ANNO LXXI - N. 4 OTTOBRE - DICEMBRE 2019 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO COMITATO SCIENTIfICO: Presidente: Michele Dipace. Componenti: Franco Coppi - Giuseppe Guarino Natalino Irti - Eugenio Picozza - Franco Gaetano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo - CONDIRETTORI: Maurizio Borgo, Danilo Del Gaizo e Stefano Varone. COMITATO DI REDAZIONE: Giacomo Aiello - Lorenzo D’Ascia - Gianni De Bellis - Wally Ferrante - Sergio Fiorentino - Paolo Gentili - Maria Vittoria Lumetti - Francesco Meloncelli - Marina Russo. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Andrea Michele Caridi - Stefano Maria Cerillo Pierfrancesco La Spina - Marco Meloni - Maria Assunta Mercati - Alfonso Mezzotero - Riccardo Montagnoli - Domenico Mutino - Nicola Parri - Adele Quattrone - Piero Vitullo. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE fASCICOLO: Giuseppe Albenzio, Giacomo Cotti, Beatrice Gaia Fiduccia, Vito Forte, Michele Gerardo, Alessandro Jacoangeli, Iolanda Luce, Pio Giovanni Marrone, Gaetana Natale, Gabriella Palmieri Sandulli, Giancarlo Pampanelli, Massimiliano Stagno, Antonio Tallarida, Ludovica Tozzoli, Luca Ventralla. Email giuseppe.fiengo@avvocaturastato.it maurizio.borgo@avvocaturastato.it danilodelgaizo@avvocaturastato.it stefanovarone@avvocaturastato.it ABBONAMENTO ANNUO ..............................................................................€ 40,00 UN NUMERO .............................................................................................. € 12,00 Per abbonamenti ed acquisti inviare copia della quietanza di versamento di bonifico bancario o postale a favore della Tesoreria dello Stato specificando codice IBAN: IT 42Q 01000 03245 348 0 10 2368 05, causale di versamento, indirizzo ove effettuare la spedizione, codice fiscale del versante. I destinatari della rivista sono pregati di comunicare eventuali variazioni di indirizzo AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA - Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 indice - sommario Ringraziamento, Gianfranco Pignatone. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . TEMI ISTITUZIONALI Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato, avv. Gabriella Palmieri Sandulli, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giu- diziario 2020. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1 Intervento del Vice Avvocato Generale dello Stato, avv. Giuseppe Alben- zio, in occasione della inaugurazione dell’Anno Giudizario 2020, Corte di Appello di Roma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 5 Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato, avv. Gabriella Palmieri Sandulli, in occasione della cerimonia di presentazione della “Relazione sull’attività della Giustizia Amministrativa” per il 2019 - Inaugurazione Anno Giudiziario 2020 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 11 Trattazione del contenzioso costituzionale e svolgimento delle udienze in- nanzi alla Corte costituzionale, Circolare A.G. prot. 125888 del 28 feb- braio 2020 n. 11 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 14 Articolo 29, comma 1, del decreto legge 8 aprile 2020, n. 23: disposizioni in materia di processo tributario. Obbligatorietà nei giudizi tributari di merito della notifica e del deposito degli atti successivi e dei provvedi- menti giurisdizionali in modalità telematiche, Circolare A.G. prot. 210195 del 23 aprile 2020 n. 27 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 16 CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Pio Giovanni Marrone, L’attività del bookmaker estero in Italia (che opera senza concessione) è soggetta all’imposta unica sulle scommesse (C. giust. Ue, Sez. I, sent. 26 febbraio 2020, C-788/18) . . . . . . . . . . . . . ›› 17 Alessandro Jacoangeli, Normativa nazionale e divieto di discriminazione dei lavoratori imposto dall’ordinamento europeo: la valutazione del Giu- dice nazionale degli interessi in gioco (C. giust. Ue, Sez. VIII, sent. 2 aprile 2020, C-670/2018) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 25 CONTENZIOSO NAZIONALE Massimiliano Stagno, Irretroattività e “spazzacorrotti”: la Corte Costi- tuzionale pone un freno ad un “diritto vivente” incostituzionale (C. Cost., sent. 26 febbraio 2020 n. 32) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 35 Wally ferrante, Convenzione di opera pubblica soggetta a collaudo. Le querelles: modalità di calcolo del cd. “prezzo chiuso”; decorrenza della prescrizione a seguito di ritardato collaudo (illecito permanente della P.A.) (C. app. Roma, Sez. I civ., sent. 22 gennaio 2020 n. 466). . . . . . . . ›› 63 Wally ferrante, Una panoramica del contenzioso sui “residui perenti” delle Province (Trib. Roma, Sez. II civ., sent. 31 ottobre 2018 n. 20891) pag. 99 Giancarlo Pampanelli, Superamento dei limiti dimensionali del ricorso, domanda di risarcimento del danno proposta nei confronti del funzionario pubblico e violazione delle forme del procedimento (Cons. St., Sez. IV, sent. 9 marzo 2020 n. 1686) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 124 Iolanda Luce, La somministrazione di farmaci agli alunni durante l’ora- rio scolastico (T.a.r. Campania, Salerno, Sez. I, ord. 29 aprile 2019 n. 689). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 133 I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO Beatrice Gaia fiduccia, Problematiche afferenti agli avvisi di accerta- mento delle imposte comunali (ICI/IMU) per gli immobili in uso al Mini- stero della Difesa. Linee di indirizzo del Ministero della Difesa . . . . . . ›› 145 LEGISLAZIONE ED ATTUALITà Antonio Tallarida, Processo telematico e processo da remoto: come cam- bia il processo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 181 Luca Ventrella, Il “processo Condor” giunto alla sentenza d’appello: re- formatio in pejus, da 8 a 24 ergastoli. I grandi temi della prova logica, del dolo diretto e/o eventuale e del concorso morale e/o materiale nei processi per crimini contro l’umanità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 194 Giacomo Cotti, Agenti sotto copertura per il contrasto al gioco illecito, tra attività amministrativa e procedimento penale. Brevi note a margine del D.L. n. 124 del 2019 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 213 Vito forte, Ludovica Tozzoli, Il trattamento dei crediti tributari e contri- butivi nel “nuovo” concordato preventivo con continuità aziendale. . . . ›› 235 CONTRIBUTI DI DOTTRINA Michele Gerardo, Le fonti del diritto nell’ordinamento giuridico italiano. Individuazione, tipologie e vicende . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 253 Gaetana Natale, Il Terzo Settore: un nuovo esempio di polimorfismo della soggettività giuridica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 324 In memoria di Massimo Poli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Claudio Linda, Signorilità e gentilezza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . COMUNICATO DELL'AVVOCATO GENERALE (*) Ha lasciato il servizio, dopo oltre quaranta anni di prestigiosa presenza, l’Avv. Gianfranco Pignatone, Vice Avvocato Generale dello Stato. Al Collega ed Amico, che ha onorato l’Avvocatura ed il Paese con la Sua altissima professionalità, con il Suo costante impegno e con le Sue elevatissime doti professionali e umane, vanno i saluti e gli auguri più affettuosi di tutti gli Avvocati e Procuratori dello Stato e del Personale dell’Avvocatura. Gabriella Palmieri Sandulli Ringraziamento Ho ricevuto con grande commozione, nell'occasione del mio pensionamento, sulla mail generale e più ancora con messaggi personali, un'infinità di attestazioni di affetto e di apprezzamento. Custodirò le prime nel mio cuore, essendo certo che l'affetto è sempre reciproco. Quanto agli elogi, poco importa, tanto più adesso alla fine della corsa, in che misura essi siano meritati. Mi basta sapere che mi sono sempre sinceramente impegnato per fare del mio meglio e che questo sforzo è stato compreso. Ma quegli elogi parlano soprattutto di chi li ha inviati. Dimostrano il vostro attaccamento ai valori semplici e veri che devono essere l'essenza della nostra professione e del nostro Istituto. Dimostrano che il popolo dell'Avvocatura è migliore di quanto dica e forse creda di sé. Se il mio collocamento a riposo sarà stato in questo senso un'occasione di riflessione, sarò lieto di pensare di aver così involontariamente reso un ultimo piccolo servizio al mio Istituto. Auguro a tutti, cordialmente, ogni bene possibile. Gianfranco Pignatone (*) E-mail Segreteria Particolare - domenica 3 maggio 2020. Temi isTiTuzionali Cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2020 Intervento dell'Avvocato Generale dello Stato Avv. Gabriella Palmieri Sandulli Signor Presidente della Repubblica, Autorità, Signor Primo Presidente della Corte di Cassazione, Signor Procuratore Generale, Signore e Signori È con vivo piacere che prendo la parola in questa solenne Cerimonia di inaugurazione per porgere il saluto dell'Istituto che ho l'alto onore di dirigere. Nella sua approfondita e ampia relazione il Primo Presidente ha riferito in modo analitico sui risultati raggiunti dalla Suprema Corte nell'anno 2019. Essi sono il frutto del grandissimo impegno profuso dai Magistrati e da tutto il personale amministrativo in servizio presso di essa, cui vanno il nostro più sentito apprezzamento e la nostra più viva gratitudine. 1. Anche nell'anno appena trascorso l'Avvocatura dello Stato, insieme al Consiglio Nazionale Forense, ha coltivato il proficuo dialogo con la Suprema Corte e la Procura Generale per l'attuazione del disegno riformistico, delineato in questi ultimi anni, per l'implementazione dei connessi protocolli d'intesa sottoscritti e per lo sviluppo del processo civile telematico di legittimità, in relazione al quale sono in corso di definizione le specifiche tecniche, nell'ambito di un tavolo informale al quale partecipano i rappresentanti di tutti i protagonisti del processo. 2. La sinergia tra i vari attori dell'attività giudiziaria si sviluppa, poi, con riferimento al piano più strettamente giurisdizionale, nel reciproco impegno per una celere ed efficace definizione del notevole contenzioso pendente. L'Avvocatura dello Stato è consapevole che una parte considerevole dell'arretrato, nel settore civile, grava sulla Sezione Tributaria. In tale specifico settore, nell'ottica di una riduzione sostanziale del contenzioso pendente e di prevenzione del contenzioso potenziale, la Corte di Cassazione ha affinato, in collaborazione con l'Avvocatura dello Stato, l'utilizzo di preziosi strumenti di governo del processo, come la fissazione di udienze tematiche e la trattazione di cause pilota. L'esperienza di questi ultimi anni ha consentito di confermare l'efficacia di tali strumenti e di affinarne le modalità operative: l'udienza tematica, grazie alla ricchezza dialogica che scaturisce dalla analisi delle questioni giuridiche prospettate secondo angolature diverse, si presenta, infatti, come sede ottimale di dibattito per raggiungere soluzioni meditate e, soprattutto, durevoli, di questioni giuridiche importanti; del pari, la trattazione di cause pilota consente di arginare e, in qualche caso, prevenire contenziosi ripetitivi o seriali, valorizzando il ruolo nomofilattico del Giudice di legittimità. 3. D'altronde, l'efficienza della giustizia, la risposta celere alle istanze dei cittadini, delle imprese e anche della Pubblica Amministrazione costituiscono ormai esigenze diffuse, che passano, sicuramente, attraverso una stabilità degli orientamenti giurisprudenziali quale decisiva manifestazione del principio di certezza del diritto. In un contesto sociale ed economico connotato da incertezza e volatilità, il ruolo della Corte di Cassazione assume una rilevanza decisiva anche nel quadro del "dialogo tra le Alte Corti", interne e sovranazionali, che devono assicurare una tutela uniforme dei diritti fondamentali, oggetto, nell'attuale panorama normativo, di una disciplina multilivello. A tale riguardo, va menzionata, fra le varie rilevanti pronunce della Corte di Cassazione, l'ordinanza di rimessione n. 3831 del 2018, alla quale - nell'anno appena trascorso - ha fatto seguito l'ordinanza n. 117/2019 della Corte Costituzionale, che ha operato il rinvio pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia dell'Unione europea, al fine di ottenere una chiarimento sulla portata del "diritto al silenzio" nell'ambito di procedimenti sanzionatori in materia di concorrenza. Con la citata ordinanza n. 3831/18, infatti, la Corte di Cassazione, ritenendo di risolvere la prospettata doppia pregiudizialità "privilegiando in prima battuta l'incidente di costituzionalità - secondo le indicazioni offerte dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 269/2017) rilevando che rientra nelle prerogative della Corte costituzionale la valutazione sulla opportunità di attivare ... il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE nell'ambito del giudizio incidentale di costituzionalità ", ha dato ulteriore impulso al dialogo tra le Alte Corti che consentirà, nel caso di specie, di pervenire a una interpretazione uniforme sulla portata di un diritto fondamentale nei diversi ambiti, nazionale e sovranazionale, ma, prima ancora, di puntualizzare ulteriormente i principi che devono conciliare l'integrazione fra gli ordinamenti con il rispetto dei valori fondamentali tutelati dalle Costituzioni degli Stati membri della comunità internazionale. È questo un settore per il quale l'Avvocatura dello Stato ha una particolare sensibilità, anche in considerazione del ruolo istituzionale di difensore della repubblica italiana che svolge dinanzi alla Corte di Giustizia dell'Unione europea e alla Corte europea dei diritti dell'Uomo. 4. Proprio tale ruolo ha anche inciso sulla quantità e qualità dei nuovi affari trattati dall'Istituto che permane, comunque, elevata. Se si è registrata, infatti, nel corso del 2019, una leggera flessione degli affari contenziosi, essa è stata, però, accompagnata da un sensibile incremento degli affari consultivi. Il dato segnalato non si presenta del tutto uniforme sul territorio nazionale, poiché, a fronte di una lieve riduzione del contenzioso in alcune sedi regionali, si registra, invece, un generale aumento degli affari trattati a roma dall'Avvocatura Generale. Tale dato riflette significativamente, anche l'incremento dell'impegno dell'Avvocatura dello Stato in sede sovranazionale a seguito dell'attribuzione, accanto alla funzione - oramai tradizionale - di patrocinio dinnanzi alla Corte di Giustizia e al Tribunale dell'Unione europea, dove per volontà del legislatore un Avvocato dello Stato riveste anche il ruolo di Agente del Governo, anche l'attività di difesa della repubblica italiana dinanzi la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo presso la quale il legislatore ha di recente attribuito il ruolo di Agente del Governo all'Avvocato Generale. D'altro lato, la flessione dell'attività contenziosa assume pure una valenza positiva essendo anche frutto dell'intensificarsi del dialogo tra l'Avvocatura dello Stato e le Amministrazioni patrocinate, perseguito da entrambe le parti per la soluzione in via stragiudiziale delle potenziali vertenze e l'abbandono di quelle nelle quali non risulta costruttivo continuare a coltivare la fase giudiziale. 5. In conclusione, non posso non ricordare - ed esprimere, al contempo, il sincero e grato riconoscimento di tutto l'Istituto e mio personale - che il Governo e il Parlamento hanno accompagnato le nuove misure in favore dell'Avvocatura dello Stato con significativi interventi sulla organizzazione dell'Istituto. Accanto ad un incremento delle dotazioni organiche degli Avvocati dello Stato e dei Procuratori dello Stato di 15 unità, la misura a favore del personale amministrativo, sostanziatosi nell'aumento della relativa dotazione organica e, soprattutto, l'istituzione di Unità di supporto dell'Agente del Governo presso la CEDU aperta al contributo del mondo dell'accademia, della magistratura ordinaria e amministrativa e della dirigenza pubblica che costituisce una disposizione del tutto innovativa. Questi interventi hanno costituito importanti e significativi segni di attenzione e di fiducia verso l'Istituto dei quali siamo davvero molto grati. Anche quest'anno concludo questo mio intervento certa di poterLe confermare, Signor Presidente della repubblica, che l'Avvocatura dello Stato e tutti i suoi Componenti continueranno a profondere il massimo impegno per essere all'altezza delle rilevanti funzioni loro assegnate, e per non deludere la fiducia che quotidianamente continua ad essere riposta in loro. Grazie, Signor Presidente della repubblica e grazie a Tutti per l'attenzione. Roma, 31 gennaio 2020 Palazzo di Giustizia, Aula Magna inaugurazione dell’anno giudiziario 2020 CorTe di appello di roma Discorso del Vice Avvocato Generale Giuseppe Albenzio Signor Presidente della Corte d'Appello di Roma, Signor Procuratore Generale, Autorità, Giudici e Colleghi, porto il saluto dell'Avvocatura dello Stato e mio personale in questa so- lenne cerimonia. L’Avvocatura dello Stato - come tutti sappiamo - è impegnata sui molteplici fronti del diritto a tutela dell'interesse pubblico, dinanzi a tutte le Autorità Giudiziarie nazionali ed internazionali, nei giudizi sulla costituzionalità delle leggi, nei processi dinanzi alla Corte di Giustizia dell'Unione europea e in quelli dinanzi alla Corte europea dei diritti dell'uomo. Alla pari di quanto già operante dinanzi alla Corte di Lussemburgo, a partire dallo scorso anno all’Avvocatura è stato attribuito il patrocinio esclusivo dello Stato italiano dinanzi alla Corte di Strasburgo, così che tutta l’organizzazione e la gestione di quel delicatissimo contenzioso sui diritti dell’uomo grava ora su di noi. Anche il contenzioso di pertinenza dell’Agenzia delle entrate, dopo l’assorbimento dell’attività di riscossione prima di competenza di Equitalia, è ricaduto quasi interamente sulle spalle dell’Avvocatura (tranne che per il contenzioso marginale di mera esecuzione che può essere affidato ad avvocati privati), come pure all’Avvocatura è stato affidato il patrocinio di numerosi enti pubblici o privati a capitale pubblico (i c.d. organismi di diritto pubblico), spesso di grande rilevanza nell’economia dello Stato (quale la Cassa depositi e prestiti). Questi nuovi incarichi si aggiungono a quelli gravosissimi per numeri e importanza - sociale prima che finanziaria - che già l’Avvocatura dello Stato tratta istituzionalmente; fanno parte delle cronache quotidiane i successi dell’attività del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale dei Carabinieri che recupera al patrimonio dello Stato i reperti archeologici e le opere d’arte illecitamente trafugate, con l’indispensabile ausilio dell’Avvocatura dello Stato sia in fase contenziosa (dinanzi alle Autorità Giudiziarie nazionali - per la confisca dei beni - ed estere - per ottenerne la restituzione -) sia in fase di trattativa con le istituzioni museali ed i privati che detengono indebitamente quei beni (al fine di concordare protocolli di intesa che favoriscano non solo il loro recupero ma anche uno scambio di opere d’arte mediante prestiti che consentono una corretta diffusione del patrimonio artistico nazionale): ricordiamo la “guerra giudiziaria” ancora in atto per il recupero dell’Atleta di Lisippo detenuto illecitamente (come riconosciuto dalla nostra A.G., fino al livello della Cassazione) dal Ghetty Museum di Malibù, in California, che non intende riconoscere e dare seguito a quelle sentenze ormai definitive: la parola, ormai è - da un lato - alla trattativa in corso fra il nostro Ministero (con l’ausilio dell’Avvocatura dello Stato) e la direzione del museo, per una intesa che veda la restituzione dell’Atleta a fronte della concessione di prestiti di lunga durata di opere italiane di pregio da esporre a Malibù, e - dall’altro lato - alle nostre Autorità diplomatiche che devono rivendicare il rispetto delle pronunzie dei nostri Giudici anche da parte di soggetti di nazionalità statunitense. L’Avvocatura è, inoltre, protagonista nella gestione - ovviamente sotto il profilo tecnico-giuridico - dei problemi relativi alle grandi opere pubbliche (pensiamo al Ponte Morandi di Genova), agli insediamenti industriali strategici (ILvA, grandi imprese in crisi), al fenomeno migratorio ed agli sbarchi dei rifugiati raccolti in mare dalle navi delle oNG, alla lotta alla mafia ed alla criminalità organizzata (nelle sue molteplici manifestazioni: lo scioglimento delle amministrazioni comunali per infiltrazioni mafiose, con le connesse incandidabilità, l’adozione e difesa in giudizio delle interdittive antimafia adottate dalle Prefetture, con i connessi impedimenti ad assumere e proseguire attività nei confronti della P.A., l’amministrazione dei beni confiscati e sequestrati alla mafia - attraverso l’Agenzia istituita ad hoc -, l’attribuzione e gestione delle provvidenze e tutele a favore dei testimoni e collaboratori di giustizia, il risarcimento delle vittime dei reati mafiosi e violenti, l’assegnazione delle provvidenze per le vittime del racket e dell’usura, la regolazione delle scorte alle persone minacciate, ecc. ecc.). L’Avvocatura dello Stato è in prima linea per la difesa dei valori fondanti della nostra società e dell’integrità dei suoi principi, per la salvaguardia della corretta distribuzione delle risorse pubbliche; è in prima linea per arginare il flusso non giustificato di questo fiume di danaro pubblico che il fenomeno della criminalità organizzata sottrae al bilancio dello Stato e, in fin dei conti, al nostro benessere. Tutto viene affrontato con poco più di 400 avvocati e procuratori in servizio, distribuiti fra 25 sedi in Italia e con 140.000 affari nuovi che arrivano ogni anno e che si aggiungono a quelli pendenti, che sono ben oltre il milione di pratiche! Sotto questo aspetto dobbiamo dare atto al Governo di profondo rispetto per il nostro lavoro e grande attenzione alla nostra organizzazione: è stato finalmente disposto un aumento del nostro organico (fermo ormai da decenni...) e delle dotazioni di personale amministrativo; ci sono stati concessi finanziamenti per perfezionare e completare l’informatizzazione dei nostri servizi (anche fruendo di finanziamenti europei, come per il progetto “Avvocatura 20-20” in fase di attuazione): l’attenzione del Governo per la nostra Istituzione significa attenzione agli interessi dei cittadini, perché rafforzare il patrocinio legale delle Istituzioni pubbliche vuol dire rafforzare la difesa dell’interesse pubblico. Confidiamo nel corso dell’anno appena iniziato di istituire il ruolo del personale amministrativo a livello dirigenziale che ancora manca in Avvocatura, tanto che noi avvocati nelle posizioni apicali ci dobbiamo occupare anche della gestione degli impiegati e della struttura amministrativa di supporto. In tutta questa nostra complessa e delicata attività noi ci preoccupiamo di evidenziare la nostra funzione di patrocinatore degli interessi pubblici e giammai di parte, seppure della parte “pubblica”; noi non siamo una mera "controparte" nei contenziosi dove siamo chiamati ad intervenire ma siamo la "parte rappresentativa della collettività e dei suoi interessi", a fianco delle altre Autorità, giudiziarie e amministrative, che perseguono la tutela di quegli interessi. Non intendo censurare il principio della “parità delle armi” nel corso del processo, rispetto alla parte privata ed ai suoi avvocati, intendo invece sottolineare che perseguiamo l’interesse pubblico, quale unicum nel genere dei patrocinatori legali, e che questo interesse pubblico deve essere valutato come tale, per la sua stessa intrinseca natura, nel momento di dirimere una controversia, con attenzione - da un lato - al principio di equilibrio del bilancio che è sancito dall’art. 81 della Costituzione [“Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”] e - dall’altro lato - agli obblighi di appartenenza all’Unione europea quali delineati dai Trattati. Sotto questi profili stiamo affrontando le difese in settori particolarmente sensibili per gli interessi dell’Unione, quali - ad esempio - gli aiuti alle nostre imprese in crisi e, in particolare, agli istituti bancari ovvero la concessione della cittadinanza italiana sia ai discendenti degli emigrati di due secoli fa sia agli immigrati extracomunitari di oggi. Sul primo fronte, ricordiamo la sentenza del Tribunale dell’Unione europea del 19 marzo 2019, causa T-98/16, emessa per il caso della banca Tercas, acquisita dalla Banca Popolare di Bari con l’aiuto del Fondo interbancario di tutela dei depositi, previa autorizzazione della Banca d’Italia; detto intervento di ausilio è stato censurato quale “aiuto di Stato” illegittimo dalla Commissione europea che ha aperto procedura di infrazione contro l’Italia per violazione dell’articolo 108, paragrafo 3, TFUE e ha disposto che detti aiuti fossero recuperati; l’Avvocatura ha impugnato, per conto della repubblica italiana, la determinazione della Commissione e ne ha ottenuto l’annullamento, avendo il Tribunale riconosciuto che - secondo le nostre tesi difensive - le misure controverse non presupponevano l’uso di risorse statali e non erano imputabili allo Stato; la sentenza è stata impugnata dalla Commissione dinanzi alla Corte di Giustizia e il giudizio è pendente. Sull’altro contenzioso che sta impegnando le nostre forze, quello relativo alle richieste di cittadinanza, ricordiamo che l’acquisizione della cittadinanza italiana comporta automaticamente l’acquisizione di quella europea e la nostra responsabilità e credibilità nell’Unione entra in gioco anche sotto questo profilo; è per questa ragione che siamo particolarmente severi nel contrastare le innumerevoli domande di cittadinanza che pervengono sui nostri tavoli e nelle cancellerie degli uffici giudiziari, Tribunali e TAr, istanze spesso strumentali all’acquisizione della cittadinanza europea per le più varie finalità (ad esempio, molti cittadini brasiliani che sono riusciti a scovare un antenato proveniente dall’Italia e che si sono visti riconoscere dai Tribunali il loro diritto di cittadinanza, sono andati a curarsi in Portogallo, intasando quel sistema sanitario...). Ci stiamo opponendo con forza alla attribuzione strumentale di quello che sarebbe un sacrosanto diritto se fosse fondato su effettive e reali radici con la terra di origine e non su una semplice sequenza anagrafica (che, peraltro, noi non siamo in grado di controllare) dopo due secoli di oblio; in particolare, ci siamo opposti all’accoglimento delle domande di cittadinanza da parte dei discendenti di avi che sono stati naturalizzati brasiliani all’indomani della locale costituzione del 1890 con conseguente perdita automatica della cittadinanza italiana, in combinato disposto con le nostre leggi dell’epoca: aspettiamo le prime decisioni del Tribunale di roma che auspichiamo rispettose di quei testi normativi di fine ‘800, risalenti certo ma non per questo meno validi al fine di determinare quella soluzione della continuità nel tracciato anagrafico ultrasecolare che è il presupposto per il riconoscimento o la negazione della cittadinanza italiana; purtroppo, devo constatare che gli studi legali brasiliani già cantano vittoria, nonostante non sia stata pubblicata ancora alcuna decisione da parte della sezione immigrazione del Tribunale, vantando di essere venuti a conoscenza dell’orientamento negativo sulle tesi dell’Avvocatura dello Stato che la sezione avrebbe espresso in una “riunione” di qualche giorno fa… Contestualmente alla cura del contenzioso, abbiamo comunque segnalato al Ministero l’opportunità che la legislazione italiana in materia si adegui a quella di altri Paesi dell’Unione che limitano l’attribuzione della cittadinanza jure sanguinis consentendo di risalire a un numero preciso di generazioni e non all’infinito. Le cifre del contenzioso sull’attribuzione della protezione internazionale e della conseguente qualifica di rifugiato (che poi porta quasi sempre all’acquisizione della cittadinanza, in presenza di determinati presupposti, lavoro, matrimonio, legami familiari, ecc.) e quelle del contenzioso sulle richieste di cittadinanza italiana dimostrano la vastità del fenomeno e l’enorme carico sull’attività giudiziaria nazionale, sull’Avvocatura dello Stato e sulle strutture amministrative del Ministero dell’Interno e del Ministero degli Esteri: - sulla protezione internazionale sono oltre 10.600 le nuove cause pervenute nell’anno 2019 - con connesso gratuito patrocinio e conseguente pesante fardello di spesa a carico dello Stato -; - sulla cittadinanza, sono circa 4.000 le cause nuove nel 2019, delle qualicirca 2.500 jure sanguinis; di queste ultime il 90 % provengono dal Brasile, ove si è creata una situazione insostenibile per gli uffici consolari, dinanzi al quali pendono quasi seicentomila istanze di cittadinanza per discendenza da avi emigrati nell’arco di due secoli (queste istanze arriveranno tutte in Tribunale dove oggi ne pendono già tredicimila all’incirca). Il messaggio che intendo lanciare è sulla utilità di una collaborazione fra le istituzioni pubbliche per il più efficace e tempestivo adempimento delle funzioni a ciascuno affidate e, in particolare, per rendere giustizia nel rispetto dei diritti di tutti i soggetti coinvolti, pubblici e privati, con particolare attenzione alla peculiarità dell’apparato amministrativo preposto alla tutela dei pubblici interessi ed all’azione a difesa di questi interessi che è istituzionalmente affidata all’Avvocatura dello Stato. Desidero terminare questo mio intervento con un caloroso cenno di saluto al Presidente Panzani che andrà in quiescenza fra pochi giorni per raggiunti limiti di età, dopo aver presieduto questa Corte d’Appello dal 2014. In magistratura dal 1975, Panzani ha iniziato la sua carriera a Torino, dove è stato pretore del lavoro e giudice. Dal 1993 è stato presidente del Tribunale di Alba, nel 2002 è arrivato in Cassazione (dove ha presieduto la v Sezione penale e, fra l’altro, è stato componente del collegio del processo “Borsellino bis”, che vedeva tra gli imputati Totò riina); nel 2009 è tornato a Torino per assumere le funzioni di presidente del Tribunale; sotto la sua presidenza il Tribunale di Torino ha trattato processi importanti come quelli sui casi Thyssen Krupp ed Eternit, e Panzani, come presidente del tribunale, è stato estensore di uno dei primi provvedimenti in materia di class action; inoltre, si è distinto durante la sua presidenza a Torino per aver proseguito ed implementato l’iniziativa del suo predecessore sulla marcatura e monitoraggio dei processi su legge Pinto che intasavano quel Tribunale, come molti altri in Italia. Esperto di diritto fallimentare e commerciale, ha fatto parte di commissioni ministeriali sulla revisione del diritto commerciale e sulla nuova legge fallimentare; è stato l’animatore - in Italia e all’estero - di innumerevoli convegni e incontri di studio, fra i quali mi piace ricordare quello annuale di Alba in materia commerciale, divenuto un appuntamento atteso da tutti gli operatori del settore; è stato autore di molti scritti, monografie e articoli in materia fallimentare e commerciale, con la competenza e passione che gli hanno attribuito il ruolo di grande esperto nella materia. In questa attività scientifica continuerà anche all’indomani del suo collocamento a riposo che, in realtà, non sarà di riposo effettivo, visto che è nel corpo docenti del Corso di alta formazione in Diritto delle crisi di impresa che inizierà nel prossimo mese di marzo… Buon lavoro, caro Luciano! e buon lavoro a tutti nel nuovo anno giudiziario che oggi si apre! Giuseppe Albenzio Avvocato dello Stato Roma, 1 febbraio 2020 Cerimonia di presenTazione della “relazione sull’aTTiviTà della giusTiziaamminisTraTiva” per il 2019 inaugurazione dell’anno giudiziario 2020 Intervento dell'Avvocato Generale dello Stato Avv. Gabriella Palmieri Sandulli Signor Presidente della Repubblica, Autorità, Signor Presidente del Consiglio di Stato, Signor Presidente Aggiunto (del Consiglio di Stato), Illustri Ospiti, con grande piacere prendo la parola in questa solenne Cerimonia per por- tare il saluto dell'Istituto che ho l'alto onore di dirigere. L'occasione è particolarmente significativa, poiché, per la prima volta, l'Avvocatura dello Stato, interviene in questa sede, a testimonianza dello spirito di leale collaborazione che ha sempre connotato il rapporto con il Giudice amministrativo. In occasione della Cerimonia del Suo insediamento (e della relazione sull'attività della giustizia amministrativa), Lei, Signor Presidente, ha preannunciato che, da quest'anno, anche l'Avvocatura dello Stato e il Consiglio Nazionale Forense avrebbero portato il loro contributo, nella convinzione, da me pienamente condivisa, che tale partecipazione sia il "suggello della proficua collaborazione tra magistratura e avvocatura". ritengo, infatti, che ciò contribuisca in modo efficace all'elaborazione di soluzioni condivise che, tenendo conto dell'interesse di tutte le parti del giudizio, costituiscono presupposto essenziale per una sempre più efficiente amministrazione della giustizia. L'attività dell'Avvocatura dello Stato si svolge in misura rilevantissima dinanzi alla Magistratura amministrativa, (cui auspica di fornire un utile contributo), sia nello svolgimento dell'attività strettamente giurisdizionale, nella quale si esprime la sua missione istituzionale, sia in altri settori di natura organizzativa, collaterali, ma altrettanto importanti, come il progetto che ha portato alla nascita del processo amministrativo telematico. I tavoli tecnici tenutisi negli anni passati, sulla scorta dell'esperienza mutuata dalle analoghe iniziative per l'introduzione del processo civile telematico, hanno rappresentato l'occasione per un costante ed efficace confronto sui temi di maggiore rilievo, alla ricerca delle soluzioni, corrette sul piano teorico, ma, al tempo stesso, orientate, per quanto possibile, a una semplificazione delle attività. Anche nel corso dell'anno 2019 si è continuato a implementare e migliorare gli strumenti già in uso, con un costante raccordo con la Giustizia Amministrativa, nell'ambito della tradizionale e consolidata reciproca collaborazione istituzionale, della quale ringrazio Lei, Signor Presidente, e tutti i Magistrati e il Personale amministrativo. Dal 2017, anno di introduzione del processo amministrativo telematico, a oggi, l'Avvocatura dello Stato ha eseguito oltre 200mila depositi telematici di cui più di 70.000 nel solo anno 2019. Dai predetti dati numerici risulta l'intensità dell'impegno dell'Avvocatura dello Stato, testimoniato anche dall'impianto, nel solo anno 2019, di circa 30.000 nuovi affari di competenza del Giudice Amministrativo, con un leggero aumento rispetto all'anno precedente. All'esame del dato numerico si accompagna la considerazione circa l'importanza e la centralità degli ambiti e delle materie che vedono quotidianamente impegnato l'Istituto davanti al Giudice Amministrativo. Ambiti e materie che spaziano dalle delicate tematiche in materia di immigrazione, sino alle questioni di natura più squisitamente economica, tra le quali, per importanza e complessità, quelle in tema di concorrenza, di regolazione dei settori della comunicazione (e utilities), le controversie in materia di opere pubbliche. va, poi, menzionato il ruolo fondamentale svolto dal Consiglio di Stato a tutela della legalità e trasparenza dei contratti pubblici - ad esempio, nella materia delle interdittive antimafia - e nella verifica della correttezza delle procedure di attribuzione dei più importanti incarichi nella Pubblica Amministrazione. Quest'ultima si trova ad affrontare, nel perseguimento dell'interesse pubblico, sempre nuove sfide, derivanti dai profondi mutamenti economici e sociali e dalla necessità di confrontarsi sempre più frequentemente con la normativa europea e la tutela uniforme dei diritti che essa impone agli Stati Membri. In questo delicato compito le Sezioni giurisdizionali e consultive del Consiglio di Stato svolgono un importante ruolo di indirizzo; essendo, peraltro, i giudizi che si svolgono davanti ad esso, quale giudice di ultima istanza, la sede nella quale vengono proposti la maggior parte dei rinvii pregiudiziali in Corte di giustizia che provengono dall'Italia. L'importanza del rinvio pregiudiziale, strumento di cooperazione "da giudice a giudice", è stata spesso sottolineata dalla stessa Corte di giustizia come "chiave di volta" del sistema giurisdizionale della UE. Nel 2019 i Giudici italiani - secondi solo ai Giudici tedeschi - hanno proposto circa 60 domande pregiudiziali e di queste (ben) 25 provengono dal Consiglio di Stato, dimostrandone la particolare sensibilità verso l'ordinamento dell'Unione europea (nello stesso periodo il Conseil d'État francese ha operato 7 rinvii pregiudiziali, pur occupandosi anche della materia tributaria). È proprio nel meccanismo del rinvio pregiudiziale che si enfatizza lo stretto e necessario legame collaborativo tra il Consiglio di Stato e l'Avvocatura dello Stato. Gli Avvocati dello Stato, infatti, già presenti (a monte) nei giudizi nazionali a quo, sono chiamati a rappresentare le ragioni del Governo italiano anche innanzi alla Corte di giustizia, per poi, (a valle), a rappresentarne gli esiti e le conseguenze alla ripresa del giudizio dinnanzi al giudice nazionale. Un circuito virtuoso dunque. Un esempio di quanto rilevato è il noto caso che ha visto contrapposte società farmaceutiche (La Roche - Novartis) all'AGCM; attraverso il dialogo tra le Corti, con sentenza del (23) gennaio 2018, sono stati affermati e definiti fondamentali principi sull'intensità del sindacato del giudice amministrativo relativamente alle decisioni dell'autorità nazionale di concorrenza in tema di farmaci off-label (C-179/16). L'attenzione del Consiglio di Stato è rivolta anche alle nuove e delicate questioni che l'evoluzione tecnologica porta all'attenzione degli operatori del diritto; i moderni strumenti di comunicazione ed elaborazione dei dati, se certamente sono un supporto fondamentale, possono avere risvolti negativi, ad esempio, per la riservatezza dei cittadini. Il Consiglio di Stato ha affrontato tale problematica, affermando principi essenziali ai fini del contemperamento dei contrapposti interessi in tale ambito, nel rispetto del diritto dell'Unione, con le tre recentissime coeve sentenze (n. 8472, 8473 e 8474) del (13) dicembre 2019, in tema di intelligenza artificiale, contemplata anche nel nostro progetto Avvocatura 2020, e di utilizzo dell'algoritmo nell'ambito di un procedimento amministrativo al fine di valutarne la legittimità. Concludo questo mio intervento confermando che l'Avvocatura dello Stato e tutti i suoi Componenti continueranno a profondere il massimo impegno nello svolgimento degli importanti compiti loro assegnati e per essere all'altezza della fiducia riposta in loro. Grazie per l'attenzione. Roma, 5 febbraio 2020 Consiglio di Stato, Palazzo Spada Avvocatura Generale dello Stato CIrColAre n. 11/2020 oggetto: Trattazione del contenzioso costituzionale e svolgimento delle udienze innanzi alla Corte costituzionale. Sulla Gazzetta Ufficiale n. 17 del 22 gennaio 2020 è stata pubblicata la delibera della Corte Costituzionale 8 gennaio 2020, recante le Modificazioni alle «Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale» che, per comodità di consultazione, si allega, unitamente al testo coordinato. In primo luogo, si segnala che il secondo comma dell'articolo 16 viene modificato, limitando a due i difensori delle parti che possono intervenire all'udienza pubblica e confermando la regola della esposizione sintetica delle conclusioni. La Cancelleria della Corte costituzionale, su indicazione della Presidenza, ha, quindi, rappresentato che, nel corso della discussione in udienza pubblica, i difensori dovranno concentrare la loro esposizione sui punti salienti della questione, senza ripetere le argomentazioni svolte negli scritti difensivi; inoltre, è stato comunicato che, al fine di meglio orientare la propria decisione, il Giudice relatore potrà rivolgere domande ai difensori su specifici profili del caso in discussione. Di tale facoltà la Corte - anche su impulso della nuova Presidenza - si avvale con sempre maggiore frequenza. È, pertanto, essenziale: - da un lato, limitare il più possibile le sostituzioni alle udienze pubbliche di discussione o, comunque, in caso di impedimento, fornire tempestivamente al sostituto ogni elemento necessario per assicurare una conoscenza approfondita della causa e la coerenza con le tesi svolte negli atti difensivi; - d'altro lato, secondo la vigente prassi, comunicare alla Segreteria Particolare dell'Avvocato Generale il nome dell'Avvocato che parteciperà all'udienza in sostituzione dell'originario assegnatario, per la successiva informazione alla Cancelleria della Corte e la corretta indicazione sul ruolo d'udienza e al momento della chiamata della causa stessa nel corso dell'udienza pubblica. Ciò premesso, si segnalano le seguenti modifiche, che, ai sensi dell'articolo 8 della medesima delibera, si applicano anche ai giudizi pendenti alla data di pubblicazione (22 gennaio 2020): - l'articolo 4 è stato riformulato nei commi 3 e ss. gg. In particolare, il comma 7 prevede che "Nei giudizi in via incidentale possono intervenire i titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio". La norma sembra limitarsi a codificare l'istituto dell'intervento dei terzi nei giudizi incidentali - frutto di una consolidata interpretazione della Corte costituzionale, che ha ripetutamente ribadito che "è ammissibile l'intervento di soggetti terzi che siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma oggetto di censura" (ordinanza n. 204/19 e sentenze ivi citate) - sebbene in sede di primo commento la codificazione sia stata interpretata anche quale segnale di una possibile maggiore apertura della Corte all'intervento di terzi; - è stato introdotto l'articolo 4-bis che disciplina il subprocedimento con il quale, a fronte della richiesta degli intervenienti di accesso agli atti processuali, viene delibata, in via anticipata, la ammissibilità dell'intervento stesso, all'esito di un sintetico contraddittorio delle parti sulla sola questione dell'ammissibilità (il comma 2 del citato articolo 4-bis prevede che il Presidente fissi con decreto la trattazione dell'istanza in camera di consiglio per la sola decisione sull'ammissibilità dell'intervento; e il successivo comma 3 prevede che il Cancelliere dia comunicazione del decreto alle parti costituite, le quali, entro 10 giorni dalla comunicazione, hanno facoltà di depositare memorie sintetiche solo sulla questione dell'ammissibilità dell'intervento); - è stato introdotto l'articolo 4-ter, che prevede il contributo dei cosiddetti "amici curiae" (contributi già da tempo ammessi, ad esempio, dinanzi alla Corte Europea dei diritti dell'uomo). Le "formazioni sociali senza scopo di lucro e i soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità" possono presentare alla Corte opinioni scritte, che sono ammesse con decreto del Presidente quando ritenute utili per la conoscenza e valutazione del caso. Le opinioni ammesse - ai sensi del comma 4 del predetto articolo - vengono comunicate alle parti costituite almeno trenta giorni prima dell'udienza, consentendo così, di fatto, a tali parti anche di prendere eventuale posizione sulle stesse nella memoria da depositarsi ai sensi dell'art. 10 delle medesime norme integrative o nella pubblica discussione. - è stato, poi, introdotto l'articolo 14-bis (Esperti), con il quale viene previsto che la Corte possa nominare esperti di chiara fama per acquisire informazioni attinenti a specifiche discipline; in tale caso, gli esperti vengono ascoltati "in apposita adunanza in camera di consiglio alla quale possono assistere le parti costituite. Con l'autorizzazione del Presidente, le parti possono formulare domande agli esperti". Da ultimo, vengono modificati gli articoli 23, 24 e 25, estendendo anche ai ricorsi proposti in via principale e ai ricorsi per conflitto di attribuzione le disposizioni contenute negli articoli 4, commi da 1 a 6 (non, quindi, il comma 7, relativo all'intervento di terzi che, nei giudizi diretti, resta regolato dai commi 3 e 6 dell'art. 4 e dai consolidati principi affermati nella giurisprudenza della Corte (1)), 4-bis e 4-ter e 14-bis. Al fine di assicurare il pieno contraddittorio e la formulazione di controdeduzioni, si raccomanda di comunicare, con ogni urgenza, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi ovvero Dipartimento per gli affari regionali e le autonomie, a seconda che si tratti di questione di legittimità costituzionale o di ricorso in via principale, nonché alle Amministrazioni direttamente interessate, gli eventuali interventi di terzi, contributi degli amici curiae e nomina degli esperti di chiara fama da parte della Corte costituzionale. L' AvvoCATo GENErALE Gabriella Palmieri Sandulli - omissis - (1) Si vedano, quanto ai giudizi di legittimità costituzionale in via principale la sentenza n. 140 del 2018 e, quanto ai giudizi sui conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato le sentenze nn. 107 del 2015 e 169 del 2018. Avvocatura Generale dello Stato CIrColAre n. 27/2020 oggetto: Articolo 29, comma 1 del decreto legge 8 aprile 2020, n. 23: disposizioni in materia di processo tributario. obbligatorietà nei giudizi tributari di merito della notifica e del deposito degli atti successivi e dei provvedimenti giurisdizionali in modalità telematiche. Come è noto, sulla Gazzetta Ufficiale n. 94 dell'8 aprile 2020 è stato pubblicato il decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23 (c.d. decreto liquidità), il cui art. 29 reca, tra le altre, disposizioni in materia di processo tributario, stabilendo quanto segue: "1. Gli enti impositori, gli agenti della riscossione e i soggetti iscritti nell'albo di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e le parti assistite da un difensore abilitato che si sono costituite in giudizio con modalità analogiche, sono tenute a notificare e depositare gli atti successivi, nonché i provvedimenti giurisdizionali, esclusivamente con le modalità telematiche stabilite dal decreto del Ministro dell'economia e delle finanze 23 dicembre 2013, n. 163, e dai successivi decreti attuativi". La disposizione in esame ha dunque esteso a tutti i giudizi tributari pendenti l'obbligo per tutte le parti (con esclusione di quelle private senza difensore) della notificazione e del deposito degli atti e dei provvedimenti giurisdizionali esclusivamente con le modalità telematiche, obbligo sino ad ora sussistente, ai sensi del comma 5, dell'art. 16 del d.l. 119/2018, unicamente per i giudizi instaurati, in primo e secondo grado, con ricorso notificato a decorrere dal 1°luglio 2019. Sebbene la disposizione faccia espresso riferimento ai soli atti successivi di parti già costituite in giudizio con modalità analogiche, appare preferibile, in via prudenziale (non potendosi escludere interpretazioni estensive della disposizione stessa), provvedere con modalità telematiche (come del resto è espressamente consentito dall'articolo 16, comma 2, del citato D.L. n. 119/2018) anche per gli atti di costituzione, in primo o in secondo grado, eventualmente ancora da depositarsi per i giudizi introdotti prima del 1° luglio 2019. Per le concrete modalità di esecuzione delle notificazioni e dei depositi nel processo tributario telematico si richiamano le istruzioni operative contenute nella Circolare n. 19/2019 e, per la sola Avvocatura generale, nella Comunicazione di servizio n. 42/2019 che, per comodità di consultazione, si allegano in copia. L'AvvoCATo GENErALE Gabriella Palmieri Sandulli - omissis - ContenzIoso ComunItarIo ed InternazIonaLe L’attività del bookmaker estero in Italia (che opera senza concessione) è soggetta all’imposta unica sulle scommesse Corte giustizia dell’unione europea, prima sezione, sentenza 26 febbraio 2020 in Causa C-788/18 La sentenza della Corte di Giustizia in rassegna ha affrontato la questione della compatibilità, con l’articolo 56 TFUE, della normativa nazionale (articoli 1 e 3 del decreto legislativo del 23 dicembre 1998, n. 504) la quale assoggetta all’imposta sulle scommesse i CTD stabiliti in Italia e, in via solidale, gli operatori di scommesse, loro mandanti, stabiliti in un altro Stato membro (nella specie Stanleybet Malta Ltd). La Corte ha risposto ai quesiti del giudice di rinvio nel senso che: “L’articolo 56 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa di uno Stato membro che assoggetti ad imposta sulle scommesse i Centri di Trasmissione di Dati stabiliti in tale Stato membro e, in solido e in via eventuale, gli operatori di scommesse, loro mandanti, stabiliti in un altro Stato membro, indipendentemente dall’ubicazione della sede di tali operatori e dall’assenza di concessione per l’organizzazione delle scommesse”. In particolare, la Corte ha affermato che: • l’imposta unica si applica a tutti gli operatori che gestiscono scommesse raccolte sul territorio italiano, senza operare alcuna distinzione in funzione del luogo di stabilimento di tali operatori, cosicché l’applicazione di tale imposta alla Stanleybet non può considerarsi discriminatoria; • rispetto a un operatore nazionale che svolge le proprie attività alle stesse condizioni, la Stanleybet - nonostante il regime doppia imposizione (maltese e italiana) cui è sottoposta - non subisce alcuna restrizione discriminatoria a causa dell’applicazione nei suoi confronti della predetta normativa nazionale, la quale non vieta, non ostacola e non rende meno attraenti le attività del predetto bookmaker estero in Italia. • il CTD che raccoglie le scommesse in Italia per conto della Stanleybet non versa in una situazione analoga a quella degli operatori nazionali: la predetta normativa nazionale, pertanto, non comporta alcuna restrizione discriminatoria né nei suoi confronti né nei confronti della Stanleybet e non pregiudica la libera prestazione dei servizi. La decisione, che accoglie in pieno le tesi del Governo, si segnala, oltre che per la diretta incidenza sul vasto contezioso pendente dinanzi alle Commissioni tributarie e in Corte di cassazione, anche per il favorevole riflesso che potrebbe spiegare nei giudizi civili, pendenti nei gradi di merito, in cui si discute della responsabilità diretta dei funzionari di ADM (o di agenti appartenenti ad altre amministrazioni) nonché della stessa Agenzia per i presunti danni derivanti dalle verifiche fiscali volte all’accertamento dell’imposta unica che, secondo il bookmaker, sarebbero state compiute in violazione del diritto europeo. Pio Giovanni Marrone* Corte di giustizia dell’unione europea, Prima sezione, sentenza 26 febbraio 2020, causa C-788/18 - pres. sez. J.?C. Bonichot, rel. C. Toader - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Commissione tributaria provinciale di Parma (Italia) il 14 dicembre 2018 Stanleyparma Sas, Stanleybet Malta Ltd / Agenzia delle Dogane e dei Monopoli UM Emilia Romagna - SOT Parma. «Rinvio pregiudiziale - Libera prestazione dei servizi - Articolo 56 TFUE - Giochi d’azzardo - Fiscalità - Principio di non discriminazione - Imposta unica sulle scommesse» 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli articoli 52, 56 e57 TFUE, nonché sull’interpretazione dei principi di non discriminazione in materia fiscale e di parità di trattamento. 2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra, da un lato, la Stanleyparma Sas di Cantarelli Pietro & C. e la Stanleybet Malta Ltd e, dall’altro, l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli UM Emilia Romagna - SOT Parma (Italia) (in prosieguo: l’«ADM»), in ordine alla legittimità della decisione di quest’ultima relativa all’obbligo di pagare, in Italia, un’imposta unica sulle scommesse (in prosieguo: l’«imposta unica») incombente, in via principale, ai Centri di Trasmissione di Dati (in prosieguo: i «CTD»), come la Stanleyparma, nonché, in via eventuale, alla Stanleybet Malta, in qualità di obbligato solidale. Contesto normativo 3 Conformemente all’articolo 1 del decreto legislativo del 23 dicembre 1998, n. 504 - Riordino dell’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 3 agosto 1998, n. 288 (GURI n. 27, del 3 febbraio 1999; in pro- (*) avvocato dello stato, assegnatario della causa unitamente all’avv. stato sergio Fiorentino. sieguo: il «decreto legislativo n. 504/1998»), l’imposta unica è dovuta per i concorsi pronostici e le scommesse di qualunque tipo, relativi a qualunque evento, anche se svolto all’estero. 4 L’articolo 3 di detto decreto legislativo, intitolato «Soggetti passivi», è così formulato: «Soggetti passivi dell’imposta unica sono coloro i quali gestiscono, anche in concessione, i concorsi pronostici e le scommesse». 5 Ai sensi dell’articolo 1, comma 66, della legge del 13 dicembre 2010, n. 220 - Disposizioniper la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2011) (GURI n. 297, del 21 dicembre 2010; in prosieguo: la «legge di stabilità 2011»): «(...) a) (...) l’imposta unica (...) è comunque dovuta ancorché la raccolta del gioco, compresaquella a distanza, avvenga in assenza ovvero in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal Ministero dell’economia e delle finanze - Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato; b) l’articolo 3 del decreto legislativo [n. 504/1998] si interpreta nel senso che soggettopassivo d’imposta è chiunque, ancorché in assenza o in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal Ministero dell’economia e delle finanze - Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, gestisce con qualunque mezzo, anche telematico, per conto proprio o di terzi, anche ubicati all’estero, concorsi pronostici o scommesse di qualsiasi genere. Se l’attività è esercitata per conto di terzi, il soggetto per conto del quale l’attività è esercitata è obbligato solidalmente al pagamento dell’imposta e delle relative sanzioni». 6 Il decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 1° marzo 2006, n. 111 - normeconcernenti la disciplina delle scommesse a quota fissa su eventi sportivi diversi dalle corse dei cavalli e su eventi non sportivi da adottare ai sensi dell’articolo 1, comma 286, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (GURI n. 67, del 21 marzo 2006), all’articolo 16 prevede che il concessionario effettui il pagamento delle somme dovute a titolo di imposta unica. 7 Ai sensi dell’articolo 1, comma 644, lettera g), della legge del 23 dicembre 2014, n. 190 - Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015) (supplemento ordinario alla GURI n. 300, del 29 dicembre 2014), l’imposta unica si applica «su di un imponibile forfetario coincidente con il triplo della media della raccolta effettuata nella provincia ove è ubicato l’esercizio o il punto di raccolta, desunta dai dati registrati nel totalizzatore nazionale per il periodo d’imposta antecedente a quello di riferimento». (...) Procedimento principale e questioni pregiudiziali 8 La Stanleybet Malta opera in Italia nel settore della raccolta di scommesse, per il tramitedi CTD, come la Stanleyparma, sulla base di un rapporto riconducibile allo schema contrattuale del mandato. I CTD sono ubicati presso locali aperti al pubblico, mettono a disposizione dei giocatori un collegamento telematico e trasmettono i dati delle singole giocate al loro mandante. La Stanleybet Malta, che esercita la sua attività in Italia da circa venti anni, non è titolare né di una concessione né di una licenza di polizia. 9 Con decisione del 21 settembre 2016, in esito al procedimento di accertamento dell’imposta, l’ADM ha inviato alla Stanleyparma e, in subordine, alla Stanleybet Malta, in qualità di obbligato solidale, un avviso di accertamento, in applicazione dell’articolo 3 del decreto legislativo n. 504/1998, come interpretato all’articolo 1, comma 66, della legge di stabilità 2011, per il pagamento dell’imposta unica sulle scommesse raccolte in Italia durante l’anno d’imposta 2011, per un importo pari a EUR 8 422,60. L’ADM ha ritenuto che tale imposta fosse dovuta giacché la Stanleyparma svolgeva, «per conto terzi», un’attività di gestione di scommesse. 10 La Stanleyparma e la Stanleybet Malta hanno presentato al giudice del rinvio, la Commissione tributaria provinciale di Parma (Italia), domanda di annullamento di tale decisione, adducendo che la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale introduce, nei loro confronti, una restrizione alla libera prestazione dei servizi. 11 Il giudice del rinvio, che nutre gli stessi dubbi delle ricorrenti, s’interroga, in particolare,sulla compatibilità della normativa nazionale con il diritto dell’Unione, segnatamente con gli articoli 52, 56 e 57 TFUE nonché con i principi della parità di trattamento e di non discriminazione. 12 Detto giudice ritiene che l’attribuzione in capo ai CTD della soggettività passiva all’imposta unica configuri un’illegittima restrizione alla libera prestazione dei servizi, ai sensi dell’articolo 56 TFUE, sotto un duplice profilo. Da un lato, non sarebbe previsto l’assoggettamento a tale imposta per i CTD operanti per conto dei concessionari nazionali, benché svolgano un’attività comparabile a quella della Stanleyparma. Dall’altro, la Stanleyparma, chiamata a versare l’imposta di cui trattasi, sarebbe assimilata a tali concessionari, la cui attività è tuttavia diversa. 13 Secondo il giudice del rinvio, non sussiste alcuna giustificazione a un’eventuale restrizionealla libera prestazione dei servizi, dato che la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale perseguirebbe un obiettivo di natura meramente economica. Lo stesso giudice motiva il proprio punto di vista facendo riferimento a una sentenza della Corte costituzionale (Italia) del 23 gennaio 2018, con cui quest’ultima ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale normativa nazionale per le annualità precedenti al 2011, nella parte in cui prevedeva che i CTD operanti per conto di terzi, che, come la Stanleybet Malta, non erano titolari di una concessione, fossero assoggettati all’imposta unica. 14 In tale contesto, la Commissione tributaria provinciale di Parma ha deciso di sospendereil procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se gli artt. 56, 57 e 52 [TFUE], la giurisprudenza della [Corte] in materia di servizi di gioco e scommessa, di cui, in particolare, alle sentenze [del 6 novembre 2003, Gambelli e a. (C?243/01, EU:C:2003:597), del 6 marzo 2007, Placanica e a. (C?338/04, C?359/04 e C?360/04, EU:C:2007:133), del 16 febbraio 2012, Costa e Cifone (C?72/10 e C?77/10, EU:C:2012:80), nonché del 28 gennaio 2016, Laezza (C?375/14, EU:C:2016:60),] e in materia di discriminazione fiscale, di cui, in particolare, alle sentenze [del 13 novembre 2003, Lindman (C?42/02, EU:C:2003:613), del 6 ottobre 2009, Commissione/Spagna (C?l53/08, EU:C:2009:618), e del 22 ottobre 2014, Blanco e Fabretti (C?344/13 e C?367/13, EU:C:2014:2311)], ed i principi di diritto dell’Unione di parità di trattamento e non discriminazione, anche alla luce della sentenza della Corte Costituzionale del 23.01.2018, devono essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa nazionale del tipo di quella italiana in causa, che prevede l’assoggettamento all’Imposta Unica (...), degli intermediari nazionali della trasmissione dei dati di gioco per conto di operatori di scommessa stabiliti in un diverso Stato Membro dell’Unione Europea, in particolare, aventi le caratteristiche della società [Stanleybet Malta], ed in via eventuale, dei medesimi operatori di scommessa in solido con i loro intermediari nazionali. 2) Se gli artt. 56, 57 e 52 [TFUE], la giurisprudenza della [Corte] in materia di servizi digioco e scommessa, di cui, in particolare, alle sentenze [del 6 novembre 2003, Gambelli e a. (C?243/01, EU:C:2003:597), del 6 marzo 2007, Placanica e a. (C?338/04, C?359/04 e C?360/04, EU:C:2007:133), del 16 febbraio 2012, Costa e Cifone (C?72/10 e C?77/10, EU:C:2012:80), nonché del 28 gennaio 2016, Laezza (C?375/14, EU:C:2016:60),], e in materia di discriminazione fiscale, di cui, in particolare, alle sentenze [del 13 novembre 2003, Lindman (C?42/02, EU:C:2003:613), del 6 ottobre 2009, Commissione/Spagna (C?153/08, EU:C:2009:618), e del 22 ottobre 2014, Blanco e Fabretti (C?344/13 e C?367/13, EU:C:2014:2311)], ed i principi di diritto dell’Unione di parità di trattamento e non discriminazione, anche alla luce della sentenza della Corte Costituzionale, del 23.01.2018, devono essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa nazionale del tipo di quella italiana in causa, che prevede l’assoggettamento all’Imposta Unica (...), dei soli intermediari nazionali della trasmissione dei dati di gioco per conto di operatori di scommessa stabiliti in un diverso Stato Membro dell’Unione (...), in particolare, aventi le caratteristiche della società [Stanleybet Malta], e non anche degli intermediari nazionali della trasmissione dei dati di gioco per conto di operatori di scommessa concessionari statali, che svolgono la medesima attività. 3) Se gli artt. 52, 56 e ss. [TFUE], la giurisprudenza della [Corte] in materia di servizi digioco e scommessa, ed i principi di parità di trattamento e non discriminazione, anche alla luce della sentenza della Corte Costituzionale del 23.01.2018, ostano ad una normativa nazionale del tipo di quella italiana di cui all’art. 1, comma 644, lett. g), L. 190/2014 che impone agli intermediari nazionali della trasmissione dei dati di gioco per conto di operatori di scommessa stabiliti in un diverso Stato Membro dell’Unione Europea, in particolare, aventi le caratteristiche della società [Stanleybet Malta], ed in via eventuale, dei medesimi operatori di scommessa in solido con i loro intermediari nazionali, il pagamento dell’Imposta Unica (...) su di un imponibile forfettario coincidente con il triplo della media della raccolta effettuata nella provincia ove è ubicato l’esercizio o il punto di raccolta, desunta dai dati registrati nel totalizzatore nazionale per il periodo d’imposta antecedente a quello di riferimento». sulle questioni pregiudiziali Sulle questioni prima e seconda 15 Con la prima e la seconda questione, che è opportuno esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 56 TFUE osti ad una normativa di uno Stato membro che assoggetti ad imposta sulle scommesse i CTD stabiliti in tale Stato membro e, in solido e in via eventuale, gli operatori di scommesse, loro mandanti, stabiliti in un altro Stato membro. 16 Occorre rilevare, in primo luogo, che, secondo una giurisprudenza costante della Corte,i giochi d’azzardo sono soggetti alle norme relative alla prestazione dei servizi e, di conseguenza, rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 56 TFUE, qualora almeno uno dei prestatori sia stabilito in uno Stato membro diverso da quello nel quale il servizio è offerto (v., in tal senso, sentenze del 13 novembre 2003, Lindman, C?42/02, EU:C:2003:613, punto 19, nonché del 22 ottobre 2014, Blanco e Fabretti, C?344/13 e C?367/13, EU:C:2014:2311, punto 27). Occorre quindi esaminare la presente controversia in riferimento alla libera prestazione dei servizi. 17 È importante ricordare che la libera prestazione dei servizi, di cui all’articolo 56 TFUE,esige non soltanto l’eliminazione nei confronti del prestatore di servizi stabilito in un altro Stato membro di qualsiasi discriminazione fondata sulla sua cittadinanza, ma anche la soppressione di qualsiasi restrizione - ancorché applicabile indistintamente ai prestatori nazionali e a quelli degli altri Stati membri - quando è idonea a vietare, a ostacolare o a rendere meno attraenti le attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro, ove fornisce legittimamente servizi analoghi (sentenza del 22 ottobre 2014, Blanco e Fabretti, C?344/13 e C?367/13, EU:C:2014:2311, punto 26). 18 Inoltre, occorre osservare come la Corte abbia approvato nel settore dei giochi d’azzardoil ricorso al sistema delle concessioni, ritenendo che quest’ultimo possa costituire un meccanismo efficace che consente di controllare gli operatori attivi in questo settore, allo scopo di prevenire l’esercizio di queste attività per fini criminali o fraudolenti (sentenza del 19 dicembre 2018, Stanley International Betting e Stanleybet Malta, C?375/17, EU:C:2018:1026, punto 66). 19 Per determinare se sussista una discriminazione, occorre verificare che situazioni analoghenon siano trattate in maniera diversa e che situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale, a meno che una differenziazione non sia oggettivamente giustificata (sentenza del 6 giugno 2019, P.M. e a., C?264/18, EU:C:2019:472, punto 28). 20 nel caso di specie, come risulta dagli atti di causa a disposizione della Corte, l’impostaunica è relativa all’attività di raccolta di scommesse in Italia. Ai sensi dell’articolo 1, comma 66, lettere a) e b), della legge di stabilità 2011, soggetti passivi di tale imposta sono tutti gli operatori che gestiscono sistemi di scommesse, indipendentemente dal fatto che operino per proprio conto o per conto di terzi, dalla circostanza che siano o meno titolari di una concessione o dal luogo in cui si trova la loro sede, anche all’estero. 21 Alla luce di tali elementi forniti dal giudice del rinvio, risulta che l’imposta unica si applicaa tutti gli operatori che gestiscono scommesse raccolte sul territorio italiano, senza operare alcuna distinzione in funzione del luogo di stabilimento di tali operatori, cosicché l’applicazione di tale imposta alla Stanleybet Malta non può essere considerata discriminatoria. 22 Occorre rilevare, infatti, che la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale non prevede un regime fiscale diverso a seconda che la prestazione di servizi sia effettuata in Italia o in altri Stati membri. 23 Inoltre, per quanto riguarda l’argomento della Stanleybet Malta secondo cui, in base allanormativa italiana oggetto del procedimento principale, essa è soggetta a doppia imposizione, a Malta e in Italia, va rilevato che, allo stato attuale dello sviluppo del diritto dell’Unione, gli Stati membri godono, fatto salvo il rispetto di tale diritto, di una certa autonomia in materia e che, pertanto, essi non hanno l’obbligo di adeguare il proprio sistema fiscale ai vari sistemi di tassazione degli altri Stati membri, al fine, in particolare, di eliminare la doppia imposizione che risulta dal parallelo esercizio da parte di detti Stati membri della loro competenza fiscale (v., per analogia, sentenza del 1° dicembre 2011, Commissione/Ungheria, C?253/09, EU:C:2011:795, punto 83). 24 ne consegue che, rispetto a un operatore nazionale che svolge le proprie attività allestesse condizioni di tale società, la Stanleybet Malta non subisce alcuna restrizione discriminatoria a causa dell’applicazione nei suoi confronti di una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale. Inoltre, detta normativa non appare atta a vietare, ostacolare o rendere meno attraenti le attività di una società, quale la Stanleybet Malta, nello Stato membro interessato. 25 Per quanto riguarda la Stanleyparma, essa esercita, in qualità di intermediario della Stanleybet Malta e in cambio di una remunerazione, un’attività di offerta e di raccolta di scommesse. 26 Tale società esercita in particolare, allo stesso titolo degli operatori di scommesse nazionali, un’attività di gestione di scommesse, la quale costituisce una condizione necessaria ai fini dell’assoggettamento all’imposta unica. Per tale ragione, in forza dell’articolo 1, comma 66, lettera b), della legge di stabilità 2011, la Stanleyparma è soggetta, in solido con la Stanleybet Malta, al pagamento di tale imposta. 27 Inoltre, dall’articolo 16 del decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 1°marzo 2006, n. 111, emerge che gli operatori titolari di una concessione per l’organizzazione delle scommesse in Italia assolvono anch’essi l’imposta unica. Secondo il giudice del rinvio, i loro CTD tuttavia, al contrario della Stanleyparma, non sono soggetti al pagamento in solido di tale imposta. 28 A tal proposito, occorre nondimeno constatare che, a differenza dei CTD che trasmettonoi dati di gioco per conto degli operatori di scommesse nazionali, la Stanleyparma raccoglie scommesse per conto della Stanleybet Malta, che ha sede in un altro Stato membro. Essa non si trova quindi, alla luce degli obiettivi della legge di stabilità 2011, in una situazione analoga a quella degli operatori nazionali. 29 Di conseguenza, la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale noncomporta alcuna restrizione discriminatoria nei confronti della Stanleybet Malta e della Stanleyparma e non pregiudica, per quanto le riguarda, la libera prestazione dei servizi. 30 Alla luce dell’insieme delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alla primae alla seconda questione dichiarando che l’articolo 56 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa di uno Stato membro che assoggetti ad imposta sulle scommesse i CTD stabiliti in tale Stato membro e, in solido e in via eventuale, gli operatori di scommesse, loro mandanti, stabiliti in un altro Stato membro, indipendentemente dall’ubicazione della sede di tali operatori e dall’assenza di concessione per l’organizzazione delle scommesse. sulla terza questione 31 Con la sua terza questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 56 TFUEosti a una normativa nazionale che prevede la maggiorazione dell’imposta sulle scommesse, sulla base di un imponibile forfettario coincidente con il triplo della media della raccolta effettuata presso il punto di raccolta situato in uno Stato membro, per i CTD che agiscono per conto di operatori di scommesse stabiliti in un altro Stato membro che non sono titolari di una concessione, nonché per gli stessi operatori di scommesse. 32 Il governo italiano e la Commissione contestano la ricevibilità della terza questione, dalmomento che la risposta a quest’ultima, a loro avviso, non è necessaria ai fini della soluzione della controversia oggetto del procedimento principale. 33 A tal riguardo, secondo costante giurisprudenza, il rifiuto della Corte di statuire su unaquestione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale è possibile soltanto qualora risulti in modo manifesto che l’interpretazione richiesta relativamente ad una norma dell’Unione non ha alcun rapporto con la realtà effettiva o con l’oggetto della controversia nel procedimento principale, oppure qualora il problema sia di natura ipotetica, o anche quando la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per rispondere utilmente alle questioni che le vengono sottoposte [v., in tal senso, sentenze del 9 ottobre 1997, Grado e Bashir, C?291/96, EU:C:1997:479, punto 12, nonché del 19 novembre 2019, A.K. e a. (Indipendenza della sezione disciplinare della Corte suprema), C?585/18, C?624/18 e C?625/18, EU:C:2019:982, punto 98]. 34 nel caso di specie, occorre constatare che la normativa nazionale risultante dalla leggedel 23 dicembre 2014, n. 190, non è applicabile alla controversia oggetto del procedimento principale, dato che l’avviso di accertamento contestato nel procedimento principale si riferisce all’anno d’imposta 2011. Di conseguenza, la terza questione, irrilevante ai fini della soluzione della controversia di cui è investito il giudice del rinvio, è irricevibile. sulle spese 35 nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara: L’articolo 56 tFue deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa di uno stato membro che assoggetti ad imposta sulle scommesse i Centri di trasmissione di dati stabiliti in tale stato membro e, in solido e in via eventuale, gli operatori di scommesse, loro mandanti, stabiliti in un altro stato membro, indipendentemente dall’ubicazione della sede di tali operatori e dall’assenza di concessione per l’organizzazione delle scommesse. Così deciso e pronunciato a Lussemburgo il 26 febbraio 2020. normativa nazionale e divieto di discriminazione dei lavoratori imposto dall’ordinamento europeo: la valutazione del Giudice nazionale degli interessi in gioco Corte di giustizia dell’unione europea, ottava sezione, sentenza 2 aprile 2020 in Causa C-670/18 Con la sentenza in epigrafe la Corte di Giustizia ha affrontato la questione della compatibilità della normativa nazionale (art. 5, comma 9, del D.L. n. 95/2012), con gli artt. 1 e 2 della direttiva 2000/78 “che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”. La Corte è stata chiamata a valutare se la norma italiana, che vieta alle Pubbliche Amministrazioni di attribuire incarichi retribuiti di studio e di consulenza a lavoratori collocati in quiescenza, abbia introdotto una discriminazione tra lavoratori basata sull’età, incompatibile con la citata direttiva europea. nella sentenza viene affermato il seguente principio: “la direttiva 2000/78/Ce del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, e in particolare l’articolo 2, paragrafo 2, l’articolo 3, paragrafo 1, e l’articolo 6, paragrafo 1, della stessa, dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che vieta alle amministrazioni pubbliche di assegnare incarichi di studio e consulenza a persone collocate in quiescenza purché, da un lato, detta normativa persegua uno scopo legittimo di politica dell’occupazione e del mercato del lavoro e, dall’altro, i mezzi impiegati per conseguire tale obiettivo siano idonei e necessari. spetta al giudice del rinvio verificare se ciò avvenga effettivamente nella fattispecie di cui al procedimento principale”. Pur lasciando un certo margine valutativo al Giudice nazionale, la Corte UE ha accolto le tesi del Governo, negando che la norma interna si ponga di per sé in contrasto con il divieto di discriminazione dei lavoratori imposto dall’ordinamento euro unitario. nella sentenza, in particolare, viene demandato al Giudice italiano il compito di valutare se, tenuto conto delle specificità del caso concreto, il divieto stabilito dalla norma nazionale risulti effettivamente idoneo a perseguire l’obbiettivo di favorire l’ingresso dei più giovani nei ruoli della Pubblica Amministrazione. Alessandro Jacoangeli* (*) avvocato dello stato, assegnatario della causa unitamente all’avv. st. massimo santoro. Corte di giustizia dell’unione europea, ottava sezione, sentenza 2 aprile 2020, causa C670/18 - pres. sez. L.R. Rossi, rel. J. Malenovský e F. Biltgen - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Italia) il 29 ottobre 2018 - CO / Comune di Gesturi. «Rinvio pregiudiziale - Politica sociale - Principio della parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro - Direttiva 2000/78/CE - Divieto di qualsiasi discriminazione in base all’età - Avviso pubblico di manifestazione di interesse - Condizioni di partecipazione - Esclusione dei soggetti collocati in quiescenza dei settori pubblico o privato» 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli articoli 1 e 2 delladirettiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU 2000, L 303, pag. 16). 2 Questa domanda è stata proposta nel quadro di una controversia tra il sig. CO e il Comunedi Gesturi (Italia) in merito a un avviso di manifestazione di interesse concernente incarichi di studio e di consulenza, che esclude dalla sua partecipazione le persone collocate in quiescenza. Contesto normativo Diritto dell’Unione 3 Ai sensi dell’articolo 1, la direttiva 2000/78 «mira a stabilire un quadro generale per lalotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento». 4 L’articolo 2 di questa direttiva prevede che: «1. Ai fini della presente direttiva, per “principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1. 2. Ai fini del paragrafo 1: a) sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cuiall’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga; b) sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi ap-parentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che: i) tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari (…) (…)». 5 L’articolo 3 della medesima direttiva, intitolato «Campo d’applicazione», così recita: «1. nei limiti dei poteri conferiti [all’Unione europea], la presente direttiva si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene: a) alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo,compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale, nonché alla promozione; (…) c) all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione; (…)». 6 Ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 1, della medesima direttiva: «Fatto salvo l’articolo 2, paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a un[o] qualunque dei motivi di cui all’articolo 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato». 7 L’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, intitolato «Giustificazione delle disparitàdi trattamento collegate all’età», così dispone: «Fatto salvo l’articolo 2, paragrafo 2, gli Stati membri possono prevedere che le disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari. Tali disparità di trattamento possono comprendere in particolare: a) la definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione e alla formazione pro-fessionale, di occupazione e di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e di retribuzione, per i giovani, i lavoratori anziani e i lavoratori con persone a carico, onde favorire l’inserimento professionale o assicurare la protezione degli stessi; b) la fissazione di condizioni minime di età, di esperienza professionale o di anzianità dilavoro per l’accesso all’occupazione o a taluni vantaggi connessi all’occupazione; c) la fissazione di un’età massima per l’assunzione basata sulle condizioni di formazionerichieste per il lavoro in questione o la necessità di un ragionevole periodo di lavoro prima del pensionamento». Diritto nazionale 8 L’articolo 5, comma 9, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 135 (supplemento ordinario alla GURI n. 189, del 14 agosto 2012), così come modificato dall’articolo 6 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 114 (supplemento ordinario alla GURI n. 190, del 18 agosto 2014) (in prosieguo: il «decreto-legge n. 95/2012»), disciplina l’assegnazione di incarichi di studio e consulenza da parte delle amministrazioni pubbliche, vietando loro, in particolare, di assegnare incarichi del genere a persone collocate in quiescenza dei settori privato e pubblico. È loro parimenti vietato di assegnare a dette persone incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo di tali amministrazioni, nonché degli enti e società da esse controllati, ad eccezione dei componenti delle giunte degli enti territoriali e dei componenti o titolari degli organi elettivi di determinati enti. Tuttavia, si ammette che detti posti, incarichi e collaborazioni possano essere loro assegnati se esercitati a titolo gratuito. Si specifica inoltre, per quanto concerne gli incarichi dirigenziali e direttivi, ferma restando la loro gratuità, che la durata degli stessi non può essere superiore a un anno, non prorogabile né rinnovabile, presso ciascuna amministrazione. Procedimento principale e questione pregiudiziale 9 Il 28 dicembre 2017, il Comune di Gesturi ha pubblicato un avviso di manifestazione diinteresse al fine di assegnare un incarico di studio e consulenza per il centro di riciclaggio comunale. 10 Per quanto concerne le condizioni di partecipazione, il suddetto avviso conteneva unaclausola che imponeva ai candidati il possesso dei seguenti requisiti: «Laurea in medicina e chirurgia - Specializzazione in igiene - Comprovata esperienza dirigenziale nel servizio sanitario nazionale per almeno cinque anni - non essere soggetto già lavoratore privato o pubblico collocato in quiescenza». 11 Malgrado il sig. CO soddisfacesse tutti i requisiti professionali enunciati in detto avviso,egli non è stato autorizzato a partecipare alla procedura per il fatto di essere un soggetto del settore pubblico collocato in quiescenza. 12 Poiché ritiene che la clausola che esclude dalla cerchia dei candidati potenzialmente legittimati le persone collocate in quiescenza costituisca una discriminazione indiretta in base all’età e, di conseguenza, debba essere dichiarata illegittima, se non nulla, il sig. CO ha proposto un ricorso avverso l’avviso di manifestazione di interesse di cui al procedimento principale dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Italia). 13 nel suo ricorso, il sig. CO asserisce che l’articolo 5, comma 9, del decreto-legge n. 95/2012, che vieta alle amministrazioni pubbliche di assegnare incarichi di studio e consulenza ai soggetti collocati in quiescenza dei settori privato e pubblico, dovrebbe essere disapplicato in quanto contrario alla direttiva 2000/78. Inoltre, questa disposizione violerebbe l’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Il ricorrente asserisce che la normativa nazionale in questione nel procedimento principale istituirebbe una discriminazione indiretta, che non potrebbe essere giustificata da nessun obiettivo legittimo. 14 Il giudice del rinvio si interroga sulla compatibilità della disposizione del diritto nazionalein questione nel procedimento principale con gli articoli 1 e 2 della direttiva 2000/78. nel caso in cui si trattasse effettivamente di una discriminazione indiretta, esso formula dubbi in merito all’esistenza di una possibile giustificazione, ai sensi dell’articolo 6 di tale direttiva. Infatti, sarebbe improbabile che incarichi di studio e consulenza, che presentano un certo grado di complessità e richiedono una certa esperienza, possano essere correttamente espletati da persone che iniziano la loro carriera professionale. Una misura che esclude l’assegnazione di siffatti incarichi a persone collocate in quiescenza sarebbe pertanto inadeguata rispetto allo scopo perseguito, consistente nel favorire il rinnovo del personale mediante assunzione di persone più giovani. 15 In tale contesto, il Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se il principio di non discriminazione di cui agli articoli 1 e 2 della direttiva [2000/78] osta alla disposizione di cui all’articolo 5, comma 9, del decreto-legge [n. 95/2012], che prevede il divieto per le pubbliche amministrazioni di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza». sulla questione pregiudiziale 16 Con la sua questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza se la direttiva 2000/78 debbaessere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale che vieta alle amministrazioni pubbliche di assegnare incarichi di studio e consulenza a persone collocate in quiescenza. 17 In via preliminare occorre ricordare, per quanto riguarda l’argomento invocato dal ricorrente nel procedimento principale, basato sul fatto che il giudice del rinvio ha omesso di analizzare la questione alla luce del principio della libera prestazione dei servizi, che una normativa nazionale quale quella in questione nel procedimento principale, applicabile indistintamente ai cittadini tanto italiani quanto degli altri Stati membri, può ricadere, di norma, nella sfera delle disposizioni relative alle libertà fondamentali garantite dal trattato FUE solo in quanto si applichi a situazioni che presentino un collegamento con gli scambi tra gli Stati membri (v., in tal senso, sentenza dell’11 giugno 2015, Berlington Hungary e a., C?98/14, EU:C:2015:386, punto 24, nonché ordinanza del 4 giugno 2019, Pólus vegas, C?665/18, non pubblicata, EU:C:2019:477, punto 17). 18 Orbene, ciò non si verifica nel caso di specie, dato che tutti gli elementi della controversiadi cui al procedimento principale sono circoscritti all’interno di un solo Stato membro, ossia la Repubblica italiana. 19 Per risolvere la questione proposta dal giudice del rinvio occorre verificare se la normativanazionale oggetto del procedimento principale ricada nella sfera di applicazione della direttiva 2000/78 e, in caso di soluzione affermativa, se essa istituisca una disparità di trattamento basata sull’età che possa essere eventualmente giustificata alla luce dell’articolo 6 di detta direttiva. 20 Per quanto concerne, in primo luogo, la questione se la normativa in discussione nel procedimento principale ricada nella sfera d’applicazione della direttiva 2000/78, tanto dal titolo e dal preambolo quanto dal contenuto e dalla finalità di detta direttiva si evince che quest’ultima mira a stabilire un quadro generale per garantire a chiunque la parità di trattamento «in materia di occupazione e di condizioni di lavoro», assicurando una protezione efficace contro le discriminazioni basate su uno dei motivi indicati nel suo articolo 1, tra i quali compare l’età (sentenze del 18 giugno 2009, Hütter, C?88/08, EU:C:2009:381, punto 33, e del 12 ottobre 2010, Ingeniørforeningen i Danmark, C?499/08, EU:C:2010:600, punto 19). 21 Inoltre, discende, in particolare, dall’articolo 3, paragrafo 1, lettere a) e c), della direttiva2000/78 che quest’ultima si applica, nei limiti dei poteri conferiti all’Unione, «a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico», per quanto attiene, da un lato, «alle condizioni di accesso all’occupazione (...) compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione», e, dall’altro, «all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione» (v., in tal senso, sentenze del 18 giugno 2009, Hütter, C?88/08, EU:C:2009:381, punto 34, e del 12 gennaio 2010, Petersen, C?341/08, EU:C:2010:4, punto 32). 22 Una normativa nazionale che vieti, in modo generale, alle amministrazioni pubbliche diassegnare incarichi di studio e consulenza alle persone provenienti sia dal settore privato sia dal settore pubblico, per il fatto che esse siano state collocate in quiescenza, porta a escludere dette persone da qualsiasi reclutamento o assunzione. 23 Da ciò consegue che una siffatta normativa incide direttamente sulla formazione del rapporto di lavoro e, a fortiori, sull’esercizio, da parte degli interessati, di determinate attività professionali e, pertanto, dev’essere considerata come fonte di norme relative alle condizioni di accesso all’occupazione, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/78. 24 Pertanto, la normativa nazionale oggetto del procedimento principale ricade nella sferadi applicazione della direttiva 2000/78. 25 Per quanto riguarda, in secondo luogo, la questione se detta normativa istituisca una disparità di trattamento in base all’età ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, va rammentato che, ai sensi di questa disposizione, «per “principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1» della medesima direttiva. L’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della stessa precisa che, ai fini dell’applicazione del paragrafo 1 di detto articolo 2, sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1 della direttiva in questione, una persona è trattata in modo meno favorevole di un’altra che si trovi in una situazione analoga. In forza dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 una discriminazione indiretta sussiste quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone di una particolare età rispetto ad altre persone. 26 nel caso di specie, è importante rilevare che, indubbiamente, l’articolo 5 del decretolegge n. 95/2012 non fa direttamente riferimento a una determinata età. Infatti, l’esclusione dalla partecipazione ad avvisi di manifestazione di interesse al fine dell’assegnazione di incarichi di studio e consulenza da parte delle amministrazioni pubbliche si applica a qualunque persona collocata in quiescenza, laddove l’età alla quale queste ultime abbiano potuto godere di un trattamento di quiescenza non è la stessa per tutte queste persone, dal momento che può essere compresa, secondo le osservazioni presentate dal governo italiano in udienza, tra i 60 e i 75 anni. Tuttavia, facendo riferimento al collocamento in quiescenza, la normativa nazionale in questione nel procedimento principale si basa indirettamente su un criterio collegato all’età, dal momento che il beneficio di un trattamento di quiescenza è subordinato al compimento di un certo numero di anni di lavoro e alla condizione di aver raggiunto una determinata età. 27 Orbene, una normativa nazionale che vieti alle persone collocate in quiescenza di partecipare ad avvisi di manifestazione di interesse per l’assegnazione, da parte delle amministrazioni pubbliche, di incarichi di studio e consulenza dev’essere considerata come tale da imporre a detti soggetti un trattamento meno favorevole di quello riservato a tutte le persone che esercitino ancora un’attività professionale. 28 Una siffatta normativa istituisce, di conseguenza, una discriminazione indiretta basatasull’età dell’interessato, a differenza, segnatamente, di quella in questione nella causa che ha condotto alla sentenza del 21 maggio 2015, SCMD (C?262/14, non pubblicata, EU:C:2015:336, punti 28 e 30), che si applicava in funzione dello status o della categoria socioprofessionale in cui rientrava l’interessato a livello nazionale, vietando il cumulo del trattamento di quiescenza riscosso con un reddito ricavato dall’attività professionale. 29 ne consegue che la normativa in discussione nel procedimento principale istituisce unadifferenza di trattamento indirettamente basata sull’età, ai sensi del combinato disposto dell’articolo 1 e dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78. 30 Per quanto concerne, in terzo luogo, la questione, se detta disparità di trattamento possatrovare giustificazione ai sensi dell’articolo 6 della direttiva 2000/78, occorre rilevare che il primo comma del paragrafo 1 di detto articolo 6 dichiara che una disparità di trattamento in ragione dell’età non costituisce discriminazione qualora sia oggettivamente e ragionevolmente giustificata, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, in particolare da giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari. 31 Detto articolo 6 precisa anche che queste disparità di trattamento possono comprendere,in particolare, la definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione per i giovani o la fissazione di un’età massima per l’assunzione. 32 nel caso di specie, dalla domanda di pronuncia pregiudiziale si evince che la normativanazionale in discussione nel procedimento principale ha lo scopo di garantire il rinnovo del personale mediante l’assunzione di giovani. Inoltre, dalle osservazioni scritte del governo italiano discende che l’articolo 5 del decreto-legge n. 95/2012 persegue un duplice obiettivo, ossia, da un lato, realizzare un’effettiva revisione della spesa pubblica mediante la riduzione dei costi di funzionamento dell’amministrazione pubblica, senza danneggiare la sostanza dei servizi forniti ai cittadini, e, dall’altro, facilitare il ringiovanimento del personale delle amministrazioni pubbliche, favorendo l’accesso di persone più giovani alla funzione pubblica. 33 A questo riguardo, è importante ricordare anzitutto che l’indicazione contemporanea didiversi obiettivi, collegati gli uni agli altri oppure classificati per ordine di importanza, non costituisce un ostacolo all’esistenza di una finalità legittima ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 (sentenza del 21 luglio 2011, Fuchs e Köhler, C?159/10 e C?160/10, EU:C:2011:508, punti 44 e 46). 34 Inoltre, benché considerazioni di bilancio possano essere alla base delle scelte di politicasociale di uno Stato membro e influire sulla natura o la portata delle misure di tutela dell’occupazione che esso intenda adottare, esse tuttavia non possono costituire di per sé uno scopo perseguito da tale politica (v., in tal senso, sentenza del 20 giugno 2013, Giersch e a., C?20/12, EU:C:2013:411, punto 51). 35 Da ciò discende che, posto che l’articolo 5 del decreto-legge n. 95/2012 fa parte, in uncontesto economico generale, delle misure necessarie per ridurre i deficit eccessivi dell’amministrazione pubblica italiana e mira, per la precisione, a evitare un cumulo di retribuzioni e di trattamenti di quiescenza provenienti da fondi pubblici, l’obiettivo della riduzione effettiva della spesa pubblica può influire sulla natura e sulla portata delle misure di tutela dell’occupazione ma non può costituire, di per sé, una finalità legittima. 36 Quanto all’obiettivo consistente nel garantire un ringiovanimento del personale in attività,occorre ricordare che la legittimità di un siffatto obiettivo di interesse generale rientrante nella politica dell’occupazione non può essere ragionevolmente messa in dubbio, dal momento che esso compare tra gli obiettivi espressamente enunciati dall’articolo 6, paragrafo 1, primo comma, della direttiva 2000/78 e che, conformemente all’articolo 3, paragrafo 3, primo comma, TUE, la promozione di un livello di occupazione elevato costituisce una delle finalità perseguite dall’Unione (v., in tal senso, sentenza del 16 ottobre 2007, Palacios de la villa, C?411/05, EU:C:2007:604, punto 64). 37 Secondo la giurisprudenza della Corte, la promozione dell’assunzione costituisce incontestabilmente una finalità legittima di politica sociale o dell’occupazione degli Stati membri, segnatamente quando si tratta di migliorare le opportunità di inserimento nella vita attiva di determinate categorie di lavoratori, e in particolare di favorire l’accesso dei giovani all’esercizio di una professione (v., in tal senso, sentenze del 16 ottobre 2007, Palacios de la villa, C?411/05, EU:C:2007:604, punto 65, nonché del 19 luglio 2017, Abercrombie & Fitch Italia, C?143/16, EU:C:2017:566, punto 37). 38 In particolare, è giustificato, a titolo di deroga al principio del divieto delle discriminazionibasate sull’età, instaurare disparità di trattamento collegate alle condizioni di accesso all’occupazione, quando l’obiettivo perseguito consiste nello stabilire un equilibrio strutturale in ragione dell’età tra giovani funzionari e funzionari più anziani, al fine di favorire l’assunzione e la promozione dei giovani (v., in tal senso, sentenza del 21 luglio 2011, Fuchs e Köhler, C?159/10 e C?160/10, EU:C:2011:508, punto 50). 39 Di conseguenza, gli obiettivi di politica dell’occupazione perseguiti dalla normativa nazionale in discussione nel procedimento principale devono essere considerati, in linea di principio, come tali da poter giustificare obiettivamente e ragionevolmente una disparità di trattamento basata sull’età. 40 va però verificato, secondo il tenore stesso dell’articolo 6, paragrafo 1, primo comma,della direttiva 2000/78, se i mezzi apprestati per conseguire dette finalità siano «appropriati e necessari». 41 È importante allora verificare se l’articolo 5 del decreto-legge n. 95/2012 consenta di conseguire gli obiettivi di politica dell’occupazione perseguiti dal legislatore senza con ciò ledere in modo eccessivo gli interessi legittimi delle persone collocate in quiescenza, le quali si trovano, per effetto di tale disposizione, private di un’opportunità di nuova assunzione. 42 In questo contesto occorre rammentare che gli Stati membri dispongono di un ampiomargine discrezionale nella scelta non soltanto di perseguire uno scopo determinato fra altri in materia di politica sociale e di occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzare detto scopo (v., in tal senso, sentenze del 22 novembre 2005, Mangold, C?144/04, EU:C:2005:709, punto 63, e del 16 ottobre 2007, Palacios de la villa, C?411/05, EU:C:2007:604, punto 68). Tuttavia, tale margine discrezionale non può avere l’effetto di svuotare della sua sostanza l’attuazione del principio di non discriminazione in ragione dell’età (sentenza del 12 ottobre 2010, Ingeniørforeningen i Danmark, C?499/08, EU:C:2010:600, punto 33). 43 Inoltre, spetta alle autorità competenti degli Stati membri trovare un giusto equilibrio trai diversi interessi in gioco (sentenza del 16 ottobre 2007, Palacios de la villa, C?411/05, EU:C:2007:604, punto 71). 44 Infatti, il divieto di discriminazione in base all’età dev’essere letto alla luce del diritto dilavorare riconosciuto dall’articolo 15, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali. ne risulta che una particolare attenzione dev’essere riservata alla partecipazione dei lavoratori anziani alla vita professionale e, al tempo stesso, alla vita economica, culturale e sociale. Il mantenimento di queste persone nella vita attiva favorisce segnatamente la diversità nell’occupazione. Tuttavia, l’interesse rappresentato dal mantenimento in attività di tali persone dev’essere tenuto in considerazione rispettando altri interessi eventualmente contrastanti (v., in tal senso, sentenze del 21 luglio 2011, Fuchs e Köhler, C?159/10 e C?160/10, EU:C:2011:508, punti da 62 a 64, nonché del 5 luglio 2012, Hörnfeldt, C?141/11, EU:C:2012:421, punto 37). 45 Di conseguenza, è importante determinare se il legislatore, nell’esercizio dell’ampio potere discrezionale di cui dispone in materia di politica sociale e dell’occupazione, abbia cercato di raggiungere un equilibrio tra la volontà di favorire l’accesso dei lavoratori giovani all’occupazione e il rispetto del diritto delle persone più anziane di lavorare. 46 Pertanto, riguardo all’obiettivo perseguito, consistente, in modo generale, nel garantire ilringiovanimento della popolazione attiva occupata, si può sostenere che un siffatto obiettivo non eccede quanto è necessario, visto che si può ragionevolmente prevedere di negare l’ingaggio o l’assunzione di persone collocate in quiescenza, che hanno completato la loro vita professionale e che percepiscono un trattamento di quiescenza, al fine di promuovere la piena occupazione della popolazione attiva o di favorire l’accesso al mercato del lavoro per i più giovani. 47 viceversa, come rilevato dal giudice del rinvio, non è certo che la misura in questione nelprocedimento principale, consistente nel vietare alle persone collocate in quiescenza di partecipare alle manifestazioni di interesse per l’assegnazione di incarichi di studio e consulenza, consenta effettivamente di migliorare le opportunità di inserimento nella vita attiva delle persone più giovani. Infatti, poiché l’esecuzione di incarichi di studio e consulenza può rivelarsi delicata e complessa, una persona più anziana si trova probabilmente in condizioni migliori, tenuto conto dell’esperienza da essa acquisita, per adempiere all’incarico affidatole. Pertanto, la sua assunzione è benefica sia per l’amministrazione pubblica autrice della manifestazione di interessi sia nei confronti dell’interesse generale. Benché un ringiovanimento del personale in attività possa avvenire nell’ipotesi in cui persone già in possesso di una certa esperienza manifestino il loro interesse per l’esecuzione di incarichi siffatti, consentendo così a lavoratori più giovani, che occuperanno il posto da essi liberato, di accedere al mercato del lavoro, è necessario nondimeno che tali incarichi di studio e consulenza non corrispondano a impieghi isolati, a tempo determinato e che non offrano nessuna possibilità di ulteriore evoluzione professionale. 48 Inoltre, occorrerebbe verificare se il divieto in questione nel procedimento principale nonecceda quanto necessario per conseguire lo scopo perseguito, ledendo in maniera eccessiva le legittime aspettative delle persone collocate in quiescenza, posto che esso si basa unicamente sul criterio dell’età che consente di godere di un trattamento di quiescenza e non prende in considerazione la ragionevolezza o meno del livello di detto trattamento, di cui gli interessati beneficiano al termine della loro carriera professionale. 49 Orbene, sarebbe giustificato prendere in considerazione il livello del trattamento di quiescenza di cui possono beneficiare gli interessati, posto che la normativa nazionale in questione nel procedimento principale consente a detti soggetti di ricoprire incarichi dirigenziali o direttivi a tempo determinato e a titolo gratuito, conformemente alle considerazioni di bilancio invocate dal governo italiano parallelamente allo scopo di politica dell’occupazione basato su un ringiovanimento del personale in attività. 50 Spetta al giudice nazionale, il solo competente a valutare i fatti di cui al procedimentoprincipale e ad interpretare la normativa nazionale applicabile, verificare se il divieto imposto alle persone collocate in quiescenza di partecipare alle manifestazioni di interesse al fine dell’assegnazione di incarichi di studio e consulenza sia idoneo a garantire la realizzazione dell’obiettivo invocato, e soddisfi effettivamente l’intento di conseguirlo in modo coerente e sistematico (v., in tal senso, sentenze del 10 marzo 2009, Hartlauer, C?169/07, EU:C:2009:141, punto 55, e del 12 gennaio 2010, Petersen, C?341/08, EU:C:2010:4, punto 53). 51 In tale contesto, è suo compito, segnatamente, verificare se la facoltà di assegnare incarichidirigenziali e direttivi occupati a titolo gratuito non costituisca, in realtà, uno scopo di politica di bilancio perseguito dalla normativa in questione nel procedimento principale, che si ponga in contraddizione con lo scopo di politica dell’occupazione basato sul ringiovanimento del personale in attività. 52 Alla luce delle considerazioni sin qui sviluppate, occorre rispondere alla questione proposta dichiarando che la direttiva 2000/78, e in particolare l’articolo 2, paragrafo 2, l’articolo 3, paragrafo 1, e l’articolo 6, paragrafo 1, della stessa, dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che vieta alle amministrazioni pubbliche di assegnare incarichi di studio e consulenza a persone collocate in quiescenza purché, da un lato, detta normativa persegua uno scopo legittimo di politica dell’occupazione e del mercato del lavoro e, dall’altro, i mezzi impiegati per conseguire tale obiettivo siano idonei e necessari. Spetta al giudice del rinvio verificare se ciò avvenga effettivamente nella fattispecie di cui al procedimento principale. sulle spese 53 nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Ottava Sezione) dichiara: La direttiva 2000/78/Ce del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, e in particolare l’articolo 2, paragrafo 2, l’articolo 3, paragrafo 1, e l’articolo 6, paragrafo 1, della stessa, dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che vieta alle amministrazioni pubbliche di assegnare incarichi di studio e consulenza a persone collocate in quiescenza purché, da un lato, detta normativa persegua uno scopo legittimo di politica dell’occupazione e del mercato del lavoro e, dall’altro, i mezzi impiegati per conseguire tale obiettivo siano idonei e necessari. spetta al giudice del rinvio verificare se ciò avvenga effettivamente nella fattispecie di cui al procedimento principale. ContenzIoso nazIonale Irretroattività e “spazzacorrotti”: la Corte Costituzionale pone un freno ad un “diritto vivente” incostituzionale Nota a Corte CostituzioNale, seNteNza 26 febbraio 2020 N. 32 Massimiliano Stagno* Alla luce di ben undici ordinanze di rinvio da parte dei Tribunali di merito (1), la Corte Costituzionale, pronunciandosi con una storica sentenza (oggetto del presente commento), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, co. 6, lett. b, della l. 9 gennaio 2019, n. 3 (recante «Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici»), nella parte in cui estende a taluni reati previsti dal Titolo II, Libro II del codice penale (2) - inserendoli nel noto catalogo di cui all’art. 4-bis, co. 1 - le preclusioni previste dall’ordinamento penitenziario anche con riguardo ai soggetti che hanno commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della stessa legge. In altre parole, la normativa oggetto di tale pronuncia estendeva ai più (*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato (avv. St. Luigi Simeoli). (1) Segnatamente, la questione è stata sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Venezia con ordinanza dell’8 aprile 2019, dalla Corte d’appello di Lecce con ordinanza del 4 aprile 2019, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Cagliari con ordinanza del 10 giugno 2019, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli con ordinanza del 2 aprile 2019, dal Tribunale di sorveglianza di Taranto con ordinanza del 7 giugno 2019, dal Tribunale ordinario di Brindisi con due ordinanze del 30 aprile 2019, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Caltanissetta con due ordinanze del 16 luglio 2019, dal Tribunale di sorveglianza di Potenza con ordinanza del 31 luglio 2019 e dal Tribunale di sorveglianza di Salerno con ordinanza del 12 giugno 2019. (2) In particolare, vengono ricompresi all’interno di tale catalogo i reati previsti dagli artt. 314,co. 1, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, co. 1, 320, 321, 322, 322-bis c.p. gravi reati contro la pubblica amministrazione le preclusioni previste dall’art. 4-bis ord. pen. in materia di misure alternative alla detenzione, con conseguente applicabilità del regime “ostativo” rispetto alla concessione dei permessi premio, del lavoro all’esterno e delle misure alternative alla detenzione, ad esclusione della liberazione anticipata. Inoltre, l’inserimento di tali delitti tra quelli di cui all’art. 4-bis ord. pen. ha reso operativo, in caso di condanna, il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione ex art. 656, co. 9, c.p.p., subordinando l’istanza di accesso alle misure alternative alla detenzione al passaggio obbligatorio dal carcere (3). All’indomani della riforma non sono certo mancate le critiche dottrinali proprio in merito alla (non più presunta) illegittimità costituzionale della normativa, tanto in relazione al principio di uguaglianza, quanto in riferimento al principio di ragionevolezza e di difesa nel processo, ma soprattutto per il (non previsto) regime intertemporale della stessa (4). La c.d. legge “spazzacorrotti”, d’altronde, nulla dice in merito alla sua efficacia nel tempo. Di fatti, se, da un lato, è sempre stata pacifica l’applicazione della nuova disciplina ai fatti commessi dopo il 31 gennaio 2019 (data di entrata in vigore della normativa), dall’altro, il principale dubbio concerneva la possibile applicazione retroattiva della norma a fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore. In assenza di una netta presa di posizione da parte del legislatore in merito, è il diritto vivente che ha permesso di orientarsi verso un’applicazione retroattiva di tali modifiche. Sul punto, stando all’orientamento giurisprudenziale predominante basato su un’interpretazione formalistica, la disciplina dell’esecuzione penale - nella specie concernente l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione - risulterebbe soggetta al principio del tempus regit actum (5). (3) Come giustamente sottolineato dai giudici della Consulta nella sentenza in commento, l’inserimento di tali reati nel catalogo del 4-bis porta con sé gli ulteriori effetti stabiliti dalle norme dell’ordinamento penitenziario che rinviano all’art. 4-bis quali: una preclusione assoluta in merito alla concessione di misure alternative della detenzione domiciliare “ordinaria” per ultrasettantenni, e della detenzione domiciliare c.d. “generica” (artt. 47-ter, co. 1, ord. pen. e 47-ter, co. 1-bis, ord. pen.); l’allungamento dei tempi di espiazione di pena necessari per l’accesso al lavoro all’esterno, ai permessi premio e alla semilibertà (artt. 21, co. 1, 30-ter e 50, co. 2, ord. pen.); un regime più rigoroso relativo alla revoca dei benefici penitenziari già concessi (art. 58-quater, co. 5, ord. pen.). (4) Sul punto, di particolare interesse risulta il lavoro di V. MANeS, l’estensione dell’art. 4-bis ord. pen. ai delitti contro la p.a.: profili di illegittimità costituzionale, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 14.2.2019, n. 2, 105 ss. L’Autore, infatti, fornisce una panoramica di tutti i profili di dubbia costituzionalità della nuova legge “spazzacorrotti”, non solo in relazione al profilo di diritto intertemporale, ma anche in ordine alla compatibilità dello stesso con il principio di eguaglianza e con la finalità rieducativa della pena. Sul tema, cfr. anche il recente intervento di V. MoNGILLo, la legge “spazzacorrotti”: ultimo approdo del diritto penale emergenziale nel cantiere permanente dell’anticorruzione, in Dir. pen. cont., 5/2019, 281 ss. (5) In questo senso, cfr. Cass. pen., Sez. I, 3.2.2016, n. 37578, in www.dejure.it; Cass. pen., Sez. I, 5.2.2013, n. 11580; Cass. pen., Sez. I, 9.12.2009, n. 46924, in www.dejure.it; Cass. pen., Sez. I, Si tratta, infatti, di una prassi giurisprudenziale consolidatasi a partire dal 2006 secondo la quale le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena ma soltanto le modalità esecutive della stessa, non avrebbero carattere di norme penali sostanziali e, dunque, non sarebbero da assoggettare alle regole in materia di successione di norme penali nel tempo dettate dall’art. 2 c.p. (6). Pertanto, le modifiche che incidono sulle norme in materia di esecuzione penale e ordinamento penitenziario, seppur volte ad inserire una disciplina più severa, sarebbero immediatamente applicabili a tutti i rapporti esecutivi non ancora esauriti. A fungere da contraltare di una simile interpretazione, la giurisprudenza della Corte eDu ha sviluppato un’interpretazione sostanzialistica, per la quale l’applicazione dell’art. 7 CeDu prescinderebbe dalla qualificazione formale data dall’ordinamento interno alle norme penali, dovendosi invece prediligere una valutazione in ordine al tipo, alla durata, agli effetti nonché alle modalità di esecuzione della sanzione o della misura. L’approccio anti-formalista della giurisprudenza europea, com’è noto, ha trovato applicazione in un numero crescente di decisioni, talune implicanti variazioni sul piano esecutivo che presentano analogie con il peculiare regime esecutivo imposto per i reati ex art. 4-bis ord. pen. (di cui fanno parte anche i menzionati reati contro la p.a.). Il principio enunciato dai giudici di Strasburgo consente quindi di ricondurre nella materia penale anche disposizioni processuali che, in concreto, abbiano una valenza afflittiva sul trattamento giuridico del singolo: basti considerare la nota sentenza Del rio Prada c. spagna, proprio in materia di norme sul trattamento penitenziario (7). In quella sede, la Grande Camera dalla Corte edu ravvisò una violazione dell’art. 7 CeDu persino dinnanzi a un mutamento giurisprudenziale con effetti peggiorativi in relazione ad un istituto assimilabile alla liberazione anticipata prevista dal nostro ordinamento, comportando, simili mutamenti, una 5.7.2006, n. 24767, in www.dejure.it; Cass. pen., Sez. I, 11.2.2000 n. 999, rv. 215502, in www.dejure.it secondo cui «le norme che regolano l’esecuzione della pena e le misure ad essa alternative non hanno contenuto di diritto sostanziale e, come tali, non sono soggette al principio di rango costituzionale, sancito dall’art. 2 cod. pen.» (6) Cfr. Cass. pen., Sez. un., 17.7.2006, n. 24561. Con tale pronuncia, le Sezioni unite avevano legittimato l’applicazione retroattiva del divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione per gli autori del delitto di violenza sessuale, dopo che questo fu inserito nel catalogo dei delitti di cui all’art. 4-bis ord. pen. (7) Cfr. Corte eDu, sent. 21.10.2013, Del rio Prada c. spagna. In realtà, un approccio sostanzialistico si riscontra già in una precedente pronuncia: Corte eDu, sent. 17.9.2009, scoppola c. italia, in relazione ad una modifica della normativa processuale concernente lo sconto di pena connesso al giudizio abbreviato, con la quale si affermava la natura sostanziale dell’art. 442, co. 2, c.p.p., assoggettando la relativa disciplina al principio di irretroattività della norma penale. imprevedibilità del diritto e, dunque, una violazione del principio di affidamento e prevedibilità (8). D’altronde, proprio tali sviluppi della giurisprudenza europea non hanno fatto altro che allargare il quadro della presunta incostituzionalità della legge “spazzacorrotti”. In dottrina, infatti, non è mancato chi ha ravvisato una violazione della normativa in questione anche in relazione all’art. 117 Cost. nella parte in cui richiama il rispetto, da parte del nostro Paese, degli obblighi internazionali, integrato dal parametro interposto rappresentato dall’art. 7 CeDu, come interpretato dai giudici di Strasburgo (9). ebbene, alla luce degli sviluppi sovranazionali, anche il quadro giurisprudenziale interno al nostro ordinamento sembra non presentare più quell’uniformità di orientamenti sul tema: recente giurisprudenza della Corte di Cassazione ha affrontato - seppur incidentalmente - la questione della mancanza di un parametro di diritto intertemporale della l. 3/2019, aderendo alla tesi sostanzialistica di origine comunitaria (10). ed è proprio tale arresto giurisprudenziale che ha suggerito, in linea con la dottrina (11), la necessità di un revirement, posto che il consolidato “diritto vivente” preclude ad un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme della norma. Tuttavia, nel tentativo di porre un freno alle implicazioni derivanti dall’automatica applicazione dell’equazione “norma processuale = tempus regit actum”, i giudici di merito, chiamati ad affrontare la questione, da un lato, (8) Già la dottrina riteneva che nel principio di prevedibilità della risposta sanzionatoria andassericompreso quello delle prevedibilità dell’esecuzione della pena. Il riferimento è al lavoro di F. VIGANò, il principio di prevedibilità della decisione giudiziale in materia penale, in C.e. PALIero et al. (a cura di), la crisi della legalità. il “sistema vivente delle fonti penali”, Napoli, 2016, il quale sostiene che tra i corollari di tale principio deve essere ricompresa la possibilità per ogni consociato di prevedere la pena che dovrà scontare, «prognosi, quest’ultima, che presuppone a sua volta la possibilità di prevedere [...] quali saranno le condizioni alle quali il condannato potrà eventualmente accedere a meccanismi di sospensione del processo o della pena, nonché a sanzioni o misure alternative applicate dallo stesso giudice di cognizione ovvero dei giudici preposti all’esecuzione della pena». (9) Cfr. V. MANeS, l’estensione, cit., 113 ss. (10) Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 20.3.2019, n. 12541 in cui si legge che l’assenza di un parametro didiritto intertemporale si traduce «nel passaggio - a “sorpresa” e dunque non prevedibile - da una sanzione patteggiata “senza assaggio di pena” ad una sanzione con necessaria incarcerazione, giusta il già rilevato operare del combinato disposto degli artt. 656, comma 9 lett. a), cod. proc. pen. e 4-bis ord. pen.». In sostanza, la Corte di Cassazione, pur non sollevando direttamente la questione di legittimità in quanto non rilevante nel caso di specie, ha in una certa misura proposto una rivisitazione dell’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità proprio alla luce dell’interpretazione dell’art. 7 CeDu fornita dalla giurisprudenza comunitaria. In relazione alla questione affrontata direttamente dalla Cassazione, cfr. M. STAGNo, la preclusione alla riparazione pecuniaria (ex art. 322-quater c.p.) in caso di patteggiamento e in via incidentale, il revirement sui profili di diritto intertemporale della legge “spazzacorrotti”, in rass avv. stato, n. 1/2019 pp. 126 ss. (11) G.L. GATTA, estensione del regime ex art. 4-bis o.p. ai delitti contro la p.a.: sollevate due prime questioni di legittimità costituzionale, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 8.4.2019. hanno optato per la remissione della questione alla Corte Costituzionale (12), dall’altro, hanno scelto - in maniera autonoma - la strada di un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme (13). In un contesto così incerto e confuso, non può non apprezzarsi il lavoro della Corte Costituzionale che, non solo ha consolidato le basi per il superamento del diritto vivente, ma ha altresì riaffermato il ruolo fondante dei principi fondamentali nella materia penale, spesso in balia di un turbinio mediatico-populistico. Nel merito, i giudici della Consulta si sono pronunciati sulla fondatezza della questione di legittimità costituzionale con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 25, co. 2, Cost., seppur non sconfessando totalmente la soluzione sinora consacrata nel diritto vivente, secondo la quale le pene - di regola - devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento dell’esecuzione. Tuttavia, si precisa l’esistenza di un’eccezione di assoluta importanza. Invero, come sottolineato in più occasioni dalla dottrina (14), non si può prescindere dall’esaminare - alla luce dei criteri elaborati dalla giurisprudenza comunitaria (15) - la vera natura di disposizioni processuali ed esecutive che determinano un’incidenza sulla libertà personale dell’individuo. In altre parole, la regola prospettata dal diritto vivente non può trovare applicazione nei casi in cui la normativa sopravvenuta è tale da determinare una trasformazione della pena e della sua concreta incidenza sulla libertà dell’individuo. D’altronde, in caso contrario, l’effetto concreto sarebbe quello di applicare una pena sostanzialmente diversa da quella prevista al momento del fatto. Si è ormai concordi, dunque, nel ritenere che nell’ipotesi in cui modifiche intertemporali - incidendo come nel caso in esame sulla possibilità di accesso alle misure alternative alla detenzione - siano tali da determinare una modifica qualitativa alla sanzione concretamente inflitta, determinandone il passaggio da “alternativa” a “detentiva”, debba trovare applicazione il principio di irretroattività di cui all’art. 2 c.p. È bene precisare, tuttavia, che la garanzia costituzionale dell’irretroattività non è stata ritenuta estendibile anche alle modifiche alla disciplina dei meri benefici penitenziari, segnatamente i permessi premio e il lavoro all’esterno. (12) Trib. Napoli, ufficio GIP, ord. 2 aprile 2019; Corte d’Appello di Lecce, ord. 4 aprile 2019;Trib. Sorv. Venezia, ord. 8 aprile 2019. (13) Per una completa disamina delle ordinanze di rimessione cfr. L. BAroN, spazzacorrotti, art. 4-bis ord. pen. e regime intertemporale, in Dir. pen. cont., 5/2019, 153 ss. (14) Cfr. tra gli altri V. MANeS, l’estensione, cit. (15) Del resto, gli insegnamenti della giurisprudenza europea sono chiari sul punto. Per poter inquadrare una determinata norma nella materia penale non ci si può basare solo sulla qualificazione interna che l’ordinamento ha attribuito alla stessa, ma rileveranno due ulteriori parametri: la natura della norma e la severità della pena. Sul punto emblematica è la celebre sentenza della Corte edu nel caso engel e altri c. Paesi bassi dell’8 giugno 1976. Ciò in quanto le modifiche normative che rendono più difficili l’accesso a tali misure non comporterebbero una trasformazione della natura della pena rispetto a quella disposta al momento del fatto; secondo la Corte, infatti, in tale contesto non si verifica quel mutamento di pena tra “fuori” e “dentro” il carcere tale da giustificare la violazione dei principi costituzionali (16). A conclusioni opposte, invece, si è giunti con riferimento alle modifiche incidenti sul regime di accesso alle misure alternative alla detenzione. D’altronde, i Giudici della Consulta non hanno fatto altro che valorizzare la ratio del principio di cui si discute. Invero, se quest’ultimo ha lo scopo di tutelare il cittadino, ponendolo al riparo da possibili abusi del potere legislativo, e di impedire che si possano subire conseguenze penali maggiormente afflittive in virtù di nuove norme successive alla commissione del fatto, appare logico ricondurre gli interventi normativi in materia di “spazzacorrotti” nell’ambito applicativo dell’art. 2 c.p., posto che questi determinano uno stravolgimento del contenuto della sanzione qualitativo, prima ancora che quantitativo (17). Tale impostazione porta con sé l’ulteriore (ed inevitabile) conseguenza del riconoscimento della natura sostanziale delle misure alternative alla detenzione (nonché della liberazione condizionale e del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione ex art. 656, co. 9 c.p.p.) (18). È riduttivo, infatti, considerare tali norme incidenti solo su profili meramente processuali, alla luce di una semplice collocazione topografica delle norme nel codice rito, e in quanto tali soggette al principio del tempus regit actum (19). (16) Nella sentenza in commento si legge espressamente che: «Il condannato che fruisca di unpermesso premio, o che sia ammesso al lavoro all’esterno del carcere, continua in effetti a scontare una pena che resta connotata da una fondamentale dimensione “intramuraria”. egli resta in linea di principio “dentro” il carcere, continuando a soggiacere alla dettagliata disciplina che caratterizza l’istituzione penitenziaria, e che coinvolge pressoché ogni aspetto della vita del detenuto». (17) Sul punto, cfr. G. MArINuCCI, e. DoLCINI, G.L. GATTA, Manuale di diritto penale. Parte Generale, 8a ed., Milano, 2019, 111 s.; G.L. GATTA, art. 4bis e legge “spazzacorrotti”: possibile, dopo la decisione della Consulta, e prima del relativo deposito, la sospensione degli ordini di carcerazione per fatti pregressi? in sist. pen., 17.2.2020 secondo il quale tramite tale decisione si “rafforza un principio di civiltà” già individuato dalla Consulta con sentenza n. 51/1985. (18) Invero, ancor prima della sentenza in commento la Corte Costituzionale si era espressa nelsenso di attribuire natura sostanziale sia all’affidamento in prova al servizio sociale, sia alla detenzione domiciliare. Nel primo caso, la Corte ha qualificato l’istituto come «strumento di espiazione della pena, alternativo alla detenzione: uno strumento, certo, meno afflittivo rispetto al carcere, ma egualmente connotato in senso sanzionatorio rispetto al reato commesso, tanto che l’esito positivo dell’affidamento in prova estingue la pena detentiva e ogni altro effetto penale» (Corte Cost., n. 68 del 2019). In relazione alla detenzione domiciliare si afferma che anch’essa costituisce «non una misura alternativa alla pena, ma “una pena alternativa alla detenzione”» caratterizzata da prescrizioni «limitative della libertà» (Corte Cost., n. 99 del 2019). (19) Nella sentenza in commento, d’altronde, si legge che: «la collocazione topografica di unanorma non può mai essere considerata decisiva ai fini dell’individuazione dello statuto costituzionale di garanzia ad essa applicabile». Si tratta - secondo quanto stabilito dalla Consulta - di istituti che hanno a che fare con “la natura della pena” e con la sua “incidenza sulla libertà personale”. L’art. 656, co. 9, c.p.p., ad esempio, ha come effetto di determinare l’inizio dell’esecuzione della pena in regime detentivo, in attesa di una decisione del Tribunale di sorveglianza in merito alla domanda di ammissione alle misure alternative. Dunque, secondo la Corte Costituzionale, «comporta che una parte almeno della pena sia effettivamente scontata in carcere, anziché con le modalità extramurarie che erano consentite - per l’intera durata della pena inflitta - sulla base della legge vigente al momento della commissione del fatto». D’altronde, tali considerazioni non sono certo nuove alla materia. La dottrina aveva già osservato come far valere, dopo la commissione del fatto, una preclusione all’accesso alle misure alternative alla detenzione, implicasse la modifica in senso peggiorativo della qualità della pena, incidendo gravemente sulla libertà personale dell’individuo (20). Le conclusioni alle quali è giunta la Corte Costituzionale, del resto, appaiono pienamente condivisibili anche in un’ottica di prevedibilità e ragionevolezza del trattamento sanzionatorio. In altre parole, una modifica peggiorativa retroattiva condurrebbe ad effetti imprevedibili - sostanzialmente “a sorpresa” -, pregiudicando l’affidamento dell’imputato che (magari) ha optato per una determinata “strategia” processuale - confidando, ad esempio, nell’irrogazione di una pena che gli consentisse l’accesso al meccanismo di sospensione dell’esecuzione - e che in un momento successivo vedrebbe frustate le proprie legittime aspettative (21). emblematiche sul punto sono le parole della Corte di Cassazione, la quale, occupandosi incidentalmente del tema, ha ritenuto che l’assenza di un parametro di diritto intertemporale nella legge “spazzacorrotti” si traducesse «nel passaggio - a “sorpresa” e dunque non prevedibile - da una sanzione patteggiata “senza assaggio di pena” ad una sanzione con necessaria incarcerazione, giusta il già rilevato operare del combinato disposto degli artt. 656, comma 9 lett. a), cod. proc. pen. e 4-bis ord. pen.» (22). D’altronde, per molti autori, la normativa in commento si poneva in conflitto anche con il diritto di difesa ex art. 24 Cost., implicando quest’ultimo la possibilità di ponderare le scelte anche in ordine all’iter processuale da seguire che non siano alterate da una successiva modifica delle “regole del gioco” alle spalle (e a detrimento) degli individui. Tuttavia, in merito a tale ulteriore censura, la Corte Costituzionale non si (20) Sul punto, cfr. L. MASerA, le prime decisioni di merito in ordine alla disciplina intertemporale applicabile alle norme in materia di esecuzione della pena contenute nella c.d. legge spazzacorrotti, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 14.3.2019; V. MoNGILLo, la legge, cit., 285. (21) V. MANeS, l’estensione, cit. 113 ss. (22) Cass. pen., Sez. VI, 20.3.2019, n. 12541, cit. è pronunciata espressamente, ritenendo la stessa assorbita in ragione dell’accoglimento della questione per violazione dell’art. 25, co. 2, Cost. Ciò che fa riflettere, tuttavia, è che la sentenza in commento sembrerebbe andare oltre il solo profilo dell’irretroattività della norma, attenendo di più al rapporto tra legge, giudice e sindacato di legittimità. In altre parole, sembra che la questione di legittimità abbia riguardato più che la norma in sé considerata, proprio l’interpretazione che di tale norma è stata fornita. Preso atto che la questione concerne solo il regime intertemporale della modifica dell’art. 4-bis ord. pen., pare - già dal precedente comunicato stampa della Corte - che le censure abbiano inciso più che altro sull’orientamento giurisprudenziale che escludeva l’applicabilità dell’art. 2, co. 1 e 4, c.p. e dell’art. 25, co. 2 Cost. in rapporto alle modifiche peggiorative che riguardano le misure alternative alla detenzione (23). Seppur dichiarandone l’illegittimità, la Corte Costituzionale sembra suggerire ugualmente la via da seguire per un’interpretazione costituzionalmente orientata, che superi il diritto vivente. In sostanza, la sentenza in commento indica all’interprete una nuova e unica via da seguire per interpretare la l. n. 3 del 2019 in senso conforme a Costituzione. In altre parole, l’importanza della sentenza - interpretativa di accoglimento - è stata messa in risalto specie laddove la stessa è stata in grado di rimuovere quell’ostacolo, rappresentato dal (ormai sconfessato) diritto vivente, che in precedenza impediva un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata. Alla luce di quanto detto, ci si potrebbe facilmente interrogare sul perché solo oggi - nonostante i pregressi interventi sull’art. 4-bis ord. pen. - si sia avvertita l’esigenza di un netto mutamento giurisprudenziale in materia. Difficilmente, ad avviso di chi scrive, si può dare risposta a tale interrogativo. Forse è possibile condividere il pensiero di chi ritiene che, volendo ben pensare, è la rinnovata sensibilità della giurisprudenza per l’estensione e la pervasività dei principi costituzionali e convenzionali, in materia penale, a impedire il protrarsi di un orientamento tanto consolidato quanto non più al passo con i tempi (24). Quel che è certo è che l’intervento della Corte Costituzionale ha emendato un intervento del legislatore che, in maniera del tutto avventata, aveva imposto un allineamento normativo della criminalità politico-economica con la criminalità “nera”, rappresentata dal crimine organizzato. Trascurando le profonde diversità che intercorrono tra le due fenomenologie criminose, il legislatore non ha tenuto conto che la presunzione di pericolosità valevole per i fenomeni di criminalità organizzata di stampo ma- (23) G.L. GATTA, estensione, cit.; ID., art. 4bis, cit. (24) G.L. GATTA, estensione, cit. fioso e terroristico, è inesorabilmente indotta a ridursi in relazione ai reati di cui si discute. In definitiva, alla luce della sentenza in commento, sembra inevitabile dubitare, a monte, dell’intrinseca ragionevolezza del nuovo catalogo dei reati ostativi, proprio nella parte in cui sono inseriti i delitti contro la pubblica amministrazione, così inopinatamente equiparando i pubblici ufficiali infedeli ai membri della criminalità organizzata. Corte Costituzionale, sentenza 26 febbraio 2020 n. 32 - Pres. Caratabia, red. Voganò. SeNTeNZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), modificativo dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promossi dal Tribunale di sorveglianza di Venezia con ordinanza dell’8 aprile 2019, dalla Corte d’appello di Lecce con ordinanza del 4 aprile 2019, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Cagliari con ordinanza del 10 giugno 2019, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli con ordinanza del 2 aprile 2019, dal Tribunale di sorveglianza di Taranto con ordinanza del 7 giugno 2019, dal Tribunale ordinario di Brindisi con due ordinanze del 30 aprile 2019, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Caltanissetta con due ordinanze del 16 luglio 2019, dal Tribunale di sorveglianza di Potenza con ordinanza del 31 luglio 2019 e dal Tribunale di sorveglianza di Salerno con ordinanza del 12 giugno 2019, rispettivamente iscritte ai numeri 114, 115, 118, 119, 157, 160, 161, 193, 194, 210 e 220 del registro ordinanze 2019 e pubblicate nella Gazzetta ufficiale della repubblica numeri 34, 35, 36, 41, 42, 46, 48 e 50, prima serie speciale, dell’anno 2019. (...) Considerato in diritto 1.– Le undici ordinanze di rimessione indicate in epigrafe, che è opportuno riunire ai fini della decisione, sollevano tutte questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici). Secondo i rimettenti, tale disposizione sarebbe costituzionalmente illegittima nella parte in cui non prevede che le modifiche da essa apportate all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) si applichino soltanto ai condannati per fatti commessi successivamente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019. 1.1.– Più in particolare, le ordinanze iscritte ai numeri 114, 157, 210 e 220 del r.o. 2019 sono state pronunciate da tribunali di sorveglianza investiti di istanze di concessione di benefici o misure alternative alla detenzione (permesso premio, affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare) da parte di condannati per reati contro la pubblica amministrazione, commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019. Tali reati risultano ora inseriti - ad opera del censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 - nell’elenco dei delitti previsti dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. Conseguentemente, per tali reati sono oggi previste condizioni assai più gravose, per l’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative, rispetto a quelle vigenti al momento della commissione del fatto. 1.2.– Le ordinanze iscritte ai numeri 115, 118, 119, 160, 161, 193 e 194 del r.o. 2019 sono state invece pronunciate da giudici dell’esecuzione, investiti di istanze volte a ottenere la sospensione o la declaratoria di illegittimità di ordini di esecuzione della pena emessi nei confronti di condannati per reati contro la pubblica amministrazione, commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019. Tali ordini di esecuzione non sono stati sospesi, per effetto dell’inclusione del reato per il quale l’interessato è stato di volta in volta condannato nell’elenco dei delitti di cui all’art. 4bis ordin. penit., in relazione ai quali l’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale prevede, per l’appunto, il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena. 1.3.– Secondo i giudici rimettenti, la mancata limitazione degli effetti dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 ai soli condannati per fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore sarebbe di dubbia compatibilità: – con l’art. 25, secondo comma, della Costituzione e con l’art. 117, primo comma, Cost.,in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CeDu), sotto il profilo del principio di legalità e non retroattività della pena; e ciò in quanto il divieto di applicazione retroattiva delle modifiche normative che aggravano la pena prevista per il reato comprenderebbe altresì le modifiche normative che, come quella in esame, restringano presupposti e condizioni di accesso a benefici penitenziari e misure alternative alla detenzione (ordinanze iscritte ai numeri 114, 115, 118, 119, 160, 161, 193, 194, 210 e 220 del r.o. 2019); – con il diritto di difesa di cui all’art. 24, secondo comma, Cost., dal momento che la modi-fica normativa operata dalla disposizione censurata avrebbe vanificato le strategie processuali degli imputati poi condannati, i quali potrebbero, ad esempio, aver scelto un rito alternativo confidando in una diminuzione di pena sufficiente per poter beneficiare della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena (ordinanze iscritte ai numeri 160 e 161 del r.o. 2019); – con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. (nonché, nell’ordinanza iscritta al n. 210 del r.o.2019, con il secondo comma di quest’ultima disposizione), in relazione ai principi di ragionevolezza e funzione rieducativa della pena, attesa l’automatica incidenza, sul percorso rieducativo dei condannati, delle sopravvenute preclusioni all’accesso a benefici penitenziari e a misure alternative alla detenzione, con conseguente impossibilità per l’autorità giudiziaria di operare valutazioni individualizzate in sede di esame delle istanze di concessione di detti benefici e misure (ordinanze iscritte ai numeri 114, 210 e 220 del r.o. 2019); – con l’art. 3 Cost., sotto un duplice profilo: da un lato, l’irragionevole disparità di tratta-mento creatasi tra condannati per i medesimi delitti, commessi anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, i quali sarebbero sottoposti a un regime differenziato quanto all’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione, a seconda del momento - anteriore o successivo alla vigenza di detta disposizione - in cui la magistratura di sorveglianza esamini la relativa istanza di concessione (ordinanze iscritte ai numeri 114, 157, 210 e 220 del r.o. 2019); dall’altro, l’irragionevole disparità di trattamento fra autori dei medesimi delitti, commessi rispettivamente prima o dopo l’entrata in vigore della disposizione censurata, poiché solo i primi, ma non anche i secondi, potrebbero espiare la pena in regime extramurario (ordinanze iscritte ai numeri 115 e 118 del r.o. 2019). 2.– In via preliminare, conviene brevemente ricapitolare il contesto normativo nel quale si inseriscono le censure dei rimettenti. Come già rammentato, l’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, in questa sede censurato, inserisce nell’elenco dei delitti previsti dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. i delitti contro la pubblica amministrazione di cui agli artt. 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322 e 322-bis del codice penale. 2.1.– Per effetto di detto inserimento, tali delitti sono oggi soggetti, anzitutto, al medesimo regime “ostativo” rispetto alla concessione dei permessi premio, del lavoro all’esterno e delle misure alternative alla detenzione, esclusa la liberazione anticipata, che vige per i delitti cosiddetti “di prima fascia” elencati nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. Ciò significa che i benefici e le misure alternative in questione possono ora essere concessi ai condannati per la maggior parte dei delitti contro la pubblica amministrazione, di regola, soltanto nel caso in cui essi collaborino con la giustizia. Tale collaborazione potrà avvenire, alternativamente, ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., ovvero - in forza di un’ulteriore modifica del testo dell’art. 4-bis ordin. penit., operata dall’art. 1, comma 6, lettera a), della legge n. 3 del 2019 - ai sensi dell’art. 323-bis, secondo comma, cod. pen. L’art. 58-ter ordin. penit., a sua volta, descrive la condotta di collaborazione con la giustizia come quella di «coloro che, anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati». L’art. 323-bis, secondo comma, cod. pen. prevede invece una circostanza attenuante, applicabile a vari delitti contro la pubblica amministrazione, in favore di «chi si sia efficacemente adoperato per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l’individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite». Se il riconoscimento della circostanza attenuante è evidentemente circoscritto alle condotte collaborative poste in essere dall’imputato prima della sentenza irrevocabile di condanna, il richiamo a tale disposizione da parte dell’art. 4 -bis, comma 1, ordin. penit., nel testo modificato dalla legge n. 3 del 2019, sta probabilmente a significare che la collaborazione richiesta al condannato per i reati contro la pubblica amministrazione può in concreto esplicarsi - anche dopo la condanna - nelle forme indicate dallo stesso art. 323-bis, secondo comma, cod. pen., ove - a differenza di quanto accade nell’art. 58-ter ordin. penit. - è fatta esplicita menzione dell’attività rivolta ad assicurare il «sequestro delle somme o altre utilità trasferite». In difetto di collaborazione, il condannato per i delitti contro la pubblica amministrazione menzionati dalla disposizione censurata - così come qualsiasi altro condannato per i delitti contemplati dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. - potrà accedere ai benefici e alle misure alternative alla detenzione diverse dalla liberazione anticipata soltanto: – allorché ricorrano le condizioni di cui all’art. 4-bis, comma 1-bis, ordin. penit., e cioè«purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, altresì nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia, nonché nei casi in cui, anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante, nei confronti dei medesimi detenuti o internati sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dall’articolo 62, numero 6), anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, dall’articolo 114 ovvero dall’articolo 116, secondo comma, del codice penale»; ovvero – limitatamente alla concessione dei permessi premio, allorché siano stati acquisiti elementitali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti, secondo quanto stabilito dalla sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte. 2.2.– La sottoposizione dei condannati per delitti contro la pubblica amministrazione al regime dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. comporta poi una serie di effetti stabiliti da altre norme dell’ordinamento penitenziario che rinviano allo stesso art. 4-bis, e in particolare: – una preclusione assoluta - non superabile neppure in presenza di collaborazione o di con-dizioni equiparate - rispetto alla concessione delle misure alternative della detenzione domiciliare “ordinaria” per ultrasettantenni (art. 47-ter, comma 01, ordin. penit.) e della detenzione domiciliare cosiddetta “generica” (art. 47-ter, comma 1-bis, ordin. penit.); – l’allungamento dei tempi di espiazione di pena necessari per l’accesso al lavoro al-l’esterno (art. 21, comma 1, ordin. penit.), ai permessi premio (art. 30-ter ordin. penit.) e alla semilibertà (art. 50, comma 2, ordin. penit.); – un regime più rigoroso relativo alla revoca dei benefici penitenziari già concessi, ai sensidell’art. 58-quater, comma 5, ordin. penit. 2.3.– L’inserimento dei delitti contro la pubblica amministrazione indicati dalla disposizione censurata nell’elenco di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. comporta un identico regime preclusivo rispetto alla liberazione condizionale, la quale - in forza dell’art. 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203 - può essere concessa ai condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. alla condizione che ricorrano i presupposti ivi indicati. 2.4.– Infine, le ordinanze di rimessione sollevate dai giudici dell’esecuzione concernono l’ulteriore effetto riflesso dell’inserimento dei delitti contro la pubblica amministrazione nell’elenco dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., stabilito dall’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. e consistente nel divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena. Se infatti, in linea generale, in caso di condanna a pena detentiva non superiore a quattro anni, anche se costituente residuo di maggior pena, il pubblico ministero è tenuto a sospendere l’ordine di esecuzione contestualmente emesso nei confronti del condannato che si trovi in stato di libertà o agli arresti domiciliari, sì da consentirgli di presentare istanza al tribunale di sorveglianza competente - nei trenta giorni successivi - per la concessione di una misura alternativa alla detenzione (art. 656, commi 5 - come modificato dalla sentenza n. 41 del 2018 di questa Corte - e 10, cod. proc. pen.), il comma 9, lettera a), del medesimo art. 656 cod. proc. pen. preclude invece al pubblico ministero di sospendere l’ordine di esecuzione relativo alle condanne per una serie di delitti, tra i cui quelli di cui all’art. 4-bis ordin. penit. Ne consegue il necessario ingresso in carcere, nelle more del procedimento di sorveglianza, di chi sia condannato a pena detentiva non sospesa per la maggior parte dei delitti contro la pubblica amministrazione, nonostante l’entità della pena da scontare possa consentire al condannato di essere ammesso a una misura alternativa alla detenzione sin dall’inizio dell’esecuzione. 2. 5.– La disposizione censurata nulla prevede in merito alla sua efficacia nel tempo. In forza delle indicazioni provenienti dal diritto vivente, di cui meglio si dirà più innanzi (infra, 4.1.), tutte le ordinanze di rimessione assumono tuttavia che - nel silenzio del legislatore - tali modifiche siano immediatamente applicabili anche a coloro che sono stati condannati per fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019: ciò che costituisce, per l’appunto, l’oggetto essenziale delle censure che questa Corte è chiamata ora a decidere. 3.– In relazione all’ammissibilità delle questioni prospettate, deve osservarsi quanto segue. 3. 1.– Nel giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2019, l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito il difetto di rilevanza delle questioni sollevate, poiché, anche facendo applicazione del principio tempus regit actum, il Tribunale di sorveglianza avrebbe ben potuto esaminare l’istanza del condannato A. B. di affidamento in prova al servizio sociale in base alla disciplina previgente. L’eccezione deve ritenersi proposta anche nei giudizi iscritti ai numeri 193, 194 e 220 del r.o. 2019, poiché, nei rispettivi atti di intervento, l’Avvocatura generale dello Stato ha dichiarato di richiamare integralmente le eccezioni svolte nel giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2019. 3.1.1.– In riferimento alle ordinanze iscritte ai numeri 114 e 220 del r.o. 2019, va rilevato che, nei procedimenti a quibus, l’ordine di esecuzione della pena è stato emesso - e contestualmente sospeso, ai sensi rispettivamente dei commi 5 e 10 dell’art. 656 cod. proc. pen. anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019; così come prima della vigenza di quest’ultima sono state proposte da ciascun condannato le istanze di concessione di misure alternative alla detenzione. In entrambi i giudizi a quibus, però, l’udienza per la decisione sull’istanza del condannato si è svolta successivamente all’entrata in vigore della predetta legge. In proposito, occorre osservare che il più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità, formatosi proprio sulla base delle questioni di diritto intertemporale suscitate dalla legge n. 3 del 2019, è effettivamente nel senso dell’applicabilità della disciplina previgente ogniqualvolta l’istanza di concessione di misure alternative alla detenzione sia stata presentata anteriormente alla data di entrata in vigore della legge medesima (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 6 giugno 2019, n. 25212; sentenza 28 novembre 2019, n. 48499; sentenza 17 gennaio 2020, n. 1799). Tuttavia, tenendo conto anche della circostanza che la giurisprudenza appena citata è in gran parte successiva alle ordinanze di rimessione, deve ritenersi non implausibile la motivazione dei rimettenti circa la rilevanza delle questioni, che muoveva dal diverso presupposto interpretativo che il discrimen temporale per l’applicazione della disciplina sopravvenuta fosse rappresentato dalla data di delibazione dell’istanza da parte del tribunale di sorveglianza. Tanto basta per disattendere l’eccezione sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato, «non potendosi procedere, in questa sede, ad un sindacato (diverso dal controllo esterno) sul giudizio di rilevanza, espresso dall’ordinanza di rimessione in modo non implausibile (v. per tutte, sentenza n. 286 del 1997) e con motivazione tutt’altro che carente (v. ordinanza n. 62 del 1997)» (sentenza n. 179 del 1999; nello stesso senso, ordinanze n. 104 del 2019 e n. 47 del 2016). 3.1.2.– L’eccezione deve poi ritenersi all’evidenza infondata con riferimento ai giudizi iscritti ai numeri 193 e 194 del r.o. 2019, introdotti da giudici dell’esecuzione in seguito all’opposizione contro altrettanti ordini di esecuzione della pena, emessi successivamente all’entrata in vigore della disposizione censurata. 3.2.– Sempre nel giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2019, l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, in quanto miranti a conseguire un intervento manipolativo della Corte, in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata. L’eccezione deve intendersi proposta anche nei giudizi iscritti ai numeri 193, 194 e 220 del r.o. 2019, stante il rinvio operato negli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri alle eccezioni già svolte nel giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2019. L’eccezione non è fondata, per l’assorbente ragione che i rimettenti sollecitano un intervento additivo della Corte, volto a ricondurre le modificazioni recate all’art. 4-bis ordin. penit. dalla disposizione censurata nell’alveo della garanzia di irretroattività di cui, in particolare, all’art. 25, secondo comma, Cost.; soluzione alla quale conseguirebbe - univocamente, dato il tenore letterale del precetto costituzionale - l’inapplicabilità di tali modificazioni ai condannati per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge che le ha introdotte. 3.3.– Nei giudizi iscritti ai numeri 115, 118 e 119 del r.o. 2019 - originati da incidenti di esecuzione volti a conseguire la declaratoria di illegittimità di ordini di esecuzione emessi e non sospesi - l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per erronea individuazione della norma censurata. I rimettenti avrebbero infatti denunciato l’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 (che inserisce i delitti contro la pubblica amministrazione nel catalogo di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.) e non, invece, l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. (che stabilisce il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione in relazione alle condanne per i reati di cui all’art. 4-bis stesso). L’eccezione non è fondata. Dal tenore complessivo delle ordinanze di rimessione risulta infatti evidente che l’intenzione dei giudici dell’esecuzione rimettenti è quella di censurare, per l’appunto, l’effetto prodottosi sul meccanismo preclusivo di cui all’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. in conseguenza dall’ampliamento del catalogo di cui all’art. 4-bis ordin. penit. D’altra parte, questa Corte ha già avuto modo di osservare che «il comma 9 [dell’art. 656 cod. proc. pen], alla lettera a), prevede che la sospensione dell’esecuzione non possa essere disposta “nei confronti dei condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni”, sicché, per effetto del rinvio in essa contenuto, la norma processuale recepisce automaticamente le variazioni del catalogo dei delitti indicati nello stesso art. 4-bis (Corte di cassazione, Sezioni unite penali, sentenza n. 24561 del 2006)», e che «l’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. disciplina unicamente l’attività del pubblico ministero, vincolandone il contenuto in funzione della presunzione di pericolosità che concerne i condannati per i delitti compresi nel catalogo appena citato» (ordinanza n. 166 del 2010). Può allora ritenersi che, così come la sospensione dell’ordine di esecuzione, di cui all’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., è istituto di natura «servente» rispetto alla richiesta di misure alternative alla detenzione (sentenza n. 41 del 2018), allo stesso modo il divieto di sospensione, di cui al comma 9, lettera a), della medesima disposizione è condizionato dalla presunzione di pericolosità correlata all’inserimento di un determinato reato nel catalogo di cui all’art. 4bis ordin. penit. I giudici rimettenti sono pertanto chiamati a fare direttamente applicazione anche di quest’ultima disposizione, così come integrata dall’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, contro cui correttamente essi rivolgono le proprie censure. 3.4.– Nei giudizi iscritti ai numeri 157, 160, 161, 193, 194 e 220 del r.o. 2019, l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per mancato esperimento di un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata. Nemmeno questa eccezione è fondata. I giudici a quibus hanno argomentato che, secondo il diritto vivente, le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, ma soltanto le modalità esecutive della stessa, non avrebbero carattere di norme penali sostanziali e sarebbero pertanto soggette al principio tempus regit actum: con conseguente loro applicazione anche a fatti di reato antecedenti alla loro entrata in vigore. Come meglio si vedrà più innanzi, in effetti, la giurisprudenza di legittimità è allo stato univocamente orientata in questo senso (infra, 4.1.2.). Alla luce dunque del diritto vivente, la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, che attragga nell’alveo dell’art. 25, secondo comma, Cost. le modificazioni all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., introdotte dalla disposizione censurata, è stata esplorata e consapevolmente scartata dai rimettenti: il che basta ai fini dell’ammissibilità della questione (sentenza n. 189 del 2019). 3.5.– Nei giudizi iscritti ai numeri 193, 194 e 220 del r.o. 2019, l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per mancata individuazione di una norma oggetto della questione di legittimità costituzionale, asserendo che i rimettenti avrebbero censurato «un mancato intervento del legislatore». Nemmeno tale eccezione può essere accolta. I giudici a quibus, infatti, individuano puntualmente la disposizione censurata, che ha inserito i reati contro la pubblica amministrazione nel catalogo di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., invocando su di essa un intervento additivo di questa Corte, mirante a delimitarne l’ambito temporale di applicazione ai fatti di reato successivi alla sua entrata in vigore. 3.6.– Nei giudizi iscritti ai numeri 114, 115, 118, 119, 193, 194 e 210 del r.o. 2019, l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni relative alla dedotta lesione del divieto di retroattività della legge penale sfavorevole (art. 25, secondo comma, Cost.) e del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), sul rilievo che analoghe censure sarebbero già state respinte da questa Corte nella sentenza 273 del 2001 e nelle ordinanze n. 108 del 2004 e n. 280 del 2001. L’eccezione non può evidentemente essere accolta, atteso che - anche ad ammettere che vi sia perfetta coincidenza tra le questioni ora sollevate e altre già decise in passato - nulla vieta a questa Corte di riconsiderare i propri stessi orientamenti interpretativi. 3.7.– Sia pure in assenza di alcuna specifica eccezione da parte dell’Avvocatura generale dello Stato, con riferimento al giudizio iscritto al n. 210 del r.o. 2019 - ove il rimettente denuncia l’illegittimità costituzionale dell’immediata applicazione delle modificazioni recate all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. dalla disposizione censurata, sotto il profilo della sopravvenuta impossibilità di concedere il beneficio del permesso premio agli autori dei delitti di cui agli artt. 317 e 319 cod. pen. che non collaborino la giustizia - va osservato che non elide la rilevanza delle questioni ivi prospettate l’intervenuta declaratoria di illegittimità costituzionale, operata dalla citata sentenza n. 253 del 2019, dell’art. 4-bis, comma 1, nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Nel caso di specie, il rimettente rappresenta infatti di dover fare applicazione dell’art. 4bis, comma 1, ordin. penit., in conseguenza dell’inclusione, con effetto immediato, dei reati ascritti al condannato M.P. D.G. nel catalogo contemplato da detta disposizione; laddove, a fronte dell’eventuale accoglimento delle questioni sollevate, egli dovrebbe valutare la concessione del permesso premio sulla base dei soli requisiti previsti dall’art. 30-ter ordin. penit. È pertanto evidente che sarebbe radicalmente diverso il percorso argomentativo che il giudice a quo dovrebbe seguire nel vagliare l’istanza del condannato in caso di applicazione della disciplina risultante dal censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, o, viceversa, di quella previgente. Di qui la persistente rilevanza delle questioni prospettate. 4.– Nel merito, le questioni prospettate dalle ordinanze di rimessione iscritte ai numeri 114, 115, 118, 119, 160, 161, 193, 194 e 220 del r.o. 2019 sono fondate con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost. Il diritto vivente ritiene, invero, che le norme disciplinanti l’esecuzione della pena siano in radice sottratte al divieto di applicazione retroattiva che discende dal principio di legalità della pena di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. (infra, 4.1.). Plurime e convergenti ragioni inducono, tuttavia, a dubitare della persistente compatibilità di tale diritto vivente con i principi costituzionali (infra, 4.2.). In esito a una complessiva rimeditazione della tematica, occorre in effetti concludere nel senso che, di regola, le pene detentive devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento della loro esecuzione, salvo però che tale legge comporti, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto, una trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale. In questa ipotesi, l’applicazione retroattiva di una tale legge è incompatibile con l’art. 25, secondo comma, Cost. (infra, 4.3.). La disposizione in questa sede censurata comporta, per una serie di reati contro la pubblica amministrazione, una trasformazione della natura delle pene previste al momento del reato e della loro incidenza sulla libertà personale del condannato, quanto agli effetti spiegati dalla stessa disposizione in relazione alle misure alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena. Conseguentemente, l’applicazione della disposizione censurata ai condannati per fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore, quanto agli effetti appena menzionati, viola il divieto di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. (infra, 4.4.). Stante il silenzio del legislatore sul regime intertemporale delle modifiche in esame, il rimedio appropriato, in risposta alle questioni sollevate dai rimettenti, è la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata così come risultante dal diritto vivente (infra, 4.5.). 4. 1.– Tutte le ordinanze di rimessione muovono dal comune presupposto che, secondo il diritto vivente, le modifiche in peius della disciplina dell’esecuzione della pena in radice non sarebbero soggette al principio di irretroattività della legge penale, di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. 4.1.1.– un attento esame della giurisprudenza costituzionale in materia - peraltro tutta piuttosto risalente - restituisce, in verità, un quadro ricco di sfumature. Questa Corte è stata chiamata quasi trent’anni or sono a misurarsi con la legittimità costituzionale della retroattività di simili modifiche in peius, in relazione agli effetti retroattivi prodotti, all’indomani della strage di Capaci, dall’art. 15 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356. Tale decreto-legge aveva, con riferimento ai condannati per delitti di criminalità organizzata e terrorismo, per la prima volta subordinato la concessione dei benefici penitenziari e della generalità delle misure alternative alla detenzione al presupposto della collaborazione con la giustizia, contestualmente prevedendo la revoca di tali benefici e misure, pur già concessi, nei confronti dei condannati che non avessero collaborato ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit. Per tutti gli anni Novanta, questa Corte non ha risolto il quesito ora all’esame, giungendo comunque a dichiarazioni di parziale illegittimità costituzionale delle disposizioni di volta in volta censurate sulla base di parametri diversi dall’art. 25, secondo comma, Cost. Nell’antesignana sentenza n. 306 del 1993, questa Corte - investita di plurime questioni aventi a oggetto la legittimità costituzionale della revoca di misure alternative già concesse ritenne non sufficientemente motivata la rilevanza delle questioni relative alla compatibilità dell’effetto retroattivo previsto dall’art. 15, comma 2, del d.l. n. 306 del 1992 con il principio di legalità della pena di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., pur riconoscendo che tale profilo avrebbe potuto «meritare una seria riflessione». Questa Corte giudicò invece incompatibile con l’art. 27, primo e terzo comma, Cost. la previsione della revoca delle misure già concesse, anche quando non fosse stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali del condannato con la criminalità organizzata; e ciò in ragione dell’aspettativa, legittimamente nutrita dai condannati che avevano già ottenuto la semilibertà, a «veder riconosciuto l’esito positivo del percorso di risocializzazione già compiuto», aspettativa ormai trasformatasi «nel diritto ad espiare la pena con modalità idonee a favorire il completamento di tale processo». Nella successiva sentenza n. 504 del 1995 questa Corte dichiarò illegittimo l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., nel testo risultante dalle modifiche introdotte dal citato art. 15 del d.l. n. 306 del 1992, nella parte in cui precludeva la concessione di ulteriori permessi premio ai condannati per delitti “ostativi” che non avessero collaborato con la giustizia, anche quando essi ne avessero già fruito in precedenza e non fosse stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata. La ragione dell’illegittimità fu, anche in questa occasione, ravvisata nel contrasto della disciplina censurata con gli artt. 3 e 27 Cost., in considerazione dell’irragionevolezza e incompatibilità con la funzione rieducativa della pena di una disciplina che comportava una sorta di “regressione incolpevole del trattamento” connesso al beneficio penitenziario in questione. Analoga ratio è stata posta a fondamento delle sentenze n. 445 del 1997 e n. 137 del 1999, con le quali l’art. 4-bis ordin. penit. fu dichiarato illegittimo nella parte in cui non prevedeva che - rispettivamente - la semilibertà e i permessi premio potessero essere concessi nei confronti dei condannati che, prima della data di entrata in vigore dell’art. 15, comma 1, del d.l. n. 306 del 1992, avessero raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto, e per i quali non fosse stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata. Principio, quest’ultimo, che sarà in seguito applicato da questa Corte anche con riferimento alle modifiche in peius introdotte, per i condannati recidivi reiterati, dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione) (sentenze n. 79 del 2007 e n. 257 del 2006). In altre occasioni, questa Corte è pervenuta invece a dichiarazioni di non fondatezza delle questioni poste dall’entrata in vigore del medesimo art. 15 del d.l. n. 306 del 1992, prospettate sotto lo specifico profilo dell’art. 25, secondo comma, Cost., senza affermare, in maniera generale, l’estraneità di tutte le modifiche in peius della disciplina in materia di esecuzione della pena al raggio di garanzia offerto dal principio di legalità della pena. Nel caso deciso con la sentenza n. 273 del 2001, in particolare, questa Corte era stata nuovamente sollecitata a chiarire se «il principio di irretroattività della legge penale sia circoscritto alle norme che creano nuovi reati, o modificano in peius gli elementi costitutivi di una fattispecie incriminatrice, nonché la specie e la durata delle sanzioni edittali, ovvero vada riferito - come rit[eneva] il giudice a quo - anche alle norme che disciplinano le modalità di espiazione della pena detentiva». Il giudice rimettente aveva sollevato questione di legittimità costituzionale relativa alla disciplina che precludeva l’accesso alla liberazione condizionale ai condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., commessi prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 306 del 1992, i quali non avessero collaborato con la giustizia. Come anticipato, questa Corte non ha dato una risposta generale al quesito, osservando che le disposizioni censurate, nell’esigere la collaborazione con la giustizia quale condizione di accesso alla liberazione condizionale, non avevano modificato gli elementi costitutivi di tale istituto, e segnatamente il requisito dell’avere tenuto il condannato un comportamento tale da farne ritenere sicuro il ravvedimento. La disciplina censurata si sarebbe piuttosto limitata a introdurre un criterio legale di valutazione del requisito, rappresentato appunto dalla collaborazione processuale; senza, dunque, modificare in senso deteriore per il condannato la disciplina sostanziale della liberazione condizionale. La medesima argomentazione compare poi nelle due ordinanze n. 108 del 2004 e n. 280 del 2001, con le quali sono state parimenti rigettate due questioni relative agli effetti intertemporali di modifiche apportate all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. 4.1.2.– Il quadro della giurisprudenza della Corte di cassazione è invece assai netto nel senso della non riconducibilità all’alveo dell’art. 25, secondo comma, Cost. delle norme sull’esecuzione della pena, e conseguentemente nel senso della pacifica applicabilità di modifiche normative di segno peggiorativo anche ai condannati che abbiano commesso il reato prima dell’entrata in vigore delle modifiche stesse. Il tradizionale principio secondo cui le disposizioni in parola non hanno carattere di norme sostanziali e soggiacciono pertanto, in assenza di specifica disciplina transitoria, al principio tempus regit actum è stato affermato, in particolare, nel 2006 (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17 luglio 2006, n. 24561), ed è poi stato sempre confermato dalla giurisprudenza successiva (ex multis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 18 settembre 2006, n. 30792; sezione prima penale, sentenza 15 luglio 2008, n. 29155; sezione prima penale, sentenza 9 dicembre 2009, n. 46924; sezione seconda penale, sentenza 22 febbraio 2012, n. 6910; sezione prima penale, sentenza 12 marzo 2013, n. 11580; sezione prima penale, sentenza 18 dicembre 2014, n. 52578; sezione prima penale, sentenza 9 settembre 2016, n. 37578). 4.1.3.– All’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, il diritto vivente è stato invero rimesso in discussione da alcune pronunce di merito, che hanno ritenuto inapplicabile la disposizione censurata ai fatti di reato pregressi, dal momento che ad essa si sarebbe dovuta riconoscere natura “sostanzialmente penale”, secondo i noti criteri engel elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, con conseguente sua soggezione al divieto di retroattività sfavorevole di cui agli artt. 25, secondo comma, Cost. e 7 CeDu (Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Como, ordinanza 8 marzo 2019; Corte di appello di reggio Calabria, sezione seconda penale, ordinanza 2 aprile 2019; Corte di appello di Napoli, sezione seconda penale, ordinanza 2 aprile 2019). La Corte di cassazione ha, tuttavia, sinora unanimemente ribadito - salvo che in un solo caso di cui si dirà tra breve (infra, 4.2.2.) - il precedente orientamento espresso dalle Sezioni unite, concludendo nel senso che le modificazioni apportate all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. sono applicabili anche ai fatti di reato pregressi in virtù del principio tempus regit actum (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 6 giugno 2019, n. 25212; 26 settembre 2019, n. 39609; 28 novembre 2019, n. 48499; 17 gennaio 2020, n. 1799; nonché ordinanza 18 luglio 2019, n. 31853, che proprio sulla base di questo presupposto interpretativo ha sollevato le questioni di legittimità costituzionale di cui all’ordinanza iscritta al n. 141 del r.o. 2019, che questa Corte esaminerà in un distinto giudizio). 4.2.– Come anticipato, plurime e convergenti ragioni inducono a dubitare della persistente compatibilità di tale diritto vivente con i principi costituzionali. 4.2.1.– In primo luogo, non è senza significato che, in alcune occasioni almeno, lo stesso legislatore abbia ritenuto di limitare espressamente l’applicabilità di norme incidenti sul regime di esecuzione della pena soltanto alle condanne pronunciate per fatti posteriori all’entrata in vigore delle norme medesime. Ciò è avvenuto, anzitutto, proprio con il d.l. n. 152 del 1991, cui si deve l’introduzione dell’art. 4-bis ordin. penit., nella sua originaria versione. L’art. 4, comma 1, di tale decretolegge prevedeva, infatti, che le disposizioni che innalzavano, per i condannati per i reati di cui alla nuova disposizione, i periodi minimi di espiazione di pena per l’accesso ai benefici penitenziari fossero applicabili solo in relazione ai fatti commessi dopo l’entrata in vigore del decreto-legge stesso. Analogo accorgimento non fu poi adottato con il d.l. n. 306 del 1992, al quale si deve l’introduzione nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. del meccanismo preclusivo imperniato sulla mancanza di collaborazione: meccanismo la cui immediata operatività anche rispetto ai condannati per fatti pregressi fu, in effetti, all’origine delle varie questioni di legittimità costituzionale poc’anzi ricordate (supra, 4.1.1.), decise da questa Corte sulla base del principio di non regressione incolpevole del trattamento penitenziario, dedotto in particolare dall’art. 27, terzo comma, Cost. Ma, ancora nel 2002, il legislatore - nell’aggiungere all’elenco di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. i delitti posti in essere per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico, nonché i delitti di cui agli artt. 600, 601 e 602 cod. pen. ebbe cura di escludere l’applicabilità della modifica normativa ai condannati per tali titoli delittuosi che avessero commesso il fatto anteriormente alla sua entrata in vigore (art. 4 della legge 23 dicembre 2002, n. 279, recante «Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario»). 4.2.2.– Come è accaduto in talune più recenti occasioni, la legge n. 3 del 2019 non prevede invece alcuna disposizione transitoria che ne escluda l’applicabilità ai condannati per fatti pregressi. Proprio tale silenzio del legislatore del 2019 ha provocato un diffuso disagio nella giurisprudenza di merito riguardo alla sostenibilità costituzionale e convenzionale della conclusione, imposta dal diritto vivente, nel senso della sua applicazione anche ai condannati per fatti pregressi. Ciò si è manifestato sia nelle pronunce di merito, di cui si è poc’anzi dato conto (supra, 4.1.3.), che hanno direttamente adottato una soluzione difforme; sia nel grande numero di ordinanze che hanno sollevato, nell’arco di un brevissimo lasso temporale, le questioni di legittimità costituzionale ora in discussione, con le quali si sollecita in sostanza questa Corte a dichiarare costituzionalmente illegittimo quel diritto vivente. Nella stessa giurisprudenza di legittimità non mancano, d’altronde, segnali indicativi del medesimo disagio. una sentenza della sezione sesta penale della Corte di cassazione, in particolare, ha prospettato dubbi di legittimità costituzionale della mancata previsione di una disciplina transitoria da parte della disposizione in questa sede censurata, pur ritenendo di non poter sollevare la relativa questione per difetto di rilevanza nel caso di specie. La Corte di cassazione ha osservato, in proposito, che l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità circa il carattere processuale delle norme dell’ordinamento penitenziario andrebbe oggi rimeditato, anche alla luce delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte eDu, sì da garantire l’effettiva prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie: «l’avere il legislatore cambiato in itinere le “carte in tavola” senza prevedere alcuna norma transitoria» presenterebbe «tratti di dubbia conformità con l’art. 7 CeDu e, quindi, con l’art. 117 Cost., là dove si traduce […] nel passaggio - “a sorpresa” e dunque non prevedibile - da una sanzione patteggiata “senza assaggio di pena” ad una sanzione con necessaria incarcerazione» (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 14 marzo 2019, n. 12541). 4.2.3.– Tutte le ordinanze di rimessione valorizzano, in effetti, i recenti sviluppi della giurisprudenza della Corte eDu sull’estensione della garanzia dell’art. 7 CeDu, con riferimento almeno a talune modifiche in peius del regime dell’esecuzione delle pene; recenti sviluppi che l’ordinamento italiano non può del resto ignorare. Al riguardo, va premesso che, sino a poco più di un decennio fa, la Corte di Strasburgo aveva sostenuto una tesi sovrapponibile a quella della giurisprudenza italiana, negando in particolare che le modifiche alla disciplina dell’esecuzione della pena chiamassero in causa la garanzia dell’art. 7 CeDu (Corte eDu, sentenza 29 novembre 2005, uttley contro regno unito; nello stesso senso, Commissione dei diritti dell’uomo, decisione 3 marzo 1986, Hogben contro regno unito). una prima, significativa correzione di rotta risale al 2008, in relazione a un caso in cui il ricorrente aveva commesso il reato in un’epoca in cui la pena dell’ergastolo, in forza dell’allora vigente normativa penitenziaria nazionale, consentiva l’accesso del condannato alla liberazione condizionale, in caso di buona condotta, dopo vent’anni di detenzione. In seguito alla modifica di tale normativa, la prospettiva di una liberazione condizionale era sostanzialmente venuta meno, con conseguente trasformazione dell’ergastolo in una detenzione, effettivamente, a vita. La Corte eDu ha giudicato qui insussistente l’allegata violazione del divieto di retroattività delle pene, sottolineando che il novum normativo non aveva modificato la pena - l’ergastolo - inflitta sulla base della legge vigente al momento del fatto; nondimeno ha ritenuto violato l’art. 7 CeDu, censurando l’insufficiente chiarezza della legge penale al momento del fatto, e dunque l’imprevedibilità delle conseguenze sanzionatorie connesse alla violazione del precetto (Corte eDu, Grande Camera, sentenza 12 febbraio 2008, Kafkaris contro Cipro). Ma la pronuncia più significativa della Corte eDu - invocata non a caso da tutte le ordinanze di rimessione - è, in questo contesto, la sentenza della Grande Camera Del rio Prada contro Spagna, decisa nel 2013. La Grande Camera - sia pure con riferimento a un caso non sovrapponibile a quelli dai quali le odierne questioni sono originate - ha ribadito che, in linea di principio, le modifiche alle norme sull’esecuzione della pena non sono soggette al divieto - però - per quelle che determinino una «ridefinizione o modificazione della portata applicativa della “pena” imposta dal giudice». Altrimenti, ha osservato la Corte, «gli Stati resterebbero liberi - ad esempio modificando la legge o reinterpretando i regolamenti esistenti - di adottare misure che retroattivamente ridefiniscano la portata della pena imposta, in senso sfavorevole per l’interessato. ove il divieto di retroattività non operasse in tali ipotesi - conclude la Corte - l’art. 7 CeDu verrebbe privato di ogni effetto utile per i condannati, nei cui confronti la portata delle pene inflitte potrebbe essere liberamente inasprita successivamente alla commissione del fatto (Corte eDu, Grande Camera, sentenza 21 ottobre 2013, Del rio Prada contro Spagna, paragrafo 89). 4.2.4.– Le conclusioni cui è recentemente pervenuta la Corte eDu trovano significative conferme nella giurisprudenza di altre corti e nella legislazione di altri Paesi. Secondo la Corte Suprema degli Stati uniti, il generale divieto di “ex post facto laws” sancito dalla Costituzione americana si applica anche alle modifiche delle norme in materia di esecuzione della pena che producano l’effetto pratico di prolungare la detenzione del condannato, modificando il quantum della pena e operando così come una legge retroattiva sfavorevole, in quanto tale non applicabile al condannato (Weaver v. Graham, 450 u.S. 24, 33 (1981); Lynce v. Mathis, 519 u.S. 433 (1997). Nel senso, peraltro, che la garanzia dell’irretroattività opera solo allorché il ricorrente sia in grado di dimostrare che la modifica legislativa sopravvenuta crei un “sufficiente rischio” di incrementare la durata della sua detenzione rispetto alla disciplina vigente al momento della commissione del fatto, California Department of Corrections v. Morales, 514 u.S. 499 (1995); Garner v. Jones, 529 u.S. 244 (2000)). Principi analoghi sono riconosciuti nell’ordinamento francese, quanto meno a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 112-2 del codice penale. Tale norma dispone in via generale l’immediata applicabilità, in vista della repressione anche dei reati commessi anteriormente alla loro entrata in vigore, delle leggi modificatrici del diritto processuale penale e della prescrizione del reato o della pena, nonché delle leggi relative al «regime di esecuzione e dell’applicazione delle pene»: eccezion fatta però, in riferimento a queste ultime, per «quelle che abbiano l’effetto di rendere più severe le pene inflitte con la sentenza di condanna», le quali sono espressamente dichiarate «applicabili soltanto alle condanne pronunciate per fatti commessi posteriormente alla loro entrata in vigore». 4.2.5.– Alcune ordinanze di rimessione (in particolare, quelle iscritte ai numeri 160 e 161 del r.o. 2019) e, soprattutto, le difese delle parti private hanno infine posto l’accento - come già la citata sentenza della Corte di cassazione n. 12541 del 2019 - sugli effetti distorsivi prodotti sulle scelte difensive degli imputati dal mutamento, nel corso delle indagini e poi del processo, del quadro normativo sull’esecuzione della pena; con il conseguente profilarsi, altresì, di possibili lesioni dell’art. 24 Cost. un tale rilievo è, in verità, di intuitiva evidenza. L’imputato, ad esempio, può determinarsi a rinunciare al proprio “diritto di difendersi provando” e concordare invece con il pubblico ministero una pena contenuta entro una misura che lo candidi sin da subito a ottenere una misura alternativa alla detenzione, confidando comunque nella garanzia di non dover “passare per il carcere” grazie al meccanismo sospensivo di cui all’art. 656, comma 5, cod. proc. pen.; ovvero decidere, all’opposto, di affrontare il dibattimento, confidando nella prospettiva che la pena che gli verrà inflitta, anche in caso di condanna, non comporterà verosimilmente il suo ingresso in carcere, per effetto di una misura alternativa che egli abbia una ragionevole aspettativa di ottenere in base alla normativa in vigore al momento del fatto. una modifica in peius, con effetto retroattivo sui processi in corso, della normativa in materia penitenziaria, è suscettibile di frustrare le (legittime) aspettative poste a fondamento di tali scelte difensive, esponendo l’imputato a conseguenze sanzionatorie affatto impreviste e imprevedibili al momento dell’esercizio di una scelta processuale, i cui effetti sono però irrevocabili (per analoghi rilievi, si vedano anche la già citate sentenze della Corte Suprema degli Stati uniti, Weaver v. Graham, 32, e Lynce v. Mathis, 445, nonché Corte Suprema del Canada, r. v. K.r.J., [2016] 1 SCr 906, 926, paragrafo 25, in un caso che concerneva l’applicazione retroattiva di misure interdittive aggiuntive alla pena detentiva a carico di chi fosse stato condannato per abusi sessuali). 4.3.– Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, questa Corte ritiene necessario procedere a una complessiva rimeditazione della portata del divieto di retroattività sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., in relazione alla disciplina dell’esecuzione della pena. 4.3.1.– Come è noto, dall’art. 25, secondo comma, Cost. discende pacificamente tanto il divieto di applicazione retroattiva di una legge che incrimini un fatto in precedenza penalmente irrilevante, quanto il divieto di applicare retroattivamente una legge che preveda una pena più severa per un fatto già in precedenza incriminato (da ultimo, sentenza n. 223 del 2018); divieto, quest’ultimo, che trova esplicita menzione nell’art. 7, paragrafo 1, secondo periodo, CeDu, nell’art. 15, paragrafo 1, secondo periodo, del Patto internazionale sui diritti civili e politici, nonché nell’art. 49, paragrafo 1, seconda proposizione, della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea (CDFue). La ratio di tale divieto è almeno duplice. Per un verso, il divieto in parola mira a garantire al destinatario della norma una ragionevole prevedibilità delle conseguenze cui si esporrà trasgredendo il precetto penale. e ciò sia per garantirgli - in linea generale - la «certezza di libere scelte d’azione» (sentenza n. 364 del 1988); sia per consentirgli poi - nell’ipotesi in cui sia instaurato un procedimento penale a suo carico - di compiere scelte difensive, con l’assistenza del proprio avvocato, sulla base di ragionevoli ipotesi circa i concreti scenari sanzionatori a cui potrebbe andare incontro in caso di condanna (supra, 4.2.5.). Ma una seconda ratio, altrettanto cruciale, non può essere trascurata. Come già acutamente colse una celebre decisione della Corte Suprema statunitense a qualche anno appena di distanza dalla proclamazione del divieto di “ex post facto laws” nella Costituzione federale, il divieto in parola erige un bastione a garanzia dell’individuo contro possibili abusi da parte del potere legislativo, da sempre tentato di stabilire o aggravare ex post pene per fatti già compiuti. Quel divieto - scriveva nel 1798 la Corte Suprema - deriva con ogni probabilità dalla consapevolezza dei padri costituenti che il Parlamento della Gran Bretagna aveva spesso rivendicato, e in concreto utilizzato, il potere di stabilire, a carico di chi avesse già compiuto determinate condotte ritenute di particolare gravità per la salus rei publicae, pene che non erano previste al momento del fatto, o che erano più gravi di quelle sino ad allora stabilite. Ma quelle leggi, osservava la Corte, in realtà «erano sentenze in forma di legge»: null’altro, cioè, che «l’esercizio di potere giudiziario» da parte di un Parlamento animato, in realtà, da intenti vendicativi contro i propri avversari (Corte Suprema degli Stati uniti, Calder v. Bull, 3 u.S. 386, 389 (1798)). Il divieto di applicazione retroattiva di pene non previste al momento del fatto, o anche solo più gravi di quelle allora previste, opera in definitiva come uno dei limiti al legittimo esercizio del potere politico che stanno al cuore stesso del concetto di “stato di diritto”. un concetto, quest’ultimo, che evoca immediatamente la soggezione dello stesso potere a una “legge” pensata per regolare casi futuri, e destinata a fornire a tutti un trasparente avvertimento sulle conseguenze che la sua trasgressione potrà comportare. 4.3.2.– occorre allora verificare se e in che misura tali fondamentali rationes debbano essere estese anche alle norme che, lasciando inalterati tipologia e quantum delle pene previste per il reato, ne modifichino tuttavia le modalità esecutive. Al riguardo, non v’è dubbio che vi siano ragioni assai solide a fondamento della soluzione, sinora consacrata dal diritto vivente, secondo la quale le pene devono essere eseguite - di regola - in base alla legge in vigore al momento dell’esecuzione, e non in base a quella in vigore al tempo della commissione del reato. In primo luogo, dal momento che l’esecuzione delle pene detentive è un fenomeno che si dipana diacronicamente, spesso anche a notevole distanza dal fatto di reato, non può non riconoscersi che nel tempo inevitabilmente muta il contesto, fattuale e normativo, nel quale l’amministrazione penitenziaria si trova a operare. Da ciò deriva la necessità di fisiologici assestamenti della disciplina normativa, chiamata a reagire continuamente a tali mutamenti. ove il regime di esecuzione delle pene detentive dovesse restare cristallizzato alla disciplina vigente al momento del fatto, ad esempio, non potrebbero essere applicate a chi avesse commesso un omicidio negli anni ottanta o Novanta le restrizioni all’uso dei telefoni cellulari o di internet oggi previste dall’ordinamento penitenziario. In secondo luogo, le (fisiologicamente mutevoli) regole trattamentali sono basate esse stesse su complessi bilanciamenti tra i delicati interessi in gioco - ex multis: la tutela dei diritti fondamentali dei condannati, ma anche il controllo della residua pericolosità criminale del detenuto all’interno e all’esterno del carcere, in un quadro di limitatezza complessiva delle risorse a disposizione -; bilanciamenti i cui esiti mal si prestano a essere ricondotti alla logica binaria della soluzione “più favorevole” o “più sfavorevole” per il singolo condannato, con la quale è però costretto ad operare il divieto di applicazione retroattiva della legge penale. Si pensi a una eventuale riduzione delle “ore d’aria”, a fronte però di maggiori opportunità di lavoro extramurario. Ma soprattutto, un rigido e generale divieto di applicazione retroattiva di qualsiasi modifica della disciplina relativa all’esecuzione della pena o delle misure alternative alla detenzione che dovesse essere ritenuta in concreto deteriore per il condannato finirebbe per creare, all’interno del medesimo istituto penitenziario, una pluralità di regimi esecutivi paralleli, ciascuno legato alla data del commesso reato. Ciò che creerebbe non solo gravi difficoltà di gestione per l’amministrazione, ma anche differenze di trattamento tra i detenuti; con tutte le intuibili conseguenze sul piano del mantenimento dell’ordine all’interno degli istituti, che è esso pure condizione essenziale per un efficace dispiegarsi della funzione rieducativa della pena. 4.3.3.– La regola appena enunciata deve, però, soffrire un’eccezione allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato. In tal caso, infatti, la successione normativa determina, a ogni effetto pratico, l’applicazione di una pena che è sostanzialmente un aliud rispetto a quella stabilita al momento del fatto: con conseguente piena operatività delle rationes, poc’anzi rammentate, che stanno alla base del divieto di applicazione retroattiva delle leggi che aggravano il trattamento sanzionatorio previsto per il reato. Ciò si verifica, paradigmaticamente, allorché al momento del fatto fosse prevista una pena suscettibile di essere eseguita “fuori” dal carcere, la quale - per effetto di una modifica normativa sopravvenuta al fatto - divenga una pena che, pur non mutando formalmente il proprio nomen iuris, va eseguita di norma “dentro” il carcere. Tra il “fuori” e il “dentro” la differenza è radicale: qualitativa, prima ancora che quantitativa. La pena da scontare diventa qui un aliud rispetto a quella prevista al momento del fatto; con conseguente inammissibilità di un’applicazione retroattiva di una tale modifica normativa, al metro dell’art. 25, secondo comma, Cost. e ciò vale anche laddove la differenza tra il “fuori” e il “dentro” si apprezzi in esito a valutazioni prognostiche relative, rispettivamente, al tipo di pena che era ragionevole attendersi al momento della commissione del fatto, sulla base della legislazione allora vigente, e quella che è invece ragionevole attendersi sulla base del mutato quadro normativo. Proprio la giurisprudenza statunitense cui si è fatto poc’anzi riferimento (supra, 4.2.4.) mostra non a caso come ai fini della verifica del carattere deteriore della modifica normativa sulla concreta vicenda esecutiva - non possa prescindersi da una valutazione prognostica circa la creazione, da parte della legge sopravvenuta, di un serio rischio che il condannato possa essere assoggettato a un trattamento più severo di quello che era ragionevolmente prevedibile al momento del fatto, in termini di minore probabilità di accesso a modalità extramurarie di esecuzione della sanzione (come il parole negli Stati uniti, o le misure alternative alla detenzione nell’ordinamento italiano). 4. 4.– occorre a questo punto verificare in che misura gli esiti della complessiva rimeditazione sin qui compiuta incidano sulle questioni di legittimità costituzionale ora all’esame. La disposizione censurata inserisce la maggior parte dei reati contro la pubblica amministrazione nell’elenco previsto dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., determinando con ciò le conseguenze deteriori sulla complessiva vicenda esecutiva a carico dei condannati per tali reati, che si sono a tempo debito illustrate (supra, 2.). V’è dunque da stabilire se e in che misura tali conseguenze deteriori possano essere legittimamente applicate - al metro dei principi appena enunciati - a chi sia stato condannato per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della disposizione medesima. 4.4. 1.– Questa Corte ritiene che l’art. 25, secondo comma, Cost. non si opponga a un’applicazione retroattiva delle modifiche derivanti dalla disposizione censurata alla disciplina dei meri benefici penitenziari, e in particolare dei permessi premio e del lavoro all’esterno. Per quanto, infatti, non possa disconoscersi il significativo impatto di questi benefici sul grado di concreta afflittività della pena per il singolo condannato, non pare a questa Corte che modifiche normative che si limitino a rendere più gravose le condizioni di accesso ai benefici medesimi determinino una trasformazione della natura della pena da eseguire, rispetto a quella comminata al momento del fatto e inflitta, sì da chiamare in causa la garanzia costituzionale in parola. Il condannato che fruisca di un permesso premio, o che sia ammesso al lavoro all’esterno del carcere, continua in effetti a scontare una pena che resta connotata da una fondamentale dimensione “intramuraria”. egli resta in linea di principio “dentro” il carcere, continuando a soggiacere alla dettagliata disciplina che caratterizza l’istituzione penitenziaria, e che coinvolge pressoché ogni aspetto della vita del detenuto. D’altra parte, proprio perché i condannati ammessi periodicamente a godere di permessi premio e/o a svolgere lavoro all’esterno ai sensi dell’art. 21 ordin. penit. restano detenuti che scontano la pena detentiva loro inflitta dal giudice della cognizione, non può non valere nei loro confronti l’esigenza, già segnalata (supra, 4.3.2.), di evitare disparità di trattamento, all’interno del medesimo istituto penitenziario, dipendenti soltanto dal tempo del commesso reato: disparità che sarebbero di assai problematica gestione da parte dell’amministrazione penitenziaria, e che verrebbero come tali difficilmente accettate dalla generalità dei detenuti. 4.4.2. – La conclusione opposta si impone, invece, in relazione agli effetti prodotti dalla disposizione censurata sul regime di accesso alle misure alternative alla detenzione disciplinate dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, e in particolare all’affidamento in prova al servizio sociale, alla detenzione domiciliare nelle sue varie forme e alla semilibertà. Si tratta di «misure di natura sostanziale che incidono sulla qualità e quantità della pena […] e che per ciò stesso modificano il grado di privazione della libertà personale imposto al detenuto» (sentenza n. 349 del 1993), finendo anzi per costituire delle vere e proprie “pene” alternative alla detenzione (ordinanza n. 327 del 1989) disposte dal tribunale di sorveglianza, e caratterizzate non solo da una portata limitativa della libertà personale del condannato assai più contenuta, ma anche da un’accentuata vocazione rieducativa, che si esplica in forme del tutto diverse rispetto a quella che pure connota la pena detentiva. Ciò è stato anche di recente ribadito da questa Corte con riferimento sia all’affidamento in prova al servizio sociale per i condannati adulti, definito quale «strumento di espiazione della pena, alternativo rispetto alla detenzione: uno strumento, certo, meno afflittivo rispetto al carcere, ma egualmente connotato in senso sanzionatorio rispetto al reato commesso, tanto che l’esito positivo dell’affidamento in prova estingue la pena detentiva e ogni altro effetto penale (art. 47, comma 12, ordin. penit.)» (sentenza n. 68 del 2019); sia alla detenzione domiciliare, che costituisce anch’essa «“non una misura alternativa alla pena”, ma una pena “alternativa alla detenzione”», caratterizzata da prescrizioni meramente «limitative della libertà, sotto la vigilanza del magistrato di sorveglianza e con l’intervento del servizio sociale» (sentenza n. 99 del 2019, con richiamo alla già citata ordinanza n. 327 del 1989). Tali considerazioni valgono anche rispetto alla semilibertà, ove l’obbligo di trascorrere una parte della giornata - e quanto meno le ore notturne - all’interno dell’istituto penitenziario (ma, di regola, in sezioni autonome: art. 48, comma 2, ordin. penit.) si accompagna al godimento di spazi di libertà assai significativi, al di fuori della fitta rete di prescrizioni che normalmente corredano la concessione di meri benefici extramurari. 4.4.3.– La medesima conclusione si impone - in forza del rinvio “mobile” (sentenza n. 39 del 1994) di cui all’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991 - per ciò che concerne la liberazione condizionale: istituto disciplinato dagli artt. 176 e 177 cod. pen., ma funzionalmente analogo alle misure alternative alla detenzione, essendo anch’esso finalizzato a consentire il graduale reinserimento del condannato nella società, attraverso la concessione di uno sconto di pena a chi abbia, durante il percorso penitenziario, «tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento». La subordinazione anche della liberazione condizionale alla collaborazione processuale o alle condizioni equiparate comporta per il condannato per delitti contro la pubblica amministrazione l’evidente rischio di un significativo prolungamento del periodo da trascorrere in carcere, rispetto alle prospettive che gli si presentavano sulla base della legge vigente al momento del fatto; con conseguente incompatibilità con l’art. 25, secondo comma, Cost. dell’applicazione retroattiva della preclusione di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. anche rispetto alla liberazione condizionale. 4.4.4.– Identica conclusione va tratta, infine, quanto all’effetto riflesso spiegato dalla disposizione censurata in relazione al divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena di cui all’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. A tale conclusione non è di ostacolo la collocazione di tale ultima disposizione nel codice di procedura penale, da cui la giurisprudenza sinora unanime (per tutte, Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza n. 24561 del 2006) ha dedotto la sua sottoposizione al generale principio tempus regit actum. Infatti, la collocazione topografica di una disposizione non può mai essere considerata decisiva ai fini dell’individuazione dello statuto costituzionale di garanzia ad essa applicabile. In plurime occasioni, la giurisprudenza costituzionale ha, d’altronde, già esteso le garanzie discendenti dall’art. 25, secondo comma, Cost. a norme non qualificate formalmente come penali dal legislatore (sentenze n. 63 del 2019, n. 223 del 2018, n. 68 del 2017 e n. 196 del 2010; ordinanza n. 117 del 2019). Tale principio non può non valere anche rispetto alle norme collocate nel codice di procedura penale, allorché incidano direttamente sulla qualità e quantità della pena in concreto applicabile al condannato. Non v’è dubbio che l’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. - nel vietare la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena in una serie di ipotesi, tra cui quella, che qui viene in considerazione, relativa alla condanna per un reato di cui all’art. 4-bis, ordin. penit. - produce l’effetto di determinare l’inizio dell’esecuzione della pena stessa in regime detentivo, in attesa della decisione da parte del tribunale di sorveglianza sull’eventuale istanza di ammissione a una misura alternativa; e dunque comporta che una parte almeno della pena sia effettivamente scontata in carcere, anziché con le modalità extramurarie che erano consentite - per l’intera durata della pena inflitta - sulla base della legge vigente al momento della commissione del fatto. Tanto basta per riconoscere alla disposizione in questione un effetto di trasformazione della pena inflitta, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto; con conseguente sua inapplicabilità, ai sensi dell’art. 25, secondo comma, Cost. alle condanne per reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della novella legislativa, che ne ha indirettamente modificato l’ambito applicativo, tramite l’inserimento di numerosi reati contro la pubblica amministrazione nell’elenco di cui all’art. 4-bis ordin. penit. 4.4.5.– Per le ragioni già anticipate (supra, 4.3.4.), non varrebbe a inficiare le conclusioni appena raggiunte l’obiezione secondo cui la prospettiva - per il condannato - di vedersi applicare una misura alternativa, sulla base della legge in vigore al momento del fatto, sarebbe stata meramente ipotetica ed eventuale. La valutazione circa il carattere deteriore della disciplina sopravvenuta non può, infatti, che essere condotta secondo criteri di rilevante probabilità: e ciò con riferimento tanto ai benefici accessibili per il condannato sulla base della disciplina previgente, quanto alle conseguenze deteriori che derivano dall’entrata in vigore della nuova disciplina. Sotto il primo profilo, è evidente che - in linea generale, e salve le peculiarità di ogni singolo caso - nei confronti dei condannati per reati contro la pubblica amministrazione sussisteva una rilevante probabilità, sulla base della disciplina previgente, di accedere a misure alternative alla pena detentiva, laddove i relativi limiti di pena ancora da scontare o i rispettivi requisiti anagrafici (per ciò che concerne la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter, comma 01, ordin. penit.) lo permettessero. un tale assunto è, se non altro, dimostrato dallo stesso elevato numero delle ordinanze di rimessione, che argomentano la rilevanza delle questioni proprio muovendo da un giudizio di meritevolezza rispetto al beneficio del singolo condannato sulla base della previgente disciplina. Sotto il secondo profilo, non può negarsi, per converso, che la normativa sopravvenuta oltre a precludere in via assoluta l’accesso a taluni benefici, come la detenzione domiciliare per i condannati ultrasettantenni (ciò che basterebbe, invero, a dimostrarne per tabulas il carattere necessariamente deteriore) - rende significativamente meno probabile la concessione degli stessi, anche in considerazione delle incertezze, ancora non affrontate dalla giurisprudenza, sulla precisa estensione dell’obbligo collaborativo in capo ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione e, segnatamente, se esso debba intendersi come limitato al singolo fatto di reato per il quale è stata pronunciata condanna, ovvero se si estenda a tutti i reati ad esso in qualche modo connessi, e dei quali l’autorità giudiziaria ritenga che il condannato sia comunque a conoscenza. 4.5.– Come già evidenziato, il censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, così come scritto dal legislatore, nulla prevede in relazione alla sua applicazione nel tempo, né dispone la sua applicazione alle condanne per reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge. In contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost. - sotto i profili denunciati dalle ordinanze di rimessione in questa sede esaminate - è la norma risultante dal diritto vivente, a tenore della quale le modifiche introdotte con la disposizione censurata sarebbero applicabili anche retroattivamente. Al fine di porre rimedio a tale violazione, non può però accogliersi la richiesta, formulata in udienza dall’Avvocatura generale dello Stato, di una sentenza interpretativa di rigetto, che dichiari non fondate le questioni “nei sensi di cui in motivazione”. L’indubbia esistenza di un diritto vivente in senso contrario (supra, 4.1.) - diritto vivente dal quale muovono, del resto, le stesse ordinanze di rimessione - esclude la praticabilità di una simile opzione, e impone a questa Corte di pronunciare una sentenza di accoglimento delle questioni prospettate (ex plurimis, sentenza n. 299 del 2005). Conseguentemente, va dichiarata l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost., dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 cod. pen. e della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena prevista dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale. restano assorbiti i profili di ammissibilità e di merito di tutte le ulteriori censure prospettate in riferimento ad altri parametri costituzionali. 5.– Come già chiarito (supra, 4.4.1.), questa Corte non ritiene, invece, che l’art. 25, secondo comma, Cost. vieti l’applicazione retroattiva di modifiche normative che incidano in senso deteriore per il condannato quanto alla disciplina di meri benefici penitenziari, come - segnatamente - i permessi premio e il lavoro all’esterno. Ciò non significa, peraltro, che al legislatore sia consentito disconoscere il percorso rieducativo effettivamente compiuto dal condannato che abbia già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio. Ciò si porrebbe in contrasto - se non con l’art. 25, secondo comma, Cost. - con il principio di eguaglianza e di finalismo rieducativo della pena (artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.), secondo i principi sviluppati dalla giurisprudenza di questa Corte sin dagli anni Novanta del secolo scorso (supra, 4.1.1.). un simile vulnus si è in effetti verificato nel caso oggetto del procedimento a quo cui si riferisce l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Potenza, iscritta al n. 210 del r.o. 2019 (ritenuto in fatto, 10.), relativa alla vicenda di un condannato che sta espiando la propria pena detentiva, e che - secondo quanto esposto dal rimettente - alla data di entrata in vigore della legge n. 3 del 2019 aveva già maturato, in base alla disciplina previgente, i requisiti per la concessione del permesso premio. Negare, a chi si trovi nella posizione di quel condannato, la concessione del beneficio equivarrebbe a disconoscere la funzione pedagogico-propulsiva del permesso premio (sentenza n. 253 del 2019), quale strumento idoneo a consentirne un suo iniziale reinserimento nella società, in vista dell’eventuale concessione di misure alternative alla detenzione, in assenza di gravi comportamenti che dimostrino la non meritevolezza del beneficio nel caso concreto (sentenza n. 504 del 1995; nello stesso senso, sentenze n. 137 del 1999 e n. 445 del 1997). L’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 deve, pertanto, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso ai condannati per uno dei reati ivi elencati che, prima dell’entrata in vigore della legge medesima, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio stesso, restando assorbiti i profili di ammissibilità e di merito di tutte le ulteriori censure proposte dal rimettente. 6.– L’accoglimento delle questioni prospettate dalle ordinanze iscritte ai numeri 114, 115, 118, 119, 160, 161, 193, 194 e 220 del r.o. 2019 in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost. rende infine priva di oggetto - e per tale ragione inammissibile - la questione di legittimità costituzionale iscritta al n. 157 del r.o. 2019, avente identico petitum, sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Taranto in riferimento al solo art. 3 Cost. Per QueSTI MoTIVI LA CorTe CoSTITuZIoNALe riuniti i giudizi, 1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice penale e del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale; 2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del2019, nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso ai condannati che, prima dell’entrata in vigore della medesima legge, abbiano già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio stesso; 3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6,lettera b), della legge n. 3 del 2019, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Taranto con l’ordinanza indicata in epigrafe (r.o. n. 157 del 2019). Così deciso in roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 febbraio 2020. Convenzione di opera pubblica soggetta a collaudo. le querelles: modalità di calcolo del cd. “prezzo chiuso”; decorrenza della prescrizione a seguito di ritardato collaudo (illecito permanente della P.a.) Corte Di aPPello roMa, PriMa sezioNe Civile, seNteNza 22 GeNNaio 2020 N. 466 La sentenza della Corte d’Appello di roma del 22 gennaio 2020 n. 466, in accoglimento dell’impugnazione per nullità proposta dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, ha annullato il lodo arbitrale che aveva condannato l’amministrazione al pagamento di € 10.163.225, 95, rigettando tutte le domande proposte da Imprepar SpA in relazione a lavori di restauro degli uffizi di Firenze (la pretesa atteneva al calcolo del prezzo chiuso secondo il metodo c.d. globale e non secondo il metodo c.d. a scalare dopo il revirement della Corte di cassazione in materia). La Corte d’Appello ha respinto i primi due motivi di impugnazione, attinenti, rispettivamente all’eccepita nullità del lodo per incompetenza del Collegio Arbitrale e per aver deciso nonostante la stipulazione di una transazione tra le parti. La Corte ha invece parzialmente accolto il terzo motivo di impugnazione, ritenendo fondata l’eccezione di prescrizione, decorrente dalla data di scadenza del termine per provvedere al collaudo dei lavori e non dall’effettivo collaudo, rispetto a tutte le domande ex adverso proposte, tranne quella risarcitoria per il ritardato collaudo - che la Corte ha definito un illecito a carattere permanente, precisando che non constano sul punto precedenti di legittimità - non ritenendo tuttavia provato il danno lamentato per oneri aggiuntivi di vigilanza e custodia e non ritenendo ammissibile colmare detto onere probatorio con la CTu “esplorativa” disposta nel giudizio arbitrale che non può essere disposta per supplire alla prova di fatti rimasti indimostrati, con ciò accogliendo il quarto e il sesto motivo di impugnazione. I restanti motivi sono rimasti assorbiti. In particolare, la sentenza ha affermato che l’illecita condotta della PA, consistente nel ritardo delle procedure di collaudo, dà luogo ad un illecito a carattere permanente e non ad un illecito a carattere istantaneo, chiarendo che l’illecito a carattere permanente consiste in una condotta, non esaurentesi in un unico atto, ma che al contrario si traduce in una attività perdurante nel tempo tale da comportare una violazione ininterrotta del diritto altrui mentre l’illecito istantaneo consiste in un fatto generatore unico ed istantaneo, ancorché con effetti destinati successivamente a perdurare od ampliarsi. Alla luce di tali criteri, la Corte ha affermato che il ritardo nel compimento delle operazioni di collaudo dà luogo ad un illecito di carattere permanente, venendo in considerazione non già un atto unico ma una condotta omissiva permanente, consistente in una violazione ininterrotta dell’altrui diritto. Si pubblica l’atto di impugnazione per nullità. Wally Ferrante* CT 43046/12 Avv. Ferrante aVVoCatURa GeneRale Dello stato CoRte DI aPPello DI RoMa IMPuGNAZIoNe Per NuLLITÀ DI LoDo ArBITrALe CoN ISTANZA DI SoSPeNSIoNe DeLL’eFFICACIA Per il MInIsteRo DeI BenI e le attIVItà CUltURalI e Del tURIsMo (C.F. 80188210589) in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato (C.F. 80224030587), presso i cui uffici è per legge domiciliato in roma, via dei Portoghesi 12 - per il ricevimento degli atti, FAX 06/96514000 e PeC: ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it; CoNTro IMPRe.PaR - Impregilo Partecipazioni s.p.a. in liquidazione, già Lodigiani S.p.A. e successivamente cessionaria, giusta atto del Notaio Francesco Guasti di Milano del 28.9.2001, rep. 30784, del ramo d’azienda “B.u. Varie” della Impregilo S.p.A., (di seguito per brevità solo “Impre.par.”, “Impresa” ovvero “Società”), in persona del suo Liquidatore e legale rappresentante pro tempore Dott. Vittorio Ferrari, con sede legale in Milano, via dei Missaglia n. 97, C.F. 00399140581 e P. IVA 03084200967, in proprio e nella qualità di capogruppo mandataria dell’Associazione Temporanea di Imprese (di seguito per brevità solo “A.T.I.”) costituita tra la medesima Lodigiani S.p.A. (già Impregilo S.p.A. ed oggi IMPre.PAr. - Impregilo Partecipazioni S.p.A. in Liquidazione), Impresa Costruzioni Lavori Appalti - I.C.L.A. S.p.A. (oggi ICLA - Costruzioni Generali S.p.A. in Liquidazione), Co.Ge.I. S.p.A., Impresa di Costruzioni enrico romagnoli S.p.A., Bonifica S.p.A., Mantelli estero Costruzioni S.p.A., Servizi Ingegneria S.p.A. in Liquidazione (già Servizi di Ingegneria S.r.l.), rappresentata e difesa, in virtù di mandato a margine all’atto di nomina dell’arbitro di parte, dagli Avv. Prof. Bruno Capponi, Avv. Domenico Di Falco e Avv. Antonio Martuscelli, elettivamente domiciliata presso lo studio dei primi due in roma al Largo Giovanni Sarti n. 4, Fax 06-3218660, e-mail studio@studiocapponidifalco.com Per L’ANNuLLAMeNTo del lodo arbitrale n. 43/15 depositato in data 29.10.2015 e notificato in data 12.11.2015. FATTo In data 8 novembre 2012, la IMPrePAr notificava domanda di arbitrato e contestuale nomina di arbitro volta ad ottenere il pagamento di somme asseritamente dovute a seguito dell’esecuzione della Convenzione rep. 316 del 16.05.1990 (all. 1) concernente interventi per sistema museale fiorentino (opere murarie Grandi uffizi). In particolare, evidenziava l’istante di essere risultata concessionaria, all’esito di gara d’appalto, per la realizzazione di lavori di risanamento, consolidamento, restauro e valorizzazione del suddetto sistema museale fiorentino, beni di rilevante interesse culturale, sulla base di assegnazione di Fondi di cui all’art. 17, comma 31 della legge 11 marzo 1988, n. 67. (*) Avvocato dello Stato. Conseguentemente, in data 16.05.1990, veniva stipulata apposita Convenzione per l’affidamento in concessione delle opere, cui seguiva un Atto Aggiuntivo rep. 316 del 23.05.1996 (all. 2). Le opere venivano integralmente realizzate e, in data 8 ottobre 2002, veniva redatto tra le parti “Verbale di Concordamento relativo alla Convenzione di Concessione” (all. 3), con il quale “al fine di evitare l’instaurarsi di un inutile contenzioso, le parti ritengono opportuno e conveniente addivenire ad apposito accordo transattivo che consenta di contenere il costo entro il finanziamento stanziato, definendo transattivamente tutte le riserve iscritte fino alla data di sottoscrizione del presente atto” secondo le specifiche clausole contenute nell’ accordo medesimo. Ciò nonostante, l’istante notificava domanda di arbitrato per ottenere la condanna dell’amministrazione al pagamento di somme asseritamente spettanti a titolo di: - rata di saldo per effetto della mancata conclusione delle operazioni di collaudo pari a€ 137.155,76, oltre interessi sino al 15.10.2012 pari a € 154.504,47, per un totale di € 291.660,23, oltre interessi successivi sino al soddisfo; - esatta determinazione del computo del “prezzo chiuso”, pari a € 2.859.886,08, oltreinteressi sino al 15.10.2012 pari a € 7.303.339,85, per complessivi € 10.163.225,92, oltre interessi successivi sino al soddisfo; - corrispettivo forfettario del dieci per cento sull’importo complessivo dei lavori ai sensidell’art. 12, lett. c) della Convenzione, pari a € 285.988,61, compreso quello non ancora corrisposto relativo all’applicazione della clausola del “prezzo chiuso”, oltre interessi successivi al 15.10.2012 sino al soddisfo; - danno per il ritardato delle operazioni di collaudo dei lavori, pari a € 1.996,494, 92,oltre rivalutazione monetaria ed interessi per un totale, alla data del 15.10.2012, di € 2.546.183,33, oltre interessi successivi a tale data sino al soddisfo; - tardiva corresponsione dei corrispettivi pattuiti, dalla quale deriva la debenza di importia titolo di interessi con i tassi e le decorrenze di cui all’art. 36 del D.P.r. n. 1063/62. Formulava pertanto otto conseguenziali quesiti all’adito Collegio arbitrale, chiedendo la condanna dell’Amministrazione a corrispondere: - la rata di saldo per effetto della mancata conclusione delle operazioni di collaudo paria € 291.660,23, oltre accessori (QueSITo 1); - gli importi maturati a titolo di “prezzo chiuso”, previa la declaratoria della nullità dipatti in deroga rispetto alla previsione dell’art. 33, L. n. 41/86, pari a € 10.163.225,95, oltre accessori (QueSITo 2); - il corrispettivo forfettario del dieci per cento sull’importo complessivo dei lavori, compreso quello non ancora corrisposto relativo all’applicazione della clausola del “prezzo chiuso”, pari a € 285.988,61 (QueSITo 3); - il rimborso dei maggiori oneri indebitamente sostenuti per i ritardi del collaudo e dellasuccessiva approvazione dei relativi atti, oltre accessori, pari a € 2.546.183,33 (QueSITo 4); - il pagamento delle riserve iscritte nelle contabilità dei lavori pari a € 1.922.639,57 e la corresponsione degli interessi legali e moratori maturati per il ritardato pagamento degli acconti dovuti per i lavori ed il corrispettivo a percentuale, previa dichiarazione di inefficacia del Verbale di concordamento dell’8 ottobre 2002 (QueSITo 5); - gli ulteriori interessi legali dalla notifica della domanda di arbitrato sino al soddisfosulle somme liquidate a titolo di accessori, ai sensi degli articoli 1283 e 1284 c.c., oltre il maggior danno ex art. 1224, secondo comma c.c. (QueSITo 6); - in via subordinata, le medesime somme di cui ai quesiti che precedono a titolo di responsabilità extracontrattuale ovvero di arricchimento senza causa, oltre rivalutazione monetaria ed interessi (QueSITo 7); - le spese della procedura arbitrale (QueSITo 8). L’istante nominava quale arbitro di parte l’avvocato (..) ed invitava l’Amministrazione convenuta a nominare a sua volta il proprio arbitro. L’Amministrazione declinava la competenza arbitrale con atto notificato il 21 dicembre 2012. Successivamente, con atto notificato il 31 ottobre 2013, il Ministero in epigrafe nominava quale arbitro di parte il Prof. Avv. (..), con espressa indicazione che con tale nomina non si intendeva in alcun modo rinunciare alla proposta declinatoria. Gli arbitri così individuati nominavano quale terzo arbitro con funzioni di Presidente, l’Avv. Prof. (..), come da verbale del 31.10.2013, nomina che veniva ratificata dalle parti, a mezzo dei rispettivi difensori, nella riunione arbitrale del 17 dicembre 2013. Il Collegio, costituitosi nei componenti sopra individuati, espletava senza esito, nel corso della predetta riunione del 17.12.2013, il tentativo di composizione bonaria della controversia, indi fissava i termini per le attività difensive delle parti, ponendo al 6.2.2014 il termine per la predisposizione della prima memoria. In tale atto, tempestivamente depositato, l’Amministrazione contestava in fatto e diritto le avverse pretese. In via pregiudiziale, l’Amministrazione negava che sussistesse la competenza degli arbitri, atteso che - come visto - era intervenuta declinatoria con atto notificato in data 21.12.2012. Inoltre, l’Amministrazione eccepiva l’inammissibilità ed infondatezza della domanda arbitrale per effetto della rinuncia ad ogni pretesa derivante dalla convenzione di concessione rep. 316 del 16.5.1990 e successivo Atto Aggiuntivo rep. 316 del 23.5.1996, oggetto del presente giudizio, per effetto del verbale di concordamento in data 8 ottobre 2002. Il Ministero eccepiva altresì la prescrizione decennale di tutti i diritti fatti valere, essendo decorsi oltre dieci anni dalla ultimazione dei lavori, avvenuta l’11.8.2000. Nel merito, il Ministero contestava i criteri di calcolo derivanti dalla clausola del prezzo chiuso in base ai quali la controparte pretendeva di essere creditrice di ulteriori importi rispetto a quelli già riconosciuti come dovuti. Sul punto, il Ministero evidenziava non solo l’erroneità dei criteri ex adverso indicati (metodo cd. globale, anziché quello, corretto, a scalare) ma rilevava preliminarmente che, a seguito di trattative derivanti dall’insorgere di problemi nel corso dell’esecuzione del contratto, era stato concluso l’atto aggiuntivo rep. 316 del 23.5.1996, a mezzo del quale, in particolare, si era regolata in via transattiva anche la problematica relativa alla determinazione delle modalità di calcolo del prezzo chiuso. Tale accordo, in quanto oggetto di libera valutazione delle parti stesse, non era pertanto più suscettibile di modifica (a quasi venti anni di distanza), in quanto volto a prevenire una controversia in atto o in potenza in un più ampio contesto di riequilibrio (aliquid datum, aliquid retentum), che sarebbe uscito irrimediabilmente alterato modificando solo uno dei fattori del patto. Il Ministero contestava, quindi, per infondatezza nel merito e comunque per difetto di prova, le domande relative all’asserito mancato pagamento della rata di saldo, al preteso tardivo o ineseguito collaudo dell’opera nonché le domande relative ad accessori e spese e quelle, proposte in via subordinata, di arricchimento senza causa e responsabilità extracontrattuale. Le parti sviluppavano le proprie tesi difensive in una seconda memoria in data 5 marzo 2014. In particolare, il Ministero si opponeva all’ammissione della CTu chiesta dalla IMPrePAr, ritenendo assorbenti e preclusive le eccezioni pregiudiziali sollevate e reputando che la stessa fosse finalizzata esclusivamente all’intento di sottrarsi all’onere della prova. Il Collegio arbitrale disponeva tuttavia una prima consulenza tecnica in data 20.3.2014, nominando l’Ing. (..). All’esito di una serie di differimenti, l’elaborato peritale veniva depositato in data 12.12.2014. All’udienza del 12.2.2015, i procuratori delle parti discutevano sulle questioni oggetto del giudizio e sulle risultanze della CTu e, successivamente, provvedevano al deposito di note autorizzate nel termine del 28.2.2015 all’uopo concesso. Con ordinanza del 25 marzo 2015, il Collegio, con dissenso motivato dell’Arbitro avv. (..), disponeva ulteriore CTu nominando il Prof. Dott. (..), cui chiedeva di determinare l’entità delle somme dovute all’ATI nella ipotesi della validità ed efficacia dell’Atto aggiuntivo rep. 581 del 23 maggio 1996 e del verbale di concordamento relativo alla convenzione di concessione, redatto tra le parti in data 8 ottobre 2002, e nella ipotesi contraria. In data 15 giugno 2015, il secondo CTu depositava il proprio elaborato peritale. La Difesa del Ministero, rilevando che il CTu aveva sostanzialmente omesso di rispondere allo specifico quesito posto dal Collegio, non avendo esposto la prima ipotesi che presupponeva la validità ed efficacia dei due richiamati atti transattivi, chiedeva che fossero chiesti chiarimenti al perito medesimo. Detti chiarimenti, risoltisi in una tautologica trascrizione di alcune parti del proprio elaborato, venivano resi dal CTu in data 26.6.2015. Le parti provvedevano, successivamente, al deposito di memorie difensive finali entro il termine fissato del 10 luglio 2015; parte attrice depositava altresì memoria di replica. Quindi, con atto sottoscritto dagli arbitri in data 16.9.2015 e depositato il 29.10.2015, il Collegio arbitrale pronunciava il lodo a definizione della controversia, con il quale, previa dichiarazione della propria competenza e previo rigetto dell’eccezione di inammissibilità e di improponibilità della domanda - avendo dichiarato la nullità ed inefficacia inter partes del verbale di concordamento dell’8 ottobre 2002 - nonché previo rigetto dell’eccezione di prescrizione, accoglieva tutti i quesiti, condannando il Ministero per i beni e le attività culturali e del turismo al pagamento di complessivi € 9.946.946,07 oltre ulteriori interessi ed oneri accessori. Poneva altresì le spese di funzionamento del Collegio, i compensi degli arbitri e della segretaria nonché i compensi dei due CTu a carico del Ministero nella misura dei due terzi e della IMPrePAr nella misura di un terzo, fermo restando il vincolo di solidarietà. Avverso detto lodo il Ministero dei Beni e le Attività Culturali e del Turismo, come sopra rappresentato, domiciliato e difeso, propone, con il presente atto, impugnazione per nullità, per sentirlo integralmente annullare per i seguenti MotIVI Premessa Prima di passare a sviluppare le specifiche doglianze che si muovono contro il lodo che si impugna, sembra in primo luogo doveroso oltre che opportuno richiamare l’attenzione dell’ecc.ma Corte sulla peculiarità della vicenda, che si inserisce in un più ampio contesto costituito dai numerosissimi contratti stipulati a seguito di trattativa privata negli anni ottanta del secolo scorso - per importi oggi quantificabili in centinaia di milioni di euro - per il risanamento di una consistente porzione del ricchissimo patrimonio culturale nazionale (salvo errori, ben quarantotto progetti per circa 700 miliardi di lire). Detti interventi - finanziati con una parte dei cosiddetti fondi fio - sfortunatamente non sono stati di facile gestione, e non hanno consentito se non in parte di conseguire i risultati perseguiti. Com’è purtroppo ben noto, infatti, gli stessi non sono stati pressoché mai ultimati nei tempi previsti, hanno comportato una rilevantissima moltiplicazione dei costi e sono stati, nel corso degli anni, oggetto di numerose polemiche politiche e indagini, in sede amministrativa e finanche penale, che è a tutt’oggi prematuro affermare definitivamente concluse. In particolare, una delle ragioni che ha cagionato un imprevedibile lievitare dei costi è stato l’insorgere di numerose controversie a fronte delle pretese ripetutamente avanzate dalle parti private. L’Amministrazione ha tentato via via di definirle attraverso lo strumento degli atti aggiuntivi, con i quali, mediante il riconoscimento parziale di richieste anche di dubbia fondatezza, si è perseguito lo scopo di portare a compimento le opere appaltate (finalità evidentemente primaria, per arrestare il preoccupante fenomeno del deterioramento del patrimonio culturale), ponendo anche un freno all’incremento dei costi con una definizione “tombale” della materia controversa. Gli atti aggiuntivi intervennero dunque ad integrare le varie Convenzioni in presenza di una sopravvenuta situazione di stallo, nella quale, anche a seguito di vicende penalmente rilevanti, numerosi lavori erano stati sospesi, e per altri vi erano state anche pretestuose contestazioni da parte degli appaltatori che rischiavano di portare non solo ad una definitiva chiusura dei cantieri, ma in ogni caso ad una inaccettabile dilatazione dei tempi e ad una apertura di un onerosissimo contenzioso. L’auspicio di un definitivo superamento del contenzioso attuale o potenziale - purtroppo - non si è realizzato se non in minima parte, come dimostra a tutt’oggi il continuo risorgere, a distanza di quasi trent’anni dall’inizio degli interventi, di pretese che si aveva ben ragione, e da tempo, di ritenere definiti una volta per tutte. È in questo contesto che si inserisce anche la presente controversia (ed altre già pendenti, o di cui si preannuncia a breve la proposizione), nella quale - avendo riguardo, tra le domande proposte con l’atto di accesso agli arbitri, a quella economicamente e giuridicamente più rilevante - si è posta per l’ennesima volta in discussione una questione, quella delle modalità di calcolo del cd. prezzo chiuso, che le parti avevano pattiziamente definito quasi vent’anni prima dell’insorgere del presente contenzioso. Siamo dunque in presenza di costi di lavori di restauro (ormai terminati) che, a distanza di venti o trent’anni, sono più che raddoppiati e continuano a crescere per la proposizione, a distanza di tempo, di sempre nuove azioni, con aggravi quantificabili in centinaia di milioni di euro, per lavori, si ripete, già definiti e pagati secondo le previsioni contrattuali. 1. nUllItà Del loDo aI sensI Del CoMBInato DIsPosto DeGlI aRt. 829 CoMMa 1 nn. 1 e 4, e aRt. 817 CPC: InCoMPetenza Del ColleGIo aRBItRale a DeCIDeRe la ContRoVeRsIa. 1.1. Il Collegio arbitrale ha respinto l’eccezione di incompetenza per effetto dell’intervenuta declinatoria ai sensi dell’art. 1, comma 19, della L. 190/2012, atteso che tale legge, entrata in vigore il 28.11.2012, ovvero quindici giorni dopo la pubblicazione in G.u., avvenuta il 13.11.2012, dispone, all’art. 1, comma 25, che essa non si applica agli arbitrati autorizzati o conferiti antecedentemente alla sua entrata in vigore mentre, nel caso di specie, la domanda di arbitrato è stata notificata il 7.11.2012 (rectius l’8.11.2012). L’eccezione è stata respinta anche nella parte in cui è stata formulata in relazione al rinvio, contenuto nella clausola compromissoria, all’arbitrato amministrato ex art. 47 del Capitolato Generale d’Appalto per le opere Pubbliche, approvato con D.P.r. 16 luglio 1962, n. 1063, posto che, con l’art. 24 della Convenzione rep. 316 del 16.05.1990, le parti avrebbero pattiziamente sottratto alla competenza dell’AGo, in favore degli arbitri, le eventuali future controversie insorgende in dipendenza della convenzione stessa. Tale statuizione non può essere condivisa. La competenza del Collegio arbitrale, come già evidenziato, è stata declinata dall’Amministrazione, ai sensi dell’art. 241 del d.lgs. n. 163 del 2006, con atto notificato in data 21.12.2012. Ai sensi dell’art. 241 del Codice dei contratti, come modificato dalla legge n. 190/2012 “1. le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall'esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell'accordo bonario previsto dall'articolo 240, possono essere deferite ad arbitri, previa autorizzazione motivata da parte dell'organo di governo dell'amministrazione. l'inclusione della clausola compromissoria, senza preventiva autorizzazione, nel bando o nell'avviso con cui è indetta la gara ovvero, per le procedure senza bando, nell'invito, o il ricorso all'arbitrato, senza preventiva autorizzazione, sono nulli”. Detta declinatoria (peraltro perfettamente conforme all’intento manifestato dal Legislatore con la modifica dell’art. 241 del Codice dei contratti operata con la L. n. 190/2012, approvata solo pochi giorni prima della notificazione dell’atto di accesso agli arbitri) deve ritenersi comunque tempestiva ed efficace alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 152/1996 - sopravvenuta rispetto alla Convenzione stipulata a suo tempo dalle parti - a mente della quale è stata dichiarata la incostituzionalità della disposizione contenuta nella L. 10 dicembre 1981, n. 741, nella parte in cui non consentiva la possibilità di derogare alla competenza arbitrale con atto unilaterale di ciascuno dei contraenti. Al riguardo, va ricordato che la Corte Costituzionale, fin dalla sentenza n. 127 del 1977 (in realtà anche in precedenza ma, nei casi allora affrontati, aveva escluso che si fosse in presenza di un vero arbitrato obbligatorio: sentenze n. 62 del 1968 e n. 50 del 1966), ha osservato che, poiché la Costituzione garantisce ad ogni soggetto il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, “il fondamento di qualsiasi arbitrato è da rinvenirsi nella libera scelta delle parti perché solo la scelta dei soggetti (intesa come uno dei possibili modi di disporre, anche in senso negativo, del diritto di cui all'art. 24, comma primo, Cost.) può derogare al precetto contenuto nell'art. 102, comma primo, Cost. [...], sicché la “fonte” dell'arbitrato non può più ricercarsi e porsi in una legge ordinaria o, più generalmente, in una volontà autoritativa”. Tale principio è stato costantemente ribadito dal Giudice delle leggi con le sentenze n. 221 del 2005, n. 325 del 1998, n. 381 del 1997, n. 54 del 1996, nn. 232, 206 e 49 del 1994, n. 488 del 1991, e precisato nel senso che, anche qualora sia richiesto “l'accordo delle parti per derogare alla competenza arbitrale, si rimette pur sempre alla volontà della sola parte che non voglia tale accordo derogatorio, l'effetto di rendere l'arbitrato concretamente obbligatorio per l'altro soggetto che non l'aveva voluto”, essendo “sufficiente la mancata intesa sulla deroga della competenza arbitrale per vanificare l'apparente facoltatività bilaterale dell'opzione” (sentenza 2-9 maggio 1996, n. 152). L'art. 43 del d.P.r. n. 1062 del 1962 disponeva infatti che “Salvo il disposto del successivo art. 47, tutte le controversie tra l'amministrazione e l'appaltatore, così durante l'esecuzione come al termine del contratto, quale che sia la loro natura tecnica, amministrativa o giuridica, che non si sono potute definire in via amministrativa a norma del precedente articolo 42, sono deferite, giusta gli articoli 806 e seguenti del codice di procedura civile e 349 della legge sui lavori pubblici 20 marzo 1865, n. 2248, allegato F, al giudizio di cinque arbitri”. A norma dell'art. 47, comma 1 del medesimo d.P.r., come modificato dall'art. 16 della legge 10 dicembre 1981, n. 741, era inoltre previsto che “in deroga alle disposizioni degli articoli 43 e seguenti la competenza arbitrale può essere esclusa solo con apposita clausola inserita nel bando o invito di gara, oppure nel contratto in caso di trattativa privata”. La Corte costituzionale, con la citata pronuncia n. 152 del 1996, nel ricordare il principio secondo il quale a ciascuna delle parti deve essere assicurata la libertà di sottrarsi all'arbitrato previsto dalla legge o da una fonte eteronoma, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del predetto art. 47 nella parte in cui non stabilisce che la competenza arbitrale può essere derogata anche con atto unilaterale di ciascuno dei contraenti, configurandosi, in tal modo, un arbitrato obbligatorio, in spregio al principio per cui solo a fronte della concreta e specifica volontà delle parti può derogarsi alla regola della statualità della giurisdizione. Tale pronuncia è conforme a quanto già affermato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione (sentenza n. 1458 del 10 febbraio 1992), secondo la quale occorre la concorde volontà delle parti per derogare al giudizio ordinario e non già, all'opposto, per escludere il giudizio arbitrale. Difatti, una norma che prescriva, in via di principio, il ricorso ad arbitri per la risoluzione delle controversie, salvo patti difformi inseriti nel contratto, solo apparentemente introduce un'ipotesi di arbitrato facoltativo - che la Corte costituzionale ha considerato legittimo, proprio perché fondato sulla concorde volontà delle parti - se non consente anche ad una sola delle parti di optare per il giudizio ordinario. 1.2. Alla luce di quanto sopra, in relazione alla clausola compromissoria contenuta nelle Concessioni stipulate dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali nell’ambito del Fondo Investimenti occupazione (FIo) di cui alla legge 28 febbraio 1986 n. 41, fra cui la Convenzione rep. 316 del 16.05.1990 di cui alla domanda arbitrale oggetto della presente controversia, il predetto Ministero, con nota prot. 4775 del 09.03.2011 (all. 4) ha sottoposto all’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture una richiesta di parere in merito alla possibilità di declinare con atto unilaterale la competenza arbitrale, in applicazione dei criteri interpretativi più idonei a consentire un’applicazione costituzionalmente orientata della clausola compromissoria contenuta nell’art. 24 della Convenzione. Con nota prot. 0041897 del 14.04.2011 (all. 5), l’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici forniva il parere richiesto, concludendo nel senso che la facoltà di deroga alla competenza arbitrale - non esercitata ab origine per effetto dell’obbligatoria devoluzione delle liti al collegio arbitrale sancita dal D.P.r. n. 1063/1962 espressamente richiamato dalla citata clausola convenzionale - possa essere esercitata dalle parti al momento dell’insorgere della controversia, con la conseguenza che l’amministrazione è libera di decidere, a fronte della domanda di arbitrato, se accettare o rifiutare la devoluzione della lite alla competenza arbitrale. evidenzia infatti l’AVCP - dopo una puntuale ricostruzione della disciplina e un richiamo espresso ai principi enucleati dalla Corte Costituzionale - che, in forza della previsione contenuta nella norma transitoria posta dall’art. 253, comma 34, del D.Lgs. n. 163/2006 (Codice dei Contratti), “il richiamo ai collegi arbitrali da costituire ai sensi della normativa previgente di cui al DPr 1063 del 1962 contenuto nelle clausole dei contratti di appalto già stipulati, deve intendersi riferito ai collegi da nominare con le nuove procedure secondo le modalità previste del Codice”. Malgrado la presenza delle clausole che rinviano al Capitolato (e all’arbitrato obbligatorio ivi previsto), pertanto, la facoltà di deroga può essere esercitata dalle parti in ogni momento. Del tutto apodittica è l’affermazione contenuta nel lodo secondo la quale non potrebbe attribuirsi alcuna valenza a detto parere dell’AVCP (oggi ANAC), atteso che, come si è detto, lo stesso è stato reso proprio in relazione alla clausola compromissoria contenuta nelle Concessioni stipulate dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali nell’ambito del Fondo Investimenti occupazione (FIo) di cui alla legge 28 febbraio 1986 n. 41, fra cui la Convenzione rep. 316 del 16.05.1990 di cui alla domanda arbitrale oggetto della presente controversia. 1.3. Peraltro, preme rilevare che la clausola compromissoria contenuta nella Convenzione rep. 316 del 16.05.1990 (art. 24), contiene un rinvio mobile, prevedendo che “qualsiasi controversia sorta tra le parti … sarà definita osservando quanto previsto al Capo vi del Capitolato Generale di appalto per le opere Pubbliche approvato con D.P.r. 16.07.1962 n. 1063 e successive modifiche ed integrazioni”. Pertanto, la pronuncia della Consulta n. 152/1996, vale a reintrodurre, nella fattispecie, il principio di libertà dell’amministrazione di optare per la devoluzione della controversia alla cognizione dell’Autorità Giudiziaria ordinaria. Da ciò discende la validità dell’atto di declinatoria e l’incompetenza del Collegio arbitrale. e, invero, al di là della terminologia usata nell’atto di declinatoria, la incompetenza degli arbitri si fonda sulla radicale nullità della clausola compromissoria. La stessa è contenuta nella Convenzione datata 16.5.1990, nella quale, all’art. 24, si precisa testualmente che “1. Qualsiasi controversia dovesse insorgere tra le parti in esecuzione della presente convenzione non sospenderà l’adempimento delle obbligazioni comunque assunte con il presente atto. 2. le parti si impegnano altresì ad esperire con la migliore buona volontà ogni tentativo di amichevole composizione. 3. Qualora questa non sia raggiunta, qualsiasi controversia sorta tra le parti relativamente al presente atto sarà definita osservando quanto previsto al Capo vi del capitolato generale di appalto per le opere pubbliche approvato con DPr 16 luglio 1962, n. 1063 e successive modifiche e integrazioni”: la Convenzione richiama dunque unicamente la previsione del Capitolato senza contemplare alcuna diversa manifestazione autonoma di volontà da parte dei contraenti in punto di derogabilità. orbene, alla data di stipula della Convenzione, l’art. 47 del detto DPr 16.7.1962, n. 1062, come modificato dall’art. 16 della L. 10.12.1981, n. 741, prevedeva che, “in deroga alle disposizioni degli articoli 43 e seguenti la competenza arbitrale può essere esclusa solo con apposita clausola inserita nel bando o invito di gara, oppure nel contratto in caso di trattativa privata”, ponendo di fatto il ricorso all’arbitrato come obbligatorio. La disposizione veniva pertanto dichiarata incostituzionale con la richiamata sentenza n. 152/96 del Giudice delle leggi, nella parte in cui non consentiva la possibilità di derogare alla competenza arbitrale con atto unilaterale di ciascuno dei contraenti. La clausola compromissoria, fondata su di una disposizione incostituzionale è pertanto nulla, e non può produrre effetti. rimossa la stessa, non può che trovare applicazione, in conformità ai principi sulla base dei quali la Corte Costituzionale si è pronunciata, la regola generale per la quale la deroga alla statualità della giurisdizione ha carattere eccezionale, e deve essere consentita concordemente dalle parti. un tale accordo, nel caso di specie, come visto non vi è stato, poiché le parti si sono limitate a richiamare le disposizioni del Capitolato all’epoca vigenti. Non ponendosi una questione di interpretazione dei limiti della clausola, ma appunto di nullità, tale vizio (rilevabile anche d’ufficio) ha come inevitabile conseguenza la eccepibilità in qualsiasi momento della incompetenza degli arbitri. Cosa che l’Amministrazione ha appunto fatto con l’atto notificato in data 20.12.2012. 1.4. Inoltre, osserva il Collegio arbitrale, secondo la prevalente giurisprudenza, le norme del Capitolato Generale per le opere pubbliche avrebbero efficacia normativa solamente nei confronti degli appalti di lavori di competenza del Ministero dei lavori pubblici e non anche in relazione ad appalti riguardanti altre amministrazioni, rispetto ai quali il richiamo di dette norme contenuto in convenzioni, come quella fonte delle obbligazioni di cui al presente giudizio, avrebbe valore convenzionale. Anche tale statuizione è errata e contrasta con la stessa giurispudenza citata nel lodo. il Collegio richiama infatti l’orientamento della suprema Corte a mente del quale “in tema di controversie nascenti da un contratto di appalto di opere pubbliche, deferite, in via generale, ad arbitri dall’art. 43 del relativo capitolato generale (D.P.r. n. 1063 del 1962), la facoltà, riconosciuta ad entrambi i contraenti, di chiedere la deroga a tale competenza arbitrale, esclusa dall’art. 16 della legge n. 741 del 1981 (che aveva modificato il testo dell’art. 47 del capitolato), è stata ripristinata a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale del detto art. 16 (Corte Costituzionale, sent. n. 152 del 1996). a ciò consegue la necessità di operare una distinzione tra gli appalti dello Stato (ovvero degli enti pubblici tenuti per legge all’osservanza dei capitolati generali per le opere statali) e gli altri appalti pubblici, perché, nel primo caso, la pronuncia della Corte Costituzionale produce, del tutto legittimamente, i suoi effetti "ex tunc" anche nei casi in cui la clausola compromissoria trovi la sua fonte nella volontà negoziale delle parti che abbiano recepito la normativa caducata attraverso il rinvio materiale alle norme del capitolato generale delle opere pubbliche (con il solo limite delle situazioni esaurite); mentre, nella seconda ipotesi, il richiamo operato dalle parti alle norme del capitolato assume la stessa natura e portata negoziale dell'atto giuridico che le richiama, perdendo, pertanto, qualsiasi collegamento con la fonte normativa di provenienza, e conservando, così, efficacia, indipendentemente dalle successive modifiche della norma da cui sono tratte, proprio per l'effetto vincolante che, liberamente, i contraenti hanno attribuito al loro contenuto” (Cass. civ., sez. i, sent. n. 563 del 17-01-2001). orbene, è innegabile che, nel caso di specie, si controverta su un “appalto dello stato” e quindi si verta nel primo caso enucleato dalla suprema Corte nella citata pronuncia, con conseguente efficacia ex tunc degli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 152 del 1996. 1.5. Infine, il Collegio arbitrale sostiene che la declinatoria della competenza arbitrale si fonderebbe su una normativa (art. 47 Capitolato 1063/62) e sull’interpretazione della stessa (ad opera della sentenza della Corte costituzionale n. 152/1996) che non avrebbe più ragion d’essere nel nostro ordinamento perché abrogata dall’art. 32, comma 4, della L. 109/94, a sua volta abrogato dal Codice dei contratti approvato con D. Lgs. 12 aprile 2006 n. 163. Dunque, alla luce dell’abrogazione medio tempore intervenuta delle norme del Capitolato di cui al D.P.r. 1063/62, nonché di quelle della Legge 109/94 e del D.P.r. 554/99, ed in base alla disposizione transitoria di cui all’art. 253, comma 34, lettera a) del D.lgs. n. 163/2006, secondo il Collegio, la declinatoria della competenza arbitrale sarebbe inammissibile, essendo validamente introdotto il presente giudizio arbitrale, da svolgersi secondo le regole procedurali di cui agli artt. 241 e ss. del D.Lgs. 163/2006, nel testo ante novella ex lege 190/2012. La tesi è destituita di ogni fondamento. Come è noto, l’art. 241 del Codice dei Contratti - anche nella sua formulazione antecedente alla modifica apportata con la legge n. 190/2012 - si fondava sulla volontarietà dell’arbitrato in ossequio alla più volte citata sentenza della Corte costituzionale n. 152/1996. Disponeva infatti detta norma ante riforma: “1. le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall'esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell'accordo bonario previsto dall'articolo 240, possono essere deferite ad arbitri. 1-bis. la stazione appaltante indica nel bando o nell'avviso con cui indice la gara ovvero, per le procedure senza bando, nell'invito, se il contratto conterrà, o meno, la clausola compromissoria. L'aggiudicatario può ricusare la clausola compromissoria, che in tale caso non è inserita nel contratto, comunicandolo alla stazione appaltante entro venti giorni dalla conoscenza dell'aggiudicazione. È vietato in ogni caso il compromesso”. È evidente che tale disposizione non può certo trovare applicazione retroattiva - nella parte in cui l’aggiudicatario può ricusare la clausola compromissoria entro venti giorni dalla conoscenza dell’aggiudicazione - per le aggiudicazioni intervenute oltre vent’anni prima la sua entrata in vigore. Alle convenzioni arbitrali quali quelle oggetto del presente giudizio non può quindi che applicarsi la disciplina di cui al Capitolato Generale approvato con D.P.r. n. 1063 del 1962, applicabile ratione temporis, alla luce del principio cardine della volontarietà dell’arbitrato, discendente dalla più volte citata sentenza della Consulta n. 152/1996 e ribadito dall’art. 241 Codice dei contratti, con conseguente possibilità di declinare la relativa competenza arbitrale. Infatti, se nella sua nuova formulazione l’art. 241 Codice dei contratti prevede un’autorizzazione preventiva da parte dell'organo di governo dell'amministrazione, pena la nullità del ricorso all’arbitrato, la versione di detta norma prima della novella ex lege n. 190/2012 prevedeva comunque la possibilità di declinatoria successiva della competenza arbitrale. In ogni caso, la deroga alla giurisdizione statuale, dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 152/1996 non può essere obbligatoria e pertanto, quale che sia la normativa che si intenda applicare, deve ritenersi nulla una clausola compromissoria che non consenta di declinare la competenza degli arbitri. La giurisprudenza della Suprema Corte (a partire da ssUU 10.02.1992, n. 1458) ha costantemente affermato che “la competenza giudiziaria può essere derogata soltanto in forza di apposito accordo tra le parti e che il mero rinvio alla normativa statale, la quale contenga la previsione di una competenza arbitrale, non risponde al requisito della forma scritta”. Ha inoltre chiarito che “tale soluzione appare pienamente coerente col principio, affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 2-9 maggio 1996, n. 152, dell’incompatibilità, col sistema costituzionale, di norme che prevedano una deroga alla competenza giudiziaria a favore di quella arbitrale fondata su presupposti diversi da un libero ed espresso accordo tra le parti”. Va inoltre richiamata Cassazione, ssUU, 30.04.2008, n. 10873, che ha attribuito rilevanza ai fini della facoltà di declinare la competenza arbitrale alle vicende successive alla stipula del contratto, confermando che gli effetti della sentenza della Consulta, dichiarativa dell’illegittimità delle leggi, si applicano agli arbitrati pendenti alla data della sua pubblicazione, ed estendendoli addirittura ai lodi già emessi a tale data, fatte salve le situazioni già consolidate. Alla luce di tutto quanto precede, vorrà codesta ecc. ma Corte d’appello dichiarare la nullità del lodo per violazione dell’art. 829, comma 1, n. 1 c.p.c., avendo il Collegio arbitrale deciso in presenza di una convenzione d’arbitrato nulla. ** ** ** Il riscontrato vizio di incompetenza arbitrale appare assorbente e preclusivo - ai sensi dell’art. 830 c.p.c. - di qualsivoglia esame nel merito da parte di codesta ecc.ma Corte di appello. In via subordinata, si deducono comunque i seguenti ulteriori motivi di nullità del lodo. 2. nUllItà Del loDo aI sensI Dell’ aRt. 829 CoMMa 1 n. 4 PeR aVeR DeCIso Il MeRIto Della ContRoVeRsIa In Un Caso In CUI Il MeRIto non PoteVa esseRe DeCIso. 2.1. Preliminarmente, l’Amministrazione aveva eccepito l’inammissibilità della domanda arbitrale per effetto dell’intervenuta transazione tra le parti sulle questioni oggetto del contendere. Come è noto, ai sensi dell’art.1965 c.c., la transazione è il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro. La presente lite non avrebbe quindi potuto essere instaurata e il Collegio arbitrale non avrebbe potuto pronunciarsi su pretese in ordine alle quali le parti avevano già raggiunto un accordo transattivo. Infatti, come peraltro ammesso dalla controparte nell’atto di accesso agli arbitri, è intervenuto tra le parti un accordo transattivo consacrato nel “Verbale di concordamento relativo alla convenzione di concessione rep. 316 del 16.5.1990” in data 8 ottobre 2002 (all. 3 cit.), con il quale, come si è accennato nelle premesse in fatto, “al fine di evitare l’instaurarsi di un inutile contenzioso, le parti ritengono opportuno e conveniente addivenire ad apposito accordo transattivo che consenta di contenere il costo entro il finanziamento stanziato, definendo transattivamente tutte le riserve iscritte fino alla data di sottoscrizione del presente atto” secondo le specifiche clausole contenute nell’accordo medesimo. In particolare, ai sensi dell’art. 3 del predetto accordo, “in considerazione della oggettiva ristrettezza del tempo che il Concessionario ha avuto a disposizione per portare a compimento l’opera assentita, l’amministrazione riconosce la somma forfettaria e onnicomprensiva di € 118.178,09 (pari a £ 230.000.000) oltre ad iva a compenso delle maggiori onerosità che l’esecuzione tecnica, organizzativa e finanziaria dei lavori ha comportato per completare e rendere agibili le opere suddette in tempi notevolmente ridotti rispetto a quelli fissati contrattualmente”. A norma del successivo art. 4, “l’amministrazione rispetto alle pretese iscritte, riconosce l’importo complessivo di € 64.815,34 (pari a £ 125.500.000) oltre iva, da considerarsi afferente ai lavori eseguiti”. A fronte del riconoscimento, da parte dell’amministrazione, del complessivo importo di € 183.600,43, “l’ati contestualmente accetta la quantificazione economica di cui agli artt. 3 e 4, dichiarando di rinunciare, come rinuncia, a qualsiasi pretesa iscritta. L’ATI parimenti rinuncia a pretendere compenso alcuno a titolo di ritardata contabilizzazione e pagamento, ai sensi del combinato disposto degli artt. 33 e 35 DPr 1063/1962, così come modificati dal regolamento n. 554/99, in riferimento ai lavori già eseguiti e dedotti nell’importo riconosciuto. Infine l’ATI rinuncia a qualsiasi rivalutazione monetaria e interessi sulla somma rivalutata ai sensi dell’art. 1224, 2° comma del codice civile” (art. 5). Alla luce del chiaro tenore del richiamato accordo transattivo, appare evidente l’inammissibilità, ancor prima dell’infondatezza, di tutte le pretese avanzate dalla IMPrePAr in questa sede, finalizzate a porre nel nulla una transazione intervenuta tra le parti, caratterizzata da reciproche concessioni e da espresse rinunce ad azionare ogni ulteriore rivendicazione in sede giudiziaria o contenziosa. Il Collegio arbitrale - peraltro dopo aver disposto una seconda dispendiosa quanto inutile CTu proprio al fine di stabilire, distintamente, l’entità delle somme dovute all’ATI nell’ipotesi di validità ed efficacia del citato atto transattivo e nell’ipotesi contraria di invalidità ed inefficacia dello stesso, con ciò ritenendo prima facie non manifestamente infondata la tesi dell’amministrazione in ordine all’effetto preclusivo di ogni altra domanda derivante dal citato verbale di concordamento - ha poi invece sposato la tesi avversaria secondo la quale il richiamato accordo non sarebbe valido ed efficace in quanto non promanante da soggetto investito del potere di impegnare l’Amministrazione e non approvato da quest’ultima. Invero, tale assunto è radicalmente smentito dall’art. 9 dell’accordo, in base al quale “il presente verbale viene sottoscritto dal Direttore dei lavori e ingegnere Capo/responsabile del Procedimento e dal rappresentante dell’ati. Qualora l’Amministrazione entro trenta giorni esprima il proprio diniego motivato il presente atto verrà considerato nullo e le parti torneranno nelle rispettive posizioni. Il decorso del medesimo termine senza diniego espresso si intenderà come approvazione a tutti gli effetti …”. Per effetto del suddetto meccanismo di silenzio-assenso, l’Amministrazione ha pertanto implicitamente ratificato l’accordo sottoscritto dal Direttore dei Lavori, che deve dunque considerarsi pienamente valido, efficace e vincolante per le parti. Ciò è confermato, peraltro, dall’esplicito riferimento alla vincolatività inter partes dell’accordo effettuato dalla IMPRePaR con la nota del 23 dicembre 2002 (all. 6) con la quale, nel trasmettere alla Soprintendenza le fatture emesse in data 17.2.2002 per un importo complessivo di € 33.964,23, si precisa espressamente “Ricordiamo che ai sensi dell’art. 5 del verbale di concordamento sottoscritto, dalla data del 8.12.02 decorrono i tempi per il calcolo degli interessi per il ritardato pagamento”. Detta clausola prevede infatti la decorrenza degli interessi in caso di mancato pagamento dell’importo forfettario concordato entro il termine di sessanta giorni dalla sottoscrizione dell’accordo, avvenuta l’8.10.02. Il suddetto importo di € 33.964,23 è stato prontamente corrisposto dall’amministrazione con ordinativo di pagamento n. 115 del 2003 (all. 7). La IMPrePAr, quindi, nel ricordare all’amministrazione gli effetti derivanti dal ritardo nel pagamento dell’importo forfettariamente concordato ai sensi dell’art. 5 del verbale di concordamento, la invita a dare pronta esecuzione allo stesso. Alla luce di quanto sopra, ogni ulteriore contestazione in ordine alla piena validità ed efficacia del suddetto verbale di concordamento appare del tutto pretestuosa e finalizzata allo sterile tentativo di mettere nel nulla, dopo oltre dieci anni, un accordo transattivo validamente concluso tra le parti e dalle stesse concordemente eseguito. Del tutto inconferente appare poi la giurisprudenza citata nel lodo arbitrale (Cons. Stato, sez. VI, n. 3507/2010 e Cass, sez. III, n. 20340/2010) secondo la quale in materia di contratti stipulati dalla pubblica amministrazione deve ritenersi necessaria la forma scritta ad substantiam non potendosi dare rilievo a comportamenti taciti o a manifestazioni di volontà per facta concludentia. Tali principi, tanto pacifici quanto consolidati, non sono stati in alcun modo messi in discussione nella fattispecie in esame, posto che l’accordo transattivo è avvenuto in forma scritta e quindi nel pieno rispetto delle garanzie poste a presidio del regolare svolgimento dell’attività amministrativa. La tesi che la fattispecie in esame possa inquadrarsi nell’ipotesi del falsus procurator ex art. 1398 c.c. viene, contraddittoriamente, prima prospettata dal Collegio arbitrale e poi esclusa dallo stesso Collegio per insussistenza dell’incolpevole affidamento del terzo contraente (nella specie, la IMPrePAr). In effetti, le parti, nella loro autonomia negoziale, hanno consapevolmente concordato - per iscritto - una soluzione transattiva, stabilendo che, in assenza di motivato dissenso dell’Amministrazione nel termine di trenta giorni, l’accordo medesimo si sarebbe inteso come approvato a tutti gli effetti. È solo ad abundatiam che la Difesa del Ministero ha soggiunto, nella memoria difensiva finale, che, ove ciò non dovesse bastare, con nota del 30 gennaio 2014 prot. 2672 Class. 07.04.00/21.1, il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo - Direzione Generale per il paesaggio, le belle arti, l’architettura e l’arte contemporanea ha precisato: “Appare in proposito opportuno confermare che l’Amministrazione concedente abbia pur implicitamente ratificato, e comunque tuttora ratifichi, la transazione sottoscritta dal Responsabile del procedimento, ritenendola in ogni caso da sempre valida, efficace e vincolante per il Ministero”. Non si tratta quindi di una ratifica tardiva bensì della conferma di una ratifica già da tempo avvenuta in ordine ad un accordo transattivo da sempre ritenuto valido ed efficace e pienamente eseguito da entrambe le parti. Per inciso, va detto che i sottoscrittori del verbale di concordamento dell’8 ottobre 2002 sono il geom. (..), che figura nell’epigrafe del medesimo atto quale procuratore speciale della IMPrePAr “come da documentazione in atti” e il dott. Arch. (..) quale Direttore dei Lavori e Ingegnere Capo/responsabile del procedimento, successivamente divenuto Direttore Generale del Ministero dei beni e delle attività culturali. 2.2. Del tutto infondato è inoltre l’assunto, contenuto nel lodo, secondo il quale detto verbale di concordamento avrebbe riguardato solo le riserve iscritte e non anche le altre voci oggetto di altrettanti quesiti posti agli arbitri, non potendo quindi assumere il carattere di un accordo transattivo “tombale”. È vero esattamente il contrario. Come si è già ripetutamente evidenziato, l’accordo transattivo in questione ha inteso chiudere definitivamente ogni reciproca pretesa derivante dalla Convenzione de quo. A differenza dell’Atto aggiuntivo del 1996 - che, oltre ad avere una portata transattiva, ha affidato ulteriori lavori per £ 7.000.000.000, non potendo quindi preventivamente impedire l’insorgere di possibili ulteriori controversie per i lavori ancora da eseguire - il Verbale di concordamento dell’8 ottobre 2002, ha esclusivamente natura transattiva e non lascia residuare alcuna ipotetica ulteriore pretesa in relazione alla Convenzione in questione. Ciò appare con palmare evidenza dall’art. 2 di detto Verbale ove si precisa che “le parti come in epigrafe costituite transigono sulle pretese dell’ATI relative al contratto stipulato in data 16.5.1990 rep. N. 316, registrato in data 28.11.90 al n. 59559 serie 1B, e successivo Atto aggiuntivo stipulato in data 23.5.1996 Rep. 581 registrato in data 20.3.1997, relativamente alla convenzione di concessione dei lavori di “sistema museale fiorentino - opere murarie Grandi uffizi” in firenze e “opere indispensabili al completamento del progetto fio 89 sistema museale fiorentino - opere murarie Grandi uffizi”. In particolare, l’Amministrazione riconosce l’esistenza di un credito dell’ATI la quale accetta la determinazione proposta per le prestazioni eseguite. tutto ciò nei termini e con le modalità nel prosieguo descritte. Le parti si danno reciproca manleva da qualsiasi diversa rivendicazione possa essere collegata alla narrativa di cui alle premesse”. Dal tenore letterale di detto atto transattivo, chiaramente onnicomprensivo di qualsiasi pretesa dedotta e deducibile da entrambe le parti, non può in alcun modo sopravvivere, come ha ritenuto il Collegio arbitrale, alcuna posta estranea all’accordo transattivo. È vero che negli articoli successivi vengono dettagliatamente descritte le varie voci oggetto della transazione a titolo di ritardo nell’evoluzione dei lavori, di riserve iscritte, di compensi a titolo di ritardata contabilizzazione, di interessi e rivalutazione, con la relativa quantificazione, ma ciò non significa che, a fronte del carattere generale e onnicomprensivo dell’accordo transattivo, come chiaramente evincibile dal richiamato art. 2, possa in alcun modo residuare una “qualsiasi diversa rivendicazione” non ricadente nel medesimo accordo. A fronte dell’espressa rinuncia della IMPrePAr ad ogni riserva iscritta e ad ogni altra pretesa a titolo di maggiori oneri od accessori, forfettariamente liquidati di comune accordo tra le parti, ogni pretesa a tale titolo avanzata nel presente giudizio appare palesemente inammissibile. Codesta ecc. ma Corte d’appello dovrà quindi dichiarare la nullità del lodo per violazione dell’art. 829, comma 1, n. 4 c.p.c., avendo il Collegio arbitrale deciso il merito della controversia in un caso in cui il merito non poteva essere deciso. 3. nUllItà Del loDo aI sensI Del CoMBInato DIsPosto DeGlI aRt. 829 CoMMa 3 C.P.C., aRt. 241, CoMMa 15 BIs D.lGs n. 163 Del 2006 e aRt. 48 D.l. n. 83 Del 2012: VIolazIone Dell’aRt. 2935 C.C. In teMa DI DeCoRRenza Del teRMIne DI PResCRIzIone. 3.1. Preliminarmente, va premesso che ai sensi dell’art. 829, comma 3, c.p.c., come modificato dall’art. 24 del d.lgs. n. 40 del 2006, l’impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia è ammessa se espressamente disposta dalle parti o dalla legge. La novella ha quindi stabilito il principio contrario a quello previgente secondo il quale, l’impugnazione per nullità era ammessa se gli arbitri nel giudicare non avevano osservato le regole di diritto, salvo che le parti li avessero autorizzati a decidere secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile. La nuova formulazione dell’art. 829, comma 3 c.p.c. si applica ai procedimento arbitrali nei quali la domanda di arbitrato è stata proposta successivamente all’entrata in vigore del D.lgs. n. 40 del 2006 e quindi anche alle convenzioni arbitrali stipulate prima della sua entrata in vigore, come nel caso di specie, con parziale retroattività della norma, nella parte in cui ribalta un principio che, ove conosciuto al tempo della redazione della clausola compromissoria, avrebbe indotto le parti a prevedere espressamente l’impugnabilità del lodo anche per violazione di norme di diritto. una lettura costituzionalmente orientata della norma non può che escluderne la portata retroattiva laddove si sostanzi nella preclusione di esprimere una volontà contraria all’epoca non richiesta, pregiudicando il legittimo affidamento in ordine all’applicabilità di determinate regole processuali. Come noto, il d.lgs. n. 50 del 2010, nell’aggiungere il comma 15 bis all’art. 241 Codice dei contratti, ha previsto che “il lodo è impugnabile oltre che per motivi di nullità, anche per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia”. Tale principio è stato esteso a tutti i giudizi arbitrali per la risoluzione di controversie inerenti o comunque connesse ai lavori pubblici, forniture e servizi dall’art. 48 D.L. 22.6.2012, n. 83 secondo il quale “il lodo è impugnabile davanti alla Corte d’appello, oltre che per i motivi di nullità, anche per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia” con la precisazione che “la disposizione di cui al comma 1 si applica anche ai giudizi arbitrali per i quali non sia scaduto il termine per l’impugnazione davanti alla Corte d’appello alla data di entrata in vigore del presente decreto” (cfr. sul punto, Cass, sez. I, 10.12.2015, n. 24952). ogni dubbio circa la censurabilità del lodo anche per violazione di norme di diritto deve quindi ritenersi fugato. 3.2. Ciò premesso, va ribadita l’eccezione di prescrizione decennale di tutti i pretesi crediti vantati dalla IMPrePAr atteso che, come dalla stessa riconosciuto, tutti i lavori sono stati ultimati in data 11.8.2000, entro i tempi così come prorogati con le perizie n. 3193 del 12.7.2000 e n. 3194 del 12.7.2000 (cfr. p. 8 della domanda di arbitrato). A partire da tale data, era quindi possibile esercitare ogni preteso diritto di credito, con conseguente decorrenza del termine prescrizionale. All’uopo, non può soccorrere la nota della IMPrePAr del 12.5.2011 (all. 71 di controparte) inviata all’amministrazione al dichiarato scopo di interrompere la prescrizione in quanto il termine decennale era, a tale data, già decorso. Al riguardo, il Collegio arbitrale ha respinto l’eccezione di prescrizione sollevata dall’Amministrazione posto che trattandosi di convenzione di concessione di opere pubbliche soggette a collaudo, il termine prescrizionale non poteva che iniziare a decorrere dalla data di approvazione dello stesso. Tale statuizione, che ricollega la decorrenza del termine di prescrizione al collaudo, è errata e viola l’art. 2935 c.c., a norma del quale la prescrizione inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. La giurisprudenza ha infatti chiaramente affermato che, “in tema di appalto di opere pubbliche, l'amministrazione appaltante, anche con riferimento alle operazioni di collaudo, non può ritardare "sine die" le proprie determinazioni, paralizzando per un tempo indefinito i diritti della controparte, essendo tenuta ad eseguire il contratto nel rispetto degli artt. 1374 e 1375 cod. civ.; pertanto, se sia fissato espressamente nell'atto un termine per il compimento delle indicate operazioni, e lo stesso trascorra senza che sia adottato alcun provvedimento, tale situazione assume il significato di rifiuto del collaudo e di inadempimento da parte del committente. Ne consegue che, da tale momento, non solo l'appaltatore può agire in sede giurisdizionale per far valere i suoi diritti, senza necessità di costituire preliminarmente in mora la debitrice, né di assegnarle o chiedere che le sia assegnato un termine, ma inizia anche a decorrere il termine di prescrizione” (Cass., Sez. 1, 21/06/2012, n. 10377). Conforme è anche Cass., Sez. 1, 22/12/2011, n. 28426, ove si precisa che, nell'appalto di opere pubbliche, la mancata emissione del certificato di collaudo (o, come nella specie, di regolare esecuzione dei lavori) da parte della p.a. committente non preclude la possibilità per l'appaltatore di far valere il proprio diritto al pagamento della sorte capitale e degli interessi e, pertanto, non sospende il decorso del termine di prescrizione; la conclusione non è mutata dopo l'entrata in vigore dell'art. 4 della legge 10 dicembre 1981, n. 741, che, limitandosi a riconoscere all'appaltatore il diritto alla corresponsione degli interessi per ritardato pagamento anche in mancanza di apposito atto di messa in mora, non può essere interpretato nel senso che tale diritto diviene esigibile solo dalla data del pagamento del debito per sorte capitale. Nello stesso senso è anche Cass., Sez. 1, 16/08/2011, n. 17314, secondo la quale, in tema di collaudo delle opere pubbliche, l'art. 5 della legge n. 741 del 1981, che è norma di carattere generale applicabile a tutte le procedure di esecuzione di opere pubbliche, nel prevedere i termini entro i quali deve essere compiuto il collaudo, delinea con certezza il periodo superato il quale, perdurando l'inerzia dell'ente committente, quest'ultimo deve ritenersi inadempiente, con la duplice conseguenza che l'appaltatore può agire per il pagamento senza necessità di mettere in mora l'Amministrazione e che, dalla scadenza del predetto termine, inizia a decorrere la prescrizione del credito. Tutte le pretese azionate debbono quindi ritenersi irrimediabilmente prescritte. 3.3. Contraddittoriamente, il Collegio arbitrale, dopo aver dichiarato l’invalidità ed inefficacia del verbale di concordamento dell’8.10.2002, fa in ammissibilmente riferimento allo stesso al fine di ritenere tempestiva la domanda arbitrale, facendo decorrere il termine di prescrizione dalla data di approvazione implicita dell’accordo transattivo de quo (7.11.2012) e allo scopo di riconoscere la validità della proroga della concessione sino al 5.2.2003. Ciò è evidentemente inammissibile. Delle due l’una: o il verbale di concordamento è valido ed efficace con la conseguenza che tutte le pretese avversarie sono inammissibili in quanto già oggetto di transazione tra le parti; o il verbale di concordamento è invalido e inefficace e allora non può essere attribuito allo stesso alcun valore ai fini della decorrenza del termine della prescrizione, con la conseguenza che tutte le pretese di controparte sono inammissibili in quanto prescritte. Del resto, l’Amministrazione aveva osservato solo in via subordinata, che, ammesso e non concesso che la decorrenza del termine di prescrizione debba invece ricollegarsi alla sottoscrizione del suddetto accordo transattivo dell’8 ottobre 2002, approvato implicitamente trenta giorni dopo ovvero il 7 novembre 2002 - il che comunque si contesta - la notifica della domanda di arbitrato l’8 novembre 2013 (e non il 7 novembre 2013) era comunque intervenuta dopo oltre dieci anni, con conseguente prescrizione di tutte le pretese azionate. Vorrà quindi codesta ecc. ma Corte d’appello dichiarare la nullità del lodo per violazione dell’art. 2935 c.c. in relazione all’art. 829, comma 3 c.p.c. e dichiarare prescritto ogni preteso credito vantato dalla IMPrePAr. ** ** ** I vizi che affliggono il lodo, dedotti ai punti 2 e 3, appaiono preclusivi di ogni altro esame nel merito della controversia. Tuttavia, per mero scrupolo difensivo, il lodo viene altresì impugnato, in via ulteriormente gradata, per i seguenti motivi 4. nUllItà Del loDo aI sensI Del CoMBInato DIsPosto DeGlI aRt. 829 CoMMa 3 C.P.C., aRt. 241, CoMMa 15 BIs D.lGs n. 163 Del 2006 e aRt. 48 D.l. n. 83 Del 2012: VIolazIone Dell’aRt. 2697 C.C. sUl PRInCIPIo Dell’oneRe Della PRoVa. Con il quesito n. 1 l’istante deplora il comportamento dell’amministrazione che, non avendo completato le procedure di collaudo, avrebbe omesso di corrispondere all’impresa i dovuti importi a saldo, oltre ai relativi accessori. Al riguardo, si osserva che la domanda avversaria è destituite di fondamento e sfornita di ogni supporto probatorio. Basti pensare che la quantificazione delle somme a vario titolo richieste nella diffida del 12 maggio 2011 (all. 71 di controparte) non corrisponde in alcun modo a quella degli importi richiesti allo stesso titolo con la domanda di arbitrato, evidenziando una totale incertezza della stessa attrice in ordine all’ammontare dei suoi presunti crediti, tanto che la stessa è costretta a ricorrere alla richiesta di nomina di un Consulente Tecnico al fine di “di verificare la congruità delle quantificazioni operate dall’impresa relativamente alle richieste concernenti gli importi dovuti …” richiesta, come si vedrà del tutto inidonea allo scopo. Per quanto riguarda l’importo asseritamente dovuto a titolo di saldo lavori, nella suddetta diffida del 12.5.2011, la richiesta ammonta a € 184.374,26 mentre nella domanda di arbitrato (p. 9) per tale causale si indica un importo di € 137.155,76. Quanto alla presunta erronea applicazione della clausola del prezzo chiuso, nella nota 12.5.2011, si chiede il pagamento dell’importo di € 3.238.816,58 mentre nella domanda di arbitrato (p. 10) tale voce viene quantificata in € 4.335.742,84 e, dedotta la somma di € 1.475.856,76 già corrisposta, viene richiesto l’importo di € 2.859.886,08. A titolo di corrispettivo forfettario del 10%, nella suddetta diffida viene intimato il pagamento di € 323.881,65 mentre nella domanda di accesso agli arbitri (p. 11) tale posta viene quantificata in € 285.988,61. La determinazione dei danni per l’asserito ritardo nel collaudo dei lavori viene indicata nella suddetta diffida, alla data del 31 dicembre 2010, in € 1.246.561,17 mentre nella domanda di arbitrato (p. 12), alla stessa data del 31 dicembre 2010, la medesima voce di danno viene quantificata in € 1.996,494,92. Solo la quantificazione del danno derivante dall’asserito andamento anomalo dei lavori coincide nella diffida e nella domanda di arbitrato (p. 12 e 15 quesito n. 5), ammontando in entrambi gli atti a € 1.922.639,57. Da quanto sopra, emerge chiaramente che la determinazione delle, comunque infondate, pretese attoree nella domanda di arbitrato, talvolta in aumento, talvolta in diminuzione rispetto all’intimazione di pagamento precedentemente effettuata, è frutto di indicazioni del tutto arbitrarie e contrastanti tra loro, in ogni caso sfornite di qualsivoglia supporto probatorio. Senza contare la spropositata quantificazione degli interessi, indicati in € 7.303.339,85 (p. 10 della domanda di arbitrato) per la sola voce attinente alla rideterminazione del computo del prezzo chiuso. Il Collegio arbitrale, all’esito della prima CTu, ha determinato l’asserito credito a titolo di saldo lavori in € 156.174, 54 (importo che differisce sia da quello chiesto nella diffida del 12.5.2011, sia da quello indicato nella domanda di arbitrato) oltre interessi legali e moratori per € 161.040,94 alla data del 12.12.2014, oltre ulteriori interessi maturati e maturandi. Al riguardo non può che eccepirsi la violazione del principio di cui all’art. 2697 c.c., a norma del quale chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità assolutamente pacifica, non è consentito, attraverso una consulenza tecnica, derogare al generale principio del riparto dell’onere della prova. Così, ad esempio, Cass. lav., 17.07.2009, n. 16778 ha chiarito che “la prova del fatto costitutivo e del nesso causale non può essere affidata all’accertamento peritale, non costituendo la consulenza di ufficio un mezzo sostitutivo dell’onere della prova, ma solo uno strumento istruttorio finalizzato ad integrare l’attività del giudice per mezzo di cognizioni tecniche con riguardo a fatti già acquisiti”. Si veda anche, più di recente, t. sup. acque Pubbliche, 07.03.2012, n. 39, secondo il quale “la consulenza tecnica, pur se disposta d’ufficio, non è destinata ad esonerare la parte dalla prova dei fatti dalla stessa dedotti e posti a base delle proprie richieste (fatti che devono essere dimostrati dalla medesima parte alla stregua dei criteri di ripartizione dell’onere della prova ex art. 2697 c.c.), ma ha la funzione di fornire all’attività valutativa del giudice l’apporto di cognizioni tecniche non possedute, con la conseguenza che la richiesta di consulenza tecnica non può essere sostitutiva dell’onere probatorio ricadente sulle parti” e Coll. arb. Roma, 30-01-2012, in Arch. giur. oo. pp., 2012, 936, secondo cui “anche nel giudizio arbitrale, la consulenza tecnica, pur disposta d’ufficio, non è destinata ad esonerare la parte dalla prova dei fatti dalla stessa dedotti e posti a base delle proprie richieste, fatti che devono essere dimostrati dalla medesima parte alla stregua dei criteri di ripartizione dell’onere della prova posti dall’art. 2697 c.c., ma ha la funzione di fornire all’attività valutativa del giudice l’apporto di cognizioni tecniche non possedute”. Del resto, se le due consulenze tecniche non avessero avuto carattere esplorativo ed inammissibilmente suppletivo dell’onere probatorio, non si comprende perché il Collegio arbitrale avrebbe dovuto disporle, a fronte di quanto asseritamente già “allegato e provato sulla base di fatti già emergenti dai documenti di causa”, come affermato a p. 47 del lodo. Vorrà quindi codesta ecc. ma Corte d’appello dichiarare la nullità del lodo per violazione dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 829, comma 3 c.p.c. 5. nUllItà Del loDo aI sensI Del CoMBInato DIsPosto DeGlI aRt. 829 CoMMa 3 C.P.C., aRt. 241, CoMMa 15 BIs D.lGs n. 163 Del 2006 e aRt. 48 D.l. n. 83 Del 2012: VIolazIone Dell’aRt. 1965 C.C. e Dell’aRt. 33, CoMMa 4 Della l. 41/1986 sUl CalColo Del PRezzo CHIUso nonCHé PeR VIolazIone DeGlI aRtt. 3, PaRaGRaFo 3, tUe, 107-109 tFUe e DeI PRInCIPI GeneRalI Del DIRItto Dell’UnIone eURoPea e nazIonalI In MateRIa DI ConCoRRenza. 5.1. Il lodo arbitrale, in accoglimento del 2° e del 3° quesito, e della prima parte del 7° quesito, ha condannato l’amministrazione al pagamento di € 6.950.036,10 di cui € 2.262.726,44 per sorte capitale e € 4.687.309,66 per interessi alla data del 16.6.2015, oltre ulteriori interessi maturati e maturandi sino al soddisfo, a titolo di prezzo chiuso, applicando il metodo c.d. globale. Tale statuizione è errata e va annullata. Il Collegio arbitrale ha accolto la tesi della controparte secondo la quale l’Amministrazione avrebbe fatto erronea applicazione dei criteri di calcolo derivanti dalla clausola del prezzo chiuso, in contrasto con quanto stabilito dall’art. 33, comma 4, della L. n. 41/86. Secondo controparte, la logica del meccanismo del prezzo chiuso, in quanto ontologicamente diverso e incompatibile con l’alternativo strumento della revisione dei prezzi, porta ad una determinazione forfettaria del prezzo dell’appalto, in conseguenza della quale la maggiorazione del cinque per cento per ogni anno entra a far parte del corrispettivo dell’appalto quale componente intesa ad indennizzare forfettariamente e convenzionalmente l’appaltatore degli aumenti dei prezzi di mercato durante il periodo di esecuzione dei lavori. Tale prezzo non potrebbe dunque che contemplare tutto il periodo contrattuale (proroghe incluse) e andrebbe calcolato non con il metodo a scalare anno per anno, ma sempre sull’importo complessivo per tutti gli anni di durata del contratto. Le conclusioni cui è pervenuto il Collegio arbitrale, sulla base degli esiti delle due CTu, e sul presupposto dell’inderogabilità della disciplina di cui all’art. 33, comma 4 della legge n. 41 del 1986, non possono essere condivise. Va ricordato infatti che, a seguito di trattative derivanti dall’insorgere di problemi nel corso dell’esecuzione del contratto, come controparte stessa riferisce, venne concluso l’Atto aggiuntivo rep. n. 581 del 23.5.1996 (all. 2 cit.) per regolare determinati punti controversi e per stabilire talune nuove modalità di esecuzione dei vari lavori. In questo contesto, le parti espressamente pattuirono, all’art. 5, che il prezzo chiuso venisse computato con esclusione del corrispettivo relativo al primo anno di contratto e con il metodo a scalare. Tali modalità di calcolo sono contestate dalla controparte nel presente giudizio quanto meno per i lavori eseguiti dopo la conclusione del citato Accordo aggiuntivo. Sorprende quindi che il Collegio arbitrale abbia ritenuto che, con l’Atto aggiuntivo del 23.5.1996, le parti non avessero fatto altro che precisare e chiarire il metodo di calcolo del prezzo chiuso, senza specificare se esso dovesse essere “globale” oppure “a scalare” (p. 40 del lodo). Invero, la precisazione del metodo di calcolo non poteva che far riferimento all’uno o all’altro criterio e l’esclusione del primo anno dal calcolo del prezzo chiuso (art. 5 del citato Atto aggiuntivo) fa indubitabilmente concludere per l’opzione del metodo a scalare. Ciò detto, va precisato che detta clausola non dispone transattivamente (in deroga all’art. 12 della convenzione concessoria) solo per i lavori già eseguiti ma si applica anche a quelli da eseguire: “gli incrementi saranno applicati sui relativi importi di lavoro per tutta la durata dell’esecuzione dei lavori ivi compreso il periodo di proroga fino al 31 marzo 1998”. Inoltre, restano fermi nella presente controversia almeno due punti incontestabili: - la disposizione di cui si tratta (il quarto comma dell’art. 33 cit.) non costituisce normaimperativa, ma derogabile: nel sistema immaginato a suo tempo dal Legislatore, così come l’Amministrazione ha la facoltà di introdurre il prezzo chiuso, così può introdurre una formula di computo alternativa, che recepisca parte, ma non necessariamente tutto quanto previsto nel meccanismo normativo; ciò, peraltro, avveniva in un momento in cui poteva essere ragionevole ritenere corretta quella lettura della disposizione; - a prescindere da quanto precede, tale modalità di computo è stata individuata sull’accordo delle parti e in sede transattiva: è stata cioè oggetto di un’attenta valutazione delle parti stesse, ed ha costituito una ragionata e certo non imposta modalità pattizia di risoluzione e/o prevenzione di controversie in atto o in potenza, che rientra in un più ampio equilibrio (aliquid datum, aliquid retentum), che si vorrebbe oggi ingiustificatamente alterare modificando solo uno dei fattori del patto. L’accordo essendo perfettamente valido, del tutto irrilevante è l’affermazione contenuta nell’atto introduttivo a mente della quale i criteri di calcolo sarebbero illegittimi in quanto in contrasto con le previsioni di legge, poiché gli stessi trovano fondamento nell’accordo delle parti in sede transattiva. Privo di rilievo è pertanto il richiamo alla norma che vieterebbe i patti in deroga, menzionata a p. 43 del lodo. Innanzi tutto, deve ribadirsi che nessuna disposizione prevede espressamente che le modalità di calcolo previste nell’art. 33, comma 4, della L. 28.02.1986 n. 41 abbiano natura inderogabile. Come è noto, una tale natura, in quanto contraria al generale principio della libertà contrattuale delle parti, deve essere dalle stesse espressamente o comunque inequivocabilmente prevista, in funzione dell’evidente carattere di eccezionalità. A prescindere da tale considerazione di carattere generale, e pur non ignorandosi l’avviso più recente della Corte di Cassazione (che, si rammenta, all’epoca della stipula era peraltro orientata in senso opposto, e la circostanza era ovviamente ben nota alle parti), è necessario comunque ribadire che, nel caso di specie, la previsione di una deroga alla disciplina normativa del “prezzo chiuso” trovava e trova piena giustificazione nella complessiva volontà negoziale esplicitata dalle parti in maniera chiara e incontrovertibile, e cristallizzata negli accordi che si sono succeduti nel tempo. A tal proposito non è fuor di luogo richiamare gli orientamenti assolutamente pacifici nella giurisprudenza nazionale e comunitaria a mente della quale il contratto va interpretato nell’insieme delle sue previsioni, e non esaminandone le singole clausole separatamente. Così, sarà ben possibile per la volontà delle parti derogare anche a determinate contropartite minime abitualmente riconosciute (e previste da norme di legge o di contrattazione-quadro), laddove a fronte di tali parziali rinunce vengano assicurati alla parte vantaggi diversi in altri campi. In queste ipotesi, una declaratoria di illegittimità delle singole clausole, da “ricondurre ad equità”, avrebbe quale risultato finale un evidente squilibrio tra le prestazioni liberamente pattuite con alterazione dei rapporti reciproci. Se di tali principi è stata fatta ampia applicazione in materia di lavoro, dove pure è fortemente avvertita l’esigenza di tutelare la parte debole del rapporto, non si vede perché gli stessi non dovrebbero trovare applicazione in rapporti contrattuali tra soggetti professionalmente qualificati (imprenditori, pubblica Amministrazione). Né va trascurato di considerare che nella fattispecie furono emessi e approvati vari certificati di collaudo parziali, con conseguente pagamento di quanto spettante all’impresa, che non ebbe in quella sede a muovere contestazioni sul computo del “prezzo chiuso” effettuato nella liquidazione. Pertanto, se anche la norma invocata dal Collegio (p. 43 del lodo) che vieta i patti in deroga, peraltro riferita alla revisione dei prezzi e non al prezzo chiuso, fosse da ritenersi in vigore all’epoca della vicenda che ne occupa ed astrattamente applicabile alla fattispecie, essa non potrebbe in alcun modo riguardare una pattuizione che non è preventiva, ma successiva, avente, appunto, natura di intervento rientrante nelle reciproche concessioni che ben le parti possono farsi in un’ottica di vantaggiosa definizione della controversia. Da quanto precede discende che il metodo di calcolo non può che essere quello a seguito del quale l’Amministrazione ha provveduto al pagamento, di tal che nulla è dovuto per la causale indicata nell’atto di accesso agli arbitri a titolo di prezzo chiuso. Conseguentemente nulla può essere dovuto altresì a titolo di accessori, come liquidati dal collegio arbitrale. 5.2. La nullità del lodo che si impugna va evidenziata anche sotto altro profilo. Va rammentato infatti che all’epoca della stipula della Convenzione per l’affidamento in concessione delle opere (luglio 1986) a seguito di gara a trattativa privata, non poteva ragionevolmente dubitarsi che la determinazione dei criteri di calcolo relativi alla clausola del cd. prezzo chiuso - finalizzato, ex art. 33, comma 4, della L. n. 41/86, ad una almeno parziale copertura in via forfaitaria del rischio connesso all’aumento dei costi relativi alle opere da compiere - portasse all’applicazione del cd. metodo a scalare, con esclusione cioè del corrispettivo relativo al primo anno e con calcolo operato anno per anno sulla parte residua del contratto da eseguire. In tal senso si erano pronunciate le prime analisi dottrinarie, e, a seguire, gli interventi dei Giudici amministrativi (ad es., v. Cds, III, 12-05-1987, n. 540/87 in sede consultiva) e degli stessi Collegi arbitrali (cfr., ad es., Coll. arb., 05-03-1991, in arch. giur. oo. pp., 1992, 76 e Coll. arb. Roma, 08-11-1995, in arch. giur. oo. pp., 1997, 798). È quindi fuori di dubbio che, nella valutazione del rischio imprenditoriale e della convenienza dell’offerta ai fini della partecipazione alla gara, i concorrenti, su un piano di parità, non potevano che tenere presente tale forma di corrispettivo, suscettibile di condizionare evidentemente la formulazione stessa delle offerte. Negli stessi termini si poneva la situazione al momento della stipula del secondo atto aggiuntivo (1996), che infatti, come visto, faceva riferimento senza esitazioni al metodo di calcolo a scalare. È solo in un momento successivo, a partire dalla prima metà degli anni Duemila, che la Cassazione ebbe a mutare orientamento, sposando la tesi della correttezza del metodo di calcolo cd. globale. Alla luce di quanto fin qui esposto, si deve pertanto ritenere che l’accoglimento da parte del Collegio arbitrale della pretesa di IMPrePAr - volta ad ottenere l’applicazione di un criterio di calcolo del prezzo diverso da quello pacificamente applicabile all’epoca della gara e su cui le parti si erano successivamente anche accordate in via transattiva a mezzo del menzionato secondo atto aggiuntivo - ha di fatto avallato un comportamento che, pur sostanziandosi nell’esercizio di un diritto riconosciuto dall’ordinamento quale quello di azione, ha finito con il realizzare una vera e propria finalità elusiva, tendente ad una distorsione, ex post, dell’assetto concorrenziale all’interno del quale si era svolta la gara e così concretando una grave violazione del principio della concorrenza. Tale contegno evoca da vicino la stessa figura dell’abuso del diritto, coniata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’unione europea e recepita dalla Suprema Corte di cassazione. Il principio della concorrenza costituisce regola cardine, tanto dell’ordinamento comunitario quanto di quello interno, che, proprio in virtù della sua centralità non ammette deroga alcuna, se non quelle espressamente previste dal legislatore europeo e da quello nazionale. Tale contegno, del resto, si pone inoltre in palese contrasto con il principio di imparzialità dell’azione amministrativa e con l’intera normativa disciplinante gli appalti pubblici, tutta informata al principio in questione. Il lodo impugnato ha così consentito alla società attrice di conseguire un’indebita locupletazione, in violazione dei principi della concorrenza e della parità delle condizioni di mercato nell’unione europea, derivando dal riconoscimento di somme ulteriori a titolo di prezzo chiuso l’alterazione della concorrenza nei confronti dei soggetti che avevano partecipato o avrebbero potuto partecipare alla gara del 1990. 5.3. Nel lodo, si tenta di giustificare l’ammissione di una seconda CTu, definita addirittura “indispensabile”, con la finalità di disporre di una visione unitaria del merito della controversia (p. 45). Invero, alla luce della declinatoria della competenza arbitrale e delle eccezioni pregiudiziali, la prima CTu non avrebbe dovuto essere ammessa ed infatti la Difesa dell’amministrazione si era fermamente - quanto inutilmente - opposta a detta ammissione. Non solo, all’esito della prima CTu, il Collegio ha ritenuto di disporne una seconda, ponendo al consulente il seguente quesito: “Determini il Ctu, eventualmente contattando il precedente consulente anche per economia dei lavori processuali, l’entità delle somme dovute all’ati nella ipotesi della validità ed efficacia dell’atto aggiuntivo rep. N. 581 del 23 maggio 1996 e del verbale di concordamento relativo alla convenzione di concessione (redatto tra le parti in data 8 ottobre 2002) e nella ipotesi contraria, distinguendo sinotticamente e schematicamente, tra sorte, rivalutazione ed interessi. Ponga se del caso a confronto le risultanze di tale ipotesi con le alternative modalità di determinazione di cui alla precedente Ctu, comunque procedendo al ricalcolo delle somme, evidenziando sinotticamente e schematicamente le differenze”. ebbene, la seconda CTu è giunta a risultati sostanzialmente analoghi rispetto alla prima - palesando la sua totale inutilità e traducendosi solo in una lievitazione di costi per l’amministrazione - e ha per giunta omesso totalmente di rispondere allo specifico quesito posto dal Collegio ovvero di esporre la prima ipotesi che presupponeva la validità ed efficacia dei due richiamati atti transattivi. È evidente infatti che i conteggi andavano fatti anche in relazione al prezzo chiuso (quesiti n. 2 e 3) che rappresenta la posta economicamente più rilevante della presente controversia (oltre € 10.000.000,00 a fronte dell’importo complessivo di circa € 15.000.000,00) e non solo in relazione alle riserve iscritte n. 8 e 10 (quesito n. 5), il cui importo complessivo ammonta a poco più di € 200.000,00. Nessun cenno viene inoltre fatto dal secondo CTu alle somme rivendicate a titolo di ritardata redazione e approvazione degli atti di collaudo (oggetto del quesito n. 4) che ammontano a complessivi € 2.546.183,33 e che, a parere di questa Difesa, ricadono anch’esse negli accordi transattivi di cui al Verbale di concordamento dell’8.10.2002, che espressamente menziona e quantifica i danni da ritardo. Anche per tale voce, quindi, andava distinta sinotticamente la prima e la seconda ipotesi, cosa che il secondo CTu ha omesso di fare. ebbene, nonostante il Collegio abbia espressamente chiesto chiarimenti al CTu sul punto, in accoglimento della richiesta della Difesa del Ministero, questi ha risposto tautologicamente, trascrivendo alcune parti del proprio elaborato, senza fornire alcun chiarimento ed anzi assumendo che persino il CTP del Ministero non avrebbe sollevato alcuna obiezione in proposito. Ciò non corrisponde al vero, atteso che detto CTP ha al contrario evidenziato che: “lo scrivente deve però osservare che nella prima ipotesi - di efficacia cioè dell’atto aggiuntivo rep. N. 581 del 23 maggio 1996 - il Ctu ha esposto sia un conteggio secondo il metodo c.d. “globale”, sia un conteggio secondo il metodo c.d. “a scalare”. Non si ritiene di concordare con detta doppia esposizione in quanto, in detta ipotesi, ha valore quanto previsto in particolare dall’art. 5 del citato atto transattivo: “l’incremento da prezzo chiuso si applica per intero in relazione all’anno relativamente al lavoro o parte di lavoro eseguita nell’anno stesso secondo il metodo usato nei cronogrammi allegati”. Pertanto, nella prima ipotesi non può trovare accoglimento che il c.d. metodo “a scalare”. Nella denegata ipotesi che possa sussistere una interpretazione contraria, si ritiene che il calcolo effettuato con il c.d. metodo “globale” debba essere effettuato solo per quanto attiene ai lavori alla data non eseguiti, escludendo dal calcolo quelli già contabilizzati ed oggetto di transazione”. Peraltro, il CTP del Ministero, nella sua memoria in data 28.4.2015, ha chiaramente evidenziato (a p. 7): “lo scrivente ha già ritenuto di non concordare sulle modalità di calcolo del prezzo chiuso secondo il metodo c.d. globale in quanto ritiene che l’Atto Aggiuntivo n. 581, liberamente stipulato tra le parti, nell’ultimo paragrafo dell’art. 7 riporta un accordo transattivo la cui formulazione rende “tombale” tra le parti la transazione. Pertanto ogni interpretazione del comma 4 dell’art. 33 della legge n. 41/1986 non può prescindere dal suddetto atto transattivo”. È evidente infatti che, se si suppone la validità ed efficacia degli atti transattivi (prima ipotesi), non ha alcun senso esporre il conteggio del prezzo chiuso con metodo c.d. globale, che l’Atto aggiuntivo del 1996 aveva espressamente escluso. Vorrà pertanto codesta ecc.ma Corte d’appello dichiarare la nullità del lodo per violazione dell’art. 1965 c.c., dell’art. 33, comma 4 della legge n. 41/1986 nonché per violazione degli artt. 3, par. 3 Tue e 107-109 TFue in relazione all’art. 829, comma 3 c.p.c. 6. nUllItà Del loDo aI sensI Del CoMBInato DIsPosto DeGlI aRt. 829 CoMMa 3 C.P.C., aRt. 241, CoMMa 15 BIs D.lGs n. 163 Del 2006 e aRt. 48 D.l. n. 83 Del 2012: VIolazIone Dell’aRt. 1965 C.C., Dell’aRt. 2697 C.C. e Dell’aRt. 5, CoMMa 1, l. 741/81 In teMa DI RIsaRCIMento Del Danno PeR Il RItaRDo nella ReDazIone e nell’aPPRoVazIone Del CollaUDo. 6.1. Il lodo arbitrale, in accoglimento del 4° quesito e della prima parte del 7° quesito, ha condannato l’amministrazione al pagamento di € 2.442.113,27, oltre ulteriori oneri accessori maturati e maturandi alla data del 12.12.2014 sino al soddisfo, a titolo di risarcimento del danno per il ritardo nella redazione e nell’approvazione del collaudo. Anche tale statuizione è errata e va annullata. Il Collegio arbitrale, pur ricordando (p. 64 del lodo) che, in caso di ritardo nel collaudo e nell’approvazione dello stesso, una cosa è l’esistenza concreta del cantiere e gli oneri connessi al suo mantenimento, altro sono le spese generali che l’appaltatore è tenuto a sopportare, anche indipendentemente da tale esistenza - con ciò ammettendo che, a distanza di oltre vent’anni, è ben difficile sostenere che il cantiere sia ancora in piedi - afferma che l’espletamento di una commessa di lavori necessariamente comporta sino alla sua definitiva chiusura, cioè sino all’approvazione del collaudo, il sostenimento di spese, quali il mantenimento, sia pur minimo, di risorse umane. tale costo “sia pur minimo” è stato determinato in € 2.442.113,27. Al riguardo, non v’è chi non veda che, anche in relazione a tale voce di asserito danno, la controparte ha tentato, purtroppo con successo, di lucrare ulteriori somme assolutamente non dovute, in quanto già oggetto di transazione, e comunque a fronte di danni assolutamente non provati. Peraltro, la collaudazione delle opere, contrariamente a quanto sostiene controparte, non è avvenuta con ritardo imputabile all’Amministrazione. La IMPrePAr infatti si limita ad affermare che vi sarebbe stato un ritardo imputabile al Ministero, senza però fornire prova della circostanza, che qui si contesta espressamente. Di detta prova essa era certamente onerata, essendo il ritardo fatto costitutivo della pretesa azionata e pertanto ha errato il Collegio arbitrale a liquidare l’importo a titolo risarcitorio in assenza del benché minimo principio di prova in ordine alla sussistenza di un comportamento colpevole dell’amministrazione, di un concreto danno riportato dall’Impresa e di un nesso causale tra il comportamento colpevole e il pregiudizio riportato. 6.2. Il CTP del Ministero ha inoltre sollevato dettagliate obiezioni in relazione agli importi richiesti a titolo di danno derivante dal ritardo nella redazione ed approvazione degli atti di collaudo, voce sulla quale, si ricorda, il secondo CTu nulla dice, né per includerla, né per escluderla dal conteggio della prima ipotesi (di validità degli accordi transattivi), omettendo, anche in questo caso, di rispondere al quesito. Precisa il CTP del Ministero: “il sottoscritto non può concordare con dette valutazioni per quanto già esposto nelle proprie precedenti note tecniche in quanto, in merito alle voci di danno dovuto al ritardo nell’emissione dei Certificati di collaudo, tali oneri non sono stati dimostrati documentalmente. inoltre, si ritiene che non possono essere adottate aliquote percentuali, riferite a spese generali e ad oneri di concessione, che è norma utilizzare in caso di sospensioni totali o parziali dei lavori o di ridotta produzione. Infatti, nel caso specifico, essendo i periodi presi in esame ben superiori a 2 anni, fino a sussistere 14 anni di ritardo, è da supporre che trascorso breve tempo dall’ultimazione dei lavori l’impresa archivi la pratica in assenza di concrete voci di danno e che quindi gli oneri debbano essere considerati in modo inversamente proporzionale rispetto al tempo trascorso dall’ultimazione dei lavori da spese pari al 100% di quelle considerate da IMPREPAR allo 0% alla data della presente relazione. si ribadisce pertanto che la somma massima che può essere riconosciuta in linea capi- tale è quella già esposta nelle proprie precedenti note tecniche pari a € 467.680,23”. Quanto al ritardo nell’approvazione dei certificati di collaudo, il CTP ritiene che “tale formalità da parte dell’amministrazione non possa aver avuto alcuna ricaduta economica per iMPrePar e pertanto, alcun danno è rimborsabile”. Il notevole tempo trascorso, al di là dell’eccepita prescrizione, fa riflettere sulla strumentalità della pretesa avversaria, atteso che, se davvero vi fossero stati concreti danni derivanti dal ritardo nell’emissione e nell’approvazione degli atti di collaudo - che correttamente la normativa sopravvenuta considera definitivi decorsi due anni dall’emissione dei certificati medesimi - l’impresa si sarebbe certamente attivata per sollecitare l’adozione e l’approvazione dei predetti atti e non sarebbe rimasta inerte per un lasso di tempo così rilevante da lasciare ragionevolmente escludere la sussistenza di qualsivoglia danno. Infatti, come peraltro ammesso dalla controparte nell’atto di accesso agli arbitri, è intervenuto tra le parti un accordo transattivo consacrato nel “Verbale di concordamento relativo alla convenzione di concessione rep. 316 del 16.5.1990” in data 8 ottobre 2002 (all. 3 cit.), con il quale, come si è accennato nelle premesse in fatto, “al fine di evitare l’instaurarsi di un inutile contenzioso, le parti ritengono opportuno e conveniente addivenire ad apposito accordo transattivo che consenta di contenere il costo entro il finanziamento stanziato, definendo transattivamente tutte le riserve iscritte fino alla data di sottoscrizione del presente atto” secondo le specifiche clausole contenute nel accordo medesimo. Vorrà pertanto codesta ecc.ma Corte d’appello dichiarare la nullità del lodo per violazione dell’art. 1965 c.c., dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 5, comma 1, L. 741/81 in relazione all’art. 829, comma 3 c.p.c. 7. nUllItà Del loDo aI sensI Del CoMBInato DIsPosto DeGlI aRt. 829 CoMMa 3 C.P.C., aRt. 241, CoMMa 15 BIs D.lGs n. 163 Del 2006 e aRt. 48 D.l. n. 83 Del 2012: VIolazIone Dell’aRt. 1965 C.C. PeR InteRVenUta tRansazIone Delle RIseRVe IsCRItte. Il lodo arbitrale, in accoglimento del 5° quesito e della prima parte del 7° quesito, ha condannato l’amministrazione al pagamento di € 133.134,18 a titolo di riserve iscritte n. 8 e 10, oltre rivalutazione ed interessi legali pari, alla data del 16.6.2015, a € 104.448,04, oltre ulteriori oneri accessori maturati e maturandi sino al soddisfo. Anche tale statuizione è errata e va annullata. Nel richiamare quanto già dedotto nel secondo motivo di impugnazione, si ribadisce che è intervenuto tra le parti un accordo transattivo consacrato nel “Verbale di concordamento relativo alla convenzione di concessione rep. 316 del 16.5.1990” in data 8 ottobre 2002 (all. 3 cit.), con il quale, “al fine di evitare l’instaurarsi di un inutile contenzioso, le parti ritengono opportuno e conveniente addivenire ad apposito accordo transattivo che consenta di contenere il costo entro il finanziamento stanziato, definendo transattivamente tutte le riserve iscritte fino alla data di sottoscrizione del presente atto” secondo le specifiche clausole contenute nell’accordo medesimo. Vorrà pertanto codesta ecc.ma Corte d’appello dichiarare la nullità del lodo per violazione dell’art. 1965 c.c. in relazione all’art. 829, comma 3 c.p.c. 8. nUllItà Del loDo aI sensI Del CoMBInato DIsPosto DeGlI aRt. 829 CoMMa 3 C.P.C., aRt. 241, CoMMa 15 BIs D. lGs n. 163 Del 2006 e aRt. 48 D.l. n. 83 Del 2012: VIolazIone Dell’aRt. 1965 C.C. PeR InteRVenUta tRansazIone anCHe In oRDIne aGlI aCCessoRI. Il lodo arbitrale, in parziale accoglimento del 6° quesito e della prima parte del 7° quesito, ha condannato l’amministrazione al pagamento degli ulteriori interessi legali dalla data della notifica della domanda di arbitrato sino al soddisfo sulle somme liquidate a titolo di interessi relativamente ai quesiti nn. 1, 2 e 3, rigettando invece la domanda afferente al maggior danno in quanto non provata. Anche in relazione a tale statuizione, non si possono che richiamare le censure dedotte in relazione ai quesiti 1, 2 e 3 nei motivi 4 e 5 del presente atto. Le contestazioni in ordine alla debenza delle somme a titolo di rata di saldo e di prezzo chiuso non possono infatti che estendersi anche agli interessi su tali somme. Vorrà pertanto codesta ecc.ma Corte d’appello dichiarare la nullità del lodo per violazione dell’art. 1965 c.c. in relazione all’art. 829, comma 3 c.p.c. 9. nUllItà Del loDo aI sensI Del CoMBInato DIsPosto DeGlI aRt. 829 CoMMa 3 C.P.C., aRt. 241, CoMMa 15 BIs D.lGs n. 163 Del 2006 e aRt. 48 D.l. n. 83 Del 2012: VIolazIone Dell’aRt. 1965 C.C. PeR InteRVenUta tRansazIone In oRDIne a tUttI GlI IMPoRtI lIQUIDatI. Il lodo arbitrale, in accoglimento della domanda principale di cui al 7° quesito, ha condannato l’amministrazione al pagamento delle somme liquidate in accoglimento dei quesiti nn. 1, 2, 3, 4, 5 e 6. Ha invece respinto “ogni diversa richiesta e/o eccezione” e quindi anche la domanda proposta, in via subordinata, a titolo di responsabilità extracontrattuale o di indebito arricchimento. Anche in relazione a tale statuizione, non si possono che richiamare le censure dedotte in relazione ai quesiti 1, 2, 3, 4, 5 e 6 nei motivi 4, 5, 6, 7 e 8 del presente atto. Vorrà pertanto codesta ecc.ma Corte d’appello dichiarare la nullità del lodo per violazione dell’art. 1965 c.c. in relazione all’art. 829, comma 3 c.p.c., 10. nUllItà Del loDo aI sensI Del CoMBInato DIsPosto DeGlI aRt. 829 CoMMa 3 C.P.C., aRt. 241, CoMMa 15 BIs D.lGs n. 163 Del 2006 e aRt. 48 D.l. n. 83 Del 2012: VIolazIone Dell’aRt. 814 e 91 C.P.C. sUl RIPaRto Delle sPese. Il lodo arbitrale ha posto le spese di funzionamento del Collegio, i compensi degli arbitri e della segretaria nonché i compensi dei due CTu a carico del Ministero nella misura dei due terzi e della IMPrePAr nella misura di un terzo, fermo restando il vincolo di solidarietà. Ciò in ragione del “sostanziale riconoscimento del buon diritto dell’attrice in ordine ai quesiti proposti”. Alla luce dei molteplici motivi di nullità da cui è affetto il lodo qui impugnato, dei quali si confida nell’integrale accoglimento, vorrà codesta ecc.ma Corte d’appello annullare anche la statuizione del lodo che ha posto le spese di funzionamento del Collegio, i compensi degli arbitri e della segretaria nonché i compensi dei due CTu a carico del Ministero nella misura dei due terzi e della IMPrePAr nella misura di un terzo, in violazione degli articoli 814 e 91 c.p.c., in relazione all’art. 829, comma 3 c.p.c. Istanza DI sosPensIone Dell’eFFICaCIa Del loDo eX aRt. 830, UltIMo CoMMa, C.P.C. Si ritiene sussistano i gravi motivi per la concessione della sospensione dell’efficacia esecutiva del lodo, in quanto emanato da collegio arbitrale incompetente nonché affetto dai numerosi vizi illustrati nei motivi che precedono, che sembrano adeguatamente fondare quanto meno un fumus di fondatezza in vista della decisione di merito. Quanto al periculum in mora, giova osservare che la pretesa azionata con l’atto di accesso agli arbitri riguarda opere realizzate già da molto tempo (venti anni circa) e per le quali la controparte ha ricevuto a suo tempo un corrispettivo adeguato. A fronte, quindi, di una posizione che non sembra rendere indispensabile un adempimento immediato, e che potrà in ogni caso essere adeguatamente ristorata in caso di rigetto della presente impugnazione attraverso la corresponsione degli accessori di legge, è di tutta evidenza la gravità del danno cui andrebbe incontro l’Amministrazione in caso di immediata esecuzione del lodo adottato dal Collegio arbitrale che oggi si impugna per nullità; e ciò, sia in considerazione dell’importo oggettivamente elevatissimo da corrispondere, sia per le conseguenti difficoltà nell’ipotesi in cui la stessa somma dovesse essere oggetto di ripetizione, nell’auspicata ipotesi di accoglimento della presente impugnazione. Si insiste, pertanto, per la sospensione dell’efficacia del lodo, ricorrendo i gravi motivi previsti dal codice di rito. Si veda in proposto Corte d’appello di roma, ordinanza del 17 marzo 2010, che ha sospeso un lodo arbitrale “ritenuto che, pur entro i limiti della sommaria delibazione in questa sede consentita, appaiono ricorrere gravi motivi, ex art. 830 c.p.c., che giustificano la sospensione dell’esecutività del lodo, considerata la non manifesta infondatezza, prima facie, delle ragioni di censura concernenti l’eccezione preliminare di inesistenza della convenzione arbitrale”. Tutto quanto precede premesso e ritenuto, il Ministero dei Beni Culturali e Ambientali e del Turismo, come sopra rappresentato, domiciliato e difeso, CIta la IMPRe.PaR - Impregilo Partecipazioni s.p.a. in liquidazione, già Lodigiani S.p.A. e successivamente cessionaria, giusta atto del Notaio Francesco Guasti di Milano del 28.9.2001, rep. 30784, del ramo d’azienda “B.u. Varie” della Impregilo S.p.A., in persona del suo Liquidatore e legale rappresentante pro tempore Dott. (...), con sede legale in Milano, via dei Missaglia n. 97, C.F. 00399140581 e P. IVA 03084200967, in proprio e nella qualità di capogruppo mandataria dell’Associazione Temporanea di Imprese (di seguito per brevità solo “A.T.I.”) costituita tra la medesima Lodigiani S.p.A. (già Impregilo S.p.A. ed oggi IMPre.PAr. - Impregilo Partecipazioni S.p.A. in Liquidazione), Impresa Costruzioni Lavori Appalti - I.C.L.A. S.p.A. (oggi ICLA - Costruzioni Generali S.p.A. in Liquidazione), Co.Ge.I. S.p.A., Impresa di Costruzioni enrico romagnoli S.p.A., Bonifica S.p.A., Mantelli estero Costruzioni S.p.A., Servizi Ingegneria S.p.A. in Liquidazione (già Servizi di Ingegneria S.r.l.), rappresentata e difesa, in virtù di mandato a margine all’atto di nomina dell’arbitro di parte, dagli Avv. Prof. Bruno Capponi, Avv. Domenico Di Falco e Avv. Antonio Martuscelli, elettivamente domiciliata presso lo studio dei primi due in roma al Largo Giovanni Sarti n. 4, a comparire davanti alla ecc.ma Corte d’Appello di roma, nei noti locali di Via A. Varisco (Piazzale Clodio), C.I. e Sezione da designarsi, all’udienza del 10 giugno 2016 ore di rito con invito a costituirsi nelle forme e termini di legge (venti giorni prima dell’udienza) stabiliti dall’art.166 c.p.c. e con l’avvertenza che la costituzione oltre i suddetti termini implica le decadenze ex artt. 38 e 167 c.p.c, e che in difetto di costituzione si procederà in sua legittima e dichiarata contumacia, per ivi sentir accogliere le seguenti ConClUsIonI “Piaccia alla ecc.ma Corte adita, in accoglimento del presente atto di impugnazione e previa sospensione della sua efficacia, dichiarare nullo e inefficace il lodo arbitrale n. 43/15 depositato in data 29.10.2015 e notificato in data 12.11.2015 per l’incompetenza del Collegio arbitrale nonché per tutti i motivi di nullità sopra spiegati; dichiarare in ogni caso infondate le pretese ivi riconosciute per i motivi e nei limiti di cui in narrativa, con vittoria di spese. Ai fini della prenotazione a debito del contributo unificato, secondo le vigenti disposizioni, si dichiara che il valore della controversia è di oltre € 10.000.000,00 corrispondente ad un contributo pari ad € 2.529. Si deposita: 1. Lodo impugnato. Si fa istanza per l’acquisizione del fascicolo arbitrale, con ivi allegato il fascicolo di parte. roma, 10 febbraio 2016 Wally Ferrante Avvocato dello Stato (...) Corte di appello di Roma, Prima sezione civile, sentenza 22 gennaio 2020 n. 466 - Pres. est. F. Ferdinandi - Ministero dei beni e attività culturali e del turismo (avv. Stato) c. Imprepar spa (avv. B. Capponi). Motivi della decisione - Il Ministero dei beni e le attività culturali e turismo (appresso: Ministero) ha impugnato illodo arbitrale in data 29.10.15, dichiarato esecutivo in data 3.11.15, che, previa declaratoria dì competenza del collegio arbitrale, ha rigettato l'eccezione di inammissibilità o improponibilità delle domande proposte da Imprepar spa, dichiarando la nullità e in ogni caso l'inefficacia del verbale di concordamento dell'8 ottobre 2002; ha rigettato l'eccezione di prescrizione e in accoglimento per quanto di ragione delle domande proposte, ha condannato il Ministero al pagamento della somma di euro 9.842,498, oltre successivi interessi. A fondamento dell'impugnazione, il Ministero svolge i seguenti motivi: 1) nullità del lodo per incompetenza del collegio arbitrale, a seguito di declinatoria di competenza formulata dal Ministero; 2) nullità del lodo per aver deciso sulle domande di Imprepar, nonostante la stipulazione di una transazione tra le parti, contenuta nel verbale di concordamento in data 8.10.2002; 3) nullità del lodo per erronea applicazione della regola di diritto, posta dall'art. 2935 cc, avendo rigettato l'eccezione di prescrizione formulata dal Ministero, sulla base dell'erroneo principio, secondo cui la prescrizione dei diritti di credito vantati in relazione ad un appalto pubblico, decorre dall'approvazione del collaudo; 4) nullità del lodo per erronea applicazione della regola di diritto posta dall'art. 2697 cc, per difetto di prova dei crediti vantati da Imprepar, essendo stata al riguardo svolta una CTu meramente esplorativa, surrogatoria dell'onere probatono gravante su Imprepar, rimasto del tutto inadempiuto; 5) nullità del lodo per aver calcolato gli aumenti derivanti dalla clausola sul "prezzo chiuso", applicando il metodo c.d globale, in violazione dell'art. 1965 cc (attesa la transazione tra le parti); dell'art. 33, comma 4 L. 41/86, sul calcolo del prezzo chiuso, nonché per violazione degli art. 3, paragrafo 3, Tue e 107-109 TFue; 6) nullità del lodo per violazione degli art.li 1965 cc, 2687 cc e 5 comma 1, L. 741/81, per avere condannato l'amministrazione al pagamento della somma di euro 2.442.113,27, oltre accessori, a titolo di risarcimento dei danni subiti, a seguito del ritardo nella redazione e approvazione del collaudo; 7) nullità del lodo, per aver accolto il quinto quesito e prima parte del settimo, condannando il Ministero al pagamento della somma di euro 133.134,18 per le riserve iscritte, nonostante l'avvenuta transazione al riguardo, in data 8.10.02; 8) nullità del lodo, perché in accoglimento del quesito numero sei e numero sette, ha condannato il Ministero al pagamento degli ulteriori interessi legali dalla data della notifica della domanda di arbitrato al saldo, sulle somme liquidate a titolo di interessi relativamente ai quesiti n. 1, 2 e 3, richiamando al riguardo le censure svolte in relazione a tali quesiti, nei motivi quarto e quinto; 9) nullità del lodo per intervenuta transazione in ordine a tutti gli importi liquidati; 10) nullità del lodo, in via consequenziale, in relazione alle denunciate nullità, per aver posto a carico del Ministero i due terzi delle spese. - Giova riassumere la vicenda, quale si desume dall'esposizione contenuta nel lodo, non attintaal riguardo da specifiche contestazioni. Con convenzione del 16.5.90, cui seguiva l'atto aggiuntivo del 23.5.96, veniva conferito ad Imprepar l’appalto relativo a lavori da compiersi sul "sistema museale fiorentino", comprendenti quattro assegnazioni: prima assegnazione (primi lavori di intervento); seconda assegnazione (opere murarie e nuova centrale tecnologica, già in corso alla data dell'atto aggiuntivo); terza assegnazione (opere murarie e nuova centrale tecnologica, già in corso alla data dell'atto aggiuntivo); quarta assegnazione (impiantistica e restauro di talune sale degli uffizi). Con atto notificato il 8.11.12, Imprepar, sul presupposto della sussistenza di crediti insoddisfatti, nonostante l'avvenuta ultimazione dei lavori sin dal 11.8.00, senza che fosse intervenuto collaudo per la quarta assegnazione o comunque approvato il collaudo per le restanti assegnazioni, promuoveva giudizio arbitrale, proponendo, con i relativi quesiti, le seguenti domande: 1) condanna al pagamento della rata di saldo per la somma di euro 291.660,23, comprensiva di interessi al 15.10.12, oltre successivi interessi; 2) condanna al pagamento degli importi maturati a titolo di prezzo chiuso, pari alla somma di euro 10.163,225,95, oltre interessi successivi al 15.10.12, il tutto previa corretta applicazione dei criteri dettati dall'art. 33, quarto comma L. 41/86, e declaratoria di nullità dei patti in deroga posti in essere dalle parti; 3) condanna al pagamento del corrispettivo forfettario del 10 % sull'importo complessivo dei lavori, come sopra maggiorato; 4) condanna al risarcimento dei danni subiti per i maggiori oneri sostenuti, a seguito del ritardo nella redazione e approvazione degli atti di collaudo, pari ad euro 2.546.183,33, alla data del 15.10.12, oltre successivi interessi e rivalutazione; 5) condanna al pagamento delle riserve iscritte in contabilità, pari alla somma di euro 2.107.059,97, e degli interessi relativi al ritardato pagamento degli acconti, il tutto per il caso di nullità o inefficacia del verbale di concordamento dell'8.10.02; 6) condanna al pagamento degli interessi sugli interessi dovuti per il ritardo, dalla data di notifica della domanda, oltre al maggior danno; 7) condanna al pagamento di tutte le somme risultanti dai precedenti quesiti, riconoscendole in via subordinata a titolo di responsabilità extracontrattuale o di indebito arricchimento, oltre rivalutazione ed interessi. - Il collegio arbitrale ha respinto l’eccezione di incompetenza proposta dal Ministero, ritenendo, in sostanza, per un verso che l'art. 1, comma 19, legge 190/12 non si applicasse, ratione temporis, all’arbitrato de quo, e per altro verso che la deroga alla competenza dell'AG prevista dalle parti, fosse di natura propriamente convenzionale, in ragione del richiamo operato dall'art. 24 della convenzione alle norme del capitolato generale per le opere pubbliche (DPr 1063/62); ha respinto, ancora, l'eccezione dell’amministrazione volta ad invocare l'asserita stipulazione di un atto transattivo, sulla base dell'atto di concordamento in data 8.10.02, osservando che era stato posto in essere da soggetto privo del potere di impegnarla (il responsabile del procedimento), nè potendosi far conto della ratifica asseritamente intervenuta da parte dell'amministrazione nel 2014 (come rappresentato dalla difesa erariale solo in comparsa conclusionale) e quindi successivamente all'introduzione della lite; onde la nullità o comunque l'inefficacia dell'atto di concordamento, soggiungendo che il detto atto atteneva alle sole riserve iscritte, mentre non contemplava alcuna ipotesi transattiva con riguardo al ritardato collaudo ed alla rata di saldo. Il collegio arbitrale ha rigettato, inoltre, l'eccezione di prescrizione sollevata dall'amministrazione, sulla base del rilievo che, trattandosi di opere pubbliche soggette a collaudo, "il termine prescrizionale non poteva che iniziare a decorrere dalla data di approvazione dello stesso"; osservava, ancora, che nell’ipotesi di efficacia dell'atto di concordamento a far data dal 7.11.02 (trenta giorni dalla data di redazione ai fini della formazione del silenzio assenso previsto nell’atto), la prescrizione sarebbe stata comunque validamente interrotta con la notifica dell'atto introduttivo del giudizio arbitrale, a tal fine essendo rilevante la data di consegna dell'atto da notificare all'ufficiale giudiziario (7.11.12) e non già la successiva data di consegna dell'atto al destinatario; soggiungeva, infine, che anche a voler dar credito alla tesi dell'amministrazione, secondo cui il termine di prescrizione sarebbe decorso dalla data di ultimazione dei lavori, tale temine, in conseguenza dell'atto di concordarnento invocato dal Ministero, andava individuato nel 5.2.03, onde il dies a quo della prescrizione non sarebbe potuto cadete in momento antecedente a tale data. Venendo al merito dei singoli quesiti e delle poste creditorie ìn essere richieste, il collegio determinava in euro 317.215,48 la rata di saldo, oltre accessori; in accoglimento per quanto di ragione dei quesiti 2 e 3 , relativi al maggiore corrispettivo a titolo di prezzo chiuso e corrispettivo forfettario del 10 % sul maggior prezzo così calcolato, dopo aver osservato che attesa la natura imperativa delle relative norme, non era predicabile alcuna valida transazione al riguardo, sulla base dell'atto aggiuntivo del 96, determinava sulla scorta della CTu svolta, il maggior corrispettivo dovuto in euro 6.950.036,10 comprensivo di interessi alla data del 16.6.15, oltre successivi interessi sino al soddisfo. Quanto al quesito numero 4, avente ad oggetto il risarcimento dei danni da ritardato collaudo, il collegio osservava innanzitutto che, pacifico essendo la sussistenza di un ritardo, tornava applicabile l'art. 5 L. 741/81, in base al quale il collaudo andava concluso entro sei mesi dall'ultimazione dei lavori, mentre l’approvazione del collaudo doveva intervenire nel termine di due mesi dal certificato di collaudo. Il collegio, poi, esponeva riassuntivamente la CTu, riportando, tra l'altro, il brano dell'elaborato in cui l'esperto dava espressamente atto della mancata documentazione dei maggiori oneri sostenuti da parte attrice, relativi a spese generali e oneri di concessione (“detti onerì, anche se non documentati dall'attrice, devono essere riconosciuti all'ATI concessionaria”); e riconosceva, sulla scorta della CTu, nei limiti temporali della garanzia, l'importo di euro 2.442.113,27, calcolato sulla base di una determinata percentuale, rispetto all'importo contrattuale (pag. 63). Il collegio passava quindi all'esame del quesito numero 5, relativo alle riserve numeri 8 e 10, disponendo il pagamento di euro 133.134,18, oltre interessi. In accoglimento del quesito numero 6, il collegio condannava il Ministero al pagamento degli ulteriori interessi legali dalla data della notifica della domanda di arbitrato, sino al soddisfo, sugli interessi liquidati a seguito dell'accoglimento dei quesiti 1, 2 e 3 , relativi a debiti di valuta, con rigetto della domanda di maggior danno siccome non provata. Quanto al quesito numero 7 il collegio si riportava alle condanne emesse in relazione ai precedenti quesiti “assorbita ogni diversa domanda e respinta ogni diversa richiesta e/o eccezione sul punto”. Infine in relazione al quesito numero 8 relativo alle spese del procedimento, il collegio, in relazione della complessità delle questioni, compensava per i due terzi le spese di lite, ivi comprese quelle di CTu. - È infondato il primo motivo. L'amministrazione ha inteso declinare la competenza degli arbitri con atto notificato il 21.12.12. Al riguardo appare dirimente osservare, come esattamente rilevato da Imprepar, che tale declinatoria appare tardiva. L'art. 24 della convenzione stipulata tra le parti nell'anno 1990, cui si è fatto cenno in narrativa, prevede che ogni controversia fra le parti debba essere risolta “osservando quanto previsto al capo VI del capitolato generale d'appalto per le opere pubbliche, approvato con DPr 16 luglio 1962, n 1063, e successive modifiche ed integrazioni”. Tale capitolato prevedeva, per la risoluzione delle controversie tra appaltatore e amministrazione, l'adozione della procedura arbitrale, non derogabile per atto unilaterale delle parti, e quindi, in tal senso, obbligatoria. La Corte Costituzionale, con sentenza 152/96, ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 16 L. 741/81 (che aveva sostituito il precedente testo dell'art. 47 DPr 1063/62), sul presupposto che prevedesse una forma di arbitrato obbligatorio, confliggente con l'art. 24 della Costituzione. A seguito della sentenza della Corte Costituzionale, ciascuna delle parti del contratto di appalto poteva declinare la competenza arbitrale, in base al vecchio testo dell'art. 47 cit. (ripristinato in conseguenza della sentenza di incostituzionalità), che prevedeva la facoltà di esercitare la declinatoria entro trenta giorni dalla notifica della domanda di arbitrato (tra le tante, cfr. Cass. 7895/00; 5200/98; 11048/97). Ha precisato la Suprema Corte che la declaratoria di incostituzionalità si riferisce al solo arbitrato obbligatorio; onde se il DPr 1063/62 sia fatto oggetto, nel contratto di appalto, di un richiamo o rinvio di natura meramente convenzionale (tra le tante Cass. 812/16), come nel caso in cui si tratti di appalto di amministrazione non statale (per i cui appalti, il DPr citato non costituisce oggetto di applicazione obbligatoria), la sentenza della Corte Costituzionale non sarà applicabile, e nessuna delle parti sarà provvista del diritto potestativo di declinare la competenza arbitrale. Quando tuttavia , si tratti di amministrazione statale, soggetta quindi al capitolato generale contenuto nel citato DPr (tra le tante Cass. 812/16 cit.), l'eventuale richiamo che ad esso faccia nel singolo contratto di appalto, giammai potrà avere valore convenzionale, avendo invece un mero valore ricognitivo o ripetitivo (tra le tante Cass. 16977/06) , giaché in tal caso le disposizioni del capitolato hanno mera natura normativa, derivando la loro efficacia dall'imperatività propria del diritto obiettivo, che ne impone l'inserzione nei contratti di appalto dell'amministrazione centrale (tra le tante Cass. cit e Cass. 6921/03). L'argomento svolto da Imprepar, secondo cui il richiamo, nella convenzione del 1990, al DPr 1063/62, non avrebbe senso se qualificato, come mero richiamo ricognitivo, ed assumerebbe invece rilievo e significato solo intendendolo quale richiamo di natura convenzionale, cui sia sottesa una vera e propria volontà negoziale; tale argomento, dunque, non appare fondato, per quanto suggestivo, sol che si consideri, come l'attività negoziale, quale esercizio dell'autonomia privata, implica per definizione l'esercizio di una libertà, laddove all'inverso non avrebbe significato alcuno il dichiarato (nell'ottica interpretativa proposta da Imprepar) esercizio di una libertà negoziale, avente ad oggetto una scelta (attinente alla procedura di risoluzione delle liti), comunque imposta dalla legge. A tale richiamo, pertanto, non può che essere attribuito il mero significato, individuato da condivisibile giurisprudenza della Suprema Corte, di ricognizione di una disciplina già posta dall'ordinamento giuridico. orbene, si è visto che, a seguito della pronuncia di incostituzionalità dell'art. 16 L. 741/81, deve intendersi ripristinato il testo dell'art. 47 DPr 1063/62, prima della modifica ad opera dell'art. 16 cit, che prevedeva il termine di giorni 30, dalla notifica della domanda di arbitrato ai fini dell'esercizio della facoltà di declinatoria. Deve pertanto ritenersi che il Ministero avesse l'onere di declinare la competenza degli arbitri entro tale termine (cfr. Cass. 7895/00 e 11048/97). Nel caso di specie la declinatoria è stata esercitata con atto notificato il 21.12.12 , a fronte della notifica della domanda di arbitrato in data 8.11.12 , con conseguente tardività della declinatoria medesima. L'amministrazione fonda la propria declinatoria anche sul testo dell'art. 241 D.lgs 163/06. Tale norma prevedeva la possibilità di deferire ad arbitri le controversie insorte tra la parte pubblica e quella privata nello svolgimento del contratto di appalto, in particolare contemplando la facoltà in capo all'amministrazione di indicare nel bando, nell'avviso o nell'invito, se il contratto avrebbe recato la previsione o meno della clausola compromissoria; e la facoltà in capo all'impresa di ricusare la clausola compromissoria, che in tal caso non veniva inserita nel contratto, entro venti giorni dalla conoscenza dell’aggiudicazione. L'art. 253 comma 34, contenente la disciplina transitoria, dopo aver richiamato gli art. 241, 242 e 243, prevede che dalla data di entrata in vigore del DPr 554/99 il riferimento ai collegi arbitrati da costituire ai sensi della normativa previgente di cui al DPr 1063/62, contenuto nei contratti di appalto già stipulati, deve intendersi riferito ai collegi da nominare con le nuove procedure secondo le modalità previste dal codice e i relativi giudizi si svolgono secondo la disciplina ivi fissata. Tuttavia il richiamo, all'art. 241, ad opera dell'art. 253, deve intendersi limitato alle modalità di nomina del collegio arbitrale ed alle regole di giudizio da seguire, non anche alla precedente fase della declinatoria, che deve ritenersi ancora disciplinata, per i "vecchi" contratti dall'art. 47 cit., posto che la declinatoria prevista dall'art. 241, per come regolata (attraverso il termine di 20 giorni dall'aggiudicazione), appare strutturalmente applicabile ai nuovi contratti giammai ai “vecchi”. Non potrebbe dubitarsi, poi, che l'art. 47 sia ancora applicabile ai contratti stipulati nella sua vigenza, nonostante la sua abrogazione ad opera dell'art. 32 quarto comma L. 109/94. È bensì vero che tale norma contempla(va) la cessazione dell'efficacia (così il testo legislativo), tra gli altri, del menzionato art. 47, a decorrere dall'entrata in vigore del successivo regolamento, disponendo altresì che dalla medesima data il richiamo ai collegi arbitrati da costituire ai sensi della normativa abrogata, contenuto nei contratti già stipulati, dovesse intendersi riferito ai collegi da nominare, secondo le modalità previste dai precedenti commi e che i relativi giudizi si svolgessero secondo la disciplina da essi fissata; tuttavia, come si è osservato in relazione alla disposizione di cui all'art. 253 D.lgs 163/06, analogamente confezionata, tale richiamo pare propriamente limitato al solo svolgimento dell'arbitrato, rimanendo fuori da tale previsione la facoltà di declinatoria, con conseguente persistente applicabilltà della declinatoria, con i relativi termini, prevista dall’art. 47 cit. - È infondato il secondo motivo. Il Ministero lamenta che gli arbitri abbiano accolto le domande di lmprepar, nonostante che le relative pretese fossero state oggetto di transazione, con l'atto di concordamento del 8.10.02. Non mette conto di individuare il perimetro delle questioni che costituirono oggetto delle determinazioni transattive contenute in detto atto. ed invero appare dirimente osservare che l'atto in questione venne posto in essere, per quanto concerne la parte pubblica, dal responsabile del procedimento, nonché direttore dei lavori, del tutto sprovvisto del potere di impegnare l'amministrazione, con conseguente radicale inefficacia dell'atto. Non vale obiettare che nell'atto transattivo, all'art. 9, era previsto che ove l'amministrazione non avesse espresso il proprio “diniego motivato” l'atto medesimo sarebbe stato ritenuto tacitamente approvato. È agevole infatti, al riguardo osservare che un soggetto privo di potere rappresentativo, così come non può esprimere la volontà negoziale dell'amministrazione, allo stesso modo non può vincolarla a manifestare la propria volontà sulle iniziative poste in essere dallo stesso soggetto, senza averne il potere, che rimangono, per quanto concerne l'amministrazione, nell'ambito del giuridicamente irrilevante, senza che la stessa sia costretta ad esprimere formalmente il proprio dissenso. Nemmeno vale obiettare che sarebbe intervenuta formale ratifica da parte dell'amministrazione in data 7.4.11. ora è bensì vero che anche l'atto posto in essere, in nome e per conto della PA, da soggetto privo dei relativi poteri rappresentativi, è suscettibile di ratifica (Cass. 28753/18) e che la ratifica contrariamente a quanto opinato dal collegio arbitrale, ben può intervenire nel corso del giudizio, operando, secondo noti principi, con forza retroattiva (Cass. 5695/05); tuttavia, posto che anche l'atto con cui la PA si appropri dell'attività contrattuale compiuta dal rappresentante senza potere, deve rivestire la forma scritta (Cass. 28753/18), non essendo invece sufficiente una qualche condotta concludente, sarebbe stata necessaria la produzione dell'atto scritto di ratifica. Tuttavia, il Ministero avrebbe avuto l'onere di specificare, come da rigoroso indirizzo della Corte di legittimità (Cass. 11617/11; in tema di appello, applicabile per identità di ratio anche all'impugnazione del lodo), il numero d'indice del fascicolo di parte cui corrisponderebbe la produzione di tale documento, non competendone altrimenti la ricerca al giudice d'appello: onere questo rimasto inosservato. Né tale documento compare comunque nell’indice dei fascicoll di parte della difesa erariale, prodotti dinanzi questa Corte. Peraltro, dalla lettura della memoria difensiva finale del Ministero dinanzi il collegio arbitrale, parrebbe che l'invocata ratifica non sia stata affatto prodotta (nemmeno tardivamente) atteso che a pag. 17 il Ministero dichiara che la ratifica "ove il collegio lo ritenga necessario potrà essere esibita". Non senza soggiungere come, attesa la necessità della forma scritta, le concordi ammissioni delle parti sull'esistenza della ratifica appaiono irrilevanti. - È parzialmente fondato il terzo motivo relativo al mancato accoglimento dell'eccezione diprescrizione. Con la domanda di arbitrato, Imprepar aveva richiesto il pagamento della rata di saldo; il pagamento della differenza dovuta in conseguenza dell'esatto computo del “prezzo chiuso”; il pagamento del corrispettivo forfettario del 10 % sull'importo complessivo dei lavori ai sensi dell'art. 12, lett. C, della convenzione; il pagamento delle riserve iscritte in contabilità; il risarcimento del danno da ritardato collaudo; gli interessi in ragione del ritardo sui pagamenti. Il collegio arbitrale ha ritenuto che “trattandosi di convenzione di concessione di opere pubbliche soggette a collaudo, il termine prescrìzionale non poteva che iniziare a decorrere dalla data di approvazione dello stesso” (pag. 29). Ha osservato, poi, che solo talune delle opere risultavano collaudate, benché ultimate; peraltro per nessuna delle stesse risultava emesso il provvedimento di approvazione del collaudo, con conseguente mancato decorso della prescrizione decennale. Ha soggiunto che pur nell'ipotesi in cui si fosse ritenuto valido il verbale di concordamento del 8.10.02 a far data dal 7.11.02, parimenti si sarebbe dovuto concludere per il mancato decorso della prescrizione, atteso che la notifica della domanda di arbitrato era stata consegnata all’ufficiale giudiziario in data 7.11.12. Infine ha osservato, ancora, che pur a voler accedere alla tesi difensiva del Ministero, secondo cui la prescrizione avrebbe preso a decorrere dalla data di ultimazione dei lavori, si sarebbe dovuto comunque concludere, rimanendo nell'ambito delle difese svolte dall'amministrazione, per il suo mancato decorso, atteso che con il verbale di concordamento del 8.10.02, la convenzione era stata prorogata al 5.3.03, con la conseguenza che il dies a quo della prescrizione giammai avrebbe potuto decorrere da giorno antecedente a tale ultima data. Il Ministero lamenta l'erroneità di tale decisione, contestando che il termine di prescrizione potesse decorrere dalla data di approvazione del collaudo, dovendo invece decorrere dalla data di ultimazione dei lavori (pag. 24); peraltro in altro luogo dell'impugnazione (pag. 26) riporta il dictum di Cass. 17314/11, secondo cui il termine di prescrizione dei diritti dell’appaltatore decorre dalla scadenza dei termini entro i quali provvedere al collaudo, concludendo (essa amministrazione), nel senso che “tutte le pretese azionate debbono quindi ritenersi irrimediabilmente prescritte”. Deve pertanto ritenersi che la difesa erariale, a fondamento dell'impugnazione, abbia prospettato anche la tesi difensiva del decorso della prescrizione dalla data di scadenza dei termini per il collaudo. Le conclusioni attinte dal collegio arbitrale sul mancato decorso della prescrizione sono del tutto erronee, con riguardo alle domande di adempimento formulate da Imprepar: pagamento del saldo, del prezzo chiuso, del compenso forfettario, delle riserve, nonché degli interessi; mentre separata considerazione merita la domanda risarcitoria. osserva la Corte che all'epoca risultava applicabile la regola introdotta dall’art. 5 L. 741/81, secondo cui il collaudo doveva intervenire entro il termine di sei mesi dall'ultimazione dei lavori e nel termine di ulteriori due mesi doveva intervenire l'approvazione del collaudo. Non potrebbe ritenersi che attesa la complessità dell'appalto trovasse applicazione il più ampio termine previsto dall'art. 5 secondo comma (tesi peraltro non prospettata da nessuna delle parti), giacché nella stessa convenzione del 1990, all'art. 15, si prevedeva espressamente che il termine per la procedura di collaudo fosse quello individuato dal primo comma, cioè il termine ordinano di mesi sei. orbene, atteso che il collegio arbitrale indica nel 11.8.00 la data di ultimazione dei lavori, senza che al riguardo siano sorte contestazioni, è evidente che il termine per la procedura di collaudo andava a scadere il 11.4.01 (sei mesi + due, dal 11.8.00). Secondo condivisibile giurisprudenza della Corte di legittimità, l'art. 5 L. 741/81 è norma di carattere generale applicabile a tutte le opere pubbliche; i termini ivi indicati per il compimento della procedura di collaudo, individuano con certezza il periodo superato il quale, perdurando l'inerzia della PA, questa deve ritenersi inadempiente, con la conseguenza che l'appaltatore può agire in giudizio senza necessità di porre in mora l’amministrazione: dalla scadenza di tali termini, quindi, prenderà a decorrere la prescrizione dei crediti vantati dall'appaltatore (tra le tante, Cass. 17314/11; da ultimo Cass. 2477/19). Pertanto, nella specie, il termine di prescrizione dei diritti di credito di Imprepar (salvo quanto si dirà per il risarcimento dei danni da ritardato collaudo), ha preso a decorrere dal 11.4.01 ed è maturato il 11.4.11, ben prima che venisse introdotto il giudizio arbitrale. Né può aver rilievo la messa in mora in data 15.5.11 (recte 18.5.11) invocata da Imprepar, essendo la prescrizione maturata ancor prima di tale data. Né, ancora, può aver rilievo alcuno, nella valutazione del decorso della prescrizione il “verbale di concordamento”, cui più volte si è fatto cenno, e la proroga della convenzione al 5.2.03 in essa disposta; attesa la sua radicale inefficacia. Appare opportuno soggiungere che per espressa previsione di legge (art. 5 comma quarto L. cit) , decorsi i termini per il compimento del collaudo e la sua approvazione, l'appaltatore ha diritto alla restituzione delle somme versate a titolo di cauzione e di tutte quelle consimili versate a titolo di garanzia; alla stessa data si estinguono le eventuali fideiussioni (in giur. cfr. Cass. 7194/19). Pertanto anche la prescrizione di tali crediti inizia a decorrere dalla scadenza dei termini previsti per il collaudo. Diverso discorso deve farsi con riguardo agli assenti danni da ritardato collaudo, consistenti negli oneri connessi alle risorse umane e materiali, ai fini della manutenzione, vigilanza, custodia e simili, dell'opera pubblica, ultimata sì, ma non ancora collaudata. Al riguardo, è opportuno innanzitutto evidenziare che questa Corte non può valutare, in difetto di specifica ragione di impugnativa, se e in che misura l'art. 15 della convenzione del 1990 prevedesse l'immediato esonero dell'appaltatore dall'obbligo di vigilanza delle opere, con carattere di automaticità, una volta trascorsi i termini per il collaudo. Fatta questa precisazione, osserva la Corte che, mentre durante lo svolgimento dell'appalto, la vigilanza e la custodia dell'opera costituiscono un obbligo ricompreso nel contratto di appalto, il cui adempimento non dà luogo ad alcun compenso aggiuntivo; ove, invece, la vigilanza e la custodia vengano esercitate dopo che siano scaduti i termini del collaudo, l'appaltatore ha diritto ad essere ristorato dei maggiori oneri sostenuti (Cass. 11889/14) e tale credito, appunto perché non ricompreso nelle originarie pattuizioni contrattuali, assume natura nsarcitoria (in tal senso espressamente parere ANAC, 13/13). orbene, il quesito che si pone, e su cui non constano precedenti della Corte di legittimità , è il seguente: se l'illecita condotta della PA, consistente nel ritardo delle procedure di collaudo, dia luogo ad un illecito a carattere permanente ovvero ad un illecito a carattere istantaneo. Come è noto, l'illecito a carattere permanente consiste in una condotta, non esaurentesi in un unico atto, ma che al contrario si traduce in un'attività perdurante nel tempo, tale da comportare una violazione ininterrotta del diritto altrui; l'illecito istantaneo consiste, invece, in un fatto generatore unico ed istantaneo, ancorché con effetti destinati successivamente a perdurare od ampliarsi (così limpidamente Cass. 2585/78, che ha concluso per la natura istantanea dell'inadempimento dell'obbligo di pagare una certa somma). Alla luce di tali criteri, ritiene la Corte che il ritardo nel compimento delle operazioni di collaudo, dia luogo, con riguardo alla tipologia di danni qui considerati, ad un illecito a carattere permanente, venendo in considerazione, non già un atto unico ma una condotta omissiva permanente, consistente in una violazione ininterrotta dell'altrui diritto. Accertata, dunque, la natura permanente dell'illecito, ne consegue che le pretese di Imprepar, relative ad obblighi di vigilanza custodia e simili non potevano ritenersi prescritte al momento del lodo (se non per il limitato periodo non coperto dal decennio antecedente il 18.5.11, data della messa in more), giacché la caratteristica dell'illecito permanente è quella di dar luogo ad un diritto al risarcimento che sorge in modo continuo e che in modo continuo si prescive, sicché il termine prescrizionale decorre “de die in diem', a mano a mano che i danni si producono (così Cass. 12701/15). In definitiva, in parziale accoglimento del terzo motivo, il lodo va annullato, limitatamente al riconoscimento delle pretese di Imprepar, fondate sul contratto di appalto (rata di saldo, differenza derivante dal “prezzo chiuso”; differenza derivante dal compenso forfettario, riserve iscritte; e relativi interessi) che dunque vanno rigettate; mentre non può ritenersi prescritta (salva la precisazione sopra fatta) la pretesa relativa ai maggiori oneri asseritamente sostenuti a causa del ritardo delle procedure di collaudo. - Con il quarto motivo il Ministero lamenta che il collegio arbitrale abbia ammesso una CTu del tutto esplorativa in violazione dei principi sull'onere della prova, pur in difetto di un qualunque supporto probatoio che dimostrasse le pretese avanzate da lmprepar. Il motivo è evidentemente assorbito, limitatanentè alle pretese non risarcitorie, dalle statuizioni rese da questa Corte sul terzo motivo, residuando il suo rilievo ai fini della risoluzione della lite, solo in relazione alle pretese di ordine risarcitorio derivanti dal ritardato collaudo, siccome non prescritte. Per ragioni di stretta connessione, appare opportuno esaminare il quarto motivo assieme al sesto motivo, con cui il Ministero lamenta che il danno da ritardato collaudo sia stato liquidato, pur in difetto di una qualunque prova, ed ancorché fosse stato già fatto oggetto di transazione, né essendo il ritardo addebitabile alla PA. Imprepar, nella domanda di arbitrato e nella prima memoria dinanzi il collegio arbitrale, si è limitata a lamentare il sostenimento di rilevanti maggiori oneri aggiuntivi in conseguenza del ritardo; nella seconda memoria ha fatto espresso riferimento alle maggiori spese generali, anche in sede, sostenute a causa del protrarsi del vincolo contrattuale, che non si risolverebbero unicamente nelle spese concernenti, la manutenzione delle opere ovvero connesse al degrado dei materiali ovvero ancora nella gestione amministrativa della manodopera di cantiere, ma comprenderebbero anche le spese di sede. Secondo condivisibile orientamento della Corte di legittimità, espresso in relazione ad analoga vicenda in cui si lamentavano i maggiori oneri derivanti dal ritardo nelle procedure di collaudo, il riconoscimento degli oneri in questione deve ritenersi precluso dalla mancata dimostrazione delle spese sopportate, che ne impedisce la liquidazione in via equitativa, legittima, invece, solo quando sia impossibile o comunque difficoltoso dimostrare il danno nel suo preciso ammontare e il danno sia nondimeno dimostrato nella sua sussistenza ed entità materiale, non essendo la parte dispensata dall'onere di dar prova degli elementi di fatto di cui possa disporre, affinché l'apprezzamento equitativo sia ricondotto alla funzione di colmare soltanto le lacune insuperabili nella determinazione dell'equivalente pecuniario (Cass. 11889/14). In tale ottica, la Suprema Corte nella medesimà vicenda ha precisato, in continuità con una ormai consolidata giurisprudenza, che la CTu non costituisce mezzo istruttorio in senso proprio, ma strumento utilizzabile ai fini di una più adeguata valutazione degli elementi acquisiti in base a particolari cognizioni tecniche e non può quindi essere disposta per supplire alle deficienze delle allegazioni e deduzioni della parte per compiere indagini esplorative alla ricerca di elementi, fatti o circostanze rimasti indimostrati (Cass. cit.). orbene, Imprepar non ha invocato, né nella domanda di arbitrato, né nella prima e seconda memoria, un qualche elemento probatorio che sostenesse la domanda risarcitoria; e nello stesso elaborato peritale si trova asserito che i maggiori oneri non risultavano documentalmente dimostrati (il CTu ha calcolato tuttavia i danni, parametrandoli, con talune decurtazioni, alle astratte percentuali delle spese generali). Così stando le cose, risulta fondata la doglianza dell'amministrazione, secondo cui la CTu è stata ammessa in radicale assenza dei relativi presupposti previsti dalla legge, apparendo, necessaria una specifica dimostrazione della effettiva sussistenza dei maggiori oneri lamentati, in base alla richiamata giurisprudenza della Corte di legittimità, ed ha violato i principi sull'onere della prova, incorrendo quindi in errore di diritto. Consegue l'annullamento del lodo “in parte qua". orbene, una volta venuta meno la possibilità di avvalersi della CTu, siccome illegittimamente disposta, osserva la Corte, in sede rescissoria, che il difetto di un qualche specifico elemento probatorio in ordine ai maggiori oneri sostenuti, non solo non consente di ritenere provati tali oneri nella loro ontologica materialità, prova questa che incombeva su Imprepar, ma nemmeno consente di procedere ad una loro liquidazione equitativa, giusta il richiamato indirizzo della Corte di legittimità, tantomeno facendo riferimento ad astratte percentuali relative alle spese generali. Per mere ragioni di completezza va soggiunto come in alcun modo potrebbe sostenersi che la difesa erariale, nel richiamare a pag. 39 dell'impugnativa, un brano della CTP ove si legge tra l'altro “si ribadisce pertanto che la somma massima che può essere riconosciuta in linea capitale è quella già esposta nelle proprie precedenti note tecniche pari ad euro 467.680,23”, abbia ammesso l'esistenza di danni per tale entità. ed invero, la difesa erariale è chiara nel negare la sussistenza di una qualche prova del danno (pag. 39 all'inizio), onde il riportato brano del CTP, comunque non potrebbe aver il valore di una qualche ammissione da parte della difesa. Peraltro, e sotto altro profilo, fermo restando che ipotetiche, ammissioni del CTP, di per sé prese, non possono avere alcun determinante rilievo, osserva la Corte che in realtà il CTP nelle note critiche alla CTu in data 22.9.14 contesta la sussistenza di prove documentali relative ai maggiori oneri (pag. 6); così come contesta l'utilizzazione di aliquote percentuali per il calcolo degli asseriti maggiori oneri, che ritiene applicabili, invece, solo alle ipotesi di sospensione dei lavori, e giunge all'indicazione della somma di euro 467.680,23, adoperando aliquote ridotte rispetto a quelle proposte dal CTP dell'attore: si tratta dunque non già dell'ammissione di danni nella loro concreta entità, ma di calcoli fondati su astratte percentuali. - I restanti motivi e doglianze dell'amministrazione rimangono assorbiti. - In definitiva, in accoglimento dell'impugnazione del Ministero nei sensi che precedono illodo va annullato, con rigetto delle domande proposte da Imprepar spa. - Tenuto conto della reciproca soccombenza, pare equo compensare le spese di lite, salvo cheper quelle di CTu che vengono poste in via definitiva, per come già liquidate, a carico di Imprepar. PQM La Corte annulla nei sensi di cui in motivazione il lodo impugnato e rigetta tutte le domande proposte da Imprepar spa; spese corpensate, salvo che per le spese di CTu, come già liquidate, che pone in via definitiva a carico di Imprepar spa. roma 14.1.20. Una panoramica del contenzioso sui “residui perenti” delle Province tribuNale Di roMa, sezioNe seCoNDa Civile, seNteNza 31 ottobre 2018 N. 20891 Si pubblicano la comparsa di risposta in Corte d’Appello e la sentenza del Tribunale di roma n. 20891/2018 ex adverso impugnata che riguarda un filone di cause di decine di milioni di euro (il valore di questa è di € 15.000.000,00) sui residui perenti delle Province in cui il Ministero dell’Interno e il Ministero dell’economia e delle Finanze hanno eccepito pregiudizialmente il difetto assoluto di giurisdizione, trattandosi di scelte di politica economico-finanziaria che presuppongono la reiscrizione in bilancio delle somme andate in perenzione con atto di natura legislativa e, in subordine, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nonché l’inammissibilità della domanda per inesigibilità del credito, che richiede il completamento dell’iter normativo previsto dalla legge. In materia, è sopravvenuto l’art. 49 D.L. 66/2014 recante “riaccertamento straordinario residui”, cui sono seguiti i provvedimenti attuativi: la Circolare del MeF del 5 giugno 2014, n. 18, il decreto del MeF del 26 agosto 2014 e l’Accordo in sede di Conferenza Stato-città e autonomie locali del 19 febbraio 2015. La maggior parte delle cause sono state quindi transatte (cfr. tutte le sentenze di cessazione della materia del contendere citate al punto 1 della comparsa) a seguito del pagamento del capitale e della rinuncia da parte delle province ad interessi e spese. A quanto consta, la sentenza del Tribunale di roma n. 20891/2018 (assieme ad altre due sentenze citate al punto 4 della comparsa, favorevoli per il Ministero dell’interno e per il MeF: sentenza del Tribunale di roma n. 5537/2017 passata in giudicato e sentenza del Tribunale di roma n. 6296/2017 impugnata dalla provincia e pendente in appello con rinvio per precisazione delle conclusioni al 14 dicembre 2020) sono le uniche che hanno deciso nel merito, rigettando la persistente domanda attinente alla spettanza degli interessi di mora. La sentenza ha recepito in toto le difese dell’amministrazione statale, escludendo anche l’operatività della tranlatio iudicii ex art. 59 l. n. 69/2009. Wally Ferrante* (*) Avvocato dello Stato. CT 23139/13 - Avv. Ferrante aVVoCatURa GeneRale Dello stato CoRte D’aPPello DI RoMa sez. 1 - Cons. RealI - UDIenza 28.1.2020 CoMPaRsa DI CostItUzIone e RIsPosta Per il Ministero dell’Interno (C.F. 97149560589) e per il Ministero dell’economia e delle Finanze, (80207790587) in persona dei rispettivi Ministri pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato (C.F. 80224030587), presso i cui uffici sono per legge domiciliati in roma, via dei Portoghesi 12 - per il ricevimento degli atti, FAX 06/96514000 e PeC ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it; CoNTro La Provincia di teramo in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Antonio Zecchino, ed elettivamente domiciliata presso l’avvocato Mariangela Di Giandomenico alla via del Plebiscito, 112, roma; ** ** ** Con ricorso per decreto ingiuntivo al Tribunale di roma, la Provincia di Teramo ha chiesto intimarsi al Ministero dell’Interno e al Ministero dell’economia e delle Finanze il pagamento di complessivi € 14.915.519,50 per omessi trasferimenti erariali a titolo di residui perenti, oltre interessi dalla maturazione del diritto al soddisfo. Il Tribunale di roma del decreto ingiuntivo n. 9929/13, depositato in data 9 maggio 2013 e notificato ai Ministeri in epigrafe in data 15 maggio 2013, ingiungeva ai Ministeri in epigrafe il pagamento del suddetto importo, oltre interessi legali come richiesti e spese di giudizio. Avverso tale decreto, il Ministero dell’Interno e il Ministero dell’economia e delle Finanze proponevano tempestiva opposizione deducendo l’inammissibilità delle pretese azionate per difetto assoluto di giurisdizione e comunque per difetto di giurisdizione dell’Autorità giudiziaria ordinaria; il difetto di legittimazione passiva del Ministero dell’Interno; la necessità di integrazione del contraddittorio nei confronti delle province e dei comuni titolari di residui perenti; l’infondatezza della pretesa monitoriamente azionata per mancanza di titolo e per insussistenza di un credito liquido ed esigibile; in subordine, l’erronea attribuzione degli interessi a decorrere dalla data della maturazione del diritto. Il Tribunale di roma, con la sentenza del 31.10.2018, n. 20891 ex adverso impugnata, ha accolto l’opposizione a decreto ingiuntivo dichiarando la nullità del decreto ingiuntivo, in quanto emesso dal Tribunale ordinario sprovvisto di giurisdizione, con conseguente inammissibilità della domanda di condanna al pagamento degli interessi di mora sulla somma capitale corrisposta in corso di causa a titolo di residui perenti, condannando la Provincia al pagamento delle spese di lite liquidate in € 79.411,00, oltre accessori come per legge. Avverso tale sentenza, la Provincia di Teramo ha proposto appello deducendo, con un primo motivo, l’erroneità della decisione nella parte in cui ha ritenuto di esaminare in via pregiudiziale la questione attinente al difetto di giurisdizione prescindendo dalla previa declaratoria di cessazione della materia del contendere sulla sorte capitale per effetto dell’intervenuto pagamento in corso di causa della somma a titolo di residui perenti e senza considerare la valenza della ricognizione di debito operata dal Ministero; con un secondo motivo, la erroneità della statuizione che ha ritenuto insussistente la giurisdizione del giudice ordinario sulla scorta di una erronea considerazione dell’istituto dei residui perenti; con un terzo motivo, l’erroneità della statuizione che, a fronte della declaratoria di difetto di giurisdizione, ha escluso la possibilità di potersi far luogo alla translatio iudicii innanzi al giudice amministrativo; con un quarto motivo, l’erroneità della statuizione che ha ritenuto la Provincia di Teramo virtualmente soccombente quanto alla richiesta di esazione della sorte capitale e realmente soccombente quanto alla pretesa di pagamento degli interessi, con condanna al pagamento delle spese di lite senza tener conto dell’intervenuto pagamento del capitale in corso di causa, circostanza rilevante ai fini dell’invocata compensazione delle spese; con un quinto motivo, la riproposizione delle difese già articolate in primo grado sulle questioni processuali di merito rimaste assorbite e, in particolare, sul difetto di legittimazione passiva del Ministero dell’Interno, sulla necessità di integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri enti locali titolari di residui perenti, sull’assenza di un titolo azionabile monitoriamente, sull’insussistenza di un credito liquido ed esigibile e sulla decorrenza degli interessi dalla data di maturazione del diritto. La Provincia appellante ha pertanto chiesto, in via principale, in accoglimento dell’appello, dichiarare la cessazione della materia del contendere in ordine alla sorte capitale e condannare i Ministeri appellati al pagamento degli interessi legali dalla maturazione del diritto fino al saldo o, in subordine a decorrere dall’1.1.2008, o in via ulteriormente subordinata, dalla richiesta del 16.12.2008, o, in estremo subordine, dalla data di emissione del decreto ingiuntivo; in via subordinata, in parziale riforma della sentenza, dichiarare la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alla residua pretesa concernente gli interessi, devolvendo allo stesso la controversia e disponendo la compensazione delle spese di lite del primo grado di giudizio. L’appello avversario è infondato e va respinto per i seguenti motivi in FATTo Come noto, il finanziamento degli enti locali, ivi incluse le Province, era costituito, nel previgente regime di finanza “derivata”, prevalentemente da trasferimenti erariali. L’art. 47, comma 1 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, stabiliva che: “al fine di ridurre le giacenze degli enti soggetti all'obbligo di tenere le disponibilità liquide nelle contabilità speciali o in conto corrente con il tesoro, i pagamenti a carico del bilancio dello stato vengono effettuati al raggiungimento dei limiti di giacenza che, per categorie di enti, vengono stabiliti con decreto del Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica in misura compresa tra il 10 e il 20 per cento dell'entità dell'assegnazione di competenza; per gli enti locali, la disposizione si applica alle province con popolazione superiore a quattrocentomila abitanti e ai comuni con popolazione superiore a sessantamila abitanti. ferma restando la normativa di cui all'articolo 9 del decreto-legge 31 dicembre 1996, n. 669, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1997, n. 30, che disciplina l'attribuzione dei trasferimenti erariali agli enti locali in una o più rate, sono abrogate le norme che stabiliscono, nei confronti di tutti gli enti sopra individuati, scadenze predeterminate per i pagamenti a carico del bilancio dello stato”. In sostanza, gli enti locali erano obbligati a mantenere costantemente attive le giacenze di liquidità; pertanto, quando avevano necessità di effettuare pagamenti di importo superiore alle entrate proprie, provvedevano ad inoltrare la relativa richiesta al Ministero dell’Interno il quale, pressoché in tempo reale, erogava le somme occorrenti di volta in volta. In tal modo, anziché l’intero ammontare dei trasferimenti erariali, lo Stato corrispondeva le cifre via via richieste dagli enti locali, sopperendo integralmente e tempestivamente alle loro esigenze e permettendo il mantenimento delle giacenze obbligatorie. Il predetto meccanismo ha dato luogo all’accumulo di cospicui residui - vale a dire quote del trasferimento erariale spettante, non erogate - definite residui attivi (per l’ente locale) o residui passivi (dal punto di vista dello Stato) - che sono andati perenti, id est cancellati dalle scritture contabili erariali, in quanto le corrispondenti partite risultavano non utilizzate dagli enti locali nell’anno finanziario di competenza. Le somme in questione rappresentano, dunque, risorse eccedenti le normali necessità di amministrazione, che, stratificatesi nel corso del tempo, costituiscono di fatto un accantonamento aggiuntivo e si traducono in una ragguardevole riserva per gli enti locali. Non va dimenticato, infatti, che lo Stato ha via via provveduto integralmente e con immediatezza alla soddisfazione delle richieste necessarie ai pagamenti delle province di importo superiore alle entrate proprie. Pertanto, la creazione della riserva costituita dai residui si è resa possibile grazie alla sinergica collaborazione prestata dall’erario. A seguito dell’approvazione della L. 24 dicembre 2007 n. 244 (finanziaria 2008) le disposizioni sulla cosiddetta tesoreria unica sono venute meno, non essendo stata reiterata la norma che ne prorogava la vigenza. Pertanto, le partite di bilancio perente possono essere riutilizzate dagli enti locali che ne facciano richiesta al Ministero dell’Interno il quale, a sua volta, deve attivare il Ministero dell’economia e delle Finanze affinché si proceda alla reiscrizione delle relative poste nel bilancio dello stato. Quando l'ente locale chiede la reiscrizione, il residuo viene nuovamente "iscritto" nel capitolo di spesa di provenienza e viene coperto con somme stornate dal “Fondo speciale per la riassegnazione dei residui perenti". La Legge finanziaria determina l'ammontare della somma da iscrivere ai Fondi speciali, come previsto dalla legge di riforma della Contabilità pubblica (legge n. 298/1999, modificata dal D.L. n. 194/2002, convertito con legge n. 246/2002). In seguito, il trasferimento delle somme iscritte al Fondo speciale in esame avviene, a richiesta delle Amministrazioni competenti, mediante decreto del Ministero dell'economia e delle Finanze. In altri termini, il trasferimento a seguito di reiscrizione delle somme a favore delle Province richiede l'emanazione di una norma di legge e l'adozione di successivi decreti attuativi del Ministero dell'economia e delle Finanze (indispensabili per consentire il materiale pagamento dei trasferimenti erariali e per quantificare e ripartire le somme dovute a ciascun ente locale in misura adeguata per assicurare il mantenimento degli equilibri finanziari globali dell'erario). Numerosi enti locali hanno prodotto istanze di reiscrizione, a seguito delle quali il Ministero dell’Interno ha via via provveduto a chiedere al Ministero dell’economia e delle Finanze l’accreditamento complessivo delle risorse residue spettanti agli enti interessati relativamente ai capitoli 1316 (fondo ordinario per il finanziamento dei bilanci degli enti locali), 1317 (fondo perequativo degli squilibri di fiscalità locale) 7232 (fondo per lo sviluppo degli investimenti dei comuni e delle province) 1318 (fondo consolidato per il finanziamento dei bilanci degli enti locali). Con la legge 31 dicembre 2009, n. 196, pubblicata sulla G.u. n. 303 del 31 dicembre 2009, recante: “legge di contabilità e finanza pubblica”, sono stati istituiti i Fondi speciali per la reiscrizione dei residui perenti, da alimentarsi mediante apposito articolo della legge di bilancio. recita, infatti, l’art. 27 della L. 196/09: “ Art. 27 fondi speciali per la reiscrizione in bilancio di residui passivi perenti delle spese correnti e in conto capitale. 1. Nello stato di previsione della spesa del Ministero dell'economia e delle finanze sonoistituiti, nella parte corrente e nella parte in conto capitale, rispettivamente, un «fondo speciale per la riassegnazione dei residui passivi della spesa di parte corrente eliminati negli esercizi precedenti per perenzione amministrativa» e un «fondo speciale per la riassegnazione dei residui passivi della spesa in conto capitale eliminati negli esercizi precedenti per perenzione amministrativa», le cui dotazioni sono determinate, con apposito articolo, dalla legge del bilancio. 2. Il trasferimento di somme dai fondi di cui al comma 1 e la loro corrispondente iscrizione ai capitoli di bilancio hanno luogo mediante decreti del Ministro dell'economia e delle finanze, da registrare alla Corte dei conti, e riguardano sia le dotazioni di competenza che quelle di cassa dei capitoli interessati.”. Successivamente, pertanto, con decreti del Ministro dell’economia e delle Finanze si è gradualmente fatto luogo al passaggio di somme dagli appositi “fondi speciali” istituiti per la reiscrizione in bilancio di residui passivi perenti delle spese correnti e in conto capitale, che permette il pagamento agli enti locali di quanto richiesto. Nel 2012, l’art. 35, comma 1, lett. a) del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, convertito con L. 26 aprile 2012, n. 44 aveva previsto che una quota delle risorse del fondo speciale per la reiscrizione dei residui passivi di parte corrente fosse assegnata agli enti locali, con priorità, ai Comuni. Inoltre, il Ministero dell’economia e delle finanze ha fornito la disponibilità ad assegnare, a decorrere dal 2012, risorse pari ad euro 300 milioni per finanziare la riassegnazione dei residui di cui trattasi. Infatti, la riassegnazione dei residui, vale a dire l’erogazione di somme a favore degli enti locali, comporta per lo Stato, come è noto, la necessità di una norma che disponga la costituzione della massa finanziaria destinabile allo scopo, nonché il riversamento della medesima nella disponibilità del “cassiere”, in questo caso il Ministero dell’Interno, atteso che lo Stato medesimo non può avvalersi di strumenti diversi, tipici del mondo privatistico, ma è tenuto a rispettare le disposizioni in materia poste dalla contabilità di Stato. L’erario ha, quindi, proceduto al pagamento dei residui perenti, sino a concorrenza delle somme disponibili per l’esercizio finanziario 2012, seguendo rigorosamente l’ordine di presentazione delle istanze di rimborso. Anche la Provincia ricorrente ha richiesto al Ministero dell’Interno di provvedere ad erogare le somme in questione; l’Amministrazione, con nota n. 10302 del 10 gennaio 2013 ha comunicato alla Provincia i dati relativi ai trasferimenti erariali ancora spettanti, per gli anni 2012 e precedenti, includendo, quindi, oltre ai residui perenti, le più recenti annualità ancora da versare. Pertanto, dalla somma rivendicata occorre comunque defalcare euro 1.702.311,33, spettanti a titolo di Fondo sperimentale di riequilibrio anno 2012, nonché euro 308.493,38, spettanti a titolo di contributo per l’estinzione del debito. I trasferimenti erariali perenti sono pari ad euro 12.856.544,32. Con articolo pubblicato sul Mattino di Padova nel 2012, diffuso anche su altri organi di stampa locale, la Presidente di quella Provincia preannunciò clamorose azioni legali per il recupero delle somme in questione. In particolare, l’articolo giornalistico si concludeva con il richiamo ad un precedente decreto ingiuntivo, a suo tempo richiesto dalla Provincia di Genova, conclusosi con un decreto di rigetto emesso da quel tribunale il 14 dicembre 2011. Tuttavia, in seguito alle predette iniziative, alcune Province italiane, fra le quali la ricorrente, hanno richiesto l’emanazione di decreti ingiuntivi (tutti opposti) o promosso giudizi ordinari che, come si vedrà, a quanto consta, non si sono mai conclusi favorevolmente alle Province. D I r I T T o 1. sul primo motivo di appello: Con il primo motivo di appello, la controparte lamenta l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto di esaminare in via pregiudiziale la questione attinente al difetto di giurisdizione, prescindendo dalla previa declaratoria di cessazione della materia del contendere sulla sorte capitale per effetto dell’intervenuto pagamento in corso di causa della somma a titolo di residui perenti e senza considerare la valenza della ricognizione di debito operata dal Ministero. Il motivo è destituito di fondamento. L’attività posta in essere dalle Amministrazioni statali in materia, per come in precedenza ricostruita, pertiene indubitabilmente ad attività politica e normativa (la determinazione delle scelta e le modalità di ripartizione e reiscrizione dei residui perenti), atteso che richiede l’adozione di atti aventi forza di legge. A fronte di detta attività non è dunque ravvisabile una posizione giuridica tutelabile dinanzi all’Autorità giudiziaria. Infatti, non risulta esserci stato, a livello nazionale, alcun provvedimento del giudice ordinario che, sul presupposto della sussistenza della propria giurisdizione, abbia concesso la provvisoria esecuzione di decreti ingiuntivi (tutti opposti) o che abbia emesso ordinanze ex art. 186 ter c.p.c., che richiedono gli stessi requisiti per l’emissione della provvisoria esecuzione dei decreti ingiuntivi. tanto meno constano provvedimenti che abbiano accolto la pretesa nel merito. Come già detto, l’erogazione delle somme azionate implica l’approvazione di una norma di legge che reiscriva in bilancio la corrispondente provvista, con atto di natura squisitamente politica. Va inoltre dato atto che l’art. 49 del Decreto legge 24 aprile 2014, n. 66, intitolato: “riaccertamento straordinario residui”, ha previsto, nelle more della riforma della legge di contabilità e finanza pubblica, l’adozione di un programma straordinario di riaccertamento dei residui passivi e delle partite perenti, ai fini della verifica della permanenza dei presupposti indicati all’articolo 34, comma 2, della legge 196 del 2009, secondo il quale: “formano impegni sugli stanziamenti di competenza le sole somme dovute dallo stato a seguito di obbligazioni giuridicamente perfezionate”. In sostanza, il predetto riaccertamento è inteso ad individuare, tra le partite residue iscritte in bilancio e nel conto del patrimonio, quelle che non siano più esigibili e che possono essere eliminate. una volta eliminati, i residui passivi precedentemente iscritti in bilancio vengono trasformati in voci attive, mediante versamento all’entrata e istituzione di appositi fondi da iscrivere negli stati di previsione, rispettivamente, delle Amministrazioni - per il 50% - e del MeF - per l’altro 50%. Parimenti, le somme corrispondenti ai residui passivi perenti cancellati dal conto del patrimonio dello Stato, vengono convogliate, in eguale proporzione, nei predetti fondi, eccezion fatta per quei residui che siano relativi a trasferimenti e/o compartecipazioni statutarie alle regioni, alle province autonome e agli altri enti territoriali. Per questi ultimi, infatti, è previsto, anzitutto, che le operazioni di eliminazione e cancellazione avvengano con “il concorso” degli stessi enti interessati, verosimilmente attraverso uno o più passaggi in organismi paritetici come la Conferenza Stato città e autonomie locali. Successivamente, con la legge di bilancio per gli anni 2015 - 2017, le somme corrispondenti agli importi cancellati vengono, a loro volta, iscritte su base pluriennale su appositi fondi - evidentemente anch’essi da istituire - “destinati ai medesimi enti in relazione ai residui eliminati”. L’impianto complessivo della norma, dunque, prefigura una sistemazione organica delle partite passive da eliminare, che consente di tradurre voci, attualmente negative, in voci attive, contribuendo al raggiungimento degli obiettivi di bilancio, ma senza provocare, nel tempo, una perdita per gli enti locali. Con Circolare del Ministero dell’economia e delle Finanze del 5.6.2014, n. 18, sono state impartite direttive alle Amministrazioni centrali dello Stato ai fini dell’adozione del decreto del Ministero dell’economia e delle finanze di cui all’art. 49, comma 1 D.L. n. 66/2014 entro il 31 luglio 2014. In base a detto decreto, adottato in data 26.8.2014, la procedura straordinaria di riaccertamento dei residui condotta ai sensi dell’art. 49, comma 2 del D.L. n. 66 del 5 giugno 2014, complessivamente, con riferimento agli ambiti di analisi di cui alle lettere a), b), c) e d), ha prodotto, per ciascuno stato di previsione, le risultanze riportate nell’allegato che ne costituisce parte integrante. La vicenda ha trovato uno sbocco complessivo per la totalità delle Amministrazioni provinciali con l’adozione dell’“accordo sul pagamento dei residui perenti” perfezionato in data 19 febbraio 2015 in sede di Conferenza Stato - città e autonomie locali. Prima della conclusione dell’iter normativo sopra descritto, e come correttamente rilevato dal Tribunale di roma (Dr. Archidiacono, r.G. 8343/13 in analoga controversia promossa dalla Provincia di Cuneo) nell’ordinanza del 31.3.2014, “esula dalla sfera del potere giurisdizionale attribuito al Giudice ordinario di ripristinare la esigibilità dei crediti pecuniari ad oggi dovuti e espressamente riconosciuti nel complessivo ammontare documentato e riconosciuto dal convenuto Mef a titolo di trasferimenti erariali assegnati all’ente pubblico territoriale istante e non erogati …” in quanto è necessaria “per la ricostituzione della esigibilità del credito pecuniario dovuto a tale titolo la promozione e la conclusione del procedimento legislativo con esito approvativo della reiscrizione dei capitoli in bilancio dello Stato, al fine di elidere le conseguenze discendenti dalla perenzione amministrativa dei fondi non erogati”. Si veda inoltre l’ordinanza del Tribunale di Campobasso del 14 ottobre 2014 che, nel fornire la prima interpretazione del citato art. 49 decreto legge n. 66/2014, ha negato la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto: “ritenuta l’applicabilità di tale norma alla presente controversia, non essendosi formato il giudicato e trattandosi palesemente di norma relativa proprio a rapporti debitori pregressi e già maturati; ritenuto poi che tale norma, di natura precettiva, non abbia altro senso se non quello di introdurre e prevedere una temporanea inesigibilità, per un determinato periodo, dei crediti in essa menzionati, tra i quali anche quello per cui è causa”. Ciò premesso, va precisato che tutte le cause con identico oggetto pendenti innanzi al tribunale di Roma sono state in gran parte transatte a seguito del pagamento in corso di causa della somma capitale - sempre in assenza di una provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto o di una ordinanza ex art. 186 ter c.p.c.- con rinuncia da parte delle province al pagamento degli interessi e delle spese di lite e conseguente declaratoria di cessazione della materia del contendere, sul presupposto della palese non azionabilità della pretesa (sia del capitale, sia degli accessori) e di un panorama giurisprudenziale granitico in tal senso. Si vedano in proposito: - la sentenza del Tribunale di roma, Dr. Sacco, r.G. 31487/2013 del 23.5.2014, n. 11521 di cessazione della materia del contendere, previa revoca del decreto ingiuntivo opposto, a seguito del pagamento in corso di causa della somma capitale di € 6.850.449,16 in favore della Provincia di Savona, previo rigetto della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto con ordinanza del 3.12.13; - la sentenza del Tribunale di roma, Dr.ssa Papoff, r.G. 26714/13 del 4.12.2013, n.24373 di cessazione della materia del contendere, previa revoca del decreto ingiuntivo opposto, a seguito del pagamento in corso di causa della somma capitale di € 16.601.540,39 in favore della Provincia di Siracusa; - la sentenza del Tribunale di roma, Dr.ssa D’ovidio, r.G. 30256/13 del 7.11.2014, n.22069 di cessazione della materia del contendere, previa revoca del decreto ingiuntivo opposto, a seguito di pagamento in corso di causa della somma capitale di € 17.085.956,51 in favore della Provincia di Vercelli, previo rigetto della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto con ordinanza del 22.10.13; - la sentenza del Tribunale di roma, Dr.ssa Covelli, r.G. 82302/13 del 2.7.2015, n.14371 di cessazione della materia del contendere, previa revoca del decreto ingiuntivo opposto, a seguito del pagamento in corso di causa della somma capitale di € 54.884.691,98 in favore della Provincia di Vicenza; - l’ordinanza del Tribunale di roma, Dr. Sacco, r.G. 65565/13 del 3.7.2014 di cessazionedella materia del contendere a seguito del pagamento in corso di causa (ricorso ex art. 702 bis c.p.c.) della somma capitale di € 26.398.324,92 in favore della Provincia di Benevento; - l’ordinanza del Tribunale di roma, Dr. Archidiacono, r.G. 83439/13 del 28.4.16 dicancellazione dal ruolo a seguito del pagamento in corso di causa (ricorso ex art. 702 bis c.p.c.) della somma capitale di € 17.180.107,00 in favore della Provincia di Cuneo, previo rigetto dell’ordinanza ex art. 186 ter c.p.c. del 31.3.14 sopra richiamata; - la sentenza del Tribunale di roma, Dr.ssa Dell’orfano, r.G. 52648/12 del 3.6.2015,n. 12153 di cessazione della materia del contendere, previa revoca del decreto ingiuntivo opposto, a seguito del pagamento in corso di causa della somma capitale di € 24.425.385,99 in favore della Provincia di Treviso; - il decreto del Tribunale di roma, Dr. Sacco, r.G. 72028/2014 del 20.12.2016, n. 72028 di estinzione del giudizio a seguito del pagamento in corso di causa (ricorso ex art. 702 bis c.p.c.) della somma capitale di € 8.679.170,08 in favore della Provincia di Lucca. la cessazione della materia del contendere (o la cancellazione dal ruolo/estinzione del giudizio) è stata dichiarata in tutti i suddetti casi in quanto non residuava alcun punto controverso da decidere per effetto della rinuncia delle Province agli interessi legali e alle spese di lite. Nel caso di specie, al contrario, avendo la Provincia di Teramo insistito nella domanda di condanna al pagamento degli interessi legali, dopo il pagamento del capitale in corso di causa, il Tribunale non poteva non decidere in primo luogo sull’eccepito difetto di giurisdizione che costituisce un prius rispetto a qualsiasi decisione di merito. Correttamente quindi il Giudice di primo grado, pur dando atto dell’intervenuto pagamento della sorte, non ha potuto che pronunciarsi, in primo luogo, sulla sussistenza o meno della propria giurisdizione. La questione della cessazione della materia del contendere assume rilievo pregiudiziale rispetto a quella della giurisdizione solo quando, come nei casi sopra richiamati, non residui alcun punto controverso da decidere e ciò alla luce del principio di economia processuale. Laddove invece la cessazione della materia del contendere sia solo parziale, appare evidente che, per la decisione delle domande ancora oggetto del contendere, sia necessario previamente statuire sulla sussistenza o meno della giurisdizione del giudice adito. Quanto all’asserita valenza di riconoscimento del debito ad opera del Ministero, trattasi di tesi assolutamente infondata, come si dirà meglio infra sub 4. e 5.3., trattandosi di censura attinente al merito della controversia. Il primo motivo di appello deve pertanto essere respinto. 2. sul secondo motivo di appello: Con il secondo motivo di appello, la Provincia di Teramo si duole dell’asserita erroneità della statuizione che ha ritenuto insussistente la giurisdizione del giudice ordinario sulla scorta di una erronea considerazione dell’istituto dei residui perenti. Anche tale motivo è destituito di fondamento. a prescindere dalla assorbente eccezione di difetto assoluto di giurisdizione sollevata dalle amministrazioni appellate e condivisa dal tribunale nella parte in cui ha escluso l’operatività della traslatio iudicii, si osserva, in via subordinata, che va comunque esclusa la giurisdizione del giudice ordinario. La natura delle somme rivendicate e le modalità di formazione del preteso credito sottraggono la questione all’ambito schiettamente civilistico e, di conseguenza, la cognizione della controversia all’Autorità Giudiziaria ordinaria. I trasferimenti erariali in relazione ai quali si controverte, riconducibili all’ambito della finanza derivata, possono essere qualificati come sovvenzioni nate per affiancare la finanza propria degli enti locali, basata sull’imposizione locale, allo scopo di venire incontro allo sforzo economico dagli stessi affrontato, grazie ad una redistribuzione delle entrate erariali sul territorio nazionale, correlandole a svariate tipologie di attività, con l’obiettivo di conferire alle erogazioni una veste giuridica che consenta di pervenire ad una quantificazione delle risorse trasferite mediante un "aggancio" a partite di bilancio certe. Con l’istituto del consolidamento dei trasferimenti, poi, essi divengono una posta fissa del bilancio statale, destinata a riverberarsi per tutte le annualità successive: per tale ragione qualsiasi ulteriore variazione od aumento deve trovare un ulteriore e diverso fondamento normativo, pena lo scardinamento degli equilibri di bilancio. Salve le considerazioni svolte in precedenza, tale assunto appare comunque dirimente rispetto alla pretesa di portare la controversia alla cognizione dell’AGo, sol che si ponga mente alla circostanza che l’erogazione delle somme richieste, in quanto correlata alla finanza pubblica, necessita (come visto) non solo di una preventiva previsione legislativa, ma, incardinata su di essa, l’adozione di decreti del Ministero dell’economia e delle Finanze occorrenti al materiale pagamento, adottati nella misura consentita dal mantenimento degli equilibri finanziari globali dell’erario. In tal senso si è espresso il Giudice Amministrativo in provvedimenti cautelari emessi in contenzioso avente identico oggetto - richiesta di erogazione di trasferimenti erariali a titolo di residui perenti 1999/2004 (t.a.R. lazio - Roma, n. 19 del 10 gennaio 2012 e, successivamente, Consiglio di stato, 28 febbraio 2013, n. 1223: "occorre distinguere, anche in seno alle attività di tipo vincolato, tra quelle ascritte all'amministrazione per la tutela in via primaria dell'interesse del privato e quelle, viceversa, che la stessa amministrazione è tenuta ad esercitare per la salvaguardia dell'interesse pubblico. in conseguenza, anche a fronte di attività connotate dall'assenza in capo all'amministrazione di margini di discrezionalità, occorre avere riguardo, in sede di verifica della natura della corrispondente posizione soggettiva del privato, alla finalità perseguita dalla norma primaria, per cui quando l'attività amministrativa, ancorché a carattere vincolato, tuteli in via diretta l'interesse pubblico, la situazione vantata dal privato non può che essere protetta in via mediata, così assumendo consistenza di interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del Giudice amministrativo (Consiglio di stato, adunanza Plenaria n. 8 del 24 maggio 2007). Considerato che nella fattispecie, anche a voler ritenere del tutto vincolata l'attività dell'amministrazione, non sussistono dubbi sulla rilevanza ai fini pubblicistici dei provvedimenti con i quali sono assegnati dallo stato agli enti locali i contributi ordinari, si deve ritenere che le relative questioni spettino alla cognizione del giudice amministrativo"). In sostanza, quanto versato dallo Stato trova la propria ragion d’essere in scelte effettuate dal Legislatore riguardo all’esercizio di fondamentali funzioni amministrative, cui si accompagna la messa a disposizione delle necessarie risorse mediante trasferimenti provenienti dal bilancio statale, che devono essere assegnate sulla base di quanto previsto da specifiche disposizioni di legge. Si è in presenza dunque di un peculiare rapporto giuridico non riconducibile in alcun modo a rapporti di natura strettamente privatistica, dai quali possono scaturire obbligazioni aventi ad oggetto il pagamento di somme di danaro: né quindi è ravvisabile in capo all’appellante Provincia una posizione di diritto soggettivo tutelabile in questa sede. Fermo restando che sul punto si tornerà allorquando si accennerà alla mancanza di liquidità ed esigibilità del credito azionato dalla Provincia, qui mette conto di evidenziare che il trasferimento dei finanziamenti intorno ai quali si controverte può aver luogo solo ed esclusivamente mediante una specifica procedura che presuppone, a monte, una norma di legge che preveda l’apposito stanziamento sul bilancio, soggetta, ovviamente, a valutazioni di tipo politico-economico, e, a valle, l’effettuazione di una serie di adempimenti da parte del Ministero dell’economia e delle Finanze (si è visto che la mancanza di provvista finanziaria richiede la riassegnazione dei residui passivi e l’iscrizione nel pertinente capitolo del bilancio con decreto del Ministro) prodromici all’effettuazione del trasferimento da parte del Ministero dell’Interno. A tutto voler concedere, si potrebbe forse ritenere che, una volta completati i suddetti passaggi e adempimenti, residuando solo l’attività di accredito del dovuto, di competenza del Ministero dell’Interno, in caso di inerzia di quest’ultimo la pretesa possa essere azionata dinanzi al Giudice ordinario: ma una tale situazione certamente non si dava nel caso qui considerato, al momento della presentazione del ricorso per decreto ingiuntivo come risulta anche dalla documentazione ex adverso prodotta, con la conseguenza che le pretese monitoriamente azionate erano da ritenersi radicalmente inammissibili; ciò che imponeva la dichiarazione di difetto di giurisdizione del Giudice civile, come appunto dichiarato dal Tribunale di roma. Anche il secondo motivo di appello merita quindi di essere respinto. 3. sul terzo motivo di appello: Con il terzo motivo di appello, la Provincia di Teramo si duole dell’asserita erroneità della statuizione che, a fronte della declaratoria di difetto di giurisdizione, ha escluso la possibilità di potersi far luogo alla translatio iudicii innanzi al giudice amministrativo. Anche tale motivo di appello è infondato. Innanzitutto non si ravvisa alcuna contraddizione della sentenza ex adverso impugnata nella parte in cui ha, da un lato, ipotizzato, solo in via astratta ed ipotetica, la giurisdizione “semmai” del giudice amministrativo e, dall’altro, ha escluso, sulla base della ricostruzione normativa - che consente la reiscrizione in bilancio di un residuo perento esclusivamente mediante l’adozione di un atto di natura legislativa e “l’esercizio di poteri di attuazione degli indirizzi di politica economico-finanziaria dettati dallo Stato-governo” - e giurisprudenziale in relazione agli atti di alta amministrazione caratterizzati “da un forte tasso di discrezionalità” - che residuasse alcun margine di apprezzamento anche in capo al giudice amministrativo negando quindi la possibilità di traslatio iudicii innanzi allo stesso. Invero, tale conclusione è del tutto coerente con quanto sostenuto in via principale dai Ministeri in epigrafe nell’atto di opposizione a decreto ingiuntivo in merito alla non giustiziabilità della pretesa avversaria per difetto assoluto di giurisdizione. Del resto, proprio l’adozione dell’“accordo sul pagamento dei residui perenti” perfezionato in data 19 febbraio 2015 in sede di Conferenza Stato-città e autonomie locali, con la piena condivisione quindi delle province interessate - all’esito del quale tutte le province sono state pagate limitatamente alla sorte capitale, con esclusione degli interessi atteso che prima della conclusione dell’iter legislativo più volte richiamato non era configurabile alcuna posizione soggettiva giuridicamente tutelabile a fronte della quale far decorrere gli interessi moratori - non fa che confermare e rafforzare il convincimento che non vi era - e adesso a maggior ragione non vi è più - alcun margine di giustiziabilità della pretesa avversaria. Anche il terzo motivo di appello deve pertanto essere respinto. 4. sul quarto motivo di appello: Con il quarto motivo di appello, la Provincia censura la statuizione della sentenza impugnata che ha ritenuto la Provincia di Teramo virtualmente soccombente quanto alla richiesta di esazione della sorte capitale e realmente soccombente quanto alla pretesa di pagamento degli interessi, con condanna al pagamento delle spese di lite senza tener conto dell’intervenuto pagamento del capitale in corso di causa, circostanza rilevante ai fini dell’invocata compensazione delle spese. Anche tale motivo di appello è palesemente infondato. Il Giudice di primo grado ha infatti valutato l’assoluta inammissibilità dell’intera domanda ex adverso proposta: la pretesa relativa al pagamento degli interessi è stata respinta in quanto voce accessoria rispetto ad una sorte capitale non riconoscibile dal giudice ordinario che non avrebbe potuto mai “supplire all’inerzia dei vertici dell’amministrazione finanziaria” nell’adozione della legge di bilancio e dei provvedimenti attuativi di programmazione economico-finanziaria, come inammissibilmente preteso dalla provincia odierna appellante. Va ribadito infatti che il pagamento della sorte capitale è stato effettuato del tutto a prescindere dalla pendenza di una causa e con una tempistica che ha rispettato la priorità della domanda di reiscrizione dei residui perenti, anche da parte di quelle Province che non hanno azionato alcuna pretesa in sede giurisdizionale, a mano a mano che è stata ricostituita la provvista nell’apposito capitolo di bilancio. Negli unici due casi, oltre a quello oggetto del presente giudizio, in cui, a quanto consta, identica pretesa è stata rigettata nel merito, è stato perspicuamente affermato che: - “non vi è dubbio peraltro che il Ministero dell’interno non abbia alcun ruolo nell’adozione dei decreti di competenza di altro Ministero (che la Provincia di rieti ha ritenuto di non evocare in giudizio); né il Tribunale può sopperire alla mancanza di detti decreti ovvero ordinarne l’adozione a soggetto (si ripete, estraneo al giudizio), potendo solo accertare l’esistenza di un credito certo, liquido ed esigibile e non colmare la carenza delle condizioni che la legge pone per l’esigibilità del credito, sostituendosi all’Amministrazione nell’esercizio di scelte discrezionali ovvero addirittura sindacando l’eventuale illegittimità delle procedure prefigurate dalla legge, con valutazione di natura persino politica” (tribunale di Roma, sentenza del 21.3.2017, n. 5537 passata in giudicato); in detta decisione è stata inoltre esclusa la valenza di riconoscimento di debito, esattamente come deciso nella sentenza impugnata con statuizione censurata con il primo motivo di appello, affermando che “non può per altro verso annettersi valore di riconoscimento di debito, alle note ministeriali in atti, le quali altro valore non possono avere che quello ricognitivo del credito di fonte legale, senza poter assurgere essere stesse a titolo dell’obbligazione: e ciò non già perché i firmatari delle stesse non abbiano astrattamente il potere di impegnare l’amministrazione, ma perché ciò possono fare nell’ambito delle procedure legislativamente predeterminate, senza facoltà di accordare sovvenzioni che non trovino rispondenza in una norma di legge; né sotto il profilo materiale, le note prodotte dalla provincia di rieti possono qualificarsi contenutisticamente come riconoscimento di un debito esistente, concordando esse sulla sussistenza di una ‘legittima aspettativa’ del richiedente, ma ribadendo a più riprese che la soddisfazione di detta aspettativa è necessariamente subordinata all’osservanza della disciplina vigente”; - “non può considerarsi sorta in capo all’ente locale una posizione di diritto soggettivo fondante la giurisdizione del giudice ordinario fintanto che non sia completato il procedimento descritto con l’adozione dei decreti del Ministero dell’Economia e delle Finanze” (tribunale di Roma, sentenza del 30.3.2017, n. 6296, impugnata innanzi a codesta Corte d’appello ove è stata rinviata per la precisazione delle conclusioni all’udienza del 14.12.2020 - R.G. 7479/17); in relazione alla sentenza della Corte Costituzionale n. 70 del 2012, detta decisione ha altresì precisato che “la Corte costituzionale ha chiarito che l’istituto amministrativo della perenzione non arreca alcun danno al creditore che, qualora sia avvenuta la cancellazione dal bilancio dell’importo dovutogli, conserva il diritto ad avanzare richiesta di pagamento, tuttavia sempre compatibilmente con la disponibilità di risorse nei fondi speciali per la rassegnazione e la reiscrizione in bilancio del suo credito”; nella predetta decisione si chiarisce inoltre che “nella specie il pagamento di quanto richiesto è subordinato all’adozione di provvedimenti amministrativi che coinvolgono inevitabilmente valutazioni di finanza pubblica in ordine ai rapporti tra Stato e enti locali che esulano dalla giurisdizione del giudice ordinario, nell’ambito delle quali non è ammissibile una sostituzione del giudice all’amministrazione (in tal senso si condivide il precedente prodotto da parte attrice del tribunale di Genova n. 3892/2011, nonché l’ordinanza della seconda sezione di questo tribunale depositata il 31 marzo 2014 nel proc. r.G. n. 83437/2013). Deve convenirsi con la difesa erariale che l’ingiunzione di pagamento ordinata dal giudice comporterebbe effettivamente l’imposizione di un facere alla pubblica amministrazione, pur in assenza dei prescritti provvedimenti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, verificandosi così un’indebita interferenza nella gestione delle finanze statali”; detta decisione, in identica situazione di pagamento in corso di causa del capitale e di persistenza della domanda sugli interessi, ha condannato la Provincia di Viterbo al pagamento delle spese di lite che “seguono la soccombenza anche virtuale”. Invero, a fronte delle numerosissime transazioni di cui si è dato atto al punto 1. del presente atto, in cui tutte le province, ad eccezione dell’odierna appellante e di altre due, a fronte del pagamento del capitale, hanno rinunciato ad interessi e spese, nella consapevolezza della palese inammissibilità della domanda per inesigibilità del credito, la Provincia di Teramo ha pervicacemente insistito nella domanda volta ad ottenere il pagamento degli interessi di mora in totale assenza di un ritardo giuridicamente rilevante atteso che, come già ampiamente argomentato, prima del completamento dell’iter legislativo di reiscrizione del residuo perento in bilancio non è configurabile alcuna posizione soggettiva giuridicamente tutelabile. Correttamente quindi il giudice di primo grado ha condannato la provincia medesima al pagamento delle spese di lite in base al principio della soccombenza virtuale (per il capitale) e reale (per gli interessi). Anche il quarto motivo di appello deve essere respinto. 5. sul quinto motivo di appello: Con il quinto motivo di appello, la Provincia ripropone le difese già articolate in primo grado sulle questioni processuali di merito rimaste assorbite e, in particolare, sul difetto di legittimazione passiva del Ministero dell’Interno, sulla necessità di integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri enti locali titolari di residui perenti, sull’assenza di un titolo azionabile monitoriamente, sull’insussistenza di un credito liquido ed esigibile e sulla decorrenza degli interessi dalla data di maturazione del diritto. Al riguardo si ribadisce quanto segue. 5.1. sul difetto di legittimazione passiva del Ministero dell’Interno. Si ribadisce l’eccezione di difetto di legittimazione passiva del Ministero dell’Interno. Come si è detto, l’assegnazione delle somme di cui trattasi è possibile solo laddove una norma di legge, corredata dei successivi decreti del Ministero dell’economia e delle Finanze, disponga il reintegro dei rispettivi capitoli. Poiché le dotazioni di bilancio dipendono esclusivamente dai versamenti del Ministero dell’economia e delle Finanze (anch’essi, peraltro, derivanti dalla sussistenza di specifica previsione normativa), il Ministero dell’Interno è tenuto soltanto, ove vi sia necessità di rifornire i capitoli di spesa, a formulare la relativa richiesta di fondi al Ministero dell’economia e delle Finanze, indicando la somma occorrente. Pertanto, è di tutta evidenza il difetto di legittimazione passiva del Ministero dell’Interno dal momento che esso ha regolarmente provveduto ad espletare quanto di propria competenza per la soddisfazione del credito preteso dalla Provincia odierna appellante. Infatti, ai sensi dell’art. 27 della Legge 31 dicembre 2009, n. 196, intitolato “Fondi speciali per la reiscrizione in bilancio di residui passivi perenti delle spese correnti e in conto capitale”: “1. Nello stato di previsione della spesa del Ministero dell'economia e delle finanze sono istituiti, nella parte corrente e nella parte in conto capitale, rispettivamente, un «fondo speciale per la riassegnazione dei residui passivi della spesa di parte corrente eliminati negli esercizi precedenti per perenzione amministrativa» e un «fondo speciale per la riassegnazione dei residui passivi della spesa in conto capitale eliminati negli esercizi precedenti per perenzione amministrativa», le cui dotazioni sono determinate, con apposito articolo, dalla legge del bilancio. 2. il trasferimento di somme dai fondi di cui al comma 1 e la loro corrispondente iscrizione ai capitoli di bilancio hanno luogo mediante decreti del Ministro dell'economia e delle finanze, da registrare alla Corte dei conti, e riguardano sia le dotazioni di competenza che quelle di cassa dei capitoli interessati”. Pertanto, l’assegnazione delle risorse per il pagamento dei residui di cui trattasi avviene solo a seguito dell’adozione dei decreti del Ministro dell’economia e delle Finanze. Si soggiunge, inoltre, che la mancata o ritardata adozione dei predetti decreti, priverebbe completamente il Ministero dell’Interno della possibilità di effettuare qualsiasi pagamento: quest’ultimo, infatti, non dispone dei fondi occorrenti e, in ogni caso, non ha la possibilità di effettuare anticipazioni come un soggetto privato, dal momento che la gestione del pubblico denaro è strettamente soggetta alle rigide norme contabili. 5.2. necessità di integrazione del contraddittorio. Va anche ribadito il difetto di integrità del contraddittorio. Non v’è dubbio che l’adozione di un provvedimento giurisdizionale quale quello richiesto dalla Provincia, portando ad una ridistribuzione di risorse “finite” da ripartire tra tutti i soggetti (Province, Comuni) potenzialmente destinatari delle dette risorse a titolo di reiscrizione dei residui perenti, incide direttamente sulle loro posizioni. Laddove si procedesse all’integrale erogazione delle somme richieste dalla Provincia, anche a titolo di interessi, tenuto conto della cifra totale disponibile per l’esercizio finanziario, risulterebbero inevitabilmente compresse le aspettative di tutti gli altri soggetti (alcuni dei quali hanno agito anch’essi in sede giurisdizionale azionando la medesima pretesa). In considerazione dell’assenza di risorse tali da consentire di far fronte a tutte le pretese azionate, è evidente che tutti gli enti locali titolari di residui perenti sono litisconsorti necessari nel presente gravame. 5.3. sull’assenza di un titolo azionabile monitoriamente. Come si evince con chiarezza dal corpus normativo cui si è in precedenza fatto riferimento, per far insorgere la pretesa creditoria in questa sede azionata, sono necessari, oltre ad una specifica norma di legge, una serie di passaggi ed adempimenti preordinati alla reiscrizione in bilancio dei residui perenti. orbene, nello specifico caso qui considerato, tali passaggi, al momento della proposizione della domanda, non erano stati completati, né esisteva alcuna prova scritta idonea a dimostrare la fondatezza (oltre che l’esatta consistenza) delle pretese ex adverso azionate, certo non potendosi considerare tale la corrispondenza, cui fa riferimento la Provincia, con la quale il Ministero dell’Interno si era limitato a chiedere al Ministero dell’economia e delle Finanze il reintegro dei capitoli di bilancio. In particolare, alla pag. 8, primo cpv., del ricorso per decreto ingiuntivo, la ricorrente afferma che il credito di euro 14.915.519,50 sarebbe stato riconosciuto dal dirigente del competente ufficio con lettera n. 10302 del 10 gennaio 2013, che : “...costituisce riprova della sussistenza di tutte le condizioni sostanziali di ammissibilità…”. Premesso che, come si è precisato in fatto, la nota riguardava genericamente le spettanze ancora da versare all’ente locale, non limitatamente ai residui perenti, ed era, pertanto, del tutto generica, come si può immaginare, tra gli enti locali e l’Amministrazione intercorre regolarmente una intensa corrispondenza, relativa a tutte le varie voci di trasferimenti erariali; si tratta, tuttavia, sempre di documenti interlocutori, del tutto privi di valenza e natura provvedimentale. e ciò è tanto vero che, nel ricorso per decreto ingiuntivo, nel tentativo di sostenere che si era comunque in presenza di obbligazioni aventi ad oggetto il pagamento di somme di danaro fondate su prova scritta, si è sostenuto che quanto risultante dalla menzionata corrispondenza costituiva riconoscimento del debito del Ministero dell’Interno nei confronti della Provincia. Senonché anche a non voler considerare quanto in precedenza evidenziato a proposito dei contenuti della corrispondenza, basta aver riguardo alla provenienza delle note ex adverso invocate per rendersi conto che le stesse non sono attribuibili all’amministrazione competente (il Ministero dell’economia e delle Finanze) e, quanto al Ministero dell’Interno, non discendono dall’organo di vertice che, solo, ha il potere di porre in essere un atto di riconoscimento di debito. Certo è quindi che, nel caso di specie, mancava in radice la prova scritta dei crediti in relazione ai quali era stata avanzata richiesta di emissione di decreto ingiuntivo. 5.4. sull’insussistenza di un credito liquido ed esigibile. Il credito azionato riguarda residui passivi oggetto di perenzione amministrativa. La perenzione è istituto proprio della contabilità pubblica, disciplinato dall’art. 36 del r.D. 2440/1923, in forza del quale i debiti dello Stato che non vengono pagati entro un certo tempo a partire dall’esercizio a cui si riferiscono vengono eliminati dalle scritture contabili statali, senza che detta operazione contabile determini decadenze di sorta in capo ai creditori insoddisfatti. ebbene in presenza di siffatta situazione, per effetto dell’art. 27 della Legge n. 196/2009, il trasferimento del dovuto può aver luogo solo sulla base di una procedura che si può così sintetizzare: a) dotazione, con apposito articolo della legge di bilancio, dei fondi appositamente co-stituiti per la riassegnazione dei residui passivi di spesa negli esercizi precedenti per perenzione amministrativa; b) trasferimento delle somme affluite in detti fondi per destinazione voluta dal Legisla-tore sui vari capitoli di bilancio relativi alle poste debitorie dello Stato mediante iscrizione agli stessi da effettuarsi con apposito decreto del Ministro dell’economia e delle Finanze sottoposto a registrazione della Corte dei Conti; c) successivo afflusso delle somme sul relativo capitolo di bilancio del Ministero del- l’Interno per effetto di apposito decreto del Ministero dell’economia e delle Finanze. orbene è sin troppo evidente che, sino al completamento della descritta procedura amministrativo-contabile, non vi era spazio alcuno per ipotizzare la liquidità ed esigibilità dei crediti vantati dagli enti locali destinatari dei trasferimenti, come la Provincia avversaria. Si vedano al riguardo le note del Ministero dell’economia e delle Finanze - Dipartimento della ragioneria Generale dello Stato del 2 settembre 2012 e del 20 ottobre 2011. A dimostrazione di quanto si va qui dicendo, si richiama il decreto del Tribunale di Genova che ha rigettato analogo ricorso per decreto ingiuntivo sulla base della seguente motivazione: “…l’importo economico azionato non è certo e liquido, perché il riconoscimento delle spettanze dovute alla Provincia di Genova per reiscrizione dei residui perenti non è transitato attraverso i provvedimenti previsti dall’art. 27 della legge 196 del 2009 … Ne discende che: a) prima dell’emissione dei provvedimenti ministeriali e del completamento del procedimento di spesa, non è possibile parlare di un diritto soggettivo di credito azionabile presso il giudice ordinario: posto che la riassegnazione dei fondi perenti non è atto dovuto ma, in base alla norma individuata, pare scontare una valutazione discrezionale amministrativa (se non politica) circa il momento, la consistenza e le modalità di rifinanziamento; b) con la condanna al pagamento mediante decreto ingiuntivo, lo scrivente si sostituirebbe al M.E.F., nell’emissione dei decreti di esclusiva competenza del Ministro, caratterizzati da discrezionalità, di contro al divieto per l’a.G.o. di consimili decisioni giudiziarie … pur se l'organo di controllo ha indubbiamente censurato la gestione dei residui passivi provinciali e parrebbe aver ritenuto sussistente il debito statale (non consta però la registrazione dei precedenti decreti ministeriali), la dichiarazione scritta prodotta dalla Provincia come doc.5 (consistente nella mera comunicazione dell’ammontare di residui della Provincia, n.d.r.) non risulta sottoscritta da un dirigente statale in grado di impegnare l’Amministrazione centrale per un titolo di spesa prossimo ai 30 milioni di Euro: la competenza dell'ufficio a cui è addetto il dr. (...) risulta risolversi nella collaborazione direttiva agli organi di vertice del Ministero, non già in attività sostitutiva della direzione generale del tesoro o del Ministro stesso. Non vi è dunque allo stato un riconoscimento di debito impegnativo per il Ministero dell'Economia e non è ancora completato il procedimento amministrativo discrezionale, che determina liquidità ed esigibilità delle somme da reiscriversi a bilancio”. D’altro canto, come in precedenza si accennava, non essendoci una disponibilità tale da consentire di far fronte alla pretesa di tutte le Province e (con priorità) dei Comuni, la determinazione delle somme che potrebbero essere riconosciute passa comunque attraverso una valutazione comparativa delle varie pretese di reiscrizione (valutazione, peraltro, frutto di scelte lato sensu politiche, cui segue l’adozione di provvedimenti amministrativi: attività, tutte queste, sulle quali non sembra possa incidere un provvedimento del Giudice ordinario). Ciò è quanto ad esempio accaduto nel 2011, anno in cui si è reso possibile procedere al versamento solo di una quota, pari ad euro 7.297.812,47, come riconosciuto dalla medesima ricorrente alla pag. 2 del ricorso, proprio in ragione della sussistenza di legittime esigenze anche degli altri enti locali. È, infatti, evidente che lo Stato, in considerazione delle notevoli ripercussioni sulle Casse statali derivanti da tali trasferimenti e dell'insufficienza delle risorse, può autorizzare il trasferimento soltanto di una quota delle somme richieste dai singoli enti Locali, come accaduto nell’anno 2012. Non può dunque sfuggire che gli interessi portati dai soggetti contendenti, entrambi di natura pubblicistica, debbono necessariamente trovare un bilanciamento nel principio di leale collaborazione scolpito nella Carta costituzionale. Tale principio è stato gravemente violato dalla pretestuosa iniziativa giudiziaria di controparte, la quale è stata esplicitamente ispirata da analoga iniziativa di altre Province, ampiamente pubblicizzata su organi di stampa, che deve ritenersi del tutto strumentale. Infatti, è bene ricordare che anche gli enti locali concorrono al coordinamento della finanza pubblica ed al perseguimento degli obiettivi individuati dall’unione europea e sono ad essi vincolati. Si ritiene non serva aggiungere altro al fine di dimostrare l’assoluta inconsistenza delle pretese monitoramente azionate dalla Provincia che non soltanto riguardavano crediti supportati da prova scritta ma erano assolutamente illiquidi e inesigibili. 5.5. sulla decorrenza degli interessi dalla data di maturazione del diritto. In via del tutto gradata, si contesta comunque la pretesa avversaria di percepire gli interessi a decorrere dalla maturazione del diritto. Come è stato ampiamente argomentato, non è configurabile un ritardo giuridicamente rilevante prima del completamento dell’iter legislativo di reiscrizione dei residui perenti nei capitoli di bilancio del Ministero dell’Interno, atteso che prima di tale evenienza detta Amministrazione non ha il potere di procedere ad alcun tipo di erogazione. Per TuTTI I SueSPoSTI MoTIVI Il Ministero dell’Interno e il Ministero dell’economia e delle Finanze, come sopra rappresentati e difesi, chiedono l’accoglimento delle seguenti CoNCLuSIoNI “Voglia l’Ill.ma Corte d’Appello adita confermare la dichiarazione di difetto assoluto di giurisdizione e per l’effetto respingere l’appello avversario. Con vittoria di spese, competenze ed onorari di lite”. roma 25 gennaio 2020 Wally Ferrante Avvocato dello Stato tribunale di Roma, sezione seconda Civile, sentenza 31 ottobre 2018 n. 20891 - Giud. Alessandra Imposimato - Ministero dell’Interno e Ministero delle Finanze (avv. gen. Stato) c. Provincia di Teramo (avv.ti M. Di Giandomenico, A. Zecchino). Motivi della Decisione 1. fatti controversi. 1.1 Il contendere trae origine dalla notificazione, in data 15 maggio 2013, del decreto ingiuntivo n° 9929/2013, emesso - in data 9 maggio 2013 - a carico del Ministero dell'Interno, per il complessivo importo di € 14.915.519,50, preteso, dalla Provincia di Teramo, a titolo di "trasferimenti erariali dovuti per legge dello stato, già assegnati ma non ancora erogati", in relazione alle "funzioni costituzionalmente esercitate per gli anni 2012 e precedenti". In particolare, la ingiungente Provincia di Teramo, ha esposto che: (a) per effetto della L. n. 244/2007 venivano meno le disposizioni di cui all'art. 47 comma1° della L. n° 449/97, che avevano subordinato l'erogazione dei trasferimenti dovuti dallo Stato alle Province (ex artt. 28 e ss. D. Lgs.vo n° 504/92; art. 149, comma 4° lett. d) D. Lgs.vo n° 267/2000), al raggiungimento di determinati limiti di giacenza e di liquidità di cassa; (b) essa Provincia aveva pertanto sollecitato la "reiscrizione dei residui perenti", nel bilancio dello stato, al fine di ottenere il trasferimento della complessiva somma di € 19.242.028,04, asseritamente dovuta per "contributo ordinario", "contributo consolidato", "contributo perequativo fiscale", "contributo per sviluppo investimenti", "altri contributi", di cui non goduto nelle annualità 1997-2007, somma poi ridotta ad € 14.583.520,79, con distinte note indirizzate al Ministero dell'interno; (c) il Ministero aveva comunicato, con nota prot. 1095, pervenuta il 9 marzo 2009, di avereavviato "formale richiesta di iscrizione dei residui in parola"; (d) con successiva nota prot. 10302 del 10.1.2013, il Ministero aveva riconosciuto che"l'ammontare complessivo dei trasferimenti erariali ancora spettanti a favore" della Provincia di Teramo, "per gli anni 2012 e precedenti", fosse pari ad € 14.915.519,50. Tanto rappresentato in fatto, la difesa della Provincia, argomentando sul buon diritto (sostantivo perfetto) di ricevere i trasferimenti dovuti dallo Stato, e sulla presenza di prova scritta idonea all'emissione del decreto ingiuntivo, ai sensi degli artt. 633 e ss. C.p.c., ha chiesto ed ottenuto l'ingiunzione opposta. 1.2 Con atto di citazione notificato in data 20 giugno 2013, il Ministero dell'Interno ed il Ministero dell'economia e Finanze hanno chiesto di dichiarare nullo e/o inefficace il decreto ingiuntivo opposto, a motivo del "difetto assoluto di giurisdizione", ovvero del "difetto di giurisdizione del giudice ordinario", od infine per l'infondatezza, nel merito, della domanda ingiuntiva, esponendo i motivi di opposizione che saranno di seguito esaminati. Nel corso della lite, la difesa della Provincia di Teramo ha dato atto dell'integrale pagamento della sorte ingiunta, ed ha precisato la propria domanda chiedendo una mera declaratoria di accertamento del credito già vantato nei riguardi dell'erario, e la condanna al versamento degli interessi asseritamente maturati sulle somme "dovute". All'udienza, precisate le conclusioni come in atti, la causa è stata trattenuta in decisione, previa assegnazione di termini ridotti per memorie conclusionali e di replica. 2. questioni pregiudiziali. 2.1 Va premesso, in limine, che l'intervenuto pagamento della sorte di € 14.915.519,50, recata dal decreto ingiuntivo opposto, pagamento di cui la difesa ingiungente ha dato atto sin dal suo scritto di costituzione in giudizio, laddove il tribunale non fosse pervenuto (come dovrà pervenire) alla declaratoria di difetto di giurisdizione (in ordine alla domanda dedotta in giudizio), sarebbe stato di per sé tale da implicare la revoca dell'ingiunzione, e la declaratoria di cessazione, in parte qua, della materia del contendere. Difatti, è principio pacifico quello secondo cui "l'oggetto del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo non è ristretto alla verifica delle condizioni di ammissibilità e di validità del decreto stesso, ma si estende all'accertamento, con riferimento alla situazione di fatto esistente al momento della pronuncia della sentenza, e non a quello anteriore della domanda o dell'emissione del provvedimento opposto dei fatti costitutivi del diritto in contestazione" (così Cass. n. 4103 del 21/02/2007); ne consegue che "il giudice, qualora riconosca fondata, anche solo parzialmente e per fatti sopravvenuti, una eccezione di pagamento formulata dall'opponente deve comunque revocare "in toto" il decreto opposto, pronunciando condanna al pagamento della somma effettivamente dovuta" (in tali termini, Cass. n. 15026 del 15/07/2005; conf. Cass. n. 6514 del 19/03/2007, che soggiunge: "..senza che rilevi, in contrario, l'eventuale posteriorità dell’accertato fatto estintivo rispetto al momento di emissione del decreto, sostituendosi all'originario decreto ingiuntivo la sentenza di condanna al pagamento di residui importi del credito"; il principio è ripetuto dalla giurisprudenza successiva: v. ex plurimis Cass. n. 24258 del 30/11/2010). Nondimeno, giacché ancora si controverte della debenza degli interessi sulla sorte capitale, né la difesa erariale ha rinunciato alle eccezioni svolte in giudizio (oltretutto non rinunciabili, in quanto attinenti al difetto di giurisdizione, rilevabile d'ufficio, in ogni stato e grado della lite: art. 37 c.p.c.), vanno comunque esaminate le questioni dedotte in controversia, rispettando l'ordine di pregiudizialità di cui agli artt. 187 e 279 c.p.c. 2.2 L'eccezione di difetto di giurisdizione, quale sollevata dall'Avvocatura dello Stato in relazione alla domanda svolta dalla Provincia di Teramo, nel ricorso ingiuntivo per cui è contendere, è fondata ed assorbente di qualsivoglia altra questione processuale controversa in giudizio, per quanto di seguito considerato. 2.3 La Provincia di Teramo ha agito per vedersi corrispondere la somma di € 14.915.519,50, a suo dire dovutale a titolo di "trasferimenti erariali dovuti per legge dello stato, già assegnati ma non ancora erogati, per le funzioni costituzionalmente esercitate "per gli anni 2012 e precedenti" (v. pag. 2 del ricorso ingiuntivo), debito questo (in tesi) esplicitamente riconosciuto (art. 1988 c.c.) dal Ministero dell'Interno con nota prot. n. 10302 del 10 gennaio 2013 (all. 7 al ricorso ingiuntivo). Ha in particolare rinvenuto il titolo e fonte del suo diritto di credito negli artt. 28 e ss. D. Lgs.vo n° 504/1992, nell'art. 149, comma 2 e comma 4, D. Lgs.vo n° 267/2000 (Tu autonomie locali), nell'art. 54, comma 2, L. n. 142/1990, nell'art. 119, comma 5 Cost., e nei "pregressi atti di assegnazione di tali trasferimenti a carico del bilancio dello stato nei precedenti esercizi finanziari" (v. pag. 8 del ricorso ingiuntivo e successivi scritti difensivi della Provincia). Ad avviso del tribunale, mentre la ricognizione di debito (art. 1988 cc.) ipoteticamente ravvisabile nella nota Ministero dell'Interno prot. 10302 del 10 gennaio 2013, non era tipicamente tale da costituire fonte autonoma di obbligazione, comportando semmai esclusivamente l'inversione dell'onere della prova, sul piano processuale (trattasi di principio pacifico; per tutte, v. Cass. n. 13506 del 13/06/2014: "la ricognizione di debito, consistendo in una dichiarazione unilaterale recettizia, non integra una fonte autonoma di obbligazione ma ha effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, comportando soltanto l'inversione dell'onere della prova dell'esistenza di quest'ultimo, sicché è destinata a perdere efficacia qualora la parte da cui provenga dimostri che il rapporto medesimo non sia stato instaurato, o sia sorto invalidamente"), il coacervo delle disposizioni di fonte costituzionale e primaria nominate dalla difesa ingiungente non (era né) è di per sé sufficiente a fondare il diritto soggettivo perfetto (diritto di credito) vantato innanzi al giudice ordinario, occorrendo l'adozione di ulteriori provvedimenti, sia normativi, sia di alta amministrazione, perché tale (supposto) diritto si concretizzasse e (quindi) venisse ad esistenza. D'altronde, giacché è pacifico che tali provvedimenti non fossero stati adottati, alla data della domanda, per quanto leggibile nello stesso ricorso monitorio, e ricavabile dalla documentazione allegata a corredo, va concluso che il decreto ingiuntivo de quo agitur sia stato pronunciato dal giudice carente di giurisdizione, con le conseguenze di cui al dispositivo. Ciò va detto, per quanto appresso meglio spiegato. 2.4 Si è già detto che la parte ingiungente ha supposto un inadempimento dello Stato, all'obbligo di trasferire somme "dovute" a titolo di "contributo ordinario", "contributo consolidato", "contributo perequativo fiscale", "contributo per sviluppo investimenti", "altri contributi", costituenti "residui perenti" (v. le note della Provincia all. 1 e 2 al ricorso monitorio). È noto che, per "residui", si intendano quelle somme inscritte nel bilancio generale di previsione dell'entrata o della spesa, che rispettivamente, benché accertate, non siano state riscosse entro l'esercizio di competenza (residui attivi), e, benché impegnate, non siano state pagate entro l'esercizio di competenza (residui passivi). Peraltro, secondo la manualistica, i residui passivi non sono necessariamente espressione di spese già impegnate e non ancora ordinate, potendosi formare anche quanto a spese meramente deliberate o previste dalla legge, ma non ancora impegnate (c.d. residui per impegni latenti), ovvero quanto a spese previste (impegnate) in bilancio, ma non ancora accertate in riferimento ad un preciso soggetto creditore (c.d. residui di stanziamento). Infine, vale ricordare che la perenzione amministrativa configura un istituto caratteristico della contabilità pubblica, secondo il quale i residui passivi che non siano pagati entro un certo tempo, a partire dall'esercizio cui sono riferiti, vengono eliminati dalle scritture del bilancio dello stato (v. l'art. 36 del r.D. 18 novembre 1923, n. 2440, legge di contabilità generale dello stato, nel testo vigente alla data dei fatti controversi: "i residui delle spese correnti e delle spese in conto capitale, non pagati entro il secondo esercizio successivo a quello in cui è stato iscritto il relativo stanziamento, si intendono perenti agli effetti amministrativi. le somme eliminate possono riprodursi in bilancio con riassegnazione ai pertinenti capitoli degli esercizi successivi. le somme stanziate per spese in conto capitale non impegnate alla chiusura dell'esercizio possono essere mantenute in bilancio, quali residui, non oltre l'esercizio successivo a quello cui si riferiscono, salvo che si tratti di stanziamenti iscritti in forza di disposizioni legislative entrate in vigore nell'ultimo quadrimestre dell'esercizio precedente. in tale caso il periodo di conservazione è protratto di un anno"). Ciò premesso quanto all'oggetto del diritto di credito supposto dalla parte ingiungente, vale ora analizzare le fonti che l'ingiungente ha additato, a titolo della propria pretesa condannatoria. 2.5 In primo luogo, v'è la norma recata dall'art. 119 della Costituzione, secondo cui (nella parte ora d'interesse): "[ii] i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le regioni hanno risorse autonome. stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio. la legge dello stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante. [iv] le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite. [v] Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e regioni". È evidente che la norma costituzionale, lungi dal generare - di per sé sola - un diritto di credito già quesito (ossia perfetto, avente un contenuto determinato, nonché scaduto ed esigibile), a beneficio dei "Comuni, Province, Città Metropolilane e regioni" cui allude, necessitasse allora e necessiti tuttora, di essere attuata: (a) mercé l'adozione di norme di dettaglio (di natura finanziaria), con cui è disposto lo stanziamento, in bilancio, di fondi pubblici da destinare allo scopo, così creandosi la provvista indispensabile ad operare il trasferimento; (b) mercé l'integrale compimento del procedimento di spesa, per il quale è richiesto, come da manualistica, oltre alla (norma di) previsione della spesa, l'atto d'impegno, di liquidazione e di emissione del titolo pagamento. orbene, solo all'esito di tale procedimento (su cui più oltre, in dettaglio) avrebbe potuto dirsi sussistente il credito dedotto in giudizio. Ma lo stesso può predicarsi per le altre previsioni legislative in materia di finanza derivata delle autonomie locali, che la difesa ingiungente ha (erroneamente) supposto condizione necessaria e sufficiente a fondare la pretesa creditizia dedotta in lite. 2.6 In particolare, la Provincia ricorrente si è rifatta all'art. 149, comma 2 e comma 4, D. Lgs.vo n° 267/2000 (Tu autonomie locali), all'art. 54, comma 2, L. n. 142/1990 (previgente "ordinamento delle autonomie locali"), infine agli artt. 28 e ss. del D. Lgs.vo n° 504/1992 (di "riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421"). 2.7 Secondo l'art. 149 del D. Lgs.vo n° 267/2000 (Testo unico delle leggi sulle autonomie locali), che reca una norma sostanzialmente iterativa di quella già portata dall'art. 54 della L. n° 142/1990: "1. L'ordinamento della finanza locale è riservato alla legge, che la coordina con la finanza statale e con quella regionale. 2. ai comuni e alle province la legge riconosce, nell'ambito della finanza pubblica, autonomia finanziaria fondata su certezza di risorse proprie e trasferite. 3. la legge assicura, altresì, agli enti locali potestà impositiva autonoma nel campo delleimposte, delle tasse e delle tariffe, con conseguente adeguamento della legislazione tributaria vigente. a tal fine i comuni e le province in forza dell'art. 52 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 e successive modificazioni possono disciplinare con regolamento le proprie entrate, anche tributarie, salvo per quanto attiene alla individuazione e definizione delle fattispecie imponibili, dei soggetti passivi e dell'aliquota massima dei singoli tributi, nel rispetto delle esigenze di semplificazione degli adempimenti dei contribuenti. Per quanto non regolamentato si applicano le disposizioni di legge vigenti. 4. la finanza dei comuni e delle province è costituita da: a) imposte proprie; b) addizionali e compartecipazioni ad imposte erariali o regionali, c) tasse e diritti per servizi pubblici; d) trasferimenti erariali; e) trasferimenti regionali; f) altre entrate proprie, anche di natura patrimoniale; g) risorse per investimenti; h) altre entrate. 5. i trasferimenti erariali sono ripartiti in base a criteri obiettivi che tengano conto dellapopolazione, del territorio e delle condizioni socio-economiche, nonché in base ad una perequata distribuzione delle risorse che tenga conto degli squilibri di fiscalità locale. 6. lo stato assegna specifici contributi per fronteggiare situazioni eccezionali. 7. le entrate fiscali finanziano i servizi pubblici ritenuti necessari per lo sviluppo dellacomunità ed integrano la contribuzione erariale per l'erogazione dei servizi pubblici indispensabili. 8. a ciascun ente locale spettano le tasse, i diritti, le tariffe e i corrispettivi sui servizi dipropria competenza. Gli enti locali determinano per i servizi pubblici tariffe o corrispettivi a carico degli utenti, anche in modo non generalizzato. lo stato e le regioni, qualora prevedano per legge casi di gratuità nei servizi di competenza dei comuni e delle province ovvero fissino prezzi e tariffe inferiori al costo effettivo della prestazione, debbono garantire agli enti locali risorse finanziarie compensative. 9. La legge determina un fondo nazionale ordinario per contribuire ad investimenti degli enti locali destinati alla realizzazione di opere pubbliche di preminente interesse sociale ed economico. 10. La legge determina un fondo nazionale speciale per finanziare con criteri perequativi gli investimenti destinati alla realizzazione di opere pubbliche unicamente in aree o per situazioni definite dalla legge statale. 11. L'ammontare complessivo dei trasferimenti e dei fondi è determinato in base a parametri fissati dalla legge per ciascuno degli anni previsti dal bilancio pluriennale dello Stato e non è riducibile nel triennio. 12. le regioni concorrono al finanziamento degli enti locali per la realizzazione del pianoregionale di sviluppo e dei programmi di investimento, assicurando la copertura finanziaria degli oneri necessari all'esercizio di funzioni trasferite o delegate. 13. le risorse spettanti a comuni e province per spese di investimento previste da leggi settoriali dello stato sono distribuite sulla base di programmi regionali. le regioni, inoltre, determinano con legge i finanziamenti per le funzioni da esse attribuite agli enti locali in relazione al costo di gestione dei servizi sulla base della programmazione regionale". Trattasi, ancora una volta, di norma di contenuto generale, rinviante alla potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di programmazione economico-finanziaria (ivi inclusa la materia della finanza derivata degli enti territoriali: v. l'art. 117 Cost., comma 2, lett. e), potestà da esercitare ordinariamente in sede di adozione della legge finanziaria e di bilancio (art. 81 Cost.), salvo interventi legislativi ad hoc (quale ad esempio quello rappresentato dagli artt. 28-30, 32 del D. Lgs.vo 30 dicembre 1992, n. 504, di "riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421", su cui appresso), norma che, pertanto, abbisognava allora ed abbisogna (oggi) di essere completata da disposizioni legislative di dettaglio, recanti lo stanziamento dei fondi nel bilancio generale di previsione della spesa, nonché da provvedimenti di impegno e liquidazione della spesa adottati dai vertici dell'amministrazione statale (ministri competenti), ancora dall'effettiva iscrizione sul capitolo (unità elementare) di bilancio (previo controllo ad opera della ragioneria Centrale, nonché della Corte dei Conti), ed infine dell'emissione del titolo di pagamento. 2.8 A non diverse conclusioni si giunge considerando il Titolo IV del nominato D. Lgs.vo 30 dicembre 1992, n. 504 (di "riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421"), in realtà dedicato - al Capo lI (recante la "disciplina a regime dei trasferimenti erariali"): (a) alla ridefinizione delle tipologie del concorso, dello Stato, nei bilanci delle amministrazioni comunali e provinciali, in base alle finalità distintamente perseguite (v. artt. 34, 36, 39, 40, 43); (b) alla individuazione delle risorse da destinare a tale contributo statuale, distinto per tipologie (es. artt. 35, 42); (c) alla individuazione dei criteri generali da utilizzare in sede di legge di bilancio, ai fini dello stanziamento della spesa (es. artt. 37, 38, 41). Non risulta affatto che tali disposizioni abbiano eccettuato alle norme in materia di contabilità generale dello Stato allora vigenti, necessitando (come fatto palese dall'art. 49 del ridetto D. Lgs.vo n° 504/1992) di essere completate dalle disposizioni in materia di programmazione economico-finanziaria, al tempo (dei fatti in controversia) recate dalla L. 31 dicembre 2009, n. 196 ("legge di contabilità e finanza pubblica"), ed occorrendo comunque far luogo al procedimento di spesa ivi delineato, ancora regolato da diverse disposizioni del r.D. 23 maggio 1924, n. 827 ("regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello stato"). 2.9 In conclusione, va escluso che l'ente territoriale odierno ingiungente abbia maturato un diritto soggettivo quesito, per puro e semplice effetto delle disposizioni (di rango costituzionale e primario) sopra richiamate, occorrendo farsi comunque luogo al procedimento di spesa, come già delineato dagli artt. 49-72 - in materia di spese dello stato - del r.D. 18 novembre 1923, n. 2440 (legge generale sulla contabilità), quindi dal Titolo I e II della L. 5 agosto 1978, n. 468 (di "riforma di alcune norme di contabilità generale dello stato in materia di bilancio"), ancora, dal Titolo VI, Capo II della ridetta L. 31 dicembre 2009, n. 196 ("legge di contabilità e finanza pubblica") nonché del Titolo III, Capo II - in materia di formazione del bilancio di previsione - e dal Titolo VII - in materia di procedimento di spesa - del r.D. 23 maggio 1924, n. 827, recante "regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello stato". Né tali conclusioni possono variare, a motivo del fatto che i trasferimenti erariali pretesi in pagamento dall'ingiungente, dovessero attingere agli stanziamenti operati negli esercizi finanziari degli "anni 2012 e precedenti". Trattandosi, come già detto, di residui perenti (v. le note della Provincia all. 1 e 2 al ricorso monitorio, nonché la nota Ministero dell'Interno prot. 1095 all. 3 ivi) occorreva comunque la riallocazione in bilancio delle predette economie di spesa, e la rinnovazione di tutto il procedimento di spesa descritto dalla legge, a cominciare dall'atto di impegno e di iscrizione (v. in particolare il vigente art. 36 del r.D. 18 novembre 1923, n. 2440, legge generale sulla contabilità dello Stato, e le disposizioni indicate a seguire). In particolare, occorreva considerare il disposto dell'art. 27 l. 31 dicembre 2009, n. 196 ("legge di contabilità e finanza pubblica"), a termini del quale: "1. Nello stato di previsione della spesa del Ministero dell'economia e delle finanze sono istituiti, nella parte corrente e nella parte in conto capitale, rispettivamente, un «fondo speciale per la riassegnazione dei residui passivi della spesa di parte corrente eliminati negli esercizi precedenti per perenzione amministrativa» e un «fondo speciale per la riassegnazione dei residui passivi della spesa in conto capitale eliminati negli esercizi precedenti per perenzione amministrativa», le cui dotazioni sono determinate, con apposito articolo, dalla legge del bilancio. 2. il trasferimento di somme dai fondi di cui al comma 1 e la loro corrispondente iscrizione ai capitoli di bilancio hanno luogo mediante decreti del Ministro dell'economia e delle finanze, da registrare alla Corte dei conti, e riguardano sia le dotazioni di competenza che quelle di cassa dei capitoli interessati". D'altronde lo stanziamento e la distribuzione dei "fondi speciali per la riassegnazione dei residui passivi", avrebbe dovuto attenersi anche alle prescrizioni dell'art. 35 del D.L. 24/02/2012 n. 1, recante "Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività", a termini del quale: "al fine di accelerare il pagamento dei crediti commerciali esistenti alla data di entrata in vigore del presente decreto connessi a transazioni commerciali per l’acquisizione di servizi e forniture, certi, liquidi ed esigibili, corrispondente a residui passivi del bilancio dello stato: "a) i fondi speciali per la reiscrizione dei residui passivi perenti di parte corrente e di conto capitale, di cui all'articolo 27 della legge 31 dicembre 2009, n. 196, sono integrati rispettivamente degli importi di euro 2.000 milioni e 700 milioni per l'anno 2012, mediante riassegnazione, previo versamento all'entrata del bilancio dello stato per il medesimo anno, di una corrispondente quota delle risorse complessivamente disponibili relative a rimborsi e compensazioni di crediti di imposta, esistenti presso la contabilità speciale 1778 "agenzia delle entrate - fondi di bilancio. una quota delle risorse del suddetto fondo speciale per la reiscrizione dei residui passivi di parte corrente, pari a 1.000 milioni di euro, è assegnata agli enti locali, con priorità ai comuni per il pagamento dei crediti di cui al presente comma. l'utilizzo delle somme di cui ai periodi precedenti non devono comportare, secondo i criteri di contabilità nazionale, peggioramento dell'indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni". Conclusivamente, l'attribuzione dei residui perenti, all'ente locale odierno convenuto opposto, pretendeva l'adozione di un atto di natura legislativa (di natura programmatico-finanziaria, e di stanziamento nel bilancio di previsione della spesa), e quindi di atti (quantomeno) di alta amministrazione (di impegno di spesa ed iscrizione sulle unità elementari di bilancio, in favore dell'ente territoriale specificamente individuato, per ammontare specificamente individuato), o meglio di provvedimenti di "prima attuazione" degli obbiettivi fissati dalla legge finanziaria e di bilancio, che erano di pertinenza del governo sia nel suo complesso, sia dell'apice dell'amministrazione finanziaria. 2.10 Ciò premesso la ingiungente, ammettendo esplicitamente di non avere ancora beneficiato (alla data della domanda) del provvedimento ministeriale di impegno di spesa, in suo favore, nonché dell'inscrizione, nell'apposito capitolo (unità elementare) del bilancio dello Stato, della spesa relativa al trasferimento dei residui perenti relativi alle annualità 19972012 (come d'altronde documentato dal tenore della nota Ministero dell'Interno prot. 1095 all. 3 al ricorso ingiuntivo), ha chiesto, al giudice ordinario, un provvedimento che, di fatto, supplisse all'inerzia dei vertici dell'amministrazione finanziaria, o meglio ovviasse all'omessa adozione di provvedimenti di prima attuazione vuoi del documento di programmazione economico-finanziaria, vuoi della legge di bilancio, indispensabili ad ottenere il contributo statale. A ben vedere si è ritenuto di devolvere, allo scrutinio del giudice ordinario, la questione attinente alle modalità e tempistiche dell'esercizio dei poteri di attuazione degli indirizzi di politica economico-finanziaria (dettati dallo Stato-governo), ossia la questione attinente al quando e quomodo dell'esercizio dei poteri attutivi spettanti ai vertici dell'amministrazione, al contempo partecipi anche della funzione di indirizzo politico: orbene tali questioni sono evidentemente sottratte al sindacato giurisdizionale del giudice ordinario, residuando - semmai - la circoscritta giurisdizione generale di legittimità (nient'affatto di merito) del giudice amministrativo. Difatti, è agevole osservare come il provvedimento (decreto del Ministro dell'economia e Finanze) prescritto, dall'art. 27 della L. n. 196/2009, ai fini dell'impegno di spesa ("iscrizione alle unità elementari di bilancio"), ed ai fini del "trasferimento" di somme dai "fondi speciali" per la riassegnazione dei residui passivi, costituisca atto di alta amministrazione, configurando il provvedimento di raccordo tra la funzione d'indirizzo politico e la funzione amministrativa. Ciò va predicato a mente di nota dottrina amministrativistica, d'altronde fatta propria dalla unanime giurisprudenza amministrativa, per la quale "si riconducono alla categoria degli atti di alta amministrazione quegli atti che costituiscono il primo grado di attuazione dell'indirizzo politico del Governo in campo amministrativo, realizzando il raccordo al massimo grado tra la funzione di Governo e la funzione amministrativa" (così in riv. trim. dir. pubbl., 1966, 749 ss.; Foro amm. CDS, fasc. 5, 2012, pag. 1204; in giurisprudenza, v. Consiglio di Stato sez. V, 02/08/2017, n. 3871, in Foro Amministrativo (II) 2017, 7-08, 1568: "gli atti di alta amministrazione - sebbene si identifichino in quelli che si pongono al massimo livello dell'organizzazione e dell'attività funzionale dei pubblici poteri e, precisamente, nella sfera in cui la funzione di governo si raccorda con l'Amministrazione tout court - mantengono la caratteristica tipica degli atti amministrativi, e cioè la finalità di cura di interessi pubblici nel caso concreto; questo carattere rende quindi gli atti di alta amministrazione giustiziabili, sia pure nei ristretti limiti entro cui atti a forte tasso di discrezionalità si prestino ad essere sindacati nell'ambito della generale giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo prevista dall'art. 7 comma 1, c.p.a."; conf. Consiglio di Stato, sez. V, 17/02/2015, n. 807; Cass. Sez. un., 19/12/2014, n. 26938; ancora, v. Consiglio di Stato, sez. V, 27/07/2011, n. 4502, in Foro amm. CDS 2011, 7-8, 2439, nella cui motivazione si legge: "l'atto di alta amministrazione, di regola adottato dall'organo politico in un clima di "fiduciarietà", è il primo momento attuativo dell'indirizzo politico a livello amministrativo. a differenza dell'atto politico, esso esprime una potestà vincolata nel fine e soggetta al principio di legalità. Gli atti di alta amministrazione sono una species del più ampio genus degli atti amministrativi e soggiacciono pertanto al relativo regime giuridico, ivi compreso il sindacato giurisdizionale, sia pure con talune peculiarità connesse alla natura spiccatamente discrezionale degli stessi. Infatti, il controllo del giudice non è della stessa ampiezza di quello esercitato in relazione ad un qualsiasi atto amministrativo, ma si appalesa meno intenso e circoscritto alla rilevazione di manifeste illogicità formali e procedurali. la stessa motivazione assume connotati di semplicità e il sindacato del giudice risulta complessivamente meno intenso ed incisivo"). Pertanto, controvertendosi dell'omessa adozione di un provvedimento cosiffatto, è da un lato escluso potersi configurare qualsiasi posizione di diritto soggettivo perfetto, antecedentemente alla sua adozione, ed è d'altro canto escluso che il giudice ordinario avrebbe potuto allora surrogarsi, all'amministrazione competente, nell'adozione del provvedimento non emanato (art. 4 e 5 All. e, L. n° 2248/1865). 2.11 Le argomentazioni sin qui esposte conducono, di necessità, alla declaratoria di radicale nullità del decreto ingiuntivo opposto, in quanto emesso dal giudice sprovvisto di giurisdizione. Né interessa che, nelle more del giudizio, il governo abbia comunque dato corso all'erogazione della sorte capitale recata dall'ingiunzione opposta, non potendosi da ciò discendere che il giudice ordinario avesse giurisdizione sulla domanda giudiziale della Provincia di Teramo, nel momento in cui proposta; in altri termini, la radicale nullità del decreto ingiuntivo, in quanto pronunciato da giudice carente di giurisdizione, non può dirsi ovviata dallo spontaneo pagamento dei residui passivi perenti, su ordine dei vertici del dicastero dell'economia e finanze, non essendo configurabile alcun diritto quesito, prima dell'adozione del decreto ministeriale d'impegno a valere sull'unità elementare di bilancio (v. l'art. 5 c.p.c.: "la giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo"). Piuttosto, gli argomenti sopra esposti danno conto della persistente carenza di giurisdizione, del tribunale ordinario investito dell'opposizione, quanto alla domanda di condanna al pagamento degli interessi, che la difesa ingiungente ha coltivato in corso di lite; la debenza degli interessi di mora (art. 1224 c.c.), suppone trattarsi d'inadempimento di obbligazioni pecuniarie scadute ed esigibili (art. 1219 c.c.): non potendosi configurare alcun diritto di credito, prima dell'adozione degli atti amministrativi delineati dalle norme sopra richiamate, tantomeno è possibile congetturare il credito accessorio, per interessi di mora, quale vantato in giudizio dalla difesa ingiungente, in assenza di qualsivoglia provvedimento d'impegno, di pertinenza del dicastero competente. ed è appena il caso di aggiungere che, proprio in virtù dei ridotti termini e limiti in cui è cir- coscritta la giurisdizione del giudice amministrativo, nella fattispecie considerata (si vedano le pronunce del Consiglio di Stato sopra richiamate), è escluso potersi far luogo, in esito alla declinatoria di giurisdizione, alla translatio iudicii prefigurata dall'art. 59 L. 18 giugno 2009, n. 69. 2.12 Conclusivamente, deve pervenirsi alla declaratoria di nullità del decreto opposto, in quanto emesso dal giudice sprovvisto di giurisdizione. Ciò rende superfluo esaminare le ulteriori questioni pregiudiziali "di rito" agitate nel giudizio, e comporta la regolazione delle spese secondo soccombenza, con la conseguente condanna, ex art. 91 c.p.c., a carico della Provincia di Teramo, risultata virtualmente soccombente quanto alla richiesta di esazione della sorte capitale, e realmente soccombente quanto alla pretesa di pagamento degli interessi. Per Questi Motivi il Tribunale di roma, definitivamente pronunziando nella causa civile di primo grado, in- dicata in epigrafe, ogni diversa istanza, deduzione ed eccezione disattesa, così provvede: - in accoglimento dell'opposizione proposta dal Ministero dell'Interno e dal Ministero dell'economia e Finanze, dichiara la nullità del decreto ingiuntivo n° 9929/2013, emesso in data 9 maggio 2013, su istanza della Provincia di Teramo, in quanto pronunciato dal tribunale ordinario, sprovvisto di giurisdizione; - dichiara inammissibile la domanda di condanna al pagamento degli interessi di mora, formulata dalla Provincia di Teramo nel ricorso ingiuntivo, e coltivata nel giudizio di opposizione; - condanna la parte convenuta opposta alla rifusione, in favore dei ministeri opponenti insolido, delle spese del giudizio, che liquida in € 79.411,00 per compensi legali (ex dm n° 55/2014, con valore di € 14.915.519,00, complessità media), oltre spese generali al 15%, iva e C.P.A. come per legge. roma, 30 ottobre 2018 superamento dei limiti dimensionali del ricorso, domanda di risarcimento del danno proposta nei confronti del funzionario pubblico e violazione delle forme del procedimento Nota a CoNsiGlio Di stato, sezioNe iv, seNteNza 9 Marzo 2020, N. 1686 Giancarlo Pampanelli* Processo amministrativo - Sinteticità - Violazione dei limiti dimensionali - Conseguenze. in assenza di specifica istanza di autorizzazione al superamento dei limiti dimensionali, non possono essere presi in considerazione i rilievi svolti nell’atto di appello nelle pagine successive alla 35^ per violazione dei limiti dimensionali stabiliti con gli artt. 3 e 8 del decreto del Presidente del Consiglio di stato del 22 dicembre 2016; ne consegue la radicale non esaminabilità della parte di appello con cui si reiterano i motivi aggiunti formulati in primo grado. (1) Risarcimento danni - Pubblico impiego - Azione proposta nei confronti del funzionario per l’attività svolta nell’esercizio delle sue funzioni - Inammissibilità. È inammissibile la domanda di condanna al risarcimento del danno proposta, in sede di giurisdizione amministrativa, direttamente nei confronti del funzionario pubblico per l’attività svolta nell’esercizio delle sue funzioni, alla stregua del consolidato indirizzo delle sezioni unite della Corte di Cassazione. (2) Violazione di forme del procedimento - Nullità - Esclusione. la violazione di forme del procedimento non determina il radicale vizio della nullità, predicabile solo nei casi eccezionali enucleati nell’art. 21 septies della legge n. 241 del 1990. (3) 1 - La decisione di che trattasi costituisce un arresto del giudice d’appello della giurisdizione amministrativa che presenta più profili d’interesse. Sotto un primo aspetto, si rileva anzitutto che si legge in sentenza che: “il Collegio ha segnalato alle parti, ai sensi dell’art. 73 c.p.a., la mancanza dell’autorizzazione al superamento del limite dimensionale dell’atto di appello di cui al combinato disposto degli artt. 3 c.p.a., 13 ter disp. att. c.p.a., 3 e 7 del decreto del Presidente del Consiglio di Stato del 22 dicembre 2016”. Ciò posto, sulla base di tale normativa, la pronuncia giunge ad una espressa declaratoria di “radicale non esaminabilità delle pagine successive alla 35” dell’appello, per violazione dei limiti dimensionali stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio di Stato del 22 dicembre 2016 (in particolare gli artt. 3 e 8). A supporto, si richiamano nella decisione, in giurisprudenza, le sentenze del Consiglio di Stato - sez. V n. 2190 del 2018 e sez. IV n. 803 del 2020. Al riguardo, deve osservarsi che la normativa di cui al c.p.a., all’art. 13 (*) Avvocato dello Stato. ter delle disp. att. c.p.a. ed al decreto del Presidente del Consiglio di Stato 22 dicembre 2016 n. 167 (modificato dal successivo decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 127 del 2017) non sancisce la “non esaminabilità” di quanto dedotto dalla parte nelle pagine eccedenti i limiti dimensionali stabiliti dai predetti decreti presidenziali. In particolare, va rammentato che l’art. 13 ter delle disp. att. del c.p.a., introdotto dall’art. 7 bis, comma 1, lett b, n. 2, del DL. n. 168/2016 convertito in legge n. 197/2016, al quinto comma si limita a stabilire che “il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti (dimensionali ndt.). L’omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non è motivo di impugnazione”. D’altro canto, la sentenza n. 803 del 2020 della sez. IV del Consiglio di Stato, richiamata nella decisione in commento, pur rilevando che con l’atto di appello erano stati superati i limiti di pagine contemplati dai provvedimenti in materia del Presidente del Consiglio di Stato, non ha espressamente affermato la “non esaminabilità” di alcuna censura, pronunciandosi, in sostanza, sul merito dell’intero contenuto dell’appello. Circa, poi, la pure citata precedente pronuncia n. 2190 del 2018 della sez. V del Consiglio di Stato, essa aderisce ad una coordinata interpretativa diversa dell’art. 13 ter delle disp. att. del c.p.a. Si legge, infatti, in detta sentenza, a fronte di rilievo di parte con il quale si deduceva l’inammissibilità dell’atto di gravame per travalicamento dei limiti dimensionali in questione, che “L’eccezione è infondata: a norma del ricordato art. 13-ter, il limite dimensionale di sinteticità entro cui va contenuto l’atto processuale costituisce un precetto giuridico la cui violazione non genera la conseguenza, a carico della parte che lo abbia superato, dell’inammissibilità dell’intero atto, ma solo il degradare della parte eccedentaria a contenuto che il giudice ha la mera facoltà di esaminare”. La sez. V appare adottare, dunque, una ermeneutica di matrice letterale del testo normativo dell’art. 13 ter, qualificando come “facoltà” dell’organo giudicante quella di esaminare le pagine in sovrappiù rispetto ai prefissati limiti dimensionali. Interpretazione questa che, pertanto, non può ritenersi in linea con quella ora fatta propria dalla sez. IV del Consiglio di Stato con la sentenza di che trattasi, la quale, come esposto, sancisce una “radicale non esaminabilità” delle pagine in eccesso. Certamente, non può sottacersi che l’attribuire al giudice - e sia in I che in II grado - la “facoltà” (id est il potere) di esaminare o meno quanto dedotto con le pagine dell'atto redatte oltre i limiti dimensionali, pur essendo da ritenere non inibito dal disposto dell’art. 13 ter cit., appare in effetti conferire una sorta di “potere discrezionale” di esame che si pone in distonia rispetto alle necessarie garanzie di eguaglianza di trattamento e d’imparzialità in sede processuale. D’altronde, la posizione assunta dalla sez. IV perviene ad una declaratoria di “non esaminabilità” che coincide in definitiva con una “inammissibilità” di quanto espresso oltre i limiti dimensionali, inammissibilità a rigore non prevista da alcuna disposizione. Tuttavia, tenuto conto di quelle che sono le chiare intenzioni manifestate dal legislatore, emergenti dall’art. 3 del c.p.a., disposizione rientrante tra i “principi generali” del processo amministrativo, la quale è da ritenersi imporre un cogente rispetto della regola alla sinteticità degli atti, non può risultare “inutiliter data” ed è da leggere in combinato con il ripetuto art. 13 ter disp. att. c.p.a. “ad hoc” inserito, l’ermeneutica seguita dalla pronuncia che si annota sembra poter avere una sufficiente giustificazione. L'esigenza di sinteticità è, del resto, oggi particolarmente avvertita, in raccordo con la più generale tendenza a vedere l’attività processuale liberata da comportamenti defatigatori, lungaggini ed “esercizi di stile” e sempre più finalizzata a soddisfare, in tempi ragionevoli, il bisogno di giustizia effettiva. Ciò anche, come noto, alla luce dei principi discendenti dalla normativa della CeDu, nonchè dalla Carta costituzionale. Ma soprattutto, quanto sancito dalla sentenza n. 1686/20 in parola ha il pregio di evitare decisioni difformi e dare una “certezza del diritto”: ciò che viene dedotto in eccesso rispetto ai limiti dimensionali (sempreché non vi sia stata apposita autorizzazione preventiva od in sanatoria) non verrà preso in considerazione dal giudice e sarà da ritenersi “non esaminabile”. Conclusivamente dunque, in base al predetto orientamento da ultimo fatto proprio dalla sez. IV del Consiglio di Stato, salvo i casi di autorizzazione del giudice (che ovviamente può anche non essere concessa), occorrerà rigidamente attenersi, onde evitare la grave conseguenza della “non esaminabilità” di quanto rappresentato nelle pagine in eccesso, ai limiti dimensionali, diversificati per tipologia di atti, fissati dal Presidente del Consiglio di Stato. 2 - La sentenza che si annota, sotto un secondo profilo, si appalesa d’interesse anche per le statuizioni nel merito del contenzioso deciso. In particolare, è di rilievo la netta affermazione, di cui al punto 6.1. della pronuncia, secondo la quale “Parimenti inammissibile è, poi, la domanda di condanna al risarcimento del danno proposta, in sede di giurisdizione amministrativa, direttamente nei confronti del funzionario pubblico per l’attività svolta nell’esercizio delle sue funzioni, alla stregua del consolidato indirizzo delle Sezioni unite della Corte di Cassazione (cfr. fra le tante, ord. 3 ottobre 2016 n. 19677)”. Ciò in quanto il collegio giudicante d’appello aveva rilevato che l’interessato “provvedeva, dunque, ad impugnare il provvedimento dinanzi al TAr per il Lazio, lamentandone la nullità o, comunque, l’illegittimità…. e svolgendo connessa domanda di risarcimento dei danni rivolta direttamente a carico dell’ufficiale che aveva sottoscritto l’atto di addebito, eventualmente in solido con il Ministero della Difesa”. Il Consiglio di Stato, dunque, con la pronuncia in esame, declina la propria giurisdizione in riferimento alla suddetta domanda risarcitoria, formulata in prime cure e reiterata in sede di gravame, avanzata dall’interessato. Va osservato per inciso che nella sentenza appellata adottata dal TAr del Lazio nulla si legge circa il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda risarcitoria. Il Consiglio di Stato, da parte sua, in sentenza fa riferimento alla giurisprudenza in materia della Corte di Cassazione e cita, in particolare, l’ordinanza n. 19677 del 2016 delle Sezioni unite della Suprema Corte. Vi è, peraltro, da rilevare che detta ordinanza, la quale a sua volta ampiamente richiama l’arresto di cui alla precedente ordinanza n. 13659 del 2006 delle Sezioni unite, andava a scrutinare fattispecie in cui l’azione risarcitoria era stata avanzata dinanzi al giudice ordinario contro il funzionario dell’Amministrazione autore dell’operato censurato e dedotto come foriero di danno, senza che l’Amministrazione fosse stata evocata in giudizio e fosse parte in causa. Nell’ordinanza menzionata n. 19677 del 3 ottobre 2016 si legge che “… queste Sezioni unite proprio nell’ordinanza n. 13659 del 2006… hanno affermato il principio di diritto secondo cui l’art. 103 Cost. non consente di ritenere che il giudice amministrativo possa conoscere di controversie di cui non sia parte una P.A., o soggetti ad essa equiparati, sicché la pretesa risarcitoria avanzata nei confronti del funzionario in proprio, cui si imputi l’adozione del provvedimento illegittimo, va proposta dinanzi al giudice ordinario”. ed ancora che: "Presupposto della giurisdizione amministrativa secondo la Carta costituzionale è, infatti, che la tutela giurisdizionale coinvolgente le situazioni giuridiche nella giurisdizione di legittimità ed in quella esclusiva debba avere luogo con la partecipazione in posizione attiva o passiva della pubblica amministrazione del soggetto che, pur non facendo parte dell’apparato organizzatorio di essa, eserciti le attribuzioni dell’Amministrazione, così ponendosi come pubblica amministrazione in senso oggettivo". In effetti, un precedente più specifico in relazione alla sentenza n. 1686 del Consiglio di Stato in questione è rappresentato dall’ordinanza delle Sezioni unite della Suprema Corte n. 19372 del 18 luglio 2019 di soluzione di conflitto negativo di giurisdizione. In detta pronuncia giudiziale è, infatti, precisato che: “L’art. 103 Cost. non consente di ritenere che il giudice amministrativo possa conoscere di controversie di cui non sia parte una P.A., o soggetti ad essa equiparati, sicché la pretesa risarcitoria avanzata nei confronti del funzionario in proprio cui si imputi l’adozione del provvedimento illegittimo, va proposta dinanzi al giudice ordinario, non ostando a ciò la proposizione della domanda anche nei confronti dell’ente pubblico sotto il profilo della responsabilità solidale dello stesso, stante l’inderogabilità per ragioni di connessione della giurisdizione”. Nel caso all’esame, appunto, era stato, dinanzi al giudice amministrativo, impugnato il provvedimento dell’Amministrazione della Difesa ed avanzata connessa domanda di risarcimento dei danni rivolta a carico del funzionario firmatario dell’atto, eventualmente in solido con il Ministero della Difesa. Invero, la sentenza in argomento non menziona precedenti giurisprudenziali in termini del Consiglio di Stato, precedenti che infatti non constano. riscontrato tutto quanto sopra, va sottolineato, pertanto, che, in ordine alla sensibile materia della richiesta di risarcimento dei danni a seguito di adozione di provvedimento amministrativo censurato per illegittimità, l’affermazione del principio relativo alla carenza di giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda avanzata nei confronti del funzionario, di cui alla decisione che si annota, si appalesa di notevole rilievo. Si tratta, infatti, di una prima pronuncia d’integrale ricezione da parte del Consiglio di Stato (v. peraltro nello stesso senso TAr Piemonte - Torino - Sez. I n. 219 del 26 febbraio 2011), di quanto sancito dalla Suprema Corte con le ordinanze sopra ricordate. 3 - Il Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, ha infine affermato che la violazione di forme del procedimento non determina il radicale vizio della nullità, predicabile solo nei casi eccezionali enucleati nell’art. 21 septies della legge n. 241 del 1990. Al riguardo, si osserva che l’organo giudicante si è posto nel solco di precedenti arresti giurisprudenziali, sia della Suprema Corte di Cassazione che del Consiglio di Stato. In particolare, nella sentenza n. 2202 del 24 maggio 2016 della sez. IV dell’Alto Consesso della giustizia amministrativa, richiamata nella pronuncia n. 1686 in esame, si legge tra l’altro che: “La Sezione è dell’avviso che, pur dopo l’inserimento nel sistema dell’art. 21 septies della legge 7 agosto 1990 n. 241, che ha codificato la nullità “strutturale” del provvedimento amministrativo (ossia per difetto dei suoi elementi essenziali), tale peculiare vizio possa essere in concreto ravvisato soltanto in casi estremi, quale ad esempio l’inesistenza dell’oggetto; in particolare, con riferimento all’ipotetico difetto della causa, che sul piano civilistico è causa di nullità del negozio, questo nella teoria del provvedimento amministrativo laddove - come è nel caso di specie - lo si identifichi con l’inesistenza dell’interesse pubblico che esso dovrebbe perseguire, costituisce una ordinaria ipotesi di annullabilità del provvedimento amministrativo, ex art. 21 octies, comma 1, della stessa legge n. 241/910, sub specie di eccesso di potere. Ciò discende non solo dalla peculiarità della patologia del provvedimento amministrativo rispetto a quella del negozio giuridico, nella prima essendo del tutto prioritario e prevalente l’aspetto “funzionale” (ossia la finalizzazione del provvedimento a un interesse pubblico), ma anche dall’eccezionalità del vizio di nullità rispetto alle ordinarie forme di illegittimità conoscibili dal giudice amministrativo, e rilevanti quali cause di annullabilità". Tali considerazioni devono senz'altro ritenersi condivisibili, segnatamente circa la rimarcata differenziazione tra la patologia del negozio giuridico e la patologia del provvedimento amministrativo, nell'ottica della rilevanza del profilo funzionale all'interesse pubblico, peculiare di quest'ultimo. Come ora ribadito dalla pronuncia de qua n. 1686 del 2020 del Consiglio di Stato, resta dunque confermato che il grave vizio di “nullità” va confinato esclusivamente ai casi, da qualificarsi eccezionali, di cui all’art. 21 septies della legge n. 214 del 1990. Consiglio di stato, sezione Quarta, sentenza 9 marzo 2020, n. 1686 - Pres. Poli, est. Lamberti. FATTo e DIrITTo 1. Con decreto n. 1 dell’11 marzo 2015 il Ministero della difesa addebitava al capitano di fregata del Corpo di commissariato della Marina Militare omissis un danno erariale (rateizzabile) pari ad € 872,92, conseguito alla “ripetizione di approvvigionamenti di materiale a prezzi maggiori rispetto a medesime precedenti acquisizioni” disposta dal medesimo omissis, con condotta connotata da “colpa grave”, nella qualità di capo servizi amministrativi dell’ufficio Amministrazioni Speciali (u.A.S.) della Marina Militare. 1.1. Con istanza dell’11 maggio 2015 il omissis rappresentava all’Amministrazione di non essere stato notiziato del procedimento e, quindi, di non essere stato messo in condizione di parteciparvi: il omissis, pertanto, sollecitava l’annullamento in autotutela del provvedimento e la riedizione ex novo del procedimento. 1.2. Con comunicazione via p.e.c. del 20 maggio 2015 l’Amministrazione, “ritenute valide le osservazioni esposte”, disponeva di “sospendere l’applicazione del decreto di addebito” e dichiarava di restare in “attesa di ricevere, entro 30 giorni dalla ricezione della presente, memorie o contro-deduzioni dell’interessato circa i fatti addebitati, comprendendo nel termine predetto un eventuale accesso agli atti … al termine dell’eventuale ulteriore valutazione, ove dovessero pervenire le citate memorie o contro-deduzioni, sarà confermato l’addebito decretato o si procederà ad un’eventuale riforma dello stesso”. 1.3. Il omissis, con missiva in data 29 maggio 2015, replicava ribadendo l’ineludibile necessità, a suo avviso, di annullare il provvedimento e rieditare ab initio il procedimento, precisando che, in mancanza di tempestivo riscontro, avrebbe impugnato il decreto nelle opportune sedi giurisdizionali. 1.4. Non avendo ricevuto comunicazione da parte dell’Amministrazione, il omissis provvedeva, dunque, ad impugnare il provvedimento dinanzi al T.a.r. per il Lazio, lamentandone la nullità o, comunque, l’illegittimità per la violazione delle proprie prerogative di partecipazione e svolgendo connessa domanda di risarcimento dei danni rivolta direttamente a carico dell’ufficiale che aveva sottoscritto l’atto di addebito (il colonnello omissis), “eventualmente in solido con il Ministero della difesa”. 1.5. Si costituiva in resistenza l’Amministrazione. 1.6. Il omissis, quindi, radicava ricorso per motivi aggiunti, con cui, a seguito della formulazione delle difese da parte dell’Amministrazione, argomentava ulteriormente le proprie censure e svolgeva anche considerazioni inerenti al merito dell’addebito. 2. Con la sentenza gravata il T.a.r. ha rigettato il ricorso sulla scorta delle seguenti argomentazioni: - “le censure avanzate dal ricorrente nel ricorso principale attengono esclusivamente alle violazioni formali per la procedura utilizzata dalla p.a. nella definizione dell’addebito al predetto, atteso che il ricorso per motivi aggiunti (rectius: memoria di replica) non ha censurato ulteriori atti connessi e/o collegati al primo, ma ha, come detto, replicato alle osservazioni avanzate dalla difesa erariale e relative al merito della vicenda”; - l’opzione difensiva coltivata dal ricorrente (secondo cui “il provvedimento di sospensione di efficacia dell’addebito adottato dalla p.a. non era sufficiente e, pertanto, la parte resistente avrebbe dovuto provvedere all’annullamento dell’intera procedura ed alla ripetizione della stessa”) avrebbe “carattere meramente formale” e non sarebbe condivisibile, giacché “l’amministrazione, dopo aver sospeso l’efficacia del provvedimento in questa sede contestato, ha di fatto rimesso in termini l’incolpato autorizzandolo a presentare memorie, controdeduzioni e consentendo l’acceso agli atti del procedimento, preannunciando una ulteriore valutazione della vicenda al termine di tale fase dialettica”; - altrimenti detto, “a prescindere dal nomen iuris utilizzato dalla p.a. (sospensione), la stessa ha provveduto, nella sostanza, ad un vero e proprio annullamento della procedura già avviata e definita con l’addebito in questa sede censurato. tale evenienza emerge chiara ed univoca proprio dalla nota di sospensione della esecuzione del provvedimento di addebito, in cui l’amministrazione, in buona sostanza, ha rimesso in termini il ricorrente per una effettiva sua partecipazione dialettica al procedimento, compreso l’accesso ai documenti, così che la relazione finale ed il conseguente provvedimento di addebito devono intendersi quale mera contestazione di addebiti, atteso che le eventuali controdeduzioni del ricorrente avrebbero comportato la necessità di una loro attenta disamina nel contesto procedimentale e nella definizione finale del provvedimento”; - in definitiva, “nel caso di specie la sostanziale partecipazione del ricorrente al procedimento per cui è causa risulta garantita proprio dalle successive determinazioni della p.a. e dalle necessarie conseguenze che tale partecipazione avrebbe comportato proprio sul provvedimento finale”: pertanto, “le censure svolte dalla parte ricorrente, limitate, come detto, a contestare la illegittimità formale del procedimento originario secondo il canone della nullità assoluta, non colgono nel segno, anche perché la parte ha omesso di considerare il successivo provvedimento di sospensione dell’addebito assunto dalla p.a. e parte integrante della procedura amministrativa in contestazione”; - in conclusione, “gli originari vizi del procedimento di addebito, immediatamente segnalati dalla parte alla p.a., hanno trovato, in quest’ultima, immediato riscontro che, in disparte il nomen iuris utilizzato: sospensione, di fatto hanno prodotto la riapertura della procedura, garantendo la partecipazione dialettica del ricorrente, con l’obbligo per la p.a. di motivare anche sulle eventuali controdeduzioni della parte”; - di converso, “non possono assumere alcun rilievo nel presente scrutinio i successivi motivi aggiunti che, come detto, in realtà sono da configurare quale mera memoria di replica, atteso che i predetti, rispetto all’originario provvedimento sono intervenuti oltre il previsto termine decadenziale, ed hanno sollevato questioni nuove (sia pure in replica alla memoria dell’avvocatura) attinenti all’originario provvedimento, mai avanzate nel ricorso originario, né, si può dire, che le stesse rappresentano una precisazione delle originarie censure”. 3. Il ricorrente ha interposto appello (esteso per ben 56 pagine). 3.1. Si è costituita in resistenza l’Amministrazione. 3.2. In vista della trattazione il solo ricorrente ha versato in atti difese scritte. 3.3. Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza del 30 gennaio 2020, nel corso della qualeil Collegio ha segnalato alle parti, ai sensi dell’art. 73 c.p.a., la mancanza dell’autorizzazione al superamento del limite dimensionale dell’atto di appello di cui al combinato disposto degli artt. 3 c.p.a., 13-ter disp. att. c.p.a., 3 e 7 del decreto del Presidente del Consiglio di Stato del 22 dicembre 2016: il patrono di parte ricorrente, sul punto, si è rimesso al Collegio. 4. L’appello è sia inammissibile sia infondato e, pertanto, deve essere respinto nella sua globalità. 5. Il Collegio, anzitutto, rileva che non possono essere presi in considerazione i rilievi svoltinell’atto di appello nelle pagine successive alla 35^ per violazione dei limiti dimensionali stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio di Stato del 22 dicembre 2016 (cfr. in particolare, gli articoli 3 e 8): ne consegue la radicale non esaminabilità della parte di appello con cui si reiterano i motivi aggiunti formulati in primo grado (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 11 aprile 2018, n. 2190; v. anche, da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, 31 gennaio 2020, n. 803). 5.1. Sul punto, invero, il Collegio osserva che la parte ricorrente non si è premunita né di ottenere la previa autorizzazione al superamento di siffatti limiti (art. 6 del decreto), né di inoltrare successiva istanza al fine di conseguire un’autorizzazione postuma (art. 7 del decreto), di cui, oltretutto, non ricorrerebbero le condizioni, difettando nella materia del contendere i richiesti “gravi e giustificati motivi”, essendo con ogni evidenza possibile, nella specie, contenere le difese nel pur ampio spazio di 35 pagine. 6. Quanto al resto, il Collegio osserva che il ricorso in appello, connotato da un’alluvionaleesposizione di argomentazioni - condensate senza alcuna apprezzabile organicità in un unico motivo - è privo del requisito essenziale della specificità delle censure ex art. 101, comma 1, c.p.a. (richiamato e specificato dall’art. 2 del cennato decreto del Presidente del Consiglio di Stato) ed è, dunque, ex se inammissibile (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 20 luglio 2018, n. 4413). 6.1. Parimenti inammissibile è, poi, la domanda di condanna al risarcimento del danno proposta, in sede di giurisdizione amministrativa, direttamente nei confronti del funzionario pubblico per l’attività svolta nell’esercizio delle sue funzioni, alla stregua del consolidato indirizzo delle Sezioni unite della Corte di cassazione (cfr., fra le tante, ord. 3 ottobre 2016, n. 19677). 7. Per scrupolo motivazionale, comunque, il Collegio osserva nel merito - nei limiti di quanto evincibile dall’atto di appello - quanto segue. 7.1. Non si è verificata alcuna effettiva e concreta lesione delle prerogative procedimentali del ricorrente, posto che l’Amministrazione lo ha messo in condizione di interloquire, con espressa riserva, all’esito, di un’eventuale modifica del decisum, la cui applicazione, nelle more della rinnovata fase procedimentale, era stata, per di più, unilateralmente sospesa. 7.1.1. Sul punto, il Collegio conviene con l’esegesi sostanzialistica propugnata dal Tribunale. 7.1.2. Invero, la partecipazione al procedimento è un valore sostanziale cui le forme dell’azione amministrativa sono meramente serventi: pertanto, la violazione delle forme attinge la soglia dell’illegittimità solo e nei limiti in cui ne sia conseguito un concreto ed effettivo vulnus alle facoltà di partecipazione dell’interessato. 7.1.3. Nella specie, di contro, il omissis è stato messo nella condizione di interloquire conl’Amministrazione, di presentare memorie e documenti e di accedere a quelli in possesso dell’Amministrazione entro un termine prima facie congruo (30 giorni), riservandosi l’Amministrazione, all’esito di tale segmento procedimentale, una nuova valutazione dei fatti. 7.1.4. In tal modo, è stato pienamente assicurato il valore (appunto, sostanziale) della partecipazione procedimentale con un’intensità, un’ampiezza ed una pienezza del tutto analoga a quella che il ricorrente avrebbe ottenuto mediante la riedizione del procedimento. 7.1.5. a fortiori, la violazione di forme del procedimento non determina il radicale vizio della nullità, predicabile solo nei casi eccezionali enucleati nell’art. 21-septies l. n. 241 del 1990 (cfr., ex multis, Cass. civ., Sez. un., 5 marzo 2018, n. 5097 e 3 ottobre 2016, n. 19682; Cons. Stato, Sez. IV, 24 maggio 2016, n. 2202). 7.2. Non si apprezza, poi, alcuna incompetenza o, comunque, incompatibilità dell’ufficialeinquirente (avente il grado il capitano di fregata), essendo irrilevanti l’anzianità nel grado e, più in generale, l’anzianità di servizio: l’art. 452 d.p.r. n. 90 del 2010, infatti, richiede solo la parità di grado; del resto, ogni qual volta la legge intende far riferimento anche all’anzianità nel grado, lo precisa espressamente. 7.3. Non vi è, inoltre, alcun difetto di motivazione, avendo l’Amministrazione debitamenteosteso le ragioni poste a fondamento dell’impugnato atto di addebito. 8. In conclusione, il ricorso in appello è: - non esaminabile dalla pagina 35 in poi e comunque, anche per tale ragione, inammissibilenel suo complesso, per violazione dell’art. 101, comma 1, c.p.a.; - inammissibile nella parte in cui invoca la condanna al risarcimento del danno direttamentenei confronti dell’ufficiale che ha sottoscritto l’atto impugnato; - infondato nel merito, per quanto è dato capire dalla disamina dello stesso. 9. Le spese del grado non possono che seguire la soccombenza e sono liquidate, anche ai sensi di cui all’art. 26, comma 1, c.p.a., nella misura indicata in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna il ricorrente omissis a rifondere al Ministero della difesa, anche ai sensi dell’art. 26, comma 1, c.p.a., le spese del presente grado di giudizio, liquidate in complessivi € 4.000,00. ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in roma nella camera di consiglio del giorno 30 gennaio 2020. la somministrazione di farmaci agli alunni durante l’orario scolastico Nota a tribuNale aMMiNistrativo reGioNale Della CaMPaNia, salerNo, sezioNe i, orDiNaNza 29 aPrile 2019 N. 689 Iolanda Luce* Il contenzioso in oggetto attiene alla problematica concernente la esatta individuazione del soggetto giuridicamente tenuto alla somministrazione di farmaci salvavita agli alunni durante l’orario scolastico. Con ricorso al TAr Salerno i genitori esercenti la potestà su un minore, affetto da “Sindrome di Dravet”, chiedevano l’annullamento, previa sospensiva, del provvedimento n. prot. 5142 V10 del 14 novembre 2018 a firma del dirigente dell’Istituto Scolastico, nonché di tutti gli atti presupposti e conseguenziali. Trattasi, più in particolare, del provvedimento con il quale l’Istituto Scolastico evidenziava la necessità di garantire al minore disabile una figura specializzata per la somministrazione dei farmaci e dava atto che la competente ASL non aveva ancora provveduto in tal senso. In sede difensiva l’Avvocatura dello Stato, richiamando la normativa vigente in materia, ha rappresentato al Tribunale l’esatta ripartizione di competenze in materia tra l’Amministrazione scolastica e la ASL, chiarendo quali, tra i numerosi obblighi di legge, siano quelli sussistenti in capo agli istituti scolastici e delimitando, in tal modo, il novero delle condotte a questi ultimi esigibili. I Giudici amministrativi, in prima battuta, hanno adottato una ordinanza di accoglimento della istanza cautelare, rimandando alla Amministrazione scolastica la definizione del Piano educativo Personalizzato e “alle amministrazioni resistenti, per quanto di rispettiva competenza, la definizione dei necessari servizi sanitari”. Successivamente il locale Tribunale, adìto nuovamente dai genitori dell’allievo per l’ottemperanza della ordinanza cautelare, ha condannato la ASL alla predisposizione del necessario servizio infermieristico: così facendo proprie le tesi difensive dell’Avvocatura dello Stato, secondo la quale è l’Azienda Sanitaria Locale il soggetto giuridicamente preposto, alla luce della complessa normativa che regola la materia, alla predisposizione delle misure di natura infermieristica volte a garantire, in assenza di personale scolastico che si sia reso disponibile, la necessaria assistenza agli allievi affetti da patologie che richiedono interventi salvavita. (*) Avvocato dello Stato. Così statuendo i Giudici amministrativi hanno recepito le eccezioni sollevate dalla difesa erariale, la quale aveva evidenziato che alcun obbligo poteva ritenersi violato ad opera della Amministrazione scolastica convenuta in giudizio. Quella della somministrazione di farmaci in orario scolastico è una problematica complessa, sia, ovviamente, per la delicatezza degli interessi coinvolti, sia per la assenza di una normativa che individui specificamente i soggetti giuridici obbligati a fornire la terapia agli allievi affetti da particolari patologie. Se da una parte, infatti, occorre garantire a detti alunni il diritto allo studio e alla frequenza scolastica, al fine di evitare che la loro condizione fisica rappresenti un impedimento alla frequenza delle lezioni, dall’altra parte occorre individuare le specifiche responsabilità dei soggetti preposti, al fine di evitare che una pratica così delicata, quale, appunto, la somministrazione di farmaci spesso salvavita, possa essere esercitata da personale non abilitato. occorre in primo luogo osservare che manca, nella materia che ci occupa, una specifica regolamentazione legislativa, trovando in ogni caso applicazione, anche nelle fattispecie in esame, le norme che riguardano più in generale la tutela e l’integrazione scolastica degli allievi con disabilità (1) nonché le norme che disciplinano la sicurezza sui luoghi di lavoro (2). Piuttosto la materia è disciplinata dalle Raccomandazioni del 25 novembre 2005, contenenti le Linee Guida per la definizione degli interventi finalizzati all'assistenza di studenti che necessitano di somministrazione di farmaci in orario scolastico, emanate dal MIur in concerto con il Ministero della Salute. Le dette raccomandazioni, si legge all'articolo 1, si pongono la finalità di garantire il diritto allo studio, la salute e il benessere degli allievi che presentano la necessità summenzionata. esulano dall’ambito di applicazione delle dette raccomandazioni le ipotesi di malore o incidente di tipo imprevedibile: tali ipotesi, infatti, riguardano situazioni eccezionali di emergenza, che non possono che essere affrontate ponendo in atto, da parte del personale scolastico, le ordinarie procedure di pronto soccorso e attivando il 118. La somministrazione, viene specificato nelle Linee Guida, non deve richiedere il possesso di cognizioni specialistiche di tipo sanitario, né l’esercizio di discrezionalità tecnica da parte dell’adulto: deve trattarsi, pertanto, di somministrazione di farmaci “programmabili”, relativi a patologie croniche per le quali il medico curante abbia previsto tempi, posologia e modalità da seguire. (1) L. 5 febbraio 1992, n. 104 (legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e il diritto delle persone handicappate); D.lgs. 13 aprile 2017, n. 66 (Norme per la promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità); D.lgs. 7 agosto 2019, n. 66 (Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 13 aprile 2017, n. 66). (2) D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro). La procedura, che può avvenire solo dietro specifica autorizzazione all’AuSL (oggi ASP) territorialmente competente (art. 2), vede coinvolti (art. 3), ciascuno secondo le proprie competenze e responsabilità: la famiglia dell’alunno o chi esercita la potestà genitoriale; la scuola (dirigente scolastico, personale docente e ATA); i servizi sanitari (i medici di base e le AuSL, competenti territorialmente); gli enti locali (operatori assegnati in riferimento al percorso d’integra- zione scolastica e formativa dell’alunno). L’iter che permette la detta somministrazione presuppone (art. 4) la richiesta formale (scritta) avanzata dai genitori dell’alunno, corredata da opposta certificazione medica attestante lo stato di malattia dell’allievo con la prescrizione specifica dei farmaci da assumere (conservazione, modalità e tempi di somministrazione, posologia). Il dirigente scolastico, ricevuta la richiesta da parte dei genitori: individua il luogo idoneo per la conservazione e somministrazione dei farmaci; autorizza, qualora richiesto, i genitori dell’alunno ad accedere ai locali scolastici durante le ore di lezione per la somministrazione dei farmaci; verifica la disponibilità del personale docente e ATA a somministrare i farmaci all’alunno, qualora non siano i genitori stessi a farlo. II personale docente e ATA va individuato tra coloro i quali abbiano seguito corsi di pronto soccorso ai sensi del decreto legislativo n. 626/94 o apposite attività di formazione promosse dagli uffici Scolastici regionali, anche in collaborazione con le ASL e gli Assessorati per la Salute e per i Servizi Sociali e le Associazioni. Il dirigente scolastico, leggiamo ancora nelle raccomandazioni, qualora non vi sia alcuna disponibilità da parte del personale alla somministrazione, può stipulare accordi e convenzioni con altri soggetti istituzionali del territorio o, qualora nemmeno tale soluzione risulti possibile, con i competenti assessorati per la Salute e per i Servizi sociali, al fine di prevedere interventi coordinati, attraverso il ricorso ad enti ed Associazioni di volontariato (ad esempio la Croce rossa Italiana o le unità Mobili di Strada). Se nessuna delle soluzioni sopra indicate fosse possibile, il dirigente scolastico allora ne dovrà dare comunicazione alla famiglia e al Sindaco del Comune di residenza dell’alunno per cui è stata avanzata la relativa richiesta. Le raccomandazioni prevedono, infine (art. 5), che, nei casi in cui si riscontri l’inadeguatezza dei provvedimenti programmabili, secondo le linee guida, rispetto ai casi concreti presentati, ovvero qualora si ravvisi la sussistenza di una situazione di emergenza, si ricorra al Sistema Sanitario Nazionale di Pronto Soccorso. Dalla lettura delle disposizioni sopra citate è possibile concludere nel senso che la somministrazione di farmaci in orario scolastico può essere effettuata dai genitori dell’alunno, dal personale docente e ATA della scuola, da altri soggetti istituzionali o anche da associazioni di volontariato. I detti soggetti sono indicati in successione, secondo un ordine ben preciso, per cui, se la somministrazione non è effettuata dai genitori, il dirigente scolastico deve verificare la disponibilità dei docenti o del personale ATA; se tra questi nessuno fornisce la propria disponibilità, allora il DS dovrà rivolgersi ad altri soggetti istituzionali presenti nel territorio e, in ultima analisi, ad associazioni di volontariato; se anche questo non fosse possibile, il dirigente lo comunicherà alla famiglia e al Comune in cui risiede l’alunno. Il personale scolastico, inoltre, per effettuare la somministrazione, deve essere in possesso dell’attestato di partecipazione a corsi di pronto soccorso ai sensi del Decreto legislativo n. 626/94 o ad apposite attività di formazione promosse dagli uffici Scolastici regionali, anche in collaborazione con le AuSL e gli Assessorati per la Salute e per i Servizi Sociali e le Associazioni. Venendo all’esame, più nel dettaglio, degli obblighi sussistenti in capo al dirigente scolastico, tali obblighi sono indicati all’art. 4 delle citate Linee Guida, a norma del quale egli deve, in primo luogo, effettuare una verifica delle strutture scolastiche, mediante l’individuazione del luogo fisico idoneo per la conservazione e la somministrazione dei farmaci; concedere, ove richiesta, l’autorizzazione all’accesso ai locali scolastici durante l’orario scolastico ai genitori degli alunni, o a loro delegati, per la somministrazione dei farmaci; verificare la disponibilità degli operatori scolastici in servizio a garantire la continuità della somministrazione dei farmaci, ove non già autorizzata ai genitori, esercitanti la potestà genitoriale o loro delegati. Pertanto, qualora non sia possibile l’intervento diretto e tempestivo da parte dei genitori degli allievi e non sia stato da loro richiesto l’accesso nell’edificio scolastico allo scopo di somministrare il farmaco, è possibile la somministrazione di farmaci da parte del personale scolastico, secondo le seguenti condizioni: il personale scolastico (insegnante od operatore) deve essersi reso dispo- nibile volontariamente; il personale deve aver frequentato i corsi di formazione per Addetti al Primo soccorso e, qualora necessario, i corsi di formazione alla somministrazione di farmaci salvavita organizzati delle uSL competenti; l’intervento non deve necessitare di specifiche cognizioni sanitarie o l’esercizio di discrezionalità tecniche da parte del somministratore (sostanzialmente deve trattarsi di un’attività semplice). In aggiunta agli obblighi come sopra indicati, è prevista la facoltà, per i dirigenti scolastici, di prevedere ulteriori misure: più in particolare, l’art. 4 prosegue statuendo che, qualora nell’edificio scolastico non siano presenti locali idonei, non vi sia alcuna disponibilità alla somministrazione da parte del personale o non vi siano i requisiti professionali necessari a garantire l’assistenza sanitaria, i dirigenti scolastici possono procedere, nell’ambito delle prerogative scaturenti dalla normativa vigente in tema di autonomia scolastica, all’individuazione di altri soggetti istituzionali del territorio con i quali stipulare accordi e convenzioni. Così meglio chiarita la portata della norma di cui all’art. 4 citato, è possibile circoscrivere la eventuale responsabilità dell’Amministrazione scolastica ai soli casi in cui il dirigente non abbia adottato le misure che sono configurate per lui quali specifici obblighi: più specificamente, potrà essere individuata una precisa responsabilità del dirigente scolastico nei casi in cui, ad esempio, egli abbia omesso di individuare, nell’edificio scolastico, un luogo idoneo alla conservazione e alla somministrazione del farmaco; oppure non abbia concesso, ove richiesto, ai genitori degli alunni o ai loro delegati, l’accesso ai locali scolastici durante l’orario delle lezioni, al fine di permettere loro la diretta somministrazione del medicinale; ancora, abbia omesso di verificare la disponibilità degli operatori scolastici, docenti e personale ATA, in servizio, a garantire la continuità della somministrazione dei farmaci durante l’orario delle lezioni. Ancora, specifici obblighi sono posti in capo ai dirigenti scolastici dalla normativa in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro: e infatti l’art. 15 del D.lgs. n. 81 del 2008 espressamente prevede l’obbligo, per i datori di lavoro, di “informazione e formazione adeguate per i lavoratori”; l’art. 37 comma 90 del citato Testo unico, inoltre, stabilisce che “i lavoratori incaricati (…) di primo soccorso e comunque di gestione dell’emergenza devono ricevere una adeguata e specifica formazione ed un aggiornamento periodico”. Al di fuori di tali ipotesi, alcuna responsabilità può ritenersi sussistente in capo alla Amministrazione scolastica. È in tal senso che va letta la recente pronuncia del TAr Campania Napoli, sez. IV, sentenza n. 2788 del 1 giugno 2016, secondo la quale “in definitiva spetta al dirigente scolastico prevedere modalità di conservazione del farmaco ed individuare specificamente la persona deputata alla sua somministrazione in caso di manifestazione di episodi di crisi, mentre le altre amministrazioni, ciascuna per la rispettiva competenza, hanno l'obbligo di intervenire solo quando il dirigente scolastico abbia certificato, sotto la propria responsabilità anche contabile, che all'interno dell'istituto non vi sono figure professionali adeguate allo svolgimento di tale compito”. In senso conforme anche la sentenza n. 2018 del 22 giugno 2011 del TAr Sardegna, che ha accertato e dichiarato la illegittimità del silenzio inadempimento serbato dal dirigente scolastico sulla istanza dei genitori di un alunno disabile volta ad ottenere la somministrazione di farmaci all’allievo durante l'orario scolastico: “Quanto all'elemento della colpa - osservano i Giudici amministrativi - non può non sottolinearsi la inescusabilità di un comportamento negligente sia sotto il profilo temporale (considerato che la grave questione fu portata all'attenzione dell'amministrazione scolastica quantomeno dal precedente anno scolastico), sia sotto il profilo della mancata applicazione delle direttive ministeriali in materia, emanate da tempo, come si è detto. Per quanto concerne la determinazione del danno risarcibile, il Collegio ritiene di dover seguire l'orientamento che riconosce il diritto al ristoro del danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ., qualificabile nella fattispecie come danno esistenziale, in presenza di lesioni ai valori della persona umana garantiti o protetti dalla carta costituzionale (Corte Cass. sez. iii, 30 aprile 2009 n. 10120 e sez. i 19 maggio 2010 n. 12318), ovvero ai diritti costituzionalmente inviolabili (Corte Cass. ss.uu. 19 agosto 2009 n. 18356) ... il danno è individuabile nella compressione dei diritti costituzionali alla salute e all'istruzione provocati dalla mancata frequenza scolastica del figlio dei ricorrenti, per un periodo che si può indicare in mesi sei …”. Tali conclusioni trovano conferma anche nella giurisprudenza dei Tribunali ordinari: il Tribunale di roma I sezione lavoro, ad esempio, nella sentenza 28 febbraio 2002, n. 2779, ha statuito che “il diritto all'istruzione del minore ed all'inserimento nella scuola ordinaria può essere attuato solo garantendo la presenza di personale sanitario in grado di riconoscere e di intervenire tempestivamente nell'eventualità di reazioni allergiche a carico del minore, la cui insorgenza e gravità è, come comprovato dalla documentazione sanitaria in atti, del tutto improvvisa ed imprevedibile. Deve pertanto ritenersi la sussistenza del fumus boni iuris in merito alla pretesa di parte ricorrente di ottenere, in attuazione dei precisi obblighi di prevenzione individuale e collettiva nonché di assistenza ed integrazione del portatore di handicap gravanti sulla asl, la presenza di un presidio infermieristico presso l'istituto scolastico frequentato dal minore, quantomeno durante l'orario scolastico obbligatorio”. La esatta perimetrazione degli obblighi normativi sussistenti in capo alla Amministrazione scolastica consente, altresì, di tracciare il confine della responsabilità penale in cui possono incorrere gli operatori scolastici tutte le volte in cui si ponga la necessità di intervenire a tutela di un minore durante l’orario delle lezioni. Potrebbe, infatti, astrattamente configurarsi una responsabilità penale a titolo di omissione di soccorso (art. 593 c.p.) in capo ai soggetti (docenti e personale ATA) che omettano di attivare le procedure come sin qui descritte nelle ipotesi in cui sia necessario procedere alla somministrazione di un farmaco all’alunno; nei casi più gravi, potrebbe configurarsi una responsabilità a titolo di lesioni colpose (art. 590 c.p.) e, nella denegata ipotesi in cui alla omessa somministrazione del farmaco dovesse seguire la morte dell’alunno, potrebbe configurarsi, in capo agli operatori scolastici, un responsabilità a titolo di omicidio colposo (art. 589 e art. 40 c.p.v. c.p.). Quanto al delitto di omissione di soccorso, va ricordato che esso è imputabile soltanto a titolo di dolo, il quale si atteggia come generico e nel cui oggetto rientra anche lo stato di pericolo in cui versa il soggetto passivo: il suddetto stato di pericolo, infatti, si pone quale elemento costitutivo del fatto tipico e opera quale presupposto dell’obbligo di attivarsi, la cui omissione determina, appunto, la illiceità penale del fatto medesimo. ebbene, la Giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, perchè la condotta di omissione di soccorso possa ritenersi volontaria, è necessario che all’agente si sia effettivamente rappresentata la situazione di pericolo come tale. Deve pertanto reputarsi escluso il dolo, anche solo nella forma eventuale, qualora l’omissione del soccorso sia dovuta ad un errore (ancorchè colposo) compiuto dallo stesso agente in ordine alla valutazione della reale natura della situazione percepita attraverso i propri sensi. e parimenti non può ritenersi integrato l’elemento soggettivo del reato in contestazione qualora lo stesso agente, pur avendo riconosciuto la situazione di pericolo, abbia poi errato nell’elezione delle modalità di soccorso che pure abbia posto in essere (in termini Cass. pen., sez. V, 21 marzo 2013 n. 13310 (3)). Quanto alla astratta configurabilità di una responsabilità a titolo di omicidio colposo per omessa somministrazione del farmaco, va innanzi tutto ricordato che, perché possa configurarsi una responsabilità penale a titolo omissivo, è necessario che il soggetto abbia violato un preciso obbligo giuridico di impedimento dell’evento. e infatti, a norma dell’art. 40, comma 2, c.p., non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo. (3) Nel caso affrontato dalla sentenza citata, la Cassazione, V sezione penale, con sentenza 13310 del 21 marzo 2013, ha ritenuto non sussistente, a carico di un docente di educazione fisica, il reato di omissione di soccorso nei confronti di un minore infortunatosi allo sterno svolgendo un esercizio ginnico nel corso di una lezione di educazione fisica dalla stessa condotta. In particolare la Suprema Corte ha ritenuto che non è possibile imputare al docente un giudizio di colpevolezza basato esclusivamente sul fatto che lo stesso abbia sottovalutato la situazione di pericolo pure percepita, né può essere al docente rimproverato di aver predisposto erronee modalità di intervento per soccorrere l’allievo. “Nel caso di specie, pertanto non si può ritenere sussistere il dolo sulla base del fatto che: - le modalità con cui il minore si era infortunato imponevano una particolare attenzione nella sua assistenza, essendo l'incidente conseguito allo svolgimento di un esercizio ginnico che implicava l'esecuzione di una capriola, coinvolgendo dunque parti particolarmente sensibili del corpo; - al persistente dolore e alle difficoltà respiratorie lamentati dal minore non corrispondevano ferite evidenti, circostanza che avrebbe dovuto allarmare il docente, facendogli sospettare la gravità dell'infortunio, rivelandole l'insufficienza delle cure pure prontamente prestate e concretizzatosi nella prestazione di un massaggio e nel far riposare il bambino; - il docente avvertì dell'accaduto al termine della lezione sia le insegnati delle ore successive, chiedendoloro di tenere sotto controllo il minore, sia la direttrice della scuola, segno evidente che ella si era resa conto della gravità della situazione e del carattere non risolutivo delle cure prestate. le motivazioni di cui sopra sono pertanto idonee a sostenere al più un giudizio di rimproverabilità del docente per non aver saputo riconoscere l'effettiva entità del pericolo in cui versava il minore e per non aver adottato misure adeguate a fronteggiarlo a causa della propria imprudenza, negligenza o imperizia, ma non già l'affermazione della volontarietà dell'omissione delle corrette modalità di soccorso nella consapevolezza della loro necessità”. Affinchè, dunque, possa configurarsi una responsabilità a titolo di reato omissivo improprio, è necessario, in primo luogo, che sull’agente gravi l’obbligo di impedire l’evento poi in concreto verificatosi. Per equiparare il non impedire al cagionare, infatti, nel nostro ordinamento non è sufficiente la materiale possibilità di impedire l’evento, ma si richiede come ulteriore requisito quello dell’obbligo di impedirlo. Senza voler entrate nel merito delle diverse teorie che si sono sviluppate in dottrina circa la esatta individuazione delle fonti del predetto obbligo, può senza dubbio affermarsi, con la teoria c.d. formale, che la manifestazione di disponibilità, da parte del personale scolastico, adeguatamente formato, alla somministrazione del farmaco, secondo le procedure descritte in precedenza, rappresenta una ipotesi di assunzione volontaria dell’impegno. Pertanto, qualora i genitori dell’alunno, previa autorizzazione della Azienda Sanitaria, abbiano fatto richiesta alla scuola presentando la specifica prescrizione medica inerente le modalità e caratteristiche della somministrazione, e il dirigente scolastico abbia individuato, tra il personale docente o ATA che abbia seguito corsi di pronto soccorso o apposite attività formative, uno o più soggetti disposti a praticare la somministrazione del farmaco, non può revocarsi in dubbio che si sia così attuata una assunzione volontaria, da parte della Amministrazione scolastica, dell’obbligo di attivarsi per impedire, attraverso la somministrazione del farmaco, l’evento infausto. Qualora, invece, si voglia aderire alla teoria c.d. funzionale e ritenere, pertanto, che, ai fini dell’imputazione di un dato evento non impedito, non rileva tanto l’obbligazione formale di impedirlo, quanto, piuttosto, la circostanza che il nostro ordinamento giuridico attribuisca a determinati soggetti la funzione di garanti di determinati interessi che, altrimenti, non potrebbero essere efficacemente protetti dai loro rispettivi titolari, non può che concludersi, anche in tal caso, nel senso della individuazione, in capo agli operatori scolastici, di una posizione di garanzia particolarmente qualificata. È noto, infatti, che con l’iscrizione e la conseguente ammissione dell'allievo si determina, tra l’Amministrazione scolastica e i genitori, l'instaurazione di un vincolo negoziale, in virtù del quale, nell'ambito delle obbligazioni assunte dall'istituto, deve ritenersi sicuramente inclusa quella di vigilare anche sulla sicurezza e l'incolumità dell'allievo nel tempo in cui fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni (Cass. Sez. un. 27 giugno 2002, n. 9346). rappresenta, pertanto, un principio consolidato nella nostra Giurisprudenza di legittimità quello secondo il quale la domanda e l'accoglimento di iscrizione alla frequentazione di una scuola "fondano un vincolo giuridico tra l'allievo e l'istituto, da cui scaturisce, a carico dei dipendenti di questo, appartenenti all'apparato organizzativo dello stato, accanto all'obbligo principale di istruire ed educare, quello accessorio di proteggere e vigilare sull'incolumità fisica e sulla sicurezza degli allievi, sia per fatto proprio, adottando tutte le precauzioni del caso, che di terzi, fornendo le relative indicazioni ed impartendo le conseguenti prescrizioni, e da adempiere, per il tempo in cui gli allievi fruiscono della prestazione scolastica, con la diligenza esigibile dallo status professionale rivestito, sulla cui competenza e conseguente prudenza costoro hanno fatto affidamento, anche quali educatori e precettori del comportamento civile e della solidarietà sociale, valori costituzionalmente protetti, e da inculcare, senza il limite del raggiungimento della maggiore età dell'allievo" (Cass. civ., 15 maggio 2013, n. 11751). L'istituto scolastico è tenuto, dunque, ad osservare, nei confronti degli allievi, obblighi di vigilanza e controllo osservando lo sforzo diligente adeguato alle circostanze del caso concreto, dovendo adottare tutte le misure idonee a prevenire ed impedire che gli allievi arrechino danno a se stessi e a terzi. Chiarito, dunque, che sull’Amministrazione scolastica gravano precisi doveri di protezione e tutela degli alunni ad essa affidati durante l’orario scolastico, occorre chiedersi se tali obblighi siano di per sé soli sufficienti a configurare, in capo al personale scolastico, una eventuale responsabilità a titolo di omicidio mediante omissione tutte le volte in cui non sussista, all’interno del plesso scolastico, personale che si sia reso preventivamente disponibile, secondo le modalità e le procedure sopra descritte, alla somministrazione del farmaco. ebbene, non pare potersi revocare in dubbio che, nelle ipotesi quale quella sopra descritta, alcun giudizio di responsabilità potrà essere formulato nei confronti del personale scolastico e del dirigente, i quali, pur non intervenendo a somministrare direttamente il farmaco, abbiano, tuttavia, osservato le prescrizioni imposte dalla Linee Guida di cui si è detto, attivandosi per allertare i soggetti deputati ad intervenire (il medico curante dell’allievo, la ASL territorialmente competente, il 118). Pertanto potrà addivenirsi ad un giudizio di colpa solo qualora sia imputabile, in capo al personale scolastico, la inosservanza delle norme di comune prudenza o diligenza nell’affrontare la situazione di emergenza. Nella valutazione dei criteri della ordinaria diligenza occorrerà, poi, tenere in considerazione anche il profilo della prevedibilità dell’evento: nel caso di alunno con malattia cronica, per il quale la emergenza può essere definita come prevedibile, è evidente che la valutazione della risposta di ordinaria diligenza dovrà tenere conto degli elementi di conoscenza messi a disposizione dell’insegnante e cioè sia della prevedibilità della crisi sia degli strumenti da adottare nel caso essa si verifichi. tribunale amministrativo Regionale della Campania, salerno, sezione I, ordinanza 29 aprile 2019 n. 689 - Pres. F. riccio, est. F. Maffei - oMISSIS (avv. S. Marotta) c. Asl Salerno (avv. V. Casilli), Ministero dell’Istruzione dell’università e della ricerca (avv. distr. Stato). Letta l’ordinanza cautelare n. 74/2019 del 07.02.2019, con cui l’intestato Tribunale ha accolto la domanda cautelare proposta dagli odierni ricorrenti, “rimandando alle amministrazioni resistenti, per quanto di rispettiva competenza, la definizione del PeI e dei necessari servizi sanitari, onde assicurare in via interinale il diritto allo studio del minore”; rilevato che l’adottato Pei 2018-19, regolarmente sottoscritto da tutti i soggetti a ciò chiamati, ha espressamente previsto “la presenza dell’infermiere a scuola deve essere giornaliera per tutelare la salute e garantire la reale e totale inclusione del bambino…. le figure necessarie per garantire al bambino una adeguata frequenza scolastica sono: insegnante di sostegno (25 ore), educatrice (15 ore), assistente materiale, infermiere ( per tutte le ore di permanenza a scuola del bambino); rilevato, tuttavia, che non risulta ancora assegnato al minore una figura specializzata alla somministrazione del farmaco necessario per prestargli soccorso qualora dovessero manifestarsi le crisi convulsive di cui il medesimo soffre; rammentato che il decisum cautelare, pur essendo caratterizzato dalla provvisorietà, determina un effetto conformativo analogo a quello della sentenza e, quindi, comporta un vincolo assoluto per l'amministrazione di attenersi, nella sua successiva attività, alla statuizione del giudice; rimarcato, ancora, che l'effetto conformativo conseguente al giudicato cautelare è assolutamente vincolante per l'amministrazione sino ad una eventuale decisione difforme del giudizio di merito; il riferimento al cosiddetto "fumus boni iuris" e l'ipoteticità sintattica che caratterizza le motivazioni delle ordinanze cautelari non implicano il riconoscimento in capo all'amministrazione della potestà di ribadire i propri assunti, ma si correlano alla fisiologica eventualità di un difforme esito dei giudizio di merito; Considerato che i principi sopra esposti devono necessariamente coniugarsi con la natura fondamentale del diritto allo studio che impone al legislatore l'onere di riempire quella situazione soggettiva di contenuti concreti, attraverso la predisposizione degli strumenti idonei alla sua realizzazione ed attuazione nel difetto dei quali lo stesso si ridurrebbe a "mera previsione programmatica"; Considerato che il vincolo derivante dalla carenza di risorse economiche non può, in modo assoluto, condizionare il diritto del disabile, sino ad esigere e sacrificare il diritto fondamentale allo studio ed all'istruzione (cfr.: sent. dell'Adunanza Plenaria n. 7/2016); ritenuto, pertanto, che la Asl Salerno, com’è dato evincere dalla nota depositata in atti, non ha dato attuazione all’ordinanza cautelare de quo, non avendo predisposto il presidio sanitario necessario affinchè il minore esercitasse, in condizioni di assoluta sicurezza per la sua incolumità, il diritto allo studio costituzionalmente garantitogli; ritenuto che, per dare esecuzione all’ordinanza de quo, l’ASL dovrà o disporre la formazione di docenti dell’istituto che si siano resi volontariamente disponibili alla somministrazione del farmaco in questione ovvero, in assenza di tale disponibilità, predisporre ed organizzare il necessario servizio infermieristico presso l’istituto scolastico frequentato dal minore disabile; ritenuto di dover assegnare il termine di trenta giorni per la corretta esecuzione dell’emessa ordinanza cautelare; ritenuto che la non agevole organizzazione del servizio de quo induce a ritenere sussistenti le ragioni per disporre l’integrale compensazione delle spese della presente fase; P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo regionale della Campania sezione staccata di Salerno (Sezione Prima), accoglie l’istanza nei termini indicati in motivazione, ordinando che l’ASL Salerno dia attuazione entro il termine di trenta giorni dalla comunicazione ovvero, se anteriore, dalla notificazione della presente ordinanza. Spese compensate. ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, commi 1, 2 e 5 D.Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, manda alla Segreteria di procedere, in caso di riproduzione in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, all’oscuramento delle generalità del minore, dei soggetti esercenti la potestà genitoriale o la tutela e di ogni altro dato idoneo ad identificare il medesimo interessato riportato sulla sentenza o provvedimento. Così deciso in Salerno nella camera di consiglio del giorno 10 aprile 2019. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO Problematiche afferenti agli avvisi di accertamento delle imposte comunali (ICI/IMU) per gli immobili in uso al Ministero della Difesa. Linee di indirizzo interforze del Ministero della Difesa Parere del 04/10/2019-535083, al 30226/2018, avv. Beatrice Gaia Fiduccia Con la nota in epigrafe l’Ufficio Generale Affari Giuridici dello Stato Maggiore della Difesa ha sottoposto alle valutazioni di questa Avvocatura il documento denominato al fine di diramare linee di indirizzo interforze univoche in relazione alla gestione unitaria dei potenziali contenziosi conseguenti a numerosi avvisi accertamento emessi a carico dell’Amministrazione della Difesa per gli immobili ad essa in uso, in particolare volte ad evidenziare i casi in cui ricorrano i presupposti per sostenere in giudizio l’esenzione tributaria. Il riferimento normativo, come noto, è: - in materia di ICI, alle fattispecie di esenzione previste dall’art. 7 del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, istitutivo dell’imposta, segnatamente a quella prevista dalla lettera a) del primo comma, secondo cui sono esenti dall’imposta: “a) gli immobili posseduti dallo Stato, dalle regioni, dalle province, nonché dai comuni, se diversi da quelli indicati nell’ultimo periodo del comma 1 dell’articolo 4, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, dalle unità sanitarie locali, dalle istituzioni sanitarie pubbliche autonome di cui all’articolo 41 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, dalle camere di commercio, industria, artigianato ed agricoltura, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali”; ovvero, ancora, a quella prevista dalla lettera i) del medesimo comma per “i) gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all’articolo 73, comma 1, lettera c) del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, fatta eccezione per gli immobili posseduti da partiti politici, che restano comunque assoggettati all’imposta indipendentemente dalla destinazione d’uso dell’immobile, destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222”; - in materia di IMU, alle fattispecie di esenzione previste dall’art. 9, comma 8, del D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23 istitutivo dell’imposta (sostitutiva - ai sensi dell’art. 8, comma 1 - per la componente immobiliare, dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e relative addizionali dovute in relazione ai redditi fondiari relativi ai beni non locati, e dell’imposta comunale sugli immobili), segnatamente, e in sostanziale continuità con la disciplina ICI, alle fattispecie secondo cui “sono esenti dall’imposta municipale propria gli immobili posseduti dallo Stato, nonché gli immobili posseduti, nel proprio territorio, dalle regioni, dalle province, dai comuni, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, ove non soppressi, dagli enti del servizio sanitario nazionale, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali. Si applicano, inoltre, le esenzioni previste dall’articolo 7, comma 1, lettere b), c), d), e), f), h), ed i) del citato decreto legislativo n. 504 del 1992”. Il documento oggetto di valutazione può riportarsi, in sostanza e secondo la sua tecnica redazionale, nei termini che di seguito si espongono. Sub 1. Nella “introduzione” si muove dalla constatazione dell’intensificarsi negli ultimi anni delle pretese fiscali avanzate nei confronti del Ministero della Difesa dai parte dei Comuni in relazione non solo agli (per altro anche quando non occupati, o quando già oggetto di dismissione nel periodo di imposta in riferimento), ma altresì in relazione ad , quali quelle adibite al funzionamento degli organismi di Protezione Sociale, a basi logistiche addestrative e a caserme. Dette pretese troverebbero conforto nell’orientamento giurisprudenziale espresso dalla Corte di Cassazione, tra le altre e con specifico riferimento agli alloggi di servizio del Ministero della Difesa, nelle sentenze Cass. civ. sez. V, nn. 20041 e 20042 del 13 luglio 2011, n. 27473 del 30 dicembre 2016 e n. 26453 dell’8 novembre 2017, con cui è affermato che l’esenzione spetterebbe solo se “l’immobile è direttamente ed immediatamente destinato allo svolgimento dei compiti istituzionali dell’ente”, mentre tale ipotesi resterebbe insoddisfatta in presenza di un “preminente soddisfacimento di esigenze di carattere privato (quali quelle abitative del cessionario e della propria famiglia) e del quale è certo sintomo il pagamento di un canone”, dandosi altresì atto del mancato assolvimento da parte dell’Amministrazione dell’“onere della prova, su di lei incombente, in merito alla ricorrenza del presupposto oggettivo dell’invocata esenzione” (riferimenti testuali tratti dalle pronunce citate). Di qui l’esigenza, avvertita dal Comitato dei Capi di Stato Maggiore delle Forze armate nel marzo dello scorso anno, di integrare e attualizzare le indicazioni già fornite sull’argomento dal Segretariato Generale della Difesa e Direzione Nazionale degli Armamenti nel 2012 (il riferimento è alla Direttiva del 13 marzo 2012 n. 0017234, trasmessa in all. “A”), ritenendosi dover resistere avverso tutte quelle pretese fiscali relative a - si legge - “fattispecie in cui sia possibile dimostrare l’utilizzo delle infrastrutture militari (alloggi compresi) per le finalità istituzionali della difesa”. Si premette, quindi, di volersi porre l’attenzione sulla individuazione dei presupposti oggettivi e soggettivi per poter invocare l’esenzione dal tributo nella particolare considerazione a: la natura giuridica degli alloggi di servizio nel vigente Codice dell’ordinamento militare; il ricorso alla concessione amministrativa quale titolo di loro utilizzo; il vincolo di destinazione. Sub 2. Con riferimento alla “Natura giuridica degli alloggi di servizio” il documento in esame, dopo un espresso rinvio, quanto al regime giuridico dei beni militari, alla costituente l’annesso 2 alla Direttiva del 2012, procede al raccordo tra la disposizione civilistica dell’art. 822 c.c. e quelle di cui agli artt. 230, commi 1 e 3, e 231, commi 1 e 4, del D.Lgs. n. 66/2010 (recante il Codice dell’ordinamento militare, di seguito anche CoM). In particolare, l’art. 231 CoM - il cui comma 1, in linea con il principio espresso dall’art. 822 c.c., dispone che: “appartengono al demanio militare del Ministero della difesa le opere destinate alla difesa nazionale” - precisa, al comma 4, che: “Fatta salva l’applicazione dell’articolo 147, comma 1, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante il codice dei beni culturali e del paesaggio, rientrano tra le opere destinate alla difesa nazionale e sono considerati infrastrutture militari, a ogni effetto, tutti gli alloggi di servizio per il personale militare realizzati su aree ubicate all’interno di basi, impianti, installazioni militari o posti al loro diretto e funzionale servizio”. Si afferma che la scelta legislativa del Codice dell’ordinamento militare avrebbe superato una elaborazione giurisprudenziale, normativa e dottrinale ad esso precedente non sempre uniforme quanto alla natura demaniale degli alloggi di servizio e volta ad escludere la demanialità per difetto del criterio funzionale (l’essere le opere destinate alla difesa nazionale) per taluni tipi di alloggi, segnatamente in relazione agli ASt (alloggi di servizio di temporanea sistemazione per le famiglie dei militari), ricondotti invece al patrimonio indisponibile. In sostanza, fatto salvo l’assolvimento del criterio funzionale della destinazione alla difesa nazionale, le linee di indirizzo postulano sia stata così normativamente sancita la demanialità di tutte le categorie di alloggi di servizio. Sub 3. Con riferimento alla “concessione amministrativa”, dopo un richiamo a principi di carattere generale, il documento si sofferma sulla disciplina di settore contenuta nel D.P.r. n. 90/2010 recante il testo Unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare (di seguito anche tUoM), con particolare riferimento ai presupposti previsti per la decadenza e per la revoca anticipata delle concessioni (artt. 330 e 331 tUoM), onde affermare che detto titolo concessorio non determina un mutamento nel possesso dell’immobile (che così permarrebbe in capo all’amministrazione concedente) e si discosta dalle concessioni con cui le amministrazioni ritraggono reddito dall’uso da parte di terzi dei propri beni demaniali (ad esempio le concessioni su spiagge). Solo con riferimento a queste ultime - si sostiene - sarebbe ragionevole ritenere che il concessionario sia anche il soggetto passivo di imposta. tali affermazioni, in sostanza, postulano il riferimento alle disposizioni sulla soggettività passiva in capo al concessionario di aree demaniali previste ai fini ICI dall’art. 3, comma 2, del D.Lgs. n. 504/1992, come modificato sul punto dall’art. 18, comma 3, della l. n. 388/2000 e analogamente, ai fini IMU, dall’art. 9, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2011 (testualmente entrambe: “nel caso di concessione su aree demaniali, soggetto passivo è il concessionario”), onde escludere nella peculiarità della concessione in esame la soggettività passiva di imposta in capo ai concessionari degli alloggi di servizio. Sub 4. Con riferimento al “vincolo di destinazione”, nella premessa sub a) il documento si propone di assicurare, in linea con i moniti della giurisprudenza di legittimità, l’assolvimento dell’onere della prova gravante sull’Amministrazione in punto di esclusiva destinazione dei beni ai compiti istituzionali - presupposto normativo della esenzione - con specifico riferimento agli alloggi di servizio oggetto di concessione (quali, tra le tipologie individuate dalla normativa di riferimento, gli alloggi riconducibili alle categorie ASGC, ASIr, ASI e ASt). Si forniscono, quindi, indicazioni utili a superare gli argomenti ostativi alla ricorribilità del presupposto normativo dell’esenzione che la Corte di Cassazione ha nelle richiamate pronunce individuati: b) nell’utilizzo solo mediato del bene, di fatto in uso abitativo al militare; c) nell’esistenza di un canone. Sub b) A superamento del primo argomento ostativo, il documento richiama le norme dalle quali variamente trarre la prevalenza della funzione istituzionale degli alloggi di servizio oggetto di concessione rispetto a quella privata abitativa, così: tra le disposizioni regolamentari del tUoM, l’art. 331 sulla possibilità di revoca della concessione per inderogabili esigenze di servizio; gli artt. 329 e 330 che individuano quale causa di cessazione e decadenza dalla concessione la cessazione dell’incarico, il collocamento in quiescenza o la cessazione dal servizio attivo; l’art. 319 che rapporta la durata della concessione al periodo di permanenza nell’incarico; ancora, tra le disposizioni del CoM, l’art. 281 sull’assegnazione degli alloggi ASI a personale cui sono affidati incarichi che richiedono l’obbligo di abitazione presso la località di servizio. La valorizzazione di tali aspetti, dunque, consentirebbe di qualificare sempre l’alloggio di servizio oggetto di concessione come opera strumentale al perseguimento della difesa nazionale, in linea - è evidenziato - con quanto già affermato dalla Corte Costituzionale nelle sentenze nn. 216 e 217 del 1985 e n. 150 del 1992 e con quanto ora trasfuso nel Codice dell’ordinamento militare. Di seguito, vengono recepite le indicazioni rese dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Venezia con nota prot. 414883 del 22 ottobre 2014 con cui, nel prestare acquiescenza ad una pretesa ai fini ICI (rif. cs 2194/2014), il distrettuale ufficio rilevava come, sia in base alla previgente normativa di cui all’art. 5 della l. n. 497/1978, sia in base a quella attualmente in vigore di cui all’art. 230 del D.lgs. n. 66/2010, per sostenere in giudizio l’esenzione fosse necessario “uno specifico atto di destinazione” e suggeriva, per il futuro, di “voler assumere al più presto atti di destinazione, ora per allora (…)”. Le indicazioni dell’Avvocatura Distrettuale - si aggiunge nelle linee di indirizzo - agevolerebbero in sede processuale l’assolvimento dell’onere della prova rispetto ad una allegazione basata sulla mera differenziazione della tipologia alloggiativa già suggerita nella direttiva del 2012. Sub c) Quanto, poi, alla seconda ragione ostativa all’esenzione evidenziata dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento all’esistenza di un canone (“certo sintomo”, secondo la S.C., del preminente soddisfacimento delle esigenze di carattere privato del concessionario di alloggi di servizio), nel documento preliminarmente si auspica un intervento normativo abrogativo del canone o modificativo dello stesso in voce di manutenzione straordinaria, richiamandosi d’un lato la gratuità già prevista dall’art. 295 CoM per gli alloggi di servizio connessi all’incarico dell’Arma dei Carabinieri (ASGI), dall’altro i suggerimenti anche sul punto resi dalla ADS nel senso “(…) di voler rivedere, man mano che ciò si renda possibile, il regime delle concessioni sotto il profilo della sostituzione del canone con l’onere manutentivo anche straordinario” (nel seguito la nota prot. 414883/2014 cit.). Nelle more degli auspicati interventi, a superamento della sintomaticità evidenziata dalla giurisprudenza di cassazione, il documento indica di doversi valorizzare il carattere non redditizio, né tanto meno lucrativo, del canone, bensì la sua finalità manutentiva, argomentando allo stato della normativa vigente dall’art. 287, comma 2, del CoM in forza del quale, della quota parte del 50% in riassegnazione allo stato di previsione del Ministero della Difesa, è previsto che l’85% sia destinato alla manutenzione degli alloggi di servizio e il 15% al fondo casa. Sub 5. Nel seguito dell’elaborato sono individuate ipotesi di “assenza del collegamento funzionale” e ciò con specifico riferimento: a) alle occupazioni sine titulo degli alloggi di servizio; b) alle occupazioni degli alloggi da parte di categorie protette (quali gli utenti il cui nucleo familiare convivente comprenda un portatore di handicap, ovvero i coniugi superstiti o altro familiare convivente del personale dipendente deceduto in servizio e per causa di servizio, ecc.) in favore delle quali i DD.MM. 7 maggio 2014 e 24 luglio 2015 (in allegato “B”) prevedono nel dettaglio condizioni di deroga ai limiti di durata delle concessioni. Sub a) Con riferimento alle occupazioni sine titulo è affermato che, nella inoperatività della esenzione, il tributo resterebbe a carico dell’Amministrazione originariamente concedente l’alloggio, salvo recupero o rivalsa sui detentori ed eventuale risarcimento dei danni a loro carico per responsabilità extracontrattuale, evidenziandosi altresì che il mancato avvio da parte dell’Amministrazione della prevista procedura di rilascio dell’immobile e del recupero in rivalsa degli oneri sostenuti sarebbe passibile di responsabilità per danno erariale. Sub b) Con riferimento alle occupazioni degli alloggi in favore delle categorie protette, in deroga al vincolo di durata delle concessioni in relazione alla titolarità del servizio, il documento indica potersi comunque invocare l’esenzione d’imposta sia valorizzando la formulazione prevista ai fini IMU dall’art. 9, comma 8, del D.lgs. n. 23/2011 secondo una possibile interpretazione suggerita dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Venezia, sia considerando che la natura giuridica dell’alloggio di servizio non potrebbe mutare a seconda del soggetto che lo occupa. In particolare, viene fatto riferimento a quanto affermato dall’Avvocatura Distrettuale di Venezia con nota n. 2907 del 22 gennaio 2015 (rif. cs 2992/2014) ad avviso della quale la normativa IMU avrebbe introdotto “una significativa variante alla normativa sull’esenzione” posto che, dal raffronto testuale tra la fattispecie di esenzione ai fini ICI come descritta dall’art. 7, comma 1, lett. a) D.Lgs. n. 504/1992 e quella ai fini IMU come descritta dall’art. 9, comma 8, D.Lgs. n. 23/2011, sembrerebbe che “l’esenzione per lo Stato non sia più condizionata alla destinazione in via esclusiva allo svolgimento di compiti istituzionali”, bensì - come parrebbe intendersi - al possesso tout court dei beni da parte dello Stato. Le linee di indirizzo indicano, inoltre, che per tali categorie protette l’Amministrazione dovrà comunque adottare un motivato provvedimento amministrativo che “sanzioni” (rectius: acclari) nei confronti degli occupanti il verificarsi del mutamento del titolo concessorio e di seguito formalizzare l’atto con un contenuto diverso da quello tipizzato dall’art. 346 tUoM (di cui viene trasmesso un format in allegato “F”). In tali casi - viene precisato - l’Amministrazione pagherebbe l’imposta solo come anticipo, in presenza di un preciso vincolo (a regime) del conduttore concessionario. Sub 6. Con il paragrafo rubricato “alloggi in titolo” le linee di indirizzo, nel richiamare l’esigenza di doversi assolvere in giudizio ad un onere della prova in concreto circa la sussistenza dei presupposti dell’esenzione invocata, prospettano l’ipotesi di alloggi ed infrastrutture momentaneamente non utilizzate specificando che, in tali casi, l’Amministrazione dovrà dare conto di una condotta positiva del preordinato utilizzo del bene attraverso una relazione funzionale di carattere permanente che prescinda dalle concrete ed effettive modalità di utilizzo, sicchè il momentaneo inutilizzo del bene (dovuto ad esempio al passaggio dello stesso tra diversi utenti, al succedersi di esercitazioni addestrative ovvero alla circostanza che il bene rientri in specifici programmi di ristrutturazione) non possa perciò solo essere di ostacolo al riconoscimento della esenzione. Sub 7. Con il paragrafo rubricato “in caso di soccombenza paga l’ad in deroga al sistema generale” le linee di indirizzo forniscono un’interpretazione del combinato disposto di cui all’art. 288 CoM, agli artt. 359, comma 1, lett. d) e 367, comma 2, lett. e) del tUoM (quest’ultima per gli alloggi di servizio dell’Arma dei Carabinieri) in termini derogatori alla soggettività passiva di imposta del concessionario su aree demaniali prevista dall’art. 9, comma 1, D.Lgs. n. 23/11 ai fini IMU (e, come esposto, già ai fini ICI in esito alla modifica introdotta dall’art. 18, comma 3, della l. n. 388/2000). Le richiamate disposizioni del tUoM prevedono che “sono a carico dell’amministrazione le spese relative a:…(tra le altre) imposte e tasse relative agli immobili e agli impianti connessi”. La natura derogatoria di tali disposizioni troverebbe fondamento normativo nel carattere speciale e di completamento delle norme dell’ordinamento militare sui beni della difesa, sebbene espresso dall’art. 230, comma 3, CoM rispetto alle disposizioni recate dal codice civile e da altri codici e non già propriamente ai fini fiscali (testualmente: “…il presente libro detta le disposizioni specifiche per i beni della difesa, ulteriori rispetto a quelle recate dai codici menzionati nel presente articolo”). Del resto - si legge - ciò sarebbe confermato anche dall’art. 346, all. C, par. F alla voce , del tUoM che nel prevedere siano a carico del concessionario solo le tasse di nettezza urbana lascia intendere sia questi esonerato dalle altre. La natura derogatoria della previsione delle imposte a carico dell’Amministrazione concedente rispetto alla regola della soggettività d’imposta a carico del concessionario su aree demaniali, inoltre, troverebbe conforto nella previsione di cui alla L. n. 196/2016 che, nel provvedimento di assestamento del bilancio di previsione, ha istituito un capitolo ad hoc per il pagamento dell’IMU (n. 1233). Le linee di indirizzo concludono, come si evince anche dalla precisazione di cui alla lett. b) del paragrafo in esame, nel senso che ogniqualvolta non sia possibile invocare l’esenzione, l’Amministrazione rimane in punto di diritto assoggettata ai fini ICI/IMU, pur nella constatazione di un dispendio e di una perdita di risorse pubbliche. Sub 8. Con il paragrafo rubricato “aspetti procedurali” il documento, dando atto della impossibilità allo stato dell’attuale organizzazione e regolamentazione interna alla Difesa di assicurare all’Avvocatura dello Stato un unico referente, fornisce indicazioni volte a comunicare con immediatezza ai locali uffici legali l’intendimento di procedere alle impugnazioni delle pretese fiscali e ad illustrare le ragioni di impugnativa. rimanda, infine, ad un formato di memoria cui attenersi (trasmesso in all. “D”) ed al documento denominato di cui al trasmesso allegato “e” (aggiornate anche in riferimento agli accertamenti catastali, secondo le recenti indicazioni diramate da questa Avvocatura con nota prot. 1330 del 9 gennaio 2019, rif. ct 20157/2018, in allegato “H”). Sub 9. e 10. In chiusura sono i paragrafi rubricati “Normativa” e “allegati” ove vengono rispettivamente riportati i principali riferimenti normativi e indicati gli allegati richiamati nel corpo del documento. *** 1. Natura giudica dei beni militari con particolare riferimento agli alloggi di servizio. La disamina delle questioni oggetto di valutazione con le implicazioni che ne discendono impone, anzitutto, di prendere posizione sulla delimitazione dei beni immobili del demanio militare in genere e sulla natura giuridica degli alloggi di servizio in uso al Ministero della Difesa in particolare, in specie alla luce della normativa vigente recata dal Codice dell’ordinamento militare di cui al D.lgs. n. 15 marzo 2010, n. 66 e dal testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare di cui al D.P.r. 15 marzo 2010, n. 90. La distinzione tra le categorie di beni appartenenti al demanio e al patrimonio indisponibile contenuta rispettivamente agli artt. 822 e 826 c.c. è ripresa, e le disposizioni per esse dettate dal codice civile sono fatte oggetto di rinvio, dal Codice dell’ordinamento militare che nella prima delle del titolo I, Libro secondo dedicato ai , prevede per l’appunto che “i beni della difesa si distinguono in demanio pubblico e beni patrimoniali, disponibili e indisponibili, secondo le norme del codice civile, e sono sottoposti: (tra le altre e per ciò che interessa evidenziare) a) alle disposizioni dettate nel codice civile per tali categorie di beni” (art. 230, comma 1). Di seguito, l’art. 231, rubricato “demanio militare e demanio culturale in consegna alla difesa” prevede al comma 1, in perfetta equiparazione alla norma del codice civile di cui al richiamato comma 1 dell’art. 822 c.c., che: “1. appartengono al demanio militare del Ministero della difesa le opere destinate alla difesa nazionale”. La stessa equiparazione categoriale rispetto al codice civile si rinviene anche in riferimento alla definizione dei beni del patrimonio indisponibile della Difesa nel raffronto tra l’art. 232 CoM e l’art. 826 c.c. Le disposizioni dettate da tale libro del CoM - come bene evidenziato nelle linee di indirizzo - pongono per i beni della Difesa una disciplina specifica e di completamento: “il Presente libro detta disposizioni specifiche per i beni della difesa, ulteriori rispetto a quelle recate dai codici menzionati nel presente articolo” (art. 230, comma 3, prima parte). Così, per i beni immobili demaniali, all’art. 231, al comma 2, è la disposizione specifica secondo cui gli aeroporti militari fanno parte del demanio militare aeronautico e, al comma 4, è la disposizione specifica e di completamento secondo cui “(…) rientrano tra le opere destinate alla difesa nazionale e sono considerati infrastrutture militari, a ogni effetto, tutti gli alloggi di servizio per il personale militare realizzati su aree ubicate all’interno di basi, impianti, installazioni militari o posti al loro diretto e funzionale servizio”. Disposizione specifica e di completamento è anche l’art. 233 che considera taluni beni come opere destinate alla difesa nazionale solo a fini determinati, cioè “ai fini urbanistici, edilizi, ambientali e al fine dell’affidamento di contratti pubblici, relativi a lavori, servizi e forniture”, e così, tra le infrastrutture elencate dalle lettere da a) a t), si evidenziano in particolare: a) sedi di servizio e relative pertinenze necessarie a soddisfare le esigenze logistico-operative dell’arma dei carabinieri; b) opere di costruzione, ampliamento e modificazione di edifici o infra-strutture destinati ai servizi di leva, del reclutamento, incorporamento, formazione professionale e addestramento dei militari della Marina militare (...) da realizzare in talune sedi su terreni del demanio, compreso quello marittimo; c) aeroporti ed eliporti; d) basi navali; e) caserme; (…) i) comandi di unità operative e di supporto logistico; (…) p) poligoni e strutture di addestramento; (…). Ad ogni altro fine, pertanto, tali beni fanno parte e mantengono il regime proprio del patrimonio indisponibile. Ciò premesso, ferma una più agevole individuazione tra i beni del demanio militare - quali opere destinate alla difesa nazionale - delle infrastrutture militari in genere, con specifico riferimento agli alloggi di servizio è indubbiamente corretta la prospettiva di indagine da cui muovono le linee di indirizzo in esame volta, in primo luogo, a verificare la sussistenza o meno di una definitiva consacrazione in termini di generalizzata demanialità ad opera della richiamata disposizione dell’art. 231 del Codice dell’ordinamento militare. La normativa previgente dettata dalla L. n. 497/1978, recante “autorizzazione di spesa per la costruzione di alloggi di servizio per il personale militare e disciplina delle relative concessioni”, disponeva all’art. 1 che: “Per garantire la funzionalità degli enti, comandi e reparti delle Forze armate, il Ministro della difesa è autorizzato a predisporre ed attuare nel decennio 1978-87, un programma di costruzione di alloggi di servizio di tipo economico da destinare ai propri dipendenti, avvalendosi direttamente degli organi tecnici propri o di altri enti pubblici” ed all’art. 5 che: “tutti i fabbricati realizzati, anche anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge, su aree ubicate all’interno di basi, impianti, installazioni militari o posti al loro diretto e funzionale servizio sono considerati, a tutti gli effetti di legge, infrastrutture militari”. L’art. 231 del CoM - rubricato “demanio militare e demanio culturale in consegna alla difesa” - nel raffronto testuale con la previgente disposizione lascia immutata rispetto ad essa la medesima locuzione degli alloggi-infrastrutture militari ma, con la precisazione soggettiva di alloggi di servizio “per il personale militare”, per la prima volta ne sancisce espressamente la natura demaniale, disponendo infatti che essi “rientrano tra le opere destinate alla difesa nazionale” e in quanto tali, secondo il comma 1, “appartengono al demanio militare”. In sostanza, secondo la disposizione in esame la demanialità degli alloggi di servizio, quali opere destinate alla difesa nazionale, è connotata da un presupposto soggettivo, costituito dall’essere destinati al “personale militare”, e da un presupposto oggettivo, costituito dall’essere “realizzati su aree ubicate all’interno di basi, impianti, installazioni militari o posti al loro diretto e funzionale servizio”, in continuità con la locuzione utilizzata dalla disposizione previgente per affermarne l’assimilazione alle infrastrutture militari. Senonché, muovendo dall’interpretazione letterale della disposizione richiamata e dall’esame sistematico del corposo contesto normativo dedicato ai beni dal Codice dell’ordinamento militare e dal testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare, è possibile concludere che la natura demaniale degli alloggi di servizio non ne risulti affatto generalizzata, bensì resti delimitata quanto a specifici presupposti e relativo regime giuridico, individuati i quali dovrebbe affermarsi, in via residuale e per esclusione ai sensi dell’art. 826 c.c., l’appartenenza al patrimonio indisponibile siccome beni destinati (comunque) ad un pubblico servizio. 1.1. Come anticipato, in primo luogo il dato testuale dell’art. 231, comma 4 CoM indica un presupposto soggettivo, riferendo la demanialità ai soli alloggi di servizio “per il personale militare”. Sotto tale profilo, pertanto, la natura demaniale non potrebbe predicarsi per quegli alloggi destinati al personale civile (così ad esempio gli ASGC possono essere destinati al personale civile: questi, infatti, secondo la classificazione dell’art. 279 CoM, comma 1, lett. a), sono alloggi di servizio gratuito per consegnatari e custodi che, ai sensi del successivo art. 280, possono essere concessi “unicamente al personale dipendente cui è affidata, in modo continuativo, la custodia dell’edificio o dell’impianto nel quale insiste l’alloggio, nonché al personale militare e civile cui siano affidate in modo continuativo, con provvedimento formale, mansioni di consegnatario di deposito o magazzinaggio isolato e che alloggia sul posto”). In secondo luogo, la norma indica il presupposto oggettivo, costituito alternativamente dall’essere tali alloggi “realizzati su aree ubicate all’interno di basi, impianti, installazioni militari o posti al loro diretto e funzionale servizio”. Sotto tale profilo, allora, determinante della demanialità degli alloggi è il fatto della medesima ubicazione (“all’interno”) rispetto alle infrastrutture militari costituite da basi, impianti e installazioni militari, ovvero quello della stretta pertinenzialità rispetto alle stesse infrastrutture (“posti al loro…servizio”), ove non a caso il riferimento letterale dell’essere dati beni posti a “servizio” di altri è quello che ai sensi dell’art. 817 c.c. caratterizza in via di principio il bene pertinenziale. Solo in tal modo - si ripete - gli alloggi di servizio per il personale militare “rientrano tra le opere di difesa nazionale” e anch’essi “sono considerati infrastrutture militari”, dunque appartengono al demanio militare. 1.2. Una così circoscritta demanialità degli alloggi di servizio trova, poi, conferma nell’esame sistematico delle fonti normative del 2010, laddove si rinvengono disposizioni riferite specificamente agli alloggi con le richiamate caratteristiche o che in maniera diversa ne disciplinano le relative vicende; sicché è possibile trarne un regime giuridico degli stessi proprio, differenziato rispetto ad alloggi di tipo diverso che, allora, demaniali non sono. Nell’indagine, occorre premettere brevi cenni in ordine alla classificazione delle categorie di alloggi. Seguendo la collocazione sistematica data dal Codice di ordinamento militare, al titolo I recante le disposizioni generali di cui agli artt. da 230 a 235, segue il titolo II sulle Singole categorie di beni, il cui Capo VII è dedicato agli alloggi di servizio ed è a sua volta articolato in quattro sezioni: I alloggi di tipo economico; II criteri di classificazione e di assegnazione degli alloggi di servizio ai militari dell’arma dei carabinieri; III alloggi di servizio connessi al nuovo modello delle forze armate; IV Provvidenze in favore dei militari di carriera al fine dell’acquisto o locazione di alloggi. Nella sezione I, l’art. 278 chiarisce che “agli alloggi di tipo economico si applicano le disposizioni della presente sezione” ed il successivo art. 279, secondo categorie già indicate e descritte in sostanziale continuità con la disciplina previgente, dispone che “in relazione alle esigenze da soddisfare, gli alloggi della presente sezione” sono così classificati: a) alloggi di servizio gratuito per consegnatari e custodi (ASGC); b) alloggi di servizio connessi all'incarico con o senza annessi locali dirappresentanza (segnatamente: gli ASIR, ai sensi dell’art. 282 assegnati a “titolari di incarichi che comportano obblighi di rappresentanza” e gli ASI, ai sensi dell’art. 281 assegnati al “personale dipendente cui sono affidati incarichi che richiedono l’obbligo di abitare presso la località di servizio”); c) alloggi di servizio di temporanea sistemazione per le famiglie dei mi-litari (AST, ai sensi dell’art. 283 assegnati in base a criteri di rotazione e secondo modalità stabilite con il regolamento al “personale che presta servizio nella località in cui è situato l’alloggio”); d) alloggi di servizio per esigenze logistiche del personale militare in tran-sito (APP) o imbarcato (SLI) e relativi familiari di passaggio, ai sensi dell’art. 284 “predisposti in funzione di motivate esigenze di servizio”; e) alloggi collettivi di servizio “nell’ambito delle infrastrutture militari per ufficiali, sottufficiali e volontari in servizio permanente destinati nella sede” (ASC). L’assegnazione è gratuita per alloggi dei consegnatari e custodi (ASGC), onerosa negli altri casi. Ai sensi dell’art. 289, per gli alloggi collettivi (ASC) è previsto il pagamento di una retta giornaliera commisurata ai costi di gestione dei servizi e per l’uso della mobilia; ai sensi dell’art. 286, commi 1 e 2, per gli alloggi connessi all’incarico (ASIr e ASI) è previsto il pagamento di un canone di concessione determinato con regolamento del Ministero della Difesa, mentre per “gli alloggi costituenti il patrimonio abitativo” - ed il riferimento è agli ASt - è previsto il pagamento di un canone la cui determinazione è demandata alla fonte secondaria che ne fissa i criteri sulla base delle vigenti disposizioni in materia di determinazione dell’equo canone. Come anticipato, separata classificazione e disciplina è prevista nella Sezione II per gli alloggi di servizio ai militari dell’Arma dei Carabinieri, distinti, ai sensi dell’art. 295, in alloggi connessi all’incarico di cui è disposta la gratuità (a differenza degli omologhi ASIr e ASI delle altre forze) e in alloggi di servizio di temporanea concessione con previsione di un canone (come per gli omologhi ASt), la cui determinazione è qui demandata alla fonte regolamentare, sentito il Ministero dell’Interno, sulla base delle disposizioni vigenti in materia di definizione dell’equo canone. Ciò premesso, indipendentemente dalla classificazione degli alloggi di servizio che il CoM (come già la normativa previgente) definisce “di tipo economico”, come detto si rinvengono tanto nel codice quanto nel testo unico disposizioni destinate specificamente agli alloggi di cui all’art. 231, comma 4 (quelli, cioè, di cui è espressamente predicata la demanialità), ovvero disposizioni che in maniera diversa ne disciplinano le relative vicende. Così esemplificativamente, l’art. 314, comma 2, TUOM prevede che “Gli Stati maggiori di Forza armata, all’interno di basi, impianti, installazioni e compendi militari, possono destinare alla categoria ASI determinati alloggi per il personale che presti servizio nelle infrastrutture e che ricopra incarichi compresi negli elenchi degli incarichi”. Inoltre, l’art. 318, comma 1, lett. a), nel prevedere che gli alloggi ASI non possano essere concessi al personale che sia proprietario o usufruttuario o assegnatario in cooperativa, ancorché indivisa, di una abitazione idonea, disponibile e abitabile, ubicata nell’ambito del presidio ovvero circoscrizione alloggiativa ove presta servizio, fa espressamente “eccezione per i titolari degli incarichi, compresi nella prima fascia degli elenchi degli incarichi, di particolare rilevanza quando gli alloggi siano ubicati all’interno o nelle immediate vicinanze di basi, installazioni e comprensori militari”. L’art. 326 prevede, al comma 1, che gli alloggi di qualsiasi tipo sono assegnati quando disponibili e consegnati al più presto, ma che “fanno eccezione gli alloggi aSi necessari a soddisfare particolari incarichi che richiedano tassativamente una costante presenza in servizio e che siano predisposti, per la specifica esigenza, nell’interno o nelle immediate vicinanze di basi, impianti, installazioni militari” (comma 2). 1.3.Ancora significativamente per quel che interessa evidenziare, dispongono le norme di cui al titolo IV - Capo I del CoM che disciplinano diversi procedimenti per la dismissione dei beni immobili proprio a seconda si tratti o meno di beni di cui all’art. 231, comma 4. Invero, l’art. 306 CoM detta una disciplina applicabile unicamente “alla dismissione degli alloggi di servizio del Ministero della difesa non realizzati su aree ubicate all’interno di basi, impianti, installazioni militari o posti al loro diretto e funzionale servizio”. Il riferimento è, dunque ed in via di esclusione, ad alloggi diversi da quelli descritti con la locuzione utilizzata dall’art. 231, comma 4 per affermarne la demanialità. Per gli alloggi diversi da quelli definiti demaniali, l’art. 306 prevede che il Ministero della Difesa adotti ogni due anni un piano di gestione del “patrimonio abitativo”, con decreto volto ad identificare l’entità, l’utilizzo e la futura destinazione degli alloggi di servizio, nonché degli alloggi “non più ritenuti utili nel quadro delle esigenze dell’amministrazione e quindi transitabili in regime di locazione ovvero alienabili, anche mediante riscatto” (comma 2). Contenuti essenziali, eventuali condizioni e clausole di garanzia dei diritti dello Stato dei contratti di compravendita stipulati in forma amministrativa o per atto pubblico sono stabiliti con decreto del Ministero della Difesa, sottoposto al controllo preventivo di legittimità della Corte dei Conti. I proventi derivanti dalla gestione o vendita del “patrimonio alloggiativo” (testualmente dal comma 2, in fine) sono utilizzati per la realizzazione di nuovi alloggi di servizio e per la manutenzione di quelli esistenti. tra le disposizioni attuative di cui agli art. 403 e ss. del tUoM è previsto in particolare all’art. 403, comma 3, che sulla base del così formato elenco degli alloggi oggetto di dismissione viene adottato “il decreto di trasferimento al patrimonio disponibile dello Stato”, prodromico all’avvio del procedimento di alienazione della proprietà. Un più complesso procedimento, invece, viene disciplinato dall’art. 307 COM per la dismissione di “immobili del Ministero della difesa diversi da quelli di cui all’art. 306”. La norma intende così riferirsi proprio agli alloggi di servizio di cui all’art. 231, comma 4, (siccome espressamente esclusi dall’art. 306) e, come si evince testualmente dal comma 2, agli altri beni immobili costituenti il “patrimonio infrastrutturale”. Con riferimento ad essi si prevede una più articolata attività di programmazione e individuazione da parte del Ministero della difesa ai fini della dismissione, “sentita l’agenzia del demanio”, cui fa seguito la consegna alla stessa Agenzia degli immobili individuati (testualmente, dal comma 2: “da consegnare all’agenzia del demanio ad avvenuto completamento delle procedure di riallocazione) che da tale momento, ai sensi del comma 6, “entrano a far parte del patrimonio disponibile dello Stato” per l’avvio da parte di quest’ultima delle procedure ad evidenza pubblica di alienazione. Ancora, nella Sezione III dedicata agli “alloggi di servizio connessi al nuovo modello delle Forze armate” del titolo II, l’art. 297 CoM prevede, al comma 1, che “in relazione alle esigenze derivanti dalla riforma strutturale connessa al nuovo modello delle Forze armate conseguito alla sospensione del servizio obbligatorio di leva, il Ministero della difesa predispone…un “programma pluriennale per la costruzione, l’acquisto e la ristrutturazione di alloggi di servizio di cui all’articolo 231, comma 4”. Per la realizzazione di tale programma il Ministero della difesa procede ad individuare tre categorie di alloggi: a) quelli da assegnare al personale per il periodo di tempo in cui svolge particolari incarichi di servizio richiedenti la costante presenza del titolare nella sede di servizio; b) quelli da assegnare per una durata determinata e rinnovabile in ragione delle esigenze di mobilità e abitative e c) quelli da assegnare con possibilità di opzione di acquisto mediante riscatto (art. 297, comma 2). Sempre al detto fine programmatico, il Ministero può procedere alla concessione di lavori pubblici secondo la vigente normativa in materia prevedendo la possibilità di cessione, a titolo di prezzo, di beni immobili in uso non più necessari ai fini istituzionali, individuati d’intesa con l’Agenzia del demanio e ulteriori rispetto a quelli da individuare ai sensi dell’art. 307, comma 2 (art. 297, comma 3). Dalla interpretazione letterale e sistematica del dato normativo su richiamato emerge, quindi, che il Codice dell’ordinamento militare ed il testo unico hanno avuto ben chiara la distinzione e differenziazione, nell’ambito degli alloggi di servizio in generale, di una particolare categoria di essi, con riferimento ai quali soltanto potersi predicare la demanialità, riferire specifiche disposizioni e disciplinare talune vicende. La demanialità risulta così delimitata, ed un regime giuridico proprio anche quanto alla dismissione risulta dettato, con esclusivo riferimento agli alloggi di servizio per il personale militare che per l’ubicazione o la stretta pertinenzialità rispetto a basi, impianti e installazioni militari possano essi stessi considerarsi “infrastrutture militari” e rientrare tra le “opere destinate alla difesa nazionale” strettamente intese, vieppiù alla luce del nuovo modello delle Forze armate. 1.4. In tale contesto, la disposizione dell’art. 231, comma 4, CoM parrebbe avere natura dichiarativa della demanialità e non essere sostanzialmente innovativa, nella delimitazione dei presupposti oggettivi degli alloggi-infrastrutture militari, rispetto alla previgente disposizione dell’art. 5 L. n. 497/1978, se non, per l’appunto, nel senso di affermarne espressamente la demanialità. La stessa Corte Costituzionale, del resto, con le sentenze nn. 215 del 1985 e 150 del 1992 menzionate nelle linee di indirizzo, aveva avuto riguardo proprio agli alloggi secondo le caratteristiche infrastrutturali allora descritte nella legge del 1978 ed ora riprodotte all’art. 231, comma 4 CoM, per affermare dovessero questi considerarsi “opere di difesa nazionale”. In particolare, nella sentenza Corte Cost. n. 215 del 1985 si legge che: “Siffatta qualificazione (<>) meritano, invero, non soltanto le costruzioni direttamente necessarie alla difesa della Nazione in tempo di guerra, ma anche a tutte quelle strumentalmente preordinate alle esigenze della sicurezza militare del Paese e a questo fine effettivamente utilizzate: tali sono, tra l’altro, gli immobili ove vengono compiute le attività dirette alla soddisfazione delle suindicate esigenze e quindi con queste strettamente collegate. Ora, nella fattispecie è decisivo osservare che i fabbricati a cui si riferisce la legge impugnata sono quelli realizzati <>. Si tratta dunque inequivocabilmente di infrastrutture ricomprese nell’ambito spaziale delle opere militari ovvero legate ad esse da uno stretto rapporto di strumentalità, e perciò parti di un complesso sostanzialmente unitario, sì che non sarebbe logico e giuridicamente ammissibile un regime differenziato”. Con riferimento alle sedi di servizio dell’Arma dei Carabinieri, nella sentenza Corte Costituzionale n. 150 del 1992 si legge che, esclusa l’arbitrarietà della loro inclusione nella disciplina speciale per le opere di difesa militare, “la compressione che la destinazione militare dell’opera può determinare, in misura assai rilevante, nei confronti di altri interessi costituzionalmente protetti, quali quelli urbanistici, edilizi e paesaggistici impone, peraltro, l’esigenza che, tanto in sede legislativa che amministrativa, risultino precisati con il dovuto rigore i criteri suscettibili di qualificare l’opera come “destinata alla difesa militare”: criteri che non potranno, pertanto, fare riferimento al solo profilo soggettivo, cioè alla natura “militare” dell’amministrazione interessata ai lavori, ma che dovranno, in ogni caso, investire sia le caratteristiche oggettive che le finalità dell’opera”. Per quanto precede, in conclusione, la normativa del 2010 non consente di corroborare la natura giuridica degli alloggi di servizio in termini di una generalizzata demanialità degli stessi, né quindi sotto tale profilo potrebbero, sempre in via generalizzata, trarsi elementi idonei e sufficienti a sostenere una difesa in giudizio volta a superare la giurisprudenza di legittimità formatasi nel vigore della L. n. 497 del 1978 e del regime ICI nel senso della insussistenza delle condizioni per l’esenzione dall’imposta per gli alloggi di servizio. Di contro, con specifico riferimento a quegli alloggi di servizio che, per caratteristiche oggettive (medesimo ambito spaziale o stretta pertinenzialità rispetto alle basi, impianti e installazioni militari), siano effettivamente riconducibili al “patrimonio infrastrutturale” militare, ed ora dichiaratamente rientrino, ai sensi dell’art. 231, comma 4, “ad ogni effetto” tra le opere di difesa nazionale, potrà indubbiamente sostenersi in giudizio, proprio in forza della demanialità ora dichiarata ex lege, l’esclusiva destinazione ai compiti istituzionali dello Stato - Ministero della Difesa, secondo il presupposto previsto per la esenzione tributaria. Non constano, del resto, precedenti di legittimità occasionati da controversie in cui l’esenzione fosse invocata proprio in riferimento ad alloggi di servizio posti all’interno delle richiamate infrastrutture militari, ovvero di cui fosse in contestazione la stretta strumentalità rispetto ad esse nei termini sopra chiariti, mentre si segnala che è attualmente pendente il ricorso per cassazione proposto avverso sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, n. 1730/34/2018, depositata in data 26 febbraio 2018, resa in fattispecie in cui oggetto dell’accertamento erano alloggi di servizio e opifici posti all’interno dello stabilimento militare Spolette di torre Annunziata. In sostanza, in questo, come in analoghi casi a venire, parrebbe fondatamente sostenibile in giudizio che l’inquadramento degli alloggi militari fra i beni destinati allo svolgimento di funzioni istituzionali sia operato ex lege per il fatto di essere tali immobili posti all’interno di basi o impianti militari o rispetto ad essi pertinenziali (sì da costituirne un “complesso unitario”, secondo la locuzione ancora attuale utilizzata nella citata sentenza n. 215 del 1985 dalla Corte Costituzionale). Una volta dedotto e documentato in giudizio si tratti di alloggi con la connotazione propria di dovrebbe ritenersi perciò solo assolto l’onere della prova incombente in capo all’Amministrazione, essendo invero sufficiente la preordinazione ex lege di tali immobili “esclusivamente ai compiti istituzionali”. Con efficacia ancora attuale, anche la Circolare n. 14 del 1993, diramata allora dal Ministero delle Finanze sulla portata della esenzione ai fini ICI di cui all’art. 7 L. n. 504/1992, precisa che “rientrano senz’altro nella norma esonerativa gli immobili facenti parte del demanio dello Stato, delle province e dei comuni, tenuto conto della necessaria destinazione di tali beni all’esplicazione di funzioni pubbliche o della preordinazione degli stessi beni ad un uso controllato e programmato dall’amministrazione pubblica”. Proprio in ragione di siffatta preordinazione, sempre con esclusivo riferimento alle opere destinate alla difesa nazionale e, tra esse, ai soli alloggi di servizio considerabili come tali, secondo il delimitato ambito di demanialità descritto dall’art. 231, comma 4 CoM, deve ritenersi che l’eventuale circostanza per cui nel periodo di imposta oggetto di accertamento dette opere risultino inutilizzate, inoccupate o in corso di dismissione resta irrilevante ai fini di una fondata sostenibilità dell’esenzione nell’anno in contestazione. 2. Portata ed ambito di applicazione delle fattispecie di esenzione con riferimento a beni militari, in particolare alloggi di servizio, diversi da quelli demaniali. Nel prosieguo della chiesta valutazione, si esprimono a tal punto le seguenti osservazioni in ordine alla portata ed all’ambito di applicazione delle fattispecie di esenzione onde verificare se ed in che termini sia possibile invocarne e sostenerne in giudizio l’applicabilità con riferimento a beni militari, ed in particolare agli alloggi di servizio, diversi da quelli demaniali, anche in esito all’orientamento della giurisprudenza di legittimità in premessa. 2.1. Secondo la normativa recata dal D.lgs. n. 504 del 1992 in materia di ICI, il presupposto dell’imposta è rappresentato dal possesso dei beni (art.1, comma 2: “Presupposto dell’imposta è il possesso di fabbricato, di aree fabbricabili e di terreni agricoli, siti nel territorio dello Stato, a qualsiasi uso destinati, ivi compresi quelli strumentali o alla cui produzione o scambio è diretta l’attività dell’impresa”). Ai sensi dell’art. 3, sono soggetti passivi il proprietario, ovvero il titolare del diritto di usufrutto, uso o abitazione, nonché, per gli immobili concessi in locazione finanziaria, il locatario. Come anticipato, a seguito della modifica recata dall’art. 18 comma 3, della L. n. 388 del 2000, l’art. 3, comma 2, prevede altresì che, nel caso di concessione su aree demaniali, soggetto passivo sia il concessionario. Con particolare riferimento alla soggettività del concessionario di aree demaniali, con circolare n. 3 del 7 marzo 2001, diramata proprio in esito alle modifiche introdotte dalla L. n. 388/2000 in materia di ICI, il Ministero delle Finanze ha chiarito che l’integrazione da detta legge operata nel testo dell’art. 3, comma 2, del D.lgs. n. 504/1992 ha una portata innovativa e trova, quindi, applicazione dal 1° gennaio 2001. Sino ad allora - è ancora affermato nel documento di prassi - il concessionario in questione non poteva essere considerato soggetto passivo dell’ICI poiché, anche se di fatto possedeva l’immobile, il possesso non era a titolo di proprietà od altro diritto reale parziario ovvero a titolo di locazione finanziaria. Anche la Corte di Cassazione, con sentenza sez. V, n. 15025 del 17 luglio 2015, ha avuto occasione di affermare la portata innovativa della soggettività passiva del concessionario di aree demaniali, precisando come tale disposizione non abbia certamente inteso riferirsi al proprietario di un immobile costruito, in forza di concessione, su un’area demaniale, in quanto tale soggetto, titolare di un diritto di natura reale riconducibile alla proprietà superficiaria (nel richiamo a Cass. Sez. V, n. 1718/2007 e n. 21054/2007 con riferimento all’ipotesi di stabilimento balneare) doveva perciò ritenersi già soggetto ad ICI. Analoghe disposizioni, quanto a presupposto e soggettività passiva, sono previste in materia di IMU dal D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23 istitutivo, rispettivamente all’art. 8, comma 2 (“l’imposta municipale propria ha per presupposto il possesso di beni immobili diversi dall’abitazione principale”) ed all’art. 9, comma 1 (“soggetti passivi dell’imposta municipale propria sono il proprietario di immobili, inclusi i terreni e le aree edificabili, a qualsiasi uso destinati, ivi compresi quelli strumentali o alla cui produzione o scambio è diretta l’attività dell’impresa, ovvero il titolare di diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie sugli stessi. Nel caso di concessione di aree demaniali, soggetto passivo è il concessionario. Per gli immobili, anche da costruire o in corso di costruzione, concessi in locazione finanziaria, soggetto passivo è il locatario a decorrere dalla data della stipula e per tutta la durata del contratto”). Ancora il D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni in L. 22 dicembre 2011, n. 214, dispone all’art. 13, comma 2, che l’istituzione dell’imposta municipale propria è anticipata, in via sperimentale, a decorrere dall’anno 2012, ed è applicata in tutti i comuni del territorio nazionale in base agli artt. 8 e 9 del D.lgs. n. 23 del 2011 in quanto compatibili, ribadendo, al comma 2, che essa “ha per presupposto il possesso di immobili” e che restano ferme le definizioni già previste ai fini ICI di cui all’art. 2 del D.lgs. n. 504/1992. Come evidenziato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 111 del 22 aprile 1997 in ordine alla verifica di costituzionalità della normativa ICI (ma con portata evidentemente valevole anche in materia di IMU), l’imposizione non tende a colpire solo i proprietari ma, più in generale, i titolari delle situazioni previste dall’art. 3 del D.Lgs. 504/1992 (e così dall’art. 9 del D.Lgs. n. 23 del 2011) “in quanto idonee, nella loro varietà, ad individuare coloro che, avendo il godimento del bene, si avvantaggiano, con immediatezza, dei servizi e delle attività gestionali dei comuni, a beneficio dei quali il gettito viene, a regime, destinato”. Quanto sopra ricordato in ordine ai presupposti ed alla soggettività passiva consente, altresì, di meglio individuare la portata e l’ambito di applicazione delle fattispecie di esenzione in premessa, avuto in particolare riguardo a quella dettata per gli immobili posseduti dallo Stato destinati esclusivamente ai compiti istituzionali. occorre, in primo luogo, muovere dal generale principio del sistema tributario secondo cui le norme che prevedono esenzioni da imposte, al pari delle altre norme che prevedono un trattamento fiscale di favore, costituiscono una deroga alla regola generale della imposizione, e sono perciò norme di stretta interpretazione ed insuscettibili di applicazione analogica. Il principio è stato ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità anche con riferimento alle disposizioni di esenzione dall’ICI. tale criterio ermeneutico, invero, ha costituito costante premessa nell’interpretazione del presupposto della destinazione esclusiva dell’immobile ai compiti istituzionali di cui all’art. 7, comma 1, lett. a) D.lgs. n. 504/1992 onde escludere che esso ricorra in caso di utilizzazione semplicemente indiretta a fini istituzionali, ciò che - ad avviso della S.C. - si verificherebbe per gli alloggi di servizio concessi al personale della Difesa quando il godimento del bene sia ceduto per il “preminente soddisfacimento di esigenze di carattere privato (quali quelle abitative proprie del cessionario e della relativa famiglia” (Cass. sez. V, n. 20041/2011; 27473/2016; n. 26453/2017). Anche sotto il profilo soggettivo, è stato affermato che “l’elenco dei soggetti esenti da ici di cui al d.lgs. n. 504 del 1992, art. 7, comma 1, lett.a) è tassativo, e dunque insuscettibile di applicazione estensiva ovvero analogica (trattandosi di derogare alla regola generale dell’imposizione)”. (Cass. sez. V, 27 marzo 2019, n. 8526 in riferimento a consorzi tra enti). Parimenti, in riferimento all’esenzione di cui al cit. art. 7, comma 1, lett. i), del D.lgs. n. 504 del 1992, la S.C. ne ha precisato l’ambito di operatività, secondo canone di stretta interpretazione, al ricorrere della duplice condizione dell’utilizzazione diretta degli immobili da parte dell’ente possessore e dell’esclusiva loro destinazione ad attività peculiari, non produttive di reddito ritenute dal legislatore meritevoli di un trattamento fiscale di favore (da ultimo, ex multis: Cass. sez. V, 15 febbraio 2019, n. 4589). In secondo luogo, occorre chiarire che la normativa IMU si pone in piana continuità con quella già prevista ai fini ICI in riferimento alle fattispecie ed ai presupposti normativi delle esenzioni da imposta oggetto della presente valutazione. Non si ritiene, pertanto, abbiano ragion d’essere i dubbi espressi dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Venezia nella richiamata nota n. 2907 del 22 gennaio 2015, secondo cui dalla formulazione dell’art. 9, comma 8, D.Lgs. n. 23/2011 istitutivo dell’IMU, confrontata con quella recata ai fini ICI dall’art. 7, comma 1, lett. a) del D.lgs. n. 504/1992, potrebbe sembrare che “l’esenzione per lo Stato non sia più condizionata alla destinazione in via esclusiva allo svolgimento di compiti istituzionali”, bensì - parrebbe intendersi - al possesso tout court dei beni da parte dello Stato. ora, dal raffronto testuale tra le due disposizioni (integralmente riportate sopra in premessa alle pagg. 1 e 2), la variazione rispetto alla norma ai fini ICI che interessa evidenziare, contenuta nell’art. 9, comma 8, D.Lgs. n. 23/2011 per affermare che sono “esenti dall’imposta…gli immobili dello Stato”, è unicamente data dalla ripetizione dell’inciso “nonché gli immobili posseduti, nel proprio territorio dalle regioni, dalle province, dai comuni…”, cui segue “destinati esclusivamente ai compiti istituzionali”. L’inciso sottolineato, siccome mancante nella omologa disposizione dell’art. 7, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 504/1992, ha verosimilmente indotto la Distrettuale di Venezia ad ipotizzare di collegare il presupposto della solo agli immobili posseduti da enti diversi dallo Stato. La prospettiva di una siffatta interpretazione - si ripete solo ipotizzata dalla Distrettuale - non trova però rispondenza nella medesima portata semantica della lettera complessiva della norma né si rinviene alcuna ragione giustificatrice idonea, secondo coerenza e logica sistematica, a sostenerla. In sintesi, i presupposti normativi delle fattispecie di esenzione ai fini IMU che interessano devono leggersi in continuità con quelli già previsti dalla disposizione dettata ai fini ICI e, con riferimento ad entrambe le imposte, la verifica in concreto della loro ricorrenza va operata secondo i criteri di stretta interpretazione e divieto di analogia. 2.2. Con particolare riferimento alla esenzione da imposta giova ricordare come già la richiamata circolare n. 14/1993 del Ministero delle Finanze, recante istruzioni sulle esenzioni ICI per gli immobili posseduti dallo Stato, dalle regioni, dalle province e dai comuni, aveva chiarito che sono tali “gli immobili il cui utilizzo da parte dello stesso ente possessore realizza direttamente l’obiettivo assegnato all’ente medesimo dall’ordinamento giuridico”, in altri termini “gli immobili inerenti direttamente allo scopo specifico stabilito legislativamente o normativamente per il singolo organismo”. In base al criterio evidenziato, è affermato che rientrano “senz’altro” nella norma esonerativa “gli immobili facenti parte del demanio dello Stato”, tenuto conto della “necessaria destinazione di tali beni all’esplicazione di funzioni pubbliche o della preordinazione degli stessi beni ad un uso controllato e programmato dall’amministrazione pubblica” (di essi si è già chiarito, per quanto qui di interesse, con particolare riguardo a quelli, tra gli alloggi di servizio concessi in uso al personale della Difesa, che possono essere considerati opere di difesa nazionale, e perciò appartenenti al demanio militare). È poi precisato che “parimenti, nella generalità dei casi, rientrano nella norma esonerativa gli immobili facenti parte del patrimonio indisponibile” dello Stato (e degli altri enti territoriali) “atteso che pure tali beni, ancorchè eterogenei rispetto a quelli demaniali, generalmente sono destinati all’esplicazione di compiti tipici dell’amministrazione pubblica”. Di seguito, e con portata anticipatoria delle argomentazioni spese dalla giurisprudenza di legittimità successivamente affermatasi per escludere l’esenzione con riferimento agli alloggi di servizio, il Ministero precisava che non potessero, invece, ritenersi compresi nell’esenzione gli immobili “i quali non siano direttamente strumentalizzati per il raggiungimento del compito normativamente assegnato all’ente. Né a diversa conclusione può indurre il fatto che gli eventuali proventi ricavati da siffatti immobili e le relative spese vanno a confluire nel bilancio dell’ente territoriale proprietario ovvero il principio secondo il quale il patrimonio immobiliare affidato all’amministrazione pubblica deve essere gestito secondo criteri di economicità, imparzialità ed efficienza; ciò, infatti, non può significare che debba essere affermata comunque la natura istituzionale di qualunque bene dell’amministrazione pubblica”. Sulla base delle enunciate considerazioni la circolare concludeva come l’esenzione di cui all’art. 7, comma 1, lett. a) del D.lgs. n. 504/1992 si rendesse applicabile “per gli alloggi di proprietà dello Stato cosidetti <> e cioè messi a disposizione dei titolari di certi uffici per facilitare la continuità del servizio da parte di tali persone;” rilevando infatti che “il godimento di detti alloggi trova il suo titolo esclusivo nella titolarità di un ufficio e nelle esigenze organizzative ricollegate all’ufficio medesimo”; mentre non si rendesse applicabile “per gli alloggi…dati in locazione od in comodato ai propri dipendenti”, diversi da quelli precedentemente menzionati, “stante che non è strettamente conseguente al loro uso il perseguimento dei compiti istituzionali”. ebbene, ritiene la Scrivente che le indicazioni espresse nella circolare ministeriale del 1993 abbiano portata ancora attuale nel vigente contesto normativo (quale, quindi, quello che tiene conto sia della successiva disciplina tributaria dell’IMU, sia della più organica disciplina sostanziale dei beni militari del 2010) e costituiscano strumento interpretativo utile a delimitare l’ambito di invocabilità e sostenibilità in giudizio delle norme di esenzione in conformità alla loro funzione giustificatrice ed in coerenza con i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità correttamente intesi. Se invero non appare dubbia la sostenibilità dell’esenzione ai fini ICI ed IMU per quegli immobili del patrimonio indisponibile di cui è evidente la diretta strumentalità per il raggiungimento del compito istituzionalmente assegnato (così per quelli elencati all’art. 233 CoM), quanto agli alloggi di servizio è ormai consolidato l’orientamento della Corte di Cassazione volto ad escludere l’esenzione motivando in ragione di un preminente soddisfacimento di esigenze di carattere privato, in specie abitativo, cui questi sono diretti. Si evidenzia al riguardo che con le pronunce richiamate nelle linee di indirizzo e già su ricordate (Cass. civ. sez. V, nn. 20041 e 20042 del 13 luglio 2011, n. 27473 del 30 dicembre 2016 e n. 26453 dell’8 novembre 2017) la S.C. ha a ben vedere mutuato per gli alloggi di servizio in uso al Ministero della Difesa i principi già in precedenza affermati con riferimento a patrimoni alloggiativi di enti diversi dallo Stato (così, Cass., sez. V, n. 20577/2005 per gli immobili di un Comune, diverso da quello impositore, destinati a nuclei familiari in situazioni di disagio; Cass. S.U., n. 28160 del 2008 per gli immobili degli IACP destinati in uso locativo a terzi; Cass. Sez. V, n. 14094 del 2010 per gli immobili di un Comune, diverso da quello impositore, destinati ad edilizia residenziale pubblica, ecc.), onde limitarsi a ribadire sinteticamente che l’esenzione dall’ICI prevista dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, comma 1, lett. a) per gli immobili posseduti dagli enti ivi indicati spetta “soltanto se l’immobile è direttamente ed immediatamente destinato allo svolgimento dei compiti istituzionali dell’ente”, mentre tale ipotesi “non ricorre in caso di utilizzazione semplicemente indiretta ai fini istituzionali, che si verifica quando il godimento del bene stesso sia ceduto per il preminente soddisfacimento di esigenze di carattere privato (quali quelle abitative del cessionario e della propria famiglia) e del quale è certo sintomo il pagamento di un canone”, dando spesso altresì atto del mancato assolvimento da parte dell’Amministrazione dell’ “onere della prova, su di lei incombente, in merito alla ricorrenza del presupposto oggettivo dell’invocata esenzione” (riferimenti testuali tratti dalle pronunce citate). Deve segnalarsi, da ultimo, la riaffermazione del principio nella recente ordinanza Cass., Sez. V, n. 3268/2019, depositata il 5 febbraio u.s. tale pronuncia per la prima volta parrebbe contenere una motivazione più articolata e, per certi versi, ulteriormente tranciante. La S.C., infatti, meglio descrive qui il motivo di ricorso del Ministero esponendo che la violazione di legge era stata denunciata per avere la Ctr affermato la debenza ICI sugli immobili in oggetto, “nonostante che gli alloggi di servizio dei militari (classificati dall’art. 5 d.M. 88/04, poi sostituito dal d.P.r. 90/2010) dovessero a tutti gli effetti considerarsi infrastrutture militari preordinate a garantire la funzionalità di enti, comandi e reparti militari preposti alla difesa dello Stato (quanto a rappresentanza delle FFa, sicurezza del servizio, pronta reperibilità del militare, custodia di determinate infrastrutture operative)”. Nel fare testuale richiamo all’orientamento su riportato, viene precisato in motivazione che le esenzioni di natura soggettiva ed oggettiva di cui all’art. 7, comma 1, lett. a) D.Lgs. cit. sono “disposizioni tributarie speciali idonee a prevalere sulla disciplina classificatoria degli immobili di servizio, così come anche oggi richiamata dal Ministero (del resto, principalmente affidata a normativa secondaria o interna)”. Nella parte conclusiva è poi affermato che “ai fini dell’applicazione della norma fiscale non può dirsi dirimente che gli immobili stessi siano classificabili ex lege (l. 497/78, poi abrogata…) quali ‘infrastrutture militari’, né che il canone concessorio così percepito (suddiviso a metà tra Ministero della difesa e MeF) abbia carattere non di corrispettivo da attività lucrativa, ma essenzialmente di rimborso dei soli costi di manutenzione”. Nonostante le richiamate precisazioni parrebbero avere carattere di principio ulteriormente pregiudizievole per l’invocabilità dell’esenzione, segnatamente nella parte in cui sottendono l’irrilevanza delle varie categorie di alloggi o sinanco quella di una classificazione come infrastrutture militari, a ben vedere ancora una volta viene dalla S.C. valorizzata la destinazione prettamente abitativa degli immobili oggetto della fattispecie concreta, ritenendosi decisivo il fatto che “nel caso di specie, è lo stesso Ministero a chiarire che gli immobili in questione (fatti oggetto di obbligatorio accatastamento) sono costituiti dagli alloggi per l’abitazione del personale di servizio e delle relative famiglie; e che tale uso è conseguente ad una concessione amministrativa del bene a fronte del pagamento di un canone”. ora, avuto riguardo a quanto sopra esposto in ordine alla ragione giustificatrice della norma di esenzione, al suo carattere di norma di stretta interpretazione, ai chiarimenti interpretativi ed ai i principi giurisprudenziali richiamati, la Scrivente ritiene che l’esenzione non possa continuare fondatamente a sostenersi, neppure quindi ai fini di un utile superamento dell’orientamento della Corte di Cassazione, in riferimento a tutti i casi in cui gli alloggi di servizio effettivamente assolvano in via prevalente, e perciò assorbente di ogni altra, alla finalità abitativa (privata) del personale e o della sua famiglia. tali casi si riscontrano certamente con riguardo alla categoria AST, “alloggi di servizio di temporanea sistemazione per le famiglie dei militari” di cui all’art. 279, comma 1, lett. c) del CoM. L’assegnazione degli ASt avviene, infatti, in base a criteri di rotazione al personale che presta servizio nella località in cui è situato l’alloggio (art. 283 CoM) e non è funzionale alla titolarità di eventuali incarichi dell’assegnatario. Il D.P.r. n. 90/2010 prevede, poi, nel dettaglio che: - gli ASt non rientrano tra la categoria di alloggi da assegnare in ragionedegli incarichi individuati negli elenchi appositamente formati (art. 312 in combinato disposto con l’art. 343); - la loro assegnazione è effettuata “esclusivamente per graduatoria” (art. 324, comma 1); - il titolo concessorio ha una durata di “otto anni” (art. 319, comma 1, lett. b) D.P.r.); - per l’assegnatario di alloggio ASt costituisce motivo di cessazione dellaconcessione, oltre alla scadenza del periodo, anche “la concessione nell’ambito del territorio nazionale di altro alloggio dell’edilizia pubblica sovvenzionata” (art. 329, comma 5, lett. a) del D.P.r.); - gli ASt non possono essere concessi al personale che sia (o abbia unfamiliare convivente) proprietario, usufruttuario o assegnatario in cooperativa di un’abitazione idonea, disponibile ed abitabile, ubicata nell’ambito del presidio ovvero della circoscrizione alloggiativa ove presta servizio, ovvero assegnatario di un’abitazione di edilizia economica e popolare o concessa da qualsiasi altra amministrazione dello Stato ovunque ubicata nel territorio nazionale (art. 318, comma 1, lett. b), nn.1), 2), 3)). Le richiamate disposizioni, tra le altre specificamente dedicate a tale categoria alloggiativa, danno con maggior evidenza ragione di una indubbia prevalenza della finalità abitativa di carattere privato della concessione in uso di tali alloggi che, in disparte ogni considerazione sul carattere mediato del possesso da parte dello Stato, non sarebbe altrimenti riconducibile a quella prevista quale presupposto dell’esenzione dalle relative disposizioni in materia di ICI e IMU. Di contro, l’esenzione parrebbe fondatamente potersi continuare ad invocare, e così a sostenere in giudizio, con riguardo a quegli alloggi effettivamente connessi a (e concessi per) particolari incarichi che trovano puntuale regolamentazione nell’ordinamento militare. In funzione di detti incarichi, infatti, il godimento dell’immobile può definirsi qualificato trovando cioè, secondo i termini della circolare del 1993, . Secondo quanto organicamente disciplinato nell’ordinamento militare dal 2010 tale situazione ricorre nella concessione degli alloggi ASIr e ASI, quali alloggi “connessi all’incarico con o senza annessi locali di rappresentanza” di cui all’art. 279, comma 1, lett. b) CoM. Nello specifico, con riferimento agli ASI, il già ricordato art. 281 CoM, prevede al comma 1 che sono “assegnati al personale dipendente cui sono affidati incarichi che richiedono l’obbligo di abitare presso la località di servizio” e, al comma 2, che “con regolamento il Ministero della difesa stabilisce, in base alle esigenze operative con uniforme indirizzo interforze, gli incarichi che per necessità funzionali richiedono l’assegnazione dell’alloggio di servizio”, precisando al comma 3, che “la concessione decade con la cessazione dell’incarico dal quale l’utente trae titolo”. Gli ASIR, ai sensi dell’art. 282, comma 1 sono assegnati a titolari di incarichi che comportano obblighi di rappresentanza (in specie individuati tipicamente per le più alte cariche) ed a tal fine sono dotati di appositi locali che rimangono nella disponibilità dell’amministrazione militare (comma 2). egualmente parrebbe sostenersi l’esenzione per la categoria di alloggi ASGC “alloggi di servizio gratuito per consegnatari e custodi” di cui all’art. 279, comma 1, lett. a) del CoM che, ai sensi del successivo art. 280, possono essere concessi “unicamente al personale dipendente cui è affidata, in modo continuativo, la custodia dell’edifico o dell’impianto nel quale insiste l’alloggio, nonché al personale militare e civile cui siano affidate in modo continuativo, con provvedimento formale, mansioni di consegnatario di deposito o magazzino isolato e che alloggia sul posto”; anche detta concessione, inoltre, “scade con la cessazione dell’incarico dal quale l’utente trae titolo” (comma 4, art. 280). In base alla normativa di dettaglio descritta dal DPr, poi, è previsto siano definiti dallo Stato maggiore della difesa “criteri generali” che consentano l’assegnazione degli alloggi di servizio ed altresì che siano determinati dagli Stati maggiori di Forza armata e dal Segretario generale della difesa gli “elenchi degli incarichi” concernenti i destinatari degli alloggi, con modalità descritte dall’art. 343 tUoM e distinte, per l’appunto, in relazione alle categorie ASGC, ASIr e ASI. Sempre con espresso riferimento a dette tre categorie è precisato che la durata delle concessioni “è fissata per il periodo di permanenza nell’incarico per il quale è stato concesso l’alloggio” (art. 319, comma 1, lett. a) D.P.r.); che la cessazione dall’incarico costituisce motivo di perdita del titolo (art. 329, comma 4, lett.a)), ferma restando, in favore del concessionario di alloggi ASCG, ASIr, ASI che non abbia più titolo l’assegnazione di alloggi ASt per il soddisfacimento della esigenza abitativa (art. 320, comma 3). Proprio alla luce della richiamata normativa potrebbe essere destinato a perdere di significato l’argomento da ultimo speso dalla S.C. nella ordinanza n. 3268/2019 cit. secondo cui (nel regime vigente ratione temporis) “le disposizioni tributarie speciali sono idonee a prevalere sulla disciplina classificatoria degli immobili di servizio… (del resto, principalmente affidata a normativa secondaria o interna)”. L’ordinamento militare vigente, invero, a differenza del passato, non solo contiene nella fonte primaria una ben più articolata e compiuta disciplina dei beni militari e, tra essi, degli alloggi di servizio, ma altresì nella regolamentazione di dettaglio con riferimento agli alloggi connessi ad incarichi prescrive che detti incarichi siano individuati in elenchi; impone che siano dettati criteri per la loro determinazione e rigorosamente disciplina tutte le vicende del rapporto concessorio (durata, cessazione, decadenza, proroga) in relazione alla titolarità dell’incarico medesimo. In applicazione delle puntuali previsioni normative, inoltre, dovrebbe essere più agevole anche l’assolvimento dell’onere della prova, cui rimane onerata l’amministrazione che l’esenzione invochi, ben potendo tale destinazione essere dimostrata documentando la titolarità da parte del concessionario, nel periodo di imposta in contestazione, di un incarico incluso nel relativo elenco. ebbene - considerato altresì che le richiamate pronunce di legittimità sono state occasionate per lo più in riferimento ad immobili appartenenti alla categoria ASt, ovvero in contesti processuali in cui non aveva assunto rilevanza l’indagine di una diversa categoria di alloggi o comunque in cui non era stata dimostrata, né era rimasta incontestata, la loro funzionalità rispetto alla titolarità dell’incarico nel periodo di imposta - deve concludersi che per gli alloggi connessi ad un incarico così individuati (ASGC, ASIr, ASI e omologhi dell’Arma dei Carabinieri) l’esigenza abitativa generalmente evidenziata in senso ostativo dalla Cassazione, non assume qui carattere prevalente, bensì diventa recessiva rispetto all’esigenza di funzionalità dell’incarico per l’espletamento del quale soltanto l’alloggio è concesso. In tale contesto, ferma la gratuità degli alloggi ASGC, anche la previsione del canone stabilita dalla legge per gli alloggi ASIr ed ASI dovrebbe essere destinata a perdere quella “sintomaticità” del fine privato, in via generale ed astratta conferita dalle decisioni della Corte di Cassazione al solo fatto del pagamento di un corrispettivo. Sempre sotto tale profilo, la gratuità degli alloggi connessi all’incarico dell’Arma dei Carabinieri prevista dall’art. 295, comma 1, lett. a) CoM, in disparte ogni valutazione di scelta di politica legislativa circa il differente regime sul punto, ben può costituire anzi ulteriore argomento idoneo a sostenere in giudizio la destinazione di tali beni ai compiti istituzionali ai fini dell’esenzione, stante l’analogia categoriale degli alloggi connessi ad incarico concessi in uso al personale delle altre forze armate pur a fronte del pagamento di un canone. In sintesi, solo in siffatti casi potrebbe ritenersi che rimanga ferma la necessaria connessione tra ente proprietario e destinazione dell’immobile a compito istituzionale dell’ente medesimo. 2.3. Da ultimo, per completezza, si ritiene opportuno precisare l’ambito di applicazione della esenzione prevista dall’art. 7, comma 1, lettera i) del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, in riferimento a “i) gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all’articolo 73, comma 1, lettera c) del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, fatta eccezione per gli immobili posseduti da partiti politici, che restano comunque assoggettati all’imposta indipendentemente dalla destinazione d’uso dell’immobile, destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222”. La fattispecie di esenzione, come anticipato in premessa, è richiamata ai fini IMU dall’art. 9, comma 8, del D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23 istitutivo dell’imposta, le cui disposizioni sono restate ferme anche a seguito del D.L. n. 201 del 6.12.2011, convertito in L. n. 213 del 22 dicembre 2011 (art. 13, comma 13). tale esenzione, invero, non potrebbe essere invocata, né sostenuta in giudizio, per le ipotesi in cui ricorrano le condizioni di deroga ai limiti di durata delle concessioni per particolari categorie meritevoli di tutela, indicate dal D.M. del 7 maggio 2014 e dal successivo D.M. 24 luglio 2015, (in particolare, tra le altre, è prevista la possibilità di mantenere la conduzione di alloggi ASI, ASt e ASGC, pur avendone perso il titolo, per gli utenti il cui nucleo familiare convivente comprenda un portatore di handicap, ovvero per i coniugi superstiti o altro familiare convivente del personale dipendente deceduto in servizio o per causa di servizio). Come infatti precisato nella risoluzione n. 4/DF del 4 marzo 2013 del Ministero dell’economia e delle Finanze, ricognitiva anche dello stato, sino ad allora, della giurisprudenza costituzionale e di legittimità in materia, l’esenzione in questione si applica solo se l’immobile è posseduto e utilizzato direttamente dal soggetto individuato dalla legge per lo svolgimento di quelle peculiari attività non produttive di reddito. I presupposti oggettivo e soggettivo di applicazione sono da ultimo ribaditi anche nella ordinanza Cass., sez. V, n. 4589 del 15 febbraio 2019 ove, nell’espresso richiamo ai precedenti in materia, è precisato che: “in particolare, le Su di questa corte, con la sentenza n. 28160 del 2008, dopo aver affermato che l’esenzione dall’ici di cui al cit. art. 7, comma 1, lett. i) costituisce - al pari delle altre norme che prevedono trattamenti agevolati in materia tributaria - una deroga alla regola generale, ed è perciò di stretta interpretazione, hanno ritenuto che l'esenzione in questione opera in costanza della “duplice condizione dell’utilizzazione diretta degli immobili da parte dell’ente possessore e dell’esclusiva loro destinazione ad attività peculiari che non siano produttive di reddito”, escludendo che il beneficio possa spettare in caso di utilizzazione indiretta, pur se assistita da finalità di pubblico interesse (cass.n. 18838 del 2006; 10827 del 2005; 8054 del 2005; 142 del 2004; 18549 del 2003)”. Sulla base dei richiamati principi, le finalità (solo) indirettamente assistenziali, che pur giustificano la scelta legislativa delle disposizioni in deroga ai limiti di durata delle concessioni degli alloggi di servizio quando essi siano in godimento da parte di categorie protette, sinanco di quelli originariamente concessi perché connessi ad un incarico, non soddisfano tuttavia i presupposti per l’applicazione dell’esenzione di cui all’art. 7, comma 1, lett. i) del D.lgs. n. 504/1992, richiamata ai fini IMU dall’art. 9, comma 8 del D.lgs. n. 23/2011, in difetto, per l’appunto, della utilizzazione diretta da parte dell’ente possessore istituzionalmente preordinato allo svolgimento delle attività individuate (tra cui quelle “assistenziali”) e della esclusiva destinazione dell’immobile all’esercizio delle medesime attività. 3. Applicabilità dell’imposta al di fuori delle fattispecie esenti. Al di fuori delle fattispecie esenti, l’esame del sistema normativo di riferimento non parrebbe comportare per ciò solo l’applicabilità dell’imposta per gli alloggi di servizio, né inevitabilmente il suo assoggettamento in capo all’amministrazione della difesa concedente. Soccorrono al riguardo le considerazioni già svolte sub 2.1.) in ordine alla individuazione del presupposto d’imposta e dei soggetti passivi indicati dalle norme impositive, e così in particolare in ordine alla soggettività passiva prevista anche in capo al concessionario di aree demaniali a decorrere dal 1° gennaio 2001, (così ai fini ICI in esito alle modifiche introdotte dalla L.n. 388/2000 nel testo dell’art. 3, comma 2, del D.lgs. n. 504/1992 ed ai fini IMU dall’art. 9, comma 1, del D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23). ricordato quanto già esposto nel richiamato paragrafo, con risoluzione n. 1/DPF del 6 marzo 2003, l’(allora) Dipartimento per le Politiche Fiscali del Ministero dell’economia e delle Finanze ha sottolineato che “il legislatore ha riconosciuto espressamente la soggettività passiva ai fini ici al concessionario di aree demaniali prescindendo da ogni considerazione in ordine alle modalità con cui si verifica in concreto il possesso del bene; infatti, così come è avvenuto in passato con il locatario finanziario (in testa al quale non è ravvisabile un diritto reale), è stata privilegiata la funzione di godimento del bene, che costituisce una delle caratteristiche del rapporto concessorio”. Né potrebbe ritenersi - si aggiunge in quel documento di prassi - che il diritto nascente dalla concessione sia un diritto di natura obbligatoria, assimilabile ad un contratto di locazione, in base al quale il concessionario non avrebbe il possesso dell’area ma soltanto la detenzione, richiamandosi altresì principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in forza dei quali i negozi relativi all’utilizzazione dei beni facenti parte del demanio pubblico non possono dar luogo che ad atti di concessione in godimento temporaneo, atti revocabili e come tali incompatibili con la disciplina legale propria delle locazioni degli immobili urbani. Infine, e nel rendere chiarimenti sull’esatta determinazione della base imponibile, nella risoluzione del 2003 si osserva che la formulazione della norma, riferendosi all’applicazione dell’imposta sulle , potrebbe dare atto ad interpretazioni contrastanti, posto che oggetto del tributo (allora Ici, ma egualmente vale per l’IMU) è costituito dai e “ciò porta ragionevolmente ad escludere l’applicazione dell’imposta alle aree demaniali come tali, facendo invece ritenere che l’intento del legislatore fosse quello di assoggettare ad imposizione i fabbricati eventualmente esistenti sulle aree in questione”. In linea con tali chiarimenti di prassi - in disparte ogni considerazione sulla dibattuta natura del diritto nascente dalla concessione d’uso del bene demaniale - anche la soggettività passiva prevista in capo al concessionario di aree demaniali parrebbe rispondere a quella logica di assoggettare ad imposta la titolarità di quelle situazioni “idonee, nella loro varietà, ad individuare coloro che, avendo il godimento del bene, si avvantaggiano, con immediatezza, dei servizi e delle attività gestionali dei comuni, a beneficio dei quali il gettito viene, a regime, destinato” che la Corte Costituzionale, nella ricordata sentenza n. 111/1997, aveva valorizzato ai fini della verifica della legittimità costituzionale dell’art. 3 del D.Lgs. 504/1992, nella versione vigente prima dell’intervento del 2000. Invero, anche nella concessione degli alloggi di servizio, sembrerebbero ricorrere i ricordati tratti del rapporto concessorio e ravvisarsi in capo al concessionario quella situazione di godimento qualificato nei termini evidenziati dalla Corte Costituzionale, ciò indipendentemente - deve ritenersi - da ogni loro classificazione e dalla natura di beni demaniali o patrimoniali indisponibili. tali considerazioni consentirebbero di poter ritenere che il dato testuale della demanialità, contenuto nelle disposizioni normative sulla soggettività di imposta in capo al concessionario, possa intendersi riferito ad un concetto ampio di demanio pubblico, e così che il concetto di “aree demaniali” possa interpretarsi non nel senso di aree facenti parte del demanio pubblico in senso stretto (822 c.c.), bensì in senso ampio, come comprensivo anche dei beni appartenenti al patrimonio indisponibile. In tal senso, si osserva che la L.P. Provincia Autonoma di Bolzano n. 3 del 23 aprile 2014, istitutiva dell’IMI, nel prevedere anch’essa l’esenzione dall’imposta per “gli immobili posseduti dallo Stato…destinati esclusivamente ai compiti istituzionali” (art. 11, comma 1, lett. a)), include espressamente tra i soggetti passivi di imposta “il concessionario / la concessionaria, nel caso di concessione di patrimonio demaniale o di patrimonio indisponibile” (art. 6, comma 1, lett. b), con evidenza qui aggiunta). L’interpretazione in ipotesi prospettata implicherebbe, sul piano processuale, che avverso gli atti impositivi notificati all’Amministrazione della Difesa per l’imposta pretesa sugli alloggi di servizio della categoria ASt, occupati in forza di titolo concessorio nell’anno di imposta oggetto di imposizione, debba essere eccepito il difetto di legittimazione passiva; sul piano sostanziale, che, qualora il possesso dell’alloggio da parte del concessionario sia equiparabile a quello del proprietario (o usufruttuario) di un immobile adibito ad abitazione principale, questi dovrebbe poter usufruire dell’agevolazione prevista in via generale per tale caso. A tale ultimo fine, avuto altresì riguardo al principio per cui in caso di più unità immobiliari l’agevolazione per abitazione principale può essere applicata, di regola, ad una sola unità immobiliare, dovrebbe però tenersi anche conto della disposizione di favore prevista, per gli immobili in proprietà (o titolarità di altro diritto reale) degli appartenenti al personale in servizio permanente delle Forze armate, dall’art. 13, comma 2, lett. d) del D.L. n. 201 del 6 dicembre 2011, convertito in L. n. 214/2011, come modificato sul punto dall’art. 1, comma 707, lett. b), nn. 1, 2 e 3 L. n. 27 dicembre 2013, n. 147, in forza della quale l’imposta non si applica altresì : “…d) a unico immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, posseduto e non concesso in locazione, dal personale in servizio permanente appartenente alle Forze armate…., per il quale non sono richieste le condizioni della dimora abituale e della residenza anagrafica” (in termini v. anche art. 2, comma 5, del D.L. n. 102 del 31 agosto 2013, convertito in L. n. 124/2013). In ogni caso, trattandosi di una tesi interpretativa, sarebbe opportuno un intervento normativo volto, da un lato, a specificare che per “concessionario di aree demaniali” debba effettivamente intendersi anche il concessionario di immobili del patrimonio indisponibile; dall’altro, a confermare per gli alloggi di servizio in concessione la fruibilità per il personale appartenente alle forze armate dell’agevolazione prevista per l’abitazione principale, salvo eventualmente precisare se, per il caso in cui il concessionario sia anche proprietario di immobile in altro comune, quella sull’alloggio possa spettare in via cumulativa o debba, invece, spettare in via alternativa rispetto alla agevolazione per l’immobile di proprietà, prevista dall’art. 13, comma 2, lett. d) del D.L. n. 201 del 6 dicembre 2011 cit. anche a prescindere dai presupposti della dimora abituale e della residenza anagrafica. In sintesi, per gli alloggi di servizio che assolvono ad una funzione prevalentemente abitativa del personale e della sua famiglia (non connessi ad un incarico) non sussiste l’esenzione ma si applica l’imposta; per il possesso di tali immobili, la soggettività di imposta ai fini ICI (dal 2001) e ai fini IMU dalla sua istituzione parrebbe, comunque, individuarsi in capo al concessionario, salva l’applicabilità nei suoi confronti, ricorrendone le condizioni, dell’agevolazione prevista per l’abitazione principale. La prospettata interpretazione sistematica delle norme di fonte primaria non sembrerebbe suscettibile di deroga per effetto delle disposizioni rinvenibili nell’ordinamento militare, segnatamente costituite: dall’art. 346, all. C par. “oneri” del tUoM (che nel modulario dell’atto di concessione di alloggio di servizio indica tra gli oneri di gestione a carico del concessionario solo le “tasse di nettezza urbana”); dall’art. 359, comma 1, lett. d) (che tra gli oneri di gestione a carico dell’amministrazione concedente prevede le “spese per eventuali assicurazioni, imposte e tasse relative agli immobili e agli impianti connessi, se non diversamente disposto”) e dall’art. 367, comma 2 (che analogamente prevede per l’Arma dei Carabinieri, salvo non ripetere la salvezza di una diversa disposizione). tutte le disposizioni richiamate, invero, sono previste dalla fonte regolamentare secondaria, costituita, per l’appunto, dal “testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare” recato dal DPr 15 marzo 2010, n. 90, fonte per giunta antecedente la disciplina dettata ai fini IMU. In coerenza, del resto, è l’espressa salvezza della disposizione di cui all’art. 359, comma 1, lett. d). Neppure sembra potersi invocare, al fine di sostenere in via derogatoria la soggettività passiva dell’amministrazione in luogo di quella del concessionario, un’ ai sensi dell’art. 2267, comma 2, del CoM rispetto a quello generale, in forza di quanto stabilito sul regime dei beni della Difesa dall’art. 230, comma 3, del codice, già richiamato in premessa (“…il presente libro detta le disposizioni specifiche per i beni della difesa, ulteriori rispetto a quelle recate dai codici menzionati fra cui il codice civile”). La disciplina dei beni militari recata dalla fonte primaria del codice dell’ordinamento militare non contiene, infatti, alcuna disposizione in materia fiscale o valida agli effetti fiscali ed il suo carattere specifico e di completamento (che per altro non la rende, perciò solo, “speciale”) è riferito alle materie e alle fonti espressamente indicate, tra cui non sono annoverate disposizioni tributarie. Per quanto sopra, al di fuori delle fattispecie in cui parrebbe sostenibile l’esenzione (alloggi di servizio sussumibili nel demanio infrastrutturale della difesa o altrimenti connessi a specifico incarico nei limiti del suo espletamento), l’applicazione dell’imposta in capo all’amministrazione della difesa parrebbe trovare un ambito meramente residuale, in specie individuabile ai fini ICI per gli alloggi di servizio concessi in godimento sino all’anno di imposta 2000 e, successivamente, ai fini ICI ed IMU, per i soli alloggi di servizio inoccupati o occupati sine titulo. Per completezza di trattazione si aggiungono brevi considerazioni di raccordo con la normativa istitutiva dal gennaio 2014 dell’imposta unica comunale (IUC), ad opera della L. n. 147 del 27 dicembre 2013, nonché con la normativa istitutiva nella Provincia Autonoma di Bolzano dell’imposta municipale immobiliare (IMI), ad opera della L.P. n. 3 del 23.4.2014, e nella Provincia Autonoma di trento dell’imposta immobiliare semplice (IMIS), ad opera della L.P. n. 14 del 30.12.2014. Ai sensi dell’art.1, co. 639, della L. n. 147 del 27.12.2013, l’imposta unica comunale (IUC) si basa su due presupposti impositivi, uno costituito dal possesso di immobili e collegato alla loro natura e valore e l’altro collegato all’erogazione e alla fruizione di servizi comunali. La IUC si compone, quindi, della imposta municipale propria (IMU), di natura patrimoniale, e di una componente riferita ai servizi, che si articola nel tributo per i servizi indivisibili (tASI), a carico sia del possessore che dell’utilizzatore dell’immobile, e nella tassa sui rifiuti urbani (tArI) destinata a finanziare i costi del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti, a carico dell’utilizzatore. Per la tASI, l’art. 1, comma 3, del D.L. n. 16 del 2014, convertito in L. n. 68 del 2014 prevede, come per l’IMU, l’esenzione per gli immobili posseduti dallo Stato destinati esclusivamente ai compiti istituzionali, testualmente: “3. Sono esenti dal tributo per i servizi indivisibili (taSi) gli immobili posseduti dallo Stato, nonché gli immobili posseduti, nel proprio territorio, dalle regioni, dalle province, dai comuni, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, ove non soppressi, dagli enti del servizio sanitario nazionale, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali. Sono altresì esenti i rifugi alpini non custoditi, i punti d'appoggio e i bivacchi. Si applicano, inoltre, le esenzioni previste dall'articolo 7, comma 1, lettere b), c), d), e), f), ed i) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504; ai fini dell'applicazione della lettera i) resta ferma l'applicazione delle disposizioni di cui all'articolo 91bis del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27 e successive modificazioni.” Il presupposto impositivo della tASI è il “possesso o la detenzione, a qualsiasi titolo, di fabbricati e di aree edificabili” ad eccezione dell’abitazione principale solo a decorrere dal 2016 (dunque per gli anni di imposta 2014 e 2015, la tASI è dovuta anche per l’abitazione principale), ai sensi dell’art. 1, comma 669, L. 147 del 2013, come sostituito dall’art. 1, comma 14, lett. b), della L. n. 208 del 28.12.2015 a decorrere dal 1° gennaio 2016. Nel caso in cui l’unità immobiliare sia occupata da un soggetto diverso dal titolare del diritto reale sull’unità immobiliare, il comma 681 dell’art. 1, prevede che entrambi siano titolari di un’autonoma obbligazione tributaria con oneri di riparto ivi precisati. Per la tArI, invece, il cui presupposto è “il possesso o la detenzione a qualsiasi titolo di locali o di aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani” (comma 641, art. 1, con evidenza qui aggiunta), non vi è alcuna disposizione di esenzione e l’imposta è dovuta da “chiunque possieda o detenga a qualsiasi titolo locali o aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani” (comma 642, art. 1), senza distinzione di un riparto pro quota nel caso di diversa soggettività tra il titolare del diritto reale e l’occupante. tuttavia, dal successivo comma 643 - il quale prevede che in caso di detenzione temporanea non superiore a sei mesi nel corso dell’anno solare, la tArI sia dovuta soltanto dal possessore a titolo di diritto reale - si evince che negli altri casi l’imposta sia interamente a carico dell’occupante detentore. In sostituzione dell’IMU e della tASI nelle Province Autonome di Bolzano e trento sono state istituite rispettivamente l’imposta municipale immobiliare (IMI) e l’imposta immobiliare semplice (IMIS). In particolare, la L.P. Provincia Autonoma di Bolzano n. 3 del 23 aprile 2014, istitutiva dell’IMI, prevede all’art. 1 che presupposto di imposta è il “possesso di beni immobili” siti nel territorio “a qualsiasi uso destinati e di qualunque natura, ivi compresi l’abitazione principale e le pertinenze di essa”(per l’abitazione principale, infatti, è prevista solo una detrazione ai sensi dell’art. 10). Come già anticipato, la normativa, per quanto qui di interesse, prevede l’esenzione dall’imposta per “gli immobili posseduti dallo Stato…destinati esclusivamente ai compiti istituzionali” (art. 11, comma 1, lett. a)) ed include espressamente tra i soggetti passivi di imposta “il concessionario / la concessionaria, nel caso di concessione di patrimonio demaniale o di patrimonio indisponibile” (art. 6, comma 1, lett. b), con evidenza qui aggiunta). Valgono, pertanto, anche per la Provincia Autonoma di Bolzano le considerazioni espresse in base all’interpretazione sistematica della normativa statale sia circa l’ambito dell’esenzione sia circa la soggettività passiva di imposta in capo ai concessionari degli alloggi di servizio; interpretazione che, con riferimento a tale ultimo profilo, trova anzi nella espressa previsione della fonte provinciale ulteriore elemento di conforto. Per la Provincia Autonoma di trento, invece, la L.P. n. 14 del 30 dicembre 2014 istitutiva dell’IMIS prevede con maggior favore, quanto alla fattispecie di esenzione che interessa, che “sono esclusi dall’ambito di applicazione dell’iMiS gli immobili posseduti dallo Stato…a qualsiasi fine destinati o utilizzati” (art. 7, comma 2, con evidenza qui aggiunta). Da tanto discende che nel territorio della Provincia di trento tutti i beni militari e, tra essi, tutti indistintamente gli alloggi di servizio sono esenti dall’imposta. Conclusioni Sulla scorta delle osservazioni sin qui esposte, può quindi affermarsi che: sub 1. - la disamina sistematica della normativa vigente, recata dal Codice dell’ordinamento militare (D.lgs. n. 15 marzo 2010, n. 66) e dal testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare (D.P.r. 15 marzo 2010, n. 90), non consente di corroborare la natura giuridica degli alloggi di servizio in termini di una loro generalizzata demanialità; - solo con specifico riferimento a quegli alloggi di servizio che, in quantodestinati al personale militare (presupposto soggettivo) ed ubicati nel medesimo ambito spaziale o posti in stretta pertinenzialità rispetto alle basi, impianti e installazioni militari (presupposto oggettivo), siano effettivamente riconducibili al “patrimonio infrastrutturale” militare, ed ora dichiaratamente rientrino, ai sensi dell’art. 231, comma 4, CoM “ad ogni effetto” tra le opere di difesa nazionale, potrà sostenersi in giudizio, anche in forza della demanialità dichiarata ex lege, l’esclusiva destinazione ai compiti istituzionali dello StatoMinistero della Difesa, secondo il presupposto previsto dalla norma di esenzione tributaria; sub 2. - l’esenzione di cui all’art. 7, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 504/1992 inmateria di ICI e di cui all’art. 9, comma 8, del D.Lgs. n. 32/2011 in materia di IMU non può continuare fondatamente a sostenersi, neppure quindi ai fini di un utile superamento del noto orientamento della Corte di Cassazione, con riferimento a tutti i casi in cui gli alloggi di servizio effettivamente assolvano in via prevalente, e perciò assorbente di ogni altra, alla finalità abitativa (privata) del personale e o della sua famiglia (certamente, quindi, non sarebbe sostenibile con riguardo alla categoria ASt); - di contro, l’esenzione parrebbe fondatamente potersi continuare ad invocare, e così a sostenere in giudizio, con riguardo a quegli alloggi effettivamente connessi a (e concessi per) particolari incarichi (così per le categorie ASGC, ASIr, ASI e omologhi dell’Arma dei Carabinieri individuati dalla normativa vigente), in funzione dei quali soltanto il godimento dell’immobile trova il suo titolo esclusivo nella (nei termini già indicati dalla Circolare n. 14 del 1993 cit.). - con particolare riferimento agli alloggi di servizio occupati da categorieprotette non è altrimenti invocabile l’applicazione dell’esenzione di cui all’art. 7, comma 1, lett. i) del D.lgs. n. 504/1992, richiamata ai fini IMU dall’art. 9, comma 8 del D.lgs. n. 23/2011, in difetto dei presupposti riconducibili alla ragione giustificatrice di tale esenzione; sub 3. - per gli alloggi di servizio che assolvono ad una funzione prevalentemente abitativa del personale e della sua famiglia (non connessi ad un incarico) non sussiste l’esenzione ma si applica l’imposta; - per il possesso di tali immobili, tuttavia, la soggettività di imposta parrebbe individuarsi in capo al concessionario ai fini ICI dal 1° gennaio 2001 (in esito alle modifiche introdotte all’art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 504/1992 dall’art.18, comma 3, della L.n. 388/2000) e ai fini IMU a decorrere dalla sua istituzione (ai sensi dell’art. 9, comma 1, del D.lgs. n. 23/2011); e, nel caso, il concessionario parrebbe poter beneficiare dell’agevolazione per l’abitazione principale; - al di fuori delle fattispecie in cui parrebbe sostenibile l’esenzione pergli immobili esclusivamente destinati ai compiti istituzionali (alloggi di servizio sussumibili nel demanio infrastrutturale della difesa o altrimenti connessi a specifico incarico nei limiti del suo espletamento), l’applicazione dell’imposta in capo all’Amministrazione della Difesa troverebbe un ambito meramente residuale, in specie individuabile ai fini ICI per gli alloggi di servizio concessi in godimento sino all’anno di imposta 2000 e, successivamente, ai fini ICI ed IMU, per i soli alloggi di servizio inoccupati o occupati sine titulo. *** La disamina delle questioni nelle sue varie implicazioni, fin qui compiuta secondo una quanto più possibile coerenza e tenuta con il sistema di riferimento, non esime la Scrivente dal prendere atto di una normativa tributaria, già in sé frammentaria e disorganica, che non assicura certezze interpretative nell’applicazione delle imposte dovute con riferimento ai beni militari, sia nella precisa delimitazione dell’ambito in cui sollecitare la giurisprudenza di legittimità ad una non generalizzazione dei principi sino ad ora dalla stessa affermati in senso sfavorevole all’Amministrazione, sia nella prospettata interpretazione della soggettività passiva di imposta del concessionario dell’alloggio di servizio con prevalente funzione abitativa del militare e della sua famiglia. Per tali ragioni, la rilevanza dell’incidenza fiscale nella materia indubbiamente renderebbe auspicabile un intervento normativo volto a fare chiarezza, ferma restando, specie a fronte delle numerose ed indiscriminate pretese dei comuni impositori, l’opportunità di una interlocuzione di codesta Amministrazione con l’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) per una condivisa rappresentazione delle questioni finalizzata ad un corretto e legittimo orientamento delle pretese impositive degli enti territoriali. Si precisa, da ultimo, che le indicazioni di carattere processuale contenute nei relativi allegati trasmessi si ritengono corrette. Il presente parere è stato sottoposto all’esame del Comitato Consultivo nella seduta del 19 settembre 2019 il quale si è espresso in conformità. LegisLazione ed attuaLità Processo telematico e processo da remoto: come cambia il processo Antonio Tallarida* Sommario: 1. Premessa - 2. La digitalizzazione della P.a. - 3. L’alba della giustizia digitale - 4. Tipologie di processo telematico - 5. Le fonti normative - 6. il processo da remoto - 7. applicazione emergenziale del processo da remoto - 8. regole per la conservazione degli atti informatici - 9. Conclusioni. 1. Premessa. Se fino a qualche decennio fa, il massimo delle varianti del processo sul territorio erano la prova delegata e le rogatorie internazionali, la prepotente diffusione delle nuove tecnologie di comunicazione nella società, nella vita di ciascuno e nella pubblica amministrazione, ha imposto l’adozione di nuove forme e modalità di svolgimento anche per il processo giudiziario. D’altronde se questo è una rappresentazione di alcuni aspetti della vita, come lo è il teatro (e la trasposizione di alcune terminologie da questo, quale attore, scena ecc., è significativo) è inevitabile che i processi evolutivi della società si ripercuotano anche sul processo. Uno dei fattori determinanti a monte di questo esito processuale è stato costituito dallo sviluppo inarrestabile delle reti informatiche, al punto che a buon diritto si è parlato di un “diritto alle tecnologie e alla comunicazione informatica”, classificabile tra i diritti umani di ultima generazione. Esse hanno offerto la possibilità di conseguire maggiore semplificazione e trasparenza agli atti processuali e di realizzare nel contempo risparmi di tempi e di costi, anche in termini di sostenibilità ambientale. (*) Già Vice Avvocato Generale dello Stato. 2. La digitalizzazione della P.a. La cultura informatica, ancor prima della pratica, si è venuta affermando faticosamente ma inarrestabilmente nella Pubblica Amministrazione, a cominciare dalla legge 16 gennaio 2003, n. 3, recante Disposizioni in materia di P.a., che, sotto la spinta delle esigenze non più rinviabili di modernizzazione e semplificazione dell’apparato amministrativo, ha previsto l’emanazione di uno o più regolamenti al fine di perseguire maggiore efficienza ed economicità nell’azione amministrativa e promuovere lo sviluppo del Paese, mediante la diffusione dei servizi erogati in via telematica, l’uso della firma elettronica e della Pec, anche nei rapporti tra amministrazione e privati. A tale previsione ha dato seguito il DPR 11 febbraio 2005, n. 68, con cui si sono stabilite, fra l’altro, le regole per l’utilizzo della Pec, anche se ancora non applicabili al processo (art. 16). La svolta definitiva è stata rappresentata da quella meritoria operazione che ha portato alla elaborazione e approvazione del Codice dell’Amministrazione Digitale - CAD (d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82), un’autentica rivoluzione nel mondo della P.A. Indice di questa trasformazione è la definizione stessa di documento analogico contenuta nel CAD come “la rappresentazione non informatica di atti, fatti, o dati giuridicamente rilevanti” (art. 2, lett. p-bis), con un capovolgimento concettuale rispetto alla concezione precedente che vedeva la prevalenza del documento cartaceo rispetto al quale era quello digitale a qualificarsi in negativo. Con il Codice si sono i dettati i principi ispiratori del nuovo ordinamento digitale delle P.A., quali il dovere di Stato, Regioni e autonomie locali di assicurare la disponibilità, la gestione, l’accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell’informazione in modalità digitale (art. 2), il diritto di cittadini e imprese di usare gli strumenti telematici nei rapporti con la P.A. (art. 3) e il diritto-dovere di utilizzare la Pec per ogni scambio di informazioni con i soggetti interessati che hanno preventivamente dichiarato il proprio indirizzo di posta elettronica certificata (art. 6). Questa svolta innovativa ha trovato ulteriori applicazioni e specificazioni con il d.l. 28 novembre 2008, n. 185, recante misure urgenti per ridisegnare in funzione anticrisi il quadro strategico nazionale, che ha avuto cura di precisare che “le comunicazioni tra i soggetti di cui ai commi 6, 7 e 8, che abbiano provveduto agli adempimenti ivi previsti, possono essere inviate attraverso la posta elettronica certificata o analogo indirizzo di posta elettronica di cui al comma 6, senza che il destinatario debba dichiarare la propria disponibilità ad accettarne l’utilizzo”, aggiungendo che la consultazione di tali indirizzi avviene liberamente e senza oneri (art. 16, commi 9 e 10). Il documento informatico che ne risulta deve assolvere alla funzione propria di ogni documento che è quella di rappresentare e tramandare un fatto (Le Goff lo definì come una cosa che resta): in questo quadro la sua conservazione è essenziale alla sua funzione, tanto più che esso per sua natura è più esposto di quelli analogici al deterioramento e alla cancellazione. Al riguardo va considerato che i documenti amministrativi e gli archivi pubblici, nonché quelli privati dichiarati di interesse storico, sono beni culturali ai sensi del Codice dei beni culturali (d.lgs. n. 42 del 2004, art. 10, commi 2 e 3), sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi (art. 54) e sono liberamente riproducibili anche con mezzi digitali propri (art. 108) e consultabili per studio e ricerca (art. 124). Essi appartengono al demanio pubblico (art. 822 cod. civ.) e vanno ordinati, inventariati e conservati (art. 30, comma 4, d.lgs. 42/2004) in funzione della tutela dei diritti soggettivi e degli interessi dei cittadini, del diritto di accesso, della ricerca storica e scientifica e della legalità e trasparenza amministrativa. tali principi valgono anche per i documenti informatici. 3. L’alba della giustizia digitale. Il necessario corollario di questo sviluppo tecnologico della P.A. è rappresentato dalla progressiva estensione della comunicazione digitale anche al processo civile, penale, amministrativo, contabile e tributario. Il processo così, da una montagna di carte e di faldoni, faticosamente trasportati nei corridoi dei Palazzi deputati alla amministrazione della giustizia o tra le varie sedi dei diversi organi giurisdizionali, quando non anche per le città richiamati dagli archivi correnti o di deposito variamente dislocati a seconda della disponibilità degli spazi, si è venuto progressivamente trasformando in un più agile fascicolo telematico. Alla nascita del processo telematico ha dato concreto avvio - dopo varie disposizioni in materia di registri e di comunicazioni di cancelleria - il d.l. 18 ottobre 2012, n. 179. conv. in l. 17 dicembre 2012, n. 221, il cui capo VI è appunto denominato “Giustizia digitale”. In particolare, l’art. 16 di tale legge (più volte novellato) ha per prima cosa modificato l’art. 149 bis c.p.c., specificando che le notifiche si effettuano agli indirizzi indicati in pubblici elenchi o comunque accessibili alle P.A. (comma 2) e disponendo che “nei processi civili le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria sono effettuate esclusivamente per via telematica all’indirizzo Pec risultante da pubblici elenchi e comunque accessibili alle P.a., secondo la normativa” (comma 4). Quindi, al dichiarato “fine di favorire le comunicazioni e notificazioni per via telematica alle P.a.”, detta legge ha previsto l’obbligo per queste di comunicare al Ministero della Giustizia l’indirizzo Pec, conforme a quanto previsto dal DPR 11 febbraio 2005, n. 68 e s.m., a cui ricevere le comunicazioni e notificazioni. L’elenco così formato “è consultabile esclusivamente dagli uffici giudiziari, dagli uffici notificazioni, esecuzioni e protesti, e dagli avvocati” (comma 12). Questo indirizzo è noto sotto il nome di REGInDE: purtroppo molte Amministrazioni non hanno ancora adempiuto a questo obbligo, causando non pochi problemi agli avvocati. Di recente il tar Calabria, Catanzaro, sez. I, con sentenza 15 aprile 2020, n. 219, ha ordinato a una P.A. di dotarsi entro 15 giorni di un indirizzo Pec per le notifiche degli avvocati. Infine il d.l. in questione ha modificato la vecchia legge n. 53 del 1994 abilitando gli avvocati ad effettuare direttamente la notifica degli atti processuali alle controparti anche per via telematica nel domicilio indicato nei pubblici elenchi, disposizione questa che ha determinato una infinità di questioni sulla corretta individuazione di tali elenchi (da ultimo, v. Cass. nn. 24160 e 24113 del 27 settembre 2019). Il Codice ha ora codificato l’applicazione generalizzata di questi principi al processo, prevedendo che “le disposizioni del presente codice si applicano altresì al processo civile, penale, amministrativo, contabile e tributario in quanto compatibili e salvo che non sia diversamente disposto nelle disposizioni in materia di processo telematico” (art. 2, c. 6, come novellato dall’art. 2, c. 1, lett. a), d.lgs. n. 179/2016). In linea con questa evoluzione, il d.l. 23 ottobre 2018, n. 119, titola l’art. 16 Giustizia tributaria digitale; la norma aggiorna la disciplina delle comunicazioni e notificazioni nel Ptt e prevede la partecipazione delle parti all’udienza a distanza in collegamento audiovisivo da remoto. 4. Tipologie di processo telematico. A questo punto però occorre chiarire che è impreciso parlare di processo telematico, perché in realtà di processi telematici ne esistono allo stato cinque specie: il PCt, il PAt, il Ptt, il PtContabile, e quello Penale (PPt) ancora però agli esordi, con sensibili differenze tra loro, tanto per far ammattire gli avvocati e in genere i vari operatori di giustizia chiamati ad applicarli. Infatti, al sopra citato d.l. n. 179/2012, che ha istituito il processo civile telematico (PCt), in uso obbligatorio per i giudizi in tribunale dal 30 giugno 2014 e in appello dal 30 giugno 2015 (con eccezione per ora dei giudizi avanti ai Giudici di Pace e alla Corte di Cassazione), sono seguiti il d.l. n. 168/2016 per il processo telematico amministrativo, entrato in vigore il 1° gennaio 2018; il d.lgs. n. 174/2016 per quello contabile, entrato in vigore nel luglio 2017, e il d.l. n. 119/2018 per quello tributario, entrato in vigore il 1° luglio 2019. Il processo penale telematico ha trovato le prime applicazioni alle comunicazioni e notifiche alle parti diverse dall’imputato a partire dal 15 novembre 2014. tanto per fare qualche esempio di differenze, può citarsi che nel PCt e nel PAt il formato in uso è il Pdf, mentre nel Ptt è il Pdf/A - 1a o 1b; la firma digitale nel PCt deve essere in Cades o Pades, nel PAt in Pades, nel Ptt in Cades. Una peculiarità del processo telematico, quale che sia la sua forma, è che la produzione e talora la implementazione degli atti digitali non è solo di parte pubblica (sentenza, ordinanza, decreto, verbali) ma in buona parte anche di fonte privata (le parti processuali), attraverso il deposito dei vari atti che scandiscono il processo (citazione, ricorso, memorie, note, istanze), anche se poi la loro conservazione resta affidata a pubblici uffici, che a tal fine si servono di operatori specializzati, secondo regole dettate con le norme tecniche. Si tratta di atti che, una volta immessi nel processo, mutano la loro natura dovendo possedere in più, rispetto all’analogo documento cartaceo (che in taluni casi ancora deve accompagnare quello telematico), la qualità di documento archivistico, ossia la idoneità a durare nel tempo e di continuare ad essere leggibile. A tal fine essi devono essere redatti in formato non proprietario (altrimenti il proprietario potrebbe in qualsiasi momento impedirne la lettura), aperto (ossia liberamente accessibile), standardizzato (da un organismo ufficialmente riconosciuto come ISo, ECMA ecc.) e trasparente (cioè consultabile con semplici strumenti di base). nè si tratta di caratteristica di poco conto, perché essa può influenzare anche l’applicazione di alcuni istituti tipici processuali, quale ad esempio la sanatoria per raggiungimento dello scopo (art. 156 c.p.c.), utilizzatissimo nella pratica e accettato anche in materia dalle Giurisdizioni superiori (v. Cass. n. 7665 del 2016; Consiglio di Stato, V, n. 7026/2018), ma della cui applicabilità si è dubitato in difetto di detti requisiti funzionali (perché, per esempio, un documento in odt invece che in Pdf non ne garantisce la leggibilità in futuro). A questi problemi si aggiunge quello della scadenza della firma digitale sul documento, che ne comporta la nullità ex art. 20, comma 3 del CAD, che si può evitare ricorrendo alla marcatura temporale ad opera di una terza parte, servizio di validazione temporale opponibile a terzi (Cass., sez. 1, 13 febbraio 2019 n. 4251). 5. Le fonti normative. La Costituzione prevede che “il giusto processo (è) regolato dalla legge” (art. 111). Questa statuizione viene generalmente interpretata come riserva relativa (e non assoluta) di legge e perciò consente l’adozione di norme secondarie di attuazione delle leggi in materia. Sta però che nel caso del processo telematico, la sua naturale complessità e tecnicità ha generato il discutibile fenomeno del rinvio da parte della stessa normazione secondaria (regolamenti governativi o ministeriali) a norme o Specifiche tecniche, Linee Guida, Decreti Dirigenziali e altro di terzo o quarto livello, di incerta natura giuridica. oggi è lo stesso CAD, all’art. 71 (come novellato dal d.lgs. n. 217/2017), a prevedere che le regole tecniche, contenenti norme di dettaglio aventi natura specificamente tecnica, sono dettate sotto forma di Linee Guida direttamente dall’AgID e pubblicate non sulla G.U. (dove ne viene data solo comunicazione) ma sul sito internet istituzionale dell’Agenzia. Le principali regole tecniche per i diversi processi telematici sono state dettate nei seguenti provvedimenti: - DM 21 febbraio 2011 n. 44, concernente regole tecniche per il PCt ePPt e decreto Min. Giustizia - DGSIA 16 aprile 2014, aggiornato con decreto Min. Giustizia 28 dicembre 2015, recante Specifiche tecniche nel PCt e PPt; - DPCM 21 marzo 2016 n. 40, emanato ai sensi dell’art. 34, All. 2, d.lgs. 2 luglio 2010 n. 104, recante regole tecniche per il PAt, con le Specifiche tecnico-operative in all. A; - Decreto MEF 23 dicembre 2013 n. 163 (G.U. n. 37/2014), recante ladisciplina dell’uso di strumenti informatici e telematici nel processo tributario e decreto Min. Finanze-DG Finanze 4 agosto 2015, modificato con DG Finanze 28 novembre 2017, contenente le regole tecnico-operative per il Ptt; - Decreto Pres. Corte dei Conti 21 ottobre 2015 n. 98, recante prime regole tecnico operative per l’utilizzo della Pec nel PtC, seguito dal Codice di giustizia contabile (d.lgs. n. 174/2016) che all’art. 6 dispone che nel processo contabile telematico si applicano le disposizioni di legge e le regole tecniche del PCt, ove non previsto diversamente. Questa varietà di forme trova in qualche misura spiegazione nella tradizione storica del Paese che ha visto formarsi in tempi diversi i singoli processi giurisdizionali, ciascuno con un proprio rito, anche nell’ambito della stessa tipologia, e nella diversità delle competenze amministrative (PCM, Min. Giustizia, Min. Finanze). Ragioni queste che hanno finito con l’influenzare il processo telematico e che spiegano anche la varietà e complessità delle relative fonti, difficilmente districabili. Giustamente a questo proposito si è parlato del sovrapporsi di una pluralità di fonti di produzione del diritto, sia primarie che secondarie, che ha determinato la creazione di un corpus disomogeneo di regole che necessita di una revisione unitaria e coerente. 6. il processo da remoto. L’altra modalità processuale che utilizza strumenti tecnologici per realizzare a distanza alcune fasi processuali è costituita dal processo da remoto. A differenza però di quello telematico, il processo da remoto non comporta ordinariamente la dematerializzazione degli atti processuali. Esso infatti consiste nella possibilità per l’imputato in stato di detenzione per alcuni gravi reati o in stato di arresti domiciliari e per la persona ammessa a programmi o misure di protezione, di partecipare all’udienza dibattimentale, ma anche ad altre fasi del processo, attraverso un collegamento audiovisivo tra l’aula di udienza e il luogo della custodia, realizzato in modo da assicurare la effettiva e reciproca visibilità e possibilità di ascolto. tale particolare modalità è stata introdotta nel processo penale (ma può essere utilizzata per l’escussione dei medesimi soggetti come testimoni in sede civile) dall’art. 146 bis, delle disposizioni di attuazione del cod. proc. pen., aggiunto con l’art. 2 legge 7 gennaio 1998 n. 11. Essa si applica anche alla procedura in camera di consiglio (art. 45 bis, d.a.c.p.p.) e può essere estesa ad altre ipotesi con decreto motivato del giudice, per ragioni di sicurezza o per la complessità del procedimento (art. 146 bis, comma 1-quater, d.a.c.p.p.). Le ragioni che hanno determinato l’introduzione di questa peculiare modalità processuale affondano nelle esigenze di assicurare lo svolgimento dei processi a carico di una moltitudine di imputati, messo a rischio dalla dilatazione della fase dibattimentale a causa della richiesta di questi di presenziare di persona ai relativi dibattimenti, tenuti spesso in contemporanea in sedi diverse, di ovviare alla difficoltà di effettuare la traduzione degli imputati per consentire la loro presenza fisica in aula, con gravoso impegno delle forze dell’ordine, e di evitare il pericolo di vanificare in queste occasioni l’efficacia delle misure applicate ai sensi dell’art. 41 bis, l. n. 354/1975. In questo caso, il luogo dove l’imputato si collega è equiparato all’aula di udienza. È sempre consentito al difensore di essere presente nel luogo dove si trova l’imputato e di consultarsi riservatamente mediante idonei strumenti tecnici. Un ausiliario del giudice, o un ufficiale di polizia giudiziaria, deve essere presente in tale luogo e attestare il regolare svolgimento del collegamento: delle operazioni svolte è redatto verbale cartaceo (art. 146 bis, commi 4, 5 e 6, d.a.c.p.p.). Di tale innovativa modalità processuale è stata chiamata ad occuparsi la Corte Costituzionale, sostenendosi la sua incompatibilità sia con alcune Convenzioni internazionali ratificate dallo Stato Italiano (quale il Patto internazionale sui diritti civili e politici, reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, e la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848), sia con i principi di uguaglianza (art. 3), di diritto alla difesa (art. 24) e di non colpevolezza (art. 27) contenuti nella Carta Costituzionale. La Corte ha respinto queste eccezioni sulla base delle seguenti considerazioni: “ma che nessun effetto distorsivo possa nella specie ritenersi direttamente riconducibile alle disposizioni oggetto di impugnativa si desume con chiarezza dalla circostanza che la normativa in esame, lungi dal limitarsi a delineare i mezzi processuali o tecnici attraverso i quali realizzare gli obiettivi perseguiti, ha tracciato un esauriente sistema di "risultati" che si presenta in linea con il livello minimo di garanzie che devono cautelare il diritto dell'imputato di "partecipare", e quindi difendersi, per tutto l'arco del dibattimento. Fondamentale è infatti a questo proposito la previsione secondo la quale il collegamento audiovisivo tra l'aula di udienza ed il luogo di custodia deve essere realizzato con modalità tali da rendere "effettiva", e dunque concreta e non soltanto "virtuale", la possibilità di percepire e comunicare, così saldando intimamente fra loro le potenzialità ed i perfezionamenti sempre offerti dalla tecnica alle esigenze di un "realismo partecipativo" che non può non ritenersi, in sé, del tutto in linea con gli strumenti che l'ordinamento deve necessariamente mettere a disposizione per consentire un adeguato esercizio del diritto di difesa nella fase del dibattimento. Esigenze, quelle appena accennate, che si completano attraverso la analoga cautela con la quale il legislatore ha inteso assicurare il contatto fra gli imputati, mentre al difensore è sempre consentito, eventualmente anche tramite un sostituto, di essere presente nel luogo dove si trova l'imputato, così come al difensore ed all'imputato sono parimenti posti a disposizione strumenti tecnici "idonei", che assicurino la reciproca possibilità di consultarsi riservatamente. il tutto ovviamente preservato dal potere-dovere del giudice del dibattimento di effettuare il necessario controllo circa l'impiego di strumenti e modalità tecniche attraverso i quali raggiungere quel livello di effettività partecipativa che il legislatore ha inteso doverosamente garantire, e di assicurare comunque la piena esplicazione della difesa anche con la presenza dell'imputato nell'aula quando in concreto quella finalità non sia altrimenti raggiungibile per inadeguatezza del mezzo tecnico… alla stregua di tali rilievi, improprio si rivela anche il richiamo ai principi affermati nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo, posto che, sia pure con modalità particolari, la partecipazione al dibattimento dell'imputato deve rispondere, per quel che si è detto, al canone della "effettività", così da far risultare adeguatamente garantita la possibilità, per l'imputato stesso ed il suo difensore, di esercitare concretamente i relativi diritti...” (sent. 22 luglio 1999 n. 342). Di recente la possibilità di partecipare alle udienze in videoconferenza è stata prevista in via ordinaria nei giudizi tributari nell’ambito della giustizia digitale (d.l. n. 119/2018, art. 16, cit.). 7. applicazione emergenziale del processo da remoto. Un imprevisto impulso alla applicazione di questa particolare modalità processuale al di là della sua ipotesi originaria è ora venuta dalla grave emergenza determinata dal Coronavirus, che impedendo la frequenza dei tribunali ha reso ineluttabile il ricorso a collegamenti da remoto per lo svolgimento delle attività giudiziarie ritenute urgenti e indilazionabili, per garantire la continuità della funzione giurisdizionale. In particolare, prima con il d.l. 2 marzo 2020 n. 9 (limitatamente alle udienze penali) e poi con il d.l. 8 marzo 2020 n. 11, presto abrogato e sostituito dal d.l. 17 marzo 2020 n. 18, e successive proroghe, è stata estesa la celebrazione da remoto: - a tutte le udienze penali di persone detenute, internate o in stato di custodia cautelare, e ai procedimenti di convalida dell’arresto e del fermo, con comunicazione e notificazione in via telematica degli avvisi e dei provvedimenti adottati, “applicate, in quanto compatibili, le disposizioni di cui ai commi 3, 4 e 5 dell’articolo 146 bis del d.lgs 28 luglio 1989, n. 271” (art. 83, commi 12-14, d.l. n. 18/2020); - a tutte le udienze civili, tributarie, militari e contabili, non rinviate d’ufficio, con scambio e deposito in telematico di note e con la espressa previsione che “Lo svolgimento dell'udienza deve in ogni caso avvenire con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione delle parti” (artt. 83 e 85, d.l. n. 18/2020); - alle udienze in camera di consiglio avanti la magistratura amministrativa(art. 84, comma 6, d.l. n. 18/2020). Il previsto provvedimento applicativo del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia (DGSIA), è stato definitivamente adottato in data 20 marzo 2020, in sostituzione del precedente del 10 marzo 2020 n. 3413, ed ha disposto che le udienze penali si svolgano, ove possibile, con l’ordinario strumento tecnologico dei videocollegamenti, già predisposti nelle strutture carcerarie e in molte aule di tribunale, o in alternativa mediante utilizzo di due diversi applicativi messi a disposizione dall’Amministrazione, e cioè Skype for Business o teams microsoft, ma solo “laddove non sia necessario garantire la fonia riservata tra la persona detenuta, internata o in stato di custodia cautelare ed il suo difensore” (art. 3). Per udienze civili è previsto l’utilizzo dei due suddetti applicativi (art. 2): al riguardo il CSM ha raccomandato la stipula di appositi protocolli con i locali Consigli dell’ordine degli Avvocati per regolare l’applicazione di tale normativa in maniera condivisa (del. n. 186 del 26 marzo 2020). La normativa di emergenza non richiama espressamente tra le disposizioni applicabili anche quella che prevede la presenza necessaria di un ausiliare del giudice e di un ufficiale di P.G. (art. 146 bis, comma 6, d.a.c.p.p.). Peraltro secondo il Consiglio nazionale Forense “Si tratta di una prescrizione che deve comunque essere rispettata atteso che, a prescindere dal diverso rango dei provvedimenti, appare impensabile che il detenuto possa da solo partecipare da remoto senza la presenza di qualcuno presente nel corso della udienza, anche per risolvere qualsiasi problema che si dovesse presentare. Appare significativo in questo senso valutare che i provvedimenti già adottati in diversi uffici giudiziari subito dopo l’entrata in vigore del decreto hanno tutti previsto la presenza dell’ufficiale di P.G.” (v. Protocollo udienze penali). Il Presidente della Corte dei Conti, con proprio decreto 1° aprile 2020 n. 138, pubblicato nella G.U. n. 89 del 3 aprile 2020, ha adottato le “Regole tecniche ed operative in materia di svolgimento delle udienze in videoconferenza e firma digitale dei provvedimenti del giudice nei giudizi dinanzi alla Corte dei conti”. Il provvedimento fissa le modalità tecniche per lo svolgimento delle udienze, delle adunanze e delle camere di consiglio da remoto, assicurando a ciascun partecipante la possibilità di collegarsi direttamente dalla propria postazione di lavoro, anche in mobilità, con l’utilizzo di strumenti multimediali audio e video. Il verbale è redatto come documento informatico e sottoscritto con firma digitale (art. 3). Il decreto prevede inoltre che i provvedimenti del giudice (sentenze, ordinanze, decreti) possono essere redatti come documento informatico sottoscritto con firma digitale, anche in forma collegiale: la Segreteria provvede, al momento del deposito, all’inserimento degli atti nel fascicolo informatico del Sistema informativo Giuridico. I provvedimenti del giudice e i verbali di udienza sottoscritti con firma digitale sono inviati al sistema di conservazione documentale digitale (art. 4). Anche la Corte Costituzionale, con decreto del Presidente del 20 aprile 2020, ha previsto lo svolgimento delle prossime udienze in modalità da remoto. Il processo da remoto ha pertanto costituito una risposta all’emergenza coronavirus e nel contempo ha fornito l’occasione per estendere a tutte le parti del processo penale le notificazioni e comunicazioni in via telematica e per promuovere negli altri procedimenti il sistema del deposito e scambio degli atti in via telematica, ove ancora non obbligatorio e la sottoscrizione con firma digitale. tuttavia la espansione del processo da remoto non è stata accolta favorevolmente dal Foro, ritenendola lesiva del diritto di difesa e dei principi di oralità e immediatezza propri del processo penale. Inoltre l’Unione Camere Penali Italiane si è rivolta al Garante della Privacy che ne ha fatto proprie le preoccupazioni, rappresentando al Ministro della giustizia che “i richiedenti si interrogano sulla tipologia di dati eventualmente memorizzati da Microsoft Corporation per finalità proprie, del servizio o commerciali; sui soggetti legittimati all’accesso ai metadati delle sessioni e, in particolare, sull’eventualità che Microsoft Corporation o un amministratore di sistema possa desumere, dai metadati nella sua disponibilità, alcuni dati “giudiziari” particolarmente delicati quali, ad esempio, la condizione di soggetto sottoposto alle indagini o di imputato, magari in vinculis” (lettera Presidente Soro 16 aprile 2020). tali critiche sono state in gran parte accolte in sede di conversione in legge n. 27/2020 del d.l. n. 18/2020, con la introduzione nell'art. 83 dei commi da 12 bis a 12 quinquies, che hanno tra l'altro limitato l'utilizzazione delle modalità da remoto nel processo penale. Inoltre con i successivi commi 20 bis e 20 ter si sono dettate disposizioni per consentire l'autentica a distanza da parte degli avvocati della sottoscrizione del cliente del verbale di mediazione o della procura alla liti. 8. regole per la conservazione degli atti informatici. La correlazione esistente tra processo telematico e processo da remoto che, come sopra detto, nelle applicazioni più recenti si coniuga con modalità informatiche, fa sì che per ambedue tali processi si ponga il medesimo problema, ossia quello di conservare correttamente e archiviare gli atti e documenti informatici prodotti nel loro ambito. Va subito precisato che le disposizioni specificamente riguardanti tali processi non si preoccupano di prevedere regole proprie di conservazione per cui è necessario ricorrere alle regole generali in materia. Al riguardo, la prima fondamentale osservazione che va fatta, è che nel caso del documento digitale non è sufficiente assicurare l’integrità del contenitore - come per il documento analogico (su carta, pergamena, papiro, tavoletta di argilla, ecc.) - per garantire la sua conoscibilità nel tempo. Ciò perché il documento informatico è duplicabile all’infinito, senza possibilità di distinguere tra originale e copia e perché esso necessita di un processo tecnico che ne consenta la lettura a distanza di anni e nonostante il variare inesorabile delle tecnologie e l’obsolescenza di quelle meno recenti. In secondo luogo, va tenuto conto del fatto che la conservazione del documento informatico parte dalla sua corretta formazione ab origine, in conformità alla normativa che ne regola la generazione. Solo rispettando le regole tecniche di formazione dettate per lo specifico processo sarà possibile assicurarne la conservazione per un tempo anche indeterminato. Le regole tecniche di volta in volta applicabili a questi tipi di processo sono quelle indicate nei punti precedenti. Esse però vanno integrate dalla normativa generale del CAD e dalle disposizioni applicative, per la parte non espressamente disciplinata nel processo telematico (art. 2, c. 6, del CAD, cit.). In terzo luogo, è necessario che il documento informatico sia collocato all’interno di un sistema di gestione documentale che ne garantisca nel tempo la qualità e sicurezza, ossia la autenticità, la integrità, la non modificabilità, la reperibilità e la leggibilità. A questo scopo la scelta del formato è decisiva. AgID ha indicato quali sono i formati utilizzabili e più adatti per la conservazione, da specificarsi nel manuale di conservazione. In quarto luogo, infine, occorre che siano seguite e rispettate le norme dettate in materia di conservazione dei documenti informatici. Come sopra detto per quanto concerne il processo, non vi sono allo stato norme specifiche che disciplinano la conservazione degli atti e documenti processuali. tale situazione è stata giustamente stigmatizzata dal CSM che, nella sua delibera di Plenum del 13 maggio 2015, dopo aver rilevato la criticità della infrastruttura organizzativa e tecnologica predisposta per il PCt, ha criticato l’assenza di previsioni circa la corretta conservazione degli atti processuali ed i rischi relativi alla mancata tutela del valore probatorio degli stessi, indicando come necessità alcuni specifici obiettivi, tra cui quello di superare il sistema del deposito della busta telematica a mezzo invio Pec, mediante il ricorso ad un apposito portale ministeriale in grado di riconoscere e identificare il depositante, con l’ulteriore vantaggio di rendere superflua la firma digitale e, in prospettiva, quello di utilizzare il formato Xml, che consente di organizzare e visualizzare il documento (normalmente in A4 a differenza dei monitor in uso che sono rettangolari) nella modalità desiderata e di trasportare i metadati. In tale situazione, bisogna far capo a cinque ordini di norme: - alle regole generali che obbligano a conservare atti e fascicoli di parteper un determinato periodo di tempo, quali l’art. 2961 cod. civ., che fa obbligo agli arbitri, avvocati, cancellieri e procuratori di conservare i fascicoli per 3 anni o l’art. 2220 c.c., che a fini fiscali estende tale obbligo a 10 anni dall’esaurimento della pratica, o il d.lgs. n. 231/2007, che obbliga avvocati, notai, banche, intermediari finanziari, società di revisione ecc. a conservare tutti gli atti rilevanti e i dati dei pagamenti (art. 3 e ss.); - alla regolamentazione dettata dal Codice dei beni culturali (d.lgs. n.42/2004) che fa obbligo allo Stato, regioni, enti territoriali ed enti e istituti pubblici di garantire la sicurezza e la conservazione dei documenti di loro pertinenza (art. 30); - alla disciplina del CAD (artt. 40-44) e alla normativa generale che regolala conservazione degli atti amministrativi in generale (DPR 28 dicembre 2000 n. 445, artt. 61-63); - alle norme tecniche contenute nei due DPCM 3 dicembre 2013, nelDPCM 13 novembre 2014 e nelle Linee Guida dell’AgID emanate ai sensi dell’art. 71 del CAD; - alla normativa sullo scarto e il versamento degli atti agli Archivi di Statoper la loro conservazione permanente (artt. 41, 108, 122-127, Codice dei beni culturali). tra tutta questa normativa, non sempre omogenea e contenuta in fonti di diverso valore giuridico, appaiono di fondamentale importanza, anche per gli atti processuali, le citate Linee Guida per la conservazione dei documenti informatici, dettate da AgID a partire dal dicembre 2015, che costituiscono la summa delle regole da seguire in materia. Esse affrontano in positivo la tematica della conservazione del documento informatico partendo dalla premessa che la conservazione dei documenti rappresenta per le pubbliche amministrazioni una funzione di carattere istituzionale, che trova negli Archivi di Stato o altrimenti pubblici la sua piena realizzazione. La conservazione può anche essere affidata a soggetti terzi, pubblici o privati, con apposita convenzione, ma questi devono essere accreditati da AgID ai sensi dell’art. 44-bis del CAD, secondo le modalità indicate nella Circolare AgID 10 aprile 2014 n. 65 (G.U. n. 89/2014). Decorsi 30 anni dalla definizione del processo, la Cancelleria o Segreteria deve provvedere a convocare la Commissione di scarto, secondo le modalità di legge: nel caso dei fascicoli telematici tale operazione può risultare facilitata mancando la molteplicità delle copie e in presenza di indici rigorosi. La fase successiva consiste nel versamento dei fascicoli processuali rimasti, in appositi pacchetti, all’Archivio di Stato competente per territorio, che si trova in ogni provincia. 9. Conclusioni. È indubbio che l’introduzione della tecnologia avanzata costituisce un fattore di modernizzazione e di semplificazione del processo giudiziario. Così se il processo telematico e quello da remoto rappresentano di norma una opportunità per svecchiare le strutture tradizionali del processo, essi sono una vera e propria necessità in tempi di crisi (guerra, epidemie ecc.) per assicurare continuità alla funzione giurisdizionale. Il processo telematico, che sta diffondendosi anche in altri Stati europei (Austria, Finlandia, Francia, Germania, olanda, Spagna, ecc.) e presso la Corte di Giustizia UE (che si è dotata di un apposita applicazione telematica “E-Curia” per il deposito e la notifica di atti processuali e la loro consultazione) è ormai una realtà destinata sempre più ad imporsi nella pratica forense, specie civile, amministrativa, contabile e tributaria, dove l’oralità è da tempo ridotta al minimo quando non è un vuoto rito, mentre incontra ancora oggettive difficoltà nel processo penale per le evidenti diverse esigenze della difesa dell’imputato molto incentrata sul fattore della partecipazione fisica delle parti. Il processo da remoto è una modalità utile in determinati frangenti di tempo o di luogo ed è destinato a integrarsi sempre più con il processo telematico, cui potrebbe restituire un po' di umanità, quand’anche virtuale. Al riguardo è però da considerare che se tutti i processi fossero trattati così, i tempi si allungherebbero, come già sta accadendo (nelle attese dei problemi di connessione il rispetto degli orari di chiamata è impossibile) e che se la dematerializzazione degli atti del processo penale (fascicolo telematico, accesso da remoto, deposito telematico) sarebbe una facilitazione di grande utilità per tutte le parti, anche in tempi ordinari, invece l'istituzionalizzazione dell'udienza da remoto rischierebbe di sminuire il contatto diretto tra imputato e difensore e tra difensore e giudice. L'esperienza giudiziaria ha anche una propria dimensione fisica e la sua dematerializzazione potrebbe avere un effetto deprimente sulla persona, che vedrebbe ridotto il contraddittorio sui propri diritti ad una specie di videogame. In realtà, nel contesto emergenziale, il diritto alla difesa appare compresso da un po' tutte le disposizioni adottate, a partire dalla soppressione della fase orale nei procedimenti civili, amministrativi e pensionistici, dalla contrazione dei termini processuali, dal distanziamento delle parti in luoghi lontani fittiziamente equiparati all’aula di udienza, dalla sospensione per il compimento degli atti processuali fino agli stessi rinvii d’ufficio, che finiscono con il minare il principio del giusto processo, allungando anche i tempi della sua definizione e dell’eventuale azione risarcitoria. E con in più il rischio che il provvisorio e necessitato si trasformi in permanente. il “processo Condor” giunto alla sentenza d’appello: reformatio in pejus, da 8 a 24 ergastoli. i grandi temi della prova logica, del dolo diretto e/o eventuale e del concorso morale e/o materiale nei processi per crimini contro l’umanità “Per trovare giustizia, bisogna esserle fedeli: essa, come tutte le divinità, si manifesta soltanto a chi ci crede” (Piero Calamandrei) TraSCrizionE inTEGraLE DELLa rEGiSTrazionE DELL’arrinGa “a braCCio” DELL’avvoCaTo DELLo STaTo LuCa vEnTrELLa, nELL’inTErESSE DELLa ParTE CiviLE PrESiDEnza DEL ConSiGLio DEi miniSTri, Dinanzi aLLa CorTE D’aSSiSE Di aPPELLo Di roma (*). AVV. P. C. VEntRELLA: - Grazie Presidente, Giudici della Corte. noi siamo qui costituiti per la Presidenza del Consiglio quale ente esponenziale della collettività nazionale. Come spesso accade nei confronti di crimini contro l'umanità, crimini di guerra, gravi reati, qui la Presidenza del Consiglio - ovviamente lo dico più per i Giudici non togati, chiedo venia ai Magistrati togati - rappresenta l’intera collettività nazionale che è veramente vulnerata e vilipesa quando in ogni angolo del mondo i diritti umani di cittadini italiani vengono così vilipesi, conculcati in maniera tanto brutale ed efferata. Questa sentenza che abbiamo impugnato è una sentenza per certi versi storica, si è detto, ed in parte certo lo è. È una sentenza che presenta luci ed ombre. Inevitabilmente qui metteremo in luce più le ombre, le gravi ombre ad avviso di questa difesa; laddove, dopo un corretto inquadramento storico oltre che giuridico dei fatti, secondo questa parte civile non ha tratto tutte le conseguenze sul piano giuridico, tutte le conseguenze sul piano della responsabilità penale degli odierni imputati che poteva invece trarre all'esito dell'istruttoria dibattimentale, così ponderosa di tale e tanto compendio probatorio, ricca di testimonianze vivide, agghiaccianti, piene di dignità, di sete di giustizia, non di vendetta. Sete di giustizia di persone sopravvissute tante volte in maniera rocambolesca, che hanno avuto la dignità e la forza di venire dall'altra parte del mondo a rappresentare le atrocità che hanno subito loro o i loro cari, di cui non hanno più visto neanche i più piccoli resti su cui piangere. La sentenza ha il merito, condannando all’ergastolo gli alti vertici politici e militari, di essere la prima sentenza in Europa che accerta l’esistenza di questo scellerato - potremmo dire - “Piano Condor”. Un'orga- *) in questa Rass., 2017, iV, 96 ss. la pubblicazione integrale dell’arringa in primo grado dello stesso processo Condor. nizzazione criminale ad altissimo livello, ordita da quasi tutti gli Stati, progressivamente, del Cono Sud del Sudamerica, dalle Polizie Segrete dei vari Stati. tant’è che, è stato ben ricordato, alla prima riunione ufficiale (sono documenti che ci ha portato l'archivista, la Dott.ssa Barrera) nel novembre del '75 a Santiago del Cile sono presenti dei colonnelli perlopiù, e un certo generale… Comunque inizialmente, nella sua genesi storica, nasce come esigenza di coordinamento... questo è provato documentalmente agli atti oltre che storicamente. Ripeto, questo non è comunque “un processo alla storia”, la storia ormai la conosciamo tutti. È un processo, in cui, come tale, vanno accertate le responsabilità penali personali degli imputati; questo lo sappiamo bene. non vogliamo certo fare “processi alla storia” in questa sede. Però è un fatto che anche dalla ricostruzione dei fatti attraverso documenti (gran parte dei documenti desecretati della CIA, del Dipartimento di Stato) si è capito come inizialmente nacque un'esigenza di coordinare le varie Polizie Segrete dei vari Stati (dapprima Cile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Bolivia e poi, appena dopo, Brasile, fino ad arrivare al Perù e all’Ecuador) per contrastare una certa “Junta coordinadora revolucionaria” che lamentavano ci fosse tra i vari gruppi che, diciamo, non la pensavano... possiamo dire di estrazione ideologica di sinistra, che si opponevano alle varie dittature militari che fiorivano in quegli anni. Quindi inizialmente il cd. “Plan Condor” nasce come scambio di informazioni tra le varie Polizie Segrete che - tutto sommato - è una cosa che è sempre stata fatta e non ha nulla di illecito. Dopodiché però, l'appetito vien mangiando, e si capisce che per contrastare meglio prende piede un'idea… che poi si concreterà in tutte queste sparizioni forzate, in questi crimini efferati, queste barbare torture e queste uccisioni di tutti i dissidenti, di coloro che non la pensavano come loro… volta non soltanto ad uno scambio di informazioni ma allo scambio di prigionieri. ovunque i dissidenti di diverse nazionalità si trovassero, non avevano scampo. Venivano letteralmente “depredati” senza necessità di estradizione e le Polizie Segrete in quegli anni avevano, diciamo, libertà assoluta su tutto il territorio del Cono Sud, si muovevano e rapivano, depredavano, portavano via i figli, i loro cari, e poi li spremevano per avere notizie e dopo li uccidevano. Questo punto deve essere chiaro, cioé il "Piano Condor"… altrimenti non si sarebbe potuti arrivare a condanne all’ergastolo di Juan Carlos Blanco e di tutti i vertici politici, militari, peraltro molti dei quali già in galera per reati analoghi; penso appunto a Juan Carlos Blanco, allora Ministro degli Esteri dell'Uruguay che sta scontando condanne per l'assassinio di zelmar Michelini, il noto Senatore uruguaiano, e di Elena Quinteros, la maestra elementare rapita nel giardino dell'Ambasciata Venezuelana, in spregio di ogni legge internazionale, e poi fatta sparire dopo atroci torture. non si capirebbbe perché... In realtà appunto il "Piano Condor" fondamentalmente non era soltanto uno scambio di informazioni o uno scambio di prigionieri, era veramente un piano di sterminio. Questo in qualche misura è uno dei meriti che va riconosciuto alla sentenza di primo grado, anche se diciamo che anche grazie a tutti i documenti la storia già aveva dato il suo verdetto: documenti che sono affluiti in una sorta di “osmosi virtuosa” tra la verità storica e la verità processuale in questo processo; grazie anche ai testi come il Dottor osorio e la Dott.ssa Mirtha Guianze, testi di questa parte civile, che hanno fatto affluire nel processo questi documenti. E quindi questo si è capito chiaramente, la sentenza ne dà atto. E da qui dobbiamo partire. Cioé, che cos’era quel “Piano”? Era un programma criminoso teso al coordinamento, certo, ma in ultima analisi all'annientamento, all’annichilimento dei sovversivi, dei cosiddetti sovversivi, i dissidenti, chiunque non la pensava come le varie dittature militari dell’epoca. È stato detto dal Procuratore Generale, ma sono tra le vittime studenti, sacerdoti, sindacalisti, non certo pericolosi terroristi. operavano in associazioni politiche, come ad esempio i GAU, il PVP ed altri... In maniera sistematica, in maniera scientifica, ad una ad una queste organizzazioni diciamo politiche, non terroristiche, venivano analizzate, si cercava di catturarne alcuni membri, di farli parlare per arrivare ad annientare l'intero organigramma. Spesso tornerà questa cosa qui… Si dice anche ad esempio, ecco, che lo stesso troccoli era un maniaco del formulare gli organigrammi (attraverso il meccanismo da lui ideato della cd. "Computadora", tramite la collaborazione di Rosa Barreix e di personaggi più deboli che hanno ceduto e hanno collaborato e venivano inseriti in questo sistema), per poi uno ad uno andarli a prendere tutti, risalendo nei vari ruoli, all'interno dei vari ruoli, fino ai vertici di coloro che contavano nelle varie organizzazioni. È certo, questo è certo, è un fatto, nessuno dei vertici di questi movimenti, nessuno delle “teste pensanti”, nessuno di coloro che avevano un ruolo di guida, anche non apicale, ha mai fatto ritorno. Sono morti tutti! Sono spariti tutti. Questo è un fatto. E possiamo dire che il "Piano Condor" era soltanto volto al sequestro a fine di estorsione per spremere qualche informazione? non sfugge a nessuno, comunque non a questa difesa, umilmente... il fatto che il sequestro, il fine di estorsione, fosse uno strumento necessario per quello che era il vero obiettivo che non ci possiamo nascondere, non lo possiamo nascondere. Che cosa dovevano fare, per poi dopo fargli un processo regolare? no, non era proprio previsto. L'annichilimento, l'annientamento fisico! Di più, la sparizione, una sorta di damnatio memoriae, una pulizia etnica addirittura; modalità aberranti, efferate, più che bestiali, con cui le giovani donne, rapite incinte, venivano fatte partorire da sole, incappucciate e legate, peggio che bestie, e poi gli venivano strappati i figli, loro pulivano la stanza e non li vedevano più. A quel punto poi potevano anche sparire. neanche i figli, neanche il diritto di procreare… Anche questo accanimento, che ben i testi hanno chiarito e pure gli esperti ci hanno spiegato, anche questo accanimento diciamo ideologico sulla “genitalità”: questo accanimento feroce, non solo violenze sessuali nei confronti di uomini e donne, ma anche il fatto che tu non avevi neanche il diritto di mettere al mondo dei figli per cercare di trasmettere qualche valore di giustizia, di libertà, di solidarietà, di rispetto degli altri. Erano i valori per cui questa povera gente lottava, cercando di opporsi all’ideologia delle dittature militari dominanti in quel momento. Ebbene, in questa perversione venivano strappati i figli, dati “in adozione” - se così può chiamarsi quanto di più illegale! - a poliziotti diciamo, che si incaricavano poi di inoculare degli altri valori, diversi… Quindi una sorta veramente di... non riesco ad immaginare qualcosa di più agghiacciante, di più totale. Ecco, l'annichilimento. Cioè non so, ecco, mi viene in mente la “vernichtung” tristemente nota dei nazisti in tempo di guerra. Io ho avuto l'onore di partecipare a molti di quei processi e abbiamo ottenuto lì delle condanne diciamo giuste, più che esemplari, all'ergastolo. Assolutamente giuste. E anche lì, sono stati applicati dei noti principi in quelle sentenze... dalla sentenza Priebke, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, è inutile ovviamente che vi indichi i numeri, le conoscete meglio di me - ... dove appunto c'era questa ideologia di sterminio, che certo non può giustificare nulla. nulla di ideologico, né di destra, né di sinistra. Alla fine ho detto anche le stesse cose nei processi per le Foibe. Simili aberrazioni, simile volontà di sterminio di una popolazione, il prendersela contro popolazioni inermi, donne, vecchi e bambini, o prigionieri di guerra come nel processo di Cefalonia… E come si è potuto arrivare in quei casi (che rappresentano proprio veramente “un fiore all'occhiello”, un esempio costante, potremmo dire “un fiume virtuoso di giurisprudenza”) a riuscire a dare giustizia a distanza lì di 70 anni, con prove ancora minori, rispetto a questo caso dove i fatti sono successi circa 40 anni fa? Come si è arrivati? Si è andati alla ricerca del testimone oculare, della cd. “pistola fumante”? ovviamente no, Signor Presidente e Signori della Corte, ovviamente no… I principi, già li troviamo in questi precedenti. Per arrivare poi, chiaramente, alle sentenze - anche più recenti - proprio in materia di desaparecidos: la sentenza Suarez Mason, la sentenza Astiz, Acosta... sono stati tutti condannati. Cosa è stato, un accanimento persecutorio? no, semplicemente civiltà giuridica. Conosciamo tutte le garanzie del processo penale, ma farne un uso, come ha fatto la Corte di Assise di primo grado, veramente sembra un garantismo eccessivo, meritevole di miglior causa. tra l'altro viziato logicamente, in maniera a nostro avviso evidente, laddove dopo la ricostruzione del "Piano Condor", di che cosa aveva significato, sulla base di testimonianze, di documenti desecretati (finalmente una coincidenza, una sovrapposizione - che a volte manca - tra la verità storica e la verità processuale!), che ha portato anche ad alcune condanne all'ergastolo per i vertici politici e militari per omicidi.., per omicidi preceduti da sequestri a fine di estorsione, seguiti dalla morte. Ebbene, inaspettatamente, con una timidezza sorprendente, vorrei dire, con tutto il rispetto per ogni pronuncia dei tribunali della Repubblica, quindi veramente con una “mancanza di coraggio di giustizia” possiamo dire (e non mi spingo oltre), ci si è fermati a quel livello lì… Ci si e? quasi appagati. Era un'occasione storica per fare veramente giustizia e non soltanto - ecco - per fare una “sentenza storica” che accertasse che, sì, anche nei tribunali (prima sentenza in Europa) il “Piano Condor” è esistito e aveva proprio queste finalità di sterminio di massa; di massa, cioé di tutti gli oppositori, quindi non parliamo di genocidi... ma di tutti gli oppositori, di chiunque non la pensasse come loro, dei dissidenti, dei sovversivi, degli oppositori politici… Pensiamo a omar Venturelli, ex sacerdote, professore, che lottava per valori di scolarizzazione delle campagne, di distribuzione della ricchezza (erano epoche in cui c'era un grande latifondo in mano a pochi, era un'oligarchia e quindi queste cose erano sentite dalla maggior parte della popolazione che non aveva strumenti, e queste erano persone considerate pericolosissime): non a caso viene fatto fuori in poco tempo anche in maniera ignominiosa, raccontando poi menzogne alla famiglia. Era un vilipendere veramente pure la memoria, una damnatio memoriae. Anche i cari dovevano.., è stato detto in parte, questa funzione di sparizione non era soltanto per nascondere le prove, non era soltanto quello ovviamente, c'era molto di piu?, molto di più perverso: bisognava inoculare nella popolazione una sorta di terrore. Si è parlato di “terrorismo di Stato”, molti testi lo hanno detto. La stessa Guianze mi sembra che ne ha parlato… La gente era terrorizzata, "stiamo attenti"; se tu incontravi uno per strada, non sapevi se salutarlo o meno, perché quello ti poteva riconoscere, poteva essere uno “specchietto per le allodole”, in un terrore totale; e all'improvviso sparivano così il marito, la moglie, il figlio, e non se ne sapeva piu ? niente. Chiedevi notizie e niente. E ancora a distanza di anni per molte di queste vittime non si è trovato neanche il più piccolo ossicino. Poi si è capito come li facevano sparire: fucilazioni con granate buttate per distruggere i cadaveri, i voli della morte… Chi è che lo diceva? Vasquez Bisio ad esempio, che venivano messi in barili di combustibile da 200 litri o affondati… Insomma in tanti modi. L'importante era questa sorta di damnatio memoriae. non si tornava per questo, per azione del “Condor”, quel terribile e gigantesco avvoltoio delle Ande che ti prende e poi ti butta in qualche crepaccio e poi dopo fa strame di te, ma non si troverà mai il corpo. Anche il nome di questo “Piano”, insomma, fa capire qual era la sua finalità ultima. E non possiamo nasconderci, non possiamo essere timidi quando si tratta di dare giustizia! Il diritto ha questa funzione, ? è uno strumento formidabile di comprensione della realtà, di comprensione... ma deve dare anche… deve cercare di coincidere con la giustizia! È una delle ragioni per cui tanti di noi hanno scelto questo mestiere, il mestiere di giuristi nei vari ruoli che poi abbiamo avuto l'avventura di rivestire. È questo il compito che oggi attende codesta Illustrissima Corte: cercare di andare oltre, sempre nel rispetto dei princi?pi giuridici, dei valori della nostra Costituzione, dei principi di garantismo. Però non ci si può fermare nel fare giustizia, perché “tanto i vertici stanno in carcere, tanto quello è condannato a 8 ergastoli”… e poi, 19 assoluzioni?!... Ma non parliamo mica di persone che passavano lì per caso, non era gente che faceva lì le pulizie al FUSnA: cioé, parliamo di Ufficiali. Questo svilire la loro funzione anche di comando… Ma come si fa a negare la funzione di comando, di gente come troccoli, come Gavazzo?! Gavazzo è il 302, numero di copertura 302, il numero 2 del SID; oscar si chiamavano,… e Silveira Quesada dell’oCoA, cioé erano tutti alti Ufficiali. Il fatto che troccoli fosse tenente di Vascello… forse ci sfugge una cosa: cioé in Marina il tenente di Vascello è equiparato quasi al Maggiore dell'Esercito, perché prima c'è tenente di fregata, Capitano di fregata, poi tenente di Vascello… quindi comunque era una persona che aveva 12 anni di esperienza sul campo militare. È stato scelto per le sue capacità, per le sue alte capacità organizzative, militari! Faceva un lavoro che gli piaceva fare, era un “professionista della violenza” ci dice lui stesso, lo scrive nella sua "L’ira del Leviatano", sottotitolo “Il metodo della Furia”. È chiaro, certo, non è che ci dice “ho ucciso o fatto sparire qualcuno”… ma ammette: «Io ho trattato in maniera inumana le vittime, si, va bene, in fondo no?n è così sbagliato, fa parte della natura umana”. non lo so, io avrei dei dubbi personalmente, ma questo rileva fino a un certo punto… “Però eravamo militari, eseguivamo gli ordini”. Ricordate? Le stesse cose le diceva Priebke e altre simili nella sua ultima... “Il testamento spirituale"... Le hanno sempre dette queste menzogne, queste mistificazioni giuridiche: “eseguivano gli ordini”. A parte che li impartivano anche loro. E la funzione di comando, non so come la sentenza non l'abbia potuta ravvisare. Ha fatto dei salti mortali, dei salti logici mortali. Cioé la Corte di primo grado mostra di conoscere la sentenza Astiz, che era tenente ma di fregata, di grado minore, condannato... condannato con sentenza del 2003 da parte della Corte d'Assise qua a Roma (sentenza poi confermata in appello e in Cassazione nel 2009): tenente di fregata e viene riconosciuta la sua responsabilità penale; sì, “obbediva agli ordini”, eccetera, collaborava con i superiori e anche lui da tenente di fregata (non tenente di Vascello!), quindi un tenentino, ma sotto aveva qualcuno che poi eseguiva: condannato! Come in tutti i processi per le stragi naziste a cui ho avuto l'onore di partecipare come parte civile per la Presidenza del Consiglio sono stati condannati Sergenti, ma anche Caporali. Si parlava allora di un esercito in rotta che ha attraversato l'Appennino tosco-emiliano e che faceva tabula rasa sia per togliere basi logistiche ai partigiani e anche come vendetta, come annientamento. Ebbene, anche lì, concorso morale! Bastava anche una minima posizione di comando, avere sotto di sè due o tre uomini cui trasmettere gli ordini. Parliamo di Sergenti nazisti, che capacità ideativa potevano avere? Eppure lì, il teorema che ha retto in tutte quelle sentenze, mai smentite fino in Cassazione, è stato quello del concorso morale. Mai si è andata a cercare la “pistola fumante”, mai! Ricordo appunto solo un caso, una volta, in uno di questi processi davanti al tribunale Militare in cui c’era un soldato semplice (mentre appunto in genere erano tutti Sergenti, Sergenti Maggiori ma, ripeto, a volte anche Caporali, perché poi a quel punto arruolavano anche cuochi, musici, insomma…)... un soldato semplice che era accusato sulla base solo di una testimonianza oculare risalente però a 70 anni prima, quindi.., e lì il tribunale lo assolse... lo ricorderà l'Avvocato Milani che lo difendeva - e ricordo che festeggiò con euforica soddisfazione questa assoluzione - perché lì non c'erano riscontri a questa prova oculare. tante volte quella che si pensa essere la cd. “prova regina”, la testimonianza diretta che noi andiamo a cercare, proprio per la fallacia senso-percettivo dell'essere umano... se priva di riscontri a distanza di tanti anni, può essere debole come prova. Ma qui no, perbacco! tutti i grandi processi sono processi indiziari. Qui la prova logica, qui regna sovrana. La vera “prova regina”, una capacità di resistenza con i fatti, i fatti sono li! I fatti giuridici, giuridicamente valutabili. Lasciamo stare la storia, ma i fatti proprio giuridicamente valutabili, sono lì. Come si fa ad ignorarli?!... In quel caso isolato, appunto, l’imputato fu assolto. La prova logica - ce lo insegna la Cassazione - in tutti questi processi viene in rilievo il grande tema della prova logica; “una molteplicità di indizi, gravi, precisi e concordanti”… dice la Cassazione addirittura: “quando sono gravi, possono anche non essere molteplici", ma qui abbiamo testimonianze a iosa, riconoscimenti! Come si fa a dire...?! Veramente, un eccesso di garantismo davvero stridente, soprattutto in contraddizione solare con le premesse, con la ricostruzione perfetta, analitica sulla base di documenti, di testimonianze, di che cosa era il "Piano Condor", a che cosa serviva… Quale era la sua funzione? Era un programma di sterminio, di annichilimento di tutti coloro che non la pensavano come la dittatura militare dell’epoca ovunque si trovassero nei vari paesi del Cono Sud. Questo è chiaro. E allora chiunque… ma non chiunque passava di lì, perché c’è anche chi, così come alle Fosse Ardeatine e così come in tanti altri eccidi nelle varie parti del mondo, si è rifiutato di eseguire questi ordini. Chavez Dominguez interrogato dice: “ero una mosca nel latte"… Giustamente è stato assolto! Lo abbiamo sentito, una nobile figura di galantuomo, uno che si era arruolato in Marina perché voleva fare carriera, credeva in certi valori, e si è trovato in un inferno cui non ha partecipato. non ha fatto la brillante carriera che voleva fare, è stato poi destituito, ha avuto problemi disciplinari, ma nessuno gli ha fatto niente! Questo fatto che già Priebke diceva, e che a volte sentiamo stancamente ripetere in tutte queste stragi efferate, questi crimini efferati contro l'umanità: «Eh, ma eravamo militari, dovevamo eseguire gli ordini. Ci avrebbero passato per le armi». non è vero, storicamente non è mai successo! né in Europa, né in Sud America, né in nessuna parte! Questa è un'altra delle mistificazioni propagandistiche che non hanno nessun substrato né fattuale né giuridico. Addirittura nel codice penale militare di guerra tedesco dell'epoca era previsto il dovere di disobbedire all'ordine manifestamente criminoso! Immaginiamo, regime nazista… Chi si è sottratto anche alle Fosse Ardeatine, e qui Chavez Dominguez che non ha voluto partecipare… Ma ancora di piu?, c'è un altro teste chiave (rinvenuto dal prezioso, impagabile e commendevole lavoro fatto dall'Avvocato Speranzoni), Alex Lebel che era un militare, lavorava con troccoli al FUSnA; c'è la sua dichiarazione in atti nell'acquisizione che la Corte ha ammesso, dove lui non si è trovato d'accordo. In quegli anni dal ‘76 al ‘78 in cui troccoli è stato pacificamente Capo della S2 ed ha ideato il sistema della "Computadora" - ce lo dice Alex Lebel - e allora facevano gli organigrammi. torturavano e violentavano per avere informazioni, dalle varie Rosa Barreix, eccetera, e poi andavano lì, passavano le informazioni alle varie Polizie Segrete, in particolare quella argentina, visti gli ottimi rapporti che troccoli aveva con l’ESMA, era un abilissimo Ufficiale di collegamento, giustamente insignito.., cioé, in quella logica tutti gli encomi se li è meritati! E noi vogliamo svilire, dire che era “una figura intermedia, un oscuro tenentino”? no. A parte, ripeto, che questo focalizzarsi sul grado è un falso problema; tenente di Vascello equivale a Maggiore. Comandava, altroché se comandava! Lui, e Larcebeau... La sentenza: "eh, però non si capisce...", perché già, si va a fare le pulci alle dichiarazioni della Guianze, che sono di una solarità trasparente; "Eh, però quella cosa che era nella posizione di comando lo ha detto solo lei", beh, sì, “che aveva diritto di vita e di morte sui prigionieri l'ha detto solo lei"… Ah, peccato, anche Alex Lebel che era suo compare, che ad un certo punto ha detto: "io queste cose non le voglio fare"; è stato sostituito, troccoli lo ha sostituito, non l'hanno passato per le armi! Ci si poteva rifiutare. E questo rileva sotto il profilo del concorso, della partecipazione cosciente e volontaria, della consapevolezza del contributo altrui. Si faceva parte di una macchina da guerra perfettamente oliata dove ognuno nel suo ruolo, nella sua funzione, era un elemento prezioso. o perché si limitava a trasmettere gli ordini, lungo la catena di comando… noi non pensiamo che troccoli si sia limitato solo a questo, intendiamoci, ma in altri casi di stragi naziste il Sergente che semplicemente trasmetteva l'ordine è stato condannato all'ergastolo, a distanza di 70 anni, per concorso morale per aver rafforzato il proposito criminoso nei sottoposti. E qua che cosa si dice? "Ma non si può... la zelante collaborazione non è sufficiente ad integrare elementi di prova"… La “zelante collaborazione”?! Quello stava lì H24, lui ma come gli altri!... Come Gavazzo, uno che è stato ricordato benissimo dal Pubblico Ministero nella sua vanità, tronfio, addirittura con il soprannome si presentava alle vittime violentate… ad esempio alla madre di Maria Artigas dice: "adesso ti porto via tutti i tuoi figli, io sono nino Gavazzo. Per l'ultimo torno dopo"… Infatti poi mantenne la promessa, era gente di parola!... tre anni dopo le prese anche il figlio più piccolo, che allora aveva 13 anni, e che è venuto a testimoniare al processo, raccontando cose che non aveva mai raccontato neanche ai suoi familiari, di essere stato violentato, ripetutamente dai 16 anni in poi, in quanto era fratello dell'Artigas... E quando l'Artigas affronta Gavazzo e gli dice: “lascia stare i miei fratelli, ma tu lo sai che cosa state facendo?!", lui risponde sprezzante “Certo, ne sono pienamente consapevole, sono assolutamente consapevole”... C’era un'adesione totale a questo programma di sterminio, di annichilimento dell'avversario, del dissidente, di chi non la pensava come le dittature militari... ovviamente, il sequestro a fini di estorsione era uno strumento necessario, ma il vero obiettivo era quello: l’annichilimento! Ma come si fa a parcellizzare in maniera così assurdamente atomistica la condotta omicidiaria?! Come ha fatto, errando - a nostro avviso - la Corte di Assise di primo grado… tutto questo non è avvenuto, ad esempio, nella sentenza Suarez Mason del 2004, acquisita agli atti del processo. La prima Corte di Assise di Roma lì ha affermato correttamente che «la responsabilità per l'exitus è attribuibile a chiunque abbia posto in essere una frazione del percorso di morte, salvo che si dimostri l’esistenza di una causa unica non concorrente, etc…». non è che si faceva di tutta l'erba un fascio, che chi passava di lì per caso.., no, stavi lì all'ESMA, facevi le pulizie... no, nessuno di? questi si trova imputato. Gli odierni imputati sono… sappiamo tutti che grado rivestivano, che funzione rivestivano, che cosa hanno fatto. Erano militari, ci sono i fascicoli personali, gli encomi di tutti quanti, cioé sono schedati. Sono cose che sono venute agli atti di questo processo. E ancora abbiamo problemi a valutare le prove?! Ma allora come avremmo fatto ad ottenere le sentenze di condanna per gli eccidi di guerra di 70 anni fa? Con tutto quell'“armadio della vergogna”… no, qui no, qui abbiamo tutto, sono venuti i testi, hanno affrontato un viaggio dall'altra parte del mondo per raccontare le atrocità che hanno subito loro e i loro cari. I documenti declassificati, prove preziosissime. Però nessuno ha visto proprio... Ma cosa andiamo a cercare, la “pistola fumante” adesso?! Vogliamo proprio innovare così ad una giurisprudenza cinquantennale?!... «no, non ci sono prove sufficienti per collegare il Troccoli e gli altri a qualunque titolo», l'ho letto nella sentenza. Più la rileggo e più trovo dei passaggi davvero giuridicamente aberranti, a mio giudizio. «a qualunque titolo». Dice: “sì, vedi, va bene la sentenza Astiz, lo sappiamo bene, i voli della morte, però lì in realtà non è pertinente quel richiamo, non c'entra niente”… non c’entra niente? Qui abbiamo sempre i desaparecidos, i voli della morte dell’ESMA, eccetera… Dice la sentenza Astiz: «esercitando egli funzioni di comando nei confronti dei graduati e dei sottoposti e di collaborazione attiva con gli Ufficiali Superiori, concorse con piena consapevolezza alla compartecipazione delittuosa, non solo del mantenimento della gestione della prigione clandestina, dove pure venivano torturate le vittime, ma della loro stessa soppressione segreta». Cioé questa è logica, questo è diritto, questa è giustizia vorrei dire! Ma evitiamo proprio… Diciamo che così si svilisce tutta questa gran copia di documenti, di giurisprudenza… ne viene fatto strame. Cioé, la sentenza di primo grado si appaga per aver affermato l'esistenza, in un'aula di giustizia d’Italia, del “Plan Condor” che aveva queste funzioni di sterminio. Hai condannato i vertici politici e militari (che tra l’altro stavano già in carcere), gli alti vertici, e poi ti sei fermato?... Mi sfuggono le ragioni, che certamente non sono ragioni giuridicamente apprezzabili, ecco… Almeno io non riesco a comprenderle. Evitiamo proprio... nella sentenza impugnata si fa aperto riferimento all'“esercizio di funzione di comando” da parte di Astiz, ripeto, tenente di fregata, “un tenentino” più giovane, proprio in ordine alla questione degli ostaggi, circostanza che - dice la Corte - non raggiunge la soglia della ragionevole certezza nel caso di troccoli. Ad avviso della Corte di primo grado non può ritenersi l'automatica equiparazione tra la responsabilità per la prigionia clandestina e quella per l'eliminazione di alcuno soltanto, in quanto la detenzione delle vittime non è sempre stata funzionale alla perpetrazione degli omicidi, perché, come detto - veramente ci si aggancia... “non tutti sono morti, molti sono stati liberati”… anche molti testi, certo,… la beffa oltre il danno! Cioé quelli che sono venuti qua, “hai visto, dove stanno? ti hanno liberato”. Ma vogliamo renderci conto in che maniera rocambolesca, a volte veramente miracolosa?!... Penso a Gallero, uno a cui sono stati bruciati i piedi nell'“infierno grande” della “tablada”, che è venuto qui a raccontarci... non si sa com'è sopravvissuto. E le ha viste tutte. Dice: “Io già stavo lì, già mi avevano torturato prima in Argentina, ora stavo là - pensa - non mi succede niente” … Gli dice invece una giovane guardia: “no guarda, i diavoli sono in viaggio, se stai qua è perché ancora devono sapere cose da te”. È per quello che non li facevano morire, è per quello che c'erano i medici; lui lo dice: “io stavo lì di notte, veniva il medico, mi passava l'unguento sui genitali sanguinanti, sui piedi bruciati, perché ancora dovevo rimanere in vita. Ancora erano convinti che io potevo dire qualcosa”. E vede Cabezudo, il professore, il maestro di scacchi, lo vede lì appeso che gli bruciano sotto i piedi... veramente... assiste là impotente allo stupro di gruppo di Celica Gomez, l'ultima dei GAU ad essere catturata il 3 gennaio del '78… Un vero “Inferno grande”!… Ebbene, per questo si dice in sentenza: “molti sono venuti qua, mica morivano tutti, no?”… Sposando quella tesi fantasiosa, insomma, risibile quasi, del troccoli che dice: "no vabbé?, io li trattavo in maniera disumana, si vabbé, ma rientra nella natura umana”… Comunque vabbé, era un “professionista della violenza”.... “non li ho mai odiati" - menomale, bonta? sua! - "io non li ho mai odiati"… Cioé, ogni tanto qualcuno moriva ma le morti erano accidentali… Ma possiamo fare un'affermazione così in una sentenza della Repubblica Italiana!? Le morti non erano accidentali, stride con le premesse!… Si è detto, il “Plan Condor” era teso a far sparire, ad uccidere. Sterminare, annichilire, annientare! ogni tanto qualcuno moriva, ops, non resistevano, poveri deboli morivano… no, lì ti spremevano. Chi è che si è salvato? o chi in maniera veramente rocambolesca… oppure persone che diciamo poi, alla fine ci si rendeva conto che tutto sommato erano pesci piccoli nel movimento, oppure gente che magari, ecco, come Rosa Barreix che cedeva per salvare il marito torturato nella stanza accanto, o quello per salvare il figlio.., diciamo, in quei frangenti non sono esigibili atti di eroismo necessariamente… Ci sono stati degli eroi, gente che non ha parlato pur sapendo cose, invece… Ce lo ha detto per esempio osses, un personaggio romanzesco, uno dei GAP della Moneda che si è salvato in maniera rocambolesca… Ce l'ha spiegato, perché è capitato ad un certo punto insieme ad un altro per caso in un'altra parte del cortile della caserma, e poi si è mischiato negli stadi di Pinochet e quindi si è confuso in mezzo a quelli che si trovavano lì per aver violato il coprifuoco, e alla fine ha avuto una vita romanzesca… Ci dice: "io non ho parlato, ma perché io ero uno dei GAP, ci avrebbero comunque fatti fuori subito"… Uno dei giovani amici del Presidente scelti personalmente da Allende: erano dei ragazzi giovani come Montiglio, giovanissimi che avevano un’ideologia socialista, avevano un minimo di pratica con le armi e che si sono trovati a fronteggiare per 8 ore gli aerei con le pistole, e questo ha indispettito Pinochet tant'e? che sono stati trucidati tutti, a cominciare da Montiglio. Lui niente, in maniera assolutamente fortuita - perché a volte la vita riserva dei colpi di fortuna, ecco, in questi casi meritati, perché poi lui è venuto qui e ci ha raccontato quelle ore alla "Moneda" e la sua esperienza di vita, insomma, è stata una bellissima testimonianza quella di osses… Ma questa è stata l'eccezione. o perché c'era una collaborazione, e quindi come Rosa Barreix venivi cooptata nella "Computadora", tanto che poi dopo lei stessa veniva utilizzata per indicare altri suoi compagni… oppure diciamo erano dei pesci piccoli..., oppure veramente la fortuna, fortuna rocambolesca in certe circostanze fortuite. Quindi quella era l'eccezione, ma se contavi qualcosa, ripeto - questo bisogna averlo ben chiaro! - se contavi qualcosa in quelle associazioni che venivano prese di mira volta per volta, in maniera sistematica, scientifica, eri spacciato! Eppure si sono salvati anche lì... ecco, quelli del cd. “primo volo”, quello dello “Chalet Susy”, anche lì in modo rocambolesco perché c'erano state delle pressioni diplomatiche dell'America perché stavano facendo veramente “carne di porco”; gli Stati Uniti hanno detto: "guarda che ti tagliamo i finanziamenti", e allora l'Uruguay: "Vabbé, facciamoli tornare". L'Argentina - dove questi erano stati prima ad "automotores orletti" - si arrabbiò seriamente con l'Uruguay: "non fare mai più una cosa del genere, se si sa che noi deteniamo le persone nelle carceri clandestine"… Infatti, con il “secondo volo” da orletti poi nessuno è più tornato! nel primo volo c'era la figlia del senatore zelmar Michelini che era già stato ucciso in quello stesso anno a maggio, c'era Ana Quadros, figlia di un ambasciatore che si diede da fare; insomma una congiuntura favorevole ha fatto sì che quelli lì poi, con la cd. “messa in scena” dello Chalet Susy, sono stati presentati in conferenza stampa per far vedere che in Uruguay non succedeva nulla di male, nessuno moriva, e per tenere buoni gli Stati Uniti che avevano minacciato con le pressioni diplomatiche (che ogni tanto hanno fatto quando la cosa rischiava di sfuggire di mano)… Insomma, si passa poi sotto l'egida dell'Argentina che dal ‘76 in poi prende lo scettro del "Plan Condor", mentre il Cile cade in disgrazia dopo l'omicidio da parte della DInA di orlando Letelier a Washington; allora l'America mette diciamo il Cile “in castigo”, in un angolo, però allora l'Argentina prende le redini del comando, tanto poi da sfuggire a qualsiasi controllo… tra i vari documenti, veramente c'è una tale ricchezza di documenti… c'è un documento desecretato del 10 giugno del '76, vado a memoria, una registrazione tra Kissinger e l'allora Ministro degli Esteri argentino l'Ammiraglio Guzzetti dove quest’ultimo dice chiaramente: “abbiamo un problema con la repressione”... E Kissinger: “si, però - dice - fate presto e poi dopo si ritorni alla normalità”. Chiede quasi una sorta di autorizzazione, però “qui dobbiamo far presto”; e sono gli anni più tremendi dal '76 al '78, proprio quelli dello sterminio di tutti gli oppositori politici. Quindi sterminio, eliminazione fisica, omicidi. Ma di che parliamo?!... È chiaro che il sequestro a scopo di estorsione era strumentale, era uno strumento necessario per ottenere il fine ultimo, l'annichilimento; l’annientamento fisico e la sparizione, la damnatio memoriae, la pulizia etnica, la sottrazione dei figli!... Come i gemelli Julien, figli di uruguaiani, detenuti con i genitori e poi spariti a orletti, portati poi da Buenos Aires a Montevideo, dove sono stati visti accompagnati da donne della Polizia Segreta e infine fatti ritrovare in una piazza di Valparaiso in Cile; e adottati lì da gente veramente inconsapevole... Ma quanti?! Storie di bambini, di donne, di ragazzi, di studenti, di sacerdoti, di persone per bene insomma… Abbiamo visto che alla fine lottavano per ideali di giustizia, di libertà, come molti ci hanno detto, per un mondo migliore. Per valori, ecco, di rispetto degli altri, di solidarietà, di integrazione, di autodeterminazione. tutte cose, tutti valori che peraltro stanno scritti nella nostra Costituzione e per i quali anch'io sono qui oggi a rassegnare le mie conclusioni di parte civile. Del concorso morale ho detto, le sentenze sono lì a testimoniarlo. La condotta può essere una condotta diciamo atipica. Questo è ben noto, anche se non è indifferente, cioè il Giudice deve accertare che sicuramente non bastava che stavi lì, bisogna vedere che cosa hai fatto; però c’è la condotta agevolativa, l’aver rafforzato... ci sono tante modalità, è atipica. Purché tu abbia rafforzato la determinazione nei tuoi sottoposti a compiere... può darsi pure che il troccoli materialmente non abbia ucciso nessuno, per quanto si dava un gran da fare ad andare a prendere a casa in borghese Dosil, a puntargli sotto il mento il mitra (è stato riconosciuto da lui), e poi ad interrogarlo in carcere e a dire: “no, quello lo hanno già preso, però ormai non ce l'ha fatta, andiamo oltre”... E poi fa il giudice istruttore, ricopriva un po' tutti i ruoli, tra cui non ultimo - anzi - l'ideatore. È lui, ce lo dice Alex Lebel, che l'ha inventata lui questa "Computadora", una sorta appunto di “computer umano” proprio perché aveva tutto l'organigramma e quello lo aveva creato lui… Li hanno trovati questi organigrammi, hanno trovato persino nella sede del FUSnA dei verbali di interrogatorio di uruguaiani a Buenos Aires! Ma di che cosa stiamo parlando?!... Ancora dobbiamo dire non c'è qui "la prova dell’effettiva partecipazione del Troccoli a qualunque titolo, alla uccisione di tutte o alcune soltanto delle vittime"?!... Ma per molto meno il nostro Paese ha condannato per omicidi altrettanto gravi ed efferati anche persone - ripeto - di grado militare inferiore… Ripeto, per quello che rileva, non è quello il punto. “non è a tal fine sufficiente, come prospettava l'accusa, la zelante collaborazione prestata dal Troccoli all'attività repressiva ed illegale di detenzione e tortura, oltretutto rivestendo costui una posizione di rilievo ma non certo apicale". Ma chi l'ha detto apicale?! Cioé, veramente questa proprio un’eccezione assoluta nel panorama della giurisprudenza… Soltanto i vertici? Ma non è che stiamo parlando qui del soldato semplice che difendeva l'Avvocato Milani, e che giustamente è stato assolto, perché solamente, a distanza di 70 anni, uno ti ha visto sparare ad un vecchio, insomma, senza riscontri... Qui la prova logica, molteplici, gravi, seri, precisi e concordanti elementi indiziari, prove documentali, riconoscimenti. Ma è possibile che non si riesca grazie alla prova logica, ai meccanismi che non sto certo a ricordare alla Corte, non si possa arrivare ad una verità processuale in linea con quello che noi sappiamo essere storicamente accaduto?!... non è questo il compito dei processi, lo so bene. È quello di accertare le responsabilità penali personali, però non ci si può venire a dire che non sia raggiunta la prova neanche attraverso la prova logica “a qualunque titolo della partecipazione”. Cioè, che stava a fare lì troccoli? E poi accompagnava i “detenuti clandestini” sulle lance, lì, perché attraversavano il braccio di mare.., cioè, le ha fatte tutte! Era proprio iperattivo, era proprio febbricitante, era proprio… gli piaceva quello che faceva: “sono un professionista della violenza, ma non ho mai ucciso nessuno”. no, no, però lo trattavi in maniera disumana, ma tutto sommato era giusto… Certo, non è che ci viene a dire che ha ucciso... ma non c'è bisogno! Probabilmente, sicuramente ci sono dei contributi causali anche materiali alla commissione, ma quantomeno a titolo di concorso morale, che - dice bene la Cassazione in tante massime - non è un quid minus; tant'è che vedevo l'altro giorno una sentenza e addirittura diceva «ma se tu sei imputato sia a titolo di concorso materiale che morale, non è che se si riconosce solo quello morale ti spetta una diminuente»… diciamo questa cosa è quasi ovvia, però ora la Cassazione l'ha affrontata; sappiamo tutti in realtà che sono assolutamente equiparati, concorso morale e materiale - veda la Corte - ma sicuramente il troccoli, e come lui tanti altri odierni imputati, ha avuto un ruolo determinante a prescindere dal grado, che ripeto non era apicale ma non è necessario, ma non era neanche l'ultimo, perché ripeto tenente di Vascello in Marina equivale al grado di Maggiore dell’Esercito. Aveva capacità ideative ed organizzative di relazioni con l’ESMA. È stato insignito di encomi - giustamente in quell'ottica! - di cui lui andava fiero; lui rilasciava interviste, scriveva libri… Poi, ad un certo punto è cambiato il vento, e si è capito che forse qualche “reatuccio”... E allora che ha fatto? È scappato, è venuto in Italia. Bah, e poi viene qui a citare - nelle sue dichiarazioni spontanee - Scipione l'Africano: "l'altra mia patria non avrà le mie spoglie"… Ma pensi piuttosto a restituire le spoglie delle povere vittime, anziché riempirsi la bocca di citazioni dotte che non gli appartengono!… Scipione l'Africano… "non avrà le mie spoglie", va bene… Due parole sul dolo infine, ma già l'ho anticipato, perché chiaramente i temi, i grandi temi della prova nel processo penale, del concorso morale e del dolo sono in questi processi fatalmente e intimamente connessi… sul dolo: giustamente diceva il Pubblico Ministero, si nega addirittura il dolo, la consapevolezza e la volontà. Cioé, non sapevano quello che accadeva..., si vabbé, no, un po' troccoli lo ammette, ma a mezza bocca: “qualcuno moriva in maniera accidentale”… Peccato, fa parte della vita, qualcuno più debole, più sfortunato. no, qui il dolo, ma veramente?!... La Corte di primo grado addirittura neanche a titolo di dolo eventuale! Ma quale aberrazione giuridica è questa?! Quando invece la Cassazione a Sezioni Unite ci dice (cito per tutte Sezioni Unite 2008, numero 3286): «Si è in presenza di dolo eventuale quando l'agente, ponendo in essere la condotta diretta ad altri scopi, si rappresenta la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria condotta e ciò nonostante agisca accettando il rischio di cagionarle. Quando invece l'ulteriore accadimento - l'evento morte si presenta come probabile (e qui altro che probabile, era il vero scopo!) non si può ritenere che l'agente si sia limitato ad accettare il rischio dell'evento bensì che accettando l'evento lo abbia voluto, sicché in tale ipotesi l'elemento psicologico si configura in una forma di dolo diretto e non in quella del dolo eventuale". Ma ce ne sono tante... E questo altro che probabile, qui c'è quasi la ragionevole certezza, era il vero scopo, è incontrovertibile! Vi era la rappresentazione, nella psiche degli odierni imputati, dell'alta probabilità di soppressione dell'ostaggio proprio perché si trattava di avversario politico da eliminare fisicamente, da annientare! E tanto più questo contava, era una figura di rilievo (non il leader, ma diciamo, tutti coloro che erano “le teste pensanti” dei vari movimenti politici di volta in volta presi di mira, in maniera militare, scientifica, sistematica), andava fatto sparire! Di tutti quelli, se parlavano o no, non interessava a nessuno! Fatto sta che quelli lì sono stati catturati, spremuti... ma sia che parlavano o che non parlavano... Il problema riguardava i pesci piccoli da cui cominciavano a partire e, tra quelli, alcuni collaboravano e altri magari li mettevano in libertà e poi li seguivano a volte… Attenzione, alcuni li mettevano in libertà perché poi dopo... e quello tranquillo se ne andava: "oh, me la sono sfangata"… Incontrava uno per strada e quelli prendevano l'altro, così, spariva la gente così e nessuno ne sapeva niente… È la storia di tantissimi, delle odierne parti civile o testimoni che ce l'hanno raccontato… Una cosa agghiacciante… non riesco ad immaginare veramente.., eppure ne ho fatti di processi del genere... E qui abbiamo il dolo diretto…; cioé il sequestro di persona a scopo di estorsione nel caso di specie (è scritto nel nostro appello) è uno strumento necessario per l’ulteriore ed estrema conseguenza, il più grave delitto di omicidio. E il dolo diretto si configura quando la commissione del reato di sequestro non è l'obiettivo che dà causa alla condotta, ma costituisce solo uno strumento necessario perché l'agente realizzi il vero scopo criminoso perseguito dal "Piano Condor", l'omicidio volontario dei dissenzienti! Forse si può discutere a proposito di aggravante della premeditazione - ma solo a tutto concedere dei singoli omicidi contestati… Ma certamente delle altre aggravanti, le sevizie, la crudeltà, i motivi abietti e futili, che ci vengono a dire?!... Ma “eravamo militari”? no. Qualsiasi ideologia, di destra o di sinistra, non può giustificare… proprio perché erano così intrisi di un'ideologia perversa che ha portato a questi effetti…: lo dice la giurisprudenza, non lo dico io, la Cassazione. tutti quei casi, certo, quelli sono prove. Le sevizie, le crudeltà... sono degli omicidi pluriaggravati che costituivano il vero scopo - lo ripeto per l'ultima volta perché non voglio tediarvi oltre - del "Plan Condor". Quello per cui i vertici politici e militari ottantenni sono in carcere per altri reati simili, sempre di questo parliamo… Ma non è che queste erano “mammolette” che non sapevano nulla!... Parliamo di Gavazzo, ma di che stiamo parlando?! Di Silveira Quesada, quello che si vantava - ce lo dice Rosa Barreix - di saperci fare con le donne, di saperle far parlare; tant'è che poi viene nominato direttore del carcere militare femminile dove poi... Lui sì che ci sapeva fare con le donne a farle parlare!... Altri imputati: quell'altro, Vasquez Bisio che in Uruguay è stato pure condannato però ha ottenuto una diminuente perché qualcosa ha ammesso (non le sue colpe per carità!), ha detto un po' come funzionavano le cose, come andavano: "ma eravamo così, eravamo in guerra"…; ma quale guerra, quella teorizzata da Juan Carlos Blanco?! Che in un documento a firma Condoleezza Rice desecretato, che è agli atti del processo, viene definito “sedicente ideologo della terza guerra mondiale, l'ultimo baluardo della civilizzazione cristiana contro il comunismo”!... Cioè, questi erano i personaggi! Ma non ci si può limitare soltanto a condannare quelli, perché quella stessa ideologia permeava “giù per li rami” sino agli esecutori materiali, ma non parliamo di quello, non vogliamo dire… non vogliamo forzare le cose: nessuno ha visto troccoli ammazzare nessuno, va bene, possiamo dirlo, possiamo ammetterlo;… ma che lui non fosse consapevole, non si rappresentasse qual’era la finalità ultima e non aderisse pienamente, con piena consapevolezza, rappresentandosi la consapevolezza anche del contributo degli altri, sia dei suoi Superiori e sia dei suoi inferiori… Questo è davvero impossibile affermarlo! Che cosa vuol dire che aveva nel FUSnA dei Superiori gerarchici?... nel FUSnA, si c'era; c'era Juansolo, che era il suo Superiore, che era il Colonnello e lui era Maggiore; c'era Marquez che era il comandante della Marina… E allora, lui non ha responsabilità?! E sotto di lui quanti ce n’erano? Lui era il Capo. Ma capo vuol dire qualcosa o no?! Il Capo della S2, potentissimo, scelto per meriti seri. Era bravo, era un vero professionista, faceva con passione il suo lavoro. Con qualche eccesso, forse, ma insomma lo faceva con passione. Stava lì H24, non stava lì che passava per sbaglio… non era una figura apicale, si va bene, ma “un tenentino”?!… Ma perché?... Cioé, quali sono le ragioni giuridiche voglio sapere! Perché ad un certo punto questa sentenza si blocca, si paralizza in un attacco così di timidezza inspiegabile, in un eccesso - per così dire - di garantismo… Io capisco, andare a cercare le responsabilità penali personali..., ma queste sono tutte persone che… io non sto a nominarli tutti quanti… ma non c'è uno che stava li per caso!… no, uno ce n'è, Chavez Dominguez, “la mosca nel latte”… l'ha detto lui, bellissima espressione icastica: "sono capitato lì come una mosca nel latte"… Io ho provato a fargli altre domande, perché lui probabilmente comunque qualche motivo per parlare lo aveva… perché è stato penalizzato nella sua carriera militare… poi è stato destituito, è stato messo in condizioni di andarsene dalla Marina... ma nessuno gli ha torto un capello. Forse poteva dire qualcosa, anche se stava nella palazzina a 100 metri, c'è stato per 2 anni, forse sapeva qualcosa... Invece la Corte lì mi ha interrotto… Le “mosche nel latte” si rendono conto del latte in cui sono cadute, anche se non per questo devono partecipare “perché tutti fanno così, eravamo in guerra, eseguivamo gli ordini”... Ma ripeto, c'è un “dovere di disobbedienza”! Da che mondo è mondo sono leggi proprio scritte nei codici! Ripeto, il codice penale militare tedesco di guerra dell'epoca prevedeva l'obbligo di disobbedire all'ordine manifestamente criminoso! E onestamente non mi viene in mente un ordine più manifestamente criminoso di questo, di rapire le persone così, prenderle proprio, deprivarle di tutto, delle loro case, farle sparire, torturarle nelle maniere più brutali che sono lì agli atti, non ho bisogno di suggestionare la Corte con cose che hanno veramente fatto inorridire le nostre coscienze quando le abbiamo sentite raccontare, e che sono lì, formano atti, sono pietre nelle cose! nessuno si è inventato niente. E troccoli di tutto questo non sapeva niente?!... Cos'è, vogliamo derubricare tutto a “morti accidentali”?! Qualche essere più debole che non ha resistito? no, "noi torturavamo". La finalità era altra, la sentenza l'ha individuata, il "Piano Condor" era a quello che tendeva. Bisogna portare questo accertamento alle dovute conseguenze, le giuste ricadute giuridiche, l'analisi secondo logica, secondo diritto, secondo i principi generali del nostro ordinamento, nel rispetto delle garanzie, ma bisogna fare giustizia! Il diritto a questo serve, non ad un esercizio funzionale ad “arrampicarsi sugli specchi”, per cercare di salvare chi non può essere salvato per quello che ha fatto! Ha commesso dei fatti, se n'è assunti in parte scrivendo libri, eccetera, e quanto ha visto le cose mettersi male... non c'è bisogno che lui ammetta o che qualcuno lo abbia visto decidere, non c'è bisogno! La sua adesione, sua e di loro, Gavazzo, Silveira Quesada, Larcebeau, Arab, Mato narbondo, Sande Lima, Soca e tutti gli altri, erano tutti Ufficiali che sapevano molto bene che cosa stavano facendo! Sappiamo tutto di loro… La posizione che occupavano nell'oCoA, nel SID... Ecco l'altra argomentazione… ora non mi vengono le cose ma mi avvio comunque alla conclusione, cerco di stare nei tempi che mi ero prefissato, però le cose da dire sarebbero tante… Anche perché la sentenza in questione dice ad un certo punto, in questa ricostruzione così assurdamente atomistica, parcellizzata e polverizzata delle varie condotte, alla fine dice: «Si ma…» - con dei salti logici sorprendenti - dice: «Si, ma è vero. Va bene, Gavazzo l'hanno visto in tanti, così pure Silveira Quesada”… Questi erano dell’oCoA (e l’oCoA lo sappiamo bene che era l'”organismo di Coordinamento delle operazioni Antisovversive”, che aveva questa funzione di coordinamento, di cui pure per un periodo troccoli ha fatto parte, perché comunque c'era una sorta di “osmosi”, quindi erano tutti organismi che facevano parte della stessa rete delle Polizie Segrete, con rapporti di rivalità che i testi ci hanno spiegato, per cui non tutte le notizie e le informazioni le passavano perché avevano paura che l'altro gli togliesse il merito); e quindi comunque sicuramente Gavazzo è andato al FUSnA, Gavazzo è stato visto... Silveira Quesada è stato visto... Ebbene dice: "Il fatto che siano stati visti al FUSnA… può darsi che delle sparizioni forzate se ne siano occupati altri", così dice la sentenza… E allora condanna gli uni e gli altri, no?! Cioè, non lo so io se ragiono male ma... una responsabilità diffusa, polverizzata, non è colpa di nessuno! Questi morivano così come mosche in maniera accidentale?! Certamente Gavazzo come membro numero 2 del SID, oscar 302, e gli altri, Bisio che era 307, anche loro, tra di loro rivaleggiavano… tutti ce l'hanno detto. Per fortuna siamo solo a 40 anni di distanza dai fatti… Cioè la gente che li ha sentiti parlare, che li ha visti, che è stata violentata da queste persone, sa che cosa hanno fatto! E quindi ognuno nel proprio ruolo, nel proprio ruolo rispettivo, nel proprio grado militare, per quello che rileva... Ma per questo “lavoro sporco” della Polizia Segreta si guardavano le capacità operative, ideative; ed il troccoli, ad esempio, aveva le une e le altre, a prescindere dal grado che poi non era così minimale, perché era equiparato a Maggiore. Il tenente di Vascello in Marina, ripeto, è equiparato al Maggiore dell’Esercito. Sapevano perfettamente che cosa stavano facendo e tutti quanti, ognuno per la loro parte, ognuno per il proprio ruolo, hanno partecipato, hanno dato un contributo cosciente e volontario alla commissione degli omicidi, alle sparizioni forzate! E non solo al sequestro a scopo di estorsione. oppure in altri passaggi ancora… la sentenza tanto è un florilegio di affermazioni che meriterebbero un po' più di tempo adesso, ma le cose comunque stanno anche scritte nel nostro atto di appello, sto cercando solo di illustrarle… Quando la sentenza nega il fatto che vi fosse una autonomia decisionale del troccoli… e del Larcebeau… gioca sul fatto… e addirittura ad un certo punto dice: “si, però il fatto che l’operazione GAU si è conclusa con l'arresto e la sparizione forzata di Celica Gomez il 3 gennaio del '78… a quel punto l'operazione si conclude, li hanno presi tutti, la retata è completa"; e allora troccoli a gennaio intanto si può dedicare a passare all’ESMA che poi gestiva queste sparizioni forzate in Argentina; fino a che il 1° febbraio, è agli atti, c’è il passaggio formale di consegne con l'altro.., erano diciamo “il gatto e la volpe”, Larcebeau, come dice troccoli, "il mio amico sfortunato, il mio compagno sfortunato". Già, condividevano tutto, completamente anche lui aderente a tutte queste attività... era quasi un alter ego... già prima insomma era il suo braccio destro... E quindi c'è questo passaggio formale. Dice la sentenza: “ma siccome alcune delle vittime, quelle che poi dopo sono sparite, però ci sono prove che fossero rimaste in vita fino a maggio/giugno del '78, e in quel momento troccoli, allora, non aveva più il comando perché lo aveva passato a Larcebeau”... Ma che è, il gioco delle tre carte qua?!... Ma una volta che io partecipo così… ma poi chi lo uccide può essere pure un terzo!... non c'entra niente con i nostri principi giuridici se ha “partecipato materialmente” o meno! Cioé, io ho partecipato alla retata dei GAU, sono stato lì ad interrogare quello, e poi vado lì all'ESMA… e poi... dopodiché: "eh, no"… E allora condanna Larcebeau! no, perché Larcebeau... non condannano nessuno, soltanto i vertici! Cioé è una sentenza alla fine quasi solo “simbolica”, che passa per certi versi come una sentenza storica ma che ha perso davvero un'occasione storica per fare giustizia, perché la storia la conosciamo, bisogna fare giustizia nel caso concreto e non nascondersi dietro un dito! È il gioco delle tre carte, così sembra!… “E allora, è andato lì e non aveva autonomia decisionale”... Ma che c'entra l'autonomia decisionale?! Ma che lo decideva veramente solo lui...? Cioé, lui aveva sicuramente una capacità organizzativa e una potestà decisionale, ma mica era solo lui, mica era lui il Capo del "Piano Condor”, ma di che cosa stiamo parlando?!... Lui era un ingranaggio prezioso in quella catena di comando, che aderiva pienamente a quelle finalità, alle modalità operative, al modus procedendi che è uguale in tutti i Paesi. tutte le torture avvenivano con le medesime atroci modalità... troccoli si vantava addirittura di averle insegnate lui: "me le hanno copiate all’ESMA”… Era un personaggio centrale. "non aveva autonomia decisionale"… Io non lo so, veramente sono basito! Più leggo questa sentenza e più veramente... Salvo poi, ecco l'“ultima perla”… perché poi quando si cerca troppo di motivare l'impossibile giuridicamente, alla fine qualche contraddizione fatalmente emerge... Quando poi alla fine - perché non può arrivare fino ad appuntare l'ennesima medaglia al troccoli! - e quindi, quando affronta gli argomenti difensivi, la versione alternativa assolutamente inverosimile della difesa: "voleva passare il natale in famiglia"; ecco, lì dice: "beh si, in effetti dice - sono argomenti un po' deboli… La sua presenza ininterrotta in Uruguay fino al 10 gennaio”... Anche a prescindere dal fatto che il contesto di clandestinità che ha caratterizzato l'attività del FUSnA rende dubbia l'attendibilità della stessa documentazione ufficiale… Del pari dubbia risulta la credibilità della testimonianza resa da parenti e amici di antica data, che dicono che lo hanno visto passare il natale a casa; dice la sentenza: "tali prove a discarico comunque non risultano incompatibili con la partecipazione dell'imputato che ben avrebbe potuto dal luogo in cui si trovava continuare ad impartire ordini ai suoi sottoposti, alle operazioni contro i GAU cittadini italiani"… ovunque si trovava non importa, pure se stava… A parte poi che non è credibile che quello stava a passare il natale in famiglia, ma veramente vogliamo crederlo?!... Ma che gli interessava stare là, con la trombetta a festeggiare il Capodanno?!... Stavano lì a prendere Celica Gomez, la dovevano violentare, la dovevano annichilire, dovevano concludere l’operazione GAU! Quelli erano i festeggiamenti che a queste persone interessavano! Il natale in famiglia, ma veramente?!... Ma anche se fosse “ben avrebbe potuto”... (ai piedi di pagina 87) - eccola qui l’ennesima contraddizione dopo tanti salti logici davvero acrobatici, peripezie dialettiche, veramente meritevoli di miglior causa! - “ben avrebbe comunque potuto continuare ad impartire ordini ai suoi sottoposti”. E ci voleva tanto!?!... È quello che ha fatto, era un capo. Era un Capo. non il Capo supremo, ma non conta. non era l'ultimo degli uomini delle pulizie, con tutto il rispetto, veramente, che forse hanno una dignità maggiore dell'odierno imputato, e degli altri che meritano di essere condannati. Per questa ragione, Presidente, concludo. Altrettante cose ci sarebbero da dire ma mi rendo conto che l'ora è tarda e quindi rassegno le mie conclusioni per i gravi danni patrimoniali e non patrimoniali che sono stati cagionati, per le ragioni che ho detto nell'incipit della mia arringa, all'Ente esponenziale nella mia modesta persona - della comunità nazionale, per questi gravi ed efferati reati che hanno vulnerato, ferito nel profondo l’intera collettività nazionale, perché così è giusto che sia fatta giustizia, e che questi, gli odierni imputati, paghino il giusto. E quindi in tal senso deposito conclusioni scritte e nota spese. Vi ringrazio. agenti sotto copertura per il contrasto al gioco illecito, tra attività amministrativa e procedimento penale. Brevi note a margine del d.L. n. 124 del 2019 Giacomo Cotti* Sommario: 1. introduzione - 2. L’agente sotto copertura in materia di giochi - 3. il precedente di cui al D.L. n. 16 del 2012 - 4. Gioco e criminalità organizzata - 5. agenti sotto copertura a finalità “mista”? - 6.1. il “nuovo” agente sotto copertura: la dimensione soggettiva - 6.2. (segue) La dimensione oggettiva - 6.3. (segue) La dimensione teleologica - 7. Conclusioni. 1. introduzione. Il decreto legge n. 124 del 26 ottobre 2019, recante “Disposizioni urgenti in materia fiscale e per esigenze indifferibili” (1), è stato convertito con legge 19 dicembre 2019, n. 157 a seguito dell’approvazione definitiva del testo da parte del Senato della Repubblica (2). Il D.L. in parola, oltre ad introdurre svariate norme volte a contrastare le frodi tributarie, tramite l’inasprimento delle pene previste per alcuni dei reati di cui al D.Lgs. 74/2000 e l’introduzione di nuove ipotesi di responsabilità degli enti (3), contempla alcune disposizioni specificamente riguardanti il settore dei giochi (4). L’obiettivo del legislatore è stato, apertamente, quello di implementare la lotta all'evasione fiscale e al- (*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Bologna (avv. St. Mario zito). Le osservazioni di cui al paragrafo 3, qui opportunamente ampliate e rielaborate, sono state oggetto di breve trattazione nella Tesi di Laurea dell’autore. (1) Atto S.1638, XVIII legislatura. Assegnato alla 6ª Commissione permanente (Finanze e tesoro) in sede referente il 6 dicembre 2019. Annuncio nella seduta n. 171 del 9 dicembre 2019. Pareri delle commissioni 1ª (Aff. costituzionali), 2ª (Giustizia), 3ª (Aff. esteri), 4ª (Difesa), 5ª (Bilancio), 7ª (Pubbl. istruzione), 8ª (Lavori pubblici), 9ª (Agricoltura), 10ª (Industria), 11ª (Lavoro), 12ª (Sanità), 13ª (Ambiente), 14ª (Unione europea), Questioni regionali. (2) Legge n. 157 del 19 dicembre 2019 (“Conversione in legge, con modificazioni, del decretolegge 26 ottobre 2019, n. 124, recante disposizioni urgenti in materia fiscale e per esigenze indifferibili”). (3) responsabilità degli enti e reati tributari: il Senato ha approvato definitivamente il decreto fiscale, in Giurisprudenza Penale Web, 18 dicembre 2019, http://www.giurisprudenzapenale.com/2019/12/18/responsabilita-degli-enti-e-reati-tributari-il-senato-ha-approvato-definitivamente-il-decreto-fiscale/ (ultimo accesso: 20 dicembre 2019). Per un approfondimento di questi aspetti, si veda S. FInoCCHIARo, in vigore la “riforma fiscale”: osservazioni a prima lettura della legge 157/2019 in materia di reati tributari, confisca allargata e responsabilità degli enti, in Sistema Penale, 7 gennaio 2020, https://sistemapenale.it/it/scheda/riforma-fiscale-dl-n-124-del-2019-e-l-n-157-del-2019-in-materia-direati-tributari-confisca-allargata-e-responsabilita-degli-enti-ex-dlgs-n-231-del-2001 (ultimo accesso: 8 gennaio 2020). (4) M. BoMBI, Stretta fiscale e di controllo su gioco d’azzardo ed intrattenimento, in il Quotidiano per la P.a., 6 dicembre 2019. l'illegalità in tale ambito mediante l’introduzione, mediante l’art. 29, di una serie di misure tra cui figura, per quanto qui interessa, l'istituzione di una peculiare fattispecie di “agente sotto copertura” (5). oggetto della presente trattazione sarà quest’ultimo punto della riforma, realizzando un confronto con quell’ipotesi speciale di operazione coperta già disposta dall’ormai abrogato D.L. 2 marzo 2012, n. 16 (6), e rispetto alla quale la riforma in commento si pone in piena continuità, ideale e materiale. Quest’ultimo provvedimento già prevedeva infatti alcune prescrizioni volte a potenziare l’attività di controllo amministrativo mediante il ricorso ad agenti sotto mentite spoglie ed al compimento di operazioni di gioco simulate. Lo strumento de quo merita una speciale considerazione soprattutto a livello di garanzie difensive penali. Ciò non solo in quanto, tramite la riforma, il legislatore è tornato ad inserire, nella legislazione speciale in materia di giochi ed al di fuori del c.d. “statuto” delle operazioni mascherate, di cui all’art. 9 della legge n. 146 del 2006 (7), una nuova figura di agente sotto copertura (8), realizzando così una “incomprensibile inversione di marcia” rispetto alla “codificazione” delle diverse fattispecie legittime di operazioni undercover (9); ma, soprattutto, perché una simile opzione normativa rischia di risultare gravida di censurabili ricadute nel rapporto tra accertamento amministrativo ed eventuale indagine penale, instaurata a seguito di riscontrate violazioni della legge in materia di giochi e scommesse. 2. L’agente sotto copertura in materia di giochi. nella normativa di nuovo conio, entrata in vigore il 25 dicembre 2019, il primo comma dell'articolo articolo 29 autorizza l’istituzione di un fondo, dell’ammontare annuo non superiore a 100.000 euro, al fine di finanziare il compimento di operazioni di gioco “a fini di controllo” (10). Il soggetto pubblico a ciò abilitato è A.D.M., ossia l'Agenzia delle dogane e dei monopoli, la quale (5) Artt. da 24 a 31, D.L. 26 ottobre 2019, n. 124 (G.U. 26 ottobre 2019, n. 252). La denominazione di “agente sotto copertura” per lo strumento in questione viene impiegata espressamente dalla Scheda di lettura. Cfr. Dipartimento Finanze, Dossier 9 dicembre 2019, p. 121, https://documenti.camera.it/Leg18/Dossier/Pdf/D19124c.Pdf. (6) Art. 10 comma 1, decreto legge n. 16 del 2012, convertito con modifiche in legge 26 aprile2012, n. 44 (“Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento”). (7) Art. 9, legge n. 146 del 2006. Cfr. A. CIStERnA, attività sotto copertura: arriva lo statuto, in Guida al diritto, 2006, n. 17, p. 78. Per un approfondimento generale sull’istituto delle operazioni sotto copertura nell’ordinamento italiano, sia consentito rinviare a A. FALConE, L’agente sotto copertura: profili sostanziali e processuali, Roma, 2014. (8) G. AMARELLI, Le operazioni sotto copertura, in La legislazione penale in materia di criminalità organizzata, misure di prevenzione ed armi, a cura di V. MAIELLo, torino, 2015, 170. (9) ibidem. (10) Art. 29 comma 1, decreto legge n. 124 del 2019, convertito con modifiche in legge 19 dicembre 2019, n. 157. a tal fine dovrà impiegare risorse proprie. L’obiettivo perseguito, nelle parole del legislatore, è quindi quello di “prevenire il gioco da parte dei minori ed impedire l'esercizio abusivo del gioco con vincita in denaro, contrastare l'evasione fiscale e l'uso di pratiche illegali in elusione del monopolio pubblico del gioco” (11). Basandosi su questa provvista economica dunque, il personale dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli risulta ora autorizzato ad effettuare operazioni di gioco a distanza o presso locali in cui si effettuano scommesse, o presso i quali sono installati apparecchi di cui all'articolo 110, comma 6, lettere a) e b) t.U.L.P.S., ossia le c.d. A.W.P. e V.L.t., “al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine alle eventuali violazioni in materia di gioco pubblico, ivi comprese quelle relative al divieto di gioco dei minori” (12). tale facoltà viene peraltro estesa, ope legis, anche alla Polizia di Stato, all’Arma dei carabinieri e al Corpo della Guardia di finanza, ciascuno dei quali può attingere allo stesso fondo, previo concerto con le competenti strutture di A.D.M. Infine, per garantire il corretto impiego (e reimpiego) della riserva economica strumentale alle attività di controllo, il legislatore specifica che dovranno essere introdotte, mediante apposito provvedimento del Direttore dell'Agenzia (11) ibidem. (12) ibidem. Ai sensi dell’art. 110 t.U.L.P.S., comma 6, lett. a) e b), si considerano apparecchi idonei per il gioco lecito: “a) quelli che, dotati di attestato di conformità alle disposizioni vigenti rilasciato dal ministero dell’economia e delle finanze - amministrazione autonoma dei monopoli di Stato e obbligatoriamente collegati alla rete telematica di cui all'articolo 14-bis, comma 4, del decreto del Presidente della repubblica 26 ottobre 1972, n. 640, e successive modificazioni, si attivano con l'introduzione di moneta metallica ovvero con appositi strumenti di pagamento elettronico definiti con provvedimenti del ministero dell'economia e delle finanze - amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, insieme con l’elemento aleatorio sono presenti anche elementi di abilità, che consentono al giocatore la possibilità di scegliere, all’avvio o nel corso della partita, la propria strategia, selezionando appositamente le opzioni di gara ritenute più favorevoli tra quelle proposte dal gioco, il costo della partita non supera 1 euro, la durata minima della partita è di quattro secondi e che distribuiscono vincite in denaro, ciascuna comunque di valore non superiore a 100 euro, erogate dalla macchina. Le vincite, computate dall'apparecchio in modo non predeterminabile su un ciclo complessivo di non più di 140.000 partite, devono risultare non inferiori al 75 per cento delle somme giocate. in ogni caso tali apparecchi non possono riprodurre il gioco del poker o comunque le sue regole fondamentali; […] b) quelli, facenti parte della rete telematica di cui all'articolo 14-bis, comma 4, del decreto del Presidente della repubblica 26 ottobre 1972, n. 640, e successive modificazioni, che si attivano esclusivamente in presenza di un collegamento ad un sistema di elaborazione della rete stessa. Per tali apparecchi, con regolamento del ministro dell'economia e delle finanze di concerto con il ministro dell'interno, da adottare ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono definiti, tenendo conto delle specifiche condizioni di mercato: 1) il costo e le modalità di pagamento di ciascuna partita; 2) la percentuale minima della raccolta da destinare a vincite; 3) l'importo massimo e le modalità di riscossione delle vincite; 4) le specifiche di immodificabilità e di sicurezza, riferite anche al sistema di elaborazione a cui tali apparecchi sono connessi; 5) le soluzioni di responsabilizzazione del giocatore da adottare sugli apparecchi; 6) le tipologie e le caratteristiche degli esercizi pubblici e degli altri punti autorizzati alla raccolta di giochi nei quali possono essere installati gli apparecchi di cui alla presente lettera”. delle dogane e dei monopoli, disposizioni attuative e contabili disciplinanti l'utilizzo del fondo, con l’ulteriore specificazione che le eventuali vincite conseguite dai pubblici ufficiali nell'esercizio delle operazioni simulate debbano necessariamente confluire nel medesimo (13). tale disciplina racchiude l’intero corpo normativo di questo specialissimo genus di agente sotto copertura, tanto più che il successivo comma 2 prevede l’abrogazione dell'articolo 10 comma 1, D.L. n. 16 del 2012 (14), convertito con modifiche, il quale ha rappresentato l’antesignano delle azioni mimetizzate contro il gioco illecito, nonché, come si vedrà, la matrice stessa dell’impianto normativo in commento. occorre a questo punto riprendere brevemente il suo dettato per operare il confronto, e comprendere, per questa via, i profili di novità e i punti critici del nuovo art. 29 comma 1 del D.L. fiscale. 3. il precedente di cui al D.L. n. 16 del 2012. Secondo quanto disponeva l’abrogato art. 10, comma 1 (15), l’autorità competente (al tempo l’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato A.A.M.S.) veniva autorizzata a costituire, sempre avvalendosi di risorse proprie e per adempiere i propri compiti di controllo, il fondo destinato alle operazioni di gioco mimetizzate (16). La prescrizione proseguiva stabilendo che il personale dell’Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato veniva legittimato ad effettuare le suddette operazioni nei medesimi luoghi dove si svolgono attività di intrattenimento, poi trasposti nell’art. 29 (17), e per le medesime finalità (18). La disciplina terminava riportando la specificazione secondo cui, al fine di svolgere le medesime fittizie azioni ludiche, la previsione di cui al comma 1 si sarebbe applicata anche alle stesse strutture di Polizia poi trasposte nel comma 1 dell’art. 29 (19). Il comma 1 non si chiudeva tuttavia prima di aver proposto un ultimo, significativo inciso, specificando che le modalità esecutive delle operazioni simulate avrebbero dovute essere disciplinate tramite regolamento, da emanarsi ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro dell’Economia (13) ibidem. (14) ibidem. (15) Art. 10 comma 1, decreto legge n. 16 del 2012, convertito con modifiche in legge 26 aprile2012, n. 44. (16) Sempre di importo non superiore a centomila euro annui. (17) ossia “presso locali in cui si effettuano scommesse o sono installati apparecchi di cui all’articolo 110, comma 6, lettera a) o b), del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773”. (18) ossia “al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine alle eventuali violazioni in materiadi gioco pubblico, ivi comprese quelle relative al divieto di gioco dei minori”. (19) ossia Polizia di Stato, Arma dei carabinieri e Corpo della guardia di finanza, i quali, ai finidell’utilizzo del fondo, agivano previo concerto con le competenti strutture di A.A.M.S. e delle Finanze, di concerto con i Ministri dell’Interno, della Giustizia e della Difesa, e nel rispetto, in quanto compatibili, dell’art. 51 c.p. e dell’art. 9 della legge n. 146/2006 (20). Diverse critiche vennero mosse dai primi osservatori di questo intervento. In particolare, tre appaiono i profili rilevanti ai fini di un confronto diacronico: gli ambiti di applicazione, rispettivamente, soggettivo, oggettivo, e teleologico. Per quanto riguarda il primo aspetto, va innanzi tutto premesso che le prescrizioni in questione venivano già al tempo evidenziate come un vulnus all’obiettivo di determinatezza che il legislatore aveva inteso perseguire tramite l’introduzione dello statuto delle operazioni coperte (21), il cui fine precipuo era stato, appunto, quello di realizzare una reductio ad unum delle diverse figure di agente sotto copertura, prima isolatamente previste nella legislazione speciale (22). Da una parte, infatti, si era rilevato come la normativa in materia di giochi esplicasse i suoi effetti in maniera settoriale, cosicché il legislatore, ancorché in maniera involontaria, aveva finito per ritagliare a favore della nuova creatura investigativa un sistema normativo ad hoc, pur non essendo stata la stessa pensata per una platea di destinatari diversa da quella di cui alla norma base (23) - come al contrario avveniva (ed avviene tuttora) per le operazioni speciali dei Servizi di informazione per la Sicurezza della Repubblica (24). D’altra parte, sul piano oggettivo, si erano osservate alcune patenti disfunzionalità tecniche nella disposizione ex art. 10 D.L. 16/2012, in quanto, innanzi tutto, quest’ultima limitava le attività consentite al personale sotto copertura, circoscrivendole alle sole “operazioni di gioco”, e, per di più, da svolgersi solo “nei locali”; dunque, dovendosi seguire il canone interpretativo ubi lex voluit, dixit, ubi lex noluit, tacuit, la disposizione avrebbe platealmente lasciato l’intero universo degli illeciti relativi al gioco online fuori dal raggio d’azione del controllo undercover (25). Discutibile infine sembrava pure il (20) Art. 10 comma 1, ultima parte di frase, decreto legge n. 16 del 2012, convertito con modifichein legge 26 aprile 2012, n. 44. (21) M. AREnA, Le operazioni sotto copertura dei funzionari dei monopoli di Stato, in i reati Societari, 27 giugno 2012, http://www.reatisocietari.it/index.php/notizie/607-le-operazioni-sottocopertura-dei-funzionari-dei-monopoli-di-stato (ultimo accesso: 18 dicembre 2019). (22) Cfr. C. DE MAGLIE, L’agente provocatore. un’indagine dommatica e politico-criminale, Milano, 1991, p. 392, che qualificava quest’ultima come una normazione “a macchie di leopardo”. (23) G. AMARELLI, Le operazioni sotto copertura, cit., 171. I quali sono, ieri come oggi, gli ufficiali di polizia giudiziaria della Polizia di Stato, dell'Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza, appartenenti alle strutture specializzate o alla Direzione investigativa antimafia. L’autore, a proposito di tale opzione normative, parla di deroga “discutibile”. (24) ibidem. Senza pretesa di esaustività, per un approfondimento su questa tipologia di operazioni sotto copertura si rinvia in generale a C. MoSCA, Le garanzie funzionali, in i servizi di informazione e il segreto di Stato (Legge 3 agosto 2007, n. 124), a cura di C. MoSCA - G. SCAnDonE - S. GAMBACURtA - M. VALEntInI, Milano, 2008, pp. 193 ss. rinvio ad un regolamento, che avrebbe dovuto disciplinare le modalità delle operazioni di gioco simulate. Si era infatti notato come non apparisse congruo rinviare a normazione secondaria per disciplinare modalità di indagine così intrusive, limitandosi ad un generico richiamo all’art. 51 c.p. e all’art. 9 legge 146/2006. Secondo tale linea interpretativa avrebbe invece dovuto lo stesso art. 10 contenere l’esplicita previsione della scriminante, iniziando il dettato con un testuale rinvio agli artt. 51 c.p. e 9 L. n. 146/2006 (26). Dato questo incerto spettro lasciato all’attività sotto copertura del pubblico ufficiale, il dibattito sul piano teleologico si concentrò sulla possibilità di ricondurre a razionalità la materia, saggiando la direzione finalistica della nuova tecnica d’accertamento, ossia quel fine di “acquisire elementi di prova” in ordine alle violazioni, eventuali, della disciplina del gioco pubblico, comprese quelle inerenti il gioco minorile. In tale ottica, la dottrina arrivò a criticare la tecnica normativa impiegata, in quanto elusiva di quella stretta finalizzazione, volta all’accertamento di reati connotati da particolare gravità, che caratterizzava invece (e continua a caratterizzare tuttora) la legge n. 146/2006 (27). La laconica formula utilizzata dal nomoteta si basava infatti su di un unico termine onnicomprensivo, in presenza del quale, sarebbero stati da ritenere inevitabilmente ricompresi sia illeciti penali, sia illeciti di carattere amministrativo, quali quelli di cui all’art. 110 del t.U. di riferimento (28). Parimenti, venne rigetta persino la possibilità di includere tra le “violazioni in materia di gioco pubblico” quei delitti già esplicitamente investigabili tramite azioni coperte ai sensi dell’art. 9 L. n. 146/2006. La domanda era stata posta con particolare riferimento ai reati in materia di riciclaggio (29). Secondo l’opinione prevalente, tale ipotesi era infatti da ritenersi preclusa, e per due ragioni. in primis, lo statuto delle operazioni sotto copertura si riferiva sì ai delitti di riciclaggio e di reimpiego, ma solo per le operazioni mascherate della polizia giudiziaria, così come indicato dall’art. 9 comma 1 L. n. 146/2006. Inoltre, A.A.M.S. non era Autorità di vigilanza di settore secondo quanto pre- (25) M. AREnA, Le operazioni sotto copertura dei funzionari dei monopoli di Stato, cit. (26) M. AREnA - M. PRESILLA, Giochi, scommesse e normativa antiriciclaggio, 2a ed., Bologna, 2017, p. 41. (27) ibidem. Segnatamente, questa tecnica di accertamento penale è impiegabile con riferimento alle fattispecie di cui agli articoli 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353, 353-bis, 452-quaterdecies, 453, 454, 455, 460, 461, 473, 474, 629, 630, 644, 648-bis e 648-ter, nonché alle fattispecie di cui al libro II, titolo XII, capo III, sezione I, del codice penale, ai delitti concernenti armi, munizioni, esplosivi, ai delitti previsti dall'articolo 12, commi 1, 3, 3-bis e 3-ter, del t.U. delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, nonché ai delitti previsti dal t.U. delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, e dall'articolo 3 della legge 20 febbraio 1958, n. 75. (28) ibidem. (29) M. AREnA, Le operazioni sotto copertura dei funzionari dei monopoli di Stato, cit. visto dalla normativa antiriciclaggio e, dunque, secondo tale linea interpretativa, sarebbe risultato “ampiamente contraddittorio consentirle operazioni sotto copertura a tali fini” (30). Queste osservazioni avevano portato i primi osservatori a concludere che la normativa in questione fosse risultata mancante di quella determinatezza che, in materia di azioni sotto copertura, avrebbe dovuto circoscrivere l’ambito della pretesa punitiva statuale mediante l’esclusione della punibilità (31), ed arrivando conseguentemente per questa via a prefigurare una violazione dell’art. 25 della Costituzione (32). 4. Gioco e criminalità organizzata. Un’ultima notazione va però fatta, con riferimento all’utilizzo di tecniche undercover nel contrasto agli illeciti legati al gioco, in questa prospettiva diacronica. Il settore del gaming non si presentava ieri, né si presenta oggi, come intrinsecamente inadatto all’utilizzo di tali mezzi di indagine, tanto più che, già nel vigore della precedente disciplina, numerose erano le voci di operatori del diritto che si erano levate in favore dell’estensione della disciplina di cui alla L. n. 146 del 2006 al contrasto delle “azzardomafie” - non ultima quella dello stesso Procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo, Federico Cafiero De Raho (33). Il gioco illecito si presenta infatti come un “fenomeno plurioffensivo”, in quanto aggredisce gli interessi finanziari pubblici, gli interessi di settore e quelli dell’intero sistema economico, nonché la pubblica sicurezza, realizzando ciò mediante il drenaggio di risorse, l’alterazione della libertà di concorrenza nel mercato, l’evasione tributaria e l’accumulo di capitali illegali (34). Senza pretesa di esaustività, appare significativo in quest’ottica che la Commissione parlamentare antimafia abbia di recente dedicato un’apposita Relazione all’illustrazione del fenomeno sommerso dell’infiltrazione criminale - comune o di stampo mafioso - in settori quali il mercato del gioco e delle scommesse, nonché nella gestione delle slot machines e delle scommesse sportive on line (che talvolta intersecano anche situazioni di match fixing in ambito sportivo) (35). All’esito di questa articolata inchiesta conoscitiva, emergeva (30) ibidem. (31) ibidem. (32) G. AMARELLI, Le operazioni sotto copertura, cit., p. 171. (33) A.M. MIRA, azzardo. il procuratore antimafia: agenti sotto copertura nelle sale slot, in avvenire, 22 aprile 2018, https://www.avvenire.it/attualita/pagine/agenti-sotto-copertura-nelle-sale-slot (ultimo accesso: 20 dicembre 2019). (34) V. DI SABAtIno, il coinvolgimento della criminalità nel mercato dell’alea, in rivista di Polizia, 2017, nn. 7-8, pp. 769-770. L’Autore cita le valutazioni fornite dalla Guardia di Finanza operate nella Relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, sui profili del riciclaggio connessi al gioco lecito e illecito (Relatore: sen. Luigi Li Gotti), trasmessa il 18 novembre 2010, Doc. XXIII, n. 3. come diverse consorterie mafiose risultassero aver ormai sviluppato una notevole penetrazione nei circuiti del gioco, sia lecito che illecito, delineando peraltro le principali strategie di infiltrazione adoperate in questo mercato (36). Queste comprenderebbero non solo la classica attività estorsiva, svolta ai danni delle società concessionarie e delle sale da gioco, ma anche attività più sottili, quali l’imposizione di apparecchi agli esercizi pubblici attivi nei territori assoggettati al controllo dei clan, la gestione occulta di società, punti scommessa e sale da gioco, esercitata mediante l’intestazione a prestanome o attraverso la compartecipazione di società già concessionarie di A.D.M., nonché la raccolta e la gestione su piattaforme illegali di scommesse, attuata mediante la gestione di siti internet dislocati all’estero - privi di concessione in Italia, ma che permettono il gioco, in elusione della disciplina nazionale (37). non va poi dimenticata la ormai frequente manomissione diretta degli apparecchi da gioco, finalizzata ad interrompere il collegamento della macchina con la rete telematica della concessionaria, che permette al sodalizio di far propri sia il prelievo erariale unico (PREU, la percentuale dovuta al fisco sul giocato), sia l’aggio del concessionario (38). Si tratta, a tutta evidenza, di strategie ormai raffinate quanto diffuse, che consentono alle consorterie criminali e mafiose di fruire di ingenti guadagni, riciclare denaro sporco nonché di agevolare il proprio controllo del territorio, facilitati in ciò dalla relativamente bassa capacità d’accertamento amministrativo e penale degli illeciti da parte degli organi istituzionali, nonché dall’estremo contenimento dei poteri sanzionatori e dei limiti edittali delle contravvenzioni previste (39). Un’espansione, quella criminale nel settore del gioco, che risulta ancor più difficile da accertare e reprimere quando si passa dal piano dei divertimenti “classici”, come prima si anticipava, al fronte del c.d. online gambling. Illu- (35) Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazionicriminali, anche straniere, Doc. XXIII, n. 18, Relazione sulle infiltrazioni criminali e mafiose nel gioco lecito e illecito (Relatore: sen. Stefano Vaccari), approvata dalla commissione nella seduta del 6 luglio 2016, p. 8. Circa il rapporto fra scommesse e manipolazione delle competizioni, si veda anche R. CHIEPPA, Scommesse sportive e rischio di manipolazione delle competizioni sportive, in rivista di diritto sportivo, 2017, n. 2, pp. 271 ss. (36) Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazionicriminali, anche straniere, cit., p. 21. (37) ivi, pp. 21-22. (38) D. DE MARtIno, Le infiltrazioni nel gioco d’azzardo, in Enciclopedia delle mafie, vol. III Strumenti e istituzioni per la lotta alle mafie, a cura di F. IADELUCA, Roma, 2016, pp. 158-159. L’Autore sottolinea poi come il profitto illecito può venire addirittura aumentato fino a coincidere con l’intero importo delle giocate effettuate, grazie all’alterazione dello stesso software della macchinetta, finalizzato a diminuire le chances di vittoria del giocatore. Cfr. anche R. RAzzAntE, i giochi della criminalità organizzata, in Gnosis, 2012, n. 4, p. 60. (39) Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazionicriminali, anche straniere, cit., p. 30. Cfr. anche D. DE MARtIno, Le infiltrazioni nel gioco d’azzardo, cit., p. 161. minante circa questo connubio fra gioco remoto e delinquenza organizzata appare una recente ordinanza del Giudice per le indagini preliminari di Catania, la quale è arrivata a riconoscere l’integrazione degli estremi del delitto ex art. 416 c.p. nei confronti di un’organizzazione dedita all’uso di “artifizi e raggiri” esplicantesi nel progettare ed impiegare siti web “.com”, riconducibili a società straniere, prive dell’autorizzazione all’attività di raccolta delle scommesse e diffusi (attraverso intermediari) anche all’interno di agenzie italiane che, parallelamente, impiegano siti dotati di autorizzazione alla raccolta delle scommesse, (con estensione “.it”), “in modo da ostacolare la individuazione dei siti illeciti, stante la sovrapponibilità del sistema legale a quello illegale” (40). Il tutto con l’ulteriore finalità, sempre secondo il provvedimento catanese, “di consentire l’organizzazione del gioco e delle scommesse “da banco” per ingenti importi accettando, cioè, direttamente, la conclusione del relativo rapporto contrattuale con la raccolta della posta giocata dal cliente (o la sua promessa) ed il pagamento della eventuale relativa vincita in elusione della normativa di settore, di quella fiscale e di quella anti-riciclaggio” (41). Ma v’è di più. Il settore stesso dei giochi regolamentati sembrerebbe in grado di costituire ex se un’area grigia, in cui economia lecita e sommerso tendono ad incontrarsi e a confondersi. Come indicato da alcuni osservatori, è infatti lo stesso ampliamento del gioco d’azzardo legale a fare da apripista a quello illegale, con conseguente rafforzamento di quest’ultimo circuito (42). Difatti, l’ampliamento e la diversificazione dell’offerta di forme regolamentate di gioco, naturalmente volto a sottrarre spazi di mercato all’economia sommersa ed ai suoi operatori, finisce, inevitabilmente, per ingrossare la schiera dei giocatori, aumentando parimenti il rischio che essi vengano di conseguenza attratti verso divertimenti illegali, apparentemente più appetibili (43). Quale ulteriore esito perverso, questo trend - dalla proibizione alla regolamentazione - produce di risulta anche un effetto moltiplicativo rispetto alla proliferazione (40) in tema di associazione per delinquere operante nel settore del gioco d’azzardo e delle scommesse: un’interessante ordinanza del GiP di Catania, in Giurisprudenza Penale Web, 27 gennaio 2020, http://www.giurisprudenzapenale.com/2020/01/27/in-tema-di-associazione-per-delinquere-operante-nelsettore-del-gioco-dazzardo-e-delle-scommesse-uninteressante-ordinanza-del-gip-di-catania/. Cfr. tribunale di Catania, Giudice per le Indagini Preliminari, ordinanza 17 novembre 2018. (41) ibidem. (42) Consulta nazionale Antiusura Giovanni Paolo II onlus, il gioco d’azzardo e le sue conseguenze sulla società italiana. La presenza della criminalità nel mercato dell’alea, a cura di M. FIASCo, giugno 2014, p. 11, file:///C:/Users/Utente/Downloads/RICERCA%202014%20completa%20(1).pdf. Come sottolinea l’Autore, “l’aspetto paradossale, e perciò controintuitivo, è il dato oggettivo che all’espansione del mercato del gioco d’azzardo legale corrisponde, in modo proporzionale, quella del gioco illegale. in altri termini, i due mercati (legale versus illegale) non si separano e non entrano in concorrenza, ma si potenziano reciprocamente”. (43) Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazionicriminali, anche straniere, Doc. XXIII, n. 18, Relazione sulle infiltrazioni criminali e mafiose nel gioco lecito e illecito, cit., pp. 21-22. di ulteriori attività illecite, strumentali o collaterali al gioco, quali l’usura e il riciclaggio (44), l’autoriciclaggio (45), le frodi informatiche (46), le estorsioni, i furti, l’impiego di documenti di identità falsificati, l’utilizzo indebito di carte di credito, piuttosto che la spendita di banconote false (47). non bisogna poi dimenticare come l’attività di gioco risulti in grado di assumere, per i suoi fruitori, anche una dimensione sanitaria e sociale, laddove sfoci in nel fenomeno patologico del Disturbo da Gioco d’Azzardo, altrimenti noto come “ludopatia” (48), il cui contrasto e prevenzione rientrano pienamente nei compiti di tutela propri delle pubbliche amministrazioni, in primis a livello locale (49). 5. agenti sotto copertura a finalità “mista”? Il quadro che si è cercato di restituire pone poi un’ulteriore problematica, che non può essere elusa se si vuole comprendere l’ambito applicativo di questa “nuova” species di agente sotto copertura. nel presente elaborato, si intende far riferimento all’accertamento condotto ai sensi dell’art. 29 quale attività a finalità “mista” (50), fisiologicamente in limine fra controllo di polizia amministrativa e atto d’indagine penale. Il tema non può dirsi alieno alla disciplina di questa ipotesi di agente sotto copertura, e per plurime ragioni. Da una parte, la sopra sottolineata commistione fra illeciti (amministrativi, tributari e penali) che si verifica nel settore dei giochi, che anche la cronaca investigativa non manca di segnalare (51); dall’altra, il cumulo delle funzioni di polizia ammi- (44) V. DI SABAtIno, il coinvolgimento della criminalità nel mercato dell’alea, cit., 782-795. (45) Cass. pen., sez. II, 7 marzo 2019, n. 13795. Cfr. anche R. RAzzAntE, riciclaggio nei giochi: attività speculative o finanziarie?, in notariato, 2019, n. 4, pp. 426 ss. Cfr. anche E. BASILE, autoriciclaggio e gioco d’azzardo: la speculazione al vaglio della Suprema Corte, in Diritto penale contemporaneo, 29 maggio 2019, https://www.penalecontemporaneo.it/d/6703-autoriciclaggio-e-gioco-d-azzardo-la-speculazione--al-vaglio-della-suprema-corte. (46) D. DE MARtIno, Le infiltrazioni nel gioco d’azzardo, cit., pp. 159. (47) V. Di SABAtIno, il coinvolgimento della criminalità nel mercato dell’alea, cit., pp. 782-795. (48) Ministero della Salute, Disturbo da Gioco d’azzardo (DGA), http://www.salute.gov.it/portale/salute/p1_5.jsp?lingua=italiano&id=60&area=Disturbi_psichici (ultimo accesso: 16 febbraio 2019). (49) A. SEnAtoRE, Lotta alla ludopatia e potere amministrativo, in urbanistica e appalti, 2015, n. 6, pp. 625 ss. Per uno studio del rapporto tra “ludopatia” e imputabilità in sede penale, si vedano A.R. RIzzA, oltre il gioco difficili interessi da contemperare: la ludopatia tra problemi di imputabilità e prevenzione dei reati, in rivista di Polizia, 2017, n. 7-8, pp. 801-832; M. DI FLoRIo, imputabilità e neuroscienze: brevi considerazioni con particolare riferimento alla ludopatia in Diritto penale contemporaneo, 2019, n. 9, pp. 31-49, https://www.penalecontemporaneo.it/upload/1773diflorio2019a.pdf. (50) M. noBILI, atti di polizia amministrativa utilizzabili nel processo penale e diritto di difesa: una pronunzia marcatamente innovativa, in Foro italiano, 1984, I, c. 376. (51) A titolo esemplificativo, si veda la nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza 2019, Allegato “Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva anno 2019”, p. 166, http://www.dt.mef.gov.it/modules/documenti_it/analisi_progammazione/documenti_programmatici/def_2019/Allegato_nADEF_2019_Relazione_evasione_fiscale_e_contributiva.p df; cfr. anche adm, controlli a tappeto per la repressione del gioco illegale in Toscana: sequestri e raffica di illeciti di natura tributaria, amministrativa e penale, in Jamma.it, 18 luglio 2019, nistrativa, di sicurezza e giudiziaria in capo a taluni degli organi abilitati a condurre i controlli sotto mentite spoglie (Polizia di Stato, Carabinieri, G.d.F.). (52). La materia scandagliata dalle amministrazioni coinvolte si presenterebbe dunque intrinsecamente magmatica, foriera di mettere gli ispettori mascherati in condizione di compiere atti o di acquisire elementi tecnici, conoscitivi o dichiarativi suscettibili di assumere rilevanza in sede penale, così come di dover mutare il proprio ruolo e il modus agendi dinanzi a tali emergenze (53). Come noto, l’ordinamento affida all’art. 220 disp. att. c.p.p. (54) il compito di regolare la “progressione” dall’attività istruttoria amministrativa all’indagine penale (55). La previsione parla chiaro: l’insorgere di indizi d’un reato (56), il quale risulti integrato a livello quantomeno potenziale (57), impedisce alla polizia giudiziaria di attendere oltre nell’esercizio dei poteri e dei doveri relativi all’avvio delle indagini preliminari, suscitandosi perciò una divaricazione fra istruttoria amministrativa e indagine penale, che proseguono parallelamente per la “soddisfazione delle esigenze che fanno capo all’una o all’altra di esse” (58). ne discende, per quanto riguarda il versante investiga- https://www.jamma.tv/attualitasx/adm-controlli-a-tappeto-per-la-repressione-del-gioco-illegalesequestri-e-raffica-di-illeciti-di-natura-tributaria-amministrativa-e-penale-172779. (52) Sull’argomento, in generale, si vedano A. CHIAPPEttI, voce Polizia (dir. pubb.), in Enciclopedia del diritto, XXXIV, Milano, 1985, pp. 120 ss.; B. BRUno, voce Polizia giudiziaria, in Enciclopedia del diritto, XXXIV, Milano, 1985, pp. 158 ss. Si veda ad esempio, in materia di giochi, art. 38 legge n. 388 del 2000, commi 7-8. (53) non è questa la sede per approfondire il tema dei rapporti tra azione amministrativa e processopenale. Per un’ampia e completa trattazione sul punto, si rinvia a R. oRLAnDI, atti e informazioni della autorità amminsitrativa nel processo penale, Milano, 1992. (54) Il quale così recita: “Quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale sono compiuti con l'osservanza delle disposizioni del codice”. (55) R.E. KoStoRIS, Sub art. 220, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, a cura di E. AMoDIo - o. DoMInIonI, Appendice, Milano, 1990, p. 75. (56) Esula dagli scopi dell’elaborato un approfondimento su questo primo requisito. Basti qui ricordare che ad un primo orientamento, che ritiene che l’emersione degli “indizi” integri già gli estremi di una notitia criminis, se ne contrappone un altro, il quale equipara gli “indizi” al “sospetto di reato”, inidoneo dunque, in assenza di un’espressa previsione normativa (quale l’art. 220 disp. att. c.p.p.), ad attivare la serie procedimentale. Per la prima interpretazione si veda, ad esempio t. RAFARACI, reati tributari con soglia di punibilità e applicazione dell’art. 220 disp. att. c.p.p.: la Cassazione rimarca i diritti della difesa, in rivista della Guardia di Finanza, 2015, n. 3, p. 675; per la seconda, si veda R. APRAtI, La notizia di reato nella dinamica del procedimento penale, napoli, 2010, pp. 17-18. Per un analisi generale della notizia di reato nel processo penale, si rinvia ad A. zAPPULLA, La formazione della notizia di reato. Condizioni, poteri ed effetti, torino, 2012. (57) R. oRLAnDI, atti e informazioni della autorità amminsitrativa nel processo penale, cit., p. 156; n. FURIn, Diritto di difesa, indizi, sospetti e l’art. 220 norme att. c.p.p., in Cass. pen., 1999, n. 9, pp. 2716-2721. Un simile orientamento, marcatamente garantista, è stato poi seguito anche presso la giurisprudenza di legittimità, a partire da Sez. U., 28 novembre 2001, n. 45477. Cfr. da ultimo in Cass. pen., sez. III, 4 giugno 2019, n. 31223. (58) M. BontEMPELLI, L’accertamento amministrativo nel sistema processuale penale, Milano, 2009, pp. 125-126. tivo, l’obbligo di comunicazione della notitia criminis al pubblico ministero (eventualmente ex art. 331 c.p.p.), e, laddove gli organi procedenti siano investiti anche di funzioni di p.g., il compimento degli atti e delle attività ad iniziativa propria necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale (59). Parimenti, ne discende l’attivazione della sequela di garanzie difensive previste dal codice di rito (60). Giacché la norma mira ad impedire l’ingresso nel procedimento penale di elementi acquisiti sfruttando la natura anfibia dell’inchiesta, invero non sempre predeterminabile in relazione ai suoi risultati (61), l’inosservanza dell’art. 220 non ne ostacola l’utilizzabilità a fini amministrativi (62). Interviene piuttosto ingenerando in capo agli operatori coinvolti conseguenze sia sul piano penale - per omessa denuncia (361 c.p.) o per omissione o rifiuto di atti del proprio ufficio (328 c.p.) - sia, eventualmente, sul piano disciplinare (art. 16 disp. att. c.p.p.) (63). Soprattutto, pur non contemplando la norma in questione un’espressa exclusionary rule, permette di colpire il compendio probatorio così ottenuto tramite il rinvio sistematico alle rilevanti disposizioni codicistiche (64). In particolare, per quanto riguarda le dichiarazioni rese dall’“indagato” all’organo procedente, dovrà operare la sanzione processuale dell’inutilizzabilità (ex artt. 61, 62, 63 e 191 c.p.p.), impedendo che il procedimento venga alimentato o definito grazie all’apporto proditoriamente ottenuto dal soggetto sottoposto a scrutinio (65). nondimeno, la materia in commento si complica ulteriormente proprio a causa dal cumulo di funzioni in capo agli ispettori mascherati. Se l’attività di ricerca della notitia criminis rientra strutturalmente fra i compiti di polizia amministrativa, lo stesso non può dirsi per quelli di p.g. (66). Il pericolo che ne deriva è intuitivo: ossia che l’organo procedente non receda dalle indagini, quand’anche esse abbiano acquistato pregnanza criminale, “svolgendo (di fatto) una funzione giudiziaria secondo regole non giudiziarie” (67). tale modus operandi, in quanto preordinato alla più ampia utilizzabilità in dibat- (59) R.E. KoStoRIS, Sub art. 220, cit., p. 75. (60) ibidem. (61) ivi, p. 76. (62) P. SoRBELLo, La valutazione di sospetti, indizi e notizie di reato nel passaggio (incerto) dalle attività ispettive alle funzioni di polizia giudiziaria, in Diritto penale contemporaneo, 2016, n. 2, p. 132. (63) ibidem. (64) M. BontEMPELLI, L’accertamento amministrativo nel sistema processuale penale, cit., pp. 158-159. (65) Cfr. sul punto Cass. pen., sez. III, 2 ottobre 2014, n. 3207. Cfr. M. BontEMPELLI, L’accertamento amministrativo nel sistema processuale penale, cit., pp. 158-159, il quale sottolinea che, correlativamente, opera la sanzione della nullità per gli atti di atti di assicurazione delle fonti di prova non allineatisi alle norme che prescrivono l’assistenza e l’intervento dell’indagato. (66) R. APRAtI, La notizia di reato nella dinamica del procedimento penale, cit., p. 53. (67) M. RAMPIonI, Le c.d. indagini “anfibie”: linee di fondo sul controverso legame tra attività ispettive e processo penale, in Processo penale e giustizia, 2019, n. 1, p. 240. timento degli atti compiuti in sede d’inchiesta, e quindi comprensibilmente appetibile ai fini repressivi degli investigatori, sfocia nondimeno in una larvata elusione delle guarentigie difensive dell’accertato in sede di indagini preliminari - in primis del suo diritto al silenzio (68). Senza pretesa di esaurire l’argomento, si sottolinea al riguardo come gli atti amministrativi così compiuti potrebbero comunque venir veicolati nel fascicolo del dibattimento con riferimento al loro contenuto dichiarativo come prova documentale, mediante l’art. 234 c.p.p. (69). Al contempo, si evidenzia che, per giurisprudenza maggioritaria sul punto, non sembrano profilarsi ostacoli alla possibilità del soggetto procedente di deporre de relato sulle indagini effettuate, dato che “[n]on sussiste il divieto di testimonianza indiretta degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria di cui all'art. 195, comma 4, c.p.p., con riguardo alle dichiarazioni ricevute dal pubblico ufficiale durante l'inchiesta amministrativa dallo stesso effettuata anteriormente al procedimento penale, difettando in tal caso il necessario presupposto soggettivo della qualifica di agente od ufficiale di polizia giudiziaria” (70). Ma, soprattutto, il principio del nemo tenetur se detegere sembra messo a repentaglio soprattutto dalla eventuale “collaborazione” carpita dall’indagato, laddove l’agente sotto copertura arrivi a “provocare” le dichiarazioni a scopo probatorio, dando luogo a quei pericoli di aggiramento del right to silence già da tempo notati dalla dottrina processual-penalistica (71). È dunque sotto l’egida del precitato art. 220 disp. att. c.p.p. che, a sommesso avviso di chi scrive, si dovrebbe inscrivere l’attività dell’ispettore undercover. Mutuando le perplessità già avanzate da attenta dottrina in merito all’ambigua distinzione tra polizia giudiziaria ed amministrativa in sede di attività ispettive e di vigilanza, non si può sottacere il rischio che la doppia veste degli agenti sotto copertura impiegati tali accertamenti rischi di tradursi in un analogo aggiramento del diritto di difesa del soggetto de facto indagato, “privando il cittadino dell'unico mezzo mediante il quale egli può autogarantirsi nei confronti dello Stato durante l'espletamento di un procedimento che lo può portare all'incriminazione e al processo” (72). (68) ibidem. (69) A. PUGLIESE, atti di provenienza amminsitrativa e prova penale, in rassegna dell’avvocatura dello Stato, 2017, n. 1, p. 274. Cfr. anche Cass. pen., sez. V, 28 aprile 2016, n. 27898. Per un indirizzo interpretativo favorevole all’ampliamento della garanzia ex art. 63 c.p.p. alle dichiarazioni rese in sede di inchiesta amministrativa, si rinvia alle già citate Sez. U., 28 novembre 2001, n. 45477 e Cass. pen., sez. III, 2 ottobre 2014, n. 3207. (70) Cass. pen., sez. III, 17 luglio 2018, n. 52853. (71) M. BontEMPELLI, Testimonianza dell’agente provocatore e dichiarazioni dell’indagato, in Foro ambrosiano, 2012, 377-379. (72) n. FURIn, Polizia amministrativa e polizia giudiziaria: possono le pretese distinzioni tra queste funzioni limitare le garanzie difensive nell’ambito dell’attività ispettiva e di vigilanza amministrativa?, in Cass. pen., 1999, nn. 7-8, p. 2446. 6.1 il “nuovo” agente sotto copertura: la dimensione soggettiva. Una volta delineato un quadro d’insieme dei principali nodi sottesi alla cornice normativa in questione, si può provare ad abbozzare una prima valutazione della riforma sul punto in commento, sempre utilizzando come pietra di paragone il suo antecedente. Per quanto riguarda il dato soggettivo, il D.L. 124 del 2019 ripropone pedissequamente quanto già era stabilito dal D.L. 16 del 2012, ossia la legittimazione dell’impiego del fondo per operazioni di gioco da parte del personale di A.D.M. e della Polizia di Stato, nonché dell’Arma dei carabinieri e del Corpo della Guardia di finanza, previo concerto con l’amministrazione di settore. Il che induce a riproporre, senza soluzione di continuità, i dubbi già in precedenza evidenziati nel pregresso dibattito (73). oltre a compromettere la codificazione unitaria delle diverse figure di agente sotto copertura intrapreso dal nomoteta, la formulazione normativa attuale appare incerta per quanto riguarda l’individuazione delle strutture di polizia che, oltre all’A.D.M., possano svolgere simili ispezioni. Se la disciplina base delle operazioni undercover di cui all’art. 9 L. n. 146 del 2006 si richiama espressamente alle “strutture specializzate”, alla D.I.A. e agli organismi investigativi di Polizia di Stato e Arma dei carabinieri specializzati nell’attività di contrasto al terrorismo e all’eversione, nonché agli omologhi della Guardia di finanza (74), nulla di tutto ciò è dato rinvenire nell’art. 29 del D.L. in parola. Unico dato certo è che il richiamo alle tre forze di polizia effettuato dalla norma implica una sottrazione della possibilità di impiego di tale mezzo di contrasto da parte delle Polizie Locali, seppur dotate di organi di polizia amministrativa (75). È altresì vero, a tacer d’altro, che non viene riproposta, mediante il richiamo all’art. 9 Legge n. 146/2006, neppure l’estensione della disciplina ad “ausiliari” e “interposte persone” (76). Si tratta di un diminuzione di non poco conto rispetto alla disciplina base delle investigazioni sotto copertura, in quanto il ricorso ai privati, quali longa manus degli inquirenti, rappresenta ormai da tempo un utile vei- (73) Cfr. par. 3, note 21, 22, 23, 24. (74) Art. 9, legge n. 146 del 2006, comma 1 lett. a) e b). (75) L. ALtAMURA, Decreto fiscale: agenti sotto copertura per contrastare i giochi abusivi e il gioco minorile, 29 ottobre 2019, https://www.asaps.it/68253-_di_luigi_altamura*__decreto_fiscale__agenti_sotto_copertura_per_contrastare_i_g.html (ultimo accesso: 8 febbraio 2020). (76) Si fa qui riferimento ad: Art. 9 legge n. 146 del 2006, comma 1-bis: “La causa di giustificazione di cui al comma 1 si applica agli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria e agli ausiliari che operano sotto copertura quando le attività sono condotte in attuazione di operazioni autorizzate e documentate ai sensi del presente articolo. La disposizione di cui al precedente periodo si applica anche alle interposte persone che compiono gli atti di cui al comma 1”. Art. 9 legge n. 146 del 2006, comma 5: “Per l'esecuzione delle operazioni di cui ai commi 1 e 2, gli ufficiali di polizia giudiziaria possono avvalersi di agenti di polizia giudiziaria, di ausiliari e di interposte persone, ai quali si estende la causa di non punibilità prevista per i medesimi casi. […]”. colo di smascheramento dei circuiti illeciti (77). Un evidente scollamento che invero non potrebbe neppur venire recuperato in via interpretativa, stante l’espressa scelta del legislatore di abrogare l’inciso che, nel vigore della precedente normativa, demandava a regolamento interministeriale la disciplina del modus operandi, nel rispetto di quanto compatibilmente prescritto ex artt. 51 c.p. e 9 L. n. 146/2006. 6.2 (segue) La dimensione oggettiva. Proprio quest’ultima soluzione potrebbe rappresentare il punctum dolens per quanto concerne l’ambito oggettivo di applicazione dell’agente sotto copertura ex art. 29 D.L. 124/2019. Quest’ultima carenza viene infatti, seppur laconicamente, messa in luce dalla stessa nota di accompagnamento al D.L. fiscale, quando sottolinea come “la disposizione abrogata demandava a un regolamento emanato dal MEF, di concerto con i Ministri dell'interno, della giustizia e della difesa, la disciplina, nel rispetto di quanto disposto dagli articoli 51 del codice penale e 9 della legge n. 146 del 2006 […], in quanto compatibili, delle modalità dispositive sulla base delle quali il […] personale impegnato nelle attività sotto copertura poteva effettuare le operazioni […]” (78). Questa disposizione viene sostituita infatti dal mero richiamo ad un provvedimento del direttore dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, per di più regolante “le disposizioni attuative e contabili per l’utilizzo del fondo”, senza alcun accenno alla disciplina delle concrete modalità operative con cui condurre l’accertamento sotto copertura. Se invero appariva criticabile nel vigore del previgente regime il rinvio ad una fonte normativa secondaria (regolamento interministeriale), altrettante riserve potrebbero venir proposte nei confronti del nuovo regime, in quanto non recante alcun protocollo operativo in grado di trovare applicazione in sede penale. A sommesso avviso di chi scrive infatti, la proposizione di una disciplina, ope legis, delle modalità d’accertamento undercover avrebbe avuto il pregio di far salva non tanto l’applicazione dell’art. 51 c.p. in favore del personale procedente, invocabile comunque in via generale, quanto piuttosto l’applicazione, in quanto compatibile, delle ulteriori disposizioni di cui all’art. 9 L. n. 146 del 2006. La perplessità riguarderebbe soprattutto l’assente possibilità di avvalersi di quell’insieme di strumenti, ossia le identità e le indicazioni di copertura, l’omissione o il ritardo di atti d’ufficio, nonché la possibilità di compiere legittimamente “attività prodromiche e strumentali” a quelle in oggetto (nel nostro caso, prodromiche e strumentali alle operazioni di gioco a distanza o presso i locali) che, nella disciplina base delle operazioni sotto copertura, permettono agli inquirenti di (77) Per una distinzione tra le figure dell’“ausiliario e dell’“interposta persona”, si veda G. AMAto, acquisto simulato da parte dei “privati”, in Guida al diritto, 2006, n. 12, pp. 117-118. (78) Dipartimento Finanze, Dossier 9 dicembre 2019, cit., pp. 122-123. superare gli anelli terminali dei traffici illeciti investigati, al fine di risalire ai vertici degli stessi (79). né invero si potrebbe pensare che una fonte normativa di rango inferiore, quale è senz’altro il provvedimento del direttore di A.D.M., possa riproporre un’analoga formulazione, consentendo al personale procedente, specie se appartenenti a forze di polizia (anche giudiziaria), di derogare alla legge processuale penale mediante l’omissione degli atti d’ufficio o il compimento di ulteriori azioni proattive al difuori delle di quanto prescritto dall’art. 29 - ossia le “operazioni di gioco”. In particolare una critica può essere rivolta all’impossibilità dell’agente sotto copertura di poter legittimamente ritardare od omettere i suoi atti dovuti dinanzi alla manifestazione di un illecito penale - in deroga quindi al disposto di cui all’art. 220 disp. att. c.p.p. (80). La ragione di questi strumenti operativi passivi - collidenti con l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale ma allo stesso tempo coperti dal principio di buon andamento della P.A. (81) - risiede nella dato secondo cui una stretta applicazione dell’ordinaria disciplina procedurale potrebbe risultare controproducente per l’interesse alla repressione degli illeciti (penali), in quanto potenzialmente pregiudizievole del “buon esito” investigativo (82). Il rischio è naturalmente quello di fermare l’accertamento delle responsabilità penali all’illecito momentaneamente acquisito, senza dare la possibilità all’organo pubblico (a quel punto inquirente) di procedere oltre (83). Ed in effetti, dato il protocollo normativo prescelto dal legislatore per il nuovo agente sotto copertura, quest’ultimo in presenza di una notitia criminis si troverebbe inevitabilmente, in assenza di apposite deroghe ex lege, a dover disvelare la propria qualifica e ad interrompere l’accertamento mascherato, per permettere all’indagato di avvalersi delle opzioni difensive previste dal codice di rito (84). Il tutto, salvo che l’agente non limiti la sua attività investigativa a quella di una mera osservazione, controllo e contenimento (79) G. BARRoCU, Le indagini sotto copertura, napoli, 2011, pp. 82-84. (80) Si fa qui riferimento ad: Art. 9 legge n. 146 del 2006, comma 6: “Quando è necessario per acquisire rilevanti elementi probatori ovvero per l'individuazione o la cattura dei responsabili dei delitti […], possono omettere o ritardare gli atti di propria competenza, dandone immediato avviso, anche oralmente, al pubblico ministero, che può disporre diversamente, e trasmettendo allo stesso pubblico ministero motivato rapporto entro le successive quarantotto ore. […]”. Art. 9 legge n. 146 del 2006, comma 7: “Per gli stessi motivi di cui al comma 6, il pubblico ministero può, con decreto motivato, ritardare l'esecuzione dei provvedimenti che applicano una misura cautelare, del fermo dell'indiziato di delitto, dell'ordine di esecuzione di pene detentive o del sequestro. nei casi di urgenza, il ritardo dell'esecuzione dei predetti provvedimenti può essere disposto anche oralmente, ma il relativo decreto deve essere emesso entro le successive quarantotto ore. il pubblico ministero impartisce alla polizia giudiziaria le disposizioni necessarie al controllo degli sviluppi dell'attività criminosa, comunicando i provvedimenti adottati all'autorità giudiziaria competente […]”. (81) G. BARRoCU, Le indagini sotto copertura, cit., 72. (82) I. CARADonnA, Le indagini sotto copertura in materia di droga, armi e riciclaggio, in Diritto&Diritti, novembre 2003, https://www.diritto.it/articoli/penale/caradonna.html. (83) ibidem. dell’altrui agire criminoso, condotta comunque pacificamente scriminata dalla giurisprudenza di legittimità (85). tuttavia, in relazione al piano oggettivo può anche essere spezzata una lancia in favore della riforma. L’estensione dell’ambito applicativo dell’agente sotto copertura al settore dell’online gambling appare infatti in grado di colmare una delle più vistose lacune riscontrate nella previgente normativa. Il legislatore attuale pare esser intervenuto proprio in soccorso di tale mancanza, laddove nella relazione illustrativa di accompagnamento al D.L. fiscale, con riferimento all’introduzione dell’agente sotto copertura in subiecta materia, evidenzia come “in base ai risultati delle indagini svolte dalla magistratura e dalle forze di polizia, è stato appurato che molte violazioni avvengono usando procedure e accorgimenti tecnici molto difficili da accertare. L'impiego di agenti sotto copertura potrebbe pertanto facilitare l'accertamento degli illeciti” (86). Ed invero i primissimi commenti alla riforma, considerando questo un punto qualificante dell’intervento normativo, hanno ampiamente evidenziato i contesti in cui l’agente undercover potrebbe dimostrarsi maggiormente in grado di coadiuvare lo sforzo accertativo (87). Il riferimento è proprio al disvelamento di quelle strategie d’azione criminale già segnalate dalla Commissione Antimafia come principali vettori d’infiltrazione nel mercato dei giochi, ed in particolar modo al contrasto della diffusione di apparecchi, illegali o “convertiti”, presso i pubblici esercizi, nonché del flusso di scommesse clandestine realizzato mediante collegamento di esercenti nazionali con bookmakers esteri privi di concessione (88). Questa peculiare tecnica d’inchiesta si inscriverebbe inoltre in una più complessiva architettura repressiva formulata dallo stesso D.L. n. 124 del 2019 nei confronti dei c.d. evasori digitali, in quanto, si è sottolineato, “potrà essere utilizzata anche per appurare i reali soggetti titolari di piattaforme di gioco che offrono illecitamente scommesse o altri giochi on line in Italia”, riuscendo pertanto ad operare in combinato di- (84) M. BontEMPELLI, L’accertamento amministrativo nel sistema processuale penale, cit., p. 162. mutatis mutandis, l’Autore rimarca che “senz’altro illegittimo risulterebbe il posticipato esercizio del potere-dovere di trasmettere al pubblico ministero la notizia di reato, in assenza di apposite deroghe normative”. (85) Cfr., ex multis, Cass. pen., sez. IV, 21 settembre 2016, n. 47056, secondo cui “in tema di “agente provocatore”, la scriminante dell'adempimento del dovere trova applicazione esclusivamente nel caso in cui la sua condotta non si inserisca con rilevanza causale nell'“iter criminis”, ma intervenga in modo indiretto e marginale concretizzandosi prevalentemente in un'attività di osservazione, di controllo e di contenimento delle azioni illecite altrui”. Sulla stessa linea, si veda anche Cass. pen, sez. VI, 6 luglio 1990, n. 1119; Cass. pen., sez. VI, 30 aprile 1988, n. 178239; Cass. pen., sez. VI, 29 settembre 1987, n. 2890; Cass. pen., sez. I, 1 marzo 1969, n. 311. (86) ivi, p. 123. (87) M. CARBonE - P. BIAnCHI - V. VALLEFUoCo, Le nuove regole antiricilaggio, Assago (MI), 2019, p. 584. (88) ibidem. L’Autore sottolinea infatti come “[v]iolazioni di questo tipo possono essere meglio accertate mediante la possibilità di effettuare giocate celando la propria identità”. sposto con l’art. 28 del medesimo decreto fiscale, il quale prevede il blocco dei pagamenti a soggetti senza concessione (89). 6.3 (segue) La dimensione teleologica. Sul piano finalistico, esula dalla presente trattazione un approfondimento della normativa e della giurisprudenza italiana in materia di giochi, sia per quanto riguarda il versante amministrativo che quello penale, per i quali non si può che rinviare a più approfondite disamine (90). occorre invece mettere in luce verso quali illeciti dovrebbe “acquisire elementi di prova” il “nuovo” agente sotto copertura. Il legislatore, oggi come ieri, non indica un numerus clausus, lasciando aperta la porta a quell’indeterminatezza lamentata dai primi osservatori (91). ora, il regime giuridico dei giochi e delle scommesse conosce, come noto, una tripartizione fondamentale, basata sul diverso grado di tutela apprestata dall’ordinamento, e conseguentemente scandita in giochi “vietati”, “permessi” e “consentiti” (92). tra le “violazioni in materia di gioco pubblico, ivi comprese quelle relative al divieto di gioco dei minori” indicate dall’art. 29, in mancanza di ulteriore specificazione, sembrano esser ricompresi senz’altro i primi, i quali includono i giochi d’azzardo (artt. 718 c.p. e seguenti) e i giochi proibiti dall’autorità (ex artt. 723 c.p. e 110 t.U.L.P.S.) (93). Altrettanto dovrebbe ritenersi per quelle ulteriori disposizioni che sanzionano penalmente l’esercizio abusivo dell’attività di gioco e scommessa e del gioco d’azzardo svolto attraverso apparecchi vietati ai sensi dell’art. 110 t.U.L.P.S. (art. 4 L. n. 401/1989, eventualmente anche art. 9-bis D.Lgs. 285/1992), non- (89) ivi, p. 585. La norma “introduce il divieto, per gli operatori bancari, per i soggetti emittenti carte di credito e per gli operatori finanziari e postali, di procedere alle operazioni di trasferimento di denaro a favore di soggetti che raccolgono gioco in Italia, attraverso reti telematiche o di telecomunicazione, in mancanza di concessione o, comunque, di qualsiasi altro titolo abilitativo richiesto all’esercizio di tale attività”. La sanzione amministrativa pecuniaria prevista dalla norma a carico degli operatori finanziari in caso di violazione dell’obbligo di trasferimento di denaro varia da trecentomila a un milione e trecentomila euro, per ogni singola violazione accertata. (90) Sul piano amministrativo, si veda in generale C. BEnELLI,- E. VEDoVA, Giochi e scommesse tra diritto comunitario e diritto amminsitrativo nazionale, Milano, 2008. Per quanto riguarda la disciplina penalistica, si vedano S. BELtRAnI, La disciplina penale dei giochi e delle scommesse, Milano, 1999, pp. 3 ss; M.A. MAnno, Giochi, scommesse e responsabilità penale, Milano, 2008, pp. 117 ss. (91) Cfr. par. 3 nota 27. (92) F. DI CRIStInA, il contrasto all’illegalità e le sanzioni, in Le regole dei giochi. La disciplina pubblicistica dei giochi e delle scommesse in italia, a cura di A. BAttAGLIA- B.G. MAttARELLA, napoli, 2014, p. 314. Cfr. anche S. CASSESE, il regime giuridico del gioco e la sentenza Gambelli, Relazione alla tavola rotonda “i nuovi orientamenti dell’uE in materia di gioco pubblico: il principio della riserva di legge da parte dello Stato e i riflessi sul libero mercato”, organizzata dalla Scuola Superiore dell’economia e delle finanze - Ministero dell’economia e delle finanze, Roma, 10 maggio 2004, Forum della pubblica amministrazione, p. 2; G. PIoLEttI, voce Giuochi vietati, in Enciclopedia del diritto, XIX, Milano, 1970, p. 69. (93) M.G. PULVIREntI, Pubblici esercizi, in Le autorizzazioni di polizia, a cura di S. LICCIARDELLo, Milano, 2013, p. 142. ché le altre violazioni assistite dalla clausola residuale ex art. 17 t.U.L.P.S (ad esempio la mancata esposizione della tabella recante l’indicazione dei giochi proibiti) (94). né sembrerebbero risultare esclusi quegli illeciti di carattere prettamente amministrativo, tra i quali dovrebbero rientrare (quantomeno) quelli previsti dagli artt. 9, 17-bis, -ter e -quater, dai commi 9, 10 e 11 dell’art. 110 del regio decreto, dalle violazioni degli artt. 86 e 88 t.U.L.P.S., nonché ex D.L. 98/2011 in materia di partecipazione di minori, così come le infrazioni delle disposizioni regionali e locali in materia di distanze da luoghi “sensibili” (95) e sull’imposizione di limiti orari per l’esercizio di sale giochi e degli apparecchi per il gioco lecito (96). Effettivamente il legislatore pare essersi mosso nel senso di un potenziamento della repressione degli illeciti, specie di quelli tecnicamente più complessi, vista e considerata la difficoltà di eseguire controlli “sistematici” da parte della rete concessionaria (97). A titolo esemplificativo, già nel vigore della precedente disciplina infatti, era stato osservato come soccorreva ad una difficoltà d’accertamento proprio l’intervento degli operatori sotto copertura, che mettevano la P.A. in grado di “interrogare” il singolo apparecchio per appurare se la giocata, svolta seduta stante, veniva debitamente registrata (98). nondimeno, non mancano alcune perplessità. Alla luce delle precedenti considerazioni, e secondo il modesto avviso dello scrivente, rimane del tutto dubitabile che una tecnica di accertamento così proteiforme e carica di potenziali conseguenze sulla sorte processuale penale del soggetto-bersaglio venga lasciata unicamente nelle mani dell’Amministrazione che procede, e perciò affidata al rispetto della L. 241/1990 (99), senza quell’intercapedine di salvaguardia della legittimità dell’azione penale che, nella disciplina delle operazioni sotto copertura, è rappresentata dai costanti obblighi comunicativi esistenti tra polizia giudiziaria e pubblico ministero (100). Se è vero che le fi- (94) Cass. pen., sez. III, 14 novembre 2017, n. 6918. (95) Cons. St., sez. III, 27 luglio 2018, n. 4604. (96) Cons. St., sez. V, 1 agosto 2015, n. 3778. (97) V. Di SABAtIno, il coinvolgimento della criminalità nel mercato dell’alea, cit., pp. 773-774. (98) ibidem. (99) n. FURIn, Polizia amministrativa e polizia giudiziaria: possono le pretese distinzioni tra queste funzioni limitare le garanzie difensive nell’ambito dell’attività ispettiva e di vigilanza amministrativa?, cit., p. 2439, nota 6. Secondo l’Autore, “l’attività di ispezione e di vigilanza non può prescindere dalla comunicazione all’interessato dell’avvio del procedimento con l’indicazione del responsabile dello stesso; comunicazione questa da eseguirsi successivamente al compimento del primo atto di accertamento, in modo tale da non pregiudicare l’effetto sorpresa […] pena la sua illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 97, 24 e 3 Cost.”. (100) Si fa qui riferimento ad: Art. 9 legge n. 146 del 2006, comma 4: “L'organo che dispone l'esecuzione delle operazioni di cui ai commi 1 e 2 deve dare preventiva comunicazione all’autorità giudiziaria competente per le indagini. […]. Se necessario o se richiesto dal pubblico ministero […] è indicato il nominativo dell'ufficiale di polizia giudiziaria responsabile dell'operazione, nonché quelli degli eventuali ausiliari e interposte per- nalità dei due corpi normativi sono differenti, è altresì vero, come si è cercato di mettere in luce nel presente elaborato, che la possibilità di incrociare una notizia di reato, e dunque veder mutata la veste del pubblico ufficiale procedente in organo di giudiziaria, non rappresenta certo un evento remoto, né eccezionale. Come è stato correttamente evidenziato in dottrina, peraltro con precipuo riferimento alla disciplina delle operazioni sotto copertura, “[s]e si è dentro il procedimento penale, non possono che avere asilo le regole che informano le indagini preliminari ed i presidi garantistici che le illuminano” (101) Alla luce di questa considerazione, quella valvola di sicurezza che il legislatore aveva previsto con il, pur criticato, richiamo all’art. 51 c.p. e alla normativa ex art. 9 L. 146/2006 avrebbe forse meritato una riproposizione, permettendo di far salve quelle prescrizioni che, quantomeno in caso di indagine penale “mascherata”, avrebbero consentito di far rientrare l’accertamento mascherato dell’amministrazione sotto l’egida di quegli canali comunicativi che permettono al Pubblico ministero di assumere la direzione delle conseguenti indagini (art. 326 ss. c.p.p.) e di provvedere all’eventuale coordinamento investigativo (102). Se pur è vero che l’azione simulata è oggetto di deliberazione e pianificazione da parte di organi amministrativi, la concreta allocazione dell’undercover investigation nel procedimento penale richiede nondimeno di rispettare la concreta direzione del p.m. “quale garante della legalità procedurale e dell’imparzialità anche nella fase preparatoria del processo” criminale, soprattutto con riferimento “all’incisività e tempestività dei controlli giudiziari sull’agire di polizia” (103). sone impiegati. il pubblico ministero deve comunque essere informato senza ritardo, a cura del medesimo organo, nel corso dell'operazione, delle modalità e dei soggetti che vi partecipano, nonché dei risultati della stessa”. Art. 9 legge n. 146 del 2006, comma 8: “Le comunicazioni di cui ai commi 4, 6 e 6-bis e i provvedimenti adottati dal pubblico ministero ai sensi del comma 7 sono senza ritardo trasmessi, a cura del medesimo pubblico ministero, al procuratore generale presso la corte d'appello. Per i delitti indicati all'articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale, la comunicazione è trasmessa al procuratore nazionale antimafia”. (101) D. CURtottI, operazioni sotto copertura, in Le associazioni di tipo mafioso, a cura di B. RoMAno, torino, 2015, p. 450. (102) A. SCAGLIonE, Le attività investigative speciali della polizia giudiziaria previste dalla legge 16 marzo 2006, n. 146, in Studi in onore di mario Pisani, vol. I - Diritto processuale penale, Piacenza, 2010, pp. 759-760. Sulla stessa linea, si veda in ultimo P. IELo, L’agente sotto copertura per i reati di corruzione nel quadro delle tecniche speciali di investigazione attive e passive, in Diritto penale contemporaneo, 5 marzo 2019, https://www.penalecontemporaneo.it/d/6527-lagente-sotto-copertura-per-ireati-di-corruzione-nel-quadro-delle-tecniche-speciali-di-investigazi. (103) R. MInnA - A. SUtERA SARDo, agente provocatore. Profili sostanziali e processuali, Milano, 2003, p. 50. La necessità di un’interlocuzione fra strutture di polizia giudiziaria e organi d’Accusa nel caso di operazioni sotto copertura viene evidenziata come indispensabile anche dai più recenti orientamenti seguiti dalla magistratura inquirente, come evidenziato dalle circolari emanate dalle Procure della Repubblica di Roma e napoli, secondo cui, laddove “non esistono autorità centrali che abbiano contezza dell’esistenza di tutte le indagini in corso sul territorio, che peraltro sono svolte frequentemente anche da uffici di polizia Al contempo, diverse perplessità sono avanzate sulla stessa Relazione tecnica di accompagnamento in relazione all’effetto “deterrente” sugli abusi delle legislazioni in materia di gioco, invocato dalla riforma. Il legislatore indica infatti come il potenziamento dei controlli in materia di giochi e scommesse mediante agenti sotto copertura risulterebbe in grado di portare ad un’emersione di attività sommerse nel settore, favorendo così la crescita del mercato lecito (104). In particolare, viene proposta una stima di recupero del gaming illegale al settore degli apparecchi regolamentati pari allo 0,5% del totale, che, valuta la Relazione, permetterebbe di applicare il PREU (20%) su di una base di 125 milioni di euro, il che genererebbe “un maggior introito erariale di 25 mln di euro dal 2020” (105). Lungi dal voler indulgere in questa sede in valutazioni di politica tributaria, ci si limita a rimarcare le perplessità circa una reale efficacia deterrente giocata da un tale strumento ispettivo, avanzate dalla stessa nota di lettura. In particolare, si evidenzia l’incertezza degli effetti benefici in termini di recupero di gettito invocati dal nomoteta, stante la mancanza di informazioni dettagliate sul punto, anche e soprattutto in comparazione con gli effetti dell’abrogato art. 10 D.L. 16/2012. Come infatti sottolinea lo stesso documento di accompagnamento “la percentuale indicata (dalla relazione tecnica, n.d.r.) pari allo 0,5 % costituisce un parametro soggettivo, in assenza di altri elementi informativi” (106). Analoghi dubbi vengono avanzati con riferimento alla stima del PREU, calcolata dal legislatore nella misura del 20% (107). 7. Conclusioni. In definitiva, la nuova categoria di agente sotto copertura proposta dal legislatore con il D.L. n. 124 del 2019 si presenta come una costruzione normativa caratterizzata da luci ed ombre. giudiziaria di ridotte dimensioni, appare necessario assicurare che delle attività in parola sia data comunicazione preventiva, anche in forma orale nel casi di urgenza, al Procuratore della repubblica interessato, al fine […] di assicurare l’effettività dei poteri di direzione delle indagini legalmente riservati al pubblico ministero”. Cfr. Le direttive della Procura di roma e della Procura di napoli sulle operazioni sotto copertura, estese ai delitti contro la p.a., e sulla causa di non punibilità ex art. 323-ter c.p., in Diritto penale contemporaneo, 5 marzo 2019, https://www.penalecontemporaneo.it/d/6528-le-direttive-della-procura-diroma-e-della-procura-di-napoli-sulle-operazioni-sotto-copertura-estes. (104) Relazione tecnica, https://www.camera.it/leg18/995?sezione=documenti&tipoDoc=lavori_testo_pdl&idLegislatura=18&co dice=leg.18.pdl.camera.2220.18PDL0080040&back_to=https://www.camera.it/leg18/126?tab=2-eleg=18-e-idDocumento=2220-e-sede=-e-tipo=#Rt. (105) ibidem. (106) XVIII legislatura, A.S. 1638: "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge26 ottobre 2019, n. 124, recante disposizioni urgenti in materia fiscale per esigenze indifferibili" (Approvato dalla Camera dei deputati), nota di lettura, Dicembre 2019, n. 102, http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGt/01141009.pdf. (107) ibidem. In quanto le percentuali in vigore dal 10 febbraio 2020 sarebbero rispettivamente del 9% per le videolotteries (VLt) e del 23% per gli apparecchi AWP. Alla riforma va sicuramente ascritto il merito di aver superato quell’evidente irrazionalità accertativa per cui i controlli eseguiti mediante il fondo predisposto non potevano (precedentemente) venir eseguiti a distanza, permettendo così di far rientrare sotto la lente dell’autorità delle Dogane e dei Monopoli, nonché degli organi di polizia, anche l’area grigia del remote gambling (108). Parimenti, va plaudito il rinnovato interesse a rafforzare i controlli, in funzione preventiva e repressiva, in un mercato che si è dimostrato terreno fertile per le infiltrazioni della criminalità organizzata, così come per la creazione di sacche di diffusa illegalità e di malessere sociale (109). nondimeno, va anche sottolineato come il “nuovo” strumento, quantomeno per quanto riguarda il suo impiego penale, nasce quale una tecnica destinata ad un utilizzo, per così dire, a corto raggio. Privo della possibilità di avvalersi di un supporto investigativo e della possibilità di omettere o ritardare legittimamente gli atti del proprio ufficio, l’agente sotto copertura ex art. 29, dinanzi all’emergere di una notizia (o di “indizi”) di reato in corso d’accertamento, non potrà che dar seguito alla normale procedura prevista dal codice di rito in relazione alle indagini preliminari (110). Mancando degli strumenti necessari per operare in profondità, ben difficilmente potrà quindi riuscire ad inserirsi in una strategia investigativa di più ampio respiro, la quale sia volta a smascherare non solo i punti terminali del gioco illecito, ma anche risalire ai suoi gestori ed organizzatori (111). Il che non necessariamente rappresenta una disfunzione, essendo comunque questa un’opzione di merito sottesa alla scelta legislativa. Purché sia chiaro. Resta naturalmente sullo sfondo un’ultima riflessione, legata alla stessa opportunità nomopoietica di impiegare uno strumento investigativo “di rottura”, quale è l’investigatore undercover (112), per l’accertamento (anche) di illeciti penali, quelli legati ai giochi e alle scommesse, che il legislatore ritiene rcomunque di contenuta gravità, tanto da racchiuderli nel Libro III, titolo I, Capo II del codice penale (relativo alle contravvenzioni concernenti la polizia amministrativa sociale). (108) Cfr. supra par. 6.2. (109) Cfr. supra par. 4. A titolo di mera osservazione, si nota come nell’intervento normativo in commento possono anche leggersi i tratti del diritto amministrativo della sicurezza pubblica, giacché contempla “poteri amministrativi diretti alla prevenzione e repressione dei reati ovvero […] poteri che […] concorrono - operando sul piano amministrativo - alla prevenzione e repressione dei reati, creando un contesto dissuasivo e non favorevole per la commissione di reati”. Cfr. V. AntonELLI, il diritto amministrativo preventivo a servizio della sicurezza pubblica, in Diritto penale e processo, 2019, n. 11, p. 1504. (110) Cfr. supra parr. 6.1 e 6.2. (111) Cfr. supra par. 6.3. (112) G. BARRoCU, i profili processuali delle operazioni sotto copertura nella normativa anticorruzione: altre nubi in un cielo in tempesta?, in Diritto penale e processo, 2019, n. 5, p. 639. il trattamento dei crediti tributari e contributivi nel “nuovo” concordato preventivo con continuità aziendale Vito Forte e Ludovica Tozzoli* Sommario: 1. Premessa - 2. il concordato preventivo nel Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza - 2.1 inquadramento di sistema - 2.2 Le principali novità introdotte dal D.Lgs. n. 14/2019 - 2.3 il nuovo concordato preventivo con continuità aziendale: analogie e differenze con il modello (pre)vigente - 3. il trattamento dei crediti erariali - 3.1 inquadramento del problema. L’evoluzione normativa della c.d. transazione fiscale - 3.2 il (pre)vigente sistema di trattamento dei crediti erariali ex art. 182 ter l. fall. nel concordato con continuità aziendale - 3.3 il trattamento dei crediti tributari e contributivi nel Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza: innovazioni e problematiche applicative. 1. Premessa. In risposta all’esigenza di predisporre una riforma organica della disciplina dell’insolvenza e delle procedure concorsuali, il legislatore delegato ha emanato il D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, recante il “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale in data 14 febbraio 2019. Invero, l’attuale sistema di gestione della crisi d’impresa risulta ancora regolato, a livello nazionale, dalla c.d. legge fallimentare (Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267), da ultimo modificata dal D.Lgs. 18 maggio 2018, n. 54, atteso che la nuova disciplina entrerà in vigore solo a far data dal 1 settembre 2021 (1). tanto premesso, il presente contributo si propone di offrire una prima analisi delle principali novità introdotte dal D.Lgs. n. 14/2019 in relazione al concordato preventivo, in particolare con continuità aziendale, riservando specifica attenzione al trattamento dei crediti tributari e contributivi. Una questione di estrema rilevanza ed attualità, poiché non solo, sovente, nella prassi applicativa, una consistente parte dell’esposizione debitoria dell’imprenditore in crisi è rappresentata da crediti vantati dal Fisco e dagli Enti di previdenza e assistenza, bensì anche perché suddetto “trattamento”, costituisce una deroga al principio generale di indisponibilità e irrinunciabilità del credito tributario da parte dell’Amministrazione finanziaria (2). (*) Dottori in Giurisprudenza, ammessi alla pratica forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato (avv. St. Pietro Garofoli). (1) La data di entrata in vigore, originariamente fissata al 15 agosto 2020, è stata ulteriormenteposticipata dal D.L. 8 aprile 2020, n. 23 recante "misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali". Sul punto, si precisa, tuttavia, che le norme di cui agli artt. 27, comma 1, 350, 356, 357, 359, 363, 364, 366, 375, 377, 378, 379, 385, 386, 387 e 388, sono entrate già in vigore a partire dal 16 marzo 2019. (2) Cfr. Corte Costituzionale, 25 luglio 2014, n. 225. 2. il concordato preventivo nel Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza. 2.1 inquadramento di sistema. nell’ultimo quindicennio, la disciplina delle procedure concorsuali è stata interessata da numerosi interventi normativi, che hanno profondamente inciso sull’istituto del concordato preventivo. In particolare, il D.L. n. 35/2005, convertito dalla legge n. 80/2005, adattava le caratteristiche dell’istituto concordatario a finalità non più solo liquidatorie, ma anche di conservazione e risanamento dell’impresa. Al contempo, ampliava notevolmente le condizioni di accesso alla procedura, prevedendo che alla stessa potessero fare ricorso anche imprese “in stato di crisi”, e dunque non solo insolventi, eliminando qualsivoglia riferimento alla sussistenza di requisiti soggettivi di ammissione, nonché al giudizio di meritevolezza del debitore (3). Sulla novellata struttura del concordato preventivo, il legislatore interveniva successivamente con il D.L. n. 83/2012, convertito con modificazioni dalla L. n. 134/2012, con il quale, inter alia, trovava regolamentazione nel nostro ordinamento la figura del concordato con continuità aziendale, finalizzata ad assicurare all’impresa in crisi il reinserimento sul mercato, dopo il processo di ristrutturazione (4). Il leitmotiv delle modifiche susseguitesi sembra, dunque, potersi rinvenire in un atteggiamento di favore del legislatore per una soluzione di tipo negoziale della crisi d’impresa, nella convinzione che le procedure concorsuali non debbano esaurirsi in liquidazioni “a controllo pubblico” di beni, aventi come principio cardine la par condicio creditorum, ma possano perseguire anche interessi diversi; in specie, quello di consentire e favorire il risanamento delle imprese e la conservazione di attività produttive, sempre che tale soluzione risulti la migliore anche per i creditori (5). In linea con i precedenti interventi normativi, il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. n. 14/2019), conferma il favor legislativo nei confronti dell’istituto concordatario, ritenuto lo strumento più efficiente nel contemperamento dei diritti dei creditori con la necessità di preservare l’attività d’impresa, anche in vista di una migliore tutela dei livelli occupazionali, circoscrivendo, al contempo, tale “preferenza” al concordato preventivo in continuità (diretta o indiretta), con correlativo ridimensionamento del concordato avente finalità esclusivamente liquidatoria (6). (3) Cfr. oRAno, il Codice della crisi e le insidie della continuità senza meritevolezza nel concordato preventivo (i), in ilFallimentarista, 3 aprile 2020. (4) Cfr. FICo, il concordato in continuità tra normativa vigente e codice della crisi, in ilFallimentarista, 29 novembre 2019. In dottrina, tuttavia, il concordato fondato sulla prosecuzione dell’attività d’impresa era ritenuto ammissibile già antecedentemente alla novella del 2012. Sulla questione, v. StAnGHELLInI, il concordato con continuità aziendale, in Fall., 2013, pag. 1225. (5) Cfr. oRAno, op. ult. cit. 2.2 Le principali novità introdotte dal D.Lgs. n. 14/2019. Al fine di risolvere alcune delle annose questioni che avevano, in precedenza, diviso dottrina e giurisprudenza, generando rilevanti incertezze interpretative e la formazione di indirizzi giurisprudenziali non uniformi, il D.Lgs. n. 14/2019 apporta talune specifiche innovazioni all’attuale disciplina del concordato preventivo. La disposizione di apertura del Capo del codice dedicato all’istituto in oggetto, l’art. 84 c.c.i.i., rappresenta una norma “manifesto” (7), che evidenzia, da un lato, le finalità dell’istituto, e, dall’altro, le diverse tipologie in cui esso si articola, statuendo, in particolare, che, con il concordato preventivo, il debitore realizza il soddisfacimento dei creditori mediante la continuità aziendale ovvero la liquidazione del patrimonio. Rispetto al primo profilo, dunque, dal tenore della norma, si evince che l’interesse dei creditori continua a rappresentare il valore-fine cui il legislatore guarda nel disciplinare la soluzione concordata della crisi, anche quando venga perseguito l’obiettivo della conservazione dell’impresa. Di talché, nonostante il rinnovato favor legislativo per l’istituto, in linea con l’attuale previsione dell’art. 186-bis, co. 2, lett. b) l. fall., la continuità aziendale resta funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori e non assurge al rango di bene in sé da tutelare (8). Quanto alle tipologie previste per il piano concordatario, il principale criterio distintivo è rappresentato dalla provenienza delle risorse utilizzate per il soddisfacimento dei creditori: nel concordato con continuità aziendale, il debitore trae i mezzi a tal fine destinati, in misura rilevante, dai proventi che derivano dalla prosecuzione dell’attività imprenditoriale; viceversa, nel concordato liquidatorio la soddisfazione dei creditori è consentita dal ricavato della liquidazione del patrimonio del debitore. Venendo all’analisi delle principali novità introdotte dal legislatore delegato in riferimento al concordato preventivo, sia esso in continuità o liquidatorio, si segnala, anzitutto, in tema di presupposto oggettivo di accesso alla procedura concordataria, l’avvenuta codificazione della nozione di “stato di crisi” (9), consistente nello stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile la futura insolvenza del debitore e che, per le imprese, si manifesta (6) Cfr. PEtRIELLo, il concordato liquidatorio: le novità introdotte dal nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in ilFallimentarista, 18 marzo 2019. (7) Così nARDECCHIA, Concordato preventivo e mantenimento dei posti di lavoro, in italiaoggi, serie speciale n. 2/29, 23 gennaio 2019, a cura di MARCELLo PoLLIo, pag. 186. (8) Cfr. GREGGIo, il concordato con continuità aziendale, in italiaoggi, serie speciale n. 2/29, 23 gennaio 2019, a cura di MARCELLo PoLLIo, pag. 198. (9) Sulla dubbia utilità della distinzione fra crisi e insolvenza dettata dal legislatore, si veda RoSSI, Dalla crisi tipica ex CCi alle persistenti alterazioni delle regole di azione degli organi sociali nelle situazioni di crisi atipica, in ilcaso.it, 11 gennaio 2019, pp. 4 ss. come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate. orbene, la crisi, se nella (pre)vigente disciplina rappresenta il genus, peraltro non definito (10), cui appartiene la species dell’insolvenza (v. art. 160, co. 3, l. fall.), con il D.Lgs. n. 14/2019, ha oramai acquisito una propria autonomia concettuale e precettiva (11). Di contro, il legislatore delegato ha ritenuto di mantenere ferma la vigente nozione di insolvenza, intesa come lo stato del debitore che non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, stante il suo intervenuto consolidamento, a fronte di molti decenni di esperienza giurisdizionale. In perfetta continuità con l’art. 160 l. fall., viene confermata l’attuale libertà di contenuto del piano concordatario in ordine alle modalità di soddisfacimento dei creditori, inclusa la possibilità della suddivisione in classi, seppur con la riaffermata precisazione che, in nessun caso, il trattamento stabilito per ciascuna classe può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione. Un elemento di novità, tuttavia, è rappresentato dall’avvenuta codificazione di talune ipotesi di classamento obbligatorio, in relazione a: titolari di crediti previdenziali o fiscali dei quali non sia previsto l’integrale pagamento; creditori che vengono soddisfatti, anche in parte, con utilità diverse dal denaro; titolari di garanzie prestate da terzi e, da ultimo, creditori proponenti il concordato e parti ad essi correlate (v. art. 85, co. 5, c.c.i.i.). tale eccezione al generale principio di facoltatività si giustifica, come esplicitato nella Relazione illustrativa, solo a fronte del peculiare interesse che gli appartenenti a dette categorie nutrono per l’esito del concordato, cui consegue, pertanto, l’opportunità di tenere distinte le medesime ai fini del voto (12). Merita, altresì, di essere menzionata l’avvenuta introduzione, ad opera del legislatore delegato, di un contenuto necessario, previsto a pena di inammissibilità, del piano concordatario. Secondo quanto disposto dall’art. 87 c.c.i.i., il piano dovrà indicare: le cause della crisi, l’illustrazione delle strategie di intervento, gli apporti di finanza esterna (se previsti), nonché le azioni risarcitorie e recuperatorie esperibili, segnalando, in particolare, quelle proponibili dal solo curatore, nel caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale. nell’intento di superare le attuali incertezze relative alla gestione nella (10) La nozione vigente di crisi d’impresa, presupposta dall’attuale legge fallimentare, è stata ricondotta dalla dottrina ad una situazione di difficoltà temporanea e reversibile relativa all’adempimento regolare dei propri debiti (cfr. CAMPoBASSo, Diritto commerciale 3 - Contratti, Titoli di credito e Procedure concorsuali, a cura di M. CAMPoBASSo, UtEt, 2015, pag. 423). (11) Così AMBRoSInI, Crisi e insolvenza: distinzione teorica e incertezze applicative, in italiaoggi, serie speciale n. 2/29, 23 gennaio 2019, a cura di MARCELLo PoLLIo, pag. 26. (12) V. Relazione ministeriale di accompagnamento alla riforma, pag. 91. fase esecutiva del concordato, consentendo, al contempo, un controllo sul rispetto dell’attuazione dello stesso, è, inoltre, richiesta l’indicazione dei tempi delle attività da porre in essere per l’esecuzione del piano, nonché degli strumenti da adottare per assicurare l’adempimento della proposta, qualora, in concreto, si verifichi uno scostamento tra gli obiettivi pianificati e quelli raggiunti. tra gli aspetti più problematici e controversi della vigente disciplina, si colloca l’incerta definizione dei limiti entro i quali il requisito della fattibilità del piano concordatario possa essere suscettibile di sindacato da parte del giudice. Secondo il più recente orientamento della Suprema Corte, al giudice è demandato il sindacato sulla fattibilità giuridica, intesa come verifica della non incompatibilità del piano con norme inderogabili, nonché un controllo di legittimità in ordine alla fattibilità economica, intesa come realizzabilità nei fatti del piano concordatario, concernente, in particolare, la verifica della sussistenza o meno di una manifesta inidoneità del piano medesimo a raggiungere gli obbiettivi prefissati. Resta, invece, riservata ai creditori la valutazione in ordine al merito di detto giudizio, avendo questa ad oggetto la probabilità di successo economico del piano ed i rischi inerenti (13). Sul punto, di particolare rilievo risulta la scelta del D.Lgs. n. 14/2019 di attribuire al tribunale il potere di sindacare il merito economico del piano, seppur con il “filtro” del parere commissariale. Il piano, oltre al vaglio del professionista indipendente, deve superare lo scrutinio del tribunale in sede di apertura del concordato, essendo attribuito a quest’ultimo il compito di verificare non soltanto l’ammissibilità giuridica della proposta, bensì anche la fattibilità economica del piano medesimo, acquisendo, qualora lo stesso non disponga di tutti gli elementi a tal fine necessari, il parere del commissario giudiziale (v. art. 47, co. 1, c.c.i.i.) (14). Quanto poi allo svolgimento della procedura concordataria, il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza ha introdotto alcune misure di semplificazione, dirette a rendere più snello e celere il procedimento. In tal senso, è stata eliminata l’adunanza dei creditori e si è previsto che, nel caso in cui la proposta di concordato includa la necessità di porre in essere operazioni societarie, quali fusioni, scissioni, trasformazioni, l’eventuale opposizione a tali atti deve essere proposta dai creditori nell’ambito del giudizio di omologazione (v. art. 116 c.c.i.i.). Allo scopo di sciogliere alcuni dei nodi interpretativi e applicativi posti più di frequente dalla prassi, il legislatore delegato ha altresì introdotto disposizioni innovative concernenti le maggioranze, l’ammissione e le modalità di (13) Ex multis Cass. civ, sez. I, 4 maggio 2016, n. 8799; Cass. civ., sez. I, 6 novembre 2013, n. 24970; Cass. civ., sez. un., 23 gennaio 2013, n. 1521. (14) Cfr. AMBRoSInI, Concordato preventivo: finalità e presupposti, in italiaoggi, serie speciale n. 2/29, 23 gennaio 2019, a cura di MARCELLo PoLLIo, pag. 191. voto dei creditori (artt. 107 ss. c.c.i.i.), i rapporti pendenti (art. 97 c.c.i.i.), i finanziamenti interinali (artt. 99 ss. c.c.i.i.) e la fase esecutiva del concordato (art. 118 c.c.i.i.). 2.3 il nuovo concordato preventivo con continuità aziendale: analogie e differenze con il modello (pre)vigente. nel sistema delineato dal D.Lgs. n. 14/2019, il concordato con continuità aziendale diviene lo strumento privilegiato a disposizione dell’imprenditore per affrontare la crisi, ovvero l’insolvenza, della propria impresa (15); di talché, i due istituti del concordato in continuità e del concordato liquidatorio, sembrano oramai porsi in rapporto di regola ad eccezione (16). Il secondo comma dell’art. 84 c.c.i.i. delinea le due diverse forme in cui la continuità aziendale può declinarsi: in particolare, questa può essere diretta, in capo all’imprenditore che ha presentato la domanda di concordato, ovvero indiretta, nel caso in cui sia prevista la gestione dell’azienda in esercizio, o la ripresa dell’attività, da parte di un soggetto diverso dal debitore. La sopracitata disposizione precisa, altresì, le diverse modalità in cui la continuità indiretta può manifestarsi, prevedendo che la stessa possa avvenire: in forza di cessione al terzo dell’azienda; in esito alla stipula di altri contratti quali l’usufrutto o l’affitto, anche se anteriori alla presentazione del ricorso, purché ad esso funzionalmente connessi; mediante conferimento dell’azienda in una o più società, anche di nuova costituzione, ovvero a qualunque altro titolo. Mediante la richiamata precisazione, il legislatore delegato ha inteso dirimere i dubbi sorti nel vigore dell’attuale disciplina, posto che l’art. 186-bis, co. 1, l. fall. prevede, quali ipotesi di continuità indiretta, esclusivamente la cessione dell’azienda in esercizio, ovvero il suo conferimento in una o più società, anche di nuova costituzione. L’assenza di un’espressa previsione in tal senso, infatti, ha ingenerato rilevanti problemi interpretativi e applicativi in relazione alla riconducibilità, nel perimetro di operatività dell’art. 186-bis l. fall., dell’ipotesi dell’affitto d’azienda - con, o senza, successivo obbligo dell’affittuario di procedere all’acquisto della stessa (rispettivamente affitto c.d. ponte e c.d. puro) - consentendo l’affermarsi di tre diversi orientamenti pretori: la tesi “soggettiva” (17), la tesi “temporale” (18) e la tesi “oggettiva” (19). In piena aderenza alla posizione da ultimo assunta dalla Suprema Corte, (20) il nuovo codice chiarisce che la continuità deve essere intesa in senso og- (15) Così oRAno, il Codice della crisi e le insidie della continuità senza meritevolezza nel concordato preventivo (i), cit. (16) Cfr. GREGGIo, il concordato con continuità aziendale, cit., pag. 206. (17) Così tribunale di Pordenone, 19 gennaio 2017. (18) In tal senso, tribunale di Rimini, 1 ottobre 2015. (19) Ex multis, tribunale di Alessandria, 22 marzo 2016; tribunale di Bolzano, 10 marzo 2015. gettivo, rilevando, ai fini della qualificazione del concordato, e, conseguentemente, dell’individuazione della disciplina ad esso applicabile, la possibile continuazione dell’attività d’impresa anche dopo la conclusione della procedura, a prescindere dall’identità dell’imprenditore. Affinché possa parlarsi di continuità indiretta, è, altresì, necessario che il soggetto, diverso dal debitore, destinato a proseguire l’attività imprenditoriale, assuma il preciso impegno, risultante dal contratto o dal titolo, di garantire il mantenimento o la riassunzione di un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza, nei due esercizi anteriori il deposito del ricorso, nell’azienda o nel ramo d’azienda di cui è prevista la continuazione, per almeno un anno dall’omologazione (art. 84, co. 2, primo periodo, c.c.i.i.). La ratio della previsione risiede, all’evidenza, nella volontà di incentivare la salvaguardia dei livelli occupazionali. In tal modo, il legislatore delegato ha inteso assicurare l’effettività della dimensione oggettiva della continuità, scongiurando condotte opportunistiche che, attraverso la prosecuzione solo apparente dell’attività imprenditoriale, consentano l’aggiramento delle più stringenti condizioni previste per l’accesso al concordato liquidatorio (21). nella prassi, il piano concordatario in continuità viene frequentemente strutturato come concordato c.d. misto, caratterizzato dalla coesistenza di una componente di continuità aziendale ed una componente liquidatoria (22). Un profilo di rilevante problematicità della vigente disciplina in materia, è rappresentato dalla necessità di stabilire a quali condizioni un concordato misto possa considerarsi prevalentemente liquidatorio ovvero prevalentemente in continuità, con ogni conseguenza in termini di soddisfacimento minimo da assicurare ai creditori chirografari (art. 160, co. 4, l. fall.), di necessità di attestazione “rafforzata” dell’esperto (art. 186-bis, co. 2, l. fall.), ovvero di nomina del liquidatore (art. 182 l. fall.). Sul punto, si contendono il campo due contrapposti orientamenti del giudice di merito: il primo, ritiene che la prevalenza debba essere verificata in termini quantitativi, accertando se le risorse destinate al soddisfacimento dei creditori provengano essenzialmente dalla liquidazione dei beni, ovvero dalla prosecuzione dell’attività (23); il secondo, di contro, interpreta la prevalenza in termini qualitativi o funzionali, ritenendo che l’esistenza di “un’azienda vitale” (24), in assenza di pregiudizio alle ragioni dei creditori, imponga la prosecuzione dell’impresa, in ossequio ai principi di conservazione dei valori economici (25). (20) Cfr. Cass. civ., sez. I, 19 novembre 2018, n. 29742. (21) V. Relazione di accompagnamento ministeriale, pag. 88. (22) In tema di concordato c.d. misto cfr. Cass. civ., sez. I, 20 dicembre 2016, n. 26332. (23) Cfr. tribunale di Ravenna, 15 gennaio 2018; tribunale di Monza, 25 ottobre 2017. (24) Così, tribunale di Milano, 28 novembre 2019. (25) Ex multis, tribunale di Venezia, 5 luglio 2018; tribunale di Massa, 29 settembre 2016. Intervenendo al riguardo, il legislatore delegato ha codificato il criterio della prevalenza quantitativa, limitando l’ammissibilità del concordato in continuità ai soli casi in cui i creditori vengano soddisfatti, in misura prevalente, dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale, diretta o indiretta, ivi compresa la cessione del magazzino (art. 84, co. 3, primo periodo). nel contempo, al fine di salvaguardare i livelli occupazionali, viene introdotta una presunzione legale, di carattere assoluto, alla stregua della quale la prevalenza si considera sempre sussistente quando, secondo le previsioni del piano, i ricavi attesi dalla continuità per almeno due anni derivino da un’attività d’impresa alla quale siano addetti almeno la metà della media dei lavoratori impiegati dal debitore nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso (v. art. 84, co. 3, secondo periodo). Da ultimo, in risposta ai contrasti interpretativi sorti in relazione all’art. 161, co. 2, lett. e), secondo periodo, l. fall., a mente del quale “in ogni caso, la proposta deve indicare l’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore”, nel confermare tale obbligo, si è precisato che l’utilità può essere rappresentata anche dalla prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore o il suo avente causa, consentendosi, in tal modo, di soddisfare i creditori non in denaro o altri beni, ma con vantaggi certi ed economicamente valutabili. Sulla scorta di una lettura sistematica delle citate disposizioni, in una recentissima pronuncia, il tribunale di Milano ha prospettato un’interessante interpretazione del criterio della prevalenza quantitativa, osservando che “il Codice della crisi ha adottato un criterio di prevalenza che potrebbe definirsi “quantitativa attenuata” che se, da una parte, concentra il proprio orizzonte sulle modalità di creazione delle risorse da destinare ai creditori (liquidazione o ricavi della continuità), dovendo sempre i “ricavi attesi” essere superiori ai valori della liquidazione, dall’altra parte, amplia l’area semantica del “ricavato prodotto dalla continuità” facendovi rientrare il magazzino, nonché i rapporti contrattuali già in essere o già risolti nel passato, ma che proseguiranno o verranno rinnovati e, infine, i rapporti di lavoro” (26). Con previsione innovativa rispetto alla (pre)vigente disciplina, l’art. 86 c.c.i.i. riconosce al debitore la possibilità di usufruire di una moratoria fino a due anni - anziché di un anno, come già disposto dall’art. 186-bis, co. 2, l. fall. (27) - dall’omologazione, per il pagamento dei creditori il cui credito è assistito da privilegio o garantito da pegno o ipoteca. (26) Così, tribunale di Milano, 28 novembre 2019. (27) Il legislatore delegante ha previsto l’estensione del termine, a fronte dell’esperienza maturatanei primi anni di applicazione dell’articolo 186-bis l. fall., introdotto dal D.L. n. 83/2015, che ha evidenziato come eccessivamente penalizzante, per il proponente, il termine di un solo anno. A fronte del pregiudizio subìto, i creditori privilegiati riscadenziati sono ammessi al voto per la differenza fra il loro credito maggiorato degli interessi di legge e il valore attuale dei pagamenti previsti nel piano, calcolato alla data di presentazione della domanda di concordato (28). Attualizzando i pagamenti rispetto alla cronologia prevista dal piano, è possibile, infatti, quantificare la perdita, in termini di chance di investimento, del creditore privilegiato, in misura corrispondente alla quale verrà esercitato il diritto di voto. La soluzione adottata dal nuovo codice risulta coerente con i principi enunciati dalla Suprema Corte, la quale ha ritenuto determinante, ai fini del computo del voto, la perdita economica generata dal ritardo nel conseguimento della disponibilità delle somme spettanti ai creditori (29). La moratoria non può essere invocata, e di conseguenza il diritto di voto non spetta, qualora il piano preveda la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la prelazione. Invero, in tal caso, il pagamento deve conseguire immediatamente alla disponibilità, da parte del debitore, della somma ricavata dalla liquidazione. Per quanto concerne, infine, il contenuto del piano che supporta la domanda di concordato con continuità aziendale, il legislatore delegato ha previsto che, in aggiunta a quanto prescritto in via generale dall’art. 87 c.c.i.i., lo stesso menzioni: la funzionalità dell’attività ad assicurare il ripristino dell’equilibrio economico-finanziario (v. art. 84, co. 2, c.c.i.i.); le ragioni per le quali la continuità è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori; nonché, ove sia prevista la prosecuzione dell’attività d’impresa in forma diretta, un’analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura (v. art. 87, co. 1, c.c.i.i.). 3. il trattamento dei crediti erariali. 3.1 inquadramento del problema. L’evoluzione normativa della c.d. transazione fiscale. Uno dei problemi principali del concordato preventivo, in particolare quello con continuità aziendale, riguarda il peculiare trattamento dei crediti erariali, atteso che, sovente, le imprese in crisi presentano un ingente indebitamento nei confronti del Fisco nonché degli enti previdenziali. Per far fronte a suddetta esigenza, il legislatore, con l’art. 146 del D.Lgs. n. 5/2006, introduceva l’art. 182 ter l. fall., rubricato “Transazione fiscale”, per mezzo del quale si proponeva di operare una riconduzione dell’istituto in (28) Il valore è determinato sulla base di un tasso di sconto pari alla metà del tasso previsto dall’art.5 del D.Lgs. n. 231/2002, in vigore nel semestre in cui viene presentata la domanda di concordato preventivo. (29) Così Cass. civ., sez. I, 9 maggio 2014, n. 10112. oggetto nell’ambito del concordato preventivo (30), prevedendo, da un lato, la possibilità per l’imprenditore in crisi di proporre il pagamento parziale, o comunque dilazionato, dei tributi amministrati dalle agenzie fiscali e dei relativi accessori, limitatamente alla quota di debito avente natura chirografaria, anche se non iscritti a ruolo, ad eccezione di quelli costituenti risorse proprie dell’Unione Europea; dall’altro, l’opportunità dell’interessato di beneficiare del c.d. “consolidamento del debito fiscale” (art. 182, co. 2, primo periodo, l. fall.). Invero, così come formulata, predetta disposizione contrastava con quanto sancito in via generale dall’art. 160 l. fall., ovverosia l’inammissibilità del pagamento parziale dei creditori concordatari privilegiati, ostacolando, di fatto, l’applicabilità dell’istituto in oggetto. Il legislatore delegato, tuttavia, intervenendo nuovamente sulla materia, con il D.Lgs. n. 169/2007, realizzava l’auspicato raccordo tra le due disposizioni - consentendone l’armonizzazione - prevedendo espressamente, in specie, la facoltà di pagamento parziale dei creditori prelatizi. Suddetto intervento riformatore provvedeva altresì ad estendere l’applicabilità dell’istituto anche agli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 182 l. fall. prev.), i quali rappresentano un peculiare strumento di composizione della crisi, consistente in un accordo tra l’imprenditore ed una maggioranza qualificata di creditori che, dopo essere stato pubblicato sul registro delle imprese ed aver ottenuto l’omologazione da parte del tribunale, consente di porre al riparo da un’eventuale azione revocatoria gli atti compiuti in esecuzione dello stesso, ogniqualvolta la crisi non venga superata e s’ingeneri il fallimento (31). nonostante le intercorse modifiche, la disciplina della transazione fiscale, nell’anno successivo, veniva ulteriormente riformata dal D.L. n. 185/2008, non solo prevedendone un ampliamento oggettivo del campo di operatività ai contributi previdenziali e assistenziali, bensì anche precludendone l’applicazione al credito I.V.A. e, in seguito, alle ritenute fiscali (32). orbene, suddetto istituto, così strutturato, non si presentava scevro da problemi applicativi, anche di notevole rilevanza (33). In particolare, in tema di obbligatorietà/facoltatività del ricorso al procedimento ex art. 182 ter l. fall., l’interpretazione erariale, che ne evidenziava la stringente necessità, si contrapponeva al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità sul punto, il quale, al contrario, qualificava il concordato con transazione fiscale quale figura speciale di concordato preventivo, sottolineandone il rapporto di specialità, nonché la facoltatività (34). (30) V. relazione ministeriale di accompagnamento alla riforma, pag. 90. (31) Ex multis Cass. civ., sez. I, 19 giugno 2018, n. 16161. (32) Sul punto, si precisa che la limitazione oggettiva relativa alle ritenute fiscali è stata introdottadal D.L. 78/2010. (33) Cfr. DELFEDERICo, Questioni controverse sulla transazione fiscale, in Corr. Trib., 2010, 2377 ss. Il dibattito risultava accentuato soprattutto in riferimento all’effetto di consolidamento del debito erariale, il quale, a parere della Suprema Corte, rappresentava la funzione precipua sottesa al concordato preventivo con transazione fiscale, deputata alla definizione di ogni partita presente e futura (35). occorre rilevare, inoltre, che una delle problematiche scaturenti dalla disciplina del previgente art. 182 ter l. fall. era rappresentata dalla preclusione della facoltà di riduzione del credito I.V.A. in sede di concordato preventivo. Il predetto credito erariale, che spesso costituiva il debito più consistente nel passivo concordatario, necessitava di un adempimento integrale da parte dell’imprenditore in crisi, che ostacolava, nella prassi applicativa, la realizzazione di un efficace concordato (36). L’imprenditore poteva richiedere unicamente la dilazione del suo pagamento; di talché, secondo una parte della dottrina, l’art. 182-ter l. fall. doveva ritenersi una norma di carattere speciale all’interno della disciplina concorsuale, e, pertanto, derogatoria rispetto a quelle precedenti sancite in tema di concordato preventivo, che, al contrario, assumevano carattere generale (37). Soltanto un’interpretazione in tal senso della norma in esame, infatti, avrebbe consentito un’esclusione del credito I.V.A. dalla transazione fiscale compatibile con le disposizioni di cui art. 160 l. fall., riguardanti il divieto di alterazione delle cause legittime di prelazione (38). Ciò posto, è bene precisare che l’impasse formatosi sulla delicata questione in esame, veniva superato dapprima dalla Corte di Giustizia Europea (39) e successivamente dal legislatore, il quale, in particolare attraverso la legge di bilancio 2017 (L. n. 232/2016), provvedeva a risolvere le criticità della previgente normativa, consentendo, non da ultimo, la falcidiabilità del credito I.V.A. 3.2 il (pre)vigente sistema di trattamento dei crediti erariali ex art. 182 ter l. fall. nel concordato con continuità aziendale. L’attuale sistema normativo relativo al trattamento dei crediti erariali nel concordato preventivo, anche in continuità, è sancito dall’art. 182-ter l. fall., come riformato dalla legge n. 232/2016. tuttavia, si è già avuto modo di pre- (34) Ex multis Cass. civ. n. 7602/2017; Cass. civ. n. 1337/2017; Cass. civ., Sez. Un., n. 26988/2016; Cass. civ. n. 22931/2011. (35) Cfr. Cass. civ., sez. I, 21 giugno 2018, n. 16364. (36) Cfr. MARInI, La transazione fiscale, in rass. Trib., 2010, 1193 ss. (37) Così tERzAnI, La transazione fiscale: effetti tipici dell'istituto e classi omogenee di creditori concorsuali, in Fisco, 2011, 16 - parte 1, 2521 ss. (38) Diversamente opinando, si sarebbe giunti alla conclusione che i creditori di grado superiorea quello dell’I.V.A. (art. 2778, co. 1, n. 19, c.c.), ovverosia precedenti ai punti da 1) a 18) dell’art. 2778 c.c., avrebbero dovuto trovare soddisfazione per l’intero, con un evidente depotenziamento dell’istituto della transazione fiscale. (39) Cfr. C.G.U.E., 7 aprile 2016, causa C-546/14, in Corr. Trib., con nota di FICARI, La Corte uE ammette la riduzione dell’iva mediante transazione fiscale. cisare che, seppur attualmente il sistema di gestione della crisi d’impresa risulta ancora regolato a livello nazionale dalla c.d. legge fallimentare, il legislatore delegato, con il D.Lgs. n. 14/2019, ha varato una riforma organica della disciplina concorsuale, operando, in specie, una ricomposizione di natura sostanzialmente formale del “trattamento dei crediti tributari e contributivi”, conservandone i tratti caratteristici sanciti dalla (pre)vigente disciplina di seguito esaminata (40). La legge di bilancio 2017 ha operato un articolato riassetto dell’art. 182ter l. fall., distinguendo, in tema di trattamento dei crediti erariali e contributivi, due subprocedimenti: il primo, in relazione al concordato preventivo (co. 1-4) e, il secondo, in riferimento agli accordi di ristrutturazione dei debiti (co. 5 e 6). Suddetta disciplina consente di regolare il trattamento dei tributi e dei relativi accessori amministrati dalle agenzie fiscali, nonché dei contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza ed assistenza obbligatorie, ogniqualvolta tra le passività figurino dei crediti erariali ovvero contributivi da soddisfare tramite concordato, cui l’imprenditore non può adempiere integralmente ovvero nell’immediatezza. tale procedimento, avente carattere obbligatorio (v. art. 182-ter, co. 1, primo periodo, l. fall.), consente così il superamento dell’annoso problema interpretativo sollevato sul punto dalla dottrina, nonché dalla giurisprudenza di legittimità (41). Ma vieppiù. La nuova normativa, infatti, oltre ad ampliare il novero dei tributi transigibili (42), elimina ogni riferimento testuale alla definizione delle liti pendenti nonché all’effetto di consolidamento del debito erariale (43), prescrive la necessità di un’apposita classe per i creditori privilegiati falcidiati, incorpora la regola generale di abbattimento dei crediti privilegiati generali di cui all’art. 160 l. fall. e stabilisce che il voto sulla proposta concordataria dev’essere espresso dall’ufficio, previo parere conforme della competente dire- (40) Cfr. CIMoLAI, La nuova transazione fiscale e la decurtazione del credito tributario, in italiaoggi, serie speciale n. 2/29, 23 gennaio 2019, a cura di MARCELLo PoLLIo, pag. 180. (41) Ex multis Cass. civ. n. 22932/2011. (42) Dal punto di vista oggettivo, è necessario evidenziare che, ad oggi, sono ricompresi nei tributifalcidiabili anche l’I.V.A. e le ritenute operate e non versate. Invero, l’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 40/E del 2008 ha affermato l’esclusione dall’ambito applicativo de quo della transazione dei tributi regionali e locali (es. I.C.I., t.A.R.I., t.A.R.S.U., t.o.S.A.P., I.M.U.); orientamento confermato altresì nella successiva Circolare n. 19/E del 2015. (43) Venuto meno il previgente co. 5 dell’art. 182 ter l. fall. la dottrina prima e la giurisprudenza poi hanno ritenuto, in specie, che dovesse tornare pienamente operativa la disposizione generale sancita dall’art. 176 l. fall. e, di conseguenza, che i contenziosi in corso aventi ad oggetto pretese tributarie dovessero proseguire fino alla decisione. tuttavia, occorre precisare che il debitore, nella propria proposta, è tenuto a riscontrare l’esistenza dei crediti contestati nonché a prevedere le relative modalità di soddisfacimento nel caso in cui gli stessi risultino dovuti. Sul tema, cfr. AnDREAnI, - tUBELLI, note di variazione in diminuzione e altre problematiche fiscali della crisi d’impresa, in il Fisco, 2018, 1048 ss. zione regionale, in sede di adunanza dei creditori, ovvero nei modi di cui all’art. 178, co. 4. l. fall. Le modifiche in oggetto, però, sembrerebbero aver condotto l’istituto alla perdita della propria autonomia ed individualità (quantomeno in relazione al concordato preventivo), creando nella prassi applicativa un rilevante problema di coordinamento tra il novellato art. 182-ter l. fall. ed il decreto del Ministero del lavoro 4 agosto 2009, attese le stringenti limitazioni previste da quest’ultimo in tema di falcidiabilità di taluni crediti, nonché al loro pagamento dilazionato (44). Ai fini della redazione del piano di concordato preventivo caratterizzato dal pagamento parziale, o comunque dilazionato, dei tributi ut supra, l’imprenditore deve prevedere la soddisfazione dei crediti erariali e previdenziali in misura non inferiore a quella realizzabile sul loro ricavato in caso di liquidazione, in ragione della collocazione preferenziale, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, indicato nella relazione di un professionista indipendente (45), il quale deve sostanzialmente attestare la mancanza di alternative rispetto alla transazione (46). Difatti, in specie, deve emergere un’effettiva vantaggiosità per l’Erario, alla luce della comparazione tra il pagamento proposto con la domanda di concordato e la soddisfazione delle ragioni creditorie ricavabile nell’ambito della procedura fallimentare. La relazione di stima redatta dal professionista indipendente, del tutto analoga a quella prevista dall’art. 160 l. fall., rappresenta quindi una condizione indefettibile ai fini della falcidiabilità dei crediti erariali (47). Sul punto, è necessario precisare che il precipitato normativo dell’art. 182-ter, co. 1, l. fall., ove prevede “l’obbligo di assicurare”, non intende senz’altro riferirsi ad una valutazione di certezza, quanto piuttosto ad una valutazione di probabilità (secondo l’id quod plerumque accidit), seppur temperata da ragionevolezza (48). Un’impostazione che trova autorevole riscontro anche nei principi fissati dalla giurisprudenza di legittimità (49). orbene, mentre nessuna limitazione è posta dalla legge alla falcidiabilità dei crediti chirografari - se non quella relativa all’omogeneità di trattamento rispetto agli altri creditori chirografari ovvero, nel caso di suddivisione in (44) Così RoSSI, il trattamento dei crediti tributari nel concordato e negli accordi di ristrutturazione dei debiti, documento di ricerca della Fondazione nazionale dei Commercialisti, 20 febbraio 2019. (45) Cfr. SPADARo, il trattamento dei crediti tributari e contributivi secondo il nuovo art. 182 ter l. fall., in Fallimento, 2018, 7 ss. (46) Così BoGonI - ARtUSo, Criticità tributarie nel concordato preventivo, in ilFallimentarista, 21 gennaio 2019. (47) Cfr. Circolare n. 16/2018 Agenzia delle Entrate, pag. 26. (48) Cfr. BoGonI - ARtUSo, La “transazione fiscale”: profili tributari e processuali, in Dir. e Prat. Trib., 2020, 1, p. 409. (49) Ex multis Cass., Sez. Un., 23 gennaio 2013, n. 1521. classi, dei creditori nei cui confronti è previsto un trattamento più favorevole - così non è per i crediti assistiti da privilegio, atteso che il pagamento parziale degli stessi non può avvenire se non avuto riguardo al “valore di mercato dei beni o dei diritti sui quali sussiste la clausola di prelazione”, nonché in misura non inferiore o meno vantaggiosa rispetto ai creditori aventi un grado di privilegio inferiore ovvero una posizione giuridica e interessi economici omogenei ai predetti. Pertanto, la condizione per proporre il pagamento parziale ovvero dilazionato dei crediti privilegiati in oggetto, anche alla luce degli indirizzi interpretativi della Corte di Giustizia Europea, è rinvenibile “nell’oggettiva incapienza del valore di realizzo” (50) attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la clausola di prelazione, come quantificato ed attestato dal professionista indipendente (51). In base a quanto emerge dalla recente Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 16/2018, l’attestatore “dovrà tenere conto anche del maggiore apporto patrimoniale, rappresentato dai flussi o dagli investimenti generati dalla eventuale continuità aziendale oppure ottenuto all’esito dell’attività liquidatoria gestita in sede concordataria, che non costituisce una risorsa economica nuova, ma deve essere considerato finanza endogena, in quanto, ai sensi dell’art. 2740 c.c., l’imprenditore è chiamato a rispondere dei debiti assunti con tutti i propri beni, presenti e futuri” (52). A tal proposito, dunque, occorre interrogarsi sull’appartenenza dei flussi positivi, generati in sede di concordato preventivo con continuità aziendale, al patrimonio dell’impresa e, di conseguenza, sulla necessità di destinare gli stessi ai creditori privilegiati. Parte della giurisprudenza di merito sembrerebbe aver fatto proprio l’orientamento erariale ut supra; in particolare il tribunale di Milano, il quale, già prima dell’emanazione della circolare sopraindicata, statuiva che “la prosecuzione dell’attività di impresa in sede concordataria non può comportare il venir meno della garanzia patrimoniale del debitore, che risponde dei suoi debiti con tutti i beni, presenti e futuri (art. 2740 c.c.) non creando la prosecuzione dell’attività di impresa un patrimonio separato o riservato in favore di alcune categorie di creditori (anteriori o posteriori alla domanda di concordato). né pare consentito azzerare in sede concordataria il rispetto delle cause legittime di prelazione (art. 2741 c.c.) che è un corollario della responsabilità patrimoniale” (53). (50) Così, RoSSI, il trattamento dei crediti tributari nel concordato e negli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., p. 8. (51) Professionista che può essere lo stesso che redige la relazione di stima prevista dall’art. 160,co. 2. (52) Cfr. AnDREAnI - tUBELLI, La posizione dell’agenzia sulla “transazione fiscale”: pregi e difetti, in il Fisco, 2018. L’orientamento pretorio in questione, tuttavia, non appare univoco, atteso che altra parte della giurisprudenza (54) ha ritenuto di dover equiparare le risorse originate dalla prosecuzione dell’attività d’impresa a finanza esterna, come tale liberamente disponibile senza dover rispettare l’ordine delle cause legittime di prelazione. A sostegno della prospettiva esogena, parte della dottrina ha previsto la sola ascrivibilità al patrimonio d’impresa di quanto ricavabile dagli assets patrimoniali alla data di apertura della procedura e non anche dei nuovi flussi “eventuali” (c.d. surplus concordatario) derivanti dalla procedura di concordato con continuità aziendale (55). Diversamente opinando, si concluderebbe per una lettura della norma in palese contrasto con il favor legislativo sotteso al concordato con continuità aziendale, atteso che l’omologazione di quest’ultimo risulterebbe difficilmente raggiungibile. Dal punto di vista procedurale, ai fini della proposta di accordo sui crediti di natura fiscale, dev’essere depositata, presso il competente agente della riscossione, nonché all’ufficio competente sulla base dell’ultimo domicilio fiscale del debitore, copia della domanda e della relativa documentazione (56), “contestualmente” al deposito in tribunale, unitamente alla copia delle dichiarazioni fiscali per le quali non è pervenuto l’esito dei controlli automatici e delle dichiarazioni integrative relative al periodo d’imposta fino alla data di presentazione della domanda (57). Invero, la contestualità sancita dall’art. 182-ter l. fall. non dev’essere interpretata perentoriamente, vale a dire “non in maniera letterale di contemporaneità” (58), poiché spesso non vi è disponibilità immediata delle evidenze cartolari di deposito. L’agente della riscossione, a norma del terzo comma del sopracitato articolo, non oltre trenta giorni dalla data della presentazione dei documenti sopraindicati, deve trasmettere al debitore una certificazione attestante l’entità del debito iscritto a ruolo scaduto ovvero sospeso (59). nel medesimo termine, (53) Così tribunale di Milano, decreto 15 dicembre 2016. (54) Ex multis tribunale di treviso, 16 novembre 2015 e 23 marzo 2015; tribunale di torino, 7 novembre 2013. (55) Cfr. AnDREAnI - tUBELLI, La posizione dell’agenzia sulla “transazione fiscale”: pregi e difetti, cit., pp. 3245 ss. (56) Per i tributi amministrati dall'Agenzia delle dogane e dei monopoli, l’ufficio competente aricevere copia della domanda nonché la relativa documentazione, e successivamente a rilasciare la certificazione, si identifica con l'ufficio che ha notificato al debitore gli atti di accertamento. (57) In relazione alle modalità di presentazione della domanda di transazione fiscale e della relativadocumentazione v. Circolari n. 40/E del 2008 e n. 14/E del 2009, nonché le Circolari n. 38 del 15 marzo 2010 e n. 8 del 26 febbraio 2010 per quanto concerne, rispettivamente, i crediti I.n.P.S. ed i crediti I.n.A.I.L. (58) Così BoGonI - ARtUSo, Criticità tributarie nel concordato preventivo, cit. l’ufficio deve procedere alla liquidazione dei tributi risultanti dalle dichiarazioni, nonché alla notifica dei relativi avvisi di irregolarità, unitamente ad una certificazione attestante l’entità del debito derivante da atti di accertamento (ancorché non definitivi) per la parte non iscritta a ruolo, e dai ruoli vistati, ma non ancora consegnati all’agente della riscossione (60). In sede di certificazione, gli uffici devono verificare le istanze di rimborso dei crediti presentate dal debitore negli anni precedenti alla domanda di concordato, nonché i crediti esposti da quest’ultimo in dichiarazione. In entrambi i casi, ai fini della quantificazione del debito fiscale complessivo, l’Agenzia delle Entrate, con la Circolare n. 16/2018, precisa che devono essere portate in compensazione, con i debiti tributari, le somme chieste a rimborso o imputate a credito in dichiarazione dal debitore in crisi negli anni precedenti la domanda di concordato. In un’ottica di semplificazione, il legislatore del 2016 ha stabilito una legittimazione quasi esclusiva in capo all’Agenzia delle Entrate in relazione all’esercizio del diritto di voto in sede di concordato preventivo, limitando la legittimazione dell’Agenzia delle Entrate - Riscossione ai soli crediti relativi agli oneri di riscossione di cui all’art. 17 D.Lgs. 112/1999 (61). L’adesione o il diniego alla proposta di concordato è approvata con atto del direttore dell’ufficio, su conforme parere della competente Direzione regionale, in sede di adunanza dei creditori, ovvero nei modi previsti dall’art. 178, co. 4, l. fall.; viceversa, il voto dell’Agenzia delle Entrate - Riscossione è espresso su indicazione del direttore dell’ufficio, previo parere della competente Direzione regionale. Ciò posto, tra i profili maggiormente dibattuti in tema di transazione fiscale residua l’eventuale diniego alla proposta concordataria (espresso, mediante un “atto formalizzato”, ovvero tacito, nelle ipotesi di “non voto”) da parte degli uffici competenti. Ebbene, nel quadro normativo pocanzi delineato, è evidente che il “parere” dell’Amministrazione deve necessariamente seguire le regole generali fissate dagli artt. 174 ss. l. fall. per il voto dei creditori in materia concorsuale, comportando l’assimilazione del “non voto” dell’Erario ad un “silenzio rifiuto” (62). (59) La certificazione del credito ex art. 182 ter, comma 2, l. fall., proveniente dal concessionario della riscossione, ovvero dall’Agenzia delle Entrate, non può essere contestata dal contribuente. In tal senso, cfr. Cass. civ., sez. I, n. 18561/2016. (60) Dopo l’emissione del decreto ex art. 163 l. fall., copia dell'avviso di irregolarità e delle certificazioni deve essere trasmessa al commissario giudiziale per gli adempimenti sanciti dagli artt. 171, co. 1, e 172 l. fall. (61) L’attività dei concessionari della riscossione viene remunerata con un aggio sulle sommeiscritte a ruolo riscosse. L’aggio è pari ad una percentuale di tali somme da determinarsi, per ogni biennio, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, pubblicato in Gazzetta Ufficiale entro il 30 settembre dell’anno precedente il biennio di riferimento, sulla base dei criteri sanciti dall’art. 17, co. 1, D.Lgs. 112/1999. L’Agenzia delle Entrate, dunque, ben potrebbe far constare il proprio diniego direttamente nel processo verbale dell’adunanza, ovvero, qualora non abbia esercitato il proprio voto, per telegramma, per lettera, per telefax o per posta elettronica nei venti giorni successivi alla chiusura del verbale (v. art. 178, ult. co., l. fall.). Rispetto al passato, la transazione fiscale “non segue più un procedimento "isolato" rispetto al concordato e per l'effetto non esiste più - tendenzialmente - un "atto autonomo" di risposta (negativa o positiva) da parte dell'amministrazione finanziaria” (63). occorre precisare, altresì, che nel caso di falcidia di crediti tributari o contributivi privilegiati, la legge fallimentare richiede che l’intera quota di credito degradata al chirografo sia inserita in un’apposita classe (a differenza del credito chirografario ab origine); di talché, vertendosi in un’ipotesi di classamento obbligatorio (64), deve ritenersi che, in caso di dissenso, l’ufficio possa legittimamente opporsi in sede di omologazione, contestando la convenienza della proposta concordataria, assoggettandosi alla regola del cram down (65). Il pagamento dei crediti chirografari, salvo le ipotesi di concordato preventivo con continuità aziendale, a norma dell’art. 4, co. 1, lett. a) D.L. n. 83/2015, dev’essere assicurato all’interno della proposta nella misura di almeno il 20% dell’ammontare complessivo; sicché anche la parte di credito tributario degradata a chirografo troverà soddisfazione, unitamente agli altri crediti chirografari, nella percentuale prevista dell’art. 160, co. 4, l. fall. (66). 3.3 il trattamento dei crediti tributari e contributivi nel Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza: innovazioni e problematiche applicative. La normativa introdotta dal D.Lgs. n. 14/2019, nell’ambito del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione dei debiti, opera, in relazione al trattamento dei crediti tributari e contributivi, una sostanziale ricomposizione formale del procedimento applicativo, introducendo pochi, seppur rilevanti, elementi innovativi (67). (62) Cfr. AMBRoSInI, Problemi in tema di voto nel concordato preventivo, in Fallimenti e Società.it, 12 dicembre 2017. (63) Così BoGonI - ARtUSo, La “transazione fiscale”: profili tributari e processuali, cit., p. 409. Si consiglia la lettura di tale contributo anche per un approfondimento sull’impugnabilità dell’atto dell’Amministrazione, nonché sul decorso del relativo termine perentorio. (64) Lo scopo del classamento obbligatorio è quello di evitare possibili fenomeni di neutralizzazioni del voto degli enti interessati e di rafforzare la posizione dell’Erario in considerazione della peculiarità dei crediti in oggetto. (65) Cfr. StASI, Transazione fiscale e contributiva, in il Fallimento, 2017, 1107 ss. (66) La proposta di concordato deve indicare l’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile procurata in favore di ciascun creditore. (67) In tema di crediti contributivi, cfr. LUDoVICo, il credito contributivo e la tutela previdenziale del lavoratore nel codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, in rivista italiana di Diritto del Lavoro, fasc. 4, 1 dicembre 2019, pag. 481. Dal punto di vista strutturale, il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, abbandonando il carattere “transattivo” dell’istituto di cui all’art. 182ter l. fall., delinea una dissociazione di predetta disposizione, prevedendo all’art. 88 il “trattamento dei crediti tributari e contributivi”, in tema di concordato preventivo, nonché all’art. 63 la “transazione fiscale e gli accordi sui crediti contributivi” in relazione agli accordi di ristrutturazione del debito. Sul punto, tuttavia, è necessario precisare che alla diversa struttura normativa corrisponde, in specie, una diversa disciplina (68). In particolare, in relazione al trattamento dei crediti erariali nell’ambito del concordato preventivo, fermo restando il citato classamento obbligatorio dei titolari di crediti previdenziali o fiscali dei quali non sia previsto l’integrale pagamento (69), il D.Lgs. n. 14/2019 prevede l’eliminazione del predetto obbligo in relazione ai crediti privilegiati degradati, confermando la sostanziale equiparazione dell’Erario agli altri creditori privilegiati (70) e prescrive la necessità di una valutazione di convenienza del trattamento dei crediti fiscali e previdenziali proposto rispetto all’esito di un’eventuale liquidazione giudiziale. Invero, le innovazioni in oggetto, comportano una necessaria riflessione critica in relazione ai profili applicativi della nuova normativa. A tal proposito, occorre rilevare, in primis, che il parametro della “convenienza” ut supra risulta comunque connotato da una certa soggettività, la cui attuazione in concreto darà prevedibilmente adito a divergenze interpretative. In secondo luogo, atteso il precipitato normativo dell’art. 88 c.c.i.i., parte della dottrina continuerà ad interrogarsi sulla possibilità di soddisfare i crediti erariali e previdenziali con modalità diverse rispetto al pagamento in denaro (es. cessioni di credito) (71). Un peculiare aspetto problematico che accomuna la nuova disciplina a quella vigente, sancita dall’art. 182-ter l. fall., consiste nella stabilizzazione del credito tributario. Se è pur vero che dal dettato normativo è stato rimosso qualsivoglia riferimento al consolidamento del debito fiscale, l’incombenza di un eventuale credito privilegiato, rischia infatti di destabilizzare fortemente il fragile equilibrio finanziario raggiunto in sede di concordato preventivo. La c.d. incognita fiscale continua a gravare sui concordanti, non permettendo così un’efficace rappresentazione del quadro debitorio d’insieme, tale da consentire all’imprenditore una valutazione in termini di certezza del debito erariale. (68) Sulla nuova disciplina della transazione fiscale negli accordi di ristrutturazione dei debiti,cfr. BEnVEnUto, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti nel codice della crisi e dell'insolvenza, in rivista dei Dottori Commercialisti, fasc. 3, 1 giugno 2019, pag. 537. (69) V. supra par. 2.2. (70) V. art. 48 D.Lgs. n. 14/2019. (71) Cfr. RoCCA- DI FALCo, il nuovo trattamento dei crediti tributari e contributivi, in i Quaderni della Fondazione Commercialisti di milano, S.A.F. Luigi Martino, n. 79. ContrIbutI dI dottrIna Le fonti del diritto nell’ordinamento giuridico italiano. Individuazione, tipologie e vicende Michele Gerardo* Sommario: 1. Norma giuridica, disposizione, fonte del diritto - 2. individuazione della norma giuridica - 3. Chiarezza e concisione della norma giuridica - 4. rilevanza della individuazione delle fonti del diritto - 5. regole e principi - 6. Tipologia delle fonti - 7. (segue) Tipologia delle fonti. i) Diritto primario dell’Unione Europea - 8. (segue) ii) Diritto derivato dell’Unione Europea - 9. (segue) iii) Costituzione e fonti equiparate, tra cui le norme del diritto internazionale - 10. (segue) iV) Fonti primarie: leggi ed atti aventi forza di legge dello Stato; statuti delle regioni ordinarie e leggi regionali; leggi delle Province di Trento e Bolzano; regolamenti parlamentari, della Presidenza della repubblica, della Corte Costituzionale - 11. (segue) V) Fonti secondarie: regolamenti dello Stato (del Governo, ministeriali e interministeriali), degli enti territoriali e degli altri enti pubblici. regolamenti ed atti amministrativi generali - 12. (segue) Vi) Fonti secondarie: statuti di Province, Città metropolitane e Comuni e di altri enti pubblici - 13. (segue) Vii) Fonti secondarie: sentenze caducatorie di fonti secondarie - 14. (segue) Viii) Fonti secondarie: ordinanze - 15. (segue) iX) Consuetudine - 16. (segue) X) Fonti individuali: atti di diritto privato; contratti e regolamenti privati; contratti collettivi. il problema dei poteri privati globali - 17. (segue) Xi) Fonti individuali: provvedimenti amministrativi - 18. (segue) Xii) Fonti individuali: sentenze - 19. Coerenza dell’ordinamento giuridico. antinomie e criteri per la loro risoluzione - 20. rilievo del contrasto della norma con quella di rango superiore e rivisitazione dell’atto normativo - 21. Vicende della norma giuridica. Norma temporanea, abrogazione, deroga, sospensione - 22. (segue) Vicende della norma giuridica. irretroattività della norma giuridica. Casi eccezionali di retroattività e legge interpretativa - 23. (segue) Vicende della norma giuridica. Questioni di diritto transitorio - 24. reviviscenza della norma abrogata. (*) Avvocato dello Stato. 1. Norma giuridica, disposizione, fonte del diritto. Qualsivoglia comunità, deputata ad uno scopo, per sopravvivere deve organizzarsi ripartendo i compiti - specie l’organizzazione della forza - tra i propri componenti. tale situazione integra un ordinamento giuridico (1). Finalità dell’ordinamento statuale è di assicurare il vivere civile di un gruppo di persone - accomunato dalla stessa storia, lingua, cultura ed etnia - ubicato su un territorio. Per tale finalità è necessaria una organizzazione, ossia la predisposizione di norme e di un apparato coercitivo in grado di risolvere i conflitti, evitando l’anarchia e l’implosione dell’ordinamento. l’organizzazione di qualsivoglia ordinamento giuridico per realizzare i suoi fini produce o riconosce norme giuridiche (2). tanto a mezzo di peculiari norme: le norme di organizzazione. Queste delineano il procedimento con il quale vengono prodotte le norme giuridiche. Questo procedimento può prevedere la diretta produzione ad opera dell’organizzazione, oppure il riconoscimento come norme giuridiche proprie (a mezzo della tecnica del rinvio formale o sostanziale) di norme prodotte da altri ordinamenti. la norma giuridica ha il carattere ontologico di prescrivere ed infatti rientra nella categoria generale delle proposizioni prescrittive. Come proposizione essa è un insieme di parole aventi un significato; come prescrizione ha un contenuto che consiste nel dare comandi, consigli, raccomandazioni, avvertimenti, sì da influire sul comportamento altrui e modificarlo (3). la norma giuridica dovrebbe avere un contenuto assiomatico, senza necessità di motivare (4). Va quindi distinta la disposizione dalla norma. la disposizione è la proposizione, l’insieme di parole - nel caso di disposizione scritta: un insieme di segni grafici - aventi un significato. È l’espressione di un discorso normativo dotato di autonomia sul piano delle regole logiche, grammaticali e sintattiche. la norma è il precetto che si ricava dalla disposizione a mezzo della interpretazione. la disposizione è il guscio, la forma, il contenente; la norma è il gheriglio, il contenuto. Si parte da un testo (la disposizione) per giungere ad un significato (la norma). (1) Sulle problematiche relative all’ordinamento giuridico: A.G. Conte, voce ordinamento giuridico, in Novissimo Digesto, vol. XII, Utet, 1965, pp. 45-54; F. ModUGno, voce ordinamento giuridico (dottrine), in Enc. del Diritto, vol. XXX, Giuffré, 1980, pp. 678-736. (2) Sulla norma giuridica: n. BoBBIo, voce Norma giuridica, in Novissimo Digesto, vol. XI, Utet, 1965, pp. 330-337; F. ModUGno, voce Norma (teoria gen.), in Enc. del Diritto, vol. XXVIII, Giuffré, 1978, pp. 328-393; V. CrISAFUllI, voce atto normativo, in Enc. del Diritto, vol. IV, Giuffré, 1959, pp. 238-261. (3) Su tali temi: n. BoBBIo, Teoria della norma giuridica, Giappichelli, 1958, pp. 71-122. (4) Conf. art. 3, comma 2, l. 7 agosto 1990, n. 241 secondo cui “La motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale”. Fanno eccezione gli atti normativi dell’Unione europea per i quali l’art. 296, comma 2, del trattato sul Funzionamento dell’Unione europea stabilisce che “Gli atti giuridici sono motivati e fanno riferimento alle proposte, iniziative, raccomandazioni, richieste o pareri previsti dai trattati”. ogni disposizione (un comma o un articolo di legge) può contenere una pluralità di norme, come, per converso una norma può essere ricavata da una pluralità di disposizioni. la norma giuridica scaturisce - come già il nome lascia immaginare - da una fonte. Fonte del diritto, della norma giuridica è qualsiasi atto o fatto idoneo a produrre norme giuridiche (5), germinante all’esito del procedimento delineato nelle norme di organizzazione dell’ordinamento giuridico. 2. individuazione della norma giuridica. norma giuridica è ciò che è prodotto attraverso il procedimento delineato dall’ordinamento giuridico. Ciascun ordinamento giuridico ha determinate norme disciplinanti il procedimento - competenza e regolazione dell’esercizio di tale competenza - per creare altre norme. Vengono in rilievo le norme sulla produzione giuridica. norme variamente denominate dai giuristi: H. Kelsen descrive la norma fondamentale (che prescrive di obbedire ai padri della Costituzione), A. ross fa riferimento a norme di competenza (che creano poteri ed autorità), H.l.A. Hart fa riferimento a norme secondarie (stabilenti i criteri in base ai quali le norme possono dirsi valide nell’ordinamento). Vengono in rilievo norme che regolano norme o norme su norme, ossia metanorme (6). nell’ordinamento giuridico italiano è norma giuridica tutto ciò che è riconducibile, in modo diretto ed indiretto, alla Costituzione entrata in vigore nel 1948. Quanto descritto è il dato necessario. Il criterio per individuare ciò che è norma giuridica è, quindi, essenzialmente formale (7). In aggiunta al dato formale/procedimentale, costituito dalla produzione attraverso il procedimento tipico delineato dalle norme sulla produzione giuridica, le norme giuridiche presentano - normalmente e prevalentemente anche un requisito sostanziale. (5) Per un quadro d’insieme sulla materia delle fonti del diritto si richiamano ex multis: A.M. SAndUllI, voce Fonti del diritto, in Novissimo Digesto, vol. VII, Utet, 1961, pp. 524-533; V. CrISAFUllI, voce Fonti del diritto (dir. cost.), in Enc. del Diritto, vol. XVII, Giuffré, 1968, pp. 925-966; r. GUAStInI, Le fonti del diritto, Giuffré, 2010, pp. 1 e ss.; V. CrISAFUllI, Lezioni di diritto costituzionale, II volume, CedAM, V edizione, 1984, pp. 1 e ss.; t. MArtIneS, Diritto costituzionale, III edizione, Giuffrè, 1984, pp. 49 e ss.; r. BIn - G. PItrUzzellA, Diritto costituzionale, VIII edizione, Giappichelli, 2007, pp. 277 e ss.; A. BArBerA - C. FUSAro, Corso di diritto costituzionale, II edizione, Il Mulino, 2014, pp. 101 e ss.; n. BoBBIo, Teoria dell’ordinamento giuridico, Giappichelli, 1960, pp. 25 e ss.; M. lUCISAno, voce Fonti del Diritto in il diritto. Enciclopedia Giuridica del Sole 24ore, vol. 6, 2007, p. 469. (6) Per una sommaria descrizione della problematica: G. CArCAterrA, Presupposti e strumenti della scienza giuridica, Giappichelli, 2011, pp. 23-28 e n. BoBBIo, voce Norma giuridica, cit., pp. 336337; r. GUAStInI, Le fonti del diritto, cit., pp. 25 e ss. (7) l’efficacia formale è la particolare forza derivante dagli atti e fatti dall’essere emanati da determinati organi secondo procedure prefissate: così t. MArtIneS, Diritto costituzionale, cit., p. 73. In tal senso già V.e. orlAndo, Principi di diritto costituzionale, Barbera, 1889, p. 120 secondo cui “ogni provvedimento che sia stato approvato dalle due Camere e sanzionato dal re, è legge. Questo senso prescinde completamente dal contenuto delle legge medesima: tutto si riassume nella forma”. tale requisito sostanziale è il contenuto della disposizione, costituito dal precetto con i caratteri della innovatività, generalità ed astrattezza (8). l’innovatività consiste nella circostanza che con la norma giuridica viene innovato l’ordinamento giuridico, ossia introdotte, modificate, abrogate norme preesistenti equiparate o subordinate. Parte della dottrina ritiene che l’innovatività sia da collegare alla provenienza dai pubblici poteri degli atti o fatti idonei a produrre diritto (9). la generalità consiste nella attitudine della norma a regolare categorie di fatti o di comportamenti senza riferimento a situazioni o rapporti determinati. l’astrattezza implica che la norma dispone in via preventiva ed ipotetica e secondo uno schema logico in base al quale se si verifica l’evento A deve verificarsi l’evento B (10); vi è il carattere della indefinita ripetibilità ed applicabilità a fattispecie concrete. Si rileva in dottrina che è “innegabile che la generalità rappresenta quanto meno - un carattere delle norme costituenti il diritto oggettivo. Questo, infatti, è ordinamento, e non è concepibile ordinamento che non abbia un certo grado di stabilità e permanenza nel tempo; né basta a formare un ordinamento una somma seriale di precetti individuali, esaurentesi ciascuno una tantum, che sarebbero - da soli - inidonei ad oggettivizzarsi, distaccandosi dai fatti od atti dai quali derivano” (11). Generalità ed astrattezza sono altresì caratteri funzionali al rispetto dei principi costituzionali di cui all’art. 1 Cost., secondo cui la sovranità appartiene al popolo (e quindi la norma giuridica deve valere per tutti e non per uno specifico destinatario) e all’art. 3 Cost., secondo cui tutti sono eguali di fronte alla legge, al diritto oggettivo (e quindi la legge deve disciplinare indistinti casi futuri e non puntuali casi concreti). Va precisato che il contenuto particolare e/o concreto - in assenza di una riserva di amministrazione - in sé e per sé non rende illegittima la norma giuridica (12). Anzi, il principio di eguaglianza sostanziale ex art. 3, comma 2, Cost., - che impone di trattare in modo eguale situazioni eguali e in modo diverso situazioni diverse - può richiedere leggi dal contenuto particolare per (8) Ex plurimis: A. BArBerA - C. FUSAro, Corso di diritto costituzionale, cit., p. 123. (9) tra gli altri: A.M. SAndUllI, voce Fonti del diritto, cit., p. 525. (10) Su tali concetti t. MArtIneS, Diritto costituzionale, cit., p. 58. (11) Così testualmente V. CrISAFUllI, Lezioni di diritto costituzionale, cit., p. 22; nello stesso senso, il citato autore, alla voce Fonti del diritto (dir. cost.), cit., p. 949. (12) t. MArtIneS, Diritto costituzionale, cit., p. 62 osserva che “la Costituzione non vieta che la legge assuma un contenuto concreto giacché, laddove vuole che essa abbia carattere di generalità, lo ha espressamente disposto (v. artt. 16, comma i; 21, comma V; 33 comma ii; 128)”. In senso analogo la Corte Costituzionale, secondo cui “secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, non è preclusa alla legge ordinaria la possibilità di attrarre nella propria sfera di disciplina oggetti o materie normalmente affidati all'autorità amministrativa, non sussistendo un divieto di adozione di leggi a contenuto particolare e concreto, ossia di leggi-provvedimento (sentenza n. 347 del 1995)” (sentenza 13 luglio 2007, n. 267). “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Ciò al fine di garantire l’eguaglianza dei punti di partenza. Quindi, la deroga ai caratteri della generalità ed astrattezza, deve giustificarsi per la ragionevolezza e non arbitrarietà della previsione (arg. ex art. 3 della Cost. sul principio costituzionale di eguaglianza). la deroga ai caratteri della generalità ed astrattezza, ancorché facultata dal principio di eguaglianza sostanziale, non deve tuttavia interferire con l’esercizio concreto della funzione giurisdizionale. Vuol dirsi che la detta deroga deve giustificarsi altresì nel rispetto della funzione giurisdizionale (artt. 101 ss. Cost.) in ordine alla decisione delle cause in corso (13). Il limite rappresentato dal rispetto dell'esercizio della funzione giurisdizionale può essere violato in vari modi: qualora la legge-provvedimento incida su un giudizio pendente, come nel caso della legge revocante determinate autorizzazioni che intervenga quando è in corso una causa relativa a queste ultime; qualora la legge-provvedimento addirittura impedisca l'insorgere di un giudizio, come nel caso della legge attuante la sanatoria di decreti assessorili per evitare che l'assessore incorra in responsabilità da far valere giudizialmente; qualora la legge-provvedimento comporti una elusione del giudicato, come nel caso della legge prevedente un concorso riservato ai candidati esclusi da un altro precedentemente svolto, mentre l'ottemperanza al giudicato del giudice amministrativo, che aveva annullato i provvedimenti di esclusione dei suddetti, avrebbe richiesto il rinnovo della procedura concorsuale (14). le leggi provvedimento devono inoltre ritenersi escluse in tutti i casi in cui la Costituzione richiede specificamente leggi generali: così all’art. 16 Cost. secondo cui limitazioni alla libertà di circolazione e soggiorno possono essere stabilite dalla legge “in via generale per motivi di sanità e di sicurezza” (15). Il dato formale - produzione all’esito del procedimento delineato dalle norme sulla produzione giuridica - è il requisito necessario per individuare le norme giuridiche (16). Il dato sostanziale (innovatività, generalità ed astrat- (13) In ordine a tali limiti, ex plurimis, Corte Costituzionale, sentenza n. 267/2007, cit.; Corte Costituzionale, sentenza 22 giugno 2010, n. 270. (14) Su tali aspetti: P. VIPIAnA, voce Legge-provvedimento regionale, in Dig., IV ed., Disc. pubbl., Agg. IV, Utet, 2010, pp. 250 e ss. (15) Per tale rilievo: A. BArBerA, C. FUSAro, Corso di diritto costituzionale, cit, p. 118-119. (16) tanto trova conferma nell’art. 3 d.P.r. 28 dicembre 1985, n. 1092 secondo cui “L'emanazione degli atti normativi, adottati con decreto del Presidente della repubblica e da inserire nella raccolta ufficiale, reca nella premessa la citazione delle disposizioni in base alle quali l'atto è emanato e la indicazione del ministro o dei ministri proponenti. Quando per legge è richiesto il parere del Consiglio di Stato o è intervenuta apposita deliberazione del Consiglio dei ministri, deve farsi menzione di tali adempimenti”. la “raccolta ufficiale degli atti normativi della repubblica italiana” è disciplinata dalla l. 11 dicembre 1984, n. 839. tezza) potrà coesistere - anzi: dovrebbe coesistere - ma non è un requisito strutturale. Vuol dirsi che una legge particolare e concreta è fonte di norme giuridiche; si può porre un problema di costituzionalità (se di contenuto irragionevole); ma, comunque, è una norma. Vuol dirsi ancora che una legge priva di contenuto prescrittivo (ad esempio, riportante l’elenco telefonico degli utenti di una città) è pur essa norma giuridica. la necessarietà del dato formale implica, quindi, che quanto scaturente dal procedimento delineato dalle norme sulla produzione giuridica è norma giuridica. Va posto ora un problema: ciò che è norma giuridica è solo quanto scaturente dal procedimento delineato dalle norme sulla produzione giuridica? ossia, il dato formale è non solo necessario, ma anche sufficiente ad individuare le norme giuridiche? All’uopo va osservato che determinati organi con lo stesso procedimento possono produrre atti con contenuto normativo (es. regolamenti) ed atti a contenuto diverso (es. amministrativi). Questo è il caso del Consiglio comunale che con lo stesso procedimento può produrre un regolamento (atto normativo), il bilancio (atto amministrativo contabile), il Piano regolatore Generale (atto misto, in parte normativo, in parte atto amministrativo generale). In questi casi - ma solo in questi casi - accanto al dato formale (all’evidenza requisito sempre necessario, ma tuttavia non sufficiente), occorre che sussistano anche i requisiti sostanziali della innovatività astrattezza e generalità; questi ultimi consentono di individuare la norma giuridica. Vuol dirsi, in conclusione che in generale ciò che è norma giuridica si desume da dati formali e che, in casi eccezionali, si desume anche da dati sostanziali. 3. Chiarezza e concisione della norma giuridica. Per realizzare la sua funzione la norma giuridica deve essere chiara e concisa (17). ove fosse non chiara - e quindi: oscura, confusa - la norma non potrebbe orientare il comportamento dei consociati. In particolare, quando la norma disciplina i rapporti con la Pubblica Amministrazione, la chiarezza è uno degli antidoti per contrastare la corruzione e l’illegalità: dove vi è opacità prescrittiva, è facile che possano esservi condotte illecite dei funzionari pubblici. la sinteticità è coessenziale al carattere prescrittivo. dovendo prescrivere - e non convincere - la norma deve essere essenziale, senza fronzoli. I caratteri ora detti sono sottolineati nelle norme e circolari dello Stato, di regioni e di enti territoriali che orientano la qualità della regolazione, le tecniche di redazioni degli atti normativi (18). (17) Su tali temi: M. GerArdo, Chiarezza e concisione degli atti giuridici, in questa rassegna, 2019, 1, pp. 223-252. da una rapida scorsa si evince che l’attuale quadro legislativo si caratterizza per la scarsa qualità: testi che rinviano ad altri testi, leggi che rinviano in aspetti qualificanti - a regolamenti, fattura sciatta, eccessiva lunghezza. Prima aporia è una sorta di provvedimentalizzazione della legge. È prassi che le leggi finanziarie (poi di stabilità ed ora di bilancio) degli ultimi anni sono strutturate in uno o pochi articoli, ciascuno con qualche migliaio di commi (19), vieppiù con numerose disposizioni-provvedimento. Una seconda aporia è quella che potremmo definire la delegificazione senza qualità. la delegificazione è una tecnica - massiva a partire dall’inizio degli anni ’90 del secolo scorso - per cui la disciplina di alcune materie non protette da riserva di legge assoluta è trasferita dalla fonte legislativa primaria a fonti normative inferiori o ad atti amministrativi generali, tale tecnica viene ritenuta maggiormente congeniale al fine dell’adattamento del sistema normativo alla rapida evoluzione della società e/o per la semplificazione del sistema normativo. ove la delegificazione venga intesa come trasferimento di livello delle fonti di disciplina, lo strumento emblematico è costituito dal regolamento cd. di delegificazione di cui all’art. 17, commi 2 e 3, l. 23 agosto 1988, n. 400. tale tecnica, tuttavia, ha determinato una moltiplicazione seriale delle fonti disciplinatrici, con complicazioni in ordine alla conoscibilità delle norme. Per illustrare il fenomeno si segnala il caso della disciplina in tema di esclusione dal diritto di accesso ai documenti amministrativi: ai sensi dell’art. 24, comma 2, l. 7 agosto 1990, n. 241, le singole pubbliche amministrazioni individuano le categorie di documenti da esse formati o comunque rientranti nella loro disponibilità sottratti al diritto di accesso. In attuazione di tale precetto è stata adottata una miriade di atti, dal contenuto pressoché identico, con parcellizzazione della disciplina. Il cittadino, per conoscere i casi di esclusione dall’accesso, deve fare una ricerca amministrazione per amministrazione, individuando altresì l’attuale vigenza della fonte. tale soluzione, in chiave di costi e benefici, non pare ottimale. Vuol dirsi che va ripensata la tecnica della delegificazione. Miglior partito sarebbe quello, per quanto possibile, di disciplinare con una unica fonte la materia, cercando di prevedere tutti i possibili casi concreti. Ulteriore aporia è quella della legge non autoapplicativa a causa del rinvio a provvedimenti completivi del precetto giuridico. negli ultimi anni deve re- (18) Ex plurimus: Circolare 2 maggio 2001, n. 1/1.1.26/10888/9.92 della Presidenza del Consiglio dei Ministri avente ad oggetto la “Guida alla redazione dei testi normativi”. tale testo, in apertura, evidenzia che il precetto normativo ha una valenza di ordine ed è efficace ed autorevole solo se è preciso, sintetico e chiaro per il destinatario. Si richiama anche l’art. 40, comma 1, dello Statuto della regione Abruzzo secondo cui “i testi normativi della regione sono improntati a principi di chiarezza e semplicità di formulazione e al rispetto delle regole fissate dalla legge sulla qualità della normazione”. (19) “quegli ammassi informi di norme” per S. CASSeSe, il diritto amministrativo: storie e prospettive, Giuffré, 2010, p. 550. gistrarsi che la legge dello Stato e delle regioni in misura rilevante contiene nella disciplina di una data materia - rimandi a provvedimenti completivi, da adottare entro un dato termine. Con il termine provvedimenti completivi si fa riferimento ad atti che completano la norma giuridica contenuta nella disposizione. In assenza di tali atti il precetto è incompleto e non può applicarsi. Vi è una sorta di rinvio per la determinazione del contenuto. tali provvedimenti completivi in minima parte sono fonti secondarie, come i regolamenti; per la massima parte sono delibere dell’organo politico collegiale (delibere del Consiglio dei Ministri o delibere di Giunta regionale), dell’organo politico monocratico (d.P.C.M.; d.P.G.r.; d.M.; d.I.; decreti assessorili), della dirigenza (decreti dirigenziali), o di altra Autorità all’uopo individuata (ad esempio l’AnAC) (20). Quale natura giuridica ha il provvedimento completivo? In dati casi ha forma e contenuto, come detto, di regolamento, e quindi non c’è problema. Ma negli altri casi la delibera, il decreto cos’è? Un mero atto amministrativo? Un atto normativo atteso che contribuisce alla descrizione della fattispecie (e quindi contribuisce ad innovare l’ordinamento giuridico)? deve ritenersi che l’atto completivo non è una norma giuridica mutuante i caratteri della disposizione richiamante. È un mero presupposto che resta fuori dalla norma e contribuisce alla individuazione del precetto in virtù di un rinvio formale o materiale (a seconda di come la disposizione disciplini il rinvio). Inutile dire che tale tecnica di normazione cozza con i principi di efficacia dell’azione politica, dilatandosi i tempi entro i quali conseguire e misurare i risultati. Con l’ulteriore aggravante che spesso i provvedimenti attuativi vengono adottati con ritardo rispetto ai termini fissati o addirittura non vengono (20) A mo’ di esempio si cita la previsione di cui all’art. 11, comma 6, del testo unico in materiadi società a partecipazione pubblica (d.l.vo 19 agosto 2016, n. 175) secondo cui “Con decreto del ministro dell'economia e delle finanze, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, per le società a controllo pubblico sono definiti indicatori dimensionali quantitativi e qualitativi al fine di individuare fino a cinque fasce per la classificazione delle suddette società. Per le società controllate dalle regioni o dagli enti locali, il decreto di cui al primo periodo è adottato previa intesa in Conferenza unificata ai sensi dell'articolo 9 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281. Per ciascuna fascia è determinato, in proporzione, il limite dei compensi massimi al quale gli organi di dette società devono fare riferimento, secondo criteri oggettivi e trasparenti, per la determinazione del trattamento economico annuo onnicomprensivo da corrispondere agli amministratori, ai titolari e componenti degli organi di controllo, ai dirigenti e ai dipendenti, che non potrà comunque eccedere il limite massimo di euro 240.000 annui al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali e degli oneri fiscali a carico del beneficiario, tenuto conto anche dei compensi corrisposti da altre pubbliche amministrazioni o da altre società a controllo pubblico”. Inutile sottolineare l’importanza di tale decreto: fissare il compenso congruo per i manager pubblici, strumentale alla efficienza delle società pubbliche, con le conseguenti ricadute sul bilancio pubblico. orbene, il decreto de quo, che doveva adottarsi entro 30 giorni dall’entrata in vigore del d.l.vo n. 175/2016, non è stato ancora adottato. Quale esempio di provvedimento completivo dell’AnAC si cita l’art. 192 d.l.vo n. 50/2016 in ordine alla fissazione delle modalità e criteri per l’iscrizione nell’elenco delle amministrazioni aggiudicatrici ai fini degli affidamenti in house. adottati. tale tecnica di normazione andrebbe espunta dal sistema. la legge, da subito, dovrebbe essere completa nei contenuti (21). tacito evidenziava che uno dei sintomi della corruzione della res pubblica è la molteplicità delle leggi. È fin troppo evidente che un testo normativo prolisso, involuto, richiamante altre disposizioni (in modo che il quadro della materia risulti da varie leggi, come un puzzle) agevola anche condotte amministrative opache. Più semplice e chiaro è il quadro normativo, meno facili sono condotte corruttive e viceversa. 4. rilevanza della individuazione delle fonti del diritto. Corollario della qualificazione di fonte del diritto è - nell’ordinamento giuridico della repubblica Italiana - l’applicazione di una serie di principi determinanti la disciplina essenziale della norma giuridica prodotta dalla fonte (22). Citeremo i più rilevanti. a) necessità della pubblicazione della norma giuridica nei modi ufficiali previsti dall’ordinamento giuridico. tale principio è enunciato, per le leggi ed i regolamenti, dall’art. 10 delle preleggi - per il quale “Le leggi e i regolamenti divengono obbligatori nel decimoquinto giorno successivo a quello della loro pubblicazione, salvo che sia altrimenti disposto” - ed è stato costituzionalizzato, per le leggi dello Stato, nell’art. 73, comma 3, Cost. (23). la pubblicazione delle fonti normative statali avviene mediante l'inserzione del testo nella “Gazzetta Ufficiale della repubblica”, a cura del Ministero della giustizia. la pubblicazione delle leggi e dei regolamenti regionali, nelle regioni a statuto ordinario, secondo l’art. 123, comma 1, Cost. è regolata dallo statuto. Giusta l’art. 12 l. 10 febbraio 1953, n. 62 “Le leggi e i regolamenti regionali entrano in vigore non prima del quindicesimo giorno successivo alla loro pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della regione, salvo i casi d'urgenza previsti dal secondo comma dell'art. 127 della Costituzione”. la pubblicazione di statuto (24) e regolamenti provinciali e comunali av- viene mediante affissione all’albo pretorio dell’ente. la pubblicazione ufficiale ha grande importanza, perché il testo pubbli- cato è quello che entra in vigore, diviene cioè obbligatorio per tutti. detto principio è applicabile a tutti gli atti normativi: per analogia (a simili (21) Sulle descritte aporie: M. GerArdo, La perdita di centralità della legge, quale conseguenza del tramonto dei caratteri della generalità e dell'astrattezza, in questa rassegna, 2018, 1, pp. 281-297. (22) Sulla problematica: A. BArBerA, C. FUSAro, Corso di diritto costituzionale, cit., p. 102. (23) “Le leggi sono pubblicate subito dopo la promulgazione ed entrano in vigore il quindicesimo giorno successivo alla loro pubblicazione, salvo che le leggi stesse stabiliscano un termine diverso”. (24) Per l’art. 6, comma 5, d.l.vo 18 agosto 2000, n. 267 “Lo statuto entra in vigore decorsi trenta giorni dalla sua affissione all'albo pretorio dell'ente”. ad simile) agli atti equiparati alla legge; a maggior ragione (a maiori ad minus) agli atti subordinati alla legge. Alla pubblicazione si sottraggono per loro natura i fatti normativi. b) ignorantia legis non excusat. Una volta pubblicata, e quindi efficace, la norma giuridica - ordinariamente - si applica a prescindere che i consociati ne abbiano o meno conoscenza, con l’eccezione dell’ignoranza “inevitabile” della legge penale (art. 5 c.p. all’esito dell’intervento ortopedico della Corte Costituzionale con la sentenza n. 364 del 24 marzo 1988). c) iura novit curia. Il giudice deve conoscere, cercare ed individuare d’ufficio le norme giuridiche applicabili alla fattispecie dedotta in giudizio. tale principio è desumibile dall’art. 101, comma 2, Cost. (“i giudici sono soggetti soltanto alla legge”) e 113 c.p.c. (“Nel pronunciare sulla causa il giudice deve seguire le norme del diritto”). Il giudice è libero di scegliere la norma da applicare, non incontrando vincoli nelle indicazioni delle parti e quindi potendo applicare d’ufficio una norma giuridica diversa da quella invocata, a condizione che sia rispettato il principio del contraddittorio. In tale attività non si applicano le norme sull’onere della prova. Circa la conoscenza della legge straniera applicabile l’art. 14 l. 31 maggio 1995, n. 218 dispone quanto segue: “1. L'accertamento della legge straniera è compiuto d'ufficio dal giudice. a tal fine questi può avvalersi, oltre che degli strumenti indicati dalle convenzioni internazionali, di informazioni acquisite per il tramite del ministero di grazia e giustizia; può altresì interpellare esperti o istituzioni specializzate. 2. Qualora il giudice non riesca ad accertare la legge straniera indicata, neanche con l'aiuto delle parti, applica la legge richiamata mediante altri criteri di collegamento eventualmente previsti per la medesima ipotesi normativa. in mancanza si applica la legge italiana”. Prima di tale intervento normativo prevaleva nella giurisprudenza la tesi che, in tanto il giudice sia tenuto a farne applicazione, in quanto la parte interessata ne fornisca la prova (25). tale tesi è attualmente valevole con riguardo alla consuetudine (26). d) Applicazione dell’art. 12 delle preleggi, in materia di interpretazione ed integrazione a mezzo dell’analogia legis e dell’analogia juris. Questa disposizione recita: “Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha ri- (25) Così: V. CrISAFUllI, voce Fonti del diritto (dir. cost.), cit., p. 935, in nota. (26) V. CrISAFUllI, voce Fonti del diritto (dir. cost.), cit., p. 936, in nota; C. MAndrIolI, A. CArrAttA, Diritto processuale civile, vol. I, XXV edizione, Giappichelli, 2016, p. 107, in nota. guardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato”. e) la violazione, posta in essere da autorità giurisdizionali, della norma giuridica, è censurabile dinanzi alla Corte di cassazione. In specie: - le sentenze civili pronunciate in grado d'appello o in unico grado, possono essere impugnate con ricorso per cassazione per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.); - le sentenze penali pronunciate in grado di appello o inappellabili possono essere impugnate con ricorso per cassazione per inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale (art. 606, comma 1, lett. b, c.p.p.). f) la violazione della norma giuridica integra l’antigiuridicità dell’illecito. 5. regole e principi. le norme giuridiche si specificano - a seconda dell’ambito applicativo - in regole e principi (27). le regole sono norme puntuali, norme particolari, con un ambito definito e preciso di applicazione. trattasi di norme chiare e precise da applicare alle singole fattispecie concrete. I principi sono norme generali, con un ambito vago e generico di applicazione; trattasi di norme di portata più vasta e meno specifica rispetto alle regole. Sovente, per potere essere applicati alle singole fattispecie concrete, hanno bisogno di una attenta ponderazione per scoprire a quale valore - dotato di una propria autonomia, senza necessità di rinvio a corpi sociali - si debba assegnare la prevalenza nel caso concreto. Il problema del distinguo tra regole e principi non è qualitativo - atteso che in entrambi i casi vengono in rilievo norme giuridiche (28) - ma quantitativo, a seconda del diverso livello di precisione o di genericità della disciplina. la genericità dei principi è a sua volta graduabile. Si possono individuare, procedendo dal meno generale al più generale, i principi generali di un istituto, di una materia, di un’intera branca del diritto, di un determinato ordinamento giuridico (29). (27) Sui principi: n. BoBBIo, Teoria dell’ordinamento giuridico, cit., pp. 181-182; n. BoBBIo, voce Principi generali di diritto, in Novissimo Digesto, vol. XIII, Utet, 1966, pp. 887-896; S. BArtole, voce Principi del diritto (dir. cost.), Enc. del Diritto, vol. XXXV, Giuffré, 1986, pp. 494-533; r. GUAStInI, Le fonti del diritto, cit., pp. 201-224. (28) Questa è altresì la tesi prevalente in dottrina; per orientamento minoritario i principi sarebberocostruzioni dottrinarie (Pacifici-Mazzoni) oppure orientamenti e ideali di politica legislativa (Betti). Sulle dette tesi: n. BoBBIo, voce Principi generali di diritto, cit., pp. 889-890. diverse sono le modalità con le quali individuare le regole oppure i principi. Unico è il modo di individuazione delle regole: la regola è una norma scaturente dalla interpretazione di una disposizione. duplice è il modo di individuazione dei principi: il principio è una norma che può scaturire o dalla interpretazione di una disposizione (principio contenuto in una precisa disposizione come quello di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.); oppure da un processo di generalizzazione, da un processo deduttivo, per astrazione da disposizioni puntuali e specifiche espressive di un medesimo indirizzo (principio generale inespresso, cui si riferisce l’art. 12, comma 2, delle preleggi). Per almeno tre aspetti è possibile distinguere le regole dai principi: a) le regole sono norme con antecedente chiuso (a fattispecie chiusa), mentre i principi sono norme con antecedente aperto. l’antecedente di una norma è chiuso allorché la norma enumera esaustivamente (rectius: in modo tassativo) i fatti in presenza dei quali si produce la conseguenza giuridica che essa stessa dispone. Per contro, l’antecedente è aperto, allorché la norma non enumera esaustivamente (rectius: enumerazione meramente esemplificativa) i fatti in presenza dei quali si produce la conseguenza giuridica corrispondente. b) le regole sono norme indefettibili, inderogabili, mentre i principi sono norme defettibili, derogabili. Una norma è indefettibile allorché non ammette eccezioni o, per meglio dire, non ammette altre eccezioni che quelle eventualmente stabilite in modo espresso nella norma stessa o in altre norme dello stesso ordinamento. Per contro, una norma è defettibile, allorché ammette eccezioni implicite, non stabilite nella norma stessa né in alcuna altra norma dell’ordinamento. c) I principi si distinguono dalle regole per la “posizione” che occupano nel sistema giuridico o in uno dei suoi settori. essi sono norme fondamentali in almeno due sensi: - danno fondamento e/o giustificazione assiologica ad altre norme. ogni insieme di norme, unite da uno stesso oggetto di disciplina, presuppone e sottintende valori, decisioni politiche caratterizzanti, certe idee di giustizia: ad esempio l’eguaglianza dei cittadini, la certezza del diritto, la tutela di chi agisce in buona fede. Sicché, dato un insieme qualsiasi di norme, si considerano principi le norme che incorporano quei valori, quei sentimenti di giustizia, quelle decisioni politiche. Ad esempio, nel diritto civile, il principio di tutela della buona fede fonda e giustifica le disposizioni sull’errore in quanto causa di annullamento del contratto (art. 1428 c.c.), le disposizioni sugli effetti della simulazione rispetto ai terzi e ai creditori (artt. 1415 e 1416 c.c.), le disposizioni che limitano l’opponibilità a terzi della modifica o della revoca della procura (art. 1396 c.c.), ecc.; (29) Per elementi di dettaglio: n. BoBBIo, voce Principi generali di diritto, cit., p. 894. - non hanno o non richiedono a loro volta fondamento o giustificazione assiologica, poiché sono percepiti come ovvi, autoevidenti, o intrinsecamente giusti. I principi sono norme che rivestono una importanza speciale, ovvero si presentano come norme caratterizzanti del sistema giuridico (o di una sua parte): essenziali per la sua identità assiologica (30). I principi - tanto espressi in disposizioni, quanto frutto di astrazione da disposizioni - di livello normativo superiore prevalgono su quelli di livello normativo inferiore, in conseguenza della regola sulla gerarchia delle fonti. Ad esempio il principio del favor debitoris - ricavato da norme di rango primario (es. artt. 1182, comma 4, 1184 c.c.) soccombe quando creditore è la P.A. per una pretesa tributaria in ossequio al principio, enunciato dall’art. 53, comma 1, Cost., secondo cui tutti devono concorrere alle spese pubbliche. I principi di livello inferiore - attesa la gerarchia delle fonti - devono essere in armonia con quelli di livello superiore o almeno non contrastanti con questi ultimi. A tale stregua, tutti i principi sono riconducibili alle norme supreme dell’ordinamento giuridico, atteso che - nella immaginifica piramide rovesciata illustrativa dell’ordinamento giuridico - l’ambito applicativo delle norme superiori è più ampio di quelle inferiori. Va evidenziato che i principi debbono essere distinti dalle clausole generali. In entrambi i casi si è in presenza di una disposizione generica; tuttavia, nei principi - al fine della concretizzazione della disciplina - non vi è il rimando al mondo sociale. Carattere proprio delle disposizioni relative alle clausole generali, infatti, è l’incompletezza di disciplina diretta dell’istituto (es. buon costume); sicché l’attività interpretativa impone all’interprete - al fine di determinare il contenuto delle norme di volta in volta applicabili - di attingere a dati extragiuridici, a conoscenze esterne, a regole di esperienza, a regole non scritte che cambiano da tempo a tempo e da luogo a luogo, a patrimoni conoscitivi diffusi in certi ambienti professionali, a regole di condotta prodotte dai corpi sociali e, quindi, preesistenti alla decisione del caso concreto (31). 6. Tipologia delle fonti. le fonti del diritto sono classificabili in base a vari criteri. a) Fonti-atto e fonti-fatto (32). A seconda della rilevanza o meno dell’elemento volontaristico le fonti sono distinguibili in fonti-atto e fonti-fatto. (30) Per tali aspetti: r. GUAStInI, Le fonti del diritto, cit., pp. 203-207. (31) Sui caratteri delle clausole generali: G. terrAnoVA, Elogio dell’approssimazione, Pacini giuridica, 2015, pp. 68-69, p. 167, p. 179; A. BArBerA, C. FUSAro, Corso di diritto costituzionale, cit., p. 114-115. (32) Per tale distinzione, ex plurimis: F. ModUGno, voce Norma (teoria gen.), cit., pp. 358-364; A. BArBerA, C. FUSAro, Corso di diritto costituzionale, cit., p. 102; r. GUAStInI, Fonti del diritto, cit., pp. 67-68. nella fonte-atto la norma viene prodotta da un soggetto dotato di potere normativo, all’esito di un procedimento espressamente finalizzato alla genesi del diritto disciplinato da norme ad hoc (variamente denominate: di organizzazione, sulla produzione, di secondo grado, di competenza). Vengono in rilievo comportamenti che producono norme in modo consapevole e intenzionale (33). nella fonte-fatto l’ordinamento dà rilievo, quale mero fatto, ad una data circostanza - nella sua oggettività - ai fini della produzione del diritto. Vengono in rilievo comportamenti che non sono consapevolmente e intenzionalmente produttivi di norme (34). Fonti fatto sono: - la consuetudine; - le fonti cd. extra ordinem; - gli atti normativi di ordinamenti “esterni”, diversi da quello italiano(l’ordinamento internazionale, l’ordinamento dell’Unione europea, l’ordinamento canonico, altri ordinamenti nazionali), le cui norme siano occasionalmente suscettibili di applicazione nell’ordinamento interno, in virtù del rinvio operato da norme interne (35). b) Fonti interne e fonti esterne. le fonti interne sono quelle appartenenti all’ordinamento che produce le norme giuridiche. le fonti esterne sono quelle appartenenti ad altro e distinto ordinamento cui quello che produce le norme giuridiche faccia rinvio. Ciò si ha quando, sulla base di determinati criteri di collegamento tra l’ordinamento interno e altri ordinamenti, si attribuisce a fonti normative esterne l’attitudine a produrre norme giuridiche nell’ordinamento interno. tanto è possibile solo se l’ordinamento giuridico riconosca, e quindi legittimi, fonti di altro ordinamento. le norme interne di riconoscimento sono vere e proprie fonti sulla pro- duzione (norme di organizzazione). Al riguardo si distinguono due tipi di rinvio: il rinvio mobile (o rinvio alla fonte, o non recettizio o formale) e il rinvio fisso (o rinvio alla disposizione o recettizio, o materiale) (36). Il rinvio mobile ha ad oggetto un tipo di fonte. Con tale tecnica vi è il rinvio a tutte le norme che la fonte richiamata è in grado di produrre nel tempo. la fattispecie di cui si tratta risulterà mutevolmente disciplinata dalle norme che di volta in volta saranno dettate da tale fonte (mutando le norme poste dalla fonte, muterà anche la disciplina della fattispecie in questione). (33) Così r. GUAStInI, Fonti del diritto, cit., p. 68. (34) r. GUAStInI, Fonti del diritto, cit., p. 68. (35) Su tali fonti: r. GUAStInI, Fonti del diritto, cit., pp. 69-74. (36) Su tale distinguo, ex plurimis: A. BArBerA, C. FUSAro, Corso di diritto costituzionale, cit., pp. 144-145; r. GUAStInI, Fonti del diritto, cit., p. 128. Un caso è l’adattamento automatico ex art. 10, comma 1, Cost. dell’ordinamento italiano al diritto consuetudinario internazionale. Altro caso è quello delle norme di diritto internazionale privato contenute nella l. 31 maggio 1995, n. 218; questa legge individua le situazioni che, in presenza di elementi di estraneità (nazionalità delle parti, luogo dei fatti, ecc.), mettono in collegamento l’ordinamento italiano con altri ordinamenti distinti e, di conseguenza, permettono il riconoscimento delle fonti esterne abilitate a produrre diritto oggettivo per disciplinare quelle stesse situazioni, consentendo al giudice di individuare la norma che deve essere applicata nella fattispecie concreta. la fattispecie di cui si tratta risulterà mutevolmente disciplinata dalle norme che di volta in volta saranno dettate da tale fonte (mutando le norme poste dalla fonte, muterà anche la disciplina della fattispecie in questione). Il rinvio fisso ha ad oggetto una disposizione determinata. Con tale tecnica il rinvio avviene nei confronti di una determinata disciplina storicamente individuabile, senza che le vicende che la riguardino assumano rilevanza nell’ordinamento interno. la fattispecie di cui si tratta resta disciplinata da quella disposizione, anche se la detta disposizione dovesse essere abrogata o sostituita da una disposizione diversa. Un esempio è l’ordine di esecuzione ex art. 80 Cost. attraverso il quale vengono recepite nell’ordinamento interno le norme contenute in trattati e accordi internazionali. c) Fonti di produzione e fonti di cognizione. le prime sono le normali fonti del diritto. le seconde sono i documenti e le pubblicazioni ufficiali, da cui è possibile avere conoscenza ufficiale delle norme originate dalle fonti di produzione, quali la Gazzetta Ufficiale della repubblica Italiana, la raccolta Ufficiale degli atti normativi della repubblica Italiana, il Bollettino Ufficiale delle regioni, la raccolte degli usi vigenti nelle varie province, la Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea. d) Fonti tipiche e fonti extra ordinem. le fonti tipiche sono quelle previste dalle norme di organizzazione, dalle fonti sulla produzione. le fonti extra ordinem producono diritto, norme giuridiche al di fuori del sistema giuridico. trattasi di fonti non previste dalle norme di organizzazione. Vengono in rilievo eventi, comportamenti che - benché illegittimi, o comunque non previsti come produttivi di diritto dalle vigenti norme sulla produzione giuridica - danno vita a norme che, di fatto, ricevono accettazione ed osservanza da parte dei loro destinatari e si impongono come vigenti in virtù del cd. principio di effettività. Classici esempi sono una rivoluzione vittoriosa o un colpo di stato riuscito che riescano ad instaurare un nuovo ordinamento costituzionale. Stati di necessità possono produrre diritto, cosa che accade durante eventi bellici o guerre civili. Fonte extra ordinem è la “prima” Costituzione, ossia non derivata da una Costituzione precedente, frutto dell’esercizio di potere costituente, non conferito né disciplinato da alcuna norma preesistente (37). tuttavia il sistema delle fonti extra ordinem, nell’attuale sistema normativo - con la previsione delle ordinanze di necessità e di urgenza, che saranno di seguito esaminate - ha una portata meno dirompente rispetto a quello sopraevidenziato. e) Fonti ordinate gerarchicamente. la norma giuridica può sgorgare da fonti di tipo diverso secondo la disciplina contenuta nelle norme di organizzazione dell’ordinamento giuridico. tra le varie norme giuridiche ve ne sono alcune che disciplinano il procedimento di formazione di altre norme giuridiche: ad esempio gli artt. 70-74 della Costituzione disciplinano il procedimento di formazione della legge ordinaria dello Stato. le fonti del diritto non producono norme con eguale forza giuridica. A seconda del rango conferito dalle norme di organizzazione alle fonti del diritto, le norme conseguenti hanno una diversa forza giuridica. Sicché è possibile delineare una precisa gerarchia tra le stesse. la gerarchia delle fonti postula l’esistenza di norme di diverso livello (ossia di almeno due livelli), uno dei quali superiore all’altro. la stessa comporta che una data norma non può porsi in contrasto con altra norma di livello superiore, pena la sua invalidità. Una norma giuridica è valida se è stata prodotta in modo conforme alla norma superiore. Una norma di livello inferiore non può abrogare o derogare una norma di livello superiore, mentre la norma superiore può sempre abrogare o derogare quella inferiore. nella descrizione della gerarchia delle fonti si tiene conto della costruzione a gradi dell’ordinamento giuridico, dello Stufenbau der rechtsordnung kelseniano, raffigurabile come una piramide rovesciata (38). nello Stufenbau, al principio dell’ordinamento vi è la norma fondamentale che non è posta ma presupposta: la norma fondamentale perciò è produttiva di diritto, ma non è, per definizione, esecuzione di alcuna altra norma superiore. Al grado ultimo dell’ordinamento giuridico vi è un atto che è esecuzione di norme superiori, ma che non è a sua volta produttivo di ulteriori norme: è atto coercitivo con il quale si applicano le sanzioni. tutti gli altri gradi dell’ordinamento intermedi sono contemporaneamente esecuzione di norme superiori e produzione di nuove norme. Anche il contratto, l’atto amministrativo e la sentenza sono fonti del diritto nella costruzione dell’ordinamento giuridico, atteso che sono collocati nei gradi intermedi dell’ordinamento e contengono proposizioni prescrittive. (37) r. GUAStInI, Le fonti del diritto, cit., p. 61. (38) Su tali concetti: H. KelSen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, einaudi, 2000, pp. 95 e ss. Si precisa che la qualificazione del contratto, dell’atto amministrativo e della sentenza quali fonti non è condivisa dalla prevalente dottrina. la tipologia delle fonti nell’odierno ordinamento giuridico italiano è, or- dinata gerarchicamente partendo dal grado più alto, la seguente: I) diritto primario dell’Unione europea; II) diritto derivato dell’Unione europea; III) Costituzione e fonti equiparate, tra cui le norme del diritto interna-zionale; IV) Fonti primarie: - leggi ed atti aventi forza di legge dello Stato; - statuti delle regioni ordinarie e leggi regionali; - leggi delle Province di trento e Bolzano; - regolamenti parlamentari, della Presidenza della repubblica, della Corte Costituzionale; V) Fonti secondarie: - regolamenti dello Stato (del Governo, ministeriali e interministeriali),degli enti territoriali e degli altri enti pubblici; - statuti di Province, Città metropolitane e Comuni e di altri enti pubblici; - ordinanze; VI) Consuetudine; VII) Fonti individuali: - atti di diritto privato (contratti e regolamenti privati; contratti collettivi); - provvedimenti amministrativi; - sentenze. 7. (segue) Tipologia delle fonti. i) Diritto primario dell’Unione Europea. Al vertice della gerarchia delle fonti - in virtù del primato del diritto dell’Unione - vi è il diritto primario dell’Unione europea. Costituisce diritto primario dell’U.e.: a)Il trattato sull’Unione europea (t.U.e.), firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992 e modificato, da ultimo, con il trattato di lisbona del 13 dicembre 2007; b) il trattato sul funzionamento dell’unione europea (t.F.U.e.), adottato all’esito del trattato di lisbona del 13 dicembre 2007; c) la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (cd. Carta di nizza), alla quale l’art. 6 del t.U.e. attribuisce “lo stesso valore giuridico dei trattati”; d) le sentenze interpretative della Corte di Giustizia dell’Unione europea, all’esito delle azioni sulle questioni pregiudiziali, aventi ad oggetto una delle precitate fonti; e) i principi generali del diritto dell’Unione europea. tali principi sono desumibili da due peculiari fonti: dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (CedU) firmata a roma il 4 novembre 1950. tanto alla stregua dell’art. 6, comma 3, t.U.e. secondo cui “i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali”; dai giudizi interpretativi dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, ove sono stati individuati principi del diritto dell’Unione, costituenti parametri di legittimità della condotta delle Istituzioni dell’U.e., tra i quali: il principio della certezza del diritto, in uno a quello del legittimo affidamento; il principio di proporzionalità; il principio dell’effetto utile, che impone un’applicazione o anche una interpretazione delle norme comunitarie che sia funzionale al raggiungimento della loro finalità; il principio di precauzione, sancito dal t.F.U.e. con riguardo alla tutela dell’ambiente (art. 191, comma 2), ma che la Corte ha definito come un principio generale che impone l’adozione di misure atte a prevenire rischi per la sicurezza e per la salute; il principio di leale collaborazione (ricavato dall’art. 4, comma 3, t.U.e.) allorché la realizzazione di un obiettivo del trattato richiede un esercizio coordinato delle competenze sia delle Istituzioni dell’Unione che di quelle nazionali; il principio di eguaglianza (l’art. 18 del t.F.Ue. pone il divieto di discriminazione fondato sulla nazionalità), con il divieto di trattare in modo diverso situazioni simili, ovvero di trattare in modo identico situazioni diverse (39). la norma di organizzazione che prevede tale fonte viene rinvenuta, dal giudice costituzionale, nell’art. 11 Cost. secondo cui: “L'italia […] consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; [...]”. 8. (segue) ii) Diritto derivato dell’Unione Europea. Vengono in rilievo quelle fonti del diritto previste nel diritto primario. ossia: a) regolamenti, direttive, decisioni e atti non legislativi di portata generale che integrano o modificano determinati elementi non essenziali dell'atto legislativo; b) sentenze interpretative della Corte di Giustizia dell’Unione europea aventi ad oggetto una delle precitate fonti. la norma di organizzazione che prevede le fonti di cui alla lettera a) sono gli artt. 288, 289 e 290 del t.F.U.e. l’art. 289 così dispone: “Per esercitare le competenze dell'Unione, le istituzioni adottano regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri. (39) Su tali principi: G. teSAUro, Diritto dell’Unione Europea, VII edizione, CedAM, 2012, pp. 104-122. il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi ele- menti e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri. La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. La decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi. Se designa i destinatari è obbligatoria soltanto nei confronti di questi. Le raccomandazioni e i pareri non sono vincolanti”. regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri costituiscono - come si evince dalla titolazione del Capo II della Parte VI del titolo I - atti giuridici dell’Unione. Il regolamento, nel sistema giuridico dell’Unione normalmente rappresenta l’equivalente della legge degli ordinamenti statali. la decisione che designa i destinatari corrisponde, in sostanza, all’atto amministrativo dei sistemi giuridici nazionali, in quanto rappresenta lo strumento utilizzato dalle Istituzioni quando sono chiamate ad applicare il diritto dell’Unione a singole fattispecie concrete (40). tra gli atti giuridici, quelli vincolanti (ossia regolamenti, direttive, decisioni) sono distinti, dall’art. 289 del tFUe., in atti legislativi e atti non legislativi, a seconda della procedura adottata. nella ipotesi degli atti legislativi, gli atti vincolanti vengono adottati con procedura legislativa, ordinaria o speciale, muovendo da una proposta della Commissione. nella ipotesi degli atti non legislativi, invece, gli atti sono adottati senza il ricorso alla procedura legislativa, ordinaria o speciale. Gli atti vincolanti non legislativi vanno distinti tra atti non legislativi di secondo grado ed atti non legislativi di terzo grado. nella prima categoria rientrano gli atti adottati da una istituzione sulla base di una specifica disposizione del trattato, quali ad esempio gli atti adottati dalla Commissione nell’ambito del suo potere autonomo di decisione (41). nella categoria degli atti non legislativi di terzo grado vanno ricondotti quelli volti a rendere operative norme secondarie, restando a queste subordinate, secondo la previsione dell’art. 290, comma 1, secondo cui: “Un atto legislativo può delegare alla Commissione il potere di adottare atti non legislativi di portata generale che integrano o modificano determinati elementi non essenziali dell'atto legislativo. Gli atti legislativi delimitano esplicitamente gli obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della delega di potere. Gli elementi essenziali di un settore sono riservati al- (40) Sul punto: G. teSAUro, Diritto dell’Unione Europea, cit., pp. 139-141. (41) Ad esempio art. 106, comma 3 t.F.U.e.: “La Commissione vigila sull'applicazione delle disposizioni del presente articolo rivolgendo, ove occorra, agli Stati membri, opportune direttive o decisioni”. l'atto legislativo e non possono pertanto essere oggetto di delega di potere”. A precisazione del dovere di collaborazione degli Stati membri con l’U.e. fissato nell’art. 4, comma 3, del t.U.e., l’art. 291 prescrive: “1. Gli Stati membri adottano tutte le misure di diritto interno necessarie per l'attuazione degli atti giuridicamente vincolanti dell'Unione. 2. allorché sono necessarie condizioni uniformi di esecuzione degli atti giuridicamente vincolanti dell'Unione, questi conferiscono competenze di esecuzione alla Commissione o, in casi specifici debitamente motivati e nelle circostanze previste agli articoli 24 e 26 del trattato sull'Unione europea, al Consiglio. 3. ai fini del paragrafo 2, il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando mediante regolamenti secondo la procedura legislativa ordinaria, stabiliscono preventivamente le regole e i principi generali relativi alle modalità di controllo da parte degli Stati membri dell'esercizio delle competenze di esecuzione attribuite alla Commissione. […]”. l’atto esecutivo delineato nell’art. 291, paragrafo 2, può essere qualificato atto amministrativo vero e proprio, attraverso il quale si procede all’adozione di norme di esecuzione uniformi (42). le raccomandazioni e i pareri non sono vincolanti. tuttavia l’assenza di carattere vincolante non esclude qualsiasi effetto giuridico dagli atti in esame. difatti, specie la raccomandazione, è vincolante per l’autorità che l’ha adottata e, come evidenziato dalla Corte di Giustizia (43), i giudici nazionali devono tenere conto di raccomandazioni e pareri ai fini dell’interpretazione di norme nazionali o di altri vincolanti dell’Unione. oltre gli atti prefigurati all’art. 288 t.F.U.e., i trattati e la prassi prevedono atti diversi, qualificati dalla dottrina atti atipici in senso lato, concernenti ipotesi specifiche e per lo più funzionali all’attività istituzionale. tra questi ricordiamo le comunicazioni della Commissione a contenuto, di volta in volta, informativo, orientativo, interpretativo, ecc. (44). Gli atti giuridici sono motivati e fanno riferimento alle proposte, iniziative, raccomandazioni, richieste o pareri previsti dai trattati (art. 296 del t.F.U.e.) e, una volta firmati, sono pubblicati nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea, entrando in vigore alla data da essi stabilita oppure, in mancanza di data, il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione (art. 297, comma 1, tFUe). non tutto il diritto dell’Unione è direttamente applicabile negli Stati membri. le direttive richiedono una normativa di attuazione da parte degli Stati membri. Anche la normativa dell’Unione direttamente applicabile - regolamenti e decisioni - necessita di adattamento interno nei settori già disciplinati dal diritto statale nei quali essa va ad interferire. (42) Così: G. teSAUro, Diritto dell’Unione Europea, cit., p. 138. (43) Corte di Giustizia, 13 dicembre 1989, causa C-322/88, Grimaldi. (44) Su tali atti: G. teSAUro, Diritto dell’Unione Europea, cit., pp. 156-161. A tal fine è prevista, con cadenza annuale, l’adozione di due leggi - la legge di delegazione europea, contenente la “Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l'attuazione di altri atti dell'Unione europea”, e la legge europea - al fine di assicurare il periodico adeguamento dell'ordinamento nazionale all'ordinamento dell'Unione europea (artt. 29-30 l. 24 dicembre 2012, n. 234). Anche nella legislazione regionale si è diffusa l’adozione di una legge europea, per i profili attuativi di competenza regionale. Al termine di un lungo e peculiare percorso, l’assestato quadro dottrinale e giurisprudenziale (in specie: Corte di Giustizia dell’Unione europea e Corte Costituzionale) è nel senso del primato dell’ordinamento dell’U.e. - tanto per il diritto primario, quanto per quello derivato - rispetto a quello nazionale, con la precisazione che il detto primato trova un limite nel necessario rispetto dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona umana (45). 9. (segue) iii) Costituzione e fonti equiparate, tra cui le norme del diritto internazionale. A questo livello della scala gerarchica appartengono le seguenti fonti del diritto: a) Costituzione della repubblica Italiana. la Costituzione della repubblica Italiana è entrata in vigore il 1° gennaio 1948, contiene le norme e i principi fondamentali sull’assetto e l’organizzazione dello Stato e dei pubblici poteri, nonché le norme di garanzia nei rapporti tra questi e la comunità nazionale. essa è: rigida, atteso che per la revisione occorre la procedura aggravata descritta negli artt. 138-139 della stessa; lunga, in quanto contiene non solo la disciplina dell’organizzazione della repubblica (Parte Seconda), ma anche i principi fondamentali ed il bill of rights (Parte Prima: diritti e doveri dei cittadini); espressiva, nei contenuti, del liberalismo democratico (46). b) leggi di revisione della Costituzione (la relativa norma di organizza- zione è l’art. 138 Cost.). la dottrina prevalente ritiene che esistono limiti espressi ed impliciti alla revisione costituzionale (47). È opinione diffusa che “le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali (art. 138), pure equiparate alla Costituzione quanto alla loro forza formale nei confronti di tutte le altre fonti dell’ordinamento positivo (alle quali tutte, sono sovraordinate), trovano a loro volta dei limiti nella Costituzione (ciò per cui esse sono passibili del (45) Sul rapporto tra l’ordinamento dell’unione europea e quello italiano: U. VIllAnI, istituzioni di diritto dell'Unione Europea, Cacucci editore, IV edizione, 2016, pp. 417 e ss.; B. ConFortI, Diritto internazionale, editoriale Scientifica, X edizione, 2015, pp. 377 e ss. (46) e.t. FroSInI (a cura di), Diritto pubblico comparato, Il Mulino, 2018, pp. 51-55. (47) Ex plurimis: A. BArBerA, C. FUSAro, Corso di diritto costituzionale, cit, p. 118-119. giudizio di costituzionalità), in termini di oggetto (vi sono materie sottratte alla revisione: forma repubblicana, art. 139; diritti inviolabili, artt. 2 e ss.) e in termini di principi: quelli supremi dell’ordinamento costituzionale vincolano anche le leggi di rango costituzionale (Corte cost. 1146/1988)” (48). Questa è anche la posizione della Corte Costituzionale (49). Quanto opinato dalla descritta opinione non è accoglibile: il divieto di revisione della forma repubblicana è superabile con la preliminare abrogazione dell’art. 139 e la successiva revisione; tutte le altre disposizioni sono emendabili purché si segua l’iter descritto nell’art. 138, atteso che il rango della legge di revisione della Costituzione è equiparato alla Costituzione. c) Altre leggi costituzionali (leggi costituzionali integrative, complementari), ossia leggi la cui la norma di organizzazione si trova nella Costituzione, come ad esempio gli statuti delle regioni ad autonomia speciale exart. 116, comma 2, Cost. d) norme internazionali veicolate nell’ordinamento nazionale a mezzo di norme previste nella Costituzione. Vuol dirsi che la Costituzione rinvia ad una fonte esterna per la disciplina di una data materia. Vengono in rilievo le seguenti fattispecie: diritto internazionale consuetudinario. la norma di organizzazione che la prevede l’art. 10, comma 1, Cost. secondo cui: “L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” (50); diritto internazionale pattizio. le norme di organizzazione che lo prevedono sono gli artt. 80 (51) e 117, comma 1 (52), della Costituzione. e) Sentenze della Corte Costituzionale che dichiarino l’illegittimità costituzionale delle leggi di revisione della Costituzione e delle altre leggi costituzionali integrative per vizio formale (ove, per esse, non sia stata osservata la procedura prescritta dall’art. 138) o, secondo un’opinione diffusa, per vizio sostanziale (in quanto abbiano inteso operare nella sfera in cui la Costituzione è immodificabile) (53). (48) Per questi puntuali rilievi: V. CerUllI IrellI, Lineamenti del diritto amministrativo, VI edizione, Giappichelli, 2017, p. 13. (49) Sulla problemativa: r. GUAStInI, L’interpretazione dei documenti normativi, Giuffré, 2004, pp. 319-328. (50) In senso contrario alla tesi che le norme in questione avrebbero la stessa efficacia della Costituzione è r. GUAStInI, Le fonti del diritto, cit., pp. 459-460 per il quale la consuetudine internazionale è una fonte primaria, subordinata alla Costituzione e le norme da essa prodotte possono svolgere la funzione di norme interposte nel giudizio di legittimità costituzionale, sicché una norma di legge che fosse in contrasto con internazionali consuetudinarie sarebbe dunque costituzionalmente illegittima, per violazione (indiretta) dell’art. 10, comma 1, Cost., mentre una norma di legge che fosse in contrasto con norme internazionali consuetudinarie successive dovrebbe ritenersi o tacitamente abrogata, o affetta da invalidità sopravvenuta. (51) “Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi”. (52) “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. f) Consuetudini costituzionali, risultanti dalla ripetizione costante di comportamenti uniformi (o comunque retti da comuni criteri, in situazioni identiche o analoghe) degli organi costituzionali nei loro reciproci rapporti (54). Ad esempio, la Corte Costituzionale, con la sentenza 10 luglio 1981, n. 129, ha rilevato la sussistenza di una consuetudine costituzionale - maturata sotto il vigore dello Statuto Albertino e proseguita con la Costituzione - circa l’esenzione delle Camere e della Presidenza della repubblica dal controllo contabile della Corte dei Conti attesa la spiccata autonomia normativa, organizzativa e funzionale di Camere e Presidenza. Va rilevato che parte minoritaria della dottrina - in assenza di rinvio alla consuetudine da parte della Costituzione e in presenza di una Costituzione rigida - non reputa ammissibile la consuetudine costituzionale (55). 10. (segue) iV) Fonti primarie: leggi ed atti aventi forza di legge dello Stato; statuti delle regioni ordinarie e leggi regionali; leggi delle Province di Trento e Bolzano; regolamenti parlamentari, della Presidenza della repubblica, della Corte Costituzionale. le fonti primarie - la terminologia risente della situazione ottocentesca nella quale, in assenza di una Costituzione rigida, la legge era al vertice della gerarchia normativa - nella gerarchia delle fonti sono sottostanti alla Costituzione (ed atti equiparati) e soprastanti ai regolamenti (ed atti equiparati). la legge è una fonte gerarchicamente subordinata alla Costituzione (ed atti equiparati) in quanto non è autorizzata a modificare la Costituzione (art. 138 Cost.) ed altresì perché una legge in contrasto con la Costituzione può essere caducata da una decisione della Corte Costituzionale (artt. 134 e 136 Cost.). le fonti primarie costituiscono un sistema chiuso. Ciò significa due cose: innanzitutto, che non sono configurabili fonti primarie al di là di quelli espressamente previste dalla Costituzione; in secondo luogo, il carattere chiuso degli atti primari implica che ciascun atto normativo non può disporre di una forza maggiore di quella che la Costituzione a esso attribuisce (56). Leggi ordinarie ed atti aventi forza di legge dello Stato (57). la norma di organizzazione che disciplina il procedimento di formazione della legge ordinaria - iniziativa, approvazione, promulgazione, pubblicazione - è contenuta fondamentalmente negli artt. 70-74 della Costituzione. (53) Così: A.M. SAndUllI, voce Fonti del diritto, cit., p. 527. (54) Ex plurimis: A. BArBerA, C. FUSAro, Corso di diritto costituzionale, cit., pp. 146-147. (55) r. GUAStInI, Le fonti del diritto, cit., p. 170. (56) Su tali aspetti: A. BArBerA, C. FUSAro, Corso di diritto costituzionale, cit., p. 104. (57) Su tale fonte, ex plurimis: A.M. SAndUllI, voce Legge (diritto costituzionale) in Novissimo Digesto italiano, IX, Utet, 1963, pp. 630-651; F. ModUGno, voce Legge in generale, in Enc. del Diritto, vol. XXIII, Giuffré, 1973, pp. 872-904. oltre alla legge ordinaria, gli atti dello Stato aventi forza di legge sono: a) decreto legislativo. All’uopo l’art. 76 Cost. dispone: “L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di princìpi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”. l’eccesso di delega - ossia il mancato rispetto dei precetti contenuti nella legge delega - comporta la invalidità del decreto legislativo, configurandosi una indiretta violazione dell’art. 76 Cost., censurabile dinanzi alla Corte costituzionale; b) decreto legge. l’art. 77 Cost. prevede: “il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria. Quando, in casi straordinari di necessità e di urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni. i decreti perdono efficacia sin dall’inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti”; c) decreti adottabili dal Governo in seguito al conferimento dei poteri necessari in caso di guerra (art. 78 Cost. (58)). A tali fonti sono riconducibili i bandi dei comandanti militari in tempo di guerra ex art. 17 r.d. 8 luglio 1938, n. 1415 (59): ossia ritenere che l’art. 78 Cost. prevede un conferimento al Governo dei pieni poteri e che, nell’esercizio di questi, il Governo può legittimanente attribuire alla autorità militari potestà legislativa (60); d) sentenza della Corte Costituzionale dichiarativa della illegittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge (art. 136, comma 1, Cost. (61)); e) referendum abrogativo (art. 75 Cost. (62)). (58) “Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”. (59) “il comandante supremo ha facoltà di emanare bandi. La facoltà di emanare bandi può essere delegata dal comandante supremo ai comandanti di grandi unità terrestri, navali, aeronautiche o di piazze forti. La facoltà di emanare bandi spetta di diritto ai comandanti indicati nel comma precedente, i quali non abbiano la possibilità di comunicare con il comandante supremo. in questo caso, se più forze armate cooperano alle operazioni, la facoltà di emanare bandi spetta all'autorità, che ha l'alta direzione delle operazioni stesse. i bandi, emanati a norma dei commi precedenti, hanno valore di legge nella zona delle operazioni e nei limiti del comando dell'ufficiale che li ha emanati. restano fermi i maggiori poteri attribuiti al comandante supremo, relativamente alla emanazione dei bandi, dalla legge penale militare di guerra”. (60) Così: V. CrISAFUllI, voce Fonti del diritto (dir. cost.), cit., p. 942. (61) “Quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”. (62) “È indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non é ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di la qualità di atto avente forza di legge - di cui alle lettere a), b) e c) comporta il sindacato della Corte Costituzionale sulla legittimità costituzionale. Anche il referendum abrogativo integra un atto avente forza di legge: per un principio di simmetria, avendo forza di legge l’atto rimosso anche l’atto di rimozione ha la stessa natura. Sul punto si osserva - da Vezio Crisafulli - che l’abrogare puramente e semplicemente non è mai un “non disporre”, ma più precisamente un “disporre diversamente”, e come tale esercizio di potestà normativa. Ambedue gli atti di cui alle lettere d) ed e) determinano la perdita di efficacia della legge e degli atti aventi forza di legge (63): la dichiarazione di illegittimità con efficacia ex tunc, l’abrogazione referendaria con efficacia ex nunc. tra le leggi e gli atti aventi forza di legge si distinguono poi le leggi “rinforzate”. trattasi di leggi che disciplinano materie nelle quali vi è una specialità di procedimento. Ad es. la legge statale che approva le intese relative alla autonomia differenziata ex art. 116, comma 3, Cost. deve essere approvata con i voti della maggioranza assoluta di ciascuna camera, in deroga alla ordinaria regola per la quale è sufficiente la maggioranza dei presenti. tale tipo di legge, nella gerarchia delle fonti, ha una efficacia “ultraprimaria”, nel senso che può essere rivisitata solo con una legge dello stesso tipo e non con legge ordinaria. nella gerarchia delle fonti le leggi “rinforzate” occupano un grado intermedio tra le fonti costituzionali e le fonti normative primarie (64). Statuti delle regioni ordinarie. la norma di organizzazione che disciplina il procedimento di formazione dello statuto delle regioni ordinarie è contenuta nell’art. 123 della Costituzione (65). autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum é approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se é raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum”. (63) Conf. A.M. SAndUllI, voce Fonti del diritto, cit., p. 529 secondo cui le sentenze della Corte Costituzionale che dichiarano l’illegittimità di norme contenute in atti con valore di legge ed i referendum che operano l’abrogazione di simili norme, essendo dotati - sia le une che gli altri - della possibilità di far venire meno norme dotate di forza di legge, si qualificano essi stessi dotati di forza di legge. (64) Sul punto: A.M. SAndUllI, voce Fonti del diritto, cit., p. 527. (65) “Ciascuna regione ha uno statuto che, in armonia con la Costituzione, ne determina la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento. Lo statuto regola l'esercizio del diritto di iniziativa e del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della regione e la pubblicazione delle leggi e dei regolamenti regionali. Lo statuto è approvato e modificato dal Consiglio regionale con legge approvata a maggioranza assoluta dei suoi componenti, con due deliberazioni successive adottate ad intervallo non minore di due mesi. Per tale legge non è richiesta l'apposizione del visto da parte del Commissario del Governo. il Governo della repubblica può promuovere la questione di legittimità costituzionale sugli statuti regionali dinanzi alla Corte costituzionale entro trenta giorni dalla loro pubblicazione. Lo statuto è sottoposto a referendum popolare qualora entro tre mesi dalla sua pubblicazione ne faccia richiesta un cinquantesimo degli elettori della regione o un quinto Gli statuti delle regioni, tanto ad autonomia ordinaria quanto ad autonomia speciale, non sono atti analoghi alla Costituzione; sono statuti di autonomia (disciplinando, nella sostanza, solo l’ossatura dell’organizzazione dell’ente regione) e non Carte Costituzionali (le quali accanto alla organizzazione contengono anche il catalogo dei diritti e doveri fondamentali). lo Statuto funge da limite sia alle leggi dello Stato, che non possono invadere la competenza riservata dalla Costituzione a questa particolare legge (criterio di competenza), sia per le leggi regionali, rispetto alle quali hanno una posizione di sovraordinazione gerarchica (66). Leggi regionali nelle regioni a Statuto ordinario. la norma di organizzazione relativa al procedimento formativo delle leggi regionali nelle regioni a statuto ordinario è contenuta nella Costituzione (67) e, con elementi di dettaglio, nel pertinente Statuto regionale. Il rapporto tra legge statale e legge regionale non è di gerarchia - atteso che tali leggi sono equiparate nella scala gerarchica - ma è di competenza: ciascuna può intervenire nella materia ritagliata dalla Costituzione. Con riguardo al rapporto tra legge statale e leggi delle regioni a Statuto ordinario: - la legge statale è competente nelle cd. materie esclusive individuate nel comma 2 dell’art. 117 della Costituzione, per il quale “Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l'Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea; b) immigrazione; c) rapporti tra la repubblica e le confessioni religiose; d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi; e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; armonizzazione dei bilanci pubblici; perequazione delle risorse finanziarie; f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo; g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali; h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale; i) cittadinanza, stato civile e anagrafi; l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa; m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; n) dei componenti il Consiglio regionale. Lo statuto sottoposto a referendum non è promulgato se non è approvato dalla maggioranza dei voti validi. in ogni regione, lo statuto disciplina il Consiglio delle autonomie locali, quale organo di consultazione fra la regione e gli enti locali”. (66) In termini: r. BIn, G. PItrUzzellA, Diritto costituzionale, cit., p. 372. (67) Art. 121: “il Consiglio regionale esercita le potestà legislative attribuite alla regione. […] il Presidente della Giunta promulga le leggi ed emana i regolamenti regionali; […]”. norme generali sull'istruzione; o) previdenza sociale; p) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane; q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale; r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale; opere dell'ingegno; s) tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali”. tali materie sono riconducibili a quattro ambiti: competenze collegate ai poteri sovrani e all’identità nazionale; competenze relative a organismi statali e competenze relative agli enti locali; competenze relative alle fondamentali materie costitutive dell’ordinamento giuridico; competenze collegate a compiti di garanzia del sistema economico e dello Stato sociale (68); - la legge statale è altresì competente nelle cd. materie concorrenti individuate nel comma 3 dell’art. 117 della Costituzione, il quale così statuisce: “Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: rapporti internazionali e con l'Unione europea delle regioni; commercio con l'estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale”. tuttavia in tali materie - giusta la disposizione citata - allo Stato è riservata la sola “determinazione dei princìpi fondamentali”, ossia la determinazione dei valori ed obiettivi rilevanti; - la legge statale è infine competente nelle materie riservate da specifichedisposizioni costituzionale, diverse dall’art. 117 Cost., come ad esempio gli artt. 114 comma 3 (69), 122 comma 1 (70), e nelle materie interessate dalla cd. chiamata in sussidiarietà, istituto creato dalla Corte Costituzionale (71), (68) Così: r. BIn, G. FAlCon (a cura di), Diritto regionale, II edizione, Il Mulino, 2018, p. 238. (69) disponente: “roma è la capitale della repubblica. La legge dello Stato disciplina il suo ordinamento”. (70) Secondo cui: “il sistema d'elezione e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale nonché dei consiglieri regionali sono disciplinati con legge della regione nei limiti dei princìpi fondamentali stabiliti con legge della repubblica, che stabilisce anche la durata degli organi elettivi”. (71) Corte cost., sentenza 1 ottobre 2003, n. 303: la Corte ha precisato che “limitare l'attività unificante dello Stato alle sole materie espressamente attribuitegli in potestà esclusiva o alla determinazione con la quale si sono ampliate le competenze legislative dello Stato, oltre quelle indicate nell’art. 117 della Costituzione o in altre espresse disposizioni costituzionali, a garanzia di esigenze unitarie nazionali; - la legge regionale è competente nelle cd. materie concorrenti individuatenel citato comma 3 dell’art. 117 della Costituzione, nel rispetto dei principi fondamentali dettati dalla legge dello Stato (cd. legge cornice), con normativa, quindi, essenzialmente di dettaglio. Il principio di gerarchia torna ad operare nelle materie de quibus, poiché allo Stato spetta la funzione di stabilire i principi fondamentali ai quali la legge regionale si deve attenere; - la legge regionale è altresì competente - giusta il comma 4 dell’art. 117 Cost.: “Spetta alle regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato” - nelle cd. materie residuali, ossia diverse da quelle considerate nei commi 2 e 3 dell’art. 117 Cost., come ad esempio l’agricoltura, caccia e pesca, turismo, trasporto pubblico locale. l’individuazione delle materie non è agevole. Grande è stato il lavoro svolto dalla Corte Costituzionale, negli anni immediatamente successivi al 2001, dopo la novella del titolo V della Seconda Parte della Costituzione, rivolto a definire gli ambiti di potestà di Stato e regione. dai commi 2 e 3 citati emerge - come rilevato dalla Corte Costituzionale con orientamenti ormai consolidati - che il contenuto delle materie in dati casi è individuabile in modo conchiuso (cd. materie-oggetto, come quella dei “pesi, misure e determinazione del tempo”); in altri casi la materia riportata nei due commi non descrive un esatto oggetto, quanto piuttosto una funzione (materie cd. trasversali, materie-funzione, materie non materie) potendo abbracciare trasversalmente - varie materie individuate nei due commi citati. Ad esempio la materia ambientale (nella quale lo Stato ha potestà esclusiva), abbraccia trasversalmente anche le materie della “tutela della salute” e del “governo del territorio” (materie di potestà concorrente) e della agricoltura (nella quale la regione ha potestà residuale); con il corollario che il potere legislativo esclusivo dello Stato inevitabilmente comprime la potestà concorrente e la potestà residuale. Sicché la legislazione regionale - tanto concorrente, quanto residuale - che è fondamentalmente una normazione amministrativa, è limitata nei suoi contenuti dalle leggi statali contenenti la normazione di materie cd. trasversali contenute nell’elenco di cui all’art. 117, comma 2, Cost., quali, ad esempio, la tutela della concorrenza, i livelli dei principî nelle materie di potestà concorrente […] significherebbe bensì circondare le competenze legislative delle regioni di garanzie ferree, ma vorrebbe anche dire svalutare oltremisura istanze unitarie che pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale giustificano, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione di competenze [basti pensare al riguardo alla legislazione concorrente dell'ordinamento costituzionale tedesco (konkurrierende Gesetzgebung) o alla clausola di supremazia nel sistema federale statunitense (Supremacy Clause)]”. essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, l’ordinamento generale (civile, penale, processuale) ecc. (72). Leggi regionali nelle regioni a Statuto speciale. la norma di organizzazione relativa al procedimento formativo delle leggi regionali nelle regioni a statuto speciale è contenuta nel pertinente Statuto regionale, avente natura di legge costituzionale. Anche per le regioni a Statuto speciale, come per quelle a Statuto ordinario, il rapporto tra legge statale e legge regionale è di competenza. In base ai rispettivi Statuti, le regioni sono dotate di: - potestà legislativa esclusiva (piena o primaria), che è la più ampia e caratteristica, in quanto le regioni ordinarie ne sono prive. tale potestà è caratterizzata da un legame con la legislazione statale rappresentato da due limiti specifici: il limite dei principi generali dell’ordinamento giuridico (i quali presentano un minor grado d’intrusività rispetto ai principi fondamentali stabiliti dal legislatore statale da cui è limitata la competenza concorrente) ed il limite delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali; - potestà concorrente (non prevista nel solo Statuto della Valle d’Aosta),che incontra gli stessi limiti della omologa competenza delle regioni ordinarie (ma diverse sono le materie elencate); - potestà integrativa o attuativa, che consente alla regione speciale diemanare norme, in alcune specifiche materie, per adeguare la legislazione dello Stato alle particolari esigenze regionali (73). Il rapporto tra lo Statuto regionale (legge costituzionale nelle regioni con autonomia speciale; legge regionale rinforzata nelle regioni con autonomia ordinaria) e la legge regionale è - tendenzialmente - di gerarchia. di conseguenza una legge regionale in contrasto con lo Statuto è invalida ed è, pertanto, annullabile dalla Corte Costituzionale per incostituzionalità derivata (lo Statuto costituisce una norma interposta). Leggi delle Province di Trento e Bolzano. le leggi delle Province di trento e Bolzano sono previste nella Costituzione e trovano la loro norma di organizzazione nello Statuto della regione trentino Alto Adige. (72) Per una sintesi: r. BIn, G. FAlCon (a cura di), Diritto regionale, cit., pp. 238-247. (73) Sulla potestà legislativa delle regioni a Statuto speciale, anche in ordine alla cd. legge statutaria (che cumula la competenza che la Costituzione assegna agli Statuti delle regioni ordinarie e quella attribuita alle leggi elettorali degli stessi enti) e alla clausola di equiparazione (o di maggior favore): A. d’AtenA, Diritto regionale, II edizione, Giappichelli, 2013, pp. 251-282. regolamenti parlamentari. I regolamenti parlamentari trovano la loro norma di organizzazione nel comma 1 dell’art. 64 della Costituzione a termine del quale “Ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti”. Il rapporto tra tale regolamenti e le restanti norme primarie è di competenza, atteso che ad essi è esclusivamente riservata la materia della organizzazione e del funzionamento dell’assemblea. la legge che penetrasse nell’àmbito di competenza riservato ai regolamenti, così come il regolamento che li travalicasse, sarebbero illegittimi (74). non costituiscono atti con forza di legge e pertanto non sono censurabili per incostituzionalità dinanzi alla Consulta. regolamenti della Presidenza della repubblica e della Corte Costituzionale. Una potestà regolamentare relativa alla loro organizzazione e funzionamento è riconosciuta alla Corte Costituzionale (dalla l. 11 marzo 1953, n. 87 (75)) e alla Presidenza della repubblica (dalla l. 9 agosto 1948, n. 1077 (76)). la giurisprudenza della Corte Costituzionale tende ad affermare l’esistenza di un regime di autonomia dei supremi organi costituzionali, in virtù di una asserita posizione comune costituzionalmente tutelata. tale giurisprudenza (77) ha parificato i regolamenti della presidenza della repubblica e, implicitamente della Corte costituzionale, a quelli parlamentari. 11. (segue) V) Fonti secondarie: regolamenti dello Stato (del Governo, ministeriali e interministeriali), degli enti territoriali e degli altri enti pubblici. regolamenti ed atti amministrativi generali. le fonti secondarie nella gerarchia delle fonti sono sottostanti alla legge ordinaria ed atti equiparati e soprastanti agli usi ed atti equiparati. le fonti secondarie costituiscono un sistema aperto. l’individuazione delle fonti secondarie è lasciata alla disponibilità dei soggetti titolari di potere normativo primario, nel rispetto dei limiti costituzionali esistenti, tra cui, la gerarchia e la competenza delle fonti, nonché il principio di legalità, in base al quale tutti gli atti secondari devono essere deliberati sulla base di una previa norma di legge (78). (74) r. BIn, G. PItrUzzellA, Diritto costituzionale, cit., p. 354. (75) Art. 14, comma 1: “La Corte può disciplinare l’esercizio delle sue funzioni con regolamento approvato a maggioranza dei suoi componenti. il regolamento è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale”. (76) Art. 3, comma 3: “il Segretario rappresenta l'amministrazione della Presidenza della repubblica, sovraintente a tutti gli uffici e servizi della Presidenza medesima e propone al Presidente della repubblica l'approvazione del regolamento interno e dei provvedimenti relativi al personale”. (77) Corte cost., 10 luglio 1981, n. 129. (78) Su tali aspetti: A. BArBerA, C. FUSAro, Corso di diritto costituzionale, cit., p. 105; r. BIn, G. PItrUzzellA, Diritto costituzionale, cit., p. 362. le fonti secondarie attengono essenzialmente all’amministrazione. Sono fonti secondarie i regolamenti (79), gli statuti (80) e le ordinanze (81). regolamenti dello Stato (del Governo, ministeriali e interministeriali). I regolamenti “Secondo una antica definizione, sono atti «amministrativi», dal punto di vista soggettivo e dal punto di vista formale (perché promananti da autorità del potere esecutivo e nella forma consueta di ogni altro loro atto), ma «legislativi», dal punto di vista materiale (perché costitutivi del diritto oggettivo)” (82). la norma di organizzazione dei regolamenti è contenuta nei commi 6 e 7 dell’art. 117 della Costituzione secondo cui: “La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle regioni. La potestà regolamentare spetta alle regioni in ogni altra materia”. Ulteriore disposizione sulla materia è l’art. 87 Cost., secondo cui il Presidente della repubblica emana i regolamenti. la norma di organizzazione è, poi, dettagliata dalla legge 23 agosto 1988, n. 400. la legge dello Stato o della regione, a seconda dell’ambito delle competenze, può attribuire potestà regolamentare ad enti pubblici riconducibili agli enti di riferimento. In sintesi: in un sistema di gerarchia delle fonti, la norma di organizzazione della fonte secondaria non può che essere rinvenuta in una fonte superiore, come esplicitato e riassunto già dall’art. 3 delle preleggi secondo cui: “il potere regolamentare del Governo è disciplinato da leggi di carattere costituzionale. il potere regolamentare di altre autorità è esercitato nei limiti delle rispettive competenze, in conformità delle leggi particolari”. espressivo del principio di gerarchia delle fonti è altresì il successivo art. 4 delle preleggi, così statuente: “i regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni delle leggi. i regolamenti emanati a norma del secondo comma dell'art. 3 non possono nemmeno dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal Governo”. (79) Su tale fonte, ex plurimis: G. zAnoBInI, voce regolamento in Novissimo Digesto italiano, XV, Utet, 1968, pp. 239-247; l. CArlASSAre, voce regolamento (dir. cost.), in Enc. del Diritto, vol. XXXIX, Giuffré, 1988, pp. 605-638. (80) Su tale fonte, ex plurimis: V. ItAlIA, voce Statuto degli enti pubblici, in Enc. del Diritto, vol. XlIII, Giuffré, 1990, pp. 1017-1031. (81) Su tale fonte, ex plurimis: G.U. reSCIGno, voce ordinanza e provvedimenti di necessità e di urgenza (dir. cost. e amm.), in Novissimo Digesto italiano, XII, Utet, 1965, pp. 89-103; F. BArtoloMeI, voce ordinanza (dir. amm.), in Enc. del Diritto, vol. XXX, Giuffré, 1980, pp. 970-983. (82) Così V. Crisafulli, cit., p. 122. G. zAnoBInI, voce regolamento, cit., p. 241, precisa che “il regolamento non è soltanto un atto amministrativo generale, ma una norma giuridica”. Secondo V. onIdA, voce regolamenti regionali, in Enciclopedia Giuridica Treccani, XXVI, 1991, p. 5 “in tutta la nostra tradizione legislativa e amministrativa i regolamenti sono stati costantemente assimilati, quanto al trattamento e quindi anche alle condizioni per la revoca o l’abrogazione, ai provvedimenti amministrativi, ai quali sono accomunati dalla provenienza e, largamente, dalla forma”. Il regolamento, per i principi, non può mai essere adottato nelle materie coperte da riserva assoluta di legge, ossia nelle materie nelle quali la disciplina è consentita esclusivamente con la fonte della legge e degli atti aventi forza di legge (es: restrizioni alla libertà personale, in base alla disciplina di cui all’art. 13 Cost.); invece, può essere adottato nelle materie coperte da riserva relativa di legge, ossia nelle materie nelle quali la legge e gli atti aventi forza di legge delineano le norme di principio, sicché la fonte secondaria può intervenire, beninteso nel rispetto delle dette norme di principio (es. organizzazione dei pubblici uffici in base alla disciplina di cui all’art. 97 Cost.). Il regolamento è una fonte molto importante nel diritto amministrativo, costituendo lo strumento flessibile con il quale - storicamente - si modella l’organizzazione ed il funzionamento delle amministrazioni pubbliche e con il quale, di recente, si delegifica la disciplina di materie pubblicistiche. Il regolamento dello Stato è il modello paradigmatico. norma fondamentale sul punto è, quindi, l’art. 17 della legge n. 400/1988 citata, la quale innanzitutto delinea l’iter formativo che, per il regolamento governativo, è il seguente: deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio di Stato che deve pronunziarsi entro novanta giorni dalla richiesta; emanazione con decreto del Presidente della repubblica; visto e registrazione della Corte dei conti; pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Stesso iter, mutatis mutandis, si ha per i regolamenti ministeriali ed interministeriali: tutti i regolamenti or detti devono recare - al fine della facile identificazione - la denominazione di “regolamento”. All’uopo, il comma 3 dell’articolo citato precisa: “Con decreto ministeriale possono essere adottati regolamenti nelle materie di competenza del ministro o di autorità sottordinate al ministro, quando la legge espressamente conferisca tale potere. Tali regolamenti, per materie di competenza di più ministri, possono essere adottati con decreti interministeriali, ferma restando la necessità di apposita autorizzazione da parte della legge. i regolamenti ministeriali ed interministeriali non possono dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal Governo. Essi debbono essere comunicati al Presidente del Consiglio dei ministri prima della loro emanazione”.Atteso il tenore della norma i regolamenti ministeriali ed interministeriali - a differenza delle prime quattro tipologie di regolamenti governativi - necessitano di una espressa attribuzione legislativa del potere regolamentare (al Ministro o a più Ministri); non si tratta cioè di un potere a carattere generale spettante al Ministro in quanto tale nelle materie di attribuzione del relativo Ministero (83). All’evidenza tra regolamento governativo e regolamento ministeriale e (83) Per tale rilievo: V. CerUllI IrellI, Lineamenti del diritto amministrativo, VI edizione, Giappichelli, 2017, p. 17. interministeriale vi è un rapporto di gerarchia, come confermato - con più ampio ambito - dall’art. 4 delle preleggi. la tipologia dei regolamenti governativi è la seguente: a) regolamenti di esecuzione. Sono strumenti per disciplinare l'esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi, nonché dei regolamenti comunitari. la norma di organizzazione di cui all’art. 17 è sufficiente a giustificare - in via generale - l’adozione di tale tipo di regolamento. ossia, il governo senza il medio di una ulteriore legge di copertura può sempre adottare regolamenti di esecuzione nelle materie di propria competenza (84). Sono i regolamenti con minore elasticità: si limitano a contenere norme di mero dettaglio. Possono avere una funzione interpretativa-applicativa della legge oppure disciplinare le modalità procedurali per l’applicazione di essa. Incontrano un limite costituzionale laddove sia prevista una riserva assoluta di legge. tuttavia si ritiene che regolamenti di stretta esecuzione possano essere emanati anche in materia coperta da riserva assoluta: a condizione però che essi non integrino la fattispecie legislativa; la loro funzione deve limitarsi a predisporre gli strumenti amministrativi e procedurali necessari a rendere operativa la legge (85). b) regolamenti attuativi/integrativi. È una fonte per disciplinare l'attuazione e l'integrazione delle leggi e dei decreti legislativi recanti norme di principio, esclusi quelli relativi a materie riservate alla competenza regionale. Hanno maggiore elasticità rispetto ai regolamenti di esecuzione, potendo - nel rispetto di norme di principio - non solo precisare il precetto, ma anche integrarlo. Il regolamento costituisce lo svolgimento delle norme di principio. Come per i regolamenti di esecuzione, la norma di organizzazione di cui all’art. 17 è sufficiente a giustificare - in via generale - l’adozione di tale tipo di regolamento, fermo restando la presenza di leggi e dei decreti legislativi recanti norme di principio (86). c) regolamenti “indipendenti”. Sono strumenti per disciplinare quelle materie in cui manchi la disciplina da parte di leggi o di atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie comunque riservate alla legge. Anche qui, come per i regolamenti di esecuzione, il governo senza il medio di una ulteriore legge di copertura può sempre adottare regolamenti nelle materie di propria competenza, bastando a giustificare il potere la norma di copertura dell’art. 17. tali regolamenti si possono adottare nelle materie non coperte da riserve di legge, né assolute, né relative. Corollario di ciò è l’inammissibilità (84) Conf. M. ClArICH, manuale di diritto amministrativo, III edizione, Il Mulino, 2017, p. 74. r. BIn, G. PItrUzzellA, Diritto costituzionale, cit., p. 364. (85) Così: r. BIn, G. PItrUzzellA, Diritto costituzionale, cit., p. 365. (86) Contrari G. CorSo, manuale di diritto amministrativo, VIII edizione, Giappichelli, p. 51 secondo cui l’art. 17 citato “non legittima di per sé l’esercizio della potestà regolamentare. occorre, cioè, una specifica autorizzazione contenuta nella legge che prevede una esecuzione o una attuazione o una integrazione a mezzo di regolamento” e r. BIn, G. PItrUzzellA, Diritto costituzionale, cit., p. 365. di un regolamento indipendente disciplinante l’organizzazione e il funzionamento della pubblica amministrazione, atteso che tale materia è sottoposta a riserva di legge relativa. d) regolamenti di organizzazione. Sono strumenti per disciplinare l'organizzazione ed il funzionamento delle amministrazioni pubbliche secondo le disposizioni dettate dalla legge. tanto in coerenza con la riserva relativa di legge contenuta nel secondo comma dell’art. 97 Cost. secondo cui i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge. Come per i regolamenti di esecuzione, la norma di organizzazione di cui all’art. 17 è sufficiente a giustificare - in via generale - l’adozione di tale tipo di regolamento, nel rispetto delle disposizioni di legge. Invero tali regolamenti non delineano un tipo autonomo, ma la materia costituente il loro contenuto; tipologicamente sono da ricondurre ai regolamenti esecutivi o di attuazione/integrazione. e) regolamenti di delegificazione. È una fonte per normare a livello secondario una materia precedentemente regolata con legge, al fine di una pronta e snella disciplina. Il comma 2 dell’art. 17 recita: “Con decreto del Presidente della repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il Consiglio di Stato e previo parere delle Commissioni parlamentari competenti in materia, che si pronunciano entro trenta giorni dalla richiesta, sono emanati i regolamenti per la disciplina delle materie, non coperte da riserva assoluta di legge prevista dalla Costituzione, per le quali le leggi della repubblica, autorizzando l'esercizio della potestà regolamentare del Governo, determinano le norme generali regolatrici della materia e dispongono l'abrogazione delle norme vigenti, con effetto dall'entrata in vigore delle norme regolamentari” (87). Con tali regolamenti possono essere recepite direttive europee nelle materie di cui all'articolo 117, secondo comma, della Costituzione, già disciplinate con legge, ma non coperte da riserva assoluta di legge, se così dispone la legge di delegazione europea (art. 35, commi 1 e 2, l. n. 234/2012) (88). (87) Il comma 4-bis dell’art. 17 precisa altresì: “L'organizzazione e la disciplina degli uffici dei ministeri sono determinate, con regolamenti emanati ai sensi del comma 2, su proposta del ministro competente d'intesa con il Presidente del Consiglio dei ministri e con il ministro del tesoro, nel rispetto dei princìpi posti dal decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, con i contenuti e con l'osservanza dei criteri che seguono: a) riordino degli uffici di diretta collaborazione con i ministri ed i Sottosegretari di Stato, stabilendo che tali uffici hanno esclusive competenze di supporto dell'organo di direzione politica e di raccordo tra questo e l'amministrazione; b) individuazione degli uffici di livello dirigenziale generale, centrali e periferici, mediante diversificazione tra strutture con funzioni finali e con funzioni strumentali e loro organizzazione per funzioni omogenee e secondo criteri di flessibilità eliminando le duplicazioni funzionali; c) previsione di strumenti di verifica periodica dell'organizzazione e dei risultati; d) indicazione e revisione periodica della consistenza delle piante organiche; e) previsione di decreti ministeriali di natura non regolamentare per la definizione dei compiti delle unità dirigenziali nell'ambito degli uffici dirigenziali generali”. (88) Invece, nelle materie di cui all'articolo 117, secondo comma, della Costituzione, non disciplinate dalla legge o da regolamento emanato ai sensi dell'articolo 17, commi 1 e 2, della legge 23 agosto A differenza dei regolamenti di cui alle prime quattro ipotesi, all’evidenza, l’adozione dei regolamenti de qua necessita di apposita autorizzazione legislativa. regolamenti degli enti territoriali e degli altri enti pubblici. Circa la potestà regolamentare degli altri enti pubblici si osserva quanto segue. regolamenti regionali. Giusta l’art. 117, comma 7, Cost. - norma di organizzazione sul punto “La potestà regolamentare spetta alle regioni in ogni altra materia” (diversa dalle materie di legislazione esclusiva, ove la potestà spetta allo Stato). la norma di organizzazione è, poi, dettagliata mediante gli statuti regionali, giusta l’art. 123 Cost. per il quale il potere regolamentare delle regioni è disciplinato dai relativi statuti. Questi possono attribuire la potestà regolamentare al Consiglio (89) oppure alla Giunta (90) oppure a tutte e due gli organi; in quest’ultimo caso, di solito, i regolamenti sono deliberati dalla Giunta e poi sono sottoposti all’approvazione del Consiglio che deve provvedere entro un dato termine elasso il quale si intendono approvati. Il regolamento viene poi emanato dal Presidente della Giunta regionale (art. 121, comma 4, Cost.). nella gerarchia delle fonti i regolamenti regionali sono subordinati sia alla legge statale sia a quella regionale. Circa la tipologia di regolamenti ammissibili - prendendo a modello quelli statali ex art. 17 l. n. 400/1988 - si osserva. nessun dubbio sussiste circa l’adottabilità di regolamenti esecutivi e attuativi-integrativi. discussa è l’ammissibilità dei regolamenti regionali indipendenti; si dubita, infatti, tenuto conto del principio di legalità, che possano essere adottati regolamenti in assenza di una precisa abilitazione sostanziale del legislatore. Si reputano ammissibili i regolamenti di delegificazione (91). 1988, n. 400 e non coperte da riserva di legge, le direttive dell'Unione europea possono essere recepite con regolamento ministeriale o interministeriale, ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della citata legge n. 400 del 1988, o, ove di contenuto non normativo, con atto amministrativo generale da parte del Ministro con competenza prevalente nella materia, di concerto con gli altri Ministri interessati (art. 35, comma 3, l. n. 234/2012). (89) Specificando il precetto di cui all’art. 121, comma 2, Cost. secondo cui “il Consiglio regionale esercita le potestà legislative attribuite alla regione e le altre funzioni conferitegli dalla Costituzione e dalle leggi”. (90) Anche qui, specificando un precetto costituzionale (art. 121, comma 3) per il quale “La Giunta regionale è l'organo esecutivo delle regioni”. (91) Sulla problematica: l. MAzzArollI, G. PerICU, A. roMAno, F.A. roVerSI MonACo, F.G. SCoCA (a cura di), Diritto amministrativo, vol. I, IV edizione, Monduzzi, 2005, p. 118. regolamenti comunali e provinciali. In virtù dell’art. 117, comma 7, Cost. - norma di organizzazione sul punto - “i Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”. la norma di organizzazione è, poi, dettagliata dagli statuti, alla luce dell’art. 7 d.l.vo n. 267/2000 secondo cui “Nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dello statuto, il comune e la provincia adottano regolamenti nelle materie di propria competenza ed in particolare per l'organizzazione e il funzionamento delle istituzioni e degli organismi di partecipazione, per il funzionamento degli organi e degli uffici e per l'esercizio delle funzioni”. Va rilevato che lo spazio assegnato ai regolamenti locali è stato via via ristretto dalla legislazione statale e regionale. lo Stato dispone di potestà legislativa esclusiva in materia di legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province Città metropolitane (art. 117, comma 2, lett. p, Cost.); sicché la competenza regolamentare dell’ente locale in ordine alla disciplina dell’organizzazione non può modificare il quadro degli organi di governo dell’ente stesso. nella parte in cui ha per oggetto lo svolgimento delle funzioni, e quindi i procedimenti amministrativi, la potestà regolamentare dell’ente locale è vincolata dai principi stabiliti dalla legge sul procedimento amministrativo (l. 7 agosto 1990, n. 241) ed è tenuta comunque al “rispetto del sistema costituzionale e delle garanzie del cittadino nei riguardi dell’azione amministrativa” (art. 29 l. n. 241/1990) (92). Secondo talune opinioni, ad essi sarebbe applicabile la distinzione tipologica dei regolamenti governativi contenuta nell’art. 17 della l. n. 400/1988; non sarebbero tuttavia ammessi regolamenti locali di delegificazione (93). I regolamenti degli enti locali hanno rango sub-secondario: oltre che alla legge, infatti, essi devono rispettare i principi fissati dallo statuto. regolamenti degli altri enti pubblici. oltre che potestà statutaria, alcuni enti pubblici hanno anche potestà re- golamentare, per lo più di tipo esclusivamente organizzativo. Grande rilievo hanno i regolamenti adottati dalle Autorità indipendenti, in base ad attribuzioni - spesso generiche - di legge (sovente quella istitutiva dell’Autorità), atteso che vengono regolati importanti ordinamenti settoriali (concorrenza, telecomunicazioni, energia, ecc.). tali regolamenti non seguono l’iter procedurale relativo ai regolamenti governativi (salva la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale). Sono adottati da autorità non politiche nell’ambito di (92) Per tali rilievi: G. CorSo, manuale di diritto amministrativo, cit., p. 52. (93) Sulla problematica: l. MAzzArollI, G. PerICU, A. roMAno, F.A. roVerSI MonACo, F.G. SCoCA (a cura di), Diritto amministrativo, I vol., cit., p. 135. competenze loro proprie, spesso ad alta valenza discrezionale e presentano problemi di legittimità costituzionale nel silenzio del testo costituzionale sul punto, ma in presenza, tuttavia, di norme dell’Unione europea, di per sé legittimanti alcune di dette attribuzioni (94). Ciò precisato per le Autorità indipendenti, va altresì rilevato che - nei casi previsti dalla legge - l’ente pubblico è dotato di una pur minima potestà regolamentare, con oggetto la propria organizzazione - struttura degli uffici ed il rapporto con il personale - e l’esercizio delle proprie funzioni. tali atti sono sottoposti all’approvazione degli organi statali di vigilanza e pubblicati nelle forme prescritte. I regolamenti degli enti pubblici hanno rango sub-secondario: oltre che alla legge, infatti, essi sono subordinati anche ai regolamenti governativi. regolamenti ed atti amministrativi generali. I regolamenti sono la fonte secondaria più importante. Vanno distinti dall’atto amministrativo a contenuto generale, con il quale hanno in comune la sfera dei destinatari. tanto il regolamento, quanto l’atto generale si indirizzano ad una pluralità indeterminata di destinatari. Questa circostanza comporta che la disciplina dei due atti presenta dei caratteri comuni. e difatti - secondo la legge generale sul procedimento amministrativo - tanto per i regolamenti, quanto per i provvedimenti generali non è richiesta la motivazione (art. 3, comma 2: “La motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale”); non si applicano le norme sulla partecipazione al procedimento formativo (art. 13, comma 1: “Le disposizioni contenute nel presente capo non si applicano nei confronti dell'attività della pubblica amministrazione diretta alla emanazione di atti normativi, amministrativi generali, […]”); non opera il diritto di accesso ai documenti (art. 24, comma 1, lett. c: “il diritto di accesso è escluso: […] nei confronti dell'attività della pubblica amministrazione diretta all'emanazione di atti normativi, amministrativi generali, […]”). detto ciò, diversa è la natura giuridica di regolamento ed atto generale. Il regolamento è sia norma giuridica sia provvedimento amministrativo. l’atto amministrativo generale è un mero provvedimento amministrativo che è adottato senza innovare l’ordinamento giuridico ed in attuazione di norme giuridiche; rivolto a una pluralità di soggetti non individuabile a priori, ma solo a posteriori, cioè al momento della loro applicazione. Sono atti amministrativi a contenuto generale - i provvedimenti che fissano i prezzi di merci o di servizi o delle tariffe di talune prestazioni professionali per un certo periodo di tempo. trattasi di provvedimenti - oggi adottati anche localmente dalle regioni - di natura abla- (94) Per tali rilievi, con ulteriori considerazioni: V. CerUllI IrellI, Lineamenti del diritto amministrativo, cit., pp. 18-19. toria, in quanto spesso incidenti sulla libertà di iniziativa economica dei destinatari (art. 41 Cost.). Se ne afferma il carattere non normativo in ragione della concretezza ed attualità dell’interesse pubblico ad una certa determinazione di prezzi e tariffe che muove l’organo competente (95); - i bandi di gara o di un concorso pubblico, ossia il primo atto della procedura concorsuale con cui si indice una gara o un concorso pubblico. Il bando definito la lex specialis del procedimento, in quanto contiene disposizioni minuziose e tendenzialmente esaustive dell’intero iter procedimentale. tali atti non hanno natura di atti normativi. Infatti nonostante che abbiano carattere generale (rivolgendosi ad una indeterminata pluralità di soggetti), essi non posseggono il requisito dell’astrattezza, giacché riguardano esclusivamente la singola, concreta procedura concorsuale cui si riferiscono (96); - le Carte dei Servizi pubblici, contenenti una serie di prescrizioni a tuteladegli utenti dirette a misurare la qualità delle prestazioni erogate. È, invece, atto a contenuto misto il Piano regolatore Generale, ossia il fondamentale strumento urbanistico del Comune, efficace sull’intero territorio dell’ente e di durata indeterminata nel tempo, fino all’approvazione del piano successivo. Ciò in quanto tale atto contiene tanto statuizioni aventi valore di provvedimenti generali (come le previsioni relative alle localizzazioni e alle zonizzazioni, aventi carattere generale, ma concreto), quanto vere e proprie prescrizioni normative (come le statuizioni, di carattere astratto e generale, contenute nella cd. “norme d’attuazione” concernenti tipologie e standards urbanistici ed edilizi) (97). Gli atti generali illegittimi, se immediatamente lesivi, possono - rectius: debbono, onde evitare che maturi una decadenza - essere impugnati dinanzi al giudice amministrativo. Si pensi al bando di un concorso pubblico che illegittimamente escluda dalla partecipazione i candidati con un dato titolo di studio. diversamente, se non immediatamente lesivi, possono essere impugnati in uno all’atto esecutivo che arreca la concreta lesione all’interesse protetto. Ad esempio in uno al provvedimento di esclusione dalla gara. (95) In tal senso: l. MAzzArollI, G. PerICU, A. roMAno, F.A. roVerSI MonACo, F.G. SCoCA (a cura di), Diritto amministrativo, vol. I, cit., pp. 54 e 64. (96) l. MAzzArollI, G. PerICU, A. roMAno, F.A. roVerSI MonACo, F.G. SCoCA (a cura di), Diritto amministrativo, vol. I, cit., p. 64. (97) l. MAzzArollI, G. PerICU, A. roMAno, F.A. roVerSI MonACo, F.G. SCoCA (a cura di), Diritto amministrativo, vol. I, p. 64. Per l’esposizione del dibattito sulla natura giuridica del P.r.G. (natura di regolamento, natura di atto amministrativo generale, natura mista): A. CroSettI, A. GIUFFrIdA, Lineamenti del diritto amministrativo, III edizione, Giappichelli, 2018, pp. 45-46. 12. (segue) Vi) Fonti secondarie. Statuti di Province, Città metropolitane e Comuni e di altri enti pubblici. Gli statuti sono atti-fonte contraddistinti da uno specifico contenuto, rappresentato dalle norme organizzative fondamentali delle strutture cui si riferiscono. lo statuto è definibile, quindi, come la “legge fondamentale” di un determinato organismo (98). Statuti di Province, Città metropolitane e Comuni. la potestà statutaria degli enti locali trova riconoscimento nell’art. 114, comma 2, della Costituzione, ove è statuito “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i princìpi fissati dalla Costituzione”. Circa gli statuti degli enti locali, l’art. 6, commi 1 e 2, l. n. 267/2000 statuiscono “i comuni e le province adottano il proprio statuto. Lo statuto, nell'ambito dei princìpi fissati dal presente testo unico, stabilisce le norme fondamentali dell'organizzazione dell'ente e, in particolare, specifica le attribuzioni degli organi e le forme di garanzia e di partecipazione delle minoranze, i modi di esercizio della rappresentanza legale dell'ente, anche in giudizio. Lo statuto stabilisce, altresì, i criteri generali in materia di organizzazione dell'ente, le forme di collaborazione fra comuni e province, della partecipazione popolare, del decentramento, dell'accesso dei cittadini alle informazioni e ai procedimenti amministrativi,[…]”. la statuto è la fonte più importante degli enti locali ed è in rapporto di superiorità gerarchica rispetto al regolamento locale, come si evince dal disposto dell’art. 7 d.l.vo n. 267/2000, e di inferiorità gerarchica rispetto alla legge dello Stato - il d.l.vo n. 267/2000 nella parte in cui fissa i principi e la legge dello Stato regolante, ex art. 117, comma 2, lett. p) Cost., la “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane”- come evidenziato nel comma 2 dell’art. 6 citato. nelle materie affidate alla potestà normativa degli enti locali la legislazione statale e regionale dovrebbe essere una legislazione formulata per principi, non dettagliata, al fine di consentite l’autonoma determinazione degli enti locali stessi nei settori di loro competenza, attraverso l’esercizio del potere statutario e regolamentare. difatti solo una legislazione formulata per principi consente a detti enti di dare pienezza alla loro posizione costituzionalmente riconosciuta di autonomia, anche normativa, che altrimenti non avrebbe alcuna possibilità di manifestarsi in termini sostanziali (99). (98) Per tale rilievo: l. MAzzArollI, G. PerICU, A. roMAno, F.A. roVerSI MonACo, F.G. SCoCA (a cura di), Diritto amministrativo, vol. I, p. 112. (99) Sulla problematica: A. CroSettI, A. GIUFFrIdA, Lineamenti del diritto amministrativo, cit., p. 45. Statuti di altri enti pubblici. l’autonomia statutaria è altresì riconosciuta a molti enti pubblici non ter- ritoriali, di interesse nazionale o locale. I detti statuti hanno ad oggetto principalmente l’organizzazione dell’ente. lo statuto è fonte secondaria, il cui contenuto normativo vincola tuttavia i regolamenti dell’ente (100). In quanto fonte secondaria, lo statuto deve rispettare, in ossequio al principio di gerarchia, le fonti primarie (legge e fonti equiparate); in date evenienze, a seconda delle previsioni normative, il rapporto tra statuto e legge può essere non di gerarchia, ma di competenza come nel caso degli statuti delle Università degli Studi (art. 6, comma 2, l. 9 maggio 1989, n. 168). 13. (segue) Vii) Fonti secondarie. Sentenze caducatorie di fonti secondarie. Allo stesso livello delle fonti secondarie si pongono le sentenze dei giudici amministrativi (tAr e Consiglio di Stato) che annullino provvedimenti amministrativi normativi aventi valore di fonti secondarie (101). 14. (segue) Viii) Fonti secondarie: ordinanze. terza tipologia di fonte secondaria è l’ordinanza, e in specie l’ordinanza di necessità e di urgenza, allorché per previsione legislativa possano - a date condizioni - derogare, e deroghino, alla disciplina contenuta in norme scaturenti da fonti primarie ed altresì, a fortiori, da fonti subordinate alle primarie. le ordinanze di necessità e di urgenza (cd. extra ordinem) sono atti di autorità amministrative adottabili, sul presupposto della necessità e dell’urgenza del provvedere, per far fronte ad un pericolo di danno grave ed imminente per la generalità dei cittadini, con contenuto discrezionalmente determinabile e non prestabilito dalla legge. Si ritiene che loro attributo sia anche quello di incidere derogativamente e sospensivamente sulla legislazione in vigore. difatti, nelle materie non coperte da riserva di legge si riconosce in dottrina che l’ordinanza possa derogare temporaneamente alla legislazione preesistente, anche contra legem, ossia in contrasto con la disciplina legislativa ordinariamente valevole nella materia (102). Circa la compressione di disposizione legislative, l’assestato quadro dottrinale e giurisprudenziale è nel senso che le dette ordinanze non possono essere emanate in contrasto con le norme del diritto comunitario, con i principi generali dell’ordinamento giuridico e con i principi fondamentali della Costi- (100) Così anche V. CerUllI IrellI, Lineamenti del diritto amministrativo, cit., p. 19. (101) Per tale rilievo: A.M. SAndUllI voce Fonti del diritto, cit., p. 531. (102) Ex plurimis: e. CASettA, manuale di diritto amministrativo, XVI edizione, Giuffré, 2014, p. 344; l. MAzzArollI, G. PerICU, A. roMAno, F.A. roVerSI MonACo, F.G. SCoCA, Diritto amministrativo, I vol., p. 60. V. CerUllI IrellI, Lineamenti di diritto amministrativo, cit., p. 306. tuzione, debbono avere una efficacia limitata nel tempo (il principio di proporzionalità esige che il contenuto delle ordinanze sia rigidamente calibrato in funzione dell’emergenza specifica che deve essere in concreto fronteggiata), debbono essere motivate adeguatamente, non si possono adottare in luogo di poteri tipici previsti dalle norme vigenti idonei a far fronte a quel tipo di situazione (103). Con tali tipi di ordinanze vi è una sicura deroga ai caratteri della tipicità e nominatività del provvedimento amministrativo. difatti - nei casi in cui la legge consente l’adozione di simili ordinanze - la legge si limita ad indicare un’autorità amministrativa alla quale viene attribuito il potere di porre in essere qualunque tipo di atto al fine di provvedere secondo ciò che richiede una determinata situazione di necessità. la legge nulla dispone circa contenuto, oggetto, effetti dei provvedimenti da adottare nell’esercizio dei poteri di ordinanza, nonché ovviamente circa il procedimento. Siamo quindi al di fuori del principio di tipicità (104). Fra i casi abitualmente ricondotti alla categoria delle ordinanze extra ordinem possiamo citare i seguenti: a) ordinanze necessitate (art. 7 della l. 20 marzo 1865 n. 2248, All. e:“allorché per grave necessità pubblica l’autorità amministrativa debba senza indugio disporre della proprietà privata, od in pendenza di un giudizio, per la stessa ragione, procedere all’esecuzione dell’atto delle cui conseguenze giuridiche si disputa, essa provvederà con decreto motivato, sempre però senza pregiudizio dei diritti delle parti”) (105); b) tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica (art. 2, comma 1, del t.u. delle leggi di Pubblica Sicurezza 18 giugno 1931, n. 773, secondo cui: “il prefetto, nel caso di urgenza o per grave necessità pubblica, ha facoltà di adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica”) (106); (103) Ex plurimis: M. ClArICH, manuale di diritto amministrativo, III edizione, Il Mulino, 2017, pp. 85-87. (104) Per tali rilievi: V. CerUllI IrellI, Lineamenti di diritto amministrativo, cit., p. 309 il quale precisa che il potere di ordinanza non può dar luogo ad effetti che si pongano in contrasto con norme di legge in materie coperte da riserva di legge assoluta, mentre il contrasto con norme di legge in materie coperte da riserve di legge relative è ammesso solo laddove le norme concernenti i singoli poteri di ordinanza prevedano criteri direttivi per l’esercizio del potere stesso. (105) Sui provvedimenti adottati dai Prefetti in applicazione di questo articolo, l. 30 novembre1950, n. 996, articolo unico, così dispone: “i provvedimenti adottati dai Prefetti nell'esercizio dei poteri previsti dall'art. 7 della L. 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E, sono provvedimenti definitivi”. Secondo la Corte di Appello di napoli, sentenza 3 dicembre 2007 “il potere di requisizione previsto dall'art. 7, cit., costituisce un provvedimento derogatorio di carattere eccezionale, al quale è consentito fare ricorso solo di fronte all'urgenza e alla necessità di disporre della proprietà privata per esigenze di carattere generale”. (106) Ai sensi dell’art. 216, comma 1, del t.u. delle leggi di Pubblica Sicurezza “oltre quanto è disposto dall'art. 2, qualora la dichiarazione di pericolo pubblico si estenda all'intero territorio del regno, c) igiene e sanità pubblica e polizia veterinaria (art. 32, commi 1 e 3, della l. 23 dicembre 1978, n. 833: “il ministro della sanità può emettere ordinanze di carattere contingibile e urgente, in materia di igiene e sanità pubblica e di polizia veterinaria, con efficacia estesa all'intero territorio nazionale o a parte di esso comprendente più regioni [comma 1]. Nelle medesime materie sono emesse dal presidente della giunta regionale e dal sindaco ordinanze di carattere contingibile ed urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più comuni e al territorio comunale [comma 3]”; art. 129, comma 1, del testo unico delle leggi sanitarie r.d. 27 luglio 1934, n. 1265: “in caso di sospensione o di interruzione di un esercizio farmaceutico, dipendenti da qualsiasi causa, e dalle quali sia derivato o possa derivare nocumento all'assistenza farmaceutica locale, il prefetto adotta i provvedimenti di urgenza per assicurare tale assistenza”; art. 261, comma 1, del testo unico delle leggi sanitarie: “il ministro per l'interno, quando si sviluppi nel regno una malattia infettiva a carattere epidemico, può emettere ordinanze speciali per la visita e disinfezione delle case, per l'organizzazione di servizi e soccorsi medici e per le misure cautelari da adottare contro la diffusione della malattia stessa”); d) incolumità pubblica e sicurezza urbana (art. 54, comma 4, t.u. enti locali d.l.vo 18 agosto 2000, n. 267:“il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana”); e) emergenze sanitarie o igiene pubblica a carattere esclusivamente locale e decoro urbano (art. 50, comma 5, t.u. enti locali d.l.vo 18 agosto 2000, n. 267: “in particolare, in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale. Le medesime ordinanze sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale, in relazione all'urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell'ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di be- il ministro dell'interno può emanare ordinanze, anche in deroga alle leggi vigenti, sulle materie che abbiano comunque attinenza all'ordine pubblico o alla sicurezza pubblica”. t.A.r. Piemonte torino, sentenza 3 agosto 2012, n. 969 precisa: “Con riferimento ai limiti insuperabili del potere amministrativo la giurisprudenza ha affermato che le ordinanze prefettizie di ordine pubblico e di urgenza ai sensi dell'art. 2 t.u.p.s. 18 giugno 1931 n. 773 sono utilizzabili soltanto nei casi di riserva relativa di legge ma in tali casi possono incidere anche nei riguardi di diritti costituzionalmente garantiti (i quali ultimi non possono essere tutelati oltre i limiti ad essi coessenziali, tali da consentire l'esplicarsi delle esigenze necessarie ad assicurare la vita stessa della comunità e quindi anche l'adozione di misure d'urgenza prefettizie)”. vande alcoliche e superalcoliche. Negli altri casi l'adozione dei provvedimenti d'urgenza, ivi compresa la costituzione di centri e organismi di referenza o assistenza, spetta allo Stato o alle regioni in ragione della dimensione dell'emergenza e dell'eventuale interessamento di più ambiti territoriali regionali”); f) gestione dei rifiuti (art. 191, commi 1 e 3, d.l.vo 3 aprile 2006, n. 152 secondo cui “1.[…] qualora si verifichino situazioni di eccezionale ed urgente necessità di tutela della salute pubblica e dell'ambiente, e non si possa altrimenti provvedere, il Presidente della Giunta regionale o il Presidente della provincia ovvero il Sindaco possono emettere, nell'ambito delle rispettive competenze, ordinanze contingibili ed urgenti per consentire il ricorso temporaneo a speciali forme di gestione dei rifiuti, anche in deroga alle disposizioni vigenti, nel rispetto, comunque, delle disposizioni contenute nelle direttive dell'Unione europea, garantendo un elevato livello di tutela della salute e dell'ambiente. Dette ordinanze sono comunicate al Presidente del Consiglio dei ministri, al ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al ministro della salute, al ministro delle attività produttive, al Presidente della regione e all'autorità d'ambito di cui all'articolo 201 entro tre giorni dall'emissione ed hanno efficacia per un periodo non superiore a sei mesi. 3. Le ordinanze di cui al comma 1 indicano le norme a cui si intende derogare e sono adottate su parere degli organi tecnici o tecnico-sanitari locali, che si esprimono con specifico riferimento alle conseguenze ambientali”); g) inquinamento marittimo (art. 12, comma 2, l. 31 dicembre 1982, n. 979: “L'autorità marittima rivolge ai soggetti […] immediata diffida a prendere tutte le misure ritenute necessarie per prevenire il pericolo d'inquinamento e per eliminare gli effetti già prodotti. Nel caso in cui tale diffida resti senza effetto, o non produca gli effetti sperati in un periodo di tempo assegnato, l'autorità marittima farà eseguire le misure ritenute necessarie per conto dell'armatore o del proprietario, recuperando, poi, dagli stessi le spese sostenute”) (107); h) tutela dell’ambiente (art. 8 l. 3 marzo 1987, n. 59: “Fuori dei casi di cui al comma 3 dell'articolo 8 della legge 8 luglio 1986, n. 349 (108), qualora (107) Per questa ipotesi: A.M. SAndUllI, manuale di diritto amministrativo, I vol., XV edizione, Jovene, 1989, p. 74. (108) Per il quale: “in caso di mancata attuazione o di inosservanza da parte delle regioni, delle province o dei comuni, delle disposizioni di legge relative alla tutela dell'ambiente, e qualora possa derivarne un grave danno ecologico, il ministro dell'ambiente, previa diffida ad adempiere entro congruo termine da indicarsi nella diffida medesima, adotta con ordinanza cautelare le necessarie misure provvisorie di salvaguardia, anche a carattere inibitorio di opere, di lavoro o di attività antropiche, dandone comunicazione preventiva alle amministrazioni competenti. Se la mancata attuazione o l'inosservanza di cui al presente comma è imputabile ad un ufficio periferico dello Stato, il ministro dell'ambiente informa senza indugio il ministro competente da cui l'ufficio dipende, il quale assume le misure necessarie per assicurare l'adempimento. Se permane la necessità di un intervento cautelare per evitare un grave danno ecologico, l'ordinanza di cui al presente comma è adottata dal ministro competente, di concerto con il ministro dell'ambiente”. si verifichino situazioni di grave pericolo di danno ambientale e non si possa altrimenti provvedere, il ministro dell'ambiente, di concerto con i ministri eventualmente competenti, può emettere ordinanze contingibili e urgenti per la tutela dell'ambiente. Le ordinanze hanno efficacia per un periodo non superiore a sei mesi”) (109); i) funzionamento minimo dei servizi di preminente interesse generale (art. 8, comma 1, l. 12 giugno 1990, n. 146: “Quando sussista il fondato pericolo di un pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati […], che potrebbe essere cagionato dall'interruzione o dalla alterazione del funzionamento dei servizi pubblici di cui all'articolo 1, conseguente all'esercizio dello sciopero o a forme di astensione collettiva di lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori, su segnalazione della Commissione di garanzia ovvero, nei casi di necessità e urgenza, di propria iniziativa, informando previamente la Commissione di garanzia, il Presidente del Consiglio dei ministri o un ministro da lui delegato, se il conflitto ha rilevanza nazionale o interregionale, ovvero, negli altri casi, il prefetto o il corrispondente organo nelle regioni a statuto speciale, informati i presidenti delle regioni o delle province autonome di Trento e di Bolzano, invitano le parti a desistere dai comportamenti che determinano la situazione di pericolo, esperiscono un tentativo di conciliazione, da esaurire nel più breve tempo possibile, e se il tentativo non riesce, adottano con ordinanza le misure necessarie a prevenire il pregiudizio ai diritti della persona costituzionalmente tutelati […]”); l) emergenze in materia di protezione civile (Codice della protezione civile, d.l.vo 2 gennaio 2018, n. 1, in specie l’art. 25 relativo alle ordinanze di protezione, a tenor del quale: “1. Per il coordinamento dell'attuazione degli interventi da effettuare durante lo stato di emergenza di rilievo nazionale si provvede mediante ordinanze di protezione civile, da adottarsi in deroga ad ogni disposizione vigente, nei limiti e con le modalità indicati nella deliberazione dello stato di emergenza e nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico e delle norme dell'Unione europea. Le ordinanze sono emanate acquisita l'intesa delle regioni e Province autonome territorialmente interessate e, ove rechino deroghe alle leggi vigenti, devono contenere l'indicazione delle principali norme a cui si intende derogare e devono essere specificamente motivate. […]. 3. Le ordinanze di protezione civile non sono soggette al controllo preventivo di legittimità di cui all'articolo 3 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, e successive modificazioni. 4. Le ordinanze di protezione civile, la cui efficacia decorre dalla data di adozione e che sono pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della repubblica italiana, sono rese pubbliche ai sensi di quanto previsto dall'articolo 42 del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, e successive modificazioni e sono trasmesse, per informazione, al Pre- (109) Anche per questa ipotesi: A.M. SAndUllI, manuale di diritto amministrativo, I vol., cit., p. 74. sidente del Consiglio dei ministri, alle regioni o Province autonome interessate e fino al trentesimo giorno dalla deliberazione dello stato di emergenza di rilievo nazionale, al ministero dell'economia e delle finanze.[…] 9. La tutela giurisdizionale davanti al giudice amministrativo avverso le ordinanze di protezione civile e i consequenziali provvedimenti commissariali nonché avverso gli atti, i provvedimenti e le ordinanze emananti ai sensi del presente articolo è disciplinata dal codice del processo amministrativo”); m) poteri sostitutivi (art. 8 della l. 5 giugno 2003, n. 131 (110), relativo all’attuazione dell'articolo 120 della Costituzione sul potere sostitutivo, sulle ordinanze di urgenza nell’ambito dei detti poteri sostitutivi). Un campo, nella prassi, riguardato dai detti poteri è quello del rientro, in capo all’amministrazione regionale, dal deficit in materia sanitaria. I poteri sostitutivi possono avere ad oggetto anche l’esercizio di funzioni normative. Si registra un ampio dibattito in dottrina circa i possibili profili di illegittimità costituzionale di norme dalle quali possa discendere un’asserita natura legislativa del potere sostitutivo esercitato dai commissari nominati dal governo e si ritiene che l’esercizio del potere sostitutivo possa realizzarsi sia mediante l’adozione di un atto, al posto di quello omesso dall’organo sostituito, sia mediante la sospensione di un atto, anche legislativo già emanato (111). Come rilevato sopra, la communis opinio - invero radicata in dottrina ed in giurisprudenza - è nel senso, che tutte le ordinanze extra ordinem nelle materie non coperte da riserva assoluta di legge possano derogare temporaneamente alla legislazione preesistente, a prescindere da un’espressa previsione nella fonte normativa attributiva del potere di ordinanza. A condividere tale opinione la sfera legislativa subirebbe una erosione temporanea. Contrariamente alla communis opinio deve ritenersi che in ossequio al principio di legalità e di gerarchia delle fonti le ordinanze extra ordinem non possano derogare temporaneamente alla legislazione preesistente, a meno che non vi sia una espressa previsione nella fonte normativa regolante il potere di ordinanza (come nel caso delle ordinanze in materia di gestione dei rifiuti e di (110) Che per quanto di interesse enuncia: “1. Nei casi e per le finalità previsti dall'articolo 120, secondo comma, della Costituzione, il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro competente per materia, anche su iniziativa delle regioni o degli enti locali, assegna all'ente interessato un congruo termine per adottare i provvedimenti dovuti o necessari; decorso inutilmente tale termine, il Consiglio dei ministri, sentito l'organo interessato, su proposta del ministro competente o del Presidente del Consiglio dei ministri, adotta i provvedimenti necessari, anche normativi, ovvero nomina un apposito commissario. […]. 3. Fatte salve le competenze delle regioni a statuto speciale, qualora l'esercizio dei poteri sostitutivi riguardi Comuni, Province o Città metropolitane, la nomina del commissario deve tenere conto dei princìpi di sussidiarietà e di leale collaborazione. il commissario provvede, sentito il Consiglio delle autonomie locali qualora tale organo sia stato istituito”. (111) r. BAldUzzI - G. CArPAnI (a cura di), manuale di diritto sanitario, il Mulino, 2013, p. 405; n. VICeConte, Gli atti dei Commissari ad acta in sanità tra 'forma' amministrativa e 'sostanza' legislativa: la Corte asserisce, ma non chiarisce (osservazione a Corte costituzionale, sentenza 12 dicembre 2014 n. 278), in Giur. Cost., 2014, pp. 4732-4740. emergenze di protezione civile). Con l’assecondare la communis opinio si depotenzierebbe la legge. Quando vi è una espressa previsione, tali ordinanze formalmente si presentano come atti amministrativi, mentre sostanzialmente esse possono incidere sulla legislazione; pertanto hanno anche natura di norma giuridica, innovando l’ordinamento giuridico. tecnicamente l’ordinanza non abroga la legge. la sua vigenza determina la sospensione della efficacia della norma legislativa, la cui operatività viene compressa con una sorta di deroga temporanea. Cessata l’operatività dell’ordinanza, l’efficacia della legge si riespande. Il meccanismo è analogo al rapporto tra il diritto di proprietà e il diritto reale di godimento che lo limita: durante la pendenza del diritto di godimento le facoltà del proprietario sono compresse, salvo riespandersi alla scadenza del termine del diritto reale di godimento. 15. (segue) iX) Consuetudine. la consuetudine è una fonte legale di diritto in virtù dell’art. 1, n. 4 delle Preleggi. È una fonte-fatto e consiste nella uniforme e costante ripetizione nel tempo (cd. diuturnitas: elemento oggettivo) di un determinato comportamento, accompagnato dal convincimento che lo stesso sia giuridicamente obbligatorio (cd. opinio iuris ac necessitatis: elemento soggettivo) (112). la norma di organizzazione è contenuta nell’art. 8 delle preleggi per il quale “Nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo in quanto sono da essi richiamati”. Sono ammessi, quindi, gli usi secundum legem nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti (che cioè integrano, specificano il contenuto di leggi e regolamenti) ed altresì, gli usi praeter legem nelle materie non regolate dalle leggi e dai regolamenti e fuori comunque dall’ambito delle riserve di legge, anche relative. Inammissibili sono gli usi contra legem. diversa dalla consuetudine è la prassi, ossia la condotta reiterata e continuativa tenuta dall’amministrazione nello svolgimento di una certa funzione, in vista della soluzione di problemi applicativi (di regola in presenza di incertezze interpretative e nell’intento di raggiungere buoni risultati operativi); con la particolarità che l’amministrazione ritiene che quella condotta non sia giuridicamente obbligatoria. la prassi, quindi, non è fonte del diritto consuetudinario atteso che è priva sia della diuturnitas (perché di formazione amministrativa e non popolare), sia dell’opinio iuris ac necessitatis. la stessa non potrebbe mai integrare, attesa la riserva relativa in materia di organizzazione di pubblici uffici, una consuetudine. la prassi attiene non (112) Su tale fonte, ex plurimis: r. FrAnCeSCHellI, voce Consuetudine (diritto moderno), in Novissimo Digesto, vol. IV, Utet, 1959, pp. 320-327; A. PAVone lA roSA, voce Consuetudine (usi normativi e negoziali), in Enc. del Diritto, vol. IX, Giuffré, 1961, pp. 513-531. alle norme, ma alla amministrazione; è un modo per valutare la correttezza e legittimità della condotta della P.A. ed ha una efficacia riflessa nell’ordinamento generale, in quanto la sua violazione, non sorretta da adeguata motivazione, costituisce un sintomo del vizio funzionale dell’atto sotto il profilo dell’eccesso di potere (113). 16. (segue) X) Fonti individuali: atti di diritto privato; contratti e regolamenti privati; contratti collettivi. il problema dei poteri privati globali. norme giuridiche possono trovare fonte anche in atti di diritto privato (accordi, trattati, concordati, contratti) (114). Contratti e regolamenti privati. Il contratto - che assume denominazioni diverse secondo gli ordinamenti giuridici: patto, trattato, concordato - è una fonte spontanea, volontaria ed altresì individuale e concreta, nel senso che produce norme obbligatorie soltanto per chi ha stipulato il contratto (115). Quest’ultimo dato non è assoluto perché si hanno casi di negozi eteronomi e produttivi di norme generali e astratte: l’esempio più tipico è il contratto collettivo (116). tanto trova conferma in numerose disposizioni del codice civile, costituenti norme sulla produzione giuridica. In forza dell’art. 1372, comma 1, c.c. “il contratto ha forza di legge tra le parti”. l'atto costitutivo e lo statuto delle associazioni riconosciute e delle fondazioni devono contenere, tra l’altro, le norme sull'ordinamento e sull'amministrazione (art. 16 c.c.); tali norme governano la vita dell’ente, con effetto anche per coloro che entrino a far parte dell’ente, dopo la sua costituzione. Analogamente è a dirsi delle clausole dell’atto costitutivo della società in nome collettivo (art. 2295, n. 8 c.c.) e delle clausole dell’atto costitutivo o dello statuto della società per azioni (art. 2328, comma 1 n. 7; comma 2 c.c.: “norme relative al funzionamento della società”). Simile discorso è a dirsi anche degli accordi che regolano la vita delle associazioni non riconosciute (art. 36 c.c.). Varie disposizioni altresì attestano l’esistenza di regolamenti predisposti (113) Per i delineati aspetti della consuetudine, ex plurimis: A. CroSettI, A. GIUFFrIdA, Lineamenti del diritto amministrativo, cit., pp. 45-46. (114) Concorde: F. MeSSIneo, manuale di diritto civile e commerciale, I volume, IX edizione, Giuffré, 1957, pp. 80-84; S. roMAno, Frammenti di un dizionario giuridico, Quodlibet, 2019, p. 46. la dottrina prevalente, sul punto, tuttavia è contraria: ex plurimis: A.M. SAndUllI voce Fonti del diritto, cit, p. 525 secondo cui restano esclusi dal concetto di norma giuridica i precetti che traggono origine da atti di diritto privato, unilaterali o consensuali (testamento, contratto, accordo). (115) In tal senso: G. GAVAzzI, Elementi di teoria del diritto, II edizione, Giappichelli, 1984, p. 85. (116) Così: G. GAVAzzI, Elementi di teoria del diritto, cit., p. 108. da privati (artt. 918, 1106, 1107, 1138 c.c.). In specie il regolamento della comunione è un insieme di norme, è la legge della comunione (117); lo stesso ha contenuto propriamente normativo, essendo volto a regolare e per il futuro i rapporti intercorrenti nell’ambito della comunione (118). Contratti collettivi di lavoro. I contratti collettivi di lavoro, stipulati dai sindacati registrati secondo le norme di legge, hanno efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce. tanto è disposto nel comma 4 dell’art. 39 della Costituzione. la disposizione, come è noto, nel difetto di norme di attuazione, non è efficace nell’attuale ordinamento. la norma è, tuttavia, rilevante, perché colloca i contratti collettivi - atteso che si impongono all’osservanza dei singoli indipendentemente dal consenso di questi - nel sistema delle fonti del diritto (119). la mancata attuazione dell’art. 39, comma 4, Cost. ha determinato che i contratti collettivi di lavoro, nazionali ed aziendali, hanno l’efficacia di diritto comune, ossia vincolano solo gli aderenti alle organizzazioni, imprenditoriali e sindacali, che li stipulano. di fatto è noto però che il prevalente orientamento giurisprudenziale, con varie tecniche, conferisce efficacia erga omnes a tali contratti; la giurisprudenza - ed è la tecnica più diffusa - ha esteso l’efficacia di tali contratti, in caso di controversia, anche a soggetti non obbligati, sulla base dell’art. 36 Cost. che prevede il diritto del lavoratore a una retribuzione proporzionata, individuando nei contratti in questione il parametro per determinare il minimo contrattuale dovuto. Corollari della qualificazione di fonte del diritto degli atti di diritto privato. Si è visto innanzi che il corollario della qualificazione di fonte del diritto - nell’ordinamento giuridico della repubblica Italiana - è l’applicazione di una serie di principi, tra cui: iura novit curia; ignorantia legis non excusat; (117) Anche: G. BrAnCA, in Commentario del codice civile, a cura di A. SCIAloJA e G. BrAnCA, libro III. della proprietà. Artt. 1100-1172. III edizione, zanichelli-Foro Italiano, 1960, p. 182; l’autore evidenzia che “l’efficacia è propter rem appunto perché il regolamento disciplina i rapporti interni dell’ente prescindendo dagli individui che lo compongono. […] esso vale in quanto è norma della collettività come tale.[…]. Chi diventi comunista deve necessariamente subire la legge della comunione” (pp. 165-166); l’autore precisa che “l’interpretazione del regolamento, dice la giurisprudenza, implica, come quella dei contratti, un giudizio di merito non censurabile in cassazione. Questa massima sembrerebbe da respingere, perché siamo alla presenza di norme ed è noto che per la violazione e falsa applicazione di queste ultime è dato il ricorso in cassazione”. (118) Così C.M. BIAnCA, Diritto civile, 6, La proprietà, Giuffré, 1999, p. 460. (119) In tal senso: A.M. SAndUllI voce Fonti del diritto, cit., p. 532 il quale precisa che tale fonte sarebbe manifestazione di un potere autoritativo, e cioè come atti di diritto pubblico. Anche V. CrISAFUllI, voce Fonti del diritto (dir. cost.), cit., p. 947 qualifica i contratti collettivi de quibus come fonti del diritto. necessità della pubblicazione nei modi ufficiali previsti dall’ordinamento giuridico; applicazione dell’art. 12 delle preleggi, in materia di interpretazione; la violazione e falsa applicazione della norma giuridica è censurabile in sede di legittimità (artt. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. e 606, co. 1, lett. b, c.p.p.). I detti principi, cum grano salis, si applicano al caso di specie, ossia a norme che, ordinariamente, sono particolari e concrete (si è visto innanzi che la generalità ed astrattezza - che ordinariamente caratterizzano la norma giuridica - non costituiscono un requisito strutturale al fine della individuazione della norma giuridica; peraltro è possibile l’esistenza di norme giuridiche individuali purché si rispetti il principio di ragionevolezza). I principi iura novit curia e della pubblicazione nei modi ufficiali previsti dall’ordinamento giuridico, complementari tra loro, devono tenere conto dei connotati intrinseci dell’atto di diritto privato. A tale stregua il giudice terrà conto dell’atto ove giunto a sua cognizione nel giudizio e vi sia certezza giuridica in ordine alla sua esistenza. Il principio ignorantia legis non excusat si applica all’atto di diritto privato, atteso che non può costituire un fattore di giustificazione dell’inadempimento l’ignoranza dello stesso. Circa le regole in tema di interpretazione va detto che al caso di specie si applica in aggiunta agli artt. 1362 e ss. c.c. anche l’art. 12 delle preleggi nella parte dispositiva ultronea rispetto alle regole sulla interpretazione dei contratti (ossia: fondamentalmente il secondo comma dell’art. 12 preleggi in tema di analogia). Il principio che la violazione e falsa applicazione della norma giuridica è censurabile in sede di legittimità (artt. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. e 606, co. 1, lett. b, c.p.p.) si applica al caso di specie come, peraltro, riconosciuto dall’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. con riguardo ai contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro. Allorché viene stipulato un contratto di mutuo, nell’ipotesi di inadempimento delle clausole relative al tasso di interesse o al tempo di restituzione delle rate, nel ricorso in cassazione la parte denuncia la violazione - da parte del giudice, che ha errato nell’applicare la normativa rilevante - della specifica clausola del contratto, in armonia con le fonti superiori. nel fare ciò denuncia anche la violazione degli artt. 1820 (mancato pagamento degli interessi) e 1819 c.c. (restituzione rateale). il problema dei poteri privati globali. l’epoca contemporanea è caratterizzata dalla grande rilevanza della fonte contrattuale privatistica, collegata alla recessione del soggetto Stato, e in generale di soggetti pubblicistici, e alla emersione di attori globali privati, operanti prevalentemente nel campo economico (120). Il mercato appare - grazie anche all’ausilio delle tecniche infotelematiche - insofferente a confini spaziali, forte di una sua vocazione globale. Soggetti economici privati - producenti beni e servizi di largo consumo: alimentari, tecnologici, finanziari, ecc. - operano a livello globale, multi-nazionale, mondiale imponendo la loro legge, rectius: regole negoziali a fronte delle quali la controparte, che è quasi sempre un consumatore, può solo “prendere o lasciare”. tali soggetti divengono produttori di un proprio diritto, creato per tutelare i propri interessi, con sistemi giustiziali diversi da quelli statuali o pubblicistici: nell’ipotesi di controversie è previsto, spesso, il ricorso ad arbitri individuali o collegiali, giacché tali soggetti contano sulla adesione formalmente spontanea delle controparti sin dal momento della sottoscrizione del contratto. la capacità ordinante autonoma consiste non solo nel creare e gestire un proprio diritto nei confronti delle controparti del ciclo economico (fornitori e consumatori), ma anche nella regolazione individualistica del conflitto sociale a mezzo della cd. contrattazione transnazionale volontaria e autonoma (transnational texts). Spesso la contrattazione collettiva è svolta, dal lato datoriale, non da associazioni di categoria, ma direttamente dalle imprese multinazionali. Vengono in rilievo accordi multinazionali, in quanto riguardano alcuni Paesi specifici, accomunati fra loro dalla presenza di aziende o stabilimenti del gruppo. Il fattore unificante è dunque l’impresa, sicché le scelte tematiche esprimono le priorità dell’impresa. tali accordi hanno di solito contenuto non normativo, ma procedurale, in quanto prevedono procedure di informazione e consultazione fra impresa e rappresentanze dei lavoratori, riguardanti per lo più materie come le ristrutturazioni, la responsabilità sociale dell’impresa, la salute e la sicurezza (121). All’evidenza vengono a crearsi autonomi ordinamenti giuridici. Questo è uno dei gravi problemi della globalizzazione. Gli attori globali privati, operando trasversalmente a Stati e pubblici poteri e forti delle inerzie e debolezze di questi, stanno introducendo un nuovo diritto, apparentemente pattizio - dotato di efficacia incomparabilmente più forte di quello degli Stati nei quali operano - funzionale ai propri interessi economici e, non di rado, a proprie visioni della società, ossia in ultima analisi ad ideologie politiche. Ciò con rischi gravissimi, atteso che la globalizzazione rischia di condurre ad “una generale mercificazione, la subordinazione - in prima linea - della persona umana e della sua dignità (valore primario e indefettibile) al raggiungimento del maggiore profitto possibili” (122). (120) Si rileva che nell’epoca della globalizzazione giuridica i canali privati di produzione giuridica si affiancano ai canali pubblici; “canali privati che raggiungono ormai quello che il vecchio Santi romano chiamava un alto grado di categoricità, tanto spinta e incisiva da realizzare una effettività giuridica senza alcun apporto da enti politicamente sovrani”: P. GroSSI, Nobiltà del diritto, Giuffré, 2008, pp. 685-686. (121) Su tali aspetti: M. roCCellA, t. treU, M. AIMo, d. IzzI, Diritto del lavoro dell’Unione Europea, VIII edizione, CedAM, 2019, pp. 470-473 e 483-485. 17. (segue) Xi) Fonti individuali: provvedimenti amministrativi. Il provvedimento amministrativo è fonte di norme giuridiche individuali. nella gerarchia delle fonti questo è equiparato agli atti di diritto privato. 18. (segue) Xii) Fonti individuali: sentenze. Anche la sentenza è fonte di norme giuridiche individuali, connotata da minore discrezionalità rispetto al provvedimento amministrativo (123). Allorché passa in giudicato costituisce la nuova fonte del rapporto sostanziale. l’innovazione dell’ordinamento giuridico è palese quando il giudicato è in contrasto con la fonte superiore. Anche la sentenza, nella gerarchia delle fonti, è equiparata agli atti di diritto privato. 19. Coerenza dell’ordinamento giuridico. antinomie e criteri per la loro risoluzione. l’ordinamento giuridico si compone di una pluralità di norme prodotte da fonti diverse in tempi diversi. tale circostanza può condurre alla produzione - sulla stessa materia - di precetti incompatibili, ossia alle antinomie. In tale evenienza il sistema ha delineato dei criteri per risolvere le antinomie. tanto per la coerenza complessiva dell’ordinamento. I criteri sono numerosi. Citiamo: Criterio cronologico (lex posterior derogat legi priori). Con il criterio cronologico, nel caso di incompatibilità tra norme sulla stessa materia, si applica la norma più recente. tale criterio consente di risolvere le antinomie tra fonti dello stesso tipo, di eguale livello nella scala gerarchica e con la medesima competenza, adottate in tempi diversi: le antinomie vengono risolte nel senso che si applica le legge adottata per ultima la quale abroga la precedente, che cessa di avere vigore. Il criterio è semplice da applicare allorché vi è successione di norme incompatibili scaturenti dallo stesso tipo di fonte (antinomie tra decreti legge, antinomie tra regolamenti comunali); il criterio può entrare in conflitto con quello della competenza allorché vi è successione di norme incompatibili scaturenti da fonti di tipo diverso (antinomie tra legge statale e legge regionale). numerose disposizioni sono espressive del criterio cronologico. All’uopo si richiama: l’art. 30, comma 3, della Convenzione sul diritto dei trattati adottata a Vienna il 23 maggio 1969 (ratificata dall’Italia con l. 12 (122) Così P. GroSSI, Società, diritto, stato, Giuffré, 2006, p. 195. (123) Sulla decisione giudiziale fonte del diritto: G. GAVAzzI, Elementi di teoria del diritto, cit., p. 84. febbraio 1974, n. 112), il quale recita: “Quando tutte le parti di un precedente trattato sono anche parti a un trattato posteriore […] il trattato anteriore si applica soltanto nella misura in cui le sue disposizioni sono compatibili con quelle del trattato posteriore”; l’art. 15 delle preleggi, secondo cui “le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori”; l’art. 682 c.c. per il quale “il testamento posteriore, che non revoca in modo espresso i precedenti, annulla [rectius: determina la cessazione dell’efficacia] in questi soltanto le disposizioni che sono con esso incompatibili”; l’art. 395, n. 5 c.p.c. dal quale si ricava che la sentenza contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata prevale su quest’ultima ove a sua volta sia passata in giudicato (124). Criterio della specialità (lex specialis derogat legi generali). Con il criterio della specialità, nel caso di incompatibilità tra norme - alcune generali ed altre speciali - sulla stessa materia, si applica la norma speciale. la specialità sussiste allorché una norma speciale contenga in sé tutti gli elementi costitutivi di una norma generale, con l'aggiunta tuttavia di un elemento specializzante, sempre nel presupposto che entrambe regolino la stessa materia. la norma speciale, di solito, è rivolta ad un gruppo indeterminato, ma ristretto di individui, non corrispondente alla generalità dei consociati. diversa dalla norma speciale è la norma eccezionale. Quest’ultima è una norma che dura limitatamente nel tempo, cioè fino a quando permane una certa situazione eccezionale o di emergenza che ne ha sollecitato la produzione; una volta trascorso un ragionevole periodo di tempo dalla specifica contingenza, dovrebbero quindi essere abrogate (125). Abitualmente in dottrina si ritiene che il criterio della specialità prevale su quello cronologico (lex posterior generalis non derogat legi priori speciali) (126). deve ritenersi che tale criterio - al di fuori del diritto penale (art. 15 c.p. (127)) - non ha addentellati normativi; sicché lo stesso non può operare con prevalenza sul criterio cronologico. Il detto criterio, quindi, non consente di risolvere le antinomie tra norme (124) Per autorevole dottrina l’art. 395, n. 5 c.p.c. “dimostra come l’ordine giuridico si concreti, nell’ipotesi di due giudicati successivi, sul secondo di essi, e non sul primo. Se infatti la contrarietà non è fatta valere nel termine con l’impugnazione per revocazione, il secondo giudicato rimane la sola fonte regolatrice del concreto. il primo sparisce”: così S. SAttA, Commentario al codice di procedura civile, libro secondo, Processo di cognizione, Parte seconda, Vallardi, 1962, p. 331. (125) Per tali distinzioni: A. CroSettI, A. GIUFFrIdA, Lineamenti di diritto amministrativo, cit., p. 7. (126) tra gli altri: A. BArBerA, C. FUSAro, Corso di diritto costituzionale, cit, p. 107; A. GIUlIAnI, in Trattato di diritto privato diretto da P. reSCIGno, I volume, II edizione, Utet, p. 460. (127) “Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito”. - alcune generali ed altre speciali - sulla stessa materia adottate in tempi diversi. Consente, invece, di risolvere le antinomie tra fonti omogenee, di eguale livello nella scala gerarchica, adottate nello stesso momento (ad esempio i contrasti all’interno di uno specifico testo normativo, quale un codice). le antinomie vengono risolte nel senso che si applica le legge speciale. le norme in conflitto rimangono entrambe valide ed efficaci: una si applica e l’altra no; la norma generale subisce una deroga, con applicazione di quella speciale (128). Criterio della competenza. Con il criterio della competenza, nel caso di incompatibilità tra norme aventi ambiti operativi diversi - sulla stessa materia, si applica la norma proveniente dalla fonte competente su quella specifica materia. tale criterio consente di risolvere le antinomie tra fonti omogenee, di eguale livello nella scala gerarchica, ma con distinte materie di competenza (es. legge statale e legge regionale). Allorché sussistono più tipi di fonti ed a ciascun tipo sia riservata una determinata materia (delimitata territorialmente ovvero per settori), non essendoci comunicazione tra le fonti dell’uno e dell’altro tipo, non è applicabile il criterio cronologico, conducente alla prevalenza del nuovo diritto su quello anteriormente posto. le eventuali antinomie saranno, in tale ipotesi, da risolvere in favore della norma derivante dalla fonte sola competente, qualsiasi altra norma avente il medesimo oggetto, che fosse posta da fonti di altro tipo, sarà invalida (129). Criterio assiologico. Con il criterio assiologico, nel caso di incompatibilità tra norme sulla stessa materia, si applica la norma tutelante il valore più importante. tale criterio consente di risolvere le antinomie all’interno della Costituzione, nella quale non esistono principi tiranni (130), e laddove vi sono principi in contrasto - ad esempio rispetto della dignità umana e libera manifestazione (128) Per tali rilievi, ex multis: r. BIn, G. PItrUzzellI, Diritto costituzionale, cit., p. 302. (129) V. CrISAFUllI, voce Fonti del diritto (dir. cost.), cit., p. 955. (130) Su tali aspetti: r. GUAStInI, Le fonti del diritto, cit., pp. 215-219. la Corte Costituzionale, in varie pronunce, ha evidenziato che «Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» […]. Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona» (sentenza 9 maggio 2013, n.85 - sul caso IlVA - sul ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute [art. 32 Cost.], da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e al lavoro [art. 4 Cost.], da cui deriva l’interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso). del pensiero - la soluzione va operata mediante il criterio della ponderazione dei valori riferita allo specifico caso concreto, ponderazione che potrà variare in un nuovo e diverso caso (gerarchia assiologica e mobile). nel conflitto tra principi occorre operare la loro ponderazione, il loro bilanciamento onde valutare quale principio “pesi” di più, cioè abbia più valore. la ponderazione consiste, quindi, nello stabilire tra i due principi in conflitto una gerarchia che presenta due caratteri: è una gerarchia assiologica, ed è al contempo una gerarchia mobile. Una gerarchia assiologica è una relazione di valore creata dal giudice costituzionale, mediante un giudizio di valore comparativo: si attribuisce a uno dei due principi in conflitto un “peso”, un valore, una “importanza” etico-politica maggiore rispetto all’altro. Per conseguenza il principio che ha più valore prevale sull’altro: esso è applicato, mentre l’altro è accantonato. Il principio che soccombe, sebbene accantonato, non applicato, non è dichiarato abrogato o invalido; esso resta in vita, in vigore, nel sistema giuridico, pronto per essere applicato in altre controversie. Una gerarchia mobile è una relazione di valore instabile, mutevole: una gerarchia che vale per il caso concreto, ma che potrebbe essere rovesciata in un caso concreto diverso. Il conflitto non è risolto definitivamente: ogni soluzione vale solo per una controversia particolare - per una antinomia tra la Costituzione e una specifica legge - sicché nessuno può prevedere la soluzione dello stesso conflitto in altre controversie future, nelle quali siano coinvolti gli stessi principi ma una diversa legge. Per esempio, la Corte costituzionale in alcune circostanze ha applicato il principio di eguaglianza formale (ossia uguaglianza senza ulteriori specificazioni) e accantonato il principio di eguaglianza sostanziale, dichiarando l’illegittimità di una legge che proibiva il lavoro notturno alle donne (131); in altre occasioni ha applicato il principio di eguaglianza sostanziale e accantonato il principio di eguaglianza formale, riconoscendo la legittimità costituzionale di una legge che prevedeva talune “azioni positive” in favore delle donne imprenditrici (132). Criterio gerarchico (lex superior derogat legi inferiori). Con il criterio gerarchico, nell’ipotesi di antinomie tra norme appartenenti a livelli gerarchici diversi lex superior derogat legi inferiori, ossia prevale la norma di grado superiore, la quale non può essere incisa da quella di grado inferiore (133). (131) Corte cost., sentenza 24 luglio 1986, n. 210. (132) Corte cost., sentenza 26 marzo 1993, n. 109. (133) Sulla gerarchia delle fonti: G. tArello, L’interpretazione della legge, Giuffrè, 1980, pp. Va indagato il concetto di prevalenza della norma superiore (e della conseguente non incisione da parte della norma inferiore). 1) Il contrasto tra norme di livello gerarchico diverso - adottate in tempi diversi - nel caso in cui la norma posteriore sia gerarchicamente superiore a quella anteriore determina la cessazione di efficacia della norma precedente a far data dalla operatività della norma di livello superiore. la prevalenza, all’evidenza, implica l’applicazione della nuova norma e la cessazione di efficacia della vecchia (ciò, beninteso, a meno che la norma successiva - ove integrante una legge - non disponga la propria applicazione in via retroattiva). 2) Il contrasto tra norme di livello gerarchico diverso adottate nello stesso momento implica l’immediata prevalenza della fonte di grado superiore. 3) Il contrasto tra norme di livello gerarchico diverso adottate in tempi diversi, nel caso che la norma posteriore sia gerarchicamente inferiore a quella anteriore, implica la prevalenza della fonte superiore. ossia la fonte successiva, fin dalla sua emanazione, non può scalfire il dictum di quella precedente. la prevalenza è una conseguenza della gerarchia. la prevalenza determina, quindi, la “soccombenza” della fonte di grado inferiore contrastante con quella di grado superiore. Utilizzando un termine diffuso nell’ambiente giuridico qualificheremo invalidità il vizio della norma contrastante con una norma superiore (134). In modo tralaticio si precisa che “Per invalidità di un atto si intende, in via generale, la difformità di tale atto dal diritto, alla quale consegue la sanzione dell’inefficacia definitiva dello stesso e quindi la sua inidoneità a produrre effetti giuridici. Tale sanzione può essere automatica, come nel caso della nullità, che opera di diritto, oppure può richiedere apposita dichiarazione giudiziale, come nel caso dell’annullabilità, pronunciata dal giudice su ricorso del privato ricorrente” (135). dall’esame dell’ordinamento giuridico italiano si evince che viene rispettato il modello teorico sopra esposto, con la precisazione che la evidenziata invalidità - nel caso di contrasto tra norme di livello gerarchico diverso - in alcune circostanze determina l’inefficacia automatica della vicenda riconducibile alla fonte di grado inferiore ed in altre circostanze la detta inefficacia è conseguente dell’accertamento di un soggetto. Anche il principio innanzi evidenziato al punto 3) ha varie manifestazioni 313 e ss.; G. PIno, La gerarchia delle fonti del diritto. Costruzione, decostruzione, ricostruzione in annuario di ermeneutica giuridica, XVI, 2011, p. 19, anche per la distinzione tra gerarchie strutturali, materiali e assiologiche. (134) Ex plurimis: r. GUAStInI, L’interpretazione dei documenti normativi, Giuffrè, 2004, p. 251. (135) Così S. Foà, voce invalidità (Dir. amm.) in il diritto. Enciclopedia Giuridica del Sole 24ore, 2007, vol. 8, p. 238. In senso analogo: C.M. BIAnCA, Diritto civile. III. il contratto, Giuffrè, II edizione, 2000, pp. 609-610. nell’ordinamento giuridico positivo, come dimostrato dalle fattispecie di seguito descritte. a) la sentenza in contrasto con una fonte superiore è temporaneamente efficace, cessa di produrre effetti ex tunc ove riformata all’esito di impugnazione (art. 336, comma 2, c.p.c.). la sentenza, in contrasto con una fonte superiore, che passi in giudicato, mantiene la sua efficacia nell’ordinamento giuridico per effetto tuttavia di una puntuale previsione legislativa, costituita dall’art. 324 c.p.c. b) Il contratto in contrasto con una fonte superiore è inefficace nei casi di nullità (artt. 1422 - 1424 c.c.). la nullità, poi, potrà essere accertata dal giudice (con sentenza) o dalle parti (con un negozio di accertamento); è temporaneamente efficace, ma cessa di produrre effetti ex tunc (salvi i rapporti esauriti) nei casi di annullamento (artt. 1441 - 1446 c.c.) o di rescissione (art. 1452 c.c.) dichiarati dal giudice (con sentenza) o dalle parti (con un negozio modificativo). c) l’atto amministrativo in contrasto con una fonte superiore: è inefficace nei casi di nullità (art. 21 septies l. 7 agosto n. 241). la nullità, poi, potrà essere rilevata dal giudice o dalla P.A. autrice dell’atto. l’atto amministrativo nullo può essere altresì disapplicato dal giudice (art. 5 l. 20 marzo 1865 n. 2248, allegato e); la disapplicazione ha incidenza soltanto inter partes, cioè limitatamente alle parti del giudizio. È temporaneamente efficace, ma cessa di produrre effetti ex tunc nei casi di annullamento (art. 21 octies l. n. 241/90 cit.) dichiarato dal giudice o dall’Amministrazione in via di autotutela o nell’esercizio dei poteri di controllo o all’esito di un ricorso amministrativo. Atto amministrativo nullo, annullabile, disapplicabile e conseguenti ricadute in punto di giurisdizione costituiscono un tema ancora tormentato ed irrisolto nella esperienza giuridica (136). Convenzionalmente utilizziamo i seguenti truismi: nei casi di giurisdizione esclusiva - tanto del giudice ordinario quanto del giudice amministrativo - l’atto invalido può essere dichiarato nullo o annullabile a seconda dei suoi vizi; negli ordinari riparti di giurisdizione la dichiarazione di nullità o di annullamento spetta al giudice amministrativo; il giudice ordinario può - in presenza dei vizi di nullità determinanti carenza di potere - dichiarare la disapplicazione dell’atto amministrativo; in tutti i casi sia in sede giurisdizionale che amministrativa - in cui viene in rilievo un atto (136) Per un diffuso orientamento giurisprudenziale il regolamento illegittimo - in quanto atto dinatura normativa, e non meramente amministrativa, con portata generale ed astratta e capacità innovativa nell’ordinamento giuridico - può essere disapplicato dal giudice amministrativo, in quanto contrastante con norme di rango primario, anche in assenza di una specifica impugnazione; ciò in applicazione del principio di gerarchia delle fonti (Consiglio di Stato, sentenza 3 ottobre 2007 n. 5098; t.A.r. lombardia, Milano, sentenza 17 aprile 2009 n. 4064; t.A.r. Veneto, Venezia, sentenza 17 novembre 2011 n. 1700; Consiglio di Stato, sentenza 26 settembre 2013 n. 4778). Come è noto il regolamento illegittimo divenuto definitivo per mancata impugnazione può, pur sempre, essere disapplicato dalla Commissione tributaria in relazione all’oggetto dedotto in giudizio (art. 7, comma 5, del d.l.vo 31 dicembre 1992 n. 546). amministrativo in contrasto con le fonti dell’unione europea, il detto atto va disapplicato dagli operatori giuridici. l’invalidità si connota, quindi, come disapplicazione. disapplicazione peculiare, conseguenza della primazia del diritto comunitario. d) l’uso in contrasto con la legge ed il regolamento è inefficace (art. 8, comma 1, preleggi). Quindi le norme legislative e regolamentari prevalgono sulle norme consuetudinarie, anche quando la consuetudine è posteriore alla legge e al regolamento. e) Il regolamento amministrativo in contrasto con la fonte superiore ha la stessa disciplina dell’atto amministrativo delineata sopra al precedente punto c), alla luce della doppia natura del regolamento: tanto norma giuridica quanto atto amministrativo. Quindi le norme legislative prevalgono sulle norme regolamentari (art. 4 delle Preleggi), anche quando il regolamento è posteriore alla legge. f) la legge in contrasto con la Costituzione è temporaneamente efficace, ma cessa di produrre effetti ex tunc ove dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale (artt. 134, comma 1, e 136 Costituzione; art. 30 l. 11 marzo 1953, n. 87), salva la conservazione dei rapporti cd. esauriti. Ciò in quanto le norme costituzionali prevalgono sulle norme legislative, anche quando la legge è posteriore alla Costituzione. g) la Costituzione in contrasto con il diritto comunitario va disapplicata, salva la circostanza in cui il contrasto riguardi i principi fondamentali essenziali della repubblica italiana ovvero i diritti inalienabili garantiti nella Carta Costituzionale (137). h) Gli atti vincolanti delle istituzioni dell’unione europea in contrasto con i trattati costitutivi dell’unione europea e fonti equiparate (Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea, principi generali del diritto dell’unione europea, norme del diritto internazionale generale, accordi internazionali conclusi dall’unione) sono temporaneamente efficaci, ma cessano di produrre effetti ex tunc ove dichiarata la loro nullità dal competente giudice dell’unione (artt. 263 - 264 t.F.U.e.). tutte le fonti ora descritte dalle lettere a) ad g) ove siano in contrasto con una fonte dell’Unione europea si disapplicano. Allorché un rapporto sia disciplinato da più fonti del diritto di diversa gerarchia, vale la disciplina contenuta nella fonte gerarchicamente più elevata. Ciò in applicazione di regole logiche, in virtù delle quali la superiorità gerarchica si riverbera anche nella qualificazione delle fattispecie. Quindi prevale la qualificazione operata dalla fonte più alta in grado. la fonte - qualunque (137) riassuntivamente - su tali criteri risolutori in caso di antinomia tra una norma comunitariae una norma costituzionale - ex plurimis r. GUAStInI, L’interpretazione dei documenti normativi, cit., p. 252. sia la sua posizione nella piramide gerarchica - in contrasto con una fonte superiore sarà invalida. Ad esempio, ove il provvedimento attuativo sia stato adottato in violazione del regolamento presupposto, a sua volta in contrasto con la legge, la conseguenza è che il detto provvedimento applicativo è conforme a legge e quindi valido, laddove il regolamento è illegittimo (138). Ulteriori corollari: l’atto amministrativo in violazione di legge è invalido, anche se conforme ad un regolamento amministrativo; l’atto amministrativo con prescrizioni antinomiche con quelle contenute nella Costituzione è egualmente invalido, anche se conforme ad una legge ordinaria. nella evenienza che una fonte (es. regolamento amministrativo) sia in contrasto tanto con norme dell’Unione europea quanto con norme legislative si applica, per quanto sopra esposto, il regime di qualificazione e rilevanza collegato alla fonte più alta in grado. Sicché il regolamento amministrativo in contrasto sia con le norme dell’Unione europea che con le norme legislative è (invalido e) disapplicabile. egualmente disapplicabile è il regolamento amministrativo - o il provvedimento amministrativo - conforme alla legge, ma violativo di norma dell’Unione europea (139). (138) In tale circostanza si ammette la disapplicazione di un regolamento illegittimo non oggettodi specifica impugnazione (Consiglio di Stato, sentenza 4 marzo 2011 n. 1408, il quale precisa che “può prescindersi dalla proposizione e dalla celebrazione di una impugnazione tendente alla rimozione dell’atto che abbia debordato dalla sua sfera di competenza, essendo sufficiente accertare che la norma non è «idonea ad innovare» l’ordinamento sul punto e quindi non può essere applicata”; t.A.r Campania, Salerno, sentenza 22 luglio 2015 n. 1611). (139) Sul punto si precisa in dottrina che: “sul regime del provvedimento amministrativo, emanato nel rispetto del diritto nazionale ma in violazione del diritto comunitario, sono state proposte due tesi: quella dell’illegittimità e quella della disapplicazione. La prima tesi tratta la violazione del diritto comunitario alla stregua della violazione del diritto interno. La seconda si basa, da un lato, sull’estensione ai provvedimenti amministrativi del regime tipico degli atti normativi interni contrastanti con il diritto comunitario (i quali devono, appunto, essere disapplicati, per applicare il diritto comunitario), dall’altro, sull’esigenza di evitare che atti contrari al diritto comunitario divengano inoppugnabili e, quindi, la violazione di quel diritto divenga definitiva. Lo schema della disapplicazione è di uso relativamente agevole per le fonti del diritto: si tratta semplicemente di stabilire quale norma applicare, in presenza di un contrasto. Per i provvedimenti amministrativi, invece, esso comporterebbe uno stravolgimento del loro regime processuale, facendo venir meno l’onere di impugnazione tempestiva e l’inoppugnabilità del provvedimento non impugnato tempestivamente: e, quindi, pregiudicando gli interessi alla certezza del diritto e alla conservazione dei valori giuridici che sono alla base di quel regime processuale. È per questo che la giurisprudenza ha decisamente optato per la prima tesi: se il provvedimento rispetta una norma nazionale, ma viola una norma comunitaria, occorre disapplicare la prima e, in applicazione della seconda, dichiarare illegittimo il provvedimento (Cons. St., V, n. 4263/2008; Cons. St., Vi, n. 3621/2008; nel senso dell’applicazione delle regole processuali nazionali, si veda anche C. Giust. CE, sentenza i-21 Germany - arcor del 2006, in cause C-392/04 e C-422/04)” (così B.G. MAttArellAin istituzioni di diritto amministrativo a cura di S. CASSeSe, Giuffrè, V edizione, 2015, p. 401). da ultimo in giurisprudenza Cons. Stato 18 novembre 2019, n. 7874, secondo cui: “È noto il contrasto, soprattutto dottrinale, tra coloro che ritengono affetto da nullità il provvedimento amministrativo contrastante con il diritto eurounitario e coloro che ritengono un siffatto atto illegittimo e quindi impu- 20. rilievo del contrasto della norma con quella di rango superiore e rivisitazione dell’atto normativo. Il soggetto legittimato al rilievo del contrasto della norma con quella di rango superiore è tanto l’autore della norma (o altro soggetto legittimato), quanto il giudice specificamente incaricato dall’ordinamento a rilevare l’antinomia. ove non sia possibile muovere alcun rilievo è comunque possibile una rivisitazione dell’atto da parte del suo autore o di soggetti legittimati. All’uopo si rileva quanto segue. a) l’invalidità della sentenza è pronunciata dall’autorità giudiziaria. Il giudice può essere sia lo stesso che ha pronunciato la sentenza illegittima (come nel caso della revocazione, dell’opposizione di terzo e dell’actio nullitatis) che un giudice diverso (quello dell’impugnazione). Per i principi processuali l’inesistenza inibisce la formazione della cosa giudicata. In questa evenienza l’invalidità della sentenza causata da inesistenza può essere dichiarata dalle parti a mezzo del negozio di accertamento. “il negozio di accertamento si ha quando le parti pongono in essere una manifestazione di volontà con la quale intendono eliminare l’incertezza relativa a una situazione giuridica tra loro preesistente, determinando l’esistenza (o, gnabile doverosamente entro il termine decadenziale dinanzi al giudice amministrativo, con la conseguenza che, dunque, in assenza di impugnazione e di annullamento da parte del giudice amministrativo, il provvedimento amministrativo adottato in applicazione di una norma di legge nazionale contrastante con il diritto eurounitario mantiene la sua naturale validità ed efficacia. a tal proposito va ancora rammentato che la non applicazione della disposizione interna contrastante con l'ordinamento comunitario costituisce un potere-dovere, per il giudice, che opera anche d'ufficio (cfr., tra le tante, Cons. Stato, Sez. V, 28 febbraio 2018 n. 1219 e, prima ancora, Corte Cass., 18 novembre 1995 n. 11934), al fine di assicurare la piena applicazione delle norme comunitarie, aventi un rango preminente rispetto a quelle dei singoli Stati membri. […] è ormai principio consolidato in giurisprudenza quello secondo il quale la disapplicazione (rectius, non applicazione) della norma nazionale confliggente con il diritto eurounitario, a maggior ragione se tale contrasto è stato accertato dalla Corte di giustizia UE, costituisca un obbligo per lo Stato membro in tutte le sue articolazioni e, quindi, anche per l'apparato amministrativo e per i suoi funzionari, qualora sia chiamato ad applicare la norma interna contrastante con il diritto eurounitario (cfr., pressoché in termini, Cons. Stato, Sez. Vi, 23 maggio 2006 n. 3072, ma a partire da Corte costituzionale 21 aprile 1989 n. 232, e in sede europea da Corte di Giustizia della Comunità europea, 22 giugno 1989, C-103/88 F.C., nonché Corte di Giustizia dell'Unione europea 24 maggio 2012, C-97/11 amia). […] la tesi prevalente in giurisprudenza, allo stato e condivisa dal Collegio, tende ad affermare che il provvedimento amministrativo adottato dall'amministrazione in applicazione di una norma nazionale contrastante con il diritto eurounitario non va considerato nullo, ai sensi dell'art. 21-septies L. n. 241 del 1990 per difetto assoluto di attribuzione di potere in capo all'amministrazione procedente, sebbene alla medesima amministrazione, per quanto si è sopra riferito, è fatto carico dell'obbligo di non applicare la norma nazionale contrastante con il diritto eurounitario, in particolar modo quando tale contrasto sia stato sancito in una sentenza della Corte di giustizia UE. Per effetto di tale prevalente orientamento, quindi, la violazione del diritto eurounitario implica solo un vizio di illegittimità non diverso da quello che discende dal contrasto dell'atto amministrativo con il diritto interno, sussistendo di conseguenza l'onere di impugnare il provvedimento contrastante con il diritto europeo dinanzi al giudice amministrativo entro il termine di decadenza, pena l'inoppugnabilità del provvedimento medesimo (cfr., tra le tante, Cons. Stato, Sez. iii, 8 settembre 2014 n. 4538)”. eventualmente, l’inesistenza), il contenuto e i limiti di un dato rapporto giuridico” (140). Il negozio di accertamento è caratterizzato dalla funzione di fissare il contenuto di un rapporto giuridico preesistente, con effetto preclusivo di ogni ulteriore contestazione al riguardo, rendendo definitive ed immobili le situazioni già in stato di obiettiva incertezza, in quanto vincola le parti ad attribuire ad esse gli effetti che risultano dall’accertamento e preclude ogni loro pretesa, ragione ed azione in contrasto con esso (141). Una volta passata in giudicato la sentenza “fa stato ad ogni effetto tra le parti” (art. 2909 c.c.), anche se - in ipotesi - illegittima, perché il giudicato facit de albo nigrum.Alle parti coinvolte nel rapporto processuale è possibile, tuttavia, disporre del giudicato. difatti, con idonea convenzione (arg. ex art. 1974 c.c.) si può mettere in non cale il giudicato. b) l’invalidità del contratto è pronunciata dall’autorità giudiziaria. l’autonomia negoziale (art. 1322 c.c.) consente alle parti del negozio invalido di dichiarare la nullità o l’annullabilità o la rescindibilità. Ciò - nel caso della nullità - a mezzo del negozio di accertamento (art. 1321 c.c.: “regolare”). nel caso di annullamento o rescissione le parti dovranno - con negozio modificativo - oltreché accertare l’invalidità anche disciplinare la vicenda degli effetti (ex nunc o ex tunc) con portata inter partes, senza possibilità di incidere sulle situazioni soggettive dei terzi. Il contratto carente di vizi, quindi valido, ove produca ancora effetti (contratto di durata: ad esecuzione continuata o periodica), può essere inciso dai contraenti a mezzo di un successivo negozio con il quale far cessare gli effetti (contratto estintivo ex art. 1321 c.c. o negozio unilaterale di recesso ex art. 1373 c.c., con effetti ex nunc). Ciò in forza dell’autonomia negoziale, la quale può prevedere espressamente una efficacia retroattiva alla fattispecie estintiva, salvo - beninteso - i diritti dei terzi. c) l’invalidità del provvedimento amministrativo è pronunciata dal giudice amministrativo (artt. 29-31 d.l.vo 2 luglio 2010 n. 104) o dal giudice ordinario (nei casi di giurisdizione esclusiva o nella fattispecie della disapplicazione ex art. 5 l. 20 marzo 1865 n. 2248 Allegato e). l’invalidità può essere acclarata altresì dalla P.A. che ha emanato il provvedimento o da altro organo previsto dalla legge (annullamento d’ufficio ex art. 21 nonies l. n. 241/90; annullamento straordinario ex art. 2, comma 3 lett. q, l. n. 400/1988; annullamento giustiziale in sede di ricorso amministrativo ex d.P.r. 24 novembre 1971 n. 1199; annullamento in sede di controllo). (140) In tal senso: l. BozzI, voce accertamento (negozio di) in il diritto. Enciclopedia giuridica del Sole 24 ore, 2007, vol. I, pag. 27. (141) Ex plurimis: Cass. Civ., sez. lavoro, 20 maggio 2004, n. 9651; Cass. Civ., Sez. II, 5 giugno 1997 n. 4994. Il provvedimento carente di vizi, quindi valido, ove produca ancora effetti (provvedimento ad efficacia duratura e non istantanea), può essere inciso dalla P.A. a mezzo di un successivo provvedimento, ossia a mezzo della revoca (art. 21 quinquies l. n. 241/90). Ciò in ossequio al principio di inesauribilità del pubblico potere per il quale la P.A. deve, in modo permanente, curare l’interesse pubblico che ha in attribuzione. l’autore dell’atto può ripensare circa il modo di curare l’interesse primario. la cessazione dell’efficacia è ex nunc. d) l’invalidità dell’uso è pronunciata dal giudice. Venendo in rilievo una fonte-fatto non è ipotizzabile un acclaramento ad opera dell’autore della fonte. e) Il regolamento amministrativo in contrasto con la fonte superiore ha la stessa disciplina dell’atto amministrativo delineata sopra al punto c). Ciò alla luce della doppia natura del regolamento: tanto norma quanto atto amministrativo. Quindi il regolamento può essere tanto annullato dal giudice quanto dalla P.A. autrice dell’atto; in quest’ultima evenienza, ovviamente, con una eguale fonte regolamentare (142). nella fattispecie dell’annullamento d’ufficio del regolamento non si applica la disciplina contenuta nell’art. 21 nonies l. n. 241/1990 (sull’annullamento d’ufficio del provvedimento) atteso che quest’ultima disposizione, nel richiedere oneri di motivazione ed oneri procedimentali, si applica ai “meri” provvedimenti; la disciplina contenuta nel citato articolo 21 nonies è estranea a quella tipica per il regolamento (artt. 3 comma 2, 13 comma 1 e 24 comma 1 lett. b l. n. 241/1990); la detta disciplina si applicherà nella sola evenienza del regolamento-provvedimento, ossia del regolamento che contenga disposizioni particolari e concrete, aventi diretta lesività. esaltando - eminentemente - il carattere di norma giuridica del regolamento si potrebbe ritenere che la P.A. che ha adottato il regolamento può solo abrogarlo, non anche annullarlo; l’annullamento in autotutela del regolamento, determinando una caducazione con effetto ex tunc, avrebbe una portata retroattiva; portata retroattiva non collegabile, ex artt. 10 e 11 delle preleggi, al regolamento caducatorio. Sul punto si è enunciato che: “La giurisprudenza amministrativa ha più volte posto in rilievo che la regola di irretroattività dell’azione amministrativa è espressione dell’esigenza di garantire la certezza dei rapporti giuridici, oltreché del principio di legalità che, segnatamente in presenza di provvedimenti limitativi della sfera giuridica del privato (tali sono quelli introduttivi di prestazioni imposte), impedisce di incidere unilateral- (142) Sull’ammissibilità dell’annullamento del regolamento illegittimo (beninteso con eguale fonte regolamentare) da parte dell’Amministrazione autrice della norma: t.A.r. Catania, sentenza 4 luglio 2012 n. 1666, (con il rilievo che la disposizione regolamentare illegittima per contrasto con una fonte superiore è automaticamente inefficace). A proposito della potestà di annullamento d’ufficio ad opera della P.A., si osserva che “Di regola nessuna specie di atti amministrativi può dirsi sottratta a tale misura, neppure quelli che contengono norme giuridiche come i regolamenti, gli statuti, ecc.”: in tal senso S. roMAno, voce annullamento degli atti amministrativi cit., p. 645. mente e con effetto “ex ante” sulle situazioni soggettive del privato (cfr. Cons. St., Sez. iV^, n. 1317 del 07.03.2001; Sez. Vi^, n. 2045 del 01.12.1999; Sez. iV^, n. 502 del 30.03.1998). Ulteriore limite alla retroattività, in presenza di statuizioni provvedimentali che rivestono valenza regolamentare in quanto dirette a trovare applicazione ripetuta nel tempo ad un numero indeterminato di fattispecie, discende dalla regola di irretroattività degli atti a contenuto normativo dettata dall’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale. Detta regola può ricevere deroga per effetto di una disposizione di legge pari ordinata e non in sede di esercizio del potere regolamentare che è fonte normativa gerarchicamente subordinata. Pertanto solo in presenza di una norma di legge che a ciò abiliti gli atti e regolamenti amministrativi possono avere efficacia retroattiva” (143). la tesi negante alla P.A. - sul rilievo della irretroattività degli atti a contenuto normativo - la potestà di annullare il regolamento non è accoglibile per concorrenti ragioni: - da un punto di vista tecnico-formale nessuna norma giuridica escludela potestà della P.A. di annullare il regolamento illegittimo adottato; - specularmente a quanto da ultimo rilevato, da un punto di vista tecnicoformale, nessuna norma giuridica prevede la potestà del giudice amministrativo di annullare il regolamento, ancorché questa potestà costituisca un dato pacifico nell’esperienza giuridica. l’oggetto della cognizione del giudice amministrativo è l’esercizio (o il mancato esercizio) del potere amministrativo (143) Così Consiglio di Stato, sentenza 9 settembre 2008 n. 4301. Per A. CerrI, voce regolamenti in Enciclopedia Giuridica Treccani, XXVI, 1991, p. 6 “il potere regolamentare è soggetto ai principi generali del diritto, […]. il regolamento, dunque, non può essere retroattivo, se non in casi «tipici» ([...] cfr. Cons. St., sez. V, 4 agosto 1988, n. 396, in Foro amm. 1988, 1351, sulla retroattività di norme, a carattere generale, «di ordine pubblico» contenute in regolamento comunale). Sul principio di irretroattività la giurisprudenza è vastissima: cfr., ad es., Cons. St., sez. Vi, 30 ottobre 1981, n. 587, in Cons. St., 1981, 1115”. Inoltre sulla questione, nel parere del Servizio affari istituzionali e locali, polizia locale e sicurezza della regione Autonoma friuli Venezia Giulia prot. 39898/1.3.17 del 19 dicembre 2012, si enuncia: “i regolamenti con cui ciascuna P.a., in base ai principi generali fissati dalla legge, stabilisce le linee fondamentali dell'organizzazione dei propri uffici, sono atti organizzativi formalmente amministrativi a contenuto normativo. il 'ricambio' delle norme regolamentari avviene secondo le regole tipiche degli atti normativi, per abrogazione espressa o tacita operata da atti regolamentari successivi. L'abrogazione delle norme regolamentari e loro eventuale sostituzione o modifica può operare soltanto per il futuro, stante la ritenuta inidoneità, in generale, della fonte regolamentare a porre disposizioni con efficacia retroattiva” (massima del parere); nella nota 12 del citato parere si enuncia altresì: “Peraltro, si registra la posizione di una dottrina secondo cui, atteso che l'art. 21 nonies, L. n. 241/1990, a seguito della novella recata dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, prevede l'annullamento d'ufficio del 'provvedimento amministrativo' illegittimo, entro un termine ragionevole, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, proprio il riferimento testuale al provvedimento sembrerebbe escludere l'applicabilità della norma anche ai regolamenti. La stessa dottrina valuta, però, che un approccio meno rigoroso potrebbe essere suggerito dalla posizione dei regolamenti a 'mezza via' tra la portata normativa del loro contenuto e la natura amministrativa di chi li emana e si pone possibilista su un'iniziativa dell'amministrazione per l'eliminazione del regolamento con effetto ex tunc (Luigi Cossu, cit., p. 5033)”. (artt. 7, 13, 119, 133, 134 e 135 d.l.vo 2 luglio 2010 n. 104). dall’ordinamento giuridico può evidenziarsi - sistematicamente - che il giudice amministrativo può conoscere anche dei regolamenti (art. 13, comma 4 bis, d.l.vo 104/2010) laddove si parla di “atti normativi”. tuttavia, la ragione fondante della cognizione dei regolamenti in via giurisdizionale è la caratteristica della doppia natura di questi: la natura anche amministrativa dei regolamenti porta seco la conseguente disciplina; - l’oggetto del ricorso straordinario al Capo dello Stato può essere costituitoanche dal regolamento (arg. ex art. 14, comma 3, d.P.r. 24 novembre 1971 n. 1199, ove si fa riferimento all’“annullamento di atti amministrativi generali a contenuto normativo”), ancorché non venga in rilievo un ricorso giurisdizionale, ma un rimedio giustiziale riconducibile all’annullamento in autotutela; - l’effetto ex tunc del regolamento che annulla un precedente regolamento viziato da illegittimità non contrasta con il divieto di applicazione retroattiva delle fonti secondarie, ma costituisce un corollario della natura annullatoria; - il principio di economia dei mezzi giuridici e dell’economicità dei procedimenti implica che la P.A., a fronte di un proprio regolamento illegittimo, può intervenire annullandolo - evitando il consolidarsi di falsi affidamenti senza attendere l’annullamento in sede giurisdizionale. l’affermazione, ricorrente in giurisprudenza ed in dottrina, circa il divieto di applicazione retroattiva di norme secondarie - con la conseguente unica vicenda abrogativa ex art. 15 preleggi - ha quale sfondo, quale presupposto implicito, un pregresso atto valido, ossia un atto non in contrasto con una fonte superiore. In altri termini: va riconosciuta alla P.A. - allorché si acclari l’invalidità di un regolamento - la potestà di intervenire in autotutela annullando il detto atto. Ad es.: una Amministrazione locale - in casi non ammessi dalla legge nazionale o dal CCnl del settore - adotta un regolamento con il quale attribuisce un emolumento ai propri dipendenti (144). Una volta acclarata la vicenda, la P.A. decide di intervenire per ripristinare la legalità. lo strumento dell’intervento non è certo una nuova norma regolamentare che abroga la precedente (con effetti ex nunc, determinante la validità medio termine, con esposizione dell’Amministrazione ad una pretesa illegittima dei dipendenti), ma l’annullamento del pregresso (con effetti ex tunc). f) l’invalidità della legge in contrasto con la Costituzione è pronunciata dalla Corte Costituzionale nel giudizio di costituzionalità, tanto in via principale, quanto in via incidentale. Può una legge invalida, in contrasto con la Costituzione, essere dichiarata invalida - con il conseguente corollario della portata retroattiva - con una suc- (144) Venendo in rilievo la materia dell’ordinamento civile (art. 117, comma 2, lett. l della Costituzione) l’attribuzione normativa spetta in via esclusiva allo Stato. cessiva legge? A nostro giudizio sì. le tecniche per conseguire questo risultato sono due: legge che dispone la abrogazione della legge precedente con previsione espressa di retroattività. Una tale previsione non cozza con nessun principio, anzi attua il rispetto della gerarchia delle fonti; legge che dichiara invalida una precedente legge con esplicitazione del contrasto con la Costituzione. Una tale legge ha una naturale portata retroattiva, a prescindere dalla espressa previsione di retroattività. la legge carente di vizi, quindi valida, può essere incisa dal legislatore a mezzo di legge successiva, ossia a mezzo dell’abrogazione (art. 15 preleggi), con effetto ex nunc (art. 11 preleggi) a meno che non sia disposta l’applicazione retroattiva. l’abrogazione è conseguibile anche tramite referendum abrogativo (art. 75 della Costituzione). g) In tutti i casi di contrasto di una qualsivoglia fonte inferiore a quella comunitaria con una fonte dell’Unione europea vi è una invalidità della fonte che determina la disapplicazione di questa. la disapplicazione è rilevabile da tutti gli operatori giuridici. Inoltre l’autore della fonte inferiore potrà caducare quest’ultima. In tal modo si consegue anche la certezza delle relazioni giuridiche, eliminando una volta per tutte la fonte invalida. 21. Vicende della norma giuridica. Norma temporanea, abrogazione, deroga, sospensione (145). Va distinta la validità dalla efficacia della norma giuridica. la validità è l’esistenza della norma giuridica al termine del procedimento formativo delineato dalle norme di organizzazione. l’efficacia è l’operatività della norma, ossia l’innovazione dell’ordinamento giuridico. In difetto di regola diversa vi è coincidenza tra momento della validità e momento della efficacia. Per leggi e regolamenti vige una disposizione diversa. l’art. 10 delle preleggi, infatti, dispone che “Le leggi e i regolamenti divengono obbligatori nel decimoquinto giorno successivo a quello della loro pubblicazione, salvo che sia altrimenti disposto” (146). durante la sua vigenza la norma può essere modificata o sostituita - con la normale decorrenza ex nunc - con norma di eguale forza giuridica o superiore: un regolamento può essere modificato con un nuovo regolamento o con una legge. ove si utilizzi una norma con forza giuridica superiore si eleva la forza della disciplina, sicché per una successiva modifica andrà adoperata una norma almeno di pari efficacia della precedente. (145) Sul tema: M. PAtrono, voce Legge (vicende della), in Enc. del Diritto, XXIII, Giuffré, 1973, pp. 904-930. (146) Per le leggi il precetto è stato costituzionalizzato con l’art. 73, comma 3, Cost.: “Le leggi sono pubblicate subito dopo la promulgazione ed entrano in vigore il quindicesimo giorno successivo alla loro pubblicazione, salvo che le leggi stesse stabiliscano un termine diverso”. la perdita di efficacia della norma giuridica - con la normale decorrenza ex nunc - matura nei casi di seguito esposti. Norma temporanea. In questa evenienza la stessa norma fissa la propria durata. Vi può essere un termine finale o una condizione risolutiva. abrogazione. l’abrogazione avviene di solito con una norma successiva, secondo il principio fissato nell’art. 15 delle preleggi, secondo cui “Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore”. Un peculiare caso di abrogazione si ha per le leggi regionali nelle materie di legislazione concorrente, allorché venga modifica la legge-cornice statale: la modificazione delle leggi-cornice importa l’abrogazione delle leggi regionali in contrasto con esse; tanto è disposto dall’art. 10, comma 1, l. 10 febbraio 1953, n. 62 secondo cui “Le leggi della repubblica che modificano i principi fondamentali di cui al primo comma dell'articolo precedente [art.117 Cost.] abrogano le norme regionali che siano in contrasto con esse”. Coordinando la disposizione dell’art. 15 con quella del precedente art. 11 (“la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”), si ricava altresì il principio per cui - di regola - l’abrogazione opera ex nunc, vale a dire dal momento dell’entrata in vigore della nuova fonte o da quello - eventualmente diverso - da cui ha inizio l’efficacia delle norme da questa prodotte (147). la norma giuridica viene abrogata quando una nuova norma dispone che essa cessi l’efficacia. la disposizione abrogata continua ad essere applicata ai fatti verificatisi anteriormente all’abrogazione. È quindi anche possibile che nel corso di un giudizio, il giudice - chiamato ad applicare una norma abrogata - dubitando sulla sua conformità alla Costituzione, sollevi la questione di legittimità costituzionale. la Corte costituzionale, ove reputi fondata la questione, potrà annullare la norma in questione. Per abrogare una disposizione occorre sempre l’intervento di una disposizione di pari o superiore valore gerarchico. Il principio secondo cui la norma successiva abroga la norma precedente (art. 15 preleggi) vale per qualsiasi tipo di norma, indipendentemente dalla sua fonte (148). abrogazione per referendum. tanto è possibile, ove previsto dalle norme di organizzazione. Il referen- (147) in tal senso V. CrISAFUllI, Lezioni di diritto costituzionale, cit., p. 188. (148) r. GUAStInI, Le fonti del diritto, cit., p. 58. dum abrogativo è previsto per la legge e per gli atti aventi forza di legge dello Stato (art. 75 Cost. “di una legge o di un atto avente valore di legge”) e per le leggi e provvedimenti amministrativi della regione ad autonomia ordinaria (art. 123, comma 1, Cost. (149)). Deroga. diversa dalla abrogazione è la deroga, che si ha quando una nuova norma pone, per specifici casi, una disciplina diversa da quella prevista dalla norma precedente, la quale continua ad essere applicabile a tutti gli altri casi (norma generale); sicché se dovesse essere abrogata la norma derogante, automaticamente si riespande l’ambito di applicazione della regola generale. Sospensione. Simile alla deroga è la sospensione dell’applicazione di una norma, sospensione limitata ad un certo periodo e spesso a singole categorie o zone. Ad esempio sospensione del pagamento dei tributi per un anno nella zona colpita da un terremoto. decorso il termine previsto, la norma generale riprende tutta la sua applicabilità. annullamento. l’annullamento viene disposto da parte dell’autorità competente per vizio formale o sostanziale della norma, come specificato in precedenza. In questo caso la decorrenza della vicenda è ex tunc, fatte salve le situazioni già definite in modo irreversibile (diritti quesiti). difatti gli effetti dell’annullamento si avvertono solo per quei rapporti giuridici che l’interessato possa sottoporre a un giudice, che siano cioè azionabili: i rapporti pendenti, in contrapposizione ai rapporti esauriti, i quali non possono più essere dedotti davanti al giudice. In genere i rapporti si esauriscono con il decorso del tempo (estinzione del diritto per prescrizione; perdita della possibilità di esercitare il diritto, cioè decadenza), oppure per volontà dell’interessato (acquiescenza), od ancora perché il rapporto è stato definito con una sentenza ormai non più impugnabile (giudicato) (150). esistono poi casi di perdita di efficacia non generali, ma riferiti a specifiche fonti: è il caso della revoca del regolamento per rinnovata valutazione dell’interesse pubblico e la desuetudine per gli usi. (149) la disposizione testualmente precisa: “Lo statuto regola l'esercizio del diritto di iniziativa e del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della regione e la pubblicazione delle leggi e dei regolamenti regionali”. oltre al referendum abrogativo la norma consente anche il referendum consultivo. (150) Ex plurimis: r. BIn, G. PItrUzzellA, Diritto costituzionale, cit., p. 300. 22. (segue) Vicende della norma giuridica. irretroattività della norma giuridica. Casi eccezionali di retroattività e legge interpretativa. Quale regola generale “La legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo” (art. 11 delle preleggi). tale regola generale trova una testuale specificazione nella materia penale con l’art. 2, comma 1, c.p. per il quale “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”. ossia la legge vale per i rapporti giuridici non ancora sorti o che sorge- ranno. Va precisato che il principio di irretroattività della legge vale non solo per la legge strettamente intesa, bensì per le fonti tutte. Ciò sia perché nel contesto del capo I delle Preleggi il termine “legge” è sinonimo di “fonte”, sia argomentando a fortiori: se non ha effetto retroattivo la legge, a maggior ragione (a maiori ad minus), non hanno effetto retroattivo le fonti ad essa subordinate (151). Il divieto di retroattività della legge - funzionale alla certezza del diritto, alla prevedibilità delle conseguenze collegate alla propria condotta - è stato costituzionalizzato solo nella materia penale (art. 25, comma 2, Cost.), sicché lo stesso potrebbe essere derogato, purché - come precisato dalla Corte Costituzionale con giurisprudenza consolidata - non leda il principio di ragionevolezza ex art. 3, comma 2 Cost. Quanto evidenziato in ordine all’inizio di efficacia della legge vale - mutatis mutandis - per tutte le norme giuridiche. Il giudice delle leggi ritiene giustificata l’efficacia retroattiva della norma al fine della tutela di principi, diritti e beni di rilievo costituzionale o tutelati dalla CedU e sempre che non si producano ingiustificate disparità di trattamento o la lesione di legittimi affidamenti (152). retroattiva, alle condizioni evidenziate, può essere solo la legge e non anche fonti ad essa inferiore. Sicché un regolamento non potrebbe avere efficacia retroattiva, non potendosi derogare al principio generale enunciato nell’art. 11 delle preleggi, se non nel caso che glielo consenta espressamente una fonte primaria (153) e salva l’ipotesi del regolamento che annulli un precedente regolamento illegittimo. efficacia retroattiva hanno le cd. leggi interpretative o di interpretazione autentica, ossia le norme emanate per chiarire il significato di norme antecedenti e che, quindi, si applicano a fatti regolati da queste ultime, anche se anteriori alla emanazione della norma interpretativa. la norma che deriva dalla legge di interpretazione autentica si limita ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, (151) Su tali temi: r. GUAStInI, Le fonti del diritto, cit., p. 59 e pp. 289-290. (152) Ex plurimis: Corte cost., sentenze del 26 gennaio 2012, n. 15, del 5 aprile 2012, n. 78 e del 28 novembre 2012, n. 264. (153) A.M. SAndUllI, voce Fonti del diritto, cit., p. 529-530. riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario. la legge di interpretazione autentica sceglie una sola tra le varie interpretazioni ragionevolmente possibili. la legge interpretativa ha lo scopo di chiarire situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo, in ragione di un dibattito giurisprudenziale irrisolto, o di ristabilire un'interpretazione più aderente alla originaria volontà del legislatore, a tutela della certezza del diritto e dell'eguaglianza dei cittadini, cioè di principi di preminente interesse costituzionale. la norma retroattiva si applica anche alla risoluzione delle controversie che siano ancora pendenti al momento della sua entrata in vigore. Vengono invece, salva diversa disposizione legislativa, rispettati gli effetti delle sentenze già passate in giudicato. ove una legge si autoqualifichi come interpretativa ma non abbia i caratteri innanzi descritti - in quanto contiene innovazioni al testo previgente - non è una “vera” legge interpretativa, sicché non può essere applicata retroattivamente (154). l’eccezionale efficacia retroattiva della legge non tocca comunque i rapporti che siano stati già definiti con sentenza passata in giudicato. disposizioni che statuissero ciò sarebbero illegittime, in quanto lesive della riserva di funzione giurisdizionale implicitamente statuita dall’art. 102, comma 1 Cost. (155). Alla regola della intangibilità dei giudicati, fanno eccezione le norme penali di favore, come statuito dall’art. 30, comma 4, l. 11 marzo 1953, n. 87 secondo cui “Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali”. 23. (segue) Vicende della norma giuridica. Questioni di diritto transitorio. In modo pacifico - salvi i casi della previsione legislativa espressa di re- (154) Così Corte cost. sentenza, 11 giugno 2010, n. 209 la quale precisa altresì - con riguardo alcaso di specie - che la eventuale previsione di applicazione retroattiva è illegittima, atteso che incide in modo irragionevole sul legittimo affidamento riposto nella sicurezza giuridica, in particolare, da quei soggetti che, basandosi sulla legislazione vigente, mai oggetto di dubbi interpretativi e di per sé chiara e univoca, avevano chiesto ed ottenuto dai giudici amministrativi la tutela delle proprie situazioni giuridiche lese da atti illegittimi. l'irragionevolezza risiede nella circostanza che il legislatore interviene per rendere retroattivamente legittimo ciò che era illegittimo, senza che fosse necessario risolvere oscillazioni giurisprudenziali e senza che il testo delle norme "interpretate" offrisse alcun appiglio semantico nel senso delle rilevanti modifiche introdotte. In tal modo, non solo si è leso l'affidamento dei consociati nella stabilità della disciplina giuridica delle fattispecie, che viene sconvolta dall'ingresso inopinato e immotivato di norme retroattive che alterano rapporti pregressi, ma si rende inutile e privo di effettività il diritto dei cittadini di adire i giudici per ottenere la tutela delle proprie situazioni giuridiche soggettive. A tale lesione di diritti fondamentali dei cittadini si aggiunge la violazione dell'art. 102 Cost., perché le norme censurate incidono negativamente sulle attribuzioni costituzionali dell'autorità giudiziaria, travolgendo gli effetti di pronunce divenute irrevocabili e definendo sostanzialmente, con atto legislativo, l'esito di giudizi in corso. (155) In termini: r. GUAStInI, Le fonti del diritto, cit., p. 289. troattività - la nuova legge non si applica alle fattispecie verificatesi anteriormente alla sua entrata in vigore, i cui effetti si sono esauriti. Ad un contratto di locazione ormai scaduto non si applica una nuova legge che modifica la disciplina del riparto delle spese ordinarie e straordinarie. Invece, nella successione delle leggi nel tempo non è pacifica la disciplina delle fattispecie verificatesi anteriormente alla entrata in vigore della modificazione normativa, ma i cui effetti perdurano nel tempo. In alcuni casi il legislatore regola espressamente la materia, con le cd. disposizioni transitorie. Per i casi non previsti si pone il problema della disciplina per la quale sono state elaborate due teorie: a) teoria dei diritti quesiti. la legge nuova non incidere sui diritti quesiti, ossia i diritti entrati nel patrimonio di un soggetto. la detta teoria è criticabile sotto almeno due aspetti: incertezza del perimetro della nozione di diritto quesito; corollario del diritto quesito sarebbe la - inammissibile - conseguenza della preclusione della modifica normativa dei diritti destinati a durare nel tempo; b) teoria del fatto compiuto. la legge nuova non estende la sua efficacia ai fatti definitivamente perfezionati sotto il vigore della legge precedente e agli effetti già prodotti, ancorché dei fatti stessi siano ancora pendenti gli effetti. Sicché la legge non si applica: alla disciplina delle fattispecie - rectius: fatti costitutivi del diritto - realizzatesi anteriormente alla sua entrata in vigore (vuol farsi riferimento alla nuova legge che incide direttamente sul fatto costitutivo del diritto); alla disciplina degli effetti (dei rapporti) completamente esauriti al tempo della sua entrata in vigore; alla disciplina delle fattispecie e agli effetti già verificatisi prima della sua entrata in vigore (a contrario: si applica alla disciplina dei residui effetti futuri, perché è sempre possibile incidere sulle situazioni effettuali non completamente esaurite). la legge nuova non potrebbe incidere sui connotati del fatto compiuto, ma si applica circa la disciplina degli effetti perduranti di un fatto realizzatosi prima della sua entrata in vigore. Ad esempio se una legge modifica la disciplina delle cause che possono determinare il divorzio introducendo il ripudio, non potrebbe essa legge applicarsi ai fatti di ripudio intervenuti prima della sua entrata in vigore. Se, invece, una legge modifica la disciplina della entità dell’assegno divorzile, essa legge si applica ai divorzi intervenuti prima della sua entrata in vigore per la regolazione dei rapporti futuri. mutatis mutandis a quest’ultimo proposito: se nella pendenza del contratto di locazione una nuova legge modifica la disciplina del riparto delle spese ordinarie e straordinarie, la nuova legge non si applica al periodo già trascorso, ma si applica per la residua durata. Se la fattispecie costitutiva non è completa, si applica la legge vigente al momento del suo perfezionamento. Così, ad esempio, se le parti iniziano le trattative sotto la vecchia legge e concludono l’accordo sotto la nuova legge, la validità del contratto va valutata alla stregua della nuova legge. 24. reviviscenza della norma abrogata. ove la disposizione abrogativa sia a sua volta abrogata da una successiva disposizione o dichiarata incostituzionale, l’originaria disposizione riacquista vigore, con effetto ex nunc. Ciò è una conseguenza della portata ex nunc dell’abrogazione. Una legge disciplina una data materia; successivamente viene abrogata. l’abrogazione comporta che i rapporti svoltisi sotto l’imperio della legge abrogata restano validi; per il futuro - ossia dalla data di entrata in vigore della legge abrogatrice - i rapporti giuridici su quella data materia non sono più regolati dalla legge abrogata (saranno regolati dalla legge abrogatrice, ove contenga anche una nuova disciplina di quella data materia o da altra disciplina preesistente). ove la legge abrogatrice venga caducata, viene meno la relativa disciplina. Atteso che la disciplina riguardava la caducazione, la detta caducazione viene meno. Quindi si riapplica la originaria legge a far data dalla operatività della caducazione (della legge abrogatrice) conseguente alla nuova abrogazione o alla dichiarazione di illegittimità costituzionale. Una conferma di tale principio si ricava dalla disposizione contenuta nell’art. 681 c.c. secondo cui “La revocazione totale o parziale di un testamento può essere a sua volta revocata sempre con le forme stabilite dall’articolo precedente. in tal caso rivivono le disposizioni revocate”. In senso contrario - nella evenienza di disposizione abrogativa a sua volta abrogata da una successiva disposizione - è la dottrina prevalente (156) e la Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri 2 maggio 2001, n. 1/1.1.26/10888/9.92 “Guida alla redazione dei testi normativi” la quale al punto 3.5 enuncia “Se si intende fare rivivere una disposizione abrogata non è sufficiente abrogare la disposizione abrogativa, ma occorre specificare espressamente tale intento, abrogando la norma abrogatrice e richiamando esplicitamente la norma abrogata; ovvero, più semplicemente, abrogando la norma abrogatrice e riproponendo ex novo la disposizione già oggetto di abrogazione. in ogni caso, la reviviscenza ha effetto ex nunc”. Secondo la giurisprudenza costituzionale (157) - nella evenienza di disposizione abrogativa dichiarata incostituzionale - il fenomeno della revivi- (156) Ex plurimis: A. GIUlIAnI, in Trattato di diritto privato diretto da P. reSCIGno, cit., p. 462 il quale precisa che “La cessazione di un precetto non è di per sé sufficiente a ridare vigore ad un precedente precetto, che abbia già definitivamente perduto il suo vigore”; A. torrente, P. SCHleSInGer, manuale di diritto privato, XXIII edizione, Giuffré, 2017, p. 43. (157) Cfr. Corte Costituzionale, sentenze 27 giugno 2012 n. 162, 24 gennaio 2012 n. 13 e 23 aprile 1986 n. 108. scenza delle disposizioni e degli atti normativi abrogati non opera in via generale ed automatica, ma solo in ipotesi circoscritte, tra cui la fattispecie dell’annullamento giurisdizionale di norma espressamente abrogativa, con la conseguenza che le disposizioni illegittimamente abrogate tornano ad avere vigore ed applicazione. non devono ritenersi accoglibili le argomentazioni a favore delle tesi li- mitanti la revivescenza della disposizione abrogata. difatti: la reviviscenza, nella fattispecie in cui la rivisitazione venga effettuata dallo stesso autore dell’atto (abrogazione della disposizione abrogativa operata dall’autore di quest’ultima), è la conseguenza naturale degli atti delineati. lo specifico atto volitivo diretto ad abrogare una disposizione abrogatrice non ha alcun altro senso che quello di fare riespandere la forza della disposizione illo tempore abrogata; ove l’agente abbia un diverso intendimento deve esplicitarlo; la reviviscenza, nella fattispecie di disposizione abrogativa dichiarata incostituzionale, è un effetto necessario della sentenza di illegittimità costituzionale: la legge dichiarata incostituzionale è inidonea a produrre effetti in quanto viziata, sicché consegue la permanenza in vigore della disposizione che la legge incostituzionale intendeva abrogare (158). (158) In senso analogo per le due ipotesi: r. GUAStInI, Le fonti del diritto, cit., pp. 314-315. Il terzo Settore: un nuovo esempio di polimorfismo della soggettività giuridica Gaetana Natale* l’art. 1, comma 1, della legge n. 106/2016, recante “Delega al Governo per la riforma del terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale” definisce il terzo Settore “il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociali e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi”. l’art. 4 del d.lgs. n. 117/17, riprendendo quanto sopra affermato dalla legge delega, è più esplicito e dettagliato, chiarendo che “sono enti del Terzo settore le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso, le associazioni riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociali mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, ed iscritti nel registro unico nazionale del Terzo settore”. Il comma 2 dell’art. 4 individua i soggetti che non fanno parte del terzo settore, stabilendo che “non sono enti del Terzo settore le amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2 del D.lgs. n. 165/2001, le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche, le associazioni di datori di lavoro, nonché gli enti sottoposti a direzione e coordinamento o controllati da suddetti enti”. Vi è poi nell’art. 4 una formula di chiusura di carattere generale con riferimento generico ad ogni altro ente di carattere privato e che non assuma la forma strutturale di una società: si tratta di una formula aperta che lascia spazio ad altre figure tipologiche che potrebbero sorgere successivamente dai vari formanti. Ma a tale positivizzazione nominalistica corrisponde anche una giuridicizzazione contenutistica? Sebbene l’art. 4 soprarichiamato sia piuttosto esplicito nella descrizione degli enti del terzo settore, nella prassi non è sempre agevole qualificare un (*) Avvocato dello Stato, Consigliere giuridico del Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali. ente come non profit, in quanto la poliformità della soggettività giuridica (si ricorderà la teoria della finzione di Savigny) vede spesso nello schema societario c.d. neutrale una compresenza di profit e non profit, creando un ibridismo tra scopo di lucro soggettivo e scopo altruistico dell’attività espletata da un ente. Si pensi, ad esempio alle società benefit che occorre tener ben distinte dall’area di applicazione del terzo settore, in quanto disciplinate da una disposizione normativa specifica (art. 1, l. 28 dicembre 2015 n. 208, commi 376-384). Il concetto di ente non profit, basato essenzialmente sul divieto di distribuzione degli utili, non risulta di facile individuazione nella prassi, considerato anche che l’entrata in vigore delle disposizioni del codice del terzo settore è in parte subordinata all’adozione di tutta una serie di normativa secondaria attuativa. Il differimento è legato sostanzialmente a due eventi e, cioè, all’operatività del registro Unico del terzo settore (art. 53, art. 102, comma 4) e all’autorizzazione della commissione europea (art. 101, comma 10, che sospende l’efficacia degli art. 77, comma 10, artt. 80 e 86; l’art. 104, comma 2, poi sospende più in generale pressochè tutte le disposizioni fiscali del titolo X). In attesa che tale normativa secondaria venga portata a compimento con gli opportuni adattamenti sulla base della corretta applicazione dell’art. 11 delle preleggi, l’interprete deve nella sua opera di sussunzione della fattispecie concreta nello schema normativo del terzo settore tener presente la chiara distinzione elaborata dalla dottrina tra il concetto di scopo di lucro oggettivo e soggettivo (società commerciali), il concetto di mutualità interna ed esterna (società cooperative, in particolare cooperative sociali, di diritto considerate imprese sociali per le quali trova applicazione il d.lgs. 112/17) e il concetto omnicomprensivo di non profit. “Non profit” o “no profit” si può tradurre in italiano in “senza scopo di lucro”. Il sintagma può essere in parte fuorviante, poiché nel linguaggio comune esso viene associato ad organismi pubblici o privati che forniscono prestazioni gratuitamente ovvero a prezzi politici. In senso proprio, invece, la categoria comprende enti solo privatistici che erogano servizi a prezzo di mercato, sebbene per il raggiungimento di obiettivi sociali e senza alcuna possibilità di riparto dei guadagni fra gli associati/soci. la legislazione statunitense, da cui tanto si è attinto in quest’ambito, è più sottile nella definizione, distinguendo l’espressione da quella di : la prima viene riservata agli enti che, oltre a non distribuire profitti, neppure svolgono attività commerciale, la seconda, invece, a quegli enti che, pur non potendo distribuire profitti, ben possono svolgere attività commerciale. nell’ambito dell’ordinamento italiano, come novellato dal Codice del terzo settore, agli enti non lucrativi meglio si attaglia il sintagma di , proprio perché a questi enti non è affatto preclusa la possibilità di svolgere attività economica e quindi di avere un risultato utile di gestione, benchè lo scopo di siffatte forme associative non sia quello di esercitare attività economiche, appunto, for profit (vedi reSCIGno, “Le formazioni sociali intermedie”, in riv. Dir. Civ., 1998, I, p. 306; sulle “non profit organizations corporations” si veda BerMAnn, “The legal Framework of Foundation in the United States”, in Le fondazioni (tradizione e modernità), a cura di AlPA, Padova, 1988, p. 105). la nozione di ente “non profit” è stata per molti versi il tentativo di elaborare un concetto unificante rispetto all’altra nozione, quella di c.d. terzo settore, che fino ad oggi era sostanzialmente di tipo sociologico. Il terzo settore, come è noto, è nozione che si è affiancata a quelle di “primo settore”, relativo al Pubblico in generale, ed a quella di “secondo settore”, relativo all’impresa privata. Così gli enti del terzo settore, pur perseguendo attività sociali senza scopo di lucro, ed essendo sovente finanziati dallo Stato (o altri enti pubblici), hanno operato secondo le regole del mercato e della concorrenza, svolgendo attività economica o di impresa anche senza la struttura della società commerciale. essi non costituiscono quindi né istituzioni commerciali, perché diversamente da queste perseguono finalità altruistiche ed è loro precluso il riparto dei dividendi; né enti pubblici in senso stretto, difettando dei requisiti ontologici di questi. nondimeno, gli enti non profit instaurano frequenti rapporti di collaborazione con soggetti pubblici, essendo presenti ed operando nel mercato come qualsiasi società lucrativa (vedi PonzAnellI, voce Enti senza scopo di lucro, in Digesto iV, Disc. priv., Sez. civ., Vii, torino 1991, p. 468). In altri termini vi è una sostanziale scissione tra attività di impresa ex art. 2082 c.c. e società, in quanto anche le associazioni e le fondazioni, ad esempio, possono svolgere attività economiche. occorre considerare che anche l’ente pubblico può ovviamente essere presente nel mercato e svolgere attività di impresa; basti pensare agli enti pubblici economici, onerati già dal codice civile all’iscrizione presso il registro delle imprese (art. 2201 c.c.). Potrebbe essere, quindi, anche molto difficile distinguere enti di diritto privato con fini istituzionali ultraindividuali ed operanti nel mercato ed enti pubblici economici con fini altrettanto ultraindividuali. ecco che allora occorre considerare, al fine di escludere la disciplina del codice del terzo settore, anche gli indici di riconoscimento di un ente pubblico. la dottrina pubblicistica (vedi GIAnnInI, Lezioni di diritto amministrativo, Milano 1956, p. 156; SAndUllI, manuale di diritto amministrativo, napoli 1962, p. 105; G. roSSI, voce Ente Pubblico, in Enc. giur. Treccani, roma 1989), nonostante le numerose opinioni, è giunta alla conclusione che l’unico criterio di riconoscimento soddisfacente risieda nel dovere istituzionale dell’ente di svolgere una certa attività finalizzata al perseguimento di un interesse collettivo; pertanto doverosità del perseguimento del fine ed assenza di autonomia dell’ente sono le uniche caratteristiche ontologiche degli enti pubblici. Proprio l’autonomia è, invece, l’elemento qualificante degli enti privati del terzo settore, assieme all’altro essenziale elemento consistente nel divieto di riparto degli utili, indice rivelatore essenziale del fine altruistico perseguito. non solo, ma è altresì solitamente necessario che il patrimonio residuale dell’ente al momento della sua estinzione venga devoluto ad altri organismi esercenti la medesima attività istituzionale (o simile), sì che i partecipanti non abbiano modo, nemmeno indirettamente, di perseguire interessi individualistici; e cio è quello che è esattamente previsto dall’art. 9 del Codice. Quanto alle società il disposto dell’art. 2247 c.c. non si traduce nella necessaria percezione immediata di utili da parte dei soci, potendo questa anche essere posticipata al momento dello scioglimento dell’ente sociale, ma per l’ente non profit la distribuzione degli utili non è prevista nemmeno in caso di estinzione dell’ente. I due indici principali rivelatori dell’ente del terzo settore sono l’autonomia dalle amministrazioni pubbliche e il divieto di divisione sia diretta che indiretta degli utili (non distribution constraint). Sotto il profilo dell’autonomia l’art. 4 comma 2 non chiarisce la nozione della eterodeterminazione delle amministrazioni pubbliche declinato nei concetti di direzione, coordinamento e controllo, ma il rinvio esterno alle norme del codice civile con la clausola di compatibilità contenuto nell’art. 3, induce a ritenere condivisibile l’applicazione dell’art. 2359 c.c. sotto il profilo del controllo interno di diritto, controllo interno di fatto e controllo esterno di fatto e dell’art. 2497 c.c. in relazione all’attività di direzione e coordinamento dei gruppi societari. È chiaro che non avendo gli enti del terzo settore la struttura organizzativa della società commerciale (a differenza della impresa sociale che ha la disciplina speciale di cui al d.lgs. 112/17) la situazione di controllo non potrà essere valutata con riferimento alla misura della partecipazione al capitale, ma con riferimento all’effetto che la partecipazione maggioritaria determina negli enti (ad esempio la disponibilità della maggioranza di voti esercitabili negli organi decisionali dell’ente). Il divieto del controllo di un’amministrazione pubblica sull’ente no profit dovrà fare i conti con la realtà di fatto, dove la partecipazione specie di amministrazioni pubbliche, quali i Comuni ed enti non profit non è di certo fenomeno infrequente. Così per semplificare, ricadrebbe nell’ipotesi di esclusione dell’art. 4, comma 2, il caso di un’associazione composta da soli enti pubblici oppure il caso di un ente con la maggioranza degli amministratori nominata dalle formazioni tipologiche che non sono enti del terzo settore in base al comma del citato articolo. Sotto il profilo del divieto della distribuzione indiretta degli utili occorre analizzare una specifica norma antielusiva contenuta nell’art. 8 comma 3 del d.lgs. 117/17. tale norma considera distribuzione indiretta di utili “la corresponsione a lavoratori subordinati o autonomi di retribuzioni o compensi superiori del quaranta per cento rispetto a quelli previsti, per le medesime qualifiche, dai contratti collettivi di cui all’articolo 51 del decreto legislativo, 15 giugno 2015, n. 81, salvo comprovate esigenze attinenti alla necessità di acquisire specifiche competenze ai fini dello svolgimento delle attività di interesse generale di cui all’articolo 5 comma 1, lettere b), g) o h)”. Il limite, pertanto, per espressa previsione del legislatore può essere superato, senza che si integri la violazione del divieto di distribuzione indiretta di utili, in presenza di comprovate esigenze attinenti alla necessità di acquisire specifiche competenze ai fini dello svolgimento di attività di interesse generale, quali interventi e prestazioni sanitarie, formazione universitaria e post-universitaria, ricerca scientifica di particolare interesse sociale. occorre precisare che in caso di atti di gestione ultra vires nel codice del terzo settore non è prevista l’inefficacia dell’atto di disposizione che esula dalle finalità statutarie né la responsabilità del soggetto autore dell’atto, ma, facendo riferimento non al singolo atto, ma al risultato finale dell’attività, viene prevista direttamente la sanzione dell’espulsione dell’ente dal registro Unico nazionale. la norma inserisce, altresì, anche un criterio di proporzionalità del trattamento retributivo tra lavoratori dipendenti, prevedendosi che, in ciascun ente del terzo settore, la differenza retributiva tra lavoratori dipendenti non può essere superiore al rapporto uno a otto, da calcolarsi sulla base della retribuzione annua lorda. l’art. 8 sopra citato è da coordinare con l’altro articolo che contiene disposizioni giuslavorastiche, ossia con l’art. 16, secondo il quale i lavoratori degli etS “hanno diritto a un trattamento economico e normativo non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali, di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81”. Condividendo la tesi dell’applicabilità immediata di tali norme la cui operatività scatta con l’entrata in vigore del Codice a prescindere dal registro Unico nazionale del terzo settore che rappresenta una forma di pubblicità dichiarativa ex. art. 2193 c.c., occorre precisare che il rinvio operato dal d.lgs. 117/17 al richiamato art. 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81 è innanzitutto indicativo di una chiara scelta legislativa: quella di non prevedere l’elaborazione di un unico contratto collettivo nazionale di lavoro per gli enti del terzo settore, seppure questi ultimi risultino indubbiamente caratterizzati da esigenze differenti rispetto alle imprese profit delle varie categorie produttive. Il richiamo all’art. 51 del d.lgs. n. 81/2015, come è stato osservato in dottrina (vedi V. GUGlIottA “il nuovo Codice del Terzo Settore: profili lavoristici”, in Bollettino adapt, 6 novembre 2017, n. 37) non risulta in sé risolutivo, considerato il problema dell’identificazione del criterio selettivo della rappresentatività comparata, peraltro qui riferito alle sole associazioni sindacali e non anche a quelle datoriali, in assenza di parametri certi per la individuazione della comparazione. la norma richiamata presenta un’equiparazione tra i livelli contrattuali (nazionale/decentrato) nella definizione delle regole che governano i rapporti lavorativi. tale equiparazione, stante il generale richiamo al trattamento economico e normativo minimo da riconoscersi al lavoratore del settore, assume particolare valore proprio in ragione dell’ampiezza delle materie oggetto di intervento da parte dell’autonomia collettiva. occorre, poi, valutare la sorte dei contratti privi del requisito della maggiore rappresentatività in termini comparativi, relativamente alla loro efficacia. Il che, oltre tutto, apre il campo a profili di legittimità costituzionale delle disposizioni qui in esame, ove si prospetta l’estensione dell’efficacia riconosciuta ai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative, oltre il loro naturale campo di applicazione con possibile violazione dell’art. 39, seconda parte della Costituzione. Se il pluralismo contrattuale costituisce la fisiologica conseguenza della mancata attuazione dell’art. 39 Cost., nell’attuale difficile fase che investe le relazioni sindacali esso si intreccia con una prassi sempre più diffusa della stipulazione di contratti collettivi nazionali da parte di associazioni sindacali “alternative” ai sindacati confederali, e poco rappresentative. In alcuni settori (terziario, servizi, ma si pensi in particolare al mondo cooperativo) si riscontra un’ampia diffusione del fenomeno dei contratti collettivi c.d. pirata, firmati da organizzazioni datoriali e sindacati minori, privi di una reale rappresentatività, che prevedono condizioni economiche o normative al di sotto degli standard contrattuali dei settori di riferimento (trattamenti retributivi inferiori, maggiore flessibilità di orario di lavoro, ecc.). Si determinano, in tal modo, pratiche di dumping contrattuale, perché solo alcune imprese - quelle aderenti alle associazioni datoriali firmatarie - possono beneficiare di disposizioni che giustificano un costo del lavoro inferiore; il che consente loro di essere più competitive sul mercato e di aggiudicarsi un numero consistente di appalti pubblici e privati. A tal riguardo occorre ricordare che il Consiglio di Stato nel noto parere n. 2052/2018 ha puntualizzato che, salvo le procedure di accreditamento c.d. libero e le procedure di co-progettazione e partenariato finalizzate a rapporti puramente gratuiti, le procedure previste dal Codice del terzo settore configurano nell’ottica europea “appalti di servizi sociali” e, pertanto, sono sottoposti alla disciplina dei contratti pubblici che si affianca, integrandola, a quella apprestata dal Codice del terzo settore. In tal senso il basso costo della manodopera può senz’altro determinare la c.d. anomalia dell’offerta ex art. 97 del Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 50/2016). l’obiettivo di contrastare forme di concorrenza basate sul dumping contrattuale emerge chiaramente da una recente sentenza della Corte Costituzionale (sent. n. 51/2015) con cui i giudici della legge si sono pronunziati sul trattamento economico riconosciuto al socio lavoratore occupato presso le società cooperative. la Corte ha, in particolare, affermato la costituzionalità dell’art. 7, comma 4, d.l. n. 248/2007 (conv. in l n. 31/2008), che impone alle cooperative di applicare ai soci lavoratori, in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria, i livelli retributivi fissati dai contratti collettivi firmati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria. Ad avviso della Consulta, infatti, la norma è volta a contestare l’applicazione di contratti collettivi sottoscritti da organizzazioni datoriali e sindacali di non accertata rappresentatività che prevedano trattamenti retributivi potenzialmente in contrasto con la nozione di retribuzione sufficiente di cui all’art. 36 cost. Il riferimento al contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative deve intendersi come “mero parametro esterno” utilizzato dal giudice per garantire al socio lavoratore il minimo retributivo (proporzionato e sufficiente). la Corte in tal caso non ha ravvisato, poi, un contrasto con l’art. 39 Cost., perché nel rispetto del principio di libertà sindacale, anche le sigle sindacali sfornite di maggiore rappresentatività possono stipulare contratti collettivi e stabilire i minimi retributivi, con l’unico limite che questi non devono essere in contrasto “con il diritto del singolo, intangibile da qualunque organizzazione sindacale, di percepire la giusta retribuzione ex art. 36 Cost.”. Pertanto, poiché nulla impedirebbe che il legislatore fissi un salario minimo legale rispondente al dettato costituzionale, al fine di contrastare forme di comparazione salariale al ribasso, non vi è ragione per la quale il corretto parametro di riferimento per la retribuzione giusta e sufficiente non possa essere rinvenuto nei valori concordati nei contratti collettivi di lavoro firmati dai sindacati comparativamente più rappresentativi. Il ragionamento sviluppato dai giudici costituzionali è tutto incentrato sulla garanzia della c.d. giusta retribuzione, riconosciuta ai lavoratori ai sensi dell’art. 36 Cost. esso, dunque, solo parzialmente risulta estensibile alla normativa dettata per il terzo settore che non si limita ad imporre una retribuzione minima, il cui parametro è costituito dai contratti collettivi “qualificati”, ma estende la sua portata protettiva fino a riconoscere ai lavoratori occupati in quegli enti il diritto ad un trattamento anche normativo non inferiore a quello previsto da quei contratti collettivi. Il legislatore del terzo settore, dunque, opera un richiamo ad una più ampia gamma di materie regolate da quelle fonti collettive, il cui carattere vincolante travalica la sola parte retributiva per investire l’intera regolazione del contenuto dei rapporti individuali di lavoro (la c.d. parte normativa del contratto collettivo). la complicazione, poi, risulta ancora più evidente se si considera che i contratti collettivi cui fa riferimento il legislatore del terzo settore sono multilivello, richiamando i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali di cui all’art. 51 d.lgs. 81/2015. Introducendo un meccanismo estensivo dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi qualificati, l’art. 8 del codice del terzo settore si pone in contrasto con il modello di contrattazione statuito nella seconda parte dell’art. 39 Cost. Indubbiamente il terzo settore è capace di stare sul mercato proprio grazie alla possibilità di avvalersi di variegate forme lavorative che spaziano dallo svolgimento di prestazioni a carattere volontario, a prestazioni retribuite a carattere associativo (si pensi, in particolare, alla complessa posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, di cui alla l. n. 142/2001), all’ampia tipologia di prestazioni lavorative che possono essere rese in forma autonoma o subordinata. Si tratta di modalità collaborative non innovate dal Codice del terzo settore che continua ad affidare la prestazione resa negli etS alla alternativa dicotomica lavoro autonomo/lavoro oneroso, lavoro associato/lavoro subordinato. nella prassi, però, nel settore in esame si registra una significativa presenza di lavori flessibili che meglio sembrano adattarsi a modalità operative e organizzative fondate sulla elasticità funzionale delle attività gestite dal non profit, attività che soltanto in parte possono essere predeterminate nel tempo e nello spazio, sfuggendo a una reale programmazione. Secondo gli studiosi della materia (vedi tra i tanti F. CorBISIero, A. SCIAldone, A. tUrSIllI, “il lavoro flessibile e forme contrattuali non standard nel Terzo settore”, 2009) la flessibilità è una componente vitale dell’operosità del terzo settore (si pensi, ad esempio, ai notevoli servizi erogati nell’ambito dell’assistenza sociale e sanitaria). Se in questi ultimi anni il terzo settore ha avuto una notevole espansione lo si deve anche a questo profilo di labour intensive, ossia all’introduzione delle nuove forme di entrata nel mondo del lavoro. Questa duttilità organizzativa deve, però, oggi fare i conti con le maggiori “rigidità” che si traducono in maggiori garanzie introdotte nel mercato del lavoro dalla più recente legislazione (si pensi, in particolare, al riordino delle tipologie contrattuali introdotta dal d.lgs. n. 81/2015 e più, di recente, alla regolamentazione del contratto a tempo determinato, operato con il c.d. decreto dignità volto a dare maggiori tutele ai lavoratori). tipicità il cui impatto deve essere attentamente valutato e monitorato, anche per il rischio di una impropria sostituzione dei contratti di lavoro con il ricorso alle attività di volontariato disciplinata dalla l. n. 266/1991, oggi integrata e resa omogenea dalle nuove disposizioni del codice del terzo settore. Si condivide, pertanto, il contenuto dell’art. 17 comma 5 del Codice del terzo settore che prevede un’incompatibilità tra lo status di volontario e quello di lavoratore della medesima organizzazione limitato al solo volontario occasionale (iscritto nell’apposito registro da tenersi da parte dell’etS), consentendo in tal modo ai lavoratori dell’etS di svolgere spontaneamente l’attività di volontariato presso il medesimo etS in via occasionale e comunque avente un oggetto diverso dalla prestazione lavorativa. È bene precisare che il codice del terzo settore ha introdotto una disciplina organica di una materia che prima aveva una valenza meramente fiscale trasformandola ora anche in una vera e propria disciplina sostanziale. Si assiste, quindi, ad una trasmigrazione della disciplina fiscale nella disciplina codicistica, fenomeno conosciuto anche nell’esperienza nord-americana in tema di fondazioni (charitable corporation). In questa fase transitoria appare quanto mai opportuno un coordinamento, con il diritto tributario che, per sua natura asistematico, dovrà essere continuamente adattato in sede di prima applicazione alle norme dell’etS. COMUNICATO DELL'AVVOCATO GENERALE (*) Con profonda tristezza comunico che nella giornata di sabato scorso è deceduto il collega ed amico Massimo Poli, Avvocato dello Stato a riposo. Nell’esprimere le più sentite condoglianze alla famiglia, anche a nome dei Colleghi e di tutto il Personale dell’Avvocatura, desidero ricordare la Sua figura di Avvocato dello Stato e di Uomo che, nel corso della sua esemplare carriera, ha dato sempre lustro all’Istituto. Gabriella Palmieri Sandulli In memoria di Massimo Poli L’AUAPS esprime profondo cordoglio per la perdita del Collega Massimo Poli, che anche attraverso il costante e profondo impegno associativo ha mostrato in modo tangibile il proprio attaccamento all’Istituto e a tutta la categoria. La visione in ordine all’organizzazione e all’assetto dell’Istituto concretizzatasi nella L. 103/1979, il segno che ha lasciato e i messaggi che in queste ore si susseguono sono la migliore testimonianza dell’elevato valore umano e professionale che ha contraddistinto la Sua attività e i rapporti coltivati nel corso di una esemplare carriera, che rappresentano, per noi tutti e anche per i colleghi più giovani che non lo hanno conosciuto personalmente, un fondamentale punto di riferimento. L’AUAPS (*) E-mail Segreteria Particolare - martedì 24 marzo 2020. COMUNICATO DELL'AVVOCATO GENERALE (*) Con sincera e immensa tristezza comunico che nella giornata di ieri è deceduto il Collega e Amico Claudio Linda, Avvocato dello Stato a riposo. Nell’esprimere le più sentite condoglianze alla famiglia, in particolare alla Consorte, Signora Adriana, anche a nome dei Colleghi e di tutto il Personale dell’Avvocatura, desidero ricordare la Sua figura di Avvocato dello Stato e di Uomo che, con grande competenza giuridica, unita a stile e signorilità, nel corso della Sua esemplare carriera, ha dato sempre lustro all’Istituto. Gabriella Palmieri Sandulli Signorilità e gentilezza Claudio è stato un uomo di grande competenza giuridica e buon senso. Esperto del settore dei lavori pubblici, ha svolto un’intensa attività presso numerosi ministeri di cui ha ricoperto incarichi apicali diventando protagonista di testi di riforma legislativa che ancora resistono nel loro impianto. Era una persona garbata ed ironica, dotata di un’inappagabile curiosità intellettuale. ... grazie per tutto quello che mi hai insegnato. Giacomo Aiello ... Mi torna in mente un piccolo e lontanissimo episodio, risalente a quando ero apena entrata in avvocatura, ero l’ultimo procuratore in ruolo, avevo 25 anni e ne dimostravo sì e no 18 … stavo parlando in corridoio con una collega coetanea e ci stavamo ponendo non so quale problema processuale. Passò Claudio, che all’epoca non conoscevo, e, sentendoci parlare, si avvicinò. Con estrema cortesia, quasi timidamente (senza considerare l’abisso di esperienza e preparazione che ci separava!) si presentò e sorridendo mi disse: “io penso che forse potresti provare a fare in questo modo …”, e ovviamente risolse il problema in due minuti! Rimasi colpita da un modo di fare tanto gentile, quasi affettuoso nonostante nessuno ci avesse presentato, e senza nemmeno un’ombra di paternalismo... Marina Russo ... Già qualcuno ha ricordato il suo sorriso quasi timido, espressione di grande umanità. Chi lo ha conosciuto ha goduto di lui... Carlo Sica Ancora un Collega che se ne va. Caro Claudio sei stato soprattutto un amico e un signore. E un grande avvocato. Con discrezione e in silenzio sei uscito di scena. ... Antonio Tallarida (*) E-mail Segreteria Particolare - lunedì 6 aprile 2020. Finito di stampare nel mese di giugno 2020 Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A. Vicolo della Guardiola n. 22 - 00186 Roma 2 rASSEGNA AvvoCATUrA DELLo STATo - N. 4/2019 TEMI ISTITUzIoNALI 3 18 RASSEGnA AvvOCATURA DELLO STATO - n. 4/2019 COnTEnZIOSO COMUnIARIO ED InTERnAZIOnALE 19 36 rASSeGNA AVVoCATurA DeLLo STATo - N. 4/2019 CoNTeNZIoSo NAZIoNALe 37 146 rASSeGNA AVVoCAtUrA DeLLo StAto - N. 4/2019 PArerI DeL CoMItAto CoNSULtIVo 147 182 RASSEGnA AVVoCAtURA DELLo StAto - n. 4/2019 LEGISLAzIonE ED AttUALItà 183 254 rASSeGnA AVVoCAtUrA dello StAto - n. 4/2019 ContrIBUtI dI dottrInA 255