ANNO LXXIV - N. 1 GENNAIO - MARZO 2022 RASSEGNA AV V O C AT U R A DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO COMITATO SCIENTIfICO: Presidente: Michele Dipace. Componenti: Franco Coppi -Natalino Irti -Eugenio Picozza - Franco Gaetano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo -CONDIRETTORI: Maurizio Borgo, Danilo Del Gaizo e Stefano Varone. COMITATO DI REDAZIONE: Giacomo Aiello -Lorenzo D’Ascia -Gianni De Bellis -Wally Ferrante -Sergio Fiorentino -Paolo Gentili -Maria Vittoria Lumetti -Francesco Meloncelli -Marina Russo. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Andrea Michele Caridi -Stefano Maria Cerillo Pierfrancesco La Spina -Marco Meloni -Maria Assunta Mercati -Alfonso Mezzotero -Riccardo Montagnoli -Domenico Mutino -Nicola Parri -Adele Quattrone -Piero Vitullo. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE fASCICOLO: Enrico De Giovanni, Massimo Di Benedetto, Verdiana Fedeli, Michele Gerardo, Ilia Massarelli, Daniela Migali, Gaetana Natale, Gabriella Palmieri Sandulli, Giancarlo Pampanelli, Davide Giovanni Pintus, Valeria Romano, Emanuela Rosanò, Giorgio Santini, Marco Stigliano Messuti, Isabella Vitiello. Email Giuseppe fiengo rassegna@avvocaturastato.it maurizio.borgo@avvocaturastato.it danilodelgaizo@avvocaturastato.it stefanovarone@avvocaturastato.it ABBONAMENTO ANNUO ..............................................................................€ 40,00 UN NUMERO .............................................................................................. € 12,00 Per abbonamenti ed acquisti inviare copia della quietanza di versamento di bonifico bancario o postale a favore della Tesoreria dello Stato specificando codice IBAN: IT 42Q 01000 03245 348 0 10 2368 05, causale di versamento, indirizzo ove effettuare la spedizione, codice fiscale del versante. I destinatari della rivista sono pregati di comunicare eventuali variazioni di indirizzo AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA -Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 indice -sommario TEMI ISTITUZIONALI Enrico De Giovanni, Rimborso ai dipendenti delle spese legali di difesa ai sensi dell’art. 18 D.L. n. 67/1997, conv. in L. 135/1997. Parere di massima pag. 1 Atti di intimazione per finita locazione notificati da Investire SGR e altri locatori nei confronti dell’Agenzia del Demanio, in relazione a immobili conferiti nei fondi di cui all’articolo 4 del D.L. 25 settembre 2001, n. 351, conv. con mod. in L. 23 novembre 2001, n. 410, assegnati a varie amministrazioni usuarie. Direttive per la gestione degli affari contenziosi e consultivi, Circolare A.G. 16 settembre 2022 n. 57 . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 14 Protocollo d’intesa tra la Fondazione Arena di Verona e l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Venezia, Circolare A.G. 4 ottobre 2022 n. 61. . . ›› 19 Nuova denominazione delle Commissioni Tributarie in “Corti di giustizia tributaria”, disposta dall’art. 4 della legge 31 agosto 2022, n. 130, recante “Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributario”, Circolare A.G. 12 ottobre 2022 n. 63 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 23 CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Emanuela Rosanò, Tutela dei consumatori e giudicato implicito: è incompatibile con il diritto U.E. una normativa nazionale che preclude al giudice dell’esecuzione un sindacato sulla vessatorietà delle clausole di un contratto in relazione al quale è stato emesso un decreto ingiuntivo passato in giudicato (C. giust. Ue, Grande Sezione, sent. 17 maggio 2022, C-693/9 e C-831/19). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 25 CONTENZIOSO NAZIONALE Giancarlo Pampanelli, La Sezione lavoro della Cassazione inaugura il nuovo status di vittima del dovere (Cass., Sez. lav., sent. 30 maggio 2022 n. 17440). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 45 Wally ferrante, Benefici a favore delle vittime dei reati di stampo mafioso (Cons. St., Sez. III, sent. 14 febbraio 2022 n. 1072) . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 56 I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO Ilia Massarelli, Annullamento d’ufficio, da parte del Prefetto, degli atti posti in essere dal Sindaco in materia anagrafica . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 63 Massimo Di Benedetto, Cessione di credito di P.A. e modalità applicative dell’art. 48 bis d.P.R. 602/1973 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 73 Valeria Romano, Eventi sismici del 6 aprile 2009. Sussumibilità delle elargizioni in favore della CRI nella categoria del “negozio giuridico modale” ex art. 4, comma 1, lett. d), D.Lgs. 28 settembre 2012, n. 178. . . . ›› 92 Davide Giovanni Pintus, Contratti pubblici: perdita dei requisiti di una consorziata esecutrice di un consorzio tra imprese artigiane . . . . . . . . . ›› 108 Giorgio Santini, Attuale vigenza dell’art. 123 d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 alla procedura di esonero di un direttore generale preposto ad un ufficio dell’amministrazione penitenziaria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Marco Stigliano Messuti, Adele Berti Suman, Applicazione dell’imposta municipale unica (c.d. I.M.U.) sugli alloggi di servizio in uso al personale militare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . LEGISLAZIONE ED ATTUALITà Verdiana fedeli, L’anticorruzione nella gestione del territorio. . . . . . . . Gaetana Natale, Come cambierà la sanità dopo il Covid: le linee evolutive future del sistema sanitario nazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Daniela Migali, Tecnologia e diritto: gli effetti collaterali dei tabulati telefonici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTRIBUTI DI DOTTRINA Michele Gerardo, L’incidenza della gestione della pandemia e delle conseguenze della guerra in Ucraina sui contratti di appalto pubblico in corso di esecuzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Gaetana Natale, Metaverso: necessità di un diritto reale per un mondo virtuale. Gli aspetti giuridici rilevanti del Metaverso . . . . . . . . . . . . . . . Gaetana Natale, La cybersicurezza nazionale: la nuova frontiera della difesa dello Stato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Isabella Vitiello, Il governo delle spese nel processo tributario . . . . . . . pag. 127 ›› 138 ›› 151 ›› 175 ›› 196 ›› 215 ›› 237 ›› 252 ›› 260 TemiisTiTuzionaLi Rimborso ai dipendenti delle spese legali di difesa ai sensi dell’art. 18 D.L. n. 67/1997, conv. in L. 135/1997. Parere di massima (*) Con la nota che si riscontra l'Avvocatura distrettuale dello Stato di Caltanissetta segnala varie questioni generali in tema di rimborso ai dipendenti delle spese legali di difesa, in particolare svolgendo talune considerazioni sulle due circolari (Circolare n. 11/2021 in materia di rimborso spese di difesa in esito a giudizi di responsabilità dinanzi alla Corte dei Conti; Circolare n. 26/2021 -pareri in materia di rimborso delle spese di difesa dei dipendenti) a suo tempo emesse dall'Avvocato Generale Aggiunto; al riguardo si rappresenta, separatamente per ciascuna circolare, quanto segue, sentito il Comitato Consultivo, premettendo, innanzi tutto, per chiarezza espositiva e comodità di consultazione il contenuto dell'art. 18, comma 1, del d.l. n. 67/1997: "Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall'Avvocatura dello Stato. Le amministrazioni interessate, sentita l'Avvocatura dello Stato, possono concedere anticipazioni del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità". Circolare n. 11/2021 La circolare interpreta l'art. 10-bis, comma 10, della legge n. 248 del 2005 di conversione, con modificazioni, del decreto legge n. 203 del 2005 secondo (*) Parere reso in data 30 agosto 2022 con prot. 536844, AL 45627/21, V.A.G. Enrico DE GioVAnni, concernente quesiti sulle circolari n. 11/21 e n. 26/21, pubblicate rispettivamente in rass., 2020, iii, pp. 12-13 e rass., 2020, iV, pp. 8-12. rASSeGnA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -n. 1/2022 il quale: "Le disposizioni dell'articolo 3, comma 2 bis, del decreto legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 dicembre 1996, n. 639, e dell'articolo 18, comma 1, del decreto legge 25 marzo 1997, n. 67, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 maggio 1997, n. 135, si interpretano nel senso che il giudice contabile, in caso di proscioglimento nel merito, e con la sentenza che definisce il giudizio, ai sensi e con le modalità di cui all'articolo 91 del codice di procedura civile, non può disporre la compensazione delle spese del giudizio e liquida l'ammontare degli onorari e diritti spettanti alla difesa del prosciolto, fermo restando il parere di congruità dell'Avvocatura dello Stato da esprimere sulle richieste di rimborso avanzate all'amministrazione di appartenenza". La circolare, dopo aver riepilogato l'orientamento assunto dall'Avvocatura dello Stato in esito alla sentenza n. 19195/13 dalla Corte di cassazione e al disposto dell'art. 31 del D.Lgs. n. 174 del 2016, conclude che in virtù della sentenza n. 189/2020 della Corte costituzionale esso vada modificato nel senso che, anche nel caso in cui la Corte dei Conti abbia pronunciato sulle spese del giudizio contabile, sia consentita -nel rispetto dei requisiti fissati dall'art. 18, comma 1, del decreto legge 25 marzo 1997, n. 67, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 maggio 1997, n. 135 -l'autonoma valutazione e liquidazione, a fini di rimborso al dipendente, delle spese di difesa nei giudizi per responsabilità contabile-amministrativa dinanzi alla Corte dei Conti. Al riguardo il Distrettuale Ufficio svolge le seguenti osservazioni. La richiesta di parere richiama ampiamente il parere del Comitato Consultivo n. 13436 del 13 gennaio 2016 sull'art. 10-bis comma 10 D.L. 248/2005 in tema di giudizio davanti alla Corte dei Conti, ed esamina poi "le parti rilevanti della sentenza (della Corte costituzionale n.d.r.) al fine di verificarne l'impatto sulle posizioni precedentemente assunte dall'Istituto". Alla luce degli estratti della sentenza riportati nel quesito l'Avvocatura di Caltanissetta sottolinea: -che deve essere distinto il rapporto che ha per oggetto il giudizio di responsabilità contabile da quello che si instaura fra l'incolpato, poi assolto o prosciolto, e 1'amministrazione di appartenenza, relativamente al rimborso delle spese per la difesa poiché tra i due rapporti non vi sono elementi di connessione; -che la questione affrontata dal giudice delle leggi nella sentenza n. 189/2020 attiene in realtà alla rimborsabilità di spese legali sostenute in una fase antecedente al giudizio contabile vero e proprio concluso con sentenza del Giudice, e presuppone quindi una fattispecie nella quale il giudice contabile non si è pronunciato sulle spese del giudizio. Dunque, prosegue il quesito "la circolare estrapola ... un passaggio motivazionale e lo applica a una fattispecie -giudizio contabile definito con sentenza -non ricompreso nell'oggetto del giudizio di costituzionalità" e anzi temI IStItUzIonALI "l'orientamento precedentemente espresso dal Comitato Consultivo sembra coerente con l'art. 31 del Codice di giustizia Contabile e con i principi generali sul giudicato... il giudice contabile -ai sensi dell'art. 10 bis, comma 10, della legge n. 248 del 2005 cit. e dell'art. 31 c.g.c. -con la sentenza che chiude il processo, condanna il soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte e ne liquida l'ammontare ... Il giudicato, sulle spese del giudizio, vincola il dipendente e l'amministrazione di appartenenza ai sensi dell'art. 2909 c.c. in quanto la materia rientra pienamente nei limiti oggettivi e soggettivi del giudicato". Inoltre, "il procuratore contabile non solo riveste il ruolo di pubblico ministero, ma è anche il rappresentante processuale dell'amministrazione", e "L'Amministrazione non sembrerebbe quindi potersi sostituire al giudice contabile nella valutazione delle spese legali rimborsabili riconoscendo al dipendente somme diverse o ulteriori rispetto a quelle liquidate in sentenza (Cass. Civ., Sez. lavoro, Sent., 19 agosto 2013, n. 19195... La decisione della Corte dei Conti, ove non satisfattiva può essere impugnata, ma se passata in giudicato, non può che essere eseguita". Per valutare la fondatezza e condivisibilità di siffatte osservazioni giova trascrivere i passi della sentenza della Corte costituzionale che risultano particolarmente significativi per la presente indagine: "-Nella specie, con l'art. 18, comma 1, della legge prov. Trento n. 3 del 1999, è stata prevista la possibilità di rimborso delle spese sostenute per attività difensive svolte sia nelle fasi preliminari di giudizi civili, penali e contabili, sia nei procedimenti conclusi con l'archiviazione. Tale intervento attiene non al rapporto di impiego -e quindi alla competenza statale in materia di «ordinamento civile» -bensì al rapporto di servizio e si inserisce nel quadro di un complessivo apparato normativo volto a evitare che il pubblico dipendente possa subire condizionamenti in ragione delle conseguenze economiche di un procedimento giudiziario, anche laddove esso si concluda senza l'accertamento di responsabilità. 5.4.1. -Si tratta, invero, di finalità coerenti con la ratio della disciplina statale che -già con l'art. 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti) -ha delimitato la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica ai fatti e alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave. In questo modo, il legislatore statale ha inteso «predisporre, nei confronti degli amministratori e dei dipendenti pubblici, un assetto normativo in cui il timore delle responsabilità non esponga all'eventualità di rallentamenti ed inerzie nello svolgimento dell'attività amministrativa [...] determinando quanto del rischio dell'attività debba restare a carico dell'apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la pro rASSeGnA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -n. 1/2022 spettiva della responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo [...]» (sentenza n. 371 del 1998). Risulta ispirato alla medesima ratio anche l'art. 18, comma 1, del decreto legge 25 marzo 1997, n. 67 (Disposizioni urgenti per favorire l'occupazione), secondo cui «[l]e spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall'Avvocatura dello Stato [...]». Nella stessa direzione si pone l'interpretazione autentica di quest'ultima disposizione, indicata dall'art. 10-bis, comma 10, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito in legge 2 dicembre 2005, n. 248. Con espresso riferimento al giudizio contabile, esso, al comma 10, stabilisce che l'art. 18, comma 1, del d.l. n. 67 del 1997 si interpreta nel senso che «il giudice contabile, in caso di proscioglimento nel merito, e con la sentenza che definisce il giudizio, ai sensi e con le modalità di cui all'articolo 91 del codice di procedura civile, non può disporre la compensazione delle spese del giudizio e liquida l'ammontare degli onorari e diritti spettanti alla difesa del prosciolto.. [...]» ... -La realizzazione delle finalità sopra evidenziate può avvenire attraverso il riconoscimento del rimborso delle spese sostenute nell'ambito del giudizio di accertamento della responsabilità, ma ciò non esclude che le stesse possano essere perseguite anche mediante l'estensione del rimborso a oneri economici affrontati in fasi procedimentali distinte dal giudizio, ovvero in giudizi definiti per questioni preliminari o pregiudiziali. È quanto prevede la disposizione censurata, che riconosce il rimborso delle spese sostenute dai dipendenti provinciali per la difesa «nelle fasi preliminari di giudizi civili, penali e contabili», nonché «nei casi in cui è stata disposta l'archiviazione». ... -Infine, non è fondata neppure la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all'art. 103, secondo comma, Cost. La disciplina provinciale in esame non interferisce con la competenza della Corte dei conti in ordine all'accertamento dell'an della liquidazione delle spese nell'ambito del giudizio contabile e del successivo rimborso al dipendente. Essa, come si è detto, si limita, infatti, a regolare alcuni aspetti del rapporto di servizio fra l'amministrazione provinciale e il dipendente coinvolto in un procedimento concluso senza accertamento di responsabilità. Al riguardo va rilevato che -ferma restando la regolamentazione da parte del giudice contabile delle spese del relativo giudizio -deve essere dìstinto il temI IStItUzIonALI rapporto che ha per oggetto il giudizio di responsabilità contabile da quello che si instaura fra l'incolpato, poi assolto o prosciolto, e l'amministrazione di appartenenza, relativamente al rimborso delle spese per la difesa. Sia la giurisprudenza ordinaria, sia quella amministrativa, infatti, hanno riconosciuto che tra i due rapporti non vi sono elementi di connessione, in ragione della diversità del loro oggetto (Consiglio di Stato, sezione III, sentenza 28 luglio 2017, n. 3779; nello stesso senso, Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 14 marzo 2011, n. 5918, 24 marzo 2010, n. 6996, e 12 novembre 2003, n. 17014)". Proprio questo ultimo passaggio della sentenza della Corte costituzionale ("tra i due rapporti non vi sono elementi di connessione, in ragione della diversità del loro oggetto") era stato valorizzato dalla circolare, giungendo, quindi, alla conclusione della rimborsabilità delle spese legali ex art. 18 citato indipendentemente dall'importo liquidato dal Giudice contabile (salva la detrazione di quanto versato a tale titolo). Si osserva al riguardo che se è vero che "la questione affrontata dal giudice delle leggi attiene in realtà alla rimborsabilità di spese legali sostenute in una fase antecedente al giudizio contabile vero e proprio concluso con sentenza del Giudice", è pur vero che la sentenza si è comunque occupata del più generale problema della rimborsabilità delle spese legali sostenute dal pubblico dipendente, affermando una serie di principi (il legislatore statale ha inteso predisporre, nei confronti degli amministratori e dei dipendenti pubblici, un assetto normativo in cui il timore delle responsabilità non esponga all'eventualità di rallentamenti ed inerzie nello svolgimento dell'attività amministrativa [...] determinando quanto del rischio dell'attività debba restare a carico dell'apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo... La realizzazione delle finalità sopra evidenziate può avvenire attraverso il riconoscimento del rimborso delle spese sostenute nell'ambito del giudizio di accertamento della responsabilità, ma ciò non esclude che le stesse possano essere perseguite anche mediante l'estensione del rimborso a oneri economici affrontati in fasi procedimentali distinte dal giudizio... ferma restando la regolamentazione da parte del giudice contabile delle spese del relativo giudizio -deve essere distinto il rapporto che ha per oggetto il giudizio di responsabilità contabile da quello che si instaura fra l'incolpato, poi assolto o prosciolto, e l'amministrazione di appartenenza, relativamente al rimborso delle spese per la difesa... tra i due rapporti non vi sono elementi di connessione, in ragione della diversità del loro oggetto), che, letti nel loro necessario coordinamento, confermano la rimborsabilità delle spese legali ex art. 18 citato indipendentemente dall'importo liquidato dal Giudice contabile, al fine di evitare che restino a carico del dipendente (qualora abbia rettamente e legittimamente agito) rASSeGnA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -n. 1/2022 oneri economici che alterino il "punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo". In particolare, proprio l'accento posto dalla Corte costituzionale sulla distinzione tra il rapporto che ha per oggetto il giudizio di responsabilità contabile da quello che si instaura fra l'incolpato, poi assolto o prosciolto, e l'amministrazione di appartenenza relativamente al rimborso delle spese risulta decisivo nel senso di svincolare la determinazione dell'importo congruo e rimborsabile dalla statuizione sulle spese resa dal Giudice contabile. Analogo accento era stato posto sulla differenza tra i due rapporti dal Consiglio di Stato, nella sentenza n. 3779/17 (1), richiamata dalla Corte costituzionale, ove perentoriamente si afferma: "il rimborso delle spese sopportate dal dipendente prosciolto in sede di giudizio contabile, dovuto dall'Amministrazione di appartenenza, va necessariamente determinato autonomamente da quest'ultima, sulla base di un parere di congruità dell'Avvocatura erariale, non solo qualora la sentenza della Corte dei Conti non contiene alcuna statuizione sul punto, ma anche in presenza di una liquidazione effettuata dal giudice contabile, fermo restando che la somma liquidata dal predetto giudice va naturalmente assorbita nell'importo complessivo". (1) CDS sent. 3779/17: " ... ritiene il Collegio che non si possa condividere l'assunto dell'Amministrazione appellante della riserva esclusiva in capo al giudice contabile del potere di determinare le spese legali da rimborsare al dipendente assolto all'esito del giudizio contabile. Se è vero che l’art. 10bis, comma 10, del D.L. 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, nella L. 2 dicembre 2005, n. 248, statuisce che "il giudice contabile, in caso di proscioglimento nel merito, e con la sentenza che definisce il giudizio, ai sensi e con le modalità di cui all'articolo 91 del codice di procedura civile, non può disporre la compensazione delle spese del giudizio e liquida l'ammontare degli onorari e diritti spettanti alla difesa del prosciolto", nella risoluzione della questione giuridica sub iudice si deve infatti comunque tenere conto del principio di diritto enunciato dalle SS.UU., nella sentenza 14 marzo 2011, n. 5.918, per cui: "il rapporto, che si instaura fra l'incolpato, poi assolto, e l'amministrazione di appartenenza, nulla ha a che vedere con quello che ha per oggetto il giudizio di responsabilità contabile. Il primo, infatti, si riferisce al rimborso delle spese sopportate dall'incolpato, poi, assolto e si costituisce tra l'interessato e l'amministrazione di appartenenza. A questo rapporto è estraneo quello relativo al giudizio di responsabilità contabile. tra i due rapporti non vi sono elementi di connessione, in ragione della diversità del loro oggetto (così, Cass. SS.UU. 12 novembre 2003, n. 17.014)". In altre parole, mentre nel giudizio contabile la regolamentazione delle spese spetta appunto al giudice contabile, la statuizione sulle spese relative al rapporto sostanziale che intercorre fra amministrazione di appartenenza e dipendente -e sulla base del quale l'Amministrazione è onerata ex lege del suo rimborso in favore del dipendente prosciolto -esula dalla giurisdizione contabile, con la conseguenza che va affermata indubbiamente la piena autonomia dei due rapporti. Il predetto rapporto sostanziale trova la sua fonte di disciplina normativa principalmente nell'articolo 18, comma 1, del decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 maggio 1997, n. 135, il quale prevede che "le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall'Avvocatura dello Stato" e, in particolare, quanto al giudizio contabile, nell'articolo 3, comma 2-bis del D.L. 23 ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 dicembre 1996, n. 639, temI IStItUzIonALI Le considerazioni svolte dall'Avvocatura Distrettuale volte a valorizzare l'affermazione di cui alla pregressa sentenza Cass. Civ., Sez. lavoro, Sent. 19 agosto 2013, n. 19195 (2), il cui contenuto non sarebbe stato adeguatamente confutato, non colgono nel segno. secondo il quale: "In caso di definitivo proscioglimento ai sensi di quanto previsto dal comma 1 dell'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, come modificato dal comma 1 del presente articolo, le spese legali sostenute dai soggetti sottoposti al giudizio della Corte dei conti sono rimborsate dall'amministrazione di appartenenza". ebbene, appare evidente che la finalità dei due dettati normativi appena citati sia proprio quella di tenere indenne a tutti gli effetti il pubblico dipendente dalle spese legali sopportate in relazione a giudizi conclusisi con sentenza di esclusione di responsabilità; in altre parole, la normativa de qua va letta nel senso che va garantita senz'altro l'effettività del diritto al rimborso, con la ineludibile conseguenza che la sentenza di proscioglimento nel merito costituisce necessariamente mero presupposto di un credito che è attribuito dalla legge e che il giudice contabile, per i giudizi di sua competenza, è sì deputato a quantificare, ma salva comunque la definitiva determinazione del suo ammontare da compiere, su parere dell'Avvocatura dello Stato, con provvedimento dell'Amministrazione di appartenenza. Diversamente opinando, si ammetterebbe, infatti, che il diritto al rimborso delle spese sopportate che, come già detto, trova la sua origine nell'autonomo rapporto di natura sostanziale intercorrente tra Amministrazione e dipendente, possa essere irrimediabilmente e, eventualmente, anche ingiustificatamente condizionato e compromesso dalle statuizioni del giudice contabile, come per esempio attraverso la liquidazione di un importo meramente simbolico e comunque inferiore rispetto all'effettivo esborso congruamente determinato (come apparentemente successo, nella specie, all'esito del secondo grado di giudizio innanzi alla Corte dei Conti) o addirittura l'eventuale compensazione delle spese (come avvenuto nel caso di specie, con la sentenza di primo grado del giudice contabile), il che sarebbe senz'altro incompatibile con il principio della necessaria effettività del rimborso sopra affermato, considerato altresì il dovere dell'assistito al pagamento delle spese legali in favore del proprio difensore in base alla tariffa forense. Conseguentemente, il rimborso delle spese sopportate dal dipendente prosciolto in sede di giudizio contabile, dovuto dall'Amministrazione di appartenenza, va necessariamente determinato autonomamente da quest'ultima, sulla base di un parere di congruità dell'Avvocatura erariale, non solo qualora la sentenza della Corte dei conti non contiene alcuna statuizione sul punto, ma anche in presenza di una liquidazione effettuata dal giudice contabile, fermo restando che la somma liquidata dal predetto giudice va naturalmente assorbita nell'importo complessivo. Come già affermato dal primo giudice, detto parere che, quindi, non ha la mera funzione "di riscontro formale, sul piano amministrativo, della conformità della richiesta di rimborso rispetto alla misura liquidata in sentenza", come sostenuto dall'appellante, deve tenere conto delle necessità difensive dell'assistito in relazione alle accuse che gli sono state mosse ed ai rischi del giudizio e deve riguardare la conformità della parcella presentata dal difensore alla tariffa professionale ed ai criteri di fissazione del compenso ivi previsti. Sulla scorta di tale parere, spetta poi all'Amministrazione rimborsare l'importo dovuto, ovviamente, previa dimostrazione dell'effettivo pagamento della relativa somma al difensore, da parte del dipendente, in ossequio al principio dell'effettività del rimborso di cui si è già detto ed al fine di evitare qualsivoglia forma di possibile locupletazione in capo al beneficiario. (2) Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., 19 agosto 2013, n. 19195, " ... la coesistenza di una sorta di doppio binario sarebbe stata ancora ipotizzabile se il D.L. n. 203 del 2005, art. 10 bis, comma 10 si fosse limitato a sancire tout court l'obbligo di pronuncia sulle spese da parte del giudice contabile in caso di proscioglimento nel merito" mentre " ... il dichiarato intento di interpretare sia il D.L. n. 543 del 1996, cit. art. 3, comma 2 bis sia il D.L. n. 67 del 1997, cit. art. 18, comma 1, (originariamente riguardanti il rimborso extragiudiziale) indubbiamente milita per una ridefinizione del sistema ad esclusivo appannaggio della sede giudiziale e per la competenza funzionale (anche a fini di contenimento della spesa) del solo giudice contabile (che emette la sentenza di proscioglimento nel merito) in ordine alla liquidazione delle spese, con esclusione di ogni possibilità di loro quantificazione a pie di lista (e su ciò v., ancora, Cass. S.U. n. 8455/08: si noti che in quel caso non era stata emessa pronuncia sulle spese del giudizio contabile da parte della Corte dei conti)". rASSeGnA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -n. 1/2022 La Cassazione nella citata decisione 19 agosto 2013, n. 19195 riferendosi al D.L. n. 203 del 2005, art. 10-bis, comma 10, vi legge una "ridefinizione del sistema ad esclusivo appannaggio della sede giudiziale e per la competenza funzionale (anche a fini di contenimento della spesa) del solo giudice contabile (che emette la sentenza di proscioglimento nel merito) in ordine alla liquidazione delle spese, con esclusione di ogni possibilità di loro quantificazione a piè di lista": ora, fermo restando che il rimborso ex art. 18 non avviene a piè di lista, ma in base a valutazioni di congruità dell'Avvocatura dello Stato, appare evidente che la sentenza della Corte costituzionale e la giurisprudenza ivi citata sono proprio da intendersi come superamento della tesi suesposta, che viene completamente accantonata poiché l'affermazione secondo cui vi sarebbe "competenza funzionale del solo giudice contabile" è assolutamente incompatibile con la tesi della distinzione affermata dalla Corte costituzionale (e dal Consiglio di Stato) tra il "rapporto che ha per oggetto il giudizio di responsabilità contabile da quello che si instaura fra l'incolpato, poi assolto o prosciolto, e l'amministrazione di appartenenza, relativamente al rimborso delle spese per la difesa"; questo secondo rapporto sfugge, ovviamente, alla competenza del giudice contabile ponendosi su un piano diverso. Conseguenza della suesposta distinzione tra i due rapporti è che la pronuncia del giudice contabile sulle spese legali non è ostativa o preclusiva rispetto al rimborso ex art. 18 citato (ferma restando la detraibilità dalla somma congruita di quanto statuito dalla Corte dei conti); con il corollario della indipendenza del secondo rapporto dal primo, nel senso che ai fini della concessione o meno del rimborso ai sensi dell'art. 18 dovranno necessariamente sussistere tutti i presupposti di legge, che dovranno essere specificamente valutati caso per caso in sede di parere di congruità (cfr. ancora sentenza n. 3779/17 del Cons. di Stato: "il rimborso... dovuto dall'Amministrazione di appartenenza, va necessariamente determinato autonomamente da quest'ultima, sulla base di un parere di congruità dell'Avvocatura erariale..."), potendo anche ipotizzarsi il caso in cui, pur sussistendo una statuizione del Giudice contabile che liquida l'ammontare degli onorari e diritti spettanti alla difesa del prosciolto, tuttavia possa negarsi l'ulteriore rimborso ex art. 18 in esame in difetto dagli specifici presupposti di legge previsti da quest'ultima norma. Infine, è opportuno segnalare che, alla luce degli arresti giurisprudenziali sopra ricordati, vi è il rischio che eventuali contenziosi aventi ad oggetto il denegato rimborso ex art. 18 citato delle spese legali relativi a giudizi contabili possano avere esito negativo per l'Amministrazione, esponendola al rischio di condanne alle spese di lite; dunque eventuali pareri negativi del- l'Avvocatura avrebbero probabili, ancorché indiretti, effetti negativi per gli interessi erariali. La circolare n. 11/21 merita, quindi, di essere confermata, anche sulla base delle suesposte argomentazioni. temI IStItUzIonALI Circolare n. 26/2021 Il quesito dell'Avvocatura di Caltanissetta si appunta, poi, sulla Circolare n. 26/2021, così argomentando: "La seconda delle due circolari in oggetto si pone, sempre nella materia di cui all'art. 18 d.l. n. 67/1997, l'obiettivo di affrontare "le principali problematiche derivanti dalla disposizione costituendo documento di base per la predisposizione e redazione dei pareri nella medesima materia"; vengono segnalate in particolare le seguenti "criticità". "Viene anzitutto affermato che una parte della dottrina e della giurisprudenza aggiungono, ai due presupposti del diritto del dipendente al rimborso costituiti dalla connessione con l'espletamento del servizio e dall'esclusione di responsabilità, una terza condizione, consistente nell'assenza di conflitto di interesse con l'Amministrazione. L'esistenza di tale terzo presupposto è affermata da giurisprudenza consolidata e quantomeno prevalente". tuttavia "a pag. 4 si afferma in particolare: "si deve escludere che la valutazione in ordine alla ricorrenza -foss’anche eventuale -di rilievi disciplinari contenuta nella sentenza o nel provvedimento di esclusione di responsabilità possa incidere sul parere ex art. 18 spettando quella valutazione in via esclusiva all'amministrazione"; affermazione in contrasto con la circostanza che "l'affermazione in sentenza dell'esistenza di profili di responsabilità disciplinare del dipendente, è ritenuta nelle consultazioni rese in questo Distretto circostanza rilevante ai fini dell'accertamento del presupposto dell'assenza del conflitto di interessi... L'accertamento incidentale da parte del giudice penale della violazione di doveri di servizio sembrerebbe rilevare infatti, ai fini della valutazione dell'istanza di rimborso, nell'ambito di un procedimento amministrativo del tutto autonomo da quello disciplinare". Si ritiene al riguardo che l'affermazione contenuta nella circolare debba essere interpretata nel senso che laddove l'Amministrazione esprima una valuzione sulla rilevanza disciplinare della condotta del dipendente difforme da quella di cui alla decisione che ha escluso la responsabilità del dipendente, essa debba prevalere, al momento della valutazione sulla sussistenza dei presupposti per la rimborsabilità delle spese, su quella del giudice, poiché indubbiamente essa spetta, appunto, all'Amministrazione, ma ciò non significa che, in assenza di diversi giudizi dell'Amministrazione di appartenenza, le considerazioni della decisione giurisdizionale sul potenziale rilievo disciplinare della condotta non possano essere tenute presenti nella misura in cui contribuiscono a descrivere e definire la condotta del dipendente, come accertata processualmente, e la sua riconducibilità, o meno, al concetto di connessione con l'espletamento del servizio e assenza di conflitto di interessi con la P.A. Dunque, la valutazione in ordine alla ricorrenza di profili di rilievo disciplinare contenuta nella sentenza o nel provvedimento di esclusione di responsabilità non potrà risultare vincolante in sede di espressione del parere, ma dovrà comunque essere tenuta presente insieme a tutti gli altri elementi sinto rASSeGnA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -n. 1/2022 matici della connessione, o meno, della condotta all'espletamento del servizio e della presenza di un eventuale conflitto di interessi con l'Amministrazione. *** osserva ancora l'Avvocatura distrettuale che "Sempre a pag. 4 si fa una distinzione tra pronunce in rito che escludono in radice la punibilità dei fatti e che darebbero diritto al rimborso, e pronunce in rito che non escludono la responsabilità". In tali situazioni, prosegue il quesito, "questa Avvocatura ha sempre sostenuto che la liquidazione del rimborso può, anche con riferimento a questa tipologia di decisioni, essere esclusa in tutte le fattispecie in cui emerga" un conflitto di interessi. Si ritiene, al riguardo, che le due questioni attengano a profili diversi, ovvero da un lato a quello relativo alla corretta interpretazione delle pronunce in rito con riferimento all'esclusione della responsabilità, e dall'altro a quello relativo al conflitto di interessi e alla connessione con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento degli obblighi istituzionali: requisiti che, come pacifico e affermato dalla stessa circolare, devono coesistere. Dunque, anche in caso di pronuncia in rito occorre verificare la riconducibilità della condotta del dipendente al corretto espletamento del servizio o assolvimento degli obblighi istituzionali e all'assenza di conflitto di interessi. *** Ancora la richiesta di parere osserva che a "pag. 7, in materia di criteri per effettuare l'esame di congruità, si afferma che "la regola generale è che la congruità si debba attenere all'applicazione dei medi tariffari salva ovviamente la valutazione del caso specifico in relazione alla tipologia del giudizio, alla natura del suo oggetto e a tutti gli altri criteri analiticamente indicati nei DM succedutisi nel tempo". L'affermazione del principio per cui la liquidazione debba avvenire secondo i medi tariffari sembrerebbe idonea a generare l'onere di una specifica motivazione delle liquidazioni al disotto dei valori medi". non si ritiene, al riguardo, che la predetta indicazione determini un peculiare obbligo motivazionale del parere per autolimitazione; trattasi di indicazione generica e di massima (peraltro conforme alla stessa tecnica redazionale delle vigenti tariffe), che si limita suggerire un criterio di riferimento che possa ispirare, in modo omogeneo per tutti gli avvocati e procuratori dello Stato, una valutazione equa e di buon senso che possa correttamente rispondere alle più recenti indicazioni della Corte di cassazione (Corte Suprema di Cassazione, SS.UU. Civili, sent. n. 13861/15: "Le censure proposte dal ricorrente trascurano il rilievo che inevitabilmente assume il dovere del legislatore di tener conto delle esigenze di finanza pubblica, che impongono di non far carico all'erario di oneri eccedenti quanto è necessario, e al contempo sufficiente, per soddisfare gli interessi generali e i doveri giuridici che presidiano l'istituto del rimborso spese. ... Nel formulare il parere, l'avvocatura non può avere quale temI IStItUzIonALI riferimento esclusivo né, come vorrebbe il ricorso, l'interesse del dipendente a risultare sempre e in ogni caso indenne da ogni costo difensivo, né quello dell'amministrazione a minimizzare la spesa, poiché il parere deve essere reso in termini di congruità. Esso è soggetto al vaglio del giudice per il necessario controllo del rispetto dei principi di affidamento, ragionevolezza e tutela effettiva dei diritti riconosciuti dalla Costituzione, come è stato già chiarito da Cass. S.L., n. 1418/07. Ciò significa ovviamente che è lo stesso parere a doversi ispirare a questi criteri nel valutare sia le necessità difensive del funzionario, in relazione alle accuse che gli erano state mosse ed ai presupposti, alla rilevanza e all'andamento del giudizio penale, sia la conformità della parcella presentata dal difensore alla tariffa professionale o ai compensi contemplati secondo i vigenti parametri. La discrezionalità tecnica dell'avvocatura va indubbiamente intesa nel senso di dover considerare ogni elemento rilevante.... È questa l'occasione per chiarire e precisare che il riferimento, contenuto nella citata sentenza della sezione lavoro, al limite di quanto "strettamente necessario" non va inteso pedissequamente, soprattutto dopo il venir meno del "sistema" delle tariffe forensi, nel senso cioè di ritenere legittima solo l'applicazione dei minimi tariffari. L'espressione "strettamente necessario" traduce male, e rischia di tradire, il concetto di contemperamento dell'esigenza di salvaguardia della prudenza nell'erogazione della spesa pubblica e di protezione del dipendente infondatamente accusato, che è però ben spiegata dai riferimenti, che si rinvengono già nella pronuncia suddetta e nei precedenti giurisprudenziali noti, ai principi di affidamento, ragionevolezza e tutela effettiva dei diritti riconosciuti dalla Costituzione"). A questi criteri, chiaramente definiti dalle SS.UU. della Corte di cassazione, va dunque ispirata la valutazione di congruità e in tal senso va inteso il richiamo, si ribadisce meramente orientativo e di massima, ai valori medi contenuto nella circolare in esame. *** Ancora osserva l'Avvocatura di Caltanissetta che "ingiustificata rispetto a quanto affermato nella "circolare" stessa è l'affermazione che, nel caso di nomina di due difensori, il dipendente abbia diritto al rimborso delle spese per entrambi... Anche in questo caso la circolare sembrerebbe onerare l'Avvocatura dello Stato di motivare il rimborso ad un solo avvocato". Si ritiene, al riguardo, che quanto si legge nella circolare vada interpretato nel senso che laddove le norme di rito consentono di fare ricorso a due difensori non possa essere negato il rimborso a uno dei due solo in considerazione dell'intervenuta assistenza di altro legale; il che, ovviamente, non implica la circostanza che possano venir disapplicati i criteri di generale valutazione di congruità testé ricordati con richiamo della sentenza della Corte Suprema di Cassazione, SS.UU. Civili, n. 13861/15, che devono comunque essere seguiti. In altri termini ciò che rileva non è la circostanza che si liquidino due par rASSeGnA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -n. 1/2022 celle, bensì il fatto che la somma complessivamente concessa per il rimborso risulti congrua rispetto alle effettive necessità defensionali del dipendente, da valutare, appunto, tenendo "conto delle esigenze di finanza pubblica, che impongono di non far carico all'erario di oneri eccedenti quanto è necessario e al contempo sufficiente, per soddisfare gli interessi generali e i doveri giuridici che presidiano l'istituto del rimborso spese" rispettando il "concetto di contemperamento dell'esigenza di salvaguardia della prudenza nell'erogazione della spesa pubblica e di protezione del dipendente infondatamente accusato, che è però ben spiegata dai riferimenti, che si rinvengono già nella pronuncia suddetta e nei precedenti giurisprudenziali noti, ai principi di affidamento, ragionevolezza e tutela effettiva dei diritti riconosciuti dalla Costituzione". Il che, ovviamente, implica la necessità di valutare se la complessità e durata del giudizio richiedessero effettivamente l'impegno professionale del doppio difensore o se, semplicemente, l'impegno di ordinaria rilevanza sia stato ripartito fra i due difensori, con ovvie conseguenze sull'entità degli importi da ritenere congrui per ciascuno di essi. *** va, infine, segnalato che nel corso dell'esame dei quesiti oggetto del presente parere il Comitato Consultivo ha ritenuto di approfondire una tematica non esposta nella richiesta di parere, ma ad essa connessa, ritenendo espressamente, quindi, di ampliare la discussione e la conseguente espressione del parere anche ai temi della presenza del conflitto di interessi tra dipendente e P.A. quale elemento ostativo al rimborso e della valutazione ex ante o ex post della condotta oggetto del giudizio, in particolare ai fini della valutazione della connessione di fatti ed atti con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali. Sul primo tema va affermato che la presenza di un conflitto di interessi esclude in radice la rimborsabilità delle spese legali ex art. 18 in esame: in altri termini, pur se siffatto requisito non è indicato expressis verbis nella norma citata, tuttavia esso costituisce ovvia estrinsecazione del concetto di connessione dell'atto o fatto con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali, connessione da intendersi non nel senso di una mera occasionalità (come precisato più volte dalla giurisprudenza), ma nel senso di un corretto orientamento finalistico del fatto o atto al perseguimento dei fini propri dell'Amministrazione, con l'evidente corollario della non riconducibilità nell'alveo della previsione dell'art. 18 delle condotte che perseguono finalità contrarie o anche semplicemente estranee ai fini della P.A.(si veda Consiglio di Stato, sentenza n. 6554/2020: "non è quindi sufficiente che la condotta posta in essere sia avvenuta"in occasione del servizio", ma è necessario che essa fosse finalizzata all'espletamento dello stesso"). Il fatto o atto, tuttavia, va preso in considerazione ex post, cioè, alla luce della statuizione definitiva che ha concluso il giudizio, stabilendo l'assenza di temI IStItUzIonALI responsabilità del dipendente, restando irrilevante la ricostruzione, fattuale e giuridica, contenuta nell'atto che ha generato il giudizio (capo di imputazione, atto di citazione ecc.), giacché la norma in parola fa chiaro ed esclusivo riferimento ai giudizi "conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità" e, dunque, riconduce la valutazione dell'atto o fatto esclusivamente ed inequivocabilmente alla statuizione definitiva sia sul piano della ricostruzione fattuale che della loro qualificazione giuridica. È, peraltro, evidente che solo la verità fattuale come processualmente accertata in via definitiva può consentire una valutazione che consenta di raggiungere la finalità propria dell'art. 18 come definita dalla stessa relazione illustrativa al d.l. in esame: se si accerta giudizialmente in via definitiva che "il funzionario è stato onesto" negare il rimborso sulla base di una semplice prospettazione accusatoria rivelatasi infondata sarebbe conclusione irragionevole e iniqua, violatrice della ratio legis. Sul presente parere è stato sentito il Comitato Consultivo dell'Avvocatura dello Stato che si è espresso in conformità nella seduta del 19 luglio 2022. L'AvvoCAto GenerALe DeLLo StAto GABrIeLLA PALmIerI SAnDULLI IL vICe AvvoCAto GenerALe eStenSore enrICo De GIovAnnI rASSeGnA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -n. 1/2022 Avvocatura Generaledello Stato circoLArE n. 57/2022 oggetto: Atti di intimazione per finita locazione notificati da investire SGr e altri locatori nei confronti dell’Agenzia del Demanio, in relazione a immobili conferiti nei fondi di cui all’articolo 4 del D.L. 25 settembre 2001, n. 351, conv. con mod. in L. 23 novembre 2001, n. 410, assegnati a varie amministrazioni usuarie. Direttive per la gestione degli affari contenziosi e consultivi. 1. il quadro normativo di riferimento. L’art. 4 del decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351, recante disposizioni urgenti in materia di privatizzazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico e di sviluppo dei fondi comuni di investimento immobiliare, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 410, ha autorizzato il ministero dell’economia e delle finanze a promuovere la costituzione di uno o più fondi comuni di investimento immobiliare a cui conferire beni immobili -ad uso diverso da quello residenziale -di proprietà dello Stato, dell’Amministrazione Autonoma dei monopoli di Stato (oggi Agenzia delle Dogane e dei monopoli) e degli enti pubblici non territoriali. Con detto D.L. si è avviato, dunque, il processo di dismissione e conseguente privatizzazione dei beni immobili statali. Con i successivi Decreti del 9 giugno 2004 e del 20 ottobre 2004 sono stati costituiti due fondi di investimento: -il Fondo immobili Pubblici (FiP), gestito dalla società di gestione del fondo investire immobiliare sGR s.p.a., cui sono stati conferiti n. 396 beni immobiliari; -il Fondo Patrimonio uno (FP1 o FPu), gestito dalla società di gestione BnL Fondi Immobiliari SGr p.a., oggi BnP Paribas Real estate sGR p.a., cui sono stati conferiti n. 66 immobili, di cui n. 34 appartenenti al c.d. Pool A (assunti in locazione dall’Agenzia del Demanio) e n. 32 appartenenti al c.d. Pool B (non assunti in locazione dall’Agenzia del Demanio). Secondo quanto disposto dall’art. 4 del D.L. 351/2001, contestualmente al conferimento degli immobili nei fondi è stata prevista la stipula di contratti di locazione intercorrenti tra la locatrice (società di gestione del fondo) e la conduttrice (Agenzia del Demanio) con cessione in uso, da parte di quest’ultima, ad altre amministrazioni pubbliche. In detti contratti si è altresì previsto che alla locatrice originaria potesse succedere, nella stessa posizione negoziale, altro avente causa, a seguito di cessione della proprietà dell’immobile. 2. i contratti di locazione e gli atti di intimazione per finita locazione. L’Agenzia del Demanio ha stipulato con ciascuna delle società di gestione dei fondi, FIP e FP1, rispettivamente in data 29 dicembre 2004 e 30 dicembre temI IStItUzIonALI 2005, due contratti di locazione, ognuno dei quali concerne il complesso degli immobili conferiti al singolo fondo. Il loro contenuto è stato integralmente previsto dal Decreto operazione del 15 dicembre 2004, pubblicato in G.U. n. 303 del 28 dicembre 2004 S.o., che ne ha disciplinato, oltre alle clausole e i profili relativi all’eventuale responsabilità contrattuale, anche la durata di anni nove rinnovabile per ulteriori nove anni. Il collegato disciplinare di assegnazione ha invece regolato l’aspetto concernente l’uso degli immobili da parte delle Amministrazioni utilizzatrici. Successivamente al primo rinnovo automatico, tra l’Agenzia del Demanio e le società di gestione sono intercorse molteplici trattative finalizzate alla stipula di nuovi contratti di locazione, le quali, tuttavia, non hanno finora avuto esito positivo. Pertanto, in vista della definitiva scadenza del primo contratto, relativo agli immobili conferiti nel fondo FIP, prevista per il 28 dicembre 2022, i locatori -in prevalenza la Investire Immobiliare SGr S.p.A. -hanno avviato le diverse procedure ex art. 657 c.p.c., notificando gli atti di intimazione per finita locazione presso le singole sedi dell’Avvocatura dello Stato. tale procedimento che, come noto, è disciplinato dagli artt. 657 e ss. c.p.c., consente al locatore -ancor prima dell’intervenuta scadenza del contratto -di ottenere dal giudice adito l’ordinanza di convalida, ossia una “condanna in futuro” da eseguire alla cessazione degli effetti contrattuali. Il conduttore, entro l’udienza di citazione e convalida, ove spieghi opposizione fondata su prova scritta, può ottenere la reiezione della convalida con conseguente conclusione della fase sommaria e prosecuzione del giudizio secondo il rito ordinario, quale quello locatizio, che ai sensi dell’art. 447-bis c.p.c. segue la disciplina del rito del lavoro. ***** tenuto conto della rilevanza e della diffusione nazionale del contenzioso in atto, nonché della sua interferenza con la trattativa negoziale di competenza della Direzione Centrale dell’Agenzia del demanio ai sensi dell’art. 4, comma 2-sexies, del D.L. n. 351/2001, e altresì della circostanza che alcune amministrazioni usuarie, titolari di situazioni giuridiche particolari, consistenti nella facoltà di autonoma gestione dei relativi contratti, hanno formulato richieste di parere connesse alle vicende in esame, si ritiene opportuno, con la presente circolare, fornire direttive per la trattazione dei relativi affari contenziosi e consultivi, al fine di assicurare l’uniformità e l’omogeneità della difesa del- l’amministrazione in giudizio e della consulenza alla stessa. 3. Le questioni giuridiche sottese alla difesa. Con la prima opposizione spiegata dinanzi al tribunale di roma, si è fatta valere l’inammissibilità e l’infondatezza dell’intimazione, in quanto in contrasto con le previsioni dell’art. 4 del D.L. n. 351/2001, così come introdotto e, successivamente, modificato dall’art. 69 del decreto-legge 14 agosto 2020, rASSeGnA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -n. 1/2022 n. 104, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 ottobre 2020, n. 126, nonché dall'art. 10, comma 2-bis, lett. a), n. 2), del decreto-legge 30 dicembre 2021, n. 228, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 febbraio 2022, n. 15 nell’ambito delle misure atte a fronteggiare l’emergenza sanitaria da diffusione del virus SArS-Cov-2. La suddetta norma, nel testo attualmente vigente prevede che “... in caso di mancata sottoscrizione dei contratti di cui al comma 2-sexies e di permanenza delle amministrazioni utilizzatrici in mancanza di alternative negli immobili per i quali si verifichi ogni ipotesi di scioglimento o cessazione degli effetti dei contratti di locazione previsti dal comma 2-ter, è dovuta un'indennità di occupazione precaria pari al canone pro tempore vigente, senza applicazione di alcuna penale, onere o maggiorazione fatto salvo l'eventuale risarcimento del danno ulteriore provato dal locatore. Le disposizioni di cui al presente comma si inseriscono automaticamente nei predetti contratti di locazione in corso, ai sensi dell'articolo 1339 del codice civile, anche in deroga ad ogni eventuale diversa pattuizione esistente e hanno efficacia per un periodo massimo di quarantotto mesi a decorrere dallo scioglimento o dalla cessazione predetti”. Si potrebbe interpretare il dettato normativo nel senso che la legge attribuisce alle amministrazioni un diritto potestativo di permanere negli immobili, anche dopo la scadenza del contratto di locazione, in forza di una situazione di fatto espressamente qualificata come occupazione precaria, purché vi sia la comprovata mancanza di soluzioni allocative alternative. Inoltre, è rilevante evidenziare che la vincolatività di tale disposizione è sancita a livello contrattuale dall’automatico inserimento ai sensi dell’art. 1339 codice civile. Pertanto, a fini difensivi, si è fatta valere la legittimità della possibile permanenza dell’Amministrazione negli immobili, in forza di una situazione di fatto, qual è l’occupazione precaria, normativamente prevista, vincolante per le parti ai sensi della citata norma del codice civile, ma subordinata alla mancanza di alternative allocative per le amministrazioni usuarie. Si è quindi sottolineato che la condanna in futuro, tipica delle intimazioni ex art. 657 c.p.c., non è concedibile in tale contesto normativo, in quanto l’ulteriore circostanza fattuale della mancanza di alternative utili è accertabile solo ed esclusivamente alla scadenza stessa del contratto, ben potendo le Amministrazioni utilizzatrici, mediante soluzioni allocative alternative, evitare d’incorrere nell’occupazione precaria. La norma speciale del D.L. n. 351/2001, attualmente vigente, inoltre, ha disciplinato puntualmente anche gli aspetti economici derivanti da tale peculiare occupazione, quali l’indennizzo da corrispondere “pari al canone pro tempore vigente, senza applicazione di alcuna penale, onere o maggiorazione” nonché “l’eventuale risarcimento del danno ulteriore provato dal locatore”. Sotto tale ultimo aspetto, dunque, potrà considerarsi risarcibile -sempre temI IStItUzIonALI ove corroborato da prova -il danno ulteriore alla mera permanenza nell’immobile, per la quale, invece, dovrà corrispondersi un indennizzo, a riprova della legittimità dell’occupazione. In proposito, nell’ipotesi che il locatore adduca la circostanza di avere la possibilità di stipulare nuovi contratti di locazione con terzi, magari a condizioni contrattuali più favorevoli di quelle in essere con l’Agenzia del Demanio, la richiesta di risarcimento del danno ulteriore da perdita di chance contrattuali alternative, per un verso, potrebbe essere avversata, qualora si riuscisse a dimostrare la pretestuosità delle trattative, condotte col terzo pur in presenza di una normativa che consente all’amministrazione un’occupazione precaria di durata non insignificante e, per altro verso, potrebbe essere contrastata, nel suo ammontare liquidabile come voce di danno ulteriore, per l’astrattezza della chance, le cui probabilità di verificazione sono scarse, per effetto della situazione del mercato immobiliare nel periodo pandemico, di cui la normativa ha tenuto conto. tanto premesso, al fine di rendere omogenea e coerente la tutela dell’Amministrazione in giudizio anche nelle altre cause pendenti, si raccomanda di spiegare tempestiva opposizione avverso gli atti di intimazione di licenza per finita locazione, insistendo per l’inammissibilità delle procedure poste in essere, in virtù del summenzionato art. 4 D.L. 351/2001. In aggiunta, al fine di fornire prova scritta per l’opposizione, volta ad evitare l’immediata convalida da parte del giudice, s’invita a sollecitare l’Agenzia del Demanio e le singole amministrazioni utilizzatrici a trasmettere ogni documento utile, comprovante la concreta (anche ove infruttuosa) ricerca di immobili alternativi, tale da giustificare la permanenza precaria negli immobili locati. Allo scopo di rendere nota l’attività difensiva già svolta nella “causa pilota” pendente dinanzi al tribunale di roma, si allega la comparsa di risposta depositata in tale giudizio, alla quale le Avvocature Distrettuali potranno ispirarsi nella redazione degli atti difensivi di competenza. Le Avvocature Distrettuali sono invitate, comunque, a tenere tempestivamente informata l’Avvocatura Generale (Sezione III -sezione3@mailcert.avvocaturastato. it) sugli sviluppi del contenzioso locale e delle decisioni sostanziali assunte dall’autorità giudiziaria. Del pari, i vice Avvocati Generali e gli Avvocati Distrettuali sono invitati a coordinare l’attività consultiva inerente alle locazioni in oggetto con la Sezione III dell’Avvocatura Generale (vag.3sezione@avvocaturastato.it), in relazione ad eventuali pareri che singole Amministrazioni assegnatarie dell’immobile o articolazioni dell’Agenzia del Demanio inoltrino all’Istituto per chiedere suggerimenti in ordine alle iniziative da prendere in relazione ai contratti di locazione in scadenza. Infine, in considerazione della natura unitaria del rapporto di locazione degli immobili conferiti in ognuno dei due predetti fondi, nonché dell’analogia rASSeGnA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -n. 1/2022 tra i due contratti di locazione, l’Agenzia del Demanio ha rappresentato, per le vie brevi, l’esigenza che a livello locale non si proceda a mediazione e negoziazione assistita alcuna o a trattative stragiudiziali, se esse non siano state strettamente coordinate con le attività svolte dalle competenti Direzioni Centrali dell’Agenzia a livello nazionale. Di conseguenza, anche le Avvocature Distrettuali vorranno segnalare con tempestività alla Sezione III dell’Avvocatura Generale ogni iniziativa di mediazione, negoziazione assistita o transazione stragiudiziale di cui il contenzioso in sede locale dovesse costituire occasione. L'AvvoCAto GenerALe Avv. Gabriella Palmieri Sandulli (omissis) temI IStItUzIonALI Avvocatura Generaledello Stato circoLArE n. 61/2022 oggetto: Protocollo d’intesa tra la Fondazione Arena di Verona e l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Venezia. Si comunica che con protocollo d'intesa sottoscritto in data 29 settembre 2022 tra l'Avvocatura Distrettuale di venezia e la Fondazione Arena di verona, che si acclude alla presente, sono state definite le modalità di esplicazione del patrocinio dell'Avvocatura dello Stato in favore della Fondazione stessa. L'AvvoCAto GenerALe Avv. Gabriella Palmieri Sandulli PRoToCoLLo Di inTesa tra FonDazione aRena Di VeRona rappresentata dal dottor Luca migliore, su delega del Sovrintendente, giusta procura notaio mattia marino, repertorio n. 2812 del 23 settembre 2022, qui allegata e aVVoCaTuRa DisTReTTuaLe DeLLo sTaTo Di Venezia rappresentata dall'Avvocato distrettuale dello Stato, Avv. Stefano maria Cerillo a ciò autorizzato dall'Avvocato Generale con nota 10 settembre 2022 n. 560500 PremeSSo a) che la Fondazione Arena di verona, (di seguito denominata solo "Fondazione") ai sensi dell’art. 1, comma 4, del D.L. n. 345/2000, convertito in Legge n. 6/2001, e dell'art. 43 r.D. 30 ottobre 1933 n. 1611 può avvalersi della consulenza e del patrocinio legale dell'Avvocatura dello Stato (di seguito denominata solo "Avvocatura"), e che detto patrocinio è stato in anni risalenti già saltuariamente prestato con reciproca soddisfazione delle parti firmatarie del presente protocollo; b) che, a tal riguardo, ai sensi dell'art. 43, comma 4, r.D. n. 1611/1933, è stata già ritenuta l'ammissibilità e legittimità (già espressa, riguardo alle Fondazioni lirico-sinfoniche, che dal Comitato Consultivo dell'Avvocatura Generale dello Stato nel parere 19 luglio 2012 e nel parere 26 giugno 2015) dell'utilizzo dello strumento convenzionale, per poter disciplinare concordemente non solo le modalità di prestazione del predetto patrocinio, ma anche eventualmente anche i casi in cui, la stessa fondazione, previa apposita e motivata delibera del Consiglio di Indirizzo, nel caso anche accompagnata da determina del Sovrintendente, possa prevedere, in limitata deroga al carattere generale ed esclusivo del patrocinio dell'Avvocatura, che, in ragione della peculiarità, della loro natura, del loro numero e della loro frequenza, alcune controversie possano essere affidate ad avvocati del libero foro; c) che lo strumento convenzionale appare anche il più idoneo, anche in ragione del rilevante carico di lavoro che grava in via generale sull'Avvocatura dello Stato e della necessità di far rASSeGnA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -n. 1/2022 fronte ai molteplici e contestuali incombenti processuali dinanzi a tutte le Autorità Giurisdizionali, in sede civile, penale e amministrativa, ad assicurare una più organica definizione delle modalità di collaborazione in ambito legale tra i due soggetti; tutto quanto fin qui premesso, che costituisce parte integrante anche della parte dispositiva del presente atto, tra la Fondazione Arena di verona e l'Avvocatura Distrettuale dello Stato di venezia si conviene quanto segue: a) attività Consultiva 1) La Fondazione può ricorrere ai sensi dell'art. 47 del r.D. 1611/1933 all'attività consultiva dell' Avvocatura in merito a questioni giuridiche particolari o interpretative di carattere generale relative ad ogni ambito della propria attività istituzionale ovvero anche in relazione a vertenze potenziali o già in atto, precisando nella richiesta anche il relativo grado di urgenza della consultazione e correlando la stessa della necessaria documentazione atta ad evidenziare la fattispecie oggetto del quesito. 2) Considerato che l'efficacia dell'attività consultiva è direttamente correlata alla tempestiva acquisizione dei chiesti pareri, l'Avvocatura si impegna a rendere la richiesta consultazione con tempestività e, comunque, nel rispetto dei termini eventualmente indicati come imposti dai vari procedimenti amministrativi in relazione ai quali la consulenza è richiesta. B) assistenza e rappresentanza in giudizio 1) L'Avvocatura ai sensi dell'art. 43, comma 1, del r.D. 1611/1933 fornisce il proprio patrocinio in tutte le fasi di merito dei contenziosi davanti al Giudice ordinario, anche in sede esecutiva, al fine di assicurare, nel modo migliore, la piena tutela degli interessi pubblici di competenza della Fondazione, con esclusione dei casi in cui nella vertenza vi sia un conflitto di interessi con Amministrazioni dello Stato soggette al patrocinio obbligatorio ex art. 1 del r.D. 1611/1933. L'eventuale fase di giudizio in sede di legittimità sarà assicurata dall'Avvocatura Generale dello Stato ex art. 9, 1 e 2 comma, della legge 103/1079. L'Avvocatura ha facoltà di delegare legali esterni esercenti nel circondario ove si svolge il giudizio per la rappresentanza della Fondazione nei giudizi fuori della sede degli Uffici della stessa con oneri a carico dell'ente patrocinato ai sensi dell'art. 2, comma 1, del r.D. 1611/1933 cit. Ai sensi di quanto disposto dall'art. 9, commi 1 e 2, della legge 9 aprile 1973 n. 103 l'Avvocatura Distrettuale curerà la trattazione delle controversie avanti le Autorità giudiziarie civili, penali ed amministrative ed ai collegi arbitrali aventi sede nel distretto di competenza. In applicazione della norma succitata l'Avvocatura Generale dello Stato provvederà alla rappresentanza e difesa della Fondazione nei giudizi avanti la Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato e le altre Autorità giurisdizionali ed i collegi arbitrali aventi sede in roma oltre che nei procedimenti innanzi ai collegi internazionali o comunitari. 2) Previo parere positivo del Comitato Consultivo dell'Avvocatura Generale su richiesta del- l'Avvocato Distrettuale, ex art. 9 comma 3 della predetta legge n. 103/1979, la trattazione del ricorso per Cassazione e davanti al Consiglio di Stato può essere anche affidata all'avvocato dello Stato in servizio nella sede distrettuale che ha seguito la causa in primo grado e, in tale ipotesi, le spese di missione del predetto per la trattazione delle cause davanti alle magistrature superiori sono a carico dell'ente patrocinato. 3) ove un atto introduttivo del giudizio venga notificato direttamente alla Fondazione, la stessa provvede ad interessare l'Avvocatura con la massima sollecitudine, anche nell'ipotesi in cui non sia ancora in grado di fornire una completa informazione e documentazione in merito alla vertenza per cui è causa. tale completa e documentata relazione sui fatti oggetto di causa e sulle questioni diritto controverse, quale necessario supporto per l'efficace difesa delle temI IStItUzIonALI ragioni della stessa Fondazione, dovrà essere comunque rimessa all'Avvocatura nel più breve tempo possibile e comunque non oltre i dieci giorni precedenti la scadenza del primo termine processuale. 4) Al fine di rendere praticabile, operativamente, un percorso di immediata e diretta comunicazione, anche informale, in sede di richiesta verrà precisato il nominativo del funzionario responsabile del procedimento, con le modalità per la sua immediata reperibiìità (telefono, fax, e-mail); analogamente l’Avvocatura provvederà a segnalare alla struttura richiedente il nominativo dell'Avvocato incaricato dell'affare e le suindicate modalità di immediata reperibilità. Qualora gli atti introduttivi del giudizio, o di un grado di giudizio, vengano notificati all’Avvocatura, sono da quest'ultima prontamente inviati alla Fondazione con ogni relativa occorrenda richiesta istruttoria. 5) L'Avvocatura provvede a tenere informata la Fondazione dei significativi sviluppi delle controversie in corso dalla stessa curate, anche con l'eventuale invio di ogni atto o documento proprio o delle controparti che venga ritenuto necessario sottoporre all'esame dello stesso ente patrocinato, dando comunque pronta comunicazione dell'esito del giudizio con la trasmissione di copia della decisione, in particolare se notificata. ove si tratti di pronuncia sfavorevole per la Fondazione suscettibile di gravame, l'Avvocatura renderà tempestivamente il proprio parere in ordine alle possibilità di utile impugnabilità della medesima. 6) A richiesta della Fondazione, l'Avvocatura può assumere, ai sensi dell'art. 44 del rD. n. 1611/1933, la rappresentanza e la difesa di dipendenti della stessa Fondazione nei giudizi civili e penali che li interessano per fatti e cause di servizio. In tal caso la richiesta del dipendente dovrà essere inviata all'Avvocato Generale direttamente o per il tramite dell’Avvocatura Distrettuale, unitamente ad una propria determinazione nella quale venga esclusa, nella posi- zone del dipendente, l'esistenza di ogni profilo di conflitto di interesse con le stesso ente nella specifica vertenza. 7) L'Avvocatura, in applicazione dell'articolo 21 terzo comma, del r.D. 1611/1933, provvede al diretto recupero nei confronti delle controparti delle competenze ed onorari di giudizio, posti a loro carico per effetto di sentenza, ordinanza, rinuncia o transazione ai fini dell'acquisizione al bilancio dello Stato per le finalità ivi prescritte. 8) Il patrocinio della Fondazione, compatibilmente con le esigenze di servzio, sarà prevalentemente affidato a due avvocati dello Stato in servizio che verranno indicati dall’Avvocato Distrettuale con successiva nota; i suddetti avvocati assicureranno l’espletamento di tutti gli incombenti necessari ed opportuni in sede contenziosa e consultiva e potranno essere contattati anche per le vie brevi presso i recapiti che gli stessi forniranno. 9) restano escluse dal patrocinio ex lege dell'Avvocatura le controversie di natura tributaria instaurate, o da instaurare, dinanzi alle Commissioni tributarie provinciali e regionali nelle quali siano ravvisabili conflitti anche virtuali di interessi fra le posizioni della Fondazione e gli Uffici Finanziari tutelati e rappresentati ex officio dall’Avvocatura dello Stato; per tali controversie la Fondazione si riserva di individuare, sulla base di un rapporto fiduciario, avvocati del libero foro cui affidare la rappresentanza processuale e l'assistenza necessaria alla difesa dei propri interessi. 10) Le parti concordano altresì che, in casi speciali, previa apposita e motivata delibera del Consiglio di Indirizzo, nel caso anche accompagnata da determina del Sovrintendente, possano essere affidate ad avvocati del libero foro particolari cause promosse o da promuovere, nei vari gradi di giudizio, in materia giuslavoristica, contributiva e previdenziale, penale ed in altri ambiti del diritto civile non compresi nei punti precedenti, con esclusione di quelle di rASSeGnA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -n. 1/2022 notevole rilevanza generale ed aventi considerevoli riflessi sugli assetti organizzativi e finanziari della Fondazione (che saranno individuate dalle parti d'intesa fra loro, anche in occasione degli incontri di cui al successivo punto 12. Per le controversie nelle materie indicate nel punto 10 la Fondazione si riserva di individuare, secondo l'intuitus personae e su base fiduciaria, avvocati del libero foro cui affidare la rappresentanza processuale e l'assistenza necessaria alla difesa dei propri interessi, anche nelle fasi di precontenzioso, di negoziazione assistita e conciliative previste dalla legge nelle rispettive materie. 11) restano escluse dalla deroga al patrocinio dell'Avvocatura, di cui al punto precedente 10), tutte le controversie nelle restanti materie, con riferimento in via esemplificativa e non esaustiva: societario, tributario, commerciale, questioni di competenza delle Corti Internazionali salvo diverso accordo fra la Fondazione e l'Avvocatura. La stessa disciplina sul patrocinio troverà applicazione anche nelle fasi di precontenzioso, di negoziazione assistita e conciliative previste dalla legge nelle rispettive materie precisandosi che in tale fase l’Avvocatura eserciterà attività prevalentemente consultiva in merito alla possibilità di conciliazione della lite in tali ambiti. 12) L'Avvocatura e la Fondazione si impegnano a segnalare reciprocamente tutte le difficoltà operative eventualmente insorte nella gestione dei rapporti oggetto del presente protocollo. Allo scopo di provvedere -nello spirito della migliore collaborazione -al superamento delle stesse, saranno anche concordate riunioni periodiche e, comunque, ogni qual volta se ne presenti la necessità, al fine di affrontare per le vie brevi le problematiche connesse e conseguenti alla corretta gestione dell'attività amministrativa della Fondazione e del contenzioso in atto o in formazione. 13) Il presente protocollo ha durata illimitata e potrà essere in ogni momento modificato e integrato d'intesa fra le parti; potrà essere risolto da entrambe le parti, con le conseguenze di legge, con preavviso formale di tre mesi o per intervenuta diversa disciplina normativa. venezia, 29 settembre 2022 Avvocatura dello Stato L'Avvocato Distrettuale dello Stato Avv. Stefano maria Cerillo Fondazione Arena di verona per il Sovrintendente Luca migliore temI IStItUzIonALI Avvocatura Generaledello Stato circoLArE n. 63/2022 oggetto: nuova denominazione delle commissioni Tributarie in "corti di giustizia tributaria", disposta dall'art. 4 della legge 31 agosto 2022, n. 130, recante "Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributario". Sulla G.U. del 1° settembre 2022, n. 204, è stata pubblicata la legge 31 agosto 2022, n. 130, recante "Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributario", entrata in vigore il 16 settembre 2022. L'art. 4 della legge ("Disposizioni in materia di processo tributario") ha introdotto una serie di modifiche al D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546. In particolare il comma 1 dell'art. 4 ha disposto che "Al decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, sono apportate le seguenti modificazioni: a) le parole: «commissione tributaria provinciale», «commissioni tributarie provinciali», «commissione tributaria regionale», «commissioni tributarie regionali», «commissione tributaria» e «commissioni tributarie», ovunque ricorrono, sono sostituite rispettivamente dalle seguenti: «corte di giustizia tributaria di primo grado», «corti di giustizia tributaria di primo grado», «corte di giustizia tributaria di secondo grado», «corti di giustizia tributaria di secondo grado», «corte di giustizia tributaria di primo e secondo grado» e «corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado»; [..]". ne consegue che, a partire dal 16 settembre 2022 (data di entrata in vigore della legge n. 130/2022): 1) tutti i giudizi proposti e tutti gli atti da depositare davanti alle (ex) Commissioni tributarie, dovranno essere diretti alla competente "corte di giustizia tributaria" (di primo o secondo grado); 2) conseguentemente anche le istanze ex art. 369 c.p.c. da allegare ai ricorsi per cassazione dovranno essere dirette sempre alle nuove "corti di giustizia tributaria"; 3) nei ricorsi per cassazione dovrà invece essere indicata la denominazione del giudice come risultante dalla sentenza da impugnare. Per effetto della riforma è venuta meno la diversità di denominazione delle commissioni tributarie di trento e Bolzano (già Commissioni tributarie di primo e secondo grado), ora denominate -al pari delle altre -Corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado. La geografia delle nuove corti di giustizia tributarie è consultabile sul sito del ministero dell'economia e delle Finanze al seguente indirizzo: https://www.giustiziatributaria.gov.it/gt/it/web/guest/motore-diricerca- per-le-sedi-delle-cc.tt. L'AvvoCAto GenerALe Avv. Gabriella Palmieri Sandulli ConTEnziosoComUniTarioEdinTErnazionalE Tutela dei consumatori e giudicato implicito: è incompatibile con il diritto U.E. una normativa nazionale che preclude al giudice dell’esecuzione un sindacato sulla vessatorietà delle clausole di un contratto in relazione al quale è stato emesso un decreto ingiuntivo passato in giudicato Nota a Corte di giustizia dell’uNioNe europea, graNde sezioNe, seNteNza 17 maggio 2022, C-693/19 e C-831/19 Emanuela Rosanò* Con la recente sentenza del 17 maggio 2022 (cause riunite C-693/19 e C831/ 19) la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, si è pronunciata sulla compatibilità con il diritto euro-unitario della normativa italiana, come applicata da consolidata giurisprudenza -anche di legittimità -, che preclude al giudice dell'esecuzione di effettuare un sindacato sulla vessatorietà delle clausole di un contratto in relazione al quale è stato emesso un decreto ingiuntivo non opposto e che preclude allo stesso giudice, nel caso in cui il consumatore manifesti la volontà di volersi avvalere dell'abusività della clausola contenuta nel contratto in forza del quale è stato formato il titolo esecutivo, di superare gli effetti del giudicato implicito. Le questioni pregiudiziali sono state rimesse dal Tribunale di Milano, con due distinte ordinanze, nell’ambito di controversie relative a procedimenti di esecuzione azionati in forza di titoli esecutivi (decreti ingiuntivi) che avevano acquistato autorità di cosa giudicata, in mancanza di tempestiva opposizione da parte del debitore esecutato. l’oggetto dei procedimenti principali, i fatti rilevanti e i quesiti pregiudiziali. Nella causa C-693/19 il rinvio pregiudiziale è stato sollevato nell’ambito (*) Avvocato e specialista giuridico legale finanziario presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, già praticante presso l’Avvocatura Generale dello Stato. rASSEGNA AvvOCATUrA DELLO STATO -N. 1/2022 di un procedimento di esecuzione forzata diretto ad ottenere il recupero dei crediti risultanti da alcuni contratti di finanziamento. Tale procedimento è stato azionato sulla base di un decreto ingiuntivo divenuto esecutivo, non avendo il debitore proposto opposizione avverso il medesimo. Il giudice dell’esecuzione, in sede di assegnazione delle somme oggetto di espropriazione, ritenuto che la clausola relativa alla quantificazione del tasso di interesse moratorio potesse presentare carattere abusivo, ha disposto la produzione, da parte della creditrice procedente, dei contratti sulla base dei quali era stato emesso il decreto ingiuntivo non opposto e ha invitato il debitore a comparire alla successiva udienza e a manifestare la propria volontà di avvalersi del carattere abusivo di tale clausola. Anche nella causa C-831/19 l’azione esecutiva è stata promossa in forza di un decreto ingiuntivo non opposto e, quindi, divenuto esecutivo emesso a favore del creditore procedente nei confronti del debitore principale e di quattro fideiussori. Il giudice dell’esecuzione -alla luce di un mutamento di giurisprudenza intervenuto dopo l’instaurazione della procedura espropriativa (tale per cui il fideiussore, al verificarsi di certe condizioni, può essere qualificato come consumatore, con estensione quindi al primo di tutte le garanzie previste per quest’ultimo) -ha rilevato la possibile qualificabilità come consumatore di uno dei fideiussori che ha, per l’effetto, dichiarato di volere eccepire la vessatorietà di alcune clausole contenute nei contratti di fideiussione. Occorre in proposito rilevare che, al tempo dell’emissione del decreto ingiuntivo, non era prevista la possibilità per il fideiussore di eccepire la vessatorietà delle clausole del contratto stipulato con il professionista in quanto, per giurisprudenza costante, sia europea che nazionale, il fideiussore non era qualificabile come consumatore. Essendo mutato il diritto vivente dopo l’instaurazione della procedura di espropriazione, il giudice del rinvio si chiede se tale situazione abbia compromesso il principio di effettività e, pertanto, sia superabile il limite del giudicato ormai formatosi sul decreto ingiuntivo per mancata opposizione. Il giudice a quo si chiede inoltre se le regole nazionali sul giudicato implicito siano compatibili con il diritto dell’Unione allorchè la decisione passata in giudicato (implicito) sia manifestamente in contrasto con il diritto ad un rimedio effettivo. Di seguito, le questioni pregiudiziali rimesse alla Corte di Giustizia: Causa C-693/19:“se ed a quali condizioni gli artt. 6 e 7 della direttiva 93/13/Cee e l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea ostino ad un ordinamento nazionale, come quello delineato, che preclude al giudice dell’esecuzione di effettuare un sindacato intrinseco di un titolo esecutivo giudiziale passato in giudicato e che preclude allo stesso giudice, in caso di manifestazione di volontà del consumatore di volersi avvalere della abusività della clausola contenuta nel contratto in forza del quale e stato formato il titolo esecutivo, di superare gli effetti del giudicato implicito”. Causa C-831/19: “A) se ed a quali condizioni il combinato disposto degli CONTENzIOSO COMUNITArIO ED INTErNAzIONALE artt. 6 e 7 della direttiva 93/13/Cee e dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea osti ad un ordinamento nazionale, come quello delineato, che preclude al giudice dell’esecuzione di effettuare un sindacato intrinseco di un titolo esecutivo giudiziale passato in giudicato, allorquando il consumatore, avuta consapevolezza del proprio status (consapevolezza precedentemente preclusa dal diritto vivente), richieda di effettuare un simile sindacato. B) se ed a quali condizioni il combinato disposto degli artt. 6 e 7 della direttiva 93/13/Cee e dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali del- l’unione europea osti ad un ordinamento come quello nazionale che, a fronte di un giudicato implicito sulla mancata vessatorietà di una clausola contrattuale, preclude al giudice dell’esecuzione, chiamato a decidere su un’opposizione all’esecuzione proposta dal consumatore, di rilevare una simile vessatorietà e se una simile preclusione possa ritenersi esistente anche ove, in relazione al diritto vivente vigente al momento della formazione del giudicato, la valutazione della vessatorietà della clausola era preclusa dalla non qualifìcabilità del fideiussore come consumatore”. Con decisione del 23 febbraio 2021, le cause sono state rinviate dinanzi alla Grande Sezione e riunite ai fini della fase orale del procedimento e della sentenza. il giudicato nell’interpretazione della giurisprudenza nazionale e i motivi dei rinvii pregiudiziali. Secondo la giurisprudenza di legittimità assolutamente maggioritaria l’autorità del giudicato spiega i suoi effetti anche in riferimento al decreto ingiuntivo di condanna al pagamento di una somma di denaro, il quale, ove non sia proposta opposizione, acquista efficacia di giudicato non solo in ordine al credito azionato, ma anche in relazione al titolo posto a fondamento dello stesso, precludendo in tal modo ogni ulteriore esame delle ragioni addotte a giustificazione della relativa domanda (1). risulta quindi accolto, con riferimento al decreto ingiuntivo non opposto, il principio -di creazione giurisprudenziale del c.d. “giudicato implicito”, fondato sull’argomento logico per il quale se il giudice si è pronunciato su una determinata questione ha, evidentemente, risolto in senso non ostativo tutte le altre questioni da considerare preliminari rispetto a quella esplicitamente decisa (2). Così precisata la portata del giudicato conseguente alla mancata tempestiva proposizione di opposizione al decreto ingiuntivo, si osserva come, una volta conseguito il titolo esecutivo giudiziale, il creditore, previa notifica dell’atto di precetto può, notificando il pignoramento, instaurare un procedimento di espropriazione forzata; proce (1) Cass., 28 novembre 2017, n. 28318, che richiama anche le conformi decisioni Cass. 28 agosto 2009, n. 18791 e Cass. 6 settembre 2007, n. 18725; nello stesso senso, tra le altre, Cass. 24 settembre 2018, n. 22465, Cass. 26 giugno 2015, n. 13207. (2) Cfr. tra le altre, Cass., S.U., 12 dicembre 2014, n. 26242. rASSEGNA AvvOCATUrA DELLO STATO -N. 1/2022 dimento disciplinato sulla base di regole generali (contenute nel titolo II, capo I del libro III del codice di procedura civile) e di regole specifiche relative al particolare bene oggetto del pignoramento. Mediante l’espropriazione presso terzi (disciplinata a partire dall’art. 543 c.p.c.), in particolare, il creditore, sulla base di un titolo esecutivo, sottopone ad espropriazione forzata (mediante notifica del pignoramento), i crediti del proprio debitore nei confronti di terzi. Con riferimento ai poteri esercitabili d’ufficio dal giudice dell’esecuzione occorre rilevare come, secondo quanto costantemente affermato dalla Suprema Corte, l’esistenza di un valido titolo esecutivo costituisca condizione del- l’azione esecutiva (3); il titolo esecutivo deve pertanto permanere per l’intera durata dell’espropriazione, destinata altrimenti a divenire improcedibile (4). In conseguenza del principio espresso dal brocardo “nulla executio sine titolo” il giudice dell’esecuzione è quindi titolare del potere-dovere di verificare l’esistenza del titolo esecutivo all’inizio e per l’intera durata del processo esecutivo, dovendo, ove tale titolo difetti, arrestare il processo (5). Il potere officioso del giudice dell’esecuzione è tuttavia limitato alla sola esistenza del titolo esecutivo e non può estendersi anche al contenuto intrinseco dello stesso, sì da invalidarne l’efficacia in base ad eccezioni che possano e debbano essere dedotte nel giudizio di cognizione (in caso di decreto ingiuntivo, mediante proposizione dell’opposizione allo stesso decreto). Nelle due controversie il giudice dell’esecuzione si domanda se l’articolo 6, paragrafo 1 (6), e l’articolo 7, paragrafo 1 (7), della direttiva 93/13 debbano essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell’esecuzione non possa -per il motivo che l’autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità -successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole. In altri termini, il giudice del rinvio si chiede se il diritto ad una tutela effettiva derivante dagli artt. 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE letti in combinato disposto (3) Cfr. tra le tante, Cass., S.U., 28 novembre 2012, n. 21110. (4) Cfr. tra le tante, Cass., S.U., 28 novembre 2012, n. 21110, Cass. 6 agosto 2002, n. 11769, Cass. 24 maggio 2002, n. 7631. (5) Cfr. tra le tante, Cass. 16 aprile 2013, n. 9161, Cass. 28 luglio 2011, n. 16541, Cass. 6 agosto 2002, n. 11769. (6) Direttiva 93/13/CEE, art. 6, par. 1 “gli stati membri prevedono che le clausole abusive contenute in un contratto stipulato fra un consumatore ed un professionista non vincolano il consumatore, alle condizioni stabilite dalle loro legislazioni nazionali, e che il contratto resti vincolante per le parti secondo i medesimi termini, sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive”. (7) Direttiva 93/13/CEE, art. 7, par. 1 “gli stati membri, nell'interesse dei consumatori e dei concorrenti professionali, provvedono a fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l'inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori”. CONTENzIOSO COMUNITArIO ED INTErNAzIONALE con l’art. 47 (8) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea consenta al consumatore di contestare, mediante un’opposizione all’esecuzione, il contenuto intrinseco di una decisione giudiziale che, pur non avendo esplicitamente statuito sulla natura vessatoria delle clausole contenute in un contratto, sia ormai passata in giudicato. Nella causa C-831/19 il giudice del rinvio si chiede altresì se, nella situazione in concreto ricorrente, il diritto vigente al momento della formazione del titolo giudiziale (che non consentiva di qualificare il fideiussore come consumatore) e che sia -nel frattempo -mutato dopo l’instaurazione della procedura di espropriazione, possa costituire un elemento idoneo a rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti al consumatore attribuiti dalla disciplina nazionale di recepimento della direttiva 93/13/CEE. Secondo il Tribunale di Milano l’esercizio di poteri officiosi del giudice, lungi dall’essere espressione di una mancata imparzialità dello stesso, può ritenersi indice di una visione del giudicante non limitata a quella di arbitro di una controversia tra le parti, ma di rappresentante dell’interesse generale della società. Peraltro, oltre che in relazione all’evocato profilo di imparzialità, il giudice del rinvio, pone a fondamento della propria domanda (anche) il sopra citato art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sul presupposto che a tale norma è stato attribuito rilievo nella prospettiva dell’“efficacia dei diritti che i soggetti dell’ordinamento traggono dalla direttiva 93/13 contro l’uso di clausole abusive” (9) ed in considerazione del segnalato limite, per il giudice dell’esecuzione, di compiere un sindacato intrinseco sul titolo giudiziale. la giurisprudenza della Corte di giustizia sui doveri del giudice in materia di tutela del consumatore e sulla superabilità del giudicato. Sin dalla sentenza 27 giugno 2000, cause riunite da C-240/98 a C-244/98, oceano grupo editorial e salvat editores, la Corte di giustizia ha affermato che “il sistema di tutela istituito dalla direttiva è fondato sull’idea che il consumatore si trovi in una situazione di inferiorità rispetto al professionista per quanto riguarda sia il potere nelle trattative sia il grado di informazione, situazione che lo induce ad aderire alle condizioni predisposte dal professioni (8) Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, art. 47 (“diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale”) “ogni individuo i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo. ogni individuo ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. ogni individuo ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare. a coloro che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello stato qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia”. (9) Corte di giustizia, 17 luglio 2014, C-169/14, Juan Carlos sanchez mordilo, maria del Carmen abril garcla, p. 35 e giurisprudenza ivi citata. rASSEGNA AvvOCATUrA DELLO STATO -N. 1/2022 sta, senza poter incidere sul contenuto delle stesse” (10) e che "l’obiettivo perseguito dall’art. 6 della direttiva, che obbliga gli stati membri a prevedere che le clausole abusive non vincolino i consumatori, non potrebbe essere conseguito se questi ultimi fossero tenuti a eccepire essi stessi l’illiceità di tali clausole. in controversie di valore spesso limitato, gli onorari dei legali possono essere superiori agli interessi in gioco, il che può dissuadere il consumatore dall'opporsi all’applicazione di una clausola abusiva. sebbene in controversie del genere le norme processuali di molti stati membri consentano ai singoli di difendersi da soli, esiste un rischio non trascurabile che, soprattutto per ignoranza, il consumatore non faccia valere l’illiceità della clausola oppostagli. Ne discende che una tutela effettiva del consumatore può essere ottenuta solo se il giudice nazionale ha facoltà di valutare d’ufficio tale clausola”. Quella che, nella citata sentenza del 2000, era, per il giudice, una mera facoltà è divenuta, con la sentenza della Corte del 4 giugno 2009, C-243/08, pannon gsm zrt, un vero e proprio dovere di esame officioso della abusività della clausola a partire dal momento in cui il giudice disponga “degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine” (e ferma la necessità di acquisire la manifestazione di volontà del consumatore di avvalersi della natura abusiva e non vincolante della clausola). La rilevanza dell’interesse alla base della tutela assicurata dalla direttiva 93/13/CEE al consumatore è stata del resto ulteriormente e ripetutamente confermata anche da quelle decisioni con le quali la Corte, ha assimilato l’art. 6 della direttiva 93/13/CEE alle norme nazionali d’ordine pubblico (11). La consapevolezza dello stretto rapporto esistente tra effettività delle disposizioni a tutela del consumatore ed idoneità delle procedure atte a prevenire -dissuadendole -eventuali violazioni ha comportato un progressivo ampliamento dell’attivismo giudiziale dalla Corte, delineato nella consapevolezza che la disuguaglianza esistente tra consumatore e professionista può essere riequilibrata solo grazie a un intervento positivo da parte di soggetti estranei al rapporto contrattuale. In questo senso si collocano quelle decisioni che, in applicazione ora del principio dell’equivalenza, ora del principio di effettività della tutela, hanno attribuito al giudice nazionale poteri istruttori officiosi (12) e quelle decisioni che, a determinate condizioni, hanno previsto la superabilità del giudicato. (10) In termini, tra le tante, Corte di giustizia, 14 giugno 2012, C-618/10, Banco espahol de Credito sa, Corte di giustizia, 6 ottobre 2009, C-40/08, asturcom, Corte di giustizia, 26 ottobre 2006, C168/ 05, mostaza Claro. (11) Tra le tante, Corte di giustizia, 21 dicembre 2016, cause riunite C-154/15, C-307/15 e C308/ 15, Francisco gutierrez Naranjo, Corte di giustizia, 30 maggio 2013, C-488/11, dirk Frederik asbeek Brusse, Katarina de man garabito, Corte di giustizia, 6 ottobre 2009, C-40/08, asturcom. (12) Corte di giustizia, 4 giugno 2015, C-497/13, Froukje Faber; Corte di giustizia, 9 novembre 2010, C-137/08, VB penziigyi lizing. CONTENzIOSO COMUNITArIO ED INTErNAzIONALE In particolare, con la sentenza 26 gennaio 2017, C-421/14, Banco primus sa, la Corte di Giustizia ha affermato che “in presenza di una o di più clausole contrattuali la cui eventuale abusività non sia stata ancora esaminata nel- l’ambito di un precedente controllo giurisdizionale del contratto controverso terminato con una decisione munita di autorità di cosa giudicata, la direttiva 93/13 deve essere interpretata nel senso che il giudice nazionale, regolarmente adito dal consumatore mediante un’opposizione incidentale, è tenuto a valutare, su istanza delle parti o d’ufficio qualora disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, l’eventuale abusività di tali clausole”. Ove risultasse precluso un simile controllo, infatti, la tutela del consumatore sarebbe “incompleta ed insufficiente e costituirebbe un mezzo inadeguato ed inefficace per far cessare l’utilizzo di questo tipo di clausole, contrariamente a quanto disposto all’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13” (punto 52). la sentenza della Corte di giustizia dell’unione europea. La Corte di Giustizia (Grande Sezione), pronunciandosi sulle questioni ad essa rimesse dal Tribunale di Milano ha così statuito: “L’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell’esecuzione non possa -per il motivo che l’autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità -successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole. La circostanza che, alla data in cui il decreto ingiuntivo è divenuto definitivo, il debitore ignorava di poter essere qualificato come «consumatore» ai sensi di tale direttiva è irrilevante a tale riguardo”. Osserva, in particolare, la Corte che il sistema di tutela istituito con la direttiva 93/13 si fonda sull’idea che il consumatore si trovi in una posizione di inferiorità nei confronti del professionista per quanto riguarda sia il potere negoziale sia il livello di informazione. A tale riguardo, la CGUE ha già -con giurisprudenza consolidata -dichiarato che il giudice nazionale è tenuto a esaminare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale che ricade nell’ambito di applicazione della direttiva 93/13 e, in tal modo, a ovviare allo squilibrio che esiste tra il consumatore e il professionista, laddove disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine (13). (13) Cfr. Corte di Giustizia, 14 marzo 2013, aziz, C-415/11, punto 46 e giurisprudenza ivi citata; Corte di Giustizia, 21 dicembre 2016, gutiérrez Naranjo e a., C-154/15, C-307/15 e C-308/15, punto 58, e Corte di Giustizia, 26 gennaio 2017, Banco primus, C-421/14, punto 43. rASSEGNA AvvOCATUrA DELLO STATO -N. 1/2022 Prosegue la sentenza, rilevando come il diritto dell’Unione non armonizzi le procedure applicabili all’esame del carattere asseritamente abusivo di una clausola contrattuale che, quindi, rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in forza del principio dell’autonomia processuale di questi ultimi, a condizione, tuttavia, che esse non siano meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività) (14). In particolare, ad avviso della Corte “in assenza di un controllo efficace del carattere potenzialmente abusivo delle clausole del contratto di cui trattasi, il rispetto dei diritti conferiti dalla direttiva 93/13 non può essere garantito (15)” (punto 62). Orbene, in relazione alle questioni sottoposte al suo esame, la Corte premette che la normativa nazionale prevede che, nell’ambito del procedimento di esecuzione dei decreti ingiuntivi non opposti, il giudice dell’esecuzione non può esercitare un controllo nel merito del decreto ingiuntivo né controllare, d’ufficio o su domanda del consumatore, il carattere abusivo delle clausole del contratto alla base di tale decreto ingiuntivo, per via dell’autorità di cosa giudicata implicita acquisita da quest’ultimo. Ad avviso della Corte “una normativa nazionale secondo la quale un esame d’ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali si considera avvenuto e coperto dall’autorità di cosa giudicata anche in assenza di qualsiasi motivazione in tal senso contenuta in un atto quale un decreto ingiuntivo può, tenuto conto della natura e dell’importanza dell’interesse pubblico sotteso alla tutela che la direttiva 93/13 conferisce ai consumatori, privare del suo contenuto l’obbligo incombente al giudice nazionale di procedere a un esame d’ufficio dell’eventuale carattere abusivo delle clausole contrattuali”. Ne consegue, aggiunge la Corte che “in un caso del genere, l’esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva impone che il giudice dell’esecuzione possa valutare, anche per la prima volta, l’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto alla base di un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore e contro il quale il debitore non ha proposto opposizione” (punti 65 e 66). In merito, infine, alla questione (sollevata dal Tribunale di Milano nella causa C-831/19) relativa alla rilevanza -ai fini del potere del giudice di rilevare d’ufficio il carattere abusivo della clausola contrattuale -della circostanza che, alla data in cui il decreto ingiuntivo è divenuto definitivo, il debitore ignorava (14) v., in particolare, sentenza del 26 giugno 2019, addiko Bank, C-407/18, EU:C:2019:537, punti 45 e 46. (15) Corte di Giustizia, 4 giugno 2020, Kancelaria medius, C-495/19, punto 35 e giurisprudenza ivi citata. CONTENzIOSO COMUNITArIO ED INTErNAzIONALE di poter essere qualificato come consumatore, la Corte conclude affermando che “ (…) il fatto che il debitore ignorava, al momento in cui questa precedente decisione giurisdizionale è divenuta definitiva, il proprio status di consumatore, ai sensi della direttiva 93/13, è irrilevante, poiché, il giudice nazionale è tenuto a valutare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale rientrante nell’ambito di applicazione di tale direttiva” (punto 67). Corte di giustizia dell’Unione europea, Grande sezione, sentenza 17 maggio 2022, cause riunite C-693/19 e C-831/19 -pres. K. Lenaerts, rel. S. rodin -SPv Project 1503 Srl e Dobank SpA c. YB (C-693/19) e Banco di Desio e della Brianza SpA ed a. c. YX e zW (C831/ 19) -Domande di pronuncia pregiudiziale proposte dal Tribunale di Milano, con ordinanze del 10 agosto 2019 e del 31 ottobre 2019, pervenute in cancelleria rispettivamente il 13 settembre 2019 e il 14 novembre 2019. «rinvio pregiudiziale -Direttiva 93/13/CEE -Clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori -Principio di equivalenza -Principio di effettività -Procedimenti d’ingiunzione di pagamento e di espropriazione presso terzi -Autorità di cosa giudicata che copre implicitamente la validità delle clausole del titolo esecutivo -Potere del giudice dell’esecuzione di esaminare d’ufficio l’eventuale carattere abusivo di una clausola» 1 Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione degli articoli 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori (GU 1993, L 95, pag. 29), e dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»). 2 Tali domande sono state presentate nell’ambito di controversie che vedono contrapposti, da un lato, la SPv Project 1503 Srl (in prosieguo: la «SPv») e la Dobank SpA, in quanto mandataria dell’Unicredit SpA, a YB e, dall’altro, Banco di Desio e della Brianza SpA (in prosieguo: «BDB») e altri istituti di credito a YX e zW, in merito a procedimenti di esecuzione forzata basati su titoli esecutivi che hanno acquisito autorità di cosa giudicata. Contesto normativo Diritto dell’Unione 3 Il ventiquattresimo considerando della direttiva 93/13 stabilisce che «le autorità giudiziarie e gli organi amministrativi degli Stati membri devono disporre dei mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione delle clausole abusive contenute nei contratti stipulati con i consumatori». 4 L’articolo 2, lettera b), di tale direttiva così dispone: «Ai fini della presente direttiva si intende per: (…) “consumatore”: qualsiasi persona fisica che, nei contratti oggetto della presente direttiva, agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività professionale; (…)». 5 L’articolo 6, paragrafo 1, di detta direttiva prevede quanto segue: «Gli Stati membri prevedono che le clausole abusive contenute in un contratto stipulato fra un consumatore ed un professionista non vincolano il consumatore, alle condizioni rASSEGNA AvvOCATUrA DELLO STATO -N. 1/2022 stabilite dalle loro legislazioni nazionali, e che il contratto resti vincolante per le parti secondo i medesimi termini, sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive». 6 Ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, della medesima direttiva: «Gli Stati membri, nell’interesse dei consumatori e dei concorrenti professionali, provvedono a fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori». Diritto italiano 7 Il decreto legislativo del 6 settembre 2005, n. 206 -Codice del consumo, a norma dell’articolo 7 della legge 29 luglio 2003, n. 229 (supplemento ordinario alla GUrI n. 235 dell’8 ottobre 2005), che ha recepito la direttiva 93/13, all’articolo 33, paragrafi 1 e 2, così dispone: «1. Nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. 2. Si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che hanno per oggetto, o per effetto, di: (...) f) imporre al consumatore, in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente d’importo manifestamente eccessivo; (…)». 8 L’articolo 36, paragrafi 1 e 3, di tale decreto legislativo prevede quanto segue: «1. Le clausole considerate vessatorie ai sensi degli articoli 33 e 34 sono nulle mentre il contratto rimane valido per il resto. (...) 3. La nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice». 9 Il codice di procedura civile, nella versione applicabile alle controversie principali, all’articolo 633, relativo alle condizioni di ammissibilità, così recita: «Su domanda di chi è creditore di una somma liquida di danaro o di una determinata quantità di cose fungibili, o di chi ha diritto alla consegna di una cosa mobile determinata, il giudice competente pronuncia ingiunzione di pagamento o di consegna: 1) se del diritto fatto valere si dà prova scritta; (...)». 10 L’articolo 640 di tale codice stabilisce quanto segue: «Il giudice, se ritiene insufficientemente giustificata la domanda, dispone che il cancelliere ne dia notizia al ricorrente, invitandolo a provvedere alla prova. Se il ricorrente non risponde all’invito o non ritira il ricorso oppure se la domanda non è accoglibile, il giudice la rigetta con decreto motivato. Tale decreto non pregiudica la riproposizione della domanda, anche in via ordinaria». 11 L’articolo 641 di detto codice prevede che, in caso di accoglimento della domanda, il giudice ingiunga all’altra parte di pagare la somma di denaro e lo informi della possibilità di presentare opposizione entro il termine di 40 giorni. 12 L’articolo 647 del codice di procedura civile, nella versione applicabile alle controversie principali, intitolato «Esecutorietà per mancata opposizione o per mancata attività del- l’opponente», così recita: «Se non è stata fatta opposizione nel termine stabilito, oppure l’opponente non si è costi CONTENzIOSO COMUNITArIO ED INTErNAzIONALE tuito, il giudice che ha pronunciato il decreto, su istanza anche verbale del ricorrente, lo dichiara esecutivo. (...) Quando il decreto è stato dichiarato esecutivo a norma del presente articolo, l’opposizione non può essere più proposta né proseguita, salvo il disposto dell’articolo 650, e la cauzione eventualmente prestata è liberata». 13 Ai sensi dell’articolo 650 di tale codice, relativo all’opposizione tardiva: «L’intimato può fare opposizione anche dopo scaduto il termine fissato nel decreto, se prova di non averne avuta tempestiva conoscenza per irregolarità della notificazione o per caso fortuito o forza maggiore. (...) L’opposizione non è più ammessa decorsi dieci giorni dal primo atto di esecuzione». 14 L’articolo 2909 del codice civile, relativo alla cosa giudicata, così dispone: «L’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa». 15 Il giudice del rinvio riferisce che, secondo la giurisprudenza maggioritaria della Corte suprema di cassazione (Italia), il decreto ingiuntivo di condanna al pagamento di una somma di denaro che non sia stato oggetto di opposizione acquista autorità di cosa giudicata non solo in ordine al credito azionato, ma anche in relazione al titolo posto a fondamento dello stesso, precludendo in tal modo ogni ulteriore esame delle ragioni addotte a giustificazione della relativa domanda. Tale giurisprudenza ha portato ad applicare al decreto ingiuntivo non opposto il principio del «giudicato implicito», secondo il quale si ritiene che il giudice che si è pronunciato su una determinata questione abbia necessariamente risolto tutte le altre questioni preliminari. Procedimenti principali e questioni pregiudiziali Causa C‑693/19 16 La SPv e altri creditori hanno instaurato dinanzi al giudice del rinvio un procedimento di esecuzione forzata finalizzato a ottenere il recupero dei crediti risultanti da contratti di finanziamento stipulati con YB. Tale procedimento è basato su un decreto ingiuntivo divenuto definitivo, non avendo YB proposto opposizione avverso il medesimo. 17 I contratti di finanziamento in questione prevedevano, in caso di ritardo del debitore nel- l’esecuzione dei suoi obblighi, l’applicazione di una clausola penale e di un interesse moratorio. 18 In udienza, il giudice dell’esecuzione, ritenendo che la clausola relativa al calcolo degli interessi moratori potesse presentare carattere abusivo, ha ordinato alla SPv di produrre i contratti sulla base dei quali era stato emesso il decreto ingiuntivo e ha invitato YB a comparire alla successiva udienza e a manifestare la propria volontà di avvalersi del carattere abusivo di tale clausola. 19 All’udienza successiva, YB ha dichiarato di volersi avvalere del carattere abusivo di detta clausola. Di conseguenza, il giudice dell’esecuzione, basandosi sulla sentenza del 9 novembre 2010, vB Pénzügyi Lízing (C‑137/08, EU:C:2010:659), ha ritenuto di essere legittimato a valutare l’eventuale carattere abusivo della clausola e ha fissato una nuova udienza. Con una sua memoria, la SPv ha sostenuto che l’autorità di cosa giudicata del decreto ingiuntivo ostava a qualsiasi esame delle clausole dei contratti sulla base dei quali era stato emesso il medesimo decreto. 20 Il giudice del rinvio precisa che un creditore, una volta conseguito un titolo esecutivo, può sottoporre a un procedimento di espropriazione i crediti che il proprio debitore vanta rASSEGNA AvvOCATUrA DELLO STATO -N. 1/2022 nei confronti di terzi. Esso afferma che il giudice dell’esecuzione è tenuto ad assicurarsi dell’esistenza di un titolo esecutivo valido per l’intera durata del procedimento esecutivo. Il potere di tale giudice sarebbe quindi limitato al mero controllo dell’esistenza del titolo esecutivo e non potrebbe estendersi al controllo del «contenuto intrinseco» dello stesso. Un simile controllo del titolo giudiziale sarebbe precluso anche in caso di opposizione all’esecuzione proposta dal debitore. 21 Il giudice del rinvio, richiamando la giurisprudenza della Corte relativa ai doveri del giudice nazionale in materia di tutela dei consumatori e quella relativa alla superabilità, in determinate circostanze, del giudicato, si interroga sull’eventuale carattere abusivo, nella controversia dinanzi ad esso pendente, della clausola relativa al calcolo degli interessi moratori e della clausola penale contenuta nei contratti di cui al procedimento principale. 22 Esso precisa al riguardo che il giudice che ha emesso il decreto ingiuntivo in questione non si è pronunciato sull’eventuale carattere abusivo delle clausole succitate e che, per effetto della mancata opposizione da parte di YB, il decreto ingiuntivo ha acquisito autorità di cosa giudicata. Inoltre, in forza del principio del «giudicato implicito», tutte le clausole contenute nei contratti di finanziamento di cui al procedimento principale, comprese le due clausole di cui trattasi, sarebbero considerate come già esaminate da tale giudice e ricomprese in tale forma di giudicato. 23 Ne conseguirebbe che il giudice dell’esecuzione non può valutare il carattere abusivo delle clausole di un contratto, non solo per via del fatto che esso non può controllare il contenuto del decreto ingiuntivo emesso sulla base di quest’ultimo, ma anche perché tale decreto ingiuntivo, ove il debitore non abbia proposto opposizione avverso il medesimo, ha acquisito autorità di cosa giudicata. Secondo il giudice del rinvio, l’assenza di esame espresso del carattere abusivo delle clausole nell’ambito di un procedimento comporta una tutela incompleta e insufficiente del consumatore. 24 Ciò considerato, il Tribunale di Milano (Italia) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se ed a quali condizioni gli articoli 6 e 7 della direttiva [93/13] e l’articolo 47 della [Carta] ostino ad un ordinamento nazionale, come quello delineato, che preclude al giudice dell’esecuzione di effettuare un sindacato intrinseco di un titolo esecutivo giudiziale passato in giudicato e che preclude allo stesso giudice, in caso di manifestazione di volontà del consumatore di volersi avvalere della abusività della clausola contenuta nel contratto in forza del quale è stato formato il titolo esecutivo, di superare gli effetti del giudicato implicito». Causa C‑831/19 25 Nel 2005, BDB ha stipulato con YX e zW contratti di fideiussione al fine di garantire i debiti di una società. 26 BDB ha instaurato dinanzi al giudice del rinvio un procedimento di espropriazione immobiliare sui beni di proprietà di YX e zW. Tale procedimento, nel quale sono intervenuti altri creditori, è basato su decreti ingiuntivi emessi nel 2012 e nel 2013 da un giudice in favore di BDB e di tali altri creditori nei confronti di una società, la debitrice principale, e quattro fideiussori, tra cui YX e zW. Tali decreti ingiuntivi, non essendo stati opposti, sono passati in giudicato. 27 Nel corso del procedimento di espropriazione immobiliare, zW si è avvalsa del proprio status di consumatore per poter invocare l’eventuale carattere abusivo delle clausole contenute nei contratti di fideiussione sulla base dei quali sono stati emessi i decreti ingiuntivi. CONTENzIOSO COMUNITArIO ED INTErNAzIONALE 28 BDB e gli altri istituti di credito intervenuti nel procedimento di espropriazione immobiliare sostengono che zW non può avvalersi di tale status, in considerazione della sua qualità di socia della società debitrice principale e del vincolo coniugale esistente con YX, legale rappresentante di tale società. Essi sostengono inoltre che, indipendentemente dal riconoscimento di detto status, il giudice dell’esecuzione non può esercitare un sindacato su un titolo esecutivo formalmente corretto e definitivo, quale un decreto ingiuntivo non opposto. 29 Il giudice del rinvio ritiene che, nella controversia dinanzi ad esso pendente, zW sia qualificabile come consumatore, per il motivo che la medesima, alla data in cui ha stipulato i contratti di fideiussione di cui al procedimento principale, in primo luogo, non aveva acquistato la sua integrale partecipazione nel capitale sociale della società debitrice, che ammonta al 22%, in secondo luogo, non risultava provato che avesse percepito utili in relazione alle quote detenute e, infine, in terzo luogo, era appurato che, dal 1976, era titolare di un rapporto di lavoro dipendente con un’altra società e che, di conseguenza, al momento della conclusione dei contratti di fideiussione, non aveva alcun collegamento di natura funzionale con la debitrice principale. 30 Quanto alla facoltà per un consumatore di invocare il carattere abusivo di clausole di un contratto sulla base del quale è stato emesso un decreto ingiuntivo, tale giudice illustra le regole nazionali relative ai procedimenti esecutivi e precisa che, in caso di espropriazione immobiliare, il creditore, sulla base di un titolo esecutivo, sottopone a espropriazione forzata il diritto reale su un bene immobile appartenente al suo debitore. Esso riferisce che, in forza dei poteri esercitabili dal giudice dell’esecuzione al momento dell’attuazione del procedimento di espropriazione, quest’ultimo non controlla, come risulta dal punto 20 della presente sentenza, il «contenuto intrinseco» del titolo esecutivo. 31 Esso precisa altresì che, nel diritto nazionale, la proposizione di un’opposizione all’esecuzione non richiede particolari forme e può essere effettuata anche oralmente all’udienza dinanzi al giudice dell’esecuzione oppure mediante deposito, in tale udienza, di una comparsa di risposta. 32 Il giudice del rinvio, richiamando la giurisprudenza della Corte che disciplina l’autonomia processuale degli Stati membri al fine di garantire la piena effettività del diritto sostanziale dell’Unione, quella sui doveri del giudice nazionale in materia di tutela dei consumatori e quella relativa alla superabilità, in determinate circostanze, del giudicato, si interroga sull’eventuale carattere abusivo, nella controversia dinanzi ad esso pendente, delle clausole contenute nei contratti di fideiussione di cui al procedimento principale stipulati tra zW e BDB nonché tra zW e gli altri creditori, sulla base dei quali sono stati emessi decreti ingiuntivi. 33 A tale riguardo, il giudice del rinvio afferma che, secondo i creditori, l’impossibilità di invocare in tale fase, a causa della mancata opposizione da parte di zW, il carattere abusivo di tali clausole risulterebbe anche dalla sentenza del 6 ottobre 2009, Asturcom Telecomunicaciones (C‑40/08, EU:C:2009:615). 34 Il giudice del rinvio sottolinea tuttavia che, a differenza del consumatore nella causa che ha dato origine alla sentenza del 6 ottobre 2009, Asturcom Telecomunicaciones (C‑40/08, EU:C:2009:615), zW, nella controversia di cui al procedimento principale, ha manifestato la propria volontà di avvalersi del carattere abusivo di talune clausole e ha così posto fine all’inerzia manifestata fino alla formazione del giudicato implicito sui titoli esecutivi. 35 Tale giudice rileva altresì che, alla data dell’emissione dei decreti ingiuntivi di cui al procedimento principale, la Corte non aveva fissato i parametri alla stregua dei quali il fide rASSEGNA AvvOCATUrA DELLO STATO -N. 1/2022 iussore garante di una persona giuridica può essere qualificato come consumatore, parametri che sono stati fissati successivamente dalle ordinanze del 19 novembre 2015, Tarcău (C‑74/15, EU:C:2015:772), e del 14 settembre 2016, Dumitraș (C‑534/15, EU:C:2016:700). Di conseguenza, lo stesso giudice ritiene che zW non abbia potuto decidere con piena cognizione di causa se fosse opportuno invocare, nell’ambito di un’opposizione ai decreti ingiuntivi, il carattere abusivo delle clausole contenute nei contratti conclusi con professionisti, in quanto ignorava il proprio status di consumatore. 36 Pertanto, il giudice del rinvio si chiede se l’assenza di certezza quanto alla possibilità di qualificare un fideiussore come consumatore alla data in cui sono stati emessi i titoli esecutivi di cui trattasi possa rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti ai consumatori dalla normativa nazionale di recepimento della direttiva 93/13. 37 Esso precisa altresì che, in forza dei principi processuali nazionali, in caso di mancata opposizione da parte del consumatore, l’autorità di cosa giudicata di un decreto ingiuntivo copre il carattere non abusivo delle clausole del contratto di fideiussione, e ciò anche in assenza di qualsiasi esame espresso, da parte del giudice che ha emesso tale decreto ingiuntivo, del carattere abusivo di tali clausole. Ne discenderebbe, da un lato, l’impossibilità di far valere il carattere abusivo delle clausole contrattuali nel corso del giudizio di merito e, dall’altro, l’inammissibilità dell’opposizione all’esecuzione ove questa sia fondata su motivi che la parte avrebbe dovuto dedurre in sede di formazione del titolo esecutivo. 38 A tale riguardo, il giudice del rinvio rileva che, al punto 49 della sentenza del 26 gennaio 2017, Banco Primus (C‑421/14, EU:C:2017:60), la Corte ha dichiarato che la direttiva 93/13 non osta a una norma nazionale che vieta al giudice nazionale di riesaminare d’ufficio il carattere abusivo delle clausole di un contratto concluso con un professionista, quando è già stato statuito sulla legittimità delle clausole del contratto nel loro complesso alla luce di tale direttiva con una decisione munita di autorità di cosa giudicata. Esso aggiunge che la Corte ha altresì ritenuto, in tale sentenza, che, qualora l’eventuale abusività di clausole contrattuali non sia ancora stata esaminata nell’ambito di un precedente controllo giurisdizionale del contratto controverso conclusosi con una decisione munita di autorità di cosa giudicata, o qualora solo alcune di esse siano state oggetto di un simile controllo, il giudice nazionale sia nondimeno tenuto a valutare l’eventuale carattere abusivo delle clausole in questione. 39 Il giudice del rinvio rileva altresì che la Corte, con la medesima sentenza, ha stabilito le condizioni alle quali può essere opposto il giudicato esplicito al fine di vietare al giudice nazionale di procedere al controllo del carattere abusivo di clausole contrattuali. D’altra parte, esso ritiene che la Corte non abbia ancora avuto occasione di esaminare la compatibilità del principio del «giudicato implicito» con gli articoli 6 e 7 della direttiva 93/13 e con l’articolo 47 della Carta. 40 Ciò considerato, il Tribunale di Milano ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se ed a quali condizioni il combinato disposto degli articoli 6 e 7 della direttiva [93/13] e dell’articolo 47 della [Carta] osti ad un ordinamento nazionale, come quello delineato, che preclude al giudice dell’esecuzione di effettuare un sindacato intrinseco di un titolo esecutivo giudiziale passato in giudicato, allorquando il consumatore, avuta consapevolezza del proprio status (consapevolezza precedentemente preclusa dal diritto vivente), richieda di effettuare un simile sindacato. CONTENzIOSO COMUNITArIO ED INTErNAzIONALE 2) Se ed a quali condizioni il combinato disposto degli articoli 6 e 7 della direttiva [93/13] e dell’articolo 47 della [Carta] osti ad un ordinamento come quello nazionale che, a fronte di un giudicato implicito sulla mancata vessatorietà di una clausola contrattuale, preclude al giudice dell’esecuzione, chiamato a decidere su un’opposizione all’esecuzione proposta dal consumatore, di rilevare una simile vessatorietà e se una simile preclusione possa ritenersi esistente anche ove, in relazione al diritto vivente vigente al momento della formazione del giudicato, la valutazione della vessatorietà della clausola era preclusa dalla non qualificabilità del fideiussore come consumatore». 41 Con decisione del presidente della Corte del 23 febbraio 2021, le cause C‑693/19 e C‑831/19 sono state riunite ai fini della fase orale e della sentenza. sulla ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale nella causa C-831/19 42 BDB eccepisce l’irricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale argomentando che zW non sarebbe un consumatore e che, di conseguenza, la direttiva 93/13 non sarebbe applicabile nei suoi confronti. 43 A tale riguardo occorre ricordare che, in forza di una costante giurisprudenza, nell’ambito del procedimento di cui all’articolo 267 TFUE, basato sulla netta separazione delle funzioni tra i giudici nazionali e la Corte, il giudice nazionale è l’unico competente ad esaminare e valutare i fatti del procedimento principale nonché a interpretare e a applicare il diritto nazionale. Parimenti spetta esclusivamente al giudice nazionale, investito della controversia e che deve assumere la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolari circostanze della controversia, sia la necessità sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte. Di conseguenza, se le questioni sollevate riguardano l’interpretazione del diritto dell’Unione, la Corte, in via di principio, è tenuta a pronunciarsi (sentenza del 14 giugno 2012, Banco Español de Crédito, C‑618/10, EU:C:2012:349, punto 76 e giurisprudenza ivi citata). 44 Il rigetto, da parte della Corte, di una domanda di pronuncia pregiudiziale proposta da un giudice nazionale è quindi possibile soltanto qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta non ha alcun rapporto con la realtà effettiva o l’oggetto della causa principale, qualora la questione sia di tipo ipotetico o, ancora, qualora la Corte non disponga degli elementi in fatto e in diritto necessari per rispondere in modo utile alle questioni che le sono sottoposte (sentenza del 14 giugno 2012, Banco Español de Crédito, C‑618/10, EU:C:2012:349, punto 77 e giurisprudenza ivi citata). 45 Così non è nella presente causa. 46 Dall’ordinanza di rinvio e dal fascicolo di cui dispone la Corte risulta infatti che, a differenza del coniuge YX, zW deve essere qualificata come consumatore, poiché, alla data di conclusione dei contratti di fideiussione con BDB e gli altri creditori, zW agiva al di fuori dell’ambito della sua attività professionale e non intratteneva legami funzionali con la società di cui trattasi, debitrice principale. Secondo il giudice del rinvio, zW, dal 1976, era titolare di un rapporto di lavoro con un’altra società e non aveva alcun collegamento di natura funzionale con la società di cui trattasi. Il giudice del rinvio ha rilevato, a tal fine, che, tenuto conto dei documenti prodotti da zW nel corso del procedimento esecutivo, zW ha acquisito una partecipazione del 22% nel capitale sociale di quest’ultima il 31 gennaio 2013, mentre i contratti di fideiussione tra zW e i creditori sono stati tutti conclusi prima di tale data, e che il decreto ingiuntivo ottenuto da BDB è a sua volta anteriore all’acquisizione di tali quote da parte di zW. 47 Orbene, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 51 delle conclusioni, dalla sen rASSEGNA AvvOCATUrA DELLO STATO -N. 1/2022 tenza del 30 maggio 2013, Asbeek Brusse e de Man Garabito (C‑488/11, EU:C:2013:341, punto 29), risulta che la direttiva 93/13 si applica a «qualsiasi contratto» stipulato tra un professionista e un consumatore, atteso che l’articolo 2, lettera b), di tale direttiva definisce un consumatore come qualsiasi persona fisica che, nei contratti oggetto di detta direttiva, agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività professionale. 48 Di conseguenza, poiché zW non ha concluso il contratto di fideiussione in questione nel- l’ambito della sua attività professionale, tale contratto deve essere considerato concluso tra un professionista e un consumatore e rientra quindi nell’ambito di applicazione della direttiva 93/13. 49 La domanda di pronuncia pregiudiziale deve pertanto considerarsi ricevibile. sulle questioni pregiudiziali 50 Con le questioni pregiudiziali sollevate nella causa C‑693/19 e nella causa C‑831/19, che è opportuno esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13 debbano essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell’esecuzione non possa -per il motivo che l’autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità -successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole. Nella causa C‑831/19, esso chiede altresì se la circostanza che, alla data in cui il decreto ingiuntivo è divenuto definitivo, il debitore ignorava di poter essere qualificato come «consumatore» ai sensi di tale direttiva abbia una qualsivoglia rilevanza al riguardo. 51 Secondo una giurisprudenza costante della Corte, il sistema di tutela istituito con la direttiva 93/13 si fonda sull’idea che il consumatore si trova in una posizione di inferiorità nei confronti del professionista per quanto riguarda sia il potere negoziale sia il livello di informazione (v., in particolare, sentenza del 26 gennaio 2017, Banco Primus, C‑421/14, EU:C:2017:60, punto 40 e giurisprudenza ivi citata). 52 Alla luce di una tale situazione di inferiorità, l’articolo 6, paragrafo 1, di detta direttiva prevede che le clausole abusive non vincolino i consumatori. Si tratta di una disposizione imperativa tesa a sostituire all’equilibrio formale fra i diritti e gli obblighi delle parti contraenti determinato dal contratto, un equilibrio reale, finalizzato a ristabilire l’uguaglianza tra tali parti (v., in particolare, sentenze del 21 dicembre 2016, Gutiérrez Naranjo e a., C‑154/15, C‑307/15 e C‑308/15, EU:C:2016:980, punti 53 e 55, e del 26 gennaio 2017, Banco Primus, C‑421/14, EU:C:2017:60, punto 41). 53 A tale riguardo, dalla giurisprudenza costante della Corte risulta che il giudice nazionale è tenuto a esaminare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale che ricade nell’ambito di applicazione della direttiva 93/13 e, in tal modo, a ovviare allo squilibrio che esiste tra il consumatore e il professionista, laddove disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine (sentenze del 14 marzo 2013, Aziz, C‑415/11, EU:C:2013:164, punto 46 e giurisprudenza ivi citata; del 21 dicembre 2016, Gutiérrez Naranjo e a., C‑154/15, C‑307/15 e C‑308/15, EU:C:2016:980, punto 58, e del 26 gennaio 2017, Banco Primus, C‑421/14, EU:C:2017:60, punto 43). 54 Inoltre, la direttiva 93/13 impone agli Stati membri, come risulta dal combinato disposto del suo articolo 7, paragrafo 1 e del suo ventiquattresimo considerando, di fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati CONTENzIOSO COMUNITArIO ED INTErNAzIONALE tra un professionista e i consumatori (sentenza del 26 giugno 2019, Addiko Bank, C‑407/18, EU:C:2019:537, punto 44 e giurisprudenza ivi citata). 55 Se è vero che la Corte ha pertanto già inquadrato, in più occasioni e tenendo conto dei requisiti di cui all’articolo 6, paragrafo 1, e dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13, il modo in cui il giudice nazionale deve assicurare la tutela dei diritti che i consumatori traggono dalla direttiva in parola, ciò non toglie che, in linea di principio, il diritto del- l’Unione non armonizza le procedure applicabili all’esame del carattere asseritamente abusivo di una clausola contrattuale, e che tali procedure rientrano dunque nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri, in forza del principio dell’autonomia processuale di questi ultimi, a condizione, tuttavia, che esse non siano meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività) (v., in particolare, sentenza del 26 giugno 2019, Addiko Bank, C‑407/18, EU:C:2019:537, punti 45 e 46 nonché giurisprudenza ivi citata). 56 Ciò premesso, si deve stabilire se tali disposizioni richiedano che il giudice dell’esecuzione controlli l’eventuale carattere abusivo di clausole contrattuali a dispetto delle norme processuali nazionali che attuano il principio dell’autorità di cosa giudicata in relazione a una decisione giudiziaria che non contiene espressamente alcun esame su tale punto. 57 A tale riguardo, occorre ricordare l’importanza che il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico dell’Unione sia negli ordinamenti giuridici nazionali. La Corte ha, infatti, già avuto occasione di precisare che, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici sia una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per tali ricorsi non possano più essere rimesse in discussione (v., in particolare, sentenze del 6 ottobre 2009, Asturcom Telecomunicaciones, C‑40/08, EU:C:2009:615, punti 35 e 36, e del 26 gennaio 2017, Banco Primus, C‑421/14, EU:C:2017:60, punto 46). 58 La Corte ha altresì riconosciuto che la tutela del consumatore non è assoluta. In particolare, essa ha ritenuto che il diritto dell’Unione non imponga a un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata a una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una violazione di una disposizione, di qualsiasi natura essa sia, contenuta nella direttiva 93/13 (v., in particolare, sentenze del 6 ottobre 2009, Asturcom Telecomunicaciones, C‑40/08, EU:C:2009:615, punto 37, e del 21 dicembre 2016, Gutiérrez Naranjo e a., C‑154/15, C‑307/15 e C‑308/15, EU:C:2016:980, punto 68), fatto salvo tuttavia, conformemente alla giurisprudenza richiamata al punto 55 della presente sentenza, il rispetto dei principi di equivalenza e di effettività. 59 Per quanto attiene al principio di equivalenza, si deve rilevare che la Corte non dispone di alcun elemento tale da far sorgere dubbi quanto alla conformità della normativa nazionale di cui al procedimento principale a tale principio. Come osserva il governo italiano, risulta che il diritto nazionale non consente al giudice dell’esecuzione di riesaminare un decreto ingiuntivo avente autorità di cosa giudicata, anche in presenza di un’eventuale violazione delle norme nazionali di ordine pubblico. 60 Per quanto riguarda il principio di effettività, la Corte ha dichiarato che ogni caso in cui sorge la questione se una norma di procedura nazionale renda impossibile o eccessiva rASSEGNA AvvOCATUrA DELLO STATO -N. 1/2022 mente difficile l’applicazione del diritto dell’Unione deve essere esaminato tenendo conto del ruolo di detta norma nell’insieme del procedimento, del suo svolgimento e delle sue peculiarità, nonché, se del caso, dei principi che sono alla base del sistema giurisdizionale nazionale, quali la tutela dei diritti della difesa, il principio della certezza del diritto e il regolare svolgimento del procedimento (sentenza del 22 aprile 2021, Profi Credit Slovakia, C‑485/19, EU:C:2021:313, punto 53). La Corte ha ritenuto che il rispetto del principio di effettività non può tuttavia supplire integralmente alla completa passività del consumatore interessato (sentenza del 1° ottobre 2015, ErSTE Bank Hungary, C‑32/14, EU:C:2015:637, punto 62). 61 Inoltre, la Corte ha precisato che l’obbligo per gli Stati membri di garantire l’effettività dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione implica, segnatamente per i diritti derivanti dalla direttiva 93/13, un’esigenza di tutela giurisdizionale effettiva, riaffermata all’articolo 7, paragrafo 1, di tale direttiva e sancita altresì all’articolo 47 della Carta, che si applica, tra l’altro, alla definizione delle modalità procedurali relative alle azioni giudiziarie fondate su tali diritti (v., in tal senso, sentenza del 10 giugno 2021, BNP Paribas Personal Finance SA, da C‑776/19 a C‑782/19, EU:C:2021:470, punto 29 e giurisprudenza ivi citata). 62 A tal proposito, la Corte ha dichiarato che, in assenza di un controllo efficace del carattere potenzialmente abusivo delle clausole del contratto di cui trattasi, il rispetto dei diritti conferiti dalla direttiva 93/13 non può essere garantito (sentenza del 4 giugno 2020, Kancelaria Medius, C‑495/19, EU:C:2020:431, punto 35 e giurisprudenza ivi citata). 63 Ne consegue che le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali, alle quali si riferisce l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13, non possono pregiudicare la sostanza del diritto spettante ai consumatori in forza di tale disposizione, come interpretata dalla giurisprudenza della Corte richiamata, in particolare, al punto 53 della presente sentenza, di non essere vincolati da una clausola reputata abusiva (sentenze del 21 dicembre 2016, Gutiérrez Naranjo e a., C‑154/15, C‑307/15 e C‑308/15, EU:C:2016:980, punto 71, e del 26 gennaio 2017, Banco Primus, C‑421/14, EU:C:2017:60, punto 51). 64 Nei procedimenti principali, la normativa nazionale prevede che, nell’ambito del procedimento di esecuzione dei decreti ingiuntivi non opposti, il giudice dell’esecuzione non possa esercitare un controllo nel merito del decreto ingiuntivo né controllare, d’ufficio o su domanda del consumatore, il carattere abusivo delle clausole del contratto alla base di tale decreto ingiuntivo, per via dell’autorità di cosa giudicata implicita acquisita da quest’ultimo. 65 Orbene, una normativa nazionale secondo la quale un esame d’ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali si considera avvenuto e coperto dall’autorità di cosa giudicata anche in assenza di qualsiasi motivazione in tal senso contenuta in un atto quale un decreto ingiuntivo può, tenuto conto della natura e dell’importanza dell’interesse pubblico sotteso alla tutela che la direttiva 93/13 conferisce ai consumatori, privare del suo contenuto l’obbligo incombente al giudice nazionale di procedere a un esame d’ufficio dell’eventuale carattere abusivo delle clausole contrattuali. 66 Ne consegue che, in un caso del genere, l’esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva impone che il giudice dell’esecuzione possa valutare, anche per la prima volta, l’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto alla base di un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore e contro il quale il debitore non ha proposto opposizione. CONTENzIOSO COMUNITArIO ED INTErNAzIONALE 67 Come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi 56 e 57 delle conclusioni, il fatto che il debitore ignorava, al momento in cui questa precedente decisione giurisdizionale è divenuta definitiva, il proprio status di consumatore, ai sensi della direttiva 93/13, è irrilevante, poiché, come ricordato al punto 53 della presente sentenza, il giudice nazionale è tenuto a valutare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale rientrante nel- l’ambito di applicazione di tale direttiva. 68 Da quanto precede risulta che occorre rispondere alle questioni pregiudiziali poste nelle cause C‑693/19 e C‑831/19 dichiarando che l’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13 devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell’esecuzione non possa ‑per il motivo che l’autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità ‑successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole. La circostanza che, alla data in cui il decreto ingiuntivo è divenuto definitivo, il debitore ignorava di poter essere qualificato come «consumatore» ai sensi di tale direttiva è irrilevante a tale riguardo. sulle spese 69 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara: l’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell’esecuzione non possa ‑per il motivo che l’autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità ‑successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole. la circostanza che, alla data in cui il decreto ingiuntivo è divenuto definitivo, il debitore ignorava di poter essere qualificato come «consumatore» ai sensi di tale direttiva è irrilevante a tale riguardo. ContenzioSonazionaLe La Sezione lavoro della Cassazione inaugura il nuovo status di vittima del dovere Nota a Corte di CassazioNe, sezioNe lavoro, seNteNza del 30 maggio 2022 N. 17440 “ogni qualvolta il legislatore individua una particolare categoria di soggetti come destinataria di prestazioni pubbliche con finalità di protezione e perequazione sociale costituzionalmente garantite, la situazione giuridica dei beneficiari può e deve essere ricostruita in termini di status”. “la disciplina delle provvidenze dettate per le vittime del dovere rientra nell’art. 38 della Costituzione e può legittimamente considerarsi come una delle possibili ‘figure speciali di sicurezza sociale’, la cui ratio va individuata nell’apprestare peculiari ed ulteriori forme di assistenza per coloro che siano rimasti vittima dell’adempimento di un dovere svolto nell’interesse della collettività, che li abbia esposti ad uno speciale pericolo e all’assunzione di rischi qualificati”. “Non si possono non ravvisare nella situazione giuridica istituita dal legislatore tutti i presupposti dello status, valendo la categoria di ‘vittima del dovere’ a differenziare una particolare categoria di soggetti al fine di apprestare loro un insieme di benefici previsti dalla legge e riepilogati dall’art. 4, d.P.r. n. 243/2006”. “la domanda dell’interessato deve considerarsi pur sempre condicio sine qua non per il riconoscimento della condizione di ‘vittima del dovere’, non potendo attribuirsi alla disposizione regolamentare di cui all’art. 3, d.P.r. n. 243/2006 (che statuisce che ‘in mancanza di domanda si può procedere d’ufficio’) alcuna valenza derogatoria ad un principio che, per gli status activae processualis, ha valenza di diritto di libertà costituzionalmente garantito”. 1-Con la sentenza in rassegna, n. 17440/22 depositata in data 30 maggio 2022, la Suprema Corte -Sezione lavoro ha sancito che quello di “vittima del dovere” è uno status in senso tecnico-giuridico, con imprescrittibilità del diritto al relativo riconoscimento. La pronuncia è di particolare rilievo, in quanto dà ingresso ad un possibile moltiplicarsi di domande volte in tal senso e di contenziosi giudiziari a distanze rASSEGNA AvvOCAturA DELLO StAtO -N. 1/2022 temporali amplissime ed ultradecennali dagli eventi di riferimento, con conseguenti oneri economici per l’Erario. Ovviamente, la valutazione del “peso” economico per lo Stato non costituisce in sé una chiave di lettura interpretativa delle disposizioni normative; nondimeno, però, l’ermeneutica deve comunque sempre tenere in conto che le conclusioni cui perviene debbono essere in linea con l’“intenzione del legislatore”, regola questa come noto imposta dalla disposizione generale dell’art. 12, comma 1, delle Disp. prel. al cod. civ. Ebbene, la decisione assunta dalla Sezione lavoro appare destare perplessità in punto di diritto. L’Avvocatura Generale dello Stato, nel ricorso proposto, aveva anzitutto dedotto che le situazioni giuridiche soggettive ascrivibili in capo a coloro che si trovano nelle condizioni di legge previste dall’art. 1, commi 563 e 564, della L. n. 266/2005 non sono qualificabili in termini di status. Lo status, concetto giuridico derivante dal diritto romano, si traduce in una sintesi di rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo ad un soggetto individuato in ragione della posizione occupata nell’ambito di una specifica collettività, sia essa quella territoriale (status di cittadino), quella familiare (status di figlio o di coniuge) o ancora quella associativa (status di socio o di associato). Nel caso di specie, le situazioni giuridiche soggettive attribuite dall’art. 1, commi 563 e 564, L. n. 266/05 prescindono del tutto dall’appartenenza del singolo ad una data collettività, riferendosi esclusivamente a taluni presupposti fattuali, tipici del riconoscimento di situazioni giuridiche attive qualificabili non come status ma come diritti di credito ed a prestazione, per propria natura soggette al regime prescrizionale di diritto comune in assenza di una diversa previsione normativa, Invero, alla figura della vittima del dovere è ricondotto uno status in senso atecnico al solo fine di definire unitariamente il fascio di norme di tutela e di benefici accordati ai soggetti che vengono ad essere riconosciuti come tali, prescindendo dalla collocazione del singolo nell’ambito di una data collettività (costituente il “proprium” dello status). Come già sancito dalla giurisprudenza (cfr. Corte d’appello di Genova Sez. lavoro, sentenza n. 427/18) la locuzione “status” è usata in senso atecnico, “solo al fine di ricondurre ad una definizione unitaria l’insieme dei benefici accordati ai soggetti in questione, laddove la nozione di status è riferita a elementi inalienabili della persona che trovano diretto riconoscimento nella Costituzione esprimendo appunto la tutela che deve essere immancabilmente accordata agli interessi essenziali della persona, in quanto valore fondamentale dell’ordinamento”. Era stato altresì evidenziato dall’Avvocatura erariale che, d’altronde, lo status comporta l’indefettibile conseguenza di dar vita a prerogative e doveri, per cui è evidente che chi è titolare della predetta situazione giuridica sogget CONtENzIOSO NAzIONALE tiva attrae a sé, nell’ambito di una comunità organizzata, un complesso di diritti e di doveri che l’attribuzione della qualità di vittima del dovere, di contro, non conferisce. Lo status, infatti, è una situazione giuridica soggettiva che esprime la posizione di un soggetto nei confronti di altri soggetti nell’ambito della collettività organizzata. Esso è una situazione soggettiva autonoma, tutelata in quanto tale. È pero anche fonte di altre situazioni giuridiche soggettive attive e passive, in particolare diritti e obblighi. L’esame delle norme contenute nell’art. 1, commi 563 e 564, della legge n. 266/2005 non permette di affermare che per il militare cui viene riconosciuta la condizione di vittima del dovere sussista una posizione differenziata e discendano diritti ed obblighi; anzi, lo stesso diviene beneficiario di una complessa e corposa attribuzione di benefici che digradano in senso unilaterale dallo Stato alla vittima, per la natura assistenziale degli emolumenti stessi, senza che qualsiasi altra prestazione venga pretesa in senso inverso nei confronti della vittima in termini di obblighi o doveri. Aggiungasi, poi, che l’imprescrittibilità degli status risulta dubbia, atteso che non esiste alcuna norma o principio che, al di fuori dei casi specificamente regolati e che rispondono ad esigenze d’interesse superiore vagliate “a monte” dal legislatore, stabilisca in generale l’imprescrittibilità del riconoscimento di un qualsiasi status. 2 -La decisione de qua ha disatteso le predette argomentazioni. La Corte ha proceduto (pag. 5 e seguenti della sentenza) ad un excursus sul concetto di status. Si legge nella pronuncia tra l’altro che “lo status civitatis è stato progressivamente costruito come “status activus processualis”, avente ad oggetto il potere di avvalersi dei procedimenti amministrativi previsti dalla legge per assicurarsi le prestazioni sociali volte a garantire la protezione e la perequazione della categoria cui si appartiene e rendere così effettiva la libertà astrattamente assicurata dal principio di eguaglianza formale” (pag. 7). Al termine di tale excursus l’Organo giudicante approda ad una totalmente nuova e giurisprudenziale definizione della figura di status, quale quella di “una categoria di soggetti destinataria di prestazioni pubbliche con finalità di protezione e perequazione sociale costituzionalmente garantite” (pag. 9). In merito, deve rilevarsi che detta definizione non trova un adeguato supporto normativo. D’altro canto, la definizione risulta a ben vedere generica e suscettibile di dilatazioni indebite, ad esempio in materia assistenziale, descrivendo una fattispecie sostanzialmente “aperta” e di perimetro sfumato. Così, ogni volta che al riconoscimento di una determinata qualifica personale venisse ricondotto un complesso di diritti assistenziali e “sociali” si sa rASSEGNA AvvOCAturA DELLO StAtO -N. 1/2022 rebbe perciò di fronte ad uno status e diritti imprescrittibili, senza necessità di espressa previsione normativa ed in discordanza con la regola generale per cui tutti i diritti sono soggetti a prescrizione estintiva? 3 -Ancora, la Sezione lavoro giunge a connettere la normativa sulle vittime del dovere ad una sorta di tutela necessaria prevista a livello costituzionale ed attratta nell’ambito della “sicurezza sociale”, che integrerebbe nella fattispecie la sopra delineata nuova definizione di status. Anche tale esito non risulta pienamente convincente e sembra voler giustificare la sussunzione del coacervo di provvidenze assistenziali in questione nel novero degli status. L’Organo legale erariale aveva evidenziato in merito la circostanza che la tutela di che trattasi non è esclusiva, ma aggiuntiva rispetto ad altre tutele (causa di servizio ecc.). È poi tutela che non rientra nel comma 1 dell’art. 38 della Costituzione (che attribuisce protezione necessitata ai c.d. diritti primari dei cittadini), ma nel comma 2 dell’art. 38, per cui opera una modulazione d’intervento rimessa al legislatore, senza che le disposizioni sulle vittime del dovere possano configurare diritti direttamente garantiti dalla Costituzione e che diano luogo ad uno status in senso tecnico-giuridico. La normativa sulle vittime del dovere, infatti, non concerne cittadini inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari per vivere, cui invece si riferisce il comma 1 dell’art. 38 della Carta. tanto che, significativamente, la tutela delle vittime del dovere è emersa soltanto a lunga distanza di tempo dal vigore della Costituzione (legge n. 266 del 2005) ed al termine di sedimentazione ed ampliamento di previsioni sorte in favore delle sole vittime del terrorismo e della criminalità organizzata. Alla condizione di vittima del dovere conseguono dunque benefici aggiuntivi rispetto ad altre tutele, che non hanno natura “previdenziale” e “pensionistica”, ma come noto meramente assistenziale. Pertanto, l’Avvocatura dello Stato aveva sottolineato che in materia è fuor di luogo richiamare regole del diritto previdenziale e, come pure osservato in giurisprudenza, non si rende applicabile alla fattispecie il peculiare principio sancito dalla Suprema Corte per il quale il diritto a pensione è “garantito dalla Costituzione e imprescrittibile perché volto a soddisfare primarie esigenze di vita”. Inoltre, la stessa imprescrittibilità del diritto a pensione non è il frutto di una statuizione o di un principio pretorio, quanto oggetto di una previsione di legge (art. 5 d.P.r. n. 1092/1973), che nella fattispecie assolutamente difetta. L’art. 5 cit. prevede espressamente, infatti, che “il diritto al trattamento di quiescenza, diretto e di riversibilità, non si perde per prescrizione …”. I diritti di cui al secondo comma dell’art. 38 appaiono assoggettati, diversamente dall’ipotesi del comma 1, al regime di prescrittibilità, come pre CONtENzIOSO NAzIONALE visto analogamente per altri istituti giuridici, quali le prestazioni INAIL e l’indennizzo contemplato dalla legge n. 210/1992. vi è che, nell’ambito dei benefici per gli infortuni sul lavoro, la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 10035/2001) ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 38 Cost., dell’art. 112 del d.P.r. n. 1124 del 1965, nella parte in cui prevede la prescrizione triennale del diritto alla rendita INAIL per malattia professionale, anziché del diritto ai singoli ratei, come invece accade per le pensioni INPS. Come già precisato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 297/1999, le disposizioni non si pongono in contrasto con i parametri costituzionali, ben potendo essere disciplinati in modo differente due sistemi di tutela diversi, con finalità differenziate, rinvenibili una in una logica di tipo assistenziale, l’altra in una di tipo pienamente solidaristico. In argomento, può essere richiamata anche la normativa in tema d’indennizzo per i danneggiati da complicanze irreversibili a seguito di vaccinazioni obbligatorie, di cui alla legge n. 210/1992 cit. In detta materia assistenziale, che pure presenta, in punto di principio, profili di analogia con quella di tutela delle vittime del dovere, la Suprema Corte (cfr. sent. n. 10215 del 2014 che ha confermato precedente pronuncia n. 6500 del 2003) ha ritenuto pienamente operante il limite della prescrizione ordinaria decennale per l’esercizio del diritto. 4-L’Avvocatura Generale dello Stato aveva dipoi espressamente fatto richiamo alla sentenza n. 106 del 2008 della Corte Costituzionale, inerente fattispecie in cui veniva in gioco il trattamento pensionistico (di guerra) di soggetti divenuti invalidi e dunque una tutela, di natura prettamente assistenziale, che appare parallela ed analoga a quella relativa alle vittime del dovere, sentenza della Consulta che aveva escluso l’esistenza di uno status e l’imprescrittibilità. Da tale pronuncia, tuttavia, la Cassazione si è discostata con la decisione in questione, adducendo -il che appare tautologico -che circa la fattispecie delle vittime del dovere deve invece applicarsi l’art. 2934, comma 2, del cod. civ. Nel ricorso era stato altresì sostenuto che il diritto al riconoscimento della qualifica di vittima del dovere non è indisponibile, atteso che diritti indisponibili sono quelli volti a tutelare fondamentali valori umani e sociali e che soddisfano il loro titolare, ma la cui protezione corrisponde anche all’interesse generale della collettività (ad esempio i diritti della personalità e quelli in ambito familiare). La Corte ha invece ritenuto che lo status di vittima del dovere rientri tra i diritti indisponibili ex art. 2934, comma 2, cod. civ., singolarmente ribadendo più volte, peraltro, che “la domanda dell’interessato deve considerarsi pur sempre ‘condicio sine qua non’per il riconoscimento della condizione di ‘vittima del dovere’ ”. rASSEGNA AvvOCAturA DELLO StAtO -N. 1/2022 5 -Infine, last but not least, la Corte non ha tenuto conto della copiosa giurisprudenza, anche di II grado, che era stata ampiamente richiamata dal- l’Avvocatura erariale, in particolare sottolineando come l’orientamento senz’altro favorevole alla prescrittibilità in materia fosse ormai da considerarsi “diritto vivente” e dunque elemento rilevante di cui tenere conto nella soluzione ermeneutica da adottarsi, come insegnano le stesse pronunzie della Corte Costituzionale che al diritto vivente fanno espresso riferimento. Giancarlo Pampanelli* Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza 30 maggio 2022 n. 17440 -Pres. u. Berrino, rel. L. Cavallaro - Ministero della Difesa (avv. gen. Stato) c. B.M.t. (avv. A. Bava). FAttI DI CAuSA Con sentenza depositata il 9 gennaio 2020, la Corte d'appello dell'Aquila ha confermato, per quanto rileva in questa sede, la pronuncia di primo grado che aveva accolto la domanda di B.M.t. volta a conseguire i benefici assistenziali spettanti alle vittime del dovere, nei limiti della prescrizione decennale a far data dalla domanda del 13 novembre 2017. La Corte in particolare ha ritenuto che la condizione di vittima del dovere, di cui alla L. n. 266 del 2005, art. 1, commi 563-564, costituisse uno status e fosse come tale imprescrittibile, salva la prescrizione dei ratei delle prestazioni assistenziali previste dalla legge, di talchè, pur avendo l'istante presentato la domanda a distanza di oltre dieci anni dall'entrata in vigore della L. n. 266 del 2005, cit., per una patologia contratta per causa di servizio nel corso di una missione compiuta nel 1964, non poteva negarsi il suo diritto ad essere iscritto nell'elenco di cui al D.P.r. n. 243 del 2006, art. 3, comma 3, e a percepire le prestazioni assistenziali nei limiti della prescrizione decennale. Avverso tali statuizioni il Ministero della Difesa ha ricorso per cassazione, deducendo due motivi di censura. B.M.t. ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria. rAGIONI DELLA DECISIONE Con il primo motivo di censura, il Ministero ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2934 c.c., commi 1 e 2, e 2946 c.c. per avere la Corte di merito ritenuto che la condizione di vittima del dovere costituisse uno status e conseguentemente fosse imprescrittibile, salva nondimeno la prescrizione dei ratei delle singole prestazioni assistenziali ad essa correlate: ad avviso della parte ricorrente, infatti, il termine "status" talora adoperato nella giurisprudenza di questa Corte per descrivere la condizione di vittima del dovere sarebbe da intendersi in senso atecnico, ossia come insieme di posizioni di vantaggio accordate ad un soggetto, senza in nulla correlarsi alla posizione che quel soggetto riveste nella collettività, ciò che invece costituisce il proprium della nozione, di derivazione romanistica, di "status", di talchè, essendo stata nella specie la domanda per accedere ai benefici presentata dopo dieci (*) Avvocato dello Stato. CONtENzIOSO NAzIONALE anni dall'entrata in vigore della L. n. 266 del 2005, nessun diritto sarebbe sopravvissuto all'intervenuta prescrizione. Con il secondo motivo, il Ministero ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione del D.P.r. n. 243 del 2006, art. 3, commi 1-2, per avere la Corte territoriale ritenuto che l'imprescrittibilità della condizione di vittima del dovere discenderebbe dalla previsione della disposizione cit., che abilita l'amministrazione a riconoscerla d'ufficio anche in assenza di domanda dell'interessato: nell'opinione di parte ricorrente, infatti, resterebbe pur fermo che, in mancanza di tale riconoscimento officioso, nessuna situazione giuridica soggettiva sfuggirebbe al compiersi della prescrizione. I motivi possono essere trattati congiuntamente, in considerazione della loro intima connessione, e sono infondati. va premesso che la Corte territoriale ha argomentato la conclusione secondo cui la condizione di vittima del dovere sarebbe equiparabile ad uno status muovendo da un'espressa affermazione in tal senso già affiorata in numerose pronunce di questa Corte di legittimità (ad es. in Cass. n. 26012 del 2018 e, più recentemente, in Cass. n. 28696 del 2020). È nondimeno vero che, come rimarcato da parte ricorrente (da ultimo nella memoria dep. ex art. 378 c.p.c.), questa Corte non ha ancora specificamente affrontato la questione concernente la possibilità di intendere la qualifica di vittima del dovere in termini di "status" in senso tecnico- giuridico, ossia -secondo la risalente definizione di Cass. n. 3727 del 1986 -come qualità o di situazione soggettiva a cui si ricollegano sia diritti (assoluti, inalienabili e imprescrittibili) che doveri, e il cui acquisto è indipendente dalla volontà del soggetto che ne è titolare, trovando piuttosto la sua origine nella sua appartenenza ad una determinata collettività: e anzi, ad avviso di parte ricorrente, tale possibilità sarebbe nel caso di specie da escludersi, dal momento che, diversamente argomentando, basterebbe l'attribuzione ad un soggetto di benefici di carattere assistenziale per inferirne l'attribuzione di uno status e, correlativamente, di diritti imprescrittibili, con una conseguente irragionevole dilatazione del concetto giuridico di status che non solo non sarebbe fondata su alcuna disposizione di legge, ma per di più si porrebbe in contrasto con la regola generale secondo cui tutti i diritti sono assoggettati a prescrizione estintiva. Ciò posto, deve anzitutto ricordarsi che la nozione tradizionale di "status", che la dottrina classica intendeva in senso "comunitario", ossia quale modo per definire la posizione della persona umana rispetto ad una data collettività di riferimento in funzione della sua condizione di libertà personale, cittadinanza e appartenenza a un certo gruppo familiare (donde la classica tripartizione della categoria in status libertatis, status civitatis e status familiae), è andata progressivamente declinando in età moderna, allorchè l'emersione del principio di eguaglianza formale, tipico del pensiero giuridico liberale e dell'organizzazione economica e sociale del modo di produzione capitalistico, ha sottoposto a revisione critica ogni forma di distinzione tra le persone che riposasse su leggi e convenzioni sociali, anzichè sulla natura e sulla ragione. va però parimenti ricordato che tale revisione critica (che la dottrina inglese ha efficacemente riassunto nel passaggio dallo "status" al "contratto", al fine di rimarcare che nessun vincolo giuridico può modernamente giustificarsi in assenza di una manifestazione di volontà del soggetto che vi è astretto) ha scontato a sua volta, in età contemporanea, il progressivo affacciarsi della consapevolezza che l'opzione di politica legislativa di astrarre dalle differenze di condizione delle persone non è di per sè la più idonea ad assicurarne in concreto l'eguaglianza, sussistendo nella società dominata dal modo di produzione capitalistico rilevanti "ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, im rASSEGNA AvvOCAturA DELLO StAtO -N. 1/2022 pediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese": come mirabilmente afferma l'art. 3 Cost., comma 2. Proprio per ciò, parallelamente all'assunzione da parte dei pubblici poteri del compito di "rimuovere" tali ostacoli di fatto, ha ricevuto nuova legittimazione la scelta politica di assumere gruppi e categorie di persone come punti di riferimento di normative speciali, allo scopo di farne oggetto di protezione e perequazione rispetto al resto della collettività. Ed è proprio in relazione a tali obiettivi di eguaglianza sostanziale che la dottrina è tornata a rivolgere la sua attenzione al concetto di "status", rinvenendovi schemi utili per l'interpretazione e la qualificazione degli strumenti giuridici apprestati per l'attuazione degli obiettivi protettivi e perequativi fatti propri dalle politiche pubbliche. In questa nuova prospettiva, la nozione di status che maggiormente ha acquistato rilievo è quella di status civitatis, declinata specialmente come insieme di pretese a prestazioni positive da parte dei pubblici poteri che possono essere attribuite anche a chi si trovi temporaneamente soggetto alla sovranità pubblica: e in specie al riconoscimento di prestazioni sociali collegate a particolari condizioni e qualità dei richiedenti. Per tale via, lo status civitatis è stato progressivamente costruito come "status activus processualis", avente ad oggetto il potere di avvalersi dei procedimenti amministrativi previsti dalla legge per assicurarsi le prestazioni sociali volte a garantire la protezione e la perequazione della categoria cui si appartiene e rendere così effettiva la libertà astrattamente assicurata dal principio di eguaglianza formale; per converso, la libertà di scelta della persona, che costituisce l'acquisizione più rilevante della modernità giuridica, è stata preservata subordinando l'attribuzione delle prestazioni ad una specifica domanda dell'interessato, allo scopo di fugare la possibilità che l'attribuzione d'ufficio di certe prestazioni valesse ad imprimere autoritativamente al beneficiario una qualità soggettivamente percepita come uno stigma sociale. Dell'evoluzione che dianzi s'è sommariamente tracciata è stata testimone la stessa giurisprudenza di questa Corte di legittimità. Essa, infatti, ha per un verso (e correttamente) negato la qualificazione di status all'insieme di pretese, immunità, facoltà e poteri che caratterizzano la situazione giuridica del singolo all'interno di un dato rapporto contrattuale, riconoscendo che in tali ambiti la nozione non ha valore tecnico-giuridico (così ad es. già Cass. n. 4732 del 1976, a proposito del c.d. status di lavoratore subordinato), ma al contempo -superando la più restrittiva concezione di Cass. n. 3727 del 1986, cit. -ha affermato che, in seguito allo sviluppo della tutela legislativa e amministrativa delle categorie di cittadini più deboli, deve ormai accogliersi una più ampia nozione di status, inteso come "posizione soggettiva, sintesi di un insieme normativo applicabile ad una determinata persona e rilevante per il diritto in maniera non precaria nè discontinua [...], che secondo l'apprezzamento comune distingue un soggetto dagli altri" (così Cass. S.u. n. 483 del 2000, in motivazione); ed è nella medesima ottica che si è ritenuto che il principio generale della previa proposizione della domanda amministrativa, quale condizione per l'accesso ad una data prestazione previdenziale o assistenziale, costituisca testimonianza della "evoluzione che le politiche sociali hanno impresso all'antica nozione di status civitatis" (così Cass. n. 5318 del 2016, in motivazione) e si è logicamente giustificato, riconducendolo alla nozione di status di "pensionato", il principio di imprescrittibilità del diritto alle prestazioni previdenziali o assistenziali garantite dall'art. 38 Cost., limitando la prescrittibilità (e/o l'assoggettabilità a decadenza) per i singoli ratei, periodicamente risorgenti in quanto oggetto di un'obbligazione pubblica di durata (così già Cass. n. 2243 del 1988; più recentemente, Cass. S.u. n. 10955 del 2002). Non senza precisare che CONtENzIOSO NAzIONALE la presentazione della domanda amministrativa, che è condizione di proponibilità dell'azione giudiziaria, condiziona lo stesso sorgere del diritto del privato da tutelare eventualmente davanti all'autorità giudiziaria, diritto che non può ritenersi sorto (unitamente allo speculare obbligo dell'ente previdenziale) anteriormente al perfezionamento della fattispecie a formazione progressiva che nella presentazione della domanda all'ente previdenziale trova appunto il suo incipit (cfr. in tal senso Cass. n. 732 del 2007; Cass. n. 5318 del 2016, cit.). D'altra parte, riconoscere che, ogni qualvolta il legislatore individua una particolare categoria di soggetti come destinataria di prestazioni pubbliche con finalità di protezione e perequazione sociale costituzionalmente garantite, la situazione giuridica dei beneficiari può e deve essere ricostruita in termini di status, non equivale di per sè a privare il legislatore stesso della possibilità di differenziare il relativo trattamento giuridico (nei limiti, s'intende, in cui tale differenziazione non debordi nell'irrazionalità manifesta), ma vale piuttosto a individuare un canone ermeneutico alla cui stregua ricostruire la disciplina applicabile alla fattispecie: a cominciare appunto dall'indisponibilità o meno delle situazioni giuridiche che ne formano oggetto e alla consequenziale applicazione del principio secondo cui tra i diritti indisponibili, che ai sensi dell'art. 2934 c.c., comma 2, non sono soggetti a prescrizione, vanno ricompresi i cosiddetti iura status, cioè i diritti relativi allo stato e alla capacità delle persone (così già Cass. n. 2386 del 1962, seguita da innumerevoli successive conformi). È alla stregua di tali coordinate che va dunque affrontata la questione se la categoria di "vittima del dovere" tipizzata dalla L. n. 266 del 2005, art. 1, commi 563-564, costituisca uno status e sia come tale imprescrittibile, salva la prescrizione dei ratei delle prestazioni assistenziali previste dalla legge. va anzitutto ricordato, al riguardo, che, interpretando le disposizioni citate, le Sezioni unite di questa Corte hanno già chiarito che esse istituiscono "un diritto di natura prevalentemente assistenziale volto a prestare un ausilio a chi abbia subito un'infermità o la perdita di una persona cara a causa della prestazione di un servizio in favore di amministrazioni pubbliche da cui siano derivati particolari rischi", il quale "non rientra nello spettro di diritti e doveri che integrano il rapporto di lavoro subordinato dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche", ma "si colloca fuori e va al di là di tale rapporto, contrattualizzato o meno che esso sia, potendo riguardare anche soggetti che con l'amministrazione non abbiano un rapporto di lavoro subordinato ma abbiano in qualsiasi modo svolto un servizio" (così Cass. S.u. n. 23300 del 2016, in motivazione, testualmente ripresa da Cass. S.u. n. 22753 del 2018). Si tratta quindi di provvidenze che trovano causa nella morte o nell'infermità permanente che abbia attinto quanti, anche indipendentemente da un rapporto d'impiego con una pubblica amministrazione, abbiano prestato un servizio a beneficio della collettività da cui siano derivati e concretizzati in loro danno particolari rischi: e dunque, come può senz'altro aggiungersi in relazione alle fattispecie espressamente tipizzate dalla lettera dei commi 563 e 564 dell’art. 1, l. n. 266 del 2005, di un servizio che a sua volta costituisce adempimento di un dovere nel- l'interesse della collettività (art. 2 Cost.). Diversamente da quanto sostenuto dal Ministero ricorrente, inoltre, non può essere dubbio che le provvidenze in esame rientrino nell'ambito della tutela di cui all'art. 38 Cost.: la disposizione costituzionale ult. cit., nel riferirsi all'idea di "sicurezza sociale" e nell'ipotizzare soltanto due modelli tipici della medesima, uno dei quali fondato unicamente sul principio di solidarietà (comma 1) e l'altro suscettibile di essere realizzato mediante strumenti mutualistico- assicurativi (comma 2), "non esclude tuttavia, e tantomeno impedisce, che il legislatore ordinario delinei figure speciali nel pieno rispetto dei principi costituzionalmente accolti" rASSEGNA AvvOCAturA DELLO StAtO -N. 1/2022 (così, testualmente, Corte Cost. n. 31 del 1986). E se è vero che la disciplina delle provvidenze dettate per le vittime del dovere può legittimamente considerarsi come una delle possibili "figure speciali di sicurezza sociale", la cui ratio va individuata nell'apprestare peculiari ed ulteriori forme di assistenza per coloro che siano rimasti vittima dell'adempimento di un dovere svolto nell'interesse della collettività, che li abbia esposti ad uno speciale pericolo e all'assunzione di rischi qualificati rispetto a quelli in cui può incorrere la restante platea dei dipendenti pubblici o degli incaricati di un pubblico servizio (così Cass. n. 29204 del 2021), non si possono non ravvisare nella situazione giuridica istituita dal legislatore tutti i presupposti dello status, nello specifico senso di cui dianzi s'è detto: valendo la categoria di "vittima del dovere" a differenziare una particolare categoria di soggetti al fine di apprestare loro un insieme di benefici previsti dalla legge e riepilogati dal D.P.r. n. 243 del 2006, art. 4. vale la pena di rimarcare che, nel sistema così delineato, la domanda dell'interessato deve considerarsi pur sempre condicio sine qua non per il riconoscimento della condizione di "vittima del dovere", non potendo attribuirsi alla disposizione regolamentare di cui al D.P.r. n. 243 del 2006, art. 3 (che statuisce che "in mancanza di domanda si può procedere d'ufficio") alcuna valenza derogatoria ad un principio che, per gli status activae processualis, ha valenza, come dianzi s'è visto, di diritto di libertà costituzionalmente garantito: e sotto tale profilo, anzi, va senz'altro corretta la sentenza impugnata nella parte in cui ha tratto dalla previsione regolamentare testè cit. argomenti per suffragare la conclusione circa l'imprescrittibilità della pretesa, che viceversa discende ex se dalla riconosciuta natura di status della condizione di vittima del dovere e non già da una inesistente facoltà dell'amministrazione di attribuirla d'ufficio. resta per contro ferma la conclusione dei giudici di merito secondo cui l'imprescrittibilità dell'azione volta all'accertamento dello status di vittima del dovere non si estende ai benefici economici che in tale status trovano il loro presupposto, come nella specie il diritto all'assegno mensile vitalizio L. n. 407 del 2008, ex art. 2, e all'assegno mensile vitalizio L. n. 206 del 2004, ex art. 5, comma 3, i quali -unitamente al diritto all'assistenza psicologica a carico dello Stato, all'esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria e all'erogazione a carico del Servizio sanitario nazionale dei medicinali attualmente classificati in classe "C", L. n. 206 del 2004, ex artt. 6 e 9 -sono stati riconosciuti nel caso di specie all'odierno controricorrente nei limiti prescrizionali; ed è appena il caso di soggiungere che, diversamente da quanto sostenuto dal Ministero ricorrente, contrari argomenti non possono farsi discendere da Corte Cost. n. 106 del 2008, che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.P.r. n. 915 del 1978, art. 99, comma 2, nella parte in cui prevede un termine quinquennale di prescrizione per il trattamento pensionistico di guerra limitatamente al caso in cui l'invalidità o la morte derivino da lesioni d'arma da fuoco di origine bellica o da esplosione di un ordigno bellico provocata da un minorenne: è sufficiente al riguardo considerare che, mentre in quel caso si trattava di giudicare della legittimità costituzionale di una peculiare disciplina della prescrizione di uno speciale trattamento pensionistico, qui si tratta di individuare, in assenza di una specifica disposizione di legge, quale sia la generale disciplina della prescrizione delle provvidenze in questione e, in specie, se ed in che termini essa vada ripetuta dalla norma generale dell'art. 2934 c.c., comma 2. Il ricorso, pertanto, va rigettato, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, che seguono la soccombenza e si distraggono in favore del difensore delle parti controricorrenti, dichiaratosi antistatario. Non potendo trovare applicazione nei confronti delle amministrazioni dello Stato il D.P.r. n. CONtENzIOSO NAzIONALE 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, essendo le medesime esentate, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (cfr. Cass. n. 1778 del 2016), non v'ha luogo a pronuncia sul raddoppio del contributo unificato. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna le, parti ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 3.200,00, di cui Euro 3.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge, e si distraggono in favore del difensore di parte controricorrente, dichiaratosi antistatario. Così deciso in roma, nella camera di consiglio, il 2 febbraio 2022. rASSEGNA AvvOCAturA DELLO StAtO -N. 1/2022 Benefici a favore delle vittime dei reati di stampo mafioso CoNsiglio di stato, sezioNe terza, seNteNza 14 febbraio 2022 N. 1072 La sentenza del Consiglio di Stato n. 1072 del 2022, previo rigetto del primo motivo dell’Amministrazione appellante con il quale si ribadiva il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo (come affermato sia dalla precedente giurisprudenza del Consiglio di Stato -sentt. 5818/2009; 1338/2006 -che della Corte di cassazione -sentt. SS.uu. 26626/2007; 21927/2008; 23300/2016; 7761/2017), ha accolto il secondo motivo attinente alla insussistenza del requisito della “totale estraneità ad ambienti e a rapporti delinquenziali”. Sotto il primo profilo, il Consiglio ha affermato che “L'accertamento circa la sussistenza del presupposto di cui all’art. 1 comma 2 legge n. 302/1990 si traduce in una delicata attività valutativa di contenuto ampiamente discrezionale, innervata da interessi di rilevanza pubblicistica e sindacabile nei (noti) limiti delle figure sintomatiche dell'eccesso di potere (in particolare: manifesta illogicità, irragionevolezza, disparità di trattamento): per l’insieme di tali connotati, tale tipologia di contenzioso non può che logicamente accedere alla cognizione del giudice deputato allo scrutinio del potere amministrativo”. Quanto al secondo profilo e alla portata della disposizione di cui all’art. 1, comma 2, lettera b) legge n. 302 del 1990, il Consiglio di Stato ha chiarito che la sua più condivisibile interpretazione “impone di escludere l’attribuzione del beneficio anche in presenza di un ragionevole dubbio ovvero di un sospetto della non totale estraneità del soggetto leso agli ambienti delinquenziali, ed a rapporti con tali ambienti” atteso che “trattandosi di benefici da accordare piuttosto che di sanzioni da comminare -e per di più per fatti e persone per i quali la vischiosità del fenomeno mafioso ha modo di manifestarsi in tutte le sue molteplici valenze -il principio "in dubio pro reo" non ha motivo di sussistere, dovendo piuttosto operare, per il miglior conseguimento delle particolati finalità riparatorie/premiali cui tende la norma, l'opposto principio per il quale il dubbio giustifica la mancata attribuzione”. Wally Ferrante * Consiglio di Stato, Sezione terza, sentenza 14 febbraio 2022 n. 1072 -Pres. G. veltri, est. G. Pescatore -Ministero dell'Interno (avv. gen. dello Stato) c. OMISSIS (avv. Giuseppe Mazzotta). FAttO e DIrIttO 1. Nel giudizio di primo grado celebrato innanzi al tar Calabria e conclusosi con la sentenza qui appellata, gli odierni appellati hanno chiesto l’annullamento del decreto ministeriale del (*) Avvocato dello Stato. CONtENzIOSO NAzIONALE 11 ottobre 2013 recante il rigetto dell’istanza da loro avanzata per la concessione dei benefici previsti dalla legge n. 302/1990. 2. respinta l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dall’amministrazione, il tar ha accolto il ricorso e annullato il provvedimento impugnato, con salvezza delle successive determinazioni dell’amministrazione in sede di riesercizio del potere. 3. A parti rovesciate, i temi del contendere già svolti in primo grado si ripropongono in questa sede, per il tramite dei due motivi di impugnazione svolti dal Ministero in punto giurisdizione e sussistenza dei presupposti del beneficio di legge. 4. A seguito della rinuncia all’istanza cautelare, la causa è stata posta in decisione all’udienza pubblica del 10 febbraio 2022. 5. Nella sentenza impugnata il giudice di prime cure, pur ammettendo “l’esistenza di un orientamento giurisprudenziale incline a riconoscere, per le controversie de quibus, la giurisdizione del giudice ordinario” (pag. 5 della sentenza impugnata), ha affermato la propria cognizione in materia, ritenendo sussistente, nel caso di specie, una posizione soggettiva di interesse legittimo. 5.1. L’Amministrazione appellante reputa, al contrario, che la giurisdizione in tema di controversie relative al riconoscimento delle speciali elargizioni previste dalle leggi in favore di varie categorie di soggetti legislativamente individuati (vittime del dovere, vittime del terrorismo e della criminalità organizzata) rientri nella competenza del giudice ordinario, “in quanto la posizione soggettiva degli aspiranti beneficiari si configura quale vero e proprio diritto soggettivo, essendo la P.a. priva di ogni potere discrezionale sia con riguardo ai presupposti dell'erogabilità, circoscritti alla qualificazione dell'evento come riconducibile ad uno di quelli tipici, sia con riferimento all'entità della somma da erogare, prefissata dalla legge”. 5.2. Il motivo non può essere accolto. L'accertamento circa la sussistenza del presupposto di cui all’art. 1 comma 2 legge n. 302/1990 si traduce in una delicata attività valutativa di contenuto ampiamente discrezionale, innervata da interessi di rilevanza pubblicistica e sindacabile nei (noti) limiti delle figure sintomatiche dell'eccesso di potere (in particolare: manifesta illogicità, irragionevolezza, disparità di trattamento): per l’insieme di tali connotati, tale tipologia di contenzioso non può che logicamente accedere alla cognizione del giudice deputato allo scrutinio del potere amministrativo (Cons. Stato, sez. III, n. 1349/2020). 5.3. La prospettata alternativa del carattere vincolato del potere non varrebbe comunque ad alterare l’attribuzione della giurisdizione. Questa Sezione ha di recente osservato -con la pronuncia n. 6371/2020, alle cui più ampie argomentazioni si rimanda -che il vincolo, o detto altrimenti, l’assenza di discrezionalità amministrativa, non riduce il potere ad un’obbligazione civilistica, poiché l’amministrazione esercita in questi casi una funzione di verifica, controllo, accertamento tecnico dei presupposti previsti dalla legge, quale soggetto incaricato della cura di interessi pubblici generali, esulanti dalla mera sfera patrimoniale. Il potere, dunque, rimane espressione di “supremazia”, o in termini più moderni di “funzione”, anche se l’an e il quomodo del suo esercizio sono predeterminati dalla legge. Ciò che muta in conseguenza del vincolo è piuttosto la modalità di tutela nel senso che, quando l’intermediazione è prevista dalla legge secondo uno schema rigidamente predeterminato, tale da non lasciare margini di scelta all’amministrazione al ricorrere dei richiesti presupposti, la tutela della situazione giuridica comporta un giudizio sulla spettanza che può sfociare, contestualmente all’annullamento del provvedimento illegittimo, nella condanna dell’ammini rASSEGNA AvvOCAturA DELLO StAtO -N. 1/2022 strazione all’emanazione dell’atto dovuto (art. 34 lett. c. e 31 comma 3 c.p.a.), secondo una schema per il quale è soltanto il cattivo esercizio del potere (secondo l’accertamento che ne fa il giudice amministrativo) a generare l’obbligazione di facere pubblicistico, e non già il potere vincolato ad essere esso stesso configurabile come un’obbligazione. Del resto, che il vincolo al potere non muti i termini del riparto di giurisdizione emerge chiaramente dalle numerose disposizioni del codice del processo amministrativo o della legge generale sul procedimento amministrativo che dedicano all’area vincolata dell’azione amministrativa norme ad hoc, funzionali al principio di satisfattività e pienezza delle tutela dell’interesse sostanziale, destinate a trovare applicazione proprio nell’alveo della giurisdizione amministrativa. Oltre all’azione di adempimento, sopra cennata, si pensi all’azione tesa a contrastare l’inerzia della pubblica amministrazione, ex art. 31 comma 3, ovvero, sul versante opposto, alle norme che, esaltando la componente sostanziale e soggettiva dell’interesse legittimo (il cd. “bene della vita”) inibiscono il potere giudiziale di annullamento del giudice amministrativo in ordine a provvedimenti adottati in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, “per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” (v. Cons. Stato, sez. III, n. 6371/2020). 5.4. Nel caso in esame, le disposizioni di interesse delineano un potere amministrativo il cui esercizio -anche ove voglia definirsi vincolato, sussumendo, in ipotesi, le valutazioni ivi contemplate nell’area della complessità del “fatto”, piuttosto che in quella della discrezionalità propriamente detta -intermedia la situazione giuridica soggettiva del cittadino che aspira ad ottenere il beneficio economico, al fine di verificare il ricorrere di alcune specifiche condizioni prese in considerazione dalla legge a tutela dell’interesse pubblico al corretto utilizzo delle risorse e al buon andamento dell’amministrazione. 6. Per accedere al merito della controversia (oggetto del secondo motivo di appello), occorre riepilogare i fatti all’origine del contenzioso. 6.1. I sig.ri OMISSIS, sono rispettivamente coniuge e figli del sig. OMISSIS deceduto a seguito di un evento criminoso verificatosi in reggio Calabria il 31 marzo 1987. Il beneficio del quale chiedono di poter essere destinatari è previsto dalla legge n. 302/1990 in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata. 6.2. L’art. 1, comma 2, della legge n. 302 subordina il riconoscimento economico alla duplice condizione che “a) il soggetto leso non abbia concorso alla commissione del fatto delittuoso lesivo …” e “b) risulti essere del tutto estraneo ad ambienti e rapporti delinquenziali …”. 6.3. L’atto di diniego qui controverso mette in discussione propria questa seconda condizione e lo fa traendo argomenti dalla relazione del 17 dicembre 2007 della Prefettura di reggio Calabria, la quale a sua volta richiama il parere contrario espresso dal Prefetto nel 2007, confermato con note del 9 aprile del 2009 e del 2 maggio 2013. Altra fonte conoscitiva è costituita dalla sentenza n. ... emessa sull’episodio delittuoso dal G.u.P. presso il tribunale di reggio Calabria e recante la condanna di tale M.B., quale autore materiale e responsabile in concorso dell’omicidio di OMISSIS. Alla stregua di tali risultanze l’amministrazione ha inquadrato il delitto in parola nell’ambito della faida mafiosa sviluppatasi tra la famiglia r. e quella L.G.; ma ha al contempo ritenuto che gli elementi che connotano la vicenda, pur facendo emergere la matrice mafiosa richiesta dall’art. 1, comma 2 della legge n. 302/1990, non dimostrino in modo sufficiente l’estraneità dello stesso OMISSIS agli ambienti e ai rapporti delinquenziali, come richiesta dalla suindicata norma alla lett. b). CONtENzIOSO NAzIONALE 6.4. Gli elementi messi a frutto di questa conclusione e ritraibili dalla sentenza di condanna del 2012, evidenziano in particolare che: -la vittima, sino ad alcuni mesi prima dell’omicidio, aveva lavorato come cuoco presso il ristorante di proprietà della famiglia r. e gestito dal defunto r.D., ben noto per le numerose vicende giudiziarie che lo avevano visto implicato in procedimenti per il reato di cui all’art. 416-bis c.p.; -il rapporto di lavoro era durato solo tre mesi, fino a quando i r. erano stati tratti in arresto; ma la cessazione del rapporto non aveva incrinato i rapporti di amicizia del OMISSIS con la famiglia r. a favore della quale, anche dopo la chiusura del ristorante, il primo si era prodigato per reperire un pizzaiolo da destinare all’avvio del nuovo locale della famiglia; -probabilmente OMISSIS (stando alle dichiarazioni rese dalla moglie e riportate in sentenza) aveva anche fatto visita a r.D., allorché questi si trovava detenuto agli arresti domiciliari, ed in ogni caso aveva partecipato ai funerali di r.A., ucciso nel luglio 1986; -B.G., legato alla famiglia mafiosa dei L.G., ha inoltre riferito come, subito dopo avere subito un attentato alla vita, il OMISSIS si fosse recato a fargli visita; -dalle dichiarazioni di M. è emerso inoltre che la decisione omicidiaria scaturì, su assenso concorde di molti affiliati al clan, dalla convinzione che OMISSIS fosse parte del clan r., ovvero “uno del gruppo dei r.” o un loro “basista” (v. pag. 65 della sentenza 2012); -la stessa motivazione resa dal giudice penale avvalora la causale dell’omicidio come “quasi fortuita” (pag. 76), ovvero come originata da una volontà di eliminare “tutti i potenziali nemici del gruppo, anche quelli solo sospettati, nella mente degli autori, di essere potenzialmente vicini al gruppo rivale (come nel caso omissis), al solo fine di epurare in via preventiva le potenziali “spie”” (pag. 77). La tesi trova parziale conferma nelle dichiarazioni rese da altro collaboratore di giustizia, tale L.G.u. (“non abbiamo mai capito perché sia stato ucciso dal momento che non svolgeva una militanza attiva in nostro favore” -v. pag. 64 sentenza 2012). Nella pronuncia penale si legge ancora: “anche la causale degli omicidi, nel caso del omissis quasi fortuita, che imponeva nella terribile atmosfera della guerra di mafia l’onere per qualsivoglia soggetto ‘vicino’ (anche in senso lato) ad uno dei due gruppi di assumere una posizione netta, al punto che anche il solo accettare il sostegno economico degli avversari (nel caso del P.) o l’attitudine a ‘bazzicare’ per motivi professionali, di lavoro, di parentela in ... (nel caso del omissis), essendo etichettabile, agli occhi dei terzi, come personaggio prossimo agli odiati rivali i r., sono state incredibilmente condizioni sufficienti a costituire un rischio inaccettabile, che gli stessi hanno pagato con la vita” (pag. 76); -nel motivare le determinazioni in punto di applicazione del beneficio della continuazione tra i tre episodi delittuosi oggetto d’accertamento, il giudice penale rimarca, infine, come le scelte omicidiarie fossero da intendersi come “frutto di un sopravvenuto ed unitario clima di terrore e di propositi di reciproca eliminazione delle ‘presunte’file altrui o punitive di infedeltà interne” (pag. 78). 7. Il tar reggio Calabria, come detto, ha accolto il ricorso, ritenendo fondate le doglianze con le quali i ricorrenti avevano denunciato il difetto di motivazione e di istruttoria in relazione alla sussistenza del requisito della completa estraneità della vittima ad ambienti e rapporti delinquenziali. 7.1. Secondo la pronuncia di primo grado, vi sarebbe “una insanabile contraddizione tra la delibazione negativa compiuta sull’anzidetto presupposto e le risultanze processuali che non sembrano invero in alcun modo sorreggerla”. Nel corso del processo penale si sarebbe infatti appurato che la vittima, non affiliata a nessuna rASSEGNA AvvOCAturA DELLO StAtO -N. 1/2022 delle due cosche rivali, era sospettata di appartenere a quella dei r. sulla base di elementi di scarsa consistenza e poi definitivamente sconfessati, quali, “da un lato .. la frequentazione pressoché quotidiana del omissis nel quartiere di ..., notoriamente ritenuto di pertinenza della famiglia r.; dall’altro lato, .. l’attività lavorativa di cuoco svolta fino a qualche mese prima del delitto presso uno dei locali appartenenti alla anzidetta famiglia”. Il tar ha poi osservato che “quanto all’elemento principale della postulata vicinanza alla famiglia r., il collaboratore l., appartenente alla medesima cosca, affermava testualmente (in sede di interrogatorio reso ai pubblici ministeri il cui verbale veniva acquisito al fascicolo del giudizio abbreviato) di non aver mai capito le ragioni dell’omicidio del omissis, non svolgendo egli “una militanza attiva a nostro favore”. evidente il significato attribuibile a tale dichiarazione, gravitando egli nei ranghi della medesima consorteria mafiosa ed essendo quindi certamente a conoscenza del relativo organigramma e dei ruoli rivestiti da ciascuno affiliato. Né le dichiarazioni dell’altro collaboratore, l.U.g., appartenente al clan rivale -al di là della relativa omessa considerazione nel provvedimento -sembrano porsi in contraddizione con quelle del m., avendo egli riferito che la decisione dell’uccisione del omissis era stata assunta dai vertici della cosca nel convincimento che lo stesso facesse parte della famiglia r., desunto dal fatto che spesso frequentasse ... e che lavorasse alle loro dipendenze; con ciò ipotizzandosi che potesse essere un ‘basista’, cioè un soggetto delegato a comunicare ai propri sodali i loro spostamenti. stante l’assenza di ulteriori e più specifici dettagli sulla ritenuta intraneità della vittima alla cosca r., ne risulta confermata l’idea che la scelta della relativa eliminazione fosse da ricondurre alla precisa volontà di neutralizzare tutti i potenziali componenti della consorteria rivale, anche quelli di incerta collocazione e per ciò ritenuti, a maggior ragione, particolarmente pericolosi. d’altro canto, nella sentenza, proprio alla luce delle dichiarazioni rese dai collaboratori, viene evidenziata .. l’accidentalità della morte del omissis… Quanto poi al dato della frequentazione da parte della vittima del quartiere di ... nella stessa sentenza se ne riconduce la ragione a motivi di carattere personale, ivi svolgendo attività lavorativa come parrucchiera la moglie, odierna ricorrente”. Conclude il tar che “di tali circostanze -così come, analogamente, delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari dalla moglie della vittima, la quale aveva riferito dei buoni rapporti tra il marito e la famiglia r. e della partecipazione dello stesso al funerale di uno dei familiari -non v’è alcuna traccia nella motivazione del provvedimento impugnato, che per ciò solo deve ritenersi perentoriamente carente nell’enunciazione delle ragioni poste a fondamento della dedotta insussistenza del presupposto di cui alla lett. b) del co. 2 dell’art. 1 della legge n. 302/1990”. 7.2. Opposta è la lettura degli atti proposta dal Ministero appellante e tutta atteggiata su una interpretazione restrittiva della condizione -imposta dall’art. 1, comma 2, lett. b) della legge 320/1990 - della totale estraneità della vittima ad ambienti e rapporti delinquenziali. 7.3. L’impostazione dell’atto di appello è condivisibile. 7.4. va innanzitutto chiarito che il provvedimento di diniego non merita censure sotto il profilo del “difetto di istruttoria” ovvero del suo “laconico contenuto esplicativo” (p. 9 e 10 sentenza appellata), poiché l’obbligo della motivazione può ritenersi assolto anche per relationem quando le ragioni dell’agire amministrativo possono agevolmente ricavarsi, oltre che dall’atto conclusivo dell’iter procedimentale, dalla lettura degli atti afferenti alle diverse fasi nelle quali questo si articola. Al contempo, “non è necessario che eventuali responsabilità della vittima CONtENzIOSO NAzIONALE trovino sostegno in decisioni dell’autorità giurisdizionale passate in giudicato, ma è sufficiente che da precedenti attività investigative e da atti in possesso dell’amministrazione emergano rapporti di contiguità e/o frequentazione idonei ad inficiare la condizione di totale estraneità ad ambienti con propensione ad attività delittuose” (Cons. Stato, sez. I, n. 3263/2003). Nel caso di specie, le motivazioni espresse dal Ministero nell’atto di diniego fanno riferimento ad un ampio corredo istruttorio, certamente noto e accessibile alla parte, del quale è stata resa una lettura sinteticamente compendiata in formule esplicative succinte, ma meglio decrittabili proprio alla luce dei rimandi ai dati fattuali lì rinvenibili. L’ampia e analitica disamina dei singoli profili effettuata nel corso del giudizio di primo grado rende conferma del carattere “ellittico” o “contratto” (ma certamente non assente) della motivazione del provvedimento ministeriale, non a caso sviscerata attraverso l’analisi dei plurimi elementi sostanziali in essa implicati. 7.5. venendo alla portata della disposizione di cui all’art. 1, comma 2, lettera b) legge n. 302 del 1990, la sua più condivisibile interpretazione, avallata dalla giurisprudenza anche di questa Sezione, impone di escludere l’attribuzione del beneficio “anche in presenza di un ragionevole dubbio ovvero di un sospetto della non totale estraneità del soggetto leso agli ambienti delinquenziali, ed a rapporti con tali ambienti” (Cons. Stato, sez. III, n. 1349/2020; id. sez. vI, n. 2756/2007 e n. 7954/2006). 7.6. Nel caso di specie, agli atti del procedimento emergono svariati elementi sulla base dei quali l’amministrazione ha motivatamente ritenuto di non poter sciogliere definitivamente ogni margine di riserva sull’effettivo posizionamento del OMISSIS, ovvero sulla natura dei suoi rapporti con la famiglia r.: detti tratti di residuale ambiguità si pongono in rapporto di distonia con la sua prospettata, assoluta e inequivocabile estraneità agli ambienti criminali in cui è maturato l’omicidio. Come esposto, occorre infatti che detta condizione negativa di estraneità al contesto mafioso presenti i caratteri della assoluta 'totalità', dovendosi perciò escludere che possano rientrarsi quei casi nei quali è possibile coltivare dubbi sulla effettiva e, appunto, radicale estraneità della vittima, dubbi che ben possono manifestarsi anche alla stregua di fatti indiziari come quelli assunti nel caso di specie dall’amministrazione. 7.7. La difficile collocazione del OMISSIS in un area di netta estraneità o, all’opposto, di appartenenza, connivenza o prossimità ad uno dei due clan in lotta si evince, oltre che dalle circostanze attestanti il rapporto di lavoro alle dipendenze dei r., l’incarico fiduciario da questi assegnatogli (per il reperimento di un nuovo pizzaiolo) e la frequentazione amicale intrattenuta con esponenti della famiglia (la visita a r.D. e nella partecipazione ai funerali di r.A.), anche nelle motivazioni che hanno indotto il clan avversario ad individuarlo come nemico e potenziale alleato del gruppo antagonista; prospettiva argomentativa, questa, tutt’altro che smentita dalla pronuncia penale, sia nella parte in cui riporta le dichiarazioni di M. e la convinzione da questi espressa che OMISSIS fosse parte del clan r., ovvero “uno del gruppo dei r.” o un loro “basista” (sentenza 2012, pag. 65); sia nei passaggi in cui avvalora la causale dell’omicidio come “quasi fortuita” (ma non pienamente fortuita), ovvero come originata da una volontà di eliminare “tutti i potenziali nemici del gruppo, anche quelli solo sospettati, nella mente degli autori, di essere potenzialmente vicini al gruppo rivale (come nel caso omissis), al solo fine di epurare in via preventiva le potenziali “spie”” (pag. 77). tutte queste espressioni enfatizzano il carattere di “potenziale” o “sospetta” prossimità o vicinanza dell’uomo ad uno dei clan rivali, ma non dissolvono affatto la consistenza di questi rASSEGNA AvvOCAturA DELLO StAtO -N. 1/2022 “sospetti”, ribadendo significativamente come le scelte omicidiarie fossero maturate nel contesto “di un sopravvenuto ed unitario clima di terrore e di propositi di reciproca eliminazione delle ‘presunte’ file altrui o punitive di infedeltà interne” (pag. 78). 7.8. Non appare decisiva neppure la dichiarazione resa dal collaboratore L. “non abbiamo mai capito perché sia stato ucciso dal momento che non svolgeva una militanza attiva in nostro favore” (v. pag. 64 sentenza 2012): si tratta infatti di affermazione niente affatto scevra da ambiguità e che, se esclude la militanza attiva, non disconosce forme minori di connivenza o di fiancheggiamento, finendo così per aderire appieno allo schema della strategia criminale descritta dal giudice penale come intesa a “neutralizzare tutti i potenziali componenti della consorteria rivale, anche quelli di incerta collocazione e per ciò ritenuti, a maggior ragione, particolarmente pericolosi”. Il ruolo e il posizionamento del OMISSIS paiono situarsi in quest’area grigia di sospette affiliazioni e contiguità, non meglio definibili ma, proprio per tale ragione, non compatibili con il rigore della totale estraneità ad ambienti malavitosi che il legislatore esige per dare corso ai benefici in argomento. 8. A fronte delle descritte emergenze, è opinione del Collegio che la determinazione amministrativa impugnata in primo grado si sottragga ai rilievi denunciati, atteso che la concreta declinazione e ponderazione della condizione negativa richiesta dalla legge risulta essere avvenuta in osservanza delle indicazioni interpretative fornite dalla giurisprudenza e, quindi, in termini giustamente rigorosi, giustificati, in punto di diritto e di politica del diritto, proprio perché, trattandosi di benefici da accordare piuttosto che di sanzioni da comminare -e per di più per fatti e persone per i quali la vischiosità del fenomeno mafioso ha modo di manifestarsi in tutte le sue molteplici valenze -“il principio "in dubio pro reo" non ha motivo di sussistere, dovendo piuttosto operare, per il miglior conseguimento delle particolati finalità riparatorie/premiali cui tende la norma, l'opposto principio per il quale il dubbio giustifica la mancata attribuzione...” (cfr. CGArS, n. 385/2014. Nello stesso senso CGArS n. 584/2012 e tAr Sicilia, Sez. I, n. 988/2013). 9. L’appello va quindi accolto in relazione al secondo motivo di appello. Ne consegue, in riforma della pronunciata impugnata, la reiezione del ricorso di primo grado. 10. La natura delle questioni trattate e degli interessi in esse implicati giustificano la compensazione delle spese di lite relative ad entrambi i gradi di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado. Compensa le spese di lite dei due gradi di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del regolamento (uE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità. Così deciso in roma nella camera di consiglio del giorno 10 febbraio 2022. PAreridelComitAtoConSultivo Annullamento d’ufficio, da parte del Prefetto, degli atti posti in essere dal Sindaco in materia anagrafica Parere del 26/02/2020-118563/118564, al 38197/2019, avv. IlIa MassarellI Con la nota che si riscontra si richiede di fornire parere in merito alla possibilità di configurare in capo al Prefetto un potere di annullamento d'ufficio degli atti posti in essere dal Sindaco nella qualità di ufficiale di anagrafe e, quindi, in qualità di ufficiale di governo -, al fine di arginare le condotte di Sindaci che, in violazione della nuova normativa in materia di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, provvedono alle suddette iscrizioni nei Comuni di propria competenza, pur in assenza dei nuovi presupposti previsti dalla legge. Giova, preliminarmente, segnalare che proprio con riguardo all'art. 13, comma 1, lett. a, n. 2, del d.l. 113/2018 -recante la nuova normativa di cui si discute secondo la quale il permesso di soggiorno per richiesta di asilo non costituisce più titolo per l'iscrizione all'anagrafe della popolazione residente -è stata di recente sollevata questione di legittimità costituzionale dal Tribunale di Ancona (ordinanza r.g.n. 3081/2019) con riferimento agli artt. 2, 3 e 117 Cost.: le prossime determinazioni della Consulta contribuiranno senza dubbio ad orientare, in un senso o nell'altro, l'attività dei Sindaci nella materia in esame (*). Allo stato degli atti, quanto, comunque, alla più ampia questione che investe i rapporti tra il Sindaco, quale ufficiale di governo, ed il Prefetto ed alla connessa configurabilità, in particolare nel settore dell’"ordinamento anagrafico", di un potere di annullamento degli atti del primo in capo al secondo, 1a Scrivente ritiene di poter fornire un "indirizzo di massima" cui l'Amministra (*) La Corte Costituzionale con sentenza depositata il 31 luglio 2020 n. 186 ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 13 d.l. 113/2018, interpretato nel senso di vietare l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo. RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 zione potrà senz'altro tenersi nella gestione della criticità in oggetto, ferma restando, tuttavia, l'oggettiva difficoltà di pervenire ad una risposta univoca anche a fronte delle perduranti incertezze sul punto della dottrina e della stessa giurisprudenza, incertezze che rendono auspicabile un intervento normativo in materia. 1. Come noto, in materia tanto di stato civile quanto di anagrafe, il Sindaco agisce quale Ufficiale di Governo e, quindi, non già come organo di vertice e legale rappresentante dell'Amministrazione comunale, bensì come organo periferico dell'Amministrazione Statale. La tenuta dei registri di stato civile e di popolazione è, infatti, materia di competenza statale, rispetto alla quale il Sindaco esercita le sue funzioni come ufficiale di Governo e nell'esercizio delle stesse deve attenersi alle istruzioni impartite dal ministero dell'interno (art. 54, commi 3 e 12, d.lgs. n. 267/2000 "Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali"). Sussiste, pertanto, certamente -per stessa previsione normativa -una "relazione interorganica" di subordinazione tra il Sindaco, laddove agisca quale Ufficiale di Governo, ed il Ministero dell'Interno, che assoggetta il primo ai poteri di direttiva e di vigilanza del secondo al fine di garantire l'uniformità di indirizzo nell'interpretazione ed applicazione della normativa in materia di anagrafe su tutto il territorio nazionale. È quanto emerge, infatti, chiaramente anche dall'analisi del quadro normativo vigente in materia di anagrafe: -Il Ministero dell'Interno e l'Istituto nazionale di statistica esercitano l'alta vigilanza sulla regolare tenuta delle anagrafi per mezzo dei propri funzionari ed ispettori (art. 54, D.P.R. n. 223/1989); nessuna annotazione sugli atti anagrafici, in aggiunta a quelle previste dalla legge in materia di "ordinamento anagrafico" (n. 1228/1954) e dal regolamento di esecuzione di cui al precitato D.P.R., può essere disposta senza l'autorizzazione del Ministero dell'interno d'intesa con il suddetto Istituto (art. 12, L. 1228/1954); -La medesima attività di vigilanza è effettuata anche dal Prefetto il quale "vigila affinché gli adempimenti anagrafici, topografici, ecografici e di carattere statistico dei comuni siano effettuati in conformità alle norme" del regolamento anagrafico: la vigilanza viene esercitata a mezzo di ispezioni effettuate, almeno una volta all'anno in tutti i comuni, ed il cui esito deve essere comunicato all'Istituto nazionale di statistica (art. 52, D.P.R. cit.); -Spetta, inoltre, al Prefetto risolvere le vertenze che sorgono tra gli uffici anagrafici (art. 19 bis, D.P.R. cit.), approvare ogni delega o revoca che il Sindaco intenda fare delle proprie funzioni di ufficiale d’anagrafe al segretario comunale o ad altri impiegati del Comune (art. 3, L. 1228/1954 e art. 2, D.P.R. cit.), nonché intervenire con proprio provvedimento nel caso di inerzia del sindaco nell'esercizio delle funzioni allo stesso spettanti (art. 54, comma 11, d.lgs. n. 267/2000); PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo -L'art. 36 del d.p.r. dispone, infine, che avverso il rifiuto opposto dall'ufficiale di anagrafe al rilascio dei certificati anagrafici nonché in caso di errori contenuti in essi, gli interessati possono proporre ricorso al prefetto: è, dunque, espressamente prevista la possibilità di ricorso gerarchico al Prefetto avverso gli atti emessi dal Sindaco quale ufficiale d'anagrafe. orbene, la sussistenza di un tale rapporto di sovraordinazione tra il Sindaco, quale ufficiale di Governo, ed il Ministero dell'interno è, a ben vedere, anche univocamente riconosciuta ed affermata dalla stessa giurisprudenza amministrativa. Il Consiglio di Stato ha, infatti, in più occasioni preso atto che dall'esistenza di così incisivi poteri di indirizzo, vigilanza e sostitutivi in capo al Ministero dell'Interno, ed al Prefetto, nei confronti del Sindaco in tutte le materie in cui lo stesso agisce quale organo periferico dell'Amministrazione statale, non possa non desumersi «una posizione generale di sovraordinazione del Prefetto, rispetto al sindaco» (Cons. St., n. 5047/2016). Si è, in particolare, affermato che: «Nel nostro ordinamento l'esercizio di alcune funzioni di competenza statale è stato affidato al sindaco, che le esercita non come vertice dell'ente locale, ma nella diversa qualità di ufficiale di governo (...). Il particolare modello organizzativo in esame implica che la titolarità della funzione resta intestata all'amministrazione centrale (e, segnatamente, al Ministero dell'interno) e che il sindaco la esercita solo quale organo delegato dalla legge. Un ulteriore corollario della titolarità statale della funzione attinente alla tenuta dei registri di stato civile è che il sindaco resta soggetto, nell'esercizio delle pertinenti funzioni, alle istruzioni impartite dal Ministero dell'interno, alle quali è tenuto a conformarsi (art. 54, comma 12, d.lgs. 18 ottobre 2000, n. 267 cit. e art. 9, comma 1, d.P.r. 3 novembre 2000, n. 396 cit.). la potestà di sovraordinazione dell'amministrazione centrale sull'organo per legge delegato all'esercizio di una sua funzione si esplica, poi, per mezzo dell'assegnazione al Prefetto, che esercita istituzionalmente l'autorità del Ministero dell'interno sul territorio, dei poteri di vigilanza sulla tenuta degli atti dello stato civile (art. 9, comma 2, d.P.r. 3 novembre 2000, n. 396 cit.) e di sostituzione al sindaco, in caso di sua inerzia nell'esercizio di taluni compiti (art. 54, comma 11, d.lgs. 18 ottobre 2000, n. 267 cit.). si tratta, come si vede, di un sistema coerente e coordinato di disposizioni che configurano la relazione interorganica in questione come di subordinazione del Sindaco al Ministero dell'interno, per esso, al Prefetto, e che assoggettano, quindi, il primo ai poteri di direttiva e di vigilanza del secondo (Cass. ss.UU., 13 ottobre 2009, n. 21658; Cass. Civ., sez. I, 14 febbraio 2000, n. 1599). Tale soggezione risulta, in particolare, il più logico corollario della titolarità della funzione in capo al Ministero dell'interno e della mera assegnazione al sindaco, quale ufficiale di governo, dei compiti attinenti al suo esercizio. RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 Il vincolo di subordinazione del Sindaco al Ministero dell'interno obbedisce, inoltre, all'esigenza di assicurare l'uniformità di indirizzo nella tenuta dei registri dello stato civile su tutto il territorio nazionale e che resterebbe vanificata se ogni Sindaco potesse decidere autonomamente sulle regole generali di amministrazione della funzione o, peggio, se potesse disattendere, senza meccanismi correttivi interni all'apparato amministrativo, le istruzioni ministeriali impartite al riguardo» (Cons. St., nn. 4897/2015; 4899/2015). 2. Ma all'univoco riconoscimento da parte della giurisprudenza dell'esistenza dei suddetti poteri di direttiva e vigilanza, e di un conseguente "e presupposto" rapporto di subordinazione al Prefetto del Sindaco quale ufficiale di Governo, non è, tuttavia, seguito un altrettanto pacifico orientamento quanto, in particolare, alla possibilità di farvi discendere un potere del Prefetto di annullamento degli atti illegittimi del Sindaco. La quasi totalità delle pronunce sul punto si sono espresse, invero, in materia di ordinamento dello stato civile, con riferimento al quale sussistono, a ben vedere, forti analogie con la materia che ci occupa ma anche, certamente, alcune rilevanti differenze, che verranno nel proseguo illustrate proprio in quanto, ad avviso della Scrivente, dirimenti nella formulazione del richiesto indirizzo di massima in materia, specificamente, di "ordinamento anagrafico". La giurisprudenza amministrativa è, dunque, divisa quanto alla configurabilità o meno di un potere di annullamento del Prefetto in materia di stato civile: • La parte della giurisprudenza che ne ha ammesso la configurabilità ha ritenuto che la potestà in questione debba intendersi compresa, ancorché implicitamente, nelle funzioni di direzione, sostituzione e vigilanza espressamente attribuite dalla legge al Prefetto (cfr. Cons. St., sent. n. 4897/2015; 4899/2015). In particolare, «in ossequio ai criteri ermeneutici sistematico e teleologico », le disposizioni che attribuiscono siffatti poteri «devono necessariamente intendersi come comprensive anche del potere di annullamento gerarchico d'ufficio da parte del Prefetto degli atti illegittimi adottati dal sindaco, nella qualità di ufficiale di governo, senza il quale peraltro, il loro scopo evidente, agevolmente identificabile nell'attribuzione al Prefetto di tutti i poteri idonei ad assicurare la corretta gestione della funzione in questione, resterebbe vanificato. a ben vedere, infatti, se si negasse al Prefetto la potestà in questione, la sua posizione di sovraordinazione rispetto al sindaco (allorché agisce come ufficiale di governo), in quanto chiaramente funzionale a garantire l'osservanza delle direttive impartite dal Ministro dell'interno ai sindaci e, in definitiva, ad impedire disfunzioni o irregolarità nell'amministrazione dei registri di stato civile, rimarrebbe inammissibilmente sprovvista di contenuti adeguati al raggiungimento di quel fine». PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo Alla medesima conclusione era già giunta la giurisprudenza amministrativa anche in materia di sicurezza pubblica, altra funzione amministrata dal Sindaco quale ufficiale di governo (Cons. St., sez. v, 19 giugno 2008, n. 3076) e ciò sempre in esito «ad una coerente ricostruzione della natura e delle finalità della relazione interorganica in questione ed alla conseguente valorizzazione dell'esigenza di assicurare la correttezza e l'uniformità dell'amministrazione dei compiti statali delegati dalla legge al sindaco». Con specifico riguardo sempre alla materia dell'ordinamento di stato civile, la giurisprudenza si è preoccupata anche di valutare la compatibilità di tale affermazione -secondo cui il potere di annullamento del Prefetto debba, dunque, intendersi implicitamente compreso e desumibile dai poteri di direzione, sostituzione e vigilanza - con: a) da un lato, il disposto dell'art. 21 nonies, l. 241/1990, a mente che quale "il provvedimento amministrativo illegittimo... può essere annullato d'ufficio... dall 'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge"; b) dall'altro, le disposizioni in materia di stato civile che assegnano al giudice ordinario il potere di controllo, rettificazione e cancellazione degli atti dello stato civile (art. 95 D.P.R. n. 396/2000 e art. 453 c.c.). a) Quanto al primo profilo, si è affermato che, oltre a non essere comunque necessario invocare il suddetto art. 21 nonies a fondamento del potere di cui si discute «potendosi risolvere favorevolmente il problema della sua esistenza in esito all'analisi interpretativa che precede», non potrebbe in ogni caso ritenersi preclusiva neppure l'osservazione del difetto di una espressa disposizione legislativa che preveda il potere del Prefetto di annullare d'ufficio gli atti dello stato civile illegittimamente adottati dal Sindaco, posto che «se si accedesse all'opzione ermeneutica per cui la norma citata esige, per la sua applicazione, l'esplicita attribuzione legislativa del potere di annullare in autotutela gli atti adottati da un altro organo, la stessa risulterebbe priva di qualunque senso in quanto inutilmente ripetitiva di una potestà già assegnata da un'altra norma». La disposizione di cui all'art. 21 nonies deve, viceversa, essere letta ed applicata nel senso che «è ammesso l'annullamento d'ufficio di un atto illegittimo da parte di un organo diverso da quello che lo ha emanato in tutte le ipotesi in cui una disposizione legislativa attribuisce al primo una potestà di controllo e, in generale di sovraordinazione gerarchica che implica univocamente anche l'esercizio di poteri di autotutela». b) Quanto, poi, all'esistenza di disposizioni in materia di ordinamento dello stato civile che attribuiscono all'autorità giurisdizionale il controllo e la rettificazione degli atti emanati dal Sindaco nell'esercizio di tale funzione, la giurisprudenza in esame ha ritenuto che, sebbene le disposizioni in discorso RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 «in effetti, paiono (a una prima lettura) devolvere in via esclusiva al giudice ordinario i poteri di cognizione e di correzione degli atti dello stato civile», occorre, tuttavia, tenere conto: • da un lato, che il relativo apparato regolatorio postula, in ogni caso, per la sua applicazione, «l'esistenza di atti astrattamente idonei a costituire o a modificare lo stato delle persone, tanto da imporre un controllo giurisdizionale sulla loro corretta formazione», sicché resterebbero comunque esclusi dal suo ambito applicativo atti radicalmente inefficaci o comunque inidonei a costituire lo stato delle persone, rispetto ai quali «l'esigenza del controllo giurisdizionale si rivelerebbe del tutto recessiva (se non inesistente)..., dovendosi, quindi, ricercare, per la loro correzione, soluzioni e meccanismi anche diversi dalla verifica giudiziaria»; • dall'altro, che in ogni caso l'art. 453 c.c., «per la sua univoca formulazione testuale, deve intendersi limitato all'affidamento al giudice ordinario dei soli poteri di annotazione e non può, di conseguenza, ritenersi ostativo all'esercizio dei (diversi) poteri di eliminazione dell'atto da parte dell'autorità amministrativa titolare della funzione di tenuta dei registri dello stato civile». Sulla scorta del complesso delle argomentazioni fin qui riportate, la giurisprudenza in esame ha, dunque, concluso per la possibilità, ed opportunità, di ritenere la potestà del Prefetto di annullare d'ufficio gli atti del Sindaco, quale ufficiale di stato civile, certamente compresa, seppur implicitamente, nei poteri di direzione, sostituzione e vigilanza espressamente attribuiti dalla legge al Prefetto, osservando che a tale conclusione non osta alcuna specifica disposizione tanto di carattere generale quanto specificamente disciplipante l'ordinamento di stato civile. A fianco, e successivamente, all'orientamento fin qui illustrato, altra parte della giurisprudenza ha, al contrario, negato la possibilità di desumere il potere di merito di cui si discute sulla scorta di diverse, ed opposte, argomentazioni (cfr. Cons. St., sent. n. 5047/2016). È stato, in particolare, affermato che, ferma la possibilità di configurare una posizione generale di sovraordinazione del Prefetto rispetto al Sindaco quale Ufficiale di governo -alla luce dell'indiscutibile esistenza di pregnanti poteri di indirizzo e vigilanza del primo sull'attività del secondo -, da tale configurazione non sarebbe comunque ammesso desumere un potere di annullamento d'ufficio in capo al Prefetto e ciò per un plurimo ordine di ragioni. a) In primo luogo, dall'art. 21 nonies, l. 241/1990 cit., si desumerebbero due fondamentali principi: • quello secondo cui il potere di annullamento in sede di autotutela da parte di "un altro organo" deve essere espressamente previsto dalla legge; occorrerebbe dunque, necessariamente, un'espressa norma, di rango legislativo PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo o regolamentare, che attribuisca al Prefetto il relativo potere con specifico riguardo agli atti del Sindaco in materia di stato civile; • nonché, un «principio di simmetria per il quale, nei casi previsti dalla legge, un "altro organo" può emanare un atto di annullamento, solo se ciò sia consentito alla autorità emanante» (in sede, cioè, di autotutela). L'impossibilità di configurare un potere di annullamento in capo al Prefetto discenderebbe quindi, secondo la giurisprudenza in discorso, proprio dal- l'esame delle norme in materia di stato civile nel loro complesso, dalle quali si desumerebbe: da un lato, l'assoluta mancanza di una disposizione espressa che attribuisca siffatto potere al Prefetto e, dall'altro, che il potere di annullamento in autotutela non è stato attribuito neppure alla stessa autorità emanante, non essendo consentito neppure allo stesso Sindaco di modificare o annullare gli atti da lui emessi quale ufficiale di stato civile. Si dovrebbe, pertanto, concludere nel senso che «in materia di ordinamento dello stato civile, se proprio si intende ravvisare un rapporto di sovra- ordinazione gerarchica tra Prefetto e sindaco, si deve dare comunque rilevanza al principio di legalità e cioè alle complessive disposizioni sopra riportate»: l'ordinamento dello stato civile «prevede specifiche regole, divergenti da quelle di carattere generale previste dall'art. 54 del d.lgs. 267 del 2000»; va considerato «‘settoriale, speciale e completo’ e non prevede alcuna disposizione attributiva del potere di disporre l'annullamento di un atto trascritto, né in sede di autotutela da parte dell'organo che lo ha emesso, né da parte di un altro organo (che sia il Ministro dell'Interno o il Prefetto)». b) Poste siffatte affermazioni, la giurisprudenza in esame ritiene, in secondo luogo, che un potere di annullamento in capo al Prefetto non possa neppure desumersi implicitamente dalla posizione di sovraordinazione dello stesso rispetto al Sindaco e ciò in quanto: • da un lato, «la sezione neppure ritiene che si possa ravvisare un rapporto di gerarchia "in senso tecnico e tradizionale" tra il Prefetto ed il sindaco, quale ufficiale di stato civile (in termini, Cons. stato, sez. III, 26 ottobre 2016, n. 4478, sopra citata). Qualora vi fosse effettivamente un tale rapporto di gerarchia, si dovrebbe di conseguenza ammettere che, avverso tali atti emessi dal Sindaco quale ufficiale di stato civile, l’interessato potrebbe proporre al Prefetto un ricorso gerarchico (da considerare quale istituto coessenziale al rapporto di gerarchia)». • dall'altro, il riconoscimento della possibilità di proporre ricorso gerarchico al Prefetto o dell'esistenza in capo a quest'ultimo di un potere di annullamento d'ufficio degli atti del Sindaco, «si porrebbe in palese contraddizione con le articolate disposizioni del codice civile e del d.P.r. n. 396 del 2000, le quali (salvi i casi di correzione degli "errori materiali di scrittura": art. 98, comma 1, del RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 medesimo d.P.r) riservano alla autorità giudiziaria ordinaria la cognizione delle controversie e comunque non consentono agli organi del Ministero del- l'interno di incidere sugli effetti prodotti dagli atti degli ufficiali di stato civile». Residuerebbe, tuttavia, sempre a mente dell'orientamento giurisprudenziale in esame, il potere di annullamento straordinario di cui all'art. 2, comma 3, lett. p) della legge 400/1988, che, «quale chiave di volta del sistema » attribuisce al Governo nella sua collegialità -proprio la potestà di «disporre l'annullamento straordinario, a tutela dell'unità dell'ordinamento degli atti amministrativi illegittimi, previo parere del Consiglio di stato» (tranne gli atti delle Regioni e delle Province autonome) e «dunque, ove ne sussistano i presupposti, anche degli atti formalmente amministrativi, emessi dal sindaco quale ufficiale dello stato civile». In materia, dunque, «rilevano l'art. 2, comma 3, della l. 23 agosto 1988, n. 400, per il quale "sono sottoposti alla deliberazione del Consiglio dei Ministri... p) le determinazioni concernenti l'annullamento straordinario, a tutela dell'unità dell'ordinamento, degli atti amministrativi illegittimi, previo parere del Consiglio di stato" nonché l'art. 138, comma 1, del testo unico sugli enti locali 18 agosto 2000, n. 267, per il quale "In applicazione dell'articolo 2, comma 3, lettera p), della l. 23 agosto 1988, n. 400, il Governo, a tutela del- l'unità dell'ordinamento, con d.P.r., previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell'interno, ha facoltà, in qualunque tempo, di annullare, d'ufficio o su denunzia, sentito il Consiglio di stato, gli atti degli enti locali viziati da illegittimità". Tali disposizioni (nelle quali è stato trasfuso l'art. 6 del t.u. n. 383 del 1934, a sua volta riproduttivo, con modificazioni, dell'art. 164 del regolamento del 12 febbraio 1911, n. 297, dell'art. 117 del regolamento del 10 giugno 1889 e dell'art. 7 del regolamento applicativo dell'allegato a della l. n. 2248 del 1865) devono intendersi senz'altro richiamate dal sopra citato art. 21 nonies della l. n. 241 del 1990. Nel rispetto del procedimento ivi previsto, esse -quale chiave di volta del sistema -hanno attribuito al Governo della repubblica nella sua collegialità, e non al Ministro dell'Interno o al Prefetto, il potere di disporre "l'annullamento straordinario, a tutela dell'unità dell'ordinamento, degli atti amministrativi illegittimi" (tranne gli atti delle regioni e delle Province autonome, come statuito dalla sentenza della Corte Costituzionale 21 aprile 1989, n. 229), e dunque, ove ne sussistano i presupposti, anche degli atti formalmente amministrativi, emessi dal sindaco quale ufficiale dello stato civile». In sostanza, secondo la giurisprudenza in esame, in materia di ordinamento di stato civile potrebbe, senz'altro, farsi ricorso al potere di annullamento del Governo, nella sua collegialità, dell'atto illegittimo di cui al precitato PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo all'art. 2, comma 3, lett. p) della legge n. 400/1988, ma non sarebbe, al contrario, ammessa la configurabilità di uno specifico potere di annullamento d'ufficio in capo al Prefetto. L'impossibilità di ammettere un siffatto potere discenderebbe, dunque, oltre che dalla mancanza di una previsione espressa in tal senso, soprattutto da due ordini di ragioni: • l'insussistenza di un rapporto di gerarchia in senso tecnico tra il Prefetto ed il Sindaco in tale materia, insussistenza che si desumerebbe dalla mancata previsione in materia di ordinamento di stato civile della proponibilità di ricorso gerarchico al Prefetto avverso gli atti del Sindaco; • la presenza di specifiche disposizioni in materia che riservano all'autorità giudiziaria il controllo e la rettificazione degli atti dello stato civile (art. 95 D.P.R. n. 396/2000 e art. 453 c.c.). 3. orbene, proprio dalle argomentazioni addotte dalla giurisprudenza da ultimo citata a sostegno dell'impossibilità di ammettere un potere di annullamento in capo al Prefetto in materia di ordinamento di stato civile, è possibile desumere, invece, l'ammissibilità del potere in discorso nel diverso settore dell’"ordinamento anagrafico" che viene in rilievo ai nostri fini. A ben vedere, infatti, quegli elementi, presenti in materia di stato civile, che varrebbero a costituire ostacolo al riconoscimento di un potere di annullamento in capo al Prefetto, non si rinvengono in materia di anagrafe, nella quale al contrario: • deve ritenersi sussistente un rapporto di gerarchia in senso tecnico tra il Prefetto ed il Sindaco e ciò in quanto nella materia de qua è, invece, espressamente prevista, all'art. 36, D.P.R. 223/1989, la possibilità di proporre ricorso gerarchico al Prefetto avverso gli atti emessi dal Sindaco quale ufficiale d'anagrafe: il ricorso gerarchico è infatti, anche per espresa ammissione della giurisprudenza da ultimo citata, «da considerare quale istituto coessenziale al rapporto di gerarchia» (Cons. St., n. 5047/2016); • e non sussiste alcuna analoga riserva in capo all'autorità giudiziaria dei poteri di controllo, cancellazione o rettificazione degli atti di anagrafe. Al contrario, laddove in materia di stato civile è espressamente previsto che "nessuna annotazione può essere fatta sopra un atto già iscritto nei registri se non è disposta per legge ovvero non è ordinata dall'autorità giudiziaria" (art. 453 c.c.), in materia di anagrafe l'art. 12, della l. n. 1228/54, dispone diversamente che "nessuna annotazione sugli atti anagrafici, in aggiunta a quelle previste dalla presente legge e dal regolamento, può essere disposta senza autorizzazione del Ministero dell'Interno d’intesa con l'istituto centrale di statistica": trattasi, dunque, di un sistema in cui operano regole del tutto differenti da quelle operanti in materia di stato civile e nel quale, oltre a non ravvisarsi alcuna riserva giurisdizionale, anche i poteri di controllo, vigilanza e sostituzione in capo al Ministero ed al Prefetto appaiono ancor più pregnanti. RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 Tutte le considerazioni in diritto fin qui illustrate, specie quali emergono dalla riportata giurisprudenza sul punto, unitamente ai principi generali che governano i rapporti tra le Amministrazioni (in senso lato) ed alla riscontrata mancanza di una giurisprudenza che si sia espressa con specifico riguardo all’"ordinamento anagrafico", consentono alla Scrivente di poter concludere per l'ammissibilità, nel settore in esame, di un potere d'annullamento d'ufficio in capo al Prefetto degli atti illegittimi adottati dal Sindaco quale ufficiale d'anagrafe, proprio quale istituto da considerarsi coessenziale al rapporto di gerarchia -dunque ravvisabile nella materia che ci occupa in virtù delle argomentazioni sopra esposte -, al pari di quello del ricorso gerarchico appunto espressamente previsto dalle norme disciplinanti l’"ordinamento anagrafico". Il riconoscimento di siffatto potere nella materia de qua non si pone, peraltro, in contraddizione con disposizioni che, diversamente da quanto avviene nell'ordinamento di stato civile, «riservano alla autorità giudiziaria ordinaria la cognizione delle controversie e comunque non consentono agli organi del Ministero dell'interno di incidere sugli effetti prodotti dagli atti» del Sindaco quale ufficiale d'anagrafe. Fermo restando l'auspicabile intervento normativo chiarificatorio anche in materia di stato civile, allo stato degli atti merita segnalare che a fronte del- l'ancora aperto dibattito e del perdurante contrasto giurisprudenziale circa i temi oggetto del presente parere, non è dato, purtroppo, escludere che in sede di eventuale ricorso avverso un atto di annullamento del Prefetto eventualmente adottato intervenga una pronuncia sfavorevole dell'autorità giudiziaria che non ritenga di accedere alla ricostruzione fin qui operata. Residuerrebbe, pertanto, anche nel settore dell'ordinamento anagrafico, il potere d'annullamento governativo di cui al citato all'art. 2, comma 3, lett. p) della legge n. 400/1988, cui fa riferimento la giurisprudenza da ultimo citata e da intendersi senz'altro richiamato dall'art. 21 nonies della L. n. 210 del 1990. Siffatto rimedio, infatti, in quanto riconducibile al Governo nella sua interezza, è rimesso alla sua valutazione e discrezionalità politica e consentirebbe di perseguire quell'unità dell'ordinamento e quell’uniformità di indirizzo nel- l'interpretazione ed applicazione della normativa in materia di anagrafe senza, tuttavia, andar incontro ai suddetti esiti incerti in sede giurisdizionale connessi alla ritenuta ammissibilità o meno, da parte del giudice eventualmente adito, della ricostruzione fin qui fornita dalla Scrivente circa la configurabilità, nella materia in esame, di un rapporto di gerarchia in senso tecnico tra il Prefetto e il Sindaco quale ufficiale d'anagrafe. Il presente parere è passato all'esame del Comitato Consultivo nella riunione del 6 dicembre 2019, che si è espresso in conformità. PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo Cessione di credito e modalità applicative dell’art. 48 bis d.P.r. 602/1973 Parere del 05/07/2021-414774, al 18051/2020, ProC. MassIMo dI BeNedeTTo i) Il quesito. Con riferimento alla pratica in oggetto, codesto Dicastero ha sottoposto alla Scrivente la questione di diritto compendiabile come segue: "se, sussistendo un rapporto civilistico di locazione di immobile in cui il Ministero riveste la qualità di conduttore/locatario, in caso di cessione dei crediti derivanti dal predetto rapporto dal locatore (cedente) a terzo soggetto (cessionario), cessione accettata dal Ministero (ceduto), la verifica di cui all'art. 48bis dPr n. 602 del 1973 (in relazione ai periodi successivi alla data della cessione) debba essere effettuata nei confronti del locatore/cedente oppure del terzo/cessionario". Si premette che il quesito intreccia varie caratteristiche di diversi istituti e norme (in via segnata, del negozio di cessione del credito, del precetto di cui all'art. 48bis cit., dei canoni ermeneutici cui l’interprete deve affidarsi nel- l'esegesi della legge), che debbono, pertanto, sia pure soltanto limitatamente ai profili di interesse in questa sede, essere presi in considerazione. Ancora in premessa, si segnala che il parere viene richiesto in relazione al pagamento dell’indennità ex art. 1591 c.c., e non dei canoni di locazione; ciò che pone, a livello di coerenza logica, la pregiudiziale questione della riconducibilità della prefata indennità nel perimetro dell'oggetto della cessione stipulata dalle parti. In questa prospettiva, si osserva che la lettura combinata delle premesse e degli artt. 1 e 2 del contratto di cessione permette di ritenere che il credito da indennità ex art. 1591 c.c. è stato interessato dal negozio di cessione, in quanto le prefate premesse (che, mercé l’art. 1 del contratto in esame, "costituiscono parte integrante e sostanziale del Contratto") esplicitano chiaramente la volontà del cedente di cedere "tutti i diritti e i crediti presenti e futuri relativi ai canoni di locazione ... nonché tutti i diritti e i crediti strumentali e connessi, inclusi i crediti derivanti dall'eventuale inadempimento afferente al Contratto...". In questo senso, vale altresì evidenziare che, ad avviso della tesi giurisprudenziale in atto dominante (cfr., inter alia, Cass. civ., nn. 9549 del 2010 e 9977 del 2011), il credito da indennità ex art. 1591 c.c. si innesta su una responsabilità di tipo contrattuale, eziologicamente riconducibile all'inadempimento, da parte del locatario, dell'obbligo (in capo a lui incombente ai sensi dell'art. 1590 c.c.) di restituire la cosa oggetto del negozio di locazione; e che, in ogni caso, pare trattarsi di un credito qualificabile come connesso al contratto di locazione. RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 La conclusione della riconducibilità del credito ex art. 1591 c.c. all'oggetto della cessione, del resto, pare confermata altresì dalla circostanza che non risulta sussistere contestazione tra le parti contrattuali circa il soggetto titolare del diritto di credito di cui all'art. 1591 c.c. (soggetto concordemente individuato dalle citate parti contrattuali nel cessionario). Conseguentemente, questa Avvocatura ritiene che anche il credito indennitario in esame possa ritenersi, nel caso di specie, rientrare nell'oggetto della cessione. ***** ii) Cenni sui profili di interesse degli istituti di rilievo. Ciò posto, si osserva quanto segue. Principiando dal contratto di cessione del credito, il cui sostrato normativo principale è concretato dagli artt. 1260 ss. c.c., si rammenta che esso è un negozio bilaterale, non trilaterale; ad esso è e rimane estraneo il debitore ceduto, anche nei casi in cui questi abbia accettato la cessione. L'accettazione, infatti, non rende il ceduto parte contrattuale (1), il negozio intercorrendo soltanto tra creditore cedente e (nuovo creditore) cessionario; per converso, essa si limita a segnare il momento oltre il quale il ceduto paga male se adempie nei confronti del cedente, similmente a quanto avviene nei casi di notificazione al debitore ceduto del contratto di cessione. Trattasi di contratto consensuale ad effetti (immediatamente o differita- mente (2)) reali; perfezionata la cessione, il cessionario, che pure rimane estraneo al rapporto giuridico da cui è sorto il credito ceduto, di quest'ultimo diviene effettivo titolare, potendo anche tutelarsi giudizialmente con le azioni che proprio tale credito mirino a garantire. Pertanto, se il credito ceduto -come nel caso di specie -deriva da un contratto, il cessionario potrà senz'altro agire in giudizio per ottenere il pagamento, ma non potrà esperire azioni relative al negozio sottostante, di tale credito fonte, in quanto egli rimane ad esso estraneo; non potrà, ad esempio, agire per l'annullamento o per la risoluzione del prefato negozio. La cessione del credito è contratto ricondotto dall'impostazione interpretativa in atto dominante, e in dottrina e in giurisprudenza, tra i negozi a c.d. causa variabile e a c.d. schema neutro (3); infatti, è istituto che i paciscenti (1) Precipitato applicativo giuridicamente riconducibile, come effetto, al diverso istituto della cessione di contratto. (2) La cessione di crediti futuri, infatti, ad avviso di un orientamento giurisprudenziale, produce effetti meramente obbligatori sino al momento in cui, venendo ad esistenza il credito, il suo passaggio nella titolarità giuridica del cessionario concreterà un effetto reale. (3) Cfr., inter alia, la recente Cass. civ., I, n. 10092 del 2000, secondo cui "Innumerevoli sono, del resto, i precedenti di questa Corte nei ... è stato appunto evidenziato come la cessione di credito sia un negozio a causa variabile, potendo essere stipulata anche a fine di garanzia, oltre che di pagamento, sicchè l'effettiva funzione solutoria della cessione pro solvendo di un credito va accertata in concreto, in base al contesto oggettivo e soggettivo della cessione stessa, piuttosto che del successivo pagamento PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo possono impiegare per raggiungere diversi scopi pratici (tra gli altri, si pensi alla cessione di credito con causa donativa, o alla cessione di credito effettuata per estinguere un precedente debito del cedente nei confronti del cessionario). Quanto all'oggetto della cessione, è ormai ius receptum la giurisprudenza nomofilattica secondo cui anche un credito futuro può essere ceduto, purché esista, all'atto della cessione, il rapporto giuridico da cui il ridetto credito originerà (4). Qualora, poi, il debitore ceduto sia una pubblica amministrazione, il sostrato normativo di riferimento si arricchisce di ulteriori disposizioni (tra le altre, cfr. art. 9 l. n. 2248 del 1865, allegato e; art. 70, co. 3, R.D. n. 2440 del 1923; art. 117, cc. 2 e 3, d.lgs. n. 163 del 2006; art. 106, co. 13, d.lgs. n. 50 del 2016). Per quanto di specifico interesse in questa sede, si precisa che l'art. 9 1. n. 2248 del 1865, all. e, recita "sul prezzo dei contratti in corso non potrà avere effetto alcun sequestro, né convenirsi cessione, se non vi aderisca l'amministrazione interessata", con precetto confermato dall'art. 70 R.D. n. 2240 del 1923, con specifico riguardo ai crediti da somministrazioni, fornitura e appalti (5). Il codice dei contratti pubblici, poi, dà ulteriore conforto a tale regula iuris, tuttavia prevedendo un meccanismo applicativo basato su una logica simile al silenzio-assenso (onerata essendo la p.a. di espressamente rifiutare la cessione in un dies predeterminato dalla legge); cfr., in tal senso, art. 106, co. 13, del nuovo codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 50 del 2016. Di recente, inoltre, in relazione a taluni crediti commerciali "certi, liquidi ed esigibili, vantati nei confronti degli enti del ssN in conseguenza di accordi del credito ceduto (Cass. 23261/2014, 12736/2011, 17683/2009, 1617/2009, 17590/2005, 1595512005), sottolineandosi altresì che, nella cessione pro solvendo di un credito in luogo di adempimento, l'estinzione dell'obbligazione originaria si verifica solo con la riscossione del credito verso il debitore ceduto (Cass. 9141/2007)"; similmente si orienta la giurisdizione contabile, ad avviso della quale "...va, a questo punto, considerato che la cessione del credito non è un tipo contrattuale a sé stante, ma è inquadrabile tra i negozi a causa variabile, nel senso che al pari di tutti gli atti traslativi, può rientrare di volta in volta nell'uno o nell'altro tipo contrattuale (vendita, donazione, contratto solutorio, negozio di garanzia e via dicendo), a seconda del titolo e della causa che lo giustifica ..." v. Corte dei Conti Basilicata Sez. contr., Delib., n. 40 del 14 settembre 2016. (4) Cfr., ex plurimis, Cass civ., I, n. 31986 del 2018, secondo cui "... la cessione dei crediti futuri, ivi compresi quelli aventi causa risarcitoria, non ha natura meramente obbligatoria e vi si può procedere -quando nel negozio dispositivo sia individuata la fonte, oppure la stessa sia determinata o determinabile -senza che rilevi la probabilità della venuta in essere del credito ceduto, non esistendo una norma che vieta la disponibilità dei diritti futuri perché meramente eventuali, con la conseguenza che la venuta in essere del credito futuro integra un requisito di efficacia della cessione, ma non della sua validità..."; interpretazione confermata, di recente, anche da Cass. civ., vI-III, n. 8869 del 2021. (5) Al riguardo, la giurisprudenza nomofilattica è orientata nel ritenere che "... la cessione del credito vantato nei confronti della Pubblica amministrazione per i contratti di Fornitura, servizi ed ogni contratto di durata, deve essere notificata all'amministrazione ceduta ed è efficace nei suoi confronti solo a seguito dell'accettazione, sempre che il contratto da cui deriva il credito sia incorso di esecuzione"; cfr. Cass. civ., III, n. 2541 del 2007. RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 contrattuali stipulati ai sensi dell'articolo 8-quinquies del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, ove non certificati mediante la piattaforma elettronica di cui all'articolo 7 del decreto-legge 8 aprile 2013, n. 35", il d.l. n. 34 del 2020 (c.d. decreto rilancio) ha previsto un meccanismo uguale e contrario a quello delineato dal codice dei contratti pubblici, sancendo che l'omesso riscontro da parte della p.a., debitrice ceduta, vale rifiuto di cessione. Dal canto suo, l'art. 48bis dPr n. 602 del 1973 sancisce che "... le amministrazioni pubbliche ... prima di effettuare, a qualunque titolo, il pagamento di un importo superiore a cinquemila euro, verificano, anche in via telematica, se il beneficiario è inadempiente all'obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento per un ammontare complessivo pari almeno a tale importo e, in caso affermativo, non procedono al pagamento e segnalano la circostanza all'agente della riscossione ...". Trattasi di norma ispirata ad una chiara e autoevidente ratio difensiva delle pubbliche finanze (protettrice, pertanto di un interesse di rilievo costituzionale; cfr. art. 81 Cost.), tesa ad evitare il rischio di dispersione di pubblici danari, nel solco di una prospettiva lato sensu di garanzia del titolare del diritto di credito; prospettiva che permea diversi istituti dell'ordinamento, e che, una per tutte, rievoca la logica sottesa alla compensazione (ove pure, infatti, può rinvenirsi una funzione lato sensu garantistica, atteso che l'eccipiente la compensazione evita di esporsi al rischio di pagare il proprio debito -altrui credito -e poi non riuscire, per qualsiasi ragione, ad ottenere il pagamento del proprio credito -altrui debito -). Premessi tali brevi cenni sui tratti essenziali dell'art. 48bis cit. e del negozio di cessione del credito, occorre ora portare a sintesi i due istituti per affrontare e risolvere la questione di diritto sottoposta da codesto Dicastero con la propria richiesta di parere, sopra compendiata nell'interrogativo che, per comodità di consultazione, qui si ritrascrive "se, sussistendo un rapporto civilistico di locazione di immobile in cui il Ministero riveste la qualità di conduttore/locatario, in caso di cessione dei crediti derivanti dal predetto rapporto dal locatore (cedente del credito) a terzo soggetto (cessionario del credito), cessione accettata dal Ministero (ceduto), la verifica di cui all'art. 48bis dPr n. 602 del 1973 (in relazione ai periodi successivi alla data della cessione) debba essere effettuata nei confronti del locatore/cedente oppure del terzo/cessionario". Riformulata in termini più generici, la quaestio iuris per cui è parere involge le modalità applicative dell'art. 48bis cit. allorché l'Amministrazione debba pagare un credito che è stato oggetto di precedente negozio di cessione di crediti (crediti futuri, nel caso di specie, in quanto il diritto creditorio, certo, liquido ed esigibile al momento del pagamento, non esisteva al momento del contratto di cessione. Ma, si precisa sin d'ora, la natura presente o futura del credito ceduto non sembra rilevare ai fini di nostro interesse). PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo ***** iii) Proposte interpretative, possibili soluzioni del quesito e loro argomenti di sostegno. Il concerto tra l'art. 48bis cit. e la disciplina dedicata alla cessione del credito consegna all'interprete i seguenti, alternativi percorsi interpretativi. A)Una prima proposta esegetica conduce a ritenere che la verifica ai sensi dell'art. 48bis cit. debba effettuarsi, sempre e comunque, prima del pagamento, nei confronti del solo cessionario, il quale è l'unico soggetto effettivamente destinatario del pagamento da parte dell'Amministrazione. A conforto della tesi in esame, milita l'argomento letterale in relazione all'interpretazione del plurimenzionato art. 48bis cit., norma che richiede la verifica nei confronti del soggetto beneficiario del pagamento, figura che, in ipotesi di pagamento di credito ceduto, coincide col cessionario, e non col cedente (il quale, privandosi della titolarità del credito, perde anche la giuridica possibilità di ricevere il pagamento). B) Affidandosi ad opposta ermeneusi, potrebbe argomentarsi che la verifica ex art. 48bis cit. vada sempre e comunque effettuata, prima del pagamento, (oltre che nei confronti del cessionario, effettivo beneficiario del pagamento) anche nei confronti del cedente (6), il quale è e rimane, anche dopo la cessione, l'unica controparte contrattuale del negozio concluso con l'Amministrazione (che, per converso, nessun rapporto contrattuale ha col cessionario). La proposta interpretativa in esame risulta da una lettura dell'art. 48bis cit. affidata al criterio ermeneutico teleologico, attento alla finalità della norma. In questa prospettiva, dovrebbe escludersi che il paciscente privato che ha titolo a ricevere il pagamento di una somma di danaro dalla p.a. in forza di un contratto tra loro stipulato possa sottrarsi alla verifica ex art. 48bis cit. (verifica che, all'atto della stipula del negozio, la p.a. sapeva sarebbe stata effettuata nei suoi confronti) disponendo del credito con un contratto (quale la cessione di credito) di cui la p.a. parte non è. In buona sostanza, l'attività verificatoria che la p.a. è chiamata a svolgere ai sensi del pluricitato art. 48bis cit. non potrebbe essere soggettivamente orientata dalla stipula di negozi di diritto comune tra soggetti privati, senza neppure il coinvolgimento dell'Amministrazione che del contratto da cui sorge (6) In questa prospettiva interpretativa pareva essersi collocata anche l'Amministrazione Finanziaria con circolare n. 22 del 22 luglio 2008 che (pur senza considerare la specificità del caso in cui la cessione abbia ad oggetto crediti futuri) così si esprimeva "...si ritiene che la verifica prevista dall'art. 48-bis vada effettuata esclusivamente nei confronti del creditore originario (cedente), a prescindere dalla circostanza che la cessione del credito sia avvenuta con o senza il consenso del soggetto pubblico debitore (ceduto). In altri termini, si è dell'avviso che nei confronti del soggetto cui è stato trasferito il diritto di credito (cessionario) -subentrato nel rapporto con la Pubblica amministrazione in virtù di un contratto stipulato tra privati al quale la stessa è rimasta estranea -non sussistano i presupposti per procedere alla verifica disciplinata dal regolamento ...". RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 il credito da pagare è parte; sarebbe irragionevole, in altre parole, ammettere che la p.a. debba svolgere un'attività autoritativa, e non paritetica, id est il controllo ex art. 48bis cit., e che, tuttavia, il soggetto da controllare possa essere, nei fatti, selezionato da privati. In definitiva, "evidenti ragioni anti-elusive escludono che la verifica de qua possa essere effettuata solamente nei confronti del cessionario" (7). Potrebbe sostenersi, poi, come la tesi in esame ben si concili col principio di diritto, ormai ius receptum nell'esegesi nomofilattica della Corte Suprema, secondo cui "In tema di cessione di credito, il debitore ceduto è legittimato ad opporre al cessionario tutte le eccezioni che avrebbe potuto sollevare nei confronti dell'originario creditore...." (Cass. civ., III, n. 8373 del 2009). C) La tesi appena esposta potrebbe declinarsi in modo leggermente differente. In particolare, va considerato che le stesse pronunce di legittimità che sanciscono il principio poc'anzi ricordato (id est il principio secondo cui il cessionario può vedersi opposte dal ceduto le eccezioni che questi avrebbe potuto opporre al cedente) ne limitano e modulano al contempo gli effetti nel tempo, precisando che "qualora dopo la cessione intervengano fatti incidenti sull'entità, esigibilità ed estinzione del credito, la loro efficacia deve essere valutata in relazione alla nuova situazione soggettiva stabilitasi in dipendenza del già perfezionato trasferimento del diritto. Pertanto, perfezionatasi la cessione con il semplice consenso, la risoluzione consensuale del contratto dal quale traeva origine il credito ceduto, convenuta tra l'originario creditore cedente ed il debitore ceduto, non è opponibile al cessionario in quanto, una volta realizzato il trasferimento del diritto, il cedente ne perde la relativa disponibilità, e non può validamente negoziarlo in danno del cessionario, per il disposto dell'art. 1256 cod. civ. -la cui "ratio" ha portata generale pur regolando la norma stessa fattispecie particolari -, mentre il debitore ceduto, a conoscenza della cessione, non può ignorare tale circostanza". orbene, applicando tali coordinate ermeneutiche alla quaestio iuris al- l'esame della Scrivente potrebbe sostenersi che, al momento dell'adempimento, l'Amministrazione possa rifiutare il pagamento al cessionario a) nel caso in cui la verifica di quest'ultimo abbia avuto esito negativo; b) nel caso in cui la verifica nei confronti del cedente abbia avuto esito negativo, limitatamente ad esposizioni debitorie che preesistevano la notifica della cessione. Per converso, allorché la verifica del cedente abbia restituito esito negativo in ragione di circostanze successive a tale evento, ciò non dovrebbe essere giuridico ostacolo al pagamento nei confronti del cessionario. Se il principio civilistico, infatti, è che il ceduto non possa opporre al ces (7) Così è scritto nella circolare MeF n. 29 del giorno 8 ottobre 2009, ove, in realtà, l'Amministrazione suggerisce di aderire alla proposta interpretativa qui rubricata C). PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo sionario eccezioni relative a fatti modificativi del credito successivi alla cessione (recte: alla sua notifica o accettazione), allora non potrebbe legittimarsi il mancato pagamento al cessionario per una inadempienza ex art. 48bis cit. maturata dopo il negozio di cessione. d) Una quarta soluzione, mediana e, in un certo senso, di compromesso, è stata prospettata dal Ministero delle Finanze con circolare n. 13 del 21 marzo 2018, secondo cui "... nell'ipotesi di cessione del credito, quanto all'applicazione dell'articolo 48-bis del d.P.r. n. 602/1973, possono fondamentalmente verificarsi le seguenti situazioni: a) il cedente presta il proprio assenso, secondo il procedimento descritto nella circolare n. 29/rGs del 2009, a far effettuare immediatamente la verifica di inadempienza a proprio carico da parte dell'amministrazione ceduta che, conseguentemente, darà notizia dei relativi esiti al cessionario. soltanto nel caso, poi, che l'esito risulti di "non inadempimento" l'amministrazione provvederà ad effettuare, al momento del pagamento, una seconda verifica esclusivamente nei confronti del cessionario; b) il cedente, al contrario, non presta il proprio assenso a far effettuare la verifica prevista dall'articolo 48-bis, con l'effetto che, a prescindere dal- l'accettazione anche tacita dell'amministrazione ceduta, quest'ultima sarà tenuta a effettuare la verifica de qua nei confronti del solo cedente, originario creditore, all'atto del pagamento a favore del cessionario, da ritenere, peraltro, consapevole del rischio che il cedente possa risultare, infine, inadempiente agli obblighi di versamento di cartelle di pagamento. È appena il caso di soggiungere che nell'evenienza prospettata alla lettera b), si reputa opportuno, oltre ad essere maggiormente trasparente, che l'amministrazione ceduta si adoperi per non prestare il proprio consenso alla cessione del credito, anche per scongiurare possibili contestazioni ...". In buona sostanza, ad avviso dell'impostazione ermeneutica in esame, il creditore cedente non può sottrarsi alla verifica ex art. 48bis cit., ma è a lui rimessa la scelta del quando subirla: se all'atto della cessione (nel qual caso, se la verifica ha esito positivo, restituendo un "non inadempimento", al momento del pagamento la verifica andrà fatta soltanto nei confronti del cessionario), oppure successivamente, id est al momento del pagamento (al cessionario, nuovo titolare del diritto di credito). ***** iv) Osservazioni critiche e profili di debolezza delle suesposte proposte interpretative. La Scrivente Avvocatura, che pure non s'esimerà dal prendere posizione, in diritto, circa la prospettiva interpretativa che ritiene preferibile, premette che la questione in esame è di particolare complessità e delicatezza, in quanto ciascuna delle possibili interpretazioni presenta taluni profili di criticità. In particolare, l'adesione alla tesi compendiata sub A) (la verifica va ef RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 fettuata unicamente nei confronti del cessionario) rischierebbe di porgere il fianco a strategie, da parte dei privati, elusive del disposto imperativo di cui all'art. 48bis cit., in quanto la parte contrattuale che sa di non poter ricevere il pagamento, non essendo nelle condizioni di positivamente superare la verifica di cui all'art. 48bis cit., potrebbe aggirare il problema semplicemente cedendo, magari anche a titolo gratuito, il credito relativo a quel contratto ad un diverso soggetto (col quale, in ipotesi, potrebbe essere in accordo perché il pagamento, una volta ottenuto dall'Amministrazione, gli sia girato). In due parole, l'adesione alla tesi A) lascia residuare rischi di aggiramento della norma imperativa da parte del privato il quale, di per sé, non potrebbe ottenere il pagamento, versando in condizioni debitorie ritenute a tanto ostative dal plurimenzionato art. 48bis cit. A livello di diritto, poi, può opporsi alla tesi A) che essa dimentica che, come regola generale, il debitore ceduto è legittimato ad opporre al cessionario le eccezioni che avrebbe potuto sollevare nei confronti dell'originario creditore; pertanto, almeno con riguardo alle inadempienze del cedente verificatesi prima della cessione, è difficile sostenere, in diritto, che la p.a. non avrebbe la possibilità di opporre al cessionario l'esito negativo della verifica ex 48bis cit. sul cedente. e tuttavia, l'adesione alla tesi sopra compendiata sub B) (la verifica andrebbe effettuata, al momento del pagamento, anche sul cedente, non solo sul cessionario) implicherebbe, come precipitato applicativo concreto, una forte limitazione all'utilità (e, per estensione, con ogni probabilità, all'utilizzo nella prassi ad opera dei privati) della cessione dei crediti (in particolare, futuri) che involgano, come debitore ceduto, l'Amministrazione. Infatti, nella consapevolezza che il credito ottenuto a mezzo di cessione potrebbe non essere pagato se, al momento del pagamento (che, in caso di crediti futuri, potrebbe temporalmente collocarsi ad una distanza non indifferente dal dies della cessione), il cedente non dovesse superare la verifica ex art. 48bis cit., è ragionevole ritenere che il (potenziale) cessionario di credito futuro nei confronti della p.a. riterrà non conveniente percorrere la strada del negozio di cessione, spingendo il (potenziale) cedente a trovare differenti soluzioni per soddisfare il suo credito. In questo senso, non può non rilevarsi che l'esposto precipitato applicativo dell'adesione alla tesi sub B), oltre a mal conciliarsi col principio generale, che vuole libera la cedibilità dei crediti, salve espresse eccezioni di legge (che, siccome derogatorie ad una regola, sono di stretta interpretazione), avrebbe, con ogni probabilità, implicazioni pratiche negative dal punto di vista dei traffici giuridici: i crediti futuri nei confronti delle Amministrazioni, se anche pur sempre formalmente cedibili, lo sarebbero, con ogni probabilità, molto raramente, con danno -tra l'altro -della posizione del cedente che, pur non avendo debiti di sorta con il pubblico, né al momento della cessione né successiva PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo mente, tuttavia sarebbe concretamente svantaggiato dall'aggravata difficoltà nel disporre negozialmente con terzi dei propri crediti futuri. Questa proposta interpretativa, poi, sconta la frizione con la littera legis. Infatti, il più volte citato art. 48bis richiede la verifica nei confronti del beneficiario del pagamento; siccome è innegabile che tale qualifica sia soggettivamente agganciabile al cessionario (unico titolare effettivo del credito, una volta perfezionatasi la cessione), sfuggirebbe il sostrato normativo in forza del quale giustificare la seconda cessione. Passando alla tesi C), essa potrebbe criticarsi perché valorizza la ratio della norma imperativa in esame (id est la finalità di garantire le pubbliche finanze) in misura minore e con intensità inferiore rispetto alla poc'anzi esposta tesi B). Invia segnata, l'adesione all'opzione C) porgerebbe il fianco al rischio che la p.a. debba pagare il cessionario (non inadempiente), anche se, al momento del pagamento, il cedente ha maturato esposizioni debitorie nei confronti della p.a.; e tuttavia, in contrappunto a quanto delineato nello scenario B), nella tesi in esame la verifica negativa del cedente potrebbe opporsi al cessionario unicamente se riferita a inadempienze verificatesi prima del negozio di cessione, mentre le inadempienze ad esso successive (e, comunque, successive alla notifica/accettazione della cessione) non potrebbero rilevare. Simile critica potrebbe muoversi alla proposta veicolata dalla circolare del MeF 13 del 21 marzo 2018, non potendo escludersi che, successivamente alla verifica effettuata al momento della cessione del credito futuro, il cedente maturi una esposizione debitoria nei confronti della p.a. La tesi d), poi, potrebbe apparire disancorata da un dedicato sostrato normativo che giustifichi perché andrebbero effettuate due verifiche, e perché una di queste andrebbe effettuata al momento della cessione (quella al cedente) e l'altra al momento del pagamento (quella al cessionario). ***** v) Risoluzione del quesito. Tanto doverosamente premesso, approcciandosi a tirare le fila del discorso e tentando di districarsi tra la tempesta di argomenti sopra esposti, occorre subito mettere a fuoco quella che parrebbe essere l'unica certezza: la verifica ex art. 48bis cit. va sicuramente effettuata nei confronti del cessionario, prima di ciascun pagamento. Tanto non è revocabile in dubbio, in questa prospettiva militando il chiaro disposto della richiamata disposizione, che orienta soggettivamente la verifica nei confronti del beneficiario del pagamento, soggetto che sicuramente può identificarsi nel cessionario. Il quesito, quindi, è se, in aggiunta a tale verifica, l'Amministrazione debba procedere anche alla verifica nei confronti del cedente; se sì, in quale momento. v.i) Procedendo per gradi, prendendo le mosse dai profili su cui vi è maggior certezza, può affermarsi che la soluzione prospettata dal meF con RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 la propria circolare n. 13 del 21 marzo 2018 (tesi D.), se non imposta dal diritto positivo, è comunque ad esso conforme. Infatti, nei casi in cui l'Amministrazione, in deroga al principio generale secondo cui la cessione può prescindere dal consenso del ceduto, ha per legge il potere di non accettare la ridetta cessione, così rendendola inefficace nei propri confronti, ben può la p.a., nell'esercizio della propria discrezionalità amministrativa (la legge non indicando analiticamente i casi di legittima non accettazione della cessione), procedere ad una verifica ex art. 48bis cit. sul cedente prima di accettare. In questa prospettiva, in altri termini, la prima verifica (quella sul cedente) non sarebbe imposta dalla norma (che, per converso, in caso di accettazione della cessione, richiede verificarsi la situazione del cessionario al momento del pagamento), ma sarebbe il risultato di un controllo che l'Amministrazione, nel discrezionalmente determinarsi circa l'opportunità o meno di accettare la cessione, compie. Condivisibile, poi, è l’indicazione di massima, contenuta nella medesima circolare, di non accettare la cessione fuori dal caso in cui il cedente, sottoposto a immediata verifica ex art. 48bis cit., risulti non inadempiente. v.ii) residua, tuttavia, il dubbio, in diritto, di cosa imponga la norma; il dubbio, in altri termini, di quale verifica l'art. 48bis cit. imponga in caso di cessione di crediti futuri, a prescindere dalle (pur condivisibili e auspicabili) scelte e valutazioni che l'Amministrazione, nell'esercizio della propria discrezionalità amministrativa, vorrà compiere al momento di decidere se rifiutare la cessione notificatale. L'interpretazione puramente letterale della norma, che fa menzione unicamente del beneficiario del pagamento, potrebbe portare a ritenere che tutto ciò che la legge richiede è la verifica sul cessionario al momento del pagamento; per converso, un'esegesi massimamente affidata al canone teleologico, che valorizzi ogni oltre misura la ratio legis sottesa all'art. 48bis cit. (evidentemente teso alla maggior tutela delle pubbliche finanze), spingerebbe ad affermare la necessità di una verifica anche sul cedente al momento del pagamento. ora, sforzandosi di portare a sintesi le due opposte prospettive ermeneutiche, occorre rilevare che, se è arduo individuare il limite oltre il quale l'interpretazione teleologica si risolverebbe in una inammissibile operazione di nomopoiesi irrispettosa del dato normativo, è invece sicuro che la ratio legis non può essere completamente trascurata; ciò che porta a ritenere che, almeno con riguardo ai casi in cui vi siano situazioni di inadempienza del cedente maturate prima della cessione del credito (recte: della sua accettazione/notificazione), l'Amministrazione dovrà rifiutare il pagamento al cessionario sul rilievo dell'esito negativo della verifica del cedente. In altre parole, una verifica anche sul cedente è imprescindibile, al mo PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo mento del pagamento al cessionario, perché argomentando a contrario si tirerebbe la volata al verificarsi di scenari come quello che segue: un soggetto stipula, nella qualità di locatore, un contratto di locazione con la p.a. (locataria) in un momento in cui ha esposizioni debitorie nei confronti della p.a. (e, pertanto, non supererebbe la verifica ex art. 48bis cit.); tale soggetto cede il credito, magari anche a titolo gratuito, ad un compiacente terzo, il quale incasserà i danari (che, materialmente, il locatore non avrebbe potuto incassare), per poi girarli al paciscente privato. ora, per quanto estremo, l'esempio in parola è uno dei possibili scenari che potrebbero concretamente verificarsi aderendo alla tesi per cui la verifica, in caso di cessione di crediti, va effettuata unicamente nei confronti del cessionario. e tuttavia, una norma imperativa che fissa un divieto, peraltro a tutela di un interesse di estrazione costituzionale (com'è la solidità delle pubbliche finanze; cfr. art. 81 della Carta fondamentale), deve essere interpreta nel senso che essa non può essere elusa, nella sua sostanza, da convenienti scelte opportunistiche dei privati. ne consegue che può affermarsi, sempre procedendo per gradi, che la p.a. deve effettuare una verifica, al momento del pagamento al cessionario, anche nei confronti del cedente, ed evitare di adempiere allorché la verifica sul cedente restituisca risultato negativo per inadempienze maturatesiprima della cessione (recte: della sua accettazione/notifica). Tale ermeneusi, se potrebbe apparire un poco distonica con la littera legis dell'art. 48bis cit. (che parrebbe richiedere la verifica unicamente nei confronti del beneficiario del pagamento), è invece pienamente compatibile coi principi generali, già cennati, in tema di cessione del credito; e, in via segnata, col principio secondo cui il debitore ceduto è legittimato ad opporre al cessionario le eccezioni che avrebbe potuto sollevare nei confronti dell'originario creditore (e senz'altro deve considerarsi tale un'eccezione relativa ad un fatto verificatosi prima della notifica/accettazione della cessione). Trattasi, poi, di interpretazione che potrebbe considerarsi costituzionalmente orientata, siccome tesa a dare soddisfazione e piena sostanza, come anticipato, ad un interesse di estrazione superprimario, la salus delle pubbliche finanze potendosi agganciare all'art. 81 della Carta fondamentale. In chiusura sul punto, è appena il caso di segnalare che, qualora l'Amministrazione siasi conformata alla circolare di cui sopra, e abbia, quindi, effettuato una verifica nei confronti del cedente prima di accettare la cessione, non occorrerebbe effettuare nuovamente la verifica nei confronti del cedente all'atto del pagamento al cessionario, in quanto la p.a. avrebbe già accertato che il ridetto cedente non aveva, anteriormente alla cessione, esposizioni debitorie. v.iii) Questo posto, occorre ora, sempre procedendo per gradi, chiedersi se: RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 a) in caso di accettazione della cessione da parte della p.a., questa debba comunque effettuare la verifica anche sul cedente, al momento del pagamento al cessionario, e rifiutarsi di adempiere in caso di esito negativo della verifica con riguardo ad inadempienze verificatesi prima della cessione. b) in ogni caso, sia consentito, de iure condito, sostenere che la verifica negativa del cedente possa bloccare il pagamento al cessionario anche per inadempienze successive alla notifica della cessione. Al primo interrogativo occorre dare risposta affermativa. Se è vero, infatti, che un'interpretazione analogica dell'art. 1248 c.c. (8) potrebbe portare a sostenere il contrario, argomentando nel senso che, come il ceduto che ha accettato la cessione non può opporre al cessionario la compensazione di un controcredito che vantava verso il cedente, anche se anteriore alla cessione, così la p.a. che ha accettato la cessione non può poi rifiutare il pagamento al cessionario per una esposizione debitoria del cedente anteriore alla cessione, ritiene la Scrivente Avvocatura che non debba dimenticarsi che è la legge dello Stato, e non l'agere amministrativo, a richiedere la verifica e ad ancorare al suo eventuale esito negativo l'effetto ostativo del pagamento. Conseguentemente, allorché si ritenga -come, s'è scritto poco sopra, parrebbe doversi ritenere -che l'intreccio tra l'art. 48bis cit. e i principi civilistici in tema di cessione del credito porta ad affermare che, al momento del pagamento al cessionario, la p.a. debba verificare anche la posizione del cedente, rifiutando il pagamento nel caso emergano esposizioni debitorie del privato anteriori alla cessione (tale circostanza potendosi sussumere nel concetto di eccezione che il ceduto avrebbe potuto opporre al cedente, e non relativa a fatto successivo al negozio cessorio), tanto dovrà accadere anche nel caso in cui l'Amministrazione abbia semplicemente accettato la cessione, perché sfugge ai poteri della p.a. quello di derogare ad un precetto legale fissato da una norma imperativa, sia anche in senso favorevole al privato. In due parole: siccome è la legge dello Stato (in via segnata, l'art. 48bis cit.) che blocca il pagamento al cessionario nei casi in cui il cedente aveva, già da prima della cessione, esposizioni debitorie ostative, non può ritenersi che un comportamento del soggetto pubblico (qualsiasi esso sia, fosse anche l'accettazione della cessione) possa mettere in non cale il divieto legale, perché l'Amministrazione non può impedire la produzione di un effetto giuridico fissato da una norma di ordine pubblico che fissa un divieto a tutela di un interesse costituzionale; perché, giova ribadirlo, la verifica ex art. 48bis cit. non è (8) norma a tenore della quale "1. Il debitore, se ha accettato puramente e semplicemente la cessione che il creditore ha fatta delle sue ragioni a un terzo, non può opporre al cessionario la compensazione che avrebbe potuto opporre al cedente. 2. la cessione non accettata dal debitore, ma a questo notificata, impedisce la compensazione dei crediti sorti posteriormente alla notificazione". PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo adempimento teso a tutelare l'Amministrazione intesa quale soggetto di diritto comune in un rapporto paritetico con il privato, per converso mirando alla protezione di un pubblico interesse stricto sensu inteso. La p.a., quindi, non può disporre dell'effetto ostativo di cui all'art. 48bis cit., non rientrando nei poteri del soggetto pubblico quello di limitare la cogenza delle norme imperative fissanti specifici divieti. Completezza espositiva impone di osservare che, a livello civilistico, e con uno sguardo volto ai rapporti tra i privati (cedente e cessionario), questo scenario mostra un profilo di criticità: il cessionario, effettivo titolare del credito, non verrà pagato, e si apre la possibilità (cui la verifica ex art. 48bis cit. è prodromica) che l'ADeR aggredisca il credito ceduto (che, nei rapporti tra i privati cedente e cessionario, è ormai credito del secondo) per dare soddisfazione ad un differente credito della p.a. nei confronti del cedente. In altre e più semplici parole, l'Amministrazione rifiuta il pagamento al cessionario (titolare del diritto di credito) perché 1'ADeR possa eventualmente aggredirlo al fine di coprire dei debiti del cedente (che del credito non è più titolare) nei confronti della p.a. ora, mentre nei confronti della p.a. può sostenersi che l'esito della verifica negativa nei termini suesposti concreti una causa di inefficacia legale del negozio di cessione nei confronti della p.a. (anche se previamente accettata, s'è detto), la posizione del cessionario potrà trovare tutela, nei confronti del cedente, sulla base dei noti meccanismi di diritto civile predisposti in tema di garanzia del cessionario (artt. 1266-67 c.c.) e, più in generale, in tema di responsabilità contrattuale. Da ultimo, residua l'interrogativo poc'anzi compendiato sub b), ovverosia se sia consentito, de iure condito, sostenere che una verifica negativa del cedente possa bloccare il pagamento al cessionario anche per inadempienze del cedente successive alla notifica/accettazione della cessione. Trattasi del profilo di maggior difficoltà. A sostegno di una soluzione positiva, milita senz'altro la già richiamata ratio legis, tesa alla valorizzazione, a tutto tondo e a spettro pieno, del pubblico interesse, peraltro di rilievo costituzionale, alla tutela della pubblica finanza. In questa prospettiva, sarebbe senz'altro opzione di maggior tutela per il pubblico interesse quella di poter evitare il pagamento al cessionario anche nei casi in cui il cedente abbia maturato un'esposizione debitoria successivamente alla notifica/accettazione del negozio di cessione. nel medesimo senso, può pure osservarsi come, altrimenti argomentando, si porgerebbe il fianco al rischio del verificarsi di scenari come il seguente: stipulato con la p.a. un contratto di durata (come, del resto, accaduto nel caso per cui è parere), il paciscente-creditore cedente non ha esposizioni debitorie al momento della notifica/accettazione della cessione, ma le matura immediatamente dopo e le conserva per tutta la durata del contratto (che può estendersi RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 anche per molti anni). In questo caso, se non si fornisce risposta positiva all'interrogativo, la pubblica amministrazione sarebbe tenuta a pagare al cessionario i crediti che di volta in volta, anno dopo anno, sorgeranno da quel contratto, anche se la parte contrattuale privata ha, da parte sua, consistenti debiti. A conforto della soluzione in esame, potrebbe poi argomentarsi, nel tentativo di irrobustire la copertura giuridica della tesi, che il principio secondo cui, in tema di cessione del credito, il cessionario può vedersi opposte dal ceduto le eccezioni che questi avrebbe potuto opporre al cedente, ma non se relative a fatti modificativi del credito successivi alla cessione/notifica dell'accettazione, dovrebbe declinarsi in modo differenziato allorché oggetto della cessione sia un credito futuro; dovrebbe, cioè, intendersi che, se il credito ceduto è un credito futuro, potrebbero opporsi al cessionario anche eccezioni fondate su fatti modificativi del credito successivi alla notifica/accettazione della cessione, tuttavia anteriori alla produzione dell'effetto traslativo del contratto (che, nel caso di cessione di credito futuro, si produce unicamente se e quando il credito viene ad esistenza). nella medesima prospettiva, potrebbe sostenersi che il beneficiario del pagamento di cui fa menzione l'art. 48bis cit. per individuare il soggetto destinatario della verifica sia concetto che ricomprenda non soltanto il cessionario, ma altresì il cedente, che del credito ha, nella sostanza, beneficiato nel senso di averne potuto disporre, rendendolo oggetto di cessione. Per converso, a sostegno di una risposta negativa (id est a sostegno della tesi secondo cui, accettata la cessione, la p.a. ceduta non può opporre al cessionario una verifica negativa ex art. 48bis cit. sul cedente che sia fondata su inadempienze successive all'accettazione) milita la giurisprudenza nomofilattica secondo cui, in tema di cessione del credito, il cessionario non può vedersi opposte dal ceduto eccezioni fondate su fatti modificativi del credito verificatisi dopo l'accettazione/notificazione della cessione. Possono richiamarsi altresì, a conforto dell'opzione in esame, la necessità di non discostarsi immotivatamente dalla littera legis, da cui sempre l'interprete deve prendere le mosse nell'operazione esegetica; nel senso che, siccome l'art. 48bis cit. chiede la verifica nei confronti del beneficiario del pagamento, solo una ragione in diritto che sia robusta legittima un'ermeneusi per la quale la verifica si impone anche nei confronti di un altro soggetto; ragione che, con riguardo all'inadempienza anteriore all'accettazione della cessione, potrebbe rinvenirsi nell'equiparabilità di tale verifica ad un'eccezione che, relativa ad un fatto anteriore all'accettazione, poteva senz'altro opporsi anche al cedente, da parte del ceduto, mentre, con riguardo ad esposizioni debitoree maturate successivamente all'accettazione, risulta sprovvista di qualsivoglia copertura a livello normativo. Infatti, la proposta interpretativa poc'anzi cennata (ricomprendere nel con PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo cetto di beneficiario del pagamento non soltanto il cessionario, ma altresì il cedente), per quanto maggiormente sensibile allo spirito della legge condensato nell'art. 48bis cit., non pare conciliabile col concetto di interpretazione, attività che presuppone pur sempre una connessione col dato letterale fornito dalla disposizione che s'interpreta. Quindi, può sostenersi che qualsiasi attività interpretativa, quand'anche ispirata al criterio teleologico e tesa a dare risalto all'effettiva ratio legis, deve arrestarsi innanzi ad un dato letterale che non permetta di raggiungere taluni approdi interpretativi, quand'anche questi siano, in tesi, più sensibili alla ridetta ratio legis. La riconduzione del cedente al concetto di beneficiario del pagamento passerebbe necessariamente per una operazione di tipo analogico. e tuttavia, è noto che lo strumento dell'analogia trova il suo limite nell'eccezionalità della norma (art. 14 disp. prel. cod. civ.); e l'art. 48bis cit., limitando la possibilità del creditore di ottenere il pagamento per un credito certo, liquido ed esigibile (sancito, in via generale, dall'art. 1183 c.c.), sembra potersi considerare norma eccezionale. L'analogia, pertanto, non parrebbe strada percorribile. Ciò posto, è opinione della Scrivente Avvocatura che la soluzione del- l'interrogativo sub b) passi per la corretta classificazione tipologica, in punto di strumentario rimediale, del rifiuto, da parte della p.a., di pagare il cessionario per una verifica negativa sul cedente. in particolare, la già cennata pronuncia della Corte Suprema, sezione terza, n. 8373 del 2009, ha sancito che "In tema di cessione di credito, il debitore ceduto è legittimato ad opporre al cessionario tutte le eccezioni che avrebbe potuto sollevare nei confronti dell'originario creditore, ma, qualora dopo la cessione intervengano fatti incidenti sull'entità, esigibilità ed estinzione del credito, la loro efficacia deve essere valutata in relazione alla nuova situazione soggettiva stabilitasi in dipendenza del già perfezionato trasferimento del diritto. Pertanto, perfezionatasi la cessione, il debitore ceduto: -può opporre al cessionario le eccezioni concernenti l'esistenza e le validità del negozio da cui deriva il credito ceduto e le eccezioni riguardanti l'esatto adempimento del negozio; -mentre le eccezioni relative ai fatti estintivi o modificativi del credito ceduto sono opponibili al cessionario solo se anteriori alla notizia della cessione comunicata al debitore ceduto e non se successivi. Ne consegue che il successivo riconoscimento da parte del cedente della riduzione dell'importo del credito originario non può essere opposto dal debitore al cessionario". occorre, pertanto, sussumere il rifiuto, da parte della p.a., di pagare al cessionario per un esito negativo della verifica sul cedente in una delle due categorie delineate dalla giurisprudenza in esame; tale operazione implicherà, di riflesso, la risoluzione della questione in un senso o nell'altro. In via segnata, se si considera il rifiuto di cui sopra come eccezione rela RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 tiva al titolo del credito oppure quale eccezione relativa l'esatto adempimento della controprestazione per cui il credito è nato, deve concludersi che anche esposizioni debitoree sorte successivamente alla notifica/accettazione della cessione siano suscettive di bloccare il pagamento a favore del cessionario; in questa prospettiva, pertanto, al momento del pagamento al cessionario, la p.a. dovrebbe verificare anche la posizione del cedente, rifiutando il pagamento al cessionario in ogni caso di inadempienza del cedente. Per converso, riconducendo il rifiuto in esame alla categoria delle "eccezioni relative a fatti estintivi o modificativi del credito ceduto", dovrebbe concludersi che non sia al cessionario opponibile la verifica negativa sul cedente che sia basata su esposizioni debitoree successive all'accettazione/notifica del negozio di cessione. Il punctum dolens, pertanto, è ricondurre il rifiuto, da parte della p.a., di pagare al cessionario per un esito negativo della verifica sul cedente nell'una o nell'altra categoria di eccezioni. orbene, questo organo Legale osserva che tale rifiuto, di per sé non ascrivibile ad alcuna delle due categorie, essendo l'effetto giuridico di una norma imperativa, sembra, operando in via analogica, più correttamente qualificabile come eccezione relativa ad un fatto estintivo/modificativo del credito ceduto. non pare possibile, infatti, neppure in via interpretativa e ragionando per analogia, considerare tale rifiuto come un'eccezione relativa al titolo o all'adempimento del contratto (peraltro solo eventuale; perché, com'è noto, possono cedersi anche crediti non di fonte contrattuale); la pubblica amministrazione che rifiuta il pagamento a fronte di una verifica ex art. 48bis cit. negativa non lo fa per un qualcosa che attiene al rapporto obbligatorio/titolo da cui sorge il credito, ma perché sussiste un fatto (estraneo a quel rapporto obbligatorio, contrattuale o meno che sia) cui la legge riconduce un'efficacia ostativa dell'adempimento solutorio. Ciò che, del resto, è confermato anche dal caso concreto per cui è parere, in cui l'eventuale rifiuto del pagamento non si giustificherebbe in ragione di inadempienze da parte del locatore a obblighi in capo a lui incombenti per contratto, e neppure per vizi, genetici o sopravvenuti, del titolo; per converso, sarebbe il frutto dell'effetto giuridico che la legge attribuisce ad una circostanza estranea al rapporto obbligatorio da cui sorge il credito (la debenza di danari verso l'Amministrazione). Per queste ragioni, sembra più corretto ricondurre il rifiuto in esame alla categoria delle "eccezioni relative a fatti estintivi o modificativi del credito ceduto". Di riflesso, deve concludersi che, de iure condito, l'Amministrazione deve sì svolgere la verifica ex art. 48bis cit., prima di pagare il cessionario, anche nei confronti del cedente, ma può rifiutare il pagamento soltanto se l'esposizione debitorea è maturata prima della notifica/accettazione del negozio cessorio; ciò che si conclude in sintonia con l'esegesi nomofilattica relativa a tutte le eccezioni che si fondano su fatti modificativi del diritto di credito PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo oggetto di cessione, che sono opponibili al cessionario soltanto se anteriori alla notifica/accettazione della cessione. Le condivisibili ragioni di maggior tutela delle pubbliche finanze e l'interpretazione teleologica che su di esse si innesta partendo dalla ratio legis, più volte richiamate in questo breve scritto, se consentono di interpretare il quadro normativo in esame nei sensi suesposti, permettendo, superando la mera littera legis, di verificare anche la posizione del cedente, e non solo del cessionario, al momento del pagamento, tuttavia non possono spingersi al punto di portare a sancire un principio di diritto che sia totalmente disancorato non soltanto dal diritto positivo, ma anche dalle coordinate ermeneutiche regolatrici dell'istituto della cessione del credito. Ciò che non toglie, vale precisare, che: -a prescindere dall'anteriorità o meno del sorgere dei debiti, da parte del cedente, rispetto alla notifica della cessione, il negozio di cessione potrà essere dalla p.a. impugnato perché sia dichiarato nullo allorché, in concreto, sia stato posto in essere con l'unica finalità di eludere il disposto della norma imperativa per cui è parere. È noto, infatti, che il concerto tra gli artt. 1325, 1343 e 1344 c.c. (regolatori degli istituti della causa in concreto (9), della sua illiceità e del negozio in frode alla legge) permette di giungere alla declaratoria di nullità di un contratto allorché questo sia stato posto in essere con la precipua finalità di eludere l'applicazione di una norma imperativa, come senz'altro l'art. 48bis cit. deve considerarsi; -all'atto della valutazione circa l'accettazione o meno della notificata cessione, l'Amministrazione/debitrice ceduta, quando la legge si limita ad assegnarle la possibilità di rifiutare la cessione, senza precisare i casi in cui il rifiuto è legittimo, ben può prendere in considerazione anche la durata del contratto ai fini della propria determinazione circa l'accettazione o il rifiuto della cessione. In altre parole, nel decidere se accettare o meno la cessione, l'Amministrazione considererà, come elemento da bilanciare con altri nell'esercizio della propria discrezionalità, anche la durata del contratto fonte dei crediti ceduti; una durata estesa potrebbe, apprezzate le specificità del caso concreto e comunque ferma l'insindacabilità del merito amministrativo, spingere la p.a. ceduta ad un approccio cautelativo, ossia a ritenere non opportuna e non conforme al pubblico interesse l'accettazione della cessione, la quale, alla luce di quanto sopra esposto in punto di verifiche ex art. 48bis cit., se accettata, precluderebbe alla pubblica amministrazione la possibilità di rifiutare il pagamento al cessionario in caso di verifica negativa sul cedente che dipenda da esposizioni debitorie all'accettazione successive. v.iv) Quanto sopra scritto vale anche quando ceduto sia un credito futuro (9) normativamente agganciabile, in via segnata, all'art. 1325 c.c. che, nel compendiare gli elementi essenziali del contratto, fa menzione, tra gli altri, della causa. RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 (ipotesi in cui, com'è noto, il contratto ha effetto meramente obbligatori sino al momento in cui il credito futuro verrà ad esistenza). Infatti, mancando qualsivoglia aggancio normativo che tanto liceizzi, non sembra possibile affidarsi a proposte interpretative, pur rispondenti al canone del buon senso e della ragionevolezza, che distinguano (nei sensi che qui potrebbero interessare), quanto alle eccezioni utilmente opponibili dal ceduto al cessionario a fronte di accettazione del negozio cessorio, tra cessioni relative a crediti presenti e cessioni relative a crediti futuri. ***** vi) Principi di diritto. In conclusione, questo organo Legale, comunque ribadendo che la specificità della questione rende auspicabile una dedicata presa di posizione da parte del Legislatore, che semplifichi il quadro giuridico depurandolo dalle incertezze dovute alle possibili proposte interpretative allo stato innestabili sul complicato sostrato normativo di riferimento, rende il richiesto parere nei termini che seguono: «In tema di cessione di credito, presente o futuro che sia, nei casi in cui l'amministrazione assume la veste di debitore ceduto: a) la verifica ai sensi dell'art. 48bis cit. va sempre effettuata nei confronti del cessionario, prima del pagamento; b) la verifica ai sensi dell'art. 48bis cit. va sempre effettuata anche nei confronti del cedente, prima del pagamento; essa sarà ostativa dell'adempimento nei confronti del cessionario allorché restituisca esito negativo in ragione di esposizioni debitorie maturate prima dell'accettazione/notifica alla p.a.; c) per tali ragioni, la proposta interpretativa veicolata dalla circolare del MeF n. 13 del 21 marzo 2018, sebbene non imposta dal diritto positivo, è comunque ad esso conforme, e si considera con favore in termini di opportunità, specie laddove, in via cautelativa e a tutela del pubblico interesse, esorta le amministrazioni a non accettare le cessioni di credito in mancanza di una immediata e positiva verifica ex art. 48bis cit. sul cedente; d) l'amministrazione non può rifiutare il pagamento al cessionario, che restituisca una verifica ex art. 48bis cit. positiva, a fronte di una verifica negativa nei confronti del cedente per esposizioni debitorie sorte successivamente alla accettazione/notifica della cessione; e) allorché la cessione di credito sia stata stipulata dai privati con l'unica e condivisa finalità di eludere l'applicazione dell'art. 48bis cit., che è norma imperativa, il negozio sarà nullo ex comb. disp. artt. 1325, 1343, 1344 c.c. e, come tale, potrà essere dichiarato su domanda di qualsiasi soggetto che a tanto abbia un interesse; anche, pertanto, dall'amministrazione debitrice-ceduta; f) all'atto della valutazione circa l'accettazione o meno di una cessione PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo di credito (nei casi in cui la legge consenta tale valutazione alla p.a.), l'amministrazione valuterà la rispondenza o meno al pubblico interesse dell'eventuale accettazione apprezzando tutte le specificità del caso concreto, compresi, tra l'altro, la durata del contratto fonte dei ceduti crediti, l'ammontare e la natura di questi ultimi, il profilo del cedente e la sussistenza di sue eventuali, precedenti inadempienze ex art. 48bis cit.». ***** Ciò posto, poiché nel caso di specie il cedente ha prestato il proprio consenso a tempestivamente subire la verifica all'atto della cessione del credito, e tale verifica s'è risolta positivamente, è corretto in diritto affermare che le successive verifiche, all'atto del pagamento, dovranno essere rivolte unicamente nei confronti del cessionario. e invero, avendo codesto Dicastero correttamente provveduto alla verifica a carico del cedente, prima di accettare la cessione, in conformità a quanto proposto dalla circolare MeF n. 13 del 21 marzo 2018, potrà ora svolgere la verifica unicamente nei confronti del cessionario. Del che è parere. ***** Il presente parere è stato sottoposto all'esame del Comitato Consultivo di questa Avvocatura che, nella seduta del 30 giugno 2021, si è espresso in conformità. RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 eventi sismici del 6 aprile 2009. Sussumibilità delle elargizioni in favore della Cri nella categoria del “negozio giuridico modale” ex art. 4, comma 1, lett. d), d.lgs. 28 settembre 2012, n. 178 Parere del 26/07/2021-456553, al 16723/2021, ProC. valerIa roMaNo 1. Il quesito. Con la nota emarginata l'ente in indirizzo ha chiesto alla Scrivente di esprimersi in ordine alla possibilità di adottare provvedimenti di trasferimento in favore dell'Associazione Croce Rossa Italiana aventi ad oggetto i moduli abitativi provvisori (M.A.P) e le strutture ad uso civico ed ambulatoriale nonché le piastre sulle quali i moduli non residenziali poggiano, costruiti in esecuzione ad una convenzione stipulata in data 19 gennaio 2010 tra la C.R.I., il Commissario delegato per gli eventi sismici del 6 aprile 2009, il Comune di L'Aquila ed il Provveditorato per le opere Pubbliche per il Lazio, l'Abruzzo e la Sardegna. Più nel dettaglio, dalla documentazione trasmessa emerge che i soggetti innanzi indicati, al fine di consentire la sollecita sistemazione delle persone fisiche residenti o stabilmente dimoranti in abitazioni distrutte o dichiarate non agibili a causa del sisma del 6 aprile 2009, concludevano un accordo avente ad oggetto la progettazione e la realizzazione -nella frazione di San Gregorio del Comune di L'Aquila -di moduli destinati ad uso abitativo (M.A.P) e di strutture destinate ad uso sociale come ambulatorio e centro civico nonché la realizzazione delle connesse opere di urbanizzazione attraverso l'impiego del contributo finanziario pari ad euro 1.967.000,00 all'uopo messo a diposizione dalla Croce Rossa Italiana e proveniente da numerosi contributi di natura non corrispettiva disposti in favore della C.R.I. nel periodo immediatamente successivo al sisma e destinati a sostenere interventi volti al superamento dell'emergenza nei territori colpiti dagli eventi del 6 aprile 2009. nel formulare la nota che si riscontra l'ente in indirizzo riferisce altresì che l'assetto degli interessi regolato dalla predetta convenzione prevedeva una disciplina differenziata per i moduli da adibirsi ad uso abitativo (M.A.P) e quelli da assegnare ad uso sociale. Per i primi la Croce Rossa Italiana -impegnandosi a contribuire alla relativa costruzione attraverso l'impiego delle risorse finanziarie provenienti dalle elargizioni ricevute -conveniva con le altre parti che la relativa edificazione e messa in opera fosse eseguita a cura del Commissario delegato per gli eventi sismici. In base all'accordo intercorso la C.R.I. si riservava, poi, la proprietà "temporanea" di dette unità abitative contestualmente pattuendo che l'attività gestoria finalizzata all'assegnazione dei moduli residenziali in favore degli aventi diritto fosse demandata al Comune PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo di L'Aquila nella qualità di soggetto deputato all'individuazione dei criteri e dei requisiti sulla scorta dei quali provvedere alla selezione delle categorie beneficiarie. Con riguardo ai moduli ad uso ambulatoriale e civico, la C.R.I. si impegnava, parimenti, a contribuire finanziariamente alla costruzione delle basi di appoggio delle strutture da eseguirsi ad opera del Provveditorato per le opere Pubbliche per il Lazio riservandosi la successiva costruzione attraverso ditte all'uopo selezionate. 2. La tesi interpretativa dell'Amministrazione. nel formulare il quesito che si riscontra, l'Amministrazione in indirizzo mostra di ritenere che sia i moduli provvisori ad uso abitativo sia i due moduli adibiti ad ambulatorio e centro civico, costruiti secondo il regolamento predisposto con la convenzione innanzi indicata, debbano essere trasferiti all'Associazione della Croce Rossa Italiana ex art. 4, comma 1, lett. d) del D.Lgs. 28 settembre 2012, n. 178 a mente del quale: "Il Commissario e successivamente il Presidente nazionale (...) trasferiscono all'associazione, a decorrere dal 1° gennaio 2016, i beni pervenuti alla CrI attraverso negozi giuridici modali”. Siffatta tesi appare argomentata sul rilievo per cui i predetti moduli, qualificati dall'Amministrazione in indirizzo come beni mobili (1), debbano ritenersi come provenienti da donazioni modali essendo stata la relativa costruzione finanziata attraverso l'impiego di provviste derivanti da elargizioni di natura non corrispettiva specificatamente destinate allo scopo di fronteggiare l'emergenza post-sismica. Tanto si ricava, in particolare, da quanto riferito a pagina 2 della nota che si riscontra ove si fa riferimento a "fondi raccolti dalla Croce rossa Italiana sia in ambito nazionale che in ambito internazionale col vincolo di destinazione specifica (modale) all'assistenta della popolazione terremotata dell’abruzzo" e da quanto esplicitato a pagina 5 della medesima missiva nella quale si ribadisce che la costruzione dei M.A.P. avveniva con il sostegno economico della C.R.I. che dette opere "finanziava con un importo complessivo di euro 1.967.000,00 proveniente da donazioni con vincolo modale". Secondo -quindi -la tesi interpretativa della quale si chiede conferma con la nota emarginata -sussisterebbero, "a monte", una pluralità di donazioni modali eseguite in favore dell'ente pubblico nell'immediatezza degli eventi sismici ed un atto "a valle" -identificato con la convenzione del 19 gennaio 2010 -, di natura adempitiva del modus apposto alle predette donazioni. In altri termini, secondo codesta Amministrazione, la ritenuta natura modale delle elargizioni pervenute alla C.R.I. si sarebbe trasmessa ai beni realizzati con l'impiego di dette somme sicché si conclude nel senso che i beni finanziati con l'impiego delle elargizioni modali possono dirsi pervenuti -seppure in "via mediata" -da negozi giuridici modali e -quindi -rientrano nell'ambito applicativo dell'art. 4, comma 1, lett. d) del D.Lgs. 28 settembre 2012, n. 178. (1) Sulla qualificazione di detti moduli, invece, come beni immobili v. infra § 6. RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 3. Inquadramento sistematico ed orientamenti dottrinali sul tema oggetto del quesito. Al fine di verificare la fondatezza, sotto il profilo giuridico, della impostazione interpretativa elaborata da codesta Amministrazione, la Scrivente considera opportuno anteporre alcune notazioni di ordine generale che si ritengono strumentali al corretto inquadramento giuridico della situazione di fatto sottesa al quesito formulato dall'ente. 3.1. Il fenomeno del crowdfunding ovvero il dono "massivo" di scopo sollecitato al pubblico e la relativa sussumibilità nelle categorie tradizionali del codice civile con particolare riferimento alla qualificabilità come donazione modale (art. 793 cod. civ.). Come anticipato, l'Amministrazione argomenta la propria tesi interpretativa sottolineando che i beni da trasferire ex art. 4, comma 1, lett. d) del D.Lgs. 28 settembre 2012, n. 178 sono stati costruiti attraverso l'impiego di "fondi raccolti dalla Croce rossa Italiana sia in ambito nazionale che in ambito internazionale" e "provenienti da donazioni modali". Tale assunto merita, ad avviso della Scrivente, una preliminare riflessione. Il fenomeno del donare è, come noto, concepito dal codice civile come un atto isolato tra soggetti tra i quali sussiste un pregresso rapporto (quantomeno) di conoscenza entro il quale matura uno spirito di liberalità che sorregge una volontà di arricchire senza corrispettivo, adeguatamente ponderata, assistita dalla forma scritta e rivolta ad una parte identificata tanto che anche in giurisprudenza si rinvengono comunemente affermazioni che qualificano la donazione come "atto per eccellenza compiuto intuitu personae" (2). La liberalità donativa tipizzata nel codice civile -sulla quale codesta Amministrazione concentra la propria ricostruzione interpretativa -non sembra tuttavia, prima facie, perfettamente collimante con le riferite caratteristiche del caso in esame in cui vengono in rilievo, invece, una pluralità aggregata di micro-elargizioni provenienti da una sollecitazione al pubblico a donare in cui i contributi dei singoli risultano essere una frazione di una maggior somma nel suo complesso funzionalizzata alla realizzazione di un determinato scopo fissato dall'ente pubblico accipiens ed individuabile nel soddisfacimento delle esigenze abitative, sociali e sanitarie di soggetti terzi. Sulla scorta di tali premesse empiriche può quindi dirsi, in via di prima approssimazione, che la fattispecie in esame rientra nel fenomeno sociale ed economico (prima ancora che giuridico) qualificato dalla dottrina (3) come crowdfunding e consistente, in estrema sintesi, nella raccolta di contributi provenienti da una massa indifferenziata di soggetti (crowd) volta ad attribuire a (2) Tribunale Brescia Sez. II, Sent., 05/06/2019. (3) RenDA, donation-based crowdfunding, raccolte fondi oblative e donazioni di scopo, Giuffrè 2020. PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo un soggetto organizzatore (fundraiser) pubblico o privato un patrimonio strumentale alla realizzazione di un determinato scopo cui la raccolta fondi è preordinata (4). A ben guardare, si tratta, dal punto di vista giuridico, di una manifestazione del più ampio fenomeno, già conosciuto in materia consumeristica, della c.d. spersonalizzazione della contrattazione che ha posto -e pone altresì nel caso di specie -in capo all'interprete il compito di verificare l'adeguatezza sussuntiva degli schemi classici del diritto civile quali, nel caso in esame, quello della donazione modale. ed, infatti, le donazioni tramite crowdfunding c.d. di scopo presentano caratteristiche peculiari rispetto al fenomeno donativo concepito dal codice del 1942 poiché lo spirito di liberalità nel "dono di massa" è sollecitato da meccanismi pubblicitari, si sostanzia nella condivisione di un programma altrui più che in uno spirito di liberalità autonomamente sorto nell’animus del disponente e si perfeziona, talvolta anche in forma anonima, attraverso l'adesione a condizioni generali predefinite dal raccoglitore dei fondi limitandosi il disponente all'attività erogativa in senso stretto attraverso versamenti su coordinate bancarie indicate dal fundraiser ovvero, come avvenuto nella raccolta fondi a seguito della calamità naturale del 6 aprile 2009, attraverso l'invio di SMS a numeri telefonici altresì dedicati ed individuati dall'ente-raccoglitore. Tanto premesso in punto di descrizione empirica della fattispecie sottesa al presente parere, si pone il problema -in punto di diritto -di qualificare giuridicamente la natura dei contributi non corrispettivi della massa per scopi determinati tanto al fine di verificarne, nel caso in esame, la rispondenza allo schema -suggerito dall'ente in indirizzo -della donazione modale (art. 793 cod. civ.). ebbene, al sistema del codice civile non è ignoto il dare senza corrispettivo tra soggetti estranei, tra i quali non intercorre -come invece avviene nella donazione -un pregresso rapporto né è sconosciuta la circostanza che l'elargizione non corrispettiva del singolo sia una frazione di una somma maggiore destinata all'attuazione di uno scopo. Dette caratteristiche sono, infatti, proprie della sottoscrizione da parte del pubblico del programma di un comitato promotore che sollecita una raccolta di fondi per devolverli ad uno scopo annunciato (art. 41 cod. civ.) di beneficenza, di soccorso o per la promozione di opere pubbliche (art. 39 cod. civ). Il surriferito paradigma normativo, tuttavia, non sembra collimare, già ad un primo esame, al caso di specie in ragione del difetto, nella fattispecie og (4) Le donazioni contestualmente "di massa" e "di scopo" si differenziano dal fenomeno delle liberalità genericamente incrementative del patrimonio di enti c.d. del Terzo settore la cui definizione legislativa è rinvenibile nell'art. 7, comma 1, del Decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117 a mente del quale "Per raccolta fondi si intende il complesso delle attività ed iniziative poste in essere da un ente del Terzo settore al fine di finanziare le proprie attività di interesse generale, anche attraverso la richiesta a terzi di lasciti, donazioni e contributi di natura non corrispettiva". RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 getto del presente parere, del presupposto soggettivo del fenomeno oblativo come conosciuto dal codice civile ossia la qualifica di comitato in capo al raccoglitore di fondi. Detto requisito soggettivo è infatti ictu oculi carente nel caso in esame in cui l'attività di promozione è stata posta in essere dall'allora Associazione Croce Rossa Italiana nella qualità di ente associativo dotato di personalità giuridica di diritto pubblico al tempo regolato dal DPCM 6 maggio 2005 n. 97 recante Approvazione del nuovo Statuto dell'Associazione italiana della Croce Rossa. In altri termini, il modello legale della destinazione a determinati scopi di fondi erogati senza corrispettivo da una massa di soggetti accomunati dalla condivisione di un programma aperto alla sottoscrizione ha come presupposto, carente nel caso di specie, che il raccoglitore di fondi rivesta la qualifica soggettiva di ente di diritto privato a scopo non lucrativo ed in particolare di comitato con la conseguenza che risulta precluso, nonostante talune innegabili affinità di funzionamento, l'inquadramento giuridico delle elargizioni pervenute alla C.R.I. nel dettato degli artt. 39 e ss. cod. civ. Senonché il problema qualificatorio sorge perché il codice civile non regola una raccolta di fondi che non sia compiuta da un comitato. Sulla scorta di tale rilievo, procedendo nel tentativo di sistemazione categoriale dalla fattispecie sottesa al presente parere, occorre allora interrogarsi -attesa la riferita funzionalizazione della raccolta delle somme devolute alla C.R.I. ad uno specifico scopo -sulla riconducibilità delle elargizioni di scopo alla figura della donazione sub modo quale fattispecie giuridica connotata proprio, in via di primissima approssimazione, dalla peculiarità per cui il vincolo di scopo viene dal disponente fatto confluire -senza incidere sulla causa liberale del negozio - entro la clausola accessoria modale. A tal fine si ritiene -per chiarezza espositiva -di dover delineare, seppur brevemente, i tratti distintivi la nozione codicistica di donazione modale (art. 793 cod. civ.) premettendo altresì taluni essenziali cenni di teoria generale del negozio giuridico che si reputano strettamente funzionali alla soluzione del quesito posto. 3.2 La nozione giuridica di modus e le caratteristiche codicistiche della donazione modale (art. 793 cod. civ.). Cenni. Come noto, la dottrina tradizionale ha distinto gli elementi del negozio giuridico in elementi essenziali, naturali ed accidentali. nella categoria degli elementi accidentali, del pari tradizionalmente, sono stati individuati tre figure: il termine, la condizione ed il modus. In questa tricotomia il modus presenta profili di eterogeneità rispetto alle altre due figure perché il modus -a differenza del termine e della condizione -non attiene, strictu sensu, all'efficacia del negozio, nel senso di sospenderla o di risolverla automaticamente ma si connota per il fatto di far sorgere un'obbligazione in senso tecnico ex art. 1173 cod. civ. in capo al beneficiario consistente, in estrema sintesi, in un obbligo di dare, fare, non fare una determinata attività in favore del disponente ovvero PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo 97 di un terzo con la conseguenza di produrre un effetto limitativo del beneficio disposto con il negozio cui la clausola modale accede. In altri termini, come messo in luce da autorevole dottrina (5), il modus è la "misura della liberalità o del lascito" che si sostanzia, sul piano economico, in una limitazione del beneficio oggetto del negozio sicché è ricorrente nella produzione pretoria e dottrinaria sul tema l'affermazione per cui nel negozio modale -con la clausola impositiva dell'onere -non si mira ad uno scambio sinallagmatico tra ciò che è donato o trasmesso mortis causa e la prestazione di dare, fare o non fare poiché il disponente, nell'apporre una clausola modale ad un negozio attributivo di una posta attiva in favore dell'avente causa, non mira all'ottenimento di una "prestazione di ritorno", ma vuole beneficiare il destinatario contestualmente restringendo gli effetti sul piano economico dell'atto che resta sorretto da uno spirito di liberalità e non da una logica di corrispettività tra il beneficio e la prestazione oggetto della clausola accessoria. In proposito -per completezza -si ricorda che la Scrivente ha già avuto modo di evidenziare (6) che "l'onere si traduce in una limitazione del beneficio concesso dal dante causa mediante l'imposizione di una prestazione accessoria a carico dell'avente causa, che se non risulta equiparabile alla controprestazione propria dei contratti a titolo oneroso -non mutando il negozio causa, che rimane quindi liberale -è comunque idonea a determinare una diminuzione di valore del lascito, incidendo sull'ammontare del trasferimento patrimoniale (cfr. Cass. civ. sez. III, 07-04-2015, n. 6925 e Cass. civ., 06-12-1984, n. 6414). l'elemento caratterizzante l'onere, pertanto, è la sua accessorietà rispetto alla disposizione principale con cui si effettua il trasferimento patrimoniale: attraverso l'apposzione del modus, il dante causa limita la disposizione principale nella sua portata espansiva, gravando il beneficiario di prestazioni accessorie, che questi dovrà eseguire al fine di realizzare il proprio interesse alla conservazione del bene trasferito". 3.3 La problematica configurabilità dell'arricchimento ex art. 769 cod. civ. in presenza di modus c.d. assorbente. Ciò premesso in termini definitori generali, come noto, l'apponibilità del- l'elemento accessorio dell'onere è espressamente prevista, nel dettato codici- stico, in relazione alle disposizioni testamentarie sub modo (artt. 647 -648 cod. civ.) ed in relazione alla donazione modale (art. 793 cod. civ.). In tale quadro positivo l'apponibilità dell'elemento accessorio dell'onere al contratto di donazione ha tradizionalmente sollecitato i maggiori dubbi interpretativi attesa la difficoltà di ricondurre allo schema tipico della donazione -connotato dall'elemento caratterizzante dell'arricchimento del donatario -le ipotesi di (5) SAnToRo-PASSAReLLI, dottrine generali del diritto civile, 9° ed., napoli 1966 pag. 240. (6) Parere su eredità, Donazioni e Lasciti. eredità Morandini. Affare CT 6746/17 -Sez. v Avv. De Luca in riscontro alle vostre note del 27.1.17, n. 3472 e nota del 16.6.2017, n. 1963. RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 elargizioni gravate, come nel caso di specie, da modus "assorbente" l'intero valore del donatum. Muovendo dal requisito dell'arricchimento del beneficiario come il proprium del contratto di donazione, si è posto -infatti -il problema della qualificabilità in termini di donazione modale dei casi in cui sul soggetto gratificato da un'attribuzione patrimoniale non gravi semplicemente un'obbligazione di dare, di fare o di non fare, secondo la struttura tipica del modus e, dunque, non si crei puramente una accessoria limitazione in senso economico della liberalità, ma si istituisca un obbligo il cui contenuto consiste nella totale destinazione o dedicazione dell'oggetto della liberalità al perseguimento dello scopo voluto dal disponente. Ciò è esattamente accaduto nel caso che forma oggetto del presente parere in cui vengono in rilievo una pluralità di seriali trasferimenti di denaro non in virtù della volontà dei donanti di arricchire l'ente pubblico beneficiario, ma allo scopo di permettere all'ente accipiens di perseguire ed attuare i fini di pubblica utilità condivisi dai donanti. Pare alla Scrivente, in altri termini, che la riconducibilità delle elargizioni ricevute dalla C.R.I. allo schema della donazione in generale e della donazione modale in particolare presenti profili di problematicità atteso che potrebbe argomentarsi che i numerosi danti causa delle micro-elargizioni di massa successivamente aggregate ed impiegate per la realizzazione dei MAP e delle strutture non abitative non abbiano avuto di mira la realizzazione di una liberalità in favore dell'ente pubblico volendone limitare economicamente il beneficio attraverso l'imposizione di un onere secondo lo schema tipico della donazione modale (art. 793 cod. civ.), ma piuttosto abbiano perseguito l'intento di contribuire, in forma collettiva, alla costituzione di un patrimonio strumentale per la realizzazione di condivisi fini di pubblica utilità legati all'emergenza abitativa e sociale post-sismica. Alla stregua delle suesposte considerazioni, occorre -quindi -verificare se la corretta qualificazione giuridica da attribuire alla fattispecie oggetto del presente parere sia quella, suggerita dall'Amministrazione in indirizzo, della donazione modale tenuto conto che -come da tradizionale insegnamento della giurisprudenza di legittimità -ai fini della qualificazione giuridica di una operazione negoziale hanno primario rilievo -tra i canoni di ermeneutica contrattuale -il contenuto sostanziale dell'assetto degli interessi voluto dalle parti e l'intento dalle stesse realmente perseguito (inter alia, Cass. civ., 14 gennaio 1983, n. 287). Tanto chiarito, a questo punto dell'analisi la questione in punto di diritto che sembra venire in rilievo può essere così compendiata: se in ipotesi in cui il modus assorba l'intero valore del donatum il quale sia stato devoluto al soggetto beneficiario al fine di dotare quest'ultimo di un patrimonio strumentale da impiegare per l'intero allo scopo voluto dal donante possa ritenersi integrato lo schema di cui all'art. 793 cod. civ. ovvero se, al contrario, nel caso di un PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo onere che "svuota" economicamente il beneficio patrimoniale ricevuto dal- l'accipiens -non potendosi configurare un arricchimento del beneficiario -sia, in ultima analisi, preclusa la sussumibilità dell'operazione nello schema codi- cistico della donazione modale. Muovendo dal dato positivo, pare alla Scrivente che nel caso di onere che eguaglia l'intero valore dei beni donati si tratta, in definitiva, di coordinare l'art. 769 cod. civ. che definisce la donazione come "il contratto col quale, per spirito di liberalità una parte arricchisce l'altra...." e l'art. 793, comma 2, cod. civ. a norma del quale l'onere deve essere adempiuto nei limiti del valore dei beni donati. La seconda disposizione pare, infatti, prima facie contraddire la prima: l'art. 769 cod. civ. menziona l'arricchimento come effetto tipico della donazione mentre l'art. 793, secondo comma, cod. civ. pare ammettere che l'onere possa eguagliare -e addirittura superare -l'intero arricchimento del donatario senza che questo faccia venir meno la qualificazione in termini di donazione. La questione, sebbene non venuta di frequente all'attenzione della giurisprudenza, è stata oggetto di un certo dibattito in dottrina. Alcuni autori (7) hanno teso a conciliare il dettato dell'art. 769 cod. civ. e dell'art. 793, comma 2, cod. civ. sottolineando come l'onere -anche quando assorbe il donatum non escluderebbe la sussistenza di un arricchimento del beneficiario‑onerato. Da siffatto angolo prospettico, più in particolare, all'arricchimento dell'accipiens (comunque configurabile benché transitorio) conseguirebbe un successivo impoverimento in esecuzione all'onere posto dal tradens. La tesi è stata criticata sulla scorta del noto brocardo per cui "non est versum si non durat versum" ed in base al quale non c'è -dunque -arricchimento se il vantaggio non perdura, sottolineandosi come lo schema della donazione pur non richiedendo una durevolezza -sotto il profilo temporale -dell'arricchimento, purtuttavia esige l'effettività del vantaggio non potendosi ritenere integrato lo schema tipico della donazione nell'ipotesi di arricchimenti obbligatoriamente seguiti da impoverimenti di pari valore. Un secondo orientamento dottrinale (8) ha invece ritenuto che poiché nel- l'art. 769 si legge che "per spirito di liberalità, una parte arricchisce l'altra" l'arricchimento non verrebbe configurato dal Legislatore come un effetto giuridico della donazione (il che porterebbe l'art. 769 cod. civ. in contrasto con l'art. 793 comma 2) venendo, invece, in rilievo in senso soggettivo come l'intenzione del donante a prescindere dalla produzione di una effettiva e durevole lucupletatio del donatario. Secondo detta esegesi, l'interprete per poter quali (7) Per una ricostruzione sul tema oPPo, adempimento e liberalità, Giuffrè, Milano, 1947, pag. 66. (8) CARnevALI, la donazione, in Trattato di diritto civile da P. ReSCIGno, vol. 6, tomo 1, Torino 1997, pag. 518. RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 ficare un dato negozio come donazione sarebbe chiamato ad accertare, sul piano soggettivo, l'intento del disponente di arricchire il donatario per spirito di liberalità tanto anche sulla scorta del dato che sembrerebbe ricavarsi dalla Relazione al codice (n. 372) nella parte in cui qualifica lo spirito di liberalità come la "coscienza di conferire ad altri un vantaggio senza esservi costretti (nullo iure cogente)". Si conclude, pertanto, nel senso che ben potrebbe l'onere arrivare ad assorbire, per cause accidentali e sopravvenute, l'intero arricchimento del beneficiario senza pregiudicare la qualificazione (iniziale) in termini di donazione modale dell'operazione. esclusa, per contrasto con il dato letterale codicistico, la percorribilità della prima criticata tesi interpretativa per cui l'arricchimento sarebbe tale anche quando gravato da un obbligo in capo al beneficiario di impoverirsi per l'intero, ove si acceda alla seconda impostazione interpretativa, la qualificazione dell'operazione in termini di donazione modale resterebbe -nel caso in esame -inevitabilmente preclusa perché, nel caso oggetto del presente parere, i disponenti non sembra abbiano teso, ab initio, al fine ultimo dell'arricchimento dell'ente pubblico donatario, ma hanno -al contrario -perseguito sin dall'origine uno scopo diverso concependo il trasferimento di risorse alla Croce Rossa come il mezzo per raggiungere uno scopo ulteriore rimesso all'attività dell'accipiens. Altra parte della dottrina, ritenendo che l'art. 793, comma 2, cod. civ. non possa essere interpretato nel senso che la norma sia stata dettata esclusivamente per il caso in cui l'assorbimento del valore sia intervenuto per cause sopravvenute alla stipula, ha sostenuto che la circostanza che il valore del modo possa ab origine sopravanzare quella del donatum non precluderebbe la qualificazione del negozio come donazione modale non essendo il contratto di cui all'art. 793 cod. civ. una species del contratto di donazione connotato da tutti gli elementi di cui all'art. 769 cod. civ. -ivi compreso l'arricchimento del donatario -più l'elemento specializzante della clausola accessoria dell'onere, ma un contratto tipico a sé stante in cui l'arricchimento del donatario è un effetto naturale, ma non tipico del contratto. Alla tesi in parola, secondo la quale la donazione modale è un contratto a sé stante diverso dalla donazione, si è tuttavia fondatamente obiettato che il Legislatore codicistico ha inteso la donazione modale come una donazione ed il modus come un elemento accidentale: se, infatti, il modus assurgesse a causa di un autonomo contratto di donazione modale non si comprenderebbe perché il modo illecito o impossibile si consideri -nella sistematica del codice -come non apposto (art. 794 cod. civ.) e non provochi, invece, la nullità del contratto per illiceità della causa (artt. 1343 cod. civ., 1418 cod. civ.). nella medesima ottica si sottolinea che la stessa risolubilità della donazione modale per inadempimento del modus nel solo caso in cui questa sia stata espressamente pattuita (art. 793, comma 4, cod. civ.) non può non accreditare la natura accidentale del modus e, per PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo l'effetto, la non sostenibilità della tesi della donazione modale come autonomo schema negoziale tipico non richiedente il requisito dell'arricchimento del beneficiario. 3.4. La donazione fiduciaria quale alternativa qualificatoria rispetto allo schema tipico della donazione modale. I sostenitori della tesi dell'inconciliabilità tra l'intento donativo ed il modus che abbia ab initio carattere assorbente hanno sussunto le ipotesi di totale preordinazione delle somme donate all'arricchimento di terzi tale da "svuotare" economicamente il beneficio patrimoniale del donatario nella figura della donazione fiduciaria (9). In tale prospettiva si è -invero -sottolineato che, se con la donazione modale il donante intende arricchire il donatario e soltanto in via ulteriore ed accidentale il terzo (beneficiario della clausola modale), con la donazione fiduciaria il donante intende, in via principale ed ab initio, arricchire il terzo trasferendo all'accipiens le necessarie provviste che, in base al pactum fiduciae, saranno destinate all'arricchimento del beneficiario. Senonché neppure la qualificazione in termini di donazione fiduciaria appare alla Scrivente del tutto calzante rispetto alle peculiarità del caso di specie. ed invero la figura della donazione fiduciaria ricorre quando il donatario assume -fiduciae causa -l'obbligo di trasferire quanto ha ricevuto dal tradens, ovvero una parte di ciò che ha ricevuto, ad un terzo indicato dal donante nel patto fiduciario collegato alla donazione. Difetta, ad avviso della Scrivente, nell'ambito delle donazioni di massa funzionalizzate ad uno scopo e spersonalizzate il proprium della donazione fiduciaria individuabile nel rapporto, appunto fiduciario, tra il donante e il donatario che fa del pactum fiduciae una negoziazione isolata e chiusa tra donante e donatario che mal si confà alla natura seriale, aggregata e per adesione delle elargizioni pervenute alla C.R.I. A ciò si aggiunga che -come puntualmente evidenziato in giurisprudenza -"con la donazione fiduciaria in ambito civilistico, il donante, nelle condizioni date, generalmente persegue lo scopo (e solo lo scopo) di arricchire il terzo effettivo donatario" Cass. civ. Sez. v, Sent., (ud. 02/12/2015) 18-12-2015, n. 25478. ed, invero, nello schema della donazione fiduciaria il donante vuole esclusivamente beneficiare il terzo nella cui sfera giuridica mira a produrre l'effetto dell'arricchimento personale attraverso uno schema che potrebbe essere riassunto nella locuzione "donare per far avere ad altri" ovvero nella formula "donazione devolutiva" in cui il disponente dona ad un terzo determinato (10) (9) Per una disamina della differenza tra donazione modale e donazione fiduciaria si veda PA- LAzzo, donazione modale e donazione fiduciaria in Comm. schlesinger, art. 793 cc., Milano, 2000, pag. 405. (10) non viene in rilievo quindi il divieto di mandato a donare di cui all'art. 778 cod. civ.: "È nullo il mandato con cui si attribuisce ad altri la facoltà di designare la persona del donatario o di determinare l'oggetto della donazione". RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 tramite l'intermediazione del beneficiario che si interpone tra il donante e l'effettivo destinatario dell'arricchimento come mero titolare di un "patrimonio di transito" delle provviste ad altri destinate senza che residui alcuna utilità in capo all'interposto. nel caso di specie, invece, non vengono in rilievo donazioni meramente devolutive in cui il destinatario ultimo dell'arricchimento è direttamente scelto dal disponente che si avvale di un soggetto interposto nella qualità di nudus minister con l'intento di "donare per far avere ad altri", ma un "donare destinando" in cui all'accipiens primario non viene richiesto di fungere da mero titolare di un "patrimonio di transito" delle provviste, ma di porre in essere una serie di attività -il cui compimento sarebbe precluso ai singoli danti causa anche in ragione della modicità dei singoli versamenti -volte al perseguimento di un determinato scopo consistente nell'impiego della somma aggregata in attività giuridica e materiale destinata ad attuare un determinato scopo. Lo schema della donazione fiduciaria non appare poi appagante neppure sotto un terzo profilo: nel caso in esame le micro-elargizioni non sono state rivolte all'arricchimento di terzi determinati dai danti causa perché i disponenti sono stati mossi -più che dall'intento, proprio della donazione fiduciaria, di produrre una lucupletatio personale in favore di terzi determinati -da quello che la dottrina definisce "spirito di solidarietà" e, cioè, un intento di più generale portata non propriamente funzionale a produrre singoli arricchimenti individuali in favore di terzi determinati, ma tendente alla realizzazione -anche attraverso l'assegnazione di benefici a terzi -di interessi superindividuali di pubblica utilità. Più in particolare, nel caso in esame tale funziona1izzazione delle elargizioni pare alla Scrivente comprovato dalla spendita delle provviste non solo per l'impiego per la realizzazione di M.A.P. abitativi, effettivamente deputati alla fruizione individuale, ma anche per la predisposizione di strutture ad uso civico a fruizione indifferenziata e con finalità sociali ed aggregative la cui installazione è sintomatica dell'intento perseguito dalle parti non solo di fornire una sistemazione in favore delle persone fisiche residenti o stabilmente dimoranti in abitazioni distrutte o dichiarate non agibili a causa del sisma del 6 aprile 2009, ma anche della volontà di perseguire l'interesse impersonale e super-individuale da individuarsi nella necessità di riconnettere il tessuto sociale ed evitare, sul lungo termine, la desertificazione demografica delle aree colpite dal sisma. La distinzione tra "liberalità donativa"e"liberalità solidale" -innanzi messa in rilievo con riguardo al caso in esame -non è frutto della sola elaborazione dottrinale (11). Il distinguo emerge, infatti, anche sul piano positivo: (11) MoRozzo DeLLA RoCCA, Gratuità liberalità e solidarietà Contributo allo studio della prestazione non onerosa, Giuffrè, 1998. PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo si pensi, ad esempio, al dettato dell'art. 64 della Legge Fallimentare (12) (R.D. 16 marzo 1942, n. 267) che riserva agli atti compiuti per scopi di solidarietà una disciplina revocatoria meno severa rispetto a quella degli altri atti a titolo gratuito posti in essere per spirito di liberalità. Sicché -per le ragioni innanzi svolte -neppure lo schema della donazione fiduciaria pare poter costituire la veste giuridica dell'operazione descritta nella nota che si riscontra. 4. Soluzione del quesito formulato. Sussumibilità delle elargizioni in favore della CRI nella più generale categoria del “negozio giuridico modale" ex art. 4, comma 1, lett. d) del D.Lgs. 28 settembre 2012, n. 178. escluso tanto il paradigma della donazione fiduciaria quanto quello della donazione modale diretta occorre verificare -cionondimeno -la riconducibilità della fattispecie in esame all'art. 4, comma 1, lett. d) del D.Lgs. 28 settembre 2012, n. 178 a mente del quale: "Il Commissario e successivamente il Presidente nazionale (...) trasferiscono all'associazione, a decorrere dal 1° gennaio 2016, i beni pervenuti alla CrI attraverso negozi giuridici modali". La norma -infatti -subordina il trasferimento alla provenienza dei beni da "negozi giuridici modali" e non alla provenienza dalla più ristretta categoria delle donazione modale di dubbia configurabilità nel caso di specie in ragione della difficolta -come visto -di riscontrare il requisito dell'arricchimento dell'onerato in presenza di un modus c.d. assorbente il valore del donatum. Sul punto si rileva che, mentre una parte della dottrina ha ritenuto che la circostanza che il Legislatore abbia disciplinato esclusivamente la donazione modale e l'atto di ultima volontà modale sia sintomo della volontà di circoscrivere a questi negozi l'ammissibilità della figura in esame (13), secondo altra impostazione (14), anche in virtù del generale principio di autonomia negoziale riconosciuto alle parti dall'ordinamento ex art. 1322 cod. civ., non vi sarebbe alcun ostacolo all'estensione del modus ai negozi in generale, sennonché la struttura obbligatoria dello stesso ne impedisce l'apposizione ai negozi a titolo oneroso, nei quali, poiché le parti si obbligano ad effettuare reciproche prestazioni, la previsione di un obbligo ulteriore non potrebbe che costituire una controprestazione (15). Lo spazio che residua è, dunque, quello del negozio non sinallagmatico liberale o gratuito: è ormai affermazione tralatizia quella secondo la quale (12) Si riporta, per comodità, il testo della disposizione: "sono privi di effetto rispetto ai creditori, se compiuti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiaraone di fallimento, gli atti a titolo gratuito, esclusi i regali d'uso egli atti compiuti in adempimento di un dovere morale o a scopo di pubblica utilità, in quanto la liberalità sia proporzionata al patrimonio del donante". (13) MeSSIneo, Manuale di diritto civile e commerciale, I, Giuffrè, Milano, 1947, pag. 350. (14) MARInI, Il modus come elemento accidentale del negozio giuridico, Giuffrè, Milano, 1976, pag. 176. (15) vInDIGnI, voce «Modo (diritto civile)», in Nuovissimo dig. it., X, Utet, Torino, 1957, pagg. 827 ss. RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 l'onere può essere apposto, oltre che al testamento, al legato e alla donazione, a tutti i negozi non onerosi. La Suprema Corte ha in questo senso affermato che "è in via generale, è da ritenere ammissibile l'inserimento del modus come elemento accessorio di un negozio atipico di liberalità, atteso che le specifiche disposizioni codicistiche in cui esso è disciplinato (artt. 648, 793), rappresentano applicazioni -e tuttavia fonti normative utilizzabili per la regolamentatzione di casi analoghi -che non esauriscano la possibile gamma negoziale in cui può estrinsecarsi l'autonomia privata negli atti di liberalità, attesa l'attitudine del modus a modificare, ampliandolo, il singolo schema negoziale, consentendo la realizzazione di singole e specifiche finalità estranee alla causa" (Cassazione Civile, Sez. I, 11 giugno 2004, n. 11096). Tanto premesso la Scrivente, avendo vagliato con esito negativo la qualificazione dei contributi pervenuti alla C.R.I. in termini di donazioni modali non essendo ravvisabile un arricchimento né inteso -in senso oggettivo ed economico -come saldo positivo definitivo nel patrimonio del beneficiario né inteso -in senso soggettivo -come intenzione del disponente di arricchire il beneficiario non essendo 1'ente pubblico accipiens il destinatario ultimo del moto solidaristico sotteso alle elargizioni aggregate della massa, ritiene di potersi esprimere in termini positivi in ordine alla qualificabilità di dette elargizioni della massa come negozi giuridici modali ex art. 4, comma 1, lett. d) del D.Lgs. 28 settembre 2012, n. 178. Trattasi -ad avviso della Scrivente -di negozi di liberalità solidale seriali "di dotazione" in quanto attributivi di poste attive anche di modico valore perfezionatisi per adesione e sub modo perché -al di fuori di una logica di corrispettività e quindi senza l'attesa di una controprestazione -impongono all'accipiens -non già di trasferire la somma a terzi come nella donazione fiduciaria, ma di amministrare le somme raccolte e consumare, attraverso la propria attività organizzativa e gestoria, il denaro erogato dai danti causa in funzione di vantaggio di soggetti terzi coniugando detto impiego positivo del denaro con il contestuale perseguimento di interessi superindividuali. Procedendo per progressive approssimazioni, potrebbe dirsi allora che sono venuti in rilievo atti di attribuzione standardizzati e parcellizzati nei quali i disponenti, anche in ragione della esiguità delle somme singolarmente elargite, si disinteressano -di regola -della diretta e concreta gestione dell'attribuzione individualmente posta in essere che delegano al soggetto accipiens collegando all'atto di dotazione un mandato ad amministrare la somma, ma sono tuttavia titolari dell'interesse -che è oggetto della clausola modale accessoria -a che la somma aggregata sia impiegata per lo scopo indicato dal fundraiser e dagli stessi fatto proprio con l'adesione alla raccolta fondi. Può quindi ravvisarsi, sforzandosi di conferire alla fattispecie una qualifica giuridica il più possibile aderente alle ravvisate caratteristiche del caso di specie, la presenza di una serie di micro-elargizioni liberali collegate ad un man PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo dato ad amministrare la somma elargita, mentre il modus consiste nella destinazione del patrimonio aggregato alla funzione solidaristica. Sicché -potrebbe dirsi -in forma sintetica -che la causa liberale ha ad oggetto la singola posta elargita e da amministrare, mentre il modus la somma aggregata ed il perseguimento di uno scopo il cui conseguimento sarebbe precluso nella dimensione del singolo. In tale sistemazione, il modus si configura come una disposizione accessoria che assegna rilevanza giuridica al motivo mediante la sua esternazione e che non muta tuttavia la natura di negozio di liberalità solidale, attributivo e gestorio cui accede, poiché rimane esterno ad esso e, quindi, non interagisce sulla sua causa inserendo un elemento di corrispettività. La configurazione in detti termini dell'operazione consente di ammettere l'onere anche quando, come nel caso di specie, il relativo adempimento comporti l'assorbimento totale dell'entità economica dell'oggetto del negozio, atteso che, a differenza da quanto espressamente previsto per la donazione, nel negozio liberale non donativo, la funzione economico-sociale è l'attribuzione di diritti particolari e non anche il definitivo accrescimento patrimoniale del beneficiario. Una volta affermata -in base alle suesposte considerazioni -la natura modale delle elargizioni diffuse o della massa aventi ad oggetto le somme di denaro impiegate per la costruzione dei M.A.P. e delle strutture ad uso ambulatoriale e civico, occorre ulteriormente domandarsi -al fine di fornire una risposta in ordine alla possibilità di adottare provvedimenti di trasferimento in favore dell' Associazione della Croce Rossa Italiana aventi ad oggetto detti beni -se gli stessi possano dirsi ex art. 4, comma 1, lett. d) del D.Lgs. 28 settembre 2012, n. 178 come "beni pervenuti alla CrI attraverso negozi giuridici modali". 5. Sui Map e sulle strutture ad uso civico ed ambulatoriale come "beni provenienti da negozi giuridici modali". Secondo le conclusioni tratte nel paragrafo precedente, in forza del ravvisato modus accessorio apposto ai negozi liberali dalla massa, l'accipiens C.R.I. è risultata obbligata non semplicemente a trasferire la somma raccolta ai terzi, ma a gestire ed impiegare le provviste aggregate al fine di conseguire scopi sociali non perseguibili e non conseguibili nella dimensione monistica dei singoli contributi modali. Si è altresì detto nel tratteggiare le caratteristiche essenziali del modus quale elemento accessorio del negozio giuridico (16) che -con l'apposizione della clausola modale al negozio di disposizione -i danti causa pongono in essere uno di quegli atti che, ex art. 1173 c.c., sono idonei a produrre un'obbligazione in conformità dell'ordinamento giuridico. Da tali premesse conse (16) v. supra § 4. RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 gue che la convenzione stipulata in data 19 gennaio 2010 possa essere concepita come un atto posto in essere solvendi causa rispetto all'obbligo imposto con l'onere di talché i beni che sono stati acquistati possono ritenersi -guardando all'intera operazione negoziale -come provenienti da negozi giuridici modali. A supporto di tale conclusione si evidenzia, sul piano letterale, come il Legislatore, nel formulare l'art. 4, comma 1, lett. d) del D.Lgs. 28 settembre 2012, n. 178, abbia impiegato l'ampia locuzione "beni provenienti da negozi giuridici modali" dando con ciò rilevanza non a ciò che "fuoriesce" dal patrimonio del dante causa del negozio modale, ma a ciò che transita nel patrimonio dell'avente causa in esito all'operazione negoziale sub modo sicchè si ritiene di poter affermare l'applicabilità, in riferimento a detti beni, dell'art. 4, comma 1, lett. d) del D.Lgs. 28 settembre 2012, n. 178 sussistendo, pertanto, i presupposti normativi per esprimere parere favorevole al relativo trasferimento in favore dell'Associazione Italiana della Croce Rossa. 6. Sulla qualificabilità dei M.A.P. come beni immobili. Ai fini dell'adozione degli atti di trasferimento e della relativa stesura da parte dell'Amministrazione in indirizzo si specifica che i M.A.P. e le strutture non residenziali devono essere considerati beni immobili, rientrando -ad avviso della Scrivente -tra le "altre costruzioni, anche se unite a suolo a scopo transitorio" secondo il disposto dell'art. 812 c.c., comma 2. Al riguardo va sottolineato come la giurisprudenza di legittimità abbia chiarito che costituisce bene immobile qualsiasi costruzione, di qualunque materiale formata, che sia incorporata o materialmente congiunta al suolo, anche se a scopo transitorio (Cass. n. 679/1968); che deve considerarsi costruzione qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso a corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, e ciò indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera, dai caratteri del suo sviluppo volumetrico esterno, dal- l'uniformità o continuità della massa, dal materiale impiegato per la sua realizzazione e dalla sua funzione o destinazione (Cass. n. 20574/2007); che, ai fini delle norme codicistiche sulla proprietà, la nozione di costruzione non è limitata a realizzazioni di tipo strettamente edile, ma si estende ad un qualsiasi manufatto, avente caratteristiche di consistenza e stabilità, per le quali non rileva la qualità del materiale adoperato (Cass. n. 4679/2009, pag. 6); che la nozione di "costruzione" comprende qualsiasi opera, non completamente interrata, avente i caratteri della solidità ed immobilizzazione rispetto al suolo (Cass. n. 22127/2009 che ha ritenuto che integrasse la nozione di "costruzione" una baracca di zinco costituita solo da pilastri sorreggenti lamiere, priva di mura perimetrali ma dotata di copertura). Da ultimo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo che "un bene è immobile, in senso giuridico, in quanto gli interessi che esso soddisfa sono determinati proprio dalla sua staticità, nel senso che esso assolve a determinate esigenze in quanto insiste su un certo luogo". Alla luce di tale insegnamento non può che ricavarsi la natura di bene immobile dei M.A.P. e delle strutture non residenziali che indubbiamente assolvano alla loro funzione economico-sociale in ragione della relativa staticità sicché -prima di emettere agli atti di trasferimento -l'Amministrazione procederà alle propedeutiche indagini catastali per verificare che detti beni siano effettivamente prevenuti alla CRI e che la stessa non abbia medio tempore dismesso la "proprietà temporanea" in favore del Comune di L'Aquila come pure previsto dal- l'art. 3 della convenzione stipulata in data 19 gennaio 2010. Il presente parere si indirizza -per opportuna conoscenza -all'Avvocatura Distrettuale dello Stato de L'Aquila che -in relazione a dette unità abitative e strutture ad uso civico -si è espressa -con parete del 17 luglio 2019 (17) -nel senso di ritenere che "la proprietà sulle stesse pare sussistere, tuttora, in capo alla Croce rossa Italiana". Trattandosi di questione di massima è stato sentito il Comitato consultivo dell'Avvocatura dello Stato che si è espresso in conformità nella seduta del 22 luglio 2021. (17) CT 2065/2018 Avv. Pardo nota prot. 22716. RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 Contratti pubblici: perdita dei requisiti di una consorziata esecutrice di un consorzio tra imprese artigiane(*) Parere del 27/10/2021-616705, al 29439/2021, avv. davIde GIovaNNI PINTUs In riscontro alla nota indicata in epigrafe, recante la richiesta di parere in oggetto, si osserva quanto segue. Quesiti. Codesta società riferisce di avere indetto una gara -suddivisa in 9 lotti geografici -per l'affidamento dei servizi integrati, gestionali e operativi, da eseguirsi negli istituti e luoghi di cultura individuati dall'art. 101 del d.lgs. 42/2004 -ID 1561, di cui al bando di gara pubblicato sulla G.U.U.e. n. S149 del 5 agosto 2015 e sulla G.U.R.I. n. 91 in pari data. In occasione della verifica dei requisiti, ex art. 38 del d.lgs. 163/2006 (applicabile ratione temporis), sarebbe emersa un'irregolarità contributiva grave definitivamente accertata nei confronti di una consorziata designata esecutrice di un consorzio tra imprese artigiane, costituito ai sensi della legge quadro 443/1985, a sua volta mandatario di un R.T.I., posizionatosi al primo posto nella graduatoria provvisoria di merito di uno dei lotti. Codesta stazione appaltante, inoltre, evidenzia che la consorziata in questione non apporterebbe requisiti speciali per la partecipazione all'iniziativa. In questo contesto, codesta società chiede: -se sia condivisibile la scelta di seguire, in una gara bandita nella vigenza del d.lgs. 163/2006, l'orientamento giurisprudenziale [indicato al punto A della nota che si riscontra, cui si farà riferimento nel prosieguo] e pertanto di non escludere il consorzio tra imprese artigiane (come del resto avverrebbe in caso di consorzio tra società cooperative di produzione e lavoro) a fronte della perdita di un requisito soggettivo (nel caso di specie, l'irregolarità contributiva di cui all'art. 38, comma 1, lett. i), riscontrata nei confronti di una consorziata esecutrice designata, che non apportava requisiti economici e tecnici, ma di consentire l'estromissione di quest'ultima (o la sua sostituzione nel caso apportasse requisiti speciali di partecipazione); -se tale scelta sia ragionevole e perseguibile anche in caso di fattispecie analoghe che si dovessero presentare in iniziative bandite nella vigenza del d.lgs. 50/2016. Disciplina applicabile. Per la disamina dei quesiti sottoposti all'attenzione della Scrivente è necessario premettere quanto segue. (*) Si pubblica in calce al parere la sentenza del Cons. Stato, Ad. Plen., 25 gennaio 2022, n. 2 (n.d.r.). PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo 1) I consorzi tra imprese artigiane sono previsti dall'art. 6 della legge 8 agosto 1985, n. 443 (1). 2) La pertinente disciplina settoriale, all'art. 34 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, prevede, per quanto di odierno interesse, che: "1. sono ammessi a partecipare alle procedure di affidamento dei contratti pubblici i seguenti soggetti, salvo i limiti espressamente indicati: [...] b) i consorzi fra società cooperative di produzione e lavoro costituiti a norma della legge 25 giugno 1909, n. 422 e del decreto legislativo del Capo provvisorio dello stato 14 dicembre 1947, n. 1577, e successive modificazioni, e i consorzi tra imprese artigiane di cui alla legge 8 agosto 1985, n. 443; c) i consorzi stabili, costituiti anche in forma di società consortili ai sensi dell'articolo 2615-ter del codice civile, tra imprenditori individuali, anche artigiani, società commerciali, società cooperative di produzione e lavoro, secondo le disposizioni di cui all'articolo 36; [...]". Disciplina analoga è contenuta nel vigente codice dei contratti pubblici, di cui al d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, il cui art. 45 prevede che: "1. sono ammessi a partecipare alle procedure di affidamento dei contratti pubblici gli operatori economici di cui all'articolo 3, comma 1, lettera p) [...] 2. rientrano nella definizione di operatori economici i seguenti soggetti: [...] b) i consorzi fra società cooperative di produzione e lavoro costituiti a norma della legge 25 giugno 1909, n. 422, e del decreto legislativo del Capo (1) Art. 6 della legge 8 agosto 1985, n. 443: "I consorzi e le società consortili, anche in forma di cooperativa, costituiti tra imprese artigiane sono iscritti in separata sezione dell'albo di cui al precedente articolo 5. ai consorzi ed alle società consortili, anche in forma di cooperativa, iscritti nella separata sezione del- l'albo sono estese le agevolazioni previste per le imprese artigiane, purché le stesse siano esclusivamente riservate alla gestione degli organismi sopra citati e purché, cumulandosi eventualmente con analoghi interventi previsti da leggi statali finalizzati al sostegno dell'attività consortile, non si superino globalmente i limiti previsti dalle stesse leggi statali. In conformità agli indirizzi della programmazione regionale, le regioni possono disporre agevolazioni in favore di consorzi e società consortili, anche in forma di cooperativa, cui partecipino, oltre che imprese artigiane, anche imprese industriali di minori dimensioni così come definite dal CIPI purché in numero non superiore ad un terzo, nonché enti pubblici ed enti privati di ricerca e di assistenza finanziaria e tecnica, e sempre che le imprese artigiane detengano la maggioranza negli organi deliberanti. le imprese artigiane, anche di diverso settore di attività, possono stipulare contratti associativi a termine per il compimento in comune di opere o per la prestazione di servizi, usufruendo, limitatamente allo svolgimento di tali attività, delle agevolazioni previste dalle leggi in vigore. alla stipulazione dei contratti associativi possono partecipare imprese industriali di minori dimensioni in numero non superiore a quello indicato nel terzo comma del presente articolo. ai fini assicurativi e previdenziali i titolari d'impresa artigiana associati nelle forme di cui ai commi precedenti, hanno titolo all'iscrizione negli elenchi di cui alla legge 4 luglio 2959, n. 463, e successive modificazioni ed integrazioni". RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 provvisorio dello stato 14 dicembre 1947, n. 1577, e successive modificazioni, e i consorzi tra imprese artigiane di cui alla legge 8 agosto 1985, n. 443; c) i consorzi stabili, costituiti anche in forma di società consortili ai sensi dell'articolo 2615-ter del codice civile, tra imprenditori individuali, anche artigiani, società commerciali, società cooperative di produzione e lavoro. I consorzi stabili sono formati da non meno di tre consorziati che, con decisione assunta dai rispettivi organi deliberativi, abbiano stabilito di operare in modo congiunto nel settore dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture per un periodo di tempo non inferiore a cinque anni, istituendo a tal fine una comune struttura di impresa [...]". Peculiarità del caso di specie. Premesso quanto sopra, codesta stazione appaltante riferisce, nell'ambito della richiesta di parere indicata in epigrafe, che secondo l'operatore economico (della cui possibile esclusione si discute) "il Consorzio tra imprese artigiane sarebbe a tutti gli effetti equiparato ai consorzi di società cooperative di produzione e lavoro di cui alla legge n. 422/1909, e sarebbe, per tale motivo, "dotato di propria autonomia, sia dal punto di vista organizzativo che giuridico, rispetto alle consorziate che ne fanno parte"; di conseguenza, l'irregolarità contributiva non rileverebbe, ma il Consorzio dovrebbe poter estromettere la Consorziata" (pag. 1 della nota che si riscontra). Tale assunto pare condiviso anche nella richiesta di parere, come è testimoniato dalla circostanza che gli orientamenti giurisprudenziali ivi citati, che si assumono tra loro in contrasto, non riguardano direttamente consorzi tra imprese artigiane, bensì consorzi di società cooperative di produzione e lavoro. Codesta società, quindi, sembra condividere implicitamente la tesi secondo cui le due fattispecie sarebbero disciplinate analogamente. Al riguardo, la Scrivente reputa necessarie delle precisazioni. In primo luogo, si evidenzia che, nel caso di specie, non emerge con certezza se il soggetto partecipante alla gara sia un consorzio tra imprese artigiane o un consorzio stabile tra artigiani (rispettivamente, lettere b) e c) dell'art. 34 del d.lgs. 163/2006 e dell'art. 45 del d.lgs. 50/2016), il che potrebbe incidere, ad esempio, sulla applicabilità o meno del c.d. "cumulo alla rinfusa" per la prova dei requisiti di qualificazione (tra le più recenti, Cons. Stato, Sez. III, 26 aprile 2021, n. 3358). La stessa Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, nella recente sentenza 18 marzo 2021, n. 5, ha infatti precisato che: "7. occorre partire dalla peculiare configurazione del consorzio stabile, prevista dall'art. 45, comma 2, lett. c) del d.lgs. n. 50/2016, rispetto al consorzio ordinario di cui agli artt. 2602 e ss. del codice civile. 7.1. Quest'ultimo, pur essendo un autonomo centro di rapporti giuridici, non comporta l'assorbimento delle aziende consorziate in un organismo uni PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo tario costituente un'impresa collettiva, né esercita autonomamente e direttamente attività imprenditoriale, ma si limita a disciplinare e coordinare, attraverso un'organizzazione comune, le azioni degli imprenditori riuniti (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. trib., 9 marzo 2020, n. 6569; Cass. civ., sez. I, 27 gennaio 2014, n. 1636). Nel consorzio con attività esterna la struttura organizzativa provvede all'espletamento in comune di una o alcune funzioni (ad esempio, l'acquisto di beni strumentali o di materie prime, la distribuzione, la pubblicità, etc.), ma nemmeno in tale ipotesi il consorzio, nella sua disciplina civilistica, è dotato di una propria realtà aziendale. Ne discende che, ai fini della disciplina in materia di contratti pubblici, il consorzio ordinario è considerato un soggetto con identità plurisoggettiva, che opera in qualità di mandatario delle imprese della compagine. Esso prende necessariamente parte alla gara per tutte le consorziate e si qualifica attraverso di esse, in quanto le stesse, nell'ipotesi di aggiudicazione, eseguiranno il servizio, rimanendo esclusa la possibilità di partecipare solo per conto di alcune associate (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 6 ottobre 2015, n. 4652, il quale ha statuito l'illegittimità della partecipazione di un consorzio ordinario che, pur riunendo due società, aveva dichiarato di gareggiare per conto di una sola di esse). 7.2. Non è così per i consorzi stabili. Questi, a mente dell'art. 45, comma 2, lett. c) del d.lgs. n. 50/2016, sono costituiti "tra imprenditori individuali, anche artigiani, società commerciali, società cooperative di produzione e lavoro" che "abbiano stabilito di operare in modo congiunto nel settore dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture per un periodo di tempo non inferiore a cinque anni, istituendo a tal fine una comune struttura di impresa". È in particolare il riferimento aggiuntivo e qualificante alla "comune struttura di impresa" che induce ad approdare verso lidi ermeneutici diversi ed opposti rispetto a quanto visto per i consorzi ordinari. I partecipanti in questo caso danno infatti vita ad una stabile struttura di impresa collettiva, la quale, oltre a presentare una propria soggettività giuridica con autonomia anche patrimoniale, rimane distinta e autonoma rispetto alle aziende dei singoli imprenditori ed è strutturata, quale azienda consortile, per eseguire, anche in proprio (ossia senza l'ausilio necessario delle strutture imprenditoriali delle consorziate), le prestazioni affidate a mezzo del contratto (da ultimo, Cons. St., sez. III, 13 ottobre 2020, n. 6165). 7.3. Proprio sulla base di questa impostazione, la Corte di Giustizia Ue (C-376/08, 23 dicembre 2009) è giunta ad ammettere la contemporanea partecipazione alla medesima gara del consorzio stabile e della consorziata, ove quest'ultima non sia stata designata per l'esecuzione del contratto e non abbia pertanto concordato la presentazione dell'offerta (ex multis, Cons. st., sez. III, 4 febbraio 2019, n. 865)". *** RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 In secondo luogo, dalla richiesta di parere non si evince univocamente se il consorzio di cui si discute sia o meno dotato della personalità giuridica. Per i consorzi di società cooperative di produzione e lavoro, di cui alla legge 25 giugno 1909, n. 422, infatti, è già la fonte normativa primaria (in particolare, l'art. 4 della legge citata) a prevedere che "Il consorzio di cooperative costituisce persona giuridica [...]". L'art. 6 della c.d. legge quadro sull'artigianato (ossia la menzionata legge 443/1985), invece, non prevede che il consorzio tra imprese artigiane debba necessariamente essere munito della personalità giuridica. Tale questione potrebbe rilevare nel caso di specie, atteso che le sentenze citate come aderenti al primo orientamento ermeneutico, che sembra consentire la sostituzione o estromissione della consorziata rivelatasi priva di un requisito di ordine generale, sono fondate (anche, ma non solo) sul possesso della personalità giuridica da parte del consorzio, con conseguente alterità soggettiva rispetto alle sue consorziate (vedasi al riguardo Cons. Stato, Sez. v, 23 novembre 2018, n. 6632, nonché, con alcune significative precisazioni, Cons. Stato, Sez. v, 2 settembre 2019, n. 6024). ne segue che, ove si accertasse che il consorzio di cui si discute è privo di personalità giuridica, risulterebbe già opinabile l'applicazione al caso di specie dei principi di diritto enucleati nell'ambito del citato orientamento ermeneutico. *** Orientamenti giurisprudenziali e principi applicabili. Fatte le suddette premesse, si evidenzia che, nella nota che si riscontra, codesta stazione appaltante enuclea due possibili orientamenti giurisprudenziali che si assumono reciprocamente in contrasto. Secondo il primo orientamento (punto A della richiesta di parere), la mancanza o la perdita di un requisito di ordine generale di una consorziata legittimerebbe il consorzio alla sostituzione o estromissione della stessa, senza necessità di escludere il consorzio stesso dalla procedura evidenziale (pag. 2 della nota che si riscontra). In base ad un diverso orientamento (punto B della richiesta di parere), "in caso di perdita di un requisito di ordine generale della consorziata esecutrice di un consorzio [...] l'estromissione o la sostituzione della consorziata non sarebbe ammissibile quando l'obiettivo perseguito è evitare la sanzione di esclusione dalla gara per difetto dei requisiti in capo alla consorziata medesima [...]" (pag. 3 della richiesta di parere). *** Al riguardo, la Scrivente osserva innanzitutto che, ferma restando la innegabile problematicità delle questioni giuridiche sottoposte all'esame, il quadro giurisprudenziale al quale si fa riferimento nella nota che si riscontra appariva comunque caratterizzato da una tendenziale stabilità. PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo Tale ultima caratteristica sembra invece venuta meno a seguito dalla pubblicazione, in data 18 ottobre 2021, dell'ordinanza di rimessione all'Adunanza Plenaria n. 6959/2021, con la quale la v Sezione del Consiglio di Stato ha sollecitato un riesame di taluni principi consolidati, dubitando della corretta interpretazione dell'art. 48, commi 17, 18 e 19 ter del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50. Alla luce di quanto appena esposto, la Scrivente ritiene che, in relazione al secondo quesito formulato nella richiesta di parere, non sia opportuna, al momento, l'emanazione di un parere di massima sulla interpretazione e applicazione del predetto d.lgs. 50/2016, in attesa del pronunciamento dell'Adunanza Plenaria. In relazione al primo quesito posto nella nota che si riscontra, invece, si ritiene astrattamente possibile rendere un parere, anche al fine di evitare una ulteriore paralisi dell'azione amministrativa di codesta stazione appaltante, tenuto conto che la procedura ad evidenza pubblica risulta ormai bandita da lungo tempo. Sul punto, tuttavia, corre l'obbligo di segnalare che non può escludersi la possibilità che il futuro pronunciamento dell'Adunanza Plenaria contenga l'enunciazione di principi generali, potenzialmente incidenti anche su fattispecie disciplinate dal previgente d.lgs. 163/2006, ragion per cui il parere deve intendersi reso allo stato degli atti, con riserva di una successiva revisione dello stesso in caso di mutamenti giurisprudenziali sopravvenuti. *** Ciò chiarito, la Scrivente ritiene che, nell'ipotesi prospettata da codesta società (consorziata designata esecutrice, in capo alla quale sussisterebbe un'irregolarità contributiva grave definitivamente accertata, attestata da specifico D.U.R.C. irregolare), l'orientamento giurisprudenziale da seguire, in relazione alle procedure evidenziali disciplinate dal d.lgs. 163/2006, sia quello che reputa necessaria la sanzione espulsiva (sviluppando le argomentazioni a suo tempo enucleate dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, nella sentenza 4 maggio 2012, n. 8, in particolare §§ 5 e seguenti in diritto). Quanto sopra appare giustificato dalle seguenti considerazioni. 1) Le sentenze menzionate nell'ambito del primo orientamento ermeneutico -che predica l'ammissibilità della sostituzione o estromissione della consorziata risultata priva di un requisito di ordine generale -sono riferite alla specifica ipotesi di una consorziata posta in liquidazione coatta amministrativa (in particolare, Cons. Stato, Sez. v, 23 novembre 2018, n. 6632, nonché Cons. Stato, Sez. v, 2 settembre 2019, n. 6024). Com'è noto, in relazione alle procedure concorsuali, lo stesso legislatore ha talvolta ritenuto necessario dettare una disciplina specifica, volta ad un temperamento del generale principio di immodificabilità soggettiva dei raggrup RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 pamenti e dei consorzi. vedasi, esemplificativamente, i commi 18 e 19 dell'art. 37 del d.lgs. 163/2006, i quali, per inciso, avevano una formulazione letterale (e un conseguente ambito applicativo) non del tutto coincidente con il vigente art. 48 del d.lgs. 50/2016, preso in esame dal Consiglio di Stato nella menzionata ordinanza di rimessione all'Adunanza Plenaria. L'ulteriore e più recente sentenza menzionata nella richiesta di parere come aderente al primo orientamento ermeneutico (Cons. Stato, Sez. v, 26 giugno 2020, n. 4100), invece, non appare dirimente in relazione all'ipotesi di cui si discute, poiché sembra riprendere il principio di diritto affermato nei precedenti citati (fondato anche sull'alterità soggettiva tra consorzio e consorziata), al limitato fine di escludere che, nella specifica ipotesi al- l'esame del Consiglio di Stato, potessero "derivare esclusioni per Ciclat da debiti retributivi o anche previdenziali [...] inadempiuti dalla Cogei s.r.l.". Trattavasi, in quel caso, di inadempimenti o ritardi nell'adempimento verificatisi nell'esecuzione di un diverso appalto, che il Consiglio di Stato riteneva comunque non qualificabili come "errore grave nell'esercizio dell'attività professionale": la fattispecie appare quindi differente rispetto a quanto rappresentato nella richiesta di parere, in cui non sembrano sussistere dubbi sulla possibilità di inquadrare il D.U.R.C. irregolare nel ben diverso novero delle "violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali", ai sensi dell'art. 38, comma 1, lett. i), del d.lgs. 163/2006. 2) entrambi gli orientamenti giurisprudenziali che si assumono in contrasto, in realtà, sembrano concordare sull’"argomentazione che fa leva sulla distinzione fra requisiti "soggettivi" di partecipazione, in specie i requisiti di moralità e di regolarità fiscale e contributiva, e requisiti "oggettivi" (da non confondersi con quelli attinenti l'offerta), fra i quali ultimi si annovera l'assenza di procedure concorsuali, per la cui sopravvenienza già il d.lgs. n. 163 del 2006 prevedeva le deroghe al divieto di modificazione soggettiva dei raggruppamenti stabilite dall'art. 37, comma 18 e 19" (Cons. Stato, Sez. v, 21 settembre 2020, n. 5496). nella sentenza appena citata (menzionata anche nella richiesta di parere, tra quelle aderenti all'orientamento giurisprudenziale favorevole alla sanzione espulsiva), il Consiglio di Stato ha infatti precisato come "le decisioni dichiaratamente conformi ai principi seguiti nella citata pronuncia dell'Adunanza plenaria n. 8/2012 siano riferite alla mancanza, originaria o sopravvenuta, dei requisiti c.d. soggettivi di partecipazione (così Cons. Stato, V, 23 gennaio 2017, n. 849, riguardante irregolarità fiscali e contributive). Questi, ai fini del principio di immodificabilità soggettiva dei raggruppamenti, vengono contrapposti alle evenienze sopravvenute alla partecipazione alla gara costituite dalle procedure concorsuali, nelle quali "non assume rilevanza il comportamento dell'operatore economico, ma il dato PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo oggettivo della sua insolvenza giudizialmente dichiarata, mentre nel caso di difetto dei requisiti di ordine generale altrettanto non può predicarsi: in particolare, l'irregolarità fiscale ha un'ineliminabile coefficiente soggettivo di imputabilità nei confronti dell'operatore economico che versi nella situazione prevista dalla citata disposizione" (così Cons. Stato, V, 26 aprile 2018, n. 2537). Per tale ragione, già nel vigore del d.lgs. n. 163 del 2006, in un caso analogo a quello oggetto del presente giudizio, di dichiarazione di fallimento di una componente del raggruppamento intervenuta nella fase pubblicistica, precisamente dopo l'aggiudicazione provvisoria, si è ritenuto che dall'esclusione della mandante dichiarata fallita " non doveva necessariamente derivare l'esclusione dalla gara dell'intero raggruppamento", ma che fosse sufficiente l'estromissione della fallita, dato che non poteva dirsi "disposta al fine di eludere le verifiche in ordine al possesso dei requisiti (verifiche che si erano già svolte in precedenza e con esito positivo)" e che "i residui membri del raggruppamento risultavano ex se in possesso della totalità dei requisiti di qualificazione richiesti per l'esecuzione dell'appalto [...]" (Cons. stato, v, 17 luglio 2017, n. 3507). Identica conclusione è stata raggiunta, come detto, nel caso oggetto delle decisioni di questa sezione, n. 6632/18 e n. 6024/19, richiamate nella sentenza di primo grado, riguardanti la sopravvenuta liquidazione coatta amministrativa di una consorziata indicata come esecutrice dei lavori". *** nello stesso senso, anche la citata sentenza del Cons. Stato, Sez. v, 2 settembre 2019, n. 6024 (favorevole invece alla sostituzione/estromissione della consorziata) ha precisato che, nel caso concreto sottoposto al suo esame, "l'estromissione di so.Co.Fat. conseguiva alla sua messa in liquidazione coatta amministrativa, fattispecie contemplata dal legislatore (inizialmente all'art. 37, commi 18 e 19, del d.lgs. n. 163 del 2006 e quindi all'art. 48, commi 17 e 18, del d.lgs. n. 50 del 2016) proprio al fine di derogare al principio di immodificabilità del rti: non sono pertanto conferenti i richiami ai precedenti della Sezione 5 giugno 2018, n. 3345 e 23 gennaio 2017, n. 849, concernenti la diversa fattispecie dell'esclusione dalla gara per l'accertata carenza di un requisito "soggettivo" di partecipazione (nella specie, un'irregolarità tributaria e contributiva) e non, invece, di un requisito "oggettivo" quale una sopravvenuta procedura concorsuale, come nel caso di specie, ipotesi nella quale -come detto -la normativa vigente prevede le deroghe di cui al comma 19 dell'art. 37 del d.lgs. n. 163 del 2006". *** Resta sullo sfondo, come anticipato, la possibilità che l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato riconsideri questo profilo, quantomeno in relazione alle procedure disciplinate dal d.lgs. 50/2016, ove fossero ritenute condivisibili le argomentazioni esplicitate, tra l'altro, al paragrafo 5.7 della citata ordinanza di rimessione n. 6959/2021. RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 *** 3) In relazione al caso prospettato nella richiesta di parere, appare dubbia la legittimità di una modifica in senso riduttivo del consorzio, atteso che, secondo il consolidato orientamento del Consiglio di Stato (Sez. v, 5 maggio 2020, n. 2849), "a) è precluso al consorzio la sostituzione del soggetto indicato come esecutore dell'appalto; ammettere la sostituzione successiva della consorziata, in caso di esito negativo della verifica sul possesso dei requisiti generali, significherebbe eludere le finalità sottese alle prescrizioni di gara che -come nella vicenda oggetto dell'odierno giudizio -richiedono l'indicazione delle consorziate che eseguiranno il servizio e la loro dichiarazione sul possesso dei requisiti generali di partecipazione, e renderebbe, di fatto, vano il controllo preventivo ex art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006, in capo all'impresa indicata nella domanda di partecipazione; b) è consentita la modifica "in riduzione", vale a dire l'eliminazione, senza sostituzione, di una delle consorziate, con conseguente esecuzione del- l'appalto integralmente dalle altre, a condizione che la modifica della compagine in senso riduttivo avvenga per esigenze organizzative proprie del consorzio e non, invece, per eludere la legge di gara, e, in particolare, per evitare la sanzione di esclusione dalla gara per difetto dei requisiti in capo alla consorziata, che viene meno attraverso l'operazione riduttiva. [...] Contrariamente a quanto pare sostenere l'appellante, la successiva giurisprudenza non si è discostata da tali regole ma ne ha fatto applicazione [...]; né si è posta in contrasto con essi la sentenza di questa Sezione, più volte citata dall'appellante, 2 settembre 2019, n. 6024. È vero, infatti che nella sentenza in esame è affermato il principio per cui la sostituzione della consorziata esecutrice è sempre possibile, in ragione del rapporto organico tra consorziata e consorzio, ma si ribadisce pure che la modifica in riduzione è consentita alle condizioni "che quelle che restano a farne parte siano comunque titolari, da sole, dei requisiti di partecipazione e di qualificazione", ma specialmente, "che ciò non avvenga al fine di eludere la legge di gara". La sentenza, del resto, riconosce, espressamente, nel caso esaminato, che l'esclusione -derivante dalla messa in liquidazione coatta amministrativa della consorziata -non poteva dirsi disposta al fine di eludere le verifiche in ordine al possesso dei requisiti. [...] 3.4. occorre, però, subito completare il discorso con una precisazione: la modifica "in riduzione" della compagine soggettiva di un operatore partecipante alla procedura in forma plurisoggettiva presuppone, pur sempre, il possesso dei requisiti di partecipazione alla procedura di gara alla data di presentazione della domanda. PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo diversamente, l'esclusione dell'operatore è, comunque, dovuta per il principio di continuità nel possesso dei requisiti di partecipazione per il quale essi devono essere mantenuti senza soluzione di continuità dalla data di presentazione della domanda a quella di aggiudicazione, e, per tutta la fase di esecuzione in caso di aggiudicazione del contratto (cfr. Cons. stato, sez. v, 14 aprile 2020, n. 2397 e i precedenti ivi citati) [...]". *** ne segue che, fatta sempre salva l'eventualità di un revirement giurisprudenziale da parte dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la modifica riduttiva di cui si discute nella richiesta di parere potrebbe configurare una elusione della legge di gara. *** 4) Le suddette considerazioni appaiono indirettamente confortate anche dalla recente sentenza dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 18 marzo 2021, n. 5, la quale ha affermato, seppur nella diversa ipotesi avente ad oggetto la partecipazione alla gara di un consorzio stabile, il principio di diritto secondo cui "la consorziata di un consorzio stabile, non designata ai fini dell'esecuzione dei lavori, è equiparabile, ai fini dell'applicazione dell'art. 63 della direttiva 24/2014/Ue e dell'art. 89 co. 3 del d.lgs. n. 50/2016, all'impresa ausiliaria nell’avvalimento, sicché la perdita da parte della stessa del requisito impone alla stazione appaltante di ordinarne la sostituzione". Da tale statuizione, pur se resa nell'ambito di una vicenda non sovrapponibile a quella sottoposta all'attenzione della Scrivente, sembra potersi comunque desumere che la mancanza o la perdita di un requisito soggettivo di partecipazione da parte della consorziata designata esecutrice non dovrebbe ammettere alcuna sostituzione, proprio alla luce del citato principio di (tendenziale) immodificabilità soggettiva dei partecipanti alla procedura ad evidenza pubblica. *** In conclusione, in riscontro alla richiesta di parere indicata in epigrafe, la Scrivente ritiene che, in relazione alle procedure ad evidenza pubblica tuttora disciplinate dal d.lgs. 163/2006, non possa dirsi allo stato condivisibile la scelta di seguire, in una gara in cui sia emersa, a carico di una consorziata designata esecutrice, una irregolarità contributiva grave definitivamente accertata, l'orientamento giurisprudenziale favorevole alla possibilità di sostituire o estromettere tale consorziata. *** In relazione ad eventuali ipotesi dello stesso tipo che dovessero verificarsi nella vigenza del d.lgs. 50/2016, viceversa, sembra opportuno, al momento, riservare il giudizio e attendere il prossimo pronunciamento dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 Trattandosi di questione di massima, è stato sentito il Comitato Consultivo dell'Avvocatura dello Stato, che si è espresso in conformità nella seduta del 21 ottobre 2021. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 25 gennaio 2022 n. 2 -Pres. Filippo Patroni Griffi, est. oberdan Forlenza. (...) DIRITTo 8. L’Adunanza Plenaria ritiene che la modifica soggettiva del raggruppamento temporaneo di imprese, in caso di perdita dei requisiti di partecipazione di cui all’art. 80 d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50 (Codice dei contratti pubblici) da parte del mandatario o di una delle mandanti, è consentita non solo in sede di esecuzione, ma anche in fase di gara, in tal senso interpretando l’art. 48, commi 17, 18 e 19-ter del medesimo Codice. ne consegue che, laddove si verifichi la predetta ipotesi di perdita dei requisiti, la stazione appaltante, in ossequio al principio di partecipazione procedimentale, è tenuta ad interpellare il raggruppamento e, laddove questo intenda effettuare una riorganizzazione del proprio assetto, onde poter riprendere la partecipazione alla gara, provveda ad assegnare un congruo termine per la predetta riorganizzazione. 9. Al fine di meglio inquadrare il “punto di diritto” rimesso all’esame di questa Adunanza Plenaria occorre evidenziare, in punto di fatto, come nel caso oggetto del presente giudizio la modificazione soggettiva in riduzione del raggruppamento appellato sia stata dapprima ricercata dal r.t.i. Medil attraverso il recesso della mandante (ipotesi disciplinata dall’art. 48, comma 19, d.lgs. n. 50/2016) e solo successivamente, una volta negata l’autorizzazione al recesso, si sia evidenziata la questione interpretativa dei commi 17, 18 e 19-ter dell’art. 48 e dunque se la modificazione soggettiva del raggruppamento da questi ultimi prevista per il caso di perdita di un requisito di partecipazione ex art. 80, co. 5, in capo alla mandataria o alla mandante, sia applicabile anche in fase di gara e non solo in fase di esecuzione del contratto. Ciò comporta che l’Adunanza Plenaria deve: -sia fornire, in funzione nomofilattica, l’interpretazione dei commi 17, 18 e 19-ter dell’art. 48 (se, cioè, come si è detto, la modificazione in riduzione del raggruppamento ivi contemplata sia possibile anche in fase di gara); -sia chiarire (preliminarmente) se il diniego di autorizzazione al recesso di cui al comma 19 influisca (anche eventualmente in senso impeditivo) sulla applicabilità della modificazione prevista dai commi 17 e 18. Ciò si evince dalla stessa ordinanza di rimessione, laddove questa, nel formulare i quesiti e riferendosi alle “modalità procedimentali” onde pervenire (se ritenuto ammissibile) alla modificazione soggettiva ai sensi dei commi 17 e 18 in fase di gara, chiede, in sostanza, se tali norme siano concretamente applicabili “anche qualora (la stazione appaltante) abbia negato l’autorizzazione al recesso che sia stata richiesta dal raggruppamento per restare in gara” e se, in caso affermativo, la medesima stazione appaltante abbia (o meno) l’obbligo di “interpellare il raggruppamento, assegnando congruo termine per la riorganizzazione del proprio assetto” in modo da poter “riprendere la propria partecipazione alla gara”. 10.1. Come è noto, l’art. 48, comma 9, del d.lgs. n. 50/2016 prevede, in via generale, il divieto PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo di modificazione della composizione dei raggruppamenti temporanei e dei consorzi ordinari di concorrenti “rispetto a quella risultante dall’impegno in sede di offerta”, fatto salvo quanto disposto ai successivi commi 17 e 18, che costituisce ipotesi di “eccezione” al predetto principio generale. Più precisamente, i commi 17 e 18 dispongono: (comma 17). “Salvo quanto previsto dall'articolo 110, comma 5, in caso di fallimento liquidazione coatta amministrativa, amministrazione controllata, amministrazione straordinaria, concordato preventivo ovvero procedura di insolvenza concorsuale o di liquidazione del mandatario ovvero, qualora si tratti di imprenditore individuale, in caso di morte, interdizione, inabilitazione o fallimento del medesimo ovvero in caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all'articolo 80, ovvero nei casi previsti dalla normativa antimafia, la stazione appaltante può proseguire il rapporto di appalto con altro operatore economico che sia costituito mandatario nei modi previsti dal presente codice purché abbia i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire; non sussistendo tali condizioni la stazione appaltante deve recedere dal contratto”. (comma 18). “Salvo quanto previsto dall'articolo 110, comma 5, in caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione controllata, amministrazione straordinaria, concordato preventivo ovvero procedura di insolvenza concorsuale o di liquidazione di uno dei mandanti ovvero, qualora si tratti di imprenditore individuale, in caso di morte, interdizione, inabilitazione o fallimento del medesimo ovvero in caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all'articolo 80, ovvero nei casi previsti dalla normativa antimafia, il mandatario, ove non indichi altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità, è tenuto alla esecuzione, direttamente o a mezzo degli altri mandanti, purché questi abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire”. Quanto all’ambito di applicazione di tali disposizioni, questa Adunanza Plenaria, con sentenza 27 maggio 2021 n. 10, ha già avuto modo di affermare i seguenti principi di diritto: “a) l’art. 48, commi 17, 18 e 19-ter, del d.lgs. n. 50 del 2016, nella formulazione attuale, consente la sostituzione meramente interna del mandatario o del mandante di un raggruppamento temporaneo di imprese con un altro soggetto del raggruppamento stesso in possesso dei requisiti, nella fase di gara, e solo nelle ipotesi di fallimento, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria, concordato preventivo o di liquidazione o, qualora si tratti di imprenditore individuale, di morte, interdizione, inabilitazione o anche liquidazione giudiziale o, più in generale, per esigenze riorganizzative dello stesso raggruppamento temporaneo di imprese, a meno che -per questa ultima ipotesi e in coerenza con quanto prevede, parallelamente, il comma 19 per il recesso di una o più imprese raggruppate -queste esigenze non siano finalizzate ad eludere la mancanza di un requisito di partecipazione alla gara; b) l’evento che conduce alla sostituzione meramente interna, ammessa nei limiti anzidetti, deve essere portato dal raggruppamento a conoscenza della stazione appaltante, laddove questa non ne abbia già avuto o acquisito notizia, per consentirle, secondo un principio di c.d. sostituibilità procedimentalizzata a tutela della trasparenza e della concorrenza, di assegnare al raggruppamento un congruo termine per la riorganizzazione del proprio assetto interno tale da poter riprendere correttamente, e rapidamente, la propria partecipazione alla gara o la prosecuzione del rapporto contrattuale”. I commi 17, 18 e 19-ter dell’art. 48 del Codice dei contratti sono stati interpretati, dunque, nel senso di consentire, ricorrendone i presupposti, esclusivamente la modificazione “in di RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 minuzione” del raggruppamento temporaneo di imprese, e non anche quella cd. “per addizione”, che si verificherebbe con l’introduzione nella compagine di un soggetto ad essa esterno. Si è in tal senso affermato: “La deroga all’immodificabilità soggettiva dell’appaltatore costituito in raggruppamento, tale da evitare in fase esecutiva la riapertura dell’appalto alla concorrenza e, dunque, l’indizione di una nuova gara, è solo quella dovuta, in detta fase, a modifiche strutturali interne allo stesso raggruppamento, senza l’addizione di nuovi soggetti che non abbiano partecipato alla gara (o, addirittura, che vi abbiano partecipato e ne siano stati esclusi), ciò che contraddirebbe la stessa ratio della deroga, dovuta a vicende imprevedibili che si manifestino in sede esecutiva e colpiscano i componenti del raggruppamento, tuttavia senza incidere sulla capacità complessiva dello stesso raggruppamento di riorganizzarsi internamente, con una diversa distribuzione di diversi compiti e ruoli (tra mandante e mandataria o tra i soli mandanti), in modo da garantire l’esecuzione dell’appalto anche prescindendo dall’apporto del componente del raggruppamento ormai impossibilitato ad eseguire le prestazioni o, addirittura, non più esistente nel mondo giuridico (perché, ad esempio, incorporato od estinto). È chiaro che la modifica sostituiva c.d. per addizione costituisce ex se una deroga non consentita al principio della concorrenza perché ammette ad eseguire la prestazione un soggetto che non ha preso parte alla gara secondo regole di correttezza e trasparenza, in violazione di quanto prevede attualmente l’art. 106, comma 1, lett. d), n. 2, del d.lgs. n. 50 del 2016, più in generale, per la sostituzione dell’iniziale aggiudicatario”. 10.2. Una ulteriore eccezione al principio generale di immodificabilità della composizione del raggruppamento, benché non richiamata dal comma 9 dell’art. 48, è introdotta dal comma 19, che prevede: “È ammesso il recesso di una o più imprese raggruppate, anche qualora il raggruppamento si riduca ad un unico soggetto, esclusivamente per esigenze organizzative del raggruppamento e sempre che le imprese rimanenti abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire. In ogni caso la modifica soggettiva di cui al primo periodo non è ammessa se finalizzata ad eludere la mancanza di un requisito di partecipazione alla gara”. Da un lato, dunque, il comma 9 dell’art. 48 introduce un principio generale di “immodificabilità” della composizione del raggruppamento; dall’altro lato, i commi 17, 18 e 19, quali norme di eccezione alla norma generale, introducono una pluralità di esclusioni a tale principio, tali per la verità (stante il loro numero) da renderne sempre meno concreta l’applicazione. L’ampiezza dell’ambito applicativo delle eccezioni si dimostra, a maggior ragione, alla luce di quanto previsto dal comma 19-ter dell’art. 48, in base al quale “le previsioni di cui ai commi 17, 18 e 19 trovano applicazione anche laddove le modifiche soggettive ivi contemplate si verifichino in fase di gara”. 10.3. occorre evidenziare come le norme di eccezione di cui ai commi 17 e 18 disciplinano fattispecie diverse da quella di cui al comma 19. ed infatti: -mentre le ipotesi disciplinate dal comma 17 (con riferimento al mandatario) e dal comma 18 (con riferimento ad uno dei mandanti) attengono a vicende soggettive, puntualmente indicate, del mandatario o di un mandante, conseguenti ad eventi sopravvenuti rispetto al momento di presentazione dell’offerta; -invece l’ipotesi di cui al comma 19 attiene ad una modificazione della composizione del raggruppamento derivante da una autonoma manifestazione di volontà di recedere dal raggruppamento stesso, da parte di una o più delle imprese raggruppate, senza che si sia verificato PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo nessuno dei casi contemplati dai commi 17 e 18, ma solo come espressione di un diverso e contrario volere rispetto a quello di partecipare, in precedenza manifestato. ed il recesso in tanto è ammesso, non tanto in base ad una più generale valutazione dei motivi che lo determinano, ma in quanto le imprese rimanenti “abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire” e sempre che la modifica soggettiva derivante dal recesso non sia “finalizzata ad eludere un requisito di partecipazione alla gara”. Si tratta, dunque, nel caso disciplinato dal comma 19, di eccezione al principio generale di immodificabilità della composizione del raggruppamento del tutto diversa da quelle di cui ai commi 17 e 18, di modo che la possibilità che la stazione appaltante non ammetta il recesso di una o più delle imprese raggruppate non esplica alcun effetto sulle diverse ipotesi di eccezione, relative alle vicende soggettive del mandatario o di uno dei mandanti, disciplinate dai citati commi 17 e 18 dell’art. 48. Quanto sin qui esposto in ordine ai rapporti tra ipotesi di cui ai commi 17 e 18 e distinta ipotesi di cui al comma 19 appare di particolare rilievo nel caso oggetto del presente giudizio, poiché, come esattamente osservato dall’ordinanza di rimessione, era “il recesso della mandante che il raggruppamento intendeva in prima battuta far valere quale causa di modificazione soggettiva in riduzione della compagine, e solo quando la stazione appaltante, negando la sua autorizzazione, ha impedito che l’effetto modificativo dovuto al recesso si producesse, ha assunto rilievo la (diversa) vicenda modificativa costituita dalla perdita di un requisito di partecipazione ex art. 80, comma 5 del codice dei contratti”. Il diniego di autorizzazione al recesso non assume, quindi, alcun ruolo (tantomeno di “precedente impeditivo”) al fine della soluzione del quesito interpretativo rimesso a questa Adunanza Plenaria, stante la evidenziata differenza della previsione di cui al comma 19 rispetto alle previsioni di cui ai commi 17 e 18. In altre parole, risolta la questione afferente all’autorizzazione al recesso con il diniego di autorizzazione, il comma 19 non trova alcuna residua applicazione nel caso oggetto del presente giudizio, dovendosi invece affrontare, a tal fine, il problema di interpretazione dei commi 17, 18 e 19-ter, e dunque se -come chiede l’ordinanza di rimessione -la modifica soggettiva del raggruppamento temporaneo di imprese in caso di perdita dei requisiti di partecipazione ex art. 80 da parte del mandatario o di una delle mandanti sia consentita anche in fase di gara, e non solo in fase di esecuzione. 11.1. Il problema interpretativo dei commi 17, 18 e 19-ter dell’art. 48 del Codice dei contratti è ingenerato dall’antinomia normativa, ivi presente e che come tale richiede soluzione, frutto di una tecnica legislativa non particolarmente sorvegliata. È opportuno preliminarmente precisare che tale problema non può dirsi superato e risolto per effetto di quanto incidentalmente affermato da questa stessa Adunanza Plenaria, con la propria citata decisione n. 10 del 2001 (v. par. 23.3), al contrario di come invece ritengono l’appellante e la costituita amministrazione. Come condivisibilmente osservato anche dall’ordinanza di rimessione, la questione della estensione della perdita dei requisiti di cui all’art. 80 non rappresentava affatto la questione centrale di quel giudizio, né tale problema interpretativo forma espressamente oggetto dei principi di diritto enunciati dalla citata sentenza n. 10/2001 (né di questi costituisce il presupposto logico-giuridico), principi solo in relazione ai quali si esplica l’effetto nomofilattico voluto dall’art. 99 c.p.a. Si è trattato, dunque, di una affermazione incidentale, non conseguente ad una disamina argomentativa peraltro non necessaria, stante l’estraneità di questo aspetto al thema decidendum. RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 11.2 Tanto precisato, occorre ricordare che i commi 17 e 18, nella loro originaria formulazione, si occupavano di specifiche sopravvenienze, quali la sottoposizione a procedura concorsuale (fallimento, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione controllata, amministrazione straordinaria, concordato preventivo ovvero procedura di insolvenza concorsuale o di liquidazione), ovvero, nel caso di imprenditore individuale, la morte, l’interdizione e l’inabilitazione, ovvero ancora i “casi previsti dalla normativa antimafia”. In tali ipotesi, le disposizioni predette consentivano, rispettivamente, la prosecuzione del rapporto di appalto con altro operatore in qualità di mandatario, purché in possesso dei requisiti di qualificazione adeguati ai lavori, servizi o forniture ancora da eseguire e, nel caso di sopravvenienza relativa ad una delle mandanti, consentivano l’indicazione da parte del mandatario di altro operatore economico subentrante in possesso dei prescritti requisiti di idoneità, prevedendo altresì che, in caso di mancata indicazione, fosse lo stesso mandatario tenuto al- l’esecuzione, direttamente o a mezzo degli altri mandanti, purché in possesso dei requisiti adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire. Il riferimento, in entrambe le disposizioni, ai “lavori ancora da eseguire” rendeva chiaro come sottolinea anche l’ordinanza di rimessione -“che la fase cui le disposizioni avevano riguardo era quella di esecuzione del contratto di appalto”. A fronte di ciò, l’art. 32, comma 1, lett. h) del d.lgs. 19 aprile 2017 n. 56 ha introdotto nel testo dell’art. 48, per quel che interessa nella presente sede, due modifiche: -la prima nei commi 17 e 18, aggiungendo alle sopravvenienze già ivi presenti anche il “caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all’art. 80”; -la seconda, consistente nell’introduzione del comma 19-ter, il quale prevede che “le previsioni di cui ai commi 17, 18 e 19 trovano applicazione anche laddove le modifiche soggettive ivi contemplate si verifichino in fase di gara”. Per un verso, dunque, il riferimento espresso al “corso dell’esecuzione”, contenuto nei commi 17 e 18, farebbe propendere per ritenere l’ipotesi di “perdita dei requisiti di cui all’art. 80”, come limitata ad una sopravvenienza che si verifichi in quella fase; per altro verso, l’ampia dizione del comma 19-ter rende applicabili tutte le modifiche soggettive contemplate dai commi 17 e 18 (quindi anche la predetta “perdita dei requisiti di cui all’art. 80”), anche in fase di gara. 11.2. Tale contraddizione o incompatibilità tra norme, sussumibile nella fattispecie generale dell’“antinomia normativa”, risulta ancora più problematica per l’interprete, attesa la contestualità temporale delle disposizioni che le prevedono, riferibili ed introdotte dalla medesima fonte. Ciò rende l’antinomia non risolvibile applicando normali criteri interpretativi, quali il criterio gerarchico ovvero il criterio della competenza della fonte, ovvero ancora i criteri cronologico o temporale o quello di specialità, trattandosi in questo caso di introduzione di norme per il tramite della medesima fonte. né particolari elementi utili all’interprete possono essere ricavati, in applicazione dell’art. 12 disp. prel cod. civ., dalla lettera delle disposizioni, ovvero dalla “volontà del legislatore”. Quanto alla lettera delle disposizioni, essa non si presenta particolarmente “affidabile”, tale cioè da poter desumerne un senso “fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”, non essendo in particolare coordinati gli enunciati introdotti dal d.lgs. n. 56 del 2017 con quelli originari del Codice; e di ciò costituisce dimostrazione, oltre ad altri casi non rilevanti nella presente sede, lo stesso intervento interpretativo effettuato da questa Adunanza Plenaria con la propria sentenza n. 10/2021. PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo Quanto alla interpretazione secondo criterio psicologico o soggettivo (cui in parte si riporta la stazione appaltante: v. pagg. 4-5 memoria del 27 novembre 2021), essa non può essere utilmente esercitata, facendo leva sulla relazione illustrativa al d.lgs. n. 56/2017, trattandosi in questo caso poco più di una parafrasi del testo normativo. 11.3. Allo stesso tempo, non è possibile negare che si tratti di antinomia cd. assoluta (o, secondo altre classificazioni, “totale”) -che si ha allorché nessuna delle due norme può essere applicata alla circostanza considerata senza entrare in conflitto con l’altra -sostenendo che, in realtà, vi sarebbe solo una incompatibilità apparente di enunciati, state la natura “generale” della norma espressa dal comma 19-ter e la natura “parziale” di quella ricavabile dagli incisi dei commi 17 e 18. È questo il caso che ricorrerebbe allorché si intenda sostenere che il richiamo effettuato dal- l’art. 19-ter (norma generale) alle “modifiche soggettive ivi contemplate” (cioè nei commi 17 e 18) vada inteso come riferito alle predette modifiche “come disciplinate” dai medesimi commi 17 e 18 (e dunque, anche nei limiti per esse imposti). Da ciò conseguirebbe che mentre la norma del comma 19-ter sarebbe tranquillamente applicabile (nel suo effetto espansivo riferito alla fase di gara) a tutte le modifiche soggettive salvo quelle derivanti “dalla perdita dei requisiti di cui all’art. 80”, l’enunciato “in corso di esecuzione” a queste ultime riferito introdurrebbe una norma speciale che sottrae i casi considerati alla disciplina del comma 19-ter. A questa tesi -sia pure con diversità di accenti e di formulazione e senza che il problema venga espressamente affrontato in termini di antinomia normativa -possono essere riportate anche precedenti decisioni del Consiglio di Stato, indicate nell’ordinanza di rimessione, laddove si afferma che sarebbe “del tutto illogico che l’estensione alla fase di gara di cui al comma 19-ter, introdotto dallo stesso decreto correttivo, vada a neutralizzare la specifica e coeva modifica del comma 18” (Cons. Stato, sez. v, 28 gennaio 2021 n. 833 e sez. III, 11 agosto 2021 n. 5852). ed è alla tesi in precedenza esposta che si riportano sia l’appellante, quando parla di “effetto abrogativo” inammissibile, laddove sostiene che un ampliamento della sopravvenienza della “perdita dei requisiti di cui all’art. 80” comporterebbe un “effetto abrogativo” dell’inciso “in corso di esecuzione”, presente nei commi 17 e 18 (v. pag. 6 memoria del 2 dicembre 2021), sia la stazione appaltante, la quale fa leva sulla natura eccezionale, e quindi di stretta interpretazione, delle norme che derogano al principio generale di immodificabilità del raggruppamento temporaneo di imprese (art. 48, co. 9). Benché non priva di elementi meritevoli di esame, anche questa tesi interpretativa non può essere condivisa. ed infatti, perché possa sostenersi la ricorrenza di una ipotesi particolare di antinomia (secondo talune classificazioni definita “parziale” o “unilaterale), occorrerebbe: -o che uno dei due enunciati normativi aggiungesse una specificazione (ad esempio, nel caso di specie, ad una certa fase della gara), tale da escludere (eccettuare) un singolo caso dalla classe di fattispecie altrimenti disciplinata dalla norma generale; nel caso di specie, invece, le fattispecie si presentano perfettamente coincidenti; -ovvero (e quantomeno) che l’esclusione della singola fattispecie fosse prevista dalla stessa norma generale, con una delle formule usualmente utilizzate dal legislatore (ad esempio: “fatto salvo quanto previsto…etc.”), e dunque, nel caso di specie, avrebbe dovuto essere il comma 19-ter (norma generale) ad escludere la specifica ipotesi della “perdita dei requisiti di cui all’art. 80” dalla classe di fattispecie degli articoli 17 e 18 per le quali interviene l’effetto ampliativo anche alla fase di gara. RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 Invece, in difetto di previsione espressa del legislatore, l’esclusione della predetta fattispecie sarebbe il frutto di una doppia operazione dell’interprete, il quale dovrebbe dapprima applicare l’estensione prevista dal comma 19-ter alle molteplici fattispecie di cui ai commi 17 e 18 e poi limitare tale estensione ad una sola di esse per effetto di una esclusione che agirebbe per così dire “di rimbalzo” sulla norma generale. In questo caso, per effetto di un duplice percorso interpretativo (secondo un tragitto, per così dire, di “andata e ritorno”), l’interprete più che risolvere un problema di antinomia finisce per auto-attribuirsi una potestà normativa ex novo. All’esclusione di tale ipotesi interpretativa perviene, in sostanza, anche l’ordinanza di rimessione, laddove sostiene come risponda “a logica” “l’argomento per il quale, se il legislatore, introducendo il comma 19-ter all’interno dell’art. 48, avesse voluto fare eccezione alla deroga e ripristinare il principio di immodificabilità ….la via maestra sarebbe stata quella di operare la distinzione all’interno dello stesso comma 19-ter, senza dare vita ad un arzigogolo interpretativo”. ed al fine di escludere l’interpretazione “restrittiva”, valga, da ultimo, rilevare come questa sia conseguenza di una considerazione “sovrastimata” dell’inciso “in corso di esecuzione”, posto che problemi interpretativi non molto dissimili potrebbero porsi -volendo utilizzare il metodo interpretativo qui non condiviso -anche per il fatto che il legislatore, nel momento stesso in cui introduceva il comma 19-ter, non ha eliminato dai commi 17 e 18 i riferimenti ai lavori, servizi o forniture “ancora da eseguire”; cioè proprio quei riferimenti che, prima delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 56/2017, costituivano il fondamento dell’interpretazione limitativa delle sopravvenienze soggettive alla sola fase di esecuzione. 12. L’Adunanza Plenaria ritiene che l’antinomia evidenziata possa e debba essere superata (come è noto, non ammettendo l’ordinamento lacune), attraverso il ricorso ad altre considerazioni, riconducibili ai principi di interpretazione secondo ragionevolezza ovvero secondo Costituzione (o costituzionalmente orientata), cui peraltro lo stesso criterio di ragionevolezza (riferibile all’art. 3 Cost.) si riporta. A tali fini, giova innanzi tutto osservare come una interpretazione che escluda la sopravvenienza della perdita dei requisiti ex art. 80 in fase di gara, per un verso introdurrebbe una disparità di trattamento tra varie ipotesi di sopravvenienze non ragionevolmente supportata; per altro verso, perverrebbe ad un risultato irragionevole nella comparazione in concreto tra le diverse ipotesi, poiché sarebbe consentita la modificazione del raggruppamento in casi che ben possono essere considerate più gravi -secondo criteri di disvalore ancorati a valori costituzionali che l’ordinamento deve tutelare, come certamente quella inerente a casi previsti dalla normativa antimafia - rispetto a quelli relative alla perdita di requisiti di cui all’art. 80. Inoltre, si verificherebbe un caso di concreta incapacità a contrattare con la pubblica amministrazione da parte di imprese in sé “incolpevoli”, riguardando il fatto impeditivo sopravvenuto una sola di esse, così finendo per costituire una fattispecie di “responsabilità oggettiva”, ovvero una inedita, discutibile (e sicuramente non voluta) speciale fattispecie di culpa in eligendo. Se uno dei principi fondamentali in tema di disciplina dei contratti con la pubblica amministrazione -tale da giustificare la previsione stessa del raggruppamento temporaneo di imprese -è quello di consentire la più ampia partecipazione delle imprese, in condizione di parità, ai procedimenti di scelta del contraente (e dunque favorirne la potenzialità di accedere al contratto, al contempo tutelando l’interesse pubblico ad una maggiore ampiezza di scelta conseguente alla pluralità di offerte), una interpretazione restrittiva della sopravvenuta perdita dei requisiti ex art. 80, a maggior ragione perché non sorretta da alcuna giustificazione non solo PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo ragionevole, ma nemmeno percepibile, finisce per porsi in contrasto sia con il principio di eguaglianza, sia con il principio di libertà economica e di par condicio delle imprese nei confronti delle pubbliche amministrazioni (come concretamente declinati anche dall’art. 1 della l. n. 241/1990 e dall’art. 4 del codice dei contrati pubblici). ed infatti, come condivisibilmente affermato dall’ordinanza di rimessione, “nessuna delle ragioni che sorreggono il principio di immodificabilità della composizione del raggruppamento varrebbero a spiegare in maniera convincente il divieto di modifica per la perdita dei requisii di partecipazione ex art. 80 in sede di gara: non la necessità che la stazione appaltante si trovi ad aggiudicare la gara e a stipulare il contratto con un soggetto del quale non abbia potuto verificare i requisiti, in quanto, una volta esclusa dall’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 10 del 2021 la c.d. sostituzione per addizione, tale evenienza non potrà giammai verificarsi quale che sia la vicenda sopravvenuta per la quale sia venuto meno uno dei componenti del raggruppamento; né la tutela della par condicio dei partecipanti alla procedura di gara, che è violata solo se all’uno è consentito quel che all’altro è negato”. nel caso in esame, quindi, l’antinomia trova soluzione inquadrando il caso concreto e le norme antinomiche ad esso applicabili nel più generale contesto dei principi costituzionali ed eurounitari, fornendo una interpretazione che renda applicabile una sola di esse in quanto coerente con detti principi, e che consente una regolazione del caso concreto con essi compatibile. In tal modo, l’interpretazione determina -in presenza di norme incompatibili ma provenienti da fonti di pari livello e contestualmente introdotte dalla medesima fonte -la applicazione di una sola di esse (quella, appunto, compatibile con le fonti sovraordinate della Costituzione e del diritto dell’Unione europea) e la non applicazione dell’altra, recessiva perché contraria ai più volte richiamati principi. Tale operazione interpretativa -lungi dal porsi come inedita “costruzione giuridica” -costituisce, per un verso (sia pure in presenza di due norme incompatibili e non di una sola con riferimento ad un caso da esse disciplinato) solo una più articolata applicazione del metodo di interpretazione secondo Costituzione; per altro verso, costituisce metodo interpretativo non del tutto ignoto allo stesso legislatore ordinario, laddove questi prevede (art. 15 disp. prel. cod. civ.) la possibile abrogazione di norme “per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti”. Se vi è, dunque, la possibilità di verificare l’intervenuta abrogazione di una norma rimettendo al giudice/interprete la verifica della incompatibilità tra due norme temporalmente successive, non sembrano sussistere impedimenti a che la medesima operazione possa riguardare norme incompatibili non successive ma coeve. e ciò anche in attuazione del “principio di coerenza” dell’ordinamento giuridico, che impone il superamento delle antinomie, rimettendo all’interprete, chiamato ad individuare ed applicare la regola di diritto al caso concreto, di verificare le possibilità offerte dall’interpretazione, senza necessariamente (e prima di) evocare l’intervento del giudice delle leggi. 13. Il riconoscimento della possibilità di modificare (in diminuzione) il raggruppamento temporaneo di imprese, anche nel caso di perdita sopravvenuta dei requisiti di partecipazione di cui all’art. 80 del Codice dei contratti, determina che, laddove si verifichi un caso riconducibile a tale fattispecie, la stazione appaltante, in applicazione dei principi generali di cui all’art. 1 della l. n. 241/1990 e all’art. 4 d.lgs. n. 50/2016, debba interpellare il raggruppamento (se questo non abbia già manifestato la propria volontà) in ordine alla volontà di procedere alla riorganizzazione del proprio assetto interno, al fine di rendere possibile la propria partecipazione alla gara. In modo non dissimile da quanto avviene ai fini del soccorso istruttorio, la stazione appaltante RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 concederà un termine ragionevole e proporzionale al caso concretamente verificatosi, riprendendo all’esito l’ordinario procedimento di gara. Tali considerazioni non necessitano della formulazione di un principio di diritto, in quanto pianamente desumibili dall’ordinamento giuridico amministrativo vigente. 14. Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, l’Adunanza Plenaria formula il seguente principio di diritto: “la modifica soggettiva del raggruppamento temporaneo di imprese, in caso di perdita dei requisiti di partecipazione di cui all’art. 80 d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50 (Codice dei contratti pubblici) da parte del mandatario o di una delle mandanti, è consentita non solo in sede di esecuzione, ma anche in fase di gara, in tal senso interpretando l’art. 48, commi 17, 18 e 19ter del medesimo Codice”. 9. L’Adunanza Plenaria dispone la restituzione del giudizio alla sezione rimettente, per ogni ulteriore decisione nel merito e sulle spese ed onorari del giudizio, ivi compresi quelli inerenti alla presente fase. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), pronunciando sull’appello proposto da C.M.B., società cooperativa muratori e braccianti di Carpi, come in epigrafe meglio indicata (n. 2512/2021 r.g.): - enuncia il principio di diritto di cui in motivazione; - restituisce per il resto il giudizio alla sezione rimettente. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 13 dicembre 2021. PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo Attuale vigenza dell’art. 123 d.P.r. 10 gennaio 1957 n. 3 alla procedura di esonero di un direttore generale preposto ad un ufficio dell’amministrazione penitenziaria Parere del 09/11/2021-646454, al 30934/2021, avv. GIorGIo saNTINI i. Con la nota indicata a margine codesto Ministero ha sottoposto alla Scrivente alcuni dubbi interpretativi in ordine alla perdurante applicabilità del- l'art. 123 del d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato) alla procedura di esonero di un direttore generale preposto ad un ufficio dell'amministrazione penitenziaria sia sotto il profilo della competenza sia sotto l'aspetto dell'iter procedi- mentale. In particolare, si chiede di conoscere se rientrano tutt'ora nell'alveo delle competenze del Ministro la contestazione degli addebiti disciplinari e la formulazione di una proposta di provvedimento di dispensa dal servizio. L'art. 123 d.p.r. cit. così recita: "Nel procedimento disciplinare a carico di un impiegato con qualifica non inferiore a direttore generale, la contestazione degli addebiti viene fatta con atto del Ministro, al quale debbono essere dirette le giustificazioni dell'impiegato. si osservano le disposizioni degli artt. 104 e 105. Il Ministro, qualora non accolga le giustificazioni, riferisce al Consiglio dei Ministri, il quale delibera sulla incompatibilità dell'impiegato ad essere mantenuto in servizio e sul diritto al trattamento di quiescenza e previdenza. l'impiegato riconosciuto incompatibile è dispensato dal servizio con decreto del Presidente della repubblica su proposta del Ministro competente". Ciò premesso in ordine al quesito formulato da codesto Ufficio, nella richiesta di parere, si richiamano le due opzioni ermeneutiche ivi prospettate, al fine di un migliore inquadramento delle questioni interpretative che verranno affrontate nel proseguo. 1.1 Secondo una prima tesi, con la privatizzazione del pubblico impiego, il legislatore avrebbe introdotto un principio generale di separazione tra le funzioni di indirizzo politico, spettante agli organi di governo, e le funzioni di gestione amministrativa proprie dei dirigenti, estendibile anche al personale in regime di diritto pubblico (o categorie non privatizzate). Da ciò discenderebbe in prima approssimazione che l'art. 123 cit. non sarebbe più vigente e, dunque, applicabile nella fattispecie in esame, rientrando l'esonero del direttore generale nell'alveo delle funzioni amministrative attribuite alla dirigenza. Il primo argomento, a sostegno di questa tesi, troverebbe il suo fondamento nei principi generali in materia di pubblico impiego elaborati nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, la quale ha riconosciuto che "la separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni di ge RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 stione amministrativa, quindi, costituisce un principio di carattere generale, che trova il suo fondamento nell'art. 97 Cost. l'individuazione dell'esatta linea di demarcazione tra gli atti da ricondurre alle funzioni dell'organo politico e quelli di competenza della dirigenza amministrativa, però, spetta al legislatore. a sua volta, tale potere incontra un limite nello stesso art. 97 Cost.: nel- l'identificare gli atti di indirizzo politico amministrativo e quelli a carattere gestionale, il legislatore non può compiere scelte che, contrastando in modo irragionevole con il principio di separazione tra politica e amministrazione, ledano l'imparzialità della pubblica amministrazione" (v. Corte costituzionale 3 maggio 2013, punto 3.2. del Considerato in diritto). Il secondo argomento, muovendo dal tenore letterale dell'art. 123 cit., ove viene fatto espresso riferimento ad atto del Ministro, si fonda sulla necessità di non attribuire rilevanza determinante alla qualificazione formale dell'atto presente nella norma, tenuto conto che quest'ultima non sarebbe in grado di radicare la competenza alla persona del Ministro. Ciò in quanto, ai fini del riparto di competenze tra organi di direzione politica e organi di gestione amministrativa si tiene conto esclusivamente del contenuto sostanziale dell'atto da adottare (cfr. Cons. Stato sez. Iv 14 maggio 2014, n. 2480). Tale approccio ermeneutico condurrebbe alle seguenti conseguenze già in parte anticipate: a) l'art. 123 d.p.r. cit. non sarebbe più vigente, quantomeno per abrogazione implicita della disposizione, non potendo sopravvivere norme, ancorché settoriali e afferenti a qualsiasi carriera pubblica che attribuiscano compiti gestionali (o disciplinari) ad organi politici (ad es. il Ministro); b) la legittimazione all'iniziativa disciplinare verrebbe attribuita, di conseguenza, in via esclusiva, alla dirigenza amministrativa nelle cui competenze rientra l'emanazione dell'atto conclusivo del procedimento disciplinare di cui è responsabile (i.e. nel caso di specie l'atto di contestazione e la proposta di dispensa dal servizio). 1.2 Secondo una seconda opzione ermeneutica la privatizzazione del pubblico impiego non avrebbe interessato il personale appartenente alla carriera dirigenziale penitenziaria il cui ordinamento è rispettivamente disciplinato dal d.lgs. 15 febbraio 2006, n. 63 e sussidiariamente, in quanto compatibile, dal d.p.r. n. 3/1957 (cfr. art. 2, comma 1 d.lgs. cit. e art. 3, comma 1-ter d.lgs. n. 165/2001 aggiunto dall'art. 2, comma 2, della legge 27 luglio 2005, n. 154 recante "delega al Governo per la disciplina dell'ordinamento della carriera dirigenziale penitenziaria"). In considerazione della particolare natura delle funzioni esercitate dal personale appartenente alla carriera dirigenziale penitenziaria, il relativo rapporto di lavoro è stato riconosciuto come rapporto di diritto pubblico non privatizzato. Seguendo tale diversa impostazione ermeneutica l'art. 123 cit. sarebbe disposizione applicabile alla fattispecie in esame in quanto compatibile con l'ordinamento della dirigenza PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo penitenziaria, che è normativa speciale, nell'ambito del quale la contestazione degli addebiti e la proposta di dispensa dal servizio rientrano nelle competenze del Ministro. Tale opzione ermeneutica, oltre a trovare fondamento negli argomenti appena esposti, sarebbe confermata dalla giurisprudenza amministrativa che, in una fattispecie riguardante il personale della carriera diplomatica (soggetto al regime pubblicistico) ha riconosciuto la pacifica sopravvivenza dell'art. 123 cit. in relazione a quei comparti dell'amministrazione pubblica sottratti al processo di privatizzazione del pubblico impiego (cfr. Cons. Stato sez. Iv 27 ottobre 2005, n. 6023). Un secondo argomento di carattere generale, a sostegno della predetta tesi, risiede nel fatto che la materia disciplinare (entro cui si inquadra l'esonero del direttore generale) non è oggetto di specifica regolamentazione da parte del d.lgs. n. 63/2006 e, inoltre, quest'ultimo testo normativo non la include tra quelle specificamente indicate come oggetto di negoziazione tra la delegazione di parte pubblica ed la delegazione delle organizzazioni sindacali rappresentative dei funzionari (cfr. artt. 21-22 d.lgs. cit.). È per l'appunto il d.p.r. n. 3/1957 a trovare applicazione considerato che l'art. 123 non rientra tra quelle disposizioni che sono state oggetto di espressa abrogazione da parte degli artt. 71-72 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Dalle predette considerazioni poste alla base del secondo orientamento interpretativo l'art. 123 del dpr. cit. sull'esonero del direttore generale sarebbe applicabile al personale della dirigenza penitenziaria, non essendovi disposizioni che attribuiscano ad un diverso titolare l'iniziativa del procedimento di esonero del direttore generale. A tal ultimo riguardo, quando il legislatore ha inteso eliminare una determinata competenza in capo al Ministro l'ha fatto espressamente (cfr. art. 40, secondo comma, lett. b), del d.lgs. 139/2000 con cui è stato abrogato l'art. 10 del d.p.r. 748/1972 che riconosceva al Ministro determinate competenze di natura gestoria in materia di personale dirigenziale). §§ ii. Al fine di risolvere le questioni interpretative esposte nella richiesta di parere occorre riportare il dato normativo rilevante. Il principio generale della separazione delle funzioni di indirizzo politico - amministrativo è fissato dall'art. 4 del d.lgs. 165/2001 il quale prevede: "1. Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. [...] ad essi spettano, in particolare: [...] 2. ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. essi sono responsabili in via esclusiva dell'attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati. 3. Le attribuzioni dei dirigenti indicate dal comma 2 possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative. 4. le amministrazioni pubbliche i cui organi di vertice non siano direttamente o indirettamente espressione di rappresentanza politica, adeguano i propri ordinamenti al principio della distinzione tra indirizzo e controllo, da un lato, e attuazione e gestione dall'altro. a tali amministrazioni è fatto divieto di istituire uffici di diretta collaborazione, posti alle dirette dipendenze del- l'organo di vertice dell'ente". Riguardo, in particolare, al regime giuridico cui è sottoposto il personale della carriera dirigenziale dell'amministrazione penitenziaria, l'art. 3 co. 1 ter stabilisce, nella formulazione ratione temporis vigente: "In deroga all'articolo 2, commi 2 e 3, il personale della carriera dirigenziale penitenziaria è disciplinato dal rispettivo ordinamento" (enfasi aggiunta). In considerazione della particolare posizione riconosciuta al personale della carriera dirigenziale penitenziaria il legislatore ha ritenuto di delineare, in deroga alla disciplina del pubblico impiego privatizzato, lo status del dirigente penitenziario la cui regolamentazione si colloca nel rispettivo ordinamento, come avviene, tra gli altri, per le altre categorie di personale in regime di diritto pubblico di cui all'art. 3 del d.lgs. n. 165/2001 (magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e le Forze di polizia di Stato, il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia). L'ordinamento della carriera dirigenziale penitenziaria è stato adottato, in attuazione della legge 27 luglio 2005, n. 154 recante "delega al Governo per la disciplina dell'ordinamento della carriera dirigenziale penitenziaria" con cui è stata operata una sostanziale riforma del rapporto di impiego del personale dirigente e direttivo dell'amministrazione penitenziaria, inquadrato in una nuova, specifica carriera a livello dirigenziale rientrante negli speciali rapporti di lavoro pubblico. A tale scopo la legge delega, contenente da un lato principi e criteri direttivi e, dall'altro, norme prescrittive, ha aggiunto il comma 1-ter nel testo dell'art. 3 del d.lgs. n. 165/2001, già richiamato, per effetto del quale il personale della (neo) istituita carriera dirigenziale è stato escluso dalla privatizzazione (o contrattualizzazione) in considerazione della particolare natura delle funzioni esercitate dal personale appartenente alla carriera dirigenziale penitenziaria (cfr. art. 2 della legge 27 luglio 2005, n. 154). PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo Fin dalla legge delega si assiste, ad una rinnovata consapevolezza del rilievo e della specificità dell'attività del personale dirigente e direttivo penitenziario, tant'è che il legislatore ha conferito a tale categoria un'autonoma collocazione professionale, riconoscendo un particolare status giuridico ed economico. In attuazione della legge delega, è stato adottato il d.lgs. 15 febbraio 2006, n. 63 recante "ordinamento della carriera dirigenziale penitenziaria, a norma della legge 27 luglio 2005, n. 154", il quale, all'art. 2 intitolato "Funzioni dirigenziali", stabilisce quanto segue: "1. La carriera dirigenziale penitenziaria è unitaria in ragione dei compiti di esecuzione penale attribuite ai funzionari. Lo svolgimento della carriera è regolato dal presente decreto, e sussidiariamente ed in quanto compatibili, dal decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, e successive modificazioni [...]". Il decreto legislativo menzionato regola il conferimento degli incarichi dirigenziali e, ai fini che qui rilevano, l'art. 8 rubricato "nomina a dirigente generale penitenziario" stabilisce che "1. la nomina a dirigente generale penitenziario (1) può essere conferita ai funzionari con qualifica di dirigente che abbiano svolto incarichi di particolar rilevanza, ivi compresi quelli di cui all'articolo 7 con decreto del Presidente della repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro della Giustizia ferma restando quanto previsto dall'art. 18 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, e dall'articolo 19 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165". nel richiamare il testo dell'art. 123 d.p.r. n. 3/1957 già menzionato nella premessa del presente parere, occorre precisare che alcune disposizioni del testo unico sugli impiegati civili sono state espressamente abrogate dal d.lgs. n. 165/2001, ferma restando l'inapplicabilità delle stesse nelle parti incompatibili con la contrattazione collettiva nazionale (cfr. artt. 71, lett. a, e comma 4, 72). L'art. 72, comma 4, prevede che, "a seguito della stipulazione dei contratti collettivi per il quadriennio 1994-1997, per ciascun ambito di riferimento, per i dipendenti di cui all'art. 2, comma 2, non si applicano gli articoli da 100 a 123 del decreto del Presidente della repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 e le disposizioni ad essi collegate". Il legislatore ha previsto espressamente l'inapplicabilità dell'art. 123 per le categorie di personale con rapporto di pubblico impiego privatizzato. §§ (1) nell'ambito della qualifica di dirigente generale penitenziario rientrano in base alla Tabella A di cui all'art. 3, comma 3, d.lgs. 63/2006 le seguenti funzioni: Capo di Dipartimento; vice capo di Dipartimento; direttore generale; direttore istituto superiori studi penitenziari; provveditore regionale. RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 iii. Così ricostruite le opzioni ermeneutiche prospettate nella richiesta di parere e il quadro normativo riguardante l'ordinamento della dirigenza penitenziaria, è necessario esaminare se sia attualmente vigente l'art. 123 del d.p.r. n. 3/1957 e se lo stesso sia applicabile all'esonero del direttore generale incardinato negli uffici dell'amministrazione penitenziaria, nella parte in cui la disposizione prevede che la contestazione degli addebiti di natura disciplinare e la proposta per la dispensa dal servizio spettino al Ministro della Giustizia. nel verificare l'eventuale cessazione della vigenza di una disposizione, occorre accertare se si sia in presenza di una delle fattispecie tipizzate dall'art. 15 disp. prel. c.c. ove sono disciplinate tre ipotesi di abrogazione: la dichiarazione espressa dell'avvenuta abrogazione da parte della stessa norma abrogante (abrogazione espressa), l'incompatibilità di nuove disposizioni con altre precedentemente poste (abrogazione tacita) e la nuova regolazione dell'intera materia. La norma di cui all'art. 123 del T.U. cit. prevede una particolare forma di procedimento disciplinare nel caso di impiegati con qualifica non inferiore a direttore generale, incentrato sulla contestazione di addebiti e le relative giustificazioni e finalizzato a definire la compatibilità o meno dell'impiegato ad essere mantenuto in servizio (cfr. Cons. Stato sez. Iv sent. 6023/2005). Detta valutazione, pur se da un lato appare assumere connotazioni prevalentemente organizzative, rispondendo all'esigenza di pubblico interesse della P.A. che il personale in servizio, appartenente alle qualifiche di vertice, sia per caratteristiche professionali e personali all'altezza dei compiti assegnatigli, non per questo esime l'Amministrazione da una delibazione complessiva ed attualizzata dell'operato del dipendente, proprio perché, se pure occasionata da profili disciplinari, è alla compatibilità alla permanenza in servizio che detta delibazione è finalizzata. Come rilevato da autorevole dottrina l'esonero dei direttori generali e degli impiegati con qualifiche pari o superiori consiste nella "dispensa dal servizio che spetta al Consiglio dei Ministri -in sede di deliberazione circa la eliminazione del funzionario dal servizio -di deliberare, discrezionalmente anche in ordine al trattenimento di quiescenza e previdenza" (così Aru, L'esonero del direttore generale, AC, 1959; Amendola, La destituzione nell'impiego pubblico edD, XII, 326 ss.; A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, 1982). orbene, muovendo dai dubbi interpretativi sollevati da codesto Ministero, occorre chiedersi se in seguito alla privatizzazione del pubblico impiego, il principio generale di separazione delle funzioni di indirizzo politico e funzioni di gestione amministrativa, fissato attualmente dall'art. 4 del d.lgs. 165/2001, abbia comportato un'abrogazione dell'art. 123 del d.p.r. n. 3/1957 nella parte in cui riconosce il potere del Ministro di contestare gli addebiti e di proporre la dispensa dal servizio del funzionario con qualifica non inferiore a direttore generale. PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo Ritiene la Scrivente che la prima opzione interpretativa da cui deriva la predetta conclusione non possa essere seguita per le ragioni che di seguito si illustrano. Dal quadro normativo sopra esposto e alla luce delle considerazioni ivi svolte, non emergono elementi o indici da cui far discendere che l'art. 123 d.p.r. n. 3/1957 sia abrogato espressamente o tacitamente nella parte in cui prevede la contestazione disciplinare quale atto del Ministro nonché il potere di proposta della dispensa dal servizio. È certamente da escludere che possa esservi stata un'abrogazione espressa della menzionata disposizione al personale in regime di diritto pubblico alla luce delle previsioni contenute negli artt. 71-72 del d.lgs. n. 165/2001 (e prima ancora dell'art. 74 d.lgs. n. 29/1993) ove viene precisato che alcune disposizioni del d.p.r. 3/1957, tra cui l'art. 123 cit., sono divenute inapplicabili al solo personale c.d. contrattualizzato. D'altro lato, si ritiene che la disposizione non sia neanche abrogata implicitamente per incompatibilità o perché sostituita da una nuova regolamentazione della materia, in particolare dalla privatizzazione del pubblico impiego (e, in particolare, dalla separazione tra funzioni di indirizzo politico, spettanti agli organi di governo e funzioni amministrative, spettanti ai dirigenti). La privatizzazione del pubblico impiego è stata infatti esclusa per le diverse categorie di personale in regime di diritto pubblico, nell'ambito delle quali è annoverata espressamente la dirigenza penitenziaria per la quale la relativa disciplina trova la sua regolamentazione nel d.lgs. n. 63 del 2006 e, sussidiariamente e in quanto compatibile nel d.p.r. n. 3/1957. orbene, non essendo la materia disciplinare (entro cui si inquadra l'esonero del direttore generale di cui all'art. 123 d.p.r. cit.) espressamente regolamentata dalle previsioni normative contenute nel d.lgs. n. 63 del 2006 né, tantomeno, rientrante nelle materie oggetto di negoziazione tra la parte pubblica e la delegazione di organizzazioni sindacali (art. 22 d.lgs. cit.), si reputa che la disposizione che prevede la procedura dell'esonero del direttore generale, oltre ad essere vigente nell'attuale formulazione, possa trovare tuttora applicazione nella parte in cui è prevista una competenza per l'adozione di taluni atti in capo al Ministro in quanto compatibile con la disciplina pubblicistica speciale del personale dirigenziale della carriera penitenziaria il cui rapporto si inquadra, come già evidenziato, nell'ambito del lavoro pubblico. In virtù della specialità della disciplina che espressamente connota la dirigenza penitenziaria, non si rinvengono ragioni ostative a configurare il potere di iniziativa disciplinare in capo al Ministro della Giustizia, facendo riferimento al principio generale di separazione tra le funzioni di indirizzo politico- amministrativo, spettanti agli organi di governo, e funzioni di gestione amministrativa, proprie dei dirigenti introdotto a far data dal d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pub RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 bliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) accentuato dal legislatore, con gli interventi normativi del 1998 e del 2001 «proprio per porre i dirigenti (generali) "in condizione di svolgere le loro funzioni nel rispetto dei principi d'imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione"» (v. Corte Cost. sentenza n. 104 del 2007). A tal ultimo riguardo la giurisprudenza costituzionale richiamata anche nella richiesta di parere ha affermato più volte (da ultimo v. Corte costituzionale sentenza n. 81/2013) che una «netta e chiara separazione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e funzioni gestorie» (sentenza n. 161 del 2008) costituisce una condizione «necessaria per garantire il rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità dell'azione amministrativa» (sentenza n. 304 del 2010; nello stesso senso, sentenze n. 390 del 2008, n. 104 e n. 103 del 2007). al principio di imparzialità sancito dall'art. 97 Cost. si accompagna, come «natural[e] corollari[o]», la separazione «tra politica e amministrazione, tra l'azione del "governo" -che, nelle democrazie parlamentari, è normalmente legata agli interessi di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza -e l'azione dell' "amministrazione" -che, nell'attuazione dell'indirizzo politico della maggioranza, è vincolata invece ad agire senza distinzione di parti politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obbiettivate dall'ordinamento» (sentenza n. 453 del 1990). orbene, se indubbiamente è vero che la Corte costituzionale abbia riconosciuto che la separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni di gestione amministrativa, costituisca un principio di carattere generale che trova il suo fondamento nell'art. 97 Cost., è indubbio che non è stata sancita dal giudice delle leggi l'estensione di quest'ultimo alle categorie sottoposte al regime di diritto pubblico. Tale estensione non si ricava in via espressa dal quadro normativo ratione materiae applicabile, neanche attraverso un procedimento di interpretazione analogica tenuto conto del differente regime giuridico del personale di diritto pubblico rispetto al personale sottoposto alla contrattualizzazione. non si rinvengono segni di carattere contrario nel dettato costituzionale (artt. 97, 98 Cost.) che fonda lo statuto della pubblica amministrazione, tenuto conto che, in ogni caso, la Consulta ha da sempre sottolineato che "l'individuazione dell'esatta linea di demarcazione tra gli atti da ricondurre alle funzioni dell'organo politico e quelli di competenza della dirigenza amministrativa, però, spetta al legislatore. a sua volta, tale potere incontra un limite nello stesso art. 97 Cost.: nell'identificare gli atti di indirizzo politico amministrativo e quelli a carattere gestionale, il legislatore non può compiere scelte che, contrastando in modo irragionevole con il principio di separazione tra politica e amministrazione, ledano l'imparzialità della pubblica amministrazione". nella fattispecie in esame, il legislatore del 1957, con una disposizione tutt'ora compatibile con l'ordinamento della dirigenza penitenziaria, nell'eser PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo cizio della discrezionalità non trasmodante, anche alla luce dell'ordinamento vigente, in profili di irragionevolezza, ha attribuito -limitatamente ai direttori generali e qualifiche superiori -la contestazione dell'addebito disciplinare, la valutazione delle eventuali giustificazioni dell'interessato e il potere di proposta della dispensa dal servizio al Ministro della Giustizia in considerazione del particolare legame fiduciario intercorrente tra l'organo politico e il direttore generale che è alla base della nomina e del conferimento dell'incarico. Per tale categoria di soggetti la dispensa dal servizio è l'unica sanzione disciplinare tutt'ora prevista. non si ravvisano in tale scelta profili di incompatibilità con il limite esterno rinvenuto dal giudice delle leggi nell'art. 97 Cost., ossia nei principi di buon andamento ed imparzialità in quanto il procedimento non è caratterizzato da automatismi, anzi, l'eventuale provvedimento finale è adottato all'esito di un contraddittorio endoprocedimentale che si instaura con l'interessato che ha diritto di presentare le sue giustificazioni a seguito della contestazione disciplinare. Quest'ultima, ossia la riscontrata violazione dei doveri gravanti sull'interessato, è prodromica e strettamente collegata alla successiva valutazione delle giustificazioni da parte dell'interessato e, inoltre, connessa, in ogni caso, al potere sussistente in capo al Ministro della Giustizia di riferire, nell'ipotesi di mancato accoglimento delle controdeduzioni dell'interessato, al Consiglio dei Ministri chiamato a sua volta ad esprimersi in ordine all'eventuale incompatibilità del direttore generale a rimanere in servizio e sul diritto al trattamento di quiescenza e previdenza. Al riguardo non può tuttavia negarsi lo stretto legame (interconnessione o presupposizione) tra gli atti rientranti nell'alveo delle competenze del Ministro della Giustizia e sarebbe irragionevole, anche per la natura unitaria del procedimento, ipotizzare competenze differenziate in capo a diversi soggetti. L'atto di contestazione disciplinare qui esprime una constatazione della violazione dei doveri, in termini di "disapprovazione" da parte del Ministro, rispetto alla condotta posta in essere dal direttore generale idonea ad incrinare quel legame fiduciario intercorrente con il medesimo posto alla base della nomina. Gli atti di competenza del Ministro, riconducibili al potere di iniziativa disciplinare, sono atti non immediatamente impugnabili in quanto meramente propulsivi all'interno dell'iter ivi descritto ed inidonei a ledere di per sé gli interessi dell'incolpato. La sequenza procedimentale degli atti rientranti nell'alveo delle competenze del Ministro culmina con una deliberazione finale del Consiglio dei Ministri che va ad incidere tuttavia sul rapporto di servizio incardinato -nel caso di specie -tra il direttore generale con il Ministero della Giustizia -Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, alla base del rapporto organico. Tale è la particolarità del procedimento che va ad incidere non sull'inca RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 rico, bensì sulla prosecuzione del rapporto di servizio, giustificata dal particolare regime giuridico del rapporto pubblicistico della dirigenza penitenziaria rispetto alla quale vi sono talune categorie, quali i direttori generali, rispetto ai quali l'ordinamento presuppone la sussistenza di un rapporto di fiducia da parte degli organi politici preposto al governo dell'amministrazione (ciò al fine di assicurarne la sensibilità alle direttive di alta amministrazione in cui si traducono gli indirizzi politici). Per tali categorie di soggetti, come è stato osservato dalla dottrina, il c.d. diritto al posto è notevolmente affievolito, specialmente per coloro che sono posti ai livelli più alti delle scale gerarchiche dell'amministrazione attiva (direttori generali) i quali possono essere dispensati dal servizio con provvedimenti largamente discrezionale. orbene, ove si dovesse riconoscere -in base alla prima opzione ermeneutica -che le attività in questione attengono a competenze gestionali si finirebbe per mettere in discussione non solo e non tanto il potere del Ministro di formulare la contestazione disciplinare, prodromica alla valutazione delle giustificazioni dell'interessato e alla proposta di dispensa, ma la stessa competenza dell'organo finale, ossia il Consiglio dei Ministri, chiamato ad emettere il provvedimento disciplinare conclusivo. e d'altronde la rimessione al Consiglio dei Ministri non può che avvenire ad opera del Ministro la cui proposta è strettamente connessa al mancato accoglimento delle giustificazioni dell'incolpato. Inoltre, lo stesso articolo 2, terzo comma lett. q) del d.lgs. 400/1988 prevede che sono sottoposti al Consiglio dei Ministri i provvedimenti per i quali sia prescritta la deliberazione consiliare. nel caso di specie la contestazione disciplinare costituisce l'atto di impulso del Ministro di un procedimento unitario che si conclude con una deliberazione del Consiglio dei Ministri la cui competenza va tuttora confermata. Al riguardo, a conferma delle predette conclusioni, può richiamarsi anche, ma non da ultimo, la teoria del contrarius actus in forza del quale il provvedimento con cui è disposta la dispensa dal servizio del direttore generale non potrà che seguire lo stesso iter procedimentale già osservato illo tempore all'atto della nomina, ossia l'adozione di un decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro (cfr. art. 8 d.lgs. 63/2006). L'esonero del direttore generale, diretto a rimuovere quest'ultimo dal servizio, dovrà, dunque, essere adottato secondo i principi costanti affermati dalla giurisprudenza del Giudice amministrativo, dall'organo competente, tenuto conto che il provvedimento di cui all'art. 123 d.p.r. cit. è espressione dello stesso potere di cui è emanazione il provvedimento che ne costituisce l'oggetto e, pertanto, può essere adottato solo dall'organo titolare del potere (Cons. St., v Sez., 30 novembre 2000, n. 6354; Cons. Stato sez. v 20 febbraio 2006, n. 701 riferite all'autotutela con principi estendibili al caso di specie trattandosi di provvedimento discrezionale). PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo Inoltre, quale ulteriore argomento a sostegno della conclusione secondo cui sussiste ancora oggi la competenza del Ministro nell'adozione dei rispettivi atti del procedimento disciplinare, si condivide quanto evidenziato da codesto Ministero, il quale ha rappresentato che -conformemente al brocardo ubi lex voluit dixit ubi lex noluit tacuit -ove il legislatore ha inteso abrogare una competenza del Ministro l'ha fatto espressamente, circostanza che, nella specie, non si è verificata. §§ iv. Conclusioni Alla luce delle suesposte considerazioni, ritiene la Scrivente che l'art. 123 del d.p.r. n. 3/1957 sia tutt'ora applicabile nella parte in cui prevede la competenza del Ministro a promuovere il procedimento disciplinare, a valutare le giustificazioni dell'interessato, a riferire al Consiglio dei Ministri e a formulare la proposta di dispensa dal servizio. *** Sulla questione è stato sentito il Comitato Consultivo che, nella seduta del 9 novembre 2021, si è espresso in conformità. RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 Applicazione dell’imposta municipale unica (c.d. i.m.u.) sugli alloggi di servizio in uso al personale militare Parere del 23/12/2021-749238, al 19130/2021, avv. MarCo sTIGlIaNo MessUTI, ProC. adele BerTI sUMaN Con la nota prot. n. 58628 dell'11 maggio 2021, codesto Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto ha richiesto il parere della Scrivente in merito all'assoggettamento, o meno, all'imposta municipale unica o propria (c.d. IMU): a) delle unità immobiliari classificate nelle seguenti categorie di alloggio in uso al Corpo: alloggi di servizio connessi con l'incarico, con annessi locali di rappresentanza (ASIR) e alloggi di servizio connessi con l'incarico (ASI) (1), entrambi ovunque si trovino (2); b) degli alloggi di servizio (che non siano ASIR/ASI) situati all'interno di impianti militari. entrambe le questioni concernono, nello specifico, l'applicabilità ai predetti alloggi dell'esenzione IMU ora prevista dall'art. 1, comma 759, lett. a), della Legge 27 dicembre 2019, n. 160 (che ricalca quella già disposta ai fini ICI dall'art. 7, comma 1, lett. a) del D.lgs. n. 504/1992 e poi dall'art. 9, comma 8, del D.lgs. n. 23/2011), il quale statuisce espressamente che: "sono esenti dall'imposta, per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte: a) gli immobili posseduti dallo stato, dai comuni, nonché gli immobili posseduti, nel proprio territorio, dalle regioni, dalle province, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, dagli enti del servizio sanitario nazionale, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali; [...]". Alla stregua del suo inequivoco tenore letterale, le amministrazioni citate godono dell'esenzione quando sono proprietarie di un bene che utilizzano "esclusivamente" per fini istituzionali (3). (1) Segnatamente: gli alloggi ASIR, ai sensi dell'art. 282 del Codice dell'ordinamento militare (Decreto Legislativo 15 marzo 2010, n. 66), sono assegnati a "titolari di incarichi che comportano obblighi di rappresentanza" e gli alloggi ASI, ai sensi dell'art. 281 del predetto Codice, sono assegnati al "personale dipendente cui sono affidati incarichi che richiedono l'obbligo di abitare presso la località di servizio". (2) Secondo quanto si legge nello schema riepilogativo allegato alla sopracitata nota, tali tipologie di alloggi sarebbero destinate "esclusivamente ai compiti istituzionali" dell'Amministrazione, in quanto "funzionali al corretto andamento di ogni singola unità organizzativa da essa dipendente. Tali strutture abitative, infatti, vengono assentite esclusivamente a favore di soggetto titolare del Comando e con funzioni di rappresentanza della Forza armata (alloggi asIr), oppure di incarichi istituzionali che richiedono una presenza costante in sede per assicurare il funzionamento e la sicurezza di servizio (alloggi asI)". (3) Sul punto è costante l'orientamento del Giudice di legittimità, espresso con riferimcnto alla analoga esenzione prevista in materia di ICI dalle norme sopra citate, per gli immobili posseduti dagli enti ivi indicati "destinati esclusivamente ai compiti istituzionali", per il quale tale esenzione spetta soltanto se l'immobile è "direttamente e immediatamente" destinato allo svolgimento di tali compiti: ipotesi che non si configura quando il bene venga utilizzato per attività di carattere privato, come avviene, in PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo Con il parere del Comitato Consultivo del 4 ottobre 2019 (CS 30226/2018 -Avv. Fiduccia)(*), entrambe le questioni oggi nuovamente riproposte nei quesiti del Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto erano state considerate quale possibile -e residuale -ambito di sostenibilità, anche in giudizio, dei presupposti per l'applicazione della predetta esenzione, in quanto: -con riguardo alla questione sub a) (n.d.r.: applicabilità dell'esenzione IMU agli alloggi ASI/ASIR), si era ritenuto che le specifiche esigenze ai quali detti alloggi erano destinati, in quanto concessi esclusivamente a favore di soggetti titolari del Comando e con funzioni di rappresentanza della Forza Armata (alloggi ASIR), oppure di incarichi istituzionali che richiedono una presenza costante in sede per assicurare il funzionamento e la sicurezza di servizio (alloggi ASI), giustificassero l'applicabilità dell'esenzione (4); -con riguardo alla questione sub b) (n.d.r.: applicabilità dell'esenzione IMU agli alloggi situati all'interno degli stabilimenti militari), si era fatto riferimento alla riconducibilità al "patrimonio infrastrutturale" militare, sancita linea di massima, in tutti i casi in cui il godimento del bene stesso sia concesso a terzi verso il pagamento di un canone (cfr. ex plurimis, Cass. sez. trib., 30 dicembre 2019, n. 34602, che richiama Cass., sez. 5, 11 giugno 2010, n. 14094; nello stesso senso, ex multis Cass. 15025/15; 30731/11; 20850/10, 14094/10, 20577/05). La Cassazione ha fornito una interpretazione estremamente restrittiva della disposizione, specificando che l'esenzione per gli immobili "destinati esclusivamente ai compiti istituzionali" è subordinata alla compresenza di un requisito oggettivo, rappresentato dallo svolgimento esclusivo nel- l'immobile di attività istituzionali ai fini dell'esenzione, e di un requisito soggettivo, costituito dallo svolgimento di tali attività da parte dello Stato, di enti territoriali o enti pubblici (Cass. nn. 20776/05; 5485/08; 6711/15; 14226/15 ed altre). Sotto il primo profilo, si è stabilito che il requisito oggettivo "non può essere desunto esclusivamente sulla base di documenti che attestino "a priori" il tipo di attività cui l'immobile è destinato, occorrendo invece verificare che tale attività sia svolta per compiti istituzionali"; ne consegue che "il contribuente ha l'onere di dimostrare l'esistenza, in concreto, dei requisiti dell'esenzione, mediante la prova che l'attività cui l'immobile è destinato, rientra tra quelle esenti" (Cass. 14226/15; 19039/2016; 6711/2015; 5062/2015). (*) Pubblicato in questa rass., 2019, vol. Iv, pp. 145-179 (n.d.r.). (4) nello specifico, si era affermato che "l'esenzione parrebbe fondatamente potersi continuare ad invocare, e così a sostenere in giudizio, con riguardo a quegli alloggi effettivamente connessi a (e concessi per) particolari incarichi (così per le categorie asGC, asIr, asI e omologhi dell'arma dei Carabinieri individuati dalla normativa vigente), in funzione dei quali soltanto il godimento dell'immobile trova il suo titolo esclusivo nella (nei termini già indicati dalla Circolare n. 14 del 1993 cit.)". Tale conclusione era motivata sull'assunto che, anche "considerato altresì che le richiamate pronunce di legittimità sono state occasionate per lo più in riferimento ad immobili appartenenti alla categoria asT, ovvero in contesti processuali in cui non aveva assunto rilevanza l'indagine di una diversa categoria di alloggi o comunque in cui non era stata dimostrata, né era rimasta incontestata, la loro funzionalità rispetto alla titolarità dell'incarico nel periodo di imposta [...]" "... per gli alloggi connessi ad un incarico così individuati (asGC, asIr, asI e omologhi dell'arma dei Carabinieri) l'esigenza abitativa generalmente evidenziata in senso ostativo dalla Cassazione, non assume qui carattere prevalente, bensì diventa recessiva rispetto all'esigenza di funzionalità dell'incarico per l'espletamento del quale soltanto l'alloggio è concesso. In tale contesto, ferma la gratuità degli alloggi asGC, anche la previsione del canone stabilita dalla legge per gli alloggi asIr e asI dovrebbe essere destinata a perdere quella "sintomaticità" del fine privato, in via generale ed astratta conferita dalle decisioni della Corte di Cassazione al solo fatto del pagamento di un corrispettivo". RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 prima dalla legge del 1978 e, allo stato attuale, dall'art. 231 del codice dell'ordinamento militare che per la prima volta conferisce agli alloggi siti all'interno delle infrastrutture militare carattere demaniale (5). nella seduta del 22 luglio 2021, alla luce della giurisprudenza nel frattempo consolidatasi in senso opposto a quanto definito nel precedente parere (su cui v. infra), il Comitato Consultivo ha ritenuto opportuno acquisire preliminarmente sulla questione l'avviso del Ministero dell'economia e delle Finanze, della Agenzia delle entrate e della Agenzia del Demanio, anche alla luce del rilevante impatto che la soluzione dei quesiti posti ha sull'intero sistema tributario. La Scrivente ha, dunque, formulato con nota prot. n. 468679-91 del 2 agosto 2021 richiesta interlocutoria agli Uffici suddetti, chiedendo di esprimersi sui quesiti testé indicati e domandando altresì di far conoscere l'avviso in merito alla connessa problematica della corretta identificazione del soggetto obbligato passivo ai fini IMU. La Presidenza del Consiglio dei Ministri -Dipartimento per gli Affari Giuridici e Legislativi -Ufficio contenzioso e per la consulenza giuridica, con nota 4.3.20/2021/1663 ha chiesto di essere messa a conoscenza dei riscontri forniti. Con mail del 10 agosto 2021 (acquisita al protocollo della Scrivente n. 482069 dell'11 agosto 2021) l'Agenzia delle entrate ha comunicato di "non avere osservazioni da formulare, atteso che la gestione del tributo in oggetto non rientra nelle competenze della scrivente agenzia". In seguito, lo Stato Maggiore della Difesa ha trasmesso un contributo con nota prot. 212952 del 18 novembre 2021. Da ultimo, il Ministero dell'economia e delle Finanze ha riscontrato la richiesta con nota prot. n. 16085 del 7 dicembre 2021, allegando il parere del Dipartimento delle finanze prot. 70807 del 6 dicembre 2021, che si esprime in merito ai quesiti posti, definendo quello relativo all'assoggettamento al pagamento dell'IMU degli alloggi sopra indicati e demandando all'Agenzia del Demanio l'ulteriore questione del soggetto legittimato passivo al pagamento del tributo. *** Il tema oggetto del presente parere riguarda due questioni, tra loro connesse: (5) In particolare, si era ritenuto che "solo con specifico riferimento a quegli alloggi di servizio che, in quanto destinati al personale militare (presupposto soggettivo) ed ubicati nel medesimo ambito spaziale o posti in stretta pertinenzialità rispetto alle basi, impianti e istallazioni militari (presupposto oggettivo), siano effettivamente riconducibili al "patrimonio infrastrutturale" militare, ed ora dichiaratamente rientrino, ai sensi dell'art. 231, comma 4, CoM "ad ogni effetto" tra le opere di difesa nazionale, potrà sostenersi in giudizio, anche in forza della demanialità dichiarata ex lege, l'esclusiva destinazione ai compiti istituzionali dello stato-Ministero della difesa, secondo il presupposto previsto dalla norma di esenzione tributaria". PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo 1. in primo luogo, l'applicabilità della predetta esenzione tributaria agli alloggi di servizio siti all'interno delle infrastrutture militari ovvero agli alloggi ASI/ASIR ovunque essi si trovino (an dell'obbligazione tributaria in questione); 2. in caso di risposta affermativa al primo quesito, la conseguente problematica relativa alla identificazione del soggetto passivo d'imposta (l'Amministrazione ovvero il dipendente pubblico che usufruisce dell'alloggio di servizio). Si precisa fin d'ora che, in seguito alle interlocuzioni condotte dalla Scrivente, allo stato, si rende parere sulla prima delle questioni suddette (oggetto degli specifici quesiti posti da codesto Comando Generale), mentre ci si riserva di rispondere alla seconda questione all'esito degli ulteriori approfondimenti istruttori ancora in corso. 1. Tanto premesso, esaminati gli atti e i riscontri trasmessi, con riguardo alla questione relativa alla possibilità di applicare l'esenzione IMU per gli immobili "destinati esclusivamente ai compiti istituzionali" agli alloggi militari in questione, la Scrivente è dell'avviso che le conclusioni raggiunte nel precedente parere del 2019 vadano riviste alla luce dell'orientamento oramai consolidato della Cassazione, da ultimo ribadito dalla recente sentenza Cass. sez. v, del 16 febbraio 2021, n. 3974 con cui la Suprema Corte ha confermato l'indirizzo giurisprudenziale pregresso in merito all'assoggettamento a ICI/IMU delle abitazioni di proprietà del Ministero della Difesa concesse in uso al personale in servizio (6), evidenziando l'irrilevanza, ai fini della applicabilità del- l'esenzione, del fatto che gli immobili siano classificabili, ai sensi dell'art. 5 della legge n. 497 del 1978 (applicabile ratione temporis all'anno di imposta di riferimento, ossia il 2008, ed ora abrogata), quali "infrastrutture militari". La vicenda ha riguardato, in particolare, abitazioni site all'interno di uno stabilimento militare, le quali -secondo il Ministero della Difesa ricorrente dovevano ritenersi esenti dal versamento dell'Imposta in quanto "tutti i fabbricati realizzati su aree urbane all'interno di basi, impianti, installazioni militari, sono considerati a tutti gli effetti di legge, 'infrastrutture militari' preordinate a garantire la funzionalità di enti, comandi e reparti militari preposti alla difesa dello stato". (6) Con specifico riferimento agli alloggi di servizio dei militari e loro pertinenze, si era infatti già consolidato l'orientamento -richiamato anche nella nota allegata alla richiesta di parere -per il quale: "l'esenzione ICI prevista dall'art. 7, comma 1 lett. a), d.lgs. n. 504 del 1992, per gli immobili posseduti dagli enti ivi indicati "destinati esclusivamente ai compili istituzionali" spetta soltanto se l'immobile è direttamente ed immediatamente destinato allo svolgimento dei compiti istituzionali dell'ente e, evidentemente, tale ipotesi non ricorre in caso di utilizzazione semplicemente indiretta ai fini istituzionali, che si verifica quando il godimento del bene stesso sia ceduto per il preminente soddisfacimento di esigenze di carattere privato (quali quelle abitative proprie del cessionario e della relativa famiglia) e della quale è certo sintomo il pagamento di un canone. e siffatta conclusione è coerente con il rilievo che le norme introducenti esenzioni, in quanto eccezionali, sono di stretta interpretazione (Cass. n. 6925/2011; n. 381/2006)". (ex multis, Cass. n. 3268/2019; n. 26453/2017; n. 20042/2011; n. 20850/20; n. 14094/2010, n. 20577/2005). RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 nel ricorso per Cassazione il Ministero della Difesa aveva, in particolare, con il primo motivo, lamentato "Falsa applicazione dell'art. 7, comma 1, lett. a) d.lgs. n. 504/1992, violazione degli artt. 1, 5 e 6 della l. n. 497/1978 e del- l’art. 231 del d.lgs. n. 66/2010, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c." evidenziando come la CTR non avesse correttamente valutato la portata della norma di esenzione invocata dal Ministero in quanto "la portata dell'esenzione di cui all'art. 7, comma 1, lettera a) del d.lgs. 504/1992 doveva essere correttamente valutata alla luce dell'intero e speciale contesto normativo di riferimento già evincibile nell'anno di imposta di riferimento dagli artt. 1, 5 e 6 della l. n. 497/1978 e definitivamente sancito dalla normativa di riordino costituita da codice dell'ordinamento militare di cui al d.lgs. n. 66 del 2010". La Cassazione ha disatteso tale impostazione, evidenziando come "ai fini dell'applicazione della norma fiscale non può dirsi dirimente né che gli immobili stessi siano classificabili ex lege n. 497/78, poi abrogata ("autorizzazione di spese per la costruzione di alloggi di servizio per il personale militare e disciplina delle relative concessioni"), quali "infrastrutture militari ", né che il canone concessorio così percepito (suddiviso a metà tra Ministero della difesa e MeF) abbia carattere non di corrispettivo da attività lucrativa, ma essenzialmente di rimborso di soli costi di manutenzione" trattandosi, comunque, nel caso di specie, di "utilizzazione semplicemente indiretta a fini istituzionali, in quanto il godimento del bene stesso è stato ceduto per il preminente soddisfacimento di carattere privato (quali quelle abitative proprie del cessionario e della relativa famiglia) e della quale è certo sintomo il pagamento di un canone, come confermato dalla CTr". Tale pronuncia ritiene dunque irrilevante, ai fini della destinazione degli immobili a "finalità istituzionali", il luogo in cui siano situati detti alloggi (se, cioè, all'interno ovvero al di fuori delle infrastrutture militari), considerando invece dirimente, per l'applicazione dell'imposta, il fatto che tali fabbricati siano impiegati come alloggi, e siano, dunque, diretti a soddisfare principalmente esigenze di carattere privato, ovvero quelle abitative proprie del cessionario e della relativa famiglia, delle quali è "certo sintomo il pagamento di un canone". Si ritiene, pertanto, che la distinzione tra alloggi posti all'interno o all'esterno di infrastrutture militari, richiamata nel parere del Comitato Consultivo e a cui pure fa riferimento codesto Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto nella richiesta di parere, possa dirsi superata alla luce del recente arresto della Cassazione citato. né a diverse conclusioni pare condurre il disposto di cui all'art. 231, commi 1 e 4, del codice dell'ordinamento militare oggetto del D.Lgs. n. 66 del 2010 (7), allo stato vigente, il quale -come era stato rilevato nel parere del (7) L'art. 231 del D.Lgs. n. 66 del 2010 rubricato "demanio militare e demanio culturale in consegna alla difesa" afferma che "1. appartengono al demanio militare del Ministero della difesa le opere PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo 2019 -conferisce per la prima volta espressamente natura demaniale agli alloggi allorquando realizzati "all'interno di basi, impianti, installazioni militari", posto che, come detto, ai sensi della predetta sentenza, ciò che rileva ai fini dell'applicabilità dell'esenzione dall'imposta è il fatto che il godimento del bene sia stato ceduto dietro pagamento di un canone, indipendentemente dalla natura dell'immobile locato. Sul punto, peraltro, la Corte di Cassazione aveva già in precedenza specificato che "ai fini dell'applicazione della norma fiscale non può dirsi dirimente né che gli immobili stessi siano classificabili ex lege (l. n. 497 del 1978, poi abrogata: "autorizzazione di spesa per la costruzione di alloggi di servizio per il personale militare e disciplina delle relative concessioni") quali "infrastrutture militari", né che il canone concessorio così percepito (suddiviso a metà tra Ministero della difesa e MeF) abbia carattere non di corrispettivo da attività lucrativa, ma essenzialmente di rimborso dei soli costi di manutenzione" (cfr. ordinanza n. 3268, depositata il 5 febbraio 2019) (8). Inoltre, appare rilevante evidenziare -come peraltro rilevato anche dalla Commissione tributaria regionale Marche sez. v, Ancona, nella sentenza del 2 dicembre 2019, n. 870 (9) -che l'art. 233 del predetto D.Lgs. n. 66 del 2010 destinate alla difesa nazionale. 2. Gli aeroporti militari fanno parte del demanio militare aeronautico. 3. appartengono al demanio culturale gli immobili in consegna al Ministero della difesa, non rientranti nel demanio militare di cui al comma 1, riconosciuti di interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia, le raccolte di musei, pinacoteche, archivi, biblioteche a esso assegnati. 4. Fatta salva l'applicazione dell'articolo 147, comma 1, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante il codice dei beni culturali e del paesaggio, rientrano tra le opere destinate alla difesa nazionale e sono considerati infrastrutture militari, a ogni effetto, tutti gli alloggi di servizio per il personale militare realizzati su aree ubicate all'interno di basi, impianti, installazioni militari o posti al loro diretto e funzionale servizio". (8) La Corte di cassazione con ordinanza 3268, depositata il 5 febbraio 2019, ha affermato il seguente principio di diritto: "in tema di I.C.I., l'esenzione riconosciuta dall'art. 7, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 504 del 1992, per gli immobili posseduti dagli enti ivi indicati spetta soltanto ove gli stessi siano direttamente ed immediatamente destinati a finalità istituzionali, sicché la stessa non spetta per gli alloggi di servizio dei militari e delle relative famiglie, in quanto utilizzati per esigenze di preminente carattere privato, in virtù di concessione e dietro pagamento di un canone". (9) Sulla rilevanza della presenza del canone ai fini della esclusione della applicazione della esenzione agli alloggi in questione, cfr. Comm. trib. reg. Marche sez. v -Ancona, 2 dicembre 2019, n. 870, nella quale si afferma che: "Non solo. Nel caso di specie, l'Ufficio accertatore ha dimostrato che in realtà il canone di locazione, lungi dal costituire una sorta di canone concessorio di natura pubblicistica finalizzato in via esclusiva alla copertura delle spese di manutenzione dell'immobile, ha proprio natura di corrispettivo per l'utilizzo dell'alloggio ai fini abitativi. ed infatti, l'art. 230 del d.lgs. n. 66 del 2010, intitolato alle "Categorie dei beni della difesa", richiama l'applicazione della normativa civilistica, mentre l'art. 233 ("Individuazione delle opere destinate alla difesa nazionale a fini determinati") non cita gli alloggi assegnati al personale tra le opere destinate alla difesa a fini determinati. Inoltre, se si considerano gli artt. da 278 a 294, dedicati agli alloggi di servizio di tipo economico, quali sono quelli oggetti dell'avviso di accertamento, ci si avvede che vi sono diverse categorie di alloggi di servizio, taluni a titolo gratuito, tra i quali non rientra alcuno degli immobili oggetto di accertamento ICI; altri, come quelli individuali, per i quali è prevista la corresponsione di un canone di locazione, sul modello di quello previsto dalla normativa in tema di "equo canone". a ciò si aggiunga che in ag RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 recante "Individuazione delle opere destinate alla difesa nazionale a fini determinati" non cita gli alloggi assegnati al personale tra le opere destinate alla difesa a fini determinati (10). Con riferimento poi agli alloggi ASI/ASIR occorre osservare che, seppure con la particolarità di essere assegnati esclusivamente a favore di soggetti titolari del Comando e con funzioni di rappresentanza della Forza Armata (alloggi ASIR), oppure di incarichi istituzionali che richiedono una presenza costante in sede per assicurare il funzionamento e la sicurezza di servizio (alloggi ASI), sono anch'essi tuttavia dati in concessione dietro pagamento di un canone (cfr. nello specifico, l'art. 286 del D.Lgs. n. 66/2010 rubricato "determinazione dei canoni") (11), il quale è riscosso mediante ritenute mensili sullo giunta al canone, che quindi non mira soltanto a coprire le spese di manutenzione ma presenta i tipici aspetti del corrispettivo di mercato, sono previsti dall'art. 288 ulteriori esborsi personali per gli utilizzatori degli alloggi, cui si applica l'art. 1609 del codice civile, oltre al pagamento delle spese di gestione e di funzionamento delle parti comuni. Trattasi, come ognuno vede, di vere e proprie spese analoghe alle spese condominiali. [...]". (10) L'art. 233 del D.Lgs. n. 66 del 2010 rubricato "Individuazione delle opere destinate alla difesa nazionale a fini determinati" recita: "1. ai fini urbanistici, edilizi, ambientali e al fine dell'affidamento ed esecuzione di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, sono opere destinate alla difesa nazionale le infrastrutture rientranti nelle seguenti categorie: a) sedi di servizio e relative pertinenze necessarie a soddisfare le esigenze logistico-operative dell'arma dei carabinieri; b) opere di costruzione, ampliamento e modificazione di edifici o infrastrutture destinati ai servizi della leva, del reclutamento, incorporamento, formazione professionale e addestramento dei militari della Marina militare, da realizzare nelle sedi di la spezia, Taranto e la Maddalena su terreni del demanio, compreso quello marittimo; c) aeroporti ed eliporti; d) basi navali; e) caserme; f) stabilimenti e arsenali; g) reti, depositi carburanti e lubrificanti; h) depositi munizioni e di sistemi d'arma; i) comandi di unità operative e di supporto logistico; l) basi missilistiche; m) strutture di comando e di controllo dello spazio terrestre, marittimo e aereo; n) segnali e ausili alla navigazione marittima e aerea; o) strutture relative alle telecomunicazioni e ai sistemi di allarme; p) poligoni e strutture di addestramento; q) centri sperimentali di manutenzione dei sistemi d'arma; r) opere di protezione ambientale correlate alle opere della difesa nazionale; s) installazioni temporanee per esigenze di rapido dispiegamento; t) attività finanziate con fondi comuni della NaTo e da utenti alleati sul territorio nazionale. 1-bis. alle costruzioni e alle ricostruzioni di edilizia residenziale pubblica destinate a uso militare si applica l'articolo 1 della legge 29 luglio 1949, n. 717, e successive modificazioni. (11) nello specifico, l'art. 286 del D.Lgs. n. 66 del 2010 rubricato "Determinazione dei canoni" dispone che: "1. Il regolamento fissa i criteri per la determinazione dei canoni di concessione, sulla base delle disposizioni di legge vigenti in materia di determinazione dell'equo canone; su tali criteri è acquisito il concerto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e del Ministro dell'economia e delle finanze. In tutti i casi in cui disposizioni, anche regolamentari, fissano criteri di aggiornamento dei canoni degli alloggi della difesa, il canone è aggiornato, annualmente, in misura pari al 75 per cento della variazione accertata dall'Istituto nazionale di statistica dell'ammontare dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e impiegati, verificatasi nell'anno precedente, con decreto del Ministro della difesa, d'intesa con il Ministro dell'economia e delle finanze, o degli organi corrispondenti. agli oneri derivanti dal presente comma, pari a ottantamila euro annui a decorrere dall'anno 2014, si provvede mediante utilizzo di quota parte dei risparmi di spesa rivenienti dall'applicazione delle norme di riorganizzazione contenute nel titolo III del libro primo. 2. Ferma restando la gratuità degli alloggi di cui al comma 1, lettera a), dell'articolo 279, e l'esclusione di quelli di cui al comma 1, lettera b), del medesimo articolo, il cui canone è determinato dal Ministro della difesa con il regolamento, alla concessione di alloggi costituenti il patrimonio abitativo della difesa si applica un canone determinato ai sensi PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo stipendio (cfr. l'art. 287 del D.Lgs. n. 66/2010 rubricato "Modalità di riscossione del canone e sua destinazione" nonché l'art. 358 (Allegato P) del Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare di cui al D.P.R. 15 marzo 2010, n. 90). A ciò si aggiunga che, oltre al canone, che quindi non mira soltanto a coprire le spese di manutenzione ma presenta i tipici aspetti del corrispettivo di mercato, sono previsti dall'art. 288 del D.Lgs. n. 66/2010 rubricato "altri oneri a carico del concessionario dell'alloggio" ulteriori esborsi personali per gli utilizzatori degli alloggi di cui al comma 1, lettere b) e c), dell'articolo 279 [tra cui ASI e ASIR], in quanto la legge prevede a loro carico le piccole riparazioni previste dall'art. 1609 del codice civile (a cui il concessionario provvede "direttamente"), nonché il consumo di acqua, luce e riscaldamento dell'alloggio ed eventuali altri servizi necessari, oltre al pagamento delle spese di gestione e di funzionamento delle parti comuni (12). Pertanto, non pare che le specifiche esigenze a cui gli alloggi ASI/ASIR sono destinati siano tali da poter ritenere gli stessi esclusi dal novero degli immobili soggetti all'imposta, trattandosi comunque di alloggi dati in concessione ai dipendenti per esclusivo uso personale, a fronte del pagamento di un canone, cui si aggiungono una serie di spese accessorie -in conformità alla normativa civilistica, a cui pure l'art. 230, co. 1, del D.Lgs. n. 66/2010, recante "Categorie dei beni della difesa -rinvio ad altre fonti" fa rinvio (13) -poste a carico del del comma 1, ovvero, se più favorevole all'utente, un canone pari a quello derivante dall'applicazione della normativa vigente in materia di equo canone [...]". Il Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare di cui al D.P.R. 15 marzo 2010, n. 90 all'art. 336 disciplina la "Determinazione del canone per gli alloggi ASIR-ASI" prevedendo che: "1. l'ammontare del canone mensile di concessione degli alloggi asIr -asI è calcolato moltiplicando il valore del metro quadrato di superficie, pari a euro 1,60, per la superficie convenzionale dell'alloggio (fino a un massimo di 120 mq) e per i coefficienti relativi al livello del piano, alla vetustità e allo stato di conservazione e manutenzione. 2. se il canone così calcolato risulta superiore a quello derivante dall'applicazione della normativa vigente in materia di equo canone, al concessionario dell'alloggio è applicato quest'ultimo. 3. Nessun canone è dovuto per i locali di rappresentanza degli alloggi asIr, la cui identificazione è determinata con atto formale del comando competente alla concessione dell'alloggio. Tali locali rimangono nella disponibilità dell'amministrazione militare cui fanno carico tutte le relative spese". (12) L'art. 288 del D.Lgs. n. 66 del 2010 rubricato "altri oneri a carico del concessionario del- l'alloggio" recita: "1. oltre al canone mensile, sono a carico del concessionario dell'alloggio di cui al comma 1, lettere b) e c), dell'articolo 279 le piccole riparazioni previste dall'articolo 1609 del codice civile, il consumo di acqua, luce e riscaldamento dell'alloggio ed eventuali altri servizi necessari. Il concessionario provvede direttamente alle piccole riparazioni di cui sopra. 2. sono ripartite tra i concessionari, in rapporto alla consistenza millesimale dell'alloggio, le spese di gestione e di funzionamento degli ascensori e montacarichi, della pulizia delle parti in comune e della loro illuminazione". (13) L'art. 230, comma 1, del D.Lgs. n. 66 del 2010 rubricato "Categorie dei beni della difesa rinvio ad altre fonti" afferma: "1. I beni della difesa si distinguono in demanio pubblico e beni patrimoniali, disponibili e indisponibili, secondo le norme del codice civile, e sono sottoposti: a) alle disposizioni dettate nel codice civile per tali categorie di beni; b) alle disposizioni dettate nel codice della navigazione e relativo regolamento, e nelle pertinenti leggi speciali, per porti e aeroporti militari, navi e ((aeromobili)) militari; c) alle disposizioni dettate nel codice della proprietà industriale (decreto le RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 concessionario, giacché tale uso non può considerarsi rientrare stricto sensu nei fini istituzionali del Corpo medesimo, indipendentemente dal luogo in cui essi si trovino. Del resto, se secondo quanto di recente affermato dalla Cassazione n. 3974/2021, l'imposta si applica anche ai locali siti all'interno della infrastruttura militare (essendo irrilevante il fatto che gli immobili in questione siano classificabili ex lege come "infrastrutture militari"), a fortiori si ritiene che essa possa dirsi applicabile agli immobili adibiti ad alloggi ASI/ASIR (ubicati sia all'interno che all'esterno dell'impianto militare) i quali, seppure connessi ad esigenze di servizio, hanno come scopo primario quello di garantire un uso privato da parte del personale con particolari qualifiche, circostanza questa che si desume dal fatto che sono concessi dietro pagamento di un canone (riscosso mediante ritenute mensili sullo stipendio) (14). In altre parole, proprio la circostanza che il fine istituzionale sia lo scopo "prevalente" ma non "esclusivo" di utilizzo degli alloggi in questione, comporta che essi non possano dirsi rientranti nella esenzione prevista dall'art. 1, comma 759, lett. a) della legge n. 160 del 2019 in quanto la norma espressamente richiede, ai fini dell'esenzione dall'IMU, che la destinazione degli immobili ai compiti istituzionali sia "esclusiva". Le sopraesposte considerazioni sono state integralmente condivise dal MeF nella nota trasmessa, nella quale si è rilevato, quanto all'assoggettabilità al pagamento dell'IMU degli alloggi di cui trattasi, che "non ci sono ragioni ulteriori per discostarsi dall'orientamento ormai consolidato della Corte di Cassazione, da ultimo ribadito nella sentenza n. 3974 del 2021". Il Diparti gislativo 10 febbraio 2005 n. 30) per le invenzioni militari: d) alle disposizioni dettate nel codice penale per la tutela dei beni militari". (14) L'art. 358 (Allegato P) del Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare di cui al D.P.R. 15 marzo 2010, n. 90 disciplina le modalità per la riscossione delle somme dovute dagli utenti per canone e spese comuni alloggi ASIR, ASI e AST prevedendo -tra l'altro -che: "2. Quanto al canone per gli alloggi asIr, asI, asT: a) i competenti enti esecutivi del Genio militare e gli organi corrispondenti per la Marina militare e l'aeronautica militare, all'atto della consegna del- l'alloggio e delle variazioni a qualsiasi titolo intervenute, comunicano l'importo dei canoni dovuti dagli utenti ai rispettivi enti amministratori e alle competenti direzioni di amministrazione e corrispondenti organi di controllo; b) alla riscossione delle somme dovute per il canone degli utenti di alloggi asIr, asI e asT provvedono gli enti che amministrano gli utenti stessi, mediante ritenute mensili sullo stipendio; c) gli enti predetti provvedono anche a versare direttamente entro il giorno 10 del mese successivo i relativi importi alla tesoreria provinciale con imputazione ai competenti capitoli dello stato di previsione dell'entrata riassegnabile al bilancio della difesa; d) le relative quietanze sono inviate dagli enti medesimi direttamente alle direzioni di amministrazione competenti, per il successivo inoltro alla ragioneria centrale; e) alla fine di ciascun trimestre, i singoli enti trasmettono alle competenti direzioni di amministrazione una nota in cui saranno indicati, per ogni concessione, le date delle trattenute ai propri dipendenti utenti di alloggio, gli importi delle stesse e gli estremi dei versamenti in tesoreria; f) ogni direzione di amministrazione interessata riscontra le note ricevute dagli enti con le previste segnalazioni esistenti ai propri atti, ai fini del controllo amministrativo e contabile sulla esattezza dei versamenti eseguiti, e riferisce al Ministero le eventuli inadempienze e manchevolezze". PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo mento nelle finanze ha, in particolare, ritenuto "non dirimente" quanto affermato dallo Stato Maggiore della Difesa nella nota prot. n. 0212952 del 18 novembre 2021 laddove si precisa che "In tal senso, si fornisce anche evidenza che il fine prevalente di utilizzo dell'alloggio non sia di natura privatistica (come asserito dalla Cassazione) bensì istituzionale, perché senza l'utilizzo del- l'alloggio attiguo alla sala operativa, il militare non avrebbe potuto assolvere i propri doveri e compiti assegnati dall'a.d. Pertanto, la concomitanza di altro utilizzo come quello privatistico (per aver la famiglia al seguito) diviene secondario ed assorbito dal primo, unitamente alla valenza asserita sintomatica (dalla stessa Cassazione) di utilizzo privato per la presenza di un canone ancorché irrisorio". Ciò in quanto, ad avviso del Dipartimento delle Finanze, "riscontrandosi in siffatta ipotesi un "fine prevalente" di carattere istituzionale nonché la "concomitanza di altro utilizzo", sembrerebbe venir meno proprio la condizione essenziale prevista dall'art. 1, comma 759, lett. a) della legge n. 160 del 2019 che prescrive, ai fini dell'esenzione dall'IMU, che gli immobili in questione siano "destinati esclusivamente ai compiti istituzionali" (15). Questa interpretazione restrittiva risulta del resto coerente con il carattere "derogatorio" ed "eccezionale" delle norme di esenzione tributaria. Rileva, in proposito, "il principio costantemente affermato in sede di legittimità per cui -in materia di ICI -l'esenzione di cui al d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, norma agevolatrice e, dunque, di stretta interpretazione, non opera in caso di utilizzo indiretto dell'immobile da parte dell'ente proprietario; ancorché per finalità di pubblico interesse e senza fine di lucro" (in questi termini, Cass. ordinanza 5 febbraio 2019, n. 3275; nonché, Cass. ordinanza 14 marzo 2018, n. 6319, che richiama Cass. nn. 16797/2017; 14912/16; 12495/14; 7385/12 ed altre). *** 2. Con riferimento alla seconda questione posta nella nota interlocutoria della Scrivente, concernente il problema della eventuale legittimazione passiva del concessionario/affittuario/utente dell'alloggio di servizio e, precisamente, se quest'ultimo debba essere trattato alla stregua di un concessionario di aree demaniali, ovvero come un locatario, si evidenzia come dalla soluzione in un senso o nell'altro derivino evidenti conseguenze in merito alla identificazione del soggetto obbligato passivo ai fini IMU. 2.1 -nello specifico, se si sposa la tesi che qualifica l'assegnazione del( 15) Alla luce di tali considerazioni, il Dipartimento delle Finanze ha ipotizzato di "agire in via normativa attraverso un intervento legislativo volto a prevedere direttamente l'esenzione dall'imposta per gli immobili in questione", nello stesso tempo evidenziando che "l 'accoglimento della stessa comporterebbe una perdita di gettito per i bilanci dei comuni e, conseguentemente, la necessità di dover reperire risorse finanziare per il ristoro ai comuni del mancato gettito IMU. In alternativa, prosegue la nota del MeF, "si potrebbe anche intervenire con una diversa soluzione, che risulterebbe anche più naturale rispetto alla prima, consistente nella previsione di un’integrazione delle risorse nel pertinente capitolo di spesa dello stato di previsione del dicastero interessato per far fronte al versamento dell’IMU ai comuni competenti". RASSeGnA AvvoCATURA DeLLo STATo -n. 1/2022 l'alloggio di servizio in termini di concessione demaniale e non di locazione, solo il concessionario/utente potrebbe ritenersi soggetto passivo d'imposta, in virtù di quanto da ultimo sancito dall'art. 1, comma 743, della legge n. 160 del 2019 (16), che individua tra i soggetti obbligati ai fini IMU -tra gli altri -il "concessionario nel caso di concessione di aree demaniali". Tale soluzione è condivisa dallo Stato Maggiore della difesa nella nota prot. n. 0212952 del 18 novembre 2021 laddove si precisa che: "...lo strumento giuridico di gestione degli alloggi cui ricorre il dicastero è l'atto di concessione amministrativa a fronte della qualificazione giuridica del bene immobile assegnato al militare, bene che appartiene al demanio e/o al patrimonio indisponibile (principio consolidato in dottrina e giurisprudenza di merito e di legittimità). Il ricorso all'istituto pubblicistico dell'atto concessorio è necessitato e supportato da tutta la normativa specifica di riferimento dell'ordinamento militare (di cui al d.P.r. n. 90/10 attuativo del d.lgs. n. 66/10) per i profili propri di tale istituto giuridico. In particolare, la durata, l'assegnazione, la cessazione e per scadenza del periodo, perdita del titolo, la decadenza per l'utilizzo non conforme ai fini determinati per cui è stato concesso e la revoca costituiscono espressioni autorizzative della Pubblica amministrazione, strumentali alla tutela di superiori interessi pubblici. elementi che, viceversa, non sono rinvenibili in un semplice contratto di locazione connotato da una sostanziale condizione paritetica delle parti, regime per questo utilizzato dalla difesa solo per gli alloggi dismessi che, pertanto, transitano nel patrimonio disponibile. Caso di specie, questo, che vedrebbe invece la difesa soggetto passivo di imposta. Ciò, è ancor più evidente nella tecnica legislativa adoperata dal legislatore ove, terminata la disciplina settoriale per l'ordinamento militare ricorre a un rinvio generale esterno allo stesso ordinamento, ovvero "alle concessioni amministrative in generale, per quanto non previsto (artt. 290 e 1828 del citato d.lgs. n. 66/2010). Ne consegue, che solo il concessionario possa ritenersi- soggetto passivo d'imposta, come peraltro inequivocabilmente confermato anche dalla Finanziaria del 2020 (l. n. 160/2019 -art. 1, comma 743) che, sul punto, ha mantenuto le disposizioni normative precedenti". 2.2 -viceversa, qualora si qualificasse il rapporto in questione come un rapporto di natura obbligatoria, assimilabile ad un contratto di locazione, da (16) 743. I soggetti passivi dell’imposta sono i possessori di immobili, intendendosi per tali il proprietario ovvero il titolare del diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie sugli stessi. È soggetto passivo dell’imposta il genitore assegnatario della casa familiare a seguito di provvedimento del giudice che costituisce altresì il diritto di abitazione in capo al genitore affidatario dei figli. Nel caso di concessioni di aree demaniali, il soggetto passivo è il concessionario. Per gli immobili, anche da costruire o in corso di costruzione, concessi in locazione finanaziaria, il soggetto passivo è il locatario a decorrere dalla data della stipula e per tutta la durata del contratto. In presenza di più soggetti passivi con riferimento ad un medesimo immobile, ognuno è titolare di un’autonoma obbligazione tributaria e nell’applicazione dell’imposta si tiene conto degli elementi soggettivi ed oggettivi riferiti ad ogni singola quota di possesso, anche nei casi di applicazione delle sanzioni o agevolazioni. PAReRI DeL CoMITATo ConSULTIvo cui scaturisce una semplice detenzione del bene oggetto della concessione, la legittimazione passiva spetterebbe all'Amministrazione stessa. Tale conclusione sembra essere condivisa dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, la quale, nella ordinanza n. 3275 depositata il 5 febbraio 2019, esprimendosi con riferimento ad un caso specifico in cui soggetto obbligato al pagamento ICI/IMU era l'Agenzia del Demanio, richiamando l'articolo 3, comma 1, D.Lgs. n. 504 del 1992 secondo cui "soggetti passivi dell'imposta sono il proprietario di immobili di cui al comma 2 dell'articolo 1, ovvero il titolare di diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie, sugli stessi, (omissis...)", ha evidenziato che nel caso in cui il proprietario del bene ne abbia concesso il godimento ad un terzo, soggetto passivo del tributo resta il concedente, non potendosi ravvisare in tale rapporto una cessione di usufrutto o una concessione, espressamente menzionate dalla norma citata. In questo secondo caso, è evidente che si pone un importante tema di copertura di finanza pubblica, discendendo dalla identificazione dell'Amministrazione quale soggetto legittimato passivo ai fini IMU rilevanti implicazioni in punto di spesa pubblica. Ciò posto, alla luce dell'urgenza di definire il quesito posto da codesto Comando Generale e attesa la delicatezza della questione sopra prospettata, la Scrivente ritiene opportuno, prima di assumere le proprie determinazioni conclusive in merito, attendere l'esito delle interlocuzioni ancora in corso con l'Agenzia del Demanio, il cui avviso sulla questione è stato ritenuto necessario anche dalla nota del MeF. *** Il presente parere è stato sottoposto all'esame del Comitato Consultivo che, nella seduta del 22 dicembre 2021, si è espresso in conformità. Ci si riserva di definire la questione relativa alla legittimazione passiva all'esito delle interlocuzioni ancora in corso e si resta a disposizione per ogni approfondimento o chiarimento dovesse rendersi ulteriormente necessario. LegisLazioneedattuaLità L’anticorruzione nella gestione del territorio Verdiana Fedeli* Sommario: 1. Premessa -2. La definizione di corruzione e il reato di corruzione -3. il governo del territorio -4. i rimedi di cui alla legge 6 novembre 2012, n. 190 “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione” -5. La figura del responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza -6. La trasparenza -7. La pianificazione territoriale regionale, provinciale o metropolitana - 8. i processi di pianificazione comunale generale e l’attività di vigilanza. 1. Premessa. Il tema dell’anticorruzione nella gestione del territorio, notevolmente complesso e vasto, involge diverse discipline ed investe interessi pubblici e privati che, nell’opera di programmazione, devono essere adeguatamente contemperati dalle diverse pubbliche amministrazioni, potendo in caso di patologia, anche giungere a configurare illeciti penali e, in particolare, condotte corruttive. Tra gli strumenti, volti ad evitare le suddette condotte illecite possono essere annoverati, per un verso, il riconoscimento generalizzato in capo ai privati del diritto di accesso agli atti amministrativi e, per altro verso, l’individuazione di precise regole che le diverse PP.AA. devono rispettare, anch’esse oggetto di piena conoscibilità da parte dei privati, dirette ad evitare l’insorgere di condotte illecite. La trasparenza realizza già di per sé una misura di prevenzione, perché consente il controllo da parte degli utenti dello svolgimento dell’attività amministrativa e deve essere coordinata con la prevenzione della corruzione. La rilevanza del tema, oggetto di esame, emerge da un semplice dato: nel 2016 l’Italia era al 60 posto su 176 Paesi per fenomeni corruttivi, collocandosi (*) Avvocato dello Stato. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 al terzultimo gradino tra i paesi europei, davanti solo a Grecia e Bulgaria, nel 2020 al 52esimo posto su 180 paesi e nel 2021 è salita al 42esimo posto. Nel 2021 la classifica di Transparency international ha attribuito all’Italia, quanto alla percezione della corruzione nel settore pubblico e nella politica, un indice pari a 56 punti, di ben tre punti in più rispetto all’anno precedente, anche se lontano dalla media UE di 64 punti. Il progresso dell’Italia è il risultato della crescente attenzione dedicata al problema della corruzione nell’ultimo decennio e fa ben sperare per la ripresa economica del Paese dopo la crisi generata dalla pandemia. Il legislatore, da un lato, è intervenuto con una legislazione volta a rendere quanto più possibile trasparente l’agire delle PP.AA., mediante maggiori forme di pubblicità (es. pubblicazioni su siti internet di bandi di concorso, bandi di gara) e dall’altro, consentendo ai cittadini, mediante lo strumento dell’accesso agli atti della P.A., di conoscere le scelte da questa operate. 2. La definizione di corruzione e il reato di corruzione. Preliminarmente va esaminato il concetto di corruzione. La legge 2012 n. 190 non contiene una definizione di corruzione, che viene quindi data per presupposta. Con riferimento al reato di corruzione, assumono rilievo le condotte indicate negli artt. 318 e 319 e 319-ter c.p. La prima norma, rubricata corruzione per l'esercizio della funzione (detta corruzione impropria), stabilisce che “il pubblico ufficiale che, per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da tre a otto anni”. La seconda norma, rubricata corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio (detta corruzione propria), prevede che “il pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da sei a dieci anni”. L’ art. 319-ter c.p. concerne la corruzione in atti giudiziari e prescrive che “Se i fatti indicati negli articoli 318 e 319 sono commessi per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo, si applica la pena della reclusione da sei a dodici anni. Se dal fatto deriva l'ingiusta condanna di taluno alla reclusione non superiore a cinque anni, la pena è della reclusione da sei a quattordici anni; se deriva l'ingiusta condanna alla reclusione superiore a cinque anni o all'ergastolo, la pena è della reclusione da otto a venti anni”. Con la legge 6 novembre 2012, n. 190 “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministra LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà zione” il legislatore ha dato seguito agli impegni internazionali assunti a Strasburgo con la “Convenzione penale sulla corruzione” il 27 gennaio 1999, ratificata con L. 28 giugno 2012, n. 110 e con la “Convenzione contro la corruzione”, adottata dall’Assemblea generale dell'oNU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4 (Convenzione di Merida), ratificata con L. 3 agosto 2009, n. 116, innalzando le pene previste dai suddetti reati e introducendo nuove fattispecie illecite come l’induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319 quater c.p.) e il traffico di influenze illecite, art. 346 bis c.p. Con il primo reato viene data rilevanza penale anche alla mera condotta del pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, seppure non in grado di costringere qualcuno a dargli indebitamente qualcosa (art. 317 c.p. concussione), lo induce a tale dazione. Con il secondo reato la giurisprudenza di legittimità (sentenza Cass., n. 4113 del 2017) ha attribuito rilevanza alla condotta di colui che “vantando un'influenza effettiva verso il pubblico ufficiale, si fa dare o promettere denaro o altra utilità come prezzo della propria mediazione o col pretesto di dover comprare il favore del pubblico ufficiale”; condotta riconducibile, prima della legge n. 190 del 2012, al reato di millantato credito. Le due fattispecie di corruzione, secondo la giurisprudenza di legittimità, si pongono in rapporto di specialità, essendo stato affermato dalla Cassazione (sentenza n. 49226 del 2014) “in tema di corruzione, la fattispecie di cui all'art. 319 cod. pen. (nel testo introdotto dalla legge 6 novembre 2012, n. 190), -corruzione propria -è in rapporto di specialità unilaterale per specificazione rispetto a quella prevista dall'art. 318 cod. pen., in quanto mentre questa punisce la generica condotta di vendita della funzione pubblica, la prima richiede, invece, un preciso atto contrario ai doveri di ufficio, oggetto di illecito mercimonio”. Ed ancora, “in tema di corruzione, lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, attraverso il sistematico ricorso ad atti contrari ai doveri di ufficio non predefiniti, né specificamente individuabili "ex post", ovvero mediante l'omissione o il ritardo di atti dovuti, integra il reato di cui all'art. 319 cod. pen. e non il più lieve reato di corruzione per l'esercizio della funzione di cui all'art. 318 cod. pen., il quale ricorre, invece, quando l'oggetto del mercimonio sia costituito dal compimento di atti dell'ufficio” (Cass. n. 15959 del 2016). In particolare, ciò che distingue una corruzione propria da una corruzione impropria (art. 318) è il fatto che, nel primo caso, a differenza che nel secondo, l'atto oggetto della corruzione è contrario ai doveri d'ufficio. Quanto alla finalità del reato di corruzione essa viene individuata in quella di “proteggere l'interesse dell'amministrazione alla fedeltà e all'onestà dei suoi funzionari e, quindi, i principi di corretto funzionamento, buon andamento e imparzialità nell'attività di amministrazione della cosa pubblica, rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 posto che le indebite retribuzioni percepite o delle quali è accettata la promessa diffondono tra i cittadini la sfiducia nei pubblici poteri” (cfr. ex plurimis ed in ultimo Cass. n. 17586 del 2017 -condotta del pubblico ufficiale che, al fine di favorire l'aggiudicazione di una gara di appalto ad una società, in cambio del versamento di importi in denaro già corrisposti e dell'impegno di corrispondere ulteriori somme e utilità, si era impegnato anche a sostituire fraudolentemente la proposta tecnica presentata da quest'ultima con altra più adeguata agli standards di gara). La lesione del bene interesse oggetto di tutela sopra indicato ricorre anche quando “il pubblico ufficiale che, dietro elargizione di un indebito compenso, esercita i poteri discrezionali rinunciando ad una imparziale comparazione degli interessi in gioco, al fine di raggiungere un esito predeterminato, anche quando questo risulta coincidere, "ex post", con l'interesse pubblico, e salvo il caso di atto sicuramente identico a quello che sarebbe stato comunque adottato in caso di corretto adempimento delle funzioni, in quanto, ai fini della sussistenza del reato in questione e non di quello di corruzione impropria, l'elemento decisivo è costituito dalla "vendita" della discrezionalità accordata dalla legge” (Cass. n. 4459 del 2017 -la condotta di un medico penitenziario che, dietro il versamento di corrispettivo in denaro, predisponeva, a prescindere dalle reali condizioni di salute degli interessati, un quadro sanitario favorevole per taluni detenuti, anteponendone la visita e l'effettuazione degli accertamenti specialistici rispetto agli altri, in modo tale da favorirne il conseguimento dei benefici penitenziari). La Cassazione (sentenza n. 22069/2015, in relazione a pratiche di edilizia cimiteriale) ai fini della configurabilità di un' associazione per delinquere finalizzata alla commissione di delitti contro la P.A., non richiede l'apposita creazione di un'organizzazione, sia pure rudimentale, ma l'attivazione di una struttura che può essere anche preesistente all’ideazione criminosa e già dedita a finalità lecita né è necessario che il vincolo associativo assuma carattere di stabilità, essendo sufficiente che esso, a prescindere dalla sua durata nel tempo, non sia a priori circoscritto alla consumazione di uno o più reati predeterminati. Nell’ambito del diritto amministrativo, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con la circolare n. 1 del 25 gennaio 2013, ha precisato che, nel contesto della riforma, “il concetto di corruzione deve essere inteso in senso lato come comprensivo delle varie situazioni in cui, nel corso dell'attività amministrativa, si riscontri l'abuso da parte di un soggetto del potere a lui affidato al fine di ottenere vantaggi privati. Le situazioni rilevanti sono quindi evidentemente più ampie della fattispecie penalistica (artt. 318, 319 e 319-ter codice penale) e sono tali da comprendere non solo l'intera gamma dei delitti contro la pubblica amministrazione, ma anche le situazioni in cui -a prescindere dalla rilevanza penale -venga in evidenza un malfunzionamento dell'amministrazione a causa dell'uso ai fini privati delle funzioni attribuite”. LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà Pertanto, al concetto penalistico di corruzione se ne affianca uno nuovo e più ampio: quello di corruzione amministrativa, quando un'inefficienza della macchina amministrativa sia causata dall'uso distorto a fini privati delle funzioni attribuite, a prescindere dalla rilevanza penale della fattispecie. In questo modo, le maglie dei comportamenti rilevanti ai fini della corruzione si allargano ulteriormente e ciò consente di ricomprendere, nell'ambito applicativo della normativa, anche tutte quelle situazioni che, prima dell'entrata in vigore della legge n. 190/2012, rimanevano sostanzialmente impunite, alimentando sacche di inefficienza e di illegalità all'interno degli enti territoriali (c.d. maladministration). L'obiettivo perseguito è, pertanto, quello di promuovere la cultura dell'integrità e della legalità, anche attraverso l'introduzione di strumenti concreti come il Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione (PTPC) e la figura del responsabile della prevenzione della corruzione, tenendo conto degli indirizzi contenuti nel PNA (Piano Nazionale Anticorruzione), di cui al successivo paragrafo 4. 3. il governo del territorio. Fatte queste necessarie premesse di ordine generale occorre ora valutare come i principi sopra riportati trovino applicazione e incidano su una delle funzioni più complesse, demandate alla pubblica amministrazione, quale quella del governo e gestione del territorio. Con tale espressione si fa riferimento a tutto quell’insieme di procedimenti amministrativi volti a contemperare i diversi interessi che attengono alla gestione, tutela e più in generale all’uso e alla trasformazione del territorio. A tale ambito si ascrivono principalmente i settori dell’urbanistica e del- l’edilizia, come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. n. 232 del 2005 -Stato e regioni -standards di protezione uniformi, validi in tutte le regioni e non modificabili) con attribuzione alle regioni della potestà legislativa concorrente in materia. Il governo del territorio rappresenta da sempre e viene percepito come un’area ad elevato rischio di corruzione, per le forti pressioni di interessi particolaristici, che possono condizionare o addirittura precludere il perseguimento degli interessi generali. Le principali cause di corruzione in questa materia sono determinate da: a) estrema complessità ed ampiezza della materia, che si riflette nella disorganicità, scarsa chiarezza e stratificazione della normativa di riferimento e perdurante vigenza di una frammentaria legislazione precostituzionale, ancorata alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150. Tale complessità si ripercuote negativamente: sull’individuazione e delimitazione delle competenze spettanti alle diverse amministrazioni coinvolte e sui contenuti -con possibili duplicazioni -dei rispettivi, diversi, atti pianificatori; sui tempi di adozione delle decisioni; sulle risorse pubbliche; sulla fiducia dei cittadini, dei profes rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 sionisti e degli imprenditori; sull’utilità, sull’efficienza e sull’efficacia del ruolo svolto dai pubblici poteri; b) varietà e molteplicità degli interessi pubblici e privati da ponderare, che comportano che gli atti che maggiormente caratterizzano il governo del territorio -i piani generali dei diversi livelli territoriali -presentino un elevato grado di discrezionalità; c) difficoltà nell’applicazione del principio di distinzione fra politica e amministrazione nelle decisioni, le più rilevanti delle quali sono di sicura valenza politica; d) una non adeguata formazione tecnica dei pubblici funzionari preposti all’espletamento di talune gare rispetto alla complessità del loro oggetto, che pone questi ultimi in condizione di difficile gestione della stessa rispetto alle maggiori conoscenze dei privati che vi partecipano, con la conseguenza che vi può essere uno squilibrio nel rapporto tra i due contraenti. Appare opportuno subito chiarire che il rischio corruttivo è trasversale e comune a tutti i processi dell’area governo del territorio, a prescindere dal contenuto (generale o speciale) e dagli effetti (autoritativi o consensuali) degli atti adottati (piani, programmi, concessioni, accordi, convenzioni); rischio che può comportare danni irreversibili, tenuto conto del fatto che gran parte delle trasformazioni territoriali ha conseguenze permanenti, che possono causare la perdita o il depauperamento di risorse non rinnovabili, prima fra tutte il suolo, le cui funzioni sono tanto essenziali quanto infungibili per la collettività e per l'ambiente. La prevenzione e il contrasto del rischio traversale di sviamento dall’interesse pubblico primario richiedono che, nella mappatura di tutti i processi che riguardano il governo del territorio, siano precisati, preliminarmente, i criteri e le specifiche modalità delle verifiche previste, per accertare la compatibilità tra gli effetti delle trasformazioni programmate e la salvaguardia delle risorse ambientali, paesaggistiche e storico culturali, che costituiscono il patrimonio identitario delle popolazioni insediate nello specifico contesto territoriale. 4. i rimedi di cui alla Legge 6 novembre 2012, n. 190 “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”. La legge n. 190 del 2012 detta principi che trovano applicazione anche nella materia della Gestione del Territorio. La ratio della legge, così per come indicato nella sua rubrica, è la prevenzione e la repressione del fenomeno della corruzione, mediante forme di partecipazione, al fine di incentivare gli investimenti anche stranieri e di conseguenza lo sviluppo economico. Al fine di perseguire il suindicato scopo, il legislatore attribuisce a diversi organi competenze e poteri volti a rendere effettive le esigenze di trasparenza e uniformità nell’agire delle PP.AA. LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà La legge individua in ambito nazionale l’Autorità nazionale anticorruzione e le assegna funzioni consultive, di vigilanza e di controllo (commi 1-3). In particolare, tra gli altri compiti, l’Autorità adotta il Piano nazionale anticorruzione (PNA), che ha durata triennale ed è aggiornato annualmente. Esso costituisce atto di indirizzo per le pubbliche amministrazioni -tra le quali rientrano tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane -. Il PNA, in relazione alla dimensione e ai diversi settori di attività degli enti, individua i principali rischi di corruzione e i relativi rimedi e contiene l'indicazione di obiettivi, tempi e modalità di adozione e attuazione delle misure di contrasto alla corruzione. Nell’ottica di collaborazione tra PP.AA. e al fine di rendere concreta l’opera di indirizzo e di coordinamento del dipartimento della funzione pubblica, il legislatore ha previsto che le pubbliche amministrazioni centrali definiscono e trasmettono al suddetto dipartimento un piano di prevenzione della corruzione, che fornisca una valutazione del diverso livello di esposizione degli uffici al rischio di corruzione e indica gli interventi organizzativi volti a prevenire il medesimo rischio. I Comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti possono aggregarsi per definire il piano triennale per la prevenzione della corruzione, secondo le indicazioni contenute nel Piano nazionale anticorruzione. Ai fini della predisposizione del piano triennale per la prevenzione della corruzione, il Prefetto, su richiesta, fornisce il necessario supporto tecnico e informativo agli enti locali, anche al fine di assicurare che i piani siano formulati e adottati nel rispetto delle linee guida contenute nel Piano nazionale. Le finalità del piano di prevenzione (comma 9) sono indicate dal legislatore nel seguente modo: a) individuare le attività, tra le quali quelle di cui al comma 16, riportate al paragrafo successivo, anche ulteriori rispetto a quelle indicate nel Piano nazionale anticorruzione, nell'ambito delle quali è più elevato il rischio di corruzione, e le relative misure di contrasto, anche raccogliendo le proposte dei dirigenti, elaborate nell'esercizio delle competenze previste dall'articolo 16, comma 1, lettera a-bis), del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165; b) prevedere, per le attività individuate ai sensi della lettera a), meccanismi di formazione, attuazione e controllo delle decisioni idonei a prevenire il rischio di corruzione; c) prevedere, con particolare riguardo alle attività individuate ai sensi della lettera a), obblighi di informazione nei confronti del responsabile, individuato ai sensi del comma 7, chiamato a vigilare sul funzionamento e sull'osservanza del piano; rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 d) definire le modalità di monitoraggio del rispetto dei termini, previsti dalla legge o dai regolamenti, per la conclusione dei procedimenti; e) definire le modalità di monitoraggio dei rapporti tra l'amministrazione e i soggetti che con la stessa stipulano contratti o che sono interessati a procedimenti di autorizzazione, concessione o erogazione di vantaggi economici di qualunque genere, anche verificando eventuali relazioni di parentela o affinità sussistenti tra i titolari, gli amministratori, i soci e i dipendenti degli stessi soggetti e i dirigenti e i dipendenti dell'amministrazione; f) individuare specifici obblighi di trasparenza ulteriori rispetto a quelli previsti da disposizioni di legge. I destinatari del piano sono tutti coloro che interagiscono con le Amministrazioni; i dirigenti e tutto il personale sono tenuti ad assicurare la collaborazione all’attuazione del piano. 5. La figura del responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza. All’interno di ogni singola P.A. ed ente locale viene individuato, di norma tra i dirigenti di ruolo in servizio, il responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza (comma 7). Il responsabile della prevenzione della corruzione predispone ogni anno il Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione. Il Piano, una volta fatto proprio dall'organo politico di vertice, viene pubblicato sul sito internet, nella sezione "Amministrazione Trasparente". Al responsabile competono, in base alla L. 190/2012, le seguenti attività e funzioni: -elaborare la proposta di Piano della prevenzione, che deve essere adottato dall'organo di indirizzo politico (art. 1, comma 8); -definire le procedure appropriate per selezionare e formare i dipendenti destinati ad operare in settori particolarmente esposti alla corruzione (art. 1, comma 8); -verificare l'efficace attuazione e l'idoneità del Piano (art. 1, comma 10, lett. a); -proporre modifiche al Piano in caso di accertamento di significative violazioni o di mutamenti dell'organizzazione (art. 1, comma 10, lett. a); -verificare, d'intesa con i dirigenti competenti, l'effettiva rotazione degli incarichi negli uffici preposti allo svolgimento delle attività nel cui ambito è più elevato il rischio che siano commessi reati di corruzione (art. 1, comma 10, lett. b); -individuare il personale da inserire nei percorsi di formazione generici e specifici sui temi dell'etica e della legalità (art. 1, comma 10, lett. c); -pubblicare entro il 15 dicembre di ogni anno sul sito web aziendale una relazione recante i risultati dell'attività (art. 1, comma 14); LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà -vigilare sul rispetto delle disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità (art. 15 d.lgs. n. 39/2013). In capo al responsabile della prevenzione della corruzione e trasparenza incombono le seguenti responsabilità: -in caso di commissione, all'interno dell'amministrazione, di un reato di corruzione accertato con sentenza passata in giudicato, il responsabile della prevenzione della corruzione ne risponde dal punto di vista disciplinare, oltre che per il danno erariale e all'immagine della pubblica amministrazione, salvo che provi tutte le seguenti circostanze: a) di avere predisposto, prima della commissione del fatto, il Piano di cui al comma 5 e di aver osservato le prescrizioni di cui ai commi 9 e 10 dell'articolo in disamina; b) di aver vigilato sul funzionamento e sull'osservanza del Piano; -in ipotesi di ripetute violazioni delle misure di prevenzione previste dal Piano, il responsabile risponde ai sensi dell'articolo 21 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nonché, per omesso controllo, sul Piano disciplinare. La violazione, da parte dei dipendenti dell'amministrazione, delle misure di prevenzione previste dal Piano costituisce illecito disciplinare. Nel caso in cui, nello svolgimento della sua attività, riscontri dei fatti che possono presentare una rilevanza disciplinare, il responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza deve darne tempestiva informazione al dirigente preposto all'ufficio, a cui il dipendente è addetto o al dirigente sovraordinato, se trattasi di dirigente e all'ufficio procedimenti disciplinari, affinché possa essere avviata, con tempestività, l'azione disciplinare. Qualora venga a conoscenza di fatti suscettibili di dar luogo a responsabilità amministrativa, deve presentare tempestiva denuncia alla competente procura della Corte dei conti per le eventuali iniziative in ordine all'accertamento del danno erariale. ove apprenda notizie di reato, deve presentare denuncia alla procura della repubblica o ad un ufficiale di polizia giudiziaria con le modalità previste dalla legge (art. 331 c.p.p.) e deve darne tempestiva informazione all'Autorità nazionale anticorruzione. ove riscontri ipotesi di possibile violazione delle disposizioni in materia di inconferibilità o incompatibilità, ai sensi del d.lgs. n. 39/2013, deve contestare all'interessato l'esistenza o l'insorgere delle situazioni di inconferibilità o incompatibilità di cui al richiamato decreto legislativo. Qualora le situazioni di inconferibilità o incompatibilità contestate all'interessato risultino effettivamente sussistenti e le cause di incompatibilità non vengano tempestivamente rimosse, deve darne segnalazione all'organo di indirizzo politico, ossia all'oIv, all'Autorità nazionale anticorruzione, all'Autorità garante della concorrenza e del mercato ai fini dell'esercizio delle funzioni di cui alla legge 20 luglio 2004, n. 215, nonché alla Corte dei Conti, per l'accer rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 tamento di eventuali responsabilità amministrative (art. 15 d.lgs. n. 39/2013). Il responsabile segnala, poi, all'organo di indirizzo e all'organismo indipendente di valutazione le disfunzioni inerenti all'attuazione delle misure in materia di prevenzione della corruzione e di trasparenza e indica agli uffici, competenti all'esercizio dell'azione disciplinare, i nominativi dei dipendenti, che non hanno attuato correttamente le misure in materia di prevenzione della corruzione e di trasparenza. Eventuali misure discriminatorie, dirette o indirette, nei confronti del responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza per motivi collegati, direttamente o indirettamente, allo svolgimento delle sue funzioni devono essere segnalate all'Autorità nazionale anticorruzione, che può chiedere informazioni all'organo di indirizzo ed intervenire nelle forme di cui al comma 3, articolo 15, decreto legislativo 8 aprile 2013, n. 39. L’eventuale provvedimento di revoca deve essere comunicato all'Autorità nazionale anticorruzione che, entro trenta giorni, può formulare una richiesta di riesame, qualora rilevi che la revoca sia correlata alle attività svolte dal responsabile in materia di prevenzione della corruzione. decorso tale termine, la revoca diventa efficace. va infine segnalato che mentre non vi è alcun indirizzo quanto all’individuazione di tale responsabile all’interno delle PP.AA. dell’amministrazione centrale, per quanto riguarda gli enti locali il legislatore ha stabilito che la scelta del responsabile deve ricadere sul segretario o sul dirigente apicale “salva diversa e motivata determinazione”. Con la redazione del piano triennale per la prevenzione della corruzione vengono stabiliti, su proposta del responsabile, gli obiettivi strategici in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza. Il piano viene, poi, trasmesso all'Autorità nazionale anticorruzione (comma 8). Negli enti locali il piano è approvato dalla giunta. Altro aspetto da sottolineare è la previsione secondo cui l’elaborazione del piano non può essere affidata a soggetti estranei all'amministrazione. A titolo meramente esemplificativo, nella regione Lazio sono considerate attività c.d. sensibili le seguenti: - autorizzazioni, concessioni; -procedure di appalto per l'affidamento di lavori, servizi e forniture, ivi comprese le procedure in economia e gli affidamenti d'urgenza; -erogazioni a contenuto liberale sotto forma di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari, nonché attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati; -conferimento di incarichi dirigenziali individuati discrezionalmente dal- l'organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione; -concorsi e prove selettive per l'assunzione di personale anche a tempo determinato e per la progressione di carriera; LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà -attività di pianificazione urbanistica ed attuativa, ivi compresi i permessi di costruire, nonché monetizzazioni e bonus volumetrici; - accordi in materia di urbanistica negoziata; - procedure di assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica; -attività di accertamento e di verifica della elusione ed evasione tributaria ed extratributaria; -materie oggetto di incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi (art. 53 d.lgs. n. 165/2001 e s.m.i., così come modificato dalla Legge n. 190/2012); - transazioni stragiudiziali; - sponsorizzazioni; - donazioni a favore dell'ente; -proroghe e rinnovi di un servizio o di una fornitura; - nomine in società pubbliche; - nomine di legali esterni; - affidamenti di servizi pubblici; - liquidazioni e collaudi; - affidamenti diretti; - procedimenti sanzionatori; -rapporti di partenariato pubblico/privato in genere; -pagamenti in genere; -incarichi di consulenza, studio e ricerca e di collaborazione, nonché di supporto al rUP ai sensi del d.lgs. n. 163/2006 e ss.mm.ii.; - sgravi tributari; -alienazione di beni immobili e costituzione di diritti reali minori su di essi o concessione in uso di beni appartenenti al patrimonio disponibile del- l'ente; - gestione del patrimonio immobiliare; - utilizzo dei beni dell'ente da parte del personale. Una volta individuate le attività a più elevato rischio di corruzione, si procede alla mappatura dei rischi, vale a dire all'individuazione del tipo di rischio collegato ad ognuna di esse. La mappatura dei rischi presuppone una prima analisi dei singoli procedimenti e dei tempi degli stessi, al fine di individuare le possibili criticità che potrebbero generare eventuali comportamenti illeciti e/o illegali. Per ciascun rischio sono indicate azioni e misure idonee a prevenirlo o quantomeno a ridurlo. In via generale, tra queste azioni possiamo citare, a titolo meramente esemplificativo, le seguenti: -assicurare la massima trasparenza e accessibilità alle informazioni ai fini della tracciabilità dell'attività amministrativa. Il responsabile dovrà vigilare affinché sia assicurata puntuale applicazione alle disposizioni della legge n. 190/2012, del decreto legislativo n. 33/2013 e delle altre fonti normative vigenti; -motivare adeguatamente gli atti, soprattutto in presenza di attività di rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 screzionale: maggiore è la discrezionalità del provvedimento, tanto più è necessario l'onere di motivazione; -distinguere l'attività istruttoria e la relativa responsabilità dall'adozione dell'atto finale, in modo tale che per ogni atto siano coinvolti almeno due soggetti l'istruttore proponente e il dirigente; -rispettare tutte le disposizioni in materia di procedimento amministrativo, con particolare riferimento ai termini e al divieto di aggravio del procedimento amministrativo; -assicurare la rotazione del personale dirigenziale e del personale con funzioni di responsabilità operante nelle aree a rischio di corruzione, garantendo comunque la continuità dell'azione amministrativa; -intraprendere adeguate iniziative per informare il personale sull'obbligo di astenersi in caso di situazioni di conflitto di interessi, anche solo potenziale; -verificare la sussistenza di eventuali condizioni ostative in capo ai soggetti ai quali intendono conferire incarichi dirigenziali, nonché eventuali incompatibilità ai sensi del decreto legislativo n. 39/2013; -impartire direttive interne affinché sia rispettato, da parte di dipendenti che hanno esercitato poteri negoziali per conto della P.A., il divieto di prestare attività lavorativa nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di lavoro presso gli stessi soggetti privati destinatari della loro attività (art. 53, comma 16-ter, decreto legislativo n. 165/2001); -verificare la sussistenza di eventuali precedenti penali a carico di dipendenti e/o di soggetti cui si intende conferire incarichi per la formazione di commissioni, ovvero l'assegnazione ad uffici particolarmente esposti al rischio di corruzione; -adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'anonimato del dipendente che segnala illeciti di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro (art. 54-bis del decreto legislativo n. 165/2001). Sempre al fine di prevenire fenomeni patologici nell’esercizio dei poteri attribuiti ai funzionari delle diverse PP.AA., il legislatore, all’art. 1 comma 15 legge 2012 n. 190, ha previsto “la trasparenza dell'attività amministrativa, che costituisce livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione” ed è assicurata “mediante la pubblicazione, nei siti web istituzionali delle pubbliche amministrazioni, delle informazioni relative ai procedimenti amministrativi, secondo criteri di facile accessibilità, completezza e semplicità di consultazione, nel rispetto delle disposizioni in materia di segreto di Stato, di segreto d'ufficio e di protezione dei dati personali”. Tra i procedimenti in esame, il comma 16, indica quelli di: a) autorizzazione o concessione; b) scelta del contraente per l'affidamento di lavori, forniture e servizi, anche con riferimento alla modalità di selezione prescelta ai sensi del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163; c) concessione ed erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari, nonché attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati; d) concorsi e prove selettive per l'assunzione del personale e progressioni di carriera di cui all'articolo 24 del citato decreto legislativo n. 150 del 2009. Tale pubblicazione è prevista anche per i bilanci e i conti consuntivi, nonché i costi unitari di realizzazione delle opere pubbliche e di produzione dei servizi erogati ai cittadini. rispetto a tali procedimenti e in relazione all’obbligo di trasparenza indicato al comma 15, il successivo comma 32, indica in modo specifico i dati che le stazioni appaltanti devono pubblicare (es. oggetto del bando, elenco soggetti invitati, importi liquidati, tempi di completamento dell’opera). Sempre nell’ottica dell’effettività della trasparenza amministrativa, il comma 30, dispone che le amministrazioni, nel rispetto della disciplina del diritto di accesso ai documenti amministrativi di cui al capo v della legge 7 agosto 1990, n. 241, hanno l'obbligo di rendere accessibili in ogni momento agli interessati, tramite strumenti di identificazione informatica, le informazioni relative ai provvedimenti e ai procedimenti amministrativi che li riguardano, ivi comprese quelle relative allo stato della procedura, ai relativi tempi e allo specifico ufficio competente in ogni singola fase. 6. La trasparenza. Con il d.lgs. n. 33/2013, il legislatore ha introdotto significative novità rispetto alla precedente normativa in tema di trasparenza, novità di seguito specificate: 1. l'introduzione di un nuovo istituto chiamato “accesso civico”, inteso come diritto, da parte di qualunque cittadino, di richiedere i documenti, le informazioni o i dati oggetto di pubblicazione obbligatoria, senza alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente; 2. la standardizzazione delle modalità di pubblicazione, in modo da rendere facilmente comparabili i siti istituzionali delle pubbliche amministrazioni; 3. un articolato sistema sanzionatorio che riguarda le persone fisiche inadempienti, gli enti e gli altri organismi destinatari e che, in taluni casi, colpisce l'atto da pubblicare, disponendone l'inefficacia. Il d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97 ha introdotto all’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 33/2013 l'istituto dell’accesso civico generalizzato, con cui il legislatore ha riconosciuto a chiunque il diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti. Esso si inserisce nel più generale diritto all'informazione dei cittadini rispetto all'organizzazione e all'attività della pubblica amministrazione e di controllo democratico del suo operato e attiene ai livelli essenziali delle rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. L'accesso civico rappresenta “l'espressa previsione del diritto di ciascuno alla conoscibilità, ovvero del diritto a conoscere, utilizzare e riutilizzare (alle condizioni descritte nel decreto) i dati, i documenti e le informazioni in quanto oggetto di pubblicazione obbligatoria” (cfr. parere del Garante per la protezione dei dati personali n. 49 del 7 febbraio 2013). Il d.lgs. n. 33/2013 riconosce un diritto soggettivo in capo a qualunque cittadino, diritto a cui corrisponde un obbligo di provvedere in capo alla pubblica amministrazione, nel caso in cui sia stata omessa la pubblicazione obbligatoria o tale pubblicazione sia avvenuta in modo solo parziale. Chiunque può legittimamente presentare richiesta di accesso civico senza alcuna motivazione, né specificazione delle ragioni che lo inducono a formulare tale richiesta, ogni qualvolta la pubblicazione sia stata omessa o risulti parziale. La richiesta, inoltre, è completamente gratuita. La richiesta di accesso civico ha ad oggetto tutti i documenti, le informazioni o i dati per i quali il legislatore abbia previsto la pubblicazione obbligatoria ai sensi dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 33/2013, “fermi restando i limiti e le condizioni espressamente previsti da disposizioni di legge, procedendo all’anonimizzazione dei dati personali eventualmente presenti" (art. 4, comma 3). Le singole amministrazioni sono tenute ad adottare autonomamente le misure organizzative necessarie al fine di assicurare l'efficacia di tale istituto e a pubblicare, nella sezione “amministrazione Trasparente”, gli indirizzi di posta elettronica cui inoltrare le richieste di accesso civico, corredate dalle informazioni relative alle modalità di esercizio di tale diritto. Anche nell'ordinamento dell'Unione Europea, soprattutto a seguito del- l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona (cfr. art. 15 TFUE e capo v della Carta dei diritti fondamentali) il diritto di accesso non è preordinato alla tutela di una propria posizione giuridica soggettiva, quindi non richiede la prova di un interesse specifico, ma risponde ad un principio generale di trasparenza dell'azione dell'Unione ed è uno strumento di controllo democratico sull'operato dell'amministrazione europea, come strumento per promuovere il buon governo e garantire la partecipazione della società civile. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha qualificato il diritto di accesso alle informazioni quale specifica manifestazione della libertà di informazione ed in quanto tale protetto dall'art. 10(1) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Come previsto nella legge 190/2012, il principio della trasparenza costituisce, inoltre, misura fondamentale per le azioni di prevenzione e contrasto anticipato della corruzione. A questa impostazione consegue, nel novellato decreto legislativo n. 33 del 2013 ad opera del decreto legislativo n. 97 del 2016, il rovesciamento della LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà precedente prospettiva che comportava l'attivazione del diritto di accesso civico solo strumentalmente all'adempimento dell'obbligo di pubblicazione; ora è proprio la libertà di accedere ai dati e ai documenti, cui corrisponde una diversa versione dell'accesso civico, a divenire centrale nel nuovo sistema, in analogia agli ordinamenti aventi il Freedom of Information Act (FoIA), ove il diritto all'informazione è generalizzato e la regola generale è la trasparenza, mentre la riservatezza e il segreto costituiscono le eccezioni. In coerenza con il quadro normativo, il diritto di accesso civico disciplinato dall'art. 5, comma 1 d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33 si configura come diritto a titolarità diffusa, potendo essere attivato “da chiunque” e non essendo sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente (comma 3). A ciò si aggiunge un ulteriore elemento, ossia che l'istanza “non richiede motivazione”. In altri termini, tale nuova tipologia di accesso risponde all'interesse dell'ordinamento di assicurare ai cittadini (a “chiunque”), indipendentemente dalla titolarità di situazioni giuridiche soggettive, un accesso a dati, documenti e informazioni detenute da pubbliche amministrazioni e dai soggetti indicati nell'art. 2-bis del d.lgs. 33/2013 come modificato dal d.lgs. 97/2016. Per quanto sopra evidenziato, si ritiene che i principi delineati debbano fungere da canone interpretativo in sede di applicazione della disciplina del- l'accesso civico generalizzato da parte delle amministrazioni e degli altri soggetti obbligati, avendo il legislatore posto la trasparenza e l'accessibilità come la regola rispetto alla quale i limiti e le esclusioni previste dall'art. 5 bis del d.lgs. 33/2013, rappresentano eccezioni e come tali da interpretarsi restrittivamente. L'accesso civico generalizzato non sostituisce l'accesso civico “semplice” (d'ora in poi “accesso civico”) previsto dall'art. 5, comma 1 del decreto trasparenza e disciplinato nel citato decreto già prima delle modifiche ad opera del d.lgs. 97/2016. L'accesso civico rimane circoscritto ai soli atti, documenti e informazioni oggetto di obblighi di pubblicazione e costituisce un rimedio alla mancata osservanza degli obblighi di pubblicazione imposti dalla legge, sovrapponendo al dovere di pubblicazione, il diritto del privato di accedere ai documenti, dati e informazioni interessati dall'inadempienza. I due diritti di accesso, pur accomunati dal diffuso riconoscimento in capo a“chiunque”, indipendentemente dalla titolarità di una situazione giuridica soggettiva connessa, sono quindi destinati a muoversi su binari differenti. L'accesso civico generalizzato si delinea come affatto autonomo ed indipendente da presupposti obblighi di pubblicazione e come espressione, invece, di una libertà che incontra, quali unici limiti, da una parte, il rispetto della tutela degli interessi pubblici e/o privati indicati all'art. 5 bis, commi 1 e 2 e dall'altra, il rispetto delle norme che prevedono specifiche esclusioni (art. 5 bis, comma 3). L'accesso civico generalizzato si differenzia dalla disciplina dell'accesso rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 ai documenti amministrativi di cui agli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241 (d'ora in poi “accesso documentale”). La finalità dell'accesso documentale ex l. 241/90 è quella di far esercitare al meglio le facoltà -partecipative e/o oppositive e difensive -che l'ordinamento attribuisce a tutela delle posizioni giuridiche qualificate di cui si è titolari. Più precisamente, dal punto di vista soggettivo, ai fini dell'istanza di accesso ex lege n. 241 del 1990 il richiedente deve dimostrare di essere titolare di un «interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso». La legge 241/90 esclude perentoriamente l'utilizzo del diritto di accesso ivi disciplinato al fine di sottoporre l'amministrazione a un controllo generalizzato. dunque, l'accesso agli atti di cui alla L. 241/90 continua certamente a sussistere parallelamente all'accesso civico (generalizzato e non), operando sulla base di norme e presupposti del tutto difformi. Tenere distinte le due tipologie di accesso è essenziale per calibrare i diversi interessi in gioco, allorché si renda necessario un bilanciamento caso per caso tra tali interessi. Come già evidenziato, essendo l'ordinamento improntato ad una netta preferenza per la trasparenza dell'attività amministrativa, la conoscibilità generalizzata degli atti diviene la regola, temperata solo dalla previsione di eccezioni poste a tutela di interessi (pubblici e privati), che possono essere lesi/pregiudicati dalla rivelazione di certi dati e/o contemperati attraverso lo strumento del differimento. Ulteriori istituti che assicurano ai cittadini l’esercizio del diritto di accesso sono l’accesso alla documentazione relativa alle gare d’appalto (art. 53 del d.lgs. 50/2016) e la disciplina di particolare favore riservata ai Consiglieri comunali e provinciali (art. 43 del d.lgs. 267/2000 TUEL). 7. La pianificazione territoriale regionale, provinciale o metropolitana. La pianificazione territoriale, sia di carattere generale che settoriale, che di livello metropolitano, provinciale, regionale o d’area vasta, pur assumendo nelle legislazioni regionali denominazioni talvolta differenti, è regolamentata in maniera analoga, per i profili concernenti la trasparenza e la partecipazione alle diverse fasi in cui si articola la procedura di approvazione (formazione, adozione e approvazione del piano). Molte legislazioni regionali prevedono, infatti, peculiari forme di pubblicità dell’atto con cui l’organo di governo manifesta la volontà di procedere all’elaborazione del piano territoriale o alla sua variante, disciplinando già in questa fase la partecipazione dei portatori di interesse. Con riferimento alla fase di adozione dell’atto di pianificazione regionale, le discipline regionali sono sostanzialmente omogenee, prevedendo ampie LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà forme di pubblicità tra cui la consultazione degli atti via web e presso le sedi regionali, provinciali, spesso anche presso le sedi comunali, garantendo a tutti i portatori di interesse la possibilità di accedere agli atti e di esprimere le proprie osservazioni. Con riferimento, infine, alla fase di approvazione, la proposta di atto di pianificazione territoriale viene elaborata con apposito atto motivato (anche sull’accoglimento delle osservazioni) e trasmessa al Consiglio regionale per l’approvazione definitiva. 8. i processi di pianificazione comunale generale e l’attività di vigilanza. Il modello della pianificazione disciplinato dalla legge urbanistica 1150/1942 prevede il piano regolatore generale (p.r.g.), che presenta, oltre ad un contenuto direttivo e programmatico, prescrizioni vincolanti per i privati, con effetti conformativi della proprietà. Esso può essere ricondotto ai piani comunali generali, ovvero a quegli strumenti di pianificazione urbanistica che hanno ad oggetto l’intero territorio comunale. Le leggi regionali hanno introdotto propri modelli di pianificazione urbanistico- territoriale e sono intervenute sulla struttura, sul contenuto e sugli effetti giuridici della pianificazione urbanistica comunale, che può articolarsi su più livelli. di conseguenza, il panorama attuale dei piani comunali generali si presenta molto variegato e complesso. Pertanto, anche la mappatura dei processi di pianificazione generale e l’individuazione dei rischi corruttivi che ne derivano devono essere dimensionate e calibrate da ogni amministrazione interessata in rapporto a tale complessità e varietà. di seguito si indicano alcuni eventi rischiosi, aggregati per fasi del processo, che possono considerarsi comuni ai vari modelli adottati dalle regioni ed alcune misure per prevenirli. Le varianti specifiche allo strumento urbanistico generale, approvate con iter ordinario ovvero attraverso i numerosi procedimenti che consentono l’approvazione di progetti con l’effetto di variante agli strumenti urbanistici, sono esposte a rischio corruttivo e necessitano di misure preventive integrative, laddove dalle modifiche derivi per i privati interessati un significativo aumento delle potestà edificatorie o del valore d’uso degli immobili interessati. I rischi connessi a tali varianti ineriscono in particolare: alla scelta o al maggior consumo del suolo finalizzati a procurare un indebito vantaggio ai destinatari del provvedimento; alla possibile disparità di trattamento tra diversi operatori; alla sottostima del maggior valore generato dalla variante. La mancanza di chiare e specifiche indicazioni preliminari, da parte degli organi politici, sugli obiettivi delle politiche di sviluppo territoriale, alla cui concretizzazione le soluzioni tecniche devono essere finalizzate, può impedire una trasparente verifica della corrispondenza tra le soluzioni tecniche adottate rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 e le scelte politiche ad esse sottese, non rendendo evidenti gli interessi pubblici che effettivamente si intendono privilegiare. Tale commistione tra soluzioni tecniche e scelte politiche è ancor più rimarcata nel caso in cui la redazione del piano sia affidata a tecnici esterni al- l’amministrazione comunale. va rilevato che in caso di affidamento della redazione del piano a soggetti esterni all’amministrazione comunale, è necessario che l’ente renda note le ragioni che determinano questa scelta, le procedure che intende seguire per individuare il professionista, cui affidare l’incarico e i relativi costi, nel rispetto della normativa vigente in materia di affidamento di servizi e, comunque, dei principi dell’evidenza pubblica; il Comune, specialmente se di piccole dimensioni, può valutare preventivamente la possibilità di associarsi con comuni confinanti per la redazione dei rispettivi piani, con conseguente risparmio di costi e possibilità di acquisire una visione più ampia e significativa di contesti territoriali contigui e omogenei. In ogni caso, è opportuno che lo staff, incaricato della redazione del piano, sia interdisciplinare (con la presenza di competenze anche ambientali, paesaggistiche e giuridiche) e che siano comunque previste modalità operative, che vedano il diretto coinvolgimento delle diverse strutture comunali. È fondamentale la verifica dell’assenza di cause di incompatibilità o di casi di conflitto di interesse in capo a tutti i soggetti appartenenti al gruppo di lavoro, anteriormente all’avvio del processo di elaborazione del piano, nonché l’individuazione, da parte dell'organo politico competente, degli obiettivi generali del piano e l’elaborazione di criteri generali e linee guida per la definizione delle conseguenti scelte pianificatorie. In quest’ottica è utile prevedere, in fase di adozione dello strumento urbanistico, che l'amministrazione comunale effettui un’espressa verifica del rispetto della coerenza tra gli indirizzi di politica territoriale e le soluzioni tecniche adottate e in caso apporti i conseguenti correttivi. Può, altresì, essere opportuno dare ampia diffusione di tali documenti di indirizzo alla popolazione locale, prevedendo forme di partecipazione dei cittadini sin dalla fase di redazione del piano, in modo da acquisire ulteriori informazioni sulle effettive esigenze o sulle eventuali criticità di aree specifiche, per adeguare ed orientare le soluzioni tecniche, ma anche al fine di consentire a tutta la cittadinanza, così come alle associazioni e organizzazioni locali, di avanzare proposte di carattere generale e specifico per riqualificare l’intero territorio comunale, con particolare attenzione ai servizi pubblici. Possibili misure atte a scongiurare rischi di contaminazioni illecite nel procedimento possono essere quelle di divulgare le decisioni fondamentali contenute nel piano adottato, anche attraverso l’elaborazione di documenti di sintesi dei loro contenuti in linguaggio non tecnico e la predisposizione di punti informativi per i cittadini. LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà Nella fase di approvazione del piano è opportuno che sia prevista una motivazione puntuale delle decisioni di accoglimento delle osservazioni che modificano il piano adottato, con particolare riferimento agli impatti sul contesto ambientale, paesaggistico e culturale. In alcune leggi regionali è previsto che la regione, la provincia e la città metropolitana svolgano un’importante attività di concorso nel processo di approvazione dei piani comunali, finalizzata a garantire la coerenza tra i vari livelli di governo del territorio. Nell’esercizio di tale funzione possono individuarsi alcuni eventi rischiosi tra cui: il decorso infruttuoso del termine di legge a disposizione degli enti per adottare le proprie determinazioni, al fine di favorire l’approvazione del piano senza modifiche; l’istruttoria non approfondita del piano in esame da parte del responsabile del procedimento; l’accoglimento delle controdeduzioni comunali alle proprie precedenti riserve sul piano, pur in carenza di adeguate motivazioni. Le principali misure di prevenzione possono fare leva sulla trasparenza degli atti, anche istruttori, al fine di rendere evidenti e conoscibili le scelte operate. Per quanto concerne la trasparenza, ad esempio, l’ente (regione, provincia o città metropolitana) cura la pubblicazione sintetica e comprensibile degli atti, anche istruttori al fine di rendere evidenti e conoscibili le scelte operate. La locuzione “piani attuativi” non indica una tipologia omogenea di strumenti pianificatori, bensì una pluralità di strumenti urbanistici di dettaglio, non ascrivibili ad uno schema unitario, configurando tipologie pianificatorie fra loro disomogenee. A tali strumenti esecutivi della pianificazione urbanistica comunale, si è aggiunta una ulteriore categoria dei c.d. “programmi complessi” (il prototipo dei quali è il programma integrato di intervento, introdotto dall’art. 16 della legge 17 febbraio 1992, n. 179 recante «Norme per l’edilizia residenziale pubblica») consistenti in programmi di intervento, finanziati con risorse pubbliche statali e regionali, che prevedono la realizzazione di opere di interesse pubblico e privato, per il recupero e la rigenerazione dei tessuti urbani esistenti. Tali programmi presentano il dettaglio urbanistico proprio dei piani attuativi e sono abilitati ad apportare varianti ai piani urbanistici generali. Nella fase di adozione del piano attuativo il principale evento rischioso è quello della mancata coerenza con il piano generale (e con la legge), che si traduce in uso improprio del suolo e delle risorse naturali. Un’efficace azione di contrasto dei fenomeni corruttivi presuppone che sia valorizzata l’efficacia prescrittiva del piano comunale generale, in ordine alla puntuale definizione degli obiettivi, dei requisiti e delle prestazioni che in fase attuativa degli interventi debbano essere realizzati. La chiarezza di tali indicazioni consente, infatti, di guidare in fase attuativa la verifica da parte delle strutture comunali del rispetto degli indici e parametri edificatori e degli standards urbanistici stabiliti dal piano generale, rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 ma anche della traduzione grafica delle scelte urbanistiche riguardanti: la viabilità interna, l’ubicazione dei fabbricati, la sistemazione delle attrezzature pubbliche, l’estensione dei lotti da edificare, ecc. I piani attuativi di iniziativa privata si caratterizzano per la presenza di un promotore privato, che predispone lo strumento urbanistico di esecuzione, sottoponendolo all’approvazione comunale e con il quale viene stipulata una convenzione per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria e per la cessione delle aree necessarie. Tali piani sono pertanto particolarmente esposti al rischio di indebite pressioni di interessi particolaristici. I piani attuativi di iniziativa pubblica presentano caratteristiche comuni con i piani sopradescritti, ma sono caratterizzati in genere da una minore pressione o condizionamento da parte dei privati. Tuttavia, particolare attenzione deve essere prestata ai piani in variante, qualora risultino in riduzione delle aree assoggettate a vincoli ablatori. Fra gli atti predisposti nel corso del processo di pianificazione attuativa, lo schema di convenzione riveste un particolare rilievo, in quanto stabilisce gli impegni assunti dal privato per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione connesse all’intervento (ed in particolare: obbligo di realizzazione di tutte le opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria o di quelle che siano necessarie per allacciare la zona ai servizi pubblici; obbligo di cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria e per le attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale; nel caso in cui l’acquisizione di tali aree non risulti possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune, corresponsione di una somma commisurata all’utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al costo dell’acquisizione di altre aree; congrue garanzie finanziarie per gli obblighi derivanti al privato per effetto della stipula della convenzione). Nel calcolo degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, un primo, possibile, evento rischioso è connesso alla non corretta, non adeguata o non aggiornata commisurazione degli “oneri” dovuti, in difetto o in eccesso, rispetto all’intervento edilizio da realizzare, al fine di favorire eventuali soggetti interessati. Ciò può aver luogo a causa di una erronea applicazione dei sistemi di calcolo, ovvero a causa di omissioni o errori nella valutazione dell’incidenza urbanistica dell’intervento e/o delle opere di urbanizzazione che lo stesso comporta. Altrettanto rilevante è la corretta individuazione delle opere di urbanizzazione necessarie e dei relativi costi, in quanto la sottostima/sovrastima delle stesse può comportare un danno patrimoniale per l’ente, venendo a falsare i contenuti della convenzione riferiti a tali valori (scomputo degli oneri dovuti, calcolo del contributo residuo da versare, ecc.). Possibili eventi rischiosi possono essere: l’individuazione di un’opera come prioritaria, laddove essa, invece, sia a beneficio esclusivo o prevalente LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà dell’operatore privato; l’indicazione di costi di realizzazione superiori a quelli che l’amministrazione sosterebbe con l’esecuzione diretta. Nella cessione delle aree necessarie per opere di urbanizzazione primaria e secondaria, le valutazioni compiute dall’amministrazione ai fini dell’acquisizione delle aree sono connotate da una forte discrezionalità tecnica. La cessione gratuita delle aree per standards è determinata con riferimento alle previsioni normative e al progetto urbano delineato dal piano e deve essere coerente con le soluzioni progettuali contenute negli strumenti urbanistici esecutivi o negli interventi edilizi diretti convenzionati, mentre tempi e modalità della cessione sono stabiliti nella convenzione. I possibili eventi rischiosi consistono dunque: nell’errata determinazione della quantità di aree da cedere (inferiore a quella dovuta ai sensi della legge o degli strumenti urbanistici sovraordinati); nell’individuazione di aree da cedere di minor pregio o di poco interesse per la collettività, con sacrificio dell'interesse pubblico a disporre di aree di pregio per servizi, quali verde o parcheggi; nel- l’acquisizione di aree gravate da oneri di bonifica anche rilevanti. In conformità alla legislazione regionale vigente, la pianificazione urbanistica può prevedere il versamento al comune di un importo alternativo alla cessione diretta delle aree, qualora l'acquisizione non risulti possibile o non sia ritenuta opportuna, in relazione alla estensione delle aree, alla loro conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento. Tale valutazione appartiene alla discrezionalità tecnica degli uffici competenti e può comportare minori entrate per le finanze comunali, ma anche determinare un’elusione dei corretti rapporti tra spazi destinati agli insediamenti residenziali o produttivi e spazi a destinazione pubblica, con sacrificio del- l’interesse generale a disporre di servizi -quali aree a verde o parcheggi -in aree di pregio. Anche nel corso del processo di approvazione del piano attuativo, possono essere riscontrati eventi rischiosi (legati alla scarsa trasparenza e conoscibilità dei contenuti del piano, alla mancata o non adeguata valutazione delle osservazioni pervenute, dovuta a indebiti condizionamenti dei privati interessati, al non adeguato esercizio della funzione di verifica dell’ente sovraordinato). La fase dell’esecuzione da parte degli operatori privati delle opere di urbanizzazione presenta rischi analoghi a quelli previsti per l’esecuzione di lavori pubblici e alcuni rischi specifici, laddove l’amministrazione non eserciti i propri compiti di vigilanza al fine di evitare la realizzazione di opere qualitativamente di minor pregio rispetto a quanto dedotto in obbligazione. Le carenze nell’espletamento di tale importante attività comportano un danno sia per l’ente, che sarà costretto a sostenere più elevati oneri di manutenzione o per la riparazione di vizi e difetti delle opere, sia per la collettività e per gli stessi acquirenti degli immobili privati realizzati che saranno privi di servizi essenziali ai fini dell’agibilità degli stessi. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 Altro rischio tipico è costituito dal mancato rispetto delle norme sulla scelta del soggetto che deve realizzare le opere. Al fine di evitare quanto sopra è opportuno costituire un’apposita struttura interna, composta da dipendenti di uffici tecnici con competenze adeguate alla natura delle opere e che non siano in rapporto di contiguità con il privato, che verifichi puntualmente la correttezza dell’esecuzione delle opere previste in convenzione. Tale compito di vigilanza deve comprendere anche l’accertamento della qualificazione delle imprese utilizzate, qualora l’esecuzione delle opere sia affidata direttamente al privato titolare del permesso di costruire, in conformità alla vigente disciplina in materia (cfr. d.lgs. 50/2016, artt. 1, co. 2, lettera e) e 36, co. 3 e 4, ove è fatta salva la disposizione di cui all’art. 16, co. 2-bis, del Testo Unico sull’edilizia). L’attività amministrativa attinente al rilascio o alla presentazione dei titoli abilitativi edilizi e ai relativi controlli, salvo diversa disciplina regionale, è regolata dal d.p.r. 380/2001. va rilevato che il procedimento per il rilascio del permesso di costruire e la verifica delle istanze presentate dai privati in relazione a SCIA, CIL e CILA sono considerati espressione di attività vincolata, in quanto in presenza dei requisiti e presupposti richiesti dalla legge non sussistono margini di discrezionalità, né circa l’ammissibilità dell’intervento, né sui contenuti progettuali dello stesso. Nondimeno, l’ampiezza e la complessità della normativa da applicare è tale da indurre a considerare l’attività edilizia un’area di rischio specifico. Sotto il profilo della complessità e rilevanza dei processi interpretativi, non sussistono differenze significative tra i diversi tipi di titoli abilitativi edilizi: l’uno, il permesso di costruire, richiede il rilascio di un provvedimento abilitativo (suscettibile di silenzio assenso); l’altro, la SCIA presuppone comunque un obbligo generale dell’amministrazione comunale di provvedere al controllo della pratica. Ma in entrambi i casi è necessaria una attività istruttoria che porti all’accertamento della sussistenza dei requisiti e presupposti previsti dalla legge per l’intervento ipotizzato. In questa fase il principale evento rischioso consiste nell’assegnazione a tecnici in rapporto di contiguità con professionisti o aventi titolo al fine di orientare le decisioni edilizie. Nelle difficoltà di attuare misure di rotazione, a causa della specializzazione richiesta ai funzionari assegnati a tali funzioni, gli eventi corruttivi possono essere prevenuti, ove possibile, con l’informatizzazione delle procedure di protocollazione e assegnazione automatica delle pratiche ai diversi responsabili del procedimento. Sotto questo profilo è utile mantenere la tracciabilità delle modifiche alle assegnazioni delle pratiche e monitorare i casi in cui tali modifiche avvengono. Anche la fase di richiesta di integrazioni documentali e di chiarimenti LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà istruttori può essere l’occasione di pressioni, al fine di ottenere vantaggi indebiti. Le misure possibili attengono al controllo a campione di tali richieste, monitorando eventuali eccessive frequenze di tali comportamenti, al fine di accertare anomalie. Sia in caso di permesso di costruire (cui si applica il meccanismo del silenzio assenso) che di SCIA (per la quale è stabilito un termine perentorio per lo svolgimento dei controlli), la mancata conclusione dell’attività istruttoria entro i tempi massimi stabiliti dalla legge (e la conseguente non assunzione di provvedimenti sfavorevoli agli interessati) deve essere considerata un evento rischioso. Le amministrazioni devono porre attenzione al calcolo del contributo di costruzione da corrispondere, alla corretta applicazione delle modalità di rateizzazione dello stesso e all’applicazione delle eventuali sanzioni per il ritardo. Gli eventi rischiosi ad esso riferibili sono: l’errato calcolo del contributo, il riconoscimento di una rateizzazione al di fuori dei casi previsti dal regolamento comunale o comunque con modalità più favorevoli e la non applicazione delle sanzioni per il ritardo. In merito al controllo dei titoli rilasciati possono configurarsi rischi di omissioni o ritardi nello svolgimento di tale attività; inoltre può risultare carente la definizione di criteri per la selezione del campione delle pratiche soggette a controllo. In tutti i casi nei quali i controlli sono attuati a campione, la principale misura di prevenzione del rischio appare la puntuale regolamentazione dei casi e delle modalità di individuazione degli interventi da assoggettare a verifica (per esempio con sorteggio in data fissa, utilizzando un estrattore di numeri verificabili nel tempo, dando alle pratiche presentate un peso differente in ragione della rilevanza o della problematicità dell’intervento). L’attività di vigilanza costituisce un processo complesso volto all’individuazione degli illeciti edilizi, all’esercizio del potere sanzionatorio, repressivo e ripristinatorio, ma anche alla sanatoria degli abusi attraverso il procedimento di accertamento di conformità. Questa attività è connotata da un’ampia discrezionalità tecnica e, come tale, è suscettibile di condizionamenti e pressioni esterne, anche in relazione ai rilevanti valori patrimoniali in gioco e alla natura reale della sanzione ripristinatoria. Gli eventi rischiosi consistono, innanzitutto, nell’omissione o nel parziale esercizio dell’attività di verifica dell’attività edilizia in corso nel territorio. Altro evento rischioso può essere individuato nell’applicazione della sanzione pecuniaria, in luogo dell’ordine di ripristino, che richiede una attività particolarmente complessa, dal punto di vista tecnico, di accertamento dell’impossibilità di procedere alla demolizione dell’intervento abusivo senza pregiudizio per le opere eseguite legittimamente in conformità al titolo edilizio. Una particolare attenzione si deve avere per i processi di vigilanza e controllo delle attività edilizie (minori) non soggette a titolo abilitativo edilizio, rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 bensì totalmente liberalizzate o soggette a comunicazione di inizio lavori (CIL) da parte del privato interessato o a CIL asseverata da un professionista abilitato. Tali interventi, infatti, pur essendo comunque tenuti al rispetto della disciplina che incide sull’attività edilizia, sono sottratti alle ordinarie procedure di controllo e sottoposti alla generale funzione comunale di vigilanza sull’attività edilizia, il cui esercizio e le cui modalità di svolgimento di norma non sono soggetti a criteri rigorosi e verificabili. Al fine di prevenire i rischi di mancata ingiunzione a demolire l’opera abusiva o di omessa acquisizione gratuita al patrimonio comunale di quanto costruito, a seguito del mancato adempimento dell’ordine di demolire possono essere introdotte le seguenti misure: -l’istituzione di un registro degli abusi accertati, che consenta la tracciabilità di tutte le fasi del procedimento, compreso l’eventuale processo di sanatoria; -la pubblicazione sul sito del comune di tutti gli interventi oggetto di ordine di demolizione o ripristino e dello stato di attuazione degli stessi, nel rispetto della normativa sulla tutela della riservatezza; -il monitoraggio dei tempi del procedimento sanzionatorio, comprensivo delle attività esecutive dei provvedimenti finali. In conclusione, l’anticorruzione nella gestione del territorio è correlata alla necessità di semplificazione delle procedure e alla maggior trasparenza delle medesime. LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà Come cambierà la sanità dopo il Covid: le linee evolutive future del sistema sanitario nazionale Gaetana Natale* La pandemia vissuta in questi ultimi due anni ci ha fatto capire in maniera drammatica la interrelazione sussistente tra economia e salute. ogni dollaro investito nella ricerca biomedica dà un ritorno di 140 dollari. Il rapporto spesa sanitaria sul PIL in Italia è al di sotto degli altri paesi europei, l’incidenza della spesa sanitaria secondo l’oCSE è del 6% sul PIL. occorre un quadro programmatico e finanziario certo e stabile che tenga conto dell’innovazione, sostenibilità e governance del sistema sanitario, risolvendo anche il rapporto Stato-regioni. La spesa sanitaria non deve essere legata alla spesa storica, ma ai fabbisogni reali, superando la logica dei silos ed introducendo la valutazione del costo-opportunità, dicono gli economisti con modelli predittivi, con un’integrazione ospedale-territorio, con il potenziamento della medicina preventiva, di iniziativa e di prossimità, telemedicina, contrazione della mobilità sanitaria, adeguamento dell’offerta di assistenza sanitaria con un partenariato solido tra pubblico e privato. J.K. Helderman affermava che la spesa sanitaria incide in maniera significativa sulle politiche sociali ed economiche: tale affermazione ci fa molto riflettere se pensiamo che dopo la legge 833/78 (universalità del sistema sanitario), FSN e Lea, dopo la crisi del 1992 che imponeva il vincolo di spesa, si passa nel 2006 dalla regola “dell’aspettativa del ripiano dei disavanzi” ai piani di rientro, con programmazione e implementazione di misure di correzione, tetti di spesa payback, decreto Calabria (n. 35/2019), contrazione della spesa investita. La pandemia ha fatto emergere la logica della spesa utile ed efficiente con una sostituzione dell’ospedalizzazione a vantaggio della medicina territoriale, in particolare per il paziente con fragilità, disabilità, cronicità o con pluripatologie. La parola chiave è fare rete nella gestione di qualsiasi patologia, favorendo il modello hub and spoke, integrazione dell’assistenza sanitaria con i servizi socio-assistenziali e medicina preventiva. Stop alla logica dei silos, in quanto serve un’integrazione ospedale/territorio: non si possono considerare servizi e prestazioni come componenti isolati, ma nell’ottica di un’integrazione completa delle cure, tenendo conto anche dei costi indiretti, quali assegni di invalidità e inabilità erogati dall’Inps e dall’Inail. (*) Avvocato dello Stato, assegnato alla v Sezione dell’Avvocatura Generale dello Stato, Sezione preposta alla difesa tecnica del Ministero della Salute, Istituto Superiore di Sanità, Aifa ed Agenas. Articolo pervenuto a questa Rassegna nel marzo 2022. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 Come si possono valorizzare le innovazioni, telemedicina e big data? Come razionalizzare le norme del Codice degli appalti che distingue tra medicinali e dispositivi medici? Come realizzare la interoperabilità dei dati con data base che devono dialogare tra loro, tra Aifa, regioni e Ministero? Come realizzare in medicina il principio dell’once only e il sistema “cloud” per la PA, garantendo la titolarità del dato in mano pubblica. Come potenziare i dipartimenti di Prevenzione, i vecchi Uffici Igiene sul territorio? Come deve cambiare la figura del medico di medicina generale nelle nuove case di Comunità previste nel PNrr e definire percorsi di fast track negli ospedali? È singolare ricordare che la telemedicina nasce dal noto CIrM, radio medica fondata nel 1934 per la telemedicina dei marittimi presieduto da Guglielmo Marconi. La telemedicina pone certamente il problema della revisione delle gare d’appalto, della ridefinizione della responsabilità medica ex artt. 2232 cc -2236 cc, la verifica del consenso informato, la responsabilità del- l’equipe per smart reporting e second opinion e la tutela della privacy. vi sono Linee Guida del Ministro della salute fin dal 2007 con un osservatorio Nazionale sulla Telemedicina. Secondo quanto previsto dal Pnrr ad Agenas è stata attribuita la governance della sanità digitale e a gennaio 2022 sono stati pubblicati i primi bandi per realizzare la Piattaforma per la telemedicina. Secondo quanto stabilito dal Comitato interministeriale per la transizione digitale, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali avrà il compito di stabilire e rendere obbligatori standard omogenei per tutte le piattaforme pubbliche di sanità digitale. Il primo passo sarà quello di realizzare la piattaforma nazionale di telemedicina che gestirà i servizi nazionali abilitanti per l’adozione nei territori (ad esempio l’integrazione con l’identità digitale e pagoPA). L’identificazione delle specifiche applicazioni per i servizi di telemedicina -come la televisita, il telecontrollo, il teleconsulto, il telemonitoraggio -sarà, invece, affidata a livello regionale tramite regioni capofila, con l’obiettivo di selezionare applicazioni innovative e scalabili secondo requisiti definiti dalla piattaforma nazionale. La procedura di attivazione scelta per la piattaforma nazionale sarà quella del Private Public Partnership (PPP), nella quale soggetti privati possono proporre soluzioni tecnologiche, tra cui il Governo sceglierà la più rispondente alle proprie esigenze. L’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali Agenas con il supporto del Ministero dell’Innovazione e della transizione digitale, raccoglierà le manifestazioni di interesse a partire da gennaio 2022, dopo la pubblicazione di uno specifico avviso. Per quanto riguarda le applicazioni che insistono sulla piattaforma nazionale, le regioni capofila, individuate su proposta del Ministero per gli Affari regionali e le Autonomie, d’intesa con il Ministero della Salute e con il Ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale, cureranno le procedure di acquisizione dei servizi di teleme LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà dicina. Tra queste soluzioni, tutte le regioni potranno scegliere i servizi che si adattano meglio alle loro esigenze, utilizzando le stesse procedure. I fondi del Piano Nazionale di ripresa e resilienza saranno, quindi, erogati alle regioni che attiveranno servizi di telemedicina selezionati dagli specifici bandi. Si è, inoltre, deciso di costituire, all’interno di Agenas, una struttura dedicata alla governance della sanità digitale, con l’iniziale supporto del MITd. Agenas avrà, così, la responsabilità di stabilire e rendere obbligatori standard omogenei per tutte le piattaforme pubbliche di sanità digitale, al fine di consentire la portabilità dei dati sanitari, certificare soluzioni tecnologiche e governare l’interoperabilità e la scalabilità a livello centrale. Alla luce di tale indicazioni programmatiche, grazie alle risorse del PNrr, nel 2022 si aprono ampie opportunità di trasformazione digitale in Sanità. Progetti che possono contribuire al ridisegno di una Sanità più giusta, sostenibile e personalizzata. Ma tutti gli attori coinvolti devono essere pronti a sfruttare le opportunità che si stanno presentando. Se il 2020 è stato l’anno della “resilienza” e, forse, con un pizzico di ottimismo, possiamo definire il 2021 come l’anno della “ripresa” con il Pil al 6%, ci auguriamo che il 2022 possa essere per la Sanità l’anno della “trasformazione”. La pandemia da Covid non si è ancora esaurita, ma il sistema sanitario sta dimostrando di saper reagire ed essere in grado di passare da uno stato di risposta in emergenza ad uno più consapevole e strutturato di “nuova normalita”, rafforzandosi per mettere in campo servizi più adeguati ai bisogni di cittadini, pazienti e professionisti sanitari e capaci di evolvere alla luce delle nuove sfide. di questa volontà di trasformazione il Piano Nazionale di ripresa e resilienza (PNrr) è al tempo stesso premessa e banco di prova: la Missione 6 si focalizza interamente sulla Salute, dedicando in particolare 8,63 miliardi di euro a “Innovazione, ricerca e digitalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN)” e 7 miliardi a “reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale”, andando così ad affrontare due dei principali punti di debolezza del nostro sistema. Ma come cambierà la sanità dopo il Covid? di recente è stato trasmesso alle regioni dal Ministero della Salute il decreto denominato “dM 71” con i nuovi standard per le cure territoriali. Tale decreto definisce come dovranno essere organizzate e con quanto personale le cure sul territorio. A vigilare sarà l’Agenas che presenterà ogni sei mesi un’apposita relazione. Il perno del sistema sarà il distretto sanitario al cui interno rivestirà un ruolo fondamentale la Casa della Comunità, dove i cittadini potranno trovare assistenza h24 ogni giorno della settimana. Rimangono in piedi gli studi dei medici di famiglia (definiti spoke delle Case Comunità) che saranno collegati in rete per garantire aperture h12 sei giorni su sette. il decreto è stato denominato dM 71, intendendo con tale sigla l’omologo per l’assi rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 stenza territoriale del dM 70 del 2015 sugli standard ospedalieri. Il decreto ministeriale che ora dovrà essere approvato in Conferenza Stato-regioni, definisce nella sostanza la riforma degli attuali assetti delle cure primarie e ha il compito decisivo di indirizzare come spendere le risorse del Pnrr. Per la prima volta vengono definiti degli standard che dovranno essere rispettati in ogni regione. A vigilare sarà l’Agenas che presenterà una relazione semestrale. Il documento non scioglie il nodo sull’inquadramento giuridico dei medici di medicina generale (lavoratori subordinati o autonomi), tema su cui è ancora in atto un confronto tra Governo e regioni. All’interno del distretto vi saranno poi gli ospedali di Comunità con una forte assistenza infiermieristica e saranno decisivi, ad esempio, per la presa in carico di pazienti nelle fasi post ricovero ospedaliero o in tutti quei casi dove c’è bisogno di una particolare assistenza vicino al domicilio del paziente. Nel nuovo sistema un forte ruolo rivestiranno gli infermieri di famiglia che saranno impiegati in molte delle nuove strutture definite dal decreto. A coordinare i vari servizi presenti nei distretti vi saranno poi le Centrali operative territoriali e forte impulso verrà dato al numero di assistenza territoriale europeo 116117 che i cittadini potranno chiamare per richiedere tutte le prestazioni sanitarie e socio-sanitarie a base intensità assistenziale. vengono poi fissati gli standard per l’assistenza domiciliare e viene definito l’utilizzo dei servizi di Telemedicina. restano in piedi, dopo la sperimentazione in pandemia le cd. usCa, le Unità di continuità assistenziale. vengono poi fissati gli standard per i servizi delle cure palliative (ad esempio, gli hospice), per i dipartimenti di prevenzione e consultori familiari. Nel nuovo sistema di cure primarie ruolo rilevante avranno anche le farmacie che sono identificate a tutti gli effetti come presidi sanitari di prossimità, dove il cittadino potrà trovare sempre più servizi aggiuntivi. dopo anni di scarsi investimenti, sembra ormai convinzione di tutti che l’evoluzione del Sistema Sanitario verso un modello di cura innovativo, sostenibile e universale, debba passare da un percorso profondo di innovazione digitale. Le barriere alla trasformazione digitale della Sanità. Ad oggi, però, come messo in luce anche dalle ricerche dell’osservatorio Sanità digitale del Politecnico di Milano, gli attori del Sistema Sanitario percepiscono ancora diverse barriere alla trasformazione digitale. 1) Risorse economiche: la limitatezza di risorse è stata la causa per non innestare un processo virtuoso di innovazione. Grazie al PNrr, però, oggi sono disponibili risorse ingenti e dedicate che, se non adeguatamente indirizzate con capacità di progettazione e esecuzione, finirebbero per essere perse con grave danno economico e di immagine del Sistema Paese. ricordiamo che tali aiuti ci provengono dall’Europa sotto forma di “grant in aid”, ossia LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà aiuto per il raggiungimento di un risultato operativo e concreto. Almeno nel medio periodo, dunque, la disponibilità di risorse economiche sembra destinata da barriera a trasformarsi in stimolo per la digitalizzazione. 2) integrazione: per effetto delle profonde differenze socioeconomiche a livello nazionale e delle scelte di regionalizzazione e aziendalizzazione del Sistema Sanitario nazionale fatte nel passato, i sistemi informativi sanitari italiani sono storicamente frammentati a livello di governance, architetture e dati. Un rilancio digitale della Sanità passa, dunque, innanzitutto dalla definizione di un percorso di omogeneizzazione degli standard e di costruzione di architetture organizzative e di dati coerenti, che consentano di andare verso una piena integrazione e interoperabilità. da questo punto di vista il nostro Paese non parte da zero, perché da anni si è investito nello sviluppo di fascicoli Sanitari Elettronici (regionali) e nella loro progresssiva convergenza verso un’infrastruttura a livello nazionale, percorso ancora largamente incompiuto, ma che può costituire l’architrave dello sviluppo della nuova sanità digitale. 3) Cultura e competenze: la sfida oggi è innanzitutto quella dell’alfabetizzazione di una larga fetta degli operatori sanitari e dei pazienti stessi che, a causa della mancanza di competenze digitali di base (cd. digital divide), rischiano di vedersi esclusi dai nuovi modelli di cura. In secondo luogo, occorrerà diffondere tra gli operatori sanitari quelle competenze avanzate nell’utilizzo di canali di comunicazione, strumenti e dati indispensabili per una corretta valorizzazione delle nuove tecnologie. 4) Risultati: in questi anni è spesso mancata la capacità di analizzare e valutare con metodo scientifico i risultati e gli effetti delle iniziative di Sanità digitale. Il diffondersi di approcci di Evidence Based medicine e Value Based Healthcare, oltre allo sviluppo delle prime iniziative di ricerca clinica strutturata su percorsi di Telemedicina e Terapie digitali, può consentire di superare questa fragilità e orientarsi più decisamente verso un’evoluzione digitale dei metodi e dei percorsi di cura. Il 2022, quindi, si presenta con tutte le premesse per essere un anno chiave per lo swich-off digitale del nostro Sistema Sanitario, a patto che si lavori fin da subito per attuare il programma di trasformazione digitale tracciato dal PNrr e superare le barriere che rischiano di bloccarne lo sviluppo su tre direttrici principali: Connected Care e telemedicina, service designe, one Health. 1) Connected Care e telemedicina: la Connected care e Telemedicina è il paradigma che integra nuovi modelli organizzativi e soluzioni tecnologiche interoperabili al fine di abilitare la condivisione delle informazioni cliniche dei pazienti tra tutti gli attori coinvolti nel percorso di cura. In questa visione il cittadino, opportunamente informato, è al centro del suo percorso che non si limita alla cura, ma include la prevenzione, l’accesso ai servizi e il monito rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 raggio (della terapia, dello stile di vita, ecc.) a seguito delle prestazioni ricevute. Il digitale in questo percorso fa sì che i processi non strettamente clinici, quindi quelli di relazione con il cittadino/paziente e quelli di backoffice, siano orientati il più possibile alle necessità dell’utente finale in termini sia di efficacia che di efficienza dei servizi erogati. In questo senso gli sforzi devono essere indirizzati verso la progettazione e realizzazione di servizi digitali a supporto dei processi di accoglienza del cittadino/paziente (prenotazione, pagamento, refertazione, scambio documentale) e dell’erogazione dei servizi di cura e assistenza (televisita, teleconsulto, telemonitoraggio, ecc.). La telemedicina, quindi, è un tassello di questo paradigma che ridisegna fortemente l’esperienza del paziente e dei professionisti impegnati nell’atto medico, ma che al tempo stesso, risponde all’esigenza di maggiore flessibilità e adattabilità dei servizi in funzione dello specifico profilo del paziente. Nella visione della Connected Care, il cittadino paziente deve essere ingaggiato e partecipare attivamente al percorso di cura, essendo, però, accompagnato e assistito in modo personalizzato, predittivo e preventivo. oggi i cittadini si aspettano servizi integrati, interoperabili e fluidi, per i quali non devono essere percepite barriere tra i diversi setting assistenziali. Per tale motivo, uno dei prerequisiti alla realizzazione della Connected Care estesa (e quindi, non limitata alla singola azienda sanitaria) è la piena interoperabilità dei dati sanitari per superare i silos tra ospedale e territorio, tra pubblico e privato. 2) service design: se le risorse economiche ci sono o ci saranno attraverso il PNrr, ciò che farà la differenza tra il successo ed il fallimento delle iniziative di innovazione sarà la capacità progettuale: quella di pensare, progettare e realizzare (e poi misurarne i risultati) progetti di digitalizzazione. Elemento fondamentale in questo contesto, fino ad oggi troppo spesso sottovalutato, è il Service design, cioè, l’approccio multidisciplinare e collaborativo che, attraverso il coinvolgimento di tutti gli attori coinvolti nella progettazione ed erogazione di un nuovo servizio, consente di orientarne lo sviluppo, ponendo maggiore enfasi alla user experience. È evidente che iniziative come quella della Connected Care e della Telemedicina presentano una complessità di fondo nel progettare, realizzare e comunicare i servizi sanitari e socio-sanitari ai cittadini/pazienti, in risposta alle loro nuove esigenze e bisogni. Finora abbiamo assistito alla coesistenza di esperienze di eccellenza con altre in cui la sostanziale assenza di un approccio progettuale orientato ai servizi ha portato allo sviluppo di soluzioni e applicazioni largamente inutilizzate. requisito fondamentale per utilizzare efficacemente le tecnologie, e sfruttare al meglio le risorse economiche, sarà, quindi, lo sviluppo di cultura e competenze di design dei servizi. Tale approccio potrà garantire un reale orientamento all’utente, sia cittadino/paziente che professionista sanitario, esplicitando tutti i punti di contatto dei nuovi servizi digitali e la loro integrazione all’interno di un sistema informativo preesistente. La leva digitale, in LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà fatti, offre la possibilità di connettere attori e ridefinire i ruoli, ma questo accade solo se le piattaforme vengono sviluppate, affinchè favoriscano l’empowerment degli utenti e, viceversa, se questi ultimi sono accompagnati con attenzione e metodo al loro utilizzo. dal punto di vista manageriale, occorre che vengano sviluppate e potenziate non solo le competenze di service design, ma anche quelle di gestione di progetti di innovazione complessi e di change management. 3) one Health: la salute dell’uomo non può più prescindere dal benessere dell’ecosistema. medicus curat, natura sanat: le soluzioni per una salute realmente globale sono, quindi, quelle che ci consentono di porre al centro il cittadino, sapendo che le parole chiave sono “digitalizzazione” e “green”. Ci possiamo immaginare la salute come un sistema di vasi comunicanti: ambiente e salute sono un binomio inscindibile e la digitalizzazione oggi ci offre una possibilità in più per gestire in maniera efficace le interazioni tra uomo e ambiente e garantire la sostenibilità del nostro sistema sanitario. Ancora una volta la prima azione concreta nella direzione della one Health è la disponibilità trasversale di dati e l’interoperabilità tra sistemi e, soprattutto, saperi e discipline che, fino ad oggi, sono stati trattati come silos. La data -driven one Health è uno dei fattori abilitanti della Connected Care e, più in generale, di un approccio globale alla salute che ne definisca le priorità e ne favorisca la valutazione dei risultati. I principi della one Health si applicano anche alle inevitabili interconnessioni di natura sociale, scientifica e istituzionale. Ciò significa che le scelte di salute globale devono vedere attivata una stretta collaborazione tra policy makers, ricerca e decision makers. Un patto per la salute globale deve essere stretto a partire dalle politiche e tradotto a livelli decisionali e operativi. L’auspicio è che il 2022 sia davvero l’anno in cui -grazie anche alle risorse del PNrr -si aprano ampie opportunità per avviare progetti di trasformazione digitale profonda, Progetti che possano davvero contribuire al ridisegno di una Sanità più giusta, sostenibile e personalizzata, a patto che tutti gli attori coinvolti ai diversi livelli sappiano sfruttare al massimo le opportunità di collaborazione intersettoriale e siano disposti ad attuare le riforme prospettate all’interno di una cornice di governance chiara e di una normativa snella, che consenta di spendere al meglio le risorse previste. Un “nuovo sistema sanitario”, una rivoluzione epocale per il nostro SSN, “la rivoluzione digitale del SSN: il 2022 dovrebbe essere l’anno delle iperboli per la sanità digitale. Un dato è certo: i fondi non saranno un problema, e non solo attraverso il PNrr, il Ministero della Salute, ha appena emesso il decreto che, tra le altre cose assegna oltre 230 milioni ai medici di medicina generale per incentivare una diagnostica di base negli studi dei MMG, allo scopo di ridurre le liste di attesa. ogni sviluppo o tecnologia o modello dovrà ruotare attorno al paziente”. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 Evoluzione delle tecnologie assistenziali. Guidate dal Covid, ma anche dai grandi investimenti, le nuove tecnologie faranno passi da gigante, sempre più “contactless”, senza bisogno di contatto fisico diretto con il paziente, utilizzando i sensori di uso comune, ad esempio la fotocamera dello smartphone, sensori che utilizzano radiofrequenza, sensori di temperatura, sistemi integrati di sensori per la rilevazione senza bracciale della pressione arteriosa, certificati come dispositivi medici, il tutto guidato ed integrato dall’Intelligenza Artificiale. Un esempio sono i “simptom tracker”, questi sistemi che, attraverso un’app, tengono traccia non solo dei parametri rilevati da un bracciale al polso del paziente, ma anche di eventuali sintomi o semplicemente di come si sente la persona, approfondendo con domande mirate la valutazione fino a suggerire un contatto con il proprio medico. Si diffonderanno sempre di più “i compagni digitali” dei farmaci, quelle app che sono integrate con una terapia e consentono di gestirla al meglio ottimizzandola o registrando automaticamente la somministrazione e la dose del farmaco. Un farmaco o una terapia complessa, con un compagno digitale migliorano l’aderenza terapeutica, il contatto con il medico prescrittore ed anche le valutazioni di “real life” della terapia. Le terapie digitali. oltre al compagno digitale arriveranno vere e proprie terapie digitali. Ad esempio, una terapia digitale ha mostrato recentemente in uno studio controllato un’ottima efficacia sul dolore lombare, suggerendo esercizi posturali adeguati e personalizzati, consentendo un miglioramento della vita rilevante per i pazienti. Altre terapie digitali riguardano il supporto psicologico, il supporto alla terapia in alcune tipologie di neoplasie, il trattamento dell’obesità e molto altro. Le tecnologie, insomma, ci sono, ma mancano le regole: il compagno digitale viene venduto insieme al farmaco? È una opzione a pagamento per il paziente? Chi ne valuta i risultati? E la terapia digitale come può essere prescritta? Come viene inserita nel prontuario farmaceutico? E la rimborsabilità? riguardo il telemonitoraggio, quali sono le condizioni, perché possa essere rimborsato dal SSN? E la teleriabilitazione? Nuove tecnologie, ma anche nuove sfide per un SSN in grande cambiamento. Nuovi modelli assistenziali. Le tecnologie abilitano nuovi modelli di servizi sanitari. Il più semplice tra questi è quello della televisita che non può essere una attività a parte, ma deve essere un momento della cura. oggi è un momento di controllo di una diagnosi già nota e allora, come logica conseguenza, ogni Pdta, percorso diagnostico-terapeutico-assistenziale, dovrebbe essere integrato con la tele- visita. Nelle bozze dei nuovi modelli di cura da inserire nel PNrr, l’Agenas ed il Ministero della Salute hanno esplicitato la telemedicina come obbligo LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà e non solo come opportunità, sia come telemonitoraggio domiciliare dei pazienti più fragili, sia come strumenti per il teleconsulto e la telerefertazione nel setting dell’assistenza domiciliare. Tutte queste metodiche di erogazione di servizi sanitari devono essere declinate nel solito modello concettuale, i PdTA, che definiscono chi, quando, come, dove e perché. Per esemplificare, immaginiamo la cardiologia nello scompenso cardiaco. Teleconsulti con i MMG, televisite cardiologiche di controllo, ECG nelle case della salute o dal MMG o a domicilio con telereferatzione, integrazione del percorso con il telemonitoraggio e la teleriabilitazione cardiologica. Immaginiamo questi modelli per il diabete, per le malattie reumatiche, per le malattie respiratorie, per le fragilità, per il percorso gravidanza o per il percorso follow up delle malattie neoplastiche. Non si tratta più di volenterosi direttori di struttura ospedaliera che mettono in piedi percorsi virtuosi, si costruirà un vero e proprio modello industriale della telemedicina, che includa anche gli specialisti ambulatoriali (SUMAI). La telemedicina del 2022 dovrà essere frutto di processi industriali, essenziali ed efficienti, un vero strumento di cura basato su piattaforme il più possibile “trasversali” a tutte le specializzazioni ed i contesti clinici, emergenza, domicilio, case della comunità, ospedali della comunità. medicina personalizzata e FSE. La medicina della persona, la medicina personalizzata, significa anche che le “cronicità” e le “fragilità”, andranno affrontate concentrandosi sulle persone e non sulle patologie. La medicina personalizzata non si occupa della medicina di genere, del diabetico, del cardiopatico, dell’artrosico, è una medicina delle persone, una medicina che si adatta all’individuo, una medicina che prende in carico una persona e non una cronicità. il punto centrale della medicina personalizzata sono i dati: si tratta di una medicina basata su grandi quantità di dati e non solo di dati relativi alla salute; nella medicina personalizzata entrano in gioco anche indicatori socioeconomici, dalla cultura, al luogo di vita, ai servizi presenti sul territorio e molto altro. il rinnovo del Fascicolo sanitario elettronico, uno degli obiettivi della rimodellazione del SSN potrebbe essere un elemento chiave soprattutto se diventasse un repository da cui attingere, con servizi di fascicolo che possano integrarlo con l’intelligenza artificiale, con i dati del telemonitoraggio, delle televisite e di tutto il processo di diagnosi e cura. Il FSE deve diventare uno strumento reale di cura e non solo uno strumento di controllo di gestione del SSN. Formazione e competenze. dovranno necessariamente partire grandi iniziative regionali e nazionali per le competenze digitali con master universitari di primo e di secondo livello in eHealth, di formazione della leadership dell’innovazione digitale nei sistemi rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 sanitari, con obbligo di una quota di formazione digitale nell’educazione continua in medicina ECM, i principali stakeholder del farmaco stanno supportando con forza queste iniziative. Queste competenze dovranno essere vincolanti anche per la progressione nella carriera di manager del SSN. In molti paesi nel mondo esiste una “digital Health Agency”, un’agenzia per la sanità digitale ed è auspicabile che si crei anche in Italia. In tale nuovo contesto che ruolo avrà l’accreditamento delle strutture sanitarie private? L’accreditamento sanitario è il provvedimento con il quale viene riconosciuto alle strutture sanitarie già in possesso di un’autorizzazione, lo status di potenziali erogatori di prestazioni sanitarie nell’ambito e per conto del servizio sanitario nazionale. in base al d.Lgs 502/1992 tutte le strutture sanitarie pubbliche e private, operanti per il ssn debbono essere accreditate in base a procedure definite dalla Regione e secondo i requisiti fissati dal Ministero della salute. La procedura di accreditamento prevede tre fasi: 1) autorizzazione: il provvedimento con cui viene consentito da parte della regione (previa verifica dell’esistenza dei requisiti minimi previsti dal dpr 14 gennaio 1997) l’esercizio di attività sanitarie a soggetti pubblici e privati. L’autorizzazione non abilita la struttura ad operare in regime SSN, fino a quando non sia dimostrato il possesso di determinati requisiti per le prestazioni che si intende erogare; 2) Rilascio dell’accreditamento: subordinato ad una serie di requisiti della struttura (standard minimi di infrastruttura, attrezzature, tecnologie, strumenti adoperati, ecc.); 3) definizione di accordo/contratto tra regione con asl e struttura accreditata: attraverso un contratto sarà possibile formalizzare le condizioni del rapporto, il tetto di spesa mensile imposta dalle Asl, gli obiettivi della struttura, la quantità delle prestazioni erogabili nell’ambito dei LEA, i tempi di attesa, ecc. Ma una struttura sanitaria come può gestire un proficuo rapporto di accreditamento e promuovere il miglioramento delle prestazioni sanitarie offerte e l’efficienza della propria organizzazione? Strutture sanitarie e gestione dell’accreditamento in sanità. Una modalità per essere conformi ai regolamenti e alle normative della Asl è acquisire tecnologie e software gestionali con cui supportare tutte le attività annesse alla gestione dell’accreditamento SSN. Attraverso tecnologie software, come i software sanità doctor manager, le strutture potranno: 1) Inviare il rendiconto periodico alla ASL per l’acquisizione dei rimborsi per le prestazioni effettuate in regime convenzionato con il SS. LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà 2) Avere visione dei budget di spesa assegnato alla struttura in tempo reale su base periodica, mensile o annuale. 3) Integrarsi con i CUP di competenza e gestire le agende mediche in maniera coerente con i tetti di spesa imposti dalle ASL di competenza. 4) disporre del nomenclatore dell’assistenza specialistica ambulatoriale (come disciplinato dal dPCM 1/2017), così da far fare riferimento senza errori ai codici di prestazione afferenti alla propria branca specialistica. 5) Accedere al SAC/SAr in sicurezza e gestire con immediatezza e meticolosità la ricetta dematerializzata. 6) ottemperare alle varie richieste di informazioni o rendiconti prodotte dalle ASL o dalle regioni. L’accreditamento sanitario è un processo complesso, ma se ben efficientato assicura qualità alle prestazioni erogate ed all’intero processo ambulatoriale. L’accreditamento nasce negli USA all’inizio del XX secolo quando, nel 1910, ernest Codman propone un sistema basato sugli “end risult”, secondo il quale un ospedale avrebbe dovuto seguire i pazienti ricoverati abbastanza a lungo da valutare l’efficacia del trattamento prestato; qualora il trattamento non fosse stato efficace, l’ospedale avrebbe allora provato a determinare la causa, affinchè casi simili potessero essere in avvenire trattati con successo. Nel 1913 Franklin Martin, fonda l’American College of Surgeons (ACS) ed il Sistema basato sugli “end result” viene assunto come obiettivo. Nel 1917 l’ACS con il sostegno dei fratelli Mayo e Cushing, sviluppa i Minimum Standard for Hospitals. Nel corso degli anni aderiscono a questa iniziativa diverse altre associazioni mediche tra cui l’American Medical Association, l’American Hospital Association, l’American College of Physicians, la Canadian Medical Association, l’American dental Association, e nel 1951 nasce la Joint Commission on Accreditation of Hospital organizzation (JCAHo). due anni dopo la JCAHo pubblica i suoi primi “Standards for Hospitals Accreditation”, riguardanti requisiti minimi di strutture e competenze degli enti erogatori di servizi sanitari. Il modello americano ha ispirato i principali sistemi di accreditamento dei paese anglosassoni (Canadian Council on Health Services Accreditation CCHSA, Australian Council on Healthcare Standards ACHS, King’s Fund) ed altre esperienze europee quali quelle di Catalogna (regione autonoma spagnola, dove la maggior parte degli ospedali, sia pubblici che privati, sono già stati accreditati) e Francia dove è stato costituito l’Agence nationale d’Accreditation et d’Evaluation en Santè (ANAES). L’accreditamento è configurato come un sistema di autoregolazione in cui un’organizzazione indipendente stabilisce e controlla gli standard di qualità nella struttura. Fatta eccezione per la Francia l’adesione a questi sistemi è volontaria, ma di fatto, costituendo uno strumento che garantisce sia gli utenti che gli enti rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 erogatori, l’accreditamento assume sempre più la prerogativa di strumento finalizzato alla regolamentazione delle organizzazioni sanitarie, tanto che negli Stati Uniti l’accreditamento è una condizione necessaria, affinchè un ospedale possa accedere a programmi Medicare e Medicaid e ricevere i relativi finanziamenti governativi. Anche in Catalogna l’accreditamento è ritenuto un requisito indispensabile per l’erogazione delle prestazioni sanitarie per conto del servizio sanitario. Tra gli ospedali pubblici o convenzionati con la Securidad Social che hanno richiesto di essere accreditati il 30% non raggiunsero gli standard minimi richiesti e persero i loro contratti, dovendo trasformarsi in residenza per anziani o in strutture totalmente private o, in alcuni casi, a cessare la propria attività. Nel regno Unito nel 1988, il King Edward’s Hospital Fund for London ha avviato un programma di accreditamento volontario sul modello australiano che ha previsto la costituzione di un comitato promotore, cui partecipano Società scientifiche ed associazioni professionali, che hanno elaborato un manuale di accreditamento. Queste ed altre esperienze sono caratterizzate dalle seguenti peculiarità: 1) L’accreditamento è un’attività autoregolata del sistema finalizzata al miglioramento continuo dei servizi sanitari; 2) È un’attività volontaria; 3) Le associazioni professionali hanno un ruolo fondamentale nella definizione dei criteri e standard. diversi, pur con tante analogie, sono gli obiettivi, gli strumenti e l’approccio all’accreditamento istituzionale, strutturato secondo un modello predefinito dalle istituzioni ed i cui programmi attuativi rispondono sostanzialmente alle esigenze di garantire: -Adeguati ed omogenei livelli di cura; -L’idoneità delle prestazioni relativamente al loro compenso, per cui l’accreditamento è interpretato come un processo di selezione degli erogatori delle prestazioni sanitarie: -Che si integrano con le finalità dell’accreditamento volontario ed altre forme di riconoscimento da parte di enti terzi rispetto alla adesione a modelli prestabiliti come le norme ISo. In questa direzione, infatti, l’accreditamento istituzionale deve essere interpretato come un processo continuo finalizzato al: -Miglioramento della qualità dell’assistenza, attraverso 1) la definizione dei livelli qualitativi delle prestazioni erogate; 2) monitoraggio dei risultati; 3) miglioramento delle qualità professionali; 4) gestione del rischio clinico; 5) orientamento del servizio attraverso la ricerca del giudizio degli utenti come punto di avvio delle azioni di miglioramento. In Italia, come sopra già esposto, il termine accreditamento è stato introdotto nella normativa italiana con il decreto legislativo n. 502/92, sebbene la LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà prima definizione di accreditamento è formulata dalla Corte Costituzionale che nel pronunciare la sentenza n. 416 del 21 luglio 1995 in merito all’art. 10 della legge 724/1994 statuisce: «l’accreditamento è un’operazione da parte di un’autorità o istituzione (Regione), con il quale si riconosce il possesso da parte di un soggetto o di un organismo di prescritti specifici requisiti (standard di qualificazione) e si risolve, nell’iscrizione in elenco, da cui possono attingere per l’utilizzazione altri soggetti (assistiti-utenti delle prestazioni sanitarie)». Tale concetto è stato ribadito successivamente dal decreto legislativo n. 229/99. Analogo nei principi, ma ben diverso dall’accreditamento all’eccellenza, quello istituzionale è un processo obbligatorio attraverso il quale le strutture autorizzate all’esercizio dell’attività sanitaria, pubbliche o private, ed i professionisti che ne facciano richiesta, dopo attenta verifica sul possesso dei requisiti strutturali, tecnici ed organizzativi, definiti dalla regione indispensabili per l’accreditamento, acquisiscono lo “status” di soggetto idoneo ad erogare prestazioni sanitarie per conto del Servizio sanitario nazionale, divenendo, pertanto, potenziali erogatori. Sebbene il soggetto accreditato sia abilitato a fornire prestazioni a carico del Servizio Sanitario Nazionale, la qualità di “soggetto accreditato”, non costituisce vincolo per le aziende e gli enti del Servizio Sanitario nazionale a corrispondere le remunerazioni delle prestazioni erogate, al di fuori degli accordi contrattuali di cui all’art. 8 quinquies decreto legislativo n. 502/92. Il modello di accreditamento introdotto nell’ordinamento italiano individua, dunque, nelle regioni il livello di governo del processo e caratterizza tale processo quale strumento di programmazione sotto il duplice aspetto della “regolazione” dell’accesso al servizio sanitario Nazionale dei soggetti erogatori delle prestazioni e della definizione del livello qualitativo necessario per erogare prestazioni a carico del Servizio sanitario nazionale con piani sanitari regionali. Per garantire un livello predefinito di qualità, la regione, secondo i criteri uniformi indicati a livello nazionale (LEA) deve definire i requisiti sulla base dei quali valutare i soggetti richiedenti. L’accreditamento delle strutture sanitarie private pone il problema della giurisdizione del giudice amministrativo nelle controversie aventi ad oggetto il monitoraggio e controllo delle attività delle strutture private accreditate. a tal proposito si ricorda la sentenza del Consiglio di stato sez. iii 9 dicembre 2020 n. 7820 Pres. garofoli est. Puliatti, la quale ha affermato che rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la controversia avente ad oggetto i provvedimenti che afferiscono al complesso procedimento di monitoraggio e controllo delle attività e prestazioni oggetto dei rapporti contrattuali intercorsi tra la Regione e una struttura privata accreditata, non potendo l’individuazione del giudice competente dipendere rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 a seconda che l’amministrazione scelga di formalizzare gli esiti del controllo in un’apposita veste provvedimentale, ovvero di inserirli all’interno di un’apposita partita di dare/avere. Ha premesso il Consiglio di Stato che i controlli di appropriatezza non esauriscono la loro funzione nella verifica dell’adempimento da parte del soggetto convenzionato alle obbligazioni derivanti a suo carico dal rapporto concessorio di accreditamento, ma sono volti a perseguire obiettivi di pubblico interesse, di economicità nell’utilizzo delle risorse e di verifica della qualità di assistenza erogata, a tutela del diritto alla salute. Ed infatti, le disposizioni dell’art. 79 d.l. n. 112 del 2008, superando definitivamente la disciplina transitoria e sommaria della tariffazione forfettaria nell’ambito delle prestazioni sanitarie, in quanto inadeguata a garantire una efficiente ed imparziale allocazione delle risorse a tutela del diritto alla salute, garantiscono l’efficienza, l’economicità e l’appropriatezza del Sistema Sanitario Nazionale (Consiglio di Stato sez. III 10 agosto 2018 n. 4902). Il Consiglio di Stato ha aggiunto che si deve escludere che il carattere vincolato dell’attività svolta denoti ipso facto l’assenza in capo alla PA di una posizione di supremazia, nonché la conseguente natura paritetica degli atti adottati dalla stessa PA nel rapporto con l’amministrato. La circostanza che il potere amministrativo sia vincolato -e cioè, che il suo esercizio sia predeterminato dalla legge nell’an e nel quomodo -non trasforma il potere medesimo in una categoria civilistica assimilabile ad un diritto potestativo, poiché l’Amministrazione esercita in questi casi una funzione di verifica, controllo, accertamento tecnico dei presupposti previsti dalla legge, quale soggetto incaricato della cura di interessi pubblici generali, esulanti dalla propria sfera patrimoniale: il suo potere vincolato, dunque, resta, comunque, espressione di “supremazia” o di “funzione” con il corollario che dalla sua natura vincolata derivano conseguenze non sul piano della giurisdizione, ma sul piano delle tecniche di tutela (si pensi al potere del giudice in sede di giudizio sul silenzio di pronunciarsi, ai sensi dell’art. 31, comma 3 cpa, sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio). del resto che l’attività della PA, per il solo fatto di essere vincolata, non cessi di essere attività autoritativa e di tradursi in atti aventi natura non già paritetica, bensì provvedimentale, sottoposti alla giurisdizione del giudice amministrativo, emerge da molteplici istituti del diritto amministrativo. A mero titolo esemplificativo si indicano i seguenti casi: a) La materia edilizia, connotata per larga parte dall’esercizio di attività vincolata che, non per questo, cessa di essere attività autoritativa, espressione di potestà pubblicistiche. Basti pensare al riguardo al permesso di costruire ed all’ordine di demolizione, atti vincolati aventi natura di provvedimenti amministrativi. La devoluzione della materia dell’edilizia alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133 comma 1 lett. f) cpa si spiega, del LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà resto, proprio in ragione del carattere autoritativo e pubblicistico dei poteri esercitati dall’Amministrazione nella materia in esame, in coerenza con l’insegnamento della Corte costituzionale (Corte Costituzionale n. 204/2004 e 191/2006). b) Il potere del giudice amministrativo in sede di giudizio sul silenzio, di pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio, esercitabile, ai sensi dell’art. 31, comma 3, cpa, quando si tratta di atti vincolati, ovvero non residuino ulteriori margini di discrezionalità in capo alla PA; ciò tenuto conto che il rimedio del rito del silenzio si applica in via esclusiva all’attività provvedimentale della PA, essendo, invece, escluso tale rimedio, quando si tratta di pretesa fondata sull’esercizio di diritti soggettivi, ovvero per ottenere l’adempimento di obblighi convenzionali, o addirittura, la stipula di accordi contrattuali. c) In terzo luogo il dettato dall’art. 21-octies, comma 2, L. 241/90, lì dove inibisce al giudice amministrativo l’annullamento dei provvedimenti adottati in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, qualora per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. A ciò si aggiunge che non mancano situazioni in cui nei controlli di appropriatezza la PA si trova a disporre di margini di discrezionalità tecnica, come nel caso in cui si contesti l’attribuzione ad una certa prestazione sanitaria di un drG (raggruppamento omogeneo di diagnosi) in luogo di un altro, con i correlativi effetti sul piano di maggior o minor esborso a carico della PA. da tali argomentazioni discende la riconducibilità della questione del controllo sulle strutture accreditate alla giurisdizione amministrativa. Secondo il Consiglio di Stato attribuire la giurisdizione al giudice ordinario comporterebbe la segmentazione del procedimento di controllo in varie sottofasi, con frammentazione del contenzioso in contrasto con il principio costituzionale di accentramento delle tutele, la cui vigenza nel processo amministrativo è esplicitata dall’art. 7 comma 7 cpa. Né sarebbe ipotizzabile una vis espansiva della giurisdizione ordinaria, a ciò ostando il dettato dell’art. 133, comma 1, lett. c) cpa che riserva alla predetta giurisdizione, in deroga alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in materia di concessioni di pubblici servizi, le sole controversie e, in ogni caso, “concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi”, e, cioè, le controversie di contenuto prettamente patrimoniale che riguarda anche l’impugnazione degli atti che hanno definito i criteri di controllo e, in ogni caso, involge le stesse modalità di esercizio dei poteri di controllo e gli esiti a cui questi sono approdati. Una diversa conclusione porterebbe la possibilità di abuso della strumentazione giuridica, quale è quello che potrebbe derivare dall’inserimento dei ri rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 sultati di una tipica attività amministrativa (nel caso del controllo) e che partecipano della natura di tale attività all’interno di atti recanti partite di dare e avere, al fine di attrarre ad una diversa giurisdizione la cognizione sulla suddetta attività e sui suoi esiti. In questo modo si lascerebbe alla mercè dell’Amministrazione di decidere essa stessa il giudice deputato a conoscere dell’attività di controllo e dei suoi esiti, a seconda che l’Amministrazione scelga di formalizzare detti esiti in un’apposita veste provvedimentale ovvero di inserirli all’interno di apposita partita di dare/avere, dando vita a quella che è stata definita dalla dottrina come “giurisdizione ballerina”, in violazione dei canoni costituzionali in tema di riparto della giurisdizione e dello stesso principio del giudice naturale precostituito per legge e non lasciato alla libera disponibilità delle parti. Sul tema dell’accreditamento molte questioni hanno riguardato le leggi regionali per le quali il Consiglio di Stato ha sollevato questioni di legittimità costituzionale. Si pensi all’ordinanza della II sezione del 24 dicembre 2021 n. 8610 Pres. ff. Noccelli Est. Maiello, la quale ha statuito: “È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 117, comma 3 Cost., dell’art. 19 comma 3, Legge regionale Puglia n. 9/2017, nella versione antecedente alle modifiche introdotte dagli art. 49, comma 1, leg. reg. 30 novembre 2019 n. 52 e 9, comma 1, leg. reg. 7 luglio 2020, nella parte in cui introduce una deroga al principio generale in forza del quale l’autorizzazione alla realizzazione e all’esercizio delle strutture sanitarie e sociosanitarie non produce effetti vincolanti ai fini della procedura di accreditamento istituzionale che si fonda sul criterio della funzionalità rispetto alla programmazione regionale”. Ha chiarito la Sezione che l’art. 19, comma 3 della legge regionale n. 9 del 2017 -nella versione antecedente alle modifiche introdotte dagli art. 49, comma 1, legge regionale 30 novembre 2019 n. 52 e 9, comma 1, legge regionale 7 luglio 2020, dichiarate costituzionalmente illegittime rispettivamente con sentenza 12 marzo 2021 n. 36 e 15 ottobre 2021 n. 195 (a mente della quale “L’autorizzazione alla realizzazione e all’esercizio non produce effetti vincolanti ai fini della procedura di accreditamento istituzionale, che si fonda sul criterio della funzionalità rispetto alla programmazione regionale, salvo che non si tratti di modifiche, ampliamento e trasformazione di cui all’art. 5, comma 2, inerenti strutture già accreditate”) pone, in presenza di strutture accreditate per altre attività, l’obbligo dell’Amministrazione di prendere atto ai fini del rilascio di un ulteriore provvedimento di accreditamento -e senza la mediazione costitutiva di una propria autonoma e specifica valutazione quanto alla funzionalità rispetto alla programmazione regionale -della già intervenuta autorizzazione alla realizzazione e all’esercizio di attività costituenti modifi LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà che, ampliamento e trasformazione di cui all’art. 5 comma 2. La circostanza che, in presenza delle condizioni derogatorie ivi espressamente previste (modifiche, ampliamento e trasformazione di cui all’art. 5, comma 2, inerenti strutture già accreditate), l’accreditamento risulti legato, sotto il profilo genetico, da un rapporto vincolato ed automatico con il distinto e presupposto provvedimento autorizzatorio, senza che, nei suddetti casi, sull’an del rilascio possano in alcun modo interferire valutazioni discrezionali dell’Amministrazione nell’ambito (come avviene di norma) di un apposito procedimento amministrativo, da ritenersi viceversa indispensabile siccome forma indefettibile della funzione amministrativa. In altri termini, in presenza delle menzionate fattispecie derogatorie, il provvedimento di rilascio dell’accreditamento si pone come misura rigorosamente attuativa di norme vincolanti che rendono la statuizione amministrativa atto dovuto e a contenuto vincolato. Secondo il Consiglio di Stato la menzionata disposizione si pone in contrasto con l’art. 117, comma 3, Cost., in relazione ai principi fondamentali posti dalla legge statale in materia di tutela della salute, nella specie declinati agli artt. 8, comma 4, 8-bis, 8 ter e8 quater d.lgs n. 502 del 1992, per le medesime ragioni già evidenziate dal Giudice delle leggi nelle decisioni del 12 marzo 2021 n. 36 e del 15 ottobre 2021 n. 195, non direttamente applicabili, in quanto riferite a norme diverse da quella qui in rilievo, ma replicabili nei principi ivi affermati siccome riferiti a una fattispecie parimenti governata da una vincolante sequenza di effetti giuridici ampliativi, geneticamente collegati in via ordinaria a distinti e autonomi provvedimenti, ma qui, scandita, per effetto di derogatorie previsioni normative regionali, da rigidi automatismi ingeneranti una non consentita sovrapposizione tra autorizzazione e accreditamento. Come è noto, la competenza regionale in materia di autorizzazione ed accreditamento di istituzioni sanitarie private deve essere inquadrata nella più generale potestà legislativa concorrente in materia di tutela della salute che vincola le regioni al rispetto dei principi fondamentali stabiliti dalla leggi dello Stato e nel reticolo delle disposizioni sopramenzionate il legislatore statale pone in rapporto di autonomia i provvedimenti di autorizzazione e di accreditamento di strutture sanitarie, dovendo soggiungersi che la necessità della mediazione costitutiva di un atto di accreditamento si impone anche nel caso di ampliamento di una struttura preesistente, ai sensi dell’art. 8 quater, comma 7, d.lgs 502 del 1992 (Corte cost. n. 132 del 2013). Il Consiglio di Stato ha escluso che assuma rilievo la circostanza che la norma in esame, e vigente al momento dell’atto impugnato in prime cure, sia stata successivamente abrogata. La Corte costituzionale ha costantemente affermato la persistenza della rilevanza della questione anche nel caso in cui la norma sottoposta a scrutinio sia sostituita da una successiva, perché la legitti rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 mità dell’atto deve essere esaminata, in virtù del principio tempus regit actum con riguardo alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione (sentenze 24 aprile 2013, 78; 11 luglio 2012 n. 177; nonché tra le altre sentenze 25 novembre 2011 n. 321; 11 giugno 2010 n. 209). Più recentemente la Corte costituzionale nella sentenza n. 177 del 2021 ha precisato che “il fatto che la norma da scrutinare sia stata sostituita da una successiva, poi dichiarata costituzionalmente illegittima, non toglie di per sé rilevanza alla questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la disposizione precedente; questa Corte ha avuto modo di precisare in altre occasioni, infatti, che, ove un determinato atto amministrativo sia stato adottato sulla base di una norma poi abrogata -come, nelle specie, dichiarata costituzionalmente illegittima -la legittimità dell’atto deve essere esaminata, in virtù del principio tempus regit actum “con riguardo alla situazione di fatto e di diritto” esistente al momento della sua adozione (sentenza n. 209 del 2010, nonché, in precedenza, sentenza n. 509 del 2000)”. del resto, i due istituti giuridici dell’abrogazione e della illegittimità costituzionale delle leggi non sono uguali fra loro, ma si muovono su piani diversi ed hanno, soprattutto, effetti diversi. Mentre la dichiarazione di incostituzionalità di una legge o di un atto avente forza di legge rende la norma inefficace ex tunc e, quindi, estende la sua invalidità a tutti i rapporti giuridici ancora pendenti al momento della decisione della Corte, restandone così esclusi soltanto i “rapporti esauriti” (cfr. l’art. 136 Cost., e l’art. 30, comma 3, L. 11 marzo 1953 n. 87), l’abrogazione, salvo il caso dell’abrogazione con effetti retroattivi, opera solo per l’avvenire, atteso che anche la legge abrogante è sottoposta alla regola di cui all’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale (cd. Preleggi), secondo cui “la legge non dispone che per l’avvenire; essa non ha effetto retroattivo”. Il Consiglio di Stato non si è limitato a definire il rapporto tra autorizzazione e accreditamento sul profilo esterno, ma in altre pronunzie ha dettato importanti principi anche con riferimento al rapporto interno tra struttura privata accreditata e Pubblica Amministrazione. Con sentenza 4 agosto 2021 n. 5758 la sezione iii ha affermato che in sede di remunerazione di prestazioni sanitarie erogate da strutture private, il principio di buona fede che deve improntare i rapporti tra Pubblica amministrazione e cittadino, impone di considerare che a fronte di somme ricevute a titolo di anticipazione, per una causale ben precisa, i percipienti sono perfettamente a conoscenza dell’esistenza del procedimento nel cui ambito tale erogazione era avvenuta, e che ha come inevitabile conseguenza normativa il successivo conguaglio finale, senza che il decorso del tempo possa legittimamente fondare la convinzione di una estinzione - per rinuncia - del procedimento medesimo. Il Consiglio di Stato ha ricordato che in diritto civile la nozione di affida LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà mento ha riguardato “fenomeni distinti”, accomunati dalla necessità di risolver il conflitto ingenerato dalla divergenza fra realtà e apparenza; essa, nell’età contemporanea, tende ad essere ricondotta al dovere di solidarietà cui devono essere improntate le relazioni intersoggettive. Si tratta di una regola che viene declinata anzitutto in materia di acquisti a non domino, non solo per via contrattuale; è tuttavia nella materia contrattuale che l’affidamento viene elevato dalle norme a criterio interpretativo della dichiarazione negoziale e, quindi, del contenuto dell’obbligo. L’istituto e le regole che ne discendono hanno, pertanto, la funzione di adeguare sul piano delle regole di validità, l’assetto di interessi all’apparenza creata da fatti, comportanti e dichiarazioni in modo da conformare le vicende relative alla circolazione dei beni all’impronta solidaristica. da qui la peculiarità della nozione in ambito civile e la sua non automatica esportabilità nel settore del diritto amministrativo. In diritto amministrativo la nozione ha un fondamento analogo, ma un ambito più circoscritto. Il fondamento analogo è dato dal fatto che il destinatario del provvedimento favorevole ripone un affidamento sulla validità ed efficacia dello stesso (sempre che tale affidamento sia autorizzato dal regime del provvedimento): il problema della divergenza fra realtà ed apparenza si pone allorchè tale provvedimento, e i relativi effetti ampliativi, vengono rimossi (in autotutela, o a seguito di ricorso giurisdizionale). Con due importanti precisazioni: la prima è che il procedimento amministrativo non è un’attività relazionale a forma libera. La pretesa di ritenere non iure la condotta dell’amministrazione passa inevitabilmente per l’accertamento dell’illegittimità dei suoi atti. La seconda è che la valutazione del- l’ordinamento sul grado di affidamento configurabile a seguito di un provvedimento favorevole è già contenuta nel regime di stabilità del provvedimento medesimo. Il concetto di buona fede, good faith e quello di affidamento hanno riguardo a due distinte nozioni tra loro connesse, in quanto già in diritto civile è la buona fede che qualifica come incolpevole l’affidamento meritevole di tutela (la stessa teorica civilistica dell’affidamento esige, infatti, una diligenza nell’affidarsi all’altrui comportamento). Il beneficiario del provvedimento favorevole sa già che, a certe condizioni (anche temporali) lo stesso può essere rimosso: tanto che in materia di provvedimenti amministrativi la tutela del- l’affidamento in ambito comunitario (veicolata attraverso l’art. 1, comma 1, L. n. 241 del 1990 nel nostro ordinamento) è costruita sul piano degli effetti giuridici dell’autotutela: i margini della tutela dell’affidamento riposto nella stabilità del provvedimento sono definiti dal legislatore, attraverso la disciplina dei limiti di natura temporale all’esercizio del potere di autotutela. Il Consiglio di Giustizia Amministrativa della regione siciliana, con sentenza 10 novembre 2021 n. 994 ha ritenuto che le strutture accreditate che, pur aspirando alla contrattualizzazione (e quindi, all’apertura al mercato) ab rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 biano prestato acquiescenza ai dinieghi di contrattualizzazione emessi dal- l’Azienda Sanitaria di riferimento o addirittura non abbiamo nemmeno formulato istanza, non possono trarre beneficio dalla statuizione giurisdizionale favorevole intervenuta sul ricorso proposto da altre strutture. Il Cga ha escluso che a tale preclusione possa ovviare l’Agcm, tenuto conto della natura giuridica dell’interesse tutelato mediante il ricorso ex art. 21 bis L. n. 287/90, ossia l’interesse pubblico alla tutela e alla promozione del mercato e della concorrenza, in funzione del quale viene riconosciuta una legittimazione processuale straordinaria che consente la proposizione del ricorso a prescindere dall’iniziativa dei singoli che lamentino una lesione diretta e immediata della loro sfera giuridica ed anche oltre gli ordinari termini di decadenza. viene così in evidenza la lesione del principio di libera concorrenza a seguito di un ricorso proposto dall’Autorità di settore che, attivando la legittimazione straordinariamente attribuita dal legislatore, fa valere l’interesse generale al corretto dispiegarsi del mercato. L’Agcm, quindi, anche nel chiedere l’esecuzione del giudicato è portatrice di un interesse generale e non di una somma di interessi individuali, per cui deve escludersi che possa agire nell’interesse dei singoli che non abbiano tempestivamente impugnato i provvedimenti lesivi, cosa che determinerebbe un aggiramento dei termini decadenziali di impugnazione e l’elusione delle regole in tema di inoppugnabilità degli atti (gli uni e le altre funzionali alla rapida definizione e certezza dei rapporti fra cittadini e Pubblica Amministrazione). d’altra parte le strutture che si siano, invece, tempestivamente attivate avverso gli atti di rigetto della richiesta di contrattualizzazione sarebbero, comunque, tutelate in virtù della propria singola impugnazione. Nel bilanciamento, quindi, fra le varie posizioni si evince che dall’efficacia ex nunc della statuizione nessun soggetto verrebbe pregiudicato tra coloro che non siano rimasti acquiescenti al provvedimento. d’altra parte alla luce della circostanza che il ricorso ex art. 21 bis, l. 287 del 1990 è proposto oltre i termini di decadenza e non è richiesto che sia notificato a tutti i beneficiari del provvedimento, si perviene alla conclusione che il ricorso ex art. 21 bis l. 287/1990 tende soprattutto ad un risultato conformativo per il futuro e non ripristinatorio; risultato conformativo che è, perciò, il solo per il quale l’Agcm potrà eventualmente agire in sede di ottemperanza, in mancanza dell’auspicabile adeguamento spontaneo della regione. La programmazione regionale viene in rilievo, soprattutto, per la nota questione del calcolo dell’extrabudget sul fatturato complessivo delle strutture private accreditate. A tal riguardo si segnala una recente sentenza del tar sardegna, sez. i, del 21 febbraio 2022 n. 125 che ha statuito il seguente principio: la previsione solo eventuale di una remunerazione extrabudget e la decurtazione di una determinata percentuale dalle tariffe risultano legittime scelte di LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà screzionali che la regione può compiere nella determinazione dei criteri per remunerare l’extrabudget. È però, illegittima la scelta della regione di calcolare l’extrabudget sul fatturato complessivo e non sul tetto di spesa, utilizzando, perciò, anche l’extrabudget prodotto, così da minare e produrne (“investire”) quote maggiori, si da acquisirne negli anni successivi tetti di spesa maggiori. La sezione del Tar Sardegna ha chiarito che “l’invalicabilità del limite massimo di finanziamento assegnato dalle aSP alle singole strutture private accreditate è pienamente in linea con la ratio di tutela della finanza pubblica sottesa al tetto di spesa, laddove, invece, meccanismi di remunerazione extra- budget (quali l’istituto della regressione tariffaria) hanno rilevanza residuale ed eventuale. in materia sanitaria l’osservanza del tetto di spesa rappresenta un vincolo ineludibile che costituisce la misura delle prestazioni sanitarie che il SSN può erogare e può, quindi, permettersi di acquistare da ciascun erogatore privato; di conseguenza deve considerarsi giustificata anche la mancata previsione di criteri di remunerazione delle prestazioni extrabudget per la necessità di dover, comunque, rispettare i tetti di spesa e, quindi, il vincolo delle risorse disponibili (Tar Catanzaro, sez. ii, 18 dicembre 2018 n. 2144)”. Tale orientamento è stato confermato in sede di appello dal Consiglio di Stato che ha affermato che “la facoltà per le regioni di determinare criteri per la remunerazione delle prestazioni erogate al di sopra del tetto di spesa previsto dall’8 quinquies, comma 1, lett. d) del dlgs n. 502 del 1992, non implica che alle stesse regioni sia precluso, in circostanze particolarmente “stringenti” come quelle determinate dal piano di rientro, di stabilire legittimamente il criterio secondo cui nessuna remunerazione è prevista (CDS sez. iii, 25 marzo 2016 n.1244; id 11 novembre 2020 n. 6936)”. Ha ricordato il Tar Sardegna nella recentissima sentenza che è proprio tale logica ad essere illegittima, in quanto stimola un aumento delle prestazioni extrabudget, in contrasto con il vincolo imposto dal tetto di spesa: “l’art. 8 quinquies del D.lgs n. 502/1992 non consente la remunerazione delle prestazioni che eccedono il tetto di spesa, in quanto la funzionalità del sistema di programmazione della spesa sanitaria presuppone il rispetto del limite di spesa stabiliti: la regione Sardegna con tali delibere premia, invece, la produzione extrabudget, penalizzando le strutture che rispettano il tetto assegnato ai fini del contenimento della spesa pubblica (Consiglio di Stato sez. III 7 dicembre 2021 n. 8161)”. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 tecnologia e diritto: gli effetti collaterali dei tabulati telefonici Daniela Migali* Sommario: 1. i diritti fondamentali nel contesto storico prima dell’era digitale -2. L’impatto dirompente della tecnologia nel tessuto giuridico -3. La tutela del diritto alla riservatezza: profili problematici -4. il tortuoso cammino verso la legittimità dei tabulati -4.1 La giurisprudenza comunitaria -4.2. La querelle giurisprudenziale italiana -4.3 La reazione del legislatore nazionale -5. Luci ed ombre della normativa -6. i (dischiusi) possibili scenari. 1. i diritti fondamentali nel contesto storico prima dell’era digitale. La filosofia medievale del diritto naturale ha contribuito alla proclamazione dei diritti fondamentali, o anche inviolabili, dell’uomo inerenti alla persona umana e alla sua dignità. Una volta conquistata la rilevanza anche in ambito sociale, con il tramonto delle vecchie strutture feudali, detti diritti hanno ottenuto il primo vero riconoscimento in ambito giuridico con la dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789. All’indomani delle atrocità compiute durante i conflitti mondiali, la maggior parte degli Stati, mossi da un sentimento di convinta reazione, si sono impegnati a dare riconoscimento, all’interno dei propri territori, a princìpi ampiamente condivisi attraverso una vera e propria formalizzazione. Nel panorama sovranazionale, quest’impegno si è concretizzato per ventotto Stati il 10 dicembre 1948, data in cui è stata emanata la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Tra questi ultimi, meritevole di particolare attenzione è il diritto alla riservatezza, nel quale confluiscono una pluralità di interessi legati all’estrinsecazione della personalità umana. La riservatezza ha assunto nel corso degli anni diverse sembianze a seconda del contesto storico: dapprima, solo come riservatezza domiciliare e della corrispondenza, più tardi -in concomitanza all’avvento della digitalizzazione -è stata intesa come inviolabilità dei dati personali (di cui all’art. 615 bis c.p.). Tra i molteplici riferimenti normativi alla riservatezza in senso lato -da intendersi come diritto alla privacy -di spiccata importanza è la dichiarazione Universale dei diritti umani (art. 12) la quale sancisce il diritto dell’individuo di mantenere il controllo sulle proprie informazioni, da intendersi come presupposto per l’esercizio di altri diritti di libertà. Lo stesso, è altresì ripreso nella Convenzione internazionale sui diritti civili e politici (art. 17). I testi citati, pur non presentando un carattere vincolante, hanno ispirato gli Stati nella predisposizione di un efficace e garantista sistema normativo. (*) dottoressa in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Bologna. LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà Nel contesto nazionale, è l’art. 2 della Carta costituzionale -noto come strumento dinamico di protezione (1) -che espressamente riconosce i diritti fondamentali, ne esplicita il contenuto a seconda che ineriscano l’ambito civile, etico-sociale, economico e politico. Sulla scorta di quanto affermato a livello globale, la rivisitazione del diritto alla riservatezza, in concomitanza allo sviluppo delle tecnologie informatiche, si è tradotto nell’emersione del diritto alla protezione dei dati personali. orbene, tale approdo è stato preceduto da una serie di tappe -tutte tese a valorizzare la mutevolezza contenutistica del diritto in questione -che hanno lasciato inalterata la ratio di tutelare le esigenze multiformi. Tuttavia, data la centralità dell’informazione nel contesto economico e sociale, al titolare dei dati è conferita una sorta di “sovranità digitale” affinché possa provvedere, in prima persona, al controllo dei propri dati. Nel tentativo di dipanare i dubbi sulla natura “tiranna” (2) di tali diritti, è stato rimesso all’equo giudizio del legislatore il bilanciamento tra interessi confliggenti, in virtù dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità. 2. L’impatto dirompente della tecnologia nel tessuto giuridico. La profonda trasformazione che ha interessato l’odierna società -al punto tale da segnare il passaggio nella c.d. era digitale -deve essere attribuita all’avvento delle scienze tecnologiche. Non è improprio definire “rivoluzione digitale” quel passaggio graduale verso la tecnologia digitale (3), la quale, in poco tempo, è divenuta indispensabile in diversi campi della vita quotidiana. Alla luce dell’impatto che queste tecnologie hanno avuto anche nella ridefinizione dei processi organizzativi e gestionali, è stata avvertita l’esigenza di promuovere l’acquisizione di adeguate competenze da parte dei destinatari. difatti, una delle sfide lanciate di recente dalla Commissione Europea, è stata quella di puntare al miglioramento delle competenze digitali dei cittadini, tra le sette azioni prioritarie. Nel campo delle investigazioni, il ritardo dell’Accademia nella elaborazione di una risposta dogmatica ha indotto la dottrina ad individuare delle soluzioni tecnico-giuridiche in grado di reggere l’urto della situazione contingente e di imporsi come pratiche, condivisibili dagli addetti ai lavori (4). Nell’arduo tentativo di sfruttare al meglio le potenzialità delle scienze digitali, un elemento di estrema rilevanza, del quale la dottrina ha dovuto tener (1) LEo, Nuove frontiere dell’investigazione scientifica e diritti fondamentali dell’uomo, appunti per la relazione 11 aprile 2022. (2) Così definiti in ragione del regime di tutela in apparenza incondizionata, prescindendo dai sacrifici derivanti dalla tutela ed esistenza degli interessi confliggenti. (3) Così definita in relazione ad un sistema binario di cifratura. (4) Introduzione ad opera di ATErNo, CAJANI, CoSTABILE, MATTIUCCI, MAzzArACo, Cyber forensics e indagini digitali, 2021, pp. 23 ss. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 conto, è stata la nuova categoria di minacce: infatti, l’utilizzo illecito della tecnologia ha generato la c.d. criminalità cibernetica, ovvero un fenomeno in continua espansione i cui soggetti passivi -cittadini, imprese, e nel complesso gli Stati -sono sempre più vulnerabili (5). Il carattere camaleontico e immateriale della criminalità informatica è ciò di cui deve tener conto lo studioso nell’elaborazione di misure sicuritarie e di prevenzione, in raccordo con le nuove fattispecie incriminatrici. Tutto ciò avviene quando nelle asfittiche aule dei tribunali italiani irrompono (6) rumorosamente i data retention (7) e data protection, riportando alla memoria il principio secondo il quale il processo inquisitorio è destinato a cedere davanti alle fonti dell'Unione europea -di superiore valore giuridico come la Carta dei diritti fondamentali. In un sofisticato eco-sistema tecnologico, la prova digitale (e-evidence) (8), date le sue molteplici sfaccettature, è stata la causa scatenante del momento di tensione fra i poli del garantismo e dell’autoritarismo: le necessarie azioni preventive e repressive, volte a tutelare l’ordine pubblico, hanno determinato l’infausta compressione dei diritti fondamentali. Così, se la digital evidence costituisce la misura atomica delle indagini nel mondo digitale, la digital forensics è il processo teso alla “manipolazione controllata, o più in generale, al trattamento di dati o informazioni digitali e sistemi informativi per finalità investigative e di giustizia” (9). difatti, l’individuazione degli strumenti da offrire agli organi investigativi ha risentito della necessaria intersecazione con le garanzie proprie del giusto processo: l’esito di tali operazioni è l’acquisizione di dati e informazioni autentiche ad insaputa del soggetto sotto accusa. d’altro canto, le tracce infor (5) Esemplificativi, sono stati gli attacchi Wannacry e NotPetya nei quali sono stati attaccati diversi strati della società nell’arco di pochi giorni del 2017: sono infatti stati infettati i sistemi di molte aziende e istituzioni europee (la deutsche Bahn in Germania e il National Health Service nel regno Unito). (6) In realtà, c’è in dottrina chi sostiene che il connubio tra il mondo giuridico e l’intelligenza artificiale si colloca negli anni ottanta del 1900, per poi esser ritornato in auge in maniera significativa a partire dal 2010, KrAUSovà, interaction between law and artificial intelligence, in international Journal of computer, 2017, p. 55. (7) dati “esterni” delle comunicazioni di traffico telefonico: ovvero una serie di elementi eterogenei che attestano il fatto storico di una comunicazione già avvenuta e coessenziale alla stessa, che consentono alle forze dell'ordine e alla magistratura inquirente di ricostruire -necessariamente a posteriori e senza il consenso dell'abbonato -i dati c.d. "esterni" relativi al flusso di traffico telefonico (''in entrata" ed "in uscita", comprese le chiamate perse) e telematico (files di log) intercorso con riguardo ad una certa utenza; questa è la spiegazione enunciata nella relazione su novità normativa, Ufficio del massimario e del ruolo della Suprema Corte di Cassazione, rel. 55/2021. (8) Per tali si intendono le fonti di prova memorizzate in strumenti informatici, come le postazioni di lavoro degli utenti, i server aziendali, il Cloud o altri sistemi informatici. La necessità di avvalersi di strumenti idonei nella fase di acquisizione è data dalla natura “carente di fisicità” la quale potrebbe incorrere nel rischio di modifica accidentale. (9) CoSTABILE, Digital forensics & digital investigation: classificazione, tecniche e linee guida nazionali e internazionali; così anche, zICCArdI, Scienze forensi e tecnologie informatiche, 2007, p. 3. LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà matiche lasciate da un sospettato costituiscono patrimonio informativo di notevole importanza per gli investigatori, che -conseguentemente -provvedono a verificare la fondatezza dell’ipotesi accusatoria mossa a suo carico. In direzione opposta allo sviluppo tecnologico, procede l’arretramento dei livelli di tutela dei diritti fondamentali (10), aumentato a dismisura con la crescita esponenziale dei fenomeni di stampo criminale-terroristico (11). Proprio per far fronte a tali esigenze, sono stati introdotti “istituti disfunzionali rispetto all’impianto pregresso [...], ma che gradualmente -grazie ad una sorta di osmosi -sono stati assorbiti al suo interno diventandone parte integrante. E, naturalmente, incidendo -talora in maniera significativa -sulla geografia processuale esistente e sull’interpretazione dei capisaldi della giustizia penale desumibili dalla Carta costituzionale” (12). Se ben noti sono i risvolti positivi apportati dalla tecnologia nell’ambito investigativo, di converso, deve prendersi atto dell’annoso compito affidato all’autorità giudiziaria ogni qual volta sia opportuno effettuare un bilanciamento tra l’indispensabile esercizio del potere pubblico e l’invalicabile sostrato di tutela dei diritti dell’individuo. Esemplificativa, è la vicenda Abu omar, nell’ambito della quale la dIGoS di Milano ha rintracciato i responsabili grazie all’acquisizione del traffico telefonico delle celle radio base della zona in cui si sono svolti i fatti. Ciò avviene grazie allo strumento del c.d. tracing, è attraverso il quale la polizia giudiziaria, procedendo a ritroso, rintraccia l’origine della condotta posta in essere. Una conferma sulla necessarietà di conservazione dei dati del traffico telefonico ai fini delle indagini sul cyber crime era emersa già nella discussione “paper for expert’s meeting on retention of traffic data” tenutosi nel 2001. Nel contesto nazionale, è frequente l’avvalimento della tecnologia da parte degli organi investigativi, in particolare in tema di acquisizione dei tabulati telefonici, che costituisce terreno fertile sia per la dottrina (13) e sia per (10) di tutta evidenza è il fatto che le operazioni acquisitive consentono altresì di risalire alle abitudini quotidiane dell’individuo, tra cui la geolocalizzazione. Attraverso la c.d. mappatura ad irraggiamento è possibile conoscere tutte le utenze che in un determinato momento hanno agganciato una specifica cella di apertura. Per una disamina, ATErNo, CAJANI, L'acquisizione dei dati di traffico, pp. 284 ss.; NEroNI rEzENdE, Dati esterni alle comunicazioni e processo penale: questioni ancora aperte in tema di data retention, in Sistema penale, 2020, 5, p. 194. (11) Corte costituzionale tedesca, sentenza del 20 aprile 2016, in occasione della quale aveva riconosciuto la compatibilità con il vulnus dei diritti fondamentali, l’impiego delle misure di sorveglianza occulte finalizzato alla protezione della società contro le minacce del terrorismo internazionale. (12) LorUSSo, Processo penale e bit oltre l’emergenza, Processo penale e giustizia, 2020, p. 1000, il quale ha ritenuto che il legislatore, anziché́ individuare nuovi istituti e/o regole, ha ridotto il proprio intervento a un’opera di riscrittura «radicale» dell’esistente. (13) Seppure in maniera isolata, nella dottrina si evince il parere di chi (come il dottor Musolino Stefano) ritiene che l’acquisizione dei tabulati telefonici è un metodo di indagine poco invasivo, specie nella prima fase delle indagini preliminari. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 la giurisprudenza, entrambe fermamente convinte di stimolare la reazione del legislatore. dal punto di vista tecnico, l’uso dei tabulati telefonici altro non è che l’analisi di un file di log (14) relativo alle operazioni svolte da un terminale mobile, quale il telefono smartphone (15). Invero, ogni qual volta si procede ad accertare un fatto che costituisce reato, e per i quali sono da ritenersi insufficienti i tradizionali mezzi -come il pedinamento -nel momento in cui si ricorre agli strumenti tecnologici si genera quella frizione tra la scienza e diritto. d’altra parte, al fine di non lasciare ampio margine al potere giurisdizionale, il legislatore ha pensato bene di fornire delle rassicurazioni alla persona sotto indagine: quali, ad esempio, la cancellazione dei dati raccolti ritenuti irrilevanti ai fini del processo, la necessaria comunicazione del termine delle indagini svolte nei suoi confronti con la possibilità di verificare il controllo sull’operato giurisdizionale. Alla luce delle vicende a titolo esemplificativo riportate finora e le modifiche intervenute nel corso degli anni recenti, il dato che emerge è la vulnerabilità del diritto penale sostanziale e procedurale che, esposto al vento dell’innovazione tecnologica, si è trovato a dover far fronte ad una nuova sfida: l’elaborazione di sistemi di tutela nella governance dei dati -personali e non -e nel riutilizzo per i software dell’intelligenza artificiale, a discapito dell’effettiva tutela di diritti fondamentali (16). Il dibattito dottrinale, sorto dalle storture dell’irruzione delle scienze digitali nel campo giuridico, è stato molto acceso ma in egual misura utile nel focalizzare il problema: l’impossibilità di un eventuale e futuro “incastro”. Infatti, seppur nota è la flessibilità che connota il diritto (in tal senso, emblematica è la continua ricezione dei mutamenti sociali), deve prendersi atto della necessarietà del tempo di assimilazione ai fini di un effettivo consolidamento (17). Un fenomeno che da ultimo ha notevolmente influito nel processo di modernizzazione dei sistemi normativi penale (18) è rappresentato dall’emergenza pandemica per la diffusione del virus CovId 19 che ha interessato (14) La terminologia indica i registri in grado di documentare tempi e orari della connessione al sistema dei diversi IP, e non dati di traffico. (15) FErrAzzANo, rEALE, Una proposta di progetto open source per l’analisi dei tabulati telefonici in risposta a problematiche ed errori ricorrenti, in informatica e diritto, vol. XXIv, 2015, nn. 1-2, 373. (16) Tra i tanti, PoLLICINo, Costituzionalismo, Privacy e neurodiritti, in medialaws, 2021, n. 2, pp. 9 ss. (17) Convegno “Prove digitali atipiche e diritti individuali”, 15 giugno 2022, intervento della Prof.ssa Conti, ordinario di procedura penale presso l’Università di roma Tor vergata, la quale ha espresso l’immagine di un giurista chiamato a dismettere i panni di puro umanista per diventare un giurista 2.0 scendendo nell’arena delle prove digitali. (18) definito anche un “formidabile laboratorio di sperimentazione” per istituti di nuovi e meccanismi preesistenti da MAzzA, Distopia del processo a distanza, in arch. pen., 2020, n. 1, p. 2. LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà Paesi europei e non, a partire dalla fine dell’anno 2019. Il Governo italiano (19), seguendo l’esempio anche di altri Paesi all’avanguardia, nel rispondere all’esigenza di garantire una continuità delle attività scolastiche e lavorative, ha incentivato l’utilizzo delle nuove tecnologie, applicate anche in ambito giudiziario, favorendo la conoscenza di sistemi informatici, fino a quel momento in disuso in diversi campi (20). Il capolinea dell’avvento della digitalizzazione è segnato dalla riforma Cartabia, poi trasfusa nella legge n. 134/2021, nota per l’ambizione di ridurre i tempi del processo attraverso una riorganizzazione del sistema giudiziario, come si avrà modo di analizzare nel prosieguo. 3. La tutela del diritto alla riservatezza: profili problematici. L’inviolabilità dei diritti professata nei testi normativi comunitari e nazionali non è sufficiente ad arginare il rischio che nella realtà giudiziaria i medesimi vengano violati, si pensi -in particolare -al diritto alla riservatezza (21). Ciò avviene in maniera quasi automatica se a concorrere c’è il principio di ordine pubblico o di buon andamento della giustizia. ripercorrendo con un breve excursus gli orientamenti giurisprudenziali, la regola della segretezza, come principio guida delle indagini investigative, è stata esplicitata sic et sempliciter dalla Consulta nel 1966 (22). Se da un lato, lo svolgimento delle indagini non può essere comunicato alla persona nei cui confronti sono svolte, dall’altro, deve prendersi atto della contestuale intromissione illegittima nella sfera privata del medesimo. La ratio sottesa al segreto istruttorio è duplice: ovvero quella di assicurare la serenità e l’indipendenza del giudice -libero da condizionamenti esterni di alcun tipo -e altresì quella di tutelare la dignità e la reputazione di tutti coloro che, sotto diverse vesti (23), sono coinvolti nel processo. A distanza di trent’anni, i giudici della Corte costituzionale, seppur con ondivaghi interventi, sono ritornati sul tema, caldeggiando l’approccio “caso per caso”: “l’interesse protetto dall’art. 21 della Costituzione non è in astratto (19) In occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2022, la Ministra della Giustizia, Marta Cartabia ha dato per certo il fatto che l’emergenza pandemica è in grado di assolvere un ruolo propulsivo di innovazioni legislative: «dalla crisi una opportunità. ovvero: dalle misure emergenziali, riforme strutturali. Un indirizzo di questa amministrazione, infatti, è stato quello di cogliere le opportunità nella situazione di crisi in cui la pandemia ci ha posti, valutando quali misure, anche tra quelle imposte dalla contingenza, potranno tradursi in modifiche strutturali». Per il testo completo dell’intervento, si rinvia al sito www.giustizia.it. (20) Secondo alcuni proprio l’esperienza pandemica è stata l’occasione per creare un allineamento tra i diversi settori lavorativi: si pensi alle discrepanze tra il mondo della giustizia e quello economico in merito all’uso dei sistemi informatici. (21) Sin dalla sentenza della Corte cost. 38 del 1973, confermata da ultimo dalla sentenza n. 173 del 2009. (22) Corte cost. del 3 marzo 1966, n. 18. (23) Persona offesa, testimoni, talvolta anche le persone costituenti parte civile, etc. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 superiore a quello parimenti fondamentale della giustizia, nei cui confronti è stato, anzi ritenuto cedevole, nelle concrete situazioni giuridiche esaminate dalle precedenti sentenze che, [...] nel conflitto tra tali due istanze, deve essere il legislatore nella sua discrezionalità a realizzare la ragionevole ed equilibrata composizione degli opposti interessi” (24). Sulla medesima scia garantista, da ultimo, la Legge n. 7/2020 ha polarizzato il suo interesse alla tutela della persona sottoposta ad indagini per fatti estranei a quelli per i quali si procede. A tal riguardo, sagacemente la dottrina ha distinto la riservatezza in senso stretto (privacy) -come diritto alla non divulgazione di conversazioni riguardanti dati personali o sensibili -e la riservatezza in senso lato, ovvero il diritto volto alla non divulgazione di conversazioni processualmente irrilevanti (25). L’interrogativo che a questo punto sorge spontaneo porsi, inerisce le tecniche di tutela che sono state adottate dagli Stati per apprestare un’effettiva salvaguardia al diritto fondamentale della riservatezza. Più volte il legislatore, accogliendo le istanze della dottrina e gli influssi comunitari, ha cercato di dare una risposta esaustiva con ripetuti interventi legislativi. Tale sforzo, con un intento garantista, si è rivelato insufficiente con riferimento a quei fatti in cui la preminenza di ulteriori interessi, quale ad esempio la sicurezza pubblica, hanno determinato la compressione del diritto in causa. Nel tentativo di apprestare un rimedio alla deludente normativa, la giurisprudenza ha svolto un ruolo determinante, affrontando le questioni pratiche come terreno fertile per calibrare la gravità delle violazioni messe in atto. La scelta di cavalcare l’onda della lotta alla criminalità cibernetica ha determinato lo scontro tra le competenze territoriali degli Stati interessati: i reati informatici hanno come locus commissi delicti lo spazio virtuale, la cui unicità non è riscontrabile nella realtà. È sovente che un utente, autore di un cyber attacco, mentre si trova davanti ad un pc, nella sua stanza, ubicata in una regione di un Paese democratico inizi a sfruttare la vulnerabilità di un cittadino, presente in rete, di un altro Stato, nel quale sono vigenti strette restrizioni in materia di protezione di dati. Tralasciando la vexata quaestio sulla a-territorialità della cybercriminalità e la difficoltà di dover bilanciare gli interessi di diverso rango -anche tra Paesi diversi -meritevole di considerazione è il rapporto che intercorre tra il legislatore comunitario e la volontà degli Stati di adeguarsi. Infatti, con l’iniziale intento di rafforzare la tutela di alcuni di tali diritti fondamentali, il legislatore comunitario si è lasciato travolgere dalla foga dell’era digitale e ha consegnato un organico sistema di norme (26) agli Stati membri, richiamandoli ad allinearsi. (24) Corte cost. 22 gennaio 1981, n. 1. (25) Ciò che la dottrina americana ha raccolto sotto la definizione di “diritto all’anonimato”. Sul punto, WESTIN, Privacy and freedom, London, 1967, p. 31. LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà dal canto suo, il legislatore nazionale, attraverso una lettura sistematica e analogica, vi ha dato ascolto: estendendo il novero dei reati penalmente perseguibili e, conseguentemente, aggiornando (per modo di dire) la disciplina sui mezzi di ricerca della prova, pur discostandosi dalle rigide posizioni giurisprudenziali. La conferma -seppur spiacevole -è ravvisabile in ambito processuale, dove il varco lasciato aperto dal legislatore con la disposizione di cui all’art. 189 c.p.p. (27) inerente al regime delle prove atipiche, ha costituito la zona grigia alla quale si è “aggrappata” la giurisprudenza per legittimare l’utilizzo di strumenti informatici, seppur noti per la forte ingerenza nella vita dei soggetti coinvolti (28). Il monito proveniente dalla dottrina (29) che -alla stregua di una romantica spettatrice -osserva le deludenti soluzioni della giurisprudenza, consiste nell’introduzione di una riserva di giurisdizione volta a garantire un’effettiva tutela (seppur minima) al diritto alla riservatezza. 4. il tortuoso cammino verso la legittimità dei tabulati. La disciplina dei tabulati -riprendendo l’immagine evocativa fornita da autorevole dottrina riguardo alle intercettazioni -costituisce l’ago della bussola del tasso di efficienza e di garanzia tra le contrapposte esigenze che affluiscono ad un affollato incrocio (30). Gli studiosi, con fervida attenzione, si sono cimentati nel rintracciare i contrapposti valori di rango costituzionale coinvolti nell’operazione di bilanciamento rimessa in capo al giudice. Comunemente, tra i più disparati vi sono: la garanzia della giurisdizione, la presunzione di innocenza e il diritto di difesa, (26) regolamento Generale sulla Protezione dei dati 2016/679 (c.d. GdPr) finalizzato alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali e alla libera circolazione dei dati, escludendo le sole persone giuridiche. (27) Secondo il tenore letterale della norma è necessaria l’idoneità della stessa prova -non disciplinata dalla legge -ad assicurare l’accertamento dei fatti senza arrecare pregiudizio alla libertà morale della persona. Tuttavia, ai fini dell’assunzione, il giudice vi provvede sentite le parti. (28) Cass. Pen., sez. III, sentenza n. 43609 dell’8 ottobre 2021-rv. 282164 -01: “In tema di prove atipiche, sono legittime e, pertanto, utilizzabili, senza che necessiti l'autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, le videoriprese dell'ingresso e del piazzale di un'impresa, eseguite dalla polizia giudiziaria a mezzo di impianti installati sull'edificio antistante, non configurandosi, in tal caso, alcuna indebita intrusione nell'altrui domicilio, posto che i luoghi suddetti non rientrano in tale nozione. (Fattispecie di videoriprese aventi ad oggetto la mera presenza di cose o persone e i loro movimenti). diversamente, qualora le videoriprese di comportamenti non comunicativi siano avvenute all’interno del domicilio degli interessati, data la valenza del diritto di cui all’art. 14 Cost., saranno qualificabili come prove illecite (vd. Cass. pen., sez. III, Sentenza n. 15206 del 21/11/2019 Ud. (dep. 15/05/2020) rv. 279067 - 04)”. (29) LEo, cit., il quale prende in esame la sentenza Prisco la quale aveva fatto riferimento all’art. 2 Cost. con atteggiamento maieutico (cfr. Sez. U, Sentenza n. 26795 del 28 marzo 2006 Cc. -rv. 234270 - 01.) (30) FILIPPI, intercettazioni, accesso ai dati personali e valori costituzionali, 2021, p. 13. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 il segreto di Stato (art. 270 c.p.p.) e il segreto professionale (art. 271, co. II, c.p.p.), il diritto di cronaca giudiziaria su fatti socialmente rilevanti, e infine, il diritto alla privacy su fatti estranei all’indagine (31). Sotto il profilo procedurale, le intercettazioni telefoniche non possono essere equiparate ai tabulati: mentre le prime costituiscono delle tecniche attraverso cui è possibile apprendere, in tempo reale, il contenuto di una conversazione o di una comunicazione, che altrimenti non sarebbe accessibile in altro modo, diversamente, oggetto dei tabulati sono i dati esterni delle comunicazioni, ovvero la durata, le utenze coinvolte, il luogo nei quali si trovano i soggetti coinvolti. In più occasioni, l’accento sulla necessaria differenziazione -appena enunciata -è stato posto dalla Corte costituzionale (32), guardando proprio ai risvolti processuali: mentre le intercettazioni sono autorizzate dal Gip, per l’ottenimento dei contenuti dei tabulati, invece, colui che è chiamato ad avanzare la richiesta al giudice competente è il Pubblico Ministero, sul quale grava l’onere di fornire -in maniera dettagliata -le circostanze meritevoli di legittimazione. In un quadro quantomai frastagliato e complesso, le soluzioni offerte dalla dottrina e dalla giurisprudenza seguono il fil rouge verso la tradizionalità: valorizzando l’esaustività delle precedenti disposizioni -seppur risalenti all’anno 1988 -la critica ha espresso la propria preferenza a favore di una rilettura dei principi costituzionali e delle Convenzioni internazionali, piuttosto che imboccare la via interpretativa della giurisprudenza comunitaria (33). di seguito, sono riportati, in maniera analitica, gli orientamenti giurisprudenziali succedutisi negli anni, al fine di individuare quello che, alla luce degli invariabili principi fondamentali, possa apparire il “più sicuro” approdo ermeneutico. 4.1 La giurisprudenza comunitaria. Ad affrontare per la prima volta il tema del bilanciamento tra l’esigenza statuale di accertamento e repressione dei reati -mediante l’acquisizione di dati/informazioni presso service providers -e il diritto fondamentale alla riservatezza dell’individuo è stata la sentenza Digital rights ireland (34), nota per aver soppiantato la direttiva Frattini (35). In questa occasione, la Corte, (31) Artt. 2 Cost., art. 8 Conv. edu, art. 17 Patto internaz. dir. civ. e pol. e art. 7 Carta dei diritti fondamentali dell’UE. (32) Le note sentenze del 1998: nn. 81 e 281. (33) Sul punto, FILIPPI, intercettazioni, accesso ai dati personali e valori costituzionali, cit., p. 163. (34) C. giust., 8 aprile 2014, Digital rights ireland vs minister for Communications e a., C-293/12 e C-594/12, la quale è stata annullata tenuto conto dell’eccedenza dei limiti imposti dal principio di proporzionalità, alla luce degli artt. 7, 8 e 52 della Carta dei diritti Fondamentali dell'Unione Europea (o “Carta di Nizza”). (35) direttiva 2006/24/CE. LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà inaugurando un approccio rigoristico alla tutela della vita privata e alla protezione dei dati personali, ha ritenuto che la compressione della riservatezza degli utenti (peraltro non messi al corrente di tali evenienze) sia giustificabile solo per il fine ultimo di contribuire alla lotta contro la criminalità grave e il terrorismo internazionale (36). Tra i punti essenziali (37) messi in evidenza dalla Corte di Giustizia -sui quali la medesima tornerà più volte per porvi l’accento, a fronte dell’inerzia dei legislatori nazionali -è stata rintracciata la mancanza di differenziazione delle varie circostanze, all’interno della disciplina sulla conservazione dei dati. In particolare, sotto il profilo applicativo, di cui all’art. 52 par. 1 della Carta: dal punto di vista soggettivo, la Corte esprime il suo dissenso verso l’acquisizione di dati riferibili a coloro che non sono “indiziati”, mentre, nel versante oggettivo, la medesima rileva che le Autorità nazionali qualora decidano di intervenire -anche nei casi non sufficientemente gravi -violino gli articoli 7 e 8 della Carta. Ne consegue che, fissata la regola della graduazione -nei limiti alla conservazione -dei dati esterni di una comunicazione telefonica o telematica, la Corte di Giustizia lascia aperto uno spiraglio e ammette, in via eccezionale, la conservazione generalizzata e indifferenziata degli indirizzi IP (38) attribuiti alla fonte di una connessione, tenuto conto della loro utilità per l’accertamento di reati (come la pedopornografia online). Tanto premesso, la mancanza di chiarezza e precisione della disciplina che regola l’acquisizione dei dati, impone di ritenere invalida la direttiva (Frattini) in questione. Conseguentemente, la Corte europea statuisce che la disposizione di cui all’art. 15 “osta ad una normativa nazionale, la quale disciplini la protezione e la sicurezza dei dati relativi al traffico e dei dati relativi al- l’ubicazione, e segnatamente l’accesso delle autorità nazionali competenti ai dati conservati, senza limitare, nell’ambito della lotta contro la criminalità, tale accesso alle sole finalità di lotta contro la criminalità grave, senza sottoporre detto accesso ad un controllo preventivo da parte di un giudice o di un’autorità amministrativa indipendente, e senza esigere che i dati di cui trattasi siano conservati nel territorio dell’Unione ” (39). dirompente e rivoluzionaria è stata la sentenza della Grande Sezione della (36) Il quale, secondo la Corte, è in grado di alterare il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. (37) In particolare, ha notevole importanza nella comprensione delle ricadute sugli stati membri, la differenziazione tra la fase di conservazione dei dati di traffico e relativi all’ubicazione e la fase successiva dell’accesso a tali dati. (38) Abbreviazione di internet Protocol address riferita ad un’etichetta numerica che identifica univocamente un dispositivo, detto host, collegato ad una rete informatica che lo usa come protocollo di rete. (39) C. giust. UE, Grande Sezione, Tele, 21 dicembre 2016, C-203/15. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 Corte di Giustizia del 2 marzo 2021 (40), nel tentare di restituire degna importanza al regime di tutela dei diritti fondamentali. Nel caso de quo, la questione che le era stata sottoposta dall’Estonia riguardava la corretta interpretazione dell’art. 15, par. 1, della direttiva 2002/58 il quale -letto alla luce degli articoli 7, 8, 11 e 52 par. 1 della Carta -poteva ostare a una normativa nazionale che attribuiva al Pubblico ministero la competenza per autorizzare un’Autorità pubblica ad accedere ai dati relativi al traffico e ai dati relativi all’ubicazione, nell’ambito di un’istruttoria penale. Prima di addivenire alla soluzione, la Corte ha approfondito il ruolo assunto dal Pubblico Ministero nell’ambito di un procedimento penale (41), concludendo che “è essenziale che l’accesso delle autorità nazionali competenti ai dati conservati sia subordinato ad un controllo preventivo effettuato o da un giudice o da un’entità amministrativa indipendente, e che la decisione di tale giudice o di tale entità intervenga a seguito di una richiesta motivata delle autorità suddette presentata, in particolare, nell’ambito di procedure di prevenzione o di accertamento di reati ovvero nel contesto di azioni penali esercitate”. Con riferimento alla posizione del medesimo: “in un’indagine penale, tale controllo preventivo richiede che detto giudice o detta entità sia in grado di garantire un giusto equilibrio tra, da un lato, gli interessi connessi alle necessità dell’indagine nell’ambito della lotta contro la criminalità e, dall’altro, i diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali delle persone i cui dati sono interessati dall’accesso”. Concludendo, afferma che “il pubblico ministero sia tenuto, conformemente alle norme che disciplinano le sue competenze e il suo status, a verificare gli elementi a carico e quelli a discarico, a garantire la legittimità del procedimento istruttorio e ad agire unicamente in base alla legge ed al suo convincimento”. Alla luce di quanto riportato, se ne conviente che il P.M. è vincolato a rivestire la qualifica di tertius rispetto agli interessi in gioco. Allo stato attuale, in occasione dell’ultima sentenza -a chiusura dell’iter comunitario finora descritto -del 5 aprile 2022, la Corte di Giustizia ha affrontato il sensibile tema degli abusi ed accessi illeciti di dati, il più delle volte conservati dai privati per svariati fini. In risposta alle tre (contemporanee) questioni pregiudiziali pendenti, la (40) C. giust. UE, Grande Sezione, del 2 marzo 2021, K.m. - causa C-746/18. (41) Il quale è tenuto “ad agire in modo indipendente, è soggetto soltanto alla legge e deve esaminare gli elementi a carico e quelli a discarico nel corso del procedimento istruttorio, l’obiettivo di tale procedimento resta nondimeno quello di raccogliere elementi di prova nonché di pervenire al soddisfacimento degli altri presupposti necessari per lo svolgimento di un processo. Sarebbe questa stessa autorità a rappresentare la pubblica accusa nel processo, ed essa dunque sarebbe altresì parte nel procedimento. inoltre, risulta dal fascicolo a disposizione della Corte, come confermato anche dal governo estone e dal Prokuratuur all’udienza, che il pubblico ministero estone è organizzato in modo gerarchico e che le domande di accesso ai dati relativi al traffico e ai dati relativi all’ubicazione non sono soggette ad un requisito di forma particolare e possono essere presentate dal procuratore stesso” par. 47, C-746/18. LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà Corte è stata irremovibile nell’affermare che il diritto europeo, in forza della primauté, osta ad una normativa nazionale che preveda una conservazione generalizzata ed indifferenziata dei dati di traffico e relativi all’ubicazione, se non finalizzato alla lotta contro gravi forme di criminalità e alla prevenzione di minacce gravi alla sicurezza pubblica. 4.2. La querelle giurisprudenziale italiana. Le plurime posizioni assunte dai giudici nazionali sono connotate da un marcato disinteresse all’operazione di adeguamento al dictum comunitario, volto ad arginare il rischio di eventuali e possibili violazioni dei diritti fondamentali, di cui agli articoli 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’uomo. All’indomani della sentenza della CGUE del 2014, la Corte di Cassazione (42) ha ravvisato la compatibilità dell’art. 132 del codice della privacy -che consente l’acquisizione dei tabulati in forza del provvedimento del Pubblico Ministero -con i principi sovranazionali. A sostegno di tale posizione, il percorso argomentativo seguito fa leva sul dato letterale della pronuncia comunitaria, la quale individua come baluardo di legittimità dell’acquisizione dei tabulati telefonici l’Autorità giudiziaria; secondo un’interpretazione in senso lato, è possibile ricomprendere nella locuzione impiegata dalla Corte comunitaria anche la figura del Pubblico Ministero: “dalla lettura della versione francese delle sentenze, che ricorrono al termine "juridiction", riferibile alla magistratura francese nel suo complesso, composta da giudici e da pubblici ministeri (magistrats du parquet). [...] allo stesso modo nella versione inglese delle sentenze viene adottato il termine "Court", anch'esso promiscuo, considerato che la funzione giudiziaria è, in via generale, indicata con la formula "Court clerk", mentre termini precisi designano il giudice (judge) e il pubblico ministero britannico (prosecutor), quest'ultimo privo della prerogativa italiana dell'indipendenza”. Tuttavia, anche la successiva puntualizzazione operata dal Supremo organo comunitario -dietro la sollecitazione estone -non ha persuaso i giudici del Tribunale di Tivoli (43) e della Corte di Assise di Napoli (44), dal disso (42) Cass. Pen., sez. v, 24 aprile 2018, n. 33851. (43) ordinanza del GIP del 9 giugno 2021. (44) ordinanza del 16 giugno 2021, Corte di Assise Napoli, sez. I penale in cui si è giustificata l’inapplicabilità diretta della decisione europea che vieta l’acquisizione dei tabulati al PM in quanto “organo facente parte dell’autorità Giudiziaria e, come tale, destinatario dei doveri di imparzialità e di rispetto della legge ed anche delle guarentigie costituzionali poste a tutela della piena autonomia della funzione [...] il Pm è chiamato ad acquisire non solo le prove di accusa, ma anche quelle a favore del- l’indagato, essendo in suo potere richiedere l’archiviazione; la sua posizione non può, pertanto, essere assimilata a quella del corrispondente organo estone, che è autorità soggetta alla sfera di competenza del ministro della Giustizia che partecipa alla pianificazione delle misure necessarie per la lotta e l’accertamento dei reato”. Sulla stessa scia, l’ordinanza del Tribunale di Milano, sez. vII penale, 22 aprile 2021, commento ToNdI, La disciplina italiana in materia di data retention a seguito della sentenza della rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 ciarsi dai precedenti giurisprudenziali, con l’intento ultimo di conformarsi al diritto comunitario. A latere di detti orientamenti, i giudici del Tribunale di rieti, animati dal bisogno di certezza, hanno rinviato alla Corte di Giustizia una domanda di pronuncia pregiudiziale al fine di comprendere se il Pubblico Ministero nazionale sia effetivamente dotato di garanzie che gli consentano di acquisire in maniera diretta i tabulati o, in alternativa, se sia previamente necessaria la decisione di un giudice ad hoc. In verità, ai giudici rimettenti, erano già ben chiare le differenze strutturali tra l’organo di accusa estone -profilo descritto ampiamente dalla stessa CGUE -e quello italiano, dotato di più evidenti e pieni caratteri di autonomia e indipendenza. In questo articolato spettro di decisioni, si attende ancora una risposta dal versante comunitario che chiarisca ogni dubbio. 4.3 La reazione del legislatore nazionale. Nelle more dell’attesa decisione, la risposta italiana -in direzione opposta alle richieste comunitarie (45) -proveniente dal Consiglio dei ministri, si è concretizzata, in prima battuta, con l’approvazione del d.L. 132/2021 (46), convertito con la L. n. 178 del 23 novembre 2021, lasciando ancora irrisolti alcuni nodi problematici. Tra i progetti normativi nomopoietici già realizzati e quelli ancora in fieri, il testo in commento spicca per l’ambizione di ridurre i tempi di definizione dei procedimenti penali mediante una riorganizzazione del sistema giudiziario nel segno: da una parte, dello snellimento procedurale e della digitalizzazione, e dall’altra, dell’irrobustimento del suo organigramma e, in particolar modo, dell’Ufficio del Processo (47). Corte di Giustizia UE: il Tribunale di milano nega il contrasto con il diritto sovranazionale, in Sistema penale, 7 maggio 2021. (45) BErTUoL, La nuova disciplina per l'acquisizione dei tabulati telefonici: l'interpretazione "autentica" del Legislatore e la parola fine alla (fin troppo) lunga querelle giurisprudenziale, in Giurisprudenza penale, 2021, n. 12. (46) recante Misure urgenti in materia di giustizia e di difesa, nonché proroghe in tema di referendum, assegno temporaneo e IrAP (GU n. 234 del 30 settembre 2021). Tra i primi commentatori della disciplina vi è FILIPPI, La nuova disciplina dei tabulati: il commento “a caldo” del Prof. Filippi, in www.penaledp.it, 1° ottobre 2021, il quale evidenzia come sia inevitabile sollevare una questione di legittimità costituzionale per violazione dell'art. 117 Cost.; CASCoNE, La Corte di Giustizia del- l’Unione Europea definisce le condizioni per la legittimità delle normative nazionali in materia di acquisizione dei tabulati. Le ripercussioni sull’ordinamento italiano della sentenza 2 marzo 2021, Cass. Pen., fasc. 2, 1 febb. 2022, p. 419; MUrro, Dubbi di legittimità costituzionale e problemi di inquadramento sistematico della nuova disciplina dei tabulati, Cass. Pen., Fasc. 6, 1 giugno 2022, p. 2440. (47) FANCHIoTTI, il PNrr e l’ufficio del processo nella giustizia penale, in Dir. pen. proc., 2022, pp. 276 ss., analizza le varie figure equivalenti all’Ufficio del processo guardando con uno sguardo comparativo quelli che da anni operano negli ordinamenti europei; ancora, L. GATTA, riforma della giustizia penale: contesto, obiettivi e linee di fondo della ‘legge Cartabia’, in www.sistemapenale.it, 15 ottobre LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà Prima ancora di addentrarsi alle questioni attinenti al merito, meritevole di attenzione è la tecnica impiegata dal legislatore, il quale si esime (48) dal- l’inserire una norma definitoria del concetto di dati (art. 1, comma 1 bis) nel TU privacy, decreto legislativo n. 196 del 2003. Nulla questio sulla premessa iniziale, in cui è esplicitata la finalità perseguita, ovvero di garantire il rispetto dei principi -già ribaditi dalla Grande sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea -durante l’acquisizione dei dati relativi al traffico telefonico e telematico nel corso delle indagini penali. Sulla scorta di tali premesse, si evince la coerenza sistemica nella previsione della limitazione all’acquisizione dei dati nei soli procedimenti penali con oggetto forme gravi di criminalità, a seguito del controllo di un’Autorità giurisdizionale. A ben vedere, costituisce un elemento di novità la previsione di una doppia procedura (49) per l’acquisizione dei tabulati: in via ordinaria (co. 3) con la previa autorizzazione del giudice con decreto motivato, dietro richiesta del Pubblico Ministero e del difensore dell’imputato, persona sottoposta alle indagini e della persona offesa; in via urgente, giustificata da situazioni di impellenza, è sufficiente il decreto motivato dello stesso Pubblico Ministero che dovrà essere comunicato immediatamente -e comunque non oltre quarantotto ore -al giudice competente per il rilascio dell’autorizzazione in via ordinaria entro le successive quarantotto ore (co. 3 bis). I presupposti basilari richiesti ai fini dell’applicabilità sono “sufficienti indizi di reati per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a tre anni (...) e di reati di minaccia e di molestia o disturbo alle persone col mezzo del telefono, quando la minaccia, la molestia e il disturbo sono gravi”, nonché la rilevanza dei medesimi “per l’accertamento dei fatti”, e non più -come era nella previgente formulazione - per la prosecuzione delle indagini (50). Il requisito della “rilevanza” che legittima l’acquisizione dei dati deve es2021; LA roCCA, il modello di riforma “Cartabia”: ragioni e prospettive della Delega n. 134/2021, in arch. pen., 2021, n. 3, pp. 1 ss.; G. SPANGHEr, La riforma Cartabia nel labirinto della politica, in Dir. pen. proc., 2021, pp. 1155 ss. (48) Probabilmente nel tentativo di rendere più difficoltosa la conoscenza. (49) Secondo l’aspra critica della dottrina, questo determina un “ritorno indietro le lancette del- l’orologio al previgente sistema del “doppio binario”. Queste due procedure hanno in comune solo i presupposti, per il resto sono strutturate diversamente”, così CArdINALE, La nuova disciplina di acquisizione dei tabulati telefonici e telematici: scenari e prospettive, in Giurispurdenza penale, 10/2021. (50) Secondo la dottrina, l’elisione in sede di conversione è spiegabile solo ritenendo la precedente formulazione “fuorviante”, lasciando supporre che la richiesta dei tabulati fosse possibile solo per corroborare l’ipotesi accusatoria e non anche a supporto delle indagini difensive, così MALACArNE, La decretazione d’urgenza del Governo in materia di tabulati telefonici: breve commento a prima lettura del d.l. 30 settembre 2021, n. 132, in https://www.sistemapenale.it/it/scheda/decreto-legge-132-2021tabulati- telefonici-malacarne-commento-a-prima-lettura. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 sere letto secondo un’ampia accezione, ricomprendendovi sia le attività di indagine del P.M., sia le indagini difensive, senza peraltro escludere un’eventuale estensione alla fase dibattimentale. Altro punto sul quale la normativa registra un superamento del precedente testo, è il regime di inutilizzabilità (co. 3 quater): non avranno rilevanza probatoria “i dati acquisiti in violazioni delle disposizioni dei commi 3 e 3 bis”. L’intentio legis di non fare alcun riferimento ai dati acquisiti in assenza di un provvedimento di convalida, apre il varco all’interpretazione dell’ondivaga giurisprudenza. In una logica di rafforzamento di tutela a favore del singolo, con il co. 1 bis -in cui confluiscono gli strascichi della disciplina transitoria -è stabilito che “i dati relativi al traffico telefonico, al traffico telematico e alle chiamate senza risposta, acquisiti nei procedimenti penali in data precedente alla data di entrata in vigore del presente decreto, possono essere utilizzati a carico dell'imputato solo unitamente ad altri elementi di prova ed esclusivamente per l'accertamento dei reati per i quali la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a tre anni, determinata a norma dell'articolo 4 del codice di procedura penale, e dei reati di minaccia e di molestia o disturbo alle persone con il mezzo del telefono, quando la minaccia, la molestia o il disturbo sono gravi”. 5. Luci ed ombre della normativa. L’iniziale euforia dovuta al risveglio del legislatore nazionale si è tramutata ben presto in un’amara delusione da parte della dottrina (e non solo) nel prendere atto della mancanza di omogeneità tra le disposizioni in questione e della permanenza di questioni irrisolte. Sin dal principio, i primi commentatori avevano riconosciuto all’interpolazione normativa il pregio di aver ricondotto a sistema una disciplina che, sino a poco tempo prima, aveva come unico obiettivo l’efficienza delle indagini -nell’ottica di una tutela indiscriminata dell’interesse collettivo alla repressione dei reati (51) -ma, d’altro canto, non si sono astenuti dal mettere in risalto i vizi di costituzionalità. Posto che il testo di legge era stato pensato con riguardo alla sola fase delle indagini preliminari, la sostituzione della formula limitativa (52) -dietro cui si procedeva all’acquisizione dei dati -“ai fini della prosecuzione delle indagini” con “l’accertamento dei fatti”, presta il fianco ad una lettura estensiva secondo la quale il giudice dibattimentale o il Gup, in sede di motivazione (51) MALACArNE, già cit. (52) Come si legge nella relazione 55/2021; sul punto anche AMATo, Nella “costruzione” normativa si è sminuito il ruolo del Pm, in Guida dir., 2021, n. 39 pp. 18 ss.; rINALdINI, La nuova disciplina del regime di acquisizione dei tabulati telefonici e telematici: scenari e prospettive, in Giurisprudenza penale web, 2021, del 27 ottobre 2021. LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà favorevole all’istanza acquisitiva, può fare riferimento alle specifiche esigenze probatorie avanzate dal P.M. Ciò avviene in ragione del fatto che la necessità di acquisire i tabulati può sorgere altresì a seguito dell’esercizio dell’azione penale, in caso di indagini integrative del P.M. o di investigazioni difensive (in ogni stato e grado del procedimento). In altri termini, l’acquisizione dei tabulati è utile tanto per suffragare l’ipotesi accusatoria, quanto per consentire la verifica delle tesi difensive in ordine alla riferibilità delle condotte poste in essere nel locus commissi delicti. In tal senso, si realizza dunque un allineamento con la successiva previsione, la quale ammette la facoltà del difensore dell’imputato di avanzare al giudice la richiesta di acquisizione dei tabulati nella fase processuale successiva all’esercizio dell’azione penale (co. 3). Un’altra modifica apportata, tesa a dipanare i dubbi dottrinali, inerisce la natura autorizzatoria del decreto giudiziale. Nella precedente formulazione, era riscontrabile una dicotomia tra l’acquisizione diretta del giudice dei tabulati nella procedura ordinaria, ed un’autorizzazione del giudice competente in quella attivata, in via di urgenza, dal P.M. Tralasciando i risvolti pratici della previgente disciplina, l’attuale formulazione (53) oltre a realizzare una reductio ad unum rispetto alle norme codi- cistiche sulle intercettazioni (art. 267 c.p.p.), spicca per la chiarezza nel prevedere le modalità pratiche con le quali ottenere l’acquisizione, finendo per arginare il pericolo di disvelamento degli elementi riservati. Le alternative individuate dalla dottrina, e rimesse alla decisione del legislatore, erano due: la possibilità che al gestore dei servizi venisse notificata, in forma integrale o eventualmente parziale, anche il decreto autorizzatorio del giudice, oppure scegliere di astenersi, considerati i rischi di dispersione di dati investigativi. Attraverso una lettura estensiva dell’art. 267 co. 3 c.p.p., si è messo fine a quell’estenuante questione inerente al quomodo dell’acquisizione dei dati: il P.M., o il difensore istante, una volta ottenuta l’autorizzazione da parte del giudice, è tenuto a trasmettere ai competenti gestori solamente il proprio provvedimento, il quale potrà essere eventualmente accompagnato dalla missiva con l’intervenuta autorizzazione ma, in quel caso, ne conseguirà l’assunzione della responsabilità penale e disciplinare a suo carico. Nella formulazione ellittica di cui al co. 3, il legislatore conferma tra i requisiti necessari ai fini dell’acquisizione dei tabulati la sussistenza di “sufficienti indizi di reati per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a tre anni, determinata a norma dell’art. 4 c.p.p., e di reati di minaccia, e di molestia o disturbo alle persone (53) Il co. 3, del medesimo articolo, enuncia “previa autorizzazione rilasciata dal giudice”, il co. 3 bis “autorizzazione in via ordinaria”. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 col mezzo del telefono, quando la minaccia, la molestia o il disturbo sono gravi”, conformandosi alla volontà della CGUE. Secondo il giudizio di un’attenta dottrina, la creazione del c.d. “sistema del doppio binario” costituisce, non soltanto, un aggravio di impegno per il giudice ed il P.M., ma preclude la possibilità di ricorrere all’acquisizione di dati quando si procede per reati di eguale gravità (si pensi alla fattispecie di sostituzione di persona, o ancora, commercio di prodotti con segni falsi etc.) (54). Un altro aspetto, che ha stimolato la critica, attiene la previsione dei casi di “molestia e disturbo grave” la quale funge da clausola aperta: alla giurisprudenza è rimesso il difficile compito di individuare gli elementi utili ai fini dell’inquadramento, in assenza di alcun tipo di indicazione. Un’ulteriore osservazione compiuta dalla dottrina attiene la procedura di urgenza che, secondo tenore letterale del comma 3 bis della disposizione in commento, è attivabile dalla sola autorità requirente. In questo senso, tale previsione determina il naturale allontanamento dalle richieste comunitarie di garantire la neutralità tra le parti processuali, nonché trascura la possibile dispersione di elementi di prova a sostegno delle tesi difensive. È espressione della discrezionalità legislativa parlamentare, la disciplina intertemporale che, proprio in ragione della sua “esauribilità”, è stata appositamente (55) collocata in seno al co. 1 bis dell’art. 1 del d.L. 132 (e non all’art. 132). In virtù di quest’ultima, i dati acquisiti nei procedimenti pendenti al 30 settembre 2021 sarebbero assoggettati al principio generale del tempus regit actum, se non fosse che il legislatore si è preoccupato di ammettere due ipotesi derogatorie ai fini della possibile utilizzabilità: in primo luogo, la presenza di elementi estrinseci (“altri elementi di prova”) di qualsiasi natura purché “dotati di consistenza tale da resistere agli elementi contrari dedotti dall’imputato ” (56) da valutare “a carico dell’imputato” (57); in secondo luogo, in una prospettiva di valorizzazione del ribadito principio di proporzionalità, qualora si proceda per i fatti la cui rilevanza penale giustifica di per sé l’accesso (già avvenuto) ai dati acquisiti. Tale formulazione, secondo il parere dei primi commentatori, è da ritenersi vacue ed inutile (58) se si considera che: in primo luogo, il vero e proprio (54) A riguardo vd. CArdINALE, La nuova disciplina di acquisizione dei tabulati telefonici e telematici, op. cit. (55) Scelta ritenuta censurabile, sotto il profilo tecnico, poiché rende più difficoltosa la conoscenza e la lettura dei precetti normativi, così PESTELLI, Convertito in legge il D.L. 132/2021: le modifiche apportate (e quelle mancate) in materia di tabulati, op. cit. (56) Questo appunto è contenuto nella relazione 67/2021 del Massimario della Corte Suprema di Cassazione, che richiama la Cass. Pen., sez. II, n. 35923 del 11 luglio 2019. (57) Il riferimento alla persona dell’imputato, e non dell’indagato, così come indicato nella relazione del Massimario, già cit., è solamente formale: in virtù di un’interpretazione in bonam partem è riferibile anche al secondo. LEGISLAzIoNE Ed ATTUALITà criterio di “sbarramento” dei risultati dell’attività di indagine è data dai limiti edittali della fattispecie per la quale si procede e che, in secondo luogo, solitamente i dati dei tabulati sono oggetto di una valutazione complessiva, altrimenti considerandoli in maniera isolata, non sarebbero idonei di per sé a fondare il convincimento giudiziale. Eppure, proprio di recente, la Suprema Corte (59), ha avuto modo di affermare la compatibilità con l’art. 15, par. 1, della direttiva 2002/58/CE in un’ottica di “ragionevole ed equilibrato contemperamento di interessi diversi” al fine di evitare la dispersione di dati già acquisiti. Inevitabili dubbi ermeneutici ha suscitato la rimodulazione delle conseguenze patologiche trasfuse nel co. 4 quater. Pur ammettendo il notevole passo in avanti del legislatore per aver esteso la sanzione dell’inutilizzabilità al mancato rispetto delle procedure di cui ai commi 3 e 3 bis, non è trascurabile il silenzio -per niente innocuo -circa le conseguenze patologiche della mancata convalida del decreto del P.M. Come è facilmente evincibile dall’analisi critica della normativa, il legislatore italiano, seppur con apprezzabile premura, abbia definito i contorni di una disciplina -quanto delicata tanto labile -ha omesso di trattare e rintracciare profili di compatibilità con l’art. 15 della Costituzione e 52 della CEdU, le cui frizioni sono topoi comuni in dottrina e in giurisprudenza. Tirando le fila del discorso, ancora una volta, la tendenza sembra essere quella di rimettere all’interprete la decisione di tutelare il diritto alla riservatezza, e non le esigenze di sicurezza pubblica. 6. i (dischiusi) possibili scenari. dallo scenario finora descritto traspare un garantismo “di facciata”, le cui conseguenze si riflettono in maniera distorta sul lavoro delle cancellerie per ciascuna volta in cui il Gip sarà tenuto ad autorizzare l’acquisizione dei tabulati. d’altronde, la stessa Corte di Giustizia, nell’ultimo arresto citato, ha ritenuto censurabili i commi 1 e 1 bis dell’art. 132 cod. privacy, ritenendoli, diversamente dalle intenzioni del legislatore nazionale, non idonei a limitare o rimediare alla grave ingerenza nei diritti fondamentali alla vita privata e alla libertà di espressione, che si verifica per effetto dell’acquisizione di una conversazione generalizzata e indifferenziata. Gli influssi provenienti da Bruxelles, nonostante il loro carattere innovativo, non hanno in alcun modo scalfito la cultura autoritaria della magistratura inquirente italiana. L’inevitabile conseguenza è l’allungamento dei (58) PESTELLI, Convertito in legge il D.L. 132/2021: le modifiche apportate (e quelle mancate) in materia di tabulati, op. cit. (59) Cass., sez. III, 31 gennaio 2022 (dep. 1 aprile 2022), n. 11991. rASSEGNA AvvoCATUrA dELLo STATo -N. 1/2022 tempi processuali, al quale proprio le riforme sulla giustizia -autoproclamandosi portatrici sane per la tutela del giusto processo -miravano ad ovviare. d’altra parte, (ancora una volta) ad essere frustata rimane la vena repressiva verso alcune fattispecie di reato -come le lesioni colpose o alcune fattispecie di furto o sostituzione di persona -rimaste fuori dal perimetro fissato da una disciplina che si mostra fossilizzata sul metodo dei limiti edittali. Nonostante i diversi punti pretermessi sui quali è inevitabile riconoscere la non conformità alle richieste comunitarie, c’è isolata dottrina (60) che, nel- l’esprime un parere positivo in considerazione dell’avvenuto adempimento almeno delle principali indicazioni europee, non si sottrae, dopo aver preso in esame le possibili “soluzioni” (61), dal ritenerla ad ogni modo “un’occasione persa” per la regolamentazione di alcuni strumenti di indagine in uso nella prassi investigativa (62). (60) FILIPPI, riservatezza e data retention: una storia infinita, in Penale e diritto e procedura, n. 2, 2022, p. 209. (61) FILIPPI, Nel decreto-legge, op. cit., suggerisce: a) la realizzazione di una riserva di legge collocandola nel sistema in sequenza successiva agli artt. 266-271 c.p.p.; b) un necessario coordinamento tra le nuove disposizioni e l’art. 254 bis c.p.p., che disciplina il procedimento di sequestro di dati informatici presso fornitori di servizi informatici; c) un’espressa previsione di inutilizzabilità dei dati acquisiti in difetto di un’autorizzazione del giudice e di una esauriente motivazione sulla qualificazione giuridica del fatto, sulla sufficienza indiziaria e sulla rilevanza dell’acquisizione dei dati ai fini della prosecuzione delle indagini. (62) Come le riprese visive, l’agente segreto attrezzato per il suono, le body-cam, le intercettazioni mediante droni e il “code catcher”, che è in grado di registrare le informazioni provenienti da tutti i cellulari che si trovano in una certa area. ContribUtididottrina L’incidenza della gestione della pandemia e delle conseguenze della guerra in Ucraina sui contratti di appalto pubblico in corso di esecuzione Michele Gerardo* Sommario: 1. introduzione -2. Criticità dei rapporti contrattuali di appalti pubblici per sopravvenienze collegate alla pandemia e alla guerra in Ucraina -3. Quadro dei rimedi di diritto comune a fronte dello squilibrio del sinallagma contrattuale nel corso della esecuzione del rapporto -4. Quadro dei rimedi di diritto speciale per i contratti ad evidenza pubblica con la P.a. a fronte dello squilibrio del sinallagma contrattuale nel corso della esecuzione del rapporto -5. Quadro dei rimedi di diritto speciale per i contratti ad evidenza pubblica con la P.a. a fronte dello squilibrio del sinallagma contrattuale nel corso della esecuzione del rapporto. Segue. modifica dei contratti attivi per sopravvenuta onerosità nell’esecuzione -6. Disposizioni speciali per regolare specifici aspetti dello squilibrio contrattuale conseguente agli avvenimenti eccezionali ed imprevedibili collegati alla pandemia CoViD 19 -7. Conclusioni. 1. introduzione. Non è un buon momento per i rapporti di durata. Nel marzo 2020 la diffusione del virus COVID 19 e le strategie per contrastarlo hanno comportato oltre a lutti per i tanti morti e a nuove abitudini di vita altresì delle inevitabili conseguenze sui rapporti contrattuali di durata pubblici e privati: differimenti, rallentamenti, interruzioni, appesantimenti degli oneri nella esecuzione dei contratti fonte di rapporti di durata con prestazioni continuative, periodiche, differite o prolungate. Nelle fasi acute della gestione del contrasto della pandemia, e in specie nella fase iniziale con le severe misure (adottate per specifiche aree, anche intere (*) Avvocato dello Stato. RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 Regioni del Paese) di isolamento, chiusura di pubblici uffici e di spazi aperti al pubblico, restrizione del regolare svolgimento delle attività commerciali, confinamento, blocco di attività, limitazioni di spostamento anche da e per l'estero (c.d. lockdown), i contratti in esame hanno subito -a seconda delle circostanze -una anticipata anomala estinzione oppure una forte alterazione del sinallagma. Anche nel momento attuale (2022) -nel quale sono operative misure anti COVID per contrastare la pandemia tuttora esistente al fine di assicurare una convivenza tollerabile con il virus -vi sono fattori che rendono deviante il modello di esecuzione del contratto rispetto alle modalità ordinarie (quantomeno con riguardo agli oneri economici), ossia alle modalità relative al periodo antecedente alla diffusione del virus. Vuol farsi riferimento alla recrudescenza del virus in specifici luoghi comportanti lockdown limitati spazialmente o alla crisi di forniture di materie prime da paesi esportatori che adottano ferrei e severi lockdown (è il caso, ad esempio, della Cina che -ancora nell’aprile 2022 -a fronte dell’insorgere di focolai adotta strategie di blocco totale per eradicare il virus con stasi delle attività produttive). Vuol farsi riferimento soprattutto alle modalità organizzative nella esecuzione della prestazione implicanti: distanziamento e divieto di assembramenti degli operatori coinvolti nella esecuzione della prestazione; utilizzo di igienizzanti, di mascherine protettive, di misuratori della temperatura, di tamponi per testare la negatività al virus. Ad aggravare il quadro, da ultimo -perché le disgrazie non vengono mai da sole -si è avuto lo scoppio della guerra in Ucraina nel febbraio 2022. La guerra e le sue conseguenze (morti, distruzioni e devastazioni di territori, blocco dei collegamenti, embarghi) sta determinando, da una parte, il venir meno in tutto o in parte di materie prime (con aumento dei relativi costi per gli operatori economici) e, da un’altra parte, il venire meno in tutto o in parte di mercati (con problemi sulla collocazione dei prodotti oggetto di contratti ad esecuzione differita). 2. Criticità dei rapporti contrattuali di appalti pubblici per sopravvenienze collegate alla pandemia e alla guerra in Ucraina. La pandemia e la guerra in Ucraina, ma soprattutto la numerosa legislazione d’emergenza emanata di volta in volta per contenerne la diffusione, hanno causato quale effetto naturale uno sconvolgimento sopravvenuto all’equilibrio contrattuale che regolava le preesistenti prestazioni nei contratti a prestazioni corrispettive. La corrispettività delle prestazioni contrattuali sta a significare che la prestazione di una parte trova remunerazione nella prestazione dell’altra. I contratti a prestazioni corrispettive sono anche detti sinallagmatici. Essi comprendono principalmente i contratti di scambio, i contratti di concessione in godimento e di servizi a titolo oneroso (locazione, lavoro subordinato, ecc.) in cui la prestazione di una parte è compensata dalla controprestazione del CONtRIBUtI DI DOttRINA l’altra. La corrispettività comporta normalmente l’interdipendenza delle prestazioni (1). In questa tipologia di contratti l’equilibrio è un elemento essenziale e deve sussistere per tutta la durata della prestazione. L’eventuale vizio o difetto che colpisce una delle due prestazioni è destinato a ripercuotersi inevitabilmente anche sull’altra, poiché quest’ultima diverrebbe irrimediabilmente sproporzionata. Le sopravvenienze in esame, collegate alla pandemia e alla guerra in Ucraina, possono essere causate, in essenza, da due fattori: a) factum principis, ossia atti normativi (leggi, decreti legge) o amministrativi (D.P.C.M., D.M., D.P. giunta Regionale, Decreti sindacali) con i quali si dispongono misure di contenimento, quali lockdown (severi o leggeri; per aree limitate o per aree ampie), divieti o restrizioni nella circolazione di merci (ad es. armi) o nello svolgimento di attività, ecc.; b) mutamenti nella circolazione di beni o servizi quale effetto indiretto delle crisi. Ad esempio: distruzione e/o perimento di materie prime comportante secondo la legge economica della domanda e della offerta un aumento dei prezzi. Le sopravvenienze, poi, a seconda del loro connotato, rifluiscono sul rapporto contrattuale come circostanza “anomala”, rectius: impossibilità della prestazione oggetto del contratto sub specie di forza maggiore, eccessiva o maggiore onerosità della prestazione oggetto del contratto, pregiudizio nella utilizzazione riconducibile a “grave motivo” (2), ecc. In questa sede si esamineranno le criticità conseguenti alle due emergenze sopraindicate sui contratti di appalto pubblici in essere originanti rapporti di durata, ossia ad una species dei contratti pubblici come definiti dall’art. 3, lett. dd), D.L.vo 18 aprile 2016, n. 50, recante il Codice dei contratti pubblici (“i contratti di appalto o di concessione aventi per oggetto l'acquisizione di servizi o di forniture, ovvero l'esecuzione di opere o lavori, posti in essere dalle stazioni appaltanti”). Ai contratti di appalti pubblici (3) vanno equiparati, a questi fini, i contratti di concessione di lavori o di servizi (4). (1) Così C.M. BIANCA, Diritto civile. iii. il contratto, II edizione, giuffré, 2015, p. 488. (2) Ad esempio i gravi motivi ex art. 4, comma 2, L. 27 luglio 1978, n. 392 facultanti il recesso del conduttore. (3) “i contratti a titolo oneroso, stipulati per iscritto tra una o più stazioni appaltanti e uno o più operatori economici, aventi per oggetto l'esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti e la prestazione di servizi” (art. 3, lett. ii, Codice dei Contratti). (4) contratti a titolo oneroso stipulati per iscritto in virtù dei quali una o più stazioni appaltanti affidano l'esecuzione di lavori ovvero la progettazione esecutiva e l'esecuzione, ovvero la progettazione definitiva, la progettazione esecutiva e l'esecuzione di lavori oppure la fornitura e la gestione di servizi ad uno o più operatori economici riconoscendo a titolo di corrispettivo unicamente il diritto di gestire le opere ovvero i servizi oggetto del contratto o tale diritto accompagnato da un prezzo, con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione delle opere ovvero dei servizi (art. 3, lett. uu, lett. vv, Codice dei Contratti). RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 Sono esclusi dalla disamina i contratti di appalti pubblici non originanti rapporti di durata, quali potrebbero essere i contratti di appalti pubblici di forniture (5) ad esecuzione non differita, ma immediata. All’evidenza sono i contratti di durata che risentono maggiormente di difficoltà nella gestione ed evoluzione del rapporto in conseguenza delle due emergenze in esame. Il contratto di durata è quello nel quale il protrarsi del- l’adempimento, per una certa durata, è condizione perché il contratto produca l’effetto voluto dalle parti e soddisfi il bisogno (durevole o continuativo) che le indusse a contrarre; in tal caso la durata non è subìta, ma voluta da esse, in quanto l’utilità del contratto è proporzionale alla durata di questo. L’esecuzione continuata o periodica si ha, propriamente, quando essa sia, non tanto differita, quanto distribuita, o reiterata nel tempo. La categoria si bipartisce, secondo che il contratto sia ad esecuzione continuata, dove la prestazione (di regola, di fare, ma anche negativa) è unica, ma ininterrotta (locazione, affitto, somministrazione di energie, comodato e simili), ovvero ad esecuzione periodica, dove si hanno più prestazioni (di regola, di fare), che sono ricorrenti a date prestabilite (ad esempio, rendita e contratto vitalizio), ovvero saltuarie, su richiesta di una delle parti (es. conto corrente, apertura di credito in conto corrente) (6). Distinti dai contratti di durata sono i contratti ad esecuzione differita, nei quali il momento della scadenza o il momento iniziale dell’esecuzione è spostato nel tempo rispetto alla conclusione; il legislatore, a determinati effetti -come ad esempio in sede di disciplina della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta - li equipara ai contratti di durata. Ciò premesso si deve evidenziare che pervengono alle Amm.ni pubbliche istanze da parte degli appaltatori di lavori già affidati negli anni precedenti, tendenti a denunciare l'alterazione finanziaria dovuta a maggiori oneri che le stesse imprese sarebbero costrette a sostenere per effetto di fatti eccezionali, contingenti ed imprevedibilità correlati alla guerra in Ucraina e all’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia ancora in corso. In particolare le imprese appaltatrici ritengono che i citati sopravvenuti fatti, imprevisti ed imprevedibili in sede di gara, abbiano cambiato in modo radicale il mercato delle forniture e delle acquisizioni stravolgendo il sinallagma contrattuale sia in termini di costi che di durata dei lavori. È circostanza nota l’eccezionale aumento dei costi delle materie prime e dell’energia. L’acciaio alla fine del 2021 era aumentato fino al 140 % rispetto all’anno precedente (e il trend è continuato nel periodo successivo fino all’at (5) “i contratti tra una o più stazioni appaltanti e uno o più soggetti economici aventi per oggetto l'acquisto, la locazione finanziaria, la locazione o l'acquisto a riscatto, con o senza opzione per l'acquisto, di prodotti. Un appalto di forniture può includere, a titolo accessorio, lavori di posa in opera e di installazione” (art. 3, lett. tt, Codice dei Contratti). (6) Su tali connotati dei contratti di durata: F. MESSINEO, manuale di diritto civile e commerciale, vol. III, IX edizione, giuffré, 1959, p. 627. CONtRIBUtI DI DOttRINA tuale momento), il legno dell’80%. La guerra in Ucraina e i timori per l'approvvigionamento di materie prime hanno spinto i prezzi del petrolio ai massimi degli ultimi dieci anni, mentre gas naturale e alluminio hanno raggiunto nuovi record. tale sofferenza si concretizza in evidenti inadempienze contrattuali con rallentamenti della produzione e sospensioni delle attività che, sempre più frequentemente pregiudicano l'ultimazione dei lavori nei tempi stabiliti. Alla luce di quanto evidenziato e al fine di scongiurare il rischio di abbandono dei lavori con conseguente mancata esecuzione delle opere pubbliche -conseguenza inevitabile della risoluzione per impossibilità sopravvenuta o per eccessiva onerosità sopravvenuta, a seconda delle circostanze -le stazioni appaltanti si sono spesso attivate per individuare iniziative da intraprendere per conseguire il riequilibrio del sinallagma contrattuale (7). 3. Quadro dei rimedi di diritto comune a fronte dello squilibrio del sinallagma contrattuale nel corso della esecuzione del rapporto. A fronte dello squilibrio del sinallagma contrattuale nel corso della esecuzione del rapporto, conseguente alle situazioni emergenziali innanzi descritte, i rimedi previsti, in generale, nel diritto comune sono -sussistenti i presupposti e le situazioni connotate dalla legge -la risoluzione per impossibilità totale o parziale della prestazione e la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. Per specifici contratti sono previsti poi ulteriori rimedi. In via generale le soluzioni codicistiche si concentrano sullo scioglimento del contratto, prestando scarsa attenzione ai rimedi conservativi e ciò è un vulnus significativo se si considerano le conseguenze penalizzanti della cessazione del rapporto, soprattutto per la parte che non sia direttamente incisa dalla sopravvenienza. Può essere importante -al fine di soddisfare gli interessi concreti -conseguire l’opera, il servizio, la prestazione oggetto del contratto anche a mezzo di una revisione del contenuto del contratto. tuttavia, in via generale l’istituto della rinegoziazione delle disposizioni contrattuali finalizzato all’adeguamento del contratto alle sopravvvenienze non è previsto nel codice civile ed è problematica -in via ricostruttiva -prevederne l’operatività. tale istituto sussiste solo in specifici limitati ambiti fissati da normative speciali, quali ad esempio, l’art. 2, comma 5, L. 9 dicembre 1998, n. 431 (8) relativamente alle (7) Sulla problematica: S. FANtINI, Le sopravvenienze nelle concessioni e contratti pubblici di durata nel diritto dell'emergenza, in Urbanistica e appalti, 2020, 5, pp. 641 e ss. (8) “i contratti di locazione stipulati ai sensi del comma 3 non possono avere durata inferiore ai tre anni, ad eccezione di quelli di cui all'articolo 5. alla prima scadenza del contratto, ove le parti non concordino sul rinnovo del medesimo, il contratto è prorogato di diritto per due anni fatta salva la facoltà di disdetta da parte del locatore che intenda adibire l'immobile agli usi o effettuare sullo stesso le opere di cui all'articolo 3, ovvero vendere l'immobile alle condizioni e con le modalità di cui al medesimo articolo 3. alla scadenza del periodo di proroga biennale ciascuna delle parti ha diritto di attivare la RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 modalità di stipula e di rinnovo dei contratti di locazione degli immobili adibiti ad uso abitativo e l’art. 55, comma 9, L. 27 dicembre 1997, n. 449 (9) con riguardo ai fitti passivi per la P.A.; diversamente la materia è rimessa all’autonomia delle parti che possono modificare o estinguere il rapporto contrattuale oppure rinegoziare il contenuto del contratto e/o avvalersi della clausola di modifica e/o operare il recesso ove la sopravvenienza, in ipotesi, sia stata prevista (quale ipotesi di recesso, di obbligo di rinegoziazione, di modifica automatica del contratto) -intuitivamente con clausola prevedente in modo generale sopravvenienze straordinarie o imprevedibili -al momento della stipulazione del contratto. L’istituto della risoluzione del contratto secondo il diritto comune -sia per impossibilità sopravvenuta (artt. 1462-1466 c.c.), che per eccessiva onerosità sopravvenuta (artt. 1467-1469 c.c.) -si applica altresì ai contratti che vedono quale parte contraente una P.A. (10). Ciò in quanto vengono in rilievo delle disposizioni di carattere generale non derogate dal Codice dei contratti e compatibili con le disposizioni contenute in quest’ultimo. Problematica, come si vedrà di seguito, è l’applicazione dell’istituto della rinegoziazione delle disposizioni contrattuali ove parte del contratto sia una P.A. La disciplina della risoluzione secondo il diritto comune, in sintesi, è la seguente. a) Risoluzione per impossibilità totale o parziale della prestazione (11). Vi è una disciplina ad hoc sia per i contratti ad efficacia obbligatoria (artt. 1463-1464 c.c.) che per i contratti ad efficacia reale (art. 1465 c.c.). tale disciplina è specificativa della regolazione generale contenuta negli artt. 1256-1259 c.c. relativa alla estinzione delle obbligazioni per impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore. L’evento regolato è l’impossibilità sopravvenuta, totale o parziale, della prestazione, non imputabile al debitore stesso; l’impossibilità deve essere as procedura per il rinnovo a nuove condizioni o per la rinuncia al rinnovo del contratto comunicando la propria intenzione con lettera raccomandata da inviare all'altra parte almeno sei mesi prima della scadenza. in mancanza della comunicazione il contratto è rinnovato tacitamente alle medesime condizioni”. (9) “il Presidente del Consiglio dei ministri, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, adotta, con il supporto dell'osservatorio sul patrimonio immobiliare degli enti previdenziali, misure finalizzate a ridurre gradualmente l'utilizzo di immobili presi in locazione da privati da parte delle pubbliche amministrazioni, di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29. Le predette amministrazioni rinegoziano, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, i contratti di fitto locali attualmente in essere con privati con l'obiettivo di contenere la relativa spesa almeno nella misura del 10 per cento rispetto al canone di locazione vigente”. (10) Conf., per la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, Cass. 17 maggio 1976, n. 1738. (11) Su tale istituto: C.M. BIANCA, Diritto civile. V. La responsabilità, III edizione, giuffré, 2021, pp. 385-398. CONtRIBUtI DI DOttRINA soluta e definitiva, riferita ad una prestazione infungibile, e riguardare proprio la prestazione e non la concreta condizione del contraente. Nel caso di impossibilità totale l’art. 1463 c.c. dispone che “Nei contratti con prestazioni corrispettive, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell'indebito”. Lo scioglimento del contratto è conseguenza immediata della liberazione della controparte. La risoluzione, dunque, opera di diritto, senza bisogno di alcuna iniziativa della parte, né di intervento del giudice, sicché ove sorga una controversia in ordine al verificarsi di un'ipotesi di sopravvenuta impossibilità della prestazione, deve essere emessa una sentenza contenente un mero accertamento dell'avvenuta liberazione del debitore e del conseguente scioglimento del contratto, con effetto retroattivo. Nel caso di impossibilità temporanea -per la presenza di un ostacolo, di fatto o di diritto, all’attualità insormontabile che si oppone all'adempimento, ma possa prevedersi che con il tempo esso sia destinato a venir meno -si applica la regola generale di cui all’art. 1256, comma 2, c.c. secondo cui “Se l’impossibilità è solo temporanea, il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell'adempimento. Tuttavia l'obbligazione si estingue se l'impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo dell'obbligazione o alla natura dell'oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla”. Ossia: in caso d'impossibilità temporanea il rapporto entra in una situazione di sospensione oggettiva -sicché il debitore è esonerato dalla responsabilità per il ritardo -che può risolversi in due modi: o l'impossibilità temporanea viene meno e, allora, il persistere dell'inesecuzione diviene imputabile e costituisce inadempimento (anche agli effetti della risoluzione e del risarcimento del danno); o l'impossibilità persiste al di là dei limiti indicati dall'art. 1256 e finisce per equivalere all'impossibilità definitiva che determina nel contratto quello stesso scioglimento (automatico), che è proprio dell'impossibilità fin dall'origine definitiva (12). La disciplina ora delineata nel caso di impossibilità temporanea non si applica ai contratti pubblici. Per questi, infatti, vi è la speciale disciplina ex art. 107 del Codice dei contratti sulla sospensione dell'esecuzione del contratto disposta dalla stazione appaltante e sulla proroga della durata del contratto richiesta dall’operatore economico (13). (12) Così A. DALMARtELLO, voce risoluzione del contratto, in Novissimo Digesto italiano, vol. XVI, UtEt, 1969, p. 129. (13) In senso analogo il parere del Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato, seduta del 12 novembre 2020 -568719 (in rass. avv. Stato, 2020, 4, pp. 184-187) secondo cui il periodo di chiusura obbligatoria al pubblico dall'8 marzo 2020 al 20 giugno 2020 a causa dell'emergenza epidemiologica RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 Corollario di quanto detto è che, ove la prestazione oggetto del contratto divenga impossibile in via totale e definitiva in conseguenza di misure o circostanze collegate alla gestione della pandemia o della crisi bellica, il contratto si risolve. È il caso questo, ad esempio, di un contratto di appalto di servizi di pulizia in una scuola di un dato Comune o di un contratto di supplenza scolastica nella stessa scuola aventi durata compresa in un periodo nel quale si è avuto un lockdown totale con chiusura di tutti gli uffici pubblici del Comune interessato. È il caso altresì -riprendendo l’esempio con riguardo alla impossibilità temporanea -di un contratto di appalto di servizi di pulizia in una scuola o di un contratto di supplenza scolastica nella stessa scuola aventi durata parzialmente compresa in un periodo nel quale si è avuto un lockdown totale con chiusura di tutti gli uffici pubblici del Comune interessato. Nel caso di impossibilità parziale l’art. 1464 c.c. dispone che “Quando la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente impossibile, l'altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta, e può anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all'adempimento parziale”. L'impossibilità parziale non determina in alcun caso l'estinzione dell'obbligazione (art. 1258 c.c.) e non produce di conseguenza la risoluzione del contratto, potendo invece il creditore ottenere, in via alternativa, o la riduzione della prestazione o, recedendo dal contratto, la totale liberazione dalla propria obbligazione; il contraente la cui prestazione è divenuta parzialmente impossibile non ha, invece, alcun potere d'iniziativa, rimanendo obbligato, nei limiti in cui la prestazione è ancora possibile, ad effettuare l'adempimento parziale (14). b) Risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta (15). L’eccessiva onerosità sopravvenuta nel corso del rapporto contrattuale è l’ipotesi più ricorrente con riguardo alla problematica esaminata nella odierna sede. Il codice civile, nell’art. 1467 -costituente la norma generale di riferimento -regolamenta gli istituti specifici utilizzabili nel caso di specie. La norma così dispone: “Nei contratti a esecuzione continuata o periodica, ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall'articolo 1458. COVID-19 di un sito -oggetto di contratto di concessione di servizi -pare rifluire nella fattispecie di cui all'art. 107, D.L.vo n. 50/2016, che prevede la possibile sospensione dell'esecuzione del contratto quando circostanze speciali impediscano la regolare esecuzione delle prestazioni, con conseguente non debenza del canone concessorio per i periodi di chiusura obbligatoria del detto sito (tanto anche per effetto dell’art. 3, comma 6 bis, D.L. 23 febbraio 2020 n. 6). (14) Così A. DALMARtELLO, voce risoluzione del contratto, cit., pp. 129-130. (15) Su tale istituto: C.M. BIANCA, Diritto civile. V. La responsabilità, cit., pp. 398-416. CONtRIBUtI DI DOttRINA La risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell'alea normale del contratto. La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto”. L’avvenimento straordinario e imprevedibile è un evento che si colloca al di fuori della normale evoluzione degli eventi (straordinario) e della normale prevedibilità secondo la ordinaria diligenza (imprevedibile). All’evidenza la disciplina ad hoc contenuta nei decreti emergenziali e le circostanze concrete consentono di qualificare la pandemia -e, mutatis mutandis, la guerra in Ucraina -come avvenimento straordinario ed imprevedibile, con la conseguenza di rendere possibile l’esperimento della risoluzione di cui all’art. 1467 c.c. L’applicabilità della norma resta in ogni caso subordinata alla verifica della sussistenza delle ulteriori condizioni previste dalla disposizione. Ossia la presenza di un contratto ad esecuzione continuata, periodica, differita o prolungata (quest’ultima evenienza riguarda gli appalti di opera) nel quale la prestazione dell’appaltatore è divenuta eccessivamente onerosa in quanto non rientra nell'alea normale del contratto. L'alea normale del contratto consiste nell'incertezza, per effetto del differimento, del risultato economico dell'affare concluso, e nel rischio, cui le parti si sottopongono stipulando un dato contratto, di variazioni di costi e valori che rimane entro i limiti della normalità e comprende anche le oscillazioni di valore delle prestazioni originate dalle regolari e normali fluttuazioni di mercato. L'alea normale di un contratto non legittima la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. Il codice, da un punto di vista letterale, disciplina la sola ipotesi della prestazione divenuta più onerosa per la parte obbligata in conseguenza dell’aumento del costo originario della prestazione al momento dell'adempimento, d'entità superiore alla normale alea contrattuale. Deve ritenersi, dando rilevanza all’alterazione dell’equilibrio originario del sinallagma, che per aversi eccessiva onerosità è necessario che si determini una notevole alterazione del rapporto originario delle prestazioni (in base ad una valutazione globale del- l'economia generale del contratto), sicché l'eccessiva onerosità sussiste anche in caso di eccezionale diminuzione del valore reale della controprestazione dovuto, ad es., alla svalutazione monetaria. L’art. 1467 c.c. consente all’appaltatore di chiedere la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta. Difatti, l'onerosità sopravvenuta non produce alcun effetto liberatorio automatico: in presenza delle condizioni e dei presupposti di operatività del rimedio in esame, la parte tenuta all'adempimento può agire in giudizio per chiedere la risoluzione del contratto. Il committente può evitare la risoluzione offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto. L'offerta -che ha natura di negozio unilaterale recettizio, costituente esercizio di un diritto potestativo, funzionale al principio di conservazione del contratto -non deve ristabilire esattamente RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 l'equilibro originario delle prestazioni, essendo sufficiente una modifica idonea ad attenuare il connotato dell'eccessività, e ricondurre così l'onerosità nella normale alea della fattispecie contrattuale. A fronte dell’offerta si può addivenire alla stipula di un contratto modificativo che riequilibri il contratto sterilizzando i fattori perturbativi; in questo caso l’autonomia negoziale è sovrana e le parti potrebbero tanto ricostituire l'equilibrio iniziale delle posizioni (così che le prestazioni siano ricondotte ad una piena equivalenza obiettiva) quanto attenuare l'onerosità sopravvenuta tale da eliminare il connotato dell'eccessività, riconducendo la stessa nei limiti consentiti dalla normale alea del contratto. Ove non si raggiunga un accordo sarà necessaria una sentenza determinativa del giudice. c) Rinegoziazione delle disposizioni contrattuali (16). Nell’esercizio della autonomia negoziale ex artt. 1321 e 1322, comma 1, c.c. le parti possono operare la rinegoziazione del contratto squilibrato e modificare il contratto al fine di addivenire al riequilibrio convenzionale dello stesso. Va evidenziato che vi sono correnti dottrinali secondo cui nei contratti di durata vi è implicitamente contenuta una clausola di rinegoziazione in virtù della quale il dato obsoleto o non più funzionale può essere sostituito dal dato aggiornato e opportuno. Pertanto, in applicazione dei generali principi di correttezza e buona fede oggettiva nella interpretazione, integrazione ed esecuzione del contratto (artt. 1366, 1374 e 1375 c.c.) (17) -trovante altresì fondamento nei doveri di solidarietà costituzionale ex art. 2 Cost. -la risoluzione deve essere l’extrema ratio nella gestione delle sopravvenienze contrattuali e non l’unica via eletta dal codice. Il generale principio di buona fede consentirebbe una stabilità del contratto e imporrebbe, prima di addivenire alla risoluzione, una reductio ad aequitatem tendente al riequilibrio dell’equilibrio sinallagmatico. Quindi vi sarebbe un obbligo di rinegoziazione del contratto squilibrato. La portata sistematica della buona fede oggettiva nella fase esecutiva del contratto assumerebbe assoluta centralità, postulando la rinegoziazione come strumento necessitato di adattamento del contratto alle circostanze ed esigenze sopravvenute. La correttezza è suscettibile di assolvere, nel contesto dilaniato dalla pandemia e dagli effetti della guerra in Ucraina, la funzione di salva (16) Su tale istituto: M. MAggIOLO, Poteri e iniziative unilaterali nella rinegoziazione del contratto, in riv. dir. civ., 2021, 5, pp. 907-928. (17) C.M. BIANCA, Diritto civile. iii. il contratto, cit., pp. 500-501 e 505 evidenzia che la buona fede in senso oggettivo o correttezza è una regola di condotta alla quale devono attenersi le parti del contratto avente valore di ordine pubblico ed espressione del principio di solidarietà contrattuale; tale regola si specifica in due fondamentali canoni di condotta: obbligo di lealtà di comportamenti ed obbligo di ciascuna parte di salvaguardare l’utilità dell’altra nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio. CONtRIBUtI DI DOttRINA guardare il rapporto economico sottostante al contratto nel rispetto della pianificazione convenzionale. In questo contesto, l’obbligo di rinegoziare impone di intavolare nuove trattative e di condurle correttamente, non anche di concludere il contratto modificativo. Pertanto, la parte tenuta alla rinegoziazione è adempiente se, in presenza dei presupposti che richiedono la revisione del contratto, promuove una trattativa o raccoglie positivamente l’invito di rinegoziare rivoltole dalla controparte e se propone soluzioni riequilibrative che possano ritenersi eque ed accettabili al lume dell’economia contrattuale. Al contrario, si avrà inadempimento se la parte tenuta alla rinegoziazione si oppone in maniera ingiustificata ad essa o si limita ad intavolare trattative di mera facciata, senza alcuna effettiva intenzione di rivedere i termini dell’accordo. Nel senso della sussistenza di un obbligo di rinegoziare -che impone di intavolare nuove trattative e di condurle correttamente, non anche di concludere il contratto modificativo -vi sono altresì orientamenti giurisprudenziali (18) e della prassi (19). (18) tribunale Roma, Sez. VI, Ordinanza, 27 agosto 2020 enuncia: la crisi economica dipesa dalla pandemia Covid e la chiusura forzata delle attività commerciali -ed in particolare di quelle legate al settore della ristorazione -devono qualificarsi quale sopravvenienza nel sostrato fattuale e giuridico che costituisce il presupposto della convenzione negoziale. Pur in mancanza di clausole di rinegoziazione, i contratti a lungo termine, in applicazione dell'antico brocardo "rebus sic stantibus", devono continuare ad essere rispettati ed applicati dai contraenti sino a quando rimangono intatti le condizioni ed i presupposti di cui essi hanno tenuto conto al momento della stipula del negozio. Al contrario, qualora si ravvisi una sopravvenienza nel sostrato fattuale e giuridico che costituisce il presupposto della convenzione negoziale, quale quella determinata dalla pandemia del Covid-19, la parte che riceverebbe uno svantaggio dal protrarsi dell'esecuzione del contratto alle stesse condizioni pattuite inizialmente deve poter avere la possibilità di rinegoziarne il contenuto, in base al dovere generale di buona fede oggettiva (o correttezza) nella fase esecutiva del contratto. La buona fede, infatti, può essere utilizzata anche con funzione integrativa cogente nei casi in cui si verifichino dei fattori sopravvenuti ed imprevedibili non presi in considerazione dalle parti al momento della stipulazione del rapporto, che sospingano lo squilibrio negoziale oltre l'alea normale del contratto. (Nella fattispecie si è ritenuto di dover far ricorso al criterio della buona fede integrativa per riportare in equilibrio il contratto nei limiti dell'alea negoziale normale, disponendo la riduzione del canone di locazione del 40% per i mesi di aprile e maggio 2020 e del 20% per i mesi da giugno 2020 a marzo 2021, tenuto conto che, anche dopo la riapertura dell'esercizio commerciale, l'accesso della clientela resta contingentato per ragioni di sicurezza sanitaria). (19) Parere del Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato, seduta del 12 novembre 2020582619 (in rass. avv. Stato, 2020, 4, pp. 188-189) secondo cui, anche per effetto dell’art. 3, comma 6 bis, D.L. 23 febbraio 2020 n. 6 -a fronte della richiesta di avviamento di un procedimento di revisione delle condizioni contrattuali di una ditta titolare di un contratto denominato “cessione di spazi per la installazione e la gestione di distributori automatici" presso un Istituto Scolastico in conseguenza del- l'evento di forza maggiore rappresentato dalla chiusura dell'Istituto stesso a causa dell'emergenza epidemiologica COVID-19 -“la buona fede oggettiva nella fase esecutiva del contratto ex art. 1375 c.c. postula la rinegoziazione come cammino necessitato di adattamento del contratto alle circostanze ed esigenze sopravvenute ai fine di portare a compimento il risultato negoziale prefigurato ab initio dalle parti, allineando il regolamento pattizio a circostanze che sono mutate; ciò nel pieno rispetto del- l'autonomia negoziale delle parti che un siffatto dovere non abbiano manifestamente escluso (in tal senso anche la relazione tematica n. 56 dell'8 luglio 2020 redatta dall'ufficio del massimario e del ruolo presso la Corte Suprema di Cassazione). Tanto premesso si ritiene che sussistano le condizioni, in capo RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 d) Rimedi per specifici contratti. Per il contratto di appalto di diritto comune vi è la previsione dei rimedi in caso di onerosità dell’esecuzione (art. 1664, comma 1, c.c.) (20) e il recesso unilaterale del committente dal contratto (art. 1671 c.c.) (21). Queste disposizioni non si applicano ai contratti ad evidenza pubblica con la P.A. atteso che il codice dei contratti contiene disposizioni speciali sul punto. La norma contenuta nell’art. 1664 c.c. viene adattata, nella materia dei contratti pubblici, con l’art. 106 del Codice (22). Invece, la norma contenuta nell’art. 1671 c.c. viene replicata nel codice di contratti, con l’art. 109 con una marginale differenza in ordine ad una componente dell’indennizzo da erogare all’appaltatore (23). Ulteriori rimedi sono previsti per altre tipologie di contratti, come ad esempio: nel contratto di enfiteusi (art. 963, comma 2, c.c.) (24), nel contratto di affitto (art. 1623, comma 1, c.c.) (25), nel contratto di trasporto di cose (art. 1686 c.c.), nel contratto di deposito (art. 1780 c.c.), ecc. ai Dirigenti, per procedere, con il concessionario che ne faccia formale richiesta, alla rinegoziazione del contratto in relazione al periodo in cui si è palesata la crisi epidemiologica e fino a quando questa ha concretamente inciso sullo stesso. Ciò detto, l'obbligo di rinegoziare impone alle parti di intavolare nuove trattative e di condurle correttamente, ma non anche di concludere il contratto modificativo”. (20) “Qualora per effetto di circostanze imprevedibili si siano verificati aumenti o diminuzioni nel costo dei materiali o della mano d'opera, tali da determinare un aumento o una diminuzione superiori al decimo del prezzo complessivo convenuto, l'appaltatore o il committente possono chiedere una revisione del prezzo medesimo. La revisione può essere accordata solo per quella differenza che eccede il decimo”. Questa disposizione non mette fuori gioco l’applicazione dell’art. 1467 c.c. Difatti, si applica il rimedio generale dell'art. 1467 c.c. se la sopravvenienza derivi da cause diverse da quelle specificamente previste dalla disciplina particolare contenuta nell’art. 1664 c.c. Conf. Cass. 3 novembre 1994, n. 9060 secondo cui l'art. 1467 c.c. si applica ad un contratto di appalto nell’ipotesi in cui l'onerosità sopravvenuta sia da attribuire a cause diverse da quelle previste nell'art. 1664 c.c., dovendo altrimenti la norma speciale prevalere sulla norma generale, in quanto disciplina specifica di un contratto commutativo con caratteristiche particolari. (21) “il committente può recedere dal contratto, anche se è stata iniziata l'esecuzione dell'opera o la prestazione del servizio, purché tenga indenne l'appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno”. (22) Conf. E. StRACQUALURSI, Varianti e rinegoziazioni nella disciplina degli appalti: emergenza e principio di concorrenza, in Nuova Giur. Civ., 2020, 5 -Supplemento, pp. 139 e ss. secondo cui la disciplina dell'art. 106 del Codice dei contratti pubblici “si presenta come una disposizione speciale e derogatoria rispetto a quella disciplinata dall'art. 1664 cod. civ.”. (23) Nell’art. 109 viene stabilito che: -la stazione appaltante può recedere dal contratto in qualunque momento previo il pagamento dei lavori eseguiti o delle prestazioni relative ai servizi e alle forniture eseguiti nonché del valore dei materiali utili esistenti in cantiere nel caso di lavoro o in magazzino nel caso di servizi o forniture, oltre al decimo dell'importo delle opere, dei servizi o delle forniture non eseguite; -l'esercizio del diritto di recesso è preceduto da una formale comunicazione all'appaltatore da darsi con un preavviso non inferiore a venti giorni, decorsi i quali la stazione appaltante prende in consegna i lavori, servizi o forniture ed effettua il collaudo definitivo e verifica la regolarità dei servizi e delle forniture. CONtRIBUtI DI DOttRINA 4. Quadro dei rimedi di diritto speciale per i contratti ad evidenza pubblica con la P.a. a fronte dello squilibrio del sinallagma contrattuale nel corso della esecuzione del rapporto. Disposizioni speciali per la specifica materia dei contratti di appalti pubblici sono contenute nel Codice dei contratti pubblici. Vengono in rilievo gli istituti della modifica del contratto (art. 106), della sospensione dell'esecuzione del contratto o la proroga della durata (art. 107) ed il recesso (art. 109). a) Modifica del contratto per sopravvenuta onerosità nell’esecuzione. L’istituto è regolato all’art. 106 recante la “modifica di contratti durante il periodo di efficacia” (26). Le disposizioni rilevanti nel caso di specie sono le seguenti: “1. Le modifiche, nonché le varianti, dei contratti di appalto in corso di validità devono essere autorizzate dal rUP con le modalità previste dall'ordinamento della stazione appaltante cui il rUP dipende. i contratti di appalto nei settori ordinari e nei settori speciali possono essere modificati senza una nuova procedura di affidamento nei casi seguenti: […] c) ove siano soddisfatte tutte le seguenti condizioni, fatto salvo quanto previsto per gli appalti nei settori ordinari dal comma 7: 1) la necessità di modifica è determinata da circostanze impreviste e imprevedibili per l'amministrazione aggiudicatrice o per l'ente aggiudicatore. in tali casi le modifiche all'oggetto del contratto assumono la denominazione di varianti in corso d'opera. Tra le predette circostanze può rientrare anche la sopravvenienza di nuove disposizioni legislative o regolamentari o provvedimenti di autorità od enti preposti alla tutela di interessi rilevanti; 2) la modifica non altera la natura generale del contratto; […] 6. Una nuova procedura d'appalto in conformità al presente codice è richiesta per modifiche delle disposizioni di un contratto pubblico di un accordo quadro durante il periodo della sua efficacia diverse da quelle previste ai commi 1 e 2. 7. Nei casi di cui al comma 1, lettere […] c), per i settori ordinari il contratto può essere modificato se l'eventuale aumento di prezzo non eccede il 50 per cento del valore del contratto iniziale. in caso di più modifiche successive, (24) “Se è perita una parte notevole del fondo e il canone risulta sproporzionato al valore della parte residua, l'enfiteuta, secondo le circostanze, può chiedere una congrua riduzione del canone, o rinunziare al suo diritto, restituendo il fondo al concedente, salvo il diritto al rimborso dei miglioramenti sulla parte residua”. (25) “Se, in conseguenza di una disposizione di legge, di una norma corporativa o di un provvedimento dell'autorità riguardanti la gestione produttiva, il rapporto contrattuale risulta notevolmente modificato in modo che le parti ne risentano rispettivamente una perdita e un vantaggio, può essere richiesto un aumento o una diminuzione del fitto ovvero, secondo le circostanze, lo scioglimento del contratto”. (26) Su cui A. CANCRINI, V. CAPUzzA, M. NUNzIAtA, La fase di esecuzione nell’appalto di lavori pubblici, EPC Editore, 2018, pp. 197-2006 ed altresì pp. 257-283. RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 tale limitazione si applica al valore di ciascuna modifica. Tali modifiche successive non sono intese ad aggirare il presente codice. […]”. Con le varianti in corso d’opera, il contenuto dispositivo dell’art. 106, comma 1, lett. c) consente -a fronte di un evento straordinario ed imprevedibile, determinante l’eccessiva onerosità della prestazione -l’eccezionale modificazione del contenuto del contratto. Con tale misura si evita la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 c.c. L’istituto faculta una volontaria riconduzione ad equità del contratto alterato nel sinallagma, con il tetto massimo -assente nella disciplina di diritto comune -dell’aumento non eccedente il 50 % del valore del contratto iniziale. Una disposizione analoga all’art. 106 è contenuta, con riguardo ai contratti di concessione, nell’art. 175 del Codice dei contratti. b) Sospensione dell'esecuzione del contratto disposta dalla stazione appaltante e proroga della durata del contratto richiesta dall’operatore economico. L’istituto è regolato all’art. 107 (27). Le disposizioni rilevanti nel caso di specie sono le seguenti: “1. in tutti i casi in cui ricorrano circostanze speciali che impediscono in via temporanea che i lavori procedano utilmente a regola d'arte, e che non siano prevedibili al momento della stipulazione del contratto, il direttore dei lavori può disporre la sospensione dell'esecuzione del contratto, compilando, se possibile con l'intervento dell'esecutore o di un suo legale rappresentante, il verbale di sospensione, con l'indicazione delle ragioni che hanno determinato l'interruzione dei lavori, nonché dello stato di avanzamento dei lavori, delle opere la cui esecuzione rimane interrotta e delle cautele adottate affinché alla ripresa le stesse possano essere continuate ed ultimate senza eccessivi oneri, della consistenza della forza lavoro e dei mezzi d'opera esistenti in cantiere al momento della sospensione. il verbale è inoltrato al responsabile del procedimento entro cinque giorni dalla data della sua redazione. 2. La sospensione può, altresì, essere disposta dal rUP per ragioni di necessità o di pubblico interesse, tra cui l’interruzione di finanziamenti per esigenze sopravvenute di finanza pubblica, disposta con atto motivato delle amministrazioni competenti. Qualora la sospensione, o le sospensioni, durino per un periodo di tempo superiore ad un quarto della durata complessiva prevista per l'esecuzione dei lavori stessi, o comunque quando superino sei mesi complessivi, l'esecutore può chiedere la risoluzione del contratto senza indennità; se la stazione appaltante si oppone, l'esecutore ha diritto alla rifusione dei maggiori oneri derivanti dal prolungamento della sospensione oltre i termini suddetti. Nessun indennizzo è dovuto all’esecutore negli altri casi. (27) Su cui A. CANCRINI, V. CAPUzzA, M. NUNzIAtA, La fase di esecuzione nell’appalto di lavori pubblici, cit., pp. 207-221. CONtRIBUtI DI DOttRINA 3. La sospensione è disposta per il tempo strettamente necessario. Cessate le cause della sospensione, il rUP dispone la ripresa dell’esecuzione e indica il nuovo termine contrattuale. 4. ove successivamente alla consegna dei lavori insorgano, per cause imprevedibili o di forza maggiore, circostanze che impediscano parzialmente il regolare svolgimento dei lavori, l'esecutore è tenuto a proseguire le parti di lavoro eseguibili, mentre si provvede alla sospensione parziale dei lavori non eseguibili, dandone atto in apposito verbale. Le contestazioni dell'esecutore in merito alle sospensioni dei lavori sono iscritte a pena di decadenza nei verbali di sospensione e di ripresa dei lavori, salvo che per le sospensioni inizialmente legittime, per le quali è sufficiente l'iscrizione nel verbale di ripresa dei lavori; qualora l'esecutore non intervenga alla firma dei verbali o si rifiuti di sottoscriverli, deve farne espressa riserva sul registro di contabilità. Quando la sospensione supera il quarto del tempo contrattuale complessivo il responsabile del procedimento dà avviso all'aNaC. in caso di mancata o tardiva comunicazione l'aNaC irroga una sanzione amministrativa alla stazione appaltante di importo compreso tra 50 e 200 euro per giorno di ritardo. 5. L'esecutore che per cause a lui non imputabili non sia in grado di ultimare i lavori nel termine fissato può richiederne la proroga, con congruo anticipo rispetto alla scadenza del termine contrattuale. in ogni caso la sua concessione non pregiudica i diritti spettanti all'esecutore per l'eventuale imputabilità della maggiore durata a fatto della stazione appaltante. Sull'istanza di proroga decide il responsabile del procedimento, sentito il direttore dei lavori, entro trenta giorni dal suo ricevimento. L’esecutore deve ultimare i lavori nel termine stabilito dagli atti contrattuali, decorrente dalla data del verbale di consegna ovvero, in caso di consegna parziale dall’ultimo dei verbali di consegna. L’ultimazione dei lavori, appena avvenuta, è comunicata dall'esecutore per iscritto al direttore dei lavori, il quale procede subito alle necessarie constatazioni in contraddittorio. L'esecutore non ha diritto allo scioglimento del contratto né ad alcuna indennità qualora i lavori, per qualsiasi causa non imputabile alla stazione appaltante, non siano ultimati nel termine contrattuale e qualunque sia il maggior tempo impiegato. […] 7. Le disposizioni del presente articolo si applicano, in quanto compatibili, ai contratti relativi a servizi e forniture”. All’evidenza gli ostacoli all’esecuzione del contratto -del tipo di quelli considerati nel presente scritto -facultano, ove connotati nei modi delineati dalla disposizione, l’eccezionale sospensione del decorso del termine di esecuzione del contratto con differimento del termine finale contrattuale. L’art. 107 è applicabile altresì ai contratti di concessione. tanto in virtù dell’art. 164, comma 2, del Codice dei contratti pubblici secondo cui alle procedure di aggiudicazione di contratti di concessione di lavori pubblici o di servizi si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni contenute nella parte RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 I e nella parte II, relativamente ai principi generali e ad altri istituti tra cui le disposizioni relative alle modalità di esecuzione (artt. 100 -113 bis) e quindi anche quella relativa alla disciplina della sospensione (art. 107). Va rilevato che la disciplina codicistica della sospensione innanzi riportata di cui all'art. 107 è derogata, in via temporanea, dalle disposizioni sulla “sospensione dell'esecuzione dell'opera pubblica” contenute nell'art. 5 del D.L. 16 luglio 2020, n. 76, conv. L. 11 settembre 2020, n. 120 con riguardo all'esecuzione di opere pubbliche di importo pari o superiore alle soglie comunitarie, anche se già iniziate. È disposto, fino al 30 giugno 2023, che la sospensione, volontaria o coattiva, “può avvenire, esclusivamente, per il tempo strettamente necessario al loro superamento, per le seguenti ragioni: a) cause previste da disposizioni di legge penale, dal codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, nonché da vincoli inderogabili derivanti dall'appartenenza all'Unione europea; b) gravi ragioni di ordine pubblico, salute pubblica o dei soggetti coinvolti nella realizzazione delle opere, ivi incluse le misure adottate per contrastare l'emergenza sanitaria globale da CoViD-19; c) gravi ragioni di ordine tecnico, idonee a incidere sulla realizzazione a regola d'arte dell'opera, in relazione alle modalità di superamento delle quali non vi è accordo tra le parti; d) gravi ragioni di pubblico interesse”; le successive disposizioni dell’art. 5, dal comma 2 al comma 6, sono finalizzate alla abbreviazione dei tempi della sospensione e comunque a conseguire una sollecita esecuzione delle opere pubbliche. c) Recesso ad nutum della stazione appaltante. L’istituto è regolato nell’art. 109 innanzi evidenziato (28). Per il contratto di concessione vi è poi (regolata dall’art. 165) la misura della d) Revisione del PEF (piano Economico Finanziario) per garantire l’equilibrio economico-finanziario. giusta il comma 6 “il verificarsi di fatti non riconducibili al concessionario che incidono sull'equilibrio del piano economico finanziario può comportare la sua revisione da attuare mediante la rideterminazione delle condizioni di equilibrio. La revisione deve consentire la permanenza dei rischi trasferiti in capo all'operatore economico e delle condizioni di equilibrio economico finanziario relative al contratto” […] “in caso di mancato accordo sul riequilibrio del piano economico finanziario, le parti possono recedere dal contratto […]”. Le conseguenze delle emergenze della pandemia e della guerra in Ucraina possono integrare fatti non riconducibili al concessionario determinanti la re (28) Su cui A. CANCRINI, V. CAPUzzA, M. NUNzIAtA, La fase di esecuzione nell’appalto di lavori pubblici, cit., pp. 311-322. CONtRIBUtI DI DOttRINA visione del PEF. All’evidenza la disposizione citata prevede un obbligo di negoziazione del tipo di quello innanzi analizzato. 5. Quadro dei rimedi di diritto speciale per i contratti ad evidenza pubblica con la P.a. a fronte dello squilibrio del sinallagma contrattuale nel corso della esecuzione del rapporto. Segue. modifica dei contratti attivi per sopravvenuta onerosità nell’esecuzione. Deve ritenersi che la disposizione contenuta nell’art. 106 del Codice dei contratti regolante la modifica dei contratti per sopravvenuta onerosità nel- l’esecuzione, sicuramente applicabile ai contratti passivi (appalti e, con l’analoga disposizione di cui al successivo art. 175, alle concessioni), si applica altresì ai contratti attivi, ossia ai contratti dai quali la P.A. consegue una entrata (tali possono essere, a date condizioni, i contratti di concessione di lavori o di servizi; tali possono essere altresì i contratti con i quali la P.A. consente l’uso, il godimento di suoi beni). Come è noto, la disciplina dei contratti attivi è contenuta nel R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, ove, tra l’altro, è prevista la fase dell’evidenza pubblica, costituita dalla procedura aperta. Difatti, a termini dell’art. 3 R.D. cit. i contratti dai quali derivi un'entrata per lo Stato debbono essere preceduti da pubblici incanti -rectius, all’attualità: procedura aperta -salvo che per particolari ragioni, delle quali dovrà farsi menzione nel decreto di approvazione del contratto, e limitatamente ai casi da determinare con il regolamento, l'amministrazione non intenda far ricorso alla licitazione ovvero nei casi di necessità alla trattativa privata. Inoltre, all’affidamento dei contratti attivi si applicano i principi generali in materia di attività negoziale della P.A., ossia “di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica”, come precisato nell’art. 4 del Codice dei contratti pubblici. Di conseguenza, l’art. 106 costituente esplicazione dei principi generali di imparzialità e di parità di trattamento, è applicabile -in quanto compatibile -ai contratti attivi. Sicché, in presenza di un evento straordinario ed imprevedibile è possibile modificare il contenuto del contratto al fine di conseguire un nuovo equilibrio nel sinallagma con possibilità della variazione del corrispettivo al quale è tenuto il privato per l’utilizzazione del bene. Ciò -in analogia alla disciplina di cui al comma 7 dell’art. 106 -purché la diminuzione non sia eccedente il 50 per cento del valore del contratto iniziale (29). (29) La Corte dei conti, Sezioni riunite in sede di controllo, con deliberazione 17 maggio 2021, N. 7/SSRRCO/QMIg/21 -con riguardo ad un contratto attivo per la P.A. valorizzando, tra l’altro, l’obbligo di rinegoziazione, in presenza di mutate condizioni di mercato, in base alle regole della correttezza e della buona fede ex artt. 1175, 1366 e 1375 c.c. -ha enunciato: “gli enti locali, in presenza di una ri RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 6. Disposizioni speciali per regolare specifici aspetti dello squilibrio contrattuale conseguente agli avvenimenti eccezionali ed imprevedibili collegati alla pandemia CoViD 19. Il legislatore è intervenuto con disposizioni speciali per regolare specifici aspetti dello squilibrio contrattuale conseguente agli avvenimenti eccezionali ed imprevedibili sopramenzionati collegati alla diffusione del COVID 19. Vuol farsi riferimento, tra l’altro, alle seguenti disposizioni: a) Art. 3, comma 6 bis, D.L. 23 febbraio 2020, n. 6, conv. L. 5 marzo 2020, n. 13, secondo cui “il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto [dell'emergenza epidemiologica da COVID-19] è sempre valutato ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 del codice civile, della responsabilità del debitore, anche relativamente al- l'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”. All’evidenza, per dichiarata previsione normativa, il rispetto delle misure di contenimento dell'emergenza epidemiologica da COVID-19 “è sempre valutato” ai fini dell’esclusione della responsabilità del debitore ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c. ed anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti. L’espresso riferimento contenuto nella citata disposizione rispettivamente agli artt. 1218 e 1223 c.c. ed alle clausole contrattuali da cui discendono decadenze o penali consente di individuare gli effetti che l’emergenza sanitaria può produrre sui rapporti contrattuali in corso. L’osservanza delle misure di contenimento può innanzitutto incidere sull’obbligo del risarcimento del danno che ex art. 1218 c.c. in capo al debitore inadempiente al punto da escluderne la responsabilità. In altri termini, in considerazione della peculiarità delle circostanze in cui si verificano il ritardo o l’inadempimento, il debitore inadempiente può andare esente da responsabilità o essere obbligato ad un risarcimento in misura inferiore e non uguale al danno cagionato. chiesta di riduzione del corrispettivo dei contratti di locazione di diritto privato stipulati con imprese esercenti attività di ristorazione, motivata dai plurimi provvedimenti di chiusura al pubblico emanati nel corso dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, e dalla conseguente crisi economica, possono assentirvi, in via temporanea, all’esito di una ponderazione dei diversi interessi coinvolti, da esternare nella motivazione del relativo provvedimento, in particolare considerando elementi quali: i. la significativa diminuzione del valore di mercato del bene locato; ii. l’impossibilità, in caso di cessazione del rapporto con il contraente privato, di utilizzare in modo proficuo per la collettività il bene restituito, tramite gestione diretta ovvero locazione che consenta la percezione di un corrispettivo analogo a quello concordato con l’attuale gestore o, comunque, superiore a quello derivante dalla riduzione prospettata; iii. la possibilità di salvaguardia degli equilibri di bilancio dell’ente, e nello specifico la mancanza di pregiudizio alle risorse con cui la medesima amministrazione finanzia spese, di rilievo sociale, del pari connesse alla corrente emergenza epidemiologica, anche alla luce della diminuita capacità di entrata sempre correlata alla situazione contingente”. CONtRIBUtI DI DOttRINA Inoltre, il legislatore -in modo esemplificativo in ordine circa la sterilizzazione delle conseguenze dell’inadempimento -ha preso in considerazione le eventuali clausole contrattuali che fanno discendere decadenze o penali dal ritardato o omesso adempimento sancendone la non applicabilità nell’ipotesi di ritardo o inadempimento giustificati dal rispetto delle misure di contenimento dell’epidemia. La sterilizzazione delle conseguenze dell’inadempimento riguarda anche, ad esempio, le clausole che prevedono lo scioglimento del contratto nel caso in cui una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite (cc.dd. clausole risolutive espresse di cui all’art. 1456 c.c.) o anche quelle che prevedono e determinano la misura degli interessi moratori dovuti in caso di ritardo. L’esclusione o attenuazione della responsabilità da inadempimento contrattuale e la non applicabilità delle suddette clausole possono operare solo qualora l’inadempimento o il ritardo siano conseguenza diretta ed immediata e quindi in rapporto di causalità con l’osservanza delle misure di contenimento. Solo in tale circostanza l’inadempimento del debitore risulta giustificato e pertanto idoneo ad escludere o attenuare la responsabilità e il conseguente dovere di risarcire il danno cagionato al creditore. All’evidenza, il legislatore ha considerato il rispetto delle misure di contenimento alla stregua di una causa di forza maggiore tale da determinare anche un alleggerimento dell’onere probatorio. Qualora il debitore non abbia potuto adempiere o sia in ritardo nel- l’adempimento dell’obbligazione a causa del rispetto delle misure di contenimento, forniti al giudice gli elementi di prova di tale fatto, il medesimo è, in deroga alla disciplina generale, esonerato dal provare il carattere straordinario ed imprevedibile dell’evento, presunto dal legislatore in ragione del- l’eccezionalità della pandemia. La disciplina sin qui descritta degli effetti che il ritardato o omesso adempimento della prestazione ha sulla responsabilità del debitore non chiarisce tuttavia quale sia la sorte del contratto di cui la suddetta prestazione costituisca l’oggetto. In altri termini, quando la prestazione rimasta inadempiuta a causa del- l’osservanza delle misure di contenimento della pandemia si inserisce in un contratto a prestazioni corrispettive, occorre interrogarsi non solo sulla sorte del contratto ma anche sugli eventuali strumenti di cui la controparte può avvalersi per tutelarsi contro tale giustificato inadempimento contrattuale. A fronte di una esclusione o attenuazione della responsabilità di una parte, l’esigenza di tutela della controparte e del suo interesse a non essere costretto ad adempiere può concretizzarsi nella possibilità di avvalersi dell’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c., ossia di rifiutarsi di adempiere la propria obbligazione. Se tale soluzione può apparire praticabile allorquando la controparte non abbia ancora eseguito la sua prestazione e conservi un interesse all’esecuzione RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 del contratto, in attesa della cessazione dello stato di emergenza e quindi della situazione impeditiva dell’adempimento, nella diversa ed opposta ipotesi in cui la prestazione sia già stata eseguita o, pur se ancora non eseguita, la parte non abbia più interesse alla conservazione del contratto, vanno applicati -sussistenti i presupposti -i rimedi generali di diritto comune innanzi sunteggiati. Ossia: il rimedio caducatorio della risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione di cui all’art. 1463 c.c. o i rimedi ex art. 1464 c.c. nel caso di impossibilità parziale ovvero il rimedio caducatorio della risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 c.c. b) Art. 1 septies D.L. 25 maggio 2021, n. 73, conv. L. 23 luglio 2021, n. 106 recante disposizioni urgenti in materia di revisione dei prezzi dei materiali nei contratti pubblici. La situazione regolata è la seguente: “Per fronteggiare gli aumenti eccezionali dei prezzi di alcuni materiali da costruzione verificatisi nell'anno 2021, per i contratti in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, il ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili rileva, entro il 31 ottobre 2021 e il 31 marzo 2022, con proprio decreto, le variazioni percentuali, in aumento o in diminuzione, superiori all'8 per cento, verificatesi rispettivamente nel primo e nel secondo semestre dell'anno 2021, dei singoli prezzi dei materiali da costruzione più significativi” (comma 1). Inoltre il legislatore, pro futuro (ossia per i futuri contratti da stipulare) e per una durata contingente, ha previsto apposite norme per tenere conto degli squilibri contrattuali in esame. Vuol farsi riferimento all’art. 29 del D.L. 27 gennaio 2022, n. 4, conv. L. 28 marzo 2022, n. 25 contenente disposizioni urgenti in materia di contratti pubblici connesse all'emergenza da COVID-19, nonché per il contenimento degli effetti degli aumenti dei prezzi nel settore elettrico (30). (30) Il comma 1 così statuisce: “Fino al 31 dicembre 2023, al fine di incentivare gli investimenti pubblici, nonché al fine di far fronte alle ricadute economiche negative a seguito delle misure di contenimento dell'emergenza sanitaria globale derivante dalla diffusione del virus SarS-CoV-2, in relazione alle procedure di affidamento dei contratti pubblici, i cui bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o di avvisi, qualora l'invio degli inviti a presentare le offerte sia effettuato successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto, si applicano le seguenti disposizioni: a) è obbligatorio l'inserimento, nei documenti di gara iniziali, delle clausole di revisione dei prezzi previste dall'articolo 106, comma 1, lettera a), primo periodo, del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, fermo restando quanto previsto dal secondo e dal terzo periodo della medesima lettera a); b) per i contratti relativi ai lavori, in deroga all'articolo 106, comma 1, lettera a), quarto periodo, del decreto legislativo n. 50 del 2016, le variazioni di prezzo dei singoli materiali da costruzione, in aumento o in diminuzione, sono valutate dalla stazione appaltante soltanto se tali variazioni risultano superiori al cinque per cento rispetto al prezzo, rilevato nell'anno di presentazione dell'offerta, anche tenendo conto di quanto previsto dal decreto del ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili di cui CONtRIBUtI DI DOttRINA 7. Conclusioni. A fronte dell'alterazione finanziaria dovuta a maggiori oneri che le imprese, esecutrici dei contratti pubblici, sono costrette a sostenere per effetto di fatti eccezionali, contingenti ed imprevedibilità correlati alla guerra in Ucraina e all’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia ancora in corso sono applicabili i rimedi innanzi evidenziati: risoluzione per impossibilità totale sopravvenuta della prestazione, riduzione della prestazione o recesso dal contratto nel caso di impossibilità parziale sopravvenuta della prestazione, risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, modifica o sospensione o proroga del contratto ex artt. 106 e 107 del Codice dei contratti. Con riguardo alla possibilità di modificazione dei contratti di appalto al fine di ricondurli ad equità in conseguenza degli squilibri nel sinallagma collegati alla pandemia e alla guerra i margini operativi sono fissati dal Codice dei contratti. Difatti al caso di specie vanno applicate le disposizioni contenute nell’art. 106 del Codice dei contratti, con le ulteriori variazioni consentite nelle disposizioni speciali innanzi sunteggiate (art. 1 septies D.L. n. 73/2021). Ciò in quanto la disciplina della modificazione del contratto in corso di esecuzione -in conseguenza dei recenti avvenimenti straordinari ed imprevedibili -è fissata dalle disposizioni or citate. Vuol dirsi che tanto le disposizioni generali contenute nell’art. 1467 c.c. con riguardo alla possibilità di modificazione del contratto (e in specie il comma terzo), quanto la facoltà di rinegoziazione del contratto squilibrato in base alla autonomia negoziale oppure in base ad un eventuale obbligo secondo le regole delle buona fede, costituiscono misure inapplicabili -in modo generale -al caso di specie, tenuto conto delle disposizioni puntuali contenute nel- l’art. 106 cit. I detti istituti -art. 1467, comma 3, c.c.; facoltà di rinegoziazione del contratto squilibrato in base alla autonomia negoziale oppure in base ad un eventuale obbligo secondo le regole delle buona fede -sono applicabili nei limiti delle modifiche consentite dall’art. 106 come integrato dall’art. 1 septies D.L. n. 73/2021. Ossia, ove ipotizzato un obbligo di negoziazione secondo buona fede, la P.A. deve precisare fin da subito alla controparte -in ossequio dell’obbligo di lealtà -che la trattativa aperta potrà giungere ad un eventuale accordo entro il perimetro, entro i limiti massimi fissati dall’art. 106 (non alterazione della natura generale del contratto; aumento del prezzo fino al 50 %). Dell’art. 1467 c.c. è applicabile, in tutta la sua portata, la parte non regolata dall’art. 106, ossia la facoltà dell’appaltatore (o anche del committente) di risolvere il contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta. al comma 2, secondo periodo. in tal caso si procede a compensazione, in aumento o in diminuzione, per la percentuale eccedente il cinque per cento e comunque in misura pari all'80 per cento di detta eccedenza, nel limite delle risorse di cui al comma 7”. RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 Quanto ricostruito, all’evidenza, non disciplina al meglio la materia, attesi i notevoli vincoli apposti dall’art. 106 alla possibilità di riequilibrio del contratto nella situazione data. tuttavia la chiara disciplina in materia, e in specie il disposto del comma 6 dell’art. 106 (“Una nuova procedura d'appalto in conformità al presente codice è richiesta per modifiche delle disposizioni di un contratto pubblico [deve ritenersi che, alla stregua delle omologhe previsioni contenute nell’art. 106, per mero refuso legislativo, manchi, in questo punto del periodo, la congiunzione “o”] di un accordo quadro durante il periodo della sua efficacia diverse da quelle previste ai commi 1 e 2”) esclude la possibilità di modificazioni del contratto oltre le ipotesi specificamente previste e regolate nell’art. 106 (31). Inoltre, la rinegoziazione dell’appalto pubblico -al di fuori dei casi consentiti dalla legge e come innanzi precisato integra una lesione del principio della concorrenza (32). All’evidenza, l’esigenza di riequilibrare i contratti di appalto in corso d’opera in modo da tenere conto dei maggiori oneri degli appaltatori conseguenza dei recenti avvenimenti straordinari ed imprevedibili può essere soddisfatta -per la disciplina non prevista già dall’art. 106 e dalle disposizioni speciali innanzi citate -unicamente con una novella legislativa sul punto, con la previsione della necessaria presumibile maggior provvista finanziaria. Una novella di tal genere è necessaria al fine di consentire -senza ritardi -l’esecuzione delle opere pubbliche. Diversamente il ciclo dei lavori pubblici nel Paese subirebbe stasi o rallentamenti con sperpero di danaro pubblico. (31) In tal senso altresì S. FANtINI, Le sopravvenienze nelle concessioni e contratti pubblici di durata nel diritto dell'emergenza, cit., p. 644, per il quale “è noto che la rinegoziazione, specie ove incrementativa del corrispettivo dovuto dall'amministrazione appaltante, è di dubbia ammissibilità, al di fuori dei casi specificamente previsti dalla legge, perché si traduce in una sorta di trattativa privata”. (32) In tal senso altresì E. StRACQUALURSI, Varianti e rinegoziazioni nella disciplina degli appalti: emergenza e principio di concorrenza, cit., secondo cui “Nel campo dei contratti pubblici, tuttavia, l'invarianza delle condizioni economiche dell'accordo garantisce la par condicio tra gli aspiranti contraenti e la migliore tutela delle finanze pubbliche: per questo i principi generali dell'ordinamento e le indicazioni di matrice comunitaria impongono di attribuire alla forza di legge del contratto una pregnanza maggiore di quella tipica dell'appalto privato. in ogni caso, varianti e revisioni dei prezzi fanno parte anche della disciplina del Codice dei Contratti Pubblici, non solo a testimonianza della necessità di tutela del sinallagma, ma soprattutto a garanzia dell'interesse dell'impresa a non essere onerata dei costi per l'alterazione dell'equilibrio contrattuale, prevenendo il rischio che tali sopravvenienze possano indurla ad una riduzione degli standard delle prestazioni”. CONtRIBUtI DI DOttRINA Metaverso: necessità di un diritto reale per un mondo virtuale. Gli aspetti giuridici rilevanti del Metaverso Gaetana Natale* Kelsen affermava che la norma giuridica crea il suo spazio di applicazione: ma oggi la norma giuridica può regolare la dimensione digitale e fino a che punto? Il c.d. Metaverso è una nuova dimensione di vita in cui il diritto può svolgere una funzione regolatoria? Per regolare un fenomeno occorre capirlo. Cerchiamo allora di definire il concetto di metaverso, realtà immersiva che si sta affacciando all’orizzonte. Che cos’è il Metaverso? La parola Metaverso è un neologismo che si sta diffondendo ormai tra coloro che studiano l’innovazione futura della tecnologia. A tutt’oggi, però, tale parola non può essere definita con uno specifico significato (1). La parola metaverso viene fatta risalire alla definizione di Neal Stephenson, contenuta nel romanzo cyberpunk “Snow Crash” del 1992: «uno spazio tridimensionale all’interno del quale persone fisiche possono muoversi, condividere e interagire attraverso avatar personalizzati». gli esperti ci dicono che «il metaverso rappresenta l’ambiente globale di convergenza di differenti soluzioni tecnologiche (blockchain e smart contracts, non-fungible tokens e cryptovalute, intelligenza artificiale e realtà aumentata), che permetteranno la continua interazione personale e commerciale fra gli utenti, nonché la fusione fra il mondo reale e quello virtuale (attraverso avatar)». Si prospettano scenari e soluzioni interessanti, ma sorgono anche preoccupazioni inquietanti. Nel Metaverso ognuno di noi, in futuro, avrà un gemello virtuale? E se così sarà, potremo considerare il gemello un soggetto giuridico? Avrà capacità giuridica e di agire? L’uomo in futuro vivrà, così, in una nuova dimensione duale, una reale e una virtuale? Un esempio di questo nuovo universo è dato dal videogioco, tramite il quale il giocatore/avatar, durante l’azione, accede al negozio virtuale di un marchio vero, reale, prova l’articolo di abbigliamento e lo compra realmente. (*) Avvocato dello Stato, Professore a contratto di Sistemi giuridici Comparati, Consigliere giuridico del garante per la Privacy. Il presente articolo è stato scritto con la collaborazione della Dott.ssa Giulia Arcari, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato ed è il risultato di una ricerca svolta dal- l’Autrice con esperti di tecnologia immersiva. (1) L. PARDO, “il metaverso spalanca nuove frontiere dell’economia. E delle regole”, su https://www.wired.it/article/metaverso-ecommerce-regole/. RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 Le caratteristiche essenziali del metaverso, secondo gli studiosi, sono: «natura globale e decentralizzata, che non sopporta confini geografici o giurisdizionali; interazione sincronica degli e fra gli utenti, fra realtà fisica e realtà virtuale; connessione continua e interoperabilità». Il Metaverso sicuramente ci deve far riflettere sul modo in cui i dati saranno trattati: quali soggetti dovranno raccogliere e trattare i dati utilizzati nel metaverso, con quali procedure e con quali livelli di protezione? Occorre chiedersi se i concetti di accountability e di privacy by design and default, ossia i parametri regolatori per impostazione predefinita previsti dal gDPR per la creazione di un ambiente digitale trustworthy (ossia, affidabile e sicuro) possano essere sufficienti per regolare tale nuovo fenomeno. Occorrerà decidere il tipo di regolamentazione da introdurre: autoregolazione (self regulation delle piattaforme), coregolazione o eteroregolazione? regolamentazione omogenea o per settori? Strutturale o funzionale? Cosa dovrà essere regolato dalle piattaforme e cosa dovrà, invece, essere regolato dallo Stato? Dovrà anche per il metaverso essere introdotta la figura del “certificatore di conformità” prevista dal Digital Service Act, con obbligo c.d. di reporting, analisi e monitoraggio del “livello di rischio” per conciliare il principio di autodeterminazione individuale con quello di “responsabilizzazione delle piattaforme”? I rischi di data breach potrebbero essere all’ordine del giorno, per cui se vogliamo “spostarci” sulla realtà virtuale dobbiamo pensare ad una adeguata cybersecurity con adeguati sistemi di “alert” e di controllo dinamico. Occorre un processo di “concettualizzazione della tecnologia”, la definizione di una sua “dimensione epistemologica” volta a declinare sul piano giuridico il c.d. pre-emptive remedy, ossia il “rimedio preventivo” basato sul giudizio tecnico di adeguatezza degli standard di sicurezza (c.d. ecosistema digitale). Per dare un inquadramento sistematico a tali problematiche, occorre capire le modalità di funzionamento di tale nuova dimensione digitale che trova nel termine “metaverso” un momento di “sintesi concettuale complessa”. L’analista statunitense Matthew Ball (2) ha provato a individuare gli elementi che potrebbero caratterizzare il Metaverso. Questo nuovo spazio relazionale dovrebbe essere: a) persistente, ossia continuare indefinitamente e senza pausa alcuna; b) in tempo reale per tutti i suoi utenti, per permettere la fruizione di eventi e contenuti in maniera simultanea a ogni singola persona connessa; c) senza alcun limite di connessione, per far sì che non ci siano limitazioni al numero di utenti connessi in contemporanea; d) un’economia autonoma e indipendente dove gli utenti possano offrire o comprare beni e servizi; (2) M. BALL, “The metaverse: what it is, where to find it, who will build it, and Fortnight”, su https://www.matthewball.vc/all/themetaverse. CONtRIBUtI DI DOttRINA e) un’esperienza che unisce il mondo fisico a quello virtuale senza distinzioni di modalità di accesso o fruizione; f) un’esperienza che garantisca la totale interoperabilità in termini di dati e informazioni immesse e scambiate tra gli utenti; g) uno spazio con infinite possibilità in termini di esperienze da provare e contenuti da sfruttare. Alla luce di queste caratteristiche, il Metaverso può essere definito come una sorta di Internet incorporato nell’esperienza umana quotidiana: una trasposizione della realtà fisica in una dimensione virtuale (3). Un Metaverso completo e funzionante è un qualcosa ancora ai limiti della fantascienza, ma potrebbe essere una componente importante del futuro tecnologico. gli attuali piani industriali delle più grandi compagnie high-tech verso esperienze virtuali sempre più immersive e coinvolgenti (es. realtà virtuale, realtà aumentata, interoperabilità dei sistemi, etc.), portano a credere che l’avvento del Metaverso possa non essere così lontano nel tempo. Occorre quindi iniziare a riflettere sui problemi giuridici ed etici legati al possibile avvento di una nuova dimensione in grado di collegare il mondo fisico a quello virtuale. Con il Metaverso, infatti, verranno introdotti degli avatar virtuali per interagire sulle varie piattaforme in internet e si passerà ad una realtà virtuale ancora più avanzata di quella già presente nei vari social network. Dopo la crisi di Facebook, con il Metaverso Mark zuckerberg ha voluto portare la sua azienda in un’area di business senza confini, un nuovo modello di economia (4). Si tratta di mondi digitali in cui non c’è limite agli acquisti, in cui il denaro è la criptovaluta, poiché la finanza nel Metaverso è alimentata dalla blockchain; mondi virtuali in cui chiunque può comprare o scambiare arte, musica, case, terreni o Token Non Fungibili (NFt) -definiti dal dizionario Collins parola dell’anno -che rappresentano «un certificato digitale unico, registrato in una blockchain, che viene utilizzato per registrare la proprietà di un bene come un’opera d’arte o un oggetto da collezione». Inoltre, sono sempre più comuni le transazioni di immobili nel Metaverso (5). tuttavia, c’è chi ci mette in guardia dai pericoli del Metaverso (6), esa (3) M. FORtI, “il diritto del metaverso: quali regole per la nuova dimensione virtuale?” su https://www.cyberlaws.it/2021/il-diritto-del-metaverso/. (4) Si veda M. DAL CO e A. LONgO, “metaverso, nuovo business della rete? Ecco gli scenari” su agendadigitale.eu. Nel frattempo, come alternativa al Metaverso di Facebook, anche Microsoft sta creando una sorta di metaverso, chiamato Mesh. (5) Si veda E. ROtOLO, “Sarà metaverso in mille settori: ecco tutte le possibilità di business”, su agendadigitale.eu. (6) Si veda N. PAtRIgNANI, “metaverso, rischio di un nuovo medioevo digitale”, su agendadigitale. eu. RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 minando gli aspetti più controversi di questa innovazione, che un po’ come Lucignolo di Collodi, rischia di spingerci verso il “nuovo paese dei balocchi”, dove rischiamo di diventare tutti asini. Si pensi alla promessa di giochi e intrattenimenti senza fine, unita all’offerta speciale di caschi, visori e Smartglasses per entrare nel nuovo mondo, un mondo virtuale con intrattenimenti senza limiti, si tratta di un’attrazione irresistibile, soprattutto per i più giovani. Il primo aspetto controverso del Metaverso è quello riferibile alla mancanza di interoperabilità e di standard, perché se ognuno costruisce il suo Metaverso, avremo «tanti “giardini recintati” non-comunicanti, ciascuno dominato dal “barone” di turno, un nuovo medioevo digitale». Un altro aspetto critico è il seguente: quali conseguenze fisiche provoca l’uso di tutti questi nuovi dispositivi? Si pensi ai problemi agli occhi che queste tecnologie possono portare, oltre alla nausea e alle vertigini. Non c’è sincronizzazione tra gli stimoli “percepiti” sensorialmente e l’esperienza fisica “vissuta” dal corpo (chinetosi). Si pensi al fenomeno dell’“addiction”, termine inglese che sta ad indicare la dipendenza dal mondo virtuale, del c.d. pruning, ossia potatura neuronale nel cervello delle giovani generazioni, dotato di maggiore plasticità, o all’“effetto dopamina”, nel senso che il mondo digitale produce la stessa dipendenza di una sostanza stupefacente o all’ “effetto Flynn”, ossia l’abbassamento delle facoltà cognitive delle nuove generazioni, dovuto all’uso eccessivo dello strumento digitale. Altro aspetto controverso è quello sociale: riusciremo a distinguere, tra le persone intorno a noi, chi è reale/fisico e chi è invece semplicemente connesso? Andando oltre il test di turing e delle leggi di Asimov, il metaverso potrà ridurre l’uomo ad un robot, creando degli automatismi nei comportamenti e nelle relazioni sociali “c.d. determinismo tecnologico”? Il termine “robot” deriva dalla lingua ceca e significa letteralmente “lavoro forzato”, quasi evocando il binomio servo-padrone della Fenomenologia dello Spirito di Hegel. La conoscenza umana, in questo modo, diventerà “irrelata” e non “correlata”? Secondo Zuboff, docente della Harvard Business School, urge un intervento normativo: «internet come mercato auto-regolante si è rivelato un esperimento fallimentare», per cui la domanda da porre al legislatore è «Come dovremmo organizzare e governare gli spazi di informazione e comunicazione del secolo digitale in modo da sostenere e promuovere valori e principi democratici? » (7). Insomma, come nel mondo fisico le sostanze che creano dipendenza sono strettamente regolamentate, così nel mondo virtuale i servizi digitali che (7) S. zUBOFF, “You are the object of a Secret Extraction operation”, The New York Times, 12 novembre 2021. CONtRIBUtI DI DOttRINA creano dipendenza dovrebbero essere limitati e il digitale dovrebbe essere utilizzato con molta saggezza e responsabilità «per aiutare l’umanità ad affrontare le immense sfide dell’antropocene come il cambiamento climatico e le pandemie». Inoltre, bisogna porre attenzione al modo in cui questa esperienza virtuale potrebbe influenzare il modo di percepire i nostri corpi. Il rischio paventato è quello di acuire le problematiche relative alla tossicità di Instagram e Facebook, già parzialmente affrontate e non ancora risolte, anzi bypassate. Per capire meglio di cosa si parla, bisogna avvicinarsi agli studi sulle neuroscienze (8). Ad affrontare questo argomento, ad esempio, è stata la Dottoressa Barbara Collevecchio, psicologa ad orientamento junghiano, autrice de “il male che cura”, che ci dice che «oggi grazie alla grande evoluzione delle ricerche scientifiche che sono state portate avanti soprattutto in questo ultimo decennio, dove le neuroscienze hanno addirittura aperto un nuovo filone che si chiama neuro psicanalisi, sappiamo che il corpo è fondamentale; il corpo e il cervello sono alla base del collegamento che c’è tra gli esseri umani». Partendo dall’origine della percezione corporea di sé, la psicologa illustra le cause profonde del rischio di c.d. dismorfofobia o dismorfismo, ossia il rischio che corrono oggi gli adolescenti quando passano (quotidianamente) dal reale al virtuale: «Sappiamo addirittura che la giunzione temporo-parietale destra è preposta alla percezione che il soggetto ha del proprio corpo ed è all’origine della sensazione corporea del sé e dipende dallo sviluppo delle aree corticali e subcorticali che sono influenzate dalle relazioni primarie. Le relazioni primarie sono quelle con il nostro care giver, quindi con i nostri familiari, soprattutto nei primi due anni, la mamma… La relazione madre -bambino, crea un network implicato nell’integrazione multisensoriali delle esperienze di sé e degli altri e quindi questo network e questa capacità di interrelazionarsi con gli altri crea anche la capacità di mentalizzare del bambino e quindi una primaria sintonizzazione intersoggettiva». Ciò significa che «c’è un’interrelazione molto importante tra natura, corpo e società e quindi innanzitutto le nostre relazioni primarie sono mediate dal corpo, cioè quanto la mamma e quanto i care giver primari sono capaci di relazionarsi a noi e di mediare le esigenze, i bisogni e le pulsioni che derivano dal corpo, che ci arrivano dal corpo. Se questa intermediazione e inter (8) Il nuovo metaverso di zuckerberg, con i suoi avatar, potrebbe peggiorare la situazione di tossicità dei social, aumentando il problema del dismorfismo, un problema serio nei ragazzi che vivono nella realtà virtuale. Le alterazioni di immagini con filtri e modifiche virtuali alterano la percezione del nostro corpo creando dismorfofobia. Ce ne hanno parlato, preoccupati, due esperti, B. COLLEVECCHIO (autrice del libro “il male che cura”) e g. RIVA (autore del libro “Selfie. Narcisismo e identità”) su https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/noi-e-il-corpo-un-rapporto-in-crisi-nel-metaverso-chedicono- gli-psicologi/. RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 relazione c’è stata e questa sincronizzazione è stata sana, allora noi avremo anche una regolazione degli affetti sana. Se questo non avviene, abbiamo disregolazioni emotive che si riversano sul corpo, e purtroppo lo vediamo in tanti pazienti borderline o con problemi di dismorfofobia eccetera, dove ci sono somatizzazioni e addirittura dei veri e propri attacchi sul corpo». Un ruolo fondamentale lo rivestono il narcisismo e la spettacolarizzazione del proprio corpo: «È stato lanciato anche un allarme dal primario di neuropsichiatria dell’ospedale Bambin Gesù di roma: abbiamo veramente un aumento incredibile di giovani adolescenti che hanno questo problema e appunto le nuove ricerche ipotizzano che siano dovute ad un problema di regolazione degli affetti e dalle disfunzioni delle cure primarie di attaccamento, ma le ricerche ci dimostrano anche che appunto il corpo è legato anche al concetto di cultura perché la cultura e i mass-media di un periodo storico raccontano e immaginano un ideale di corpo e anche questo influenza come noi percepiamo il nostro corpo. Quindi non a caso in questo periodo di grande narcisismo e di spettacolarizzazione del corpo è possibile che queste continue visioni e narrazioni di corpi perfetti, postati sui social media anche dagli adolescenti, tutti questi filtri che possono modificare parti del corpo e deformare l’immagine, insomma tutto questo può acuire e portare ad una dis-percezione del proprio corpo e alla dismorfofobia e nei casi più gravi anche un attacco al corpo, vissuto come non all’altezza degli standard che ci sono». Secondo la psicologa Collevecchio, dunque, è fondamentale «rendersi conto che alla base delle nostre relazioni c’è anche il corpo e le nostre relazioni non possono non essere mediate da una corporeità vera, dove deve esserci un corpo vero, non uno idealizzato o disincarnato» (9). Ecco che invece ciò su cui punta il Metaverso con i suoi avatar è proprio l’opposto, un corpo virtuale, perfetto, idealizzato. Nell’era dei social ciò potrebbe avere conseguenze a vari livelli. Come ha sottolineato giuseppe Riva (10), professore di Psicologia della comunicazione all’Università Cattolica di Milano, autore del libro “Selfie. Narcisismo e identità”, «il successo dei filtri di instagram sottolinea il desiderio di moltissimi utenti di mostrare sui social un corpo perfetto» e la «capacità del metaverso di mostrare corpi esteticamente perfetti, che non sono soggetti all’invecchiamento, potrebbe spingere molti soggetti a decidere di apparire online solo con un corpo digitalmente ritoccato». Ed ecco che il pericolo è dietro l’angolo, dal momento che, con il Metaverso che sostituisce Instagram e Facebook, gli utenti potrebbero cominciare a desiderare, più che (9) Il testo intero dell’intervista è riportato da M. CAStIgLI, “Come il metaverso ci cambia il rapporto col corpo: nuovi rischi psicologici”, su agendadigitale.eu. (10) Sempre su agendadigitale.eu, M. CAStIgLI, “Come il metaverso ci cambia il rapporto col corpo”, cit. CONtRIBUtI DI DOttRINA una copia di sé stessi, una rappresentazione idealistica. Si potrebbe arrivare ad avatar completamente diversi dalle persone fisiche, che giocano il ruolo di chi, a tutti i costi, vuole apparire perfetto agli occhi degli altri, con buona pace delle tendenze body positivity che, almeno negli ultimi tempi, facevano sperare in una presa di coscienza delle diversità che caratterizzano i corpi degli esseri umani. Il rischio è che alterare la propria identità digitale possa sfociare nella dismorfofobia. I diritti nel metaverso. È evidente che i mondi virtuali sono, come le comunità “reali”, luoghi in cui i soggetti interagiscono fra di loro, riproducendo un complesso sistema sia sociale sia economico e conservando al contempo la loro originaria natura di “formidabile mezzo di comunicazione in tre dimensioni” (11). Diventa, dunque, necessario coglierne gli aspetti particolari, capirne la vera natura e tentare un approccio giuridico volto a regolarizzare le attività umane che in essi si svolgono. Nel metaverso gli individui si organizzano, lavorano, studiano e spesso svolgono transazioni, guadagnando e investendo (12); sostanzialmente socializzano, come accade nella vita reale (13). Non si capisce, dunque, per quale motivo tutte queste attività umane debbano sfuggire al “controllo” e ai mezzi di tutela approntati dal diritto nella quotidiana realtà. (11) Si veda l’articolo di M.C. DE VIVO, “Viaggio nei metaversi alla ricerca del diritto perduto”, informatica e diritto, XXXV annata, Vol. XVIII, 2009, n. 1, pp. 191-225. (12) Il mercato digitale è in continua espansione. Sul nuovo fenomeno dell’acquisto di terreni virtuali vedi W. FERRI, “2,4 milioni per 500mq di cyber spazio: il metaverso e la corsa all’oro digitale”, su lindipendenteonline.it, che spiega bene questa “corsa all’oro in salsa digitale”: gli investitori accorrono oggi alle risorse offerte da metaverso per ottenere (in futuro) grandi ritorni economici. Non è una novità, ma la portata del fenomeno cresce quanto più si ingigantisce “la febbre per il digitale”. Lo dimostrerebbero i dati pubblicati da Dappradar, portale secondo cui il mercato dei terreni virtuali ha smosso circa 100 milioni di dollari sui soli The Sandbox, Decentraland, CryptoVoxels e Somnium Space. Non sarebbero solo piccoli investitori in ricerca di facili guadagni. Si parla anche di agenzie immobiliari virtuali, che comprano grandi lotti per scommettere su un loro aumento di valore nel prossimo futuro. The metaverse Group, nell’ultimo periodo, ha riscattato 500 metri quadrati digitali sulla piattaforma virtuale Decentraland: la transazione ha mosso 2,43 milioni di dollari. È il fenomeno dei latifondisti 4.0, letteralmente in espansione; v. https://www.lindipendente.online/2021/12/04/24-milioni- per-500mq-di-cyber-spazio-il-metaverso-e-la-corsa-alloro-digitale/. Interessante anche il tema dell’acquisto del mattone virtuale, v. A. gRECO, “il metaverso come il monopoli: scatta la corsa al mattone virtuale”, su repubblica.it; il fenomeno si sta sviluppando negli ultimi 5 mesi con metaverso, gli acquisti immobiliari con le criptovalute stanno diventando virtuali, v. https://www.repubblica.it/cronaca/ 2021/12/06/news/il_metaverso_come_il_monopoli_scatta_la_corsa_al_mattone_virtuale329215917/. (13) Per non parlare dei matrimoni virtuali: lo scorso ottobre, una coppia si è sposata con una doppia celebrazione, una reale e un’altra virtuale, con i loro avatar che si sono scambiati gli anelli. I matrimoni nel metaverso non sono ancora riconosciuti ufficialmente e gli invitati per partecipare hanno dovuto scaricare un programma sul computer e creare il proprio avatar. RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 Le problematiche giuridiche legate all’assenza di uno Stato, alla aterritorialità, alla deresponsabilizzazione, tipiche del mondo di Internet, si ripropongono anche nei metaversi, dove diventerà più accentuato il fenomeno che Natalino Irti definisce di “atopia” e “anomia”. A volte è possibile applicare il diritto positivo in questi mondi digitali, come nel caso in cui si verificano illeciti penali. Si pensi alla pedopornografia, al vandalismo contro gli oggetti di proprietà degli utenti, alla violazione di domicilio (informatico), alla violazione del diritto d’autore, all’abuso e contraffazione di marchio, ai casi di ingiuria e/o diffamazione e infine all’abuso e furto di identità. Le problematiche inerenti all’ambito privatistico, come quelle legate ad attività lavorative o commerciali online, sono le più difficili da regolamentare, mentre restano confinate nel fantadiritto alcune ipotesi decisamente speciali, come ad esempio quelle legate alla figura dell’avatar, e la difficoltà di individuare il suo ruolo nell’effimero mondo virtuale. I metaversi suscitano interesse anche da un punto di vista medicolegale. Se da un lato l’analisi del rapporto tra individuo e il proprio avatar può portare ad evidenziare vere e proprie forme di dipendenza da web e da MMORPg, dall’altro lato appare evidente il legame che può instaurarsi tra un soggetto diversamente abile e il proprio avatar. Per il soggetto diversamente dotato a volte l’alter ego digitale può rappresentare una sorta di prolungamento della propria fisicità, uno strumento particolarmente adeguato a svolgere attività e funzioni che altrimenti gli sarebbero preclusi, permettendogli di accedere all’interno della comunità virtuale con particolare facilità, sicuramente maggiore rispetto al suo inserimento nel mondo reale. tutto ciò porta a chiedersi che natura abbiano i metaversi, se, cioè debbano intendersi come “semplici” strumenti di gioco oppure come strumenti di comunicazione e di interazione sociale dai quali i soggetti a rischio (disabili e minori) debbono essere particolarmente tutelati. Si pensi al gaming come strumento di “grooming” (ossia di “adescamento ”)o “hunting grounds”, ossia terreni di caccia. Pur volendo minimizzare l’impatto che i metaversi hanno nella realtà, per la loro originaria natura ludica, è bene ricordare che il gioco è̀ , comunque, una forma primordiale di attività formativa. Second Life (SL) e gli altri metamondi appaiono sempre più simili a serious games, ossia a giochi ideati non solo per insegnare e imparare ma anche per sperimentare nuove forme di attività aziendali, per scopi medico-terapeutici, per effettuare sondaggi, per svolgere particolari forme di comunicazione (ad esempio politica) e così via; diventano, cioè, ambienti (virtuali) in cui le aziende provano “nuove idee su scala ridotta” al fine di testare strategie promozionali. È ormai diffuso l’utilizzo di questi strumenti in 3D per scopi di formazione a distanza e di studio, dove la presenza di avatar e la riproduzione di ambienti realistici contribuiscono ad “umanizzare” il software e l’ambiente informatico in genere. Molte sono le Università CONtRIBUtI DI DOttRINA in SL e con la loro presenza hanno dato vita ad una nuova forma di e-learning. La natura informatica dei metaversi pone, inoltre, problematiche legate alla gestione e al corretto funzionamento della piattaforma e del software utilizzati per creare e gestire una società virtuale, ma soprattutto alle relative responsabilità per i possibili danni causati dal software. Il codice di Metaverso (14). Il mondo digitale ideato da metaverso suggerisce la domanda se è lecito tutto ciò che è tecnicamente possibile e se l’architettura tecnico-normativa con cui Facebook è trasmutato in metaverso è stata previamente approvata dalle autorità politiche. Se invece i regolatori pubblici aspettano di intervenire a valle, cioè a cose fatte, dobbiamo chiederci quali sono le effettive fonti del diritto in Internet. La risposta a questo quesito è stata data dai sostenitori del code-based approach, ad avviso dei quali la legge non è la fonte primaria del diritto digitale bensì lo è il code, cioè l’insieme dei software e degli hardware che regola il funzionamento di internet. Metaverso: code is law. Il code è una delle poche forze ad aver sfidato il dominio della legge nella regolamentazione del comportamento umano. Nel metaverso il confronto tra code e legge raggiungerà un livello completamente inedito. Meta è la società madre rinominata di Facebook, Instagram, WhatsApp e Oculus. Non limitato alla realtà virtuale, il CEO di Meta Mark zuckerberg definisce il metaverso come un Internet immersivo e incarnato nell’esperienza reale. Questa versione del metaverso segnala l’inizio di una profonda riforma delle funzioni economiche, sociali e giuridiche, aspirando a fondere definitivamente il mondo virtuale con quello fisico. Nel metaverso immaginato da zuckerberg le attività sociali e personali si sposteranno ulteriormente dalla realtà alla virtualità. tra gli estremi di questo continuum si trova la “realtà mista”, termine utilizzato per descrivere la fusione del mondo reale con i mondi virtuali. Allo stesso tempo, questo movimento globale verso la virtualità continuerà a sollevare interrogativi su come il comportamento umano può essere regolato all’interno di un framework contraddistinto da una continua tensione tra code e legge. La discussione sulla regolamentazione dei mondi virtuali non è nuova. Nel 1996, il giudice Frank H. Easterbrook della Corte d’Appello del Settimo Circuito degli Stati Uniti suggerì di definire il diritto digitale come un segmento a sé stante degli studi giuridici. Un anno dopo, in un articolo intitolato "Lex Informatica", Joel Reidenberg, esperto di diritto delle tecnologie dell’informazione, (14) https://www.filodiritto.com/il-codice-di-metaverso. RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 ha sostenuto e difeso l’impiego nel cyberspazio della lex informatica -un insieme di regole che disciplinano il trattamento delle informazioni digitali -al fine di offrire stabilità e prevedibilità alla socialità digitale in modo che i partecipanti abbiano sufficiente fiducia per far prosperare le loro comunità virtuali. Secondo Reidenberg, la legge e le policies governative hanno storicamente stabilito regole predefinite per la politica dell’informazione, comprese le regole costituzionali sulla libertà di espressione e i diritti di proprietà delle informazioni, ma per gli ambienti di rete e la società dell’informazione, la legge e la regolamentazione del governo non sono l’unica fonte di produzione di regole, poiché le capacità tecnologiche e le scelte di progettazione del sistema impongono regole ai partecipanti. Nel 1999, l’avvocato e costituzionalista Lawrence Lessig ha sostenuto che la legge potrebbe dover rispondere allo sconvolgimento dei grandi valori giuridici causato dal code. E più recentemente, nel considerare la regolamentazione dei registri distribuiti (DLt), i giuristi Primavera De Filippi e Aaron Wright fanno riferimento a framework normativi privati che le blockchain creano e che porteranno all’espansione di un nuovo sottoinsieme di leggi chiamato Lex Cryptographia, cioè un insieme di regole amministrate attraverso contratti intelligenti self-execution, autonomi e decentralizzati. Metaverso: la lotta tra legge e code. L’architettura centralizzata del cyberspazio significa che gli organi di governo possono far rispettare le norme di legge alle aziende che operano online. Spostare le nostre attività commerciali e sociali in una realtà mista metterebbe il mondo fisico -dove i nostri ordinamenti giuridici esistono e prevalgono normativamente -contro il mondo virtuale, che è il regno del code. In quanto tale, lo spostamento delle nostre funzioni economiche e sociali verso la virtualità (sul continuum realtà -virtualità) richiederà una significativa risposta da parte dei nostri ordinamenti giuridici. Ad esempio, se il diritto dei consumatori deve proteggere efficacemente gli utenti da pratiche sleali o abusive nel metaverso, dovrà essere in grado di esaminare gli accordi commerciali con cui gli utenti effettuano transazioni nel metaverso e promuovono campagne di marketing che si svolgono interamente nel mondo virtuale. Nella realtà mista l’interazione tra utenti e le aziende nel metaverso può rendere ridondanti i termini scritti; i nostri ordinamenti giuridici potrebbero regolamentare le imprese attive nel metaverso per garantire che le regole di protezione dei consumatori siano recepite by design direttamente nel code, garantendo una conformità ab initio. Dovrebbe anche essere possibile proiettare informazioni obbligatorie precontrattuali in un ambiente di realtà mista, non necessariamente in forma scritta. Dal punto di vista dell’antitrust, le autorità di regolamentazione potrebbero essere in grado di attingere efficacemente nel metaverso per monitorare CONtRIBUtI DI DOttRINA le pratiche di mercato, per identificare comportamenti anticoncorrenziali e per garantire l’accesso alle strutture essenziali per i nuovi operatori del mercato. Ciò può comportare la regolamentazione dell’accesso al codice sorgente da parte delle autorità garanti della concorrenza. I raid all’alba (ovvero, indagini in loco senza preavviso da parte delle autorità antitrust alla ricerca di informazioni su comportamenti potenzialmente criminali) sono un importante strumento investigativo nell’arsenale delle autorità garanti della concorrenza, che quasi certamente vorrebbero avere a disposizione in un ambiente di realtà mista. La legge dovrebbe facilitare l’applicazione delle regole di concorrenza nell’interesse superiore degli utenti e per la tutela della concorrenza. Anche la transazione di risorse digitali rappresenterà una sfida significativa per la regolamentazione nel metaverso. I token non fungibili (NFt) sono risorse digitali che rappresentano la proprietà di un oggetto o un contenuto unico aventi la capacità di generare nuovi ecosistemi aziendali nel metaverso. Le NFt musicali o artistiche, ad esempio, possono prevedere pagamenti di royalty automatizzati sul token trasferito tra gli utenti. La legge dovrebbe garantire che la proprietà e la transazione nelle NFt possano essere esecutive e reali, poiché gli utenti virtuali potrebbero essere in grado di eludere l’esecutività a seconda della loro posizione o delle impostazioni di identità. Nell’ultimo decennio, l’attività sui social media ha avuto un profondo impatto sui processi elettorali e su altri processi democratici in tutto il mondo. Attingendo a queste esperienze, la propagazione di contenuti falsificati e dannosi nel metaverso -comprese le notizie false e l’uso di “deep fake” o persino la propaganda sponsorizzata dallo stato -dovrà essere affrontata con decisione per proteggere lo stato di diritto, la coesione sociale e le nostre democrazie. L’evoluzione giuridica per l’era del metaverso comporterebbe l’inserimento del diritto nel code in modo da bilanciare i diritti fondamentali, come la libertà di espressione con la tutela dell’interesse pubblico. Mentre i mondi virtuali performano la nostra realtà fisica, il code su cui girano questi mondi può prevalere sulla legge. La legge dovrà raccogliere la sfida di garantire che il code aderisca alle regole applicabili nel mondo fisico e nel cyberspazio convenzionale. In alternativa, il code può assurgere a ordinamento normativo prevalente nel metaverso, privo di qualsiasi collegamento con gli ordinamenti giuridici positivi. Un tale cambiamento vedrà gli attori privati capaci potenzialmente di esercitare un controllo sui nostri corsi di azione nel metaverso e privarci delle protezioni sviluppate dai nostri ordinamenti giuridici nel corso dei secoli. Dato che l’attività del metaverso corrisponderà a individui e aziende esistenti nel mondo fisico, il code del metaverso concorrerà con il potere normativo dei nostri ordinamenti giuridici. Le leggi esistenti non saranno sempre RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 adatte alle circostanze che si verificheranno nella virtualità e sarà necessario sviluppare una nuova legislazione. Allo stesso tempo, la regolamentazione non dovrebbe soffocare i benefici che gli ambienti di realtà mista potrebbero apportare nelle nostre vite. tenendo presente quanto sopra, il modo più efficace di regolare il comportamento nel metaverso sarà quello di garantire che gli elementi e le componenti della realtà mista soddisfino determinati standard obbligatori sui quali esiste un consenso generale. tale obiettivo richiederà la cooperazione tra le autorità di regolamentazione e le società tecnologiche. gli ordinamenti giuridici che non si adegueranno alle sfide poste dal metaverso rischieranno di essere soppiantati dalla governance del code. In definitiva, la questione potrebbe non essere più se il codice o la legge regoleranno la condotta nel metaverso, ma piuttosto se la legge dovrà allinearsi al code o essere sostituita da esso. Metaverso e medicina (15). Nel campo della medicina è nato il concetto del gemello digitale, una sorta di avatar gemello di un paziente che si alimenta da diverse fonti di dati sanitari, come immagini radiologiche, parametri personali, risultati di test di laboratorio e genetici che possono aiutare in una diagnosi. tramite tali dati, simula lo stato di salute e deduce eventuali parametri mancanti dai modelli statistici. La società Q Bio -ad esempio -è riuscita a creare un “gemello digitale” di una persona che combina genetica, chimica, anatomia, stile di vita e anamnesi della persona stessa. L’obiettivo è monitorare la salute di un paziente attraverso un modello virtuale scalabile che possa essere condiviso in modo sicuro con medici e specialisti di tutto il mondo. tale gemello digitale è stato ottenuto usando una piattaforma di “digital twin” chiamata Q Bio gemini. Il suo cuore è lo scanner self-driving Mark I che “digitalizza” l’intero corpo in 15 minuti senza emettere radiazioni e fornendo un’immagine simile a quella di una risonanza magnetica, ma in 3D. In tal modo, si ottiene un gemello digitale di tutti gli organi della persona, che possono anche essere analizzati singolarmente. Le informazioni raccolte possono adattarsi in tempo reale ai cambiamenti nell’anatomia e nella biochimica dell’individuo, perché ponderate in funzione dello stile di vita, dell’anamnesi e dei fattori di rischio genetici (16). (15) “il nostro gemello digitale ci regalerà benessere e salute”, su https://www.healthtech360.it/salute- digitale/un-gemello-digitale-per-monitorare-la-salute/. (16) Sul tema, si veda anche “il gemello digitale del corpo umano: la nuova frontiera della medicina personalizzata” su https://www.agendadigitale.eu/sanita/il-gemello-digitale-del-corpo-umanola- nuova-frontiera-della-medicina-personalizzata/. CONtRIBUtI DI DOttRINA Il metaverso potrebbe avere un ‘utilità anche nell’attivazione dei c.d. Neuroni gPS. Il prof. giuseppe Riva, professore ordinario di Psicologia generale del- l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha messo in evidenza come nel campo psicologico il c.d. “ghetto digitale” in cui i ragazzi si stanno formando attraverso “filter bubbles” (bolle informative e profilazione) porterà il loro cervello a non evolversi verso quello che i fisici chiamano “l’adiacente possibile”. Si parla a tal proposito di Cyberpsicologia che poggia sulla nozione di “neuroni luogo”o “neuroni space gPS”, scoperti dai coniugi Moser vincitori del premio Nobel della medicina nel 2014. tali neuroni si attivano quando siamo in un luogo fisico, che diventa luogo di identificazione della persona “c.d. suitas”, “Bildung del sé”, costruzione della propria identità fisica. tali neuroni gPS non si attivano quando siamo in un ambiente virtuale, come internet. Allo stesso modo la c.d. “sincronizzazione delle onde cerebrali” avviene in una realtà fisica: l’unica tecnologia che può attivare tali processi è la “realtà virtuale immersiva”. È questa la ragione per cui il metaverso avrà un notevole sviluppo, perché recupera nel mondo digitale virtuale la c.d. “fisicità”. Sembra, quasi, che il metaverso sintetizzi in sé la res extensa e la res cogitans di cui parlava Cartesio nelle “Meditazioni metafisiche” del 1641. Per cui se Cartesio affermava “cogito ergo sum”, oggi con il metaverso possiamo affermare “videor ergo sum”. grazie all’elemento della “fisicità” che il meta- verso riesce a recuperare nella dimensione digitale, secondo alcuni neurologi sarà possibile attivare facoltà cognitive perse a causa di trauma cranici. Con il trauma cranico, infatti, l’assone si stacca dal neurone che tende a morire. La realtà virtuale immersiva, se ben calibrata e strutturata per scopo terapeutici, potrebbe aiutare a recuperare le facoltà sensoriali nella zona temporale: la memoria, infatti, è legata non solo all’immagine visiva, ma anche a quella sensoriale. Da questo punto di vista, il metaverso potrebbe avere un’utilità fondamentale anche per le patologie neurodegenerative. Metaverso e reati (17). Il Metaverso potrà rappresentare un nuovo mezzo per commettere reati? Potrebbe cambiare i concetti di imputabilità e colpevolezza? Sarà uno strumento di brain enhancement? Potrà alterare la percezione delle nostre azioni? Lo scorso ottobre Mark zuckerberg annunciava il cambiamento che coinvolgeva le sue aziende: difatti l’azienda Facebook cambia il suo nome in Meta ed è da qui che si inizia a parlare di Metaverso. Il Metaverso, come si è letto in questi mesi sui giornali, è “una terza dimensione ibrida in cui l’online e offline si completano a vicenda e creano una realtà che va oltre l’immaginazione”. (17) M.E. ORLANDINI “Social network e molestie online: il metaverso come nuovo “locus commissi delicti”?”, su https://www.iusinitinere.it/metaverso-e-palpeggiamento-40977. RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 L’obiettivo del Metaverso è quello di far vivere delle esperienze coinvolgenti a quelle persone che nel mondo reale non potrebbero trovarsi nella stessa città per ragioni geografiche e soprattutto dà la possibilità a questi di vivere delle emozioni che nella realtà difficilmente potrebbero provare. Il Metaverso, invero, è un luogo al quale si accede virtualmente tramite un proprio ologramma, il quale, anche in ottica non troppo futura, permetterà altresì ai lavoratori di recarsi in ufficio e pianificare delle riunioni, rinunciando alle lungaggini e ai ritardi dovuti al traffico e ad altri mezzi di trasporto: insomma si potrà pensare ad un nuovo modo di lavorare in smart working. Seppur vero che questa nuova realtà faciliterà i rapporti umani e migliorerà, in un certo senso, lo stile di vita di alcuni di noi, non lo si può considerare un vero e proprio locus amoenus, in quanto, anche in questa nuova realtà si è visto l’insorgere di fattispecie criminali, primo tra tutti di un’ipotesi di reato p.p. ai sensi dell’art. 609 bis c.p. (le molestie sui social). Il Metaverso, purtroppo, non potrà essere considerato un’isola felice nella quale non si perfezioneranno delle fattispecie criminali. Invero, proprio ad un evento inaugurale di questo nuovo universo è stato denunciato da un’utente un palpeggiamento avvenuto dinanzi ad una platea di persone che aizzavano il palpeggiatore anziché bloccarlo. È stato, pertanto, disposto nel sistema Oculus che gli Avatar debbano essere distanti tra loro di almeno un metro. Orbene, quanto è accaduto non è troppo lontano da quanto accade nella realtà fisica, o anche detta “normale”: in tale ipotesi, tuttavia, come è noto si procederà, nel caso in cui la giurisdizione fosse italiana, ad un’incriminazione ai sensi e per gli effetti dell’art. 609 bis c.p.; nel caso che ci occupa, invece, come è possibile regolare un reato consumato in un’altra dimensione? È palmare che questa nuova dimensione abbisogna di un proprio ordinamento giuridico o, quantomeno, che consenta alle Autorità Competenti, di regolare e redimere qualsivoglia controversia che possa esservi in uno spazio non regolato dai nostri codici “tradizionali”, lo stesso zuckerberg è consapevole di questa necessità. Per ora, data la mancanza di un sistema legislativo atto a regolare il Metaverso, risulterà necessario fare riferimento ai principi del nostro codice penale letti in combinato disposto alle leggi che regolano la privacy, al fine di ottenere nell’immediato una prima tutela. tuttavia, come già suggerito da due ricercatrici della University di Washington, sarebbe opportuno ideare una “Safe zone” la quale banni l’utente “molestatore” dalla realtà virtuale, per rendere non soltanto più sicura la realtà virtuale, ma anche accessibile agli utenti senza alcuna preoccupazione che possa riguardare l’astratta possibilità di vedersi vittima di un reato. La nascita del Metaverso, si deve purtroppo ammettere, non fa altro che evidenziare le carenze del nostro sistema legislativo, il quale non ha acquisito una vera consapevolezza di quelli che possono essere le fattispecie criminali CONtRIBUtI DI DOttRINA che si perfezionano online e di cui, purtroppo, vi è ancora un vuoto legislativo. Se il nostro sistema risulta essere carente, o comunque in via di espansione per ciò che riguarda i reati come il cyberbullismo o il riciclaggio di denaro nel dark web, sicuramente dovrà velocizzare e dare una spinta legislativa volta a tutelare anche le fattispecie criminali che si perfezioneranno in questa nuova realtà (18). Il metaverso sembra rappresentare un momento di “osmosi” tra la dimensione reale e la dimensione digitale: è importante che resti fermo il principio “human loop”, affinchè la realtà immersiva non diventi uno strumento o uno scudo per compiere frodi o per commettere reati. Non esiste una tecnologia buona e una tecnologia cattiva, ma l’uso in concreto ne determina il valore Wertebegreiff. È sempre l’uomo a determinare la direzione positiva o negativa dello sviluppo tecnologico. (18) Nuovi libri usciti sul tema: g. CASSANO, B. tASSONE, “Diritto industriale e diritto d’autore nell’era digitale”, giuffré, 2022; R. gIORDANO, A. PANzAROLA, A. POLICE, S. PREzIOSI, M. PROtO (a cura di), “il diritto nell’era digitale. Persona, mercato, amministrazione, Giustizia”, giuffré, 2022. RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 La cybersicurezza nazionale: la nuova frontiera della difesa dello Stato Gaetana Natale* Difendere i confini del proprio Stato significa oggi difendere lo spazio cibernetico: il passaggio dal territorio al cloud ci impone di innalzare il livello di alert, in quanto il diffondersi delle connessioni digitali ha aumentato la c.d. superficie di attacco. Ma in che modo e con quali strumenti? Di recente sono state fornite istruzioni precise alle pubbliche amministrazioni per cambiare le soluzioni dedicate alla sicurezza degli endpoint e al firewall che venivano fornite da provider legati alla Russia, i quali potrebbero non essere in grado di fornire aggiornamenti e soluzioni a causa della guerra in Ucraina, con possibili ripercussioni sul sistema di sicurezza nazionale. Si tratta di sei best practice da attuare per evitare rischi, contenute nella circolare numero 4336 del 21 aprile 2022 dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale (1) in attuazione dell’articolo 29, comma 3 del cosiddetto Decreto Ucraina, cioè il decreto numero 21 del 21 marzo 2022. La norma prevede infatti che le PA sostituiscano i prodotti di sicurezza informatica di operatori legati alla Russia, in quanto, a causa del conflitto in corso, i provider potrebbero non aver la possibilità di “fornire servizi e aggiornamenti ai propri prodotti”, si legge nella circolare pubblicata in gazzetta Ufficiale il 26 aprile. (*) Avvocato dello Stato, Professore a contratto di Sistemi giuridici Comparati, Consigliere giuridico del garante per la Privacy. Redazione delle note a cura della Dott.ssa Anna Pagano, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato. (1) L'adozione del D.L. 14 giugno 2021, n. 82 ha ridefinito l'architettura nazionale cyber e istituito l'Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (ACN) a tutela degli interessi nazionali nel campo della cybersicurezza. L’ACN è Autorità nazionale per la cybersicurezza e assicura il coordinamento tra i soggetti pubblici coinvolti nella materia. Promuove la realizzazione di azioni comuni volte a garantire la sicurezza e la resilienza cibernetica necessarie allo sviluppo digitale del Paese. Persegue il conseguimento del- l’autonomia strategica nazionale ed europea nel settore del digitale, in sinergia con il sistema produttivo nazionale, nonché attraverso il coinvolgimento del mondo dell’università e della ricerca. Favorisce specifici percorsi formativi per lo sviluppo della forza lavoro nel settore e sostiene campagne di sensibilizzazione oltre che una diffusa cultura della cybersicurezza. Sull’istituzione dell’ACN si veda: A. MACRì, “agenzia per la cybersicurezza nazionale e PNrr” su actedmagazine.com;“agenzia per la Cybersicurezza Nazionale: cos’è e come funziona” su https://www.insic.it/privacy-e-sicurezza/informationsecurity/ al-via-lagenzia-per-la-cybersicurezza-nazionale/;“agenzia per la cybersicurezza nazionale: via libera del Governo Draghi” su https://www.ancdv.it/web/index.php?option=com_content&view=article& id=724:acn-agenzia-per-la-cybersicurezza-nazionale-via-libera-del-governodraghi& catid=114&itemid=1180;“Come cambia la sicurezza cybernetica in italia” su https://www.cybersecitalia.it/agenzia-cybersicurezza-nazionale-ecco-il-logo-sito-web-e-al-viacampagna- reclutamento-cyber-defender/15919/. CONtRIBUtI DI DOttRINA All’origine della circolare c’è un approccio risk based: sono individuate sei buone pratiche da realizzare immediatamente, ma soprattutto invita le PA ad agire sia nel controllo di quanto in esercizio che nell’acquisto di nuove tecnologie, con metodi risk based, ossia partendo sempre da una analisi del rischio. Con il Decreto Ucraina, relativo a “misure urgenti per contrastare gli effetti economici e umanitari della crisi ucraina”, il governo ha evidenziato la necessità di rafforzare le difese. In particolare, il citato comma 3 dell’articolo 29 del decreto prevede per le PA la “diversificazione dei prodotti di sicurezza informatica in uso” forniti dai provider legati alla Russia, “al fine di prevenire pregiudizi alla sicurezza delle reti, dei sistemi informativi e dei servizi informatici”. Effetti che possono essere conseguenza dell’impossibilità, da parte dei provider, di aggiornare le soluzioni o fornire i propri servizi, proprio a causa della guerra. La circolare spiega che i prodotti di cui si parla nel decreto sono quelli relativi a: - endpoint security, compresi antivirus, antimalware ed EDR -WAF -web application firewall. In particolare, vengono citati nella circolare i prodotti delle società Kaspersky Lab (2), group IB e i prodotti di Positive technologies rispettivamente nel comma 3 dell’articolo 29 alla lettera A per le prime due aziende e alla lettera B per la terza società. Le sei raccomandazioni dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale. La circolare riporta sei raccomandazioni per “adottare tutte le misure e le buone prassi di gestione di servizi informatici e del rischio cyber e, in particolare, di tenere conto di quanto definito dal Framework nazionale per la cybersecurity e la data protection, del 2019, realizzato dal Centro di ricerca di cyber intelligence and information security (CiS) dell’Università Sapienza di roma e dal Cybersecurity national lab del Consorzio interuniversitario nazionale per l’informatica (CiNi), con il supporto dell’autorità garante per la protezione dei dati personali e del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza” (3). (2) La società Kaspersky Lab, fondata in Russia nel 1997 da Eugene e Natalya Kaspersky, è divenuta famosa nel mondo per i suoi sistemi antivirus. In questo momento storico, però, con il protrarsi della guerra in Ucraina l’affidabilità di tali sistemi è stata fortemente messa in discussione per il rischio che tale società venga sfruttata per diffondere malware o spyware all’interno delle infrastrutture in cui è istallato. Sul punto si vedano i seguenti articoli: “il caso Kaspersky ci racconta come siamo in pericolo (digitale)” su https://www.panorama.it/Tecnologia/cyber-security/kaspersky-russia-spionaggio-hacker; Per una prospettiva comparata: “Caso Kaspersky: le mosse di italia, Francia e olanda a confronto” su https://www.startmag.it/innovazione/caso-kaspersky-le-mosse-di-italia-francia-e-olanda-a-confronto/; “Kaspersky e software russi via dai dispositivi della Pa italiana, la circolare dell’aCN” su https://www.corriere.it/economia/cybersecurity-aziende-privati-evento/notizie/kaspersky-software-russivia- dispositivi-pa-italiana-circolare-dell-acn-70ee28bc-c7ab-11ec-8e7f-1a021a80175d.shtml. RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 (3) Circolare del 21 aprile 2022, n. 4336. Attuazione dell'articolo 29, comma 3, del decreto-legge 21 marzo 2022, n. 21. Diversificazione di prodotti e servizi tecnologici di sicurezza informatica. (22A02611) (gU Serie generale n. 96 del 26-04-2022) su https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2022/04/26/22a02611/sg. A) Premessa. “Con il decreto-legge 21 marzo 2022, n. 21, recante «Misure urgenti per contrastare gli effetti economici e umanitari della crisi ucraina», il governo ha ritenuto, tra l'altro, la straordinaria necessità e urgenza di assicurare il rafforzamento dei presidi per la sicurezza, la difesa nazionale, le reti di comunicazione elettronica e degli approvvigionamenti di materie prime. A tale riguardo, l'art. 29, comma 1, del medesimo decreto-legge, prevede che, al fine di prevenire pregiudizi alla sicurezza delle reti, dei sistemi informativi e dei servizi informatici delle amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, derivanti dal rischio che le aziende produttrici di prodotti e servizi tecnologici di sicurezza informatica legate alla Federazione Russa non siano in grado di fornire servizi e aggiornamenti ai propri prodotti, in conseguenza della crisi in Ucraina, le medesime amministrazioni procedano tempestivamente alla diversificazione dei prodotti in uso. Più nello specifico, il medesimo art. 29, secondo il combinato disposto dei commi 1 e 3, prevede che l'individuazione dei prodotti e servizi da diversificare avvenga in relazione alle categorie indicate con circolare dell'Agenzia per la cybersicurezza nazionale tra quelle volte ad assicurare le seguenti funzioni di sicurezza: a) sicurezza dei dispositivi (endpoint security), ivi compresi applicativi antivirus, antimalware ed «endpoint detection and response» (EDR); b) «web application firewall» (WAF). La presente circolare è volta, pertanto, ad indicare le categorie di prodotti e servizi tecnologici di sicurezza informatica per le quali le pubbliche amministrazioni dovranno procedere a diversificazione ai sensi dell'art. 29, del decreto-legge n. 21 del 2022. B) Individuazione dei prodotti e servizi oggetto di diversificazione. Ai fini dell'individuazione dei prodotti e servizi tecnologici di sicurezza informatica di aziende produttrici legate alla Federazione Russa, ai sensi dell'art. 29, commi 1 e 3, del decreto-legge n. 21 del 2022, ciascuna pubblica amministrazione destinataria della presente circolare procede alla diversificazione delle seguenti categorie di prodotti e servizi tecnologici di sicurezza informatica: 1) prodotti e servizi di cui all'art. 29, comma 3, lettera a), del decreto-legge n. 21 del 2022, della società «Kaspersky Lab» e della società «group-IB», anche commercializzati tramite canale di rivendita indiretta e/o anche veicolati tramite accordi quadro o contratti quadro in modalità «on-premise» o «da remoto»; 2) prodotti e servizi di cui all'art. 29, comma 3, lettera b), del decreto-legge n. 21 del 2022, della società «Positive technologies», anche commercializzati tramite canale di rivendita indiretta e/o anche veicolati tramite accordi quadro o contratti quadro in modalità «on-premise» o «da remoto». C) Raccomandazioni procedurali. Si raccomanda alle amministrazioni destinatarie della presente circolare -responsabili nella conduzione delle operazioni di configurazione dei nuovi servizi e prodotti acquisiti ai sensi dell'art. 29 del decreto- legge n. 21 del 2022, anche in relazione alla precisa conoscenza dei propri asset (reti, sistemi informativi e servizi informatici) e degli impatti degli stessi sulla continuità dei servizi e della protezione dei dati di adottare tutte le misure e le buone prassi di gestione di servizi informatici e del rischio cyber e, in particolare, di tenere conto di quanto definito dal Framework nazionale per la cybersecurity e la data protection, edizione 2019, realizzato dal Centro di ricerca di cyber intelligence and information security (CIS) dell'Università Sapienza di Roma e dal Cybersecurity national lab del Consorzio interuniversitario nazionale per l'informatica (CINI), con il supporto dell'Autorità garante per la protezione dei dati personali e del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. In particolare, si raccomanda di: 1) censire dettagliatamente i servizi e prodotti di cui al paragrafo B) della presente circolare, analizzando gli impatti degli aggiornamenti degli stessi sull'operatività, quali i tempi di manutenzione necessari; 2) identificare e valutare i nuovi servizi e prodotti, validandone la compatibilità con i propri asset, nonché la complessità di gestione operativa delle strutture di supporto in essere; 3) definire, condividere e comunicare i piani di migrazione con tutti i soggetti interessati a titolo diretto o indiretto, quali organizzazioni interne alle amministrazioni e soggetti terzi; 4) validare le modalità di esecuzione del piano di migrazione su asset di test significativi, assicurandosi di procedere con la migrazione dei servizi e prodotti sugli asset più critici soltanto dopo la validazione di alcune migrazioni e con l'ausilio di piani di ripristino a breve termine al fine di garantire la necessaria CONtRIBUtI DI DOttRINA È da ricordare l’importanza della Convenzione di Budapest sulla criminalità informatica. Di recente il Consiglio di Europa ha adottato una decisione che autorizza gli Stati membri a firmare nell’interesse dell’UE il secondo protocollo addizionale alla Convenzione suddetta. Questo protocollo migliorerà l’accesso transfrontaliero alle “prove elettroniche” da utilizzare nei procedimenti penali. Contribuirà alla lotta contro la criminalità informatica a livello mondiale, semplificando la cooperazione tra gli Stati membri e i paesi terzi, garantendo un elevato livello di protezione delle persone e il rispetto delle norme UE in materia di protezione dei dati. Attualmente 66 paesi di cui 26 Stati membri dell’UE sono parti della Convenzione di Budapest, che, oltre a rafforzare la cooperazione diretta con i prestatori di servizi, stabilisce le c.d. procedure per la mutua assistenza giudiziaria di emergenza. Le sei best practice della Circolare: 1. Censire prodotti e servizi indicati nella circolare e analizzare “gli impatti degli aggiornamenti degli stessi sull’operatività, quali i tempi di manutenzione necessari”; 2. Individuare nuovi servizi e prodotti e farne una valutazione, considerando sia che siano compatibili con i propri asset e la “complessità di gestione operativa delle strutture di supporto in essere”; 3. Occuparsi della definizione, condivisione e comunicazione dei piani di migrazione; 4. Validare i modi per eseguire il piano di migrazione “su asset di test significativi, assicurandosi di procedere con la migrazione dei servizi e prodotti sugli asset più critici soltanto dopo la validazione di alcune migrazioni e con l’ausilio di piani di ripristino a breve termine al fine di garantire la necessaria continuità operativa”, spiega la circolare. Si chiarisce anche che il piano di migrazione “dovrà garantire che in nessun momento venga interrotta la funzione di protezione garantita dagli strumenti oggetto della diversificazione”; 5. Condurre analisi e validazione delle funzioni e integrazioni dei nuovi continuità operativa. Il piano di migrazione dovrà garantire che in nessun momento venga interrotta la funzione di protezione garantita dagli strumenti oggetto della diversificazione; 5) analizzare e validare le funzionalità e integrazioni dei nuovi servizi e prodotti, assicurando l'applicazione di regole e configurazioni di sicurezza proporzionate a scenari di rischio elevati (quali, ad esempio, autenticazione multi-fattore per tutti gli accessi privilegiati, attivazione dei soli servizi e funzioni strettamente necessari, adozione di principi di «zero-trust»); 6) assicurare adeguato monitoraggio e audit dei nuovi prodotti e servizi, prevendendo adeguato supporto per l'aggiornamento e la revisione delle configurazioni in linea. Nella predisposizione, migrazione e gestione dei nuovi prodotti e servizi, si raccomanda l'adozione di principi trasversali di indirizzo, quali a titolo esemplificativo quello della «gestione del rischio», in termini di identificazione, valutazione e mitigazione dei rischi di diversa fattispecie che concorrono nel- l'attuazione della diversificazione dei servizi. Infine, si raccomanda alle amministrazioni di controllare costantemente i canali istituzionali di comunicazione dell'Agenzia per la cybersicurezza nazionale https://www.acn.gov.it/ e https://csirt.gov”. RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 prodotti e servizi scelti, “assicurando l’applicazione di regole e configurazioni di sicurezza proporzionate a scenari di rischio elevati”. tra questi rientrano autenticazione multi fattore per ogni accesso privilegiato, attivare solo funzioni necessarie e adottare principi di zero-trust; 6. garantire monitoraggio e audit dei nuovi prodotti, con la previsione di un adeguato sostegno per gli aggiornamenti e le revisioni delle configurazioni. Considerando questi consigli si deduce che l’analisi del rischio è la metodologia base di una postura consapevole e pronta rispetto alla minaccia cyber. Ormai tutte le metodologie sposate dalle amministrazioni occidentali partono dalla analisi del rischio. L’Europa è profondamente consapevole di questo e si sta muovendo in tal senso in tutte le proposte di nuove direttive (come la NIS 2 e la CER). La postura cyber sicura è prima di tutto una postura risk based basata sulla c.d. awarness, consapevolezza delle potenzialità di attacco. Il ruolo dell’Agenzia di cybersicurezza nazionale. Stiamo vivendo un momento storico senza precedenti, in cui ci troviamo per la prima volta a dover agire tempestivamente per arginare un rischio cyber importante legato ad una crisi geo politica in atto. Emerge, quindi, non solo l’importanza di avere un ente deputato alla gestione del tema, l’Agenzia di cybersicurezza nazionale guidata dalla figura autorevole del prof. Baldoni, ma anche la sua efficacia. Questa circolare chiarisce in modo inequivocabile i prodotti già valutati dall’Agenzia, nell’ottica delle raccomandazioni fornite dallo CSIRt Italia prima e dal Decreto legislativo 21/22, così come chiesto da diverse organizzazioni. Vengono inoltre fornite precise indicazioni sul come procedere alla diversificazione dei prodotti e servizi informatici. L’impatto del contesto politico. Per comprendere la rilevanza delle decisioni in questo ambito, è importante considerare il contesto geo politico attuale. La decisione dell’Agenzia è motivata dal fatto che nell’ottica di rafforzamento della postura di sicurezza informatica nazionale è necessario mitigare il rischio derivante dall’indisponibilità di prodotti e servizi tecnologici forniti da aziende di sicurezza informatica legate alla Federazione Russa (4). Nella circolare si evidenzia come (4) La guerra in Ucraina non è infatti solo una guerra sul campo ma passa anche attraverso attacchi cyber tanto da definire questa come una guerra cybernetica. Basti pensare al fatto che i primi attacchi hacker al sistema ucraino sono avvenuti intorno al 13 gennaio, più di un mese prima dell’inizio ufficiale della guerra. Per rispondere a tali attacchi, in seguito il gruppo Anonymous ha dato vita ad una serie di hackeraggi effettuati a vari siti governativi nonché alla Banca Centrale della Federazione Russa. Il famoso gruppo non è l’unico a combattere contro la Russia ma ce ne sono anche altri come il gruppo polacco Squad303 e il bielorusso Cyber Partisan, oppositore del Presidente Lukashenko. Per un approfondimento si veda: https://www.repubblica.it/esteri/2022/03/24/news/anonymous_e_la_guerra_ci CONtRIBUtI DI DOttRINA queste aziende possano non essere in grado di fornire servizi e aggiornamenti ai propri prodotti. In un contesto internazionale come quello attuale caratterizzato da notevoli tensioni geopolitiche è fondamentale distinguere la decisione politica da quella tecnologica e acquisire la consapevolezza del livello di rischio di un attacco informatico di tipo DDos (Denial of Service), elemento attivo di minaccia concreta alle istituzioni e infrastrutture critiche. Bisogna prestare massima attenzione anche alla dimensione digitale dei conflitti prima che sfocino in veri e propri casus belli: una sorta di attentato di Sarajevo digitale. Si vis pacem para bellum significa oggi potenziare la c.d. “robustezza” della sicurezza digitale. La circolare della ACN evidenzia la necessità di affrontare il rischio del- l'attacco informatico: è significativo osservare che la circolare suddetta non qualifica il rischio di utilizzo degli stessi servizi e prodotti come vettore di attacco, bensì mette in luce la loro indisponibilità legata al conflitto. Prevale un'impostazione condivisibile non belligerante, ma tesa a garantire la sicurezza dei sistemi informatici preposti all'erogazione dei servizi pubblici essenziali del paese. La circolare emanata dall’ACN rafforza il concetto di sovranità tecnologica nazionale e della necessità nel tempo di rendere le nostre infrastrutture critiche indipendenti dalle tecnologie straniere (5). Altro aspetto cruciale è la capacità di qualifica di sistemi hardware e software che importiamo. Dobbiamo sviluppare una capacità di analisi tale da rendere ragionevolmente sicura l’adozione di queste soluzioni da parte delle nostre imprese e della pubblica amministrazione (6). bernetica_in_ucraina_domande_e_risposte_per_capire_gli_attacchi_degli_hacker-342704238/; https://www.cybersecurity360.it/nuove-minacce/guerra-cibernetica-gli-impatti-del-conflitto-russia-ucrainae- il-contrattacco-di-anonymous/; https://www.wired.it/article/ucraina-russia-guerra-ransomware-conti/ ;https://www.redhotcyber.com/post/la-cybergang-russa-oldgremlin-attacca-le-aziende-russe/ ; https://www.huffingtonpost.it/esteri/2022/04/27/news/ucraina_microsoft_da_hacker_russi_ondata_di_cyber _attacchi-9276132/. (5) Nel decreto legislativo attualmente in discussione, l’ACN viene individuata come autorità nazionale di certificazione di cyber security di prodotto al fine di adeguare il sistema nazionale al quadro europeo (https://www.cybersecurity360.it/outlook/certificazioni-di-cyber-security-il-futuro-nel-decretoin- arrivo/). (6) Ciò è necessario soprattutto alla luce dei molteplici attacchi informatici subiti da aziende pubbliche e private nei campi più disparati. Da ultimo, si segnala il recentissimo attacco cyber avvenuto a diversi siti italiani tra i quali, il sito istituzionale del Senato, della Difesa, della Scuola alti studi di Lucca, l’Istituto superiore di Sanità, da parte del gruppo russo Killnet (https://www.rainews.it/articoli/2022/05/attacco- hacker-ai-siti-di-senato-e-difesa-rivendicato-dal-gruppo-russo-killnet-e8495f90-7a5f-44bb-8512bb63c4b39e5d. html). Invece, nella notte tra il 30 aprile e il 1 maggio 2022 i sistemi informatici dell’Ospedale Fatebenefratelli Sacco di Milano sono stati vittima di un attacco haker che ha provocato notevoli disservizi che incidono inevitabilmente sulle cure dei pazienti (https://www.cybersecurity360.it/nuove-minacce/ransomware/ attacco-informatico-allasst-fatebenefratelli-sacco-di-milano-potrebbe-essere-un-ransomware/; https://quifinanza.it/innovazione/video/ospedali-in-tilt-nuovo-attacco-hacker-colpisce-italia-cosasappiamo/ 646091/ ). Le strutture sanitarie sono quelle più al rischio perché sempre più sotto il mirino degli attacchi hacker, basti pensare all’attacco di tipo ransomware subito nel 2021 dal sistema sanitario irlandese o da quello neozelandese o quelli avvenuti in ospedali americani (https://www.lastampa.it/cro RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 Secondo eu-Lisa (Agenzia europea per la gestione operativa dei sistemi It su larga scala nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia) che ha sede a tallin (7) è importante una mappatura delle infrastrutture critiche con un’attività di prevenzione per attuare il c.d. “disaster recovery” con cloud nazionale “robusto” dal punto di vista della sicurezza nazionale. Sono determinanti il c.d. controll vulnerabilities e i sistemi di notification, perché molto spesso gli atti informatici sono silenziosi e non facilmente individuabili (8). Un attacco informatico può spesso determinare un effetto spill-over su altri computer portando ad un completo blocco di tutti i sistemi informatici con danni inestimabili. Ecco perché si sta definendo la figura del cibersecurity specialist, figura inizialmente sviluppatasi in Israele con competenze trasversali volta a prevenire incidenti ed attacchi informatici che possono determinare un arresto improvviso di tutti i servizi essenziali di un paese. Il controllo del mondo digitale è determinante per la sicurezza di un paese: di questo il governo italiano è pienaca/ 2021/05/14/news/irlanda-attacco-hacker-al-sistema-sanitario-1.40270603/ ; https://www.wired.it/internet/ web/2021/05/25/ospedali-hacker-nuova-zelanda-irlanda-ransomware/; https://www.cybersecurity360. it/nuove-minacce/ransomware/irlanda-attacco-ransomware-al-sistema-sanitario-cosa-imparare-a ncora-dalle-lezioni-del-passato/ ). gli attacchi perlopiù si sostanziano in attacchi ransomware che si caratterizzano per la scansione dei file importanti e per un processo di crittografia avanzato non reversibile, paralizzando un'organizzazione più velocemente di altre applicazioni dannose. In Italia, attacchi di questo tipo hanno riguardato enti come la Regione Lazio i cui sistemi informatici hanno riportato non pochi danni data l’interruzione dei servizi che ne è conseguita per quasi un mese (https://www.pandasecurity.com/it/mediacenter/sicurezza/attacco-regione-lazio/, https://www.cybersecurity360. it/nuove-minacce/regione-lazio-vaccini-bloccati-poco-pronta-contro-il-ranwomare-ecco-perche/); ma anche le Ferrovie dello Stato che nel mese di marzo 2022 ha rilevato, durante i controlli di sicurezza giornalieri, elementi che riconducono ad un attacco di crytolocker. FS ha poi deciso in via precauzionale di disattivare alcune utenze dei sistemi di vendita fisici, tutti i sistemi di self service utilizzati nelle varie stazioni, mentre è rimasta attiva la vendita online (https://www.insic.it/privacy-e-sicurezza/informationsecurity/ attacco-hacker-alle-ferrovie-dello-stato-tutti-i-dettagli/). Sempre con riguardo agli attacchi ransomware, un nuovo gruppo di questo tipo, ribattezzato Black Basta e già noto per aver recentemente preso di mira l’American Dental Association (ADA), è arrivato anche in Italia. Si tratta di un malware che ruba i dati delle vittime e li cripta sfruttando servizi leciti di Windows (https://www.cybersecurity360. it/nuove-minacce/ransomware/black-basta-il-ransomware-che-sfrutta-i-servizi-di-windows-percriptare- i-dati-i-dettagli/ ). Ad esser presa di mira dagli attacchi cybernetici sono anche società private come la Coca-Cola, la quale è stata vittima di un attacco in cui sono stati sottratti 161 gB di dati, poi messi in vendita per 1,65 bitcoin (https://sicurezza.net/cyber-security/coca-cola-stormous-ruba-161gbdi- dati/#gref ). Il governo degli Stati Uniti, per cercare di far fronte “all’emergenza hacker”, ha deciso di istituire una taglia di 10 milioni di dollari per coloro i quali siano in grado di fornire informazioni che possano portare alla cattura o quanto meno all’identificazione del famoso gruppo hacker Conti. (https://www.computermagazine.it/2022/05/10/conti-il-gruppo-hacker-ha-le-ore-contate-taglia-di-10milioni- di-dollari-dal-governo-usa/). (7) Il gruppo Leonardo ha vinto il contratto per gestire la sicurezza delle infrastrutture It e delle sedi della struttura eu-Lisa. L'accordo, della durata di cinque anni, prevede servizi di cyber security integrati erogati da specialisti di Leonardo a protezione di tutte le sedi di eu-Lisa (https://www.milanofinanza. it/news/a-leonardo-la-cyber-security-dell-agenzia-europea-lisa-202205060939498036). (8) Sotto l’aspetto della sicurezza delle aziende sono rilevanti anche i sistemi VPN. tuttavia, sono state messe in luce alcune criticità che possono rilevare alcuni elementi di vulnerabilità. Sul punto: “VPN e se la sicurezza fosse apparente?”(https://www.cybersecurity360.it/outlook/vpn-e-se-la-sicurezza-fosseapparente- ecco-la-soluzione/). CONtRIBUtI DI DOttRINA namente consapevole, avendo previsto il sistema del golden power (con obbligatorietà della notifica al governo) per tutte le imprese straniere che manifestino la propria volontà di acquisire partecipazioni azionarie in società italiane coinvolte nella realizzazione del 5 g. Friedrich Nietzsche parlava di Wille zur Macht per indicare la cieca tendenza degli organismi a espandersi a detrimento del circostante, nonché la necessità di dominare, occupare, sottomettere. Oggi tale desiderio di dominio avviene nello spazio cibernetico: occorrono competenze, consapevolezza e strategie per realizzare un sistema di sicurezza nazionale che ci metta al riparo da attacchi informatici insidiosi e pericolosi: è la nuova frontiera della difesa digitale dei nostri sistemi democratici. RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 il governo delle spese nel processo tributario Isabella Vitiello* Sommario: 1. regolamento delle spese in generale -2. C.d. spese di giustizia e prenotazione a debito -3. C.d. spese legali -4. La regolazione delle spese processuali secondo la disciplina antecedente al D.L.vo 31 dicembre 1992, n. 546 -5. La regolazione vigente delle spese processuali -6. il principio di soccombenza nel governo delle spese -7. Compensazione delle spese -8. Governo delle spese nel caso di estinzione del processo -9. Governo delle spese nelle controversie di cui all’art. 17 bis D.L.vo n. 546/1992 (il reclamo e la mediazione) -10. Governo delle spese nel caso di tentativo di conciliazione andato a vuoto e nel caso di intervenuta conciliazione -11. Eterointegrazione nella disciplina delle spese -12. Governo delle spese collegato alla violazione delle regole redazionali degli atti processuali -13. ammontare delle spese legali - 4. Conclusioni. 1. regolamento delle spese in generale. Il processo tributario, come ogni altro, comporta una serie di spese afferenti al compimento di atti processuali (bollo, diritti, notifiche, Ctu, ecc.), c.d. spese di giustizia, e al pagamento degli onorari dei difensori e dei loro ausiliari, c.d. spese legali (1). Sia le spese correlate all’accesso al servizio giustizia (c.d. spese di giustizia), sia quelle connesse alla prestazione d’opera professionale erogata dal difensore (c.d. spese legali) fanno carico inizialmente, quale anticipazione, alla parte che le ha determinate, salve le norme sul gratuito patrocinio (2). Nel caso di intervento di terzi per ordine del giudice, sia di sua iniziativa che su istanza di parte, le relative spese vanno rimborsate a cura della parte soccombente, ove si accerti che essa -con il suo atteggiamento processuale e con le sue eccezioni in seguito respinte -abbia reso necessaria l’integrazione del contraddittorio in questione. (*) Funzionario dell’Agenzia delle Entrate. Le considerazioni espresse nel presente studio rappresentano il pensiero dell’Autrice e non necessariamente quello della Amm.ne presso la quale presta servizio. (1) tanto trova conferma nell’art. 15, comma 2 ter D.L.vo 31 dicembre 1992, n. 546, recante “Disposizioni sul processo tributario”, secondo cui “Le spese di giudizio comprendono, oltre al contributo unificato, gli onorari e i diritti del difensore, le spese generali e gli esborsi sostenuti, oltre il contributo previdenziale e l'imposta sul valore aggiunto, se dovuti”. (2) giusta l’art. 8 D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, avente ad oggetto il “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia”, “1. Ciascuna parte provvede alle spese degli atti processuali che compie e di quelli che chiede e le anticipa per gli atti necessari al processo quando l'anticipazione è posta a suo carico dalla legge o dal magistrato. 2. Se la parte è ammessa al patrocinio a spese dello Stato, le spese sono anticipate dall'erario o prenotate a debito, secondo le previsioni della parte iii del presente testo unico”. CONtRIBUtI DI DOttRINA 2. C.d. spese di giustizia e prenotazione a debito. Le c.d. spese di giustizia consistono nel pagamento del contributo unificato. Questo ha natura tributaria (3) e costituisce un onere in capo alla parte che chiede l’accesso al servizio (rectius: funzione) giustizia. L’attuale regolamentazione dello stesso è contenuta nel D.P.R. n. 115/2002. La parte che deposita il ricorso -sia principale che incidentale, tanto nei due gradi di merito quanto nel giudizio di legittimità -è tenuta al pagamento contestuale del contributo unificato (art. 14, commi 1 e 3, D.P.R. n. 115/2002). L’ammontare degli importi nei due gradi di merito è indicato nell’art. 13, comma 6 quater, D.P.R. n. 115/2002, il quale così dispone: “Per i ricorsi principale ed incidentale proposti avanti le Commissioni tributarie provinciali e regionali è dovuto il contributo unificato nei seguenti importi: a) euro 30 per controversie di valore fino a euro 2.582,28; b) euro 60 per controversie di valore superiore a euro 2.582,28 e fino a euro 5.000; c) euro 120 per controversie di valore superiore a euro 5.000 e fino a euro 25.000 e per le controversie tributarie di valore indeterminabile; d) euro 250 per controversie di valore superiore a euro 25.000 e fino a euro 75.000; e) euro 500 per controversie di valore superiore a euro 75.000 e fino a euro 200.000; f) euro 1.500 per controversie di valore superiore a euro 200.000” (4). (3) La Corte costituzionale, con la decisione 11 febbraio 2005, n. 73, ha affermato la natura di “entrata tributaria erariale” del contributo unificato, che si desume, “indipendentemente dal nomen iuris utilizzato dalla normativa che lo disciplina: a) dalla circostanza che esso è stato istituito in forza: di legge a fini di semplificazione e in sostituzione di tributi erariali gravanti anch'essi su procedimenti giurisdizionali, quali l'imposta di bollo e la tassa di iscrizione a ruolo, oltre che dei diritti di cancelleria e di chiamata in causa dell'ufficiale giudiziario (art. 9, commi 1 e 2, della legge n. 488 del 1999); b) dalla conseguente applicazione al contributo unificato delle stesse esenzioni previste dalla precedente legislazione per i tributi sostituiti e per l'imposta di registro sui medesimi procedimenti giurisdizionali (comma 8 dello stesso art. 9); c) dalla sua espressa configurazione quale prelievo coattivo volto al finanziamento delle «spese degli atti giudiziari» (rubrica del citato art. 9); d) dal fatto, infine, che esso, ancorché connesso alla fruizione del servizio giudiziario, è commisurato forfetariamente al valore del processi (comma 2 dell'art. 9 e tabella 1 allegata alla legge) e non al costo del servizio reso od al valore della prestazione erogata. il contributo ha, pertanto, le caratteristiche essenziali del tributo e cioè la doverosità della prestazione e il collegamento di questa ad una pubblica spesa, quale è quella per il servizio giudiziario (analogamente si sono espresse, quanto alle caratteristiche dei tributi, le sentenze n. 26 del 1982, n. 63 del 1990, n. 1 del 1995, n. 11 del 1995 e n. 37 del 1997), con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante”. La natura di entrata tributaria del contributo unificato è stata ribadita da Cass. S.U., sentenza 5 maggio 2011, n. 9840, secondo cui “Da tale qualificazione discende che conoscere della domanda proposta dal- l'attuale ricorrente, rientra nella giurisdizione del giudice tributario in base al decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, art. 2, comma 1, e art. 19 lettera d). Le questioni di nullità sollevate con la domanda attengono infatti non ad atti dell’esecuzione forzata esattoriale, ma ad atti inerenti alla fase della riscossione, il controllo della cui legittimità, quando riguardino tributi, spetta al giudice tributario”. (4) Il comma 3 bis dell’art. 13, D.P.R. n. 115/2002 statuisce inoltre che “ove il difensore non indichi il proprio numero di fax ai sensi dell'articolo 125, primo comma, del codice di procedura civile e il proprio indirizzo di posta elettronica certificata ai sensi dell'articolo 16, comma 1-bis, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, ovvero qualora la parte ometta di indicare il codice fiscale nell'atto introduttivo del giudizio o, per il processo tributario, nel ricorso il contributo unificato è aumentato della metà”. RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 Il contributo di cui al comma 6 quater è raddoppiato per i processi dinanzi alla Corte di cassazione (artt. 13, comma 1 bis e 261 D.P.R. n. 115/2002). Il valore della lite, giusta l’art. 14, comma 3 bis, D.P.R. n. 115/2002 -deve risultare da apposita dichiarazione resa dalla parte nelle conclusioni del ricorso, anche nell'ipotesi di prenotazione a debito; -è determinato, per ciascun atto impugnato anche in appello, ai sensi del comma 2 dell'articolo 12 del D.L.vo 31 dicembre 1992, n. 546, secondo cui “Per valore della lite si intende l'importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate con l'atto impugnato; in caso di controversie relative esclusivamente alle irrogazioni di sanzioni, il valore è costituito dalla somma di queste”. Va precisato che allorché parte in giudizio è una Amministrazione dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, opera la prenotazione a debito delle spese di giudizio regolata dall’art. 158 D.P.R. n. 115/2002 (5). Viene in rilievo l’annotazione a futura memoria di una voce di spesa, per la quale non vi è il pagamento, ai fini dell’eventuale successivo recupero. Si tratta in genere di imposte, tasse e tributi vari, ma non solo, che, nei casi espressamente previsti dalla legge, lo Stato non percepisce immediatamente, ma si limita ad annotare (non avendo senso un’anticipazione in favore di sé stesso) ai fini dell’eventuale successivo recupero (6). Ossia: se nella controversia lo Stato risulterà vincitore, si procederà al recupero nei confronti della controparte; se nella controversia lo Stato risulterà soccombente, si procederà al definitivo annullamento. Beneficiano di tale disciplina -da interpretare in senso restrittivo, in quanto derogatoria della regola generale del pagamento del contributo unificato -le Amministrazione dello Stato, anche ad ordinamento autonomo. Ossia: -Presidenza Consiglio dei ministri e organi alla stessa riconducibili, come gli organi delegati dell'Amministrazione centrale dello Stato quali i Commissari delegati in materia di protezione civile ex art. 25, comma 7, D.L.vo 2 gennaio 2018 n. 1 ed i Commissari Straordinari del governo ex art. 11 1. 23 agosto 1988, n. 400; - Ministeri; -Amministrazioni dello Stato organizzate con ordinamento autonomo, (5) “1. Nel processo in cui è parte l'amministrazione pubblica, sono prenotati a debito, se a carico dell'amministrazione: a) il contributo unificato nel processo civile, nel processo amministrativo e nel processo tributario; b) l'imposta di bollo nel processo contabile; c) l'imposta di registro ai sensi del- l'articolo 59, comma 1, lettere a) e b), del decreto del Presidente della repubblica 26 aprile 1986, n. 131, nel processo civile e amministrativo; d) l'imposta ipotecaria e catastale ai sensi dell'articolo 16, comma 1, lettera e), del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347; e) le spese forfettizzate per le notificazioni a richiesta d'ufficio nel processo civile. 2. Sono anticipate dall'erario le indennità di trasferta o le spese di spedizione degli ufficiali giudiziari per le notificazioni e gli atti di esecuzione a richiesta dell'amministrazione. 3. Le spese prenotate a debito e anticipate dall'erario sono recuperate dall'amministrazione, insieme alle altre spese anticipate, in caso di condanna dell'altra parte alla rifusione delle spese in proprio favore”. (6) Così: A. BRUNI, g. PALAtIELLO, La difesa dello Stato nel processo, UtEt giuridica, 2011, p. 194. CONtRIBUtI DI DOttRINA come il Fondo edifici di culto (artt. 56 e ss. L. 20 maggio 1985, n. 222), i Conservatori di musica (L. 21 dicembre 1999, n. 508) e, soprattutto, le Istituzioni scolastiche (Istituti e Scuole Statali). Alle Istituzioni scolastiche è stata attribuita, in virtù dell'articolo 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59, l'autonomia e la personalità giuridica; tali enti, tuttavia costituiscono altresì organi dello Stato atteso che sono compenetrati nell'Amministrazione dello Stato (7); -Agenzie fiscali (Agenzia delle entrate, Agenzia delle dogane e Agenzia del demanio) (8). 3. C.d. spese legali. Le spese legali costituiscono la remunerazione per l’attività professionale prestata per la difesa della parte. giusta l’art. 24, comma 2, Cost. “La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”. Chi intende agire o resistere in giudizio ha l’onere di avvalersi di un difensore. tanto a mezzo della stipulazione di un contratto d’opera professionale (artt. 2222-2238 c.c.) oppure, nel caso dei non abbienti, in virtù di provvedimenti attributivi del patrocinio a spese dello Stato (secondo la disciplina contenuta negli artt. 137-139 D.P.R. n. 115/2002). Per gli enti impositori (“l'ufficio dell'agenzia delle entrate e dell'agenzia delle dogane e dei monopoli di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, gli altri enti impositori, l'agente della riscossione ed i soggetti iscritti nell'albo di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446”: così l’art. 10 D.L.vo n. 546/1992) vi è una normativa speciale, che faculta anche la difesa personale con un peculiare regime circa le spese legali, contenuta nell’art. 11, commi 2 e 3, D.L.vo n. 546/1992 secondo cui “L'ufficio dell'agenzia delle entrate e dell'agenzia delle dogane e dei monopoli di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 nonché dell'agente della riscossione, nei cui confronti è proposto il ricorso, sta in giudizio direttamente o mediante la struttura territoriale sovraordinata. Stanno altresì in giudizio direttamente le cancellerie o segreterie degli uffici giudiziari per il contenzioso in materia di contributo unificato. L'ente locale nei cui confronti è proposto il ricorso può stare in giudizio anche mediante il dirigente dell'ufficio tributi, ovvero, per gli enti locali privi di figura dirigenziale, mediante il titolare della posizione organizzativa in cui è collocato detto ufficio”. Inoltre, le Agenzie delle entrate, delle dogane e dei monopoli di cui al D.L.vo 30 luglio 1999, n. 300, possono essere assistite -nei due giudizi di merito -dall'Avvocatura dello Stato (così l’art. 12, comma 8, D.L.vo n. 546/1992, in raccordo all’art. 72 (7) Conf. Cass., 13 luglio 2004, n. 12977; Cons. Stato, 27 novembre 2019, n. 808. (8) Art. 12, comma 5, D.L. 2 marzo 2012, n. 16, conv. L. 26 aprile 2012, n. 44: “Le disposizioni di cui all'articolo 158 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della repubblica 30 maggio 2002, n. 115, si applicano alle agenzie fiscali delle entrate, delle dogane, del territorio e del demanio”. RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 D.L.vo n. 300/1999 secondo cui “Le agenzie fiscali possono avvalersi del patrocinio dell'avvocatura dello Stato, ai sensi dell'articolo 43 del testo unico approvato con regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, e successive modificazioni”); assistenza che è necessaria, secondo la disciplina dell’art. 43 R.D. n. 1611/1933, nel giudizio di legittimità. La parametrazione del compenso viene fissata, giusta la normativa in materia, da un regolamento ministeriale (9). La remunerazione del difensore comprende l’onorario, le spese vive documentate ed altresì un rimborso forfettario del 15% per le spese generali. 4. La regolazione delle spese processuali secondo la disciplina antecedente al D.L.vo 31 dicembre 1992, n. 546. Nella normativa previgente al D.L.vo n. 546/1992 -contenuta nel D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 avente ad oggetto “revisione della disciplina del contenzioso tributario” -era previsto che “al procedimento dinanzi alle commissioni tributarie si applicano, in quanto compatibili con le norme del presente decreto e delle leggi che disciplinano le singole imposte, le norme contenute nel libro i del codice di procedura civile, con esclusione degli articoli da 61 a 67, dell'art. 68, primo e secondo comma, degli articoli da 90 a 97” (art. 39, comma 1, D.P.R. n. 636/1972, anche dopo la novella operata con l'art. 1, L. 22 maggio 1989, n. 198; sottolineatura aggiunta). testualmente -nel difetto di una espressa disciplina, confermata da una espressa esclusione dell’applicazione degli articoli del codice di rito civile non operava il governo delle spese nel processo tributario. tanto, deve ritenersi, per l’assenza dell’obbligo della assistenza tecnica in giudizio in uno alle incertezze ed ambiguità illo tempore sulla natura giurisdizionale o amministrativa delle Commissioni tributarie. 5. La regolazione vigente delle spese processuali. tra le disposizioni generali sul processo tributario, contenute nel D.L.vo 31 dicembre 1992, n. 546, vi è l’art. 15 (significativamente novellato nel 2015), avente ad oggetto la regolazione delle spese di giudizio, il quale così dispone: “1. La parte soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio che sono liquidate con la sentenza. 2. Le spese di giudizio possono essere compensate in tutto o in parte dalla commissione tributaria soltanto in caso di soccombenza reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate. (9) All’attualità: Decreto 10 marzo 2014, n. 55 contenente il “regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense, ai sensi dell'articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247”. CONtRIBUtI DI DOttRINA 2-bis. Si applicano le disposizioni di cui all'articolo 96, commi primo e terzo, del codice di procedura civile. 2-ter. Le spese di giudizio comprendono, oltre al contributo unificato, gli onorari e i diritti del difensore, le spese generali e gli esborsi sostenuti, oltre il contributo previdenziale e l'imposta sul valore aggiunto, se dovuti. 2-quater. Con l'ordinanza che decide sulle istanze cautelari la commissione provvede sulle spese della relativa fase. La pronuncia sulle spese conserva efficacia anche dopo il provvedimento che definisce il giudizio, salvo diversa statuizione espressa nella sentenza di merito. 2-quinquies. i compensi agli incaricati dell'assistenza tecnica sono liquidati sulla base dei parametri previsti per le singole categorie professionali. agli iscritti negli elenchi di cui all'articolo 12, comma 4, si applicano i parametri previsti per i dottori commercialisti e gli esperti contabili. 2-sexies. Nella liquidazione delle spese a favore dell'ente impositore, del- l'agente della riscossione e dei soggetti iscritti nell'albo di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, se assistiti da propri funzionari, si applicano le disposizioni per la liquidazione del compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del venti per cento dell'importo complessivo ivi previsto. La riscossione avviene mediante iscrizione a ruolo a titolo definitivo dopo il passaggio in giudicato della sentenza. 2-septies. Nelle controversie di cui all'articolo 17-bis le spese di giudizio di cui al comma 1 sono maggiorate del 50 per cento a titolo di rimborso delle maggiori spese del procedimento. 2-octies. Qualora una delle parti abbia formulato una proposta conciliativa, non accettata dall'altra parte senza giustificato motivo, restano a carico di quest'ultima le spese del processo ove il riconoscimento delle sue pretese risulti inferiore al contenuto della proposta ad essa effettuata. Se è intervenuta conciliazione le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione”. All’evidenza la disciplina dell’art. 15 citato richiama, testualmente o con recezione del contenuto, la disciplina contenuta nel codice di rito civile (10). La disposizione costituisce trama coerente con la necessità della assi (10) Sulla materia delle spese nel processo tributario: V. BARtOLI, F. PODDIgHE, La disciplina delle spese nel processo tributario, in Fisco, 2000, 27, pp. 8970 e ss.; A. ROSSI, Condanna al pagamento delle spese di giudizio nel contenzioso tributario, in Fisco, 2001, 38, pp. 12503 e ss.; F. RUSSO, Le spese processuali nel processo tributario, in Fisco, 2009, 12 -parte 1, pp. 1898 e ss.; M. SCUFFI, regolamentazione e liquidazione delle spese nel giudizio tributario, in Fisco, 2013, 3 -parte 1, pp. 363 e ss.; A. RUSSO, revisione delle spese di lite nel processo tributario, in Fisco, 2015, 44, pp. 4231 e ss.; M. LUPANO, Spese nel processo tributario -compensazione delle spese nel processo tributario, in Giur. it., 2018, 3, pp. 625 e ss.; F. CORDA, Le spese giudiziali nel processo tributario, in Dir. e Prat. Trib., 2018, 4, pp. 1539 e ss. RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 stenza tecnica in giudizio come regolata dall’art. 12 D.L.vo n. 546/1992 (11), in uno con la consapevolezza della natura giurisdizionale delle Commissioni tributarie. Si ricorda, infatti, che le Commissioni tributarie sono organi preesistenti alla Costituzione dalla originaria dubbia natura giuridica; successivamente si è consolidata la tesi della natura di giudice speciale delle stesse. Il giudice deve pronunciare d’ufficio sulle spese. Nel caso in cui il giudizio sia dichiarato estinto per cessazione della materia del contendere (12), permanendo tra le parti un contrasto circa l’onere delle spese, il giudice deve procedere ai necessari accertamenti sulla fondatezza delle domande e delle eccezioni delle parti medesime, al fine di stabilire quale sarebbe stata l’incidenza della soccombenza (c.d. soccombenza virtuale) se il giudizio fosse stato definito con pronuncia di merito, decidendo così sulle spese. (11) “1. Le parti, diverse dagli enti impositori, dagli agenti della riscossione e dai soggetti iscritti nell'albo di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, devono essere assistite in giudizio da un difensore abilitato. 2. Per le controversie di valore fino a tremila euro le parti possono stare in giudizio senza assistenza tecnica. Per valore della lite si intende l'importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate con l'atto impugnato; in caso di controversie relative esclusivamente alle irrogazioni di sanzioni, il valore è costituito dalla somma di queste. 3. Sono abilitati all'assistenza tecnica, se iscritti nei relativi albi professionali o nell'elenco di cui al comma 4: a) gli avvocati; b) i soggetti iscritti nella Sezione a commercialisti dell'albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili; c) i consulenti del lavoro; […] 5. Per le controversie di cui all'articolo 2, comma 2, primo periodo, sono anche abilitati all'assistenza tecnica, se iscritti nei relativi albi professionali: a) gli ingegneri; b) gli architetti; c) i geometri; d) i periti industriali; e) i dottori agronomi e forestali; f) gli agrotecnici; g) i periti agrari. 6. Per le controversie relative ai tributi doganali sono anche abilitati all'assistenza tecnica gli spedizionieri doganali iscritti nell'apposito albo. 7. ai difensori di cui ai commi da 1 a 6 deve essere conferito l'incarico con atto pubblico o con scrittura privata autenticata od anche in calce o a margine di un atto del processo, nel qual caso la sottoscrizione autografa è certificata dallo stesso incaricato. all'udienza pubblica l'incarico può essere conferito oralmente e se ne dà atto a verbale. 8. Le agenzie delle entrate, delle dogane e dei monopoli di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, possono essere assistite dall'avvocatura dello Stato. 9. i soggetti in possesso dei requisiti richiesti nei commi 3, 5 e 6 possono stare in giudizio personalmente, ferme restando le limitazioni all'oggetto della loro attività previste nei medesimi commi. 10. Si applica l'articolo 182 del codice di procedura civile ed i relativi provvedimenti sono emessi dal presidente della commissione o della sezione o dal collegio”. (12) Art. 46 D.L.vo n. 546/1992 (Estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere): “1. il giudizio si estingue, in tutto o in parte, nei casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge e in ogni altro caso di cessazione della materia del contendere. 2. La cessazione della materia del contendere è dichiarata con decreto del presidente o con sentenza della commissione. il provvedimento presidenziale è reclamabile a norma dell'art. 28. 3. Nei casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge le spese del giudizio estinto restano a carico della parte che le ha anticipate”. CONtRIBUtI DI DOttRINA 6. il principio di soccombenza nel governo delle spese. Il comma 1 del citato art. 15 -secondo cui “La parte soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio che sono liquidate con la sentenza” -itera i contenuti dell’art. 91, comma 1, primo periodo, c.p.c. (13). Con esso si fissa nel processo tributario, e per tutti i tipi di giudizi -quale canone regolatorio nel governo delle spese -il principio di soccombenza. La liquidazione prescinde dal deposito della nota spese a sensi dell'art. 75 att. c.p.c. La condanna al rimborso delle spese di giudizio trova il suo fondamento nell'esigenza di evitare una diminuzione patrimoniale alla parte che ha dovuto svolgere un'attività processuale per ottenere il riconoscimento di un suo diritto: essa quindi non ha natura sanzionatoria, né avviene a titolo di risarcimento dei danni -costituendo il comportamento del soccombente esercizio del diritto di difesa in giudizio -ma è conseguenza oggettiva della soccombenza, rispondendo alla necessità di ristorare la parte vittoriosa dagli oneri inerenti al dispendio di attività processuale legata all'iniziativa od al comportamento dell'avversario. tanto in coerenza con il principio chiovendiano che il processo deve dare tutto, ma proprio tutto alla parte che ha ragione. Parte soccombente è quindi in generale quella che, lasciando insoddisfatta una pretesa riconosciuta come fondata o azionando una pretesa riconosciuta infondata, abbia dato causa alla lite. La soccombenza può tuttavia derivare anche da ragioni di carattere meramente processuale, indipendentemente dal merito della questione controversa (ad esempio, per inammissibilità del ricorso, pur se fondato). L'individuazione della parte soccombente, ai fini della condanna alle spese, deve essere operata in considerazione dell'esito finale della controversia sulla base di una valutazione globale ed unitaria, senza che possa rilevare l'esito di una particolare fase del processo e senza poter separare l'esito del giudizio di impugnazione dai risultati totali del processo (se non per quanto concerne la possibilità di compensazione). Alla parte vincitrice la rifusione delle spese processuali spetta solo per le spese effettivamente sostenute e per il solo fatto oggettivo della soccombenza della controparte, quale che sia stata la posizione assunta da questa in sede processuale. La condanna al rimborso delle spese non può essere quindi pronunciata in favore del contumace vittorioso, poiché tale parte, non avendo spiegato alcuna attività processuale, non ha sopportato alcuna spesa al cui rimborso abbia diritto (14). La parte (privata) vittoriosa ha diritto al rimborso diretto delle spese dal (13) “il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa”. (14) Per tali rilievi A. ROSSI, Condanna al pagamento delle spese di giudizio nel contenzioso tributario, cit. RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 soccombente, sia se costituita a mezzo di assistenza tecnica sia se sta in giudizio personalmente come previsto dall'art. 12, comma 2, del D.L.vo (per le controversie di valore fino a tremila euro), anche se si ritiene che il ristoro, in questo caso, non possa superare le spese vive sostenute (in pratica il contributo unificato) (15). Le parti coinvolte nella condanna alle spese non sono solo l’attore e il convenuto, ma anche l’interveniente ex art. 14 D.L.vo n. 546/1992. Ciò in ossequio ai principi per i quali parte soccombente può essere l’attore, il convenuto e qualunque intervenuto (16). La sentenza che chiude il processo -nella pacifica interpretazione dottrinale (17) e giurisprudenziale (18) -è la sentenza definitiva che decide totalmente il merito della lite oppure una questione, pregiudiziale di rito o di merito o preliminare di merito, in senso ostativo alla prosecuzione del giudizio. Quanto ricostruito trova conferma nel D.L.vo n. 546/1992, che all’art. 5, comma 3, qualifica come sentenza il provvedimento con il quale la commissione tributaria dichiara la propria incompetenza; ciò in uno agli artt. 35 e 36, per i quali il provvedimento definitorio del giudizio -sia in rito che sul merito -è di norma la sentenza, la quale, poi, deve essere definitiva (art. 35, comma 3: “alle deliberazioni del collegio si applicano le disposizioni di cui agli articoli 276 e seguenti del codice di procedura civile. Non sono tuttavia ammesse sentenze non definitive o limitate solo ad alcune domande”). La dottrina processualcivilistica evidenzia che il provvedimento che contiene la condanna alle spese può anche non essere una sentenza (ad esempio, un’ordinanza o un decreto), ma deve trattarsi di una pronuncia che definisce il processo davanti al giudice che la emette, tenendo conto dell’esito complessivo della lite (19). Analogo rilievo vale per il processo tributario. All’uopo si (15) Così M. SCUFFI, regolamentazione e liquidazione delle spese nel giudizio tributario, cit., il quale precisa che una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 15 del D.L.vo n. 546/1992 non consente un diverso trattamento nelle due ipotesi, tanto più che l'ufficio o l'ente locale, ove assistito da propri funzionari o dipendenti, conserva pur sempre il diritto alla liquidazione (ancorché decurtato nel- l'onorario del 20%) a sensi dell'art. 15, comma 2 sexies, del D.L.vo n. 546/1992. (16) Così S. SAttA, Commentario al codice di procedura civile, Libro primo, Milano, Vallardi, 1959, p. 301. (17) Ex plurimis: C. MANDRIOLI, A. CARRAttA, Diritto processuale civile, vol. I, torino, giappichelli, 2016, 25° ed., p. 424; S. SAttA, Commentario al codice di procedura civile, cit., p. 302. (18) Ex plurimis: Cass., 8 maggio 1992, n. 5504; 19 gennaio1999, n. 469, che precisa “in relazione al concetto di sentenza che chiude il processo, ai sensi dell’art. 91 non si richiede esclusivamente una soccombenza in merito, rilevando anche una soccombenza per ragioni di ordine processuale (Cass. 6 marzo 1987, n. 2377), purché la pronuncia che la dichiari, in forma di sentenza, chiuda il processo davanti al giudice, cioè sia conclusiva almeno di una fase del giudizio. in particolare, la giurisprudenza ha già avuto modo di rilevare come, agli effetti del regolamento delle spese processuali, la soccombenza ben può essere determinata, anziché da ragioni di merito, dall’avere la parte attrice adito un giudice privo di giurisdizione o di competenza, ricorrendo pure in tal caso il mancato accoglimento della domanda, ancorché per un impedimento di carattere processuale (Cass., Sez. lav., 9 agosto 1996, n. 7389)”. (19) C. MANDRIOLI, A. CARRAttA, Diritto processuale civile, cit., 425, in nota. CONtRIBUtI DI DOttRINA richiama il decreto del Presidente ex art. 46, comma 2, D.L.vo n. 546/1992 dichiarativo della cessazione della materia del contendere. Nell’ambito della regolazione del principio di soccombenza vi è il testuale richiamo -con il comma 2 bis dell’art. 15 -dei commi 1 e 3 dell’art. 96 c.p.c. sulla responsabilità aggravata, i quali così dispongono: -“Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell'altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d'ufficio, nella sentenza” (comma 1). La mala fede implica intenzionalità dannosa e consapevolezza, mentre la colpa grave esclude la volontarietà, ma non si esaurisce solo -come la colpa c.d. lieve -nella negligenza, imprudenza o imperizia, dovendo le stesse esser elevate, macroscopiche. Si deve trattare, insomma, di violazioni grossolane del dovere di diligenza, di prudenza e perizia (non intelligere quod omnes intelligunt). È questa la responsabilità aggravata per lite temeraria (responsabilità processuale speciale rispetto alla generale responsabilità extracontrattuale prevista e disciplinata agli artt. 2043 ss. c.c.), allorché il comportamento del soggetto, che agisce o resiste in giudizio, assume modalità illecite che si sostanziano in abuso del diritto ad agire o resistere in giudizio; -“in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata” (comma 3). All’evidenza, se viene constatato un comportamento socialmente e civilmente censurabile (dolo, colpa grave), il giudice può condannare il soccombente a pagare non solo le spese di lite ma anche i cd. danni punitivi, con finalità deterrente. La disposizione costituisce una eccezionale ipotesi di c.d. danni punitivi, ossia ulteriori rispetto ai danni effettivamente subiti. Circa i danni punitivi si è rilevato che -sulla premessa che a nessuno dovrebbe essere concessa la possibilità di trarre profitto dal compimento di una condotta illecita -“questa articolazione risarcitoria conferisce alla vittima dell’illecito l’opportunità di ottenere una sanzione esemplare nei confronti di chi ha commesso in mala fede un atto particolarmente grave e riprovevole” (20). Si è evidenziata la portata eccezionale della disposizione. Ciò in quanto nell’ordinamento giuridico italiano -a differenza di altre esperienze giuridiche, ad es. statunitense -la regola è che il danno risarcibile è determinato in via primaria dal principio di causalità: il debitore è tenuto al risarcimento del danno che è conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento (art. 1223 c.c., disposizione richiamata, in materia di danno aquiliano, dall’art. 2056 c.c.). (20) Così R. PARDOLESI, voce Danni punitivi, in Dig. disc. priv. (sez. civ. -Aggiornamento), torino, UtEt, 2007, I, pp. 452 ss. RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 Alla base di questa regola sta il principio del danno effettivo: l’obbligo del risarcimento deve adeguarsi al danno effettivamente subito dal creditore, il quale non deve ricevere né più né meno di quanto necessario a rimuovere gli effetti economici negativi dell’inadempimento o dell’illecito. Non sono ammessi, pertanto, a legislazione vigente, i c.d. danni punitivi. Non è, cioè, ammesso il risarcimento in funzione punitiva del danneggiante. È infatti estranea al nostro ordinamento l’idea che il risarcimento del danno possa avere una funzione afflittiva per il danneggiante (21). Questa è la regola. L’ordinamento potrebbe tuttavia, con una norma ad hoc, introdurre -per la tutela di interessi costituzionalmente tutelati -ipotesi di danni punitivi. Uno di questi casi è, appunto, la disposizione di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c. (22). Il principio di soccombenza viene applicato anche al procedimento cautelare, sulla falsariga della disciplina processualcivilistica (art. 669 septies, commi 2 e 3 c.p.c. per il caso di provvedimento negativo; art. 669 octies, comma 7, c.p.c. per il caso del provvedimento di accoglimento) e del processo amministrativo (art. 57 c.p.a.) (23). tanto con la disposizione dell’art. 15, 2-quater, per la quale “Con l'ordinanza che decide sulle istanze cautelari la commissione provvede sulle spese della relativa fase. La pronuncia sulle spese conserva efficacia anche dopo il provvedimento che definisce il giudizio, salvo diversa statuizione espressa nella sentenza di merito”. Disposizione iterativa -anche nel tenore letterale -della disciplina operante per il processo amministrativo. 7. Compensazione delle spese. Il comma 2 dell’art. 15 disciplina la compensazione delle spese di lite: “Le spese di giudizio possono essere compensate in tutto o in parte dalla commissione tributaria soltanto in caso di soccombenza reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate”. Questa disposizione contiene una disciplina identica a quella operante (21) Per tali aspetti: C.M. BIANCA, Diritto civile. 5. La responsabilità, II edizione, Milano, giuffré, 2012, pp. 140-141. (22) Altre ipotesi sono: la misura coercitiva di cui all’art. 614 bis c.p.c.; l’ipotesi dell’art. 125 D.L.vo 10 febbraio 2005, n. 30 contenente il Codice della Proprietà Industriale (“1. il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227 del codice civile, tenuto conto di tutti gli aspetti pertinenti, quali le conseguenze economiche negative, compreso il mancato guadagno, del titolare del diritto leso, i benefici realizzati dall'autore della violazione e, nei casi appropriati, elementi diversi da quelli economici, come il danno morale arrecato al titolare del diritto dalla violazione. […]); la riparazione pecuniaria ex art. 12 L. 8 febbraio 1948, n. 47 sulla stampa (“Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, la persona offesa può chiedere, oltre il risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 185 del Codice penale, una somma a titolo di riparazione. La somma è determinata in relazione alla gravità dell'offesa ed alla diffusione dello stampato”). (23) Art. 57 c.p.a.: “Con l'ordinanza che decide sulla domanda il giudice provvede sulle spese della fase cautelare. La pronuncia sulle spese conserva efficacia anche dopo il provvedimento che definisce il giudizio, salvo diversa statuizione espressa nella sentenza di merito”. CONtRIBUtI DI DOttRINA per il processo civile con l’art. 92, comma 2, c.p.c. come integrato dalla sentenza della Corte Costituzionale del 19 aprile 2018, n. 77 (24). Molto importante è delineare i casi nei quali è possibile disporre la compensazione delle spese. Il caso più rilevante è quello della soccombenza reciproca. All’uopo va premesso che qualsivoglia eccezione, di rito (25) o di merito (26), sollevata dal resistente a contrasto delle pretese del ricorrente, tecnicamente, integra una domanda processuale, sulla quale matura anche la soccombenza nell’ipotesi di rigetto della stessa. Analoga situazione si ha nel caso della mera contestazione dei fatti costitutivi delle pretese del ricorrente ad opera del resistente, con richiesta di rigetto, nel merito, delle dette pretese. La sentenza che chiude il processo, per i principi generali, è la sentenza definitiva che decide totalmente il merito della lite oppure una questione, pregiudiziale di rito o di merito o preliminare di merito, in senso ostativo alla prosecuzione del giudizio. Il caso del resistente che soccombe sulle eccezioni processuali, preliminari e pregiudiziali e vince nel merito integra l’esemplificazione tipica della soccombenza reciproca, in presenza della quale il giudice, in ossequio al comma 2 dell’art. 15, può compensare le spese tra le parti. La situazione de qua è speculare al caso della domanda del ricorrente accolta sulla base di una sola delle argomentazioni svolte o al caso dell’accoglimento solo di alcuni capi del- l’unica domanda proposta: anche in questo caso ricorre la soccombenza reciproca. Al lume dell’insegnamento della Cassazione, la disciplina della soccombenza reciproca deve essere letta in senso ampio, in quanto essa sottende “una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate e che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti ovvero anche l’accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, allorché essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri ovvero quando la parzialità dell’accoglimento sia meramente quantitativa e riguardi una domanda articolata in un unico capo” (27). (24) Art. 92, comma 2, c.p.c.: “Se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero”. La Corte costituzionale, con sentenza 19 aprile 2018, n. 77, ha dichiarato, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale del presente comma nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni. (25) Ad esempio, nullità del ricorso introduttivo della lite. (26) Ad esempio, eccezione di prescrizione. (27) Ex plurimis: Cass., 21 ottobre 2009, n. 22381; 4 gennaio 2013, n. 134; 22 febbraio 2016, n. 3438; 22 settembre 2000, n. 12541, enuncia altresì che in tema di compensazione delle spese processuali per soccombenza reciproca, l’art. 92, c. 2, c.p.c., non deve necessariamente interpretarsi come facente riferimento al concetto tecnico di soccombenza e che quando l’attore ottiene l’accoglimento della domanda e il bene della vita richiesto sulla base di una delle argomentazioni svolte, dopo, però, che il giudice ne ha rigettate altre, non si versa in un’ipotesi di soccombenza in senso tecnico, ma lo svolgimento dell’attività processuale conseguente alle argomentazioni disattese è casualmente attribuibile a chi ha RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 Va evidenziato che parte della dottrina sostiene la difficile operatività della soccombenza reciproca nel processo tributario (28). Le spese possono essere compensate altresì “qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate”. Le ipotesi più spesso individuate dalla giurisprudenza concernono la novità o l'oggettiva incertezza delle questioni controverse, la presenza di orientamenti giurisprudenziali contrastanti al momento dell'inizio della lite, il sopraggiungere di modifiche normative o di pronunce della Corte costituzionale o della Corte di giustizia dell'Unione europea. Il giudice è tenuto ad indicare esplicitamente in cosa consistano le ragioni della compensazione e non può limitarsi ad espressioni generiche, quali sono il riferimento alla peculiarità della lite o alla natura della controversia. La decisione di compensare le spese non sorretta da ragioni gravi ed eccezionali o priva di specifica motivazione è censurabile in sede di legittimità, in quanto, come afferma una consolidata giurisprudenza, viola una norma processuale (29). 8. Governo delle spese nel caso di estinzione del processo. Nell’ipotesi di estinzione del processo, il governo delle spese è regolato da disposizioni che mutuano il contenuto delle ordinarie regole processualcivilistiche. Nell’ipotesi di estinzione del processo per rinuncia al ricorso l’art. 44, comma 2, D.L.vo n. 546/1992 prevede: “il ricorrente che rinuncia deve rimborsare le spese alle altre parti salvo diverso accordo fra loro. La liquidazione è fatta dal presidente della sezione o dalla commissione con ordinanza non impugnabile”. All’evidenza, si ripete l’analogo precetto del giudizio civile, ossia quanto statuito dall’art. 306, comma 4, c.p.c. (30). Nell’ipotesi, poi, di estinzione del processo per inattività delle parti è disposto (art. 45, comma 2, D.L.vo n. 546/1992) che “Le spese del processo proposto la domanda, determinandosi così una situazione che non rende illegittima la compensazione delle spese con riferimento alla soccombenza reciproca. (28) F. CORDA, Le spese giudiziali nel processo tributario, cit., rileva che “riguardo la soccombenza reciproca può porsi un problema di inapplicabilità di tale fattispecie al processo tributario; ciò in quanto il giudice di prime cure deve limitarsi al controllo della legittimità dell'atto impositivo impugnato nei limiti della pretesa fatta valere dalle parti. Ed invero, né l'Ufficio può proporre domande riconvenzionali -a differenza di quanto avviene nel processo civile -né il contribuente può richiedere al giudice tributario una pronuncia che vada oltre il provvedimento impositivo oggetto di gravame. Peraltro, si evidenzia che l'atto dell'Ufficio può essere censurato dal contribuente, sia da un punto di vista sostanziale che formale, con la conseguenza che può instaurarsi un giudizio al tempo stesso di annullamento e di merito. ragione per cui, il provvedimento del giudice tributario è strettamente correlato al tipo di azione proposta dal ricorrente, il quale potrà risultare soccombente su alcune delle censure proposte nei confronti dell'atto, e vittorioso su altre. in questo caso vi sarà soccombenza reciproca in quanto il fenomeno investe entrambe le parti del giudizio”. (29) Per tali rilievi: M. LUPANO, Spese nel processo tributario -compensazione delle spese nel processo tributario, cit. (30) “il rinunciante deve rimborsare le spese alle altre parti, salvo diverso accordo tra loro. La liquidazione delle spese è fatta dal giudice istruttore con ordinanza non impugnabile”. CONtRIBUtI DI DOttRINA estinto a norma del comma 1 restano a carico delle parti che le hanno anticipate”; tanto in continuità con quanto statuito dall’art. 310, comma 4 c.p.c. (31). 9. Governo delle spese nelle controversie di cui all’art. 17 bis D.L.vo n. 546/1992 (il reclamo e la mediazione). L’art. 15, comma 2 septies così dispone: “Nelle controversie di cui all’art. 17 bis le spese di giudizio di cui al comma 1 sono maggiorate del 50 per cento a titolo di rimborso delle maggiori spese del procedimento”. La disposizione si riferisce alle controversie di valore non superiore ad euro 50.000,00, per le quali il ricorso produce anche gli effetti di un reclamo e può contenere una proposta di mediazione con rideterminazione dell’ammontare della pretesa, nella evenienza che il reclamo non venga accolto e prosegua il giudizio fino alla sentenza definitoria del primo grado. La disposizione in esame è stata introdotta con il D.L.vo 24 settembre 2015, n. 156. Con tale novella -rispetto alla previgente disciplina contenuta nell’originario comma 10 dell’art. 17 bis D. L.vo n. 546/1992 (32) -il legislatore ha mantenuto la logica dell’incremento del 50 per cento delle spese di giudizio ove la fase processuale sia preceduta da quella del reclamo, mentre non ha più previsto la compensazione in caso di giustificato rifiuto della proposta di mediazione. Ciononostante, come è stato giustamente osservato (33) pur in assenza di espressa previsione, dovrebbe trovare applicazione la regola generale della compensazione di cui al comma 2 dell’art. 15, ben potendo sussistere quelle “gravi ed eccezionali ragioni”, in luogo dei “giusti motivi” della previgente disciplina, in relazione alla giustificabilità del rifiuto della proposta di mediazione. 10. Governo delle spese nel caso di tentativo di conciliazione andato a vuoto e nel caso di intervenuta conciliazione. L’art. 15, comma 2 octies così dispone: “Qualora una delle parti abbia formulato una proposta conciliativa, non accettata dall'altra parte senza giustificato motivo, restano a carico di quest'ultima le spese del processo ove il riconoscimento delle sue pretese risulti inferiore al contenuto della proposta ad essa effettuata. Se è intervenuta conciliazione le spese si intendono com (31) “Le spese del processo estinto stanno a carico delle parti che le hanno anticipate”. (32) “Nelle controversie di cui al comma 1 la parte soccombente è condannata a rimborsare, in aggiunta alle spese di giudizio, una somma pari al 50 per cento delle spese di giudizio a titolo di rimborso delle spese del procedimento disciplinato dal presente articolo. Nelle medesime controversie, fuori dei casi di soccombenza reciproca, la commissione tributaria, può compensare parzialmente o per intero le spese tra le parti solo se ricorrono giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione, che hanno indotto la parte soccombente a disattendere la proposta di mediazione”. (33) F. tESAURO (a cura di), Codice commentato del processo tributario, II edizione, UtEt giuridica, 2016, pp. 291-292. RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 pensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione”. All’evidenza, questa disciplina -nel caso di tentativo di conciliazione andato a vuoto -è speciale rispetto a quella prevista per il processo civile all’art. 91, comma 1, seconda parte, c.p.c., mentre -nel caso di intervenuta conciliazione -è identica a quella del processo civile contenuta nel comma 3 dell’art. 92 c.p.c. 11. Eterointegrazione nella disciplina delle spese. Le disposizioni contenute nell’art. 15 soprariportato non esauriscono la disciplina del governo delle spese nel processo tributario, come emerge pianamente con il confronto della disciplina operante per il processo civile (artt. 91-97 c.p.c.). Per quanto non disposto -ossia nel caso di lacune -si applicano le disposizioni del codice di procedura civile sulle spese, giusta la norma generale di richiamo ex art. 1, comma 2, D.l.vo n. 546/1992 secondo cui “i giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile”. All’evidenza, il diritto comune della materia processuale è rappresentato dal codice di procedura civile. Difatti: a) una disposizione identica si ha nel processo contabile, giusta l’art. 7, comma 2, Codice di giustizia contabile adottato con D.L.vo 26 agosto 2016, n. 174 (“Per quanto non disciplinato dal presente codice si applicano gli artt. 99, 100, 101, 110 e 111, c.p.c. e le altre disposizioni del medesimo codice, in quanto espressione di principi generali”); b) una disposizione analoga si ha nell’art. 39, comma 1, Codice del processo amministrativo adottato con D.L.vo 2 luglio 2010, n. 104 (“Per quanto non disciplinato dal presente codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali”). Fissato tale principio, occorre evidenziare quali disposizioni contenute negli artt. 91-97 si applicano al processo tributario. Circa l’art. 91 c.p.c. (condanna alle spese), la prima parte del comma 1 è iterata nel comma 1 dell’art. 15 D.L. n. 546/1992 e quindi non si pone un problema di applicazione. La seconda parte del comma 1 dispone: “Se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 92”. Questa disposizione è inapplicabile al processo tributario, attesa la testuale diversa disciplina sulla specifica vicenda contenuta nel comma 2 octies dell’art. 15. I commi 2 e 3 dell’art. 91 così dispongono: “Le spese della sentenza sono liquidate dal cancelliere con nota in mar CONtRIBUtI DI DOttRINA gine alla stessa; quelle della notificazione della sentenza, del titolo esecutivo e del precetto sono liquidate dall'ufficiale giudiziario con nota in margine al- l'originale e alla copia notificata. i reclami contro le liquidazioni di cui al comma precedente sono decisi con le forme previste negli articoli 287 e 288 dal capo dell'ufficio a cui appartiene il cancelliere o l'ufficiale giudiziario”. trattasi di disposizioni di dettaglio, per le quali nulla osta all’applicabilità, mutatis mutandis, al processo tributario. L’art. 92 c.p.c. (condanna alle spese per singoli atti. Compensazione delle spese) statuisce: “il giudice, nel pronunciare la condanna di cui all’articolo precedente, può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue; e può, indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all’articolo 88, essa ha causato all’altra parte. Se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero (34). Se le parti si sono conciliate, le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione”. Atteso che l’art. 15, comma 2, D.L.vo n. 546/1992 contiene la espressa regolazione della materia della compensazione delle spese, la disposizione di cui al comma 2 dell’art. 92 c.p.c. integrata dal dictum della Corte costituzionale è inapplicabile nel processo tributario. Analogo discorso vale per il comma 3 dell’art. 92 c.p.c., vista la espressa disciplina (peraltro iterativa del c.p.c.) contenuta nell’art. 15 octies D.L.vo n. 546/1992. Si applica, pertanto, la restante parte dell’art. 92 c.p.c., ossia il comma 1, considerato che vi è una lacuna sul punto nel processo tributario e che tale comma è compatibile con l’impianto del processo in esame. Sicché, in virtù del comma 1 dell’art. 92, il giudice tributario può ridurre le spese eccessive (ad esempio di più difensori nel caso di causa semplice) o superflue. L’art. 93 c.p.c. (distrazione delle spese) statuisce: “il difensore con procura può chiedere che il giudice, nella stessa sentenza in cui condanna alle spese, distragga in favore suo e degli altri difensori (34) La Corte costituzionale, con sentenza 19 aprile 2018, n. 77, ha dichiarato, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale del presente comma nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni. RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 gli onorari non riscossi e le spese che dichiara di avere anticipate. Finché il difensore non abbia conseguito il rimborso che gli è stato attribuito, la parte può chiedere al giudice, con le forme stabilite per la correzione delle sentenze, la revoca del provvedimento, qualora dimostri di aver soddisfatto il credito del difensore per gli onorari e le spese”. Nulla osta all’applicazione dell’art. 93 c.p.c. nel processo tributario, venendo in rilievo una disposizione connotante il regime di tutela del difensore della parte in ordine alle tecniche per la sollecita liquidazione di quanto dovutogli per l’attività professionale svolta (35). L’art. 94 c.p.c. (condanna di rappresentanti o curatori) statuisce: “Gli eredi beneficiati, i tutori, i curatori e in generale coloro che rappresentano o assistono la parte in giudizio possono essere condannati personalmente, per motivi gravi che il giudice deve specificare nella sentenza, alle spese dell’intero processo o di singoli atti, anche in solido con la parte rappresentata o assistita”. tale disposizione si applica al processo tributario, attesa la lacuna sul punto e la compatibilità della stessa con l’impianto del processo in esame. L’art. 95 c.p.c. (spese del processo di esecuzione) statuisce: “Le spese sostenute dal creditore procedente e da quelli intervenuti che partecipano utilmente alla distribuzione sono a carico di chi ha subito l'esecuzione, fermo il privilegio stabilito dal codice civile”. Come nel caso dell’articolo precedente, la disposizione in esame è certamente applicabile al processo tributario, vista la compatibilità con l’impianto di tale processo e considerato che nulla è disposto sul punto. tanto è confermato da espresse disposizioni -come l’art. 69, comma 3, D.L.vo n. 546/1992 (36) - che presuppongono l’operatività del principio. L’art. 96 c.p.c. (responsabilità aggravata) statuisce: “Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza. il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente. in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91, il giudice, (35) In senso analogo, sull’applicabilità dell’art. 93 c.p.c.: M. SCUFFI, regolamentazione e liquidazione delle spese nel giudizio tributario, cit. (36) L’articolo ha ad oggetto l’esecuzione delle sentenze di condanna in favore del contribuente e al comma 3 dispone: “i costi della garanzia, anticipati dal contribuente, sono a carico della parte soccombente all'esito definitivo del giudizio”. CONtRIBUtI DI DOttRINA anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”. I commi 1 e 3, come visto innanzi, si applicano al processo tributario per l’espresso richiamo contenuto nell’art. 15, comma 2 bis, D.L.vo n. 546/1992. Anche il comma 2, riguardante l’esecuzione di provvedimenti cautelari o esecutivi, deve ritenersi applicabile. In proposito la Suprema Corte ha affermato che la domanda di risarcimento dei danni subiti dal debitore per l’illegittima iscrizione di un fermo amministrativo può essere avanzata ai sensi dell’art. 96, comma 2, c.p.c., a condizione che vi sia un pregiudizio effettivo e percepibile (37). Ciò in quanto il fermo amministrativo rientra fra le misure cautelari, come rilevato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (38). L’art. 97 c.p.c. (responsabilità di più soccombenti) statuisce: “Se le parti soccombenti sono più, il giudice condanna ciascuna di esse alle spese e ai danni in proporzione del rispettivo interesse nella causa. Può anche pronunciare condanna solidale di tutte o di alcune tra esse, quando hanno interesse comune. Se la sentenza non statuisce sulla ripartizione delle spese e dei danni, questa si fa per quote uguali”. Come nel caso dell’art. 94 c.p.c., la disposizione in esame si applica al processo tributario, che sul punto presenta una lacuna, considerata la compatibilità della stessa con l’impianto del processo in questione. 12. Governo delle spese collegato alla violazione delle regole redazionali degli atti processuali. gli atti processuali di parte (come quelli del giudice, peraltro) devono avere i requisiti estrinseci della chiarezza e della concisione (39). La chiarezza è un requisito ontologico e funzionale degli atti processuali, come confermato da specifiche disposizioni dettate per altre tipologie di processo (40). Quanto al requisito della sinteticità, vi è la prescrizione di cui all’art. 16 bis, comma 9 octies, D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, conv. L. 17 dicembre 2012, n. 221 secondo cui: “Gli atti di parte e i provvedimenti del giudice depositati con modalità telematiche sono redatti in maniera sintetica”, applicabile al processo tributario con il medio del citato art. 1, comma 2, D.L.vo n. 546. A fronte dell’atto non chiaro e/o conciso non determinante conseguenze invalidanti, vi può essere comunque la conseguenza spiacevole della condanna (37) Cass., 16 giugno 2016, n. 12413. (38) Cass., S.U., 22 luglio 2015, n. 15354. (39) Per una introduzione alla problematica: M. gERARDO, Chiarezza e concisione degli atti giuridici, in rass. avv. Stato, 2019, 1, pp. 223-252. (40) Vuol farsi riferimento, con riguardo al processo amministrativo, all’art. 3, comma 2, c.p.a. secondo cui “il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica, secondo quanto disposto dalle norme di attuazione”. Norma analoga vi è nel processo contabile: “il giudice, il pubblico ministero e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica” (art. 5 c.g.c.). RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 alle spese in capo alla parte che ha redatto un atto che superi la ragionevole dimensione o che sia non chiaro. tanto è previsto espressamente nel processo amministrativo, con l’art. 26, comma 1, c.p.a. (41). La condanna alle spese per tale ragione può reputarsi operante anche nel processo tributario, con l’applicazione degli artt. 88, comma 1, e 92, comma 1, c.p.c., mediata dall’art. 1, comma 2, D.L.vo n. 546/1992. L’art. 92, comma 1, c.p.c. recita: “il giudice, nel pronunciare la condanna di cui all'articolo precedente [condanna alle spese in applicazione della regola della soccombenza], […] può, indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all'articolo 88, essa ha causato all'altra parte”. L’art. 88, comma 1, c.p.c. dispone: “Le parti e i loro difensori hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità”. All’evidenza, la redazione di atti non chiari e non concisi integra una condotta violativa del principio di lealtà processuale, giacché la chiarezza e la concisione attengono alla piena attuazione del contraddittorio e alla piena funzionalità del diritto di difesa. Nel caso di specie viene in rilievo una condanna alle spese che prescinde dal principio di soccombenza (42). 13. ammontare delle spese legali. Le spese legali -ossia la remunerazione per l’attività di assistenza tecnica prestata -vanno inquadrate in due distinti contesti: quello del contratto d’opera stipulato tra cliente e avvocato e quello della statuizione del giudice circa le stesse. L’entità del compenso è il frutto di una pattuizione inter partes tra cliente e professionista. Per farsi difendere la parte, infatti, si rivolge -tranne nei casi di difesa personale, ove consentita -ad un professionista (avvocato, commercialista o altra figura prevista nell’art. 13 D.L.vo n. 546/1992) con il quale stipula un contratto d’opera professionale contenente anche la pattuizione del compenso, la cui la misura “deve essere adeguata all'importanza dell'opera e al decoro della professione” (art. 2233, comma 2, c.c.). È previsto testualmente che i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali devono essere, a pena di nullità, redatti in forma scritta (art. 2233, comma 3, c.c.). (41) “Quando emette una decisione, il giudice provvede anche sulle spese del giudizio, secondo gli articoli 91, 92, 93, 94, 96 e 97 del codice di procedura civile, tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all'articolo 3, comma 2. […]”. (42) Più in generale A. RUSSO, Le condanne processuali estranee al principio della soccombenza, in Fisco, 2016, 22, pp. 2150 e ss. evidenzia che gli artt. 88 e 89 c.p.c. -pacificamente applicabili al processo tributario -prevedono due tipi di condanna che si rivelano indipendenti dal principio di soccombenza e che tendono a sanzionare i comportamenti delle parti che, eccedendo il legittimo esercizio del diritto di difesa, si traducono in condotte sleali o espressioni offensive nei confronti della controparte. CONtRIBUtI DI DOttRINA In base all’accordo inter partes il cliente remunera il professionista per l’attività prestata. Nella evenienza che, all’esito del giudizio, la parte risulti vittoriosa in giudizio ed il giudice condanni il soccombente al pagamento delle spese di lite, la detta parte può recuperare dal soccombente quanto pagato al proprio difensore, ma nei limiti del quantum fissato dal giudice. Vuol dirsi che debitore per il compenso professionale è sempre il cliente, sia che risulti soccombente in giudizio (in tal caso, ove vi sia condanna al pagamento delle spese di lite, dovrà rimborsare altresì la controparte), sia che risulti vittorioso. In quest’ultima evenienza, ove sia disposta la distrazione delle spese ex art. 93 c.p.c., contro il soccombente può agire anche il difensore della parte vittoriosa, fermo restando che -fino alla soddisfazione del professionista - resta obbligato il suo cliente. Alla luce di ciò può accadere che le spese di lite -dovute dal cliente al professionista -siano irripetibili, ossia irrecuperabili in tutto o in parte dalla controparte soccombente in giudizio. tanto accade nel caso di compensazione, in tutto o in parte, delle spese di lite. Ed accade altresì quando il giudice condanni il soccombente al pagamento delle spese di lite -in base ai parametri legali -ma per un ammontare inferiore a quanto pattuito tra cliente e professionista. L’art. 15 del D.L.vo n. 546/1992 non prende in esame il contratto d’opera tra cliente e professionista, ma fissa i parametri nei quali il giudicante -nel pronunciare sulle spese -deve quantificare la condanna alle spese del soccombente. Le spese oggetto di rimborso comprendono gli onorari del difensore, liquidati con valutazione discrezionale ed insindacabile del giudice nel rispetto dei limiti inderogabili minimi e massimi stabiliti dalle relative tariffe professionali con riferimento al momento in cui l'attività defensionale complessiva è stata condotta a termine (43), oltre ai relativi oneri accessori, nonché il rimborso delle somme dovute dalla parte al difensore a titolo di contributo cassa di previdenza. tra le spese processuali, che la parte soccombente è tenuta a rimborsare al vincitore, rientra anche la somma dovuta da quest'ultimo al proprio difensore a titolo di Iva, costituendo tale imposta una voce accessoria, di natura fiscale, del corrispettivo dovuto per prestazioni professionali relative alla difesa in giudizio, il cui rimborso spetta anche in assenza di espressa domanda o specifica pronuncia del giudice. L'omessa liquidazione delle spese processuali non integra una omissione emendabile con la procedura di correzione degli errori materiali, perché la (43) Ex plurimis: Cass., 4 dicembre 2020, n. 27809 enuncia che “La determinazione degli onorari di avvocato e degli (onorari) e diritti di procuratore costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice che, qualora sia contenuto tra il minimo ed il massimo della tariffa, non richiede una specifica motivazione e non può formare oggetto di sindacato in sede di legittimità, se non quando sia stato l'interessato stesso a specificare le singole voci della tariffa che assume essere state violate (v. Cass. 18238/2015; Cass. 10350/1993)”. RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 sentenza non è affetta da mera mancanza di documentazione della volontà del giudice, comunque implicitamente desumibile, ma è affetta dalla mancanza di un giudizio sull'attività difensiva svolta dalla parte vittoriosa, con la conseguenza che la relativa omissione può essere emendata soltanto a seguito di impugnazione. La materia è testualmente regolata dai commi 2 quinquies e2 sexies del- l’art. 15 del D.L.vo n. 546/1992, i quali così dispongono: -“i compensi agli incaricati dell'assistenza tecnica sono liquidati sulla base dei parametri previsti per le singole categorie professionali. agli iscritti negli elenchi di cui all'articolo 12, comma 4, si applicano i parametri previsti per i dottori commercialisti e gli esperti contabili” (comma 2 quinquies). La materia, per gli avvocati, all’attualità è regolata dal D.M. 10 marzo 2014, n. 55 contenente il “regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense, ai sensi del- l'articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247”. L’art. 2 di tale decreto dispone: “1. il compenso dell'avvocato è proporzionato all'importanza dell'opera. 2. oltre al compenso e al rimborso delle spese documentate in relazione alle singole prestazioni, all'avvocato è dovuta -in ogni caso ed anche in caso di determinazione contrattuale -una somma per rimborso spese forfettarie di regola nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, fermo restando quanto previsto dai successivi articoli 5, 11 e 27 in materia di rimborso spese per trasferta”. L’art. 4, comma 1, tra l’altro, prevede che “il giudice tiene conto dei valori medi di cui alle tabelle allegate, che, in applicazione dei parametri generali, possono essere aumentati, di regola, fino all'80 per cento, o diminuiti fino al 50 per cento. Per la fase istruttoria l'aumento è di regola fino al 100 per cento e la diminuzione di regola fino al 70 per cento”. Il comma 5 dell’art. 4 prevede altresì che il compenso è liquidato per fasi (fase di studio della controversia; fase introduttiva del giudizio; fase istruttoria; fase decisionale); -“Nella liquidazione delle spese a favore dell'ente impositore, dell'agente della riscossione e dei soggetti iscritti nell'albo di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, se assistiti da propri funzionari, si applicano le disposizioni per la liquidazione del compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del venti per cento dell'importo complessivo ivi previsto. La riscossione avviene mediante iscrizione a ruolo a titolo definitivo dopo il passaggio in giudicato della sentenza” (comma 2 sexies) (44). 14. Conclusioni. (44) Conf. ex plurimis Cass. civ., 19 febbraio 2021, n. 4473 (in relazione alla rifusione delle spese del giudizio, nel caso in cui la parte pubblica, risultata vittoriosa, sia assistita da un proprio funzionario o da un proprio dipendente, si applicano, ai sensi dell'art. 15, comma 2-sexies, del D.Lgs. n. 546/1992, le disposizioni per la liquidazione del compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del venti per CONtRIBUtI DI DOttRINA La corretta applicazione del governo delle spese -con la regola della soccombenza e l’eccezione della compensazione e con la corretta applicazione dell’ammontare -è funzionale alla tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive protette. Il timore della soccombenza agisce da controstimolo all’esercizio di azioni giurisdizionali esili nella loro sostanza, consentendo l’accesso alla giustizia alle domande di tutela veramente necessarie. Laddove l’eccessivo ricorso alla compensazione delle spese finisce inevitabilmente per costituire incentivo alla litigiosità e spesso odiosa punizione per la parte vittoriosa. L’applicazione corretta del principio di soccombenza determinerebbe una adeguata igiene sociale, come osservato da Francesco Carnelutti (45), il quale evidenziava che la soluzione tendenzialmente accolta nel nostro ordinamento giuridico in ordine al governo delle spese processuali è quella della causa che rende necessario il servizio, ossia la spesa deve essere sopportata non dalle parti in genere, ma da una di queste, cioè dalla parte che con il suo contegno ha dato causa al processo. tale soluzione, secondo l’illustre Autore, “corrisponde insieme a un principio di giustizia distributiva e a un principio di igiene sociale: da un lato è giusto che chi ha reso necessario il servizio ne sopporti il carico; dall’altro è opportuno perché la previsione di questo carico reagisce nel suo contegno nel senso di renderlo più cauto. Così la responsabilità della parte, che ha dato causa al processo, per le spese mostra fin da ora quella funzione di controstimolo dell’azione, per cui essa rientra nell’ampia nozione del rischio processuale” (46). L’interessato, prima di instaurare un’azione giudiziaria, dovrà ponderare adeguatamente i pro e i contro, mettendo in conto che, ove risultasse soccombente nella instauranda lite, dovrebbe pagare, oltre che il proprio avvocato, anche le spese di giudizio e il compenso dell’avvocato della controparte: “La regola della soccombenza impone attenta riflessione a colui che intende pro- cento dell'importo complessivo ivi previsto) e Cass., n. 27809/2020 cit. (“Va premesso che "in tema di contenzioso tributario, all'amministrazione finanziaria assistita in giudizio dai propri funzionari, in caso di vittoria nella lite, spetta, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 15, comma 2 bis, (oggi comma 2 sexies, sostituito dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156, art. 9, comma 1, lett. f), n. 2), a decorrere dal 1 gennaio 2016), la liquidazione delle spese che va effettuata applicandosi la tariffa vigente per gli avvocati e procuratori, con la riduzione del venti per cento degli onorari di avvocato, quale rimborso per la sottrazione di attività lavorativa dei funzionari medesimi, utilizzabile altrimenti in compiti interni di ufficio e tenuto conto dell'identità della prestazione professionale profusa dal funzionario rispetto a quella del difensore abilitato" (Cass. 24675/2011)”). In senso contrario, all’evidenza contra legem, Cass., 1 dicembre 2020, n. 27444, secondo cui in tema di liquidazione delle spese del giudizio in favore della parte pubblica vittoriosa e assistita da funzionari interni, la parte privata non può essere condannata al pagamento delle spese processuali sostenute dall'Ufficio, perché quest'ultimo è stato in giudizio avvalendosi di un funzionario interno e, per l'effetto, non è stato interessato dal sostenimento di costi riferibili all'assistenza tecnica. (45) Citato da V. ANDRIOLI, Diritto processuale civile, Jovene editore, 1979, vol. I, p. 422. (46) op. e loc. ult. cit. RASSEgNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 1/2022 muovere un processo, perché deve calcolare la probabilità di successo. il rischio di essere responsabile per le spese scoraggia molte persone che non hanno reale probabilità di successo” (47). Ciò premesso in linea ideologica ed in coerenza con i dati normativi, va tuttavia rilevato che l'istituto della condanna al rimborso delle spese di giudizio, nella sua applicazione concreta al contenzioso tributario, risulta spesso disatteso od oggetto di attuazione in modo non conforme alla corretta interpretazione delle norme che lo contemplano. Vi è, infatti, una diffusa riluttanza delle Commissioni tributarie a condannare la parte soccombente al pagamento delle spese del giudizio, indipendentemente dalla circostanza che soccombente sia l'Amministrazione o il contribuente, riscontrandosi poi anche una confermata tendenza alla compensazione delle spese processuali da parte delle Commissioni, in particolare provinciali, non solo in ipotesi di incertezze interpretative ma persino quando una parte è del tutto soccombente (48). A favore di qualsivoglia parte (contribuente o ente impositore) vi sia una prassi lassista, i guasti sono evidenti. Ove la compensazione venga disposta irragionevolmente in favore del contribuente, tale prassi incentiva il contenzioso. in primis perché nel perdere la lite si rischia poco (solo le spese del proprio difensore, ove non vi sia stata la difesa personale). Eppoi, la scelta di rivolgersi alla giustizia tributaria o di coltivare un processo pendente talvolta ha finalità dilatorie; la durata media del processo tributario (49) è tale che la probabilità di poter beneficiare di condoni prima del termine della lite è notevole. Questi ultimi andrebbero quindi definitivamente abbandonati, anche perché certamente non incentivano il contribuente a rispettare spontaneamente le regole. Qualora la compensazione a favore dell'erario sia disposta frequentemente e risulti dunque prevedibile, il contribuente è indotto a non opporsi alle pretese dell'erario di valore modesto, per quanto infondate. Difatti, se proporre ricorso comporta costi non recuperabili simili a quelli che si devono affrontare per (47) Così U. JACOBSSON, La giustizia civile nei Paesi comunitari, vol. II, CEDAM, 1996, p. 120, a proposito del processo civile in Svezia, dove vige il principio “tutto o niente” ossia che le spese seguono la soccombenza. (48) Per tale rilievo già A. ROSSI, Condanna al pagamento delle spese di giudizio nel contenzioso tributario, cit. (49) M. LUPANO, Spese nel processo tributario -compensazione delle spese nel processo tributario, cit., rileva che “La più recente relazione annuale sul contenzioso tributario consultabile nel momento in cui scriviamo sul sito web del ministero delle Finanze (www.finanze.it) afferma che, in media, tra la data di deposito presso la commissione tributaria provinciale e quella di spedizione del dispositivo alle parti sono decorsi 28 mesi. Presso le commissioni tributarie regionali invece i tempi rilevati sono stati di 25 mesi. La durata complessiva dei due gradi di merito è dunque di circa 4,5 anni. Per quanto riguarda invece il giudizio di cassazione, la durata media dei procedimenti tributari è stata, nel 2016, di poco superiore a 47 mesi (v. annuario statistico 2016 della Cassazione civile, pag. 48), ovvero quasi altri 4 anni”. CONtRIBUtI DI DOttRINA versare spontaneamente quanto richiesto dal fisco, agire in giudizio non rappresenta una scelta razionale. L’effetto che ne consegue è certamente deflattivo, tuttavia la deflazione non è virtuosa, poiché non opera selettivamente: il cittadino è dissuaso dal proporre il ricorso anche quando ha (o ritiene di avere) chiaramente ragione. Per tali motivi è più che mai auspicabile una corretta applicazione del governo delle spese -anche stimolata dall’organo di autogoverno -dove la regola sia quella della soccombenza e la compensazione sia un’ipotesi eccezionale. Finito di stampare nel mese di ottobre 2022 Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A. 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