ANNO LXXII - N. 4 OTTOBRE - DICEMBRE 2020 RASSEGNA AV V O C AT U R A DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO COMITATO SCIENTIfICO: Presidente: Michele Dipace. Componenti: Franco Coppi -Giuseppe Guarino Natalino Irti - Eugenio Picozza - Franco Gaetano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo -CONDIRETTORI: Maurizio Borgo, Danilo Del Gaizo e Stefano Varone. COMITATO DI REDAZIONE: Giacomo Aiello -Lorenzo D’Ascia -Gianni De Bellis -Wally Ferrante -Sergio Fiorentino -Paolo Gentili -Maria Vittoria Lumetti -Francesco Meloncelli -Marina Russo. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Andrea Michele Caridi -Stefano Maria Cerillo Pierfrancesco La Spina -Marco Meloni -Maria Assunta Mercati -Alfonso Mezzotero -Riccardo Montagnoli -Domenico Mutino -Nicola Parri -Adele Quattrone -Piero Vitullo. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE fASCICOLO: Giuseppe Albenzio, Attilio Barbieri, Elena Berto, Daniela Canzoneri, Elisabetta Chiarelli, Alessandro D’Amico, Gabriella D’Avanzo, Fabiana D’Avino, Gesualdo d’Elia, Andrea Fedeli, Emanuele Feola, Luigia Michela Fera, Michele Gerardo, Antonio Grumetto, Roberta Guizzi, Adolfo Mutarelli, Gaetana Natale, Melania Nicoli, Gabriella Palmieri Sandulli, Giancarlo Pampanelli, Carmela Pluchino, Diana Ranucci, Carlo Sica, Luca Soldini, Emanuele Valenzano, Stefano Lorenzo Vitale. Email giuseppe.fiengo@avvocaturastato.it maurizio.borgo@avvocaturastato.it danilodelgaizo@avvocaturastato.it stefanovarone@avvocaturastato.it ABBONAMENTO ANNUO ..............................................................................€ 40,00 UN NUMERO .............................................................................................. € 12,00 Per abbonamenti ed acquisti inviare copia della quietanza di versamento di bonifico bancario o postale a favore della Tesoreria dello Stato specificando codice IBAN: IT 42Q 01000 03245 348 0 10 2368 05, causale di versamento, indirizzo ove effettuare la spedizione, codice fiscale del versante. I destinatari della rivista sono pregati di comunicare eventuali variazioni di indirizzo AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA -Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 indice -sommario Comunicato dell’Avvocato Generale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Carlo Sica, Un saluto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . TEMI ISTITUZIONALI Stefano Lorenzo Vitale, Avvocati del libero Foro delegati dall’Avvocatura dello Stato ai sensi dell’art. 2, R.D. n. 1611/1933: attività oggetto della delega e compensi spettanti (parere 17 febbraio 2021, prot. 107165, AL 37216/2020) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1 Decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 177, Art. 18 “Successione nei rapporti giuridici attivi e passivi del Corpo forestale dello Stato”. Legittimazione passiva, Circolare A.G. 18 maggio 2021 n. 25 . . . . . . . . . . . . . ›› 7 Pareri rimborso spese di difesa dei dipendenti (ex art. 18 D.L. 25 marzo 1997 n. 67, conv. L. 23 maggio 1997 n. 135), Circolare A.G.A. 19 maggio 2021 n. 26 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 8 CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Antonio Grumetto, L’impatto della pandemia sul sistema giudiziario inglese: spunti di riflessione per la riforma della giustizia civile in Italia (C. Suprema Regno Unito, sentenza The financial Conduct Authority (Appellant) v. Arch Insurance (UK) Ltd and others (Respondents), 15 gennaio 2021) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 13 Wally ferrante, Sfavore per i movimenti secondari del Regolamento Dublino III e diritto all’unità familiare (C. giustizia Ue, osservazioni in causa C-720/20) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 26 Gaetana Natale, “Digital Green Certificate” La proposta della Commissione Europea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 32 Antonio Grumetto, I giudici di Strasburgo sull’obbligo vaccinale. Il riassunto della sentenza: una cornice di principi che gli Stati devono osservare nel creare un giusto bilanciamento tra obblighi vaccinali e rispetto della sfera privata (Corte EDU, Grande Camera, sent. Vavřička and others v. the Czech Republic, 8 aprile 2021) . . . . . . . . . . . ›› 43 CONTENZIOSO NAZIONALE Adolfo Mutarelli, Le Sezioni Unite chiamate a ricomporre il puzzle del risarcimento danni da illegittima occupazione in tema di acquisizione sanante (Cass., Sez. I civ., ord. 24 dicembre 2020 n. 29625) . . . . . . . . . . . ›› 47 Elisabetta Chiarelli, L’apparenza e i limiti dell’adempimento del dovere alla luce del diritto interno e delle fonti sovranazionali vigenti in materia di soccorso in mare (Cass., Sez. III pen., sent. 20 febbraio 2020 n. 6626) ›› 61 Elisabetta Chiarelli, Il rapporto tra recidiva reiterata e seminfermità mentale nella commisurazione della pena (C. cost., sent. 24 aprile 2020 n. 73) ›› 79 Nucleo familiare omogenitoriale: la pronuncia della Cassazione sulla convalida della trascrizione nell’anagrafe italiana di un atto di adozione estero (Cass. civ., Sez. Un., sent. 31 marzo 2021 n. 9006). . . . . . . . . . . . L’applicabilità ai giudizi di incandidabilità ex art. 143, comma 11, t.u.e.l. della normativa emergenziale in tema di sospensione dei termini (art. 83, comma 2, D.L. 8/2020). La ratio della misura interdittiva (Cass., Sez. I civ., ord. 5 febbraio 2021 n. 2749) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La Cassazione si pronuncia sulla trasparenza dell’algoritmo utilizzato per determinare il rating reputazionale (Cass., Sez. I civ., ord. 25 maggio 2021 n. 14381) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Luigia Michela fera, Alessandro D’Amico, Analisi della sentenza della Corte di appello di Venezia n. 2907/2021. Una annosa vicenda di esposizione ad amianto e morte del lavoratore, il giudice di merito dinanzi all’incertezza scientifica (C. appello Venezia, Sez. II pen., sent. 30 ottobre 2020 - 27 gennaio 2021 n. 2907) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Melania Nicoli, Un ricorso dell’Avvocatura dello Stato in tema di stalking: l’ammonimento del Questore (ex art. 8 D.L. n. 11/2009) e il diritto di difesa dell’ammonendo (presunto) stalker (Cons. St., Sez. III, sent. 24 aprile 2020 n. 2620) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Emergenza pandemica e misure limitative (T.a.r. Lazio, Sez. I, ord. 26 marzo 2021 n. 1921). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO Giuseppe Albenzio, L’istituto del lavoro agile nella fase emergenziale da Covid 19, modalità applicative alle Fondazioni Lirico -Sinfoniche . . . . Daniela Canzoneri, Fruizione del trattamento di quiescenza quale causa di incompatibilità con il conferimento di incarico professionale presso gli ambulatori USMAF-SASN del Ministero della Salute . . . . . . . . . . . . Carmela Pluchino, Requisizione di beni mobili (mascherine) nella fase emergenziale, problematiche operative . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Gabriella D’Avanzo, Cessione dei crediti della P.A. effettuata nel contesto di una operazione di c.d. cartolarizzazione ai sensi dell’art. 4 della legge n. 130/1999 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Gesualdo d’Elia, Unioni civili. Matrimonio omoaffettivo celebrato all’estero, trascrizione, decorrenza degli effetti giuridici ed economici . . . Gabriella D’Avanzo, Imparzialità e trasparenza dell’azione della P.A.: divieto di utilizzare lo scorrimento delle graduatorie a copertura di posti di nuova istituzione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Lorenzo D’Ascia, Problematiche concernenti contratti pubblici di concessione a fronte dell’emergenza pandemica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Andrea fedeli, Problematiche concernenti contratti pubblici di concessione a fronte dell’emergenza pandemica. Altro quesito . . . . . . . . . . . . . pag. 88 ›› 102 ›› 110 ›› 114 ›› 138 ›› 149 ›› 151 ›› 156 ›› 165 ›› 170 ›› 177 ›› 181 ›› 184 ›› 188 Diana Ranucci, Quesiti sulla competenza dei dirigenti scolastici in servizio all’estero in materia di immobili da adibilre a sede delle istituzioni scolastiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 190 Emanuele feola, Obbligazioni pecunarie della pubblica amministrazione: risarcimento delle spese sostenute per il recupero dei crediti ai sensi del- l’art. 6 D.Lgs n. 231/2002 e successive modifiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 201 Giancarlo Pampanelli, Obbligazioni pecunarie della pubblica amministrazione: risarcimento delle spese sostenute per il recupero dei crediti ai sensi dell’art. 6 D.Lgs n. 231/2002 e successive modifiche. Altri quesiti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 210 Emanuele Valenzano, Violazione dei principi di non discriminazione, istanza al Comitato per i Diritti Umani dell’ONU, modalità di esecuzione delle Considerazioni emesse dal Comitato. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 216 LEGISLAZIONE ED ATTUALITà Michele Gerardo, I quattro pilastri governativi per l’utilizzo efficiente del Recovery Fund: scelta di “buoni” progetti, semplificazione delle procedure, reperimento di adeguate professionalità, limitazione delle responsabilità gestorie. Analisi e rilievi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 221 Luca Soldini, La complessa attività legislativa dell’esecutivo: ruolo e funzioni del DAGL . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 239 CONTRIBUTI DI DOTTRINA Gaetana Natale, Intelligenza artificiale, neuroscienze, algoritmi: le sfide future per il giurista. L’uomo e la macchina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 249 Elena Berto, La disciplina fiscale applicabile in materia di Trust e l’imposta indiretta sulle successioni e donazioni: il recente approdo ermeneutico operato dalla giurisprudenza di legittimità . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 255 fabiana D’Avino, La successione dello Stato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 279 Comunicato dell’Avvocato Generale (*) Domani lascia il servizio, per raggiunti limiti di età, dopo oltre quaranta anni di prestigiosa presenza, l’Avvocato Generale Aggiunto Carlo Sica. Al Collega e Amico che ha onorato l’Avvocatura e il Paese con la Sua alta professionalità, la Sua dedizione e il Suo costante impegno, vanno i saluti e gli auguri più affettuosi miei e di tutti gli Avvocati e Procuratori dello Stato e del Personale dell’Avvocatura. Gabriella Palmieri Sandulli Un saluto Carissimi tutti, domenica prossima 23 maggio compirò 70 anni e, quindi, lascerò l’Istituto. Lo lascerò fisicamente, ma non con la mente e con il cuore. Oltre 42 anni sono indimenticabili. E lo sono anche perché l’Istituto mi ha dato l’opportunità di tali e tante occasioni professionali in quasi tutti i settori di interesse dell’Avvocatura che ho addirittura difficoltà a ricordarle tutte. (..) A voi auguro di proseguire con solita dedizione e usuale successo in questa professione che è semplicemente imparagonabile per rilevanza istituzionale, giuridica, economica e per la sua poliedricità che attribuisce agli avvocati e procuratori dello Stato la capacità di affrontare ogni questione esaminandola contemporaneamente da plurimi aspetti valutativi; capacità unica nel mondo del diritto italiano. Ai giovani colleghi l’augurio particolare di crescere rapidamente e affinare quella profonda preparazione che hanno dimostrato superando il concorso per l’accesso all’Avvocatura. Contate sui consigli e sull’esperienza dei colleghi più grandi di voi perché lo spirito proprio dell’Istituto è veramente quello di una famiglia, dove il bene di uno è il bene di tutti. (..) Un abbraccio a tutti voi. Carlo Sica (*) E-mail, Segreteria Particolare, sabato 22 maggio 2021. TEMIISTITUZIONALI Avvocati del libero Foro delegati dall’Avvocatura dello Stato ai sensi dell’art. 2, R.D. n. 1611/1933: attività oggetto della delega e compensi spettanti (Parere del 17/02/2021-107165, al 37216/2020, avv. Stefano lorenzo vitale) Con il presente parere si intende esaminare e dirimere questione sollevata da codesta Agenzia con la nota che si riscontra. Con detta nota codesta Agenzia, per quanto qui interessa, ha evidenziato delle incongruenze nelle parcelle redatte da Avvocati di libero foro delegati dalla Scrivente ad assumere la rappresentanza di codesta Agenzia nell'ambito di giudizi che si svolgono fuori della sede dell'Avvocatura dello Stato competente. In particolare, codesta Agenzia ha evidenziato come non spetterebbero a detti avvocati i compensi per la fase di "studio della controversia". Segnatamente, codesta Agenzia evidenzia che "nelle parcelle sono state inserite spese relative a fasi del giudizio che esulano dalla competenza degli avvocati incaricati. Ci si riferisce, in particolare, all'inserimento dell'attività di studio della controversia. a tal proposito, risulta evidente l'incongruenza di un'attività legale che prevede lo studio della controversia, ma non la fase introduttiva del giudizio (esclusa dalle parcelle in questione). Peraltro, come sancito nel Protocollo di intesa sottoscritto tra l'avvocatura e l'agenzia del demanio il 10 aprile 2012, la fase di studio della controversia compete alla scrivente e, nel caso, a codesto organo legale che predispone la comparsa a difesa degli interessi erariali". Al riguardo si rappresenta quanto segue precisandosi che il presente parere viene reso con riferimento alle liquidazioni dei compensi cui si applica ratione temporis il vigente Decreto del Ministero della Giustizia 10 marzo 2014, n. 55 (recante "regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense, ai sensi dell'articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247"), non venendo in ri RASSeGnA AvvOCATuRA DeLLO STATO -n. 4/2020 lievo, nella nota che si riscontra, parcelle redatte secondo i previgenti parametri. Gli incarichi di cui si discorre, conferiti dalla Scrivente ad avvocati del libero foro, sono regolati dall'art. 2, primo periodo, del R.d. 30 ottobre 1933, n. 1611 a mente del quale: "Per la rappresentanza delle amministrazioni dello Stato nei giudizi che si svolgono fuori della sede degli uffici dell'avvocatura dello Stato, questa ha facoltà di delegare funzionari dell'amministrazione interessata, esclusi i magistrati dell'ordine giudiziario, ed in casi eccezionali anche procuratori legali, esercenti nel circondano dove si svolge il giudizio". L'art. 2 R.d. n. 1611/1933 cit. è richiamato anche dal Protocollo di Intesa sottoscritto tra l'Avvocatura e l'Agenzia del Demanio del 10 aprile 2012 che, al punto 11.12, prevede che: "Per le cause che si svolgono davanti ad autorità giudiziarie aventi sede diversa da quella della competente avvocatura, essa garantisce l'assistenza, salvo avvalersi per le funzioni procuratorie dei funzionani dell'agenzia ai sensi dell'art. 2 del r.d. n. 1611/1933 o, in casi eccezionali, di avvocati del libero foro esercenti nel circondario dove si svolge il giudizio, scelti da un elenco predisposto dall'agenzia previa procedura selettiva concorsuale. in tali casi l'avvocatura trasmette l'atto di delega alla competente struttura territoriale dell'agenzia ovvero all'avvocato del libero foro designato. resta inteso che nell'inoltrare la parcella presentata dall'avvocato corrispondente, l'avvocatura si esprimerà in merito alla congruità". La delega ai sensi dell'art. 2 r.d. n. 1611/1933 cit., che instaura un rapporto inquadrabile in quello del mandato, consente alla Avvocatura dello Stato di affidare ad avvocati del libero le attività di "rappresentanza" nei giudizi che si svolgono fuori della sede dell'Avvocatura dello Stato competente. Oggetto della delega possono essere le sole attività di "rappresentanza", funzioni cui erano in precedenza abilitati i "procuratori legali" individuati dalla norma quali possibili destinatari della delega (1). Detta delega può riguardare, quindi, solo alcuni dei compiti ordinariamente svolti dall'Avvocatura dello Stato alla quale sono affidati, la "rappresentanza, il patrocino e l'assistenza" ex art. 1 del R.d. n. 1611/1933 (sulle differenze tra rappresentanza e patrocinio cfr., tra tante, Cass. Cassazione civile sez. III, 08/06/2017, n. 14276; Cassazione civile sez. II, 28/10/2019, n. 27466). Che la delega de qua riguardi in via di principio le sole "funzioni procuratorie" è confermato anche dalla giurisprudenza secondo cui "la delega concerne la sola rappresentanza in giudizio (cc. dd. funzioni procuratorie), mentre l'attività defensionale vera e propria in questo caso rimane affidata all'ufficio (1) Il termine "procuratore legale" deve intendersi ora sostituito con quello di "avvocato" come stabilito dall'art. 3 della L. 24 febbraio 1997, n. 27 che ha abolito la figura del procuratore legale. Tuttavia, il riferimento ai "procuratori legali", contenuto nel testo originario dell'art. 2 del r.d. n. 1611/1933, rimane un utile riferimento per individuare -secondo i criteri ermeneutici dell'interpretazione sistematica e del- l'intenzione del legislatore - le attività che possono essere oggetto della delega. TeMI ISTITuzIOnALI dell'avvocatura competente per territorio" (Cassazione civile, sez. lav., 05/09/2016, n. 17596). nella prassi, difatti, gli avvocati del libero foro vengono delegati dalla Avvocatura dello Stato a svolgere, conformemente alle istruzioni impartite e alle difese processuali svolte dalla Scrivente, attività di partecipazione alle udienze -ivi svolgendo tutti gli incombenti del caso, quali ad es., difese orali, deduzioni a verbale, partecipazione all'assunzione dei mezzi istruttori, ecc. ed eventuali adempimenti presso le cancellerie (es. deposito e ritiro di atti, laddove non vi provveda direttamente la Scrivente anche in via telematica). Ciò, ovviamente, comporta altresì una necessaria attività di corrispondenza e consultazione costante tra l'avvocato delegato e la Scrivente nonché attività strettamente connesse a quelle oggetto della delega, ad es. la formazione della posizione della pratica in studio (ex art. 1708 c.c. secondo cui "il mandato comprende non solo gli atti per i quali è stato conferito, ma anche quelli che sono necessari al loro compimento"). Rimangono di competenza della Scrivente tutte le restanti attività tra cui, in particolare, quelle relative alla predisposizione delle difese scritte, all'inoltro e al ricevimento delle notifiche e delle comunicazioni di cancelleria (l'Avvocatura dello Stato rimane domiciliataria dell'amministrazione patrocinata ex art. 11 R.D. n. 1611/1033, in caso di patrocinio obbligatorio, e ex art. 170 c.p.c. in caso di patrocinio autorizzato) (2), e le attività consultive nei confronti del- l'Amministrazione. L'attività dell'avvocato delegato ai sensi dell'art. 2 del R.d. n. 1611/1933 è assimilabile in parte a quella svolta, nell'ambito dei rapporti tra avvocati del libero foro, dall'avvocato domiciliatario. L'avvocato domiciliatario riceve un incarico da altro collega -mercé l'art. 82 del R.D. n. 37 del 1934 che obbliga gli avvocati di libero foro ad eleggere domicilio nella circoscrizione ove ha sede l'autorità giudiziaria davanti alla quale pende il processo (3) -in virtù del quale è tenuto a ricevere notifiche e comunicazioni per conto del primo; inoltre viene eventualmente incaricato di svolgere attività di natura processuale (sui compiti e funzioni dell'avvocato domiciliatario cfr. Consiglio nazionale Forense, sentenza del 6.11.2017, n. 158). Tale figura è in parte assimilabile alla figura dell'avvocato delegato ai sensi dell'art. 2 r.d. n. 1611/1933 in quanto in entrambi i casi, riconducibili al contratto di mandato, i delegati svolgono la propria attività in una sede diversa da quella propria del soggetto delegante nonché entrambi possono essere incaricati di svolgere attività processuali per conto del delegante sebbene la delega ex art. 2 r.d. n. 1611/1933 non contempla (2) L'avvocato delegato ex art. 2 r.d. n. 1611/1933 non è abilitato a ricevere notifiche, cfr. Cassazione civile, sez. lav., 05/09/2016, n. 17596 e giurisprudenza ivi citata. (3) La norma non si applica all'Avvocatura dello Stato, cfr. Cassazione civile, sez. I, 03/09/2009, n. 19128. RASSeGnA AvvOCATuRA DeLLO STATO -n. 4/2020 anche l'attività di domiciliazione in senso stretto rimanendo l'Avvocatura dello Stato il soggetto abilitato a ricevere comunicazioni e notifiche, come si è sopra detto. L'assimilazione dell'avvocato delegato ai sensi dell'art. 2 del R.d. n. 1611/1933 cit. all'avvocato domiciliatario, ferma la distinzione tra le due figure cui si è testé fatto cenno, sembra fornire spunti ermeneutici utili per risolvere la questione del compenso spettante al primo. Pare infatti opportuno far riferimento al D.M. n. 55/2014 cit., che detta una specifica disciplina per l'avvocato domiciliatario anche alla luce della regola generale in materia di contratto di mandato per cui, laddove non sia stata stabilita la misura del compenso, la stessa è determinata in base alle tariffe professionali (art. 1709 c.c.). Detto D.M. n. 55/2014 cit., a differenza del previgente D.M. 140/2012 che nulla prevedeva sul punto, all'art. 8, co. 2, stabilisce che "[a]ll'avvocato incaricato di svolgere funzioni di domiciliatario, spetta di regola un compenso non inferiore al 20 per cento dell'importo previsto dai parametri di cui alle tabelle allegate per le fasi processuali che lo stesso domiciliatario ha effettivamente seguito e, comunque, rapportato alle prestazioni concretamente svolte". viene quindi fissata la regola per cui i compensi sono rapportati alle prestazioni concretamente svolte e parametrati "di regola" al 20 per cento dei compensi tabellari previsti per ciascuna delle fasi processuali in cui il domiciliatario ha effettivamente prestato la propria attività. Si tratta di una regola conforme al generale principio di sinallagmaticità tra prestazioni svolte e compenso dovuto e alla medesima regola è informata anche la previsione per cui "Quando incaricati della difesa sono più avvocati, ciascuno di essi ha diritto nei confronti del cliente ai compensi per l'opera prestata" (art. 8, co. 1, D.M. n. 55/2014 cit.). venendo più nello specifico alla figura dell'avvocato delegato dall'Avvocatura dello Stato ai sensi dell'art. 2 del r.d. n. 1611/1933 cit., risulta che, con riferimento al processo civile di cognizione, la delega attribuita dalla Scrivente non comprende lo svolgimento di attività relative alla fase processuale di "studio della controversia" (4). Tale fase riguarda, difatti, una serie di attività "pre (4) Le fasi processuali individuate dall'art. 4, co. 5, D.M. n. 55/2014 cit., con riferimento al processo civile di cognizione, sono le seguenti: "a) per fase di studio della controversia: l'esame e lo studio degli atti a seguito della consultazione con il cliente, le ispezioni dei luoghi, la ricerca dei documenti e la conseguente relazione o parere, scritti oppure orali, al cliente, precedenti la costituzione in giudizio; b) per fase introduttiva del giudizio: gli atti introduttivi del giudizio e di costituzione in giudizio, e il relativo esame incluso quello degli allegati, quali ricorsi, controricorsi, citazioni, comparse, chiamate di terzo ed esame delle relative autorizzazioni giudiziali, l'esame di provvedimenti giudiziali di fissazione della prima udienza, memorie iniziali, interventi, istanze, impugnazioni, le relative notificazioni, l'esame delle corrispondenti relate, l'iscrizione a ruolo, il versamento del contributo unificato, le rinnovazioni o riassunzioni della domanda, le autentiche di firma o l'esame della procura notarile, la formazione TeMI ISTITuzIOnALI cedenti la costituzione in giudizio" (art. 4, co. 5, lett. a) D.M. n. 55/2014 cit.) e la delega della Scrivente ha ad oggetto, come si è detto, solo attività successive, provvedendo direttamente questa Avvocatura alla costituzione in giudizio e allo svolgimento delle attività prodromiche alla stessa. L'avvocato di libero foro delegato, invece, svolge alcune delle attività proprie delle successive fasi processuali, segnatamente la partecipazione alle udienze, secondo quanto di volta in volta viene previsto dalla delega. Del resto, anche con riferimento al previgente quadro normativo che distingueva tra la figura dell'avvocato e quella del procuratore legale, la giurisprudenza di legittimità ebbe ad affermare che qualora l'Avvocatura dello Stato, avvalendosi della facoltà di cui all'art. 2 del r.d. 30 ottobre 1933 n. 1611 cit., abbia delegato le funzioni di rappresentanza dell'amministrazione statale ad un procuratore legale esercente nel circondario in cui si svolge il giudizio, spettano a detto professionista per l'attività professionale prestata soltanto i diritti di procuratore e non anche gli onorari di avvocato (Cassazione civile, sez. II, 02/06/1992, n. 6650). Si concorda, pertanto, con codesta Amministrazione circa la non spettanza all'avvocato delegato dei compensi relativi alle attività proprie della fase di "studio della controversia". Spettano, invece, in parte qua secondo i parametri fissati in via di principio dal D.M. n. 55/2014 cit., i compensi e le relative spese, riferiti alle successive fasi processuali, in ragione di quanto di volta in del fascicolo e della posizione della pratica in studio, le ulteriori consultazioni con il cliente; c) per fase istruttoria: le richieste di prova, le memorie illustrative o di precisazione o integrazione delle domande o dei motivi d'impugnazione, eccezioni e conclusioni, l'esame degli scritti o documenti delle altre parti o dei provvedimenti giudiziali pronunciati nel corso e in funzione dell'istruzione, gli adempimenti o le prestazioni connesse ai suddetti provvedimenti giudiziali, le partecipazioni e assistenze relative ad attività istruttorie, gli atti necessari per la formazione della prova o del mezzo istruttorio anche quando disposto d'ufficio, la designazione di consulenti di parte, l'esame delle corrispondenti attività e designazioni delle altre parti, l'esame delle deduzioni dei consulenti d'ufficio o delle altre parti, la notificazione delle domande nuove o di altri atti nel corso del giudizio compresi quelli al contumace, le relative richieste di copie al cancelliere, le istanze al giudice in qualsiasi forma, le dichiarazioni rese nei casi previsti dalla legge, le deduzioni a verbale, le intimazioni dei testimoni, comprese le notificazioni e l'esame delle relative relate, i procedimenti comunque incidentali comprese le querele di falso e quelli inerenti alla verificazione delle scritture private. al fine di valutare il grado di complessità della fase rilevano, in particolare, le plurime memorie per parte, necessarie o autorizzate dal giudice, comunque denominate ma non meramente illustrative, ovvero le plurime richieste istruttorie ammesse per ciascuna parte e le plurime prove assunte per ciascuna parte. la fase rileva ai fini della liquidazione del compenso quando effettivamente svolta; d) per fase decisionale: le precisazioni delle conclusioni e l'esame di quelle delle altre parti, le memorie, illustrative o conclusionali anche in replica, compreso il loro deposito ed esame, la discussione orale, sia in camera di consiglio che in udienza pubblica, le note illustrative accessorie a quest'ultima, la redazione e il deposito delle note spese, l'esame e la registrazione o pubblicazione del provvedimento conclusivo del giudizio, comprese le richieste di copie al cancelliere, il ritiro del fascicolo, l'iscrizione di ipoteca giudiziale del provvedimento conclusivo stesso; il giudice, nella liquidazione della fase, tiene conto, in ogni caso, di tutte le attività successive alla decisione e che non rientrano, in particolare, nella fase di cui alla lettera e)”. RASSeGnA AvvOCATuRA DeLLO STATO -n. 4/2020 volta previsto nella delega conferita nonché in base alle attività effettivamente svolte, in misura che appare congruo stimare, salvo la particolarità di singoli casi e anche con riferimento alle specificità delle singole fasi processuali, in un importo tendenzialmente pari al 20 per cento della relativa voce di tariffa sulla base del valore della causa. Le attività svolte dovranno essere indicate analiticamente dai legali delegati affinché la Scrivente possa rendere il previsto parere di congruità. nei termini sopra esposti è reso il parere della Scrivente rinviandosi a successivi pareri specifici il visto di congruità delle tre parcelle trasmesse da codesta Agenzia con la nota che si riscontra. Sulla questione è stato sentito il Comitato Consultivo che nella seduta del 16 febbraio 2021 si è espresso in conformità. L'Avvocato dello Stato Stefano Lorenzo Vitale L’Avvocato Generale Gabriella Palmieri Sandulli TeMI ISTITuzIOnALI Avvocatura Generaledello Stato CirCoLAre n. 25/2021 oggetto: Decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 177. Art. 18. "Successione nei rapporti giuridici attivi e passivi del Corpo forestale dello Stato". Legittimazione passiva. Si rende noto che il Capo di Gabinetto del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali ha segnalato che pervengono al predetto Dicastero numerosi fascicoli istruttori relativi a contenzioso su materie gestite sino al 31 dicembre 2016 dal Corpo Forestale dello Stato, ex Centro di Responsabilità Amministrativa del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, che da quella data sono transitate, ope legis, nelle diverse amministrazioni del Comparto Sicurezza e Difesa. Allo scopo di evitare gli inconvenienti che ne derivano, il Capo di Gabinetto "auspica ogni atto di indirizzo diretto a far sì che lo Scrivente Ministero sia estromesso ex art. 111 c.p.c. dai giudizi in cui è tutt'ora parte in senso formale, con conseguente subentro del nuovo soggetto legittimato passivo e che siano assicurate la contestazione del difetto di legittimazione passiva, nonché l'impugnazione delle pronunce che non accolgano l'eccezione conseguente alla titolarità degli obblighi ratione materiae del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, nelle attribuzioni ad esso affidate dal legislatore e nelle residue competenze trasferite ai sensi dell'art. 11 del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 177". Ritenuta la fondatezza della richiesta, si invitano le SS.LL. a tener presente, nelle attività di competenza, il segnalato auspicio e quindi a voler dar corso a quanto richiesto. L'AvvOCATO GeneRALe Avv. Gabriella Palmieri Sandulli RASSeGnA AvvOCATuRA DeLLO STATO -n. 4/2020 Avvocatura Generaledello Stato CirCoLAre n. 26/2021 oggetto: Pareri rimborso spese di difesa dei dipendenti. La presente circolare, prendendo spunto da pareri, quasi esclusivamente del Comitato Consultivo, resi negli ultimi 4 anni nella materia del rimborso delle spese di difesa ai sensi dell'art. 18 del decreto-legge 25.03.1997, n. 67, convertito in legge 23.05.1997, n. 135, affronta le principali problematiche derivanti dalla disposizione costituendo documento di base per la predisposizione e redazione dei pareri nella medesima materia. Il comma 1 dell'articolo 18 del decreto-legge n. 67 del 1997, convertito in legge n. 135 del 1997, recita: "le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall'avvocatura dello Stato. le amministrazioni interessate, sentita l'avvocatura dello Stato, possono concedere anticipazioni del rimborso, salva la ripetizione in caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità". La disposizione, quindi, subordina il rimborso al ricorrere di due condizioni: 1) che il giudizio di responsabilità sia stato promosso in conseguenza di fatti e atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali; 2) che il giudizio si sia concluso con sentenza o altro provvedimento che abbia escluso la responsabilità dell'istante. A queste due, parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene di aggiungerne una terza: 3) la carenza di conflitto d'interessi con l'amministrazione. Al riguardo, appare evidente che l'origine di questa terza condizione comporta una sua valutazione prudenziale (anche perché la legge ha affidato all'Avvocatura dello Stato la verifica della ricorrenza dei presupposti per il rimborso); valutazione da effettuare ex post e non ex ante (per la semplice ma decisiva ragione che altrimenti tutti i reati propri -quali inevitabilmente tutti quelli commessi da dipendenti pubblici nell'esercizio delle loro funzioni -non rientrerebbero nella previsione normativa). venendo alla prima delle due condizioni, la norma richiede la connessione dei fatti e atti con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento degli obblighi istituzionali. Occorre evidenziare che la disposizione fa espresso riferimento ai "fatti e atti" posti in essere dall'interessato. Se ne deve dedurre che la disposizione, contrariamente a quanto contenuto nella relazione illustrativa, non tutela solo "la paura della firma" (cioè, gli atti) ma anche i comportamenti (cioè, i fatti) purchè connessi al servizio o all'adempimento di obblighi istituzionali. Su tale connessione, la norma non specifica cosa si debba intendere per servizio od obbligo istituzionale. I pareri resi sono nel senso che il servizio riguarda il rapporto organico, nel senso di svolgimento del servizio (o meglio del munus) cui l'interessato è preposto; mentre l'adempi TeMI ISTITuzIOnALI mento degli obblighi istituzionali riguarda il rapporto di servizio tra l'amministrazione di appartenenza e l'interessato. nel primo rientrano, quindi, tutti gli atti, essenzialmente verso gli amministrati, che l'interessato pone in essere in connessione con il munus ricoperto. Ma vi rientrano anche quei fatti addebitati all'interessato quali comportamenti svianti e sviati del medesimo munus (parere Co.Co. AL 40018/2016; parere Co.Co. AL 41083/2016). vi rientrano, in tal modo, tutte le ipotesi di reati propri contestati all'interessato. nel secondo tutto ciò che attiene al rapporto di lavoro. Con la conseguenza, in questo secondo caso, che vi rientrano anche tutti gli atti e adempimenti che l'interessato deve porre in essere verso l'amministrazione in quanto rappresentanti una modalità obbligatoria (parere Co.Co. AL 40017/2016). Il Comitato Consultivo ha così ritenuto rientranti in tali categorie dichiarazioni rese all'amministrazione, frasi profferite verso un superiore gerarchico (parere Co.Co. AL 24523/2018) a meno che non derivino da ragioni esclusivamente personali (parere Co.Co. AL 23464/2918) ovvero asseritamente diffamatorie (parere Co.Co. AL 32014/2015), produzione di certificazioni mediche (parere Co.Co. AL 1471/2017), utilizzo vero o presunto di beni dell'amministrazione messi a disposizione dell'interessato (parere Co.Co. AL 7640/2016 concernente caso peculiare; parere Co. Co. AL 20297/2016; parere Co.Co. AL 40418/2016). In tali sensi chiarita la portata della prima condizione di legge per ottenere il rimborso delle spese, necessita, quale seconda condizione, che il giudizio che ha visto convenuto o indagato/ imputato l'interessato si sia concluso con sentenza o provvedimento che abbia escluso la sua responsabilità. La sentenza deve necessariamente essere passata in giudicato; mentre, a seconda dei casi, il provvedimento può non essere definitivo quale, ad esempio, un'archiviazione nel merito da parte del GIP. Molto si è discusso se la norma pretenda una esclusione di responsabilità in senso generale oppure se essa vada riferita allo specifico procedimento. nel senso, in particolare, che, nella prima ipotesi, la decisione prima e la carenza di altre iniziative dell'amministrazione (quale, in particolare, quella disciplinare) escludano ogni profilo di responsabilità in capo all'interessato (parere Co.Co. AL 44991/2015; parere Co.Co. 26925/2017); nella seconda ipotesi invece, ogni procedimento ha un suo specifico oggetto e, rispetto a questo solo oggetto, va valutata l'assenza di responsabilità (in tal caso, ad esempio, l'irrogazione di una sanzione disciplinare all'interessato non inciderebbe -ai fini del rimborso in esame -sulla assoluzione o archiviazione in sede penale). numerosi pareri si sono da ultimo espressi nel senso che entrambe le ipotesi non possano essere seguite in astratto e in assoluto, ma che vada compiuto un esame riferito alla specifica fattispecie e allo specifico oggetto dei procedimenti interessati. Al riguardo, si deve escludere che la valutazione in ordine alla ricorrenza -foss'anche eventuale -di rilievi disciplinari contenuta nella sentenza o nel provvedimento di esclusione di responsabilità possa incidere sul parere ex art. 18, spettando quella valutazione in via esclusiva all'amministrazione. Quanto alla formula assolutoria nei procedimenti penali, è ius receptum che qualsiasi formula di merito sia utile ai fini del rimborso, comprese quelle ex art. 530, secondo comma, c.p.p., ed ex art. 425, terzo comma, c.p.p. (su quest'ultima parere Co.Co. AL 10452/2019). Quanto alle pronunce in rito, si è ritenuto che l'originale mancanza di querela o la sua "sopravvenienza" in caso di derubricazione dell'ipotesi di reato (parere Co.Co. AL RASSeGnA AvvOCATuRA DeLLO STATO -n. 4/2020 26941/2017) ovvero -per talune ipotesi di reati militari -la mancanza della richiesta del Comandante del Corpo integrino i requisiti per il rimborso, trattandosi di fattispecie nelle quali viene esclusa in radice la rilevanza penale dei fatti (sempre salva la valutazione dell'eventuale incidenza di una rilevanza disciplinare). Ovviamente, quanto ora detto non trova applicazione nelle ipotesi di decisioni che non escludano la responsabilità, quali remissione di querela (parere Co.Co. AL 8533/2019) ovvero prescrizione (entrambe rinunciabili) (sulla prescrizione, parere Co.Co. AL 55878/2004) ovvero di decisioni che escludano solo la pena (ad es., proscioglimento per tenuità del fatto) e che, anzi, presuppongono un'affermazione -sia pure implicita -di responsabilità (per un caso peculiare, parere Co.Co. AL 38017/2017). Da ultimo sul punto, i pareri resi hanno affrontato anche il tema dell'assoluzione parziale nel medesimo procedimento penale, riconoscendo il rimborso relativamente ai reati coperti da assoluzione, con esclusione del caso in cui i reati stessi rinvengano da un unico comportamento ovvero da comportamenti intimamente legati o conseguenti. Il criterio del rimborso, in tale caso, non è rigidamente matematico ma può tenere conto della natura e gravità dei reati coperti da assoluzione rispetto a quelli per cui è intervenuta condanna. Da ultimo, quale caso particolare, va menzionato il parere del Co.Co. (AL 27397/2017) a tenore del quale "l'avvenuta proposizione dell'appello incidentale da parte del dipendente pubblico non fa venire meno la sua posizione di appellato principale, dovendosi riconoscere il rimborso delle spese legali inerenti il grado di appello". venendo al profilo soggettivo della disposizione, essa parla di "dipendenti di amministrazioni statali". Al riguardo, si era sempre privilegiata un'interpretazione "aperta" affermandosi che doveva trovare applicazione contenutistica il disposto dell'art. 44 del R.D. n. 1611 del 1933 e che, quindi, il rimborso spettasse ai dipendenti ed anche agli "agenti" dell'amministrazione. Tuttavia, la Corte Costituzionale, nella recente sentenza n. 267 del 2020, ha invece interpretato restrittivamente il termine "dipendente" affermando che la disposizione de qua "testualmente individua i beneficiari del rimborso nei dipendenti di amministrazioni statali e le amministrazioni di appartenenza quali obbligate, sicchè è corretta la premessa da cui muove il remittente, vale a dire l'impossibilità di estendere in via interpretativa il diritto al rimborso a soggetti che operano nell'interesse dell'amministrazione al di fuori da un rapporto di pubblico impiego". Questa affermazione appare rendere assai arduo il mantenimento del percorso argomentativo che aveva portato all'interpretazione suaccennata, con inerente limitazione del diritto al rimborso in favore dei soli dipendenti. Ben vero che, nella medesima sentenza, la Corte ha poi dichiarato l'incostituzionalità della disposizione per violazione dell'art. 3 Cost. in presenza di identità di esercizio di funzione tra dipendente e non dipendente (nella specie, si trattava di istanza di rimborso spese avanzate da un giudice di pace) e, quindi, solo in situazioni sostanzialmente identiche si potrebbe ipotizzare un'interpretazione ampliativa costituzionalmente orientata. venendo, ora, al profilo oggettivo, l'art. 18 ha riguardo ai giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa. nella responsabilità amministrativa rientra pacificamente quella contabile (Corte Cost., sentenza n. 189/2020). Sul tema si richiama la circolare n. 11/2021, da completare nel senso che, a tenore di TeMI ISTITuzIOnALI tale ultima sentenza, anche la fase non contenziosa del giudizio contabile può, ricorrendone tutti gli altri requisiti, essere oggetto di rimborso. Resta a dire dell'attività consultiva dell'Avvocatura dello Stato nella materia. va anzitutto ribadito che "la competenza alla redazione del parere ex art. 18 d.l. n. 67/1997 si radica in capo alla sede dell'avvocatura competente per il processo a quo, dal quale sorge il diritto al rimborso" (parere Co.Co. AL 54161/2019) per tale intendendosi il grado di giudizio in esito al quale è stata resa la pronuncia divenuta definitiva. Sul punto, l'art. 18 fa riferimento solo al parere sul quantum ("... sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti ritenuti congrui dall'avvocatura dello Stato"). Ma, a parte il caso che sia la stessa amministrazione interessata a chiedere parere sull'an debeatur ai sensi dell'art. 13 del R.D. n. 1611 del 1933, l'Avvocatura ha sempre rivendicato la potestà di valutare la sussistenza dei requisiti che precedono la fase di esame di congruità. e la giurisprudenza univoca la ha seguita. va dato per pacifico che nel processo penale il dipendente abbia diritto di nominare due difensori e, in tal caso, ha diritto al rimborso delle spese per entrambi, tranne l'ipotesi in cui l'avvalimento dei due difensori risulti eccessivo o ultroneo in relazione all'oggetto del procedimento e fermo che (parere Co.Co. AL 21709/2016) "qualora le prestazioni difensive dei due difensori dell'istante appaiono interamente coincidenti, l'importo del rimborso deve essere limitato alla somma erogata ad uno solo dei due". Relativamente alla individuazione dei criteri per effettuare l'esame di congruità, i pareri resi sono nel senso di condividere quanto statuito dalla Corte di Cassazione a SS.uu. n. 13861/2015: "il pubblico funzionario ingiustamente accusato per fatti inerenti a compiti e responsabilità dell'ufficio ha diritto al rimborso delle spese sostenute per la sua difesa, la cui entità va riconosciuta nei limiti dello strettamente necessario secondo il parere di congruità, di natura consultiva, dell'avvocatura (ndr. dello Stato) che, -nella prospettiva di un contemperamento tra le esigenze di salvaguardia della spesa pubblica e di protezione del dipendente -non può limitarsi ad una applicazione pedissequa delle tarjffe forensi applicata ai minimi tariffari, ma, nel valutare le necessità difensive del funzionario in relazione alle accuse mosse ed ai rischi del processo (penale), nonchè la conformità della parcella del difensore alla tariffa professionale o ai parametri vigenti, deve considerare ogni elemento nel rispetto dei principi di affidamento, ragionevolezza e tutela effettiva dei diritti riconosciuti dalla Costituzione". La regola generale è che la congruità si debba attenere all'applicazione dei medi tariffari, salva ovviamente la valutazione del caso specifico in relazione alla tipologia del giudizio, alla natura del suo oggetto e a tutti gli altri criteri analiticamente indicati nei D.M. succedutisi nel tempo. In ordine al D.M. applicabile, va considerata ogni singola fase processuale (fase preprocessuale, fase di primo grado, fase di secondo grado, etc.). numerosi pareri hanno riconosciuto rimborsabile anche le spese sostenute dal dipendente per l'attività professionale posta in essere da Ct di parte o similari consulenti (parere Co.Co. AL 34138/2017). Quali questioni particolari vanno segnalati i seguenti pareti del Co.Co.: 1) parere del Co.Co. (AL 37512/2017) che ha affermato: "va escluso il rimborso ex art. 18, per carenza del presupposto della finalizzazione della condotta del dipendente all'espletamento del servizio o all'assolvimento di obblighi istituzionali nell'ipotesi di attività sindacale svolta da personale della P.S.; tale rimborso è, infatti, ammesso esclusivamente nei casi tassativamente descritti nell'art. 83 l. n. 121/1981, concernenti le condotte che, poste in essere RASSeGnA AvvOCATuRA DeLLO STATO -n. 4/2020 da rappresentanti sindacali, concorrono alla gestione dell'attività organizzativa e amministrativa della P.a., connettendosi quindi all'espletamento del servizio"; 2) parere Co.Co. (AL 42064/2017) che ha affermato: "va esclusa la rimborsabilità delle spese legali relative a un giudizio svoltosi dinanzi ad un organo della giustizia sportiva, in quanto giudizio estraneo all'apparato giurisdizionale dell'ordinamento statale in un procedimento comunque non volto ad accertare una responsabilità civile, penale o amministrativa"; 3) parere Co.Co. (AL 15454/2016) che ha affermato: "le spese di assistenza legale ex art. 197 bis c.p.p. sono rimborsabili solo nelle ipotesi in cui il soggetto audito sia stato destinatario di provvedimenti (archiviazione e sentenza di non luogo a procedere) ad irrevocabilità c.d. relativa; tale assistenza legale costituisce obbligo per il soggetto escusso, il quale non può privarsi di tale ausilio professionale nel rendere testimonianza, così garantendo l'interesse generale sotteso alla normativa di settore"; 4) parere del Co.Co. (AL 27397/2017) che ha affermato: "in caso di accertata e definitiva insolvenza della parte soccombente tenuta al pagamento delle spese legali in favore del dipendente sussiste l'obbligo per la Pa di erogare il rimborso ex art. 18. l'erogazione del rimborso deve essere subordinata alla espressa dichiarazione del dipendente di surrogare l'amministrazione nei propri diritti nei confronti del debitore ex art. 1201 c.c."; 5) parere Co.Co. (AL 28649/2019) che ha affermato: "nel giudizio civile, a differenza di quello penale, la definizione di rito non è necessariamente ostativa al rimborso ex art. 18, essendo invece consentito all'amministrazione di valutare caso per caso; il rimborso è ammesso laddove, a seguito dell'esame complessivo dell'intera vicenda processuale, emerga l'esclusione di responsabilità del dipendente che non abbia voluto quella definizione imputabile esclusivamente alla controparte"; 6) parere del Co.Co. (AL 450/2017) che ha affermato: "È liquidabile la somma richiesta a titolo di rimborso ex art. 18 d.l. n. 67/1997 anche nell'ipotesi in cui le fatture non siano state redatte con analitica indicazione delle fasi previste dal d.M n. 55/2014, purché l'importo rientri comunque nei limiti (ndr: di regola nei medi) stabiliti dal citato d.M. È rimborsabile la spesa per il rilascio di procura speciale al difensore a mezzo atto notarile ove il rilascio della stessa procura direttamente al difensore comporti maggiori spese legate ai costi dello spostamento dalla città del dipendente a quella del legale (nella specie, spostamento dalla Sardegna a Roma); 7) parere (AL 4055/2021) che ha affermato l'inapplicabilità dell'art. 18 ai dirigenti e dipendenti delle Autorità Portuali, in quanto non dipendenti di amministrazioni statali in ragione della natura di enti pubblici non economici di rilevanza nazionale a ordinamento speciale delle Autorità (art. 6 L. n. 84/1994, come modificato con il D.Lgs. n. 169/2016. Ringrazio gli avvocati Giovanni Greco, Maria Francesca Severi, emanuele Manzo e Luca Reali per il loro essenziale contributo nella ricerca dei pareri e nella formulazione delle massime che hanno consentito la redazione della presente circolare certamente di utilità per il lavoro professionale nella materia. L'AvvOCATO GeneRALe AGGIunTO Avv. Carlo Sica ContenzIoSoComunItarIoedInternazIonaLe L’impatto della pandemia sul sistema giudiziario inglese: spunti di riflessione per la riforma della giustizia civile in Italia Nota a Corte Suprema del regNo uNito, SeNteNza the FiNaNCial CoNduCt authority (appellaNt) v. arCh iNSuraNCe (uK) ltd aNd otherS (reSpoNdeNtS), 15 geNNaio 2021 Antonio Grumetto* Based on a recent ruling by the UK Supreme Court, the article analyses how the loss of profit policy market works while elaborates some proposals for developments of Italian civil proceedings before courts that could simplify and speed up decision-making processes in commercial sectors affecting interests of tens of thousands of people thus promoting economic recovery after the COVID-19 pandemic. Sommario: 1. l’equilibrio fra contenimento della pandemia e ripresa economica -2. la decisione della Suprema Corte inglese del 15 gennaio 2021 -2.1. le clausole lop (loss of profit) -2.2. le caratteristiche del procedimento dinanzi alla Suprema Corte. la legittimazione straordinaria per la risoluzione di questioni giuridiche -2.2.1. (segue) la procedura accelerata -2.3 le questioni controverse -2.3.1. Clausole sul rischio assicurato -2.3.2. impossibilità di accedere ai locali dell’azienda nelle clausole ibride -2.3.3. Nesso di causalità - 2.3.4. trend clauses - 3. Conclusione. 1. l’equilibrio fra contenimento della pandemia e ripresa economica. Non vi sono dubbi sul fatto che l’attuale emergenza sanitaria causata dalla pandemia da COVID-19 rappresenti la causa non solo di una grave crisi sani (*) Avvocato dello Stato. Sentenza consultabile all’indirizzo https://www.supremecourt.uk/cases/docs/uksc-2020-0177judgment. pdf. RASSEGNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 4/2020 taria, con i suoi risvolti drammatici in termini di perdita di vite umane causata dal contagio, ma anche la ragione di una altrettanto drammatica crisi economica i cui effetti non tarderanno a manifestarsi in tutta la loro ampiezza tanto sul mercato del lavoro quanto sul tessuto produttivo del nostro Paese. La necessità di contemperare l’esigenza, da un lato, di contenere il diffondersi della pandemia e, dall’altro, di limitare al massimo i danni per l’economia nazionale, già così duramente provata da anni di recessione economica alle spalle, è non a caso alla base delle misure economiche prese dal Governo in favore, in particolare, delle imprese in occasione dei vari provvedimenti assunti dall’Esecutivo per limitare la circolazione delle persone sul territorio nazionale e di conseguenza la diffusione del virus (1). Se, però, la crisi sanitaria sembra vedere una luce in fondo al tunnel grazie alla approvazione dei primi vaccini contro il contagio da COVID-19 e alla loro somministrazione alle categorie di persone più vulnerabili o più esposte al contagio, la crisi economica non solo è appena iniziata, ma è destinata a vedere i suoi effetti protrarsi per diversi anni a venire. La speranza di un miglioramento dell’economia italiana per le prossime generazioni di cittadini è rappresentata non solo e non tanto dal programma di finanziamento messo in atto dall’Unione europea attraverso il Recovery Plan, ma soprattutto dalla adozione delle necessarie riforme strutturali del nostro Paese di cui tanto si è parlato negli anni scorsi e che ancora tardano a venire. Uno dei settori per i quali è maggiormente sentita l’esigenza di uno rinnovamento è senza dubbio quello della giustizia ed in particolare quello della giustizia civile (2). La durata dei giudizi, in particolare di quelli civili, e la variabilità degli orientamenti giurisprudenziali rappresentano un costo troppo alto per l’economia italiana e scoraggiano gli operatori stranieri dall’investire in Italia. Basti pensare alla disciplina processuale di recente introdotta per le con (1) In particolare, si vedano l’art. 25 del D.L. 19 maggio 2020, n. 34, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, L. 17 luglio 2020, n. 77; nonché gli artt. 1, 1 bis,1 ter del D.L. 28 ottobre 2020 n. 137 conv. in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, L. 18 dicembre 2020, n. 176 in cui sono confluite le misure di sostegno alle imprese di cui al Decreto Ristori 1, bis ter e quater. Uno studio ragionato di tali misure di sostegno alle imprese è contenuto nel Focus n. 3 del 23 dicembre 2020 dell’Ufficio parlamentare di Bilancio reperibile all’indirizzo https://www.upbilancio.it/focus-tematico- n-3-23-dicembre-2020/. (2) Già la Raccomandazione n. 2 del Consiglio europeo per il 2019 -riprendendo sostanzialmente quanto già previsto nelle omologhe Raccomandazioni per il 2017 e 2018 -invitava l'Italia a “ridurre la durata dei processi civili in tutti i gradi di giudizio, facendo rispettare le norme di disciplina procedurale, incluse quelle già prese in considerazione dal legislatore”. In tal senso si sono anche espresse, nella relazione approvata, le Commissioni 5a e 14a del Senato in occasione dell'esame delle Linee guida sul PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), laddove sottolineano che secondo alcuni studi un efficiente sistema giudiziario consentirebbe di recuperare dall’1,3% al 2,5% (da 22 miliardi a 40 miliardi) del PIL, stimolando gli imprenditori, anche esteri, ad investire nel nostro Paese in quanto la tempestività delle decisioni giudiziarie è elemento essenziale per le imprese, per gli investitori e per i consumatori. CONtENzIOSO COMUNItARIO ED INtERNAzIONALE troversie civili originate dagli effetti della pandemia da COVID-19. Mentre in Italia, al fine di alleggerire il peso che la conflittualità originata dalla pandemia inevitabilmente riverserà sul sistema giudiziario, è stato introdotto un nuovo caso di mediazione obbligatoria per alcune controversie in materia contrattuale (3), altri paesi sembrano avere una marcia in più per affrontare quella che potrebbe rivelarsi una nuova causa dell’emergenza giudiziaria nel nostro Paese. 2. la decisione della Suprema Corte inglese del 15 gennaio 2021. La decisione di recente pubblicata dalla Suprema Corte del Regno Unito ne è un esempio. In poco più di 9 mesi dai primi provvedimenti assunti dal Governo inglese a seguito dello scoppio della pandemia da COVID-19, gli operatori economici inglesi hanno avuto a disposizione una decisione della massima Autorità giudiziaria del Regno Unito su una questione di enorme impatto per l’economia dei paesi che lo compongono e con effetti vincolanti per tutti i giudici che compongono il sistema giudiziario. L’importanza della decisione è dichiarata nelle stesse premesse della sentenza della Suprema Corte, in cui si evidenziano le differenze tra il sistema giudiziario italiano e quello anglosassone in termini di rapidità ed efficienza. La controversia è stata promossa dalla FCA (Financial Conduct autority) nei confronti di otto tra le maggiori compagnie inglesi di assicurazioni, operanti in particolare nel ramo dell’assicurazione contro le perdite da interruzione dell’attività di impresa. La decisione ha riguardato le principali questioni di interpretazione delle clausole contenute nelle polizze relative agli effetti indiretti causati dalla pandemia sulle imprese. 2.1. le clausole lop (loss of profit). Per comprendere il significato di questo tipo di garanzia, occorre dire che quando un’azienda viene colpita da un evento che ne danneggia il patrimonio, (3) Si tratta del comma 6 ter dell’art. 3 del D.L. 23 febbraio 2020, n. 6 (convertito dalla legge 5 marzo 2020, n. 13) come inserito dall’art. 3 comma 1 quater del D.L. 30 aprile 2020 n. 38 (convertito dalla legge 25 giugno 2020, n. 70), il quale recita “Nelle controversie in materia di obbligazioni contrattuali, nelle quali il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto, o comunque disposte durante l'emergenza epidemiologica da Covid-19 sulla base di disposizioni successive, può essere valutato ai sensi del comma 6-bis, il preventivo esperimento del procedimento di mediazione ai sensi del comma 1-bis dell'articolo 5 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, costituisce condizione di procedibilità della domanda”. A sua volta l’art. 6 bis del medesimo art. 3 del già menzionato D.L. n. 6 del 2020 stabilisce che “il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 del codice civile, della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”. RASSEGNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 4/2020 oltre ai danni diretti (la perdita totale o parziale di uno dei beni dell’azienda, per esempio a causa di un incendio) si possono riscontrare anche grosse perdite economiche, derivanti dall’impossibilità di svolgere la normale attività produttiva. L’interruzione o riduzione dell’esercizio comporta effetti devastanti per l’azienda. Il fermo dell’attività può comportare effetti di varia natura: quelli di tipo “transitorio”, che riguardano la riduzione del volume d’affari e del relativo profitto lordo, l’aumento dei costi di esercizio, ovvero di lavorazione dei beni prodotti e di acquisizione dei beni da trasformare o commercializzare; quelli “permanenti”, che comportano la perdita di quote di mercato; quelli “contingenti”, che si verificano in occasione di esborsi per multe o penali contrattuali. Si tratta di una tipologia di danno che colpisce non solo i singoli beni ma l’azienda nel suo complesso, e le conseguenze economiche che ne derivano possono assumere, rispetto al danno diretto, dimensioni molto più rilevanti e talvolta anche drammatiche per la vita dell’azienda. Da tempo, pertanto, il mercato delle assicurazioni ha pensato ad un’adeguata copertura assicurativa in grado di ripristinare la situazione finanziaria antecedente al sinistro. La prima tipologia di copertura, attualmente in uso, è chiamata clausola di indennità aggiuntiva, risale alla fine del ‘700 e vede l’assicuratore impegnato a riconoscere una determinata percentuale aggiuntiva fissa rispetto al danno materiale. tale forma è caratterizzata da semplicità di calcolo e velocità nel processo di indennizzo, ma la percentuale fissa, qualora dovessero sopraggiungere sinistri gravi, potrebbe rivelarsi un fattore di penalizzazione per l’assicurato. La garanzia diaria è una tipologia di copertura che venne introdotta successivamente, e prevede il rimborso di un determinato indennizzo per ogni giorno di inattività aziendale, calcolato in base alla durata del fermo. La clausola Selling price, al posto di far pagare l’equivalente del prezzo di costo, obbliga a pagare quello di vendita dei prodotti finiti, ed è vantaggiosa per il fatto che il prezzo di vendita include la quota di tutti i costi aziendali e l’utile. Può essere applicata solo nel caso vengano danneggiati dei prodotti già venduti, quindi in caso di fermo dovuto a danni a fabbricati o macchinari non ha alcuna utilità. Ma la forma di copertura oggi più utilizzata è quella a margine di Contribuzione, MdC, nata nel 1994 per rimediare ai limiti della garanzia LOP (loss of profit). La formula loss of profit, detta LOP, ovvero di perdita di profitto lordo, venne introdotta in Inghilterra nel 1899. Essa copre la perdita di profitto lordo, oltre alle spese supplementari (al netto del risparmio di spesa). La MdC, invece, assicura contro la perdita del “margine di contribuzione” (vale a dire la somma fra utili e costi fissi, che si ottiene sottraendo dal fatturato i costi variabili che CONtENzIOSO COMUNItARIO ED INtERNAzIONALE sono appunto quei costi che non si sostengono con il fermo della azienda) e le spese supplementari sostenute dall’assicurato per limitare tale perdita. I vantaggi di questa ultima formula risiedono nella velocità di indennizzo e semplicità. Al di là dei tecnicismi contabili delle varie formule, la loro diffusione in Europa è molto variegata. In Italia, tuttavia, tale formula assicurativa non è molto diffusa perché, oltre ad essere ancora poco conosciuta, viene probabilmente etichettata come troppo costosa e complessa. Probabilmente la durata dei giudizi civili e la variabilità degli esiti giudiziari hanno un peso non secondario nell’ostacolare l’espansione di questo tipo di polizza tra gli imprenditori italiani: l’idea di dover attendere anni prima di poter ottenere l’indennizzo per le perdite subite, magari dopo costose e defatiganti battaglie giudiziarie, può scoraggiare i potenziali acquirenti dal ricorrere a questa copertura. Proprio applicando tali istituti e in conformità allo spirito degli stessi, invece, il sistema giudiziario inglese ha risposto allo sconvolgimento causato dalla pandemia da COVID-19 con una decisione rapida, vincolante e di facile implementazione. 2.2. le caratteristiche del procedimento dinanzi alla Suprema Corte. la legittimazione straordinaria per la risoluzione di questioni giuridiche. Con la sentenza del 15 gennaio scorso la Suprema Corte ha esaminato un significativo campione di polizze proposte dalle compagnie di assicurazioni che hanno partecipato al giudizio e l’esito del giudizio, reso in tempi record, è suscettibile di influenzare l’applicazione tra le parti contraenti di qualcosa come 700 tipi di polizza in aggiunta a quelle espressamente considerate, offerti sul mercato da più di 60 compagnie di assicurazioni e di riguardare circa 370.000 soggetti assicurati. Non c’è bisogno di ulteriori commenti per capire l’importanza di tale decisione per il mercato anglosassone delle imprese, specie in un momento così delicato come quello della conclusione dei negoziati sulla Brexit. Gli operatori del settore, da un lato imprenditori assicurati e dall’altro imprese di assicurazione, hanno ora un chiaro e definitivo indirizzo giurisprudenziale da applicare per quantificare le perdite subite dalle attività imprenditoriali a causa delle misure adottate dai Governi inglese e di altri Stati per i quali la decisione della Suprema Corte inglese è vincolante. Si tratterà ora solo di applicare i paletti fissati dalla decisione ai vari casi di perdite subite per l’interruzione dell’attività economica, attraverso un giudizio di fatto di cui pure la decisione fornisce i parametri. E c’è da aspettarsi che nessuno, né gli assicurati né gli assicuratori, penserà di ridiscutere i termini della questione dinanzi ad un giudice, affrontando i notevoli costi imposti dal sistema giudiziario anglosassone e andando incontro all’effetto vincolante delle decisioni della Suprema Corte proprie dei sistemi di common law. In questa situazione, le imprese possono contare su RASSEGNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 4/2020 un sistema di regole chiaro e vincolante per avanzare le loro richieste di indennizzo alle assicurazioni, recuperando così, almeno in parte, la liquidità persa a causa delle forzate interruzioni dell’attività economica imposte dai provvedimenti restrittivi adottati dal Governo. Certo, alcune delle caratteristiche del sistema anglosassone non sono esportabili nei paesi di civil law come il nostro. A cominciare dall’effetto vincolante delle decisioni della Suprema Corte, la cui applicazione in Italia trova un ostacolo nel principio della soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101 Cost.) e nella c.d. primazia del diritto euro-unitario con il connesso obbligo di sottoporre alla Corte di giustizia le questioni di interpretazione della relativa disciplina (art. 267 tFUE). Ma altre sembrano mutuabili senza particolare sforzo ed in parte già operanti nel nostro ordinamento processuale. Ad esempio, ciò che ha reso possibile concentrare le questioni interpretative delle clausole assicurative LOP in un unico giudizio è stata la legittimazione della FCA a sottoporre ai giudici inglesi un test case senza bisogno dell’esistenza di una specifica disputa tra le parti e quando si tratta di questioni di particolare importanza per le quali è richiesto con urgenza un indirizzo autorevole e rilevante. Per quanto sia una Autorità di regolazione e non un organismo rappresentativo degli operatori del settore, la FCA è legittimata a promuovere tali giudizi nell’interesse dei consumatori. Si tratta di giudizi per i quali le parti devono accordarsi sulle questioni da proporre al giudice attraverso quello che si chiama Accordo quadro e deve trattarsi di questioni di generale importanza per le quali il modo di sottoporle ai giudici deve essere previamente concordato tra le parti. I fatti controversi devono poi essere pacifici: nel caso di specie l’Accordo quadro conclusosi tra le parti è intervenuto sia sull’ambito delle misure adottate dai vari Governi del Regno Unito per fronteggiare la crisi sanitaria sia sui testi delle polizze da sottoporre al giudizio. Inoltre, è previsto che il giudizio, di regola, non dia luogo a condanna alle spese. Perché, dunque, non attribuire una tale legittimazione anche all’Autorità italiana per la concorrenza ed il mercato? (4). Si tratterebbe perciò di introdurre un procedimento finalizzato ad ottenere rapidamente dalla Corte di cassazione una advisory opinion su questioni di particolare rilevanza per l’economia nazionale e con l’efficacia data dalla autorevolezza della pronuncia. Sarebbe di certo una modalità di risoluzione anticipata di questioni giuridiche di partico (4) Il Governo italiano ha presentato il disegno di legge delega sulla riforma della giustizia (Atto Senato N. 1662 http://www.senato.it/service/pdF/pdFServer/Bgt/01141527.pdf ), attualmente fermo presso la seconda Commissione (Giustizia) per l’esame in sede referente. Il disegno di legge comprende disposizioni sulla mediazione, sul giudizio di primo grado e di appello nonché sul giudizio di esecuzione, ma non prevede casi di legittimazione straordinaria di Autorità indipendenti a proporre test cause su questioni di diritto. CONtENzIOSO COMUNItARIO ED INtERNAzIONALE lare importanza, potenzialmente rilevanti per interi settori economici e limitata alle questioni di diritto e quindi non appesantita dalla necessità di risolvere aspetti di fatto o inerenti al quantum tipici delle controversie promosse dal titolare del diritto. Già ci sono casi di Autorità di regolazione legittimate ad agire in giudizio nell’interesse dell’applicazione obiettiva del diritto e come espressione del potere di vigilanza e/o regolazione del settore. Basti pensare che nell’ambito delle attuali prerogative attribuite dalla legge all’AGCM vi è anche la legittimazione ad agire ex art. 21-bis L. n. 287/90, con particolare riferimento all’impugnazione di regolamenti, atti amministrativi generali e provvedimenti emanati da qualsiasi amministrazione (comprese altre autorità indipendenti), laddove questi risultino contrari alle disposizioni della normativa antitrust. O alla possibilità per l’ANAC di impugnare i bandi, gli altri atti generali e i provvedimenti relativi a contratti di rilevante impatto, emessi da qualsiasi stazione appaltante, qualora ritenga che essi violino le norme in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (art. 211 del Codice appalti) (5). Ma mentre per le controversie dinanzi al giudice amministrativo la legittimazione di soggetti metaindividuali a tutela di un interesse collettivo è un fenomeno frequente in quanto legato alla natura spesso indivisibile e generale del bene giuridico oggetto del provvedimento amministrativo, nel campo della giurisdizione ordinaria la tutela degli interessi collettivi si presenta spesso come una somma della tutela degli interessi individuali lesi da comportamenti altrui (6). Perché possa ammettersi una legittimazione a proporre azioni finalizzate, non a prevenire o riparare una lesione, ma ad acquisire una interpretazione di atti giuridici, è, perciò, necessaria una previsione normativa che riconosca ad un soggetto giuridico il potere di agire in giudizio nell’interesse del diritto obiettivo e non a tutela di una situazione soggettiva, ancorché collettiva, o di una somma di interessi individuali. E questo soggetto non può che essere un soggetto pubblico perché non si tratta di proteggere interessi collettivi, omo (5) Anche le associazioni di categoria sono titolari di una legittimazione ad agire in giudizio per ottenere l’annullamento di atti amministrativi illegittimi: le associazioni individuate in base all'articolo 13 della legge n. 349 del 1986 in materia di ambiente possono, non solo intervenire nei giudizi per danno ambientale ma anche ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atti illegittimi. L'art. 4, co. 2, L. 11 novembre 2011, n. 180 riconosce alle associazioni di imprenditori maggiormente rappresentative nei diversi livelli territoriali la legittimazione a impugnare gli atti amministrativi lesivi degli interessi diffusi. Ma in questi casi si tratta di legittimazione ad agire a tutela di un interesse collettivo che è proprio della associazione e non di un interesse generale all’applicazione del diritto obiettivo (Cons. Stato Ad. Plen., 20 febbraio 2020, n. 6). (6) Come è noto la legge 12 aprile 2019 n. 31 ha modificato la disciplina della azione di classe contenuta negli artt. 140 e 140 bis del codice del consumo, introducendo nel Codice civile un intero titolo VII bis del libro IV interamente dedicato ad una azione di classe prevista non più solo a tutela dei consumatori ma di qualsiasi “diritto individuale omogenei”. Si tratta, tuttavia, sempre di una azione generale, a carattere inibitorio o risarcitorio, a tutela di interessi individuali omogenei e non di una azione finalizzata ad ottenere la risoluzione di questioni giuridiche astratte. RASSEGNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 4/2020 genei o addirittura diffusi, quanto quello di assicurare la corretta applicazione del diritto in ipotesi astratte. È ovvio che la decisione della Corte di cassazione non potrebbe vincolare gli altri giudici e ciò in virtù dell’art. 101 della Costituzione e della soggezione del giudice soltanto alla legge. tuttavia, il sistema già prevede ipotesi di efficacia rafforzata di decisioni assunte da organi di ultima istanza della giurisdizione ordinaria e di quella amministrativa. L’art. 64 del t.U. n. 165 del 2001 prevede che quando il giudice non intenda conformarsi ad una decisione della Corte di cassazione già intervenuta su una questione rilevante per il giudizio, è tenuto ad attivare il meccanismo previsto dalla medesima disposizione per giungere, eventualmente, ad una nuova decisione della Corte di cassazione. L’art. 99 del codice del processo amministrativo prevede che la sezione del Consiglio di Stato cui è assegnato il ricorso se ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dal- l'Adunanza plenaria, rimette a quest'ultima, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso. Ovviamente, tale meccanismo non può pregiudicare il funzionamento del sistema del rinvio pregiudiziale di cui all’art. 267 del tFUE (7) e tuttavia, quando si sia fuori da questioni di interpretazione ed applicazione del diritto eurounitario, un sistema di efficacia rafforzata del precedente, che non precluda una rimeditazione della questione purché motivata da valide ragioni, mi sembrerebbe compatibile con l’art. 101 della Costituzione. 2.2.1. (segue) la procedura accelerata. La decisione del 15 gennaio 2021 della Suprema Corte ha, inoltre, concluso un giudizio durato appena 7 mesi (l’Accordo quadro tra le parti è del 1 giugno 2020 e il processo è iniziato il 9 giugno 2020) ed è stata emessa a seguito di un ricorso per saltum (in inglese leapfrog): dopo una prima decisione della corte di primo grado (in composizione non monocratica) formata da due giudici inseriti nell’elenco dei giudici specializzati in materia di servizi finanziari (Financial list), di cui uno della Court of Appeal e uno della High Court, la causa è approdata subito presso la Suprema Corte. Quest’ultima ha tenuto 4 udienze (tra il 16 novembre ed il 20 novembre 2020) e ha depositato la sentenza in data 15 gennaio 2021. Sia la sentenza di primo grado che quella della Suprema Corte affrontano in maniera approfondita e con costante riferimento ai precedenti giurispruden (7) Corte giustizia Unione Europea Grande Sez., 5 aprile 2016, n. 689/13: “l'art. 267 tFue deve essere interpretato nel senso che osta a una disposizione di diritto nazionale nei limiti in cui quest'ultima sia interpretata nel senso che, relativamente a una questione vertente sull'interpretazione o sulla validità del diritto dell'unione, una sezione di un organo giurisdizionale di ultima istanza, qualora non condivida l'orientamento definito da una decisione dell'adunanza plenaria di tale organo, è tenuta a rinviare la questione all'adunanza plenaria e non può pertanto adire la Corte ai fini di una pronuncia in via pregiudiziale”. CONtENzIOSO COMUNItARIO ED INtERNAzIONALE ziali le varie questioni sottoposte dalle parti. È sufficiente menzionare che la sentenza di primo grado consta di 580 paragrafi mentre quella della Suprema Corte di 326 paragrafi. 2.3 le questioni controverse. Le questioni trattate erano poi di estrema importanza e delicatezza. Ne accenniamo qualcuna, lasciando ai più curiosi il piacere (e, in qualche caso, la difficoltà connessa alla astrattezza delle problematiche interpretative) di leggere la decisione della Suprema Corte. 2.3.1. Clausole sul rischio assicurato. La Corte Suprema ha preso in considerazione la formulazione della clausola in una polizza RSA ("RSA 3") come esemplare. Questa clausola (come molte altre formulazioni) copre le perdite da interruzione dell'attività derivanti da qualsiasi evento di una “malattia notificabile” (8) entro un raggio geografico specificato (tipicamente 25 miglia) dai locali assicurati. Il Collegio di primo grado ha interpretato la clausola nel senso che essa assicura copertura per le perdite per interruzione dell'attività derivanti da COVID-19 (che è stata resa una malattia soggetta a obbligo di denuncia il 5 marzo 2020) a condizione che l’assicurato dimostri l’esistenza di un caso della malattia entro il raggio geografico (di regola 25 miglia). La Suprema Corte ha dato, invece, ragione agli assicuratori che: (i) ogni caso di malattia subita da una persona a causa di COVID-19 è un "evento" separato ai fini della polizza; (ii) la clausola copre solo le perdite per interruzione dell'attività derivanti da casi di malattia che si verificano nel raggio. 2.3.2. impossibilità di accedere ai locali dell’azienda nelle clausole ibride. Le clausole di impossibilità all'accesso e le clausole ibride (9) specificano (8) In Inghilterra, il 5 marzo 2020 tramite una modifica al regolamento sulla protezione della salute (notifica) del 2010 (SI 2010/659) ("il regolamento del 2010") il COVID-19 è stato reso una "malattia soggetta a obbligo di notifica" e la SARS-CoV-2 un "agente causale". Ai sensi dei regolamenti del 2010, un medico generico abilitato ha il dovere di comunicare all'autorità locale se ha ragionevoli motivi per sospettare che un paziente abbia una "malattia soggetta a notifica", definita come una malattia elencata nell'Allegato 1, o un'infezione che presenta o potrebbe presentare un danno significativo alla salute umana. L'autorità locale deve riferire qualsiasi notifica di questo tipo che riceve, tra gli altri, al PHE (public healt england) che è una agenzia del Dipartimento della Salute e della Assistenza sociale. L'Allegato 1 ai Regolamenti del 2010 conteneva un elenco di 31 malattie comunicabili prima dell'aggiunta di COVID-19. Il 6 marzo 2020, modifiche simili sono state apportate ai regolamenti sulla protezione della salute in Galles Regolamento 2010 (SI 2010/1546). Il COVID-19 era stato reso una malattia soggetta a notifica in Scozia il 22 febbraio 2020 e in Irlanda del Nord il 29 febbraio 2020. L'11 marzo 2020, l'OMS ha dichiarato la infezione da COVID-19 una pandemia. (9) Esempi di queste clausole sono riportati al § 96 della decisione (ad es: “loss … resulting from … prevention of access to the premises due to the actions or advice of a government or local authority RASSEGNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 4/2020 una serie di requisiti che devono essere tutti soddisfatti prima che l'assicuratore sia tenuto a pagare. Alcune clausole si applicano solo quando ci sono "restrizioni imposte" da un'autorità pubblica in seguito al verificarsi di una malattia notificabile. Il primo collegio aveva ritenuto che questo requisito è rappresentato solo da una misura espressa in termini obbligatori che abbia forza di legge. La Corte Suprema ha respinto questa interpretazione come troppo ristretta e ha ritenuto che un'istruzione data da un'autorità pubblica (come il famoso “stay at home”) può equivalere a una "restrizione imposta" se, in base al modo e ai termini con cui è formulata, è da ritenere o è ragionevole ritenere (tenuto conto delle conoscenze di una persona media) che la sua osservanza sia obbligatoria indipendentemente dall’esercizio di poteri espressamente previsti. La Corte Suprema non si pronuncia sul se singole misure soddisfino questo test, ma indica che l'argomento è più forte in relazione ad alcune misure generali, come certe istruzioni in termini obbligatori del Primo Ministro relative alla chiusura dei locali commerciali del 21 e del 26 marzo 2020, e meno in relazione ad esortazioni o consigli relativi al distanziamento sociale e allo “stay at home”. In qualche caso, poi, le clausole prevedevano la copertura solo quando la perdita di interruzione dell'attività fosse causata dall'“impossibilità di utilizzare" i locali assicurati da parte dell'assicurato. Il primo collegio aveva sostenuto che questo significasse incapacità completa e non solo parziale di utilizzare i locali. La Corte Suprema ritiene, invece, che questo requisito possa essere soddisfatto sia quando un assicurato non è in grado di utilizzare i locali per una parte soltanto della sua attività commerciale (10) sia quando la sua intera attività commerciale è impedita dalla chiusura o dalle restrizioni imposte soltanto su alcuni locali della sua azienda perché gli altri locali dell’azienda, ancorché agibili, non sono idonei a svolgere l’attività commerciale in modo autonomo. In altri termini ciò che conta è l’incidenza sulla attività commerciale e non l’incidenza sui locali in sé. 2.3.3. Nesso di causalità. La questione del nesso di causalità è una delle più interessanti della decisione per le sue somiglianze con le discussioni dottrinali che si registrano sul tema della causalità in Italia. In sintesi, si può dire che la Suprema Corte ritiene: (i) come causa delle perdite finanziarie dell’assicurato ogni episodio di due to an emergency which is likely to endanger life or property” oppure “loss as a result of closure or restrictions placed on the premises as a result of a notifiable human disease manifesting itself at the premises or within a radius of 25 miles of the premises”). (10) Si pensi alla attività di ristorazione, che può essere impedita dalle restrizioni imposte al servizio al tavolo mentre può essere svolta con il servizio da asporto. CONtENzIOSO COMUNItARIO ED INtERNAzIONALE COVID-19 verificatosi all’interno dell’area geografica indicata dalla clausola della polizza (di regola 25 miglia dai locali aziendali); (ii) nell’interpretare la nozione di pericolo assicurato e le clausole che escludono alcuni rischi, non rilevano cause sopravvenute rispetto a tale causa “prossima” che non siano anomali o abnormi (11); (iii) ogni caso di COVID-19 verificatosi nell’area geografica indicata dalla polizza come pericolo assicurato anche se le misure del Governo che hanno determinato la chiusura dei locali aziendali sono state prese in considerazione del fenomeno della pandemia nel suo complesso; in altri termini, cause concorrenti (vale a dire, altri casi di COVID-19 verificatisi all’esterno dell’area geografica indicata dalla polizza) pur avendo concorso a determinare le chiusure dei locali aziendali, costituendo un rischio non escluso dalla polizza, nemmeno escludono la garanzia; (iv) non applicabile il giudizio controfattuale basato sulla dottrina del “but for” test; le compagnie di assicurazione avevano cercato di sostenere che il nesso di causalità era escluso dal ragionamento controfattuale, dato che le misure restrittive sarebbero state prese ugualmente anche a prescindere (but for) dal caso di COVID-19 che fa scattare la garanzia. La Suprema Corte ha respinto la tesi delle assicurazioni ricordando che un limite del giudizio contro- fattuale è dato dalla ipotesi delle cause indipendenti tra di loro che sono ciascuna in grado di determinare l’evento: in questi casi l’applicazione del giudizio controfattuale porterebbe a negare l’efficacia causale di ognuna delle cause (12); (v) non applicabile il criterio, suggerito dalle assicurazioni, secondo cui il rapporto causale sarebbe escluso qualora i rischi non assicurati (precisamente i casi di COVID-19 verificatisi fuori dell’area geografica richiamata nella polizza) avessero avuto una incidenza maggiore rispetto a quelli verificatisi nel- l’area geografica (weighing approach) (13). (11) Viene richiamata la controversia leyland Shipping ltd contro Norwich union Fire insurance Society ltd [1918] AC 350. Una nave silurata da un sottomarino tedesco fu rimorchiata fino al porto più vicino, ma dovette ancorare nel porto esterno esposto al vento e alle onde. Dopo tre giorni la nave affondò. La nave era assicurata contro i pericoli del mare, ma c'era un'eccezione nella polizza per "tutte le conseguenze delle ostilità o delle operazioni belliche". La House of Lords ha confermato la decisione dei tribunali dei gradi precedenti secondo cui la perdita era stata causata dal siluro, che era una conseguenza delle ostilità, e quindi non era coperta dall'assicurazione. (12) Viene citato il caso dei due fuochi appiccati separatamente, ciascuno dei quali in grado di bruciare la casa o delle due pallottole sparate separatamente che colpiscono entrambe mortalmente l’escursionista: in entrambi i casi il giudizio controfattuale porterebbe ad escludere il nesso causale con riferimento ad ognuna delle cause, dato che l’evento si sarebbe verificato lo stesso a prescindere da ciascuna di esse considerata isolatamente. (13) La Suprema Corte osserva al riguardo che un tale approccio sarebbe praticabile solo se fosse possibile stabilire la percentuale di efficacia causale dei casi di COVID-19 suddividendola fra quelli verificatisi all’interno e quelli verificatisi all’esterno dell’area geografica considerata da ciascuna polizza. RASSEGNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 4/2020 2.3.4. trend clauses. Sono le clausole inserite nelle polizze che stabiliscono i criteri per l’indennizzo. Il metodo standard utilizzato nell'assicurazione contro l'interruzione dell'attività per quantificare la somma pagabile ai sensi della polizza prende un periodo commerciale precedente a fini comparativi. Nella maggior parte delle formulazioni questo è l'anno civile che precede l'operazione del danno assicurato. Dal fatturato dell'azienda in questo periodo si ricavano "fatturato standard" o "entrate standard". Questa cifra viene poi confrontata con il fatturato o le entrate effettive durante il periodo d'indennizzo. I risultati dell'attività nel periodo di confronto sono anche utilizzati per ricavare una percentuale del fatturato che rappresenta l'utile lordo. Il tasso di profitto lordo viene poi applicato alla riduzione del fatturato per calcolare la perdita recuperabile. L’indennizzo comprende anche l'aumento del costo del lavoro durante il periodo di indennizzo. Secondo la Suprema Corte questo meccanismo di indennizzo deve essere applicato tenendo conto soltanto delle circostanze, diverse da quelle legate alla pandemia da COVID-19, che avrebbero riguardato l’attività imprenditoriale assicurata se la pandemia non si fosse verificata. Ciò al fine di evitare che il meccanismo applicato per calcolare l’indennizzo finisca per vanificare l’interpretazione data dalla Suprema Corte alla definizione del rischio assicurato, in relazione al quale, come si è visto, sono state giudicate irrilevanti le cause legate alla pandemia concorrenti rispetto al rischio assicurato (i casi di COVID-19 verificatisi fuori dall’area geografica indicata nella polizza). 3. Conclusioni. Come si può vedere dal panorama delle questioni affrontate dalla Suprema Corte inglese, si è trattato di affrontare anche temi generali da tempo conosciuti anche nel nostro ordinamento, quali il nesso di causalità, la rilevanza delle sopravvenienze e l’ambito delle conseguenze dannose indennizzabili. Si tratta di temi sui quali la giurisprudenza e la dottrina italiana si sono da tempo esercitate con risultati altamente pregevoli e che non hanno nulla da invidiare a quelli raggiunti dalle Corti supreme e dagli studiosi di altri paesi. E se la necessità di una pronuncia della Corte di cassazione italiana sulle clausole delle polizze LOP non si rende necessaria per la scarsa diffusione di tale forma assicurativa, non è difficile immaginare che l’esigenza di certezza giuridica possa sorgere in relazione ad altri settori colpiti dal carattere diffusivo degli effetti della pandemia. Si pensi ad esempio alla problematica della riconduzione del contratto ad equità attraverso la rinegoziazione delle clausole quando la sua esecuzione, così come programmata dalle parti, sia stata impedita dal sopravvenire di misure restrittive legate al confinamento imposto dal Governo. Non richiederebbero i concetti di forza maggiore, di impossibilità sopravvenuta, di factum principis e della loro incidenza sul regolamento ne CONtENzIOSO COMUNItARIO ED INtERNAzIONALE goziale che venisse introdotta una forma di azione come quella esistente nel- l’ordinamento inglese? Un autorevole e rapido pronunciamento della Corte di cassazione (14) su questioni interpretative astratte non contribuirebbe ad orientare le decisioni delle corti inferiori nella risoluzione delle controversie proposte dinanzi ad esse o addirittura a prevenirne la proposizione? (14) Un inquadramento generale delle questioni, assai autorevole ma privo di efficacia vincolante, si può trovare nel contributo di recente fornito dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di cassazione con la Relazione n. 56 dedicata alle “Novità normative sostanziali del diritto “emergenziale” anti-Covid 19 in ambito contrattuale e concorsuale” reperibile all’indirizzo https://www.portaledelmassimario. ipzs.it/frontoffice/studipubblicazioni.do. RASSEGNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 4/2020 Sfavore per i movimenti secondari del regolamento dublino III e diritto all’unità familiare (Corte di giuStizia dell’uNioNe europea, oSServazioNi del goverNo italiaNo iN CauSa C-720/20, promoSSa CoN ordiNaNza 24 diCemBre 2020 dal verwaltuNgSgeriCht CottBuS - germaNia) 1. Con l’ordinanza in epigrafe, è stato chiesto alla Corte di Giustizia dell’Unione europea di pronunciarsi, ai sensi dell’art. 267 tFUE, sulle seguenti questioni pregiudiziali: 1. Se, alla luce dell’esigenza di evitare movimenti secondari imposta dal diritto dell’unione e del principio generale dell’unità familiare sancito dal regolamento (ue) n. 604/2013, sia opportuno applicare in via analogica l’articolo 20, paragrafo 3, di detto regolamento in una fattispecie in cui un minore e i suoi genitori presentano domanda di protezione internazionale nel medesimo Stato membro, ma i genitori siano già beneficiari di protezione internazionale in un altro Stato membro, mentre il minore è nato nello Stato membro in cui ha presentato la suddetta domanda. 2. in caso di risposta affermativa alla questione, se debba omettersi l’esame della domanda d’asilo del minore ai sensi del regolamento (ue) n. 604/2013 e adottare una decisione di trasferimento in forza dell’articolo 26 del regolamento, tenuto conto del fatto che, ad esempio, lo Stato membro in cui i suoi genitori beneficiano della protezione internazionale sia competente per l’esame della domanda di protezione internazionale presentata dal minore. 3. in caso di risposta affermativa alla precedente questione, se l’articolo 20, paragrafo 3, del regolamento (ue) n. 604/2013 sia applicabile in via analogica, anche nella parte in cui la sua seconda frase dichiari non necessario l’avvio di una specifica procedura di presa in carico del minore più giovane, benché in tal caso sussista il rischio che lo Stato membro ospitante non sia a conoscenza di un’eventuale situazione legittimante l’accoglienza del minore o, rispettivamente, rifiuti, in linea con la propria prassi amministrativa, di applicare in via analogica l’articolo 20, paragrafo 3, del regolamento medesimo, esponendo così il minore al rischio di diventare un «refugee in orbit». 4. in caso di risposta negativa alla seconda e alla terza questione, se una decisione di inammissibilità ai sensi dell’articolo 33, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2013/32/ue possa essere adottata in via analogica nei confronti di un minore che ha presentato una domanda di protezione internazionale in uno Stato membro anche qualora a beneficiare della protezione internazionale in un altro Stato membro sia non il minore stesso, bensì i suoi genitori. esposizione dei fatti di causa 2. La questione pregiudiziale sollevata dal Giudice tedesco trae origine dal ricorso di una cittadina della Federazione russa, nata in Germania il 21 di CONtENzIOSO COMUNItARIO ED INtERNAzIONALE cembre 2015 la cui domanda di protezione internazionale è stata dichiarata irricevibile dalle Autorità tedesche. 3. I suoi genitori e i cinque fratelli (alcuni dei quali minori) sono beneficiari, in Polonia, della protezione internazionale dal 19 marzo 2012. 4. Nel dicembre 2012, i genitori hanno lasciato la Polonia e si sono trasferiti in Germania dove hanno presentato domanda di asilo. 5. L'autorità tedesca competente ha chiesto alla Polonia di riprendere in carico i richiedenti, ma l'istanza è stata respinta in quanto, appunto, la Polonia aveva già esaminato la loro domanda e riconosciuto lo status di rifugiato. 6. Nel 2016 è stata presentata domanda di protezione in Germania anche per la ricorrente, ma la domanda è stata dichiarata irricevibile in quanto in forza del regolamento n. 604/2013, in particolare gli articoli 9, 10 e 20, paragrafo 3, è individuabile un altro Stato membro competente all'esame della sua domanda. 7. Contro tale decisione è stato presentato ricorso davanti al tribunale amministrativo di Cottbus che ha chiesto il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. normativa dell’unione 8. Il regolamento n. 604/2013 che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide (c.d. Dublino III) prevede, all’art. 20, paragrafo 3, relativo all’avvio della procedura di presa in carico, che “3. ai fini del presente regolamento, la situazione di un minore che accompagna il richiedente e risponde alla definizione di familiare, è indissociabile da quella del suo familiare e rientra nella competenza dello Stato membro competente per l'esame della domanda di protezione internazionale del suddetto familiare, anche se il minore non è personalmente un richiedente, purché ciò sia nell'interesse superiore del minore. lo stesso trattamento è riservato ai figli nati dopo che i richiedenti sono giunti nel territorio degli Stati membri senza che sia necessario cominciare una nuova procedura di presa in carico degli stessi” (enfasi aggiunta). 9. Ai sensi del successivo art. 26, paragrafo 1 del predetto regolamento, “1. Quando lo Stato membro richiesto accetta di prendere o riprendere in carico un richiedente o un'altra persona di cui all'articolo 18, paragrafo 1, lettera c) o d), lo Stato membro richiedente notifica all'interessato la decisione di trasferirlo verso lo Stato membro competente e, se del caso, di non esaminare la sua domanda di protezione internazionale….”. 10. A norma dell’art. 33, paragrafo 1 della direttiva 2013/32/UE (c.d. Direttiva procedure), recante “Domande inammissibili” , “1. oltre ai casi in cui una domanda non è esaminata a norma del regolamento (ue) n. 604/2013, gli Stati membri non sono tenuti ad esaminare se al richiedente sia attribuibile RASSEGNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 4/2020 la qualifica di beneficiario di protezione internazionale a norma della direttiva 2011/95/ue, qualora la domanda sia giudicata inammissibile a norma del presente articolo”. In base al successivo paragrafo 2, lettera a), “2. gli Stati membri possono giudicare una domanda di protezione internazionale inammissibile soltanto se: a) un altro Stato membro ha concesso la protezione internazionale”. risposta al primo quesito 11. Con il primo quesito, il giudice del rinvio chiede in sostanza alla Corte di giustizia di chiarire se l’art. 20, par. 3 del regolamento UE n. 604/2013 -in base al quale la situazione di un minore che accompagna il richiedente e risponde alla definizione di familiare, è indissociabile da quella del suo familiare e rientra nella competenza dello Stato membro competente per l'esame della domanda di protezione internazionale del suddetto familiare, anche se il minore non è personalmente un richiedente, purché ciò sia nell'interesse superiore del minore -debba essere applicato analogicamente al caso in cui un minore cittadino russo nato in Germania nel 2015 e i suoi genitori, i quali ultimi hanno già ottenuto la protezione internazionale in Polonia nel 2012, richiedano la protezione internazionale in Germania dove si sono successivamente trasferiti. 12. Il Governo italiano ritiene di dare risposta positiva al quesito. 13. In sostanza, il tribunale tedesco si chiede se, in considerazione del- l'esigenza, imposta dal diritto dell’Unione, di evitare movimenti secondari e in considerazione del principio di unità familiare sancito dal regolamento n. 604/2013, sia opportuno interpretare analogicamente l'articolo 20, paragrafo 3, del regolamento applicandolo a un caso in cui richiedenti siano un minore, nato nello Stato membro in cui la domanda è stata presentata (la Germania), e i suoi genitori, i quali ultimi siano già beneficiari di protezione internazionale riconosciuta da altro Stato membro (la Polonia). 14. Le ragioni che inducono il tribunale tedesco a sollevare il rinvio pregiudiziale scaturiscono dalla particolarità del caso concreto che non consente la mera applicazione del criterio di competenza previsto dal regolamento Dublino III ed in particolare dall'articolo 20, paragrafo 3, letto in combinazione con l'articolo 33, paragrafo 2, lettera a) della direttiva 2013/32/UE che fissa il principio secondo cui gli Stati membri non hanno l'onere di esaminare nel merito una domanda di protezione internazionale quando il richiedente abbia già ottenuto tale protezione da un altro Stato membro. 15. Nel caso oggetto della causa principale, infatti, la Polonia ha riconosciuto la protezione internazionale ai genitori del minore richiedente asilo in Germania i quali, tuttavia, hanno scelto di lasciare il territorio della Polonia per trasferirsi in Germania, alla quale hanno nuovamente chiesto protezione, per sé e per il figlio nato nel frattempo. 16. Come osservato dal tribunale rimettente, la questione consegue alla scelta dei familiari del minore di effettuare un "movimento secondario", fe CONtENzIOSO COMUNItARIO ED INtERNAzIONALE nomeno che l'intero sistema CEAS, di cui anche il regolamento Dublino III fa parte, tende invece a evitare e intende certamente scoraggiare. 17. Il caso da cui sorge la questione pregiudiziale dimostra inoltre che il fenomeno dei movimenti secondari non riguarda esclusivamente i richiedenti asilo che non hanno ancora avuto una decisione sulla loro domanda o la cui domanda è stata rigettata, ma anche coloro la cui domanda è stata accolta ma che non intendono poi avvalersi della protezione dello Stato che ha esaminato la loro domanda. 18. Nella fattispecie però, come si è detto, non è il minore richiedente ad aver già ottenuto la protezione internazionale in altro Stato membro ma i suoi genitori (oltre ai suoi cinque fratelli). 19. tuttavia, una interpretazione restrittiva del citato art. 20, paragrafo 3 del regolamento Dublino III nel senso di ritenere competente ad esaminare nel merito una domanda di asilo di un minore uno Stato membro diverso da quello che ha già deciso sulla domanda di protezione internazionale dei genitori dello stesso sarebbe in contrasto con la ratio dell’intero sistema sotteso al regolamento Dublino III che intende scoraggiare i “movimenti secondari” che si verificano, come dimostra la fattispecie, non solo qualora la prima domanda di asilo non sia stata ancora accolta o sia stata respinta ma anche qualora detto status sia già stato riconosciuto. 20. Ciò potrebbe comportare un inutile aggravio per gli Stati membri ritenuti più appetibili che si vedrebbero costretti ad esaminare la domanda di asilo di un minore che dovrebbe invece ricadere nella competenza dello Stato membro che ha già deciso sulla domanda di protezione internazionale dei genitori. 21. Una diversa risposta della Corte al quesito sollevato potrebbe avere un impatto rilevante su tutti gli Stati membri in quanto comporterebbe che qualsiasi Stato membro, pur non presentando alcun criterio che ne fondi la competenza secondo il regolamento Dublino e al di fuori delle deroghe espressamente previste dall'articolo 3, paragrafo 2, possa essere obbligato ad esaminare la domanda di protezione internazionale presentata nell'interesse di un minore i cui genitori (o familiari ai sensi del regolamento) abbiano già ottenuto l’asilo da un altro Stato membro. 22. Del resto l’inciso “anche se il minore non è personalmente un richiedente” di cui all’art. 20, par. 3 del Regolamento Dublino III implica che tale norma è applicabile anche se il minore è richiedente, come nel caso di specie. risposta al secondo quesito 23. Con il secondo quesito il giudice del rinvio chiede, in caso di risposta positiva alla prima questione, se debba omettersi l’esame della domanda di asilo del minore e procedersi al trasferimento in forza dell’art. 26 del regolamento Dublino III verso la Polonia, in quanto Stato membro competente a decidere sulla domanda di protezione internazionale presentata del minore, RASSEGNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 4/2020 tenuto conto che la domanda di trasferimento presentata in tal senso dalla Germania è stata respinta dalla Polonia. 24. Anche a tale quesito il Governo italiano ritiene di dare risposta positiva. 25. La possibilità di omettere l’esame della domanda di asilo del minore nel merito e di procedere al trasferimento ai sensi dell’art. 26 del regolamento Dublino III verso la Polonia appare infatti coerente con il tendenziale sfavore per i movimenti secondari dei richiedenti asilo e con il principio secondo cui un solo Stato membro esamina la stessa domanda di protezione internazionale e mantiene la competenza ad esaminare la domanda di protezione di un minore ai cui genitori abbia già riconosciuto detto status. 26. Se pertanto la posizione di un minore è indissociabile da quella di un proprio familiare che abbia ottenuto la protezione internazionale, va ribadito il principio secondo il quale la competenza ad esaminare la domanda di protezione internazionale è devoluta ad un solo Stato membro che si identifica con quello di primo approdo nel territorio dell’Unione, nel caso di specie la Polonia. risposta al terzo quesito 27. Con il terzo quesito, il giudice tedesco chiede, in caso di risposta positiva alla seconda questione, se l’art. 20, par. 3 del regolamento Dublino III debba essere applicato in via analogica anche nella parte in cui dispone che lo stesso trattamento di “indissociabilità” dal proprio familiare è riservato ai figli nati dopo che i richiedenti sono giunti nel territorio degli Stati membro senza che sia necessario cominciare una nuova procedura di presa in carico degli stessi. 28. Anche a tale quesito il Governo italiano ritiene di dare risposta positiva. 29. La seconda frase dell’art. 20, paragrafo 3 del regolamento Dublino III prevede espressamente che “lo stesso trattamento è riservato ai figli nati dopo che i richiedenti sono giunti nel territorio degli Stati membri senza che sia necessario cominciare una nuova procedura di presa in carico degli stessi”. 30. Per effetto dell’interpretazione estensiva dell’art. 20, paragrafo 3 del regolamento Dublino III in risposta al primo quesito non sembra peraltro ipotizzabile il rifiuto dello Stato membro ospitante e la conseguenza di esporre il minore al rischio di diventare un “refugee in orbit”. risposta al quarto quesito 31. Infine, con il quarto quesito il giudice del rinvio chiede, in caso di risposta negativa alla seconda e alla terza questione, se una decisione di inammissibilità ai sensi dell’art. 33, par. 2, lett. a) della direttiva 2013/32/UE possa essere adottata in via analogica nel caso di specie in cui non è il minore richiedente ad aver già ottenuto la protezione internazionale in altro Stato membro ma i suoi genitori. CONtENzIOSO COMUNItARIO ED INtERNAzIONALE 32. La risposta positiva al secondo e terzo quesito rende superflua la risposata al quarto quesito. Conclusioni 33. Il Governo italiano propone quindi alla Corte di rispondere positivamente al primo quesito, affermando che, alla luce dell’esigenza di evitare movimenti secondari imposta dal diritto dell’Unione e del principio generale dell’unità familiare sancito dal regolamento (UE) n. 604/2013, è opportuno applicare in via analogica l’articolo 20, paragrafo 3, di detto regolamento in una fattispecie in cui un minore e i suoi genitori presentano domanda di protezione internazionale nel medesimo Stato membro, ma i genitori siano già beneficiari di protezione internazionale in un altro Stato membro, mentre il minore è nato nello Stato membro in cui ha presentato la suddetta domanda. 34. Il Governo italiano propone inoltre alla Corte di rispondere positivamente al secondo quesito, affermando che debba omettersi l’esame della domanda d’asilo del minore ai sensi del regolamento (UE) n. 604/2013 e debba adottarsi una decisione di trasferimento in forza dell’articolo 26 del regolamento, tenuto conto del fatto che lo Stato membro in cui i suoi genitori beneficiano della protezione internazionale è competente per l’esame della domanda di protezione internazionale presentata dal minore. 35. Il Governo italiano propone inoltre alla Corte di rispondere positivamente al terzo quesito, affermando che l’articolo 20, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 604/2013 è applicabile in via analogica, anche nella parte in cui la sua seconda frase dichiari non necessario l’avvio di una specifica procedura di presa in carico del minore più giovane, non sussistendo il rischio che lo Stato membro ospitante non sia a conoscenza di un’eventuale situazione legittimante l’accoglienza del minore o, rispettivamente, rifiuti, in linea con la propria prassi amministrativa, di applicare in via analogica l’articolo 20, paragrafo 3, del regolamento medesimo, esponendo così il minore al rischio di diventare un «refugee in orbit». 36. Avendo risposto in termini positivi al secondo e al terzo quesito, il Governo italiano ritiene superfluo rispondere al quarto quesito. Roma, 18 maggio 2021 Wally Ferrante Avvocato dello Stato RASSEGNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 4/2020 “digital Green Certificate” La proposta della Commissione europea Gaetana Natale* Nell’ambito dell’attività internazionale svolta dal Garante per la Privacy assume rilievo centrale nell’attuale periodo di pandemia la questione del “digital green pass”, ossia la questione dei passaporti vaccinali, rectius dei certificati verdi digitali. È importante precisare che non si tratta di un vero e proprio passaporto, ma di un certificato che attesta l’avvenuta vaccinazione o l’effettuazione di un test risultato negativo o l’avvenuta guarigione. È questa una precisazione che assume rilievo decisivo sul piano della tutela dei diritti fondamentali della persona, in quanto la previsione di un vero e proprio passaporto vaccinale risulterebbe lo strumento per introdurre di fatto l’obbligo della vaccinazione anti-Covid per tutti i cittadini dell’Unione Europea, superando il criterio della “raccomandazione rafforzata”. Il 17 marzo 2021, la Commissione europea ha presentato una proposta intesa a creare un certificato verde digitale per agevolare la libera circolazione sicura dei cittadini nell’UE durante la pandemia di Covid-19. La proposta di regolamento si pone, innanzitutto, quale base giuridica per i trattamenti dei dati utilizzati in tale tipo di certificato da parte delle autorità competenti degli Stati emittenti e non degli Stati di destinazione. Si legge testualmente nell’art. 1 della proposta: «…it provides for the legal ground to process personal data necessary to issue such certificates and to process the information necessary to confirm and verify the authenticity and validity of such certificates». I certificati verdi digitali saranno validi in tutti gli Stati membri sulla base del principio del mutuo riconoscimento della sua efficacia probatoria. Un certificato verde digitale è da considerarsi una prova legale digitale attestante che una persona (1): 1) è stata vaccinata contro il Covid-19 con la eventuale specifica del tipo di vaccino utilizzato (“vaccination”); 2) ha ottenuto un risultato negativo al test (“testing”, ad esempio, i test di amplificazione degli acidi nucleici, quello molecolare NAAts, tra cui Rt- PCR, tMA e LAMP secondo l’interim guidance sulla rivelazione dell’anti(*) Avvocato dello Stato, Professore a contratto presso l’Università degli Studi di Salerno, Consigliere giuridico del Garante per la Privacy. (1) Commissione europea, Covid-19: certificati verdi digitali, in www.ec.europa.eu; viene infatti precisato dalla Commissione europea che «Un certificato verde digitale è una prova digitale attestante che una persona: è stata vaccinata contro la COVID-19; ha ottenuto un risultato negativo al test oppure; è guarita dalla COVID-19». CONtENzIOSO COMUNItARIO ED INtERNAzIONALE gene pubblicato lo scorso 11 settembre 2020 dall’OMS, ma non saranno ritenuti validi i test privati); 3) è guarita dal Covid, indicando, ad esempio, il livello quantitativo di anticorpi sviluppati, c.d. “switch di classe”, (“recovery”). Le caratteristiche principali del certificato sono (2): a) il suo formato digitale e/o cartaceo; b) il codice Qr; c) la sua gratuità; d) la redazione nella propria lingua nazionale e in inglese; e) la sua sicurezza e protezione; f) la sua validità in tutti i Paese dell’UE, elemento che porrà un problema di coordinamento con i Paese extra UE. Per cogliere l’impatto che avrà tale certificato sulla tutela dei dati personali occorre verificare la sua procedura e di rilascio e di utilizzo, spettando, poi, all’implementazione tecnica la definizione di criteri specifici per la tutela della riservatezza dei dati personali. Le autorità nazionali sono responsabili del rilascio dei certificati. Potrebbe, ad esempio, essere rilasciato dagli ospedali, dai centri presso cui si effettuano i test molecolari o rapidi, o dalle autorità sanitarie. La versione digitale può essere salvata su un dispositivo mobile, lasciando sempre impregiudicato il diritto per il cittadino di richiedere la versione cartacea. Entrambe le versioni disporranno di un codice Qr, contenente le informazioni essenziali nel rispetto del “principio di minimizzazione dei dati”, “minimum of amount of data” (nome, cognome, data di nascita e data del vaccino o del test, data di guarigione), e di un sigillo digitale per garantire l’autenticità del certificato (3). Il certificato verde digitale contribuirà a creare una situazione di omogeneità nello spazio comune europeo: il suo utilizzo potrebbe portare al risultato da molti auspicato che le restrizioni attualmente in vigore possano essere revocate in modo coordinato secondo il principio dell’one health approach. Quando viaggiano tutti i cittadini dell’UE o i cittadini di paesi terzi che soggiornano o risiedono legalmente nell’UE in possesso di un certificato verde (2) ibidem; «Il certificato verde digitale contiene un codice QR con una firma digitale per impedirne la falsificazione. Al momento del controllo del certificato, si procede alla scansione del codice QR e alla verifica della firma. Ogni organismo autorizzato a rilasciare i certificati (ad esempio un ospedale, un centro di test o un'autorità sanitaria) ha la propria chiave di firma digitale. tutte le chiavi di firma sono conservate in una banca dati protetta in ciascun paese. La Commissione europea creerà un gateway, mediante il quale tutte le firme dei certificati potranno essere verificate in tutta l'UE. I dati personali codificati nel certificato non passeranno attraverso il gateway dato che ciò non è necessario per verificare la firma digitale. La Commissione europea aiuterà inoltre gli Stati membri a sviluppare un software che potrà essere utilizzato dalle autorità per controllare i codici QR». (3) M. MANGIA, passaporto vaccinale europeo, come funzionerà: il certificato e la firma digitale, in www.salutedigitale.blog. RASSEGNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 4/2020 digitale dovrebbero essere esentati dalle restrizioni alla libera circolazione allo stesso modo dei cittadini dello Stato membro visitato. Se uno Stato membro continuasse ad imporre ai titolari di un certificato verde digitale l’obbligo di quarantena o di effettuare un test, dovrebbe comunicarlo alla Commissione e a tutti gli altri Stati membri e giustificare tale decisione. Quali sono i profili di sicurezza attinente alla tutela dei dati personali? Ogni organismo autorizzato a rilasciare i certificati (come sopra detto, un ospedale, un centro di test o un’autorità sanitaria) ha la propria chiave di firma digitale. tutte le chiavi di firma digitale sono conservate in una banca dati protetta in ciascun paese. Primo problema: a quale tipo di firma digitale si fa riferimento? Firma avanzata, firma qualificata o, come è logico dedurre, firma digitale in senso proprio basata su un certificato qualificato e su un sistema di crittografia a chiavi asimmetriche. Il documento informatico sottoscritto con firma qualificata o firma digitale equivale a sottoscrizione autografa, la sua efficacia probatoria è quella dell’art. 2700 c.c., ossia fa piena prova fino a querela di falso. Nel nostro ordinamento, inoltre, è possibile l’autenticazione ex art. 2703 c.c. ed ex art. 25 C.A.D. (Codice dell’Amministrazione Digitale) sia di firma qualificata e digitale sia di firma avanzata (4). L’elemento che assicura al sistema un certo livello di sicurezza è il c.d. gateway che la Commissione Europea creerà per far sì che tutte le firme dei certificati potranno essere verificate in tutti i paesi dell’Unione europea. I dati personali codificati nel certificato non passeranno attraverso il gateway, dato che ciò non è necessario per verificare la firma digitale. La Commissione Europea si è impegnata ad aiutare gli Stati membri a sviluppare un software che potrà essere utilizzato dalle autorità per controllare i codici Qr. Il certificato verde digitale è inteso ad agevolare la libera circolazione all’interno dell’UE. Non costituirà un prerequisito per la libera circolazione che (4) Secondo l’art. 2703 c.c. «Si ha per riconosciuta la sottoscrizione autenticata dal notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato. L'autenticazione consiste nell'attestazione da parte del pubblico ufficiale che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza. Il pubblico ufficiale deve previamente accertare l'identità della persona che sottoscrive». Mentre per l’art. 25 C.A.D. «1. Si ha per riconosciuta, ai sensi dell’articolo 2703 del codice civile, la firma elettronica o qualsiasi altro tipo di firma elettronica avanzata autenticata dal notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato; 2. L’autenticazione della firma elettronica, anche mediante l’acquisizione digitale della sottoscrizione autografa, o di qualsiasi altro tipo di firma elettronica avanzata consiste nell’attestazione, da parte del pubblico ufficiale, che la firma è stata apposta in sua presenza dal titolare, previo accertamento della sua identità personale, della validità dell’eventuale certificato elettronico utilizzato e del fatto che il documento sottoscritto non è in contrasto con l’ordinamento giuridico; 3. L’apposizione della firma digitale da parte del pubblico ufficiale ha l’efficacia di cui all’articolo 24, comma 2; 4. Se al documento informatico autenticato deve essere allegato altro documento formato in originale su altro tipo di supporto, il pubblico ufficiale può allegare copia informatica autenticata dell’originale, secondo le disposizioni dell’articolo 23». CONtENzIOSO COMUNItARIO ED INtERNAzIONALE costituisce un diritto fondamentale nell’UE. Il certificato verde digitale può anche fornire prova dei risultati dei test che spesso sono richiesti nell’ambito delle restrizioni sanitarie applicabili. Offre agli Stati membri l’opportunità di adeguare le restrizioni in vigore per motivi di salute pubblica. L’auspicio è che essi tengano conto di questa prova dello stato Covid-19 delle persone per agevolare gli spostamenti. I vaccini indicati nel certificato dovranno essere quelli approvati dall’EMA e dagli enti regolatori nazionali, ma gli Stati membri potranno decidere di estendere questa possibilità anche ai viaggiatori dell’UE che hanno ricevuto un altro vaccino (ad esempio lo Sputnik). Il certificato verde digitale contiene informazioni fondamentali necessarie quali nome, data di nascita, data di rilascio, informazioni pertinenti su vaccino/ test/guarigione e identificativo unico. I certificati comprenderanno solo una serie limitata di informazioni necessarie, che non potranno essere conservate dai paesi visitati. Ai fini di verifica vengono controllate solo la validità e l’autenticità del certificato, verificando da chi è stato rilasciato e firmato. tutti i dati sanitari sono conservati nello Stato membro che ha rilasciato un certificato verde digitale. Ma nel caso in cui queste regole siano violate, come si declinano i concetti di “accountability” nell’ipotesi di condivisione delle responsabilità tra i diversi attori coinvolti nell’attività di trattamento e di “privacy by design and by default” con riferimento al periodo di conservazione dei dati? Non sono previste norme di azione in caso di violazioni né norme di raccordo con il sistema europeo di tutela dei dati incentrate sul profilo della responsabilità dei titolari del trattamento. L’unica norma che contempla la tutela dei dati è quella contenuta nell’art. 9 della proposta della Commissione. tale articolo, al punto 4, si limita a prevedere: «the authorities responsible for issuing the certificates referred to art.3 shall be considered as controllers referred to in art.4 (7) of Regulation (EU) 2016/679». In altri termini le autorità competenti a rilasciare il certificato in ogni Stato membro sono considerati “controller”, ossia titolari del trattamento, ai sensi dell’art. 4 del GDPR 2016/679 (5). È da evidenziare, comunque, che tale proposta richiama nella parte relativa al “legal basis” nell’explanatory memorandum, gli art. 77 del tFUE, l’art. 5 del tUE e l’art. 21 del tFUE (6) come referenti normativi dei trattati (5) L’art. 4, num. 7, del GDPR 2016/679, identifica il “titolare del trattamento” come «la persona fisica o giuridica, l'autorità pubblica, il servizio o altro organismo che, singolarmente o insieme ad altri, determina le finalità e i mezzi del trattamento di quando le finalità e i mezzi di tale trattamento sono determinati dal diritto dell'Unione o degli Stati membri, il titolare del trattamento o i criteri specifici applicabili alla sua designazione possono essere stabiliti dal diritto dell'Unione o degli Stati membri». RASSEGNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 4/2020 e, quindi, come base legale che legittima l’introduzione di tale tipo di certificato. tali articoli sanciscono il “principio di libera circolazione” dei cittadini europei nell’Unione, oltre ai principi di subsidiarity, proportionality e non discrimination. Si legge testualmente nel memorandum:«it is important to stress that people without such as a certificate must still be able to travel and that being in possession of a certificate, is not a prerequisite of exercising the right to free movement or other fundamental right. In particular this Regulation cannot be interpreted as establishing an obligation or right to be vac (6) Art. 77 tFUE, «1. L'Unione sviluppa una politica volta a: a) garantire l'assenza di qualsiasi controllo sulle persone, a prescindere dalla nazionalità, all'atto dell'attraversamento delle frontiere interne; b) garantire il controllo delle persone e la sorveglianza efficace dell'attraversamento delle frontiere esterne; c) instaurare progressivamente un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne. 2. Ai fini del paragrafo 1, il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, adottano le misure riguardanti: a) la politica comune dei visti e di altri titoli di soggiorno di breve durata; b) i controlli ai quali sono sottoposte le persone che attraversano le frontiere esterne; c) le condizioni alle quali i cittadini dei paesi terzi possono circolare liberamente nell'Unione per un breve periodo; d) qualsiasi misura necessaria per l'istituzione progressiva di un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne; e) l'assenza di qualsiasi controllo sulle persone, a prescindere dalla nazionalità, all'atto dell'attraversamento delle frontiere interne. 3. Se un'azione dell'Unione risulta necessaria per facilitare l'esercizio del diritto, di cui all'articolo 20, paragrafo 2, lettera a), e salvo che i trattati non abbiano previsto poteri di azione a tale scopo, il Consiglio, deliberando secondo una procedura legislativa speciale, può adottare disposizioni relative ai passaporti, alle carte d'identità, ai titoli di soggiorno o altro documento assimilato. Il Consiglio delibera all'unanimità previa consultazione del Parlamento europeo. 4. Il presente articolo lascia impregiudicata la competenza degli Stati membri riguardo alla delimitazione geografica delle rispettive frontiere, conformemente al diritto internazionale». Art. 5 tUE, «1. La delimitazione delle competenze dell'Unione si fonda sul principio di attribuzione. L'esercizio delle competenze dell'Unione si fonda sui principi di sussidiarietà e proporzionalità. 2. In virtù del principio di attribuzione, l'Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti. Qualsiasi competenza non attribuita all'Unione nei trattati appartiene agli Stati membri. 3. In virtù del principio di sussidiarietà, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva l'Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell'azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione. Le istituzioni dell'Unione applicano il principio di sussidiarietà conformemente al protocollo sull'applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. I parlamenti nazionali vigilano sul rispetto del principio di sussidiarietà secondo la procedura prevista in detto protocollo. 4. In virtù del principio di proporzionalità, il contenuto e la forma dell'azione dell'Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati. Le istituzioni dell'Unione applicano il principio di proporzionalità conformemente al protocollo sull'applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità». Art. 21 tFUE, «1. Ogni cittadino dell'Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dai trattati e dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi. 2. Quando un'azione dell'Unione risulti necessaria per raggiungere questo obiettivo e salvo che i trattati non abbiano previsto poteri di azione a tal fine, il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono adottare disposizioni intese a facilitare l'esercizio dei diritti di cui al paragrafo 1. 3. Agli stessi fini enunciati al paragrafo 1 e salvo che i trattati non abbiano previsto poteri di azione a tale scopo, il Consiglio, deliberando secondo una procedura legislativa speciale, può adottare misure relative alla sicurezza sociale o alla protezione sociale. Il Consiglio delibera all'unanimità previa consultazione del Parlamento europeo ». CONtENzIOSO COMUNItARIO ED INtERNAzIONALE cinated. Citizens must be able to exercise their rigths with full non-discrimination ». In altri termini il certificato non è un prerequisito per muoversi all’interno dello spazio europeo e non può creare discriminazioni. Il riferimento anche agli artt. 7, 8, 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, il richiamo alla direttiva 2004/38/EC, il riferimento alla permanente vigenza dello Shengen Borders Code 2016/399 e dei “green lanes” (corsie preferenziali per il trasporto di merci) e alle Raccomandazioni 2020/1475 del Consiglio di Europa del 13 ottobre 2020 e n. 2020/1632 del 30 ottobre 2020 (7) riguardanti un approccio coordinato europeo per restrizioni della libertà di movimento, inducono a considerare tale proposta come strumento per facilitare gli spostamenti nel rispetto dei criteri di sicurezza e non per “create a legal basis for retaining personal data obtained from the certificate by the member State of destination or by the cross-border passenger transport service opertors required by national law to implement health measures during the Covid19 pandemic”. tale proposta della Commissione ha come finalità la creazione di un trust framework (8) attraverso la interoperabilità dei sistemi di validazione e riconoscimento del digital green Certificate e non per creare la base legale del trattamento dei dati personali da parte dello Stato di destinazione e da parte degli operatori del trasporto aereo. Si legge, infatti, nel testo (che dovrà essere, comunque, esaminato dal Parlamento e dal Consiglio Europeo): «digital green Certificate is to facilitate the exercise of free movement. implementation of the digital green Certificate legislation also needs a compatible technical framework to be defined at eu level and put in place by member States. This is should ensure interoperability as well as full compliance with personal data protection». Si precisa che gli art. 6 (“liceità del trattamento”) (9) e 9 (“trattamento di categorie particolari di dati personali”) (7) La Raccomandazione 2020/1475 del Consiglio di Europa del 13 ottobre 2020, riporta puntualmente le disposizioni per un approccio coordinato alla limitazione della libertà di circolazione in risposta alla pandemia di COVID-19, che viene approfondita e completata dalla Raccomandazione 2020/1632 del 30 ottobre 2020. (8) European Commission, Questions and answers -digital green Certificate, in www.ec.europa. eu. (9) In particolar modo l’art. 6 precisa che «1. Il trattamento è lecito solo se e nella misura in cui ricorre almeno una delle seguenti condizioni: a) l'interessato ha espresso il consenso al trattamento dei propri dati personali per una o più specifiche finalità; b) il trattamento è necessario all'esecuzione di un contratto di cui l'interessato è parte o all'esecuzione di misure precontrattuali adottate su richiesta dello stesso; c) il trattamento è necessario per adempiere un obbligo legale al quale è soggetto il titolare del trattamento; d) il trattamento è necessario per la salvaguardia degli interessi vitali dell'interessato o di un'altra persona fisica;e) il trattamento è necessario per l'esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all'esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento; f) il trattamento è necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell'interessato che richiedono la protezione dei dati personali, in particolare se l'interessato è un minore. La lettera f) del primo comma non si applica al trattamento di dati effettuato dalle autorità pubbliche nell'esecuzione dei loro compiti. 2. Gli Stati membri possono mantenere o introdurre disposizioni più specifiche per adeguare l'applicazione RASSEGNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 4/2020 (10) del regolamento 2016/679 sono necessari «for the issuance and verifica- delle norme del presente regolamento con riguardo al trattamento, in conformità del paragrafo 1, lettere c) ed e), determinando con maggiore precisione requisiti specifici per il trattamento e altre misure atte a garantire un trattamento lecito e corretto anche per le altre specifiche situazioni di trattamento di cui al capo IX. 3. La base su cui si fonda il trattamento dei dati di cui al paragrafo 1, lettere c) ed e), deve essere stabilita: a) dal diritto dell'Unione; o b) dal diritto dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento. La finalità del trattamento è determinata in tale base giuridica o, per quanto riguarda il trattamento di cui al paragrafo 1, lettera e), è necessaria per l'esecuzione di un compito svolto nel pubblico interesse o connesso all'esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento. tale base giuridica potrebbe contenere disposizioni specifiche per adeguare l'applicazione delle norme del presente regolamento, tra cui: le condizioni generali relative alla liceità del trattamento da parte del titolare del trattamento; le tipologie di dati oggetto del trattamento; gli interessati; i soggetti cui possono essere comunicati i dati personali e le finalità per cui sono comunicati; le limitazioni della finalità, i periodi di conservazione e le operazioni e procedure di trattamento, comprese le misure atte a garantire un trattamento lecito e corretto, quali quelle per altre specifiche situazioni di trattamento di cui al capo IX. Il diritto dell'Unione o degli Stati membri persegue un obiettivo di interesse pubblico ed è proporzionato all'obiettivo legittimo perseguito. […]». (10) Mentre l’articolo 9 afferma che «1. È vietato trattare dati personali che rivelino l'origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l'appartenenza sindacale, nonché trattare dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all'orientamento sessuale della persona. 2. Il paragrafo 1 non si applica se si verifica uno dei seguenti casi: a) l'interessato ha prestato il proprio consenso esplicito al trattamento di tali dati personali per una o più finalità specifiche, salvo nei casi in cui il diritto del- l'Unione o degli Stati membri dispone che l'interessato non possa revocare il divieto di cui al paragrafo 1; b) il trattamento è necessario per assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell'interessato in materia di diritto del lavoro e della sicurezza sociale e protezione sociale, nella misura in cui sia autorizzato dal diritto dell'Unione o degli Stati membri o da un contratto collettivo ai sensi del diritto degli Stati membri, in presenza di garanzie appropriate per i diritti fondamentali e gli interessi dell'interessato; c) il trattamento è necessario per tutelare un interesse vitale dell'interessato o di un'altra persona fisica qualora l'interessato si trovi nell'incapacità fisica o giuridica di prestare il proprio consenso; d) il trattamento è effettuato, nell'ambito delle sue legittime attività e con adeguate garanzie, da una fondazione, associazione o altro organismo senza scopo di lucro che persegua finalità politiche, filosofiche, religiose o sindacali, a condizione che il trattamento riguardi unicamente i membri, gli ex membri o le persone che hanno regolari contatti con la fondazione, l'associazione o l'organismo a motivo delle sue finalità e che i dati personali non siano comunicati all'esterno senza il consenso del- l'interessato; e) il trattamento riguarda dati personali resi manifestamente pubblici dall'interessato; f) il trattamento è necessario per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali; g) il trattamento è necessario per motivi di interesse pubblico rilevante sulla base del diritto dell'Unione o degli Stati membri, che deve essere proporzionato alla finalità perseguita, rispettare l'essenza del diritto alla protezione dei dati e prevedere misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti fondamentali e gli interessi dell'interessato; h) il trattamento è necessario per finalità di medicina preventiva o di medicina del lavoro, valutazione della capacità lavorativa del dipendente, diagnosi, assistenza o terapia sanitaria o sociale ovvero gestione dei sistemi e servizi sanitari o sociali sulla base del diritto dell'Unione o degli Stati membri o conformemente al contratto con un professionista della sanità, fatte salve le condizioni e le garanzie di cui al paragrafo 3; i) il trattamento è necessario per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica, quali la protezione da gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero o la garanzia di parametri elevati di qualità e sicurezza dell'assistenza sanitaria e dei medicinali e dei dispositivi medici, sulla base del diritto dell'Unione o degli Stati membri che prevede misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti e le libertà dell'interessato, in particolare il segreto professionale; j) il trattamento è necessario a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici in conformità dell'articolo 89, paragrafo 1, sulla base del diritto dell'Unione o nazionale, che è proporzionato alla finalità perseguita, rispetta l'essenza del diritto alla protezione dei dati e prevede misure appropriate e CONtENzIOSO COMUNItARIO ED INtERNAzIONALE tion of the interoperable certificates». Si precisa in maniera opportuna che tale proposta «it also does not regulate the processing of personal data related to the documentation of vaccination, test or recovery events for other purposes, such as for the purpose of pharmacovigilance or for the maintance of individual personal health records. the legal basis for processing for other purpose is to be provided in national law which must comply with union data protection legislation». In altri termini, la proposta della Commissione che, si ribadisce, non costituisce la base legale per il trattamento di dati personali da parte degli Stati di destinazione, rimette agli Stati membri la possibilità di prevedere con legge nazionale “other purposes”, ossia altri scopi a cui destinare i dati contenuti nel certificato (come ad esempio la farmacovigilanza), sempre nel rispetto della legislazione a tutela della privacy. Si precisa, inoltre, che la Commissione ha consultato nella redazione della proposta l’european data protection Supervisor ai sensi dell’art. 42(1) del regolamento 2018/1725 (11). Il certificato dovrebbe entrare in vigore il prossimo 15 giugno 2021 e tale termine impone che gli Stati membri debbano apportare le modifiche necessarie ai rispettivi sistemi nazionali di rilascio dei documenti sanitari sulla base del principio del “common path to safe”, “an interactive digital tool for safe reopening” (12), ossia di un comune percorso e un comune strumento digitale interattivo per uscire dalla pandemia basato sull’interoperabilità dei dati e sul criterio dell’one only, ossia l’acquisizione unica del dato per la sua validità in tutta Europa. Si tratta di quei principi di coordination, predictability e transparency elaborati dall’ECDC, ossia l’european Centre for disease, prevention and Control, centro europeo per il controllo e la prevenzione delle malattie. Si pone, però, il problema tecnico degli schemi di certificazione sottoposti al Board, ai sensi dell’art. 42 del GDPR, da vari enti di certificazione che dovranno essere esaminati per garantire la sicurezza dei documenti in circolazione. Sono candidati a divenire sigilli europei sia l’EUROPRIVACY sia specifiche per tutelare i diritti fondamentali e gli interessi dell'interessato. 3. I dati personali di cui al paragrafo 1 possono essere trattati per le finalità di cui al paragrafo 2, lettera h), se tali dati sono trattati da o sotto la responsabilità di un professionista soggetto al segreto professionale conformemente al diritto dell'Unione o degli Stati membri o alle norme stabilite dagli organismi nazionali competenti o da altra persona anch'essa soggetta all'obbligo di segretezza conformemente al diritto dell'Unione o degli Stati membri o alle norme stabilite dagli organismi nazionali competenti. 4. Gli Stati membri possono mantenere o introdurre ulteriori condizioni, comprese limitazioni, con riguardo al trattamento di dati genetici, dati biometrici o dati relativi alla salute». (11) L’art. 42 (1) del regolamento 2018/1725, afferma che «Dopo l’adozione di proposte di atti legislativi e di raccomandazioni o proposte al Consiglio a norma dell’articolo 218 tFUE o durante la stesura di atti delegati o di esecuzione, qualora essi incidano sulla tutela dei diritti e delle libertà delle persone in relazione al trattamento dei dati personali, la Commissione consulta il Garante europeo della protezione dei dati». (12) AA.VV., Coronavirus: a common path to europe’s safe re-opening, in www.moderndiplomacy. eu. RASSEGNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 4/2020 il GDPR CARPA che saranno esaminati da un punto di vista della sicurezza tecnica il prossimo 16 aprile. Il digital green Certificate si inserisce dal punto di vista giuridico in quelle misure adottate per ragioni di “public security, public policy or public health” che l’art. 21 del trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea consente di introdurre nel rispetto del principio di proporzionalità e non discriminazione. L’art. 21 sopra richiamato espressamente recita: 1. “ogni cittadino dell’unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dai trattati e dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi. 2. Quando un’azione dell’unione risulti necessaria per raggiungere questo obiettivo e salvo che i trattati non abbiamo previsto poteri di azione a tal fine, il parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono adottare disposizioni intese a facilitare l’esercizio dei diritti di cui al paragrafo 1. 3. agli stessi fini enunciati al paragrafo 1 e salvo che i trattati non abbiano previsto poteri di azione a tale scopo, il Consiglio, deliberando secondo una procedura legislativa speciale, può adottare misure relative alla sicurezza sociale o alla protezione sociale. il Consiglio delibera all’unanimità previa consultazione del parlamento europeo”. Non vi è dubbio che il digital green Certificate risponde ad esigenze di sicurezza e protezione sociale: sono condivisibili i “principles and modelrule” ed è certamente sussistente la c.d. “consistency with other union policies”, ossia la coerenza con altre precedenti misure adottate dall’Unione per arginare la diffusione della pandemia come quelle adottate dall’health Security Committee e dall’ehealth Network, ma spetterà all’implementazione tecnica, l’attività di monitoring, evaluation e reporting arrangements assicurando clear rules, conditions e robust safeguard a tutela degli standards di sicurezza e protezione dei dati (13). La Commissione Europea sta collaborando con l’Organizzazione mondiale della sanità per garantire che i certificati rilasciati nell’UE possano essere riconosciuti anche nel resto del mondo. La Commissione è, inoltre, in contatto con l’ICAO, l’organizzazione internazionale che rappresenta il trasporto aereo. I primi problemi si stanno ponendo con gli Stati Uniti a causa di un order impartito alle compagnie aeree europee dal Centro statunitense per il controllo (13) RAISA SANtOS, european parliament Signals approval of digital green Certificate Scheme, in www.healthpolicy-watch.news; AA.VV., will travel be possible this summer with the eu’s digital green Certificate?, in www.euronews.com; AA.VV., eu unveils digital green Certificate plans to support free movement and avoid fragmentation, in www.futuretravelexperience.com. CONtENzIOSO COMUNItARIO ED INtERNAzIONALE e la prevenzione delle malattie, ai sensi dell’art. 361 del public Service act, di raccogliere e conservare per 2 anni alcuni dati sanitari dei passeggeri relativi a Covid 19. Si pone su tale profilo la questione della compatibilità delle disposizioni statunitensi con la legislazione UE sulla protezione dei dati. È auspicabile un confronto con la IAtA (the International Air transport Association) per un’attività di aviation’s support, volta a definire standard globali di safety, security e efficiency. IAtA lancerà ufficialmente il travel pass a metà aprile. A riportare la notizia è travelmole (14), la fonte precisa che l’app è ancora in fase di test con più compagnie aeree e che sarà lanciata inizialmente sulla piattaforma iOS. Poi in una data successiva, ma ancora non precisata, sarà implementata su Android. È auspicabile un’azione di coordinamento con IAtA per evitare che le garanzie del digital green pass siano vanificate dal travel pass adottato dalle compagnie aeree private. Si ricorda che IAtA rappresenta 290 compagnie aeree che coprono l’82 per cento del traffico globale. La gestione dei certificati vaccinali deve rimanere pubblica, affidata agli Stati con le opportune garanzie a tutela dei diritti fondamentali dei cittadini, ma il problema è l’assenza di uno standard globale per le certificazioni (test e vaccino) che possa garantire un’uniformità di regole nel trasporto aereo. In Italia sono stati introdotti i voli “Covid-tested”, ossia i voli autorizzati dal Ministero della Salute mediante apposita ordinanza. I passeggeri sono tenuti a 1) a consegnare al vettore all’atto dell’imbarco, e a chiunque sia deputato a effettuare i controlli, la certificazione attestante il risultato negativo del test molecolare (Rt PCR) o antigenico, effettuato per mezzo di tampone non oltre 48 ore precedenti all’imbarco; 2) a consegnare al vettore la dichiarazione di cui all’art. 50 del DPCM 2 marzo 2021; 3) a compilare il modulo di localizzazione dei passeggeri (passenger locator Form plF) da esibire prima dell’imbarco; 4) ad effettuare nuovamente test molecolare (Rt PCR) o antigenico effettuato per mezzo di tampone all’arrivo dell’aeroporto di destinazione. La sperimentazione dei voli “Covid tested” (15) individuata dalle Ordinanze del 23 novembre 2020 e del 9 marzo 2021 è stata estesa fino al 30 giugno 2021 con la precisazione che nel caso di mancato imbarco sul volo “Covid-tested”, per risultato positivo al Covid-19, è previsto, a cura del vettore aereo, il rimborso del biglietto o l’emissione di un voucher di pari importo su (14) AA.VV., iata to launch travel pass app this month, in www.travelmole.com; AA.VV., trasporto aereo, da metà aprile in funzione iata travel pass, in www.quifinanza.it. (15) Ministero della Salute, voli Covid-tested e passenger locator Form, in www.salute.gov.it. RASSEGNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 4/2020 richiesta del passeggero, entro quattordici giorni dalla data di effettuazione del recesso e valido per diciotto mesi dall’emissione. È chiaro che l’introduzione a livello europeo del digital green Certificate supererà anche tali disposizioni interne. Sarà questo uno dei profili che il Presidente del Parlamento Europeo Sassoli dovrà esaminare nell’assise europea fissata per il prossimo 26 aprile 2021. CONtENzIOSO COMUNItARIO ED INtERNAzIONALE I giudici di Strasburgo sull’obbligo vaccinale. Il riassunto della sentenza: una cornice di principi che gli Stati devono osservare nel creare un giusto bilanciamento tra obblighi vaccinali e rispetto della sfera privata Corte europea dei diritti dell’uomo, graNde Camera, SeNteNza vavřičKa aNd otherS v. the CzeCh repuBliC, 8 aprile 2021 Antonio Grumetto* repubblica Ceca -Vaccinazioni obbligatorie per i bambini -sanzioni pecuniarie o interdittive -violazione dell’art. 8 della Cedu (rispetto della vita privata) -condizioni esclusione. La sentenza decide sei ricorsi, di cui uno presentato da un genitore che era stato multato per non aver sottoposto il proprio figlio in età scolare alla vaccinazione obbligatoria, mentre gli altri erano stati presentati da genitori per conto dei propri figli minori ai quali era stata negata l’iscrizione al nido o all’asilo per lo stesso motivo. La Corte ha escluso la violazione dell’articolo 8. Ha osservato, innanzitutto, che l’interferenza con il diritto al rispetto della vita privata non poteva essere escluso, ma che tale interferenza era prevista dalla legge ed era diretta a perseguire lo scopo di proteggere la salute e il diritto anche degli altri cittadini. L’interferenza è stata poi ritenuta necessaria in una società democratica sulla base di una serie di presupposti. La Corte ha innanzitutto osservato che in questa materia gli Stati godono di un margine di apprezzamento assai ampio e che nel caso di specie la legge non prevedeva che le vaccinazioni dovessero essere comunque eseguite anche contro la volontà dei genitori dei bambini. La Corte ha osservato inoltre che tra gli Stati contraenti esisteva una convinzione molto forte che la vaccinazione costituisca uno degli strumenti più efficaci di intervento per assicurare la salute pubblica e sull’opportunità che ogni Stato dovrebbe raggiungere il più alto possibile livello di vaccinazioni. tra i vari modelli di politica vaccinale (a partire da quello che si basa sulla semplice raccomandazione fino a quello che prevede la somministrazione obbligatoria di tutti i vaccini disponibili) la Repubblica Ceca aveva seguito un approccio obbligatorio a causa di una diminuzione del ricorso volontario alla vaccinazione ed una conseguente riduzione dell’immunità di gregge. (*) Avvocato dello Stato. Sentenza reperibile da: http://hudoc.echr.coe.int/fre?i=001-209039. RASSEGNA AVVOCAtURA DELLO StAtO -N. 4/2020 La Corte ha notato altresì che, nel caso di specie, occorreva verificare se la Repubblica Ceca avesse raggiunto un corretto bilanciamento fra, da un lato, la prospettiva di coloro che non intendevano sottoporsi alla vaccinazione obbligatoria e dall’altro l’esigenza, ispirata alla solidarietà sociale, di assicurare attraverso la campagna vaccinale la protezione anche di coloro che erano particolarmente vulnerabili rispetto ad alcune malattie. In questo campo vi era sicuramente un’esigenza sociale di proteggere la salute individuale e quella collettiva e di prevenire ogni diminuzione del ricorso alla vaccinazione volontaria dei bambini. In questa prospettiva doveva essere tenuto conto dell’interesse dei minori e tale interesse, secondo la Corte, richiedeva che ogni bambino venga protetto contro le malattie gravi attraverso il maggior numero di vaccinazioni fin dai primi anni di vita. Ciò allo scopo di proteggere attraverso l’immunità di gregge anche coloro che non possono essere sottoposti a tale vaccinazione in ragione delle loro condizioni di salute. Sicché se tale obiettivo non poteva essere realizzato attraverso una campagna di vaccinazione su base volontaria o se tale immunità di gregge non era efficace per la natura della malattia, una politica di vaccinazione obbligatoria appariva ragionevole al fine di assicurare un appropriato livello di protezione contro malattie gravi. Pertanto, nel caso di specie la politica sanitaria della Repubblica ceca appariva coerente con la tutela degli interessi dei minori. La Corte ha poi notato che la misura era anche proporzionata. In primo luogo, si trattava di vaccinazioni obbligatorie riguardanti 10 malattie nei confronti delle quali la vaccinazione era considerata efficace e sicura dalla comunità scientifica. La legge prevedeva delle eccezioni all’obbligo vaccinale basate sulla condizione di salute del minore o in base a ragioni di coscienza. tali eccezioni dovevano essere rigorosamente accertate. tuttavia, nessuno dei richiedenti aveva fatto ricorso a tali eccezioni. L’obbligo vaccinale non poteva essere poi imposto direttamente, ma era assicurato dalla previsione di sanzioni di entità lieve e attraverso il rifiuto di iscrizione agli asili nido e alla pre-scuola. La legge poi prevedeva dei rimedi di carattere amministrativo giudiziale contro le sanzioni previste per il rifiuto di sottoporsi alla vaccinazione. La Corte ha inoltre notato che l’approccio legislativo adottato dalle autorità era caratterizzato da una flessibilità rispetto agli sviluppi della scienza medica della farmacologia e che era stato condotto in maniera trasparente. Sebbene non poteva escludersi l’eventualità di alcuni rari effetti collaterali delle vaccinazioni, ancorché gravi, la Corte ha ricordato l’importanza delle precauzioni che devono precedere la vaccinazione, come il controllo della sicurezza del vaccino e la verifica di ogni possibile controindicazione. La Corte ha poi osservato che nel caso in esame era prevista una libertà sia nella scelta del vaccino sia nel momento in cui sottoporsi alla somministrazione. CONtENzIOSO COMUNItARIO ED INtERNAzIONALE La Corte ha poi notato che sebbene la previsione di un risarcimento del danno causato dalla vaccinazione obbligatoria sia un elemento da prendere in considerazione per la valutazione generale della compatibilità della misura con l’art. 8 della Convenzione, nel caso di specie la questione non assumeva rilevanza in quanto i vaccini non erano stati somministrati ai ricorrenti e comunque i fatti rilevanti del procedimento domestico erano accaduti quando un risarcimento era previsto in base alla legge nazionale. Secondo la Corte, infine, l’interferenza con il rispetto della vita privata doveva considerarsi accettabile, considerato che uno dei richiedenti era stato sottoposto ad una multa pecuniaria di entità molto lieve, mentre l’esclusione degli altri ricorrenti dai primi livelli di istruzione era stata la conseguenza della scelta dei genitori di non sottoporli alla vaccinazione ed aveva comportato soltanto il differimento della iscrizione, dato che l’inserimento nei successivi livelli scolastici non era stato influenzato da tale rifiuto di vaccinarsi. Nel caso di specie occorreva poi considerare che la possibilità, per coloro che non potevano sottoporsi alle vaccinazioni obbligatorie in ragione delle loro condizioni di salute, di iscriversi alla pre-scuola dipendeva dalla adesione alla vaccinazione contro le malattie contagiose da parte degli altri bambini; sicché non poteva essere considerato irragionevole che lo Stato richiedesse, a coloro per i quali la vaccinazione rappresentava soltanto un remoto rischio sanitario, di sottoporsi a vaccinazioni obbligatorie in ragione di un principio di solidarietà sociale e nell’interesse di quel ridotto numero di bambini vulnerabili che non potevano sottoporvisi per ragioni di salute. ContenzioSonazionaLe Le Sezioni Unite chiamate a ricomporre il puzzle del risarcimento danni da illegittima occupazione in tema di acquisizione sanante NotA A CAssAzioNe CiviLe, sezioNe PrimA, ordiNANzA 24 diCembre 2020 N. 29625 Adolfo Mutarelli* sommArio: 1. Premessa -2. ermeneusi e principio di concentrazione. Prove di resistenza - 3. dissonanze processuali - 4. Auspici conclusivi. 1. Premessa. il delicato tema dell’acquisizione sanante (1) sembrava aver trovato definitiva sistemazione in virtù della condivisione da parte della Cassazione e del Consiglio di Stato dell’orientamento secondo cui in tema di espropriazione per pubblica utilità, ove si discuta unicamente della quantificazione dell’importo dovuto in applicazione dell’art. 42-bis, d.P.r. 8 giugno 2001, n. 327, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario e le relative controversie sulla determinazione e corresponsione dell’indennizzo globalmente inteso sono devolute in unico grado alla Corte di Appello (2). Ciò in quanto deve ritenersi che l’acquisizione sanante integra un procedimento espropriativo “semplificato” che assorbe in sé sia la dichiarazione di pubblica utilità sia il decreto di esproprio e che peraltro è stato ritenuto immune da criticità di carattere costituzionale (3). (*) Già Avvocato dello Stato. (1) Sul tema è agevole il rinvio a M. BorGo -M. Morelli, L’acquisizione e l’utilizzo di immobili da parte della P.A., Giuffrè, 2012, pp. 277 e ss. (2) Cass., S.U., ord. 15 ottobre 2020, n. 22374; Cass. S.U. 8 novembre 2011, n. 28573; Cons. Stato, Sez. iV, 19 ottobre 2015 n. 4777. rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 Al di là dell’impugnazione dinanzi al giudice amministrativo del provvedimento acquisitivo per vizi di legittimità restano devoluti alla giurisdizione ordinaria anche i comportamenti materiali in alcun modo riconducibili all’esercizio di un potere amministrativo tipizzato (4) o l’occupazione di aree non previste nel decreto di occupazione (5) ovvero di sconfinamento (6). A tale ultimo riguardo è stato di recente riaffermato che nell’ipotesi di c.d. sconfinamento, ossia nel caso in cui la realizzazione dell'opera pubblica abbia interessato un terreno diverso o più esteso rispetto a quello considerato dai provvedimenti amministrativi di occupazione e di espropriazione, oltre che dalla dichiarazione di pubblica utilità, l'occupazione e la trasformazione del terreno da parte della pubblica amministrazione costituisce un comportamento di mero fatto, perpetrato in carenza assoluta di potere, che integra un illecito a carattere permanente, lesivo del diritto soggettivo (cd. occupazione usurpativa), onde l'azione di risarcimento del danno che ne consegue rientra nella giurisdizione del giudice ordinario. A tale conclusione non è di ostacolo il disposto del d.P.r. n. 327 del 2001, art. 42-bis, introdotto dal d.l. n. 98 del 2011, mod. con l. n. 111 del 2011, sulla c.d. acquisizione sanante: tale norma, infatti, disciplina i presupposti per l'adozione del relativo provvedimento e la misura dell'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale conseguente alla perdita definitiva dell'immobile, risultando, quindi, ininfluente in ordine ai criteri attributivi della giurisdizione sulle domande di risarcimento da occupazione "sine titulo" (7). Alla giurisdizione ordinaria resta riservata anche la determinazione della “voce” avente a oggetto il riconoscimento dell’interesse del cinque per cento del valore venale del bene, dovuto, a termini del dettato del comma 3, ultima (3) Con la nota sentenza del 30 aprile 2015, n. 71 la Corte Costituzionale ha ritenuto infatti non fondata “la questione di legittimità costituzionale dell'art. 42-bis del d.P.r. 8 giugno 2001, n. 327, impugnato, in riferimento agli artt. 117, primo comma, e 111 Cost., in quanto prevede l'acquisizione, non retroattiva, al patrimonio indisponibile, contro la corresponsione di indennizzo, del bene immobile utilizzato dalla pubblica amministrazione senza titolo per scopi di interesse pubblico e modificato in assenza di un valido provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità. il provvedimento acquisitivo previsto dalla norma impugnata, a differenza del provvedimento precedentemente previsto dall'art. 43, è compatibile con la giurisprudenza della Corte edU in materia di espropriazioni cosiddette indirette in quanto presenta carattere non retroattivo -così che l'istituto non può essere utilizzato in presenza di un giudicato che abbia già disposto la restituzione del bene al privato -, si fonda su una necessaria rinnovazione della valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione e su uno stringente obbligo di motivazione. in particolare, l'obbligo motivazionale deve essere interpretato nel senso che l'adozione dell'atto è consentita solo quando non sia ragionevolmente possibile la restituzione, totale o parziale, del bene, previa riduzione in pristino, al privato illecitamente inciso nel suo diritto di proprietà”. (4) S. ACCordino, Acquisizione coattiva di cui all’art. 42 bis d.P.r. 327/2001: la procedura, in ed. exeo, 2020, p. 218. (5) T.A.r. Sicilia, Sez. Palermo, Sez. iii, 5 giugno 2015, n. 1317. (6) T.A.r. Campania, Sez. V, 1 agosto 2016, n. 3986. (7) Cass. S.U. 28 aprile 2020, n. 8237. ConTenzioSo nAzionAle parte, dell’art. 42-bis d.P.r. 327/2001, "a titolo di risarcimento del danno", giacché esso, ad onta del tenore letterale della norma, costituirebbe solo una “voce” del complessivo "indennizzo per il pregiudizio patrimoniale" di cui al precedente comma 1. Conclusione ermeneutica imposta, secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, dalla necessità di salvaguardare il principio costituzionale di concentrazione della tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti ablatori (8). Proprio tale pacificante ultimo approdo è stato messo in discussione con una recente ordinanza interlocutoria (9) della Cassazione che ha rinviato gli atti al Primo Presidente per la rimessione alle Sezioni Unite sollecitando un ripensamento in ordine al principio secondo cui, in tema di acquisizione sanante ex art. 42-bis d.P.r. n. 327/2001, è stata attribuita natura indennitaria, e non risarcitoria, anche agli importi dovuti al proprietario del bene per il periodo di occupazione senza titolo. l’ordinanza di rimessione osserva come il tenore letterale della norma e il complessivo sistema del risarcimento del danno in materia di espropriazione depongono in senso contrario. di qui la necessità del richiesto riesame delle Sezioni Unite. 2. ermeneusi e principio di concentrazione. Prove di resistenza. deve convenirsi con l’ordinanza di rimessione come sia poco convincente derubricare il riferimento “a titolo risarcitorio” contenuto del 3° comma del- l’art. 42-bis cit. a mera “imprecisione lessicale che non altera la natura della corrispondente voce dell’indennizzo, il quale essendo unitario non può che avere natura unitaria” (10). imprecisione che, invero, da un lato dà per scontata una grave incompetenza di tecnica legislativa e, dall’altro, è assai poco convincente in quanto nel medesimo art. 42-bis cit. il termine indennizzo è utilizzato ben quattro volte mentre un’unica volta viene utilizzata la locuzione “a titolo di risarcimento danni”. Si aggiunga che allorché la disposizione al punto 4 illustra il contenuto del provvedimento acquisitivo dichiara che lo stesso deve liquidare “l’indennizzo di cui al comma 1” senza alcun riferimento al risarcimento danni di cui al punto 3. il ristoro del 5% di cui al comma 3 (e diversamente dall’indennizzo di cui al comma 1) non appare, quindi, normativamente orientato a ristorare l’integrità patrimoniale derivante dall’acquisizione ma a risarcire un comportamento di illegittima occupazione: cioè pregiudizi ontologicamente diversi e differenziati. il primo da attività lecita e il secondo da attività contra ius. Peraltro sotto il profilo rigorosamente ermeneutico il ribaltamento coper (8) Cass. S.U. 25 luglio 2016, n. 15283. (9) Cass., ord., 24 dicembre 2020, n. 29625. (10) Testualmente da Cass. S.U., 12583/2016 cit. rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 nicano della locuzione “a titolo risarcitorio” di cui al punto 3 dell’art. 42-bis in esame contrasta con il pacifico orientamento di legittimità secondo cui l'attività ermeneutica, in consonanza con i canoni legislativi di ermeneusi dettati dall'art. 12 preleggi, deve essere condotta innanzitutto e principalmente, mediante il ricorso al criterio letterale (11). il primato dell'interpretazione letterale è, infatti, costantemente confermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui all'intenzione del legislatore, secondo un'interpretazione logica, può darsi rilievo nell'ipotesi che tale significato non sia già tanto chiaro ed univoco da rifiutare una diversa e contraria interpretazione. Alla stregua del ricordato insegnamento, l'interpretazione da seguire deve essere, dunque, quella che risulta il più possibile aderente al senso letterale delle parole, nella loro formulazione tecnico giuridica (12). del resto la stessa giurisprudenza della Corte costituzionale è costante nel ritenere che l’interpretazione adeguatrice, orientata a rendere il dato normativo conforme alla Costituzione e ai suoi principi, è percorribile sempre che non trovi insuperabile limite nel dato letterale della disposizione (13). Sicché sembra non agevole dilatare il significato della locuzione “a titolo risarcitorio”, dal chiaro tenore lessicale e tecnico giuridico, sino a qualificarla come mera “voce” del pregiudizio patrimoniale derivante dall’acquisizione di cui, evidentemente, ne condividerebbe la natura indennitaria. Manipolazione ermeneutica che (seppur informata a condivisibili obiettivi di semplificazione) mira a concentrare, oltre il dato testuale della norma, dinanzi alla giurisdizione ordinaria il “blocco di materia” dell’indennizzo (globalmente inteso) ex art. 42-bis cit. piuttosto che consentire la possibile trasmigrazione del giudizio (non più indennitario bensì) risarcitorio dinanzi alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. 3. dissonanze processuali. Si consideri inoltre che, sul piano rigorosamente processuale, l’orientamento prevalente che riconosce natura (para)indennitaria al risarcimento del danno di cui al punto 3 dell’art. 42-bis in esame comporta, quale ricaduta propria dell’acquisizione sanante come procedura espropriativa semplificata, che legittimata passiva nei relativi giudizi sia la sola Pubblica Amministrazione procedente. Andrebbe in tal modo esente da responsabilità o corresponsabilità il concessionario cui magari è proprio da ascrivere l’illegittimità dell’occupazione per erroneità della procedura espropriativa osservata. Quanto precede in dissonanza rispetto alla consolidata giurisprudenza in (11) Cass., S.U., 5 luglio 1982, n. 4000. (12) Cass., S.U. 23 aprile 2020, n. 8091; Cass., 4 ottobre 2018, n. 24165; Cass. 6 aprile 2001, n. 5128. (13) Corte Cost. 26 novembre 2020, n. 253; Corte Cost., 23 ottobre 2019, n. 221. ConTenzioSo nAzionAle subiecta materia secondo cui in tema di espropriazione (14) per pubblico interesse, nel caso di sostituzione amministrativa, l'ente sostituto agisce per l'esecuzione dell'opera non in rappresentanza dell'amministrazione sostituita, ma per competenza propria e spendendo il proprio nome di persona giuridica diversa, assumendo di fronte all'espropriato o al titolare del bene occupato tutti gli obblighi concernenti il pagamento dell'indennità o dell'eventuale ristoro dei danni, salvo che non affidi in concessione ad altro soggetto l'esecuzione dei lavori, attribuendo, altresì, al concessionario l'espletamento delle attività relative al procedimento di espropriazione che si renda necessario; in tal caso, la legittimazione passiva nelle controversie promosse dall'espropriato per la determinazione delle indennità o del risarcimento del danno spetta a detto concessionario ovvero all'affidatario, e non anche all'ente, pur se beneficiario delle opere (15). Quale non secondaria perplessità deve evidenziarsi che l’assorbimento del risarcimento del danno nella natura indennitaria potrebbe pregiudicare in subiecta materia l’affermarsi nei fatti del principio di integralità del ristoro (16). Ciò non solo, evidentemente, in contrasto con l’assetto ricostruttivo del danno contra ius ma in contrasto altresì con lo stesso punto 3 dell’art. 42-bis cit. che prevede la corresponsione del 5% del valore venale quale mera presunzione: “salvo prova di diversa entità del danno”. locuzione quest’ultima che, senza alcuna “imprecisione lessicale”, postula la possibile integralità del ristoro e la cui lesione potrebbe, ancora una volta, far risorgere dalle ceneri sensibilità costituzionali e di compatibilità CedU (17). in senso contrario può ancora osservarsi come il tenore letterale dell’art. 42-bis in esame tiene ben distinti il piano del provvedimento acquisitivo da quello dell’occupazione illegittima. il provvedimento, seppur a motivazione rinforzata, deve contenere solo ove “possibile” l’indicazione del dies a quo dell’occupazione illegittima, e deve necessariamente contenere la liquidazione del solo indennizzo di cui al comma 1 (pregiudizio patrimoniale e non) e solo tale indennizzo (e non il ristoro della illegittima occupazione) costituisce la (14) Cass., 6 aprile 2012, n. 5630. (15) in tal senso anche la giurisprudenza. in tema di esecuzione di opere ricomprese nel programma straordinario di urbanizzazione nell'area metropolitana del Comune di napoli previsto dalla legge n. 219 del 1981, ciò in quanto le norme di cui agli artt. 81 e ss. di detta legge demandano necessariamente all'ente concessionario il compimento in nome proprio di tutte le operazioni materiali, tecniche e giuridiche occorrenti per la realizzazione del programma edilizio, ancorché comportanti l'esercizio di poteri di carattere pubblicistico, quali quelli inerenti all'espletamento delle procedure di espropriazione. l'ente concessionario (e non già la P.A. concedente) risponde direttamente dei danni cagionati a terzi dall'opera pubblica e delle obbligazioni strumentalmente preordinate alla sua esecuzione, derivino gli stessi da attività legittima ovvero da illecito aquiliano e, in questo secondo caso, sia dall'illegittima occupazione temporanea di immobili privati, sia da ogni altro vizio inficiante il procedimento espropriativo e tale da determinare l'inesistenza del potere ablativo (Cass. S.U. 20 maggio 2016, n. 10500). (16) Cons. Stato, Ad. Plen. 20 gennaio 2020, n. 2. (17) Tale profilo, pur intercettato dalla Corte Cost. 71/2015 cit., viene di fatto non affrontato con il commodus discessus della non necessità di rivalutazione. rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 condicio iuris per il verificarsi dell’effetto traslativo. Si ha l’impressione che il legislatore, non senza motivo, sia stato particolarmente attento a differenziare la disciplina e gli effetti tra riconoscimento dell’indennizzo da acquisizione sanante e ristoro da occupazione illegittima. Caratterizzazione ricercata proprio per marcare, agli occhi di Strasburgo, meglio tali confini e che sembra prudente non dissolvere. non appare peraltro ex se dirimente il rilievo secondo cui l’illegittima occupazione costituisce presupposto per l’esercizio del potere sanante, da cui la necessaria unificazione dei ristori sotto un unico ombrello indennitario. il più rilevante presupposto ai fini della legittimità dell’acquisizione è che il bene immobile sia stato modificato (in costanza di occupazione illegittima) in quanto, a tenore, del punto 3-bis cit., ciò che viene ex nunc sanato è proprio e solo la intervenuta modifica del bene (18). l’occupazione illegittima rimane quel che è, sia se poi intervenga l’acquisizione sanante sia se il bene immobile sia restituito tant’è che la misura prevista per il ristoro è sempre, al di là di ogni problema di giurisdizione, il risarcimento dei danni. ed è altresì certo che l’occupazione illegittima, pur costituendo ineludibile presupposto fattuale alla base dell’esercizio del potere acquisitivo di cui all’art. 42-bis, preesiste al suo esercizio e permarrà nella sua materialità e illiceità anche all’indomani dell’eventuale possibile annullamento del provvedimento di acquisizione sanante o di sua mancata adozione. Peraltro, ove investita della problematica, la Corte di Strasburgo difficilmente riuscirebbe a comprendere le necessità processuali che hanno indotto la giurisprudenza ad assumere una visione pan-indennitaria mimetizzando il danno con il manto dell’indennizzo, depotenziando in tal modo anche il disvalore di condotte amministrative disinvolte su cui più volte la stessa si è già negativamente pronunciata. da ultimo deve osservarsi che l’attuale orientamento che concentra dinanzi alla Corte di Appello tutti i ristori ex art. 42-bis cit. dovrebbe comportare l’applicazione del rito sommario di cognizione. Ciò in quanto l’azione per la rideterminazione dell’indennizzo da acquisizione sanate, proprio per la natura di procedimento espropriativo semplificato, risponde al principio in tema di azione di opposizione alla stima, e pertanto non si configura quale impugnazione del provvedimento limitato al mero controllo dell'esattezza dei criteri astratti (di legge) che hanno presieduto in sede amministrativa alla stima suddetta, ma introduce un ordinario processo di cognizione sul rapporto, diretto all'accertamento giudiziale della giusta indennità, alla stregua di criteri legali effettivamente vigenti e riconosciuti applicabili alla fattispecie (19). Sicché, (18) “ecco quindi che si appalesa chiaramente come la finalità del provvedimento di cui all’art. 42 bis sia appunto, il mantenimento delle opere già realizzate e indispensabili per la tutela dell’interesse pubblico coinvolto”, così C. BrAnCATi, in tutelaespropri.it. ConTenzioSo nAzionAle stante la ritenuta natura indennitaria anche del compenso riconosciuto “a titolo di risarcimento danni” dal punto 3 dell’art. 42-bis cit. ne deriverebbe anche per la sua determinazione l’applicazione del rito sommario. Balza evidente tuttavia che in tema di danni non vi è mera applicazione di criteri di legge (5% del valore venale) in quanto alla parte espropriata l’art. 42-bis cit. consente la prova dell’integralità del danno sofferto senza alcuna limitazione e la parte deve essere messa in grado di spiegare integralmente il proprio potere dispositivo. ora, al di là di superate querelle di costituzionalità sul procedimento sommario di cognizione e se è pur vero che la sommarietà del rito va riferita esclusivamente alla procedura e non anche all’ampiezza e alla profondità della cognizione del giudice, deve tuttavia ammettersi l’ingessatura in cui viene calato l’espropriato che (a differenza che nei giudizi dinanzi al Tribunale) non potrà mai godere dinanzi alla Corte di Appello, in unico grado, di un possibile cambiamento del rito. Ciò in quanto, ai sensi degli artt. 3 e 29 del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, sono tassativamente escluse dalla possibilità di conversione le cause previste dal capo iii del decreto legislativo medesimo, tra le quali è compresa l'opposizione alla stima dell'indennità di espropriazione (e, quindi, per la proprietà transitiva) la determinazione degli indennizzi di cui all’art. 42-bis cit. (20). È auspicabile che tale orientamento non si radichi in via definitiva consentendo che il giudizio avverso gli indennizzi (globalmente intesi) venga introdotto con citazione e segua il rito ordinario circoscrivendo rigorosamente il rito sommario di cognizione alla (sola) opposizione a stima. Ciò avuto riguardo anche al rilievo che il d.lgs. 150/2011 (art. 29), pur essendo stato emanato il 1° settembre 2011 e cioè in data cioè successiva all’art. 42-bis cit. introdotto (art. 34, comma 1) con d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. con mod. in l. 15 luglio 2011, n. 111, non contiene alcun riferimento all’applicabilità del rito sommario di cognizione alla liquidazione degli indennizzi da acquisizione sanante. del resto la Cassazione, proprio con riferimento agli indennizzi da acquisizione sanante, si è di recente sbarazzata del termine perentorio di trenta giorni, previsto dall'art. 54, comma 1 del d.P.r. n. 327/2001 per l'impugnazione della determinazione dell'indennità di esproprio. Ha ritenuto, infatti, non applicabile il predetto termine all'opposizione avverso la determinazione dell'indennizzo (19) Cass., S.U., 8 novembre 2018, n. 28573. nel senso dell’applicabilità sembra potersi leggere Cass., S.U. 12 giugno 2018, n. 15343 nella parte in cui: “le relative controversie sulla determinazione e corresponsione dell'indennizzo, globalmente inteso, previsto per la cd. acquisizione sanante, sono devolute, in unico grado, alla corte di appello, secondo una regola generale dell'ordinamento di settore per la determinazione giudiziale delle indennità, dovendosi interpretare in via estensiva l'art. 29 del d.lgs. n. 150 del 2011”. (20) Previsione ritenuta costituzionalmente conforme da Corte Cost., 23 gennaio 2013, n. 10. rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 contenuta nel provvedimento acquisitivo adottato a norma dell'art. 42-bis cit. del medesimo decreto, sia perché tale termine si riconnette ad un iter procedi- mentale estraneo all'istituto dell'acquisizione sanante, sia perché l'art. 42-bis cit. non contiene alcun richiamo all'art. 54, sicché, vertendosi in tema di termini fissati per la tutela giurisdizionale di diritti, non è consentito ravvisarne la natura perentoria in mancanza di espressa previsione normativa (21). 4. Auspici conclusivi. invero deve osservarsi che l’ordinanza di rimessione, pur sollevando perplessità in ordine alla parificazione, quoad effectum, tra risarcimento e indennizzo, non offre poi spunti per possibili percorsi ricostruttivi alternativi e non indaga, peraltro, sui conseguenti scenari e sulle ricadute processuali che deriverebbero dall’abbandono del prevalente orientamento giurisprudenziale pan-indennitario lasciando, in tal modo, alle Sezioni Unite ampio spettro ricostruttivo. Alla luce di tutto quanto precede ed anche a voler far proprio l’indirizzo prevalente orientato in subiecta materia verso la realizzazione della concentrazione di tutela dinanzi al G.o. (che, tuttavia potrebbe essere ribaltato anche in favore del G.A.) (22), non può tuttavia condividersi la forzatura ermeneutica operata dall’orientamento prevalente dei chiari dati normativi attributivi del diritto al ristoro da illegittima occupazione che militano nel senso del riconoscimento al privato di un diritto di natura chiaramente risarcitoria derivante dall’illegittima violazione dell’integrità patrimoniale della situazione giuridica (illegittima occupazione). Al fine di confermare il principio di concentrazione dei giudizi dinanzi al G.o., quale giudice unico degli indennizzi da espropriazione (ordinaria o “semplificata”), senza sacrificare la natura risarcitoria del ristoro per l’illegittima occupazione, potrebbe forse indagarsi se nella fattispecie non possano ipotizzarsi altri percorsi ivi compresa la possibile deroga alla giurisdizione per motivi di connessione. in proposito, se è infatti pacifico che le Sezioni Unite (21) Cass., ord., 17 giugno 2020, n. 11687. (22) G. TroPeA, Giurisdizione e acquisizione sanante: l’ennesima sciarada (nota a Cass., sez. i, ord. 29265/2020) in giustiziainsieme.it, sembra propendere per la concentrazione dinanzi al G.A. nella parte in cui osserva “e così, la questione della giurisdizione si indirizza segnatamente proprio sugli indennizzi e i risarcimenti previsti all’art. 42 bis, che per il principio di concentrazione ed effettività della tutela (art. 7 c.p.a.) forse dovrebbero ricadere nella cognizione, ormai sempre più estesa (anche alla luce dell’abbandono della tesi della carenza di potere in concreto), del giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva. e tuttavia sul punto si è andata formando una giurisprudenza che, sulla scia della fondamentale sentenza della Corte cost. n. 71/2015, ritiene che l’art. 42 bis del d.P.r. n. 327 del 2001 preveda un autonomo, speciale ed eccezionale procedimento espropriativo, con la conseguenza che, ove detto procedimento sia stato legittimamente promosso, attuato e concluso, il corrispettivo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale liquidato con il provvedimento acquisitivo ha natura non già risarcitoria ma indennitaria, con l’ulteriore corollario che le controversie relative alla determinazione o alla corresponsione di esso sono attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario”. ConTenzioSo nAzionAle hanno in più occasioni ribadito il principio contrario (23), tuttavia la deroga è stata di fatto applicata in individuate ipotesi e proprio in materia espropriativa (seppur a vantaggio della giurisdizione esclusiva del G.A.). Si è così statuito che allorché le domande di retrocessione parziale e totale siano proposte congiuntamente ed alternativamente in un'unica causa, trova applicazione il principio del giusto processo per cui la decisione avente ad oggetto, in astratto, diritti ed interessi, spetta al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva, il quale, avendo cognizione su interessi e diritti, ha maggiori poteri rispetto al giudice ordinario, poteri limitati ai diritti soggettivi (24). evidentemente la possibile praticabilità di tale sentiero (in salita) potrebbe essere agevolata (solo) ritenendo l’occupazione illegittima non in connessione con l’assumendo provvedimento di acquisizione sanante (che ne determina la cessazione) ponendosi, pertanto, il problema solo per la occupazione illegittima c.d. acquisitiva, rientrando il danno da occupazione c.d. usurpativa già nella giurisdizione del giudice ordinario. in tale contesto il punto 3 dell’art. 42-bis cit. deve essere considerato quale mera previsione di una presunzione semplice di ammontare del danno. diversamente opinando l’inevitabile attrazione condurrebbe verso il G.A. (25). non resta che attendere l’autorevole sollecitato intervento delle Sezioni Unite cui è riservato il gravoso compito di stabilire i confini e la direzione della vis espansiva del principio di concentrazione di tutela, non sempre coerentemente declinato in giurisprudenza, nel contesto di un riesame funditus dell’intera problematica e perché no, con l’auspicio che voglia fornire possibili suggerimenti di ortopedia normativa che rendano il tutto forse “meno rotondo, ma un po' più quadrato” (26). Cassazione civile, Sezione i, ordinanza interlocutoria 24 dicembre 2020 n. 29625 -Pres. P. Campanile, rel. l. Scalia -Ministero delle infrastrutture e dei Trasporti, Ministero della Giustizia (avv. gen. Stato) c. Sintesi S.p.A. (avv.ti G. lombardi, G. Gariboldi, e M. Pisapia); itinera S.p.a. (avv.ti G. Giuffrè, e. Magnoni, A. Mazza e A. Cimellaro). FATTi di CAUSA 1. la Corte di appello di Milano, con l'ordinanza in epigrafe indicata, ha pronunciato sull'opposizione alla stima proposta da Sintesi S.p.A. in un giudizio di determinazione dell'indennizzo dovuto in seguito all'adozione, in data 31 luglio 2013, di un provvedimento d.P.r. n. 327 del 2001, ex art. 42-bis con cui il Ministero delle infrastrutture e dei Trasporti (Provveditorato interregionale alle oo.PP. per la lombardia e la liguria) ed il Ministero della Giu( 23) Cass. S.U., 19 aprile 2013, n. 9534 e, più di recente Cass., 30 settembre 2019, n. 24298. (24) Cass., S.U., 24 giugno 2009, n. 14805. (25) in tal senso G. TroPeA, Giurisdizione e acquisizione sanante: l’ennesima sciarada, cit. (26) da edUArdo de FiliPPo, il sindaco del rione sanità, (il sogno di Antonio Barracano). rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 stizia avevano acquisito, con efficacia sanante, il terreno di proprietà della prima su cui era stato realizzato il carcere di Milano-Bollate. la Corte meneghina ha così rideterminato le somme dovute all'opponente -all'esito di una procedura di esproprio che, non portata a formale compimento in ragione della tardività del decreto ablativo, aveva interessato il fondo di proprietà -a titolo di indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non le somme, rispettivamente, di euro 28.111.657,30 e di euro 2.811.165,73 e, ancora, per l'occupazione illegittima, l'importo di euro 13.400.330,48, quest'ultimo determinato in applicazione del criterio legale di cui all'art. 42-bis, comma, 3 d.P.r. cit. pari al cinque per cento del valore venale dell'area. in giudizio sono state rigettate le eccezioni di difetto di giurisdizione e di competenza sollevate da itinera S.p.A., concessionaria dell'opera pubblica nella procedura ablativa, anch'essa evocata in lite dalla proprietà opponente, in applicazione dell'indirizzo che, formatosi sulle sentenze della Corte costituzionale e di questa Corte di cassazione, sostiene, nel carattere autonomo e speciale della procedura ex art. 42-bis cit., la natura indennitaria e non risarcitoria anche delle somme previste per l'occupazione illegittima in quanto voce del complessivo indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al precedente comma 1, secondo un'interpretazione imposta dalla necessità di salvaguardare il principio costituzionale di concentrazione della tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti ablatori. il riferimento al "titolo risarcitorio", pure contenuto all'art. 42-bis, comma 3 d.P.r. cit. a definizione delle voci indennitarie, doveva attribuirsi ad una mera "imprecisione lessicale" secondo la dizione, che, fatta propria dai giudici di appello, era stata utilizzata dalle Sezioni Unite di questa Corte di cassazione con la sentenza del 25 luglio 2016 n. 15283. Sulle premesse di autonomia del procedimento di acquisizione sanante, la Corte di merito ha ritenuto, di contro alle deduzioni dei due dicasteri e per quanto di rilievo in questo giudizio, con l'ammissibilità del ricorso introdotto nelle forme del giudizio di opposizione alla stima di esproprio, il difetto di legittimazione della concessionaria itinera S.p.A. sulla cui responsabilità per comportamento illecito, insieme alle Amministrazioni opposte, era pendente un distinto giudizio di danno davanti ai giudici amministrativi. i giudici della Corte di appello hanno quindi riconosciuto a titolo di indennizzo la somma pari a quella stimata dal nominato consulente tecnico di ufficio in applicazione della percentuale di legge sul valore venale del bene, nell'apprezzata irrilevanza, agli atti, del corrispettivo stabilito in un contratto di affittanza agraria stipulato tra la proprietà e terzi coltivatori, i cui effetti erano cessati prima dell'adozione del provvedimento di acquisizione sanante del 31 luglio 2013. 3. Per la cassazione dell'indicata ordinanza ricorrono con due motivi il Ministero delle infrastrutture e dei Trasporti ed il Ministero della Giustizia. resistono con controricorso Sintesi S.p.A., che propone altresì ricorso incidentale affidato a due motivi, ed itinera S.p.A., che formula in via incidentale ricorso condizionato con unico motivo. in occasione dell'odierna udienza di discussione, i Ministeri ed itinera S.p.A. hanno depositato memorie. rAGioni dellA deCiSione 1. il Ministero delle infrastrutture e dei Trasporti ed il Ministero della giustizia con il primo motivo fanno valere la violazione del d.P.r. n. 327 del 2001, art. 42 bis in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. i ricorrenti rilevano che il Consiglio di Stato, pronunciando con la sentenza n. 4817 del 2014 sulla impugnativa avverso la decisione del Tar lombardia n. 1276 del 2012 nel distinto ConTenzioSo nAzionAle giudizio di danno incardinato davanti al giudice amministrativo, aveva rimarcato la corresponsabilità della concessionaria itinera S.p.A. (già Grassetto S.p.A.), per non essersi questa attivata al fine di sollecitare l'adozione di un provvedimento che ponesse fine alla perdurante occupazione sine titulo dell'Amministrazione, nell'ambito di una procedura ablativa divenuta illecita per mancata tempestiva adozione del decreto di esproprio. l'opzione esercitata dall'Amministrazione di emettere un provvedimento di acquisizione sanante del terreno, non dando così seguito alla restituzione del bene e ed al pagamento del relativo risarcimento, non avrebbe potuto esonerare la concessionaria da ogni conseguenza. 2. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono la violazione del d.P.r. n. 327 del 2001, art. 42-bis e l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. la Corte di appello aveva erroneamente applicato il criterio, indicato nell'art. 42-bis d.P.r. cit., comma 3, u.p. del cinque per cento del valore venale dell'area nella quantificazione del- l'indennità per occupazione senza titolo, in tal modo disattendendo le articolate censure delle Amministrazioni resistenti. nella microzona in cui rientrava anche il terreno in questione, prima del P.G.T. (Piano di Governo del Territorio) del 2012 erano consentiti solo l'esercizio di attività agricola ed edificazioni funzionali, come anche attestato dalle fotografie aeree e dai documenti in atti, per una utilizzazione in cui rientrava il contratto di affittanza agraria, con effetti dall'11 novembre 1993 al 10 novembre 1998, concluso dalla proprietaria. 3. Con l'unico motivo del ricorso promosso in via incidentale, Sintesi S.p.A. denuncia l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio nei termini di cui all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e l'errata applicazione del d.P.r. n. 327 del 2001, art. 42-bis in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. le Corte di appello di Milano aveva omesso di esaminare la domanda con cui l'esponente aveva richiesto sull'indennità per l'occupazione senza titolo, calcolata anno per anno nella misura del cinque per cento sul valore dell'area, il riconoscimento degli interessi a decorrere da ogni singolo anno di occupazione fino alla data del loro effettivo pagamento e/o deposito presso la competente tesoreria della Cassa depositi e Prestiti. 4. itinera S.p.a con i due motivi del ricorso incidentale condizionato fa valere: a) la violazione o falsa applicazione del d.P.r. n. 327 del 2001, art. 42-bis in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la mancanza ed apparenza della motivazione, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avendo la Corte di merito quantificato l'indennizzo per l'occupazione senza titolo nella misura del cinque per cento del valore venale pur risultando in atti una diversa entità del danno, in ragione della stipula di un contratto di affittanza agraria tra la dante casa di Sintesi S.p.A. ed i signori A.; b) la violazione o falsa applicazione del d.P.r. n. 327 del 2001, art. 42-bis e della l.r. lombardia n. 12 del 2005, art. 46 in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la nullità del provvedimento in relazione all'art. 132 c.p.c., comma 4, e art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la mancanza o apparenza della motivazione in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 in quanto la determinazione dell'indennità era intervenuta, mancando la motivazione di dare conto delle dettagliate osservazioni dei consulenti di parte. 5. Per la fattispecie in esame viene all'attenzione di questa Corte di cassazione in relazione dell'acquisizione sanante di cui al d.P.r. n. 327 del 2001, art. 42-bis il passaggio, fondamentale, rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 nella formulazione della norma, che attiene alla quantificazione della somma di denaro da corrispondersi "a titolo risarcitorio" al proprietario in ragione dell'ablazione dell'area occupata. nella più ampia disciplina contenuta nell'art. 42-bis d.P.r. cit., comma 3, si riconosce al proprietario destinatario del provvedimento di acquisizione un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale sofferto -il primo fissato secondo il valore venale del bene, determinato in forza di libera contrattazione di mercato al momento in cui si proceda all'acquisizione, con i correttivi di cui all'art. 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7 nel caso di terreno edificabile, ed il secondo determinato in via forfettaria nella misura del dieci per cento del valore venale del bene -e, "a titolo risarcitorio", una somma per il mancato godimento del bene durante il periodo di occupazione illegittima, fermo restando, sussistendone i presupposti, il diritto alla corresponsione dell'indennità di occupazione legittima da determinarsi ex art. 50 d.P.r. cit. Segnatamente la norma, per quanto qui in rilievo, stabilisce che: "per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l'interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma". Una lettura della cornice di sistema, in cui l'indicata previsione si inserisce, conduce questa Prima Sezione civile a dubitare della bontà della soluzione data nella sentenza delle Sezioni Unite n. 15283 del 25 luglio 2016 in punto di qualificazione dell'indicata posta e, nel vincolo di coerenza nascente dall'applicazione dell'art. 374 c.p.c., comma 3, determina questo Collegio a rimettere la questione alle medesime Sezioni Unite per sollecitare un ripensamento del principio di diritto affermato. 6. nell'indicata occasione le Sezioni Unite di questa Corte, nel pronunciare sulla giurisdizione, hanno attribuito a quella del giudice ordinario, nella competenza funzionale della Corte di appello, non solo la controversia relativa alla determinazione e corresponsione dell'indennizzo previsto per la fattispecie di acquisizione sanante di cui al d.P.r. n. 327 del 2001, art. 42-bis ma anche quella avente ad oggetto l'interesse del cinque per cento del valore venale del bene, nel rilievo che l'utilizzo da parte del legislatore della locuzione "a titolo di risarcimento del danno" sia frutto di una "una mera imprecisione lessicale" (p. 7 motivazione). le esigenze d'indole sistematica fatte proprie dalle indicate Sezioni Unite, anche attraverso la riaffermazione dei contenuti della propria precedente ordinanza, la n. 22096 del 2015 -per le quali, nella fattispecie di cui all'art. 42-bis d.P.r. cit., l'illecita o l'illegittima utilizzazione di un bene immobile per scopi di interesse pubblico, con le altre specifiche condizioni previste dalla norma, costituisce soltanto il presupposto indispensabile per l'adozione del provvedimento di acquisizione sanante -, lasciano salda l'esigenza di non alterare negli effetti, in punto di giurisdizione e di competenza, la natura legittima del sotteso eccezionale procedimento espropriativo. Tanto dovendo valere sia quanto agli indennizzi previsti per il pregiudizio patrimoniale, e non, risentito dal privato all'esito della perdita della proprietà sia quanto alle somme riconosciutegli per il periodo di occupazione illegittima. le indicate poste concorrono, tutte, si è detto, ad integrare un unico indennizzo destinato a ristorare l'ablato del pregiudizio sofferto per una lettura che è imposta dalla necessità di salvaguardare il principio costituzionale di concentrazione della tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti espropriativi d.P.r. n. 327 del 2001, ex art. 53, comma 2 ed art. 133, lett. g), u.p. c.p.a., nella correlata unicità della competenza funzionale della Corte di appello d.lgs. n. 150 del 2011, ex art. 29 (principio ancora ripreso, con identica motivazione, in sede di regolamento di giurisdizione, da Sezioni Unite del 21/02/2019 n. 5201). 7. ritiene questa Sezione che, nella dichiarata esigenza di riordino della giurisdizione e ConTenzioSo nAzionAle competenza nella materia dell'indennità di esproprio, pure intesa in coerenza con i principi di difesa e del giusto processo (artt. 24 e 111 Cost.), l'indicata lettura sacrifica, in modo non rispettoso del dato letterale, il ventaglio di posizioni sostanziali vantate dai soggetti coinvolti in una procedura espropriativa, sovvertendo altresì le regole, prioritarie, dell'effettività del diritto al risarcimento del danno e del relativo regime dell'onere probatorio. l'operata esegesi dell'istituto dell'acquisizione sanante si presta così a critica per un duplice profilo. 7.1. l'interpretazione delle Sezioni Unite, infatti, da un canto forza il dato letterale della norma che, nella interpretazione datane, è destinato a collocarsi al di fuori di ogni possibile variante di senso, non vedendosi come quanto espressamente riconosciuto a titolo di risarcimento del danno per il periodo di occupazione illegittima possa tramutarsi in un indennizzo per attività lecita e tanto nella diversità della natura delle poste indicate, rimarcata, se del caso, dall'indole della fonte ovverosia dalla illegittimità dell'occupazione. 7.2. la lettura data non rispetta neppure la sistematica del risarcimento del danno nella materia dell'esproprio. il provvedimento di accuisizione sanante, fisiologicamente operante ex nunc in quanto espressivo di un'attività nuova e legittima della P.A., sortisce l'effetto di distendersi anche per il tempo passato, in un'epoca in cui non era stato ancora adottato, e tanto in ragione di una impropria operatività ex tunc destinata a tramutare, sotto la comune copertura indennitaria, in modo irragionevole, in lecito quanto era in precedenza illecito. nella natura autonoma e speciale del procedimento di esproprio che segue alla legittima adozione del provvedimento di acquisizione sanante, ragionare di soli effetti indennitari, assorbendo attraverso il richiamo all' "imprecisione lessicale" ogni distinta categoria risarcitoria, sostiene, così, ad esempio, la legittimazione passiva rispetto alla posta risarcitoria della sola p.A. che quel provvedimento abbia adottato e nega, per il periodo di occupazione che precede l'acquisizione, insieme al carattere illegittimo del provvedimento, con la illiceità degli effetti, l'impossibilità che di questi ultimi venga chiamato a rispondere il concessionario ovverosia il soggetto con cui l'Amministrazione, riservando a sè quantomeno i poteri di controllo, abbia condiviso le attività di esproprio, nella negata configurabilità di forme di responsabilità o di corresponsabilità. in siffatto contesto resta altresì non ragionevolmente soddisfatto ogni dubbio sulla misura di sussistenza di un autonomo giudizio di danno proposto o da proporsi dal privato per l'epoca in cui l'operato dell'Amministrazione non si trovava sotto l'egida del provvedimento ex art. 42-bis d.P.r. cit. Anche il principio dell'onere probatorio rimane sovvertito là dove non si chiama il soggetto danneggiato a provare il pregiudizio sofferto (vd. invece ex plurimis: Cass., 24/04/2019, n. 11203; Cass., 25/05/2018, n. 13071) e tanto in ragione di una forfettizzazione presuntiva del danno (così per la percentuale del cinque per cento del valore venale del bene) che, prevista dalla norma e destinata più propriamente ad operare sul piano del giudizio, deve consentire, pure nel suo predefinito ammontare, non solo modifiche in melius, ma anche in peius nello scrutinio della posizione del privato. Si assiste altrimenti alla definizione di una sanzione della condotta della p.A. sostenuta da una lettura della funzione sociale della proprietà ex art. 42 Cost. che oblitera gli effetti redistribuitivi che si accompagnano al danno, quale costo da ripartirsi tra tutta la collettività, nella sola affermata necessità di salvaguardare il principio costituzionale di concentrazione della tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti ablatori. 8. Con il recupero del principio dell'estraneità della fase risarcitoria al procedimento espro rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 priativo propriamente detto, rispetto al quale nell'ipotesi di acquisizione sanante d.P.r. n. 327 del 2001, ex art. 42-bis cambia soltanto lo strumento tecnico-giuridico attraverso il quale si realizza l'effetto traslativo della proprietà in favore dell'Amministrazione, si sollecitano le Sezioni Unite di questa Corte a ripensare al principio di cui alla sentenza n. 15283 del 25/07/2016 in un quadro in cui le ragioni della giurisdizione e della concentrazione della cognizione, alle quali si connettano più spedite modalità di definizione della lite in un quadro di più agevole accesso a tutela, restino coerenti con l'assetto sostanziale della materia. 9. Si rimette la decisione del ricorso alle Sezioni Unite, ai sensi dell'art. 374 c.p.c., comma 3. P.Q.M. rimette la decisione del ricorso alle Sezioni Unite. Così deciso in roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima civile, il 29 ottobre 2020. ConTenzioSo nAzionAle L’apparenza e i limiti dell’adempimento del dovere alla luce del diritto interno e delle fonti sovranazionali vigenti in materia di soccorso in mare NotA A CAssAzioNe PeNALe, sezioNe terzA, seNteNzA 20 febbrAio 2020 N. 6626 Elisabetta Chiarelli* sommArio: 1. il caso -2. i presupposti di legittimità dell’arresto, alla luce dell’articolo 385 del codice di procedura penale e del significato di “apparenza” di una causa di esclusione della punibilità -3. L’ambito applicativo dell’adempimento di un dovere in materia di soccorso in mare, alla luce delle fonti sovranazionali vigenti in materia -4. i presupposti di legittimità dell’arresto in caso di riscontro di una causa di esclusione della punibilità e la definizione dell’ambito applicativo dell’adempimento di un dovere in materia di soccorso in mare, alla luce della sentenza della terza sezione della Corte di Cassazione. 1. il caso. nei confronti dell’odierno ricorrente, il Procuratore della repubblica presso il Tribunale di Agrigento, è stata pronunciata dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale de quo un’ordinanza con la quale l’anzidetta Autorità non ha convalidato l’arresto in flagranza del capitano C.r. l’arresto in oggetto è stato eseguito dagli Ufficiali della Guardia di Finanza, per i reati di cui agli articoli 1100 del codice della navigazione (“resistenza o violenza contro nave da guerra”) e 337 del codice penale (“resistenza a un pubblico ufficiale”). nel caso di specie, il ricorrente ha eccepito che il Giudice per le indagini preliminari abbia travalicato i limiti del suo sindacato sull’operato dei Finanzieri. il sindacato de quo, secondo quanto eccepito dal ricorrente, avrebbe dovuto invece essere circoscritto alla mera verifica della sussistenza dei presupposti di ragionevolezza dell’arresto. in particolare, l’Autorità anzidetta si sarebbe addentrata per riscontrare gli estremi della causa di giustificazione dell’adempimento del dovere in un esame della vicenda concretamente svoltasi, a tal punto articolato e complesso, da tradire la formulazione dell’articolo 385 c.p.p. essa richiede per l’appunto l’apparenza quale immediato riscontro di qualsivoglia causa di giustificazione all’uopo richiamata. il ricorrente lamenta inoltre la violazione dell’articolo 1100 del codice della navigazione come interpretato dalla prevalente giurisprudenza di legittimità relativamente alla qualificazione come navi da guerra del naviglio della Guardia di Finanza nei cui confronti dal capitano r. sarebbero stati commessi (*) dottoressa in Giurisprudenza, già praticante forense presso l’Avvocatura dello Stato. Riceviamo e pubblichiamo il presente scritto (n.d.r.). rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 atti di resistenza o violenza. l’odierno ricorrente contesta infine la violazione e falsa applicazione dell’articolo 51 del codice penale (“esercizio di un diritto o adempimento di un dovere”), sostenendo che l’adempimento del dovere fosse da intendersi compiutamente espletato attraverso operazioni di soccorso in mare dei naufraghi, a prescindere dallo sbarco di questi. la Cassazione, Terza Sezione Penale, con sentenza del 16 gennaio 2020, dep. 20 febbraio 2020, n. 6626 si è occupata in particolare delle seguenti questioni: se il sindacato giudiziale sulla legittimità dell’arresto operato possa ricostruire l’apparenza di una causa esclusoria della punibilità ex articolo 385 c.p.p. sulla scorta di un riscontro di ragionevole verosimiglianza degli elementi costitutivi di essa; se l’ambito applicativo della scriminante dell’adempimento del dovere in materia di salvataggio di vite umane debba spingersi oltre l’espletamento delle operazioni di soccorso in mare. l’interesse della sentenza in commento emerge con particolare evidenza, poiché attraverso una lettura sistematica e interdisciplinare delle norme di diritto penale sostanziale e processuale in oggetto, è possibile definirne i relativi ambiti applicativi. Ciò è possibile anche alla luce delle fonti sovranazionali vigenti in materia di salvaguardia dei diritti umani. 2. i presupposti di legittimità dell’arresto, alla luce dell’articolo 385 del codice di procedura penale e del significato di “apparenza” di una causa di esclusione della punibilità. Ai sensi dell’articolo 385 del codice di procedura penale “L’arresto o il fermo non è consentito quando, tenuto conto delle circostanze del fatto, appare che questo è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima ovvero in presenza di una causa di non punibilità”. Questa norma deve essere letta in combinato disposto, in particolare, con le disposizioni direttamente antecedenti; la ratio sottesa alla previsione in oggetto, ravvisabile anche nelle norme successive nel quadro del Titolo Vi del codice (“Arresto in flagranza e fermo”) è quella dell’immediatezza dell’intervento della polizia giudiziaria. Ciò si può desumere direttamente dall’articolo 13 della Costituzione, citato dalla sentenza in oggetto, che ricollega la legittimità dell’arresto o del fermo alla necessità e all’urgenza delle situazioni che ne richiedono l’adozione. l’arresto e il fermo sono misure precautelari (1). esse vengono adottate per evitare che la commissione dei reati produca conseguenze ulteriori, ai sensi dell’articolo 55 del codice di procedura penale. Pertanto, dalla lettura sistematica delle norme dettate in materia di arresto e fermo si desume che la situazione di “apparenza” a cui l’articolo 385 si ri (1) P. Tonini, manuale di procedura penale, XV ed., Giuffré editore, Milano, 2014 -Le indagini preliminari, capitolo 1, parte iii, il procedimento ordinario, pagg. 558-566. ConTenzioSo nAzionAle ferisce non può che sostanziarsi nel riscontro “ictu oculi” e quindi, tempestivo, circa la configurabilità delle circostanze scriminanti. ne consegue, perciò, che una lettura “civilistica” della ratio della norma enucleata all’articolo 385, tesa a tramutare l’immediata evidenza delle cause di non punibilità in mera verosimiglianza, tradisce lo scopo perseguito dal legislatore con la disciplina in oggetto. Questi, infatti, attraverso la regolamentazione dell’arresto e del fermo, segue una logica emergenziale, volta a salvaguardare l’ordine pubblico da un pregiudizio imminente. Quanto esposto risulta altresì coerente con la normativa dettata in materia di misure cautelari, alla cui adozione il fermo o l’arresto preludono. le misure cautelari stesse, infatti, sono sostanzialmente adottate “a sorpresa”, sulla scorta dei soli elementi di fatto probatori ivi prodotti dalla Pubblica Accusa (2). in questi casi, infatti, ai sensi dell’articolo 274 del codice di procedura penale, la compressione del principio costituzionale del contraddittorio nella formazione della prova, trova ragion d’essere nell’esigenza di evitare la reiterazione della condotta criminosa, ovvero, di salvaguardare la fruttuosità degli esiti processuali (3). Un siffatto quadro normativo è altresì coerente con i requisiti connotanti il diritto penale. Tale disciplina, infatti, è caratterizzata per antonomasia da una vocazione all’assolutezza del risultato accertativo. la condanna nei confronti dell’imputato interviene infatti ad esito di un accertamento della sua responsabilità, che aspiri a riscontrare l’intrinseca e oggettiva veridicità dei fatti di causa. non vige, infatti, la logica del “più probabile che non” sottesa al processo civilistico e pertanto, anche all’adozione di eventuali misure cautelari. esse nel diritto civile investono profili essenzialmente patrimoniali che non impattano direttamente sulla libertà personale. Ciò spiega, quindi, per quale motivo è ragionevole che l’adozione di misure patrimoniali veramente afflittive possa seguire a procedimenti cognitivi sommari, come, ad esempio, anche quello monitorio. Tali procedimenti sono infatti connotati da un giudizio che, per quanto rigoroso nell’esame degli elementi di prova, si arresta al riscontro di una mera, seppur stringente verosimiglianza circa l’esistenza del diritto da tutelare. Applicare la medesima logica al diritto penale e processuale penale ed in particolare, all’articolo 385 del codice di procedura penale, pregiudicherebbe invece proprio l’effettività del principio di favor rei. Affermare, infatti, che l’apparenza a cui il legislatore si riferisce all’articolo 385 si sostanzi in realtà in un riscontro di ragionevole verosimiglianza circa la configurabilità della causa di esclusione di punibilità, significa subordinare la disapplicazione del- l’arresto ad una valutazione degli elementi di fatto non più semplificata, bensì (2) P. Tonini, op. cit., Capitolo Vi, Le misure cautelari, pagg. 431-451. (3) P. Tonini, op. cit., Capitolo Vi, Le misure cautelari, pagg. 431-451. rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 maggiormente complessa e articolata, i cui esiti potrebbero non essere necessariamente favorevoli per l’interessato. 3. L’ambito applicativo dell’adempimento di un dovere in materia di soccorso in mare, alla luce delle fonti sovranazionali vigenti in materia. il punto 3.1.9. della Convenzione S.A.r. (Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare, SolAS -Safety of life at Sea, londra 1974), citata dalla sentenza in commento, statuisce che “… La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione… affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’organizzazione (marittima internazionale). In questo caso le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile”. dalla lettura del testo della Convenzione si evince espressamente che il compito di assicurare lo sbarco dei soggetti soccorsi in mare spetta principalmente agli Stati e non agli operatori del salvataggio. Per questi ultimi l’adempimento del dovere che li scrimini quindi da ogni responsabilità penale ben può dirsi compiutamente perfezionato ex articolo 51 del codice penale, con il salvataggio in mare. Ciò risulta coerente anche con la stessa nozione di adempimento che nell’ambito del diritto civile, quale settore giuridico di elezione, deve avvenire sempre con diligenza e senza determinare un sacrificio sproporzionato per il debitore. la diligenza, quale parametro valutativo della condotta del debitore, declinata variamente a seconda della specifica qualità sociale finanche professionale del debitore, obbliga questi a salvaguardare le ragioni del creditore, ma mai a discapito di sé stesso (4). opinando diversamente, si legittimerebbero pratiche creditorie abusive ed istituti come lo scioglimento del rapporto obbligatorio per impossibilità sopravvenuta della prestazione (articolo 1256 del codice civile), la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità (articolo 1467 del codice civile), la mora del creditore (articolo 1206 del codice civile) e il conseguente disfavor per la perpetuità dei vincoli obbligatori, nonché lo stesso principio di solidarietà sociale sancito dall’articolo 2 della Carta fondamentale, sarebbero destituiti di fondamento (5). (4) M. BiAnCA, diritto civile, Vol. 4 L’obbligazione, Giuffré editore, Milano, 2019 -Capitolo iV, La prestazione, pagg. 90-97. (5) M. BiAnCA, op. cit., Capitolo Viii, i modi di estinzione dell’obbligazione diversi dall’adempimento, pagg. 528-540. ConTenzioSo nAzionAle Posta l’intrinseca unitarietà logica del diritto, non si può che applicare queste argomentazioni anche al diritto penale. Sarebbe, infatti, in contrasto con il principio costituzionale di solidarietà sociale e con lo stesso principio di favor rei, imporre al prevenuto un onere di condotta a tal punto gravoso, da esigere l’assolvimento di compiti ultronei, ex articolo 51 del codice penale (6). opinare diversamente significa altresì tradire la ratio sottesa in particolare alle norme che concernono le cause di giustificazione (7). esse, infatti, rimandano esplicitamente ad una certa “immediatezza” e unitarietà della condotta da scriminare. nel caso di specie essa non può che consistere per l’appunto essenzialmente nel sottrarre i naufraghi dall’immediato pericolo di affogare. 4. i presupposti di legittimità dell’arresto in caso di riscontro di una causa di esclusione della punibilità e la definizione dell’ambito applicativo della causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere in materia di soccorso in mare, alla luce della sentenza della terza sezione della Corte di Cassazione. relativamente al quesito se l’apparenza di una causa di non punibilità a cui l’articolo 385 del codice di procedura penale fa riferimento, si sostanzi in un riscontro di ragionevole verosimiglianza nella configurabilità della stessa, la Terza Sezione della Corte di Cassazione ha erroneamente statuito che “Non si richiede … che sia “evidente”, così interpretando la locuzione “appaia” dell’art. 385 cod. proc. pen., la sussistenza della causa di giustificazione, ma che essa sia ragionevolmente/verosimilmente esistente sulla scorta delle circostanze di fatto conosciute o conoscibili con l’ordinaria diligenza”. Tale assunto contrasta con la ratio sottesa alle norme dettate in materia di arresto e fermo che alla luce dell’articolo 13 della Carta fondamentale sono ispirate ad una logica emergenziale. nel caso di specie, infatti, non è possibile riscontrare l’illegittimità dell’arresto effettuato, sulla scorta del dettato enucleato all’articolo 385 del codice di procedura penale. la complessità del quadro indiziario, confermata dalla medesima Corte, data senz’altro anche dalla singolarità delle circostanze verificatesi, non consentiva, infatti, di cogliere ictu oculi la configurabilità di una causa esclusoria della punibilità, pena una distorsione interpretativa della ratio sottesa all’articolo 385 del codice di procedura penale. Quanto al secondo aspetto, la Corte ha altresì erroneamente statuito circa la sussistenza nel caso di specie della causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere, affermando che “L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla Convenzione internazionale sAr di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in luogo sicuro”. (6) B. roMAno, diritto penale, Parte generale, ii ed., 2013, CedAM lavis (Tn). (7) B. roMAno, op. cit. rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 Una siffatta interpretazione contrasta con la portata delle disposizioni enucleate nella Convenzione SAr che rinviano espressamente all’operato degli Stati il compito di attivarsi per consentire lo sbarco dei naufraghi soccorsi in mare. in rapporto poi con la ratio sottesa alle norme che regolamentano le cause di giustificazione, si evince che la condotta scriminabile non possa che essere connotata da immediatezza e unitarietà. opinare diversamente, prospettando un’ulteriore frammentazione del comportamento in oggetto, che nel caso di specie dovrebbe asseritamente sostanziarsi oltre che nel soccorso in mare anche nell’espletamento delle operazioni di sbarco, significherebbe gravare il prevenuto di un onere eccessivo in contrasto con i principi di favor rei e di solidarietà sociale. Cassazione penale, Sezione terza, sentenza 16 gennaio-20 febbraio 2020 n. 6626 -Pres. G. laparorcia, rel. e. Gai, P.m. d. Cardia (annullamento ordinanza) -Procuratore della repubblica presso il Tribunale di Agrigento nel procedimento nei confronti di r.C. (avv. A. Gamberini e l. Marino) avverso l’ordinanza del 02/07/2019 del Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Agrigento. riTenUTo in FATTo 1. il Procuratore della repubblica del Tribunale di Agrigento ricorre per l’annullamento del provvedimento del Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Agrigento di non convalida dell’arresto in flagranza di C.r., eseguito da militari della Guardia di Finanza, per i reati di cui agli artt. 1100 cod. nav. e art. 337 cod. pen., fatto commesso in lampedusa il 29/06/2019. 2. deduce il ricorrente, con il primo motivo di ricorso, la violazione dell’art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen., erronea applicazione dell’art. 391 comma 4 cod. proc. pen. e illogicità/contraddittorietà della motivazione relativa all’illegittimità dell’arresto. Argomenta il ricorrente che, pacifica la flagranza del reato per il quale può essere operato l’arresto, tenuto conto che i titoli di reato lo consentivano, e che i termini processuali erano stati rispettati, il Giudice avrebbe travalicato i limiti cognitivi di tale fase, procedendo ad una autonoma valutazione dei dati in suo possesso e pervenendo ad un giudizio sostanziale sulla gravità indiziaria. Avrebbe errato, il Giudice della convalida, sui requisiti del suo sindacato. egli avrebbe dovuto unicamente valutare, in presenza del presupposto della flagranza e del rispetto di termini, la legittimità dell’operato della polizia giudiziaria, effettuando un controllo di ragionevolezza sullo stesso, dal momento che sono preclusi in questa fase apprezzamenti relativi alla responsabilità penale ovvero alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. il Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Agrigento avrebbe travalicato i limiti del suo sindacato, dal momento che avrebbe ritenuto configurabile la causa di giustificazione di cui all’art. 51 cod. pen., fondata su un quadro normativo che lo stesso Giudice definisce “complesso”, elemento questo da solo sufficiente ad escludere che la causa di giustificazione fosse emergente ictu oculi. del resto, l’art. 385 cod. proc. pen. vieta l’arresto quando, tenuto ConTenzioSo nAzionAle conto delle circostanze del caso, “appaia” che il fatto sia stato compiuto nell’adempimento di un dovere. Ciò dovrebbe ritenersi escluso nel caso in esame, dal momento che sono occorse ben dieci pagine al Giudice per dimostrare la sussistenza della predetta causa di giustificazione. la stessa ricostruzione del G.i.P. sarebbe pertanto incompatibile con il concetto di apparenza. Con il secondo motivo di ricorso, deduce la violazione dell’art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen., erronea applicazione dell’art. 1100 cod. nav. e mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione relativa alla qualità di nave da guerra. Secondo il ricorrente, il Giudice avrebbe erroneamente escluso la natura di nave da guerra della motovedetta V.808 della Guardia di Finanza e sulla scorta di tale erronea interpretazione avrebbe ritenuto insussistente il reato di cui all’art. 1100 cod. nav. in particolare, il Giudice avrebbe sostenuto tale tesi richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 35/2000, chiamata a pronunciarsi sull’ammissibilità del referendum abrogativo del carattere di corpo militare della Guardia di Finanza, che, contrariamente all’assunto del Giudice, non conterrebbe la limitazione che costui ne aveva tratto (le unità della Guardia di Finanza sono considerate navi da guerra solo quando operano fuori dalle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non vi sia una autorità consolare). Al contrario, la giurisprudenza di legittimità in più casi avrebbe qualificato le motovedette della Guardia di Finanza come “navi da guerra”, e ciò in quanto esse svolgono funzioni di polizia marittima e sono comandate ed equipaggiate da personale militare, nonché in quanto lo stesso legislatore indirettamente le iscriverebbe in questa categoria (legge 13 dicembre 1956, n. 1409, art. 6). Tale conferma si ricaverebbe dalla più risalente giurisprudenza di legittimità secondo cui una motovedetta armata della Guardia di Finanza in servizio di polizia marittima deve essere considerata nave da guerra (Sez. 3 n. 9978 del 1987). nel caso in esame, la motovedetta V.808 della Guardia di Finanza avrebbe tutti i requisiti della nave da guerra: è iscritta nel naviglio militare dello stato ai sensi dell’art. 243 Codice dell’ordinamento Militare; reca le insegne militari del Corpo di appartenenza, quali colore, scritta, bandiera e guidone; il comandante è un maresciallo ordinario della Guardia di Finanza e riveste lo status militare; è armata con dispositivi di armamento individuali e di reparto di tipo militare. la motovedetta in argomento sarebbe dunque da qualificarsi nave da guerra in servizio, al momento dell’arresto, di polizia marittima ovvero di attività volta a garantire un pacifico, ordinato e sicuro svolgimento delle attività portuali e del mare territoriale (art. 524 reg. cod. nav.). Con il terzo motivo di ricorso, deduce la violazione dell’art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen., erronea applicazione dell’art. 51 cod. pen. e mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione relativa alla sussistenza della causa di giustificazione del- l’adempimento del dovere. Secondo il ricorrente il Giudice avrebbe erroneamente motivato la sussistenza dell’adempimento del dovere, in particolare del dovere di soccorso in mare e degli obblighi che ne scaturiscono, sull’errato presupposto che la vicenda fosse da valutare nel suo insieme, fin dal momento iniziale del salvataggio dei naufraghi in zona SAr libica, per continuare con la permanenza in acque territoriali di fronte all’isola di lampedusa, e per concludere con la condotta di ingresso nel porto di lampedusa. A giudizio del ricorrente, la prima parte della vicenda in parola sarebbe oggetto di diverso e autonomo procedimento penale, e dunque in questa sede avrebbe dovuto essere considerata esclusivamente la condotta finale di ingresso con modalità rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 violente nel porto, in un momento nel quale il dovere di soccorso dei migranti sarebbe già stato adempiuto e avrebbe potuto dirsi terminato, anche alla luce delle fonti internazionali (artt. 18 e 19 della convenzione di Montego Bay). Queste ultime non richiedono che il soccorso in mare debba avvenire con trasbordo a terra dei naufraghi, in quanto l’attività di soccorso consisterebbe nella conduzione dei naufraghi in un place of safety e non in un “porto sicuro”. Sul punto sarebbe evidente la confusione del Giudice nell’interpretazione del concetto di place of safety. il place of safety non richiederebbe, secondo il ricorrente, la necessità di condurre a terra i naufraghi. la stessa nave Sea Watch3 avrebbe dovuto essere considerata “place of safety”, dal momento che i naufraghi erano stati ivi adeguatamente messi in sicurezza ed assistiti in attesa di una individuazione in via definitiva del luogo di sbarco. Sebbene la conduzione a terra dei naufraghi costituisca opzione ottimale, non di meno non poteva escludersi, come apoditticamente avrebbe fatto il Giudice, la loro adeguata messa in sicurezza nel caso concreto già all’atto del loro trasbordo sull’unità navale, con la conseguenza che il dovere di soccorso doveva ritenersi, in quel momento, già adempiuto. la concreta valutazione del fatto e il bilanciamento degli interessi in gioco avrebbero dovuto indurre il giudice alla valutazione della circostanza che i migranti, una volta messi in sicurezza a bordo della nave, non erano più esposti ad in pericolo imminente per la loro vita, sicché la condotta dell’indagata non avrebbe potuto ritenersi giustificata dall’adempimento del dovere di soccorso, già avvenuto. in secondo luogo, il Giudice non avrebbe considerato le modalità alternative con cui avrebbe potuto essere adempiuto il dovere di soccorso, mediante il trasbordo dei naufraghi a terra con le scialuppe di bordo. infine, non si ravviserebbe nel caso di specie la sussistenza di alcuno stato di necessità. inoltre, nel caso in esame, la condotta di resistenza sarebbe avvenuta anche in violazione della normativa interna che vietava l’ingresso in porto alla nave, con esposizione dei militari della Guardia di Finanza a rischio per la propria incolumità. il provvedimento impugnato avrebbe, poi, fatto un erroneo riferimento all’art. 10 ter del d.lgs 286 del 1998, norma diretta all’autorità nazionale e non al comandante di una privata imbarcazione, e all’art. 11 comma 1 ter del d.lgs 286 del 1998 nella parte in cui avrebbe affermato che il divieto posto dal provvedimento interministeriale non potrebbe essere ritenuto legittimo se emanato senza rispetto degli obblighi internazionali dello Stato. 3. il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta con cui ha chiesto l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata. Argomenta il Procuratore generale della Corte di cassazione che, quanto al primo motivo, il Giudice avrebbe travalicato i limiti di cognizione propri di tale fase, finendo per scendere nella valutazione della gravità indiziaria, che non è consentita in sede di giudizio sulla convalida dell’arresto; condivide, nel resto, le ragioni del Pubblico Ministero ricorrente. 4. i difensori di C.r., nella memoria depositata, hanno argomentato, quanto al primo motivo, la correttezza del controllo di ragionevolezza effettuato, nel caso in esame, dal Giudice della convalida, avuto riguardo alla sussistenza di un divieto di arresto, ex art. 385 cod. proc. pen., in presenza dell’adempimento del dovere di soccorso, come emergente dai documenti prodotti e dalle dichiarazioni rese dall’arrestata; la correttezza dell’interpretazione della legge in merito al presupposto applicativo dell’art. 1100 cod. nav., non essendo, la motovedetta della Guardia di Finanza, nave da guerra; la contraddittorietà della richiesta di sindacato sulla sussistenza del dovere di soccorso alla luce delle convenzioni internazionali, sulla proporzionalità del comportamento dell’indagata, incompatibile con i limiti del sindacato del giudice ConTenzioSo nAzionAle della convalida, limiti il cui rispetto era invocato, a dimostrazione dell’illegittimità del provvedimento di non convalida, nello stesso primo motivo di ricorso. ConSiderATo in diriTTo 1. Con il primo motivo il ricorrente censura l’impugnato provvedimento di non convalida dell’arresto in flagranza deducendo la violazione di legge per avere, il Giudice, travalicato i limiti del suo sindacato in tale ambito. Vanno, anzitutto, richiamati i principi, più volte affermati da questa Corte, cui mostra di aderire anche il Pubblico Ministero ricorrente, secondo i quali, in tema di arresto in flagranza, il giudice della convalida deve limitarsi alla verifica della sussistenza dei presupposti legali per l’arresto e dell’uso ragionevole dei poteri da parte della polizia giudiziaria, cui è istituzionalmente attribuita una sfera discrezionale nell’apprezzamento dei medesimi, in una chiave di lettura che non deve riguardare né la gravità indiziaria e le esigenze cautelari, valutazione questa riservata all’applicabilità delle misure cautelari coercitive, né l’apprezzamento sulla responsabilità, riservato alla fase di cognizione del giudizio di merito. in tema di arresto in flagranza, il giudice della convalida deve operare un controllo di mera ragionevolezza, ponendosi nella stessa situazione di chi ha operato l’arresto e fondando il suo giudizio sulla base degli elementi al momento conosciuti (ex multis Sez. 6, n. 7470 del 26/01/2017, lattarulo, rv. 269428 - 01). Al fine di effettuare tale controllo di ragionevolezza, il giudice deve verificare, sulla base degli elementi al momento conosciuti, se la valutazione di procedere all’arresto sia rimasta nei limiti della discrezionalità della polizia giudiziaria. 2. Secondo il Pubblico Ministero ricorrente, nel caso in esame, i predetti limiti sarebbero stati ampiamente travalicati. il giudice avrebbe effettuato un penetrante giudizio sulla insussistenza della gravità indiziaria, ritenendo configurabile la causa di giustificazione dell’art. 51 cod. pen., segnatamente dell’adempimento del dovere di soccorso in mare, sulla scorta di un complesso percorso argomentativo che faceva ampio richiamo alle fonti internazionali, laddove l’art. 385 cod. pen., facendo riferimento al concetto di “apparenza”, implicitamente escluderebbe che si possa pervenire alla non convalida dell’arresto sulla base di argomenti o ragionamenti complessi. 3. Va, ulteriormente chiarito, per il rilievo che assume nel caso in scrutinio, che il procedimento di convalida dell’arresto e di applicazione di misure cautelari costituisce un procedimento complesso caratterizzato dalla presenza di due distinte fasi. la prima costituita dall’intervento straordinario con cui, in via precautelare e nei soli casi eccezionali di assoluta necessità ed urgenza tassativamente indicati dalla legge (come previsto dall’art. 13 della Costituzione), la polizia giudiziaria o il pubblico ministero -sostituendosi al giudice, cui è unicamente permesso, in via ordinaria, di operare limitazioni della libertà personale -adottano un provvedimento restrittivo, il quale deve tuttavia essere sottoposto -entro ristrettissimi limiti temporali -a controllo da parte del Giudice, ed un’altra successiva, propriamente cautelare, mediante la quale, indipendentemente dalla convalida dell’operato della polizia giudiziaria o del pubblico ministero, il giudice, su richiesta della pubblica accusa, decide se adottare o non adottare una misura cautelare sui presupposti della gravità indiziaria e della sussistenza di esigenze cautelari. nell’ambio di questo schema delineato dal codice, in attuazione del dettato costituzionale di cui all’art. 13 Cost., il provvedimento di convalida è diretto esclusivamente a legittimare l’intervento d’urgenza della polizia giudiziaria. rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 il giudice è tenuto soltanto a valutare la sussistenza degli elementi che hanno legittimato l’adozione della misura con una verifica “ex ante”, dovendo tenere conto della situazione conosciuta dalla polizia giudiziaria ovvero da quest’ultima conoscibile con l’ordinaria diligenza al momento dell’arresto o del fermo, e con esclusione delle indagini o delle informazioni acquisite successivamente, ad esclusione delle dichiarazioni dell’arrestato, che sono invece pienamente utilizzabili per l’ulteriore pronuncia sullo “status libertatis” (ex multis, Sez. 3, n. 37861 del 17/06/2014, Pasceri, rv. 260084 -01; Sez. 3, n. 2454 del 20/11/2007, nowosielski; rv. 238533 - 01; Sez. 3, n. 15137 del 15/02/2019, rohani, rv. 275968 - 01). ne consegue che, come efficacemente affermato da Sez. 3 n. 15137 del 2019, la convalida guarda al passato e, quindi, per il futuro, occorre, affinché perduri una limitazione della libertà personale, un autonomo provvedimento idoneo a costituire titolo autosufficiente per fondare una limitazione del diritto di libertà. 4. nel caso in esame, il Giudice ha adottato un unico provvedimento con il quale ha stabilito di non convalidare l’arresto per i reati di cui all’art. 1100 cod. nav. e all’art. 337 cod. pen. e contemporaneamente ha respinto la richiesta di misura cautelare per assenza di gravi indizi di colpevolezza. nella parte della motivazione del provvedimento con cui ha argomentato le ragioni della non convalida dell’arresto, il Giudice ha escluso, quanto al primo reato contestato, che si trattasse di nave da guerra e, quanto al secondo, ha ritenuto la sussistenza della causa di giustificazione di cui all’art. 51 cod. pen. nella fattispecie dell’adempimento del dovere di soccorso in mare. 5. Tutto ciò premesso, ritiene, il Collegio, che il controllo di ragionevolezza effettuato dal giudice della convalida, da cui discende la legittimità o meno della sua decisione, debba avere come parametro l’art. 13 Cost. Quest’ultimo, al primo comma, sancisce che la libertà personale è inviolabile; al secondo comma, che non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge; al comma terzo, consente solo in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, che l’autorità di pubblica sicurezza possa adottare provvedimenti provvisori, i quali devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. dunque, la libertà personale, diritto inviolabile dell’uomo, può essere oggetto di limitazione da parte della polizia giudiziaria solo in casi eccezionali tassativamente previsti dalla legge, e solo in via rigorosamente temporanea. l’operato di quest’ultima, proprio in ragione del rango del bene tutelato, è soggetto a controllo in tempi ristrettissimi da parte di un giudice, unico organo titolato a limitare, con provvedimento motivato, la libertà medesima. in tale ambito, è stato affermato che il meccanismo della convalida nel processo penale discende proprio dalla previsione, di rango costituzionale, per cui un organo “incompetente” è autorizzato, sussistendo determinate condizioni, a sostituirsi a un organo “competente” e, quindi, ad emettere, a titolo provvisorio, un atto rientrante, di regola, nelle attribuzioni del- l’autorità legittimata, in via ordinaria, all’intervento diretto ad intaccare la sfera di libertà del singolo. ne consegue che la convalida, quando interviene, non incide sugli effetti dell’atto provvisorio convalidato e, quindi, non comporta il consolidamento di quegli effetti, risolvendosi solo in un controllo diretto a stabilire se l’intervento dell’organo “incompetente” sia stato bene o male operato. ConTenzioSo nAzionAle 6. il controllo di ragionevolezza del giudice della convalida deve dunque essere effettuato sulla base di una interpretazione adeguatrice delle norme di rango primario -le norme appunto che disciplinano la convalida dell’arresto in flagranza -a quelle di rango costituzionale che stabiliscono limiti tassativi al potere dell’autorità di polizia giudiziaria di incidere sulla libertà personale degli individui. nel caso concreto, il giudice di Agrigento ha correttamente interpretato quelle norme di legge (artt. 385 e 391 cod. proc. pen.) alla luce dei principi di rango costituzionale. egli ha puntualmente ricostruito la vicenda processuale, ripercorrendo nel corpo del provvedimento la scansione temporale degli eventi, riepilogando gli antefatti dal giorno del salvataggio dei naufraghi fino ai contatti tra la capitana e la polizia giudiziaria nei giorni successivi, allorché la Sea Whatch3 era alla fonda davanti al porto di lampedusa, nonché ciò che avvenne poco prima dell’ingresso in porto, la notte del 29 giugno 2019. Tale ricostruzione risultava necessaria allo scopo di inquadrare un evento che si caratterizzava per la sua singolarità, oggettivamente al di fuori dei casi normalmente affrontati in sede di convalida di arresto. Alla luce di tutto ciò, il Giudice ha ritenuto non legittimo l’arresto della r. in quanto operato in presenza di un divieto stabilito dall’art. 385 cod. proc. pen. Secondo quanto argomentato nel provvedimento impugnato, la misura precautelare era stata adottata al di fuori del perimetro di legalità, in forza della ricorrenza di una causa di giustificazione, individuata nell’adempimento del dovere di soccorso. Tale causa di giustificazione trovava correttamente il proprio fondamento, diversamente da quanto ritenuto dal ricorrente, proprio in una valutazione complessiva e non parcellizzata di tutti gli elementi fattuali rilevanti per comprendere la situazione palesatasi agli operanti nelle fasi immediatamente precedenti alla condotta di ingresso nel porto, e di quelli ad essi antecedenti, tutti elementi conosciuti da coloro che avevano operato l’arresto. Tenuto conto che la privazione della libertà personale della r. era avvenuta in quel preciso contesto fattuale, descritto alle pagg. 8-11 dell’impugnata ordinanza, il Giudice ha escluso la legittimità dell’arresto perché effettuato, quanto alla sussistenza del reato di cui all’art. 1100 cod. nav., in assenza del requisito di “nave da guerra” della motovedetta V.808, e, quanto al reato di cui all’art. 337 cod. pen., in presenza di una causa di giustificazione, ex art. 51 cod. pen. 7. Tralasciando per ora la questione dell’attribuibilità alla motovedetta della Guardia di Finanza, nel caso di specie, della qualità di “nave da guerra” (vedi infra), e tenuto peraltro conto del fatto che la ricorrenza di una causa di giustificazione opererebbe comunque anche con riguardo all’ipotesi di reato di cui all’art. 1100 cod. nav., il provvedimento impugnato ha correttamente esercitato il suo sindacato sull’operato dei militari della Guardia di finanza e ha congruamente argomentato il proprio convincimento sullo stesso. All’esito di un percorso esegetico delle fonti normative di rango internazionale, che sono vincolanti per lo Stato italiano e per tutti coloro che sono tenuti nel loro operare all’osservanza della legge italiana, il Giudice ha ritenuto configurabile in capo alla capitana della nave la causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere di soccorso che, a mente dell’art. 385 cod. proc. pen., comporta uno specifico divieto di arresto in flagranza e di fermo. È ben vero che, sulla base dell’inequivoco dato testuale della norma processuale, detto divieto opera a condizione che la causa di non punibilità sia riconoscibile nel contesto dei fatti che hanno richiesto l’intervento d’urgenza (“quando, tenuto conto delle circostanze del fatto, appare”). non di meno, contrariamente all’assunto del ricorrente, non è certo la presenza di una articolata motivazione del provvedimento ad escludere di per sé che l’esimente “appaia” sussistente. l’articolata motivazione, al contrario, si giustifica proprio in forza della comples rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 sità della vicenda, della delicatezza del bene giuridico compresso (la libertà individuale), della conseguente necessità di ricostruire con attenzione e precisione le fonti normative, anche di rango internazionale, idonee a fondare la sussistenza della causa di giustificazione dell’art. 51 cod. pen. e il suo esatto contenuto. Sono questi gli elementi, indicati dal Giudice, a costituire il parametro della valutazione della ragionevolezza dell’operato di coloro che hanno eseguito l’arresto. 8. Muovendo, in primo luogo, dall’interpretazione dell’art. 385 cod. proc. pen., ritiene, il Collegio, che, come anche affermato da autorevole dottrina, non sia richiesto che la sussistenza della causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere o dell’esercizio di una facoltà legittima o della causa di non punibilità “appaia evidente”, ma che essa sia “verosimilmente esistente”. non si richiede, in altri termini, che sia “evidente”, così interpretando la locuzione “appaia” dell’art. 385 cod. proc. pen., la sussistenza della causa di giustificazione, ma che essa sia ragionevolmente/ verosimilmente esistente sulla scorta delle circostanze di fatto conosciute o conoscibili con l’ordinaria diligenza. Tale interpretazione si impone, a giudizio del Collegio, tenuto conto del rango costituzionale dei beni in gioco, e della previsione, anch’essa derivante dall’art. 13 Cost., secondo cui la restrizione della libertà deve essere adottata da un giudice con provvedimento motivato, potendo intervenire la polizia giudiziaria solo in casi tassativamente previsti dalla legge e con riserva di giurisdizione, essendo, il provvedimento restrittivo della libertà personale destinato a perdere efficacia se non sostituito da quello adottato dal giudice. in tale ambito, la disciplina codicistica è coerente con la previsione, di rango costituzionale, del carattere urgente e temporaneo dell’intervento della polizia giudiziaria, se la ricorrenza della causa di giustificazione, che costituisce un limite all’intervento urgente della polizia giudiziaria in materia di arresto in flagranza, sia intesa come “verosimilmente esistente”. in presenza di “verosimile” rappresentazione di una causa di giustificazione, opera quindi il divieto di cui all’art. 385 cod. proc. pen. e l’atto di arresto eventualmente compiuto non è legittimo. Che tale interpretazione sia l’unica percorribile si ricava, a parere del Collegio, dalla circostanza che l’art. 273 cod. proc. pen. impone al Giudice delle indagini preliminari, che emette un’ordinanza di custodia cautelare, di valutare, in sede di adozione della misura cautelare, se “risulta” che il fatto sia stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, accertamento che non richiede, come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, che la ricorrenza dell’esimente sia stata positivamente comprovata in termini di certezza, essendo sufficiente, a tal fine, la sussistenza di un elevato o rilevante grado di probabilità che il fatto sia compiuto in presenza di tale causa di giustificazione (Sez. 1, n. 72 del 26/11/2010, Bocedi, rv. 249287 -01; Sez. 1, n. 6630 del 28/01/2010, dioodato, rv. 246576 -01). Se il Giudice, nell’adottare una misura privativa della libertà personale, deve valutare il profilo in questione nei termini sopra indicati, non può ritenersi che la polizia giudiziaria, nell’effettuare un arresto in flagranza, abbia più ampi poteri rispetto all’autorità giudiziaria che è compente in via generale alla restrizione della libertà personale. 9. Così definita la cornice interpretativa del caso in esame, la valutazione del Giudice di Agrigento, che ha ritenuto non ci fossero i presupposti per convalidare l’arresto, eseguito in quel descritto contesto fattuale, poiché operante il divieto di cui all’art. 385 cod. proc. pen., è corretta. la verosimile esistenza della causa di giustificazione è stata congruamente argomentata. in questo ambito, il provvedimento ripercorre, necessariamente, le fonti internazionali (Con ConTenzioSo nAzionAle venzione per la salvaguardia della vita umana in mare, SolAS -Safety of life at Sea, londra, 1974, ratificata dall’italia con la legge n. 313 del 1980; Convenzione SAr di Amburgo del 1979, resa esecutiva dall’italia con la legge n. 147 del 1989 e alla quale è stata data attuazione con il d.P.r. n. 662 del 1994; Convenzione UnCloS delle nazioni Unite sul diritto del mare, stipulata a Montego Bay nel 1982 e recepita dall’italia dalla legge n. 689 del 1994), sia allo scopo di individuare il fondamento giuridico della causa di giustificazione, identificata nel- l’adempimento del dovere di soccorso in mare, sia al fine di delinearne il contenuto idoneo a scriminare la condotta di resistenza. Proprio le citate fonti pattizie in tema di soccorso in mare e, prima ancora, l’obbligo consuetudinario di soccorso in mare, norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta e pertanto direttamente applicabile nell’ordinamento interno, in forza del disposto di cui all’art. 10 comma 1 Cost. -tutte disposizioni ben conosciute da coloro che operano il salvataggio in mare, ma anche da coloro che, per servizio, operano in mare svolgendo attività di polizia marittima -, sono il parametro normativo che ha guidato il Giudice nella valutazione dell’operato dei militari per escludere la ragionevolezza dell’arresto della r., in una situazione nella quale la citata causa di giustificazione era più che “verosimilmente” esistente. né si potrebbe ritenere, come argomenta il ricorrente, che l’attività di salvataggio dei naufraghi si fosse esaurita con il loro recupero a bordo della nave. l’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale SAr di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “place of safety”). il punto 3.1.9 della citata Convenzione SAr dispone: «le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. la Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’organizzazione (Marittima internazionale). in questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile». le linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (ris. MSC. 167-78 del 2004) allegate alla Convenzione SAr, dispongono che il Governo responsabile per la regione SAr in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito. Per l’italia, il place of safety è determinato dall’Autorità SAr in coordinamento con il Ministero dell’interno. Secondo le citate linee guida, «un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse; dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale» (par. 6.12). «Sebbene una nave che presta assistenza possa costituire temporaneamente un luogo sicuro, essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative», (par. 6.13). non può quindi essere qualificato “luogo sicuro”, per evidente mancanza di tale presup rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 posto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse. né può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza su di essa, poiché tali persone hanno diritto a presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave. Ad ulteriore conferma di tale interpretazione è utile richiamare la risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’europa (l’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare), secondo cui «la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.) che, pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale. 10. in conclusione, la verifica del giudice della convalida è stata correttamente compiuta e corretta è la sua decisione. il giudice non soltanto ha ritenuto configurabile, nella situazione descritta nel provvedimento, la causa di giustificazione dell’adempimento del dovere di soccorso, individuandone la portata, ma ha anche valutato che la sussistenza di tale scriminante fosse percepibile da parte degli operanti che avevano proceduto all’arresto, sulla base di una valutazione della singolarità della vicenda e delle concrete circostanze di fatto, come meticolosamente riepilogate. non è ammessa, infatti, una privazione della libertà personale da parte della polizia giudiziaria quando, avuto riguardo alle circostanze del caso, ricorrano nel concreto cause di giustificazione idonee ad escluderne la rilevanza penale, in termini di ragionevolezza, sulla scorta degli elementi di conoscenza in capo a coloro che hanno operato la misura privativa della libertà personale (Sez. 6, n. 49124 del 01/10/2003, P.M. in proc. Todirica, rv. 227721 - 01). infine, il controllo di ragionevolezza è stato compiuto sulla scorta dei dati in possesso del Giudice, che costui poteva legittimamente valutare, ossia gli elementi indicati dal pubblico ministero nella relativa richiesta e segnatamente la Cnr n. 0369315/2019 della Guardia di Finanza, in data 29/06/2019, e quelli derivanti dall’interrogatorio (Sez. 3, n. 15137 del 15/02/2019, rohani, rv. 275968 - 01). 11. il secondo motivo di ricorso è infondato. la questione di diritto, oggetto del secondo motivo di ricorso, concernente la qualificazione della motovedetta V.808 della Guardia di Finanza quale “nave da guerra”, integrante elemento costitutivo del reato di cui all’art. 1100 cod. nav., deve muovere dalle disposizioni contenute nel Codice dell’ordinamento militare che esplicitamente definisce le navi militari e quelle da guerra all’art. 239. il d.lvo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare) reca, all’art. 239, le seguenti definizioni: “1. Sono navi militari quelle che hanno i seguenti requisiti: a) sono iscritte nel ruolo del naviglio militare, classificate, per la Marina militare, in base alle caratteristiche costruttive e d’impiego, in navi di prima linea, navi di seconda linea e naviglio specialistico e collocate nelle categorie e nelle posizioni stabilite con decreto del Ministro della difesa; b) sono comandate ed equipaggiate da personale militare, sottoposto alla relativa disciplina; e) recano i segni distintivi della Marina militare o di altra Forza armata o di Forza di polizia a ordinamento militare. ConTenzioSo nAzionAle 2. Per nave da guerra si intende una nave che appartiene alle Forze armate di uno Stato, che porta i segni distintivi esteriori delle navi militari della sua nazionalità ed è posta sotto il comando di un ufficiale di marina al servizio dello Stato e iscritto nell’apposito ruolo degli ufficiali o in documento equipollente, il cui equipaggio è sottoposto alle regole della disciplina militare. 3. la nave da guerra costituisce una parte del territorio dello Stato”. il quadro normativo deve essere completato dall’art. 243 (iscrizione nel quadro del naviglio militare dello Stato di unità dell’esercito italiano, dell’Aeronautica militare, dell’Arma dei carabinieri, del Corpo della Guardia di finanza e del Corpo delle capitanerie di porto), secondo il quale “le unità navali in dotazione all’esercito italiano, all’Aeronautica militare, all’Arma dei carabinieri, al Corpo della Guardia di finanza e al Corpo delle capitanerie di porto sono iscritte in ruoli speciali del naviglio militare dello Stato”. da tutto ciò si ricava che le navi della Guardia di finanza sono certamente navi militari, ma non possono essere automaticamente ritenute anche da navi da guerra. Sono altresì navi da guerra solo in presenza degli ulteriori requisiti sopra indicati: qualora “appartengano alle Forze armate”, qualora “portino i segni distintivi esteriori delle navi militari”, qualora “siano poste sotto il comando di un ufficiale di marina al servizio dello Stato e iscritto nell’apposito ruolo degli ufficiali o in documento equipollente”, e qualora il loro equipaggio “sia sottoposto alle regole della disciplina militare”. il codice dell’ordinamento militare approvato nel 2010, con il decreto legislativo n. 66, ha recepito il contenuto dell’art. 29 della convenzione di Montego Bay, ratificata dall’italia, la quale, nei medesimi termini, definisce “nave da guerra” una nave che “appartenga alle Forze Armate di uno Stato, che porti i segni distintivi esteriori delle navi militari della sua nazionalità e sia posta sotto il comando di un Ufficiale di Marina al servizio dello Stato e iscritto nell’apposito ruolo degli Ufficiali o in documento equipollente, il cui equipaggio sia sottoposto alle regole della disciplina militare”. il citato decreto legislativo ha abrogato l’art. 133 del r.d. n. 1415 del 1938 che forniva una definizione di nave da guerra parzialmente diversa: “Sono navi da guerra quelle comandate ed equipaggiate da personale militare o militarizzato, iscritte nelle liste del naviglio da guerra, e che legittimano la propria qualità mediante i segni distintivi adottati, a questo fine, dallo Stato al quale appartengono”. È quest’ultima norma, oggi abrogata, ad essere stata richiamata dalla memoria difensiva dell’indagata che, dalla mancata iscrizione al naviglio da guerra, fa derivare l’esclusione della qualifica di nave da guerra per la motovedetta V.808 della Guardia di finanza. Tale riferimento risulta peraltro incongruo, alla luce della successione di leggi nel tempo sopra richiamata. 12. Così ricostruita la disciplina vigente, e di conseguenza disattesa la prospettazione difensiva dell’indagata, occorre valutare la sussistenza dei requisiti di cui all’art. 239 cit. in capo alla motovedetta V.808. la Guardia di Finanza è un “Corpo di polizia ad ordinamento militare”, parte integrante delle Forze armate, dipendente dal Ministero dell’economia e delle Finanze. il naviglio ad essa assegnato appartiene dunque alle Forze armate. Tale naviglio, inoltre, porta i segni distintivi esteriori delle navi militari italiane (batte cioè bandiera italiana) e imbarca un equipaggio sottoposto alle regole della disciplina militare. Per poter essere qualificata come “nave da guerra”, tuttavia, l’unità della Guardia di finanza deve altresì essere comandata da “un Ufficiale di Marina al servizio dello stato e iscritto nell’apposito ruolo degli Ufficiali o in documento equipollente”, il che nel caso in esame non è dimostrato. non è sufficiente che al comando vi sia un militare, nella fattispecie un maresciallo, dal momento che il “maresciallo” rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 non è ufficiale. né peraltro il ricorso documenta se tale “maresciallo” avesse la qualifica di cui sopra. dunque, non è stata dimostrata, nel caso concreto, la sussistenza di tutti i requisiti necessari ai fini della qualificazione quale “nave da guerra” della motovedetta V.808 della Guardia di finanza, nei cui confronti sarebbe stata compiuta la condotta di resistenza. 13. i ricorrenti ritengono, poi, che la natura di nave da guerra si ricavi in modo incontestato dalla giurisprudenza di legittimità. Anche questa affermazione richiede una puntualizzazione e non è, sulla base delle considerazioni di seguito eposte, condivisibile. nella giurisprudenza di legittimità si registrano pronunce assai risalenti nel tempo e, comunque, precedenti alla disciplina del Codice dell’ordinamento militare adottata con il d.lvo 15 marzo 2010, n. 66. Una risalente pronuncia aveva affermato che “anche ai fini dell’applicazione dell’art. 1099 codice navigazione (rifiuto di obbedienza a nave da guerra) una motovedetta armata della Guardia di Finanza, in servizio di polizia marittima, deve essere considerata nave da guerra” (Sez. 3, n. 9978 del 30/06/1987, Morleo, rv. 176694 -01) e altra successiva affermava che “indubbia è infatti la qualifica di nave da guerra attribuita a tale motovedetta (G.d.F.), non solo perché essa era nell’esercizio di funzioni di polizia marittima, e risultava comandata ed equipaggiata da personale militare, ma soprattutto perché è lo stesso legislatore che indirettamente iscrive il naviglio della Guardia di Finanza in questa categoria, quando nella legge 13 dicembre 1956, n. 1409, art. 6, (norme per la vigilanza marittima ai fini della repressione del contrabbando dei tabacchi) punisce gli atti di resistenza o di violenza contro tale naviglio con le stesse pene stabilite dall’art. 1100 codice navigazione, per la resistenza e violenza contro una nave da guerra” (Sez. 3, n. 31403 del 14/06/2006, Penzo, rv. 235748 - 01). in motivazione si era precisato che non rilevava il fatto che, nel caso di specie, i giudici di merito non avessero positivamente verificato -come lamentava il ricorrente -se la motovedetta fosse concretamente iscritta nell’apposito ruolo del naviglio militare e se recasse il segno distintivo del corpo militare (bandiera), ma che “una motovedetta armata della Guardia di Finanza, in servizio di polizia marittima, deve essere considerata nave da guerra” (Sez. 3, n. 9978 del 30.6.1987, Morleo, rv. 176694). 14. Tale conclusione non appare condivisibile per molteplici ragioni. entrambe le sentenze citate sono precedenti all’emanazione del Codice dell’ordinamento militare, che dà una precisa definizione della nave militare e della nave da guerra da cui non si può prescindere. dunque, in primo luogo deve essere oggetto di accertamento, secondo le vigenti disposizioni di legge, la sussistenza di tutti e tre i requisiti previsti dall’art. 239 comma 2: appartenenza alle Forze Armate di uno Stato, segni distintivi esteriori delle navi militari della sua nazionalità, l’essere posta al comando di un Ufficiale di Marina al servizio dello stato e iscritto nell’apposito ruolo degli Ufficiali o in documento equipollente. in difetto di questi presupposti normativi, la nave non è qualificabile quale “nave da guerra” ai sensi e per gli effetti degli artt. 1099 e ss. cod. nav. in secondo luogo, non è decisivo il richiamo, operato dalla sentenza del 2006 Penzo, all’art. 6 della legge 13 dicembre 1956, n. 1409, (norme per la vigilanza marittima al fine della repressione del contrabbando dei tabacchi) che così recita: “il capitano della nave nazionale che commette atti di resistenza o di violenza contro una unità di naviglio della guardia di finanza, è punito con le pene stabilite dall’art. 1100 del codice della navigazione”. da tale disposizione di legge si trae una prima evidenza, di segno contrario rispetto alle conclusioni della sopracitata sentenza del 2006, secondo cui l’art. 6 attribuirebbe la natura di “nave ConTenzioSo nAzionAle da guerra” a tutto il naviglio della Guardia di finanza. Proprio per il fatto che, nel 1956, il legislatore ha esplicitamente stabilito che agli atti di resistenza commessi contro navi della Guardia di finanza si applicassero le medesime pene previste per la resistenza a nave da guerra, si deve concludere che di per sé tali navi non sono annoverabili tra le “navi da guerra”. diversamente ragionando non si comprenderebbe il senso di tale disposizione di legge, che sarebbe del tutto superflua. inoltre, ad un’attenta lettura, si ricava che il legislatore non ha neppure stabilito che il naviglio della Guardia di finanza sia qualificabile “nave da guerra” quando operi nell’ambito di attività di contrasto al contrabbando, giacché la legge dispone unicamente che nell’ambito della “vigilanza marittima al fine della repressione del contrabbando dei tabacchi” si applichino le pene dell’art. 1100 cod. nav. il mero riferimento quoad penam non vale ad estendere la qualifica di nave da guerra al naviglio della Guardia di finanza. inoltre, si deve rilevare che non sarebbe comunque suscettibile di applicazione analogica la suddetta disposizione incriminatrice con riguardo ad altre tipologie di attività pur ricomprese nella polizia marittima, tra cui l’attività di polizia rivolta al contrasto all’immigrazione clandestina. Così, del resto, si era già espressa Sez. 6, n. 34028 del 24/06/2003, Veronese rv. 226335 01, che aveva affermato che non integra il reato previsto dall’art. 1100 cod. nav. (resistenza o violenza da parte del comandante o dell’ufficiale della nave contro nave da guerra nazionale) il fatto commesso nella laguna veneta ai danni di unità della Guardia di finanza in quanto, per l’espresso disposto dell’art. 1087 stesso codice, alla navigazione interna (non è il caso in esame) non si applicano le disposizioni dei successivi articoli da 1088 a 1160, né può operare (ciò che rileva per il caso in esame) l’estensione introdotta dall’art. 6 della legge 13 dicembre 1956 n. 1409, che è circoscritta all’ambito della vigilanza marittima al fine della repressione del contrabbando dei tabacchi e che, come tale, non è suscettibile di applicazione analogica. Per contro, non è condivisibile il riferimento finalizzato, nel provvedimento impugnato, ad escludere la natura di nave da guerra della motovedetta della Guardia di Finanza alla sentenza n. 35/2000 della Corte Costituzionale, che nel dichiarare l’inammissibilità di un referendum sulla smilitarizzazione della Guardia di Finanza, ha affermato che «le unità navali in dotazione della Guardia di finanza sono qualificate navi militari, iscritte in ruoli speciali del naviglio militare dello Stato (art. 1, primo comma, del d.P.r. 31 dicembre 1973, n. 1199); battono “bandiera da guerra” e sono assimilate a quelle della Marina militare (artt. 63 e 156 del r.d. 6 novembre 1930, n. 1643 -Approvazione del nuovo regolamento di servizio per la regia Guardia di finanza -); sono quindi considerate navi militari agli effetti della legge penale militare (art. 11 del codice penale militare di pace); e quando operano fuori delle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non vi sia un’autorità consolare esercitano le funzioni di polizia proprie delle “navi da guerra” (art. 200 del codice della navigazione) e nei loro confronti sono applicabili gli artt. 1099 e 1100 del codice della navigazione (rifiuto di obbedienza o resistenza e violenza a nave da guerra), richiamati dagli artt. 5 e 6 della legge 13 dicembre 1956, n. 1409 (norme per la vigilanza marittima ai fini della repressione del contrabbando dei tabacchi)». non solo, infatti, valgono e vanno richiamate le stesse ragioni sopra esposte in ordine alla inapplicabilità dell’art. 6 cit. a qualificare la nave della Guardia di Finanza quale nave da guerra, ma va pure osservato che si tratta di decisione emessa ai limitati fini dell’ammissibilità di un referendum abrogativo il cui oggetto non era la riconducibilità del naviglio della Guardia di finanza alla definizione normativa di “nave da guerra” agli effetti dell’art. 1100 cod. nav. e, in ogni caso, si tratta di una pronuncia antecedente alla emanazione del Codice dell’ordinamento militare del 2010. rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 15. il terzo motivo di ricorso è inammissibile perché propone una censura che si pone fuori dal perimetro del sindacato del giudice sulla non convalida. Quest’ultimo resta delineato, come lo stesso ricorrente evidenzia nel primo motivo di ricorso, al controllo di ragionevolezza dell’operato di coloro che hanno eseguito l’arresto in flagranza. non rilevano quindi valutazioni alternative dei fatti e diverse interpretazioni delle fonti normative, ai fini della configurazione e dei confini della causa di giustificazione di cui all’art. 51 cod. pen., oppure prospettazioni alternative in ordine all’adempimento del dovere di soccorso e alla sua ampiezza, fondate su una interpretazione diversa della nozione di “place of safety” contenuta nella convenzione Sar di Amburgo, che ne delinea peraltro puntualmente l’ambito e i confini. in conclusione, il motivo è diretto a richiedere un penetrante esame, non consentito in questa sede, della motivazione del provvedimento impugnato alla luce di diversi parametri di valutazione in merito alla nozione e all’ambito di operatività della causa di giustificazione. il ricorso quindi nel complesso va rigettato. P.Q.M. rigetta il ricorso. Così deciso il 16/01/2020. ConTenzioSo nAzionAle il rapporto tra recidiva reiterata e seminfermità mentale nella commisurazione della pena NotA A Corte CostitUzioNALe, seNteNzA 24 APriLe 2020 N. 73 Elisabetta Chiarelli* sommArio: 1. il caso -2. La seminfermità mentale come parametro di imputazione del fatto autore -3. La legittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma del codice penale in rapporto al riconoscimento della seminfermità mentale, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale. 1. il caso. Con ordinanza del 29 gennaio 2019 il Tribunale ordinario di reggio Calabria ha sollevato dinanzi alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma del codice penale. Questa norma prevede il divieto per il giudice di considerare prevalenti le circostanze attenuanti ad effetto comune sull’applicazione della recidiva reiterata. Tale previsione sarebbe suscettibile di espandersi come nel caso di specie anche alla seminfermità mentale. infatti, nell’ipotesi in oggetto, il Giudicante si è trovato nella circostanza di applicare l’aggravante della recidiva reiterata a più imputati i quali fossero affetti, come rilevato in base a perizia psichiatrica, da un disturbo della personalità. i soggetti in questione al contempo risultano aver commesso più reati contro il patrimonio della stessa indole in un arco temporale circoscritto, non superiore al quinquennio. in particolare, sono stati prosciolti in precedenti procedimenti per vizio totale di mente e in altrettanti è stata loro riconosciuta la seminfermità mentale. Secondo il remittente la formulazione dell’articolo 69, quarto comma del codice penale impedirebbe al giudice di svolgere un equilibrato bilanciamento delle circostanze del fatto nella commisurazione della pena e inoltre si porrebbe in contrasto con gli articoli 27 e 32 della Costituzione. il primo impone infatti di commisurare il trattamento sanzionatorio alla personalità del reo, per consentirne la rieducazione e il reinserimento sociale; l’articolo 32 tutelerebbe come noto il diritto alla salute. la questione oggetto della pronuncia emessa dalla Corte Costituzionale, è di particolare interesse anche alla luce della giurisprudenza di legittimità precedentemente formatasi sul punto. infatti, è fondamentale chiarire la natura giuridica della seminfermità mentale e, in particolare, se essa possa qualificarsi come circostanza attenuante ad effetto comune. (*) dottoressa in Giurisprudenza, già praticante forense presso l’Avvocatura dello Stato. Riceviamo e pubblichiamo il presente scritto (n.d.r.) rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 2. La seminfermità mentale come parametro di imputazione del fatto al suo autore. Ai sensi dell’articolo 89 cod. pen. “Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente senza escluderla, la capacità di intendere o di volere, risponde del reato commesso, ma la pena è diminuita”. la norma in oggetto si colloca nell’ambito del Titolo iV (“del reo e della persona offesa dal reato”) al Capo i (“dell’imputabilità”) (1). Successivamente sono previste le norme che attengono al- l’applicazione della recidiva, all’abitualità, nonché alla professionalità nel reato e alla tendenza a delinquere. la recidiva è una circostanza aggravante ad effetto speciale. Viene applicata se c’è una reiterazione nella commissione di fatti criminosi per lo più della stessa indole o posti in essere in tempi ravvicinati. la scelta legislativa di collocare la recidiva tra le norme sull’imputabilità e quelle sull’abitualità, professionalità o tendenza nel delinquere, risponde ad una ratio ben precisa. la recidiva non è una circostanza del reato come tutte altre. oltre ad essere ad effetto speciale, cioè idonea a determinare un aumento di pena superiore al terzo, attiene alla personalità del reo. il legislatore, infatti, nel comparto normativo in cui è inserita, agli articoli 99-109, prende in esame la tendenza del prevenuto ad indulgere in comportamenti criminosi, fin anche a trarne profitto. È però evidente che tale prospettiva è profondamente diversa da quella che attiene al profilo dell’imputabilità. Questa, intesa come rimproverabilità del fatto al suo autore, è disciplinata in particolare agli articoli 8598 del codice penale. essa è presupposto della colpevolezza. Appartiene alla capacità di intendere e di volere del reo; afferisce cioè all’idoneità di questi a comprendere la portata e le conseguenze delle sue azioni. A tali aspetti si ricollega infatti l’articolo 5 del codice penale. Tale norma prevede che “Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale” a meno che essa, appunto, sia inevitabile. Questa disposizione si ricollega agli articoli 2 e 27 della Costituzione. il monito che dal combinato disposto di queste due norme è rivolto al legislatore è il seguente: la norma penale deve essere formulata in modo chiaro e intellegibile senza ricorrere a tecnicismi o a sofisticazioni letterarie. in tal modo si consente ai consociati di comprendere il significato e la portata applicativa della norma penale. Pertanto, essi potranno agevolmente ponderare le conseguenze di un loro operato difforme dal dictum legislativo. opinare diversamente significherebbe contrastare con i suesposti principi costituzionali di solidarietà sociale e di personalità della responsabilità penale. Alla stregua di tale ultimo principio, presidiato all’articolo 27 della Costitu (1) B. roMAno, diritto penale, Parte generale. CedAM, lavis (Tn), 2013. ConTenzioSo nAzionAle zione, non vi può essere rimproverabilità del fatto al suo autore se questi non si trovava nelle condizioni psico-fisiche idonee a ponderare i rischi e le conseguenze del suo agire. Alla luce delle suesposte considerazioni, la seminfermità mentale che giustifica un’attenuazione del trattamento sanzionatorio non è una circostanza attenuante ad effetto comune. essa non attiene infatti alle caratteristiche dell’agere criminoso, ma si correla alla rimproverabilità del fatto al suo autore. È la premessa logico-giuridica, pertanto, rispetto a qualsivoglia operazione valutativa che il giudice possa compiere della vicenda in concreto sottoposta al suo esame. le circostanze aggravanti o attenuanti, sono invece elementi accessori, non elementi costitutivi del fatto di reato. esse infatti inquadrano elementi fattuali che per l’appunto accedono, ossia, giungono a connotare dall’esterno una fattispecie di reato già perfezionatasi. diversamente, il giudizio di imputabilità e, quindi, di rimproverabilità, investe il fatto criminoso direttamente nella sua dimensione costitutiva. il giudicante prende in considerazione la dimensione direttamente soggettiva dell’agere criminoso, sino alle sue radici psicologiche. Viene, cioè, presa in considerazione un’alterazione nel processo volitivo dell’agente, tale da impedire la formazione di una sua volontà cosciente. Quando ciò accade nel diritto civile si procede ad invalidare il contratto e in particolare ad annullarlo se stipulato con errore, violenza o dolo (2). in tali casi, infatti, non è possibile attribuire la “paternità” del negozio a chi non ne abbia coscientemente e consapevolmente condiviso i contenuti programmatici. di contro, i motivi ossia, le ragioni individuali e interiori per le quali le parti hanno stipulato il contratto, non assumono alcuna incidenza, in linea di massima, sul valido perfezionamento dell’accordo, almeno sotto il profilo della formazione della su richiamata volontà cosciente (3). Parimenti, le circostanze aggravanti o attenuanti, ad effetto comune, prese in considerazione dal legislatore, agli articoli 61 e 62 del codice penale, come, ad esempio, l’aver agito in stato d’ira o per motivi abietti o futili, non rilevano a configurare o ad escludere un qualsivoglia coinvolgimento soggettivo consapevole dell’autore del fatto. Siffatti elementi circostanziali possono tutt’al più connotare la componente soggettiva di un maggiore o minore disvalore sociale. Alla luce delle suesposte considerazioni il riconoscimento della seminfermità mentale non si ascrive all’accertamento delle circostanze del reato, nonostante incida sul relativo trattamento sanzionatorio alla stregua di queste. (2) M. BiAnCA, il contratto, terza ed., Giuffré editore, Milano 2019 -Capitolo dodicesimo, L’invalidità, pagg. 598-623. (2) M. BiAnCA, op. cit., Capitolo ottavo, La causa, pagg. 419-421. rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 3. La legittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma del codice penale in rapporto al riconoscimento della seminfermità mentale, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale. relativamente al quesito se l’articolo 69, quarto comma, sia legittimo costituzionalmente, nella misura in cui non consente di contemperare l’applicazione della recidiva aggravata con il riconoscimento della seminfermità mentale, la Corte Costituzionale ha erroneamente statuito che “Un tale inderogabile divieto di prevalenza non può essere ritenuto compatibile con l’esigenza di rango costituzionale, di determinazione di una pena proporzionata e calibrata sull’effettiva personalità del reo, esigenza che deve essere considerata espressiva… di precisi “ equilibri” costituzionalmente imposti dalla strutturazione della responsabilità penale”. Un tale assunto contrasta palesemente con la natura della seminfermità mentale. essa non è una circostanza ad effetto comune, ma un parametro di rimproverabilità del fatto criminoso al suo autore. Pertanto, l’applicazione di essa non rientra nell’ambito applicativo dell’articolo 69, quarto comma del codice penale, che afferisce agli elementi circostanziali del reato. di conseguenza, il riconoscimento della seminfermità mentale ai fini di una riduzione del trattamento sanzionatorio è pienamente compatibile con un riequilibrio di esso, dovuto all’applicazione di circostanze del reato aggravanti o attenuanti che siano. Corte costituzionale, sentenza 24 aprile 2020 n. 73 -Pres. Cartabia, red. Viganò -Giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante del vizio parziale di mente di cui all’art. 89 cod. pen. sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. ordinanza 29 gennaio 2019 del Tribunale ordinario di reggio Calabria in riferimento agli artt. 3, 27, primo e terzo comma, e 32 della Costituzione. (...) Considerato in diritto 1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale ordinario di reggio Calabria ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, primo e terzo comma, e 32 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante del vizio parziale di mente di cui all’art. 89 cod. pen. sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. in sostanza, la disposizione censurata impedirebbe al giudice di determinare una pena proporzionata rispetto alla concreta gravità del reato, e pertanto adeguata al grado di responsabilità “personale” del suo autore, non consentendo di tenere adeguatamente conto -attraverso il riconoscimento della prevalenza dell’attenuante del vizio parziale di mente rispetto all’aggravante della recidiva reiterata -della minore possibilità di essere motivato dalle norme di divieto da parte di chi risulti affetto da patologie o disturbi della personalità che, seppur non esclu ConTenzioSo nAzionAle dendola del tutto, diminuiscano grandemente la sua capacità di intendere e di volere. Secondo il giudice rimettente, la disposizione censurata violerebbe altresì l’art. 32 Cost., non consentendo al giudice di determinare una pena funzionale non solo alla rieducazione del condannato, ma anche alla tutela della sua salute. 2.– la disposizione censurata, nella versione attualmente in vigore, è -come è noto -il frutto di una duplice stratificazione normativa rispetto al testo originario del codice penale. nella versione del 1930, l’art. 69, quarto comma, cod. pen. sottraeva tout court alle regole sul bilanciamento enunciate nei commi precedenti le «circostanze inerenti alla persona del colpevole» e «qualsiasi altra circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato». l’art. 70, secondo comma, cod. pen. disponeva poi -e tuttora dispone -che per «circostanze inerenti alla persona del colpevole» si intendono quelle riguardanti l’imputabilità e la recidiva. il legislatore intendeva, in tal modo, assicurare che il giudice fosse in ogni caso tenuto ad applicare separatamente le diminuzioni (o gli aggravamenti) di pena correlati alla capacità di intendere e di volere, tra i quali la diminuzione di cui all’art. 89 cod. pen. in questa sede in discussione, così come gli aggravamenti di pena dipendenti dalla recidiva. il quarto comma dell’art. 69 cod. pen. fu modificato una prima volta a mezzo del decreto- legge 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974, n. 220, che estese il meccanismo del bilanciamento disciplinato nei commi precedenti a tutte le circostanze, comprese quelle inerenti alla persona del colpevole: conferendo così al giudice il potere di applicare, o non applicare, i relativi aumenti o diminuzioni di pena, in presenza di circostanze di segno contrario, ritenute equivalenti o prevalenti. infine, la legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione) modificò nuovamente la disposizione, introducendo il divieto di prevalenza di qualsiasi circostanza attenuante, inclusa la diminuente del vizio parziale di mente, nell’ipotesi -tra l’altro -di recidiva reiterata; precludendo così in modo assoluto al giudice di applicare, in tal caso, la relativa diminuzione di pena. Come meglio si dirà più innanzi (infra, 4.1.), il testo risultante dalla legge n. 251 del 2005 è stato già oggetto di numerose dichiarazioni di illegittimità costituzionale, che hanno restaurato il potere discrezionale del giudice di ritenere prevalenti, rispetto alla recidiva reiterata, varie circostanze attenuanti nominativamente individuate. le odierne questioni di legittimità costituzionale mirano a ripristinare tale potere discrezionale anche con riferimento alla circostanza attenuante del vizio parziale di mente. 3.– il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per insufficiente descrizione della fattispecie oggetto del giudizio, non avendo in particolare il rimettente chiarito se gli imputati avessero avuto «piena capacità di recepire il messaggio specialpreventivo» derivante dalle precedenti condanne, e dunque se fosse giustificata nei loro confronti l’applicazione della recidiva. l’eccezione non è fondata. È ben vero che l’applicazione della recidiva, come da tempo chiarito dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, in tanto si giustifica in quanto il nuovo delitto, commesso da chi sia già stato condannato per precedenti delitti non colposi, sia in concreto espressivo non solo di una maggiore pericolosità criminale, ma anche di un maggior grado di colpevolezza, rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 legato alla maggiore rimproverabilità della decisione di violare la legge penale nonostante l’ammonimento individuale scaturente dalle precedenti condanne (sentenza n. 192 del 2007 e poi, ex plurimis, sentenza n. 185 del 2015; Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 maggio-5 ottobre 2010, n. 35738, nonché, inter alia, sezione sesta penale, sentenza 28 giugno- 5 agosto 2016, n. 34670); maggiore rimproverabilità che non può essere presunta in via generale sulla base del solo fatto delle precedenti condanne, dovendo -ad esempio -essere esclusa allorché il nuovo delitto sia stato commesso dopo un lungo lasso di tempo dal precedente, o allorché abbia caratteristiche affatto diverse. ed è ben vero, altresì, che questa Corte, con la sentenza n. 120 del 2017 e poi con l’ordinanza n. 145 del 2018, ha ritenuto irrilevanti questioni analoghe a quella ora all’esame, non avendo i giudici rimettenti, in quelle occasioni, chiarito le ragioni per le quali avevano ritenuto applicabile la recidiva, sotto il profilo specifico della maggiore colpevolezza rivelata dalla decisione di commettere il delitto, nonostante il contestuale riconoscimento della presenza nel reo di gravi patologie o disturbi della personalità, che necessariamente anch’essi incidevano -ma in direzione opposta rispetto alla ritenuta recidiva -sul grado della sua colpevolezza. Tuttavia, in questo caso il giudice a quo motiva ampiamente sulle ragioni per le quali, a suo avviso, gli imputati non potevano non essere consapevoli dell’ammonimento rappresentato dalle numerose condanne pronunciate nei loro confronti, talune delle quali in epoca molto recente, per reati omogenei a quello per il quale sono ora rinviati a giudizio; ciò che dimostrerebbe la loro peculiare (e specialmente riprovevole) insensibilità nei confronti della legge penale, e assieme giustificherebbe l’applicazione nei loro confronti dell’aggravante di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. l’applicazione della recidiva -sempre ad avviso del rimettente -non contrasterebbe peraltro con il contestuale riconoscimento in loro favore di un vizio parziale di mente tale da scemare grandemente in loro la capacità di intendere e di volere, e tale in particolare da ridurre la loro capacità di orientare la condotta secondo criteri di «appropriatezza e di opportunità», oltre che di «pesatura del rischio». le due valutazioni si collocherebbero, in effetti, su piani differenti, non risultando comunque mutualmente escludentisi. dopodiché il giudice potrebbe e dovrebbe comunque “pesare” entrambi questi dati ai fini della valutazione della gravità del reato, e della conseguente determinazione di un trattamento sanzionatorio effettivamente proporzionato e calibrato sulla personalità dei suoi autori. operazione, quest’ultima, che sarebbe però irragionevolmente preclusa dal divieto di prevalenza dell’attenuante del vizio parziale di mente, contenuto nella disposizione censurata; con conseguente rilevanza delle questioni di legittimità formulate. Così sinteticamente riassunta, la linea argomentativa del giudice a quo in punto di rilevanza appare a questa Corte senz’altro plausibile, al di là della condivisibilità o meno, sul piano teorico, della (notoriamente controversa) ricostruzione dell’imputabilità come mero presupposto del giudizio di colpevolezza, ovvero come elemento costitutivo di tale categoria dogmatica. Ciò basta per ritenere ammissibili le questioni prospettate (ex multis, sentenza n. 250 del 2018). 4.– nel merito, le questioni sollevate con riferimento agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., che devono qui essere esaminate congiuntamente, sono fondate. 4.1.– Questa Corte ha più volte affermato che deroghe al regime ordinario del bilanciamento tra circostanze, come disciplinato in via generale dall’art. 69 cod. pen., sono costituzionalmente ammissibili e rientrano nell’ambito delle scelte discrezionali del legislatore, risultando sindacabili soltanto ove «trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbi ConTenzioSo nAzionAle trio» (sentenza n. 68 del 2012; in senso conforme, sentenza n. 88 del 2019), non potendo però giungere in alcun caso «a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti sulla strutturazione della responsabilità penale» (sentenza n. 251 del 2012). Sulla base di tali criteri, questa Corte ha già dichiarato in varie occasioni l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza di altrettante circostanze attenuanti particolarmente significative ai fini della determinazione della gravità concreta del reato. nella maggior parte dei casi, come correttamente evidenzia il rimettente, si è trattato di circostanze espressive di un minor disvalore del fatto dal punto di vista della sua dimensione offensiva: così la «lieve entità» nel delitto di produzione e traffico illecito di stupefacenti (sentenza n. 251 del 2012), i casi di «particolare tenuità» nel delitto di ricettazione (sentenza n. 105 del 2014), i casi di «minore gravità» nel delitto di violenza sessuale (sentenza n. 106 del 2014), il «danno patrimoniale di speciale tenuità» nei delitti di bancarotta e ricorso abusivo al credito (sentenza n. 205 del 2017). nella sola sentenza n. 74 del 2016, la dichiarazione di illegittimità ha invece colpito il divieto di prevalenza di una circostanza -l’essersi il reo adoperato per evitare che il delitto di produzione e traffico di stupefacenti sia portato a conseguenze ulteriori -che mira invece a premiare l’imputato per la propria condotta post delictum; circostanza che è stata comunque ritenuta «significativa, anche perché comporta il distacco dell’autore del reato dall’ambiente criminale nel quale la sua attività in materia di stupefacenti era inserita e trovava alimento, e lo espone non di rado a pericolose ritorsioni, determinando così una situazione di fatto tale da indurre in molti casi un cambiamento di vita». 4.2.– le questioni ora sottoposte all’attenzione di questa Corte concernono una circostanza attenuante espressiva non già -sul piano oggettivo -di una minore offensività del fatto rispetto agli interessi protetti dalla norma penale, né di una finalità premiale rispetto a condotte post delictum, quanto piuttosto della ridotta rimproverabilità soggettiva dell’autore; ridotta rimproverabilità che deriva, qui, dal suo minore grado di discernimento circa il disvalore della propria condotta e dalla sua minore capacità di controllo dei propri impulsi, in ragione delle patologie o disturbi che lo affliggono (e che devono essere tali, per espressa indicazione legislativa, da «scemare grandemente» la sua capacità di intendere e di volere: art. 89 cod. pen.). ora, il principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del reato, da tempo affermato da questa Corte sulla base di una lettura congiunta degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. (a partire almeno dalla sentenza n. 343 del 1993; in senso conforme, ex multis, sentenze n. 40 del 2019, n. 233 del 2018, n. 236 del 2016), esige in via generale che la pena sia adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo (sentenza n. 222 del 2018). e il quantum di disvalore soggettivo dipende in maniera determinante non solo dal contenuto della volontà criminosa (dolosa o colposa) e dal grado del dolo o della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell’autore, rendendolo più o meno rimproverabile. Tra tali fattori si colloca, in posizione eminente, proprio la presenza di patologie o disturbi significativi della personalità (così come definiti da Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 25 gennaio-8 marzo 2005, n. 9163), come quelli che la scienza medico-forense stima idonei a diminuire, pur senza escluderla totalmente, la capacità di intendere e di volere del- l’autore del reato. in tali ipotesi, l’autore può sì essere punito per aver commesso un reato che avrebbe pur sempre potuto -secondo la valutazione dell’ordinamento -evitare, attraverso un maggiore sforzo della volontà; ma al tempo stesso merita una punizione meno severa rispetto rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 a quella applicabile nei confronti di chi si sia determinato a compiere una condotta identica, in condizioni di normalità psichica. il principio di proporzionalità della pena desumibile dagli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. esige insomma, in via generale, che al minor grado di rimproverabilità soggettiva corrisponda una pena inferiore rispetto a quella che sarebbe applicabile a parità di disvalore oggettivo del fatto, «in modo da assicurare altresì che la pena appaia una risposta -oltre che non sproporzionata -il più possibile “individualizzata”, e dunque calibrata sulla situazione del singolo condannato, in attuazione del mandato costituzionale di “personalità” della responsabilità penale di cui all’art. 27, primo comma, Cost.» (sentenza n. 222 del 2018). 4.3.– la disciplina censurata in questa sede vieta in modo assoluto al giudice di ritenere prevalente la circostanza attenuante del vizio parziale di mente in presenza dello specifico indicatore di maggiore colpevolezza (e maggiore pericolosità) del reo rappresentato dalla recidiva reiterata; laddove tale maggiore colpevolezza si fonda, a sua volta, sull’assunto secondo cui normalmente merita un maggiore rimprovero chi non rinuncia alla commissione di nuovi reati, pur essendo già stato destinatario di un ammonimento individualizzato sul proprio dovere di rispettare la legge penale, indirizzatogli con le precedenti condanne. nonostante il carattere facoltativo dell’aggravante, un tale inderogabile divieto di prevalenza non può essere ritenuto compatibile con l’esigenza, di rango costituzionale, di determinazione di una pena proporzionata e calibrata sull’effettiva personalità del reo, esigenza che deve essere considerata espressiva -con le parole della sentenza n. 251 del 2012 -di precisi «equilibri costituzionalmente imposti sulla strutturazione della responsabilità penale». Tale divieto, infatti, non consente al giudice di stabilire, nei confronti del semi-infermo di mente, una pena inferiore a quella che dovrebbe essere inflitta per un reato di pari gravità oggettiva, ma commesso da una persona che abbia agito in condizioni di normalità psichica, e pertanto pienamente capace -al momento del fatto -di rispondere all’ammonimento lanciato dall’ordinamento, rinunciando alla commissione del reato. e ciò anche laddove il giudice -come nel caso del giudizio a quo -ritenga che le patologie o i disturbi riscontrati nel reo abbiano inciso a tal punto sulla sua personalità, da rendergli assai più difficile la decisione di astenersi dalla commissione di nuovi reati, nonostante l’ammonimento lanciatogli con le precedenti condanne. il divieto in esame d’altra parte comporta una indebita parificazione sotto il profilo sanzionatorio di fatti di disvalore essenzialmente diverso, in ragione del diverso grado di rimproverabilità soggettiva che li connota: con un risultato che la giurisprudenza di questa Corte ha da tempi ormai risalenti considerato di per sé contrario all’art. 3 Cost. (sentenza n. 26 del 1979), prima ancora che alla finalità rieducativa e all’esigenza di “personalizzazione” della pena. non osta a tale conclusione la natura di circostanza a effetto comune dell’attenuante di cui all’art. 89 cod. pen., che determina -ai sensi dell’art. 65 cod. pen. -la diminuzione fino a un terzo della pena che dovrebbe essere altrimenti inflitta. A prescindere dalla considerazione che l’entità concreta della diminuzione di pena dipende ovviamente dall’entità della pena base -ben potendo tale diminuzione tradursi, rispetto ai delitti più gravi, in vari anni di reclusione in meno -, va infatti ribadito che la circostanza attenuante in parola mira ad adeguare il quantum del trattamento sanzionatorio alla significativa riduzione della rimproverabilità soggettiva dell’agente, ed è pertanto riconducibile a un connotato di sistema di un diritto penale “costituzionalmente orientato”, così come ricostruito dalla giurisprudenza di questa Corte: giurisprudenza che -dalla sentenza n. 364 del 1988 in poi -individua nella rimproverabilità ConTenzioSo nAzionAle soggettiva un presupposto essenziale dell’an dell’imputazione del fatto al suo autore, e conseguentemente dell’applicazione della pena nei suoi confronti. 4.4.– la conclusione appena raggiunta non comporta il sacrificio delle esigenze di tutela della collettività contro l’accentuata pericolosità sociale espressa dal recidivo reiterato. Se infatti è indubbio che il quantum della pena debba adeguatamente riflettere il grado di rimproverabilità soggettiva dell’agente, cionondimeno il diritto vigente consente, nei confronti di chi sia stato condannato a una pena diminuita in ragione della sua infermità psichica, l’applicazione di una misura di sicurezza, da individuarsi secondo i criteri oggi indicati dall’art. 3-ter, comma 4, del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211 (interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri), convertito, con modificazioni, nella legge 17 febbraio 2012, n. 9. la misura di sicurezza, non avendo alcun connotato “punitivo”, non è subordinata alla rimproverabilità soggettiva del suo destinatario, bensì alla sua persistente pericolosità sociale, che deve peraltro, ai sensi dell’art. 679 del codice di procedura penale, essere oggetto di vaglio caso per caso da parte del magistrato di sorveglianza una volta che la pena sia stata scontata (sentenze n. 1102 del 1988 e n. 249 del 1983). d’altra parte, la misura di sicurezza dovrebbe auspicabilmente essere conformata in modo da assicurare, assieme, un efficace contenimento della pericolosità sociale del condannato e adeguati trattamenti delle patologie o disturbi di cui è affetto (secondo il medesimo principio espresso dalla sentenza n. 253 del 2003, in relazione al soggetto totalmente infermo di mente), nonché fattivo sostegno rispetto alla finalità del suo «riadattamento alla vita sociale» -obiettivo quest’ultimo che, come recentemente rammentato dalla sentenza n. 24 del 2020, il legislatore espressamente ascrive alla libertà vigilata (art. 228, quarto comma, cod. pen.), ma che riflette un principio certamente estensibile, nell’attuale quadro costituzionale, alla generalità delle misure di sicurezza. Una razionale sinergia tra pene e misure di sicurezza -purtroppo solo in minima parte realizzata nella prassi -potrebbe così consentire un’adeguata prevenzione del rischio di commissione di nuovi reati da parte del condannato affetto da vizio parziale di mente, senza indebite forzature della fisionomia costituzionale della pena, intesa come reazione proporzionata dell’ordinamento a un fatto di reato (oggettivamente) offensivo e (soggettivamente) rimproverabile al suo autore. 5.– resta assorbita la questione formulata in riferimento all’art. 32 Cost. Per QUeSTi MoTiVi lA CorTe CoSTiTUzionAle dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 89 cod. pen. sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. Così deciso in roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 aprile 2020. rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 nucleo familiare omogenitoriale: la pronuncia della Cassazione sulla convalida della trascrizione nell’anagrafe italiana di un atto di adozione estero ANNotAzioNe A CAssAzioNe CiviLe, sezioNi UNite, seNteNzA 31 mArzo 2021 N. 9006 (*) Ancorchè ci veda nella specie soccombenti, la sentenza è indiscutibilmente articolata e consequenziale e si colloca in un giusto equilibrio rispetto ai precedenti di livello nazionale e sovranazionale citati. Al di là di qualsiasi aspetto ideologico, la lacunosità della nostra legislazione interna continua a imporre ai nostri giudici la necessità di qualche sofferenza logico-interpretativa, laddove si pone il presupposto della perimetrazione del parametro dell’ordine pubblico internazionale anche alla luce del diritto interno, per poi immancabilmente giungere alla verifica “se il limite di accesso all’adozione piena alle coppie coniugate e la non estensibilità del- l'equiparazione unione civile/matrimonio stabilita dal comma 20 dell'art. 1 della l. n. 76 del 2016 al medesimo istituto adottivo possa determinare la contrarietà dell’atto di cui si chiede il riconoscimento ai principi fondamentali che disegnano la trama dell’ordine pubblico internazionale attuale”. la rincorsa è sempre quella della confutazione di apparenti contraddittorietà. Cassazione civile, Sezioni Unite, sentenza 31 marzo 2021 n. 9006 -Pres. B. Virgilio, rel. M. Acierno. FATTi di CAUSA 1. oMiSSiS, cittadino italiano naturalizzato statunitense e residente negli Stati Uniti ha chiesto all'ufficiale di stato civile di oMiSSiS in italia, la trascrizione dell'atto di nascita del minore oMiSSiS, nato a oMiSSiS il giorno oMiSSiS, riconosciuto negli U.S.A. quale figlio adottivo del ricorrente e di oMiSSiS, per effetto del provvedimento giurisdizionale della Surrogate's Court dello Stato di oMiSSiS del 25/9/2009, come attestato dal certificato di adozione del 2/11/2009 nel quale è espressamente affermato che oMiSSiS e oMiSSiS sono i genitori adottivi del minore. la pronuncia statunitense, come da certificazione in atti, attribuisce lo status di genitori adottivi al ricorrente ed al suo partner (successivamente sposato), dando atto che l'adozione è stata pronunciata con il consenso preventivo dei genitori biologici e dopo un'indagine effettuata sugli adottanti, effettuata da agenzia pubblica equiparabile ai Servizi Sociali. 2. l'ufficiale dello stato civile ha rifiutato la trascrizione, ritenendo applicabile il regime giuridico relativo all'istituto dell'adozione internazionale e, conseguentemente competente ex art. 36, c. 4 della l. n. 183 del 1984, il Tribunale per i minorenni. 3. il ricorrente ha adito la Corte d'appello di oMiSSiS ai sensi dell'art. 67 l. n. 218 del 1995 al fine di ottenere il riconoscimento del provvedimento estero di adozione piena e legittimante (*) Annotazione avv. Stato Attilio Barbieri, affidatario della causa. ConTenzioSo nAzionAle del figlio minore, così come attestato nel certificato prodotto in modo che allo stesso fosse attribuito lo stato giuridico di figlio adottivo di oMiSSiS e oMiSSiS. 4. la Corte d'Appello di oMiSSiS ha preliminarmente escluso la legittimazione ad agire del Sindaco, in qualità di Ufficiale di Governo, reputando che gli interessi pubblici in gioco fossero adeguatamente tutelati dalla partecipazione al giudizio del Procuratore generale. 4.1 Ha inoltre ritenuto inapplicabile, nella specie, la disciplina normativa dell'adozione internazionale, essendo incontestato che il ricorrente risiedesse da oltre un decennio negli Usa, avesse acquistato per naturalizzazione, anche la cittadinanza americana e che l'altro genitore adottivo fosse cittadino americano così come il minore. Ha, infine, ritenuto la propria competenza ex art. 41, primo comma, l. n. 218 del 1995, secondo il quale i provvedimenti stranieri in materia di adozione sono riconoscibili ex artt. 64, 65, 66 l. n. 218 del 1995. 4.2 in fatto, ha precisato che il giudice della Surrogate's Court dello Stato di oMiSSiS ha valutato l'idoneità della coppia adottante (unitasi in matrimonio nel 2013) all'esito di un'indagine eseguita anche attraverso le informazioni dei servizi sociali (Social Services law) e, solo all'esito di tale indagine, acquisito il consenso preventivo dei genitori biologici ha emesso l'adoption order, ritenendo espressamente che il provvedimento fosse conforme al best interest of the child. È stato rispettato il diritto di difesa, essendo stati convocati in giudizio i genitori biologici (the birth mother and the birth father) i quali, prestato il consenso, sono rimasti estranei al giudizio. 4.3 in diritto, l'oggetto della decisione è la verifica della eventuale contrarietà ai principi di ordine pubblico del provvedimento da riconoscere. Al riguardo la Corte ha affermato che la nozione cui far ricorso è quella di ordine pubblico internazionale; che, di conseguenza, la trama dei principi di ordine pubblico non può essere desunta esclusivamente sulla base del- l'assetto normativo interno nel sistema plurale di cui è partecipe il nostro ordinamento; che di conseguenza il legame con l'ordinamento interno deve ritenersi limitato ai principi fondamentali desumibili in primo luogo dalla Costituzione nonché dai Trattati fondativi dell'Unione europea e dalla Convenzione europea dei diritti umani, così come inverata dalla Corte edU, dalle Convenzioni sui diritti fondamentali cui l'italia ha aderito. in questo quadro i diritti fondamentali si collocano su un piano sovraordinato rispetto alla normazione interna che ne detta le regole di dettaglio. da tali premesse consegue che il giudice italiano chiamato a valutare la compatibilità dell'atto straniero dei cui effetti si chiede il riconoscimento nel nostro paese deve verificare non se l'atto si fondi su un tessuto normativo conforme o difforme da una o più norme interne ma se esso contrasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali della persona umana come desumibili dalle fonti soprarichiamate. 4.3.1 Precisa la Corte territoriale che, in primo luogo, viene in luce, in tema di filiazione, il principio del preminente interesse del minore che costituisce una vera e propria clausola generale coerentemente riconosciuta nell'ordinamento internazionale ed interno, essendo declinato nelle fonti costituzionali ed essendo inverato nelle decisioni giurisprudenziali nazionali e sovranazionali. l'interesse preminente del minore, nel caso di specie, consiste nel poter conservare anche nel nostro ordinamento lo status filiationis acquisito all'estero in forza di un provvedimento giudiziario valido ed efficace. Ciò sia in relazione al diritto alla continuità degli status, stabilito nell'art. 13 comma 3, e 33, commi 1 e 2 l. n. 218 del 1995, sia in relazione al diritto alla vita privata e familiare del minore che include tra le sue primarie manifestazioni la definizione della propria identità come essere umano relazionale e, dunque, all'interno del proprio nucleo familiare. ove venisse negato il riconoscimento giuridico del provvedimento adottivo resterebbe gravemente sacrificata la posizione del minore in relazione allo sviluppo rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 equilibrato della personalità in relazione all'identità costruita nel rapporto con i genitori, al- l'impossibilità di acquistare la cittadinanza italiana e di conseguire le tutele che da tale qualificato rapporto parentale conseguono. 4.4. il riconoscimento dello status acquisito all'estero, secondo la Corte d'Appello, non è precluso dal bilanciamento con altri interessi coinvolti non potendo, in particolare, attribuirsi copertura costituzionale alla regola per cui nel nostro ordinamento l'adozione legittimante è consentita solo a coppie coniugate, essendo prevista, in via derogatoria, l'adozione di un solo coniuge, quando nel corso dell'affidamento preadottivo uno dei due coniugi decida di separarsi. né può assumere rilievo preminente e costituire un limite di ordine pubblico la natura omoaffettiva della coppia genitoriale, avendo tali unioni piena dignità costituzionale e dovendo assumersi come parametri di riferimento in relazione al riconoscimento di status filiationis non espressamente previsti nel nostro ordinamento interno gli artt. 2, 3 e 31 Cost. e non l'art. 29. la giurisprudenza, sovranazionale ed interna, di legittimità e di merito ha ampiamente riconosciuto, sia in materia di affidamento che di adozione, l'inesistenza di pregiudizi, scientificamente fondati, per lo sviluppo psico fisico del minore che nasca e cresca in una famiglia omogenitoriale. ne consegue che l'attuale limitazione legislativa interna all'accesso all'adozione piena stabilita nella legge ordinaria non si configura come opzione costituzionalmente obbligata, tanto più dopo la recente riforma della filiazione tendente alla unificazione dello stato di figlio, sia di derivazione biologica che sociale. il matrimonio, nella nuova disciplina, non si colloca più al centro delle relazioni familiari essendo sostituito dalla condizione di figlio e dal suo preminente interesse nelle diverse declinazioni proposte dalla legislazione e dalla giurisprudenza. nel rispetto della ratio della riforma che induce a ricondurre la filiazione biologica e quella adottiva ad un unico status, non possono conseguire limitazioni ai diritti dei figli adottivi. Peraltro, anche la modifica dell'art. 74 c.c., unificando il regime della parentela discendente dalle varie tipologie di filiazione e ricomprendendovi anche quella adottiva, con esclusione dell'adozione di maggiorenni, conduce a questa conclusione, prospettando come principio ordinante la parificazione assoluta della condizione filiale. 5. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il Sindaco di oMiSSiS in qualità di ufficiale di Governo, proponendo quattro motivi di ricorso. Hanno resistito con controricorso oMiSSiS in proprio ed in rappresentanza del figlio minore e l'altro genitore adottivo. 6. la prima sezione civile con ordinanza interlocutoria 29071 del 2019 ha rimesso alle sezioni unite come questioni di massima di particolare importanza i seguenti quesiti: a) se possa costituire espressione di principi fondamentali ed irrinunciabili dell'ordinamento il disfavore dell'ordinamento interno all'accesso all'adozione legittimante per le coppie dello stesso sesso, desumibile dall'art. 6 l. n. 184 del 1983 che consente tale forma di adozione soltanto alla coppia coniugata e dall'art. 1, c. 20 della l. n. 76 del 2016 che introduce nel nostro ordinamento il riconoscimento delle unioni civili tra persone dello stesso sesso ma esclude l'equiparazione con lo status coniugale in relazione alle disposizioni di cui alla l. n. 184 del 1983 (fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti) oltre che dalla giurisprudenza di legittimità (S.U. 12193 del 2019) che ha limitato all'adozione non legittimante (art. 44 lettera d, della l. n. 184 del 1983) la genitorialità sociale per la coppia omoaffettiva maschile che sia ricorsa alla gestazione per altri; b) se il giudizio di compatibilità con l'ordine pubblico che l'autorità giudiziaria italiana deve compiere, ai sensi degli artt. 41, 64, 65, 66 della l. n. 218 del 1995, ai fini del riconoscimento in italia di un provvedimento giudiziario straniero di adozione cd. legittimante, debba o meno includere la valutazione estera di adottabilità del minore. ConTenzioSo nAzionAle 7. in vista dell'udienza davanti alle S.U., il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta, illustrata in udienza, ed il controricorrente memoria illustrativa. rAGioni dellA deCiSione (...) 15. definito l'oggetto del sindacato giurisdizionale, deve essere affrontata la questione relativa alla compatibilità degli effetti del provvedimento straniero con i principi di ordine pubblico che ove contrastanti possono limitarne od escluderne il riconoscimento. Si tratta della censura affrontata nel quarto motivo e nel primo dei due quesiti desumibili dall'ordinanza interlocutoria. 15.1 l'indagine da svolgere richiede in primo luogo il corretto inquadramento giuridico del- l'atto di cui si chiede il riconoscimento. l'adoption order è un provvedimento giurisdizionale emesso dalla surrogate Court dello Stato di oMiSSiS che attribuisce alla parte ricorrente ed al- l'interveniente lo status di genitore adottivo del minore dopo aver preventivamente acquisito il consenso del birth father e della birth mother e dopo aver valutato l'idoneità della coppia adottante al fine di verificare la conformità del provvedimento da assumere al best interest of the child. nel provvedimento, regolarmente depositato ed esaminato dal Collegio si dà, infatti, atto che "un investigation have been ordered and made and the written report of such investigation having been filed with the Court, as required by the domestic Law". il provvedimento non è dunque fondato soltanto sull'acquisito consenso dei genitori biologici ma anche sul risultato di un'indagine svolta secondo le prescrizioni normative della legge interna (social services Law). 15.2 la decisione è stata adottata nel rispetto del diritto di difesa di tutti i soggetti coinvolti (par. 8 decisione impugnata). la circostanza non è stata, peraltro oggetto di contestazione né della parte ricorrente né del Procuratore Generale. 15.3 la esposizione sintetica del contenuto e degli effetti del provvedimento estero pone in evidenza con nettezza l'estraneità della fattispecie oggetto del presente giudizio da quella formante oggetto della sentenza delle S.U. n. 12193 del 2019. non viene sottoposto al controllo di compatibilità con i principi di ordine pubblico il riconoscimento di uno status genitoriale costituito all'estero per mezzo della tipologia di procreazione medicalmente assistita eterologa (d'ora in avanti p.m.a.) definibile come gestazione per altri. Alla base della costituzione dello status genitoriale adottivo della coppia richiedente non risulta esserci un accordo di surrogazione di maternità, realizzato mediante una forma di fecondazione eterologa penalmente vietata nel nostro ordinamento e per tale ragione ritenuta contraria ai principi vigenti di ordine pubblico. l'esistenza di entrambi i genitori biologici che hanno prestato il loro consenso all'adozione del minore porta ad escludere dall'esame del Collegio non soltanto la questione della compatibilità con i nostri principi di ordine pubblico della surrogazione di maternità ma anche quella, più generale, relativa all'incidenza diretta sui principi di ordine pubblico internazionale del divieto di accesso alla p.m.a. per le coppie omoaffettive, oggetto di un recente intervento della Corte Costituzionale (n. 221 del 2019), la quale, tuttavia, in un passaggio motivazionale rimanda al divieto di accesso alla genitorialità adottiva per le coppie formate da persone dello stesso sesso. la complessiva valutazione della pronuncia sarà esaminata nel par. 18.2. 16. definiti gli effetti del provvedimento estero e precisato che oggetto del sindacato giurisdizionale è la compatibilità dello status genitoriale, di natura intrinsecamente adottiva, acquisito da coppia omogenitoriale maschile con i principi attualmente costituenti l'ordine pubblico internazionale, deve procedersi alla corretta individuazione del predetto parametro. rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 16.1 in astratto, la soluzione non appare disagevole perché il Collegio presta convinta adesione alla nozione di ordine pubblico internazionale elaborata nella pronuncia delle S.U. n. 16601 del 2017 e ribadita nella più recente n. 12193 del 2019. entrambe le pronunce si collocano nel solco della concezione aperta ed universalistica dell'ordine pubblico internazionale, già espressa in precedenti orientamenti (Cass. 19599 del 2016 e 14878 del 2017) riconoscendo ai principi di ordine pubblico internazionale non soltanto la funzione di limite all'applicazione della legge straniera (art. 16 l. n. 218 del 1995) ed al riconoscimento di atti e provvedimenti stranieri (art. 64 l. n. 218 del 1995) e ma anche quella di promozione (S.U. 16601 del 2017) e garanzia di tutela dei diritti fondamentali della persona (Cass. n. 19405 del 2013), attraverso i principi provenienti dal diritto dell'Unione europea, delle Convenzioni sui diritti della persona cui l'italia ha prestato adesione e con il contributo essenziale della giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte europea dei diritti umani. Ma a comporre il complesso dei principi fondamentali e caratterizzanti il profilo etico giuridico dell'ordinamento di un determinato periodo storico, secondo la definizione accolta da dottrina internazionalistica autorevole, concorrono non soltanto il sistema dei principi e valori derivanti dalla Costituzione ma anche quelli desumibili dalle leggi ordinarie quando "come nervature sensibili, fibre dell'apparato sensoriale e delle parti vitali di un organismo, inverano l'ordinamento costituzionale" (S.U. 16601 del 2017). la più ampia connotazione dei principi di ordine pubblico internazionale si è infine consolidato con la recente S.U. n. 12193 del 2019 nella quale viene sottolineata "la rilevanza della normativa ordinaria, quale strumento di attuazione dei valori consacrati nella Costituzione" e l'esigenza di valorizzare l'interpretazione della legge che "dà forma a quel diritto vivente dalla cui valutazione non può prescindersi nella ricostruzione dell'ordine pubblico in un determinato momento storico". la sintesi operata dalle S.U. di questa Corte, tra il rilievo dei valori condivisi dalla comunità internazionale ed il processo di armonizzazione tra gli ordinamenti giuridici che lo accompagna ed il sistema assiologico proveniente dalla Costituzione unitamente alle leggi che ad esso si ispirano, deve orientare nella ricognizione dei principi fondamentali che al momento del vaglio giurisdizionale costituiscono la trama dell'ordine pubblico internazionale. l'operazione da svolgere, come già evidenziato, non ha ad oggetto la coerenza della normazione interna di uno o più istituti con quella estera che ha condotto alla formazione del provvedimento giurisdizionale di cui si chiede il riconoscimento, ma la verifica della compatibilità degli effetti che l'atto produce (nella specie l'attribuzione di uno status genitoriale adottivo) con i limiti non oltrepassabili, costituiti dai principi fondanti l'autodeterminazione e le scelte relazionali del minore e degli aspiranti genitori (art. 2 Cost.; art. 8 Cedu); dal principio del preminente interesse del minore di origine convenzionale ma ampiamente attuato in numerose leggi interne ed in particolare nella recente riforma della filiazione (legge delega n. 219 del 2012, d.lg.s n. 153 del 2013); dal principio di non discriminazione, rivolto sia a non determinare ingiustificate disparità di trattamento nello status filiale dei minori con riferimento in particolare al diritto al- l'identità ed al diritto di crescere nel nucleo familiare che meglio garantisca un equilibrato sviluppo psico-fisico nonché relazionale sia a non limitare la genitorialità esclusivamente sulla base dell'orientamento sessuale della coppia richiedente; dal principio solidaristico che è alla base della genitorialità sociale sulla base del quale la legge interna (l. n. 184 del 1983 così come modificata dalla l. n. 149 del 2001 e dalla recente legge sulla continuità affettiva n. 173 del 2015) ed il diritto vivente (CedU caso zhou contro italia sentenza 21/4/2014 e S.H. contro italia sentenza 13/10/2015; Cass. 3643 del 2020 e 1476 del 2021) hanno concorso a creare una pluralità di modelli di genitorialità adottiva, unificati dall'obiettivo di conservare la continuità affettiva e relazionale ove già stabilizzatasi nella relazione familiare. ConTenzioSo nAzionAle 16.3 i principi enucleati peraltro risultano strettamente interconnessi essendo l'uno funzionale all'inveramento dell'altro, così come le leggi, in larga parte riformatrici, che li esprimono e li attuano. Sulla base di questo quadro unificante di principi di ordine pubblico internazionale, può svolgersi la valutazione di compatibilità che forma oggetto del quarto motivo di ricorso e di uno dei quesiti posti nell'ordinanza interlocutoria. 17. la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14007 del 2018, si è già espressa in merito alla trascrizione di una sentenza straniera (francese) con la quale era stata pronunciata l'adozione piena ed incrociata dei figli minori, biologici, di due donne cittadine francesi coniugate in Francia e residenti in italia. Al riguardo, ha ritenuto che il preminente interesse del minore, da ritenersi coincidente con il diritto al mantenimento della stabilità della vita familiare consolidatasi con entrambe le figure genitoriali, positivamente e specificamente valutato dal giudice straniero, dovesse condurre ad escludere la contrarietà dell'atto all'ordine pubblico, "non incidendo l'orientamento sessuale sull'idoneità dell'individuo all'assunzione della responsabilità genitoriale". Per comprendere i punti di contatto e le differenze con la fattispecie dedotta nel presente giudizio deve essere precisato che entrambe le partners dell'unione matrimoniale omoaffettiva, trascritta in italia, sono ricorse alla p.m.a. eterologa per la rispettiva generazione biologica dei figli minori ed hanno ottenuto un titolo adottivo pieno come madri d'intenzione o madri sociali del figlio non biologico. in comune le due fattispecie hanno sia la provenienza della scelta genitoriale da un'unione omoaffettiva matrimoniale sia la riconduzione al modello dell'adozione piena o legittimante dello status genitoriale richiesto. il provvedimento giurisdizionale estero in entrambe le fattispecie è rivolto al riconoscimento di una genitorialità sociale che sia del tutto equiparabile alla genitorialità biologica sorta dentro o fuori il matrimonio, ai fini del complesso di diritti e tutele dei figli minori, in particolare in relazione alla linea di parentela. le differenze consistono nel genere femminile e maschile delle due coppie omogenitoriali e nell'accesso alla p.m.a. eterologa solo da parte della coppia omogenitoriale femminile. Si tratta, tuttavia, di caratteristiche recessive. la differenza di genere per le coppie omogenitoriali maschili costituisce un discrimine soltanto se il progetto genitoriale comune si fonda sul ricorso alla gestazione per altri (Cass. S.U. 12193 del 2019) pur essendo espressamente previsto che il preminente interesse del minore possa essere garantito, anche in questa ipotesi, mediante l'adozione in casi particolari. Ma il modello adottivo gradato è esclusivamente conseguenza del grave disvalore ricondotto, dalle S.U., alla scelta della gestazione per altri e alla necessità di trovare un bilanciamento che tenga conto di questa valutazione. Sul rapporto tra il preminente interesse del minore e la "legittima finalità di disincentivare il ricorso ad una pratica che l'ordinamento italiano considera illegittima ed anzi meritevole di sanzione penale" è intervenuta la recentissima sentenza della Corte Costituzionale n. 33 del 2021 con la quale è stato riaffermato il margine di apprezzamento degli Stati nel non consentire la trascrizione di atti di stato civile o provvedimenti giudiziari stranieri che fondino gli status genitoriali sulla surrogazione di maternità, pur sottolineando l'esigenza di un sistema di tutela del minore più efficace che non quello garantito dall'adozione in casi particolari. ove, tuttavia, manchi la condizione negativa della gestazione per altri, e nella specie, anche l'operatività del divieto di accesso alla p.m.a. alle coppie omoaffettive, la contrarietà ai principi di ordine pubblico appare riconducibile soltanto alle norme interne limitative della genitorialità adottiva e al paradigma eterosessuale delle unioni matrimoniali. 17.1 deve rilevarsi che l'ininfluenza dell'orientamento sessuale nelle controversie riguardanti l'affidamento dei minori e la responsabilità genitoriale all'interno del conflitto familiare costituiscono un approdo fermo nella giurisprudenza di legittimità (Cass. 601 del 2013), così rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 come per l'accesso all'adozione non legittimante delle coppie omoaffettive (Cass. 12962 del 2016). la conclusione univocamente assunta dalla giurisprudenza di legittimità che si è espressa al riguardo si fonda sulla considerazione della mancanza di riscontri scientifici sulla inidoneità genitoriale di una coppia formata da persone dello stesso sesso. la conferma più rilevante, tuttavia, si ritrae dalla sentenza delle S.U. n. 12193 del 2019 che, pur affermando la contrarietà ai principi fondamentali che compongono l'ordine pubblico della genitorialità formatasi per effetto della gestazione per altri (o surrogazione di maternità) limitano a questo aspetto il contrasto reputando il divieto interno e la sanzione penale consequenziale espressione di valori fondamentali quali la dignità umana della gestante e l'istituto dell'adozione ma escludono che sia da ricondurre a principio fondamentale dell'ordinamento l'eterosessualità della coppia nella definizione dei limiti al riconoscimento di atti stranieri relativi a status filiali. nella fattispecie dedotta nel giudizio che ha dato luogo alla sentenza n. 12193 del 2019, la caratteristica della omoaffettività e del genere maschile della coppia ha costituito un mero presupposto di fatto ma non l'oggetto della contrarietà ai principi di ordine pubblico, incentrata esclusivamente sul divieto di surrogazione di maternità, divieto già affermato nella sentenza n. 24001 del 2014 della Corte di Cassazione e, a determinate condizioni, confermato dalla sentenza della Grand Chambre della Corte europea dei diritti umani del 24/1/2017, caso Paradiso e Campanelli, pronunce, queste ultime, nelle quali la coppia che rivendicava lo status genitoriale era eterosessuale. 17.2 Completa il quadro ricostruttivo la sentenza della Corte Costituzionale n. 272 del 2017, investita del sospetto d'incostituzionalità dell'art. 263 c.c. nella parte in cui non prevede che l'impugnazione del riconoscimento del figlio minore per difetto di veridicità possa essere accolta solo se corrispondente al preminente interesse dello stesso. nella pronuncia è stato escluso il valore assoluto del favor veritatis e ribadita la necessità del suo bilanciamento con l'interesse del minore che può prevalere, all'esito della concreta operazione di bilanciamento cui è tenuto il giudice. in questo contesto di principi volto a valorizzare la centralità della tutela del minore, anche la Corte Costituzionale riserva una peculiare valutazione alle ipotesi in cui lo status genitoriale su cui si concentra il sindacato giurisdizionale si fondi sul ricorso alla surrogazione di maternità, in relazione alla quale la tutela del minore, deve confluire nel modello gradato dell'adozione in casi particolari. Ma, fuori dalla gestazione per altri, in questa rilevante pronuncia che ha costituito un solido ancoraggio per la decisione delle S.U. n. 12193 del 2019, non viene individuato alcun ostacolo od impedimento alla piena valutazione del- l'interesse preminente del minore nelle azioni sugli status genitoriali che possa ricondursi all'orientamento sessuale delle coppie, dandosi rilievo per un verso al profilo consensualistico nella determinazione consapevole della genitorialità, così come affermato espressamente nel- l'art. 5 della l. n. 40 del 2004 che vieta l'azione di disconoscimento in caso di p.m.a. eterologa, e per l'altro alla comparazione tra l'interesse effettivo del minore (alla stabilità dello status acquisito) con la verità della derivazione biologica. 17.3 in conclusione, nel contesto normativo e giurisprudenziale nel quale è maturata la sentenza delle S.U. n. 12193 del 2019 il limite, dovuto alla contrarietà ai principi di ordine pubblico internazionale, al riconoscimento di status genitoriali contenuti in provvedimenti esteri, richiesti da componenti di coppie omoaffettive, è stato individuato esclusivamente nel ricorso alla gestazione per altri, limite peraltro comune anche alle coppie eterosessuali. in particolare, non sono stati ritenuti incidenti sulla valutazione di compatibilità della omogenitorialità con i nostri principi di ordine pubblico internazionale i limiti derivanti dalla legislazione interna in tema di accesso all'adozione legittimante (art. 6 l. n. 184 del 1983) previsto soltanto per le ConTenzioSo nAzionAle coppie eterosessuali coniugate e dalla legge sulle unioni civili che non ha espressamente esteso alle coppie omoaffettive l'accesso all'adozione legittimante, lasciando tuttavia aperta la strada all'adozione in casi particolari, in quanto già riconosciuta dalla giurisprudenza sulla base delle norme vigenti (art. 1 comma 20 l. n. 76 del 2016). non è stato ritenuto riconducibile ai principi di ordine pubblico internazionale il regime codicistico della prova della filiazione in relazione al riconoscimento di provvedimento estero costitutivo di status genitoriale in coppia omogenitoriale femminile (Cass. 19599 del 2016). la valutazione di compatibilità, anche in coerenza con le considerazioni svolte nella sentenza della Corte Cost. n. 272 del 2017, è stata, fino ad oggi, compiuta assumendo come principi cardine il diritto del minore alla conservazione del- l'identità e della stabilità familiare (Cass. 14007 del 2017) ed il favor verso la continuità degli status filiali da bilanciare, tuttavia, con il limite incomprimibile della dignità dei soggetti coinvolti (S.U. 12193 del 2019), senza includere, però, nel perimetro dei principi di ordine pubblico internazionale né le norme interne che escludono l'accesso alle p.m.a. alle coppie omoaffettive né quelli che introducono il medesimo limite all'adozione legittimante, attualmente consentita soltanto a coppie unite in matrimonio. la condizione soggettiva costituita dall'eterosessualità della coppia che resiste all'interno del nostro ordinamento anche in relazione all'accesso all'unione matrimoniale, introduce un limite che definisce, allo stato attuale, la disciplina normativa applicabile ad alcuni istituti. Fino ad ora, tale limite non è stato elevato al rango di principio di ordine pubblico internazionale, alla luce della continua e crescente attenzione ad una prospettiva maggiormente inclusiva dei modelli relazionali e familiari che richiedono riconoscimento e tutela, realizzata mediante un'interpretazione aperta dell'art. 2 Cost. (Corte Cost. n. 138 del 2010 e 170 del 2014) e dell'art. 8 Cedu (Caso X ed altri contro Austria sentenza del 19/2/2013, labassee contro Francia e Mennesson contro Francia sentenze del 26 giugno 2014; Avis consultatif del 9 aprile 2019, richiesto dalla Corte di Cassazione francese in applicazione del Protocollo 16 in vigore dal 1 agosto 2018, cui l'italia non ha ancora aderito). in particolare, per le coppie omoaffettive la condivisione della necessità di un riconoscimento giuridico e di una tendenziale equiparazione al sistema di tutela proprio dell'unione matrimoniale è stata ampiamente realizzata con la l. n. 76 del 2016 dopo il forte monito della CedU (sentenza del 21 luglio 2015, caso oliari più altri contro italia). il margine di apprezzamento degli Stati e la conseguente discrezionalità legislativa interna nell'introdurre alcune condizioni a tale equiparazione oltre a non poter oltrepassare il limite della proporzionalità tra il sacrificio del diritto fondamentale in gioco e l'interesse di rilievo pubblicistico che sottende la limitazione, non modifica il riconoscimento, costituzionale e convenzionale, delle unioni omoaffettive come luoghi in cui si sviluppa la personalità dei soggetti coinvolti (art. 2 Cost.) anche in ordine all'aspirazione alla genitorialità, quando si formi in un contesto relazionale caratterizzato da stabilità giuridica ed effettiva (art. 8 Cedu) e, soprattutto non può incidere sulla centralità del preminente interesse del minore nelle decisioni che riguardano il suo diritto all'identità ed ad uno sviluppo individuale e relazionale equilibrato e senza strappi. 18. È necessario verificare, tuttavia, anche in relazione alle espresse sollecitazioni della parte ricorrente, ampiamente articolate nella requisitoria del Procuratore Generale, se alla luce delle più recenti pronunce della Corte Costituzionale (la già citata n. 221 del 2019, n. 237 del 2019 e 230 del 2020) e di due recenti sentenze della prima sezione di questa Corte (n. 7668 e 8029 del 2020) non debba individuarsi una diversa griglia dei principi fondanti l'ordine pubblico che costituiscono il limite non valicabile ai fini del riconoscimento del provvedimento di adozione piena emesso dalla Corte dello Stato di oMiSSiS, dedotto nel presente giudizio. in particolare, si tratta di verificare se il limite di accesso all'adozione piena alle coppie coniugate e rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 la non estensione dell'equiparazione unione civile/matrimonio stabilita dal comma 20 dell'art. 1 della l. n. 76 del 2016 al medesimo istituto adottivo possa determinare la contrarietà dell'atto di cui si chiede il riconoscimento ai principi fondamentali che disegnano la trama dell'ordine pubblico internazionale attuale. 18.1 È di cruciale rilievo definire con esattezza le diverse situazioni in concreto esaminate dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Cassazione, al fine di individuare il perimetro applicativo dei principi precettivi in esse contenute. 18.2 nella pronuncia n. 221 del 2019, relativa al sospetto d'incostituzionalità del divieto di accesso alle p.m.a. per le coppie omoaffettive, stabilito nell'art. 5 l. n. 40 del 2004, la Corte Costituzionale esclude l'illegittimità costituzionale della limitazione osservando che la legge n. 40 del 2004, è una legge costituzionalmente necessaria ma non a rime obbligate in relazione a questa specifica condizione dell'accesso, perché "la scelta espressa dalle disposizioni censurate si rivela non eccedente il margine di discrezionalità del quale il legislatore fruisce, pur rimanendo quest'ultima aperta a soluzioni di segno diverso, in parallelo all'evolversi del- l'apprezzamento sociale della fenomenologia considerata". la precisazione finale conduce ad escludere che la limitazione alle coppie eterosessuali dell'accesso alla p.m.a sia espressione di un valore fondante l'ordinamento, condiviso ed irrinunciabile, risultando piuttosto il frutto di una scelta di politica legislativa, peraltro maturata all'interno di una legge marcatamente espressiva di una delle scelte possibili in un campo eticamente sensibile che deve essere contestualizzata e che può essere ripensata. dal 2004 ad oggi l'emersione giuridica e la riconducibilità all'interno dei diritti inviolabili della persona delle istanze provenienti dalle coppie omoaffettive, anche in relazione all'aspirazione alla genitorialità, è stata crescente e sempre più condivisa anche grazie all'opera di armonizzazione della Corte europea dei diritti umani, già illustrata nel par. 17.3 e al nostro interno agli interventi della Corte Costituzionale e della Corte di legittimità (Corte Cost. 138 del 2010 e 170 del 2014 e Cass. 4184 del 2012). deve aggiungersi che la Corte Costituzionale, in un altro passaggio motivazionale, nel superare il rilievo critico dell'effetto di discriminazione inversa che sarebbe prodotto dalla perdurante vigenza del divieto nel nostro ordinamento interno, mostra di essere del tutto consapevole del mutato quadro nella prospettiva di tutela multilivello dei diritti fondamentali ed afferma: "il solo fatto che un divieto possa essere eluso recandosi all'estero non può inoltre costituire una valida ragione per dubitare della sua conformità a Costituzione; diversamente opinando, la disciplina interna dovrebbe essere sempre allineata, per evitare una lesione del principio di eguaglianza, alla più permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia". in conclusione, pur mantenendo ferma la vigenza del divieto interno, ritenuto costituzionalmente legittimo, la Corte esclude che esso abbia carattere di principio assolutamente intangibile e ne riconosce, al contrario, la possibile mutevolezza, accettando, in particolare, la coesistenza nel nostro ordinamento di statuti giuridici diversi per fattispecie analoghe, divergenti solo perché gli atti che le contengono sono formati in uno Stato estero, e riconoscendo la diversità del paradigma normativo applicabile, a maglie più strette quello interno, a tessitura più larga quello fondato sui principi di ordine pubblico internazionale. 18.3 nella successiva sentenza n. 237 del 2019, riguardante un giudizio sorto per il rifiuto opposto dall'ufficiale dello stato civile alla trascrizione di atto di nascita richiesto da coppia omogenitoriale femminile, la Corte Costituzionale, nel dichiarare l'inammissibilità della questione prospettata riafferma la legittimità della legislazione interna relativa alle limitazioni all'accesso a p.m.a. escludendone il carattere discriminatorio per orientamento sessuale ed evidenzia che anche la l. 70 del 2016 "non consente la filiazione sia adottiva che per fecon ConTenzioSo nAzionAle dazione assistita". Anche in questa pronuncia, si conferma che le limitazioni sopra indicate sono compatibili e non "in distonia" con i parametri costituzionali ed in particolare con l'art. 3 Cost. ma senza tuttavia elevarne l'efficacia a principi fondanti dell'ordinamento ma, al contrario, sottolineandone, l'ancoraggio ad un'opzione legittima ma non universalmente condivisa. 18.4 le medesime considerazioni vengono, infine, svolte (e sono molto valorizzate nella requisitoria del Procuratore Generale) nella recente sentenza n. 230 del 2020, sovrapponibile quanto alla fattispecie alla n. 237 del 2019 che si chiude anch'essa con una pronuncia d'inammissibilità. il percorso motivazionale è analogo. la Corte esclude che un'interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata delle limitazioni della l. n. 40 del 2004 possa condurre ad un loro superamento ma non ritiene che tale superamento sia costituzionalmente imposto. Anche in questa pronuncia viene espressamente esclusa la riconducibilità del divieto e dello speculare paradigma eterosessuale a principio fondante, come può rilevarsi dal seguente passaggio argomentativo: "se, dunque, il riconoscimento della omogenitorialità, all'interno di un rapporto tra due donne unite civilmente, non è imposto, vero è anche che i parametri evocati neppure sono chiusi a soluzioni di segno diverso, in base alle valutazioni che il legislatore potrà dare, non potendosi escludere la capacità della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch'esse, all'occorrenza, le funzioni genitoriali. L'obiettivo auspicato dal rimettente, pertanto, è perseguibile per via normativa, implicando una svolta che, anche e soprattutto per i contenuti etici ed assiologici che la connotano, non è costituzionalmente imposta, (..) Anche l'altro profilo della questione, relativo a una diversa tutela del miglior interesse del minore, in direzione di più penetranti ed estesi contenuti giuridici del suo rapporto con la madre intenzionale, è ben possibile, ma le forme per attuarla attengono, ancora una volta, al piano delle opzioni rimesse alla discrezionalità del legislatore". 18.5 Trova, infine, espresso fondamento nella diversità e coesistenza di due sistemi normativi di riferimento, il recente orientamento della Corte di Cassazione in tema di riconoscimento dello status genitoriale della madre d'intenzione nell'ipotesi in cui il minore sia nato in italia mediante il ricorso a p.m.a. eterologa realizzata all'estero. le pronunce n. 7668 e 8029 del 2020 hanno, coerentemente con i principi dettati dalla Corte Costituzionale sopra delineati, ritenuto che nel nostro ordinamento non possa iscriversi nell'atto di nascita anche la madre d'intenzione per l'operatività del divieto all'accesso alla p.m.a. delle coppie omoaffettive. È stato tuttavia, precisato, (Cass. 7668 del 2020) che la soluzione adottata non contrasta con la giurisprudenza di legittimità (Cass. 19599 del 2016 e 14878 del 2017) che in fattispecie analoghe aveva riconosciuto l'efficacia dell'atto di nascita nel quale era indicata anche la madre d'intenzione, formato all'estero, perché il paradigma normativo invocato è diverso. nella trascrizione degli atti stranieri vi è l'esigenza che lo status acquisito all'estero circoli legittimamente con il solo limite dell'ordine pubblico internazionale, con il limite della surrogazione di maternità. Quando si deve applicare esclusivamente il paradigma proveniente dal diritto interno (l. n. 40 del 2004; disciplina codicistica della filiazione) questo rimane saldamente ancorato alla necessità di un rapporto biologico tra i genitori (Cass. 8029 del 2020). lo strumento residuale dell'adozione in casi particolari consente comunque l'inserimento del minore nel nucleo familiare. 18.6 oggetto del presente giudizio non è la coerenza di un sistema che accoglie la disparità di trattamento di minori che versano in situazioni di fatto del tutto omologabili ma soltanto la verifica della compatibilità di un provvedimento estero di adozione piena che attribuisce la rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 genitorialità ad una coppia omogenitoriale maschile con i principi di ordine pubblico internazionale. 19. l'esame dei più recenti interventi della giurisprudenza costituzionale e di legittimità non consente, in conclusione, d'introdurre tra i principi di ordine pubblico internazionale che possono costituire il limite al riconoscimento dell'atto estero che forma oggetto del presente giudizio, le condizioni di accesso alla genitorialità adottiva legittimante contenute nell'art. 6 della l. n. 184 del 1983 e dall'art. 1 c. 20 l. n. 76 del 2016. i divieti all'accesso alle p.m.a., anch'essi, come osservato nei paragrafi immediatamente precedenti, non riconducibili ai principi di ordine pubblico internazionale, sono anche estranei al riconoscimento della genitorialità esclusivamente adottiva oggetto del presente giudizio. nell'ordinamento coesistono principi di derivazione costituzionale e convenzionale che si pongono rispetto ad essi in una condizione di netta sovraordinazione e preminenza sia per la loro collocazione tra i diritti inviolabili della persona sia per il grado di condivisione che ne costituisce un tratto peculiare. 19.1 in primo luogo, come già rilevato, il principio del preminente interesse del minore nelle determinazioni che incidono sul suo diritto all'identità, alla stabilità affettiva, relazionale e familiare, contenuto nell'art. 24 della Carta dei diritti fondamentali della Unione europea, nel- l'art. 3 della Convenzione di new York sui diritti del fanciullo e divenuto parte integrante della costruzione del diritto alla vita privata e familiare ad opera della Corte europea dei diritti umani oltre che fondamento della riforma della l. n. 184 del 1983 ad opera della l. n. 149 del 2001 e della recente legge sulla continuità affettiva (n. 173 del 2015) nonché di tutta la disciplina legislativa relativa alla responsabilità genitoriale, ed agli status filiationis (anche secondo la citata sentenza n. 272 del 2017 della Corte Costituzionale) essendo una delle estrinsecazioni più rilevanti dell'art. 2 Cost. 19.2 in secondo luogo il principio della parità di trattamento tra tutti i figli, nati all'interno e fuori del matrimonio o adottivi, che trova la sua fonte costituzionale negli artt. 3 e 31 Cost. e che è stato inverato dalla recente riforma della filiazione (l.n. 219 del 2012; d.lgs n. 154 del 2013). Al riguardo, proprio in relazione alla filiazione adottiva, attualmente ripartita tra l'adozione legittimante e quella in casi particolare, deve essere rimarcata l'innovazione relativa all'art. 74 c.c. che ha reso unico, senza distinzioni, il vincolo di parentela che scaturisce dagli status filiali, con la sola eccezione dell'adozione dei maggiorenni, così da ingenerare perplessità in dottrina sulla compatibilità costituzionale della conservazione di un regime differenziato nei diversi modelli di genitorialità adottiva nel nostro ordinamento. 19.3 il panorama dei principi intangibili in tema di tutela degli status filiali, fortemente caratterizzato dall'obiettivo di non creare discriminazioni nel regime giuridico di tutela dei minori si completa con la considerazione che il quadro attuale della genitorialità sociale è più composito di come rappresentato dalla parte ricorrente. oltre alla espressa estensione alle persone singole della adozione in casi particolari, deve rilevarsi che la giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. n. 183 del 1994) e la giurisprudenza di legittimità (Cass. 6078 del 2006; 3572 del 2011) che si sono trovate fin dagli anni 90 a confrontarsi con le richieste di costituzione di status genitoriali adottivi da parte di soggetti diversi dalle coppie coniugate eterosessuali, hanno unanimemente riconosciuto l'esigenza di ampliare le condizioni di accesso all'adozione legittimante ed hanno sollecitato il legislatore al riguardo, ritenendo che ciò corrispondesse non solo ad una sensibilità condivisa ma anche alle indicazioni della Convenzione sulle adozioni firmata a Strasburgo il 24/4/1967 che impone di trovare per il minore un "foyer stable et harmonieux". infine, in tempi più recenti in relazione alle istanze delle coppie omoaffettive rivolte alla realizzazione della genitorialità all'interno di un nucleo relazionale stabile e pre ConTenzioSo nAzionAle valentemente sostenuto da un riconoscimento giuridico in italia od all'estero è stata individuata proprio nel modello adottivo indicato nell'art. 44, lettera d) l. n. 184 del 1983 la forma di riconoscimento minimo e residuale anche per i minori venuti al mondo all'esito di un accordo di surrogazione di maternità (Cass. S.U. 12193 del 2019, per la "residualità" di questo specifico modello adottivo, Corte Cost. 383 del 1999). Alla forte promozione della giurisprudenza costituzionale, sovranazionale e di legittimità di un regime giuridico interno di accesso alla genitorialità sociale meno restrittivo e più vicino alla evoluzione condivisa dei modelli relazionali e filiali si collega indissolubilmente il superamento, sotto il profilo dei principi di ordine pubblico internazionale, della limitazione alla coppia eterosessuale unita in matrimonio dell'accesso all'adozione legittimante stabilita nell'art. 6. Al riguardo non può condividersi quanto affermato nel ricorso e nella requisitoria del P.G. in relazione all'inclusione dell'art. 29 Cost. tra i parametri costituzionali dai quali desumere il limite di ordine pubblico internazionale applicabile alla fattispecie, in collegamento con l'art. 6 legge n. 184 del 1983 e dall'art. 1, comma 20 l. n. 76 del 2016. l'unione matrimoniale così come prevista nell'art. 29 Cost. costituisce il modello di relazione familiare fornito, allo stato attuale della regolazione interna, del massimo grado di tutela giuridica ma in relazione agli status genitoriali non costituisce più, soprattutto dopo la riforma della filiazione, il modello unico o quello ritenuto esclusivamente adeguato per la nascita e la crescita dei figli minori e conseguentemente deve escludersi che possa essere ritenuto un limite al riconoscimento degli effetti di un atto che attribuisce la genitorialità adottiva ad una coppia omoaffettiva, peraltro unita in matrimonio negli Stati Uniti, tanto più che in relazione alla genitorialità sociale l'imitatio naturae manca ab origine ed è ampiamente compensata dalle ragioni solidaristiche dell'istituto e, con riferimento al minore, dalla realizzazione, da assoggettarsi a verifica giurisdizionale, del processo di sviluppo personale e relazionale più adeguato alla sua crescita. 19.4 non può pertanto essere accolto il quarto motivo di ricorso, alla luce del seguente principio di diritto: 'Non contrasta con i principi di ordine pubblico internazionale il riconoscimento degli effetti di un provvedimento giurisdizionale straniero di adozione di minore da parte di coppia omoaffettiva maschile che attribuisca lo status genitoriale secondo il modello dell'adozione piena o legittimante, non costituendo elemento ostativo il fatto che il nucleo familiare del figlio minore adottivo sia omogenitoriale ove sia esclusa la preesistenza di un accordo di surrogazione di maternità a fondamento della filiazione". 20. rimane, tuttavia, da esaminare, la seconda questione di massima di particolare importanza sollevata, tuttavia, esclusivamente nell'ordinanza interlocutoria e non prospettata o riproposta né dal ricorrente né dal Procuratore Generale. Si evidenzia, al riguardo che l'adozione estera è stata pronunciata dopo aver acquisito il consenso dei genitori biologici e dunque si ritiene di dover verificare se la valutazione estera posta a base dell'adottabilità del minore debba comporre lo scrutinio di compatibilità con i principi di ordine pubblico internazionale. 20.1 Preliminarmente, in fatto, deve osservarsi che il provvedimento di adozione estero di cui si chiede il riconoscimento come precisato nel par. 15.1 non si è fondato solo sul consenso dei genitori biologici ma anche sugli esiti di un'indagine relativa all'idoneità della coppia adottante. Ciò significa che il controllo giurisdizionale non si è limitato al riscontro del consenso dei genitori del minore ma ha avuto carattere complessivo, investendo tutte le parti del giudizio. 20.2 ritiene il Collegio che non possa escludersi in astratto la comparazione delle condizioni di adottabilità poste a base del provvedimento estero di cui si chiede il riconoscimento con i principi di ordine pubblico internazionale. ove venga allegato dalle parti ed emerga con obiet rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 tività probatoria che la determinazione di privarsi del figlio minore da parte dei genitori biologici derivi da un intervento di carattere oneroso degli adottanti, o il consenso prestato sia la conseguenza di un accordo vietato e sanzionato penalmente nel nostro diritto interno perché incidente sui diritti inviolabili della persona, come l'accordo di surrogazione di minore, alla valutazione degli effetti "formali" dell'atto, (la costituzione di status genitoriale adottivo, che pure incontra il favor legislativo interno per la genitorialità sociale) deve collegarsi quella sulle modalità di produzione degli effetti predetti. Ugualmente ove sia stata dedotta e venga accertata la violazione delle condizioni previste dalla legge estera per l'accesso al modello genitoriale richiesto (secondo le indicazioni dalla sentenza della Grand Chambre CedU, 24 gennaio 2017, caso Paradiso-Campanelli). Ma, deve rilevarsi, che nel presente giudizio nessun rilievo hanno dato le parti né nel merito né nella prospettazione delle censure del presente ricorso alla valutazione di adottabilità, così da doverne escludere il concreto esame non potendosi confondere il limite costituito dall'ordine pubblico internazionale con la regolamentazione giuridica interna dell'adozione legittimante. Proprio in relazione a quest'ultimo profilo deve rilevarsi che la giurisprudenza costituzionale e di legittimità hanno univocamente escluso che il fondamento consensuale di procedimenti adottivi esteri fosse da ritenere incompatibile con i principi di ordine pubblico. Si tratta di orientamenti che si sono sviluppati prima della regolamentazione giuridica convenzionale ed interna dell'adozione internazionale e che riguardano l'adozione di minori stranieri da parte di cittadini italiani. Si tratta, pertanto, di fattispecie diverse rispetto a quella oggetto del presente giudizio, perché assoggettabili a controlli più incisivi e alla competenza del Tribunale per i minorenni ma, anche per questa ragione, estremamente istruttive in relazione alla valutazione del profilo della consensualità. 20.3 la Corte Costituzionale con la sentenza n. 536 del 1989, relativa a procedimenti volti a dichiarare l'efficacia di sentenze estere di adozione di minori fondate sul consenso espresso dai genitori biologici davanti ad un notaio e successivamente omologate dall'autorità giudiziaria, ha affermato che il modello consensuale non è in contrasto con i principi ispiratori della l. n. 184 del 1983, non soltanto perché espressamente previsto nel nostro ordinamento per alcune fattispecie di adozione in casi particolari quanto per la "latitudine della formula usata nell'art. 31 (l. n. 218 del 1995 n.d.r.) per definire i provvedimenti stranieri a contenuto adottivo suscettibili di considerazione ai fini della declaratoria di efficacia in italia" ( ... ) adozione, affidamento preadottivo, altro provvedimento in materia di tutela e degli altri istituti di protezione dei minori". la Corte ritiene che quando si possa riscontrare il "rispetto d'irrinunziabili garanzie" e "in presenza di provvedimenti a contenuto effettivamente adottivo" nel- l'adozione del modello consensuale che in via esclusiva, o in alternativa all'adozione legittimante è senz'altro molto diffuso nei paesi extraeuropei ed in molti paesi europei (secondo quanto riferito nella sentenza) non si ravvisa un'aprioristica contrarietà ai principi fondamentali dell'ordinamento, dovendosi concentrare il controllo giurisdizionale sul provvedimento con il quale la procedura adottiva si chiude. Sono escluse, ai fini adottivi, le convenzioni meramente private, anche se recepite in atto notarile, ma la previsione normativa (ed il controllo giurisdizionale successivo) dell'effetto della recisione del rapporto con i genitori biologici per effetto della libera prestazione del consenso non è contrario ai principi di ordine pubblico. di estremo rilievo anche in relazione al provvedimento estero oggetto del presente giudizio sono le considerazioni finali contenute nella sentenza della Corte Costituzionale: "È ben vero che l'adozione consensuale può in concreto mascherare illecite cessioni (...) ma la constatazione dell'esistenza di questo fenomeno (...) non può condurre questa Corte a ritenere fondata ConTenzioSo nAzionAle una questione che poggia su generalizzazioni indimostrate". la giurisprudenza di legittimità coeva aveva manifestato il medesimo orientamento. il consenso dei genitori biologici all'allontanamento in via definitiva del minore che garantisca al minore di acquisire una nuova famiglia idonea, ove verificato da autorità giurisdizionale, non è ostativo al riconoscimento di provvedimenti di adozione esteri (Cass. n. 3904 del 1986; n. 8506 del 1987; n. 9912 del 1991). 20.5 l'esame del provvedimento giurisdizionale, alla luce delle deduzioni ed allegazioni delle parti, porta ad escludere il rilievo della condizione di adottabilità, sulla valutazione di compatibilità del provvedimento estero dedotto nel presente giudizio con i principi di ordine pubblico internazionale. 21. in conclusione il ricorso deve essere rigettato con compensazione delle spese processuali del presente giudizio, attesa la novità delle questioni esaminate. P.Q.M. rigetta il ricorso. Compensa le spese processuali del presente giudizio. in caso di diffusione devono essere omesse le generalità delle parti e i riferimenti geografici. Così deciso nella camera di consiglio del 12 gennaio 2021. rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 L’applicabilità ai giudizi di incandidabilità ex art. 143, comma 11, t.u.e.l. della normativa emergenziale in tema di sospensione dei termini (art. 83, comma 2, D.L. 8/2020). La ratio della misura interdittiva ANNotAzioNe A CAssAzioNe, sezioNe i CiviLe, ordiNANzA 5 febbrAio 2021 N. 2749 (*) l’ordinanza della Corte di cassazione ha ritenuto applicabile ai procedimenti di incandidabilità a seguito di scioglimento di consigli comunali per infiltrazione mafiosa la sospensione dei termini di cui «[al]l'art. 83, comma 2, d.l. 18/2020, convertito con modificazioni dalla legge 27/2020, che, come noto, ha disposto che "dal 9 marzo 2020 al 15 aprile 2020 è sospeso il decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali", dovendosi ritenere sospesi, fra l'altro, i termini stabiliti "per le impugnazioni e, in genere, tutti i termini procedurali". il termine finale così fissato è stato poi prorogato -dall'art. 36, comma 1, d.l. 23/2020, convertito con modificazioni dalla l. 40/2020 -all'11 maggio 2020, sicché i termini processuali di tutti i procedimenti civili risultano sospesi dal 9 marzo 2020 all'11 maggio 2020 e hanno ripreso a decorrere dalla fine del periodo di sospensione, vale a dire dal 12 maggio 2020». la Corte di cassazione ha affermato che «non è poi possibile ritenere che questa sospensione non operi nel caso di specie in ragione del ricorrere delle eccezioni previste rispetto alla regola generale (eccezioni che, per loro natura, devono giocoforza essere oggetto di una lettura restrittiva). non ricorre l'ipotesi prevista dal 3o comma dell'art. 83 d.l. 18/2020, che esclude dall'ambito applicativo della norma i "procedimenti cautelari aventi ad oggetto la tutela di diritti fondamentali della persona". in vero, se per procedimenti cautelari si devono intendere quei procedimenti, tipici o atipici, che siano funzionali ad ovviare ai pericoli che possono compromettere l'effettività della tutela giudiziaria durante il tempo occorrente per conseguirla, è evidente che il giudizio in questione, ancorché regolato dalla disciplina camerale, non ha natura cautelare, perché non è volto ad assicurare una tutela d'urgenza e anticipata strumentale a un successivo giudizio di cognizione. Per di più, il giudizio di incandidabilità non tutela un diritto fondamentale della persona ma intende assicurare (...) in una prospettiva generale e pubblica piuttosto che individuale, l'interesse della comunità locale a che non si perpetui potenzialmente un'ingerenza inquinante di tipo mafioso nella vita delle amministrazioni democratiche locali. né si può sostenere che il procedimento rimanesse escluso dall'ambito della (*) Annotazione avv. Stato Wally Ferrante affidataria della causa; all’esito favorevole del giudizio hanno inoltre contribuito l’avv. Stato Tito Varrone e l’avv. Stato Alfonso Mezzotero. ConTenzioSo nAzionAle sospensione in ragione del grave pregiudizio arrecato alle parti dalla ritardata trattazione della lite, a mente dell'ultima parte dell'art. 83, comma 3, lett. a), d.l. 18/2020, perché la norma non prevede rispetto a questa ipotesi un'automatica esenzione dalla disciplina generale di sospensione dei termini, ma impone che l'esistenza di un simile pregiudizio sia verificato rispetto alla singola fattispecie ed espressamente dichiarato (dal capo dell'ufficio avanti al quale la causa deve essere introdotta ovvero dal giudice dinnanzi al quale la lite già pende). nel caso di specie non risulta che questa dichiarazione d'urgenza sia mai stata fatta. infine, nessun argomento può essere tratto a conforto della tesi sostenuta dal controricorrente dalla disciplina generale di sospensione feriale dei termini processuali, ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 1. 742/1969 e 92 r.d. 12/1941» che la Corte di cassazione ha ritenuto comunque applicabile al giudizio in questione sebbene nel principio di diritto, per un evidente errore materiale (con un non di troppo) sia stato affermato il contrario. nel merito, la Corte di cassazione ha accolto il ricorso del Ministero (analoghi ricorsi, spesso, sono stati dichiarati inammissibili nella parte in cui la violazione di legge trasmoda in una censura della valutazione in fatto compiuta nei gradi di merito in ordine alla sintomaticità delle condotte commissive od omissive degli amministratori dalle quali è conseguito lo scioglimento del consiglio comunale) affermando il seguente principio di diritto: «in tema di accertamento dell'incandidabilità a cariche pubbliche negli enti locali, nel caso in cui, alla luce di una visione d'insieme della congerie istruttoria disponibile, risulti che l'amministratore, anche solo per colpa, sia venuto meno agli obblighi di vigilanza, indirizzo e controllo previsti dagli artt. 50, comma 2, 54, comma 1, lett. c), e 107, comma 1, T.U.e.l., tale condotta deve considerarsi di per sé sufficiente a integrare i presupposti per l'applicazione della misura interdittiva prevista dall'art. 143, comma 11, d.lgs. 267/2000, così come risultante dalla sostituzione operata dall'art. 2, comma 30, l. 94/2009, dato che la finalità perseguita dalla norma è proprio quella di evitare il rischio che quanti abbiano cagionato il grave dissesto dell'amministrazione comunale, rendendo possibili ingerenze al suo interno delle associazioni criminali, possano aspirare a ricoprire cariche identiche o simili a quelle già rivestite e, in tal modo, potenzialmente perpetuare l'ingerenza inquinante nella vita delle amministrazioni democratiche locali». Wally Ferrante rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 Cassazione, Sezione Prima civile, ordinanza 5 febbraio 2021 n. 2749 -Pres. F.A. Genovese, rel. A. Pazzi -Ministero dell’interno (avv. gen. Stato) c. oMiSSiS (avv.ti F. zaccaria, C. Argese). FATTi di CAUSA 1. il Tribunale di Crotone, con decreto n. 1243/2019, accoglieva la richiesta presentata dal Ministro dell'interno ai sensi dell'art. 143, comma 11, d.lgs. 267/2000 e dichiarava, fra gli altri, d.V., già sindaco del Comune di oMiSSiS, non candidabile alle prime elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali successive al decreto del Presidente della repubblica dissolutivo del consiglio comunale della medesima amministrazione municipale. 2. la Corte d'appello di Catanzaro, a seguito del reclamo presentato da oMiSSiS, dato atto che la propria indagine era volta a verificare, con riguardo all'operato del solo amministratore coinvolto, se collusioni e condizionamenti avessero determinato una cattiva gestione della cosa pubblica, riteneva che dalla documentazione prodotta non fosse possibile evincere né un chiaro collegamento tra l'operato dell'ex amministratore sul piano amministrativo e l'azione delle consorterie criminose, né un asservimento del medesimo alle volontà e agli interessi delle cosche locali, né una frequentazione del oMiSSiS con esponenti di spicco delle consorterie locali. la Corte di merito, con sentenza pubblicata in data 6 dicembre 2019, accoglieva pertanto l'impugnazione e per l'effetto revocava la declaratoria di incandidabilità disposta nei confronti di oMiSSiS. 3. Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso il Ministero dell'interno, prospettando un unico motivo di doglianza, al quale ha resistito con controricorso oMiSSiS. l'amministrazione ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell'art. 380 bis.1 cod. proc. civ. Parte controricorrente ha a sua volta depositato memoria, senza però rispettare i termini previsti dalla norma appena citata. rAGioni dellA deCiSione 4. occorre preliminarmente rilevare l'infondatezza dell'eccezione di inammissibilità del ricorso, per tardività della notifica, sollevata dal controricorrente. in tesi di parte controricorrente non troverebbe applicazione alla fattispecie in esame la sospensione straordinaria dei termini processuali disposta dall'art. 83 d.l. 18/2020, poiché la stessa non opera nell'ipotesi di procedimenti cautelari aventi ad oggetto la tutela di diritti fondamentali della persona. A riprova del carattere d'urgenza che rivestirebbe questo procedimento militerebbe -aggiunge il controricorrente -"l'esclusione dell'operatività persino della sospensione feriale dei termini per il giudizi de quibus". Siffatti assunti non sono condivisibili. l'art. 83, comma 2, d.l. 18/2020, convertito con modificazioni dalla legge 27/2020, ha disposto che "dal 9 marzo 2020 al 15 aprile 2020 è sospeso il decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali", dovendosi ritenere sospesi, fra l'altro, i termini stabiliti "per le impugnazioni e, in genere, tutti i termini procedurali". il termine finale così fissato è stato poi prorogato -dall'art. 36, comma 1, d.l. 23/2020, convertito con modificazioni dalla l. 40/2020 -all’11 maggio 2020, sicché i termini processuali di tutti i procedimenti civili risultano sospesi dal 9 marzo 2020 all'11 maggio 2020 e hanno ripreso a decorrere dalla fine del periodo di sospensione, vale a dire dal 12 maggio 2020. non è poi possibile ritenere che questa sospensione non operi nel caso di specie in ragione del ricorrere delle eccezioni previste rispetto alla regola generale (eccezioni che, per loro natura, devono giocoforza essere oggetto di una lettura restrittiva). ConTenzioSo nAzionAle non ricorre l'ipotesi prevista dal 3o comma dell'art. 83 d.l. 18/2020, che esclude dall'ambito applicativo della norma i "procedimenti cautelari aventi ad oggetto la tutela di diritti fondamentali della persona". in vero, se per procedimenti cautelari si devono intendere quei procedimenti, tipici o atipici, che siano funzionali ad ovviare ai pericoli che possono compromettere l'effettività della tutela giudiziaria durante il tempo occorrente per conseguirla, è evidente che il giudizio in questione, ancorché regolato dalla disciplina camerale, non ha natura cautelare, perché non è volto ad assicurare una tutela d'urgenza e anticipata strumentale a un successivo giudizio di cognizione. Per dì più, il giudizio di incandidabilità non tutela un diritto fondamentale della persona ma intende assicurare -come si dirà da qui a breve -in una prospettiva generale e pubblica piuttosto che individuale, l'interesse della comunità locale a che non si perpetui potenzialmente un'ingerenza inquinante di tipo mafioso nella vita delle amministrazioni democratiche locali. né si può sostenere che il procedimento rimanesse escluso dall'ambito della sospensione in ragione del grave pregiudizio arrecato alle parti dalla ritardata trattazione della lite, a mente dell'ultima parte dell'art. 83, comma 3, lett. a), d.l. 18/2020, perché la norma non prevede rispetto a questa ipotesi un'automatica esenzione dalla disciplina generale di sospensione dei termini, ma impone che l'esistenza di un simile pregiudizio sia verificato rispetto alla singola fattispecie ed espressamente dichiarato (dal capo dell'ufficio avanti al quale la causa deve essere introdotta ovvero dal giudice dinnanzi al quale la lite già pende). nel caso di specie non risulta che questa dichiarazione d'urgenza sia mai stata fatta. infine, nessun argomento può essere tratto a conforto della tesi sostenuta dal controricorrente dalla disciplina generale di sospensione feriale dei termini processuali, ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 1.742/1969 e 92 r.d. 12/1941. il procedimento volto alla dichiarazione di incandibabilità degli amministratori responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento del consiglio comunale o provinciale è regolato, a mente dell'art. 143, comma 11, ultimo periodo, d.lgs. 267/2001, dalle regole dei procedimenti camerali. Questi procedimenti, tuttavia, non hanno natura cautelare, mancando del carattere di strumentalità che caratterizza questo tipo di giudizi, né rientrano nel loro complesso nel novero delle cause tassativamente elencate dalle norme sopra menzionate (v. Cass. 1094/2005, Cass. 2772/1999), sicché va escluso che gli stessi, in mancanza di una specifica e individualizzata dichiarazione di urgenza correlata alla constatazione del grave pregiudizio che si produrrebbe per la loro ritardata trattazione, rientrino nell'ambito dei procedimenti non ricompresi, in linea generale, nell'applicazione della disciplina comune della sospensione dei termini. Sul punto occorre pertanto fissare i seguenti principi: -il procedimento volto alla dichiarazione di incandibabilità degli amministratori responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento del consiglio comunale o provinciale, di cui all'art. 143, comma 11, ultimo periodo, d.lgs. 267/2001, non è soggetto alla sospensione feriale dei termini prevista dagli artt. 3 l. 742/1969 e 92 r.d. 12/1941, poiché queste norme non contemplano, nella loro tassativa elencazione, tale procedimento né, in linea generale, i procedimenti in camera di consiglio di cui agli artt. 737 e ss. cod. proc. civ.; -la sospensione dei termini "procedurali" stabilita, dal 9 marzo 2020 all'11 maggio 2020, dal combinato disposto degli artt. 83, comma 2, d.l. 18/2020, convertito con modificazioni dalla legge 27/2020, e 36, comma 1, d.l. 23/2020, convertito con modificazioni dalla l. 40/2020, non si applica ai giudizi di incandidabilità di cui all'art. 143, comma 11, d.lgs. 267/2001, per rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 ché essi non hanno natura cautelare, mancando del carattere di strumentalità rispetto ad ulteriori procedimenti finalizzati ad assicurare in via definitiva i diritti fondamentali della persona, e sono volti ad assicurare -senza interlocuzioni strumentali e limitando diritti pubblici soggettivi -l'interesse della comunità locale ad essere preservata da ingerenze inquinanti di tipo mafioso nella sua ordinata vita democratica. in applicazione di questi principi nel caso di specie risultano pienamente rispettati i termini di impugnazione previsti dall'art. 327 cod. proc. civ., tenuto conto della loro sospensione, come stabilita dagli artt. 83, comma 2, d.l. 18/2020 e 36, comma 1, d.l. 23/2020. 5. il motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 143, comma 11, d.lgs. 267/2001 e l'omesso esame di un fatto decisivo: in tesi di parte ricorrente la Corte distrettuale, pur avendo correttamente enucleato la natura della misura dell'incandidabilità (tesa a verificare l'esistenza di un collegamento con la criminalità organizzata ovvero di forme di condizionamento della stessa), non avrebbe tratto le dovute conseguenze dai principi affermati, poiché a questo fine era sufficiente la constatazione, sulla base di un'analisi d'insieme degli elementi di prova offerti, dell'imputabilità anche solo per colpa al Sindaco, obbligato a vigilare e sovrintendere al funzionamento degli uffici e dei servizi municipali, della cattiva gestione della cosa pubblica, che si era trovata così esposta a ingerenze e pressioni delle associazioni criminali. 6. il motivo è fondato. 6.1 Secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. U., 1747/2015; Cass. 15038/2018) l'incandidabilità temporanea e territorialmente delimitata degli "amministratori responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento" del consiglio dell'ente locale -a mente dell'art. 143, comma 11, d.lgs. 267/2000, così come risultante dalla sostituzione operata dal- l'art. 2, comma 30, l. 94/2009 -rappresenta una misura interdittiva volta a porre rimedio al rischio che quanti abbiano cagionato il grave dissesto dell'amministrazione comunale possano aspirare a ricoprire cariche identiche o simili a quelle rivestite e, in tal modo, consentire -per dolo o colpa - l'ingerenza inquinante nella vita delle amministrazioni democratiche locali. la misura interdittiva dell'incandidatiità dell'amministratore responsabile delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento del consiglio comunale in conseguenza di fenomeni di infiltrazione di tipo mafioso, o similare, nel tessuto istituzionale locale, privando temporaneamente il predetto soggetto della possibilità di candidarsi nell'ambito di competizioni elettorali destinate a svolgersi nello stesso territorio regionale, rappresenta un rimedio di extrema ratio volto in via preventiva ad evitare il ricrearsi delle situazioni che la misura dissolutoria ha inteso ovviare e a salvaguardare così beni primari dell'intera collettività nazionale -accanto alla sicurezza pubblica, la trasparenza e il buon andamento delle amministrazioni locali nonché il regolare funzionamento dei servizi, risorse capaci di alimentare la "credibilità" delle medesime amministrazioni presso il pubblico e il rapporto di fiducia dei cittadini verso le istituzioni -, beni compromessi o messi in pericolo non solo dalla collusione tra amministratori locali e criminalità organizzata, ma anche dal condizionamento comunque subito dai primi, non fronteggiabile, secondo la scelta non irragionevolmente compiuta dal legislatore, con altri apparati preventivi o sanzionatori dell'ordinamento. 6.2 il procedimento giurisdizionale volto alla dichiarazione di incandidabilità assume una propria autonomia rispetto tanto alla precedente declaratoria di scioglimento del consiglio comunale, che costituisce l'antecedente storico indispensabile ma non il suo oggetto (poiché la verifica della legittimità di tale provvedimento è rimessa al giudice amministrativo in caso di impugnazione), quanto a un eventuale giudizio penale che assuma l'esistenza di una condotta ConTenzioSo nAzionAle dell'amministratore pubblico di partecipazione, affiancamento o agevolazione del sodalizio criminale, in ragione dei diversi presupposti che caratterizzano i due giudizi. la misura interdittiva di cui all'art. 143, comma 11, del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali non richiede infatti che la condotta dell'amministratore integri gli estremi del- l'illecito penale (di partecipazione ad associazione mafiosa o di concorso esterno nella stessa), giacché ai fini dell'incandidabilità alle elezioni rileva la responsabilità dell'amministratore nel grave stato di degrado amministrativo che sia stato causa di scioglimento del consiglio comunale, e quindi è sufficiente che sussista, per colpa dello stesso amministratore, una situazione di cattiva gestione della cosa pubblica, aperta alle ingerenze esterne e asservita alle pressioni inquinanti delle associazioni criminali operanti sul territorio. in altri termini, la misura prevista dalla norma in discorso non è riconducibile al concetto di sanzione penale ed è applicata non quale conseguenza automatica di una condanna penale bensì all'esito di un giudizio, autonomo, il cui oggetto è costituito dall'accertamento non già di un reato, ma di una condotta anche colposa dell'amministratore che, pur senza sconfinare necessariamente nell'illecito, abbia oggettivamente favorito l'ingerenza di associazioni criminali o il condizionamento delle stesse sulla gestione dell'ente territoriale (Cass., Sez. U., 1747/2015). 6.3 la Corte d'appello, attraverso una "valutazione atomistica" dei comportamenti dell'amministratore, ha escluso che potesse imputarsi all'ex sindaco "una condotta quanto meno agevolativa, anche attraverso un agire omissivo", degli interessi delle associazioni criminali operanti nella zona, negando che questi "abbia favorito, nell'espletamento del suo mandato, l'agire delle cosche locali". Mancherebbe in particolare, a dire dei giudici distrettuali, l'indicazione di "alcuna specifica condotta agevolativa dell'agire delle consorterie criminose locali" e di "una vicinanza del medesimo ad esponenti di tali consorterie", così come non vi sarebbero "elementi concreti e significativi idonei a rilevare, in maniera inequivoca, l'esistenza di forti contiguità fra l'operato dei singoli amministratori e gli interessi delle consorterie criminose". la documentazione prodotta non sarebbe "idonea a rilevare, in maniera significativa, una collusione tra lo stesso e la criminalità organizzata" ed anzi dimostrerebbe come questi abbia inteso contrastare, a livello amministrativo e territoriale, il fenomeno mafioso. 6.4 Simili valutazioni sono minate da un duplice errore di metodo. la Corte di merito, pur avendo dato correttamente atto che l'indagine a cui era chiamata aveva finalità preventive e non sanzionatorie, dovendosi di conseguenza prescindere dall'accertamento di una responsabilità penale, si è posta però proprio nella prospettiva di ricerca del giudice penale e in questo modo ha compiuto un'indagine miope, perché orientata all'individuazione di condotte che deponessero per una partecipazione dell'ex sindaco, in termini diretti o di fiancheggiamento, al sodalizio criminoso. depongono chiaramente in questo senso plurimi passaggi della decisione impugnata, che si preoccupa di verificare l'esistenza di un "chiaro collegamento" fra l'operato del sindaco e l'azione delle consorterie mafiose, il suo "asservimento alle volontà e agli interessi delle cosche locali", la "frequentazione del oMiSSiS con esponenti di spicco delle consorterie locali", l'indicazione di una "specifica condotta agevolativa dell'agire delle consorterie criminose locali", la "vicinanza" dell'amministratore "ad esponenti di tali consorterie", la mancanza di condotte di influenza o agevolazione rispetto ad altri amministratori collegati con i sodalizi criminali, "l'esistenza di forti contiguità" fra amministratori e consorterie criminose, il verificarsi di condotte "quantomeno agevolative, anche attraverso un agire omissivo, degli inte rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 ressi delle cosche", la presenza di un rapporto di collusione fra sindaco e criminalità organizzata e, in definitiva, il ricorrere di un contegno di favoreggiamento dell'agire delle cosche. Una simile indagine, che si spende nella ricerca di comportamenti volontari di agevolazione degli interessi delle associazioni criminose, finisce per confondere il giudizio di accertamento della responsabilità penale con quello di verifica delle condizioni di incandidabilità, quando non vi era alcuna necessità -come detto -di acclarare una simile responsabilità, anche nelle forme del concorso esterno, in ragione dell'autonomia del processo di applicazione della misura in discorso e della diversità dei presupposti della stessa rispetto a ipotesi di carattere criminoso. occorreva (e bastava), invece, accertare l'esistenza di un'oggettiva situazione di cattiva gestione della cosa pubblica, tale da rendere possibili ingerenze esterne nel suo ambito e un concreto asservimento dell'amministrazione alle pressioni inquinanti delle associazioni criminali operanti sul territorio. era necessaria, altresì, una verifica del fatto che una simile situazione fosse riconducibile non solo per un intento doloso, ma anche per semplice colpa -all'amministratore di cui è stata proposta l'incandidabilità, essendo sufficiente l'accertamento di tale profilo nella gestione della cosa pubblica per applicare la misura interdittiva in discorso. 6.5 la Corte distrettuale ha assunto a metodo per il proprio giudizio la necessità di procedere a una valutazione individuale della condotta dell'amministratore al fine di verificare i presupposti della declaratoria di incandidabilità. l'individuazione di un simile programma è senza dubbio corretta rispetto alle finalità dell'indagine, in quanto si trattava di verificare l'esistenza di un collegamento eziologico fra la situazione che aveva portato allo scioglimento dell'organo assembleare locale e le specifiche condotte tenute dal singolo amministratore. la prospettiva individuale dell'indagine, tuttavia, non doveva far dimenticare l'esigenza di una valutazione complessiva del materiale probatorio acquisito, al fine di raggiungere una visione d'insieme che desse modo di cogliere correlazioni diversamente non evidenziabili ed elementi capaci di attestare la permeabilità dell'amministrazione scrutinata ai fenomeni di infiltrazione o condizionamento mafioso (Cass. 10780/2019). i singoli fatti emergenti dalla congerie istruttoria disponibile dovevano quindi essere ricondotti a una chiave di lettura comune, onde verificare se gli stessi fossero idonei a rappresentare una conduzione della macchina politico-amministrativa comunale sensibile (se non addirittura compiacente) con gli interessi della criminalità mafiosa. ne discende che la valutazione della responsabilità personale dell'amministratore, ai fini del ricorrere delle condizioni di ineleggibilità, non poteva condurre a una valutazione atomistica delle singole risultanze probatorie acquisite che privasse il giudicante di una visione d'insieme del fenomeno che aveva già portato, in precedenza, allo scioglimento del consiglio comunale. 6.6 Allo stesso modo era necessario evitare di considerare la condotta del singolo amministratore estraniandola dal contesto a partecipazione plurima in cui operava. il che significa, rispetto alla figura apicale dell'amministrazione comunale costituita dal sindaco, che, al di là della mancanza di frequentazioni e rapporti con esponenti della criminalità organizzata locale o di agevolazioni dirette della stessa, occorreva comunque estendere l'indagine alla condotta da questi tenuta nell'ambito amministrazione municipale al fine di acclarare l'apporto eventualmente dato (con azioni od omissioni) nel provocare la situazione che aveva condotto allo scioglimento dell'organo assembleare. e nello svolgimento di questa indagine non si poteva considerare il sindaco come una monade ConTenzioSo nAzionAle isolata dal contesto ove operava, al cui interno egli era, invece, chiamato ad esercitare il potere/ dovere: di vigilare e sovrintendere al funzionamento dei servizi e degli uffici e all'esecuzione degli atti, ai sensi dell'art. 50, comma 2, T.U.e.l.; di indirizzare e controllare l'operato dei soggetti a cui era affidato il compito di dare attuazione alle scelte deliberate dall'amministrazione, ex art. 107, comma 1, T.U.e.l.; più in generale, di sovrintendere alla vigilanza su tutto quanto possa interessare la sicurezza e l'ordine pubblico, a mente dell'art. 54, comma 1, lett. c), T.U.e.l. la trasgressione di questi doveri di vigilanza, all'evidenza, non solo è capace di determinare una situazione di cattiva gestione dell'amministrazione comunale, ma rende possibili ed agevola ingerenze al suo interno delle associazioni criminali, finendo per creare le condizioni per un asservimento dell'amministrazione municipale agli interessi malavitosi. ne discende che l'accertamento del venir meno, anche solo colposo, da parte del sindaco agli obblighi di vigilanza riconnessi alla sua carica è di per sé sufficiente a integrare i presupposti per l'applicazione della misura interdittiva prevista dall'art. 143, comma 11, d. lgs. 267/2000, così come risultante dalla sostituzione operata dall'art. 2, comma 30, l. 94/2009, proprio perché la finalità perseguita dalla norma è quella di evitare il rischio che quanti abbiano cagionato il grave dissesto dell'amministrazione comunale possano aspirare a ricoprire cariche identiche o simili a quelle rivestite e, in tal modo, potenzialmente perpetuare l'ingerenza inquinante nella vita delle amministrazioni democratiche locali. Sul punto andrà quindi fissato il seguente principio: in tema di accertamento dell'incandidabilità a cariche pubbliche negli enti locali, nel caso in cui, alla luce di una visione d'insieme della congerie istruttoria disponibile, risulti che l'amministratore, anche solo per colpa, sia venuto meno agli obblighi di vigilanza, indirizzo e controllo previsti dagli artt. 50, comma 2, 54, comma 1, lett. c), e 107, comma 1, T.U.e.l., tale condotta deve considerarsi di per sé sufficiente a integrare i presupposti per l'applicazione della misura interdittiva prevista dall'art. 143, comma 11, d. lgs. 267/2000, così come risultante dalla sostituzione operata dall'art. 2, comma 30, l. 94/2009, dato che la finalità perseguita dalla norma è proprio quella di evitare il rischio che quanti abbiano cagionato il grave dissesto dell'amministrazione comunale, rendendo possibili ingerenze al suo interno delle associazioni criminali, possano aspirare a ricoprire cariche identiche o simili a quelle già rivestite e, in tal modo, potenzialmente perpetuare l'ingerenza inquinante nella vita delle amministrazioni democratiche locali. 7. la statuizione impugnata andrà dunque cassata, con rinvio alla Corte d'appello di Catanzaro, la quale, nel procedere a nuovo esame della causa, si atterrà ai principi sopra illustrati, avendo cura anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. la Corte accoglie il ricorso, cassa il provvedimento impugnato e rinvia la causa alla Corte d'appello di Catanzaro in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in roma in data 2 dicembre 2020. rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 La Cassazione si pronuncia sulla trasparenza dell’algoritmo utilizzato per determinare il rating reputazionale CAssAzioNe, sezioNe i CiviLe, ordiNANzA 25 mAGGio 2021 N. 14381(*) «in tema di trattamento di dati personali, il consenso è validamente prestato solo se espresso liberamente e specificamente in riferimento a un trattamento chiaramente individuato; ne segue che nel caso di una piattaforma web (con annesso archivio informatico) preordinata all’elaborazione di profili reputazionali di singole persone fisiche o giuridiche, incentrata su un sistema di calcolo con alla base un algoritmo finalizzato a stabilire i punteggi di affidabilità, il requisito di consapevolezza non può considerarsi soddisfatto ove lo schema esecutivo dell’algoritmo e gli elementi di cui si compone restino ignoti o non conoscibili da parte degli interessati» Cassazione, Sezione i civile, ordinanza 25 maggio 2021 n. 14381 -Pres. F.A. Genovese, rel. F. Terrusi -Garante per la Protezione dei dati Personali (avv. gen. Stato) c. Associazione omissis (avv.ti l. damiano, G. Mazzone, A. Catricalà). Fatti di causa l'Associazione oMiSSiS onlus chiedeva al tribunale di roma l'annullamento del provvedimento in data 24 novembre 2016 col quale il Garante per la protezione dei dati personali (breviter solo Garante) aveva disposto, ai sensi dell'art. 154, primo comma, lett. d), del d.lgs. n. 163 del 2016, il divieto di qualunque operazione di trattamento dei dati personali (presente e futura) effettuata dall'associazione medesima in connessione ai servizi offerti tramite la "infrastruttura immateriale oMiSSiS per la Qualificazione Professionale", per contrasto con gli artt. 2, 3, 11, 23, 24 e 26 del codice privacy. il cd. sistema oMiSSiS -per quanto è dato evincere -si concretizza in una piattaforma web (con annesso archivio informatico) preordinata all'elaborazione di profili reputazionali concernenti persone fisiche e giuridiche, col fine di contrastare fenomeni basati sulla creazione di profili artefatti o inveritieri e di calcolare, invece, in maniera imparziale il cd. "rating reputazionale" dei soggetti censiti, per modo da consentire a eventuali terzi una verifica di reale credibilità. nella resistenza del Garante, l'adito tribunale ha parzialmente accolto il ricorso. in particolare ha annullato il provvedimento facendo salva l'efficacia del divieto quanto al solo trattamento dei dati personali per l'attività inerente il cd. "Profilo Contro", riguardante soggetti terzi non assodati a oMiSSiS onlus. in simile prospettiva il tribunale ha ritenuto non condivisibile la ragione di illiceità della piattaforma, e del connesso trattamento dei dati personali, ritenuta dal Garante -ragione fondamentalmente rinvenuta nell'"assenza di una idonea cornice normativa, rilevante ai sensi dell'art. 11 lett. a) del d.lgvo n. 198/2003" quale base del predisposto sistema di raccolta e (*) Sentenza segnalata dall’avv. Stato Gaetana natale, Professore a contratto presso l’Università degli Studi di Salerno, Consigliere giuridico del Garante per la Privacy. ConTenzioSo nAzionAle di trattamento di dati personali; e ciò pur essendo il sistema suscettibile di incidere pesantemente sulla rappresentazione economica e sociale di un'ampia categoria di soggetti, con ripercussione del rating sulla vita privata degli individui censiti. A dire del tribunale, non avrebbe potuto negarsi -in vero -all'autonomia privata la facoltà di organizzare sistemi di accreditamento di soggetti, fornendo servizi in senso lato "valutativi", in vista del loro ingresso nel mercato, per la conclusione di contratti e per la gestione di rapporti economici. Per la cassazione della sentenza, notificata il 9 aprile 2018, l'avvocatura generale dello Stato, per conto del Garante, ha proposto ricorso sulla base di sette motivi. l'associazione ha replicato con controricorso e ha poi depositato una memoria. il PG ha depositato una requisitoria scritta. Ragioni della decisione i. -Coi primi quattro motivi, connessi, l'avvocatura ricorrente denunzia: (i) l'omesso esame del fatto decisivo rappresentato dalla dedotta inconoscibilità dell'algoritmo utilizzato per l'assegnazione del punteggio di rating, con conseguente mancanza del necessario requisito di trasparenza del sistema automatizzato funzionale a rendere consapevole il consenso prestato dell'interessato; (ii) la violazione dell'art. 8 della Carta dei diritti fondamentali della Ue e degli artt. 13, 23 e 26 del d.lgs. n. 196 del 2003, 7 del regolamento (Ue) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, e dell'art. 1346 cod. civ., in quanto l'omessa considerazione del fatto, incidendo sul requisito di trasparenza dell'algoritmo usato per l'elaborazione dei dati, inficierebbe l'affermazione del tribunale circa la rilevanza del consenso prestato; (iii) la violazione dell'art. 7 del d.lgs. n. 196 del 2003, poiché è in generale violato il diritto all'informazione in un sistema in cui l'interessato non sia posto in condizione di conoscere la modalità di funzionamento dell'algoritmo in base al quale è trattato il dato personale; (iv) la violazione degli artt. 11 del d.lgs. n. 196 del 2003 e 5 del regolamento (Ue) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, perché sarebbe altresì violato dalla manchevolezza esposta il principio di liceità, correttezza e trasparenza richiesto dalla legge. Col quinto, sesto e settimo mezzo l'avvocatura ulteriormente deduce: (v) la violazione del- l'art. 8 della carta fondamentale dell'Unione europea e degli artt. 13, 23 e 26 del d.lgs. n. 186 del 2003 e 7.4 del regolamento (Ue) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, sotto il profilo delle modalità di inserimento delle clausole contrattuali afferenti alla pubblicazione degli atti e dei documenti delle controparti; (vi) l'omesso esame di fatto decisivo in ordine alla previsione di penali in caso di revoca dell'autorizzazione a pubblicare i dati relativi a inadempienze contrattuali; (vii) la violazione dell'art. 8 della carta fondamentale dell'unione europea e degli artt. 13, 23 e 26 del d.lgs. n. 186 del 2003 e 7.4 del regolamento (Ue) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, come conseguenza dell'omissione di cui sopra. ii. - i primi quattro motivi, da esaminare congiuntamente, sono fondati. occorre dire che contrariamente a quanto sostenuto dal PG il ricorso, nel riferire della decisività del profilo in essi menzionato, non difetta di autosufficienza, poiché a pag. 6 è puntualmente riportato il corrispondente tratto della deduzione a suo tempo fatta dal Garante in risposta all'avverso ricorso. d'altronde emerge finanche dalla sentenza (pag. 8) che era stata sollevata dal Garante la questione della impossibilità di conoscere l'algoritmo utilizzato per determinare il rating reputazionale. iii. -ora il tribunale di roma ha ritenuto legittimo il trattamento dei dati personali degli rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 aderenti al sistema oMiSSiS perché validato dal consenso, e dunque perché espressione di autonomia privata. Ha poi supportato l'affermazione aggiungendo che "la realtà attuale, nazionale e sovranazionale, conosce diffusamente fenomeni di valutazione e di certificazione da parte di privati, riconosciuti anche a fini di attestazione di qualità e/o di conformità a norme tecniche". Cosicché la mancanza di una disciplina normativa istitutiva del "rating reputazionale" proposto dal- l'associazione, analogo, per esempio, al cd. "rating d'impresa" di cui all'art. 83 del d.lgs. n. 50 dei 2016, non poteva intercettare un difetto di liceità del sistema. iV. -Sennonché questa Corte ha già avuto modo di considerare che, ai fini della liceità del trattamento basato sul consenso, l'art. 23 del d.lgs. n. 196 del 2003 (cd. codice privacy) presuppone non solo il consenso, ma anche che il consenso sia validamente prestato (v. Cass. n. 17278-18, Cass. n. 16358-18). Specificamente l'art. 23 dispone che (a) il trattamento di dati personali da parte di privati o di enti pubblici economici è ammesso solo con il consenso espresso dell'interessato; (b) il consenso può riguardare l'intero trattamento ovvero una o più operazioni dello stesso; (c) il consenso è validamente prestato solo se è espresso liberamente e specificamente in riferimento ad un trattamento "chiaramente individuato", se è documentato per iscritto, e se sono state rese all'interessato le informazioni di cui all'art. 13; (d) il consenso è manifestato in forma scritta quando il trattamento riguarda dati sensibili. Vi. -in simile quadro di regole e principi l'espressione "chiaramente individuato" -che contraddistingue il trattamento del dato personale -presuppone che il consenso debba essere previamente informato in relazione a un trattamento ben definito nei suoi elementi essenziali, per modo da potersi dire che sia stato espresso, in quella prospettiva, liberamente e specificamente. A tal riguardo è onere del titolare del trattamento fornire la prova che l'accesso e il trattamento contestati siano riconducibili alle finalità per le quali sia stato validamente richiesto e validamente ottenuto - un consenso idoneo. Vii. -nel caso di specie il trattamento era (ed è) funzionale alla determinazione del profilo reputazionale dei soggetti. la valutazione di liceità di un simile trattamento, basata sul consenso, non poteva essere prospettata dal tribunale senza una previa considerazione degli elementi suscettibili di incidere sulla serietà della manifestazione, e tra questi anche e proprio gli elementi implicati e considerati nell'algoritmo afferente, il funzionamento del quale è essenziale al calcolo del rating. la scarsa trasparenza dell'algoritmo impiegato allo specifico fine non è stata ben vero disconosciuta dall'impugnata sentenza, la quale ha semplicemente ritenuto non decisivi i dubbi relativi al sistema automatizzato di calcolo per la definizione del rating reputazionale, sul rilievo che la validità della formula riguarderebbe "il momento valutativo del procedimento", a fronte del quale spetterebbe invece al mercato "stabilire l'efficacia e la bontà del risultato ovvero del servizio prestato dalla piattaforma". Questa motivazione non può esser condivisa giuridicamente, in quanto il problema non era (e non è) confinabile nel perimento della risposta del "mercato" -sintesi metaforica per indicare il luogo e il momento in cui vengono svolti gli scambi commerciali ai più vari livelli - rispetto alla predisposizione dei rating attribuiti ai diversi operatori. il problema, per la liceità del trattamento, era invece (ed è) costituito dalla validità -per l'appunto -del consenso che si assume prestato al momento dell'adesione. e non può logicamente affermarsi che l'adesione a una piattaforma da parte dei consociati comprenda anche ConTenzioSo nAzionAle l'accettazione di un sistema automatizzato, che si avvale di un algoritmo, per la valutazione oggettiva di dati personali, laddove non siano resi conoscibili lo schema esecutivo in cui l'algoritmo si esprime e gli elementi all'uopo considerati. Viii. - la sentenza va quindi cassata, con assorbimento dei restanti motivi di ricorso. la causa deve essere rinviata al medesimo tribunale di roma, in diversa composizione, per nuovo esame. il tribunale si uniformerà al seguente principio di diritto: in tema di trattamento di dati personali, il consenso è validamente prestato solo se espresso liberamente e specificamente in riferimento a un trattamento chiaramente individuato; ne segue che nel caso di una piattaforma web (con annesso archivio informatico) preordinata all'elaborazione di profili reputazionali di singole persone fisiche o giuridiche, incentrata su un sistema di calcolo con alla base un algoritmo finalizzato a stabilire i punteggi di affidabilità, il requisito di consapevolezza non può considerarsi soddisfatto ove lo schema esecutivo dell'algoritmo e gli elementi di cui si compone restino ignoti o non conoscibili da parte degli interessati. il tribunale provvederà anche sulle spese del giudizio svoltosi in questa sede di legittimità. p.q.m. la Corte accoglie i primi quattro motivi di ricorso, assorbiti gli altri, cassa l'impugnata sentenza e rinvia al tribunale di roma anche per le spese del giudizio di cassazione. deciso in roma, nella camera di consiglio della prima sezione civile, addì 24 marzo 2021. rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 analisi della sentenza della Corte di appello di Venezia n. 2907/2021. Una annosa vicenda di esposizione ad amianto e morte del lavoratore, il giudice di merito dinanzi all’incertezza scientifica Corte di APPeLLo di veNeziA, sezioNe seCoNdA PeNALe, seNteNzA 30 ottobre 2020 - 27 GeNNAio 2021 N. 2907 Luigia Michela Fera* Alessandro D’Amico** La parte civile si può giovare del principio di immanenza, in forza del quale il giudice del- l’impugnazione è tenuto a pronunciarsi anche sulla domanda risarcitoria qualora una sentenza assolutoria sia stata impugnata dal pubblico ministero, solo nell’ipotesi in cui sia stato accolto il gravame proposto dalla parte pubblica. Ne consegue che, nell’ipotesi in cui non sia stata accolta l’impugnazione da parte del pubblico ministero, per effetto dell’intervenuta estinzione del reato per prescrizione, la mancata impugnazione dei capi della sentenza sfavorevoli alla parte civile, ex art. 576 c.p.p., comporta la preclusione dell’esercizio dell’azione civile. Nell’ipotesi in cui, a seguito dell’impugnazione da parte del pubblico ministerio di una sentenza di assoluzione con formula piena, emessa ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p., nel corso del giudizio promosso mediante tale impugnazione maturi la prescrizione del reato, l’immediata declaratoria della predetta causa di estinzione del reato prevale sulla formula assolutoria solo se venga accolto l’appello del pubblico ministero. in tema di prova scientifica del nesso causale tra esposizione ad amianto e morte del lavoratore, mentre ai fini dell'assoluzione dell'imputato è sufficiente il solo serio dubbio, in seno alla comunità scientifica, sul rapporto di causalità tra la condotta e l'evento, la condanna deve, invece, fondarsi su un sapere scientifico largamente accreditato tra gli studiosi, richiedendosi che la colpevolezza dell'imputato sia provata "al di là di ogni ragionevole dubbio". la vicenda processuale definita dalla sentenza in commento trae origine dalla morte di due militari della Marina Militare italiana, che avevano prestato servizio a bordo di navi militari e presso altre strutture a terra della Marina, deceduti per mesotelioma pleurico. il pubblico ministero di Padova aveva esercitato l’azione penale nei confronti di soggetti che avevano rivestito ruoli apicali all’interno della Marina Militare e del Ministero della difesa, contestando il reato di omicidio colposo. (*) dottoressa in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato. (**) dottore in Giurisprudenza, già praticante forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato. Articolo redatto su indicazione dell’avv. Stato Alessandra Bruni e dell’avv. Stato Massimo Giannuzzi. ConTenzioSo nAzionAle Agli imputati era stato contestato di aver cagionato la morte dei predetti due militari per aver omesso di rendere edotto il personale dipendente dei rischi per la salute provocati dalla presenza di amianto nelle navi e negli ambienti di vita e di servizio a terra, per non aver svolto i dovuti controlli sanitari e non aver fornito gli adeguati presidi di protezione individuale al personale della Marina. Gli imputati sono stati difesi dall’Avvocatura dello Stato -che ha rappresentato e difeso anche il Ministero della difesa, citato quale responsabile civile -ex art. 44 del r.d. n. 1611/1933. All’esito dell’istruttoria dibattimentale, il Tribunale di Padova (sentenza n. 648 del 22 marzo 2012), pur ritenendo dimostrato che le malattie erano insorte nell’esercizio dell’attività lavorativa alle dipendenze della Marina Militare da parte delle persone offese, perveniva alla conclusione che non fosse emersa la prova “oltre ogni ragionevole dubbio” della responsabilità degli imputati. A tale conclusione il Giudice di primo grado perveniva sulla base della considerazione dell’impossibilità di accertare il momento dell’insorgenza della malattia tumorale e, in secondo luogo, se e in che misura le esposizioni successive a quella di innesco della patologia neoplastica avessero avuto rilievo causale nella progressione della malattia. Avverso la sentenza di primo grado proponevano appello il p.m. e le parti civili (“Medicina democratica movimento per la salute onlus” e “Associazione italiana esposti amianto”). la Corte di appello di Venezia (sentenza n. 1101 del 14 luglio 2014), pur essendo giunta alla conclusione della sussistenza della responsabilità degli imputati per la morte delle persone offese, previa derubricazione del reato di omicidio colposo aggravato ex art. 589, comma 2, c.p., in quello di omicidio colposo ex art. 589, comma 1, c.p., in riforma della sentenza impugnata, dichiarava l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione. Tale derubricazione veniva giustificata sulla base dell’applicazione dell’art. 20, comma due, della legge n. 183/2010, che, secondo la Corte di appello di Venezia, avrebbe impedito di ritenere consumato, nel caso di specie, il reato di omicidio colposo aggravato, ex art. 589, secondo comma, c.p. il giudice di seconde cure ometteva di pronunciarsi sulla domanda risarcitoria delle parti civili, come pure avrebbe dovuto fare, ai sensi dell’art. 576 c.p.p., ma la sentenza non veniva impugnata dalle parti civili che, dunque, prestavano acquiescenza alla stessa. la sentenza veniva impugnata, mediante ricorso per cassazione, dal pubblico ministero, dagli imputati e dal Ministero della difesa (costituitosi quale responsabile civile). il pubblico ministero censurava la predetta sentenza della Corte di appello nella parte in cui aveva dichiarato la prescrizione del reato contestato sebbene, dopo l’entrata in vigore dell’art. 20 l. 183 del 2010, gli imputati avrebbero dovuto adottare le opportune cautele a tutela della sicurezza e della salute delle due persone offese, anche in riferimento all’attività svolta dalle stesse presso alcune strutture a terra (specificamente indicate nell’atto di contestazione suppletiva). Gli imputati ed il responsabile civile contestavano rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 l’impugnato provvedimento per non aver confermato la sentenza assolutoria di primo grado, rilevando, tra l’altro, che la responsabilità degli imputati non poteva essere accertata senza rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. la Corte di Cassazione, con sent. n. 3615/2016, accoglieva il ricorso del p.g., annullando con rinvio la sentenza impugnata per nuovo giudizio, con conseguente assorbimento dei ricorsi degli imputati e del responsabile civile. la Suprema Corte, nella predetta sentenza, invitava espressamente il giudice di rinvio ad approfondire la questione dell’esistenza di una legge scientifica attestante l’effetto acceleratore della progressione del mesotelioma pleurico, attribuibile alle esposizioni ad amianto successive a quella di innesco. la Corte di appello di Venezia, quale giudice di rinvio, con sentenza n. 1097 del 16 marzo 2017, mostrando di condividere quanto sostenuto dal Tribunale di Padova in ordine all’impossibilità di affermare con certezza scientifica la sussistenza dell’effetto acceleratore in questione, confermava l’assoluzione degli imputati, per non esser emersa la prova che, con riferimento ai periodi in cui gli imputati avevano ricoperto le posizioni di garanzia, le esposizioni ad amianto successive a quella di innesco avessero accorciato il periodo di latenza della patologia, con conseguente anticipazione della morte delle persone offese. il Giudice del rinvio condannava, altresì, alle spese le parti civili che, pur non avendo proposto ricorso per cassazione, avevano comunque partecipato al giudizio di rinvio. la sentenza n. 1097 del 2017 della Corte di appello di Venezia veniva impugnata sia dalla Procura Generale sia dalle parti civili. la parte pubblica censurava la sentenza impugnata per la violazione dell’art. 627, comma secondo, c.p.p., per aver la Corte di Appello disatteso la richiesta delle parti di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, per l’assunzione di prove rilevanti ai fini della decisione. le parti civili sollevavano le medesime censure mosse dal p.g. e lamentavano, in aggiunta, la violazione dell’art. 592 c.p.p., contestando la condanna al pagamento delle spese processuali. la Corte di Cassazione -con la sentenza n. 11451 del 6 novembre 2018, depositata il 14 marzo 2019 -affermava che il giudice di rinvio aveva ignorato i criteri interpretativi forniti dalla sentenza del 2015, pervenendo alla conclusione secondo la quale il contrasto di opinioni scientifiche non sarebbe sufficiente ad escludere la sussistenza di una legge di copertura qualora non si verifichi l’indipendenza degli esperti e la validità delle argomentazioni profuse. la Suprema Corte, dunque, annullava con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Venezia la sentenza impugnata e, contestualmente, annullava senza rinvio il capo della sentenza relativo alle spese gravanti sulle parti civili, prendendo atto che le stesse non avevano impugnato la prima sentenza della Corte di appello di Venezia. la Corte di appello di Venezia, con la sentenza n. 2907 del 30 ottobre 2020, depositata il 21 gennaio 2021, riteneva che i reati contestati agli imputati si fossero estinti per intervenuta prescrizione, sulla base dell’assunto che la ConTenzioSo nAzionAle sospensione della prescrizione prevista dall’art. 83 d.l. 18/2020 non opererebbe nel caso di specie. Ciò per il fatto che, in primo luogo, non era stata fissata alcuna udienza nel primo periodo di sospensione (9 marzo-11 maggio 2020) e, in secondo luogo, poiché l’unica udienza prevista nel c.d. secondo periodo (18 maggio-30 giugno 2020) era stata regolarmente celebrata. dopo aver risolto in senso negativo le problematiche relative alla sospensione dei termini di prescrizione, il Giudice del rinvio focalizzava la sua attenzione sulle tre questioni principali oggetto del giudizio: analisi della posizione processuale della parte civile e limiti al principio d’immanenza; prevalenza della formula assolutoria sulla declaratoria di prescrizione in mancanza di accoglimento dell’appello del P.M.; assenza dei presupposti per lo svolgimento di un ulteriore approfondimento scientifico a causa delle persistenti incertezze in merito alla concretezza del rischio di esposizione all’amianto delle persone offese. nelle sentenze di merito susseguitesi nella complessa vicenda processuale, definita con la sentenza n. 2907/2020 della Corte d’Appello di Venezia, non è mai intervenuta una sentenza di affermazione della responsabilità penale. i Giudici di secondo grado, pertanto, hanno rilevato l’inapplicabilità della disposizione di cui all’art. 578 c.p.p., con le conseguenti connessioni tra prescrizione e conferma della responsabilità ai fini civili insegnate dalla storica sentenza 35490/2009, ric. Tettamanti. le pretese risarcitorie delle parti civili sono state rigettate dal momento che quest’ultime hanno prestato acquiescenza in relazione alla sentenza 14 luglio 2014 n. 1101, con cui la Corte di Appello di Venezia -a seguito dell’impugnazione proposta dal P.M. e dalle parti civili avverso la sentenza assolutoria del Tribunale di Padova del 22 marzo 2012 -non ha provveduto sull’autonoma domanda delle parti civili appellanti, in manifesta violazione dell’art. 576 c.p.p. da quel momento, la loro presenza nel giudizio è proseguita nei limiti previsti e consentiti dal principio di immanenza. A tal proposito è stato osservato che la parte civile, in parziale deroga del generale obbligo di costituzione di cui agli artt. 78 e ss. c.p.p., possa giovarsi del c.d. principio di immanenza, che sottrae la parte dall’onere di rinnovare in ogni fase o grado del processo la costituzione già validamente effettuata nel primo grado di giudizio. Trattasi di principio codificato dall’art. 76, co. 2, c.p.p., secondo cui: “la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo”. oltre ad essere esonerata dalla necessità di rinnovare la costituzione in giudizio per ogni stato e grado, la giurisprudenza di legittimità è concorde nel ritenere che la parte civile non sia soggetta all’obbligo di presenziare al giudizio di appello e presentare le conclusioni all’esito della discussione. rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 Tuttavia, in caso di proscioglimento dell’imputato, ove la parte civile non impugni il capo civile a lei sfavorevole -e per tale s’intende anche un’eventuale condanna alle spese e al risarcimento del danno a favore dell’imputato -il suo comportamento rinunciatario potrebbe comportare la formazione del giudicato in ordine al relativo rapporto con effetti sia sostanziali che processuali. in passato, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità era sicuramente più rigoroso. Si riteneva, infatti, che: «nell'ipotesi in cui la parte civile ottenga una pronuncia di merito per lei pregiudizievole, al fine di ottenere nel successivo grado di giudizio una modifica favorevole della suddetta decisione, non può avvalersi del gravame proposto dal pubblico ministero, il quale mira a conseguire finalità pubbliche volte soltanto all'attuazione della pretesa punitiva, ma deve presentare autonoma e motivata impugnazione. Ciascuna parte ha, infatti, l'onere di essere vigile nella difesa dei propri interessi, senza delega ad altri del compito della relativa tutela. Ne deriva che, nell'ipotesi in cui la parte civile non proponga gravame avverso la decisione per lei negativa, si verifica acquiescenza e, quindi, quest'ultima acquista autorità di cosa giudicata. Le norme civili, che disciplinano (art. 329 c.p.p.) la materia, trovano, infatti, applicazione nel procedimento penale, poiché non v'è una specifica previsione contraria e la disposizione è perfettamente compatibile con il diverso rito» (Cassazione penale, Sez. iii, sentenza n. 10305 del 3 dicembre 1996). A partire dalla nota Cass. Sez. Un., 10 luglio 2002, n. 30327, ric. Guada- lupi, si sono susseguite diverse pronunce della Suprema Corte, più attente a valorizzare l’interesse della parte civile a ottenere il risarcimento del danno a seguito dell’accoglimento dell’appello del P.M. avverso la sentenza di proscioglimento, con conseguente condanna dell’imputato. Per granitico orientamento giurisprudenziale si ritiene, oggi, che sia onere del giudice di seconde cure provvedere sulla domanda civilistica pur in assenza di autonoma impugnazione della parte civile ai sensi dell’art. 576 c.p.p.: il principio di immanenza della costituzione di parte civile è destinato a produrre i suoi effetti in favore di questa, anche in presenza dell’appello del solo Pubblico ministero contro la sentenza di assoluzione, quando gli sia favorevole, cioè si tratti di una sentenza di condanna (cfr., ex multis, Cass. Pen., Sez. V, 14 novembre 2017, n. 315). il limite all’operatività del principio di immanenza, con consequenziale statuizione del giudice sulle pretese restitutorie o risarcitorie della parte civile, è che venga accolto l’appello della parte pubblica e l’assoluzione sia convertita in condanna. Tale circostanza non si è verificata nel caso in esame, pertanto la Corte d’Appello ha rigettato la pretesa risarcitoria delle parti civili. nel giungere a tale conclusione, la Corte lagunare ha quindi analizzato le possibilità di cui dispone la parte civile a fronte di sentenza di proscioglimento deliberata in primo grado. ConTenzioSo nAzionAle la prima è rimettersi all’impugnazione della sola parte pubblica, confidando che conduca a una condanna agli effetti penali, con conseguente pronuncia sull’originaria domanda civile, in virtù del principio di immanenza. Ciò significa che il giudice di appello, il quale su gravame del solo P.M. condanni l'imputato assolto nel giudizio di primo grado, deve provvedere anche sulla domanda della parte civile che non abbia impugnato la decisione assolutoria (ex art. 597, secondo comma, lett. a e b, c.p.p.: “adottare ogni provvedimento imposto o consentito dalla legge”, secondo Cass., Sez. Un., n. 30327, 10 luglio 2002, ric. Guadalupi). la seconda è impugnare autonomamente, ai sensi dell’art. 576 c.p.p., divenendo titolare del diritto autonomo alla pronuncia giurisdizionale ai fini civili, anche nel caso in cui l’azione penale si concluda senza deliberazione di condanna. in questo processo, le parti civili hanno rinunciato consapevolmente al- l’impugnazione autonoma ai sensi dell’art. 576 c.p.p. quando hanno deciso di non impugnare la prima sentenza d’appello, nella parte in cui -avendo riconosciuto la responsabilità degli imputati, ma avendo ritenuto estinti i reati per insussistenza delle circostanze aggravanti -ha omesso la doverosa pronuncia sul risarcimento del danno. A partire da questo momento, la loro posizione processuale si è consolidata. È vero che la parte civile, giovandosi del principio di immanenza, non è tenuta a rinnovare in ogni fase o grado del processo la costituzione validamente effettuata in primo grado. Tuttavia, ove l’appello del P.M. non venga accolto e, dunque, l’assoluzione non venga convertita in condanna, la parte civile non può rinnovare le sue pretese risarcitorie, sulle quali si è determinata una ferrea preclusione assimilabile al giudicato. da tali premesse deriva che sulla parte civile incombe un preciso onere di attivarsi, qualora sia legittimata alla impugnazione. in assenza di gravame, infatti, la sua posizione sostanziale è legata a doppio filo con la sorte della domanda di parte pubblica. la Corte lagunare, pertanto, svolte le suesposte considerazioni, ha rilevato la maturazione del termine di prescrizione dei reati contestati ad entrambi gli imputati e si è concentrata sul rapporto intercorrente fra il proscioglimento nel merito e la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione. il problema che si è posto, a questo punto, all’attenzione del Giudice del rinvio è se occorresse dare prevalenza alla formula assolutoria rispetto alla causa estintiva dei reati contestati agli imputati. Trattasi di questione di forte rilevanza pratica ma anche di spessore teorico: se al quesito si fosse data risposta positiva, infatti, la Corte di Appello si sarebbe dovuta limitare a confermare la sentenza di proscioglimento del Tribunale di Padova; nel caso contrario, avrebbe dovuto dichiarare estinti i reati rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 per prescrizione con sentenza di non doversi procedere ai sensi dell’art. 531 c.p.p. la regola della prevalenza dell’assoluzione dell’imputato, con il suo effetto ampiamente liberatorio, risponde alla logica del favor rei, principio che permea la disciplina dell’intero processo penale. l’interesse dell’imputato, tuttavia, deve essere contemperato con le esigenze di certezza del diritto e di economia processuale, che impongono di non proseguire oltre con il processo in presenza di una causa di estinzione del reato. il rapporto fra i due interessi contrapposti è ben rappresentato dall’art. 129, comma 2, c.p.p., in base al quale: “quando ricorre una causa di estinzione del reato ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta”. l’orientamento prevalente sostiene che da tale norma sia implicitamente ricavabile il principio di prevalenza delle formule assolutorie di merito su quelle dichiarative dell'estinzione del reato. risulta, tuttavia, indubbio che detto principio è razionalmente contemperato (proprio ai fini di economia processuale) con l'esigenza che appaia del tutto “evidente” dalle risultanze probatorie che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato. Pertanto, il legislatore ha voluto perseguire la massima semplificazione nello svolgimento del processo, con eliminazione di ogni atto o attività non essenziale (come la rinnovazione istruttoria), ponendo a fondamento dell'intero sistema codicistico la finalità di raggiungere un accettabile risultato in punto di durata ragionevole del procedimento penale. la giurisprudenza si è a lungo interrogata sulla portata del secondo comma dell’art. 129 nella parte in cui richiede che “l’evidenza” debba risultare “dagli atti”. in particolare, ci si è chiesto se il giudice possa assolvere l’imputato solo se “dagli atti” emerga la prova positiva che “il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato”, o viceversa se sia sufficiente una “prova negativa”. in quest’ultimo caso, l’accertamento può limitarsi alla mera insufficienza o contraddittorietà della prova che obbliga il giudice di pronunciare sentenza di assoluzione ai sensi dall’art. 530, comma 2 c.p.p. Su tale questione è sorto un contrasto nella giurisprudenza di legittimità. Un primo orientamento interpretativo ha escluso l'applicabilità della regola di cui all'art. 530, comma 2, in presenza di una causa estintiva di reato. in senso contrario, si è, invece, sostenuto che, giusta l'equiparazione contenuta nell'art. 530, comma 2, tra la prova positiva dell'innocenza a quella della mancanza, insufficienza e contraddittorietà della stessa, nell'ipotesi di incertezza ConTenzioSo nAzionAle probatoria debba prevalere la formula di merito di cui all'art. 530, comma 2, rispetto alla declaratoria della causa estintiva. A fronte del contrasto emerso nella giurisprudenza di legittimità, si è reso necessario l'intervento delle Sezioni Unite, le quali, aderendo al primo degli orientamenti sovra citati, hanno affermato che, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, debba comunque prevalere l'immediata declaratoria di non punibilità rispetto al proscioglimento nel merito ex art. 530, comma 2, «posto che il giudice può pronunciare sentenza di assoluzione ex art. 129, comma 2, soltanto nei casi in cui le circostanze idonee a escludere l'esistenza del fatto, la sua rilevanza penale ovvero la non commissione del medesimo da parte dell'imputato emergano dagli atti in modo assolutamente incontestabile, ferme restando le ipotesi in cui il giudice sia chiamato a dover approfondire ex professo il materiale probatorio acquisito». Alla luce delle considerazioni svolte e dell’insegnamento delle Sezioni Unite “Tettamanti”, la Corte di Appello di Venezia ha preso atto che -nel caso di specie -non sussistevano le condizioni per il proscioglimento degli imputati ai sensi dell’art. 129, comma 2, c.p.p. Allo stesso tempo, tuttavia, la Corte lagunare ha chiosato che la formula assolutoria -nell’esaminanda vicenda -non poteva che prevalere sulla declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione. Questa soluzione è stata imposta, ancora una volta, dalla stessa sentenza delle Sezioni Unite del 2009. il Supremo Consesso, difatti, a fronte del suesposto principio di diritto, pone due deroghe di considerevole rilievo. Per le SS.UU, in presenza di una accertata contraddittorietà o insufficienza della prova, la formula del proscioglimento nel merito prevale sulla causa estintiva soltanto in due ipotesi: a) nel caso previsto dall'art. 578, ossia qualora il giudice di appello -pur essendo intervenuta una causa estintiva del reato -è chiamato a valutare il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili per la presenza della parte civile; b) nel caso in cui il giudice di appello -nonostante il sopravvenire di una causa estintiva -ritenga infondato nel merito l'appello proposto dal pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione di primo grado resa ai sensi dell'art. 530, comma 2. il Giudice del rinvio ha valorizzato l’ipotesi sub b). nel caso di specie, infatti, il Tribunale di Padova aveva assolto in primo grado gli imputati e, secondo la Corte di Appello, non sussistevano le condizioni per dichiarare fondato -allo stato degli atti -l’appello del pubblico ministero. Pertanto, la Corte ha concluso correttamente nel senso di escludere che la pur rilevata prescrizione dei reati contestati potesse precludere la conferma della predetta sentenza assolutoria. Per quanto concerne il merito della controversia, la Corte di Appello di Venezia ha preso atto di quanto prescritto dalla terza sezione della Cassazione rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 nel giudizio rescindente (sentenza del 14 marzo 2019, n. 11451). la Suprema Corte, in particolare, ha evidenziato la necessità che il Giudice del rinvio svolgesse, anche con l'ulteriore ausilio di esperti qualificati e indipendenti, i necessari approfondimenti istruttori volti ad accertare se la prosecuzione della esposizione all’amianto dei lavoratori potesse aver prodotto un'accelerazione dei tempi della progressione della malattia, incidendo conseguentemente sul nesso causale tra l'esposizione stessa e l'evento morte. la problematica concernente la rilevanza eziologica delle esposizioni a fibre di amianto rispetto all’insorgenza e lo sviluppo di patologie professionali costituisce oggetto di un intenso dibattito giurisprudenziale e dottrinale, non ancora sopito. il punctum dolens di tale complessa vicenda giudiziaria non è stato stabilire se l’inalazione di fibre potesse cagionare malattie (come il mesotelioma pleurico). Su tale questione, infatti, si registra un consenso unanime e positivo della comunità scientifica. Ciò che è risultato incerto, invece, è se vi sia stata un’effettiva esposizione dei lavoratori all’amianto nei periodi in cui gli imputati erano titolari di posizioni di garanzia e, in caso di risposta affermativa, quali sono stati i periodi che abbiano avuto una rilevanza causale in concreto. inoltre, permangono dubbi, in seno alla comunità scientifica, anche in merito alla scansione temporale del mesotelioma pleurico. in relazione a tale patologia, gli esperti distinguono la fase della c.d. induzione, comprensiva della iniziazione, in cui l’agente cancerogeno aggredisce le cellule, e della promozione, nella quale le cellule compromesse iniziano a proliferare; e la fase della c.d. latenza, a partire dalla quale il processo tumorale diviene irreversibile ed è provata l’irrilevanza di tutte le successive esposizioni. risulta, pertanto, dirimente l’individuazione dell’esatto momento in cui la malattia giunge al c.d. failure time, con cui si chiude il periodo dell'induzione e inizia la fase di latenza clinica. Si tratta di un cruciale spartiacque la cui corretta individuazione consente di selezionare, a ritroso, le condotte rilevanti dal punto di vista penale, realizzate dai singoli titolari di posizioni di garanzia. nel caso di specie, la Corte di Appello di Venezia ha ritenuto che -prima di svolgere l’approfondimento scientifico in merito alla sussistenza di una legge di copertura relativa al c.d. “effetto acceleratore” richiesto dalla Suprema Corte -fosse necessario disporre una parziale rinnovazione probatoria proprio allo scopo di dipanare le incertezze circa la concretezza del rischio di esposizione all’amianto da parte delle persone offese, nei periodi in cui gli imputati ricoprivano le posizioni di garanzia. difatti, l’accertamento del contatto con la sostanza nociva costituisce evidentemente un approfondimento istruttorio logicamente prodromico a quello volto a individuare -mediante l’ausilio dei periti -la legge scientifica di copertura del c.d. “effetto acceleratore”. Sul punto, la Corte lagunare -dopo aver risentito il teste che per conto ConTenzioSo nAzionAle della Procura della repubblica aveva svolto le indagini -è giunta ad affermare che, sulla base del compendio probatorio e di tutte le informazioni fornite dal teste, permanessero forti dubbi in ordine alla concretezza del rischio di esposizione ad amianto delle due persone offese. Più in particolare, per quanto attiene alla posizione del primo militare deceduto, non risultava provato neanche che lo stesso avesse svolto mansioni che potessero dare luogo significativamente all'esposizione alle polveri di amianto; diversamente, rispetto alla posizione del secondo militare, non risultava adeguatamente dimostrato come, in che entità e durante quali lavorazioni potesse aver avuto occasione di venire a contatto ravvicinato con le fibre. Alla luce dell’incertezza probatoria riscontrata “a monte” sul piano causale, il Giudice del rinvio non ha ritenuto necessario svolgere alcun ulteriore approfondimento scientifico in merito al c.d. “effetto acceleratore”, così come richiesto dalla Corte di Cassazione ma, tenuto in considerazione il contrasto di opinioni scientifiche vigente in materia, ha confermato la sentenza di primo grado che aveva assolto gli imputati. Tale soluzione si è rivelata una scelta obbligata per la Corte territoriale, dettata dal fatto che -a distanza di ben otto anni dalla sentenza assolutoria di primo grado -i conflitti nel dibattito scientifico non si sono ancora sopiti. Ciò ha determinato, altresì, il consolidarsi di due orientamenti divergenti anche in seno alla stessa Corte di legittimità. in particolare, i contrasti si rinvengono nella giurisprudenza della terza e della quarta sezione penale della Cassazione. la quarta sezione è, notoriamente, competente a conoscere i procedimenti per delitti colposi in materia di sostanze nocive, mentre la terza sezione si è occupata di processi per amianto in conseguenza del fatto che a essa è attribuito il compito di conoscere dei ricorsi contro le sentenze pronunziate in sede di rinvio, dopo che vi sia stato annullamento da parte della quarta sezione. il contrasto attiene, in primo luogo, all’individuazione dell’adeguato livello di condivisione di una data legge di spiegazione causale nella comunità degli esperti ai fini di una condanna degli imputati e, in secondo luogo, al ruolo che compete al giudice di merito quando -a fronte di un’insanabile incertezza scientifica -si trova a svolgere l’arduo compito del peritus peritorum. di recente, si assiste a un progressivo consolidamento dell’orientamento di maggior favor, secondo il quale, mentre ai fini dell’assoluzione dell’imputato è sufficiente il solo serio dubbio, in seno alla comunità scientifica, sul rapporto di causalità tra la condotta e l’evento, la condanna deve, invece, fondarsi su un sapere scientifico largamente accreditato tra gli studiosi, richiedendosi che la colpevolezza dell’imputato sia provata al di là di ogni ragionevole dubbio (in tal senso, la sentenza “Pesenti”, Cass., Sez. iV, 7 dicembre 2017). da ultimo, siffatto orientamento si è ulteriormente consolidato con la sentenza “Beduschi”, la quale ha affermato che l’oggetto della valutazione dei giu rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 dici di merito e di legittimità non è la configurabilità o meno di un effetto acceleratore, bensì l’esistenza di un adeguato consenso sul punto che raggiunga «quella elevata probabilità logica e credibilità razionale richiesta per poter addivenire ad una pronuncia di condanna degli imputati che hanno assunto posizioni di garanzia nel periodo successivo al completamento del periodo di induzione per ciascuno dei lavoratori» (Cass., Sez. iV, 12 ottobre 2018). dunque, il solo serio dubbio, in seno alla comunità scientifica, in relazione al nesso causale fra condotta e evento è motivo più che sufficiente per assolvere l’imputato. Viceversa, poiché la condanna richiede che la colpevolezza dell’imputato sia provata al di là del ragionevole dubbio, il ragionamento sulla prova deve trovare il proprio aggancio e la propria motivazione in un sapere scientifico largamente accreditato tra gli studiosi. le teorie scientifiche, in altri termini, porteranno alla condanna oltre ogni ragionevole dubbio, solo quando siano ampiamente condivise dalla comunità degli esperti. risulta, pertanto, evidente come il Giudice del rinvio si sia inserito nel solco del sentiero tracciato dai recenti arresti della Suprema Corte e già condiviso, anni prima, dal Tribunale di Padova con la prima pronuncia assolutoria, in cui si legge che non è “rinvenibile l’esistenza di una legge scientifica -dotata di generale consenso nella comunità degli esperti -da cui ricavare la dimostrazione (…) in ordine all'esistenza di un effetto acceleratore (…). Anzi si può dire che il problema dell’accelerazione rimane un problema sostanzialmente irrisolvibile sino a quando la scienza medica non sarà in grado di conoscere il funzionamento dei complessi meccanismi biologici coinvolti nel- l’insorgenza e nello sviluppo di una patologia tumorale”. in conclusione, si evidenzia che -preso atto della naturale deficienza nel sapere scientifico -il giudice di merito si trova dinanzi a una scelta obbligata: pervenire ad una sentenza assolutoria. Ciò non toglie che le vittime continuino ad avere diritto al ristoro dei danni subiti. Tuttavia, è evidente che il giudizio penale -influenzato dai principi di personalità della responsabilità (art. 27, comma primo, Cost.) e della presunzione d'innocenza -non costituisce la sede più idonea al fine di ottenere la giusta soddisfazione alle proprie pretese. infatti è notorio che, nel giudizio penale, essendo in gioco la libertà personale degli individui, la prova della responsabilità penale deve avvicinarsi alla certezza assoluta: la responsabilità deve essere accertata oltre ogni ragionevole dubbio. Ben diverso è, invece, lo statuto della causalità e il regime dell'onere probatorio nel contenzioso civile. la prova da raggiungere per ottenere il risarcimento del danno è di tipo probabilistico, secondo la formula del “più probabile che non”. Pertanto, risulta più semplice dimostrare la sussistenza del nesso causale e ottenere l’integrale riparazione dei danni subiti. ConTenzioSo nAzionAle Corte di appello di Venezia, Sezione Seconda Penale, sentenza 30 ottobre 2020 -27 gennaio 2021 n. 2907 -Pres. C. Citterio, rel. V. Sgubbi. SVolGiMenTo del ProCeSSo 1. Con sentenza n. 648/12 del 22.3.2012, il Tribunale di Padova ha assolto gli imputati dal reato di omicidio colposo in danno di G. C. e G.F. B., deceduti rispettivamente il 3.2.2002 e il 4.9.2005 a causa di mesotelioma maligno. l'accusa a carico degli imputati era quella di aver contribuito, nella loro qualità di vertici della Marina Militare ricoperta nel corso degli anni, a causare le predette morti, con colpa consistita nell'aver omesso di rendere edotto il personale dipendente dei rischi per la salute provocati dalla presenza di amianto all'interno delle navi militari e degli ambienti di vita e di servizio a terra, oltre che dei rischi prodotti dalle lavorazioni cui erano adibiti e dalle polveri che respiravano, nell'aver omesso di sottoporre i lavoratori a specifici controlli sanitari e nel- l'aver omesso di fornire adeguati presidi di protezione individuale o, comunque, misure idonee a impedire o ridurre la diffusione delle polveri di amianto nei luoghi di lavoro. le vittime erano state a lungo impiegate al servizio della Marina Militare sia a bordo che a terra: C., quale militare, dal 1.8.1959 (data del primo imbarco) al 31.3.1995; B., in qualità di tecnico di macchina/meccanico, dal 5.1.1974 (data del primo imbarco) al dicembre 1996. All'esito dell'istruttoria, il Tribunale di Padova ha ritenuto dimostrato che le malattie fossero state contratte nell'esercizio dell'attività lavorativa svolta alle dipendenze della Marina Militare, ma ha ritenuto non provata oltre ogni ragionevole dubbio la responsabilità degli imputati poiché non era dimostrato né il momento di insorgenza della malattia tumorale né se e in quale misura le esposizioni successive a quella di innesco avessero avuto un rilevo causale nella progressione della malattia. Avverso tale sentenza assolutoria hanno proposto appello il pubblico ministero e le parti civili (si sono costituite nel processo le associazioni medicina democratica movimento per la salute onlus e Associazione italiana esposti amianto). 2. Con sentenza n. 1101/2014 del 14.7.2014, la Terza sezione penale della Corte di appello di Venezia ha riformato la sentenza impugnata, dichiarando nei confronti dell'imputato B. l'estinzione del reato a causa di morte e nei confronti degli altri (dei quali ha argomentato specificamente le ragioni di colpevolezza) l'estinzione per prescrizione. nonostante le parti civili avessero originariamente proposto autonomo appello contro la sentenza di proscioglimento ai sensi dell'art. 576 cod. proc. pen., quindi con specifico e autonomo impulso procedimentale di esercizio dell'autonoma azione civile, la Corte non ha provveduto sull'autonoma domanda risarcitoria delle parti civili appellanti, in violazione appunto dell'art. 576 cod. proc. pen. (Cass. Sezioni unite 11.7.2006 n. 25083). Tuttavia le parti civili hanno prestato acquiescenza all'omessa pronuncia sulla loro autonoma domanda, non impugnando la pertinente deliberazione. 2.1. la Corte ha innanzitutto affermato la riconducibilità delle patologie tumorali al- l'esposizione alle fibre di asbesto durante il servizio alle dipendenze della Marina Militare (cfr. pagg. 144-160, in particolare), con argomentazione specifica che ha analizzato i fatti accertati e le contrapposte conclusioni dei numerosi consulenti delle parti, esaminandole partitamente (da pag. 96 a pag. 144), anche nei risvolti di apprezzamento e valutazione scientifica riconosciuta ai singoli apporti ed all'attendibilità delle fonti acquisite. Ha spiegato poi perché il reato contestato in astratto fosse in concreto ascrivibile ai singoli imputati, gravando su di rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 loro, in quanto figure apicali della Marina Militare, il dovere di protezione e di collaborazione finalizzati alla prioritaria attività di valutazione dei rischi per la salute dei dipendenti e al conseguente dovere di informazione (cfr., in particolare, le pagg. 161-164 della sentenza). la colpa degli imputati è stata, quindi, individuata nella mancanza di organizzazione esigibile da una struttura di eccellenza come la Marina Militare, posto che, in base al contesto normativo e alle conoscenze dell'epoca, sarebbe stato possibile, con un migliore e più tempestivo coordinamento tra le direzioni Generati e gli Uffici competenti del Capo di Stato Maggiore, anticipare le valutazioni inerenti alle cautele necessarie nelle lavorazioni in determinati ambienti. 2.2. Tuttavia, pur ritenendo configurabile il delitto di omicidio colposo, la Corte ha interpretato l'art. 20, comma 2, l. 183/2010 (c.d. Collegato lavoro) -secondo cui "fermo restando il diritto al risarcimento del danno del lavoratore, le norme aventi forza di legge emanate in attuazione della delega di cui all' articolo 2, lettera b), della Legge 12 febbraio 1955, n. 51 [delega al potere esecutivo ad emanare norme generali e speciali in materia di prevenzione e igiene del lavoro] si interpretano nel senso che esse non trovano applicazione in relazione al lavoro a bordo del naviglio di stato e, pertanto, le disposizioni penali di cui al decreto del Presidente della repubblica 19 marzo 1956, n. 303 [contenenti norme generali per l'igienene del lavoro] non si applicano, per il periodo di loro vigenza, ai fatti avvenuti a bordo dei mezzi del medesimo naviglio" -nel senso di imporre la disapplicazione delle circostanze aggravanti ex art. 589, comma 2, cod. pen. Pertanto, dopo aver derubricato il reato aggravato nella fattispecie ordinaria, la Corte ne ha dichiarato l'intervenuta prescrizione. Avverso questa sentenza hanno appunto proposto ricorso per cassazione solo il procuratore generale, i responsabili civili e gli imputati: questi ultimi hanno evidenziato che il passaggio dall'assoluzione alla prescrizione non sarebbe potuto avvenire, in ogni caso, senza previa rinnovazione istruttoria. il ricorso del procuratore generale ha dichiaratamente posto un unico motivo: quello dell'erronea interpretazione dell'art. 20, comma 2, legge 183/2020. Abbandonato il punto della decisione relativo all'eventuale applicazione dell'art. 2087 cod. civ. quale fonte dell'aggravante di cui all'art. 589, comma 2, seconda parte, cod. pen., la parte pubblica ha sostenuto che per le lavorazioni a terra non trovasse applicazione l'eccezionale disciplina dell'art. 20, comma 2, sicché erroneamente era stata dichiarata la prescrizione, per tale esclusiva ragione dovendosi ritenere sussistente l'aggravante, con i suoi effetti sui tempi di prescrizione. Quindi, affermata la responsabilità, si sarebbe solo dovuto procedere alla determinazione della pena. 3. Accogliendo il ricorso proposto dal procuratore generale e motivando esclusivamente con riferimento al suo contenuto, poi dichiarando assorbiti i ricorsi di imputati e responsabile civile, la Quarta sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza 5.11.2015-27.1.2016 n. 3615, ha annullato la pronuncia impugnata e rinviato per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'appello lagunare. 3.1. la Corte di cassazione ha osservato che i giudici di secondo grado non si erano confrontati con la richiesta della procura generale di considerare il complesso dell'attività lavorativa prestata dalle vittime, dal momento che la clausola di esenzione introdotta nel 2010, da interpretarsi in senso restrittivo, valeva solo per l'attività prestata sui navigli e non anche per quella prestata a terra. 3.2. ribadendo la rilevanza della questione, destinata ad incidere sul decorso della prescrizione, la Corte di legittimità ha poi tuttavia rilevato che in appello si era omessa di appro ConTenzioSo nAzionAle fondire se l'esposizione dei lavoratori alle fibre di amianto, in assenza di dispositivi di protezione o misure di riduzione delle polveri, avesse potuto incidere anche solo sul tempo di latenza o sul decorso del mesotelioma. 3.3. la Corte di cassazione ha dunque evidenziato la necessità di analizzare nel caso di specie, "anche con l'ulteriore ausilio di esperti qualificati e indipendenti, se la prosecuzione della esposizione possa aver prodotto un'accelerazione dei tempi della progressione della malattia, incidendo conseguentemente sul nesso causale tra l'esposizione stessa e l'evento morte, occorrendo cioè comprendere se costituisce legge universale o probabilistica quella sul cd. effetto acceleratore, in base alla quale sono rilevanti non solo le esposizioni iniziali, che conducono all'affermazione del processo cancerogenetico, ma pure quelle successive fino all'induzione della patologia, dotate appunto di effetto acceleratore e abbreviatore della latenza". infine, la Corte di legittimità ha censurato la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui, nel valutare la configurabilità delle circostanze aggravanti, aveva negato l'applicabilità dell'art. 2087 cod. civ., escludendo apoditticamente l'equiparabilità del datore di lavoro all'imprenditore. in sostanza, parrebbe doversi constatare che a fronte di un ricorso della parte pubblica che devolveva, quanto alla configurabilità della fattispecie di omicidio colposo aggravato dalla violazione di norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, solo il tema dell'applicazione alla fattispecie concreta della rilevanza del periodo di lavorazione a terra, la Corte suprema ha prima accolto la doglianza, poi trattato il diverso tema della eventuale applicabilità dell'art. 2087 cod. civ. e quindi quello generale del nesso causale nella materia di esposizione ad amianto, sollecitando una rivisitazione e tuttavia senza spiegare quali vizi presentasse l'analitica specifica valutazione operata dalla Corte d'appello (che aveva concluso per la sussistenza del nesso causale dopo aver esaminato e messo a confronto approfonditamente i diversi apporti dei numerosi consulenti, anche con riferimento alle ritenute pertinenti prevalenti convergenze scientifiche). il mancato esame dei ricorsi di imputati e responsabile civile, ritenuti assorbiti, impediva di comprendere le ragioni della trattazione grafica dei due ultimi temi nel contesto della risposta all'unico motivo di ricorso della parte pubblica. 4. in sede dunque di primo rinvio, la Prima sezione penale della Corte d’appello di Venezia, con sentenza 16.3.2017 n. 1097 ha condiviso l'impostazione problematica del Tribunale di Padova -il quale aveva dato atto della significativa incertezza, nella comunità scientifica internazionale, circa il c.d. effetto acceleratore delle esposizioni professionali all'agente cancerogeno -e ritenuto perciò superflua un'ennesima indagine peritale sul punto, stante la perdurante divisione nella comunità scientifica. la Corte lagunare, tranne che con riferimento alla posizione di F.r. nei confronti del quale ha pronunciato declaratoria di estinzione del reato per morte dell'imputato, ha confermato quanto era stato stabilito dal giudice di prime cure nel 2012, pervenendo così all'assoluzione degli imputati poiché, pur accedendo alla tesi dell’efficacia acceleratoria con valenza probabilistica di tutte le esposizioni dell'amianto successive a quella di innesco, non era stato sufficientemente provato che, per effetto delle esposizioni successive, da riferirsi ai singoli periodi in cui gli imputati ricoprirono la posizione di garanzia nei confronti di B. e C., si fosse verificato l'accorciamento del periodo di latenza della patologia che portò all'evento morte. le parti civili, che non avevano presentato ricorso per cassazione e tuttavia avevano partecipato al giudizio di rinvio, sono state condannate alle spese. Hanno presentato nuovo ricorso per cassazione sia il procuratore generale presso la Corte d'appello di Venezia (che aveva già proposto il ricorso avverso la precedente sentenza rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 di appello), sia le parti civili medicina democratica movimento di lotta per la salute onlus e Associazione italiana esposti Amianto (che invece, come si è visto, non avevano proposto ricorso avverso la precedente sentenza di appello che pure non aveva provveduto sulla loro domanda ex art. 576 cod. proc. pen.). 4.1. la parte pubblica ha enunciato due motivi: -con il primo motivo, lamentando la mancanza di motivazione sulla violazione di legge oggetto del primo ricorso per cassazione, ovvero il riconoscimento dell'ipotesi della colpa specifica di cui al comma 2 dell'articolo 589 cod. pen., l'applicazione del quale -prevedendo una pena maggiore e, ex articolo 157 cod. pen., un termine prescrizionale più lungo -avrebbe impedito di considerare il reato prescritto; -con il secondo motivo, lamentando la violazione dell'articolo 627 comma 2 cod. proc. pen. ed evidenziando che -nonostante la Quarta sezione penale della Corte di cassazione (con la sentenza n. 3615/2016) avesse disposto che la questione inerente al c.d. effetto acceleratore alla esposizione all'amianto venisse esaminata a fondo, anche con l'ulteriore ausilio di periti qualificati e indipendenti -la Corte d'appello in sede di rinvio (con la sentenza n. 1097/2017) aveva omesso di disporre la perizia, disattendendo altresì le sollecitazioni formulate in udienza dal procuratore generale e dalle parti civili. 4.2. le parti civili hanno enunciato tre motivi, i primi due esattamente sovrapponibili a quelli enunciati dal procuratore generale ed il terzo che lamentava la violazione dell'articolo 592 cod. proc. pen., contestando la condanna al pagamento delle spese processuali ordinata dalla Corte d'appello nei loro confronti, rivendicando in proposito di non aver impugnato la prima sentenza d'appello pur sfavorevole, avendo partecipato al nuovo giudizio solo a seguito dell'accoglimento del ricorso del procuratore generale: del resto, la sentenza assolutoria del Tribunale di Padova, della quale ancora una volta si controverteva, era stata impugnata pure dal p.m. e non solo da loro (donde l'erroneità della condanna alle spese). 5. Con la sentenza 6.11.2018-14.3.2019 n. 11451, la Terza sezione penale della Corte di cassazione ha ritenuto che i motivi dei due ricorsi, in quanto sovrapponibili, fossero suscettibili di trattazione unitaria (con eccezione del terzo motivo del ricorso delle parti civili, inerente la condanna alle spese processuali in capo alle parti civili). 5.1. Secondo la Corte di legittimità, i giudici di appello avevano ignorato, in sede di rinvio, i criteri interpretativi da essa forniti con la sentenza del 2015, violando così l'obbligo assoluto e inderogabile "di uniformarsi alla sentenza della Corte di cassazione, per quanto riguarda ogni questione di diritto con essa decisa" (cfr. pag. 8). Si constatava, pertanto, come nella vicenda in esame la Corte lagunare avesse "sostanzialmente eluso le direttive ermeneutiche fissate nel giudizio di legittimità, dovendosi al riguardo precisare che la questione demandata alla Corte territoriale era quella di approfondire, «anche con l'ulteriore ausilio di esperti qualificati e indipendenti», la questione se l'esposizione prolungata dei lavoratori, in assenza di strumenti di protezione individuale e senza l'adozione delle misure di riduzione delle polveri, possa aver inciso anche solo sul tempo di latenza o sul decorso della malattia, con particolare riferimento alle lavorazioni a terra, per le quali non operava la clausola di esenzione ex lege n. 183 del 2010" (pagg. 8 e 9). Secondo la Corte di cassazione, il tema precipuamente devoluto al giudice del rinvio non era tanto l'affidamento o meno di un incarico peritale, quanto piuttosto "l'approfondimento della questione, che certo lo svolgimento della perizia qualificata suggerita dalla Corte di legittimità avrebbe agevolato, relativa all'esistenza o meno di una legge scientifica (precisandone eventualmente la natura universale o probabilistica) a proposito del c.d. effetto ac ConTenzioSo nAzionAle celeratore, in base al quale sono rilevanti non solo le esposizioni iniziali, ma anche quelle successive che abbreviano la latenza, essendo certo nella comunità scientifica che la latenza diminuisce con l'incremento delle esposizioni, in particolare con quelle lavorative" (pag. 9). la Corte di cassazione ha affermato che: -il contrasto di opinioni scientifiche non è di per sé sufficiente a escludere l'esistenza di una legge di copertura, qualora non si verifichi il grado di indipendenza degli esperti e la validità delle argomentazioni profuse; -l'impostazione dubitativa elaborata dal giudice di prime cure (e seguita dalla Corte d'appello in sede di rinvio) era stata già superata dalla prima sentenza della Corte lagunare, sul punto non censurata dalla Corte di cassazione, essendo stata cioè affermata non solo la riconducibilità del mesotelioma all'esposizione all'amianto da parte delle vittime durante gli anni di servizio alle dipendenze della Marina Militare, ma anche l'esistenza del nesso causale tra l'evento mortale e le condotte omissive colpose attribuibili agli imputati, quali titolari di posizioni di garanzia in virtù delle posizioni apicali rivestite all'interno della Marina Militare. Secondo la Corte di legittimità, in sede di rinvio non era stata adeguatamente trattata la questione circa l'eventuale incidenza di ciascuna esposizione delle vittime al fattore cancerogeno né era stato affrontato l'altro tema devoluto al giudice d'appello, ossia quello relativo all'applicabilità dell'art. 2087 cod. civ., rispetto all'equiparazione tra datore di lavoro e imprenditore. Per tali ragioni, la Terza sezione penale della Corte di cassazione ha disposto l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Venezia per un nuovo giudizio nei confronti di tutti gli imputati, tranne il M. nel frattempo deceduto. 5.2. la Corte di cassazione ha annullato poi, senza rinvio, la condanna delle parti civili al pagamento delle spese processuali, prendendo atto (pag. 11) che il ricorso per cassazione avverso la prima sentenza di appello non era stato proposto dalle parti civili e che, però, "la sentenza del tribunale di Padova fu appellata sia dal P.m. che dalle parti civili, per cui al rigetto delle impugnazioni non poteva conseguire la condanna alle spese delle parti civili", in ossequio alla giurisprudenza già citata. 6. All'udienza del 12.11.2019 dinanzi a questa Corte le parti hanno esposto le loro conclusioni. in particolare, il procuratore generale ha chiesto declaratoria di estinzione dei reati, con riferimento all'imputato P. M., per morte dello stesso; con riferimento agli altri imputati, ha chiesto che fosse pronunciato non doversi procedere per prescrizione con riferimento al reato in danno di C. (maturata al 3.2.2017). la Corte ha ammesso i documenti richiesti ed ha rinviato al successivo 19.2.2020, autorizzando nel frattempo lo scambio di memorie tra le parti; in detta udienza ha ordinato la rinnovazione istruttoria mediante l'esame, fissato per la successiva udienza del 9.6.2020, del- l'ispettore n., ufficiale di polizia giudiziaria, sulla specifica questione dell'individuazione dei periodi di servizio prestato a terra dalle due vittime nei periodi rilevanti nel presente processo (cioè nei periodi nei quali gli odierni imputati hanno rivestito le posizioni di vertice menzionate nel capo d'imputazione). la successiva udienza del 9.6.2020 è stata dedicata all'assunzione del citato mezzo di prova, disponendosi rinvio per la prosecuzione al 30.10.2020. A tale nuova udienza, dopo brevi dichiarazioni del teste n. a rettifica di alcuni aspetti di contorno della propria deposizione precedente, il procuratore generale ha chiesto l'acquisizione di nuovi documenti e verbali di sommarie informazioni acquisite a seguito dell'audizione del teste n., e ciò ai sensi dell'art. 603, comma 1, cod. proc. pen. le parti civili si sono associate alla richiesta, mentre vi si sono opposte le altre parti. rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 Secondo il procuratore generale, dal 9 marzo 2020 all'11 maggio 2020 il termine di prescrizione è da ritenersi sospeso, ai sensi dell'art. 83, comma 4, decreto-legge 18/2020 convertito nella legge 27/2020. Per conseguenza, la prescrizione del secondo reato (quello in danno di B.G.) non sarebbe maturata al 4.9.2020, come potrebbe apparire sulle prime calcolando il termine massimo di quindici anni dall'evento-morte (intervenuto il 4.9.2005). Ciò premesso, e previa richiesta di ulteriore approfondimento istruttorio, nel merito il procuratore generale si è riportato alle conclusioni già rassegnate all'udienza del 12.11.2019 (dunque, estinzione del reato per morte con riguardo all'imputato P.; estinzione per prescrizione con riferimento al decesso C.; condanna, ritenuto il reato non ancora prescritto, per il decesso B.); le parti civili hanno aderito alle richieste del procuratore generale; imputati e responsabili civili hanno chiesto la conferma della sentenza assolutoria. rAGioni dellA deCiSione 1. Va anzitutto pronunciata sentenza di non doversi procedere nei confronti dell'imputato M.P., il cui decesso è stato documentato all'udienza del 12.11.2019 mediante produzione del certificato di morte. 2. occorre poi prendere atto che i reati sono, in ogni caso, entrambi ad oggi prescritti. la questione è pacifica per quanto riguarda il contestato omicidio colposo nei confronti di G.C., deceduto il 3.2.2002. Analogamente deve concludersi, però, anche con riguardo al reato contestato come commesso in danno di G.B., deceduto il 4.9.2005. il termine massimo di prescrizione, pari ad anni quindici di reclusione, è decorso alla data del 4.9.2020 (cfr. Cass. Sez. 2 19.11.2019 n. 50719, Sez. 3 29.4.2015 n. 23259, Sez. 5 6.5.2010 n. 21947, Sez. 6 16.3.1998 n. 4698), perché la normativa emergenziale introdotta dal decreto-legge 17.3.2020 n. 18 non ha prodotto effetti sospensivi in questo processo. 2.1. l'art. 83, comma 1, del citato decreto-legge, come risultante a seguito delle modifiche operate dalla legge di conversione (n. 27/2020) e della proroga dei termini disposta dal- l'art. 36, comma 1, del decreto-legge 23/2020 convertito nella legge n. 40/2020, prevedeva il rinvio di tutte le udienze, nel periodo 9 marzo-11 maggio 2020, a data successiva, con conseguente sospensione dei termini di prescrizione del reato per il predetto periodo, ai sensi del comma 4 della disposizione in esame. il comma 7 consentiva, poi, ulteriori rinvii nel periodo immediatamente successivo, rinvii cui conseguiva la sospensione della prescrizione per il tempo corrispondente alla sospensione del procedimento, purché non oltre il 30 giugno, ai sensi del comma 9. Con riferimento al primo periodo (64 giorni, dal 9 marzo all'11 maggio 2020), la Corte di Cassazione ha messo in evidenza, nella decisione n. 25222 pronunciata dalla Quinta Sezione il 14.7.2020 e depositata il 7.9.2020, che rinvio dell'udienza e sospensione della prescrizione sono inscindibilmente legati, tanto è vero che quest'ultima, quale conseguenza di un rinvio generalizzato delle udienze imposto dalla normativa emergenziale, deriverebbe comunque dalla previsione dettata dall'art. 159 cod. pen., con ciò escludendosi che il decreto-legge 18/2020 abbia introdotto una norma di natura sostanziale (tale essendo la natura della prescrizione del reato) con effetto retroattivo, in violazione dell'art. 25 Cost. Proprio tale interpretazione è stata posta dalla Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sui profili di legittimità costituzionale della norma in questione (art. 83, comma 4, d.l. cit.) per possibile violazione del principio di irretroattività in materia penale (art. 25, comma 2, Cost.), a fondamento della decisione di rigetto della questione, resa con sentenza pronun ConTenzioSo nAzionAle ciata e depositata nelle more della stesura della presente decisione (sentenza n. 278, pronunciata il 18.11.2020 e depositata il 23.12.2020): tale corretta ricostruzione della normativa, infatti, consente di collocare la causa di sospensione prevista dall'art. 83, comma 4, nell'alveo delle ipotesi dettate dall'art. 159, comma 1, cod. pen., con ciò escludendo che si tratti di una nuova norma penale retroattiva. 2.2. Con riferimento al c.d. secondo periodo, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 26215 della medesima Sezione Quinta, pronunciata in data 13.7.2020 e depositata il 17.9.2020, ha precisato che la sospensione della prescrizione (non oltre il 30 giugno) opera solo a condizione che si sia realmente verificato un rinvio (non reso obbligatorio dalla legge) ai sensi dell'art. 83, comma 7. la corretta interpretazione della normativa è stata rimessa alle Sezioni unite che, con decisione resa in data 26.11.2020 (motivazione non ancora depositata), ha stabilito che "il corso della prescrizione è rimasto sospeso ex lege, ai sensi dei commi 1, 2 e 4 ... dell'art. 83, dal 9 marzo all'11 maggio 2020, nei procedimenti nei quali nel suddetto periodo era stata originariamente fissata udienza e questa sia stata rinviata ad una data successiva al termine del medesimo. Analogamente, ai sensi del successivo comma 9 dello stesso art. 83, la prescrizione è rimasta sospesa dal 12 maggio al 30 giugno 2020 nei procedimenti in cui in tale periodo era stata fissata udienza e ne è stato disposto il rinvio a data successiva al termine del medesimo in esecuzione del provvedimento emesso dal capo dell'ufficio giudiziario ai sensi dell'art. 83, comma 7 lett. g). Nel caso in cui il provvedimento ex art. 83, comma 7, lett. g) del citato decreto-legge sia stato adottato successivamente al 12 maggio 2020, la sospensione decorre dalla data della sua adozione. Le sezioni Unite hanno, altresì, precisato che i due periodi di sospensione suindicati si sommano in riferimento al medesimo procedimento esclusivamente nell'ipotesi in cui l'udienza, originariamente fissata nel primo periodo di sospensione obbligatoria, sia stata rinviata a data compresa nel secondo periodo e, quindi, ulteriormente rinviata in esecuzione del provvedimento del capo dell'ufficio" (informazione provvisoria n. 23 nel proc. n. 3349/20 r.G.). 2.3. nel caso di specie, non è stata prevista alcuna udienza nel c.d. primo periodo (9.311.5.2020), sicché non è stato necessario disporre differimenti; l'unica udienza prevista nel c.d. secondo periodo, in data 9 giugno 2020, è stata regolarmente celebrata. Pertanto, non si sono verificate cause di sospensione della prescrizione del reato ai sensi dell'art. 83 decreto-legge 18/2020. entrambi i reati sono pertanto ad oggi prescritti. 3. la Corte, come si è detto, ha svolto una parziale rinnovazione istruttoria, risentendo nel contraddittorio delle parti il teste o. n., che per conto della Procura della repubblica di Padova aveva svolto le indagini; ciò allo scopo di verificare se i marinai deceduti fossero stati sottoposti ad esposizione prolungata ad amianto, durante il servizio da loro prestato a terra, nei periodi rilevanti in ragione delle attribuzioni rivestite dagli imputati, comportanti posizioni di garanzia. È stato, cioè, svolto un approfondimento istruttorio prodromico all'eventuale decisione di procedere ad un nuovo accertamento peritale. 3.1. Quanto ai periodi rilevanti, va precisato che l'imputato C. era stato direttore Generale di navalcostarmi dal 21.12.1985 al 7.6. 1989, l'imputato d. d. direttore Generale di Sanità Militare dal 1.1.1988 al 31.12.1990 e ispettore di Sanità dal 1.1.1983 al 31.12.1987, l'imputato C. direttore Generale di Sanità Militare dal 1.1.1991 al 31.12.1991. della complessiva vita lavorativa delle vittime alle dipendenze della Marina Militare interessa dunque, ai fini del presente processo, il periodo compreso tra l'1.1.1983 (data di rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 inizio della qualifica astrattamente rilevante in capo all'imputato d. d.) e il 31.12.1991 (data di cessazione dell'incarico dell'imputato C.). 3.2. limitando l'esame a questi periodi, la prima sentenza di appello aveva individuato i seguenti periodi di imbarco delle vittime: - C. dal 24.11.1983 all'11.8.1985 e dal 29.6.1987 al 3.7.1987; -B. dal 11.2.1984 al 28.2.1984, dal 9.11.1984 al 30.11.1984, dal 1.4.1984 al 31.5.1987, dal 7.9.1987 al 31.12.1987 e dal 1.7.1990 in avanti (fino a periodo successivo al 31.12.1991). A contrario da quanto sopra, si deduce che, con riferimento al periodo di tempo che qui rileva, le persone offese abbiano lavorato a terra: -C., fino al novembre 1983, poi dall'agosto 1985 al giugno 1987 e di nuovo dal luglio 1987 in avanti; -B., fino al marzo 1986 quale addetto alla sezione carburanti della stazione elicotteri di Grottaglie (tranne 40 giorni di imbarco), poi dal giugno 1987 al settembre 1987 e infine dal gennaio 1988 al giugno 1990, in locali siti a Taranto e Brindisi. il teste n., nel corso dell'esame reso all'udienza del 9 giugno 2020, ha evidenziato la presenza di amianto nei locali dell'Arsenale di Venezia, frequentati dal C. nel periodo di interesse, durante il servizio a terra; locali che sono stati bonificati in epoca successiva (nel 2004: cfr. esame n., in particolare pagg. 18-10 verb. ud. 9.6.2020). lo stesso teste ha riferito circa la presenza di amianto sia nei locali di Grottaglie, frequentati da B. fino ai primi mesi del 1986, sia nei locali di Brindisi e Taranto ove egli lavorò nel periodo successivo (cfr. in particolare, per questi aspetti, le pagine 27 e ss. verb. ud. 9.6.2020 e i documenti richiamati). non è stato però possibile quantificare la presenza di amianto nei locali dell'Arsenale di Venezia, mentre il teste ha reperito registri relativi alla quantità di amianto presenti nel complesso dei locali di Taranto e Brindisi frequentati dalla vittima. il teste ha fornito tutte le informazioni disponibili, che non hanno però consentito di dipanare le incertezze che sarebbe stato necessario sciogliere prima di passare all'approfondimento scientifico. Si possono richiamare due affermazioni già svolte nella prima sentenza di appello sui punti di interesse: "incerte sono poi le emergenze processuali relative alle mansioni svolte durante il periodo di servizio a terra presso l'Arsenale di venezia che non consentono di apprezzare la concretezza del rischio di esposizione ad amianto" (pag. 149, relativamente alla posizione di C.); "non è da escludere che nei periodi a terra di questi anni b. possa aver avuto occasione di venire a contatto ravvicinato con fibre di crisotilo utilizzando dispositivi di sicurezza a base di amianto presso la stazione elicotteri di Grottaglie o quando era l'addetto al rifornimento delle unità navali presso il commissariato della mm taranto. tuttavia siffatta eventualità configura una situazione di rischio ambientale generico..." (pag. 159, relativamente alla posizione di B.). 4. Come si è detto, dopo l'assunzione della testimonianza dell'ispettore n. è maturata la prescrizione anche del reato contestato come commesso ai danni di G. B. 5. Tutto ciò premesso, a fronte della assoluzione in primo grado, dell'assenza di alcuna sentenza che abbia nei giudizi successivi deliberato positivamente l'affermazione di responsabilità ai fini penali e della intervenuta prescrizione dei reati, è opportuno riepilogare i termini essenziali, in rito, della complessa vicenda processuale che ci occupa, per orientarsi sui due temi che debbono a questo punto occupare la deliberazione della Corte: -la conclusione dell'esercizio dell'azione penale con la conferma dell'assoluzione o la riforma con dichiarazione di estinzione per prescrizione, ConTenzioSo nAzionAle - la sorte dell'azione civile a suo tempo esercitata dalle parti civili. Perché anche la eventuale prosecuzione dell'attività istruttoria sollecitata dal procuratore generale e dalle due parti civili è: preclusa, quanto all'azione penale in ragione in ogni caso del- l'intervenuta prescrizione dei reati, e subordinata, quanto all'azione civile, alla valutazione di attuale effettiva efficace autonoma esercitabilità della stessa ai sensi dell'art. 576 cod. proc. pen. non essendo mai intervenuta una sentenza di affermazione di responsabilità penale, siamo infatti al di fuori della peculiare situazione procedimentale disciplinata dall'art. 578 cod. proc. pen., con le peculiari connessioni tra prescrizione e conferma della responsabilità ai fini civili insegnate dalla storica e non superata sentenza Cass. Sezioni unite sent. 35490/2009, ric. Tettamanti. 5.1. orbene, la prima sentenza resa nel presente processo è stata la pronuncia del Tribunale di assoluzione, impugnata dal pubblico ministero e autonomamente dalle parti civili ex art. 576 cod. proc. pen. Ad essa è seguita una sentenza che ha ritenuto sussistente la responsabilità ma dichiarato la prescrizione, avendo giudicato insussistente la circostanza aggravante del capoverso dell'art. 589 (siamo pertanto fuori anche in questo caso dalla diversa disciplina dell'art. 578 cod. proc. pen.), tuttavia omettendo la contestuale doverosa deliberazione sul risarcimento del danno invocato dalle parti civili ex art. 576, quindi autonomamente ed a prescindere dalla sorte del- l'azione penale. Questa palese ed evidente omessa pronuncia sulla domanda ex art. 576 non è stata fatta oggetto di ricorso dalle parti civili, unico soggetto legittimato all'impugnazione quanto all'autonomo esercizio dell'azione civile rispetto ad una sentenza di proscioglimento che in concreto negasse la pretesa risarcitoria. il ricorso per cassazione avverso la prima sentenza d'appello che ha dichiarato la improcedibilità per prescrizione senza provvedere sull'autonoma domanda civile è stato infatti presentato dal procuratore generale, dagli imputati e dai responsabili civili (il primo invocando il riconoscimento della mancata prescrizione e la conseguente necessità solo di determinare la pena, i secondi invocando la conferma dell'assoluzione già ottenuta in primo grado, anche per la ragione in rito che il passaggio da assoluzione a prescrizione era avvenuto senza procedere a rinnovazione istruttoria). Tale omessa impugnazione è stata poi espressamente evidenziata e rivendicata dalle parti civili nel contesto del ricorso da loro proposto pure avverso la subita condanna al pagamento delle spese processuali con la prima sentenza di rinvio. la prima sentenza di rinvio ha confermato l'assoluzione, venendo annullata dalla sentenza della Terza sezione della Corte di cassazione, di cui si è dato conto nei paragrafi 5-5.2 della prima parte, attivata dai ricorsi della parte pubblica e delle parti civili. Questo è il secondo giudizio di rinvio, nel quale è intervenuta la prescrizione anche del secondo reato. in tutto il processo, pertanto, non vi è finora stata una sentenza di condanna efficace ai fini penali. 6. Quanto alla, sorte dell'azione civile, osserva questa Corte che nei giudizi di impugnazione la parte civile partecipa innanzitutto per il principio di immanenza. Tale principio, normativamente ancorato alla previsione dell'art. 76, comma 2, cod. proc. pen., secondo cui "la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del procedimento" (ed in effetti ex art. 601, comma 4, nel giudizio di appello la parte civile deve essere comunque sempre citata) esclude sia la necessità di una rinnovazione della costituzione in giudizio per ogni grado o fase sia l'applicazione al giudizio di appello della regola rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 processuale dell'obbligo di presenziare al processo e presentare le conclusioni all'esito della discussione (ex art. 523, comma 2, cod. proc. pen., secondo l'attuale giurisprudenza di legittimità non ritenendosi tale norma richiamata dal pur generale rinvio disposto dall'art. 598). Anche nel caso di mancata partecipazione della parte civile all'udienza, il giudizio di appello può pertanto svolgersi e concludersi con la conferma delle statuizioni civili disposte in primo grado e addirittura con l'accoglimento del suo appello ex art. 576. il principio di immanenza della parte civile opera poi quando la sentenza di proscioglimento venga impugnata dalla sola parte pubblica: in tal caso, se il giudice d'appello pronuncia sentenza di condanna penale per il fatto in relazione al quale è stata esercitata nel primo grado l'azione civile risarcitoria o di restituzione, deve provvedere anche sulla domanda civilistica pur in assenza di autonoma impugnazione della parte civile ai sensi dell'art. 576 cod. proc. pen.: "il principio di immanenza della costituzione di parte civile è destinato a produrre i suoi effetti in favore di questa, anche in presenza dell'appello del solo Pubblico ministero contro la sentenza di assoluzione, quando gli sia favorevole, cioè si tratti di una sentenza di condanna": così Cass. Sez. 5 14.11.2017-dep. 2018, n. 315, tra le numerose altre seguite al mutamento di giurisprudenza operato da Cass. Sezioni unite 10.7.2002 n. 30327, ric. Guada- lupi, che aveva mutato indirizzo rispetto a quello più rigoroso sostenuto da Cass. Sezioni unite 5.11.1998-dep. 1999 n. 5, ric. loparco, secondo cui l'omessa impugnazione della parte civile contro la sentenza assolutoria comportava passaggio in giudicato dei capi civili, nonostante l'impugnazione del pubblico ministero. 6.1. in definitiva, a fronte di una sentenza di proscioglimento deliberata in primo grado, la parte civile ha due possibilità: -sollecitare l'impugnazione agli effetti penali del pubblico ministero (art. 572 cod. proc. pen.) o comunque, rimettersi all'impugnazione della sola parte pubblica, confidando nel suo accoglimento che conduca ad una condanna agli effetti penali la quale, in virtù del principio di immanenza, comporterebbe pure una deliberazione sull'originaria domanda civile (ex art. 597, comma 2, lett. a e b: "adottare ogni altro provvedimento imposto o consentito dalla legge", secondo Cassazione Sezioni unite ric. Guadalupi) -impugnare autonomamente ai sensi dell'art. 576 cod. proc. pen., in tal caso divenendo titolare del diritto autonomo alla pronuncia giurisdizionale ai fini civili pure nel caso in cui l'azione penale si concluda senza una deliberazione di condanna. 6.2. orbene, nel nostro processo, come ripetutamente avvertito, le parti civili hanno consapevolmente rinunciato all'impugnazione autonoma ai sensi dell'art. 576, quando consapevolmente (e rivendicandolo poi nel ricorso avverso la condanna al pagamento delle spese processuali) hanno rinunciato ad impugnare la prima sentenza d'appello laddove, avendo riconosciuto la responsabilità degli imputati ma avendo ritenuto estinti i reati per insussistenza delle circostanze aggravanti, pur essendo stata attivata anche dall'appello autonomo sull'azione civile ai sensi dell'art. 576 cod. proc. pen., ha omesso la doverosa pronuncia che era invece tenuta a deliberare, quella delle parti civili essendo impugnazione autonoma rispetto a quella della parte pubblica e non condizionata da una condanna positiva anche per gli effetti penali. da quel momento la loro presenza nel giudizio è proseguita nei limiti previsti e consentiti dal solo principio di immanenza: un'attivazione il cui esito positivo finale era appunto subordinato all'intervento di una condanna agli effetti penali, in grado, per sé e per le ragioni giurisprudenziali appena ricordate, di determinare anche la condanna agli effetti civili in favore dei due soggetti danneggiati (laddove fosse stato riconosciuto sussistente un loro danno connesso ai due reati). ConTenzioSo nAzionAle Venuta ora certamente meno la possibilità di una condanna agli effetti penali, per la prescrizione dei reati che al più potrebbe determinare nel nostro caso una deliberazione di improcedibilità sopravvenuta, è preclusa l'ulteriore autonoma procedibilità dell'azione civile, con l'attività istruttoria sollecitata e quella in ipotesi ulteriore ritenuta necessaria dalla Corte, che solo un'attuale efficace impugnazione ai sensi dell'art. 576 cod. proc. pen. avrebbe potuto determinare. non impongono conclusione diversa le due argomentazioni svolte dall'attento e diligente attuale difensore delle parti civili: -l'annullamento della prima sentenza d'appello (quella che ha dichiarato la prescrizione senza doverosa deliberazione sulle statuizioni civili, non ricorsa) avrebbe riportato la situazione procedimentale al primo stato, la sentenza di assoluzione del Tribunale, impugnata anche dalle parti civili. Ma tale annullamento è conseguenza di un ricorso presentato dalla sola parte pubblica, nell'acquiescenza della parte civile (originaria appellante autonoma ex art. 576 cod. proc. pen.) alla sentenza annullata. Quando si celebra il giudizio di rinvio, esso muove sì dal- l'assoluzione del Tribunale, ma è già maturata la preclusione all'ulteriore corso di iniziativa impugnatoria della parte civile autonoma e indifferente al presupposto necessario dell'esito di condanna ai fini penali. le parti civili, infatti, partecipano al primo giudizio di rinvio solo in ragione del generale principio di immanenza, le loro pretese non essendo più da quel momento indipendenti dalla sorte dell'azione penale; -l'accoglimento del ricorso presentato autonomamente dalle parti civili avverso la prima sentenza di rinvio, da parte della sentenza della Terza sezione che ha annullato con rinvio a questo Giudice, andrebbe considerato o una sorta di restituzione in termini per procedere autonomamente ai sensi dell'art. 576 o il riconoscimento che nessuna preclusione sarebbe avvenuta per l'iniziativa autonoma delle parti civili, appunto a prescindere dalla sorte dell'azione penale; in ogni caso, l'eventuale errore nel quale sarebbe incorsa la Corte di cassazione nel non rilevare, o commentare, l'effetto procedimentale della mancata impugnazione della prima sentenza di appello imporrebbe ormai al giudice del rinvio l'obbligo di deliberare sulla domanda civile ex art. 576. Va in proposito constatato che effettivamente la questione non è stata trattata nella sentenza che ha annullato con rinvio a questo Giudice, dove neppure si dà alcun atto, nella ricostruzione delle pregresse vicende processuali, della peculiarità della parte di vicende precedente la prima sentenza di rinvio oggetto dell'annullamento. osserva tuttavia questa Corte che: in ogni caso il terzo motivo del ricorso delle parti civili (sulla condanna al pagamento delle spese processuali) aveva una sua originaria autonomia legittimante comunque la pertinente impugnazione in ragione della sopravvenuta condanna alle spese, mentre i primi due motivi potevano trovare legittimazione nel riferimento ad un principio generale riconducibile all'art. 587 (questo nel termini descritti da Cass. Sez. 6 3.7.2019 n. 41960) per effetto del principio di immanenza, stante la pendenza dell'azione penale e l'allora sussistente prospettiva di una possibile utile deliberazione finale in termini di condanna agli effetti penali (con l'effetto ex art. 597, comma 2, lett. a e b). in altri termini, i capi assolutori della seconda sentenza di appello sono stati dunque esaminati dalla Corte di cassazione nella seconda sentenza di annullamento (quella da cui scaturisce il presente giudizio di rinvio) a seguito del- l'ammissibile ricorso del procuratore generale, ai cui motivi hanno aderito anche le parti civili. 6.3. Conclusivamente sul punto, in questa sede non si va a rilevare, in violazione dell'art. 627 comma 4 cod. proc. pen., una inammissibilità del ricorso delle parti civili avverso la prima sentenza di rinvio non colta dalla Corte di cassazione. Ma si deve constatare che il solo principio di immanenza non permette più di procedere autonomamente e solo per la trattazione rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 dell'azione civile con eventuale ulteriore corposa istruttoria, essendo venuta ormai meno anche la mera possibilità di una pronuncia "utile" ai fini penali in ragione della maturata prescrizione. deve pertanto dichiararsi precluso l'esercizio autonomo ex art. 576 cod. proc. pen. del- l’azione civile promossa dalle parti civili Associazione italiana esposti amianto e medicina democratica movimento per la salute onlus. Al che consegue anche il rigetto della richiesta di produzione dei documenti presentata dalle parti civili. 7. Venendo alla definizione dell'azione penale, osserva la Corte. intervenuta la prescrizione dei reati, sono inammissibili le integrazioni istruttorie chieste dal procuratore generale sul presupposto di una ancora possibile affermazione di responsabilità penale (affermazione che sarebbe preclusa persino se le integrazioni istruttorie fossero tali da condurre alla prova della responsabilità). la prima sentenza di annullamento non aveva preso in esame le specifiche doglianze proposte dalla difesa in ordine alla necessaria riassunzione delle prove dichiarative decisive, e ciò perché ha ritenuto assorbiti i ricorsi degli imputati e del responsabile civile, una volta accolto il ricorso del procuratore generale. Ma il passaggio dall'assoluzione alla prescrizione, in quanto deteriore rispetto alla pronuncia impugnata, passerebbe necessariamente dalla riassunzione delle prove dichiarative decisive (Cass. Sezioni unite 19.1.2017 n. 18620, ric. Patalano). Proprio tali richieste ed esigenze procedimentali ex art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. tuttavia, attestano che allo stato non vi sono le condizioni per il proscioglimento ai sensi dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen. Quanto all'esito del rapporto tra la originaria formula di proscioglimento secondo i parametri dell'art. 530, comma 2, cod. proc. pen., e la causa estintiva sopravvenuta di prescrizione, è sempre la sentenza Cass. Sezioni unite 28.5.2009 n. 35490, ric. Tettamanti che impone la conferma della statuizione assolutoria. l'insegnamento consolidato è infatti che l'immediata declaratoria di prescrizione prevale sulla formula assolutoria solo quando venga accolto l'appello del pubblico ministero (cfr. p. 21 sent. Tettamanti). nel nostro caso non ci sono le condizioni per dichiarare già allo stato fondato l'appello del pubblico ministero, l'accoglimento delle doglianze dovendo passare attraverso una rinnovazione istruttoria che potesse comportare il venir meno del dubbio e far conseguire la certezza processuale della responsabilità degli imputati, pur senza alcuna conseguenza sotto il profilo penale (a reato prescritto). la pronuncia assolutoria va dunque confermata. 8. la complessità delle questioni da esaminare giustifica la previsione di un termine di novanta giorni per il deposito della sentenza, ai sensi dell'art. 544, comma 3, cod. proc. pen. PQM Visti gli artt. 627, 605 cod. proc. pen., decidendo in sede di rinvio dalla Corte di Cassazione, che con sentenza n. 11451/2019 ha annullato la sentenza della Corte d'Appello di Venezia di data 16.3.2017, di rinvio dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 3615/2016, che aveva annullato la sentenza della Corte d'Appello di Venezia di data 14.7.2014, che riformando la sentenza assolutoria del Tribunale di Padova di data 22.3.2012 aveva dichiarato estinti per prescrizione i reati ascritti agli imputati C., C., d. d. e P.: 1) dichiara non doversi procedere nei confronti di P. M. in ordine ai reati ascrittigli perché estinti per morte dell'imputato; 2) ammessa la dichiarazione del teste n., di rettifica di parte del contenuto del suo esame ConTenzioSo nAzionAle testimoniale, e dato atto dell'intervenuta prescrizione di entrambi i reati anche nella forma aggravata: -conferma nei confronti di C. F., C. G. e d. d. A. la sentenza del Tribunale di Padova di data 22.3.2012; -dichiara la preclusione all'esercizio autonomo ex art. 576 cod. proc. pen. dell'azione civile promossa dalle parti civili Associazione italiana esposti amianto e medicina democratica movimento per la salute onlus. Visto l'art. 544, comma 3, cod. proc. pen. indica in giorni novanta il termine di deposito della sentenza. Venezia, 30 ottobre 2020. rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 Un ricorso dell’avvocatura dello Stato in tema di stalking: l’ammonimento del Questore (ex art. 8 D.L. n. 11/2009) e il diritto di difesa dell’ammonendo (presunto) stalker (CoNsiGLio di stAto, sezioNe terzA, seNteNzA 24 APriLe 2020 N. 2620 ) CT 38753/19 - Avv. Melania nicoli aVVoCatURa GeneRaLe DeLLo Stato eCC.Mo ConSiGLio Di Stato in SeDe GiURiSDizionaLe RiCoRSo in aPPeLLo per il Ministero dell'interno (C.F. 80014130928) -in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato (C.F. 80224030587), Fax 0696514000, PeC: ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it, presso i cui uffici domicilia in roma, alla via dei Portoghesi n. 12 ContRo oMiSSiS, rappresentato e difeso dall'Avvocato Giampaolo la Cognata, con domicilio eletto in Genova, Via SS. Giacomo e Filippo 1915, presso il suo studio, PeC: giampaolo.lacognata@ordineavvgenova.it propone appello avverso la sentenza n. oMiSSiS del TAr liguria, Sez. ii, depositata il 09/05/2019, con la quale veniva annullato il provvedimento adottato in data 12/12/2014, con cui il Questore di Genova, ha ammonito il Sig. oMiSSiS ai sensi dell'art. 8 del d.l. n. 11/2019; Fatto Con la sentenza oMiSSiS in data 18/4/2019, il TAr della liguria ha annullato l'ammonimento del Questore di Genova, in data 12/12/2014, irrogato al Signor oMiSSiS ex art. 8, del decreto legge n. 11/2009. il giudice a quo, dopo avere passato in rassegna i momenti procedimentali che avevano portato il questore ad emettere il provvedimento, conclude stigmatizzando il fatto che l'Amministrazione avesse concluso il procedimento, con l'emanazione dell'ammonimento, senza avere ascoltato, quale persona informata dei fatti, il oMiSSiS, assumendo, il giudice, che quello dell'audizione del destinatario del provvedimento ex art. 8, d.l. n. 11/2009, sarebbe vero e proprio obbligo incombente sull'amministrazione, dovendosi annoverare, l'ammonendo, tra le persone informate dei fatti, alla stregua di ogni altra. la violazione di tale obbligo, secondo il giudice, sarebbe di per sé fatto idoneo e, anzi, sufficiente a inficiare il procedimento amministrativo e a invalidare il provvedimento finale adottato. ConTenzioSo nAzionAle il giudice argomenta, infatti, che tale adempimento sarebbe funzionale a garantire i diritti di difesa dell'ammonendo, "destinatario di un provvedimento repressivo di durata potenzialmente illimitata", osservando, altresì, che l'assolvimento dell'obbligo in parola non confliggerebbe "con la natura cautelare e urgente del provvedimento in esame allorché il quadro fattuale non denoti una situazione di inequivoca gravità in danno della vittima", non ravvisata, evidentemente, nel caso che occupa. dopo avere passato in rassegna alcune delle condotte vessatorie poste a base del provvedimento, depotenziandone, peraltro, la portata sotto il profilo della motivazione, e dopo avere assunto come -in qualche misura -rilevante, ai fini della validità dell'ammonimento, il ricongiungimento successivo della coppia, avvenuto nelle more della decisione, il giudice conclude affermando che "dal quadro narrativo così come delineato dalle parti non si evince una univoca gravità fattuale tale da escludere l'audizione del ricorrente in sede di istruttoria procedimentale". la sentenza qui appellata è illegittima ed erronea e va respinta per i seguenti MotiVi Violazione e falsa applicazione dell'art. 8 D.L. n. 11/2009. 1) Si tratta, anzitutto, di chiarire, se, per il caso che occupa, in punto di diritto, l'audizione del oMiSSiS, nell'ambito del procedimento amministrativo per il suo ammonimento, fosse attività effettivamente dovuta dall'Amministrazione e se la sua omissione sia fatto rilevante, idoneo, di per sé, sotto il profilo procedi- mentale, a travolgere la validità del provvedimento finale. Un primo approccio alla questione deve essere necessariamente di tipo lessicale, prima ancora che procedurale, essendo necessario tentare di chiarire, in primis, la portata del termine "persona informata dei fatti", dalla legge usato per indicare le persone che, ex art. 8, l'Amministrazione deve sentire prima dell'emissione del provvedimento, se esso possa, cioè, intendersi in senso a- tecnico o se, al contrario, debba essere inteso avuto riguardo alla disciplina processual-penalistica che regola l'assunzione di informazioni da parte della polizia giudiziaria, senza perdere di vista il fatto che, nel caso dell'art. 8, d.l. n. 11/2009, destinatario del provvedimento finale è colui che nel momento in cui si verificherà la condizione di procedibilità, vale a dire a seguito della proposizione di querela da parte della vittima -assumerà anche la veste formale di persona sottoposta a indagini per il reato di atti persecutori, e che in considerazione di tale qualità, egli gode (da subito) di una serie di diritti. Va rilevato, a riguardo, che nel plesso processuale-penale, la categoria delle persone informate dei fatti è tenuta ben distinta da quella delle persone sottoposte alle indagini, in quanto l'acquisizione di dichiarazioni rilevanti ai fini delle investigazioni da soggetti chiamati dalla polizia giudiziaria a riferire intorno a essi è assistita o meno da garanzie difensive a seconda se si versi nell'un caso o nell'altro. rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 nel caso di persone informate dei fatti, tout court, vale a dire persone che possono, potenzialmente, assumere la veste di testimoni nel processo penale, ma che nulla hanno a che vedere con il reato sul piano della personale responsabilità, non è prevista alcuna garanzia difensiva, dacché la legge impone a siffatte persone di presentarsi alla polizia giudiziaria, ove siano da essa chiamate, e di rispondere alle domande, avendo, anche l'obbligo di farlo secondo verità. diverso è il caso, invece, delle persone sottoposte alle indagini, la cui audizione da parte della polizia giudiziaria presenta profili di estrema complicazione che non si rinvengono nell'ipotesi precedente. Per il caso della persona ch'è indagata, l'attività di assunzione delle informazioni da parte della polizia giudiziaria riposa sopra una rigida disciplina processuale, la quale è tesa alla salvaguardia delle garanzie difensive postulate dall'art. 24 e dall'art. 111 della Costituzione, che, a partire dalla necessaria assistenza di un avvocato, senza il quale non possono assumersi dichiarazioni [art. 350, comma 3, del codice di procedura penale], si sgrana lungo il filo del- l'art. 64 dello stesso codice, che, al comma 3, stabilisce che, prima che abbia inizio l'esame, la persona deve essere avvertita che: a) le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti; b) (...) ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda, ma comunque il procedimento seguirà il suo corso; b) se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l'ufficio di testimone (...). All'elenco si aggiunga, infine, la possibilità, di derivazione pretoria, attribuita a chi sia sottoposto ad indagini financo, di mentire, posto che costoro non abbiano l'obbligo di dire la verità alla polizia giudiziaria. Si vede bene come la disciplina che assiste l'assunzione di dichiarazioni dalla persona indagata, sopra solo sommariamente descritta, mal si concilia con l'obbligo che il giudice a quo vorrebbe incombente sull'Amministrazione di annoverare l'autore dello stalking tra le persone informate dei fatti e, per giunta, impone all'Amministrazione di convocarlo e di sentirlo su fatti che siano a lui stesso addebitabili sotto il profilo della penale responsabilità, ciò che determinerebbe un cortocircuito procedurale con ogni evidenza insanabile, a partire dalla dubbia utilità (rectius, utilizzabilità) di tali dichiarazioni, le quali potrebbero anche rivelarsi false, stante il diritto dell'indagato di (impunemente) mentire. in altri termini, l'autore delle attività persecutorie a carico del quale il Questore abbia instaurato un procedimento amministrativo per il suo ammonimento, non può essere considerato persona informata dei fatti, a cagione della sua peculiare veste di [presunto] responsabile del reato. egli, infatti, è, sì, a conoscenza dei fatti, ma lo è sol perché ne è anche [il presunto] autore. in altri termini, il fatto che egli conosca i fatti non deve far perdere di vista il fatto ulteriore che in quanto [possibile] autore dei reati e, quindi, in potenza, indagato, ConTenzioSo nAzionAle egli ancorché si versi nell'ambito di un procedimento amministrativo perde nient'affatto il diritto alle garanzie difensive, le quali, ancor prima che dal codice di procedura penale, gli derivano direttamente dall'art. 24 della nostra Carta costituzionale, garanzie che mal si accorderebbero con il procedimento amministrativo, a cagione della loro peculiare natura. Vuol dirsi, in termini ancora diversi, che la natura "solo" amministrativa del procedimento finalizzato all'adozione dell'ammonimento non può esimere l'Autorità di polizia procedente dal garantire al soggetto che dall'eventuale provvedimento verrà inciso le garanzie difensive cui egli, in quanto [presunto] responsabile del reato, comunque, ha diritto. V'è di più, in quanto, a deporre contro la ricostruzione ermeneutica del Tar della liguria pare essere, altresì, il dato letterale dell'art. 63 del codice di procedura penale, il quale stabilisce che ... "se davanti all'autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria una persona non imputata ovvero una persona non sottoposta alle indagini rende dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico, l'autorità procedente ne interrompe l'esame, avvertendola che a seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti e la invita a nominare un difensore. Le precedenti dichiarazioni non possono essere utilizzate contro la persona". *** Si vorrebbe, nell'ermeneutica dell'art. 8 del d.l. n. 11/2009 assunta dal giudice a quo, che la polizia di sicurezza [ch'è, si badi, anche polizia giudiziaria], la quale abbia instaurato un procedimento amministrativo per l'irrogazione del- l'ammonimento a un soggetto accusato di atti persecutori, ex art. 612 bis del Codice penale, convocasse costui e che lo ascoltasse come "persona informata dei fatti". in ciò v'è un paradosso, poiché, come già s'è visto, costui, una volta che fosse convocato, potrebbe anche decidere di non rispondere o di rispondere il falso [perché no?], posto che la legge glielo consenta. Ma anche ammesso che risponda, come potrebbe mai conciliarsi la sua audizione in qualità di persona informata dei fatti da parte della polizia con il principio costituzionale dell'inviolabilità del diritto di difesa, ex art. 24 della Costituzione, posto che l'ammonendo dovrebbe riferire su fatti per i quali potrebbe aprirsi in ogni momento procedimento penale a suo carico? A riguardo, per tutte, è forse opportuno citare quel recentissimo arresto della Corte di Cassazione, nel quale i giudici della legittimità hanno chiarito la portata dell'art. 220 del codice di procedura penale in relazione all'ipotesi in cui in un procedimento amministrativo (una verifica fiscale, nel caso in specie) siano raccolte dichiarazioni dalle quali emergano indizi di reato a carico del dichiarante. orbene, la Corte ha stabilito che in tal caso, sull'organo procedente, incombe l'obbligo -ai sensi dell'art. 220 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale -di osservare le disposizioni del rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 codice di rito per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire ai fini dell'applicazione della legge penale. Si vede bene, allora, come l'acquisizione -da chicchessia -di dichiarazioni che siano, anche solo in potenza, autoaccusatorie, sia attività da non sottovalutare, dati i numerosi limiti posti dalla legge a tutela dell'imprescindibile e indefettibile diritto di difesa della persona accusata, diritto che non ammette eccezioni, neppure ove tali informazioni dovessero essere raccolte nell'ambito di un procedimento solo amministrativo. il principio è chiaramente stabilito anche a livello unionale, dacché la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, 22 maggio 2012, n. 2012/13/Ue, in materia di diritti di informazione dell'indagato, all'art. 3, stabilisce che debba essere data adeguata garanzia da parte degli Stati membri a che alle persone indagate o imputate sia data tempestivamente informazione circa il diritto di avvalersi di un legale e del diritto al silenzio. né il fatto che la parte offesa abbia preferito richiedere l'ammonimento al questore, anziché presentare da subito querela, sposta, in qualche modo, i termini della questione sotto il profilo delle garanzie dell'indagato. Ciò, a tacer d'altro, si desume, anche, dal contenuto dell'art. 346 del codice di procedura penale, il quale dispone che ... fermo quanto disposto dall'articolo 343, in mancanza di una condizione di procedibilità che può ancora sopravvenire, possono essere compiuti gli atti di indagine preliminare necessari ad assicurare le fonti di prova e, quando vi è pericolo nel ritardo, possono essere assunte le prove previste dall'articolo 392. le questioni problematiche sottese all'ermeneutica dell'art. 8, del decreto legge n. 11/2019, sono note, peraltro, alla stessa giurisprudenza amministrativa, la quale, dopo alcune iniziali pronunce inclini a considerare persona informata dei fatti anche il (presunto) responsabile degli atti persecutori, è addivenuta, successivamente, a un orientamento più coerente, più in linea, cioè, col dettato normativo e in accordo con la tesi sostenuta da questa stessa Amministrazione. Secondo tale opposta e più condivisibile impostazione, infatti, la persona informata dei fatti è soggetto diverso sia dall'ammonendo e sia dalla vittima, rispondendo tale distinzione concettuale alla ratio stessa della disposizione, la quale esige che il Questore formi correttamente il suo convincimento sulla base di informazioni raccolte da soggetti non emotivamente coinvolti nella vicenda. il quadro dogmatico sopra solo sommariamente tracciato induce, con grande chiarezza, ad escludere il destinatario dell'ammonimento, che dei fatti su cui deve riferire sia, anche solo in potenza, autore, dal novero di quelle, informate dei fatti, che, ex art. 8 del decreto legge n. 11/2009, l'Autorità di pubblica sicurezza è tenuta a sentire nel procedimento. in ogni caso, anche a volere considerare l'esistenza di un obbligo dell'amministrazione a sentire l'ammonendo (presunto) stalker, tale obbligo deve comunque intendersi assolto con la comunicazione di avvio del procedimento e ConTenzioSo nAzionAle con l'invito all'interessato a presentare memorie o scritti difensivi, posto che la norma non implichi necessariamente che la persona sia convocata per rendere oralmente le dichiarazioni che egli ben può esporre per iscritto, oltretutto con maggior ponderazione, quindi con maggior completezza ed efficacia (cfr. C. di St., Sez. iii, n. 2599/2015). *** Chiarita la questione nei termini appena indicati, resta da chiarire quali siano, allora, gli strumenti che l'ordinamento appresta a tutela del soggetto il quale sia parte nel procedimento amministrativo per l'adozione dell'ammonimento nei suoi stessi confronti; in qual modo, cioè egli possa dire la sua e difendersi, conciliando in una sintesi giuridicamente fondata le varie posizioni in campo avuto riguardo al fatto che egli non sia una persona informata dei fatti nell'accezione processual-penalistica del termine. Tale tutela va ricercata, evidentemente e necessariamente, nel plesso di riferimento del procedimento amministrativo, ovverosia la legge generale 7 agosto 1990, n. 241, e, in particolare, nei suoi articoli 7 e 10. È nel momento procedimentale per l'adozione del provvedimento dell'ammonimento -e nella sua partecipazione a esso -che lo stalker (rectius, il presunto stalker) deve pretendere di trovare -ed effettivamente trovare -il proprio coinvolgimento, che, beninteso, non dev'essere, meramente, un fatto di forma, dacché esso deve effettivamente e concretamente permettergli di approntare tutte le sue difese, mediante una partecipazione che gli consenta di rispondere alle accuse mosse dalla (presunta) vittima, anche avuto riguardo al principio di imparzialità dell'azione amministrativa dal quale, comunque, non può prescindersi. Proprio da questo versante, infatti, il massimo Consesso della giustizia amministrativa ha sanzionato il ritardo nella comunicazione di avvio del procedimento e la scarsa attenzione rivolta dal Questore alle controdeduzioni dell'ammonendo. Si vede con estrema nitidezza, allora, come consentire al presunto colpevole di difendersi nel procedimento amministrativo con lo strumento della partecipazione attiva e stimolata da parte dell'Amministrazione, ai sensi dell'art. 10 della legge 241/1990, sia l'unico strumento in grado di conciliare in una sintesi giuridicamente equilibrata l'obbligo di garantire al (presunto) responsabile il suo diritto a difendersi nel procedimento amministrativo con la sua qualità di (presunto) responsabile del reato, senza che, per questo, i suoi diritti e le sue garanzie difensive, quale presunto responsabile del reato, ne escano intaccati. la questione che deve rilevare, infatti è, ad avviso di questa Amministrazione, la spontaneità della partecipazione (rectius, delle dichiarazioni), sia pur stimolata dall'Amministrazione con la comunicazione dell'avvio del procedimento e con l'informazione ai partecipanti al procedimento (ammonendo compreso) dei diritti loro accordati dalla legge. l'acquisizione delle dichiara rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 zioni spontanee, infatti, è lecita -e come tale si concilia -anche avuto riguardo alla qualità di (futuro) indagato di chi tali dichiarazioni renda, posto che l'art. 350, comma 7, del codice di procedura penale consenta alla polizia giudiziaria di ricevere tali dichiarazioni dall'indagato anche in assenza del difensore e senza la somministrazione degli avvisi previsti dall'art. 64 del codice di procedura penale, posto che, in tal guisa, la legge non consideri violata alcuna garanzia difensiva. *** nel caso che occupa, il diritto del Signor oMiSSiS a dire la sua, a difendersi, a portare argomenti a confutazione e prove utili a consentire al Questore di pervenire a un convincimento e a una decisione diversi rispetto a quelli cui è pervenuto, è stato garantito attraverso la tempestiva comunicazione di avvio del procedimento, ex art. 10 della legge 241/1990, diritto che il oMiSSiS non ha inteso, peraltro, esercitare, posto che nel procedimento sia rimasto "muto". di talché, fondare l'annullamento dell'ammonimento sopra l'omessa, presunta, violazione dell'art. 8 del decreto legge n. 11/2009, opinando che l'Amministrazione non abbia dato spazio al oMiSSiS per difendersi dalle accuse della (presunta) vittima degli atti persecutori è fatto che non risponde alla realtà dei fatti, oltre che contraddittorio in termini, visto che il diritto del oMiSSiS a dire la sua sia stato garantito proprio attraverso la comunicazione dell'avvio del procedimento, in cui l'uomo fu esplicitamente invitato a presentare memorie o scritti difensivi, a difendersi, in altre parole. invito rispetto al quale egli è rimasto inerte. Ad avviso di questa difesa, la validità del procedimento e quella del discendente ammonimento, è sotto ogni profilo incontestabile, innegabile, posto che il Questore abbia osservato tutti i doveri istruttori previsti dall'art. 8, co. 2, del decreto legge n. 11/2009, armonizzando tale disciplina con quella generale di cui alla legge n. 241/1990. il Questore, infatti, ha formato il proprio convincimento sulla sussistenza della pericolosità sociale del presunto stalker mediante la puntuale valutazione de: 1. fatti narrati dalla presunta vittima; 2. le informazioni degli organi investigativi; 3. le dichiarazioni rese dalle persone informate sui fatti. non ha, invece, tenuto conto (rectius, non ha potuto tenere conto) della posizione dell'ammonendo poiché, come s'è visto, costui non ha inteso partecipare al procedimento, omettendo, consapevolmente di fornire la propria versione dei fatti, ancorché a ciò fosse stato sollecitato con lo strumento della comunicazione del suo avvio. e ciò, in punto di diritto vivente, ancorché, nel caso in specie, l'istruttoria si sarebbe potuta ritenere formalmente completa anche senza l'instaurazione del contradditorio, essendo le prove raccolte idonee di per sé a dimostrare l'evento ed essendo l'urgenza dell'intervento in re ipsa. ConTenzioSo nAzionAle in punto conclusionale, la sentenza de qua è da ritenersi errata, illegittima in punto di diritto e carente di motivazione. P.Q.M. il Ministero dell'interno, come sopra rappresentato e difeso chiede che codesto Consiglio di Stato voglia annullare la sentenza de qua perché illegittima, con vittoria di spese. roma, 28/10/2019 Avvocato dello Stato Melania Nicoli Consiglio di Stato, Sezione terza, sentenza 24 aprile 2020 n. 2620 -Pres. Franco Frattini, est. Giovanni Pescatore - Ministero interno (avv. gen. Stato) c. oMiSSiS (n.c.) FATTo 1. nel giudizio di primo grado l’attuale appellato oMiSSiS ha impugnato il provvedimento datato 12 dicembre 2014 con il quale il Questore di Genova lo ha ammonito ai sensi dell’art. 8 del d.l. n. 11/2009, ritenendolo responsabile di atti persecutori in danno della ex compagna oMiSSiS. 2. l’atto è fondato, per un verso, sulle dichiarazioni della parte lesa, descrittive del contegno aggressivo e persecutorio assunto dall’uomo, concretatosi in minacce e molestie volte ad indurre la donna a riallacciare la relazione sentimentale in precedenza intrattenuta con il suo molestatore; e, per altro verso, sulle risultanze investigative emerse all’esito dell’acquisizione di sommarie informazioni rese da soggetti terzi. 3. Con la sentenza n. oMiSSiS, il giudice di primo grado ha accolto l’impugnativa, ritenendola fondata in relazione alla dedotta violazione dell’art. 8 del d.l. n. 11/2009, per difetto di istruttoria. A tal fine ha osservato come la norma violata imponga all’amministrazione questorile di sentire le persone informate sui fatti, e tra queste anche il presunto autore delle condotte persecutorie; come questo incombente non confligga con la natura cautelare e urgente del provvedimento in esame, non quantomeno laddove il quadro fattuale non denoti una situazione di inequivoca gravità in danno della vittima; e come, nel caso specifico, le contestazioni mosse al sig. oMiSSiS non potessero legittimare l’attenuazione dell’attività istruttoria imposta dall’art. 8 citato, e ciò anche alla luce del fatto che, nel periodo intercorrente tra gli episodi contestati, la sig.ra oMiSSiS non solo aveva intenzionalmente ripreso la relazione sentimentale con l’attuale appellato, ma si era anche trasferita con le figlie nella di lui casa di campagna. 4. Appella in questa sede l’amministrazione dell’interno, sulla base delle deduzioni di seguito riportate. 5. l’appellato, pur ritualmente intimato, non si è costituito in giudizio. rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 6. in assenza di istanze cautelari, la causa è stata discussa e posta in decisione all’udienza del 16 aprile 2020, tenuta in videoconferenza ex art. 84, co. 6, d.l. n. 18/2020. diriTTo 1. il Ministero appellante propone una interpretazione restrittiva del termine "persona informata dei fatti", impiegato dall’art. 8 d.l. n. 11/2009 per indicare le persone che l'Amministrazione deve sentire prima dell'emissione del provvedimento. Mutuando l’impostazione invalsa nel sistema processual-penalistico, la difesa erariale osserva che: -se la posizione del destinatario dei fatti va assimilata a quella del soggetto indagato, per “persone informate dei fatti”, viceversa, devono intendersi quei soli soggetti che potenzialmente possono assumere la veste di testimoni nel processo penale, ma che nulla hanno a che vedere con il reato sul piano della personale responsabilità. diverse sono, infatti, il regime procedimentale, le garanzie difensive e l’utilizzabilità probatoria che caratterizzano le dichiarazioni rese agli organi inquirenti da tali due distinte categorie di soggetti; -d’altra parte, anche a volere considerare l'esistenza di un obbligo per l'amministrazione di sentire il presunto stalker, tale obbligo dovrebbe comunque intendersi assolto con la comunicazione di avvio del procedimento e con l'invito all'interessato a presentare memorie o scritti difensivi (artt. 7 e 10 l. 241/1990), posto che la norma non implica necessariamente che la persona sia convocata per rendere oralmente le dichiarazioni che ben può esporre per iscritto, oltretutto con maggior ponderazione, completezza ed efficacia (cfr. Cons. Stato, sez. iii n. 2599/2015); -l'acquisizione delle dichiarazioni spontanee, infatti, è lecita, e come tale si concilia anche con la qualità di (futuro) indagato di chi tali dichiarazioni renda, posto che l'art. 350, comma 7, del codice di procedura penale consente alla polizia giudiziaria di riceverle dall'indagato anche in assenza del difensore e senza la somministrazione degli avvisi previsti dall'art. 64 del codice di procedura penale; -dette garanzie, osserva il Ministero appellante, nel caso di specie sono state offerte alla parte attraverso la tempestiva comunicazione di avvio del procedimento, ex art. 10 della legge 241/1990, della quale il sig. oMiSSiS ha liberamente e immotivatamente scelto di non avvalersi. 2. l’appello è fondato. 2.1. l’art. 8 comma 2 del d.l. n. 11/2009 prevede che “il questore, assunte se necessario informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, ove ritenga fondata l'istanza, ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo processo verbale”. 2.2 la norma, nella parte in cui subordina ad una valutazione di “necessità” (“.. se necessario..”) l’acquisizione di informazioni, evidentemente affida alla valutazione discrezionale dell’autorità competente la modulazione degli strumenti di approfondimento istruttorio, implicitamente offrendole, per quanto qui rileva, la possibilità di una interlocuzione con il diretto interessato nella duplice e alternativa forma delle deduzioni scritte (ex artt. 7 legge n. 241/1990), oppure dell’audizione diretta, in forma orale. 2.3. È quindi rimessa al Questore, nell'ambito dei suoi poteri discrezionali, non solo la scelta di emettere o meno la misura, ma anche di stabilire la tempistica della sua iniziativa e le modalità della previa indagine istruttoria. ConTenzioSo nAzionAle l'inoltro della comunicazione di avvio del procedimento, previsto dall'art. 7, l. n. 241 del 1990, si impone come obbligatorio solo se le circostanze effettivamente consentono di avvisare il possibile destinatario dell'atto, in quanto non si evidenziano, in senso contrario, specifiche ragioni di urgenza, non altrimenti fronteggiabili se non attraverso un intervento illico et immediate (Cons. Stato, sez. iii, n. 4187/2018 e 5259/2018). 2.4. il quadro delle garanzie partecipative, pertanto, si articola in forme composite e diversamente modulabili, conseguenti sia alle specifiche e contingenti circostanze del caso, sia alla varietà degli strumenti offerti dall’ordinamento. È oramai consolidato l’indirizzo interpretativo che annette al provvedimento in questione (del quale non possono disconoscersi gli effetti particolarmente lesivi, dal momento che esso comporta non solo la procedibilità d'ufficio, ma anche l'aumento di pena, per il delitto previsto dall'art. 612 bis c.p.) una funzione tipicamente cautelare e preventiva, essendo esso preordinato a che gli "atti persecutori" posti in essere contro la persona non siano più ripetuti, e non abbiano a cagionare esiti irreparabili. Queste essendo le finalità proprie del provvedimento questorile, è del tutto palese l'esigenza che la sua adozione avvenga in tempi rapidi, in ragione della necessità di interrompere con immediatezza l'azione persecutoria. e del resto è lo stesso legislatore a configurare l'"ammonimento" come provvedimento caratterizzato da "esigenze di celerità", laddove ne ha previsto la esternazione in forma orale (art. 8, 2° comma), ed ha stabilito che la richiesta della sua emissione sia trasmessa al Questore "senza ritardo" (art. 8, 1° comma). 2.5. nella fase procedimentale propedeutica all’emissione del provvedimento, il punto di intollerabile compressione dei diritti difensivi del destinatario della misura preventiva si raggiunge nella sola ipotesi in cui, pur difettando una situazione di concreta ed insuperabile urgenza, allo stesso vengano immotivatamente negate tutte le possibilità (scritte e orali) di interlocuzione con l’autorità competente. 2.6. nella diversa ipotesi -coincidente con quella per cui è lite -in cui via sia stata comunicazione di avvio del procedimento e a questa non abbia fatto seguito né una risposta scritta, né una specifica richiesta di audizione orale, il quadro istruttorio non può dirsi inficiato dalla violazione dell’art. 8, e ciò sia perché nulla preclude che le stesse informazioni possono essere rese, con altrettanta ponderazione, completezza ed efficacia, nella modalità scritta, in alternativa a quella orale; sia perché proprio l’interlocuzione scritta offre alla parte la possibilità di manifestare l’esigenza di essere sentita oralmente, illustrando le specifiche ragioni che rendono, a suo dire, quel passaggio istruttorio essenziale e indefettibile ai fini della completezza e della fruttuosità dell’indagine condotta dall’amministrazione. A valle dell’adozione del provvedimento, infine, il sistema offre ulteriori strumenti attraverso i quali il destinatario di tali atti può esporre quelle deduzioni di merito che non ha avuto modo di formulare in precedenza: la motivata richiesta di riesame, il ricorso gerarchico e l’impugnativa giurisdizionale. 3. nel caso di specie, il sig. oMiSSiS non ha dimostrato per quale specifica ragione la sua mancata audizione non potesse trovare adeguata compensazione nella formulazione di osservazioni scritte e sotto quale profilo, nel descritto quadro di circostanze, tale omissione possa aver determinato un irreparabile vulnus del suo diritto di difesa (cfr., in questo senso, Tar Trento, sez. i, n. 276/2018, n. 239/2018 e n. 329/2016). neppure ha chiarito cosa gli abbia impedito di fare presente, attraverso le note procedimentali, la necessità di essere ascoltato o di arricchire il quadro istruttorio attraverso l’audizione di terze persone informate dei fatti, delle quali ha indicato i nominativi solo nel ricorso giurisdizionale di primo grado (pag. 8). rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 4. ne consegue che appare irricevibile, alla luce del testo oltre che della ratio delle disposizioni normative invocate, l’esasperato irrigidimento interpretativo che l’appellato pretende di introdurvi con riguardo alle modalità di possibile interlocuzione tra l’amministrazione e la parte destinataria del provvedimento. del pari, e per l’effetto, appare non accoglibile la tesi della infungibilità dell’audizione orale del presunto stalker, come avallata -in pedissequo recepimento delle deduzioni di parte - dalla pronuncia di primo grado. 5. la sentenza appellata merita quindi di essere riformata, con conseguente reiezione del ricorso di primo grado. 6. le spese di lite dei due gradi di giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado. Condanna l’appellato a rifondere in favore della parte appellante le spese dei due gradi di giudizio che liquida nell’importo complessivo di €. 2.000,00 (duemila), oltre accessori di legge. ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del regolamento (Ue) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le parti private. Così deciso in roma nella camera di consiglio del giorno 16 aprile 2020, svoltasi in videoconferenza ex art. 84, comma 6, d.l. n. 18 del 2020. ConTenzioSo nAzionAle emergenza pandemica e misure limitative ANNotAzioNe A tribUNALe AmmiNistrAtivo reGioNALe Per iL LAzio, sezioNe i, ordiNANzA 26 mArzo 2021 N. 1921 (*) l’ordinanza del Tar lazio in rassegna, resa in un contenzioso concernente la contestazione delle misure limitative all'attività dei teatri per finalità di contrasto dell'emergenza pandemica, ha rigettato l’avversa istanza cautelare. l'ordinanza si segnala, oltre che per l'affermazione del carattere estrinseco del sindacato del GA sui dPCM, per la delibazione, sia pur evidentemente sommaria, -la prima, a quanto ci consta -dell'insussistenza di profili d'incostituzionalità dei dl posti a base dei vari dPCM. in particolare, richiamiamo all’attenzione quest’affermazione che dà conto della legittimità dell’intero “procedimento” “la catena di regolazione così posta in essere, basata sull’adozione di una normativa primaria che ha individuato una serie di strumenti per fronteggiare la crisi sanitaria e affidato ai dPCm la funzione di attuarne il concreto contenuto, appare rispettosa dell’obbligo per il legislatore di introdurre, nel rispetto dei limiti costituzionalmente imposti, misure a titolo di profilassi internazionale rapide ed efficaci e che tengano conto della specificità connesse alla gestione della pandemia”. tribunale amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione Prima, ordinanza 26 marzo 2021 n. 1921 -Pres. A. Savo Amodio, est. l.M. Brancatelli -Teatro Franco Parenti Società Cooperativa impresa Sociale (avv.ti A. Segato, S. Valaguzza e M. Clara) c. Presidenza del Consiglio dei Ministri (avv. gen. dello Stato). (...) Considerato che il Teatro Franco Parenti con gli ultimi motivi aggiunti ha impugnato il dPCM del 2 marzo 2021, sia nella parte in cui reitera la sospensione dell’attività degli spettacoli aperti al pubblico fino al 27 marzo 2021 sia laddove prevede, successivamente a tale data, per i territori ricadenti nella cosiddetta “zona gialla”, che simili attività sono consentite limitatamente alla capienza massima non superiore al 25% di quella autorizzata e comunque del numero massimo di spettatori di 200 all’interno e di 400 all’aperto; ritenuto che le misure impugnate sono state adottate a seguito di una specifica e articolata istruttoria (cfr. il verbale n. 159 del Comitato tecnico scientifico) e che, nell’ambito del sindacato consentito al giudice amministrativo su scelte di tale tipo, le determinazioni assunte non appaiono inficiate da manifesta illogicità e arbitrarietà; Considerato, inoltre, che le questioni di legittimità costituzionale prospettate in relazione ai decreti legge che hanno autorizzato l’emanazione dei dPCM non appaiono, sulla base del- l’analisi propria della fase cautelare, suscettibili di favorevole apprezzamento, tenuto conto che: (*) Segnalazione 1 aprile 2021 avv. Stato roberta Guizzi, affidataria della causa unitamente all’avv. St. eugenio de Bonis. rASSeGnA AVVoCATUrA dello STATo -n. 4/2020 l’intervento legislativo ricade nella competenza esclusiva dello Stato a titolo di «profilassi internazionale » (art. 117, secondo comma, lettera q, Cost.), che è comprensiva di ogni misura atta a contrastare una pandemia sanitaria in corso, ovvero a prevenirla; a fronte della diffusione del virus Sars-CoV-2 il legislatore è stato chiamato a fronteggiare una emergenza sanitaria di portata mondiale, correlata alla rapidissima diffusione del CoVid19, malattia in grado di compromettere non solo la salute dei singoli individui ma anche di determinare, a causa del rischio di “sovraccarico” del sistema ospedaliero, un pericolo per l’incolumità pubblica; ciò ha richiesto, a causa della rapidità e della imprevedibilità di espansione del contagio, “l’impiego di strumenti capaci di adattarsi alle pieghe di una situazione di crisi in costante divenire” (così Corte Cost., sent. n. 37/2021); le misure via via introdotte, dall’inizio della pandemia, per contrastare e contenere il diffondersi del virus si sono basate sull’adozione di norme di rango primario (in particolare: il d.l. n. 19/2020, convertito in legge n. 35/2020 ed il d.l. n. 33/2020, convertito in legge n. 74/2020) e sono state adottate nel rispetto di principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente su specifiche parti del territorio nazionale ovvero sulla totalità di esso; al fine di rispettare il principio di riserva di legge, la normativa primaria ha indicato puntualmente una serie di misure temporaneamente limitative di talune libertà individuali, da adottare attraverso lo strumento del dPCM, di modo che le misure di contenimento prescelte fossero concretamente modulate in relazione all’andamento mutevole dell’epidemia; la catena di regolazione così posta in essere, basata sull’adozione di una normativa primaria che ha individuato una serie di strumenti per fronteggiare la crisi sanitaria e affidato ai dPCM la funzione di attuarne il concreto contenuto, appare rispettosa dell’obbligo per il legislatore di introdurre, nel rispetto dei limiti costituzionalmente imposti, misure a titolo di profilassi internazionale rapide ed efficaci e che tengano conto della specificità connesse alla gestione della pandemia; ritenuto, infine, che la domanda cautelare, oltre che sfornita di adeguato fumus boni iuris, non presenta neppure il prescritto requisito del periculum in mora, tenuto conto che la parte ricorrente svolge la sua attività in una regione attualmente classificata “zona rossa” e che la totale sospensione degli spettacoli in presenza dipende all’elevato grado di diffusione del virus Sars-CoV-2 registrato in tali aree; a fronte del grave quadro epidemiologico, l’interesse di cui è portatore l’esponente deve considerarsi recessivo rispetto all’esigenza di tutelare la salute pubblica; Considerato, in conclusione che la domanda cautelare non può trovare accoglimento, potendosi tuttavia compensare le spese della presente fase in ragione della novità delle questioni sottoposte; P.Q.M. il Tribunale Amministrativo regionale per il lazio (Sezione Prima) respinge la domanda cautelare. Compensa le spese. la presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata presso la segreteria del tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in roma nella camera di consiglio mediante collegamento da remoto del giorno 24 marzo 2021. ParerideLComitatoConSuLtivo L’istituto del lavoro agile nella fase emergenziale da Covid 19, modalità applicative alle Fondazioni Lirico -Sinfoniche Parere del 06/06/2020-283300/283301/283302, al 17023/2020, V.a.G. GiusePPe albenzio 1. Con la nota cui si porge riscontro codesta Distrettuale ha sottoposto al- l'esame della Scrivente, valutandone un rilievo di portata generale per tutte le istituzioni nazionali, la questione proposta dalla Fondazione fiorentina in ordine ai limiti e condizioni dell'applicazione delle modalità di cd lavoro agile previste dalla normativa emergenziale adottata in occasione dell'epidemia COVID-19; specifica anche codesta Consorella di aver reso all'istituzione fiorentina un primo parere in via d'urgenza che propone, comunque, alla valutazione di massima ritenuta opportuna. Effettivamente, la questione de qua ha una portata di carattere generale e richiede l'espressione di un parere di massima da parte del Comitato Consultivo. 2. Il lavoro agile quale "modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti" (art. 18, l. n. 81/2017), è stato ripetutamente preso in considerazione dal Governo per consentire, nel corso dell'emergenza dettata dalla situazione epidemiologica, lo svolgimento dei rapporti di lavoro subordinati, in alternativa al ricorso a misure di sostegno del reddito dei dipendenti, come quelle di cui all'art. 19 dl 18/20, da considerarsi come "ultima ratio" e da attivare solo a fronte della assoluta impossibilità di prestazione lavorativa. Si tratta di un istituto disciplinato ordinariamente dalla legge 22 maggio 2017, n. 81, artt. 18 e ss. che, tuttavia, ha subito diverse deroghe per far fronte alla fase emergenziale. È stata prevista, infatti, la possibilità di prescindere dagli accordi individuali (dpcm 8 marzo 2020 art. 2, lett. r) nonché la possibilità di svolgere la prestazione lavorativa attraverso strumenti informatici nella disposizione del dipendente con la conseguente non applicazione, in tali casi, della previsione ordinaria di cui all'art. 18, comma 2, l. n. 81/2017 che prevede la rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 responsabilità del datore di lavoro per la sicurezza e il funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore (art. 87, d.l. 18/2020). Nonostante sia stato previsto espressamente che fino alla cessazione dello stato di emergenza il lavoro agile costituisca la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa "nelle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165" (art. 87, comma 1, d.1. 18/2020), in plurimi interventi normativi è stato fatto riferimento anche a soggetti diversi dalla pubblica amministrazione. In particolare, dalla lettura di numerose disposizioni contenute nei diversi provvedimenti adottati per far fronte alla situazione emergenziale, emerge chiaramente il ruolo fondamentale assegnato a tale modalità di svolgimento del rapporto lavorativo, fino ad ora assolutamente marginale. Difatti, in diverse occasioni è stato previsto che il lavoro agile potesse essere applicato "dai datori di lavoro a ogni rapporto di lavoro subordinato" (dpcm 8 marzo 2020, art. 2 lett. r) raccomandando il massimo utilizzo di tale modalità lavorativa anche da parte delle imprese, con riferimento sia all'attività produttiva che professionale (dpcm 11 marzo 2020, art. 1, 7 lett. a) e consentendo di evitare la sospensione delle attività produttive se organizzate in modalità a distanza o lavoro agile (dpcm 22 marzo 2020, art. 1 c). Infine, anche il dpcm 10 aprile 2020, art. 1, lett. gg), ha ribadito quanto già previsto dal dpcm 8 marzo 2020, art. 2, lett. r), facendo riferimento non più ai "datori di lavoro" ma ai "datori di lavoro privati", probabilmente per chiarire i dubbi in ordine alla possibilità per questi ultimi di applicare la modalità lavorativa in esame, al pari dei datori di lavoro pubblici per i quali, come detto in precedenza, si è previsto che il lavoro agile costituisca la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa (art. 87, d.l. 18/2020 e art. 90, d.l. 34/2020). Dal quadro normativo sopra delineato, come si legge nella Circolare n. 2/20 del Ministro per la Pubblica Amministrazione, emerge "un evidente favor verso l'attivazione quanto più estesa possibile del lavoro agile, fermo restando il ricorso agli istituti alternativi che le pubbliche amministrazioni possono applicare qualora non vi siano le condizioni per il ricorso al lavoro agile ". Inoltre, dalla Direttiva n. 3 del 2020 del medesimo Ministro si evince che il lavoro agile non sia destinato a ritornare a svolgere un ruolo marginale ma, al contrario, sicuramente nell'ambito della pubblica amministrazione, costituisca una misura che deve essere incrementata. Difatti, come si legge nella stessa Direttiva "la sfida che dovranno affrontare le amministrazioni è rappresentata dalla necessità di mettere a regime e rendere sistematiche le misure adottate nella fase emergenziale al fine di rendere il lavoro agile lo strumento primario nell'ottica del potenziamento dell'efficacia e dell'efficienza dell'azione amministrativa". 3. Con riferimento ai soggetti diversi dalla pubblica amministrazione, viene in rilievo nel caso di specie la Fondazione Maggio Musicale, derivante dalla trasformazione del preesistente Ente Lirico "Teatro comunale di Firenze" PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO (d.lgs. n. 134/1998), la quale ha personalità giuridica di diritto privato e integra gli estremi della figura di organismo di diritto pubblico di cui all'art. 3, comma 1, lett. d) del d.lgs. 50 del 2016 (cfr. -da ultimo -Consiglio di Stato, sez. V, 12 febbraio 2018, n. 858). Alla luce del quadro normativo delineatosi nel corso dell'emergenza epidemiologica, si deve ritenere che sia consentito a tali organismi ricorrere allo smart working. A tal riguardo, infatti, vengono in rilievo non solo i plurimi interventi normativi, già richiamati in precedenza, con cui è stato fortemente raccomandato il ricorso a modalità di lavoro agile non solo alle pubbliche amministrazioni ma anche a datori di lavoro privati ma, anche, il Protocollo condiviso Governo/OO.SS. del 14 marzo 2020 che incentiva le imprese a utilizzare lo smart working per tutte le attività che possono essere svolte presso il domicilio o a distanza nonché il d.l. 18/20, art. 87 bis (già d.l. 9/20, art. 18) che nel disciplinare le misure di ausilio allo svolgimento del lavoro agile da parte dei dipendenti, nella rubrica, fa espresso riferimento agli organismi di diritto pubblico. ulteriore riferimento a tali organismi è presente nella Direttiva n. 3/2020 del Ministro per la Pubblica Amministrazione in cui si legge che "lo scenario che si è delineato con la situazione emergenziale dovrà auspicabilmente rappresentare un'occasione utile per individuare gli aspetti organizzativi da migliorare... è necessario che già nella fase attuale le amministrazioni programmino i propri approvvigionamenti ricorrendo alle misure di ausilio allo svolgimento del lavoro agile da parte dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni e degli organismi di diritto pubblico". 4. Se da un lato è pacifica la possibilità per tali organismi di collocare il personale amministrativo in modalità di lavoro agile, dall'altro lato la questione che si è posta riguarda l'applicabilità di tale misura anche al personale artistico e tecnico in una situazione contingente nella quale tutte le attività di spettacolo sono sospese per legge. Difatti, sebbene la misura del lavoro agile abbia assunto un ruolo centrale nella legislazione emergenziale, sono comunque state previste, in alternativa, misure di supporto e di soccorso del reddito dei lavoratori momentaneamente privi di retribuzione. Si fa riferimento non solo alla cassa integrazione, ordinaria o in deroga (artt. 19 ss. d.l. n. 18/2020), applicabile a tutti i datori di lavoro ma, anche, alle misure specificatamente destinate ai settori dello spettacolo, del cinema e dell'audiovisivo (art. 89 d.l. n. 18/2020). Sulla base di una valutazione complessiva delle misure testé passate in rassegna e dei principi generali dell'organizzazione del lavoro e delle prerogative delle parti del rapporto di lavoro (datore/prestatore), si deve ritenere che compete al datore di lavoro la valutazione pregiudiziale sulla effettiva possibilità di trattenere in servizio pieno i dipendenti o parte di essi, eventualmente in modalità smart working. Tuttavia, si deve precisare che si tratta di una scelta di carattere imprendi rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 toriale che deve prescindere dall'obbligo del personale tecnico e amministrativo (come di ogni altro prestatore di lavoro) di mantenersi sempre "all'altezza" della prestazione richiesta: si tratta di un obbligo che grava su tutti i lavoratori e che, in particolare, caratterizza l'attività del personale altamente qualificato e che, pertanto, ricade sul lavoratore e non, invece, sul datore di lavoro. Sul punto, sembra opportuno sottolineare come anche il CCNL 1 marzo 2018 (art. 5), nella parte relativa alla formazione, pur prevedendo che nei confronti dei Quadri (a cui appartengono i lavoratori dell'area tecnico-amministrativa che siano inquadrati nel livello Funzionari A, ossia lavoratori con funzioni direttive ed elevato grado di professionalità, autonomia e responsabilità) sia attuato un piano specifico di interventi formativi, lo collega ai mutamenti tecnologici ed organizzativi. 5. Sembra, quindi, a questa Avvocatura Generale che non possa farsi ricorso alla modalità di lavoro dello smart working per semplicemente consentire al personale tecnico e al personale artistico la possibilità di mantenersi in costante e quotidiano esercizio, nella misura in cui tali attività siano da ricomprendere nel generale obbligo gravante su ogni lavoratore di conservare le proprie capacità lavorative e, come tali, non siano ricomprese nel normale orario di lavoro, così che, in assenza di mutamenti tecnologici ed organizzativi che richiedano la necessità di formazione ad hoc, ovvero di una nuova programmazione che necessiti di specifica preparazione ed esercizio, sembra sia opportuno preferire -nel contesto della normativa dell'emergenza Covid-19 il ricorso a misure di supporto del reddito, considerando che è obbligo del lavoratore, e non del datore di lavoro, tenersi pronto a rendere la prestazione lavorativa che gli compete nel momento in cui tale ripresa sarà possibile e potrà essere superata l'attuale contingenza nella quale per le Fondazioni lirico-sinfoniche non è possibile ottenere comunque una prestazione "utile" da parte dei dipendenti ed allestire spettacoli (contingenza che, come ritenuto nel parere reso da questa Avvocatura al MIBACT in data 16 aprile 2020 -cs. 15305/20, integra gli estremi della forza maggiore). In conclusione, le linee-guida che dovrebbero essere a base delle determinazioni che le Fondazioni andranno ad assumere nella materia possono così sintetizzarsi: a) spetta al datore di lavoro la determinazione pregiudiziale sulla possibilità/opportunità di trattenere in servizio pieno ed effettivo i dipendenti o parte di essi, eventualmente in modalità smart working; questa determinazione è riservata alla scelta e responsabilità imprenditoriale del datore di lavoro ed è connessa alla effettiva possibilità di continuare nella propria attività ed alle modalità attuabili di detta continuazione; solo nel caso di esito positivo di questa valutazione pregiudiziale, l'imprenditore, anche in coordinamento con i lavoratori e le loro rappresentanze sindacali, determinerà le modalità della prestazione lavorativa, ivi compresa quella del lavoro a distanza; b) nel caso, invece, di esito negativo di quella valutazione troveranno applicazione le misure PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO di supporto e soccorso del reddito dei lavoratori momentaneamente privi di retribuzione (ma trattenuti in servizio, anche in applicazione del divieto di licenziamento contestualmente disposto e salvo quanto consentito dall'art. 19 CCNL 18 aprile 2018 sulle cause di "forza maggiore", secondo la citata precedente consultazione resa da questa Avvocatura Generale a codesto Ministero) previste dalla normativa emergenziale (cassa integrazione, ordinaria o in deroga, ecc.). Sul parere come sopra formulato è stato sentito il Comitato Consultivo di questa Avvocatura Generale che si è espresso in conformità nella seduta del 4 giugno 2020. rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 Fruizione del trattamento di quiescenza quale causa di incompatibilità con il conferimento di incarico professionale presso gli ambulatori uSmaF-SaSn del ministero della Salute Parere del 11/06/2020-293830, al 38674/2017, aVV. daniela Canzoneri Con nota del 29 settembre 2017 n. 5044 codesta amministrazione ha sottoposto alla Scrivente una serie di quesiti inerenti la questione in oggetto descritta, manifestando, con nota in riferimento, il permanere dell’interesse alla consultazione. Nella richiesta di parere viene premesso in fatto che la D.G. della prevenzione sanitaria ha riscontrato, dalle dichiarazioni sostitutive rese annualmente dai medici e da altri professionisti sanitari che operano negli ambulatori per l’assistenza sanitaria e medico legale al personale navigante, marittimo e dell’aviazione civile, in relazione agli incarichi loro conferiti sulla base del- l’Accordo Collettivo Nazionale per la disciplina dei relativi rapporti, che alcuni di essi fruiscono del trattamento di quiescenza. Questi i quesiti: “se le previsioni di cui all’art. 5 del d.l. n. 95 del 2012 siano applicabili anche agli incarichi conferiti ai professionisti medici, biologi, veterinari e psicologi operanti presso gli ambulatori degli usMaF-sasn del Ministero della salute; se -anche nelle more del recepimento del nuovo a.C.n. sulla medicina specialistica ambulatoriale interna da parte dell’a.C.n. di settore -debba considerarsi incompatibile lo svolgimento delle attività presso gli ambulatori usMaF- sasn del Ministero della salute da parte dei professionisti che fruiscano del “trattamento di quiescenza come previsto dalla normativa vigente” (cfr. articolo 25 del nuovo a.C.n. sulla medicina specialistica ambulatoriale interna): se, nelle ipotesi sopra prospettate, gli incarichi che attualmente risultano conferiti a professionisti in quiescenza debbano essere revocati”. Codesta amministrazione compendia nei termini che seguono la questione sottoposta all’esame della Scrivente. L’art. 5, comma 9, del D.L. 6 luglio 2012, n. 95, conv. in L. n. 135/2012, novellato dall’art. 6 del D.L. n. 90/2014, conv. in L. 114/2014 (e, successivamente, dall’art. 17, comma 3, della L. n. 124/2015) vieta alle Pubbliche Amministrazioni di attribuire “incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza” (su tale disposizione non ha inciso, ai fini che qui interessano, la previsione derogatoria contenuta nel- l’art. 2-bis, comma 5, del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla l. 24 aprile 2020, n. 27). Con circolari n. 6 del 4 dicembre 2014 e n. 4 del 10 novembre 2015 l’allora Ministero per la semplificazione e la pubblica amministrazione ha precisato le finalità e le modalità applicative di detta norma rilevando: 1) che per PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO “lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza” debbano intendersi solo i lavoratori dipendenti e non quelli autonomi; 2) che l’obiettivo perseguito dalla norma è quello di evitare che il conferimento di incarichi sia utilizzato per aggirare l’istituto del collocamento in quiescenza. Si rammenta alla Scrivente che ai sensi dell’art. 18, comma 7, del D.lgs. n. 502/1992 i rapporti di cui si discute sono disciplinati con regolamento ministeriale, in conformità, per la parte compatibile, alle disposizioni dell’art. 8, che, a sua volta, prevede che il rapporto tra il SSN con i medici di medicina generale ed i pediatri di libera scelta è disciplinato da convenzioni di durata triennale conformi agli accordi collettivi nazionali e che quindi, il personale sanitario attraverso il quale vengono rese le prestazioni assistenziali e medico- legali a favore del personale navigante è titolare di rapporti di lavoro analoghi a quelli instaurati con i medici di medicina generale ed i pediatri di libera scelta del SSN, che esulano dal rapporto di pubblico impiego configurandosi come rapporti di prestazione d’opera professionale con connotati di “parasubordinazione” (Cass. SS.uu. n. 2725/1991). Tenuto conto che l’art. 5, comma 9, del D.L. 95/2012 si riferisce solo ai lavoratori “dipendenti” collocati in quiescenza, secondo codesta amministrazione i professionisti di cui si discute, nell’ipotesi in cui non godano del trattamento di quiescenza quali ex lavoratori dipendenti, dovrebbero ritenersi esclusi dalla sfera soggettiva di applicazione del divieto di conferimento di incarichi. Sul punto non può che richiamarsi la deliberazione n. 66/2018/SrCPIE/PAr della Corte dei Conti -Sezione regionale di Controllo per il Piemonte, citata nella nota n. 5062 del 3 ottobre 2019 di codesta amministrazione, nella quale il Giudice Contabile, su quesito posto da Ente Locale, ha chiarito che l’incompatibilità di cui trattasi trova applicazione anche nei confronti dei lavoratori autonomi. Viene soggiunto che secondo il Giudice Contabile il divieto di cui si discute si applica esclusivamente agli incarichi di studio e consulenza, incarichi dirigenziali o direttivi, incarichi di governo nelle amministrazioni e negli enti e società controllati, con la conseguenza che non sarebbe escluso neanche il conferimento a soggetti in quiescenza di incarichi professionali, quali quelli inerenti ad attività legale o sanitaria non aventi carattere di studio o consulenza. A supporto della tesi propugnata codesta amministrazione richiama anche giurisprudenza amministrativa, segnalando che il MEF, prima che il Giudice contabile e quello amministrativo si esprimessero nel senso rammentato, nel fornire un parere alla SISAC (Struttura interregionale sanitari convenzionati) con nota n. 104123 del 16 dicembre 2013 , ha invece così ritenuto: “non sembrano sussistere dubbi sull’applicabilità del divieto di cui all’articolo 5, comma 9, del decreto legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito con modificazioni della legge 135/2012, anche al conferimento di incarichi di medico convenzionato rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 con il servizio sanitario nazionale, ove il soggetto interessato sia cessato da un rapporto di dipendenza con il medesimo servizio sanitario nazionale” . Indirizzo fatto proprio da codesta amministrazione in risposta ad una interpellanza parlamentare nel giugno del 2014. Viene evidenziato che i rapporti con il personale che opera presso gli ambulatori di codesta amministrazione sono regolati, oltre che dal D.M. di cui all’art. 18 del D.lgs. n. 502/1992, per la parte compatibile, dalla normativa e dagli istituti economici di cui all’Accordo Collettivo Nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici specialistici ambulatoriali interni, veterinari ed altre professionalità sanitarie del 23 marzo 2005, come successivamente modificato ed integrato e che il nuovo accordo del 17 dicembre 2015, all’art. 25 comma 1 lett. l), rectius e), prevede che sia incompatibile con lo svolgimento delle attività previste nell’Accordo medesimo, la fruizione, da parte del professionista, “di trattamento di quiescenza come previsto dalla normativa vigente”. Si riferisce che, allo stato, le disposizioni contenute in detto Accordo del 17 dicembre 2015 non sono state tuttavia ancora recepite dall’A.C.N. di settore per i medici operanti presso gli uSMAF-SASN del Ministero della Salute, reso esecutivo con il D.M. 3 ottobre 2012 n. 202, e, pertanto, la fruizione di un “trattamento di quiescenza come previsto dalla normativa vigente” non rientra tra le cause di incompatibilità con lo svolgimento della professione di medico convenzionato. • Le questioni sottoposte all’esame della Scrivente non paiono di agevole soluzione. Occorre premettere che è stato di recente approvato, il 31 marzo 2020, l’Accordo Collettivo Nazionale di lavoro per la disciplina dei rapporti con gli specialisti ambulatoriali interni, veterinari ed altre professionalità sanitarie (biologi, chimici, psicologi) ambulatoriali il cui art. 27, comma 1, lett. l) conferma la precedente previsione sancendo l’incompatibilità, con lo svolgimento delle attività previste nell’Accordo medesimo, la fruizione, da parte del professionista “di trattamento di quiescenza come previsto dalla normativa vigente” disponendo che tale “incompatibilità non opera nei confronti dei medici che beneficino delle sole prestazioni delle quote a e b del fondo di previdenza generale dell’enPaM e degli altri enti previdenziali, ove previsto, o che fruiscano dell’anticipo delle prestazioni di previdenza (aPP) di cui all’art. 54”. • Il quadro giurisprudenziale appare scarno e la prassi amministrativa non uniforme. Consta un solo arresto dell’Alto Consesso amministrativo (sentenza n. 2949/2016 richiamata da codesta amministrazione) che ha riformato la sentenza del T.A.r. Veneto n. 1214/2015. PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO In detta sentenza il Giudice di prime cure così aveva ritenuto: “il legislatore con l'art. 5 del d.l. n. 95 del 2012 ha inteso prevedere un generalizzato divieto di conferire consulenze e incarichi di studio ai soggetti collocati in quiescenza, specificando che è «altresì» vietato agli stessi soggetti anche il conferimento di incarichi dirigenziali o cariche in organi di governo delle amministrazioni; ne consegue che il divieto relativo agli incarichi dirigenziali non esaurisce il contenuto della disposizione, costituendo una limitazione ulteriore, rispetto al divieto contenuto nella prima parte della stessa disposizione. È evidente come detto divieto sia applicabile anche al caso di specie e, ciò, considerando che l'attività svolta dal medico convenzionato con il servizio sanitario nazionale viene inquadrata nell'ambito delle prestazioni d'opera intellettuale, fattispecie quest'ultima suscettibile di rientrare nell'ambito degli incarichi di consulenza”. Si controverteva sulla deliberazione del Direttore Generale dell'Azienda uLSS 12 “Veneziana” con la quale veniva conferito ad un medico l'incarico temporaneo per l'attività specialistica ambulatoriale, relativo al periodo intercorrente tra il 1 luglio 2015 e il 30 giugno 2016. La ricorrente, in precedenza, aveva presentato domanda e preso parte alla prova d'esame per l'assegnazione dell'incarico sopra citato, collocandosi al secondo posto della graduatoria. Nell'impugnare il provvedimento sopra citato (in uno alla graduatoria) la ricorrente sosteneva, con il primo motivo, la violazione dell'art. 6 della L. n. 114 del 2014, in quanto il D.L. n. 95 del 2012 sancisce il divieto delle Amministrazioni pubbliche di conferire contratti relativi ad incarichi di studio e di collaborazione a soggetti collocati in quiescenza, status che caratterizzava appunto il controinteressato. Il Tribunale ha ritenuto che il divieto di cui all’art. 5 del D.L. 95/2012 fosse applicabile al caso di specie in quanto l'attività svolta dal medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale deve essere inquadrata nell'ambito delle prestazioni d'opera intellettuale (T.A.r. Campania Napoli Sez. I, 23 settembre 2015, n. 4595), fattispecie quest'ultima suscettibile di rientrare nel- l'ambito degli incarichi di consulenza di cui all'art. 5 comma 9 sopra citato. Soggiunge il Tribunale che “detta interpretazione era stata, peraltro, fatta propria anche dallo stesso Ministero dell'economia e delle Finanze con la nota del 07 Gennaio 2014 (prot. 104123), [prot. in partenza n. 104123 del 16 dicembre 2013], nota diretta alle strutture regionali interessate, nella parte in cui aveva sancito l'applicabilità del divieto di incarichi di consulenza anche ai medici convenzionati con il servizio sanitario nazionale, atteso che il rapporto convenzionale viene inquadrato fra le prestazioni d'opera professionale di natura privatistica (…) e ribadita anche dalla Circolare interpretativa del Ministero della Funzione Pubblica n. 6 del 4 dicembre 2014. in quest'ultima, infatti, si afferma che "gli incarichi di studio e consulenza sono quelli che pre rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 suppongono competenze specialistiche e rientrano nelle ipotesi di contratto d'opera intellettuale di cui agli articoli 2229 e seguenti del codice civile". Detta sentenza, come sopra anticipato, è stata annullata dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 2949/2016. Questa la motivazione dell’Alto Consesso: “3.3.a. l'appello è fondato nel merito. la controversia riguarda la stipula di un contratto di prestazione d'opera professionale. Tale contratto, è palese, può avere oggetti diversi, addirittura attinenti all'esercizio di professioni quanto mai differenti. il suddetto contratto può comportare lo svolgimento di attività di studio e consulenza (tali prestazioni sono anzi frequenti nell'esercizio della professione di avvocato) ma può anche prevedere prestazioni del tutto differenti. in particolare, ciò avviene quando la prestazione richiesta si sostanzi nella soluzione concreta di uno o più casi, affidati alle cure del professionista. in tali casi il professionista svolge attività di studio, come necessario nell'esercizio di qualsiasi professione intellettuale, ma tale attività non esaurisce la prestazione, che giunge invece all'individuazione dell'intervento più opportuno. inoltre, esclude il contenuto consulenziale il fatto che l'intervento in questione sia svolto dallo stesso professionista. Tali riflessioni consentono di risolvere il caso, soggiungendo come il giudice non sia vincolato dalle circolari interpretative successivamente pubblicate, oltre tutto nel caso di specie non concordanti. il procedimento di cui si discute è infatti finalizzato ad affidare al medico selezionato la soluzione di casi concreti rientranti nella sua specializzazione, senza alcuna attività di studio escluso quello necessario per la soluzione di ogni singolo caso; il successivo intervento è poi affidato allo stesso medico, ovviamente in collaborazione con le strutture dell'azienda, fatto che esclude la configurabilità dell'incarico in termini di mera consulenza. l'incarico di cui si tratta non costituisce, quindi, incarico di studio o consulenza; è palese poi che il suo contenuto non è dirigenziale, atteso che al medico selezionato non viene affidata la direzione di alcuna struttura. afferma, in conclusione, il Collegio che l'art. 5, nono comma, del decreto legge 6 luglio 2012, n. 95/2012, convertito in l. 7 agosto 2012, n. 135, poi modificato dall'art. 6 comma 1 del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, a sua volta convertito con la legge 11agosto 2014, n. 114, non preclude ai soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza di assumere gli incarichi di cui si tratta. infine, non rileva l'accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con gli specialisti ambulatoriali interni. Tale atto disciplina l'esercizio concordato di facoltà discrezionali, non interpreta la legge vigente. lo stesso non è poi applicabile nel caso che ora occupa essendo stato stipulato il 17 dicembre 2015, quindi in data successiva all'adozione dei provvedimenti impugnati”. All’evidenza, anche se non enunciato in modo esplicito, l’Alto Consesso privilegia l’interpretazione strettamente letterale dell’art. 5, comma 9, del decreto legge 6 luglio 2012, n. 95 propugnata dal Giudice Contabile. PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO Non consta invece proposizione di gravame avverso la sentenza del T.A.r. Friuli-V. Giulia Trieste Sez. I, 12 aprile 2016, n. 125 secondo cui “È legittimo il provvedimento di esclusione da una selezione pubblica per il conferimento di incarichi sanitari di un ex medico convenzionato in quiescenza, ove motivato con riferimento alla clausola del bando che, richiamandosi all'art. 5, comma 9 del d.l. n. 95/2012, precludeva l'ammissione alla procedura comparativa dei lavoratori collocati in quiescenza”. L’appello proposto avverso la sentenza n. 298/2015 del TAr Emilia-romagna -Parma, citata da codesta amministrazione, è stato invece dichiarato perento. Diversamente che nella pronuncia appena richiamata del TAr Veneto, il Collegio parmense ha ritenuto che il divieto previsto dalla norma riguardi esclusivamente incarichi “di studio e consulenza”, e che la norma, limitando un diritto costituzionalmente garantito, quale quello di esplicare attività lavorative sotto qualunque forma giuridica, non consenta interpretazioni estensive o analogiche. La fattispecie decisa atteneva a prestazione specialistica ambulatoriale in favore della ASL. Nella sentenza si richiama la circolare del 4 dicembre 2014 dell’allora Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, relativa all'applicazione della norma in esame, dandosi rilievo alla circostanza che a pagina 6 della stessa, si esplicitasse come non fosse affatto escluso il conferimento a soggetti in quiescenza di incarichi professionali quali quelli inerenti ad attività sanitaria, proprio perché la limitazione prevista dall’art. 5, comma 9, del decreto legge 6 luglio 2012, n. 95 riguarda solo determinati contratti d'opera intellettuale. Sempre sul versante giurisprudenziale, merita infine di essere ricordata la recentissima sentenza della Corte di Giustizia -VIII sez., del 2 aprile 2020 resa nella causa C-670/18 e le difese spiegate nell’ambito di questo giudizio dal Governo Italiano. La domanda di pronuncia pregiudiziale verteva sull’interpretazione degli articoli 1 e 2 della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000 -che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro -ed era stata proposta nell’ambito di una controversia in cui era stata sollevata la questione della natura discriminatoria, in relazione all’età, del divieto di conferimento di incarichi di studio e consulenza al personale in quiescenza recato dall’art. 5, comma 9, del de- creto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, così come modificato dall’articolo 6 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114. La Corte ha ritenuto, anche sulla base delle osservazioni scritte del Go rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 verno italiano, che la disposizione in parola persegua un duplice obiettivo, ossia, da un lato, realizzare un’effettiva revisione della spesa pubblica mediante la riduzione dei costi di funzionamento dell’amministrazione, evitando il cumulo tra il trattamento di quiescenza proveniente da fondi pubblici e la retribuzione, senza nel contempo danneggiare la sostanza dei servizi forniti ai cittadini; dall’altro, facilitare il ringiovanimento del personale delle amministrazioni, favorendo l’accesso di persone più giovani alla funzione pubblica. Su tale presupposto il Giudice Europeo ha osservato che se l’obiettivo della riduzione effettiva della spesa pubblica può certamente influire sulla natura e sulla portata delle misure di tutela dell’occupazione, quello del ringiovanimento del personale in attività attraverso la promozione di un livello di occupazione elevato rientra tra gli obiettivi espressamente enunciati dall’articolo 6, paragrafo 1, primo comma, della direttiva 2000/78 e, conformemente all’articolo 3, paragrafo 3, primo comma, TuE, costituisce una delle finalità perseguite dall’unione. Alla stregua di tali considerazioni la Corte ha quindi dichiarato che la direttiva 2000/78 -e in particolare l’articolo 2, paragrafo 2, l’articolo 3, paragrafo 1, e l’articolo 6, paragrafo 1, della stessa -, dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che vieti alle amministrazioni pubbliche di assegnare incarichi di studio e consulenza a persone collocate in quiescenza purché, da un lato, detta normativa persegua uno scopo legittimo di politica dell’occupazione e del mercato del lavoro e, dall’altro, i mezzi impiegati per conseguire tale obiettivo siano idonei e necessari, accertamento che viene rimesso al giudice nazionale del rinvio. • Quanto alla prassi amministrativa, ed in particolare alla Circolare del Ministro della Funzione Pubblica 4 dicembre 2014 n. 6 richiamata in alcune delle sentenze citate, essa si muove in un’ottica sostanzialmente in linea con i principi espressi dalla giurisprudenza dell’Alto Consesso amministrativo e del Giudice Contabile. Detta Circolare, nel premettere che è da ritenersi esclusa qualunque interpretazione estensiva o analogica della norma oggetto di interpretazione, quanto agli incarichi vietati si esprime, per quel che qui rileva, nel senso che tra questi rientrano quelli di “studio e consulenza” i quali presuppongono competenze specialistiche sussumibili nelle ipotesi di contratto d’opera intellettuale di cui agli articoli 2229 e seguenti del codice civile. Si legge nella Circolare che “scopo delle disposizioni in esame non è di escludere la possibilità che i soggetti in quiescenza operino presso le amministrazioni, ma di evitare che il conferimento di incarichi a questi soggetti sia utilizzato per aggirare lo stesso istituto del collocamento in quiescenza. esse non impediscono di prestare attività lavorativa nelle amministrazioni pubbliche ai soggetti che possano aspirarvi in relazione ai rispettivi limiti di età. di PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO conseguenza non è escluso che un soggetto, collocato in quiescenza per aver raggiunto i relativi requisiti nella propria carriera, possa concorrere per un impiego con una pubblica amministrazione, relativo a una carriera nella quale può ancora prestare servizio. Ciò può dipendere dalla particolarità della carriera (pubblica o privata) di provenienza che consenta il collocamento in quiescenza a un'età relativamente bassa, o di quella di destinazione, che preveda una più alta età pensionabile (quali quella universitaria o quella giudiziaria). in tali ipotesi si applicherà ovviamente la vigente disciplina in ordine ai requisiti di accesso all'impiego nelle pubbliche amministrazioni e ai rapporti tra trattamento economico e trattamento di quiescenza. in secondo luogo, il divieto riguarda determinati contratti d'opera intellettuale, ma non gli altri tipi di contratto d'opera. Non è escluso, dunque, il ricorso a personale in quiescenza per incarichi che non comportino funzioni dirigenziali o direttive e abbiano oggetto diverso da quello di studio o consulenza (in questo senso la citata deliberazione [n. 23/2014/prev del 30 settembre 2014] della Corte dei Conti sezione centrale del controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle amministrazioni dello stato). non è escluso neanche il conferimento a soggetti in quiescenza di incarichi professionali, quali quelli inerenti ad attività legale o sanitaria, non aventi carattere di studio o consulenza. anche in questo caso, rimane ovviamente ferma la disciplina vigente in materia. con particolare riferimento alle modalità di scelta del contraente” (enfasi aggiunta). • Sulla scorta di quanto sopra la Scrivente ritiene dunque di poter concludere nel senso che la norma di cui all’art. 5, comma 9, del d.l. n. 95/2012 non è suscettibile di interpretazione estensiva od analogica e, per quanto qui interessa, non è quindi applicabile ad incarichi professionali diversi da quelli di studio e di consulenza stricto sensu intesi e, perciò, neppure agli incarichi conferiti ai professionisti medici, biologi, veterinari e psicologi operanti presso gli ambulatori degli uSMAF-SASN del Ministero della Salute. Dal canto suo, l’accordo collettivo di settore vigente per il personale sanitario incaricato dell’assistenza al personale navigante non prevede, attualmente, alcuna incompatibilità e, quindi, non può di per sé giustificare una revoca degli incarichi in corso. Quanto all’incompatibilità invece prevista dagli accordi collettivi vigenti per il restante personale sanitario convenzionato, il rinvio a quanto “previsto dalla normativa vigente” in tutti contenuto non è risolutivo nella misura in cui esso lascia aperta la questione se esso rinvio si riferisca all’incompatibilità -per come prevista “dalla normativa vigente” e, quindi, ai limiti, anche oggettivi, nei quali essa opera -ovvero alla fruizione del trattamento di quiescenza -“come previsto dalla normativa vigente”, vale a dire alle condizioni alle quali è subordinato il godimento di un trattamento di quiescenza -. rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 Se il rinvio viene inteso come riferito all’incompatibilità, resta comunque aperta la questione dell’estensione della sancita incompatibilità, nel senso che rimane pur sempre da stabilire se questa -per i medici convenzionati che fruiscono di un trattamento di quiescenza -operi con riferimento a qualsiasi incarico professionale oppure soltanto in relazione a incarichi di studio o di consulenza. Se il rinvio alla “normativa vigente” contenuto negli accordi collettivi viene invece riferito alla sola e semplice fruizione di un trattamento di quiescenza -con conseguente incompatibilità della qualità di pensionato con lo svolgimento di qualsiasi incarico professionale -, occorrerebbe accertare la legittimità di una previsione contrattuale del genere, ponendosi non senza ragione il problema di verificare se l’autonomia collettiva sia legittimata in questa materia a derogare in senso più restrittivo ad una norma di legge che disponga invece in senso meno restrittivo, limitando il novero degli incarichi professionali incompatibili. Del pari non può assumere dirimente rilevanza la deliberazione n. 66/2018/SrCPIE/PAr della Corte dei Conti -Sezione regionale di Controllo per il Piemonte, avendo essa riguardo esclusivamente al conferimento di “incarichi negli organi di governo degli enti e società controllate da pubbliche amministrazioni con corresponsione del relativo compenso”. • Tuttavia, se sulla base della lettera dell’art. 5 del d.l. n. 95 del 2012 così come interpretata dalla prevalente giurisprudenza anche in ragione della natura eccezionale della norma -, il divieto/incompatibilità in parola deve dunque ritenersi, de jure condito, limitato ai soli incarichi di studio e consulenza intesi in senso stretto, le finalità di politica sociale ed economica dell’intervento legislativo -quali enunciate dal Governo nelle difese svolte avanti alla Corte di Giustizia dell’unione nella causa C-670/18, ovverosia l’accesso dei giovani alle professioni ed il contenimento della spesa pubblica -potrebbero legittimare, de jure condendo, un’estensione dell’ambito di applicazione della norma attualmente impedita dal dato letterale: donde l’invito a valutare l’opportunità di un intervento normativo che, anche alla luce delle previsioni contenute negli accordi collettivi nazionali di riferimento, valga ad individuare l’esatta portata della disposizione di legge anche riguardo agli incarichi professionali dei quali si discute. Sulla questione è stato sentito il Comitato Consultivo che, nella seduta del 10 giugno 2020, si è espresso in conformità. PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO requisizione di beni mobili (mascherine) nella fase emergenziale, problematiche operative Parere del 24/06/2020-320211/15, al 18362/2020, aVV. CarMela PluChino Con nota prot. 17060 del 18 maggio 2020 codesta Avvocatura ha rappresentato alla Scrivente alcune problematiche segnalate dalla Prefettura di Firenze, emerse al momento di dar corso alla procedura di requisizione di un ingente quantitativo di mascherine (sia chirurgiche, sia FPP2), oggetto di contestazione e contestuale sequestro da parte della Guardia di Finanza. Premesso che il Commissario Straordinario per l’Emergenza, avvalendosi dei poteri conferiti dagli artt. 6 e 122 del D.L. n. 80/2020, con ordinanza n. 8/2020, ha individuato il Comando Generale della Guardia di Finanza quale soggetto attuatore (con facoltà di subdelega), “al fine di procedere, a richiesta del Commissario straordinario, alle requisizioni dei beni mobili indicati dallo stesso” e che, successivamente, con nota prot. n. 385 del 22 aprile 2020, ha richiesto al Prefetto di Firenze di procedere all’adozione del provvedimento di requisizione (“vista la nota Prot. 108882 del 28 marzo u.s. del Comando Provinciale di Firenze relativa al sequestro eseguito, su mandato dell’a.G. competente, atteso il nulla osta da parte della Procura della repubblica competente”), “con mandato al Comando Generale iii reparto della Guardia di Finanza….. per il tramite dei reparti competenti, ad eseguire la requisizione”, viene richiamata la Circolare del 15 aprile 2020 diramata dal Comando Generale ai Comandi Provinciali, contenente le modalità operative per la requisizione dei beni sottoposti a sequestro. In tale Circolare è disposto che “i Comandi Provinciali competenti, in occasione di sequestri di prodotti di potenziale interesse ai fini di un provvedimento ablatorio in argomento e previo conforme avviso dell’autorità giudiziaria/ amministrativa procedente, comunichino alla struttura del Commissario straordinario: tutti gli elementi di dettaglio riferiti al sequestro funzionali all’emissione di un eventuale provvedimento espropriativo e, se del caso, alla successiva quantificazione dell’indennizzo”. Viene precisato che “l’assenso al dissequestro dei beni dovrà essere formalmente richiesto ed ottenuto dalle autorità interessate, prima di attivare il Commissario straordinario, al quale sarà trasmessa tale autorizzazione. resta comunque inteso che la requisizione dei beni è subordinata all’avvenuto dissequestro degli stessi da parte dell’autorità (Giudiziaria o amministrativa) da effettuarsi a seguito del formale provvedimento emesso a cura di quest’ultima”. Viene poi indicato che “il Commissario straordinario, in caso di favorevole avviso, adotterà gli atti che riterrà opportuni, tra cui il relativo provvedimento di requisizione dei citati beni, inviando quest’ultimo -direttamente rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 o per il tramite dei soggetti indicati sub 1.b. -al Comando Generale/iii reparto operazioni, che ne curerà il successivo inoltro direttamente al reparto che ha eseguito il sequestro, notiziando la gerarchia intermedia”, evidenziando che “per i sequestri/fermi di merce effettuati negli spazi doganali congiuntamente agli uffici dell’agenzia delle dogane e Monopoli, le procedure volte all’eventuale requisizione saranno curate da questi ultimi”. Tanto premesso in linea generale, la Prefettura di Firenze ha anche rappresentato, più in dettaglio, in relazione ai procedimenti di contestazione e sequestro di mascherine chirurgiche importate e/o immesse in commercio senza marchiatura CE o attestato di conformità, ai sensi degli artt. 11 e 23 del D.Lgs. n. 46/1997 e della L. n. 689/1981, che sono alla stessa pervenute dai Nuclei Operativi istanze volte a conseguire l’adozione: a) di un provvedimento di dissequestro del materiale sequestrato, condizionato all’adozione del provvedimento di requisizione da parte del Commissario Straordinario; b) di un provvedimento di autorizzazione all’invio di un determinato quantitativo di beni presso un Istituto preposto all’analisi e alla certificazione dei prodotti. A tali richieste ha fatto seguito la succitata nota prot. n. 385/2020 del Commissario Straordinario. La Prefettura rileva che, laddove si dovesse procedere al dissequestro prima di esercitare il potere di requisizione -considerato che, secondo la Circolare succitata, il provvedimento di requisizione dovrebbe essere preceduto da un atto formale di “dissequestro” dei dispositivi interessati -potrebbe sorgere la questione della legittimità di un tale provvedimento emesso su istanza della Guardia di Finanza, considerato che, ai sensi dell’art. 19, comma 2, della L. n. 689/1981, la restituzione della merce può essere disposta soltanto a favore di “chi prova di averne diritto”. Chiede quindi parere in merito alle seguenti questioni: 1) se possa ipotizzarsi di procedere direttamente alla requisizione dei beni sottoposti a sequestro, senza necessità di un preventivo dissequestro degli stessi, dal momento che l’atto ben potrebbe essere qualificato provvedimento ablativo extra ordinem; 2) se possa adottarsi, risultando invero problematica, un provvedimento di autorizzazione all’invio di un determinato quantitativo di beni presso un Istituto preposto all’analisi e alla certificazione dei prodotti, di cui alle istanze dei Nuclei Operativi della Guardia di Finanza. In conclusione, la Prefettura chiede che venga indicato l’iter procedimentale che si ritiene legittimo e più opportuno per superare le difficoltà interpretative ed applicative segnalate, anche al fine di scongiurare contenziosi e profili di responsabilità. ***** Esaminata la documentazione trasmessa ed approfondite le questioni segnalate, la Scrivente condivide la ricostruzione giuridica e le considerazioni espresse da codesta Avvocatura, osservando quanto segue. PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO Innanzitutto, occorre distinguere i casi di sequestro disposti dall’Autorità giudiziaria da quelli -a cui si riferisce la richiesta di parere -disciplinati dalla L. n. 689/1981, all’art. 13, a mente del quale “Possono altresì procedere al sequestro cautelare delle cose che possono formare oggetto di confisca amministrativa, nei modi e con i limiti con cui il codice di procedura penale consente il sequestro della polizia giudiziaria”. Per tale seconda ipotesi l’art. 19, al comma due, prevede che “anche prima che sia concluso il procedimento amministrativo, l’autorità competente può disporre la restituzione della cosa sequestrata, previo pagamento delle spese di custodia, a chi prova di averne diritto e ne fa istanza, salvo che si tratti di cose soggette a confisca obbligatoria”. Costituisce ius receptum l’autonomia del sequestro, misura cautelare, rispetto alla confisca quale sanzione accessoria (cfr. Corte di Cassazione n. 10143/06, n. 11293/94). Conseguentemente, nella fattispecie in esame, è da ritenere che, solo dopo che si è provveduto a disporre la requisizione -ai sensi e per gli effetti degli artt. 6 e 122 del D.L. n. 18/2020 succitato -, il soggetto che requisisce il bene acquisti la legittimazione a chiedere il dissequestro, in qualità di “avente diritto”. D’altra parte, come evidenziato da codesta Avvocatura, la requisizione, la cui fonte normativa è rinvenibile tuttora nell’art. 7 del r.D. n. 2248/1865 all. E (sebbene il comma 9 dell’art. 6 del D.L. n. 18/2020 richiami, per quanto concerne l’esecutorietà dei provvedimenti di requisizione, l’art. 458 del D.Lgs. n. 66/2010), date le peculiarità e l’eccezionalità dell’istituto, si ritiene attuabile nei confronti del proprietario, anche nel caso in cui il bene sia, a qualsiasi titolo, nel possesso o nella detenzione di altri soggetti. Appare quindi condivisibile il “modus operandi” enucleato nei termini suesposti -nei casi prospettati di materiale sequestrato secondo il disposto dell’art. 13 della L. n. 689/1981 -, nel senso che il dissequestro dovrebbe seguire (e non precedere) la requisizione ed avvenire a richiesta della Prefettura, nei casi in cui la stessa venga interessata dal Commissario Straordinario, ai sensi dell’art. 122 del D.L. n. 18/2020. Si ritiene inoltre che si possa procedere alla requisizione solo sul presupposto che i beni mobili requisendi siano effettivamente idonei all’utilizzo, con l’accortezza comunque -come suggerito da codesta Avvocatura -, di escludere dalla requisizione e dal successivo dissequestro una minima parte, da mantenere nello stato attuale per fini probatori, anche ai sensi dell’art. 10 del DPr n. 571/1982 -norme per l’attuazione degli articoli 15, ultimo comma, e 17, penultimo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689. Ed infatti, come chiarito nella stessa Circolare della Guardia di Finanza sopra richiamata, sono da escludersi i prodotti (ad es. mascherine, dispositivi di protezione individuale, etc.) che risultino viziati, non essendo in tal caso rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 possibile il successivo utilizzo. Conseguentemente, sarebbe inutile -in tale ultima ipotesi - disporre la requisizione e il correlato dissequestro. La stessa Prefettura riconosce che “è di tutta evidenza come, prima di procedere alla requisizione dei dispositivi di protezione individuale e delle mascherine chirurgiche, sussista la necessità di effettuare un esame degli stessi che consenta di verificarne l’idoneità all’uso, anche al fine di accertare che non siano nocivi per i futuri utilizzatori”. Occorre inoltre assicurare che i beni requisiti, prima di essere distribuiti ai soggetti terzi individuati dall’Autorità commissariale, non siano attinti da vincolo cautelare reale, penale o amministrativo; rendendosi a tal fine necessaria la preventiva acquisizione del provvedimento di dissequestro da parte dell’Autorità competente. Per quanto riguarda la segnalata problematica concernente le previsioni dell’art. 19 della L. n. 689/1981, che (al comma 2) esclude la “restituzione della cosa sequestrata” nei casi in cui si tratti di “cose soggette a confisca obbligatoria”, individuate dal successivo art. 20, la stessa appare più apparente che sostanziale, se si pone mente alla distinzione formulata dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 8517/11) fra cose soggette a confisca obbligatoria, in quanto intrinsecamente pericolose, e cose soggette a confisca eventuale quale possibile sanzione accessoria, in quanto oggetto di attività illecita perché non autorizzata, ma comunque autorizzabile. Ed infatti, le merci suscettibili di confisca obbligatoria, in quanto intrinsecamente pericolose, non presentano nemmeno l’inidoneità all’uso che ne giustifica la requisizione e la correlata necessità del dissequestro. Per quanto concerne, infine, il secondo quesito posto dalla Prefettura di Firenze, non si ravvisa nell’art. 15 della citata legge n. 689/81 un ostacolo al- l’adozione di un provvedimento di autorizzazione all’invio di un determinato quantitativo di beni presso un Istituto preposto all’analisi e alla certificazione dei prodotti (come richiesto dai Nuclei Operativi della Guardia di Finanza), in quanto la ratio della normativa di riferimento e le considerazioni che precedono, nonché le peculiarità delle fattispecie in esame giustificano un provvedimento di tale fatta, che appare anzi prodromico ed essenziale rispetto alla requisizione ed al dissequestro, per quanto sopra esposto. D’altra parte, non appare configurabile nella fattispecie in esame esclusivamente una “violazione di tipo formale-documentale”, “ragione per cui l’esito dell’esame non sembrerebbe avere alcuna rilevanza a fini della sussistenza dell’illecito”, in quanto -nella richiesta di parere -si fa riferimento a “procedimenti di contestazione e sequestro di mascherine chirurgiche importate e/o immesse in commercio senza marchiatura Ce o attestato di conformità di cui sopra, elevati ai sensi degli artt. 11 e 23 del decreto legislativo 24 febbraio 1997, n. 46 e della citata legge 689/81”, con conseguente rilevanza anche “sostanziale” delle violazioni contestate, basti considerare che la dichia PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO razione di conformità CE è anche garanzia di qualità della produzione (cfr. art. 11 da ultimo citato). Stesse considerazioni valgono per le violazioni enucleate nella nota del 28 marzo 2020 della Guardia di Finanza (all. 4), i cui procedimenti ammnistrativi sono pendenti presso la Prefettura di Firenze. Alla luce delle considerazioni che precedono il percorso procedurale sopra individuato, tenendo conto della Circolare del Comando della Guardia di Finanza e delle segnalate problematiche in sede di prima applicazione, appare più coerente con l’assetto normativo vigente, implementato nella materia da specifici provvedimenti adottati nella fase emergenziale, e giuridicamente sostenibile in una eventuale sede contenziosa. Nei termini suesposti è reso il parere richiesto che viene esteso, data la portata generale ed ai fini di raccordo, alle Amministrazioni interessate. rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 Cessione dei crediti della P.a. effettuata nel contesto di una operazione di c.d. cartolarizzazione ai sensi dell’art. 4 della legge n. 130/1999 Parere del 17/07/2020-367481, al 52446/2019, aVV. Gabriella d’aVanzo Con la nota a riscontro, è sottoposto all'esame l'avviso di codesta Avvocatura Distrettuale sulla questione di massima riguardante l'efficacia di una cessione di crediti vantati nei confronti della P.A. ed effettuata all'interno di un'operazione di cartolarizzazione di cui all'art. 4 della legge n. 130 del 1999. Viene segnalato che i crediti ceduti da M. S.c.p.A a L. SPV nascono da contratti stipulati dalla prima Società per l'affidamento dei servizi di pulizia e del servizio di ausiliariato in favore di numerosi Istituti scolastici della Campania, i quali hanno, però, rifiutato le cessioni di cui trattasi "in analogia alla condotta tenuta rispetto alle cessioni di crediti operate dalla stessa M. in favore della banca F. s.p.a., anche sulla scorta di quanto indicato dall'ufficio scolastico della Campania con nota prot. 15109 del 28 giugno 2019". riferisce codesta Avvocatura che, a fronte delle diffide di pagamento dei crediti ceduti avanzate dalla cessionaria L., secondo la quale il rifiuto "non può in alcun modo rappresentare elemento ostativo al perfezionamento della cessione, giusta quanto espressamente previsto nell'art. 4 della legge n. 130/1999", i medesimi Istituti hanno chiesto "indicazioni operative sulle azioni da intraprendere", oltre che "ragguagli in ordine alla Circolare n. 21649 del 27 settembre 2019 del Miur, e, in particolare, se sussistano i presupposti per considerare la singola istituzione scolastica (pur avendo stipulato solo contratto attuativo), nonché, conseguentemente, se possa considerarsi legittimata al pagamento diretto dei lavoratori alle dipendenze di M., ai sensi dell'art. 30, comma 6 del d.l.vo n. 50/2016". In caso di esito positivo, se il pagamento delle retribuzioni arretrate sia da considerarsi comprensivo di ogni voce spettante a ciascun lavoratore, compresi gli oneri fiscali e previdenziali. Ciò precisato, codesta Avvocatura Distrettuale ha fornito la seguente analisi della questione: 1-per quanto riguarda l'interpretazione dell'art. 4, comma 4 bis della legge 130/1999 -nella parte in cui la norma stabilisce che, alle "cessioni effettuate nell'ambito di operazioni di cartolarizzazione non si applicano gli artt. 69 e 70 del regio decreto n. 2440 del 1923" -sono prospettate due diverse soluzioni circa l'ambito applicativo della norma, rispetto al regime speciale previsto dal- l'art. 106, comma 13 del Codice degli appalti; 2-quanto all'efficacia della clausola recante il divieto di cessione dei crediti nascenti dai contratti a suo tempo stipulati tra M. e la singola Istituzione PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO scolastica, secondo codesta Avvocatura Distrettuale la disciplina speciale del codice degli appalti non sarebbe "... interamente derogatoria dei principi codicistici, sicchè la disciplina di cui all'art. 1260 c.c. continuerebbe a trovare applicazione in quanto non espressamente derogata o in quanto non incompatibile". Da ciò conseguirebbe la possibilità di "pattuire il divieto di cessione", ai sensi del comma 2 del citato art. 1260 c.c., pattuizione compatibile anche con l'art. 106, comma 13 del D.Lgs n. 50 del 2016. 3-codesta Avvocatura Distrettuale ritiene, infine, che l'Istituto scolastico, in quanto "stazione appaltante", secondo la definizione rinvenientesi alla lettera a) ed o) di cui al comma 1 dell'art. 3 del D.Lgs n. 50/2016, sia legittimato a porre in essere "un intervento sostitutivo in favore dei lavoratori", ai sensi del- l'art. 30, comma 6 del D.Lgs. n. 50/2016, provvedendo, quindi, al pagamento delle retribuzioni arretrate, "comprensivo di ogni voce spettante a ciascun lavoratore, compresi gli oneri fiscali e previdenziali", anche al fine di scongiurare il più grave problema dell'interruzione dell'erogazione del servizio. *** 1 -Sul primo quesito, considerati i suoi profili di massima, è stato sentito il Comitato Consultivo che, nelle sedute del 29 gennaio 2020 e del 7 luglio 2020, si è espresso in conformità. Al riguardo, si osserva quanto segue. Com'è noto, la cessione dei crediti nell'ordinamento pubblicistico prevede una serie di deroghe al regime generale previsto dal codice civile (artt. 1260 (1) e ss.), sia per quanto riguarda la redazione della cessione che richiede la forma dell'"atto pubblico o scrittura privata autenticata da notaio" (art. 69, comma 3 del rD 18 novembre 1923, n. 2440), la cui mancanza incide sull'efficacia dell'atto negoziale, e sia per quanto riguarda l'obbligo di notifica al- l'Amministrazione del relativo accordo (art. 69, comma 1, rD n. 2440 del 1923) (2). Inoltre, per i contratti in corso è necessario il previo consenso della PA debitore ceduto, alla cessione del credito, come si desume dall'art. 9 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E), richiamato dall'art. 70, comma 3 del del rD n. 2440 del 1923, a mente del quale, "sul prezzo dei contratti in corso non potrà avere effetto alcun sequestro, né convenirsi cessione se non vi aderisca l'amministrazione interessata" (3). (1) c.c. art. 1260. Cedibilità dei crediti. Il creditore può trasferire a titolo oneroso [c.c. 1266] o gratuito il suo credito [c.c. 1198, 1889, 2559], anche senza il consenso del debitore [c.c. 1264, 1375, 1379, 2015], purché il credito non abbia carattere strettamente personale o il trasferimento non sia vietato dalla legge [c.c. 323, 378, 447, 1261, 1471]. Le parti possono escludere la cedibilità del credito [c.c. 1823], ma il patto non è opponibile al cessionario, se non si prova che egli lo conosceva al tempo della cessione. (2) Diversamente da quanto dispone l'art. 1260 comma 2 c.c., non vi è possibilità di dimostrare in altro modo, se non con la notificazione, l'avvenuta conoscenza della cessione da parte della PA. rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 Ne consegue che il principio generale della cedibilità dei crediti anche senza il consenso del creditore, sancito all'art. 1260, comma 1, c.c., è derogato dal citato art. 9, legge n. 2248 del 1865, all. E), deroga che cessa solo alla conclusione del rapporto contrattuale, come si desume dall'inciso "contratti in corso", con la conseguenza che restano opponibili alla PA le cessioni di credito fatte valere e realizzate senza la sua preventiva adesione, purchè intervenute dopo la conclusione del rapporto (Cass. Sez. I, n. 11475/2008; id. n. 13261 del 2000 citata nella nota 3). Quanto ai pubblici appalti, sussiste una disciplina speciale della cessione del credito nei confronti delle stazioni appaltanti che sono pubbliche amministrazioni. Occorre rilevare che, in base al citato art. 70, comma 3 del rD n. 2440/1923, la cessione del credito derivante da "somministrazioni, forniture e appalti" deve essere effettuata tenendo conto delle "disposizioni dell'art. 9 allegato e, della legge 20 marzo 1865, n. 2248, ...", e, cioè, occorre la preventiva accettazione della PA (4). Tale disciplina, riguardante la cessione del credito nascente da contratti pubblici affidati all'aggiudicatario all'esito di apposita procedura ad evidenza pubblica, risulta confermata dall'art. 106, comma 13 del D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50 -Codice dei contratti pubblici -che ricalca la previsione di cui al previgente art. 117 del D.L.gs n. 163 del 2006 -e che riproduce, "con linguaggio più moderno, quanto dispongono in termini generali, gli artt. 69 e 70, r.d. n. 2440/1923 tutt'oggi in vigore" (5). In particolare, il comma 13 dell'art. 106 -"Modifica di contratti durante il periodo di efficacia" - del D.L.vo n. 50 del 2016 è così formulato: "si applicano le disposizioni di cui alla legge 21 febbraio 1991, n. 52. ai fini dell'opponibilità alle stazioni appaltanti, le cessioni di crediti devono essere stipulate mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata e devono essere notificate alle amministrazioni debitrici. Fatto salvo il rispetto degli obblighi di tracciabilità, le cessioni di crediti da corrispettivo di appalto, concessione, concorso di progettazione, sono efficaci e opponibili alle stazioni appaltanti che sono amministrazioni pubbliche qualora queste non le rifiutino con comunicazione da notificarsi al cedente e al cessionario entro quaran (3) ratio della norma -applicabile per i rapporti di durata come l'appalto, in relazione a fattispecie sottratte, "ratione temporis" alla disciplina introdotta dalla legge 109 del 1994 -è di evitare che durante l'esecuzione contrattuale possano venire a mancare i mezzi finanziari al soggetto obbligato alla prestazione in favore della PA (Cass. 13261/2000; id. n. 18610/2005). (4) A differenza di quanto avviene per la cessione di un credito derivante da un ordinario contratto di compravendita con la PA, il quale soggiace in tutto e per tutto alla disciplina codicistica, salvo che per la forma che rimane quella stabilita all'art. 69, comma 3 del rD n. 2240/1923 (Cass. Sez. III, n. 981/2002). (5) In dottrina, "i nuovi appalti pubblici", pagg. 1551 e ss., rOSANNA DE NICTOLIS. PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO tacinque giorni dalla notifica della cessione. le amministrazioni pubbliche, nel contratto stipulato o in atto separato contestuale, possono preventivamente accettare la cessione da parte dell'esecutore di tutti o di parte dei crediti che devono venire a maturazione. in ogni caso l'amministrazione cui è stata notificata la cessione può opporre al cessionario tutte le eccezioni opponibili al cedente in base al contratto relativo a lavori, servizi, forniture, progettazione, con questo stipulato". La disposizione all'esame, dunque, disciplina un regime speciale per la cessione dei crediti da corrispettivo di appalto, incentrata sul potere di rifiuto della cessione da azionarsi entro il termine legale ivi stabilito. Occorre, poi, considerare che la norma richiama, per la cedibilità dei crediti verso le stazioni appaltanti, le "disposizioni di cui alla legge 21 febbraio 1991, n. 52" -recante "disciplina della cessione dei crediti di impresa", con conseguente applicazione, ai sensi dell'art. 1, comma 1, della medesima legge n. 52/1991, della cessione in favore di una "banca o un intermediario finanziario disciplinato dal testo unico della legge in materia bancaria e creditizia... il cui oggetto sociale preveda l'esercizio dell'attività di acquisto di crediti di impresa". Si è posto il problema se, in ragione del rinvio operato dall'art. 106, comma 13 del Codice alla legge 52/1991, trovi applicazione anche la previsione, di cui al comma 2 dell'art. 1 di quest'ultima legge, che fa "salva l'applicazione delle norme del codice civile per le cessioni di credito prive dei requisiti" di qualificazione di cui al sopra citato articolo 1, comma 1 della medesima legge 52 del 1991. Con la sentenza n. 19571 del 2007, la Corte di Cassazione ha, tuttavia, chiarito che "la disciplina concernente la cessione dei crediti nei confronti della pubblica amministrazione ha natura derogatoria rispetto alla comune disciplina della cessione dei crediti prevista dal codice civile.., e che il richiamo contenuto all'art. 26, comma 5 (6) della legge 109 del 1994 (legge quadro in materia di lavori pubblici) nel rendere applicabile ai contratti di appalto di lavori pubblici la disciplina della legge n. 52 del 1991 "abbia inteso rendere operante la disciplina derogatoria posta da tale legge per i crediti di impresa, ma non anche procedere all'abrogazione delle norme speciali che regolavano in precedenza la cessione dei crediti nei confronti della Pa, rendendo applicabile, per le cessioni non rispondenti alle prescrizioni di cui alla legge n. 52 del 1991 la disciplina codicistica". Alla luce di quanto sin qui esposto, si può quindi concludere che la disci (6) Legge 11 febbraio 1994, n. 109 Legge quadro in materia di lavori pubblici art. 26, comma 5 “le disposizioni di cui alla legge 21 febbraio 1991, n. 52 sono estese ai crediti verso le pubbliche amministrazioni derivanti da contratti di appalto di lavori pubblici, di concessione di lavori pubblici e da contratti di progettazione nell’ambito della realizzazione di lavori pubblici”. rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 plina concernente la cessione del credito da corrispettivo di appalto verso la PA prevista all'art. 106, comma 13 del codice dei contratti abbia carattere speciale e derogatorio anche della "comune disciplina della cessione dei crediti prevista dal codice civile". Sulla base di tale premessa, è, dunque, possibile esaminare la questione prospettata, concernente la cessione del credito nell'ambito della cartolarizzazione di cui alla legge 30 aprile 1999, n. 130 (7). In particolare, per quanto qui interessa, l'art. 4, comma 4 bis della legge n. 130 del 1999 stabilisce, che "alle cessioni effettuate nell'ambito di operazioni di cartolarizzazione non si applicano gli articoli 69 e 70 del regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440, nonché le altre disposizioni che richiedano formalità diverse o ulteriori rispetto a quelle di cui alla presente legge. dell'affidamento o trasferimento delle funzioni di cui all'articolo 2, comma 3, lettera c), a soggetti diversi dal cedente è dato avviso mediante pubblicazione nella Gazzetta ufficiale nonché comunicazione mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento alle pubbliche amministrazioni debitrici". La previsione dell'inapplicabilità degli artt. 69 e 70 del regio decreto n. 2440 del 1923 -introdotta dal legislatore solo con l'art. 12, recante "Misure per favorire il credito alla piccola e media impresa", comma 1, lettera d) n. 3) del D.L. 23 dicembre 2013, n. 145, come modificato dalla legge di conversione 21 febbraio 2014, n. 9 -sembrerebbe letteralmente escludere che sia possibile, per l'Amministrazione, quale debitore ceduto, opporsi alle cessioni di credito operate all'interno di un'operazione di cartolarizzazione. La Scrivente, tuttavia, pur dando atto che il contesto normativo di riferimento presenta profili di non immediata chiarezza, è dell'avviso che la soluzione sia da ricercare nel regime specifico che l'art. 106, comma 13 del D.L.vo n. 50 del 2016 riserva alle cessioni di credito in materia di appalto. Si è già in precedenza osservato come la norma all'esame, avente carattere di specialità, abbia espressamente sancito che le cessioni in commento sono "efficaci e opponibili" solo nel caso in cui le stazioni appaltanti/amministrazioni pubbliche non le rifiutino espressamente entro il termine previsto dalla norma. Difatti, l'art. 106, comma 13, del D.Lgs n. 50 del 2016 non si limita ad indicare le condizioni formali e procedurali che devono essere rispettate al fine di rendere la cessione del credito opponibile all'Amministrazione, ma, come condivisibilmente rileva codesta Avvocatura Distrettuale, conferisce al- l'Amministrazione una specifica potestà/facoltà di opporsi alla cessione, nei termini e con le modalità stabilite dal legislatore (8). (7) Com’è noto, nell’operazione finanziaria in esame si combinano i principi alla base dell’istituo della cessione del credito e quelli della teoria dei titoli di credito. Nella c.d. cartolarizzazione del credito, infatti, il creditore cede il suo credito ad un terzo che si obbliga a incorporare il credito in uno o più titoli da cedere a loro volta, a terzi. PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO La disposizione, che, come si è sopra detto, ricalca, con poche modifiche il previgente art. 117 del D.L.vo 163 del 2006, è tuttora vigente, né, proprio in ragione della sua specialità, potrebbe ritenersi tacitamente abrogata, considerato che essa è cronologicamente successiva all'art. 4, comma 4 bis della legge n. 130 del 1999, introdotto con l'art. 12, D.L. 23 dicembre 2013, n. 145. In risposta al primo quesito può, quindi, concludersi per l'applicabilità dell'art. 106, comma 13 del D.L.vo n. 50 del 2016 anche alle cessioni di credito nell'ambito delle operazioni di cartolarizzazione, con conseguente possibilità per l'Amministrazione, quale debitore ceduto, di opporsi alle cessioni di credito operate all'interno di un'operazione di cartolarizzazione. Va da sè che la tesi che si sostiene nell'interesse dell'Amministrazione, per quanto basata sul tenore letterale delle disposizioni in commento (art. 4, comma 4 bis della legge n. 130 del 1999 e art. 106, comma 13 del D.L.vo n. 50 del 2016) e della ratio della disciplina speciale del codice degli appalti, non è tuttavia scevra da profili di incertezza in un settore che, anche in ragione della sua rilevanza economica, è indubbiamente delicato. Sarebbe, pertanto, auspicabile eliminare ogni situazione di dubbio sul corretto svolgimento dell'operazione finanziaria in commento. 2 -Codesta Avvocatura Distrettuale si interroga, quindi, sull'effettiva valenza del divieto di cessione dei crediti apposto ai contratti stipulati tra M. e Istituzione scolastica. Questa Avvocatura Generale, esaminato l'atto aggiuntivo qui inviato, sottoscritto il 14 gennaio 2019, ritiene che l'anzidetta clausola, in quanto preventivamente e validamente apposta dalle parti, possa intendersi di per sé idonea ad impedire la cessione da parte della stazione appaltante del credito vantato nei confronti dell'Amministrazione scolastica. A tale riguardo, preme chiarire che nella precedente consultazione, citata da codesta Avvocatura (CS 30674/2019 avv. De Vergori) si era ritenuto che la clausola ostativa alla cessione del credito non fosse "un vero e proprio divieto di cessione (a dispetto della rubrica), bensì un mero rinvio alla disciplina applicabile contenuta nel codice dei contratti pubblici ", considerato che la clausola di cui trattasi era così redatta: "È fatto divieto di cedere, a qualsiasi titolo il presente contratto e i crediti derivanti dall'avvenuta esecuzione dei lavori relativi allo stesso ai sensi dell'art. 106, comma 13 del d.lgs 50/2016". Nel caso all'esame, invece, in cui l'accordo di cui all'Atto Aggiuntivo del 14 gennaio 2019 (all. 2) reca, in via preventiva, un divieto di cessione senza (8) Peraltro, i rilevanti effetti giuridici prodotti dalla manifestazione di volontà dell'Amministrazione nei rapporti con il cedente, e i significativi riflessi nei rapporti tra questi e il cessionario, valgono ad escludere la valenza meramente procedurale o formalistica delle prescrizioni contenute all'art. 106, comma 13, del D.Lgs n. 50 del 2016, ed a ritenere, pertanto, non percorribile l'ipotesi prospettata al punto sub a) del quesito, ai fini e per gli effetti di cui all'art. 4, comma 4-bis, della l. n. 130 del 1999. rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 nessun espresso riferimento all'art. 106, comma 13, del D.Lgs n. 50 del 2016, non v'è ragione per escludere che trovi applicazione la disciplina voluta dalle parti, con ogni consequenziale effetto in ordine all'efficacia inter partes e al- l'opponibilità della relativa cessione del credito. 3 -Nel terzo quesito, si chiede se l'Istituto scolastico possa considerarsi "stazione appaltante", secondo la definizione rinvenientesi alla lettera a) ed o) di cui al comma 1 dell'art. 3 del D.Lgs n. 50/2016, e se, quindi, il medesimo Istituto sia legittimato a porre in essere "un intervento sostitutivo in favore dei lavoratori", ai sensi dell'art. 30, comma 6 del D.Lgs. n. 50/2016, provvedendo, quindi, al pagamento delle retribuzioni arretrate. Al riguardo si osserva che il ruolo di stazione appaltante degli Istituti scolastici oltre a rientrare tra le ipotesi normative di cui all'art. 3, comma 1 del D.Lgs n. 50 del 2016, è stata espressamente prevista, proprio per lo specifico settore dei servizi di pulizia ed ausiliari all'esame, all'art. 2 del D.L. 7 aprile 2014, n. 58 -Misure urgenti per garantire il regolare svolgimento del servizio scolastico -il quale dispone che "al fine di consentire la regolare conclusione delle attività didattiche nell'anno scolastico 2016/2017 in ambienti in cui siano garantite le idonee condizioni igienico-sanitarie, nelle regioni ove non è ancora attiva, ovvero sia stata sospesa o sia scaduta, la convenzione-quadro Consip per l'affidamento dei servizi di pulizia e altri servizi ausiliari, dal 1° aprile 2014 alla data di effettiva attivazione della citata convenzione e comunque fino a non oltre il 31 agosto 2017, le istituzioni scolastiche ed educative provvedono all'acquisto dei servizi di pulizia ed ausiliari dai medesimi raggruppamenti e imprese che li assicurano alla data del 31 marzo 2014". Quanto alla liquidazione delle spettanze direttamente ai dipendenti M., ai sensi dell'art. 30, comma 6 del D.L.vo n. 50/2016, si rappresenta che la Scrivente si è già espressa, in fattispecie analoga, con il parere in data 4 aprile 2018, n. 177129 (CT 4465/2018 avv. De Vergori), al quale si rinvia integralmente. PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO unioni civili. matrimonio omoaffettivo celebrato all’estero, trascrizione, decorrenza degli effetti giuridici ed economici Parere del 28/09/2020-464419, al 43976/2017, aVV. Gesualdo d’elia Codesta Amministrazione ha chiesto un parere sulla seguente fattispecie. un dipendente di codesta Amministrazione ha contratto matrimonio in Spagna con persona del medesimo sesso in data 13 settembre 2012, secondo la legge di detto Paese. Intervenuta la legge sulle unioni civili (L. 20 maggio 2016 n. 76), detto dipendente ha ottenuto la trascrizione del matrimonio in Italia ed ha presentato, in data 6 dicembre 2016, istanza di riconoscimento dei trattamenti di famiglia previsti dall'art. 173 del D.P.r. n. 18/1967 per coniuge a carico. Codesta Amministrazione ha proceduto al versamento di detti trattamenti per il periodo dal 5 giugno al 18 settembre 2016, data di cessazione del servizio all'estero. In data 4 maggio 2017 il dipendente ha rinnovato la propria istanza chiedendo di estendere il trattamento di famiglia al periodo del precedente servizio all'estero, presso l'Ambasciata di Italia a New Delhi dal 26 novembre 2012 al 24 agosto 2014 e presso l'Ambasciata d'Italia a Wellington dal 25 agosto 2014 al 4 giugno 2016. Ha osservato che, in assenza di una indicazione, sia nell'atto di trascrizione sia nella legge, della data di decorrenza degli effetti, questi dovrebbero decorrere dalla data stessa del matrimonio. Codesta Amministrazione chiede quindi se, a parere di questa Avvocatura, gli effetti giuridici ed economici del matrimonio celebrato all'estero e trascritto in Italia possano prodursi soltanto a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge sulle unioni civili ovvero se possano retroagire alla data di celebrazione del matrimonio. Questa Avvocatura osserva quanto segue. IL CONTESTO NOrMATIVO In primo luogo, è opportuno richiamare l'articolo 32-bis della legge n. 218/95, inserito dal D.lgs. n. 7 del 19 gennaio 2017, rubricato "Matrimonio contratto all'estero da cittadini italiani dello stesso sesso", ai sensi del quale: "il matrimonio contratto all'estero da cittadini italiani con persona dello stesso sesso produce gli effetti dell'unione civile regolata dalla legge italiana". Dalla disposizione sopra citata si evince inequivocabilmente che il matrimonio contratto all'estero da cittadini italiani con persona del medesimo sesso, italiana o straniera, produce gli stessi effetti dell'unione civile ai sensi della legge italiana. La portata di tale disposizione è stata oggetto di un recente arresto della Sezione I della Corte di Cassazione (sentenza n. 11696/2018) che ha ammesso la trascrizione del matrimonio omoaffettivo celebrato all'estero tra un cittadino rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 italiano ed uno straniero, ma sub specie di unione civile ai sensi dell'art. 32 bis della L. n. 218/1995, poiché l'istituto dell'unione civile rappresenta l'unico ed esclusivo "modello normativo" mediante il quale può assumere rilevanza il vincolo tra persone dello stesso sesso nel nostro ordinamento. La Corte, infatti, ha ritenuto che una tale soluzione -e cioè il c.d. "downgrading" del matrimonio alla stregua dell'unione civile -sia coerente rispetto a quanto previsto dagli artt. 8 e 14 della CEDu: la scelta del modello di unione riconosciuta tra persone dello stesso sesso negli ordinamenti facenti parte del Consiglio d'Europa è rimessa al libero apprezzamento degli Stati membri, purché garantisca a tali unioni uno standard di tutele coerente con il diritto alla vita familiare ex art. 8 come interpretato dalla Corte EDu. In secondo luogo, va ricordata la disposizione di cui all'art. 1, comma 21, della L. n. 76/2016 che, al fine di assicurare l'effettività della tutela dei diritti ed il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall'unione civile tra persone del medesimo sesso, ha previsto che le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole "coniuge", "coniugi" o termini equivalenti, ovunque ricorrano nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applichino anche ad ognuna delle parti dell'unione civile tra persone dello stesso sesso. Va anche ricordato che la L. n. 76/2016, al comma 28, lett. b, dell'art. 1 delega il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi che prevedano l'applicazione della disciplina dell'unione civile alle coppie del medesimo sesso che "abbiano contratto" all'estero matrimonio od altro istituto analogo. risulta evidente come l'intervento normativo del 2016 sia diretta esplicazione di quanto statuito dalla Corte EDu nella sentenza 21 luglio 2015 (caso "oliari"), che ha affermato il diritto delle coppie omosessuali ad ottenere dal- l'ordinamento giuridico dello Stato di cui sono cittadini una forma di riconoscimento della loro relazione; principio successivamente ribadito nella sentenza del 14 dicembre 2017 resa nel caso "orlandi", ove si è affermata la necessità che siano garantiti alle coppie formate da persone del medesimo sesso protezione e riconoscimento legale al fine di realizzare "un giusto equilibrio tra gli interessi di competenza dello stato e le coppie". IL QuESITO Premesso il contesto normativo e fattuale sopra richiamato, è possibile esaminare il quesito oggetto del presente parere, ossia se, ai fini della decorrenza degli effetti giuridici ed economici (diretti ed indiretti) del matrimonio del dipendente di codesta Amministrazione, possa o meno tenersi conto anche del periodo intercorso tra la data di costituzione del matrimonio all'estero (in Paesi, quindi, nei quali era già giuridicamente disciplinata l'unione coniugale tra persone del medesimo sesso) e l'entrata in vigore della L. n. 76/2016. Al riguardo si deve necessariamente partire dall'esame del testo della L. PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO n. 76/2016 e dal D.lgs. 19 gennaio 2017 n. 7 citato, che ha attuato la delega di cui al citato comma 28, lett. b, dell'art. 1. Quest'ultima disposizione, in particolare, nel disporre l'inserimento, dopo l'art. 32 della L. 31 maggio 1995, n. 218, dell'art. 32-bis, a tenore del quale "- 1. il matrimonio contratto all'estero da cittadini italiani con persona dello stesso sesso produce gli effetti del- l'unione civile regolata dalla legge italiana", nulla precisa in ordine all'efficacia nel tempo della sua disciplina; né alcuna precisazione di tal genere compare nella Legge n. 76/2016 citata. In effetti è solo con l'entrata in vigore della L. n. 76/2016 che i matrimoni celebrati all'estero da cittadini italiani del medesimo sesso hanno ricevuto riconoscimento giuridico nel nostro ordinamento (equiparabili alle unioni civili), con conseguente loro trascrivibilità nei registri dello stato civile italiano. Orbene, se, da un lato, è vero che la trascrizione dell'unione matrimoniale nell'ordinamento italiano, non avendo natura costitutiva, si traduce in attività meramente certificativa e di pubblicità di un atto di per sé già valido ed esistente, sebbene in altro ordinamento (in proposito si veda anche la già citata Cass. n. 11696/2018); dall'altro, va anche dato atto che per l'ordinamento interno quell'atto viene a giuridica esistenza e, per quello che qui specificamente interessa, diventa efficace solo con la trascrizione, disposta sulla base di una esplicita disposizione di legge e che, affinché possa ritenersi che esso produca effetti in epoca precedente alla stessa trascrizione, sarebbe necessaria una esplicita previsione normativa, che, allo stato della legislazione positiva, non è dato rinvenire. Anche il rilievo del tenore della norma di cui al citato comma 28, lett. b, dell'art. 1 della L. n. 76/2016, che, esprimendosi al passato ("che abbiano contratto all'estero matrimonio"), potrebbe far pensare a una volontà di rendere efficaci nell'ordinamento italiano i matrimoni già contratti, non appare sufficiente a concludere in tal senso, in quanto una simile (presunta) volontà del legislatore delegante non risulta essersi tradotta, nel decreto legislativo, in una esplicita previsione di efficacia retroattiva, sicché l'uso di quella locuzione lascia impregiudicata la questione della decorrenza -ex tunc o ex nunc -degli effetti del riconoscimento. Deve essere rilevato, peraltro, che la normativa positiva emanata in materia difetta della previsione di una adeguata copertura finanziaria dei costi che una applicazione ex tunc, ossia a tutte le fattispecie già verificatesi, comporterebbe. Oltre a ciò, non può non rilevarsi che la già citata decisione sul c.d. "caso orlandi", intervenuta quando la legge n. 76/2016 era già in vigore nell'ordinamento italiano, ha concluso per la condanna dell'Italia al pagamento di un'equa riparazione in relazione a un caso verificatosi prima dell'emanazione di detta legge, il che fa supporre che la Corte EDu non abbia ritenuto che la normativa introdotta potesse riferirsi ai casi precedenti la sua emanazione e fosse quindi produttiva di effetti per essi. rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 In conclusione, pur dandosi atto della complessità del problema e degli aspetti dubbi che esso presenta, le considerazioni che precedono inducono questa Avvocatura a concludere che, allo stato della normativa attualmente vigente, ai fini dell'individuazione del dies a quo rilevante al fine della produzione degli effetti giuridici ed economici del vincolo coniugale, non è possibile guardare al momento in cui l'unione è venuta giuridicamente ad esistenza in altro ordinamento e che la decorrenza degli effetti giuridici nel nostro ordinamento non può prodursi che dal momento della trascrizione. Sulla presente questione è stato sentito il Comitato Consultivo dell'Avvocatura dello Stato che, nella seduta del 23 settembre 2020, si è espresso in conformità. PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO imparzialità e trasparenza dell’azione della P.a.: divieto di utilizzare lo scorrimento delle graduatorie a copertura di posti di nuova istituzione Parere del 01/10/2020-472864, al 31871/2020, aVV. Gabriella d’aVanzo Codesta Avvocatura Distrettuale ha sottoposto alla previa condivisione della Scrivente la bozza di parere con cui intenderebbe fornire riscontro sfavorevole alla possibilità, prospettata dall'università degli Studi OMISSIS, di procedere "allo scorrimento di graduatorie interne e/o di altri atenei/enti", possibilità che, secondo l'università emergerebbe da "un'interpretazione teleologica oltre che letterale" delle vigenti disposizioni. Il punto centrale della questione giuridica è se, come sostiene l'università, sia configurabile una sorta di "abrogazione implicita" del divieto di utilizzare lo strumento dello scorrimento per la copertura di posti di nuova istituzione contenuto all'art. 91, comma 4 (1) del D.Lgs n. 267 del 2000 -T.u. degli Enti locali (TuEL). Secondo la tesi dell'Ateneo, infatti, tale divieto "non ha più portata applicativa" per gli Enti locali, per effetto dell'art. 17, comma 1 bis (2) del D.L. 31 dicembre 2019, n. 162 (c.d. milleproroghe, convertito in legge n. 8 del 28 febbraio 2020), il quale stabilisce, per il "personale delle province, delle città metropolitane e dei comuni", che per la copertura di posti previsti nel Piano triennale dei fabbisogni del personale di cui all'art. 6 D.Lgs n. 165 del 2001 può provvedersi utilizzando lo scorrimento delle graduatorie ancora valide, "anche in deroga" alla previsione di cui al citato articolo 91, comma 4 T.u.E.L. (1) D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali. Pubblicato nella Gazz. Uff. 28 settembre 2000, n. 227, S.O. Articolo 91 Assunzioni (312) (313) In vigore dal 13 ottobre 2000 Art. 91... comma 4. Per gli enti locali le graduatorie concorsuali rimangono efficaci per un termine di tre anni dalla data di pubblicazione per l'eventuale copertura dei posti che si venissero a rendere successivamente vacanti e disponibili, fatta eccezione per i posti istituiti o trasformati successivamente all'indizione del concorso medesimo. (2) d.l. 30 dicembre 2019, n. 162 disposizioni urgenti in materia di proroga di termini legislativi, di organizzazione delle pubbliche amministrazioni, nonché di innovazione tecnologica. Pubblicato nella Gazz. uff. 31 dicembre 2019, n. 305. Art. 17. Personale delle province, delle città metropolitane e dei comuni In vigore dal 1 marzo 2020 ... 1-bis. Per l'attuazione del piano triennale dei fabbisogni di personale di cui all'articolo 6 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, gli enti locali possono procedere allo scorrimento delle graduatorie ancora valide per la copertura dei posti previsti nel medesimo piano, anche in deroga a quanto stabilito dal comma 4 dell'articolo 91 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267. (66) rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 rammenta l'università che il divieto di cui trattasi è stato considerato, dalla consolidata giurisprudenza, espressione di un principio generale estensibile a tutte le pubbliche amministrazioni, sicchè esso non è più applicabile non solo agli Enti locali, essendo "il legislatore... intervenuto in maniera esplicita", ma anche nei confronti di tutte le Amministrazioni pubbliche. La Scrivente, esaminato il parere reso da codesta Avvocatura Distrettuale, non può che condividerne le conclusioni, in quanto in linea con il quadro normativo vigente e con la consolidata giurisprudenza della quale sono stati riportati ampi stralci di diverse pronunce (sia della Corte di Cassazione che del Consiglio di Stato, oltre alcuni recenti arresti della Corte dei Conti). Può, infatti, ritenersi determinante l'argomento secondo cui il divieto di scorrimento "per i posti istituiti o trasformati successivamente all'indizione del concorso medesimo" è sì stabilito all'art. 91, comma 4 TuEL, ma, per consolidato insegnamento giurisprudenziale, esso è espressivo di un principio generale (non riferibile, quindi, solo agli Enti locali) finalizzato a garantire imparzialità e trasparenza dell'azione della pubblica amministrazione e ad evitare che le scelte sulla programmazione del fabbisogno di personale e sulla indivuazione della modalità di reclutamento possano essere condizionate dal fatto che siano noti i nominativi dei soggetti collocati in posizione utile nella graduatoria già formata (Cass. Sez. Lav. 31 gennaio 2020, n. 2316). In sostanza, anche se, come giustamente si legge nel parere all'esame, il divieto normativo è stato espressamente codificato dal legislatore con riferimento al rapporto di impiego per gli enti locali, esso risponde al generale principio di buon andamento dell'azione amministrativa di cui all'art. 97 Cost. L'indubbia valenza generale del divieto di cui trattasi, quale canone regolatorio immanente nel sistema, consente di superare i dubbi interpretativi sotto un duplice profilo. Da un lato, e con specifico riferimento alla ritenuta "abrogazione implicita" del divieto stabilito all'art. 91, comma 4, si osserva che, pur nella non estrema chiarezza della nuova previsione e della sua efficacia temporale, certo è che il legislatore ha inteso espressamente introdurre una disciplina "derogatoria" e non abrogativa del divieto di cui trattasi, come depone, del resto, il dato letterale della previsione che consente lo scorrimento "anche in deroga". Si condivide, pertanto, quanto rilevato da codesta Avvocatura nel ritenere che "non emergono elementi sufficienti e/o comunque idonei a sostenere l'intervenuta abrogazione implicita dell'art. 91, comma 4, Tuel". Dall'altro lato, si osserva che la nuova disciplina -riferibile, secondo la rubrica dell'art. 17, D.L. n. 162 del 2019, al "personale delle province, delle città metropolitane e dei comuni" -in quanto derogatoria del divieto di carattere generale, sembra rientrare nel novero delle ipotesi regolate dall'art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale, che ne esclude l'applicazione "oltre i casi e i tempi in esse considerati". PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO In sostanza, dalla possibilità di derogare a quanto stabilito, per gli Enti Locali, dall'art. 17, comma 1-bis, DL n. 162/2019 -convertito con modificazioni in L. n. 8/2020 -non è dato inferire il venir meno del divieto generale di utilizzare, tramite scorrimento, le graduatorie vigenti per la copertura di posti di nuova istituzione o "trasformati". A tale riguardo, va da sé che resta ferma la possibilità di attingere alle graduatorie già esistenti per la copertura delle posizioni vacanti che siano già previste nei precedenti atti di programmazione del fabbisogno di personale, secondo quanto chiarito anche dalla Corte di Cassazione -Sezione Lavoro nella citata ordinanza n. 3126/2020, secondo la quale "il divieto, peraltro, resta circoscritto alle posizioni di nuova istituzione e non può essere esteso, nei casi di aumento della complessiva dotazione organica, anche a quelle posizioni vacanti già previste nei precedenti atti di programmazione del fabbisogno del personale". Le questioni oggetto del presente parere, avendo carattere di massima, sono state sottoposte al Comitato Consultivo che si è espresso in conformità nella seduta del 23 settembre 2020. rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 Problematiche concernenti contratti pubblici di concessione a fronte dell’emergenza pandemica Parere del 16/11/2020-568719, al 27856/2020, aVV. lorenzo d’asCia Si riscontra la nota con cui si chiedeva alla Scrivente un parere in ordine alle attività più opportune da porre in essere a tutela dell'Amministrazione per effetto della mancata esecuzione da parte della società concessionaria dell'obbligo di versamento della prima rata trimestrale del canone concessorio. La questione sottoposta all'esame della Scrivente, in particolare, verte sugli effetti che l'art. 3, comma 6-bis, decreto legge 23 febbraio 2020 n. 6 spiega nel rapporto intercorrente con la società in oggetto, cui è stata affidata la gestione di servizi aggiuntivi ex art. 117, comma 2, del d.lgs. n. 42/2004, in forza di una concessione di servizio pubblico soggetta, come tale, alla disciplina del d.lgs. n. 50/2016. Il citato art. 3 è norma di carattere generale che introduce una specifica causa di esonero del debitore dall'inadempimento ed è quindi estensibile anche al caso in esame. Tuttavia, proprio in ragione del suo vasto ambito operativo, l'applicazione della norma non può che essere verificata in concreto anche in relazione alle peculiarità della singola fattispecie. In tale prospettiva, dunque, si collocano le seguenti considerazioni che, peraltro, intervengono in un quadro giurisprudenziale non ancora consolidato e in una situazione di emergenza pandemica, ad oggi, ancora in evoluzione. Dalla documentazione trasmessa emerge quanto segue: a) la concessionaria ha dato avvio alle attività oggetto del contratto in data 2 dicembre 2019; b) a causa dell'emergenza epidemiologica COVID-19 il Monumento è stato chiuso al pubblico dall'8 marzo 2020 al 20 giugno 2020; c) la concessionaria ha l'obbligo di versare in rate trimestrali posticipate un canone fisso annuo di € 210.000 e una royalty di importo pari al 25,30 % del fatturato annuo (art. 7, commi 1 e 2 del contratto concessorio); in caso di mancato versamento, come di inadempimento di qualsiasi altro obbligo ivi previsto, l'art. 11 del contratto concessorio prevede che il concedente, fermo il diritto al risarcimento del danno, ha la facoltà di dichiarare risolto di diritto il contratto, l’art. 15 del contratto prevede poi l'applicazione di penali a carico del concessionario inadempiente; d) l'art. 7, comma 6 del contratto concessorio prevede che "in nessun caso il Concessionario potrà pretendere riduzioni del canone o della royalty, o rimborsi o indennizzi di alcun genere, per le eventuali minori entrate dovute a chiusure tecniche del Monumento" e che "nessun indennizzo, a nessun titolo, verrà inoltre riconosciuto al Concessionario in caso di scioperi o analoghe manifestazioni poste in essere dai dipendenti del Concedente". PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO Lo stato di emergenza dovuto alla pandemia da coronavirus è stato dichiarato il 31 gennaio 2020. L'art. 3, comma 6-bis, decreto legge 23 febbraio 2020 n. 6 ha stabilito che "il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 del codice civile, della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti". La norma, come detto, introduce una specifica causa di esonero della responsabilità del debitore che appare assimilabile all'impossibilità sopravvenuta della prestazione dovuta a factum principis (artt. 1256 e 1464, c.c.). Da quanto precede emerge che, con specifico riguardo alla fattispecie oggetto di parere, l'inadempimento, intervenuto in relazione al versamento della prima rata (maturata, peraltro, in un periodo in cui l'emergenza epidemiologica si era già palesata) potrebbe dover essere valutato in termini di impossibilità sopravvenuta temporanea della prestazione in ragione della grave situazione venutasi a creare che ha determinato una crisi anche economica senza precedenti. Si osserva, inoltre, con una prospettiva rivolta all'intero arco temporale di durata del rapporto concessorio, che il contratto quantifica il canone e la royalty annualmente, ripartendole in rate trimestrali. Deve ritenersi, dunque, che gli eventi verificatisi per effetto dell'emergenza epidemiologica possano influire, complessivamente, su detto importo e, dunque, anche sulla prima rata. La crisi pandemica può aver determinato (anche al di là del periodo di chiusura obbligatoria del sito) o comunque potrebbe determinare anche in futuro, una sensibile contrazione del numero dei visitatori tale da integrare una ipotesi di eccessiva onerosità sopravvenuta del contratto che, in quanto dovuta al verificarsi di eventi straordinari e imprevedibili, può creare uno squilibrio nel rapporto tra le prestazioni e dar luogo in generale, da un lato, a una domanda di risoluzione del contratto ai sensi dell'art. 1467 c.c. ad opera della parte che ha patito il fatto emergenziale sopravvenuto, e, dall'altro lato, alla possibile offerta del concedente di una reductio ad aequitatem del contratto per scongiurare la risoluzione del contratto. I rilievi che precedono portano a ritenere che, nell'ambito della disciplina speciale dei contratti pubblici di concessione, il periodo di chiusura obbligatoria del sito pare rifluire nella fattispecie di cui all'art. 107, d.lgs. n. 50/2016 (richiamato dall'art. 4, par. 3 del contratto concessorio), che prevede la possibile sospensione dell'esecuzione del contratto quando circostanze speciali impediscano la regolare esecuzione delle prestazioni. Detta sospensione comporterebbe la non debenza del canone concessorio per i periodi di chiusura obbligatoria del sito. Per il periodo di apertura del sito, nel quale l'equilibrio economico finan rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 ziario del rapporto sia stato, comunque, pregiudicato dall'emergenza pandemica (che può aver influito sul numero di visitatori e dunque sulle entrate effettivamente conseguite dal concessionario in modo anche sensibile), potrebbe trovare applicazione l'art. 165, comma 6, d.lgs. n. 50/2016, che prevede che "il verificarsi di fatti non riconducibili al concessionario che incidono sull'equilibrio del piano economico finanziario può comportare la sua revisione da attuare mediante la rideterminazione delle condizioni di equilibrio" e che "la revisione deve consentire la permanenza dei rischi trasferiti in capo all'operatore economico e delle condizioni di equilibrio economico finanziario relative al contratto". Il comma 6 dell'art. 165, dispone inoltre che "in caso di mancato accordo sul riequilibrio del piano economico finanziario, le parti possono recedere dal contratto" e che "al concessionario sono rimborsati gli importi di cui all'articolo 176, comma 4, lettere a) e b), ad esclusione degli oneri derivanti dallo scioglimento anticipato dei contratti di copertura del rischio di fluttuazione del tasso di interesse". Ovviamente, se si procede alla sospensione dell'esecuzione del contratto ai sensi dell'art. 107 cit. per il periodo di chiusura obbligatoria del sito, la valutazione dell'alterazione dell'equilibrio economico finanziario non potrebbe prendere in considerazione detto periodo, nel quale la circostanza speciale della pandemia non avrebbe alcuna capacità di incidenza. Tanto premesso, e considerato che gli eventi sopravvenuti non rientrano tra quelli a cui l'art. 7, comma 6 del contratto concessorio nega espressamente rilevanza, si ritiene che sussistano le condizioni per procedere alla sospensione dell'esecuzione del contratto ex art. 107, d.lgs. n. 50/2016 per i periodi di chiusura obbligatoria del sito. Per il restante periodo, ove si ritenga -valutate tutte le circostanze concrete, ivi inclusa l'eventuale fruizione da parte del concessionario di forme di sostegno pubblico riconosciute alle imprese dal legislatore per 1'emergerua epidemiologica da Covid-19 -che la crisi pandemica abbia determinato un'alterazione del- l'equilibrio economico finanziario malgrado l'applicazione dell'art. 107 per il periodo di chiusura obbligatoria, si potrebbe procedere, negoziandola con il concessionario che ne faccia richiesta, alla revisione del contratto ai sensi del- l'art. 165 cit. in relazione al periodo in cui si è palesata la crisi epidemiologica con ripercussioni sull'equilibrio del piano economico finanziario, fino a quando questa inciderà sullo stesso. Detta revisione avrebbe efficacia ex nunc, ma potrebbe influire, come detto, sull'entità della prima rata del canone, ove modificato nella sua quantificazione annuale. In mancanza di un accordo in tal senso si potrà agire per la riscossione del dovuto sulla base del contratto di concessione ancora vigente oltre a dichiarare la risoluzione di diritto del contratto ai sensi dell'art. 11 del contratto medesimo. PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO Si resta a disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento. Considerata la rilevanza e la delicatezza delle questioni affrontate, il parere è stato sottoposto al Comitato Consultivo che si è espresso in conformità nella seduta del 12 novembre 2020. rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 Problematiche concernenti contratti pubblici di concessione a fronte dell’emergenza pandemica. altro quesito Parere del 21/11/2020-582619, al 18348/2020, aVV. andrea Fedeli Con nota del 18 marzo 2020 una ditta titolare di un contratto denominato "cessione di spazi per la installazione e la gestione di distributori autornatici.." presso un Istituto Scolastico nell'evidenziare l'evento di forza maggiore rappresentato dalla chiusura dell'Istituto stesso a causa dell'emergenza epidemiologica COVID-19 ha chiesto l'avviamento di un procedimento di revisione delle condizioni contrattuali. La questione sottoposta all'esame della Scrivente, in particolare, verte sugli effetti che l'art. 3, comma 6-bis, decreto legge 23 febbraio 2020 n. 6 spiega sulla suindicata concessione. Il citato art. 3 è norma di carattere generale che introduce una specifica causa di esonero del debitore dall'inadempimento ed è quindi estensibile anche al caso in esame. Tuttavia, proprio in ragione del suo vasto ambito operativo, l'applizione della norma non può che essere verificata in concreto anche in relazione alle peculiarità della singola fattispecie. In tale prospettiva, dunque, si collocano le seguenti considerazioni che, peraltro, intervengono in un quadro giurisprudenziale non ancora consolidato e in una situazione di emergenza pandemica, ad oggi, ancora in evoluzione. Occorre, preliminarmente, evidenziare che gli eventi verificatisi per effetto dell'emergenza epidemiologica, con particolare riferimento alla chiusura di tutte le scuole di ogni ordine e grado, hanno certamente determinato, in capo ai concessionari, l'impossibilità di vendere i prodotti attraverso i distributori installati nelle scuole stesse a fronte della corresponsione di un canone quantificato proprio sulla base del numero stimato di erogazioni in un dato periodo. L'art. 3, comma 6-bis, decreto legge 23 febbraio 2020 n. 6 ha stabilito che "il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 del codice civile, della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti". La norma, come detto, introduce una specifica causa di esonero della responsabilità del debitore che appare assimilabile all'impossibilità sopravvenuta della prestazione dovuta a factum principis (artt. 1256, 1464 e 1467 c.c.). Nel caso di specie trattandosi di impossibilità parziale temporanea (senza colpa, ma per factum principis) il riflesso sull'obbligo di corrispondere il canone concessorio sarà quello di subire, ex art. 1464 c.c. una riduzione del canone stesso limitatamente al solo periodo di impossibilità parziale. PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO Sotto tale profilo, la buona fede oggettiva nella fase esecutiva del contratto ex art. 1375 c.c. postula la rinegoziazione come cammino necessitato di adattamento del contratto alle circostanze ed esigenze sopravvenute ai fine di portare a compimento il risultato negoziale prefigurato ab initio dalle parti, allineando il regolamento pattizio a circostanze che sono mutate; ciò nel pieno rispetto dell'autonomia negoziale delle parti che un siffatto dovere non abbiano manifestamente escluso (in tal senso anche la relazione tematica n. 56 dell'8 luglio 2020 redatta dall'ufficio del Massimario e del ruolo presso la Corte Suprema di Cassazione). Tanto premesso si ritiene che sussistano le condizioni, in capo ai Dirigenti, per procedere, con il concessionario che ne faccia formale richiesta, alla rinegoziazione del contratto in relazione al periodo in cui si è palesata la crisi epidemiologica e fino a quando questa ha concretamente inciso sullo stesso. Ciò detto, l'obbligo di rinegoziare impone alle parti di intavolare nuove trattative e di condurle correttamente, ma non anche di concludere il contratto modificativo. Si testa a disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento Considerata la rilevanza e la delicatezza delle questioni affrontate, il parere è stato sottoposto al Comitato Consultivo nella seduta del 12 novembre 2020 che ha deliberato in conformità. rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 Quesiti sulla competenza dei dirigenti scolastici in servizio all’estero in materia di immobili da adibire a sede delle istituzioni scolastiche Parere del 17/11/2020-573057-573058, al 21401/2020, aVV. diana ranuCCi 1) Con la nota in riscontro, codesta Direzione chiede di conoscere il parere della Scrivente in ordine alla questione in oggetto, relativa alla eventuale competenza dei dirigenti scolastici, in servizio presso istituzioni scolastiche all’estero, in materia di gestione di immobili ad uso scolastico sia che questi appartengano al patrimonio dello Stato italiano sia che si tratti di immobili in locazione, ed in tale ultima ipotesi se i dirigenti scolastici possano ritenersi competenti a stipulare i relativi contratti in luogo dell’Ambasciata o del Consolato di riferimento. Precisa codesta Direzione che la questione riveste particolare rilievo per le istituzioni scolastiche statali all’estero ubicate in immobili condotti in locazione (Atene, Barcellona e, temporaneamente, Zurigo), ove non sembra potersi applicare l’art. 45, comma 2, lettera c) del d.i. miur n. 129/18 -che prevede la possibilità per i dirigenti scolastici di stipulare contratti di locazione per l’utilizzo di immobili previa delibera del consiglio d’istituto -in quanto tale organo collegiale nelle scuole statali all’estero non è previsto. In dettaglio, codesta Direzione, anche rilevato che una organizzazione sindacale contesta la competenza dei dirigenti scolastici all’estero in materia di immobili, prospetta i seguenti tre quesiti: a. se un dirigente scolastico all’estero sia o meno competente alla firma di contratti di locazione di immobili ad uso scolastico, in luogo dell’Ambasciata o del Consolato di riferimento (in dettaglio la questione attiene alla scuola statale di Barcellona); b. le modalità con cui la gestione di un immobile appartenente al patrimonio dello Stato italiano debba essere formalmente conferita ad un dirigente scolastico all’estero; c. la possibilità per un dirigente scolastico, che gestisce una scuola statale ubicata in un immobile appartenente al patrimonio dello Stato, di concedere in comodato d’uso parte dei locali, in luogo dell’Ambasciata o del Consolato di riferimento. 2) La normativa di riferimento. La normativa applicabile in materia è recata dal d.lgs. 13 aprile 2017, n. 64 (disciplina della scuola italiana all’estero), che all’art. 1 -ambito di applicazione -dispone che fine della legge è quello di attuare un effettivo e sinergico coordinamento tra MAECI e MIur nella gestione della rete scolastica estera. PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO Già sotto questo profilo appare evidente come la ratio sottesa alla disciplina normativa sia quella di valorizzare il ruolo del miur all’estero, e quindi delle relative istituzioni scolastiche di cui il dirigente scolastico, soggetto legato al miur da un rapporto di servizio, è organo rappresentativo sia in territorio metropolitano che estero. Ciò comporta la necessità di coordinare le norme contenute nel d.P.r. n. 18/67 -e segnatamente gli artt. 79 e 80 -con il nuovo testo normativo, considerato anche che le scuole italiane all’estero sono all’attualità di numero assai maggiore ed hanno finalità diverse ed ulteriori rispetto a quelle che avevano nel previgente sistema, in punto, per esempio, di organizzazione di eventi culturali. Tanto premesso, le norme del d.lgs n. 64/17 che si ritengono più rilevanti al fine di dare soluzione ai quesiti prospettati sono le seguenti: art. 4, comma 2 -scuole statali all’estero -: 2. le scuole di cui al comma 1 conformano il proprio ordinamento a quello delle corrispondenti scuole del sistema nazionale italiano di istruzione e formazione. art. 5 -gestione delle scuole statali all’estero -: 1. a ciascuna scuola statale all'estero è assegnato un dirigente scolastico. in caso di assenza o di impedimento dello stesso, le funzioni sono temporaneamente svolte da un docente individuato dal dirigente stesso, o, in mancanza, dal capo dell'ufficio consolare o della rappresentanza diplomatica. 2. la gestione amministrativa e contabile delle scuole statali all'estero è regolata dalle disposizioni applicabili alle rappresentanze diplomatiche. i poteri attribuiti da dette disposizioni ai commissari amministrativi e ai capi di ufficio all'estero sono rispettivamente esercitati dal direttore dei servizi generali ed amministrativi e dal dirigente scolastico. art. 6 -scuole paritarie all’estero -: 3. Ciascuna scuola paritaria individua un coordinatore dell'attività didattica, che si raccorda con il dirigente scolastico assegnato all'ambasciata o all'ufficio consolare o, in mancanza, con il capo dell'ufficio consolare. art. 13 -gestione, coordinamento e vigilanza -: Per gestire, coordinare e vigilare il sistema della formazione italiana nel mondo, la selezione e la destinazione all'estero del personale di cui all'articolo 18, nonché le ulteriori attività di cui al presente decreto legislativo, il MaeCi e il Miur si avvalgono di dirigenti scolastici, docenti e personale amministrativo della scuola. art. 18. -categorie e contingenti di personale -: 2. i dirigenti scolastici possono essere assegnati a scuole statali all'estero, ad ambasciate o a uffici consolari. i dirigenti scolastici assegnati ad ambasciate o a uffici consolari promuovono e coordinano le attività scolastiche di cui al capo i, sulla base delle indicazioni del titolare della sede o del funzionario da lui delegato e in raccordo con gli istituti italiani di cultura. 3. i docenti non assegnati a scuole statali all'estero sono coordinati dal dirigente scolastico assegnato all'amba rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 sciata o all'ufficio consolare o, in caso di sua assenza o impedimento, dal capo dell'ufficio consolare. art. 25 -sanzioni disciplinari -: 2. il procedimento disciplinare compete al dirigente scolastico o, in sua assenza, al capo del consolato. 3) La nota di uiL Scuola rua. In concreto, il problema delle competenze dei dirigenti scolastici si è posto a seguito di una nota in data 24 aprile 2020, con cui la uIL Scuola rua -Dipartimento estero segnalava che la Console generale d’Italia a Barcellona aveva richiesto al dirigente scolastico presso l’Istituto Comprensivo Italiano di Barcellona di sottoscrivere il nuovo contratto di locazione, rilevando trattarsi di atto che ricadrebbe “sotto la responsabilità” del dirigente scolastico in base a quanto disposto dalla medesima con messaggio n. 18076 del 20 giugno 2018, con il quale anche richiedeva al Dirigente scolastico di occuparsi della ricerca degli immobili da adibire a sede della scuola; tanto in considerazione “dei compiti del Capo missione a cui il dirigente scolastico viene dichiaratamente equiparato che prevedono l’obbligo di occuparsi della ricerca di locali che possano ospitare la scuola”. Sul punto, al contrario, la uIL Scuola rua sostiene che le norme vigenti non attribuiscono al dirigente scolastico alcuna competenza in merito alla sottoscrizione del contratto di locazione né specifici obblighi di ricerca dei locali scolastici. La uIL osserva che l’art. 5 del d.lgs. 64/2017 estende alla “gestione amministrativa e contabile delle scuole statali all'estero” le “disposizioni applicabili alle rappresentanze diplomatiche”, al fine di realizzare l’autonomia amministrativo-contabile delle scuole statali italiane all’estero e che l’art. 80 d.P.r. n. 18/67 prevede l’esclusiva competenza del MAECI, tramite la Commissione per gli immobili che esprime al Ministro il parere relativo “…alla locazione degli immobili all’estero..”. Secondo la uIL, tale sistema tenderebbe a realizzare un allineamento delle funzioni delle scuole italiane all’estero a quelle previste per le scuole situate in territorio metropolitano, ma non interverrebbe sulle competenze relative agli immobili assegnate in Italia agli enti locali, così come stabilito dall’art. 14, co. 1, lett. i) della legge 8 giugno 1990, n. 142, secondo il quale questi ultimi “provvedono alla realizzazione, alla fornitura e alla manutenzione ordinaria e straordinaria degli edifici”. A parere della Scrivente, il richiamo operato alla disciplina degli enti locali non appare corretto, considerato che i dirigenti scolastici “metropolitani” non si trovano, di regola, nella necessità di stipulare locazioni passive perché la provvista degli immobili da adibire a sede delle istituzioni scolastiche fa carico agli enti locali (comuni e province) in base alla l. 11 gennaio 1996, n. 23: donde appare inconferente, per i dirigenti scolastici “esteri”, sia tale ri PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO chiamo legislativo e, ancor prima, quello alla l. 8 giugno 1990, n. 142, comunque abrogata e superata dal TuEL -d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 -, il quale, peraltro, contiene analoghe disposizioni quanto alla competenza in materia degli enti locali. Si aggiunge poi che, nella specie, non si discute delle funzioni attribuite agli enti locali in materia di scuole ma delle competenze di soggetti -dirigenti scolastici e capi missioni -che svolgono servizio all’estero per i quali sussiste una disciplina ad hoc recata in primis dal d.P.r. n. 18/67 e, per le scuole all’estero in particolare, dal d.lgs. n. 64/17 -in nulla equiparabili agli organi degli enti locali che in territorio nazionale si occupano di scuole. Diverso è invece il problema del coordinamento di tali poteri del dirigente scolastico con le disposizioni di cui agli artt. 79 e 80 del d.P.r. 5 gennaio 1967, n. 18 i quali dettano una specifica disciplina (anche) per i beni immobili situati all’estero, pure richiamati dal Sindacato e di cui si dirà infra. A parere della Scrivente, infatti, tali disposizioni devono essere coordinate con lo ius superveniens recato dal d.lgs. n. 64/17, che ha notevolmente ampliato le competenze del MIur e dei suoi dirigenti all’estero. Ferme pertanto le esigenze di carattere pratico rappresentate dal Sindacato, non sembra tuttavia che le tesi giuridiche ivi prospettate possano ritenersi condivisibili. 4) La scheda di approfondimento sugli immobili in italia redatta dalla dGSP uff. v, in data 11 giugno 2020. Codesta Direzione, in allegato alla nota a margine, ha altresì inviato la scheda in oggetto. Tale nota, a parere di questa Avvocatura, non sembra contenere elementi idonei al fine della soluzione dei quesiti prospettati, considerato che ivi si fa riferimento, in via quasi esclusiva, alla disciplina delle scuole in territorio nazionale e si evidenzia che le relative funzioni sono di competenza degli enti locali, Comuni e Province. Il richiamo agli artt. 79 e 80 d.P.r. n. 18/67, come si dirà più avanti, non appare dirimente, dovendosi comunque le norme regolamentari coordinare con il successivo testo legislativo, peraltro di rango superiore. 5) L’appunto operativo, reso in data 20 maggio 2020 dal Servizio Giuridico del maeCi. Codesta Direzione ha inoltre qui trasmesso l’appunto in oggetto, a tenore del quale “il d.lgs. 64 del 13 aprile 2017, “disciplina della scuola italiana all’estero”, non contiene alcuna disposizione ad hoc sulla gestione amministrativa degli immobili adibiti ad edifici scolastici all’estero. Così, il d.P.r. n. 18 del 5 gennaio 1967. Pertanto la relativa disciplina deve essere individuata mediante integrazione analogica”. rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 Il Servizio giuridico evidenzia che: -l’art. 20, co. 2, del d. lgs n. 64/17 si limita a collocare il dirigente scolastico fuori ruolo presso il MAECI; -l’art. 5, co. 2, affida al MAECI, sentita la sede, l’approvazione dei bilanci delle scuole; -la gestione amministrativa delle scuole all’estero sembra essere regolata dalle stesse regole applicabili alle rappresentanze diplomatiche e -al dirigente scolastico sono attribuiti gli stessi poteri del capo di ufficio all’estero; -l’art. 13 statuisce che “per gestire, coordinare e vigilare il sistema della formazione italiana nel mondo, la selezione e la destinazione all’estero del personale […], nonché le ulteriori attività di cui al presente decreto legislativo, il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale e il Ministero dell’istruzione dell’università e della ricerca si avvalgono di dirigenti scolastici”; -l’art. 18, co. 2, prevede che i dirigenti scolastici “promuovono e coordinano le attività scolastiche […] sulla base delle indicazioni del titolare della sede o del funzionario da lui delegato e in raccordo con gli istituti italiani di cultura”. ritiene il Servizio giuridico che, in base a tali disposizioni, sembra potersi dedurre che l’art. 5, co. 2, e l’art. 13 del d.lgs. 64/2017 tendano ad affidare i poteri di gestione amministrativa in prima battuta al dirigente scolastico, equiparato a un capo missione. Al contempo, l’art. 18, co. 2, e l’art. 13 prevedono delle prerogative in capo al titolare della sede o al funzionario da lui delegato, che, tuttavia, a parere del Servizio, sembrerebbero tradursi in meri poteri di vigilanza o al massimo di sovra-ordinazione funzionale, ma non anche di natura organizzativa, con la conseguenza che la titolarità primaria dei poteri di gestione e spesa, anche sugli immobili, resterebbe di competenza dei dirigenti scolastici. 6.1) L’analisi delle disposizioni regolamentari e legislative applicabili nella specie e dei pareri resi dagli uffici competenti in materia induce a ritenere che il d.lgs n. 64/17 abbia profondamente inciso sulla posizione e sulle funzioni del dirigente scolastico all’estero, avendogli riconosciuto poteri di natura organizzativa, amministrativa e contabile analoghi a quelli attribuiti al capo missione (art. 5), nonchè tutte le funzioni previste dall’art. 13, mentre, in conformità alla ratio ispiratrice della legge 64/17, l’art. 18 espressamente dispone che “quando i dirigenti scolastici sono assegnati ad ambasciate o uffici consolari agiscono sulla base delle indicazioni del titolare della sede”, per cui, argomentando a contrario, dovrebbe dedursi che quando sono invece assegnati a scuole statali all’estero non sono soggetti a tali indicazioni. Come sopra rilevato, l’art. 5, comma 2, del d.lgs. 13 aprile 2017, n. 64 PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO stabilisce che “la gestione amministrativa e contabile delle scuole statali all’estero è regolata dalle disposizioni applicabili alle rappresentanze diplomatiche. i poteri attribuiti da dette disposizioni ai commissari amministrativi e ai capi di ufficio all’estero sono rispettivamente esercitati dal direttore dei servizi generali ed amministrativi e dal dirigente scolastico”. La risposta al quesito formulato -se il dirigente scolastico preposto ad una scuola statale all’estero sia o meno competente alla sottoscrizione di un contratto di locazione avente ad oggetto un immobile da adibire ad uso della scuola -dipende quindi in via preliminare dall’individuazione dei poteri attribuiti ai capi missione. Sul punto, appare pacifico che il capo missione abbia, nell’ambito dei poteri dirigenziali attribuiti dall’art. 101 d.P.r. n. 18/67, anche il potere di sottoscrivere contratti di locazione diretti ad acquisire la disponibilità di immobili da adibire ad uso della sede diplomatica, per cui non sembra sussistano valide ragioni per le quali i dirigenti scolastici, che, per disposto di legge, hanno gli stessi poteri, non dovrebbero avere anche quello di stipulare contratti di locazione riferiti al loro specifico ambito di competenza e, ancor prima, di effettuare le ricerche di mercato e condurre le trattative a tal fine preordinate, coadiuvati, per l’attività istruttoria, dal direttore dei servizi generali ed amministrativi. Né, in senso contrario, può deporre il fatto, evidenziato nella nota in riscontro, che non possa trovare nella specie applicazione l’art. 45, comma 2, lettera c) del D.I. MIur n. 129/18 -che prevede la determinazione, da parte del consiglio d’istituto, dei criteri e dei limiti per lo svolgimento, da parte del dirigente scolastico, di attività negoziale in materia di locazione di immobili -in quanto tale organo collegiale nelle scuole statali all’estero non è previsto. È infatti evidente come la posizione giuridica del dirigente scolastico all’estero sia regolata da una disciplina -contenuta nella l. n. 64/2017 -peculiare e specifica rispetto a quella che regola la posizione giuridica del dirigente metropolitano, così che le due situazioni non sembrano essere completamente sovrapponibili. Se infatti in territorio metropolitano i poteri contrattuali del dirigente scolastico sono esercitabili nell’ambito dei criteri e dei limiti stabiliti dal consiglio d’istituto, l’assenza di tale organo nell’ordinamento delle scuole italiane all’estero è per così dire “supplita” dalle previsioni contenute negli artt. 79 e 80 del d.P.r. n. 18/67 che, come si dirà infra: v. paragrafo 6.2, rimettono all’Amministrazione centrale la fissazione dei criteri e dei limiti entro i quali il dirigente scolastico estero può esercitare i poteri negoziali dei quali è titolare. D’altro canto, se i dirigenti scolastici “esteri” hanno, al pari dei dirigenti scolastici “metropolitani” (v. art. 25 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, in particolare il comma 4), poteri gestionali e di spesa, deve logicamente ritenersi che a tali poteri si accompagnino necessariamente poteri negoziali, compreso quello rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 di concludere contratti -passivi -dai quali derivino obbligazioni a carico del- l’istituzione scolastica. Poteri che devono poi ritenersi propri ed esclusivi del dirigente scolastico, perché riferiti all’istituto scolastico al quale questi è preposto, come tali in alcun modo surrogabili, se non in via sostitutiva, in caso di inerzia o assenza del primo, da quelli - analoghi - del capo dell’ufficio estero. E conferma di ciò si rinviene nelle disposizioni del regolamento di cui al d.i. 28 agosto 2018, n. 129, in particolare nell’art. 43, che afferma la piena capacità ed autonomia negoziale e contrattuale delle istituzioni scolastiche, e nel combinato disposto degli artt. 44 e 45, che individuano nel dirigente scolastico il soggetto titolato allo svolgimento, nei limiti stabiliti dalla normativa vigente in materia e nell’osservanza dei criteri e dei limiti fissati dal Consiglio d’istituto, dell’attività negoziale, segnatamente e per quanto qui specificamente interessa, di quella relativa alla locazione di immobili e alla utilizzazione, da parte di soggetti terzi, di locali appartenenti alla istituzione scolastica o in uso alla medesima. Alla luce di tali osservazioni questa Avvocatura concorda quindi con il parere reso dal Servizio giuridico, nel senso che rientra tra le competenze del dirigente scolastico all’estero la sottoscrizione di contratti di locazione di immobili ad uso scolastico, e ciò in virtù di poteri propri legislativamente attribuiti. 6.2) Tale soluzione comporta la necessità di affrontare il problema del coordinamento di tali poteri del dirigente scolastico con le disposizioni di cui agli artt. 79 e 80 del d.P.r. 5 gennaio 1967, n. 18 i quali dettano una specifica disciplina (anche) per i beni immobili situati all’estero, prevedendo specifiche competenze di organi ed uffici dell’Amministrazione centrale anche relativamente alla locazione degli stessi, ed in particolare con l’art. 80 d.P.r. n. 18/67 che, per quanto riguarda la locazione di immobili all’estero, disciplina la competenza esclusiva del MAECI, per il tramite della Commissione per gli immobili, la quale “esprime al Ministro parere circa la scelta, l'acquisto, la costruzione, il riattamento, la locazione e l'arredamento degli immobili all'estero per uffici, residenze e sedi di istituti scolastici e culturali o comunque necessari all'amministrazione”. L’art. 79 individua le Direzioni generali competenti, tramite i loro uffici, ad attendere “alle questioni” relative, tra l’altro, “alla locazione degli immobili all’estero destinati a uffici e residenze” -ma le scuole non sono né “uffici” né “residenze” -e, più genericamente, degli immobili “comunque necessari al- l’attività dell’amministrazione” o “destinati ad attività all’estero”. L’art. 80, invece, prevede, più specificamente, e come s’è già detto, l’intervento di una Commissione consultiva nel caso di locazione di immobili all’estero da destinare, fra l’altro, a “sedi di istituti scolastici”. PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO Premesso che la questione riguarda, a ben vedere, anche i capi missione -cui i dirigenti scolastici sono equiparati per quanto attiene alla gestione amministrativa e contabile delle scuole -, si ritiene che tali disposizioni non interferiscano con la specifica competenza del dirigente scolastico alla locazione degli immobili da destinare a sede della scuola, qualora si tenga opportunamente distinto il profilo programmatorio/autorizzatorio da quello più specificamente operativo/gestionale: nel senso che la ricerca, l’individuazione, la trattativa e la stipula del contratto di locazione da parte del dirigente scolastico dovranno svolgersi, previo parere della Commissione consultiva, nel quadro delle linee programmatiche e delle direttive impartite dai competenti uffici dell’Amministrazione centrale, in costante raccordo con gli stessi e solo a seguito di autorizzazione da parte di questi. In tal senso dovrà perciò essere intesa la locuzione (cfr. art. 79, comma 1, d.P.r. n. 18/67): “attende … alle questioni relative … alla locazione”, la quale identifica, all’evidenza, un’attività di supervisione e di coordinamento diversa dalla semplice ricerca e locazione dell’immobile. Tale conclusione sembra anche conforme al disposto dell’art. 625, comma 2, d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, secondo cui “l’azione dello stato nei riguardi delle scuole e delle altre istituzioni educative di cui al comma 1 è esercitata dal MaeCi per mezzo degli agenti diplomatici e consolari”. 7) Con il secondo quesito prospettato, codesta Direzione chiede di conoscere il parere della Scrivente circa le modalità con cui la gestione di un immobile appartenente al patrimonio dello Stato italiano possa essere conferita ad un dirigente scolastico all’estero. Sul punto, il Servizio giuridico, evidenziato che, in materia di edifici di proprietà pubblica, l’art. 29 del DI MIur n. 129/2018 fa espressamente salve le “disposizioni degli enti proprietari” e che tale norma è applicabile agli immobili comunali e provinciali (scuole primarie e secondarie), osserva che “in virtù di una interpretazione estensiva, il disposto in parola potrebbe valere pure per gli immobili dello stato, tra cui rientrano gli immobili adibiti a scuola all’estero, la cui proprietà non è dell’agenzia del demanio ma delle sedi, fatto salvo il coordinamento di dGai”. Codesta Direzione non chiarisce in base a quale disposizione si affermi la proprietà di tali immobili in capo alle Sedi. In ogni caso -e fermo che comunque ai fini della soluzione del quesito proposto è indifferente individuare quale sia il soggetto proprietario del bene -si osserva che, in linea generale e salve diverse disposizioni specificamente riferite al Ministero degli Esteri, anche per il MAECI dovrebbe valere la regola generale fissata dall’art. 1 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2240 -legge di contabilità generale dello Stato -, che individua nel Ministero dell’Economia e delle Finanze il titolare del diritto di proprietà dei beni immobili dello Stato i rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 quali sono poi concessi in uso gratuito (così, d’altra parte, dispone l’art. 79, comma 3, d.P.r. n. 18/67) all’Amministrazione dalla quale dipende il servizio governativo cui sono assegnati. Ciò dovrebbe riguardare anche gli immobili statali ubicati all’estero adibiti ad edifici scolastici, che il Ministero degli Esteri, assegnatario ed usuario degli immobili, assegna a sua volta in uso, con un provvedimento amministrativo, al dirigente scolastico (rectius: alla scuola e, per essa, al dirigente) preposto all’istituto scolastico cui ciascuno di essi è destinato. La relazione che intercorre tra il Ministero e la singola Scuola deve quindi correttamente qualificarsi come una relazione interorganica e non intersoggettiva. Analogamente a quanto accade in territorio metropolitano -a mente del- l’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 64/2017, le scuole statali all’estero conformano infatti il proprio ordinamento a quello delle corrispondenti scuole del sistema nazionale italiano di istruzione e formazione -, le istituzioni scolastiche e gli istituti educativi sono organi dello Stato, anche se muniti di personalità giuridica e autonomia didattica, organizzativa, finanziaria ed amministrativa (v. l’art. 21 della l. 15 marzo 1997, n. 59 e il regolativo regolamento di attuazione di cui al d.P.r. 8 marzo 1999, n. 275). La giurisprudenza -(cfr. tra tante, C.d.S., sez. VI, n. 3202/2015 e Cass. n. 19158/2012) -ha al riguardo chiarito che la personalità giuridica delle scuole è rilevante nei soli confronti dei terzi, essendo finalizzata all’imputazione alla scuola prima di tutto dell’attività negoziale posta in essere dai suoi organi -in primis, dal dirigente scolastico, che ne ha la legale rappresentanza (v. art. 25, comma 2, d.lgs. n. 165/2001) -in funzione di una maggiore agilità di azione: ferma restando la natura di organo dello Stato, sia pure personificato ed autonomo. Le istituzioni educative statali, pur essendo munite di personalità giuridica autonoma, conservano perciò la natura di organi periferici dello Stato, stabilmente inseriti nell’organizzazione statale (così C.d.S., sez. VI, n. 8081/2019), come risulta del resto confermato dall’imputazione allo Stato di almeno una parte dei loro atti, dallo status del relativo personale, in particolare di quello docente che appartiene ai ruoli statali e dalla fonte (statale) del loro finanziamento -(sul punto, in senso conforme si è espressa la Scrivente con parere n. 30282/2005). Ne consegue perciò che la relazione tra lo Stato e le scuole -comprese quelle all’estero -continua ad atteggiarsi, come detto, in termini di relazione interorganica, mentre quella tra le scuole e i terzi si configura, in ragione della personalità giuridica della quale le prime sono munite, in termini di relazione intersoggettiva. Tali considerazioni risultano ad avviso della Scrivente dirimenti ai fini della soluzione degli ulteriori quesiti proposti. PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO Se la relazione tra lo Stato -Ministero/Sede diplomatica -e la Scuola è una relazione interorganica, è evidente che l’assegnazione al dirigente scolastico della gestione dell’edificio di proprietà statale dovrà avvenire, come anticipato e come accade in tutti i casi in cui un’Amministrazione assegna beni (ai preposti) ai propri organi, sulla base ed in forza di un provvedimento amministrativo -di assegnazione, appunto -, autonomo o eventualmente contenuto nello stesso verbale di consegna che dovrà comunque identificare e descrivere il bene, le sue condizioni e il suo stato di manutenzione. In questo senso, il riferimento operato dal Servizio giuridico alla disciplina codicistica del contratto di comodato -non ulteriormente qualificabile come comodato “d’uso” posto che, per definizione, il comodato è proprio un contratto traslativo dell’uso di una cosa -, riferimento che non sembra neanche contenuto nella deliberazione della Corte dei Conti citata dal Servizio giuridico (Corte dei conti, Sez. reg. Contr. Lombardia, n. 172/2014), può avere unicamente la funzione di individuare il criterio di riparto delle spese di manutenzione, con riserva di quelle straordinarie, funzionali alla conservazione, a carico del Ministero “proprietario” -rectius: assegnatario -del bene e accollo di quelle ordinarie alla Scuola, in quanto conseguenti e funzionali all’uso dello stesso da parte di questa. 8) Con il terzo quesito, codesta Direzione chiede di sapere se un dirigente scolastico, che gestisce una scuola statale ubicata in un immobile appartenente al patrimonio dello Stato, possa concedere in comodato a terzi parte dei locali, in luogo dell’Ambasciata o del Consolato di riferimento. Quanto sopra osservato consente di risolvere anche l’ulteriore quesito posto da codesta Direzione. Ed infatti, se la relazione tra la Scuola e i terzi è -in ragione della soggettività giuridica della quale l’istituzione educativa è munita: e, sotto questo profilo, non vi è invero motivo di distinguere tra scuole “metropolitane” e scuole “estere” -una relazione intersoggettiva, è allora altrettanto evidente che l’attribuzione a terzi del godimento di parte dei locali assegnati potrà avvenire solo se e nella misura in cui il provvedimento di assegnazione lo consenta e nella forma -concessione amministrativa o contratto di locazione -coerente con la natura pubblica (demaniale o patrimoniale indisponibile) o privata (patrimoniale disponibile) del bene del quale di volta in volta si tratta: fermo restando che, in considerazione del generale principio di redditività dei beni pubblici, richiamato nella citata deliberazione della Corte dei Conti, la concessione dovrà essere, di regola, onerosa e potrà solo in via eccezionale essere gratuita. Va da sé che, alla luce delle considerazioni che precedono, la competenza alla concessione a terzi del godimento di parte dei locali della scuola spetta al dirigente scolastico, trattandosi di atto gestorio delle risorse materiali -beni a lui assegnate. rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 Il presente parere viene esteso al MIur che, invitato dalla Scrivente ad interloquire sulla questione, non ha ritenuto di far pervenire osservazioni. Sulla questione è stato sentito il Comitato Consultivo che si è espresso in conformità nella seduta in video conferenza del 12 novembre 2020. PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO obbligazioni pecuniarie della pubblica amministrazione: risarcimento delle spese sostenute per il recupero dei crediti ai sensi dell’art. 6, d.Lgs n. 231/2002 e successive modifiche Parere del 23/02/2021-122186, al 45810/2020, aVV. eManuele Feola Con la nota in riscontro, codesta Amministrazione ha chiesto alla Scrivente di esprimere il proprio parere in merito all'ambito di applicazione oggettivo dell'art. 6 del decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, così come sostituito dall'art. 1, comma 1, lett. f), del decreto legislativo 9 novembre 2012, n. 192. In particolare, si è chiesto di chiarire i presupposti in presenza dei quali la disposizione citata attribuisce al creditore il diritto a riscuotere, oltre agli interessi moratori, anche i costi di recupero forfetari, quantificati dal legislatore nella somma di 40 euro. Preliminarmente, si precisa che il quesito sottoposto all'esame della Scrivente concerne esclusivamente le obbligazioni pecuniarie della pubblica amministrazione che rientrano nell'ambito di applicazione del decreto legislativo 9 ottobre 2002 n. 231, intitolato "attuazione della direttiva 2000/35/Ce relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali". Pertanto, il presente parere si riferisce ai soli pagamenti effettuati "a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale" (art. 1, comma 1, enfasi aggiunte). In relazione a tale fattispecie, l'art. 6, rubricato "risarcimento delle spese di recupero", stabilisce che -nei casi in cui il debitore non dimostri che il ritardo nel pagamento del prezzo è stato determinato dall'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile -il creditore ha diritto, oltre alla corresponsione degli interessi moratori (art. 3), "anche al rimborso dei costi sostenuti per il recupero delle somme non tempestivamente corrisposte" (comma 1). Gli anzidetti costi di recupero sono dovuti, senza che sia necessaria la costituzione in mora del debitore, nell'importo forfettario di 40 euro, tuttavia, resta salva per il creditore la possibilità di fornire la prova del maggior danno subito, comprensivo -inter alia -dei costi di assistenza sostenuti per recuperare il credito insoluto (comma 2). Le disposizioni in esame hanno recepito nell'ordinamento interno l'art. 6 della direttiva 2011/7/ue del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 febbraio 2011, "relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali". Tale articolo, intitolato "risarcimento delle spese di recupero", obbliga gli Stati membri ad assicurare che, nei casi in cui siano esigibili gli interessi di mora, il creditore abbia anche il diritto alla corresponsione, da parte del debitore, di un importo forfettario minimo di 40 euro (paragrafo 1). Inoltre, gli Stati membri sono tenuti a garantire che l'importo in questione rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 sia esigibile senza necessità di sollecito a titolo di risarcimento forfetario dei costi di recupero sostenuti dal creditore (paragrafo 2). La disposizione precisa che l'importo de quo è un importo minimo, in quanto, ai sensi del paragrafo 3, resta fermo il diritto del creditore ad "esigere dal debitore un risarcimento ragionevole per ogni costo di recupero che ecceda tale importo forfettario", come -a titolo esemplificativo -le spese derivanti dall'affidamento dell'incarico a un avvocato oppure ad una società di recupero crediti. La ratio delle disposizioni in esame è esplicitata nel preambolo della direttiva, dove si chiarisce che: a) "i ritardi di pagamento costituiscono una violazione contrattuale resa finanziariamente attraente per i debitori nella maggior parte degli stati membri dai bassi livelli dei tassi degli interessi di mora applicati o dalla loro assenza e/o dalla lentezza delle procedure di recupero. È necessario un passaggio deciso verso una cultura dei pagamenti rapidi, in cui, tra l'altro, l'esclusione del diritto di applicare interessi di mora sia sempre considerata una clausola o prassi contrattuale gravemente iniqua, per invertire tale tendenza e per disincentivare i ritardi di pagamento. Tale passaggio dovrebbe inoltre includere l'introduzione di disposizioni specifiche sui periodi di pagamento e sul risarcimento dei creditori per le spese sostenute e prevedere, tra l'altro, che l'esclusione del diritto al risarcimento dei costi di recupero sia presunta essere gravemente iniqua" (considerando n. 12); b) "un risarcimento equo dei creditori, relativo ai costi di recupero sostenuti a causa del ritardo di pagamento, serve a disincentivare i ritardi di pagamento. Tra i costi di recupero dovrebbero essere inclusi anche i costi amministrativi ei costi interni causati dal ritardo di pagamento, per i quali la presente direttiva dovrebbe determinare un importo minimo forfettario che possa cumularsi agli interessi di mora. Il risarcimento sotto forma di importo forfettario dovrebbe mirare a limitare i costi amministrativi e i costi interni legati al recupero. il risarcimento delle spese di recupero dovrebbe essere determinato fatte salve le disposizioni nazionali in base alle quali l'autorità giurisdizionale nazionale può concedere al creditore un risarcimento per eventuali danni aggiuntivi connessi al ritardo di pagamento del debitore" (considerando n. 19, enfasi aggiunte); c) "oltre ad avere diritto al pagamento di un importo forfettario per coprire i costi interni legati al recupero, il creditore dovrebbe poter esigere anche il risarcimento delle restanti spese di recupero sostenute a causa del ritardo di pagamento del debitore. Tali spese dovrebbero comprendere, in particolare, le spese sostenute dal creditore per aver affidato un incarico a un avvocato o a un'agenzia di recupero crediti" (considerando n. 20, enfasi aggiunte). Dunque, l'obiettivo perseguito dal legislatore sovranazionale è quello di PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO apprestare efficaci strumenti di contrasto contro il ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali: ritardi che costituiscono, ai sensi del considerando n. 12, una violazione contrattuale resa finanziariamente attraente per i debitori dai bassi livelli dei tassi degli interessi di mora applicati oppure dalla loro assenza (cfr. Corte di Giustizia uE, sentenza del 16 febbraio 2017, causa C555/ 14, punto 24). In altri termini, la direttiva in esame ha lo scopo di tutelare efficacemente i creditori contro i ritardi di pagamento (cfr. Corte di Giustizia uE, sentenza del 15 dicembre 2016, causa C-256/15, punto 50) e tale tutela implica necessariamente il diritto dei medesimi creditori a conseguire l'integrale ristoro delle spese di recupero che hanno sostenuto (cfr. Corte di Giustizia uE, sentenza del 13 settembre 2018, causa C-287/17, punto 26). Tuttavia, i predetti creditori potrebbero incontrare delle difficoltà -sul piano probatorio -nel fornire una esatta quantificazione dei costi sostenuti per il recupero del credito, qualora si tratti di costi amministrativi o, comunque, di costi interni all'organizzazione aziendale. Per questa ragione, il considerando n. 19 prevede l'introduzione di un importo forfettario minimo, il cui obiettivo è proprio quello di coprire tali costi, esonerando il creditore dall'onere della relativa prova mediante la previsione di una presunzione iuris et de iure. Naturalmente, per il recupero del credito, potrebbero essere sostenuti costi ben superiori a quello forfetario minimo, soprattutto ove il creditore sia costretto a rivolgersi ad un professionista esterno all'impresa oppure ad una società di recupero crediti. In questi casi, il considerando n. 20 prevede la possibilità per il creditore di pretendere anche il pagamento di tali ulteriori spese, ma -conformemente alle regole ordinarie in materia di riparto dell'onere probatorio -è richiesta la prova del danno subito. In considerazione delle finalità indicate nel preambolo e del tenore letterale dell'art. 6, la Corte di Giustizia dell'unione europea ha dichiarato che l'anzidetto articolo "deve essere interpretato nel senso che riconosce al creditore, che chiede il risarcimento delle spese derivanti dai solleciti inviati al debitore a causa del ritardo di pagamento di quest'ultimo, il diritto di ottenere, a tale titolo, oltre all'importo forfettario di eur 40 previsto al paragrafo 1 del suddetto articolo, un risarcimento ragionevole, ai sensi del paragrafo 3 dello stesso articolo, per la parte di tali spese che eccede tale importo forfettario" (cfr. sentenza del 13 settembre 2018, causa C-287/17, cit., punto 38). Siffatto principio di diritto è stato enunciato dalla Corte di Giustizia nel- l'ambito di un procedimento principale avente ad oggetto il recupero -da parte di una compagnia assicurativa -dei premi dovuti dal debitore per il periodo intercorrente tra il 7 novembre 2014 e il 25 febbraio 2015, rimasti insoluti nonostante i numerosi solleciti di pagamento. rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 In particolare, il giudice nazionale chiedeva al giudice europeo di chiarire se -in tale ipotesi -il creditore avesse diritto al solo rimborso dei costi di recupero forfetari quantificati dall'art. 6, paragrafo 2, in 40 euro oppure se potesse cumulare tale importo con quello previsto col diritto nazionale, che già prevedeva la possibilità -per il creditore -di ripetere le spese sostenute per sollecitare l'adempimento dell'obbligazione. Ebbene, nel fornire la soluzione al quesito, la Corte di Giustizia ha precisato che "il summenzionato paragrafo 1 si riferisce solo al diritto del creditore di ottenere, come minimo, un importo forfettario di eur 40. inoltre, il paragrafo 2 del menzionato articolo 6 impone agli stati membri di assicurare, da un lato, che l'importo forfettario sia dovuto automaticamente, anche senza un sollecito al debitore, e, dall'altro, che costituisca un risarcimento del creditore per i costi di recupero da esso sostenuti [...]. Per quanto riguarda il paragrafo 3 dello stesso articolo 6, esso stabilisce che il creditore ha il diritto di chiedere al debitore, oltre all'importo forfettario di cui al paragrafo 1 del medesimo articolo, un risarcimento ragionevole per ogni costo di recupero che ecceda tale importo. [...] al riguardo, si deve rilevare, da un lato, che, utilizzando all'articolo 6, paragrafo 3, della direttiva 2011/7 l'espressione «che ecceda tale importo», il legislatore dell'unione ha inteso sottolineare che possono pertanto costituire oggetto di un risarcimento ragionevole i costi di recupero, di qualunque entità, che eccedono l'importo di eur 40" (punti 20-22, enfasi aggiunte). La Corte -inoltre -rammenta che "la direttiva 2011/7 sostituisce la direttiva 2000/35/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 giugno 2000, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali [...], il cui articolo 3, paragrafo 1, lettera e), prevedeva che il creditore aveva diritto a un risarcimento ragionevole per tutti i costi di recupero sostenuti a causa del ritardo di pagamento del debitore" (punto 28, enfasi aggiunte). Pertanto, "dal momento che nulla indica che il legislatore dell'unione abbia inteso, adottando la direttiva 2011/7, ridurre la tutela accordata al creditore dalla direttiva 2000/35, sarebbe incoerente ritenere che in vigenza della direttiva 2011/7 il creditore possa ottenere solo limitatamente a eur 40 un risarcimento dei costi derivanti dai solleciti inviati al debitore a causa del ritardo di pagamento di quest'ultimo, anche qualora detti costi siano più elevati, mentre avrebbe potuto ottenere un risarcimento ragionevole e, se del caso, superiore a tale importo in vigenza della direttiva 2000/35" (punto 29, enfasi aggiunte). Tuttavia, pur enunciando il principio di diritto sopra richiamato, i giudici europei hanno ritenuto opportuno precisare che "poiché il risarcimento previsto all'articolo 6, paragrafo 3, della direttiva 2011/7 deve essere ragionevole esso non può comprendere né la parte di tali costi già coperta dall’importo PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO forfettario di EUR 40 di cui al paragrafo 1 dello stesso articolo, né costi che appaiano eccessivi tenuto conto di tutte le circostanze del caso di specie" (punto 30, enfasi aggiunte). Dall'esame dell'iter motivazionale seguito dalla Corte di Giustizia, si evincono i seguenti elementi: a) la somma forfettaria di 40 euro è tesa a compensare i costi di recupero del credito a prescindere dal numero di solleciti inviati al debitore e dal numero delle rate rimaste insolute; b) il creditore potrebbe -in concreto -aver sostenuto costi maggiori rispetto all'importo forfetario di cui alla lett. a) e, in tal caso, potrà chiedere tali spese nella parte eccedente la predetta somma forfetaria; c) in ogni caso, il risarcimento in questione deve essere "ragionevole" e, pertanto, esso non può comprendere né la parte dei costi già coperta dall'importo forfettario di 40 euro né i costi che appaiano eccessivi tenuto conto della fattispecie concreta. Dunque, è alla luce di tale approdo ermeneutico che occorre interpretare anche la disposizione nazionale con la quale il legislatore italiano ha recepito la normativa sovranazionale. Come anticipato, si tratta dell'art. 6 del decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, così come sostituito dall'art. 1, comma 1, lett. f), del decreto legislativo 9 novembre 2012, n. 192, applicabile ai contratti stipulati a decorrere dal 1° gennaio 2013 (art. 3, comma 1, del medesimo decreto legislativo n. 192/2012). Tale articolo testualmente dispone che: "1. nei casi previsti dall'articolo 3, il creditore ha diritto anche al rimborso dei costi sostenuti per il recupero delle somme non tempestivamente corrisposte. 2. al creditore spetta, senza che sia necessaria la costituzione in mora, un importo forfettario di 40 euro a titolo di risarcimento del danno. È fatta salva la prova del maggior danno, che può comprendere i costi di assistenza per il recupero del credito". Pertanto, il comma 1 prevede -mediante il rinvio all'art. 3 -che il diritto al rimborso delle spese di recupero sorga in caso di ritardo colposo del debitore e precisa come esso si riferisca alle "somme non tempestivamente corrisposte". Inoltre, il comma 2 stabilisce espressamente che l'importo risarcibile non può essere inferiore a 40 euro, ai quali tuttavia occorre aggiungere -qualora documentati - i costi ulteriori sostenuti "per il recupero del credito". In altri termini, l'articolo in questione appare chiaro nel parametrare l'importo forfetario de quo all'azione (stragiuziale o giudiziale) di recupero a prescindere dal numero di solleciti inviati al debitore e dal numero delle rate rimaste insolute. La reiterazione dei solleciti, peraltro, pur non dando titolo ad ulteriori rimborsi forfettari, potrebbe -tuttavia -incrementare la misura del risarcimento a titolo di "maggior danno", qualora il creditore documenti i costi so rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 stenuti per gli anzidetti solleciti ed essi eccedano l'importo forfettario previsto dal cit. art. 6, comma 2. Dunque, nel caso di contratti ad esecuzione continuata oppure periodica, il diritto del creditore al risarcimento in questione sorge nel momento in cui il medesimo si attivi per il recupero e si riferisce unitariamente a tutte le rate di credito venute a scadenza durante il rapporto negoziale e che siano rimaste insolute a causa dell'inadempimento del debitore, prescindendo -sia pure con le predette precisazioni - dal numero dei solleciti inviati. Tale interpretazione della norma in esame non solo è coerente con il suo tenore letterale, ma è altresì conforme alle disposizioni sovranazionali recepite dal legislatore nazionale, così come interpretate dalla Corte di Giustizia del- l'unione europea nella sentenza sopramenzionata. Inoltre, siffatto approdo ermeneutico non sembra svuotare di tutela il creditore, dato che il citato art. 6, comma 2, coerentemente a quanto disposto in ambito euro-unitario, fa sempre salva la possibilità -per il medesimo -di fornire la prova del maggior danno subito a causa del ritardo nell'adempimento. Anzi, tale interpretazione sembra contemperare in modo ragionevole le esigenze di tutela del credito con il contrapposto principio del favor debitoris, che vieta di aggravare ingiustificatamente la posizione di quest'ultimo in violazione dei principi di correttezza e buona fede desumibili dagli artt. 2 Cost., 1175, 1366 e 1375 cod. civ. (cfr., ex plurimis, Corte di cassazione, sezione VI civile, ordinanza n. 19898 del 27 luglio 2018). E invero, nella prassi commerciale, gli operatori economici sono soliti gestire unitariamente, per ciascuna transazione commerciale, le posizioni debitorie rimaste insolute. Ciò accade soprattutto nell'ambito dei contratti di somministrazione dove le reciproche poste debitorie e creditorie sono soggette a modificazioni, a volte anche significative, nel corso del rapporto contrattuale. Si pensi, ad esempio, ai frequenti scostamenti tra consumi stimati e consumi effettivi, che -nell'ambito dei contratti di somministrazione di energia elettrica e gas -rendono necessaria, da parte dei fornitori, l'emissione di note di credito per importi spesso significativi. Proprio in considerazione di ciò, la prassi commerciale appare orientata a gestire unitariamente i ratei fatturati rimasti insoluti, i quali -di sovente -costituiscono l'oggetto di un successivo contratto di factoring stipulato dal creditore con un'impresa speciliazzata nel recupero del credito. Pertanto, la corresponsione del predetto importo forfetario per ciascun singolo rateo rimasto insoluto darebbe luogo ad una evidente sovra-compensazione dei costi di recupero, andando ben al di là del risarcimento "ragionevole" previsto dal diritto euro-unitario. Per questa ragione, la Scrivente ritiene che l'art. 6 del decreto legislativo n. 231/2002 non possa che essere interpretato nel senso di parametrare l'im PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO porto forfetario ivi previsto alla procedura di recupero del credito unitariamente considerato e riferito, quindi, a tutti i ratei scaduti rimasti insoluti nel- l'ambito del rapporto negoziale. Inoltre, si precisa che l'importo forfetario in esame -come sopra evidenziato -ha lo scopo di compensare i costi di recupero amministrativi o, comunque, interni all'organizzazione aziendale difficilmente documentabili dal creditore; pertanto, la corresponsione del medesimo prescinde dalla previa proposizione di un'azione giurisdizionale, essendo sufficiente anche una semplice richiesta stragiudiziale di pagamento. Si chiarisce, altresì, che l'anzidetto importo è parametrato dall'art. 6 alla procedura di recupero e non al credito oppure ai crediti che ne costituiscono l'oggetto; dunque, anche nel caso di crediti derivanti da rapporti negoziali distinti, l'importo in questione sarà dovuto per una volta soltanto, qualora vi sia stata una sola procedura di recupero. Infine, occorre esaminare le conseguenze giuridiche che deriverebbero nell'ipotesi in cui il creditore -al fine di moltiplicare i costi forfetari de quibus -avviasse distinte procedure di recupero per ciascuna singola fattura rimasta insoluta. Ebbene, la questione è stata già affrontata dalla Corte di Cassazione, la quale ha chiarito come "alla luce della costante giurisprudenza di questa corte regolatrice (ex multis, Cass. n. 15746 del 2008), anche a sezioni unite (Cass. sez. un., n. 23726 del 2007), deve ribadirsi che non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto dell'obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modicazione peggiorativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza, che deve improntare il rapporto fra le parti non solo durante l'esecuzione del contratto ma anche nel- l'eventuale fase dell'aggiudicazione per ottenere l'adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcelizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisffazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l'ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale. in conseguenza del suddetto principio, pertanto, tutte le domande giudiziali aventi ad oggetto una frazione di un unico credito sono da dichiararsi improponibili (in termini, Cass. n. 24539 del 2009). nel caso in esame, i criteri identifìcativi delle domande erano gli stessi, il rapporto obbligatorio era identico e le conseguenze derivate dall'inadempimento della società subappaltante già tutte maturate al momento del deposito del primo ricorso in monitorio. emerge, infatti, dagli atti che, al momento della proposizione della prima rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 domanda davanti all'unico giudice competente, avvenuta con deposito del ricorso per decreto ingiuntivo in data 28 maggio 2008, l'odierna ricorrente fosse pienamente conscia della maturazione dei crediti portati nelle successive fatture [...]. in tale situazione, alla luce delle considerazioni che precedono, non è giustificabile la disarticolazione della tutela giurisdizionale richiesta mediante la proposizione di distinte domande. la strumentalità di una tale condotta frazionata è -come già detto -evidente, ma non è consentita dall'ordinamento che le rifiuta protezione per la violazione di precetti costituzionali e valori costituzionalizzati, concretizzandosi, in questo caso, la proposiziione della seconda domanda, in un abuso della tutela processuale, ostativa al suo esame. né la ricorrente -al di là delle affermazioni circa la diversità fra esigibilità immediata della c.d. fattura a rimessa diretta ed esigibilità differita chiarisce le ragioni per cui avrebbe avuto un interesse concreto ed attuale al frazionmento del credito de quo. Correttamente, pertanto, il giudice del merito ha, sotto questo profilo, dichiarato improcedibili le domande" (cfr. Corte di Cassazione, ord. n. 19898/2018, cit.). In considerazione di siffatti principi di diritto, la Scrivente ritiene che -a fronte di una pluralità di fatture scadute inerenti la medesima transazione commerciale -il creditore non potrebbe avviare azioni di recupero distinte, al solo fine di aggravare la posizione del debitore, ma ha l'onere di intraprendere un'unica procedura di recupero, a fronte della quale può richiedere una sola volta -l'importo forfetario di 40 euro, fermo restando il diritto agli ulteriori costi di recupero documentati. Ciò posto, si evidenzia -tuttavia -che il diritto al risarcimento dei costi di recupero non costituisce un diritto indisponibile del creditore. La Corte di Giustizia, invero, ha precisato che "la direttiva 2011/7, e in particolare l'articolo 7, paragrafi 2 e 3, della medesima, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che consente al creditore di rinunciare a richiedere gli interessi di mora e il risarcimento per i costi di recupero quale corrispettivo del pagamento immediato del capitale di crediti esigibili, a condizione che una simile rinuncia sia effettuata liberamente" (cfr. Corte di Giustizia uE, sentenza del 16 febbraio 2017, causa C-555/14, cit., punto 36, enfasi aggiunte). Dunque, al fine di evitare la corresponsione dell'importo dovuto a titolo di spese di recupero ed eventualmente a quota parte degli interessi moratori, la Scrivente non ravvisa ostacoli ad un pagamento immediato dei crediti esigibili maturati dai creditori nei confronti di codesta Amministrazione a fronte di una dichiarazione -da parte dei medesimi -di remissione parziale del credito ai sensi dell'art. 1236 cod. civ. Si tratta, peraltro, di una prassi già instaurata con alcuni operatori eco PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO nomici da parte dell'ufficio Generale di Pianificazione Finanziaria del- l'esercito, che -nel corso dell'ultimo esercizio finanziario -ha comportato un significativo risparmio di spesa a vantaggio dell'erario non solo per il cospicuo abbattimento degli interessi moratori, ma anche per la rinuncia da parte dei creditori ai costi di recupero del credito. La Scrivente, pertanto, auspica la prosecuzione della strategia in atto e l'implementazione -a regime -di procedure contabili e amministrative in grado di prevenire il ritardo dei pagamenti di competenza di codesto Dicastero. Ciò anche al fine di contribuire alla rimozione delle criticità rilevate dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 28 gennaio 2020, causa C122/ 18, dove ha accertato che la repubblica Itiliana "non assicurando che le sue pubbliche amministrazioni rispettino effettivamente i termini di pagamento stabiliti all'articolo 4, paragrafi 3 e 4, della direttiva 2011/7" è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del diritto dell'unione (punto 66). La questione è stata sottoposta al Comitato Consultivo dell'Avvocatura dello Stato, che si è espresso in conformità nella seduta del 16 febbraio 2021. rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 obbligazioni pecuniarie della pubblica amministrazione: risarcimento delle spese sostenute per il recupero dei crediti ai sensi dell’art. 6, d.Lgs n. 231/2002 e successive modifiche. altri quesiti Parere del 01/03/2021-134637, al 29378/2020, aVV. GianCarlo PaMPanelli 1 -Con la nota sopra indicata, codesto Ministero dell'Interno -Dipartimento Vigili del Fuoco, Soccorso Pubblico e Difesa Civile -Direzione Centrale per le risorse Logistiche e Strumentali ha esposto che con l'art. 6 del D.lg. n. 231/2002, come modificato dal D.lg. n. 192/2012 di recepimento della Direttiva n. 2011/7/uE, sono state introdotte disposizioni in tema di risarcimento delle spese sostenute per il recupero dei crediti prevedendo, al comma 1, che "nei casi previsti dall'art. 3 il creditore ha diritto al rimborso delle spese sostenute per il recupero delle somme non tempestivamente corrisposte" e, al comma 2, che "al creditore spetta, senza che sia necessaria la costituzione in mora, un importo forfettario di 40 euro a titolo di risarcimento del danno. È fatta salva la prova del maggior danno che può comprendere i costi di assistenza per il recupero del credito". Dall'esame della predetta disposizione e di quelle contenute negli articoli 3 e 4 del predetto decreto legislativo, si evince che per aver diritto al rimborso forfettario di euro 40 occorra che ricorrano i presupposti di cui all'art. 3 per la corresponsione degli interessi moratori secondo quanto previsto dagli articoli 4 e 5, salvo che sia possibile dimostrare che il ritardo nel pagamento del prezzo sia determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile al debitore. Prosegue codesta Direzione esponendo che emerge quindi che il diritto al rimborso forfettario di euro 40, di natura risarcitoria, risulta connesso alla sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del diritto agli interessi moratori, la cui decorrenza risulta ancorata, come previsto dal comma 1 dell'art. 4, alla scadenza del termine per il pagamento. Al riguardo, essendo pervenute al Dicastero istanze di pagamento da parte di Istituti bancari cessionari del credito delle Imprese, con la nota che si riscontra è stato chiesto alla Scrivente se anche in tali casi sia confermata l'applicabilità delle disposizioni contenute nel predetto D.lg. n. 231/2002. 2 -Prima di dare risposta al quesito posto, si ritiene opportuno preliminarmente rammentare che le disposizioni in esame hanno recepito nell'ordinamento interno l'art. 6 della Direttiva 2011/7/uE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 febbraio 2011, "relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali". Tale articolo, rubricato "risarcimento delle spese di recupero", obbliga gli Stati membri ad assicurare che, nei casi in cui siano esigibili gli interessi PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO di mora, il creditore abbia anche il diritto alla corresponsione, da parte del debitore, di un importo forfettario minimo di 40 euro (paragrafo 1). Inoltre, gli Stati membri sono tenuti a garantire che l'importo in questione sia esigibile senza necessità di sollecito, a titolo di risarcimento forfettario dei costi di recupero sostenuti dal creditore (paragrafo 2). La disposizione precisa che l'importo de quo è un importo minimo, in quanto, ai sensi del paragrafo 3, resta fermo il diritto del creditore ad "esigere dal debitore un risarcimento ragionevole per ogni costo di recupero che ecceda tale importo forfettario", come -a titolo esemplificativo -le spese derivanti dall'affidamento dell'incarico ad un avvocato oppure a una società di recupero crediti. La ratio delle disposizioni in esame è esplicitata nel preambolo della direttiva, in particolare dove si chiarisce che: a) "i ritardi di pagamento costituiscono una violazione contrattuale resa finanziariamente attraente per i debitori nella maggior parte degli stati membri dai bassi livelli dei tassi degli interessi di mora applicati o dalla loro assenza e/o dalla lentezza delle procedure di recupero. È necessario un passaggio deciso verso una cultura dei pagamenti rapidi, in cui, tra l'altro, l'esclusione del diritto di applicare interessi di mora sia sempre considerata una clausola o prassi contrattuale gravemente iniqua, per invertire tale tendenza e per disincentivare i ritardi di pagamento. Tale passaggio dovrebbe inoltre includere l'introduzione di disposizioni specifiche sui periodi di pagamento e sul risarcimento dei creditori per le spese sostenute e prevedere, tra l'altro, che l'esclusione del diritto al risarcimento dei costi di recupero sia presunta essere gravemente iniqua" (considerando n. 12); b) "un risarcimento equo dei creditori, relativo ai costi di recupero sostenuti a causa del ritardo di pagamento, serve a disincentivare i ritardi di pagamento. Tra i costi di recupero dovrebbero essere inclusi anche i costi amministrativi e i costi interni causati dal ritardo di pagamento, per i quali la presente direttiva dovrebbe determinare un importo minimo forfettario che possa cumularsi agli interessi di mora. il risarcimento sotto forma di importo forfettario dovrebbe mirare a limitare i costi amministrativi e i costi interni legati al recupero. il risarcimento delle spese di recupero dovrebbe essere determinato fatte salve le disposizioni nazionali in base alle quali l'autorità giurisdizionale nazionale può concedere al creditore un risarcimento per eventuali danni aggiuntivi connessi al ritardo di pagamento del debitore" (considerando n. 19); c) "oltre ad avere diritto al pagamento di un importo forfettario per coprire i costi interni legati al recupero, il creditore dovrebbe poter esigere anche il risarcimento delle restanti spese di recupero sostenute a causa del ritardo di pagamento del debitore. Tali spese dovrebbero comprendere, in particolare, le spese sostenute dal creditore per aver affidato un incarico a un avvocato o a un'agenzia di recupero crediti" (considerando n. 20). rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 Dunque, l'obiettivo perseguito dal legislatore sovranazionale è quello di apprestare efficaci strumenti di contrasto contro il ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali, ritardi che costituiscono, ai sensi del considerando n. 12, una violazione contrattuale resa finanziariamente attraente per i debitori dai bassi livelli dei tassi degli interessi di mora applicati oppure dalla loro assenza (cfr. Corte di Giustizia uE, sentenza del 16 febbraio 2017, causa C555/ 14, punto 24). In altri termini, la direttiva in esame ha lo scopo di tutelare efficacemente i creditori contro i ritardi di pagamento (cfr. Corte di Giustizia uE, sentenza del 15 dicembre 2016, causa C-256/15, punto 50) e tale tutela implica necessariamente il diritto dei medesimi creditori a conseguire l'integrale ristoro delle spese di recupero che hanno sostenuto (cfr. Corte di Giustizia uE, sentenza del 13 settembre 2018, causa C-287/17, punto 26). Tuttavia, i predetti creditori potrebbero incontrare delle difficoltà -sul piano probatorio -nel fornire una esatta quantificazione dei costi sostenuti per il recupero del credito, qualora si tratti di costi amministrativi o, comunque, di costi interni all'organizzazione aziendale. Per questa ragione, il considerando n. 19 prevede l'introduzione di un importo forfettario minimo, il cui obiettivo è proprio quello di coprire tali costi, esonerando il creditore dall'onere della relativa prova. 3 -Ciò premesso, in ordine nello specifico alla problematica rappresentata da codesta Amministrazione e sopra cennata, questo Organo legale osserva che il soggetto cessionario del credito (nella specie Istituto bancario) subentra nella medesima posizione giuridica del creditore cedente e, quindi, deve ritenersi che -come quest'ultimo -abbia diritto ad ottenere in proprio favore la corresponsione delle somme a rimborso delle spese sostenute per il recupero dell'importo non tempestivamente pagato, ex art. 6 del D.lg. n. 231/2002 così come modificato. Ciò salvo espresse diverse previsioni contenute nell'atto con cui il credito è stato ceduto, il quale andrà al riguardo esaminato dall'Amministrazione debitrice. 4 -Codesta Direzione Centrale ha poi chiesto chiarimenti in merito all'accertamento dell'inadempimento del debitore ed alla eventuale prova da parte del debitore della non imputabilità del ritardo nel pagamento, come previsto dall'art. 3 del citato decreto legislativo. Sul punto, non può che rilevarsi da questo Organo legale che ci si dovrà attenere a quanto espressamente contemplato dall'art. 6 del D.lg. n. 231, per cui il diritto al rimborso di che trattasi in favore del creditore potrà essere escluso soltanto qualora l'Amministrazione sia in grado di addurre e dimostrare che il ritardo nel pagamento del dovuto sia stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile al debitore. Peraltro, è appena da rammentare in merito che, in linea generale, non PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO costituisce causa non imputabile all'Amm.ne debitrice la mancanza di provvista finanziaria per far fronte tempestivamente ai pagamenti dovuti. 5 -Circa l'applicazione dell'art. 6, comma 2, del decreto legislativo, codesto Dicastero ha chiesto altresì se la liquidazione del rimborso forfettario di euro 40 debba conseguire ad esplicita richiesta o se, riconosciute le condizioni di diritto, esso debba essere liquidato dal debitore di propria iniziativa. Al riguardo, ritiene la Scrivente che la previsione del diritto al rimborso forfettario "senza che sia necessaria la costituzione in mora" vada intesa nel senso che il creditore, in presenza dei presupposti di legge, ha pieno diritto a detto rimborso senza che ne debba fare apposita formale domanda con diffida e costituzione in mora del debitore. Tuttavia, d'altro canto, la norma, così come formulata, se facoltizza l'Amministrazione a procedere direttamente al pagamento del rimborso, non sembra però che imponga un "obbligo giuridico" di corrispondere l'importo forfettario a prescindere da qualsiasi richiesta della parte interessata. Ciò in quanto è da ritenere che il conferimento, ex lege, del diritto di credito in parola (certamente non "indisponibile" -cfr. Corte Giustizia uE -sent. del 16 febbraio 2017, causa C-555/14), non esima l'interessato -secondo i principi generali -dal volerlo concretamente esercitare e, quindi, nella fattispecie, dal manifestare l'intento di ottenere il rimborso. 6 -Infine, si dà esito all'ultimo quesito posto, esponendo che ad avviso di questo Organo legale il diritto al rimborso in questione ex art. 6 menzionato, in linea di principio, insorge in favore del creditore ogni volta che sussista un "ritardo imputabile" all'Amm.ne nel singolo pagamento dovuto cui si riferisca una corrispondente attività di "recupero" da parte del creditore delle somme spettanti. In particolare, circa il rimborso forfettario previsto dall'art. 6, comma 2, l'attività di recupero del creditore può anche consistere in un mero invito stragiudiziale ad adempiere. Dalla connessione di detto comma 2 con il precedente comma 1, che fa riferimento "nei casi previsti all'art. 3" al rimborso dei costi sostenuti per il recupero delle somme non tempestivamente corrisposte, nonché con 1'art. 3 (prevedente che il creditore ha diritto agli interessi moratori sull’"importo dovuto") e l'art. 2, lett. g, del medesimo D.lg. n. 231/2002 cit., il quale ultimo definisce 1’"importo dovuto" come "la somma che avrebbe dovuto essere pagata entro il termine contrattuale o legale di pagamento, comprese le imposte, i dazi, le tasse e gli oneri applicabili indicati nella fattura o nella richiesta equivalente di pagamento", sembra doversi evincere che la circostanza -meramente estrinseca -per cui con un'unica operazione cumulativa l'Amministrazione liquidi in favore del creditore più pagamenti dovuti (ad es. gli importi relativi a più stati di avanzamento lavori, più fatture ecc.), non possa comportare, stante il predetto dato normativo, la riduzione ad un unico diritto al rimborso forfettario, sussi rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 stendo comunque in favore del creditore il diritto ad ottenere i rimborsi corrispondenti alle spese amministrative connesse alla tempestiva attivazione del creditore medesimo in riferimento ai singoli ritardi ed inadempimenti finanziari. 7 -Ciò posto, va tuttavia in disparte precisato che, nell'ipotesi in cui il creditore si attivi -anche mediante un sollecito di pagamento -ma soltanto dopo il venire a scadenza di più "importi dovuti" (ad es. dopo la scadenza di più rate insolute inerenti un rapporto di somministrazione) che vengano saldate cumulativamente dall'Amministrazione, è da ritenere che al creditore spetti un unico rimborso forfettario di euro 40. A tale conclusione si giunge considerando che l'art. 6 del DLg. n. 231/2002 in esame riconnette il rimborso de quo non ai singoli importi dovuti saldati in ritardo, ma alle spese di recupero del credito, che ove derivanti da un'unica attività dell'avente diritto implicano di conseguenza un unico rimborso forfettario. Quanto sopra esposto appare trovare conferma nella sentenza del 13 settembre 2018, causa C-287/17, della Corte di Giustizia dell'unione Europea. In considerazione delle finalità indicate nel preambolo e del tenore letterale del prefato art. 6 della Direttiva 2011/7/uE, la Corte di Giustizia del- l'unione europea ha dichiarato che l'anzidetto articolo "deve essere interpretato nel senso che riconosce al creditore, che chiede il risarcimento delle spese derivanti dai solleciti inviati al debitore a causa del ritardo di pagamento di quest'ultimo, il diritto di ottenere, a tale titolo, oltre all'importo forfettario di eur 40 previsto al paragrafo 1 del suddetto articolo, un risarcimento ragionevole, ai sensi del paragrafo 3 dello stesso articolo, per la parte di tali spese che eccede tale importo forfettario" (cfr. sentenza del 13 settembre 2018, causa C-287/17, cit., punto 38). Siffatto principio di diritto è stato enunciato dalla Corte di Giustizia nel- l'ambito di un procedimento principale avente ad oggetto il recupero -da parte di una compagnia assicurativa -dei premi dovuti dal debitore per il periodo intercorrente tra il 7 novembre 2014 e il 25 febbraio 2015, rimasti insoluti nonostante i numerosi solleciti di pagamento, lasciando così intendere che la somma forfettaria di euro 40 può valere a compensare il creditore anche in caso di più ratei scaduti, salvo prova di maggiori spese sostenute. Nella situazione appena descritta di attivazione soltanto dopo la scadenza di più importi dovuti, occorre altresì rappresentare le conseguenze giuridiche che deriverebbero nell'ipotesi in cui il creditore -al fine di moltiplicare i costi forfettari de quibus -avviasse distinte azioni processuali di recupero per ciascuna singola fattura rimasta insoluta, invece che in riferimento al credito complessivo maturato. Ebbene, la questione è stata già affrontata dalla Corte di Cassazione, la quale ha chiarito come "alla luce della costante giurisprudenza di questa corte regolatrice (ex multis, Cass. n. 15746 del 2008), anche a sezioni unite (Cass. sez. un., n. 23726 del 2007), deve ribadirsi che non è consentito al creditore PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto dell'obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione peggiorativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l'esecuzione del contratto ma anche nell'eventuale fase dell'azione giudiziale per ottenere l'adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l'ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale. in conseguenza del suddetto principio, pertanto, tutte le domande giudiziali aventi ad oggetto una frazione di un unico credito sono da dichiararsi improponibili (in termini, Cass. n. 24539 del 2009). nel caso in esame, i criteri identificativi delle domande erano gli stessi, il rapporto obbligatorio era identico e le conseguenze derivate dall'inadempimento della società subappaltante già tutte maturate al momento del deposito del primo ricorso in monitorio. emerge, infatti, dagli atti che, al momento della proposizione della prima domanda davanti all'unico giudice competente, avvenuta con deposito del ricorso per decreto ingiuntivo in data 28 maggio 2008, l'odierna ricorrente fosse pienamente conscia della maturazione dei crediti portati nelle successive fatture [...]. in tale situazione, alla luce delle considerazioni che precedono, non è giustificabile la disarticolazione della tutela giurisdizionale richiesta mediante la proposizione di distinte domande. la strumentalità di una tale condotta frazionata è -come già detto -evidente, ma non è consentita dall'ordinamento che le rifiuta protezione per la violazione di precetti costituzionali e valori costituzionalizzati, concretizzandosi, in questo caso, la proposizione della seconda domanda, in un abuso della tutela processuale, ostativa al suo esame" (cfr. Corte di Cassazione, ord. n. 19898/2018). 8 -Il rimborso di cui all'art. 6, comma 1, infine, consisterà, qualora ne sussistano i presupposti, nella refusione dei costi sostenuti complessivamente dal creditore per il recupero del credito eccedenti l'importo forfettario. Al riguardo, il creditore è gravato -in conformità ai principi generali (onus probandi incumbit ei qui dicit) -dall'onere della prova di tali costi di recupero. In tal senso è l'avviso di questo Organo legale. il presente parere è stato sottoposto all'esame del Comitato consultivo dell'avvocatura dello stato, che lo ha approvato nella seduta del 16 febbraio 2021. rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 violazione dei principi di non discriminazione, istanza al Comitato per i diritti umani dell’onu, modalità di esecuzione delle Considerazioni emesse dal Comitato Parere del 02/04/2021-216911, al 22771/2009, aVV. eManuele Valenzano Domanda di riarcimento del danno formulata dalla sig.ra OMISSIS nei confronti dello Stato italiano in esecuzione delle Considerazioni adottate dal Comitato per i Diritti umani dell’ONu del 30 aprile 2020 per violazione dei principi di non discriminazione di cui al Patto Internazionale relativo ai diritti Civili e Politici del 16 dicembre 1966 da parte di legislazione nazionale che imponeva medesimi requisti di altezza tra uomini e donne per l’accesso ai ruoli permanenti dei Vigili del Fuoco. Con la nota in epigrafe, il Ministero dell'Interno-Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile ha chiesto un parere in ordine alle modalità di esecuzione delle Considerazioni emesse, in data 30 aprile 2020, dal Comitato per i Diritti umani dell'ONu che ha ritenuto discriminatoria la normativa vigente nello Stato italiano che imponeva un'altezza minima uguale tra uomini e donne (m. 1,65) ai fini dell'accesso ai ruoli permanenti dei Vigili del Fuoco. In particolare, dagli atti trasmessi è emerso quanto segue: a) la sig.ra OMISSIS partecipava alla procedura selettiva per la stabilizzazione del personale volontario dei Vigili del Fuoco indetto con D.M. n. 3747/2007; b) in tale bando erano previsti requisiti di statura minima per i candidati (m. 1,65 sia per gli uomini che per le donne) come era stato previsto sin dal DPCM n. 411 del 22 luglio 1987 e, poi, confermato dal DPCM n. 233 del 27 aprile 1993 e successive integrazioni e modificazioni; inoltre, in base all'art. 31, comma 2, D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità fra uomo e donna, a norma dell'art. 6 legge 28 novembre 2005, n. 246) le norme antidiscriminatorie in materia di requisiti di statura per l'accesso ai pubblici impieghi non valevano per il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco cui, quindi, continuavano ad applicarsi le anzidette disposizioni; c) alla luce di tale quadro normativo la sig.ra OMISSIS, con D.M. n. 62 del 15 aprile 2009, veniva, pertanto, dichiarata inidonea per deficit di statura, avendo una statura di m. 1.60 e, quindi, inferiore al minimo previsto dai citati regolamenti; d) avverso il bando di concorso di cui al D.M. n. 3747/2007 e il decreto di esclusione di cui al D.M. n. 62/2009 la sig.ra OMISSIS proponeva ricorso al TAr Lazio lamentando la natura discriminatoria, per le donne, di tale requisito minimo di altezza che, di fatto, veniva raggiunta in larghissima prevalenza solo dagli uomini; la OMISSIS proponeva anche un incidente di costituzionalità avverso il D.Lgs. n. 198/206 che aveva fatto salvo tale re PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO gime discriminatorio nei concorsi indetti per l'accesso ai ruoli permanenti dei Vigili del Fuoco; e) il TAr LAZIO respingeva l'impugnativa proposta dalla OMISSIS in quanto l'esclusione dal concorso era conforme alla normativa vigente da ritenersi conforme alla Costituzione; f) la OMISSIS impugnava la pronuncia del TAr Lazio dinanzi al Consiglio di Stato che respingeva l'appello; g) la OMISSIS, quindi, ricorreva alla Corte Europea dei Diritti dell'uomo che dichiarava irricevibile il ricorso per tardività; h) la OMISSIS, da ultimo, adiva il Comitato per i Diritti umani delle Nazioni unite lamentando l'illegittimità della normativa nazionale relativa ai requisiti di statura per l'accesso ai ruoli permanenti dei Vigili del Fuoco in quanto penalizzante per le donne; la OMISSIS, quindi, denunziava la violazione, da parte dello Stato italiano, degli artt. 25 e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici siglato dall'Italia in data 16 dicembre 1966 in sede ONu e ratificato con la legge 25 ottobre 1977, n. 881; i) il Comitato per i Diritti umani dell'ONu, ritenuta l'istanza ricevibile, con le Considerazioni del 30 aprile 2020, accertava la violazione da parte dello Stato italiano del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici con riferimento alla mancata differenziazione dei requisiti di statura tra uomini e donne stabiliti per l'accesso ai ruoli permanenti dei Vigili del Fuoco; in particolare, il Comitato così disponeva: 1) invitava lo Stato italiano a fornire un'adeguata riparazione alla sig.ra OMISSIS; 2) invitava lo Stato italiano ad ammettere la cittadina, qualora lo desiderasse, nei ruoli permanenti dei Vigili del Fuoco; 3) invitava lo Stato italiano a prevenire in futuro la medesima violazione dei diritti umani modificando la normativa interna discriminatoria; 4) invitava lo Stato italiano ad informare entro 180 giorni (con proroga di due mesi per emergenza COVID) il Comitato delle misure prese per dare attuazione alle "Considerazioni" emesse; l) con diffida del 23 giugno 2020 la sig.ra OMISSIS, a mezzo dell'Avv. OMISSIS, intimava alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e al Ministero dell'Interno di eseguire le Considerazioni del Comitato dei Diritti umani ed in particolare di: 1) ricostruire la carriera della sig.ra OMISSIS, a livello giuridico ed economico, dal 27 gennaio 2010 (momento in cui sarebbe potuta già entrare nel ruolo dei Vigili del Fuoco permanenti) sino all'immissione in tali ruoli avvenuta con D.M. del 238 del 14 novembre 2018 a seguito dell'entrata in vigore della legge 12 gennaio 2015, n. 2 che aveva modificato i requisiti di accesso ai ruoli permanenti dei Vigili del Fuoco eliminando il vulnus discriminatorio della statura; rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 2) riconoscere alla sig.ra OMISSIS un indennizzo di € 20.000,00 a titolo di compensazione delle ingenti spese sostenute per il lungo contenzioso giurisdizionale e per i danni morali; m) con nota prot. n. 0046623 del 23 settembre 2020 la Direzione Centrale del Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile comunicava che alcun riconoscimento dell'anzianità pregressa, sia ai fini giuridici sia a quelli economici, poteva farsi discendere dalle Considerazioni del Comitato dei Diritti umani dell'ONu in favore della sig.ra OMISSIS in quanto l'esclusione dal concorso era avvenuta in piena osservanza della normativa all'epoca vigente. Il Ministero dell'Interno chiede, quindi, alla Scrivente di esprimere un parere sulla sussistenza di un danno risarcibile e se possa attribuirsi alla sig.ra OMISSIS un ristoro economico anche parziale. Ciò posto, la Scrivente esprime il seguente parere. In via preliminare, si osserva che ogni cittadino di uno Stato firmatario del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, siglato in ambito ONu, può adire il Comitato dei Diritti umani delle Nazioni unite in base al Protocollo Opzionale relativo al Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato in data 16 dicembre 1966 e ratificato dall'Italia con la legge n. 881/1977, in caso di assunte violazioni del diritti umani ed esauriti tutti i ricorsi interni avviati per ovviare a tali violazioni. In merito alle "Comunicazioni" di violazione dei diritti umani da parte del singolo cittadino, il Comitato dei Diritti umani emette una "Considerazione" sulla violazione del Patto da parte dello Stato membro comunicandola a detto Stato, ai sensi dell'art. 5 del Protocollo Addizionale, con l'invito a indicare le misure prese per ovviare alla detta violazione. In proposito, l'art. 2 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici dispone che "ciascuno degli stati parti del presente Patto si impegna a rispettare ed a garantire a tutti gli individui che si trovino sul suo territorio e siano sottoposti alla sua giurisdizione i diritti riconosciuti nel presente Patto, senza distinzione alcuna, sia essa fondata sulla razza, il colore, il sesso, la lingua, la religione, l'opinione politica o qualsiasi altra opinione, l'origine nazionale o sociale, la condizione economica, la nascita o qualsiasi altra condizione. 2. Ciascuno degli stati parti del presente Patto si impegna a compiere, in armonia con le proprie procedure costituzionali e con le disposizioni del presente Patto, i passi necessari per l'adozione delle misure legislative o d'altro genere che possano occorrere per rendere effettivi i diritti riconosciuti nel presente Patto qualora non vi provvedano già le misure legislative o d'altro genere, in vigore. 3. Ciascuno degli stati parti del presente Patto s'impegna a: a) garantire che qualsiasi persona, i cui diritti o libertà riconosciuti dal presente Patto siano stati violati, disponga di effettivi mezzi di ricorso, anche nel caso in cui la violazione sia stata commessa da persone agenti nell'eser PArErI DEL COMITATO CONSuLTIVO cizio delle loro funzioni ufficiali; b) garantire che l'autorità competente, giudiziaria, amministrativa o legislativa, od ogni altra autorità competente ai sensi dell'ordinamento giuridico dello stato, decida in merito ai diritti del ricorrente, e sviluppare le possibilità di ricorso in sede giudiziaria; c) garantire che le autorità competenti diano esecuzione a qualsiasi pronuncia di accoglimento di tali ricorsi". Coordinando tali disposizioni si deduce che le Considerazioni del Comitato dei Diritti umani delle Nazioni unite non attribuiscono/accertano un diritto soggettivo in favore del singolo cittadino ma sono rivolte solo allo Stato contraente che è invitato ad attuare il Patto ed a rimuovere atti, anche legislativi, che si pongono in violazione del Patto medesimo. In sostanza, le decisioni del Comitato dei Diritti umani non avrebbero un'efficacia verticale di attribuzione di una posizione giuridica direttamente tutelabile dal cittadino nell'ambito dell'ordinamento interno, in quanto tale efficacia non è prevista da alcuna disposizione del Patto internazionale e del Protocollo Addizionale (come, invece, avviene nei Trattati istitutivi del- l'unione Europea e nella Convenzione Europea dei Diritti dell'uomo), ma sono rivolte al solo Stato membro, invitato -sul piano etico e politico -a porre in essere le condotte idonee a rimuovere la condotta lesiva dei diritti umani riconosciuti dal Patto e a porre in essere gli strumenti riparatori ritenuti congrui. Esclusa l'idoneità delle Considerazioni de quibus ad assumere efficacia diretta nell'ambito dell'ordinamento nazionale, è possibile ipotizzare -tuttavia -una loro valenza ermeneutica in sede di interpretazione della normativa interna che riconosca in ambito nazionale i medesimi diritti riconosciuti dal Patto, così come enunciati dal Comitato. Nel caso di specie, peraltro, la questione attinente alla pretesa discriminazione dell'interessata è già stata delibata nei giudizi intrapresi dalla medesima davanti alla giurisdizione amministrativa, che però -con sentenza passata in giudicato -ha ritenuto legittima l'esclusione della sig.ra OMISSIS dalla procedura concorsuale. Dunque, nella fattispecie in esame, si ritiene non sussistente un danno "ingiusto" -cioè contra jus -risarcibile -sul piano nazionale -in sede giurisdizionale, dato che l'esclusione della sig.ra OMISSIS dal concorso è avvenuta in piena conformità alla disciplina normativa vigente ratione temporis. Difatti, il risarcimento del danno -da inquadrarsi nell'ambito dell'art. 2043 c.c. -derivante dall'asserita condotta discriminatoria dell'Amministrazione statale presuppone la sussistenza di un fatto illecito che, nella fattispecie, è escluso non solo dalla conformità del comportamento della P.A. alla disciplina applicabile al concorso de quo, ma anche dalla declaratoria di legittimità del medesimo da parte dei giudici amministrativi. Peraltro, tenuto conto che l'ordinamento italiano aveva già da tempo modificato la disposizione interna ritenuta discriminatoria con la legge n. 2/2015 rASSEGNA AVVOCATurA DELLO STATO -N. 4/2020 ed esclusa la possibilità di riconoscere in favore dell'interessata un diritto al risarcimento del danno, l'adempimento richiesto dalla Considerazioni del Comitato è limitato solo al profilo riparatorio nei confronti della interessata. A tale fine, potrebbe essere di utile riferimento il principio di diritto espresso dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato che ha chiarito che, al dipendente illegittimamente escluso da una procedura concorsuale, può essere riconosciuta la decorrenza, dalla data della mancata assunzione, dell'anzianità di servizio ai soli fini giuridici e non anche ai fini economici, in quanto il trattamento economico, "in forza della sua natura sinallagmatica, presuppone necessariamente l'avvenuto svolgimento dell'attività di servizio" (cfr., tra le altre, CDS n. 1029/2015, CDS n. 955/2017); dunque, pur in assenza di un fatto illecito "colposo" generatore di un danno "ingiusto" risarcibile, potrebbe essere riconosciuta, al più, in adempimento delle Considerazioni del Comitato, la ricostruzione della carriera ai soli fini giuridici, con decorrenza dal 27 gennaio 2010 (data in cui la sig.ra OMISSIS sarebbe già potuta entrare nei ruoli permanenti dei Vigili del Fuoco), e non ai fini economici. Su tali premesse (assenza di un fatto illecito "colposo" generatore di danno "ingiusto" ex art. 2043 c.c.) va anche ritenuta non accoglibile la domanda di danno morale e per spese legali sostenute negli anni dalla sig.ra OMISSIS e quantificate in € 20.000,00, tenuto anche conto che la procedura dinanzi al Comitato dei Diritti umani è gratuita e non necessita dell'assistenza legale. In conclusione, la Scrivente, pur ritenendo che le Considerazioni del Comitato dei Diritti umani non abbiano valore cogente nell'ambito dell'ordinamento interno, esprime l'avviso che le Amministrazioni in indirizzo, per quanto di rispettiva competenza, vogliano compiere le opportune valutazioni al fine dell'individuazione dei provvedimenti riparatori da assumere per ottemperare nel modo migliore, nel quadro di corretti rapporti internazionali, alle Considerazioni del Comitato, provvedimenti che potrebbero, ad esempio, consistere nella ricostruzione -sia pure ai soli fini giuridici -della carriera dell'interessata sulla base delle coordinate tracciate dalla citata giurisprudenza del Consiglio di Stato, fornendone, quindi, tempestiva comunicazione al Comitato medesimo, come prescritto dall'art. 4 del Protocollo Addizionale al Patto internazionale relativi ai diritti civili e politici. Attesa la valenza di massima, è stato sentito il Comitato Consultivo che, nella seduta del 18 marzo 2021, si è espresso in conformità. LEGISLAZIONEEDATTUALITÀ I quattro pilastri governativi per l’utilizzo efficiente del Recovery Fund: scelta di “buoni” progetti, semplificazione delle procedure, reperimento di adeguate professionalità, limitazione delle responsabilità gestorie. Analisi e rilievi Michele Gerardo* Sommario: 1. introduzione -2. Scelta di “buoni” progetti -3. Semplificazione delle procedure -4. reperimento di adeguate professionalità -5. Limitazione delle responsabilità gestorie -6. Limitazione delle responsabilità gestorie. (segue) La (parziale) “buona” novella dell’art. 23 D.L. n. 76/2020 -7. Limitazione delle responsabilità gestorie. (segue) La “cattiva” novella dell’art. 21 D.L. n. 76/2020. aspetti generali ed obiettivi perseguiti -8. Limitazione delle responsabilità gestorie. (segue) aspetti critici della disciplina contenuta nell’art. 21 D.L. n. 76/2020 - 9. Conclusioni. 1. introduzione. In conseguenza dei pregiudizi arrecati a partire dal marzo 2020 dalla diffusione della pandemia da COVID 19, l’Unione Europea ha messo in campo misure straordinarie, tra cui finanziamenti di progetti finalizzati alla ripresa economica e sociale (il c.d. recovery Fund) ammontanti per l’Italia, all’attualità, a circa 209 miliardi di euro. All’uopo è stato adottato il Regolamento (UE) 2021/241 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 febbraio 2021 che istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza. Sono sei i pilastri dei piani di intervento: “a) transizione verde; b) trasformazione digitale; c) crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, che comprenda coesione economica, occupazione, produttività, (*) Avvocato dello Stato. Le posizioni espresse nel presente scritto impegnano esclusivamente l’Autore. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2020 competitività, ricerca, sviluppo e innovazione, e un mercato interno ben funzionante con Pmi forti; d) coesione sociale e territoriale; e) salute e resilienza economica, sociale e istituzionale, al fine, fra l'altro, di rafforzare la capacità di risposta alle crisi e la preparazione alle crisi; e f) politiche per la prossima generazione, l’infanzia e i giovani, come l'istruzione e le competenze” (art. 3 del Reg. 2021/241). Per la prima volta in tanti anni lo Stato italiano si trova a poter fare investimenti significativi con il solo vincolo che siano fatti bene, cioè che aumentino la crescita del Paese e quindi contribuiscano anche a rendere il nostro debito sostenibile, sicché -intuitivamente -è importante che questi investimenti siano ben scelti e ben eseguiti (1). Trattasi di risorse straordinarie richiedenti una capacità organizzativa per tutte le fasi coinvolte: redazione di progetti, attuazione, rendicontazione. Nel momento attuale si è nella fase iniziale della filiera, quella della predisposizione dei progetti. L’Italia, dopo la Polonia, è il paese che -storicamente -beneficia dei maggiori contributi provenienti dall’U.E.; tuttavia la gran parte dei detti fondi è stata perduta per l’incapacità di rispettare le procedure. Sono tante le cause del deficit gestorio: inidonea programmazione, intervento -nella filiera del procedimento -di più enti, disorganizzazione, mancata preparazione specifica delle risorse umane dedicate (2). Forte è il timore che anche per il recovery Fund possano ripetersi le scarse performance che nel tempo hanno connotato la gestione dei fondi strutturali dell’U.E. (tra cui FESR, FSE, FEASR). In questa fase emergenziale sono state formulate proposte ed adottate disposizioni funzionali ad una efficiente gestione della macchina amministrativa italiana, anche e soprattutto per la gestione del recovery Fund. Allo stato attuale difetta un piano di interventi sistematico e unitario funzionale alla ottimale gestione del recovery Fund. Sono annunciate ed adottate misure episodiche. Con il presente studio si tenterà di analizzare tali misure formulando rilievi sulle stesse, con l’obiettivo -comune a qualsivoglia osservatore sensibile all’interesse nazionale -di contribuire ad individuare le migliori misure per effettuare “spesa buona” per il successo di questa storica occasione. 2. Scelta di “buoni” progetti. Nei cicli passati della programmazione comunitaria di durata settennale, (1) Per tali rilievi, tra l’altro, si cita il discorso del Presidente del Consiglio dei Ministri all’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte dei Conti del 19 febbraio 2021. (2) Sul punto: M. GERARDO, La selezione della burocrazia in italia nell’attuale momento storico, in rassegna della avvocatura dello Stato 2018, 4, pp. 259 e ss. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà nei quali non si è speso in modo efficiente, è accaduto spesso che a fine ciclo, preso atto dei ritardi, le amministrazioni hanno proceduto alla “accelerazione della spesa”. Pur di spendere qualcosa, dunque, si sono fatte spese inutili, ad esempio il rifacimento delle piazze dei comuni. Questo, in generale, non possiamo più permettercelo. Con quale modalità scegliere i progetti? In ipotesi le modalità sono tre. a) Scelta da parte del corpo elettorale in sede di elezioni. Il tipo di progettualità è condizionato da visioni politiche. Una visione politica prevalentemente orientata allo sviluppo industriale, con il conseguente indotto occupazionale, conduce a una progettualità mirante ad un reinsediamento di impianti industriali e manifatturieri, a fronte della delocalizzazione operata nell’ultimo trentennio in Paesi a basso costo del lavoro. Una visione politica prevalentemente orientata al sociale punterà a progetti miranti alla costruzione/ammodernamento di scuole ed asili nido. Una visione politica prevalentemente orientata allo sfruttamento delle risorse naturali potrà avere come obiettivo un ritorno all’agricoltura. Dovrebbero svolgersi nuove elezioni, nelle quali le forze politiche propongano un loro programma al corpo elettorale. b) Scelta da parte della Conferenza Unificata. In subordine alla scelta da parte del corpo elettorale, attesa la strategicità dei progetti, è necessario coinvolgere nelle decisioni almeno gli enti territoriali. Strumento di raccordo e cooperazione allo scopo -tenuto conto della sua composizione: Stato, Regioni, Province autonome, Città ed autonomie locali -è la Conferenza unificata (disciplinata dal D.L.vo 28 agosto 1997, n.281), la quale interviene in relazione alle materie ed ai compiti di interesse comune allo Stato, alle regioni, alle province, ai comuni e alle comunità montane. c) Scelta di politiche infrastrutturali. Ultima Thule, atteso lo stato delle nostre infrastrutture, non vi sono dubbi che i progetti dovrebbero riguardare esclusivamente la rete infrastrutturale (nuovi insediamenti, ristrutturazioni, completamenti). Circa la metà dell’acqua trasportata nella rete idrica si disperde prima di arrivare a destinazione, a causa della fatiscenza degli impianti. Con il primo progetto occorre rifare la rete idrica del Paese. Tanta parte degli edifici pubblici, specie scuole ed ospedali, sono non adeguati, anche sotto l’aspetto del risparmio energetico. Con il secondo progetto occorre ammodernare scuole ed ospedali (almeno nei casi più gravi). Grande e crescente è il divario infrastrutturale Nord-Sud del Paese. Cristo si è fermato ad Eboli: la rete ferroviaria calabrese e la rete stradale ed idrica siciliana si trovano in condizioni di grave deficienza. Con il terzo progetto occorre eliminare o ridurre il detto gap, ricorrendo a un criterio oggettivo, come quello utilizzato in occasione della riunificazione tedesca per superare il gap RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2020 Germania ovest-Germania est: il Sud del Paese deve avere al stessa quantità di rete infrastrutturale del Nord del Paese. In conclusione quello che va evitato è l’inerzia e/o dispersione delle risorse del recovery Fund. 3. Semplificazione delle procedure. Fatta la scelta dei progetti, occorre poi gestirli. Qui cominciano le dolenti note, attesa la storica incapacità di realizzare una spesa efficiente, specie in sede di gestione dei fondi strutturali. Questa incapacità ha varie cause, tra le quali la numerosità dei procedimenti amministrativi riguardanti la realizzazione di una unica opera pubblica ed altresì la complicatezza degli stessi. Sotto il primo profilo, per le opere coinvolte nel recovery Fund andrebbe previsto un “procedimento unico”, che consenta di convogliare ed acquisire tutte le valutazioni ed introdurre tutti gli interessi presenti (3). La complicatezza dei procedimenti amministrativi è ben rappresentata da quelli specificamente diretti alla acquisizione di opere, servizi e forniture delineati nel Codice dei contratti (D.L.vo 12 aprile 2016, n. 50). Primo fattore di complicatezza -preclusivo di procedimenti rapidi, attesa la funzione orientativa della norma giuridica regolatrice della materia è la nebulosità ed incertezza del quadro normativo, la difficoltà del quadro conoscitivo. Il Codice dei contratti si compone di 220 articoli e 26 allegati. Gli articoli non sono del tipo codice civile o codice di procedura civile al momento della loro entrata in vigore (per intenderci: disposizioni essenziali, chiare, sintetiche (4). L’art. 3 del Codice dei contratti si compone di oltre 5.000 parole, il successivo art. 80 si compone di circa 2.400 parole. Patente è l’incapacità di sintesi, la provvedimentalizzazione del contenuto della legge. Il Codice dei Contratti raggiunge le dimensioni dell’intero Codice Civile. Dal 2016 ad oggi, ossia in cinque anni, il Codice dei contratti è stato modificato cinque volte (D.L.vo 19 aprile 2017, n. 56; D.L. 14 dicembre 2018, n. 135, conv. L. 11 febbraio 2019, n. 12; D.L.vo 12 gennaio 2019, n. 14; D.L. 18 aprile 2019, n. 32, conv. L. 14 giugno 2019, n. 55; D.L. 16 luglio 2020, n. 76, conv. L. 11 settembre 2020, n. 120), con oltre 1.100 modifiche. L’instabilità (3) In tal senso anche S. DE FELICE, alcune idee per una Pa migliore per il Paese. Non solo per il recovery, p. 1, in Sito Giustizia amministrativa, approfondimenti Dottrina, pubblicato il 20 febbraio 2021. (4) L’art. 105 c.p.c. -con dictum tacitiano, in una materia complessa quale l’intervento volontario -così recita: “Ciascuno può intervenire in un processo tra altre persone per far valere, in confronto di tutte le parti o di alcune di esse, un diritto relativo all'oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo. Può altresì intervenire per sostenere le ragioni di alcuna delle parti, quando vi ha un proprio interesse”. Meglio e con minori parole non si poteva dire. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà del quadro normativo, all’evidenza, non consente la sedimentazione di orientamenti (5). A ciò aggiungasi che il Codice dei contratti deve essere integrato da circa cinquanta atti della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero delle Infrastrutture, dell’ANAC, aventi la più disparata natura e da adottare entro determinati termini. L’operatore che vuole conoscere la disciplina di una materia deve disporre -in luogo di un unico testo -di una congerie di fonti, da controllare nella loro vigenza. Una sorta di vestito di Arlecchino, per intenderci. Con l’aggravante che, laddove non vengano adottati i provvedimenti normativi entro i termini prefissati (termini giustamente definibili, con Redenti, “canzonatori”), la disciplina è quanto mai problematica. Ed è quanto avvenuto proprio con il Codice degli Appalti. Valga il caso della qualificazione delle stazioni appaltanti, ex art. 38, comma 2, del detto Codice: il D.P.C.M. definitorio dei requisiti tecnico organizzativi per l’iscrizione doveva essere adottato entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del Codice. Il decreto in esame, a cinque anni della entrata in vigore del Codice degli Appalti, non ha ancora visto la luce. L’operatore, all’evidenza, non dispone di un unico testo per orientare la propria condotta, ma deve cercare i provvedimenti completivi (se ci sono) ed i successivi aggiornamenti. Secondo fattore di complicatezza è l’estrema difficoltà di delineare la progettazione a base di gara ed altresì la complessità delle procedure di scelta del contraente, che rende non facile il raccordo tra regimi ordinari, regimi speciali ed eccezioni ai due regimi. La sommatoria dei detti fattori sono i notevoli costi preliminari e le lungaggini delle procedure. Come uscire da tale impasse? Un primo modello è il c.d. modello Genova -rectius: i lavori per la ricostruzione del viadotto Polcevera (c.d. ponte Morandi), crollato nell’agosto del 2018 - e quindi procedure in deroga al regime ordinario. Questo primo modello non è condivisibile: l’efficienza deve esistere in tutte le procedure negoziali della P.A. per procurarsi lavori, servizi e forniture e non solo per alcune, siano esse la ricostruzione del ponte Morandi o i progetti coinvolti nel recovery Fund. È auspicabile, quindi, una semplificazione generalizzata di tutte le procedure negoziali. Un modello di pronta fruizione è il c.d. modello inglese, ossia l’attuazione immediata delle direttive U.E. in materia negoziale. Gli inglesi -ma questa è storia perché sono usciti dall’U.E. -con il loro taglio pra (5) Virgilio Andrioli, di fronte all’ondivago orientamento del giudice di legittimità sul modo di computare i termini processuali in presenza della sospensione feriale, così sollecitò i giudicanti: prendete un univoco orientamento, anche sbagliato, e tenetelo fermo in modo che gli operatori abbiano un quadro stabile; ma anche l’invito di Virgilio Andrioli, oggi, risulterebbe vano, in presenza, di una legislazione che cambia alla giornata. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2020 tico, preso atto che le direttive in materia sono dettagliate, si sono limitati a tradurle in inglese tout court senza adottare norme di recezione. All’uopo potrebbe essere adottata una legge con un articolo unico del seguente tenore: “articolo unico 1. il D.L.vo 12 aprile 2016, n. 50 è abrogato; le relative disposizioni continuano ad applicarsi alle procedure pendenti. 2. L’aggiudicazione dei contratti di concessione è regolata dalla direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014; l’aggiudicazione dei contratti di appalto pubblico è regolata dalla direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014; l’aggiudicazione dei contratti di appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali è regolata dalla direttiva 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014. Per tutto quanto non previsto dalle direttive innanzi indicate si applicano il Codice Civile ed i principi generali di correttezza e buona fede. 3. La presente legge entra in vigore il giorno successivo alla pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale” (6). 4. reperimento di adeguate professionalità. Vi è consapevolezza che non si può fallire nella gestione del recovery Fund. Vi è altresì consapevolezza che le risorse umane delle PP.AA. attualmente disponibili sono insufficienti e qualitativamente inidonee allo scopo, specie con riguardo ai profili tecnici (ingegneri, architetti, informatici, esperti di procedure amministrative e contabili relative ai fondi strutturali dell’U.E.). Un primo strumento, ovvio, per reperire risorse umane con adeguate professionalità è il concorso pubblico con tempi rapidizzati. Cosa, invero, facile a dirsi ma non a farsi, anche per le difficoltà organizzative collegate ai disagi provocati dalla pandemia. Altro strumento, necessariamente contingente, è il ricorrere alle tradizionali formule dei contratti di consulenza e di assistenza tecnica. (6) Tale proposta non è isolata nella comunità giuridica. Si rileva che “recentemente il Presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi, ha espresso in modo chiaro che la materia dei contratti pubblici potrebbe essere in poco tempo semplificata ritornando alle direttive UE e abbattendo il cosiddetto goldplating, l’“indoramento”, l’aggravamento anomalo attuato di solito dallo Stato italiano nelle leggi (spesso decreti delegati) di recepimento delle direttive” S. DE FELICE, alcune idee per una Pa migliore per il Paese. Non solo per il recovery, cit., p. 1, ove si rileva altresì “Certo, c’è la esigenza di disciplinare gli aspetti interni, ma in una materia caratterizzata da tante fonti del diritto quali regolamenti e direttive europee, normativa statale primaria e secondaria (allo stato, non l’auspicato regolamento unico, ma varie decine di regolamenti, linee guida anac e anche leggi regionali su materie secondarie, quali la composizione delle commissioni), bandi (il bando è definito la lex specialis della gara), capitolati, contratti, si può e si deve provare a espungere il troppo e il vano, e guarire dal “morbo” del troppo diritto”. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà a) Contratti di consulenza e/o collaborazione. La legge (art. 7, D.L.vo 30 marzo 2001, n.165) consente alle amministrazioni pubbliche -per specifiche esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio -di conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria, in presenza dei determinati presupposti di legittimità (7). Vi sono dei paletti ragionevoli ed ovvi. All’uopo si è statuito che: -è fatto divieto alle amministrazioni pubbliche di stipulare contratti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro; -le amministrazioni pubbliche disciplinano e rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti, procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione. b) assistenza tecnica in virtù di contratti di servizio con operatori esterni o contratti di servizio con enti in house. Fenomeno diffuso nelle dinamiche delle pubbliche amministrazioni è la stipula di un peculiare contratto di servizio il cui oggetto è costituito dalla fornitura di assistenza tecnica. Con tale contratto l’ente pubblico mira a conseguire, ad esempio, le attività di: affiancamento, supporto per il monitoraggio e supporto specialistico per particolari progetti; di assistenza di marketing territoriale; di assistenza tecnica di attuazione della strategia di comunicazione di policy; di assistenza tecnica in materia di programmazione economica; di progettazione e gestione di procedure informatiche ancillari ad una attività produttiva; di supporto nella certificazione della spesa di programmi comunitari; di assistenza tecnica alle attività di coordinamento, attuazione, monitoraggio, controllo di programmi comunitari; ecc. In conseguenza della stipula dei contratti di servizio sopradescritti determinate risorse umane, inglobate nel complessivo servizio erogato dall’appaltatore, contribuiscono allo svolgimento dei compiti degli enti pubblici committenti. Con tali contratti lo Stato e gli enti territoriali, utilizzano -indirettamente -risorse esterne per lo svolgimento di attività che richiedono una elevata spe( 7) “a) l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell'amministrazione conferente; b) l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato l'impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno; c) la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata; non è ammesso il rinnovo; l'eventuale proroga dell'incarico originario è consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di affidamento dell'incarico; d) devono essere preventivamente determinati durata, oggetto e compenso della collaborazione” (art. 7, comma 6, D.L.vo n. 165/2001). RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2020 cializzazione, sopperendo ad un deficit interno di idonee risorse umane. Questo è quanto accade per il ciclo della gestione dei fondi comunitari. All’evidenza, per il successo della gestione dei progetti del recovery Fund occorre fare un uso ragionevole delle due formule indicate, specie la seconda. Anche in questa fase di avvio del recovery Fund si sta facendo ricorso a consulenze esterne: come risulta da notizie di stampa (8), il Ministero del- l’Economia e delle Finanze ha conferito una consulenza alla società McKinsey per uno studio sui piani Next Generation già predisposti dagli altri paesi UE ed un supporto tecnico-operativo di project management per il monitoraggio dei diversi filoni di lavoro per la finalizzazione del Piano. Questa scelta ha suscitato critiche nella stampa circa la necessità di ricorrere all’esterno in luogo dell’utilizzo di risorse interne (9) e la vaghezza dell’incarico conferito. Come evidenziato, occorre fare un uso ragionevole delle due formule: né demonizzarle, né utilizzarle in modo scriteriato quale strumento clientelare. Ma ricorrere alle stesse quale mezzo contingente e necessario per fare fronte all’attuale momento, con meccanismi di conferimento trasparenti ed evitando conflitti di interessi. 5. Limitazione delle responsabilità gestorie. L’inosservanza delle obbligazioni assunte dal dipendente pubblico con la stipulazione del contratto di lavoro comporta le conseguenze, rectius: le responsabilità, normativamente stabilite. A seconda della natura degli interessi saranno configurabili varie specie di responsabilità: penale (10), civile, amministrativa (11), contabile, disciplinare (12), manageriale. L’art. 21 D.L. 16 luglio 2020, n. 76, conv. L. 11 settembre 2020, n. 120, rubricato “responsabilità erariale”, enuncia: (8) A. BACCARO, L’Economia, voce economica del Corriere della Sera, 15 marzo 2021, p. 22. (9) “resta difficile capire perché l’esame dei piani altrui non possa essere affidato a risorse interne alla nostra amministrazione pubblica. Chi abbia la curiosità di consultare il sito del ministero dell’Economia (mef) può constatare che dispone di un notevole numero di dirigenti. il solo dipartimento del Tesoro, poi, può contare su un “Consiglio tecnico-scientifico degli esperti” che conta nove “prof.” e quattro “dott.” Se non fanno un lavoro di questo genere, si può sapere che cosa fanno? E se quegli esperti non ne avessero voglia, ci sarebbe per esempio l’Ufficio V della ragioneria, tra i cui compiti c’è lo “Studio e analisi comparata delle discipline contabili adottate nei Paesi dell'UE. analisi comparata a livello internazionale sulle procedure di bilancio e delle relative discipline contabili, sulle metodologie dei sistemi di controllo interno e di misurazione delle performance. analisi, studi e proposte per l'applicazione degli standards internazionali di contabilità pubblica”. Eccetera. mentre studiano le procedure di bilancio, non possono dare anche un’occhiata ai piani Next Generation, che comunque nei bilanci ci devono entrare?”: così C. CLERICETTI per https://clericetti.blogautore.repubblica.it del 6 marzo 2021. (10) Specie per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (artt. 314-335 c.p.), tra i quali l’abuso d’ufficio (art. 323 c.p.). LEGISLAzIONE ED ATTUALITà “1. all’articolo 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, dopo il primo periodo è inserito il seguente: “La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell'evento dannoso”. 2. Limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 dicembre 2021, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità di cui all’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente”. L’art. 23 D.L. n. 76/2020, rubricato “modifiche all'articolo 323 del codice penale”, poi, enuncia: “1. all’articolo 323, primo comma, del codice penale, le parole “di norme di legge o di regolamento” sono sostituite dalle seguenti: “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità””. (11) Gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa possono così sinteticamente individuarsi: a) rapporto di servizio; b) comportamento dannoso; c) danno; d) nesso causale tra comportamento dannoso e danno; e) elemento psicologico. La responsabilità è circoscritta ai fatti e alle omissioni commessi con dolo o colpa grave. Il dolo, in ragione della diversa intensità, può assumere diverse qualificazioni (in specie: dolo intenzionale, dolo diretto, dolo eventuale). Si rileva in dottrina che è “controverso il criterio di individuazione dell'elemento soggettivo del dolo nelle fattispecie di danno erariale. a fronte di un orientamento, in cui si afferma, in linea con la nozione penalistica dell'art. 43 c.p., che, per integrare il dolo erariale non si può prescindere dalla volontà dell'evento dannoso, oltre, naturalmente, alla volontarietà della condotta illecita o illegittima, la tesi più diffusa nella giurisprudenza contabile è stata finora quella per cui il dolo di radice penalistica non è necessariamente e meccanicamente applicabile al processo contabile per responsabilità finanziarie, essendo piuttosto operanti, per qualificare l'azione dolosa dei dipendenti pubblici, i criteri relativi al dolo c.d. contrattuale o in adimplendo. in base a questo indirizzo giurisprudenziale, per aversi dolo è sufficiente che i soggetti legati da un rapporto (solitamente di servizio) alla P.a., tengano scientemente un comportamento che violi un loro obbligo, senza che sia necessaria la diretta e cosciente intenzione di nuocere, cioè di agire ingiustamente a danno delle pubbliche finanze. il dolo in adimplendo, infatti, si identifica nella cosciente violazione di una speciale obbligazione preesistente, quale che ne sia la fonte, ed è ben diverso da quello di cui all'art. 43 c.p. (sulla cui base si modella anche il dolo extracontrattuale o aquiliano), ovverossia quale volontà dell'evento dannoso”: così D. IROLLO, responsabilità erariale sempre più "light", in il quotidiano per la p.a. (22 luglio 2020). La colpa grave consiste nella violazione della diligenza minima (mentre integra la colpa lieve la violazione della ordinaria diligenza). La colpa grave esclude la volontarietà, ma non si esaurisce solo -come la colpa c.d. lieve -nella negligenza, imprudenza o imperizia, dovendo le stesse esser elevate, macroscopiche. Si deve trattare, insomma, di violazioni grossolane del dovere di diligenza, di prudenza e di perizia (non intelligere quod omnes intelligunt). L’illustrato regime normativo esonera da responsabilità il dipendente che versa in colpa lieve nell’evidente obiettivo di non gravare il dipendente di preoccupazioni eccessive in ordine alle conseguenze patrimoniali della propria condotta. Preoccupazioni che -in particolare in una fase storica legislativamente dinamica, in cui la P.A. si trova a operare in una realtà normativa estremamente complessa e talvolta disarticolata -condurrebbero fatalmente all’inerzia e alla paralisi amministrativa. (12) Quest’ultima non è applicabile ove non sussista un rapporto di pubblico impiego (ad esempio nei rapporti onorari). RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2020 Nella Relazione illustrativa al D.L. Semplificazioni relativamente all’art. 21 si enuncia che “in materia di responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti, la norma chiarisce che il dolo va riferito all’evento dannoso in chiave penalistica e non in chiave civilistica, come invece risulta da alcuni orientamenti della giurisprudenza contabile che hanno ritenuto raggiunta la prova del dolo inteso come dolo del singolo atto compiuto. inoltre, fino al 31 luglio 2021 [poi modificato in 31 dicembre 2021], la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità viene limitata al solo profilo del dolo per le azioni e non anche per le omissioni, in modo che i pubblici dipendenti abbiano maggiori rischi di incorrere in responsabilità in caso di non fare (omissioni e inerzie) rispetto al fare, dove la responsabilità viene limitata al dolo”. Invece, a proposito dell’art. 23 la detta Relazione evidenzia che “La disposizione interviene sulla disciplina dettata dall’articolo 323 del codice penale (abuso d’ufficio), attribuendo rilevanza alla violazione da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, nello svolgimento delle pubbliche funzioni, di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge, attribuendo, al contempo, rilevanza alla circostanza che da tali specifiche regole non residuino margini di discrezionalità per il soggetto, in luogo della vigente previsione che fa generico riferimento alla violazione di norme di legge o di regolamento. Ciò al fine di definire in maniera più compiuta la condotta rilevante ai fini del reato di abuso di ufficio” (13). La legge, prendendo spunto dalla necessità dell’adozione di misure per contenere la pandemia da diffusione del COVID 19, interviene sul punto della responsabilità amministrativa e penale dei pubblici dipendenti. Ciò nel dichiarato intento di disinibire gli amministratori pubblici nella gestione dei finanziamenti attesi dall’Unione Europea con il recovery Fund onde evitare l’inerzia per il timore della responsabilità da “firma”. Ciò evidenziato, deve rilevarsi che, mentre l’intervento sulla responsabilità penale è stato timido, quello sulla responsabilità amministrativa è stato eccessivo, incoerente e contrastante con i principi generali sulla responsabilità e buon andamento della P.A. 6. Limitazione delle responsabilità gestorie. (segue) La (parziale) “buona” novella dell’art. 23 D.L. n. 76/2020. L’art. 23, novellando l’art. 323 c.p., cerca di specificare l’ambito applicativo del reato di abuso d’ufficio connotato da margini di indeterminatezza, con deficit di tassatività. (13) Su tale intervento normativo: A. GIORDANO, La responsabilità amministrativa tra legge e necessità. Note sull’art. 21 d.l. n. 76/2020, in rivista della Corte dei Conti, 2021, 1, pp. 14 e ss. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà Sulla materia, parte autorevole della dottrina (14) ha consigliato l’abrogazione della disposizione, anche a fronte dell’insuccesso pratico della fattispecie incriminatrice (15). Il dubbio è che l’abuso d’ufficio costituisca un reato “spia” in mano al- l’inquirente allorché questi abbia il sospetto di illeciti, consentendogli di indagare alla ricerca della “vera” fattispecie delittuosa (es.: corruzione); l’abuso d’ufficio diviene, quindi, uno strumento puramente tattico, almeno là dove manchino ulteriori elementi rispetto alla semplice illegittimità amministrativa (16). L’indeterminatezza della fattispecie può alimentare la c.d. amministrazione difensiva, il timore o i rallentamenti dell’agire per lo spauracchio della responsabilità penale. Si osserva che “gli amministratori onesti potrebbero temere non tanto una condanna definitiva -dovendo auspicare che al termine del processo la giustizia venga comunque acquisita -quanto, piuttosto, di rimanere intrappolati in un procedimento penale, che si risolva in un circuito pieno di insidie, poco o per nulla dominabile. a prescindere dall’esito della vicenda giudiziaria, l’accusa penale rischierebbe di offendere la dignità dell’imputato, compromettendo le prospettive di affermazione professionale, provocando danni personali e familiari, talvolta irrecuperabili, in quanto perduranti nel tempo” (17). Come suol dirsi, già il procedimento è pena. Miglior partito sarebbe stato l’abrogazione della fattispecie incriminatrice. In mancanza di ciò, tuttavia, l’intervento, diretto a meglio delineare il volto della condotta tipica, va apprezzato, in quanto coerente con il volto costituzionale dell’illecito penale e, in specie, con i principi della necessaria offesa al bene giuridico, di tassatività e determinatezza della fattispecie. 7. Limitazione delle responsabilità gestorie. (segue) La “cattiva” novella dell’art. 21 D.L. n. 76/2020. aspetti generali ed obiettivi perseguiti. L’art. 21 per le condotte commissive elimina, in tema di responsabilità (14) Il dibattito è riportato, tra l’altro, in A.R. CASTALDO (a cura di), migliorare le performance della Pubblica amministrazione. riscrivere l’abuso d’ufficio, Giappichelli, 2018. (15)Un operatore pratico -in A.R. CASTALDO (a cura di), migliorare le performance della Pubblica amministrazione. riscrivere l’abuso d’ufficio, cit., pp. 113-114 -ha evidenziato: “durante i miei dodici anni di attività, in funzione di giudice di primo grado, presso una sezione del Tribunale di Napoli specializzata in delitti contro la Pubblica amministrazione, tutti i processi per abuso d’ufficio che si sono svolti innanzi a tale sezione si sono conclusi con assoluzioni, ad eccezione di uno soltanto. Una sola condanna in dodici anni è un dato eloquente”. (16) A.R. CASTALDO (a cura di), migliorare le performance della Pubblica amministrazione. riscrivere l’abuso d’ufficio, cit., p. 110. (17) A.R. CASTALDO (a cura di), migliorare le performance della Pubblica amministrazione. riscrivere l’abuso d’ufficio, cit., p. 108. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2020 amministrativa, il requisito della colpa grave (18), residuando solamente l’elemento del dolo, per il quale è richiesta la prova della dimostrazione della volontà dell’evento dannoso (19). Il che significa -essendo prevalenti le pronunce di condanna per colpa grave, come confermato da una superficiale lettura della casistica giurisprudenziale in materia -introdurre una sostanziale irresponsabilità erariale degli operatori pubblici. Ciò a maggior ragione, vista la connotazione novellistica del dolo quale dolo intenzionale. L’obiettivo dichiarato è quello di disinibire la burocrazia nella gestione delle risorse pubbliche a fronte della incapacità -acclarata nel tempo -di utilizzare le risorse dell’Unione Europea; incapacità tanto più grave nell’attuale momento storico. Il messaggio del legislatore è chiaro: occorre essere disinibiti nella gestione delle risorse pubbliche, occorre agire, spendere. All’uopo si offre uno scudo rispetto alla responsabilità amministrativa per chi agisce, mentre -a mo’ di stimolo all’azione - chi è inerte risponde nel modo ordinario. La disciplina descritta circa la sterilizzazione della colpa grave nelle condotte commissive è dichiaratamente transitoria (fino al 31 dicembre 2021). Tuttavia, tenuto conto della occasio legis, è possibile -atteso che il recovery Fund è solo agli inizi -che il termine del 31 dicembre 2021 venga differito, per poi magari stabilizzare, a regime, la novella. Orienta verso tale previsione, tra l’altro, la circostanza che in occasione della conversione del D.L. n. 76/2020 tutte le forze politiche presenti in Parlamento abbiano approvato l’art. 21 citato (20). (18) “con il risultato, invero alquanto paradossale, di mandare esente da mende i funzionari e gli amministratori pubblici che agiscono con grave superficialità ed in maniera platealmente maldestra, sanzionando nel contempo quanti siano rimasti semplicemente inoperosi”. Per tale rilievo: D. IROLLO, responsabilità erariale sempre più “light”, cit. (19) Si rileva in dottrina che “in esito alla novella in esame, in definitiva, viene codificato l’indirizzo minoritario per cui il dolo c.d. “erariale” da oggi deve intendersi sostanziato dalla volontà del- l’evento dannoso, che si accompagni alla volontarietà della condotta antidoverosa. Di talché per accreditare la sussistenza del “dolo erariale"” d’ora in avanti non basterà più dare prova della consapevole violazione degli obblighi di servizio ma servirà dimostrare la volontà di produrre l’evento dannoso. il dolo si potrà concretare pertanto ove si cumulino, con la conoscenza della causa del danno, dati della realtà che comprovino il ricorrere di ulteriori consapevolezze circa l’effettività e lo specifico contenuto del danno medesimo. in altri termini, il dolo “erariale” deve essere adesso inteso come stato soggettivo caratterizzato dalla consapevolezza e volontà dell’azione o omissione contra legem, con specifico riguardo alla violazione delle norme giuridiche che regolano e disciplinano l’esercizio delle funzioni amministrative ed alle sue conseguenze dannose per le finanze pubbliche”: così D. IROLLO, responsabilità erariale sempre più “light”, cit. (20) L’art. 21 ha avuto un antecedente prossimo nella disposizione di cui al comma 3 dell’art. 5 quater D.L. 17 marzo 2020, n. 18, conv. L. 24 aprile 2020, n. 27 secondo cui “in relazione ai contratti relativi all’acquisto dei dispositivi di cui al comma 1, nonché per ogni altro atto negoziale conseguente alla urgente necessità di far fronte all’emergenza di cui allo stesso comma 1, posto in essere dal Dipartimento della protezione civile della Presidenza del Consiglio dei ministri e dai soggetti attuatori, non si applica l’articolo 29 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 22 novembre 2010, recante LEGISLAzIONE ED ATTUALITà 8. Limitazione delle responsabilità gestorie. (segue) aspetti critici della disciplina contenuta nell’art. 21 D.L. n. 76/2020. La disciplina contenuta nella disposizione di cui all’art. 21 D.L. n. 76/2020 presenta vari aspetti di criticità. a) Sotto l’aspetto di politica del diritto. Se l’obiettivo perseguito dal legislatore -spesa pubblica efficiente -è meritorio, tuttavia lo strumento della sostanziale irresponsabilità erariale non costituisce uno strumento funzionale al detto obiettivo. Anzi, di fronte all’esigenza della corretta gestione delle risorse pubbliche, potrebbe ben prevedersi un rafforzamento della responsabilità in capo agli operatori pubblici, richiedendo il requisito del dolo e della colpa, anche lieve. All’uopo occorre esigere dalla dirigenza pubblica italiana, chiamata a gestire la spesa per la ripartenza del Paese in epoca pandemica, il massimo sforzo. Laddove si ritenga che le forze della dirigenza pubblica siano insufficienti occorre esternalizzare, attingendo dal mercato le risorse umane funzionali alla bisogna. La sostanziale irresponsabilità erariale può condurre a danni maggiori rispetto a quelli che si cerca di evitare (21). "Disciplina dell'autonomia finanziaria e contabile della Presidenza del Consiglio dei ministri", pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 286 del 7 dicembre 2010, e tali atti sono altresì sottratti al controllo della Corte dei conti. Per gli stessi atti la responsabilità contabile e amministrativa è comunque limitata ai soli casi in cui sia stato accertato il dolo del funzionario o dell'agente che li ha posti in essere o che vi ha dato esecuzione. Gli atti di cui al presente comma sono immediatamente e definitivamente efficaci, esecutivi ed esecutori, non appena posti in essere”. Con questa disposizione non solo si è prevista una sostanziale immunità dalla giurisdizione contabile, ma sono stati anche eliminati i controlli della Corte dei Conti. (21) E. AMANTE, La “nuova” responsabilità amministrativa a seguito del D.L. n. 76 del 2020, in Urbanistica e appalti 1/2021, p. 63 rileva: “il legislatore ripropone, per tale via, l’assunto secondo cui dalla limitazione di responsabilità conseguirebbe vantaggio per l’efficacia dell’azione amministrativa: convincimento, quest’ultimo, diffuso e radicato (anche a livello dottrinario e di giurisprudenza costituzionale), quanto indimostrato; anzi, l’esperienza insegna che le conclamate inefficienze della pubblica amministrazione dipendono non solo da altri fattori strutturali (tra i quali, in primis, il caos normativo), ma soprattutto aumentano laddove minore è la responsabilità degli agenti (si pensi all’ingiustificata durata dei processi, fonte di continue condanne dello Stato ex lege n. 89 del 2001, prive in ultima analisi di responsabili)”. Anche A. CANALE, il d.l. semplificazioni e il regime transitorio in tema di responsabilità amministrativa: i chiaroscuri della riforma, in Diritto & Conti 30 marzo 2021, rileva che “la premessa da cui si è mosso il Legislatore è che il rischio di incorrere nella responsabilità amministrativa indurrebbe i dirigenti alla c.d. burocrazia difensiva, alla quale si deve la colpa dei ritardi nella realizzazione di piani, progetti, opere. Tuttavia la “premessa”, opportunamente rilanciata dagli organi di informazione, tanto da assurgere a verità assoluta (nel senso che si dà oramai per scontato che l’azione amministrativa sia bloccata per la paura del processo contabile e della Corte dei conti), non è dimostrata, non è stata oggetto di alcun serio approfondimento, non è stata supportata da alcuna analisi, né da alcun dato, né sono stati forniti esempi, anche ricavabili ex post da un’analisi delle migliaia di sentenze pronunciate dalle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti, tutte accessibili nella banca dati della stessa Corte dei conti. in verità, illustri studiosi hanno evidenziato che la “paralisi del fare”, che esiste e certamente va contrastata, è tuttavia ascrivibile in larga misura alla farraginosità delle regole, alla esondazione o ipertrofia normativa, alla tortuosità dei percorsi decisionali, alla impreparazione della dirigenza o almeno di parte di essa, ad una serie di concause che potremmo cumulativamente RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2020 È sotto gli occhi di tutti la circostanza che in questo primo anno di gestione della pandemia sono state fatte spese -coinvolgenti rilevantissime risorse pubbliche in un’epoca già segnata da grave deficit di bilancio -che presentano vari aspetti di criticità ed aporie. b) Sotto l’aspetto dell’orientamento dei comportamenti. Il diritto morirà -osservò un giurista -quando il mondo sarà composto solo da buoni, che del diritto non hanno bisogno, o solo da cattivi, che del diritto non hanno paura. Essendo il mondo composto da varia tipologia di persone, il diritto ha una essenziale funzione di orientamento dei comportamenti con la fissazione di regole e conseguenze (spiacevoli) nel caso di inosservanza. Eliminare il requisito della colpa nella responsabilità amministrativa indebolisce la funzione del diritto. Secondo la communis opinio, nella colpa vi è un rimprovero all’agente per non avere osservato regole precauzionali (22) cagionando un danno. Regole che, se osservate, avrebbero consentito di prevedere e, quindi, di evitare il danno. Nel momento in cui si rinuncia al requisito della colpa, l’ordinamento rinuncia a pretendere dal dipendente il rispetto delle regole precauzionali. Il che è una grande incoerenza sistematica. Il rispetto di tali regole è coessenziale alla qualità della prestazione resa dal dipendente. Il rispetto delle direttive, delle leges artis -indirizzanti l’attività del prestatore di attività lavorativa affinché questa conduca ad un risultato utile e non fonte di danni per la controparte -è un elemento costitutivo nei contratti di lavoro, sia subordinato (art. 2094 c.c.) che autonomo (art. 2222 c.c.) anche sub specie professionale (art. 2236 c.c.). Finanche nei casi in cui la prestazione lavorativa è gratuita è prevista la responsabilità per colpa, tutt’al più la stessa è valutata con minor rigore (arg. ex artt. 1710 comma 1, 1768 comma 2, 2030, comma 2 c.c.). Quale datore di lavoro ragionevole pagherebbe mai un dipendente rinunciando a priori a certe qualità della prestazione? c) Sotto l’aspetto della coerenza complessiva del sistema della responsabilità del dipendente pubblico. L’art. 21 vale unicamente per la responsabilità erariale. Restano immutate le altre fattispecie di responsabilità del dipendente: penale (salva la novella dell’art. 323 c.p.), civile, amministrativa, contabile, disciplinare, manageriale. qualificare come “cattiva amministrazione”. (io aggiungo anche la riduzione dei controlli preventivi; e con riferimento ai cantieri bloccati anche le lacune progettuali e le criticità delle analisi di fattibilità)”. (22) Di fonte sociale (regole di diligenza, di prudenza, di perizia: colpa generica) o di fonte normativa (legge, regolamenti, ordini, discipline: colpa specifica). Tanto argomentandosi dall’art. 43 c.p. per il quale la fattispecie presenta l’elemento psicologico della colpa “quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà Per i principi, vi può essere un concorso di fattispecie, ossia uno stesso comportamento può integrare più ipotesi di responsabilità (23). La redazione e gestione di una linea di interventi in violazione colposa di direttive ad hoc con sperpero di danaro pubblico può, in ipotesi, integrare responsabilità erariale e responsabilità disciplinare. In questa evenienza, un dirigente, pur non rispondendo verso l’ente di appartenenza per il danno arrecato, sarebbe passibile di sanzione disciplinare ed esposto alla responsabilità manageriale. Il che è incoerente. Tale incoerenza non è altro che un corollario dell’intervento settoriale del legislatore, che non ha tenuto conto dell’architettura del sistema. d) Sotto l’aspetto della coerente integrazione degli ordinamenti, unioni- stico e nazionale. È stato rilevato che strutturalmente il nostro Paese non sfrutta adeguatamente le risorse dell’U.E. e che l’occasio legis della novella dell’art. 21 è stata la predisposizione di misure per spendere adeguatamente le risorse rese disponibili con il recovery Fund ammontanti, all’attualità, a circa 209 miliardi di euro. Nel procedimento di spesa per il recovery Fund intervengono organi delle istituzioni dell’Unione Europea ed organi delle istituzioni della Repubblica Italiana. Per quanto detto innanzi, gli organi delle istituzioni della Repubblica Italiana beneficiano di una sostanziale irresponsabilità amministrativa (in gergo: scudo contabile), laddove gli organi delle istituzioni dell’Unione Europea, in assenza di “scudi”, sottostanno alle ordinarie regole sulla responsabilità amministrativa giusta l’art. 340, comma 4, T.F.U.E. secondo cui “La responsabilità personale degli agenti nei confronti dell'Unione è regolata dalle disposizioni che stabiliscono il loro statuto o il regime loro applicabile” in uno all’art. 22 dello Statuto dei funzionari dell’Unione europea secondo cui “il funzionario può essere tenuto a risarcire, in tutto o in parte, il danno subito dall'Unione per colpa personale grave da lui commessa nel- l'esercizio o in occasione dell'esercizio delle sue funzioni. La decisione motivata è presa dall'autorità che ha il potere di nomina, secondo la procedura prescritta in materia disciplinare. La Corte di Giustizia dell'Unione europea ha competenza anche di merito per decidere delle controversie cui possa dar luogo la presente disposizione”. Orbene, nel medesimo procedimento di spesa si assiste -a fronte dei danni conseguenza della colpa personale grave nella gestione di risorse pubbliche alla responsabilità erariale ove nella filiera intervenga un funzionario dell’U.E. (23) Circostanza confermata dall’art. 2, comma 9, L. n. 241/1990 secondo cui: "La mancata o tardiva emanazione del provvedimento costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2020 (24) e all’immunità erariale ove nella filiera intervenga un funzionario della Repubblica Italiana. Ed anche questo non è coerente, oltre che ingiusto. e) Sotto l’aspetto della configurazione dell’elemento del dolo. La volontà dei conditores -nello statuire che “La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso” -è esplicita: non solo si richiede il dolo, ma questo deve essere intenzionale (25). Applicato alla responsabilità erariale, il dolo intenzionale implica che l’agente debba avere la specifica volontà di cagionare il danno erariale. Tale ipotesi è irrealistica, come confermato dalle (scarse) fattispecie di acclara- mento giurisdizionale di responsabilità erariale con dolo intenzionale, le quali si caratterizzano per la sussistenza del dolo diretto o del dolo eventuale (26). Difatti, ad esempio, nella ipotesi di danno erariale per assunzione di collaboratori in violazione dell’art. 7, comma 6, D.L.vo n. 165/2001, l’agente (24) Particolare attenzione, a livello unionistico, è data al profilo del recupero dei fondi indebitamente versati. A tal fine, il Regolamento n. 241 del 2021 all’art. 8 fa espresso rinvio alla normativa generale del Regolamento finanziario, che prevede la responsabilità degli agenti finanziari, che sono tenuti “a risarcire il danno alle condizioni dello statuto” (art. 92 Reg. finanziario UE); il riferimento è al citato art. 22 dello Statuto dei funzionari UE. A. CANALE, il d.l. semplificazioni e il regime transitorio in tema di responsabilità amministrativa: i chiaroscuri della riforma, cit., osserva: “il rinvio all’art. 22 dello Statuto dei funzionari U.E., che espressamente richiama la colpa grave per il risarcimento del danno è poi di particolare rilievo, in quanto, oltre all’azione recuperatoria, pare prevedere anche la risarcibilità dei danni arrecati con colpa grave: è ovvio, con riferimento agli interventi finanziati con fondi europei del recovery Fund. E dunque, l’Europa, in estrema sintesi, ci fornisce i mezzi finanziari per la ripresa, ma esige, giustamente, una sana gestione finanziaria ed efficaci azioni di contrasto, non solo di carattere penale ma anche recuperatorie, nei casi di impiego illecito dei fondi del recovery Fund, nonché risarcitorie nei termini di cui all’art. 22 dello Statuto funzionari UE, che entra nel quadro normativo che regola l’attuazione del recovery Fund per effetto del già menzionato art. 8 del reg. 241. Queste ultime azioni, quella recuperatoria e quella risarcitoria, chiamano in causa innegabilmente la “giustizia contabile”, che deve poter contare, con specifico riferimento alle misure da attuare con il recovery Fund, su tutti gli strumenti giuridici necessari per adempiere agli obblighi posti dal regolamento a carico dello Stato italiano”. (25) Diversamente, si ritiene che “Un’esegesi che intendesse la prova della “volontà dell’evento dannoso” come dimostrazione del dolo intenzionale o diretto, privando di terreno il dolo eventuale, snaturerebbe il sistema della responsabilità amministrativo-contabile”, così: A. GIORDANO, La responsabilità amministrativa tra legge e necessità. Note sull’art. 21 d.l. n. 76/2020, cit., p. 18. (26) Si è osservato che “nella realtà del concreto operare, la stragrande fattispecie delle condotte antigiuridiche, lesive dell’erario non sono animate da una precisa e specifica volontà di cagionare il “danno conseguenza”. Sono piuttosto finalizzate, infatti, ad ottenere illeciti tornaconti e/o vantaggi, quali ad esempio: la tangente, l’acquisizione di crediti personali e/o favori elettorali mediante la distribuzione di consulenze illecite, la mancata riscossione di canoni locatizi e così via. Se certamente la condotta antigiuridica può essere animata dalla consapevolezza e conseguente volontà di violare le norme ed i propri doveri di servizio pur di ottenere quei vantaggi, l’ulteriore conseguenza concretizzantesi nel concreto danno erariale rimane, per la verità, sotto lo specifico profilo psicologico, sullo sfondo o meglio, senza dubbio viene prefigurata ed “accettata”, ma non direttamente “voluta”” : così M. ATELLI, F. CAPALBO, P. GRASSO, U. MONTELLA, D. PERROTTA, R. SChüLMERS VON PERNwERTh, il dolo contabile dopo l’art. 21 del decreto-legge semplificazioni fra contraddizioni e incoerenze di sistema, in rivista della Corte dei Conti, 2020, 6, p. 31. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà può avere la scienza di cagionare un danno per una spesa inutile, ma è poco plausibile che vi sia una specifica volontà in tal senso. Analogamente, nella ipotesi di danno erariale per ricezione di una tangente, il funzionario corrotto ha sicuramente la volontà di arricchirsi illecitamente, ma è poco plausibile che vi sia una specifica volontà di arrecare il danno erariale. Ancora, nella ipotesi di danno erariale per erogazione da parte del dirigente di premi non dovuti a dipendenti, l’agente ha semmai la volontà di “coccolare” i dipendenti. Anche in questa ipotesi al massimo si può avere la scienza di cagionare un danno per una spesa indebita. All’evidenza, richiedere la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso implica dissolvere la responsabilità erariale, trattandosi di ipotesi -secondo l’id quod plerumque accidit -irrealistica. Solo un dipendente folle potrebbe porre in essere condotte pregiudizievoli per l’ente per cui lavora con la specifica volontà di arrecare danno al detto ente: potrebbe trattarsi di chi vuole, magari per ragioni filosofiche o politiche, deliberatamente affondare i bilanci pubblici; oppure di un dipendente risentito e vendicativo. Ma sono, appunto, ipotesi estreme ed irrealistiche. f) Sotto l’aspetto del mutamento dei connotati delle istituzioni coinvolte nella vicenda. Come innanzi evidenziato, la novella di cui all’art. 21 introduce una sostanziale irresponsabilità erariale degli operatori pubblici determinando, per l’effetto, una metamorfosi occulta della natura e dei compiti della Corte dei Conti. Con la detta novella si svuota dall’interno la funzione giurisdizionale della Corte dei Conti in tema di responsabilità erariale, con vulnus della “giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica” ex art. 103, comma 2, Cost. La Corte dei Conti, come il Consiglio di Stato, è un ente ausiliario che svolge due essenziali funzioni costituzionalmente previste: quella di controllo (art. 100, comma 2, Cost.) e quella giurisdizionale (art. 103, comma 2, Cost.). Con la novella di cui all’art. 21 l’attribuzione principale -il giudizio di responsabilità -nell’ambito della funzione giurisdizionale della Corte dei Conti viene depotenziata. Ciò conduce, per l’effetto, a connotare il giudice contabile quale istituzione fondamentalmente di controllo. La Corte dei Conti, quindi, cambia pelle. È sicuramente possibile una modifica delle attribuzioni delle istituzioni, anche costituzionalmente rilevanti, ma l’importante è che tali modifiche siano consapevoli, chiare e coerenti con l’intero ordinamento giuridico. 9. Conclusioni. È compito dell’interprete evidenziare le distorsioni del sistema, potenzialmente causative di “cattiva” spesa pubblica, individuando anche i possibili correttivi. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2020 Arrivati a questo punto le conclusioni, nel contesto dato, sono intuitive: a) occorre predisporre progetti produttivi di buona spesa, che non si risolvano nel buttare danaro nel fuoco ma che conducano a qualcosa che resti, ossia opere infrastrutturali; b) è necessario un procedimento unico con procedure semplificate regolate direttamente dalle tre direttive dell’U.E. in materia di contratti pubblici (nn. 23, 24 e 25 del 2014), con abrogazione del D.L.vo n. 50/2016; c) occorre utilizzare adeguate risorse umane, ricorrendo anche a risorse esterne; d) occorre abrogare l’art. 323 c.p. ed altresì l’art. 21 D.L. n. 76/2020, dovendo gli operatori rispondere -a titolo di responsabilità amministrativa quantomeno per dolo o colpa grave. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà La complessa attività legislativa dell’Esecutivo: ruolo e funzioni del DAGL Luca Soldini* Sommario: 1. Premessa -2. il Governo come “esecutore”: declino di una lettura tradizionale -3. Le strutture della Presidenza del Consiglio dei ministri: ruolo, funzioni e fonti normative del DaGL -3.1. L’iter legislativo endogovernativo -4. Conclusioni: verso una razionalizzazione del DaGL. 1. Premessa. Molto è stato scritto sul procedimento legislativo parlamentare. Certamente, la relativa funzione ha rappresentato (e rappresenta tutt’ora) un utile metro di paragone per saggiare, per così dire, la funzionalità dei Parlamenti contemporanei. È altrettanto vero, peraltro, che poco si è indagato sul procedimento legislativo governativo, nonostante gli Esecutivi (da qualche decennio a questa parte) abbiano oramai assunto il ruolo di propulsori (quasi esclusivi) dell’attività legislativa. Basti pensare, a conferma di quanto detto, che nel corso della XVIII legislatura i disegni di legge di iniziativa parlamentare approvati sono stati 31, a fronte degli 81 di iniziativa governativa (1). Il presente elaborato, senza pretese di esaustività, intende fornire una panoramica proprio sul complesso procedimento relativo alla funzione legislativa governativa, prendendo le mosse dal ruolo svolto dal Dipartimento per gli Affari Giuridici e Legislativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri e, in conclusione, fornendo qualche spunto di riflessione in merito allo status quo del processo di razionalizzazione della disciplina afferente al DAGL. In prima approssimazione, sembrerebbe potersi affermare che lo sviluppo dei rapporti tra Governo e Parlamento, per come in concreto articolatosi, abbia contribuito a rendere più evidente la distanza, secondo una felice classificazione, tra Costituzione formale e Costituzione materiale. 2. il Governo come “esecutore”: declino di una lettura tradizionale. Come anticipato in premessa, da qualche decennio a questa parte si è andata via via rafforzando l’incidenza del Governo nell’ambito della normazione di rango primario (2), tanto da un punto di vista qualitativo quanto sotto un profilo quantitativo. (*) Già praticante forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato (avv. St. Marina Russo), Cultore della materia in Diritto Parlamentare presso l’Università “La Sapienza” di Roma. (1) Si v. le statistiche pubblicate sul sito del Senato: http://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Statistiche/ Leggi//DDLLeggiapprovatePeriniziativa.html. (2) P. DE LUCA, il DaGL nel processo normativo endogovernativo italiano, in http://www.forumcostituzionale. it/wordpress/wp-content/uploads/2017/05/deluca.pdf. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2020 Si assiste, per quanto attiene alle funzioni normative, come da alcuni sottolineato (3), ad un vero e proprio “scollamento tra la riflessione teorica e la prassi”. Sull’inquadramento sistematico della potestà normativa dell’Esecutivo sembrerebbe pesare l’esperienza dell’epoca fascista (4), che sembrerebbe aver indotto il costituente ad agire animato dalla c.d. “paura del tiranno”. Il “prodotto” di questa impostazione di fondo parrebbe potersi rinvenire, ad esempio, nel disposto dell’art. 70 della Costituzione, il quale -al fine di cristallizzare in maniera inequivoca il principio di separazione dei poteri -stabilisce che la funzione legislativa è esercitata “collettivamente” dalle due Camere (5). Non è sfuggita a numerosi autori la valenza “esclusiva” (6), per così dire, della disposizione appena richiamata, la quale sembrerebbe escludere che qualsivoglia organo costituzionale diverso dal Parlamento possa essere legittimato ad adottare norme di rango legislativo. In questo stesso senso, gli artt. 76 e 77 avrebbero carattere “derogatorio ed eccezionale”, e manifesterebbero la “diffidenza” del Costituente nei confronti del potere di normazione primaria da parte dell’Esecutivo (7). Quanto sin qui affermato induce a rivedere criticamente il principio di separazione dei poteri. Accogliendo una lettura tradizionale del medesimo -e confrontandola con la concreta articolazione dei rapporti tra Governo e Parlamento -si dovrebbe (ma non è nell’intenzione di chi scrive) concludere nel senso di una vera e propria “invasione di campo” da parte del primo (8). Tuttavia, anche se l’immagine di un Governo come mero esecutore della legge sembrerebbe aver esercitato una profonda suggestione “sia sul Costituente, sia su gran parte della dottrina giuspubblicistica”, la stessa sarebbe effettivamente un “mito” (9). Tale ultimo rilievo troverebbe conferma nella circostanza che la (3) M. CARTABIA, Legislazione e funzione di governo, in riv. Dir. Cost., 2006, pp. 50-95, spec. p. 52. (4) In questo senso si v. M. CARTABIA, op. cit., p. 52. (5) In questo senso si v. L. CARLASSARE, regolamenti dell’esecutivo e principio di legalità, Cedam, Padova, 1966, p. 129. (6) In questo senso si v. M. CARTABIA, op. cit., p. 54. (7) Si v. G. zAGREBELSKy, manuale di diritto costituzionale, Vol. I, il sistema delle fonti del diritto, UTET, Torino, 1992, pp. 161 e 174. In tal senso, sarebbe altresì indicativa del fenomeno illustrato la circostanza che l’art. 113 Cost. subordini rigidamente gli atti regolamentari al rispetto della legge. Si rammenti, d’altro canto, il vivace dibattito che ha sollevato in dottrina l’introduzione dell’art. 17 della legge 23 agosto 1988 n. 400 in materia di regolamenti indipendenti, diretti ad operare in ambiti non coperti dalla legge. Basti ricordare i contributi di L. CARLASSARE, il ruolo del Parlamento e la nuova disciplina del potere regolamentare, in Quad. cost. 1990, pp. 7 e ss. e E. ChELI, ruolo dell’esecutivo e sviluppi recenti del potere regolamentare, in Quad. cost., 1990, 5, pp. 3 e ss. (8) Per una descrizione completa del principio di separazione dei poteri si v. G. BOGNETTI, La divisione dei poteri, Giuffrè, Milano, 1994, pp. 25 e ss. (9) Virgolettati e concetti sono tratti da M. CARTABIA, op. cit., p. 60. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà prassi sembrerebbe essersi progressivamente allontanata dal testo della c.d. Costituzione formale, incrementando i poteri normativi del Governo (10) e destando non poche voci critiche da parte della dottrina, in specie per quanto concerne le forme di produzione normativa del Governo di cui alla l. n. 400 del 1988 (11). Questa diversa collocazione del Governo nell’ordinamento costituzionale italiano ha indotto parte della dottrina -anche politologica -a valorizzarne vieppiù il ruolo ponendo l’accento sulla natura programmatica dell’indirizzo politico (12), che si attuerebbe nel momento di elaborazione del programma e troverebbe la propria attuazione “attraverso lo svolgimento della politica generale” (13). Sempre più diffuse sono le posizioni finalizzate ad inquadrare il Governo come titolare di una “funzione di governo” di “matrice spiccatamente politica” (14). Pertanto, il rafforzamento del ruolo -e della posizione -del Governo troverebbe una prima conferma negli elementi di prassi. Tuttavia, parrebbero potersi individuare ulteriori circostanze che inducano a concludere nel senso qui prospettato. in primis, la crescita esponenziale dello stato amministrativo ha indotto il legislatore a sollevare sempre più il Governo dalle funzioni strettamente e spiccatamente amministrative, risultando impossibile per il singolo ministro essere effettivamente a conoscenza di quanto accadeva all’interno dei propri dicasteri (15). In seconda battuta, anche la proliferazione di Autorità svincolate dalle amministrazioni ministeriali sembrerebbe muovere in questa direzione, pur dovendosi evidenziare non poche perplessità per quanto attiene al rigoroso rispetto dell’art. 95 Cost. (16). Incidentalmente, sembrerebbe essere opportuno altresì sottolineare il collegamento che intercorre tra sistema delle fonti -e relativa concreta articolazione -e forma di Governo (17), la quale ultima definisce “il modo in cui il (10) C. MORTATI, atti con forza di Legge e sindacato di costituzionalità, Giuffrè, Milano, 1961, pp. 41 e ss. e E. ChELI, L’ampliamento dei poteri normativi dell’esecutivo nei principali ordinamenti occidentali, in riv. trim. dir. pubbl., 1959, pp. 463 e ss. (11) Tale discrasia è stata, in materia di potere regolamentare del Governo, egregiamente descritta come uno “stridente contrasto tra una realtà effettuale in forte espansione ed una impalcatura concettuale ormai insufficiente a contenere e spiegare i profili essenziali di questa realtà” in E. ChELI, Potere regolamentare e struttura costituzionale, Giuffrè, Milano, p. 3. (12) G. BURDEAU, Traitè de Science Politique, 1950, p. 412. (13) M. CARTABIA, op. cit., p. 71. (14) Virgolettati tratti da M. CARTABIA, op. cit., p. 78. Per il contenuto si v. altresì G. BOGNETTI, Governo, in Enc. Scienze soc. Treccani, Vol. IV, Roma, 1994, pp. 405 e ss. e P.A. CAPOTOSTI, Governo, in Enc. Giur. it., Vol. XV, Roma, 1989, ad vocem, spec. pp. 1 e 12. (15) Si v. espressamente in tal senso G. AMATO, Nuove tendenze nella formazione degli atti governativi di indirizzo, in riv. trim. dir. pubbl., 1970, pp. 92 e ss., spec. p. 148. (16) G. MORBIDELLI, Sul regime amministrativo delle autorità indipendenti, in Le autorità indipendenti nei sistemi istituzionali ed economici, A. PREDIERI (a cura di), Passigli, Firenze, 1997, pp. 145 e ss. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2020 potere supremo è distribuito fra gli organi dello Stato apparato” (18). Orbene, questo nesso pone in evidenza la circostanza che ad uno rafforzamento del ruolo dell’Esecutivo, in punto di forma di Governo, corrisponda una tendenziale diversa allocazione del “centro di produzione normativa” (19). Il fenomeno da ultimo richiamato trova una conferma -seppure parziale e certamente non esaustiva -nei dati quantitativi richiamati supra (20), che dimostrano una certa preminenza nell’esercizio della funzione legislativa dell’Esecutivo e, conseguentemente, un deciso rafforzamento del ruolo dello stesso nella concreta architettura istituzionale italiana. In conclusione, è d’uopo sottolineare che ad un tale rafforzamento si debba necessariamente accompagnare la configurazione di una struttura di supporto di notevole solidità. 3. Le strutture della Presidenza del Consiglio dei ministri: ruolo, funzioni e fonti normative del DaGL. Dalla breve rassegna di cui supra si è potuto concludere nel senso di un rafforzamento del ruolo dell’Esecutivo sotto numerosi punti di vista (21). A ciò, come appare evidente, si è accompagnato altresì un rafforzamento del ruolo, delle funzioni e, dunque, delle strutture, della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Preliminarmente, si tenga presente che l’art. 95 della Costituzione attribuisce al Presidente del Consiglio il compito di dirigere “la politica generale del Governo” -della quale è responsabile -nonché di mantenere “l'unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l'attività dei ministri”. È d’uopo, prima di passare ad una analisi più puntuale dell’attività svolta dal Presidente del Consiglio e dalla struttura a supporto dello stesso preposta, rammentare che l’Assemblea Costituente sembrerebbe aver delineato un vertice dell’Esecutivo non già quale vero e proprio “Capo”, quanto più alla stregua di un Primus inter pares. La complessità delle attribuzioni governative si rispecchia nella parimenti complessa articolazione delle strutture interne della Presidenza. In prima approssimazione è possibile affermare che la Presidenza del Consiglio dei mini (17) Si v. B. CARAVITA e M. LUCIANI, La ridefinizione del sistema delle fonti: note e materiali, in Pol. dir., 1986, pp. 263 e ss. (18) F. MODUGNO, Diritto pubblico, p. 63; L. ELIA, Governo (forme di), voce, in Enciclopedia del diritto, Vol. XIX, Milano, pp. 747 e ss.; C. MORTATI, Le forme di Governo, Padova; L. ELIA, L’evoluzione della forma di Governo, in Studi in onore di Gianni Ferrara, Torino, 2005. (19) Per un’analisi più completa del fenomeno richiamato si v. M. CARTABIA, op. cit., p. 81. (20) Si v. Premessa e, maggiormente e per una trattazione più esaustiva, N. LUPO, il ruolo normativo del Governo, in il Filangieri, Napoli, 2010, pp. 81-134. (21) Per una disamina dell’accrescimento della normazione di rango primario del Governo si v., oltre ai contributi già segnalati, altresì P. DE LUCA, il DaGL nel processo normativo endogovernativo italiano, in Forum di Quaderni costituzionali, pp. 1 e ss. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà stri rappresenta la struttura posta a supporto del Presidente del Consiglio per l'esercizio delle funzioni di impulso, indirizzo e coordinamento attribuitegli dalla Costituzione (22). In realtà, come meglio si dirà infra, la Presidenza è ben più di una semplice struttura amministrativo-burocratica e rappresenta, per certi versi, centro nevralgico e crocevia obbligato per l’esercizio della funzione normativa del Governo. Innanzitutto, può darsi una prima partizione interna delle strutture afferenti alla Presidenza: da un lato, i Dipartimenti che svolgono funzioni nell’amministrazione attiva e, dall’altro i Dipartimenti che, invece, svolgono funzioni di diretta collaborazione con i Ministri senza portafoglio -quali, ad esempio, il Dipartimento per le Politiche Comunitarie ovvero per i Rapporti con il Parlamento (23). Giova altresì rammentare il ruolo essenziale svolto dal Segretario Generale (24). Accanto a tali strutture spicca, per funzioni e rilevanza, il Dipartimento per gli Affari Giuridici e Legislativi (di seguito anche solo “DAGL”). Quest’ultimo, lungi dal potersi qualificare come pura e semplice struttura burocratica di supporto, rappresenta, come è stato correttamente sottolineato (25), “lo strumento” attraverso il quale il Presidente del Consiglio esercita le proprie funzioni costituzionali. È d’uopo, pertanto, analizzare brevemente la normativa di riferimento. Il terzo comma dell’art. 95 Cost. contiene una riserva di legge in merito alla disciplina dell’ordinamento della Presidenza del Consiglio. Siffatta riserva ha trovato attuazione con l’emanazione della legge 23 agosto 1988 n. 400, rubricata “Disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri”. L’art. 23, nella formulazione originaria, prevedeva la costituzione di un Ufficio Centrale per il Coordinamento dell’iniziativa legislativa e dell’attività normativa del Governo: un antesignano del DAGL. A tale Ufficio venne attribuito il compito di curare tutti gli adempimenti relativi alla predisposizione degli “atti necessari alla formulazione e al coordinamento delle iniziative legislative” (26). Incidentalmente, al fine di meglio inquadrare il contesto nel quale la Presidenza -e, in generale, l’Esecutivo -si trova ad operare, occorre tenere presente che negli ultimi anni si è andato rafforzando il fenomeno della c.d. “fuga dalla legge” (27), e la consequenziale acquisi (22) C. zUCChELLI, il coordinamento normativo del Governo: il DaGL della Presidenza del Consiglio, in associazione Studi e ricerche parlamentari, Quaderno 14, Torino, 2004, p. 199. (23) C. zUCChELLI, op. cit., p. 199. (24) Si v. per una panoramica completa e schematica delle strutture interne alla Presidenza del Consiglio dei ministri il sito web della medesima: http://www.governo.it/it/organizzazione/uffici-dipartimenti- strutture/69#Dipartimenti. (25) C. zUCChELLI, op. cit., p. 201. (26) C. zUCChELLI, op. cit., p. 201. (27) Si v., ad esempio, R. zACCARIA, Fuga dalla legge?, Brescia, 2011 e P. DE LUCA, op. cit., p. 3. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2020 zione di importanza dei provvedimenti normativi di rango secondario, ciò avendo comportato un significativo rafforzamento del ruolo e delle funzioni del DAGL, nell’ambito della funzione legislativo-regolamentare svolta dal Governo. La legge n. 400 del 1988 ebbe il merito, come correttamente osservato da alcuni, di trasformare quel “grosso, mastodontico gabinetto” (28) in una organizzazione funzionale al sostegno del Presidente del Consiglio nell’adempimento del suo ruolo costituzionale. Con legge 15 marzo 1997, n. 59, il Parlamento attribuì al Governo una delega per l’emanazione di un decreto per la riforma della Presidenza del Consiglio dei ministri, specificandone i princìpi all’art. 12 (29). In attuazione della delega parlamentare, il Governo ha adottato due decreti legislativi -i nn. 300 e 303 del 1999 -con i quali si è proceduto ad una ulteriore razionalizzazione e ripartizione delle funzioni burocratiche, per così dire, interne alla Presidenza del Consiglio. È stato con l’art. 6 del D.lgs n. 303 del 1999 che il legislatore delegato ha dato vita al DAGL, il quale è divenuto assegnatario delle funzioni precedentemente di competenza dell’Ufficio centrale per il coordinamento dell’iniziativa legislativa e dell’attività normativa del Governo (30). Nell’ambito delle fonti che disciplinano il DAGL -stratificatesi nel corso dei decenni -una notevole rilevanza è altresì rivestita dai Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, l’ultimo dei quali, del 15 dicembre 2017, ha modificato il precedente dell’1 ottobre 2012, nonché dal regolamento interno del Consiglio dei Ministri del 10 novembre del 1993. 3.1. L’iter legislativo endogovernativo. Ad una struttura complessa ed articolata quale quella che si è sinteticamente supra descritta fa da pendant un procedimento altrettanto complesso. in primis, l’art. 3 del regolamento interno stabilisce che “il ministro che intende proporre l’iscrizione di un provvedimento o questione all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri, ne fa richiesta al Presidente del Consiglio allegando lo schema relativo, con la necessaria documentazione”, la quale ultima si estrinseca in: relazione illustrativa -ossia un documento che accompagna il provvedimento, esplicandone presupposti, rationes, finalità e analiz (28) Virgolettato ripreso da A. PAjINO, La Presidenza del Consiglio dei ministri dal vecchio al nuovo ordinamento, in A. PAjINO e L. TORChIA (a cura di), La riforma del Governo. Commento ai decreti legislativi n. 300 e 303 del 1999 sulla riorganizzazione della Presidenza del Consiglio dei ministri, Bologna, p. 199; P. DE LUCA, op. cit., p. 8. (29) Tra questi giova segnalare, come indicato in C. zUCChELLI, op. cit., p. 202, che il decreto delegato avrebbe dovuto: assicurare il collegamento funzionale ed operativo con le amministrazioni interessate nonché potenziare le autonome funzioni di impulso, indirizzo e coordinamento del Presidente del Consiglio dei Ministri, eliminando e riallocando funzioni di carattere eminentemente amministrative. (30) Tale ultimo organo fu, infatti, abrogato dall’art. 12, co. 4, lett e) del d.P.C.M. del 10 marzo 1994. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà zandolo articolo per articolo; relazione tecnica -nella quale si analizzano i costi del provvedimento, in ossequio al disposto dell’art. 81 Cost.; la relazione Air - ossia il documento concernente l’Analisi di Impatto della Regolazione. Il medesimo art. 3, inoltre, prevedrebbe l’acquisizione preventiva di tutti i concerti da parte delle Amministrazioni coinvolte. Non è raro, in un ordinamento caratterizzato da un forte pluralismo amministrativo, che un provvedimento incida su interessi pubblici diversi e tra di loro confliggenti. Ebbene, nonostante tale previsione si è attestata una prassi secondo la quale il concerto delle diverse Amministrazioni coinvolte venga acquisito durante l’iter istruttorio in seno al DAGL e che, pertanto, sia quest’ultimo a dover coordinare “lo scontro di interessi che è connaturato alla presentazione di ogni provvedimento” (31). Conclusa la fase della iniziativa segue una fase di vera e propria istruttoria, che principia dalla c.d. “diramazione” del provvedimento, che rappresenta l’atto attraverso il quale le bozze -rectius, schemi -degli adottandi provvedimenti vengono trasmessi a tutte le amministrazioni, al fine di essere iscritti all’ordine del giorno della riunione preparatoria al Consiglio dei ministri -comunemente definita pre-Consiglio. In proposito, l’art. 4 del regolamento interno sopracitato stabilisce che “gli schemi dei provvedimenti, dopo la loro diramazione, nonché eventuali documenti relativi ad altre questioni di competenza del Consiglio dei ministri, sono esaminati in una riunione preparatoria tenuta presso la sede della Presidenza del Consiglio, almeno due giorni prima della riunione del Consiglio, al fine di pervenire alla loro redazione definitiva”. Il passaggio in pre-Consiglio rappresenta un momento centrale dell’iter. In primo luogo, poiché l’art. 4 cit., al co. 2, stabilisce che nessun provvedimento ovvero questione possa essere inserita all’ordine del giorno del Consiglio dei Ministri se prima non è passato al vaglio del pre-Consiglio. Durante tale riunione, difatti, le Amministrazioni condividono dubbi e rilievi tecnici, superati il DAGL propone al Presidente del Consiglio di iscrivere il provvedimento all’ordine del giorno del Consiglio dei Ministri. Può accadere -e, nella prassi, accade non di rado -che nei giorni che separano il pre-Consiglio dal Consiglio dei Ministri vero e proprio il DAGL indica una serie di riunioni al fine di sciogliere i nodi di natura tecnica che ancora insistono sul provvedimento. Una volta approdato in Consiglio dei Ministri, il provvedimento viene deliberato. Tuttavia, anche in questo particolare momento, in via di prassi si è introdotta l’approvazione c.d. “salvo intese”, nel senso che su di un eventuale (31) C. zUCChELLI, op. cit., p. 205. In tal senso, si ritiene opportuno sottolineare altresì che, alla luce di quanto riferito, il DAGL è ben più di una semplice struttura burocratica di “assistenza” ad un organo politico. Nell’ambito dell’iter legislativo endogovernativo, difatti -con specifico riferimento al ruolo di “mediatore” tra interessi contrapposti -il Dipartimento in esame rappresenta propriamente una esplicazione dei poteri di coordinamento del Presidente del Consiglio dei ministri. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2020 problema -sia esso di carattere tecnico ovvero politico -il Consiglio dei Ministri ha raggiunto una intesa di massima, la quale peraltro necessita di una attuazione tecnica, demandata al DAGL. In altri termini, ove si pervenga ad una intesa di carattere politico spetta poi al DAGL tradurre tale indirizzo in una norma. Con l’approvazione del provvedimento in seno al Consiglio dei Ministri -e sua eventuale “correzione” tecnica da parte del DAGL -il procedimento legislativo endogovernativo si avvia a conclusione. Giova, peraltro, rammentare che il procedimento, nel suo complesso, è appena iniziato, poiché dopo il passaggio governativo il provvedimento dovrà essere sottoposto, ove previsto, al Parlamento. 4. Conclusioni: verso una razionalizzazione del DaGL. È del tutto evidente che tirare definitivamente le fila di un processo risalente e tuttavia in pieno svolgimento, come è quello del progressivo rafforzamento del Governo, del Presidente del Consiglio dei Ministri e, conseguentemente, delle strutture al supporto dello stesso -in ambito legislativo, per quanto qui d’interesse - sia complicato. Epperò, può essere utile fornire qualche spunto di riflessione in merito a possibili futuri interventi. Come ampiamente dimostrato supra e da altri sostenuto (32) da un lato il DAGL rappresenta una struttura essenziale, centrale ed indefettibile dell’iter legislativo endogovernativo. Eppure, ad una simile centralità si accompagna una rilevante disomogeneità e, per certi versi, inefficacia della disciplina allo stesso afferente. Gli sviluppi sociali ed economici divampati dagli anni ’80 del secolo scorso hanno oltremodo caricato gli Esecutivi della necessità di procedere speditamente. Il Governo deve occuparsi di moltissime questioni e, al contempo, stare al passo con una società che va sempre più veloce. Parrebbe potersi altresì accennare al fatto che il DAGL, in qualità di catalizzatore degli impulsi normativi atti ad attuare il programma di Governo, stia contribuendo a quel processo di razionalizzazione de facto della forma di Governo parlamentare, perseguito in via di prassi a Costituzione vigente. In quest’ottica, sembrerebbe doversi condividere l’opinione di chi ha auspicato un intervento sulla disciplina concernente funzioni, attribuzioni e qualificazione del DAGL (33) come organo che si pone a cavallo “tra il momento di impulso dell’attività normativa” e “quello di coordinamento della funzione di attuazione dell’attività stessa” (34). (32) P. DE LUCA, op. cit., p. 14. (33) P. DE LUCA, op. cit., p. 14. (34) P. DE LUCA, op. cit., p. 15. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà Un simile intervento, difatti, andrebbe nella direzione di valorizzare l’essenziale ruolo di filtro svolto dal DAGL, onde evitare che “la lunghezza della denominazione dell’Ufficio (continui ad essere, ndr) direttamente proporzionale alla sua inefficacia” (35). Si intende, nondimeno, concludere questo breve approfondimento sottolineando -ancora una volta -che un ripensamento, profondo, del ruolo, delle funzioni e delle attribuzioni del DAGL sembrerebbe potersi -o, meglio, doversi -inserire in un progetto riformatore più ampio, che persegua oculatamente l’obiettivo di razionalizzazione della forma di Governo che, per certi versi (36), già i Costituenti auspicavano. Bibliografia e sitografia AMATO G., Nuove tendenze nella formazione degli atti governativi di indirizzo, in riv. trim. dir. pubbl., 1970; BOGNETTI G., Governo, in Enc. Scienze soc. Treccani, Vol. IV, Roma, 1994, pp. 405 e ss.; BONETTI P., il coordinamento della progettazione degli atti normativi del Governo: problemi e prospettive, in astrid online (http://www.astridonline.it/static/upload/protected/05_a/05_astridrassegna_ Qr_Bonetti_0709.pdf); BURDEAU G., Traitè de Science Politique, 1950; CAPOTOSTI P.A., Governo, in Enc. Giur. it., Vol. XV, Roma, 1989, ad vocem; CARAVITA B. e LUCIANI M., La ridefinizione del sistema delle fonti: note e materiali, in Pol. dir., 1986; CARTABIA M., Legislazione e funzione di governo, in riv. Dir. 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(36) Si prenda in considerazione il ben noto Ordine del giorno “Perassi”, nel quale si affermava che “La seconda sottocommissione [...], ritenuto che né il tipo del governo presidenziale né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l'adozione del sistema parlamentare, da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell'azione di governo e ad evitare degenerazioni del parlamentarismo”. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2020 ELIA L., L’evoluzione della forma di Governo, in Studi in onore di Gianni Ferrara, Torino, 2005; LUPO N., Corso di diritto parlamentare, Bologna, 2018; LUPO N., il ruolo normativo del Governo, in il Filangieri, Napoli, 2010, pp. 81-134; MODUGNO F., Diritto pubblico, Giappichelli Editore, Torino; MORBIDELLI G., Sul regime amministrativo delle autorità indipendenti, in Le autorità indipendenti nei sistemi istituzionali ed economici, in A. PREDIERI (a cura di), Passigli, Firenze, 1997, pp. 145 e ss.; MORTATI C., atti con forza di Legge e sindacato di costituzionalità, Giuffrè, Milano, 1961, p. 41 e ss.; MORTATI C., Le forme di Governo, Padova; PAjINO A., La Presidenza del Consiglio dei ministri dal vecchio al nuovo ordinamento, in A. PAjINO A. e TORChIA L. (a cura di), La riforma del Governo. 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L’uomo e la macchina Gaetana Natale* If this, thant that: con questa semplice espressione, che sta ad indicare il concetto di algoritmo, ossia una sequenza di passaggi elementari in un tempo finito, si racchiude il futuro della tecnologia e del destino dell’uomo. Nella complessità che caratterizza il nostro tempo, il giurista, spinto da una visione essenzialmente antropocentrica, dovrà svolgere una funzione “ordinante” che ponga l’algoritmo non in sostituzione dell’essere umano, bensì al suo servizio. Come, però, potrà svolgere tale funzione, con quali strumenti normativi ed interpretativi, con quali categorie giuridiche, con quali processi di modellizzazione concettuale idonei a cogliere, gestire e regolare la complessità? Il limite di Prometeo invocato dalla cultura greca oggi evidenzia il rischio di una tecnologia che compie un processo di mimesi e di superamento della razionalità umana. Questo, perché l’algoritmo oggi non costituisce più un “mere tool”, ossia mero elemento di trasmissione della volontà umana, ma un coelemento essenziale ed imprescindibile di formazione della volontà stessa che incide sul processo di autodeterminazione dell’individuo. Le neuroscienze aprono scenari inimmaginabili nel binomio “coscienza e identità”: cogito ergo sum, secondo Cartesio, l’uomo è il pensiero, ma il pensiero è il correlato neuronale della coscienza umana, quella co (*) Avvocato dello Stato, Professore a contratto presso l’Università degli Studi di Salerno, Consigliere giuridico del Garante per la Privacy. Il presente scritto costituisce l'abstract di una monografia dell'Autrice di prossima pubblicazione. rASSeGNA AVVOCATUrA deLLO STATO -N. 4/2020 scienza suitas che nell’antica Grecia consentiva di distinguere l’Ardire dalla Hybris. In fondo, se ci pensiamo bene, Prometeo è colui che vede ed agisce in tempo nella consapevolezza del catéchon, ossia del limite: il limite di ammissibilità etica, giuridica, sociale delle innovazioni tecnologiche. Non tutto ciò che è tecnologicamente possibile, è giuridicamente ed eticamente accettabile e condivisibile. Se Parmenide affermava: “il pensiero è l’essere: è la stessa cosa pensare e pensare ciò che è, perché senza l’essere in ciò che è detto non troverai il pensare”, il profilo della libertà cognitiva come presupposto di autodeterminazione individuale oggi è messa a dura prova dai c.d. neuro-link: gli algoritmi entrano nell’intime sphere e nella predittività dei propri pensieri, delle decisioni e delle scelte individuali. Se l’habeas corpus ha rappresentato la base dello Stato di diritto, l’habeas data la base del diritto di autodeterminazione digitale, l’habeas mentem diventa il fulcro dei c.d. “neuro-diritti” per evitare la deriva neurodeterministica, c.d. “riduzionismo scientifico” e “determinismo tecnologico”. Occorre, dunque, uno statuto giuridico ed etico che coniughi l’innovazione con la dignità umana, intesa sempre come fine, e mai come mezzo, facendo tesoro dell’insegnamento di Kant. Occorre introdurre un concetto di neuroetica, etica della neurotecnologia per proporre un approccio etico alle tecnologie? Langdon Winner affermava che ogni disposizione tecnologica è espressione di potere e L. Mumford parlava di “Technical arragements as forms of order”: oggi il problema che si affaccia all’orizzonte non è solo l’implementazione della tutela dei dati, che costituiscono i new oil, essential facilities della driven data economy, ma anche la tutela della facoltà cognitiva dei cittadini, utenti, consumatori o fruitori dei servizi. Vi è da chiedersi cosa resta della libertà e responsabilità umana? Il dato neuronale con le c.d. tecniche di brain reading nell’interfaccia uomo-computer viene immesso per la prima volta nell’area dei dati digitali, nella c.d. infosfera, ecosistema digitale andando al di là delle applicazioni di neuro-enhansement nel campo bio medico, ponendo il problema della “opacità del machine learning”. Il dato neuronale è un dato differente dagli altri: 1) ha un’importanza ontologica, perché è la sede dei processi vitali, è coscienza, pensiero, memoria; 2) ha un’importanza antropologica nell’autopercezione di sé, dimensione fenomenologica e soggettiva della persona; 3) importanza epistemologica, il dato neuronale è predittivo come il dato genetico; 4) importanza metodologica, i dati neuronali possono essere rimodulati, il brain reading si può trasformare in brain writing. Siamo oltre il test di Turing, criterio per determinare se una macchina sia in grado di esibire un comportamento intelligente. Tale criterio, si ricorderà, fu suggerito da Alan Turing, inventore del computer, nel suo noto articolo CONTrIBUTI dI dOTTrINA “Computing machinery and intelligence”, apparso nel 1950 sulla rivista Mind, ma certamente allora Turing non poteva immaginare gli scenari attuali. “Il futuro non è ciò che progettiamo, ma è kairos, ciò che ci sorprende” diceva San Paolo di Tarso. Stiamo andando verso l’iperumano, il transumano e postumano, il c.d. Ubermensh di cui parlava Nietzsche o verso l’androide antropomorfo di cui parlava Philipp dick? Le scienze contemporanee hanno contribuito a definire l’uomo come un “sé multiplo”, la mente è l’idea del corpo, il corpo è brain feeling, siamo un complesso di mente e corpo: così si esprime Antonio Damasio nel suo scritto “l’errore di Cartesio”. Ma se spostiamo la nostra analisi nell’universo quantistico non possiamo non tener conto di quanto ha affermato Roger Penrose, premio Nobel per la fisica, con riferimento alla c.d. “libertà dell’evento”. In altri termini oggi noi viviamo in un universo quantistico in cui il possibile è la base di comprensione dell’evento, “brain imaging”. Se questo è vero, allora le neurotecnologie possono anche favorire uno sviluppo qualitativo dell’uomo, inteso come complesso unico di mente e corpo, pensieri, emozioni, coscienza critica. È questa la sfida che attende il giurista: a lui l’arduo compito di individuare attraverso un approccio multidisciplinare principi, regole, principles e model-rules capaci di realizzare quello che è stato di recente definito “l’umanesimo digitale”. Sembrerà strano, ma il primo computer è stato un computer a vapore, calcolatore universale risalente alla prima metà dell’800 e la prima programmatrice è stata una donna, ada Lovelance, definita da Charles Babbage “incantatrice dei numeri”. Certo molti anni dovettero trascorrere prima che tim berners- Lee nel 1989 presso i laboratori Cern di Ginevra presentasse il primo sistema di “information management”, chiamato Mesh, il primo website concepito come “a democratic arena” per lo scambio di informazioni al servizio dei cittadini senza royalties o speculazioni. Ma tale idea democratica e gratuita del web è stata oggi vanificata dalle grandi piattaforme Facebook, Google e Amazon che ne hanno monopolizzato l’utilizzo, disponendo di un’enorme quantità di dati, senza precise regole volte ad una loro effettiva responsabilizzazione. Tim Berners-Lee insieme ad altri scienziati sta lavorando oggi ad un progetto chiamato Solid per ridecentrare il web e renderlo di nuovo uno spazio libero. È emblematico che nel 1909 uno scrittore britannico Forster abbia scritto una storia di fantascienza intitolata “The machine stops” in cui l’autore immagina che le persone vivono isolate accanto ad una macchina che provvede a tutti i loro bisogni. Gli umani in tale racconto vivono connessi, pur rimanendo isolati, determinando in loro la paura delle esperienze dirette. Questo è il motivo per cui la tecnologia deve considerarsi “as a tool, not a master”. Ma dal punto di vista giuridico come deve considerarsi il rapporto uomo- macchina? Un grande giurista Gunther teubner ha per primo affrontato il tema rASSeGNA AVVOCATUrA deLLO STATO -N. 4/2020 dell’algoritmo e degli agenti digitali autonomi, ossia di quelli che possono elaborare e prendere decisioni indipendentemente dal produttore e dall’utilizzatore del programma. Secondo tale autore occorre analizzare il rapporto che si instaura tra l’uomo e il software utilizzato, nonché la distribuzione della responsabilità per danni cagionati nella sfera giuridica di coloro i quali hanno fatto affidamento incolpevole sulla dichiarazione dell’agente digitale autonomo, soprattutto se si tiene conto della prevalenza nel sistema della teoria oggettiva della dichiarazione di volontà. L’assistente digitale è diventato sempre meno un semplice nuncius della volontà della persona fisica. e sicuramente non è tale quando è capace di prendere decisioni autonome ed in quanto tale causare danni a terzi. Le categorie che vengono in rilievo sono chiaramente la rappresentanza e il rapporto associativo uomo/macchina. Occorrerà soffermarsi sul nuovo concetto di informazione sempre più alterata non solo dalle c.d. fake news, ma dalla c.d. “information pollution”, ossia dall’inquinamento delle informazioni. Concetto che si declina nei fenomeni di: clickbait, sloppy journalism, misleading headings, biased news e filter bubble. Sono tutti processi che contengono o notizie false o notizie manipolate o informazioni modellate su profilazioni del soggetto che effettua delle ricerche sul web riuscendo a trovare le informazioni sempre più corrispondenti alla propria formazione culturale e ai propri interessi con una selezione subdola di dati che avviene a sua insaputa. Siamo in una dimensione ben lontana dalla parresia, ossia della verità di cui parlavano i greci nel sistema democratico della polis. Luciano Floridi, docente di Filosofia ed etica dell’Informazione a Oxford, nel suo libro “Pensare l’infosfera”, sostiene che viviamo ormai in un mondo virtuale, l’infosfera appunto, in cui tutti siamo degli inforgs, organismi del sostrato informazionale. La postmodernità rifugge sempre più dalle cose per andare verso relazioni con inarrestabile astrazione dal materiale. Siamo passati da una posizione ontologica assoluta modellata su un mondo letto in termini aristotelici (c.d. primato della cosa) e newtoniani (primato nello spazio e nel tempo) a quella epistemologica-relazionale, dominante nell’infosfera, un costruzionismo di ispirazione neo-Kantiana definito come processo di modellizzazione (non copia platonica del modello) che dà forma alla realtà rendendola intelligibile. Se Cartesio affermava “cogito ergo sum”, oggi possiamo dire “videor ergo sum”: la costruzione del sé c.d. Bildung passa attraverso lo strumento digitale, il selfie è il sentirsi, il realizzarsi nello sguardo dell’altro, Leib e Körper, la pietrificazione del sé, di cui parla Sartre in pagine memorabili di “L’essere e il nulla”. Il selfie è l’esposizione del corpo on line che ha come unità di misura i like. Un famoso psichiatra Giovanni Stanghellini parla di “selfie come sentirsi nello sguardo dell’altro, l’altro è l’unica possibilità di essere riconosciuti”. CONTrIBUTI dI dOTTrINA Tutto questo a che prezzo per l’uomo? Il c.d. “effetto Flynn” ci dovrebbe far riflettere: Richard Flynn ha condotto uno studio tra il 1990 e il 2009 dimostrando che il quoziente intellettivo Qi stia cominciando lentamente, ma inesorabilmente a calare. Un calo costante che oggi è diventato un vero e proprio tracollo, se pensiamo alla percentuale di persone afflitte dal c.d. “anafalbetismo funzionale” (sanno leggere, ma non capiscono il senso né sono in grado di rielaborarlo). Le nuove tecnologie digitali specialmente per i più giovani rappresentano un potentissimo e pervasivo elemento di degradazione delle facoltà cognitive, emotiva e relazionale. Perché questo accade, quali sono le ragioni? Il neurobiologo Laurent Alexandre ritiene che la ragione risieda in questa considerazione: “laddove il libro favoriva una concentrazione duratura e creativa, internet incoraggia la rapidità, il campionamento distratto di piccoli frammenti di informazioni provenienti da fonti diverse” (1). Il processo che consiste nell’immagazzinare i dati, creando così la memoria, per poi elaborarli, creando un ordine diverso si chiama “apprendimento”. Il problema è che oggi è l’intelligenza artificiale ad occuparsi del processo di immagazzinamento dei dati, memoria ed elaborazione dei dati, con l’intelligenza umana ridotta a svolgere un ruolo ausiliario e sempre più ininfluente. ecco che allora abbiamo assistito, alla nascita del GPT3, Generative Pretrained Transformer: l’11 giugno 2020 è stata presentata GPT3, un’intelligenza artificiale in grado di scrivere un romanzo nello stile dello scrittore che si preferisce, scrive in pochi istanti il racconto che si preferisce. ricorda il generatore automatico di lettere d’amore che Alan Turing sperimentò nel 1952 a Manchester. GPT3 è la terza versione di un progetto di ricerca di un laboratorio fondato a San Francisco nel 2015, Open AI, che tra i fondatori ha elon Musk e tra i finanziatori Microsoft. Non è trascorso nemmeno un anno e GPT3 non scrive romanzi, ma è già utilizzato da oltre 10.000 sviluppatori ed è presente in oltre 300 applicazioni. rientrano in questo processo le risposte ancora semplici di Alexa e Siri nei nostri smartphone e gli assistenti vocali, i dialoghi non facili con i chatbot quando andiamo sul sito della nostra banca o di una grande azienda che fornisce telefonia, acqua e luce, qui sappiamo di dialogare con un risponditore automatico. Il confine tra umano e artificiale nel GPT3 è meno netto, impercettibile, sarà sempre più difficile distinguere volti, suoni e testi creati da un’intelligenza artificiale da quelli reali. È innegabile la difficoltà di lettura di algoritmi che utilizzano grandi quantità di dati (big data) e, in misura crescente, si caratterizzano per l’impiego di tecnologie basate sull’intelligenza artificiale che non si limitano a seguire fedelmente le istruzioni del programmatore, ma diventano intelligenza sponta (1) L. ALexANdre, “La guerra delle intelligenze, intelligenza artificiale contro intelligenza umana”, edT Torino, 2018. rASSeGNA AVVOCATUrA deLLO STATO -N. 4/2020 neus, autocreativa, autoevolutiva, inventando soluzioni e percorsi inediti, con il risultato che neppure colui che ha fornito le istruzioni alla macchina attraverso l’algoritmo è pienamente in grado di ripercorrere il processo decisionale e offrire una spiegazione comprensibile. Il problema del carattere non neutrale dell’algoritmo e la sua scarsa trasparenza assume un ruolo centrale nel dibattito giuridico recente, da qui il pericolo che la società possa diventare una grande, unica scatola nera, una “black box society” (2). È il c.d. “surveillance capitalism” di cui parla S. Zuboff (3). Sulla base della complessità di tali considerazioni la Commissione europea ha elaborato il Digital Service Act che considerando essenziale “la legalità procedimentale della conservazione dei dati”, il c.d. Digital Due Process, predispone una tutela del cittadino basata su due principi fondamentali: il principio dell’autodeterminazione del singolo e il principio di responsabilizzazione delle piattaforme digitali. Sono questi i binari lungo i quali dovranno essere definite a livello europeo le norme che saranno determinanti per costruire un corretto rapporto uomo-macchina. (2) F. PASQUALe, “The Black Box Society.The secret Algorithms that Control Money and Information”, Cambridge, Ma 2015. (3) S. ZUBOFF, “Big other: surveillance capitalism and the prospects of an information civilization”, Journal of Information Technology (2015) 30, 75-89; Id., “The Age of Surveillance Capitalism.The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power”, London 2019. CONTrIBUTI dI dOTTrINA La disciplina fiscale applicabile in materia di trust e l’imposta indiretta sulle successioni e donazioni: il recente approdo ermeneutico operato dalla giurisprudenza di legittimità Elena Berto* SoMMARIo: 1. Brevi cenni ricostruttivi dell’istituto del Trust -2. Inquadramento della questione giuridica: l’applicazione della disciplina delle imposte indirette sulle successioni e donazioni all’istituto del Trust -3. La posizione ermeneutica dell’Agenzia delle Entrate -4. La posizione della Corte di Cassazione: l’evoluzione dell’orientamento -5. L’attuale approdo ermeneutico dei giuridici di legittimità: l’ordinanza della Corte di Cassazione del 16 febbraio 2021, n. 3986 -6. Il regime fiscale del Trust Auto-dichiarato -7. Prospettive de iure condito: la necessità di un nuovo intervento chiarificatore del legislatore -8. Il cambio di orientamento dell’Agenzia delle Entrate ed il recepimento della decisione della Corte di Cassazione: Risposta all’Istanza di Interpello dell’AE n. 106 del 15/02/2021. 1. Brevi cenni ricostruttivi dell’istituto del Trust. L’istituto del Trust, di derivazione anglosassone, ha trovato ingresso nel- l’ordinamento giuridico italiano con la ratifica della Convenzione dell’Aja (1) (*) Già Praticante forense presso l’Avvocatura dello Stato (avv. Stato Pasquale Pucciariello), avvocato del Foro di roma. (1) Ai sensi dell’articolo 2 della Convenzione dell’Aja, rientrano nella nozione internazionale di Trust:“i rapporti giuridici istituiti da una persona, il costituente, con atto tra vivi o mortis causa”; si tratta, in altri termini, di un negozio giuridico unilaterale, inter vivos o mortis causa, che non si perfeziona con l’incontro delle volontà di due o più soggetti, essendo sufficiente la sola dichiarazione di volontà del disponente che, tra l’altro, non necessita di accettazione da parte dei beneficiari, implicando una segregazione patrimoniale, grazie al meccanismo pubblicitario della trascrizione o degli adempimenti correlati. La Convenzione non sembra potersi applicare a qualsiasi tipo di Trust, bensì soltanto a quei rapporti giuridici che, comunque denominati, appartengano all’area giuridica delimitata dal medesimo strumento di diritto internazionale. La disposizione normativa di cui all’art. 2, in tal senso, chiarisce che la definizione di Trust collocata nel medesimo articolo è stata redatta “per i fini di questa convenzione”. La Comunità degli Interpreti, in modo pacifico, ritiene pertanto che l’art. 2 non rechi in sé la definizione del concetto di “Trust”, limitandosi la stessa a definire il mero campo di applicazione dell’esaminata Convenzione. Per queste ragioni, non si ritiene opportuno attribuire all’art. 2 della Convenzione il merito di aver dettato una definizione generale dell’istituto giuridico del Trust, tenuto anche conto del fatto che si tratta di una norma di diritto privato internazionale, volta a regolare rapporti giuridici che interessino più ordinamenti nazionali. La prova di detto assunto si rinviene nel fatto che esistono tipologie di Trust non rientranti nell’art. 2 (si pensi, ad esempio, al “blind trust”) e, viceversa, esistono istituti giuridici formalmente distinti dal Trust che, di contro, possono farvisi rientrare (è il caso, ad esempio, del “waqf” degli ordinamenti giuridici musulmani). In questo senso, si veda il “Rapporto esplicativo” accluso alla Convenzione, che si può leggere in “Actes et documents de la Quinziè me session”, La Haye, 1985, tome II, pp. 370 ss., pp. 372 ss., spec. al n. 26 e al n. 36. Si veda, inoltre, il “Rapporto finale” accluso alla Convenzione: “Rapporto esplicativo”, n. 36, dove viene chiarito come l’articolo 2 della Convenzione può sembrare una definizione del Trust, eppure esso indica le caratteristiche che un istituto deve possedere per rientrare nel campo di applicazione della Convenzione. A tal riguardo, giova richiamare il testo originale: "l'article 2 veut simplement indiquer les caractéristiques que doit présenter une institution rASSeGNA AVVOCATUrA deLLO STATO -N. 4/2020 del 1985, ad opera della Legge n. 364 del 1989, entrata in vigore il 1992. detto istituto si sostanzia in un rapporto giuridico fiduciario, mediante il quale un soggetto definito “disponente”o “settlor” -con un negozio unilaterale, inter vivos o mortis causa, cui generalmente seguono uno o più atti dispositivi -trasferisce ad un altro soggetto, definito “trustee”, beni di qualsiasi natura, affinché quest’ultimo li gestisca e li amministri, coerentemente con quanto previsto dall’atto istitutivo del Trust, per il raggiungimento delle finalità individuate dal disponente medesimo, nell’interesse e a vantaggio del destinatario finale: il c.d. “beneficiary”. Sovente, nella prassi contemporanea e, soprattutto, nel mondo anglosassone, il “trustee” viene affiancato da un “protector”; locuzione questa che, in italiano, sembra potersi tradurre con il termine “guardiano”. Nello specifico, si tratta di un soggetto, necessariamente distinto dal “trustee”, il cui consenso è richiesto per il valido compimento di un atto dispositivo ad opera di quest’ultimo. A detto soggetto, pertanto, è rimesso il controllo sul potere gestorio del trustee, anche in via preventiva, prestando ovvero negando il proprio consenso al compimento di determinati e specifici atti negoziali. Ne consegue che, da una parte, al trustee è affidato il compito di controllare e gestire i beni del trust, nell’interesse del beneficiary; dall’altra, tuttavia, il beneficiary, il settlor ed il protector hanno la capacità di controllare e vigilare sull’operato del trustee. Accanto a questi poteri di controllo (2), esistono poi delle fattispecie legali cc.dd. di “legittima influenza” sulle determinazioni del trustee, mediante le cc.dd. “Letter of Wishes”o “Wish Letters”, molto diffuse in alcuni ordinamenti stranieri, con le quali il settlor e il beneficiary esprimono le proprie volontà al trustee, affinché egli ne tenga conto nell’esercizio dei propri poteri di gestione del patrimonio devoluto in Trust. Questo strumento giuridico di “influenza” trova una sua definizione normativa nella Legge di Guernsey (“Trust Guernsey Law”, 2007, “sect. 38”): “A Letter of Wishes is a letter or other document intimating how the settlor or beneficiary wishes the trustees to exercise any of their functions”. Quanto alla sua struttura, nel Trust (3) si ravvisa: (i) un atto istitutivo, vale a dire l’atto con il quale il disponente esprime la volontà di costituire un Trust, (ii) un atto dispositivo che, invece, è l’atto con il quale il disponente trasferisce, a titolo gratuito, i beni del trust al trustee e, infine, (iii) un atto di ri-trasferimento della titolarità dei beni del Trust dal trustee al beneficiary. qu'il s'agisse d'un trust d'un pays de common law ou d'une institution analogue d'un autre pays -pour tomber sous le coup de la Convention". In generale, per una più approfondita disamina, si veda: M. LUPOI, Istituzioni del diritto dei trust negli ordinamenti di origine e in Italia, Padova, 2020, cap. III. (2) Per una completa trattazione della figura del “protector”, si veda P. PANICO, International Trust Laws, Oxford University Press, 2017, pp. 523-569. (3) M. LUPOI, Istituzioni del diritto dei trust negli ordinamenti di origine e in Italia, Padova, 2020, cap. III. CONTrIBUTI dI dOTTrINA Appare evidente la circostanza per cui -per ciò che concerne l’ordinamento italiano -la mancanza di una disciplina interna ad hoc abbia imposto alla Comunità degli Interpreti (4) di ricorrere a figure negoziali affini, anche se non sempre pienamente sovrapponibili, al fine di individuare la struttura tipica dei cc.dd. “trust interni”, costituiti su beni interamente ricompresi nel territorio nazionale. Il “minimo comune denominatore” tra le diverse figure ipotizzabili di “Trust interno” potrebbe essere desunto dall’insieme dei seguenti fattori: (i) una causa concreta c.d. “mista”, nascente dalla combinazione dello scopo di destinazione con quello, precipuamente strumentale, di “segregazione patrimoniale”; (ii) l’attuazione ed esecuzione del vincolo di destinazione per mezzo di una intestazione meramente formale dei beni al trustee, avente lo scopo di attribuirgli poteri gestori per amministrare il Trust; (iii) l’individuazione, in capo al beneficiario, di una posizione giuridica soggettiva, che non è di diritto soggettivo perfetto, bensì di aspettativa legalmente qualificata e rilevante a una gestione del “Trust-fund” conforme alla realizzazione dello scopo della destinazione patrimoniale. L’elemento indefettibile, che deve essere presente in ogni tipo di Trust e, in particolare, che deve animare ogni fase dell’operazione complessiva, è costituito dall’effetto segregativo, in forza del quale i beni conferiti in Trust non entrano nel patrimonio del trustee, se non per la realizzazione dello scopo indicato dal settlor e con l’unico e precipuo fine di restare separati dai suoi beni personali; detto effetto si determina attraverso l’intestazione formale dei beni al trustee e l’attribuzione al medesimo di poteri gestori finalizzati alla realizzazione dello scopo, mentre al beneficiary è attribuita, come detto, una mera “aspettativa di diritto”, suscettibile di trasformarsi in un vero e proprio diritto di credito, al verificarsi delle condizioni stabilite dal settlor, nel programma originario. Per ciò che concerne invece la causa negoziale, va rilevato che il Trust può rispondere a finalità anche molto eterogenee tra loro. Anzitutto, può ravvisarsi una finalità di garanzia. Altre funzioni che il Trust può svolgere sono: (4) Ciò posto, va rilevato che la peculiarità dell’istituto del Trust risiede nello “sdoppiamento del concetto di proprietà”, tipico dei paesi di Common Law. La “prima forma di proprietà” è quella c.d. legale, vale a dire la proprietà dei beni attribuiti al Trust, la quale spetta al trustee. essa, in sostanza, risulta indirizzata a rendere quest’ultimo unico titolare dei relativi diritti, sia pure nell’interesse dei beneficiari e, in particolare, per il perseguimento dello scopo definito dall’operazione. A questo passaggio formale di beni in proprietà, dal settlor al trustee, tuttavia, non segue un sostanziale trasferimento di ricchezza, giacché i beni restano segregati e, quindi, diventano “estranei” non soltanto al patrimonio del disponente, ma anche a quello personale del trustee che, in definitiva, deve solamente amministrarli e disporne secondo il programma del Trust, nell’interesse del beneficiary. ecco, dunque, che si ravvisa una “seconda forma di proprietà”, non imputabile né al trustee né al settlor, bensì facente capo al beneficiary finale dell’operazione, in forza della quale può parlarsi dei beni devoluti in Trust come di un “patrimonio segregato” e destinato a una specifica funzione. rASSeGNA AVVOCATUrA deLLO STATO -N. 4/2020 (i) quella di liquidazione di un dato patrimonio, ai fini del pagamento di uno o più creditori (c.d. “Trust liquidatorio”); (ii) la realizzazione di un’opera pubblica e/o di solidarietà sociale; (iii) la realizzazione di interessi meritevoli di tutela a favore di persone disabili, pubbliche amministrazioni o altri soggetti, secondo il modello delineato dall’Art. 2645-ter del Codice Civile, con riferimento all’istituto dei cc.dd. “vincoli di destinazione patrimoniale”; e, da ultimo, (iv) la disciplina dei conflitti di interesse, nei rapporti societari di Corporate Governance, grazie alla istituzione di un c.d. “Blind-Trust”. Allo stato, manca una disciplina organica dell’istituto, al punto che può parlarsi del negozio costitutivo di un Trust come di un atto che -ancorché nominato -risulta tuttavia tuttora “atipico”, richiedendo pertanto l’applicazione di norme previste per istituti affini, sul piano strutturale e funzionale. Il legislatore nazionale, come anticipato, si è limitato a disciplinare la trascrizione dei cc.dd. “Atti di Destinazione” con la Legge 30 dicembre 2005, n. 273, in vigore dal 1° marzo 2006, con la quale è stato introdotto, nel Libro Sesto, Titolo I, Capo I, del Codice Civile, il nuovo Articolo 2645-ter (rubricato “Trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche”). La disposizione in esame, dall’ampia e generale vocazione semantica, consente la trascrizione di determinati atti “al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione”, vale a dire di “isolare” i beni oggetto dell’atto di destinazione, sottraendoli alle più svariate vicende che possono verificarsi in capo all’originario disponente, con ciò introducendo una rilevante eccezione all’Articolo 2740 cod. civ., per effetto del quale ciascun soggetto risponde delle proprie obbligazioni “con tutti i propri beni presenti e futuri”. In ambito fiscale, invero, il legislatore è intervenuto, nel corso del tempo, inserendo diverse disposizioni sia in tema di imposte sui redditi, sia in tema di imposizione indiretta sui c.d. “vincoli di destinazione” (di cui si parlerà nei paragrafi successivi). Per quanto riguarda la disciplina dei redditi prodotti dal Trust che svolgano un’attività commerciale, l’analisi dell’art. 73 del TUIr (d.P.r. n. 917 del 1986) risulta essere interessante ai fini della valutazione della soggettività giuridica, da un punto di vista fiscale, dell’istituto de quo. Il comma 2 della richiamata disposizione stabilisce che “nei casi in cui i beneficiari del trust siano individuati, i redditi conseguiti dal trust sono imputati in ogni caso ai beneficiari in proporzione alla quota di partecipazione individuata nell’atto costitutivo del trust o in altri successivi documenti ovvero in loro mancanza in parti uguali”. Si evince pertanto che il beneficiario, per poter divenire centro d’imputazione, sul piano fiscale, dei redditi prodotti attraverso la gestione dei beni devoluti in Trust, deve essere previamente individuato e, soprattutto, deve risultare titolare del diritto di pretendere dal trustee l’assegnazione di quella parte di reddito che gli viene imputata “per trasparenza”. CONTrIBUTI dI dOTTrINA Nell’ipotesi in cui, viceversa, queste condizioni non ricorrano, deve desumersi che i redditi imponibili siano imputabili direttamente al Trust, attraverso una “fictio iuris” che attribuisce -a quest’ultimo -soggettività di diritto e natura di centro di imputazione di situazioni giuridiche ai limitati fini fiscali, senza che questo possa comportare l’acquisto della personalità giuridica (5). Occorre infatti tenere distinti i due concetti giuridici: da un lato, quello della soggettività fiscale (presupposto per l’applicazione dell’IreS) e, dall’altro, la soggettività giuridica civilistica in senso proprio. Come noto (6), la Cassazione ha ribadito, a più riprese, proprio sulla base di tali assunti, l’inesistenza della soggettività giuridica del Trust, riaffermando la netta distinzione tra le due forme di soggettività: quella fiscale e quella civilistica. 2. Inquadramento della questione giuridica: l’applicazione della disciplina delle imposte indirette sulle successioni e donazioni all’istituto del Trust. Con riferimento ai diversi “momenti” rilevanti della “vita” del Trust (e, segnatamente, l’istituzione, la dotazione patrimoniale, i trasferimenti e la devoluzione ai beneficiari), sembrano potersi rinvenire, ai fini dell’applicazione delle imposte indirette, le seguenti considerazioni (7). Nello specifico, per ciò che riguarda l’imposta sulle successioni e sulle donazioni, sembra essersi affermato un orientamento della Corte di Cassazione, ribadito altresì dalla recentissima ordinanza oggetto del presente commento, secondo cui il “conferimento” di beni e diritti in trust, ai fini dell’applicazione dell’imposta indiretta sulle successioni e donazioni, non dà luogo, di per sé, ad un trasferimento di ricchezza imponibile. Invero, a parere dei giudici di legittimità, ai fini dell’applicazione della predetta imposta, occorre avere riguardo non “all’utilità economica” della quale il costituente dispone, per lo più indeterminata, bensì all’effettivo incremento patrimoniale finale del beneficiario. Si è così riaffermata l’idea secondo cui l’imposta in commento richiede un effettivo e definitivo trasferimento di ricchezza da un soggetto a un altro, che sia indice di un’acquisita e maggiore capacità contributiva (8). Conseguentemente, la mera costituzione del Trust, al pari del relativo e conseguente (5) Cass. sez. un. 25767/2015; Cass. n. 16550/2019. (6) detto principio trova conferma nella giurisprudenza di legittimità, secondo la quale il Trust traslativo non costituisce un ente dotato di personalità giuridica; l’effetto proprio del Trust non è quello di dare vita ad un nuovo soggetto di diritto, ma quello di istituire un patrimonio destinato ad un fine prestabilito (Cass. 9 maggio 2014, n. 10105) e, pertanto, deve escludersi che possa ritenersi che esso possa essere considerato titolare di diritti e tanto meno soggetto passivo di imposta (v. Cass. n. 2043/2017; n. 12718/2017). Si tratta, invece, di un insieme di beni e rapporti destinati ad un fine determinato e formalmente intestati al trustee (Cass. civ. sez. I, n. 3456/2015; Cass. civ. sez. V 25478/2015; Cass. civ. sez. II n. 28363/2011). (7) Circolari n. 48/e del 6 agosto 2007 e n. 3/e del 22 gennaio 2008. (8) Cassazione civile, sez. trib., 24/12/2020, sentenza n. 29505. rASSeGNA AVVOCATUrA deLLO STATO -N. 4/2020 atto di dotazione patrimoniale, non determinando un arricchimento definitivo né in capo al beneficiary né tantomeno in capo al trustee, non può assurgere al rango di atto imponibile alla stregua della disciplina tributaria cui si è pocanzi fatto riferimento. La strumentalità dell’atto istitutivo e dell’atto di dotazione del Trust comporta che gli stessi debbano considerarsi atti giuridici caratterizzati da una neutralità fiscale che non permette l’integrazione del presupposto impositivo. La posizione dell’Amministrazione Fiscale, propensa ad applicare le imposte indirette, ivi compresa l’imposta sulle successioni e sulle donazioni, all’atto costitutivo del Trust, o perlomeno al relativo atto di dotazione patrimoniale, è stata contrastata da parte della Corte di Cassazione la quale, di contro, ha voluto dare continuità all’orientamento giuridico di legittimità di recente affermazione (9). Ciò poiché come è ben noto (10), a mente dell’art. 53 Cost., ai fini dell’applicazione delle imposte di successione, donazione, di registro e ipotecarie è necessario che si realizzi un trasferimento effettivo di ricchezza, mediante un’attribuzione patrimoniale stabile e non meramente strumentale. Ne consegue che l’attribuzione patrimoniale imponibile si rinviene soltanto al momento dell’eventuale attribuzione finale del bene al beneficiary. Alla luce di queste primissime considerazioni, è possibile comprendere il principio di diritto recentemente enunciato dalla Corte di Cassazione, la quale ha statuito che l’imposta sulle successioni e donazioni, reintrodotta nell’ordinamento dall’art. 2, comma 47, del d.l. n. 262 del 2006, non è dovuta al momento della costituzione del Trust e, segnatamente, al momento dell’atto istitutivo o della dotazione patrimoniale, giacchè si tratta di atti fiscalmente neutri e meramente attuativi degli scopi di segregazione patrimoniale. detta imposta, pertanto, deve essere applicata solo ex-post, sull’eventuale trasferimento patrimoniale del bene -oggetto del vincolo di destinazione -in capo al beneficiario, giacché solamente questo atto di disposizione patrimoniale costituisce un effettivo indice di ricchezza, meritevole di imposizione fiscale, a mente dell’art. 53 della Costituzione. Per il medesimo principio, l’atto istitutivo (o l’atto di dotazione tra di (9) Già nel 2019, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 19167, aveva escluso la possibilità di applicare l’imposta sulle successioni e donazioni al momento della costituzione di un Trust, ritenendo più opportuno applicare detta imposta al momento del trasferimento dei beni oggetto del vincolo di destinazione al beneficiario. Testualmente, la Cassazione ha chiarito come: “In tema di trust, l’imposta sulle successioni e donazioni, prevista dall’art. 2, comma 47, del d.l. n. 262 del 2006 (conv. con modifiche dalla l. n. 286 del 2006) anche per i vincoli di destinazione, è dovuta non al momento della costituzione dell’atto istitutivo o di dotazione patrimoniale, fiscalmente neutri in quanto meramente attuativi degli scopi di segregazione ed apposizione del vincolo, bensì in seguito all’eventuale trasferimento finale del bene al beneficiario, in quanto solo quest’ultimo costituisce un effettivo indice di ricchezza ai sensi del- l’art. 53 Cost.” (Vedi Cass. 19167 del 2019). (10) Si veda, in tal senso, la sentenza della Corte di Cassazione n. 16699 del 2019. CONTrIBUTI dI dOTTrINA sponente e trustee) è soggetto a tassazione in misura fissa, per quanto attiene a tutte le imposte indirette, di registro, sulle successioni e donazioni, ipotecaria e catastale. Il sopraesposto principio si comprende pienamente anche se si analizza la ratio dell’imposta sulle successioni e donazioni che, come noto, è volta a tassare gli arricchimenti economico-patrimoniali esperiti a titolo di liberalità o, perlomeno, con causa gratuita (11), i quali comportano un arricchimento del beneficiario con contestuale depauperamento del soggetto che pone in essere l’atto dispositivo. dunque (12), il presupposto per l’applicazione dell’imposta de qua è costituito dall’arricchimento patrimoniale attuale e definitivo e, ai fini della sua applicazione in misura proporzionale, occorre necessariamente valutare se, sin dall’istituzione del trust, si sia realizzato un trasferimento definitivo di beni e diritti dal trustee al beneficiary. Una volta inquadrato in questi termini l’orientamento attualmente dominante, giova precisare come la questione controversa non risieda nella scelta della disciplina fiscale applicabile, giacchè l’art. 2 del d.l. n. 262 del 2006 individua, espressamente, tra gli atti soggetti all’imposta sulle successioni e donazioni anche i vincoli di destinazione. Al contrario, risulta essere assolutamente incerto il momento in cui l’applicazione della disciplina fiscale deve avere luogo. L’incertezza applicativa, pertanto, riguarda i differenti momenti negoziali nei quali, il Trust, normalmente, si articola: (i) l’atto istitutivo di beni o diritti, avente una natura non traslativa, bensì meramente preparatoria e programmatica; (ii) l’atto di dotazione, dal quale consegue il momentaneo trasferimento strumentale del bene o del diritto, al trustee, in funzione della realizzazione degli obiettivi prefissati; e, infine, (iii) l’atto di trasferimento finale del bene o del diritto al beneficiario. Invero, è discusso quale tra questi momenti debba essere assoggettato all’imposta sulle successioni e donazioni, ovvero alle altre imposte indirette previste dall’ordinamento. Secondo un primo orientamento (13), l’imposta dovrebbe applicarsi all’atto di costituzione del Trust; diversa( 11) La Corte di Cassazione, con sentenza n. 975 del 2018, ha ribadito la natura gratuita ed il carattere non traslativo del negozio di trasferimento con cui, nell’ambito di un Trust, il disponente conferisce i beni al trustee, al fine di conferirgli la gestione e l’amministrazione patrimoniale degli stessi, in favore del beneficiario. Testualmente, è stato affermato come: “il trasferimento del bene dal “settlor” al “trustee” avviene a titolo gratuito e non determina effetti traslativi, poiché non ne comporta l’attribuzione definitiva allo stesso, che è tenuto solo ad amministrarlo ed a custodirlo, in regime di segregazione patrimoniale, in vista del suo ritrasferimento ai beneficiari del “trust”: detto atto, pertanto, è soggetto a tassazione in misura fissa, sia per quanto attiene all’imposta di registro che alle imposte ipotecaria e catastale”. (12) Si veda, a tal riguardo, la sentenza della Corte di Cassazione n. 31445 del 2018. (13) La Corte di Cassazione civile sez. trib., 30/05/2018, n. 13626, ha statuito che il Trust costitutivo di un vincolo di destinazione che produce un effetto traslativo in favore del trustee è soggetto a rASSeGNA AVVOCATUrA deLLO STATO -N. 4/2020 mente, secondo altra impostazione, il presupposto impositivo richiesto dall’art. 53 della Costituzione, si realizzerebbe solo al momento del definitivo trasferimento dei beni oggetto del Trust in capo al beneficiario dello stesso. Secondo detta impostazione (14), pertanto, l’imposta non potrebbe applicarsi né all’atto della costituzione del Trust né all’atto del conferimento strumentale dei beni al trustee a fini meramente gestori. d’altronde, sulla base di una esegesi letterale del d.l. n. 262 del 2006, art. 2, comma 47, non è certamente possibile trarre il fondamento normativo di un’imposta volta a colpire la costituzione dei vincoli di destinazione, indipendentemente dal fattore traslativo della ricchezza, dal momento che la norma individua solamente l’elencazione dei vari atti che sono assoggettabili all’imposta sulle donazioni e successioni e, segnatamente, (i) i trasferimenti di beni e diritti mortis causa, (ii) i trasferimenti per donazione o a titolo gratuito, (iii) la costituzione di vincoli di destinazione. deve inoltre escludersi che la costituzione del vincolo di destinazione imposta di successione e donazione, tenuto conto del fatto che: “il trust mediante il quale si costituisce un vincolo di destinazione idoneo a produrre un effetto traslativo in favore del trustee, sebbene funzionale al successivo ed eventuale trasferimento della proprietà dei beni vincolati ai soggetti beneficiari, deve essere assoggettato all'imposta sulle successioni e donazioni, facendo emergere la potenziale capacità economica, ex art. 53 Cost., del destinatario del trasferimento”. Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto assoggettato a detta imposta, in luogo di quella di registro, un Trust finalizzato alla liquidazione di beni nell'interesse dei creditori. (14) Nello stesso identico senso, propende anche la Corte di Cassazione, civile sez. trib., del 29/05/2020, con sentenza n. 10256, la quale ha chiarito come non risulta legittimo applicare l'imposta del 4% sulle successioni all'atto istitutivo di un Trust c.d. auto-dichiarato, che preveda lo stesso disponente come beneficiario, giacché “ai fini dell'applicazione delle imposte proporzionali di successione e donazione, di registro ed ipotecaria è necessario un trasferimento effettivo di ricchezza mediante un'attribuzione patrimoniale stabile e non meramente strumentale. Tale condizione non è realizzata dall'atto istitutivo di trust, né da quello di dotazione patrimoniale di esso, ma solo dall'eventuale attribuzione finale al beneficiario. Pertanto, non è legittimo applicare l'imposta sulle successioni e donazioni del 4% all'atto istitutivo di trust che preveda quale beneficiario lo stesso disponente ed in caso di premorienza i suoi figli, in quanto tale atto non è in grado di determinare un arricchimento/trasferimento stabile e reale in capo ad alcuno”. Ancora, secondo la Corte di Cassazione civile sez. VI, 03/03/2020, n. 5766, l'atto di dotazione di un trust liquidatorio sconta le imposte di registro, catastale ed ipotecaria in misura fissa: “dato il carattere meramente strumentale dell'attribuzione al trustee, l'atto di dotazione di un trust liquidatorio sconta le imposte di registro, catastale ed ipotecaria in misura fissa, salvo il caso in cui sin dall'istituzione del trust si sia realizzato un trasferimento definitivo di beni e diritti dal trustee al beneficiario soggetto all'applicazione dell'imposta sulle successioni e donazioni”. La Comm. trib. reg., (Lombardia) sez. xI, 03/01/2019, n. 46, infine, in materia di costituzione o conferimento in un Trust auto-dichiarato, ha affermato che: “in caso di costituzione o conferimento in un trust auto-dichiarato (nel quale cioè coincidono il disponente e il trustee), pur dopo l'entrata in vigore dell'art. 2, comma 47, d.l. n. 262 del 2006, conv., con modificazioni, in l. n. 286 del 2006, deve restare fermo il principio secondo il quale la mera segregazione di beni e diritti conferiti in trust non può realizzare il presupposto impositivo dell'imposta di successione e donazione, che, anche con l'estensione ai vincoli di destinazione, in coerenza con i principi costituzionali di cui all'art. 53 Cost., è rimasto quello dell'arricchimento (gratuito) del patrimonio del beneficiario, sì che l'imposta proporzionale sarà se mai dovuta da detti beneficiari al momento dell'ingresso dei beni nel loro patrimonio”. CONTrIBUTI dI dOTTrINA sulle somme di denaro conferite in Trust produca un effetto traslativo immediato, giacché emerge con evidenza il carattere meramente strumentale del- l’atto di disposizione patrimoniale, volto non a trasferire ricchezza, bensì a garantire il conferimento di un incarico di gestione al trustee, il quale dovrà amministrare i beni in favore del beneficiario, unico soggetto arricchito del- l’operazione tout court considerata. Pertanto, alla luce della funzione svolta dall’atto di disposizione patrimoniale del conferimento, non sembra potersi giustificare la soggezione di tale atto di dotazione all’imposta sulle successioni e donazioni, in misura proporzionale. 3. La posizione ermeneutica dell’Agenzia delle Entrate. L’Agenzia delle entrate, sovente, ha evidenziato che il Trust si sostanzia in un rapporto giuridico complesso, dotato di un’unica causa, avente natura fiduciaria. Tutte le vicende del Trust e, segnatamente, (i) la sua istituzione, (ii) la dotazione patrimoniale, (iii) la sua gestione, (iv) la realizzazione dell’interesse del beneficiario e, da ultimo, (v) il raggiungimento dello scopo, sono inscindibilmente collegate dalla medesima causa. Ne consegue che la costituzione del vincolo di destinazione, secondo questa impostazione, avviene sin dall’origine in favore del beneficiario e risulta essere espressione dell’unico disegno volto a consentire la realizzazione del- l’attribuzione liberale. È proprio sull’assunto dell’unicità della causa che si è fondata l’interpretazione dell’Amministrazione fiscale, secondo la quale l’imposta sulle successioni e donazioni, nonché l’imposta ipotecaria e catastale, sono dovute al momento in cui si realizza la costituzione del vincolo di destinazione, indipendentemente dal tipo di Trust. Invero, secondo l’Amministrazione tributaria, l’atto istitutivo, con cui il disponente esprime la volontà di dare vita al Trust, dovrebbe essere assoggettato all’imposta di registro in misura fissa; al contrario, l’atto dispositivo, con cui il disponente vincola i beni in Trust, sarebbe soggetto all’imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale, con conseguente applicazione dell’aliquota dell’otto per cento. Invece, il trasferimento dei beni ai beneficiari non realizzerebbe, ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni, un presupposto impositivo, risultando la complessiva operazione già tassata, in via proporzionale, “a monte”. Il discorso varrebbe, ovviamente, anche per le imposte ipotecaria e catastale, a loro volta applicate in misura proporzionale sull’atto di dotazione patrimoniale del Trust e conseguente devoluzione dei relativi beni al trustee, dovendo viceversa darsi luogo all’applicazione delle corrispondenti imposte -in misura fissa -su tutti gli altri atti nei quali si articoli la complessiva vicenda negoziale. Per ciò che concerne, invece, le operazioni di gestione compiute dal tru rASSeGNA AVVOCATUrA deLLO STATO -N. 4/2020 stee durante la vita del Trust (quali, ad esempio, eventuali atti di acquisto o di vendita di beni), esse sono soggette ad autonoma imposizione, secondo la natura e gli effetti giuridici che le caratterizzano, da esaminare volta per volta, con riferimento al caso concreto. 4. La pozione della Corte di Cassazione: l’evoluzione dell’orientamento. La Corte di Cassazione, in una prima fase, sembrava aver condiviso la posizione interpretativa dell’Amministrazione fiscale. In particolare, la Suprema Corte, in tema di Trust di garanzia, con le ordinanze 24 febbraio 2015, nn. 3735 e 3737 e 25 febbraio 2015, n. 3886, ha ritenuto legittima ed opportuna l’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni, in misura proporzionale, all’atto del conferimento di beni e diritti in Trust, sottintendendo che già con la semplice costituzione del Trust si verifica il presupposto impositivo di cui all’art. 53 della Costituzione, non potendosi rinvenire, al contrario, detto presupposto al momento del passaggio finale della ricchezza dal trustee in capo al beneficiary; la Corte, testualmente, ha affermato che detta imposta “è istituita non già sui trasferimenti di beni e diritti a causa della costituzione di vincoli di destinazione, come, invece, accade per le successioni e le donazioni, in relazione alle quali è espressamente evocato il nesso causale: l’imposta è istituita direttamente, ed in sé, sulla costituzione dei vincoli”. Tale posizione è stata ulteriormente confermata anche con la successiva ordinanza 18 marzo 2015, n. 5322 e con la sentenza 7 marzo 2016, n. 4482, ove la Suprema Corte ha affermato il principio di diritto, secondo cui “la costituzione di un vincolo di destinazione su beni (nel caso di specie attraverso l’istituzione di un trust), costituisce -di per sé ed anche quando non sia individuabile uno specifico beneficiario -autonomo presupposto impositivo in forza della L. n. 286 del 2006, art. 2, comma 47, che assoggetta tali atti, in mancanza di disposizioni di segno contrario, ad un onere fiscale parametrato sui criteri di cui alla imposta sulle successioni e donazioni”. da ultimo, i Giudici di legittimità sono giunti ad un radicale mutamento dell’orientamento brevemente esposto. In particolare, negli arresti più recenti in materia, la Corte di Cassazione ha statuito che il conferimento di beni e diritti in Trust non integra, di per sé, un trasferimento imponibile, bensì “rappresenta un atto generalmente neutro, che non dà luogo ad un trapasso di ricchezza suscettibile di imposizione indiretta, per cui si deve fare riferimento non già alla -indeterminata -nozione di ‘utilità economica, della quale il costituente, destinando, dispone’ (Cfr. Cass. n. 3886/2015), ma a quella di effettivo incremento patrimoniale del beneficiario”( ex multis (15), ordinanze 30 ottobre 2020, n. 24153 e 24154; ordinanza 8 luglio 2020, n. 14207; 3 marzo 2020, n. 5766; 11 marzo 2020, n. 7003; 19 febbraio 2020, n. 4163; 7 febbraio 2020, nn. da 2897 a 2902). CONTrIBUTI dI dOTTrINA In conclusione, la Suprema Corte, inizialmente, ha ritenuto che il Legislatore del 2006 avesse introdotto uno specifico ed autonomo presupposto impositivo, ossia la “costituzione di un vincolo di destinazione”, assoggettato, ex se, a imposizione in misura proporzionale. diversamente, in seguito, è giunta ad affermare -con un orientamento che allo stato non appare suscettibile di ulteriori ripensamenti, essendo stato confermato da recenti pronunce del- l’ultimo biennio -che detti vincoli di destinazione devono essere comunque ricondotti alla “reintrodotta imposta sulle successioni e sulle donazioni”, imponendo la sussistenza “del reale trasferimento di beni o diritti e quindi del reale arricchimento dei beneficiari”. 5. L’attuale approdo ermeneutico dei giuridici di legittimità: l’ordinanza della Corte di Cassazione del 16 febbraio 2021, n. 3986. Giunti a questo punto della dissertazione, occorre rilevare come l’orientamento più recente della giurisprudenza di legittimità propenda per l’applicazione dell’imposta indiretta al momento del passaggio dei beni oggetto del Trust in capo al beneficiary, e non al momento della istituzione del Trust ovvero nel momento in cui avviene il conferimento dei beni da parte del settlor (15) dirimente, in tal senso, risulta essere altresì la recentissima ordinanza n. 13 del 4 gennaio 2021, con cui la Corte di Cassazione si è ulteriormente cimentata sull’annosa questione legata al tema dell’imposizione indiretta, in materia di Trust, aderendo al consolidato orientamento giurisprudenziale pregresso, che afferma l’inapplicabilità dell’imposta di successione e donazione, nonché delle imposte ipotecaria e catastale in misura proporzionale, alla segregazione in Trust di beni immobili e partecipazioni poiché il trasferimento avviene a titolo gratuito, giacchè detto atto di disposizione patrimoniale non determina effetti traslativi e, pertanto, non realizza il presupposto impositivo richiesto dall’art. 53 della Costituzione, ai fini fiscali. È stato ribadito, in questa occasione, come il trasferimento della titolarità dei beni dal settlor al trustee non configuri, in capo a quest’ultimo, un vero e proprio atto di trasferimento patrimoniale, poiché il vincolo di destinazione insito nell’atto dispositivo e istitutivo del Trust limita, con grande evidenza, i poteri gestori del trustee, tenuto, di contro, unicamente ad amministrare e gestire il patrimonio conferito in Trust, in virtù del regime di segregazione patrimoniale, fino al suo trasferimento definitivo in capo ai beneficiari. In sostanza, secondo i giudici di legittimità: “il trasferimento effettivo di ricchezza, mediante un’attribuzione patrimoniale stabile e non meramente strumentale, non è ravvisabile né al momento dell’atto istitutivo né a quello della dotazione patrimoniale del trust, ma soltanto all’atto di eventuale attribuzione finale dei beni ai beneficiari, in quanto solo quest’ultimo costituisce un effettivo indice di ricchezza ai sensi dell’art. 53 Cost.”. Ne consegue che la mera individuazione dei soggetti beneficiari del Trust, nell’atto istitutivo, non giustifica l’immediata applicazione dell’imposta proporzionale, giacché la sola designazione soggettiva del destinatario del- l’attività di gestione non equivale a considerare l’atto di trasferimento dei beni quale immediato e definitivo passaggio del diritto di proprietà, a meno che detto trasferimento non determini un vero e proprio “diritto di apprensione” dei redditi del Trust. Giova segnalare che l’ordinanza de qua è stata preceduta da due ordinanze della Corte di Cassazione, le nn. 24153 e 24154 del 30 ottobre 2020, le quali, oltre ad aver ribadito quanto sopra esposto, hanno altresì precisano che, anche nell’ipotesi di Trust auto-dichiarato, nel quale si rinviene la coincidenza tra la persona del disponente e quella del trustee, l’imposta di successione e donazione non è da ritenere applicabile in fase di conferimento dei beni, essendo in questi casi ancora più evidente l’impossibilità di tassare l’atto istitutivo o quello di conferimento del Trust, mancando, addirittura, l’alterità soggettiva tra settlor e trustee, insita nel meccanismo del trasferimento patrimoniale. rASSeGNA AVVOCATUrA deLLO STATO -N. 4/2020 in capo al trustee. Tale trend ermeneutico è stato ulteriormente avallato dagli ermellini, con una recentissima ordinanza, del febbraio 2021. Con riferimento alla fattispecie oggetto del recente provvedimento, giova precisare come l’Agenzia Fiscale, nel ricorso per cassazione, deduceva la violazione e falsa applicazione dell’art. 2 del d.l. n. 262/2006, convertito in l. n. 286/2006, nonché degli artt. 1 e 10 d.lgs. n. 347/90 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c. In particolare, secondo la tesi patrocinata dall’Amministrazione, l’atto di costituzione del Trust doveva essere assoggettato all’imposta sulle successioni e donazioni, poiché con lo stesso erano stati conferiti beni a titolo gratuito al trustee, con efficacia segregante, in applicazione diretta dell’art. 2, comma 47, del d.l. n. 262 del 2006, il quale sembrerebbe includere tra gli atti di disposizione patrimoniale tassati l’atto costitutivo di un vincolo di destinazione. Il motivo de quo non ha tuttavia incontrato l’avallo della Suprema Corte di cassazione. Secondo l’indirizzo recentemente consolidatosi -cui l’ordinanza in commento aderisce -il trasferimento del bene dal settlor al trustee avviene a titolo gratuito e non determina effetti traslativi, poiché non comporta un passaggio patrimoniale definitivo, giacché il trustee è titolare di un mero potere gestorio e di custodia, in virtù del regime di segregazione patrimoniale, nell’ottica del suo ritrasferimento ai beneficiari del Trust. detto atto, pertanto, è soggetto a tassazione in misura fissa, sia per quanto attiene all’imposta di registro che alle imposte ipotecaria e catastale. Invero (16), dal momento che ai fini dell’applicazione delle imposte sulle successioni e donazioni, di registro e ipo-catastali è necessario, a mente del- l’art. 53 Cost., che si realizzi un trasferimento effettivo di ricchezza mediante un’attribuzione patrimoniale stabile e non meramente strumentale, detto trasferimento imponibile non può rinvenirsi né nell’atto istitutivo del Trust né in quello di dotazione patrimoniale intercorsi fra disponente e trustee (17). detta impostazione ha superato sia una prima interpretazione dell’art. 2, comma 47, del d.l. n. 262 del 2006, secondo la quale la novella evidenzierebbe “la volontà del legislatore di istituire una vera e propria nuova imposta che colpisce tout court degli atti che costituiscono vincoli di destinazione” (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 4482 del 2016), che quella successiva, sostenuta da decisioni di legittimità, (Cass. n. 13626 del 2018; Cass. n. 31445 del 2018; n. 31446 del (16) Cass. n. 16699 del 21/06/2019. (17) “In tema di trust, l’imposta sulle successioni e donazioni, prevista dall’art. 2, comma 47, del d.l. n. 262 del 2006 (conv. con modif. dalla l. n. 286 del 2006) anche per i vincoli di destinazione, è dovuta non al momento della costituzione dell’atto istitutivo o di dotazione patrimoniale, fiscalmente neutri in quanto meramente attuativi degli scopi di segregazione ed apposizione del vincolo, bensì in seguito all’eventuale trasferimento finale del bene al beneficiario, in quanto solo quest’ultimo costituisce un effettivo indice di ricchezza ai sensi dell’art. 53 Cost.” (Cass. n. 19167 del 17/07/2019). CONTrIBUTI dI dOTTrINA 2018; n. 734 del 2019) che, pur riconoscendo la non assoggettabilità -tout court -del Trust alla imposta sulle successioni e sulle donazioni, hanno operato distinzioni a seconda delle funzioni e strutture che l’istituto può assumere. L’orientamento al quale la Corte di legittimità è da ultimo pervenuta (Cass. n. 1131 del 2019 cit.; Cass. n. 19167/2019; Cass. n. 16699/2019) è, invece, in grado di riferirsi a tutte le molteplici tipologie di Trust astrattamente prospettabili, dando così una risposta unitaria alla problematica sollevata. Viene affermato, a tal riguardo, il seguente principio di diritto: “in ogni tipologia di trust, dunque, l’imposta proporzionale non andrà anticipata né all’atto istitutivo, né a quello di dotazione, bensì riferita a quello di sua attuazione e compimento mediante trasferimento finale del bene al beneficiario” (18). 6. Il regime fiscale del Trust Auto-dichiarato. L’istituto del trust auto-dichiarato si ha quando non vi è alterità soggettiva tra il settlor ed il trustee, nel senso che questi due soggetti coincidono nella medesima persona. Solitamente nel Trust, come è stato ampiamente affermato in precedenza, il disponente è colui che istituisce l’operazione e conferisce i beni nel patrimonio separato, trasferendone la proprietà formale in capo al trustee, per la gestione degli stessi in favore del beneficiary. È stato chiarito, invero, come il soggetto disponente abbia vari poteri di controllo sull’operato del trustee. Orbene, giova precisare come esista un caso specifico di esclusivo controllo del disponente -non sull’operato del trustee -bensì sui beni devoluti in Trust: ciò accade quando il disponente è anche trustee, vale a dire in presenza della c.d. “unilateral declaration of trust”, formula che si suole generalmente tradurre con l’espressione “trust auto-dichiarato”. In altri termini, detta tipologia di Trust si caratterizza per il fatto che il medesimo soggetto, da un lato, istituisce il Trust in qualità di disponente del relativo compendio patrimoniale e, dall’altro lato, gestisce l’intera operazione negoziale derivante dal vincolo di destinazione, in favore del beneficiario finale. Anche in questa fattispecie sembra potersi ravvisare, nonostante la man (18) Pertanto “la circostanza che il beneficiario sia individuato fin dall’atto istitutivo non giustifica l’immediata tassazione proporzionale, dal momento che la sola designazione, per quanto contestuale e palese (c.d. trust ‘trasparente’), non equivale in alcun modo a trasferimento immediato e definitivo del bene, con quanto ne consegue in ordine all’applicazione dei già richiamati principi impositivi; nell’ipotesi del trust liquidatorio non si dubita della effettività del trasferimento al trustee dei beni da liquidare, ma ciò non esclude che, anche in tal caso, sia connaturato al trust che tale trasferimento sia mero veicolo tanto dell’effetto di segregazione quanto di quello di destinazione. Ancora una volta, dunque, si tratterà di individuare e tassare gli atti traslativi propriamente detti (che sono quelli di liquidazione del patrimonio immobiliare di cui il trust sia stato dotato), non potendo assurgere ad espressione di ricchezza imponibile, né l’assegnazione-dotazione di taluni beni alla liquidazione del trustee in funzione solutoria e nemmeno, in tal caso, la ripartizione del ricavato ai beneficiari a dovuta soddisfazione dei loro crediti”. rASSeGNA AVVOCATUrA deLLO STATO -N. 4/2020 canza di un trasferimento patrimoniale, sia la volontà di segregazione sia quella di destinazione. Questa fattispecie presenta, con ogni evidenza, forti analogie con almeno tre istituti del diritto civile italiano: (i) la costituzione del fondo patrimoniale da parte di un coniuge; (ii) il patrimonio destinato a uno specifico affare da parte di una società per azioni; (iii) il vincolo di destinazione su beni immobili, qualora essi rimangano nella titolarità del disponente. La sopra esaminata Convenzione de L’Aja non sembra includere questa tipologia di Trust nel suo ambito applicativo, tenuto conto del fatto che, all’art. 4, si richiede espressamente un “trasferimento” dei beni oggetto del conferimento nel patrimonio separato; inoltre, all’art. 2, si prevedere il fatto che il patrimonio separato sia posto “sotto il controllo di un trustee”. In passato, in Italia, si discuteva sulla possibilità (o meno) di far rientrare il Trust auto-dichiarato nell’ambito della Convenzione e, secondo parte della dottrina, la configurazione del Trust richiedeva necessariamente un trasferimento di beni -seppur meramente formale e con fini precipuamente gestori dal disponente al trustee. di recente, più correttamente, la Corte di cassazione (19) si è espressa nel senso dell’ammissibilità di detta inclusione ed è stata seguita da varie pronunce di merito dello stesso segno e, soprattutto, da numerose pronunce della Cassazione stessa (Sezione Tributaria), che hanno trattato degli effetti fiscali dei Trust auto-dichiarati, senza sollevare alcuna eccezione circa la loro riconoscibilità. Altra questione piuttosto controversa era quella legata al sistema di tassazione del c.d. Trust auto-dichiarato (20). Tuttavia, dalle recentissime statuizioni della giurisprudenza di legittimità (21), si evince chiaramente il principio secondo cui, in qualsiasi tipologia di Trust, anche se auto-dichiarato, l’imposta proporzionale non andrà anticipata né all’atto istitutivo né al momento dell’atto di dotazione, bensì dovrà essere riferita al solo trasferimento finale del bene dal trustee al beneficiario. La ravvisata coincidenza soggettiva tra disponente e trustee, propria del Trust “autodichiarato”, rende ancor più forte l’applicazione del principio sopra esposto, risultando vieppiù evidente l’assenza di un reale trasferimento di ricchezza imponibile da un soggetto a un altro, fintanto che non vi sia il ri-trasferimento finale in favore del “beneficiary”. (19) Cass. 26 ottobre del 2016, n. 21614; Cass. 21 giugno 2019, n. 16700; Cass. 7 giugno 2019, n. 15456; Cass. 5 dicembre 2018, n. 31446. (20) L’applicazione dell’imposta al momento dell’istituzione del Trust, nel Trust auto-dichiarato, è stata esclusa dalla Corte di Cassazione con una prima sentenza n. 21614/16 e, successivamente, con una ulteriore statuizione, la n. 16699 del 2019. (21) Ordinanza della Corte di cassazione n. 22182 del 14 ottobre 2020. CONTrIBUTI dI dOTTrINA 7. Prospettive de iure condito: la necessità di un nuovo intervento chiarificatore del legislatore. Punto centrale della controversia è, come sopra esposto, l’individuazione del presupposto impositivo, nell’ambito della complessa operazione del Trust, che vede interagire una serie di atti giuridici connessi in modo consequenziale e, soprattutto, in modo causalmente orientato. Come noto, l’art. 2, comma 47, del d.l. n. 262 del 2006 statuisce quanto segue: “è istituita l’imposta sulle successioni e donazioni sui trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione, secondo le disposizioni del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni, di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346, nel testo vigente alla data del 24 ottobre 2001”. È indubbio che nel novero dei “vincoli di destinazione” debbano essere ricondotti, non solo gli “atti di destinazione”, di cui parla, in linea generale, l’art. 2645-ter cod. civ., bensì qualunque fattispecie prevista dall’ordinamento tesa alla costituzione di patrimoni vincolati ad uno scopo. In tale perimetro normativo, pertanto, va ricondotto anche il negozio giuridico del Trust. Orbene, il pomo della discordia nasce proprio dalla corretta interpretazione del termine “costituzione” dei vincoli di destinazione, cui fa riferimento l’art. 2, comma 47, d.l. n. 262 del 2006. Invero, se si prende alla lettera la disposizione normativa de qua, sembrerebbe che l’intento del legislatore sia stato quello di individuare il momento temporale esatto in cui far intervenire l’imposta indiretta, vale a dire: la costituzione del Trust. detto approccio “prudenziale”, patrocinato dall’Amministrazione Finanziaria, nasce dalla necessità di applicare l’imposizione indiretta appena l’operazione negoziale del Trust viene ideata, per evitare di dover attendere il momento in cui il beneficiary usufruirà, in concreto, della ricchezza economica e patrimoniale allo stesso indirizzata. Tale momento finale di passaggio della ricchezza in capo al beneficiario del Trust, infatti, potrebbe verificarsi dopo moltissimi anni dalla costituzione della segregazione patrimoniale e, pertanto, potrebbe verificarsi un ritardo nell’acquisizione del gettito fiscale in favore dell’erario. In altri termini, il timore serbato dall’Agenzia è quello derivante dal fenomeno della “tassazione sine die”. Il problema, come sopra esposto, sorge però nel momento in cui si conviene con l’assunto secondo cui il presupposto impositivo non può coincidere con un atto fiscalmente neutro, come, appunto, l’atto istitutivo del Trust e quello del conferimento dei beni da parte del settlor in capo al trustee; poiché il passaggio effettivo di ricchezza si ha -solamente -quando il beneficiary riceve i beni in proprietà e, pertanto, usufruisce di quella ricchezza che, in precedenza, gli era stata destinata con l’ideazione dell’intera operazione. Le ragioni esposte portano a ritenere senz’altro meritevole di accogli rASSeGNA AVVOCATUrA deLLO STATO -N. 4/2020 mento l’orientamento da ultimo sposato dalla Corte di Cassazione, secondo cui l’imposta proporzionale non andrà anticipata né all’atto istitutivo né a quello di dotazione patrimoniale, bensì dovrà essere riferita a quello di sua attuazione e compimento mediante trasferimento finale del bene al beneficiario. Tuttavia, per quanto lodevole possa considerarsi questo “correttivo” ermeneutico, operato in via pretoria, risulta comunque auspicabile un intervento legislativo, volto a chiarire -con la medesima chiarezza e logicità assertiva posta in essere dagli ermellini -quale debba essere, esattamente, l’atto giuridico che deve individuarsi come presupposto impositivo, ai fini dell’applicazione delle imposte indirette dovute sui Trusts. Ciò tenuto conto del fatto che, da un lato, la logica e i principi che sovrintendono alle imposte indirette impediscono di tassare atti che non importino un trasferimento attuale e definitivo di ricchezza imponibile da un soggetto ad un atro; ma, dall’altro lato, restano le esigenze ed istanze di celere e tempestiva riscossione delle dovute imposte, di cui l’Agenzia delle entrate si è, da sempre, fatta portatrice. 8. Il cambio di orientamento dell’Agenzia delle Entrate ed il recepimento della decisione della Corte di Cassazione: Risposta all’Istanza di Interpello dell’AE n. 106 del 15/02/2021. L’Agenzia delle entrate, con risposta all’Interpello n. 106 del 16 febbraio 2021, sembra avere aderito alla ormai consolidata posizione ermeneutica della giurisprudenza di legittimità, affermando la non applicabilità delle imposte indirette all’atto di conferimento dei beni in Trust, per via dell’assenza di un tangibile trasferimento di ricchezze. L’istante, nel caso in esame, (al contempo “disponente” e “beneficiario” del Trust), aveva chiesto un parere in merito al trattamento impositivo, ai fini dell'imposta sulle successioni e donazioni, gravante sui beni detenuti all'estero per il tramite di un Trust straniero revocabile, avente ad oggetto: “il trattamento impositivo ai fini dell'imposta sulle successioni e donazioni di cui all'art. 2 del d.l. n. 262 del 2006, gravante sulle attribuzioni al beneficiario di beni vincolati in un trust estero revocabile, a seguito della revoca dello stesso trust”. Secondo la soluzione interpretativa prospettata dal contribuente, né l'atto di dotazione del Trust (vale a dire il momento di "entrata" dei beni) né i (ri)trasferimenti in suo favore degli assets costituenti il fondo del Trust revocabile -(e, dunque, i momenti di "uscita" dei beni, ivi incluso quello della "revoca") -devono scontare alcuna imposizione ai fini dell'imposta sulle successioni e donazioni. A detta del contribuente, pertanto, un'eventuale argomentazione di segno contrario sarebbe in contrasto “sia con l'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità formatosi sul punto sia con la prassi dell'Agenzia delle Entrate (i.e., circolare n. 43/E del 2009)”. Come sopra anticipato, a seguito della predetta Istanza di Interpello, CONTrIBUTI dI dOTTrINA l'Agenzia delle entrate ha emanato un parere con cui sembra essersi definitivamente allineata alle recenti statuizioni della Corte di Cassazione. Anzitutto, si ribadisce che, ai fini della tassazione in materia di imposta sulle successioni e donazioni, con riferimento alla materia del Trust, “occorre far riferimento alle disposizioni di cui all'articolo 2 del decreto legge 3 ottobre 2006, n. 262 ed al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346”, in base ai quali l'imposta si applica in caso di “costituzione di vincoli di destinazione”. In secondo luogo, si chiarisce come, in linea di principio, l'attribuzione di beni e/o diritti ai beneficiari di Trusts da parte del trustee potrebbe determinare l'applicazione del- l'imposta sulle successioni e donazioni “al verificarsi dei presupposti previsti dalle disposizioni di cui al decreto legislativo n. 346 del 1990”. Non può non rilevarsi come la fattispecie analizzata risulti essere piuttosto peculiare, giacché si è in presenza di una “ri-attribuzione” di beni, dal disponente al Trust, tale per cui sarebbe stato evidentemente problematico, oltreché fiscalmente inammissibile, sostenere la tassazione di tale ri-attribuzione “in entrata”. Con specifico riferimento alla fattispecie in questione, invero, viene evidenziata la circostanza che il soggetto disponente coincide con il soggetto beneficiario del Trust. Nella fattispecie in esame, pertanto, l'assenza di un trasferimento intersoggettivo precluderebbe l'applicazione dell'imposta di donazione per carenza del presupposto oggettivo imponibile di cui all'articolo 1 del citato decreto legislativo, mancando un trasferimento di ricchezza. Ciò posto, deve essere messo in evidenza come l’Amministrazione, in questa occasione, abbia definitivamente preso atto dell’orientamento giurisprudenziale attualmente maggioritario, richiamando, espressamente, gli estremi della sentenza della Corte Costituzionale n. 10256 del 2020 (22). Cassazione civile, Sezione Quinta, ordinanza 16 febbraio 2021 n. 3986 -Pres. L.M.T. Zoso, Rel. M. Balsamo -Agenzia delle entrate (avv. gen. Stato) c. Trust Corona (avv.ti L. Pallotta, G.L. Battagliese). Svolgimento del processo 1. L’Agenzia delle entrate liquidava -in relazione all’atto notarile del 10.12.2012 con il quale OMISSIS costituiva il Trust autodichiarato “Corona”, di cui si nominava trustee riservandosi di nominare i beneficiari -le imposte ipotecarie e catastali in misura proporzionale, come previsto dall’art. 2 comma 49 d.L. n. 262/2006, dovute sul valore delle quote della OMISSIS (22) L’Agenzia delle entrate, nell’aderire al recente orientamento ermeneutico della giurisprudenza di legittimità, afferma come l’assunto dell’impossibilità di applicare l’imposta all’atto costitutivo del Trust trovi riscontro nella recente giurisprudenza della Corte di Cassazione che, nella Sentenza n. 10256 del 29 maggio 2020, ha chiarito che “solo l'attribuzione al beneficiario, che come detto deve essere diverso dal disponente può considerarsi, nel trust, il fatto suscettibile di manifestare il presupposto dell'imposta sul trasferimento di ricchezza”. rASSeGNA AVVOCATUrA deLLO STATO -N. 4/2020 devolute nel trust auto-dichiarato. Il trustee si opponeva dinanzi alla commissione tributaria provinciale di Milano la quale respingeva il ricorso, ritenendo la sussistenza della legittimazione passiva del Trust e ritenendo applicabili le imposte in misura proporzionale sul vincolo di destinazione ex art. 47 della L. n. 262/2006. L’appello proposto dal trustee veniva accolto con sentenza n. 2150/19/17, depositata il 18 maggio del 2017. In particolare, i giudici regionali escludevano la soggettività passiva del trust, trattandosi di un insieme di beni destinati ad un fine determinato e formalmente intestati al trustee ed affermavano la debenza in misura fissa delle imposte di donazione-successione, non ravvisando nella costituzione del trust un trasferimento di ricchezza e difettando dunque il presupposto di imposta. Per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe, l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso affidato a due motivi. Parte intimata resiste con controricorso. ragioni della decisione 2. Con il primo motivo di ricorso, l’Agenzia delle entrate denuncia violazione dell’art. 73 del Tuir ex art. 360, n. 3), c.p.c., per avere i giudici regionali erroneamente escluso la legittimazione passiva del trust, in contrasto con il disposto della norma citata in rubrica che ha incluso il trust tra i soggetti passivi di imposta sul reddito delle società (IreS). In particolare, l’ufficio deduce che la norma citata distingue tra trust trasparenti in cui sono individuati i beneficiari, nel qual caso i redditi sono ad essi imputati in proporzione della quota di partecipazione individuata dal costituente e trust opachi, in cui il trust è individuato quale soggetto passivo di imposta. 3. Con il secondo motivo rubricato «Violazione e falsa applicazione dell’art. 2 del d.l. n. 262/2006, convertito in l. n. 286/2006, nonché degli artt. 1 e 10 d.lgs. n. 347/90 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.», l’Ufficio deduce che con l’art. 2, commi 47 e ss., del d.l. 3 ottobre 2006 n. 262, conv. con modif. in l. 24 novembre 2006 n. 286, è stata «reintrodotta nell’ordinamento giuridico l’imposta sulle successioni e donazioni estendendone l’ambito di applicazione alla costituzione di vincoli di destinazione», ai quali doveva ricondursi anche la costituzione del trust oggetto di controversia atteso che con lo stesso erano stati conferiti beni a titolo gratuito al trustee da immettere in trust con efficacia «segregante», così come in effetti previsto dall’art. 2, comma 47 ss., d.l. n. 262 cit. che espressamente assoggetta all’imposta sulle successioni e donazioni ex d.lgs. 31 ottobre 1990 n. 346 gli atti di costituzione dei «vincoli di destinazione»; con la conseguenza che la CTr avrebbe errato nel ritenere che mancasse il presupposto della tassazione, vale a dire il trasferimento di ricchezza a titolo di liberalità e l’arricchimento di un soggetto conseguente alla liberalità ricevuta. 4. La prima censura è destituita di fondamento. 4.1 La legge finanziaria del 2007 riconosce la soggettività tributaria del Trust, inserendolo tra i soggetti passivi delle imposte dirette (Ires) alla stregua di un ente. Più precisamente, il comma 74 dell’articolo 1 della citata legge ha modificato l’articolo 73 del Tuir, introducendo nelle lettere b), c) e d) del comma 1 anche il trust tra i soggetti passivi dell’imposta sul reddito delle società, a seconda dell’attività svolta (commerciale o non commerciale) e della residenza. Sulla base della flessibilità dell’istituto in questione, il legislatore, all’art. 73, ha individuato, ai fini della imposizione dei redditi, due principali tipologie di trust, ovvero quelli con beneficiari individuati, i cui redditi vengono imputati per trasparenza ai beneficiari stessi (trust CONTrIBUTI dI dOTTrINA trasparenti) e, in secondo luogo, i trust senza beneficiari individuati, i cui redditi vengono tassati direttamente in capo al trust (trust opachi). dopo aver determinato il reddito del trust, il trustee deve indicare la parte attribuita al trust e assoggettata all’IreS, oltre alla parte imputata per trasparenza ai beneficiari, sulla quale gli stessi devono assolvere le imposte sul reddito. Per quanto riguarda la disciplina dei redditi del beneficiario del trust il comma 74, lett. b), dell’articolo unico della finanziaria 2007 dispone al nuovo comma 2 dell’art. 73 del TUIr che “nei casi in cui i beneficiari del trust siano individuati, i redditi conseguiti dal Trust sono imputati in ogni caso ai beneficiari in proporzione alla quota di partecipazione individuata nell’atto costitutivo del Trust o in altri successivi documenti ovvero in loro mancanza in parti uguali”. dal momento che il presupposto di applicazione dell’imposta è il possesso di redditi, per “beneficiario individuato” si deve intendere il beneficiario di reddito individuato, ovvero il soggetto che ha in rapporto al reddito una capacità contributiva attuale. Pertanto, occorre che il beneficiario non solo sia previamente individuato, ma che risulti titolare del diritto di pretendere dal trustee l’assegnazione di quella parte di reddito che gli viene imputata per trasparenza. In definitiva, con l’emanazione della Legge n. 296 del 27 dicembre 2006, il legislatore nel rilevare l’impossibilità di attribuire la soggettività passiva ai soggetti coinvolti nel trust (settlor, trustee e beneficiari), ha optato per la soggettivazione del trust stesso, dato che consente un’imputazione autonoma della capacità contributiva; il trust viene considerato, pertanto, secondo la previsione normativa, un soggetto passivo delle imposte dirette (v. Cass. Sentenza 21 giugno 2019, n. 16700), benché privo di soggettività giuridica di tipo civilistico. 4.2 Per quanto concerne le imposte indirette, norma di riferimento è stata considerata -ma con esiti interpretativi molto diversi -l’art. 2 co. 47 d.l. 262/06 conv. in l. 286/06, secondo cui: “È istituita l’imposta sulle successioni e donazioni sui trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione, secondo le disposizioni del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni, di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346, nel testo vigente alla data del 24 ottobre 2001, fatto salvo quanto previsto dai commi da 48 a 54”. Per quanto concerne l’imposta di registro (ma tematica analoga investe anche l’imposta ipotecaria e catastale), la controversia applicativa riguarda, segnatamente, la quota di imposta eccedente la misura fissa, secondo quanto stabilito in via residuale dall’articolo 9 della Tariffa allegata al d.P.r. 131/86, secondo cui la tassazione proporzionale (3 %) si applica per la sola circostanza che l’atto abbia per oggetto “prestazioni a contenuto patrimoniale”. 4.3 rileva anche l’art. 6, l. n. 112 del 2016 (c.d. legge del “Dopo di noi”) in base al cui comma 1: «I beni e i diritti conferiti in trust ovvero gravati da vincoli di destinazione di cui all’articolo 2645-ter del codice civile ovvero destinati a fondi speciali di cui al comma 3 del- l’articolo 1, istituiti in favore delle persone con disabilità grave (…) sono esenti dall’imposta sulle successioni e donazioni prevista dall’articolo 2, commi da 47 a 49, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286, e successive modificazioni». Aspetti ancora diversi riguardano l’imposizione locale, la quale appare però segnata da presupposti impositivi del tutto autonomi e divergenti da quelli invece riconducibili (in termini di attribuzione traslativa di ricchezza) all’imposta di registro, a quella ipotecaria e catastale nonché a quella sulle successioni e donazioni; ciò perché normalmente ricollegati al dato oggettivo, immediato e contingente costituito, ad esempio, dalla fruizione di un servizio pubblico (“tassa rifiuti”), dallo sfruttamento di una risorsa pubblica (come nella TOSAP) o dall’esercizio sugli immobili di un diritto reale o di un possesso ad esso corrispondente (come nell’ICI-IMU). rASSeGNA AVVOCATUrA deLLO STATO -N. 4/2020 4.4 Tornando alle imposte indirette, la previsione dell’art. 73, comma 1, del Tuir che individua espressamente i trust tra i soggetti passivi Ires (nei soli casi in cui dall’atto istitutivo ovvero da altri documenti anche redatti in epoca successiva, manchi del tutto l’indicazione dei beneficiari) non comporta una loro soggettività assoluta ai fini dell’imposizione diretta. È infatti un concetto ormai elaborato dalla dottrina che il legislatore possa disporre della soggettività tributaria prescindendo dalle altre forme di soggettività, e che il sostrato minimo sul quale il legislatore può costruire la soggettività tributaria stessa è la separazione o l’autonomia patrimoniale, e non già la soggettività civilistica. Vale osservare, quindi, come dalla soggettività IreS non possa inferirsi il riconoscimento di una capacità generalizzata del trust di essere soggetto passivo anche di altri tributi. Questa tesi appare difatti contrastare con il divieto, posto dall’art. 14 delle preleggi, di interpretazione analogica delle norme eccezionali, qual è quella che, a fini specifici e determinati dallo stesso legislatore, riconosce una limitata forma di soggettività, ai soli fini tributari, ad una organizzazione priva di personalità giuridica. Ne deriva che non può, in ogni caso, leggersi l’art. 73 del TUIr nel senso che il legislatore abbia attribuito al trust la personalità giuridica, né, tantomeno, può la giurisprudenza elevare a soggetto giuridico i centri di interessi e rapporti che non lo sono, posto che l’attribuzione della soggettività giuridica è appannaggio del solo legislatore (cfr. in arg. Cass. sez. un. 25767/2015; Cass. n. 16550/2019). Si deve ribadire in questa sede l’inesistenza della soggettività del trust, il quale -come chiaramente traesi dall’art. 2 della afferente Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, resa esecutiva in Italia con l. 16 ottobre 1989, n. 364 -costituisce un insieme di beni e rapporti con effetto di segregazione patrimoniale “istituiti da una persona, il disponente -con atto tra vivi o mortis causa -qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato”. Principio che trova conferma nella giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale il trust traslativo non è un ente dotato di personalità giuridica; l’effetto proprio del trust non è quello di dare vita ad un nuovo soggetto di diritto, ma quello di istituire un patrimonio destinato ad un fine prestabilito (Cass. 9 maggio 2014, n. 10105), per cui va escluso che possa ritenersi che esso possa essere titolare di diritti e tanto meno essere considerato soggetto passivo di imposta (v. Cass. n. 2043/2017; n. 12718/2017), contrariamente a quanto assume l’amministrazione finanziaria. Si tratta, invece, di un insieme di beni e rapporti destinati ad un fine determinato e formalmente intestati al trustee (Cass. civ. sez. I, n. 3456/2015; Cass. civ. sez. V 25478/2015 Cass. civ. sez. II n. 28363/2011). 4.5 La peculiarità dell’istituto risiede nello “sdoppiamento del concetto di proprietà”, tipico dei paesi di common law: la proprietà legale del trust, attribuita al trustee, ne rende quest’ultimo unico titolare dei relativi diritti (sia pure nell’interesse dei beneficiari e per il perseguimento dello scopo definito), ma i beni restano segregati e quindi diventano estranei non soltanto al patrimonio del disponente, ma anche a quello personale del trustee che deve amministrarli e disporne secondo il programma del trust (Cass. civ. sez. IlI n. 9320/2019; Sez. V n. 16550/2019). Quanto alla sua struttura, nel trust si ravvisa un atto istitutivo, che è l’atto con il quale il disponente esprime la volontà di costituire un trust, e l’atto dispositivo che, invece, è l’atto con il quale il disponente trasferisce, a titolo gratuito, i beni in trust al trustee, atti collegati sebbene distinti. La recente sentenza di Cass. 29 maggio 2018, n. 13388 ha espressamente differenziato, sia pure in materia revocatoria, l’atto di disposizione patrimoniale, e cioè l’atto mediante il quale il bene viene intestato in capo al trustee dall’atto istitutivo CONTrIBUTI dI dOTTrINA del trust, il quale costituisce il fascio di rapporti che circonda l’intestazione del bene, ma non l’intestazione stessa, ed è neutrale dal punto di vista patrimoniale. Sulla stessa linea di fondo si era già posta, del resto, la precedente pronuncia di Cass., 3 agosto 2017, n. 19376, distinguendo tra atto istitutivo del trust e atti dispositivi dei beni immessivi. 4.6 Vale inoltre precisare che, ai sensi dell’articolo 2 della Convenzione dell’Aja, “per trust s’intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il costituente, con atto tra vivi o mortis causa”; si tratta, quindi, di un negozio giuridico unilaterale, inter vivos o mortis causa, che non si perfeziona con l’incontro delle volontà di due o più soggetti, essendo sufficiente la sola dichiarazione di volontà del disponente (Cass. n. 3697/2020) e non necessita di accettazione da parte dei beneficiari, implicando una segregazione patrimoniale grazie al meccanismo pubblicitario della trascrizione o degli adempimenti correlati. L’atto istitutivo del trust, dunque, è atto unilaterale formato esclusivamente dal disponente, sul quale grava l’onere di corrispondere le imposte ipotecarie e catastali, non potendosi neppure configurare alcuna responsabilità solidale del trustee e del disponente sulla base dell’articolo 57 del TUr, in quanto l’atto in disamina non è sussumibile nell’ambito dei contratti; l’eventuale responsabilità patrimoniale del trustee può sorgere solo per atti e fatti compiuti nell’esercizio della propria funzione a seconda della legge regolatrice applicabile. In altri termini, la responsabilità del trustee -che non risulta aver partecipato all’atto costitutivo -deriva dall’intestazione formale del bene (in conformità all’art. 2 L. 364/1989 di ratifica della convenzione dell’Aja sulla legge applicabile al trusts, comma 2 lett. b laddove si stabilisce che beni del trust sono intestati a nome del trustee) ovvero dall’esercizio di attività, in detta qualità, rilevanti verso l’esterno. 4.7 Quando, invece, il vincolo di destinazione è già stato costituito -secondo quanto prevede l’art. 2 della Convenzione dell’Aja del luglio 1985, resa esecutiva in Italia con la legge 16 ottobre 1989, n. 364 -proprio perché il trust non possiede personalità giuridica, è allora il trustee -cui è demandato di “amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee” -l’unico soggetto legittimato nei rapporti con i terzi, in quanto dispone in esclusiva del patrimonio vincolato alla predeterminata destinazione (Cass. 22 dicembre 2015, n. 25800). Quale ulteriore conseguenza, va escluso che possa ritenersi in alcun modo il trust titolare di diritti e tanto meno essere considerato soggetto passivo di imposta (v. Cass. n. 2043/2017; n. 12718/2017). Ciò trova conferma nel fatto che l’effetto proprio del trust non è quello di dare vita ad un nuovo soggetto di diritto, ma quello di istituire un patrimonio destinato ad un fine prestabilito (Cass. 9 maggio 2014, n. 10105), sulla base delle ampie argomentazioni sviluppate nei precedenti di questa Corte, ai quali ritiene il Collegio di dare continuità mediante un mero richiamo. 5. Anche la seconda censura è priva di pregio. Punto centrale della controversia è l’individuazione del presupposto impositivo. Il d.l. n. 262 del 2006, convertito con modifiche dalla l. n. 286 del 2006, e l’art. 1, commi 77, 78 e 79, della l. n. 296 del 2006 (Legge finanziaria per il 2007), hanno, com’è noto, reintrodotto nel- l’ordinamento l’imposta sulle successioni e donazioni che, fino alla sua abrogazione ad opera dell’art. 13, della l. n. 383 del 2001, era disciplinata dal d.lgs. n. 346 del 1990. Ai sensi dell’art. 2, comma 47, d.l. n. 262 del 2006, “è istituita l’imposta sulle successioni e donazioni sui trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione, secondo le disposizioni del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni, di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346, nel testo vigente alla data del 24 ottobre 2001”, disciplina quest’ultima che rASSeGNA AVVOCATUrA deLLO STATO -N. 4/2020 trova applicazione (art. 2, comma 50), in quanto compatibile con le nuove disposizioni. La novella legislativa ha esteso il presupposto impositivo ai trasferimenti a titolo gratuito, nonché alla costituzione dei vincoli di destinazione. Nell’ambito concettuale dei “vincoli di destinazione” vanno, poi, ricondotti non solo gli “atti di destinazione” di cui all’art. 2645 ter c.c., ma qualunque fattispecie prevista dall’ordinamento tesa alla costituzione di patrimoni vincolati ad uno scopo, ed in tal senso si è espressa anche l’Amministrazione finanziaria (cfr. Circolare 3/e del 22 gennaio 2008), secondo la quale per vincoli di destinazione si intendono “I negozi giuridici mediante i quali determinati beni sono destinati alla realizzazione di un interesse meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, con effetti segregativi e limitativi della disponibilità dei beni medesimi”. In tale perimetro normativo va ricondotto anche il negozio giuridico denominato trust, istituto di derivazione anglosassone. L’ordinamento italiano ha conosciuto l’istituto del trust attraverso la “Convenzione sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento” adottata a L’Aja in data 1 luglio 1985; al testo convenzionale è stata data ratifica (senza apporre alcuna riserva) con la Legge 9 ottobre 1989 n. 364 e la Convenzione è entrata in vigore l’1 gennaio 1992. Ai fini della Convenzione de L’Aja, il trust è il rapporto giuridico in cui il costituente -con atto tra vivi o mortis causa -pone dei beni sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico; i beni in trust “costituiscono una massa distinta e non sono parte del patrimonio del trustee”; -tali beni sono intestati a nome del trustee o di un’altra persona per conto del trustee; -il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni “in conformità alle disposizioni del trust” e secondo le norme impostegli dalla legge; -non è necessariamente incompatibile con l’esistenza di un trust il fatto che il disponente conservi alcuni diritti e facoltà, o che il trustee stesso abbia alcuni diritti in qualità di beneficiario. In particolare, il trust può rispondere a finalità eterogenee: di garanzia; di liquidazione e pagamento; di realizzazione di un’opera pubblica; di solidarietà sociale; di realizzazione di interessi meritevoli di tutela a favore di persone disabili, pubbliche amministrazioni o altri soggetti (art. 2645 ter cod. civ.); può essere costituito per atto tra vivi oppure per testamento, con efficacia dopo la morte del disponente; ovvero a seconda delle prescelte modalità di individuazione del beneficiario (al momento della istituzione o in un momento successivo; da parte del disponente o dello stesso trustee; con possibilità di revoca o meno); ovvero, ancora, a seconda che il trustee ed il beneficiario vengano individuati in soggetti terzi oppure nello stesso disponente (c.d. trust autodichiarato). 6. L’elemento comune è l’effetto segregativo che si verifica perché i beni conferiti in trust non entrano nel patrimonio del trustee se non per la realizzazione dello scopo indicato dal settlor e col fine specifico di restare separati dai suoi averi (pena la mancanza di causa del trasferimento): effetto che si determina attraverso l’intestazione formale dei beni al trustee e l’attribuzione al medesimo di poteri gestori finalizzati alla realizzazione dello scopo, mentre al beneficiario (se individuato) è attribuito solo un diritto di credito. 7. Secondo un indirizzo recentemente consolidatosi che, allo stato, risulta prevalente, «il trasferimento ‘del bene dal “settlor” al “trustee” avviene a titolo gratuito e non determina effetti traslativi, poiché non ne comporta l’attribuzione definitiva allo stesso, che è tenuto solo ad amministrarlo ed a custodirlo, in regime di segregazione patrimoniale, in vista del suo ritrasferimento ai beneficiari del “trust”: detto atto, pertanto, è soggetto a tassazione in misura fissa, sia per quanto attiene all’imposta di registro che alle imposte ipotecaria e ca CONTrIBUTI dI dOTTrINA tastale» (Cass. n. 975 del 17/01/2018); «Poiché ai fini dell’applicazione delle imposte di successione, registro ed ipotecaria è necessario, ai sensi dell’art. 53 Cost., che si realizzi un trasferimento effettivo di ricchezza mediante un’attribuzione patrimoniale stabile e non meramente strumentale, nel “trust” di cui alla l. n. 364 del 1989 (di ratifica ed esecuzione della Convenzione dell’Aja 1° luglio 1985), detto trasferimento imponibile non è costituito né dall’atto istitutivo del “trust”, né da quello di dotazione patrimoniale fra disponente e “trustee” in quanto gli stessi sono meramente attuativi degli scopi di segregazione e costituzione del vincolo di destinazione, bensì soltanto dall’atto di eventuale attribuzione finale del bene al beneficiano» (Cass. n. 16699 del 21/06/2019); «In tema di “trust”, l’imposta sulle successioni e donazioni, prevista dall’art. 2, comma 47, del d.l. n. 262 del 2006 (conv. con modif. dalla l. n. 286 del 2006) anche per i vincoli di destinazione, è dovuta non al momento della costituzione dell’atto istitutivo o di dotazione patrimoniale, fiscalmente neutri in quanto meramente attuativi degli scopi di segregazione ed apposizione del vincolo, bensì in seguito all’eventuale trasferimento finale del bene al beneficiario, in quanto solo quest’ultimo costituisce un effettivo indice di ricchezza ai sensi dell’art. 53 Cost.» (Cass. n. 19167 del 17/07/2019). 8. La giurisprudenza sopra richiamata e da ritenersi consolidata, ha superato sia una prima interpretazione dell’art. 2, comma 47, l. 286 del 2006, secondo la quale la novella evidenzierebbe «la volontà del legislatore di istituire una vera e propria nuova imposta che colpisce tout court degli atti che costituiscono vincoli di destinazione» (Cass. Sez. 6 -5, Sentenza n. 4482 del 2016), che quella successiva, sostenuta da decisioni di legittimità (Cass. n. 13626 del 2018; Cass. n. 31445 del 2018; n. 31446 del 2018; n. 734 del 2019) che, pur riconoscendo la non assoggettabilità -tout court -del trust alla imposta di donazione, hanno operato dei distinguo a seconda delle diverse architetture dell’istituto. L’orientamento al quale questa Corte di legittimità è da ultimo pervenuta (Cass. n. 1131 del 2019 cit.; Cass. n. 19167/2019; Cass. n. 16699/2019) è, invece, in grado di dare conto delle diverse forme di trust, apprestando una soluzione che deve ritenersi estensibile a tutte le diverse forme di manifestazione. In ogni tipologia di trust, dunque, l’imposta proporzionale non andrà anticipata né all’atto istitutivo, né a quello di dotazione, bensì riferita a quello di sua attuazione e compimento mediante trasferimento finale del bene al beneficiario. Pertanto la circostanza che il beneficiario sia individuato fin dall’atto istitutivo non giustifica l’immediata tassazione proporzionale, dal momento che la sola designazione, per quanto contestuale e palese (c.d. trust ‘trasparente’), non equivale in alcun modo a trasferimento immediato e definitivo del bene, con quanto ne consegue in ordine all’applicazione dei già richiamati principi impositivi; nell’ipotesi del trust liquidatorio non si dubita della effettività del trasferimento al trustee dei beni da liquidare, ma ciò non esclude che, anche in tal caso, sia connaturato al trust che tale trasferimento sia mero veicolo tanto dell’effetto di segregazione quanto di quello di destinazione. Ancora una volta, dunque, si tratterà di individuare e tassare gli atti traslativi propriamente detti (che sono quelli di liquidazione del patrimonio immobiliare di cui il trust sia stato dotato), non potendo assurgere ad espressione di ricchezza imponibile, né l’assegnazione-dotazione di taluni beni alla liquidazione del trustee in funzione solutoria e nemmeno, in tal caso, la ripartizione del ricavato ai beneficiari a dovuta soddisfazione dei loro crediti. Si tratta, in conclusione, di risoluzione che può ricondurre ad unità anche quegli indirizzi che, pur condivisibilmente discostandosi dall’originaria posizione interpretativa di cui in Cass. nn. 3735, 3737, 3886, 5322 del 2015 cit., hanno tuttavia ritenuto di dover mantenere dei di rASSeGNA AVVOCATUrA deLLO STATO -N. 4/2020 stinguo in relazione a fattispecie di trust reputate peculiari ed in qualche modo divergenti dal paradigma convenzionale. 10. Ciò divisato, giova osservare che, da quanto si evince dalla pronuncia impugnata, il trust in questione è un trust “auto-dichiarato”, istituito dal disponente che ha nominato se stesso quale trustee; istituendo come beneficiario omissis. Quindi, nel caso del c.d. trust auto-dichiarato, connotato dalla coincidenza di disponente e trustee è ravvisabile, in mancanza di un trasferimento patrimoniale intersoggettivo con funzione di dotazione, sia la volontà di segregazione, sia quella di destinazione. Anzi, è proprio la mancanza di quel trasferimento patrimoniale intersoggettivo a rendere, in tal caso, ancor più evidente e radicale l’incongruenza dell’applicazione dell’imposta proporzionale sull’atto istitutivo e su quello di apposizione del vincolo all’interno di un patrimonio che rimane in capo allo stesso soggetto (applicazione già esclusa, nel trust autodichiarato, da Cass. n. 21614/2016 e da Cass. n. 22756/2019; n. 22758/2019; Cass. n. 16699/2019; Cass n. 19167/2019; Cass. n. 30821/2019; Cass. n. 30816/2019). In definitiva, deve qui affermarsi che: -la costituzione del vincolo di destinazione di cui all’art. 2, comma 47, d.l. n. 262 del 2006, conv. in l. n. 286 del 2006, non integra autonomo e sufficiente presupposto di una nuova imposta, in aggiunta a quella di successione e di donazione; un trasferimento imponibile non è riscontrabile, né nell’atto istitutivo, né nell’atto di dotazione patrimoniale tra disponente e trustee -in quanto meramente strumentali ed attuativi degli scopi di segregazione e di apposizione del vincolo di destinazione -ma soltanto in quello di eventuale attribuzione finale del bene al beneficiario, a compimento e realizzazione del trust medesimo. 8. In conclusione, il ricorso non merita accoglimento. Le spese del giudizio di legittimità vanno integralmente compensate tra le parti, avuto riguardo alle obiettive incertezze indotte dal quadro normativo di riferimento, alle antinomie ed oscillazioni, emerse negli orientamenti della giurisprudenza di legittimità che giustificano la compensazione delle spese del presente giudizio. rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato, per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non trova applicazione il citato art. 13. P.Q.M. rigetta il ricorso e compensa le spese del presente giudizio. Così deciso il 3.11.2020, nell’adunanza camerale tenutasi da remoto della sezione tributaria della Corte di cassazione. CONTrIBUTI dI dOTTrINA La successione dello Stato Fabiana D’Avino* SoMMARIo: 1. Ratio e presupposti del fenomeno -1.1 Mancanza di successibili. La non notorietà del chiamato rientra nei presupposti della successione dello Stato? -1.2 Eredità lasciata da un cittadino italiano all’estero ovvero da un cittadino straniero in Italia. Criterio per l’individuazione della legge applicabile alla successione: residenza del defunto, regolamento UE n. 650/2012 -2. Excursus storico, disciplina e natura del fenomeno -3. Qualificazione della posizione giuridica dello Stato. 1. Ratio e presupposti del fenomeno. La successione dello Stato è disciplinata dall’art. 586 c.c., ai sensi del quale “in mancanza di altri successibili, l’eredità è devoluta allo Stato. L’acquisto si opera di diritto senza bisogno di accettazione e non può farsi luogo a rinunzia. Lo Stato non risponde dei debiti ereditari e dei legati oltre il valore dei beni acquistati”. Ai fini del preliminare inquadramento della fattispecie, in primis è opportuno circoscrivere l’operatività del fenomeno nell’ambito della disciplina della successione legittima di cui al titolo II del libro II del codice civile (artt. 565 e ss.), escludendo quindi quella testamentaria, prevista nel titolo immediatamente successivo dello stesso libro, agli artt. 587 e ss. Muovendo dall’assunto dell’art. 457 comma 1 c.c. per cui “l’eredità si devolve per legge o per testamento”, si desume a contrario che tali due categorie del sistema successorio ereditario si differenziano in ordine alla modalità di assegnazione dell’eredità: rispettivamente, designazione ope legis a favore di determinate categorie di individui versus designazione per precisa volontà testamentaria del de cuius. Lo Stato, in quanto persona giuridica dotata di soggettività e personalità (rectius in quanto soggetto di diritto titolare di situazioni giuridiche soggettive che gode di autonomia patrimoniale perfetta), è capace di ricevere per testamento e, al verificarsi di questa ipotesi, il fenomeno rientra a pieno titolo nella disciplina della successione testamentaria, con tutti i limiti che le appartengono. Ne dipende l’applicazione di tre principi. In primo luogo, il principio di certezza della volontà testamentaria di cui all’art. 628 c.c., che afferma che “è nulla ogni disposizione fatta a favore di persona che sia indicata in modo da non essere determinata” in applicazione della regola generale dell’art. 1346 c.c. ai sensi del quale “l’oggetto del contratto deve essere … determinato o determinabile”. Segue il principio di personalità della volontà testamentaria (*) dottoressa in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura generale dello Stato (avv. St. Amedeo elefante). rASSeGNA AVVOCATUrA deLLO STATO -N. 4/2020 sancito dall’art. 631 comma 1 c.c. per cui “è nulla ogni disposizione testamentaria con la quale si fa dipendere dall’arbitrio di un terzo l’indicazione dell’erede o del legatario, ovvero la determinazione della quota di eredità”. Infine, vige altresì il principio della libertà testamentaria, in merito al quale l’ereditando può discrezionalmente decidere dei propri beni, arginato dalla riserva di una quota indisponibile, la cosiddetta quota di legittima, imposta dal legislatore in favore degli stretti congiunti (figli, coniugi e, quando non vi siano figli, ascendenti). A ben vedere però, per quanto lo Stato possa essere designato in qualità di erede per precisa volontà testamentaria del de cuius integrando così gli estremi del fenomeno della successione testamentaria, l’ipotesi sottesa alla previsione dell’art. 586 c.c., non è ascrivibile a detta categoria, ma vede lo Stato annoverato dal legislatore nella categoria dei successibili ex lege insieme al coniuge, ai discendenti, agli ascendenti, ai collaterali e agli altri parenti entro il sesto grado, come elencati dall’art. 565 c.c. La fattispecie de qua rispetto alla successione legittima si pone in un rapporto di species a genus, pertanto in quest’ottica di comparazione se ne possono evidenziare ratio e presupposti. In merito al fondamento della categoria in analisi, la dottrina è divisa tra chi ne rinviene uno unico (1) in tutte le ipotesi e chi invece distingue (2) a seconda delle categorie di successibili. Per i primi, il fenomeno successorio risponde sempre alla stessa finalità di interesse generale di garantire la titolarità del patrimonio (3), il che comporta, come extrema ratio e in mancanza di familiari e parenti nei gradi ritenuti idonei dalla legge, la chiamata dello Stato in quanto ente rappresentativo della collettività. L’unico distinguo in quest’ultimo caso, è il carattere residuale della vocazione. Ad avviso dei secondi invece, la successione dei componenti della famiglia risponde alla presunta volontà del de cuius e all’intensità del vincolo tra i congiunti e il defunto, mentre quella dello Stato prescinde da una ratio di solidarietà familiare e ha la funzione di garantire la conservazione dei beni assicurando la continuità dei rapporti giuridici e la valorizzazione dell’utilità economica dei beni. Quale delle due si condivida, è intuitivo che la scelta di configurare lo Stato quale successore di ultima istanza si spiega in considerazione della presunta as (1) TAMBUrrINO G., Successione legittima (Dir. Priv.), Enciclopedia del Diritto, xLIII, 1990. (2) MeNGONI L., Delle successioni legittime, Libro secondo (Artt. 565-586), in Comm. SCIALOjA e BrANCA, Bologna-roma, 1985, 17 ss.; TOrreNTe A. -SCHLeSINGer P., Manuale di diritto privato, Milano, 2019, xxIV ed., p. 1346. (3) Così TAMBUrrINO G.: “onde in primis la concessione all'autonomia privata di indicare a chi si vuole che il proprio patrimonio si trasmetta e secondariamente, quando l'autonomia privata non funzioni, è la legge che determina i successibili”. CONTrIBUTI dI dOTTrINA senza di un vincolo familiare per i parenti oltre il sesto grado (fino al regio decreto n. 1686/1916 il grado dei successibili si estendeva fino al decimo). rispetto ai presupposti, la regola perché possa aversi successione legittima, è la necessaria concorrenza di tre condizioni (4): a) l’apertura della successione, che avviene nel momento della morte naturale: la morte è l’effetto causale della successione, fino a quel momento non c’è alcun tipo di aspettativa giuridicamente tutelata, b) il titolo a succedere, quindi l’appartenenza alla categoria di successibili individuati dalla legge e c) la mancanza, totale o parziale, della successione testamentaria, per tale intendendosi: l’inesistenza di un testamento, l’esistenza di un testamento contenente solo disposizioni a titolo particolare, l’esistenza di un testamento contenente disposizioni a titolo universale che non coprano tutto l’asse ereditario, un testamento revocato, un testamento nullo o annullato, un testamento inefficace per deficienza della condizione sospensiva o avveramento della condizione risolutiva, la risoluzione della disposizione testamentaria provocata dall’inadempimento del- l’onere, la mancanza di accettazione dell’eredità (rinuncia prescrizione decadenza) senza che si faccia luogo a sostituzione, la rappresentazione o l’accrescimento, la pronunzia dell’indegnità dell’erede, i nascituri che non vengano ad esistenza (5). Oltre a queste tre condizioni, il quid pluris perché possa aversi la devoluzione del patrimonio ereditario secondo successione (legittima) dello Stato è consacrato dal legislatore nell’espressione negativa di apertura della disposizione “la mancanza di altri successibili” ed è altresì sottinteso nel rapporto di cittadinanza tra il de cuius e lo Stato italiano, ovvero, trattandosi di defunto apolide, nella sua residenza nello stesso. Tralasciando il rapporto tra successione testamentaria e legittima, si precisa che anche qualora il de cuius abbia disposto di solo una parte dei suoi beni, è ben possibile che lo Stato succeda per la restante parte. 1.1 Mancanza di successibili. La non notorietà del chiamato rientra nei presupposti della successione dello Stato? Con la dicitura del primo presupposto negativo espresso “mancanza di altri successibili”, si intende il caso in cui manchino altri successibili testamentari o successibili legittimi (coniuge e parenti entro il sesto grado), ovvero siano indegni (artt. 463 e ss.), ovvero il testamento sia invalido, ovvero non accettino nel termine (art. 480 c.c.), ovvero rinunzino all'eredità (art. 519 c.c.). La prima ipotesi, alla quale è parificato il caso in cui gli eredi non siano noti (infra), integra gli estremi di una delazione immediata. Nei restanti casi, lo Stato viene alla successione in base ad una delazione successiva (6). (4) TAMBUrrINO G., op. cit., passim. (5) CAPOZZI G., Successioni e Donazioni, I, IV ed., Milano, 2015, pp. 605-606. rASSeGNA AVVOCATUrA deLLO STATO -N. 4/2020 Chiarito come vada interpretata la locuzione “mancanza di altri successibili”, è discusso se possa sottintendersi nella dizione anche l’ipotesi della non notorietà del chiamato, non desumile dal dato letterale. Sotto il vigore dell’abrogato codice civile Pisanelli del 1865, l’allora art. 980 prevedeva espressamente che questa ipotesi costituisse condizione per l’operatività dell’istituto dell’eredità giacente, preposto allo scopo di assicurare la conservazione del patrimonio, nei casi in cui il chiamato non vi provveda (7). Ne dipendeva, dunque, il ricorso ad un sistema di amministrazione e gestione dei beni del de cuius, affidato ad un curatore nominato giudizialmente d’ufficio o su istanza degli interessati (chiamati, legatari, creditori, etc.). Medio tempore, e fino all’accertamento dell’insussistenza dei successibili, era quindi preclusa la successione dello Stato (8). L’attuale disciplina della giacenza, come formulata dell’art. 528 introdotto nel 1942, prevede che si configuri tale istituto al ricorrere di tre condizioni: a) la mancata accettazione dell’eredità dal chiamato, b) il mancato possesso dei beni ereditari da parte dello stesso e c) la nomina del curatore con decreto del Tribunale del circondario in cui si è aperta la successione. dal dettato codicistico si evince, l’omissione di qualsiasi riferimento all’ipotesi della non notorietà: quindi, deve ritenersi parificata (rectius sottesa) a quelle espressamente elencate dall’art. 528 c.c.? O deve rientrare nella “mancanza di successibili” di cui all’art. 586 c.c.? detto altrimenti, qualora si ignori se vi siano chiamati all’eredità, si ritengono sussistenti gli estremi della giacenza o segue l’immediata devoluzione allo Stato? Il risvolto pratico dell’interrogativo sta, evidentemente, nella individuazione del soggetto deputato all’amministrazione e alla gestione dell’eredità. La risposta non è pacifica, la dottrina oscilla tra le due soluzioni opposte ed una terza intermedia. La prima tesi (9) sostiene la necessità della fase dell’eredità giacente e argomenta dalla relazione al re n. 255, dalla quale risulta che nel corso dei lavori preparatori al nuovo codice, la questione della non notorietà, pur affrontata, si ritenne superflua da disciplinare in modo espresso poiché “è evidente che essa è già compresa in quella del chiamato che non accetti e non si trovi nel possesso dei beni”. (6) VASSALLI M.N., La successione dello Stato, in Successioni e donazioni, a cura di P. reSCIGNO, Padova, 1994, pp. 685 e ss. (7) dI LOreNZO G., L’eredità giacente, in Tratt. dir. successioni e donazioni, I, La successione ereditaria, Milano, 2009, p. 1177. (8) Così ricostruito da SPOTTI F., Il problema della giacenza dell’eredità nel caso in cui i chiamati siano ignoti, in Famiglia, Persone e Successioni, 2009, pp. 981-982. (9) AZZArITI G., Successioni dei legittimari e successioni dei legittimi, in Giust. sist. Bigiavi, Torino, 1989, 2 ed., pp. 379 e ss. CONTrIBUTI dI dOTTrINA In particolare, afferma che detta fase transitoria serve a scopo di indagine, al fine di effettuare accertamenti circa l’esistenza di parenti entro il sesto grado ed, eventualmente, al fine di verificare la mancanza di successibili che sarà oggetto di declaratoria ope iudicis su istanza del curatore. La garanzia giudiziaria è necessaria ed ha luogo nella misura in cui l’indagine non potrebbe essere demandata al mero diretto interessato (Stato). In posizione intermedia, tra quest’ultimo e l’orientamento opposto, un secondo filone (10) sostiene la tesi della giacenza ponte. In quest’ottica, la non notorietà del chiamato rientra della “mancanza di successibili” ex art. 586 c.c., ma non osta alla nomina di un curatore ex art. 528 c.c. Precisamente, tale ultimo assolve al compito di liquidare le passività e una volta espletato, ha luogo la fine della giacenza. Il che costituisce una deroga alla disciplina regolare della curatela, che cessa ope legis con l’acquisto dell’eredità. La terza ed ultima tesi (11), attenendosi al dato letterale, deduce che l’art. 528 c.c., per ritenere integrati gli estremi dell’istituto della giacenza, postula espressamente la presenza di un chiamato, e precisamente di un chiamato che non abbia accettato o che non sia nel possesso dei beni, ma che pur sempre sia già individuato. Il che nulla ha a che vedere con la situazione di incertezza propria dell’ipotesi discussa: se il chiamato non è noto, allora non può esserci mancata accettazione né mancato possesso dei beni. Non può farsi rientrare nei presupposti di cui all’art. 528, la condizione in cui un chiamato non vi sia, proprio in quanto ignoto. Il che, piuttosto, rientra esattamente nella “mancanza di successibili” che determina l’acquisto del- l’eredità da parte dello Stato ipso iure. A fortiori in tal senso depone l’analisi della ratio dell’istituto della giacenza (12), che nel caso di non notorietà, non ha ragion d’essere: serve a garantire l’amministrazione e la gestione dei beni nelle more dell’acquisto dell’eredità, ma visto che lo Stato è per definizione erede noto e visto che succede senza bisogno di accettazione, allora non può configurarsi un’ipotesi di mancata accettazione e non può rispondere a nessuna esigenza la nomina giudiziale di un curatore. Tutto quanto sostenuto, non osta alla possibilità che entro la scadenza del termine di prescrizione del diritto di accettazione dell’eredità, si rinvenga l’esistenza di altri successibili o anche di un testamento. In tal caso, la delazione a favore dello Stato decade con efficacia retroattiva. (10) CICU A., Successioni per causa di morte. Parte generale. Delazione e acquisto dell’eredità, in Tratt. CICU -MeSSINeO, Milano, 1954, pp. 139 e ss.; FerrI L., Successioni in generale. Dell’eredità giacente. Artt. 528-532, in Comm. SCIALOjA e BrANCA, Bologna - roma, 1970, pp. 190 e ss. (11) MeNGONI L., Le Successioni, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1987, pp. 1077 e ss.; Id., Delle successioni legittime, cit., p. 126; TrIMArCHI V.M., L’eredità giacente, Milano, 1954, p. 30, nt. 36. (12) SPOTTI F., Il problema della giacenza dell’eredità nel caso in cui i chiamati siano ignoti, cit., p. 983. rASSeGNA AVVOCATUrA deLLO STATO -N. 4/2020 Ulteriore argomento a sostegno della conclusione nel senso della successione Stato, è la corretta lettura dell’art. 70 c.c., in tema di chiamata di persona della quale si ignori l’esistenza, che prevede la devoluzione ai chiamati ulteriori, anche provvisoria, in quanto sottoposta a condizione risolutiva. Il che ne comporta l’esclusione dall’ambito di applicazione del fenomeno de qua. A ben vedere infatti, prescindendo dalle dispute che attribuiscono alla disposizione di cui sopra valore processuale o sostanziale, ogni suo impiego ai fini del sostegno alle tesi contrarie all’applicazione dell’art. 586 c.c., è strumentale e infondato: l’art. 70 c.c. presuppone l’ipotesi di chiamato scomparso o assente, vale a dire di un chiamato noto di cui si ignora l’esistenza (13). Altra è l’ipotesi in cui si ignori se un chiamato esista o sia mai esistito (14). 1.2 Eredità lasciata da un cittadino italiano all’estero ovvero da un cittadino straniero in Italia. Criterio per l’individuazione della legge applicabile alla successione: residenza del defunto, regolamento UE n. 650/2012. Al primo presupposto positivo espresso della “mancanza di successibili” se ne aggiunge un secondo positivo inespresso, ovvero il rapporto di residenza del defunto con lo Stato. Per quest’ultimo fungono da spartiacque prima la riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato di cui alla L. 218/1995 che al capo VII disciplina le successioni (artt. 46-50) e poi l’intervento del legislatore unionale con regolamento n. 650/2012 del 4 luglio “relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e all’accettazione e all’esecuzione degli atti pubblici in materia di successioni e alla creazione di un certificato successorio europeo”. La questione oggetto dell’excursus normativo è volta concretamente a dirimere le problematiche legate ai casi di eredità lasciata da uno straniero in Italia ovvero da un cittadino italiano all’estero (15), individuando la legge applicabile ad una successione, rectius i criteri da impiegare a tale fine. La conseguenza applicativa dell’indagine si riscontra nella qualificazione giuridica della posizione dello Stato in relazione all’eredità e precisamente nel rapporto di diritto privato successorio versus di diritto pubblico per sovranità, in quanto manifestazione della potestà d’imperio (infra § 3). Il quadro normativo precedente all’intervento della riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato si risolveva nell’art. 23 delle preleggi, ai sensi del quale “le successioni per causa di morte sono regolate, ovunque siano i beni, dalla legge dello Stato al quale apparteneva, al momento della morte, la persona della cui eredità si tratta”. (13) TrIMArCHI V.M., op. cit., p. 31; AZZArITI G., op. cit., p. 385. (14) SPOTTI F., op. cit., p. 984. (15) VASSALLI M.N., op. cit., pp. 690 e ss. CONTrIBUTI dI dOTTrINA dunque, vigeva un criterio di collegamento oggettivo rimandando alla legge nazionale del defunto (16). Assumendo che la legge italiana qualifica la successione dello Stato iure privatorum (infra § 3), la problematica sorgeva quando la legge nazionale del defunto la qualificava iure imperii. A ben vedere, nel caso di cittadino straniero che avesse lasciato la propria eredità in Italia, se lo Stato estero rivendicava la propria eredità iure imperii, questa norma non poteva fare ingresso nel sistema interno italiano, poiché ai sensi dell’art. 31 delle disposizioni preliminari vige il divieto di applicazione del diritto straniero se incompatibile con l’ordinamento pubblico. Quindi si ricorreva al criterio della lex loci di cui all’art. 22 delle stesse preleggi e nel rispetto della legge del luogo nel quale si trovano le cose, succedeva lo Stato italiano. Per alcuni (17) succedeva ai sensi dell’art. 586 c.c. e per altri (18) non potendosi applicare l’art. 586 c.c. perché nel caso di defunto straniero mancava il rapporto di cittadinanza con lo Stato, questo succedeva per occupazione ex art. 827 c.c. nei beni immobili e ex art. 923 c.c. nei beni mobili. Con la L. 218/1995, il legislatore ha parzialmente risolto l’empasse dando un riconoscimento positivo a quest’ultima soluzione. dapprima ha ribadito all’art. 46 il criterio della nazionalità del testatore, con clausola di salvezza nel caso in cui il de cuius avesse scelto con dichiarazione testamentaria la legge dello Stato di residenza. A ben vedere, infatti, si prevede che “la successione per causa di morte è regolata dalla legge nazionale del soggetto della cui eredità si tratta, al momento della morte” sebbene “il soggetto della cui eredità si tratta può sottoporre, con dichiarazione espressa in forma testamentaria, l'intera successione alla legge dello Stato in cui risiede […]”. In secondo luogo, ha esplicitamente disciplinato il caso dell’eredità lasciata in Italia da un cittadino straniero il cui Stato estero qualifica la successione dello Stato iure imperii all’art. 49, specificando che “quando la legge applicabile alla successione, in mancanza di successibili, non attribuisce la successione allo Stato, i beni ereditari esistenti in Italia sono devoluti allo Stato italiano”. È equiparato il caso di cittadino italiano che lasci i beni in uno Stato estero: lo Stato italiano subentra al de cuius solo se la legge dello Stato in cui si trova l’eredità qualifica la successione iure hereditario. Ne dipende quindi la soluzione all’ipotesi di conflitto negativo, ovvero all’ipotesi in cui nessuno Stato, né straniero né italiano, avrebbe titolo ad entrare nel possesso dei beni. (16) ONdeI e., Per un ampio diritto di successione dello Stato sui beni privati, in Riv. dir. civ., 1963, I, pp. 324 e ss. (17) Sotto il vigore del codice abrogato: ZANZUCCHI M.T., Successioni legittime, Milano, 1929, p. 211. (18) MeNGONI L., Delle successioni legittime, cit., pp. 210 e 231. rASSeGNA AVVOCATUrA deLLO STATO -N. 4/2020 A partire dall’entrata in vigore del regolamento eU n. 650/2012, per natura self executing e quindi efficace a prescindere da atti nazionali di recepimento, l’art. 21 comma 1, sovvertendo la precedente gerarchia, risolve anche l’ipotesi di conflitto positivo, quindi l’ipotesi in cui sia lo Stato straniero sia quello italiano avanzino pretese sull’eredità senza successibili, prevedendo che “… la legge applicabile all’intera successione è quella dello Stato in cui il defunto aveva la propria residenza abituale al momento della morte”. Il comma 2 dello stesso articolo ammette una clausola di salvezza per il caso in cui “il defunto aveva collegamenti manifestamente più stretti con uno Stato diverso da quello la cui legge sarebbe applicabile ai sensi del paragrafo 1”, riconoscendo applicabile alla successione la legge di tale altro Stato. resta poi valida la facoltà di scelta della legge da parte del testatore. 2. Excursus storico, disciplina e natura del fenomeno. Una delle questioni più discusse della fattispecie disciplinata dall’art. 586 c.c., riguarda la effettiva natura del fenomeno: è da ricondursi nell’ambito degli acquisti a titolo originario o a titolo derivativo? Si impone una premessa sull’inquadramento dogmatico del tema. L’acquisto è la vicenda iniziale del rapporto giuridico: questo si costituisce “quando il soggetto attivo acquista il diritto soggettivo” (19). In particolare, è il fenomeno avente ad oggetto il collegamento tra un diritto e la persona che ne diventa titolare. Nell’acquisto a titolo originario, tale diritto sorge ex novo; in quello a titolo derivativo, si trasmette. detto altrimenti, nel secondo caso si verifica una successione: il passaggio di un diritto dal patrimonio giuridico di un soggetto a quello di un altro, il che, in prospettiva opposta, si risolve nel mutamento del titolare di un diritto soggettivo. La successione è suscettibile di classificazioni alla stregua di vari criteri: può riguardare il lato attivo o quello passivo; può essere a titolo universale, se investe la totalità dei rapporti facenti capo ad un soggetto, nella componente attiva e in quella passiva, oppure a titolo particolare, se concerne solo alcuni di essi, determinati. Le modalità più frequenti con le quali si verifica una successione, e quindi ha luogo un acquisto a titolo derivativo, sono il contratto e la successione mortis causa. rispetto ai modi d’acquisto a titolo originario, invece, nell’elencazione rientrano: l’occupazione, l’invenzione, l’accessione, l’usucapione e il possesso in buona fede dei beni immobili. Ai fini dell’analisi della fattispecie di cui all’art 586 c.c., è sufficiente soffermarsi solo sull’occupazione. (19) TOrreNTe A. - SCHLeSINGer P., op. cit., p. 84. CONTrIBUTI dI dOTTrINA Ex art. 923 c.c., “Le cose mobili che non sono in proprietà di alcuno si acquistano con l’occupazione. Tali sono le cose abbandonate […]”. Se ne deduce che l’occupazione consiste “nella presa di possesso con l’intenzione di acquisirle” (20) di res nullius e res derelictae, dunque ha ad oggetto solo cose mobili. Per i beni immobili, invece, l’art. 827 c.c. dispone che “se non sono di proprietà di alcuno, spettano al patrimonio dello Stato”. Ciò premesso, da dove origina il dubbio in ordine alla natura del fenomeno della successione dello Stato? da alcune peculiarità della disciplina che la rendono un’ipotesi sui generis. Il riferimento è in primis al carattere necessario dell’acquisto, cioè alla sua operatività ipso iure senza bisogno di accettazione. Seguono l’irrinunziabilità, quindi l’esclusione del potere di rinuncia, e la responsabilità limitata del successore intra vires. Non è l’unica ipotesi di automatismo dell’acquisto prevista dall’ordinamento. Accedono ad un acquisto ipso iure anche il chiamato nel possesso dei beni ereditari che non compie l’inventario o non fa la dichiarazione nei termini previsti dall’articolo 485 c.c. e il chiamato che sottrae o nasconde beni ereditari, che ai sensi dell’articolo 527 c.c. è considerato direttamente erede puro e semplice. L’eccezionalità della disciplina importa l’esclusione dell’operatività di alcune norme di portata generale. In primis nella disciplina della successione dello Stato non trova applicazione l’istituto dell’accettazione con beneficio di inventario (art. 473), né logicamente le disposizioni ad esso collegate quali le cause di decadenza dallo stesso beneficio, come l’alienazione dei beni ereditari senza autorizzazione giudiziaria (art. 493 c.c.) o l’ipotesi di omissioni ed infedeltà nell’inventario (art. 494 c.c.). Lo Stato sarà sempre tenuto a rispondere intra vires e cum viribus hereditatis. È quindi preclusa anche l’applicabilità di ogni previsione volta alla perdita del beneficio della responsabilità limitata, tra cui l’istituto della separazione dei beni (art. 512 c.c.) che per di più determina anche l’incompatibile conseguenza della confusione dei patrimoni. In ultimo luogo, evidentemente non figura neppure il termine decennale per l’accettazione, salvo poi cadere in prescrizione (art. 480) (21). In passato, parte della dottrina (22) ha ritenuto di ricondurre la fattispecie ad un’ipotesi di acquisto a titolo originario iure accessionis. Oggi è pacifico ritenere prevalente la posizione che sostiene l’acquisto a titolo derivativo iure successionis, sebbene ciò non equivalga a riconoscere allo Stato la qualifica di erede. In effetti, resta aperta la diatriba in ordine al titolo giuridico a fondamento della successione: mortis causa versus iure imperii (infra § 3). (20) TOrreNTe A. - SCHLeSINGer P., op. cit., p. 291. (21) VASSALLI M.N., op. cit., pp. 687-688. (22) CICU A., Le successioni. Parte generale. Successione legittima e dei legittimari. Testamento, Milano, 1947, p. 207; BArSI L., Le successioni per causa di morte, II ed., Milano, 1944, pp. 239 e ss. rASSeGNA AVVOCATUrA deLLO STATO -N. 4/2020 Operando una ricostruzione dell’evoluzione storica (23), l’istituto affonda le proprie radici nel periodo del diritto romano. Inizialmente i bona vacantia potevano diventare di proprietà di chiunque per usucapione, poi vennero attribuiti al fiscus che le acquistava ipso iure, seppur per ragioni pubblicistiche e senza subentrare in locum et ius defuncti, quindi senza assumere la qualifica di heres. Nell’epoca medievale, ha preso piede la teoria del dominio eminente, per la quale su ciascun bene insistono un dominus eminens e un dominus utilis, dove il primo ha diritto di ricevere i frutti della cosa e il secondo gode del bene stesso. Alla morte del dominus utilis i diritti che gli facevano capo si assumevano alla titolarità del dominus eminens, nelle figure prima del re, poi dei comuni, dei signori e dei principi e, in ultimo, dello Stato. L’impronta evidentemente feudale di tale costruzione ne ha consentito un largo impiego nel diritto francese. Il code Napoléon l’ha recepita interamente agli articoli 539 e 713 i cui dettati riportano rispettivamente “Les biens des personnes qui décèdent sans héritiers ou dont les successions sont abandonnées appartiennent à l'Etat” e “Les biens qui n'ont pas de maître appartiennent à la commune sur le territoire de laquelle ils sont situés. Toutefois, la propriété est transférée de plein droit à l'Etat si la commune renonce à exercer ses droits”. Ne dipende che per il diritto francese lo Stato acquista a titolo originario per consolidazione. Minor seguito della teoria del dominio eminente si registra, invece, nel- l’ordinamento italiano, nel quale è tendenzialmente pacifica la natura di acquisto a titolo derivativo (infra § 2). In questo modo si supera anche la teoria dell’acquisto per occupazione, pure ascrivibile al titolo originario e non successorio e che aveva trovato sostenitori (24) sotto il vigore del codice del 1865. In effetti, la previsione normativa contenuta nell’attuale art. 586 trae origine dal disposto dell’art. 758 contenuto nel codice Pisanelli ai sensi del quale “in mancanza di persone chiamate a succedere secondo le regole stabilite nelle sezioni precedenti, l’eredità si devolve al patrimonio dello Stato”. Per entrare nell’ottica della teoria in parte condivisa prima del 1942, va premesso che all’epoca non figurava una disposizione analoga all’attuale articolo 827, che riconosce la titolarità allo Stato dei beni immobili vacanti. dunque, sotto il vecchio codice, vigeva la regola per cui i beni mobili e immobili potevano essere occupati con l’osservanza del principio della (23) rICCIOTTI G., La successione dello Stato, in Riv. not., 1969, pp. 455 e ss. (24) GABBA C.F., Indole del diritto dello Stato sulle successioni vacanti, in Nuove questioni di diritto civile, II, Torino, 1914, pp. 191 e ss. In giurisprudenza seguono questa tesi: Corte d’Appello di Lucca, 16 marzo 1886, in Legge 1887, 2, 414; Cass. Palermo, 25 luglio 1896, in Foro italiano 1897, I, 936. CONTrIBUTI dI dOTTrINA pubblicità, anche dai singoli privati. ebbene, per evitare che fosse quest’ultimo il caso, si è teorizzato (25) che nell’ipotesi dei beni ereditari, trattandosi di universitas, potevano essere occupati solo dallo Stato, in qualità di “occupante privilegiato”. Con l’introduzione del dettato che oggi impone un residuo di dominio eminente sui beni immobili vacanti, si argomenta a contrario confutando la teoria in contestazione: se effettivamente l’art. 586 attribuisse allo Stato un diritto di occupazione sulle eredità, allora l’art. 827 non avrebbe ragion d’essere (infra). Ulteriore obiezione alla teoria dell’acquisto per occupazione si rinviene nella constatazione che l’occupazione stessa per natura, in quanto atto materiale, ha effetto solo sulle singole cose materiali, non anche sui rapporti giuridici obbligatori attivi e passivi. Ne dipende che per poter essere oggetto di occupazione, l’universum ius defuncti, nel divenire res nullius, vedrebbe estinguere tutti i rapporti di credito e di debito ad esso inerenti. Anche questa è una conseguenza inammissibile (26). Sul tema della natura della successione dello Stato, si è registrato un apporto giurisprudenziale dirimente (27), una pronuncia non troppo recente, della Suprema Corte di Cassazione, intervenuta sul ricorso proposto dalla regione Trentino-Alto Adige contro l’Amministrazione Finanze dello Stato. Si precisa che la disciplina statutaria delle regioni a Statuto Speciale, in merito al regime proprietario dei bona vacantia (immobili), ne predispone l’attribuzione in favore delle stesse, derogando quindi al diritto statuale alla relativa acquisizione. Nella ricostruzione del fatto, la vicenda ha riguardato la titolarità dell’eredità di una donna deceduta senza lasciare testamento né successibili, dunque la titolarità era contesa tra Stato e regione a Statuto Speciale. Nella parte in diritto, il giudizio verteva sull’interpretazione dell’art. 67 comma 2 dello Statuto della regione, approvato con d.p.r. n. 670/1972, il quale art. dispone che: “I beni immobili situati nella Regione, che non sono di proprietà di alcuno, spettano al patrimonio della Regione”. Posto che si tratta di norma dal valore costituzionale, sovraordinata alle fonti codicistiche aventi rango di leggi ordinarie e dunque preferita nell’applicazione, l’art. 67 comma 2 di cui sopra, deve interpretarsi nel senso che costituisce una deroga solo all’art. 827 c.c., in tema di beni immobili vacanti? O ad entrambi gli artt. 586 e 827 c.c.? (25) GABBA C.F., op. cit., p. 195. (26) rICCIOTTI G.B., op. cit., p. 461. (27) Cass. Sez. II, 11 marzo 1995, n. 2862. Con nota di CArINGeLLA F., Lo Stato quale erede necessario nelle regioni a statuto speciale / verso un raccordo tra disciplina codicistica e normativa statutaria, Il Corriere Giuridico, VIII, 1995, pp. 954 e ss. e di OrLANdONI M., Devoluzione allo Stato dell'eredità in assenza di ulteriori successibili: natura dell'acquisto, in Notariato, n. 1/1996, pp. 18 e ss. rASSeGNA AVVOCATUrA deLLO STATO -N. 4/2020 Propedeutica alla risposta all’interrogativo, è la definizione del rapporto tra i due articoli del codice. Il Trentino-Alto Adige, avocava a sé la titolarità dell’eredità, argomentando dalla parificazione degli stessi, rispondenti alla medesima ratio, “avendo l’unico scopo di impedire che i beni diventino res nullius”. dunque, la regione riteneva entrambi gli articoli destinati a soccombere a favore dell’applicazione della norma statutaria, in quanto fonti in posizione gerarchica inferiore a quest’ultima. L’Avvocatura dello Stato, d’altro canto, rivendicava la devoluzione del- l’eredità sostenendo che agli artt. 586 e 827 c.c. per nulla fossero preposti al soddisfacimento della stessa esigenza, ma anzi fossero collocati su due piani diversi: rispettivamente acquisto a titolo derivativo e acquisto a titolo originario. Ne dipendeva che l’art. 67 comma 2 dello Statuto, per quanto sovraordinato al dettato codicistico, prevalesse tuttalpiù solo sull’art. 827, a cui evidentemente deroga, lasciando tuttavia impregiudicata l’operatività dell’art. 586 c.c., nel quale era invece perfettamente sussumibile il caso di specie. Nell’iter giudiziale, il Tribunale di Trento prima e la Corte d’Appello del capoluogo, poi, hanno condiviso la soluzione ermeneutica della difesa erariale, confermata poi anche in ultimo grado. A ben vedere, i Giudici della Suprema corte hanno ritenuto che “L'indicazione dello Stato tra i successibili nell'art. 565 c.c., la collocazione dell'art. 586 c.c. nel titolo dedicato alle successioni legittime, l'uso del verbo devolvere, adoperato da entrambe tali norme, e la previsione del principio secondo cui lo Stato risponde nei limiti del valore dei beni assegnati (art. 586, ultimo comma, c.c.), sono elementi decisivi per ritenere che l'acquisto di cui all'art. 586 c.c. avvenga iure successionis e, quindi, a titolo derivativo, e non costituisca specificazione di quello a carattere chiaramente originario, contemplato dalla disposizione dell'art. 827 c.c. Né può indurre a conclusione diversa l'automaticità dell'acquisto statale, nell'ipotesi disciplinata dall'art. 586 c.c., perché questa norma si riferisce al patrimonio ereditario comprensivo anche di mobili e di crediti, mentre quella dell'art. 827 c.c. riguarda soltanto i beni immobili. Pertanto, l'art. 67 dello Statuto per il Trentino-Alto Adige […] ha apportato deroga all'art. 827 c.c., cui è legato da un evidente nesso, ma non ha modificato l'art. 586 c.c., il quale è tuttora in vigore nel territorio della Regione Trentino-Alto Adige, perché opera nel diverso campo della successione a causa di morte” . In questo senso, quindi, la Cassazione, per interpretare la norma statutaria di cui si controverteva, ha preliminarmente inquadrato i due modi di acquisto della proprietà da parte dello Stato, classificando l’art. 586 alla stregua di un acquisto iure successionis e l’art. 827 come acquisto iure occupationis. In subordine, ha dedotto che l’art. 67 comma 2 dello Statuto del Trentino-Alto Adige, che deroga solo all’art. 827 c.c. e che solo su questo prevale, non si estende a fattispecie del campo successorio. CONTrIBUTI dI dOTTrINA In conclusione, si assume il primato della tesi dell’acquisto a titolo derivativo e manca individuare se lo Stato succeda a titolo di erede o a titolo particolare per diritto di sovranità, dunque lo scenario resta circoscritto alla teoria ereditaria e a quella pubblicistica. 3. Qualificazione della posizione giuridica dello Stato. Se la ricostruzione del dibattito sviluppatosi intorno alla natura del fenomeno giunge ad una conclusione tendenzialmente pacifica, altrettanto condivisa non è la qualificazione della posizione giuridica dello Stato (28). Pur considerando il fenomeno di cui all’art. 586 c.c. avente natura di acquisto a titolo derivativo iure successionis, qual è il titolo giuridico di tale acquisto? esclusa la natura di acquisto a titolo originario iure occupationis ed appurata quella di stampo derivativo iure successionis, non è unanimemente affermato il corollario della qualifica di erede o di legatario allo Stato. A ben vedere, altro è riconoscere la natura dell’acquisto a titolo derivativo per successione, altro è riconoscere la natura dell’acquisto a titolo derivativo per successione mortis causa e quindi qualificare la posizione giuridica dello Stato come erede o legatario. Per quanto la premessa sia ormai condivisa, lo stesso non può dirsi delle implicazioni. Nulla quaestio che l’erario subentri nella posizione di un precedente titolare del diritto e che questo non sorga ex novo, ma la successione dello Stato è a titolo ereditario o extra ereditario? Laddove il titolo extra ereditario si rinviene nello ius imperii, quindi nella potestà sovrana che gli fa capo. Quanto osta alla pacifica ascrivibilità del fenomeno alla modalità della successione mortis causa è la peculiarità della disciplina nelle componenti di: acquisto ipso iure, irrinunziabilità e responsabilità limitata intra vires. Ad avviso di una parte della dottrina (29), fautrice della teoria pubblicistica, l’interesse pubblico e la necessità sociale che un patrimonio non resti privo di titolare spiegano le deroghe alla impostazione del fenomeno successorio in generale, ma l’eccezionale esclusione del potere di rinuncia preclude la configurazione dello Stato successore a titolo di erede o di legatario e distingue la sua vocazione da quella dei privati, la cui la sfera privata non è modificabile senza il relativo consenso. L’operatività dell’articolo 588 c.c. che impone l’assunzione della qualità di erede a chi succede nell’universalità o in (28) MOreTTI M., Art. 586 c.c. Della successione dello Stato, in Commentario del codice civile diretto da e. GABrIeLLI, Torino, 2010, p. 128. (29) Sostenitori della teoria della successione a titolo particolare per diritto di sovranità: SANTOrO PASSAreLLI F., Teoria della successione legittima dello Stato, in Scritti in onore di Alfredo Ascoli, Messina, 1931, pp. 23 e ss.; rICCIOTTI G.B., op. cit., pp. 469 e ss.; CArrArO L., La vocazione legittima alla successione, Padova, 1979, pp. 211-212. rASSeGNA AVVOCATUrA deLLO STATO -N. 4/2020 una quota dei beni del de cuius è circoscritta alla sola successione mortis causa a titolo privato e volontario. Il fenomeno ha natura successoria perché lo Stato subentra sì nell’universum ius defuncti, sebbene non in quanto erede né in quanto legatario. Vi subentra nell’esercizio dello ius imperii che gli fa capo, adempiendo ad un munus publicum. L’acquisto avviene ispo iure e senza possibilità di rinuncia perché tale è la funzione pubblica che la successione dello Stato è preposta ad assolvere: necessaria ed irrinunciabile. La ratio dell’istituto, quindi, giustifica la peculiarità della disciplina e tale peculiarità, giustifica altresì il titolo della vocazione dello Stato (non ereditario ma per diritto di sovranità) e quindi la posizione giuridica sui generis che riveste (non essendo erede né legatario). Se ne deduce altresì che l’universitas del de cuius costituisce un patrimonio separato che non si fonde con quello dello Stato e che per questo ne consente la responsabilità intra vires (30). Sul versante opposto (31), a favore dell’inquadramento nei termini di acquisto per successione mortis causa, e quindi della teoria ereditaria, depongono alcuni elementi di carattere letterale: l’indicazione dello Stato tra i successibili ex lege nell’art. 565 c.c., la collocazione dell’art. 586 c.c. nel titolo dedicato alle successioni legittime, l’impiego del verbo “devolvere” e la limitazione delle responsabilità dello Stato nei limiti del valore dei beni assegnati. Chi ritiene che lo Stato acquisti iure hereditario e non iure imperii non contesta la ratio del fenomeno, che conviene nella funzione pubblica di provvedere alla cura di interessi generali, ma contesta che la sovranità assurga a titolo giuridico della successione. In conclusione, la dottrina maggioritaria, riconosce che l’istituto è preposto all’adempimento di una funzione pubblica, ma sostiene che questa si realizzi attraverso uno strumento di diritto privato quale è la successione ereditaria. Un’evidenza pratica che dipende dall’adozione di una delle due tesi si palesa nel procedimento che lo Stato deve seguire per provvedere al pagamento dei debiti e al soddisfacimento dei legati. Nell’ottica della teoria pubblicistica (32), lo Stato è tenuto a provvedere in base all’ordine cronologico delle domande, salve le cause legittime di prelazione, in ossequio al principio prior in tempore potior in iure. Seguendo invece l’impostazione della teoria ereditaria (33), lo Stato deve (30) SANTOrO PASSAreLLI F., op. cit., pp. 38-39. (31) Sostenitori della teoria della successione mortis causa. Sotto il vigore del vecchio codice: BeTTI e., Successione legittima intestata e successione legittima necessaria, I, Milano, 1929, p. 128. Si vedano gli Autori citati da rICCIOTTI G.B., op. cit., p. 462, nota 33. Sotto il vigore del nuovo codice: MeNGONI L., Successioni per causa di morte -Parte speciale. Successione legittima, in Tratt. CICU - MeSSINeO, Milano, 1990, p. 210. (32) CArrArO L., op. cit., p. 216. CONTrIBUTI dI dOTTrINA procedere alla liquidazione concorsuale per tutelare gli aventi causa del de cuius indipendentemente dalle opposizioni promosse da creditori e legatari, quindi in deroga al criterio dell’articolo 498 che prevede questo iter solo in caso di notifica dell’opposizione. Il che si spiega perché nella fattispecie in analisi non trova applicazione neppure la regola generale di cui all’articolo 505 c.c. che prevede la decadenza dal beneficio della responsabilità limitata nel caso in cui l’erede, nonostante l’opposizione, paghi creditori e legatari rispettando l’ordine cronologico. detto altrimenti, posto che lo Stato in ogni caso non può rispondere ultra vires, allora non è tenuto a rispettare tale ordine per evitare di perdere quel beneficio che a prescindere non gli verrebbe meno, ma deve invece procedere direttamente alla liquidazione. (33) MeNGONI L., Successioni per causa di morte -Parte speciale. Successione legittima, cit., p. 224, nota 39. Finito di stampare nel mese di giugno 2021 Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A. Vicolo della Guardiola n. 22 - 00186 Roma