni medie di carni e pesce e per 
l'equivalenza tra dette porzioni non sarebbero fondati su alcun dato certo e quindi 

I 

non consentirebbero di trarre alcuna inferenza presuntiva. 
Inoltre la sentenza impugnata sarebbe erronea perch� muoverebbe dalla 
premessa che i risultati dello studio di settore legittimerebbero l'accertamento ex art. 

I 54 decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, quando vengano 
utilizzati come metodo di ricerca e di individuazione dei dati valutabili al fine di 
determinare il reddito delle imprese facenti parte di quella categoria e come 
strumento per dimostrare, sulla base di concreti elementi di fatto riferibili a quel 
determinato contribuente, l'inattendibilit� della dichiarazione, per giungere poi alla 

conclusione che, nella specie, l'ufficio avrebbe fondato l'accertamento su elementi 
di fatto riferibili all'impresa accertata. L'errore si concretizzerebbe nella mancata 
rilevazione, da parte dei giudici di appello, sia della inconferenza dei fatti propri 
dell'impresa accertati dall'ufficio sia della carenza nell'accertamento di altri fatti 
che sarebbero stati rilevanti e tuttavia non avrebbero formato oggetto di rilevazione. 

La sentenza impugnata valorizzerebbe: a) il numero dei titolari dell'impresa, 
dei familiari collaboratori e dei dipendenti, ma l'ufficio non avrebbe provato perch� 
da tal numero di dipendenti si dovrebbe inferire che fossero stati forniti pi� pasti di 


PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

quelli dichiarati in base a scritture regolarmente tenute, onde il dato sarebbe 
irrilevante; b) il numero dei giorni di apertura del ristorante, ma anche tale dato 
sarebbe privo di rilievo essendo notorio che i ristoranti, fino alla chiusura per 
fallimento, sono sempre aperti; e) i quantitativi di cibo e bevande acquistati e il 
prezzo medio di un pasto, unici dati reali ma non sufficienti da soli per determinare 
maggiori ricavi; d) il numero dei tavoli presenti nel ristorante, ma anche questo 
elemento non avrebbe rilievo ai fini della determinazione di maggiori ricavi, non 
essendo provato che i posti erano occupati in misura maggiore rispetto alle 
risultanze delle scritture contabili; e) l'unico dato certo rilevante per individuare la 
concreta potenzialit� produttiva dell'impresa, ovvero il numero dei tovaglioli e dei 
coprimacchia risultanti dalle scritture passive rilasciate dalle lavanderie (cui fa 
rinvio la sentenza di appello a pag. 10), sarebbe un dato inesistente, perch� l'atto di 
accertamento non conterrebbe alcun riferimento a qualsivoglia (inesistente) 
controllo incrociato circa il numero delle tovaglie, dei tovaglioli e dei coprimacchia 
utilizzati nel locale. Sarebbe anzi significativo che l'ufficio si sia discostato dallo 
studio di settore proprio con riferimento al numero dei tovaglioli e dei coprimacchia, 
non considerando tali elementi specifici dell'azienda ricorre.nte. 

Piuttosto i giudici di appello avrebbero dovuto tenere conto di dati concreti 
fomiti dalla ricorrente, di cui invece non si farebbe cenno. Si tratterebbe delle 
dichiarazioni rese da un ente di pubblica assistenza e dal rettore del convento dei 
Padri Cappuccini di Genova, attestanti le erogazioni liberali in natura effettuate 
dalla F.lli Nasi, nonch� dei danni subiti dall'impresa a seguito della rottura di una 
condotta fognaria. I medesimi giudici, inoltre, avrebbero dovuto valutare il fatto che 
l'amministrazione non avrebbe posto in essere l'opportuna attivit� investigativa, 
idonea a fotografare la realt� economica dell'impresa. 

Con il secondo mezzo, poi, la ricorrente denunzia ancora l'illegittimit� 
dell'impiego dello studio di settore sotto altro profilo, in violazione dell'art. 54 cit., 
con riferimento all'art. 360 n. 3 codice procedura civile. 

Lo studio di settore invocato sarebbe inidoneo a fondare un accertamento 
induttivo anche in relazione al suo specifico contenuto, per assoluta incertezza circa 
la seriet�, fop.datezza, comparabilit� ed utilizzabilit� dei dati da esso emergenti. Non 
sarebbero indicati i �ristoranti specializzati� della citt� di Genova, nei quali 
sarebbero stati effettuati i riscontri, n� sarebbero noti i criteri per determinare lo 
sconto di ciascun prodotto alimentare e, quindi, il peso di ciascuna porzione. 
Pertanto, in assenza di valori di riferimento aventi seria rilevanza statistica, sarebbe 
lecito concludere nel senso della velleitariet� del metodo utilizzato dall'ufficio per 
la realizzazione dello studio di settore e della mera ipotesi quantitativa da� esso 
discendente, tenuto conto anche delle prescrizioni normative in materia (art. 62 bis 
legge 29 ottobre 1993 n. 427). 

I due motivi, essendo tra loro connessi, possono formare oggetto di esame 
congiunto. Le complesse censure con essi articolate, peraltro, si rivelano prive di 
fondamento. 

Si deve premettere che l'art. 54 comma 1 del decreto del Presidente della 
Repubblica 26 ottobre 1972 n. 633 (e successive modificazioni) attribuisce 
all'ufficio dell'imposta sul valore aggiunto il potere di procedere alla rettifica della 
dichiarazione annuale presentata da contribuente, quando ritiene che ne risulti 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

508 

un'imposta inferiore a quella dovuta ovvero una eccedenza detraibile o rimborsabile 
superiore a quella spettante. 

Il secondo comma di detta norma stabilisce poi (nell'ultima parte) che le 
omissioni e le false o inesatte indicazioni (che rendono la dichiarazione infedele) 
possono essere desunte anche sulla base di presunzioni semplici, purch� queste 
siano gravi, precise e concordanti. 

Il terzo comma aggiunge che l'ufficio pu� procedere alla rettifica 
indipendentemente dalla previa ispezione della contabilit� del contribuente qualora 
l'esistenza di operazioni imponibili per ammontare superiore a quello indicato nella 
dichiarazione, o l'inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno 
diritto alla detrazione, risulti in modo certo e diretto (e non in via presuntiva) dagli 
atti e documenti nella norma �medesima espressamente menzionati, nonch� pi� 
generalmente da altri atti e documenti in possesso dell'amministrazione. 

Nel caso in esame, come risulta dalla sentenza impugnata (pag. 4), la rettifica 
� stata operata sulla base �delle risultanze dell'ispezione documentale eseguita 
nei confronti della parte da funzionari del 1 � ufficio distrettuale imposte dirette 
di Genova�, il quale aveva effettuato un accertamento analitico con posta 
induttiva ai sensi dell'art. 39 decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 
1973, utilizzando atti e documenti forniti dalla stessa contribuente. Inoltre, come 
si evince sempre dalla sentenza impugnata (pag. 7), tali atti sono stati indicati e 
consistono (tra l'altro) in questionari, dichiarazione dei redditi, fatture. Sono stati 
altres� considerati: il numero dei titolari dell'impresa e dei collaboratori familiari, 
il numero dei dipendenti, il numero dei giorni di apertura del ristorante, i 
quantitativi di cibi e bevande acquistati, il prezzo medio di un pasto, ricavato 
dalle ricevute fiscali e dalle fatture al netto di I.V.A. emesse dalla societ�, 
insieme con gli altri elementi richiamati in narrativa (pag. 9-1 O della sentenza 
impugnata). 

Non � dunque esatto che l'ufficio abbia operato al di fuori del metodo di 
rettifica contemplato dal citato art. 54. Esso, invece, ha fatto applicazione dei criteri 
previsti dalla menzionata norma, ed in particolare dal terzo comma di essa, 
basandosi su un complesso documentale idoneo a consentire un'adeguata 
ricosiruiione dell'attivit� economica dell'impresa, con analitica indicazione dei dati 
conoscitivi utilizzati. 

Non ha dunque pregio il rilievo della ricorrente, secondo cui non sarebbe stata 
effettuata un'ispezione presso la sua sede, perch� i menzionati atti e documenti 
erano gi� in possesso dell'amministrazione, e sulla base di essi si � proceduto alla 
ricostruzione dei ricavi, nel quadro della citata norma. E si trattava di atti, 
documenti, elementi provenienti dalla stessa contribuente, la quale dunque non pu� 
sostenere di non esserne stata a conoscenza. 

N� sono condivisibili le doglianze della societ� relative all'utilizzo dello studio 
di settore. 

� vero che, come questa Corte ha gi� chiarito (Cass., 15 febbraio 1995 n. 1628), 
l'ufficio -in assenza di verifica contabile -non pu� affermare l'infedelt� della 
dichiarazione perch� in contrasto con un parametro di riferimento estrapolato 
dall'ufficio medesimo ed asserito come indicativo dei valori medi percentuali di 
ricarico riscontrati nelle aziende operanti nel medesimo settore merceologico. 


PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

Ma nel caso in esame non � esatto che l'amministrazione finanziaria abbia 
ritenuto inattendibili i ricavi dichiarati dall'impresa sulla sola scorta dello studio di 
settore. 

Come sopra � gi� stato ricordato, e qui si ribadisce, sono stati utilizzati atti e 
documenti (questionari, dichiarazione dei redditi, fatture attive e passive, ricevute 
fiscali) nonch� altri dati conoscitivi (personale, numero dei tavoli, dei tovaglioli, 
delle tovaglie e dei coprimacchia), sicuramente idonei -se considerati 
unitariamente ed in correlazione tra loro (e non gi� isolatamente, come invece 
vorrebbe la ricorrente allorch� svaluta la rilevanza dei dati suddetti) -a consentire 
una ricostruzione affidabile della realt� economica dell'azienda. In questo contesto 
lo studio di settore; lungi dall'essere l'unico fondamento della rettifica, � stato 
utilizzato come parametro valutativo, espressione di una regola di esperienza (e cos� 
lo definisce la citata sentenza n. 1628 del 1995, in motivazione), sulla cui base sia 
possibile identificare valori medi che il giudice di merito ben pu� condividere in 
assenza di elementi di contrasto. 

Quanto alle censure relative alla determinazione del prezzo medio di ciascun 
pasto, si tratta di valutazioni ed apprezzamenti di fatto che non possono trovare 
ingresso nella presente sede di legittimit�, in quanto si traducono nell'opporre alla 
ricostruzione operata dall'ufficio (e condivisa dalla sentenza impugnata) una diversa 
ricostruzione relativa alla quantit� dei pasti e delle porzioni. E lo stesso deve dirsi 
per quanto concerne l'asserita inconferenza dei fatti accertati che la sentenza 
impugnata ha valorizzato. Anche su questo punto la ricorrente si limita ad opporre 
all'apprezzamento di fatto del giudice di merito un suo diverso apprezzamento, il 
che per� non � deducibile in sede di legittimit� neppure sotto il profilo del difetto di 
motivazione. N� pu� darsi ingresso all'affermazione della ricorrente, secondo la 
quale il numero dei tovaglioli e dei coprimacchia risultanti dalle fatture rilasciate 
dalla lavanderia sarebbe un dato inesistente perch� l'atto di accertamento non 
conterrebbe alcun riferimento ad un controllo incrociato relativo a tale dato. La 
circostanza � specificamente menzionata a pag. 1 O della sentenza impugnata, e 
questa Corte non pu� discostarsi dagli elementi fattuali in essa accertati. 

Da quai;ito esposto consegue anche la legittimit� dell'impiego dello studio di 
settore (nel quadro sopra indicato e per le finalit� menzionate), non potendo trovare 
ingresso in questa sede le critiche alle modalit� di redazione di esso. Tali critiche, 
infatti, presuppongono non soltanto un esame diretto dello studio ma anche una serie 
di valutazioni ed apprezzamenti di fatto estranei al giudizio di legittimit�. 

Si deve, comunque, ancora ribadire che, come emerge dalla sentenza impugnata 
(v., in particolare, pag. 9-10), nel contesto della rettifica eseguita dall'ufficio lo 
studio di settore non assume quel rilievo probatorio determinante che la ricorrente 
sembra volergli attribuire. La Corte territoriale, infatti, ha posto in evidenza che i 
dati probanti sono in realt� scaturiti �da tutta una serie di dettagliati e meticolosi 
controlli eseguiti direttamente dall'ufficio sulla base della dichiarazione presentata 
e della documentazione esibita dal contribuente su richiesta dello stesso ufficio�. E 
richiama, poi, tutti gli elementi considerati �i fini della ricostruzione della realt� 
economica dell'azienda. 

Con il terzo mezzo di cassazione la societ� ricorrente deduce l'illegittimit� della 
rettifica operata dall'ufficio per carenza probatoria, nonch� erroneit� e 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

510 

contraddittoriet� della sentenza impugnata su un punto decisivo della controversia, 
con riferimento all'art. 360 comma 1 (n. 3 e 5) codice procedura civile. 

Sostiene che i maggiori corrispettivi accertati sarebbero totalmente carenti di 
prova. Invero le percentuali di utilizzazione dei prodotti alimentari applicate 
dall'ufficio sarebbero inidonee a ricostruire l'ammontare dei ricavi della specifica 
azienda di essa ricorrente. Gli elementi addotti dall'ufficio costituirebbero elementi 
estranei a tale realt� aziendale, potendo al pi� costituire elementi di valutazione 
reddituale �puramente indicativi e meramente indiziari, come tali da supp01tare 
sulla base di un riscontro specifico con la realt� aziendale, riscontro che, nella 
specie, � del tutto carente�. 

La giurisprudenza avrebbe posto in luce che le percentuali di ricarico o 
redditivit� determinate in relazione ad imprese in situazione analoga potrebbero 
costituire mero indizio per l'accertamento, dovendo quindi l'amministrazione 
dimostrare che tali percentuali potrebbero concretamente attagliarsi alla specifica 
azienda considerata. 

Del pari illegittimo sarebbe il riferimento a percentuali di utilizzazione del 
prodotto desunte da non identificate �imprese operanti sulla medesima piazza�, 
attese la sua estrema genericit� ed indeterminatezza. 

Ancora, la ricost~zione �pluripresuntiva� dei corrispettivi, operata dall'ufficio, 
difetterebbe di ogni riscontro con la specifica realt� aziendale della ricorrente, 
avendo la decisione impugnata pienamente errato nell'affermare che l'ipotesi 
quantitativa formulata dall'atto impugnato sarebbe corroborata da un controllo 
incrociato con altri elementi, quali il numero dei tovaglioli, delle tovaglie e dei 
coprimacchia risultante dalle fatture passive rilevate dalla lavanderia e il numero dei 
tavoli presente nel locale. Invece dalla lettura dell'atto di accertamento emergerebbe 
che tale controllo mai sarebbe stato effettuato e tali elementi mai sarebbero stati 
riscontrati. 

Infine la ricostruzione operata dall'ufficio sarebbe priva di rilevanza 
probatoria anche perch� ci� sarebbe stato riconosciuto da una perizia espletata in 
sede penale, che avrebbe ampiamente criticato la diretta attribuzione di immediata 
e completa rilevanza probatoria allo studio di settore, ponendosi tra l'altro in 
evid�nza che, senza uno specifico controllo presso lo specifico ristorante, esso non 
potrebbe essere preso a base di una ricostruzione induttiva delle porzioni e, di 
conseguenza, dei ricavi. 

Neppure questo motivo � fondato, dovendosi al riguardo in primo luogo 
richiamare le considerazioni svolte a proposito dei primi due mezzi. Non si 
comprende come si possa definire carente un riscontro specifico con la realt� 
aziendale della ricorrente quando dagli accertamenti di fatto compiuti dalla sentenza 
impugnata risulta il contrario (se poi la ricorrente avesse inteso sostenere l'erroneit� 
di quegli accertamenti di fatto avrebbe dovuto spiegare altro mezzo 
d'impugnazione). 

La Corte genovese richiama una serie nutrita di elementi specifici, che 
riguardano non una indeterminata ed astratta impresa di ristorazione bens� quella 
gestita dalla ricorrente. Tra questi elementi sono indicati: i quantitativi di cibo e di 
bevande acquistati, il prezzo medio di un pasto ricavato dalle ricevute fiscali e dalle 
fatture al netto di I.V.A. emesse dalla societ� (quindi non un dato generico o 


PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

presuntivo, ma un elemento documentale scaturito dall'esame delle fatture della 
societ�), il numero dei tovaglioli, delle tovaglie e dei coprimacchia (anche questo 
dato desunto dalle fatture passive rilasciate dalle lavanderie), il numero dei tavoli 
presenti nel ristorante, il numero degli addetti alle cucine e quello degli addetti ai 
tavoli. Dal complesso di questi elementi -che non possono essere frammentati ma 
vanno considerati unitariamente e in correlazione tra loro, appunto perch� 
componenti di un'unica specifica attivit� aziendale -la Corte di Genova ha tratto 
il convincimento che l'ufficio aveva avuto la possibilit� di verificare e valutare 
direttamente elementi e dati concreti, attinenti alla specifica azienda, che, 
confrontati con quelli presuntivi di carattere generale derivati dallo studio eseguito 
nel corrispondente settore, avevano prima confermato la inattendibilit� della 
dichiarazione presentata dalla contribuente e poi dimostrato la sua inesattezza per 
difetto rispetto al reddito reale. Si tratta, come si vede, di un ragionamento coerente 
ed agganciato a dati concreti, nel cui tessuto argomentativo lo studio di settore non 
assurge affatto a solo elemento di prova, ma, in quanto riferito ad idonei controlli 
svolti con riferimento alla specifica impresa di ristorazione, � stato utilizzato come 
parametro orientativo di calcolo applicato ai dati dianzi menzionati. 

N� le suddette conclusioni trovano smentita nei rilievi della consulenza svolta 
in sede penale. A parte quanto si dir� trattando del sesto motivo d'impugnazione, 
quella consulenza, come si afferma nel ricorso (pag. 17), critica la diretta 
attribuzione di immediata e completa rilevanza probatoria agli studi di settore. Ma 
si � gi� illustrato sopra che ci� non � avvenuto nel caso in esame. 

Con il quarto mezzo di cassazione la ricorrente denunzia l'illegittimit� della 
motivazione dell'accertamento per relationem allo studio di settore, nonch� 
violazione dell'art. 56 decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 
633, in riferimento all'art. 360 n. 3 codice procedura civile, sostenendo che la 
ricostruzione reddituale operata dall'ufficio si fonderebbe sul rinvio, operato nella 
parte motiva del provvedimento, ad uno studio sul settore della ristorazione. 

Poich� il dovere di motivazione dell'accertamento sarebbe soddisfatto quando 
sia indicato il criterio logico-giuridico seguito dall'ufficio nella rideterminazione del 
reddito, taly obbligo potrebbe dirsi realizzato solo quando tutti i passaggi logici 
conducenti alla determinazione del maggior reddito fossero manifestati al 
contribuente nella parte motiva dell'atto accertativo. L'obbligo predetto non sarebbe 
quindi soddisfatto se il contribuente non sia posto in grado di conoscere le premesse, 
i passaggi intermedi e le soluzjoni finali relativi a tutti gli elementi che danno luogo 
alla rideterminazione di una posta reddituale. 

Nel caso in esame la rideterminazione dei ricavi realizzati dall'impresa sarebbe 
avvenuta mediante la moltiplicazione dei pasti, che l'ufficiq assume essere stati 
serviti, per il prezzo medio di ciascun pasto. Ai fini della determinazione del numero 
dei pasti l'ufficio avrebbe proceduto dividendo i quantitativi di <::arne e pesce 
acquistati dalla F.lli Nasi per il quantitativo medio che si assume esser� proprio di 
ciascuna porzione. Quest'ultimo dato sarebbe stato determinato mediante la mera 
indicazione, nell'atto accertativo, del solo risultato finafe dello studio di settore, 
mentre per le premesse ed i passaggi intermedi che avrebbero condotto a 
determinare questo decisivo elemento di ricostruzione dei ricavi degli esponenti 
l'ufficio avrebbe rinviato allo stesso studio di settore. 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

512 

Di conseguenza, la motivazione degli avvisi di accertamento non avrebbe 
recato diretta indicazione, nella sua integralit�, dell'iter logico giuridico percorso 
dall'ufficio. Di qui l'illegittimit� degli atti impugnati per carenza di motivazione. 

La sentenza impugnata avrebbe erroneamente disatteso tale censura, 
assumendo la legittimit� della motivazione per relationem ad atti anche non 
conosciuti dal contribuente al momento della notificazione dell'accertamento, ma ad 
atti astrattamente conoscibili dal contribuente stesso -come nella specie -in un 
momento successivo all'instaurazione del contenzioso tributario. Cos� decidendo, 
per�, la sentenza sarebbe incorsa in vizio logico, perch� -essendo la motivazione 
parte integrante del procedimento accertativo al fine di garantire il diritto di difesa 
del contribuente -essa dovrebbe essere costituita -a pena di invalidit� -da tutti 
i fatti e le prove su cui si fonda la pretesa tributaria, per cui in caso di motivazione 
per relationem tale precetto potrebbe dirsi soddisfatto solo in quanto l'atto cui si fa 
rinvio venga portato a conoscenza del contribuente per lo meno nello stesso termine 
in cui � notificato l'accertamento. 

Nel caso in esame lo studio di settore sarebbe stato reso indirettamente 
conoscibile dal contribuente soltanto durante la fase contenziosa di primo grado, e 
sarebbe stato reso direttamente conoscibile soltanto nella fase davanti alla Corte di 
appello, mediante deposito in allegato alla comparsa di costituzione dell'Avvocatura 
dello Stato. 

Sotto altro profilo l'accertamento sarebbe illegittimo perch� rinvierebbe a 
�verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti�, nonch� �ad 
altri dati in possesso dell'ufficio�, mai resi conoscibili alla societ� contribuente 
neppure in corso di causa. 

Il motivo non � fondato. 

Questa Corte ha pi� volte affermato che la prova dei fatti addotti a sostegno 
della pretesa tributaria non � richiesta come elemento costitutivo dell'avviso di 
accertamento e la sua mancanza non pu� incidere sulla validit� dell'avviso stesso, 
perch� deve essere fornita soltanto in un momento successivo, in sede processuale, 
quando, a seguito dell'opposizione del contribuente, si proceda alla verifica della 
fon~atezza sostanziale della (maggiore) pretesa tributaria, con la conseguenza, in 
mancanza, del rigetto della pretesa medesima ma non dell'invalidit� 
dell'accertamento (Cass., 16 agosto 1993 n. 8685; 8 aprile 1992 n. 4307). Ed ha 
altres� chiarito che l'avviso di accertamento ha carattere di provocatio ad 
opponendum nel senso che soddisfa l'obbligo della motivazione ogni qual volta 
l'amministrazione abbia posto il contribuente in grado di conoscere la pretesa 
tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestarne efficacemente l'an 
ed il quantum debeatur (Cass., 16 agosto 1993 n. 8685). Pi� in generale si � 
precisato che l'obbligo di motivare gli avvisi di accertamento deve ritenersi 
soddisfatto, in via di principio, quando la motivazione sia tale da esternare, 
ancorch� in forma contratta e semplificata, le ragioni del provvedimento, 
evidenziandone i momenti ricognitivi e logico-deduttivi essenziali, in modo da 
consentire al destinatario di svolgere efficacemente la propria difesa attraverso la 
motivata e tempestiva impugnazione dell'atto, e al giudice di verificare gli aspetti 
materiali e giuridici della pretesa fiscale (Cass., sez. un., 3 giugno 1987 n. 4853, in 
motivazione; sez. un., 3 aprile 1986 n. 2277). 



PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

513 

In sostanza la motivazione degli atti di accertamento serve sia a identificare a 
quali elementi esso si riferisce, sia a renderne note al contribuente le ragioni, 
delimitando la materia del contendere dell'eventuale controversia che faccia 
seguito. Il detto requisito, quindi, come si � osservato in dottrina, costituisce un 
minus rispetto alla prova della pretesa azionata. La motivazione deve dar conto della 
sequenza argomentativa su cui si fonda la rettifica, ma non ha l'obbligo di 
dimostrare, anche sul piano probatorio, l'effettiva esistenza di quanto l'ufficio 
afferma. � sufficiente che essa indichi i fatti ipotizzati dall'ufficio, in guisa tale che 
il contribuente possa comprendere se,. ed in quale misura, rispondono alla realt�. 

Nel caso di specie, come compiutamente posto in luce dalla sentenza 
impugnata, l'ufficio ha indicato sia gli atti posti a fondamento delle operazioni di 
rettifica (questionari, dichiarazione dei redditi, fatture), sia i criteri adottati per la 
verifica delle ritenute inesattezze contabili, sia il metodo di calcolo dei maggiori 
ricavi accertati, richiamando a tal fine lo studio eseguito nello specifico settore. 
Pertanto risulta rispettato il disposto dell'art. 56 del decreto del Presidente della 
Repubblica n. 633 del 1972. N� rileva che lo studio di settore non sia stato 
portato a conoscenza del contribuente (nel suo contenuto) contestualmente alla 
notifica dell'avviso di accertamento, perch� comunque esso era stato indicato ed 
� stato poi reso conoscibile alla ricorrente che, del resto, in sede giudiziale 
proprio su di esso ha sviluppato ampie difese di merito cos� palesando di ben 
conoscerne i contenuti. 

Quanto, poi, agli altri generici richiami effettuati negli avvisi, come emerge 
dalla trama argomentativa della sentenza impugnata essi non sono stati considerati 
ai fini della decisione, onde devono essere ritenuti irrilevanti (omissis). 

CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 23 aprile 1998 n. 4202 -Pres. Sensale -Est. 
Pignataro -P.M Giacalone (conf.) -Ministero delle Finanze (avv. Stato 
Sclafani) c. Franceschelli. 

Tributi en\riali diretti -Rimborsi -Ritenute -Dichiarazione del reddito 
relativo -� necessaria. 
(Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n. 602, art. 39). 

A norma dell'art. 39, 4� comma del decreto del Presidente della Repubblica 29 
settembre 1973 n. 602, non � ammesso il rimborso delle ritenute di acconto di 
redditi non dichiarati; � questa una regola assoluta che non soffre eccezioni (1 ). 

(omissis). 

Con l'unico articolato motivo il ministero ricorrente censura la decisione 
impugnata: a) per avere omesso di pronunciare sullo specifico motivo di doglianza 
relativo all'applicabilit� nella specie dell'art. 39, 4� comma del decreto del 

(1) Giurisprudenza costante: v. Cass. 9 aprile 1998 n. 3502 e 3670 di cui si omette la 
pubblicazione. 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

514 

Presidente della Repubblica n. 602/1973, cos� violando l'art. 112 codice procedura 
civile e gli artt. da 25 a 29 del decreto del Presidente della Repubblica n. 636/1972; 
b) per avere violato l'art. 132 codice procedura civile e 37 del decreto del Presidente 
della Repubblica n. 636/1972 omettendo di indicare le ragioni della reiezione di tale 
motivo; e) per avere violato il citato art. 39, 4� comma del decreto del Presidente 
della Repubblica n. 602/1972 nel ritenere irrilevante, ai fini del rimborso delle 
ritenute IRPEF sul trattamento di fine rapporto, l'omessa specificazione del reddito 
relativo nella dichiarazione annuale. 

Il motivo merita accoglimento limitatamente alla censura sub e). 

La censura sub a) � infondata non sussistendo il denunciato vizio di omessa 
pronuncia poich� la decisione impugnata -come si � esposto nella parte narrativa 
-ha respinto, ritenendola infondata, la tesi relativa all'applicabilit� nella specie 
dell'art. 39, 4� comma del decreto del Presidente della Repubblica n. 602/1973. 

La censura sub b) � inammissibile. 

Infatti, relativamente alle questioni di puro diritto non � ammissibile il ricorso 
a questa corte di cassazione per vizio di omessa motivazione, concretandosi il 
sindacato di legittimit�, in tal caso, nel controllo dell'esattezza giuridica della 
statuizione impugnata. 

La censura sub e), come si � anticipato, � fondata. 

L'istanza di riliquidazione dell'imposta dovuta sull'indennit� di fine 
rapporto concreta un'istanza di rimborso delle ritenute d'acconto operate all'atto 
della corresponsione della stessa indennit�, tendendo ad ottenere, mediante 
appunto la riliquidazione, la restituzione di somme che in base alla stessa 
risultino pagate in pi�. 

Da ci� consegue, come ha gi� affermato questa corte ( v. sentenza 19 dicembre 
1996 n. 11352), che alla relativa istanza si applicano le disposizioni generali 
previste dalle disposizioni tributarie in tema di rimborso e quindi, in particolare, 
l'art. 39, 4� comma del decreto del Presidente della Repubblica n. 602/1973 
secondo il quale �non � ammesso il rimborso delle ritenute d'acconto di redditi non 
dichiarati...�. 

Tale norma tende ad evitare che il contribuente possa realizzare il doppio 
beneficio della sottrazione del reddito all'imposizione e del rimborso delle ritenute 
operate sullo stesso. Essa (come si � osservato nella sentenza sopra citata) pone una 
regola assoluta poich� non prevede eccezioni specifiche n� consente, neppure in via 
implicita, la individuazione di ipotesi o di criteri che possano legittimarne la non 
applicazione. 

D'altronde, che la precisa indicazione nella dichiarazione dei redditi delle 
somme percepite a titolo di indennit� di fine rapporto costituisca il presupposto /;:j

I 

necessario per la riliquidazione ed il rimborso dell'IRPEF corrisposta dal m 

~::

contribuente in base al sistema previgente (basato sull'applicazione di un'aliquota ~;
media) trova conferma nella disposizione dell'art. 4, 5� comma della legge n. 
482/1985, con la quale, mediante il richiamo all'art. 42-bis del decreto del Il 
Presidente della Repubblica n. 602/1973, si � inteso subordinare la procedura di ~~]
riliquidazione della imposta all'esame della dichiarazione dei redditi presentata dal 
contribuente anche con riferimento alla percezione dell'indennit� di fine rapporto (o 
di buonuscita). 

I 

.. I 

J 

,,.~llll�MJlllJ.Jf...IJllaf..,4'11 



PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

515 

La decisione impugnata non si � attenuta agli indicati principi nell'affermare 
l'irrilevanza, ai fini del rimborso delle ritenute operate su tale indennit�, della 
mancata precisa indicazione nella dichiarazione del contribuente delle somme 
ricevute a tale titolo. 

Il ricorso va, pertanto, accolto per quanto di ragione. Conseguono la cassazione 
della decisione impugnata e, ai sensi dell'art. 384 codice procedura civile (nel testo 
novellato dalla legge n. 353/1990), la decisione della causa nel merito nel senso del 
rigetto della domanda di rimborso del contribuente di cui al ricorso alla 
commissione tributaria di primo grado di Roma (omissis). 

CORTE DI CASSAZIONE, Sez. Un., 8 luglio 1998 n. 6625 -Pres. Sgroi -Est. 
Finocchiaro -P.M. Morozzo della Rofca (conf.) -Ministero delle Finanze (avv. 
Stato Lancia) c. Soc. I.P. � 

Tributi in genere -Contenzioso tributario -Tributi soppressi con la riforma del 
1973 -Imposta di ricchezza mobile -Rimborsi -Giurisdizione delle 
commissioni. 
(Decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 636, art. 1, 16 e 43). 

Tributi in genere -Contenzioso tributario -Rimborsi -Diritto al rimborso gi� 
accertato con sentenza -Giurisdizione delle commissioni per la condanna. 
(Decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 636 art. 16 e 20). 

I tributi soppressi con la riforma del 19 73 che erano soggetti alla giurisdizione 
delle abolite commissioni distrettuali e provinciali (nella specie imposta di 
ricchezza mobile) appartengono alla giurisdizione delle commissioni istituite con il 
decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 636 (1). 

Anche in presenza di una decisione definitiva del giudice tributario che abbia 
dichiarato l'illegittimit� della liquidazione operata dall'ufficio annullando il ruolo, 
la parte che voglia ottenere il rimborso deve rivolgersi prima all'ufficio e 
successivamente, in caso di rifiuto, alla commissione tributaria, senza che ci� 
costituisca violazione del principio ne bis in idem. In nessun caso � proponibile 
l'azione di indebito innanzi all 'A. G. O. (2). 

(1-2) La sentenza, con ampia riconsiderazione di esatti principi del processo tributario, fissa 
due importanti corollari. Il primo, ormai di rara attualit�, riguarda la giurisdizione per i tributi 
soppressi gi� di competenza delle soppresse commissioni; il secondo, di viva attualit�, chiude la 
strada ad un ennesimo tentativo di considerare il rimborso dell'imposta come un'azione di 
indebito ordinario da proporre innanzi all' A. G.O. senza l'osservanza dei modi e dei termini del 
processo tributario; ma sul punto la giurisprudenza � fermissima. La sentenza, pur senza dirlo, 
esclude che il giudicato che accerta l'illegittimit� della pretesa alla imposta possa consentire un 
giudizio di ottemperanza innanzi al giudice amministrativo. 



516 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO . 
(omissis). 
Il ricorso, nella parte in cui contesta la giurisdizione dell 'A.G. O., per sussistere 
la giurisdizione delle commissioni tributarie, � fondato sulla base delle 
considerazioni che seguono.� 
Nel vigore del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 636, 
che ha regolato compiutamente il sistema del contenzioso tributario, la tutela 
giurisdizionale dei diritti del contribuente si esplica esclusivamente davanti alle 
commissioni tributarie, mediante la proposizione di ricorsi contro specifici atti (di 
accertamento o d'imposizione) dell'amministrazione finanziaria ovvero di ricorsi 
contro il rigetto di istanze tendenti ad ottenere la ripetizione di somme 
indebitamente pagate. Detta tutela giurisdizionale (davanti alle commissioni) vale 
pure per l'imposta di ricchezza mobile, ancorch� questa -in quanto abolita, a 
decorrere dall' 1 gennaio 1974, dall'art. 82, lett. a), del decreto del Presidente della 
Repubblica 29 settembre 1973 n. 597 (istitutivo dell'imposta sul reddito delle 
persone fisiche) -non sia compresa nell'elencazione (contenuta nell'art. 1 del 
citato decreto del Presidente della Repubblica del 1972 n. 636) delle imposte le cui 
controversie sono devolute alle commissioni tributarie, giacch� la configurazione di 
una diversa giurisdizione per le controversie concernenti le imposte soppresse 
sarebbe in contrasto con l'intento del legislatore di razionalizzare e rendere pi� 
efficiente il contenzioso tributario, sia perch� l'art. 43 del decreto del Presidente 
della Repubblica n. 636 si riferisce a tutte le controversie concernenti tributi 
soppressi quale appunto l'imposta di ricchezza mobile (Cass. 11 febbraio 1987 n. 
1465 e 1466; Cass. 19 febbraio 1983 n. 1295, 1296 e 1297; Cass. 11aprile1981 n. 
2118), con esclusione di ogni azione o accertamento (negativo o positivo) del debito 
d'imposta, sia innanzi alle �commissioni tributarie che innanzi al giudice ordinario 
(nello stesso senso, fra le tante, Cass. 9 marzo 1993 n. 2802 e Cass. 25 maggio 1993 
n. 5841, in tema di IRPEF). 
Tale principio comporta che in presenza di una decisione definitiva del giudice 
tributario che abbia dichiarato -come nella specie -l'illegittimit� della 
liquidazione operata dall'Ufficio, annullando integralmente la cartella esattoriale e 
la relativa iscrizione a ruolo, la parte che voglia ottenere il rimborso delle somme 
pagate sulla base della illegittima iscrizione deve rivolgersi prima all'Ufficio e, 
successivamente, in caso di rifiuto dello stesso, deve adire la commissione tributaria 
ai sensi dell'art. 16 del decreto del Presidente della Repubblica n. 636 del 1972, 
senza che rilevi la circostanza che la lite tributaria tendente ad accertare la non 
doverosit� della somma pretesa sia iniziata prima dell'entrata in vigore del decreto 
del Presidente della Repubblica n. 739 del 1981, poich� occorre avere riguardo al 
momento in cui � stato attivato il procedimento di rimborso, pacificamente 
successivo alla data di entrata in vigore del decreto del Presidente della Repubblica 
da ultimo citato (Cass. 17 dicembre 1996 n. 11277, in motivazione). 
N� le precedenti conclusioni comportano una violazione del principio del ne bis 
in idem, dal momento che la cognizione della commissione tributaria � limitata alle 
ragioni addotte a sostegno del rifiuto del rimborso, mentre un eventuale riesame 
della vicenda conclusasi con il precedente giudicato costituirebbe un vizio di merito 
della nuova pronuncia e non ragione incidente sulla giurisdizione del giudice 
tributario. 
f: I ili 
@ 
IIIi' 
516 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO . 
(omissis). 
Il ricorso, nella parte in cui contesta la giurisdizione dell 'A.G. O., per sussistere 
la giurisdizione delle commissioni tributarie, � fondato sulla base delle 
considerazioni che seguono.� 
Nel vigore del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 636, 
che ha regolato compiutamente il sistema del contenzioso tributario, la tutela 
giurisdizionale dei diritti del contribuente si esplica esclusivamente davanti alle 
commissioni tributarie, mediante la proposizione di ricorsi contro specifici atti (di 
accertamento o d'imposizione) dell'amministrazione finanziaria ovvero di ricorsi 
contro il rigetto di istanze tendenti ad ottenere la ripetizione di somme 
indebitamente pagate. Detta tutela giurisdizionale (davanti alle commissioni) vale 
pure per l'imposta di ricchezza mobile, ancorch� questa -in quanto abolita, a 
decorrere dall' 1 gennaio 1974, dall'art. 82, lett. a), del decreto del Presidente della 
Repubblica 29 settembre 1973 n. 597 (istitutivo dell'imposta sul reddito delle 
persone fisiche) -non sia compresa nell'elencazione (contenuta nell'art. 1 del 
citato decreto del Presidente della Repubblica del 1972 n. 636) delle imposte le cui 
controversie sono devolute alle commissioni tributarie, giacch� la configurazione di 
una diversa giurisdizione per le controversie concernenti le imposte soppresse 
sarebbe in contrasto con l'intento del legislatore di razionalizzare e rendere pi� 
efficiente il contenzioso tributario, sia perch� l'art. 43 del decreto del Presidente 
della Repubblica n. 636 si riferisce a tutte le controversie concernenti tributi 
soppressi quale appunto l'imposta di ricchezza mobile (Cass. 11 febbraio 1987 n. 
1465 e 1466; Cass. 19 febbraio 1983 n. 1295, 1296 e 1297; Cass. 11aprile1981 n. 
2118), con esclusione di ogni azione o accertamento (negativo o positivo) del debito 
d'imposta, sia innanzi alle �commissioni tributarie che innanzi al giudice ordinario 
(nello stesso senso, fra le tante, Cass. 9 marzo 1993 n. 2802 e Cass. 25 maggio 1993 
n. 5841, in tema di IRPEF). 
Tale principio comporta che in presenza di una decisione definitiva del giudice 
tributario che abbia dichiarato -come nella specie -l'illegittimit� della 
liquidazione operata dall'Ufficio, annullando integralmente la cartella esattoriale e 
la relativa iscrizione a ruolo, la parte che voglia ottenere il rimborso delle somme 
pagate sulla base della illegittima iscrizione deve rivolgersi prima all'Ufficio e, 
successivamente, in caso di rifiuto dello stesso, deve adire la commissione tributaria 
ai sensi dell'art. 16 del decreto del Presidente della Repubblica n. 636 del 1972, 
senza che rilevi la circostanza che la lite tributaria tendente ad accertare la non 
doverosit� della somma pretesa sia iniziata prima dell'entrata in vigore del decreto 
del Presidente della Repubblica n. 739 del 1981, poich� occorre avere riguardo al 
momento in cui � stato attivato il procedimento di rimborso, pacificamente 
successivo alla data di entrata in vigore del decreto del Presidente della Repubblica 
da ultimo citato (Cass. 17 dicembre 1996 n. 11277, in motivazione). 
N� le precedenti conclusioni comportano una violazione del principio del ne bis 
in idem, dal momento che la cognizione della commissione tributaria � limitata alle 
ragioni addotte a sostegno del rifiuto del rimborso, mentre un eventuale riesame 
della vicenda conclusasi con il precedente giudicato costituirebbe un vizio di merito 
della nuova pronuncia e non ragione incidente sulla giurisdizione del giudice 
tributario. 
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f: 

PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

A ci� bisogna poi aggiungere che la giurisdizione delle commissioni tributarie 
sulla domanda di rimborso di imposte pagate � in funzione dell'oggetto della 
domanda e prescinde dalle ragioni per il quale lo stesso � richiesto, con la 
conseguenza che anche nell'ipotesi in cui il rimborso trovi la sua giustificazione in 
una pronuncia definitiva del giudice tributario che abbia accertato l'illegittimit� 
dell'atto di accertamento e, quindi, implicitamente, la non doverosit� delle somme 
versate a titolo d'imposta, la domanda di rimborso -a seguito di rifiuto 
dell'amministrazione -investe pur sempre un credito tributario ed � devoluta alla 
giurisdizione delle commissioni tributarie, ai sensi dell'art. 16 del decreto del 
Presidente della Repubblica n. 636 del 1972. 

In altre parole, cio�, in presenza di una pronuncia con la quale � stata accertata 
l'illegittimit� della pretesa dell'Ufficio, la domanda con la quale il contribuente 
richiede il rimborso delle somme pagate sulla base di un titolo annullato non vale a 
trasformare il contribuente stesso in creditore di una prestazione pecuniaria, dal 
momento che la pretesa di rimborso avanzata da quest'ultimo investe un credito 
tributario. 

La tutela giurisdizionale del contribuente, relativamente ai tributi di cui all'art. 
1 decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 636, � affidata in via 
esclusiva alla giurisdizione delle commissioni tributarie, sia con riferimento 
all'esistenza ed all'entit� dell'obbligazione tributaria, sia con riguardo alle ipotesi di 
rifiuto, da parte dell'amministrazione finanziaria, di rimborsare le somme riscosse 
anche in totale carenza di potere impositivo. Tale giurisdizione, che riguarda non 
solo le cause di accertamento, ma anche quelle di condanna, rimane ferma anche nel 
caso in cui il rapporto sia gi� stato sottoposto all'esame delle commissioni tributarie, 
qualora e nei limiti in cui un nuovo processo sia ancora possibile in quanto abbia ad 
oggetto una domanda in precedenza non proposta (Cass. 23 novembre 1995 n. 
12108) e senza comunque che l'impossibilit� del nuovo processo incida sulla 
giurisdizione delle commissioni, alle quali sole � devoluto il potere di compiere il 
relativo accertamento. 

N� le precedenti conclusioni sono superate dagli argomenti e dai rilievi 
contenuti nella memoria ex art. 378 codice procedura civile e nelle note di 
udienza della societ� contribuente, la quale, in contrasto con le tesi 
dell'amministrazione finanziaria e con le conclusioni del Procuratore Generale, 
ha invocato: 

a) il giudicato di annullamento della cartella esattoriale, che aveva generato 
l'obbligo dell'integrale rimborso delle imposte portate dalla cartella; 

b) il contenuto delle sentenze Cass. 9 marzo 1993 n. 2802 e Cass. 30 luglio 
1996 n. 6902, per le quali la giurisdizione delle commissioni tributarie riguarda tutte 
le questioni attinenti alla esistenza ed all'entit� delle obbligazioni tributarie, con la 
conseguenza che, a seguito dell'integrale annullamento della iscrizione a ruolo e di 
radicale accertamento dell'insussistenza della pretesa impositiva, non vi � spazio per 
la valutazione di alcuna questione di carattere tributario; 

e) le sentenze Cass. 10 febbraio 1977 nn. 605, 606, 607 e 608, che 
individuano nel giudice ordinario l'unico competente a provvedere sulla restituzione 
di somme corrisposte sulla base di atti annullati dalle commissioni tributarie; 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

518 


d) la sentenza Cass. 4 luglio 1991 n. 731 (rectius: 7331 ), che fa rientrare nella 
giurisdizione dell 'A. G. O la controversia inerente alla vicenda estintiva del credito, 
per il quale sia stato disposto dall'amministrazione finanziaria il rimborso; 

e) Cass. 8 febbraio 1995, n. 1443, per la quale, quando la legge determina in 
modo tassativo i presupposti e le modalit� del debito d'imposta, la posizione del 
contribuente � di diritto soggettivo e perci� la cognizione delle controversie 
appartiene al giudice ordinario; 

f) la giurisprudenza che fa salva la giurisdizione dell' A.G.O., anche in materia 
di pubblico impiego, quando il debito retributivo del dipendente sia incontestato 
nell'an, nel quantum e nella sua esigibilit� (Cass. 3797/1987; Cass. 4311/1987; 
Cass. 5774/1989). 

�, infatti, sufficiente osservare in proposito: 

ad a) che dal giudicato sull'annullamento dell'iscrizione a ruolo e sul 
conseguente obbligo di restituzione non � in alcun modo deducibile la giurisdizione 
dell'A.G.O.; 

a b) che Cass. 9 marzo 1993 n. 2802 afferma chiaramente la competenza 
giurisdizionale delle commissioni tributarie in tema di rifiuto di rimborso di somme 
riscosse, mentre Cass. 30 luglio 1996 n. 6902 dichiara la competenza del tribunale, 
ai sensi dell'art. 9 codice procedura civile, in relazione a tributo non devoluto alle 
commissioni tributarie; 

a e) che le sentenze Cass. 10 febbraio 1977 nn. 605, 606, 607 e 608, sono state 
emesse in un momento in cui, sulla base del testo originario dell'art. 16 del decreto 
del Presidente della Repubblica del 1972, non era espressamente enunciata la regola 
-introdotta poi con la sostituzione operata dall'art. 7 del decreto del Presidente 
della Repubblica n. 739 del 1981 -circa la giurisdizione delle commissioni 
tributarie sul provvedimento che respinge l'istanza di rimborso, con la conseguenza 
che le suddette decisioni non possono essere invocate in una situazione normativa 
radicalmente mutata ed applicabile alla fattispecie in esame; 

� a d) che Cass. 4 luglio 1991 n. 7331 riguarda una fattispecie completamente 
diversa da quella in esame dal momento che -a tacere d'altro -la pronuncia � 
stata emessa in prese~adi una situazione in cui l'amministrazione finanziaria aveva 
disposto il rimborso di' una imposta pagata e la controversia, devoluta all' A.G.O., 
riguardava l'illegittima riscossione di vaglia cambiari della Banca d'Italia, emessi 
per adempiere obbligazioni pecuniarie dello Stato e inviati, tramite il servizio 
postale, al contribuente, in relazione alla quale queste S.U. hanno escluso l'esistenza 
di un momento essenziale di collegamento con la giurisdizione delle commissioni 
tributarie; momento di collegamento che � invece ravvisabile quando, come nella 
specie, il rimborso viene ad essere negato; 

ad e) che Cass. 8 febbraio 1995 n. 1443 -la quale, peraltro, non ha fatto 
diretta applicazione del principio richiamato dalla ricorrente in relazione alla 
controversia sottopostale, limitandosi a richiamare quanto affermato da Cass. 18 
dicembre 1990 n. 12001 -non � applicabile alla controversia in esame, in quanto 
tale principio � stato enunciato in tema di riparto di giurisdizione fra giudice 



PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

ordinario e giudice amministrativo in una fattispecie concernente controversia in 
materia doganale non devoluta alla giurisdizione delle commissioni tributarie ( cfr. 
Cons. St., ad. gen. 6 febbraio 1992 n. 21 ); per tacere poi del rilievo che la 
giurisdizione di queste ultime -in relazione ai tributi per i quali � riconosciuta � 
giurisdizione esclusiva e, quindi, su diritti soggettivi; 

ad./) che la giurisprudenza ivi richiamata -a prescindere dalla sua dubbia 
applicabilit� alla fattispecie -� stata superata dal pi� recente, ma ormai costante, 
indirizzo di queste S.U. per il quale in tema di pubblico impiego, in nessun modo il 
riconoscimento, da parte della P.A., del debito, per quanto efficace e concernente 
l'intero importo della somma richiesta, incide sulla giurisdizione spettante al giudice 
amministrativo, dal momento che tale riconoscimento non comporta la novazione 
del rapporto, ma la mera inversione dell'onere della prova (Cass. 21 febbraio 1997 

n. 1616; Cass. 11 luglio 1997 n. 6324). 
Concludendo, si deve quindi ritenere che in presenza di una decisione definitiva 
del giudice tributario che abbia dichiarato l'illegittimit� della liquidazione operata 
dall'Ufficio, annullando integralmente la cartella esattoriale e la relativa iscrizione a 
ruolo, la parte che voglia ottenere il rimborso delle somme pagate sulla base della 
illegittima iscrizione -e relative a tributi rientranti nella giurisdizione delle 
commissioni tributarie -deve rivolgersi prima all'Ufficio e, successivamente, in caso 
di rifiuto o di silenzio dello stesso sull'istanza, deve adire la commissione tributaria ai 
sensi dell'art. 16 del decreto del Presidente della Repubblica n. 636 del 1972, senza 
che rilevi la circostanza che la lite tributaria tendente ad accertare la non doverosit� 
della somma pretesa sia iniziata prima dell'entrata in vigore del decreto del Presidente 
della Repubblica n. 739 del 1981, poich� occorre avere riguardo al momento in cui � 
stato attivato il procedimento di rimborso, mentre un eventuale riesame della vicenda 
conclusasi con il precedente giudicato costituisce un vizio di merito della nuova 
pronuncia e non ragione incidente sulla giurisdizione del giudice tributario (omissis). 

CORTE Dl�CASSAZIONE, sez. I, 18 agosto 1998 n. 8128 -Pres. Senofonte -Est. 
Papa -P.M Carnevali (conf.) -Polito c. Ministero delle Finanze (avv. Stato 
Lancia). 

Tributi erariali diretti -Imposta sul reddito delle persone fisiche -Redditi di 
lavoro dipendente -Trattamento di fine rapporto -Polizza I.N.A. 
Pagamento del capitale da parte dell'istituto assicuratore -� soggetto alla 
ritenuta di acconto -Parte eccedente la misura legale del trattamento Quota 
corrispondente ai premi a carico del dipendente. 

(Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n. 597, art. 12 lett. e), 13, 14, 
46 e 48; decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n. 601, art. 34;.legge 26 
settembre 1985 n. 482, art. 6). 

I contratti di assicurazione stipulati dal datore di lavoro allo scopo di 
provvedere alla erogazione di un capitale al lavoratore dipendente al momento 
della cessazione del rapporto di lavoro costituiscono attuazione del!' obbligo di 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

520 

assicurare ai dipendenti il trattamento di fine rapporto; conseguentemente il 
capitale erogato, nei limiti dell'obbligo di legge, costituisce reddito soggetto a 
tassazione separata sul quale va eseguita la ritenuta di acconto. La parte del 
capitale eccedente sui limiti legali del trattamento di fine rapporto ha funzione 
di risparmio e pertanto � esente dalla imposta a norma dell'art. 34 del decreto 
del Presidente della Repubblica n. 60111973 fino all'entrata in vigore della l~l 
' 
, 
. 
-:� 
legge 26 settembre 1985 n. 482 ed � soggetto alla ritenuta dello 0,50% sotto il 
vigore di quest'ultima legge a norma dell'art. 6. In ogni caso dal capitale 
erogato va scomputata la quota corrispondente ai premi rimasti a carico del 
dipendente (1). 
(omissis). 
Col primo motivo, il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli 
artt. 12 lett. e) e 14 decreto del Presidente della Repubblica n. 597/1973 in relazione 
all'art. 360 n. 3 codice procedura civile. 
Sostiene, con riguardo alla polizza collettiva in esame, non essersi in presenza 
di un contratto di assicurazione volto a garantire il pagamento dell'indennit� di fine 
rapporto -come risulta da una circolare esplicativa del 1946 della Banca ai 
dipendenti-, ma di una vera e propria Polizza vita, �in cui la B.N.A. comunicava 
l'avvenuta stipula della convenzione con l'I.N.A. e ne illustrava i vantaggi rispetto 
all'iscrizione dei dipendenti al fondo istituito con il regio decreto-legge 8 gennaio 
1942 n. 5�. Di qui la natura privatistica della polizza, da qualificarsi come contratto 
a favore di terzo �ex� artt. 1411 segg. codice civile (Cons. Stato 80411987; Cass. 
2570 e 3127/1983, e Cass., Sez. Un. 8182/1993), con la conseguenza che �la causa 
del negozio va individuata in quella tipica del contratto di assicurazione sulla vita 
e cio� nell'obbligo dell'assicuratore di pagare un capitale o una rendita al 
verificarsi di un evento attinente alla vita umana dietro pagamento di un premio�, 
laddove �alla stregua di un motivo (irrilevante) deve essere considerata l'opzione 
esercitata dalla B.N.A., sulla base dell'alternativa fornita dal legislatore del 1942, 
di stipulare un contratto di assicurazione anzich� eseguire i versamenti al Fondo 
per l'indennit� agli impiegati�. Da tale impostazione fa derivare la non imponibilit� 
delle � somme provenienti dalla liquidazione della polizza, le quali �non 
costituiscono trattamento di fine rapporto, ma rappresentano il risultato economico 
di una polizza di assicurazione sulla vita venuta a scadenza (come tale 
comprendente una serie di prestazioni tipicamente assicurative, di cui quella del 
pagamento di un capitale e di un rendimento � soltanto una delle prestazioni 
possibili)�. Richiama, infatti, l'allegato Calla legge 121611961, non abrogata n� 
dall'art. 82 decreto del Presidente della Repubblica n. 597 /1973 n� dall'art. 42 
decreto del Presidente della Repubblica n. 601/1973, che aveva dichiarato esenti da 
ogni imposta proprio i contratti di assicurazione delle indennit� dovute agli 
impiegati privati di cui agli artt. 4 e 5 regio decreto-legge 511942 cit. 
(1) La maggior parte dei dubbi erano gi� stati chiariti con la sent. 17 gennaio 1998 n. 365, 
in questa Rassegna 1998, I, 169; la sentenza ora intervenuta precisa il regime a cui � soggetta nei 
vari periodi la parte del capitale che supera la misura del trattamento legale. 



PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

Denunzia poi, col secondo motivo, insufficiente e contraddittoria motivazione 
ai sensi dell'art. 360 codice procedura civile. 

Con riferimento alla premessa, secondo cui, essendo la cessazione dal servizio 
intervenuta il 31 dicembre 1984, tutte le somme erogate per effetto della 
liquidazione della polizza l.N.A. erano esenti da imposta ai sensi dell'art. 34 decreto 
del Presidente della Repubblica n. 601/1973, si duole che la Commissione Tributaria 
Centrale abbia invece limitato l'esenzione a quella relativa al rendimento di polizza, 
ribadendo l'unicit� del rapporto assicurativo e rilevando che, di tale operazione 
(soltanto parzialmente esatta), nessuna ragione sia stata fornita nella decisione 
impugnata. 

La controricorrente Amministrazione finanziaria contesta tali deduzioni, 
contrapponendovi la prospettazione su cui fonda il proprio ricorso incidentale. 

Con quest'ultimo, attraverso unico complesso motivo, denunzia infatti, a sua 
volta, violazione e falsa applicazione degli artt. 12 e 14 decreto del Presidente della 
Repubblica n. 597 /1973, 1-6 legge 482/1985, 34 decreto del Presidente della 
Repubblica n. 60111973 e del loro combinato disposto, nonch� collegata motivazione 
omessa, insufficiente e contraddittoria su punto decisivo della controversia. 

Osserva che, secondo la costante giurisprudenza di legittimit� (al qual proposito 
richiama Cass. 492/1966, 2570 e 3127/1983, 8182/1993), l'accensione di polizza 
�ex� art. 4 regio decreto-legge 4/1942 costituisce un sistema per assicurare al 
lavoratore un'indennit� di buonuscita, un trattamento di fine rapporto almeno pari al 
minimo legale, talch� le somme che il lavoratore percepisce per effetto della polizza 
stessa hanno carattere retributivo, di trattamento di fine rapporto. Da ci� deriva che 
�ogni somma che il lavoratore percepisce per effetto della polizza ha carattere 
retributivo, di trattamento di fine rapporto. Anche il cd. rendimento di polizza�. Con 
riferimento a quest'ultimo (richiamando Cass. 11718/1991 ), sottolinea infatti che, in 
linea di principio, il rendimento di polizza non spetterebbe al lavoratore, e, se gli 
viene attribuito, � perch� il datore vi rinunzia per assicurare al dipendente un pi� 
consistente trattamento di fine rapporto. Ne trae la conclusione che anche il 
rendimento di polizza dev'essere assoggettato ad imposizione come TFR, alla 
stregua degli artt. 12 e 14 decreto del Presidente della Repubblica n. 597/1973, nella 
lezione or�ginaria ovvero in quella vigente dopo la legge 482/1985, onde l'erroneit� 
non soltanto dell'impostazione avversaria, ma, soprattutto dell'affermazione 
contenuta nella decisione impugnata, secondo cui il rendimento di polizza medesimo 
andrebbe disciplinato secondo l'art. 34 decreto del Presidente della Repubblica n. 
601/1973 -con conseguente esenzione -ed, in ordine successivo, alla stregua 
dell'art. 6 legge 482 cit. -con sottoposizione a ritenuta pari al 12,50% -. 

Nel replicare con controricorso, il Polito ripropone la propria impostazione, e, 
traendo spunto anche dalle precedenti fasi processuali, conclude per l'infondatezza, 
comunque, della posizione avversaria, con riguardo alla disciplina del rendimento 
di polizza. 

I ricorsi, previa riunione ai sensi dell'art. 335 codice procedura civile, vanno 
rigettati. 

La questione da esaminare riguarda il regime tributario del trattamento spettante 
ai dipendenti della Banca Nazionale dell'Agricoltura, a favore dei quali, in 
sostituzione del versamento al �Fondo per l'indennit� agli impiegati� (costituito con 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

522 

regio decreto-legge 8 gennaio 1942 n. 5, convertito con modifiche nella legge 2 

ottobre 1942, n. 1251) degli accantonamenti necessari per la corresponsione -agli 

impiegati stessi e, in caso di morte, agli aventi diritto -dell'indennit� prevista per 

la risoluzione del rapporto d'impiego (di cui al regio decreto-legge 13 novembre 

1924 n. 1825), l'Istituto datore di lavoro stipul� con l'I.N.A., il 31 marzo 1942, una 

polizza collettiva di assicurazione, con la previsione di polizze supplementari in 

corrispondenza di eventuali futuri aumenti di stipendio, nonch�, il 18 marzo 1946, 

una convenzione aggiuntiva, con la quale rinunzi� al computo degli interessi -o 

rendimenti -dovuti a suo favore sui premi versati, stabilendo che gli stessi venissero 

aggiunti al capitale assicurato, a favore dei dipendenti medesimi. Il trattamento, 

sostitutivo del versamento al Fondo ai sensi dell'art. 4 regio decreto-legge 5/1942 cit., 

dur� fin quando la legge 29� maggio 1982 n. 297 introdusse, per l'indennit� di fine 

rapporto, un diverso ed unificato sistema di accantonamenti presso il datore di lavoro. 

� quindi accaduto che, all'atto della cessazione del rapporto, avendo la B.N.A. 

corrisposto, previo computo delle poste dovute dall'I.N.A. in corrispondenza delle 

singole polizze, le somme ulteriormente spettanti ai dipendenti per TFR, si � posto il 

problema del regime tributario delle somme da ciascuno riscosse dall'I.N.A. e delle 

connesse ripercussioni sulle imposte complessivamente dovute. 

Le tesi contrapposte, nelle formulazioni pi� radicali, sono: a) quella 

dell'Amministrazione finanziaria, secondo la quale tali somme, essendo tutte 
ricollegabili ad una forma sostitutiva di trattamento di fine rapporto, vanno 
assoggettate alla tassazione separata, espressamente stabilita dagli artt. 12 lett. e) e 
14 decreto del Presidente della Repubblica n. 597/1973, con le modifiche, ratione 
temporis, di cui alla legge 26 settembre 1985 n. 482; b) quella dei contribuenti, della 
esenzione totale prevista, per i capitali percepiti in dipendenza dei contratti di 
assicurazione sulla vita, dall'art. 34 decreto del Presidente della Repubblica n. 
601/1973, ultimo comma, aggiunto dall'art. 15 della legge 13 aprile 1977 n. 114, 
� ovvero del trattamento fiscale (ritenuta del 12,50%) successivamente introdotto 
dall'art. 6, legge 482/1985 cit. Il dibattito risulta, poi, complicato dalla 
considerazione che, nelle somme liquidate dall' I.N .A., possono distinguersi una 
posta (cd. capitale), rappresentata dai premi versati dal datore di lavoro in 
corrispondenza dell'ammontare dell'indennit� di anzianit� via via maturata dal 
dipendente, ed un ammontare ulteriore (cd. rendimento), costituente il risultato 
dell'operazione assicurativa propriamente detta, implicante un'eccedenza rispetto ai 
premi medesimi, ed, in effetti, rispetto a quanto attribuito al dipendente in forza di 
legge. La problematica ulteriore, risolta dalla giurisprudenza della Commissione 
Tributaria Centrale nei sensi affermati con la decisione impugnata, ha risentito, nelle 

prospettazioni delle parti, delle sopra ricordate impostazioni contrapposte. 

In ordine al complessivo sistema della forma sostitutiva di previdenza della 

quale si tratta, la giurisprudenza ha posto l'accento sulla duplicit� di rapporti -fra 

impiegato e datore di lavoro, da un lato, e datore di lavoro ed istituto assicuratore, 

dall'altro -, nell'ambito di un contratto assicurativo a struttura privatistica, ma 

j

inserito nel pi� ampio sistema previdenziale pubblico, con caratteristiche di 

assicurazione sociale e obbligatoria su base mutualistica (Cass. 48/1986), volto a 
garantire ai terzi beneficiari un diritto proprio a conseguire i risultati 

dell'assicurazione stipulata in loro favore (Cass. 492/1966). La diversa natura del 


PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

rischio assicurato non consente tuttavia di ravvisare -al di l� della forma rivestita 
-un tipico contratto di assicurazione sulla vita, cos� come, per la diversa natura 
della causa, non rende possibile l'identificazione con un contratto di 
capitalizzazione (Cass. 67 /1979), onde si � fatto ricorso agli schemi del contratto a 
favore di terzo (per tutte, Cass. 3127 /1983), strettamente collegato ad un rapporto di 
lavoro subordinato (Cass. 3986/1989), ovvero del contratto di assicurazione per 
conto di chi spetta (Cass. 1172611997) sostitutiva d~gli obblighi previdenziali, che 
comportano tra l'altro l'assoggettamento dei premi all'incremento delle retribuzioni 
(Cass. 8182/1993), permanendo l'attribuzione del rendimento a favore del datore di 
lavoro, che poteva rinunciarvi (con riferimento al rapporto riguardante la B.N.A., 
Cass. 531211988). 

Vero � che, ai fini proposti, non tanto � utile riferirsi ai meccanismi peculiari 
degli strumenti giuridici utilizzati, quanto appare necessario riguardare il risultato 
delle operazioni giuridiche complessivamente disciplinate, allo specifico fine di 
stabilire, nei rapporti fra dipendenti ed amministrazione finanziaria, se -ed, in caso 
affermativo, entro quali eventuali limiti -da quelle operazioni sia derivato un 
reddito tassabile. In tale prospettiva, deve osservarsi che il sistema introdotto dal 
regio decreto-legge 5/1942 prevedeva, a carico del datore di lavoro, la sola 
obbligazione legale, �a struttura semplice�, di versare gli accantonamenti prescritti 
al Fondo per l'indennit� agli impiegati; la stipulazione dei contratti di assicurazione 
prevista dall'art. 4 non si presenta quindi come oggetto di obbligazione autonoma, 
ma, limitandosi ad �escludere� il datore stesso dall'unica obbligazione a suo carico, 
induce a qualificare questa stessa come facoltativa o con facolt� alternativa; in 
conseguenza di ci�, era appunto consentito al datore di lavoro di liberarsi attraverso 
la stipulazione dei contratti in questione (Cass. 3349 e 5030/1977, 3781/1985, 3901 
e 9121/1987, 3986/1989 cit.). Ci� consente di stabilire un preciso collegamento fra 
trattamento di fine rapporto e contratti di assicurazione in esame, portando ad 
affermare che �il diritto dei lavoratori all'adempimento di quelle obbligazioni altro 
non � che il diritto alla indennit� di fine rapporto cos� come dalle parti disciplinato� 
(Cass. 6511/1990). 

In definitiva, sulla causa negoziale (assicurativa), deve prevalere la natura 
(reddituale)� dell'erogazione derivante dai rapporti in questione, onde il capitale corrispondente 
ai premi versati dal datore in adempimento della gi� richiamata 
obbligazione legale -costituisce reddito derivante dalla cessazione di un rapporto 
di lavoro dipendente, sussumibile nella formulazione dell'art. 12 lett. e) decreto del 
Presidente della Repubblica n. 597 /1973. Lo stesso non pu� esser fatto rientrare 
invece nella previsione d'esenzione per i contratti di assicurazione sulla vita (art. 15 
legge 11411977 cit. in relaz. all'art. 34 decreto del Presidente della Repubblica n. 
601/1973 cit.), poich� la ragione del beneficio invocato va individuata nella finalit� 
di agevolare il risparmio che si concreti nella �libera� stipulazione di tale forma di 
previdenza, e, nel caso in esame, si � di fronte all'adempimento di un'obbligazione 
legale, anche se attuato nella speciale forma assicurativa per la quale � stato 
consentito di optare. 

Sotto il profilo ermeneutico, la soluzione riceve significativa -anche se non 
necessaria -conferma dalla tab. all. C alla legge 29 ottobre 1961 n. 1216 
(richiamata dall'art. 13, ult. comma) che gli ex-dipendenti della B.N.A. solitamente 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

524 

citano come argomento favorevole alla loro tesi. Difatti, ferma restando la 
limitazione dell'esenzione alle imposte sulle assicurazioni, risulta esplicito e 
puntuale il riferimento, sotto l'art. 1 Odella tariffa, ai contratti di cui agli artt. 4 e 5 
regio decreto-legge 5/1942 conv. in legge 1251/1942, con beneficio �per la parte di 
premio afferente alle prestazioni di legge�; mentre l'art. 34 cit. si riferisce, in 
maniera del tutto generica, alle �altre agevolazioni�, e l'ultimo comma aggiunto 
attiene ai �capitali� percepiti in dipendenza di contratti di assicurazione sulla vita, 
senza specificazioni, che pur sarebbe stato lecito attendersi da un legislatore che 
avesse voluto mandare esenti da ogni imposta sul reddito le retribuzioni di fine 
rapporto di un numero certamente rilevante di lavoratori subordinati. 

Si deve pertanto concludere che le somme liquidate a titolo di capitale sono 
soggette, per la loro natura di TFR, alle ritenute IRPEF, ai sensi degli artt. 12 e 14 
decreto del Presidente della Repubblica n. 597 /1973 cit. e, in ordine successivo, 
degli artt. 2 e 4 legge 482/1985. A diversa soluzione si perviene per il cd. 
rendimento di polizza, vale a dire per le somme, eccedenti la misura versata in 
corrispondenza degli accantonamenti obbligatori, che provengono dalla 
liquidazione del contratto, e traggono origine dalla forma (contratto di assicurazione 
sulla vita) prescelta dal datore per attuare gli accantonamenti medesimi. Queste 
ultime, essendo al di fuori dell'obbligazione legale pi� sopra menzionata, 
adempiono proprio ad una funzione di risparmio, rientrante nella disponibilit� 

I 

privata (tanto pi� in quanto competevano in origine al datore di lavoro, salvo 

I

rinunzia), con la conseguenza che: a) sono esenti da imposizione, rientrando 
nell'espressa previsione del cit. art. 34 ult. comma decreto del Presidente della < '

I

Repubblica 601/1973, se attuate prima dell'entrata in vigore della legge 482/1985; 

I 
I
~' 

b) sotto il vigore di quest'ultima, sono assoggettate a ritenuta del 12,50%, ai sensi 
dell'art. 6 (cfr. altres� Circ. Min. Fin. n. 14/8/128 del 17 giugno 1987) (omissis). 

CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 27 agosto 1998, n. 8522 -Pres. Senofonte -Est. 
Marziale -P.M Palmieri (conci. conf.) -Min. Finanze (avv. Stato Braguglia) c. 
Soc. Agenzia Marittima Italo Scandinava ed altri (avv. Picone, Conte, 
Giacomini) e Soc. Rovere. Cassa appello Genova 7 dicembre 1995. 

Concessioni governative (tassa sulle) -Tassa sulle societ� -Azione di rimborso 
-Competenza territoriale. 

Concessioni governative (tassa sulle) -Tassa sulle societ� -Termine triennale di 
decadenza dell'azione di rimborso -Decorrenza. 

Nei giudizi diretti al rimborso della tassa di concessione governativa per 
l'iscrizione delle societ� nel registro delle imprese non si applica l'art. 8 del regio 
decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, a norma del quale la decisione delle controversie 
giudiziali riguardanti le tasse e sovrattasse spetta in prima istanza, quando sia parte 
l'amministrazione dello Stato, al tribunale civile del luogo dove risiede l'ufficio 
dell'Avvocatura dello Stato, nel cui distretto trovasi l'ufficio che ha liquidato la 


PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

525 

tassa o la sovrattassa controversa; ai sensi dell'art. 25 codice procedura civile, � 
dunque competente il Tribunale del luogo ove hanno sede gli uffici della tesoreria 
provinciale che deve provvedere al rimborso del! 'imposta, in quanto luogo di 
adempimento dell'obbligazione dedotta in giudizio. 

Il termine di decadenza triennale, previsto dal!' art. 13, 2�� comma del decreto 
del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 641, della domanda di rimborso 
della tassa di concessione governativa per l'iscrizione delle societ� nel registro 
delle imprese decorre dal momento del pagamento, sebbene -a tale data -la 
direttiva comunitaria 17 luglio 1969, n. 691335 (con cui la tassa � in contrasto) non 
fosse stata ancora correttamente trasposta nell'ordinamento interno (1). 

(omissis). 

1. -Con atto notificato il 26 giugno 1992 l'Agenzia Marittima Italo Scandinava 
s.p.a. e le altre societ� indicate in epigrafe convenivano in giudizio, innanzi al 
Tribunale di Genova, l'Amministrazione finanziaria e ne chiedevano, ciascuna per 
la sua parte, la condanna al rimborso, con interessi e rivalutazione monetaria, delle 
somme corrisposte per il pagamento della tassa di concessione governativa relativa 
all'iscrizione annuale nel registro delle imprese negli anni 1988, 1989 e 1990, 1991 
e 1992, deducendo che il tributo si fondava su disposizioni contrastanti con la 
direttiva CEE 17 luglio 1969, n. 335 e che dovevano quindi essere disapplicate. 
L'Amministrazione finanziaria si opponeva all'accoglimento della domanda, 
eccependo, in via preliminare, l'incompetenza territoriale del Tribunale adito e la 
decadenza delle societ� attrici dal diritto di ottenere il rimborso di quanto versato ai 
sensi dell'art. 13, 2� comma, decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 
1972, n. 641. Assumeva comunque che il tributo rientrava nei diritti �di carattere 
remunerativo�, la cui previsione non incorreva in alcun divieto comunitario. 

(1) Brevi osservazioni in materia di rimborso della tassa sulle societ�: dalla decadenza 
triennale all'art. 11 della legge n. 448/1998 collegata alla legge finanziaria. 
1. Con 'la sentenza che si annota risulta confermato il consolidato orientamento 
giurisprudenziale formatosi in materia di rimborso della tassa di concessione governativa per 
l'iscrizione delle societ� nel registro delle imprese (nota come �tassa sulle societ��). � ben noto 
che -sebbene la tassa in questione sia stata soppressa dall'art. 3, comma 138, della legge 28 
dicembre 1995, n. 549, con effetto dal 1� gennaio 1998 -essa ha continuato a dar vita ad una 
miriade di vertenze, intraprese per la ripetizione dell'indebito a seguito della declaratoria di 
illegittimit� comunitaria della misura fiscale e, oggi, proseguite dall'amministrazione nel tentativo 
di vedere affermato il pi� favorevole ius superveniens, costituito dalla normativa introdotta dalla 
recente legge collegata alla finanziaria 1999 (art. 11 della legge 28 dicembre 1998, n. 448) 
2. Nel caso di specie, l'amministrazione finanziaria aveva impugnato una sentenza della Corte 
d'Appello di Genova, articolando tre motivi di ricorso. Si era censurata la sentenza della Corte 
territoriale: a) per aver ritenuto territorialmente competente il Tribunale di Genova, anzich� quello 
di Roma, ignorando che ai sensi dell'art. 8 regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, � il luogo in cui 
�si trova l'ufficio che ha liquidato la tassa o sovrattassa controversa�, che nel caso di specie ai sensi 
dell'art. 2 decreto ministeriale 12 dicembre 1972, si identificava nell'ufficio del registro per le tasse 
sulle concessioni governative di Roma, il criterio di collegamento per determinare il giudice 
competente per territorio; b) per aver accolto la domanda di rimborso senza tenere conto 

f f 
RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO. 

526 

Il Tribunale, con sentenza del 13 gennaio 1994, accoglieva la domanda 
limitatamente alle annualit� relative a quella di iscrizione annuale, condannando 
l'Amministrazione finanziaria al pagamento delle somme relative in favore delle ~i 
societ� attrici (L. 35.500.000 in favore della Agenzia Marittima italo scandinava I;:~;�.. 

s.p.a., L. 11.500.000, in favore della University Cars s.r.l., L. 10.000.000 in favore : 
della Intercom s.r.l., L. 3.000.000 in favore della Airone s.r.l., L. 3.000.000 in favore 
della I.C.F., L. 10.000.000 in favore della Hotel Astor s.r.l., L. 3.000.000 in favore 
della Sovere s.r.l., L. 11.000.000 in favore della Ecotrade s.r.l., L. 66.000.000 in 
favore della Cremonesi s.p.a., L. 35.500.000 in favore della Commerciale Acciai 
s.p.a., L. 35.500.000 in favore della Sernav s.p.a., L. 10.000.000 in favore della Sea's 
Chimica s.r.l.), con gli interessi legali dalla notificazione della domanda al saldo. 

L'appello dell'Amministrazione finanziaria veniva respinto dalla Corte 
territoriale. 

1.1. -L'Amministrazione finanziaria chiede la cassazione di tale decisione con 
tre motivi, illustrati con memoria. Le societ� intimate resistono con controricorso 
illustrato con memoria, ad eccezione della s.r.l. Sovere in liquidazione. 
Motivi della decisione 

2. -Con i primi due motivi del ricorso principale l'Amministrazione ricorrente 
censura la sentenza impugnata: � 
a) per aver ritenuto territorialmente competente il Tribunale di Genova, 
anzich� quello di Roma, senza considerare che, ai sensi dell'art. 8 del regio decreto 
30 ottobre 1933, n. 1611, la competenza per territorio va individuata in 

delle indicazioni date dalla Corte di giustizia Cee, con la sentenza 20 aprile 1993, che 
consentirebbero di inquadrare la tassa annuale nei �diritti di carattere remunerativo� come tale 
compatibile con gli artt. 10 e 12 della direttiva comunitaria 69/335; e) per aver escluso 
l'appHcabilit� del termine triennale di decadenza stabilito dal 2� comma dell'art. 13 del citato 
decreto del Presidente della Repubblica n. 64111972. � 

La Cassazione, allinenandosi ad un consolidato indirizzo ermeneutico ha ritenuto infondate 
le prime due censure, accogliendo parzialmente il ricorso, in relazione alla doglianza formulata 
con il terzo motivo. 

3. Quanto alla prima questione, la Suprema Corte esprime il principio di diritto per cui in 
materia di rimborso di tasse per l'iscrizione nel registro delle imprese -la competenza 
territoriale del giudice si determina applicando il criterio di collegamento previsto dall'art. 25 del 
codice di ritO, non quello previsto in materia di controversie tributarie dall'art. 8 regio decreto 30 
ottobre 1933, n. 1611, a tenore del quale occorre aver riguardo all'ufficio che ha liquidato la tassa 
o sovrattassa controversa. La competenza per territorio spetter� quindi alforum solutionis che in 
base alla giurisprudenza della Corte di cassazione � il Tribunale del luogo in cui ha sede l'ufficio 
della tesoreria provinciale. Su tale soluzione concordano sia la giurisprudenza della Corte di 
cassazione, che la giurisprudenza di merito (ex plurimis: Cass. 6 agosto 1998, n. 7701, non 
pubblicata; 10 giugno 1998, n. 5742, in Foro it., Mass., 643; 12 novembre 1997, n. 11181, id., 
Rep. 1997, voce Concessioni governative, n. 45; 12 novembre 1997, n. 11179, ibid., n. 46; 18 
ottobre 1997, n. 10233, ibid., n. 47; Il ottobre 1997, n. 9897, Giur. imp. 1998, 156, con nota di 

PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

527 

collegamento con il distretto in cui �trovasi l'ufficio che ha liquidato la tassa o la 
sovrattassa controversa� e che, nel caso di specie, tale ufficio si identificava, a 
norma dell'art. 2 del decreto ministeriale 12 dicembre 1972, nell'ufficio del registro 
per le tasse sulle concessioni governative di Roma; 

b) per aver accolto la domanda di rimborso, senza considerare che la Corte di 
Giustizia CEE, con la sentenza 20 aprile 1993 (C 71 e 178/1991), avrebbe dato 
indicazioni che consentirebbero di considerare la c.d. tassa annuale come �diritto di 
carattere remunerativo�, come tale compatibile con gli artt. 10 e 12, n. 1, della 
direttiva CEE n. 69/335. 

2.1. -Sia l'una che l'altra censura sono palesemente infondate. 
Invero, questa Corte ha gi� chiarito, in relazione alla doglianza sub a): 
-che l'art. 8 del citato regio decreto n. 1611/1933, il quale devolve le 
controversie tributarie al tribunale del luogo in cui ha sede l'ufficio dell'Avvocatura 
dello Stato nel cui distretto si trova l'ufficio che ha liquidato il tributo, pone un 
criterio di competenza eccezionale, rispetto a quello fissato in via generale dall'art. 
25 del codice di rito, la cui applicazione presuppone che il tributo, al quale si 
riferisce la controversia, sia stato liquidato ed accertato da un ufficio finanziario; 

-che tale situazione non ricorre nel caso di specie, in quanto l'ammontare 
del tributo dovuto per l'iscrizione nel registro delle imprese era predeterminato 
dalla legge; 

-che la portata dell'art. 2 del decreto ministeriale 12 dicembre 1972 (Gazzetta 
Ufficiale n. 335 del 28 dicembre 1972)-il quale ha individuato nell'Ufficio del registro 
per le tasse sulle concessioni governative di Roma quello competente a provvedere �alla 
riscossione, per tutto il territorio dello Stato, delle tasse sulle concessioni governative e 
delle tasse di pubblico insegnamento e di quelle relative all'istruzione superiore da 

BERLIRI, Brevi note in ordine alla competenza dell'autorit� giudiziaria in tema di rimbm:so della 
tassa sulle societ�). Nello stesso senso, si segnala la sentenza di poco successiva a quella che si 
pubblica: Cass. 4 settembre 1998, n. 8791, non ancora pubblicata. . 

Con riferimento alla compatibilit� del tributo in questione con il diritto comunitario, la 
Cassazione ritiene che esso rientri tra i tributi vietati dall'art. 1 Odella direttiva 17 luglio 1969, n. 
69/335 concernente le imposte indirette sui capitali e non possa essere configurato tra i �diritti di 
carattere remunerativo� esentati dall'art. 12 della stessa direttiva, in conformit� alle indicazioni 
date dalla Corte di Giustizia CE con la notissima sentenza 20 aprile 1993 (cause riunite C-71/91 e 
C-178/1991, Ponente Carni S.p.A., in Foro it., 1993, IV, 169). Sul punto, la giurisprudenza � ormai 
pacifica: � sufficiente ricordare qui la notissima sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione 12 
aprile 1996, n. 3458 (in Foro it., 1996, I, 1600; Giur. it. 1997, I, 1, 775 con nota di GOTTA; Dir. e 
prat. trib. 1997, Il, 829 con nota di GHIGLIONE), in cui � stato espresso il principio di diritto per cui 
la tassa di concessione governativa per il rinnovo annuale dell'iscrizione delle societ� nel registro 
delle imprese non rientra tra i �diritti �carattere remunerativo� di cui all'art. 12 della direttiva 
comunitaria n. 335/1969 per assenza di qualsiasi nesso con il costo del servizio reso e, pertanto, � 
illegittima per contrasto con il diritto comunitario, con conseguente obbligo di restituzione da parte 
dell'amministrazione finanziaria. A partire da tale sentenza la giurisprudenza � pacifica sia sul 
carattere di diritto non remunerativo, che sull'incompatibilit� del tributo con il diritto comunitario 
(tra le decisioni pi� recenti si ricordano: Cass. 10 giugno 1998, n. 5742, in Foro it., Mass., 643; 6 
agosto 1998, n. 7701, cit.; 4 settembre 1998, cit.; 12 novembre 1997, n. 11181, id., Rep. 1997, voce 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

528 

corrispondersi a mezzo del servizio dei conti correnti postali� -� stata ridimensionata 
dall'art. 1 del decreto ministeriale 14 luglio 1988 (il quale, dopo aver precisato che 
restava fermo quanto disposto dall'art. 2 del citato decreto ministeriale 12 dicembre 
1972, ha stabilito che �al recupero anche in via supplementare della tassa di concessione 
governativa per l'iscrizione nel registro delle imprese� avrebbe provveduto �l'ufficio del 
registro nella cui circoscrizione territoriale ha sede il domicilio fiscale dell'impresa�) e, 
in modo ancora pi� incisivo, dall'art. 1 del decreto ministeriale 20 gennaio 1992 che ha, 
a sua volta, disposto che �il rimborso di somme non dovute ... versate sui conti correnti 
postali intestati all'ufficio del registro tasse sulle concessioni governative di Roma .... � 
disposto dalle competenti intendenze di finanza ...�; 

-che pertanto, alla stregu� di tali disposizioni (le quali, essendo di natura 
procedimentale, sono di applicazione immediata, anche rispetto ad obbligazioni sorte 
prima della loro entrata in vigore), appare evidente che il luogo di adempimento della 
obbligazione dedotta in giudizio (da identificarsi in quelle in cui hanno sede gli uffici 
di tesoreria: Cass., S.U., 10 maggio 1974, n. 1329; 20 maggio 1978, n. 2522) 
coincideva con quello in cui ha sede la Tesoreria provinciale di Genova e che, 
conseguentemente, in applicazione dei principi dettati dall'art. 25 codice procedura 
civile, la competenza del Tribunale adito non poteva essere posta in discussione (Cass. 
18 giugno 1997, n. 5464; 18 ottobre 1997, n. 10233; 12 novembre 1997, n. 11181). 

E, con riferimento alla doglianza puntualizzata alla lettera b) del precedente 
paragrafo: 

-che la somma pretesa per il rinnovo dell'iscrizione annuale nel registro delle 
imprese � priva di qualunque nesso con il costo di tale operazione e non pu� essere 
quindi ricompresa tra �i diritti a carattere remunerativo� contemplati dall'art. 12 
della direttiva CEE n. 335/1969; 

Concessioni governative, n. 45; 12 novembre 1997, n. 11179, ibid., n. 46; 18 ottobre 1997, n. 
10233, ibid., n. 47; 11ottobre1997, n. 9897, Giur. Imp. 1998, 156). 

Quanto alla terza questione affrontata dalla Corte, relativa all'applicabilit� al rimborso delle 
tasse per le concessioni governative del termine triennale di decadenza decorrente dalla data del 
pagamento ex art. 13 cpv. del decreto del Presidente della Repubblica n. 641/1972, il discorso al 
momento in cui la decisione � stata resa -si presentava ancora aperto, perch� presso la Corte 
di Giustizia comunitaria risultavano pendenti alcune controversie aventi ad oggetto proprio la 
compatibilit� di tale termine di decadenza con il diritto comunitario. 

Si pu� sin d'ora anticipare che la Corte comunitaria non � pervenuta a conclusioni diverse da 
quelle raggiunte dalla Corte di Cassazione nella sentenza in rassegna, che -in conformit� alla 
soluzione fornita dalla citata decisione delle Sezioni Unite n. 3458/1996 -statuisce che la decadenza 
stabilita dall'art. 13 del decreto del Presidente della Repubblica n.641/1972 � di carattere generale ed 
� quindi applicabile ad ogni ipotesi di pagamento di imposta non dovuto e n� il termine triennale pi� 
breve rispetto all'ordinario, n� la decorrenza a partire dalla data di pagamento rappresentano 
disposizioni contrarie al diritto comunitario. Secondo il ragionamento svolto dalla Corte di 
Cassazione l'applicabilit� del termine triennale di decadenza dipende dal fatto che, in materia di 
rimborso di tasse sulle concessioni governative, le relative domande sono sempre state soggette ad 
un regime di preclusione, per cui l'art. 13 cpv. del decreto del Presidente della Repubblica cit. pone 
una decadenza di carattere generale applicabile ad ogni ipotesi di imposta non dovuta. Si � chiarito 
che il contrasto del diritto interno con la normativa comunitaria produce solo la disapplicazione, ma 
non anche l'abrogazione, del primo, per cui restano pienamente vigenti le disposizioni interne che 
regolamentano le modalit� per la restituzione, che debba avvenire a qualsiasi titolo. 



PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

529 

-che tale pagamento ricade pertanto sotto il divieto dell'art. 1 O della stessa 
direttiva il quale, essendo direttamente applicabile nel nostro ordinamento, rende 
inapplicabili le disposizioni nazionali (nella specie, art. 3, decreto legge 19 dicembre 
1984, n. 853, convertito, con modificazioni, nella legge 17 febbraio 1985, n. 17) con 
esso confliggenti (Cass., S.U., 12 aprile 1996, n. 3458, oltre alle sentenze nn. 5464, 
10233, 11181/1997, citt.). 

Di ci�, del resto, mostra di essere consapevole la stesa difesa 
dell'Amministrazione finanziaria, che ha dichiarato di non insistere per 
l'accoglimento delle censure formulate con i primi due motivi di ricorso. 

3. -Ad opposte conclusioni deve giungersi, invece, per il terzo motivo, con il 
quale l'Amministrazione ricorrente -denunziando violazione dell'art. 13, 2 � 
comma, decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 641; dell'art. 
12, n. 1, lett. e), direttiva CEE 69/335; nonch� degli artt. 2033 e 2946 codice civile 
-censura la sentenza impugnata per aver escluso l'applicabilit� del termine 
triennale di decadenza stabilito dal 2� comma dell'art. 13 del citato decreto del 
Presidente della Repubblica n. 641/1972. 
La societ� resistente obbietta che la questione, che attiene all'individuazione del 
termine per la proposizione dell'azione di rimborso, non assumerebbe rilievo poich� 
le richieste sarebbero state presentate tempestivamente, anche a voler tener conto 
del pi� breve termine stabilito dal citato art. 13. � evidente peraltro che tale 
deduzione, la quale implica un accertamento di fatto, non pu� trovare ingresso in 
questa sede. 

� opportuno ricordare che la soluzione della Suprema Corte non � stata pacificamente accolta 
dalla giurisprudenza di merito. In particolare, Corte d'Appello di Firenze ha di solito rigettato 
l'eccezione di decadenza osservando che il principio riconosciuto dalle Sezioni Unite, secondo cui 
il contribuente pu� chiedere la restituzione di tasse erroneamente pagate nel termine di decadenza 
triennale decqrrente dal giorno del pagamento, sebbene corretto sul piano del diritto interno, non lo 
sarebbe sul piano del diritto comunitario, sulla scorta delle precisazioni giurisprudenziali della Corte 
di Giustizia, contenute nella nota sentenza che ha deciso il caso �EmmotD> (25 luglio 1991, in causa 
C-208/1990, Racc. 1991, I, 4292), per cui il termine di decadenza non pu� iniziare a decorrere finch� 
la direttiva n. 69/335 non sia stata correttamente trasposta nell'ordinamento nazionale, il che � 
avvenuto soltanto nel 1993. A tale impostazione si � replicato che, secondo consolidata 
giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenze Rewe e Comet del 16 dicembre 1976, in cause 
33/1976 e 45/1976, Racc. 1976, rispettivamente pagg. 1989 e 2043; sent. 9 novembre 1983 in causa 
199/82, S. Giorgio, ivi, 1983, 3595; sent. 27 ottobre 1993, in causa C-338/1991, SteenhorstNeerings, 
ivi, 1993, I, 5475; sent. 6 dicembre 1994 in causa C-410/1992, Johnson, ivi, 1994, I, 5483; 
sent. 8 febbraio 1996 in causa C-212/1994, F.M.C.), in mancanza di norme comunitarie in materia, 
appartiene agli ordinamenti interni dei singoli Stati membri disciplinare le modalit� procedurali delle 
azioni giudiziarie a tutela dei diritti attribuiti dalla normativa comunitaria: sempre che tali modalit� 
non siano meno favorevoli di quelle relative ad analoghe azioni di diritto interno e sempre che esse 
non finiscano per rendere praticamente impossibile od eccessivamente difficile l'esercizio del diritto. 

Al principio generale affermato da tale giurisprudenza non apporta alcuna deroga la 
sentenza �Emmott�, n� in via generale, n� con particolare riguardo alla direttiva n. 69/335/CEE. 
Sotto il primo profilo va rilevato che la soluzione accolta dalla Corte di giustizia nella sentenza 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

530 

Il giudice del merito ha respinto l'eccezione di decadenza sul rilievo che il 
termine decadenziale stabilito dalla norma in esame sarebbe stato travolto dalla 
sentenza con la quale � stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 12 del 

I 
decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 643 nella parte in cui non 
prevede, nelle controversie in tema di tasse di" concessione governativa, che l'azione 

I 
giudiziaria possa essere esperita anche senza preventivo ricorso amministrativo. Ma ~ 
� agevole osservare che le due disposizioni sono autonome e che, pertanto, il venir 
meno dell'una non pu� in.alcun modo condizionare l'applicabilit� dell'altra. 

N� potrebbe per altro verso sostenersi che, nel caso in specie, il pagamento del 
tributo � stato eseguito in adempimento di un obbligo di legge e che, pertanto, la 
domanda di ripetizione proposta dal contribuente non pu� essere regolata dall'art. 
13 del decreto del Presidente della Repubblica n. 64111972, che riguarda la 
restituzione delle tasse �erroneamente pagate�. Invero, la disposizione pone una 

I decadenza di carattere generale, applicabile ad ogni ipotesi di pagamento di imposta 
non dovuto, in conformit� con l'indirizzo normativo secondo cui le tasse sulle 
concessioni governative sono sempre state soggette ad un regime di preclusione, in 
relazione alle domande di rimborso (Cass. S.U. 12 aprile 1996, n. 3455; Cass. 12 

I

novembre 1997, n. 11181). 

I

4. -Non potrebbe nemmeno ritenersi che detta norma -vuoi per la durata del 
I ili

termine fissato per la proposizione della domanda di rimborso dei tributi 
indebitamente versati (pi� breve di quello stabilito, in via generale, in tema di 
ripetizione di indebito), vuoi per il fatto che il momento iniziale della sua decorrenza 

�Emmott� � stata condizionata dalle particolari circostanze della relativa causa, nella quale 
veniva in giuoco una direttiva per attuare la quale lo Stato membro doveva compiere un <ifacere�. 
Ed in mancanza di tale <ifacere� il diritto riconosciuto ai singoli dalla direttiva era reso di 

I

esercizio praticamente impossibile. Questo risulta dalle successive sentenze �Steenhorst
�: 
Neerings� e �Johnson�, nelle quali la Corte ha riconosciuto che il principio enunciato nella 
sentenza �Emmott� dipende dalle particolarit� della causa allora decisa e non rappresenta affatto 
l'espressione di un principio generale dell'ordinamento comunitario. Ed ha inoltre affermato che 
il semplice fatto che una direttiva non sia stata correttamente trasposta non impedisce, in assenza 
di circostanze particolari, allo Stato membro di eccepire il decorso dei termini di decadenza. 

Con riferimento, poi, alla direttiva n. 69/335/CEE va rilevato che il contenuto positivo 
(istituzione di un'imposta armonizzata sui conferimenti: articoli da 2 a 9) � stato correttamente e 
tempestivamente trasposto nell'ordinamento nazionale {cfr. l'art. 2, lett. a), del testo unico 
sull'imposta di registro approvato con decreto del Presidente della Repubblica n. 131del1986 e 
l'art. 4 della Tariffa allegata). Mentre il contenuto negativo (divieti di cui agli artt. IO e 11 e 
deroghe di cui all'art. 12) non necessitava di alcuna attuazione. 

Dunque, nessuna situazione di incertezza nel caso della direttiva n. 69/335/CEE. Nessun 
particolare obbligo di <ifacere� se non quello di astenersi dal violare, in ipotesi, i divieti di cui agli 
artt. l O e 11. Situazione, quindi, affatto diversa da quella che ha portato alla sentenza �Emmott� 
e che rende, nel caso, non applicabile il principio �contra non valentem agere non currit 
praescriptio�. Infatti, tutte le societ� erano in grado di valutare se la tassa di iscrizione aumentata 
e resa annuale nel 1985 fosse compatibile con l'art. 10 della direttiva o potesse rientrare fra i 
diritti di carattere remunerativo. 


PARTE I, SEZ. V, GWRISPRUDENZA TRIBUTARIA 

531 

� stato ricollegato al �giorno del pagamento� anzich� a quello in cui la direttiva � 
stata �correttamente trasposta nel nostro ordinamento� -sia incompatibile con il 
diritto comunitario e debba conseguentemente essere disapplicata. 

5.1. -Effettivamente la Corte di giustizia ebbe a statuire, con la sentenza 25 
luglio 1991, C 208/1990, che �fino al momento della trasposizione corretta della 
direttiva, l� Stato membro inadempiente non pu� eccepire la tardivit� di un'azione 
giudiziaria avviata nei suoi confronti da un singolo al fine della tutela dei diritti che 
ad esso riconoscono le disposizioni della direttiva e che un termine di ricorso del 
diritto nazionale pu� cominciare a decorrere solo da tale momento�. � da 
considerare, tuttavia, che la stessa Corte ha successivamente rettificato il proprio 
orientamento, osservando che la soluzione adottata con tale decisione era 
giustificata dalla circostanza che, in quel caso, il termine di decadenza comminato 
dalla normativa nazionale �arrivava a privare totalmente il ricorrente ... della 
possibilit� di far valere il diritto� riconosciuto dalla direttiva e statuendo che 
debbono ritenersi non incompatibili con il diritto comunitario le norme di diritto 
nazionale che si limitino �a circoscrivere�, senza escludere in toto, �il periodo, 
anteriore alla presentazione della domanda� per il quale il diritto medesimo pu� 
essere fatto valere (sent. 27 ottobre 1993, C 338/1991; 6 dicembre 1994, C 
410/1992; 17 luglio 1997, c 114, 115/1995; 17 luglio 1997, c 90/1994). 
Di qui il riconoscimento della compatibilit�, con il diritto comunitario, di 
termini �ragionevoli� di prescrizione e di decadenza cui sia subordinato 
l'esercizio dell'azione giudiziaria, ribadito, in epoca ancora pi� recente, con la 

Nessun impedimento, n� giuridico n� di fatto, sussisteva a che le societ� iniziassero nello stesso 
anno 1985 le azioni di rimborso che hanno promosso negli anni successivi. � quindi privo di 
fondamento pretendere -come fa la Corte d'Appello di Firenze -di applicare nel caso la soluzione 
accolta dalla Corte di giustizia nella sentenza �Emmott�, trascurando invece la regola generale di 
diritto comunitario sopra ricordata e che conferma la competenza degli Stati membri in materia. 

Ad ogni �modo, il problema � stato definitivamente risolto dalla stessa Corte di Giustizia, che 
ha riconosciuto la �compatibilit� comunitaria� della decadenza triennale con sentenza del 2 
dicembre 97 in causa �Fantask� (causa C-188/1995 in Racc., V6783) statuendo che <<allo stato 
attuale, il diritto comunitario non vieta ad uno Stato membro, che non ha attuato correttamente la 
direttiva n. 691335, come modificata, di opporre alle azioni dirette al rimborso di tributi riscossi in 
violazione di tale direttiva un termine di prescrizione nazionale, che decorra dalla data di esigibilit� 
dei tributi di cui trattasi, qualora tale termine non sia meno favorevole per i ricorsi basati su diritto 
interno e non renda praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti 
conferiti dall'ordinamento comunitario�. Sono stati quindi ritenuti ragionevoli termini quinquennali 
per la ripetizione di diritti riscossi da uno stato membro (la Danimarca) per la registrazione delle 
societ� in violazione della direttiva 69/335 prima della sua trasposizione nel diritto interno di quel 
paese, termini triennali per la ripetizione di dazi all'importazione indebitamente versati fissati dal 
legislatore francese (sent. 9 novembre 1989, c. C-386/87) di un solo anno (sentenza 27 ottobre 1993, 

c. C-338/1991, Foro it., Rep. 1996, voce Unione europea, n.12/1985). 
4. Tutto ci� va integrato con le considerazioni svolte dalla Corte di Giustizia nelle pi� recenti 
sentenze del 15 settembre 1998 (in C-231/1996, Edis; C-260/1996, Spac, in Foro it., ottobre 
1998, IV, 369, procedimenti riuniti C-279/1996, C-280/1996 e C-281/1996, Ansaldo Energia 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO ..

532 


sentenza 2 dicembre 1997, c. 189/1995, avente ad oggetto proprio la ripetibilit� di 
diritti riscossi da uno stato membro, la Danimarca, per la registrazione delle 
societ� in contrasto con quanto prescritto dalla direttiva CEE 59/335 prima della 
sua trasposizione nel diritto nazionale di quel paese. Alla Corte era stato, tra 
l'altro, posto il quesito se il diritto comunitario vietasse agli Stati membri �di 
opporre alle azioni .dirette al rimborso di tributi riscossi in violazione della 
direttiva un termine di prescrizione (o di decadenza) fin tanto che tale direttiva non 
avesse correttamente attuato tale direttiva�. Nel rispondere negativamente a tale 
domanda, la Corte ha ricordato che �spetta all'ordinamento giuridico interno di 
ciascuno Stato membro stabilire le modalit� procedurali dei ricorsi giurisdizionali 
per la ripetizione dell'indebito, purch� tali modalit� non siano meno favorevoli di 
quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna, n� rendano praticamente 
impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti 
dall'ordinamento giuridico comunitario�. Ed ha escluso che il termine (di cinque 
anni) fissato dal diritto danese potesse essere considerato irragionevole. 

Nel caso deciso dalla sentenza 27 ottobre 1993, C 338/1991, il termine era di 
un solo anno (quindi assai pi� breve di quello triennale stabilito dall'art. 13, 2� 
comma, del decreto del Presidente della Repubblica n. 641/72 che viene in 
considerazione nel presente giudizio) ed � stato del pari ritenuto dalla Corte 
compatibile con il diritto comunitario, sul rilievo che esso �circoscriveva�, senza 
escludere totalmente, la possibilit� di far valere in giudizio, per il passato, il diritto 
riconosciuto dalla direttiva. Con altra sentenza, riguardante proprio la materia 
tributaria, � stata ravvisata la ragionevolezza di un termine triennale fissato dal 
legislatore francese per il recupero di dazi all'importazione indebitamente versati 
(Corte giustizia 9 novembre 1989, C 386/1987). 

S.p.A. ed altre, in Foro it., id.) e del 22 ottobre 1998 (nei procedimenti riuniti da C-1011997 a C22/
97, IN.CO.GE. '90 S.r.l. ed altre, non pubblicata). In via generale si pu� dire che la linea 
seguita dalla Corte CE � comune in tutte le citate sentenze (in confonpit� ad una consolidata 
giurisprudenza si vedano: sent. Rewe e Comet del 16 dicembre 1976, in cause 33/1976 e 45/1976, 
Racc. �1976; sent. 9 novembre 1993 in causa 199/1982, S. Giorgio, ivi, 1983, 3595; sent. 27 
ottobre 1993 in causa C-338/1991, Steenhorst-Neerings, ivi, 1993, I, 5475; sent. 6 dicembre 1994 
in causa C-410/1992, Johnson, ivi, 1994, I, 5483; sent. 8 febbraio 1996 in causa C-212/1994, 
F.M.C.): ricondurre le questioni giuridiche sollevate dalle norme interne -di cui si asserisce 
l'incompatibilit� con il diritto comunitario -nell'ambito della competenza interna dello Stato 
membro, il quale nella soluzione del problema per non incorrere in contrasti con l'ordinamento 
comunitario deve rispettare ilprincipio di effettivit� (non rendere impossibile od eccessivamente 
difficile l'esercizio del diritto riconosciuto dalla norma comunitaria) ed il principio di 
equivalenza (non assoggettare situazioni riconosciute da norme comunitarie a trattamenti 
processuali meno favorevoli rispetto a quelli previsti per situazioni soggettive analoghe 
riconosciute dalle norme interne). 
�In sintesi, le questioni sottoposte all'esame del giudice comunitario possono cos� riassumersi: 
a) se il diritto comunitario sia compatibile con un termine di decadenza che limiti nel tempo gli effetti 
di una pronuncia interpretativa della Corte CE (sent. Edis cit. p. 5), b) con un termine di decadenza 
decorrente prima della corretta trasposizione della direttiva che attribuisce il diritto nell'ordinamento 
interno (sent. Edis cit.; sent. Spac cit.; sent. Ansaldo cit.), e) con un termine di decadenza triennale 
che deroga rispetto al regime ordinario dell'indebito che prevede una prescrizione decennale (sent. 


PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

533 

5.2 -La stessa Corte ha d'altro canto riconosciuto, in reiterate occasioni, non 
in contrasto con i principi del diritto comunitario la previsione di termini per la 
ripetizione di tributi riscossi in violazione di norme comunitarie, diversi (e pi� 
brevi), di quelli stabiliti in via generale in materia di ripetizione di indebito, purch� 
�ragionevoli�, tali cio� da soddisfare la duplice esigenza di assicurare �certezza� in 
tali rapporti e, al tempo stesso, la possibilit� di far valere i diritti riconosciuti dal 
diritto comunitario (sent. 9 novembre 1989, c 386/1987; 17 luglio 1997, c 114, 
115/1995; 17 luglio 1997, C 9111994). E si � visto che �ragionevoli� sono stati 
ritenuti anche termini triennali e persino annuali (retro,� 5.1). 
Alla stregua di tali orientamenti, ormai consolidati, della Corte di giustizia 
appare evidente che il diritto comunitario non vieta al legislatore nazionale dei paesi 
membri di stabilire, per il rimborso di somme corrisposte dai contribuenti per il 
pagamento di tributi imposti in violazione di norme comunitarie, termini di 
decadenza (o di prescrizione), come quello previsto dall'art. 13, 2� comma, decreto 
del Presidente della Repubblica n. 641/1972, pi� brevi di quelli previsti in via 
generale in materia di indebito, ma applicabili anche alle azioni di ripetizione 
riguardanti lo stesso tributo che abbiano il loro fondamento in norme di diritto 
nazionale. N� vieta che la decorrenza del termine sia fissata, come nel caso di 
specie, con riferimento al giorno del pagamento, anzich� alla data di attuazione della 
direttiva. Ci� esclude che ricorrano i presupposti per rimettere la questione 
all'esame della Corte di giustizia ai sensi dell'art. 177 del Trattato CE. 

L'obbligatoriet� del rinvio, nell'ipotesi considerata dall'ultimo comma di tale 
disposizione, non � infatti assoluta, poich� trova la sua giustificazione nell'esigenza 
di assicurare la corretta ed uniforme applicazione del diritto comunitario in tutti i 
Paesi membri (Corte di giustizia 6 ottobre 1982, c. 283/1981; 16 gennaio 1994, c. 

Ansaldo cit.; sent. Edis cit. ), d) se l'inapplicabilit� di una norma interna derivante dall'incompatibilit� 
con il diritto comunitario comporti l'impossibilit� di utilizzarla anche ai soli fini della qualificazione 
giuridica della controversia (sent. IN.CO.GE. '90 S.r.l. ed altre cit.). 

Quanto alla prima questione, la Corte CE premette che occorre distinguere tra limitazione 
degli effetti di una sentenza e rispetto delle modalit� processuali stabilite per azionare i diritti 
medesimi dinanzi ai tribunali nazionali. Infatti il primo � un aspetto sostanziale che consiste nel 
privare i singoli della facolt� di avvalersi a sostegno delle loro domande dei diritti loro 
riconosciuti dal diritto comunitario, mentre il secondo � un aspetto processuale nel quale rientrano 
la fissazione dei termini di decadenza che secondo una costante giurisprudenza devono essere 
individuati dai singoli stati membri che nel farlo (e ci� include anche la fissazione della 
decorrenza del termine di cui alla questione sub b)) devono rispettare i principi di effettivit� ed 
equivalenza. Quanto alla questione sub e) la Corte dopo aver premesso come sopra la competenza 
interna degli Stati membri nell'individuare le condizioni che devono essere soddisfatte per 
portare alla cognizione del giudice una controversia relativa ad una data norma, sottolinea come 
il diritto comunitario non � violato dall'esistenza di un doppio regime interno in tema di 
ripetizione dell'indebito purch� esso sia applicato conformemente ad indebiti di derivazione 
comunitarie che ad indebiti di derivazione nazionale dello stesso tipo: nel caso di specie il 
principio di equivalenza � soddisfatto poich� il termine di decadenza triennale si applica non solo 
per la restituzione di tributi indebiti perch� contrastanti con il diritto comunitario ma anche per la 
ripetizione di quanto versato in virt� di tasse dichiarate contrarie alla Costituzione Italiana. La 
risoluzione della questione sub d) � rilevante invece perch� chiarisce la portata e gli effetti della 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

534 

166/1973; Cass. 22 novembre 1996, n. 11359): proprio muovendo da questi 
presupposti si � affermato che l'obbligo del rinvio viene meno quando la questione 
� �materialmente identica� ad altra gi� sollevata e gi� decisa in via pregiudiziale I 
(Corte di giustizia 27 marzo 1963, cause riunite 28-30/1962) e in ogni altra ipotesi 

I

in cui la risposta al quesito si imponga con tale evidenza da non lasciare adito ad 
alcun ragionevole dubbio interpretativo (Corte di giustizia 6 ottobre 1982, c. I 
283/1981; Cass. 10359/1996). 

N� vi sarebbe motivo per rinviare la definizione del presente giudizio fino al 
deposito della sentenza che la Corte di Giustizia � chiamata ad emettere nella causa 
C 260/1996 s.p.a., tanto pi� che le questioni in essa dibattute sono in tutto identiche, 

o quanto meno analoghe, a quelle gi� decise dalla stessa Corte con la sentenza 2 
dicembre 1997, C 188/1995, come osservato nelle proprie conclusioni depositate il 
26 marzo 1996 in detto giudizio dall'Avvocato generale, nelle quali si d� atto, tra 
l'altro, che la Commissione ha riconosciuto in udienza che �la questione era stata 
definitivamente risolta� con la sentenza sopra indicata. 
6. -I dubbi sollevati dalla difesa delle resistenti circa la legittimit� 
costituzionale dell'art. 13, 2� comma, decreto del Presidente della Repubblica 26 
ottobre 1972, n. 641, nel presupposto che detta disposizione sia ritenuta applicabile 
anche all'azione proposta per ottenere il rimborso delle somme corrisposte per il 
disapplicazione di una norma interna per effetto della sua incompatibilit� con il diritto 
comunitario. La sentenza Simmenthal (sent. 9 marzo 1978, causa 106/1977, in Racc., 629) ha 
stabilito che la prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno � un dato che sussiste nei 
confronti della legge interna sia essa anteriore o posteriore alla direttiva comunitaria con cui si 
pone in contrasto; tuttavia da tale contrasto discende la disapplicabilit� della norma non la sua 
inesistenza e corrispondentemente � errato affermare che si determini sia la carenza di potere 
impositivo dello Stato sia l'inesistenza dell'obbligazione tributaria. Al contrario lo Stato � 
obbligato al rimborso dei tributi indebitamente percetti poich� tale obbligo � complementare al 
diritto riconosciuto dalle norme della direttiva comunitaria 69/335. Tuttavia in assenza di una 
disciplina comunitaria le modalit� di restituzione dei tributi illegittimamente versati � 
competenza del singolo Stato che deve provvedervi nel rispetto dei principi di equit� ed 
effettivit�. 

Come era prevedibile, la soluzione adottata dalla Corte di giustizia � stata vivacemente 
criticata. Si � sostenuto che l'equit� applicata dalla Corte sia solo formale e si risolverebbe per 
ci� in un irrazionale pregiudizio dei diritti dei contribuenti: nei primi commenti, si � infatti 
osservato che la Corte -nel porre il principio di equit� a fondamento delle sue recenti pronunce 
-mostra di non considerare il fatto che il legislatore comunitario si esprime con un linguaggio 
descrittivo ed atecnico che comporta il frequente ricorso in via pregiudiziale ex art. 177 del 
Trattato UE; in considerazione del fatto che il tempo medio per una pronuncia della Corte � di 
tre anni, un'equit� che sia veramente tale non pu� non tenerne conto, nel momento in cui deve 
valutare se un termine di decadenza triennale che decorra da un momento antecedente alla 
corretta e compiuta trasposizione di una direttiva pregiudichi o meno i diritti dei contribuenti. Si 
� perci� sostenuto che la Corte ha errato nel respingere la tesi del termine ordinario decennale 
previsto per la ripetizione dell'indebito: poich� in tal modo avrebbe propugnato un'equit� 
condizionata alla previa instaurazione di una controversia �ogniqualvolta si abbia il dubbio che 
la fattispecie con cui si � alle prese possa essere disciplinata da una norma comunitaria� (in tal 
senso, G. ZoPPINI, Il Sole 24 ore, 7 ottobre 1998). 



PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 

535 

pagamento del tributo imposto da norme nazionali in violazione di norme 
comunitarie, sono manifestamente infondati. 
Essi sono stati prospettati, in riferimento agli artt. 3, 24 e 113 Cost., sotto un 
duplice profilo, assumendo che: 

a) il termine stabilito a pena di decadenza per la proposizione della domanda 
di rimborso sarebbe irragionevolmente diverso da quello, corrispondente 
all'ordinario termine decennale di prescrizione, previsto in via generale in tema di 
indebito fiscale; 

b) che la formulazione del citato art. 13 sarebbe tale da non lasciar intendere 
che il termine in esso stabilito, si riferisce, oltre che all'azione diretta alla 
restituzione delle tasse �erroneamente� pagate, anche alle azioni di indebito 
oggettivo. 

Orbene, � agevole osservare: 

-quanto all'affermazione sub a), che le tasse sulle concessioni governative 
sono sempre state soggette ad un regime di preclusioni in relazione alle domande di 
rimborso (retro, � 3) e che, comunque, l'art. 24 della Costituzione non vieta che 
l'esercizio concreto della tutela giurisdizionale sia sottoposto a termini, anche molto 

5. Come era prevedibile, non sono mancati i tentativi dei giudici di merito di aprire una 
breccia interpretativa nella granitica soluzione giurisprudenziale della questione del termine 
decadenziale. Ha provato per esempio a riaprire �il caso� il Tribunale di Reggio Calabria: si ha 
infatti notizia di un'inedita sentenza del 26 ottobre 1998, che -partendo dalla regola della 
decadenza triennale -arriva a sostenere che �solo con la trasposizione della direttiva e la 
definitiva abolizione della tassa, l'ordinamento italiano riconosce l'erroneit� della tassa de qua. 
Solo dal 30 agosto 1993, quindi, sorge per l'ordinamento italiano (ai fini dell'applicazione di 
istituti disciplinati esclusivamente dal diritto interno) il diritto alla ripetizione della tassa in 
questione�. Ne deriva che sono salve non solo le domande presentate entro tre anni dal 
pagamento, ma anche quelle presentate nel triennio dalla data di abolizione della tassa, cio� dal 
30 agosto 1993, perch� solo da tale data sorge �ai fini dell'applicazione di istituti disciplinati dal 
diritto interno, il diritto alla ripetizione della tassa in questione�. 
� noto tuttavia cheJale impostazione si pone in aperta contraddizione con l'insegnamento 
dei giudici comunitari, che, non solo hanno ribadito la validit� del termine triennale di decadenza, 
ma hanno altres� precisato che il termine decorre dal momento del pagamento (sent. EDIS del 15 
settembre 1998, in C-231/1996). 

6. L'ultimo capitolo della vicenda l'ha scritto di recente il legislatore, introducendo 
importanti novit� in materia con l'art. 11 della legge collegata alla Finanziaria per il 1999. 
Il meccanismo di rimborso inserito nel provvedimento in parola prevede, in generale, la 
rideterminazione in via retroattiva della tassa per l'iscrizione degli atti costitutivi e degli altri atti 
sociali, per gli anni dal 1985 al 1992. Ci� comporta che le societ� che hanno presentato istanza 
di rimborso nei termini potranno ottenere la restituzione della differenza tra quanto pagato e 
l'importo rideterminato dal legislatore per l'iscrizione della societ� e per gli altri atti sociali. 

Con l'art. 11 della legge 23 dicembre 1998 n. 448 si � infatti stabilito che la tassa per 
l'iscrizione dell'atto costitutivo � fissata per gli anni 1985-1992 in f 500.000 per ogni tipo di 
societ� ed inoltre che per gli stessi anni � dovuta per l'iscrizione di altri atti sociali una tassa, 
variabile secondo il tipo di societ�, in misura forfettaria annuale. 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

536 

brevi, di decadenza, purch� non siano tali da compromettere ogni possibilit� di 
tutela (tra le tante, C. Cost. 14 gennaio 1977, n. 15, 10 giugno 1982, n. 110; Cass. 
17 settembre 1992, n. 10655); 

-quanto al rilievo sub b), che nell'interpretazione delle singole norme la loro 

formulazione letterale non � mai decisiva, poich� la ricerca del loro significato deve 
essere effettuata tenendo conto del sistema nel quale sono inserite. 

7. -Il ricorso proposto deve essere quindi accolto parzialmente, in relazione 
alla doglianza formulata con il terzo motivo. Entro tali limiti la sentenza impugnata 
deve essere conseguentemente cassata, con rinvio della causa ad altra sezione della 
Corte d'appello di Genova, che si atterr� al principio di diritto formulato nel � 3, 
provvedendo altres� alla liquidazione delle spese della presente fase. 
P.Q.M. 
La Corte di cassazione rigetta i primi due motivi di ricorso e accoglie il terzo. 
Cassa, in relazione al motivo accolto, la sentenza impugnata e rinvia la causa ad 
altra sezione della Corte d'Appello di Genova anche per le spese. 

I 

I ~

Cos� deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 27 �prile 1998 (omissis). 

Ne deriva che, ove il Tribunale -funzionalmente competente a decidere sulle azioni di 
ripetizione delle tasse indebitamente pagate -riconosca il diritto al rimborso, dall'importo 
riconosciuto alla Societ� in epigrafe andranno detratte le somme dovute per quegli anni a seguito 
della normativa sopravvenuta. 

I 

� importante sottolineare che, per effetto della normativa in parola, viene definitivamente 

I

confermata l'applicabilit� della decadenza triennale. Infatti, oltre alla previsione dei minori 

I ~ 

importi riconoscibili in sede contenziosa, si � previsto che le societ� che agiscono per la 
ripetizione dell'indebito possono ottenere il rimborso �sempre che abbiano presentato istanza�, e 
ci� significa che devono aver contestata tempestivamente (entro il triennio) l'illegittimit� della 
pretesa tributaria. 

Lo stesso art. 11, al 3� comma, introduce un'altra importante novit�: prescrive infatti la 
norma che �sull'importo da rimborsare sono dovuti gli interessi nella misura del tasso legale 
vigente alla data di entrata in vigore della presente legge, a decorrere dalla data di presentazione 

I

& 

dell'istanza�. Ci� ha comportato che, entrando la legge in vigore il l 0 gennaio 1999, giorno dal 
quale operer� la riduzione a met� del tasso di interessi (previsto dal decreto ministeriale 1 O 
dicembre 1998, in Gazzetta Ufficiale 11 dicembre 1998, n. 289), l'interesse dovuto ai contribuenti 
dal momento della presentazione di istanza di rimborso sar� ridotto in eguale misura, e perci� 
passer� al 2,5%. 

� inutile sottolineare che tale disciplina produrr� un'inevitabile proliferazione di un 
contenzioso che si avviava ad esaurimento. Il Ministero delle Finanze infatti dovr� invocare 
l'applicazione del pi� favorevole jus superveniens introdotto dal citato art. 11, impugnando anche 
le decisioni dei giudici di merito, finora non impugnate in quanto conformi alla giurisprudenza 
delle Sezioni Unite e della Corte di Giustizia, sulla questione della decadenza triennale. 

FEDERICO BASILICA 


SEZIONE SESTA 

GIURISPRUDENZA PENALE 

CORTE DI CASSAZIONE, Sez. Un., 12 febbraio 1998, n. 17 -Pres. Scorzelli-Est. 
Di Noto -P.M. Fraticelli (diff.) -Di Battista ed altri c. Finanze (avv. Stato 
Greco). 

Giudizio penale -Decreto di rinvio a giudizio -Nullit� -Ordinanza di 
restituzione degli atti G.I.P. -Abnormit� -Non esiste. 
(Art. 185 cod. proc. pen., 111 Cost.). 

Non � viziata da abnormit� l'ordinanza con la quale il giudice del dibattimento, 
dichiarata la nullit� del decreto che ha disposto il giudizio per assoluta genericit� 
della motivazione, trasmette gli atti al G.I.P. essendo la regressione del 
procedimento espressamente prevista dall'art. 185 codice procedura penale (1). 

(omissis). 

9. -La questione sottoposta all'esame delle Sezioni Unite � la seguente: se il 
giudice possa dichiarare la nullit� (e disporre la restituzione degli atti) del decreto 
che dispone il giudizio ovvero del decreto di citazione a giudizio per l'omessa o 
insufficiente specificazione del fatto contestato. 
Il contrasto di giurisprudenza denunciato dall'ordinanza di rimessione, tuttavia, 
non verte sulla dichiarazione di nullit� del decreto che dispone il giudizio bens� 
sull'identificazione del soggetto cui spetti rimuoverne la nullit� operando una 
ridescrizione esaustiva del fatto. 

10. -Un primo indirizzo ritiene abnorme l'ordinanza che dichiari la nullit� del 
decreto di citazione a giudizio, con conseguente restituzione degli atti al pubblico 
ministero o al giudice per le indagini preliminari (a seconda che si tratti di 
(1) Le Sezioni Unite hanno con questa elaborata sentenza risolto il contrasto 
giurisprudenziale esistente fra le sezioni singole. In realt� il contrasto emergeva su una duplice 
questione: se fosse abnorme o no la restituzione degli atti al P.M. e se gli atti fossero da restituire 
al P.M. o al G.I.P. La sentenza che si annota affronta espressamente questa seconda questione, 
affermando la ritualit� della restituzione degli atti al G.l.P (o al P.M. nel caso del giudizio 
pretorile), rammentando comunque la inoppugnabilit� dell'ordinanza di trasmissione al G.I.P. e 
negandone a maggior ragione l'abnormit� e non prende posizione, nonostante la citazione delle 
contrastanti opinioni di talune delle sezioni singole, sulla abnormit� o meno di un provvedimento 
che avesse ordinato la trasmissione degli atti al P.M. (nel giudizio non pretorile); non si tratta 
evidentemente di una omissione, ma di una inevitabile limitazione del thema decidendum, in 
quanto il caso in esame concerneva una ordinanza di trasmissione del G.I.P. 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

538 

procedimento davanti al tribunale o al pretore), perch� si verificherebbe un'indebita 
regressione alla fase degli atti introduttivi, sussistendo d'altro canto la possibilit� di 
utilizzare meccanismi processuali come quelli previsti dagli artt. 516 e 517 codice 
procedura penale (o dagli artt. 506 e 507 codice procedura penale come specificato 
da sez. VI -8 marzo 1993, P.M. c. Presutti, m. CED 193797) attraverso i quali 
possono essere superate situazioni di stasi del processo stimolando l'iniziativa delle 
parti, cos� da consentire una compiuta decisione sulla regiudicanda ( sez. III -15 
dicembre 1992, P.M. c. Antinori, m. CED 192600; sez. V -2 agosto 1993, P.M. c. 
Bonandini, m. CED 194456; sez. V -11 febbraio 1994, P.M. c. Marino, m. CED 
197091; sez. II -16 dicembre 1996, P.M. c. Borgna, m. CED 206495; sez. III -26 
aprile 1997, Piccoli, m. CED 207297). 

In particolare, nella sentenza 16 dicembre 1996, P.M. c. Borgna, in fattispecie 
analoga a quella di cui trattasi, � stata affermata l'abnormit� del provvedimento 
proprio per la restituzione degli atti al G.I.P., poich� essa determinerebbe �una 
inammissibile regressione del processo ad una fase anteriore, creando una 
situazione di paralisi in quanto il giudice per le indagini preliminari cui gli atti 
sono rimessi non dispone dei poteri necessari per sanare la nullit� predetta 
dovendosi escludere che gli spetti un autonomo potere integrativo o correttivo, n� 
tantomeno pu� ordinare a sua volta la restituzione degli atti al pubblico ministero, 
perch� proceda all'eventuale integrazione dell'imputazione, in quanto anche tale 
provvedimento, determinando una inammissibile regressione processuale, sarebbe 
abnorme�. 

11. -L'opposto orientamento opera invece sul concetto di atto abnorme 
limitandone l'ambito e restringendo quindi la portata della deroga al principio di 
tassativit� delle impugnazioni (sez. III -30 gennaio 1997, P.M. c. Maffei; sez. V 14 
gennaio 1997, P.M. c. Biancucci, m. CED 207257; sez. III -18 novembre 1996, 
P.M. c. Diop; sez. VI -6 giugno 1996, P.M. c. Gaslini, m. CED 205879; sez. VI -26 
aprile 1996, P.M. c. Del Brocco; sez. V -25 marzo 1996, P.M. c. Ceccarini; sez. III 
-21marzo1996, P.M. c. Delle Fabbriche; sez. VI -19 maggio 1995, P.M. c. Cutillo; 
sez. VI -21 settembre 1994, P.M. c. Domenico, m. CED 200830; sez. V -11 marzo 
1994,' P.M. c. Luchino, m. CED 197999; sez. V -25 febbraio 1994, P.M. c. 
Manduca; sez. V -25 gennaio 1994, P.M. c. Santangelo). 
Su tale linea la sentenza della sez. V -11 marzo 1994, P.M. c. Luchino, 
proprio in tema di insufficiente specificazione del fatto, ha negato il carattere di 
abnormit� ali' ordinanza che aveva annullato il decreto di citazione a giudizio e 
restituito gli atti al P.M., in base al principio secondo il quale �l'atto processuale 
pu� essere qualificato abnorme sotto il profilo strutturale (quando per la sua 
singolarit� si pone fuori dal sistema organico della legge processuale )o 
funzionale (quando pur non estraneo al sistema normativo, determina la stasi del 
processo, con l'impossibilit� di proseguirlo). Non pu�, quindi, essere inquadrata 
in nessuna delle due forme di abnormit� l'ordinanza con la quale il pretore 
dichiari la nullit� del decreto di citazione, ritenendo insufficiente l'enunciazione 
del fatto, per non essere stata specificata la condotta di ciascuno dei concorrenti 
nel reato, ove dagli atti emergano gli elementi utili alla precisazione del 
contributo causale recato da ognuno di essi alla realizzazione dell'illecito. Sotto 


PARTE I, SEZ. VI, GIURISPRUDENZA PENALE 

l'aspetto strutturale, infatti, non pu� dirsi abnorme il provvedimento sol perch� 
eventualmente viziato da errata interpretazione di norme sostanziali o 
processuali; sotto l'aspetto funzionale, poi, un siffatto provvedimento non � 
suscettibile di produrre alcuna paralisi�. 

In questa direzione si colloca, pertanto, l'affermazione secondo cui � abnorme 
la trasmissione degli atti al pubblico ministero (sez. VI -6 giugno 1996, P.M. c. 
Gaslini, m. CED 205879) in quanto viola il principio della irretrattabilit� dell'azione 
penale, esercitata definitivamente dall'organo dell'accusa con la richiesta di rinvio 
a giudizio; mentre non � da ritenersi nella situazione anzidetta la trasmissione degli 
atti al G.l.P. 

L'abnormit� dell'ordinanza che aveva trasmesso gli atti al G.l.P. dopo avere 
dichiarato la nullit� del decreto dispositivo del giudizio per assoluta genericit� 
dell'imputazione � stata altres� negata da questa Corte (sez. I .,. 11 febbraio 1997, 
Comito, m. CED 207096), in sede di risoluzione di conflitto negativo di 
competenza, essendo la regressione del procedimento espressamente prevista 
dall'art. 185, comma 3, codice procedura penale (con riferimento alla trasmissione 
degli atti al P.M., ma sempre in sede di conflitto tra tribunale e G.l.P., vedi anche 
sez. I -18 dicembre 1996, Giorno, m. CED 206520). 

12. Le Sezioni Unite della Corte ritengono di dover aderire a quest'ultimo 
orientamento. 
12.1. Occorre innanzi tutto ribadire che un provvedimento pu� definirsi 
abnorme quando, per la singolarit� e stranezza del suo contenuto, risulti avulso 
dall'intero ordinamento processuale, tanto da legittimare il ricorso per cassazione, ai 
sensi dell'art. 111 Cost., essendo questo il solo strumento processuale utilizzabile 
per rimuoverne gli effetti (S.U. -26 aprile 1989, Goria) 
Le Sezioni Unite, richiamando l'articolata giurisprudenza di questa Corte, 
hanno inoltre di recente precisato (S.U. -9 settembre 1997, Quarantelli), che � 
abnorme non solo il provvedimento che, per la sua singolarit�, non sia inquadrabile 
nell'ambito dell'ordinamento processuale, ma anche quello che, pur essendo in 
astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti 
e delle ipotesi previste, al di l� di ogni ragionevole limite. 

Hanno infine le S.U. posto in rilievo che l'abnormit� dell'atto processuale pu� 
riguardare tanto il profilo strutturale, allorch�, per la sua singolarit�, si ponga fuori 
dal sistema organico della legge processuale, quanto il profilo funzionale, quando, 
pur non estraneo al sistema normativo, determini stasi del processo e l'impossibilit� 
di proseguirlo (sez. III -14 luglio 1995, P.M. c. Beggiato; sez. V -11 marzo 1994, 

P.M. c. Luchino). � 
In tali ipotesi non rientra di certo l'ordinanza del giudice del dibattimento che 
abbia dichiarato la nullit� del decreto che dispone il giudizio per mancata o 
insufficiente enunciazione del fatto contestato, e disposto la trasmissione degli atti 
al giudice per l'udienza preliminare, �per quanto di competenza�. 

Il provvedimento, �infatti, non � affetto da vizio alcuno, in procedendo o in 
iudicando; tanto meno il suo contenuto pu� definirsi talmente singolare da 
determinare una indebita regressione del procedimento o una stasi dello stesso. 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

540 

% 
i 
Esso, invece, � in piena coerenza con l'ordinamento processuale vigente. 
Ed invero, l'art. 429, comma 2, codice procedura penale espressamente prevede 


(::

la nullit� del decreto che dispone il giudizio �se manca o � insufficiente� �: 

l'indicazione del requisito previsto dal comma 1 lett. e): l'enunciazione del fatto, 
delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l'applicazione di 
misure di sicurezza, con l'indicazione dei relativi articoli di legge. 

L'art. 181, comma 3, codice procedura penale, a sua volta dispone che le nullit� 
concernenti il decreto che dispone il giudizio debbono essere eccepite entro il 
termine previsto dall'art. 491, comma 1. 

Quest'ultimo, infine, al comma 1, sancisce che le questioni preliminari sono 
precluse se non sono proposte subito dopo compiuto per la prima volta 
l'accertamento della costituzione delle parti e sono decise immediatamente; 
mentre al comma 5, precisa che sulle questioni preliminari il giudice decide con 
ordinanza. 

12.2. Tanto meno l'ordinanza impugnata pu� ritenersi abnorme per il suo 
contenuto, in particolare per avere disposto la trasmissione degli atti al giudice per 
le indagini preliminari, per quanto di sua competenza, previa formazione di un 
autonomo fascicolo processuale. 
Inconferente e comunque errato � il richiamo agli artt. 516, 517 codice 
procedura penale. 

Dalla mancata applicazione degli stessi anche nella ipotesi di dichiarata nullit� 
del decreto che dispone il giudizio per insufficiente enunciazione del fatto, non pu�, 
invero, arguirsi l'illegittima regressione del processo alla fase delle indagini 
preliminari, come affermato in talune sentenze di questa Corte (sez. III -21 febbraio 
1997, Piccoli; sez. II -8 novembre 1996, Borgna; sez. V -13 gennaio 1994, P.M. c. 
Marino) e sostenuto dal Procuratore Generale nella sua requisitoria scritta. 

Gli specifici mezzi processuali in essi previsti per stimolare l'iniziativa delle 
parti e superare cos� eventuali situazioni di stallo, senza far regredire il ,, 

procedimento alla fase precedente, non possono trovare applicazione anche in 
presenza di una ipotesi accusatoria asseritamente deficitaria o imprecisa. 

I

Occorre innanzi tutto sottolineare che la modifica dell'imputazione, secondo il 
chiaro dettato delle norme in esame, � consentita, infatti, �nel corso dell'istruzione 
dibattimentale�; in una fase cio� che implica il superamento di tutte le questioni di 

Iordine preliminare, tra le quali quella relativa alla eventuale nullit� del decreto che 
dispone il giudizio, dovendo questa essere eccepita, per non rimanere preclusa, e 
decisa, ex art. 491 codice procedura penale, prima della dichiarazione di apertura del 
dibattimento. 

In secondo luogo i casi che consentono al pubblico ministero di procedere alla 
modifica dell'imputazione sono nettamente distinti e per nulla assimilabili a quello 
che d� luogo alla nullit� del decreto che dispone il giudizio, per insufficiente 
indicazione del fatto, oggetto d'imputazione. 

Tanto basta ad escludere che si possa far ricorso alle disposizioni in esame per 
sanare la nullit� del decreto che dispone il giudizio, ove sia stata ritualmente dedotta, 
ed evitare cos� la regressione del processo �allo stato o grado in cui � stato compiuto 
l'atto nullo�, secondo il dettato dell'art. 185, cpv., codice procedura penale. 


PARTE I, SEZ. VI, GIURISPRUDENZA PENALE 

Ci� vale anche per il richiamo fatto agli artt. 506 e 507 codice procedura penale 
(sez. VI -8 marzo 1993, P.M. c. Presutti) che disciplinano i poteri del presidente in 
ordine all'assunzione delle prove in dibattimento considerato che gli stessi possono 
essere esercitati nel corso della istruzione dibattimentale. 

Di nessun pregio � poi il rilievo concernente l'individuazione del �giudice� 
funzionalmente competente a rinnovare il decreto dichiarato nullo, che il ricorrente 
indica hel �giudice dell'udienza preliminare�, in quanto organo giurisdizionale 
diverso da quello indicato nell'ordinanza. 

La distinzione tra �giudice per le indagini preliminari� (G.I.P.) e �giudice 
dell'udienza preliminare� (G.U.P.), sebbene corretta, non va oltre l'aspetto 
funzionale. Entrambi, infatti, pur nella peculiarit� delle funzioni loro 
rispettivamente attribuite, sono espressione dello stesso ufficio giudiziario, di 
quell'unico organo giurisdizionale monocratico, che il codice denomina �giudice 
per le indagini preliminari�, costituito all'interno degli uffici giudicanti (tribunale e 
pretura) -con il procedimento �tabellare� di cui all'art. 7-bis regio decreto 30 
gennaio 1941, n. 12 -istituzionalmente preposto, ex art. 328 codice procedura 
penale, a provvedere sulle specifiche richieste delle parti, tra le quali: la richiesta di 
rinvio a giudizio presentata dal pubblico ministero, a norma dell'art. 416 codice 
procedura penale. 

Ci� si evince chiaramente dal sistema delle disposizioni che disciplinano le 
indagini e l'udienza preliminare, contenuto nel libro V del codice di procedura 
penale. 

La norma che contempla il �giudice per le indagini preliminari� � collo�ata, 
infatti, nel titolo I, tra le disposizioni generali. Egli � pertanto il giudice �naturale� 
che deve intervenire nel corso ovvero alla chiusura delle indagini preliminari. 
Come previsto nel caso dell'udienza preliminare, disciplinata nel titolo IX, in 
relazione alla quale al �giudice� e stata attribuita una vera e propria competenza 
ad processum, funzionalmente ordinata al controllo sul corretto esercizio 
dell'azione penale. 

N� rileva che nell'elenco dei criteri e dei principi il punto 64 dell'art. 2 della 
legge di delega al Governo per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale 
(legge 16 febbraio 1987, n. 81), menzioni espressamente il �giudice dell'udienza 
preliminare�. 

Il legislatore delegante, con la direttiva in questione, si � limitato ad attribuire 
al medesimo il potere di disporre misure di coercizione personale, ma non ha inteso 
incidere affatto sulle modalit� organizzative del �giudice� deputato a provvedere 
sulle specifiche domande presentate dalle parti nel corso � alla chiusura delle 
indagini preliminari. Tant'� che nella direttiva in questione il �giudic.e dell'udienza 
preliminare� � menzionato insieme al �giudice del dibattimento�, ma non � stato 
mai contrapposto al �giudice per le indagini preliminari�, che peraltro il legislatore 
delegante ha sempre indicato con il semplice nome di �giudice�. 

Tanto basta a far ritenere manifestamente infondata la questione di 
legittimit� costituzionale �delle norme codicistiche che ignorano 
espressamente il giudice dell'udienza preliminare, non lo istituiscono, n� 
espressamente lo diversificano dal G.I.P.� per violazione dell'art. 76 Cost., in 
relazione alla direttiva n. 64 dell'art. 2 della legge delega n. 81, del 16 febbraio 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO._ 

542 


1987. E ci� proprio alla luce della giurisprudenza del giudice delle leggi che in 
pi� occasioni ha negato l'incompatibilit� a partecipare all'udienza preliminare 
del �giudice per le indagini preliminari� che abbia in precedenza disposto la 
misura cautelare personale nei confronti della persona sottoposta alle indagini 
(ordinanze n. 24/1996; 232/1996; 27911996; 333/1996; 410/1996; 26/1997) 
riconoscendo cos� che il �giudice dell'udienza preliminare�, pur nella 
peculiarit� delle funzioni ad esso attribuite, non � organo giurisdizionale 
distinto dal �giudice per le indagini preliminari�. Aggiungasi che la stessa 
Corte Costituzionale, nel dichiarare manifestamente infondata la questione di 
legittimit� costituzionale dell'art. 328, comma I-bis codice procedura penale, 
sollevata in riferimento all'art. 25, comma 1 Cost., ha indicato proprio nel 

�G.I.P. del tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il 
giudice competente� il magistrato competente a svolgere le funzioni di giudice 
dell'udienza preliminare per i procedimenti indicati nell'art. 51, comma 3-bis 
codice procedura penale (ordinanza n. 481195). E ci� per una serie di 
considerazioni che � opportuno qui richiamare: 
-la mancanza di una norma che preveda una �differente distribuzione della 
competenza per il medesimo organo in dipendenza delle funzioni ontologicamente 
diverse che l'ordinamento gli attribuisce nelle indagini e nell'udienza preliminare, 
fasi, queste, che, non a caso, il legislatore ha invece inteso correlare 
sistematicamente nell'ambito dello stesso libro V, con cui esordisce la parte seconda 
del codice di rito�; 

-la sussistenza, invece, di �alcune disposizioni dell'ordinamento 
giudiziario, come quella, che mira a privilegiare, nell'assegnazione degli affari, la 
'concentrazione' in capo allo stesso G.I.P. 'di tutti i provvedimenti relativi allo 
stesso procedimento', senza operare distinzioni di sorta a seconda della natura dei 
provvedimenti stessi (art. 7-ter); quella che stabilisce tabellarmente una apposita 
'sezione dei giudici singoli incaricati dei provvedimenti previsti dal codice di 
procedura penale per la fase delle indagini preliminari', prescindendo da qualsiasi 
peculiare previsione per il giudice chiamato a celebrare l'udienza preliminare (art. 
46); il differente regime -che dimostra quindi l'opposta regola -previsto per il 
processo minorile, ove sono devolute ad un organo a composizione collegiale, e, 
quindi, funzionalmente diverso, le attribuzioni relative alla fase dell'udienza 
preliminare (art. 50-bis); la disciplina, infine, dettata dall'art. 238 delle disposizioni 
di ordinamento del codice di rito, ove, nell'individuare ratione loci il G.I.P. nel 
caso di procedimenti relativi a reati di competenza della corte di assise, e pertanto 
il giudice davanti al quale deve svolgersi anche l'udienza preliminare, viene fatta 
espressamente salva proprio la previsione derogatoria introdotta, evidentemente 
non soltanto per le indagini preliminari, dall'art. 328 comma I-bis codice 
procedura penale�. 

12.3. Manifestamente errato � altres� il richiamo al pubblico ministero quale 
soggetto cui gli atti avrebbero dovuto essere trasmessi. Esso � privo di 
riferimenti normativi e contrasta inoltre con il chiaro dettato dell'art. 185, 
comma 3, copice procedura penale, che in tema di effetti della dichiarazione di 

-


PARTE I, SEZ. VI, GIURISPRUDENZA PENALE 

nullit� cos� recita: �la dichiarazione di nullit� comporta la regressione del 
procedimento allo stato o al grado in cui � stato compiuto l'atto nullo, salvo che 
sia diversamente stabilito�. 

Ci� significa che nell'ipotesi di dichiarazione di nullit� del decreto che dispone 
il giudizio il procedimento deve necessariamente regredire allo stato nel quale essa 
si � verificata: l'udienza preliminare, non rientrando nei poteri del giudice del 
dibattimento procedere alla rinnovazione dello stesso. E gli atti pertanto debbono 
essere trasmessi al giudice per le indagini preliminari perch� provveda alla 
rinnovazione dell'atto nullo previa fissazione dell'udienza, a norma degli artt. 418 e 
segg. codice procedura penale. 

12.4. N� basta invocare il principio della irretrattabilit� dell'azione penale, per 
far ritenere abnorme il provvedimento che dispone la trasmissione degli atti al 
giudice per le indagini preliminari. 
Le Sezioni Unite, proprio in tema di dichiarazione di nullit� del decreto di 
citazione a giudizio, con restituzione degli atti al P.M., pronunciata dal Pretore, 
hanno affermato che spetta al giudice del dibattimento provvedere alla 
rinnovazione dell'atto nullo (citazione a giudizio o relativa notificazione) ad 
esclusione dei casi nei quali vengano rilevate invalidit� o carenze incidenti sulla 
regolarit� della stessa costituzione del rapporto processuale attinente al giudizio 

(S.U. -18 giugno 1993, Garonzi). Ed hanno poi ribadito che la rinnovazione della 
citazione compete al giudice del dibattimento, tranne l'ipotesi in cui sia resa 
necessaria da una nullit� che ha impedito un valido passaggio dalla fase delle 
indagini preliminari a quella del giudizio: in quest'ultimo caso, al quale sono 
riconducibili anche la nullit� della notificazione del decreto di citazione a 
giudizio e l'inosservanza del termine per comparire di cui al comma 3 dell'art. 
555 codice procedura penale, l'invalidit� attiene ad un �atto propulsivo�, 
necessario, cio�, alla progressione del procedimento, � di talch�, risultando 
impedita la regolare costituzione del rapporto processuale, la rinnovazione del 
decreto non pu� che spettare al P.M. al quale, perci�, vanno restituiti gli atti (S.U. 
-24 marzo �1995, Cirulli). 
Assolutamente corretta si dimostra pertanto la trasmissione degli atti al giudice 
per le indagini preliminari perch� rinnovi il decreto che dispone il giudizio, poich� 
la sua nullit� investendo l'atto propulsivo ha impedito il passaggio dalla fase 
procedimentale a quella processuale. 

12.5. � da escludere poi che la regressione del processo alla fase precedente 
determini una stasi non altrimenti rimuovibile se non mediante il ricorso per 
cassazione, essendo il G.I.P. privo dei poteri necessari per far s� che il fatto 
enunciato nella richiesta di rinvio a giudizio venga compiutamente descritto dal 
pubblico ministero. 
Come � noto, il giudice delle leggi, con sentenza n. 88 del 1995, ha 
dichiarato non fondata la questione di legittimit� dell'art. 424 codice procedura 
penale �nella parte in cui non prevede che il G.I.P. possa, all'esito dell'udienza 
preliminare, trasmettere gli atti al pubblico ministero per descrivere il fatto 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

544 


diversamente da come ipotizzato nella richiesta di rinvio a giudizio�, sul rilievo 
che nulla vieta che alle modifiche dell'imputazione ritenute opportune il pubblico ~= 

I filministero possa essere sollecitato mediante un provvedimento del giudice, il 
quale, ravvisando l'emergere di fatti diversi da quelli contestati, lo inviti 
espressamente a tali adempimenti. Provvedimento questo non solo pienamente 
coerente con la necessit� di correlare sempre l'imputazione a quanto di diverso 

pu� emergere nell'udienza preliminare ma doveroso anche ai fini del rispetto del 
diritto di difesa. 

Senza considerare poi che il giudice, nell'inerzia del pubblico Ministero, 
pu� ben apportare al fatto nei limiti enunciati nella richiesta di rinvio a giudizio 
tutte le precisazioni che si rendano necessarie, considerato che il decreto che 
dispone il giudizio deve contenere, a norma dell'art. 429 lett. d) codice 
procedura penale, l'indicazione sommaria delle fonti di prova e dei fatti cui essi 
si riferiscono. 

12.6. Per ragioni di completezza mette conto osservare che nella ipotesi di 
nullit� del decreto di citazione a giudizio dichiarata, ex art. 555 codice procedura 
penale, gli atti dovranno invece essere trasmessi al pubblico ministero, essendo suo 
compito rinnovare l'atto nullo, considerato che nel giudizio pretorile, mancando 
l'udienza preliminare, il decreto di citazione a giudizio � atto del pubblico 
ministero. 
12.7. Occorre infine brevemente sottolineare che il provvedimento che dispone 
la trasmissione degli atti al G.I.P., in conseguenza della dichiarazione di nullit� del 
decreto che ha disposto il giudizio, secondo la giurisprudenza di questa Corte non � 
suscettibile di doglianza immediata ed incidentale, ed � pertanto inoppugnabile, 
poich� non assume natura decisoria e si concretizza in mero impulso processuale 
strumentale non lesivo dei diritti delle parti, che bene potranno esplicarsi nelle sedi 
previste (sez. VI, 21 settembre 1994, P.M. e/De Stefano; sez. I -8 marzo 1994, 
Curcas, m. CED 196645; sez. I -3 febbraio 1994, Dell'Ara, m. CED 196229; sez. 
m. CED 191371). 
12.8. Esclusa, pertanto, l'abnormit� dell'ordinanza impugnata i ricorsi vanno 
dichiarati inammissibili, a norma dell'art. 591, comma 1, lett. b), codice procedura 
penale avverso un provvedimento non impugnabile (omissis). 
TRIBUNALE DI BRINDISI, G.I.P., decreto 17 novembre 1998 -Buonfrate imputato 
F. L. (avv. Stato di Tarsia di Belmonte e Gustapane). 

I 

Procedimento penale -Giudizio immediato -Richiesta dell'imputato -Poteri 

del G.I.P. -Riunione e separazione dei processi -Interesse dell'imputato 

alla rinuncia all'udienza preliminare -Prevalenza. 

(Art. 18, 419, 453 e 455 cod. proc. pen.). 


PARTE I, SEZ. VI, GIURISPRUDENZA PENALE 

545 

Il giudice delle indagini preliminari cui sia stata presentata da un imputato, 
sia pur in un processo contro pi� imputati, la richiesta di giudizio immediato, 
pu� solo prenderne atto e disporre in conseguenza, dovendosi ritenere 
prevalente l'interesse dello stesso ad una pronta celebrazione del dibattimento 
sull'interesse ad una valutazione unitaria in uno stesso giudizio delle posizioni 
connesse (1). � 

(omissis) 

Il Giudice Dott. Gaetano Buonfrate letti gli atti ed esaminata la rinuncia 
all'udienza preliminare e la richiesta di giudizio immediato: 

(omissis) ritenuto che questo Ufficio debba solo prendere atto della rinuncia 
di cui innanzi -sia pure intervenuta in un procedimento con pi� imputati -in 

(1) Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Brindisi ha cos� accolto la 
richiesta di giudizio immediato presentato a norma degli articoli 419, 5 comma e 453, II 
comma del codice procedura penale da un imputato per un reato che, secondo l'accusa, 
sarebbe stato commesso in cooperazione con altri e per i quali il P.M. aveva chiesto il rinvio 
a giudizio. 
La conseguenza dell'accoglimento della richiesta avanzata dall'interessato comporta quindi 
la separazione dei giudizi. 

Il decreto presenta profili di interesse perch� individua sostanzialmente nella facolt� 
riconosciuta dal codice di rito all'imputato un diritto potestativo, di fronte al quale il G.I.P. � 
sprovvisto di qualsiasi potere discrezionale, dovendosi limitare a prenderne atto ed a fissare 
l'udienza del dibattimento innanzi al Tribunale. 

Per giungere a tale condivisibile decisione il G.I.P. attribuisce alle norme che prevedono 
l'istituto in esame una autonoma valenza rispetto all'analoga facolt� riconosciuta dall'art. 453 
comma 1, codice procedura penale al Pubblico Ministero e, richiamando l'attenzione sul 
riferimento al solo art. 419 codice procedura penale, comma 5, contenuto nel comma 3 dell'art. 
453, ravvisa esattamente nel nostro sistema processuale due diversi istituti, che hanno in comune 
soltanto l'eff~tto di evitare la fase dell'udienza preliminare, ma che sono diversi quanto a 
presupposti e poteri riconosciuti al G.I.P. 

La richiesta di giudizio immediato avanzata dal P.M. deve avere come necessario 
presupposto una previa valutazione di evidenza della prova; ci� incide talmente nella 
funzione di vaglio della fondatezza dell'accusa che il legislatore ha voluto attribuire al 
G.I.P., che sarebbe stato quanto meno incoerente sottrarre al G.I.P. stesso quel potere di 
rigettare la richiesta del P.M., riconosciuto dall'art. 455 codice procedura penale proprio al 
fine di garantire che al Tribunale arrivino soltanto accuse degne dell'accertamento 
dibattimentale. 

Nel caso invece della richiesta avanzata dall'imputato tale cautela, che in sostanza 
costituisce un controllo della seriet� dell'esercizio dell'azione penale, non ricorre e non vi sarebbe 
perci� ragione di riconoscere al G.I.P. il potere di negare all'imputato il giudizio immediato. 
L'interpretazione perci� che sembra doversi condividere dell'art. 455 codice procedura penale � 
quella restrittiva, che limita la possibilit� di rigetto della richiesta di giudizio immediato alla sola 
ipotesi che sia stata avanzata dal P.M. 

La correlata affermazione di prevalenza dell'interesse dell'imputato alla pi� celere 
decisione dibattimentale sull'interesse processuale alla riunione dei giudizi ha anch'essa 
valide motivazioni. Da un lato infatti il controllo del G.I.P., che � sotteso al potere 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

546 

quanto l'art. 453, ultimo comma, codice di procedura penale disciplina la richiesta 
dell'imputato di giudizio immediato richiamando solo la norma di cui all'art. 419, 
comma 5, codice procedura penale e non anche i commi l 0 e 2� dello stesso art. 453 
codice procedura penale; 

ritenuto, quindi che per il codice sia in ogni caso, nell'ipotesi della rinuncia 
in esame all'udienza preliminare, prevalente l'interesse dell'imputato ad una pronta 
celebrazione del dibattimento sull'interesse alla valutazione unitaria nel corso del 
giudizio di tutte le posizioni connesse; 

ritenuto che di tale orientamento costituisca riprova la normativa tutta di cui 
all'art. 18 codice procedura penale sulla separazione di processi che, in 
particolare, all'udienza preliminare � facolt� del giudice di stralciare quelle 
posizioni, fin'anche quei capi d'imputazione per i quali � necessario acquisire 
ulteriori informazioni a norma dell'art. 422 codice procedura penale (omissis). 
Dispone procedersi previo stralcio degli atti con giudizio immediato nei confronti 
di F. L. (omissis). 

riconosciutogli dall'art. 455 codice procedura penale, non pu� essere applicato aJla richiesta 
dell'imputato, che altrimenti verrebbe leso il diritto di questi di vedersi assolto con una sentenza 
irrevocabile e non con una sentenza �allo stato degli atti� qual'� quella di non luogo a procedere 
che potrebbe essere emanata dal G.U.P. N� d'altro canto il legislatore ha ritenuto immeritevole 
di tutela la scelta dell'imputato di ottenere, attraverso la richiesta di giudizio immediato, il pi� 
autorevole ed approfondito accertamento della sua innocenza rispetto a quello ottenibile con il 
giudizio abbreviato, senza contare, in questa seconda ipotesi, le pi� ridotte possibilit� 
d'impugnazione, ove l'esito finale sia difforme dalle sue aspettative. Sono, questi tutti, gli 
strumenti con i quali il legislatore ha ritenuto di articolare l'esercizio dello ius libertatis. 

Da un altro lato l'inesistenza nel nostro sistema processuale penale della pregiudizialit� (nel 
senso, ben noto, che la condanna o l'assoluzione di un imputato non precludono la assoluzione o 
rispettivamente la condanna del o dei coimputati per lo stesso fatto; cio� il legislatore non ha 
voluto impedire -in ossequio al principio del libero convincimento del giudice -la 
contraddittoriet� logica dei giudicati) comporta necessariamente l'inesistenza di un obbligo del 
�.simultaneus processus� (in diritto processuale penale l'istituto delle cause inscindibili � 
sconosciuto). Riunione e separazione dei giudizi corrispondono, perci�, a poteri discrezionali, che 
fanno capo a valutazioni di opportunit�, non di obbligo. � 

� da tener presente peraltro che la Cassazione, sia pur affrontando il problema sotto la 
diversa prospettiva dell'impugnabilit� del provvedimento con il quale il G.I.P. ha talvolta 
rigettato la richiesta all'imputato di giudizio immediato (negandola, per il principio di 
tassativit� delle impugnazioni e asserendo che il provvedimento di rigetto non � 
caratterizzato da abnormit�), ha affermato che l'art. 455 consente al giudice per le indagini 
preliminari di emettere decreto di diniego di giudizio immediato ancorch� all'evidenza per 
motivi diversi dalla mancanza dei presupposti e delle condizioni cui � subordinata la 
richiesta del pubblico ministero e che la celebrazione dell'udienza preliminare 1si 
risolverebbe a vantaggio dell'imputato, a garanzia del quale tale udienza � stata prevista dal 
codice di rito in ossequio al modello accusatorio (Cass., VI, 14 maggio 1992 n. 1035, 
Pandolfo; I, 1� ottobre 1994 n. 3524, Boni; V, 12 luglio 1995 n. 1740, D'Alessandro; VI, 17 
aprile 1996 n. 00883, Cabras). 

P.d.T. 

PARTE I, SEZ. VI, GIURISPRUDENZA PENALE 

547 

TRIBUNALE DI ROMA, sez. IV, ordinanza 27 novembre 1998 -Pres. Catenacci 

-P.M. Pititto -Imp. Badini ed altri p.c. Ministeri Affari Esteri, Tesoro e Finanze 

(avv. Stato di Tarsia di Belmonte). 

Giudizio penale -Avvocatura dello Stato -Costituzione di parte civile per 

l'Amministrazione -Manifestazione esplicita della volont� di esercitare la 

pretesa risarcitoria prova -Non � richiesta (1). 

(Art. 122 cod. proc. pen.; art. 1 regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611). 

Giudizio penale -Udienza preliminare -Costituzione di parte civile -Termine 
-Non sussiste {2). 
(Art. 79, 421 e 484 cod. proc. pen.). 

(1) L'ordinanza che si annota � conforme alla normativa applicabile ed alla natura dei 
rapporti Avvocatura-Amministrazione. In giurisprudenza, sia ordinaria che amministrativa, ci� 
costituisce communis opinio, con l'unica eccezione della sentenza 17 giugno 1995, n. 6980 della 
IV Sez. penale della Cassazione, che � rimasta isolata, pubblicata in questa Rassegna, 1995, I, 
305 con ampia nota critica (W. FERRANTE: Parte civile: procura speciale anche per le 
amministrazioni statali?). 
Come � noto, l'insussistenza della necessit� di produzione del mandato speciale trova il suo 
fondamento normativo nell'art. 1, comma 2 del regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, in base al 
quale gli avvocati dello Stato esercitano le loro funzioni innanzi a tutte le giurisdizioni ed in 
qualunque sede e non hanno bisogno di mandato, neppure nei casi in cui le norme ordinarie 
richiedono il mandato speciale, bastando che consti della loro qualit�. 

La ratio di tale disciplina risiede nel fatto che la relazione che intercorre tra Amministrazione 
e Avvocatura dello Stato -inquadrata organicamente nell'ambito della Presidenza del Consiglio 
dei Ministri -non si configura come una relazione intersoggettiva, in quanto si riferisce a due 
organi appartenenti alla medesima persona giuridica, appunto lo Stato -soggetto. 

Il legislatore ha infatti scelto di affidare la rappresentanza e la difesa in giudizio delle 
ammin;strazioni statali ad un organo tecnico deputato a valutare ed a tutelare in maniera uniforme 
gli interessi dello Stato, proprio in virt� del suo stesso inserimento nell'apparato statale. 

Ricorrehdo pertanto una sorta di immedesimazione organica tra la parte e il suo difensore, 
viene meno la necessit� di distinguere la volont� dell'amministrazione da quella manifestata 
dall'Avvocatura dello Stato, posto che ogni eventuale discordanza potr� al pi� assumere una 
rilevanza meramente interna. 

Ci� detto, verso l'esterno, e quindi ai fini della regolarit� del processo, vale la norma 
dell'art. 1, comma 2 regio decreto 1611/1933, in base alla quale l'Avvocatura dello Stato 
rappresenta ed impegna l'amministrazione senza bisogno di alcun mandato, sicch� n� la 
controparte, n� il giudice possono rilevare una eventuale irregolarit� di comportamento 
dell'Avvocatura dello Stato che avesse, in ipotesi, iniziato una lite, rinunziato ad essa o proposto 
un gravame in dissenso con l'Amministrazione. 

Sotto questo profilo, non � nemmeno esatta la riserva contenuta nell'ultima parte 
dell'ordinanza che si annota, poich� non sembra che il giudice ordinario possa decidere su un 
eventuale dissenso fra Avvocatura e Amministrazione, proprio perch� si tratta di rapporti interni 
e di conflitti la cui soluzione � demandata alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, salvo, 
semmai, il ricorso al giudice amministrativo. 

(2) La giurisprudenza sul punto � altalenante, essendosi talvolta sostenuto che la 
costituzione di parte civile, avvenuta successivamente all'inizio della discussione dell'udienza 

RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO ..

548 


(omissis). 

Una prima eccezione riguarda l'asserita carenza dei requisiti per l'esercizio f: 
dell'azione civile nel processo penale, non avendo l'Avvocatura dello Stato 
documentato in alcun modo la volont� della P.A. di esercitare la pretesa risarcitoria. 

I

Giova a questo proposito rilevare che l'art. 76 codice procedura penale prevede che 
l'azione civile nel processo penale � esercitata, anche a mezzo di procuratore 
speciale, mediante la costituzione di parte civile. La procura ai fini della 
costituzione deve essere normalmente rilasciata, a pena di inammissibilit�, con atto 
pubblico o con scrittura privata autenticata, ai sensi dell'art. 122 codice procedura 

IIpenale. Per le amministrazioni dello Stato, tuttavia, l'art. 1 del regio decreto 
30 ottobre 1933 n. 1611 prevede che la rappresentanza, il patrocinio e l'assistenza 
in giudizio spettano all'Avvocatura dello Stato. Tale potere-dovere 
dell'Avvocatura, che non � limitato alla semplice assistenza legale, ma � esteso alla 
rappresentanza in giudizio, rende inutile il rilascio di una espressa procura da parte 
della P.A. con le modalit� sopra descritte, essendo ricompreso nei poteri di 
rappresentanza anche quello di manifestare nell'ambito processuale la volont� 
dello Stato di costituirsi parte civile. Cosicch� il consenso delle amministrazioni, 
comunque realizzatosi, deve considerarsi un atto a rilevanza meramente interna, 
senza alcuna incidenza sul processo, salva naturalmente l'ipotesi di una 
documentata volont� in senso contrario (omissis). 

I 

iI& 
,'

~;

(omissis). 

Quanto infine alla asserita tardivit� della costituzione di parte civile perch� 
avvenuta dinanzi al G.I.P. successivamente agli accertamenti relativi alla 
costituzione delle parti e non riproposta in sede dibattimentale, rileva il Collegio 
che, a norma dell'art. 79 codice procedura penale, la costituzione pu� avvenire per 
l'udienza preliminare e, successivamente, fino a che non siano compiuti gli 
adempimenti previsti dall'art. 484 codice procedura penale. ~er l'udienza 

I 

preliminare non � indicato quindi alcun termine finale, tanto � vero che la 
costituzione pu� aver luogo anche successivamente in dibattimento. Del resto, 

preliminare, � inammissibile, in quanto essa pu� avvenire solo fino a che non siano conclusi gli 
accertamenti relativi alla costituzione delle parti (G.l.P. Venezia l 0 agosto 1996 in Foro Jt., Rep. 
1997 con Parte civile n. 21). 

Per quanto attiene l'ipotesi del giudizio abbreviato, � stato sostenuto che � ammissibile 
la costituzione di parte civile nel giudizio abbreviato anche nel caso in cui la costituzione 
stessa sia stata precedentemente dichiarata inammissibile dal G.l.P. in sede di udienza 
preliminare, prima della richiesta di giudizio abbreviato, per irregolarit� della stessa, posto 
che la norma di cui all'art. 80, comma 5, codice procedura penale, che consente la 
riproposizione della costituzione nella fase predibattimentale in cui il presidente accerta la 
regolare costituzione delle parti ex art. 484 codice procedura penale, deve essere interpretata 
estensivamente, nel senso di consentire la nuova costituzione anche sino a che il G.1.P. non 
abbia accertato la regolare costituzione delle parti nel corso del giudizio abbreviato di primo 
grado (G.l.P. Chieti l 0 ottobre 1993 in Foro It., Rep. 1995, voce udienza preliminare, n. 66). 

M.B. 

PARTE I, SEZ. VI, GIURISPRUDENZA PENALE 

anche qualora volesse ritenersi che tale adempimento non possa avvenire oltre il 
momento conclusivo degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti, � certo 
che tale momento non pu� non coincidere con quello nel quale il giudice dichiara 
aperta la discussione, a norma dell'art. 421, comma 1 codice procedura penale. Ed 
anche in tal caso la costituzione dei Ministeri sarebbe stata tempestiva. 

Infatti, dalla lettura dei verbali di udienza preliminare trasmessi in copia dal 

P.M. ai fini della decisione su questa eccezione, si evince che alla prima udienza del 
20 marzo 1996 furono solo rilevate talune irritualit� degli avvisi ai difensori, per 
sanare le quali si rese necessario un rinvio. Nella udienza successiva dell' 11 aprile 
1996 alcuni imputati richiesero i riti alternativi, sui quali il P.M., tenuto conto della 
complessit� delle contestazioni, si riserv� di esprimere un parere. L'udienza fu 
quindi rinviata al 29 maggio 1996 e in essa, subito dopo che il P.M. aveva espresso 
il diniego ai riti alternativi richiesti, i Ministeri sopra indicati si costituirono parte 
civile. Ad essa si opposero alcuni difensori degli imputati, ma le eccezioni sollevate 
furono rigettate dal G.I.P., con motivazione non conosciuta dal Collegio perch� 
riportata solo sulla trascrizione dell'udienza che non � stata trasmessa unitamente ai 
verbali (omissis). 

. -~ �--.~ 

' 

................... 



PARTE SECONDA 



RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 


LO STATO AUTONOMISTA . Funzioni statali, regionali e locali nel decreto 
legislativo n. 112 del 1998 di attuazione della legge Bassanini n. 59 del 1997. 
Commento a cura di GIANDOMENICO FALCON con la collaborazione di Marco Cammelli, 
Francesco Merloni, Giorgio Pastori, Luisa Torchia. Soc. ed. il Mulino, 
Bologna, 1998. 

Il volume collettaneo a cura di Giandomenico Falcon, pubblicato all'indomani 
della emanazione del decreto legislativo n. 112 di attuazione del Capo I della legge 
�Bassanini� n. 59 del 1997, contiene un accurato commento, articolo per articolo, 
del provvedimento legislativo. 

Il lavoro si presentava certamente arduo sia per le difficolt� derivanti dall'accentuata 
analiticit� del decreto (conseguente alla necessit� imposta dall'art. 3 della 
legge delega di individuare tassativamente le funzioni e i compiti da mantenere in 
capo alle amministrazioni statali nonch� quelli da conferire alle regioni ed agli enti 
locali), sia per il delicato compito di confrontare -risalendo dal particolare al generale 
-le singole norme con l'economia complessiva del decreto ed i principi direttivi 
contenuti nella legge delega. 

A ci� si aggiunga il pregio della tempestivit� della edizione che avviene ad 
appena due mesi dalla pubblicazione del decreto delegato sulla Gazzetta Ufficiale, 
grazie -per ripetere le parole del direttore del commentario -alla �disponibilit� 
ed all'entusiasmo� degli autori ed all'efficace �opera di organizzazione� dei collaboratori. 
Si sa come -in tempi in cui le leggi si susseguono ad un ritmo vertiginoso 
e disordinato -la prontezza di una lettura critica della dottrina sia di grande 
ausilio per l'operatore. 

Sul decreto legislativo appena varato, molti lumi vengono fomiti dal commento, 
a partire dal titolo. � noto come la legge n. 59/1997 fu accompagnata dal clamore 
intorno al concetto di �federalismo amministrativo a costituzione invariata� alla 
cui realizzazione pareva che essa si ispirasse. Ci� -con ogni probabilit� -in 
quanto la riforma giungeva mentre si svolgevano i lavori della Commissione bicamerale, 
in una prospettiva di revisione della carta Costituzionale verso il raggiungimento 
di una nuova forma di governo dello Stato in senso federale. Non � qui il caso 
di analizzare le ragioni per le quali la Commissione bicamerale non sia approdata a 
dei risultati. Certo �, tuttavia, che se la prima delle �leggi Bassanini� si fosse effettivamente 
posta nell'ottica anticipatoria dello Stato federale dovrebbe ora considerarsi 
di dubbia costituzionalit�. Ma ci�, come evidenzia il titolo del commento, non 
�. Vero �, infatti, che l'assetto creato dalla legge delega e dal decreto attuativo �, 
secondo gli autori, quello autonomistico, finalizzato cio� alla valorizzazione ed al 
potenziamento del principio di autonomia insito nella logica costituzionale ed 
espresso nell'art. 5 della Costituzione. 

Tuttavia, come non tralascia di considerare l'autorevole commentatore dell'art. 
5 del decreto legislativo, l'attribuzione di poteri sostitutivi in caso di accertata inerzia 
da parte delle regioni e degli enti locali esercitati dal Commissario ad acta nominato 
dal Consiglio dei Ministri (o, nei casi di assoluta urgenza, dallo stesso Consi




RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO .

22 

glio dei Ministri su proposta del Presidente del Consiglio di concerto con il Ministro 
competente) non potrebbe a rigore che giustificarsi in base ad una ispirazione federalista, 
diversamente mal conciliandosi con un ordinamento costituzionale, come 
quello attuale, fondato sul principio della netta separazione dei livelli istituzionali e 
sulla tutela costituzionale delle autonomie. 

La soluzione proposta per superare l'impasse fa capo al primo dei principi fondamentali 
fissati dall'art. 4, comma 3 della legge delega quali direttive che il governo 
deve osservare per il conferimento delle funzioni alle regioni ed agli enti locali, 
il principio di sussidiariet�. 

Esso � realizzato, secondo il legislatore, attraverso l'�attribuzione della generalit� 
dei compiti e delle funzioni amministrative ai comuni, alle province ed alle 
comunit� montane, secondo le rispettive dimensioni territoriali, associative e 
organizzative, con l'esclusione delle funzioni incompatibili con le dimensioni 
medesime ...... � . 

Aderendo ad una scelta di ripartizione delle funzioni che trova, di recente, la sua 
piena affermazione nell'art. 3 B, paragrafo 2 del Trattato di Maastricht (secondo cui 
nelle materie che non rientrino nella sua competenza esclusiva la Comunit� pu� 
intervenire soltanto e nella misura in cui gli obiettivi prefissati non possono essere 
soddisfacentemente conseguiti dagli Stati Membri) il legislatore si discosta dal tradizionale 
criterio fondato sull'assegnazione di specifiche competenze agli enti locali, 
preferendo optare per l'avvicinamento dello svolgimento in via generafe dei compiti 
dell'amministrazione ai soggetti territorialmente interessati e, solo in via 
sussidiaria, per l'attribuzione ad enti pi� �lontani� (Regioni rispetto agli enti locali; 
Stato rispetto alle Regioni). 

La tesi sostenuta nel commento � che il principio di sussidiariet� introdurrebbe 
una flessibilit� inedita nel nostro ordinamento, fondata sul concetto di localizzazione, 
in virt� del quale non � tanto lo Stato -contrapposto alle autonomie -ad agire, 
sostituendosi (con i dubbi di legittimit� costituzionale di cui si diceva) ad essa, bens� 
� il �centro� -costituito non dai Ministeri ma dalla Presidenza del Consiglio, in 
posizione intermedia tra Stato e autonomia, e dalle sedi di cooperazione (Conferenza 
permanente per i rapporti tra lo stato, le regioni e le province autonome di Trento 
e Bolzano) -ad intervenire in via sussidiaria a causa dell'inerzia delle autorit� 
locali. Il che tuttavia non darebbe una soluzione definitiva al problema, inponendosi, 
secondo l'Autore, una riforma della Carta costituzionale. 

Conferma la tesi autonomistica del decreto delegato (e della stessa legge delega) 
la definizione del suo oggetto contenuta nell'art. 1 quale conferimento di funzioni 
e compiti amministrativi alle regioni ed agli altri enti locali, ivi comprese le 
funzioni di organizzazione e le attivit� ad essi connesse e strumentali. 

Il meccanismo delineato � quello della dismissione di funzioni amministrative 
dal centro alla periferia indicata con il termine di �conferimento�. 
Come chiarisce l'art. 1 della legge 59/97, il conferimento comprende il �trasferimento, 
delega o attribuzione di funzioni e compiti�. 

Escluso il caso in cui il legislatore definisce come �delegate� le competenze 
attribuite alle regioni (vedi, ad esempio l'art. 19 comma 1 in materia di funzioni 
amministrative statali concernenti la materia dell'industria) con il termine �conferimento
� si allude ad un generale trasferimento in cui, come si � visto, � compresa 



PARTE Il, RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 

anche la delega -la cui precisa portata rimane oscura, ricadendo sull'interprete il 
compito di attribuirvi il significato pi� aderente con gli articoli 5, 118 e 128 della 
Costituzione. Sottolinea l'autrice del commento dell'art. 1 del decreto che l'istituto 
del conferimento va letto in relazione ai quattro principi sanciti dalla legge delega 
di generalit�, di organicit�, di coerenza e di univocit�. Il principio di generalit� del 
conferimento si articola nella individuazione dei soggetti destinatari del conferimento 
e delle materie per le quali il conferimento opera; il principio di organicit� 
comporta l'esplicitazione dei poteri degli enti destinatari delle funzioni e dei compiti 
conferiti; il principio di coerenza, in stretta relazione con l'art. 2 della legge n. 
59/97, postula in ogni caso il potere della Regione o dell'ente locale di disciplinare 
l'organizzazione e lo svolgimento delle funzioni; il principio di univocit� del conferimento 
assicura l'intangibilit� e l'irretrattabilit� delle funzioni e dei compiti attribuiti 
a regioni o enti locali, sicch� � consentito che essi passino dal centro alle periferie, 
ma non viceversa. 

Quanto al �metodo� dell'impianto legislativo, non pu� non rilevarsi come 
l' affermazione piena del principio di sussidiariet�, cos� come enunciato in via 
generale nell'art. 1 comma 2 della legge delega, avrebbe dovuto condurre nelle 
sue estreme conseguenze ad escludere un analitico conferimento di compiti, allo 
Stato da una parte ed alle Regioni ed agli enti locali. 

Invece, l'art. 3 della legge 59 comporta per il legislatore delegato l'obbligo di 
individuare tassativamente le funzioni ed i compiti da mantenere in capo alle amministrazioni 
statali e di indicare, nell'ambito di ciascuna materia, quelli da conferire 
alle regioni o agli enti locali, nonch� i criteri di conseguente e contestuale attribuzione 
e ripartizione tra le regioni, e tra queste e gli enti locali, dei beni e delle risorse 
finanziarie, umane, strumentali e organizzative. 

L'impegnativa opera di classificazione che ne � derivata -il decreto legislativo 
n. 112 -� sviluppata in quattro settori (sviluppo economico ed attivit� produttive; 
territorio ambiente e infrastrutture; servizi alla persona e alla comunit�; 
polizia amministrativa regionale e locale e regime autorizzatorio ), suddivisi in ben 
trentuno materie, dove -come era prevedibile -gli abili commentatori non 
hanno man�ato di rilevare problematiche questioni interpretative, il pi� delle volte 
superando contraddizioni del testo normativo attraverso il ricorso ad argomenti 
sistematici. 

Nel commentare le varie norme gli autori hanno di volta in volta posto in rilievo 
i principi fondamentali che le ispirano. 

Scorrendo gli elenchi delle funzioni e dei compiti da mantenere allo Stato, si 
� osservato come dal decreto emerga il disegno di un'amministrazione centrale 
che, venuto meno il senso della sopravvivenza di organi periferici, � deputata 
all'esercizio di poteri di carattere generale inerenti alla rappresentanza internazionale, 
all'indirizzo ed al coordinamento, ai controlli sostitutivi, alla normazione 
generale e tecnica, mentre � limitata al minimo nello svolgimento di funzioni operative, 
con la sola eccezione, per il richiamato principio di sussidiariet�, di quelle 
non localizzabili ad un livello territoriale inferiore ovvero rispondenti ad un interesse 
di rilievo nazionale. 

Quanto ai compiti di pianificazione, il decreto dispone la soppressione di funzioni 
statali pianificatorie (si veda, a mo' di esempio, l'art. 53 sulle attribuzioni del 


RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO

24 

Ministero Lavori Pubblici in materia di piani territoriali di coordinamento, l'art. 76 
comportante la soppressione del programma biennale per le aree naturali protette, 
l'art. 79 che sopprime molti piani in materia di inquinamento delle acque, l'art. 82 
che sopprime il piano di tutela della qualit� dell'aria), in quanto -come osservato 
dagli autori -funzioni mai esercitate dalle amministrazioni statali competenti 

o di mero coordinamento dei piani regionali, ovvero conferisce la pianificazione di 
settore alle regioni (si veda l'art. 57 riguardante la pianificazione territoriale di 
coordinamento). 
E' nella logica della legge Bassanini sopprimere funzioni e compiti divenuti 
superflui (art. 4, comma 3, lett. e)) e mantenere allo Stato una generale funzione di 
indirizzo e coordinamento delle funzioni amministrative regionali (art. 8). 

Se, in linea di principio, la logica ispiratrice del decreto � dunque quella della 
ripartizione dei compiti tra Stato e Regioni secondo i criteri indicati, opportunamente 
si segnala dagli autori la disciplina di una materia in cui sulla ripartizione prevale 
l'aspetto della collaborazione tra centro ed autonomie. 

Nel settore dei beni e delle attivit� culturali il legislatore muove dalla mutata 
concezione (rispetto alla legge del 1939) dell'intervento pubblico, non pi� come 
esclusivamente finalizzato alla conservazione fisica del bene culturale, ma come 
proiettato alla valorizzazione della sua funzione sociale (in cui rientra anche la definizione 
dell'identit� della collettivit� locale) ed alla gestione, per la migliore fruizione 
collettiva. 

Da questa duplice prospettiva del bene culturale nasce l'esigenza di collaborazione 
tra organi centrali -deputati alla tutela ai sensi della legge 1089 -ed enti 
locali -deputati alla valorizzazione e gestione -secondo il principio di �leale 
cooperazione� pi� volte sancito dalla Corte Costituzionale. 

Di particolare interesse �, inoltre il commento in materia di istruzione scolastica. 
Il decreto si limita a disciplinare la programmazione e la gestione amministrativa 
del servizio scolastico, lasciando fuori il vero e proprio servizio di istruzione, 
oggetto di trasferimento alle istituzioni scolastiche ai sensi dell'art. 21 della legge n. 
59/97 (c.d. autonomia scolastica). 

L'.aver separato l'istruzione dalla sua amministrazione �, invero, una scelta difficilmente 
condivisibile, atteso che, come osservato dall'autorevole commentatore, 
�la riforma del sistema di istruzione si incrocia con quella del sistema amministrativo 
del paese�. 

Tanto avrebbe suggerito l'adozione, se non in un'unica sede legislativa, almeno 
in via contemporanea della disciplina dell'autonomia scolastica del trasferimento 
delle funzioni amministrative (1 ). 

Di questo, come di tutti gli altri aspetti problematici del decreto, si tiene debito 
conto nel volume, non senza, in tutti i casi, avanzare una proposta risolutiva. 

FRANCESCA QUADRI 

(1) L'autonomia scolastica prevista dall'art. 21 della legge n. 59/97 ha trovato definitiva 
attuazione a seguito dell'approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, nella seduta del 
25.2.1999, del relativo regolamento. 

OSSERVATORIO LEGISLATIVO 


1998 

AGRICOLTURA. Con legge 15 dicembre 1998 n. 441 (Gazzetta Ufficiale 298) 
sono state dettate norme per la diffusione e la valorizzazione dell'imprenditoria giovanile 
in agricoltura, essenzialmente basate su agevolazioni fiscali. 

ALIMENTI E BEVANDE. Con decreto legge15 giugno 1998 n 182 (Gazzetta Ufficiale 
138), conv. in legge 3 agosto 1998 n. 276 (Gazzetta Ufficiale 187), sono state 
emanate modifiche alla normativa in materia di accertamenti sulla produzione lattiera, 
anche al fine di regolare il problema delle c.d. quote-latte in attuazione delle 
disposizioni comunitarie. 

AMMINISTRAZIONE DELLO STATO E DEGLI ENTI PUBBLICI IN GENERE. � stato pubblicato 
(Gazzetta Ufficiale 119, suppl. ord.) il testo aggiornato del decreto legislativo 3 
febbraio 1993 n. 29, sulla privatizzazione del pubblico impiego, dopo le ultime modifiche 
apportate con il decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 80 (Gazzetta Ufficiale 82, 
suppl. ord.), ripubblicato nello stesso numero della Gazzetta Ufficiale, preceduto da un 
Avviso di rettifica (Gazzetta Ufficiale 117) e seguito dalla Circolare Min. interno 7 
maggio 1998 n. 2/98 (Gazzetta Ufficiale 121) sulla applicazione dell'art. 417-bis, terzo 
comma, codice di procedura civile, come introdotto dall'art. 42 del decreto legislativo 
31 marzo 1998 n. 80; in particolare, si segnalano le modifiche e integrazioni apportate 
agli art. 68 (Controversie relative ai rapporti di lavoro), 68-bis (Accertamento pregiudiziale 
sul!' efficacia, validit� ed interpretazione dei contratti collettivi), 69 (Tentativo 
obbligatorio di conciliazione delle controversie individuali) e 69-bis (Collegio di conciliazione) 
del decreto legislativo 29/1993, con modifica anche delle corrispondenti 
norme del codice di procedura civile (art. 410, 410-bis, 412, 412-bis, 412-ter, 412-quater, 
413, 415 e 417-bis) e valenza per tutti i rapporti di lavoro dipendente, pubblici e 
privati; i nuovi art. 413, 415 e 417-bis regolano le controversie relative ai rapporti di 
lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, escludendo l'applicazione del 
foro dello Stato e legittimando le stesse amministrazioni a stare in giudizio avvalendosi 
di propri funzionari, previa delibazione dell'Avvocatura dello Stato per le amministrazioni 
statali (agli enti locali � data facolt� di utilizzare le strutture del Ministero dell'interno); 
con il decreto legislativo 80/1998 (emanato in attuazione della delega di cui 
all'art. 11, 4�comma, legge 59I1997) � stata -fra l'altro -prevista la creazione presso 
le pubbliche amministrazioni di appositi uffici per la gestione del contenzioso del 
lavoro, sono state dettate nuove norme sulla dirigenza pubblica, disciplinato l'esercizio 
delle mansioni superiori da parte dei dipendenti pubblici, � stata disposta la devoluzione 
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo di tutte le controversie in 
materia di pubblici servizi, compresi quelli afferenti al credito, alla vigilanza sulle assicurazioni, 
al mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicaz!
oni e ai servizi di cui alla legge 48/1995 sulla disciplina della concorrenza (art. 33) 
nonch� delle controversie in materia urbanistica ed edilizia (art. 34), con attribuzione 
allo stesso giudice della potest� di disporre, ari�he attraverso la reintegrazione in forma 



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

26 

specifica, il risarcimento del danno ingiusto, di assumere prove e consulenze tecniche 
e di conoscere anche di tutte le questioni relative a diritti (art. 35); gli art. 68, 68-bis, 69 
e 69-bis decreto legislativo 29/1993 e gli art. 410, 412-bis, 412-ter, 412-quater, 417-bis 
e 669-octies codice procedura civile sono stati ulteriormente modificati con il decreto 
legislativo 29 ottobre 1998 n. 387 (Gazzetta Ufficiale 261) che ha riordinato le procedure 
per l'accesso alla dirigenza pubblica mediante concorso (per accedere alle prove 
sar� richiesta la conoscenza di almeno una lingua straniera e la pratica nell'uso di computer) 
e rafforzato le norme sul tentativo obbligatorio di conciliazione per le controversie 
di lavoro, con l'estensione della possibilit� per le amministrazioni pubbliche di 
farsi rappresentare nei giudizi di lavoro anche da semplici dipendenti e non necessariamente 
da funzionari; altre modifiche al decreto legislativo 29/1993 sono state apportate 
dal decreto legislativo 6 marzo 1998 n. 59 (Gazzetta Ufficiale 71 ), che ha disciplinato 
l'attribuzione della qualifica dirigenziale dei capi di istituto e dei dirigenti scolastici, 
a norma dell'art. 21, comma 16, legge 15 marzo 1997 n. 59, introducendo gli articoli 
25-bis, 25-ter e 28-bis del decreto 29/1993. 

Con Circolare 27 maggio 1998 n. 4/98 (Gazzetta Ufficiale 124) la Presidenza 
del consiglio dei ministri-dipartimento della funzione pubblica ha dato attuazione, 
per quanto di competenza, alla legge 15 maggio 1997 n. 127, sullo snellimento del1' 
attivit� amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo, al fine di 
dare effettiva applicazione alle disposizioni della legge e semplificare il rapporto tra 
cittadini e amministrazioni pubbliche. 

Con decreto 25 giugno 1998 (Gazzetta Ufficiale 180) la Presidenza del consiglio 
dei ministri-dipartimento della funzione pubblica ha proceduto alla individuazione 
degli organismi collegiali che svolgono attivit� amministrative, indispensabili 
per l'attuazione dei fini istituzionali, in attuazione di quanto disposto dall'art. 41, 
1� comma, legge 27 dicembre 1997 n. 449. 

Con decreto legislativo 9 luglio 1998 n. 283 (Gazzetta Ufficiale 190) � stato istituito 
l'Ente tabacchi italiani, con la natura di ente pubblico economico; la sua attivit� 
� regolata dal codice civile e dalle altre leggi relative alle persone giuridiche private 
e pu� avvalersi del patrocinio dell'Avvocatura dello Stato (art. 1, 4� comma); 
dovrl\ trasformarsi in una o pi� societ� per azioni non prima di 12 e non oltre 24 
mesi; il personale della ex-amministrazione autonoma dei monopoli di Stato � inserito 
in un ruolo provvisorio ad esaurimento del Ministero delle finanze e distaccato 
provvisoriamente presso l'ente secondo necessit�. 

Con decreto del Presidente della Repubblica 28 settembre 1998 n. 374 (Gazzetta 
Ufficiale 254) � stato istituto l'ISAE-istituto di studi e analisi economica (ente 
pubblico di ricerca e sperimentazione) che assorbe funzioni e strutture dell 'ISPE e 
dell'ISCO, contestualmente soppressi. 

Per altre segnalazioni in materia si veda la voce Impiegato dello Stato. 

ANTICHIT� E BELLE ARTI. Con legge 30 marzo 1998 n. 88 (Gazzetta Ufficiale 
84) sono state dettate norme sulla circolazione dei beni culturali, in attuazione della 
direttiva 93/7 /CEE del Consiglio del 15 marzo 1993 ed a modifica della legge 


1089/39. Con decreto legislativo 20 ottobre 1998 n. 368 (Gazzetta Ufficiale 250) � 
stato istituito il Ministero per i beni e le attivit� culturali, a norma dell'art. 11 legge 
59/1997, cui sono state devolute le attribuzioni del Ministero per i beni culturali e 


PARTE Il, OSSERVATORIO LEGISLATIVO 

ambientali e quelle in materia di spettacolo, di sport e di impiantistica sportiva della 
Presidenza del consiglio. 

APPALTO. Con decreto 18 dicembre 1997 del Ministero dei lavori pubblici 
(Gazzetta Ufficiale 1) � stato individuato il limite di anomalia delle offerte nelle 
gare di appalto. 

Con legge 18 novembre 1998 n. 415 (Gazzetta Ufficiale 284) -c.d. Merloni 
ter -sono state dettate modifiche alla legge 109/1994 ed ulteriori disposizioni in 
materia di lavori pubblici; le novit� pi� rilevanti riguardano l'ambito soggettivo ed 
oggettivo di applicazione della legge, la qualificazione professionale dei soggetti 
esecutori di lavori pubblici, i sistemi di realizzazione dei lavori, i criteri di aggiudicazione 
e la composizione delle commissioni aggiudicatrici. 

ATTO AMMINISTRATIVO. In attuazione degli art. 2 e 4 legge 241/1990 sul procedimento 
amministrativo, sono stati emanati il Decreto 8 ottobre 1997 n. 524 ( Gazzetta 
Ufficiale 194) del Ministero dei lavori pubblici sulla individuazione dei procedimenti 
di competenza degli organi di quell'amministrazione, ed il D.P.C.M. 30 
giugno 1998 n. 31 O(Gazzetta Ufficiale 199) sulla individuazione dei termini e delle 
unit� organizzative responsabili dei procedimenti amministrativi di competenza del 
Dipartimento della funzione pubblica. 

AvvocATURA DELLO STATO. L'Istituto � stato autorizzato ad assumere la rappresentanza 
e la difesa delle Autorit� Portuali (D.P.C.M. 4 dicembre 1997 -Gazzetta 
Ufficiale 4 -e successivo comunicato -Gazzetta Ufficiale 29 -che ha chiarito la 
portata generale dell'autorizzazione inizialmente rilasciata per quelle Autorit� che 
l'avevano espressamente richiesta); della Commissione di vigilanza sui fondi pensione 
(decreto del Presidente della Repubblica 27 marzo 1998 -Gazzetta Ufficiale 
131), dell'Azienda regionale . per il diritto allo studio universitario di Bologna 
(decreto del Presidente della Repubblica 2 luglio1998-Gazzetta Ufficiale 189), dell'Ente 
per il diritto allo studio universitario di Campobasso (D.P.C.M. 6 agosto 1998 
-Gazzetta Ufficiale 236) e dell 'Intemational Development Law Institute -Istituto 
internazionale per lo sviluppo (D.P.C.M. 11 settembre 1998 -Gazzetta Ufficiale 
236), dell'Agenzia autonoma per la gestione dell'albo dei segretari comunali e provinciali 
(D.P.C.M. 25 settembre 1998 -Gazzetta Ufficiale 278). 

CATASTO. Per la revisione del catasto sono stati adottati, con decreto del Presidente 
della Repubblica 23 marzo 1998 n. 138 e 139 (Gazzetta Ufficiale 108), i regolamenti 
per la revisione delle zone censuarie, delle tariffe d'estimo, dei criteri di 
accatastamento delle unit� immobiliari urbane e dei fabbricati rurali e delle commissioni 
censuarie. 

COMMERCIO. La legge 30 luglio 1998 n. 281 (Gazzetta Ufficiale 189) ha dettato 
la Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, prevedendo -fra l'altro 
-la legittimazione ad agire delle associazioni dei consumatori e degli utenti inserite 
in un elenco appositamente istituto, sia in sede giudiziale che in sede conciliativa, 
e l'istituzione di un organo collegiale (Consiglio nazionale dei consumatori e 
degli utenti), con funzioni consultive e propositive. 

CONCORSO APUBBLICO IMPIEGO. Con la Circolare 26 agosto 1998 n. 9/1998 (Gazzetta 
Ufficiale 205) la Presidenza del consiglio dei ministri-dipartimento della fun



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATo��. 

28 

zione pubblica ha divulgato il parere del Consiglio di Stato, sez. I, 15 luglio 1998 n. 
492/1998 in ordine all'interpretazione dell'art. 3, 6� comma, legge 127/1997 (secondo 
il quale �la partecipazione ai concorsi indetti da pubbliche amministrazioni non 
� soggetta a limiti di et�, salvo deroghe dettate da regolamenti delle singole amministrazioni 
connesse alla natura del servizio o ad oggettive necessit� del!' amministrazione
�); secondo il Consiglio, tutte le preesistenti discipline legislative e regolamentari 
devono intendersi abrogate, con la conseguenza che ogni eventuale deroga 
deve essere introdotta (o reintrodotta) con norme regolamentari successive alla legge 
127/1997, emanate anche ai sensi dell'art. 17, 3� comma, legge 400/1988, sindacabili 
in sede giurisdizionale; il primo di questi regolamenti � stato adottato con decreto 
del Ministero degli affari esteri 2/10/1998 n. 377 (Gazzetta Ufficiale 256) che ha fissato 
il limite di et� di trentacinque anni per la partecipazione al concorso diplomatico. 

CONTABILIT� E BILANCIO DELLO STATO. Nelle Gazzette Ufficiali 22 e 25, suppl. 
ord., sono stati ripubblicati, corredati delle relative note, i testi delle leggi 27 dicembre 
1997 n. 449 (misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), n. 450 (legge 
finanziaria 1998) e n. 453 (bilancio di previsione per il 1998 e pluriennale per il 
triennio 1998-2000). 

Nella Gazzetta Ufficiale 302, suppl. ord., sono state pubblicate le leggi 23 
dicembre 1998 n. 448 e 449 contenenti misure di finanza pubblica per la stabilizzazione 
e lo sviluppo e disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale 
dello Stato (legge finanziaria 1999); nella legge 448/1998 si segnalano, fra l'altro, 
l'art. 11 sul rimborso della tassa sulle concessioni governative per l'iscrizione 
nel registro delle imprese, l'art. 24 sulla revisione dei meccanismi di adeguamento 
retributivo per il personale non contrattualizzato, l'art. 26 sull'interpretazione autentica 
in materia di trattamento economico dei docenti universitari, la non spettanza di 
interessi e rivalutazione sulle somme dovute per inquadramenti definitivi ai sensi 
della legge 312/1980 e per trattamenti pensionistici derivanti da Corte cost. 1/1991, 
modifiche all'art. 24, 6� comma, decreto legislativo 29/1993 (compensi incentivanti 
a professori e ricercatori universitari), l'art. 32 sull'alienazione di beni immobili 
di interesse storico e artistico di propriet� dei comuni e delle province, l'art. 45 contenen.
te al 22� comma ulteriori modifiche al decreto legislativo 29/1993 (dotazione 
di personale per le Commissioni di conciliazione territoriali). 

CONTRAVVENZIONE, DEPENALIZZAZIONE E SANZIONI AMMINISTRATIVE. Nel nuovo 
quadro delle sanzioni amministrative e tributarie non penali riformato dai decreti 
legislativi 18 dicembre 1997 n. 471, 472 e 473 (Gazzetta Ufficiale 5, suppl. ord.), 
con l'eliminazione della distinzione fra pena pecuniaria e soprattassa e la intrasmissibilit� 
agli eredi dell'onere della sanzione, una organica disciplina del ravvedimento 
operoso e del concorso, il decreto legislativo 5 giugno 1998 n. 203 (Gazzetta Ufficiale 
151) -seguito dalla Circolare Min. finanze 1 Oluglio 1998 n.180/E (Gazzetta 
Ufficiale 170) -ha dettato disposizioni integrative e correttive fra le quali si segnalano: 
la non assoggettabilit� alle sanzioni del dipendente che non ha reali poteri 
decisionali ; una definizione del dolo ai fini tributari che toglie rilevanza al dolo 
generico ed al dolo eventuale; la non punibilit� del consulente fiscale per pratiche 
professionali particolarmente complesse; l'introduzione di disposizioni pi� severe 
sul cumulo degli effetti premiali; la previsione di soglie minime di sanzioni per l'ac



PARTE Il, OSSERVATORIO LEGISLATIVO 

certamento con adesione, la rinunzia all'impugnazione dell'avviso di accertamento, 
la definizione agevolata, la conciliazione giudiziale. 

CONVENZIONI E TRATTATI INTERNAZIONALI. Con legge 21 maggio 1998 n. 175 
(Gazzetta Ufficiale 130) � stata ratificata la convenzione fra Italia ed Albania per 
evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio e per 
prevenire le evasioni fiscali; con comunicato del Ministero degli affari Esteri ( Gazzetta 
Ufficiale 205) � stata data notizia dell'entrata in vigore -in data 6 agosto 
1998 -della convenzione fra Italia e Israele di identico contenuto. 

Con legge 16 giugno 1998 n. 209 (Gazzetta Ufficiale 155) � stato ratificato il 
trattato di Amsterdam che modifica il trattato sull'Unione europea, i trattati che istituiscono 
le Comunit� europee ed alcuni atti connessi. 

DANNI IN MATERIA CIVILE. In attuazione dell'art. 20, 8� comma, legge 15 marzo 
1997 n. 59, il decreto del Presidente della Repubblica 24 giugno 1998 n. 260 (Gazzetta 
Ufficiale 180, cui ha fatto seguito l'errata corrige in Gazzetta Ufficiale 182) 
ha emanato il Regolamento recante norme per la semplificazione dei procedimenti 
di esecuzione delle decisioni di condanna e risarcimento di danno erariale, liquidato 
da ordinanze o sentenze della Corte dei conti, ove si prevede, fra l'altro, che l'esecuzione 
debba avvenire per ritenuta sugli emolumenti spettanti al dipendente o, in 
mancanza, a mezzo dell'iscrizione a ruolo ai sensi dell'art. 67 decreto del Presidente 
della Repubblica 43/1988, previa eventuale iscrizione di ipoteca. 

DEMANIO E PATRIMONIO DELLO STATO. Con Decreto 2 marzo 1998 (Gazzetta 
Ufficiale 179) il Ministero delle finanze ha adottato il regolamento per rideterminazione 
dei canoni, proventi, diritti erariali ed indennizzi comunque dovuti per l'utilizzazione 
dei beni immobili del demanio o del patrimonio disponibile dello Stato; 
con decreto del Presidente della Repubblica 13 luglio 1998 n. 376 (Gazzetta Ufficiale 
248) � stato emanato il regolamento per semplificazione del procedimento di 
presa in consegna di immobili e compiti di sorveglianza sugli immobili demaniali di 
cui al n. 6 all. 1 legge 59/1997. 

DIRITTO PROCESSUALE PENALE. Con legge 28 settembre 1998 n. 336 (Gazzetta 
Ufficiale 228) il termine di durata massima delle indagini preliminari per i delitti di 
strage commessi anteriormente all'entrata in vigore del nuovo codice di procedura 
penale � stato fissato in tre anni. 

DOGANA. Con decreto del Ministero delle finanze 23 ottobre 1998 n. 417 ( Gazzetta 
Ufficiale 284) � stato adottato il regolamento modificativo del precedente 10 
marzo 1964 contenente le norme di applicazione della legge 1612/60 sugli spedizionieri 
doganali. 

ESECUZIONE FORZATA PER OBBLIGAZIONI PECUNIARIE. La legge 3 agosto 1998 n. 
302 (Gazzetta Ufficiale 196) ha affidato ai notai alcune competenze in materia di 
procedure di espropriazione forzata, in particolare per la certificazione delle risultanze 
delle visure catastali e dei registri immobiliari (nuovo art. 567 codice procedura 
civile) e per il compimento delle operazioni di vendita con incanto (nuovi art. 
591-bis e 534-bis codice procedura civile); con la stessa legge sono state apportate 
modifiche ad altre norme del codice di procedura (art. 581, 591-ter, 534-ter) e delle 
sue disposizioni di attuazione (art. 169-bis, 169-ter, 179-bis, 179-ter). 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

30 


ESPORTAZIONE EIMPORTAZIONE. Con Decreto 11dicembre1997 n. 474 del Ministero 
del commercio con l'estero � stato approvato lo statuto dell'Istituto nazionale 
per il commercio con l'estero, ente pubblico non economico; con decreto legislativo 
31 marzo 1998 n. 143 (Gazzetta Ufficiale 109) sono state emanate disposizioni 
in materia di commercio con l'estero, in particolare provvedendo al riordino dello 
Istituto per i servizi assicurativi del commercio estero -SACE, ente di diritto pubblico 
che si avvale del patrocinio dell'Avvocatura dello Stato (art. 12). 

FORNITURE. Con legge 18 giugno 1998 n. 192 (Gazzetta Ufficiale 143) � stata 
dettata la Disciplina della subfornitura nelle attivit� produttive, che, dopo aver individuato 
la figura negoziale ed imposto la forma scritta a pena di nullit�, istituisce la 
nuova categoria dell'abuso di dipendenza economica ed impone il tentativo obbligatorio 
di conciliazione presso le Camere di commercio. 

IMPIEGATO DELLO STATO E PUBBLICO IN GENERE. Fra i numerosi provvedimenti 
organizzativi delle attivit� e delle strutture dei pubblici uffici nell'ambito della riforma 
delineata con il decreto legislativo 29/1993 e gli altri che ne sono seguiti, si 
segnalano: l'Avviso di rettifica della Presidenza del consiglio in ordine al decreto 
legislativo 396/1996, in materia di contrattazione collettiva e rappresentativit� sindacale 
nel pubblico impiego, la Circolare 29 maggio 1998 n. 5/1998 (Gazzetta Ufficiale 
129) della Presidenza del consiglio dei ministri-dipartimento della :funzione 
pubblica che ha emanato istruzioni in materia di anagrafe delle prestazioni e degli 
incarichi dei pubblici dipendenti, in adempimento di quanto disposto dagli artt. 26 e 
45, 14� comma, decreto legislativo 8�/1998, e il Decreto 6 luglio 1998 (Gazzetta 
Ufficiale 161) del Ministero di grazia e giustizia che ha proceduto alla Individuazione 
delle attivit� lavorative, autonome e subordinate, interferenti con i compiti 
istituzionali del personale del Ministero di grazia e giustizia e come tali non consentite 
ai dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale; 

la legge 16 giugno 1998 n. 191 (Gazzetta Ufficiale 142)-seguita dalla Circolare 
Min. interno 22 giugno 1998 n. 3/98 (Gazzetta Ufficiale 157)-con la quale 

sono state dettate Modifiche e integrazioni alle leggi 15 marzo 1997 n. 59 e 15 maggio 
1?97 n. 12 7 nonch� norme in materia di formazione del personale dipendente e 
di lavoro a distanza nelle pubbliche amministrazioni, dando cos� il via alla possibilit� 
del telelavoro nella pubblica amministrazione, mediante collegamento telematico 
con dipendenti autorizzati a prestare le proprie prestazioni in luogo diverso da 
quello ordinario di lavoro, secondo le modalit� che saranno dettate con apposito 
regolamento dell' Aipa; nella legge � previsto anche il rilancio del Formez per la formazione 
del personale dipendente pubblico; 

ildecreto legislativo 27 febbraio 1998 n. 62 (Gazzetta Ufficiale 75) e i Decreti del 
Ministero degli affari esteri 4 luglio 1997 n. 492 e 493 (Gazzetta Ufficiale 18) con i quali 
sono stati disciplinati i trattamenti economici e di missione dei dipendenti delle pubbliche 
amministrazioni in servizio all'estero, nonch� il Decreto 27 agosto 1998 del Ministero 
del tesoro (Gazzetta Ufficiale 202) con il quale sono state adeguate le diarie di missione 
all'estero del personale statale, civile e militare, delle universit� e della scuola; 

il decreto del Ministero del tesoro 1� settembre 1998 n. 352 (Gazzetta Ufficiale 
239) che ha fissato i criteri e le modalit� per corrispondere gli interessi legali 



PARTE Il, OSSERVATORIO LEGISLATIVO 

e la rivalutazione monetaria sul ritardato pagamento degli emolumenti di natura 
retributiva, pensionistica ed assistenziale in favore dei dipendenti pubblici e privati 
in attivit� o in quiescenza delle amministrazioni pubbliche. 

Per altre segnalazioni in materia si veda la voce Amministrazione dello Stato. 

INTERESSI. Con decreto del Ministero del tesoro 10 dicembre 1998 (Gazzetta 
Ufficiale 289) la misura del saggio degli interessi legali di cui all'art. 1284 codice 
civile � stata fissata al 2,5% in ragione d'anno, con decorrenza dall' 1 � gennaio 1999. 

INVALIDI. Si segnala la Circolare 21 gennaio 1998 n. 1/1998 (Gazzetta Ufficiale 
27) del Dipartimento della funzione pubblica contenente elementi di valutazione 
della legge 662/1996, art. 1, comma 257. 

ISTRUZIONE PUBBLICA. Con decreto del Presidente della Repubblica 2 marzo 1998 

n. 157 (Gazzetta Ufficiale 120) � stato adottato il regolamento concernente l'aggregazione 
di istituti scolastici di istruzione secondaria superiore, in attuazione dell'art. 1, 
20� comma, legge 549/1995; con altro decreto 18 giugno 1998 n. 233 (Gazzetta Ufficiale 
164) � stato adottato il regolamento per il dimensionamento ottimale delle istituzioni 
scolastiche e per la determinazione degli organici funzionali dei singoli istituti. 
Con decreto legislativo 8 maggio 1998 n. 178 (Gazzetta Ufficiale 131) � stata 
disposta la Trasformazione degli Istituti superiori di educazione fisica e la istituzione 
di facolt� e di corsi di laurea e di diploma in scienze motorie, a norma dell'art. 
17 comma 115, della legge 15 maggio 1997 n. 127 

Con decreto del Presidente della Repubblica 24 giugno 1998 n. 249 (Gazzetta 
Ufficiale 175) � stato dettato lo Statuto delle studentesse e degli studenti della scuola 
secondaria. 

Con decreto 5 agosto 1998 del Ministero della pubblica istruzione (Gazzetta 
Ufficiale 187) � stata regolata la Istituzione, organizzazione e realizzazione dei corsi 
di formazione per il conferimento della qualifica dirigenziale ai capi d'istituto. 

IVA. Una revisione del regime dei �free shop�, in previsione della loro eliminazione, 
� stata dettata con decreto del Ministero delle finanze 16 dicembre 1998 
(Gazzetta [ffficiale 300) concernente Modificazioni al d.m. 31 dicembre 1992 
recante modalit� e condizioni per l'applicazione del beneficio della non imponibilit� 
all'IVA delle cessioni di beni a viaggiatori diretti in altro Stato membro, effettuate 
nei punti di vendita siti nell'ambito di porti, aeroporti, ovvero a bordo di navi 
e aeromobili durante i _trasporti intracomunitari di viaggiatori. 

LAVORO (COLLOCAMENTO E MOBILIT� DELLA MANO D'OPERA). � stato ripubblicato 
il testo del decreto legge 8 aprile 1998 n. 78 (Gazzetta Ufficiale 159), coordinato 
con la legge di conversione 5 giugno 1998 n. 17 6, che contiene, fra 1'altro, proroga 
di rapporti di lavoro socialmente utili presso il Min. beni culturali e disposizioni in 
materia di mobilit�. � 

LAVORO (CONTRATTO COLLETTIVO DI). Con D.P.C.M. 14 novembre 1997 (Gazzetta 
Ufficiale 58) � stato autorizzato il Governo alla sottoscrizione del testo dell'accordo successivo 
per il personale dipendente dalle agenzie per l'impiego, ai sensi dell'art. 1, 4� 
comma, ccnl 16 maggio 1995 del comparto ministeri; con tre Comunicati della Presidenza 
del consiglio dei ministri-dipartimento della funzione pubblica (Gazzetta Ufficia



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

32 

le 145) sono stati ripubblicati i testi dei contratti collettivi nazionali-quadro sottoscritti il 

2 giugno 1998 per la definizione dei comparti di contrattazione e dei distacchi, permessi 
e aspettative sindacali; con altri comunicati (Gazzetta Ufficiale 204, suppi. ord.) sono 
stati pubblicati i testi di: Accordo quadro per la definizione delle autonome aree di contrattazione 
della dirigenza; Contratto collettivo nazionale quadro sulla ripartizione dei 
distacchi e dei permessi sindacali nelle autonome aree di contrattazione della dirigenza, 
Accordo integrativo relativo al personale del comparto ministeri, riguardante integrazioni 
e modificazioni del contratto collettivo nazionale quadro, stipulato in data 7 agosto 
1998, per costituzione delle rappresentanze sindacali unitarie per il personale dei comparti 
delle pubbliche amministrazioni e per la definizione del relativo regolamento elettorale 
per il comparto enti pubblici non economici, idem per il personale del comparto 
delle aziende, per quello delle regioni e delle autonomie locali e per quello della sanit�. 

Con decreti del Ministero della sanit� 29 maggio 1998 n. 226 e 227 (Gazzetta 
Ufficiale 162, suppi. ord.) sono stati pubblicati i regolamenti recanti gli accordi collettivi 
nazionali per la disciplina dei rapporti libero-professionali con i medici generici 
fiduciari e con i medici ambulatoriali, specialisti e generici per il personale navigante, 
marittimo e dell'aviazione civile; con decreto del Presidente della Repubblica 
19 novembre 1998 n. 458 (Gazzetta Ufficiale 304) � stato adottato il regolamento 
per l'esecuzione dell'accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con 
i biologi, i chimici e gli psicologi ambulatoriali. 

Si segnalano, altres�, le circolari 26 gennaio 1998 n. 24255/98/14.30 del Dipartimento 
della funzione pubblica (su art. 54, 4� e 6� comma, decreto legislativo 
29/1993 ; art. 6, 2� e 3� comma, D.P.C.M. 27 ottobre 1994 n. 770; con-quadro sulla 
modalit� di utilizzo dei distacchi, aspettative e permessi sindacali, anche per l'area 
della dirigenza medico veterinaria del comparto sanit�) e 4 marzo 1998 n. 28/1998 
del Ministero del lavoro e previdenza sociale (sentenza Corte cost. 373/1997 sugli 
art. 2, 5, 2� e 8� comma, decreto legislativo 645/1996, concernente il recepimento 
della direttiva 92/85/CEE sulla sicurezza e salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, 
puerpere e in periodo di allattamento). 

LEVA MILITARE. Nuove norme in materia di obiezione di coscienza sono dettate 
con legge 8 luglio 1998 n. 230 (Gazzetta Ufficiale 163), con la previsione del silenzio-
assenso sulla domanda dell'interessato per la prestazione del servizio civile 
sostitutivo e la parificazione ad ogni effetto fra quest'ultimo ed il servizio militare 
di leva; la legge regola anche in dettaglio gli accordi che possono essere stipulati fra 
l'apposito Ufficio nazionale per il servizio civile e gli enti e le organizzazioni pubblici 
e privati presso cui gli obiettori possono prestare servizio. 

LOCAZIONE. La riforma della disciplina delle locazioni e del rilascio di immobili 
adibiti ad uso abitativo � stata dettata con legge 9 dicembre 1998 n. 431 (Gazzetta 
Ufficiale 292, suppi. ord.); le nuove regole sanciscono la fine definitiva del vecchio 
sistema dell'equo canone e prevedono il doppio binario dei contratti �liberi� e di 
quelli �collettivi� (secondo le regole che dovranno essere concordate dalle associazioni 
di categoria), ai quali ultimi sono collegate facilitazioni fiscali ed incentivi. 

MEDICINALI. La� problematica nata dalla questione Di Bella � stata definitivamente 
regolata con la legge 30 luglio 1998 n. 257 (Gazzetta Ufficiale 179), emanata 


PARTE Il, OSSERVATORIO LEGISLATIVO 

in attuazione della sent. Corte cost. 26 maggio 1998 n. 185; il testo coordinato con il 
decreto legge 16 giugno 1998 n. 186 � stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 179. 

MONETA. Con decreto legislativo 24 giugno 1998 n. 213 (Gazzetta Ufficiale 
157, suppl. ord.) sono state dettate Disposizioni per l'introduzione dell 'EURO nel1 
'ordinamento nazionale, a norma dell'art. 1 comma 1, della legge 17 dicembre 
1997 n. 433. 

OPERE PUBBLICHE. Con legge 3 agosto 1998 n. 295 (Gazzetta Ufficiale 193) 
sono state dettate Disposizioni per ilfinanziamento di interventi e opere di interesse 
pubblico, fra cui l'adeguamento di edifici demaniali alle norme di sicurezza, il 
sistema autostradale e la salvaguardia di Venezia. 

ORDINAMENTO GIUDIZIARIO. La grande riforma del processo civile continua con 
l'istituzione del giudice unico di primo grado, e la conseguente abolizione delle preture, 
regolata dal decreto legislativo 19 febbraio 1998 n. 51 (Gazzetta Ufficiale 66, 
suppl. ord., ove � pubblicato un estratto della relazione illustrativa allo stesso decreto, 
la cui entrata in vigore � stata rinviata al 2 giugno 1999 dalla legge 16 giugno 1998 

n. 188 -Gazzetta Ufficiale 141); con decreto legge 21 settembre 1998 n. 328 (Gazzetta 
Ufficiale 221), convertito in legge 19 novembre 1998 n. 399 (Gazzetta Ufficiale 
273, il testo coordinato � in Gazzetta Ufficiale 273 ed � stato ripubblicato in Gazzetta 
Ufficiale 282), sono state introdotte modifiche ai requisiti per la nomina dei 
giudici onorari aggregati da destinare alle sezioni stralcio (ora consentita anche per 
notai, professori universitari e ricercatori confermati) e sono state dettate disposizioni 
transitorie per la disciplina delle procedure esecutive pendenti alla data di entrata 
in vigore della legge 3 agosto 1998 n. 302; con decreto ministeriale Min. grazia e 
giustizia 30 luglio 1998 (Gazzetta Ufficiale 222) � stata fissata al giorno 11 novembre 
1998 la data di inizio del funzionamento delle sezioni stralcio presso i tribunali. 
Modifiche al codice di procedura penale in materia di revisione sono state 
apportate con legge 23 novembre 1998 n. 405 (Gazzetta Ufficiale 276). 

Con legge 5 agosto 1998 n. 303 (Gazzetta Ufficiale 196) � stata regolata la 
Nomina di professori universitari e di avvocati all'ufficio di consigliere di cassazione, 
in attuazione del!' art. 106, terzo comma, della Costituzione; il testo di legge 
non contiene alcuna norma sulla estensione della nomina anche agli avvocati dello 
Stato e detta norme procedurali tali (designazione da parte del Consiglio dell'ordine) 
da escludere una possibilit� di interpretazione estensiva dell'istituto. 

PERSONA FISICA E DIRITTI DELLA PERSONALIT�. Nell'ambito della regolamentazione 
di dettaglio della materia, si segnalano i decreti legislativi 8 maggio 1998 n. 
135 (Gazzetta Ufficiale 106) e 6 novembre 1998 n. 389 (Gazzetta Ufficiale 262), 
contenenti Disposizioni in materia di trattamento di dati particolari da parte di soggetti 
pubblici, ed il decreto legislativo 13 maggio 1998 n. 171 (Gazzetta Ufficiale 
127), contenente Disposizioni in materia di tutela della vita privata nel settore delle 
telecomunicazioni, in attuazione della direttiva 97166/CE del Parlamento europeo e 
del Consiglio, ed in tema di attivit� giornalistica. 

Nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e della criminalit� organizzata 
sono state dettate con legge 23 novembre 1998 n. 407 (Gazzetta Ufficiale 277) 
che prevede, oltre alle indennit� ex legge 302/1990, anche un assegno vitalizio e 
borse di studio. 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STAro����

34 

PERSONA GIURIDICA. Si segnala l'Avviso di rettifica della Presidenza del consiglio 
(Gazzetta Ufficiale 25) relativo al decreto legislativo 18 novembre 1997 n. 426 
recante la trasformazione dell'ente pubblico �Centro sperimentale di cinematografia
� nella fondazione �Scuola nazionale di cinema�. 

L'ente pubblico �.Istituto nazionale per il dramma antico� � stato trasformato in 
fondazione di diritto privato, a norma dell'art. 11, 1� comma, lett. b), legge 59/1997, 
con decreto legislativo 29 gennaio 1998 n. 20 (Gazzetta Ufficiale 35). 

L'ente pubblico �La Biennale di Venezia� � stato trasformato in persona giuridica 
privata denominata �Societ� di cultura La Biennale di Venezia�, a norma del1'
art. 11, 1� comma, lett. b), legge 59/1997, con decreto legislativo 29 gennaio 1998 

n. 19 (Gazzetta Ufficiale 34); alla stessa � stata attribuita personalit� giuridica di 
diritto privato ai sensi dell'art. 12 codice civile, con partecipazione sia di soggetti 
pubblici (Ministero per i beni culturali e ambientali, Regione Veneto, Provincia di 
Venezia e Comune di Venezia) sia di soggetti privati; il rapporto di lavoro del personale 
diventa di natura privata; sono conservati a favore della societ� tutti i diritti, 
le attribuzioni e le situazioni giuridiche dei quali l'ente originario era titolare. 
Con decreto legislativo 23 aprile 1998 n. 134 (Gazzetta Ufficiale 105) � stata 
disposta la Trasformazione in fondazioni degli enti lirici e delle istituzioni concertistiche 
assimilate, a norma del!' art. 11, comma 1, lett. b) legge 15 marzo 199 7 n. 59, 
con la creazione di enti privati sovvenzionati dallo Stato, dalla regione e dal comune, 
oltre che da altri enti pubblici e dai privati fondatori, che conservano le prero


I 

I ~ 

gative ed i diritti dei soppressi enti pubblici di cui alla legge 800/67, ivi compreso 
il patrocinio dell'Avvocatura dello Stato (ai sensi dell'art. 43 regio decreto 1611/33, 
espressamente applicato, quindi, anche per enti di natura privata). 

POSTA E TELECOMUNICAZIONI. Con Deliberazione 18 dicembre 1997 n. 244 del 
Comitato interministeriale per la programmazione economica (Gazzetta Ufficiale 
197) � stata disposta la trasformazione in societ� per azioni dell'Ente poste italiane, 

I con effetto dal 28 febbraio 1998 ; tutte le azioni sono attribuite al Ministero del tesoro 
che esercita i diritti dell'azionista d'intesa con il Ministro delle comunicazioni. 

I 

Con deliberazione dell'Autorit� per le garanzie nelle comunicazioni 30 ottobre 
1998 n. 68 (Gazzetta Ufficiale 263) � stato adottato il piano nazionale di assegna


I 

zione delle frequenze per la radiodiffusione televisiva. 

REDDITO DELLE PERSONE FISICHE (IMPOSTA SUL). Con decreto legislativo 28 settembre 
1998 n. 360 (Gazzetta Ufficiale 242) � stata istituita una addizionale comunale 
all'Irpef, a norma dell'art. 48, comma 10, legge 449/1997, come modif. dall'art. 
1, comma 10, legge 191/1998; l'addizionale (deliberabile da� comuni sulla base di 
parametri indicati nel testo normativo e con una variazione che non potr� eccedere 

I 

complessivamente la percentuale del 0,5%) si applica al reddito complessivo deter-~ 
minato ai fini dell'Irpef e spetta al comune nel quale il contribuente ha il domicilio fil 
fiscale al 31 dicembre dell'anno di riferimento (con. circolare del Ministero delle I 
finani:e 22 dicembre 1998 n. 289/E -Gazzetta Ufficiale. 300 -sono state pubblica-'' 
te le deliberazioni comunali in materia). !' 

REGIONE IN GENERE. Si segnala la ripubblicazione (Gazzetta Ufficiale 116, 

I 

suppl. ord.) del testo del decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 112 (gi� in Gazzetta ~ 

.. I 


PARTE Il, OSSERVATORIO LEGISLATIVO 

Ufficiale 92), corredato delle relative note, concernente Conferimento di funzioni e 
compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del 
capo I della legge 15 marzo 199 7 n. 59. 

RISCOSSIONE DELLE IMPOSTE E DELLE ENTRATE PATRIMONIALI ED ESATTORIE. Con 
legge 28 settembre 1998 n. 337 (Gazzetta Ufficiale 228) � stata data delega al Governo 
per il riordino della disciplina relativa alla riscossione; fra i criteri dettati dal Parlamento 
(espressamente definiti come �norme fondamentali di riforma economico-sociale della 
Repubblica, quale limite della potest� legislativa primaria delle regioni a statuto speciale 
e delle province autonome�) si segnalano: l'eliminazione dell'obbligo del non 
riscosso come riscosso gravante sui concessionari, lo snellimento e razionalizzazione 
delle procedure di esecuzione nel rispetto della collaborazione del debitore all'esecuzione, 
la revisione delle disposizioni in materia di notifica degli atti esattoriali tenendo 
conto anche della normativa sulla tutela dei dati personali, la revisione delle procedure 
per il riconoscimento dell'inesigibilit� delle somme iscritte a ruolo, la revisione ed 
eventuale modifica delle normativa di contabilit� generale dello Stato. 

SANIT� PUBBLICA. Con decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 115 (Gazzetta Ufficiale 
96) � stato completato il riordino dell'Agenzia per i servizi sanitari regionali, 
a nonna degli artt. 1e3, 1� comma, lett. c), legge 15 marzo 1997 n. 59. 

Con decreto del Ministero dell'ambiente 10 settembre 1998 n. 381 (Gazzetta 
Ufficiale 257) � stato adottato il regolamento per la determinazione dei tetti di radiofrequenza 
compatibili con la salute umana. 

Con legge 30 novembre 1998 n. 419 (Gazzetta Ufficiale 286) il legislatore ha 
delegato il governo ad emanare, entro 180 giorni, i decreti delegati di razionalizzazione 
del servizio sanitario nazionale ed il testo unico in materia di organizzazione 
e funzionamento del servizio stesso. 

SINDACATI. Nel suppl. ord. della Gazzetta Ufficiale 207 (con errata corrige 
nella Gazzetta Ufficiale 244) sono stati pubblicati: l'Accordo collettivo quadro per 
la costituzione delle rappresentanze sindacali unitarie per il personale dei comparti 
delle pubbliche amministrazioni e per la definizione del relativo regolamento elettorale; 
il C�ntratto collettivo nazionale quadro sulle modalit� di utilizzo dei distacchi, 
aspettative e permessi nonch� delle altre prerogative sindacali. 

STRANIERO. La nuova normativa in materia di immigrazione, dopo la legge 6 
marzo 1998 n. 40 (Gazzetta Ufficiale 59), � stata dettata con il decreto legislativo 25 
luglio 1998 n. 286 (Gazzetta Ufficiale 191, suppl. ord.) contenente il Testo unico 
delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione 
dello straniero, cui � seguito il decreto legislativo 19 ottobre 1998 n. 380 
(Gazzetta Ufficiale 257) contenente disposizioni correttive. 

TRIBUTI IN GENERE. Con decreto legislativo 4 dicembre 1997 n. 460 (Gazzetta 
Ufficiale l, suppl. ord.) � stato regolato il riordino della disciplina tributaria degli 
enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilit� sociale; disposizioni 
integrative e correttive in materia sono state dettate con decreto legislativo 
19 novembre 1998 n. 422 (Gazzetta Ufficiale 287) che ha modificato anche i decreti 
legislativi 237/1997 (disciplina dei servizi autonomi di cassa negli uffici finan



RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO ~

36 

ziari), 446/1997 (semplificazione degli adempimenti dei contribuenti) e 472/1997 
(sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie). Con decreto legislativo 
18 dicembre 1997 n. 462 e 463 (Gazzetta Ufficiale 2, suppl. ord.) sono state dettate 
disposizioni in materia di procedure di liquidazione, riscossione e accertamento 
ed adempimenti vari fiscali, a norma dell'art. 3, comma 134, lett. b), legge 
662/1996; con decreto legislativo 18 dicembre 1997 n. 466 e 467 (Gazzetta Ufficiale 
3, suppl. ord.) sono state dettate disposizioni per le imposte personali sul reddito, 
al fine di favorire la capitalizzazione delle imprese, e per l'imposta sostitutiva 
della maggiorazione di conguaglio e di credito di imposta sugli utili societari. 

La legge 8 maggio 1998 n. 146 (Gazzetta Ufficiale 110, suppl. ord.) ha dettato 
Disposizioni per la semplificazione e la razionalizzazione del sistema tributario e 
per il funzionamento del! 'Amministrazione finanziaria, con una serie di norme che 
investono numerosi settori tributari ed operativi. 

Con decreto legislativo 16 giugno 1998 n. 201 (Gazzetta Ufficiale 150) � stata 
data ulteriore attuazione alla riforma della tassazione sui redditi di capitale di cui al 
decreto legislativo 21 novembre 1997 n. 461 (Gazzetta Ufficiale 2), fissando i criteri 
di valutazione del patrimonio gestito all'inizio di ciascun periodo di imposta (su 
cui si veda anche il decreto 9 giugno 1998 del Ministero delle finanze, in Gazzetta 
Ufficiale 138); la legge, inoltre, contiene norme correttive del decreto legislativo 
461/1997 per un migliore coordinamento con il Tuir, il decreto del Presidente della 
Repubblica 600/1973 e il decreto legislativo 241/1997, regola diversamente l'applicazione 
dell'imposta sostitutiva per i non residenti e sulle plusvalenze nonch� per le 
gestioni individuali e gli organismi di investimento collettivo. 

Con legge 3 agosto 1998 n. 288 (Gazzetta Ufficiale 192) � stata data la delega 
al Governo per la revisione dell'imposta sugli spettacoli e dell'imposta unica di cui 
alla legge 1379/1951; H tributo rimarr� solo per alcune delle attuali attivit� colpite e 
si denominer� imposta sugli intrattenimenti. 

Con decreto legislativo 5 ottobre 1998. n. 361 (Gazzetta Ufficiale 242) � stato 
istituito il servizio consultivo ed ispettivo tributario, a norma degli artt. 11 e 12 legge 
59/1997 ed a parziale modifica della legge 146/1980 che regolamentava le funzioni 
degli ispettori tributari nel Secit (ora Servizio centrale consultivo e ispettivo), con 
attribuzione di nuove funzioni, fra cui quella di elaborazione di studi di politica economica, 
tributaria e analisi fiscale e di formulare proposte per l'attuazione dei programmi 
di accertamento. 

TRIBUTI LOCALI. Il decreto legislativo 23 ottobre 1998 n. 41 O(Gazzetta Ufficiale 
280) ha dettato disposizioni correttive e integrative dei decreti legislativi 77/1995 
e 342/1997 in materia di ordinamento finanziario e contabile degli enti locali. 

Con decreto del Ministero delle finanze 27 novembre 1998 n. 435 (Gazzetta 
Ufficiale 294) � stato adottato il regolamento recante norme di attuazione dell'art. 
56, comma 11, decreto legislativo 446/1997, per la determinazione delle misure dell'imposta 
provinciale di trascrizione; con altro decreto dello stesso ministero 25 
novembre 1998 n. 418 (Gazzetta Ufficiale 185) � stato adottato il regolamento 
recante norme per il trasferimento alle regioni a statuto ordinario delle funzioni in 
materia di riscossione, accertamento, recupero, rimborsi e contenzioso relative alle 
tasse automobilistiche non erariali. 

GIUSEPPE ALBENZIO 


CONSULTAZIONI 


AWOCATURA DELLO STATO -Rappresentanza e difesa facoltativa di enti pubblici fondazione 
avente soggettivit� giuridica di diritto privato. 

Se la �Societ� di cultura la Biennale di Venezia� a seguito della sua trasformazione 
da ente pubblico in fondazione di diritto privato (decreto legislativo n. 
19/1998) possa continuare a fruire del patrocinio dell'Avvocatura dello Stato (Cs. 
3114/1998). 

Rappresentanza e difesa in giudizio di enti privati istituiti in fondazioni. 

Quale sia la natura del patrocinio della Fondazione �Arena di Verona� da parte 
dell'Avvocatura dello Stato e quali costi esso comporti (es. 11875/1998). 

CIRCOLAZIONE STRADALE -Consulenza per la circolazione dei mezzi di trasporto Rilascio 
attestato di idoneit� professionale. 

Soggetti in favore dei quali possano essere rilasciati gli attestati di idoneit� professionale 
all'esercizio dell'attivit� di consulenza per la circolazione dei mezzi di 
trasporto (es. 8030/1997). 

CONCESSIONI AMMINISTRATIVE -Concessione del servizio pubblico radiomobile di 
comunicazione con il sistema GSM -Vincolo della maggioranza del capitale Mantenimento. 


Se i vincoli imposti dalle disposizioni contenute nella convenzione stipulata dal 
Ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni per l'espletamento del servizio pubblico 
radiomobile di comunicazione con il sistema GSM ed in particolare quello del 
mantenimento della maggioranza del capitale quale dichiarata nell'offerta da parte 
del concessionario debbano considerarsi superati alla luce dell'evoluzione normativa, 
nazionale e comunitaria (direttiva 96/2/CE del 16 gennaio 1996; decreto legge 1 
maggio 1997 n. 115 conv. dalla legge 1 luglio 1997 n. 189; decreto del Presidente 
della Repubblica 19 settembre 1997 n. 318) (es. 8123/1998). 

COMUNIT� EUROPEA -Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia 
(FEOGA) -Soggetto attuatore -Rapporti con i beneficiari. 

Contributi FEOGA : a) se i beneficiari possano far valere nei confronti del 
Ministero per le politiche agricole le inadempienze del soggetto attuatore; b) se le 
somme versate al soggetto attuatore -per essere successivamente trasferite ai 
beneficiari -prima della sua messa in liquidazione ricadano nella procedura con




RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO

38 

corsuale; c) se il Ministero possa provvedere a versare direttamente ai beneficiari le 
somme giacenti in esecuzione del programma (es. 7195/1997). 
CONTRATTI IN GENERE -Finanziamenti agevolati con garanzia dello Stato in favore 

dell'editoria -Natura giuridica -Causa -Nullit�. 

Natura giuridica dei finanziamenti agevolati con garanzia dello Stato in favore 
di imprese operanti nel settore dell'editoria previsti dall'art. 12, comma 1, della 
legge n. 67 del 1987: a) se comporti la nullit� dei contratti per mancanza di causa la 
circostanza che essi siano stati conclusi quando i debiti dell'impresa beneficiaria 
erano totalmente o pressocch� totalmente estinti; b) nell'affermativa, se tale nullit� 
si estenda ai provvedimenti di concessione dei contributi e delle garanzie primarie 
(et. 16233/1994). 

DEMANIO STATALE -Demanio idrico -Alluvione -Incrementi al demanio fluviale -
Sdemanializzazione -Autorit� del bacino per ilfiume Po. 

Disposizioni di attuazione del Piano Stralcio delle fasce fluviali approvato dal1'
Autorit� di bacino per il fiume Po con delibera n. 29 dell'll dicembre 1997: a) se 
l'art. 9, comma 3 -il quale prevede che le aree del demanio fluviale di nuova formazione, 
ai sensi della legge 5 gennaio 1994, n. 37, siano destinate, a partire dalla 
data di approvazione del piano, esclusivamente al miglioramento della componente 
naturale della regione fluviale e non possano essere oggetto di sdemanializzazione 
-sia in contrasto con l'art. 941 del codice civile; b) se l'art. 19, comma 2 -il 
quale prevede che le regioni e province, mediante i rispettivi piani territoriali, possono 
proporre all'Autorit� di bacino del fiume Po varianti alle delimitazioni delle 
fasce fluviali -interferisca con l'ipotesi di �sponde variabili od incerte� di cui 
all'art. 94 del regio decreto 25 luglio 1904, n. 523 (es. 2657/1998). 

GIURISDIZIONE CIVILE -Dipendenti delle agenzie regionali per l'impiego -Controversie 
di lavoro. 

Se le controversie riguardanti i rapporti di lavoro dei dipendenti delle Agenzie 
regionali per l'impiego siano devolute alla giurisdizione del giudice ordinario (es. 
4516/1998). 

IMPIEGO PUBBLICO -Concorsi -Assunzioni da parte di Policlinici universitari. 

Modalit� delle assunzioni previste dal comma 9-bis dell'art. 19 del CCNL del 
Comparto Universit� per sopperire ad inderogabili esigenze assistenziali dell' Azienda 
Universitaria Policlinico della Seconda Universit� degli Studi di Napoli 
( cs.1908/1998). 

Segretari comunali e provinciali -Mutamento stato giuridico -Permanenza legittimazione 
passiva del Ministero dell'Interno nei ricorsi pendenti. 

Se, in relazione all'entrata in vigore della nuova disciplina dello stato giuridico 

II 


m 


PARTE Il, CONSULTAZIONI 

39 

dei segretari comunali e provinciali di cui alla legge 15 maggio 1997, n. 127 ed al 
decreto del Presidente della Repubblica 4 dicembre 1997, n. 465, il Ministero dell'Interno 
cui � attribuita la funzione di vigilanza dell'Agenzia autonoma per la 
gestione dell'albo nazionale dei segretari conservi la legittimazione passiva: a) nei 
ricorsi amministrativi; b) nei ricorsi avanti il giudice amministrativo, proposti anteriormente 
ovvero posteriormente alla riforma e, nella negativa, se il patrocinio del1'
Agenzia resti affidato all'Avvocatura dello Stato; c) se permanga l'interesse delle 
parti in conseguenza della riforma dello <<.status� dei segretari, in relazione a specifiche 
fattispecie (es. 4341/1998). 

MILITARE -Personale direttivo del corpo militare della Croce Rossa Italiana -Avanzamento 
-Brevit� del servizio -Valutabilit�. 

Se, in base all'interpretazione dell'art. 77 del regio decreto 10 febbraio 1936, 

n. 484, sia valutabile ai fini del giudizio di avanzamento un servizio prestato per un 
breve periodo di tempo e per il quale, a causa di ci�, sia stata omessa la documentazione 
caratteristica concernente la qualit� e la quantit� del servizio (es. 
4862/1998). 
OPERE PUBBLICHE -Controversie -Arbitrato secondo le norme del Codice di procedura 
civile -Rapporti regolati dall'art. 45 Capitolato Generale Appalti Opere Pubbliche 
-Applicabilit� art. 32 legge 10911994 -Concorrenza -Esclusione. 

Applicabilit� dell'art. 32 della legge n. 109/1994 -che prevede che la risoluzione 
delle controversie ove non si proceda all'accordo bonario sia affidata ad un 
arbitrato secondo le norme del Codice di procedura civile -ai rapporti pregressi in 
cui sia contrattualmente stabilito il deferimento delle controversie alla procedura 
arbitrale disciplinata dall'art. 45 del Capitolato Generale Opere Pubbliche, secondo 
quanto previsto dalla circolare del Ministero dei lavori pubblici 7 ottobre 1996 

n. 448842 (es. 1229/1998). 
PATRIMONIO DELLO STATO -Immobili in consegna al Ministero dei beni culturali ed 
ambientali -Concessione di alloggi. 

Se sussista competenza esclusiva del Ministero dei beni culturali ed ambientali 
in ordine alla concessione di alloggi in immobili in consegna al Ministero stesso (es. 
4066/1998). 

PATRIMONIO DELLO STATO E DEGLI ENTI PUBBLICI -Destinazione -Ispettorato Generale 
Enti disciolti -Legittimazione a richiedere la disdetta di contratti ed il 
pagamento di indennit� di occupazione. 

Contratti di comodato tra i Commissari liquidatori degli Enti disciolti e le USL stipulati 
per immobili privi del requisito della prevalente destinazione sanitaria: a) cosa 
debba intendersi per �attuazione del piano di riparto� degli immobili secondo l'art. 4 
della legge 29 giugno 1977 n. 349; b) se l'Ispettorato Generale Enti disciolti cui ven


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RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 

gano attribuiti immobili di cui sopra sia legittimato a procedere alla disdetta nelle convenzioni 
ed a richiedere il pagamento dell'indennit� di occupazione (es. 325/1997). 
PROPRIET� -Acquisto da parte della Pubblica Amministrazione per occupazione 

acquisitiva -Restituzione delle ritenute sulle somme corrisposte a titolo di 
risarcimento -Decadenza. 

Se l'istanza di rimborso della ritenuta IRPEF del 20% sugli importi corrisposti 
a titolo di risarcimento del danno per occupazione acquisitiva sia assoggettabile al 
termine decadenziale di diciotto mesi ai sensi dell'art. 38 del decreto del Presidente 
della Repubblica n. 602/1973 (et. 31471/1994). 

PUBBLICO DIPENDENTE -Spese di giudizio sostenute in procedimento avanti alla 
Corte dei Corti -Rimborsabilit� -Criteri. 

Rimborsabilit� delle spese di giudizio a favore del dipendente sottoposto a procedimento 
avanti alla Corte dei Conti conclusosi con il defmitivo proscioglimento. In particolare: 
a) se sia consentito al dipendente di avvalersi di uno o pi� legali; b) quali criteri 
debbano seguirsi per la valutazione delle richieste di rimborso. (es. 13460/1997). 

REGIONI -Successione nei debiti delle soppresse U.S.L. -Difetto legittimazione passiva 
-Sostenibilit� in giudizio. 

Se alla luce di consolidata giurisprudenza (Sezioni Unite della Corte di Cassazione 
sent. n. 1989/97, Cass. Lav. n. 526/1998 e n. 343/1998) si possa resistere in 
giudizio alle pretese avanzate da titolari di diritto di credito asseritamente vantati nei 
confronti delle pregresse unit� sanitarie locali con l'assorbente eccezione di difetto 
di legittimazione passiva dell'amministrazione regionale (es. 7203/1997). 

RISARCIMENTO DEL DANNO -Danno morale -Condanna provvisionale in favore della 

P.A. -Condanna di soggetto collaboratore di giustizia -Rinunziabilit�. 
Reati per finalit� terroristiche: rinunziabilit� delle pretese risarcitorie civili da 
parte della P.A. nel caso di condanna provvisionale al pagamento di una somma 
quantificata dal giudice penale e nei confronti di soggetti divenuti �collaboratori di 
giustizia� (es. 4876/1998). 

RISCOSSIONE -Pene pecuniarie penali -Spese dei procedimenti penali -Somme 
iscritte nel campione civile -Modalit� e competenza. 

Questo in ordine alle modalit� di riscossione per il recupero coattivo delle pene 
pecuniarie relative a reati tributari e non tributari, delle spese dei procedimenti 
penali e delle somme iscritte nel campione civile. In particolare, se residui la competenza 
delle cancellerie dopo l'entrata in vigore dell'art. 7 del decreto legislativo 

n. 237/1997 (es. 349/1998). 
SANZIONI AMMINISTRATIVE -Sanzioni in materia di collocamento -Per fatti e rap



-


PARTE II, CONSULTAZIONI 

porti giuridici sorti anteriormente ali'entrata in vigore della legge 2 8 novembre 
1996, n. 608. 

Se siano applicabili le sanzioni previste per la mancata comunicazione dell'avvenuta 
assunzione dei lavoratori alla sezione circoscrizionale per l'impiego e per la 
mancata consegna ai lavoratori della prescritta dichiarazione di registrazione relativamente 
a fatti e rapporti giuridici sorti antecedentemente all'entrata in vigore della 
legge 28 novembre 1996, n. 608 (es. 11702/1997). 

SERVIT� MILITARI -Indennizzo in favore dei proprietari colpiti da provvedimenti di 
vincolo militare -Contributo in favore di comuni -Condizioni -Variabilit�. 

Diritto all'indennizzo dei proprietari di terreni e/o di fabbricati colpiti da provvedimenti 
di vincolo militare e contributo dovuto ai comuni il cui territorio � assoggettato 
alle limitazioni derivanti da servit� militari: a) a quali condizioni sussista il 
diritto all'indennizzo; b) se l'indennizzo sia invariabile nel periodo di efficacia temporale 
del vincolo (es. 14429/1997). 

TRANSAZIONE -Da parte dello Stato per controversie insorte con concessionario di 
opera pubblica -Controversie future o per pretese non determinabili. 

Parere su schema di accordo normativo per la individuazione di criteri di soluzione 
delle vertenze correnti con concessionario di opera pubblica, con particolare 
riguardo a transazione di controversie non ancora insorte o nelle quali la natura e 
quantificazione di pretese e contestazioni non sia gi� determinabile (es. 9283/1998). 

TRIBUTI ERARIALI INDIRETTI -Imposte ipotecarie -Cancellazione di ipoteca -Cancellazione 
sequestro conser.vativo -Base imponibile. 

Imposta ipotecaria: come vada commisurata la base imponibile dell'imposta 
relativa alla cancellazione delle ipoteche ex art. 26 legge 4/1929 ed alla cancellazione 
di seguestro conservativo ex art. 316 codice procedura penale (es. 2536/1998). 

TRIBUTI IN GENERALE -Agevolazioni -Detassazione dal reddito d'impresa reinvestito 
-Requisiti. 

Detassazione dal reddito d'impresa, ai sensi dell'art. 3 del decreto legge 10 giugno 
1994 n. 357 conv. nella legge 8 agosto 1994 n. 489, del 50% del volume degli 
investimenti realizzati nei periodi di imposta 1994 e 1995 in eccedenza rispetto alla 
media degli investimenti realizzati nei cinque periodi di imposta precedenti. Cosa 
debba intendersi per �acquisto di beni strumentali nuovi� con particolare riferimento 
all'acquisto del diritto di sfruttamento di opere dell'ingegno (films, telefilms e 
simili). Se sia giustificabile la pretesa di considerare pari a O la media degli investimenti 
nell'ultimo quinquennio (es. 5294/1998). 

Diritti demaniali sugli incassi derivanti da rappresentazioni, esecuzioni e radiodifj�sioni 
di opere di pubblico dominio -Rappresentazione di opera musicale -Nozione. 


RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO

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a) Se siano dovuti i diritti demaniali sugli incassi derivanti da rappresentazioni, 
esecuzioni e radiodiffusioni di opere di pubblico dominio svolte anteriormente 
all' 1� gennaio 1997; b) se le composizioni sinfoniche vadano considerate tra le 
opere musicali indicate al primo comma dell'art. 175 della legge 22 aprile 1941, 

n. 633, assoggettate ai fini dell'applicazione del diritto demaniale all'aliquota del 
5% ovvero tra le brevi composizioni di cui al terzo comma dello stesso articolo, 
assoggettate alla maggiore aliquota del 7,5% (es. 6857/1994). 
Esenzioni -Domanda di accertamento -Versamento diretto -Rimborso -Decadenza 
-Termine dalla data del versamento. 

Esenzione tributaria. Se, in pendenza del procedimento amministrativo volto 
alla definizione della domanda per il riconoscimento dell'esenzione, il contribuente 
che abbia versato l'imposta al fine di non incorrere nelle sanzioni di legge per il 
caso di diniego dell'istanza abbia l'onere, a pena di decadenza, di richiederne il rimborso 
nel termine di 18 mesi indicato dall'art. 38 del decreto del Presidente della 
Repubblica 602/1973 (es. 3603/1998).