RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO ANNO LX – N. 4 OTTOBRE-DICEMBRE 2008 000 frontespizio e colophon 4 08 versione 7:Layout 1 06/04/2009 13.17 Pagina 1 COMITATO SCIENTIFICO: Presidente: Glauco Nori. Componenti: Franco Coppi – Giuseppe Guarino Natalino Irti – Eugenio Picozza – Franco Gaetano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo – CONDIRETTORI: Giacomo Arena e Maurizio Borgo. COMITATO DI REDAZIONE: Lorenzo D’Ascia – Gianni De Bellis – Sergio Fiorentino – Maurizio Fiorilli – Paolo Gentili – Antonio Palatiello – Massimo Santoro – Carlo Sica. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Andrea Michele Caridi – Stefano Maria Cerillo – Luigi Gabriele Correnti – Giuseppe Di Gesu – Paolo Grasso – Pierfrancesco La Spina – Maria Vittoria Lumetti – Marco Meloni – Maria Assunta Mercati – Alfonso Mezzotero – Riccardo Montagnoli – Domenico Mutino – Nicola Parri – Adele Quattrone – Pietro Vitullo. SEGRETERIA DI REDAZIONE: Francesca Pioppi e Antonella Quirini GESTIONE DISTRIBUZIONE E ABBONAMENTI: Antonella Quirini HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE FASCICOLO: Giuseppe Albenzio – Emanuela Brugiotti – Alessandro D’Adda – Pierluigi Di Palma – Chiara Di Seri – Wally Ferrante – Sergio Fiorentino – Michele Gerardo – Flaminia Giovagnoli – Carolina Layek – Dimitris Liakopoulos – Giulia Micio – Adolfo Mutarelli – Giovanni Palatiello – Sara Palermo – Mauro Romani – Francesco Emanuele Salamone – Francesco Scittarelli – Stefano Varone. E-mail: giuseppe.fiengo@avvocaturastato.it – tel. 066829313 maurizio.borgo@avvocaturastato.it – tel. 066829597 francesca.pioppi@avvocaturastato.it – tel. 066829431 antonella.quirini@avvocaturastato.it – tel. 066829205 ABBONAMENTO ANNUO ........................................................................ € 40,00 UN NUMERO ......................................................................................... € 12,00 AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA - Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it – Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia – Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A. 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VI, sent. 22 aprile 2008 n. 1852) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 5 IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Dimitris Liakopoulos, Mauro Romani, La pubblicità ingannevole nel diritto internazionale e comunitario. Aspetti giuridici ed evoluzione della disciplina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 9 1.- Le decisioni Parità uomo/donna nelle Corti europee Wally Ferrante, Condanna dell’Italia per la differente età pensionabile tra uomini e donne pubblici dipendenti. (Corte di Giustizia CE, sent. 13 novembre 2008 nella causa C-46/07). Chiara Di Seri, Sul principio di non discriminazione uomo-donna in materia di benefici fiscali di incentivo all’esodo dei lavoratori. (Corte di Giustizia CE, ord. 16 gennaio 2008 in cause riunite da C- 128/07 a C-131/07) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 50 Carolina Layek, Il diritto di accesso ai documenti delle Istituzioni europee. (Corte di Giustizia CE, sent. 1 luglio 2008 nelle cause riunite C- 39/05 e C-52/05) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 68 Giulia Micio, Valutazione di impatto ambientale di progetti pubblici e privati. (Corte di Giustizia CE, ord. 10 luglio 2008 nella causa C-156/07). . . . » 90 Flaminia Giovagnoli, Applicazione del principio “Chi inquina paga”. L’onere finanziario dello smaltimento dei rifiuti causati dal naufragio di una petroliera. (Corte di Giustizia CE, sent. 24 giugno 2008 nella causa C-188/07) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 96 Sara Palermo, Qualità dell’aria: diritto di un terzo vittima di danni alla salute alla predisposizione di un piano d’azione. (Corte di Giustiza CE, sent. 25 luglio 2008 nella causa C-237/07) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 117 2.- I giudizi in corso Sergio Fiorentino, Agricoltura, causa C-446/07 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 130 Wally Ferrante, Ravvicinamento delle legislazioni, causa C-509/07 . . . . . . . » 134 Wally Ferrante, Ravvicinamento delle legislazioni, causa C-561/07 . . . . . . . » 138 Wally Ferrante, Politica sociale, causa C-69/08 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 143 Wally Ferrante, Politica commerciale, causa C-141/08 P . . . . . . . . . . . . . . » 151 Sergio Fiorentino, Libera prestazione dei servizi, cause riunite C- 155/08 e C-157/08 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 157 00 sommario 04 0821.qxp 06/04/2009 14.32 Pagina 1 Giuseppe Albenzio, Risorse proprie delle Comunità, causa C-334/08 . . . . pag. 164 CONTENZIOSO NAZIONALE Adolfo Mutarelli, Michele Gerardo, dossier: Operatività della prescrizione in tema di ricorso per il ristoro della irragionevole durata del processo (cd. Legge Pinto) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . » 175 Stefano Varone, dossier, Sul recupero dei benefici previdenziali postsisma (Corte d’Appello di Campobasso, sent. 28 marzo 2008 n. 74; Corte cost., sent. 1 agosto 2008 n. 325) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 212 Pierluigi Di Palma, L’illegittimità costituzionale della Legge regionale della Lombardia n. 29/07 sul trasporto aereo (Corte cost., sent. 30 gennaio 2009 n. 18) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 234 Wally Ferrante, Sufficienza del voto alfanumerico negli esami di abilita zione: un’unica via interpretativa (Corte cost., sent. 30 gennaio 2009 n.20) . . » 248 Lorenzo D’Ascia, Il particolare meccanismo di decisione preventiva delle questioni di massima nella giustizia contabile (Cassaz., SS.UU., sent. 3 dicembre 2008 n. 28653) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. » 261 Francesco Scittarelli, L’elemento soggettivo nella responsabilità da illegittimo esercizio della funzione pubblica (C.d.S., sez. IV, sent. 31 luglio 2008 n. 3823) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. » 267 Alfonso Mezzotero, Le informative prefettizie antimafia: natura, tipologie ed effetti interdittivi (T.A.R. Lazio, Roma, sez.I, sent. 9 luglio 2008 n. 6487) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 277 Giovanni Palatiello, Il concetto di atto politico non “giustiziabile” (T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, sent. 31 dicembre 2008 n. 12539) . . . . . . . . . . . . » 324 Francesco Emanuele Salamone, Verso un’intensificazione dei profili di responsabilità penale per falso del progettista “abilitato” in materia di D.i.a. (Cassaz., sez. III, sent. 21 ottobre 2008-19 gennaio 2009, n. 1818) . . . . » 336 PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 347 RECENSIONI Alessandro D’Adda, Nullità parziale e tecniche di adattamento del contratto, Cedam, Padova 2008. Recensione di Alessandro Nastri . . . . . . . . . . . . » 361 CONTRIBUTI DI DOTTRINA Univerità di Pisa e Università di Ferrara, Esperimenti di giustizia costituzionale: il processo simulato sull’aggravante dell’immigrazione clandestina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 365 INDICI SISTEMATICI ANNUALI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 415 00 sommario 04 0821.qxp 06/04/2009 14.32 Pagina 2 Inaugurazione dell’anno giudiziario presso la Corte Suprema di Cassazione – Roma 2009 Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato Oscar Fiumara “Signor Presidente della Repubblica, Autorità, Signor Presidente della Corte di Cassazione, Signore e Signori, anche nell’anno 2008, come negli anni passati, l’Avvocatura dello Stato è stata uno dei maggiori protagonisti sulla scena giudiziaria. I nuovi affari dell’anno ammontano, complessivamente, a 170.000 (che si aggiungono ad alcune centinaia di migliaia di cause degli anni scorsi ancora pendenti), con oltre 145.000 sentenze nei vari ordini e gradi di giudizio (per la sola sede dell’A.G. 47.000 affari nuovi e 60.000 sentenze); si noti che ogni affare può riguardare più gradi di giudizio. È un contenzioso imponente di cui non vorremmo portare alcun vanto: considerato, infatti, che all’origine quasi sempre lo Stato è convenuto o resistente, esso è indice di un malessere della Comunità ai cui bisogni lo Stato non riesce a dare risposte adeguate. Lo spettro delle materie trattate è il più variegato che si possa immaginare. L’Avvocatura ha trattato alcune delle più importanti e delicate vertenze dinanzi a tutti gli organi giudiziari sopranazionali e nazionali. Ricordo, a puro titolo esemplificativo, fra i circa 300 affari trattati dinanzi ai giudici comunitari, le questioni sulla tutela della lingua italiana, sulla parità uomo-donna, sul condono IVA; dinanzi alla Corte costituzionale (oltre 500 nuovi affari) il contenzioso sulle leggi statali e regionali e delicate questioni di legittimità costituzionale in via incidentale; dinanzi ai giudici ordinari il vasto contenzioso, spesso con connotazioni seriali, riguardo alla legge Pinto, alla responsabilità per danni alla salute conseguenti all’uso di amianto, di uranio impoverito, di sangue infetto; le importanti iniziative assunte per ottenere la riparazione dei danni ambientali; i processi penali per le vicende del G8 di Genova, la strage di Nassirya, le emissioni elettromagnetiche, i desaparecidos italiani in Argentina; le costituzioni di parte civile nei processi riguardanti la mafia, il racket; altrettanto corposo il conten- T E M I I S T I T U Z I O N A L I 01 temi ist 01 fiumara45.qxp 06/04/2009 13.31 Pagina 1 zioso dinanzi ai giudici amministrativi, che sovente si interseca, per vari aspetti (invero ancora non del tutto chiariti) con quello dei giudici ordinari (al riguardo sarà interessante verificare l’impatto della recente pronuncia definitiva delle SS.UU. della Cassazione in tema di pregiudiziale amministrativa); le varie controversie in tema di appalto di lavori pubblici e di pubbliche forniture (1170 affari, di cui solo una bassa percentuale – 75 casi – iniziati dinanzi a collegi arbitrali); le ben note cause sull’ampliamento della base militare U.S.A. di Vicenza (Dal Molin); le delicate e numerosissime vertenze riguardanti la magistratura ordinaria, nelle quali rappresentiamo il C.S.M.; il diniego di contributi e finanziamenti comunitari; le frequenze televisive; i provvedimenti delle autorità indipendenti (molto vivace è stato il contenzioso in tema di pratiche commerciali scorrette da parte delle banche nell’applicare le norme sulla portabilità dei mutui immobiliari). Da ultimo, ma solo per evidenziarne la particolare importanza, il nostro impegno dinanzi alla Corte di cassazione, che oggi ci ospita e con la quale siamo onorati di poter lavorare in piena armonia: mi piace segnalare la rapidità (pochi giorni) con la quale è stata risolta, in occasione delle ultime elezioni politiche, la questione relativa all’ammissione di una lista elettorale. Dinanzi alla Corte Suprema il contenzioso è particolarmente robusto: quasi 9000 nuovi affari l’anno, di cui 5.700 in materia tributaria. In tale specifica materia va segnalata l’importante recente sentenza che ha definito i contorni dell’abuso del diritto; e le recentissime pronunce che hanno ribadito, accogliendo ancora una volta le tesi dell’Avvocatura, la portata del regime fiscale delle fondazioni bancarie; e in materia processuale l’opportuna decisione che, sempre su ricorso dell’Avvocatura, ha posto fine all’onere ingiustificato di notificare le impugnazioni in più copie anche quando le parti destinatarie siano difese dal medesimo difensore. Aquesto impegno si affianca quello, sovente di notevole spessore, di fornire un supporto tecnico giuridico alle amministrazioni, in sede nazionale e all’estero, per orientarne l’azione: ricordo – a titolo esemplificativo – la prosecuzione dell’attività di recupero di opere d’arte illecitamente uscite dal territorio dello Stato; le iniziative per il recupero di un notevole quantitativo di oro contenuto in una nave da guerra affondata in acque internazionali durante la prima guerra mondiale; la nota recente vicenda della estradizione dal Brasile di Cesare Battisti; la spinosa questione dei limiti della giurisdizione italiana nei confronti degli Stati esteri. A questa mole di lavoro (forse non molto noto al grande pubblico) che ritengo fruttifero sia per la correttezza dell’azione amministrativa sia per le casse dello Stato (l’intera Avvocatura ha un costo molto contenuto e la percentuale di vittoria nelle cause è di circa i 2/3 del globale), noi facciamo fronte con un organico molto stretto: sull’intero territorio nazionale 370 avvocati e meno di 900 impiegati. L’informatica ha certamente agevolato il nostro lavoro, permettendo una maggiore funzionalità e rapidità nel servizio, con notevole risparmio relativo di spesa. L’Avvocatura dello Stato, al passo con i tempi, si prepara a porre in essere le necessarie attività conclusive per realizzare i vari processi telematici con le altre giurisdizioni. 2 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 01 temi ist 01 fiumara45.qxp 06/04/2009 13.31 Pagina 2 Vista la ben nota non florida situazione economica, non abbiamo chiesto e non chiediamo nuovi stanziamenti, se non minimi, ma insistiamo per misure che ci consentano una migliore utilizzazione delle risorse umane e una migliore gestione degli affari che trattiamo, con ricadute benefiche in termini di migliori risultati anche per le casse dello Stato. Abbiamo chiesto una certa autonomia finanziaria; un ruolo, anche minimo, di dirigenti; l’assegnazione di personale amministrativo in esubero in altre amministrazioni. Ringrazio, però, sin d’ora il Governo per aver presentato al Parlamento una misura economica a favore del personale amministrativo (cui corrisponde una encomiabile spontanea riduzione di competenze accessorie del personale togato e quindi senza alcun onere per lo Stato): auspico che presto il Parlamento condivida e approvi questa misura, che molto stimolerebbe il personale beneficiario, con vantaggi indubbi, individuali e collettivi. Infine, non posso sottrarmi al dovere di segnalare, dall’angolo visuale dell’Avvocatura, alcuni punti, nella speranza di poter contribuire a rendere la giustizia più effettiva ed efficace, in un momento in cui più forte si sente l’esigenza di innovare profondamente e più vicino si vede il raggiungimento di questo fine (anche con quel controllo di efficienza di cui ha parlato il Ministro della Giustizia nella sua recente relazione al Parlamento): – sia assicurato il raccordo con il diritto comunitario, nel rispetto di un nascente standard europeo di tutela giudiziaria, – siano favorite procedure di conciliazione extra giudiziarie (nel solco delle stesse indicazioni comunitarie, che promuovono le A.D.R. – Alternative Dispute Resolution); – siano semplificati i procedimenti, con la riduzione dei riti, l’eliminazione di fasi spesso ridondanti (ad esempio la discussione orale nel processo civile in cassazione se non espressamente richiesta); – sia rivisto il concetto di motivazione; – sia disciplinata la class action, prevedendo anche che sia un giudice superiore a definirne i contorni allorché nascano cause che lascino intendere un interesse collettivo; – sia regolamentata la scelta degli affari che per la loro importanza vanno decisi con precedenza, in parallelo al compito che si vorrebbe dare al Parlamento di scegliere i reati da perseguire prioritariamente; – sia introdotto un filtro per i giudizi in cassazione; – nel processo penale sia previsto che all’imputato assolto possa essere attribuito un rimborso delle spese legali; potrebbe sorgere un grosso onere per l’erario, ma si risponderebbe al principio di equità del processo (come del resto già avviene per la riparazione dell’errore giudiziario o per l’ingiusta detenzione), comunque nello spirito della Convenzione dei diritti dell’uomo, in quanto l’onere cui va ora incontro un innocente è spesso più pesante di una condanna: una valutazione equitativa e caso per caso potrebbe essere utile ed essere anche una remora ad iniziative talvolta poco meditate; – punto dolente la legge Pinto (un contenzioso numericamente imponente, circa 23.000 nuove cause) ma del problema si è ampiamente già parlato. Concludo ispirandomi alle parole del Capo dello Stato nel suo discorso agli italiani di fine anno. L’Avvocatura dello Stato non si sente scoraggiata TEMI ISTITUZIONALI 3 01 temi ist 01 fiumara45.qxp 06/04/2009 13.31 Pagina 3 dalle difficoltà che incontra, dalla obiettiva situazione molto pesante dell’economia e dai problemi in cui si dibatte la giustizia. Nelle difficoltà possiamo e dobbiamo trovare la forza per recuperare e risorgere (come già è avvenuto in tempi anche più travagliati). Dalla crisi potrà effettivamente uscire una Italia più giusta. Grazie, signor Presidente della Repubblica, grazie a tutti per avermi ascoltato”. Corte Suprema di Cassazione Roma, 30 gennaio 2009. 4 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 01 temi ist 01 fiumara45.qxp 06/04/2009 13.31 Pagina 4 Il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato è compatibile con le regole comunitarie sugli appalti (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 22 aprile 2008 n. 1852) La questione della compatibilità comunitaria del patrocinio ex lege dell’Avvocatura dello Stato, è stata nel 2008 affrontata dal Consiglio di Stato, e risolta nel senso della compatibilità (Cons. St., sez. VI, 22 aprile 2008 n. 1852). Secondo il Consiglio di Stato, non può in alcun modo ritenersi che l’affidamento ex lege (rectius: la possibilità di un tale affidamento) all’Avvocatura dello Stato della difesa in giudizio di un soggetto comunque deputato allo svolgimento di attività di interesse pubblicistico (quale l’I.P.Z.S.) risulti lesivo del principio di libera circolazione dei servizi nel settore del patrocinio legale. Non è possibile escludere a priori che l’espletamento di servizi lato sensu riconducibili all’assistenza legale in favore di amministrazioni pubbliche possa essere ricondotta all’ambito di applicazione della normativa comunitaria – segnatamente, in tema di libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali. Depone in tal senso la previsione di cui all’Allegato I B della direttiva 92/50/CEE (da ultimo trasfusa in parte qua nell’Allegato II B alla direttiva 2004/18/CE in tema di c.d. ‘appalti nei settori classici’), secondo cui rientra nel novero dei c.d. ‘servizi non prioritari’ ai fini dell’applicazione delle norme comunitarie in materia di appalti, l’intero ambito dei servizi legali (n. di riferimento da 74110000-3 a 74114000-1 del Vocabolario Comune degli Appalti al livello comunitario – CPV). M.B. Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 22 aprile 2008 n. 1852 – Pres. G. Ruoppolo – Est. C. Contessa – Soc. G.I. S.p.A. (Avv. P. Di Martino) c/ Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato s.p.a. (Avv. dello Stato Tortora); Compagnia Assicurativa C. Coop a r.l. (n.c.). «(…omissis...) 2. Deve in via preliminare essere esaminata la deduzione di Parte ricorrente relativa all’asserita carenza, in capo all’Avvocatura Generale dello Stato, del jus postulandi in favore dell’Istituto intimato (memoria in data 5 febbraio 2008, pag. 5). Tale carenza deriverebbe dalle previsioni di cui alla legge 13 luglio 1966, n. 559 (‘Nuovo ordinamento dell’istituto poligrafico dello Stato’), il cui art. 19 (nella formulazione introdotta dall’art. 8 del D.Lgs. 21 aprile 1999, n. 116) stabilisce che “fino alla trasformazione in società per azioni è in facoltà dell’Istituto avvalersi dell’Avvocatura generale dello Stato per la difesa e la rappresentanza davanti a qualsiasi giurisdizione”. Ora, poiché l’I.P.Z.S. è stato trasformato in società per azioni sin dal 17 ottobre del 2002 (data di pubblicazione in G.U. della delibera C.I.P.E. n. 59/2002, recante ‘Trasformazione in società per azioni dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato’) risulterebbe conseguentemente esclusa la possibilità per l’Istituto, a decorrere da tale data, di affidare la propria difesa in giudizio all’Avvocatura erariale. 2.1. Il motivo non può essere condiviso. TEMI ISTITUZIONALI 5 01 temi ist 02 borgo.qxp 06/04/2009 13.35 Pagina 5 Sotto tale profilo, viene in rilievo la previsione di cui al comma 4 dell’art. 7 vicies quater del d.l. 31 gennaio 2005, n. 7 (convertito in legge, con modificazioni dall’art. 1, legge 31 marzo 2005, n. 43) secondo cui “l’Istituto poligrafico e Zecca dello Stato S.p.a. può continuare ad avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, ai sensi del titolo I del testo unico di cui al regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, e con applicazione dell’articolo 417- bis, commi primo e secondo, del codice di procedura civile”. 2.2. Neppure può trovare accoglimento il rilievo secondo cui “la questione dell’illegittimità del patrocinio erariale a favore dell’Amministrazione appellata assume rilievo più ampio (…) in relazione ad un’eventuale violazione del Trattato CE e/o di tutte le disposizioni di rilievo comunitario finalizzate a garantire, nell’ambito dei Paesi membri, condizioni di mercato aperto e in libera concorrenza (riconosciute dal Trattato)” (memoria, cit., pag. 5). Nella tesi della ricorrente “l’affidamento, come avvenuto nella fattispecie, dell’incarico di difesa in giudizio da parte dell’IPZS all’Avvocatura (dopo che in primo grado la difesa era stata affidata a collega del libero Foro) ha difatti indubitabilmente sottratto il servizio professionale di cui si discute alla libera concorrenza nel libero mercato dei servizi professionali legali (con evidente distorsione della concorrenza tra fornitori del medesimo servizio), concretandosi in un atteggiamento illegittimamente preclusivo nei confronti di professionisti non inquadrati nell’ambito dell’Avvocatura. Il suddetto affidamento, peraltro in presenza del chiaro dettato normativo (di senso diametralmente opposto) riportato, può anche lasciar trasparire la violazione del divieto di abusare della propria posizione dominante, anch’essa censurabile”. Il motivo, nel suo complesso, non può trovare accoglimento. In primo luogo, per le ragioni di diritto positivo dinanzi esposte, non appare fondata la premessa maggiore dell’argomento testé sinteticamente descritto (ci si riferisce alla circostanza per cui l’affidamento all’Avvocatura Generale dello Stato del patrocinio dell’Istituto non risulterebbe assistito da alcun valido supporto normativo). Ed infatti, le richiamate previsioni normative (art. 7 vicies quater del d.l. 7 del 2005) palesano che nel caso di specie sussista un’ipotesi di c.d. ‘patrocinio autorizzato’ dell’Avvocatura dello Stato, conformemente alla previsione generale di cui all’art. 43 del R.D. 30 ottobre 1943, n. 1612 (‘Approvazione del T.U. delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato’). Ancora, gli argomenti di doglianza articolati in parte qua dalla società G.I. appaiono obiettivamente generici e non indicano in modo puntuale quali disposizioni del Trattato istitutivo della Comunità europea risulterebbero violati in seguito all’affidamento del servizio legale in questione. 2.3. Ma anche a voler ritenere (come appare possibile dal tenore delle doglianze di Parte ricorrente) che le disposizioni nella specie violate siano quelle in tema di libera circolazione dei servizi (art. 49 e segg. del TCE) e di tutela della concorrenza (art. 81 e segg.), nondimeno l’argomento in questione non potrebbe essere condiviso. In primo luogo, non può in alcun modo ritenersi che l’affidamento ex lege (rectius: la possibilità di un tale affidamento) all’Avvocatura dello Stato della difesa in giudizio di un soggetto comunque deputato allo svolgimento di attività di interesse pubblicistico (quale l’I.P.Z.S.) risulti lesivo del principio di libera circolazione dei servizi nel settore del patrocinio legale. Al riguardo, occorre premettere che non è possibile escludere a priori che l’espletamento di servizi lato sensu riconducibili all’assistenza legale in favore di Amministrazioni pubbliche possa essere ricondotta all’ambito di applicazione della normativa comunitaria – segnatamente, in tema di libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali –. 6 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 01 temi ist 02 borgo.qxp 06/04/2009 13.35 Pagina 6 Depone in tal senso, inter alia, la previsione di cui all’Allegato IB della direttiva 92/50/CEE (da ultimo trasfusa in parte qua nell’Allegato IIB alla direttiva 2004/18/CE in tema di c.d. ‘appalti nei settori classici’), secondo cui rientra nel novero dei c.d. ‘servizi non prioritari’ ai fini dell’applicazione delle norme comunitarie in materia di appalti, l’intero ambito dei servizi legali (n. di riferimento da 74110000-3 a 74114000-1 del Vocabolario Comune degli Appalti al livello comunitario – CPV -). Cionondimeno, il Collegio ritiene che l’ascrivibilità dei ‘servizi legali’ resi in favore di Amministrazioni pubbliche (ivi compreso, come è evidente, il patrocinio in giudizio) nel novero delle attività astrattamente contendibili sul mercato, non comporti in alcun modo un generale ed incondizionato obbligo per il Legislatore nazionale di escludere ipotesi di devoluzione ex lege del patrocinio in favore delle Amministrazioni pubbliche in favore di Organismi (quale l’Avvocatura dello Stato) anch’essi ascrivibili a pieno titolo all’alveo pubblicistico e conseguentemente esclusi – almeno in via tendenziale – dall’applicazione delle norme comunitarie in tema di evidenza pubblica e di libera circolazione dei servizi. Del pari, non si ritiene in alcun modo violativa dei richiamati principi comunitari una previsione normativa (quale il richiamato 7 vicies quater del d.l. 7 del 2005) la quale, letta in combinazione con l’art. 43 del R.D. 1611 dl 1933, cit., consenta (ma non imponga) ad Amministrazioni pubbliche non statali ed enti sovvenzionati di accedere al patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, intesa quale plesso dello Stato-apparato istituzionalmente deputato alla rappresentanza, al patrocinio ed all’assistenza in giudizio delle Amministrazioni dello Stato e degli altri soggetti normativamente ammessi ad accedere ai relativi servizi. Sotto il profilo sistematico, si osserva in primo luogo che non appaia in alcun modo dubitabile l’ascrivibilità dell’I.P.Z.S. (pur nell’attuale sua veste societaria) al novero delle amministrazioni pubbliche non statali ed enti sovvenzionati per i quali l’art. 43 del R.D. 1611, cit. ammette il c.d. ‘patrocinio autorizzato’ da parte dell’Avvocatura dello Stato. Sotto tale aspetto, il richiamato art. 7-vicies quater, d.l. 7 del 2005, cit., appare una (per altro, corretta) esplicitazione normativa di principi giuridici aliunde evincibili. Ed infatti, alla luce della veste giuridica attualmente posseduta dall’I.P.Z.S. e dei compiti ad esso normativamente devoluti, è certamente possibile ascrivere tale Istituto nel novero degli Enti pubblici in forma societaria (ovvero, al modulo della c.d. ‘amministrazione indiretta’, intesa quale sintesi di differenti modelli e strumenti operativi di amministrazione – anche modellati su schemi tipicamente privatistici – di cui lo Stato e le Autonomie funzionali si servono al fine di realizzare, in via indiretta, finalità pubbliche connesse all’esercizio delle proprie competenze – Corte cost., sent. 5 febbraio 1992, n. 35). Questa essendo la corretta configurazione sistematica dell’I.P.Z.S., il Collegio osserva che i profili di illegittimità comunitaria ipotizzati da Parte ricorrente in relazione alla possibilità di devolvere le controversie sorte nello svolgimento dell’attività dell’Istituto non siano in alcun modo condivisibili. Innanzitutto, si osserva che la scelta del Legislatore nazionale di riservare – in tutto o in parte – ad un’entità riconducibile allo Stato-apparato (quale l’Avvocatura dello Stato) l’esercizio del patrocinio legale in favore di Amministrazioni o Enti pubblici appaia pienamente compatibile con le previsioni di cui all’art. 295 del Trattato di Roma il quale, nella consolidata interpretazione fornitane dalla Corte di Giustizia, consente allo Stato di determinare la latitudine del ruolo proprio (ovvero, quello di Organismi a sé riconducibili sotto il profilo soggettivo e funzionale) nell’ambito di settori di intervento astrattamente contendibili sul mercato (sul punto, cfr. le conclusioni dell’Avvocato Generale Colomer in cause riunite C-367/98, C-483/99 e C-503/99). TEMI ISTITUZIONALI 7 01 temi ist 02 borgo.qxp 06/04/2009 13.35 Pagina 7 Non ignora il Collegio che, secondo un tradizionale orientamento della Corte di Giustizia, la facoltà per lo Stato di modellare l’ampiezza dei poteri di intervento dei soggetti pubblici sulle attività economiche (ad es., attraverso l’istituzione di monopoli pubblici in determinati settori di attività) incontri il limite rappresentato dalla salvaguardia degli equilibri concorrenziali nell’ambito dei settori di attività comunque aperti alla libera contendibilità e nei quali operino anche soggetti qualificabili come imprese pubbliche (es.: C.G.C.E., sent. 20 marzo 1985, in causa C-41/83 – Commissione vs. Italia -). Neppure sfugge al Collegio che, secondo una costante giurisprudenza, nel contesto del diritto della concorrenza la nozione di impresa comprende qualsiasi entità che esercita un’attività economica, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle modalità del suo finanziamento (cfr. C.G.C.E., sentenza 12 settembre 2000, in cause riunite da C-180/98 a C- 184/98, Pavlov e a.). Tuttavia, ciò che palesa la non condivisibilità dei dubbi di legittimità comunitaria ipotizzati da Parte ricorrente è, appunto, la pacifica non ascrivibilità dell’Avvocatura dello Stato al novero delle imprese pubbliche, pur se la nozione in parola venga intesa nella vastissima accezione accolta dalla giurisprudenza comunitaria. Ciò, in considerazione delle evidenti ed esclusive finalità di interesse pubblico perseguite da tale Organo, dell’assenza di scopo di lucro nell’esercizio della relativa attività, nonché della destinazione esclusiva dei relativi servizi in favore delle Amministrazioni dello Stato (ovvero, in favore di Amministrazioni pubbliche non statali e di enti sovvenzionati, ai sensi del richiamato art. 43 del R.D. 1611 del 1933). È pertanto evidente che la non ascrivibilità dell’Avvocatura dello Stato nell’ambito delle imprese pubbliche, di cui all’art. 86, par. 1 del Trattato di Roma comporti quale conseguenza che la relativa attività in alcun modo sia valutabile alla luce dei principi e delle previsioni di diritto comunitario – richiamate da Parte ricorrente a sostegno delle proprie tesi – in tema di libera circolazione dei servizi (Parte III, Tit. III, Capo 3 del TCE), ovvero in tema di tutela della concorrenza nel mercato interno (Parte III, Tit. VI, Capo I del TCE). 2.4. Da ultimo, si ritiene di osservare che la stessa Commissione europea (di cui è noto il ruolo di ‘custode’ del Trattato istitutivo della Comunità e dei principi in esso trasfusi) ha avanzato nei confronti della Repubblica italiana istanza di essere ammessa al c.d. patrocinio autorizzato da parte dell’Avvocatura dello Stato nei giudizi attivi e passivi davanti alle autorità giudiziarie, i collegi arbitrali, le giurisdizioni amministrative e speciali e che tale patrocinio è stato ammesso con d.P.R. 17 febbraio 1981, n. 173. Non è necessario sottolineare la particolare significatività di tale previsione, se non per ribadire che, laddove l’Esecutivo comunitario avesse nutrito dubbi in ordine alla compatibilità dell’istituto del c.d. ‘patrocinio autorizzato’ con i dettami del diritto comunitario, verosimilmente non avrebbe proposto istanza ai fini di accedere alla relativa facoltà (omissis)». 8 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 01 temi ist 02 borgo.qxp 06/04/2009 13.35 Pagina 8 La pubblicità ingannevole nel diritto internazionale e comunitario. Aspetti giuridici ed evoluzione della disciplina di Dimitris Liakopoulos(*)e Mauro Romani(**) SOMMARIO : -1. Introduzione; -2. La disciplina della pubblicità ingannevole a livello internazionale. La nozione di pubblicità ingannevole; -3. La società dei consumi e le alternative di politica legislativa; -4. L’avvio della politica comunitaria a tutela del consumatore; -5. Il danno per la concorrenza; -6. Il danno per i consumatori; -7. L’autodisciplina pubblicitaria a livello comunitario; -8. L’Alleanza Europea per l’etica in Pubblicità; -9. La normativa internazionale in materia di pubblicità ingannevole. Le Convenzioni internazionali sui diritti dei consumatori; -10. Le linee guida dell’OCSE; -11. L’evoluzione normativa in Europa e la Direttiva 84/450/CEE; -12. La disciplina della pubblicità televisiva; -13. Il criterio della trasparenza della pubblicità: la regolamentazione della pubblicità comparativa come ipotesi di pubblicità ingannevole; -14. Il recepimento della Direttiva comunitaria e le diverse soluzioni nazionali; -15. (segue) La Danimarca; -16. L’azione sanzionatoria della pubblicità ingannevole in Germania; -17. La disciplina spagnola della pubblicità ingannevole; -18. La disciplina repressiva in Olanda; -19. (segue) La Grecia; -20. L’attribuzione delle competenze ad autorità amministrative. Il Portogallo; -21. La pubblicità ingannevole in Francia; -22. Il Belgio; - 23. La disciplina austriaca in materia di pubblicità ingannevole; -24. La normativa sulla pubblicità ingannevole nei nuovi Stati dell’Unione europea; -25. Conclusioni. 1. Introduzione Il presente lavoro si propone di indagare l’evoluzione del diritto convenzionale in materia di pubblicità ingannevole, analizzando la genesi di tale I L C O N T E N Z I O S O C O M U N I TA R I O E I N T E R N A Z I O N A L E (*) Avvocato, professore a contratto in diritto dell’Unione europea ed internazionale - Università della Tuscia. (**) Dottore in scienze politiche - Università della Tuscia. 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 9 nozione in ambito nazionale e la sua progressiva trasposizione in quello internazionale. L’inganno impedisce ai destinatari ed in particolare ai consumatori – che sono la parte debole dei rapporti commerciali in quanto vittime di suggestioni improprie – di esprimere scelte coerenti con i bisogni e le aspettative sollevate dal messaggio pubblicitario. A livello internazionale, si è affermato il principio secondo cui tali soggetti sarebbero titolari di un diritto soggettivo nei confronti degli imprenditori, a carico dei quali viene posto l’onere di un’esatta informazione sulle qualità e caratteristiche dei prodotti messi sul mercato. L’obiettivo quindi perseguito con la repressione della pubblicità ingannevole consiste nell’impedire l’acquisto di beni e/o servizi sulla base di informazioni che ne possano produrre una scorretta rappresentazione della realtà (1). In questa prospettiva si intende esporre l’evoluzione del dibattito economico- giuridico in materia di pubblicità ingannevole, prendendo avvio dalla nozione di misleading advertising ed esaminando il contributo dell’economia, alla definizione di una normativa di controllo. La teoria economica ha, infatti, posto in evidenza i costi rilevanti che un comportamento comunicativo ingannevole pone a carico dei consumatori e del sistema concorrenziale nel suo complesso. Negli anni ‘70 era stata auspicata l’elaborazione di un corpus iuris in grado di disciplinare pubblicità ingannevole, comparativa (2), e settoriale (3). 10 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 (1) BOTTACCIO M., Contro la pubblicità ingannevole, in Mark up, 2003, pp. 95 ss.; CONTE G., I procedimenti in materia di pubblicità ingannevole e le situazioni soggettive di derivazione comunitaria, in Rivista di diritto dell’impresa, 1998, pp. 88 ss.; COOTER R., MATTEI U., MONASTERI P. G., PARDOLESI R., ULEN R., Il mercato delle regole, Bologna, 1990; CORASANTI G., VASSELLI L., Diritto della comunicazione pubblicitaria, Torino, 1999; FERRANTI R., Pubblicità ingannevole: prevenire è meglio che curare, in L’impresa, 1997, pp. 70 ss.; FORD G. T., CALFEE J. E., Recent developments in FTC policy in deception, in Journal od marketing, 1986, pp. 82 ss.; FUSI M., Pubblicità comparativa: recenti sviluppi in Europa, in Relazione al convegno pubblicità ingannevole e comparativa: verso nuove regole, Milano 24 aprile 1992; FUSI M., TESTA P., COTTAFAVI P., La pubblicità ingannevole, Giuffrè, 1993; GAMBINO A. M., FARUFFINI F., FORTUNA D., PANINI G. M., TUFARELLI M. R., Pubblicità ingannevole e comparativa, in Concorrenza e mercato, 2001, pp. 140 ss.; GAMBINO A. M., La pubblicità ingannevole, Roma, 1999; GAMBINO A. M., La tutela del consumatore nel diritto della concorrenza: evoluzioni ed involuzioni legislative, anche alla luce del d. lgs. 25 gennaio 1992 in materia di pubblicità ingannevole, in Contratto e impresa, 1992, pp. 412 ss.; GAMBINO A. M., SONNINO G. M., Pubblicità ingannevole, in Concorrenza e mercato, 2000, pp. 162 ss.; MACALUSO F., GUTIERREZ B.M., CIAMPI N., DOTTI M., Pubblicità ingannevole, in Concorrenza e mercato, 1996, pp. 310 ss.; PRESTON I. L., The tangled web they weave: truth, falsity and advertisers, Madison, WI, The University of Wisconsin press, 1994. (2) COLOMBO P., Recenti sviluppi legislativi in materia di pubblicità comparativa, in Contratto e impresa/Europa, 2000, pp. 64 ss.; FONTANAG., La pubblicità ingannevole e comparativa, in L’amministrazione italiana, 2000, pp. 624 ss.; PACIULLO G., La pubblicità comparativa nell’ordinamento italiano, in Il diritto dell’informatica e dell’informazione, 2000, pp. 115 ss.; GUGGINO, Primo rapporto sulla pubblicità comparativa diretta, in Il diritto industriale, 2001, pp. 102 ss.; CARBONE G., La pubblicità comparativa nel quadro delle recenti metamorfosi del codice civile, in Contratto e impresa/Europa, 2001. (3) GARTNER M.G., Advertising and the first amendment, New York, 1989; LAWSON R. G., Advertising and labelling: laws in the common market, London, 2002. 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 10 Queste discussioni sono appunto sfociate nell’adozione di certe direttive comunitarie relative alla sola pubblicità ingannevole (4). Nell’ambito degli accordi internazionali disciplinanti la materia oggetto dello studio è, invece, possibile ricordare la Convenzione del 1989 sulle trasmissioni televisive transfrontaliere, il cui articolo 11 elenca alcuni dei principi generali ai quali deve conformarsi la pubblicità, e sostanzialmente rispondenti a quelli già affermati in alcune legislazioni interne. In particolare stabilisce che: “1. Ogni pubblicità deve essere leale ed onesta; 2. La pubblicità non deve essere menzognera o essere pregiudizievole agli interessi dei consumatori; 3. La pubblicità destinata ai fanciulli o che fa appello a dei fanciulli deve evitare di recare pregiudizio agli interessi di questi ultimi e tener conto della loro particolare sensibilità; 4. L’inserzionista non deve esercitare alcuna influenza editoriale sul contenuto delle emissioni”. Altre norme della Convenzione pongono divieti puntuali e incondizionati concernenti le forme specifiche della pubblicità. Vi si prescrive che la pubblicità debba essere chiaramente identificabile in quanto tale e distintamente separata dagli altri programmi mediante mezzi ottici o acustici. Da tale accordo sono vietate: la pubblicità ingannevole, la pubblicità subliminale e quella clandestina. 2. La disciplina della pubblicità ingannevole a livello internazionale. La nozione di pubblicità ingannevole La normativa comunitaria ravvisa la fattispecie della pubblicità ingannevole quando il contenuto dell’annuncio promozionale è falso, mendace, erroneo, illusorio o contiene informazioni inesatte, ovvero quando la campagna pubblicitaria è difficilmente riconoscibile come tale (5). Giacché provoca nelle persone una falsa rappresentazione della realtà e le induce a tenere dei comportamenti economicamente favorevoli all’impresa produttrice, è considerata uno strumento concorrenziale scorretto. Il Decreto Legislativo n. 74 del 25 gennaio 1992 (6), con cui l’Italia recepisce la Direttiva comunitaria 84/450/CEE, la definisce come “qualsiasi pubblicità che, in qualunque IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 11 (4) Con l’adozione della Direttiva 55/97/CE, che va a modificare la Direttiva 84/450/CEE, si include la disciplina della pubblicità comparativa. ALPA G., Il diritto dei consumatori, Roma, 2002; ALPA G., Prime note sull’attuazione della direttiva comunitaria in materia di pubblicità ingannevole (D.lgs. 1992 n. 74), in Diritto dell’informazione e dell’informatica, 1992, pp. 260 ss.; ALPA G., Introduzione al diritto dei consumatori, ed. Laterza, 2006. (5) UNNIA F., La pubblicità clandestina, in Il diritto privato oggi, 1997, pp. 40 ss.; GHIDINI G., GAMBINO A. M., DE RASIS C., ERRICO P., FARUFFINI DI SEZZADIO F., LAZZARETTI A., La pubblicità ingannevole. Commento sistematico alla normativa vigente, Milano, 2003, pp. 4 e ss. (6) Il cui scopo è quello di “tutelare dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali i soggetti che esercitano un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, i consumatori e, in genere, gli interessi del pubblico nella fruizione di messaggi pubblicitari” (art. 1, D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74). 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 11 modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, leda o possa ledere un concorrente” (7). Ulteriori indicazioni circa l’ingannevolezza vengono fornite dal Codice di Autodisciplina Pubblicitaria (8), secondo il quale “la pubblicità deve evitare ogni dichiarazione o rappresentazione che sia tale da indurre in errore i consumatori, anche per mezzo di omissioni, ambiguità o esagerazioni non palesemente iperboliche, specie per quanto riguarda le caratteristiche e gli effetti del prodotto, il prezzo, la gratuità, le condizioni di vendita, la diffusione, l’identità delle persone rappresentate, i premi o riconoscimenti”. L’art. 1, del suddetto decreto, sostiene che la pubblicità debba essere “palese, veritiera e corretta”, mentre, ingannevole è ciò che è occulto, scorretto e non facilmente percepibile come messaggio pubblicitario. L’ingannevolezza si configura anche quando vengano omesse informazioni essenziali relative alle caratteristiche dei beni o servizi pubblicizzati, o alle condizioni alle quali essi vengono forniti. Non ogni omissione informativa determina necessariamente tale tipologia di illecito: è considerata, infatti, rilevante solo quella in grado di limitare in modo significativo la portata dell’affermazione contenuta nel messaggio. Si pensi ad una variabile significativa come il costo del servizio che, se definita in modo ingannevole, potrebbe indurre il consumatore a non acquisire altre informazioni circa il dato pubblicizzato. La “non trasparenza” della pubblicità si configura anche in ambito giornalistico. Ciò accade, quando i messaggi pubblicitari vengono presentati come articoli, in modo da acquisire la credibilità di una notizia (c.d. “pubblicità redazionale”), ovvero all’interno di programmi d’intrattenimento od opere cinematografiche, al fine di inserire nel tessuto narrativo, a scopo pubblicitario, i propri prodotti (c.d. “product placement”). In questi casi, per accertare la trasparenza di un messaggio pubblicitario si deve stabilire la natura pubblicitaria del messaggio, e verificarne la riconoscibilità. É stato infine rilevato come l’acquisto del bene o del servizio sia marginale nell’identificazione della pubblicità ingannevole, essendo sufficiente che il messaggio, suscitando una interpretazione erronea della realtà, possa influenzare il comportamento di una parte del pubblico dei consumatori anche solo inducendola a prendere contatto con l’impresa o con i prodotti e servizi reclamizzati. 12 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 (7) La direttiva è stata abrogata dalla direttiva 2006/114/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 2 dicembre 2006 che è entrata in vigore il 12 dicembre 2007. (8) Inizialmente denominato Codice della Lealtà Pubblicitaria, venne istituito su iniziativa delle organizzazioni rappresentative degli operatori della pubblicità (imprese, utenti, agenzie, e mezzi) e sulla traccia del Code della Chambre de Commerce internazionale. FUSI M., TESTA P., COTTAFAVI P., La pubblicità ingannevole, Milano, 1993, p. 42. 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 12 3. La società dei consumi e le alternative di politica legislativa Secondo la visione classica, i mercati competitivi tendono a raggiungere le posizioni di equilibrio al verificarsi delle seguenti condizioni: efficienza della produzione (l’offerta, ossia la quantità di beni prodotti ed immessi nel mercato, eguaglia la domanda); equità dello scambio (tutti pagano lo stesso bene allo stesso prezzo). L’informazione trasparente, completa, e distribuita in maniera omogenea tra i consumatori, impedisce l’eccessiva differenziazione tra i prodotti, e favorisce la formazione di un unico prezzo, la perfetta razionalità spinge il consumatore a tenere comportamenti improntati alla massima utilità. La presenza delle suddette caratteristiche garantisce l’esistenza delle “preferenze informate”. Per comprendere di cosa si tratti, si deve tener presente che ogni consumatore tende ad attribuire ad un bene un valore, che può aumentare o diminuire, a seconda delle informazioni acquisite su di esso. Quest’ultime modificano ed incidono le decisioni correnti, influenzano nel tempo il processo di formazione e riformazione delle preferenze, ed aiutano a comprendere se la preferenza accordata ad un prodotto sia coerente con i bisogni che attivano il consumo e spingono i soggetti, nel caso in cui tale corrispondenza non esista, verso beni diversi. I fattori analizzati costituiscono i principi base del modello economico classico di scelta del consumatore. Un consumatore razionale, pertanto, si presenta sul mercato con delle preferenze già strutturate, formate, prima dello scambio, dalla comparazione tra i prodotti. Le scelte dei consumatori appaiono, quindi, autonome e non influenzate da fattori esterni. Il modello descritto rimane un ideale, poiché non riscontrabile in alcun mercato reale. Più spesso, i mercati sono caratterizzati da regimi competitivi imperfetti, a causa della presenza di esternalità negative, beni pubblici, informazione incompleta, che rendono la razionalità del consumatore limitata e la competizione debole. Gli aspetti psicologici e sociologici del consumo, la richiesta di varietà, le questioni attinenti la qualità e l’innovazione del prodotto non sono tenute in alcun conto, e la soddisfazione del consumatore non è altro che una conseguenza, quasi meccanica, dell’atto di acquisto. L’informazione asimmetrica favorisce fenomeni di “selezione avversa” (9), caratterizzati dalla difficoltà del consumatore nel valutare e distinguere i prodotti di alta qualità da quel- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 13 (9) CAFAGGI F., Pubblicità ingannevole, in Digesto delle discipline privatistiche, XI, Torino, 1995, p. 433.; VANZETTI A., La repressione della pubblicità menzognera, in Rivista di diritto civile, 1964, pp. 585 ss.; AUTERI P., La nuova normativa sulla pubblicità ingannevole, in relazione al convegno “La pubblicità ingannevole: istituzioni, imprese, mezzi e consumatori a confronto”, Milano, 18 Giugno 1992, p. 41; DE SOLA M., JEUNIAUX M., La politique communautaire en faveur des consommateurs, in Revue du marchè unique europèen, 1993, pp. 65 ss.; WEATHERILL S., Consumer policy, in P. Craig G., De Búrca (ed.), The evolution of EU law, Oxford, Oxford University press, 1999, pp. 693 ss.; PRESTON I. L., The federal trade commission’s identification of implications as constituting deceptive advertising, in Cincinnati law review, 1989, pp. 1244 ss. 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 13 li di bassa. Tale condizione agevola il fallimento del mercato e coinvolge anche le imprese produttrici incapaci di far cogliere le differenze tra i loro prodotti e quelli dei concorrenti. La conseguenza è che, il consumatore sarà più propenso a scegliere prodotti di più basso prezzo, anche se di minore qualità, decretando così l’espulsione dal mercato di tutte quelle imprese che producono beni di qualità a costi più elevati. I mercati reali, quindi, sono caratterizzati da differenti livelli di gap negoziale, informativo, e valutativo, che influenzano negativamente i processi di scelta e di consumo. L’intervento del legislatore è stato quindi funzionale al riequilibrio di tale asimmetria ed al rafforzamento della posizione del consumatore. Esso prevedeva il raggiungimento di tre obiettivi: assicurare l’esistenza ed il pieno funzionamento dei mercati, correggere le inefficienze del mercato, assicurare la libertà di scelta e di accesso a tutti i consumatori (10). Un intervento in tal senso si è avuto con la prima normativa Antitrust a favore del piccolo commercio e della produzione artigianale, volta a contrastare lo strapotere delle concentrazioni industriali (11) (Sherman Act, 1890). Tale atto considera le azioni restrittive della concorrenza come violazioni penali, contro cui i privati e lo Stato possono ricorrere. Si comprese, infatti, che con questo tipo d’intervento era possibile realizzare l’interesse delle imprese. 4. L’avvio della politica comunitaria a tutela del consumatore Della tutela del consumatore si è anche occupato il Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea, firmato a Roma nel 1957, il quale si prefiggeva di assicurare prezzi ragionevoli ai consumatori, promuovere l’utilizzo di pratiche capaci di migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti, favorire il progresso tecnico o economico, condannare le pratiche consistenti nel limitare la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnico, a danno dei consumatori (12). 14 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 (10) SILVA F., CAVALIERE A., I diritti del consumatore e l’efficienza economica, in La tutela del consumatore tra mercato e regolamentazione, Roma, 1996, p. 29. (11) La concorrenza sleale divenne quindi un reato e con il passare degli anni l’obiettivo di tutelare i consumatori dalle pratiche commerciali scorrette divenne la motivazione principale di questa legge. Fonte: http://www.portalex.it. Si veda anche GALLOTTI D., Antitrust e procedimento per pubblicità ingannevole, in Rassegna Economica, 6, 2003, p. 45; MALTONI A., Tutela dei consumatori e libera circolazione delle merci nella giurisprudenza della Corte di giustizia. Profili costituzionali, Giuffrè, 1999. (12) Si basa su due disposizioni fondamentali contenute nei primi due articoli. Il primo vieta gli accordi tra imprese stabilendo che “ogni contratto, combinazione nella forma di trust o altrimenti, o cospirazione, che limita gli scambi o il commercio tra i vari Stati, o con nazioni straniere, è per mezzo della presente legge dichiarato illegale…”. Nel secondo, invece, si prevede che “ogni persona che monopolizzerà o tenterà di monopolizzare o entrerà a far parte di combinazioni o cospirazioni con altra persona o persone, tendenti a monopolizzare qualsiasi parte degli scambi o del commercio fra i vari Stati o con nazioni straniere sarà ritenuta colpevole di un reato”. PERA A., Concorrenza e antitrust, Bologna, 1998; SOMMAA., Il dirit- 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 14 Nel 1973, venne approvata la “Carta della protezione del consumatore”, nella quale erano elencati i diritti fondamentali da assicurare ai fruitori di beni o servizi, per favorire il progresso economico e sociale (13). La prima e rilevante normativa comunitaria in tema di tutela dei consumatori è stata la Risoluzione CEE del 14 aprile 1975 (14), nella quale era delineato il programma preliminare della politica di protezione del consumatore. Gli interessi meritevoli di tutela venivano raggruppati in cinque categorie di diritti fondamentali: il diritto alla protezione della salute e della sicurezza, il diritto alla tutela degli interessi economici, il diritto al risarcimento dei danni, il diritto all’informazione ed all’educazione, il diritto alla rappresentanza. La risoluzione indicava, per ciascuno di tali diritti, criteri a cui ispirare i diversi interventi. Per la tutela della salute e della sicurezza dei consumatori, si raccomandava di evitare che quest’ultimi fossero posti in pericolo dai beni o servizi messi a disposizione, e che fossero portati a conoscenza degli eventuali rischi ad essi collegati. Per difendere gli interessi economici si doveva fornire una tutela contro gli abusi di potere da parte dei venditori e le forme di propaganda ingannevole, ed assicurare un’adeguata informazione sul prodotto. Il diritto al risarcimento, invece, doveva essere garantito prestando al consumatore adeguata assistenza e consulenza in caso di reclami, ed assicurando procedure rapide, efficaci e poco dispendiose per ottenerne il risarcimento. Il diritto all’informazione, al contrario, poteva essere assicurato ponendo il consumatore al corrente di tutte le caratteristiche essenziali di beni e servizi, in modo da permettergli di compiere sempre scelte razionali e consapevoli. Infine, per quanto concerne il diritto alla rappresentanza, si dovevano sentire e consultare le IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 15 to dei consumatori è un diritto dell’impresa, in Politica del diritto, 1998, 4, pp. 679-688; DELOGU L., La tutela dei diritti del consumatore in Italia, ieri e oggi: le iniziative comunitarie e la L. 281/1998 sui diritti dei consumatori, 2003, pp. 5 e ss.; ALPA G., Diritto privato dei consumi, Bologna, 1986, p. 26; Cfr. il rapporto CONSEIL DE L’EUROPE, Protection des consommateurs, Strasburgo, 1972. (13) L’argomento, divenuto una questione pubblica già negli anni 1967-1968, spinse il Consiglio d’Europa ad emettere tale Carta. In particolare, venivano individuati: il diritto all’assistenza e alla protezione dei consumatori, che si deve manifestare in un agevole accesso alla giustizia ed in una razionale amministrazione di essa. I consumatori devono essere protetti da ogni danno economico o materiale provocato loro dai beni di consumo; il diritto al risarcimento del danno derivato al consumatore dalla circolazione di prodotti difettosi, o dalla diffusione di messaggi pubblicitari menzogneri, erronei o recettivi; il diritto alla informazione e all’educazione in ordine alla qualità e ad ogni altro aspetto del prodotto, oltre all’accertamento dell’identità dei fornitori; il diritto di partecipare alle associazioni esponenziali di interessi dei consumatori, e la possibilità di esprimere direttive, a livello di scelte politiche ed economiche, inerenti la disciplina dei consumi. La Carta auspicava inoltre l’istituzione, nei singoli Paesi membri, di una “autorità forte, indipendente ed efficace” che rappresentasse i consumatori e le categorie commerciali, assegnando agli organi legislativi e governativi il compito di esprimere pareri circa i problemi di tutela dei consumatori. (14) In G.U.C.E. n. C 92 del 25 aprile 1975. 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 15 associazioni rappresentative degli interessi degli stessi in relazione ad ogni decisione che potesse in qualche modo coinvolgerli. Appare chiaro che secondo la suddetta risoluzione la tutela spettante al consumatore non veniva trattata come una politica autonoma, quanto piuttosto, come un riflesso di altre politiche che si realizzava attraverso azioni volte ad attuare un miglioramento qualitativo delle condizioni di vita della comunità. I principi sanciti nella risoluzione del 1975 sono stati ribaditi nella successiva risoluzione del 19 maggio 1981 (15), in cui è stato delineato un secondo programma per la politica di protezione ed informazione del consumatore. Con la tale risoluzione non ci si è limitati a confermare la volontà di garantire la tutela dei diritti già indicati nella risoluzione precedente, ed entrati a far parte a pieno titolo della legislazione comunitaria, bensì si sono, anche, individuati nuovi obiettivi, come la creazione di condizioni per favorire e migliorare il dialogo tra consumatori e produttori distributori, nonché l’impegno a dedicare maggiore attenzione alla qualità di beni e servizi ed ai loro prezzi. L’iniziativa comunitaria si è intensificata solo dalla metà degli anni ’80, quando sono stati emanati una serie di documenti politici e di direttive, che la dottrina ha considerato come una sorta di codificazione del diritto europeo dei consumatori. In tale frangente si colloca anche il Trattato di Maastricht, il cui Tit. XI è espressamente dedicato alla “Protezione dei consumatori”. Il Trattato di Amsterdam ha successivamente modificato quel titolo e lo ha arricchito convertendolo nell’attuale Tit. XIV, che è rimasto lo stesso anche con la modifica del trattato costituzionale di Lisbona. Dalle suddette disposizioni traspare un atteggiamento nuovo e diverso da parte della Comunità che non si limita più a fissare regole, ma che assume un comportamento decisamente propulsivo. Essa si prende anche l’impegno si assicurare ai consumatori un livello elevato di protezione, soprattutto se confrontato con l’indirizzo precedentemente seguito dal legislatore comunitario, che si accontentava del “rispetto di un livello minimale di protezione”, attribuendo agli Stati membri la facoltà di elevarlo. La Comunità ha riconosciuto come proprio compito istituzionale quello di contribuire a tutelare alcuni diritti ed interessi dei consumatori. Non si limita ad identificare ed a garantire i diritti e gli interessi dei consumatori, ma intraprende iniziative che ne rendano possibile l’effettivo esercizio. I diritti individuati dal Trattato di Amsterdam non hanno, quindi, solo natura programmatica, ma anche precettiva (16). D’ora in poi, l’Unione Europea non si prefigge unicamente la realizzazione di un mercato unico, ma 16 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 (15) COLAGRANDE R., Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti (l. 30 luglio 1998, n. 281), in Le nuove leggi civili commentate, 1998, 4, pp. 700 e ss. (16) La Direttiva 84/450/CEE (modificata dalla Direttiva 97/55/CE), in materia di pubblicità ingannevole e comparativa, attuata con il D.Lgs. n. 74 del 25 gennaio 1992 e con il D.Lgs. n. 67 del 25 febbraio 2000; la Direttiva 85/374 CEE sulla responsabilità per danno da prodotti difettosi, attuata con il D.p.r. n. 224 del 24 maggio 1988; la Direttiva 85/577/CEE sui contratti stipulati fuori dei locali commerciali, attuata con il D.Lgs. n. 50 del 15 gennaio 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 16 anche la tutela delle posizioni soggettive dei consumatori. Tra queste, ve ne sono alcune che si presentano come veri e propri diritti soggettivi perfetti, in quanto tutelati già da norme nazionali, mentre le altre sono considerate solo come diritti strumentali. Rilevante è anche il principio espresso nel secondo paragrafo dell’art. 153 di tale trattato, in base al quale nella definizione ed attuazione delle altre politiche o attività comunitarie si devono tenere in considerazione le esigenze relative alla protezione dei consumatori. A questo appaiono orientati tutti i provvedimenti diretti al riavvicinamento delle posizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri e le misure di sostegno, integrazione e controllo della politica da loro attuata. La Comunità non ha, però, rinunciato ad incoraggiare l’autonoma iniziativa dei singoli Stati, che, in base al paragrafo quinto del medesimo articolo, possono continuare a mantenere ed a introdurre misure di protezione più rigorose, purché compatibili con il Trattato. Infine, deve ricordarsi che, il 7 maggio 2002, la Commissione europea ha delineato la strategia sulla politica di tutela per gli anni 2002/2006, individuando tre obiettivi prioritari, attuabili tramite azioni da rivedere periodicamente, in modo da adattarle all’evoluzione sociale ed economica. Il primo dei suddetti obiettivi consiste nel realizzare “un elevato livello comunitario di protezione dei consumatori”, in modo da armonizzare sia le condizioni di sicurezza di beni e servizi, sia gli interessi economici e legali dei con- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 17 1992; la Direttiva 87/102/CEE e 88/90/CEE sul credito al consumo, attuata con la Legge n. 142 del 19 febbraio 1992; la Direttiva 90/314/CEE concernente i viaggi, le vacanze e i circuiti “tutto compreso”, attuata con il D.Lgs. n. 111 del 17 marzo 1995; la Direttiva 93/13/CEE sulle clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, attuata con la Legge n. 52 del 6 febbraio 1996; la Direttiva 94/47/CE concernente la tutela dell’acquirente per taluni aspetti dei contratti relativi all’acquisizione di un diritto di godimento a tempo parziale di beni immobili (“Direttiva sulla multiproprietà”), attuata con il D.Lgs. n. 427 del 9 novembre 1998; la Direttiva 97/7/CE sui contratti a distanza, attuata con il D.Lgs. n. 185 del 22 maggio 1999; la Direttiva 98/27/CE sui provvedimenti inibitori a tutela degli interessi dei consumatori, i cui principi erano stati già attuati in Italia con la Legge sui diritti dei consumatori e degli utenti n. 281 del 30 luglio 1998, le cui disposizioni sono state adeguate al provvedimento comunitario con il D.Lgs. n. 224 del 23 aprile 2001; la Direttiva 99/44/CE su taluni aspetti della vendita e delle garanzie dei beni di consumo, attuata con il D.Lgs. n. 24 del 2 febbraio 2002; la Direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico (“Direttiva sul commercio elettronico”), attuata negli ultimi mesi con il D.Lgs. n. 70 del 9 aprile 2003. SCHNEIDER G., PERRY J., Commercio elettronico, Giuffrè, 2000; SMITH B. W., E-commerce: financial products and services, New York, 2003; PALMIERI A., Sulla tutela dei consumatori: nuove norme e nuove problematiche, in Il foro italiano, 1998, 3, p. 597 ss.; STUYCK J., European consumer law after the treaty of Amsterdam: consumer policy in or beyond the internal market?, in Common market law review, 2000, pp. 368 ss.; MICKLITZ H. W., REICH N., WEATHERILL S., EU treaty revision and consumer protection, in Journal of consumer policy, 2004, pp. 368 ss.; HOWELLS G., WILHELMSSON T., EC consumer law: has it come of age, in European law review, 2003, pp. 370 ss.; HOWELLS G., The rise of european consumer law. Whither national consumer law? in Sydney law review, 2006, pp. 64 ss. 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 17 sumatori, al fine di permettere a questi ultimi di effettuare i loro acquisiti, all’interno dell’Unione Europea, con la massima fiducia e con qualunque mezzo. Il secondo obiettivo è quello di garantire “l’applicazione effettiva delle norme di protezione dei consumatori” e di vigilare affinché vengano approvate leggi valide che divengano anche effettive. Lo scopo è di garantire ai consumatori la stessa protezione in ogni parte dell’Unione, per questo si è, anche, pensato allo sviluppo di un quadro di cooperazione amministrativo tra gli Stati membri e di meccanismi di ricorso per i consumatori. La Comunità europea si è, altresì, prefissata di “favorire una partecipazione adeguata delle organizzazioni dei consumatori alle politiche dell’UE”, in modo che cooperino alla definizione delle politiche di protezione e queste possano sortire gli effetti pratici voluti. I consumatori ed i loro rappresentanti devono, però, prima di tutto essere posti nelle condizioni di difendere i propri interessi su un piano di parità con le parti interessate. Ciò comporta una revisione dei meccanismi di partecipazione attiva alle associazioni e una disponibilità di capacità e risorse adeguate, da parte dei consumatori (17). 5. Il danno per la concorrenza La pubblicità ingannevole favorisce la concorrenza sleale danneggiando le imprese operanti nel medesimo settore di quella che se ne avvale. Si parla di concorrenza sleale se e quando un atto di concorrenza è idoneo a danneggiare un’azienda concorrente, ossia ad arrecarle un danno economico, in ogni aspetto della sua attività. Ciò significa che la lesione può indifferentemente afferire agli elementi organizzativi dell’impresa, al patrimonio tecnologico, alla immagine esteriore o alla clientela e, più in generale, a qualunque degli elementi che ne costituiscono il cosiddetto “avviamento” (18). I presupposti per il suo verificarsi sono: determinare confusione con i prodotti di aziende 18 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 (17) cfr. il libro verde sulla revisione dell’acquis comunitario in materia di tutela dei consumatori (Gazzetta ufficiale C 61 del 15 marzo 2007), la direttiva 98/27/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 maggio 1998, relativa a provvedimenti a tutela degli interessi dei consumatori e la direttiva 98/27/CE consente di introdurre un ricorso per la cessazione di tutta una serie di pratiche che pregiudicano gli interessi dei consumatori, come le pratiche commerciali sleali. (18) cfr. la direttiva 2005/29/CE dell’11 maggio 2005 relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno, che modifica le direttive 84/450/CEE, 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE e il Regolamento n. 2006/2004. In prassi la direttiva citata completa anche le disposizioni relative alle transazioni fra impresa e consumatore di cui alla direttiva sulla pubblicità ingannevole. Secondo la direttiva una pratica commerciale può ingannare sia tramite un’azione, sia tramite un’omissione. Una pratica è ingannevole per omissione se non fornisce le informazioni minime o le informazioni di cui il consumatore medio ha bisogno prima di acquistare. La direttiva stabilisce un elenco di informazioni essenziali di cui il consumatore ha bisogno prima dell’acquisto, ad esempio le caratteristiche principali del prodotto, il prezzo, le spese di consegna e il diritto di recesso. Una pratica commerciale è ingannevole per azione se contiene informazioni false ovvero se induce o può indurre in errore il consumatore medio, anche se le informazioni presentate 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 18 concorrenti o, addirittura, imitarli; attribuire ad un bene qualità proprie di un altro; non seguire, da parte dell’inserzionista del messaggio, i principi della correttezza professionale. La pubblicità ingannevole lede le imprese concorrenti se, a causa di questa, esse registrano un decremento delle vendite motivato dallo sviamento della clientela verso prodotti concorrenti. Tale effetto si ottiene o svolgendo un’attività denigratoria del prodotto e dell’impresa concorrente o esaltando le caratteristiche del bene che si sta pubblicizzando rispetto a quelli dello stesso genere che si trovano in commercio. Il legame tra pubblicità ingannevole e concorrenza sleale (19) è stato messo in evidenza anche dalla Dir. 84/450/CEE, il cui secondo considerando afferma espressamente che “la pubblicità ingannevole può condurre ad una distorsione di concorrenza all’interno del mercato comune”. In base alla suddetta, i danni prodotti da questo tipo di pubblicità sono: l’impiego di segni distintivi appartenenti ad altri prodotti; l’imitazione servile del prodotto concorrente; il compimento di atti che inducono confusione tra prodotti di imprese diverse. Quasi tutti i Paesi sanzionano l’imitazione pubblicitaria servile, ossia lo sfruttamento del nome, del marchio, e dell’immagine altrui, solo alcuni, invece, puniscono lo sfruttamento della notorietà di un prodotto. L’imitazione servile di un prodotto concorrente riguarda la sua forma esterna, che in molti casi è l’elemento caratterizzante dello stesso, per cui è dannosa per la confusione che può ingenerare nella clientela rendendola incapace di distinguere tra il prodotto originale e la sua imitazione. Ogni qual volta un messaggio pubblicitario produce tale effetto si configura la fattispecie della concorrenza sleale, poiché la confusione è un aspetto dell’ingannevolezza. Un secondo tipo di danno consiste nell’attribuire al prodotto pubblicizzato caratteristiche e qualità proprie di prodotti concorrenti. Un terzo ed ultimo tipo di danno è la denigrazione del prodotto o dell’attività dell’impresa concorrente, attraverso la diffusione di notizie false, o vere ma diffuse in IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 19 sono oggettivamente corrette. PARISI N., Casi e materiali di diritto europeo dell’informazione e della comunicazione, II edizione, ed. Editoriale Scientifica, 2007, pp. 620 ss.; VANZETTI A., DI CATALDO V., Manuale di diritto industriale, Milano, ultima edizione. (19) Il percorso europeistico contro le pratiche commerciali sleali, si snoda, in particolare attraverso la direttiva 84/450/CEE del Consiglio seguita dalle direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il Regolamento n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio. L’ultima direttiva è la n. 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2005. La nuova direttiva detta un distinto regime giuridico che si segnala per tre ragioni: a) introduce una clausola generale che vieta le pratiche commerciali sleali, vale a dire quelle pratiche che in contrasto con il requisito della diligenza professionale pregiudichino il comportamento economico del consumatore medio che ne sia raggiunto; b) la direttiva individua nelle pratiche ingannevoli e in quelle aggressive due modalità nella categoria generale delle pratiche commerciali sleali e c) la nuova direttiva contiene in allegato un elenco di pratiche commerciali che devono in ogni caso essere considerate sleali. 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 19 modo tendenzioso e scorretto. Se la denigrazione per mezzo della pubblicità può essere facilmente dimostrata, non altrettanto può dirsi della quantificazione del danno da essa prodotto. Questo accade perché non è sempre e soltanto commisurato alla diminuzione del volume di affari, dovendo anche tener conto della lesione arrecata all’onore ed alla credibilità commerciale dell’impresa offesa. Che la pubblicità ingannevole rientri a pieno titolo tra le ipotesi di concorrenza sleale è confermato anche dalla giurisprudenza di merito, secondo cui tale situazione si presenta quando si fa ricorso a mezzi contrari ai principi della correttezza professionale ed idonei a danneggiare l’azienda concorrente, proprio come accade nel caso della pubblicità ingannevole. 6. Il danno per i consumatori L’inganno si realizza quando un messaggio descrive in modo non veritiero caratteristiche e qualità del prodotto o del servizio offerto, ovvero in presenza di messaggio pubblicitario non riconoscibile come tale, in quanto non trasparente. Nel primo caso, il danno subito ha natura patrimoniale e coincide con l’acquisto di un prodotto non corrispondente a quello pubblicizzato. Nel secondo, invece, il fatto che il messaggio pubblicitario non sia riconoscibile come tale impedisce al consumatore di recepirlo nella sua valenza promozionale, e fa sì che egli ne consideri soltanto l’aspetto informativo, così da risultare più vulnerabile ai suoi contenuti. Qualora i messaggi pubblicitari riguardino prodotti pericolosi per la salute e la sicurezza dei consumatori o quando risultino indirizzati alle cosiddette “fasce deboli” o “a rischio”, per stabilire se siano o meno idonei ad arrecare danno, viene utilizzato come parametro di riferimento il consumatore più sprovveduto. Nel caso in cui i destinatari delle comunicazioni abbiano un grado di discernimento più elevato, viene preso in considerazione il soggetto dotato di particolari conoscenze tecniche o culturali. Per valutare la sussistenza di un pregiudizio, deve stabilirsi la rilevanza e l’incidenza degli elementi ingannevoli rispetto alla scelta del destinatario di aderire, o meno all’offerta pubblicitaria. Determinante, ai fini della esistenza o della esclusione del pregiudizio, si è rivelata, in molti casi, la considerazione degli specifici destinatari del messaggio e delle loro qualità. 7. L’autodisciplina pubblicitaria a livello comunitario In quasi tutti i Paesi più sviluppati, accanto alle disposizioni di legge vigenti, troviamo un sistema volontario di controllo della pubblicità, il cui effetto è limitato ad operatori del settore ed a utenti pubblicitari. Si tratta del Codice di Autodisciplina Pubblicitaria, redatto e divulgato dall’omonimo Istituto di Autodisciplina. I codici di Autoregolamentazione assicurano che la pubblicità venga realizzata per fornire un servizio al pubblico, data l’influenza che su di esso può esercitare (20). Per “Autodisciplina pubblicitaria” o “Autoregolamentazione” si intende quel particolare fenomeno per il quale un insieme di soggetti, operanti nel 20 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 20 medesimo settore di attività ed accomunati da interessi affini, decidono di assoggettare i loro comportamenti e le regole di condotta. La prevenzione degli illeciti è l’obiettivo primario dei sistemi di Autoregolamentazione della pubblicità. Atal fine sono indispensabili idonee procedure di verifica preventiva della pubblicità. Le condizioni richieste sono due: la sussistenza tra i soggetti di un vincolo giuridico, e il rispetto e l’applicazione delle regole da parte degli stessi. L’Autodisciplina pubblicitaria tutela l’interesse del consumatore a non essere sviato nelle proprie scelte, ma anche quello concorrenziale, di ogni imprenditore, a non essere leso dalla scorrettezza altrui. I codici di Autodisciplina si presentano come un fenomeno a sé stante rispetto alle norme di diritto positivo, per tale ragione un comportamento che in base a queste ultime è perfettamente lecito e consentito, potrebbe non esserlo per quelle Autodisciplinari. Quasi tutti i codici esistenti nei Paesi europei risultano ispirati al Codice delle Pratiche Leali in Materia Pubblicitaria (Code de Pratiques Loyales en matière de Publicité) emanato nel 1937 dalla Camera di Commercio Internazionale, presentando, per tale ragione, molte similitudini, soprattutto in riferimento alle modalità di svolgimento delle funzioni. Nel Codice delle Pratiche Leali in Materia Pubblicitaria sono indicati tutti i criteri etici e giuridici ritenuti, ancora oggi, essenziali per garantire che la pubblicità rimanga uno strumento di corretta e leale concorrenza, utile per il consumatore e per lo sviluppo degli scambi internazionali. Tutte le regole che devono essere previste ed ampliate, se necessario, dai vari codici sono indicate in 19 articoli, ma i principi cardine sono indicati all’art. 1, secondo il quale la pubblicità deve essere “leale, veritiera e rispettosa della decenza”. Il Giurì del codice (diventato attualmente il Bureau de vérification de la publicité) è articolato in maniera da rappresentare egualmente pubblicitari, professionisti e media, ed ha il compito di esaminare ed eliminare le pratiche sleali. Le pronunce da questo emesse non assumono la veste di una condanna, bensì esprimono un giudizio, circa la conformità dei testi pubblicitari, ai principi espressi. Nel caso di difformità, queste si limitano a mettere in evidenza il fatto ed a farlo cessare. Nel codice viene data una definizione sia di “pubblicità” che di “consumatore”: per pubblicità, si intende, con una definizione piuttosto ampia, qualunque forma di propaganda riguardante prodotti o servizi indipendentemen- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 21 (20) Cfr. PEYRON L., I metatags di internet come nuovo mezzo di contraffazione del marchio e di pubblicità nascosta: un caso statunitense, in Giurisprudenza italiana, 1998, pp. 740 ss.; ROSSI G., La pubblicità dannosa. Concorrenza sleale, diritto a non essere ingannati, diritti della personalità, Giuffrè, 2000; ROSSELLO C., La pubblicità ingannevole: l’attuazione della direttiva comunitaria, in Economia e diritto del terziario, 1994, pp. 702 ss.; SCIANCALEPORE G., Prassi contrattuale e tutela del consumatore, Giuffrè, 2004; FUSI M., TESTA P., COTTAFAVI P., Diritto e pubblicità, Milano, 1991; BERTI C., Pubblicità scorretta e diritti dei terzi, Milano, 2000; FLORIDIA G., Legge e autodisciplina pubblicitaria in Italia, in Riv. Dir. Ind., 1987, 1, pag. 122 e ss.; FUSI M., TESTA P., COTTAFAVI P., L’autodisciplina pubblicitaria in Italia, Milano, 1983. 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 21 te dal mezzo usato (21). Per consumatore, invece, qualsiasi persona alla quale il messaggio possa rivolgersi, quindi, sia il consumatore finale, che l’utente o il commerciante. Oltre al costante e tempestivo aggiornamento delle norme dei codici, è stata ritenuta di fondamentale importanza la rapidità di intervento, caratteristica che consente ai codici di arginare celermente gli effetti e le conseguenze dannose di una pubblicità ingannevole. Comune a quasi tutti i codici è il principio di inversione dell’onere della prova, secondo cui l’autore del messaggio pubblicitario deve essere in grado, in qualsiasi momento, di dimostrarne la veridicità. In tal modo si tenta di responsabilizzarlo facendo sì che egli stesso, al momento della diffusione, sia il primo ad emettere un giudizio sulla lealtà dell’informazione. Le sanzioni previste si distinguono in tipiche, e speciali. Le prime, consistono nella sospensione della divulgazione del messaggio ritenuto ingannevole, le seconde, adottate in casi di particolare gravità, prevedono la pubblicazione della sentenza di condanna. Altra caratteristica dei sistemi di Autodisciplina è la diffusione capillare e continuativa di informazioni sull’attività svolta, al fine di soddisfare l’esigenza di informazione, e di prevenzione. In Italia il Codice di Autodisciplina è stato emanato nel 1966, allo scopo di supplire alla mancanza di una disciplina nazionale del fenomeno pubblicitario, lacuna poi colmata dal D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74. Prima dell’introduzione di tale decreto il consumatore non disponeva di strumenti di tutela giuridici per questa materia, e la protezione era eventuale, indiretta e solo contro il messaggio pubblicitario nocivo agli interessi di natura imprenditoriale. Le norme del codice, avendo una natura privatistica, hanno efficacia solo verso gli aderenti, e non erga omnes. 8. L’Alleanza europea per l’etica in Pubblicità Gli Istituti di Autodisciplina Pubblicitaria sono membri dell’Alleanza Europea per l’Etica in Pubblicità (AEEP) (22), che ha assunto nei Paesi di lingua latina la denominazione di EASA (European Advertising Standards Alliance). Tale Associazione internazionale si prefigge di promuovere l’Autodisciplina, tenendo conto delle differenze culturali dei vari Paesi, e di riunire pe- 22 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 (21) “ (...) pour englober toute forme d’action publicitaire en faveur de produits, services et étiquettes et le matériel utilisé aux points de vente”. RISPOLDI D., La pubblicità tra mercato e tutela dei cittadini-utenti, Milano, 1997, pp. 47 ss. (22) Organizzazione no-profit con sede a Bruxelles, composta da 28 membri rappresentanti di 24 Paesi. Ventiquattro di questi membri provengono da ventidue Paesi europei, gli altri quattro da paesi extra-europei. Per quanto riguardo questi ultimi, è stato consentito l’accesso ai lavori dell’Alleanza agli organismi autodisciplinari del Sud Africa (Advertising Standards Authority - ASASA), del Canada (Advertising Standards Canada - ASC), e della Nuova Zelanda (The Advertising Standards Authority - ASANZ), tutte tramite l’introduzione della figura del membro corrispondente. Fonte:http://www.iap.it 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 22 riodicamente tutte le organizzazioni europee che adottano tali codici. L’Alleanza nasce come replica alla sfida lanciata nel 1991 da Sir Leon Brittan, commissario comunitario alla concorrenza, consistente nel dimostrare che quanto era stato raggiunto, a livello di singole autodiscipline nazionali, poteva essere esteso anche su scala Europea. Basandosi sul principio del mutuo riconoscimento fra i sistemi autodisciplinari e sulla giurisdizione del paese d’origine del mezzo pubblicitario, l’EASA nel 1992 dà avvio al Cross-border Complaints System (CBC), il cui compito consta nel garantire al consumatore di un altro Paese gli stessi diritti di quello del Paese da cui il mezzo diffonde la pubblicità contestata. La procedura si attiva con una preliminare lettera all’organismo di Autodisciplina del proprio Stato, in cui viene indicato il messaggio pubblicitario ritenuto ingannevole e le ragioni che spingono a esporre denuncia contro di esso. Successivamente il caso sarà esaminato dagli organi nazionali competenti e, di qui dall’organo del paese del mezzo coinvolto, e dall’EASA. Uno dei casi più recenti, ad esempio, esamina il reclamo presentato da un consumatore inglese, con oggetto una pubblicità contenente pubblicazioni pornografiche inviate tramite mail dalla STB Inc. Il reclamante, non desideroso di ricevere tali pubblicazioni, in quanto ritenute offensive, si è rivolto all’organismo di Autodisciplina del proprio Paese (ASA) che ha, a sua volta, inviato il reclamo all’organismo spagnolo. Quest’ultimo ha contattato gli inserzionisti, convincendoli ad eliminare l’indirizzo del reclamante dalla loro mailing list; la procedura è stata chiusa ed il reclamo accettato. 9. La normativa internazione in materia di pubblicità ingannevole. Le Convenzioni internazionali sui diritti dei consumatori La maggior parte delle leggi e dei sistemi attualmente vigenti, per fronteggiare il problema delle pratiche commerciali fraudolente ed ingannevoli, sono state elaborate in un’epoca in cui i loro confini erano circoscritti alla nazione. Per questa ragione, si sono spesso rivelate inadeguate per la risoluzione di tale problema. Le vittime ed i terzi implicati nelle transazioni, così come colui che commette l’illecito, si trovano sovente in luoghi diversi ed a notevole distanza tra loro. Ciò spiega la difficoltà degli organismi preposti al controllo ad accedere e reperire gli atti fraudolenti e le informazioni indispensabili per individuare le pratiche dannose. L’individuazione degli autori di tali pratiche, invece, presenta notevoli difficoltà, soprattutto quando esse sono il frutto della cooperazione di più soggetti residenti in paesi diversi, o quando per porle in essere vengano utilizzate delle società schermo. Le inchieste sulle pratiche commerciali fraudolente transfrontaliere sono rese complesse dal carattere effimero delle prove, spesso costituite da dati forniti dai sistemi e dalle reti informatiche che, tendono a scomparire prima di giungere nelle mani degli incaricati ai controlli. Per affrontare e risolvere tali problemi, si è da più parti auspicata una cooperazione più stretta ed efficiente tra gli organismi di controllo, dal momento che i meccanismi internazionali di collaborazione giudiziaria e penale, a ciò preposti, si sono rivelati inadeguati a garantire la tutela dei con- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 23 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 23 sumatori. A livello internazionale, uno dei primi provvedimenti ad aver sanzionato i comportamenti fraudolenti delle imprese è stata la Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale nella quale sono sottoposti a divieto: tutti gli atti di concorrenza sleale, capaci di ingenerare confusione con lo stabilimento, i prodotti o l’attività industriale o commerciale di un concorrente; le asserzioni false effettuate nell’esercizio del commercio e tali da discreditare un concorrente; le indicazioni o le asserzioni il cui uso possa trarre in errore il pubblico circa la natura, il modo di fabbricazione, le caratteristiche, l’attitudine all’uso o la quantità delle merci. Quanto disposto dalla Convenzione è stato riproposto anche dall’Accordo Trips del 1994 e quelli seguenti nel settore, afferente i diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio. Un ulteriore passo in avanti nella definizione di un quadro internazionale uniforme, in materia di tutela del consumatore e di pubblicità ingannevole, è stato compiuto con la stipulazione della Convenzione europea sulla televisione transfrontaliera, approvata il 5 marzo 1989, dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. Aperta alla firma degli Stati membri del Consiglio d’Europa, e degli altri Stati già parte della Convenzione culturale europea e della Comunità economica. Il Capo III di tale accordo è dedicato alla pubblicità, la quale unitamente alla sponsorizzazione, costituisce uno degli aspetti più controversi del sistema televisivo, coinvolgendo anche interessi di ordine economico. Entrambe rappresentano il fulcro del settore televisivo, intorno a cui gravitano interessi diversi, a volte anche contrastanti, come quelli delle emittenti, degli inserzionisti, degli sponsor e degli spettatori consumatori. La Convenzione ha cercato di contemperare la libertà di trasmissione, pubblicità e sponsorizzazione, sia con la necessità di tutela dei fruitori e dei minori, che con l’esigenza di garantire l’integrità dei programmi. La suddetta intesa è interpretabile come un tentativo di armonizzazione della disciplina esistente in materia che, fino alla metà degli anni ’90, risultava ancora disomogenea e soggetta a restrizioni diverse. Gli Stati ad essa aderenti possono anche, per renderle più rigide, modificarne le disposizioni, a condizione che le applichino solo alle emittenti soggette alla loro giurisdizione. La Convenzione contiene, anche un gruppo di norme che disciplinano il contenuto dei messaggi pubblicitari e che vietano gli annunci subliminali e clandestini. Si ha pubblicità quando l’inserzionista, dietro corrispettivo o altro analogo, effettua annunci diretti a: stimolare la vendita, l’acquisto, e il noleggio di prodotti o di servizi; promuovere una causa o un’idea; o produrre ogni altro effetto desiderato (art. 2, lett. f). I principi a cui essa deve uniformarsi, e indicati all’articolo 11 dell’accordo sono: ogni pubblicità deve essere leale ed onesta; non deve essere né menzognera, né pregiudicare gli interessi dei consumatori; quella destinata ai fanciulli, o che faccia appello ad essi, deve evitare di recare pregiudizio agli interessi di questi ultimi, e tenere conto della loro particolare sensibilità; l’inserzionista non deve esercitare alcuna influenza sul contenuto delle diffusioni. Alcune norme della Convenzione afferiscono in maniera specifica alle forme assunte dalla pubblicità, esigendo che il messaggio sia chiaramente 24 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 24 identificabile e la pubblicità distintamente separata dagli altri elementi. Si deve sottolineare, a tal proposito, che non tutti gli Stati membri hanno dovuto emanare apposite disposizioni legislative per recepire la Convenzione, in quanto essendo le sue disposizioni molto vicine a quelle già in vigore al loro interno, spesso si sono limitati ad alcuni “aggiustamenti”. Diverso è il caso dell’Italia, dove la mancanza di una legislazione idonea ha richiesto al legislatore una nuova legge organica. Le modalità di trasmissione dei messaggi pubblicitari, regolate agli artt. 12 e 14, si prefiggono di preservare l’integrità ed il valore artistico dei programmi e di evitare che gli spettatori siano vittime di un vero e proprio “bombardamento” di annunci. L’art. 15 della Convenzione vieta la pubblicità dei prodotti a base di tabacco e dei medicinali, per cui sia indispensabile la prescrizione medica. La stessa disposizione detta regole stringenti anche per i messaggi aventi ad oggetto le bevande alcoliche. Questi, oltre a non poter essere rivolti ai minori, non devono: incentivarne il consumo; presentare in chiave negativa l’astinenza o la sobrietà; sottolineare o insistere sul loro elevato grado alcolico; collegare l’uso di tali bevande al compimento di prodezze fisiche; porre in collegamento il loro consumo con la guida dell’auto; attribuire loro proprietà terapeutiche, stimolanti, sedative, oppure la capacità di risolvere problemi personali. Per tutti gli altri beni, invece, si esige che la pubblicità sia “chiaramente individuabile, leale, veritiera, controllabile e priva di effetti negativi per l’individuo”. 10. Le linee guida dell’OCSE Nel 2003, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) ha emanato le proprie linee guida per la tutela dei consumatori contro le pratiche transfrontaliere fraudolente ed ingannevoli. Nella premessa al testo si dice che tali pratiche causano un notevole pregiudizio ai consumatori, compromettendo l’integrità dei mercati, sia nazionali che mondiali e diminuendone la fiducia da parte dei consumatori. Il comportamento fraudolento ed ingannevole interessa anche le tecnologie e le telecomunicazioni, il cui sviluppo (pur arrecando vantaggi in termini di prezzi, possibilità di scelta e globalizzazione dei mercati), permette alle imprese ed ai singoli, avvezzi all’uso di pratiche, di sottrarsi più agevolmente al controllo delle autorità preposte al rispetto della legge. Le linee guida dell’Ocse sono rivolte agli organi pubblici nazionali, dotati di poteri di controllo in materia di tutela dei consumatori. L’Ocse considera fraudolenta ed ingannevole “qualunque pratica tesa a fornire informazioni inesatte, in particolare, le informazioni suscettibili di indurre in errore, che danneggi in modo sensibile gli interessi economici dei consumatori ingannati”. Le linee guida sollecitano i Paesi membri a creare e mantenere un efficace assetto di leggi, organismi di controllo, istituzioni, pratiche e iniziative comuni, capaci di frenare i comportamenti che sono posti in essere a discapito dei consumatori. Atale scopo, gli Stati dovrebbero prevedere: misure volte a dissuadere le imprese ed i singoli dal compimento di pratiche commerciali fraudolente ed ingannevoli; meccanismi per ricercare, preservare, raccoglie- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 25 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 25 re e scambiare informazioni e le prove riguardanti tali pratiche; meccanismi idonei a farle cessare; meccanismi che garantiscano un risarcimento di danni ai consumatori che siano stati vittime di pratiche commerciali fraudolente ed ingannevoli. 11. L’evoluzione normativa in Europa e la Direttiva 84/450/CEE Nel programma preliminare del Trattato CEE non vi è un riferimento esplicito alla pubblicità, quale elemento di regolazione giuridica comunitaria, ma solo alla necessità di una politica di protezione ed informazione del consumatore. L’art. 153 di tale Trattato, si preoccupa di proteggere il consumatore, in quanto soggetto debole, di fronte all’annuncio pubblicitario, tutelandolo da possibili inganni di cui potrebbe essere vittima. Lo stesso intento caratterizza le due Direttive inerenti il campo della pubblicità: la Direttiva 84/450/CEE, avente ad oggetto l’armonizzazione delle disposizioni legislative regolamentari ed amministrative degli Stati membri afferenti la pubblicità ingannevole; la Direttiva 89/552/CEE, concernente l’esercizio di attività radiotelevisive e contenente disposizioni sul fenomeno del messaggio pubblicitario mediante i mass media. La loro analisi rivela che a livello comunitario ci si è preoccupati di assicurare protezione al consumatore, e che la pubblicità è ritenuta un messaggio persuasivo, ossia uno strumento di comunicazione, diretta ai potenziali clienti, con lo scopo di favorire la libera contrattazione di prodotti e servizi. Il 17 giugno 2003 è presentata una proposta di Direttiva sulle procedure commerciali sleali nel mercato interno, con l’obiettivo di armonizzare le diverse regole esistenti nei vari Stati membri. La suddetta proposta contiene un divieto unico, comune e generale delle procedure commerciali sleali, che alterino il comportamento economico dei consumatori, oltre che ad una serie di regole utili al divieto e all’accertamento della mancata lealtà di tali pratiche. Nella proposta inoltre è stata posta in risalto la differenza tra due tipi di procedure sleali: quelle ingannevoli e quelle aggressive. Già nel 1978 la Commissione Europea aveva presentato, in materia di pubblicità ingannevole e sleale, una proposta di Direttiva volta all’armonizzazione della legislazione esistente. Acirca 6 anni di distanza, il Consiglio ha convertito la suddetta proposta in una vera e propria Direttiva (Dir. 84/450/CEE) spinto dalla consapevolezza che sia interesse del pubblico in generale, e di tutte le persone che esercitano un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, che le disposizioni nazionali relative alla pubblicità ingannevole vengano armonizzate, e che venga emanata una normativa che disciplini la pubblicità comparativa. Alla base di tale Direttiva, composta da 9 articoli, vi è l’interesse di evitare che la pubblicità ingannevole possa portare ad una distorsione della concorrenza, all’interno del mercato comune, e la consapevolezza che la pubblicità ingannevole influisce sulla situazione economica dei consumatori, inducendoli a prendere decisioni pregiudizievoli. Ribadisce, la necessità di permettere la realizzazione di campagne pubblicitarie oltre i confini nazionali, in modo da non incidere sulla libera circolazione di merci e servizi. 26 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 26 Lo scopo essenziale è quello di tutelare gli interessi del consumatore, delle persone che esercitano un’attività e della collettività, dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali. Per pubblicità ingannevole, l’art. 2 intende: “qualsiasi forma di pubblicità che possa indurre in errore le persone o pregiudicare il comportamento economico di detti soggetti, oppure ledere un concorrente”. Tale definizione cerca di eliminare alcune delle lacune normative esistenti e di rendere il consumatore in grado di verificare, nel bene o servizio oggetto della pubblicità, le qualità elogiate. L’art. 3, indica gli elementi che possono provocare una lesione soggettiva od oggettiva del consumatore, ovvero: le caratteristiche di beni o servizi (disponibilità, natura, esecuzione, composizione, usi, quantità, origine geografica o commerciale, ecc); il prezzo o il modo in cui questo viene calcolato; la natura, le qualifiche e i diritti dell’operatore pubblicitario (identità, patrimonio, capacità, diritti di proprietà industriale, commerciale o intellettuale, premi o riconoscimenti). Nei rimanenti articoli, infine, è prevista la possibilità per gli Stati membri di realizzare misure adeguate ed efficaci contro i messaggi ingannevoli, adottando, nell’interesse dei consumatori che dei concorrenti, disposizioni che promuovano una migliore e maggiore tutela giudiziaria. Allo stesso scopo è stata prevista la possibilità di adottare, da parte delle autorità giudiziarie nazionali, provvedimenti di urgenza o di istituire o mantenere organismi autonomi che esercitino un controllo volontario sui messaggi pubblicitari. La normativa ha posto le basi per assicurare, in un’ottica di fair trading, sia il consumatore nelle sue scelte sia gli imprenditori concorrenti nel corretto svolgimento degli affari. In Italia, tale obiettivo è stato in parte realizzato con l’istituzione dell’Autorità Garante, in Inghilterra, invece, con la revisione della legge sui monopoli. Nulla fin qui è previsto in tema di pubblicità comparativa, ma non per una totale rimozione del problema, piuttosto per la scelta della strada che avrebbe convinto, anche i più scettici, sulla necessità di liberalizzare in tutti i paesi dell’unione, le pratiche pubblicitarie comparative. Si decise di affrontare il problema con una apposita Direttiva, presentata nella sua prima versione il 28 maggio del 1991 e successivamente modificata fino ad arrivare alla sua ultima versione del 1997. Il 6 ottobre del 1997, infatti, il Parlamento europeo ed il Consiglio dell’Unione Europea modificano la precedente legislazione comunitaria, in materia di pubblicità ingannevole, inserendo, con la Direttiva n. 97/55/CE (23), le norme in materia di pubblicità comparativa e rinominandola “Direttiva sulla pubblicità ingannevole e sulla pubblicità comparativa”. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 27 (23) RIJKENS R., European Regulation of Advertising: supranational Regulation of Advertising in the European Economic Community, Dordrecht, 1999, p. 5.; RICHARDS J.I., Deceptive Advertising: behavioral Study of a Legal Concept, paper, Oxford, 2001, p. 4.; MASTROIANNI R., Il diritto comunitario e le trasmissioni televisive, in Diritto commerciale degli scambi internazionali, 1990, pp. 190 ss.; SAVORANI G., Il fenomeno sponsorizzazione nella dottrina, nella giurisprudenza e nella contrattualistica, in Il diritto dell’informazione 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 27 Con tale direttiva ci si è prefissi di armonizzare la disciplina di tale tipologia di annuncio pubblicitario e di considerarlo come una forma a sé stante. Per quanto riguarda i controlli, la direttiva ha riconosciuto agli Stati membri la possibilità di prevedere meccanismi tali da permettere al titolare di un interesse legittimo o di un diritto, l’esercizio di un’azione giudiziaria o amministrativa nei confronti della pubblicità ingannevole e, nelle ipotesi più gravi, di chiedere la sospensione o il divieto di diffusione del messaggio (24). Alle autorità degli Stati membri, invece, la direttiva ravvisa la possibilità di attuare un controllo volontario sulla pubblicità, avvalendosi di organismi autonomi. Tale verifica può sostanziarsi in una tutela preventiva da parte dei suddetti organi o nella facoltà per i terzi di avviare una procedura speciale, innanzi agli istituti volontari. Un ruolo di rilievo è stato svolto dalla Corte europea di giustizia, che, nel risolvere una controversia tra due case produttrici di cosmetici, ha deferito al giudice nazionale il compito di pronunciarsi sull’eventuale carattere ingannevole della denominazione utilizzata, facendo riferimento all’aspettativa dei consumatori, ossia valutando se “un consumatore medio (25), normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto”, possa essere indotto in errore da detta qualificazione che attribuisce al prodotto caratteristiche o effetti che in realtà non possiede. La Corte di Giustizia non ha neppure escluso che, in caso di difficoltà del giudice nel valutare il carattere ingannevole della denominazione, che questi possa fare riferimento alle condizioni previste dal diritto nazionale, ad un sondaggio di opinioni oppure ad una perizia che gli fornisca adeguati chiarimenti ai fini della pronuncia. 12. La disciplina della pubblicità televisiva Il legislatore comunitario, con la Direttiva 89/552, è intervenuto a regolamentare la pubblicità televisiva, dettandone una serie di norme minime 28 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 e dell’informatica, 1991, pp. 635 ss.; GATTI S., voce: Sponsorizzazione, in Enciclopedia del diritto, 1990, pp. 510 ss.; MANSI F. P., Art. 153. Protezione dei consumatori, in TIZZANO A., Trattati dell’unione europea e della Comunità europea, Giuffrè, 2004, pp. 815 ss.; FORMICHETTI A., Note in tema di concorrenza sleale, pubblicità ingannevole e pubblicità comparativa-denigratoria, in Giustizia civile, 2000, pp. 1190 ss.; MARCHETTI P., UBERTAZZI L. C., Concorrenza sleale e pubblicità, Padova, 1998; MASCIOCCHI P., Concorrenza sleale e pubblicità ingannevole: alla luce della vigente normativa antitrust nazionale e comunitaria, Roma, Sandi Sapi, 2000; MELI V., La pubblicità comparativa fra vecchia e nuova disciplina, in Giurisprudenza commerciale, 1999, pp. 278 ss.; AUTERI, La pubblicità comparativa secondo la direttiva 97/55. Un primo commento, in Contratto ed impresa/Europa II, Padova, 1998, pp. 602 ss. (24) Per il testo della direttiva vedi: PARISI N., Casi e materiali di diritto europeo dell’informazione e della comunicazione, op. cit., pp. 395 ss.; Cfr. anche: BATRA R, MYERS J. G, AAKER D.A., Advertising management, Upper Saddle River, NJ Prentice Hall, 1996. (25) cfr. anche causa: C-220/98, Estee Lauder c. Lancaster, causa Gut Springenheide Gmbh e Rudolf Tusky c. Oberkreisdirektor des Kreises Steinfurt e cause C-315-92, causa Verband Sozialer Wettbewerb e V. c. Clinique Laboratoires snc. 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 28 contenenti i principi base ed elementari. In base all’art. 10 di tale direttiva “La pubblicità televisiva e la televendita devono essere chiaramente riconoscibili come tali ed essere nettamente distinte dal resto della programmazione con mezzi ottici e/o acustici; pubblicità e televendita non devono utilizzare tecniche subliminali; la pubblicità e la televendita clandestine sono vietate”. Secondo i principi espressi in questa disposizione, la pubblicità deve essere chiaramente distinguibile dal programma, attraverso, ad esempio, il riserbo di appositi spazi. L’intento è quello di proteggere il telespettatoreconsumatore da episodi di concorrenza sleale che pregiudicano la funzione educativa ed informativa della televisione, e che vengono attuati e perpetrati attraverso la pubblicità. La Direttiva contiene anche il divieto di realizzare pubblicità con tecniche subliminali e distingue quest’ultima dalla pubblicità occulta. La prima è quella che opera sul subcosciente dei fruitori dei messaggi pubblicitari, non è visibile dall’occhio umano, incide sulla libertà di scelta del telespettatore. La seconda, invece, è quella che è inserita intenzionalmente nei programmi, presenta il difetto di non essere identificabile come tale e di indurre il consumatore in errore, in merito alla reale natura della presentazione, arrecandogli un grave pregiudizio. Per l’art. 13 “È vietata qualsiasi forma di pubblicità televisiva e di televendita di sigarette e di altri prodotti a base di tabacco”. L’art. 15, invece, disciplina la pubblicità dei prodotti alcolici, rispetto ai quali non è previsto un divieto assoluto, ma solo una differenziazione in base al tipo di bevanda. La Direttiva contiene, altresì, indicazioni in merito alle forme di pubblicità cosiddette “indirette”, ossia quei messaggi pubblicitari che utilizzano i simboli o i segni distintivi di un’impresa, la cui attività principale consista nella produzione o vendita di tali prodotti (26). 13. Il criterio della trasparenza della pubblicità: la regolamentazione della pubblicità comparativa come ipotesi di pubblicità ingannevole Per pubblicità comparativa si intende “qualsiasi pubblicità che identifica in modo esplicito o implicito un concorrente o beni o servizi offerti da un concorrente”. Per essere lecita, tale tipo di pubblicità deve soddisfare una serie di condizioni, indicate nell’art. 3-bis della Direttiva 84/450/Cee. Più precisamente è necessario che: non sia ingannevole ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1 b-bis, e degli articoli 3 e 7, paragrafo 1 della presente direttiva o IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 29 (26) BERTO D., La pubblicità televisiva tra disciplina internazionale e regole nazionali, in Rivista di diritto europeo, 1999, pp. 46 ss.; BIOLAYT J. J., Libre circulation de la publicitè tèlèvisèe en Europe, in Droit et pratique du commerce international, 1990, pp. 420 ss; BODDEWYN J. H., Advertising self-regulation and outside participation. A multinational comparison, Westport, 1992; BRIANTE G. V., SAVORANI G., Il fenomeno sponsorizzazione nella dottrina, nella giurisprudenza e nella contrattualistica, in Rivista di diritto europeo, 1999, pp. 46 ss.; BUCCIROSSI G., Le diverse forme di pubblicità redazionale, Giuffrè, 1995. 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 29 degli articoli 6 e 7 della Direttiva 2005/29/CE dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno; confronti beni o servizi che soddisfano gli stessi bisogni o che si propongano gli stessi obiettivi; confronti obiettivamente una o più caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative, compreso eventualmente il prezzo di tali beni e servizi; non causi discredito o denigrazione di marchi, denominazioni commerciali, beni, servizi, attività o circostanze di un concorrente; si riferisca in ogni caso a prodotti aventi la stessa denominazione, nel caso di prodotti recanti denominazione di origine; non tragga indebitamente vantaggio dalla notorietà connessa al marchio, alla denominazione commerciale o ad altro segno distintivo di un concorrente; non rappresenti un bene o servizio come imitazione o contraffazione di beni o servizi protetti da un marchio o da una denominazione commerciale depositati; non ingeneri confusione tra i professionisti, tra l’operatore pubblicitario ed un concorrente o tra i marchi, le denominazioni commerciali, i beni o i servizi dell’operatore pubblicitario e di un concorrente. Quasi tutti i Paesi hanno recepito la Direttiva, così come modificata dalla Direttiva 97/55/Cee relativa alla pubblicità comparativa, inserendo spesso significative modifiche. A tal proposito è utile ricordare che in Gran Bretagna la pubblicità comparativa è regolata dal Codice di Autodisciplina (British Codes of Advertising and Sale Promotion), il quale prevede come lecita la “comparazione diretta”, consistente nel paragonare diversi tipi di beni dello stesso produttore, raffrontare il prezzo con quello a cui il prodotto è stato venduto in precedenza o a cui avrebbe dovuto essere venduto, effettuare un confronto immediato attraverso l’identificazione del concorrente o del suo prodotto. Il paragone tra i prezzi è consentito solo a condizione che non vi sia alcuna esagerazione del beneficio che l’acquirente può ottenere dall’acquisto del prodotto reclamizzato. La comparazione è ritenuta sleale qualora gli elementi utilizzati sono manipolati, distorti o selezionati con criteri non corretti. Sono vietate le comparazioni che si basano sulla denigrazione, ossia mostrano gli oggetti del concorrente in una situazione di sfavore, o in una luce del tutto negativa, ovvero quelle che si fondano o sulla menzogna o sullo sfruttamento della notorietà altrui. È, invece, consentito a fini pubblicitari, l’uso dei risultati scientifici dei collaudi comparativi. In Portogallo, della pubblicità comparativa si occupa l’art. 16 della L. 330/1990 che ricalca la stessa nozione contenuta nell’art. 1 della Dir. 55/1997 e che, nell’indicare le condizioni di liceità di questa, si rifà a quanto disposto dall’art. 3-bis della Dir. 84/450/ Cee. Nella stessa legge si stabilisce che, in caso di raffronto avente ad oggetto un’offerta speciale, deve essere indicato, in modo chiaro e non equivoco, il suo termine finale e, nel caso in cui l’offerta non sia ancora iniziata, anche la data di inizio e tutte le altre condizioni. L’onere probatorio della veridicità dei dati contenuti nel messaggio comparativo è a carico dell’utente. In Belgio è vietata qualunque pubblicità commerciale che utilizzi delle comparazioni ingannevoli o diffamatorie; implichi la possibilità di identificare uno o più commercianti anche se non concorrenti; possa creare confusio- 30 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 30 ne sul mercato tra commercianti, oppure tra marchi, denominazioni commerciali, prodotti o attività. La giurisprudenza belga consente la cosiddetta “comparazione necessaria”, il cui scopo è quello di evidenziare il carattere innovativo dei sistemi produttivi o dei servizi reclamizzati, rispetto agli altri presenti sul mercato, a condizione che non sia né ingannevole, né diffamatoria. Una particolare rilevanza è stata accordata, nei rapporti tra concorrenza e pubblicità, all’impiego dei test comparativi, atti ad accertare la qualità e la convenienza di prodotti e/o servizi aventi caratteristiche simili. In Francia, per pubblicità comparativa si intende quella che “mette in comparazione dei beni o dei servizi, utilizzando sia la citazione o la rappresentazione del marchio di fabbricazione, di commercio o di servizio altrui, sia la citazione o la rappresentazione della ragione sociale o della denominazione, del nome commerciale o dell’insegna altrui”. Questo tipo di pubblicità è consentita solo se leale, veritiera e tale da non indurre in errore il consumatore. La legge esige l’obiettività della comparazione, che deve fondarsi su elementi essenziali, significativi, pertinenti e verificabili, che caratterizzino i beni ed i servizi. All’operatore pubblicitario, quindi, può essere chiesto, in qualsiasi momento, di dimostrare la veridicità e l’esattezza delle indicazioni contenute nel messaggio pubblicitario. La comparazione deve limitarsi ai soli elementi materiali, mentre non deve coinvolgere né le opinioni individuali, né quelle collettive. Tali valutazioni non sono uno strumento utile ed efficace per evidenziare le caratteristiche essenziali ed obiettive di un prodotto. Per quanto riguarda la comparazione dei prezzi, la legge francese fissa anche alcune condizioni di legittimità, quali: l’oggetto esclusivo della comparazione deve essere il prezzo; i prodotti comparati devono essere identici, come anche le condizioni di acquisto; deve essere indicato il periodo durante il quale i prezzi pubblicizzati rimangono validi. L’inserzionista pubblicitario sopporta l’onere della comunicazione preventiva a favore dei produttori dei beni che saranno oggetto di comparazione, in modo che questi siano in grado di impedirne la diffusione, nel caso in cui il messaggio risulti illecito. In Germania della pubblicità comparativa si occupano i paragrafi 1 e 14 delle norme sulla concorrenza sleale (UWG). La pubblicità comparativa, benché vietata, risulta ammessa dalla giurisprudenza a condizione che risulti motivata da ragioni ben definite, e si mantenga nei limiti del “necessario”. Sono anche consentiti i confronti a scopo difensivo, e quelli tra sistemi produttivi tecnicamente differenti. Al di fuori di questi casi, tutte le ipotesi di comparazione sono considerate atti di concorrenza sleale. La giurisprudenza, quindi, più che ignorare il divieto della pubblicità comparativa ha introdotto dei criteri per temperarlo, consentendo così, una maggiore elasticità nella valutazione delle singole fattispecie e permettendo di adattare le esigenze della produzione e del mercato, con quelle di informazione e tutela del consumatore. Per la Spagna, infine, occorre riferirsi alla Ley de competencia desleal che definisce sleale la comparazione tra attività, prestazioni o aziende, che è realizzata basandosi su indici disomogenei, irrilevanti o non verificabili. Diversamente dal passato, la pubblicità comparativa non è ritenuta illegale, ma tutti concordano sulla necessità che esistano limiti e condizioni da rispettare. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 31 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 31 14. Il recepimento della Direttiva comunitaria e le diverse soluzioni nazionali L’art. 4 della Dir. 84/450/CEE impone agli Stati membri, sia nell’interesse dei concorrenti che in quello del pubblico, di verificare la sussistenza di mezzi adeguati ed efficaci per combattere la pubblicità ingannevole. Ai medesimi soggetti è affidata l’osservanza degli ordinamenti in materia di pubblicità comparativa, ed il compito di approntare disposizioni giuridiche, che conferiscano a persone o ad organizzazioni, aventi un legittimo interesse, la possibilità di ottenere il divieto della pubblicità ingannevole o la regolamentazione di quella comparativa. Ciò è realizzabile attraverso la promozione di un’azione giudiziaria contro tale pubblicità e/o l’assoggettamento di quest’ultima, nel caso di ingannevolezza, al giudizio dell’autorità amministrativa competente. Gli Stati membri devono anche conferire sia all’autorità giudiziaria, che a quella amministrativa, il potere di sospendere la pubblicità ingannevole o di avviare azioni giudiziarie per ottenere tale risultato, oppure qualora non abbia ancora avuto luogo la sua divulgazione, di vietare tale pubblicità o di avviare le azioni appropriate per proibirla, a prescindere dal possesso di prove in merito alla perdita o al danno effettivamente subito, o all’intenzionalità o alla negligenza dell’operatore pubblicitario. A tali autorità può essere rimesso il potere di far pubblicare la decisione definitiva di sospensione della pubblicità ingannevole o quello di fare divulgare una dichiarazione di rettifica. Le autorità amministrative devono essere composte in modo da risultare imparziali, e di godere di poteri tali da poter vigilare ed imporre, in modo efficace, l’esecuzione delle decisioni e la motivazione di queste ultime. I provvedimenti, di cui al 1° comma dell’art. 4, possono essere adottati nell’ambito di procedimenti d’urgenza ed avere sia un effetto provvisorio, che definitivo. Anche in questo caso, la scelta è rimessa agli Stati membri. L’articolo 5 della direttiva, occupandosi del controllo volontario sulla pubblicità ingannevole, esercitato da organismi autonomi, non ne escludeva la praticabilità da parte dei soggetti interessati. In realtà, il considerando numero 16, premesso alla medesima, si spingeva oltre, poiché incoraggiava i legislatori nazionali a valorizzare i sistemi autodisciplinari, in quanto idonei ad evitare azioni giudiziarie o ricorsi amministrativi. In base all’art. 6, i Paesi possono attribuire alle autorità, in occasione di un procedimento giurisdizionale civile o amministrativo, il potere di esigere, da parte dell’operatore pubblicitario, le prove circa l’esattezza materiale dei dati di fatto contenuti nella pubblicità, a condizione che ciò risultasse giustificato dalle particolari circostanze del caso specifico. In caso di pubblicità comparativa, gli Stati possono, anche, esigere che l’operatore pubblicitario fornisca tali elementi entro un periodo di tempo circoscritto. I dati possono essere considerati inesatti qualora le prove richieste non siano state fornite, o lo siano state in maniera insufficiente. Nel recepire la Direttiva 84/450/CEE, quasi tutti gli Stati membri hanno dato vita a dei sistemi di risoluzione delle controversie basati sia su procedure giudiziarie e/o amministrative, che su meccanismi di altro tipo. Tra queste procedure spiccano quelle arbitrali, conciliative, di mediazione o simili. Alcuni Stati, come 32 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 32 Germania, Spagna, Olanda, e Grecia, hanno affidato il controllo della pubblicità ingannevole al giudice ordinario, altri ad autorità amministrative, altri ancora ad entrambi, delineando in tal modo un sistema misto (è il caso dell’Italia, del Belgio, della Danimarca e della Francia). Agli organi amministrativi e giudiziari, sono stati conferiti sia i poteri di indagine, che di attività istruttoria, mentre sono privi dei poteri di iniziativa in via autonoma, potendo agire solo d’impulso e non d’ufficio. Risultano anche privi di poteri ispettivi diretti, che permetterebbero loro un’acquisizione diretta delle notizie e dei dati, senza richiederne l’intervento di organi esterni, e con la conseguente riduzione dei tempi e la maggiore incisività dell’azione. In molti Stati vi sono, inoltre, procedimenti di tipo abbreviato, come quelli di ingiunzione, o quelli corrispondenti al procedimento monitorio italiano. Ulteriori strumenti di tutela sono la pubblicazione della sentenza, la diffusione di annunci rettificativi, le pubblicità correttive. In quasi tutti i Paesi, l’onere della prova spetta all’operatore pubblicitario. In alcuni di essi, oltre a questo soggetto ve sono altri chiamati a risponderne: si tratta dell’agenzia pubblicitaria o del proprietario del mezzo di diffusione. L’esperienza maturata dai singoli Stati ha dimostrato che il sistema che offre le maggiori garanzie, e che si è dimostrato più efficace, è quello cosiddetto “misto”, poiché gli organi giudiziari garantiscono la tutela dei diritti soggettivi, e quelli amministrativi si occupano degli interessi legittimi. I sistemi di controllo della pubblicità si basano su un giudizio di ingannevolezza, ossia su un giudizio di tipo vero-falso, che l’autorità cui compete il controllo esercita in relazione a tutte le affermazioni pubblicitarie, capaci di influenzare le decisioni e le scelte del destinatario della comunicazione (27). IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 33 (27) Cfr. l’art. 6 che individua tre tipologie di pratiche commerciali ingannevoli. Il comma 1 della citata disposizione individua le prime due ipotesi in forza delle quali è ingannevole la pratica commerciale che: a) contenga informazioni false e sia pertanto non veritiera e b) pur presentando informazioni in sè veritiere, inganni o possa ingannare il consumatore medio. L’art. 7 definisce poi le omissioni ingannevoli di cui il consumatore medio necessita ai fini della scelta commerciale. La fattispecie ingannevole si configura nelle seguenti ipotesi: omissione in senso stretto, ovvero mancata informazione di informazioni rilevanti; occultamento, ambiguità, incomprensibilità o intempestività di informazioni rilevanti, e qualora il mezzo di comunicazione impiegato per comunicare la pratica commerciale imponga restrizioni in termini di spazio o di tempo, si configura omissione ingannevole qualora il professionista non adotti tutte le ulteriori misure idonee a mettere le informazioni a disposizione del consumatore e definisce una serie di ipotesi configuranti omissione ingannevole nel caso di invito all’acquisto. In tale ipotesi, sarà da ritenersi ingannevole l’omissione di informazioni in ordine alle caratteristiche principali del prodotto in misura adeguata al mezzo di comunicazione o in ordine all’indirizzo geografico o all’identità del professionista. Cfr. anche: BORRELLI F. S., Autodisciplina pubblicitaria e leggi nazionali, in Rivista di diritto industriale, 1981, pp. 368 ss.; MAIONE N., Le pratiche commerciali sleali nella direttiva 2005/29/CE; G. ALPA e G. CAPILLI, Lezioni di diritto privato europeo, Cedam, 2007, pp. 1063 ss.; BECKER G. S., Information misleading and punishment: an economic approach, in The journal of advertising economy, 1968; DE LA CUESTA RUTE J. M., Regime juridico e la publicidad, Madrid, 1974; TATO PLAZA A., Aspectos generales del règimen juridico de las promociones publicitarias, in Revista de autocontrol de la publicidad, Madrid, 2002, pp. 28 ss.; 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 33 15. (segue) La Danimarca La legislazione danese, quella svedese e quella finlandese, prevedono la figura dell’Ombudsman (o difensore civico). In base alla costituzione svedese del 1809 si trattava di un’istituzione creata dallo Stato, preposta alla difesa dei diritti fondamentali del cittadino ed alla supervisione delle attività svolte dalla pubblica amministrazione. A partire dagli anni ’50 questa figura ha iniziato a diffondersi, anche al di fuori dell’area scandinava, assumendo competenze nuove, come la tutela dei consumatori. Nei paesi sopracitati, si devono a tale organo alcune raccomandazioni destinate a regolare la condotta da tenere nella commercializzazione di prodotti e servizi, includendovi quelli venduti tramite internet, e prevedendo l’obbligo di fornire informazioni veritiere sui beni e servizi offerti dalle aziende. Nei confronti delle imprese inadempienti, l’Ombudsman può indirizzare delle ingiunzioni. In Danimarca, la pubblicità ingannevole è disciplinata dalla Legge sulle Pratiche Commerciali del 1974, modificata dalla Legge del 19 marzo 1986, e successivamente rivista dall’atto n. 688 del 17 ottobre del 1986, con cui la Direttiva 84/450/Cee ha ricevuto attuazione. La normativa danese vieta la diffusione di “indicazioni false, ingannevoli, o ingiustificatamente incomplete tali da influenzare la domanda o l’offerta di merci, di beni immobili o mobili, di prestazioni di lavori e di servizi”. É altresì vietata qualsiasi pratica che, per la forma o per il nesso con circostanze particolari, risulti sleale nei confronti degli altri operatori economici o dei consumatori. L’ingannevolezza o meno di un messaggio pubblicitario è stabilita in riferimento ad un consumatore-medio. Criteri più rigorosi sono adottati quando il messaggio pubblicitario è destinato a consumatori deboli come, ad esempio, i minori. Il mezzo di divulgazione del messaggio ha la sua importanza ai fini della valutazione dell’ingannevolezza. La giurisprudenza ha, infatti, giudicato meno pericolosa la pubblicità contenuta all’interno di quotidiani, rispetto a quella divulgata attraverso la televisione (28). L’onere della prova ricade sull’imprenditore, che qualora rifiuti di fornire le prove o sia ritenuto colpevole è assoggettato a sanzioni penali, di natura pecuniaria e detentiva. 34 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 BERTI C., Pubblicità scorretta e diritti dei terzi, Giuffrè, 2000; CABANILLAS GALLAS P.,Principios juridicos de la publicidad espaòola, Madrid, 1967; FONTANA G., La pubblicità ingannevole e comparativa, in L’amministrazione italiana, 2000, pp. 924 ss.; FLORIDIA G., Per una corretta attuazione della direttiva CEE n. 84/450 sulla repressione della pubblicità ingannevole, in Panorami, 1991, pp. 210 ss.; MELI V., La repressione della pubblicità ingannevole, Torino, 1994; SORDELLI L., Autodisciplina pubblicitaria: rapporti fra autodisciplina e legge statuale, in Rivista di diritto industriale, 1975, pp. 54 ss.; CAFARO R., La tutela dei consumatori:disciplina comunitaria e normativa interna, Napoli, 2002. (28) CAGGIANO G., La convenzione europea sulla televisione transfrontaliera, in La Comunità internazionale, 1989, pp. 795 ss.; CAVALLI M., La Convenzione europea sulla televisione transfrontaliera, in Nuove leggi civili commentate, 1992, pp. 1174 ss.; CAMPBELL P., YAQUB Z., The european handbook on advertising law, London, 1999; COLLOVÁ T, La regu- 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 34 IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 35 Il controllo sul rispetto di tali norme è affidato al Forbrugerombudsman, organo amministrativo che funge da mediatore per i consumatori (art. 15.1). La legittimazione ad agire è riconosciuta in capo a persone fisiche, organizzazioni, ovvero a chiunque constati pratiche sleali e abbia l’interesse legittimo a richiedere il risarcimento in caso di lesioni o il divieto della diffusione del messaggio. Anche il mediatore può, di sua iniziativa, promuovere casi di non conformità. Valutata la fondatezza del reclamo esposto, l’Ombudsman deve comunicare al reclamante l’avvio di un’indagine in merito alla segnalazione effettuata. Qualora il reclamo fosse presentato in ritardo, ossia passato un anno dal verificarsi dell’attività sleale, tale organo dovrà informare il denunciante del mancato avvio dell’atto tutelativo. Il denunciante potrà in alternativa esercitare un’azione privata dinanzi ai Tribunali. L’Ombudsman, in principio, tenta di risolvere la questione attraverso un provvedimento di conciliazione in modo tale da prevenire o risolvere il problema senza l’utilizzo di strumenti giudiziali. Se tale tentativo fallisce procede con un’ingiunzione interlocutoria oppure direttamente in giudizio. Nel primo caso, qualunque provvedimento restrittivo adottato deve essere confermato dal Tribunale il primo giorno della settimana successiva, se ciò non avviene decade e rimane privo di effetti. Allorché la decisione non intervenga prima che siano decorsi 5 giorni dall’inizio del procedimento, il tribunale, prima della scadenza di tale termine, farà in modo che l’ingiunzione continui a spiegare i suoi effetti. Nel secondo caso invece, il giudice adotta le misure restrittive ritenute necessarie e se il messaggio è reputato ingannevole emette un’ingiunzione con cui ordina la cessazione della pratica commerciale scorretta. Insieme a tali disposizioni, o successivamente, può emettere una disposizione per assicurare il rispetto del divieto e il ritorno alla situazione esistente prima della violazione. In aggiunta, qualora vi sia il pericolo evidente che l’attesa della sentenza del Tribunale possa rendere vano l’effetto del divieto, è possibile da parte del mediatore pubblicare un ordine provvisorio di proibizione (art. 21). Con riferimento all’Autodisciplina, in tale paese, opera il Consiglio della Pubblicità (Reclame Radet), la cui attività risulta limitata a pochi casi grazie alla funzione di controllo svolta dall’Ombudsman. Le disposizioni finlandesi che disciplinano la pubblicità sono molto più severe rispetto a quelle della normativa comunitaria, vietando l’uso di procedure di commercializzazione contrarie al requisito della buona fede, nonché la diffusione di informazioni false o ingannevoli. Il soggetto incaricato a verificarne il rispetto, come in Danimarca, è il mediatore dei consumatori (Kuluttajaasiamies), il quale segnala i casi accertati o presunti d’illegalità al Tribunale per la protezione dei consumatori (Markkinaoikeus), che poi ne emetterà il divieto. Se il mediatore rifiuta di portare la causa in tribunale, di ciò può farsene carico un’Associazione riconosciuta di lavoratori o di consumatori. lation della sponsorizzazione televisiva nell’Europa comunitaria, in Diritto dell’autore, 1991, pp. 482 ss.; ZACCARIA R., Diritto dell’informazione e della comunicazione, Cedam, 2007, pp. 232 ss. 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 35 Qualora le parti non raggiungano un accordo, il compratore, per risolvere il contenzioso, può prendere contatto con il consulente locale che rappresenta la categoria (kunnallinen kuluttajaneuvoja). La questione può anche essere portata dinanzi al Tribunale o alla commissione competente per le denunce dei consumatori. 16. L’azione sanzionatoria della pubblicità ingannevole in Germania La Germania aveva accordato una tutela indiretta del consumatore, attraverso le norme in tema di concorrenza sleale (UWG – Gesetz Gegen den Unlauteren Wettbewerb del 7 giugno 1909, par. 3 e 4), collocandosi, così, tra i primi Paesi aventi una disciplina in materia di pubblicità ingannevole. Secondo la dottrina tedesca non è necessario che il messaggio pubblicitario contenga dati falsi o inesatti per essere qualificato come ingannevole, bensì è sufficiente che possa indurre o che abbia indotto in errore i consumatori. Ai fini della valutazione dell’ingannevolezza si deve tener conto del target del pubblico a cui l’annuncio viene rivolto, e di ciò che esso possa aver trasmesso loro. Dal 1965 le azioni contro i messaggi pubblicitari ingannevoli non sono più riservate agli imprenditori concorrenti, in quanto la legittimazione è stata estesa alle Associazioni dei consumatori (Legge del 21 luglio 1965). Queste ultime possono rivolgersi ai tribunali ordinari, purché risultino soddisfatte determinate condizioni come: possedere la capacità giuridica per poter esperire un’azione legale e prevedere nello statuto, tra le finalità, la tutela degli interessi dei consumatori. Tra le Associazioni più attive c’è la Verbraucherschuteuerein (VSV), costituita nel 1996, con il compito di garantire il rispetto delle norme contro la concorrenza sleale, e di occuparsi dei reclami in materia di condizioni contrattuali inique. Non è stato, invece, modificato l’onere della prova, che rimane a carico dell’attore, nel caso in cui, però, questi incontri delle difficoltà, spetterà alla parte convenuta, che sarà chiamata a dimostrare la veridicità delle proprie affermazioni. È anche prevista la possibilità di fare ricorso al procedimento d’urgenza e ad una procedura di merito rimessa all’Autorità giudiziaria ordinaria. Questi ultimi, tra loro indipendenti, possono essere azionati contemporaneamente, anche se solitamente è preferibile per primo avviare la procedura d’urgenza. Il loro scopo è quello di ottenere l’ordine di cessazione della pubblicità, il risarcimento dei danni ed il ripristino dello status quo ante. Sono meccanismi che si attivano a seguito di una diffida, ossia di quel provvedimento con cui si intima all’imprenditore di interrompere la pratica commerciale scorretta e con cui lo si invita a risolvere la questione stragiudizialmente. Se l’impresa accetta, la controversia viene chiusa con la sottoscrizione di un accordo di natura contrattuale con cui l’imprenditore si impegna a porre fine alla pubblicità ingannevole ed a pagare, nel caso di insolvenza, una penale. Qualora la proposta non venga accolta, è possibile ottenere un provvedimento d’urgenza. Sono poi previste sanzioni penali contro chi, con l’intenzione di far sembrare un’offerta particolarmente conveniente, fornisca informazioni non vere, e idonee a provocare inganno, in comunicazioni diffuse al pubblico o destinate ad una cerchia più ampia di persone. La penalità prevista per que- 36 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 36 sto tipo di illecito è la reclusione, fino a due anni, oppure il pagamento di un indennizzo (art. 16). Il sistema di Autodisciplina della pubblicità risale al 1972, anno in cui fu istituito il Consiglio tedesco della pubblicità (Deutscher Werberat). Il ricorso a tale organo può essere effettuato, per iscritto o per via telefonica, da chiunque ne abbia interesse. L’identità del ricorrente può essere mantenuta segreta a patto che non si tratti di associazioni, enti, o pubbliche autorità. Ove il ricorso appaia fondato e il messaggio ingannevole, il Consiglio inviterà l’operatore a cessarne la diffusione, in caso contrario, procederà all’archiviazione del reclamo immotivato. 17. La disciplina spagnola della pubblicità ingannevole In Spagna, la Direttiva 84/450/CEE ha ricevuto attuazione con la Ley General de Publicidad dell’11 novembre 1988, il cui art. 2 definisce la pubblicità come “qualunque forma di comunicazione realizzata da una persona fisica o giuridica, pubblica o privata, nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, allo scopo di promuovere in modo diretto o indiretto, l’acquisto di mobili o immobili, servizi, diritti e obbligazioni”, mentre considera illecita quella che offenda la dignità umana, i valori ed i diritti riconosciuti dalla Costituzione. L’art. 4 considera ingannevole la pubblicità che “in qualsiasi modo, inclusa la sua presentazione, induce o può indurre in errore i suoi destinatari, potendone influenzare il comportamento economico o pregiudicare o ledere un concorrente”, oppure, quella che “tacendo informazioni essenziali sui beni, sulle attività o sui sevizi promossi induca, o possa indurre in errore i destinatari del messaggio pubblicitario”. Affinché si realizzi l’ingannevolezza non è necessario che il danno si produca realmente, piuttosto è sufficiente la mera induzione in errore. Per valutarne l’esistenza o meno, l’art. 5 della Ley General de Publicidad suggerisce di tenere presenti tutti gli elementi del messaggio pubblicitario e in modo particolare le indicazioni relative a: caratteristiche di prodotti, attività, o servizi (come origine o provenienza geografica o commerciale, qualità, quantità, natura). A determinare il carattere ingannevole dell’informazione si aggiungono l’utilizzo di espressioni: ambigue, sconosciute, con una pluralità di significati o sincere, a tal punto da condurre a conclusioni che non corrispondano alla realtà. La Ley Generale de Publicidad contiene anche disposizioni in materia di pubblicità sleale. Un messaggio è considerato tale quando: il suo contenuto, la sua forma di presentazione o la sua diffusione causino, direttamente o indirettamente, discredito o denigrazione ad una persona fisica o giuridica, ai suoi prodotti, servizi, attività, circostanze, marche, o ad altri segni distintivi (art. 6 a); crei confusione con le attività, i prodotti o i segni distintivi di altre imprese concorrenti; faccia uso, in maniera ingiustificata della denominazione, della marca o del marchio di altre aziende o società; sia contrario alle prassi oneste ed ai corretti usi commerciali (art. 6 b); non sia basato su caratteristiche essenziali, simili e oggettivamente verificabili di prodotti o servizi oppure raffronti i prodotti o servizi con altri diversi. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 37 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 37 È, altresì, espressamente vietata la pubblicità subliminale che, per la sua stessa tecnica di produzione, agisce sul destinatario, senza che questi sia in grado di percepirla, in quanto non accompagnata da adeguati effetti sonori o visivi. L’ordinamento spagnolo conferisce la competenza, in materia di pubblicità illecita, alla giurisdizione ordinaria. Questa è una delle innovazioni introdotte da tale legge rispetto all’Estatuto de la Publicidad del 1964, nel quale veniva contemplata la figura di un organo amministrativo: il “Jurado Central de Publicidad”. É tuttavia previsto un procedimento stragiudiziale, ossia conciliativo, al fine di sollecitare la cessazione o la pubblicazione di annunci rettificativi al messaggio reputato ingannevole. I soggetti legittimati ad agire sono: le Asso-ciazioni dei consumatori; i titolari di un diritto o di un interesse legittimo; l’Istituto Nazionale del Consumo; ecc. Per tale procedimento è previsto l’intervento di due diversi organi: le giunte arbitrali, cui è affidata l’organizzazione amministrativa; ed i collegi arbitrali, competenti nella risoluzione delle controversie. La richiesta va presentata per iscritto e la cessazione può essere pretesa dall’inizio fino alla fine della campagna pubblicitaria. In caso di mancata cessazione dell’attività recettiva, il denunciante può adire agli organi giudiziari ordinari. L’art. 29 disciplina il procedimento di fronte al giudice ordinario, prevedendo il rigetto della domanda, ove questa sia infondata. Su istanza del richiedente, il giudice può, considerati tutti gli interessi coinvolti, e con carattere cautelare: ordinare la cessazione provvisoria della pubblicità illecita o adottare mezzi necessari per ottenere tale cessazione (art. 30 a); oppure proibirla temporaneamente; o adottare misure adeguate per impedirne la diffusione (art. 30 b). Parallelamente al procedimento giudiziario di cessazione o rettifica della pubblicità ingannevole, esiste un controllo amministrativo a carattere sanzionatorio per beni, servizi o attività, che possano arrecare rischi alla salute e alla sicurezza delle persone. Tra questi troviamo: materiali o prodotti sanitari, stupefacenti, tabacco, bevande alcoliche, ecc. (art. 8). In caso di trasgressione l’autore dell’illecito sarà punito in base alle norme previste dalla Ley General para la Defensa de los Consumidores y Usuarios e dalla Ley General de Sanidad (art. 8.6). A differenza della normativa belga e lussemburghese, quella spagnola presume come unico responsabile l’inserzionista, e non l’agenzia, o chiunque abbia contribuito al verificarsi dell’illecito. Si suppone, infatti, che essendo la persona interessata alla diffusione del messaggio, ne controlli lo sviluppo della campagna pubblicitaria. Con riferimento invece al sistema di Autodisciplina, malgrado la normativa spagnola non preveda forme di collaborazione con organi privati di autoregolamentazione, esistono tuttavia Associazioni volontarie di autocontrollo che operano indipendentemente dall’Autorità Statale: ne è un esempio, l’Associazione Spagnola delle Agenzie della Pubblicità (AEAP-Asociacion Espanola de Agencias de Publicidad). 18. La disciplina repressiva in Olanda In Olanda la materia della pubblicità ingannevole è disciplinata dagli artt. 194-196 del Codice Civile del 1992 e da diverse norme regolamentari di 38 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 38 natura settoriale riguardanti etichettature, pesi, e quantità, che li vanno ad integrare. Ai sensi della legislazione olandese la pubblicità è menzognera e quindi illegale se “l’annuncio è fatto nell’esercizio di un’attività commerciale o professionale, è pubblico, e può trarre in inganno sotto uno o più aspetti”. Chi ha subito o può potenzialmente subire un danno da tale forma pubblicitaria può promuovere un’azione dinanzi alla giurisdizione civile, al fine di vietarne o rettificarne la pubblicazione. Le azioni legali possono essere intentate anche da persone giuridiche, quali le Organizzazioni dei consumatori, le Associazioni ambientali, ecc., il cui statuto preveda la tutela degli interessi dei consumatori. La legge presume l’inversione dell’onere della prova a favore dei soggetti che intraprendano un’azione inibitoria o di rettifica, e contro chi determini personalmente il contenuto o la presentazione dell’annuncio, ovvero contro chi lo commissioni. Se il ricorrente afferma che la comunicazione è ingannevole, spetta al convenuto giustificarne il carattere non ingannevole, a patto che ciò non sia irragionevole. L’Autodisciplina pubblicitaria basandosi sulle norme contenute nel Codice Olandese della pubblicità, il Nederlandse Reclame Code, svolge un ruolo molto importante e spesso sostitutivo della disciplina statuale. Nel caso di forme di pubblicità non contemplate dallo stesso, gli organi competenti ad intervenire sono: la Commissione del Codice della Pubblicità, in prima istanza; e il Collegio d’Appello, in seconda istanza. Entrambi sono composti da quattro sezioni specializzate: la Camera del Direct Marketing; la Camera per la pubblicità audiovisiva; le Camere I e II destinate alle altre forme di propaganda. Chiunque ritenga che una pubblicità sia contraria a quanto disposto dal Codice può presentare reclamo scritto alla Commissione, il cui Presidente, dopo un’analisi della documentazione, ne invia una copia all’operatore pubblicitario responsabile. Se la pubblicità viene ritenuta ingannevole la Commissione provvede con provvedimenti che diventano definitivi se entro 14, o 7 giorni nei casi più urgenti, non vengono impugnati davanti al Collegio d’Appello. Le sanzioni comminate sono: ammende, risarcimento danni e pubblicazione di annunci rettificativi. Solo il Tribunale civile è autorizzato a sospendere o a rettificare la pubblicità ingannevole. 19. (segue) La Grecia La Grecia ha disciplinato la pubblicità ingannevole con il Decreto Legge n. 5206 del 1989 integrato da un regolamento emesso nel 1991 dal Consiglio nazionale della radiotelevisione, anche se, in realtà già dal 1977 esisteva, in questo Paese, una Legge sulla concorrenza sleale (n. 703/77) che sanzionava, con la reclusione, tutti coloro che, con falsi messaggi pubblicitari, ingannavano il pubblico o il consumatore medio. Tale decreto vieta, per pubblicizzare un prodotto, l’uso di ricerche, risultati e test, nel caso in cui queste non presentino un fondamento scientifico. Competente in materia di pratiche commerciali scorrette risulta il Giudice Ordinario. Anche in Grecia il sistema di Autodisciplina riveste un ruolo considerevole. L’Associazione delle agenzie di pubblicità ha adottato una versione IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 39 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 39 greca del Codice delle Pratiche Leali della pubblicità in vigore presso la Camera di Commercio Internazionale. Nel caso in cui i messaggi pubblicitari non siano conformi al codice ellenico, sono due gli organi preposti all’applicazione delle norme in esso contenute: il Comitato di Controllo, competente in prima istanza e quello Misto, di seconda istanza. Questa comunicazione può essere notificata anche al Ministero degli Affari Economici ed al Consiglio Economico Sociale. Nell’ipotesi di ingannevolezza la procedura da seguire prevede la presentazione del reclamo al Comitato di Controllo, indicandone i dati del reclamante, e gli articoli che si considerano violati. Qualora la segnalazione, dopo una valutazione preventiva, appaia fondata, il Comitato può intervenire o con la procedura d’urgenza, per i casi particolari (come ad esempio quelli in cui la pubblicità possa arrecare danno alla salute del consumatore), oppure, con la procedura ordinaria. L’onere di provare l’esattezza del contenuto del messaggio è a carico dell’operatore pubblicitario. Le deliberazioni sono decise in Camera di Consiglio e sono immediatamente esecutive. Se l’operatore pubblicitario, dopo 20 giorni dal ricevimento della decisione del Comitato di Controllo, non rispetti quest’ultima, è possibile fare ricorso al Comitato Misto le cui decisioni risultano conclusive. 20. L’attribuzione delle competenze ad autorità amministrative. Il Portogallo In Portogallo, la Direttiva 84/450/Cee è stata recepita con il D.L. n. 330 del 1990 (Código da Publicidade). L’art. 3 di tale decreto definisce la pubblicità come “qualsiasi forma di comunicazione che sia diffusa da una persona fisica o giuridica nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo, diretto o indiretto, di: a) promuovere la vendita di beni o servizi; b) promuovere idee, principi, iniziative o istituzioni”, mentre all’art. 7 è affidata la disciplina della pubblicità illecita, indicandone i casi in cui essa è vietata. É, altresì, proibita la pubblicità che faccia appello alla violenza, o ad altre attività illegali o criminali, minacci la dignità umana, utilizzi espressioni oscene, incoraggi comportamenti antigiuridici, ecc. Della pubblicità ingannevole se ne occupa l’art. 11, impedendo qualsiasi messaggio che ”in qualsiasi modo, inclusa la sua presentazione, induca o possa indurre in errore le persone a cui è rivolta, a prescindere da un reale pregiudizio economico, o possa ledere un concorrente”. Per valutare l’ingannevolezza del messaggio viene suggerito di tener conto di una serie di elementi, quali: le caratteristiche di beni e servizi (disponibilità, natura, composizione, data di produzione, quantità, origine geografica o commerciale, ecc.); il prezzo e il modo di fissazione; le condizioni d’acquisto; la natura, le caratteristiche e i diritti dell’operatore pubblicitario (qualifica, diritti di proprietà industriale, commerciale o intellettuale). Il D.L. 330/1990 esige che la pubblicità sia veramente informativa, per questo, le notizie attinenti gli elementi suddetti devono essere veritiere e dimostrabili. L’Autorità competente in materia di pubblicità ingannevole è l’Istituto dei Consumatori (Instituto do Consumidor), organismo che fa parte 40 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 40 dell’amministrazione pubblica, la cui missione è promuovere e salvaguardare i diritti del consumatore. Le azioni svolte da tale istituto sono: l’appoggio dato ai singoli consumatori tramite supporto informativo; la ricezione e l’inoltro dei reclami; lo sviluppo di centri di arbitraggio per i conflitti di interesse; altre azioni di servizio pubblico. Su richiesta dell’Istituto, l’operatore pubblicitario deve fornire la prova circa la veridicità dei dati contenuti nel messaggio pubblicitario, nel caso in cui tale testimonianza risulti insufficiente, i dati saranno considerati inesatti. All’art. 34 del D.L. sono previste sanzioni pecuniarie il cui ammontare varia a seconda della tipologia del trasgressore (persona fisica o giuridica). I soggetti ritenuti responsabili sono: l’operatore pubblicitario; il proprietario del mezzo di diffusione; l’agenzia pubblicitaria; e chiunque abbia contribuito alla realizzazione e diffusione del messaggio ritenuto ingannevole. Ai casi più gravi possono essere applicate sanzioni accessorie, come: l’interdizione temporanea, per un massimo di 2 anni, dall’esercizio dell’attività pubblicitaria; la privazione del sussidio diretto o del beneficio erogato per enti o servizi pubblici; la chiusura temporanea delle imprese dove viene svolta l’attività pubblicitaria. In alcune circostanze la Commissione può, su proposta degli enti preposti al controllo della pubblicità, emettere dei provvedimenti cautelari. Tra le sanzioni vi è anche la pubblicazione di tali provvedimenti, a spese dell’operatore, e la diffusione di una pubblicità correttiva. L’applicazione dei provvedimenti afflittivi spetta ad una Commissione composta dai seguenti membri: a) Presidente dell’Istituto dei Consumatori; b) Presidente dell’Istituto di Comunicazione Sociale; c) Presidente della Commissione, ossia il magistrato nominato dal Consiglio Superiore della Magistratura (Art. 39). La Commissione può, anche, in assenza di prove in merito al danno o alla perdita subita, ordinare la cessazione della pubblicità recettiva, oppure vietarne la diffusione, qualora non sia stata ancora portata a conoscenza del pubblico. Per quanto attiene invece l’Autodisciplina, nel 1991 si costituisce ufficialmente l’Istituto Portoghese di Autodisciplina Pubblicitaria (ICAPInstituto Civil da Autodisciplina da Publicidade), il cui compito è quello di fornire pareri preventivi in merito alla correttezza del messaggio pubblicitario e circa la rispondenza della pubblicità già diffusa alle disposizioni del codice. L’organo giudicante è il Jurì (JEP-Júri de Ética Publicitária), e i suoi provvedimenti hanno la natura di raccomandazioni. Ad esso possono presentare reclamo diretto solo le persone giuridiche; i singoli cittadini, infatti, devono agire tramite le Associazioni di categoria. 21. La pubblicità ingannevole in Francia In Francia, nel secondo dopoguerra, la disciplina della pubblicità ingannevole era ricompresa nell’ambito della normativa sulla concorrenza sleale, e quindi, attuata in modo inadeguato facendo ricorso alle norme generali sull’illecito civile e sulle frodi in commercio. Solo a partire dal 2 luglio del 1963, anno in cui venne emanata la Loi des Finances, gli illeciti in materia pubblicitaria divennero di natura penale. Tale legge finanziaria vietava “qual- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 41 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 41 siasi pubblicità effettuata in malafede comportante false affermazioni o inducente in errore, quando tali affermazioni siano precise e si riferiscano ad uno o più dei seguenti elementi...”, (elementi di cui veniva riportata una dettagliata elencazione: esistenza dei beni; natura; composizione; prezzo; qualità essenziali; e numerosi altri dettagli). Il 27 dicembre del 1973, in seguito alle pressioni delle Associazioni dei consumatori, insoddisfatti della precedente legge, vi fu un nuovo intervento legislativo in materia, tradotto nella Loi d’Orientation du Commerce et de l’Artisanat (c.d. “Loi Royer”) tuttora in vigore. Essa vieta agli artt. 44, 45, e 46 “qualsiasi pubblicità effettuata comportante sotto qualsiasi forma affermazioni, indicazioni o presentazioni false o tali da indurre in errore allorquando si riferiscano ad uno o più dei seguenti elementi…”. Mentre nella legge del 1963 il legislatore penale richiedeva la malafede per il configurarsi dell’illecito, nella nuova normativa la prova di tale requisito, in capo all’autore del mendacio pubblicitario, è ritenuta, dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, superflua. La Loy Royer punisce le suddette rappresentazioni alla stregua delle affermazioni false, e la pubblicità ingannevole per il solo fatto che possa, anche solo potenzialmente, trarre in inganno il consumatore medio. Essa inoltre prevede un certo numero di misure cautelari, finalizzate alla cessazione della pubblicità ingannevole, da applicarsi prima di addivenire ad una decisione definitiva, e deferisce la competenza in materia ai tribunali penali ordinari. A livello processuale, la Loi d’Orientation du Commerce et de l’Artisanat introduce il principio, gravante sull’inserzionista, dell’inversione dell’onere della prova, circa la veridicità e non l’ingannevolezza del messaggio pubblicitario. Essa ha anche riconosciuto la legittimazione attiva delle Associazioni dei consumatori maggiormente rappresentative, a costituirsi parte civile “relativamente ai fatti che portano un pregiudizio diretto o indiretto all’interesse collettivo dei consumatori”. Due leggi successive, quella n. 23 del 10 gennaio 1978 (Loi sur la protection et l’information des consommateurs de produits et de services, cosiddetta “Loi Scrivener”) e quella n. 60 del 18 gennaio 1992 (Loi renforçant la protection des consommateurs) ne hanno, da un lato inasprito le sanzioni, e dall’altro, previsto la liberalizzazione della pubblicità comparativa, fissandone però limiti ben precisi. Da queste ultime norme ricordate, emerge la particolare attenzione, riservata dal legislatore francese, alla tutela dell’interesse del consumatore, che è garantito sia davanti ai tribunali ordinari che ai giudici penali. La Loi sur la protection et l’information des consommateurs viene codificata, per la parte legislativa, nel Code de la Consommation dagli artt. 121- 1 fino al 121-7. In base al primo punto è vietata qualsiasi pubblicità “che comporti, sotto qualsiasi forma, affermazioni, indicazioni o presentazioni false o di natura tale da indurre in errore il consumatore, quando queste riguardino uno o più dei seguenti elementi…”. Il suo campo di applicazione interessa sia i beni mobili, gli immobili e i servizi, che i professionisti e i privati. Gli organi competenti a rilevare le infrazioni di quanto disposto all’art. 121-1, attraverso la redazione di verbali, sono i funzionari di: Direzione 42 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 42 Generale della Concorrenza, del Consumo e della Repressione della Frode – Direzione Generale dell’Alimentazione del Ministero dell’Agricoltura – Servizio di Metrologia del Ministero dell’Industria. Tali soggetti possono esigere dall’operatore pubblicitario tutti gli elementi di prova della veridicità delle informazioni. La cessazione della pubblicità ritenuta ingannevole, può essere ordinata dal Giudice Istruttore o dal Tribunale, sia su richiesta del Pubblico Ministero, che d’ufficio. In caso di condanna, il Tribunale ordina la pubblicazione della sentenza, può, inoltre, ordinare la diffusione, a spese del condannato, di uno o più annunci rettificativi. L’inserzionista per conto del quale la pubblicità è diffusa, è responsabile, a titolo principale, dell’infrazione commessa, qualora, invece, egli sia una persona giuridica o un ente morale, la responsabilità ricade sui dirigenti. (art. 121-5). La pubblicità ingannevole è punita con una ammenda e con una pena detentiva che va da un minimo di tre mesi ad un massimo di due anni. Nel caso in cui fossimo lesi da tale tipo di pubblicità dovremo, innanzitutto, fare in modo che la pubblicità venga modificata o interrotta, intervenendo presso l’inserzionista, o la Direzione dipartimentale della concorrenza, del consumo e della repressione della frode (art. 121-2), oppure dinanzi un’Associazione di consumatori, in grado di far cessare tale pubblicità delittuosa. L’importante pregiudizio arrecato dalla pubblicità di un prodotto o servizio che nella realtà non ha le caratteristiche o qualità promesse fa si che il consumatore possa inoltrare il reclamo presso il Procuratore della Repubblica, indirizzando una lettera al Tribunale di prima istanza. Se invece il pregiudizio non è né importante, né difficile da quantificare, il consumatore leso può presentare reclamo, direttamente, all’inserzionista o al responsabile del supporto (giornale, direttore del negozio, direttore di radio, …) ed all’ufficio di verifica della pubblicità (Bureau de Verification de la Publicité). Nell’ordinamento francese è previsto l’istituto particolare della “Mediation”, alternativo al processo ordinario e consistente nella nomina di un soggetto terzo, avente lo scopo di condurre le parti ad una soluzione di comune soddisfazione. 22. Il Belgio In Belgio, la pubblicità ingannevole fu regolamentata per la prima volta dall’art. 20 della Legge sulle Pratiche Commerciali del 14 luglio 1971, successivamente modificata dalla legge del 4 agosto 1978, del 14 novembre 1983, del 26 luglio 1985 e del 14 luglio 1991 (Loi sur les Pratiques du Commerce et sur l’Information et la Protection du consommateur). Quest’ultima riconosce la pubblicità commerciale, ma non fornisce una definizione legale di pubblicità ingannevole, che va indi interpretata secondo l’uso corrente. Si vieta la pubblicità che diffonda indicazioni suscettibili di indurre in errore il pubblico circa le caratteristiche di un prodotto o servizio (identità, natura, composizione, origine, qualità), ovvero che contenga elementi denigratori nei confronti di un altro venditore, dei suoi prodotti, dei servizi o della sua attività. Per considerare un messaggio ingannevole è sufficiente che sussista la mera possibilità di arrecare un pregiudizio economico utilizzando come per- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 43 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 43 sona di riferimento il consumatore medio normalmente informato. La competenza in materia viene affidata al presidente del Tribunale Commerciale, e i soggetti legittimati a promuovere azioni contro le pratiche commerciali scorrette, e nei riguardi dell’autore della pubblicità decettiva, sono: il Ministero degli Affari Economici, le Associazioni dei consumatori, le Associazioni professionali dotate di personalità giuridica. Qualora l’inserzionista non risieda in Belgio è consentito intentarla nei riguardi dell’editore o di chiunque possa aver favorito la produzione di effetti dannosi. La legge ha, anche, previsto per la risoluzione di controversie, uno strumento di rapida applicazione, alternativo alla procedura di accertamento ordinaria. Si tratta dell’action en cessation, il cui esercizio, qualora l’accertamento fosse favorevole al reclamante, si conclude con la cessazione della pubblicità accompagnata da un eventuale risarcimento. Allorché, invece, si agisca secondo le procedure ordinarie, il Presidente del Tribunale Commerciale deciderà con sentenza, a seguito di regolare processo svolto in contraddittorio tra le parti, secondo i modelli della Camera di Consiglio. Sono previste pene accessorie, come la pubblicazione della decisione su quotidiani e, in caso di dolo, sanzioni penali di carattere pecuniario. Con riferimento invece al sistema di Autodisciplina, in Belgio opera il Consiglio della Pubblicità (Conseil de la Publicité), organismo privato, rappresentativo di inserzionisti, agenzie di comunicazione, e media. L’obiettivo è quello di promuovere la pubblicità quale fattore di espansione economica e sociale, e di curare l’applicazione di un sistema di autodisciplina ispirato alle regole del Codice Internazionale delle Pratiche Leali della Camera di Commercio Internazionale. Nel 1974 si dà vita al Jury d’Ethique Publicitaire (JEP), organo di disciplina con il compito di esaminare, nel rispetto delle regole suddette, la conformità dei messaggi pubblicitari diffusi dagli stessi media. La sua missione è duplice: da un lato, giudica i reclami che gli sono stati sottoposti dal pubblico, e in particolare dai consumatori; dall’altro esamina, in via preventiva, i progetti di pubblicità che gli vengono presentati liberamente dagli inserzionisti qualora abbiano dubbi circa la conformità del loro messaggio. I provvedimenti di questo organo hanno il valore di raccomandazioni, destinate agli operatori del settore, e lo scopo di impedire o far cessare i messaggi non conformi alle regole. In caso di inottemperanza, l’organo di autodisciplina può comunicare la propria decisione ai distributori pubblicitari, i quali devono, a loro volta, decidere se proseguire o far cessare la diffusione dell’annuncio ritenuto ingannevole. L’intervento del Jurì non pregiudica quello degli organi di giustizia ordinaria, e non offre una tutela piena e diretta del consumatore, nei confronti del quale, è prevista solo la comunicazione della decisione finale del reclamo o del comportamento tenuto dall’operatore pubblicitario in seguito alla raccomandazione. Concludendo ai sensi della legge del 27 novembre del 1986, che regolamenta le pratiche commerciali e sanziona la concorrenza, è vietata qualsiasi forma di pubblicità commerciale che incoraggi atti di concorrenza sleale, ossia contrari agli usi onesti in materia commerciale e industriale, agli accordi contrattuali, e che tolgano o cerchino di togliere ai concorrenti o ad uno di essi, parte della 44 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 44 loro clientela, creando distorsioni all’interno del mercato. La situazione lussemburghese è molto simile a quella belga in quanto a organi di tutela e meccanismi, la differenza invece sta nella mancanza di un sistema di autodisciplina. 23. La disciplina austriaca in materia di pubblicità ingannevole La legge austriaca sulla concorrenza sleale (UWG–Gesetz gegen den unlauteren wettbewerb) prevede un’azione inibitoria contro i responsabili di una pubblicità ingannevole al fine di ottenere la cessazione della stessa. Qualora l’idoneità a trarre in inganno è nota o sarebbe dovuta essere conosciuta, è possibile intentare un’azione per il risarcimento danni. I soggetti legittimati ad agire nel caso di pubblicità ingannevoli o sleali, sono: i concorrenti, l’Associazione per la protezione contro la concorrenza sleale, la confederazione austriaca del sindacato, la camera di commercio austriaca, ecc. Il consumatore può avviare la procedura solo attraverso tali istituzioni. L’iter previsto dalla legge è nella maggior parte dei casi lungo e costoso, tuttavia esiste, per gli aventi diritto, la possibilità di chiedere l’emanazione di un provvedimento d’urgenza. 24. La normativa sulla pubblicità ingannevole nei nuovi Stati dell’Unione europea Passando alla relativa normativa di alcuni paesi membri della CE dopo l’allargamento del 2004 possiamo riferire il caso della Repubblica Ceca, la pubblicità ingannevole è proibita dalla sez. 2 dell’Act 40/1995 sulla comunicazione pubblicitaria ed è enunciata come “ (…) any distribution of information about own or another business, its products or operations, which is likely to cause a false idea and thus to favour own or another business in the competition at the expense of other competitors or consumers. The distribution of information is deemed to be a verbal or written statement, a statement in print, a picture, a photograph, a message broadcast by radio, television or other mass media. The misleading information is also true information if it can mislead with regard to circumstances and the context in which it was given (…)”. Per valutare l’ingannevolezza, occorre verificare la corrispondenza del messaggio con i criteri elencati nella sez. 7b dell’Act. 407/1995, inerenti le caratteristiche di beni e servizi (quali: disponibilità, design, prezzo, modalità di vendita, e caratteristiche del soggetto autore della pubblicità). É necessario, inoltre, accertare le informazioni fornite dall’annuncio. La disciplina della Repubblica Ceca, prevede che il soggetto pubblicizzante sia tenuto a: “ (…) to provide evidence about particular information contained in the advertising to the supervising body at its request. Unless the advertiser provides the supervising body with the required information or unless this information is provided in a necessary extent, the supervising body can consider the statement in the advertising to be wrong, i.e. the supervising body can deem a specific advertising to be misleading (…)”. L’Estonia, invece, proibisce la pubblicità ingannevole, con L’Advertising Act del 1997, in cui è considerata falsa qualsiasi: “ (…) advertising which in IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 45 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 45 any way, including its presentation, deceives or is likely to deceive the public, or which, for those reasons, injures or may injure a competitor (…)”. Anche in questo caso, sono stati individuati una serie di criteri e particolarità alla luce dei quali è possibile determinare se si tratti o meno di messaggio recettivo. Le caratteristiche da tenere in considerazione sono: la composizione, il metodo e la data di fabbricazione, la modalità di utilizzo, il luogo di produzione, il paese d’origine o altre caratteristiche; il valore e l’attuale prezzo del prodotto o servizio; i termini di pagamento (quali leasing, vendita a credito, ecc.) per i prodotti o servizi, la consegna, lo scambio, e la manutenzione dei prodotti; i termini di garanzia dei prodotti o servizi; il produttore del bene o il fornitore del servizio, l’area di attività e i diritti di proprietà intellettuale. La normativa estone proibisce l’impiego di ricerche scientifiche o tecniche, e l’uso di dati statistici, che possano indurre in errore i consumatori circa la natura o le performance del prodotto. La normativa polacca e quella slovena, infine, presentano diverse analogie con quella estone, sia sotto il profilo nozionistico, sia nell’individuazione dei criteri in base ai quali viene valutata l’ingannevolezza della comunicazione pubblicitaria. 25. Conclusioni La normativa comunitaria afferente la pubblicità ingannevole considera tale quella contenente messaggi pubblicitari falsi, mendaci, erronei o illusori, oppure difficilmente riconoscibile come annuncio promozionale. La pubblicità ingannevole è considerata uno strumento concorrenziale scorretto, in quanto capace di provocare negli individui una falsa rappresentazione della realtà e di indurli a tenere comportamenti economicamente vantaggiosi per le imprese. Per tale ragione, il legislatore comunitario ha avvertito l’esigenza e l’urgenza di uno specifico intervento normativo in materia, soddisfatto con la Dir. 84/450/CEE. Nel 1978, per armonizzare la disciplina esistente in materia, fu presentata una proposta di direttiva, convertita nell’attuale norma solo diversi anni dopo. Lo scopo, di quest’ultima, è quello di “tutelare i professionisti dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali (e di stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa)”. Ai sensi dell’art. 2 della stessa, per pubblicità ingannevole si intende “qualsiasi pubblicità che induca o possa indurre in errore le persone a cui è rivolta o che essa possa raggiungere” e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicarne il comportamento economico o possa ledere un concorrente. L’art. 3, invece, indica gli elementi che devono essere presi in considerazione per determinarne l’ingannevolezza (caratteristiche di beni o servizi, prezzo, natura, qualifiche e diritti dell’operatore pubblicitario). Gli Stati membri hanno il compito di accertare che sussistano i mezzi adeguati per contrastare tale tipologia di messaggio pubblicitario. Essi devono concretizzarsi in disposizioni giuridiche che consentano, a tutti coloro che abbiano un interesse legittimo ad ottenere il divieto della pubblicità ingannevole, di promuovere un’azione giudiziaria contro quest’ultima e/o di sottoporre la stessa al vaglio di un’autorità amministrativa. 46 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 46 É riconosciuto, inoltre, alle autorità giudiziarie e amministrative il potere di sospendere la pubblicità ingannevole, avviare la procedura necessaria per ingiungere tale sospensione, vietare tale pubblicità, o dare avvio ad azioni giudiziarie che consentano di conseguire tale risultato, qualora la pubblicità non sia stata ancora portata a conoscenza del pubblico, ma ciò sia imminente. É ravvisato a tali autorità il potere di adottare, con effetto provvisorio o definitivo, i suddetti provvedimenti nell’ambito di un procedimento d’urgenza, pubblicare la decisione definitiva con cui si è decretata la sospensione della pubblicità ingannevole, divulgare una dichiarazione di rettifica. Se tali competenze vengono esercitate esclusivamente dalle autorità amministrative, queste hanno l’obbligo di motivare le decisioni intraprese. In caso di esercizio improprio o ingiustificato dei poteri da parte delle autorità, o di omissioni improprie o ingiustificate, per presentare un ricorso giurisdizionale devono essere previste apposite procedure. Le autorità amministrative e giudiziarie possono esigere durante i rispettivi procedimenti, se ciò risulti necessario alle circostanze del caso concreto, che l’operatore pubblicitario fornisca prova dell’esattezza materiale dei dati contenuti nella pubblicità. La direttiva non si oppone al mantenimento o all’adozione da parte degli Stati membri di disposizioni che abbiano lo scopo di garantire una più ampia tutela dei professionisti e dei concorrenti. Ricordiamo brevemente quanto è stato fatto dal nostro paese con il D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74 di attuazione della Dir. 84/450 e, da ultimo, con il D.Lgs. 206/2005 (art. 19), con cui il legislatore nazionale ha ribadito la propria volontà di tutelare dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali, sia coloro che esercitino un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, che i consumatori e, più in generale, gli interessi del pubblico, nella fruizione dei suddetti messaggi, esigendo che la pubblicità sia palese, veritiera e corretta (29). IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 47 (29) CALFEE J. E., Fear of persuasion: a new perspective on advertising and regulation, London, 2002; CAMPOBASSO C. 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È considerata tale anche quella afferente i prodotti capaci di mettere in pericolo la salute e la sicurezza dei consumatori, e che omettendone tale indicazione, induca questi ultimi a trascurare le normali regole di prudenza e vigilanza (art. 24), indirizzata a bambini o adolescenti che possa, anche indirettamente, minacciarne la sicurezza, o abusare della loro credulità, inesperienza e dei naturali sentimenti degli adulti verso i più giovani (art. 25). Anche gli elementi di valutazione, in base ai quali stabilire se una pubblicità sia o meno ingannevole, sembrano essere gli stessi indicati dalla Direttiva Cee, ovvero: le caratteristiche dei beni o dei servizi; il prezzo o il modo in cui questo viene calcolato; le condizioni alle quali i beni o servizi vengono forniti; le categorie, le qualifiche e i diritti dell’operatore pubblicitario (art. 21 D.Lgs. 206/2005). L’art. 23 del D.Lgs prescrive che la pubblicità sia “chiaramente riconoscibile come tale” ed, infine, vieta qualunque forma di pubblicità subliminale. La tutela è affidata all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, a cui possono rivolgersi per chiedere che siano inibiti gli atti di pubblicità ingannevole: i concorrenti, i consumatori, le associazioni ed organizzazioni, il ministero delle attività produttive ed ogni altra pubblica amministrazione. Tale autorità, può con provvedimento motivato, in casi di particolare urgenza, e informando l’operatore pubblicitario, disporre la sospensione provvisoria dell’annuncio, e qualora il committente sia sconosciuto, chiedere al proprietario del mezzo che ha diffuso il messaggio pubblicitario, ogni informazione necessaria per identificarlo. Conformemente a quanto prescritto dalla direttiva, è possibile esigere che l’operatore pubblicitario fornisca le prove circa l’esattezza dei dati contenuti nella pubblicità e considerarli inesatti, qualora le prove non vengano fornite o siano insufficienti. Nel caso in cui, l’autorità reputi il messaggio ingannevole, accoglierà il ricorso vietando la pubblicità non ancora portata a conoscenza del pubblico trust, Bologna, 1998; ROSDEN G. E., ROSDEN P. E., The law of advertising, New York, 1996; GHIDINI G., CIAMPI N.L, GAMBARDELLA R., Codice della pubblicità:leggi italiane e direttive, Giuffrè, 2002; CALAIS AULOY J., La loi Royer et le consommateurs, in Foro italiano, 1974, pp. 180 ss.; GREFFE F., GREFFE P., La publicitè et la loi, Paris, 1990 ; GREFFE F., La publicitè mensongère en droit français, in Relazione al convegno: La pubblicità ingannevole: istituzioni, imprese mezzi e consumatori a confronto, Milano, 18 giugno 1992; GHIDINI G., GAMBINO A. M., DE RASIS C., ERRICO P., FARUFFINI DI SEZZADIO F., LAZZARETTI A., La pubblicità ingannevole. Commento sistematico alla normativa vigente, Giuffrè, 2003; SERENIA., La pubblicità ingannevole, in Azienditalia, 2001, pp. 24 ss. 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 48 o la continuazione di quella già iniziata. Se la decisione è di accoglimento, ne può essere disposta la pubblicazione o la dichiarazione di rettifica. In tale situazione, l’autorità può comminare anche una sanzione amministrativa pecuniaria che va dai 1.000 ai 100.000 € a seconda della gravità e della durata della violazione. La suddetta penalità non può essere inferiore ai 25.000 € per i messaggi indicati negli artt. 5 e 6. In caso di inottemperanza ai provvedimenti d’urgenza, a quelli inibitori o di rimozione degli effetti, è possibile ordinare l’applicazione di una disposizione amministrativa e pecuniaria da 10.000 a 50.000 € ed in caso di reiterazione, la sospensione dell’attività di impresa, per non oltre 30 giorni. Se, invece, non si ottempera all’obbligo di fornire le informazioni richieste la sanzione andrà dai 2.000 ai 20.000 €, e se le informazioni o documentazione non siano veritiere dai 4.000 ai 40.000 € (30). Nel caso in cui la pubblicità sia stata assentita con provvedimento dell’autorità amministrativa, la tutela dei concorrenti, dei consumatori e delle loro associazioni o organizzazioni viene garantita in via giurisdizionale con ricorso al giudice amministrativo, e la competenza del giudice ordinario, permarrà in relazione agli atti di concorrenza sleale. La tutela dei soggetti suddetti è consentita, anche, attraverso l’intervento di organismi volontari e autonomi di autodisciplina a cui richiedere l’inibizione della continuazione degli atti di pubblicità ingannevole. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 49 (30) GHIDINI G., GAMBINO A. M., DE RASIS C., ERRICO P., FARUFFINI DI SEZZADIO F., LAZZARETTI A., La pubblicità ingannevole. Commento sistematico alla normativa vigente, Giuffrè, 2003; SERENI A., La pubblicità ingannevole, in Azienditalia, 2001, pp. 24 ss. 02 comun 01 liakopoulos.qxp 06/04/2009 13.37 Pagina 49 50 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 Parità uomo/donna nelle Corti europee Condanna dell’Italia per la differente età pensionabile tra uomini e donne pubblici dipendenti (Corte di Giustizia delle Comunità europee, Quarta Sezione, sentenza del 13 novembre 2008 nella causa C-46/07) Con la sentenza del 13 novembre 2008, causa C-46/07, la Corte di giustizia delle Comunità europee ha condannato la Repubblica italiana per aver mantenuto in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia ad età diverse a seconda che siano uomini o donne, venendo meno agli obblighi di cui all’art. 141 del Trattato CE. La procedura di infrazione nei confronti dell’Italia era stata iniziata per porre rimedio alla disparità di trattamento derivante dalla predetta normativa ai danni degli uomini. Secondo la Commissione delle Comunità europee, l’effetto del combinato disposto dell’art. 5 del decreto legislativo n. 503/1992 e dell’articolo 2, comma 21 della legge n. 335 dell’8 agosto 1995 è quello di fissare un’età pensionabile generale di 60 anni per i dipendenti pubblici di sesso femminile e di 65 anni per i dipendenti pubblici di sesso maschile, costituendo così una forma di trattamento meno favorevole per gli uomini, in violazione dell’art. 141 del trattato CE. Nel corso della fase precontenziosa, le autorità italiane hanno avanzato l’argomento secondo cui la diversa età prevista dalla normativa italiana per il raggiungimento del diritto a pensione per gli uomini e per le donne, non comporta l’obbligo per le donne di interrompere il rapporto lavorativo a 60 anni, bensì la mera facoltà discrezionale per queste ultime di optare per la c.d. “uscita anticipata” al raggiungimento della predetta età. Di ciò sarebbe prova il fatto che le donne aventi diritto a tale opzione per aver raggiunto il sessantesimo anno di età, nel 66% dei casi hanno liberamente deciso di proseguire il proprio rapporto di lavoro. La Commissione ha invece ritenuto che la previsione di tale facoltà solo a favore delle donne costituisca una discriminazione ai sensi dell’art. 141 CE, dal momento che la medesima facoltà non è concessa agli uomini. Nelle proprie difese, anche orali, il Governo italiano ha giustificato il trattamento più favorevole riservato alle donne, richiamando la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, che, al contrario, si è più volte pronunciata in ordine alla differente età pensionabile tra uomini e donne sotto il profilo del trattamento meno favorevole derivante alle donne. In particolare, con la sentenza del 27 aprile 1988, n. 498, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione del prin- LE DECISIONI 02 comun 02 Ferrante diseri.qxp 06/04/2009 13.45 Pagina 50 cipio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione e del principio di parità di diritti a parità di lavoro tra uomini e donne di cui all’art. 37 della Costituzione, dell’art. 4 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, recante parità di trattamento fra uomini e donne in materia di lavoro, nella parte in cui subordinava il diritto delle lavoratrici, in possesso dei requisiti per ottenere la pensione di vecchiaia (all’epoca fissata per le donne a 50 anni), di continuare a lavorare fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini (all’epoca fissati a 60 anni), all’esercizio di un diritto di opzione da comunicare al datore di lavoro almeno tre mesi prima della data del perfezionamento del diritto alla pensione di vecchiaia mentre analogo onere non era contemplato per gli uomini. La Corte costituzionale ha infatti affermato che, fermo restando il principio che l’età lavorativa deve essere eguale per la donna e per l’uomo, stante l’esigenza di tutelare senza discriminazioni, il più a lungo possibile, l’esplicazione della capacità lavorativa e quindi della personalità umana, il diritto della donna a conseguire la pensione di vecchiaia ad un’età anagrafica inferiore, onde poter soddisfare esigenze peculiari nell’ambito familiare, non contrasta con il fondamentale principio di parità, il quale non esclude speciali profili, dettati dalla posizione della lavoratrice, che meritano una particolare regolamentazione. Successivamente, con la sentenza del 20 giugno 2002, n. 256, la Corte costituzionale ha ribadito, in primo luogo, che i precetti costituzionali di cui agli articoli 3 e 37 non consentono di regolare l’età lavorativa della donna in modo difforme da quello previsto per gli uomini, non soltanto per quanto concerne il limite massimo di età ma anche riguardo alle condizioni per raggiungerlo; in secondo luogo, che non urta invece contro alcun principio costituzionale la previsione per le donne di un limite di età per il conseguimento della pensione di vecchiaia inferiore a quello fissato per gli uomini, anche se ciò implica il venir meno per le prime della coincidenza tra età pensionabile ed età lavorativa, continuando a costituire tale possibilità un giustificato beneficio per le lavoratrici. Nelle proprie deduzioni, il Governo italiano ha altresì richiamato il 22° considerando della direttiva 2006/54/CE che, nel riordinare tutte le precedenti direttive in tema di attuazione del principio delle pari opportunità fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, ha affermato che, a norma dell’art. 141, paragrafo 4 del Trattato, allo scopo di assicurare l’effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non impedisce agli Stati membri di mantenere o di adottare misure che prevedono vantaggi specifici volti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato oppure a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali. È evidente che il sesso “debole” nel mondo lavorativo è tuttora quello femminile e che la compensazione di eventuali svantaggi nelle carriere debba essere effettuata nei confronti delle donne e non certo degli uomini. Ciò è chiaramente confermato dal predetto 22° considerando della direttiva, che prosegue chiarendo: “considerata l’attuale situazione e tenendo presente la dichiarazione n. 28 del trattato di Amsterdam, gli Stati membri dovrebbero mirare, anzitutto, a migliorare la situazione delle donne nella vita lavorativa”. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 51 02 comun 02 Ferrante diseri.qxp 06/04/2009 13.45 Pagina 51 52 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 Il Governo italiano ha quindi concluso che, se una distinzione per l’età pensionabile ancora esiste tra uomini e donne, nel settore del pubblico impiego, ciò non costituisce una ingiustificata disparità di trattamento bensì un beneficio accordato alle donne pienamente giustificato e conforme al principio di proporzionalità. La Corte di giustizia, con la citata sentenza, ha invece ritenuto che da tali argomentazioni non si potesse dedurre che l’art. 141 del Trattato CE consenta la fissazione di un’età diversa a seconda del sesso. Infatti, dice la Corte, “i provvedimenti nazionali contemplati da tale disposizione debbono, in ogni caso, contribuire ad aiutare la donna a vivere la propria vita lavorativa su un piano di parità rispetto all’uomo. Ora, la fissazione, ai fini del pensionamento, di una condizione d’età diversa a seconda del sesso non è tale da compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile aiutando queste donne nella loro vita professionale e ponendo rimedio ai problemi che esse possono incontrare durante la loro carriera professionale”. Quindi la Corte, pur riconoscendo che, tuttora, le lavoratrici di sesso femminile incontrano maggiori difficoltà nel mondo del lavoro rispetto ai loro colleghi uomini, ha ritenuto che accordare loro la facoltà di andare in pensione anticipatamente non sia una misura idonea a supplire a dette difficoltà. Dalla sentenza della Corte di Giustizia deriva l’obbligo dello Stato italiano di parificare l’età pensionabile dei pubblici dipendenti tra uomini e donne. In proposito, attese le note ristrettezze del bilancio pubblico, è improbabile che l’età venga abbassata per tutti a 60 anni, essendo più verosimile che venga elevata per tutti a 65 anni. Pertanto, il risultato della pronuncia della Corte è che le donne, che anche prima potevano lavorare, a semplice richiesta, fino a 65 anni (e lo facevano nella maggior parte dei casi) ora dovranno lavorare fino a 65 anni. In sintesi una pronuncia “pro uomini”. Avv. Wally Ferrante (*) Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, Quarta Sezione, 13 novembre 2008 nella causa C-46/07 - Ricorso presentato il 1° febbraio 2007 - Commissione delle Comunità europee/Repubblica italiana. (Avvocati dello Stato G. Fiengo e W. Ferrante - AL 9119/07). Inadempimento di uno Stato – Art. 141 CE – Politica sociale – Parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile – Nozione di “retribuzione” – Regime pensionistico dei dipendenti pubblici. (… Omissis) 1. Col suo ricorso, la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare che, mantenendo in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici (*) Avvocato dello Stato. 02 comun 02 Ferrante diseri.qxp 06/04/2009 13.45 Pagina 52 hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diversa a seconda se siano uomini o donne, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi di cui all’art. 141 CE. 2. La Repubblica italiana conclude per il rigetto del ricorso e la condanna della Commissione alle spese. Ambito normativo nazionale 3. La legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Supplemento ordinario alla GURI n. 257 del 31 ottobre 1992), fornisce il quadro giuridico del regime pensionistico di cui trattasi nella presente causa. Tale regime si applica ai dipendenti pubblici e agli altri lavoratori del settore pubblico nonché ai lavoratori che in passato avevano prestato servizio per un ente pubblico. 4. Tale regime pensionistico è gestito dall’Istituto nazionale della previdenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica (in prosieguo: l’«INPDAP»), istituito con decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 479 (Supplemento ordinario alla GURI n. 178 del 1° agosto 1994, pag. 20). 5. Il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Supplemento ordinario alla GURI n. 305 del 30 dicembre 1992), disciplina più in dettaglio taluni aspetti del regime pensionistico gestito dall’INPDAP. 6. Ai sensi del suo articolo 5, i dipendenti pubblici hanno diritto alla pensione di vecchiaia nell’ambito del regime gestito dall’INPDAP alla stessa età prevista dal sistema pensionistico gestito dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (in prosieguo: l’«INPS») per le categorie generali di lavoratori. L’età normale per il pensionamento di vecchiaia nell’ambito di quest’ultimo sistema è di 60 anni per le donne e di 65 per gli uomini, come risulta dal combinato disposto dell’art. 5, n. 1, e della tabella A del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503. Per taluni dipendenti pubblici per i quali era stata precedentemente stabilita un’età pensionabile più elevata, l’art. 2, n. 21, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Supplemento ordinario alla GURI n. 190 del 16 agosto 1995), dispone che, a partire dal 1° gennaio 1996, i dipendenti pubblici di sesso femminile, cui fa riferimento detto art. 5, nn. 1 e 2, possono percepire la pensione di vecchiaia all’età di 60 anni, senza tuttavia prevedere una facoltà analoga per i dipendenti pubblici di sesso maschile. 7. L’articolo 2, n. 9, della legge 8 agosto 1995, n. 335, avente ad oggetto la riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare, precisa che «con effetto dal 1° gennaio 1996, per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Supplemento ordinario alla GURI n. 30 del 6 febbraio 1993), iscritti alle forme di previdenza esclusiva dell’assicurazione generale obbligatoria, nonché per le altre categorie di dipendenti iscritti alle predette forme di previdenza, si applica, ai fini della determinazione della base contributiva e pensionabile, l’art. 12 della legge 30 aprile 1969, n. 153 [(Supplemento ordinario alla GURI n. 111 del 30 aprile 1969)] e successive modificazioni e integrazioni (…)». 8. L’articolo 12 della legge 30 aprile 1969, n. 153, nella versione applicabile alla presente causa, precisa che «per la determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza e assistenza sociale, si considera retribuzione tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro in denaro o in natura, al lordo di qualsiasi ritenuta, in dipendenza dal rapporto di lavoro». L’ultimo paragrafo di detto articolo prevede che «la retribuzione come sopra determinata è presa, altresì, a riferimento per il calcolo delle prestazioni a carico delle gestioni di previdenza e assistenza sociale interessate». 9. Il regime pensionistico gestito dall’INPDAP garantisce ai propri iscritti la tutela previdenziale per invalidità, vecchiaia, malattia e superstiti. Esso dispone di un bilancio indipendente finanziato con i contributi e la copertura degli eventuali disavanzi è garantita dalle leggi finanziarie annuali. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 53 02 comun 02 Ferrante diseri.qxp 06/04/2009 13.45 Pagina 53 La fase precontenziosa del procedimento 10. La Commissione, ritenendo il regime pensionistico gestito dall’INPDAP un regime professionale discriminatorio contrario all’art. 141 CE, in quanto prevede per i dipendenti pubblici che l’età pensionabile sia di 65 anni per gli uomini e di 60 anni per le donne, ha espresso le sue preoccupazioni in una lettera amministrativa del 12 novembre 2004. La Repubblica italiana ha risposto con una lettera in data 10 gennaio 2005, alla quale è stata allegata una relazione dell’INPDAP del 23 dicembre 2004. 11. La Commissione, il 18 luglio 2005, ha inviato alla Repubblica italiana una lettera di costituzione in mora alla quale tale Stato membro non ha risposto. 12. Con lettera del 5 maggio 2006, la Commissione ha inviato un parere motivato invitando detto Stato membro a adottare i provvedimenti necessari al fine di conformarsi a tale parere entro due mesi a decorrere dalla sua ricezione. 13. La Repubblica italiana ha risposto a tale parere motivato con lettera 17 maggio 2006, cui era allegata una nota dell’Ufficio legislativo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, contestando in sostanza la posizione della Commissione relativa alla natura professionale del regime pensionistico gestito dall’INPDAP. 14. La Commissione, non ritenendo soddisfacente la risposta al parere motivato, ha deciso di introdurre il presente ricorso. Sul ricorso Argomenti delle parti 15. La Commissione ritiene che il regime pensionistico gestito dall’INPDAP costituisca un regime discriminatorio contrario all’art. 141 CE in quanto fissa l’età pensionabile a 60 anni per i dipendenti pubblici di sesso femminile, mentre la stessa è fissata a 65 anni per i dipendenti pubblici di sesso maschile. 16. La Commissione sottolinea che la Corte ha confermato, nelle sentenze 17 maggio 1990, causa C-262/88, Barber (Racc. pag. I-1889), e 6 ottobre 1993, causa C-109/91, Ten Oever (Racc. pag. I-4879), che una pensione corrisposta da un datore di lavoro ad un ex dipendente per il rapporto di lavoro tra loro intercorso costituisce una retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE e che la Corte ha dichiarato, nelle sentenze 28 settembre 1994, causa C-7/93, Beune (Racc. pag. I-4471); 29 novembre 2001, causa C-366/99, Griesmar (Racc. pag. I- 9383), nonché 12 settembre 2002, causa C-351/00, Niemi (Racc. pag. I-7007), che le pensioni erogate dallo Stato agli ex dipendenti che hanno prestato servizio nel settore pubblico possono costituire una retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE. 17. Nel determinare se una pensione prevista dalla legge, che lo Stato corrisponde ad un ex dipendente, rientri nel campo di applicazione dell’art. 141 CE oppure in quello della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, 79/7/CEE relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento fra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale (GU L 6, pag. 24), la Commissione rinvia ai criteri stabiliti nelle sentenze sopra citate Beune e Niemi. Secondo la Commissione, occorre esaminare se, nella presente causa, siano soddisfatti i tre criteri che risultano da questa giurisprudenza affinché un regime pensionistico sia qualificato come regime professionale, vale a dire che la pensione interessi soltanto una categoria particolare di lavoratori, che sia direttamente funzione degli anni di servizio prestati e che il suo importo sia calcolato in base all’ultimo stipendio del dipendente pubblico. 18. La Commissione, al fine di qualificare il regime pensionistico in questione, fa riferimento alla relazione dell’INPDAP del 23 dicembre 2004, allegata alla lettera della Repubblica italiana del 10 gennaio 2005 e da cui risulta, secondo la Commissione, che la pensione versata nell’ambito di tale regime risponde a questi tre criteri. 54 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 02 Ferrante diseri.qxp 06/04/2009 13.45 Pagina 54 19. Secondo la Commissione, il fatto che il regime pensionistico gestito dall’INPDAP sia disciplinato direttamente dalla legge, non sarebbe sufficiente per escluderlo dal campo di applicazione dell’art. 141 CE. Infatti, nella citata sentenza Beune, la Corte avrebbe esplicitamente respinto questo criterio puramente formale. 20. Inoltre, il fatto che il regime pensionistico gestito dall’INPDAP sia improntato all’obiettivo di politica sociale di tener conto delle regole del sistema pensionistico gestito dall’INPS riguardante categorie generali di lavoratori non sarebbe sufficiente, secondo la Commissione, per escludere il suddetto regime dal campo di applicazione dell’art. 141 CE. 21. Per di più, secondo la Commissione, che fa riferimento alle sentenze precitate Griesmar e Niemi, è chiaro che la pensione che rientra nel regime pensionistico gestito dall’INPDAP è versata dallo Stato in qualità di datore di lavoro, criterio che la Corte ha ritenuto essenziale. 22. Per quanto riguarda l’argomento della Repubblica italiana relativo alla portata del regime pensionistico gestito dall’INPDAP, la Commissione si basa sulla citata sentenza Niemi in cui la Corte si sarebbe già pronunciata sulla qualifica di un regime professionale che copre diverse categorie di lavoratori concludendo che, qualora siano soddisfatti i tre criteri menzionati al punto 17 della presente sentenza, il fatto che tale regime ricopra diverse categorie di lavoratori non avrebbe alcuna rilevanza. 23. A tal riguardo, la Commissione fa anche riferimento alla sentenza 23 ottobre 2003, cause riunite C-4/02 e C-5/02, Schönheit e Becker (Racc. pag. I-12575), e osserva che la Corte, nella citata sentenza Niemi, ha qualificato come regime professionale un regime che copre diverse categorie di lavoratori, ma tutti appartenenti al settore pubblico e ha così considerato l’insieme dei dipendenti pubblici come una categoria particolare. 24. Infine, la Commissione contesta l’argomento della Repubblica italiana secondo cui l’introduzione di differenziazioni di disciplina dell’età pensionabile in funzione del regime, sia esso l’INPS o l’INPDAP, comporterebbe un’intollerabile disparità di trattamento tra i lavoratori del settore privato e i dipendenti pubblici. Essa sostiene che tale argomento deriva dalla premessa erronea secondo cui il regime pensionistico gestito dall’INPDAP è un regime legale e non un regime professionale. Inoltre, la Commissione fa notare che le similitudini esistenti tra questi due regimi non sarebbero pertinenti. 25. La Repubblica italiana contesta l’inadempimento addebitato facendo valere il carattere legale del regime pensionistico gestito dall’INPDAP. 26. A tal riguardo, tale Stato membro, richiama, in primo luogo, il contesto delle privatizzazioni e delle riforme nel settore del pubblico impiego nel quale si inquadra il regime in questione. 27. Il processo di privatizzazione che la Repubblica italiana ha condotto, a decorrere dagli anni ’90, nel settore del pubblico impiego, avrebbe come conseguenza che, ad eccezione di alcune funzioni particolari, quali la magistratura, le forze armate, la diplomazia, le prefetture e l’avvocatura dello Stato, il rapporto di lavoro pubblico è stato progressivamente attratto nella contrattazione collettiva e, successivamente, assimilato in tutto ad un rapporto di impiego privato. 28. In secondo luogo, la Repubblica italiana sottolinea che i limiti di età, fissati a 65 anni per gli uomini e a 60 anni per le donne, sono uniformemente stabiliti, sia per lavoratori iscritti all’INPS che per i lavoratori iscritti all’INPDAP. Pertanto, la normativa contestata manterrebbe, proprio in quanto conforme a quella applicabile alle categorie di lavoratori iscritti all’INPS, una valenza generale, tale da far considerare il regime pensionistico gestito dall’INPDAP come avente natura legale. Considerata l’avvenuta privatizzazione di quasi IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 55 02 comun 02 Ferrante diseri.qxp 06/04/2009 13.45 Pagina 55 tutta l’aerea del pubblico impiego, l’introduzione di differenziazioni nella fissazione dell’età pensionabile comporterebbe un’intollerabile disparità di trattamento tra i lavoratori. 29. Per evidenziare la natura legale del regime pensionistico gestito dall’INPDAP, la Repubblica italiana fa valere che l’art. 3 del decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 479, prevede un unico e uniforme regime di organizzazione dell’INPDAP e dell’INPS per quanto riguarda gli organi di gestione. 30. A questo stesso fine, la Repubblica italiana sottolinea che l’INPDAP conferisce inoltre ai suoi iscritti prestazioni che non costituiscono il corrispettivo dei contributi versati e pone l’accento sulle modalità di finanziamento del regime pensionistico di cui è causa. 31. In terzo luogo, tale Stato membro contesta il parere della Commissione secondo cui si potrebbero raggruppare in una sola categoria professionale tanti e diversi dipendenti pubblici. 32. La Repubblica italiana fa valere, in quarto luogo, che la Commissione non può basare la sua valutazione del regime pensionistico di cui è causa sulla relazione dell’INPDAP. Atale proposito, questo Stato membro sottolinea che tale relazione si fonda su disposizioni precedenti alla messa in mora e quindi inutilizzabili come elementi di prova. Inoltre, non sarebbe corretto dedurre da tale relazione che la pensione che rientra nel regime pensionistico gestito dall’INPDAP viene calcolata con riferimento agli anni di servizio prestati e allo stipendio percepito. A tal riguardo, il detto Stato membro precisa che il termine «retribuzioni», utilizzato dal legislatore italiano per indicare il sistema di calcolo delle pensioni, dovrebbe essere inteso come riferito ai contributi che su tali retribuzioni sono stati pagati e che, conformemente all’attuazione della riforma che la Repubblica italiana ha condotto a decorrere dagli anni ’90, la pensione tiene conto della media delle retribuzioni percepite nel corso degli ultimi 10 anni e dei corrispondenti contributi versati. 33. All’udienza dinanzi alla Corte, la Repubblica italiana ha sostenuto, infine, che la fissazione di un’età pensionabile diversa a seconda del sesso è giustificata dall’obiettivo di eliminare discriminazioni a danno delle donne esistenti ancora nell’evoluzione del contesto socioculturale. Giudizio della Corte 34. Ai sensi dell’art. 141, n. 1, CE, ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. In base al n. 2, primo comma, di tale articolo, per retribuzione si intende il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo. 35. Occorre ricordare che, per valutare se una pensione di vecchiaia rientri nel campo di applicazione dell’art. 141 CE, soltanto il criterio relativo alla constatazione che la pensione è corrisposta al lavoratore per il rapporto di lavoro che lo unisce al suo ex datore di lavoro, ossia il criterio dell’impiego, desunto dalla lettera stessa dell’art. 141 CE, può avere carattere determinante (sentenze citate supra Beune, punto 43; Griesmar, punto 28; Niemi, punto 44, nonché Schönheit e Becker, punto 56). 36. Certo, questo criterio non può avere un carattere esclusivo, poiché le pensioni corrisposte da regimi legali previdenziali possono, in tutto o in parte, tener conto della retribuzione dell’attività lavorativa (sentenze citate supra Beune, punto 44; Griesmar, punto 29; Niemi, punto 46, nonché Schönheit e Becker, punto 57). Ora, siffatte pensioni non costituiscono retribuzioni ai sensi dell’art. 141 CE (v., in tal senso, sentenze 25 maggio 1971, causa 80/70 Defrenne, Racc. pag. 445, punto 13; 13 maggio 1986, causa 170/84, Bilka-Kaufhaus, Racc. pag. 1607, punto 18; Beune, cit., punto 24 e 44; Griesmar, cit., punto 27, nonché Schönheit e Becker, cit., punto 57). 56 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 02 Ferrante diseri.qxp 06/04/2009 13.45 Pagina 56 37. Tuttavia, le considerazioni di politica sociale, di organizzazione dello Stato, di etica o anche le preoccupazioni di bilancio che hanno avuto o hanno potuto avere un ruolo nella determinazione di un regime pensionistico da parte di un legislatore nazionale non possono considerarsi prevalenti qualora la pensione interessi soltanto una categoria particolare di lavoratori, sia direttamente funzione degli anni di servizio prestati e il suo importo sia calcolato in base all’ultimo stipendio del dipendente pubblico (sentenze citate supra Beune, punto 45; Griesmar, punto 30; Niemi, punto 47, nonché Schönheit e Becker, punto 58). 38. Di conseguenza, gli argomenti della Repubblica italiana, relativi al metodo di finanziamento del regime pensionistico gestito dall’INPDAP, alla sua organizzazione ed alle prestazioni diverse dalle pensioni che esso conferisce, diretti a dimostrare che tale regime costituisce un regime previdenziale ai sensi della citata sentenza Defrenne che non rientra nel campo di applicazione dell’art. 141 CE, non possono essere accolti. Inoltre, il fatto che l’età pensionabile sia fissata in maniera uniforme per i lavoratori che rientrano nel regime di cui è causa e per quelli che rientrano nel regime generale, ossia il sistema pensionistico gestito dall’INPS, non è pertinente per la qualificazione della pensione versata dal regime pensionistico gestito dall’INPDAP. 39. Partendo da queste precisazioni circa il senso del termine «retribuzione» nel settore dei regimi pensionistici occorre esaminare se la pensione versata in forza del regime pensionistico gestito dall’INPDAP corrisponda ai criteri ricordati al punto 37 della presente sentenza. 40. Per quanto riguarda il primo criterio, occorre rilevare che i dipendenti pubblici che beneficiano di un regime pensionistico devono essere considerati come una categoria particolare di lavoratori. Infatti, essi si distinguono dai lavoratori di un’impresa o di un gruppo di imprese, di un comparto economico o di un settore professionale o interprofessionale soltanto in ragione delle caratteristiche peculiari che disciplinano il loro rapporto di lavoro con lo Stato, con altri enti o datori di lavoro pubblici (sentenze citate supra Griesmar, punto 31, e Niemi, punto 48). 41. Ne deriva che i dipendenti pubblici che beneficiano del regime pensionistico gestito dall’INPDAP costituiscono una categoria particolare di lavoratori. 42. Questo risultato non può essere confutato dagli argomenti dedotti dalla Repubblica italiana. In primo luogo, tale Stato membro fa valere che il regime pensionistico gestito dall’INPDAP comprende, oltre ai dipendenti pubblici, lavoratori del settore pubblico e lavoratori che in passato avevano prestato servizio per un ente pubblico. 43. A tal riguardo, occorre ricordare che il presente ricorso riguarda solo i dipendenti pubblici, per cui, nella presente causa, non si tratta di determinare se i lavoratori del settore pubblico e i lavoratori che in passato avevano prestato servizio per un ente pubblico costituiscano anch’essi una categoria particolare di lavoratori o se costituiscano, considerati unitamente ai dipendenti pubblici, una sola categoria particolare di lavoratori. Inoltre, il fatto che il regime pensionistico gestito dall’INPDAP si applichi non solo ai dipendenti pubblici ma anche ad altre categorie di lavoratori non può privare i dipendenti pubblici della tutela conferita dall’art. 141 CE allorché gli altri criteri ricordati al punto 37 della presente sentenza sono soddisfatti. Come risulta dal punto 49 della sentenza Niemi sopramenzionata, il fatto che un regime pensionistico comprenda non solo una certa categoria di dipendenti pubblici ma anche l’insieme dei dipendenti dello Stato non ha come conseguenza che la categoria di dipendenti pubblici interessata non possa essere considerata una categoria particolare di lavoratori ai sensi della giurisprudenza della Corte. 44. La Repubblica italiana fa valere, in secondo luogo, che i numerosi e diversi gruppi di dipendenti pubblici non possono essere riuniti in un’unica categoria professionale. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 57 02 comun 02 Ferrante diseri.qxp 06/04/2009 13.45 Pagina 57 45. Atale riguardo, occorre osservare che, come risulta dal punto 41 della presente sentenza, il regime pensionistico gestito dall’INPDAP si applica ai dipendenti pubblici che costituiscono una categoria particolare di lavoratori. Il fatto che, nell’ambito della categoria dei dipendenti pubblici, si potrebbero identificare diverse categorie non ha rilevanza in quanto questa categoria si distingue, come ricordato al punto 40 della presente sentenza, dagli altri gruppi di lavoratori del settore privato o pubblico per le caratteristiche proprie che disciplinano il rapporto di impiego dei dipendenti pubblici con lo Stato. 46. Di conseguenza, i dipendenti pubblici che rientrano nel regime pensionistico gestito dall’INPDAP costituiscono una categoria particolare di lavoratori ai sensi della giurisprudenza della Corte richiamata al punto 40 della presente sentenza. 47. Per quanto riguarda gli altri due criteri accolti dalla giurisprudenza menzionata al punto 37 della presente sentenza, ossia che la pensione deve essere direttamente proporzionale agli anni di servizio prestati e il suo importo deve essere calcolato in base all’ultima retribuzione del dipendente pubblico, occorre esaminare se essi siano soddisfatti di modo che la pensione versata in forza del regime pensionistico gestito dall’INPDAP possa essere considerata comparabile a quella che verserebbe un datore di lavoro privato ai suoi ex dipendenti. 48. La Commissione si basa a tal riguardo sulla relazione dell’INPDAP del 23 dicembre 2004, che è stata allegata dalla Repubblica italiana alla sua risposta del 10 gennaio 2005 alla lettera amministrativa della Commissione del 12 novembre 2004. Essa deduce da tale relazione che la pensione versata nell’ambito del regime pensionistico gestito dall’INPDAP viene calcolata con riferimento al numero di anni di servizio prestati dal dipendente e allo stipendio base percepito da quest’ultimo prima del suo pensionamento. 49. La Repubblica italiana, pur contestando queste affermazioni per il motivo che tale relazione è basata su disposizioni precedenti alla messa in mora, ammette tuttavia che, conformemente all’attuazione della riforma che la Repubblica italiana ha condotto a decorrere dagli anni ’90, la pensione di cui trattasi tiene conto della media delle retribuzioni percepite nell’ultimo decennio e dei contributi versati corrispondenti. 50. Partendo da quest’ultima constatazione, occorre esaminare se questo metodo di calcolo risponda ai due criteri accolti dalla giurisprudenza della Corte. 51 Per quanto riguarda questi due criteri, la Corte, ai punti 33 e 34 della sentenza Griesman, sopramenzionata, ha qualificato come retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE una pensione il cui importo deriva dal prodotto di una percentuale applicata ad un importo base, il quale è costituito dallo stipendio corrispondente all’ultimo coefficiente retributivo applicabile al dipendente pubblico nel corso degli ultimi sei mesi di attività. 52. Costituisce anche una retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE una pensione il cui importo è calcolato sulla base del valore medio della retribuzione percepita nel corso di un periodo limitato ad alcuni anni immediatamente precedenti il ritiro dal lavoro (v. sentenza Niemi, cit., punto 51) nonché una pensione il cui importo è calcolato sulla base dell’importo di tutti i contributi versati durante tutto il periodo di iscrizione del lavoratore e ai quali si applica un fattore di rivalutazione (v. sentenza 1° aprile 2008, causa C-267/06, Maruko, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 55). 53. Ne deriva che la pensione versata in forza del regime pensionistico gestito dall’INPDAP deve essere qualificata come retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE. Infatti, la base di calcolo di tale pensione risponde ai criteri stabiliti dalla Corte nelle citate sentenze Griesmar, Niemi e Maruko. 54. Pertanto, la pensione versata in forza del detto regime pensionistico costituisce una forma di retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE. 58 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 02 Ferrante diseri.qxp 06/04/2009 13.45 Pagina 58 55. Come risulta da una costante giurisprudenza, l’art. 141 CE vieta qualsiasi discriminazione in materia di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile, quale che sia il meccanismo che genera questa ineguaglianza. Secondo questa stessa giurisprudenza, la fissazione di un requisito di età che varia secondo il sesso per la concessione di una pensione che costituisce una retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE è in contrasto con questa disposizione (v. sentenze Barber, cit., punto 32; 14 dicembre 1993, causa C- 110/91, Moroni, Racc. pag. I-6591, punti 10 e 20; 28 settembre 1994, causa C-408/92, Avdel Systems, Racc. pag. I-4435, punto 11, nonché Niemi, cit., punto 53). 56. Come sostiene la Commissione, senza essere contraddetta al riguardo dalla Repubblica italiana, il regime pensionistico gestito dall’INPDAP prevede una condizione di età diversa a seconda del sesso per la concessione della pensione versata in forza di tale regime. 57. L’argomento della Repubblica italiana secondo cui la fissazione, ai fini del pensionamento, di una condizione di età diversa a seconda del sesso è giustificata dall’obiettivo di eliminare discriminazioni a danno delle donne non può essere accolto. Anche se l’art. 141, n. 4, CE autorizza gli Stati membri a mantenere o a adottare misure che prevedano vantaggi specifici, diretti a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali, al fine di assicurare una piena uguaglianza tra uomini e donne nella vita professionale, non se ne può dedurre che questa disposizione consente la fissazione di una tale condizione di età diversa a seconda del sesso. Infatti, i provvedimenti nazionali contemplati da tale disposizione debbono, in ogni caso, contribuire ad aiutare la donna a vivere la propria vita lavorativa su un piano di parità rispetto all’uomo [v., per quanto riguarda l’interpretazione dell’art. 6, n. 3, dell’accordo sulla politica sociale concluso tra gli Stati della Comunità europea ad eccezione del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord (GU 1992, C 191, pag. 91), sentenza Griesmar, cit., punto 64]. 58. Ora, la fissazione, ai fini del pensionamento, di una condizione d’età diversa a seconda del sesso non è tale da compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile aiutando queste donne nella loro vita professionale e ponendo rimedio ai problemi che esse possono incontrare durante la loro carriera professionale. 59. Tenuto conto delle considerazioni che precedono, occorre constatare che, mantenendo in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a ricevere la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi di cui all’art. 141 CE. Sulle spese 60. A norma dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, il soccombente è condannato alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ha concluso per la condanna della Repubblica italiana e quest’ultima è risultata soccombente nei suoi motivi, occorre condannarla alle spese. Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara e statuisce: 1) Mantenendo in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi di cui all’art. 141 CE. 2) La Repubblica italiana è condannata alle spese. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 59 02 comun 02 Ferrante diseri.qxp 06/04/2009 13.45 Pagina 59 Sul principio di non discriminazione uomo-donna in materia di benefici fiscali di incentivo all’esodo dei lavoratori (Corte di Giustizia delle Comunità europee, Settima Sezione, ordinanza del 16 gennaio 2008 in cause riunite da C-128/07 a C-131/07) La Corte di Giustizia è tornata ad affermare il principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne con riferimento al beneficio della tassazione con aliquota ridotta alla metà delle somme erogate in occasione dell’interruzione del rapporto di lavoro, previsto dall’art. 17, n. 4 bis, del D.P.R. n. 917/86. Con l’ordinanza 16 gennaio 2008, adottata nelle cause riunite da C-127 a C-131/07, il giudice comunitario si è pronunciato su una domanda pregiudiziale proposta nell’ambito delle controversie tra alcuni lavoratori e l’Agenzia delle Entrate, a proposito del rifiuto da parte di quest’ultima di concedere loro la riduzione fiscale sulle somme che essi avevano percepito dal proprio datore di lavoro a titolo di incentivo all’esodo. In particolare, i ricorrenti, di sesso maschile e di età compresa tra i 53 e i 54 anni, non avevano potuto fruire dell’aliquota ridotta sulla ritenuta di acconto operata dal datore di lavoro, beneficio previsto in relazione alla diversa età pensionabile per i lavoratori che abbiano superato i 55 anni, se uomini, i 50 anni, se donne. La Commissione tributaria provinciale di Latina, essendo sul punto già intervenuta la sentenza della Corte di Giustizia del 21 luglio 2005, nella causa C-207/04 Vergani, dichiarando l’incompatibilità con la Dir. 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne sul lavoro, della fissazione da parte della normativa nazionale (art. 17, comma 4-bis, del D.P.R. 917/86) di limiti di età differenti per gli uomini e le donne per beneficiare di un’agevolazione fiscale in occasione dell’interruzione del rapporto di lavoro, ha quindi rimesso al giudice comunitario, tra le altre questioni pregiudiziali, quella relativa all’interpretazione della precedente pronuncia. In quell’occasione il giudice comunitario aveva innanzitutto escluso che la compatibilità della disposizione nazionale sull’indennità di esodo potesse essere valutata alla luce dell’art. 141 T.C.E. sul principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore, richiamando la propria giurisprudenza secondo cui la retribuzione è costituita dall’insieme di «tutti i vantaggi, in contanti o in natura, attuali o futuri, purché siano pagati, sia pure indirettamente, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo, in forza di un contratto di lavoro, di disposizioni di legge ovvero a titolo volontario». La Corte aveva quindi precisato che la diversa derivazione soggettiva dell’incentivo, proveniente dallo Stato e non dal datore di lavoro, fa rientrare la disposizione nell’ambito di applicazione dell’art. 5 della Dir. 76/207/CEE, che impone la parità di trattamento anche con riguardo alle condizioni inerenti al licenziamento. Aveva infine affermato che l’agevolazione fiscale costituisce una condizione di licenziamento, in quanto conseguente ad un’interruzione volontaria del rapporto di lavoro, e che, rispetto ad essa, deve 60 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 02 Ferrante diseri.qxp 06/04/2009 13.45 Pagina 60 IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 61 affermarsi il divieto di discriminazioni, senza che il legislatore nazionale possa invocare la deroga prevista dall’art. 7, n. 1, lett. a), della medesima Dir. 79/7/CEE in tema di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale, secondo cui non risulta pregiudicata la facoltà degli Stati membri di escludere dal suo campo di applicazione la fissazione del limite di età per la concessione della pensione di vecchiaia e di fine lavoro e le conseguenze che possono derivarne per altre prestazioni: la disciplina derogatoria, infatti, in quanto eccezionale, impone di interpretare restrittivamente il riferimento alle «altre prestazioni» previdenziali, e tali non risultano eventuali agevolazioni fiscali connesse all’età del pensionamento (1). La Corte di Giustizia, nell’affrontare l’ulteriore quesito proposto dalla Commissione tributaria provinciale di Latina sulle conseguenze derivanti dalla riferita decisione, ha ribadito che, a seguito di una sentenza su rinvio pregiudiziale da cui risulti l’incompatibilità di una normativa nazionale con il diritto comunitario, l’adozione dei provvedimenti generali o particolari idonei a garantirne il rispetto in ambito nazionale rientra nella potestà delle autorità dello Stato membro interessato, che mantengono un potere discrezionale quanto alle misure necessarie all’attuazione dei diritti attribuiti ai singoli dal diritto comunitario. Il giudice comunitario ha quindi concluso che, nei casi di discriminazioni incompatibili con il diritto comunitario, finché lo Stato non adotti misure volte a ripristinare la parità di trattamento, l’osservanza del principio di uguaglianza può essere garantita solo mediante la concessione alle persone appartenenti alla categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui beneficiano le persone della categoria privilegiata, con la conseguenza che il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione nazionale discriminatoria, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione da parte del legislatore. La disapplicazione operata dal giudice nazionale, in nome del principio di eguaglianza così come interpretato in ambito comunitario, ha dunque conseguenze additive favorevoli, in quanto di fatto consente l’estensione dei benefici di “genere” (2) al fine di rimuovere una «discriminazione alla rovescia» (3). Dott.ssa Chiara Di Seri(*) (1) Con riferimento all’art. 7 la Corte, nella sentenza 30 aprile 1998, relativa alle cause riunite da C-377/96 a C-384/96, aveva in precedenza affermato che quando una normativa nazionale ha mantenuto in vigore una differenza nell’età pensionabile tra i lavoratori di sesso maschile e i lavoratori di sesso femminile, lo Stato membro interessato ha il diritto di calcolare l’importo della prestazione diversamente secondo il sesso del lavoratore. Ma se in tale calcolo possono essere inclusi benefici connessi ad un pensionamento anticipato appare debolmente argomentata l’esclusione di benefici in una sede diversa. Infatti, il rapporto di connessione di trattamenti agevolativi con l’età pensionabile enfatizzato nella pronuncia relativa alla causa C-303/02 Peter Haackert, richiamata dalla stessa Corte nel caso Vergani, sembra perdere consistenza solo in considerazione del nomen iuris, nel senso che la ragione dell’inapplicabilità della deroga di cui all’art. 7 risulta collegata alla forma in cui viene concessa l’agevolazione. (*) Dottoranda di ricerca Scuola dottorale Interuniversiatria Internazionale in Diritto europeo, Storia e Sistemi giuridici dell’Europa – Università degli Studi di Roma Tre. 02 comun 02 Ferrante diseri.qxp 06/04/2009 13.45 Pagina 61 62 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 Ordinanza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, Settima Sezione, 16 gennaio 2008 nelle cause riunite da C-128/07 a C-131/07 - Domande di pronuncia pregiudiziale proposte dalla Commissione tributaria provinciale di Latina - Angelo Molinari (C-128/07), Giovanni Galeotta (C-129/07), Salvatore Barbagallo (C-130/07), Michele Ciampi (C- 131/07)/Agenzia delle Entrate - Ufficio di Latina. (Avvocato dello Stato W. Ferrante - AL 21789/07). Direttiva 76/207/CEE - Parità di trattamento tra uomini e donne - Indennità di esodo - Agevolazione fiscale concessa ad un’età differente a seconda del sesso dei lavoratori. (… Omissis) 1. Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione, da un lato, della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (GU L 39, pag. 40), operata dalla Corte nella sua sentenza 21 luglio 2005, causa C-207/04, Vergani (Racc. pag. I- 7453), e, dall’altro, della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, 79/7/CEE, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale (GU 1979, L 6, pag. 24). (2) Una lettura congiunta degli artt. 3 e 37 Cost. rende evidente come la parità di trattamento non si esaurisca affatto nella parità retributiva, ma investa globalmente la posizione della donna lavoratrice, postulando un’uguaglianza formale e sostanziale con l’uomo lavoratore. Di qui la necessità di azioni positive volte a rimuovere una situazione di fatto di diseguaglianza nelle opportunità di partecipazione alla vita sociale, politica ed economica, dovute fondamentalmente a fattori culturali e storici. A questo proposito il legislatore è intervenuto in attuazione dei principi costituzionali prima con specifico riferimento alla tutela della lavoratrice madre e, successivamente per quel che attiene alla parità e pari opportunità sul lavoro (si vedano la L. 9 febbraio 1963, n. 66 «Ammissione delle donne ai pubblici uffici e professioni», la L. 9 dicembre 1977, n. 903 «Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro» e la L. 10 aprile 1991, n. 125 «Azioni positive per la parità uomo-donna nel mondo del lavoro»). (3) Generalmente l’espressione «discriminazioni alla rovescia» è utilizzata nell’ordinamento nazionale per identificare quelle situazioni di disparità che si verificano come effetto indiretto delle azioni positive adottate dallo Stato in nome del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, 2° comma, Cost. (si veda tra i tanti la compita analisi di DWORKIN, Discriminazione alla rovescia, Bologna, 1982). Nella stessa categoria sono ricondotti gli effetti pregiudizievoli dell’applicazione del diritto comunitario in danno dei cittadini di uno Stato membro, o delle sue imprese, rispetto agli altri soggetti dell’ordinamento comunitario (si vedano sul tema GHERA, Il principio di eguaglianza nella costituzione italiana e nel diritto comunitario, Padova, 2003; ID., Il principio di eguaglianza nel diritto comunitario e nel diritto interno, in Giur. Cost., 1999, 3267 e segg.; SALMONI, La Corte costituzionale e la Corte di Giustizia delle Comunità europee, in Dir. Pubbl., 2002, 491 e segg.; AMEDEO, DOLSO, La Corte costituzionale e le discriminazioni alla rovescia, in Giur. Cost., 1998, 1221 e segg.; CANNIZZARO, Esercizio di competenze comunitarie e «discriminazioni a rovescio», in Dir. Un. Eur., 1996, 351 e segg.; DONATI, Principio fondamentale di eguaglianza e diritto comunitario, in Giur. Cost., 1995, 1838). 02 comun 02 Ferrante diseri.qxp 06/04/2009 13.45 Pagina 62 2. Tali domande sono state presentate nell’ambito di quattro controversie rispettivamente tra i sigg. Molinari, Galeota, Barbagallo e Ciampi, tutti di sesso maschile, da un alto, e l’Agenzia delle Entrate-Ufficio di Latina (in prosieguo: l’«Agenzia»), dall’altro, a proposito del rifiuto da parte di quest’ultima di concedere loro una riduzione fiscale sulle somme che essi avevano percepito dal proprio datore di lavoro a titolo di «incentivo all’esodo». Contesto normativo La normativa comunitaria La direttiva 76/207 3. Dall’art. 1, n. 1, della direttiva 76/207 risulta che essa è diretta ad attuare negli Stati membri il principio della parità di trattamento fra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, ivi compresa la promozione, e l’accesso alla formazione professionale, nonché le condizioni di lavoro e, alle condizioni di cui al n. 2 dello stesso articolo, la previdenza sociale. 4. A termini dell’art. 2, n. 1, di tale direttiva: «Ai sensi delle seguenti disposizioni il principio della parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia». 5. L’art. 5 della medesima direttiva stabilisce quanto segue: «1. L’applicazione del principio della parità di trattamento per quanto riguarda le condizioni di lavoro, comprese le condizioni inerenti al licenziamento, implica che siano garantite agli uomini e alle donne le medesime condizioni, senza discriminazioni fondate sul sesso. 2. A tal fine, gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché: a) siano soppresse le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative contrarie al principio della parità di trattamento; (...)». La direttiva 79/7 6. L’art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva 79/7 stabilisce che questa non pregiudica la facoltà degli Stati membri di escludere dal suo campo di applicazione la fissazione del limite di età per la concessione della pensione di vecchiaia e di fine lavoro e le conseguenze che possono derivarne per altre prestazioni. La normativa nazionale 7. Nell’ordinamento italiano, le disposizioni relative al limite di età per il collocamento a riposo sono enunciate dall’art. 9 della legge 4 aprile 1952, n. 218, sul riordinamento delle pensioni dell’assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti (Supplemento ordinario alla GURI n. 89 del 15 aprile 1952). Ai sensi di tale disposizione, i lavoratori di sesso maschile hanno diritto alla pensione al compimento del sessantesimo anno di età e quelli di sesso femminile al compimento del cinquantacinquesimo anno di età, a condizione, in entrambi i casi, di aver versato i contributi per la durata e nella misura richieste. 8. Vigono disposizioni particolari per i dipendenti di imprese dichiarate in crisi dal Comitato interministeriale per il coordinamento della politica industriale. La legge 23 aprile 1981, n. 155 (Supplemento ordinario alla GURI n. 114 del 27 aprile 1981), consente ai detti dipendenti di fruire del collocamento a riposo anticipato all’età di 55 anni se uomini e di 50 anni se donne. 9. L’art. 17, comma 4 bis, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (Supplemento ordinario alla GURI n. 302 del 31 dicembre 1986), come modificato dal decreto legislativo 2 settembre 1997, n. 314 (Supplemento ordinario alla GURI IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 63 02 comun 02 Ferrante diseri.qxp 06/04/2009 13.45 Pagina 63 n. 219 del 19 settembre 1997; in prosieguo: il «DPR n. 917/86»), dispone quanto segue: «Per le somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto al fine di incentivare l’esodo dei lavoratori che abbiano superato l’età di 50 anni se donne e di 55 se uomini, di cui all’art. 16, comma 1, lett. a), l’imposta si applica con l’aliquota pari alla metà di quella applicata per la tassazione del trattamento di fine rapporto e delle altre indennità e somme indicate alla lett. a) del comma 1 dell’art. 16». 10. Dopo i fatti della causa principale, l’art. 17, n. 4 bis, del DPR n. 917/86 è diventato, in seguito al decreto legislativo 12 dicembre 2003, n. 344 (Supplemento ordinario alla GURI n. 291 del 16 dicembre 2003), l’art. 19, n. 4 bis, del medesimo DPR. 11. Il detto art. 19, n. 4 bis, è stato abrogato dall’art. 36, n. 23, del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223 (GURI n. 186 dell’11 agosto 2006). 12. Il detto art. 36, n. 23, è così formulato: «Nell’articolo 19 [del DPR n. 917/86] il comma 4-bis è abrogato. La disciplina di cui al predetto comma 4-bis continua ad applicarsi con riferimento alle somme corrisposte in relazione a rapporti di lavoro cessati prima della data di entrata in vigore del presente decreto, nonché con riferimento alle somme corrisposte in relazione a rapporti di lavoro cessati in attuazione di atti o accordi, aventi data certa, anteriori alla data di entrata in vigore del presente decreto». La controversia nella causa principale e le questioni pregiudiziali 13. Risulta dalle decisioni di rinvio che i ricorrenti nella causa principale ricevevano, tra il mese di maggio e il mese di novembre dell’anno 2002, a seguito della cessazione del rapporto di lavoro con il loro datore di lavoro, somme versate a titolo di incentivo all’esodo. All’epoca essi erano di età compresa tra i 53 e i 54 anni. Il datore di lavoro effettuava la ritenuta di acconto a titolo di imposta sul reddito delle persone fisiche senza applicare la riduzione del 50% prevista all’art. 17, n. 4 bis, del DPR n. 917/86. 14. Basandosi sulla citata sentenza Vergani i ricorrenti nella causa principale si rivolgevano all’Agenzia al fine di ottenere il rimborso della metà delle somme oggetto di ritenuta da parte del datore di lavoro a titolo della detta imposta. Poiché le loro domande non venivano accolte dall’Agenzia, essi proponevano dinanzi al giudice del rinvio ricorsi diretti all’annullamento del silenzio rifiuto opposto dall’Agenzia alle istanze di rimborso delle somme a loro parere da essi indebitamente versate. 15. Dinanzi a tale giudice, l’Agenzia ha sostenuto che, nella citata sentenza Vergani, la Corte si è limitata ad affermare l’illegittimità della fissazione di limiti di età differenti per gli uomini e le donne per beneficiare di un’agevolazione fiscale, ma non si è pronunciata sulla questione se il legislatore italiano avrebbe dovuto estendere agli uomini di età compresa fra i 50 e i 55 anni il beneficio della riduzione fiscale concessa alle donne rientranti nella stessa fascia di età. 16. Di conseguenza la Commissione tributaria provinciale di Latina ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali, formulate in termini identici nelle quattro cause da C-128/07 a C-131/07: «1) Se la [citata] sentenza [Vergani] debba essere interpretata nel senso che il legislatore italiano avrebbe dovuto estendere anche agli uomini il limite di età vantaggioso previsto per le donne; 2) Se nel caso in esame si [debba] statuire che agli uomini a partire dai 50 anni devono applicarsi sulle somme di incentivazione all’esodo l’aliquota pari alla metà di quella prevista per la tassazione del T.F.R.; 3) Se, considerato che gli importi versati dal contribuente per Irpef non costituiscono ele- 64 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 02 Ferrante diseri.qxp 06/04/2009 13.45 Pagina 64 mento della retribuzione non essendo pagati dal datore di lavoro in ragione del rapporto di lavoro, e considerato che l’importo versato, per favorire l’incentivazione, dal datore di lavoro al lavoratore non ha natura retributiva, sia conforme al diritto comunitario statuire che la differenza di età di 50 anni per le donne e 55 per gli uomini sia contraria al diritto comunitario ritenuto che la direttiva 79/7 consente agli Stati membri di mantenere limiti di età diversi per il pensionamento. 4) Se l’interpretazione del diritto comunitario (direttiva […], 76/207 […]) osta o non osta all’applicazione della norma nazionale da cui ha tratto spunto il caso portato all’esame della Corte, significando a questo giudice nazionale l’incompatibilità della norma interna (art. 17 ora 19 comma 4-bis D.P.R. 917/86) ovvero la compatibilità». 17. Con ordinanza del presidente della Corte del 27 aprile 2007, le cause da C-128/07 a C-131/07 sono state riunite ai fini delle fasi orale e scritta del procedimento nonché della sentenza. Sulle questioni pregiudiziali 18. Ai sensi dell’art. 104, n. 3, primo comma, del regolamento di procedura, qualora la soluzione di una questione pregiudiziale possa essere chiaramente desunta dalla giurisprudenza, la Corte, dopo aver sentito l’avvocato generale, può statuire con ordinanza motivata. Sulle questioni prima, seconda e quarta 19. Con le suddette questioni, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente quali siano gli obblighi che la citata sentenza Vergani impone al legislatore italiano e, in particolare, se esso sia tenuto, nell’ambito delle cause principali, a disapplicare l’art. 17, n. 4 bis, del DPR n. 917/86 e ad applicare agli uomini di età compresa fra i 50 e i 55 anni alla data del versamento delle somme corrisposte a titolo di incentivo all’esodo lo stesso regime fiscale riservato alle donne per la tassazione di tali somme. 20. A questo proposito, occorre subito ricordare che la Corte ha dichiarato, da un lato, che l’art. 5, n. 1, della direttiva 76/207 non attribuisce affatto agli Stati membri la facoltà di condizionare o restringere l’applicazione del principio della parità di trattamento nel proprio campo d’applicazione e, dall’altro, che detta disposizione è adeguatamente precisa e incondizionata per essere fatta valere dai singoli dinanzi ai giudici nazionali e consentire a questi ultimi la disapplicazione di qualsiasi disposizione nazionale non conforme al suddetto art. 5, n. 1 (sentenza 26 febbraio 1986, causa 152/84, Marshall, Racc. pag. 723, punto 55). 21. Nella citata sentenza Vergani la Corte ha dichiarato che la direttiva 76/297 dev’essere interpretata nel senso che osta ad una norma quale quella controversa nella causa principale, ossia l’art. 17, n. 4 bis, del DPR n. 917/86, che concede ai lavoratori che hanno raggiunto l’età di 50 anni, se si tratta di lavoratori di sesso femminile, e di 55 anni, se si tratta di lavoratori di sesso maschile, a titolo di incentivo all’esodo, il beneficio della tassazione con aliquota ridotta alla metà delle somme erogate in occasione della cessazione del rapporto di lavoro. 22. La Corte ha già dichiarato che, a seguito di una sentenza emessa su domanda di pronuncia pregiudiziale da cui risulti l’incompatibilità di una normativa nazionale con il diritto comunitario, è compito delle autorità dello Stato membro interessato adottare i provvedimenti generali o particolari idonei a garantire il rispetto del diritto comunitario sul loro territorio (v., in questo senso, sentenza 7 gennaio 2004, causa C-210/02, Wells, Racc. pag. I- 723, punti 64 e 65; 25 marzo 2004, causa C-495/00, Azienda Agricola Giorgio, Giovanni e Luciano Visentin e a., Racc. pag. I-2993, punto 39, nonché 21 giugno 2007, cause riunite da C-231/06 a C-233/06, Jonkman e a., non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 38). Tali autorità mantengono un potere discrezionale quanto alle misure da adottare affinché il dirit- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 65 02 comun 02 Ferrante diseri.qxp 06/04/2009 13.45 Pagina 65 to nazionale sia adeguato al diritto comunitario e affinché sia data piena attuazione ai diritti che sono attribuiti ai singoli da quest’ultimo (v. sentenza Jonkman e a., cit., punto 38). 23. Così, nei casi di discriminazioni incompatibili con il diritto comunitario, finché non siano adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, l’osservanza del principio di uguaglianza può essere garantita solo mediante la concessione alle persone appartenenti alla categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui beneficiano le persone della categoria privilegiata. In tale ipotesi, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione nazionale discriminatoria, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione da parte del legislatore, e deve applicare ai componenti del gruppo sfavorito lo stesso regime che viene riservato alle persone dell’altra categoria (sentenze 28 settembre 1994, causa C- 408/92, Avdel Systems, Racc. pag., I-4435, punti 16 e 17; 12 dicembre 2002, causa C- 442/00, Rodriguez Caballero, Racc. pag. I-11915, punti 42 e 43; 7 settembre 2006, causa C-81/05, Cordero Alonso, Racc. pag. I-7569, punti 45 e 46, nonché Jonkman e a., cit., punto 39). 24. Di conseguenza occorre risolvere la prima, la seconda e la quarta questione pregiudiziale nel senso che, a seguito della citata sentenza Vergani, da cui risulta l’incompatibilità di una normativa nazionale con il diritto comunitario, è compito delle autorità dello Stato membro interessato adottare i provvedimenti generali o particolari idonei a garantire il rispetto del diritto comunitario sul loro territorio, mentre le dette autorità mantengono un potere discrezionale quanto alle misure da adottare affinché il diritto nazionale sia adeguato al diritto comunitario e affinché sia data piena attuazione ai diritti che sono attribuiti ai singoli da quest’ultimo. Qualora sia stata accertata una discriminazione incompatibile con il diritto comunitario, finché non siano adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione discriminatoria, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione da parte del legislatore, e deve applicare ai componenti della categoria sfavorita lo stesso regime che viene riservato alle persone dell’altra categoria. Sulla terza questione 25. Con detta questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se le somme versate a titolo di incentivo all’esodo abbiano il carattere di prestazioni previdenziali e se, di conseguenza, la disparità di trattamento tra gli uomini e le donne controversa nella causa principale possa rientrare nella deroga prevista dall’art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva 79/7. 26. A questo proposito, basta rilevare che, dopo aver ricordato che il detto art. 7, n. 1, lett. a), può applicarsi solo alla fissazione del limite di età per la concessione della pensione di vecchiaia e di fine lavoro e alle conseguenze che possono derivarne per altre prestazioni rientranti nell’ambito della previdenza sociale, la Corte, al punto 33 della citata sentenza Vergani, ha dichiarato che tale eccezione al divieto di discriminazioni fondate sul sesso non è applicabile a un’agevolazione fiscale quale quella prevista dall’art. 17, n. 4 bis, del DPR n. 917/86, che non costituisce una prestazione previdenziale. 27. Di conseguenza, occorre risolvere la terza questione nel senso che la deroga prevista dall’art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva 79/7 non è applicabile ad una misura fiscale quale quella di cui all’art. 17, n. 4 bis del DPR n. 917/86. Sulle spese 28. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. 66 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 02 Ferrante diseri.qxp 06/04/2009 13.45 Pagina 66 IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 67 Per questi motivi, la Corte (Settima Sezione) dichiara: 1) A seguito della sentenza 21 luglio 2005, causa C-207/04, Vergani, da cui risulta l’incompatibilità di una normativa nazionale con il diritto comunitario, è compito delle autorità dello Stato membro interessato adottare i provvedimenti generali o particolari idonei a garantire il rispetto del diritto comunitario sul loro territorio, mentre le dette autorità mantengono un potere discrezionale quanto alle misure da adottare affinché il diritto nazionale sia adeguato al diritto comunitario e affinché sia data piena attuazione ai diritti che sono attribuiti ai singoli da quest’ultimo. Qualora sia stata accertata una discriminazione incompatibile con il diritto comunitario, finché non siano adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione discriminatoria, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione da parte del legislatore, e deve applicare ai componenti della categoria sfavorita lo stesso regime che viene riservato alle persone dell’altra categoria. 2) La deroga prevista dall’art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, 79/7/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, non è applicabile a una misura fiscale quale quella di cui all’art. 17, n. 4 bis, del DPR 22 dicembre 1986, n. 917, come modificato dal decreto legislativo 2 settembre 1997, n. 314. 02 comun 02 Ferrante diseri.qxp 06/04/2009 13.45 Pagina 67 68 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 Il diritto di accesso ai documenti delle Istituzioni europee (Corte di Giustizia delle Comunità europee, Grande Sezione, sentenza del 1° luglio 2008 nelle cause riunite C-39/05 P e C-52/05 P) La sentenza oggetto della presente nota a commento verte in tema di ammissibilità o meno dell’accesso, da parte del pubblico, ai documenti delle Istituzioni Europee, in particolare, nel caso de quo, ai pareri giuridici del Consiglio, ed addiviene alla conclusione per cui la trasparenza del procedimento legislativo ed il rafforzamento dei diritti democratici dei cittadini europei costituiscono un interesse pubblico prevalente che giustifica la divulgazione dei pareri giuridici. Fatto Il 22 ottobre 2002 il Sig. Maurizio Turco chiedeva l’accesso ad un parere del servizio giuridico del Consiglio in merito ad una proposta di direttiva recante requisiti minimi per l’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri. A seguito del diniego di accesso, giustificato - a dire del Consiglio - dalla particolare tutela per i pareri del servizio giuridico e dall’assenza di un interesse pubblico prevalente che consentisse la divulgazione del documento, il Sig. Turco adiva il Tribunale di primo grado al fine di ottenere l’annullamento della decisione del Consiglio. Il Tribunale adito respingeva ogni motivazione addotta statuendo che “la divulgazione di pareri quali il parere giuridico di cui trattasi potrebbe, da un lato, suscitare un dubbio sulla legittimità degli atti legislativi cui tali pareri si riferiscono e, dall’altro, mettere a repentaglio l’indipendenza del servizio giuridico del Consiglio nel fornire la sua consulenza, cosicché il Consiglio non ha commesso errori di valutazione nel ritenere che sussista un interesse generale alla tutela dei pareri giuridici quale quello di cui trattasi”. In merito al principio di trasparenza dei procedimenti legislativi, evocato dal sig. Turco a sostegno della propria tesi quale interesse pubblico prevalente, il Tribunale dichiarava la necessità di tenere distinti i principi soggiacenti al regolamento n. 1049/2001 (1) (tra cui il principio della trasparenza) e l’interesse pubblico prevalente in quanto tale. Il Sig.Turco e il Regno di Svezia adivano, pertanto, la Corte di Giustizia onde ottenere l’annullamento della sentenza del Tribunale nella parte in cui negava l’accesso ai pareri giuridici. La Corte ha precisato che il Consiglio, prima della divulgazione di un documento, deve: (1) Regolamento (CE) n. 1049 del 30 maggio 2001 relativo all’accesso del pubblico ai documenti del Paralamento europeo, del Consiglio e della Commissione. 02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 68 IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 69 - verificare che, indipendentemente dalla denominazione data al documento, quest’ultimo costituisca effettivamente ex se un parere giuridico; - verificare se dalla predetta divulgazione possa derivare pregiudizio alcuno per la tutela della consulenza legale; - verificare che non esista un interesse pubblico prevalente che giustifichi tale divulgazione nonostante il pregiudizio che ne deriverebbe al suo interesse a chiedere una consulenza legale o a ricevere pareri franchi ed obiettivi. La statuizione del Tribunale a quo - continua la Corte - secondo cui la divulgazione potrebbe far sorgere dubbi circa la legalità dell’atto legislativo, non è di per se idonea ad integrare gli estremi di un tale pregiudizio, dal momento che “proprio la trasparenza contribuisce a conferire alle Istituzioni una maggiore legittimità agli occhi dei cittadini europei e ad accrescere la loro fiducia”. La Corte ha così concluso che il regolamento n. 1049/2001 impone, in linea di principio, un obbligo di divulgare i pareri del servizio giuridico del Consiglio relativi ad un procedimento legislativo derogabile soltanto in caso di pareri resi nell’ambito di un procedimento legislativo che abbia un contenuto particolarmente sensibile o una portata particolarmente estesa che vada al di là dell’ambito del procedimento legislativo. In tal caso si dovrebbe motivare il diniego in modo circostanziato (2). La Corte, pertanto, ha annullato la sentenza del Tribunale nella parte concernente il diniego di accesso al parere giuridico in esame ed ha annullato la decisione del Consiglio di diniego di accesso al documento richiesto (3). Il Regolamento CE n. 1049/2001 e l’art. 4 n. 2 e n. 3 del Reg. cit. L’intera questione oggetto della sentenza in esame ruota attorno alla corretta interpretazione e applicazione dell’art. 4 n. 2 (4) e n. 3 del Regolamento (CE) n. 1049/2001 (5): l’art. 4 n. 2 prevede che le Istituzioni rifiutino l’accesso ad un documento laddove la sua divulgazione possa arrecare pregiudizio - per la parte che qui interessa per la risoluzione del caso de quo - “alla tutela delle procedure giurisdizionali e della consulenza legale, a condizione che non vi sia un interesse pubblico prevalente alla divulgazione”; l’art. 4 n. (2) Nel senso della necessità di una motivazione si veda, ex multis, Tribunale di primo grado, sentenza del 26 aprile 2005, Sison c/o Consiglio, cause riunite T-110/03, T-150/03 e T-405/03; Tribunale di primo grado, sentenza del 6 luglio 2006, Franchet e Byk. (3) “Il Consiglio ha preso atto delle conseguenze della sentenza della Corte del 1° luglio 2008”: Comunicato Stampa, 2887° sessione del Consiglio Giustizia e Affari Interni, Bruxelles 24-25 luglio 2008. (4) L’art. 4 n. 2 dispone testualmente che “Le Istituzioni rifiutano l’accesso a un documento la cui divulgazione arrechi pregiudizio alla tutela di quanto segue: gli interessi commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresa la proprietà intellettuale; le procedure giurisdizionali e la consulenza legale; gli obiettivi delle attività ispettive, di indagine e di revisione contabile, a meno che vi sia un interesse pubblico prevalente alla divulgazione”. (5) Si veda nota n. 1 02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 69 70 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 3 testualmente dispone che “l’accesso ad un documento elaborato per uso interno da un’Istituzione o da essa ricevuto, relativo ad una questione su cui la stessa non abbia ancora adottato una decisione, viene rifiutato nel caso in cui la divulgazione del documento pregiudicherebbe gravemente il processo decisionale dell’Istituzione, a meno che vi sia un interesse pubblico prevalente alla divulgazione”. Il Tribunale di primo grado ha chiaramente indicato che l’oggetto del Regolamento è permettere a ogni persona fisica di avere accesso ai documenti pubblici. L’interesse specifico di una persona a ottenere accesso a un documento, in particolare per far valere il proprio punto di vista in una controversia, non rileva ai fini della decisione di divulgare o non il documento, ove l’Istituzione applichi le eccezioni di cui all’art. 4, par. 1 lett. a) o qualora uno Stato membro si opponga alla divulgazione di un documento ai sensi dell’art. 4 par. 5. Il Tribunale di primo grado ha, altresì, più volte statuito che il diritto della difesa di un richiedente in una causa è di natura privata e che pertanto non può costituire un interesse pubblico superiore tale da giustificare la divulgazione di un documento. Il sig. Turco, nel caso oggetto della presente nota a commento, ha invocato l’applicazione al caso de quo dell’art. 4 n. 3 ed una errata interpretazione dell’art. 4 n. 2. La giurisprudenza comunitaria ha affrontato in più occasioni le problematiche legate al diritto di accesso ai documenti delle Istituzioni europee e correlate eccezioni. Si veda, ad esempio, causa T-403/05 del 9 settembre 2008, My Travel c/ Commissione; causa C-266/05 del 1 febbraio 2007, Sison c/ Consiglio; causa T-237/02 del 14 dicembre 2006, Technische Glaswerke Gmbh c/ Commissione; ordinanza del Tribunale di Primo grado del 15 giugno 2005, causa T-98/04, Società imballaggi metallici Salerno Srl (SIMSA) c/ Commissione . Si cita, altresì, a titolo esemplificativo, la causa T-610/97, Carlsen e a. c/ Consiglio, secondo cui “la divulgazione di documenti di questo tipo avrebbe per effetto di rendere pubblico il dibattito e gli scambi di vedute, interni all’istituzione, circa la legittimità e la portata dell’atto giuridico da adottare e, pertanto… essa potrebbe portare a far perdere all’istituzione qualsiasi interesse a chiedere ai servizi giuridici pareri scritti. In altri termini… la divulgazione di tali documenti potrebbe creare un’incertezza riguardo alla legittimità degli atti comunitari e avere conseguenze negative sul funzionamento delle istituzioni comunitarie” (6). E ancora: il diritto di accesso è negato laddove il diniego trovi giustificazione “nell’interesse pubblico, secondo cui le Istituzioni devono poter beneficiare dei pareri dei loro servizi giuridici forniti in totale indipendenza” (7). (6) T-610/97, ordinanza del 3 marzo 1998, Presidente del Tribunale di primo grado. (7) Corte di Giustizia, ordinanza del 23 ottobre 2002, Austria c/Consiglio, causa C- 445/00; Tribunale di primo grado, sentenza dell’ 8 novembre 2000, Ghignone e a. c/Consiglio, causa T-44/97; Tribunale di primo grado, ordinanza del 10 gennaio 2005, Gollnisch e a. c/Parlamento, causa T-357/03. 02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 70 IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 71 L’operato delle Istituzioni europee a garanzia di un maggiore diritto di accesso del pubblico ai documenti e gli effetti della sentenza Turco (8). Nel novembre 2005 la Commissione europea ha avviato la sua campagna a favore di una maggiore trasparenza e possibilità per le Istituzioni di rispondere in modo più efficiente alle richieste dei cittadini, elaborando, in primis, una proposta di revisione del Regolamento n. 1049/2001. Nella primavera del 2007 la Commissione ha provveduto alla pubblicazione di un Libro Verde, punto di partenza, questo, assieme alle raccomandazioni del Parlamento europeo e alla giurisprudenza della Corte europea per una revisione del Regolamento menzionato. La Commissione ha espresso che “L’obiettivo consiste nell’accrescere la trasparenza, nel migliorare l’accesso e nello sviluppare comunicazione e comprensione. Il diritto dei cittadini a sapere è fondamentale in ogni sistema democratico. L’accesso ai documenti è uno strumento essenziale della democrazia e ora ci apprestiamo a migliorarlo” (9). Il Libro Verde è composto di due parti principali: la prima contiene un’analisi dell’attuazione del Regolamento con una sintesi della giurisprudenza pertinente in merito; la seconda contiene suggerimenti della Commissione per migliorare il sistema (10). Oggi la Commissione ha adottato modifiche relative alle regole di accesso ai documenti delle istituzioni UE. Il Presidente della Commissione europea, Josè Manuel Barroso, ha dichiarato: “All’inizio del mio mandato ho sottolineato la necessità di accrescere la trasparenza del nostro lavoro. Le regole di accesso ai documenti funzionano bene. Le modifiche si prefiggono di rispondere all’evolversi della giurisprudenza della Corte e di migliorare ulteriormente l’accesso dei documenti da parte dei cittadini europei”. La proposta della Commissione di un nuovo testo consolidato conferisce maggiore importanza alla diffusione attiva di informazioni e conforma il Regolamento alle disposizioni della Convenzione di Aarhus (11) sull’accesso ai dati ambientali. Viene infine chiarito il significato di documento, includendo, ad (8) Considerazioni tratte dalla Proposta di risoluzione del Parlamento europeo sul Rapporto annuale relativo all’accesso pubblico ai documenti del Parlamento (2007/ 2154(INI)) del 6 ottobre 2008. (9) Dichiarazioni della vicepresidente della Commissione Margot Wallstrom, responsabile per le Relazioni istituzionali e la Strategia della comunicazione. (10) Le principali questioni sottoposte a consultazione sono: - è necessario un più forte accento sulla promozione di una diffusione attiva delle informazioni? - l’armonizzazione con le regole dell’accesso alle informazioni ambientali determinerebbe una maggiore chiarezza per i cittadini? - come assicurare il giusto equilibrio tra esigenza di trasparenza, protezione dei dati personali e buona amministrazione? (11) Convenzione sull’accesso all’informazione, sulla partecipazione del pubblico al processo decisionale e sull’accesso alla giustizia in materia ambientale conclusa a Aarhus (Danimarca) il 25 giugno 1998. 02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 71 72 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 esempio, anche il contenuto di banche dati elettroniche quando può essere stampato o trasmesso in forma elettronica e si propone, altresì, un testo più esplicito relativamente alla protezione dei documenti relativi ad indagini in corso, al fine di una maggiore chiarezza, senza, tuttavia, ridurre il numero dei documenti accessibili. Si prevede il miglioramento dell’accesso ai nomi e alle funzioni delle persone che operano a titolo professionale, a documenti degli stati membri e alla documentazione scritta presentata dalle Istituzioni ai tribunali. Tali modifiche sono in linea con la recente giurisprudenza della Corte europea (12). Si evidenzia, inoltre, che, sempre nell’ottica di garantire una maggiore trasparenza e accessibilità ai cittadini europei dei documenti amministrativi, è stato predisposto un centro di documentazione europea (CDE), uno dei centri di informazione della rete Europe Direct dell’Unione Europea. L’obiettivo del CDE è quello di offrire a tutti i cittadini la possibilità di accedere alla documentazione prodotta nell’Unione europea, in ottemperanza ai regolamenti ad alle normative codificate solennemente nel principio di trasparenza (art. 255 del Trattato CE e tradotte nel Regolamento del 2001) che riconosce il diritto di accesso ai documenti amministrativi come uno dei diritti fondamentali del cittadino europeo. A seguito dell’emanazione della sentenza Turco, nella recentissima Proposta di risoluzione (del Parlamento europeo) sul Rapporto annuale relativo all’accesso pubblico ai documenti del Parlamento si è messo in evidenza come la comunità internazionale e l’Unione europea siano progressivamente pervenute al riconoscimento di un reale diritto di accesso ai documenti e di un diritto all’informazione fondato sui principi di democrazia, pubblicità, prospettandosi per il futuro la necessità che le Istituzioni europee ispirino il loro modus operandi ad una maggiore apertura e trasparenza e si muovano in direzione di un Freedom of Information Act dell’UE, dal momento che l’applicazione del Regolamento (CE) n. 1049/2001 ha portato alla pubblica attenzione tutta una serie di carenze. “Le recenti sentenze in materia devono essere analizzate ed attuate con urgenza da parte delle Istituzioni” (13). Anche il Parlamento europeo sostiene, pertanto, che la sentenza oggetto della presente nota a commento rafforza ulteriormente nell’UE il principio in base al quale le Istituzioni democratiche hanno il dovere di assicurare pubblicità alle proprie attività, documenti e decisioni, in quanto condizione della loro legalità, legittimità e accountability, principi sanciti dall’articolo 6 del Trattato UE e dagli articoli 254 e 255 (14) del Trattato CE; che pertanto i documenti (12) www.europa.eu – “migliorare l’accesso del pubblico ai documenti delle istituzioni UE”, articolo del 30 aprile 2008. (13) Progetto di Relazione sul Rapporto annuale relativo all’accesso pubblico ai documenti del Parlamento sopra cit., pag. 5. (14) Art. 255, Trattato CE: “qualsiasi cittadino dell’Unione e qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro ha il diritto di accedere ai documenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione, secondo i principi e alle condizioni da definire a norma dei paragrafi 2 e 3. 02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 72 IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 73 devono essere pubblicati e resi comunque accessibili e che ogni eccezione a tale principio deve essere limata ed interpretata in senso restrittivo. Il Parlamento europeo sollecita tutte le Istituzioni dell’UE ad applicare il Regolamento citato alla luce della recente giurisprudenza, e segnatamente della sentenza Turco con tutte le sue implicazioni (pubblicazione dei pareri del servizio giuridico, interpretazione restrittiva delle eccezioni, obbligo di fornire una motivazione particolareggiata in caso di rifiuto, ecc. ) ed invita inoltre il Consiglio a garantire la pubblicità di tutti i documenti e dati informativi, e ciò in quanto “le conclusioni della CGCE secondo cui il pubblico interesse alla trasparenza fa premio sull’eccezione motivata dalla protezione del processo decisionale - in quanto la diversità dei pareri di un atto legislativo accresce la legittimità delle Istituzioni - si applicano anche in tal caso” (15). Il diritto di accesso nel contesto italiano: brevi cenni L’accesso ai documenti amministrativi, protagonista, specie nei recentissimi anni, di innovazioni legislative - il riferimento è alla L. n. 15/2005 e alla L. n. 80/2005, con le quali il diritto di accesso è assurto a principio generale dell’attività amministrativa - e di pronunce giurisprudenziali applicative della l. 241/1990 così come modificata dalle leggi citate, costituisce un fondamentale corollario del principio di trasparenza. L’obiettivo del legislatore nazionale è stato quello di garantire la celerità dell’azione amministrativa ma, al contempo, assicurare gli interessi dei soggetti titolari di situazioni giuridiche incise dal modus operandi pubblico. Si tenterà nel prosieguo della disamina di offrire una panoramica generale in merito al diritto di accesso ai documenti, mettendo in luce i profili più significativi della disciplina normativa. Con la L. n. 15/2005, il diritto di accesso ai documenti amministrativi - del quale la dottrina aveva già rinvenuto anche un fondamento costituzionale - è stato elevato, come innanzi esposto, a principio generale dell’attività amministrativa. Nel contesto italiano si è, altresì, dibattuto a lungo in merito alla natura del diritto di accesso, se qualificabile alla stregua di diritto soggettivo o interesse legittimo (16), una questione ancora irrisolta. I principi generali e le limitazioni a tutela di interessi pubblici o privati applicabili al diritto di accesso ai documenti sono stabiliti dal Consiglio che delibera secondo la procedura di cui all’art. 251 entro due anni dall’entrata in vigore del trattato di Amsterdam. Ciascuna delle suddette istituzioni definisce nel proprio regolamento interno disposizioni specifiche riguardanti l’accesso ai propri documenti”. (15) Progetto di Relazione sul Rapporto annuale relativo all’accesso pubblico ai documenti del Parlamento sopra cit., pag. 6. (16) La giurisprudenza amministrativa non è pacifica nel riconoscere che il diritto di accesso abbia natura di un vero e proprio diritto soggettivo (a favore si veda ex multis TAR Abruzzo, Pescara, 21 febbraio 2004 n. 230; contra, CdS, sez. V, 7 aprile 2004 n. 1969, per cui la posizione giuridica soggettiva posta a base del diritto di accesso va qualificata come interesse legittimo). 02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 73 74 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 Ai sensi dell’art. 22 della legge 7 agosto 1990, n. 241 per diritto di accesso si intende il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi intesi, quest’ultimi, in una accezione piuttosto ampia enunciata nei termini che seguono: “ogni rappresentazione grafica, foto-cinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, formati dalle pubbliche amministrazioni o, comunque, utilizzati ai fini dell’attività amministrativa”. Il diritto di accesso deve fondarsi su di un interesse che sia: - attuale, non già in riferimento all’interesse ad agire in giudizio per la tutela immediata della posizione sostanziale sottostante la richiesta ostensiva, bensì alla richiesta di accesso ai documenti in sé considerata; - personale (17), ossia inerente alla sfera giuridica dell’interessato intesa come legame tra l’interesse ed il soggetto; - concreto(18), inteso nel senso di non evanescenza, bensì tangibilità dell’interesse; - serio, quindi meritevole, per cui l’interesse non deve essere emulativo. In una recentissima sentenza in merito alla prova della lesione di un interesse giuridicamente rilevante ai fini dell’esercizio del diritto di accesso, il TAR Lazio, sez. III, con sentenza del 12 novembre 2008 n. 10036, ha statuito che la legittimazione ad accedere ad atti amministrativi sussiste qualora il richiedente vanti un interesse giuridicamente rilevante, anche se tale interesse non assume consistenza di interesse legittimo o diritto soggettivo, rispetto al quale la documentazione si pone in rapporto di strumentalità ai fini della tutela della posizione giuridica dell’interessato. In sostanza, la documentazione richiesta deve costituire mezzo utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante, ma non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse, non potendo essere operato alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso e non potendo essere valutata la legittimazione all’accesso alla stessa stregua di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante. Per costante giurisprudenza il diritto di accesso ai documenti amministrativi è riconosciuto al fine di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa e di favorirne lo svolgimento imparziale (così CdS, Ad. Plen., n. 5 del 4 febbraio 2007). Ai sensi dell’art. 22 della legge n. 241/1990 il diritto di accesso consiste nel diritto ad essere informati degli atti dei procedimenti che possono incidere sulla sfera giuridica del soggetto, al fine di consentirgli le dovute difese; pertanto, il diritto di accesso si configura come autonomo bene della vita, ma esso può essere esercitato solo quando sussiste un’esigenza concreta ed attua- (17) Ex multis, TAR Campania, sez. V, 7 gennaio 2002 n. 131. (18) Ex multis, TAR Marche, 21 dicembre 2001 n. 1250. 02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 74 IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 75 le dell’interessato alla tutela delle sue situazioni giuridicamente rilevanti (così CdS, sez. IV, 24 febbraio 2000, n. 984). Il diritto di accesso agli atti amministrativi e di estrarre copia deve essere inteso “cum grano salis” e il suo concreto esercizio deve esser ispirato a principi di comune buon senso (TAR Sicilia, Catania, sez. III, 4 novembre 1999, n. 2310). Nel definire il documento amministrativo accessibile l’art. 22 cit. non menziona gli atti preparatori, la cui accessibilità, anche nella nuova formulazione, potrebbe desumersi a contrario (19) dal nuovo art. 24, comma 1 della legge cit., che espressamente prevede l’esclusione del diritto di accesso nei soli procedimenti tributari (20); per i documenti coperti da segreto di Stato; nei confronti dell’attività diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione; nei procedimenti selettivi, nei confronti dei documenti amministrativi contenenti informazioni di carattere psicoattitudinale relative ai terzi. Il nuovo comma 1 dell’art. 24 prevede, infatti, una serie di limitazioni all’esercizio del diritto di accesso in relazione ad esigenze di segreto e di riservatezza concernenti determinati documenti amministrativi, poste sia nell’interesse pubblico che nell’interesse dei terzi. Sono limiti di carattere oggettivo finalizzati alla salvaguardia di interessi pubblici fondamentali e prevalenti rispetto al generale interesse alla conoscenza dei documenti amministrativi, in presenza dei quali la P.A. è obbligata a esprimere diniego a fronte della richiesta di accesso. Il comma 2 dell’art. 24 della legge cit. riconosce alle singole pubbliche amministrazioni di poter individuare altre categorie di documenti da esse formati o comunque nella loro disponibilità, che si vanno in tal modo ad aggiungere a quelli sottratti all’accesso in virtù della precedente indicazione (21). L’art. 25 della legge cit. delinea le modalità del diritto di accesso. (19) Contra, CdS, sez. IV, 11 ottobre 2007 n. 5356 per cui “ai sensi dell’art. 24 comma 6, L. 7 agosto 1990 n. 241, il diritto di accesso agli atti preparatori della determinazione conclusiva del procedimento deve ritenersi escluso fin quando detto procedimento è ancora in corso, ma non anche quando si è concluso con l’adozione della determinazione finale”. (20) In una recentissima sentenza del TAR LAZIO, sez. II, 31 ottobre 2008 n. 9516 si statuisce che “sussiste il diritto di accedere agli atti di un procedimento tributario ormai conclusosi con l‘adozione dell’atto di accertamento. Infatti l’art. 24 lett. b) della l. n. 241 del 1990 esclude l’accesso solo agli atti del procedimento tributario adottati nel corso di formazione del provvedimento, prima che lo stesso sia emanato, ed ai documenti inerenti l‘attività della p.a., diretta all’emanazione di atti preparatori nel corso della formazione di provvedimenti conclusivi, cioè agli atti propedeutici all’emanazione del provvedimento terminale; conseguentemente deve riconoscersi il diritto di accesso qualora l’Amministrazione abbia concluso il procedimento con l’emanazione del provvedimento finale”. (21) Tuttavia “il canone ermeneutico da adoperare al riguardo deve essere improntato a criteri rigorosi e restrittivi, perché le ipotesi di esclusione dall’accesso costituiscono eccezioni ai principi ex l. n. 241/1990 e sono di stretta interpretazione” (così CdS, sez. V, 16 novembre 1998, n. 1620). 02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 75 76 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 Il rito speciale previsto ex art. 25 cit., comma 5, si caratterizza per la sommarietà e la celerità (CdS, sez. V, 21 ottobre 1998, n. 1529) ma pur caratterizzandosi in tal senso non può essere ricompreso fra i procedimenti cautelari e d’urgenza e pertanto ad esso si applica la sospensione feriale dei termini (così CdS, sez. VI, 11 febbraio 1997, n. 260). Il ricorso ex art. 25 l. 241/1990 deve essere notificato oltre che all’amministrazione cui era stata presentata la domanda di accesso anche al soggetto cui si riferiscono i documenti amministrativi, soltanto se detti documenti coinvolgono aspetti di riservatezza del terzo (così TAR Calabria, 17 marzo 2003 n. 198). Considerazioni conclusive Come si è potuto notare dalla disamina sin qui effettuata, la sentenza Turco ha consolidato il principio della necessità della trasparenza del procedimento legislativo e del diritto di accesso ai documenti delle Istituzioni quali principi cardine di una comunità democratica, offrendo alle Istituzioni europee terreno fertile per un cambiamento del loro modus operandi e consentire alle stesse di rispondere in modo più efficiente alle richieste dei cittadini. Dott.ssa Carolina Layek (*) Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, Grande Sezione, 1° luglio 2008 nei procedimenti riuniti C-39/05 P e C-52/05 P - Regno di Svezia, Maurizio Turco/Consiglio dell’Unione europea, Regno di Danimarca, Repubblica di Finlandia, Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, Commissione delle Comunità europee. (Il Governo italiano non è intervenuto). Impugnazione - Accesso ai documenti delle istituzioni - Regolamento (CE) n. 1049/2001 - Pareri giuridici. (… Omissis) 1. Con le loro impugnazioni, il Regno di Svezia (causa C-39/05 P) e il sig. Turco (causa C-52/05 P) chiedono l’annullamento della sentenza del Tribunale di primo grado delle Comunità europee 23 novembre 2004, causa T-84/03, Turco/Consiglio (Racc. pag. II-4061; in prosieguo: la «sentenza impugnata»), nella parte in cui è stato respinto il ricorso del sig. Turco diretto all’annullamento della decisione del Consiglio dell’Unione europea 19 dicembre 2002, che aveva negato a quest’ultimo l’accesso ad un parere del servizio giuridico del Consiglio relativo ad una proposta di direttiva del Consiglio che fissa standard minimi per l’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri (in prosieguo: la «decisione controversa »). Il Regno di Svezia chiede inoltre alla Corte di statuire essa stessa su tale ricorso annullando la decisione controversa. (*)Dottore in giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato. 02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 76 2. Con i motivi dedotti in sede d’impugnazione i ricorrenti invitano la Corte a pronunciarsi sulla portata e sull’applicazione dell’eccezione all’obbligo di divulgazione di documenti prevista, in caso di pregiudizio alla tutela della consulenza legale, nell’art. 4, n. 2, secondo trattino, del regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 30 maggio 2001, n. 1049, relativo all’accesso del pubblico ai documenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione (GU L 145, pag. 43). Contesto normativo 3. L’art. 255 CE garantisce, in particolare, a qualsiasi cittadino dell’Unione europea il diritto di accedere ai documenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione delle Comunità europee, secondo i principi e alle condizioni definiti dal Consiglio a tutela di interessi pubblici o privati. 4. Il regolamento n. 1049/2001 è stato adottato dal Consiglio sulla base dell’art. 255, n. 2, CE. 5. I ‘considerando’ dal primo al quarto, nonché sesto e undicesimo di detto regolamento sono formulati come segue: «(1) L’articolo 1, secondo comma del trattato sull’Unione europea sancisce il concetto di trasparenza, secondo il quale il trattato segna una nuova tappa nel processo di creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa, in cui le decisioni siano adottate nel modo più trasparente possibile e più vicino possibile ai cittadini. (2) Questa politica di trasparenza consente una migliore partecipazione dei cittadini al processo decisionale e garantisce una maggiore legittimità, efficienza e responsabilità dell’amministrazione nei confronti dei cittadini in un sistema democratico. La politica di trasparenza contribuisce a rafforzare i principi di democrazia e di rispetto dei diritti fondamentali sanciti dall’articolo 6 del trattato UE e dalla carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. (3) Le conclusioni delle riunioni del Consiglio europeo di Birmingham, Edimburgo e Copenaghen hanno messo in evidenza la necessità di garantire una maggiore trasparenza nel lavoro delle istituzioni dell’Unione. Il presente regolamento consolida le iniziative già adottate dalle istituzioni al fine di migliorare la trasparenza del processo decisionale. (4) Il presente regolamento mira a dare la massima attuazione al diritto di accesso del pubblico ai documenti e a definirne i principi generali e le limitazioni a norma dell’articolo 255, paragrafo 2, del trattato CE. (…) (6) Si dovrebbe garantire un accesso più ampio ai documenti nei casi in cui le istituzioni agiscono in veste di legislatore, anche in base a competenze delegate, preservando nel contempo l’efficacia del loro processo di formazione delle decisioni. Nella più ampia misura possibile tali documenti dovrebbero essere resi direttamente accessibili. (…) (11) In linea di principio, tutti i documenti delle istituzioni dovrebbero essere accessibili al pubblico. Tuttavia, taluni interessi pubblici e privati dovrebbero essere tutelati mediante eccezioni. Si dovrebbe consentire alle istituzioni di proteggere le loro consultazioni e discussioni interne quando sia necessario per tutelare la propria capacità di espletare le loro funzioni. (...)». 6. L’art. 1, lett. a), del regolamento n. 1049/2001, rubricato «Obiettivo», enuncia che quest’ultimo mira a «definire i principi, le condizioni e le limitazioni, per motivi di interesse pubblico o privato, che disciplinano il diritto di accesso ai documenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione (in prosieguo “le istituzioni”) sancito dall’articolo 255 del trattato CE in modo tale da garantire l’accesso più ampio possibile». IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 77 02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 77 7. Intitolato «Destinatari e campo di applicazione», l’art. 2, n. 1, in questo stesso regolamento riconosce a qualsiasi cittadino dell’Unione e a qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro un diritto d’accesso ai documenti delle istituzioni «secondo i principi, le condizioni e le limitazioni definite nel presente regolamento ». 8. L’art. 4 del regolamento n. 1049/2001, rubricato «Eccezioni», prevede quanto segue: «(…) 2. Le istituzioni rifiutano l’accesso a un documento la cui divulgazione arrechi pregiudizio alla tutela di quanto segue: (…) – le procedure giurisdizionali e la consulenza legale, (…) a meno che vi sia un interesse pubblico prevalente alla divulgazione. 3. L’accesso a un documento elaborato per uso interno da un’istituzione o da essa ricevuto, relativo ad una questione su cui la stessa non abbia ancora adottato una decisione, viene rifiutato nel caso in cui la divulgazione del documento pregiudicherebbe gravemente il processo decisionale dell’istituzione, a meno che vi sia un interesse pubblico prevalente alla divulgazione. L’accesso a un documento contenente riflessioni per uso interno, facenti parte di discussioni e consultazioni preliminari in seno all’istituzione interessata, viene rifiutato anche una volta adottata la decisione, qualora la divulgazione del documento pregiudicherebbe seriamente il processo decisionale dell’istituzione, a meno che vi sia un interesse pubblico prevalente alla divulgazione. (…) 6. Se solo alcune parti del documento richiesto sono interessate da una delle eccezioni, le parti restanti del documento sono divulgate. 7. Le eccezioni di cui ai paragrafi 1, 2 e 3 si applicano unicamente al periodo nel quale la protezione è giustificata sulla base del contenuto del documento. Le eccezioni sono applicabili per un periodo massimo di 30 anni. (...)». 9. L’art. 12, n. 2, del regolamento n. 1049/2001 stabilisce che, fatti salvi gli artt. 4 e 9 di questo stesso regolamento, i documenti redatti o ricevuti nel corso delle procedure per l’adozione di atti giuridicamente vincolanti negli o per gli Stati membri dovrebbero essere resi direttamente accessibili. Fatti all’origine della controversia 10. Il 22 ottobre 2002 il sig. Turco chiedeva al Consiglio l’accesso ai documenti figuranti all’ordine del giorno della riunione del Consiglio «Giustizia e affari interni», svoltasi a Lussemburgo il 14 e il 15 ottobre 2002, tra i quali rientrava, con il n. 9077/02, un parere del servizio giuridico del Consiglio relativo ad una proposta di direttiva del Consiglio che fissa standard minimi per l’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri. 11. Il 5 novembre 2002 il Consiglio negava al sig. Turco l’accesso a tale parere, basandosi sull’art. 4, n. 2, del regolamento 1049/2001. Tale diniego era motivato come segue: «Il documento n. 9077/02 è un parere del servizio giuridico del Consiglio concernente una proposta di direttiva del Consiglio che fissa standard minimi per l’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri. Tenuto conto del suo contenuto, la divulgazione di tale documento potrebbe arrecare pregiudizio alla tutela della consulenza legale interna al Consiglio, di cui all’art. 4, n. 2, del regolamento [n. 1049/2001]. In assenza di qualsiasi motivo specifico il quale indichi la sussisten- 78 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 78 za di un particolare interesse pubblico [prevalente] alla divulgazione di tale documento, il segretariato generale ha concluso, dopo aver ponderato gli interessi, che l’interesse alla tutela della consulenza legale interna prevale sull’interesse pubblico e ha quindi deciso di rifiutare l’accesso a tale documento, conformemente all’art. 4, n. 2, [di tale] regolamento. Tale eccezione interessa il contenuto integrale del documento. Conseguentemente non è possibile accordare un accesso parziale a quest’ultimo a norma dell’art. 4, n. 6, [di detto] regolamento». 12. Il 22 novembre 2002 il sig. Turco presentava al Consiglio una domanda di conferma al fine di ottenere che quest’ultimo rivedesse la propria posizione, rilevando che il Consiglio aveva erroneamente applicato le eccezioni al diritto di accesso del pubblico ai documenti delle istituzioni di cui all’art. 4, nn. 2 e 3, del regolamento n. 1049/2001 e che il principio di democrazia e di partecipazione dei cittadini al processo legislativo costituiva un interesse pubblico prevalente che giustificava la divulgazione, in particolare, del parere giuridico di cui trattasi. 13. Con la decisione controversa il Consiglio accettava di divulgare il paragrafo introduttivo di detto parere, nel quale era indicato che quest’ultimo conteneva la consulenza del servizio giuridico del Consiglio sulla questione della competenza comunitaria in materia di accesso dei cittadini di paesi terzi al mercato del lavoro, ma, per il resto, rifiutava di rivedere la propria posizione. Esso giustificava tale conferma del diniego di accesso rilevando essenzialmente, da un lato, che i pareri del proprio servizio giuridico meritano una tutela particolare, in quanto costituiscono un importante strumento che gli permette di essere certo della compatibilità dei suoi atti con il diritto comunitario e di far avanzare la discussione concernente gli aspetti giuridici controversi, e, dall’altro, che la loro divulgazione potrebbe generare un’incertezza circa la legalità degli atti legislativi adottati a seguito di detti pareri e, pertanto, mettere in pericolo la certezza del diritto e la stabilità dell’ordinamento giuridico comunitario. Quanto all’esistenza dell’interesse pubblico prevalente invocato dal sig. Turco, il Consiglio ha rilevato quanto segue: «Il Consiglio considera che un siffatto interesse pubblico non è costituito unicamente dalla circostanza che la divulgazione di tali documenti contenenti il parere del servizio giuridico in questioni giuridiche sollevate in occasione del dibattito su iniziative legislative servirebbe all’interesse generale di aumentare la trasparenza e l’apertura del processo decisionale dell’istituzione. Di fatto tale criterio è idoneo ad essere applicato a tutte le opinioni scritte o analoghi documenti del servizio giuridico, il che renderebbe praticamente impossibile al Consiglio il rifiuto dell’accesso a qualsiasi parere del servizio giuridico a norma del regolamento n. 1049/2001. Il Consiglio considera che un risultato siffatto sarebbe manifestamente contrario alla volontà del legislatore qual è espressa all’art. 4, n. 2, del regolamento n. 1049/2001, perché esso priverebbe tale disposizione di qualsiasi effetto utile». Procedimento dinanzi al Tribunale e sentenza impugnata 14. Con atto introduttivo depositato nella cancelleria del Tribunale il 28 febbraio 2003 il sig. Turco ha proposto un ricorso volto all’annullamento della decisione controversa. A sostegno di tale ricorso egli ha dedotto, con riferimento al diniego di accesso al parere giuridico di cui trattasi, un motivo unico relativo alla violazione dell’art. 4, n. 2, del regolamento n. 1049/2001, suddiviso in tre parti. 15. In primo luogo, in via principale, egli ha rilevato l’esistenza di un errore relativamente al fondamento normativo della decisione controversa, poiché i pareri giuridici formulati nel contesto dell’esame di proposte legislative sono riconducibili, a suo parere, all’eccezione di cui all’art. 4, n. 3, del regolamento n. 1049/2001 e non a quella indicata nell’art. 4, n. 2, di detto regolamento, che riguarderebbe soltanto pareri giuridici redatti nell’ambito di procedure giurisdizionali. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 79 02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 79 16. Tale interpretazione è stata respinta dal Tribunale, il quale l’ha dichiarata contraria al tenore letterale di detto art. 4, n. 2, che non comporta una siffatta restrizione, e ha affermato che essa avrebbe la conseguenza di privare di qualsiasi effetto utile la menzione della consulenza legale tra le eccezioni previste dal regolamento n. 1049/2001, in quanto il legislatore comunitario si sarebbe prefisso di sancire, in tale disposizione, un’eccezione relativa alla consulenza legale distinta da quella relativa alle procedure giurisdizionali. Infatti, i pareri giuridici redatti dal servizio giuridico del Consiglio nell’ambito di procedure giurisdizionali sarebbero già inclusi nell’eccezione relativa alla tutela di tali procedure. Di conseguenza, secondo il Tribunale, il Consiglio ha potuto validamente basarsi sull’eccezione relativa alla consulenza legale prevista dall’art. 4, n. 2, secondo trattino, del regolamento n. 1049/2001 al fine di determinare se esso dovesse consentire al ricorrente l’accesso al parere giuridico di cui trattasi. 17. In secondo luogo, il sig. Turco ha dedotto, in subordine, un’errata applicazione di detto art. 4, n. 2, in quanto il Consiglio avrebbe erroneamente considerato che i pareri emessi dal suo servizio giuridico meritassero, per loro natura, la tutela che tale disposizione garantisce. Inoltre, il Consiglio non dovrebbe basarsi su presunzioni di carattere generale e potrebbe pronunciarsi sull’applicazione dell’eccezione in parola soltanto in relazione ad ogni singola fattispecie, previo esame in concreto di ogni parere giuridico di cui è chiesta la divulgazione. Il sig. Turco ha altresì contestato la pertinenza della necessità di tutela del parere giuridico in parola addotta dal Consiglio nella decisione controversa. 18. Al riguardo il Tribunale ha dichiarato che la divulgazione di pareri quali il parere giuridico di cui trattasi potrebbe, da un lato, suscitare un dubbio sulla legittimità degli atti legislativi cui tali pareri si riferiscono e, dall’altro, mettere a repentaglio l’indipendenza del servizio giuridico del Consiglio nel fornire la sua consulenza, cosicché il Consiglio non ha commesso errori di valutazione nel ritenere che sussista un interesse generale alla tutela dei pareri giuridici quale quello di cui trattasi. Il Tribunale ha inoltre rilevato che la motivazione del diniego parziale di accesso al parere giuridico in parola nonché la decisione di divulgarne il paragrafo introduttivo dimostrano che il Consiglio aveva esaminato il contenuto di detto parere. Esso si è espresso al riguardo, ai punti 69-80 della sentenza impugnata, nei termini seguenti: «69 Va rilevato che l’istituzione deve valutare in ciascun caso concreto se i documenti di cui si richiede la divulgazione rientrino effettivamente nelle eccezioni elencate nel regolamento n. 1049/2001 (v., per analogia, per quanto riguarda la decisione 94/90, sentenza della Corte 11 gennaio 2000, cause riunite C-174/98 P e C-189/98 P, Paesi Bassi e van der Wal/Commissione, Racc. pag. I-1, punto 24). 70 È necessario constatare nel caso di specie che il documento in questione è un parere del servizio giuridico del Consiglio relativo a una proposta di direttiva del Consiglio che fissa standard minimi per l’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri. 71 Tuttavia, la circostanza che il documento in questione riguardi un parere non basta di per sé a giustificare l’applicazione dell’eccezione invocata. Infatti, come si è ricordato in precedenza, ogni eccezione al diritto di accesso ai documenti delle istituzioni rientranti nella sfera di applicazione del regolamento n. 1049/2001 deve essere interpretata ed applicata in senso restrittivo (v., in tal senso, sentenza del Tribunale 13 settembre 2000, causa T-20/99, Denkavit Nederland/Commissione, Racc. pag. II-3011, punto 45). 72 Spetta quindi al Tribunale verificare se, nella fattispecie, il Consiglio non abbia commesso errori di valutazione nel ritenere, ai sensi dell’art. 4, n. 2, secondo trattino, del regolamento n. 1049/2001, che la divulgazione del parere giuridico in questione pregiudicherebbe la tutela di cui può fruire tale tipo di documento. 80 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 80 73 Al fine di giustificare il suo rifiuto di divulgare l’integralità del parere giuridico in questione, il Consiglio fa valere in sostanza, nella decisione [controversa], che i pareri del suo servizio giuridico costituiscono uno strumento importante che gli permette di essere certo in merito alla compatibilità dei suoi atti col diritto comunitario e di far avanzare la discussione concernente gli aspetti giuridici in questione. Esso fa valere che da una divulgazione siffatta potrebbe derivare un’incertezza circa la legalità degli atti legislativi adottati in seguito a tali pareri. Il Consiglio si riferisce anche alle citate conclusioni dell’avvocato generale Jacobs nella causa all’origine della sentenza [della Corte 13 luglio 1995, causa C-350/92,] Spagna/Consiglio [Racc. pag. I-1985] nonché all’ordinanza [del presidente del Tribunale 3 marzo 1998, causa T- 610/97 R,] Carlsen e a./Consiglio [Racc. pag. II-485], e alla sentenza [del Tribunale 8 novembre 2000, causa T-44/97,] Ghignone e a./Consiglio [Racc. PI pag. I-A-223 e II-1023]. 74 È vero che tale motivazione, relativa al bisogno di tutela invocato, sembra concernere l’insieme dei pareri giuridici del Consiglio vertenti su atti legislativi e non specificamente il parere giuridico di cui trattasi. Nondimeno, il carattere generale della motivazione del Consiglio è giustificato dal fatto che il richiamo di informazioni supplementari, segnatamente riferentesi al contenuto del parere giuridico in questione, priverebbe della sua finalità l’eccezione invocata. 75 Inoltre, benché il Consiglio abbia, in un primo tempo, rifiutato l’accesso del ricorrente al parere giuridico di cui trattasi, dalla decisione impugnata emerge che esso ha finalmente accettato di divulgare soltanto il paragrafo introduttivo del suddetto parere. Risulta da tale paragrafo introduttivo che il parere stesso contiene la consulenza del servizio giuridico del Consiglio circa la questione della competenza comunitaria in materia di accesso dei cittadini di paesi terzi al mercato del lavoro. 76 Ne deriva che la censura secondo cui il Consiglio non avrebbe esaminato il contenuto del parere giuridico in questione onde pronunciarsi sulla domanda di accesso litigiosa non è fondata. 77 Quanto alla pertinenza del bisogno di tutela del parere stesso, individuato dal Consiglio nella decisione [controversa], il Tribunale ritiene che la divulgazione del parere giuridico di cui trattasi avrebbe per effetto di rendere pubbliche le discussioni interne del Consiglio concernenti la questione della competenza comunitaria in materia di accesso dei cittadini di paesi terzi al mercato del lavoro e, in maniera più generale, concernenti la questione della legalità dell’atto legislativo su cui verte. 78 La divulgazione di un parere siffatto potrebbe, quindi, alla luce della natura particolare di tali documenti, lasciar sussistere un dubbio sulla legalità dell’atto legislativo in questione. 79 Occorre inoltre constatare che il Consiglio ha buone ragioni di ritenere che l’indipendenza dei pareri del suo servizio giuridico, redatti su richiesta di altri servizi di tale istituzione o ad essi quanto meno destinati, può costituire un interesse da tutelare. Il ricorrente non ha al riguardo chiarito in quale misura, nelle circostanze della fattispecie, la divulgazione del parere giuridico in questione contribuirebbe a proteggere il servizio giuridico del Consiglio da illegittime influenze esterne. 80 Dato quanto precede, il Consiglio non ha commesso errori di valutazione nel ritenere che sussistesse un interesse alla tutela del parere giuridico di cui trattasi». 19. In terzo luogo, il sig. Turco ha sostenuto, sempre in subordine, che il principio di trasparenza costituisce un «interesse pubblico prevalente» ai sensi dell’art. 4, n. 2, del regolamento n. 1049/2001 e che il parere giuridico di cui trattasi avrebbe dovuto in ogni caso essere divulgato in osservanza di tale principio. 20. Relativamente a tale parte del motivo il Tribunale ha dichiarato, ai punti 82-85 della sentenza impugnata, che il Consiglio aveva giustamente considerato che l’interesse pubbli- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 81 02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 81 co prevalente che può giustificare la divulgazione di un documento doveva, di regola, essere tenuto distinto dai principi richiamati dal sig. Turco, soggiacenti all’intero regolamento n. 1049/2001, esprimendosi nei termini seguenti: «82 Va nondimeno rilevato che tali principi sono attuati dall’insieme delle disposizioni del regolamento n. 1049/2001, come attestato dai ‘considerando’ 1 e 2 del suddetto regolamento, i quali fanno esplicito riferimento ai principi di trasparenza, di apertura, di democrazia e di migliore partecipazione dei cittadini al processo decisionale (...). 83 L’interesse pubblico prevalente di cui all’art. 4, n. 2, del regolamento n. 1049/2001, che può giustificare la divulgazione di un documento arrecante pregiudizio alla tutela dei pareri giuridici, deve quindi, in linea di principio, essere distinto dai principi summenzionati soggiacenti al suddetto regolamento. In assenza di un interesse siffatto, incombe quanto meno al richiedente dimostrare che, alla luce delle specifiche circostanze del caso di specie, il far valere codesti stessi principi presenta una rilevanza tale da superare il bisogno di tutela del documento litigioso. Ciò non si verifica però nella fattispecie. 84 Inoltre, benché sia possibile che l’istituzione di cui trattasi individui essa stessa un interesse pubblico prevalente alla divulgazione di un documento siffatto, incombe al richiedente il quale intende avvalersi di un tale interesse farlo valere nell’ambito della sua domanda al fine di invitare l’istituzione a pronunciarsi su tale punto. 85 Nel caso di specie, poiché il Consiglio non ha commesso errori di valutazione nel ritenere che gli interessi pubblici prevalenti invocati dal ricorrente non fossero tali da giustificare la divulgazione del parere giuridico in questione, non può essergli addebitato di non aver individuato altri interessi pubblici prevalenti». 21. Il Tribunale ha pertanto respinto il ricorso nella parte relativa al diniego di accesso al parere giuridico di cui trattasi. Procedimento dinanzi alla Corte e conclusioni delle parti 22. Con le loro impugnazioni il Regno di Svezia e il sig. Turco chiedono l’annullamento della sentenza impugnata nella parte in cui nega al sig. Turco l’accesso al parere giuridico di cui trattasi. Il Regno di Svezia invita inoltre la Corte a statuire essa stessa sul merito annullando la decisione controversa. Il sig. Turco chiede invece, se necessario, che la causa sia rinviata dinanzi al Tribunale per un nuovo giudizio. 23. Con ordinanza del presidente della Corte 19 aprile 2005 le due impugnazioni sono state riunite ai fini della trattazione scritta e orale e della sentenza. 24. Con ordinanza del presidente della Corte 5 ottobre 2005 il Regno dei Paesi Bassi è stato autorizzato a intervenire a sostegno delle conclusioni dei ricorrenti. 25. Il Regno di Danimarca, il Regno dei Paesi Bassi e la Repubblica di Finlandia chiedono che la Corte voglia accogliere le impugnazioni. 26. Il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, il Consiglio e la Commissione chiedono che la Corte voglia respingere le impugnazioni. Sulle impugnazioni 27. Le impugnazioni si fondano su cinque motivi, di cui i primi tre rinviano alle tre parti del motivo dedotto dal sig. Turco in primo grado. 28. In primo luogo, il sig. Turco, sostenuto dal Regno dei Paesi Bassi, rileva che il Tribunale avrebbe commesso un errore di interpretazione dell’art. 4, n. 2, secondo trattino, del regolamento n. 1049/2001 assumendo erroneamente che i pareri giuridici relativi a proposte legislative possono rientrare nell’ambito di applicazione di detta disposizione, mentre essi sarebbero riconducibili soltanto all’art. 4, n. 3, di detto regolamento. 29. In secondo luogo, il Regno di Svezia e il sig. Turco, sostenuti dal Regno dei Paesi Bassi e dalla Repubblica di Finlandia, rilevano che il Tribunale ha applicato l’art. 4, n. 2, 82 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 82 secondo trattino, del regolamento n. 1049/2001 in modo erroneo dichiarando che i pareri giuridici del servizio giuridico del Consiglio relativi a proposte legislative rientrano, per loro natura, nell’eccezione prevista in tale disposizione. 30. In terzo luogo, il sig. Turco, sostenuto dal Regno dei Paesi Bassi e dalla Repubblica di Finlandia, contesta al Tribunale di aver erroneamente interpretato e applicato la nozione di interesse pubblico prevalente che, ai sensi dell’art. 4, n. 2, del regolamento n. 1049/2001, può giustificare la divulgazione di un documento in linea di principio rientrante nel campo di applicazione dell’eccezione di riservatezza prevista in questa stessa disposizione per la consulenza legale. 31. Con gli ultimi due motivi il sig. Turco, rispettivamente, invoca il principio dello stato di diritto su cui si fonda l’ordinamento giuridico comunitario e rileva l’insufficienza della motivazione. Osservazioni preliminari 32. Prima di esaminare i motivi dedotti a sostegno delle impugnazioni occorre ricordare le disposizioni pertinenti relative, da un lato, all’esame che il Consiglio deve effettuare quando gli viene chiesta la divulgazione di un parere del suo servizio giuridico relativo ad un procedimento legislativo e, dall’altro, alla motivazione che esso deve fornire per giustificare un eventuale diniego di divulgazione. L’esame che l’istituzione deve effettuare 33. Il regolamento n. 1049/2001 è volto, come indicano il suo quarto ‘considerando’ e il suo art. 1, a conferire al pubblico un diritto di accesso il più ampio possibile ai documenti delle istituzioni. 34. Conformemente al suo primo ‘considerando’, tale regolamento è riconducibile all’intento espresso all’art. 1, secondo comma, UE, inserito con il Trattato di Amsterdam, di segnare una nuova tappa nel processo di creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa, in cui le decisioni siano adottate nel modo più trasparente possibile e più vicino possibile ai cittadini. Come ricorda il secondo ‘considerando’ di detto regolamento, il diritto di accesso del pubblico ai documenti delle istituzioni è connesso al carattere democratico di queste ultime. 35. Quando viene chiesta al Consiglio la divulgazione di un documento, quest’ultimo è tenuto a valutare, in ciascun caso di specie, se tale documento rientri nelle eccezioni al diritto di accesso del pubblico ai documenti delle istituzioni elencate all’art. 4 del regolamento n. 1049/2001. 36. Tenuto conto degli obiettivi perseguiti da tale regolamento, queste eccezioni devono essere interpretate e applicate in senso restrittivo (v. sentenza 18 dicembre 2007, causa C-64/05 P, Svezia/Commissione e a., non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 66). 37. Con riferimento all’eccezione riguardante la consulenza legale, prevista dall’art. 4, n. 2, secondo trattino, del regolamento n. 1049/2001, l’esame che il Consiglio deve effettuare quando gli viene chiesta la divulgazione di un documento deve necessariamente svolgersi in tre fasi, in relazione ai tre criteri previsti da tale disposizione. 38. Dapprima il Consiglio deve assicurarsi che il documento di cui viene chiesta la divulgazione costituisca effettivamente un parere giuridico e, in caso affermativo, determinare quali ne siano le parti effettivamente interessate, che possono rientrare quindi nel campo di applicazione di detta eccezione. 39. Infatti, un documento non beneficia automaticamente della tutela della consulenza legale garantita dall’art. 4, n. 2, secondo trattino, del regolamento n. 1049/2001 per il solo fatto di essere denominato «parere giuridico». Al di là della sua denominazione, l’istituzione ha l’obbligo di accertarsi che tale documento consti effettivamente di un siffatto parere. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 83 02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 83 40. In un secondo tempo, il Consiglio deve esaminare se la divulgazione delle parti del documento in parola individuate come concernenti pareri giuridici «arrechi pregiudizio alla tutela» della consulenza legale. 41. Al riguardo occorre rilevare che né il regolamento n. 1049/2001 né i lavori preparatori di quest’ultimo apportano chiarimenti sulla portata della nozione di «tutela» della consulenza legale. Pertanto essa dev’essere interpretata alla luce del sistema e della finalità della normativa di cui fa parte. 42. Si deve di conseguenza interpretare l’eccezione relativa alla consulenza legale prevista nell’art. 4, n. 2, secondo trattino, del regolamento n. 1049/2001 come volta a tutelare l’interesse di un’istituzione a chiedere una consulenza legale e a ricevere pareri franchi, obiettivi e completi. 43. Il rischio di pregiudizio a tale interesse, per poter essere invocato, deve essere ragionevolmente prevedibile e non meramente ipotetico. 44. Infine, in una terza fase, se il Consiglio ritiene che la divulgazione di un documento arrecherebbe pregiudizio alla tutela della consulenza legale quale sopra definita, è suo dovere verificare che non esista un interesse pubblico prevalente che giustifichi tale divulgazione nonostante il pregiudizio che ne deriverebbe al suo interesse a chiedere una consulenza legale e a ricevere pareri franchi, obiettivi e completi. 45. In tale contesto il Consiglio deve ponderare l’interesse specifico da tutelare, impedendo la divulgazione del documento in questione, con, in particolare, l’interesse generale all’accessibilità a tale documento, tenendo conto dei vantaggi che derivano, come rileva il secondo ‘considerando’ del regolamento n. 1049/2001, da una maggiore trasparenza, consistenti in una migliore partecipazione dei cittadini al processo decisionale e in una maggiore legittimità, efficienza e responsabilità dell’amministrazione nei confronti dei cittadini in un sistema democratico. 46. Tali considerazioni hanno evidentemente una rilevanza del tutto particolare quando il Consiglio agisce in veste di legislatore, come risulta dal sesto ‘considerando’ del regolamento n. 1049/2001, secondo il quale un accesso più ampio ai documenti dev’essere autorizzato per l’appunto in tali circostanze. La trasparenza, al riguardo, contribuisce a rafforzare la democrazia permettendo ai cittadini di controllare tutte le informazioni che hanno costituito il fondamento di un atto legislativo. Infatti, la possibilità per i cittadini di conoscere il fondamento dell’azione legislativa è condizione per l’esercizio effettivo, da parte di questi ultimi, dei loro diritti democratici. 47. Si deve inoltre rilevare che, ai sensi dell’art. 207, n. 3, secondo comma, CE, il Consiglio deve definire i casi in cui si deve considerare che esso deliberi in qualità di legislatore onde consentire, in tali casi, un maggior accesso ai documenti. Similmente, l’art. 12, n. 2, del regolamento n. 1049/2001 riconosce la specificità del procedimento legislativo nel disporre che i documenti redatti o ricevuti nel corso delle procedure per l’adozione di atti giuridicamente vincolanti negli o per gli Stati membri dovrebbero essere resi direttamente accessibili. La motivazione richiesta 48. Ogni decisione del Consiglio adottata sulla base delle eccezioni elencate all’art. 4 del regolamento n. 1049/2001 deve essere motivata. 49. Se il Consiglio decide di negare l’accesso a un documento di cui gli è stata chiesta la divulgazione, esso deve, in primo luogo, spiegare come l’accesso a tale documento potrebbe arrecare concretamente ed effettivamente pregiudizio all’interesse tutelato da un’eccezione prevista all’art. 4 del regolamento n. 1049/2001 che tale istituzione invoca e, in secondo 84 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 84 luogo, nei casi indicati ai nn. 2 e 3 di tale articolo, verificare che non sussista un interesse pubblico prevalente che giustifichi comunque la divulgazione del documento in parola. 50. Il Consiglio può, in linea di principio, basarsi al riguardo su presunzioni di carattere generale che si applicano a determinate categorie di documenti, in quanto a domande di divulgazione riguardanti documenti della stessa natura possono applicarsi considerazioni di ordine generale analoghe. È suo obbligo tuttavia verificare in ogni singolo caso se le considerazioni di ordine generale normalmente applicabili a un determinato tipo di documenti possano essere effettivamente applicate ad un particolare documento di cui sia chiesta la divulgazione. 51. I motivi dedotti dai ricorrenti a sostegno delle loro impugnazioni devono essere esaminati tenendo presenti tali considerazioni in diritto. 52. Occorre in primo luogo esaminare il secondo motivo. Sul secondo motivo 53. Il secondo motivo si divide in tre parti, che si riferiscono tutte ad un’interpretazione errata, da parte del Tribunale, dell’art. 4, n. 2, secondo trattino, del regolamento n. 1049/2001. Con la prima parte i ricorrenti rilevano che il Tribunale ha violato tale disposizione per non aver correttamente verificato se il Consiglio avesse esaminato il documento di cui trattasi in modo sufficientemente dettagliato prima di rifiutarne la divulgazione. Con la seconda parte i ricorrenti imputano al Tribunale di aver ammesso una motivazione del diniego espressa in termini generali riguardanti tutta la consulenza legale del servizio giuridico del Consiglio vertente su atti legislativi, e non specificamente il parere giuridico controverso. Con la terza parte i ricorrenti sostengono che il Tribunale avrebbe violato la detta disposizione ammettendo l’esistenza di un’esigenza generale di riservatezza connessa alla consulenza legale relativa a questioni legislative. 54. Il Consiglio ritiene che la prima e la seconda parte del presente motivo traggano origine dalla confusione tra, da un lato, il principio secondo il quale ogni documento dovrebbe essere valutato sulla base del suo contenuto e, dall’altro, la possibilità di invocare motivi di carattere generale. Per quanto riguarda la terza parte di tale motivo il Consiglio mantiene la posizione che aveva difeso dinanzi al Tribunale, vale dire che sussiste un’esigenza generale di riservatezza connessa alla consulenza legale relativa a questioni legislative, poiché, da un lato, la divulgazione di pareri giuridici potrebbe suscitare dubbi sulla legalità dell’atto legislativo interessato e, dall’altro, la divulgazione sistematica di tali pareri porrebbe a repentaglio l’indipendenza del suo servizio giuridico. 55. Riguardo alla prima parte del presente motivo si deve constatare che il Tribunale ha potuto legittimamente dedurre dal fatto che il Consiglio abbia, da un lato, accettato di divulgare il paragrafo introduttivo del parere giuridico in parola e, dall’altro, negato l’accesso alla restante parte di tale parere invocando la tutela della consulenza legale che tale istituzione aveva effettivamente esaminato la domanda di divulgazione di detto parere giuridico alla luce del suo contenuto e che aveva pertanto completato perlomeno la prima fase dell’esame descritto ai punti 37-47 della presente sentenza. Si deve pertanto respingere la prima parte del presente motivo. 56. Rispetto alla seconda parte di quest’ultimo, il fatto che il Tribunale abbia ammesso la presa in considerazione, da parte del Consiglio, di motivi di carattere generale per giustificare il diniego parziale di accesso al parere giuridico in questione non può, come risulta dal punto 50 della presente sentenza, di per sé invalidare l’esame di detto diniego effettuato dal Tribunale. 57. Si deve tuttavia constatare, da un lato, che quest’ultimo non ha considerato necessario che il Consiglio verificasse se i motivi di carattere generale da esso addotti fossero IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 85 02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 85 effettivamente applicabili al parere giuridico di cui gli era stata chiesta la divulgazione. Dall’altro, come risulta dalle considerazioni seguenti in merito alla terza parte del presente motivo, il Tribunale ha erroneamente considerato che esista un’esigenza generale di riservatezza connessa alla consulenza legale del servizio giuridico del Consiglio relativa a questioni legislative. 58. Infatti, nessuno dei due argomenti sollevati al riguardo dal Consiglio e ripresi dal Tribunale ai punti 78 e 79 della sentenza impugnata è idoneo a giustificare tale affermazione. 59. Con riferimento, in primo luogo, al timore espresso dal Consiglio che la divulgazione di un parere del suo servizio giuridico relativo ad una proposta legislativa possa suscitare dubbi sulla legittimità dell’atto legislativo interessato si deve rilevare che proprio la trasparenza su tale punto, nel consentire che i diversi punti di vista vengano apertamente discussi, contribuisce a conferire alle istituzioni una maggiore legittimità agli occhi dei cittadini europei e ad accrescere la loro fiducia. Di fatto, è piuttosto la mancanza di informazioni e di dibattito che può suscitare dubbi nei cittadini, non solo circa la legittimità di un singolo atto, ma anche circa la legittimità del processo decisionale nel suo complesso. 60. Peraltro, il rischio che i cittadini europei maturino dubbi circa la legittimità di un atto adottato dal legislatore comunitario per il fatto che il servizio giuridico del Consiglio abbia emanato un parere negativo riguardo a tale atto nella maggior parte dei casi non sorgerebbe se la motivazione di detto atto fosse rafforzata evidenziando le ragioni per le quali tale parere negativo non è stato seguito. 61. Si deve conseguentemente constatare che un richiamo generale e astratto al rischio che la divulgazione dei pareri giuridici relativi a procedimenti legislativi possa suscitare dubbi circa la legittimità di atti legislativi non può bastare ad integrare un pregiudizio alla tutela della consulenza legale ai sensi dell’art. 4, n. 2, secondo trattino, del regolamento n. 1049/2001 e non può di conseguenza giustificare un diniego di divulgazione di tali pareri. 62. Per quanto riguarda, in secondo luogo, l’argomento del Consiglio secondo il quale l’indipendenza del suo servizio giuridico sarebbe messa in pericolo da una possibile divulgazione dei pareri giuridici emessi da quest’ultimo nell’ambito di procedimenti legislativi, si deve constatare che tale timore costituisce proprio il fulcro degli interessi tutelati dall’eccezione prevista nell’art. 4, n. 2, secondo trattino, del regolamento n. 1049/2001. Infatti, come risulta dal punto 42 della presente sentenza, tale eccezione è volta appunto a tutelare l’interesse di un’istituzione a domandare consulenza legale e a ricevere pareri franchi, obiettivi e completi. 63. Si deve tuttavia rilevare che il Consiglio si è basato, al riguardo, sia dinanzi al Tribunale sia dinanzi alla Corte, su semplici affermazioni non suffragate in alcun modo da argomentazioni circostanziate. Orbene, alla luce delle considerazioni che seguono, non è ravvisabile alcun rischio effettivo, ragionevolmente prevedibile e non meramente ipotetico, di pregiudizio a detto interesse. 64. Con riferimento a eventuali pressioni esercitate al fine di influenzare il contenuto dei pareri espressi dal servizio giuridico del Consiglio, è sufficiente rilevare che, anche supponendo che i membri di tale servizio giuridico subiscano a tal fine pressioni illegittime, sarebbero queste pressioni, e non la possibilità di divulgazione dei pareri giuridici, a pregiudicare l’interesse di tale istituzione a ricevere pareri giuridici franchi, obiettivi e completi, e spetterebbe evidentemente al Consiglio adottare le misure necessarie per porvi fine. 65. Riguardo all’argomento della Commissione secondo il quale potrebbe essere difficile, per il servizio giuridico di un’istituzione che abbia inizialmente espresso un parere negativo in merito ad un atto legislativo in corso di adozione, difendere successivamente la 86 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 86 legittimità di tale atto una volta pubblicato questo parere, si deve constatare che un argomento talmente generico non può giustificare un’eccezione alla trasparenza prevista dal regolamento n. 1049/2001. 66. Alla luce di tali considerazioni non è ravvisabile alcun rischio effettivo, ragionevolmente prevedibile e non meramente ipotetico, che la divulgazione dei pareri del servizio giuridico del Consiglio emessi nell’ambito di procedimenti legislativi possa pregiudicare la tutela della consulenza legale ai sensi dell’art. 4, n. 2, secondo trattino, del regolamento n. 1049/2001. 67. In ogni caso, qualora tale divulgazione potesse pregiudicare l’interesse alla tutela dell’indipendenza del servizio giuridico del Consiglio, tale rischio dovrebbe essere ponderato rispetto agli interessi pubblici prevalenti soggiacenti al regolamento n. 1049/2001. Costituisce un siffatto interesse pubblico prevalente, come ricordato ai punti 45-47 della presente sentenza, il fatto che la divulgazione dei documenti contenenti il parere del servizio giuridico di un’istituzione su questioni giuridiche sorte nel corso del dibattito su iniziative legislative possa aumentare la trasparenza e l’apertura del procedimento legislativo e rafforzare il diritto democratico dei cittadini europei di controllare le informazioni che hanno costituito il fondamento di un atto legislativo, come indicato, in particolare, nei ‘considerando’ secondo e sesto di detto regolamento. 68. Risulta dalle considerazioni innanzi esposte che il regolamento n. 1049/2001 impone, in linea di principio, un obbligo di divulgare i pareri del servizio giuridico del Consiglio relativi ad un procedimento legislativo. 69. Tale constatazione non impedisce tuttavia che la divulgazione di un parere giuridico specifico, reso nell’ambito di un procedimento legislativo, ma avente contenuto particolarmente sensibile o portata particolarmente estesa che travalichi l’ambito del procedimento legislativo di cui trattasi, venga negata richiamandosi alla tutela della consulenza legale. In tali circostanze, l’istituzione interessata dovrebbe motivare il rifiuto in modo circostanziato. 70. In tale contesto si deve inoltre ricordare che, ai sensi dell’art. 4, n. 7, del regolamento n. 1049/2001, un’eccezione può essere applicata unicamente al periodo nel quale la protezione è giustificata sulla base del contenuto del documento. 71. Alla luce di quanto precede, risulta che erroneamente il Tribunale ha considerato, nei punti 77-80 della sentenza impugnata, che la decisione controversa poteva essere legittimamente motivata e giustificata da un’esigenza generale di riservatezza connessa alla consulenza legale relativa a questioni legislative. 72. Ne consegue che le parti seconda e terza del presente motivo sono fondate. La sentenza impugnata deve essere pertanto annullata nella parte riguardante il diniego di accesso al parere giuridico di cui trattasi e nella parte in cui condanna il sig. Turco e il Consiglio a sopportare, ciascuno, la metà delle spese. Sul terzo motivo 73. Dalle considerazioni relative al secondo motivo risulta che anche il terzo motivo è fondato, e che pertanto anche in base ad esso si giustifica l’annullamento della sentenza impugnata nella parte riguardante il diniego di accesso al parere giuridico di cui trattasi e nella parte in cui condanna il sig. Turco e il Consiglio a sopportare, ciascuno, la metà delle spese. 74. Come è stato dichiarato ai punti 44-47 nonché 67 della presente sentenza, il Tribunale, nel dichiarare che l’interesse pubblico prevalente che può giustificare la divulgazione di un documento deve essere di regola distinto dai principi soggiacenti a tale regolamento, ha proceduto a un’interpretazione erronea dell’art. 4, n. 2, del regolamento n. 1049/2001. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 87 02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 87 75. Infatti, i principi che ispirano un atto legislativo sono manifestamente quelli alla luce dei quali devono essere applicate le sue disposizioni. Sui motivi primo, quarto e quinto 76. Poiché le parti seconda e terza del secondo motivo nonché il terzo motivo sono accolti e giustificano l’annullamento della sentenza impugnata nella parte che riguarda il diniego di accesso al parere giuridico di cui trattasi e le spese relative al ricorso sostenute dal sig. Turco e dal Consiglio, non occorre esaminare i motivi primo, quarto e quinto dedotti dal sig. Turco a sostegno della sua impugnazione, dal momento che questi ultimi non sono idonei a comportare un annullamento di tale sentenza avente portata più ampia. Sulle conseguenze dell’annullamento parziale della sentenza impugnata 77. Ai sensi dell’art. 61, primo comma, dello Statuto della Corte di giustizia, quest’ultima, in caso di annullamento della decisione del Tribunale, può statuire definitivamente sulla controversia, qualora lo stato degli atti lo consenta. È quanto avviene nel caso di specie. 78. La decisione controversa è stata adottata sulla scorta di un duplice errore, riguardante, da un lato, l’esistenza di un’esigenza generale di riservatezza connessa alla consulenza legale relativa a procedimenti legislativi, tutelata dall’art. 4, n. 2, secondo trattino, del regolamento n. 1049/2001, e, dall’altro, la tesi secondo la quale i principi soggiacenti a tale regolamento non possono essere considerati un «interesse pubblico prevalente» ai sensi dell’art. 4, n. 2, di detto regolamento. 79. Orbene, come risulta dai punti 40-47, 56-68 nonché 74 e 75 della presente sentenza, sono fondati i motivi dedotti dal sig. Turco in primo grado, secondo i quali il Consiglio, da un lato, ha erroneamente considerato che esiste un’esigenza generale di riservatezza connessa alla consulenza legale del suo servizio giuridico relativa a procedimenti legislativi, tutelata dall’art. 4, n. 2, secondo trattino, del regolamento n. 1049/2001, e, dall’altro, non ha legittimamente verificato l’esistenza, nel caso di specie, di un interesse pubblico prevalente. 80. Ne consegue che la decisione controversa deve essere annullata. Sulle spese 81. Ai sensi dell’art. 122, primo comma, del regolamento di procedura, quando l’impugnazione è accolta e la controversia viene definitivamente decisa dalla Corte, quest’ultima statuisce sulle spese. L’art. 69 del medesimo regolamento, applicabile al procedimento di impugnazione ai sensi dell’art. 118 dello stesso, stabilisce nel suo n. 2 che la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Il n. 4, primo comma, del medesimo art. 69 stabilisce che gli Stati membri e le istituzioni intervenuti nella causa sopportano le proprie spese. 82. Poiché le impugnazioni sono state accolte, il Consiglio deve essere condannato a sopportare le spese sostenute in tali procedimenti dal Regno di Svezia e dal sig. Turco, che ne hanno fatto domanda. 83. Il Consiglio e le altre parti del procedimento di impugnazione sopporteranno le proprie spese relative al procedimento stesso. 84. Poiché la Corte ha peraltro accolto il ricorso proposto dal sig. Turco dinanzi al Tribunale, il Consiglio deve essere altresì condannato a sopportare le spese sostenute nel procedimento di primo grado dal sig. Turco, che ne ha fatto domanda. 85. Il Consiglio sopporterà le proprie spese relative al procedimento di primo grado. Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara e statuisce: 1) La sentenza del Tribunale di primo grado delle Comunità europee 23 novembre 2004, causa T-84/03, Turco/Consiglio, è annullata nella parte che riguarda la decisione del Consiglio dell’Unione europea 19 dicembre 2002 che ha negato al sig. Turco l’accesso al 88 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 88 IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 89 parere del servizio giuridico del Consiglio n. 9077/02, relativo ad una proposta di direttiva del Consiglio che fissa standard minimi per l’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri, e nella parte in cui condanna il sig. Turco e il Consiglio a sopportare ciascuno la metà delle spese. 2) La decisione del Consiglio dell’Unione europea 19 dicembre 2002, che ha negato al sig. Turco l’accesso al parere del servizio giuridico del Consiglio n. 9077/02, è annullata. 3) Il Consiglio dell’Unione europea è condannato a sopportare le spese sostenute dal Regno di Svezia nel procedimento di impugnazione nonché quelle sostenute dal sig. Turco sia in detto procedimento sia in quello di primo grado conclusosi con la citata sentenza del Tribunale di primo grado delle Comunità europee. 4) Il Regno di Danimarca, il Regno dei Paesi Bassi, la Repubblica di Finlandia, il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, il Consiglio dell’Unione europea nonché la Commissione delle Comunità europee sopporteranno le proprie spese relative al procedimento di impugnazione. 5) Il Consiglio dell’Unione europea sopporterà le proprie spese relative al procedimento di primo grado. 02 comun 03 layek.qxp 06/04/2009 13.46 Pagina 89 Valutazione di impatto ambientale di progetti pubblici e privati (Corte di Giustizia delle Comunità europee, Sesta Sezione, ordinanza del 10 luglio 2008 nella causa C-156/07) Tre sono i principi interpretativi espressi dalla Corte di Giustizia Europea con ordinanza emanata in data 10 luglio 2008 a seguito del ricorso in appello presentato dal signor A. ed altri contro il Comune di Milano e nei confronti di Euromilano Spa e Metropolitana milanese Spa, per la riforma della sentenza di primo grado emessa dal Tar Lombardia. Col ricorso in primo grado il signor Aiello ed altri impugnavano il progetto relativo alla realizzazione della strada interquartiere nord di Milano poiché ritenevano il progetto non conforme al diritto comunitario per mancanza della valutazione dell’impatto ambientale dello stesso. I profili di contrarietà al diritto comunitario si ravvisavano nella circostanza che tale progetto era considerato dal Comune di Milano rientrante nell’allegato I e non già nell’allegato III della direttiva 85/337. L’allegato I considera i progetti di strade urbane sottoponibili a VIA solo qualora superino i 10 km. La strada oggetto del ricorso de quo non raggiungeva tale lunghezza arrestandosi invece a 1600 metri. I ricorrenti sostenevano che la realizzazione della strada in questione dovesse essere sottoposta a VIA in quanto inserita in un progetto piu’ ampio di ristrutturazione e di collegamento di quartieri. E che quindi non doveva prendersi a riferimento unico la lunghezza della singola strada di 1600 metri ma anche quella delle altre strade ad essa collegate; sicchè, il criterio da applicare non sarebbe quello della singola strada previsto dall’allegato I ma bensì quello del cumulo delle lunghezze delle diverse strade previsto dall’allegato III. Tale criterio del cumulo però, sebbene previsto dalla direttiva 85/337, non è stato recepito dal legislatore italiano che con DPR 12 aprile 1996 lo ha escluso dai criteri obbligatori per la sottoposizione di progetti pubblici e privati a VIA . Il Tar Lombardia riteneva tali rilievi infondati. Il signor A. ed altri impugnavano poi tale determinazione di rigetto del ricorso di fronte al Consiglio di Stato che, con decisione 24 ottobre 2006 rimetteva alla CGE l’interpretazione ai sensi dell’art. 234 del trattato CE della direttiva del Consiglio 27 giugno 1985 n. 337, come modificata dalla n. 97 del marzo 1997, riguardante la valutazione di impatto ambientale di progetti pubblici e privati. I tre punti su cui il Consiglio di Stato sollecita il dictum della CGE sono i seguenti: 1. Se i progetti da sottoporre a VIA di cui alla art. 2 della citata direttiva siano definiti esaurientemente nell’allegato I e II di essa, ovvero l’elenco di essi contenuto in tali allegati sia da ritenersi esemplificativo (tassatività od esemplificatività dell’elenco di progetti pubblici o privati da sottoporre a VIA?). 2. Se l’art. 4 della stessa direttiva attribuisca obbligo o solo facoltà agli Stati membri di prevedere VIA per i progetti pubblici e privati rientranti nell’alle- 90 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 04 micio.qxp 06/04/2009 13.47 Pagina 90 IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 91 gato II, tenendo conto dei criteri stabiliti dall’allegato III (quando uno Stato membro deve procedere a VIA in base ad un esame caso per caso od in base alle soglie e criteri stabiliti dall’allegato III deve ritenere tali parametri assolutamente vincolanti?). 3. Se l’art. 1 del D.P.R. 12 aprile 1996 emanato per il recepimento dell’art. 4 della direttiva 85/337 e del suo allegato III sia da considerarsi adeguato e conforme al testo dispositivo di tale direttiva nonostante abbia escluso dall’allegato II, e quindi dai criteri selettivi per sottoporre a VIA i progetti pubblici e privati, il criterio del cumulo del progetto con altri progetti ad esso connessi (il criterio del cumulo del progetto con altri era di facoltativo recepimento per gli Stati membri?). In merito alla prima questione la CGE ritiene che l’elenco contenuto negli allegati I e II della direttiva 85/337 sia tassativo. I progetti pubblici e privati sono da sottoporre a VIA alle condizioni ex art. 4 fatti salvi gli art. 1 nn. 4 e 5 ed art. 2 n. 3. In merito alla seconda questione la CGE ritiene che gli Stati devono tenere conto dei criteri stabiliti dall’allegato III sia quando esso consenta allo Stato un esame caso per caso, ovvero quando tale allegato prescriva soglie o criteri predeterminati. Infine, con riferimento all’ultima questione, la CGE chiarisce come gli Stati debbano doverosamente rifarsi ai criteri dell’allegato III della direttiva 85/337 per stabilire la sottoponibilità a VIA di progetti, o rinviando a tali norme ovvero recependo puntualmente la normativa comunitaria. È indifferente se gli Stati si rifacciano per espresso o per implicito rinvio a tali criteri, il punto è che la rilevanza di essi è perfettamente vincolante. Dott.ssa Giulia Micio(*) Ordinanza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, Sesta Sezione, 10 luglio 2008 nella causa C-156/07 – Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Consiglio di Stato (Italia) il 21 marzo 2007 – Salvatore Aiello e a./Comune di Milano, Sindaco di Milano, Comitato tecnico-scientifico per l’emergenza del trafficio e della mobilità nella città di Milano, Provincia di Milano, Regione Lombardia, Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Ministero dell’Interno, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Euromilano SpA, Metropolitana milanese SpA. (Avvocato dello Stato G. Fiengo – AL 49205/06). Rinvio pregiudiziale – Direttiva 85/337/CEE – Valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati – Realizzazione di una strada a Milano. (…Omissis) Nel merito 26. Considerando che la soluzione delle tre questioni proposte non dà adito ad alcun ragionevole dubbio, la Corte, in conformità all’art. 104, n. 3, secondo comma, del suo rego- (*) Dottore in giurisprudenza. 02 comun 04 micio.qxp 06/04/2009 13.47 Pagina 91 lamento di procedura, ha informato il giudice del rinvio che essa si proponeva di statuire con ordinanza motivata e ha invitato gli interessati di cui all’art. 23 dello Statuto della Corte di giustizia a presentare le loro osservazioni eventuali al riguardo. 27. I signori Aiello e altri e la Commissione delle Comunità europee hanno aderito all’invito della Corte. La Commissione ha indicato nella sua risposta di non aver obiezioni a che la Corte statuisse con ordinanza motivata. I signori Aiello e altri hanno invocato argomenti simili a quelli svolti nelle loro osservazioni scritte e hanno chiesto che venisse fissata un’udienza. Tuttavia, tali elementi non inducono la Corte a discostarsi dall’iter procedurale deciso. – Sulla prima questione 28. Con la prima questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’art. 2, n. 1, della direttiva 85/337 debba essere interpretato nel senso che i progetti per i quali si prevede un notevole impatto ambientale, ma che non sono citati agli allegati I e II di tale direttiva, devono cionondimeno essere sottoposti a valutazione del loro impatto ambientale in conformità a quanto previsto da detta direttiva. 29. L’art. 2, n. 1, della direttiva 85/337 prevede che i progetti per i quali si prevede un notevole impatto ambientale, in particolare per la loro natura, le loro dimensioni o la loro ubicazione, e per i quali è pertanto prevista una valutazione del loro impatto, sono definiti all’art. 4 di tale direttiva. 30. Detto art. 4 prevede, al n. 1, che i progetti inclusi nell’allegato I della direttiva 85/337 devono essere sottoposti ad una valutazione dell’impatto ambientale e, al n. 2, che, per i progetti inclusi nell’allegato II di tale direttiva, spetta agli Stati membri stabilire se essi debbano essere sottoposti a una tale valutazione sulla base di determinate soglie o di determinati criteri. 31. Si deve parimenti ricordare che tale articolo fa salva, nelle due ipotesi richiamate al punto precedente, l’applicazione dell’art. 2, n. 3, della direttiva 85/337, che permette agli Stati membri, in casi eccezionali, di esentare, in tutto o in parte, un progetto specifico dalla necessità di una valutazione. 32. Inoltre, l’art. 1 della direttiva 85/337 stabilisce, al n. 4, che quest’ultima non riguarda i progetti destinati a scopi di difesa nazionale e, al n. 5, che essa non si applica ai progetti adottati nei dettagli mediante un atto legislativo nazionale specifico, inteso che gli obiettivi perseguiti dalla direttiva vengono considerati raggiunti tramite la procedura legislativa. 33. In ogni caso, si deve parimenti rammentare che l’ambito d’applicazione della direttiva 85/337 è vasto e il suo obiettivo di portata molto ampia (v. sentenze 24 ottobre 1996, causa C-72/95, Kraaijeveld e a., Racc. pag. I-5403, punto 31, nonché 16 settembre 2004, causa C-227/01, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-8253, punto 46), ed è in questo spirito che deve essere attuata. 34. Di conseguenza, considerati i punti 29-32 della presente ordinanza, occorre risolvere la prima questione proposta dichiarando che l’art. 2, n. 1, della direttiva 85/337 deve essere interpretato nel senso che esso non richiede che tutti i progetti per i quali si prevede un notevole impatto ambientale siano sottoposti alla procedura di valutazione dell’impatto ambientale in conformità a quanto previsto da questa direttiva, bensì che debbano esserlo solo quelli che sono citati agli allegati I e II di detta direttiva, nelle condizioni previste all’art. 4 di quest’ultima e fatti salvi gli artt. 1, nn. 4 e 5, nonché 2, n. 3, della medesima direttiva. – Sulla seconda questione 35. Con la seconda questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se i criteri di selezione menzionati all’allegato III della direttiva 85/337 siano vincolanti per gli Stati membri 92 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 04 micio.qxp 06/04/2009 13.47 Pagina 92 quando essi stabiliscono, in applicazione dell’art. 4, n. 2, di questa direttiva, per i progetti rientranti nell’allegato II della medesima, sulla base di un esame caso per caso o sulla base delle soglie o dei criteri da essi fissati, se tali progetti debbano essere sottoposti alla procedura di valutazione dell’impatto ambientale. 36. A questo proposito, la Corte ha già affermato che, se gli Stati membri hanno la possibilità di fissare i criteri e/o le soglie che consentono di stabilire quali progetti rientranti nell’allegato II della direttiva 85/337, nella sua versione originaria, debbano essere oggetto di una tale valutazione, il loro margine discrezionale trova il proprio limite nell’obbligo, enunciato all’art. 2, n. 1, di detta direttiva, di sottoporre ad una valutazione d’impatto i progetti idonei ad avere un notevole impatto ambientale, segnatamente per la loro natura, le loro dimensioni o la loro ubicazione (v., in particolare, sentenza 23 novembre 2006, causa C- 486/04, Commissione/Italia, Racc. pag. I-11025, punto 53). 37. Ai sensi dell’art. 4, n. 2, della direttiva 85/337, spetta agli Stati membri stessi determinare in quali casi i progetti elencati all’allegato II di questa direttiva devono essere sottoposti a valutazione dell’impatto ambientale, mentre quelli che figurano all’allegato I di quest’ultima sono sempre oggetto di tale procedura di valutazione. 38. La medesima disposizione lascia agli Stati membri due possibilità. La prima consiste nel decidere caso per caso se un progetto indicato all’allegato II debba essere sottoposto a tale valutazione. La seconda consiste nel determinare, in modo generale ed astratto, in funzione di soglie o criteri, i progetti figuranti in tale allegato che saranno obbligatoriamente oggetto di detta valutazione. 39. Risulta dal testo medesimo del suo art. 4, n. 3, che la direttiva 85/337 impone agli Stati membri, in entrambi i casi, l’obbligo di tener conto dei criteri di selezione rilevanti definiti al suo allegato III, vale a dire di quelli fra tali criteri che, tenuto conto delle caratteristiche del progetto interessato, devono essere applicati. 40. Pertanto, occorre risolvere la seconda questione proposta nel senso che i criteri di selezione rilevanti citati all’allegato III della direttiva 85/337 sono vincolanti per gli Stati membri quando stabiliscono – per i progetti rientranti nell’allegato II di quest’ultima, sulla base di un esame caso per caso ovvero sulla base delle soglie o dei criteri che essi fissano – se il progetto interessato debba essere sottoposto alla procedura di valutazione dell’impatto ambientale. – Sulla terza questione 41. Con la terza questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, alla Corte di precisare se la normativa italiana di cui trattasi nella causa principale assicuri una trasposizione corretta dell’art. 4 di detta direttiva 85/337, laddove tale normativa non prevede il criterio del cumulo con altri progetti, pur menzionato all’allegato III di tale direttiva, in quanto criterio di selezione da prendere in considerazione quando l’autorità nazionale competente determina se progetti rientranti nell’allegato II della detta direttiva debbano essere sottoposti alla valutazione dell’impatto ambientale. 42. Secondo una giurisprudenza costante, non spetta alla Corte pronunciarsi, nell’ambito di un procedimento avviato in forza dell’art. 234 CE, sulla compatibilità di norme di diritto interno con le disposizioni del diritto comunitario. Per contro, la Corte è competente a fornire al giudice nazionale tutti gli elementi d’interpretazione propri del diritto comunitario che gli consentano di valutare la compatibilità di norme di diritto interno con la normativa comunitaria (sentenza 6 marzo 2007, cause riunite C-338/04, C-359/04 e C-360/04, Placanica e a., Racc. pag. I-1891, punto 36 e giurisprudenza ivi citata). 43. Nella fattispecie, emerge dalla decisione di rinvio che il giudice nazionale cerca di sapere se gli Stati membri, quando traspongono la direttiva 85/337 nell’ordinamento giuri- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 93 02 comun 04 micio.qxp 06/04/2009 13.47 Pagina 93 dico interno, siano tenuti ad adottare una disposizione che ribadisca l’obbligo di rispettare il criterio del cumulo del progetto interessato con altri progetti, menzionato all’allegato III di tale direttiva, quando si tratti di valutare se un progetto rientrante nell’allegato II della medesima debba essere sottoposto alla valutazione dell’impatto ambientale prevista da detta direttiva. 44 . A tale riguardo, occorre anzitutto ricordare che ciascuno degli Stati membri destinatari di una direttiva ha l’obbligo di adottare, nell’ambito del proprio ordinamento giuridico, tutti i provvedimenti necessari a garantire la piena efficacia della direttiva, conformemente allo scopo che essa persegue (sentenza 30 novembre 2006, causa C-32/05, Commissione/Lussemburgo, Racc. pag. I-11323, punto 32). 45. La Corte ha parimenti ritenuto che le disposizioni di una direttiva devono essere attuate con efficacia cogente incontestabile, con la specificità, la precisione e la chiarezza necessarie per garantire pienamente la certezza del diritto, la quale esige che, qualora la direttiva miri ad attribuire diritti ai singoli, i destinatari siano posti in grado di conoscere la piena portata dei loro diritti (sentenza 4 dicembre 1997, causa C-207/96, Commissione/Italia, Racc. pag. I-6869, punto 26). 46. Nella fattispecie, l’art. 4 della direttiva 85/337 deve essere interpretato nel senso che esso impone all’autorità competente di tener conto dei criteri di selezione rilevanti menzionati all’allegato III di detta direttiva, quando si tratta di valutare se un progetto rientrante nell’allegato II della medesima debba essere sottoposto a valutazione dell’impatto ambientale, o quando tale valutazione viene eseguita caso per caso, ovvero quando lo Stato membro interessato ha optato per una regolamentazione generale. 47. Quando uno Stato membro sceglie di determinare in modo generale e astratto, come gli è consentito dalla direttiva 85/337, i progetti rientranti nell’allegato II di questa direttiva che dovranno essere sottoposti a valutazione dell’impatto ambientale, esso è tenuto a redigere l’elenco di tali progetti applicando, secondo i casi, l’uno o l’altro dei diversi criteri rilevanti di detto allegato III. Il criterio del cumulo può così, ove sia rilevante, essere utilizzato per sottoporre un tipo di progetto a una tale valutazione, tenuto conto della realizzazione del medesimo con altri progetti, eventualmente prendendo in considerazione la realizzazione del complesso di tali progetti durante un periodo di tempo determinato. 48. Quando invece uno Stato membro opta, in tutto o in parte, per la determinazione caso per caso dei progetti rientranti nell’allegato II della direttiva 85/337 che devono essere sottoposti ad una valutazione dell’impatto ambientale, esso è tenuto a fare in modo che le autorità nazionali competenti tengano conto dei diversi criteri elencati all’allegato III di questa direttiva in quanto siano rilevanti con riferimento alle caratteristiche del progetto interessato. 49. A tale scopo, detto Stato membro può rinviare, mediante la legislazione nazionale, ai criteri dell’allegato III. Gli è anche possibile integrare tali criteri nella sua legislazione, prevedendo espressamente che le autorità competenti dovranno farvi riferimento per determinare, caso per caso, se un progetto rientrante nell’allegato II della direttiva 85/337 debba essere oggetto di valutazione dell’impatto ambientale. 50. In ogni caso, quando uno Stato membro sceglie questo modo di procedere, esso non può, senza venir meno ai suoi obblighi comunitari, escludere esplicitamente o implicitamente uno o più criteri dell’allegato III della direttiva 85/337, perché ciascuno di essi può, a seconda del progetto interessato rientrante nell’allegato II di questa direttiva, essere rilevante per determinare se debba essere avviata una procedura di valutazione dell’impatto ambientale. Una tale esclusione potrebbe, infatti, a seconda delle caratteristiche dell’ordinamento giuridico nazionale di cui si tratta, dissuadere l’autorità nazionale competente dal prendere in considerazione il criterio o i criteri in questione o addirittura impedirle di farlo. 94 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 04 micio.qxp 06/04/2009 13.47 Pagina 94 IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 95 51. Di conseguenza, occorre risolvere la terza questione proposta dichiarando che, quando uno Stato membro opta per determinare caso per caso quali progetti tra quelli rientranti nell’allegato II della direttiva 85/337 devono essere sottoposti a valutazione dell’impatto ambientale, esso deve, o rinviando nelle sue norme nazionali all’allegato III di questa direttiva, o riproducendo nelle sue norme nazionali i criteri elencati dalla stessa direttiva, fare in modo che il complesso di tali criteri possa effettivamente essere considerato qualora l’uno o l’altro di essi sia rilevante per il progetto interessato, senza poterne escludere alcuno esplicitamente o implicitamente. Sulle spese 52. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Sesta Sezione) dichiara: 1) L’art. 2, n. 1, della direttiva del Consiglio 27 giugno 1985, 85/337/CEE, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, come modificata dalla direttiva del Consiglio 3 marzo 1997, 97/11/CE, deve essere interpretato nel senso che esso non richiede che tutti i progetti destinati ad avere un notevole impatto ambientale siano sottoposti alla procedura di valutazione dell’impatto ambientale prevista da questa direttiva, bensì che devono esserlo solo quelli che sono citati agli allegati I e II di detta direttiva, nelle condizioni previste all’art. 4 di quest’ultima e fatti salvi gli artt. 1, nn. 4 e 5, e 2, n. 3, della medesima direttiva. 2) I criteri di selezione rilevanti citati all’allegato III della direttiva 85/337, come modificata dalla direttiva 97/11, sono vincolanti per gli Stati membri quando stabiliscono – per i progetti rientranti all’allegato II di quest’ultima, sulla base di un esame caso per caso ovvero sulla base delle soglie o dei criteri che essi fissano – se il progetto interessato debba essere sottoposto alla procedura di valutazione dell’impatto ambientale. 3) Quando uno Stato membro opta per determinare caso per caso quali progetti tra quelli rientranti nell’allegato II della direttiva 85/337, come modificata dalla direttiva 97/11, devono essere sottoposti a valutazione dell’impatto ambientale, esso deve, o rinviando nelle sue norme nazionali all’allegato III di questa direttiva, o riproducendo nelle sue norme nazionali i criteri elencati dalla stessa direttiva, fare in modo che il complesso di tali criteri possa effettivamente essere considerato qualora l’uno o l’altro di essi sia rilevante per il progetto interessato, senza poterne escludere alcuno esplicitamente o implicitamente. 02 comun 04 micio.qxp 06/04/2009 13.47 Pagina 95 96 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 Applicazione del principio “chi inquina paga”. L’onere finanziario dello smaltimento dei rifiuti causati dal naufragio di una petroliera (Corte di Giustizia delle Comunità europee, Grande Sezione, sentenza del 24 giugno 2008 nella causa C-188/07) La sentenza pronunciata il 24 giugno 2008 dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee in Grande Sezione, sul rinvio pregiudiziale promosso dalla III Sezione della Corte di Cassazione francese, con ordinanza del 3 aprile 2007, contiene una serie di quaestiones ex art. 234 TCE relative alla qualificazione di rifiuto, ai sensi della direttiva 75/442, dell’olio pesante venduto come combustibile da solo o miscelato a sedimenti e acqua in seguito al naufragio di una petroliera e la conseguente possibilità di individuare nel produttore e/o venditore e noleggiatore i soggetti su cui grava l’onere finanziario del suo smaltimento. L’origine della questione Appare opportuno in via preliminare ricostruire brevemente i fatti che hanno dato origine al contenzioso in oggetto. La società italiana ENEL stipulava con la Total International Ltd un contratto di fornitura di olio pesante destinato a essere utilizzato come combustibile per la produzione di energia elettrica. Per l’esecuzione del contratto, la Total Raffinage production, diventata Total France SA, vendeva l’olio pesante alla Total International Ltd. Quest’ultima noleggiava la nave Erika, battente bandiera maltese, per trasportare l’olio dal porto di Dunkerque in Francia a quello di Milazzo (Sicilia). Il 12 dicembre 1999 la nave affondava al largo delle coste bretoni, sversando parte del carico e dell’olio in mare e causando l’inquinamento del litorale atlantico francese. In data 9 giugno 2000 il Comune di Mesquer (Francia) conveniva in giudizio le imprese del gruppo Total dinanzi al Tribunal de commerce de Saint Nazaire (1) perché fossero dichiarate responsabili dei danni a seguito dello sversamento, con conseguente condanna in solido alle spese sostenute per le opere di bonifica e pulitura del suo territorio costiero, ai sensi della disciplina nazionale (2). (1) Il Comune di Mesquer sosteneva infatti che gli idrocarburi sversati fossero da considerare rifiuti ai sensi della disciplina comunitaria e che la Total International Ltd e Total France in qualità di precedenti detentori o produttori dovessero sopportare i costi sostenuti per la bonifica. (2) La normativa di riferimento è l’art. 2 della L. 15 luglio 2975 n. 75-633 relativa allo smaltimento dei rifiuti ed al recupero dei materiali, ormai L 541-2 del codice dell’ambiente, 02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 96 IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 97 Il Comune di Mesquer, a seguito del rigetto del ricorso in primo grado, proponeva appello alla Cour d’Appel de Rennes che però confermava la sentenza del Tribunal de commerce (3) . La Cour de Cassation, considerate le difficoltà interpretative delle disposizioni comunitarie applicabili, per potersi pronunciare sull’impugnazione relativa alla causa, sospendeva il procedimento e sottoponeva alla Corte di Giustizia le seguenti questioni pregiudiziali: 1. “Se l’olio pesante, prodotto derivato da un processo di raffinazione, rispondente alle specifiche dell’utilizzatore, destinato dal produttore a essere venduto come combustibile e menzionato nella direttiva 68/414 (...) possa essere considerato un rifiuto ai sensi dell’art. 1 della direttiva 75/442 (...) codificata dalla direttiva 2006/12 (...)”. 2. “ Se un carico di olio pesante, trasportato da una nave e accidentalmente sversato in mare, costituisca, di per sé o miscelato ad acqua e sedimenti, un rifiuto ai sensi della [categoria] Q4 dell’allegato I della direttiva 2006/12 (...)”. 3. “In caso di soluzione negativa della prima questione e di soluzione affermativa della seconda, se il produttore dell’olio pesante (Total Raffinage [distribuzione]) e/o il venditore e noleggiatore (Total International Ltd) possano essere considerati, ai sensi dell’art. 1, lett. b) e c), della direttiva 2006/12 (…) e ai fini dell’applicazione dell’art. 15 della medesima direttiva, come il produttore e/o il detentore del rifiuto, anche qualora il prodotto, al momento dell’incidente che l’ha trasformato in rifiuto, fosse trasportato da terzi”. L’ampliamento della nozione comunitaria di rifiuto Le prime due questioni affrontate nella sentenza in commento riguardano la nozione “aperta” di rifiuto e la sua continua evoluzione interpretativa alla luce della relativa disciplina comunitaria. Il tema dell’ambiente e della sua tutela, anche dal punto di vista della salute umana, è ed è stato oggetto di innumerevoli pronunce della Corte di Giustizia che, partendo dal dato testuache dispone “Chiunque produca o detenga rifiuti in circostanze tali da produrre effetti nocivi per il suolo, la flora, la fauna, deteriorare i siti o i paesaggi, inquinare l’aria o le acque, causare rumori e odori e, in generale, ledere la salute dell’uomo e l’ambiente, è tenuto a provvedere o a far provvedere al loro smaltimento conformemente alle disposizioni del presente capitolo, in condizioni idonee a evitare i danni menzionati al comma precedente. Lo smaltimento dei rifiuti comporta le operazioni di raccolta, trasporto, stoccaggio, cernita e trattamento necessari al recupero degli elementi e dei materiali riutilizzabili o dell’energia, nonché al deposito o al rigetto nell’ambiente naturale di tutti gli altri prodotti in condizioni idonee a evitare i danni menzionati al comma precedente”. (3) Le considerazioni svolte erano di due ordini: la prima relativa alla valutazione dell’olio pesante, da reputare non come un rifiuto bensì come un materiale combustibile costituente materiale energetico creato per un uso specifico. La seconda escludeva la responsabilità delle società convenute, perché nessuna norma consentiva di poterne addebitare la responsabilità in quanto esse non erano produttrici o detentrici dei rifiuti prodotti, pur ammettendo che l’olio sversato e trasformato a seguito del suo miscelarsi all’acqua e alla sabbia avesse generato rifiuti. 02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 97 98 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 le di non sempre univoca interpretazione offerto dalla direttiva 75/442 (4), ha con il tempo riempito e ampliato di significato la direttiva stessa. Il rinvio del giudice francese alla Corte di Lussemburgo ha come base normativa l’art. 1 della citata direttiva che qualifica come rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I (5) e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”. Come precedentemente affermato, la Corte di Giustizia anche in tale occasione ha voluto ribadire la necessità di valutare la nozione di rifiuto e il suo campo applicativo alla luce del significato attribuito al termine “disfarsi”, nel rispetto delle finalità della direttiva quali “la protezione della salute umana dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti” e dell’art. 174 n. 2 TCE (6). L’elaborazione comunitaria della nozione di rifiuto ha portato alla formulazione di due fondamentali indici rivelatori, utili anche per la risoluzione del caso di specie. La Corte, chiamata a pronunciarsi nelle celebri sentenze Palinn Granit e Vehmassalon kansanterveystyon (7), e ARCO Chemie Neder-land (8), aveva avuto già occasione di precisare che l’esclusione di una delle operazioni menzionate negli allegati II Ao B della Direttiva 2006/12 (9) non permetteva sic et simpliciter di qualificare in positivo una sostanza o un oggetto come rifiuto e in negativo sostanze e oggetti suscettibili di riutilizzo economico. Il giudice sembra qui seguire lo stesso ragionamento usato per la risoluzione del caso Palin Granit, nel quale fu esclusa la qualificabilità di rifiuto in presenza di due condizioni: da un alto il grado di probabilità di riutilizzo della sostanza senza operazioni di trasformazioni preliminari ad opera del detentore e dall’altro il conseguimento di un vantaggio economico a seguito di tale operazione. Infatti, ove ricorrano congiuntamente tali elementi, la sostanza non potrà essere considerata un ingombro di cui il detentore cerchi di disfarsi, bensì un autentico prodotto. Nel caso di specie la Corte non ha ritenuto di considerare rifiuto la sostanza trasportata, olio pesante venduto come combustibile (10), “nei limi- (4) Direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE relativa ai rifiuti (GU L 194) modificata dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996, 96/350/CE (GU L 135) e dalla Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 5 aprile 2006, 2006/12/CE. (5) Punto 53 della sentenza “…l’allegato II della direttiva 75/442 propone elenchi di sostanze e di oggetti qualificabili come rifiuti. Tale elenco, tuttavia, ha soltanto valore indicativo, posto che la qualifica di rifiuto discende anzitutto dal comportamento del detentore e del significato del termine «disfarsi»”. (6) L’articolo 174 del TCE dispone che “La politica della Comunità in materia ambientale mira ad un elevato livello di tutela, tenendo conto delle diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è fondata in particolare sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio «chi inquina paga»”. (7) Sentenza 18 aprile 2002, causa C-9/00. (8) Sentenza15 giugno 2000, cause C-418/97 e C-419/97. (9) Cfr. supra. (10) Si tratta di olio pesante, prodotto e derivato da un processo di raffinazione rispondente alle specifiche dell’utilizzatore, destinato dal produttore ad essere venduto come com- 02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 98 IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 99 ti in cui è sfruttata o commercializzata a condizioni economicamente vantaggiose e può essere effettivamente utilizzata come combustibile senza necessitare di preliminari operazioni di trasformazione”. Di conseguenza, il giudice di Lussemburgo ha invece qualificato come rifiuti, ai sensi della categoria Q4 dell’allegato I della direttiva 75/442, “gli idrocarburi accidentalmente sversati in mare a seguito del naufragio che risultino miscelati ad acqua nonché a sedimenti e che vadano alla deriva lungo le coste di uno Stato membro fino a raggiungerle, nei limiti in cui non possono essere più sfruttati o commercializzati senza preliminari operazioni di trasformazione” (11), rammentando il valore puramente indicativo (12) degli elenchi allegati alla direttiva stessa. Il sistema della responsabilità civile per danni dovuti a inquinamento da idrocarburi alla luce delle nuove riflessioni La terza questione pregiudiziale interviene e si avvale della disciplina contenuta nella Convenzione internazionale sulla responsabilità civile per i danni dovuti a inquinamento da idrocarburi adottata a Bruxelles il 29 novembre 1969 (13). Ai sensi della stessa, i proprietari delle navi rispondono a titolo di responsabilità oggettiva per i danni da sversamento di idrocarburi nel territorio di uno Stato contraente, compreso il mare territoriale e nella zona economica dello stesso, conformemente alle norme di diritto internazionale. Il risarcimento non può essere richiesto a qualsiasi noleggiatore, gestore, operatore della nave “tranne nel caso in cui il danno sia dovuto a loro atti o omissioni personali commessi con l’intento di provocare tali danni, ovvero con negligenze e con la consapevolezza della probabilità di provocare tali danni” ai sensi dell’art. III, n. 4. A completamento del sistema cosi delineato, nel 1971 veniva istituito il “FIPOL” il fondo internazionale per il risarcimento dei danni da inquinamento da idrocarburi (14) a favore delle vittime e in seguito veniva creato il “fondo complementare internazionale del 2003 per il risarcimento dei danni da inquinamento da idrocarburi”. bustibile e menzionato nella direttiva 68/14/CEE, relativa alle risorse strategiche soggette ad obbligo di stoccaggio. (11) La commercializzazione di tale miscela (composta da idrocarburi, acqua e sedimenti) appare aleatoria, e pur ammettendola, presupporrebbe operazioni preliminari che non sono economicamente vantaggiose per il detentore. (12) La Corte ha tenuto a precisare la circostanza che al punto Q4 l’allegato I della direttiva 75/442, intitolato «Categorie di rifiuti», menzioni, le “sostanze accidentalmente riversate, perdute o aventi subito qualunque altro incidente compresi tutti i materiali, le attrezzature, ecc. contaminati in seguito all’incidente in questione”, ha valore di indizio. Tale circostanza, pertanto, non consente di per sé di qualificare come rifiuti gli idrocarburi che siano stati accidentalmente sversati e che siano all’origine di un inquinamento del terreno e delle acque sotterranee (si veda sentenza Van de Walle punto 43). (13) Pubblicata in GU 2004, L 78, modificata dal protocollo firmato a Londra il 27 novembre 1992. (14) Convenzione internazionale sull’istituzione di un fondo internazionale per il risarcimento di danni dovuti da inquinamento da idrocarburi adottata a Bruxelles il 18 dicembre 1971, modificata dal protocollo firmato a Londra il 27 novembre 1992 (GUL 78). 02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 99 100 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 Svolte queste brevi premesse di carattere generale, assume importanza fondamentale ancora una volta l’art. 15 (15) della direttiva 75/442 che in tema di identificazione del responsabile e del conseguente addebito dei costi di smaltimento e bonifica dei rifiuti generati dispone (16) che, in conformità al principio “chi inquina paga”, tale costo debba essere sostenuto dal detentore che consegna rifiuti ad un raccoglitore o ad un impresa di cui all’art. 9 oppure dai precedenti detentori (17) o dal produttore (18) del prodotto causa dei rifiuti. Come nella vicenda analoga, sentenza Van de Walle (19), in cui il gestore della stazione di servizio in cui era avvenuto una fuoriuscita accidentale di idrocarburi venne qualificato detentore, essendone produttore e possessore, anche nel caso di specie la Corte ha ritenuto possibile assimilare la figura del proprietario, che trasporta gli idrocarburi immediatamente prima che avvenga lo sversamento, a colui che li ha prodotti e quindi come detentore ai sensi della direttiva (20). Nel caso di specie la Corte, chiarito il significato della locuzione “detentore”, afferma che coloro i quali hanno venduto la merce al destinatario e hanno noleggiato la nave, in qualità di detentori precedenti o di produttori del prodotto all’origine dei rifiuti, possono essere tenuti a sopportare i costi dello smaltimento del rifiuto prodotto, “a motivo del loro contributo alla produzione dei rifiuti in parola e, eventualmente, al rischio di inquinamento che risulta”, demandando al giudice nazionale le valutazioni caso per caso sul comportamento dei soggetti indicati e l’accertamento della loro responsabilità. Il Giudice di Lussemburgo approda dunque alla formulazione della responsabilità del produttore, che ha generato i rifiuti diffusi accidental- (15) Alla base delle richieste risarcitorie del Comune di Mesquer nei confronti delle Società Total c’era infatti l’applicazione del citato articolo, per l’esame delle posizioni del Governo francese, italiano e belga si vedano il punto 67 e 68 della sentenza. (16) Posto che la direttiva in oggetto distingue le operazioni di smaltimento poste a carico del detentore dei rifiuti e l’assunzione dell’onere finanziario relativo alle operazioni stesse di cui sono gravati i soggetti che sono all’origine dei rifiuti, a prescindere dalla qualifica di questi ultimi, siano essi detentori, precedenti detentori o fabbricanti del prodotto all’origine degli stessi e che i soggetti coinvolti nella produzioni non possono sottrarsi ai loro obblighi finanziari. (17) L’art. 188, comma 1 delD.Lgs. 152/2006 statuisce che “Gli oneri relativi alle attività di smaltimento sono a carico del detentore che consegna i rifiuti ad un raccoglitore autorizzato o ad un soggetto che effettua le operazioni di smaltimento, nonché dei precedenti detentori o del produttore dei rifiuti”. (18) Ai sensi dell’art. 1 della direttiva è detentore “il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che li detiene”, mentre il produttore è “la persona la cui attività ha prodotto rifiuti e/o la persona che ha effettuato operazioni di pretrattamento, di miscuglio o altre operazioni che hanno mutato la natura o la composizione di detti rifiuti. (19) Sentenza 7 settembre 2004, causa C-1/03. (20) A norma dell’art. 8 della Direttiva 75/442 “Gli Stati membri adottano le disposizioni necessarie affinché ogni detentore di rifiuti: li consegni ad un raccoglitore privato o pubblico, o ad un’impresa che effettua le operazioni previste nell’allegato II A o B, oppure provveda egli stesso al recupero o allo smaltimento, conformandosi alle disposizioni della presente direttiva”. 02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 100 IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 101 mente in mare, con il conseguente addebito a questo dell’onere finanziario relativo allo smaltimento, solo in via subordinata. Su questo punto appare esaustivo quanto disposto dalla Corte “Quindi, per quanto riguarda idrocarburi accidentalmente sversati in mare a seguito del naufragio di una petroliera, il giudice nazionale può considerare che colui che ha venduto tali idrocarburi e noleggiato la nave che li ha trasportati ha «prodotto rifiuti» se tale giudice, alla luce degli elementi la cui valutazione è di sua esclusiva competenza, giunge alla conclusione che tale venditore- noleggiatore ha contribuito al rischio che si verificasse l’inquinamento determinato da tale naufragio, in particolare se si è astenuto dall’adottare provvedimenti diretti a prevenire un tale evento, come quelli relativi alla scelta della nave. In siffatte circostanze, il venditore-noleggiatore potrà essere qualificato come precedente detentore dei rifiuti ai fini dell’applicazione dell’art. 15, secondo trattino, prima parte, della direttiva 75/442”. Pertanto appare chiaro che la responsabilità del produttore viene sancita affinché il diritto nazionale assicuri comunque la trasposizione dell’art. 15 della direttiva in oggetto e ne tuteli le finalità, consentendo di attribuire al soggetto individuato la responsabilità in linea con il principio “chi inquina paga” (21) “solo se, mediante la sua attività, ha contribuito al rischio che si verificasse l’inquinamento prodotto dal naufragio della nave” e con due ordini di limiti. Il produttore sarà gravato dell’onere finanziario solo nel caso in cui i costi dello smaltimento dei rifiuti conseguenti allo sversamento accidentale di idrocarburi in mare non siano oggetto di accollo da parte del fondo in parola o non possano esserlo a motivo dell’esaurimento del limite massimo di risarcimento previsto per tale sinistro e se, in applicazione dei limiti e/o delle esclusioni di responsabilità vigenti, il diritto nazionale di uno Stato membro, compreso quello derivante da convenzioni internazionali, impedisca che tali costi siano sostenuti dal proprietario della nave e/o dal noleggiatore di quest’ultima, sebbene tali soggetti debbano essere qualificati come «detentori» ai sensi dell’art. 1, lett. c) della direttiva 75/442, come modificata dalla Decisione 96/350. Conclusioni La risposta del giudice comunitario nella sentenza C-188/2007 si inserisce nella continua ed attenta elaborazione delle problematiche e tematiche relative ai rifiuti e alla protezione dell’ambiente, all’interno di una disciplina comunitaria di non sempre chiara e univoca interpretazione (22). Nella sentenza è statuito in modo chiaro che, a determinate condizioni (23), l’olio (21) Si veda art. 178 comma 3 del D.Lgs. 152/2006, nel quale oltre all’enucleazione dei principi cardine a livello nazionale e comunitario da adottare per la gestione dei rifiuti, c’è un riferimento esplicito al principio “chi inquina paga”. (22) Decisione n. 1600/2002/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, “VI Programma d’azione ambientale europea” ( GUCE 242 del 2002) detta all’art. 8, n. 2, IV, tra le priorità del programma decennale, la rielaborazione o revisione della normativa sui rifiuti. 02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 101 102 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 pesante venduto come combustibile non costituisce un rifiuto ai sensi della direttiva 75/442/CEE e che, nei limiti in cui non possono più essere sfruttati o commercializzati senza preliminari operazioni di trasformazione, gli idrocarburi in seguito a un naufragio accidentalmente sversati in mare - miscelati ad acqua nonché a sedimenti e che vadano alla deriva lungo le coste di uno Stato membro fino a raggiungere queste ultime - sono da considerare rifiuti. La sentenza comunitaria, oltre ai rilevanti profili emersi per la risoluzione di alcuni aspetti inerenti all’attuale problema dell’inquinamento del mare, diventa occasione e spunto per consolidare e sottolineare ancora una volta il fondamentale ruolo degli Stati membri e del giudice nazionale nell’applicazione della disciplina comunitaria e dei principi ivi contenuti. Infatti ai primi viene richiesto di ottemperare all’obbligo cogente contenuto nella direttiva stessa consistente nell’adottare tutti i provvedimenti necessari per raggiungere il risultato da questa prescritto ai sensi dell’art. 249 terzo comma TCE (24) compresa l’adozione di tutti i provvedimenti generali o particolari degli organi degli Stati membri, ivi compresi, nell’ambito delle loro competenze, quelli giurisdizionali (25). Spetta invece al giudice nazionale l’interpretazione del diritto interno (26) al fine di conseguire il risultato perseguito dalla direttiva stessa, e conformandosi pertanto all’art. 294 terzo comma TCE. Nel caso di specie e negli eventuali futuri sarà pertanto demandata al giudice nazionale ogni valutazione circa la possibilità di addebitare al fabbricante del prodotto l’onere di farsi carico dei costi connessi allo smaltimento dei rifiuti, nel caso in cui, mediante la sua attività, egli abbia contribuito al rischio dell’avvenuto inquinamento causato dal naufragio della nave. Dott.ssa Flaminia Giovagnoli(*) Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, Grande Sezione, 24 giugno 2008 nel procedimento C-188/07 - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Cour de cassation (Francia) - Commune de Mesquer/Total France SA, Total International Ltd. (Avvocato dello Stato D. Del Gaizo - AL 24443/07). Direttiva 75/442/CEE – Gestione dei rifiuti – Nozione di rifiuti – Principio “chi inquina paga” – Detentore – Precedenti detentori – Produttore del prodotto causa dei rifiuti – (23) L’olio non è considerato rifiuto, nei limiti in cui è sfruttato o commercializzato a condizioni economicamente vantaggiose e può essere effettivamente utilizzato come combustibile senza necessitare di preliminari operazioni di trasformazione. (24) L’articolo 249, comma 3 TCE così dispone “La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi”. (25) Si veda sentenza Marleasing, 13 novembre 1990, causa C-106/89. (26) Parte IV Testo Unico Ambientale (D.Lgs. n. 152 del 3 aprile 2006, “Nuove norme in materia ambientale” artt. 177-266), che rappresenta il riferimento normativo di settore per l’Italia. (*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato. 02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 102 Idrocarburi e olio pesante – Naufragio – Convenzione sulla responsabilità civile per i danni dovuti a inquinamento da idrocarburi – FIPOL. 1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli artt. 1 e 15 della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti (GU L 194, pag. 39), come modificata dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996, 96/350/CE (GU L 135, pag. 32; in prosieguo: la «direttiva 75/442»), nonché sull’allegato I di tale direttiva. 2. La domanda in questione interviene nell’ambito di una controversia che vede contrapporsi il Comune di Mesquer alla Total France SA e alla Total International Ltd (in prosieguo, congiuntamente: le «società Total») relativamente al risarcimento dei danni causati dai rifiuti sversati sul territorio del menzionato Comune in seguito al naufragio della petroliera Erika. Contesto normativo La normativa internazionale 3. La convenzione internazionale del 1969 sulla responsabilità civile per i danni dovuti a inquinamento da idrocarburi, adottata a Bruxelles il 29 novembre 1969, come modificata dal protocollo firmato a Londra il 27 novembre 1992 (GU 2004, L 78, pag. 32; in prosieguo: la «convenzione sulla responsabilità civile»), disciplina la responsabilità dei proprietari di navi per i danni risultanti da sversamenti ripetuti di idrocarburi provenienti da navi cisterna. Essa si fonda sul principio della loro responsabilità oggettiva, limitata a un importo calcolato in funzione della stazza della nave, e istituisce un sistema obbligatorio di assicurazione della responsabilità civile. 4. Ai sensi dell’art. II, lett. a), della convenzione sulla responsabilità civile, quest’ultima si applica ai danni dovuti a inquinamento che si verificano nel territorio di uno Stato contraente, ivi compreso il mare territoriale, e nella zona economica esclusiva di uno Stato contraente, definita conformemente alle norme del diritto internazionale, o, qualora uno Stato contraente non abbia fissato tale zona, in una fascia di mare situata al di là delle acque territoriali di detto Stato contraente e ad esse contigua, conformemente al diritto internazionale, che si estende non oltre le 200 miglia nautiche dalla linea di base a partire dalla quale è misurata la larghezza delle acque territoriali. 5. Ai sensi dell’art. III, n. 4, della convenzione sulla responsabilità civile, «il risarcimento per danni dovuti a inquinamento ai sensi della presente convenzione o di altro genere non può essere chiesto (...) a qualsiasi noleggiatore (in qualunque modo descritto, ivi compresi i noleggiatori di navi non equipaggiate), gestore o operatore della nave (...), tranne nel caso in cui il danno sia dovuto a loro atti o omissioni personali, commessi con l’intento di provocare tali danni, ovvero con negligenza e con la consapevolezza della probabilità di provocare tali danni». 6. La convenzione internazionale sull’istituzione di un fondo internazionale per il risarcimento dei danni dovuti a inquinamento da idrocarburi, adottata a Bruxelles il 18 dicembre 1971, come modificata dal protocollo firmato a Londra il 27 novembre 1992 (GU 2004, L 78, pag. 40; in prosieguo: la «convenzione Fondo»), completa la convenzione sulla responsabilità civile, istituendo un sistema di risarcimento delle vittime. 7. Il Fondo internazionale per il risarcimento dei danni dovuti a inquinamento da idrocarburi (in prosieguo: il «FIPOL»), alimentato da contributi dell’industria petrolifera, può coprire fino a 135 milioni di DTS (diritti speciali di prelievo) per un evento precedente al 2003. Conformemente all’art. 4 della convenzione Fondo, le vittime possono presentare, dinanzi ai giudici dello Stato parte contraente di tale convenzione in cui sono stati causati i IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 103 02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 103 danni, istanze al fine di ottenere un risarcimento, in particolare qualora la convenzione sulla responsabilità civile non preveda alcuna responsabilità per il danno in questione o qualora il proprietario della nave sia insolvibile o sollevato dalla sua responsabilità in forza della convenzione in parola. 8. Il protocollo del 2003 alla convenzione internazionale del 1992 sull’istituzione di un fondo internazionale per il risarcimento dei danni causati dall’inquinamento da idrocarburi (GU 2004, L 78, pag. 24) crea un fondo complementare internazionale per il risarcimento dei danni dovuti a inquinamento, denominato «fondo complementare internazionale del 2003 per il risarcimento dei danni da inquinamento da idrocarburi», che consente, congiuntamente al FIPOL, di coprire fino a 750 milioni di unità di conto per un determinato incidente successivo al 1° novembre 2003. La normativa comunitaria La direttiva 75/442 9. Ai sensi del terzo ‘considerando’ della direttiva 75/442, ogni regolamento in materia di smaltimento dei rifiuti deve essenzialmente mirare alla protezione della salute umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti. 10. L’art. 1 della direttiva 75/442 così dispone: «Ai sensi della presente direttiva, si intende per: a) “rifiuto”: qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi. La Commissione (...) preparerà (...) un elenco dei rifiuti che rientrano nelle categorie di cui all’allegato I. (…); b) “produttore”: la persona la cui attività ha prodotto rifiuti (“produttore iniziale”) e/o la persona che ha effettuato operazioni di pretrattamento, di miscuglio o altre operazioni che hanno mutato la natura o la composizione di detti rifiuti; c) “detentore”: il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che li detiene; (…) e) “smaltimento”: tutte le operazioni previste nell’allegato II A; f) “recupero”: tutte le operazioni previste nell’allegato II B; g) “raccolta”: l’operazione di raccolta, di cernita e/o di raggruppamento dei rifiuti per il loro trasporto». 11. L’art. 8 della direttiva 75/442 recita: «Gli Stati membri adottano le disposizioni necessarie affinché ogni detentore di rifiuti: a) li consegni ad un raccoglitore privato o pubblico, o ad un’impresa che effettua le operazioni previste nell’allegato II A o II B, oppure b) provveda egli stesso al recupero o allo smaltimento, conformandosi alle disposizioni della presente direttiva». 12. L’art. 15 della direttiva 75/442 prevede: «Conformemente al principio “chi inquina paga”, il costo dello smaltimento dei rifiuti deve essere sostenuto: a) dal detentore che consegna i rifiuti ad un raccoglitore o ad una impresa di cui all’articolo 9; e/o b) dai precedenti detentori o dal produttore del prodotto causa dei rifiuti». 13. Le categorie Q4, Q11, Q13 e Q16 dell’allegato I della direttiva 75/442, intitolato «Categorie di rifiuti», hanno il seguente tenore: «Q4 Sostanze accidentalmente riversate, perdute o aventi subìto qualunque altro incidente, compresi tutti i materiali, le attrezzature, ecc. contaminati in seguito all’incidente in questione 104 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 104 (…) Q11 Residui provenienti dall’estrazione e dalla preparazione delle materie prime (ad esempio residui provenienti da attività minerarie o petrolifere, ecc.) (…) Q13 Qualunque materia, sostanza o prodotto la cui utilizzazione è giuridicamente vietata (…) Q16 Qualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle categorie sopra elencate». 14. L’allegato II A della citata direttiva, intitolato «Operazioni di smaltimento», intende elencare le operazioni di smaltimento così come esse sono effettuate in pratica, laddove l’allegato II B della stessa, intitolato «Operazioni di recupero», intende analogamente elencare le operazioni di recupero. 15. La direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 5 aprile 2006, 2006/12/CE, relativa ai rifiuti (GU L 114, pag. 9), nell’operare, a fini di chiarezza e razionalizzazione, una codificazione della direttiva 75/442, riporta agli artt. 1 e 15 nonché agli allegati I, II A e II B le disposizioni sopra menzionate. La direttiva 2006/12 è stata tuttavia adottata solo successivamente al verificarsi dei fatti di cui alla causa principale, cosicché essa non è chiamata a disciplinare la causa principale. La direttiva 68/414/CEE 16. L’art. 2 della direttiva del Consiglio 20 dicembre 1968, 68/414/CEE, che stabilisce l’obbligo per gli Stati membri della CEE di mantenere un livello minimo di scorte di petrolio greggio e/o di prodotti petroliferi (GU L 308, pag. 14), come modificata dalla direttiva del Consiglio 14 dicembre 1998, 98/93/CE (GU L 358, pag. 100), che prevede un siffatto obbligo in particolare per far fronte a eventuali penurie o crisi di approvvigionamento, assimila gli oli combustibili a una categoria di prodotti petroliferi. La direttiva 2004/35/CE 17. Il decimo ‘considerando’ della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 21 aprile 2004, 2004/35/CE, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale (GU L 143, pag. 56), recita: «Si dovrebbe tenere espressamente conto del trattato Euratom, delle convenzioni internazionali pertinenti e della normativa comunitaria che disciplina più completamente e più rigorosamente tutte le attività che rientrano nel campo di applicazione della presente direttiva. (…)». 18. L’art. 4, n. 2, della direttiva 2004/35 dispone: «La presente direttiva non si applica al danno ambientale o a una minaccia imminente di tale danno a seguito di un incidente per il quale la responsabilità o l’indennizzo rientrano nell’ambito d’applicazione di una delle convenzioni internazionali elencate nell’allegato IV, comprese eventuali successive modifiche di tali convenzioni, in vigore nello Stato membro interessato». 19. L’allegato IV della direttiva 2004/35 così recita: «Convenzioni internazionali di cui all’articolo 4, paragrafo 2 a) Convenzione internazionale del 27 novembre 1992 sulla responsabilità civile per i danni derivanti da inquinamento da idrocarburi; b) Convenzione internazionale del 27 novembre 1992 istitutiva di un Fondo internazionale per l’indennizzo dei danni derivanti da inquinamento da idrocarburi; (…)». La decisione 2004/246/CE 20. Il Consiglio ha adottato, il 2 marzo 2004, la decisione 2004/246/CE, che autorizza gli Stati membri a firmare o ratificare, nell’interesse della Comunità europea, il protocollo IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 105 02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 105 del 2003 alla convenzione internazionale del 1992 sull’istituzione di un fondo internazionale per il risarcimento dei danni causati dall’inquinamento da idrocarburi, o ad aderirvi, e che autorizza Austria e Lussemburgo, nell’interesse della Comunità europea, ad aderire agli strumenti di riferimento (GU L 78, pag. 22). 21. Il quarto ‘considerando’ della decisione 2004/246 dispone come segue: «Conformemente al protocollo per il fondo complementare, solo gli Stati sovrani possono esserne parte; pertanto, la Comunità non può ratificare il protocollo o aderirvi né potrà farlo nel futuro immediato». 22. Gli artt. 1, n. 1, e 4 della decisione 2004/246 recitano: «Articolo 1 1. Gli Stati membri sono autorizzati a firmare o ratificare, nell’interesse della Comunità europea, il protocollo del 2003 alla convenzione internazionale del 1992 sull’istituzione di un fondo internazionale per il risarcimento dei danni provocati da inquinamento da idrocarburi (il protocollo per il fondo complementare), o ad aderirvi, alle condizioni specificate nei seguenti articoli. (…) Articolo 4 Gli Stati membri si adoperano con tempestività affinché il protocollo per il fondo complementare e gli strumenti di riferimento siano modificati per consentire alla Comunità di divenirne parte contraente». La normativa nazionale 23. L’art. 2 della legge 15 luglio 1975, n. 75-633, relativa allo smaltimento dei rifiuti ed al recupero dei materiali (JORF del 16 luglio 1975, pag. 7279), ormai art. L541-2 del codice dell’ambiente, così dispone: «Chiunque produca o detenga rifiuti in circostanze tali da produrre effetti nocivi per il suolo, la flora e la fauna, deteriorare i siti o i paesaggi, inquinare l’aria o le acque, causare rumori e odori e, in generale, ledere la salute dell’uomo e l’ambiente, è tenuto a provvedere o a far provvedere al loro smaltimento conformemente alle disposizioni del presente capitolo, in condizioni idonee a evitare i menzionati effetti. Lo smaltimento dei rifiuti comporta le operazioni di raccolta, trasporto, stoccaggio, cernita e trattamento necessari al recupero degli elementi e dei materiali riutilizzabili o dell’energia, nonché al deposito o al rigetto nell’ambiente naturale di tutti gli altri prodotti in condizioni idonee a evitare i danni menzionati al comma precedente». Causa principale e questioni pregiudiziali 24. Il 12 dicembre 1999 la petroliera ERIKA, battente bandiera maltese e noleggiata dalla Total International Ltd, affondava a circa 35 miglia marine a sud-ovest della punta di Penmarc’h (Finistère, Francia), sversando una parte del suo carico e del suo combustibile in mare e causando un inquinamento del litorale atlantico francese. 25. Dalla decisione di rinvio e dalle osservazioni presentate dinanzi alla Corte emerge che la società italiana ENEL ha stipulato con la Total International Ltd un contratto di fornitura di olio pesante diretto a essere utilizzato come combustibile per la produzione di energia elettrica. Ai fini dell’esecuzione di tale contratto, la Total raffinage distribution, divenuta Total France SA, ha venduto l’olio pesante alla Total International Ltd, la quale ha noleggiato la nave Erika al fine di trasportarlo dal porto di Dunkerque (Francia) a quello di Milazzo. 26. Il 9 giugno 2000 il Comune di Mesquer ha proposto un ricorso dinanzi al Tribunal de commerce de Saint-Nazaire avverso le società Total diretto, in particolare, a far dichiara- 106 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 106 re che queste ultime dovevano farsi carico, in applicazione della legge n. 75-633, delle conseguenze dei danni causati dai rifiuti sversati sul suo territorio ed essere condannate in solido al pagamento delle spese sostenute dal Comune per operazioni di pulitura e bonifica, ossia EUR 69 232,42. 27. In seguito al rigetto del suo ricorso, il Comune di Mesquer ha interposto appello dinanzi alla Cour d’appel de Rennes, che, con sentenza 13 febbraio 2002, ha confermato la sentenza di primo grado, stimando che l’olio pesante fosse, nel caso di specie, non un rifiuto bensì un materiale combustibile costituente un materiale energetico creato per un uso specifico. La Cour d’appel de Rennes ha in effetti ammesso che l’olio pesante, così sversato e trasformato a seguito del suo miscelarsi con l’acqua e la sabbia, ha generato rifiuti, ma essa ha tuttavia ritenuto che nessuna norma consentisse di dichiarare la responsabilità delle società Total, poiché queste ultime non possono essere considerate produttrici o detentrici dei rifiuti in questione. Il Comune di Mesquer ha allora proposto ricorso per cassazione. 28. Reputando che la causa presenti una seria difficoltà in termini di interpretazione della direttiva 75/442, la Cour de cassation (Corte di cassazione) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se l’olio pesante, prodotto derivato da un processo di raffinazione, rispondente alle specifiche dell’utilizzatore, destinato dal produttore a essere venduto come combustibile e menzionato nella direttiva 68/414 (...) possa essere considerato un rifiuto ai sensi dell’art. 1 della direttiva 75/442 (...) codificata dalla direttiva 2006/12 (...). 2) Se un carico di olio pesante, trasportato da una nave e accidentalmente sversato in mare, costituisca, di per sé o miscelato ad acqua e sedimenti, un rifiuto ai sensi della [categoria] Q4 dell’allegato I della direttiva 2006/12 (...). 3) In caso di soluzione negativa della prima questione e di soluzione affermativa della seconda, se il produttore dell’olio pesante (Total Raffinage [distribuzione]) e/o il venditore e noleggiatore (Total International Ltd) possano essere considerati, ai sensi dell’art. 1, lett. b) e c), della direttiva 2006/12 (…) e ai fini dell’applicazione dell’art. 15 della medesima direttiva, come il produttore e/o il detentore del rifiuto, anche qualora il prodotto, al momento dell’incidente che l’ha trasformato in rifiuto, fosse trasportato da terzi». Sulle questioni pregiudiziali Sulla ricevibilità 29. Le società Total sostengono che il presente rinvio pregiudiziale deve essere dichiarato irricevibile in quanto il Comune di Mesquer ha già ottenuto un risarcimento in forza del FIPOL e che, di conseguenza, non disporrebbe dell’interesse ad agire. Pertanto, la domanda di pronuncia pregiudiziale rivestirebbe un carattere ipotetico. 30. Secondo costante giurisprudenza, le questioni relative all’interpretazione del diritto comunitario sollevate dal giudice nazionale nel contesto di diritto e di fatto che egli individua sotto la propria responsabilità, del quale non spetta alla Corte verificare l’esattezza, godono di una presunzione di rilevanza. Il rigetto, da parte della Corte, di una domanda proposta da un giudice nazionale è possibile soltanto qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione del diritto comunitario richiesta non ha alcun rapporto con l’effettività o l’oggetto della causa principale, qualora la questione sia di tipo ipotetico o, ancora, qualora la Corte non disponga degli elementi di fatto e di diritto necessari per rispondere in modo utile alle questioni che le sono sottoposte (v., in tal senso, sentenza 7 giugno 2007, cause riunite da C- 222/05 a C-225/05, van der Weerd e a., Racc. pag. I-4233, punto 22 e giurisprudenza citata). 31. Peraltro, secondo una giurisprudenza costante, spetta ai giudici nazionali cui è stata sottoposta la controversia valutare sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 107 02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 107 in grado di pronunciare la propria sentenza, sia la rilevanza delle questioni che sottopongono alla Corte (sentenza 15 giugno 2006, cause riunite C-393/04 e C-41/05, Air Liquide Industries Belgium, Racc. pag I-5293, punto 24 e giurisprudenza citata). 32. A questo riguardo, emerge dagli atti di causa che il Comune di Mesquer ha effettivamente beneficiato di pagamenti in forza del FIPOL, i quali sono stati effettuati a seguito della domanda di risarcimento formulata dal Comune nei confronti, in particolare, del proprietario della nave Erika e del FIPOL. Questi pagamenti hanno costituito l’oggetto di transazioni mediante le quali il Comune in parola ha espressamente rinunciato a qualsivoglia istanza e azione, a condizione che fossero rimborsate le somme versate. 33. Sembra che il giudice del rinvio disponesse di tali informazioni, ma che esso tuttavia non abbia né considerato che la causa principale si era estinta o che il Comune di Mesquer aveva perso il suo interesse ad agire né rinunciato a proporre alla Corte le sue questioni pregiudiziali. 34. Occorre pertanto risolvere le questioni proposte dalla Cour de cassation. Sulla prima questione 35. Con la sua prima questione, il giudice del rinvio intende sapere se l’olio pesante venduto per essere utilizzato come combustibile possa essere qualificato come rifiuto ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva 75/442. 36. Le società Total, gli Stati membri che hanno sottoposto osservazioni nonché la Commissione sono dell’avviso che occorra risolvere in termini negativi tale questione. Solo il Comune di Mesquer sostiene che un tale olio pesante deve essere qualificato come rifiuto e che, inoltre, la sostanza in questione rientra nella categoria dei prodotti pericolosi e illeciti. 37. In via preliminare, si deve rammentare che, a norma dell’art. 1, lett. a), della direttiva 75/442, deve considerarsi rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi. 38. Così, nel contesto della direttiva 75/442, l’ambito di applicazione della nozione di rifiuto dipende dal significato del termine «disfarsi» (sentenza 18 dicembre 1997, causa C- 129/96, Inter-Environnement Wallonie, Racc. pag I-7411, punto 26) e, di conseguenza, conformemente alla giurisprudenza della Corte, tale termine va interpretato tenendo conto delle finalità di questa stessa direttiva (sentenza 15 giugno 2000, cause riunite C-418/97 e C- 419/97, ARCO Chemie Nederland e a., Racc. pag I-4475, punto 37), finalità che, ai sensi del terzo ‘considerando’ della direttiva di cui trattasi, consiste nella tutela della salute umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti, alla luce dell’art. 174, n. 2, CE, secondo il quale la politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela ed è fondata in particolare sui principi della precauzione e dell’azione preventiva (v. sentenza 11 novembre 2004, causa C-457/02, Niselli, Racc. pag I-10853, punto 33). 39. La Corte ha altresì dichiarato che, alla luce della finalità perseguita dalla direttiva 75/442, la nozione di rifiuto non può essere interpretata in senso restrittivo (v. sentenza ARCO Chemie Nederland e a., cit., punto 40). 40. Tale nozione può riferirsi a tutti gli oggetti e le sostanze di cui il proprietario si disfa, anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale a fini di riciclo, di recupero o di riutilizzo (v., in particolare, sentenza 18 aprile 2002, causa C-9/00, Palin Granit e Vehmassalon kansanterveystyön kuntayhtymän hallitus, Racc. pag. I-3533; in prosieguo: la sentenza «Palin Granit», punto 29 e giurisprudenza citata). 41. A tale proposito, alcune circostanze possono costituire indizi del fatto che il detentore di una sostanza o di un oggetto se ne disfi ovvero abbia deciso o abbia l’obbligo di 108 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 108 disfarsene ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva 75/442. Ciò si verifica, in particolare, se la sostanza utilizzata è un residuo di produzione, cioè un prodotto che non è stato ricercato in quanto tale (sentenza ARCO Chemie Nederland e a., cit., punti 83 e 84). La Corte ha così precisato che i detriti provenienti dall’attività estrattiva di una cava di granito, che non si configurano come produzione principale ricercata mediante tale sfruttamento, rientrano, in via di principio, nella categoria dei rifiuti (sentenza Palin Granit, punti 32 e 33). 42.Tuttavia, un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non un residuo, bensì un sottoprodotto, del quale l’impresa non ha intenzione di disfarsi, ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni per essa favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari (v. sentenza Palin Granit, punto 34, nonché ordinanza 15 gennaio 2004, causa C-235/02, Saetti e Freudiani, Racc. pag I-1005, punto 35). 43. Infatti, non è assolutamente giustificato assoggettare alle disposizioni della direttiva 75/442 beni, materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti (v. sentenza Palin Granit, punto 35, nonché ordinanza Saetti e Frediani, cit., punto 35). 44. Tuttavia, tenuto conto dell’obbligo di interpretare in maniera estensiva la nozione di rifiuto al fine di limitare gli inconvenienti o i danni dovuti alla loro natura, occorre circoscrivere il ricorso a tale argomentazione relativa ai sottoprodotti alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nell’ambito del processo di produzione (sentenza Palin Granit, punto 36, nonché ordinanza Saetti e Frediani, cit., punto 36). 45. Unitamente al criterio del riconoscimento o meno della natura di residuo di produzione riguardo ad una certa sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare, costituisce quindi un secondo criterio utile al fine di valutare se essa sia o meno un rifiuto ai sensi della direttiva 75/442. Se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un’ipotesi del genere la sostanza in questione non può più essere considerata un ingombro di cui il detentore cerchi di «disfarsi», bensì un autentico prodotto (sentenza Palin Granit, punto 37). 46. Nella causa principale, risulta che la sostanza di cui trattasi è ottenuta in esito al processo di raffinazione del petrolio. 47. Tuttavia, tale sostanza residua può essere sfruttata commercialmente a condizioni economicamente vantaggiose, come confermato dal fatto che essa è stata l’oggetto di un’operazione commerciale e che risponde alle specifiche dell’acquirente, come sottolinea il giudice del rinvio. 48. Si deve quindi risolvere la prima questione nel senso che una sostanza come quella oggetto della causa principale, nella fattispecie olio pesante venduto come combustibile, non costituisce un rifiuto ai sensi della direttiva 75/442, nei limiti in cui è sfruttata o commercializzata a condizioni economicamente vantaggiose e può essere effettivamente utilizzata come combustibile senza necessitare di preliminari operazioni di trasformazione. Sulla seconda questione 49. Con la sua seconda questione, il giudice del rinvio intende sapere, in sostanza, se l’olio pesante accidentalmente sversato in mare a seguito di un naufragio, in siffatte circostanze, debba essere qualificato come rifiuto ai sensi della categoria Q4 dell’allegato I della direttiva 75/442. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 109 02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 109 Osservazioni presentate alla Corte 50. Il Comune di Mesquer, sostenuto in sostanza dai governi francese e italiano nonché dalla Commissione, ritiene che siffatti idrocarburi, una volta che siano sversati in mare e, a fortiori, che si siano miscelati all’acqua e a sedimenti, debbano essere qualificati come rifiuti ai sensi della direttiva 75/442. 51. Le società Total reputano che la miscela costituita da idrocarburi, acqua e sedimenti del litorale costituisca un rifiuto solo qualora esista un obbligo di smaltimento o di recupero degli idrocarburi accidentalmente sversati in quanto tali e se questi ultimi sono indissolubilmente uniti all’acqua e ai sedimenti. 52. Il governo belga sostiene che i prodotti così sversati in mare non dovrebbero essere qualificati come rifiuti ai sensi della direttiva 75/442, ma idrocarburi pesanti in conformità alle convenzioni sulla responsabilità civile e FIPOL. Il governo del Regno Unito, pur ammettendo che idrocarburi di questo tipo possono essere qualificati come rifiuti ai sensi di tale direttiva, ritiene auspicabile che lo sversamento accidentale di idrocarburi in mare rientri solo nella sfera delle convenzioni sulla responsabilità civile e FIPOL e, di conseguenza, che la direttiva 75/442 non si applichi in siffatte circostanze. Risposta della Corte 53. In limine, occorre rammentare che l’allegato II della direttiva 75/442 propone elenchi di sostanze e di oggetti qualificabili come rifiuti. Tale elenco, tuttavia, ha soltanto un valore indicativo, posto che la qualifica di rifiuto discende anzitutto dal comportamento del detentore e dal significato del termine «disfarsi» (v. sentenza 7 settembre 2004, causa C- 1/03, Van de Walle e a., Racc. pag. I-613, punto 42). 54. La circostanza che l’allegato I della direttiva 75/442, intitolato «Categorie di rifiuti », menzioni, al punto Q4, le «[s]ostanze accidentalmente riversate, perdute o aventi subìto qualunque altro incidente, compresi tutti i materiali, le attrezzature, ecc. contaminati in seguito all’incidente in questione», costituisce quindi soltanto un indizio dell’inclusione di tali materie nell’ambito di applicazione della nozione di rifiuto. La detta circostanza, pertanto, non consente di per sé di qualificare come rifiuti gli idrocarburi che siano stati accidentalmente sversati e che siano all’origine di un inquinamento del terreno e delle acque sotterranee (v., in tale senso, sentenza Van de Walle e a., cit., punto 43). 55. Ciò premesso, è necessario verificare se un siffatto sversamento accidentale di idrocarburi sia un atto mediante il quale il detentore si disfa di questi ultimi ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva 75/442 (v., in tal senso, sentenza Van de Walle e a., cit., punto 44). 56. A tale riguardo, la sostanza o l’oggetto in questione, ove costituiscano un residuo di produzione, vale a dire un prodotto che non è stato ricercato in quanto tale al fine di un utilizzo ulteriore e che il detentore non può riutilizzare a condizioni economicamente vantaggiose senza prima sottoporlo a trasformazione, debbono considerarsi come un onere del quale il detentore «si disfa» (v. sentenze Palin Granit, punti 32-37, nonché Van de Walle e a., cit., punto 46). 57. Per quanto riguarda idrocarburi che siano stati accidentalmente sversati e che siano all’origine di un inquinamento del terreno e delle acque sotterranee, la Corte ha avuto modo di constatare che questi ultimi non costituiscono un prodotto riutilizzabile senza previa trasformazione (v. sentenza Van de Walle e a., cit., punto 47). 58. Orbene, una siffatta constatazione s’impone altresì con riferimento a idrocarburi accidentalmente sversati in mare e che siano all’origine di un inquinamento delle acque territoriali nonché, di conseguenza, delle coste di uno Stato membro. 59. È infatti pacifico che lo sfruttamento o la commercializzazione di idrocarburi sversati o emulsionati con l’acqua o, ancora, agglomerati con sedimenti è un’operazione molto 110 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 110 aleatoria se non addirittura ipotetica. Risulta altrettanto indubbio che, anche ammettendo che sia tecnicamente attuabile, un siffatto sfruttamento o commercializzazione presupporrebbe comunque operazioni preliminari di trasformazione che, lungi dall’essere economicamente vantaggiose per il detentore di tale sostanza, costituirebbero in realtà considerevoli oneri finanziari. Ne consegue che idrocarburi accidentalmente sversati in mare costituiscono sostanze che il loro detentore non aveva l’intenzione di produrre e delle quali egli «si disfa», ancorché involontariamente, in occasione del loro trasporto, cosicché devono essere qualificate come rifiuti ai sensi della direttiva 75/442 (v., in tal senso, sentenza Van de Walle e a., cit., punti 47 e 50). 60. Peraltro, l’applicabilità della direttiva in parola non è rimessa in discussione dal fatto che lo sversamento accidentale di idrocarburi si è verificato non già sul territorio terrestre di uno Stato membro, ma nella zona economica esclusiva di quest’ultimo. 61. Infatti, senza che occorra pronunciarsi sull’applicabilità di tale direttiva al luogo del naufragio, basta osservare che gli idrocarburi così accidentalmente sversati sono andati alla deriva lungo le coste fino a raggiungere queste ultime, risultando in tal modo sversati sul territorio terrestre dello Stato membro di cui trattasi. 62. Da ciò consegue che, nel caso del naufragio di una petroliera come quello che caratterizza la causa principale, la direttiva 75/442 trova applicazione ratione loci. 63. Di conseguenza, occorre risolvere la seconda questione nel senso che idrocarburi accidentalmente sversati in mare in seguito a un naufragio, che risultino miscelati ad acqua nonché a sedimenti e che vadano alla deriva lungo le coste di uno Stato membro fino a raggiungere queste ultime, costituiscono rifiuti ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva 75/442, nei limiti in cui non possono più essere sfruttati o commercializzati senza preliminari operazioni di trasformazione. Sulla terza questione 64. Con la sua terza questione, il giudice del rinvio intende sapere se, nel caso del naufragio di una petroliera, il produttore dell’olio pesante sversato in mare e/o colui che lo ha venduto e noleggiato la nave che trasportava tale sostanza possano essere tenuti a farsi carico dei costi connessi allo smaltimento dei rifiuti così generati, anche qualora la sostanza sversata in mare fosse trasportata da terzi, nel caso di specie da un vettore marittimo. Osservazioni presentate alla Corte 65. Il Comune di Mesquer reputa che, nella causa principale, ai fini dell’applicazione dell’art. 15 della direttiva 75/442, il produttore dell’olio pesante nonché colui che ha venduto tale sostanza e noleggiato la nave che la trasporta devono essere qualificati, ai sensi dell’art. 1, lett. b) e c), della direttiva, come produttori e detentori dei rifiuti risultanti dallo sversamento in mare della sostanza in parola. 66. Secondo le società Total, in circostanze come quelle oggetto della causa principale, l’art. 15 della direttiva 75/442 non è applicabile al produttore dell’olio pesante né a colui che lo ha venduto e ha noleggiato la nave che lo trasportava poiché, al momento dell’incidente che ha determinato la trasformazione della sostanza di cui trattasi in rifiuto, la stessa veniva trasportata da terzi. Peraltro, la disposizione in parola non si applicherebbe nemmeno al produttore dell’olio pesante per la sola ragione che quest’ultimo sarebbe il produttore della sostanza che ha generato i rifiuti. 67. Il governo francese, parzialmente sostenuto dal governo italiano e dalla Commissione, è dell’avviso che il produttore dell’olio pesante e/o colui che lo ha venduto e ha noleggiato la nave che trasportava tale sostanza possano essere qualificati come produttori e/o detentori dei rifiuti risultanti dallo sversamento in mare di detta sostanza solo se il IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 111 02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 111 naufragio della nave, che ha trasformato il carico di olio pesante in rifiuti, era imputabile a diversi comportamenti idonei a far sorgere la loro responsabilità. La Commissione aggiunge tuttavia che il produttore di una sostanza come l’olio pesante non può, già solo a motivo di tale attività, essere qualificato come «produttore» e/o «detentore», ai sensi dell’art. 1, lett. b) e c), della direttiva 75/442, dei rifiuti generati da tale prodotto in occasione di un incidente verificatosi durante il loro trasporto. Nondimeno, in forza dell’art. 15, secondo trattino, della direttiva, tale soggetto sarebbe ancora tenuto a sopportare il costo dello smaltimento dei rifiuti nella sua qualità di «produttore del prodotto causa dei rifiuti». 68. Per il governo belga, l’applicazione della direttiva 75/442 è esclusa a motivo del fatto che deve essere applicata la convenzione sulla responsabilità civile. Analogamente, il governo del Regno Unito reputa che la Corte non debba risolvere tale questione in quanto la causa principale riguarda questioni di responsabilità per sversamento di olio pesante in mare. Risposta della Corte 69. In circostanze come quelle oggetto della causa principale, tenuto conto della finalità della direttiva 75/442, ricordata al suo terzo ‘considerando’, l’art. 15, secondo trattino, di tale direttiva prevede che, conformemente al principio «chi inquina paga», il costo dello smaltimento dei rifiuti deve essere sostenuto dai precedenti detentori o dal produttore del prodotto che ha generato i rifiuti. 70. Ai sensi dell’art. 8 della direttiva 75/442, ogni «detentore di rifiuti» è tenuto a consegnarli ad un raccoglitore privato o pubblico o ad un’impresa che effettua le operazioni previste nell’allegato II A o II B di tale direttiva, oppure deve provvedere egli stesso al recupero o allo smaltimento, conformandosi alle disposizioni della direttiva (sentenza 26 aprile 2005, causa C-494/01, Commissione/Irlanda, Racc. pag. I-3331, punto 179). 71. Dalle disposizioni sopra citate risulta che la direttiva 75/442 distingue la materiale realizzazione delle operazioni di recupero o smaltimento – che essa pone a carico di ogni «detentore di rifiuti», indipendentemente da chi sia il produttore o il possessore degli stessi – dall’assunzione dell’onere finanziario relativo alle suddette operazioni, che la medesima direttiva accolla, in conformità del principio «chi inquina paga», ai soggetti che sono all’origine dei rifiuti, a prescindere dal fatto che costoro siano detentori o precedenti detentori dei rifiuti o anche fabbricanti del prodotto che ha generato i rifiuti (sentenza Van de Walle e a., cit., punto 58). 72. A tale riguardo, l’applicazione del principio «chi inquina paga», ai sensi dell’art. 174, n. 2, primo comma, seconda frase, CE e dell’art. 15 della direttiva 75/442, sarebbe vanificata se tali soggetti coinvolti nella produzione di rifiuti dovessero sottrarsi ai loro obblighi finanziari come previsti dalla direttiva 75/442, sebbene sia chiaramente dimostrata l’origine degli idrocarburi sversati in mare, ancorché involontariamente, e che sono stati all’origine di un inquinamento del territorio costiero di uno Stato membro. – Sulle nozione di «detentore» e di «precedenti detentori» 73. La Corte ha ritenuto, con riferimento a idrocarburi accidentalmente sversati a causa di una fuoriuscita dagli impianti di stoccaggio di una stazione di servizio e che erano stati da questa acquistati per le esigenze delle sue attività, che tali idrocarburi fossero, in realtà, in possesso del gestore della stazione di servizio. La Corte ha inoltre reputato che, in tale contesto, colui che, per le esigenze della sua attività, accantonava detti idrocarburi quando sono divenuti rifiuti possa essere qualificato come colui che li ha «prodotti», ai sensi dell’art. 1, lett. b), della direttiva 75/442. Infatti, il gestore della stazione di servizio, essendo al tempo stesso possessore e produttore di tali rifiuti, dev’essere qualificato come loro detentore ai sensi del medesimo art. 1, lett. c), di tale direttiva (v., in tale senso, sentenza Van de Walle e a., cit., punto 59). 112 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 112 74. Analogamente, nel caso di idrocarburi accidentalmente sversati in mare, occorre osservare che il proprietario della nave che li ha trasportati ne è, di fatto, in possesso immediatamente prima che divengano rifiuti. Pertanto, il proprietario della nave può quindi essere qualificato come colui che ha prodotto tali rifiuti ai sensi dell’art. 1, lett. b), della direttiva 75/442 ed essere così qualificato per ciò stesso come «detentore» ai sensi dell’art. 1, lett. c), di tale direttiva. 75. Tuttavia, la direttiva in parola non esclude che, in determinati casi, il costo dello smaltimento dei rifiuti sia a carico di uno o più detentori precedenti (sentenza Van de Walle e a., cit., punto 57). – Sulla determinazione delle persone che devono sopportare il costo dello smaltimento dei rifiuti 76. Nella causa principale, sorge la questione se colui che ha venduto la merce al destinatario finale e che a tal fine ha noleggiato la nave che si è danneggiata in mare possa altresì essere qualificato come «detentore», per questa ragione «precedente», dei rifiuti in tal modo sversati. Inoltre, il giudice del rinvio si chiede se il produttore del prodotto che ha generato rifiuti possa anche essere tenuto a sopportare il costo dello smaltimento dei rifiuti così prodotti. 77. Al riguardo, l’art. 15 della direttiva 75/442 prevede che talune categorie di persone, nel caso di specie i «precedenti detentori» o «il produttore del prodotto causa dei rifiuti», conformemente al principio «chi inquina paga», possono essere tenuti a sopportare il costo dello smaltimento dei rifiuti. Così, tale obbligo finanziario grava sui medesimi a motivo del loro contributo alla produzione dei rifiuti in parola e, eventualmente, al rischio di inquinamento che risulta. 78. Quindi, per quanto riguarda idrocarburi accidentalmente sversati in mare a seguito del naufragio di una petroliera, il giudice nazionale può considerare che colui che ha venduto tali idrocarburi e noleggiato la nave che li ha trasportati ha «prodotto rifiuti» se tale giudice, alla luce degli elementi la cui valutazione è di sua esclusiva competenza, giunge alla conclusione che tale venditore-noleggiatore ha contribuito al rischio che si verificasse l’inquinamento determinato da tale naufragio, in particolare se si è astenuto dall’adottare provvedimenti diretti a prevenire un tale evento, come quelli relativi alla scelta della nave. In siffatte circostanze, il venditore-noleggiatore potrà essere qualificato come precedente detentore dei rifiuti ai fini dell’applicazione dell’art. 15, secondo trattino, prima parte, della direttiva 75/442. 79. Come è stato rammentato al punto 69 della presente sentenza, in circostanze come quelle oggetto della causa principale, l’art. 15, secondo trattino, della direttiva 75/442 prevede, facendo ricorso alla congiunzione «o», che il costo dello smaltimento dei rifiuti deve essere sostenuto dai «precedenti detentori» o dal «produttore del prodotto causa» dei rifiuti di cui trattasi. 80. A tale riguardo, conformemente all’art. 249 CE, gli Stati membri destinatari della direttiva 75/442, pur disponendo della competenza in merito alla forma e ai mezzi, sono vincolati riguardo al risultato da conseguire in termini di assunzione dell’onere finanziario dei costi connessi allo smaltimento dei rifiuti. Di conseguenza, sono tenuti a garantire che il loro diritto nazionale consenta l’imputazione dei costi di cui trattasi a precedenti detentori o al produttore del prodotto che ha generato rifiuti. 81. Come ha osservato l’avvocato generale al paragrafo 135 delle sue conclusioni, l’art. 15 della direttiva 75/442 non osta a che gli Stati membri prevedano, in applicazione di impegni internazionali sottoscritti in materia, come le convenzioni sulla responsabilità civi- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 113 02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 113 le e FIPOL, che il proprietario della nave e il noleggiatore di quest’ultima non possono rispondere dei danni causati dallo sversamento di idrocarburi in mare fino a concorrenza di importi limitati nel massimo in funzione della stazza della nave e/o in circostanze particolari connesse al loro comportamento negligente. Tale disposizione non osta nemmeno a che, in applicazione dei menzionati impegni internazionali, un fondo di risarcimento, come il FIPOL, che prevede un tetto massimo per ogni sinistro assuma in luogo dei «detentori», ai sensi dell’art. 1, lett. c), della direttiva 75/442, i costi connessi allo smaltimento dei rifiuti risultanti da idrocarburi accidentalmente sversati in mare. 82. Tuttavia, qualora risulti che i costi connessi allo smaltimento dei rifiuti prodotti da uno sversamento accidentale di idrocarburi in mare non sono oggetto di accollo da parte del fondo in parola o non possono esserlo a motivo dell’esaurimento del limite massimo di risarcimento previsto per tale sinistro e che, in applicazione dei limiti e/o delle esclusioni di responsabilità vigenti, il diritto nazionale di uno Stato membro, compreso quello derivante da convenzioni internazionali, impedisce che tali costi siano sostenuti dal proprietario della nave e/o dal noleggiatore di quest’ultima, sebbene tali soggetti debbano essere qualificati come «detentori» ai sensi dell’art. 1, lett. c), della direttiva 75/442, un siffatto diritto nazionale dovrà allora consentire, onde sia garantita una trasposizione conforme dell’art. 15 di tale direttiva, che i costi in questione siano sopportati dal produttore del prodotto che ha generato i rifiuti così sversati. Nondimeno, conformemente al principio «chi inquina paga», il produttore può essere tenuto a farsi carico di tali costi solo se, mediante la sua attività, ha contribuito al rischio che si verificasse l’inquinamento prodotto dal naufragio della nave. 83. Al riguardo l’obbligo di uno Stato membro di adottare tutti i provvedimenti necessari per raggiungere il risultato prescritto da una direttiva è un obbligo cogente, prescritto dall’art. 249, terzo comma, CE e dalla direttiva stessa. Tale obbligo di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari vale per tutti gli organi degli Stati membri, ivi compresi, nell’ambito delle loro competenze, quelli giurisdizionali (v. sentenze 13 novembre 1990, causa C-106/89, Marleasing, Racc. pag. I-4135, punto 8, e Inter-Environnement Wallonie, cit., punto 40). 84. Ne consegue che, nell’applicare il diritto nazionale, a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla direttiva o di disposizioni risultanti da convenzioni internazionali alle quali lo Stato membro ha aderito, il giudice nazionale chiamato a interpretare tale diritto deve procedere per quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art 294, terzo comma, CE (v., in tal senso, sentenza Marleasing, cit., punto 8). 85. Inoltre, contrariamente a quanto rilevato dalle società Total in sede di udienza, la Comunità non è vincolata dalle convenzioni sulla responsabilità civile e FIPOL. Infatti, da un lato, la Comunità non ha aderito ai citati strumenti internazionali e, dall’altro, non può essere considerata né come un sostituto dei suoi Stati membri, non foss’altro perché questi ultimi non hanno tutti aderito a tali convenzioni (v., per analogia, sentenze 14 luglio 1994, causa C-379/92, Peralta, Racc. pag. I-3453, punto 16, nonché 3 giugno 2008, causa C- 308/06, Intertanko e a., non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 47), né come indirettamente vincolata dalle convenzioni stesse a motivo dell’art. 235 della convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, firmata a Montego Bay il 10 dicembre 1982, entrata in vigore il 16 novembre 1994 e approvata con decisione del Consiglio 23 marzo 1998, 93/392/CE (GU L 1979, pag. 1), disposizione il cui n. 3 si limita, come ha sottolineato il governo francese all’udienza, a sancire un obbligo generale di cooperazione tra le parti della convenzione in questione. 114 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 114 86. Inoltre, per quanto riguarda la decisione 2004/246, che autorizza gli Stati membri a sottoscrivere o a ratificare, nell’interesse della Comunità, il protocollo del 2003 della convenzione Fondo o ad aderirvi, è sufficiente constatare che la decisione e il protocollo del 2003 non possono essere applicati ai fatti relativi alla causa principale. 87. Certamente, la direttiva 2004/35 prevede in modo espresso, all’art. 4, n. 2, che essa non si applica al danno ambientale o a una minaccia imminente di tale danno a seguito di un incidente per il quale la responsabilità o l’indennizzo rientrano nell’ambito d’applicazione di una delle convenzioni internazionali elencate nell’allegato IV, il quale menziona le convenzioni sulla responsabilità civile e Fondo. Infatti, il legislatore comunitario, come indica il decimo ‘considerando’ di tale direttiva, ha stimato necessario tener conto espressamente delle convenzioni internazionali pertinenti che disciplinano in modo più completo e più rigido le attività rientranti nell’ambito di applicazione della direttiva in parola. 88. Tuttavia, è giocoforza constatare che la direttiva 75/442 non contiene una disposizione analoga, nemmeno nella sua versione codificata risultante dalla direttiva 2006/12. 89. Tenuto conto di quanto precedentemente considerato, occorre risolvere la terza questione nel senso che, ai fini dell’applicazione dell’art. 15 della direttiva 75/442 allo sversamento accidentale di idrocarburi in mare all’origine di un inquinamento delle coste di uno Stato membro: – il giudice nazionale può considerare colui che ha venduto tali idrocarburi e noleggiato la nave che li ha trasportati come produttore dei rifiuti in questione, ai sensi dell’art. 1, lett. b), della direttiva 75/442, e, in questo modo, come «precedente detentore» ai fini dell’applicazione dell’art. 15, secondo trattino, prima parte, di tale direttiva se tale giudice, alla luce degli elementi la cui valutazione è di sua esclusiva competenza, giunge alla conclusione che detto venditore-noleggiatore ha contribuito al rischio che si verificasse l’inquinamento determinato dal naufragio, in particolare se si è astenuto dall’adottare provvedimenti diretti a prevenire un tale evento, come quelli relativi alla scelta della nave; – qualora risulti che i costi connessi allo smaltimento dei rifiuti prodotti da uno sversamento accidentale di idrocarburi in mare non sono oggetto di accollo da parte del FIPOL o non possono esserlo a motivo dell’esaurimento del limite massimo di risarcimento previsto per tale sinistro e che, in applicazione dei limiti e/o delle esclusioni di responsabilità vigenti, il diritto nazionale di uno Stato membro, compreso quello derivante da convenzioni internazionali, impedisce che tali costi siano sostenuti dal proprietario della nave e/o dal noleggiatore di quest’ultima, sebbene tali soggetti debbano essere qualificati come «detentori» ai sensi dell’art. 1, lett. c), della direttiva 75/442, un siffatto diritto nazionale dovrà allora consentire, onde sia garantita una trasposizione conforme dell’art. 15 di tale direttiva, che i costi in questione siano sopportati dal produttore del prodotto che ha generato i rifiuti così sversati. Tuttavia, conformemente al principio «chi inquina paga», tale produttore può essere tenuto a farsi carico di tali costi solo se, mediante la sua attività, ha contribuito al rischio che si verificasse l’inquinamento prodotto dal naufragio della nave. Sulle spese 90. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara: 1) Una sostanza come quella oggetto della causa principale, nella fattispecie olio pesante venduto come combustibile, non costituisce un rifiuto ai sensi della direttiva del Consiglio IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 115 02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 115 116 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996, 96/350/CE, nei limiti in cui è sfruttata o commercializzata a condizioni economicamente vantaggiose e può essere effettivamente utilizzata come combustibile senza necessitare di preliminari operazioni di trasformazione. 2) Idrocarburi accidentalmente sversati in mare in seguito a un naufragio, che risultino miscelati ad acqua nonché a sedimenti e che vadano alla deriva lungo le coste di uno Stato membro fino a raggiungere queste ultime, costituiscono rifiuti ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva 75/442, come modificata dalla decisione 96/350, nei limiti in cui non possono più essere sfruttati o commercializzati senza preliminari operazioni di trasformazione. 3) Ai fini dell’applicazione dell’art. 15 della direttiva 75/442, come modificata dalla decisione 96/350, allo sversamento accidentale di idrocarburi in mare all’origine di un inquinamento delle coste di uno Stato membro: – il giudice nazionale può considerare colui che ha venduto tali idrocarburi e noleggiato la nave che li ha trasportati come produttore dei rifiuti in questione, ai sensi dell’art. 1, lett. b), della direttiva 75/442, come modificata dalla decisione 96/350, e, in questo modo, come «precedente detentore» ai fini dell’applicazione dell’art. 15, secondo trattino, prima parte, di tale direttiva se tale giudice, alla luce degli elementi la cui valutazione è di sua esclusiva competenza, giunge alla conclusione che detto venditore-noleggiatore ha contribuito al rischio che si verificasse l’inquinamento determinato dal naufragio, in particolare se si è astenuto dall’adottare provvedimenti diretti a prevenire un tale evento, come quelli relativi alla scelta della nave; – qualora risulti che i costi connessi allo smaltimento dei rifiuti prodotti da uno sversamento accidentale di idrocarburi in mare non sono oggetto di accollo da parte del Fondo internazionale per il risarcimento dei danni dovuti a inquinamento da idrocarburi o non possono esserlo a motivo dell’esaurimento del limite massimo di risarcimento previsto per tale sinistro e che, in applicazione dei limiti e/o delle esclusioni di responsabilità vigenti, il diritto nazionale di uno Stato membro, compreso quello derivante da convenzioni internazionali, impedisce che tali costi siano sostenuti dal proprietario della nave e/o dal noleggiatore di quest’ultima, sebbene tali soggetti debbano essere qualificati come «detentori» ai sensi dell’art. 1, lett. c), della direttiva 75/442, come modificata dalla decisione 96/350, un siffatto diritto nazionale dovrà allora consentire, onde sia garantita una trasposizione conforme dell’art. 15 di tale direttiva, che i costi in questione siano sopportati dal produttore del prodotto che ha generato i rifiuti così sversati. Tuttavia, conformemente al principio «chi inquina paga», tale produttore può essere tenuto a farsi carico di tali costi solo se, mediante la sua attività, ha contribuito al rischio che si verificasse l’inquinamento prodotto dal naufragio della nave. 02 comun 05 giovagnoli.qxp 06/04/2009 13.49 Pagina 116 Qualità dell’aria: diritto di un terzo vittima di danni alla salute alla predisposizione di un piano d’azione (Corte di Giustizia delle Comunità europee, Sezione Seconda, sentenza del 25 luglio 2008, nel procedimento C-237/07) La questione decisa dalla Corte di Giustizia concerne la sussistenza o meno, a favore di un terzo, che abbia subito danni alla salute a causa dell’inquinamento atmosferico, di un diritto soggettivo nei confronti delle autorità competenti all’adozione di un piano d’azione, sebbene lo stesso sia in grado di agire in giudizio per ottenere dalle stesse autorità competenti la predisposizione di misure indipendenti dal suddetto piano. Preliminarmente, sembra opportuno riassumere brevemente il contesto fattuale che ha condotto all’emanazione della pronuncia in commento, al fine di comprendere al meglio i punti intorno ai quali ruotano le argomentazioni della Corte di Giustizia. Il sig. Janecek, residente sulla circonvallazione interna di Monaco di Baviera, a pochi metri da una stazione di controllo della qualità dell’aria, ha proposto ricorso dinanzi al Verwaltungsgericht Munchen, chiedendo che fosse ordinata all’autorità competente la predisposizione di un piano di azione per la qualità dell’aria in quel settore, e affinché venissero stabilite le misure da adottare a breve termine per garantire l’osservanza del numero massimo autorizzato di 35 violazioni annuali del valore stabilito come soglia massima per le emissioni di particelle fini PM10. In seguito al mancato accoglimento della doglianza, il ricorrente adiva in appello il Verwaltungsgerichtshof, il quale statuiva che, sebbene i soggetti residenti interessati possano pretendere dalle autorità competenti la predisposizione di un piano di azione, tuttavia, essi non possono ottenere la messa a punto di misure idonee a garantire l’osservanza a breve termine dei valori massimi di emissione delle particelle fini suddette. Pertanto, il giudice di secondo grado ingiungeva al Freistaat Bayern di predisporre un piano di azione così strutturato. Infine, in ultima istanza, il sig. Janecek si rivolgeva al Bundesverwaltungsgericht. Quest’ultimo giudice, nel richiamare la normativa tedesca in materia (1), nonché la normativa comunitaria (2), ha ritenuto che il singolo IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 117 (1) Precisamente si tratta dell’art. 47 n. 2 della legge tedesca in materia di inquinamento che ha recepito la direttiva 96/62, il quale dispone: “In caso di rischio di superamento dei valori limite o delle soglie di allarme delle emissioni definiti mediante regolamento in forza dell’art. 48 bis, n. 1, l’autorità competente deve predisporre un piano di azione che stabilisca le misure da adottare a breve termine, che devono essere in grado di ridurre il rischio di superamento e limitarne la durata. I piani di azione possono essere inseriti in un piano 02 comun 06 palermo.qxp 06/04/2009 13.51 Pagina 117 cittadino non è titolare di un diritto soggettivo alla predisposizione di un piano di tal guisa; in particolare, si afferma che il soggetto danneggiato dagli effetti nocivi dell’inquinamento atmosferico può tutelarsi ottenendo misure adeguate dalle autorità nazionali, ma in ogni caso indipendenti dalla realizzazione di un piano di azione. Il Bundesverwaltungsgericht, tuttavia, riconoscendo la presenza di opinioni differenti in materia, sospendeva il procedimento al fine di sottoporre alla Corte di Giustizia le seguenti questioni pregiudiziali: 1. “Se l’art. 7, n. 3 della direttiva (…) 96/62 (…), sia da interpretare nel senso che ad un terzo, che abbia subito danni alla salute, viene conferito un diritto soggettivo all’adozione di un piano di azione anche allorquando, indipendentemente dal piano di azione, lo stesso è in grado di far valere il suo diritto alla difesa contro gli effetti nocivi per la salute dovuti al superamento del valore massimo di emissione fissato per le particelle di polveri fini PM10, agendo in giudizio per ottenere l’intervento delle autorità competenti”. 2. “Qualora la prima questione debba essere risolta in senso affermativo, se ad un terzo, esposto agli effetti nocivi per la salute prodotti dalle particelle di polveri fini PM10, abbia diritto all’adozione di detto piano d’azione recante misure da applicare a breve termine, atte a garantire la stretta osservanza del valore massimo di emissione fissato per le particelle di polveri fini PM10”. 3. “ Qualora la seconda questione debba essere risolta in senso negativo: in che misura, grazie ai provvedimenti definiti nel piano d’azione, il rischio di superamento del valore massimo debba essere ridotto e la sua durata circoscritta. Se il piano d’azione possa limitarsi, alla stregua di un programma graduale, a misure che, pur non garantendo il rispetto del valore massimo, contribuiscano ciò nondimeno al miglioramento a breve termine della qualità dell’aria”. Il diritto soggettivo alla qualità dell’aria La direttiva che la Corte di Giustizia è stata chiamata ad interpretare si inserisce nell’ambito di un nutrito corpus normativo concernente la materia dell’inquinamento atmosferico, ed in particolare è inclusa in quel gruppo di provvedimenti che si occupano della qualità dell’aria e dei limiti normativi alla concentrazione nell’aria di determinate sostanze inquinanti (3), denominata anche “normativa immissioni”. 118 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 per la qualità dell’aria, ai sensi del n. 1”. (legge 26 settembre 2002, modificata con legge 25 giugno 2005, BGBI I, pag. 1865). (2) Si veda l’art. 7 n. 3 della direttiva del Consiglio 27 settembre 1996, 96/62/CE in materia di valutazione e gestione della qualità dell’aria ambiente (GU L 296, pag. 55), come modificata dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 29 settembre 2003, n. 1882 (GU L 284, pag. 1). Esso così dispone: “Gli Stati membri predispongono piani di azione che indicano le misure da adottare a breve termine in casi di rischio di un superamento dei valori limite e/o delle soglie d’allarme, al fine di ridurre il rischio e limitarne la durata (…)”. (3) A questa categoria di direttive è affidato il compito di ridurre le emissioni complessive di alcuni inquinanti atmosferici conformemente con gli obblighi internazionali derivan- 02 comun 06 palermo.qxp 06/04/2009 13.51 Pagina 118 Nel corso degli ultimi anni, l’orientamento dei giudici di Lussemburgo ha avvalorato la tesi per cui le direttive della tipologia suddetta configurerebbero una nuova fattispecie di diritti individuali, oltre ad essere attributive di obblighi determinati. In proposito, si cita la sentenza della Corte di Giustizia del 30 maggio 1991, causa C-361/88, con riferimento alla prima direttiva in materia di immissioni (4), dalla quale si evince che la determinazione di valori limite in questo settore determina un diritto soggettivo in capo ai singoli. Relativamente a questo aspetto, si riporta il punto 16 della suddetta pronuncia: “Occorre rilevare, sotto questo aspetto, che l’obbligo imposto agli Stati membri di prescrivere valori limite da non superare durante certi periodi e a condizioni determinate, di cui all’art. 2 della direttiva, persegue ‘il fine di tutelare in particolare la salute dell’uomo’. Ciò implica che ogniqualvolta il superamento dei valori limite possa mettere in pericolo la salute, gli interessati devono potersi avvalere di norme imperative a tutela dei propri diritti (…)”. Questo principio è stato altresì ribadito da un’altra pronuncia della Corte di Giustizia, nella causa C-59/89 riguardante la direttiva 82/884 sui valori limite per il piombo (5), e fa comprendere come i giudici europei abbiano ricondotto il superamento delle soglie limite alla sussistenza di un diritto soggettivo in capo al singolo, che vede potenzialmente o concretamente danneggiata la propria salute, come nella sentenza oggetto della presente nota, dalle sostanze inquinanti. Il punto fondamentale sul quale si sono soffermati i giudici di Lussemburgo per giungere a tale conclusione concerne il bene che la normativa europea si prefigge di tutelare, ossia la salute umana, e conseguentemente, le disposizioni delle direttive citate non potevano non essere considerate norme di ordine pubblico, e dunque, attributive di diritti individuali. Nella pronuncia in commento, infatti, il ricorrente ha sostenuto che la direttiva 96/62 mira a proteggere la salute umana e che l’art. 7 n. 3 deve essere considerata norma di ordine pubblico, la quale impone la predisposizione di un piano di azione ogni qualvolta vi sia anche solo il rischio di superamento di un valore massimo. In merito si segnalano le posizioni contrastanti dei governi olandese e austriaco, i quali ritengono rispettivamente, che la disposizione oggetto di interpretazione non conferisce ai terzi un diritto soggettivo alla predisposi- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 119 ti dal Protocollo di Goteborg del 1 novembre 1999. I limiti nazionali di emissione, per i paesi membri dell’Unione europea, sono definiti dalla direttiva 2001/81 del 23 ottobre 2001 (G.U. L 309 del 27 novembre 2001, p.22). (4) La pronuncia (Commissione contro Repubblica Federale di Germania) è contenuta nella Raccolta della Giurisprudenza 1991, p. 2567. Essa è relativa all’interpretazione della direttiva 80/779 del 15 luglio 1980 sui valori limite di qualità dell’aria per l’anidride solforosa e le particelle in sospensione. (5) Sentenza del 30 maggio 1991 (Commissione contro Repubblica Federale di Germania), in Raccolta della giurisprudenza 1991, p. 2607. Cfr. inoltre sentenza 17 ottobre 1991, causa C-58/89, Commissione/Germania, Racc. p. 4983, punto 14. 02 comun 06 palermo.qxp 06/04/2009 13.51 Pagina 119 zione di un piano di azione, dal momento che gli Stati membri godono di un’ampia discrezionalità in materia, e che, sebbene l’art. 7 sia direttamente applicabile, non sussiste un diritto soggettivo al piano d’azione. La Corte, nel risolvere la prima questione pregiudiziale, ravvisa nel suddetto art. 7 n. 3 un chiaro obbligo di predisporre piani di azione sia in caso di rischio di superamento dei valori massimi, sia in caso di rischio di superamento delle soglie di allarme; infatti, in virtù di una consolidata giurisprudenza della Corte, i singoli possono far valere nei confronti delle autorità pubbliche disposizioni precise e dettagliate di una direttiva (6), ed è compito dell’ordinamento nazionale interpretare la normativa interna in modo conforme agli obiettivi della direttiva (7). Pertanto, nel caso di specie la Corte ha affermato che i singoli devono poter ottenere dalle autorità nazionali competenti la predisposizione di un piano di azione, ed è andata oltre stabilendo che è irrilevante la circostanza che vi sia la possibilità per tali soggetti di avvalersi di procedure alternative per l’adozione di misure concrete non inserite in un piano più generale. Infine, la seconda questione pregiudiziale relativa al contenuto specifico di detto piano, è stata risolta stabilendo che le misure devono essere idonee a ridurre al minimo il rischio di superamento dei valori limite o delle soglie di allarme ed a ritornare gradualmente ad un livello inferiore a tali valori (8). Considerazioni conclusive: ancora sul primato del diritto comunitario La circostanza che la Corte abbia affermato, con la pronuncia oggetto della presente nota, il diritto del singolo ad invocare l’applicazione delle disposizioni di una direttiva nei confronti dell’autorità nazionale, non fa altro che consolidare l’orientamento dei giudici di Lussemburgo relativamente al primato del diritto comunitario. Come è ormai ben noto, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha ribadito che “in tutti i casi in cui talune disposizioni di una direttiva appaiono, sotto il profilo sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, i singoli possono farle valere dinanzi ai giudici nazionali nei confronti dello Stato, sia che questo non abbia recepito tempestivamente la direttiva nel diritto nazionale, sia che l’abbia recepita in modo inadeguato. (…) Peraltro, una norma è sufficientemente precisa per poter essere invocata da un singolo ed applicata dal giudice allorché sancisce un obbligo in termini non equivoci” (9). Tuttavia, anche le direttive che non siano qualificabili nel senso appena indicato possono produrre effetti che si ripercuotono sulla protezione delle 120 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 (6) Cfr. sentenza 5 aprile 1979, C-148/78, Racc. pag. 1629, punto 20. (7) Si veda in tal senso la sentenza 13 novembre 1990, causa C-106/89, Merleasing, punto 8, Racc. pag. I-4135. (8) Si precisa che, sebbene gli Stati membri abbiano potere discrezionale in materia, l’art. 7 n. 3 della direttiva 96/62 fissa alcuni limiti all’esercizio di quest’ultimo. Si veda in tal senso la sentenza 24 ottobre 1996, causa C-72/95, punto 59, pag. I-5403. (9) V. sentenza 23 febbraio 1994, causa C-236/92, Racc. I-483. 02 comun 06 palermo.qxp 06/04/2009 13.51 Pagina 120 situazioni giuridiche da esse tutelate: la Corte, infatti, ha precisato che il giudice nazionale interpreta il diritto interno alla luce degli scopi della direttiva al fine di perseguire il risultato più conforme ad essa, e deve riconoscere alla direttiva una funzione interpretativa della legislazione nazionale (10). Pertanto, la Corte di Giustizia pretende che i privati possano far valere in giudizio, nei confronti delle pubbliche autorità, le posizioni giuridiche fondate sulle norme comunitarie direttamente applicabili, al fine di una tutela piena ed effettiva di tali diritti. Alla luce di quanto osservato, si è valorizzato il ruolo di collaborazione dei giudici nazionali (11), coinvolti nell’azione di garanzia del diritto comunitario, e conseguentemente, si è parlato di primato del diritto comunitario, che ne impone un’applicazione uniforme ed effettiva. In proposito, si ricorda la nota sentenza Simmenthal (12), in cui si afferma che “in forza del principio della preminenza del diritto comunitario, le disposizioni del trattato e gli atti delle istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l’effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri…, di rendere ipso iure inapplicabile… qualsiasi disposizione della legislazione nazionale… Qualsiasi giudice nazionale, adito nell’ambito della propria competenza, ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna”. In base alle argomentazioni della Corte, la direttiva 96/62 non impedisce l’adozione di provvedimenti in virtù di altre disposizioni dell’ordinamento nazionale, ma rafforza ulteriormente la tutela del singolo, istituendo una specifica procedura di pianificazione, di cui il cittadino deve potersi avvalere in caso di superamento dei valori limite delle emissioni nocive o delle soglie di allarme. L’obiettivo della citata direttiva è, dunque, la riduzione dell’inquinamento atmosferico e si traduce concretamente nell’obbligo, gravante sugli Stati membri, di adottare misure idonee a ridurre al minimo il rischio di superamento dei valori limite e la sua durata. Dott.ssa Sara Palermo(*) Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, Seconda Sezione, 25 luglio 2008 nella causa C-237/07 – Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 121 (10) Cfr. ex multis sentenza 14 luglio 1994, C-91/92, Faccini Dori. (11) In proposito, si ricorda che ad avviso della Corte “è compito dei giudici nazionali, secondo il principio di collaborazione enunciato dall’art. 5 del Trattato Cee, garantire la tutela giurisdizionale spettante ai singoli in forza delle norma di diritto comunitario” (Sentenza 19 giugno 1990, causa C-213/89, Factortame, Racc. I-2473). (12) Sentenza 9 marzo 1978, causa C-106/77. (*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato. 02 comun 06 palermo.qxp 06/04/2009 13.51 Pagina 121 Bundesverwaltungsgericht (Germania) – Dieter Janecek/Freistaat Bayern. (Avvocato dello Stato G. Fiengo – AL 29332/07). Direttiva 96/62/CE – Valutazione e gestione della qualità dell’aria ambiente – Fissazione dei valori limite – Diritto di un terzo vittima di danni alla salute alla predisposizione di un piano d’azione. 1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’art. 7, n. 3, della direttiva del Consiglio 27 settembre 1996, 96/62/CE, in materia di valutazione e di gestione della qualità dell’aria ambiente (GU L 296, pag. 55), come modificata dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 29 settembre 2003, n. 1882 (GU L 284, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva 96/62»). 2. Questa domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra il sig. Janecek ed il Freistaat Bayern in merito ad una domanda diretta a che sia imposto a quest’ultimo di predisporre un piano di azione per la qualità dell’aria nel settore della Landshuter Allee, in Monaco di Baviera, dove risiede l’interessato; questo piano dovrebbe contenere le misure da adottare a breve termine per garantire l’osservanza del limite autorizzato dalla normativa comunitaria per quanto concerne le emissioni di particelle fini PM10 nell’aria ambiente. Contesto normativo La normativa comunitaria 3. Ai sensi del dodicesimo ‘considerando’ della direttiva 96/62: «(…) Per tutelare l’ambiente nel suo complesso e la salute umana, è necessario che gli Stati membri intervengano quando vengono superati i valori limite al fine di conformarsi a tali valori entro il termine stabilito». 4. L’allegato I alla direttiva 96/62 contiene un elenco degli inquinanti atmosferici da considerare nel quadro della valutazione e della gestione della qualità dell’aria ambiente. Il punto 3 di quest’elenco menziona le «particelle fini quali la fuliggine (ivi compreso PM10)». 5. L’art. 7 della direttiva 96/62, intitolato «Miglioramento della qualità dell’aria ambiente – Requisiti generali», così dispone: «1. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per assicurare il rispetto dei valori limite. (…) 3. Gli Stati membri predispongono piani d’azione che indicano le misure da adottare a breve termine in casi di rischio di un superamento dei valori limite e/o delle soglie d’allarme, al fine di ridurre il rischio e limitarne la durata. (…)». 6. L’art. 8 di questa direttiva, intitolato «Misure applicabili nelle zone in cui i livelli superano il valore limite», enuncia quanto segue: «1. Gli Stati membri elaborano l’elenco delle zone e degli agglomerati in cui i livelli di uno o più inquinanti superano i valori limite oltre il margine di superamento. Allorché non è stato fissato un margine di superamento per un determinato inquinante, le zone e gli agglomerati in cui il livello di tale inquinante supera il valore limite sono equiparati alle zone e agli agglomerati di cui al primo comma e si applicano i paragrafi 3, 4 e 5. 2. Gli Stati membri elaborano l’elenco delle zone e degli agglomerati in cui i livelli di uno o più inquinanti sono compresi tra il valore limite e il valore limite aumentato del margine di superamento. 3. Nelle zone e negli agglomerati di cui al paragrafo 1, gli Stati membri adottano misure atte a garantire l’elaborazione o l’attuazione di un piano o di un programma che consenta di raggiungere il valore limite entro il periodo di tempo stabilito. 122 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 06 palermo.qxp 06/04/2009 13.51 Pagina 122 Tale piano o programma, da rendere pubblico, deve riportare almeno le informazioni di cui all’allegato IV. 4. Nelle zone e negli agglomerati di cui al paragrafo 1 in cui il livello di più inquinanti supera i valori limite, gli Stati membri predispongono un piano integrato che interessi tutti gli inquinanti in questione. (…)». 7. L’art. 5, n. 1, della direttiva del Consiglio 22 aprile 1999, 1999/30/CE, concernente i valori limite di qualità dell’aria ambiente per il biossido di zolfo, il biossido di azoto, gli ossidi di azoto, le particelle e il piombo (GU L 163, pag. 41), così dispone: «Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che le concentrazioni di particelle PM10 nell’aria ambiente, valutate a norma dell’articolo 7, non superino i valori limite indicati nella sezione I dell’allegato III a decorrere dalle date ivi indicate. I margini di tolleranza indicati nella sezione I dell’allegato III si applicano a norma dell’articolo 8 della direttiva 96/62/CE». 8. L’allegato III, fase 1, punto 1, alla direttiva 1999/30 presenta, in una tabella, i valori limite per le particelle fini PM10. La normativa nazionale 9. La direttiva 96/62 è stata recepita nell’ordinamento tedesco mediante la legge sulla protezione contro gli effetti nocivi sull’ambiente dell’inquinamento dell’aria, acustico, delle vibrazioni e di altro genere (Gesetz zum Schutz vor schädlichen Umwelteinwirkungen durch Luftverunreinigungen, Geräusche, Erschütterungen und änliche Vorgänge), nella versione pubblicata il 26 settembre 2002 (BGBl I, pag. 3830), quale modificata mediante legge 25 giugno 2005 (BGBl I, pag. 1865; in prosieguo: la «legge tedesca in materia di lotta all’inquinamento »). 10. L’art. 45 della legge tedesca in materia di lotta all’inquinamento, intitolato «Miglioramento della qualità dell’aria», così dispone: «(1) Le autorità competenti devono adottare le misure necessarie per garantire l’osservanza dei valori delle emissioni stabiliti dall’art. 48 bis, in particolare mediante i piani previsti dall’art. 47. (…)». 11. L’art. 47 della medesima legge, intitolato «Piani per la qualità dell’aria, piani d’azione, legislazione dei Land», così dispone: «(1) In caso di superamento dei valori limite, aumentati dei margini di superamento legali e stabiliti mediante regolamento in forza dell’art. 48 bis, n. 1, le autorità competenti devono predisporre un piano per la qualità dell’aria, che indichi le misure necessarie per ridurre in modo duraturo gli inquinanti atmosferici in conformità a quanto imposto dal regolamento. (2) In caso di rischio di superamento dei valori limite o delle soglie di allarme delle emissioni definiti mediante regolamento in forza dell’art. 48 bis, n. 1, l’autorità competente deve predisporre un piano di azione che stabilisca le misure da adottare a breve termine, che devono essere in grado di ridurre il rischio di superamento e limitarne la durata. I piani di azione possono essere inseriti in un piano per la qualità dell’aria, ai sensi del n. 1. (…)». 12. Le soglie massime di emissione menzionate dall’art. 47 della legge tedesca in materia di lotta all’inquinamento sono stabilite dal ventiduesimo regolamento di esecuzione della detta legge, il cui art. 4, n. 1, così dispone: «Per le PM10, il valore limite delle emissioni nelle 24 ore, in considerazione delle esigenze di tutela della salute umana, è pari a 50 μg/m3; i casi di superamento nel corso di un anno non possono superare il numero di 35 (…)». IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 123 02 comun 06 palermo.qxp 06/04/2009 13.51 Pagina 123 Causa principale e questioni pregiudiziali 13. Il sig. Janecek risiede lungo la Landshuter Allee, sulla circonvallazione interna di Monaco di Baviera, a circa m 900 a nord di una stazione di controllo della qualità dell’aria. 14. Le misurazioni effettuate in questa stazione hanno dimostrato che, nel corso del 2005 e del 2006, il valore massimo per le emissioni di particelle fini PM10 è stato superato ben più di 35 volte, laddove questo numero di violazioni rappresenta il massimo autorizzato dalla legge tedesca in materia di lotta all’inquinamento. 15. È pacifico che, per quanto riguarda il territorio del comune di Monaco di Baviera, esiste un piano d’azione per la qualità dell’aria, dichiarato obbligatorio il 28 dicembre 2004. 16. Tuttavia, il ricorrente nella causa principale ha proposto ricorso dinanzi al Verwaltungsgericht München, chiedendo che fosse ordinato al Freistaat Bayern di predisporre un piano di azione per la qualità dell’aria nel settore della Landshuter Allee, affinché vengano stabilite le misure da adottare a breve termine per garantire l’osservanza del numero massimo autorizzato di 35 violazioni annuali del valore stabilito come soglia massima per le emissioni di particelle fini PM10. Il detto giudice ha dichiarato il ricorso infondato. 17. Il Verwaltungsgerichtshof, adito in appello, ha adottato una posizione differente, giudicando che i residenti interessati possono pretendere dalle autorità competenti la predisposizione di un piano di azione, ma che essi non possono chiedere che quest’ultimo contenga le misure idonee a garantire l’osservanza a breve termine dei valori massimi di emissione di particelle fini PM10. Secondo questo giudice, le autorità nazionali sono obbligate soltanto a garantire che quest’obiettivo venga perseguito mediante un piano di tal genere, nei limiti del possibile e di quanto risulti proporzionato allo scopo. Di conseguenza, esso ha ingiunto al Freistaat Bayern di predisporre un piano di azione che rispettasse i suddetti obblighi. 18. Il sig. Janecek e il Freistaat Bayern hanno impugnato la sentenza del Verwaltungsgerichtshof dinanzi al Bundesverwaltungsgericht. Secondo quest’ultimo giudice, il ricorrente nella causa principale non può invocare nessun diritto alla predisposizione di un piano di azione in forza dell’art. 47, n. 2, della legge tedesca in materia di lotta all’inquinamento. Il detto giudice ritiene inoltre che né lo spirito né la lettera dell’art. 7, n. 3, della direttiva 96/62 attribuiscano un diritto soggettivo alla predisposizione di un piano del genere. 19. Il giudice del rinvio spiega che, malgrado l’omessa adozione, persino illecita, di un piano di azione non violi, secondo l’ordinamento nazionale, i diritti del ricorrente nella causa principale, quest’ultimo non è sprovvisto di strumenti per far rispettare la normativa. Infatti, la tutela contro gli effetti nocivi delle particelle fini PM10 dovrebbe essere garantita con misure indipendenti da un piano del genere, di cui gli interessati hanno il diritto di pretendere la realizzazione da parte delle autorità competenti. In questo modo sarebbe garantita una protezione effettiva, in condizioni equivalenti a quelle risultanti dalla formulazione di un piano di azione. 20. Il Bundesverwaltungsgericht riconosce tuttavia che una parte della dottrina trae conclusioni differenti dalle disposizioni comunitarie in questione, secondo le quali i terzi interessati avrebbero il diritto alla predisposizione di un piano di azione; tale tesi parrebbe confermata dalla sentenza 30 maggio 1991, causa C-59/89, Commissione/Germania (Racc. pag. I-2607). 21. Alla luce di ciò, il Bundesverwaltungsgericht ha deciso di sospendere il procedimento e di proporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se l’art. 7, n. 3, della direttiva (…) 96/62(…), sia da interpretare nel senso che ad un terzo, che abbia subito danni alla salute, viene conferito un diritto soggettivo all’adozione di un piano d’azione anche allorquando, indipendentemente dal piano d’azione, lo stesso è in 124 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 06 palermo.qxp 06/04/2009 13.51 Pagina 124 grado di far valere il suo diritto alla difesa contro gli effetti nocivi per la salute dovuti al superamento del valore massimo di emissione fissato per le particelle di polveri fini PM10, agendo in giudizio per ottenere l’intervento delle autorità competenti. 2) Qualora la prima questione debba essere risolta in senso affermativo: se un terzo, esposto agli effetti nocivi per la salute prodotti dalle particelle di polveri fini PM10, abbia diritto all’adozione di detto piano d’azione recante misure da applicare a breve termine, atte a garantire la stretta osservanza del valore massimo di emissione fissato per le particelle di polveri fini PM10. 3) Qualora la seconda questione debba essere risolta in senso negativo: in che misura, grazie ai provvedimenti definiti nel piano d’azione, il rischio di superamento del valore massimo debba essere ridotto e la sua durata circoscritta. Se il piano d’azione possa limitarsi, alla stregua di un programma graduale, a misure che, pur non garantendo il rispetto del valore massimo, contribuiscano ciò nondimeno al miglioramento a breve termine della qualità dell’aria». Sulle questioni pregiudiziali Osservazioni presentate alla Corte 22. Il ricorrente nella causa principale asserisce che, in tutti i casi in cui l’inosservanza, da parte delle autorità nazionali, delle disposizioni di una direttiva diretta a proteggere la sanità pubblica possa mettere a rischio la salute delle persone, queste ultime devono poter invocare le norme di ordine pubblico che esse contengono [v., per quanto riguarda la direttiva del Consiglio 15 luglio 1980, 80/779/CEE, relativa ai valori limite e ai valori guida di qualità dell’aria per l’anidride solforosa e le particelle in sospensione (GU L 229, pag. 30), sentenza 30 maggio 1991, causa C-361/88, Commissione/Germania, Racc. pag. I-2567, punto 16, e, per quanto concerne le direttive del Consiglio 16 giugno 1975, 75/440/CEE, concernente la qualità delle acque superficiali destinate alla produzione di acqua potabile negli Stati membri (GU L 194, pag. 26) e 9 ottobre 1979, 79/869/CEE, relativa ai metodi di misura, alla frequenza dei campionamenti e delle analisi delle acque superficiali destinate alla produzione di acqua potabile negli Stati membri (GU L 271, pag. 44) sentenza 17 ottobre 1991, causa C-58/89, Commissione/Germania, Racc. pag. I-4983, punto 14]. 23. Poiché ritiene che la direttiva 96/62 miri a proteggere la salute umana, il ricorrente nella causa principale sostiene che l’art. 7, n. 3, della detta direttiva costituisce una norma di ordine pubblico, la quale impone la predisposizione di un piano di azione una volta che esista anche solo il semplice rischio di superamento di un valore massimo. L’obbligo di predisporre un piano del genere in tale ipotesi, la cui esistenza è pacifica nella controversia principale, costituirebbe di conseguenza una norma di cui egli potrebbe valersi, in base alla giurisprudenza citata nel punto precedente della presente motivazione. 24. Per quanto concerne il contenuto del piano di azione, il ricorrente nella causa principale sostiene che esso deve prevedere tutte le misure idonee affinché il periodo di superamento dei valori massimi sia il più breve possibile. Ciò si ricaverebbe in particolare dall’economia dell’art. 7, n. 3, della direttiva 96/62, il quale indica chiaramente che i piani di azione devono essere redatti una volta che esista anche solo il semplice rischio di superamento di questi valori, e dell’art. 8, n. 3, della medesima direttiva, secondo il quale, quando i valori massimi sono già superati, gli Stati membri devono adottare misure per elaborare o porre in esecuzione un piano o un programma, che consenta di raggiungere il valore massimo entro il termine stabilito. 25. Il governo olandese sostiene che l’art. 7, n. 3, della direttiva 96/62 non conferisce ai terzi un diritto soggettivo alla predisposizione di un piano di azione. Gli Stati membri disporrebbero di un’ampia discrezionalità tanto per l’adozione dei piani di azione, quanto per la determinazione dei loro contenuti. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 125 02 comun 06 palermo.qxp 06/04/2009 13.51 Pagina 125 26. Dalla medesima disposizione si ricaverebbe che il legislatore comunitario ha inteso lasciare agli Stati membri il potere di porre in esecuzione un piano di azione e di adottare le misure accessorie, che essi giudichino necessarie e adeguate per raggiungere il risultato programmato. 27. Di conseguenza, l’art. 7, n. 3, della direttiva 96/62 non imporrebbe agli Stati membri nessun obbligo di risultato. L’ampia discrezionalità di cui disporrebbero consentirebbe loro di ponderare diversi interessi e di adottare provvedimenti concreti, i quali tengano conto tanto dell’osservanza dei valori massimi quanto di altri interessi ed obblighi, quali la libera circolazione all’interno dell’Unione europea. 28. Pertanto, gli Stati membri sarebbero obbligati unicamente a porre in esecuzione piani di azione, i quali indichino le misure da adottare a breve termine per ridurre il rischio di superamento dei detti valori o limitarne la durata. 29. Il governo austriaco ricorda che la Corte ha dichiarato che le disposizioni del diritto comunitario, che stabiliscono valori massimi al fine di tutelare la salute umana, conferiscono parimenti agli interessati un diritto all’osservanza di questi valori, che essi possono far valere in giudizio (sentenza 30 maggio 1991, causa C-59/89, Commissione/Germania, cit.). 30. Questo governo ritiene tuttavia che, sebbene l’art. 7, n. 3, della direttiva 96/62 possa ritenersi direttamente efficace, da ciò non deriva che questa disposizione stabilisca, a vantaggio dei soggetti dell’ordinamento, un diritto soggettivo alla predisposizione di piani di azione, dal momento che, a suo parere, essa mira unicamente all’adozione di misure in grado di contribuire a garantire l’osservanza dei valori massimi nel quadro dei programmi nazionali. 31. La Commissione asserisce che dalla lettera della direttiva 96/62, in particolare dal combinato disposto degli artt. 7, n. 3, e 2, punto 5, nonché dal dodicesimo ‘considerando’ di quest’ultima, si ricava che la fissazione dei valori massimi per le particelle fini PM10 mira alla tutela della salute umana. Ebbene, la Corte avrebbe dichiarato, con riferimento a disposizioni analoghe, che, in tutti i casi in cui il superamento dei valori massimi possa mettere a rischio la salute delle persone, queste ultime potevano invocare tali norme al fine di affermare i loro diritti (citate sentenze 30 maggio 1991, causa C-361/88, Commissione/Germania, punto 16, e causa C-59/89, Commissione/Germania, punto 19, nonché 17 ottobre 1991, Commissione/Germania, punto 14). 32. I principi fissati in tali sentenze si applicherebbero ai piani di azione di cui alla direttiva 96/62. Pertanto, l’autorità competente sarebbe obbligata a predisporre piani del genere quando le condizioni stabilite da questa direttiva sono soddisfatte. Ne discenderebbe che un terzo interessato dal superamento di valori massimi potrebbe invocare il suo diritto a che venga predisposto un piano di azione, necessario per raggiungere l’obiettivo relativo a questi valori massimi fissato dalla detta direttiva. 33. Per quanto concerne il contenuto dei piani di azione, la Commissione basa la sua risposta sui termini dell’art. 7, n. 3, della direttiva 96/62, secondo i quali questi piani di azione devono prevedere misure «da adottare a breve termine (…) al fine di ridurre il rischio [di un superamento] e di limitarne la durata». Essa ritiene che l’autorità competente disponga di un potere discrezionale per adottare le misure che le sembrino più adeguate, a condizione che queste ultime siano concepite alla luce di quanto sia effettivamente possibile e giuridicamente adeguato realizzare, in modo da consentire un ritorno, nel più breve tempo possibile, a livelli inferiori ai valori massimi stabiliti. Risposta della Corte Per quanto concerne la predisposizione dei piani di azione 34. Con la sua prima questione, il Bundesverwaltungsgericht chiede se un soggetto dell’ordinamento possa pretendere dalle competenti autorità nazionali la predisposizione di un 126 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 06 palermo.qxp 06/04/2009 13.51 Pagina 126 piano di azione nell’ipotesi, prevista dall’art. 7, n. 3, della direttiva 96/62, di un rischio di superamento dei valori massimi o delle soglie di allarme. 35. Questa disposizione impone agli Stati membri un chiaro obbligo di predisporre piani di azione sia in caso di rischio di superamento dei valori massimi, sia in caso di rischio di superamento delle soglie di allarme. Questa interpretazione, che deriva dalla semplice lettura dell’art. 7, n. 3, della direttiva 96/62, è confermata del resto dal dodicesimo ‘considerando’ di quest’ultima. Quanto enunciato in merito ai valori massimi vale a fortiori per quanto riguarda le soglie di allarme relativamente alle quali, del resto, l’art. 2 di questa stessa direttiva, il quale definisce le varie nozioni impiegate in quest’ultima, dispone che gli Stati membri «devono immediatamente intervenire a norma della presente direttiva». 36. Inoltre, in forza di una giurisprudenza consolidata della Corte, i soggetti dell’ordinamento possono far valere nei confronti delle autorità pubbliche disposizioni categoriche e sufficientemente precise di una direttiva (v., in tal senso, sentenza 5 aprile 1979, causa 148/78, Ratti, Racc. pag. 1629, punto 20). È compito delle autorità e dei giudici nazionali interpretare le disposizioni dell’ordinamento nazionale in un senso che sia compatibile, nella maggiore misura possibile, con gli obiettivi di questa direttiva (v., in tal senso, sentenza 13 novembre 1990, causa C-106/89, Marleasing, Racc. pag. I-4135, punto 8). Qualora non sia possibile formulare un’interpretazione del genere, è loro compito disapplicare le norme dell’ordinamento nazionale incompatibili con la detta direttiva. 37. Come ha ricordato più volte la Corte, è incompatibile con il carattere vincolante che l’art. 249 CE riconosce alla direttiva escludere, in linea di principio, che l’obbligo che essa impone possa essere invocato dagli interessati. Questa considerazione vale in modo particolare per una direttiva, il cui scopo è quello di controllare nonché ridurre l’inquinamento atmosferico e che mira, di conseguenza, a tutelare la sanità pubblica. 38. Per tali ragioni la Corte ha dichiarato che, in tutti i casi in cui l’inosservanza dei provvedimenti imposti dalle direttive relative alla qualità dell’aria e a quella dell’acqua potabile, e che mirano a tutelare la sanità pubblica, possa mettere in pericolo la salute delle persone, queste ultime devono poter invocare le norme di ordine pubblico che esse contengono (v. citate sentenze 30 maggio 1991, causa C-361/88, Commissione/Germania, e causa C- 59/89, Commissione/Germania, nonché 17 ottobre 1991, Commissione/Germania). 39. Da quanto sin qui esposto deriva che le persone fisiche o giuridiche direttamente interessate da un rischio di superamento di valori massimi o di soglie di allarme devono poter ottenere dalle autorità competenti, eventualmente adendo i giudici competenti, la predisposizione di un piano di azione una volta che esista un rischio del genere. 40. La circostanza che queste persone dispongano di altre procedure, in particolare del potere di pretendere dalle competenti autorità l’adozione di misure concrete per ridurre l’inquinamento, come previsto dall’ordinamento tedesco, in base a quanto indicato dal giudice del rinvio, è irrilevante a tal riguardo. 41. Infatti, da un lato, la direttiva 96/62 non contiene nessuna riserva relativa a provvedimenti che possano essere adottati in forza di altre disposizioni dell’ordinamento nazionale; dall’altro, essa istituisce una procedura del tutto specifica di pianificazione che mira, come enunciato dal suo dodicesimo ‘considerando’, alla tutela dell’ambiente «nel suo complesso», tenendo conto dell’insieme degli elementi da prendere in considerazione quali, in particolare, le esigenze collegate al funzionamento degli impianti industriali o agli spostamenti. 42. Di conseguenza, occorre risolvere la prima questione dichiarando che l’art. 7, n. 3, della direttiva 96/62 dev’essere interpretato nel senso che, in caso di rischio di superamento dei valori limite o delle soglie di allarme, i soggetti dell’ordinamento direttamente interessa- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 127 02 comun 06 palermo.qxp 06/04/2009 13.51 Pagina 127 ti devono poter ottenere dalle competenti autorità nazionali la predisposizione di un piano di azione, anche quando essi dispongano, in forza dell’ordinamento nazionale, di altre procedure per ottenere dalle medesime autorità che esse adottino misure di lotta contro l’inquinamento atmosferico. Per quanto concerne il contenuto dei piani di azione 43. Con le sue questioni seconda e terza, il Bundesverwaltungsgericht chiede se le competenti autorità nazionali abbiano l’obbligo di adottare misure le quali, a breve termine, consentano di raggiungere il valore massimo o se le stesse possano limitarsi ad adottare quelle che consentano di ridurre l’entità del superamento nonché di limitarne la durata e che siano tali, di conseguenza, da consentire un miglioramento progressivo della situazione. 44. Ai sensi dell’art. 7, n. 3, della direttiva 96/62, i piani di azione devono contenere le misure «da adottare a breve termine in casi di rischio di un superamento dei valori limite e/o delle soglie di allarme, al fine di ridurre il rischio e limitarne la durata». Dalla lettera stessa risulta che gli Stati membri non hanno l’obbligo di adottare misure tali da scongiurare qualsiasi superamento. 45. Al contrario, dall’economia della detta direttiva, la quale mira a una riduzione integrata dell’inquinamento, si ricava che spetta agli Stati membri adottare misure idonee a ridurre al minimo il rischio di superamento e la sua durata, tenendo conto di tutte le circostanze presenti e degli interessi in gioco. 46. In questa prospettiva occorre rilevare che, sebbene gli Stati membri dispongano di un potere discrezionale, l’art. 7, n. 3, della direttiva 96/62 fissa alcuni limiti all’esercizio di quest’ultimo, i quali possono essere fatti valere dinanzi ai giudici nazionali (v., in tal senso, sentenza 24 ottobre 1996, causa C-72/95, Kraaijeveld e a., Racc. pag. I-5403, punto 59), in relazione al carattere adeguato delle misure che il piano di azione deve contenere nei confronti dell’obiettivo di riduzione del rischio di superamento e di limitazione della sua durata, in considerazione dell’equilibrio che occorre garantire tra tale obiettivo e i diversi interessi pubblici e privati in gioco. 47. Di conseguenza, occorre risolvere le questioni seconda e terza dichiarando che gli Stati membri hanno come unico obbligo di adottare, sotto il controllo del giudice nazionale, nel contesto di un piano di azione e a breve termine, le misure idonee a ridurre al minimo il rischio di superamento dei valori limite o delle soglie di allarme ed a ritornare gradualmente ad un livello inferiore ai detti valori o alle dette soglie, tenendo conto delle circostanze di fatto e dell’insieme degli interessi in gioco. Sulle spese 48. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara: 1) L’art. 7, n. 3, della direttiva del Consiglio 27 settembre 1996, 96/62/CE, in materia di valutazione e di gestione della qualità dell’aria ambiente, come modificata dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 29 settembre 2003, n. 1882, dev’essere interpretato nel senso che, in caso di rischio di superamento dei valori limite o delle soglie di allarme, i soggetti dell’ordinamento direttamente interessati devono poter ottenere dalle competenti autorità nazionali la predisposizione di un piano di azione, anche quando essi dispongano, in forza dell’ordinamento nazionale, di altre procedure per ottenere dalle medesime autorità che esse adottino misure di lotta contro l’inquinamento atmosferico. 128 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun 06 palermo.qxp 06/04/2009 13.51 Pagina 128 2) Gli Stati membri hanno come unico obbligo di adottare, sotto il controllo del giudice nazionale, nel contesto di un piano di azione e a breve termine, le misure idonee a ridurre al minimo il rischio di superamento dei valori limite o delle soglie di allarme ed a ritornare gradualmente ad un livello inferiore ai detti valori o alle dette soglie, tenendo conto delle circostanze di fatto e dell’insieme degli interessi in gioco. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 129 02 comun 06 palermo.qxp 06/04/2009 13.51 Pagina 129 130 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 Causa C-446/07 – Materia trattata: agricoltura – Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale civile di Modena (Italia) il 1° ottobre 2007 – Alberto Severi, Cavazzuti e figli/Regione Emilia-Romagna. (Avvocato dello Stato S. Fiorentino – AL 47067/07). LE QUESTIONI PREGIUDIZIALI 1) Se l’art. 3 par. 1 e art. 13 par. 3 Reg. CEE 2081/92 (ora art. 3 par. 1 e 13 par. 2 Reg. Ce 510/06) in riferimento all’articolo 2 D.Lgs. 109/92 (art. 2 dir. 2000/13/CE) debbano essere interpretati nel senso che la denominazione di un prodotto alimentare contenente riferimenti geografici, per la quale vi sia stato in sede nazionale un «rigetto» o comunque un blocco dell’inoltro della richiesta alla Commissione europea di registrazione come DOP o IGP ai sensi dei citati regolamenti, debba essere considerata generica quantomeno per tutto il periodo in cui pendono gli effetti del suddetto «rigetto» o blocco; 2) se l’art. 3 par. 1 e art. 13 par. 3 Reg. CE 2081/92 (ora art. 3 par. 1 e 13 par. 2 Reg. Ce 510/06) in riferimento all’articolo 2 D.Lgs. 109/92 (art. 2 dir. 2000/13/CE) debbano essere interpretati nel senso che la denominazione di un prodotto alimentare evocativo di un luogo non registrata come DOP o IGP ai sensi dei citati regolamenti, possa essere legittimamente utilizzata nel mercato europeo dai produttori che ne abbiano fatto uso in buona fede ed in modo costante per molto tempo prima dell’entrata in vigore del Regolamento CEE n. 2081/92 (ora Reg. CE 510/06) e nel periodo successivo a tale entrata in vigore; 3) se l’art. 15 par. 2 della dir. CEE 89/104, relativa all’armonizzazione delle legislazioni nazionali sui marchi, debba essere interpretato nel senso che al soggetto titolare di un marchio collettivo di prodotto alimentare, contenente un riferimento geografico, non è consentito impedire ai produttori di un prodotto, avente le stesse caratteristiche, di designarlo con una denominazione simile a quella contenuta nel marchio collettivo, qualora detti produttori abbiano usato tale denominazione in buona fede, in modo costante per un tempo molto anteriore alla data di registrazione del suddetto marchio collettivo. L’INTERVENTO ORALE DEL GOVERNO ITALIANO Signor Presidente, Signori Giudici, Signor Avvocato Generale. Pur avendo apprezzato anche le osservazioni delle parti che hanno preso conclusioni diverse dalle nostre, in questo breve intervento intendiamo confermare il punto di vista che abbiamo espresso in via principale nel nostro scritto difensivo(*), secondo il quale tutti e tre i quesiti posti dal Tribunale di I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA CE (*) v. n. 4/07 “Rassegna Avvocatura dello Stato”. 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 130 Modena devono essere dichiarati irricevibili, perché essi pongono questioni che non hanno relazione alcuna con l’oggetto della causa principale. La risoluzione delle questioni che si pongono nel giudizio a quo, sebbene richieda un accertamento di fatto piuttosto complesso, è, nei suoi termini giuridici, estremamente semplice e non coinvolge l’interpretazione del Regolamento sulle indicazioni geografiche e le denominazioni di origine, né l’interpretazione della direttiva sui marchi. Il Giudice nazionale deve, infatti, esclusivamente accertare se la denominazione di vendita utilizzata dalla ricorrente ed apposta sui prodotti messi in commercio, fosse tale da indurre in errore i consumatori in relazione alla loro provenienza. Per risolvere tale questione, il Tribunale di Modena è chiamato ad applicare, e quindi ad interpretare, la sola direttiva sull’etichettatura, ed in particolare il suo articolo 2, paragrafo 1, che vieta l’uso di indicazioni capaci di indurre in errore l’acquirente. Lo scopo della direttiva sull’etichettatura – lo si desume, ad esempio, dal sesto, dall’ottavo e dal quattordicesimo dei suoi ‘considerando’ – è principalmente quello di assicurare una corretta informazione ai consumatori. I consumatori sono dei terzi che hanno diritto a non essere indotti in errore, indipendentemente dai rapporti tra il produttore e l’eventuale titolare di un marchio collettivo, indipendentemente dalla sua buona fede nell’utilizzare una particolare denominazione di vendita ed indipendentemente dal rispetto, da parte del produttore, delle regole relative alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine protetta. I consumatori, in altre parole, non sono tenuti a sapere se chi utilizza un’etichettatura sia in buona fede, se stia rispettando i diritti del titolare di un marchio collettivo, se la sua condotta sia conforme ai precetti del regolamento sulle indicazioni geografiche. Ecco perché, nonostante siamo fiduciosi che la risposta sarebbe in linea con quella da noi suggerita, riteniamo importante che la Corte dichiari irricevibile anche il primo quesito posto dalla giurisdizione di rinvio. Ritenere ricevibile il quesito, sia pure per darvi risposta negativa, vorrebbe dire in qualche modo negare l’autosufficienza – come la ha efficacemente definita la Commissione – dell’articolo 2 della direttiva sull’etichettatura. L’origine e la provenienza di un prodotto – siamo qui nuovamente d’accordo con la Commissione – ha un rilievo autonomo nell’economia dell’articolo 2 della direttiva sulla etichettatura. È quindi sufficiente che il consumatore sia indotto in errore sull’origine o sulla provenienza affinché sia violato l’articolo 2 della direttiva. Tale situazione è già stata considerata dalla Corte nella sentenza Warsteiner. In quel caso si trattava appunto di un’indicazione geografica c.d. semplice, che non implicava, cioè, nessun rapporto tra le caratteristiche del prodotto e la sua origine geografica, perché era pacifico che una birra prodotta Warstein non possedeva alcuna caratteristica che le derivasse da quella località. E tuttavia la Corte ritenne legittima una normativa nazionale che inibisse, a fini del tutela del consumatore, l’utilizzazione di quella indicazione di provenienza nella enominazione di vendita. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 131 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 131 Nel nostro caso, la ricorrente ha sostenuto che gli acquirenti del prodotto non potevano essere indotti in errore, perché nell’etichetta era chiaramente indicato il luogo di preparazione, diverso da quello di tradizionale produzione del Salame Felino. Se questa indicazione fosse sufficiente a fornire una corretta informazione ai consumatori è, evidentemente, una questione di fatto, rimessa all’apprezzamento del Giudice nazionale. Noi ci limitiamo a rilevare che anche nel caso Warsteiner l’etichetta apposta sul prodotto indicava come luogo di produzione una città diversa da Warstein. Ciò premesso, è evidente che l’errore sull’origine o sulla provenienza del prodotto può tradursi anche in un errore sulle qualità e sulle caratteristiche essenziali del prodotto stesso, nel momento in cui, attraverso la indicazione di un’origine, si finisce per evocare una tradizione produttiva, l’impiego di materie prime selezionate, l’utilizzo di metodologie di preparazione strettamente legate al territorio. In questi casi, infatti, l’indicazione ha l’effetto di descrivere, sia pure indirettamente e sia pure senza usurpare una denominazione protetta, «la natura, l’identità e le qualità» del prodotto, cioè altre caratteristiche prese in considerazione dall’art. 2, paragrafo 1, lettera a), della direttiva. Se ciò si verifica, l’applicazione dei principi enunciati nella sentenza Warsteiner si impone, a nostro giudizio, a maggiore ragione, senza che ciò privi di effetto utile le disposizioni del regolamento sulle indicazioni geografiche. Infatti non viene qui in questione l’interesse dei concorrenti, cioè dei soggetti che legittimamente utilizzano la denominazione registrata, ma quello alla corretta informazione dei consumatori. Se la denominazione non è registrata i concorrenti non potranno, evidentemente, invocare la protezione conferita dal regolamento. Ma ciò non esclude, a nostro giudizio, che siano represse condotte che abbiano l’effetto di trarre in inganno i consumatori attraverso l’utilizzo di una denominazione di origine che non sia divenuta generica e che, pertanto, sia comunque evocativa di certe caratteristiche del prodotto. Un’interpretazione sistematica delle norme del regolamento n. 510/06 consente, in altre parole, di concludere che esso prende chiaramente in considerazione tre categorie di denominazioni d’origine: quelle “protette”, rispetto alle quali è possibile invocare la tutela conferita dal regolamento, quelle “divenute generiche”, rispetto alle quali quella protezione è esclusa ed infine quelle che non sono protette, ma non sono neanche divenute generiche. L’utilizzo di queste ultime denominazioni è indifferente ai fini del regolamento n. 510 del 2006. Ciò non toglie che esso debba avvenire nel rispetto della direttiva sull’etichettatura, perché non è ammissibile pretendere di indurre in errore i consumatori con l’argomento che non si stanno violando le disposizioni relative alle indicazioni geografiche protette. Per concludere sul punto, ci sembra che l’utilizzo di una denominazione d’origine che non sia protetta, ma non sia neanche divenuta generica, sebbene non rilevi ai fini delle protezione conferita dal regolamento sulle indicazioni geografiche, non debba necessariamente essere considerato un fatto autorizzato ai sensi della direttiva sull’etichettatura. 132 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 132 E poiché è evidente che la mancata registrazione di una indicazione geografica o di una denominazione d’origine, o anche l’espresso rigetto di una domanda di registrazione non rende di per sé generica la denominazione, siamo convinti che la risposta al primo quesito – nel caso in cui la Corte lo ritenesse ricevibile – debba essere negativa. Rispetto al secondo ed al terzo quesito, veramente non vediamo come essi possano essere considerati ricevibili. Sul secondo quesito mi sembra che sia questa, sostanzialmente, anche la conclusione della Commissione. Le norme sull’etichettatura, le sole che il Giudice del rinvio è chiamato ad applicare, prendono in considerazione l’aspettativa di un consumatore medio, normalmente avveduto. Quale sia il contenuto di tale aspettativa è oggetto di un giudizio di fatto. L’uso costante e in buona fede di una certa denominazione può, in questo contesto, avere un qualche rilievo solo se, attraverso tale uso, si siano prodotti degli effetti su tale aspettativa, perchè i consumatori hanno smesso di associare l’origine o le caratteristiche del prodotto alla denominazione in questione. Il giudizio su tale questione resta, pertanto, un giudizio di fatto. Se, nonostante questo uso prolungato e in buona fede, l’etichettatura continua a rivelarsi ingannevole per l’acquirente, il fatto rientra a pieno titolo nel divieto posto dall’art. 2 della direttiva sulle etichettature. È quindi evidente che, per definire la controversia ad esso devoluta, il Tribunale di Modena non ha alcuna necessità di sapere se, ai sensi del Regolamento sulle indicazioni geografiche, il ricorrente fosse legittimato ad utilizzare la denominazione. Le disposizioni del Regolamento non potrebbero mai autorizzare un produttore ad utilizzare una denominazione che fornisse un’informazione non corretta al consumatore. Il terzo quesito è manifestamente irricevibile perché puramente ipotetico, dal momento che il giudizio a quo non ha ad oggetto la contraffazione di un marchio collettivo. I titolari del marchio collettivo non erano neanche parti in causa e sono intervenuti solo dopo la proposizione della questione pregiudiziale. Non viene in questione, pertanto, l’interpretazione della direttiva sui marchi. Questa direttiva stabilisce le condizioni alle quali il titolare del diritto su un marchio può inibire ai terzi l’uso nel commercio, per prodotti analoghi, di segni distintivi uguali o simili al marchio, suscettibili di indurre confusione nel pubblico. L’aspettativa del consumatore è presa in considerazione, dalla direttiva sui marchi, ma in via del tutto indiretta, al fine di definire il contenuto del diritto del titolare del marchio in un giudizio di contraffazione. Le norme che il Giudice del rinvio è chiamato ad applicare tutelano, invece, direttamente le aspettative del consumatore, riconoscendogli un diritto ad una completa informazione che non potrebbe essere violato sulla base dei diritti acquisiti dal produttore nei confronti del titolare del marchio. In altre parole, le norme di cui si chiede l’interpretazione nel terzo quesito sono norme di diritto privato, volte a stabilire se un concorrente possa validamente opporre al titolare del marchio collettivo un limite ai diritti conferiti da tale marchio. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 133 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 133 Tuttavia – e mi avvio a concludere – questo limite non potrebbe essere efficacemente opposto alle autorità pubbliche, nel momento in cui queste contestano all’interessato, sulla base di norme di diritto pubblico, la violazione delle disposizioni relative alla etichettatura. Ecco perchè siamo convinti che anche il terzo quesito debba essere dichiarato non ricevibile. Ove la Corte dovesse essere di diverso parere, ci sembrano ben fondate le argomentazioni e le conclusioni prese sul punto dalla Commissione, alle quali, per brevità mi richiamo. Sulla base di quanto precede confidiamo che la On.le Corte vorrà accogliere le conclusioni rese nella fase scritta. Avv. Sergio Fiorentino Causa C-509/07 – Materia trattatata: ravvicinamento delle legislazioni – Domanda di proununcia pregiudiziale proposta dal Tribunale di Bergamo (Italia) il 21 novembre 2007 – Luigi Scarpelli/NEOS Banca SpA. (Avvocato dello Stato W. Ferrante – AL 4988/08). LA QUESTIONE PREGIUDIZIALE Se l’articolo 11, comma 2, della direttiva 87/102/CEE debba essere interpretato nel senso che l’accordo tra fornitore e finanziatore in base al quale il credito è messo esclusivamente da quel creditore a disposizione dei clienti di quel fornitore, sia presupposto necessario del diritto del consumatore di procedere contro il creditore – in caso di inadempimento del fornitore – anche quando tale diritto sia: a) solo quello di risoluzione del contratto di finanziamento, oppure b) quello di risoluzione e di conseguente restituzione delle somme pagate al finanziatore. L’INTERVENTO ORALE DEL GOVERNO ITALIANO Signor Presidente, signori Giudici, signor Avvocato Generale, Il rinvio pregiudiziale trae origine da una controversia nella quale un consumatore, convenuto in giudizio da una banca che gli aveva erogato un finanziamento per l’acquisto di un’autovettura perché aveva sospeso il pagamento delle residue rate del mutuo, eccepiva che l’autovettura, dopo ben due anni dalla conclusione del contratto e il pagamento di 24 rate mensili, non gli era mai stata consegnata dal venditore, nelle more fallito. L’acquirente invocava pertanto la risoluzione del contratto di compravendita, collegato funzionalmente con quello di finanziamento, del quale chiedeva pure la risoluzione, unitamente alla restituzione delle rate nel frattempo pagate. La questione sottoposta all’attenzione della Corte riveste una particolare importanza, tenuto conto dell’esigenza di apprestare un’efficace tutela del consumatore in un momento in cui la congiuntura economica, sia in Italia che nel resto dell’Europa, rende il ricorso al mutuo bancario uno strumento spes- 134 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 134 so indispensabile per l’acquisto di beni fondamentali quali l’abitazione o, come nel caso di specie, l’automobile. L’art. 11, paragrafo 2 della direttiva 87/102/CEE attribuisce al consumatore che abbia ottenuto un finanziamento per l’acquisto di beni di consumo, il diritto, in caso di inadempimento del fornitore, di procedere contro il finanziatore, per quel che interessa nel caso di specie, solo allorquando sussista un rapporto di esclusiva tra quest’ultimo ed il fornitore. Al riguardo, non si concorda con i dubbi di ricevibilità del quesito sollevati dalla Commissione nelle proprie osservazioni scritte, sul presupposto che l’art. 11, par. 2 della direttiva non sarebbe applicabile nel caso di specie, caratterizzato dall’assenza di un rapporto di esclusiva tra creditore e fornitore. Ciò che viene chiesto alla Corte è infatti di definire in cosa consista “il diritto di procedere contro il creditore”, non specificato dal citato art. 11, par. 2: se cioè tale diritto possa riguardare la risoluzione del contratto di credito, la richiesta di restituzione delle rate di mutuo già corrisposte sine causa ovvero l’azione di risarcimento del danno derivante dall’inadempimento del fornitore. La soluzione che la Corte fornirà al quesito vertente sulla interpretazione della citata norma comunitaria sarà quindi assolutamente rilevante ai fini della risoluzione della controversia. Ciò premesso, occorre precisare che il citato art. 11, par. 2 è stato trasposto nell’ordinamento italiano con l’art. 42 del Codice del consumo (decreto legislativo n. 206 del 2005), in base al quale il consumatore ha diritto di agire contro il finanziatore “a condizione che vi sia un accordo che attribuisce al finanziatore l’esclusiva per la concessione di credito ai clienti del fornitore”. In proposito, occorre rettificare quanto affermato dal Governo tedesco ai punti 3 e 11 delle proprie osservazioni scritte in merito al fatto che, in base alla legislazione italiana, i diritti del consumatore nei confronti del finanziatore sarebbero svincolati dall’esistenza di un rapporto di esclusiva tra finanziatore e fonitore. In realtà, dalla norma appena richiamata, risulta invece che tale accordo di esclusiva è necessario. Non si può concludere quindi, come fatto dal Governo tedesco, che nell’ordinamento italiano esiste una norma più favorevole per il consumatore, che sarebbe certamente conforme al diritto comunitario in base a quanto espressamente previsto dal considerando 25 e dall’art. 15 della direttiva 87/102/CEE che consentono agli Stati membri di mantenere o adottare disposizioni più severe a protezione del consumatore, nel rispetto degli obblighi derivanti dal Trattato. Il giudice del rinvio però ricorda che, in base alla giurisprudenza (e non alla legislazione) italiana in tema di collegamento negoziale, laddove risulti inequivocabilmente l’esistenza di un nesso di interdipendenza tra il contratto di mutuo e quello di vendita, per volontà di tutte le parti, è stato costantemente affermato che le vicende di un contratto si riverberano su quello collegato, secondo il principio “simul stabunt, simul cadent” in quanto entrambi i negozi giuridici sono finalizzati ad un’unica operazione economica. In base alla richiamata giurisprudenza, formatasi prima dell’adozione del Codice del consumo che ha trasposto, nel 2005, la direttiva 87/102/CEE, è IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 135 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 135 quindi ammessa l’azione di risoluzione del contratto di credito al consumo nel caso di inadempimento totale del venditore, alla quale consegue l’obbligo del finanziatore di restituire le rate già percepite in assenza di una ragione giustificativa, a prescindere da un rapporto di esclusiva tra venditore e finanziatore. Il giudice del rinvio chiede quindi alla Corte di giustizia di stabilire a quali diritti del consumatore sia applicabile il presupposto del rapporto di esclusiva tra fornitore e creditore previsto dall’art. 11, par. 2 della predetta direttiva, recepito dall’art. 42 del Codice del consumo italiano. Al riguardo, come chiarito dalla Corte di giustizia ai punti 42 e 64 della sentenza Rampion e Godard (del 4 ottobre 2007, causa C-429/05), l’obiettivo perseguito dal citato art. 11, par. 2 deve essere letto alla luce del ventunesimo considerando della direttiva 87/102/CEE ai termini del quale il consumatore deve godere, nei confronti del creditore, di diritti che si aggiungono ai suoi normali diritti contrattuali nei riguardi di questo e del fornitore di beni o servizi, nel caso in cui esista un precedente accordo di esclusiva tra creditore e fornitore. Sarebbe quindi irrazionale ritenere che la richiamata disposizione restringa anziché incrementare la protezione già apprestata al consumatore dagli ordinamenti nazionali in via legislativa o quanto meno giurisprudenziale e dottrinale. La direttiva, infatti, è stata emanata allo scopo di assicurare un duplice obiettivo: assicurare la realizzazione di un mercato comune del credito al consumo e proteggere i consumatori che ottengono tali crediti (sentenza 23 marzo 2000, causa C-208/98, Berliner Kindl Brauerei, punto 20; sentenza 4 marzo 2004, causa C-264/02, Cofinoga Mérignac, punto 25). Sarebbe quindi in contrasto con l’obiettivo perseguito dalla direttiva, che consiste nel garantire in tutti gli Stati membri il rispetto di una tutela minima del consumatore in materia di credito al consumo, assoggettare diritti contrattuali già esistenti ad una condizione (quella del rapporto di esclusiva) che, anzichè rafforzare, indebolisca la posizione del consumatore. Come correttamente evidenziato dal Governo ungherese al punto 12 delle proprie osservazioni scritte, l’art. 11 della direttiva prescrive solo una disciplina de minimis, atteso che il ventunesimo considerando stabilisce che “almeno” nelle circostanze ivi definite, e cioè in presenza di un precedente accordo di esclusiva tra creditore e fornitore, il consumatore deve godere di diritti aggiuntivi. Il termine “almeno” significa che anche in assenza di un accordo di esclusiva può essere garantito un diritto immediato al consumatore anche contro il fornitore. Pertanto, laddove l’ordinamento italiano, per giurisprudenza consolidata precedente alla trasposizione della direttiva, assicuri al consumatore il diritto di risolvere il contratto di credito al consumo per effetto dell’inadempimento contrattuale del venditore e, di conseguenza, di recuperare le rate di finanziamento già corrisposte, solo sul presupposto del collegamento funzionale dei due contratti, indipendentemente dal rapporto di esclusiva tra finanziatore e venditore, l’art. 11 della direttiva non può che garantire diritti ulteriori, quali il risarcimento del danno derivante dall’inadempimento del venditore. 136 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 136 Giustamente, il giudice del rinvio sottolinea che l’esercizio dell’azione di risarcimento del danno nei confronti del finanziatore, che sostanzialmente estende a quest’ultimo il rischio economico derivante dall’inadempimento del venditore, potrebbe essere giustificato solo da un rapporto di esclusiva che presuppone una condivisione della responsabilità e del rischio di impresa tra i due operatori economici. Analogo presupposto non è invece richiesto per l’esercizio dei normali diritti contrattuali: risoluzione del contratto e restituzione del corrispettivo versato in assenza della controprestazione. Inoltre, il considerando 24 e l’art. 14 della direttiva impongono agli Stati membri di adottare le misure necessarie per impedire che le norme di attuazione della medesima direttiva siano eluse in conseguenza di una speciale formulazione dei contratti. Da tale norma, si desume l’esigenza che sia apprestata al consumatore una tutela il più possibile effettiva, conformemente allo spirito della direttiva, anche facendo ricorso all’intervento interpretativo del giudice nazionale chiamato a risolvere una data controversia. In proposito, va sottolineato, come risulta dalle osservazioni scritte del consumatore Luigi Scarpelli, che sebbene sia pacifico che il contratto dallo stesso sottoscritto prevedesse una clausola di esclusione del rapporto di esclusiva, nella prassi, come successivamente accertato nel procedimento penale a carico del venditore fallito mediante numerose deposizioni testimoniali di altri acquirenti, veniva sempre suggerita o meglio imposta la stessa società finanziaria. Pertanto, l’inserimento di una clausola che escluda, solo formalmente, la sussistenza di un accordo che attribuisca alla società finanziaria l’esclusiva per la concessione di credito ai clienti del fornitore, a fronte della sostanziale impossibilità di operare una scelta tra più finanziatori, appare chiaramente finalizzato ad eludere la disciplina che prevede l’esercizio di diritti contrattuali nei confronti del finanziatore. Peraltro, il modulo prestampato non lasciava alcuna possibilità al consumatore di apportare delle modifiche al testo. Quindi, qualora ci si limitasse al mero dato formalistico, la posizione di debolezza contrattuale del consumatore potrebbe comportare la sistematica mancata attuazione della finalità della direttiva e così favorire i professionisti che inseriscano nel contratto una clausola di non esclusiva, allo scopo di sottrarlo alla relativa disciplina posta a tutela del consumatore. Per tale ragione, la necessità del presupposto del rapporto di esclusiva va interpretato restrittivamente nel senso di non precludere al consumatore di esercitare quei diritti che comunque gli spettavano a prescindere dalla trasposizione negli ordinamenti nazionali dell’art. 11, par. 2 della direttiva. Alla luce della finalità della direttiva, improntata al favor nei confronti del consumatore, non può essere condiviso quanto affermato dalla Neos Banca spa, secondo la quale appare corretto, nella logica della ripartizione dei rischi, che il consumatore subisca anch’esso l’alea dell’operazione di credito, altrimenti “rimarrebbe sempre e comunque indenne”. Il rischio d’impresa va infatti sopportato dall’imprenditore e da ogni soggetto che agisca professionalmente allo scopo di trarre profitto dalla propria attivi- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 137 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 137 138 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 tà (nella specie sia il fornitore, sia il finanziatore) e non certo dalla persona fisica che acquista un bene di consumo per soddisfare un esigenza fondamentale. Peraltro, come correttamente osservato al punto 62 delle conclusioni dell’Avvocato Generale nella citata causa Rampion e Godard, la tutela aggiuntiva del consumatore, apprestata dall’art. 11, par. 2 della direttiva, in caso di inadempimento del fornitore, rappresentata dal diritto di procedere contro il creditore, è volta a compensare l’indebolimento della tutela del consumatore, rispetto all’ipotesi di credito concesso direttamente dal fornitore, che altrimenti conseguirebbe a quello “sdoppiamento” della sua controparte che è inerente all’acquisto di beni e servizi tramite credito concesso da persona diversa dal fornitore; sdoppiamento che porrebbe il consumatore nell’impossibilità di far valere la mancata esecuzione della fornitura per sottrarsi al rimborso del credito. Il Governo italiano conclude quindi nel senso che l’art. 11, par. 2 della direttiva 102/87/CEE debba interpretarsi nel senso che l’accordo di esclusiva tra fornitore e finanziatore non sia presupposto necessario del diritto del consumatore di procedere contro il creditore – in caso di inadempimento del fornitore – per la risoluzione del contratto di finanziamento e la conseguente restituzione delle somme pagate al finanziatore. Lussemburgo, 11 dicembre 2008 Avv. Wally Ferrante Causa C-561/07 – Materia trattata: ravvicinamento delle legislazioni – Ricorso presentato il 18 dicembre 2007 – Commissione delle Comunità europee/Repubblica italiana. (Avvocato dello Stato W. Ferrante – AL 3316/08). LE CONCLUSIONI DELLA COMMISSIONE – Mantenendo in vigore le disposizioni dell’articolo 47, commi 5 e 6, della legge 428 del 29 dicembre 1990 in caso di crisi aziendale a norma dell’art. 2, quinto comma, lettera c) della legge 12 agosto 1977 n. 675 in modo tale che i diritti dei lavoratori elencati agli articoli 3 e 4 della direttiva 2001/23/CE non sono garantiti in caso di trasferimento di imprese di cui è stata accertata la «situazione di crisi», la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi che le incombono in virtù di questa direttiva; – condannare la Repubblica italiana al pagamento delle spese di giudizio. I MOTIVI E I PRINCIPALI ARGOMENTI La Commissione ritiene che le disposizioni della legge n. 428/1990 (art. 47, commi 5 e 6) violano la direttiva 2001/23/CE del 12 marzo 2001 concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti, in quanto i lavoratori dell’impresa ammessi al regime della cassa integrazione guadagni straordinaria trasferiti all’acquirente perdono i diritti previsti dall’art. 2112 del codice 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 138 civile fatte salve le eventuali garanzie previste dall’accordo sindacale (il «trattamento di miglior favore» evocato all’art. 47 paragrafo 5). Ciò significa che i lavoratori dell’impresa ammessa al regime della Cassa integrazione guadagni («CIGS») per una situazione di crisi non beneficiano, in caso di trasferimento dell’impresa, delle garanzie previste agli articoli 3 e 4 della direttiva. Per quanto concerne l’articolo 47, comma 6, esso prevede che i lavoratori che non passano alle dipendenze dell’acquirente, dell’affittuario o del subentrante hanno diritto di precedenza nelle assunzioni che questi ultimi effettuano entro un anno dalla data del trasferimento, ovvero entro il periodo maggiore stabilito dagli accordi collettivi. Nei confronti dei lavoratori predetti, che vengano assunti dall’acquirente, dall’affittuario o dal subentrante in un momento successivo al trasferimento d’azienda, non trova applicazione l’articolo 2112 del codice civile. Il Governo italiano non ha contestato l’analisi della Commissione in base alla quale i lavoratori dell’impresa ammessa al regime della CIGS per situazione di crisi non beneficiano, in caso di trasferimento d’impresa, delle garanzie previste agli articoli 3 e 4 della direttiva. Tuttavia esso ha sostenuto che nel caso di specie si applicherebbe l’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva. La Commissione ha rilevato nel ricorso che detta disposizione consente, sì, nell’ipotesi di trasferimento di imprese quando l’alienante è in una situazione di crisi economica grave, di modificare le condizioni di lavoro dei lavoratori al fine di salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa, dello stabilimento o di parti di imprese o stabilimenti. Tuttavia questa disposizione abilita lo Stato membro unicamente a consentire all’alienante e ai rappresentanti dei lavoratori di convenire di modificare le condizioni di lavoro in talune circostanze e non di escludere, come fa l’articolo 47, commi 5 e 6, della legge n. 428/90, l’applicazione degli art. 3 e 4 della direttiva. L’INTERVENTO ORALE DEL GOVERNO ITALIANO Signor Presidente, signori Giudici. Con la procedura di infrazione in questione, la Commissione delle Comunità Europee ha adito la Corte di Giustizia allo scopo di far constatare la non conformità dell’art. 47, commi 5 e 6 della legge n. 428/1990 con la direttiva 2001/23/CE concernente il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese. In particolare, la Commissione ritiene che detta norma, nell’escludere l’applicazione dell’art. 2112 del codice civile ai lavoratori trasferiti all’acquirente in caso di crisi aziendale, priverebbe i lavoratori stessi delle garanzie previste dagli articoli 3 e 4 della direttiva 2001/23/CE, trasfusi appunto nell’art. 2112 del codice civile. In proposito, il Governo italiano ha dedotto, da un lato, che la previsione di alcune delle garanzie riconosciute dai predetti articoli 3 e 4 della direttiva è facoltativa per gli Stati membri e, dall’altro, che, per le altre garanzie IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 139 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 139 non facoltative, l’art. 5, paragrafi 2 e 3 della medesima direttiva contempla espressamente la possibilità di adottare un regime derogatorio, di cui si è avvalso il legislatore italiano. Con riferimento al primo profilo, ovvero, alle garanzie facoltative, si ricorda che le stesse riguardano tre distinte previsioni: 1) la solidarietà passiva tra cedente e cessionario per i crediti di lavoro esistenti alla data del trasferimento (art. 3, n. 1, comma 2); 2) la notifica da parte del cedente al cessionario di tutti i diritti e gli obblighi che saranno trasferiti a quest’ultimo (art. 3, n. 2); 3) il trasferimento dei diritti e il mantenimento delle condizioni convenute mediante contratto collettivo con riferimento alle prestazioni di vecchiaia, di invalidità o per i superstiti dei regimi complementari di previdenza professionali o interprofessionali. In relazione alla prima garanzia facoltativa, si prende atto che la Commissione, al punto 11 della replica, riconosce che il riferimento del ricorso all’art. 3 della direttiva non deve intendersi esteso alla non conformità della norma nazionale con il secondo comma del paragrafo 1 di detto art. 3, relativo appunto alla responsabilità solidale tra alienante e acquirente. Tale ridimensionamento della contestazione, rispetto al punto 18 del ricorso, è confermato nelle conclusioni della replica della Commissione che specificano esattamente quali parti degli articoli 3 e 4 della direttiva si ritengono violati, eccettuando espressamente l’art. 3, paragrafo 1, comma 2. Quanto alla seconda garanzia facoltativa, molto opportunamente, la Corte ha rivolto un quesito alla Commissione al fine di accertare se, preso atto della rinuncia alla contestazione appena menzionata, la Commissione confermi se intende mantenere la censura basata sulla violazione dell’art. 3, n. 2 della direttiva 2001/23, posto che anche detta norma prevede la mera facoltà per gli Stati membri di adottare i provvedimenti necessari per garantire che il cedente notifichi al cessionario tutti i diritti e gli obblighi che saranno trasferiti al cessionario. Ad avviso del Governo italiano, la risposta della Commissione non potrà che essere negativa. Non può configurarsi infatti alcuna violazione da parte del diritto nazionale di una norma comunitaria di carattere facoltativo, che rimetta allo Stato membro la scelta in ordine al suo recepimento o meno. Quanto alla terza garanzia facoltativa, si ritiene che, anche qui, per coerenza, la Commissione dovrebbe rinunciare alla relativa censura, atteso che, pure in tal caso, “a meno che gli Stati membri dispongano diversamente”, i paragrafi 1 e 3 dell’art. 3 non si applicano ai diritti dei lavoratori a prestazioni di vecchiaia, di invalidità, o per i superstiti dei regimi complementari di previdenza professionali o interprofessionali. Quindi, non solo tali diritti possono essere esclusi dall’applicabilità della direttiva ma addirittura gli stessi sono di regola esclusi, in assenza di una contraria previsione degli Stati membri. Anche rispetto a tale esclusione, non può pertanto in alcun modo ipotizzarsi una non conformità alla norma comunitaria. In merito a quanto osservato dalla Commissione al punto 9 della replica in merito all’art. 3, paragrafo 4, lettera b), che prevede comunque l’adozione di provvedimenti per tutelare gli interessi dei lavoratori concernenti le presta- 140 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 140 zioni di vecchiaia e per i superstiti (non anche quelle di invalidità) qualora gli Stati membri decidano di non ritenere applicabili i paragrafi 1 e 3, a norma del citato paragrafo 4, lettera a), si osserva che in nessun punto dell’art. 2112 c.c. vi è alcun cenno a dette prestazioni, la cui tutela è assicurata da altre norme dell’ordinamento italiano e pertanto non è dalla non applicazione dell’art. 2112 c.c. (disposta dal censurato art. 47, comma 5 l. 428/1990) che può derivare la non conformità agli artt. 3 e 4 della direttiva in questione. Ai sensi dell’art. 3, commi 4 bis e 4 ter della l. 223/1991 in tema di cassa integrazione e mobilità, infatti, è espressamente previsto che, per i lavoratori che maturino, nel corso del trattamento di mobilità, il diritto alla pensione, la retribuzione da prendere a base per il calcolo della pensione deve intendersi quella dei dodici mesi di lavoro precedenti l’inizio del trattamento di mobilità. Con riferimento al secondo profilo, ovvero alle garanzie non facoltative – che il legislatore italiano non avrebbe potuto escludere ove non autorizzato da altre norme della stessa direttiva – occorre soffermarsi sull’art. 3, paragrafi 1 e 3 e sull’art. 4 della direttiva. Partendo dall’art. 4, occorre ricordare che tale norma, nel prevedere che il trasferimento di un’impresa non è di per sé motivo di licenziamento, soggiunge, subito dopo che “tale dispositivo non pregiudica i licenziamenti che possono aver luogo per motivi economici, tecnici o d’organizzazione che comportano variazioni sul piano dell’occupazione” che è ciò che accade nel caso di accertamento “di specifici casi di crisi aziendale che presentino particolare rilevanza sociale in relazione alla situazione occupazionale locale ed alla situazione produttiva del settore” ai sensi dell’art. 2, comma 5, lettera c) della legge 12 agosto 1977 n. 675. Proprio i motivi economici, tecnici o d’organizzazione sono stati invocati dalla Corte di giustizia, in relazione alla legislazione spagnola, nella recente sentenza del 16 ottobre 2008, causa C-313/07, Vigano, punti 45 e 46, per escludere che la direttiva 2001/23 imponga, in caso di trasferimento di impresa, di mantenere il contratto di locazione di un locale commerciale concluso dal cedente dell’impresa anche se la risoluzione di tale contratto possa comportare la risoluzione dei contratti di lavoro trasferiti al cessionario. La Corte ha soggiunto che la necessità di raggiungere l’obiettivo di tutela dei lavoratori non può spingersi fino al punto di pregiudicare i diritti di terzi estranei all’operazione di trasferimento dell’impresa, imponendo loro l’obbligo di subire un trasferimento automatico del contratto di locazione che non è chiaramente previsto dalla direttiva di cui trattasi (punto 44). Proprio alla luce di tale recente e condivisibile interpretazione restrittiva degli articoli 3 e 4 della direttiva, volta a contemperare le esigenze di tutela dei lavoratori e con altri interessi altrettanto meritevoli di considerazione, si ribadisce che la rigida applicazione delle predette norme della direttiva, anche laddove la stessa ne consenta una parziale deroga, costituirebbe un disincentivo per gli imprenditori eventualmente disposti ad acquisire l’impresa in stato di crisi, vista l’eccessiva onerosità del trasferimento di tutti i lavoratori, non supportata da incentivi connessi alla loro assunzione, con un effetto finale complessivamente deteriore per i lavoratori medesimi. Infatti, anche i lavoratori eccedenti non trasferiti perderebbero i vantaggi che avrebbero eventualmente potuto trarre dalla prosecuzione del rappor- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 141 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 141 to di lavoro con il cedente, godendo comunque del diritto di precedenza nelle assunzioni effettuate dal cessionario entro un anno dal trasferimento dell’impresa. Quanto all’art. 3, paragrafi 1 e 3, si evidenzia che l’art. 5, paragrafo 2, concernente i trasferimenti nel corso di una procedura di insolvenza non necessariamente finalizzata alla liquidazione dei beni del cedente, quale è la dichiarazione di crisi aziendale oggetto del presente procedimento, prevede, alla lettera a), una sostanziale deroga che consente di non trasferire al cessionario gli obblighi del cedente nei confronti dei lavoratori, a condizione che tale procedura di insolvenza appresti una protezione almeno equivalente a quella prevista dalla direttiva 80/987/CEE. Orbene, in base all’art. 4 della citata direttiva, in caso di insolvenza del datore di lavoro, gli organismi di garanzia assicurano ai lavoratori i diritti non pagati relativi alla retribuzione degli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro. Il meccanismo della Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria ha invece una durata ben più estesa, essendo peraltro finalizzato alla graduale assunzione di tale personale da parte del cessionario, con priorità rispetto alle eventuali altre assunzioni che quest’ultimo si determini ad effettuare entro un anno dal trasferimento, come previsto dall’art. 47, comma 6 della legge n. 428/90. In particolare, l’art. 1 della legge 23 luglio 1991, n. 223 e successive modificazioni, recante norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro, prevede che i trattamenti straordinari di integrazione salariale non possano avere una durata complessiva superiore a trentasei mesi mentre l’articolo 7 della stessa legge prevede, per i lavoratori collocati in mobilità, una indennità per un periodo massimo di dodici mesi, elevato a ventiquattro mesi per i lavoratori che hanno compiuto i quaranta anni e a trentasei mesi per i lavoratori che hanno compiuto i cinquanta anni, precisando che l’indennità spetta nella misura percentuale del cento per cento del trattamento straordinario di integrazione salariale per i primi dodici mesi e dell’ottanta per cento dal tredicesimo al trentaseiesimo mese. Non si può certo dire quindi che la tutela apprestata dal legislatore italiano non sia non solo equivalente bensì largamente più favorevole rispetto a quella minima richiesta dalla direttiva 80/987/CEE. Quanto all’art. 5, paragrafo 2, lettera b) in combinato disposto con il paragrafo 3 della stessa norma, la deroga al mantenimento delle condizioni di lavoro è contemplata proprio per i trasferimenti in cui il cedente sia in una situazione di grave crisi economica quale definita dal diritto nazionale, purchè tale situazione sia dichiarata da un’autorità pubblica competente e sia aperta al controllo giudiziario. In proposito, nella stessa relazione della commissione (all. C1 della commissione p. 23), viene precisato che “l’Italia è l’unico Stato membro in cui, al 17 luglio 1998, il diritto nazionale definiva una situazione di grave crisi economica ai sensi delle condizioni dell’articolo 5, paragrafo 3 e che potrebbe quindi legittimamente autorizzare la modifica delle condizioni di lavoro conformemente all’articolo 5, paragrafo 2, punto b).” 142 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 142 IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 143 Tale deroga consente di convenire modifiche alle condizioni di lavoro intese a salvaguardare le opportunità occupazionali, garantendo al contempo la sopravvivenza dell’impresa. Il Governo italiano conclude pertanto nel senso che l’esclusione dell’applicazione degli articoli 3 e 4 della direttiva è consentita sia perché alcune garanzie previste da detti articoli sono facoltative, sia perché, negli altri casi, le deroghe a tali disposizioni sono ammesse in base ad altre norme della direttiva medesima, finalizzate a contemperare gli interessi dei lavoratori con altri interessi altrettanto meritevoli di tutela. Lussemburgo, 22 gennaio 2009 Avv. Wally Ferrante Causa C-69/08 – Materia trattata: politica sociale – Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale di Napoli – Sezione Lavoro (Italia) il 20 febbraio 2008 – Raffaello Visciano/I.N.P.S. (Avvocato dello Stato W. Ferrante – AL 17951/08) LE QUESTIONI PREGIUDIZIALI 1) Se gli articoli 3 e 4 della direttiva n. 80/987 del 20 ottobre 1980 nella parte in cui prevedono il pagamento dei diritti non pagati ai lavoratori subordinati relativi alla retribuzione, consentono che tali crediti, nel momento in cui vengono fatti valere nei confronti dell’organismo di garanzia, vengano privati della loro iniziale natura retributiva ed assumano la diversa qualificazione previdenziale per il solo fatto che la loro erogazione sia stata affidata dallo Stato membro ad un istituto previdenziale, e che quindi nella normativa nazionale il termine “retribuzione” venga sostituito da quello “prestazione previdenziale”. 2) Se per il fine sociale della direttiva è sufficiente che la normativa nazionale utilizzi il credito retributivo iniziale del lavoratore subordinato come un mero termine di paragone, rispetto al quale determinare per relationem la prestazione da garantire con l’intervento dell’organismo di garanzia, o si richiede che il credito retributivo del lavoratore nei confronti del datore di lavoro insolvente venga tutelato, grazie all’intervento dell’organismo di garanzia, assicurandogli eguale contenuto, garanzie, tempi e modalità di esercizio di quelle riconosciute a qualsiasi altro credito di lavoro nello stesso ordinamento. 3) Se i principi desumibili dalla normativa comunitaria, ed in particolare i principi di equivalenza ed effettività, consentono di applicare ai diritti non pagati ai lavoratori subordinati relativi alla retribuzione, del periodo individuato ai sensi dell’art. 4 della direttiva n. 80/987, un regime prescrizionale meno favorevole rispetto a quello applicato a crediti di analoga natura. IL FATTO Il Tribunale di Napoli è stato investito di una controversia nella quale un lavoratore dipendente – assoggettato a licenziamento collettivo a seguito del- 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 143 l’apertura di procedura concorsuale a carico della società alle cui dipendenze prestava la propria attività lavorativa – ha chiesto al Fondo di garanzia istituito presso l’INPS (Istituto Nazionale di Previdenza Sociale) il pagamento dei crediti di lavoro insoluti relativi alle tre ultime mensilità del rapporto di lavoro, senza tener conto degli anticipi di retribuzione già ottenuti dal datore di lavoro, che l’INPS ha ritenuto di sottrarre dal massimale fissato per legge. Secondo il giudice del rinvio, preliminare alla valutazione di fondatezza della domanda è la decisione in ordine all’eccezione di prescrizione del diritto sollevata dall’INPS, che dipenderebbe dalla natura del credito in contestazione. Ove si trattasse di credito di natura retributiva: a) sarebbe applicabile la prescrizione quinquennale ex art. 2948 del codice civile; b) la prescrizione rimarrebbe sospesa per effetto dell’insinuazione al passivo fallimentare ex articolo 94 della legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267); c) l’interruzione della prescrizione nei confronti del datore di lavoro avrebbe effetto, ai sensi dell’art. 1310 del codice civile, anche nei confronti dell’INPS condebitore in solido. Ove si trattasse di credito di natura previdenziale: a) si applicherebbe la prescrizione annuale prevista dall’art. 2, comma 5 del decreto legislativo del 27 gennaio 1992, n. 80, conformemente al termine di prescrizione generalmente previsto per le prestazioni previdenziali; b) non sarebbe applicabile l’articolo 94 della legge fallimentare che sospende il decorso della prescrizione per tutta la durata del procedimento concorsuale; c) la prestazione a carico dell’INPS avrebbe carattere autonomo ed indipendente rispetto a quella originariamente facente capo al datore di lavoro e non sarebbe configurabile tra i predetti soggetti una responsabilità solidale, con la conseguenza che l’interruzione della prescrizione nei confronti del datore di lavoro non avrebbe effetto nei confronti dell’INPS. Il Tribunale di Napoli chiede quindi alla Corte di Giustizia di chiarire se gli articoli 3 e 4 della direttiva 80/987/CEE, concernente il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, consentano che, nella normativa nazionale, i crediti dei lavoratori possano essere privati della loro natura “retributiva”, per assumere quella di “prestazione previdenziale” e che, in conseguenza di questa mutata natura, possano essere applicati garanzie, tempi e modalità di tutela diversi da quelli applicabili ai crediti di lavoro, ed in particolare possa essere applicato un regime prescrizionale meno favorevole rispetto a quello applicato al credito originario. LA POSIZIONE DEL GOVERNO ITALIANO In ordine al primo quesito, va ricordato che la direttiva 80/987/CEE ha impegnato gli Stati membri ad adottare le misure necessarie affinché appositi organismi di garanzia assicurino la tutela dei diritti dei lavoratori subordinati nei confronti dei datori di lavoro, sia in caso di insolvenza di questi ultimi, accertata in sede di procedura concorsuale, sia in caso di semplice inadempimento dei medesimi, dopo l’esperimento negativo dell’esecuzione forzata individuale. 144 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 144 In attuazione della citata direttiva, la legge 29 maggio 1982, n. 297, recante la disciplina del trattamento di fine rapporto (T.F.R.) e norme in materia pensionistica, ha previsto, all’art. 2, l’istituzione presso l’INPS del Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto con lo scopo di sostituire tale ente al datore di lavoro in caso di insolvenza nel pagamento del T.F.R. Il decreto legislativo 7 gennaio 1992, n. 80, emanato in attuazione della delega di cui all’art. 48 della legge 29 dicembre 1990, n. 428, al fine di adeguare pienamente l’ordinamento interno alla direttiva 80/987/CEE, ha esteso la garanzia già prevista dalla legge n. 297 del 1982 per il T.F.R. ai crediti di lavoro inerenti agli ultimi tre mesi del rapporto lavorativo, utilizzando il medesimo Fondo di garanzia istituito dalla predetta legge n. 297 del 1982. L’intervento del Fondo è soggetto, oltre che a limiti temporali – nel senso che la garanzia opera solo se i tre mesi finali del rapporto rientrano nel periodo di dodici mesi che precede il provvedimento di apertura della procedura concorsuale o la data di inizio dell’esecuzione forzata o il provvedimento di messa in liquidazione dell’impresa – a limitazioni oggettive, relative al quantum della prestazione. In particolare il pagamento effettuato dal Fondo non può essere superiore ad una somma pari a tre volte la misura massima del trattamento straordinario di integrazione salariale mensile al netto delle trattenute previdenziali ed assistenziali (art. 2, comma 2 del D.Lgs. n. 80 del 1992) e lo stesso pagamento non è cumulabile: a) con il trattamento di integrazione salariale; b) con le retribuzioni corrisposte al lavoratore negli ultimi tre mesi; c) con l’indennità di mobilità (art. 2, comma 4). In proposito, va precisato che la suddetta lettera b) dell’art. 2, comma 4 del D.Lgs. n. 80 del 1982 è stata soppressa dall’art. 1 del D.Lgs. 19 agosto 2005, n. 186, emanato in attuazione della direttiva 2002/74/CE che ha modificato la direttiva 80/987/CEE. Il che rende la questione preliminare della prescrizione ancor più rilevante nella causa a quo posto che, ove tale ostacolo dovesse essere superato, la fondatezza della domanda del ricorrente, che contesta il divieto di cumulo tra la prestazione corrisposta dall’INPS e gli eventuali “acconti” sul credito garantito non si baserebbe più solo su un orientamento giurisprudenziale – la sentenza della Corte di cassazione del 10 agosto 2004, n. 15464, citata dal giudice del rinvio ed emessa a seguito della rimessione alla Corte di Giustizia culminata con la sentenza del 4 marzo 2004, cause riunite C-19/01, C-50/01 e C-84/01 – bensì su una modifica normativa che elimina il predetto divieto di cumulo. È stato infatti espressamente recepito nell’ordinamento italiano il principio stabilito dalla Corte di Giustizia nella citata sentenza del 4 marzo 2004, secondo il quale gli articoli 3, n. 1 e 4, n. 3 primo comma della direttiva 80/987/CEE devono essere interpretati nel senso che non autorizzano uno Stato membro a limitare l’obbligo di pagamento degli organismi di garanzia a una somma che copre i bisogni primari dei lavoratori interessati e da cui andrebbero detratti i pagamenti versati dal datore di lavoro durante il periodo coperto dalla garanzia. Ciò detto, va osservato, quanto alla possibilità di sostituire il termine “retribuzione” con quello di “prestazione previdenziale” che la direttiva IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 145 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 145 80/987/CEE prevede esplicitamente all’art. 2, comma 2: “La presente direttiva non pregiudica il diritto nazionale per quanto riguarda la definizione dei termini ‘lavoratore subordinato’, ‘datore di lavoro’, ‘retribuzione’, ‘diritto maturato’ e ‘ diritto in corso di maturazione’ ”. È evidente infatti che, se la creazione di organismi di garanzia è finalizzata ad assicurare una maggiore tutela del lavoratore, allo stesso tempo la responsabilità di detti organismi può essere limitata e diversamente disciplinata rispetto a quella del datore di lavoro divenuto insolvente. Sotto il primo profilo, l’articolo 5 della direttiva 80/987/CEE prevede che: a) il patrimonio degli organismi deve essere indipendente dal capitale dei datori di lavoro e essere costituito in modo da non poter essere sequestrato in un procedimento in caso di insolvenza; b) i datori di lavoro devono contribuire al finanziamento, a meno che quest’ultimo non sia integralmente assicurato dai pubblici poteri; c) l’obbligo di pagamento a carico degli organismi esiste indipendentemente dall’adempimento degli obblighi di contribuire al finanziamento. Dai tre suddetti principi discende che il lavoratore è particolarmente tutelato proprio dalla struttura che caratterizza gli organismi di garanzia, sottratti a procedure di sequestro proprio allo scopo di assicurare l’integrità del loro patrimonio e tenuti comunque al pagamento anche ove i datori di lavoro non adempiano al loro obbligo di contribuire al finanziamento, che è ad ogni modo assicurato da eventuali fondi pubblici. Quale corollario di tale tutela rafforzata a beneficio del lavoratore, la direttiva prevede tuttavia la possibilità degli Stati membri di limitare l’obbligo di pagamento degli organismi di garanzia ad un determinato periodo (art. 4, comma 2) e di fissare un massimale per la garanzia di pagamento dei diritti non pagati (art. 4, comma 3) proprio per assicurare che il patrimonio di tali organismi sia in grado di coprire comunque tutte le richieste dei lavoratori alle dipendenze di datori di lavoro insolventi. Anche la direttiva 2002/74/CE, che modifica la direttiva 80/987/CEE, all’ottavo considerando, prevede che gli Stati membri possono stabilire limitazioni alla responsabilità degli organismi di garanzia, limitazioni che devono essere compatibili con l’obiettivo sociale della direttiva e possono tener conto dei diversi livelli dei diritti. Pertanto deve ritenersi pienamente conforme al fine sociale della direttiva la possibilità di novazione del diritto del lavoratore da credito di lavoro a credito previdenziale atteso che, a fronte di alcune limitazioni quantitative e di modalità di tutela, la gestione da parte degli organismi di garanzia assicura comunque quel “minimo garantito” per tutti i lavoratori. Non va dimenticato infatti che l’insinuazione al passivo fallimentare non solo non garantisce il pagamento parziale (e tanto meno totale) del credito ma che l’effettiva soddisfazione anche di parte della pretesa è soggetta ai tempi a volte molto lunghi che caratterizzano le procedure concorsuali mentre il sistema del Fondo di garanzia è congegnato in modo tale da assicurare il pagamento di una somma certa in tempi rapidi. ** ** ** Con riferimento al secondo quesito, va premesso che il fine sociale della direttiva consiste nel garantire a tutti i lavoratori subordinati una tutela comu- 146 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 146 nitaria minima in caso di insolvenza del datore di lavoro mediante il pagamento dei crediti non pagati derivanti da contratti di lavoro o da rapporti di lavoro e vertenti sulla retribuzione relativa ad un periodo determinato (Corte di giustizia, sentenza 4 marzo 2004 cit., punto 35, sentenza 14 luglio 1998, causa C-125/97, Regeling, punto 20; sentenza 18 ottobre 2001, causa C- 441/99, Gharehveran, punto 26; sentenza 11 settembre 2003, causa C- 201/01, Walcher, punto 38). Ciò detto, si osserva che il problema della natura delle prestazioni erogate dal Fondo di garanzia dell’INPS è sempre stato largamente dibattuto nella giurisprudenza italiana sebbene non in relazione all’applicabilità del termine di prescrizione quinquennale o annuale (stante il chiaro tenore dell’art. 2, comma 5 del d.lgs. n. 80 del 1992) bensì con riferimento all’applicabilità del cumulo tra interessi e rivalutazione monetaria, che è consentito per i crediti di lavoro dei dipendenti privati, come nel caso di specie, (per effetto della sentenza della Corte costituzionale del 2 novembre 2000, n. 459 che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 22, comma 36 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 nella parte in cui ha abolito il cumulo dei predetti accessori, dettato da esigenze di contenimento della spesa pubblica, anche per i dipendenti privati) e che è invece precluso per i crediti previdenziali ai sensi dell’art. 16, comma 6 della legge 30 dicembre 1991, n. 412. Come ricordato dal Giudice del rinvio, un primo orientamento giurisprudenziale qualifica come retributiva la natura delle prestazioni del Fondo dell’INPS, rilevando che la “sostituzione” del Fondo nel pagamento del trattamento di fine rapporto, prevista dall’art. 2, primo comma, legge n. 297 del 1982, sta ad indicare non già una garanzia o una fideiussione, ma un accollo ex lege a carico del Fondo in ordine, dunque, allo stesso debito (retributivo) del datore di lavoro, comprensivo della somma capitale e degli accessori in cumulo tra loro (Cass. 18 dicembre 2001 n. 15995; 18 aprile 2001 n. 5658; 30 dicembre 1999 n. 14761; 24 maggio 1994 n. 5043; 23 novembre 1989 n. 5036). La Cassazione rileva poi che la posizione creditoria dell’unico ed originario creditore non muterebbe, ove si qualificasse l’obbligazione dell’ente previdenziale in termini di sussidiarietà, in considerazione dell’onere del preventivo esperimento delle azioni esecutive nei confronti del debitore originario. La Suprema Corte osserva, inoltre, che l’istituzione del Fondo di garanzia rende evidente l’attuazione di una forma di assicurazione sociale, in cui l’interesse del lavoratore è conseguito non attraverso l’erogazione di un’autonoma indennità, ma mediante l’assunzione, in caso d’insolvenza del datore di lavoro, della responsabilità solidale per l’erogazione del trattamento di fine rapporto – quale retribuzione differita – da parte dell’istituto previdenziale. Un secondo orientamento ha invece qualificato come previdenziale la natura di tali prestazioni, rilevando che l’art. 2 del D.Lgs. n. 80 del 1992, al quinto comma, definisce testualmente come “prestazione” il pagamento effettuato dal Fondo di garanzia ai sensi del primo comma (il pagamento, cioè, dei crediti di lavoro diversi da quelli spettanti a titolo di trattamento di fine rapporto) e, altrettanto testualmente, dispone che il diritto a tale prestazione si prescrive in un anno. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 147 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 147 Tale orientamento giurisprudenziale fa quindi discendere da tali rilievi la considerazione che la terminologia usata (“prestazione”) e la previsione di uno specifico termine di prescrizione, identico nella durata a quello generalmente stabilito per i diritti alle prestazioni previdenziali di carattere temporaneo erogate dall’INPS, esprimerebbero con evidenza la regola che l’obbligazione del Fondo ha natura non retributiva ma previdenziale, inserita nell’ambito di un rapporto a struttura assicurativa (alimentato mediante contributi del datore di lavoro), e, perciò, autonoma rispetto all’obbligazione retributiva originaria, anche se coincidente con questa quanto all’oggetto, determinato “per relationem” (Cass. 2 maggio 2000 n. 5489 e 18 aprile 2001 n. 5663). Le Sezioni Unite della Suprema Corte, intervenute nel 2002 (sentenze n.13988-13989-13990 e 13991) per comporre il conflitto insorto presso la Sezione Lavoro, hanno aderito al primo orientamento e hanno stabilito il principio secondo il quale “il credito del lavoratore per il trattamento di fine rapporto e per gli emolumenti relativi agli ultimi tre mesi del rapporto non muta la propria natura retributiva quando, in forza della legge 29 maggio 1982 n. 297 e del D.Lgs. 27 gennaio 1992 n. 80, sia fatto valere nei confronti del Fondo di garanzia gestito dall’INPS per l’insolvenza o l’inadempimento del datore di lavoro, ed è quindi comprensivo, come di regola, degli interessi legali e della rivalutazione monetaria, restando inapplicabile il divieto di cumulo di tali accessori stabilito dall’art. 16, sesto comma, legge 30 dicembre 1991 n. 412”. Recentemente, proprio in relazione a questioni inerenti la decorrenza della prescrizione, la Suprema Corte ha parzialmente mutato il proprio orientamento, precisando che: “L’istituzione del Fondo di garanzia attua una forma di assicurazione sociale obbligatoria (con relativa obbligazione contributiva posta a carico esclusivo del datore di lavoro), con la sola particolarità che l’interesse del lavoratore alla tutela è conseguito mediante l’assunzione da parte dell’ente previdenziale, in caso di insolvenza del datore di lavoro, di un’obbligazione pecuniaria il cui quantum è determinato con riferimento al credito di lavoro nel suo ammontare complessivo. Tale meccanismo non è certamente incompatibile con la qualificazione di prestazione previdenziale, sulla base degli elementi richiamati. Il complesso delle argomentazioni svolte e il richiamo della più recente giurisprudenza di questa Corte giustificano l’abbandono degli orientamenti in precedenza espressi sulla questione, secondo i quali l’accollo ex lege comporterebbe l’aggiunta del Fondo al datore di lavoro per l’adempimento della medesima obbligazione, con applicazione di tutte le regole delle obbligazioni solidali”. (Cass., Sez. Lavoro, n. 4183/2006; conformi sono anche Cass., Sez. Lavoro, n. 13930/2006; Cass. Sez. Lavoro, 19 dicembre 2005, n. 27917; Cass. Sez. Lavoro 15 novembre 2004, n. 21595; Cass., Sez. Lav. 23 dicembre 2004, n. 23930) . In base a tale più recente orientamento della Suprema Corte, quindi, la natura previdenziale discenderebbe dal fatto che il diritto alla prestazione del Fondo nasce non in forza del rapporto di lavoro ma del distinto rapporto assicurativo- previdenziale, in presenza dei presupposti previsti dalla legge: insolvenza del datore di lavoro ed accertamento del credito nell’ambito della 148 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 148 procedura concorsuale secondo le specifiche regole di tale procedura ovvero formazione di un titolo giudiziale ed esperimento non satisfattivo dell’esecuzione forzata. Da tale natura, totalmente autonoma rispetto a quella del credito nei confronti del datore di lavoro, conseguirebbe l’inapplicabilità delle norme sulle obbligazioni solidali, che presuppongono peraltro l’esistenza di un medesimo termine di prescrizione affinché l’effetto interruttivo nei confronti di un condebitore in solido possa avere effetto anche nei confronti dell’altro. Per tali ragioni, non può ritenersi che il credito retributivo del lavoratore, una volta che subentri il Fondo di garanzia, conservi eguale contenuto, garanzie, tempi e modalità di esercizio in quanto ciò sarebbe incompatibile con l’obiettivo della direttiva di assicurare a tutti i lavoratori quel minimo garantito, obiettivo che può perseguirsi solo parametrando il credito nei confronti del Fondo al credito retributivo iniziale ma al contempo limitando la responsabilità del Fondo alla ricorrenza di precisi presupposti e all’osservanza di particolari termini e condizioni. ** ** ** Con riferimento al terzo quesito, occorre rilevare che il regime di prescrizione previsto dall’art. 2, comma 5 del d.lgs. n. 80 del 1992 è perfettamente compatibile con i principi di equivalenza e di effettività delineati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia ed in particolare dalla sentenza Francovich del 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, in attuazione della quale è stato peraltro adottato il predetto decreto legislativo n. 80 del 1992. Quanto al principio di effettività, che secondo il Giudice remittente sarebbe compromesso dall’incertezza creata dalla giurisprudenza della Suprema Corte, che avrebbe dapprima ingenerato nel lavoratore un certo affidamento in ordine alla natura del credito ed alla conseguente disciplina applicabile per poi mutare orientamento, si osserva che l’art. 2, comma 5 del d.lgs. n. 80 del 1992 è molto chiaro nel fissare il termine di prescrizione di un anno e non si presta a dubbi interpretativi. L’oscillazione giurisprudenziale si è infatti appuntata sull’applicabilità della solidarietà passiva tra il debito del datore di lavoro e quello del Fondo INPS e sul conseguente effetto interruttivo della prescrizione effettuata nei confronti di uno dei due condebitori anche rispetto all’altro. Il termine di prescrizione annuale non è peraltro di per sé tale da rendere eccessivamente oneroso l’esercizio del diritto da parte del lavoratore, come già ritenuto dalla Corte di Giustizia nella sentenza Palmisani del 10 luglio 1997, causa C-261/95 con riferimento al termine di decadenza annuale per l’esercizio del diritto all’indennità di cui all’art. 2, comma 7 del d.lgs. n. 80 del 1992. Nell’ordinamento italiano, il termine di prescrizione annuale è inoltre applicabile in generale ai diritti previdenziali e quindi non può dirsi che il principio di equivalenza sia pregiudicato. Anzi, rispetto ai crediti previdenziali, per i quali, come si è visto, l’art. 16 della legge 412 del 1991 vieta il cumulo tra interessi legali e rivalutazione monetaria, l’art. 2, comma 5 del d.lgs. n. 80 del 1992 prevede invece espres- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 149 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 149 samente la debenza di entrambi i predetti accessori del credito, apprestando quindi una tutela, sotto tale profilo, più favorevole. Infatti, per stabilire se una disciplina sia più o meno favorevole, occorre considerarla nel suo complesso. Afronte del regime prescrizionale previsto dall’art. 2, comma 5 citato, va dunque valutata l’intera disciplina che, come si è già illustrato, è finalizzata ad assicurare un minimo garantito certo a tutti i lavoratori alle dipendenze di datori di lavoro insolventi in tempi rapidi e senza attendere l’esito invece aleatorio ed incerto della procedura concorsuale. Inoltre, va sottolineato che anche la giurisprudenza della Corte di cassazione più recente, che il giudice del rinvio ha considerato meno favorevole al lavoratore, ha invece invariabilmente accolto le tesi dei lavoratori. La Suprema Corte ha infatti affermato che, pur trattandosi di credito di natura previdenziale, pur applicandosi il termine di prescrizione annuale e pur non applicandosi il regime delle obbligazioni solidali, la prescrizione non decorre finchè non si verifichino gli specifici presupposti che condizionano il sorgere della prestazione previdenziale, che si perfeziona non già con la cessazione del rapporto di lavoro ma al realizzarsi delle condizioni previste dall’art. 2 della legge n. 297 del 1982, richiamato dagli artt. 1 e 2 del d.gs. n. 80 del 1992: insolvenza del datore di lavoro, domanda di ammissione al passivo, verifica dell’esistenza e misura del credito in sede di ammissione al passivo, deposito dello stato passivo reso esecutivo dal Giudice delegato. La Corte di Cassazione ha quindi chiarito che, prima del verificarsi di tali presupposti, nessuna domanda può essere rivolta all’INPS e pertanto non può decorrere la prescrizione del diritto del lavoratore nei confronti del Fondo di garanzia (Cass. Sez. Lavoro, n. 4183/2006; Cass. Sez. Lavoro, 19 dicembre 2005, n. 27917; Cass. Sez. Lavoro 15 novembre 2004, n. 21595; Cass., Sez. Lav. 23 dicembre 2004, n. 23930 citate) . Conclusivamente, il regime prescrizionale previsto dall’art. 2, comma 5 del d.lgs. n. 80 del 1992, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, è da ritenersi pienamente conforme ai principi di equivalenza e di effettività del diritto comunitario. ** ** ** Il Governo italiano propone alla Corte di risolvere il primo quesito nel senso che gli articoli 3 e 4 della direttiva n. 80/987/CEE consentono che i diritti non pagati ai lavoratori, nel momento in cui vengono fatti valere nei confronti dell’organismo di garanzia, vengano privati della loro iniziale natura retributiva ed assumano la diversa qualificazione previdenziale per il fatto che la loro erogazione sia stata affidata dallo Stato membro ad un istituto previdenziale e che quindi nella normativa nazionale il termine “retribuzione” venga sostituito da quello “prestazione previdenziale”. Il Governo italiano propone alla Corte di risolvere il secondo quesito nel senso che, per il fine sociale della direttiva, è sufficiente che la normativa nazionale utilizzi il credito retributivo iniziale del lavoratore subordinato come un mero termine di paragone, rispetto al quale determinare per relationem la prestazione da garantire con l’intervento dell’organismo di garanzia, non richiedendosi che il credito retributivo del lavoratore nei confronti del 150 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 150 datore di lavoro insolvente venga tutelato, grazie all’intervento dell’organismo di garanzia, assicurandogli eguale contenuto, garanzie, tempi e modalità di esercizio di quelle riconosciute a qualsiasi altro credito di lavoro nello stesso ordinamento. Il Governo italiano propone alla Corte di risolvere il terzo quesito nel senso che i principi desumibili dalla normativa comunitaria, ed in particolare i principi di equivalenza ed effettività, consentono di applicare ai diritti non pagati ai lavoratori subordinati relativi alla retribuzione un regime prescrizionale meno favorevole rispetto a quello applicato a crediti di analoga natura, in quanto la disciplina applicabile va considerata nel suo complesso. Roma, 23 giugno 2008 Avv. Wally Ferrante Causa C-141/08 P – Materia trattata: politica commerciale – Impugnazione proposta il 7 aprile 2008 dalla Fosham Shunde Yongjian Housewares & Hardware Co. Ltd avverso la sentenza del Tribunale di primo grado 29 gennaio 2008, causa T-206/07, Foshan Shunde Yongjian Housewares & Hardware/Consiglio dell’Unione europea. (Avvocato dello Stato W. Ferrante – AL 33754/07). LA COMPARSA DI RISPOSTA DEL GOVERNO ITALIANO La ricorrente Foshan Shunde Yongjian Housewares & Hardware ha chiesto l’annullamento del regolamento CE del Consiglio n. 452/2007, adottato in data 23 aprile 2007 che istituisce un dazio antidumping definitivo del 18,1% e dispone la riscossione definitiva del dazio provvisorio istituito sulle importazioni di assi da stiro originarie della Repubblica popolare cinese e dell’Ucraina. La ricorrente, produttrice ed esportatrice cinese di assi da stiro verso l’Unione europea, ritiene il regolamento impugnato viziato per due motivi attinenti, rispettivamente, alla presunta violazione dell’art. 2, paragrafo 7 lettera c) del regolamento di base antidumping n. 385/96 laddove viene interpretato nel senso che impedirebbe di modificare in corso di procedura la determinazione iniziale in merito alla concessione o meno del Trattamento di Economia di Mercato (MET) nonché alla presunta violazione dell’art. 20 paragrafo 5 dello stesso regolamento di base laddove non sarebbe stato osservato il termine processuale di 10 giorni ivi previsto con conseguente lesione del diritto di difesa della ricorrente. La sentenza del Tribunale di primo grado del 29 gennaio 2008 qui impugnata ha respinto entrambi i motivi di ricorso. La ricorrente ha impugnato la predetta decisione ritenendola viziata per due motivi. L’impugnazione è infondata e va respinta per le seguenti ragioni. Fatto Preliminarmente, va ricordato che, con il regolamento provvisorio n. 1620/2006 del 30 ottobre 2006, il MET – che consente di calcolare il dazio IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 151 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 151 antidumping confrontando i prezzi all’esportazione con i propri prezzi interni (del mercato cinese) anziché con quelli di un paese analogo (in questo caso la Turchia) – non era stato concesso all’impresa ricorrente in quanto la stessa non era risultata in possesso di uno dei cinque requisiti previsti dall’art. 2, paragrafo 7 lettera c) del regolamento di base antidumping ed in particolare di quello previsto dal secondo trattino, a norma del quale è richiesto che “le imprese dispongano di una serie ben definita di documenti contabili di base soggetti a revisione contabile indipendente e che siano d’applicazione in ogni caso in linea con le norme internazionali in materia di contabilità” . Infatti, la Commissione al punto 25 del Regolamento provvisorio, sosteneva, in relazione alle cinque società cinesi, compresa la ricorrente, cui era stato negato il Trattamento di Economia di Mercato, che “l’esame dei documenti contabili ha rivelato gravi vizi in tutti e cinque i casi. Ad esempio, le società non specificavano nella contabilità tutte le differenti entrate e spese ma applicavano un ampio sistema di compensazione tra tali entrate e spese su base mensile. Inoltre, esse non rispettavano il principio della contabilità per competenza. In effetti, esse raggruppavano le transazioni per mese e le registravano nei libri contabili in forma succinta senza particolareggiare le singole transazioni”. I documenti contabili non sono stati quindi ritenuti in linea con i principi IAS (International Accounting Standards). A seguito delle osservazioni scritte e orali della ricorrente, la Commissione, nel documento di informazione finale generale del 20 febbraio 2007, mutava avviso e manifestava l’intenzione di concedere all’impresa ricorrente lo statuto di Economia di mercato, ipotizzando che le irregolarità contabili riscontrate non avessero un’incidenza rilevante in termini di affidabilità dei documenti e non fossero determinanti per il calcolo del margine di dumping. In occasione delle riunioni del Comitato Antidumping del 6 e del 22 marzo 2007, alcuni membri dello stesso si opponevano però alla concessione dello statuto di Economia di mercato all’azienda ricorrente in quanto i motivi per il diniego del suddetto trattamento in fase provvisoria dovevano ritenersi molto gravi e di non rapida soluzione. A seguito di questa forte opposizione degli Stati membri, la Commissione, confermando la posizione già assunta con il Regolamento provvisorio, proponeva di respingere la richiesta della ricorrente di concessione dello statuto di economia di mercato, con il documento di informazione finale rivisitato del 23 marzo 2007. Questa volta la proposta era approvata dagli Stati membri e veniva recepita dal regolamento del Consiglio n. 452/07 del 23 aprile 2007 impugnato nella presente causa. Diritto Primo motivo: il Tribunale non ha risposto al primo motivo di ricorso rigettandolo sulla base di una constatazione manifestamente contraria agli atti di causa e cioè che il dibattito concernente l’interpretazione dell’art. 2, paragrafo 7, c) del regolamento di base e del punto 44 della sentenza Nanjing Metalink/Consiglio sarebbe privo di rilevanza nella presente controversia. 152 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 152 Così brevemente riassunta la vicenda, va sottolineato che il primo motivo di impugnazione appare infondato. Correttamente il Tribunale di primo grado ha ritenuto che la decisione della Commissione in ordine alla non concessione del MET non si fonda sull’impossibilità di rivalutare i fatti a norma dell’art. 2, paragrafo 7, lettera c) ultima frase del regolamento di base, come interpretato dalla giurisprudenza Najing Metalink (causa T-138/02 sentenza del 14 novembre 2006), considerata nella fattispecie irrilevante, bensì sulla non conformità della contabilità della ricorrente alle norme IAS (punti 44, 45 e 50). In proposito, il Tribunale di primo grado, nel corso dell’udienza del 13 dicembre 2007, ha espressamente domandato alle parti se le irregolarità contabili fossero già state esaminate dalla Commissione prima del 15 settembre 2006, data in cui la stessa ha adottato la prima determinazione di non concedere alla ricorrente il MET. Ciò al fine di accertare se la Commissione avesse assunto tale decisione alla luce della piena conoscenza dei fatti e delle relative controdeduzioni della ricorrente. In risposta a tale domanda, la Commissione ha prodotto una lettera del 1 settembre 2006 della ricorrente, con la quale erano state addotte tutte le giustificazioni circa le contestate irregolarità contabili. In particolare, la ricorrente non negava che dette irregolarità vi fossero ma deduceva che solo per poche voci gli importi erano stati presentati globalmente e riassuntivamente e che quindi le irregolarità non dovevano ritenersi determinanti. Giustamente quindi il Tribunale di primo grado ha ritenuto che non vi fossero fatti e documentazione nuovi tali da legittimare un mutamento di avviso della Commissione in ordine alla concessione del MET rispetto al regolamento provvisorio, adottato nella piena consapevolezza della situazione di fatto (punto 47). Pertanto, la Commissione non ha fondato il proprio convincimento, volto a confermare la proposta di esclusione della concessione del MET, sull’asserito divieto di mutare posizione derivante dal citato art. 2, paragrafo 7 sub c), come interpretato dalla sentenza Metalink – o meglio non solo su questo – bensì sul fatto assorbente che le gravi irregolarità riscontrate non potevano ritenersi superate da fatti nuovi o da elementi di prova tali da ribaltare l’accertamento già eseguito. Correttamente inoltre il Tribunale di primo grado ha ritenuto che un motivo di ricorso volto a censurare l’iter decisionale che ha condotto alla proposta finale della Commissione nonchè l’apprezzamento da parte delle istituzioni in ordine alla sussistenza o meno delle condizioni per l’applicazione dell’art. 2, paragrafo 7, sub c), ovvero l’esistenza di fatti o prove nuove, costituirebbe un motivo di ricorso nuovo, come tale irricevibile (punto 51). Tale affermazione non risulta essere stata impugnata dalla ricorrente e non appare quindi più censurabile. Analogamente non è stata impugnata la statuizione della sentenza del Tribunale di primo grado secondo la quale il documento d’informazione finale rivisitato non doveva essere motivato che in relazione all’insieme degli IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 153 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 153 elementi raccolti durante l’istruttoria e non anche rispetto ad una posizione provvisoria esposta nei documenti comunicati alle parti interessate per permettere loro di far pervenire le loro osservazioni (punto 52). Per completezza, va comunque osservato che, contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, il documento di informazione finale rivisitato del 23 marzo 2007 non è affatto immotivato e non propone al Consiglio una soluzione consapevolmente errata solo per tener fede alle determinazioni iniziali adottate con il regolamento provvisorio. Al punto 13 del predetto documento viene infatti espressamente precisato che le censurate pratiche contabili della società sono risultate, durante la verifica in loco, palesemente in contrasto con le norme internazionali di contabilità (IAS), in particolare con l’IAS n. 1, e non possono perciò essere considerate irrilevanti. Pertanto, a prescindere dal fatto che tali pratiche contabili possano essere in linea con le previsioni cinesi in materia, resta il fatto che le stesse costituiscono una chiara violazione del IAS. Tale considerazione è stata ribadita al punto 13 del regolamento definitivo impugnato ove viene sottolineato che non sono state presentate nuove prove che potessero indurre a modificare le conclusioni di cui al considerando 25 del regolamento provvisorio. È importante ribadire infatti che la società ricorrente non ha affatto negato l’esistenza delle irregolarità contabili, limitandosi a lamentare che la Commissione avrebbe fondato la sua proposta sulle conclusioni provvisorie anziché sulle conclusioni definitive, pur conoscendo l’erroneità delle prime e solo in ossequio alla giurisprudenza Najing Metalink. In proposito, va osservato che la predetta sentenza, che pur è stata certamente tenuta in considerazione dalla Commissione, sebbene non quale elemento centrale ed esclusivo, non è mai stata menzionata in nessun documento a sostegno della conferma della determinazione iniziale. Come correttamente rilevato dalle tre società intervenienti nel presente giudizio Vale Mill Rochdale Ldt, Pirola Spa e Colombo New Scal Spa, nella lettera della Commissione del 4 aprile 2007, con la quale si è dato riscontro ai rilievi sollevati dalla società Foshan in merito al c.d. “volta faccia” contenuto nel documento di informazione finale rivisitato del 23 marzo 2007, si da ampiamente conto delle numerose ragioni che hanno indotto la Commissione a confermare la determinazione inizialmente presa circa l’insussistenza dei presupposti per riconoscere il Trattamento di Economia di Mercato. In tale lettera, si precisa innanzi tutto che il documento di informazione generale finale del 20 febbraio 2007 non integra in alcun modo una nuova determinazione in ordine alla concessione del MET, trattandosi di un documento interlocutorio sottoposto non solo alle osservazioni delle parti ma anche all’approvazione del Comitato antidumping. Ed infatti il Tribunale di primo grado ha chiaramente affermato che tale documento non fa stato, né conferisce diritti (punto 53). In secondo luogo, in detta lettera è chiarito che le conclusioni provvisorie sono state confermate in quanto è stato definitivamente stabilito che gli effetti delle pratiche contabili irregolari, che erano già state riscontrate come 154 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 154 difformi rispetto alle regole IAS, non possono assolutamente considerarsi irrilevanti. In terzo luogo, la Commissione ha rilevato che i dati forniti dalla ricorrente in merito ai prezzi di importazione dell’acciaio sono stati comunque già valutati dall’industria comunitaria che ne ha ritenuto la non influenza atteso che gli esportatori utilizzano principalmente acciaio cinese. Solo a conforto delle suddette considerazioni, la Commissione ha altresì aggiunto che la ricorrente non fa altro che ripetere argomenti già esposti ed esaminati e che la giurisprudenza in materia di riconoscimento del MET non consente la rivalutazione di fatti noti. L’art. 2, paragrafo 7 lettera c) ultima frase del regolamento di base antidumping prevede infatti che “si procede ad un accertamento se il produttore soddisfa i criteri summenzionati entro tre mesi dall’avvio dell’inchiesta, dopo aver sentito il comitato consultivo e dopo aver dato all’industria comunitaria la possibilità di presentare osservazioni. Quest’accertamento resta valido durante l’inchiesta”. Questa “immutabilità” dell’accertamento derivante da tale norma è stata interpretata dalla sentenza Najing Metalink, al punto 47, nel senso che “essa vieta alle istituzioni di rivalutare gli elementi di cui disponevano al momento della determinazione iniziale dello statuto di economia di mercato. Tale disposizione non osta tuttavia a che la concessione dello statuto di economia di mercato non sia mantenuto quando una modifica della situazione di fatto, sulla base della quale tale statuto era stato accordato, non permetta più di considerare che il produttore in questione operi nelle condizioni di un’economia di mercato”. La predetta sentenza peraltro si è occupata di una fattispecie inversa rispetto a quella oggetto del presente giudizio in quanto, in quel caso, il MET era stato originariamente concesso ed è stato successivamente negato con il regolamento definitivo perché la società, anch’essa cinese, dopo aver ottenuto il trattamento di economia di mercato, anziché continuare a rispettare tutti i criteri necessari per poter beneficiare del predetto trattamento, quali, in quel caso, l’osservanza di un certo grado di indipendenza rispetto allo Stato conformemente ai principi dell’economia di mercato, aveva modificato il suo comportamento costringendo la Commissione a ritornare sulla propria decisione proprio in virtù dei fatti nuovi sopravvenuti. Tale orientamento è peraltro conforme al principio secondo il quale le norme sulla concessione del MET vanno applicate restrittivamente (sentenza Shangai Teraoka T-35/01). Il fenomeno inverso deve ritenersi molto più raro anche perché, come riconosciuto dalla stessa ricorrente al punto 26 del ricorso di primo grado, laddove non sia inizialmente riconosciuto il MET, il valore normale dovrà essere determinato in base al prezzo di un prodotto simile di un paese terzo ad economia di mercato e non in base al prezzo interno e quindi la Commissione non disporrà di alcun dato sui prezzi del mercato interno per quel prodotto, necessario per determinare la concessione o meno del MET. Pertanto, alla luce della citata giurisprudenza, l’iniziale rigetto del MET avrebbe potuto essere modificato nel regolamento definitivo solo in presenza di elementi nuovi idonei a far venire meno le ragioni del rigetto. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 155 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 155 Nel caso di specie, invece, la ricorrente si è limitata solo a prospettare, sulla base degli stessi elementi e quindi senza contestare le irregolarità contabili addebitategli, una presunta non incidenza delle stesse sui prezzi praticati. È evidente, perciò, non solo che non ricorre l’ipotesi eccezionale che consente alla Commissione di mutare orientamento circa la concessione dello statuto di economia di mercato ma che la violazione delle norme internazionali di contabilità, poste a tutela dell’affidabilità dell’impresa, ne compromettono irrimediabilmente la credibilità. Il primo motivo di impugnazione va quindi rigettato. Secondo motivo: il Tribunale ha concluso a torto che la violazione del diritto di difesa della ricorrente, pur verificatosi e constatato dal Tribunale, non comporterebbe l’annullamento del regolamento impugnato per l’erronea ragione che in alcun modo la procedura amministrativa avrebbe potuto condurre ad un risultato diverso. Con riferimento al secondo motivo di impugnazione, attinente ad una presunta violazione del diritto di difesa in quanto la Commissione non avrebbe atteso il termine di dieci giorni previsto dall’art. 20 paragrafo 5 del regolamento di base ed assegnato alla ricorrente per presentare osservazioni alla proposta di misure definitive, va escluso, come correttamente rilevato dal Tribunale di primo grado, che, dal punto di vista sostanziale, vi sia stata una violazione del diritto di difesa non avendo la ricorrente dimostrato che alcuna delle sue osservazioni, meramente ripetitive di quanto già esposto nel corso della procedura, non fossero già state esaminate dalla Commissione e non siano state prese in considerazione nell’adozione della decisione finale. Come affermato dalla giurisprudenza comunitaria (Corte di Giustizia, Distillers Company/ Commissione, sentenza del 10 luglio 1980, causa C- 30/78; Tribunale di primo grado, cause riunite T-33/98 e T-34/98, Petrotub e Repubblica), l’accertamento della violazione del diritto di difesa presuppone non solo l’inosservanza in senso formale di una norma processuale ma anche che in ragione di tale inosservanza la parte non abbia potuto utilmente difendere i propri interessi. La presunta violazione deve quindi tradursi in un pregiudizio sostanziale e non risolversi nella mera inosservanza di una regola formale che non ha arrecato alcun danno alla pienezza del diritto di difesa. Nella fattispecie, la Commissione, nella risposta del 4 aprile 2007, ha precisato che le osservazioni della ricorrente non aggiungevano alcuna nuova argomentazione rispetto alle osservazioni già presentate in precedenza e che pertanto in nessun modo avrebbero potuto orientare diversamente la decisione finale. Peraltro, la stessa ricorrente, nella lettera del 2 aprile 2007 ammette che nel documento di informazione finale rivisitato del 23 marzo 2007 non è affermato in alcun punto che il mutato avviso rispetto al documento di informazione generale finale del 20 febbraio 2007 sia dovuto all’interpretazione data all’art. 2, paragrafo 7 lettera c) del regolamento di base alla luce della sentenza Najing Metalink, in base alla quale la Commissione sarebbe “legalmente obbligata a non modificare l’iniziale determinazione in ordine alla 156 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 156 concessione del MET anche se successivamente tale determinazione si è rivelata ingiustificata”. Si tratta quindi solo di una (erronea) supposizione della ricorrente. Peraltro, va innanzitutto ribadito, come già osservato in relazione al primo motivo, che la sentenza Najing Metalink non dice affatto questo, avendo invece in quella fattispecie consentito la modifica della determinazione iniziale in ordine alla concessione del MET (in quel caso favorevole) in ragione di fatti sopravvenuti, legittimando il rigetto del MET nella decisione definitiva. La sentenza dice quindi esattamente il contrario di quel che si vorrebbe farle dire e cioè che la Commissione non è affatto vincolata alle sue determinazioni iniziali provvisorie laddove, alla luce di fatti nuovi, le stesse si rivelino ingiustificate. Ciò detto, va evidenziato che la stessa ricorrente, nella citata lettera del 2 aprile 2007, riconosce che la decisione di mutare avviso rispetto al documento di informazione generale finale e di confermare la decisione iniziale contenuta nel regolamento provvisorio del 30 ottobre 2006 non è affatto basata sull’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 2, paragrafo 7, sub c) ma sull’apprezzamento in termini di gravità ed importanza delle irregolarità contabili riscontrate in violazione delle norme IAS e sulla ininfluenza dei dati relativi ai prezzi di importazione dell’acciaio atteso che gli operatori utilizzano principalmente acciaio cinese. Su entrambe tali questioni, oltre all’assorbente profilo di irricevibilità già rilevato ai punti 20 e 21 del presente atto, la ricorrente aveva già avuto modo di presentare le proprie osservazioni e di controdedurre nel corso della procedura amministrativa, come correttamente osservato dal Tribunale di primo grado (punti 73 e 74), e pertanto non può in alcun modo ritenersi violato il suo fondamentale diritto di difesa. Anche il secondo motivo di impugnazione è pertanto infondato. Alla luce di quanto sopra, il Governo italiano conclude affinché la Corte di Giustizia delle Comunità Europee voglia rigettare l’atto di impugnazione. Roma, 5 agosto 2008 Avv. Wally Ferrante Cause riunite C-155/08 e C-157/08 – Materia trattata: libera prestazione dei servizi – Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Hoge Raad der Nederlanden il 16 aprile 2008 – Convenuto: Staatssecretaris van Financien. (Avvocato dello Stato S. Fiorentino – AL 25484/08). LE QUESTIONI PREGIUDIZIALI 1) (primo quesito comune ad entrambe le cause) Se gli artt. 49 e 56 CE debbano essere interpretati nel senso che essi non ostano a che uno Stato membro, nei casi in cui (redditi derivanti da) risparmi all’estero che non siano stati dichiarati alle sue autorità fiscali, applichi un regime normativo che prevede un termine per l’accertamento di dodici anni, a compensazione dell’assenza di effettive possibilità di controllo sui beni all’estero, mentre per IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 157 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 157 (redditi derivanti da) risparmi che sono stati mantenuti all’interno del suo territorio, dove invece esistono siffatte possibilità effettive di controllo, vige un termine di cinque anni. 2) (secondo quesito – solo causa 155/08) Ai fini della soluzione della prima questione, se faccia differenza il fatto che i beni siano mantenuti in uno Stato membro che applica il segreto bancario. 3) (terzo quesito – solo causa 155/08) Qualora la prima questione sia risolta affermativamente, se gli artt. 49 CE e 56 CE non ostino neppure a che un’ammenda inflitta per l’omessa dichiarazione di redditi o patrimoni con riferimento ai quali si esige a posteriori l’imposta venga determinata in proporzione all’importo richiesto per il periodo più lungo. LA NORMATIVA COMUNITARIA I quesiti posti nell’ordinanza di rinvio portano sull’interpretazione dell’articolo 49 e dell’art. 56 CE. L’articolo 49 CE stabilisce: «Nel quadro delle disposizioni seguenti, le restrizioni alla libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione sono vietate nei confronti dei cittadini degli Stati membri stabiliti in uno Stato membro che non sia quello del destinatario della prestazione. Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono estendere il beneficio delle disposizioni del presente capo ai prestatori di servizi, cittadini di un paese terzo e stabiliti all’interno dell’Unione». L’articolo 56 CE dispone: «1. Nell’ambito delle disposizioni previste dal presente capo sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi. 2. Nell’ambito delle disposizioni previste dal presente capo sono vietate tutte le restrizioni sui pagamenti tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi». LA NORMATIVA NAZIONALE Viene in rilievo l’articolo 16 della Algemene wet inzake rijksbelastingen (legge generale olandese sulle imposte dello Stato: in prosieguo l’«AWR») che, secondo quanto si ricava dalle ordinanze di rinvio, dispone quanto segue: «(1) Qualora un qualche fatto susciti il sospetto che a torto non abbia avuto luogo l’assoggettamento ad imposta ovvero che sia stato liquidato un importo troppo basso (...), l’Inspecteur può esigere a posteriori l’imposta non prelevata. (...) (2) ... (3) Il potere di emettere un avviso di accertamento decade con il decorso di cinque anni dal momento in cui è sorto il debito d’imposta. (...) (4) Qualora sia stata prelevata un’imposta troppo bassa per un elemento 158 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 158 oggetto di una qualche imposizione, mantenuto o generato all’estero, il potere di accertamento, in deroga a quanto stabilito al terzo paragrafo, prima frase, decade con il decorso di dodici anni dal momento in cui è sorto il debito d’imposta». IL FATTO Entrambe la controversie hanno ad oggetto avvisi di accertamento – relativi in un caso alla sola imposta sul patrimonio, nell’altro caso a questa imposta, all’imposta sul reddito e ai contributi previdenziali – nel contesto dei quali l’Amministrazione finanziaria olandese ha esercitato una pretesa relativa ad obbligazioni risalenti ad un periodo anteriore al quinquennio dalla data dell’accertamento, avvalendosi della facoltà concessale dall’art. 16, n. 4, della AWR. Nella fattispecie che ha dato luogo alla causa C-155/08, con l’avviso di accertamento sono state irrogate anche delle sanzioni, diversamente da quanto è avvenuto nell’altro caso, nel quale l’Amministrazione finanziaria olandese ha accordato alla interessata i benefici previsti dalla legge per il caso di autodenuncia dell’evasione. I ricorrenti, in entrambe le cause, hanno tra l’altro contestato l’applicabilità dell’art. 16, n. 4, della AWR perché, sebbene fosse pacifico che ricorressero i presupposti per l’applicazione di tale norma, essa risulterebbe in contrasto con i principi del Trattato. La regola prevista dal diritto olandese, infatti, costituirebbe un ostacolo per la libera circolazione di capitali, dei pagamenti o dei servizi, integrando una discriminazione in assenza di una causa oggettiva di giustificazione. In ogni caso, anche ammesso che l’obiettivo perseguito dalla norma olandese sia meritevole di tutele e giustifichi il trattamento differenziato, un termine di addirittura dodici anni sarebbe in ogni caso inadeguato e non proporzionato all’obiettivo. Nell’illustrare la questione pregiudiziale l’Hoge Raad prende le mosse dal presupposto che la norma olandese introduca effettivamente un ostacolo alla libera circolazione di servizi o capitali, di tal che la questione che si pone consiste unicamente nello stabilire se esista una giustificazione sufficiente per tale ostacolo. Infatti, la circostanza che un’operazione sia compiuta allo scopo di evadere il fisco non rende l’operazione medesima “artificiosa”, nel senso chiarito, ad esempio, dalla sentenza Emsland - Stärke di codesta Corte, così da escludere l’interessato dall’accesso alle libertà garantite dal Trattato. Analizzando, quindi, le possibili giustificazioni della disposizione, la Corte di cassazione olandese ne ha enunciato le finalità ricavandole dai lavori preparatori della norma, dai quali si evince cha la ratio del prolungamento del termine per l’accertamento risiede nella mancanza di adeguate possibilità di controllo da parte delle autorità fiscali con riguardo ad elementi del reddito o del patrimonio generati all’estero. Queste difficoltà risultano accresciute nel caso in cui il presupposto d’imposta si radica in un Paese che non ha stipulato una convenzione con i Paesi Bassi relativa allo scambio di informazioni e/o che applica il segreto bancario. Si è reso pertanto necessario, a giudizio del legislatore olandese, IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 159 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 159 prevedere per questi casi un termine superiore a quello di cinque anni e la scelta è caduta su di un termine, come quello di dodici anni, pari al periodo di prescrizione del reato. E poiché questi casi di occultamento di materia imponibile sono sempre caratterizzati da dolo, o quanto meno da colpa grave, era ragionevole, secondo la relazione illustrativa del provvedimento legislativo, allineare a questo termine anche quello entro il quale può essere inflitta una sanzione amministrativa. L’Hoge Raad ha rilevato che l’ambito di applicazione dell’art. 16, n. 4, AWR non è, a rigore, limitato ai casi in cui vi sia stato un consapevole occultamento degli elementi patrimoniali o di reddito prodotti all’estero, il che, di per sé, non esclude che la norma possa essere considerata compatibile con il Trattato o, quanto meno, che possa esserlo nella misura in cui colpisca condotte nelle quali l’occultamento doloso vi sia stato. Poiché, secondo il giudice a quo, i casi qui in esame sono caratterizzati dal dolo, l’esistenza di una causa di giustificazione può essere esaminata in relazione a questo particolare caso e alla stregua della costante giurisprudenza di codesta Corte di giustizia, secondo la quale l’efficacia dei controlli fiscali costituisce un motivo imperativo di interesse generale idoneo a giustificare una restrizione dell’esercizio delle libertà di circolazione garantite dal Trattato (v., inter alia, sentenze 8 luglio 1999, causa C-254/97, Baxter, punto 18; 22 marzo 2007, causa C-383/05, Talotta, punto 35 e 18 dicembre 2007, causa C-101/05, Skatterverket/A, punto 55). LA POSIZIONE DEL GOVERNO ITALIANO Nel presente intervento il Governo italiano sosterrà che al primo dei quesiti posti dalla giurisdizione di rinvio occorra dare risposta positiva, affermando, cioè, che le norme del Trattato non debbano essere interpretate nel senso di non consentire una norma come quella prevista dall’ordinamento olandese; sosterrà, inoltre, che al secondo dei quesiti occorra dare risposta negativa (nel senso che l’applicazione della suddetta regola prescinda dall’esistenza del segreto bancario nello Stato membro in cui sono mantenuti i beni da cui origina il presupposto imponibile); sosterrà, infine, che sia opportuno rispondere positivamente al terzo quesito, affermando che si possano applicare sanzioni amministrative riferite al periodo rispetto al quale operano i più lunghi termini di accertamento. Le ragioni per pervenire a tale conclusione sono, come si vedrà, già sostanzialmente illustrate nell’ordinanza di rinvio. Il problema che pone il rinvio pregiudiziale riguarda il controllo delle transazioni da e per l’estero effettuate da soggetti residenti, al fine di impedire che le disponibilità economiche di questi soggetti possano sfuggire alla concreta possibilità di controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria, che ha interesse a verificare il rispetto del principio, comune a tutti gli Stati membri, di tassazione dell’intero reddito personale, ovunque prodotto. L’esigenza di introdurre misure che abbiano un simile obiettivo è comunemente avvertita dagli Stati membri, consapevoli dell’insufficienza dei soli strumenti di cooperazione tra gli Stati, siano essi previsti da Convenzioni bila- 160 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 160 IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 161 terali contro la doppia imposizione sul reddito ovvero da fonti di diritto comunitario derivato, come la direttiva 77/799/CEE sulla reciproca esistenza amministrativa, la direttiva 76/308/CEE, successivamente modificata dalla direttiva 2001/44/CE, concernente l’assistenza amministrativa reciproca in materia di recupero dei crediti tributari e la direttiva 2003/48/CE in materia di tassazione dei redditi da risparmio sotto forma di pagamenti di interessi (1). Misure normative di controllo dei movimenti finanziari con l’estero sono, ad esempio, previste anche dall’ordinamento italiano, sebbene non sia prevista una differenziazione dei termini di decadenza per l’accertamento (2). Il decreto – legge n. 167 del 1990 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 227 del 1990), prevede, in quest’ottica, una serie di disposizioni volte al controllo delle transazioni da e verso l’estero di denaro, titoli e valori per un importo superiore a 12.500,00 euro, tra le quali: – l’obbligo di comunicazione a carico degli intermediari finanziari che si interpongono nell’esecuzione delle operazioni di trasferimento; – l’obbligo di dichiarazione dei trasferimenti effettuati in forma diretta ovvero mediante plico postale o equivalente di denaro, titoli e valori mobiliari in questo caso il limite di importo é pari a 10.000,00 euro); – obbligo di indicazione, nella dichiarazione dei redditi, degli investimenti all’estero e delle attività estere di natura finanziaria attraverso le quali possono essere conseguiti redditi di fonte estera imponibili in Italia nonché dei trasferimenti, da, verso e sull’estero che hanno interessato i suddetti investimenti o attività (l’obbligo non sussiste nei casi in cui il contribuente abbia dato incarico ad un intermediario di curare l’incasso dei redditi esteri prodotti dalle suddette disponibilità finanziarie). Dall’ordinanza di rinvio si evince che alcuni obblighi di questo tipo esistono anche nei Paesi Bassi, ma che, negli anni cui si riferiscono gli accertamenti contestati, il trasferimento o il mantenimento di risparmi all’estero non richiedeva di norma il coinvolgimento di terzi, così esposti al controllo delle autorità fiscali olandesi. Il Giudice a quo rileva, inoltre, che non esiste alcun obbligo per le banche estere di informare le autorità fiscali olandesi, al contrario di quanto avviene per la banche olandesi rispetto agli investimenti interni. Vi è, quindi, un’obiettiva maggiore difficoltà, per il fisco olandese, nell’individuare fonti estere di materia imponibile sottratta all’imposizione rispetto a quanto si verifichi per le fonti localizzate nei Paesi Bassi. Questa (1) Sulla tradizionale inefficienza della cooperazione amministrativa in materia tributaria, si vedano le considerazioni ed i riferimenti dell’Avvocato Generale Trstenjak, nelle conclusioni della causa C-73/06, Planzer Luxembourg, punto 58. (2) Questi termini, in Italia, scadono il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione. In caso di omessa presentazione della dichiarazione o di dichiarazione nulla, l’accertamento può essere emesso sino al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione dovrebbe essere stata presentata. Questi termini sono raddoppiati quando il contribuente abbaia commesso una violazione della normativa fiscale punita quale reato e per la quali sia previsto l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 del codice di procedura penale (sia, cioè, reato perseguibile d’ufficio). 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 161 disparità di situazioni di fatto, secondo la Corte di cassazione dei Paesi Bassi, ha dato origine alla norma qui in esame e potrebbe anche giustificarne la legittimità. A giudizio del Governo italiano la conclusione si dimostra persuasiva. Va, al riguardo, anzi tutto osservato che la preoccupazione che è alla base della disposizione nazionale olandese in esame è sostanzialmente coincidente con quella del legislatore comunitario, considerato che la Commissione Europea propose un’apposita iniziativa legislativa, poi approvata dal Consiglio e sfociata nella direttiva 2003/48/CE del Consiglio, in materia di tassazione di redditi da risparmio sotto forma di pagamenti di interessi. La direttiva è stata adottata proprio per offrire uno strumento giuridico di contrasto ai fenomeni di evasione dei redditi “transfrontalieri” da risparmio. Il quinto ‘considerando’ premesso alla direttiva ricorda, infatti, che «in assenza di coordinamento dei regimi tributari nazionali in materia di imposizione sui redditi da risparmio sotto forma di pagamento di interessi, in particolare, per quanto attiene al trattamento degli interessi percepiti da non residenti, attualmente i residenti degli Stati membri possono spesso evitare qualsiasi forma di imposizione nel loro Stato membro di residenza sugli interessi percepiti in un altro Stato membro». In secondo luogo, come già accennato, è necessario non sopravvalutare la possibilità (spesso solo teorica) che hanno gli Stati di ottenere informazioni su tipologie di reddito quali quelle qui in discussione, ai sensi della direttiva 77/799/CEE sulla reciproca assistenza amministrativa tra autorità competenti. Vanno, a tale proposito, ricordati i limiti allo scambio di informazioni previsti dall’articolo 8 della citata direttiva e, in particolare, dal paragrafo 1 di tale articolo, il qual chiarisce che la stessa direttiva «non impone allo Stato membro al quale sono richieste informazioni alcun obbligo di effettuare indagini o di comunicare informazioni, se la legislazione o la prassi amministrativa di tale Stato non consente all’autorità competente di condurre tali indagini o di raccogliere le informazioni richieste». La sussistenza di questi limiti è stata, del resto, già valorizzata dalla giurisprudenza di codesta Corte di giustizia (v., ad es., sentenza 11 ottobre 2007, causa C-451/05, ELISA, punto 93, benché, in quel caso, si sia poi escluso che la misura esaminata fosse proporzionata all’obiettivo di superare tali difficoltà). In terzo luogo, sembra al Governo italiano ben fondata l’argomentazione che risulta essere stata utilizzata nel giudizio a quo, secondo la quale in mancanza di indicazioni circa il fatto che il soggetto passivo interessato avesse probabilmente un reddito o un patrimonio acquisito o detenuto nell’altro Stato membro, non vi è spazio per le norme sulla cooperazione amministrativa, a meno di non voler ipotizzare la presentazione periodica a tutti gli Stati membri di una richiesta di informazioni avente ad oggetto tutti soggetti passivi olandesi, residenti nei Paesi Bassi. Quanto precede porta, ad avviso del Governo italiano, a ritenere che la misura prevista dal diritto olandese sia giustificata, perché è pacifico che la garanzia dell’efficacia dei controlli fiscali costituisce un motivo imperativo di interesse generale idoneo a giustificare la restrizione dell’esercizio della libertà di circolazione dei capitali (peraltro in casi in cui essa non è stretta- 162 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 162 mente funzionale alla libertà di stabilimento). La misura sembra, inoltre, proporzionata all’obiettivo, perché essa, lungi dall’annullare la libertà di circolazione, si limita a contrastare la propensione all’evasione fiscale tenendo conto dell’esistenza di ostacoli obiettivi nell’accertamento di fonti di reddito estranee alla sfera di controllo delle autorità olandesi. Ostacoli che sembrano ragionevolmente superabili, nella grande maggioranza dei casi, solo attraverso l’abolizione di limiti temporali (con l’eccezione di quelli connessi all’esigenza di certezza del diritto, rispetto ai quali il termine di dodici anni sembra congruo). Quanto al secondo quesito, che porta sull’esame del segreto bancario, si osserva che il problema risulta solo in parte “sdrammatizzato” per effetto dell’adozione della direttiva 2004/38/CE in materia di tassazione del risparmio. Tale direttiva, come è noto, ha visto delinearsi un sistema in cui tutti gli Stati hanno accettato di scambiarsi reciprocamente le informazioni sui redditi da risparmio contemplati dalla direttiva stessa, ad eccezione di tre soli Stati (Austria, Belgio e Lussemburgo) che, a difesa del proprio segreto bancario, hanno ottenuto di applicare in luogo dello scambio di informazioni una ritenuta alla fonte, per un periodo (teoricamente) transitorio. Tuttavia, il quattordicesimo ‘considerando’ della stessa direttiva rammenta che «l’obiettivo finale di permettere l’imposizione effettiva sui pagamenti di interessi nello Stato membro di residenza fiscale del beneficiano effettivo può essere raggiunto mediante lo scambio di informazioni sui pagamenti di interessi tra gli Stati membri», il che conferma che l’obiettivo finale che il Legislatore comunitario si pone è il superamento del segreto bancario ed il raggiungimento di un efficace scambio di informazioni tra tutti gli Stati membri. È vero che il sedicesimo considerando della direttiva 2003/48/CE chiarisce, tra l’altro, che «è pertanto necessario stabilire che gli Stati membri che si scambiano informazioni a norma della presente direttiva non possano avvalersi dei limiti allo scambio di informazioni di cui all’articolo 8 della direttiva 77/799/CEE», tuttavia, tali disposizioni non si rendono applicabili proprio a quei Paesi (Austria, Belgio e Lussemburgo) che nel regime transitorio applicano il sistema di ritenuta in luogo dello scambio di informazioni. Tutto ciò porta a ritenere che l’esistenza del segreto bancario è ostacolo che a maggior ragione giustifica una disposizione come l’articolo 16, n. 4, dell’AWR, senza, tuttavia, giungere ad affermare che esso si ponga quale presupposto applicativo della norma. Infatti, il segreto bancario è un elemento che indebolisce lo strumento dello scambio di informazioni, ma si è visto che la ragione giustificatrice principale della norma qui in esame si pone a monte di tale strumento e risiede nella pratica impossibilità di attivare sistematicamente lo scambio di informazioni rispetto a contribuenti che non hanno dato luogo a dubbi o sospetti. Da ultimo, con riferimento al terzo quesito, sembra al Governo italiano che il mantenimento di una sanzione, anche in relazione ai periodi sui quali si proietta il maggior termine di accertamento, sia norma, anch’essa, funzionale all’obiettivo perseguito dall’art. 16, n. 4 e che non sembra introdurre irragionevoli discriminazioni tra situazioni di diritto interno e situazioni transfrontaliere, essendo giustificata dalla maggiore pericolosità dell’evasio- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 163 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 163 ne d’imposta perpetrata all’estero, in ragione delle maggiori difficoltà di accertamento di cui si è detto. Conclusioni Alla stregua delle considerazioni che precedono, il Governo italiano suggerisce alla Corte di rispondere ai quesiti sottoposti al suo esame affermando che: Gli articoli 49 CE e 56 CE non ostano ad una norma nazionale che concede all’Amministrazione finanziaria un termine di dodici anni per l’accertamento di redditi prodotti da risparmi detenuti all’estero, che non sono stati dichiarati alle autorità fiscali dello Stato di residenza, a fronte della previsione di un termine di cinque anni rispetto ad analoghi redditi prodotti nello Stato di residenza. Tale conclusione prescinde dal fatto che i risparmi siano detenuti in uno Stato membro che applichi il segreto bancario, sebbene si imponga a maggior ragione in questo caso. I predetti articoli del Trattato non ostano, altresì, all’applicazione di una sanzione amministrativa per l’omessa dichiarazione di redditi o patrimoni calcolata in proporzione all’imposta evasa anche nei periodi rispetto ai quali opera il prolungamento dei termini di accertamento. Roma, 6 agosto 2008 Avv. Sergio Fiorentino Causa C-334/08 – Materia trattata: risorse proprie delle Comunità – Ricorso presentato il 18 luglio 2008 – Commissione delle Comunità europee/ Repubblica italiana. (Avvocato dello Stato G. Albenzio – AL 29747/08). LE CONCLUSIONI DELLA COMMISSIONE Constatare che la Repubblica italiana ha mancato agli obblighi che le incombono in virtù dell’art. 10 CE, dell’art. 8 della decisione 2000/597/CE, Euratom del Consiglio, del 29 settembre 2000, relativa al sistema delle risorse proprie delle Comunità europee, e degli artt. 2, 6, 10, 11 e 17 del regolamento (CE, Euratom) n. 1150/2000 del Consiglio, del 22 maggio 2000, recante applicazione della decisione 94/728/CE, Euratom, relativa al sistema delle risorse proprie delle Comunità, per aver rifiutato di mettere a disposizione della Commissione le risorse proprie corrispondenti all’obbligazione doganale derivante dal rilascio, dal 27 febbraio 1997, da parte della Direzione compartimentale delle dogane per le Regioni Puglia e Basilicata, sita a Bari, di autorizzazioni irregolari a creare e gestire a Taranto magazzini doganali di tipo C, seguite da concesutive autorizzazioni alla trasformazione sotto controllo doganale e al perfezionamento attivo, fino alla loro revoca il 4 dicembre 2002; Condannare la Repubblica italiana al pagamento delle spese processuali. I MOTIVI DELLA COMMISSIONE Col presente ricorso la Commissione europea rimprovera al Governo italiano di avere rifiutato di mettere a disposizione delle Comunità europee 164 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 164 le risorse proprie – quantificate in circa 23 milioni di euro – corrispondenti ad alcune autorizzazioni doganali irregolari rilasciate a Taranto nel periodo compreso fra il febbraio 1997 ed il dicembre 2002. La materia del contendere riguarda essenzialmente la responsabilità degli importi relativi alle risorse non riscosse a causa delle operazioni irregolari in questione. Il Governo italiano pretende di non essere responsabile dei mancati introiti dovuti alle predette irregolarità, in quanto queste ultime sarebbero unicamente imputabili ai funzionari che hanno provocato il danno, mentre la Commissione è persuasa che la vigente legislazione comunitaria imponga allo Stato italiano di farsi carico di tutte le conseguenze finanziarie derivanti all’operato – anche irregolare – dei funzionari che agivano in suo nome e per suo conto. IL CONTRORICORSO DEL GOVERNO ITALIANO In fatto si espone La vertenza processuale che qui occupa ha avuto inizio a seguito di una segnalazione della Direzione Regionale di Milano, recante data 18 novembre 2002, relativa a possibili irregolarità riguardo l’immissione in consumo di rottami di alluminio; rottami che sarebbero stati costituiti, contrariamente a quanto dichiarato dagli operatori, da pani tagliati; a seguito della suddetta denuncia la Direzione Regionale per la Puglia e la Basilicata ha attivato con nota 2002/37155 del 29 novembre 2002 la Direzione della Circoscrizione doganale di Taranto che, al termine delle indagini, ha redatto la relazione 3 febbraio 2003; in conseguenza di tale accertamento è stata revocata in autotutela l’autorizzazione alla trasformazione sotto controllo doganale (rottamazione) di pani di alluminio, concessa alla società Fonderie S.p.A. e sono stati informati i competenti servizi della Commissione delle Comunità europee che, quindi, hanno chiesto chiarimenti alle Autorità italiane con lettera n. D(2003)3107 del 27 ottobre 2003. Rilevanti appaiono, per la decisione della Corte, i seguenti elementi di fatto accertati nel corso delle indagini. In data 29 gennaio 1997 la società Fonderie S.p.A. ha chiesto alla Direzione Compartimentale per le Regioni Puglia e Basilicata, per il tramite della Circoscrizione doganale di Taranto, l’autorizzazione all’istituzione ed alla gestione, nel proprio stabilimento di Taranto, di un “deposito doganale privato di tipo C” [“deposito … destinato unicamente ad immagazzinare merci del depositario, ove il depositario si identifichi con il depositante senza essere, necessariamente, proprietario delle merci” – art. 504 Reg. CEE 2454/93 e art. 99 Reg. CEE 2913/92]; per tale tipologia di deposito il controllo doganale consiste nelle sole verifiche periodiche dei registri di carico e scarico e relativa giacenza; non si richiedono, cioè, particolari forme di vigilanza che vadano oltre le ordinarie procedure previste ed eseguite (si vedano i verbali di verifica in data 7 giugno 2002, 30 maggio 2002, 3 maggio 2002, 23 luglio 1999, 10 marzo 1998, 4 luglio 1997). Nella stessa istanza la società ha chiesto di effettuare le seguenti operazioni: “trasformazione sotto controllo doganale: rottamare merci destinate IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 165 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 165 alla fusione per la lavorazione prima dell’immissione in consumo”; l’operazione di rottamazione ha assunto il ruolo di attività fondamentale nell’ambito dello stabilimento, con il passaggio da una voce tariffaria con dazio del 6% ad una voce esente. In data 27 febbraio 1997 il Direttore Compartimentale per la Puglia e la Basilicata, Nicola De Michele, ha rilasciato l’autorizzazione richiesta dalla Società Fonderie S.p.A. per immettere nel deposito “prodotti, rottami e avanzi di alluminio per la fusione”; in data 7 aprile 1997, con nota prot. n. 5005, a firma del Direttore sostituto Antonio La Macchia, è stata rilasciata “autorizzazione alla trasformazione dei pani di alluminio introdotti in deposito [voce doganale 7601 – dazio 6%] in rottami (avanzi) [voce doganale 7602 – dazio zero]”. La procedura di controllo sulla “trasformazione in rottami (avanzi) dei pani di alluminio … mediante spezzatura a mezzo di idonei strumenti” (come prevista dall’autorizzazione del 7 aprile 1997), stabiliva la “vigilanza finanziaria” consistente nella presenza saltuaria di un funzionario doganale, delegato dal coordinatore dell’ufficio accertamento, e nella verifica da parte della Guardia di Finanza con modalità da stabilirsi, con la redazione di un verbale, a firma congiunta del funzionario doganale preposto, del militare della Guardia di finanza e dello spedizioniere in rappresentanza della Società. L’attività dichiarata di trasformazione dei pani ha comportato il mutamento della posizione tariffaria, con i consequenziali effetti di una minore entrata al bilancio comunitario per dazi, stimata in circa 46,6 miliardi di vecchie lire e minori entrate all’erario nazionale per l’IVA, stimate in circa 18,8 miliardi di vecchie lire. Successivamente, è stata rilasciata una nuova autorizzazione da parte dell’allora Direttore della Circoscrizione, Armando Mele, che ha rinnovato il precedente titolo autorizzativo, con la previsione della chiusura del regime di deposito mediante l’emissione di una bolletta di perfezionamento attivo, secondo la prassi consolidata fin dal 1997. Con nota prot. n. 2002-8103 del 13 giugno 2002, il Direttore della Circoscrizione doganale di Taranto ha integrato il precedente dispositivo di autorizzazione alla trasformazione sotto controllo doganale con l’estensione all’area dell’intero stabilimento della zona destinata a deposito doganale con il probabile obiettivo di prevenire ulteriori interventi della Guardia di Finanza. Tale estensione non poteva essere concessa dal Direttore della Circoscrizione in quanto si trattava di una competenza esclusiva del Direttore Regionale. Nel mese di agosto 2002 è stata avviata la verifica fiscale da parte della Guardia di Finanza presso gli stabilimenti della Società Fonderie S.p.A. cha ha portato alla scoperta della frode, ma già in occasione di una verifica fiscale a carattere generale, effettuata dal 20 marzo al 28 maggio 2002 dal Nucleo regionale della Guardia di Finanza di Bari, era emerso che alcune partite di alluminio, iscritte nella contabilità del deposito doganale della Società Fonderie S.p.A., non si trovavano nelle zone previste dall’autorizzazione; sulla base di questa constatazione i militari hanno proceduto al sequestro del prodotto rinvenuto, con l’immediata contestazione alla Società Fonderie 166 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 166 S.p.A. del reato di contrabbando, commesso asportando merci dal deposito doganale senza aver pagato i diritti o senza averne garantito il pagamento; mentre era già in corso la verifica fiscale della Guardia di finanza, la Circoscrizione doganale di Taranto ha proceduto ad una verifica ordinaria presso il deposito doganale privato della Società Fonderie S.p.A. All’esito di ulteriori controlli effettuati sul territorio nazionale a partire dal 7 ottobre 2002, l’Area gestione tributi della stessa Direzione Regionale per la Puglia e la Basilicata, con nota n. 2002-17605 del 4 dicembre 2002, ha precisato che “la trasformazione sotto controllo doganale dei pani di alluminio greggio introdotti in deposito doganale privato non genera il prodotto classificabile alla voce doganale «rottami » 7602 S.A., aliquota daziaria zero, bensì deve essere classificato nonostante il taglio cui è sottoposto alla stessa voce doganale del prodotto originario 7601 ad aliquota daziaria 6%”; la stessa direzione regionale ha, inoltre, informato la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bari ed ha revocato con effetto immediato le autorizzazioni alla trasformazione sotto controllo doganale a suo tempo concesse alla Ditta Fonderie S.p.A. Ad evidenziare la diligenza dell’Amministrazione doganali italiana va detto che, non appena stimato l’importo esatto da recuperare per gli anni dal 1997 al 2002 (circa 46 miliardi di lire), è stato richiesto al Presidente del locale Tribunale Civile il sequestro conservativo di cui all’art. 671 del c.p.c. sui beni delle Fonderie S.p.A., cui ha fatto seguito l’azione di recupero dei diritti evasi (non preclusa per alcuno degli anni in questione – 1997/2002– ai sensi dell’art. 221, comma 4, del Reg. 2913/92); è stata anche attivata la polizza fideiussoria a garanzia delle operazioni della Società in questione per 5,2 miliardi di lire – € 2.685.575 circa – ma, nel frattempo, la società è stata ammessa alla procedura di concordato preventivo con cessione dei beni presso il Tribunale civile di Roma-sezione Fallimentare. Sulla base degli elementi di fatto testé esposti si può dire che le principali responsabilità per quanto accaduto sono ad individuarsi nelle iniziative illegittime prese dai responsabili della Circoscrizione Doganale di Taranto e della Direzione Compartimentale (ora Regionale) per la Puglia e la Basilicata, soprattutto nella fase di avvio della vicenda nel 1997; risultano eloquenti, in questa direzione, alcuni passi della motivazione del provvedimento con il quale il G.I.P. del Tribunale penale di Taranto ha ordinato la custodia cautelare in carcere di alcuni funzionari della dogana e di alcuni militari della Guardia di Finanza: “la sistematica violazione di norme penali e doganali, secondo le modalità sopra descritte, così prolungata nel tempo, appare necessariamente essere il risultato di un consolidato accordo criminoso tra i responsabili delle Fonderie S.p.A. ed i pubblici funzionari addetti ai controlli. Tale accordo appare sin d’ora connotato da evidenti sospetti di corruttela che dovranno necessariamente essere approfonditi e sviluppati nel prosieguo delle indagini, sulla base dell’ovvia considerazione che gli ingenti vantaggi patrimoniali illecitamente conseguiti dai proprietari della Fonderie S.p.A. non possono costituire frutto di graziosa elargizione. La situazione ambientale sopra descritta rende evidentemente problematico il lavoro degli inquirenti, dovendosi operare all’interno di un ambiente carat- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 167 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 167 terizzato da una così diffusa illegalità e da una stretta complicità tra i soggetti coinvolti” (ciò conferma la difficoltà, data anche dalla tipologia dei controlli ordinari richiesti, di smascherare subito la frode posta in essere). In risposta alla lettera n. D(05)53566 del 3 maggio 2005 dei competenti servizi della Commissione, le Autorità italiane, con nota n. 3241 del 30 settembre 2005, hanno calcolato che l’ammontare complessivo delle minori entrate comunitarie era definitivamente quantificato nella cifra di € 22.730.818,35 (12.771.448,10 + 9.507.317,93 + 452.052,32) che la Commissione ha invitato a mettere a disposizione in quanto, a suo parere, gli Stati membri sono gli unici responsabili della riscossione delle risorse proprie della Comunità e sono tenuti a coprire le perdite conseguenti causate da errori commessi dai loro funzionari. La dogana italiana ha obiettato che nella specie non si trattava di “errori” o “negligenze” delle Autorità ma di conseguenze dannose causate da altrui atteggiamenti dolosi ed a carattere fraudolento che non potevano essere addossate allo Stato membro. La Commissione, tuttavia, insistendo nelle sue posizioni, ha inviato ai sensi dell’art. 226 CE una lettera di costituzione in mora – n. (2007)920 – ed il conseguente parere motivato – n. (2007)4700 – non ritenendo sanata l’infrazione contestata; su questa è stata chiamata a decidere la Corte di Giustizia CE. In punto di diritto Prima di ogni altra considerazione, riportiamo le disposizioni che regolano la materia ed in base alle quali dovrà essere decisa la causa: l’art. 8, par. 1, della decisione 2000/597/CE Euratom del Consiglio secondo cui “le risorse proprie comunitarie di cui all’art. 2, paragrafo 1, lettere a) e b) sono riscosse dagli stati membri conformemente alle disposizioni legislative regolamentari e amministrative nazionali, eventualmente adattate alle esigenze della normativa comunitaria. La commissione procede, ad intervalli regolari all’esame delle disposizioni nazionali che le vengono comunicate dagli stati membri, comunica agli stati membri gli adattamenti che ritiene necessari per garantire che esse siano conformi alle normative comunitarie…”; il regolamento (CE, Euratom) n. 1150/2000 del Consiglio, a sua volta, sancisce al suo art. 17, nn. 1 e 2, che “gli Stati membri sono tenuti a prendere tutte le misure necessarie affinché gli importi corrispondenti ai diritti accertati in conformità dell’articolo 2 siano messi a disposizione della Commissione… gli Stati membri sono dispensati dall’obbligo di mettere a disposizione della commissione gli importi corrispondenti ai diritti accertati soltanto se la riscossione non possa essere effettuata per ragioni di forza maggiore. Inoltre, in casi particolari, gli stati membri sono dispensati dal mettere a disposizione della Commissione tali importi quando, dopo attento esame di tutti i dati pertinenti del caso, risulta definitivamente impossibile procedere alla riscossione per motivi che non potrebbero essere loro imputabili”. La Commissione ritiene che lo Stato italiano, alla luce di questa normativa e dell’altra richiamata in sede di ricorso, sia venuto meno agli impegni che su di esso incombono in virtù dell’art. 10 CE [secondo cui “gli stati membri adottano tutte le misure di carattere generale e particolare atte ad 168 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 168 assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal presente trattato ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della comunità”] e dell’art. 8 citato e che, inconseguenza, deve mettere a disposizione l’importo dell’obbligazione doganale in questione (€ 22.730.826,29). Secondo la Commissione la responsabilità dello Stato italiano deriva da un “errore amministrativo” concretatosi nella “mancata sorveglianza adeguata alle persone incaricate dall’autorità pubblica”; così ipotizzando, l’Organo comunitario opera una fallace equiparazione fra le ben differenti nozioni di “negligenze” e di “azioni erronee”, prefigurando una responsabilità per culpa in eligendo vel in vigilando, cioè una forma di responsabilità vicaria, sostanzialmente oggettiva e per fatto altrui, anche doloso. È a tutti noto che l’errore sia concetto ed istituto giuridico differente dal dolo, elemento psicologico che si estrinseca in un operare fraudolento ove si realizza un raggiro (ai danni, nel caso che occupa, sia della Comunità che dello Stato italiano); ciò perché l’errore vive nel terreno dell’involontarietà della colpa mentre il dolo si caratterizza per un’architettura dinamica ove la signoria del volere domina. Dai fatti di causa sopra riportati e in particolare dalla relazione Audit dell’Agenzia delle Dogane italiana n. 1369 del 3 febbraio 2003, emerge che, a carico dei funzionari responsabili del mancato introito comunitario e dell’emissione delle autorizzazioni illecite che lo hanno causato, è stata emessa dall’Autorità giudiziaria penale una informazione di garanzia con l’imputazione di “contrabbando aggravato e falso in atto pubblico” determinato, appunto, dall’abusivo rilascio dei provvedimenti autorizzatori. Il punto determinante della vicenda in questione va individuato proprio nella macchina fraudolenta ed illegale messa in piedi da quei funzionari corrotti, in accordo con i titolari delle società beneficiarie delle evasioni dei dazi, e nella conseguente recisione del nesso di causalità che sussiste tra condotta ed evento e che vive di una dimensione fattuale ed una soggettiva (colpa, dolo etc.). Le circostanze da cui la controversia ha tratto origine sono ricollegabili in maniera indiscutibile agli illeciti penali commessi: l’evidente distonia delle conclusioni della Commissione con quanto fin qui detto deriva dal fatto che, vertendosi in materia di responsabilità penale, ove ci si muove in una dimensione soggettiva della responsabilità (l’art. 27 della Costituzione italiana recita che “La responsabilità penale è personale”), i relativi fatti non possono in alcun modo essere imputati all’Amministrazione della quale i funzionari corrotti erano dipendenti. Per superare questo evidente ostacolo, la Commissione prefigura la responsabilità del Governo italiano facendo riferimento ad errori comportamentali dell’Amministrazione alla stessa imputabili ma su questo piano (corretto) di indagine occorre basarsi su quanto stabilito dalla stessa Commissione con l’atto DOC BUDG/266/OO-IT, Dossier 4.3.50 sulla “Responsabilità finanziaria degli stati membri per errori amministrativi commessi dalle autorità nazionali”, ove sono individuate le “6 categorie che possono impegnare la responsabilità finanziaria degli stati membri: 1. mancata contabilizzazione dei diritti a seguito di errore non rilevabile dal debitore…; 2. mancata contabilizzazione dei diritti in seguito alla prescrizione IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 169 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 169 dell’obbligazione doganale causata dall’inattività dell’autorità doganale (=errore) che disponeva di tutti gli elementi che le permettevano di contabilizzare i diritti e di comunicarli al debitore…; 3.a) mancata contabilizzazione dei dazi all’importazione a seguito di un errore non rilevabile dalle autorità doganali nel quadro della gestione dei contingenti tariffari, mediante applicazione di una preferenza tariffaria quando il beneficio era soppresso…; 3.b) rimborso o sgravio dei dazi già contabilizzati in quanto le autorità doganali hanno applicato un dazio ridotto nel quadro di un contingente tariffario quando l’imputazione a questo contingente non era più possibile a causa di un errore non rilevabile nel corso del trattamento amministrativo della domanda di imputazione da parte dell’amministrazione; 4. rimborso o sgravio di dazi già contabilizzati in situazioni particolari, fondato su un errore non rilevabile dall’amministrazione…; 5. non accettazione da parte della Commissione di una domanda di inesigibilità di risorse proprie accertate (diritti contabilizzati) per il fatto che lo stato membro non è stato sufficientemente diligente nel rispettare la normativa doganale e finanziaria, comprese le disposizioni amministrative e regolamentari nazionali in materia di recupero…; 6. mancata contabilizzazione dei diritti a causa della fiducia legittima del debitore riguardo alle azioni dell’autorità competente (rilascio di un’autorizzazione non conforme al diritto).” Con chiara evidenza tutte le ipotesi formulate attengono a casi di errori o carenze imputabili all’apparato amministrativo dello Stato, non anche a fattispecie di imputabilità del fatto ad un soggetto terzo che con atteggiamento doloso ha posto in essere comportamenti fraudolenti. Nella fattispecie di cui si discute, invece, non risultano, ictu oculi e alla luce di quanto detto, errori, omissioni o carenze in capo all’Amministrazione, in quanto l’esistenza di una situazione collusiva tra i funzionari e i terzi ha creato una copertura agli stessi operatori disonesti, non rendendo agevole l’individuazione in tempi brevi del meccanismo fraudolento; meccanismo che è stato comunque scoperto e represso dall’Amministrazione doganale italiana non appena ha avuto a disposizione elementi che giustificavano un controllo generale e straordinario e diverso da quelli per prassi effettuati. La rilevanza penalistica dei comportamenti posti in essere ha, peraltro, comportato il rinvio a giudizio di ben 24 persone da parte del Tribunale di Taranto, la condanna in primo grado dello spedizioniere Metta, l’avvio verso i sei funzionari responsabili di procedure di contestazione di addebiti disciplinari e sospensione dal servizio (sullo stato di questi giudizi si veda la relazione dell’Agenzia delle Dogane 27 agosto 2008). L’Agenzia delle Dogane ha proceduto, inoltre, alla revisione di tutte le bollette doganali relative alle operazioni di trasformazione sotto controllo doganale effettuate dalla Società Fonderie S.p.A. che, però, è stata dichiarata fallita e tutti i crediti iscritti a ruolo sono stati insinuati nel passivo fallimentare; tuttavia, è stata recuperata, ad onore della diligenza mostrata dai competenti organi italiani, la somma di € 2.185.681,00, mediante escussione dell’intero massimale della polizza fideiussoria prestata dalle Generali S.p.A.; la Direzione Regionale di Bari ha disposto, infine, il fermo amministrativo nei confronti della Società Fonderie S.p.A. di tutti i crediti nei con- 170 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 170 fronti della pubblica amministrazione e, per l’effetto, è stata annullata una disposizione di rimborso IVA pari a € 516.000,00; la residua somma dovuta sarà recuperata a carico dei funzionari responsabili allorché le loro responsabilità saranno definite all’esito delle azioni giudiziarie in corso (sono, infatti, pendenti i giudizi proposti dagli stessi funzionari e dalla società in opposizione agli atti di contestazione notificati dall’amministrazione doganale, come relazionato nella citata nota dell’Agenzia 27 agosto 2008). È evidente la diligenza dell’amministrazione doganale italiana nell’adozione di tutti le iniziative necessarie per pervenire alla riscossione dei dazi evasi, non appena in possesso degli elementi utili acquisiti in seguito alle indagini esperite e senza che siano maturati termini di prescrizione o decadenza (anche ai sensi e per l’effetto dell’art. 221, par. 4, Reg. 2913/92). Si consideri, inoltre, che sulla base di quanto disposto dall’art. 8 della Decisione 94/728/CEE-Euratom (riprodotto integralmente nella Decisione 2000/597/CE/Euratom) ed in particolare dal suo paragrafo 1 si prevede una sorta di “controllo permanente” da parte della Commissione delle disposizioni nazionali che, come già detto, prevedono per i depositi doganali e le attività del tipo di quelle eseguite dalla società Fonderie S.p.A. quel tipo di controlli che sono stati puntualmente eseguiti dagli uffici doganali italiani; nessuna indicazione di eseguire controlli diversi è mai stata formulata dalla Commissione. Inoltre, nulla è previsto in tema di responsabilità degli Stati, non essendo stata neppure emanata la normativa di cui al paragrafo 2 del medesimo articolo. La mancanza di una espressa disposizione in materia rende ancor più evidente l’inconfigurabilità di una responsabilità stricto sensu oggettiva del tipo di quella ipotizzata dalla Commissione nel suo ricorso; non va, inoltre, trascurato che l’Amministrazione si è attivata, come già detto, con i mezzi concessi dalle disposizioni processuali italiane per perseguire nelle opportune sedi i funzionari responsabili (si veda, fra l’altro, la sentenza del Tribunale di Milano n. 3473/99). Ulteriori aspetti di rilievo vanno ancora evidenziati. Innanzitutto, quale conferma a contrario di quanto qui sostenuto, si ritiene utile richiamare la sentenza in data 15 novembre 2005 nella causa C-392/02 – Commissione c. Danimarca – , ove solo apparentemente sembra sostenersi la tesi addotta dalla Commissione in sede di ricorso ma la responsabilità dello Stato è basata sugli errori amministrativi addebitabili ai suoi apparati amministrativi; la Corte ribadisce, infatti, che la responsabilità dello Stato membro per l’omesso o ritardato accertamento e versamento delle risorse proprie della Comunità si fonda sulla imputabilità agli apparati amministrativi dello Stato dell’omissione o del ritardo: “66. Peraltro, a termini dell’art. 17, nn. 1 e 2, del regolamento n. 1552/89, gli Stati membri sono tenuti a prendere tutte le misure necessarie affinché gli importi corrispondenti ai diritti accertati in conformità dell’art. 2 del regolamento medesimo siano messi a disposizione della Commissione. Gli Stati membri sono dispensati da tale obbligo soltanto se la riscossione non abbia potuto essere effettuata per ragioni di forza maggiore ovvero quando risulti definitivamente impossibile procedere alla riscossione per motivi che non possono essere loro imputati” . IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 171 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 171 È evidente e chiarissima la differenza di situazione, sulla scorta dei fatti come sopra riportati; nel caso di specie, infatti, si è di fronte non ad un errore amministrativo, bensì ad un comportamento doloso e fraudolento dei funzionari dipendenti in concorso con i responsabili della società coinvolta, comportamento che non può non recidere il nesso causale che sussiste tra condotta ed evento e tra evento e responsabilità. Come si legge nell’art. 17 Reg. 1150/2000 citato, “… gli Stati membri sono dispensati dall’obbligo di mettere a disposizione della commissione gli importi corrispondenti ai diritti accertati soltanto se la riscossione non possa essere effettuata per ragioni di forza maggiore. Inoltre, in casi particolari, gli stati membri sono dispensati dal mettere a disposizione tali importi a disposizione della Commissione, quando, dopo attento esame di tutti i dati pertinenti del caso, risulta definitivamente impossibile procedere alla riscossione per motivi che non potrebbero essere loro imputabili”; il discrimen tra l’essere ritenuti responsabili ed il non esserlo è quindi l’elemento della forza maggiore. Come è noto, l’esimente della forza maggiore postula una vis maior cui resisti non potest, cioè un evento che derivi dalla natura o dall’uomo e che non può essere impedito; la forza maggiore sussiste quando il soggetto ha fatto quanto (normalmente) in suo potere e per cause indipendenti dalla sua volontà (condotta dolosa e fraudolenta) non ha potuto impedire l’evento o la condotta antigiuridica; la condotta illecita dei funzionari costituisce, in effetti, un quid alieni rispetto a quella dell’Amministrazione ed al dovere di vigilanza e controllo a cui la stessa è tenuta; la macchinazione fraudolenta posta in essere dai funzionari e dai terzi ha impedito la verificazione della legittimità del rilascio delle autorizzazioni che hanno causato l’evasione. A questo si aggiunga che, per quanto concerne il rilascio delle autorizzazioni alla trasformazione sotto controllo doganale, l’attuale normativa in materia, cioè l’art. 552 del Reg.to CEE 2454/93, indica le ipotesi per le quali è previsto il preventivo esame delle condizioni economiche e i casi in cui le condizioni economiche si considerano soddisfatte; in particolar modo, per i casi elencati nella parte Adell’allegato 76 al citato Regolamento, le condizioni economiche si considerano senz’altro soddisfatte e l’art. 552, par. 1, prevede che deve essere effettuato l’esame delle condizioni economiche per le ipotesi non indicate nella parte A dell’allegato 76 sopra citato (cioè merci di qualsiasi specie non sottoposte a misure di politica agricola o commerciale, a dazi antidumping o a dazi di compensazione provvisori o definitivi destinati a qualsiasi trasformazione il cui vantaggio in termini di dazio derivato dal ricorso al regime supera l’ammontare di € 50.000,00 per richiedente e per anno civile); vengono fatte oggetto, inoltre, di esame delle condizioni economiche tutte le istanze riguardanti merci sottoposte a misura di politica commerciale, a prescindere dal dazio risparmiato; in particolare, le autorizzazioni ricadenti nella parte A dell’allegato 76 vengono rilasciate dagli uffici periferici competenti sullo stabilimento dove vengono effettuate le trasformazioni; l’esame delle condizioni economiche viene svolto in modo da verificare se il rilascio dell’autorizzazione possa contribuire a favorire la creazione o il mantenimento di attività di trasformazione nella Comunità senza creare pre- 172 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 172 IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso 173 giudizio ai produttori comunitari delle stesse merci, come previsto dall’art. 133 del Reg. CEE 2913/92. Le autorizzazioni rilasciate dagli uffici dipendenti della Direzione Regionale di Bari riguardano operazioni consistenti nella riduzione in cascami e rottami di pani di alluminio e magnesio: la lavorazione rientra fra le ipotesi contenute nella parte A dell’allegato 76, punto 2, e quindi si tratta di un’operazione per la quale le condizioni economiche si considerano soddisfatte e nessun controllo ulteriore è richiesto (e, quindi, non può essere imputata all’amministrazione italiana alcuna omissione). Le autorizzazioni in questione, rilasciate dalla dogana di Taranto negli anni 1997, 2001 e 2002 sono state viziate da una frode consistente nell’aver dichiarato per l’immissione in libera pratica quale merce derivante dalla trasformazione (riduzione in cascami) rottami di alluminio e magnesio (dazio uguale a zero); la trasformazione svolta, invece, corrispondeva alla rottamazione a mezzo taglio dei pani di alluminio e magnesio e i relativi prodotti ottenuti, in base alla Nomenclatura Combinata della Comunità Europea per l’alluminio, dovevano essere dichiarati alluminio greggio e magnesio greggio, con dazio da assolvere. Le considerazioni svolte e, in dettaglio, la connotazione dolosa e fraudolenta dei comportamenti alla base del mancato introito comunitario, la diligenza mostrata dalle autorità italiane nell’adempiere ai controlli ordinari e richiesi dalla fattispecie, data la tipologia di lavorazione posta in essere e l’apparente sussistenza di tutti i presupposti di legittimità della stessa, l’esimente della forza maggiore da identificarsi con una condotta di terzi non arginabile con i normali controlli previsti dalle disposizioni comunitarie, non possono che escludere l’imputabilità in capo al Governo italiano di una responsabilità che altrimenti si configurerebbe come oggettiva e senza alcuna previsione specifica. Questi essendo gli elementi decisivi per il giudizio, la Corte di Giustizia dovrà decidere se, come vuole la Commissione, in assenza di una specifica previsione normativa a riguardo ed a fronte di comportamenti dolosi e fraudolenti di funzionari pubblici la cui condotta costituisce causa determinante del mancato introito comunitario, sia possibile addebitare allo Stato italiano una responsabilità oggettiva per il pagamento delle risorse comunitarie, nonostante l’attivazione dei rimedi penalistici e civilistici in capo ai suddetti soggetti e nonostante la diligenza mostrata in fase di controllo ed in fase di repressione dei comportamenti illeciti. Ad avviso del Governo italiano non si può dare a questo quesito una risposta positiva e, pertanto, si chiede che il ricorso della Commissione sia rigettato. Roma, 20 settembre 2008 Avv. Giuseppe Albenzio 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 173 02 comun giud in corso.qxp 06/04/2009 13.54 Pagina 174 Dossier Operatività della prescrizione in tema di ricorso per il ristoro della irragionevole durata del processo (cd. legge Pinto) DOCUMENTI: 1.- Corte Suprema di Cassazione, sezione prima civile, ordinanza 27 giugno 2008 n. 17703. 2.- Corte di Appello di Napoli - Memoria Difensiva per il Ministero dell’Economia e delle Finanze. 3.- Corte di Appello di Napoli, sezione terza civile, decreto deciso il 17 luglio 2008. 4.- Corte di Appello di Napoli, sezione seconda civile, decreto 29 luglio 2008. 5.- Corte di Appello di Napoli, sezione prima civile, decreto 4 agosto 2008. 6.- Corte di Appello di Napoli, sezione terza civile, decreto 14 ottobre 2008. 7.- Corte di Appello di Napoli, sezione quarta civile, decreto 20 ottobre 2008. 8.- Corte di Appello di Napoli, sezione prima civile, decreto 27 ottobre 2008. 9.- Corte di Appello di Napoli, sezione prima civile, decreto 31 ottobre 2008. 10.- Corte di Appello di Reggio Calabria, sezione civile, decreto 7 novembre 2008. I provvedimenti della Corte di Appello in rassegna danno conto dei più recenti orientamenti in tema di operatività della prescrizione dei ricorsi ex legge n. 89/01, a fronte della specifica eccezione sollevata – con particolare riferimento alla decorrenza della prescrizione in pendenza del giudizio del quale si lamenta la irragionevole durata – nel rispetto dei termini di costituzione previsti per lo speciale procedimento (art. 3 comma 5 legge 24 marzo 2001 n. 89). Tutti i provvedimenti favorevoli – temporalmente successivi alla sentenza della Corte di Cassazione 27 giugno 2008 n. 17703 in rassegna – in sintonia con la linea difensiva proposta, pongono l’accento sull’incontrovertibile presupposto che il diritto alla equa riparazione non è stato introdotto dalla legge n. 89/2001, ma dall’art. 6 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (Cass. S.U. n. 28507/05). Da qui viene fatta scaturire la consequenziale considerazione che la prescrizione inizia a decorrere una volta che il processo, del quale ci si duole della eccessiva durata, abbia supera- I L C O N T E N Z I O S O N A Z I O N A L E 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 175 to la sua durata ragionevole e poiché la situazione dannosa produce nocumento in continuazione il diritto al ristoro del pregiudizio sorge giorno per giorno. E del resto nella maggior parte dei provvedimenti si evidenzia: “poiché si tratta di un diritto che matura giorno per giorno mentre si protrae il processo irragionevolmente lungo e sino a quando questo non venga definito (com’è confermato dall’art. 4 della legge n. 89/2001, che consente all’interessato di presentare l’istanza di equa riparazione mentre il giudizio è ancora in corso), ci si trova in una situazione analoga a quella dell’illecito permanente, per il quale la prescrizione comincia a decorrere per ciascuna frazione del risarcimento (qui di indennizzo) dal giorno in cui il relativo nocumento si è verificato (ex plurimis: Cass. n. 5831/07)”. Nella riferita prospettiva non costituisce ostacolo alla maturazione della prescrizione la previsione dell’art. 4 della legge Pinto secondo cui: “la domanda di riparazione può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva”. Ed infatti la previsione della decadenza entro 6 mesi dalla definitività della decisione ivi prevista non può essere interpretata come automatica sospensione del termine di prescrizione, in quanto per pacifica giurisprudenza, l’istituto della sospensione della prescrizione può solo verificarsi nei casi tassativamente previsti ex aa. 2941-2942 c.c. (Cass. n. 8677/06) ed è insuscettibile di interpretazione analogica e/o estensiva (Cass. n. 8533/06). E’ di tutta evidenza che nella legge Pinto manca la previsione dell’operatività di tale istituto. Né argomenti in senso contrario – come previsto in un decreto sfavorevole della Corte di Appello di Napoli del 29 luglio 2008 in esame – possono trarsi dall’art. 79 della legge n. 392/78 secondo cui il conduttore può ripetere fino a 6 mesi dalla riconsegna dell’immobile le somme corrisposte in violazione dei decreti previsti dalla medesima legge, alla luce del quale la giurisprudenza ritiene inopponibile qualsiasi eccezione di prescrizione per i crediti maturati nel corso del rapporto locativo (Cass. n. 13681/07). Tale orientamento infatti per giungere alle cennate conclusioni valorizza nel caso di specie l’istituto del “favor” per il locatario quale parte debole del rapporto. Viceversa in tema di legge Pinto non è configurabile alcun “favor” in quanto l’azione deve essere istituzionalmente proposta nei confronti di soggetti del tutto estranei al processo di cui si lamenta la irragionevole durata. Appare pertanto evidente l’impossibilità di configurare una situazione di “favor” per giustificare l’istituto della sospensione nei casi di specie. Merita particolare esame l’ordinanza n. 17703/08 con cui la Corte di Cassazione ha respinto la specifica eccezione sollevata nell’interesse del Ministero della Giustizia in ordine alla operatività della decorrenza della prescrizione nei procedimenti ex legge Pinto sulla base dell’assunto che “il diritto all’indennizzo matura in relazione alla durata non ragionevole del processo inteso nella sua unitarietà, e pertanto la prescrizione comincia a decorrere dalla data in cui detto diritto viene fatto valere (nel caso di azione antecedente alla definizione del procedimento presupposto) ovvero in quella di defini- 176 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 176 zione del processo (in cui comunque matura compiutamente il relativo diritto), non avendo alcuna autonoma rilevanza, se non ai fini del computo dell’indennizzo, le singole annualità in relazione alle quali viene operata la liquidazione”. L’iter argomentativo osservato, peraltro non registrato in alcuno dei provvedimenti in rassegna, non convince sotto convergenti profili. Ed infatti la Suprema Corte non qualifica la natura della condotta dello Stato e poggia la scarna motivazione (senza qualificare la natura dell’illecito), utilizzando la nozione di unitarietà del processo del quale si lamenta l’ingiusta durata e da qui fa scaturire l’operatività della prescrizione dalla definizione del processo, a meno che – prosegue la S.C. – l’interessato non abbia fatto valere in giudizio il proprio diritto all’indennizzo prima della definitività del procedimento presupposto. Sicché con la predetta pronuncia la Corte rimette alla scelta processale dei singoli la possibilità di far decorrere o meno la prescrizione in costanza del giudizio irragionevole durata. Appare evidente che ad una tale conclusione, così distonica rispetto ai principi che regolano l’istituto della prescrizione, la Corte poteva pervenire solo attraverso una compiuta ed articolata motivazione che desse conto delle ragioni per le quali in tema di indennizzo ex legge Pinto ci si possa discostare dai pacifici principi in tema di inderogabilità della disciplina della prescrizione. Non può ancora sottacersi come la Corte abbia omesso di indagare la compatibilità del provvedimento con i propri precedenti, e in specie con la sentenza con cui – nel presupposto che la legge Pinto abbia solo modalizzato un diritto preesistente – statuì che “il diritto all’equa riparazione non è stato introdotto con la legge n. 89/01 ma dalla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo” (Cass. S.U. n. 28507/05 cit.). Appare, da ultimo, condivisibile negli esaminati provvedimenti favorevoli all’Amministrazione l’applicazione della prescrizione decennale, non versandosi in obbligazione ex delicto, bensì in obbligazione ex lege. Avv.ti Adolfo Mutarelli e Michele Gerardo(*) (doc. 1) Corte Suprema di Cassazione, sezione prima civile, ordinanza 27 giugno 2008 n. 17703 – Pres. M. Adamo – Rel. C. Piccininni – P.M. G. Schiavon – Ministero della Giustizia c/ V. (Avv. G. Romanelli) «(…) Fatto e Diritto Con decreto del 24 marzo 2006 la Corte di Appello di Brescia condannava il Ministero della Giustizia al pagamento di € 18.000 in favore di V., con riferimento all’eccesso di dura- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 177 (*) Avvocati dello Stato. 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 177 ta di un giudizio per convalida di sfratto iniziato nel 1983, la cui durata ragionevole era stata apprezzata nella misura di due anni. Avverso la decisione il Ministero della Giustizia proponeva ricorso per cassazione affidato a tre motivi, cui resisteva il V., con il quale denunciava violazione di legge (primo e secondo motivo) e omessa pronuncia sull’eccezione di prescrizione, rispettivamente con riferimento alla mancata rilevazione della propria carenza di legittimazione passiva, desumibile dalla riconducibilità del ritardo alle leggi di sospensione e proroga degli sfratti (primo motivo); alla inapplicabilità della 1egge 2001/89 alle procedure esecutive (secondo motivo); alla omessa pronuncia sull’eccezione di prescrizione delle pretese “su interessi precedenti il quinquennio decorrente dalla data di notifica della domanda”, prescrizione che avrebbe cominciato a decorrere a far tempo dalla data in cui la durata del processo sarebbe divenuta irragionevole, e quindi nella specie due anni dopo l’inizio della procedura, vale a dire l’1 gennaio l988. Successivamente il relatore designato ai sensi degli artt. 377, 380 bis c.p.c. sollecitava il rigetto del ricorso ritenendo, quanto ai primi due motivi, la legittimazione passiva del Ministero e, quanto al terzo, la sua inammissibilità per mancanza del quesito. Il Collegio condivide la conclusione del relatore, in relazione al primo motivo, poiché trattandosi di processo davanti a giudice ordinario la legittimazione passiva risulta essere del Ministero della Giustizia, per il secondo, poiché la giurisprudenza di questa corte, formatasi sulla scorta delle indicazioni della Corte europea, è nel senso dell’applicabilità della 1egge 2001/89 anche alle procedure esecutive, e non sono ravvisabili ragioni per derogarvi; per quanto concerne infine il terzo, perché il diritto all’indennizzo matura in relazione alla durata non ragionevole del processo inteso nella sua unitarietà, e pertanto la prescrizione comincia a decorrere dalla data in cui detto diritto viene fatto valere (nel caso di azione antecedente alla definizione del procedimento presupposto) ovvero in quella di definizione del processo (in cui comunque matura compiutamente il relativo diritto), non avendo alcuna autonoma rilevanza, se non ai fini del computo dell’indennizzo, le singole annualità in relazione alle quali viene operata la liquidazione. Conclusivamente il ricorso va rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali del presente giudizio, liquidate in dispositivo. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il Ministero della Giustizia al pagamento delle spese processuali del presente giudizio (…). Roma, 10 aprile 2008 (…)». (doc. 2) Corte di Appello di Napoli – Memoria Difensiva per il Ministero dell’Economia e delle Finanze (Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli). «(…) 1) Dato per noto il contenuto del ricorso introduttivo, si costituisce in giudizio con il presente atto il Ministero in epigrafe, ut supra, il quale osserva e deduce quanto segue. 2) in via preliminare, la Corte adita dovrà valutare la proponibilità e l’ammissibilità dell’azione proposta, anche ai sensi dell’art. 54 comma II, del D.L. 25 giugno 2008 nr. 112 convertito con modificazioni con la legge 6 agosto 2008 nr. 133 secondo cui: 178 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 178 “la domanda di equa riparazione non è proponibile se nel giudizio dinanzi al Giudice Amministrativo in cui si assume essersi verificata la violazione di cui all’art. 2, comma 1, della legge 24 marzo 2001 n. 89, non è stata presentata un’istanza ai sensi del secondo comma dell’art. 51 del R.D. 17 agosto 1907 n. 642”. Alla luce di quanto detto, si invita la Corte a dichiarare inammissibile il ricorso, ove non sia soddisfatto il presupposto processuale previsto dalla disposizione da ultimo ricordata. 3) In via gradata, ove proponibile l’azione proposta, quale questione preliminare di merito si eccepisce la parziale prescrizione delle pretese avanzate dal ricorrente. Ciò per seguenti ragioni: A) DIES A QUO DELLA PRESCRIZIONE Viene lamentata la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo riconosciuto dall’art. 6 della Convenzione Europea sui Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ratificata con la legge 4 agosto 1955 n. 848. Il dies a quo deve individuarsi dal momento in cui scade il termine della giusta durata del processo alla base delle odierne pretese, purché i fatti costitutivi si siano svolti in data successiva al 1° agosto 1973, data di entrata in vigore del predetto art. 6 della Convenzione a seguito della dichiarazione dello Stato italiano che ha riconosciuto il diritto al ricorso individuale avanti alla giurisdizione europea. La cd. legge Pinto (L. 24 marzo 2001 n. 89) ha infatti modalizzato tale diritto, già preesistente. Ciò in quanto il fatto costitutivo del diritto attribuito dalla legge nazionale coincide con la violazione della norma contenuta nell’art. 6 della Conv. di immediata rilevanza nel diritto interno” (Cass. S.U. 23 dicembre 2005 n. 28507); si è in sostanza statuito che “il diritto alla equa riparazione in caso di irragionevole durata del processo non è stato introdotto dalla L. 81 /2001, ma dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, immediatamente precettiva nel nostro ordinamento” (così ancora Cass. S.U. n. 28507/05 citata). Da qui discende che il diritto all’equa durata del processo – diritto esistente fin dal momento dell’adesione dell’Italia alla Convenzione nei termini sopra indicati – trovava protezione non solo nell’ordinamento internazionale (ad esempio con il ricorso alla Corte Europea ex artt. 34-35 Convenzione), ma anche nell’ordinamento interno con gli strumenti di tutela all’uopo utilizzabili, giudiziari e/o stragiudiziali (ad esempio con l’intimazione dì pagamento ex art. 1219 c.c., ecc.). La ragionevole durata del processo, giusta i principi giurisprudenziali consolidati in tema, è di 3 anni. (Viceversa la durata in materia pensionistica ritenuta ragionevole viene commisurata a 2 anni 7 mesi). La fondatezza della eccepita prescrizione trova conferma nella stessa legge 89/01 nella parte in cui consente (art. 4) la promozione dell’azione durante il corso del giudizio e, quindi, durante il maturarsi del diritto giorno per giorno. Del resto sia la giurisprudenza della Corte Europea che della Cassazione ha configurato la durata irragionevole come fatto continuativo commisurando l’entità della riparazione all’entità temporale del ritardo con ciò implicitamente riconoscendo la natura continuativa della lesione del diritto alla ragionevole durata del processo. Il precipitato di tale pacifico orientamento comporta che la decorrenza della prescrizione matura con il sorgere del diritto e quindi via via dal giorno in cui è stato superato il limite temporale ritenuto ragionevole. Ne consegue che deve ritenersi applicabile alla fattispecie in esame la giurisprudenza consolidata secondo cui la prescrizione nei casi di specie decorre giorno per giorno dall’inizio della lesione, poiché la situazione dannosa produce nocumento in continuazione e quindi giorno per giorno sorge il diritto al ristoro del pregiudizio quotidianamente subito e comincia a decorrere la prescrizione (Cass. n. 5831/07, Cass. n. 6512/04, Cass. n. 16009/00). IL CONTENZIOSO NAZIONALE 179 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 179 A tale principio appare informato anche il legislatore che all’art. 4 della L. 89/01 ha concesso al cittadino il diritto di procedere giudiziariamente per la riparazione della violazione anteriormente al deposito della sentenza. Tale facoltà configura quindi in favore della parte un diritto che va azionato nel rispetto dei termini di prescrizione, non avendo il legislatore italiano previsto che la durata del processo costituisca sospensione del termine della prescrizione né potendo pervenirsi a tale ultima conclusione in via analogica. Ed infatti è pacificamente riconosciuto che l’istituto della sospensione della prescrizione, costituendo una ipotesi eccezionale, può verificarsi solo nei casi tassativamente previsti dagli artt. 2941 e 2942 c.c. non estensibili a fatti materiali e ragioni giuridiche non contemplate da dette norme (Cass. n. 6364/87 e Cass. n. 8677/06), insuscettibili di applicazioni analogiche e di applicazioni estensive (Cass. n. 8533/06). Del resto la problematica concernente la disciplina di istituti fondati sul decorso del tempo appare essere stata vagliata anche in sede comunitaria osservandosi che: “Il diritto nazionale deve tuttavia rispettare il principio comunitario di equivalenza, il quale esige che le modalità procedurali di trattamento di situazioni che trovano la loro origine nell’esercizio di una libertà comunitaria non siano meno favorevoli di quelle aventi ad oggetto il trattamento di situazioni puramente interne, nonché il principio comunitario di effettività, che esige che le dette modalità procedurali non rendano in pratica impossibile eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti risultanti dalla situazione di origine comunitaria. Tali principi si applicano all’insieme delle modalità procedurali di trattamento di situazioni che trovano la loro origine nell’esercizio di una libertà comunitaria, indipendentemente che le dette modalità siano di natura amministrativa o giudiziaria, come le norme nazionali in materia di prescrizione e di ripetizione dell’indebito o quelle che impongono alle situazioni competenti di prendere in considerazione la buona fede degli interessati o di controllare regolarmente la loro posizione pensionistica” (Sent. Corte Giustizia CE, Sez. V, 19 giugno 2003 n. 34). Sotto convergente profilo, si osserva da ultimo che proprio l’azionabilità del diritto nel corso del giudizio rende costituzionalmente legittimo il breve termine di decadenza sancito dall’art. 4 L. 89/01 secondo cui: “il diritto può essere azionato” – oltre che in corso di giudizio – “a pena di decadenza entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva”. B)TERMINE DI PRESCRIZIONE Deve ritenersi che il termine di prescrizione è quello quinquennale ex art. 2947 c.c.. Nel caso di specie ricorre infatti la dedotta responsabilità risarcitoria oggettiva dello Stato per aver leso il diritto soggettivo assoluto del cittadino ad avere un processo con una durata ragionevole. Del resto la giurisprudenza della Cassazione dopo aver qualificato il danno da lesione quale equa riparazione lo parametra alle voci tipiche del danno aquiliano. Viene in rilievo nel caso di specie una condotta dello Stato (lesiva del diritto della persona alla definizione del suo procedimento in una durata ragionevole) continuativa – a far data di inizio della durata del giudizio – e permanente fino alla data della decisione conclusiva in via definitiva dello stesso. Alla luce di tali criteri pertanto devono ritenersi prescritte le pretese, maturate di giorno in giorno per tutto il periodo della “durata ingiusta”, germinate anteriormente al quinquennio computato a ritroso dalla data di notifica dei ricorso introduttivo della odierna lite, valevole ex art. 2943 c.c. quale atto interruttivo della prescrizione e, in via subordinata, dal deposito dello stesso. Sicché sono prescritte tutte le pretese maturate nel periodo anteriore al quinquennio rispetto all’atto interruttivo ora descritto. 180 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 180 In via subordinata rispetto a quanto dedotto circa il termine quinquennale di prescrizione, si eccepisce la prescrizione decennale ex art. 2946 cc.. Si evidenzia che nel senso dell’applicazione della prescrizione decennale si è pronunciato codesto Gudice con decreto del 4 agosto 2008 (del quale si produce copia). 4) In via gradata, per la pretesa non prescritta, la deducente Amministrazione, per quanto concerne l’an della pretesa, si riporta ai criteri in proposito elaborati dalla giurisprudenza interna ed internazionale, ed in particolare dalla Ecc.ma Corte adita, cui si rimette, con conseguente liquidazione del chiesto indennizzo, da determinarsi, peraltro, nel quantum, a stregua dei criteri in proposito elaborati dalla ormai costante giurisprudenza della Corte medesima. Ritenuto, peraltro, che la concludente Amministrazione – giova rammentarlo – non ha modo di soddisfare spontaneamente l’avversa pretesa indennitaria, ed è per legge necessitata ad attendere il provvedimento di liquidazione della Corte d’Appello, e che, nella fattispecie che ne occupa, non si oppone all’avversa pretesa, ben potrà disporsi l’integrale compensazione delle spese di lite (recte: nulla per le spese), in considerazione della condotta processuale non ostativa della medesima Amministrazione. In proposito è agevole il rinvio alla giurisprudenza pressoché univoca che esclude la stessa possibilità di ravvisare una soccombenza rilevante ai fini della condanna alle spese ex art. 91 cit., in tutti i procedimenti di volontaria giurisdizione (ex plurimis, Cass. Civ., I, 15 marzo 2001, n. 3750). Da tutto quanto precede, conclusivamente, emerge la illegittimità della condanna alle spese giudiziali, nei procedimenti di volontaria giurisdizione, quale il presente, quanto meno allorquando l’Amministrazione intimata, costituita o meno che sia, non si sia opposta, come nella specie, alla pretesa del ricorrente, per la parte tuttora vitale, non prescritta. Alla stregua di quanto precede, si rassegnano le seguenti conclusioni. 1) Voglia l’adito giudice dichiarare inammissibile il ricorso ove non sia soddisfatto il presupposto processuale ex art. 54, comma II, D.L n. 112/2008 conv. in L. n. 133/2008; 2) voglia l’adito giudice dichiarare parzialmente prescritte le pretese del ricorrente ex art. 2947 cc. e, in via gradata ex art. 2946 c.c. (giusto decreto del 4 agosto 2008 di codesta Corte citato); 3) voglia l’adito giudice decidere di ogni avversa domanda non prescritta secondo giustizia, provvedendo alla eventuale liquidazione dell’indennizzo ex adverso richiesto a stregua dei criteri di cui in narrativa, in ogni caso disponendo l’integrale compensazione delle spese di lite, ovvero disponendosi nulla per le spese.” (…)». (doc.3) Corte di Appello di Napoli, sezione terza civile, decreto deciso il 17 luglio 2008 – Pres. R. Bochicchio – Rel. M.D.Fierro Cristini – I.C. (Avv.ti A. e P. D’Avino) c/ Ministero dell’Economia e delle Finanze (Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli). Equa riparazione ex legge n. 89/01 « (...) Svolgimento del processo. La ricorrente in epigrafe premesso di essere ex dipendente dell’Amministrazione Provinciale di Napoli; 2) di aver sottoscritto con l’Amministrazione Provinciale un atto di transazione e che, non essendo stati mantenuti da controparte gli impegni assunti, aveva IL CONTENZIOSO NAZIONALE 181 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 181 depositato in data 19 gennaio 1999 ricorso al T.A.R. Campania iscritto al n. 500/1999; 3) che la causa è stata fissata per il 17 aprile 2008, tanto essenzialmente premesso, concludeva perché la Corte: “voglia condannare il Ministero ... al risarcimento dei danni patrimoniali da liquidare in forma equitativa, nonché dei danni non patrimoniali nella misura equitativa di euro duemila per ogni anno trascorso dal deposito del ricorso o a quella diversa che la Corte riterrà. Spese e competenze di giudizio con attribuzione...”. Il Ministero resistente ha eccepito la parziale prescrizione del diritto, rimettendosi per il resto alla Corte. Motivi della decisione Deve preliminarmente disattendersi l’eccezione di prescrizione sollevata dal Ministero, atteso che il diritto qui azionato ha la sua fonte nella legge n. 89/2001, per cui solo nell’entrata in vigore della norma potrebbe individuarsi il dies a quo per il computo dell’eventuale termine di prescrizione e, attesa la natura di equa riparazione dell’indennizzo richiesto, che prescinde da un illecito aquiliano, essa è soggetta all’ordinario termine decennale, nella fattispecie non trascorso. Osserva la Corte che la domanda è fondata e va accolta per quanto di ragione. In proposito è qui opportuno premettere, conformemente a quanto ripetutamente affermato in casi analoghi da questa stessa Corte d’Appello, che la responsabilità dello Stato per l’eccessiva durata di un procedimento giudiziario può sussistere anche se non sia ravvisabile colpa nella gestione dei procedimento stesso da parte del giudice al quale esso è stato affidato. L’obbligo assunto a livello internazionale dalla Repubblica Italiana con la sottoscrizione e la ratifica della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, la cui violazione è oggi sanzionata nell’ambito del diritto interno dalla previsione dell’equa riparazione disciplinata dalla legge n. 89/01, impegna infatti lo Stato unitariamente considerato in tutti i suoi poteri ed in tutte le sue articolazioni strutturali, sicché tutti devono, nei limiti delle loro attribuzioni, concorrere all’adempimento di tale obbligo (v. sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo 17 luglio 1983), caso Zimmermann e Steiner c/ Svizzera; id. 26 ottobre 1988, Martius Moreira c/ Portogallo), con la conseguenza che lo Stato risponde non solo per il comportamento negligente degli organi giudiziari, ma più in generale per il fatto di non aver provveduto ad organizzare il proprio sistema giudiziario in modo da consentirgli di soddisfare con ragionevole velocità la domanda di giustizia (v.: sentenza 12 ottobre 1992, Boddeart c/ Belgio; id. 25 giugno 1987, Baggetta c/ Italia). Quanto ora detto, d’altro canto, trova oggi diretto riscontro costituzionali nel testo novellato dell’art. 111 Cost., il quale dispone che la legge (e cioè l’ordinamento nel suo complesso considerato e non solo l’istituzione giudiziaria) assicura la ragionevole durata del processo. In conseguenza di ciò, pertanto, non è necessario andare alla ricerca della negligenza del giudice che ha seguito il singolo caso portato all’attenzione della Corte o dei suoi collaboratori interni o esterni all’organizzazione giudiziaria (anche se, ovviamente, nei casi in cui sussista, dovrà tenersene conto insieme alle altre disfunzioni della macchina giudiziaria), poiché anche nei casi in cui, per la situazione logistica in cui è costretto a lavorare, da questi non sarebbe stato possibile esigere di più di quanto ha fatto in termini di velocità di definizione del procedimento, il fatto stesso che lo stato delle strutture e dell’organizzazione abbia reso inevitabili rinvii molto lunghi tra un’udienza e l’altra e tempi d’attesa anche di anni tra il completamento dell’istruttoria e la decisione della causa è già sufficiente ad affermare la responsabilità dello Stato per la difettosa concezione ed organizzazione del sistema giudiziario. 182 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 182 Tutto quanto fin qui premesso, dunque, può affermarsi con certezza che nella fattispecie sottoposta alla cognizione di questa Corte vi sia stata effettivamente, in danno della ricorrente, la violazione del diritto costituzionalmente garantito alla ragionevole durata del processo. Orbene, nel caso di specie appaiono incontestati e provati i fatti di causa sui quali è fondata la domanda dei ricorrenti e, in particolare, che il giudizio intentato dinanzi al T.A.R. per la Campania ebbe inizio con il deposito del ricorso, che risale al 19 gennaio 1999, e, alla data del deposito innanzi a questa Corte (24 aprile 2008) era pendente. Sulla base di quanto fin qui esposto, dunque, appare evidente come nel caso di specie sia stato violato il principio di cui alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che assicura ad ogni persona che la sua causa sia esaminata entro un termine ragionevole. Invero l’art. 2 della legge 891/01 prevede che chi abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto della violazione della Convenzione indicata sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole dei processi ha diritto ad un’equa riparazione e che, inoltre, nell’accertamento della violazione sia considerata la complessità del caso e, in relazione alla stessa, il comportamento delle parti, del giudice del procedimento e di ogni altra autorità preposta a contribuire alla sua definizione. Tenuto conto, da un lato, dei parametri che è possibile ricavare dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo e, dall’altro, che nel caso in esame la durata ragionevole del processo può essere fissata, in primo grado, in anni tre a decorrere dal deposito del ricorso dinanzi all’Autorità Giudiziaria adita, ne discende che il ritardo risulta pertanto irragionevole, in misura di sei e mesi tre circa (anni 9 e mesi tre circa – anni tre). Del danno derivante dal ritardo irragionevole risponde la parte resistente, secondo quanto sancito dagli artt. 2 e 3 legge 89/01. Circa tale danno si può presumere, secondo dati di comune esperienza, che il ritardo nella definizione del processo abbia creato nella parte ricorrente uno stato di disagio da attesa in ragione del significato della vicenda giudiziaria nella sua vita sociale: è infatti noto che la lunga attesa della definizione di un qualsiasi giudizio determini nell’interessato stanchezza, sfiducia nella giustizia e, più in generale, nelle istituzioni, senso di impotenza e, quindi, in definitiva, uno stato d’animo negativo che, in quanto tale, è suscettibile di ristoro in termini di danno morale. Tale danno va determinato a norma dell’art. 2056 c.c., secondo i criteri dettati dagli artt. 1223, 1226 e 1227, comma l, c.c.. Tutto ciò premesso, dunque, avuto riguardo a tutti gli elementi di valutazione emergenti dalle obiettive connotazioni, oggettive e soggettive, proprie del caso di specie, alla stregua dei rilievi svolti e della documentazione in atti, si stima equo liquidare in via equitativa, per la considerata riparazione, la somma di € 6.230,00 (pari ad €. 1,000,00 ad anno) ai valori odierni, comprensiva degli interessi già maturati. Le spese del procedimento camerale seguono la soccombenza della parte resistente, si liquidano in dispositivo e vanno distratte in favore dei procuratori anticipatari Avv. Arcangelo e Paolo D’Avino: considerata la particolare natura della controversia esaminata e delle questioni trattate – oggetto di un’elaborazione giurisprudenziale complessa e non sempre univoca – ritiene peraltro la Corte che nel caso di specie sussistano giusti motivi per dichiarare dette spese compensate fra le parti nella misura della metà. P.Q.M. La Corte di appello di Napoli così provvede: IL CONTENZIOSO NAZIONALE 183 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 183 1) condanna il Ministero dell’Economia e delle Finanze a pagare, in favore di I.C. a titolo di equa riparazione per l’eccessiva durata del processo di cui in premessa, la somma di € 6.230,00 oltre gli interessi al tasso legale dalla pubblicazione del presente decreto al saldo; 2) condanna il Ministero dell’Economia e delle Finanze alla rifusione della metà delle spese processuali sostenute dalla suddetta ricorrente nel corso del presente procedimento (…) Così deciso in Napoli, oggi, 17 luglio 2008, nella Camera di Consiglio della III Sez. Civ. della Corte di Appello di Napoli (…)». (doc.4) Corte di Appello di Napoli, sezione seconda civile, decreto del 29 luglio 2008 – Pres. D. Balletta – Rel. U. Di Mauro – R.E. c/ Ministero dell’Economia e delle Finanze (Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli). «La Corte di appello (…) letto il ricorso depositato in data 18 dicembre 2007, con il quale R.E. (…) ha presentato istanza di equa riparazione per l’eccessiva durata del processo innanzi al T.A.R. Campania di Napoli – avente ad oggetto trattenuta del 15% sull’indennità di tempo pieno – introdotto con ricorso depositato il 7 maggio 1995 NRG 3358/1995 e non ancora deciso; letta la memoria difensiva dell’Avvocatura erariale per il Ministero della Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore, con la quale si eccepisce la intervenuta prescrizione ed in subordine si chiede la liquidazione dell’indennizzo rimettendosi ai criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte adita con integrale compensazione delle spese di lite; letti gli atti e sentito il relatore, sciogliendo la riserva di cui al verbale della Camera di Consiglio del 9 luglio 2008, ha emesso il seguente decreto. Preliminarmente va rigettata la eccezione di prescrizione, in quanto nella specie il ricorso è stato proposto il 18 dicembre 2007 e perciò entro il termine di decadenza previsto dall’art. 4 Legge 24 marzo 2001 n. 89 il quale dispone che “La domanda di riparazione può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva. Sul punto va richiamato il costante orientamento giurisprudenziale relativo all’art. 79 L. 392/78 (che va ritenuto applicabile anche all’art. 13 comma quinto della Legge 9 dicembre 1998 n. 431) che contempla al secondo comma analoga ipotesi di decadenza disponendo che il conduttore può ripetere fino a sei mesi dopo la riconsegna dell’immobile, le somme corrisposte in violazione dei divieti e dei limiti previsti dalla Legge 392/78. Ebbene in siffatta ipotesi la Suprema Corte ha costantemente chiarito che “Il termine semestrale di decadenza per l’esercizio dell’azione di ripetizione delle somme sotto qualsiasi forma corrisposte dal conduttore in violazione dei limiti e dei divieti previsti dalla stessa legge, previsto dall’art. 79, secondo comma, della legge 27 luglio 1978, n. 392, fa sì che, se l’azione viene esperita oltre il detto termine, il conduttore è esposto al rischio dell’eccezione di prescrizione dei crediti per i quali essa è già maturata, mentre il rispetto del termine di sei mesi gli consente il recupero di tutto quanto indebitamente è stato corrisposto fino al momento del rilascio del l’immobile locato, il che si traduce nella inopponibilità di qualsivoglia eccezione di prescrizione (Cass. 11 giugno 2007 n. 13631; Cass. 26 maggio 2004 n. 10128). Tanto premesso si rileva che il processo di primo grado innanzi al T.A.R. Campania, introdotto con ricorso depositato il 7 maggio 1996 non è stato ancora deciso. Esso, quindi, 184 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 184 fino alla data del deposito del ricorso ex L. 89/2001 del 18 dicembre 2007 ha avuto la durata di anni 11 e mesi 7 circa. Valuta la Corte che non può accedersi alla richiesta del ricorrente di vedersi riconosciuta un’equa riparazione per l’intera durata del procedimento. Come stato puntualizzato dalla Suprema Corte, infatti, in tema di diritto ad un’equa riparazione in caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, ai sensi della legge n. 89/2001, rileva solo il periodo eccedente il suddetto termine, essendo sul punto vincolante il criterio chiaramente stabilito dall’art. 2 comma terzo di detta legge. Questo parametro di calcolo, che non tiene conto del periodo di durata “ordinario” e “ragionevole”, valorizzato, invece, dalla Corte di Strasburgo, non esclude la complessiva attitudine della legge n. 89 a garantire un serio ristoro per la lesione del diritto in questione, come riconosciuto dalla stessa Corte Europea nella sentenza 27 marzo 2003, resa sul ricorso n. 36813/97 (Cass. 26 aprile 2005 n. 8603). Ciò posto nello specifico avuto riguardo alla natura delle questioni trattate, il processo di primo grado poteva essere definito in un tempo ragionevole di due anni, sicché, come sopra evidenziato, rileva solo il danno riferibile al periodo di anni 9 e mesi 7 circa eccedente il predetto termine ragionevole. In relazione all’arco di tempo così individuato va riconosciuto il diritto del ricorrente, ai sensi dell’art. 2 segg. della L. 89/2001, a conseguire un’equa riparazione dallo Stato, responsabile di non avere organizzato il sistema giudiziario in maniera tale da consentire di soddisfare con ragionevole tempestività le domande di giustizia. In favore dell’istante può liquidarsi il danno non patrimoniale, anche in mancanza di prova della sua effettiva sussistenza. Come è stato precisato dalla Suprema Corte, invero, tale danno, pur non potendosi identificare nella violazione stessa (cosiddetto danno-evento), si verifica normalmente, cioè di regola, per effetto della stessa violazione, essendo normale che l’anomala lunghezza della pendenza di un processo produca nella parte che vi è coinvolta un patema d’animo, un’ansia, una sofferenza morale, che non occorre provare sia pure attraverso elementi presuntivi. Si tratta, quindi, di conseguenze non patrimoniali che possono ritenersi presenti secondo l’id quod prelumque accidit, senza bisogno di alcun sostegno probatorio relativo al caso singolo; anche se va fatta salva la ricorrenza di situazioni concrete in cui tali normali conseguenze vanno escluse, perché il protrarsi del processo risponde a un interesse della parte o è comunque destinato a produrre conseguenze che la parte riconosce a sé favorevoli (Cass. S.U. 26 gennaio 2004 n. 1338 e n. 1339). Quanto alla misura di tale danno, nella liquidazione equitativa, ai sensi degli artt. 2056 e 1226 c.c., i più recenti criteri di liquidazione adottati dalla Corte europea costituiscono dati di riferimento, i quali sono ovviamente passibili di variazione, potendo in specie “L’entità degli interessi in gioco” determinare “una riduzione significativa dell’indennizzo”, salvo il rispetto dei limiti di ragionevolezza, la cui lesione si risolverebbe in violazione di legge (Cass. S.U. 26 gennaio 2004 n. 1340). Nel caso di specie, tenuto conto della natura del diritto fatto valere in giudizio, nonché della posta in gioco e della presentazione dell’istanza di prelievo di riconoscere, in favore del ricorrente, la somma di € 9,500,00 calcolata in base ad importo annuo di € 1.000,00 (v. sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 10 novembre 2004, causa Riccardi Pizzati contro Italia), oltre interessi dal deposito del ricorso del 18 dicembre 2007. Ricorrono giusti motivi, anche in considerazione dell’accoglimento parziale del ricorso, per compensare per la metà le spese del procedimento, che per il resto si liquidano come in dispositivo, con attribuzione ai procuratori antistatari. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 185 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 185 P.Q.M. Letti gli artt. 2 e segg. della Legge 24 marzo 2001 n. 89, condanna il Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore, a pagare al ricorrente la somma di € 9.500,00, oltre interessi legali dal 18 dicembre 2001, pari alla metà delle spese del procedimento (…) Napoli, 16 luglio 2008». (doc.5) Corte di Appello di Napoli, sezione prima civile, decreto del 4 agosto 2008 – Pres. L. Martone – Rel. M. Cristiano – P.G. (Avv. R. Buonfantino) c/ Ministero dell’Economia e delle Finanze (Avv. dello Stato M. Gerardo, Napoli, ct 12512/08). Equa riparazione ex legge n. 89/2009. «P.G., con ricorso in riassunzione depositato il 14 marzo 2008, ha lamentato l’eccessiva durata del procedimento da lui promosso dinanzi al T.A.R. della Campania al fine di ottenere l’annullamento della delibera della G.M. di Ischia che apponeva un termine finale alla proroga del suo mantenimento in servizio quale vigile urbano. Ha dedotto che il giudizio, introdotto con ricorso del 18 marzo 1988, è tuttora pendente ed ha chiesto, pertanto, la liquidazione della somma di € 33.500 a titolo di risarcimento dei danni morali subiti per la violazione del principio di ragionevole durata dei procedimenti giudiziari fissato dall’art. 6, § 1 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze si è costituito ed ha eccepito in via preliminare la parziale prescrizione dell’azione; in subordine, nel merito, non ha contestato l’an della pretesa ma ha chiesto la compensazione delle spese del procedimento. Tanto premesso, questa Corte osserva: Il ricorso, proposto prima ancora dell’emissione della sentenza di primo grado, è certamente proponibile ai sensi dell’art. 4 L. n. 89/01. L’eccezione di prescrizione svolta in via preliminare dal Ministero è parzialmente fondata. Come è noto, l’obbligo indennitario dello Stato per l’eccessiva durata di un procedimento giudiziario può sussistere anche se non sia ravvisabile colpa nella gestione del procedimento stesso da parte del giudice al quale esso è stato affidato, infatti, l’obbligo assunto a livello internazionale dalla Repubblica Italiana con la sottoscrizione e la ratifica della Convenzione impegna lo Stato unitariamente considerato in tutti i suoi poteri ed in tutte le sue articolazioni strutturali, sicché tutti devono, nei limiti delle loro attribuzioni, concorrere all’adempimento di tale obbligo (v.: sentenza CEDU 26 ottobre 1988, Martini Moreira c/ Portogallo), con la conseguenza che lo Stato risponde non solo per il comportamento negligente degli organi giudiziari, ma più in genere per il fatto di non aver provveduto ad organizzare il proprio sistema giudiziario in modo da consentirgli di soddisfare con ragionevole velocità la domanda di giustizia (v.: sentenza 12 ottobre 1992, Boddeart c/Belgio). Pertanto se l’eccessivo carico di lavoro, che notoriamente affligge la maggior parte degli uffici giudiziari italiani, può giustificare sul piano soggettivo il comportamento del singolo organo giudiziario, ciò non è rilevante ai fini della valutazione richiesta dalla L. n. 89/01, che fonda un’obbligazione ex lege e non ex delicto, che sorge per il fatto oggettivo dell’eccessiva durata del processo e non già per il comportamento doloso o colposo degli organi giudiziari. 186 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 186 Ne consegue che il termine di prescrizione dell’azione è quello ordinario decennale. Peraltro, come la S.C. ha avuto modo di porre in evidenza, il diritto del cittadino ad un processo di ragionevole durata non è stato introdotto nel nostro ordinamento dalla L. n. 89/01, ma dalla legge n. 848/55 di ratifica della Convenzione CEDU, che ha immediata rilevanza interna al diritto posto dalla convenzione, la L. n. 89/01 si è limitata ad istituire uno strumento interno di riparazione per la lesione di tale diritto, che in precedenza era tutelato dinanzi alla Corte di Strasburgo. Da ciò discende che il diritto in questione poteva essere fatto valere già prima del 2001 e nel momento stesso in cui, avendo la durata del procedimento oltrepassato il limite della ragionevolezza, la posizione soggettiva dell’interessato è stata lesa. Poiché si tratta di un diritto che matura giorno per giorno mentre si protrae il processo irragionevolmente lungo e sino a quando questo non venga definito (come è confermato dall’art. 4 della legge che consente all’interessato di presentare istanza di equa riparazione quando il giudizio è ancora in corso) ci si trova in una situazione analoga a quella dell’illecito permanente, per il quale la prescrizione comincia a decorrere per ciascuna frazione del risarcimento (qui dell’indennizzo) dal giorno in cui il relativo nocumento si è verificato (Cass. n. 5831/07). Ora, anche in base ai parametri che possono ricavarsi dalla giurisprudenza della CEDU, questa Corte ritiene che per giudizi di ordinaria complessità e non coinvolgenti questioni di rilievo tale da imporre uno straordinario sforzo di efficienza da parte dell’apparato giudiziaria, una durata triennale per un grado di giudizio sia da considerare ragionevole, posto che ogni sistema giudiziario reale deve fare i conti con la contemporanea pendenza di numerosi procedimenti e, quindi, per quanto ben organizzato, non può non diluire il proprio impegno su tutta la massa delle questioni da istruire, studiare e decidere. In sostanza, è fisiologico e socialmente accettato che i processi abbiano una certa durata, misurabile in anni. Nel caso in esame, avente ad oggetto la richiesta di annullamento di una delibera, il limite triennale appare del tutto adeguato. Ne consegue che il diritto all’indennizzo del P.G., iniziato a maturare dal 18 marzo 1991, risulta prescritto sino al 10 dicembre 1997 (data anteriore di dieci anni al deposito del primo ricorso, poi riassunto). Va ancora osservato che, per quanto la CEDU, una volta superato il limite della ragionevolezza, consideri ai fini della liquidazione dell’indennizzo l’intera durata del procedimento, tanto non è consentito al giudice italiano, posto che l’art. 2, c. 3°, lett. a), della legge n. 89/2001, espressamente sancisce che, ai fini della liquidazione dell’indennizzo riconosciuto dal nostro diritto interno per l’eccessiva durata dei processi, “rileva solamente il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole”. Pertanto, finché il legislatore non riterrà di modificare tale dettato normativo (che non contrasta né con le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute (art. 10 Cost.) né con i principi fondamentali dell’ordinamento comunitario (art. 11 Cost.) né, infine, con la Convenzione, ma solo con un orientamento ermeneutico della Corte di Strasburgo, che non può prevalere su di una espressa disposizione di legge, i giudici italiani non potranno che attenervisi. In definitiva, può riconoscersi al P.G. solo l’indennizzo per il periodo 11 dicembre 1997/4 luglio 2008 (10 anni e 7 mesi). Il P.G. ha chiesto solo l’indennizzo per il danno morale che, secondo i parametri di valutazione della CEDU, cui il giudice nazionale è tenuto ad adeguarsi, costituisce conseguenza ordinaria del prolungarsi del giudizio oltre i termini di ragionevole durata, sicché può essere escluso solo in quei casi in cui specifici elementi di fatto dimostrino che la durata del procedimento corrisponde all’interesse del ricorrente (Cass., ss.uu., 26 gennaio 2004 n. 1338). IL CONTENZIOSO NAZIONALE 187 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 187 Nel liquidare in via equitativa il danno in esame occorre attenersi, in linea di massima, al metro di valutazione adottato dalla CEDU in casi analoghi, dal quale ci si può discostare solo in misura ragionevole (Cass., ss.uu., 26 gennaio 2004 n. 1340). Tenuto conto che il P.G. ha proposto il ricorso in via collettiva e che non ha mai presentato istanza di prelievo e considerato, inoltre, che non ha chiarito sotto quale profilo permanga il suo interesse alla definizione del procedimento, nonostante l’avvenuta scadenza del termine previsto dall’atto impugnato, appare giustificato discostarsi in parte dagli usuali parametri di liquidazione della CEDU e riconoscere al ricorrente la somma di € 8.466 al valore attuale della moneta, in ragione di € 800 per ogni anno eccedente la ragionevole durata. Su tale somma decorrono gli interessi al tasso legale dalla domanda al saldo (Cass. 27 gennaio 2004 n. 1405; id. 3 aprile 2003 n. 5110). Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, nei minimi tariffari attesa la natura della controversia e la ripetitività delle questioni trattate, rapportato il valore della lite all’importo liquidato, in favore degli avvocati antistatari, in via fra loro solidale. P.Q.M. La Corte d’Appello di Napoli dichiara estinto per prescrizione sino all’11 dicembre 1997 il diritto all’equa riparazione di P.G. e condanna il Ministero dell’Economia e delle Finanze a pagare al ricorrente per tale titolo la somma di € 8.466 oltre agli interessi legali dal 14 marzo 2008 al saldo (…). Napoli, 4 luglio 2008». (doc.6) Corte di Appello di Napoli, sezione terza civile, decreto 14 ottobre 2008 – Pres. M. Lepre – Rel. M.Piantadosi – M.P. (Avv. G. Vitale) c/ Ministero della Giustizia (Avv. Distrettuale dello Stato di Napoli). «Ritenuto in fatto. Con ricorso del 9 gennaio 2008 M.P. ha proposto domanda di equa riparazione ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89 in relazione alla non ragionevole durata della causa civile instaurata con ricorso depositato il 12 luglio 1991 nei confronti di M.F. ed ancora pendente dinanzi al Tribunale di Vallo della Lucania. Ha, pertanto, richiesto, in rapporto alla denunciata violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la condanna del Ministero della Giustizia al risarcimento del danno non patrimoniale nella misura di € 13.500,00 oltre ai danni patrimoniali da liquidarsi in via equitativa ed al rimborso delle spese del giudizio. Il ricorso ed il decreto di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti in camera di consiglio sono stati ritualmente notificati al menzionato Ministero, che si è costituito ed ha svolto le seguenti conclusioni: – dichiarare parzialmente prescritte le pretese del ricorrente ai sensi dell’art. 2947 c.c. ed, in via gradata, ai sensi dell’art. 2946 c.c.; – decidere di ogni avversa domanda non prescritta secondo giustizia, provvedendo all’eventuale liquidazione dell’indennizzo richiesto alla stregua dei criteri elaborati dalla giurisprudenza interna ed internazionale, in ogni caso disponendo l’integrale compensazione delle spese di lite, ovvero nulla per le spese. Sciogliendo la riserva formulata in esito alla predetta udienza camerale, la Corte osserva quanto segue. 188 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 188 Considerato in fatto ed in diritto. Il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo, è conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, nei termini indicati dalla disposizione dell’art. 6 della considerata Convenzione europea, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone coinvolte in un giudizio. Quindi, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa – ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione – una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo, il giudice deve ritenere tale danno esistente, sempre che l’altra parte non dimostri che sussistono, nel caso concreto, circostanze particolari, le quali facciano positivamente escludere che tale danno sia stato sofferto dal ricorrente. Nel caso di specie tale prova non è stata offerta. Facendosi, quindi, concreta applicazione degli enunciati principi, va, in primo luogo, rilevato che – come emerge dalla documentazione acquisita – il processo presupposto si è protratto dal 12 luglio 1991 al 13 marzo 2008 (data di cancellazione dal ruolo). La durata complessiva è stata, dunque, pari ad anni 16 e mesi otto circa. In base ai comuni criteri applicati in materia (cfr., per tutte, Cass. 31 marzo 2006, n. 7688) e tenuto, altresì, conto della natura del procedimento in oggetto (violazione delle distanze legali fra costruzioni), quale emerge dalle pacifiche acquisizioni probatorie di natura documentale, la ragionevole durata del procedimento può fissarsi in anni tre, ovvero sino al 12 luglio 1994. Inoltre sino al 9 gennaio 1998 la pretesa è prescritta, a mente dell’art. 2946 c.c., com’è stato eccepito dall’Amministrazione resistente. In proposito va rilevato che il diritto ad un processo di ragionevole durata non è stato introdotto nell’ordinamento vigente dalla legge n. 89 del 2001, ma dalla legge di ratifica della convenzione CEDU (legge 4 agosto 1955, n. 848), che ha dato immediata rilevanza al diritto posto dalla Convenzione: la legge n. 89 del 2001 si é, infatti, limitata ad istituire uno strumento interno di riparazione per la lesione del diritto stesso, che in precedenza era tutelato solo dal ricorso alla Corte di Strasburgo (Cass. sez. un. 23 dicembre 2005, n. 28507). Consegue che il ripetuto diritto poteva essere fatto valere già prima del 2001 e nel momento in cui, avendo la durata del procedimento oltrepassato il limite della durata ragionevole, la posizione soggettiva dell’interessato risultava lesa. Trattandosi di un diritto che matura giorno per giorno mentre il processo si protrae irragionevolmente e sino a quando non venga definito (come conferma l’art. 4 della citata legge n. 89, che consente di proporre la domanda di equa riparazione mentre il giudizio presupposto è ancora in corso), ricorre una situazione analoga a quella dell’illecito permanente, per il quale la prescrizione comincia a decorrere per ciascuna frazione del risarcimento (nel caso che ne occupa di indennizzo) dal giorno in cui il relativo nocumento si è verificato (cfr., per tutte, Cass. n. 5831 del 2007). Il termine di prescrizione è quello ordinario decennale, versandosi in caso non già di un’obbligazione ex delicto, soggetta all’applicazione dell’art. 2947 c.c., bensì di un’obbligazione ex lege, che sorge per il fatto oggettivo dell’eccessiva durata del processo, ovvero indipendentemente dal comportamento doloso o colposo degli organi giudiziari. Il danno non patrimoniale deve, pertanto, essere riferito al periodo dal 9 gennaio 1998 al 13 marzo 2008, ovvero ad anni dieci e mesi due (circa). Da tale durata vanno, tuttavia, detratti anni quattro, in quanto, come emerge dall’esame dei verbali di causa e come riconosce lo stesso ricorrente, nel lasso di tempo considerato (novembre 2002 – 5 maggio 2003, 5 maggio 2003 – 17 novembre 2003, 21 marzo 2005 – 24 ottobre 2005, e così di seguito sino IL CONTENZIOSO NAZIONALE 189 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 189 alla cancellazione dal ruolo) il processo si è protratto unicamente ad espressa, concorde richiesta delle parti e nel loro esclusivo interesse, e ciò sostanzialmente al fine di conseguire la transazione della lite. In definitiva, il danno di che trattasi deve essere ragguagliato ad anni sei e mesi due. Correlati, quindi, i correnti parametri di liquidazione alle concrete connotazioni della vicenda esaminata, stimasi equo liquidare per il considerato pregiudizio l’importo di euro seimilacentosettanta, e ciò con liquidazione complessiva ed unitaria riferita al momento della decisione. Quanto al danno patrimoniale, va rilevato che esso è stato prospettato con riferimento “alla mancata possibilità di utilizzare in futuro completamente la proprietà e/o mancato sfruttamento di beni di sua proprietà, deprezzamento dei beni stessi”. È manifesta la carenza di qualsiasi connessione causale tra tali ragioni e lo svolgimento del processo presupposto. In ogni caso, nessuna prova è stata offerta sul punto, né è stato allegato il benché minimo elemento utile per l’invocata liquidazione equitativa. Avuto riguardo all’esito del procedimento ed alle ulteriori connotazioni, oggettive e soggettive, proprie del caso di specie, quali emergono dai rilievi svolti, ricorrono giusti motivi per dichiarare compensate tra le parti le spese del presente procedimento in ragione di due terzi; l’ulteriore terzo segue, nella misura liquidata in dispositivo, la soccombenza dell’Amministrazione, con distrazione in favore del difensore del ricorrente, giusta il disposto dell’art. 93 del codice di rito. Va, peraltro, ribadito che in terna di spese processuali e con riferimento al processo camerale per l’equa riparazione del diritto alla ragionevole durata del processo, non ricorre un generale esonero dall’onere delle spese a carico del soccombente, in quanto, in virtù del richiamo operato dall’ari. 3, comma quarto, della legge 24 marzo 2001, n. 89, si applicano le norme del codice di rito (cfr., per tutte Cass. 22 dicembre 2004). P.Q.M. La Corte, pronunciando sulla domanda proposta, con ricorso del 9 gennaio 2008, da M.P. nei confronti del Ministero della Giustizia, in persona del ministro, ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, così provvede: 1) Dichiara – nei sensi specificati in motivazione – la violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e, per l’effetto, il diritto del predetto M.P. ad un’equa riparazione limitatamente al danno non patrimoniale; 2) Condanna il Ministero della Giustizia, in persona del ministro, al pagamento, in favore del medesimo M.P., della somma di euro seimilacentosettanta, oltre al rimborso di un terzo delle spese di lite, (...) dichiara compensati tra le parti i residui due terzi delle spese stesse. Così deciso in Napoli il 3 ottobre 2008 nella camera di consiglio della terza sezione civile della Corte di appello». (doc.7) Corte di Appello di Napoli, sezione quarta civile, decreto 20 ottobre 2008 – Pres. S.Ferro – Rel. C. Molfino – D.P. (Avv.ti L. Borca e M. C. Pinto) c/ Ministero della Giustizia (Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli). Equa Riparazione ex lege 89/2001 «(…) rilevato che, con ricorso depositato l’8 ottobre 2007, il ricorrente ha richiesto il riconoscimento dell’equa riparazione, a norma dell’art. 2, comma 1 della legge n. 89/01, del 190 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 190 danno da durata irragionevole del processo, deducendo di aver denunziato al Procuratore della Repubblica di Nocera Inferiore in data 23 marzo 1996 i Sigg.ri D.V.F. e D.V.G. per i reati di cui agli artt. 110, 81 cpv. e 368 c.p.; di essersi costituito parte civile nel procedimento n. 590/96 N.R. e di aver atteso che gli stessi, autori di denunzie in suo danno, archiviate dopo due anni di indagini con sofferto periodo di custodia cautelare, fossero giudicati; di aver assistito all’estinzione del giudizio per intervenuta prescrizione pronunziata in data 13 luglio 2007, con sentenza passata in cosa giudicata in data 13 aprile 2007; che il ricorrente riteneva, pertanto, violato ampiamente il termine ragionevole di durata del processo penale e deduceva di aver subito danni patrimoniali e morali, che quantificava in € 250.000,00, di cui chiedeva la riparazione; che si costituiva il Ministero resistente, eccependo la parziale prescrizione delle pretese invocando, in subordine, la compensazione delle spese della procedura; ritenuto che il ricorso è ammissibile ex all’art. 4 L. n. 89/2001, poiché proposto nel semestre successivo alla definitività della decisione, da intendersi in conformità del significato a tale termine attribuito dalla legislazione statuale; che è infondata l’eccezione di prescrizione, atteso che la legge in applicazione prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del giudizio presupposto oppure all’esito della sua definizione, con ciò assicurando al soggetto leso la tutela permanente della posizione soggettiva di danneggiato; che, come ritiene consolidato indirizzo giurisprudenziale, il diritto all’equa riparazione per le conseguenze della irragionevole durata del processo è pienamente configurabile per i giudizi dinanzi al giudice penale, qualsiasi sia il loro oggetto, in armonia con il contenuto dell’art. 6, p. 1 della CEDU, che comprende ogni posizione soggettiva valutata in Italia dai giudici (Cass. n. 6519/03); osservato che la responsabilità dello Stato per l’eccessiva durata di un procedimento giudiziario può sussistere anche se non sia ravvisabile colpa nella gestione del procedimento da parte del giudice al quale esso è affidato: infatti l’obbligo assunto a livello internazionale dalla Repubblica Italiana con la sottoscrizione e la ratifica della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, la cui violazione è oggi sanzionata nell’ambito del diritto interno dalla previsione dell’equa riparazione di cui alla citata legge n. 89/01, impegna lo Stato unitariamente considerato in tutti i suoi poteri ed in tutte le sue articolazioni strutturali, sicché tutti devono, nei limiti delle attribuzioni, concorrere all’adempimento di tale obbligo (cfr. sentenza Corte Europea dei diritti dell’uomo 13 luglio 1983, caso Zimmermann e Steiner c/Svizzera), con la conseguenza che lo Stato risponde non solo per il comportamento negligente degli organi giudiziari, ma più in generale per il fatto di non avere provveduto ad organizzare il proprio sistema giudiziario in modo da consentirgli di soddisfare con ragionevole velocità la domanda di giustizia; ritenuto che il principio suddetto trova diretto riscontro costituzionale nel testo novellato dall’art. 111 Cost., il quale dispone che la legge assicura la ragionevole durata del processo; che, in ordine ai giudizi penali, deve essere valutato il periodo decorrente dal momento nel quale il soggetto riceve conoscenza legale delle indagini penali a suo carico o da lui attivate, cui far risalire la necessità della predisposizione di una difesa tecnica e l’inizio della concreta e motivata sofferenza morale soggettiva, che la norma in applicazione va ad indennizzare; che nel caso in esame il ricorrente ha documentato il dies a quo, che coincide con la proposizione della denunzia al Procuratore della Repubblica di Nocera, 23 settembre 1996, e il dies ad quem, coincidente con la sentenza di (ndp) per intervenuta prescrizione del reato, 13 febbraio 2007; IL CONTENZIOSO NAZIONALE 191 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 191 che il giudizio presupposto è durato, pertanto, dieci anni e undici mesi; che da tale periodo vanno detratti tre anni, corrispondenti al periodo di durata ragionevole del giudizio penale presupposto, valutati i reati contestati; che la domanda va, pertanto, accolta per il periodo eccedente la durata ragionevole, sette anni e due mesi, ed in relazione al solo danno non patrimoniale, che deve ritenersi sussistente, poiché non vi è dubbio che la lunga attesa della definizione del giudizio abbia determinato nell’interessato stanchezza e sfiducia nelle istituzioni ed, in definitiva, uno stato d’animo negativo, che è suscettibile di ristoro equitativo in termini di danno morale; che, conformemente alle usuali liquidazioni di questa Corte ed ai parametri della Corte Europea, tenuto conto anche della complessità del caso e del comportamento della parte, va liquidata la somma di € 1.100,00 all’anno e, quindi, € 8.008,00 (euro ottomila e otto/00), oltre spese della procedura che si liquidano d’ufficio in dispositivo; che, viceversa, non può accogliersi la domanda di risarcimento dei danni patrimoniali come conseguenza della durata irragionevole del processo presupposto, posto che l’esistenza e l’entità dei relativi pregiudizi non può desumersi presuntivamente una necessità di prova rigorosa sull’an e sul quantum, non offerta in giudizio; che il ristoro dei restanti danni connessi alla costituzione di parte civile dovrà avvenire nella sede propria, in danno dei legittimati passivi. P.Q.M. condanna il Ministero della Giustizia in persona del Ministro in carica al pagamento in favore di D.P. della somma di € 8.008,00 con interessi legali della domanda al saldo a titolo di equa riparazione, oltre spese della procedura (…). Napoli, 16 luglio 2008 (…)». (doc.8) Corte di Appello di Napoli, sezione prima civile, decreto 27 ottobre 2008 – Pres. L. Martone – Rel. G. de Donato – D.S.M. (Avv.ti M. Ferrara e M. Albachiara) c/ Ministero dell’Economia e delle Finanze. Equa riparazione ex legge n. 89/2001 «(…) In fatto la ricorrente si duole dell’eccessiva durata del procedimento da lei introdotto innanzi al T.A.R. della Campania con ricorso depositato il 26 marzo 1991, al fine di ottenere l’annullamento del silenzio inadempimento mantenuto dal Comune di Torre Annunziata sull’istanza di rendita vitalizia per indennità dipendente da causa di servizio da lei presentata; deduce che il procedimento è ancora pendente, benché siano trascorsi oltre diciassette anni dalla sua introduzione, e chiede la liquidazione dell’equa riparazione prevista dalla legge n. 89/2001, in misura di € 23.250,00; il Ministero dell’Economia e delle Finanze si è costituito, deducendo l’improponibilità del ricorso ed eccependo la panale prescrizione del diritto; tanto premesso, osserva in diritto 1. Il ricorso è ammissibile, poiché proposto mentre ancora pende il giudizio presupposto, com’è consentito dall’art. 4 della legge n. 89/2001. Alla sua proponibilità non asta il fatto che nel procedimento innanzi al T.A.R. non sia 192 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 192 stata mai proposta l’istanza di prelievo, poiché l’art. 54, c. 2°, del d.l. 25 giugno 2008 n. 112, convertito con modificazioni in legge 6 agosto 2008 n. 133, a norma del quale la domanda di equa riparazione non è proponibile se nel giudizio innanzi al G.A., in cui si assume essersi verificata la violazione del diritto ad una ragionevole durata del processo, non è stata presentata l’istanza di prelievo (art. 51 r.d. 17 agosto 1907 n. 642), per quanto norma processuale che trova immediata applicazione anche nei procedimenti pendenti alla data della sua entrata in vigore, tuttavia, in mancanza di un’espressa disposizione in tal senso, non è norma retroattiva, sicché disciplina solo gli atti dei procedimento posti in essere dopo la sua entrata in vigore e non quelli compiuti anteriormente, i quali, in applicazione del principio tempus regit actum, restano regolati dalla disciplina in vigore all’epoca del loro compimento (Cass. 12 maggio 2000 n. 6099; id. 4 novembre 1996 n. 9544: id. 22 gennaio 1980 n. 509). Sicché essendo proposta la domanda il 7 maggio 2008 la suddetta norma sopravvenuta non può trovare applicazione. 2. L’obbligo indennitario dello Stato per l’eccessiva durata di un procedimento giudiziario può sussistere anche se non sia ravvisabile colpa nella gestione del procedimento stesso da parte dei giudice al quale esso è stato affidato, infatti l’obbligo assunto a livello internazionale dalla Repubblica Italiana con la sottoscrizione e la ratifica della Convenzione impegna lo Stato unitariamente considerato in tutti i suoi poteri ed in tutte le sue articolazioni strutturali, sicché tutti devono, nei limiti delle loro attribuzioni, concorrere all’adempimento di tale obbligo (v. sentenza CEDU 26 ottobre 1988, Martins Moreira c/Portogallo), con la conseguenza che lo Stato risponde non solo per il comportamento negligente degli organi giudiziari, ma più in genere per il fatto di non aver provveduto ad organizzare il proprio sistema giudiziario in modo da consentirgli di soddisfare con ragionevole velocità la domanda di giustizia (v.: sentenza 12 ottobre 1992, Boddeart c/Belgio). Pertanto, se l’eccessivo carico di lavoro, che notoriamente affligge la maggior parte degli uffici giudiziari italiani (ed in particolare i T.A.R.), può giustificare sul piano soggettivo il comportamento del singolo organo giudiziario, ciò tuttavia non è rilevante ai fini della valutazione richiesta dalla legge n. 89/2001, che fonda un’obbligazione ex lege e non ex delicto, che sorge per il fatto oggettivo dell’eccessiva durata del processo e non già per il comportamento colposo o doloso degli organi giudiziari (Cass. 22 ottobre 2002 n. 14885}. 3. In ordine ai giudizi amministrativi innanzi al T.A.R., questa Corte recependo l’orientamento giurisprudenziale della CEDU, da tempo afferma che l’omissione o il ritardo nella presentazione dell’istanza di prelievo non assume rilievo ai fini dell’an debeatur, ma può rilevare solo ai fini dell’apprezzamento dell’entità del pregiudizio derivante dal superamento del termine ragionevole di durata del procedimento (Cass. 13 dicembre 2004 n. 23187). Pertanto si tien conto dell’intera durata del procedimento, benché detta istanza sia stata mai presentata. La durata rilevante del giudizio, al quale si riferisce la domanda, risulta, dunque, sino a circa diciassette anni e sei mesi (dal 26 marzo 1991 al 3 ottobre 2008) ed eccede il limite di ragionevolezza (tre anni) che questa Corte, in base ai parametri che possono ricavarsi dalla giurisprudenza della CEDU, ritiene congruo per un grado di giudizio riguardo a cause di ordinaria complessità e non coinvolgenti questioni di rilievo tale da imporre uno straordinario sforzo di efficienza da parte dell’apparato giudiziario e che ben si attaglia al caso in esame. Ne discende che il periodo eccedente, da considerare per l’indennizzo, è pari a quattordici anni e sei mesi. 4. In proposito va osservato che, per quanto la CEDU, una volta superato il limite della ragionevolezza, consideri ai fini della liquidazione dell’indennizzo la intera durata del procedimento, tanto non è consentito al giudice italiano, posto che l’art. 2, c. 3°, lett. a), della legge IL CONTENZIOSO NAZIONALE 193 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 193 n. 89/2001, espressamente sancisce che, ai fini della liquidazione dell’indennizzo riconosciuto dal nostro diritto interno per l’eccessiva durata dei processi, “rileva solamente il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole”, onde, finché il legislatore non riterrà di modificare tale dettato normativo (che non contrasta con le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute – art. 10 Cost. – e neppure con i principi fondamentali dell’ordinamento comunitario – art. 11 Cost. – onde è da escludersi la possibilità di sollevare questione di legittimità costituzionale, e per vero non contrasta neppure con la Convenzione; ma solo con un orientamento ermeneutico della Corte di Strasburgo, che non può prevalere su di una espressa disposizione di legge), i giudici italiani dovranno attenervisi. 5. L’amministrazione resistente ha eccepito la prescrizione del diritto e l’eccezione è parzialmente fondata. Come la suprema Corte ha avuto modo di porre in evidenza, il diritto del cittadino ad un processo di ragionevole durata non è stato introdotto nel nostro ordinamento dalla legge n. 89/2001, ma dalla legge di ratifica della convenzione CEDU (legge 4 agosto 1955 n. 848), che ha dato immediata rilevanza interna al diritto posto dalla convenzione; la legge n. 89/2001 si è limitata ad istituire uno strumento interno di riparazione per la lesione di tale diritto, che in precedenza era tutelato solo dal ricorso alla Corte di Strasburgo (Cass., ss.uu., 23 dicembre 2005 n. 28507). Da ciò discende che il diritto in questione poteva esser fatto valere già prima del 2001 e nel momento stesso in cui, avendo la durata del procedimento oltrepassato il limite della ragionevole durata, la posizione soggettiva dell’interessato è stata lesa. Poiché si tratta di un diritto che matura giorno per giorno mentre si protrae il processo irragionevolmente lungo e sino a quando questo non venga definito (com’è confermato dall’art. 4 della legge n. 89/2001, che consente all’interessato di presentare l’istanza di equa riparazione mentre il giudizio è ancora in corso), ci si trova in una situazione analoga a quella dell’illecito permanente, per il quale la prescrizione comincia a decorrere per ciascuna fazione del risarcimento (qui di indennizzo) dal giorno in cui il relativo nocumento si è verificato (ex plurimis: Cass. n. 5831/07). Il termine di prescrizione è quello ordinario decennale, poiché, come si è ricordato al § 2, non si tratta di un’obbligazione ex delicto, cui sia applicabile l’art. 2947 c.c., ma di un’obbligazione ex lege. Da quanto esposto deriva che il diritto all’indennizzo per l’eccessiva durata del processo maturato tra il 26 marzo 1994 e al 6 maggio 1998 (dieci anni prima della proposizione del ricorso) deve ritenersi estinto per prescrizione, con la conseguenza che può liquidarsi solo l’indennizzo per il periodo dal 7 maggio 1998 al 3 ottobre 2008 (dieci anni e cinque mesi). 6. Il ricorrente ha chiesto l’indennizzo solo per danni non patrimoniali, va, pertanto, preso in considerazione il solo danno morale (art. 2, c. 1°, della legge n. 89/2001), che, secondo i parametri di valutazione della CEDU, cui il giudice nazionale è tenuto ad adeguarsi, costituisce conseguenza ordinaria del prolungarsi del giudizio oltre i termini di ragionevole durata, sicché può essere escluso solo in quei casi in cui specifici elementi di fatto dimostrino che la durata del procedimento corrisponde all’interesse del ricorrente (Cass., ss.uu. 26 gennaio 2004 n. 1338). Esso non può esser oggetto che di valutazione equitativa, nell’operare la quale occorre attenersi, in linea di massima, al metro di valutazione adottato dalla CEDU, dal quale ci si può discostare solo in misura ragionevole (Cass. ss.uu. 26 gennaio 2004 n. 1340). Tenuto, pertanto, conto dei parametri di liquidazione cui mediamente si attiene la CEDU (tra 1.000,00 e 1.500,00 per ogni anno, sul punto da ultimo: Grande Camera CEDU 29 marzo 2446 in causa Scordino c/Italia) e considerato che l’omessa presentazione del- 194 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 194 l’istanza di prelievo induce a ritenere che la partecipazione emotiva dei ricorrenti sia stata meno intensa dell’ordinario, appare equo liquidare un indennizzo pari ad € 800,00 x (10 + 5/12) = € 8.333,00. Tenuto conto dello specifico oggetto del contendere, come sopra specificato, della relativa rilevanza dello stesso e del rito in concreto applicato, non appare equo concedere alcun bonus, posto che la Corte di Strasburgo riconosce tale ulteriore voce indennitaria solo per le controversie di particolare importanza, tra cui ha inserito anche le cause in materia di lavoro, ma ciò non vuol dire che ogni causa di tale natura sia per ciò solo importante e nel caso in esame deve escludersi che gli estremi del caso concreto consentano una valutazione di particolare importanza della controversia. Sull’importo liquidato sono dovuti gli interessi al tasso legale dalla domanda al saldo (Cass. 27 gennaio 2004 n. 1405; id. 3 aprile 2003 n. 5110). 7. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo, tenendo conto dell’importo liquidato ed applicando, secondo il più recente insegnamento della suprema Corte, la tariffa per i procedimenti contenziosi, con distrazione in favore del procuratore antistatario. P.Q.M. 1) condanna il Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento in favore di D.S.M., a titolo di equa riparazione per l’eccessiva durata del processo di cui in premessa, di € 8.333,00 (ottomila trecentotrentatre/00), oltre gli interessi al tasso legale dal 3 luglio 2008 al saldo; 2) condanna altresì il Ministero dell’Economia e delle Finanze alla rifusione delle spese anticipate per il giudizio dal ricorrente, (...). Così deciso in Napoli il 10 ottobre 2008 (…)». (doc.9) Corte di Appello di Napoli, sezione prima civile, decreto 31 ottobre 2008 – Pres. F. Del Porto – Rel. A. Fiengo – D.F. (Avv.ti I. Ferraro e M. Albachiara) c/ Ministero dell’Economia e delle Finanze (Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli, ct 14385/08). «Fatto e diritto Con ricorso depositato il 7 maggio 2008, D.F., dipendente della Regione Campania, premesso di avere, in data 28 novembre 1992, proposto ricorso al T.A.R. Campania, onde ottenere l’esatto inquadramento nei ruoli del personale regionale; che il giudizio non era stato ancora definito; che la durata del procedimento costituiva violazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo; tutto ciò premesso, chiedeva che il ministero dell’Economia e delle Finanze venisse condannato al pagamento, a titolo di equa riparazione, della complessiva somma di € 22.000,00,00, o di quella ritenuta di giustizia, nonché al pagamento delle spese del procedimento da distrarsi in favore del procuratore anticipatario. Fissata, con decreto, l’udienza di comparizione delle parti, il Ministero dell’Economia e delle Finanze si costituiva in giudizio, eccependo l’improponibilità della domanda e la prescrizione parziale del diritto e chiedendo, in subordine, la compensazione delle spese di giudizio. All’udienza del 22 ottobre 2008 la Corte si riservava la decisione. Deve, prima di tutto, osservarsi che la responsabilità dello Stato per l’eccessiva durata di un procedimento giudiziario può sussistere anche se non sia ravvisabile colpa nella gestio- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 195 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 195 ne del procedimento stesso da parte del giudice al quale esso è stato affidato; infatti l’obbligo assunto a livello internazionale dalla Repubblica Italiana con la sottoscrizione e la ratifica della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, la cui violazione è oggi sanzionata nell’ambito del diritto interno dalla previsione dell’equa riparazione disciplinata dalla legge n. 89/2001, impegna lo Stato unitariamente considerato in tutti i suoi poteri ed in tutte le sue articolazioni strutturali, sicché tutti devono, nei limiti delle loro attribuzioni, concorrere all’adempimento di tale obbligo (v. sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo 13 luglio 1983, caso Zimmermann e Steiner c/Svizzera; id. 26 ottobre 1988, Martins Moreira c/ Portogallo), con la conseguenza che lo Stato risponde non solo per il comportamento negligente degli organi giudiziari, ma più in genere per il fatto di non aver provveduto ad organizzare il proprio sistema giudiziario in modo da consentirgli di soddisfare con ragionevole velocità la domanda di giustizia (v. sentenza 12 ottobre 1992, Boddeart c/Belgio; id. 25 giugno 1987, Baggetta c/ Italia). Ciò, del resto, trova oggi diretto riscontro costituzionale nel testo novellato dell’art. 111 Cost., il quale dispone che la legge (e cioè l’ordinamento nel suo complesso considerato e non solo l’istituzione giudiziaria) assicura la ragionevole durata del processo. Si vuol dire, quindi, che, se l’eccessivo carico di lavoro, che notoriamente affligge la maggior parte degli uffici giudiziari italiani (ed in particolare i T.A.R.), può giustificare sul piano soggettivo il comportamento del singolo organo giudiziario, ciò tuttavia non assolve da responsabilità lo Stato nel suo complesso considerato, per il fatto di non aver apprestato procedure adeguatamente snelle e strutture adeguate al carico di lavoro, che sono destinate a smaltire, in modo da consentire ad organi giudiziari ordinariamente diligenti di rispondere in tempi accettabili alla domanda di giustizia. Non è, perciò, necessario andare alla ricerca della negligenza del giudice, che ha seguito il singolo caso portato all’attenzione della Corte, o dei suoi collaboratori interni o esterni all’organizzazione giudiziaria (anche se, ovviamente, nei casi in cui sussista, dovrà tenersene conto insieme alle altre disfunzioni della macchina giudiziaria), poiché anche nei casi in cui, per la situazione logistica in cui è costretto a lavorare, da questi non sarebbe stato possibile esigere di più di quanto ha fatto in termini di velocità di definizione del procedimento, il fatto stesso che lo stato delle strutture e dell’organizzazione abbia reso inevitabili tempi molto lunghi è già sufficiente ad affermare la responsabilità dello Stato per la difettosa concezione ed organizzazione del sistema giudiziario. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte rilevato che la lesione del diritto alla definizione del processo in un termine ragionevole, di cui all’art. 6 paragrafo 1 di detta Convenzione, va riscontrata, anche per le cause davanti al giudice amministrativo, con riferimento al periodo intercorso dall’instaurazione del relativo procedimento, tenendosi cioè conto del tempo complessivo dell’attesa della risposta sulla domanda di giustizia, mentre l’omissione od il ritardo nella presentazione dell’istanza di prelievo (non contemplata dalla legge processuale, ma prevista dalla prassi degli uffici giudiziari quale strumento acceleratorio) non sospendono o differiscono il dovere dello Stato di pronunciare sulla domanda medesima, né dunque implicano il trasferimento sui contendenti della responsabilità del superamento per tale pronuncia della scadenza congrua (v. sent. 24 maggio 1991 in causa Vocaturo c/ Italia e, da ultimo, sentt. 19 febbraio 2002 in cause Abate, Ferdinandi, Polcari e Donato c/ Italia). L’orientamento della Corte di Strasburgo, in quanto inerente alla determinazione del fatto costitutivo del diritto all’indennizzo individuato dalla legge n. 89 del 2001 per relationem tramite il richiamo dell’art. 6 della Convenzione, deve essere seguito dal giudice italia- 196 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 196 no, sia pure nei limiti consentiti dalla stessa legge n. 89 del 2001, per effetto dell’adesione dell’Italia a detto Accordo internazionale (con la legge di ratifica 4 agosto 1955 n. 848) anche nella parte in cui ne affida al giudice europeo l’interpretazione, come affermato dalle Sezioni unite della Cassazione con sentenza 26 gennaio 2004 n. 1341. Per quanto concerne il caso concreto, deve, prima di tutto, rilevarsi che la sollevata eccezione di improponibilità della domanda è infondata. Il ricorso è stato, infatti, proposto in data 2 maggio 2008, cioè anteriormente al 23 agosto 2008, data di entrata in vigore della legge 6 agosto 2008 n. 133, con la conseguenza che non può ritenersi necessaria la preventiva presentazione al giudice amministrativo di un’istanza ai sensi del secondo comma dell’art. 51 del R.D. 17 agosto 1907 n. 642. Ciò posto, va osservato che, essendo stato il ricorso al T.A.R. proposto il 28 novembre 1992 e non ancora definito, deve ritenersi fondata la domanda, essendo decorso un lasso di tempo superiore ai tre anni dalla proposizione della domanda, lasso di tempo che, per insegnamento della giurisprudenza della Corte Europea, è sufficiente per decidere una controversia non particolarmente complessa quale quella in esame. La proposta eccezione di prescrizione è parzialmente fondata. Premesso che deve trovare applicazione nella fattispecie il termine di prescrizione ordinario decennale, vertendosi in tema non di obbligazione ex delicto, cui sia applicabile l’art. 2947 c.c., ma di un’obbligazione ex lege, va, infatti, osservato che nel caso concreto detto termine, decorrente dalla scadenza del periodo di normale durata del giudizio (28 novembre 1995), deve ritenersi decorso, essendo il periodo di irragionevole durata, tenendo conto della data di proposizione del ricorso in esame (7 maggio 2008), superiore ai dieci anni. Per quanto concerne la misura dell’equa riparazione, in mancanza di prova in ordine all’esistenza di un danno patrimoniale, deve essere preso in considerazione il solo danno morale (art. 2, comma 1°, della legge n. 89/01), che, secondo i parametri di valutazione della C.E.D.U., cui il giudice nazionale è tenuto ad adeguarsi, costituisce conseguenza ordinaria del prolungarsi del giudizio oltre i termini di ragionevole durata, sicché può essere escluso solo in quei casi in cui specifici elementi di fatto dimostrino che la durata del procedimento corrisponde all’interesse del ricorrente (Cass., sez. un., 26 gennaio 2004 n. 1338). Esso non può che essere oggetto di valutazione equitativa, nell’operare la quale occorre attenersi, in linea di massima, al metro di valutazione adottato dalla C.E.D.U. in casi analoghi, dal quale ci si può discostare solo in misura ragionevole (Cass., sez. un., 26 gennaio 2004 n. 1340). Tenuto conto della quantificazione operata dalla Corte Europea nei casi analoghi a quello in esame, ritiene la Corte che l’indennizzo debba essere fissato, per la durata eccessiva del giudizio di anni 10 e mesi 6 circa, nella misura di € 8.500,00, corrispondente alla somma di € 1.000,00 per ogni anno di ritardo, ridotta ad € 800,00 in considerazione dell’assenza di qualsiasi attività sollecitatoria da parte della ricorrente, quale risulta dall’omesso deposito di istanze di prelievo. Tenuto conto dello specifico oggetto del contendere, come sopra indicato, della relativa rilevanza dello stesso e del rito applicato, non appare equo concedere alcun bonus, posto che la Corte di Strasburgo riconosce tale ulteriore voce indennitaria solo per le controversie di particolare importanza, ma ciò non vuol dire che ogni causa di tale natura sia per ciò solo importante e nel caso deve escludersi che gli estremi del caso concreto consentano una valutazione di particolare importanza della controversia. Le spese, conformemente a quanto ritenuto dalla Suprema Corte, devono, anche nei procedimenti del tipo di quello presente, seguire il principio della soccombenza; le stesse IL CONTENZIOSO NAZIONALE 197 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 197 vanno, pertanto, poste a carico del Ministero e, liquidate come indicato in dispositivo, vanno distratte a favore del procuratore anticipatario. P.Q.M. Letti gli artt. 2 e segg. L. 24 marzo 2401 n. 89, condanna il Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento in favore di D.F. della somma di € 8.500,00. Condanna, inoltre, il Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento in favore dell’Avv. Italia Ferraro delle spese dallo stesso anticipate per il presente procedimento (…). Così deciso in Napoli, in camera di consiglio, il 29 ottobre 2008». (doc. 10) Corte di Appello di Reggio Calabria, sezione civile, decreto 7 novembre 2008 – Pres. C. Epifanio – Rel. est. E. Iannello – C.M. (Avv. M. Intilisano) c/ Ministero della Giustizia (Avv. dello Stato P. Garofoli, Reggio Calabria, ct 4361/08). «(…) 1. Il ricorrente chiede la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento di un’equa riparazione per il mancato rispetto del termine ragionevole previsto dall’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dai diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955 n. 48, in relazione alla durata di una causa civile dallo stesso promossa insieme con C.P., con citazione del 23 marzo 1992 innanzi al Tribunale di Messina, al fine di ottenere l’accertamento della usucapione di un immobile sito in Contrada (…) di Messina, definita in primo grado dalla sezione stralcio di quel tribunale, con sentenza n. 1517/02 del 20 maggio 2002 e, quindi, in appello, con sentenza della locale Corte n. 125/47 del 19 marzo 2007. C.M. deduce che il procedimento ha superato il termine ragionevole sopra indicato, causandogli danni non patrimoniali di cui chiede la liquidazione secondo i criteri elaborati dilla giurisprudenza della Corte Europea di Strasburgo. Il Ministero della Giustizia ha eccepito, preliminarmente, l’inammissibilità della domanda ai sensi dell’art. 4 della L. n. 89/2001. Ha in subordine opposto la parziale prescrizione del credito indennitario e, nel merito, ne ha contestato la fondatezza deducendo l’insussistenza dei presupposti della dedotta pretesa indennitaria e che il ricorrente non ha comunque dato alcuna prova del tipo di danno sofferto in conseguenza delle asserite lungaggini dell’iter processuale. 2. Preliminarmente, va esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per decadenza dei ricorrenti dal termine semestrale di cui all’art. 4 della L. n. 89/2001. La stessa è infondata. Com’è noto, infatti, l’art. 4 della legge 24 marzo 2001 n. 89 prevede che “la domanda di riparazione può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva”. È parimenti noto, però, che per “definitività” della decisione concludente il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, la quale segna il dies a quo del termine di decadenza di sei mesi per la proponibilità della domanda, s’intende il momento in cui si consegue il fine al quale il singolo procedimento è deputato. Tale momento, in relazione al giudizio di cognizione, va identificato nel passaggio in giudicato della sentenza che lo definisce (v. Cass., 7 marzo 2007, n. 5212). 198 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 198 Orbene, nella specie, la sentenza d’appello è stata depositata in data 19 marzo 2007 e non risulta essere stata notificata, con la conseguenza che la stessa va considerata non ancora passata in giudicato al momento in cui il ricorso è stato proposto. 3. In ordine gradato, occorre adesso esaminare l’eccezione di mozione opposta dall’amministrazione convenuta, parziale prescrizione opposta dall’amministrazione convenuta, anch’essa di rilievo ovviamente preliminare. Tale eccezione deve ritenersi fondata. Ed infatti, per il generale principio secondo cui, ex art. 2934, 1° comma c.c., “ogni diritto si estingue per prescrizione”, anche quello all’equa riparazione – in mancanza di diversa specifica previsione derogatrice – deve ritenersi soggetto a tale causa estintiva qualora trascorrano più di dieci anni senza che il cittadino avanzi alcuna pretesa al riguardo. 3.1. In particolare, quanto alla misura (decennale) del termine prescrizionale, è appena il caso di rammentare che essa è indicata in via generale dall’art. 2946 c.c. e che il diritto all’indennità di che trattasi sfugge alla prescrizione breve di cui all’art. 2947 c.c., non essendo riconducibile a quello avente ad oggetto il risarcimento del danno da fatto illecito, né essendo assimilabile ad alcuna delle categorie per le quali l’art. 2948 dello stesso codice contempla pur sempre una prescrizione quinquennale. Costituisce, invero, jus receptum che l’obbligazione avente ad oggetto l’equa riparazione ha natura indennitaria e non risarcitoria, si configura non già come obbligazione ex delicto, ma come obbligazione ex lege, riconducibile, in base all’art. 1173 c.c., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico (Cass. 13 aprile 2006, n. 8712). Il diritto ad un’equa riparazione in caso di mancato rispetto del termine ragionevole del processo, ai sensi della legge 24 marzo 2001 n. 89, non richiede infatti l’accertamento di un illecito secondo la nozione contemplata dall’art. 2043 c.c. né presuppone la verifica dell’elemento soggettivo della colpa a carico di un agente; esso è invece ancorato all’accertamento della violazione dell’art. 6, par. 1, della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cioè di un evento ex se lesivo del diritto della persona alla definizione del suo procedimento in una durata ragionevole. 3.2. Maggiori perplessità si pongono, invece, con riferimento alla decorrenza di detto termine prescrizionale, registrandosi sul punto contrastanti orientamenti nella giurisprudenza di merito. Secondo un primo indirizzo, invero, detto termine non potrebbe cominciare a decorrere se non dal momento della cessazione del processo della cui irragionevole durata si tratta e, dunque, del passaggio in giudicato della sentenza che lo definisce. A fondamento di tale tesi si pongono argomenti diversi e non del tutto coincidenti. Da alcuni si osserva infatti che “il diritto all’equo indennizzo ... pur sussistendo anche a prescindere dal suo riconoscimento con la L. 89/01, non matura affatto giorno per giorno, ma va verificato in relazione al concreto andamento del singolo processo in rapporto alle caratteristiche di ogni fattispecie: sicché esso non è né liquido, né esigibile prima della valutazione giudiziale e prima della proposizione della domanda o, se anteriore, della cessazione del processo medesimo” (App. Salerno, decr. 14 ottobre 2008). Altri invece ritengono che la fattispecie integrerebbe “ipotesi di illecito permanente il cui conseguente danno persiste nel tempo fin quando la relativa condotta non è cessata e ciò si verifica solo con il passaggio in giudicato della sentenza resa nel procedimento nel cui ambito assume essersi verificata la violazione” (App. Roma, decr., 9 luglio 2001, in Guida al diritto, 2001, n. 38, p. 30). Secondo una posizione intermedia la prescrizione non potrebbe farsi decorrere prima della data di entrata in vigore della legge n. 89 (2001, dal momento che, prima di allora, nes- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 199 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 199 suno poteva pretendere dal giudice italiano di essere indennizzato per tali danni, non essendo stato ancora riconosciuto dall’ordinamento nazionale il relativo diritto e mancava, dunque, la possibilità legale di esercizio dello stesso richiesta, ai sensi dell’art. 2935 c.c., per il decorso della prescrizione (App. Brescia, decr. 4 marzo 2005). Secondo un terzo indirizzo, infine, la prescrizione decennale ben può cominciare a decorrere anche durante la pendenza del processo dal momento in cui è stato superato il termine ragionevole di durata prospettabile (App. Napoli, decr. 4 luglio 2008). Ritiene questa Corte che quest’ultimo indirizzo meriti di essere condiviso, con le precisazioni di cui appresso, e che vadano invece disattese le altre più restrittive posizioni interpretative. 3.2.1. Conviene prendere le mosse dalla tesi che abbiamo detta intermedia, secondo cui il termine prescrizionale potrebbe cominciare a decorrere solo a far data dall’entrata in vigore della legge 24 marzo 2001, n. 89. Tale tesi evidentemente postula che il diritto ad ottenere un’equa riparazione per il ritardo irragionevole del processo sia sorto solo per effetto della legge Pinto o, che, pur trovando anteriormente quel diritto riconoscimento – diretto o indiretto – nel nostro ordinamento, solo la legge detta abbia per la prima volta introdotto uno strumento di tutela. Sia l’una che l’altra affermazione (la pena dovrebbe, a rigore, condurre a ritenere indennizzabili solo ritardi maturati successivamente alla legge n. 89/2001) sono però chiaramente smentite dalla giurisprudenza della Suprema Corte, quale ormai consolidatasi a partire dai fondamentali arresti di Cass., sez. un. 26 gennaio 2004, nn. 1339, 1340 e 1341 e di Cass., sez. un., 23 dicembre 2006, n. 28507. Con le prime, le Sezioni Unite hanno infatti identificato il fatto costitutivo prefigurato dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001 proprio nel mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo stabilito dall’art. 6 della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e hanno negato, conseguentemente, che la fattispecie prevista dalla norma interna assuma connotati diversi da quelli stabiliti dalla Convenzione, rispetto alla quale essa andrebbe considerata non già costitutiva del diritto all’equa riparazione per la non ragionevole durata del processo, bensì unicamente istitutiva della via di ricorso interno, prima inesistente, diretta ad assicurare una tutela pronta ed efficace alla vittima della violazione del canone dì ragionevole durata del processo in attuazione del disposto dell’art. 13 della Convenzione. Con la seconda le SS.UU. hanno ulteriormente chiarito che non è nemmeno predicabile una distinzione tra diritto ad un processo di ragionevole durata, introdotto dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (o addirittura ad essa preesistente come valore costituzionalmente protetto), e un diritto all’equa riparazione, che sarebbe stato introdotto solo con la legge n. 89 del 2001, in quanto “la tutela assicurata dal giudice nazionale non si discosta da quella precedentemente offerta dalla Corte di Strasburgo, alla cui giurisprudenza è tenuto a conformarsi il giudice nazionale”. Se così è, non sembra allora nemmeno sostenibile che prima dell’entrata in vigore non sussistesse la possibilità legale di far valere il diritto (all’equa riparazione) alla cui mancanza, secondo pacifica interpretazione dell’art. 2935 c.c., deve riconoscersi rilievo impeditivo del decorso della prescrizione. Non par dubbio invero che, ai fini della citata norma codicistica possa e debba assumere rilievo anche la sola possibilità di ricorrere alla Corte Europea. Si consideri al riguardo che: a) la Convenzione Europea non solo afferma il diritto, sostanziale, all’equa riparazione, ma – come detto – prevede anche uno strumento di tutela (sussidiario) che, prima del- 200 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 200 l’introduzione della legge Pinto, rendeva quel diritto direttamente azionabile davanti agli organi istituiti dalla Convenzione da parte del soggetto che avesse subito danni dalla sua lesione (c.d. ricorso individuale, prima subordinato ad una dichiarazione dello Stato membro di riconoscere come obbligatoria la giurisdizione della Corte, dichiarazione intervenuta per l’Italia solo con decorrenza dal 1° agosto 1973: artt. 25 e 46 Convenzione testo originario; poi reso sempre possibile, senza alcuna facoltà di disconoscimento da parte degli Stati membri, dopo l’approvazione del Protocollo n. 11, firmato a Strasburgo l’11 maggio 1994 ed entrato in vigore in Italia l’1° novembre 1998: nuovi artt. 32 e 34 Conv.); b) l’uno (diritto all’equa riparazione) e l’altro (proponibilità del ricorso individuale agli organi di giustizia internazionali) devono certamente considerarsi parte integrante anche dell’ordinamento interno, volta che la Convenzione è stata recepita nel nostro ordinamento con la legge 4 agosto 1955 n. 848: in particolare lo strumento di tutela rappresentato dal ricorso individuale alla Corte Europea (e prima alla Commissione) – le cui decisioni sono da ritenersi già a priori riconosciute e vincolanti nell’ordinamento interno – deve ritenersi acquisito nel patrimonio dei diritti dei cittadini italiani dal 1° agosto 1973 valendo, quanto meno da quella data, a integrare la condizione cui l’art. 2935 c.c. subordina il decorso del termine prescrizionale; c) di fatto la Corte Europea, e prima di essa la Commissione Europea, già da molti anni prima della legge n. 89/2001, esaminavano richieste di “satisfaction équitable” emettendo condanne nei confronti dell’Italia, a loro volta direttamente esecutive nell’ordinamento interno, tanto che la legge Pinto è stata emanata proprio (e solo) al fine di porre argine, attivando il filtro del “previo esaurimento dei ricorsi interni” ex art. 35 Conv., all’affollamento di ricorsi davanti alla Corte di Strasburgo che stavano mettendo a dura prova il funzionamento degli organi di controllo europei – impegnati ad occuparsi solo dell’Italia e solo di quella particolare violazione – ed evitare la conseguente e ormai incombente minaccia di estromissione dell’Italia dal gruppo degli stati aderenti alla Convenzione; d) che si tratti di tutela sostanzialmente sovrapponibile è dimostrato anche dalla norma transitoria di cui all’art. 6 legge n. 89/2001, che prevede espressamente che i ricorsi già pendenti presso la Corte europea dei diritti dell’uomo e relativi alla violazione del termine ragionevole di durata del processo possono essere trasferiti alla Corte d’appello competente sulla base della nuova disciplina interna, sia pure entra il termine di sei mesi dall’entrata in vigore della legge (poi prorogato ad un anno ai sensi dell’art. 1 D.L. 12 ottobre 2001, n. 370). Alla luce di tali considerazioni, del tutto condivisibile appare la ricostruzione dottrinaria che ravvisa il significato ultimo dell’art. 2 legge cit. in quello di norma sulla giurisdizione. Si rileva infatti che, con la ratifica in Italia della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, “è stato introdotto nel nostro ordinamento sia il precetto ‘primario’ (rinveniente dall’art. 6 della Convenzione) che impone allo Stato di garantire ai cittadini una giustizia dalla durata non irragionevole, sia il precetto ‘secondario’ o ‘sanzionatorio’ (rinveniente dall’art. 41) secondo cui la violazione di questo dovere comporta per lo Stato l’obbligazione di assicurare al cittadino danneggiato un’equa soddisfazione. Nel diritto italiano, dunque, la fattispecie normativa sostanziale secondo cui il soggetto leso dall’eccessiva lentezza di un processo ha diritto ad essere indennizzato dallo Stato era già presente prima dell’entrata in vigore della nostra legge. Quello che mancava al nostro diritto era soltanto il momento giustiziale diretto ad accertare la sussistenza dell’obbligo riparatorio: momento che, ai sensi dell’art. 34 della Convenzione, si realizzava necessariamente davanti alla Corte europea. La legge n. 89, in attuazione dell’art. 13 della Convenzione (e dando quindi concretezza al principio secondo cui il singolo Stato deve garantire ai suoi cittadini un effet- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 201 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 201 tivo rimedio giurisdizionale ‘interno’ contro le violazioni della Convenzione stessa) ha finalmente devoluto le controversie sull’eccessiva durata dei processi e sulla conseguente obbligazione indennitaria dello Stato, ai giudici italiani. L’art. 2 della nostra legge, in quest’ottica, si risolve allora in una semplice norma sulla giurisdizione; una norma che attribuisce (anche) alla magistratura italiana la potestas iudicandi su queste controversie”. Conclusivamente sul punto può, dunque, notarsi che: se il diritto che si tratta di tutelare trova il suo fondamento nella violazione dell’art. 6 della Convenzione EDU ed ha contenuto e natura esattamente identici a quello già riconosciuto dall’art. 41 della Convenzione medesima; se come tale esso ben può essere maturato, in tutto o in parte, anteriormente all’entrata in vigore dalla c.d. legge Pinto (cfr. ex multis Cass. 9 novembre 2006, n. 23939); se il ricorso giurisdizionale alla Corte Europea era volto proprio a prestare tutela a quel diritto e, come tale, era sostanzialmente sovrapponibile al ricorso alla Corte d’Appello introdotto dall’art. 3 legge n. 89/2001; se il primo era ed è tuttora direttamente esperibile (in via sussidiaria in caso di insussistenza ma anche di inadeguatezza del ricorso interno rispetto allo scopo, imposto dall’art. 13 della Convenzione, di consentire una tutela effettiva del diritto) e – soprattutto – lo era con esiti immediatamente efficaci, esecutivi e vincolanti nell’ordinamento interno; se tutto ciò è vero, non si vede allora perché il diritto in questione passa ritenersi non legalmente tutelabile prima della introduzione del nuovo ricorso interno per effetto della legge n. 89/2001 e, dunque, impedito nel suo esercizio ai fini dell’art. 2935 c.c., se non sulla base di una nozione di legale possibilità di esercizio limitata al solo novero degli strumenti di tutela giurisdizionale interna che, però, non appare imposta da alcun cogente argomento sistematico ed, anzi, finirebbe con l’obliterare gli effetti della legge 4 agosto 1955, n. 848 di ratifica ed esecuzione della Convenzione EDU. 3.2.2. Nemmeno può essere condiviso l’indirizzo secondo cui il termine prescrizionale non potrebbe decorrere prima della cessazione del processo della cui irragionevole durata si tratta. Gli argomenti che in tal senso, a quanto consta, sono stati proposti si rivelano invero infondati o inconferenti. 3.2.2.1. Non si vede anzitutto per qual ragione il diritto all’equa riparazione possa ritenersi inesigibile prima della valutazione giudiziale (definirlo “inesigibile prima della proposizione della domanda” appare poi una palese contradictio in adiecto). Vero è che si tratta di credito illiquido – richiedendosi una valutazione in termini pecuniari del danno e, dunque, una sua liquidazione – ma ciò non significa certo che il danno non preesista alla liquidazione e con esso il diritto all’equa riparazione, né che questo non sia esigibile. L’esigibilità corrisponde, per comune insegnamento, alla possibilità di far valere giudizialmente il diritto attraverso una domanda di condanna attuale al pagamento (cfr. Cass. 20 maggio 1969, n. 1769; 13 settembre 1974, n 2459), la quale certamente sussiste per il diritto all’equa riparazione e, ovviamente, preesiste alla liquidazione del danno. Quanto poi alla illiquidità del credito, essa non ha mai costituito ostacolo al decorso della prescrizione: basti considerare che, diversamente opinando, dovrebbe ritenersi imprescrittibile il diritto al risarcimento del danno, quale che ne sia il fatto generatore e il fondamento giuridico, essendo anch’esso ancora illiquido al momento della proposizione della relativa domanda giudiziale (il che evidentemente non può sostenersi). È vero piuttosto che, per pacifico insegnamento, applicabile – mutatis mutandis – anche alla fattispecie in esame, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno comincia a decorrere dal momento in cui il danno stesso si è verificato e non da quello, eventualmente diverso, in cui è stato posto in essere l’atto illecito (v. Cass., sez. un., 6 ottobre 1975, n. 3161; Cass. 15 marzo 1989, n. 1306; 8 febbraio 1990, n. 875; 10 giugno 1999, n. 5701; 12 gennaio 2000, n. 246). 202 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 202 Le considerazioni che precedono consentono peraltro di focalizzare l’equivoco che probabilmente sta a fondo della tesi che si sta esaminando. E’ ben vero infatti che, in materia, si richiede una valutazione caso per caso sia sulla sussistenza della fattispecie costitutiva del diritto all’equa riparazione (ossia il superamento, da parte del singolo processo considerato, della ragionevole durata), sia sul danno ad essa riferibile: da un lato, infatti, come ha avuto modo di ribadire più volte la Suprema Corte, la legge n. 89 del 2001 non specifica il periodo di tempo massimo valicato il quale la durata del processo diventa irragionevole ma lascia all’interprete l’onere di determinarlo di volta in volta, desumendolo dalla complessità del caso e dal comportamento delle parti, del giudice e di ogni altra autorità chiamata a concorrere o comunque a contribuire alla definizione del processo; dall’altro, anche l’esistenza e l’entità del danno non possono considerarsi in re ipsa ma vanno in concreto valutate, sia pure inevitabilmente, almeno per il danno non patrimoniale, con ricorso a presunzioni (v. ex aliis Cass. 19 gennaio 2005 n. 1094). E però, l’incertezza sull’an e sul quantum dell’obbligo indennitario (a ben vedere, non diversa da quella che si registra per definizione in tutti i casi in cui si controverte sulla sussistenza di un danno risarcibile ovvero sul momento in cui lo stesso si sia verificato) non esclude affatto che – se violazione e danno si valutino sussistenti, se è vero che al manifestarsi di questo sorse anche il diritto (tanto da doversi considerare acquisito al patrimonio del soggetto e addirittura trasmissibile agli eredi: v. ex pluribus Cass. 9 novembre 2006, n. 23939; Cass., sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28507), se ancora il diritto diviene a sua volta immediatamente esigibile (anche nel corso del processo della cui lentezza si tratta: art. 4 L. 89/2001) – da quella stessa data debba farsi anche decorrere il termine prescrizionale. Quel che occorre, piuttosto, tener presente è che la fattispecie considerata è, in potenza, plurioffensiva; che, cioè, diversi sono i danni in astratto ipotizzabili in conseguenza dell’eccessiva lentezza del processo (ferma ogni avvertenza sulla necessità di provare in concreto un nesso causale diretto, prova in pratica di estrema difficoltà per molti di quelli appresso ipotizzati) e diversi anche i momenti in cui gli stessi possono considerarsi effettivamente maturati. Si pensi, quanto ai danni non patrimoniali, da un lato, a quelli relativi allo stress, allo stato di incertezza di per sé ragionevolmente ipotizzabili già dopo i primi segmenti temporali di irragionevole durata, dall’altro alle vere e proprie perturbazioni mentali ovvero ai danni psichici o fisici in ipotesi sorti a causa del troppo lungo immorarsi del processo, specie se ultradecennale e specie se respingente beni primari inerenti alla persona; ma si pensi anche, quanto ai danni patrimoniali, al pregiudizio potenzialmente derivante dal tardivo accoglimento della domanda (es. per il mancato godimento del bene o per il suo definitivo deterioramento o per la sua perdita di valore o per l’impossibilità o la maggiore difficoltà di portare ad esecuzione il credito), al danno, ancora, da perdita di chance (es. l’impossibilità di partecipare a concorsi per la pendenza di un procedimento penale). L’attenzione che occorre prestare a tale varietà di ipotetici pregiudizi non realizza, però, di per sé, alcuna deroga al principio generale della prescrizione del diritto per il decorso del tempo: è ben vero infatti che, per alcuni danni, i quali possono considerarsi maturati solo al momento della definizione del processo, non potrà predicarsi alcuna decorrenza anteriore del termine prescrizionale, ma ciò sarà non per l’inapplicabilità alla fattispecie di quell’istituto, ma solo e semplicemente perché quel particolare danno (e il corrispondente diritto all’indennizzo) prima di allora non può considerarsi sorto. Ciò in particolare – è bene avvertire – vale anche per quei danni da irragionevole durata legati alla sussistenza del diritto per cui è stato avviato il processo (si pensi, ad es., alla domanda di condanna al pagamento di una somma di danaro: in tali casi, benché apparentemente il danno – da perdita degli interessi, da perdi- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 203 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 203 ta di occasioni favorevoli di investimento fruttifero, da perdita o diminuzione della garanzia patrimoniale – è apprezzabile durante la durata del processo, in realtà solo il provvedimento che definisce il giudizio potrà dire se quel diritto sussiste davvero e non prima di allora potrà dunque stabilirsi se danno da ritardata tutela vi sia stato). Esiste però, indubitabilmente, una tipologia di danni, non patrimoniali, legali alla durata del processo indipendentemente dal suo esito decisorio, sicché l’indennizzo può spettare anche al soccombente per il solo fatto di essere stato impegnato a lungo in una determinata controversia. Si tratta dei danni, di cui sopra si è accennato e che l’esperienza dimostra essere nella grandissima parte dei casi gli unici di fatto dedotti e/o accertati, rappresentati dallo stress, dallo stato di incertezza e, dunque, dalle sofferenze morali e psicologiche imputabili a quella durata, se e in quanto irragionevole. L’idea che anche tali danni richiedano una valutazione unitaria sempre e solo alla fine del processo e che, pertanto, prima di allora, non possa decorrere, nemmeno per essi, alcun termine prescrizionale, contrasta con il dato logico che si tratta di danni destinati a rimanere tali qualunque sia la successiva evoluzione del processo (il pregiudizio morale che deriva dall’aver dovuto attendere tre anni oltre il prevedibile e ragionevole limite di durata del processo, rimarrà tale anche se quel processo durerà per altri tre o cinque anni; potrà cioè solo sommarsi al danno imputabile a quest’ultimo segmento temporale, ma non, in sé, aggravarsi o attenuarsi) e, soprattutto, è smentito dalla già citata norma di cui all’art. 4 legge Pinto che, come detto (in piena conformità a principi già invalsi nella giurisprudenza europea ed anzi proprio per questo introdotta: come evidenziato nel sesto punto della relazione al disegno di legge), consente di proporre la domanda di riparazione “durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata”. Tale norma, con ogni evidenza, postula l’esistenza di danni derivanti dalla lentezza del processo suscettibili di valutazione parcellizzata, ossia di danni – già perfettamente maturati – riferibili ai singoli segmenti di durata irragionevole di volta in volta trascorsi e, correlativamente, di un diritto all’indennizzo già sorto e acquisito al patrimonio del soggetto danneggiato, perfettamente esigibile e, come tale, suscettibile di estinzione per prescrizione ove non esercitato nel termine previsto dalla legge. 3.2.2.2. Le considerazioni che precedono portano anche a dissentire dalla tesi, accolta nel succitato precedente della Corte d’Appello di Roma, secondo cui la prescrizione non potrebbe decorrere prima della definizione del processo poiché si tratta di “illecito permanente il cui conseguente danno persiste nel tempo fin quando la relativa condotta non è cessata”. Se può convenirsi con la qualificazione del fatto generatore del danno (ma sarebbe più corretto dire: dei danni) in termini di fatto (non propriamente illecito, siccome chiarito dalla Cassazione, almeno secondo la nozione contemplata dall’art. 2043 c.c.) permanente, fino alla definizione del processo troppo lento, non sembra invece corretto parlare, quanto alle conseguenze via via determinate, di danno permanente. Le considerazioni e il dato positivo sopra evidenziati inducono invero a ritenere che, piuttosto che un solo danno (concettualmente e logicamente isolabile) destinato a permanere nel tempo (come ad es. quello da invalidità permanente nel caso della lesione alla salute) e magari suscettibile salo di aggravarsi, sono concettualmente e distinguibili (non solo in senso sincronico ma anche diacronico) diversi danni (ancorché della stessa specie), suscettibili di autonoma considerazione e valutazione, di volta in volta prodottisi in conseguenza diretta del perpetuarsi della condotta nel tempo. Per i danni, dunque, originatisi immediatamente all’atto del superamento della durata ragionevole del processo, la prescrizione ben può dirsi maturata una volta superato – in 204 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 204 assenza di atti interruttivi – il relativo termine decennale. Analogamente, per i danni via via originatisi successivamente nel tempo per effetto dell’ulteriore protrarsi del processo, il termine di prescrizione ben può considerarsi maturato – sempre in assenza di atti interruttivi – con il decorso di dieci anni dalla loro verificazione di volta in volta (cfr. Cass. 24 agosto 2007, n. 17985; Cass. 13 marzo 2007, n. 5831; in motivazione, par. 2.2; Cass. 2 aprile 2004, n. 6512; 20 dicembre 2000, n. 16009). 3.3. Per completezza, occorre chiedersi se le conclusioni cui sopra si è giunti, nella misura in cui evidentemente portano ad una possibile riduzione del quantum dell’indennizzo complessivamente spettante, si pongano in contrasto con le norme pattizie e con l’interpretazione che di esse ne dà la Corte Europea e, in caso affermativo, se ciò possa e debba condurre ad una diversa ricostruzione della disciplina applicabile. 3.3.1. La risposta al prima quesito deve essere negativa. Al riguardo, giova rammentare che un’interpretazione della legge n. 89/2001 non conforme a quella che la Corte europea ha dato della norma dell’art. 6 CEDU comporta che la vittima della violazione, qualora riceva in sede nazionale una riparazione ritenuta incompleta dalla Corte europea, ottenga da quest’ultimo Giudice l’equa soddisfazione prevista dall’art. 41 CEDU. Il che renderebbe inutile il rimedio predisposto dal legislatore italiano con la legge n. 89/2001 e comporterebbe una violazione del principio di sussidiarietà dell’intervento della Corte di Strasburgo. In questo senso, secondo indicazioni della Cassazione e della stessa Corte europea, si fa derivare da detto principio l’affermazione del dovere, per le giurisdizioni nazionali, di interpretare ed applicare il diritto nazionale “per quanto possibile” conformemente alla Convenzione nazionale (v. Cass., sez. un., 26 gennaio 2004, n. 1339). E tuttavia non si vede perché l’applicazione della prescrizione all’obbligazione indennitaria dello Stato debba parsi in contrasto nome CEDU. Non constano a questo Collegio pronunce della Corte Europea che affermino l’imprescrittibilità, prima della definizione del processo della cui lentezza si tratta, del diritto all’indennizzo per la parte in cui esso si riferisca a ritardi maturati oltre dieci anni prima della domanda. E del resto, l’estinzione parziale del diritto deriva in questi casi non da una particolare interpretazione delle norme in tema di ragionevole durata del processo o di quelle che regolano le conseguenze della violazione del relativo precetto primario, ma dall’applicazione di un principio generale, come tale ovviamente non specificamente introdotto per concorrere a disciplinare la materia ma destinato a trovare applicazione in tutti i campi del diritto privato, ove si tratti di diritti disponibili a contenuto patrimoniale, salvo diversa specifica previsione. Correlativamente, la parziale estinzione del diritto non discende da ragioni intrinseche alla (interpretazione della) disciplina della fattispecie, ma da elementi estrinseci ed, essenzialmente, dall’inerzia della parte a far valere il diritto all’indennizzo, in mancanza della quale nessuna estinzione, neppur parziale, ovviamente si verificherebbe. 3.3.2. In ogni caso, occorre rimarcare che il dovere per il giudice nazionale di conformare la propria interpretazione (della legge n. 89/2001) alle norme della CEDU per come esse “vivono” nella giurisprudenza della Corte Europea, opera “per quanto possibile” e, quindi, solo nei limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della stessa legge n. 89, non potendo certo il giudice violare quest’ultima legge, alla quale egli è pur sempre soggetto (in tal senso, Cass. sez. un., 1339/04, cit.). A fortiori non potrebbe un tale presunto (ma non sostenibile) contrasto con le norme della CEDU consentire al giudice nazionale di disapplicare norme di portata e applicazione generale, quale quella di cui all’art. 2934 c.c. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 205 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 205 Al più esso potrebbe soltanto far emergere una intrinseca inadeguatezza dello strumento di tutela interno rispetto alle finalità perseguite e, quindi, far venire meno il filtro del previo esaurimento dei ricorsi interni e riaprire il ricorso diretto alla CEDU. Il giudice della completezza o meno della tutela che la vittima ha ottenuto secondo il diritto interno è, però, ovviamente, la Corte europea stessa, alla quale spetta di fare applicazione dell’art. 41 CEDU per accertare se, in presenza della violazione della norma della CEDU, il diritto interno abbia permesso di riparare in modo completo le conseguenze della violazione stessa (così, Cass. n. 1339/04, cit.). 3.4. In definitiva, il diritto all’equa riparazione ex lege Pinto deve ritenersi soggetto ad estinzione per prescrizione decennale, decorrendo il relativo termine dal momento in cui si determina il pregiudizio connesso all’irragionevole protrarsi di un processo e, dunque, da ogni momento in cui, all’atto del superamento della durata ragionevole del processo e via via per l’ulteriore successivo immorarsi dello stesso, si origina il danno legato alla corrispondente frazione temporale di durata legato alla corrispondente eccedente quella ragionevole. Nel caso di specie, alla data in cui il ricorso è stato notificato (24 luglio 2008) – primo momento in cui può considerarsi perfezionato l’atto interruttivo (art. 2943, comma 1 c.c.; v. Cass. 8 agosto 2007, n. 17385; Cass. lav., 30 marzo 2004, n. 6343; Cass. lav. 6 marzo 2003, n. 3373) – la pretesa creditoria azionata dal ricorrente deve pertanto considerarsi prescritta per la parte relativa al ritardo irragionevole eventualmente maturato prima del 24 luglio 2008, il che comporta che la data di decorrenza per il calcolo dell’indennizzo spettante non potrà essere anteriore ad essa (potendo invece risultare successiva nella misura in cui si debba ritenere, in base alle circostanze del caso concreto, che il perdurare del processo oltre tale data sia giustificata e, quindi, ragionevole). 4. Passando dunque al merito, giova ribadire in premessa che l’art. 2 della legge 24 marzo 2001 n. 89 riconosce il diritto ad un’equa riparazione al soggetto che abbia “subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione”, il quale sancisce, appunto, il diritto di ciascuno a ottenere che la sua causa sia decisa “equamente, pubblicamente e in un termine ragionevole”. Per quanto concerne il concetto di “ragionevolezza”, il legislatore del 2001 tenendo conto dei criteri già elaborati dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ha indicato nell’art. 2 prima menzionato alcuni parametri di riferimento, disponendo che nell’accertare la violazione si debba tener conto: a) della complessità del caso; b) del comportamento delle parti; c) del comportamento del giudice del procedimento; d) del comportamento di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o, comunque, a contribuire alla sua definizione (rientrano in tale ultima definizione, secondo la prevalente giurisprudenza di merito formatasi sul punto, gli ausiliari del giudice, gli organi di cancelleria, altre persone cui vengano affidati legittimamente compiti endoprocessuali). Come detto, la legge n. 89 del 2001 non specifica il periodo di tempo massimo valicato il quale la durata del processo diventa irragionevole ma lascia all’interprete l’onere di determinarlo di volta in volta, desumendolo dalla complessità del caso e dal comportamento delle parti, del giudice e di ogni altra autorità chiamata a concorrere o comunque a contribuire alla definizione del processo. Ai fini dell’applicazione della norma interna occorre, dunque, operare una selezione tra i segmenti temporali attribuibili alle parti e quelli riferibili all’operato del giudice, sottraendo 206 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 206 i primi alla durata complessiva del procedimento. Il risultato di tale sottrazione costituisce il tempo complessivo imputabile al giudice, inteso come apparato giudiziario, vale a dire come complesso organizzato di uomini, mezzi e procedure necessari all’espletamento del servizio, in relazione al quale dovrà essere emesso il giudizio inerente alla ragionevolezza o meno della durata del processo. Non tutto il tempo imputabile al giudice, nel senso appena precisato, può essere, però, considerato come eccedente la durata ragionevole. Ogni processo, infatti, anche il più celere, ha una durata fisiologica inevitabilmente collegata allo svolgimento delle varie fasi, delle attività che vi si compiono e degli eventuali diversi gradi di giudizio in cui si è articolato. Affinché, nei singoli casi, i tempi possano essere considerati irragionevoli, non basta guardare al dato relativo alla durata complessiva del processo, ma è necessario verificare di volta in volta se essa si giustifichi in ragione delle attività processuali compiute, non rinvenendosi d’altronde né sul piano normativo né all’interno della giurisprudenza della Corte europea la previsione di un termine di durata media oltre il quale il periodo trascorso deve considerarsi sempre non ragionevole (in questi termini Cass. 25 novembre 2405, n. 25008). Appare evidente, dunque, che il concetto di “termine ragionevole” non è assoluto, ma relativo, e che per stabilire se la durata del processo sia stata ragionevole oppure no, non si può prescindere dalla considerazione delle circostanze del caso concreto, tenendo presente che ciò che la legge ha inteso stigmatizzare è l’inerzia ingiustificata nella definizione dei processi, sanzionando la responsabilità dello Stato per le carenze, non imputabili alle parti, che si verificano nell’organizzazione del servizio dell’amministrazione della giustizia. 5. Venendo all’esame del caso di specie, rileva la Corte che, con riferimento al primo grado, dalla documentazione in atti risulta che la causa è durata esattamente 10 anni, 1 mese e 29 giorni, considerato l’arco di tempo intercorso tra la notifica dell’atto di citazione (23 marzo 1992) e la data di pubblicazione della sentenza (22 maggio 2002), ed ha avuto, in dettaglio, il seguente andamento: IL CONTENZIOSO NAZIONALE 207 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 207 208 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 208 - sono state dunque fissate in tutto 13 udienze; - ne risultano tenute effettivamente 11; - 2 udienze già fissate sono state differite d’ufficio (udienze del 11 novembre 1992 e del 17 ottobre 1996); - per 4 volte il rinvio deve ritenersi imputabile ad attività assertiva o probatoria svolta in udienza dalle parti e non previamente autorizzata e/o alle conseguenti richieste di rinvio per esame e controdeduzioni (udienza del 10 giugno 1992, 24 febbraio 2000, 25 gennaio 2001, 3 maggio 2001); - i rinvii sono sempre stati superiori a tre mesi: in 7 casi il rinvio ha superato anche i sei mesi; in 2 casi è stato superiore ad un anno; - si sono succeduti 6 giudici (gli ultimi dei quali, onorari). Alla luce di tali dati non può non considerarsi, ai fini della valutazione cui è chiamato questo Collegio, che, se da un lato, la controversia non si presentava di particolare complessità, dall’altro, vi è stato un rallentamento del processo dovuto ai quattro rinvii ascrivibili al comportamento delle parti, rallentando quantificabile all’incirca in un anno tenuto conto di un arco temporale medio di tre mesi tra un’udienza e l’altra. Se si considerano le suddette circostanze, il termine ragionevole di durata del processo di primo grado può essere stimato nel caso concreto in quattro anni, dovendosi aggiungere l’anno che, come detto, è imputabile al comportamento delle parti, ai tre anni che, secondo la Corte di Strasburgo – le cui sentenze in tema di interpretazione dell’art. 6, par. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, pur non avendo efficacia immediatamente vincolante per il giudice italiano, rappresentano nondimeno la prima e più importante guida ermeneutica (Cass. 2 marzo 2004, n. 4247) – , costituiscono in astratto il termine di ordinaria durata per una causa di media complessità. Si ritiene, pertanto, che in relazione alla complessiva durata del primo grado di giudizio non appare ragionevole, in quanto non giustificata, la durata di anni 6, mesi 1 e giorni 29. Se non ci fossero stati, dunque, i disservizi e le manchevolezze dell’apparato giudiziario la causa in primo grado si sarebbe dovuta concludere entro il mese di marzo del 1996 (ossia, come detto, a distanza di quattro anni dal suo inizio). Da quella data in poi deve considerarsi dunque sorto il diritto all’equa riparazione per tutta la successiva irragionevole durata del processo. Viene però in rilievo, a questo punto, l’esaminata eccezione di prescrizione che, in quanto fondata, per i motivi detti, deve indurre a ritenere estinto il diritto all’indennizzo per il danno riferibile al segmento temporale collocato oltre dieci anni prima della notifica del ricorso introduttivo, ossia compreso tra il predetto limite di ragionevole durata del processo (marzo 1996) e la data antecedente di dieci anni quella di notifica del ricorso: 24 luglio 1998. Ne discende, nella specie, che: a) quest’ultima sarà la data di decorrenza per il calcolo dell’indennizzo spettante; b) la irragionevole durata rilevante (perché non “coperta” dalla prescrizione decennale) si riduce quindi a quella di 3 anni, 11 mesi 21 giorni. 6. Per quanto riguarda il secondo grado, si ricava dalla documentazione in atti che esso è durato esattamente 4 anni, 8 mesi e 4 giorni, considerato l’arco di tempo intercorso tra la notifica dell’atto di appello (15 luglio 2002) e la data di pubblicazione della sentenza (19 marzo 2007). Non risultano né sono stati dedotti particolari motivi afferenti ad attività processuali richieste o comunque resesi necessarie ovvero dipendenti dalla natura della controversia, che può anzi considerarsi di medio-lieve complessità, sicché il termine ragionevole di durata del processo di secondo grado può essere stimato nel caso concreto in due anni, ossia in un termine non superiore a quello che secondo la giurisprudenza della CEDU deve considerarsi in astratto l’ordinaria durata per un giudizio di secondo grado, di media complessità. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 209 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 209 Per la parte eccedente (pari a 2 anni, 8 mesi e 4 giorni) la durata deve pertanto considerarsi ingiustificata e fonte anch’essa, in presenza degli altri presupposti, del reclamato diritto all’indennizzo, essendo appena il caso di segnalare che esso ovviamente si riferisce a periodo per il quale non può considerarsi maturata, in nessuna misura, l’eccepita prescrizione. 7. A tale periodo va peraltro anche aggiunto quello intercorso tra la data di pubblicazione della sentenza di primo grado (22 maggio 2002) e la data di proposizione del gravame (15 luglio 2002) trattandosi di fase che non può essere imputata a comportamento anomalo della parte, costituendo invero esercizio del suo diritto costituzionalmente garantito di agire e difendersi in giudizio e considerata peraltro nella specie la limitata estensione di tale periodo, pienamente giustificabile dall’esigenza di esame e studio della sentenza di primo grado e di redazione dell’atto di appello (cfr. Cass. 9 luglio 2005, n. 14477). Essa, pertanto, non può essere detratta dalla complessiva durata del processo ai fini del calcolo di quella parte di esso che può considerarsi ragionevole e di quella che invece tale non può considerarsi. Occorre infatti tenere presente al riguardo che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza europea, e, di riflesso, anche in quella nazionale, agli effetti dell’apprezzamento del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali devesi avere riguardo all’intero svolgimento del processo medesimo, dall’introduzione fino al momento della proposizione della domanda di equa riparazione (o della cessazione del processo de quo se anteriore), dovendosi cioè addivenire ad una valutazione sintetica e complessiva del processo anzidetto, alla maniera in cui si è concretamente articolato (per gradi e fasi appunto), così da sommare globalmente tutte le durate, atteso che queste ineriscono all’unico processo da considerare, secondo quanto induce a ritenere il fatto che, a norma dell’art. 4 della citata legge, ferma restando la possibilità di proporne la domanda di riparazione durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, tale domanda deve essere avanzata, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il procedimento stesso, è divenuta definitiva (Cass. 7 settembre 2005, n. 17838; v. anche conf. Cass. 18 febbraio 2004, n. 3143; 29 dicembre 2005, n. 28864; 10 maggio 2006, n. 10810; 6 settembre 2007, n. 18720 e altre conformi). Non considerare, dunque, in tale calcolo il tempo occorso per lo studio della sentenza e la proposizione dell’atto d’appello (quando, come nel caso di specie, esso è contenuto in tempi del tutto giustificabili) significherebbe prolungare senza alcuna apprezzabile ragione il tempo di durata ragionevole del processo quale presunto (in relazione alle fasi di giudizio – primo e secondo grado – che qui vengono in considerazione) pari al massimo in cinque anni (3+2). Potrebbe al più, tale intervallo, non considerarsi fonte di diritto all’indennizzo soltanto qualora la sua durata possa ritenersi “assorbita” in quella presunta come ragionevole per la durata del giudizio di appello (nel caso in cui, cioè, la sentenza d’appello intervenga entro il termine di due anni dalla sentenza di primo grado). Ipotesi che però, nella specie, per quanto detto, non ricorre. 8. In conclusione, l’indennizzo in concreto spettante al ricorrente può, nel caso di specie, essere parametrato in riferimento ad un termine (di irragionevole durata) di complessivi 6 anni, 7 mesi e 23 giorni. 9. Il ricorrente ha chiesto il riconoscimento del danno non patrimoniale. La domanda è fondata e merita accoglimento. E, invero, al rilievo del Ministero resistente secondo il quale gli istanti non hanno provato l’esistenza del tipo di danno dedotto, non può non obiettarsi che – se pur è vero che la Suprema Corte ha ripetutamente affermato che deve essere esclusa la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa, automaticamente e necessariamente riconducibile all’ac- 210 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 210 certamento della violazione relativa alla ragionevole durata del processo – tuttavia le Sezioni Unite della stessa Suprema Corte hanno avuto modo di precisare che “in tema di equa riparazione ai sensi dell’art. 2 della legge 24 marzo 2001 n. 89, il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali: sicché, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa – ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione – il giudice, una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme della citata legge n. 89 del 2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente” (Cass., sez. un. 26 gennaio 2004, n. 1338). In applicazione del principio di cui sopra, nel caso di specie, non ricorrendo circostanze concrete che facciano positivamente escludere l’esistenza del danno non patrimoniale lamentato dal ricorrente, deve ritenersi che la durata eccessiva del processo gli abbia cagionato quel senso di frustrazione e impotenza che, secondo l’id quod plerumque accidit, prende qualunque cittadino, causandogli un negabile stato di stress, allorquando, per ingiustificati ritardi e disfunzioni del servizio giustizia, non riesce a ottenere tempestivamente il riconoscimento dei propri diritti. Per quanto concerne 1a liquidazione di tale tipo di pregiudizio, considerate le circostanze che caratterizzano il caso in esame e avuto riguardo, in particolare, alle cause e alla natura del giudizio del cui ritardo qui si discute, ritiene la Corte che il danno non patrimoniale sofferto dal ricorrente possa essere equitativamente determinato, adottando i consueti criteri di valutazione, in € 1.000,00 per ogni anno di ritardo e, quindi, in complessivi € 6.652,05, già calcolato con riferimento all’attualità. 10. Su tale somma decorrono gli interessi legali dalla data della domanda, in base al principio secondo cui gli effetti della pronuncia retroagiscono alla data della domanda, nonostante il carattere di incertezza e illiquidità del credito prima della pronuncia giudiziaria (Cass. 13 aprile 2006, n. 8712). 11. Avuto riguardo al solo parziale accoglimento della domanda, ma considerato anche il marginale peso dell’eccezione accolta nell’economia della lite, equo appare compensare tra le parti le spese processuali in ragione di un quarto e condannare l’Amministrazione resistente alla rifusione della restante parte, liquidate come da dispositivo e da distrarsi in favore del procuratore antistatario. P.Q.M. La Corte di Appello di Reggio Calabria, visto l’art. 3 della legge 24 marzo 2001 n. 89, accoglie per quanta di ragione la domanda proposta da C.M. con ricorso depositato in data 8 novembre 2007 e, per l’effetto: 1) condanna il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, al pagamento in favore del ricorrente, della somma di € 6.652,05, con gli interessi legali dalla data della domanda e sino all’effettivo pagamento; 2) compensa per un quarto tra le parti le spese processuali, condannando il predetto Ministero al pagamento, in favore del procuratore antistatario, Avv. Mario Intilisano, della restante parte (…). Così deciso in Reggio Calabria nella Camera di Consiglio del 30 ottobre 2008». IL CONTENZIOSO NAZIONALE 211 03 cont naz 01 mutarelli.qxp 06/04/2009 14.19 Pagina 211 Dossier Sul recupero dei benefici previdenziali post-sisma (Corte d’Appello di Campobasso, sentenza 28 marzo 2008 n. 74; Corte costituzionale, sentenza 1 agosto 2008 n. 325) La sentenza della Corte costituzionale n. 325/2008 è intervenuta sulla delicata materia degli ausili pubblici connessi con gli eventi sismici che nei più recenti anni hanno interessato le regioni Molise e Puglia, fornendo un chiaro ausilio interpretativo per la lettura del quadro normativo dettato in materia emergenziale. Afronte del sisma sono state infatti adottate numerose disposizioni emergenziali, fra le quali l’art. 7 dell’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3253 del 29 novembre 2002 ha disposto che “Nei confronti dei soggetti residenti, aventi sede legale od operativa alla data degli eventi sismici iniziati il 31 ottobre 2002 nel territorio di cui al D.P.C.M. 31 ottobre 2002 e al D.P.C.M. 8 novembre 2002 sono sospesi, fino al 31 marzo 2003, i versamenti dei contributi di previdenza e di assistenza sociale e dei premi per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, ivi compresa la quota a carico dei lavoratori dipendenti, nonché di quelli con contratto di collaborazione coordinata e continuativa. Per lo stesso periodo sono sospesi i termini per l’effettuazione degli adempimenti connessi al versamento dei contributi di cui sopra”, disposizione poi prorogata con successivi provvedimenti fino al dicembre 2005. In merito alla riferita norma erano state fornite divergenti letture in ordine all’ambito soggettivo ed oggettivo di applicazione che hanno originato un contenzioso di rilevante portata numerica azionato dai pubblici dipendenti e diretto a veder loro riconosciuti i richiamati benefici, consistenti in un “rinvio” del versamento degli oneri previdenziali. A tale posizione si contrapponeva quella dell’amministrazione volta a disconoscere le pretese sulla base della ritenuta inapplicabilità dei benefici ai datori di lavoro pubblici. Si era infatti evidenziato che la disposizione non è diretta a creare condizioni individuali di temporaneo arricchimento, bensì ad alleviare gli oneri sociali gravanti sugli operatori economici privati, onde consentire l’abbreviazione dei tempi di ripresa della produzione di valore aggiunto. Nelle more della definizione dei processi è quindi intervenuto, quale norma di interpretazione autentica, l’art. 6 comma 2° del D.L. 9 ottobre 2006 n. 263, inserito dalla legge di conversione 6 dicembre 2006, n. 290, il quale dispone che “La legge 24 febbraio 1992, n. 225, si interpreta nel senso che le disposizioni delle ordinanze di protezione civile che prevedono il beneficio della sospensione dei versamenti dei contributi previdenziali ed assistenziali e dei premi assicurativi si applicano esclusivamente ai datori di lavoro pri- 212 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 02 varone.qxp 06/04/2009 14.23 Pagina 212 IL CONTENZIOSO NAZIONALE 213 vati aventi sede legale ed operativa nei comuni individuati da ordinanze di protezione civile”. Proprio tale norma, che chiariva la correttezza della lettura operata dall’amministrazione lì dove si era dedotta l’inapplicabilità del beneficio ai lavoratori dipendenti da datori pubblici, è stata oggetto di dubbi di compatibilità con il dettato costituzionale, risolti dalla Consulta con la richiamata sentenza. Nell’attesa delle prime pronunce della Cassazione sulla materia, è assai significativo che la Corte, al fine di valutare la costituzionalità della norma, abbia fornito un rilevante ausilio interpretativo affermando, sulla scorta di quanto dedotto dalla difesa erariale, che “la limitazione del beneficio ai soli datori di lavoro non è incoerente con la disciplina in materia assistenziale e previdenziale che pone a carico del datore di lavoro l’onere del versamento contributivo anche per la quota a carico del lavoratore. Per altro verso, corrisponde ad un principio di non irragionevole esercizio della discrezionalità del legislatore la scelta di limitare il beneficio della sospensione del versamento contributivo ai soli datori di lavoro del settore privato. Questi ultimi, infatti, a differenza delle amministrazioni pubbliche, spesso non dispongono di sufficienti risorse e di idonea capacità organizzativa per fronteggiare in modo adeguato emergenze come quelle originate dall’evento sismico”. Avv. Stefano Varone(*) Corte d’Appello di Campobasso, sentenza 28 marzo 2008 n. 74 – Pres. D. Gentile – Rel. V. Pupilella – Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Avvocatura distrettuale dello Stato di Campobasso) c/ C.G. (Avv. M. Di Niro). Sospensione versamento contributi previdenziali. «(…) Fatto e Diritto Con sentenza del 29 giugno 2006 il Tribunale di Campobasso, in funzione di giudice del lavoro, ha respinto la opposizione proposta dal Ministero odierno appellante avverso il d.i. ottenuto dal pubblico impiegato appellato per il rimborso di contributi previdenziali mensili relativi all’anno 2005 – rimborso richiesto perché il versamento dei contributi stessi era ancora sospeso, giusta la normativa emergenziale (per calamità naturale) emessa in favore della provincia di Campobasso. Il Tribunale, con la impugnata sentenza, ha osservato che beneficiari della sospensione di cui trattasi sono altresì i lavoratori, relativamente alla loro quota di contribuzione previdenziale – onde rendere maggiore la capacità di consumo e favorire la ripresa economica –, e compresi quelli non legati da rapporto di lavoro con aziende private nonché che comunque prestavano lavoro nella zona colpita da calamità naturale. Il soccombente Ministero ha proposto argomentato appello per la riforma della predetta sentenza. Al gravame resiste l’appellato. Rileva la Corte che la impugnazione non può avere esito positivo. (*)Avvocato dello Stato. 03 cont naz 02 varone.qxp 06/04/2009 14.23 Pagina 213 Deduce l’appellante che ha errato il primo giudice nel riconoscere la operatività pure per i lavoratori dipendenti pubblici della sospensione di versamento di contributi previdenziali: ma, in effetti, ad avviso di questo Collegio, è condivisibile la indicazione del Tribunale di essere la sospensione de qua diretta altresì alla suddetta categoria di lavoratori, poiché evidentemente anche questi ultimi sono stati colpiti dal disagio conseguente agli eventi calamitosi (e hanno contribuzione previdenziale a loro carico, a cui sintomaticamente la stessa norma non manca di fare riferimento). D’altronde, se scopo della sospensione di cui trattasi è quello di consentire una rapida ripresa delle attività economico-produttive, non v’è chi non veda che va sostenuta pure la pronta e ampia ripresa dei consumi, attraverso il temporaneo maggior ammontare delle retribuzioni. Rileva, poi, la Corte che, contrariamente a quanto dedotto dall’impugnante, neanche può avere rilievo, nel presente caso, l’ordinanza Pres. Cons. Min. del 10 giugno 2005, siccome non attiene al territorio della provincia di Campobasso, e peraltro introducendo in materia un limite soggettivo nuovo relativamente ai datori di lavoro – qual è la riferibilità del beneficio in parola solo ai datori di lavoro privati – . Parimenti non appare avere qui applicabilità il D.L. 263/06, conv. in legge 290/06 – laddove si è inteso interpretare autenticamente la legge 225/92 prevedendo che le ordinanze emergenziali di sospensione di versamento di contributi previdenziali ivi contemplate sono dirette ai privati datori di lavoro –, norma a cui pure si è richiamato l’impugnante, e ciò per l’assorbente motivo che l’ord. P.C.M. n. 3253 del 29 novembre 2002, che ha inizialmente ammesso la sospensione più volte menzionata, risulta emanata anche in base al D.L. 245/02, conv. in legge 286/02, legislazione che ha in via autonoma disposto benefici emergenziali (da stabilirsi d’intesa con la Regione ed ai sensi della legge 225/92) e non è interessata dalla interpretazione autentica succitata, e peraltro è interpretazione concernente la posizione (contributiva) dei datori di lavoro; le proroghe fino al 31 dicembre 2005 del beneficio de quo, poi, sono da correlare appunto alla detta iniziale ordinanza presidenziale (cfr. ord. P.C.M. n. 3300 del 2003 e ord. P.C.M. n. 3344 del 2004, e la proroga dei “termini” indicata nei detti provvedimenti evidentemente e logicamente è riferita pure ai versamenti, com’è dato ricavare anche dalla incontestata sua concreta esecuzione avutasi nel tempo). Osserva, inoltre, la Corte, in ordine alle altre deduzioni dell’impugnante: che il credito oggetto del d.i. è stato azionato dal lavoratore interessato, sicché non v’è questione in ordine a necessità di una richiesta dello stesso (d’altronde non potrebbe non rilevare altresì il comportamento concludente dell’interessato di accettazione dei ratei della contribuzione previdenziale dovuta); che non v’è necessità di (prova della) residenza anagrafica del beneficiario nel territorio considerato dalle ordinanze emergenziali di cui trattasi, perché, oltre ad essere questione non posta in primo grado e l’essere appunto il riferimento alla residenza un ulteriore riscontro che la sospensione concerne pure persone fisiche, vi è che la generica previsione, nella normativa de qua, anche della “sede operativa” dei beneficiari è da interpretare quale rilievo da assegnare altresì al luogo della operatività del soggetto debitore della contribuzione previdenziale – atteso che i danni da calamità naturale si riflettono altresì su siffatti soggetti –. L’appello va, quindi, respinto, con conferma della impugnata sentenza. La peculiarità del caso fa ravvisare giusti motivi per compensare anche in questo grado le spese di lite. P.Q.M. la Corte di Appello di Campobasso, in funzione di giudice del lavoro, sentiti i procuratori costituiti e definitivamente pronunciando sull’appello proposto, avverso la sentenza del Tribunale di Campobasso in data 29 giugno 2006 e con ricorso qui depositato il 9 marzo 214 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 02 varone.qxp 06/04/2009 14.23 Pagina 214 2007, da Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti nei confronti di C.G., ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione disattesa, così provvede: – rigetta l’appello, confermando la impugnata sentenza; – compensa per intero tra le parti le spese del presente grado. Campobasso, 20 febbraio 2008 (…)». Corte costituzionale, sentenza 1 agosto 2008 n. 325 – Pres. F. Bile – Red. P.M. Napolitano. «(…) Ritenuto in fatto 1. - Con cinque ordinanze di analogo tenore (r.o. nn. 687, 688, 689, 690 e 691 del 2007), il Tribunale amministrativo regionale del Molise ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, dell’art. 6, comma 1-bis, del decreto-legge del 9 ottobre 2006, n. 263 (Misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania – Misure per la raccolta differenziata), comma aggiunto dalla legge di conversione 6 dicembre 2006, n. 290, «sia ove interpretato nel senso di conferire solo ai datori di lavoro e ai lavoratori privati il diritto di beneficiare della sospensione dei contributi, sia ove inteso nel senso che ai soli datori di lavoro privati è concesso il beneficio di non versare la propria quota di contribuzione ai competenti Istituti previdenziali». Il T.A.R. del Molise ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della citata disposizione nel corso di giudizi aventi ad oggetto l’accertamento del diritto di taluni magistrati, in servizio presso il Tribunale di Campobasso, alla percezione della retribuzione mensile al lordo delle ritenute e trattenute previdenziali, a far data dal novembre 2002. L’art. 7 dell’ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri (in seguito o.P.C.m.) del 29 novembre 2002, n. 3253 (Primi interventi urgenti diretti a fronteggiare i danni conseguenti ai gravi eventi sismici verificatisi nel territorio delle province di Campobasso e di Foggia ed altre misure di protezione civile), e successive proroghe, aveva previsto che – a seguito degli eventi sismici che avevano investito la Regione Molise tra i mesi di ottobre e novembre del 2002 – fosse sospeso l’obbligo del versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per i soggetti residenti, aventi sede legale o operativa, alla data dei predetti eventi calamitosi, nelle province di Campobasso e Foggia, disponendo che la sospensione dovesse essere comprensiva anche della quota a carico dei lavoratori dipendenti, nonché di coloro che avessero contratti di collaborazione coordinata e continuativa. Da qui i ricorsi degli interessati, secondo i quali il quadro normativo, come sopra delineato, «evidenzierebbe la sussistenza dell’obbligo, in capo ai datori di lavoro, di sospendere le trattenute previdenziali e assistenziali relative ai propri dipendenti, che prestano servizio nel territorio della provincia di Campobasso». 1.2. - Il legislatore, dopo che si erano determinate diverse interpretazioni della norma stessa – tra cui una del medesimo T.A.R. del Molise (sentenza del 29 aprile 2006, n. 400) – è intervenuto con la legge 16 dicembre 2006, n. 290, che ha convertito in legge il d.l. n. 263 del 2006, introducendo all’art. 6 il comma 1-bis che recita testualmente: «La legge 24 febbraio 1992, n. 225, si interpreta nel senso che le disposizioni delle ordinanze di protezione civile che prevedono il beneficio della sospensione dei versamenti dei contributi previdenziali ed assistenziali e dei premi assicurativi si applicano esclusivamente ai datori di lavoro privati aventi sede legale ed operativa nei comuni individuati da ordinanze di protezione civile». IL CONTENZIOSO NAZIONALE 215 03 cont naz 02 varone.qxp 06/04/2009 14.23 Pagina 215 Il giudice a quo, ritenuta la natura interpretativa di questo intervento, solleva questione di legittimità costituzionale del citato 1-bis «sia ove interpretato nel senso di conferire solo ai datori di lavoro e ai lavoratori privati il diritto di beneficiare della sospensione dei contributi, sia ove inteso nel senso che ai soli datori di lavoro privati è concesso il beneficio di non versare la propria quota di contribuzione ai competenti Istituti previdenziali». Secondo il rimettente, la prima lettura violerebbe l’art. 3 Cost. per l’irragionevole disparità di trattamento che si verrebbe a determinare tra i dipendenti del settore privato e quelli del settore pubblico; la seconda lettura sarebbe in contrasto sia con l’art. 2 Cost., «per ingiustificata esclusione dal godimento dei benefici emergenziali dei lavoratori dipendenti, anch’essi pregiudicati dalle conseguenze del sisma ed anch’essi destinatari su un piano generale degli interventi in parola», sia con l’art. 3 Cost., «per irragionevole disparità di trattamento tra datori di lavoro e lavoratori», in quanto la calamità naturale avrebbe «inciso in ugual misura su entrambe le categorie di soggetti», ma soltanto i primi «beneficerebbero della sospensione del versamento della propria quota di contribuzione». Sotto il profilo della rilevanza, il rimettente osserva come la stessa sussista poiché «solo attraverso l’eliminazione della norma sospettata di incostituzionalità, i ricorrenti, lavoratori dipendenti del settore pubblico e residenti «in un Comune molisano individuato da ordinanza della protezione civile, potrebbe[ro] continuare a percepire la propria retribuzione al lordo della quota di contribuzione». 2. - È intervenuto nei giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sollevata sia dichiarata inammissibile o, comunque, manifestamente infondata. 2.1. - L’Avvocatura dello Stato ritiene, anzitutto, che sussistano gli estremi per la declaratoria di inammissibilità, in quanto la questione di legittimità costituzionale della norma censurata è avanzata «sotto due diverse chiavi di lettura della medesima», non consentendo, pertanto, l’identificazione del thema decidendum. Infatti, l’ordinanza del T.A.R. del Molise si fonda su interpretazioni contrapposte della norma applicabile e non opera una scelta tra contenuti normativi che pur risultando diversi sono prospettati contestualmente, senza alcuna subordinazione dell’uno rispetto all’altro. La difesa erariale ritiene, altresì, che sussista un altro motivo di inammissibilità, perché si propone alla Corte una mera questione interpretativa che, per pacifica giurisprudenza, non è ammissibile in sede di giudizio incidentale di legittimità costituzionale. 2.2. - Nel merito, osserva, poi, l’Avvocatura che la norma sospettata di incostituzionalità è rivolta, inequivocabilmente, «direttamente ed in primo luogo ai datori di lavoro e non ai lavoratori», datori di lavoro i quali «non possono che essere quelli privati». La ratio dell’intervento, infatti, è quella di tutelare la produzione di beni e servizi e l’intermediazione economica; in altri termini, il legislatore guarda «al settore economico privato, non certo all’attività della P.A.». Per rilanciare il sistema produttivo, secondo la prospettazione dell’Avvocatura, si utilizza lo strumento nella sospensione di un obbligo contributivo particolarmente gravoso per i datori di lavoro, al fine di consentire a questi ultimi di «investire in misura maggiore» in una situazione di emergenza determinata dal sisma. Se questa è la ratio posta alla base della scelta legislativa, osserva ancora l’Avvocatura, ha rilievo marginale l’effetto che la stessa determina anche in favore dei soli lavoratori privati, considerato tra l’altro che la quota di contribuzione dagli stessi dovuta (e normalmente prelevata dal datore di lavoro nella sua qualità di sostituto) è modesta e la maggior retribuzione è comunque fiscalizzata. D’altro canto, che non sia questo ultimo effetto quello volu- 216 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 02 varone.qxp 06/04/2009 14.23 Pagina 216 to dal legislatore (ma solo una conseguenza della ratio della norma che è di incentivare la produzione economica), lo confermerebbe il rilievo che se il rilancio di un territorio, gravemente colpito da una calamità naturale, fosse affidato ad un’azione finalizzata «a garantire maggior liquidità ai lavoratori della zona terremotata», questa sarebbe «una misura dalla portata economicamente debole e soprattutto poco lungimirante». In relazione a quanto sopra, la difesa erariale conclude per la manifesta infondatezza della questione con riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. 2.3. - Ugualmente manifestamente infondata sarebbe la denunciata disparità di trattamento tra lavoratori pubblici e privati, in quanto il confronto sarebbe condotto rispetto a situazioni del tutto disomogenee. In proposito l’Avvocatura osserva che è sufficiente considerare che la pubblica amministrazione non ha fini lucrativi e la prestazione di lavoro si svolge secondo regole e parametri sui quali sono ininfluenti i fenomeni naturali e le condizioni ambientali eccezionali. Tutto al contrario, il datore di lavoro privato, che opera in un determinato territorio, è significativamente esposto a tutti quegli accadimenti che incidono sulla dimensione organizzativa dell’impresa e sulla possibilità di un suo esercizio caratterizzato da rigorosi parametri economici. Ne discende, quindi, oltre alla disomogeneità delle posizioni poste a confronto, l’assoluta ragionevolezza di una scelta legislativa che limiti il beneficio ai soli datori di lavoro privati i quali, a differenza della pubblica amministrazione, non sempre dispongono di una capacità organizzativa e di risorse idonee a fronteggiare in modo adeguato le situazioni di emergenza originate da un evento sismico. Infine, per l’Avvocatura, l’ordinanza di rimessione cerca di ottenere dalla Corte un vero e proprio intervento manipolativo o additivo, finalizzato a creare una norma che non è presente nell’ordinamento. 3. - Nel procedimento r.o. n. 687 del 2007 si è costituito il ricorrente nel giudizio a quo, il quale, riservandosi ulteriori argomentazioni e deduzioni, ha concluso per l’accoglimento della questione. 3.1. - In prossimità della data di udienza, la costituita parte privata, sciogliendo la riserva precedentemente formulata, ha depositato memoria illustrativa. In essa, ricostruita brevemente la vicenda normativa che ha portato all’adozione della disposizione censurata, afferma che, contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente, la stessa non avrebbe natura «propriamente » interpretativa, ma innovativa con effetto retroattivo. Al riguardo osserva che la giurisprudenza costituzionale, anche recentemente (sentenza n. 170 del 2008), riconosce al legislatore la possibilità di emanare norme che precisino il significato di preesistenti disposizioni anche nel caso che non siano insorti contrasti giurisprudenziali, «ma sussista comunque una situazione di incertezza nella loro applicazione». Nel caso di specie, però, non sarebbero esistiti contrasti interpretativi da dirimere; così come, parimenti, non vi sarebbero incertezze interpretative quanto alla disciplina preesistente, essendo la stessa così lineare da potersi prestare ad un’unica lettura. Inoltre, sempre secondo la parte privata, la cosiddetta norma di interpretazione autentica non svolgerebbe tale funzione con riferimento ad una legge (specificamente la legge 24 febbraio 1992, n. 225, recante «Istituzione del servizio nazionale della protezione civile»), ma soltanto con riguardo ad ordinanze del Presidente del Consiglio dei ministri, dal momento che la legge sopra richiamata, all’art. 5, si limiterebbe a prevedere il potere di ordinanza di questo ultimo in caso di calamità naturali. Comunque, prosegue la difesa di parte privata, anche volendo ritenere interpretativa la norma censurata, va segnalato che le norme di interpretazione autentica, avendo come tali efficacia retroattiva, dovrebbero essere sottoposte ad un rigoroso scrutinio di ragionevolezza. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 217 03 cont naz 02 varone.qxp 06/04/2009 14.23 Pagina 217 Peraltro, la norma in questione «non potrebbe passare indenne neppure da uno scrutinio di ragionevolezza che eventualmente fosse a maglie larghe», in quanto sarebbe priva di giustificazioni la differenza di trattamento fra dipendenti privati e pubblici. Viene, inoltre, sottolineato che tutta la popolazione del Molise avrebbe subito i disagi del sisma, non essendo gli stessi riferibili ai soli lavoratori privati. 3.2. - Sostiene, infine, la parte privata, l’infondatezza dell’eccezione avanzata dalla difesa erariale, là dove la stessa afferma l’inammissibilità della questione poiché proposta in modo alternativo o ancipite: in realtà, l’ordinanza di rimessione avrebbe solo voluto prospettare tutti i profili di irragionevolezza della disposizione censurata, risultando chiaro che la censura investe solo l’irragionevole discriminazione di cui sono oggetto i dipendenti pubblici. 4. - Con successiva ordinanza del 12 dicembre 2007 (r.o. n. 54 del 2008), analoga questione di legittimità costituzionale della medesima norma di interpretazione, in riferimento agli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione, è stata sollevata dallo stesso T.A.R. del Molise, investito del ricorso proposto da due docenti dell’Università di Campobasso volto ad accertare il loro diritto a percepire la retribuzione al lordo delle ritenute e trattenute previdenziali, in base a quanto disposto dall’art. 7 dell’ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri n. 3253 del 2002 e successive proroghe. 4.1. - Diversamente da quanto argomentato nelle precedenti ordinanze, il T.A.R. prospetta ora una sola lettura della norma, in base alla quale sarebbero esclusi dal beneficio della sospensione tutti i lavoratori, pubblici e privati. Si denuncia anche l’irragionevole disparità di trattamento nei confronti dei lavoratori autonomi e degli «imprenditori artigiani». La disposizione censurata violerebbe, con le identiche motivazioni di cui sopra, gli artt. 2 e 3 Cost., nonché l’art. 24 Cost. Secondo il rimettente, difatti, relativamente a questa ultima censura, la norma interpretativa avrebbe vulnerato le prerogative del potere giurisdizionale, essendo stata emanata «nell’intento specifico di eludere e paralizzare gli effetti delle decisioni giurisprudenziali», che avevano riconosciuto ai lavoratori dipendenti, anche privati, il diritto a fruire della sospensione del versamento della contribuzione. 4.2. - Il giudice a quo ritiene rilevante, ai fini della definizione del giudizio principale, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1-bis, del d.l. n. 263 del 2006, in quanto il dettato del citato comma osta all’accoglimento delle pretese dei ricorrenti. 4.3. - In ordine, quindi, alla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente afferma che la norma denunciata, violando l’art. 3, primo comma, Cost., determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra datori di lavoro e lavoratori sia pubblici che privati, oltre che autonomi ed «imprenditori artigiani», risultando tutti, tranne i primi, esclusi dal beneficio. Tale disparità di trattamento non troverebbe alcuna giustificazione, secondo il rimettente, «in una diversità di situazioni di partenza, in quanto entrambi i soggetti – datore di lavoro/lavoratore – sono stati colpiti allo stesso modo dall’evento calamitoso». Inoltre, tale scelta del legislatore si dimostrerebbe vieppiù irrazionale, tenendo conto dell’esclusione dal beneficio anche dei lavoratori autonomi e degli artigiani, i quali «pur essendo datori di lavoro di se stessi, non possono nondimeno beneficiare della sospensione dei contributi previdenziali gravanti a loro carico, in evidente contraddizione con la ratio legis volta a favorire nel suo complesso il rilancio economico-produttivo delle zone interessate dall’evento sismico». Quindi, la norma impugnata verrebbe a ledere anche gli artt. 2 e 3, primo e secondo comma, Cost., in quanto essa – pur collocandosi in un contesto di benefici alle popolazioni colpite dal sisma del 2002 – escluderebbe, ingiustificatamente, dalla possibilità di godere «delle misure emergenziali» i lavoratori dipendenti, colpiti, anch’essi, al pari dei datori di lavoro, dalla calamità e «anch’essi destinatari su un piano generale degli interventi in questione». 218 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 02 varone.qxp 06/04/2009 14.23 Pagina 218 4.4. - Il T.A.R. del Molise ravvisa, poi, anche una lesione dell’art. 24 Cost., in quanto la norma sospettata di incostituzionalità – a fronte di un consolidato orientamento sia della giurisprudenza amministrativa che di quella ordinaria, che aveva riconosciuto ai lavoratori dipendenti il diritto a fruire della sospensione del versamento della contribuzione – sarebbe stata emanata con l’intento di «paralizzare ed eludere gli effetti [di tali] decisioni giurisprudenziali, con vulnerazione conseguente delle prerogative del potere giurisdizionale». 5. - È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sollevata sia dichiarata inammissibile o, comunque, manifestamente infondata. La difesa erariale, in particolare, afferma che la denunciata violazione dell’art. 3 Cost. non sussiste, in quanto le posizioni dei lavoratori dipendenti e dei datori di lavoro privati, «ai fini della prospettata ingiustificata disparità di trattamento, non sono omogenee», poiché i primi, pur colpiti dal sisma, non sopportano le conseguenze economiche inerenti al rischio d’impresa. La difesa pubblica sottolinea, poi, l’inammissibilità, stante la sua irrilevanza, della questione relativa alla disparità di trattamento, là dove la stessa viene prospettata con riferimento alla categoria dei lavoratori autonomi ed artigiani, essendo pacifico che i ricorrenti nel giudizio a quo sono dipendenti dell’Università degli studi del Molise. Infine, sempre con riferimento alla violazione del parametro rappresentato dall’art. 3 Cost., l’Avvocatura dello Stato evidenzia come la scelta del legislatore non possa comunque definirsi arbitraria. Quanto, ancora, alla violazione dell’art. 2 Cost., la questione viene ritenuta inammissibile per carenza di supporti argomentativi. Infine, inammissibile e, comunque, infondata è, per l’Avvocatura, la questione in riferimento all’art. 24 Cost., perché il parametro evocato è «assolutamente inconferente». 6. - Si sono costituiti in giudizio i ricorrenti nel giudizio a quo, i quali, riservandosi ulteriori argomentazioni e deduzioni, hanno concluso per la richiesta di declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione censurata. 6.1. - In prossimità dell’udienza pubblica, la difesa di parte privata ha presentato una memoria illustrativa nella quale svolge considerazioni pressoché identiche a quelle già proposte relativamente alla precedente questione (r.o. n. 687 del 2007), sia in riferimento alla natura della disposizione interpretata, sia con riguardo alla fondatezza della questione. Inoltre, per quanto attiene alla violazione dell’art. 24 Cost., la parte privata contesta l’opinione della difesa erariale che ritiene la evocazione di tale parametro inconferente, in quanto la disposizione impugnata atterrebbe «al piano sostanziale della disciplina e dei rapporti e non a quello processuale della tutela dei diritti», affermando che risulta evidente dalla giurisprudenza della Corte come sia illegittima ogni disposizione normativa che intenda eludere o paralizzare, come nel caso in questione, gli effetti delle decisioni giurisprudenziali. Considerato in diritto. 1. - Il Tribunale regionale del Molise, con cinque distinte ordinanze di identico contenuto (r.o. nn. 687, 688, 689, 690 e 691 del 2007), ha sollevato, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1-bis, del decreto- legge 9 ottobre 2006, n. 263 (Misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania – Misure per la raccolta differenziata), comma aggiunto dalla legge di conversione 6 dicembre 2006, n. 290. Il T.A.R. rimettente solleva la questione di legittimità costituzionale del citato comma, «sia ove interpretato nel senso di conferire solo ai datori di lavoro e ai lavoratori privati il IL CONTENZIOSO NAZIONALE 219 03 cont naz 02 varone.qxp 06/04/2009 14.23 Pagina 219 diritto di beneficiare della sospensione dei contributi» previdenziali e assistenziali e dei premi assicurativi, «sia ove inteso nel senso che ai soli datori di lavoro privati è concesso il beneficio di non versare la propria quota di contribuzione ai competenti Istituti previdenziali». Secondo la prima interpretazione, la disposizione sarebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., poiché verrebbe ad escludere irragionevolmente i dipendenti pubblici dal godimento di tale beneficio. In base alla seconda, essa contrasterebbe con l’art. 2 Cost. «per ingiustificata esclusione dal godimento dei benefici emergenziali dei lavoratori dipendenti, anch’essi pregiudicati dalle conseguenze del sisma ed anch’essi destinatari su un piano generale degli interventi in parola», e con l’art. 3 Cost., «per irragionevole disparità di trattamento tra datori di lavoro e lavoratori» perché la calamità naturale avrebbe «inciso in ugual misura su entrambe le categorie di soggetti», mentre soltanto i primi verrebbero a godere del benefico in questione. Successivamente, con altra ordinanza (r.o. n. 54 del 2008), lo stesso T.A.R. del Molise ha nuovamente sollevato analoga questione di legittimità costituzionale della citata norma di interpretazione autentica, in riferimento agli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione. Il T.A.R. rimettente, in questa ordinanza, prospetta, rispetto alle precedenti ordinanze di rimessione, una sola lettura della norma censurata, e, pertanto, lamenta la sola irragionevole disparità di trattamento tra datori di lavoro privati e lavoratori, siano essi pubblici o privati, nonché nei riguardi dei lavoratori autonomi e «imprenditori artigiani». La disposizione censurata violerebbe, con le identiche motivazioni di cui alle già citate precedenti ordinanze, gli artt. 2 e 3 Cost., nonché l’art. 24 Cost., poiché, secondo il rimettente, la norma interpretativa avrebbe vulnerato le prerogative del potere giurisdizionale, essendo stata emanata «nell’intento specifico di eludere e paralizzare gli effetti delle decisioni giurisprudenziali» che avevano riconosciuto ai lavoratori dipendenti, anche privati, il diritto a fruire della sospensione del versamento della contribuzione. I giudizi, in quanto concernenti la stessa disposizione e relativi a questioni analoghe o connesse, devono essere riuniti e decisi con unica pronuncia. 2. - Preliminarmente, deve essere dichiarata la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con le ordinanze r.o. nn. 687, 688, 689, 690 e 691 del 2007. Deve, infatti, essere accolta l’eccezione, sollevata dall’Avvocatura dello Stato, relativa alla loro prospettazione «sotto due diverse chiavi di lettura», che non consentirebbe, pertanto, a questa Corte l’esatta identificazione del thema decidendum. Le questioni risultano formulate in termini di alternativa irrisolta e, dunque, in forma ancipite, non avendo operato il rimettente una scelta tra contenuti normativi che, pur risultando diversi, sono prospettati contestualmente, senza alcuna subordinazione dell’uno rispetto all’altro. La proposizione di questioni di legittimità costituzionale formulate in via alternativa, secondo giurisprudenza costituzionale costante, le rende manifestamente inammissibili (ex plurimis ordinanze n. 449 e n. 122 del 2007; ordinanza n. 362 del 2005). Inoltre, le questioni risultano manifestamente inammissibili anche per l’indeterminatezza di ciò che viene richiesto a questa Corte. La dedotta violazione dell’art. 3 Cost. o, in alternativa, degli artt. 2 e 3 Cost., è argomentata sulla base dell’asserita disparità di trattamento, evocata ora tra lavoratori dipendenti privati e pubblici, ora tra datori di lavoro e lavoratori privati e pubblici, senza che le ordinanze di rimessione tengano conto delle sostanziali differenze tra i soggetti rispetto ai quali viene lamentata una disparità di regime normativo. Poiché il giudice a quo, onde porre rimedio alla denunciata violazione dei parametri costituzionali, non ha concentrato il quesito sull’una o sull’altra delle disparità di trattamen- 220 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 02 varone.qxp 06/04/2009 14.23 Pagina 220 to prospettate, anche le questioni sottoposte a questa Corte (oltre all’interpretazione della disposizione legislativa che ne determinerebbe l’incostituzionalità) risultano formulate in modo ancipite e ne deve essere, anche per questo concorrente motivo, dichiarata la manifesta inammissibilità. 3. - Con l’ordinanza r.o. n. 54 del 2008, il rimettente propone, come si è già detto, una sola lettura della disposizione che sospetta di incostituzionalità. E’, al riguardo, innanzitutto, necessario precisare, con riferimento alla più ampia prospettazione formulata dalle parti costituite, che il thema decidendum è fissato dall’ordinanza di rimessione, potendo la parte privata addurre suoi argomenti nei confronti dei parametri e dei profili sollevati, senza però poterne modificare l’impianto strutturale, e, con riferimento a quanto viene dedotto nell’ordinanza, che il giudizio, dato il suo carattere incidentale, non può riguardare fattispecie non rilevanti nel processo a quo (le quali, del resto, nelle precedenti ordinanze nn. 687, 688, 689, 690 e 691 del 2007, erano state riportate con la precisa indicazione che esse erano evocate «ad colorandum»). 3.1. - Passando all’esame delle censure formulate dal rimettente, debbono essere dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento agli artt. 2 e 24 della Costituzione. 3.2. - Con riguardo alla violazione dell’art. 2 Cost., è, infatti, da accogliere l’eccezione di inammissibilità avanzata dall’Avvocatura dello Stato per carenza di supporti argomentativi. Invero il T.A.R. rimettente denuncia la violazione di questo parametro costituzionale, lamentando l’ingiustificata esclusione dei lavoratori dipendenti dal godimento del beneficio della sospensione dell’obbligo contributivo, sulla base del solo richiamo alla circostanza che anch’essi risultano pregiudicati dalle conseguenze del sisma. In proposito, l’ordinanza di rimessione non illustra in che modo si concretizzi questo pregiudizio in relazione alla disciplina dell’adempimento contributivo che è a carico del datore di lavoro, il quale opera anche come sostituto del lavoratore nell’adempimento dell’obbligazione nei confronti dell’Ente previdenziale. Manca, altresì, qualsivoglia argomentazione in ordine alla ragionevolezza o meno della distribuzione degli oneri connessi al principio di solidarietà economica e sociale di cui è espressione il parametro evocato. Nulla dice il rimettente anche in ordine alle ragioni per cui il legislatore avrebbe, nell’ambito della sua ampia discrezionalità in materia, irragionevolmente distribuito gli oneri della contribuzione previdenziale nel caso in esame. Sotto tale profilo, oltre che per carenza nella motivazione, l’ordinanza di rimessione risulta inammissibile anche perché chiede a questa Corte - a fronte di una fattispecie normativa che realizza un non irragionevole bilanciamento di interessi fra i valori costituzionali in gioco - «l’adozione di un altro, diverso, criterio di bilanciamento» sulla «base di una [.] personale sensibilità alla tematica in questione », la «cui individuazione, nella molteplicità delle soluzioni possibili è, però, rimessa alla prudente discrezionalità del legislatore» (ordinanza n. 393 del 2007). In termini ancora più generali, non viene chiarito se la censura ipotizza una violazione della parte della disposizione costituzionale che «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo» o della parte in cui «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». 3.3. - Ugualmente inammissibile – come del resto eccepito anche dalla difesa erariale – è la censura relativa alla violazione dell’art. 24 Cost., in quanto il parametro costituzionale invocato risulta inconferente. Il T.A.R. del Molise, infatti, non chiarisce sotto quale profilo venga prospettata tale violazione, stante il carattere sostanziale della norma denunciata, che si limita ad interpretare autenticamente l’ambito di applicazione della temporanea IL CONTENZIOSO NAZIONALE 221 03 cont naz 02 varone.qxp 06/04/2009 14.23 Pagina 221 sospensione dell’obbligo contributivo. E’, tra l’altro, da osservare che il rimettente non contesta la natura interpretativa della disposizione in questione. L’inconferenza del parametro evocato è, del resto, confermata dalla circostanza che, secondo l’ordinanza di rimessione, la sua violazione si concretizzerebbe nel fatto che la legge d’interpretazione autentica avrebbe prospettato una lettura diversa rispetto a quella operata dal T.A.R. rimettente e da altri giudici di merito in precedenti decisioni. Al riguardo, anche prescindendo dalla considerazione che il tipo di censura sollevata (nell’ordinanza si lamenta una «vulnerazione [.] delle prerogative del potere giurisdizionale ») sembrerebbe postulare una violazione degli artt. 101 e 113 Cost. più che dell’art. 24 Cost., occorre sottolineare che la costante giurisprudenza di questa Corte ha sempre affermato che la legge di interpretazione autentica non può considerarsi lesiva dei canoni costituzionali di ragionevolezza, e dei principi generali di tutela del legittimo affidamento e di certezza delle situazioni giuridiche, quando «essa si limita ad assegnare alla disposizione interpretata un significato riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario» (ex multis, sentenze n. 74 del 2008; n. 234 del 2007; n. 274 del 2006). 3.4. - Non fondata è, invece, la questione di legittimità costituzionale prospettata dal T.A.R. del Molise per violazione del principio di uguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento – relativamente al godimento del beneficio della sospensione dei versamenti contributivi – tra datori di lavoro e lavoratori sia pubblici che privati, oltre che nei confronti dei lavoratori autonomi ed «imprenditori artigiani». In proposito, come afferma l’Avvocatura dello Stato, la limitazione del beneficio ai soli datori di lavoro non è incoerente con la disciplina in materia assistenziale e previdenziale che pone a carico del datore di lavoro l’onere del versamento contributivo anche per la quota a carico del lavoratore. Per altro verso, corrisponde ad un principio di non irragionevole esercizio della discrezionalità del legislatore la scelta di limitare il beneficio della sospensione del versamento contributivo ai soli datori di lavoro del settore privato. Questi ultimi, infatti, a differenza delle amministrazioni pubbliche, spesso non dispongono di sufficienti risorse e di idonea capacità organizzativa per fronteggiare in modo adeguato emergenze come quelle originate dall’evento sismico. Sempre con riferimento alla sollevata censura di disparità di trattamento, è opportuno sottolineare che nell’ordinanza si sostiene la tesi che la norma sospettata di incostituzionalità verrebbe a determinare una «violazione del principio di uguaglianza» non in quanto discriminerebbe i lavoratori privati rispetto a quelli pubblici, come invece si sosteneva in una delle due letture della disposizione impugnata nel gruppo di ordinanze di cui al precedente punto 2, ma in quanto la discriminazione si verificherebbe tra i datori di lavoro ed i lavoratori dipendenti. Anche tralasciando la circostanza che è improprio ravvisare (né l’ordinanza fornisce adeguati argomenti) una disparità di trattamento in materia previdenziale tra datori di lavoro e lavoratori dipendenti, qualunque sia la natura dei primi, perché la disciplina riferisce ai soli datori di lavoro le obbligazioni relative ai versamenti contributivi, cosicché il lavoratore ne è destinatario soltanto di riflesso, è tuttavia evidente che la trasparente disomogeneità delle situazioni poste a confronto determina l’infondatezza della questione. I termini di raffronto non presentano, infatti, aspetti di tale conformità che impongano al legislatore, pena la violazione dell’art. 3 della Costituzione, di adottare identica disciplina. Ne consegue che l’asserita ingiustificata disparità di trattamento non sussiste, perché eventuali agevolazioni previste per i datori di lavoro privati ben possono, non irragionevol- 222 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 02 varone.qxp 06/04/2009 14.23 Pagina 222 mente, non essere estese anche ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, stante la non omogeneità dei due termini che vengono presi a paragone. Va, infine, affermata la carenza di rilevanza quanto all’evocata disparità di trattamento con i lavoratori autonomi (nei confronti dei quali il Tribunale amministrativo regionale non avrebbe avuto giurisdizione), in quanto, nella fattispecie oggetto del giudizio a quo, i ricorrenti nel processo principale sono dipendenti di una pubblica amministrazione. Per questi motivi la Corte costituzionale riuniti i giudizi, dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1-bis, del decreto-legge 9 ottobre 2006, n. 263 (Misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania – Misure per la raccolta differenziata), comma aggiunto dalla legge di conversione 6 dicembre 2006, n. 290, sollevata, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Molise, con le ordinanze r.o. nn. 687, 688, 689, 690 e 691 del 2007; dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1- bis, del decreto-legge n. 263 del 2006, sollevate, in riferimento agli artt. 2 e 24 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Molise, con l’ordinanza r.o. n. 54 del 2008; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1-bis, del decreto-legge n. 263 del 2006, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Molise, con l’ordinanza r.o. n. 54 del 2008. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 luglio 2008». Avvocatura generale dello Stato – Corte Suprema di Cassazione, sezione lavoro – Ricorso del 27 agosto 2008 per il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (cs. 27128/08, Avv. dello Stato S. Varone) c/ A.M. (Avv. V. Iacovino) per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Campobasso – Sezione Lavoro n. 102/08 (R.G. 129/07) depositata il 4 aprile 2008 e non notificata. « (…) Fatto Con ricorso ex art. 633 c.p.c. A.M. otteneva dal Tribunale decreto ingiuntivo – dichiarato provvisoriamente esecutivo – con il quale veniva intimato all’Amministrazione di corrispondere al dipendente le somme trattenute in busta paga a titolo di contributi previdenziali. A tal fine allegava una presunta violazione dell’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3253 del 29 novembre 2002, la cui efficacia è stata successivamente prorogata fino al dicembre 2005. In particolare l’istante dichiarava di essere dipendente dell’amministrazione in epigrafe indicata, e vantava il diritto, in quanto lavoratore della provincia di Campobasso, a fruire dei benefici della normativa emergenziale conseguente al sisma dell’ottobre 2002. Richiamava quindi l’art. 7 dell’O.P.C.M. 3253 del 29 novembre 2002 nella parte in cui prevede che nei confronti dei soggetti residenti, aventi sede legale od operativa alla data degli eventi sismici iniziati il 31 ottobre 2002 nel territorio di cui ai decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri del 31 ottobre 2002 e dell’8 novembre 2002, sono sospesi i versamenti dei contributi di previdenza e di assistenza sociale e dei premi per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, ivi compresa la quota a carico dei lavoratori dipendenti. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 223 03 cont naz 02 varone.qxp 06/04/2009 14.23 Pagina 223 Sosteneva pertanto l’illegittimità del comportamento dell’amministrazione lì dove, mutando orientamento rispetto all’iniziale applicazione del beneficio, aveva versato all’istituto previdenziale la quota parte di contributi previdenziali ed assistenziali dei lavoratori, omettendo pertanto di corrisponderli direttamente ai dipendenti mediante inclusione in busta paga. Il Tribunale, in accoglimento della pretesa monitoria, ingiungeva all’amministrazione il pagamento delle somme trattenute a titolo di contributi previdenziali (e dall’amministrazione già versate all’INPDAP), affermando che le stesse dovevano essere corrisposte direttamente al lavoratore in applicazione del meccanismo di cui alla richiamata O.P.C.M. Avverso detto decreto ingiuntivo proponeva tempestiva opposizione l’amministrazione. Sosteneva in particolare che la sospensione dell’inclusione in busta paga delle ritenute previdenziali risultava motivata da una rivalutazione della normativa di riferimento (art. 7 D.P.C.M. 3253/2002) e del suo ambito soggettivo di applicabilità da parte dell’INPDAP, ente gestore degli importi previdenziali in questione. Evidenziava in particolare che con la circolare prot. 20264 del 15 febbraio 2005 la Direzione Generale dell’INPDAP aveva comunicato che l’Istituto previdenziale avrebbe sospeso “la liquidazione dei rimborsi a tutti i soggetti aventi sede legale od operativa nei territori colpiti dagli eventi calamitosi”. Sulla base della sospensione della liquidazione dei rimborsi disposta dal soggetto gestore dei fondi pensionistici l’Amministrazione ha sospeso la corresponsione ai lavoratori dipendenti delle ritenute previdenziali: ciò in quanto l’ovvia conseguenza della circolare interpretativa dell’INPDAP era l’obbligo per l’Amministrazione di versare all’Istituto i contributi, secondo le regole ordinarie. La contemporanea corresponsione ai dipendenti degli stessi contributi in busta paga sarebbe stata pertanto impossibile in quanto avrebbe determinato un indebito doppio versamento da parte della medesima somma: al lavoratore e all’Ente previdenziale. Peraltro, al di là di detti profili, si chiariva la piena legittimità dell’operato dell’amministrazione determinato da una rimeditazione – non affatto irragionevole – dell’ambito applicativo delle normativa in tema di agevolazioni fiscali e previdenziali concernenti i territori colpiti dal sisma ed in particolare sull’individuazione dei soggetti reali beneficiari del privilegio in discussione. Si poneva in luce pertanto l’infondatezza della pretesa azionata in via monitoria sulla base di due differenti ragioni: 1) i datori di lavoro pubblici non sono ricompresi nell’ambito di applicabilità del beneficio. 2) l’art 7 dell’Ordinanza concerne esclusivamente l’obbligo di versamento dei contributi previdenziali, ma non già l’obbligo imposto ai datori di lavoro di effettuare la trattenuta. Ricostruendo la normativa di riferimento si partiva pertanto dall’esame dall’art. 7 dell’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3253 del 29 novembre 2002, pubblicata sulla G.U. n. 286 del 6 dicembre 2002, ai sensi del quale: “Nei confronti dei soggetti residenti, aventi sede legale od operativa alla data degli eventi sismici iniziati il 31 ottobre 2002 nel territorio di cui al D.P.C.M. 31 ottobre 2002 e al D.P.C.M. 8 novembre 2002 sono sospesi, fino al 31 marzo 2003, i versamenti dei contributi di previdenza e di assistenza sociale e dei premi per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, ivi compresa la quota a carico dei lavoratori dipendenti, nonché di quelli con contratto di collaborazione coordinata e continuativa. Per lo stesso periodo sono sospesi i termini per l’effettuazione degli adempimenti connessi al versamento dei contributi di cui sopra”. Tale disposizione agevolativa risulta essere stata prorogata fino al dicembre 2005. 224 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 02 varone.qxp 06/04/2009 14.23 Pagina 224 In merito a tale norma l’Istituto Nazionale di Previdenza per i Dipendenti delle Amministrazioni Pubbliche, direttamente interessato dalla disposizione della sospensione dei versamenti contributivi, ha avuto modo di esprimersi con una serie di note informative, indirizzate anche alle Amministrazioni dello Stato oltre che ai propri uffici territoriali, nelle quali sono state date le prime indicazioni operative e fornite alcune precisazioni circa l’ambito applicativo della norma medesima. Si chiariva pertanto l’iter storico-interpretativo della norma, richiamando la nota informativa n. 4 del 28 gennaio 2003 con cui l’INPDAP ha in un primo momento precisato che la sospensione dei termini per il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali a causa degli eventi calamitosi opererebbe anche con riguardo alle quote previdenziali a carico degli iscritti alla gestione, ossia del personale dipendente dei soggetti, datori di lavoro, aventi sede legale od operativa nei territori danneggiati. Si sottolineava poi che tale impostazione era stata successivamente rettificata con nota n. 32 del 24 luglio 2003, ove era stato precisato che “la sospensione dei versamenti contributivi, per esplicita previsione normativa, trova come destinatari del beneficio, anche per la quota del personale dipendente, gli enti datori di lavoro operanti nelle province di Campobasso e Foggia. Conseguentemente gli enti interessati, anche per il periodo di sospensione, dovranno continuare ad operare, sulle competenze mensili, le previste ritenute contributive”, posizione poi ribadita nella successiva nota informativa INPDAP n. 35 del 29 luglio 2003 ove si precisava che la sospensione “trova come destinatari esclusivi del beneficio, anche per la quota a carico del personale dipendente, gli enti datori di lavoro; …. gli enti interessati dovranno continuare ad operare, sulle competenze mensili spettanti ai dipendenti le previste ritenute contributive, accantonandole”. Dall’esame della normativa di riferimento e delle circolari in questione emergeva quindi la ratio, posta a base dell’O.P.C.M., di agevolare l’imprenditore al fine di riprendere l’attività produttiva, ratio che è comune a tutte le ordinanze emanate in seguito ad eventi calamitosi del medesimo genus, non a caso analoghe sotto il profilo dispositivo o precettivo. Si affermava pertanto che sfugge alla norma l’intento di attribuire un diretto beneficio ai lavoratori dipendenti, peraltro direttamente interessati da specifici provvedimenti agevolativi contenuti nel medesimo plesso normativo (si vedano al riguardo gli artt. 2, 3 comma 1 lett. d ed e, nonché l’art. 4 dell’ordinanza che dispongono in merito alle esigenze alloggiative secondo un articolato e completo programma di interventi). Non si trascurava quindi di mettere a conoscenza il giudicante che l’applicazione della norma di cui all’art. 7 della più volte citata O.P.C.M. n. 3253/2002, nel senso prospettato dalla parte ricorrente, venne ipotizzata dall’INPDAP (che mutava in tal modo orientamento) solo con nota operativa n. 15 del 5 luglio 2004 allorché fu riconosciuta la possibilità di ottenere il rimborso dei contributi eventualmente versati durante il periodo di sospensione. Che tale interpretazione della norma in questione fosse erronea è stato tuttavia palesato dallo stesso INPDAP che resosi conto dell’erroneità delle direttive emanate con le circolari da ultimo richiamate, ha successivamente comunicato a tutte le Amministrazioni dello Stato di aver sospeso la liquidazione dei rimborsi ai soggetti aventi sede legale od operativa nei territori colpiti dagli eventi calamitosi (nota 20264 del 15 febbraio 2005 – doc. A fasc. primo grado) A ciò si aggiungeva che una corretta interpretazione della disposizione portava ad escludere dal suo spettro operativo i datori di lavoro pubblici. In primo luogo il riferimento a soggetti “con sede legale od operativa” contenuto nell’O.P.C.M. è un indice che spinge a qualificare come beneficiari della disposizione i soggetti legati da rapporto lavorativo o di collaborazione con organismi imprenditoriali (privati); IL CONTENZIOSO NAZIONALE 225 03 cont naz 02 varone.qxp 06/04/2009 14.23 Pagina 225 La ratio stessa della norma conferma inoltre l’esclusione dei datori di lavoro pubblici dallo spettro dei beneficiari. La stessa infatti non è già diretta a creare condizioni individuali di temporaneo arricchimento, bensì ad alleviare gli oneri sociali gravanti sugli operatori economici, datori di lavoro privati, onde consentire con agevolazione indiretta l’abbreviazione dei tempi di ripresa della produzione di valore aggiunto. È evidente che le pubbliche amministrazioni sono estranee a tale logica. Tale chiave di lettura risulta ulteriormente confermata dai ripetuti riferimenti (anche nel corpo dello stesso art. 7; v. anche l’art. 3 ord. citata) ai datori di lavoro privati ed al sostegno delle relative attività produttive, nonché a tematiche alternative di integrazione salariale. Si evidenziava poi che l’esclusione dei datori di lavoro pubblici dallo spettro dei beneficiari delle agevolazioni contributive de quibus non porta ad una disparità di trattamento fra lavoratori dipendenti pubblici e lavoratori dipendenti privati: anche per questi ultimi infatti una corretta interpretazione della norma -e della sua ratio diretta ad agevolare il riavvio e l’incentivazione delle attività produttive-, conduce ad escludere che la sospensione dei versamenti contributivi implichi che il datore di lavoro deve corrispondere gli stessi ai lavoratori (infatti tali contributi sono diretti a finanziare l’impresa, e il lavoratore, in tale processo, assume una posizione neutra). L’adito Tribunale tuttavia, disattendendo le argomentazioni dell’amministrazione, rigettava l’opposizione e confermava il decreto ingiuntivo con sentenza n. 116/06. Riteneva infatti che la normativa emergenziale avrebbe obbligato il datore di lavoro a versare direttamente in busta paga la quota di contributi “sospesi”, in modo da rendere maggiore la capacità di consumo dei lavoratori delle zone colpite dal sisma. Riteneva inoltre che il beneficio in questione riguarderebbe anche i datori di lavoro dipendenti di soggetti pubblici, senza peraltro dilungarsi sul punto. Avverso detta sentenza proponeva tempestivo appello l’Amministrazione riproponendo le censure sopra evidenziate poste a fondamento dell’opposizione ed in particolare insisteva sulla erroneità della sentenza sia nella parte in cui aveva affermato che i datori di lavoro pubblici sono ricompresi nell’ambito di applicabilità del beneficio sia lì dove aveva disatteso le eccezioni dell’amministrazione in merito al fatto che l’art 7 dell’Ordinanza concerne esclusivamente l’obbligo di versamento dei contributi previdenziali, ma non già l’obbligo imposto ai datori di lavoro di effettuare la trattenuta. Si citava a tal fine anche l’ordinanza della Presidenza del Consiglio del 10 giugno 2005 (in G.U. n. 139 del 17 giugno 2005) che in una fattispecie del tutto identica e relativa alla provincia di Catania aveva precisato che “La sospensione dei versamenti dei contributi e premi prevista dall’articolo 5 dell’ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 novembre 2002, n. 3254 e successive modificazioni, si applica nei confronti dei datori di lavoro privati aventi sede legale od operativa nei comuni di cui al comma 1”. Si sosteneva inoltre l’erroneità della sentenza lì dove condannava l’amministrazione a concedere il beneficio in assenza della prova (ed in presenza di una esplicita contestazione sul punto), della residenza del ricorrente al momento del sisma e nei periodi successivi nella zone contemplate dall’O.P.C.M. Ulteriore profilo di doglianza atteneva al fatto che la sentenza aveva disatteso l’eccezione dell’amministrazione della mancanza di esplicita domanda (prima della richiesta di D.I.) da parte dell’interessato di ottenere il beneficio: profilo di rilevanza in quanto il meccanismo agevolativo è destinato ad operare solo su istanza di parte. Nelle more del processo era poi entrato in vigore l’art. 6 comma 2° del D.L. 9 ottobre 2006 n. 263, inserito dalla legge di conversione 6 dicembre 2006, n. 290 il quale dispone che “La legge 24 febbraio 1992, n. 225, si interpreta nel senso che le disposizioni delle ordinan- 226 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 02 varone.qxp 06/04/2009 14.23 Pagina 226 ze di protezione civile che prevedono il beneficio della sospensione dei versamenti dei contributi previdenziali ed assistenziali e dei premi assicurativi si applicano esclusivamente ai datori di lavoro privati aventi sede legale ed operativa nei comuni individuati da ordinanze di protezione civile”, norma prontamente richiamata in sede di appello. La disposizione chiariva la correttezza della lettura operata dall’amministrazione lì dove si era dedotta l’inapplicabilità del beneficio ai lavoratori dipendenti da datori pubblici. La Corte di appello di Campobasso tuttavia, con l’impugnata sentenza, rigettava il gravame proposto dall’amministrazione. Vi si legge che “deduce l’appellante che ha errato il primo giudice nel riconoscere la operatività pure per i lavoratori dipendenti pubblici della sospensione di versamento di contributi previdenziali: ma, in effetti, ad avviso di questo Collegio, è condivisibile la indicazione del Tribunale di essere la sospensione de qua diretta altresì alla suddetta categoria di lavoratori, poiché evidentemente anche questi ultimi sono stati colpiti dal disagio conseguente agli eventi calamitosi (e hanno contribuzione previdenziale a loro carico, a cui sintomaticamente la stessa norma non manca di fare riferimento). D’altronde, se scopo della sospensione di cui trattasi è quello di consentire una rapida ripresa delle attività economico—produttive, non v’è chi non veda che va sostenuta pure la pronta e ampia ripresa dei consumi, attraverso il temporaneo maggior ammontare delle retribuzioni”. Affermava quindi la Corte che “non appare avere qui applicabilità il D.L. 263/06, conv. in L. 290/06 — laddove si è inteso interpretare autenticamente la L. 225/92 prevedendo che le ordinanze emergenziali di sospensione di versamento di contributi previdenziali ivi contemplate sono dirette ai privati datori di lavoro, norma a cui pure si è richiamato l’impugnante, e ciò per l’assorbente motivo che l’ord.P.C.M. n. 3253 del 29 novembre 2002, che ha inizialmente ammesso la sospensione più volte menzionata, risulta emanata anche in base al D.L. 245/02, conv. in L. 286/02, legislazione che ha in via autonoma disposto benefici emergenziali (da stabilirsi d’intesa con la Regione ed ai sensi della L. 225/92) e non è interessata dalla interpretazione autentica succitata, e peraltro è interpretazione concernente la posizione (contributiva) dei datori di lavoro; le proroghe fino al 31 dicembre 2005 del beneficio de quo, poi, sono da correlare appunto alla detta iniziale ordinanza presidenziale (cfr. ord. P.C.M. n. 3300 del 2003 e ord. P.C.M. n. 3344 del 2004, e la proroga dei “termini” indicata nei detti provvedimenti evidentemente e logicamente è riferita pure ai versamenti, com’è dato ricavare anche dalla incontestata sua concreta esecuzione avutasi nel tempo)”. Avverso della sentenza, ingiusta, erronea e lesiva degli interessi dell’Amministrazione, il Ministero intestato propone ricorso dinanzi a codesta Corte Suprema di Cassazione affidato ai seguenti motivi Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 6 comma 2° del D.L. 9 ottobre 2006 n. 263, convertito con modificazioni in legge 6 dicembre 2006, n. 290 in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. Violazione e falsa applicazione dell’art. 5 della L. 24 febbraio 1992 n. 225 in combinato con gli articoli: 7 dell’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3253 del 29 novembre 2002; 8 dell’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri 10 aprile 2003 n. 3279; 6 dell’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 11 luglio 2003 n. 3300 e 5 dell’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri 19 marzo 2004 n. 3344 in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 227 03 cont naz 02 varone.qxp 06/04/2009 14.23 Pagina 227 Violazione e falsa applicazione del D.L. 4 novembre 2002 n. 245 convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, L. 27 dicembre 2002, n. 286 in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1189 c.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. Insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c. L’impugnata sentenza ha ritenuto inapplicabile alla fattispecie il D.L. 263/06, conv. in L. 290/06, di interpretazione autentica della L. 225/92, il quale sancisce che le disposizioni delle ordinanze di protezione civile che prevedono il beneficio della sospensione dei versamenti dei contributi previdenziali ed assistenziali si applicano esclusivamente ai datori di lavoro privati. A giudizio della Corte di appello tale inapplicabilità della norma sopravvenuta deriverebbe, “dall’assorbente motivo che l’ord. P.C.M. n. 3253 del 29 novembre 2002, che ha inizialmente ammesso la sospensione più volte menzionata, risulta emanata anche in base al D.L. 245/02, conv. in L. 286/02, legislazione che ha in via autonoma disposto benefici emergenziali (da stabilirsi d’intesa con la Regione ed ai sensi della L. 225/92) e non è interessata dalla interpretazione autentica succitata”. Tale assunto non può essere assolutamente condiviso, come si dimostrerà dall’analisi della normativa regolante la fattispecie. Tutte le ordinanze che hanno disposto e prorogato i benefici previdenziali in questione, vale a dire l’ord.P.C.M. n. 3253 del 29 novembre 2002 e le successive n. 3279 e 3300 del 2003 e n. 3344 del 2004 sono state infatti emanate, (come espressamente indicato nella relativa epigrafe), ai sensi della L. 24 febbraio 1992 n. 225 ed in particolare ai sensi del relativo articolo 5. Questo prevede la dichiarazione di stato di emergenza e il potere di ordinanza in caso di calamità naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari e dispone che: “1. Al verificarsi degli eventi di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c), il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero, per sua delega ai sensi dell’articolo 1, comma 2, del Ministro per il coordinamento della protezione civile, delibera lo stato di emergenza, determinandone durata ed estensione territoriale in stretto riferimento alla qualità ed alla natura degli eventi. Con le medesime modalità si procede alla eventuale revoca dello stato di emergenza al venir meno dei relativi presupposti. 2. Per l’attuazione degli interventi di emergenza conseguenti alla dichiarazione di cui al comma 1, si provvede, nel quadro di quanto previsto dagli articoli 12, 13, 14, 15 e 16, anche a mezzo di ordinanze in deroga ad ogni disposizione vigente, e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico. 3. Il Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero, per sua delega ai sensi dell’articolo 1, comma 2, il Ministro per il coordinamento della protezione civile, può emanare altresì ordinanze finalizzate ad evitare situazioni di pericolo o maggiori danni a persone o a cose. Le predette ordinanze sono comunicate al Presidente del Consiglio dei ministri, qualora non siano di diretta sua emanazione. 4. Il Presidente del Consiglio dei Ministri, ovvero, per sua delega ai sensi dell’articolo 1, comma 2, il Ministro per il coordinamento della protezione civile, per l’attuazione degli interventi di cui ai commi 2 e 3 del presente articolo, può avvalersi di commissari delegati. Il relativo provvedimento di delega deve indicare il contenuto della delega dell’incarico, i tempi e le modalità del suo esercizio. 5. Le ordinanze emanate in deroga alle leggi vigenti devono contenere l’indicazione delle principali norme a cui si intende derogare e devono essere motivate. 228 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 02 varone.qxp 06/04/2009 14.23 Pagina 228 6. Le ordinanze emanate ai sensi del presente articolo sono pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, nonché trasmesse ai sindaci interessati affinché vengano pubblicate ai sensi dell’articolo 47, comma 1, della legge 8 giugno 1990, n. 142”. Non può pertanto dubitarsi che la norma interpretativa di cui all’art. 6 comma 2° del D.L. 9 ottobre 2006 n. 263, inserito dalla legge di conversione 6 dicembre 2006, n. 290, il quale dispone che “La legge 24 febbraio 1992, n. 225, si interpreta nel senso che le disposizioni delle ordinanze di protezione civile che prevedono il beneficio della sospensione dei versamenti dei contributi previdenziali ed assistenziali e dei premi assicurativi si applicano esclusivamente ai datori di lavoro privati aventi sede legale ed operativa nei comuni individuati da ordinanze di protezione civile” si applichi all’O.P.C.M. n. 3253 del 29 novembre 2002 e alle successive ordinanze di proroga, le quali tutte trovano la loro fonte e legittimazione nel richiamato art. 5 della L. 24 febbraio 1992 n. 225, con la conseguenza che l’applicazione del beneficio anche ai datori di lavoro pubblici, affermata dalla Corte di appello appare completamente erronea. Né il riferimento alla L. 27 dicembre 2002, n. 286, contenuto nell’impugnata sentenza, assume rilievo alcuno per escludere l’applicazione alla fattispecie della citata norma interpretativa. A giudizio della Corte di appello, sul presupposto che l’ord.P.C.M. n. 3253 del 29 novembre 2002 “risulta emanata anche in base al D.L. 245/02, conv. in L. 286/02, legislazione che ha in via autonoma disposto benefici emergenziali” la stessa non sarebbe interessata dalla interpretazione autentica succitata. Tale lettura non può essere in alcun modo condivisa. Il D.L. 4 novembre 2002 n. 245 convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, L. 27 dicembre 2002, n. 286 (Interventi urgenti a favore delle popolazioni colpite dalle calamità naturali nelle regioni Molise, Sicilia e Puglia, nonché ulteriori disposizioni in materia di protezione civile) non prevede infatti in modo alcuno un potere autonomo di emettere ordinanze di necessità ed urgenza, in quanto la fonte normativa del potere di ordinanza (e la relativa disciplina) vanno sempre rinvenuti nella l. 24 febbraio 1992, n. 225. Inequivoco è a tal fine il dato che l’Ordinanza n. 3253 del 29 novembre 2002 e le successive ordinanze di proroga sono tutte Ordinanze emesse dal Presidente del Consiglio dei Ministri e che l’art. 2 D.L. 4 novembre 2002 n. 245 , dopo aver previsto che “il Capo del Dipartimento della protezione civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri, per il perseguimento degli obiettivi di cui al presente decreto, agisce con i poteri di cui al comma 2 dell’articolo 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225, adottando gli indispensabili provvedimenti per assicurare ogni forma di tutela agli interessi pubblici primari delle popolazioni interessate e il concorso immediato delle amministrazioni e degli enti pubblici, nonché di ogni altra istituzione, organizzazione e soggetto privato, il cui apporto possa comunque risultare utile per il perseguimento degli interessi pubblici, assumendo altresì ogni ulteriore determinazione per il soccorso e l’assistenza alle popolazioni interessate”, prevede al comma 2° (richiamato nell’epigrafe dell’OPCM 3253/2002) che “Con successive ordinanze di protezione civile adottate dal Presidente del Consiglio dei Ministri ai sensi dell’articolo 5, comma 2, della legge 24 febbraio 1992, n. 225, in relazione alle quali l’intesa regionale relativa all’impianto generale del provvedimento ed alla tipologia delle iniziative di soccorso ivi previste è rilasciata entro quarantotto ore dalla richiesta, si provvede alla disciplina ed alla definizione delle modalità degli interventi di emergenza, a valere sulle risorse di cui all’articolo 5 del presente decreto, nonché su quelle eventualmente individuate nelle stesse ordinanze di protezione civile”. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 229 03 cont naz 02 varone.qxp 06/04/2009 14.23 Pagina 229 Ne deriva che tutte le ordinanze contingibili ed urgenti emesse nel quadro del D.L. 4 novembre 2002 n. 245 convertito in legge 27 dicembre 2002, n. 286 sono emanate ai sensi dell’articolo 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225, e pertanto alle stesse si applica la norma di interpretazione autentica di cui all’art. 6 comma 2° del D.L. 9 ottobre 2006 n. 263, conv., in l. 6 dicembre 2006, n. 290 Le ordinanze in questione sono d’altronde provvedimenti suscettibili di introdurre una disciplina divergente dall’ordine normativo posto da disposizioni primarie e, come confermato dalla Cassazione (ex plurimis Sez. Unite, sent. n. 4813 del 7 marzo 2006) “pur non avendo valore di legge, sono nel loro ambito indipendenti e, nel loro contenuto, soggette solo alla Costituzione ed ai principi generali dell’ordinamento, e non sono vincolate da altre norme preesistenti che non siano quelle espressamente indicate dalla fonte da cui traggono origine”. Che la fonte normativa delle ordinanze in questione sia da rinvenire nell’art. 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225, oltre che dall’espresso richiamo contenuto nel testo delle medesime, risulta pertanto evidente se si considera che le stesse apportano una deroga all’applicazione della normativa di livello primario (quale è quella che prevede termini modalità e contenuti del versamento dei contributi previdenziali da parte del datore di lavoro), deroga che sarebbe inammissibile se non operata per mezzo di una ordinanza emergenziale adottata ai sensi della legge n. 225/1992. La ratio della norma di cui al l’art. 6 comma 2° del D.L. 9 ottobre 2006 n. 263, conv. in l. 6 dicembre 2006, n. 290, espressamente qualificatasi come interpretativa (e quindi applicabile a tutte le ordinanze emesse sulla base della l. 225/1992) è d’altronde chiarissima nell’escludere letture, quali quella proposta dall’impugnata sentenza, che vadano ad ampliare lo spettro dei beneficiari fino ad includervi anche i datori di lavoro privati e i relativi dipendenti. Non sembra poi, al di là della espressa qualificazione della norma, che possa mettersi in dubbio la sua reale natura interpretativa: la stessa interviene infatti in un ambito caratterizzato da difformi e contrapposte letture palesate dalle contraddittorie circolari dell’INPDAP ed evidenziate dalla difesa erariale. Fin dall’atto di opposizione si era infatti evidenziato che l’Ord. P.C.M. n. 3253 del 29 novembre 2002 prevede, a carico dei soggetti residenti o aventi sede legale od operativa nei comuni interessati dal sisma, la sospensione dei versamenti dei contributi di previdenza sia per la quota a carico degli enti datori di lavoro che per quella a carico dei lavoratori dipendenti, facendo, quindi, riferimento al momento del pagamento, inteso come fase conclusiva del ciclo della spesa, anziché a quello della effettuazione della trattenuta o dell’accantonamento. Dal che la necessità da parte del soggetto datore di lavoro di effettuare la trattenuta in busta paga, salvo non effettuare il versamento all’Ente Previdenziale per finanziare temporaneamente l’impresa al fine del recupero dell’attività produttiva, ipoteticamente compromessa dall’evento sismico. Finalità di finanziamento che evidentemente non può adattarsi ad un soggetto pubblico quale un Ministero. La norma di cui al citato art. 7 dell’O.P.C.M. 3253/2002 non è d’altronde diretta a creare condizioni individuali di temporaneo arricchimento, bensì ad alleviare gli oneri sociali gravanti sugli operatori economici privati, onde consentire, con agevolazione indiretta, l’abbreviazione dei tempi di ripresa della produzione di valore aggiunto, ed è evidente che le pubbliche amministrazioni sono estranee a tale logica. A ciò va aggiunto che tale chiave di lettura risulta confermata dai ripetuti riferimenti (nel corpo dello stesso art. 7 e nell’art. l’art. 3 dell’ordinanza citata) ai datori di lavoro privati ed al sostegno delle relative attività produttive, nonché a tematiche alternative di integrazione salariale. 230 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 02 varone.qxp 06/04/2009 14.23 Pagina 230 Né una tale disposizione è diretta ad introdurre ingiustificate differenziazioni fra datori di lavoro pubblici e privati che possano far dubitare della relativa costituzionalità. Al di là della ragionevolezza di discipline differenziate concernenti i pubblici dipendenti (Corte costituzionale, sentenza n. 367 del 2006, nonché da ultimo sentenza 16 maggio 2008 n. 146), resta il fatto che anche per i dipendenti privati una corretta interpretazione della norma –e della sua ratio diretta ad agevolare il riavvio e l’incentivazione delle attività produttive-, conduce ad escludere che la sospensione dei versamenti contributivi implichi la loro diretta corresponsione ai lavoratori (infatti tali contributi sono diretti a finanziare l’impresa, e il lavoratore, in tale processo, assume una posizione neutra). La norma di interpretazione autentica è d’altronde tale “quando sia diretta a chiarire il senso di disposizioni preesistenti ovvero ad escludere o ad enucleare uno dei significati ragionevolmente ascrivibili alle statuizioni interpretate” (Corte cost. 5 novembre 1996, n. 386) ed è di per sé dotata di efficacia retroattiva, con la conseguenza che un rapporto svoltosi anteriormente alla relativa entrata in vigore dovrà essere disciplinato da essa, salvo che non si tratti di rapporti interamente esauriti, in particolare per effetto del giudicato (Cass. 677/2008), ipotesi che non ricorre certamente nel caso di specie. Considerato pertanto che l’O.P.C.M. n. 3253 del 29 novembre 2002 e le successive ordinanze di proroga fanno espresso riferimento, quale fonte legittimante, alla legge 24 febbraio 1992, n. 225 e che quest’ultima, ai sensi della legge 6 dicembre 2006, n. 290, “si interpreta nel senso che le disposizioni delle ordinanze di protezione civile che prevedono il beneficio della sospensione dei versamenti dei contributi previdenziali ed assistenziali e dei premi assicurativi si applicano esclusivamente ai datori di lavoro privati aventi sede legale ed operativa nei comuni individuati da ordinanze di protezione civile”, la sentenza impugnata andrà cassata. Ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. si formulano, quindi, i seguenti quesiti di diritto: “Dica, codesta Suprema Corte se, ai sensi dell’art. 6 comma 2° del D.L. 9 ottobre 2006 n. 263, convertito con modificazioni in legge 6 dicembre 2006, n. 290 l’art. 7 dell’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3253 del 29 novembre 2002 e successive proroghe (nella parte in cui prevede che “Nei confronti dei soggetti residenti, aventi sede legale od operativa alla data degli eventi sismici iniziati il 31 ottobre 2002 nel territorio di cui ai decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri del 31 ottobre 2002 e dell’8 novembre 2002, sono sospesi, fino al 31 marzo 2003, i versamenti dei contributi di previdenza e di assistenza sociale e dei premi per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, ivi compresa la quota a carico dei lavoratori dipendenti, nonché di quelli con contratto di collaborazione coordinata e continuativa”) si applichi ai soli datori di lavoro privati, con esclusione dei datori di lavoro pubblici e relativi dipendenti”. “Dica altresì, codesta Suprema Corte se alle ordinanze contingibili ed urgenti emanate nel quadro del D.L. 4 novembre 2002 n. 245 convertito in legge 27 dicembre 2002, n. 286 ed adottate ai sensi della legge 24 febbraio 1992, n. 225, si applichi la norma di interpretazione autentica di cui all’art. 6 comma 2° del D.L. 9 ottobre 2006 n. 263, conv,. in L. 6 dicembre 2006, n. 290”. Circa le ulteriori doglianze sopra evidenziate (Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1189 c.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. Insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c.) che si sollevano in via subordinata si evidenzia che, indipendentemente dall’applicazione della normativa di interpretazione autentica di cui all’art. 6 comma 2° del D.L. 9 ottobre 2006 n. 263, conv. in L. 290/2006, la sentenza di appello risulta erronea nella parte in cui ha omesso di considerare IL CONTENZIOSO NAZIONALE 231 03 cont naz 02 varone.qxp 06/04/2009 14.23 Pagina 231 l’efficacia liberatoria del versamento dei contributi previdenziali effettuato dall’Amministrazione all’INPDAP. A pag. 5 del ricorso in opposizione si era infatti evidenziato che con nota n. 20264 del 15 febbraio 2005 (all. A fasc. oppos.), 1’INPDAP, resosi conto dell’erroneità delle direttive precedentemente emanate, ha comunicato a tutte le Amministrazioni dello Stato di aver sospeso la liquidazione dei rimborsi ai soggetti aventi sede legale od operativa nei territori colpiti dagli eventi calamitosi. Del pari nell’opposizione era chiaramente allegata la duplicità di pagamenti che l’esecuzione del decreto ingiuntivo avrebbe comportato. A pag. 12 dell’appello si era poi evidenziato che la sentenza di primo grado aveva omesso di considerare che l’amministrazione si è uniformata alle istruzioni operative del soggetto legittimato, l’INPDAP, e che pertanto in buona fede ha provveduto al versamento dell’intera quota dei contributi previdenziali relativi ai lavoratori. Tale profilo avrebbe dovuto indurre la corte di Appello a valutare l’applicazione dell’art. 1189 c.c. alla fattispecie, come espressamente richiesto dall’appellante, ma sotto tale aspetto vi è totale carenza di motivazione da parte della Corte che ha omesso di valutare il fatto, ritualmente dedotto e provato, dell’intervenuto pagamento delle somme vantate dal lavoratore e per cui è stato successivamente emanato il decreto ingiuntivo. Considerato pertanto che ai sensi della richiamata norma codicistica il debitore che esegue il pagamento a chi appare legittimato a riceverlo in base a circostanze univoche è liberato se prova di essere stato in buona fede, e che il Ministero ha allegato e provato sia gli elementi a dimostrazione della propria buona fede sia l’oggettiva apparenza ingenerata dalle istruzioni INPDAP, la Corte di appello avrebbe dovuto riconoscere l’efficacia liberatoria del pagamento dei contributi all’Ente previdenziale e comunque motivare espressamente su tale punto. Tale profilo rileva sia sub specie di violazione di norma di diritto che di insufficienza della motivazione della sentenza. Ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. si formula, quindi, il seguente quesito di diritto: “Dica, codesta Suprema Corte se, ai sensi dell’art. 1189 c.c. sia liberatorio il pagamento dei contributi previdenziali effettuato dall’amministrazione all’INPDAP sulla base di apposita circolare dell’INPDAP medesimo in presenza di acclarata incertezza interpretativa (dovuta a contraddittorie prese di posizione degli enti previdenziali) circa la sospensione o meno dell’obbligo di versamento dei contributi medesimi ex art. 7 dell’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3253 del 29 novembre 2002 e successive proroghe”. Sempre ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., ai fini della precisazione del fatto controverso e rilevante per il giudizio, si formula il seguente quesito “dica codesta Corte se incorra in vizio di motivazione la sentenza che, pur in presenza della deduzione da parte dell’appellante di specifica censura in merito alla mancata valutazione dell’efficacia liberatoria del pagamento effettuato in buona fede dall’amministrazione all’INPDAP, sulla base di circolari emanate da quest’ultimo, ometta totalmente di prendere posizione sul punto e sulle conseguenze della dedotta duplicità di pagamenti in cui è incorsa l’amministrazione. Insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c. Del pari insufficiente è la motivazione della Corte in merito alle modalità operative del meccanismo di sospensione e ritenuta dei contributi. Non chiarisce infatti la sentenza perché, qualora si volesse ammettere che la sospensione del versamento dei contributi ex art. 7 O.P.C.M. 3253/02 riguarda anche i dipendenti pubblici, l’amministrazione avrebbe dovuto corrispondere gli stessi al lavoratore. Sotto tale profilo il Giudice di Appello si limita ad affermare che “beneficiari della sospensione di cui trat- 232 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 02 varone.qxp 06/04/2009 14.23 Pagina 232 tasi sono altresì i lavoratori, relativamente alla loro quota di contribuzione previdenziale – onde rendere maggiore la capacità di consumo e favorire la ripresa economica”. La motivazione è apodittica e non chiarisce in modo alcuno, da un punto di vista giuridico, perché la sospensione, oltre che alla fase di versamento, debba essere riferita anche alla fase della “trattenuta” da parte del datore. Di quest’ultimo aspetto (trattenuta) non vi è d’altronde traccia alcuna nell’O.P.C.M. 3253 del 29 novembre 2002 la quale si limita a prevedere che “… sono sospesi … i versamenti dei contributi di previdenza e di assistenza sociale e dei premi per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, ivi compresa la quota a carico dei lavoratori dipendenti, nonché di quelli con contratto di collaborazione coordinata e continuativa...”. Si era d’altronde chiarito da parte di questa difesa erariale, tanto in sede di opposizione quanto in appello, che la sospensione dei versamenti dei contributi prevista dall’ordinanza fa chiaro riferimento al momento del pagamento, inteso come fase conclusiva del ciclo della spesa, anziché a quello della effettuazione della trattenuta o dell’accantonamento: dal che la necessità da parte del soggetto datore di lavoro di operare la trattenuta in busta paga, salvo non effettuare il versamento all’Ente Previdenziale per finanziare temporaneamente l’impresa (al fine del recupero dell’attività produttiva, ipoteticamente compromessa dall’evento sismico). E proprio sotto tale aspetto si era rimarcata l’inapplicabilità del beneficio ai datori di lavoro pubblici essendo lo stesso diretto a consentire la rapida ripresa economica delle imprese, mentre sono altre le disposizioni della medesima O.P.C.M. prevedono diretti benefici dei singoli lavoratori direttamente danneggiati. La Corte avrebbe pertanto dovuto motivare esaurientemente sul perché il meccanismo previsto dall’ordinanza si potesse interpretare anche nel senso di escludere l’obbligo del datore di lavoro di effettuare la “trattenuta”, espressamente prevista dalla normativa vigente. Ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., si precisa che il fatto controverso e rilevante per il giudizio è rappresentato dal seguente: se, intervenuto l’obbligo di sospendere il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali in base all’O.P.C.M. 3253 del 29 novembre 2002, tale sospensione si estenda anche alla autonoma fase della trattenuta da parte del datore di lavoro della quota parte spettante al lavoratore. Da ultimo va evidenziato che la fondatezza dei motivi di ricorso trova ulteriore conferma nella recente sentenza della Corte costituzionale n. 325 del 2 agosto 2008 resa proprio sulla legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1-bis, del decreto-legge del 9 ottobre 2006, n. 263, convertito il legge 6 dicembre 2006, n. 290. In tale occasione la consulta ha affermato chiaramente la limitazione del beneficio ai soli datori di lavoro, chiarendo che ciò non è non è incoerente con la disciplina in materia assistenziale e previdenziale che pone a carico del datore di lavoro l’onere del versamento contributivo anche per la quota a carico del lavoratore. Ha quindi aggiunto che corrisponde ad un principio di non irragionevole esercizio della discrezionalità del legislatore la scelta di limitare il beneficio della sospensione del versamento contributivo ai soli datori di lavoro del settore privato, confermando pertanto pienamente le censure sollevate con il presente ricorso. In virtù di quanto sin qui esposto, dedotto ed eccepito il Ministero intestato insiste per l’accoglimento delle seguenti Conclusioni “Voglia codesta Ecc.ma Corte Suprema di Cassazione accogliere il presente ricorso e per l’effetto cassare l’impugnata sentenza, con ogni conseguente statuizione in ordine a spese, diritti ed onorari del giudizio”. (…) Roma, 27 agosto 2008 – Avv. dello Stato Stefano Varone». IL CONTENZIOSO NAZIONALE 233 03 cont naz 02 varone.qxp 06/04/2009 14.23 Pagina 233 L’ illegittimità costituzionale della legge regionale della Lombardia n. 29/07 sul trasporto aereo (Corte costituzionale, sentenza 30 gennaio 2009 n. 18) La Corte costituzionale con sentenza n. 18/09, relatore Giuseppe Tesauro, già presidente dell’Antitrust, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della discussa legge regionale Lombarda n. 29/07 in materia di trasporto aereo, coordinamento aeroportuale e concessioni di gestione aeroportuale il cui ambito di applicazione coinvolgeva le responsabilità di governo degli scali di Malpensa, Linate, Bergamo e Brescia. Al riguardo, c’è da dire che il 2 dicembre 2008, nel corso dell’udienza pubblica, l’Avvocatura Generale dello Stato, in rappresentanza del Governo, insistendo per l’accoglimento del ricorso promosso nel gennaio 2008, pur riconoscendo, ex art. 117 della Costituzione, uno spazio legislativo concorrente all’autonomia regionale nella materia degli aeroporti civili, ha sostenuto con forza le ragioni dell’incostituzionalità della legge regionale lombarda. In particolare, tenuto conto che il novellato codice della navigazione rappresenta la “legge cornice” (cfr. art. 3, c. 7, D.Lgs. n. 96/05 s.m.i.) nel cui ambito le regioni possono elaborare la legislazione concorrente di competenza, la difesa erariale ha sottolineato come gli aeroporti di Malpensa, Linate e Bergamo sono classificabili come “nodi essenziali per l’esercizio delle competenze esclusive dello Stato” (cfr. art. 698 C.N.), rispetto ai quali le regioni non hanno potestà per l’esercizio della legislazione concorrente. Infatti, pur in mancanza di una identificazione degli scali di rilevanza nazionale secondo le complesse previsioni codicistiche, l’Avvocatura erariale ha fatto riferimento a fonti normative comunitarie, di immediata applicazione nel nostro Paese, che fanno coincidere gli aeroporti regionali con gli scali che sviluppano al massimo un traffico pari a 5.000.000 passeggeri annui, soglia superata dai tre aeroporti già dall’ottobre 2008. Per quanto concerne la questione dell’aeroporto di Brescia-Montichiari, l’altro scalo di interesse commerciale sul quale erano rivolte le attenzioni del legislatore regionale per il rilascio della gestione aeroportuale, l’Avvocatura Generale dello Stato ha evidenziato come, per questo aeroporto, vale tuttora una norma transitoria (art. 3, c. 2 D.Lgs. n. 96/05 s.m.i.) elaborata in un percorso di leale collaborazione Stato-Regione – la revisione della parte aeronautica del Codice della navigazione è stata definita con l’acquisizione del parere favorevole della “Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano” – che esclude la possibilità di un intervento normativo di carattere regionale. Poi, per quanto concerne il problema dell’interferenza della legislazione lombarda sulle procedure di assegnazione degli slots, il rappresentante del Governo ha espresso legittimi dubbi sul fatto che la materia della clearence aeroportuale sia da ricomprendersi in quella degli “aeroporti civili” di cui 234 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 03 di palma.qxp 06/04/2009 14.25 Pagina 234 all’art. 117 della Costituzione, la sola per la quale deve riconoscersi alle regioni la potestà legislativa concorrente, nel rispetto della “legge cornice” adottata dallo Stato con l’emanazione del D. L.vo n. 96/05 e s.m.i. Peraltro, è stato evidenziato che, sul punto, l’art. 807 C.N. con esplicita chiarezza prevede che “l’assegnazione delle bande orarie, negli aeroporti coordinati, avviene in conformità delle norme comunitarie e dei relativi provvedimenti attuativi”, escludendo ulteriori e diverse procedure. La Corte costituzionale, assumendo la riferibilità della legislazione regionale ai soli aeroporti coordinati della Lombardia, ha concentrato il suo ragionamento sui regolamenti comunitari per l’assegnazione di bande orarie (Reg. 95/93/CEE come modificato dal Reg. 793/2004/CE), desumendo “che la disciplina da essi recata è essenzialmente volta al fine di garantire l’accesso al mercato di tutti i vettori secondo regole trasparenti e non discriminatorie”. Dall’esame della normativa comunitaria e di quella interna di attuazione (art. 807 C.N.) la Corte ha quindi conclusivamente ritenuto “che la disciplina di assegnazione delle bande orarie negli aeroporti coordinati risponde da un lato, ad esigenze di sicurezza del traffico aereo, e, dall’altro, ad esigenze di tutela della concorrenza, le quali corrispondono ad ambiti di competenza esclusiva dello Stato”. Ciò posto, la Consulta ha precisato che, come già affermato con la decisione n. 51/08 che ha sostanzialmente respinto la questione di costituzionalità della legge sui “requisiti di sistema”(Legge n. 248/05), la competenza regionale concorrente nella materia controversa riguarda “le infrastrutture e la loro collocazione sul territorio regionale”. Al contrario, sono da ritenersi attribuite alla competenza esclusiva dello Stato l’assegnazione delle bande orarie ed il rilascio delle concessioni, materie che vanno oltre “la dimensione regionale” e che si riferiscono “alla sicurezza del traffico aereo ed alla tutela della concorrenza (…) all’organizzazione ed all’uso dello spazio aereo, peraltro in una prospettiva di coordinamento fra più sistemi aeroportuali”. L’apprezzata decisione della Corte costituzionale, nel delineare in modo netto la distinzione degli ambiti di potestà legislativa dello Stato e delle regioni nella materia degli “aeroporti civili”, lascia solo un dubbio nell’aver affrontato la questione del riparto di competenze legislative con riferimento esplicito ai soli aeroporti coordinati, mentre l’ambito di applicazione della legge lombarda, per quanto concerne il rilascio delle concessioni di gestione totale, era da riferirsi a tutti gli aeroporti situati nel territorio regionale ovvero anche ad un aeroporto che coordinato non è: Brescia Montichiari. P.D.P. Corte costituzionale, sentenza 30 gennaio 2009 n. 18 – Pres. G.M.Flick – Red. G. Tesauro – nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Lombardia (Avv. B. Carovita di Toritto) 9 novembre 2007, n. 29 (Norme in materia di trasporto aereo, coordinamento aeroportuale e concessioni di gestione aeroportuali), promosso con ricorso IL CONTENZIOSO NAZIONALE 235 03 cont naz 03 di palma.qxp 06/04/2009 14.25 Pagina 235 del Presidente del Consiglio dei ministri (Avv. dello Stato P.Di Palma), notificato il 17 gennaio 2008, depositato in cancelleria il 22 gennaio 2008. Norme impugnate: artt. 3, 4 e 9 della legge della Regione Lombardia 9 novembre 2007, n. 29. «(…) Ritenuto in fatto 1. – Con ricorso, notificato in data 17 gennaio 2008, depositato il successivo 22 gennaio, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale, in via principale, della legge della Regione Lombardia del 9 novembre 2007, n. 29 (Norme in materia di trasporto aereo, coordinamento aeroportuale e concessioni di gestione aeroportuali), ed in particolare degli artt. 3, 4 e 9. 1.1. – Il ricorrente premette che, con la legge n. 29 del 2007, la Regione Lombardia ha dettato norme che incidono sia sull’assegnazione delle bande orarie negli aeroporti coordinati, sia sulle procedure di rilascio delle concessioni di gestione aeroportuale, in una prospettiva di coordinamento con le politiche nazionali e comunitarie, di valorizzazione delle potenzialità del territorio lombardo e dell’economia della Regione nonché di sostenibilità sociale ed ambientale. Essa, infatti, attribuisce alla Regione una serie di poteri e competenze sia in tema di coordinamento aeroportuale (poteri consultivi nei confronti del coordinatore in ordine a decisioni inerenti all’accesso ai nodi infrastrutturali ed incidenti, fra l’altro, sull’utilizzo della capacità aeroportuale: art. 2; poteri di concorso nella definizione dei parametri di coordinamento: art. 4; poteri di acquisizione periodica di informazioni dal coordinatore finalizzate a verificare che l’attività di coordinamento abbia rispettato i parametri, nonché poteri di promozione di accordi e intese con lo Stato al fine di garantire l’adeguato coinvolgimento regionale nelle funzioni di controllo e vigilanza dell’attività del coordinatore: art. 5; potere di segnalazione alla Commissione Europea di eventuali violazioni delle disposizioni comunitarie di cui sia venuta a conoscenza e di informazione delle competenti autorità nazionali in caso di violazione dei parametri integrativi o delle regole della concorrenza: art. 6; competenze in tema di cooperazione fra sistemi aeroportuali: art. 7; poteri in materia di ripartizione del traffico aereo: art. 8); sia in ordine al rilascio delle concessioni di gestioni aeroportuali (prevedendo che la Regione emana proprie direttive relative alle nuove convenzioni sottoscritte fra gestore aeroportuale ed Ente Nazionale Aviazione Civile – ENAC e che tali direttive costituiscono linee guida vincolanti per le convenzioni tra gestore aeroportuale ed ENAC: art. 9; che la stessa Regione «esprime, ai competenti organi statali, il proprio parere sul rilascio definitivo della concessione, verificata la rispondenza del piano di sviluppo aeroportuale promosso dal gestore», «con gli obiettivi del territorio regionale»: art. 10; e che «la Giunta regionale avvia la procedura per l’adozione delle direttive relative alle convenzioni tra gestore aeroportuale ed ENAC, di cui all’articolo 10, comma 3, entro trenta giorni dall’entrata in vigore della presente legge»: art. 11). Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, l’ambito di operatività della citata legge regionale sarebbe costituito da tutti gli aeroporti situati nel territorio regionale lombardo, uniformemente considerati e disciplinati in funzione della loro qualificazione come «nodi essenziali di una rete strategica per la mobilità, per il governo del territorio lombardo e per l’economia intera della regione». Essa, pertanto, recherebbe una serie di disposizioni che eccederebbero i limiti in cui può essere legittimamente esercitata la potestà legislativa regionale concorrente in materia di aeroporti, ponendosi in contrasto, oltre che con i vincoli derivanti dall’ordinamento comuni- 236 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 03 di palma.qxp 06/04/2009 14.25 Pagina 236 tario – e precisamente con le norme contenute nei regolamenti 95/93/CEE (Regolamento del Consiglio relativo a norme comuni per l’assegnazione di bande orarie negli aeroporti della Comunità) e 793/2004/CE (Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica il regolamento n. 95/93/CEE del Consiglio relativo a norme comuni per l’assegnazione di bande orarie negli aeroporti della Comunità) finalizzati a garantire lo sviluppo della rete trans-europea dei trasporti, a tutela della concorrenza – anche con i principi e le regole costituzionalmente riservate alla competenza dello Stato, contenuti nel decreto legislativo 9 maggio 2005, n. 96 (Revisione della parte aeronautica del Codice della navigazione, a norma dell’articolo 2 della legge 9 novembre 2004, n. 265), e nel decreto legislativo 4 ottobre 2007, n. 172 (Disciplina sanzionatoria in materia di assegnazione di bande orarie negli aeroporti italiani relativamente alle norme comuni stabilite dal regolamento CE n. 793/2004 che modifica il regolamento CEE n. 95/93 in materia di assegnazione di bande orarie negli aeroporti comunitari), in una prospettiva sottesa alla unitaria valutazione e tutela di interessi di rilievo nazionale che trascendono la mera dimensione regionale. 1.2. – Il ricorrente censura, in modo particolare, l’art. 3 della legge regionale n. 29 del 2007, nella parte in cui prevede che la Regione nomini una propria rappresentanza nel comitato di coordinamento degli aeroporti e nella parte in cui determina un rafforzamento della posizione del rappresentante regionale (commi 3 e 4). Tale norma violerebbe il disposto dell’art. 5, comma 1, del suindicato regolamento comunitario n. 95/93/CE che, tra i soggetti ammessi a partecipare a tale strumento consultivo, non inserisce rappresentanti del governo regionale o locale, e, nella parte in cui determina un rafforzamento della posizione del rappresentante regionale (commi 3 e 4), contrasterebbe con il predetto regolamento che, invece, non prevede nella composizione del comitato di coordinamento la prevalenza di alcuni membri rispetto ad altri. Viene, altresì, impugnato l’art. 4 della medesima legge regionale sotto svariati profili. In particolare, il ricorrente sostiene che detta norma, nella parte in cui (comma 2) attribuisce alla Regione – in riferimento all’obbligo di garantire il perseguimento anche degli interessi regionali in sede di fissazione dei criteri di assegnazione delle bande orarie – il compito di concorrere a definire i parametri di coordinamento, contrasterebbe con l’art. 6 del regolamento 793/2004/CEE che, invece, attribuisce tale ruolo allo Stato membro, e con l’art. 3 del D.Lgs. n. 172 del 2007 che istituisce un organismo nazionale, l’ENAC, chiamato a fissare i parametri di coordinamento, in quanto responsabile dell’applicazione del citato regolamento. Il predetto articolo violerebbe altresì il principio generale posto dal legislatore statale all’art. 3 del D.Lgs. n. 172 del 2007, nella parte in cui (comma 2, lettera e) attribuisce alla Regione il compito di prevedere sanzioni a carico del vettore, compito viceversa assegnato dalla normativa statale all’ENAC. Esso, infine, contrasterebbe con l’art. 4, comma 5, del regolamento comunitario n. 793/2004, che definisce il coordinatore come unico responsabile dell’assegnazione delle bande orarie allo scopo di garantirne la neutralità e l’indipendenza, nella parte in cui (comma 4) prescrive che, in caso di mancato rispetto dei parametri definiti dagli organi regionali, la Regione possa diffidare il coordinatore e possa proporne la revoca, in difformità peraltro anche con l’art. 8, comma 5, del predetto regolamento, che stabilisce che il coordinatore può tener conto anche delle direttrici locali purché non ostino all’indipendenza del coordinatore stesso, siano conformi alla normativa comunitaria e siano finalizzate ad un utilizzo più efficiente della capacità dell’aeroporto. Per le ragioni suddette, la disposizione in esame violerebbe anche l’art. 117, secondo comma, lettera h), della Costituzione, che attribuisce allo Stato la competenza legislativa in materia di sicurezza, dal momento che la determinazione della banda oraria non può essere IL CONTENZIOSO NAZIONALE 237 03 cont naz 03 di palma.qxp 06/04/2009 14.25 Pagina 237 condizionata da interessi locali, ma concerne la sicurezza, l’efficienza e la regolamentazione tecnica del trasporto aereo di stretta competenza dell’ENAC. Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna, infine, l’art. 9 della legge regionale n. 29 del 2007, nella parte in cui, disciplinando le concessioni di gestione aeroportuale, si porrebbe in contrasto con l’art. 704 del codice della navigazione, in quanto prescrive che la Regione emani proprie direttive relative alle nuove convenzioni sottoscritte fra gestore aeroportuale ed ENAC (comma 3) e che tali direttive costituiscono linee guida vincolanti per le convenzioni tra gestore aeroportuale ed ENAC (comma 4), laddove, invece, il citato art. 704 del codice della navigazione attribuisce al Ministero dei trasporti la competenza a rilasciare il titolo concessorio della gestione degli aeroporti e dei sistemi aeroportuali di rilevanza nazionale e all’ENAC la stipulazione della relativa previa convenzione nel rispetto delle direttive del Ministero dei trasporti, prevedendo un ruolo meramente consultivo della Regione nel cui territorio ricade l’aeroporto oggetto di concessione. In conclusione, il ricorrente osserva che l’intero impianto della legge regionale n. 29 del 2007 «appare strutturato in funzione dell’esercizio da parte della Regione Lombardia di poteri che l’ordinamento statale riserva unitariamente all’autorità centrale (Ministero dei Trasporti ed ENAC), quando non risultino resi omogenei al livello europeo attraverso il regolamento comunitario» e chiede, pertanto, di valutare se debba essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’intera legge regionale n. 29 del 2007. 2. – Con memoria depositata in data 11 febbraio 2008, si è costituita in giudizio la Regione Lombardia, chiedendo che la Corte dichiari inammissibile ed infondato il ricorso, «previo, se del caso, rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia della Comunità europea ex art. 234 TCE relativamente al regolamento comunitario 93/95/CEE». La resistente premette che la legge impugnata dal Governo, dettando norme in materia di «trasporto aereo, coordinamento aeroportuale e concessioni di gestioni aeroportuali», è riconducibile alla materia «porti ed aeroporti civili» che la legge costituzionale n. 3 del 2001 ha espressamente attribuito alla competenza legislativa concorrente di Stato e Regioni, in linea con la considerazione che gli aeroporti costituiscono un’infrastruttura strategica per lo sviluppo economico della Regione e per il suo inserimento nel sistema dei trasporti, per lo sviluppo del turismo ed in generale per l’accessibilità del territorio. Considerato che il nuovo testo dell’art. 117 della Costituzione ha notevolmente ampliato gli spazi di autonomia regionale, estendendo la competenza legislativa delle regioni in ordine a materie che assumono una spiccata rilevanza non solo sul piano nazionale, ma anche su quello comunitario ed internazionale, la Regione osserva che la dimensione ormai sovranazionale del sistema del trasporto e, in particolare, di quello aeroportuale, mette in evidenza la necessità, da un lato, di una legislazione statale di principio e, dall’altro, soprattutto del rispetto dei principi di sussidiarietà e leale collaborazione fra i diversi livelli di governo, imponendo la partecipazione della medesima Regione. In questa prospettiva sarebbero – ad avviso della Regione – tutte infondate le censure sollevate nei confronti delle disposizioni della legge regionale n. 29 del 2007 specificamente impugnate. Infatti, l’art. 3 della predetta legge regionale non sarebbe affatto in contrasto con l’art. 5 del regolamento 95/93/CEE, dal momento che anche quest’ultimo stabilirebbe che il coinvolgimento regionale è uno strumento indispensabile per l’efficienza nella gestione aeroportuale. Quanto alle censure sollevate nei confronti dell’art. 4, esse sarebbero tutte da rigettare, dal momento che il richiamo alla materia della sicurezza di cui alla lettera h) del secondo 238 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 03 di palma.qxp 06/04/2009 14.25 Pagina 238 comma dell’art. 117 della Costituzione, sarebbe, oltre che generico, inconferente, mentre non sarebbe possibile ravvisare alcun contrasto né con le norme del regolamento comunitario (artt. 4 e 6), né con l’art. 3 del D.Lgs. n. 172 del 2007. Infine, anche il preteso contrasto dell’art. 9 con l’art. 704, comma 1, del codice della navigazione in tema di rilascio delle concessioni di gestione aeroportuale dovrebbe ritenersi escluso, considerato che – con la predetta norma – la Regione, lungi dal sostituire le competenze degli organi statali con poteri regionali, si sarebbe limitata ad integrare ed orientare la disciplina statale verso il rispetto della competenza legislativa concorrente prevista dalla Costituzione. 3. – All’udienza pubblica il Presidente del Consiglio dei ministri ha insistito per l’accoglimento del ricorso, sottolineando che le norme della legge regionale in esame, nel disciplinare l’assegnazione delle bande orarie nonché il rilascio delle concessioni di gestione aeroportuale, intervengono illegittimamente in materie che appartengono alla competenza statale esclusiva. La Regione ha insistito per l’accoglimento delle conclusioni formulate nelle difese scritte. Considerato in diritto 1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri dubita della legittimità costituzionale della legge della Regione Lombardia 9 novembre 2007, n. 29 (Norme in materia di trasporto aereo, coordinamento aeroportuale e concessioni di gestione aeroportuali), e in particolare degli artt. 3, 4 e 9, sull’assunto che esse, incidendo sia sull’assegnazione delle bande orarie negli aeroporti coordinati, sia sulle procedure di rilascio delle concessioni di gestione aeroportuale, complessivamente eccederebbero i limiti della competenza legislativa regionale, ponendosi in contrasto «con i principi e le regole costituzionalmente riservate alla competenza dello Stato», contenute nel decreto legislativo 9 maggio 2005, n. 96 (Revisione della parte aeronautica del Codice della navigazione, a norma dell’articolo 2 della legge 9 novembre 2004, n. 265), e nel decreto legislativo 4 ottobre 2007, n. 172 (Disciplina sanzionatoria in materia di assegnazione di bande orarie negli aeroporti italiani relativamente alle norme comuni stabilite dal regolamento CE n. 793/2004 che modifica il regolamento CEE n. 95/93 in materia di assegnazione di bande orarie negli aeroporti comunitari), competenza che si fonda sull’esigenza di unitaria valutazione e tutela di interessi di rilievo nazionale, che trascendono la mera dimensione regionale e che ineriscono alla sicurezza del traffico aereo nonché alla tutela della concorrenza. Le medesime disposizioni sarebbero, inoltre, anche in contrasto con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e precisamente con le norme contenute nei regolamenti 95/93/CEE (Regolamento del Consiglio relativo a norme comuni per l’assegnazione di bande orarie negli aeroporti della Comunità) e 793/2004/CE (Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica il regolamento n. 95/93/CEE del Consiglio relativo a norme comuni per l’assegnazione di bande orarie negli aeroporti della Comunità), finalizzate peraltro a garantire lo sviluppo della rete trans-europea dei trasporti, nel rispetto della concorrenza. Il ricorrente deduce che l’intera legge reca disposizioni che – incidendo in materia di coordinamento aeroportuale (Titolo II), di cooperazione fra sistemi aeroportuali (Titolo III), nonché in tema di procedure di concessioni di gestioni aeroportuali (Titolo IV) – «eccedono i limiti in cui può essere legittimamente esercitata la potestà legislativa regionale, ponendosi in difformità e in contrasto – oltre che con i vincoli derivanti in materia dall’ordinamento comunitario – con i principi e le regole costituzionalmente riservate alla competenza dello Stato». In questa prospettiva, sarebbe censurabile, in modo particolare, l’art. 3 della citata legge regionale, nelle parti in cui dispone che la Regione nomina un proprio rappresentante IL CONTENZIOSO NAZIONALE 239 03 cont naz 03 di palma.qxp 06/04/2009 14.25 Pagina 239 nel comitato di coordinamento degli aeroporti (comma 1); determina un rafforzamento della posizione del rappresentante regionale in seno al predetto comitato, prevedendo l’obbligo di motivazione da parte del coordinatore che si discosti dal parere obbligatorio del rappresentante regionale reso su decisioni del predetto comitato che incidano direttamente su interessi regionali e stabilendo che, qualora le predette decisioni siano difformi dagli interessi rappresentati dalla Regione, quest’ultima possa sottoporre direttamente al coordinatore le proprie determinazioni (commi 3 e 4). La norma contrasterebbe anche con l’art. 5 del regolamento 95/93/CEE, il quale, tra i soggetti ammessi a partecipare a tale strumento consultivo, non indica i rappresentanti del governo regionale o locale, «al fine di evitare la proliferazione di normative locali, che si oppongono al gioco della libera concorrenza», e non prevede, in relazione alla composizione del comitato di coordinamento, la prevalenza di alcuni membri rispetto ad altri. L’art. 4 della medesima legge regionale sarebbe costituzionalmente illegittimo nella parte in cui riconosce alla Regione la possibilità di concorrere a definire una serie di parametri di coordinamento nell’assegnazione delle bande orarie (comma 1), secondo precisi criteri direttamente individuati dalla medesima norma (comma 2), prevedendo altresì che la Regione possa diffidare il coordinatore ove quest’ultimo non rispetti i parametri indicati, assegnando un termine entro il quale provvedere alla corretta applicazione degli stessi, e possa anche – ove la situazione di inadempienza permanga – segnalare il fatto al Governo, proponendo la revoca del coordinatore stesso (comma 4). Tale norma contrasterebbe con l’art. 3 del D.Lgs. n. 172 del 2007, il quale istituisce un organismo nazionale, l’ENAC (Ente Nazionale Aviazione Civile), responsabile dell’applicazione del regolamento comunitario 793/2004/CE, competente a fissare i parametri di coordinamento e a prevedere sanzioni a carico del vettore inadempiente. Inoltre, essa sarebbe, comunque, lesiva della competenza esclusiva dello Stato in materia di sicurezza, dal momento che la determinazione della banda oraria non può essere condizionata da interessi locali, concernendo la sicurezza, l’efficienza e la regolamentazione tecnica del trasporto aereo di stretta competenza dell’ENAC. Il predetto art. 4 contrasterebbe altresì con l’art. 6 del regolamento 793/2004/CEE, che attribuisce allo Stato membro il compito di definire i parametri per l’assegnazione delle bande orarie e con l’art. 4, comma 5, del medesimo regolamento, che definisce il coordinatore come unico responsabile dell’assegnazione delle bande orarie allo scopo di garantirne la neutralità e l’indipendenza. Analoghe censure sono proposte nei confronti dell’art. 9, impugnato nella parte in cui, disciplinando le concessioni di gestione aeroportuale, si porrebbe in contrasto con l’art. 704 del codice della navigazione. Mentre, infatti, la citata disposizione regionale prescrive che la Regione emani proprie direttive relative alle nuove convenzioni sottoscritte fra gestore aeroportuale ed ENAC (comma 3), che tali direttive costituiscano linee guida vincolanti per le convenzioni tra gestore aeroportuale ed ENAC (comma 4), il citato art. 704 del codice della navigazione attribuisce al Ministero dei trasporti la competenza a rilasciare il titolo concessorio della gestione degli aeroporti e dei sistemi aeroportuali di rilevanza nazionale e all’ENAC la stipulazione della relativa previa convenzione nel rispetto delle direttive del Ministero dei trasporti, prevedendo un ruolo meramente consultivo della Regione nel cui territorio ricade l’aeroporto oggetto di concessione. In conclusione, il ricorrente ritiene che l’intero impianto della legge regionale n. 29 del 2007 sia finalizzato a consentire l’esercizio, da parte della Regione, di poteri riservati unitariamente all’autorità centrale (Ministero dei Trasporti ed ENAC) in ragione del rilievo nazionale, ove non sovranazionale, degli interessi ad essi sottesi e chiede pertanto che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’intera legge regionale in esame. 240 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 03 di palma.qxp 06/04/2009 14.25 Pagina 240 2. – In linea con quanto già affermato da questa Corte (sentenza n. 368 del 2008), devono essere esaminate prioritariamente le censure dirette a contestare il potere della Regione di emanare le norme impugnate, in base alle regole che disciplinano il riparto interno delle competenze, avendo esse carattere preliminare, sotto il profilo logico-giuridico, rispetto a quelle che ineriscono all’osservanza dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario. 2.1. – Le predette questioni sono fondate. Gli artt. 3, 4 e 9 della legge della Regione Lombardia n. 29 del 2007 attribuiscono alla Regione una serie di competenze e poteri in ordine ad ambiti inerenti all’assegnazione delle bande orarie (mediante la previsione di peculiari modalità, assistite da procedure rinforzate, di concorso regionale alla definizione dei parametri di coordinamento, sulla cui base il coordinatore procede all’assegnazione delle predette bande, e di specifici strumenti di controllo del rispetto dei medesimi: artt. 3 e 4); nonché al rilascio delle concessioni di gestione degli aeroporti “coordinati”, presenti nel territorio regionale ma non destinati ai voli di mero cabotaggio regionale (con la previsione della partecipazione della Regione alla procedura di rilascio delle predette concessioni realizzata mediante l’elaborazione di proprie direttive relative alle nuove convenzioni sottoscritte fra gestore aeroportuale ed ENAC, che costituiscono linee guida vincolanti per le medesime convenzioni: art. 9). Le citate disposizioni sono, peraltro, strettamente ed inscindibilmente connesse con tutti gli altri articoli della legge regionale n. 29 del 2007. Infatti, alcuni di essi espressamente rinviano alle norme fatte oggetto di specifiche censure (artt. 5 e 6). Le altre disposizioni non specificamente impugnate della medesima legge, pur non contenendo un richiamo espresso agli artt. 3, 4 e 9, o ne presuppongono in ogni caso l’applicazione (artt. 2, 10 ed 11), o ne disciplinano potenziali sviluppi applicativi (artt. 7 ed 8), o sono volte a determinare l’ambito di operatività e la data di entrata in vigore della legge regionale in esame (artt. 1 e 12). Per valutare le censure sollevate nei confronti della legge regionale, relativamente alla pretesa violazione delle norme costituzionali inerenti al riparto delle competenze legislative, occorre preliminarmente identificare la materia alla quale esse sono riconducibili, alla luce dell’oggetto delle medesime e delle finalità perseguite dagli interventi legislativi nel cui ambito esse si collocano, anche al fine di individuare correttamente gli interessi tutelati (sentenza n. 165 del 2007). Tale materia è stata oggetto di numerosi interventi normativi. Il legislatore comunitario, dapprima con il regolamento n. 95/93/CEE del Consiglio, poi con il regolamento n. 793/2004/CE, ha introdotto norme comuni per l’assegnazione delle bande orarie, inerenti al permesso di utilizzare l’intera gamma di infrastrutture aeroportuali necessarie per operare un servizio aereo ad una data e in un orario specifici, assegnati da un coordinatore al fine dell’atterraggio e del decollo degli aeromobili. L’assegnazione riguarda gli aeroporti comunitari cosiddetti coordinati, contraddistinti da un elevato traffico aereo e da serie carenze di capacità, nei quali è necessario, quindi, che ai vettori sia assegnata una banda oraria da parte di un coordinatore, sulla base dei fattori tecnici, operativi e ambientali che incidono sulle prestazioni dell’infrastruttura aeroportuale e dei suoi vari sottosistemi (i parametri di coordinamento). Dalla stessa formulazione testuale dei predetti regolamenti comunitari si desume che la disciplina da essi recata è essenzialmente volta al fine di garantire l’accesso al mercato di tutti i vettori secondo regole trasparenti, imparziali e non discriminatorie, di promuovere un’effettiva apertura delle rotte nazionali alla concorrenza a beneficio dell’utenza e di garantire fondamentali esigenze di sicurezza del traffico aereo, in una prospettiva unitaria già a livello comunitario. In attuazione della richiamata normativa comunitaria, il legislatore statale ha provveduto a modificare la parte aeronautica del codice della navigazione, in specie con il D.Lgs. n. 96 IL CONTENZIOSO NAZIONALE 241 03 cont naz 03 di palma.qxp 06/04/2009 14.25 Pagina 241 del 2005 (successivamente modificato dal D.Lgs. n. 151 del 2006, entrambi adottati previo parere della Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano). Si è stabilito, fra l’altro, che «la partenza e l’approdo di aeromobili negli aeroporti coordinati, come definiti dalla normativa comunitaria, sono subordinati all’assegnazione della corrispondente banda oraria ad opera del soggetto allo scopo designato. L’assegnazione delle bande orarie, negli aeroporti coordinati, avviene in conformità delle norme comunitarie e dei relativi provvedimenti attuativi […]» (art. 807 cod. nav.). Con il successivo D.Lgs.. n 172 del 2007, il legislatore statale delegato ha ulteriormente adeguato la normativa interna alla normativa comunitaria, in particolare sanzionatoria, ed ha attribuito all’ENAC – già titolare delle funzioni di controllo e regolazione dell’intero sistema aeroportuale, in base alla legge 9 novembre 2004, n. 265 (Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 8 settembre 2004, n. 237, recante interventi urgenti nel settore dell’aviazione civile. Delega al Governo per l’emanazione di disposizioni correttive ed integrative del codice della navigazione), a fini di garanzia di adeguati livelli di sicurezza e di efficienza del traffico aereo negli aeroporti della Comunità – il ruolo di responsabile dell’applicazione delle norme comunitarie e dell’irrogazione delle sanzioni amministrative ivi previste. Dall’esame della normativa comunitaria e di quella interna di attuazione emerge che la disciplina dell’assegnazione delle bande orarie negli aeroporti coordinati risponde, da un lato, ad esigenze di sicurezza del traffico aereo, e, dall’altro, ad esigenze di tutela della concorrenza, le quali corrispondono ad ambiti di competenza esclusiva dello Stato (art. 117, comma secondo, lettere e) ed h), Cost). La legge regionale impugnata nel presente giudizio, pur riguardando sotto un profilo limitato ed in modo indiretto gli aeroporti, non può essere ricondotta alla materia «porti e aeroporti civili», di competenza regionale concorrente. Tale materia – come questa Corte ha già affermato (sentenza n. 51 del 2008) – riguarda le infrastrutture e la loro collocazione sul territorio regionale, mentre la normativa impugnata attiene all’organizzazione ed all’uso dello spazio aereo, peraltro in una prospettiva di coordinamento fra più sistemi aeroportuali. La distribuzione delle bande orarie richiede, infatti, almeno una corrispondenza tra i due aeroporti del volo, quello di partenza e quello di arrivo, oltre che il coordinamento dei voli nello spazio aereo considerato. Le norme in esame, pertanto, incidono direttamente ed immediatamente sulla disciplina di settori (l’assegnazione delle bande orarie, il rilascio delle concessioni aeroportuali) che sono stati oggetto dei richiamati interventi del legislatore comunitario, e poi del legislatore statale, riconducibili alle materie sopra indicate, attribuite alla competenza esclusiva dello Stato. Restano assorbiti gli ulteriori profili. Per questi motivi la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Lombardia 9 novembre 2007, n. 29 (Norme in materia di trasporto aereo, coordinamento aeroportuale e concessioni di gestione aeroportuali). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 gennaio 2009 (…)». Brevi note in margine alla discussione orale Devo premettere che, per mia storia personale(*), ho visto e vedo con favore il coinvolgimento delle Regioni nella gestione del sistema aeroportuale del nostro Paese. 242 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 03 di palma.qxp 06/04/2009 14.25 Pagina 242 IL CONTENZIOSO NAZIONALE 243 È noto, infatti, che, tenuto conto dell’art. 117 della Costituzione, per come novellato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, sono stato il promotore del Disegno di Legge n. 1 del 22 gennaio 2003 della Regione Puglia per “l’affidamento alla società S.E.A.P. S.P.A. della gestione totale del sistema aeroportuale della Regione Puglia”, pubblicando, nel 2004, il primo volume della collana de “I quaderni dell’aviazione civile” dal titolo “Il trasporto aereo nell’Europa delle Regioni – valorizzazione del sistema aeroportuale italiano – la Puglia: un esempio che fa discutere” in cui si documenta il complesso percorso burocratico amministrativo che ha portato il Governo a riconoscere alla SEAP, solo alla vigilia dell’approvazione della citata legge regionale (cd. Legge Fitto), la concessione quarantennale degli scali di “Bari Palese, Brindisi Papola Casale, Taranto Grottaglie, Foggia Gino Lisa”. Inoltre, nel maggio 2007, come Presidente del Centro Studi Demetra (1) ho organizzato un convegno nella prestigiosa sala Vanvitelli dell’Avvocatura Generale dello Stato sul “Trasporto aereo nell’Europa delle Regioni – il sistema aeroportuale del Lazio” per lanciare l’idea che, nell’ambito delle competenze regionali in materia di aeroporti civili ex art. 117 Cost, si può realizzazione l’aeroporto a valenza regionale di Frosinone che andrebbe ad integrare il sistema aeroportuale della Capitale. Va comunque precisato che il predetto sistema aeroportuale ha necessità di essere riorganizzato, affiancando a Fiumicino lo scalo di Viterbo, che, nell’ambito di una ipotesi di delocalizzazione funzionale, è destinato a sostituire l’aeroporto di Ciampino, il cui traffico va ridimensionato per problemi di carattere ambientale. Ciò nonostante, nella discussione che ho svolto, in rappresentanza del Governo, il 2 dicembre innanzi alla Corte costituzionale, ho sostenuto con forza le ragioni dell’incostituzionalità della legge regionale Lombardia n. 29 del 9 novembre 2007 recante “Norme in materia di trasporto aereo, coordinamento aeroportuale e concessioni di gestioni aeroportuali”. In particolare, ho richiesto la declaratoria dell’illegittimità costituzionale della predetta legge con riferimento alle norme contenute nella parte aeronautica del Codice della navigazione per come modificato dal D.Lgs. n. 96/05, successivamente integrato dal D.Lgs. n. 151/06 ed alle disposizioni del Reg. (CE) n. 2408/92, oggi rinvenibili nel Reg. (CE) n. 1008/08, in materia di accesso dei vettori aerei della Comunità alle rotte intracomunitarie. Per completezza, è corretto evidenziare che la Regione Lombardia, nel corso del giudizio di costituzionalità della norma regionale ha ritenuto di affermare la compatibilità costituzionale della legge n. 29/07 sulla base del noto principio di “leale collaborazione” di elaborazione “pretoria”, ricavabile dalla fondamentale decisione n. 303/03 della Corte costituzionale che pretende il necessario coordinamento dell’intervento statale con gli interventi (*) L’Avvocato dello Stato Pierluigi Di Palma ha ricoperto la carica di direttore generale dell’ENAC. (1) info@demetracentrostudi.it 03 cont naz 03 di palma.qxp 06/04/2009 14.25 Pagina 243 regionali, postulando l’ineliminabile partecipazione degli enti autonomi territoriali nel governo delle materie di legislazione concorrente. Inoltre, la difesa della Regione Lombardia, tenuto conto che la discussione verteva su problematiche di derivazione comunitaria, ha altresì chiesto che la Corte costituzionale procedesse ad un rinvio pregiudiziale innanzi alla Corte di Giustizia della Comunità Europea (ex art. 234 TCE) affinché sia tale Autorità a fornire l’interpretazione più adeguata in merito all’interferenza della legge lombarda sulla corretta applicazione, in particolare, della normativa sulla clearance aeroportuale di cui al Reg. (CEE) n. 95/93, come modificato e integrato dal Reg. (CE) n. 793/04. Ma valga il vero. In sintesi, la legge regionale lombarda, sulla base di una non condivisa tecnica legislativa con cui, ad una normativa di riferimento nazionale, si sovrappongono procedure di pertinenza regionale appesantendo e dilatando nel tempo i processi decisionali di un settore, l’aviazione civile, che si caratterizza per la necessità, a volte, di provvedimenti a carattere istantaneo (ad es. notam), tratta di clearance aeroportuale (artt. 2-8) e di concessioni di gestione aeroportuale (artt. 9-11), con riferimento agli “aeroporti situati nel territorio regionale” (art. 1), imponendo una disciplina di carattere territoriale con riferimento all’assetto aeroportuale esistente. Specificamente, l’ambito di applicazione della legge è da riferirsi alle questioni inerenti gli aeroporti di Milano Linate, Milano Malpensa, Bergamo Orio al Serio e Brescia Montichiari. Detto questo, iniziando l’analisi della coerenza costituzionale di cui alle norme in tema di concessione della gestione aeroportuale di cui agli artt. 9 e ss. della legge regionale, è necessario osservare che il percorso di “leale collaborazione” tra Stato e Regione di cui alla citata decisione della Corte costituzionale n. 303/03 è stato definito dal D.Lgs. n. 96/05, con l’acquisizione, sul testo della riforma della parte aeronautica del Codice della navigazione, del parere favorevole della “Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano” (cfr. premessa al D.Lgs. n. 96/05). Ma vi è di più. L’art. 3, c. 7, del D.Lgs. n. 96/05 prevede espressamente che “Le Regioni disciplinano le materie di propria competenza nel rispetto dei principi desumibili dalle disposizioni contenute nel titolo III del libro I della parte II del codice della navigazione, come modificato dal presente articolo”. In sostanza, la predetta disciplina è da considerarsi la “legge cornice” di cui all’art. 117 Cost., nel cui ambito le Regioni possono elaborare la legislazione concorrente di competenza, ivi inclusa la materia delle concessioni aeroportuali. Di talché, è riconosciuta dalle Regioni la distinzione tra aeroporti di rilevanza nazionale e quelli di interesse regionale di cui agli artt. 698 e 704 cod. nav., per come modificato dal D. L.vo n. 96/05 e dalle successive integrazioni di cui al D. L.vo n. 151/06. Di contro, rispetto a questa ricostruzione dell’assetto normativo di carattere costituzionale può opporsi la mancata individuazione, ai sensi dell’art. 244 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 03 di palma.qxp 06/04/2009 14.25 Pagina 244 698 cod. nav., de “gli aeroporti e i sistemi aeroportuali di interesse nazionale” e la mancata costituzione del “comitato di coordinamento tecnico”, di cui all’art. 704, c. 2, per “coordinare le politiche di sviluppo degli aeroporti di interesse regionale” . Sicché, in mancanza dei predetti adempimenti, non si avrebbe la cognizione degli aeroporti da ascrivere, per legge condivisa, tra “i nodi essenziali per l’esercizio delle competenze esclusive dello Stato” (art. 698 cod. nav.), ovvero gli scali di rilevanza nazionale rispetto ai quali le Regioni non hanno potestà per l’esercizio della legislazione concorrente. Sul punto, a prescindere dalle varie ipotesi dottrinarie, può farsi esplicito riferimento a quanto disponeva il Reg. (CEE) n. 2408/92 del 23 luglio 1992 sull’accesso dei vettori aerei della Comunità alle rotte intracomunitarie dove, all’art. 2, lett. l), viene definito come “aeroporto regionale qualsiasi aeroporto non compreso nell’elenco degli aeroporti di categoria 1, di cui all’allegato I”, dove, per l’Italia, sono indicati i sistemi aeroportuali di Roma e Milano che, all’allegato II, vengono ad identificare, per quanto concerne gli aeroporti meneghini, gli scali di “Milano-Linate/Malpensa/Bergamo(Orio al Serio)”. C’è da dire che il sistema aeroportuale, che secondo l’art. 8 del citato regolamento rappresentava “il raggruppamento di due o più aeroporti che servono la stessa città o lo stesso agglomerato urbano”, è da ritenersi tuttora un riferimento valido ai fini della individuazione degli aeroporti di rilevanza nazionale, anche se, oggi, la qualificazione giuridica dei sistemi aeroportuali risulta profondamente modificata dall’art. 19 del Reg. (CE) n. 1008/08, che abroga e sostituisce i Regg. (CEE) nn. 2407-2408-2409/02. In ogni caso, laddove quanto prospettato non fosse ritenuto sufficiente a riconoscere gli aeroporti di rilevanza nazionale, pare opportuno evidenziare che nella Comunicazione della Commissione europea relativa agli “Orientamenti comunitari in materia di finanziamento degli aeroporti e gli aiuti pubblici di avviamento concessi alle compagnie operanti su aeroporti regionali” adottata dopo “il caso Charleroi” per gli aiuti economici corrisposti a Ryanair, i piccoli aeroporti regionali sono fatti coincidere con quelli sino ad un milione di passeggeri annui ed i grandi scali regionali sono considerati quelli sino a cinque milioni di passeggeri. Solo oltre il citato volume annuo di traffico passeggeri, per l’Europa c’è la categoria degli aeroporti nazionali (sino a dieci milioni di passeggeri) ed i grandi scali comunitari (oltre dieci milioni di passeggeri). Per quanto concerne l’aerea lombarda, i dati di traffico passeggeri gennaio/ ottobre 2008 danno Malpensa a 16.735.000, Linate a 8.097.000, Bergamo a 5.515.000. Conseguentemente, i predetti aeroporti rientranti nel sistema di scali nazionali secondo le disposizioni del Reg. (CEE) n. 2408/92, non sono catalogabili come regionali neanche facendo riferimento a fonti comunitarie di immediata applicazione nel nostro Paese come la Comunicazione di cui si è detto. Inoltre, c’è da dire che il predetto limite di cinque milioni di passeggeri, che fissa il limite dell’interesse comunitario per gli aeroporti, è stato di recente ribadito dalla “Risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 23 ottobre 2008 relativa alla posizione comune del Consiglio in vista dell’adozione IL CONTENZIOSO NAZIONALE 245 03 cont naz 03 di palma.qxp 06/04/2009 14.25 Pagina 245 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio concernente i diritti aeroportuali”. Ciò posto, come richiesto dal Parlamento europeo, la direttiva sulla determinazione della misura dei diritti aeroportuali si applicherà a tutti gli aeroporti UE “il cui volume di traffico annuale superi la soglia di cinque milioni” di movimenti passeggeri (art. 1 c. 2), rispetto al limite di un milione proposto dalla Commissione. In tale contesto normativo di carattere nazionale che trova conferma nel diritto comunitario, è chiaro che la legge della Regione Lombardia, in evidente contrasto con la norma costituzionale, tende far valere una propria disciplina nella materia degli aeroporti civili ex art. 117 Cost. in un ambito non proprio perché i tre aeroporti del sistema di Milano sono da considerarsi di rilevanza nazionale in quanto “nodi essenziali per l’esercizio delle competenze esclusive dello Stato” (art. 698 cod. nav.) in relazione alle espresse definizioni rinvenibili nell’ordinamento comunitario. Per quanto poi concerne la questione dell’aeroporto di Brescia Montichiari, l’altro scalo di interesse commerciale su cui incide, allo stato, la farraginosa procedura di cui agli artt. 9 ss. della legge regionale in tema di rilascio della concessione di gestione aeroportuale, vi è da dire che il D.Lgs. prevede all’art. 3, c. 2, una norma transitoria – sostanzialmente non modificata dal D.L. n. 248/07 convertito con legge n. 31/08 (cd. Milleproroghe) – che deroga al principio della procedura di affidamento per “gara ad evidenza pubblica secondo la normativa comunitaria” di cui all’art. 704 cod. nav. anche “ai procedimenti di rilascio della concessione su istanza antecedente alla data di entrata in vigore del (…) decreto legislativo”. Di talché, gli artt. 9 e 10 della legge lombarda, che dispongono la partecipazione della Regione alla procedura per il rilascio delle nuove concessioni di gestione aeroportuale, contrastano palesemente con il dettato normativo di cui alla citata disposizione transitoria. Per quanto invece concerne il contrasto sulle norme di cui alla legge regionale concernenti la clearance aeroportuale è indubbio che, per quanto già detto, risulta incostituzionale l’ambito di applicazione delle norme che chiaramente incidono esclusivamente sulla operatività degli aeroporti lombardi di rilevanza nazionale, per come precedentemente identificati in base ai riferimenti di cogenti disposizioni comunitarie. Infatti, Milano Malpensa, Milano Linate e Bergamo (Orio al Serio), sono gli unici tre aeroporti “coordinati” della Lombardia sottoposti, come per legge, all’assegnazione delle bande orarie da parte di Assoclearance, perché, in ragione della congestione del traffico aereo, è necessario limitare, secondo regole precise e non discriminatorie di cui al Reg (CEE) n. 95/93 come integrato e modificato dal Reg (CE) n. 793/04, l’accesso ai vettori nel valore massimo di slots di cui è possibile disporre, secondo la capacità aeroportuale predefinita. Peraltro, sul punto, l’art. 807 cod. nav. prevede che “l’assegnazione delle bande orarie, negli aeroporti coordinati, avviene in conformità delle norme comunitarie e dei relativi provvedimenti attuativi” e la modifica introdotta dall’art. 12, c. 4, D.Lgs. n. 151/06 dispone che “si applichi altresì la discipli- 246 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 03 di palma.qxp 06/04/2009 14.25 Pagina 246 na sanzionatoria attuativa delle norme comunitarie”, poi recepita nel nostro ordinamento con il D.Lgs. n. 172/07 in riferimento al Reg. (CE) n. 793/04, modificativo, come detto, del Re. (CEE) n. 95/93, in materia di assegnazione di bande orarie. Al riguardo, pare opportuno sottolineare che l’art. 807 cod. nav. non è richiamato dall’art. 3, c. 7, del D.Lgs. n. 96/05 quale principio a cui le Regioni devono conformare la propria legislazione concorrente in tema di “aeroporti civili”. È palese che questo mancato richiamo, pone dei legittimi dubbi sul fatto che per il legislatore la materia della clearance aeroportuale sia da ricomprendersi in quella degli “aeroporti civili” di cui all’art. 117 della Cost. per la quale deve riconoscersi alle Regioni la potestà legislativa concorrente, nel rispetto dei principi di cui alla “legge cornice” adottata dallo Stato con l’emanazione del D.Lgs. n. 96/05 e s.m.i. Da ultimo, è necessario fare anche alcune significative osservazioni di merito. In particolare, l’art. 4 della legge regionale lombarda tende a confondere la definizione della banda oraria con quella di collegamento aereo e porta ad integrare, in un percorso di dubbia legittimità, i parametri di coordinamento ricavabili dalla legislazione comunitaria, dando una priorità nell’allocazione delle bande orarie da parte di Assoclearance a quei vettori che garantiscono da e per gli aeroporti del sistema aeroportuale di Milano tratte destinate al “mantenimento del network (…) in termini di collegamento da e per destinazioni intercontinentali”. È quindi necessario fare chiarezza sul fatto che per banda oraria (slot) deve intendersi, come per legge, il permesso dato dal coordinatore, per l’Italia Assoclearance, di utilizzare l’intera gamma di infrastrutture aeroportuali necessarie per operare un servizio aereo in un aeroporto coordinato ad una data e in un orario specifici assegnati dal coordinatore, secondo le regole del Reg. (CEE) n. 95/93, come integrato e modificato dal Reg. (CE) n. 793/04. Da quanto precisato, è indubitabile che, salvo specifiche situazioni riscontrabili, ad esempio, nell’esame del decreto Bersani bis in materia di ripartizione del traffico del sistema aeroportuale di Milano, non è possibile per il coordinatore concedere, senza stravolgere le regole di non discriminazione che presidiano l’assegnazione di bande orarie negli aeroporti della Comunità, una priorità alle richieste di vettori che garantiscono un determinato tipo di collegamento aereo rispetto ad un altro. Per queste ragioni, al termine della discussione del 2 dicembre innanzi la Corte costituzionale, pur da sempre valorizzando la partecipazione regionale nel governo del trasporto aereo perché i principi di derivazione comunitaria di privatizzazione e liberalizzazione del settore diventino condiviso patrimonio del nostro Paese, utili allo sviluppo dell’economia territoriale, ho concluso per la declaratoria di incostituzionalità della legge regionale Lombardia n. 29/07 recante “Norme in materia di trasporto aereo, coordinamento aeroportuale e concessioni di gestione aeroportuali”. Avv. Pierluigi Di Palma IL CONTENZIOSO NAZIONALE 247 03 cont naz 03 di palma.qxp 06/04/2009 14.25 Pagina 247 Sufficienza del voto alfanumerico negli esami di abilitazione: un’unica via interpretativa (Corte costituzionale, sentenza 30 gennaio 2009 n. 20) 1. Con la sentenza n. 20 del 30 gennaio 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22, comma 9 del R.D.L. 23 novembre 1933, n. 1578 convertito dalla legge 22 novembre 1934, n. 36 e degli artt. 17 bis, 22, 23 e 24 del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, con riferimento agli artt. 24, commi 1 e 2, 111, commi 1 e 2, 113, comma 1 e 117, comma 1 della Costituzione. Le predette norme sono state censurate dal giudice remittente, nella parte in cui, secondo l’indirizzo interpretativo del Consiglio di Stato, tanto consolidato da costituire “diritto vivente”, consentono la motivazione esclusivamente attraverso il voto numerico dei giudizi espressi in sede di valutazione delle prove dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense. La Corte costituzionale si è già più volte occupata della questione, dichiarandola però sempre inammissibile, ritenendo possibili diverse letture delle norme censurate e rimettendo quindi al giudice la scelta ermeneutica più congrua in relazione alle circostanze concrete, quali ad esempio la predeterminazione di criteri di valutazione più o meno dettagliati. In particolare, con ordinanza 3 novembre 2000, n. 466, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibile, in quanto non diretta a risolvere un dubbio di legittimità costituzionale ma tendente impropriamente ad ottenere un avallo di una determinata interpretazione della disposizione impugnata, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge n. 241/1990, nella parte in cui escluderebbe l’obbligo di motivazione analitica per i giudizi sulle prove scritte dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense, con riferimento agli articoli 3, 24, 113 e 97 della Costituzione. Successivamente, con ordinanza 6 luglio 2001 n. 233, la Corte costituzionale ha nuovamente dichiarato manifestamente inammissibile la stessa questione, in considerazione del fatto che il rimettente avrebbe voluto “estendere l’obbligo di motivazione ai giudizi espressi in sede di valutazione delle prove d’esame per l’iscrizione all’albo degli avvocati” ma non avrebbe tratto “le conseguenze applicative dell’interpretazione che egli considera conforme ai parametri costituzionali, deducendo l’esistenza della giurisprudenza del Consiglio di Stato, che segue l’interpretazione da lui non condivisa” mentre “nulla impedisce al rimettente di adottare l’interpretazione da lui ritenuta corretta alla luce dei parametri costituzionali”. Con successive ordinanze del 14 novembre 2005, nn. 419 e 420, la Corte costituzionale ha ribadito l’inammissibilità di ogni questione attraverso la quale il rimettente tenda ad ottenere l’avallo della Corte a favore di una certa interpretazione, contestando esplicitamente il presupposto interpretativo posto a base dell’ordinanza di rimessione ed escludendo che la tesi dell’ine- 248 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 04 ferrante.qxp 06/04/2009 14.31 Pagina 248 sistenza di un obbligo di motivazione analitica per gli esami di abilitazione e in generale per i concorsi costituisca “diritto vivente”. Infine, con ordinanza del 27 gennaio 2006, n. 28, la Corte costituzionale ha nuovamente dichiarato la manifesta inammissibilità della medesima questione di legittimità costituzionale, ribadendo che la giurisprudenza amministrativa fornisce un panorama articolato di possibili soluzioni interpretative, non limitandosi alla sola tesi che esclude l’obbligo di motivazione analitica nelle operazioni di giudizio conseguenti a valutazioni tecniche ma estendendosi sino a quella che invece ritiene applicabile il medesimo obbligo anche ai giudizi valutativi ed a quella secondo cui la sufficienza e idoneità del punteggio numerico dev’essere apprezzata caso per caso, in relazione alla possibilità concreta che il concorrente abbia di ricostruire per relationem i criteri seguiti dalla commissione esaminatrice, ad esempio facendo riferimento ai criteri di massima predeterminati dalla stessa o alle glosse apposte sugli elaborati scritti. Infatti, il Consiglio di Stato, sez. V, con sentenza del 30 aprile 2003, n. 2331 (successivamente però smentita da numerose altre pronunce di segno opposto), a fronte dell’orientamento seguito da alcuni giudici amministrativi – secondo il quale è necessaria una motivazione analitica per la valutazione negativa delle prove di esame – e di altro orientamento maggioritario – in forza del quale l’onere della motivazione nella materia de qua è sufficientemente assolto con l’attribuzione di un punteggio numerico – ha seguito un orientamento intermedio, secondo il quale, per valutare l’idoneità del punteggio numerico a soddisfare il requisito della motivazione, occorre avere riguardo “alla tipologia dei criteri di massima fissati dalla commissione, risultando sufficiente il punteggio soltanto ove i criteri siano predeterminati rigidamente e insufficiente nel caso in cui si risolvano in espressioni generiche”. 2. Con la sentenza annotata, invece, la Corte costituzionale ha preso atto della ormai “granitica” giurisprudenza del Consiglio di Stato ed ha pertanto dichiarato ammissibile la questione di legittimità costituzionale, concludendo però per la sua infondatezza. La Corte ha infatti precisato che il principio dell’effettività del diritto di difesa (art. 24 Cost.) anche con riguardo alla tutela contro gli atti della pubblica amministrazione (art. 113 Cost.) “sono volti a presidiare l’adeguatezza degli strumenti processuali posti a disposizione dall’ordinamento per la tutela in giudizio dei diritti ed operano esclusivamente sul piano processuale”. La Corte ha soggiunto che anche il principio del giusto processo, consacrato nell’art. 111 Cost, ed attuato attraverso il rispetto del principio del contraddittorio, del principio della ragionevole durata del processo e della motivazione della decisione, si estrinseca mediante garanzie di carattere esclusivamente processuale. Pertanto, ha affermato la Corte, le norme censurate, che non impongono alla Commissione una specifica modalità di motivazione delle proprie valutazioni, attengono al profilo sostanziale dei requisiti di validità del provvedimento amministrativo conclusivo del procedimento di abilitazione alla professione forense mentre “l’aspetto processuale degli strumenti predisposti dall’ordinamento per l’attuazione in giudizio dei diritti non è chiamato in gioco dalla norma, che non preclude il ricorso al giudice amministrativo”. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 249 03 cont naz 04 ferrante.qxp 06/04/2009 14.31 Pagina 249 La disciplina censurata non è stata quindi ritenuta idonea ad interferire né con il diritto di difesa, né con il principio del contraddittorio. 2.1. Per comprendere la portata della decisione, occorre prendere le mosse dall’ordinanza di rimessione. Sotto il profilo relativo alla violazione dell’art. 24, commi 1 e 2 della Costituzione, posto a tutela del diritto di difesa, il giudice remittente osserva che la disciplina speciale dell’esame di abilitazione alla professione legale, nel testo risultante dalla recente riforma di cui al D.L. 21 maggio 2003, n. 112 convertito dalla legge 18 luglio 2003, n. 180, sarebbe illogica ed irrazionale atteso che, da una parte, il legislatore della riforma avrebbe predisposto un sistema di valutazione degli elaborati scritti improntato ai principi di trasparenza e imparzialità attraverso la previsione, già a livello normativo, di criteri generali di giudizio successivamente specificati da una commissione appositamente istituita presso il Ministero della Giustizia e, dall’altra, rimarrebbe vigente una normativa che si limiterebbe a prevedere l’attribuzione di un semplice punteggio senza obbligo per la commissione esaminatrice di giustificare in concreto tale attribuzione attraverso un’apposita motivazione sul punto. In proposito, è innanzitutto necessario ricordare che l’art. 3 della legge n. 241/1990 collega la sufficienza della motivazione alle risultanze dell’istruttoria e, quindi, fa riferimento all’attività amministrativa più propriamente provvedimentale e non all’attività di giudizio conseguente a valutazione quale è, appunto, quella relativa alla preparazione culturale o tecnica del candidato. Inoltre, quanto alla denunciata contraddittorietà interna della normativa in esame, appare al contrario chiara l’intenzione del legislatore della riforma di codificare a livello normativo il principio, ormai invalso nel sistema e condiviso dalla stessa giurisprudenza, in base al quale l’espressione della valutazione attraverso un voto non è uno strumento che esime dalla motivazione ma ne costituisce, invece, un’espressione in forma sintetica. Il voto non rappresenta infatti una sorta di dispositivo di cui occorra fornire la motivazione, ma esprime esso stesso in forma, per l’appunto, sintetica la valutazione compiuta dalla commissione esaminatrice nell’apprezzamento delle singole prove e nella loro reciproca comparazione. In tale ottica, non può essere revocato in dubbio che il voto, associato ai criteri generali definiti a livello normativo nonché ai criteri stabiliti in linea di massima dalla commissione esaminatrice appositamente costituita, consenta di ricostruire l’iter logico seguito nella valutazione dei singoli elaborati scritti da parte della medesima commissione. Né vale invocare, come fatto dal giudice remittente, il sopravvenuto art. 11, comma 5 del decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 166 in materia di concorso notarile, in base al quale “il giudizio di non idoneità è motivato” mentre “nel giudizio di idoneità il punteggio vale motivazione”. E’, infatti, evidente che una procedura selettiva per l’abilitazione professionale presenta caratteristiche difformi, tali da giustificarne una diversità di disciplina, rispetto ad una procedura concorsuale a numero chiuso. Nel primo caso, trattasi infatti di esame abilitativo volto al mero accertamento delle capacità tecniche dell’aspirante professionista, nel secondo caso invece trattasi di procedura selettiva fondata sul necessario raffronto compa- 250 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 04 ferrante.qxp 06/04/2009 14.31 Pagina 250 rativo fra i candidati al fine di scegliere i soggetti migliori in relazione al numero limitato di posti messi a concorso. Peraltro, il predetto art. 11 del D.Lgs. n. 166/2006, lungi dallo smentire l’orientamento giurisprudenziale prevalente, non fa altro che confermare il principio secondo cui la valutazione tradottasi nella attribuzione di un punteggio “vale motivazione” mentre la previsione che, laddove essa non sfoci in una votazione, vi sarà un giudizio diversamente motivato, deve considerarsi norma speciale di stretta interpretazione, di per sé non espressiva di un principio generale e dunque non estensibile al di fuori dell’ambito concorsuale ivi specificamente disciplinato (Cons. Stato, sez. IV, 21 aprile 2008, n. 1787). Tale orientamento è stato affermato dal Consiglio di Stato, nella predetta decisione, in relazione al concorso per uditore giudiziario che, pur integrando un concorso per l’accesso ad un pubblico impiego con un numero di posti limitati rispetto alla platea dei partecipanti, non prevede nemmeno il punteggio numerico nel caso in cui il candidato non meriti di ottenere il minimo richiesto per l’approvazione (art. 16 R.D. 15 ottobre 1925, n. 1860) bastando in tale ipotesi la locuzione “non idoneo”. È stato infatti chiarito che non è configurabile un interesse giuridico del candidato a conoscere il grado di insufficienza delle proprie prove, “atteso che nell’ambito dell’insufficienza, le norme non assegnano all’uno o all’altro voto alcun effetto”. Quanto al rilievo del giudice remittente secondo il quale il candidato non ammesso dovrebbe poter comprendere dove abbia sbagliato e quali errori possano e debbano essere emendati in una successiva tornata d’esami di abilitazione, basta osservare che la valutazione della commissione non ha scopi didattici ma è volta ad accertare la capacità e la preparazione culturale del candidato che intenda apprestarsi all’esercizio della professione forense. Come si è visto, quindi, per ogni concorso od esame, vi è una particolare disciplina che chiarisce in quali termini il giudizio della commissione debba essere motivato in relazione alle peculiarità della singola procedura concorsuale, senza che possa ritenersi violato il diritto di difesa del candidato. Come detto in precedenza, infatti, la votazione è di per sé idonea ad esplicitare compiutamente, in maniera sintetica ma non per questo meno eloquente, il giudizio maturato dalla commissione in ordine alle prove d’esame, rendendo in tal modo del tutto percepibile il percorso logico seguito dalla commissione giudicatrice nell’attribuzione del punteggio numerico. Conseguentemente, appare evidente che la motivazione espressa numericamente, oltre ad assicurare la necessaria chiarezza sulle valutazioni di merito compiute dalla commissione, garantisce il rispetto dei principi costituzionali di efficienza, economia, efficacia e speditezza su cui deve parimenti fondarsi l’attività amministrativa (Cons. Stato, sez. IV, 16 luglio 2007, n. 4007). Al riguardo, è sufficiente osservare che l’attività di correzione sarebbe notevolmente rallentata qualora la commissione d’esame dovesse esternare, in via analitica, attraverso un articolato giudizio, le ragioni delle singole valutazioni a fronte dell’elevato numero degli esaminandi, dell’eterogeneità della preparazione degli stessi e dell’obbligo di concludere le operazioni in tempi strettissimi (sei mesi, salvo eccezionale e motivata proroga in base all’art. 23 R.D. n. 37/1934). IL CONTENZIOSO NAZIONALE 251 03 cont naz 04 ferrante.qxp 06/04/2009 14.31 Pagina 251 In tal modo, verrebbero considerevolmente allungati i tempi di correzione degli elaborati scritti, con evidenti ripercussioni sul più generale interesse di tutti i candidati ad una veloce definizione della procedura de qua che, come è noto, ha cadenza annuale. Peraltro, è stato osservato che il giudizio in ordine alla preparazione di un candidato è stato sempre tradizionalmente espresso nel nostro ordinamento, a partire da quello scolastico (cfr. artt. 81 e 82 del R.D. n. 1054/1923), con l’attribuzione di un voto. Pertanto, non è certo agevole comprendere perché lo stesso soggetto, che da studente non ha avuto difficoltà a cogliere dal voto numerico ricevuto a conclusione dei singoli esami compresi nel suo piano di studi, le ragioni ad esso sottese, a distanza di pochi anni sarebbe incapace di comprendere, da laureato partecipante ad una procedura idoneativa all’esercizio di una determinata professione, il perché del voto numerico che la commissione esaminatrice ha ritenuto di assegnare alle sue prove (Cons. Stato, sez. IV, 12 giugno 2007, n. 3114). In realtà il voto numerico, col suo collocarsi all’interno di una scala parametrale comunemente riconosciuta, si configura come formula sintetica ma chiara di esternazione della valutazione tecnica compiuta dall’esaminatore e, come tale, è perfettamente idoneo a rendere conto delle ragioni del giudizio espresso. 2.2. In relazione alla pretesa violazione dell’art. 113, comma 1 della Costituzione, che sancisce il principio di effettività della tutela giurisdizionale, il giudice remittente osserva che, rispetto alle valutazioni espressione di discrezionalità tecnica, come nel caso di quelle operate dalle commissioni esaminatrici per l’abilitazione all’esame di avvocato, il giudice deve poter controllare la ragionevolezza, logicità e coerenza dei giudizi espressi mentre tale controllo, seppur di tipo “debole”, sarebbe compromesso dalla presenza di un mero punteggio numerico che non consentirebbe, ancora una volta, di rendere visibili i criteri applicati in concreto dalla commissione d’esame con conseguente riduzione delle facoltà costituzionalmente connesse alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi. Invero, a tale proposito, si osserva che la conclusione cui si perviene nell’ordinanza di rimessione si fonda sull’erroneo presupposto secondo cui il voto espresso in forma numerica non consentirebbe di comprendere l’iter logico seguito dalla commissione esaminatrice nella valutazione delle prove. La votazione rappresenta, invece, una sintesi delle ragioni poste a fondamento della valutazione delle prove scritte, ictu oculi percepibili attraverso la semplice associazione di tale breve motivazione con i criteri generali indicati sul piano normativo e integrati da quelli specificati dalla stessa commissione d’esame. Di talché, appare evidente che non sia dato ravvisare alcuna compromissione di quelle facoltà che costituiscono espressione della garanzia di tutela dei diritti soggettivi e interessi legittimi così come assicurata dall’art. 113 Cost. atteso che, pur trattandosi di motivazione sintetica, essa non è incontrollabile per cui i soggetti interessati potranno in ogni caso usufruire dei medesimi strumenti giuridici di tutela messi a disposizione dall’intero assetto normativo qualora si controverta in merito ad una motivazione espressa in forma più analitica. 252 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 04 ferrante.qxp 06/04/2009 14.31 Pagina 252 D’altra parte, occorre sottolineare che, proprio perché trattasi di materia rientrante nella sfera della c.d. discrezionalità tecnica, l’orientamento giurisprudenziale maggioritario in ordine alla sufficienza del voto numerico si fonda, in primo luogo, sulla necessità che il sindacato del giudice amministrativo si svolga ab externo, limitatamente al procedimento che ha condotto a quella valutazione e non ab interno, sovrapponendo la propria valutazione a quella espressa dalla commissione; in secondo luogo, sulla considerazione che, qualora i concorsi o gli esami non dovessero vertere su materie giuridiche, il giudice amministrativo difetterebbe della competenza tecnica necessaria per poter apprezzare la congruenza della valutazione analitica effettuata dall’organo tecnico. 2.3.Per quanto concerne la pretesa violazione dell’art. 111, commi 1 e 2 della Costituzione, che enuncia il principio del giusto processo, il remittente osserva che la lettura delle norme censurate fornita dal “diritto vivente” escluderebbe in radice ogni possibilità che siano garantiti il diritto di difesa in giudizio e dunque le regole coessenziali al giusto processo, con conseguente compressione del principio di effettività della tutela giurisdizionale. Appare evidente che le argomentazioni addotte dal remittente a sostegno di tale ulteriore asserito profilo di incostituzionalità, sono meramente ripetitive di quelle già avanzate con riferimento agli articoli 24 e 113 Cost., che riguardano appunto il diritto di difesa e il principio di effettività della tutela giurisdizionale. In proposito, va ricordato che le valutazioni espresse dalle commissioni giudicatrici in merito alle prove di esame o di concorso, in quanto espressione di discrezionalità tecnica, non sono sindacabili dal giudice amministrativo se non nei casi in cui sussistano elementi idonei ad evidenziarne uno sviamento logico, un errore di fatto o una contraddittorietà ictu oculi rilevabile (Cons. Stato, IV, 17 gennaio 2006, n. 176). Ne consegue che il giudicante non può ingerirsi negli ambiti riservati alla discrezionalità tecnica dell’organo valutatore e sostituire il proprio giudizio sul merito dell’elaborato scritto a quello della commissione (il che escluderebbe anche il possibile ricorso alla consulenza tecnica d’ufficio, introdotta nel processo amministrativo dall’art. 1 della legge 21 luglio 2000, n. 205, prevista, come riconosce lo stesso remittente, esclusivamente “per l’accertamento della legittimità di ogni questione positivamente sottratta all’area della riserva amministrativa”) se non nel caso in cui il giudizio, anche se espresso mediante voto numerico, si appalesi viziato sotto il profilo della logicità e della ragionevolezza, vizio la cui sostanza non può essere confusa con l’adeguatezza della motivazione, ben potendo questa essere adeguata e sufficiente e tuttavia al tempo stessa illogica e irrazionale (Cons. Stato, sez. IV, 19 maggio 2008, n. 2293). Stante il diverso rilievo ed ambito concettuale che assumono i due vizi, l’uno non può quindi essere arbitrariamente ed automaticamente dedotto dall’altro. Pertanto, l’affermata idoneità del punteggio numerico ad integrare l’obbligo di motivazione non fa certo venir meno, né in qualche modo attenua la garanzia della possibilità di un sindacato sulla ragionevolezza, coerenza e logicità della valutazione, potendo il candidato conoscere gli errori o le lacune del giudizio espresso dalla commissione e valutare la fruibilità dell’azio- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 253 03 cont naz 04 ferrante.qxp 06/04/2009 14.31 Pagina 253 ne giurisdizionale anche sulla base dell’accesso agli atti della competizione concorsuale, volto a verificare l’imparzialità del giudizio e la coerente ed uniforme applicazione dei criteri di valutazione che allo stesso presiedono, entro i limiti in cui al giudice amministrativo è consentito di esercitare il proprio sindacato di legittimità su atti espressivi di discrezionalità tecnica (Cons. Stato, sez. IV, 17 gennaio 2006, n. 172). La motivazione analitica, invece, presterebbe il fianco – come accade spesso nel contenzioso concernente il concorso notarile, che prevede tale forma di motivazione da ben prima della riforma introdotta con il D.Lgs. n. 166/2006, che si è limitata, sotto tale profilo, ad eliminare il c.d. voto di eccellenza – ad inammissibili censure di merito, che tendano a sovrapporre, al giudizio della commissione, valutazioni finalizzate ad apprezzare direttamente la “bontà” dell’elaborato mentre in tale materia il controllo giurisdizionale deve tener conto del fatto che l’applicazione della norma tecnica non sempre si traduce in una legge scientifica universale, caratterizzata dal requisito della certezza, potendo invece dar luogo ad apprezzamenti tecnici ad elevato grado di opinabilità. La motivazione mediante voto numerico quindi non restringe le possibilità di tutela giurisdizionale, dovendo la stessa comunque rimanere confinata nei limiti del sindacato di legittimità. 2.4. Quanto all’asserita violazione dell’art. 117, comma 1 della Costituzione, che impone il rispetto dei vincoli derivanti dal diritto comunitario e dagli obblighi internazionali, il remittente osserva che la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali prevede espressamente il diritto ad un processo equo (art. 6) e quindi, ove l’incostituzionalità delle norme denunciate, la cui interpretazione si tradurrebbe in una violazione del giusto processo, non venisse sanzionata dalla Corte costituzionale, la conseguente sentenza di reiezione del giudice remittente sarebbe direttamente ricorribile per saltum davanti alla Corte europea di Strasburgo. Invero, lo stesso remittente riconosce che i principi del giusto processo sono stati pacificamente recepiti nel nostro ordinamento con le modifiche apportate all’art. 111 Cost. Ciò detto, non è rinvenibile nella CEDU alcuna norma che imponga la motivazione dei provvedimenti amministrativi (norma peraltro presente nel nostro ordinamento, appunto l’art. 3 della legge 241/1990, sebbene non sia prevista a livello costituzionale), né tanto meno che disciplini le modalità in cui detta motivazione debba essere esternata. Né appare utilmente invocabile “l’obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni” di cui alla lettera c) del comma 2 dell’art. II- 101 del Trattato 20 ottobre 2004 (Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa) giacché tale norma è applicabile, per disposto espresso dello stesso Trattato, “alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione” (art. II-111, comma 1) mentre è pacifico che la disciplina degli esami di abilitazione all’esercizio della professione forense non attiene certo all’attuazione del diritto comunitario (Cons. Stato, sez. IV, 19 maggio 2008, n. 2293). 254 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 04 ferrante.qxp 06/04/2009 14.31 Pagina 254 IL CONTENZIOSO NAZIONALE 255 Peraltro, come si è già detto, il voto numerico non esclude la motivazione bensì è una modalità di esternazione della stessa. 3. Alla luce della pronuncia della Corte costituzionale annotata, che ha fornito un’interpretazione molto chiara delle norme sospettate di incostituzionalità, concludendo per la loro piena conformità ai parametri costituzionali di riferimento, si ritiene che i giudici amministrativi sapranno certamente trarre le necessarie conseguenze nel tracciare i confini di sindacabilità giurisdizionale dei giudizi valutativi degli esami di abilitazione alla professione forense. Avv. Wally Ferrante(*) Corte costituzionale, sentenza 30 gennaio 2009 n. 20 – Pres. G.M.– Flick – Red. L. Mazzella. «(…) Ritenuto in fatto 1.- Con tre distinte ordinanze, emesse il 5 maggio e il 3 giugno 2008, il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento ha sollevato, con riferimento agli articoli 24, primo e secondo comma, 111, primo e secondo comma, 113, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 22, nono comma, del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 novembre 1934, n. 36, sostituito dall’art. 1-bis, decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112 (Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180; nonché degli articoli 17-bis, 22, 23 e 24, primo comma, del regio decreto 23 gennaio 1934, n. 37 (Norme integrative e di attuazione del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento della professione di avvocato e di procuratore) – disposizioni, queste ultime, da intendersi censurate nel testo vigente, quale risultante dalle modifiche e dalle sostituzioni di cui alla legge 27 giugno 1988, n. 242 (Modifiche alla disciplina degli esami di procuratore legale) e dal decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112 (Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180 – nella parte in cui non prevedono l’obbligo di giustificare e/o motivare il voto verbalizzato in termini alfanumerici in occasione delle operazioni di valutazione delle prove scritte d’esame per l’abilitazione alla professione forense. 2.- Riferisce il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento, in ciascuna delle ordinanze di rimessione, che, con sentenze non definitive, esso aveva respinto, all’esito dei giudizi di impugnazione delle valutazioni negative degli scritti redatti in sede di esami di abilitazione alla professione forense, sessione 2006/2007, due delle tre censure dedotte dai ricorrenti, fondate sulla denunciata violazione, da parte delle commissioni esaminatrici, dell’asserito obbligo di dare atto dell’effettiva applicazione dei criteri di valutazione stabiliti in sede nazionale, dato che dagli artt. 22 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578 e 17-bis, 22, 23 e 24 del R.D. 23 gennaio 1934, n. 37 non emergerebbe un siffatto obbligo. Nell’esaminare (*) Avvocato dello Stato. 03 cont naz 04 ferrante.qxp 06/04/2009 14.31 Pagina 255 la residuale, terza censura, con la quale era stato dedotto il difetto di motivazione dell’espresso giudizio alla luce della totale inidoneità ad esternarlo da parte del cosiddetto voto alfanumerico, il rimettente asserisce che, in base al consolidato indirizzo della giurisprudenza del Consiglio di Stato, che fa propria la tesi della sufficienza del voto alfanumerico, tale censura avrebbe dovuto essere respinta. 3.- Il rimettente, tuttavia, dubita della legittimità costituzionale della normativa in oggetto secondo la costante interpretazione della giurisprudenza del Consiglio di Stato. Sotto un primo profilo, infatti, la mera espressione alfanumerica di un giudizio, secondo il rimettente, non soddisferebbe l’esigenza di manifestare al candidato le ragioni della sua reiezione alle prove scritte, traducendosi soltanto nell’espressione di un valore relativo che si manifesta in termini matematici. Il rimettente si dichiara consapevole di quanto statuito, anche di recente, da questa Corte, con le ordinanze n. 466 del 2000, n. 419 e 420 del 2005 e, da ultimo, n. 28 del 2006, sull’inammissibilità di questioni analoghe a quella odierna, tese ad ottenere un avallo interpretativo, a causa dell’insussistenza in giurisprudenza di un vero e proprio «diritto vivente». Egli, tuttavia, reputa che, allo stato, tale giurisprudenza possa essere superata, visto che ogni diversa lettura dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, sarebbe costantemente rigettata in sede d’appello dal Consiglio di Stato, il cui orientamento dovrebbe, quindi, essere ormai qualificato come diritto vivente. Una conferma si desumerebbe, sempre secondo il rimettente, dalla circostanza che, sebbene il decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180, al suo art. 1-bis abbia introdotto alcuni criteri di valutazione delle prove d’esame in discussione, tale precetto non pare essere stato recepito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, che ha statuito che neppure la predeterminazione dei criteri di valutazione delle prove a posti di pubblico impiego può essere considerata elemento imprescindibile ai fini della legittimità della procedura, trattandosi di attività riservata alla discrezionalità dell’Amministrazione. La questione dovrebbe essere riguardata, a parere del rimettente, alla luce dei precetti di cui agli articoli 24, primo e secondo comma, 111, primo e secondo comma, 113, primo comma, in associazione a quanto stabilito dall’art. 117, primo comma, della Costituzione. Quanto al principio di effettività della tutela giurisdizionale, il rimettente osserva che il Consiglio di Stato, con il parere 9 novembre 1995, n. 120 dell’Adunanza generale, aveva richiesto e ottenuto dal legislatore la modifica dell’art. 12, comma 1, del d.P.R. 9 agosto 1994, n. 487 (Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi), avvenuta con d.P.R. 30 ottobre 1996, n. 693 (Regolamento recante modificazioni al regolamento sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e sulle modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nel pubblico impiego, approvato con d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487). In tal modo, tramite la sostituzione dell’espressione «assegnazione del punteggio» a quella preesistente, avrebbe determinato l’espunzione dal tessuto dell’ordinamento dell’unica disposizione in grado di positivamente infirmare la teoria del voto alfanumerico. Tale riforma sarebbe stata, secondo il rimettente, ispirata a valorizzare i principi, oltre che d’imparzialità, di economicità e di celerità di espletamento delle procedure concorsuali, nonché di buon andamento stabiliti dall’art. 97 della Costituzione. Al rimettente pare, tuttavia, che in tale riforma e nel successivo orientamento della giurisprudenza del Consiglio di Stato, sia stata trascurata la diversa, ma non meno rilevante esi- 256 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 04 ferrante.qxp 06/04/2009 14.31 Pagina 256 genza della trasparenza dei giudizi formulati dalle Commissioni esaminatrici e che sia stato violato il diverso principio tratto dai richiamati artt. 24, primo e secondo comma, e 113, primo comma, della Costituzione, che altrettanto puntualmente proclamano il principio di effettività della tutela giurisdizionale. L’affermazione che il voto alfanumerico sia espressione sintetica, ma completa, del giudizio, sarebbe insoddisfacente, dato che, sulla base di un voto alfanumerico, sarebbe impedito il successivo svolgimento di un giusto processo, data la preclusione di ogni potenziale verifica degli eventuali vizi della motivazione. Per altro verso, secondo il rimettente, l’art. 22, comma 9, del r.d. n. 1578 del 1933, come modificato dal d.l. n. 112 del 2003 e dalla sua legge di conversione, stabilisce che «la commissione istituita presso il Ministero della giustizia definisce i criteri per la valutazione degli elaborati scritti» che devono essere comunicati alle varie Sottocommissioni; fra tale criteri, devono comunque essere sempre presenti i seguenti: a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione; b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici; c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati; d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà; e) relativamente all’atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione. Ciò offrirebbe un’ulteriore conferma alla dedotta censura, dato che la norma in questione sarebbe priva di significato in mancanza di un obbligo di motivazione dei giudizi formulati sugli elaborate dei candidati. Le norme censurate, interpretate in base al «diritto vivente» elaborato negli anni dal Consiglio di Stato, precluderebbero, inoltre, ogni diritto di difesa dato che il giudizio negativo espresso nei confronti di un soggetto, non sarebbe verificabile neppure sotto l’angusto profilo della sua motivazione: ciò che determinerebbe una violazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale, consacrato, secondo il rimettente, anche nel principio del “giusto processo” di cui all’art. 111, primo e secondo comma della Costituzione. La questione appare al rimettente non manifestamente infondata anche alla luce dell’art. 117, primo comma della Costituzione, posto che tale norma farebbe obbligo allo Stato di esercitare la potestà legislativa nel rispetto dei vincoli derivanti dal diritto comunitario e dagli obblighi internazionali. La violazione delle regole del giusto processo e del principio della sua effettività, invero, determinerebbe, in base a quanto statuito da questa Corte nelle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sottoscritta a Roma il 4 novembre 1950, a cui è stata data esecuzione con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché del suo Protocollo addizionale firmato a Parigi il 20 marzo 1952. 4.- È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio, con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, con tre distinti atti di intervento, deducendo l’inammissibilità del ricorso, per l’inesistenza del diritto vivente descritto dal rimettente e sostenendo in ogni caso, nel merito, l’infondatezza dello stesso. Quanto al primo aspetto, la difesa erariale sottolinea come questa Corte, in ben quattro pronunce, abbia già evidenziato la mancanza di un orientamento consolidato del Consiglio di Stato e dei TAR qualificabile come “diritto vivente”, attesa la eterogeneità delle soluzioni interpretative offerte in giurisprudenza. Nel merito, l’Avvocatura ricorda che l’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), nel prevedere il generale obbligo di motivazione, si riferisce all’attività amministrativa provvedimentale e non a quella conseguente a una valutazione tecnica, qual è quella relativa alla preparazione del candidato. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 257 03 cont naz 04 ferrante.qxp 06/04/2009 14.31 Pagina 257 Soggiunge che il voto in tale circostanza non rappresenterebbe una sorta di dispositivo di cui occorra fornire la motivazione, ma esprime esso stesso, in forma sintetica, la valutazione compiuta dalla commissione esaminatrice nell’apprezzamento delle singole prove e nella loro reciproca comparazione. Né, prosegue l’Avvocatura, la situazione può ritenersi alterata dall’introduzione dell’art. 11, comma 5, del D.Lgs. 24 aprile 2006, n. 166 (Norme in materia di concorso notarile, pratica e tirocinio professionale, nonché in materia di coadiutori notarili in attuazione dell’articolo 7, comma 1, della legge 28 novembre 2005, n. 246, in materia di concorso notarile), in base al quale il giudizio di non idoneità è motivato, mentre nel giudizio di idoneità il punteggio vale motivazione. La diversità di normativa sarebbe giustificata dal fatto che il concorso notarile, a differenza dell’esame di abilitazione, sarebbe una procedura concorsuale a numero chiuso, fondata sul necessario raffronto comparativo tra i candidati. L’Avvocatura poi ricorda la recente decisione del Consiglio di Stato, in relazione al concorso per uditore giudiziario, con la quale è stato affermato che non è configurabile un interesse giuridico del candidato a conoscere il grado di insufficienza delle proprie prove, atteso che «nell’ambito dell’insufficienza, le norme non assegnano all’uno o all’altro voto alcun effetto». Quanto alla deduzione in base alla quale la espressione numerica del giudizio non consentirebbe al candidato di comprendere dove abbia sbagliato, onde poter ritentare l’esame di abilitazione, l’Avvocatura osserva che la valutazione della commissione non ha scopi didattici; aggiungendo che tale forma sintetica di motivazione garantirebbe il rispetto dei principi costituzionali di efficienza, economia, efficacia e speditezza su cui deve fondarsi l’azione amministrativa, dovendosi ritenere che l’attività di correzione sarebbe notevolmente rallentata se la commissione dovesse esprimere dei giudizi articolati in luogo dei voti. L’idoneità del voto a racchiudere in sé un giudizio sintetico renderebbe, pertanto, priva di fondamento la tesi del Tribunale amministrativo rimettente dell’asserita violazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale e di garanzia del giusto processo, sia per quanto attiene alla censura relativa all’art. 24, Cost., sia per quella relativa all’art. 111, Cost., sia infine per quella relativa all’art. 117, primo comma, Cost. Considerato in diritto 1.- Il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento dubita, con riferimento agli articoli 24, primo e secondo comma, 111, primo e secondo comma, 113, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 22, nono comma, del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 novembre 1934, n. 36, sostituito dall’art. 1-bis, d.l. 21 maggio 2003, n. 112 (Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180; nonché degli articoli 17-bis, 22, 23 e 24, primo comma, del regio decreto 23 gennaio 1934, n. 37 (Norme integrative e di attuazione del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento della professione di avvocato e di procuratore), nella parte in cui non prevedono l’obbligo di giustificare e/o motivare il voto verbalizzato in termini alfanumerici in occasione delle operazioni di valutazione delle prove scritte d’esame per l’abilitazione alla professione forense. Il vigente sistema di valutazione, fondato sulla attribuzione di un punteggio alfanumerico compreso tra 1 e 10, viene contestato nella parte in cui, secondo un’interpretazione giurisprudenziale qualificata dal rimettente in termini di diritto vivente, non prevederebbe 258 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 04 ferrante.qxp 06/04/2009 14.31 Pagina 258 (implicitamente anche) la necessità di una motivazione del punteggio attribuito agli elaborati scritti. L’odierno incidente di costituzionalità ha ad oggetto, da un lato, gli artt. 17-bis, 22, 23, e 24, 1 comma, del regio decreto 22 gennaio 1934 n. 37, come modificato dal decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112 convertito in legge (…), che dettano la disciplina e il contenuto delle prove (scritte e orali) cui sono sottoposti gli aspiranti avvocati, prevedendo, tra l’altro, che all’esito della correzione degli elaborati scritti la sottocommissione esprima un punteggio numerico tra 1 e 10 per ciascuna prova scritta; e, dall’altro, la disposizione di cui all’art. 22 del r.d.l. n. 1578 del 1933, come riformato dal decreto-legge n. 112 del 2003, che pone a carico della Commissione esaminatrice nazionale l’obbligo di definire, per tutte le Corti di appello, dei criteri uniformi per la valutazione degli elaborati scritti. Le norme predette, nell’odierno giudizio costituzionale, vengono ritenute in contrasto con gli artt. 24 e 113 della Costituzione, per la lesione del principio di effettività della tutela giurisdizionale, in ambito generale e amministrativo; con il principio del “giusto processo”, enunciato dall’art. 111 della Costituzione e, infine, per il tramite dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, con i medesimi principi di effettività della tutela giurisdizionale e del giusto processo, consacrati nella Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali. 2.- I giudizi, avendo ad oggetto le medesime norme, denunciate in riferimento agli stessi parametri e con argomentazioni identiche, vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia. 3.- La questione è ammissibile. Questa Corte, in plurime decisioni, ha sinora escluso che la tesi dell’insussistenza, nell’ordinamento vigente, di un obbligo di motivazione dei punteggi attribuiti in sede di correzione e della idoneità degli stessi punteggi numerici a rappresentare una valida motivazione del provvedimento di inidoneità costituisse una interpretazione obbligata e univoca della normativa vigente (ordinanze n. 466 del 2000, n. 233 del 2001, n. 419 del 2005 e, da ultimo, n. 28 del 2006). Tuttavia, nella più recente evoluzione della giurisprudenza del Consiglio di Stato, tale tesi si è ormai consolidata, privando la tesi minoritaria, ancora adottata in alcune isolate pronunce, di ogni concreta possibilità di definitiva affermazione giurisprudenziale. Questa Corte deve quindi prendere atto della circostanza che la soluzione interpretativa offerta in giurisprudenza costituisce ormai un vero e proprio «diritto vivente». 4.- Nel merito, la questione non è fondata. Gli articoli 24 e 113, Cost., enunciano il principio dell’effettività del diritto di difesa, il primo in ambito generale, il secondo con riguardo alla tutela contro gli atti della pubblica amministrazione. Entrambi tali parametri sono volti a presidiare l’adeguatezza degli strumenti processuali posti a disposizione dall’ordinamento per la tutela in giudizio dei diritti ed operano esclusivamente sul piano processuale (in tal senso, ex plurimis, le sentenze n. 182 del 2008, nn. 180, 181, 282, 420 del 2007, n. 101 del 2003 e n. 419 del 2000). A sua volta, il principio del giusto processo, consacrato nell’art. 111, Cost., è finalizzato ad assicurare che gli strumenti procedurali vigenti pongano accusa e difesa in una posizione di parità e offrano idonea tutela ai diritti sostanziali su cui si controverte nel processo, attraverso la piena attuazione del principio del contraddittorio, del principio di ragionevole durata del procedimento, della motivazione della decisione. Anche in tal caso si tratta di garanzie di carattere esclusivamente processuale. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 259 03 cont naz 04 ferrante.qxp 06/04/2009 14.31 Pagina 259 260 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 Gli stessi principî di effettività del diritto di difesa e del giusto processo sono espressi anche nella «Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali » con esclusivo riferimento al piano processuale. Per converso, la denunciata illegittimità costituzionale della norma che, in base al diritto vivente, non impone alla commissione una specifica modalità di motivazione delle determinazioni da essa assunte in merito alle prove scritte ed orali, concerne un momento del procedimento amministrativo che disciplina lo svolgimento degli esami per l’abilitazione alla professione forense. Essa, quindi, riguarda il profilo sostanziale dei requisiti di validità del provvedimento di esclusione del candidato, conclusivo di detto procedimento. L’aspetto processuale degli strumenti predisposti dall’ordinamento per l’attuazione in giudizio dei diritti non è chiamato in gioco dalla norma, che non preclude il ricorso al giudice amministrativo. La disciplina censurata non è quindi idonea a interferire né con il diritto di difesa né con il principio del contraddittorio e si sottrae all’ambito di applicazione dei parametri invocati dal rimettente. Per questi motivi la Corte costituzionale riuniti i giudizi, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22, nono comma, del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 novembre 1934, n. 36, sostituito dall’art. 1-bis, del decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112 (Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180; nonché degli articoli 17-bis, 22, 23 e 24, primo comma, del regio decreto 23 gennaio 1934, n. 37 (Norme integrative e di attuazione del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento della professione di avvocato e di procuratore), sollevata, in riferimento agli artt. 24, primo e secondo comma, 111, primo e secondo comma, 113, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede dalla Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 gennaio 2009 (...)». 03 cont naz 04 ferrante.qxp 06/04/2009 14.31 Pagina 260 Il particolare meccanismo di decisione preventiva delle questioni di massima nella giustizia contabile (Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite civili, sentenza 3 dicembre 2008 n. 28653) Le Sezioni Unite della Cassazione intervengono, ricorrendo al potere di cui all’art. 363, comma 3, c.p.c., sul particolare meccanismo di risoluzione preventiva delle questioni di massima operante nella giurisdizione della Corte dei Conti. L’art. 1, comma 7, D.L. 453/1993, convertito dalla legge n. 19/1994, stabilisce che “Le sezioni riunite della Corte dei conti decidono sui conflitti di competenza e sulle questioni di massima deferite dalle sezioni giurisdizionali centrali o regionali, ovvero a richiesta del procuratore generale”. Le Sezioni Unite sono state investite della seguente questione interpretativa: se, in presenza di una rimessione della questione di massima da parte del Procuratore Generale, la sezione giurisdizionale presso cui pende il giudizio sia tenuta a sospendere il giudizio, o possa anche decidere senza attendere la pronuncia delle Sezioni Riunite. Nella specie la sezione giurisdizionale di appello, nonostante la rimessione della questione di massima alle Sezioni Riunite, aveva deciso senza trasmettere il fascicolo a queste ultime: le Sezioni Riunite, preso atto di tale decisione (che peraltro contrastava nel merito con il principio di massima che, nello stesso giudizio ma in primo grado, le Sezioni Riunite avevano già affermato), avevano dichiarato l’improcedibilità del giudizio incidentale sulla questione di massima. Le Sezioni Unite della Cassazione dichiarano la illegittimità dell’operato della Sezione giurisdizionale di appello, sottolineando “il carattere non meramente consultivo ma di decisione vincolante nel giudizio in corso (ancorché con un ruolo di indicazione ermeneutica a valenza generale) proprio delle pronunce in sede di risoluzione di questione di massima”, e concludendo che “l’instaurazione del giudizio dinanzi alle Sezioni Riunite, ove non si voglia vanificarne la funzione, comporta che a tale organo sia attribuito il potere di decidere la questione di massima, previa verifica della sua ammissibilità e dunque anche della sua rilevanza [...] prima della decisione da parte del giudice dinanzi al quale pende la controversia che ha dato origine alla rimessione”. Il giudice della causa quindi “non può rifiutare la trasmissione del fascicolo processuale alle Sezioni Riunite” e “non può decidere senza attendere la pronuncia di detto organo”. La decisione merita di essere sottolineata anche perché stabilisce che la statuizione resa dalle Sezioni Riunite sulle questioni di massima non ha natura consultiva, ma di “decisione vincolante nel giudizio in corso”: essa pare dunque equiparabile, ad esempio, alla decisione adottata dalle Sezioni Unite sul regolamento preventivo di giurisdizione, da cui si distingue per determinare sempre un effetto sospensivo del giudizio principale. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 261 03 cont naz 05 dascia.qxp 06/04/2009 14.34 Pagina 261 Viene allora da domandarsi se, in luogo di una declaratoria di improcedibilità del giudizio incidentale sulla questione di massima, le Sezioni Riunite possano fronteggiare in altro modo la mancata sospensione del giudizio da parte della Sezione giurisdizionale regionale o di appello. Si potrebbe ritenere infatti che le Sezioni Riunite debbano decidere comunque la questione di massima (anche dopo la pronuncia definitiva di merito emessa a dispetto della regola sancita dalle Sezioni Unite), dal momento che la pronuncia illegittimamente emessa andrebbe qualificata come “sentenza condizionata” (analogamente a quella adottata nel processo civile in pendenza di un regolamento preventivo di giurisdizione, v. Cass., SS.UU. 905/1999), e che pertanto, anche se passata in giudicato, questa sarebbe destinata a essere travolta dalla decisione delle Sezioni Riunite qualora queste affermino un principio di massima contrario a quello applicato dal giudice della causa. Avv. Lorenzo D’Ascia (*) Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite civili, sentenza 3 dicembre 2008 n. 28653 – Primo Pres. V. Carbone – Pres. di sez. G. Prestipino – Rel. F. Curcuruto – Regione siciliana (ct 4603/08, Avv. dello Stato L. D’Ascia) c/ I.F. (Avv. F. Lais) avverso la sentenza della Corte dei Conti, sez. giurisdizionale di appello per la Regione siciliana, depositata il 24 ottobre 2007, n. 253. «(…) Ritenuto in fatto 1. È impugnata ai sensi dell’art. 362 c.p.c., comma 1, la sentenza con la quale la Corte dei conti – Sezione giurisdizionale di appello per la Regione siciliana (d’ora innanzi, la Sezione di appello) riformando la sentenza del Giudice Unico delle pensioni, ha accolto il ricorso di I.F., ex dipendente della Regione siciliana, diretto ad ottenere la perequazione automatica della pensione, in base a quanto stabilito dall’art. 36 della L.R. Sicilia 7 marzo 1997, n. 6. 2. La Sezione di appello, per quanto rileva in questa sede, ha ritenuto di non esser vincolata dalla sentenza con la quale le Sezioni Riunite della Corte dei conti, decidendo su una questione di massima ad esse deferita dal giudice di primo grado, avevano stabilito che la normativa regionale invocata dal ricorrente dovesse essere integrata con quella contenuta nella L. 27 dicembre 1997, n. 449, art. 59. 3. La Sezione di appello, inoltre, dando atto che, su iniziativa del Procuratore generale presso la Corte dei conti, le Sezioni Riunite avevano fissato l’udienza per una nuova decisione di massima sulla questione, richiedendo alla Sezione il fascicolo processuale, ha ritenuto di non dover aderire alla richiesta ed ha definito il giudizio disattendendo il principio di diritto già enunciato dalle Sezioni Riunite. 4. Nella motivazione, per ciò che interessa, la Sezione d’appello ha escluso la possibilità di applicare l’art. 374 c.p.c., comma 3, e di rimettere ancora una volta la questione alle 262 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 (*) Avvocato dello Stato. 03 cont naz 05 dascia.qxp 06/04/2009 14.34 Pagina 262 Sezioni Riunite, osservando che ritenere vincolante la decisione della questione di massima non solo per il giudice di primo grado che ne aveva fatto richiesta ma anche per il giudice d’appello determinerebbe una grave alterazione del sistema delle impugnazioni, risultandone sostanzialmente svuotata di significato la funzione del giudice d’appello, posto nell’alternativa fra l’adeguarsi all’orientamento delle Sezioni Riunite o il rimettere ad esse nuovamente la questione. 5. Le Sezioni Riunite, rilevata la mancanza del fascicolo processuale e la intervenuta decisione della causa, hanno dichiarato l’improcedibilità del giudizio. 6. La cassazione della sentenza è chiesta con ricorso per un motivo, illustrato da memoria, nella quale, fra l’altro, si chiede che questa Corte estenda il contraddittorio alla Corte dei conti ai sensi dell’art. 107 c.p.c.. L’intimato resiste con controricorso. Diritto 7. La richiesta, formulata dalla parte ricorrente nella memoria, non può essere accolta poiché – anche a prescindere dalla difficoltà di attribuire alla Corte dei conti la titolarità di un rapporto giuridico connesso con quello controverso – ciò significherebbe introdurre nel giudizio di cassazione parti diverse rispetto al giudizio nel quale è stata resa la sentenza impugnata. 8. L’unico motivo di ricorso denunzia il difetto assoluto di giurisdizione, e il carattere abnorme della sentenza. Si sostiene, anzitutto, che la Sezione d’appello, intervenendo nuovamente su una questione definitivamente decisa dalle Sezioni Riunite, avrebbe pronunziato su controversia ormai estranea al suo potere giurisdizionale, limitato solo all’applicazione al caso di specie del principio di diritto già fissato. Si sostiene, inoltre, che, l’iniziativa del Procuratore Generale presso la Corte dei conti, aveva definitivamente sottratto alla Sezione d’appello il potere giurisdizionale sulla parte del giudizio oggetto della nuova rimessione, potendo essa solo applicare al caso di specie il principio di diritto che sarebbe stato affermato dalle Sezioni Riunite. Quindi, ignorando deliberatamente la richiesta di trasmissione del fascicolo di causa e decidendo anche sulla questione di diritto, la Sezione d’appello avrebbe pronunziato in totale carenza di potere giurisdizionale. Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto: “dica codesta Suprema Corte se, ai sensi del D.L. n. 453 del 1993, art. 1, comma 7, sia abnorme e comunque emessa in assenza di potere giurisdizionale la sentenza con cui una sezione giurisdizionale di appello della Corte dei conti, decida un appello di un giudizio pensionistico, pronunciandosi su una questione di massima già definita nel corso del primo grado dalle Sezioni Riunite nell’esercizio della loro funzione nomofilattica, in senso difforme da tale statuizione, e inoltre non tenendo conto del fatto che anche nel giudizio di appello il Procuratore Generale presso la Corte dei conti abbia richiesto che la medesima questione di massima venga rimessa alle Sezioni Riunite della Corte dei conti, la cui segreteria, oltretutto, prima dell’udienza di discussione, abbia inoltrato alla Sezione Giurisdizionale di appello la richiesta di trasmissione del fascicolo per la statuizione sulla questione di diritto”. 9. Il ricorso è inammissibile. 9.1. La giurisprudenza di queste Sezioni Unite è costante nel ritenere che, nel sistema vigente, il ricorso per cassazione contro le decisioni della Corte dei conti non è incondizionato, potendo essere sperimentato soltanto per motivi inerenti alla giurisdizione ma non per violazione di norme di diritto o per violazione delle norme che regolano il processo davanti al giudice contabile o che ne disciplinano i poteri (Sez. Un. 17014/2003). In altri termini, il IL CONTENZIOSO NAZIONALE 263 03 cont naz 05 dascia.qxp 06/04/2009 14.34 Pagina 263 sindacato delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sulle decisioni della Corte dei conti in sede giurisdizionale è circoscritto al controllo dei limiti esterni della giurisdizione di detto giudice, e, in concreto, all’accertamento di vizi che attengano all’essenza della funzione giurisdizionale e non al modo del suo esercizio, talché rientrano nei limiti interni della giurisdizione, estranei al sindacato consentito, eventuali errori “in iudicando” o “in procedendo” (v. Sez. Un. 4956/2005; 12726/2005; nello stesso senso, fra le molte, Sez. Un. 22887/2004; 1378/2006; 15900/2006). 9.2. Il D.L. 15 novembre 1993, n. 453, art. 1, comma 7 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti) convertito, con modificazioni, dalla L. 14 gennaio 1994, n. 19, art. 1, comma 1, dispone, per quanto interessa, che: “Le sezioni riunite della Corte dei conti decidono sui conflitti di competenza e sulle questioni di massima deferite dalle sezioni giurisdizionali centrali o regionali, ovvero a richiesta del procuratore generale”. 9.3. Secondo la parte ricorrente poiché questa disposizione attribuisce esplicitamente alle Sezioni Riunite il compito di decidere la questione di massima e non di esprimere su di essa un parere in astratto, il giudice di appello è vincolato a tale decisione anche se emessa su iniziativa del giudice di primo grado, e deve soltanto fare applicazione del principio di diritto alla fattispecie sottoposta al suo esame. Inoltre, una volta che il Procuratore Generale presso la Corte dei conti abbia nuovamente deferito la questione alle Sezioni Riunite, il giudice di appello deve trasmettere il fascicolo processuale che gli sia stato richiesto e sospendere il processo in attesa della nuova decisione. 9.4. Sostenere che il giudice di appello è vincolato alla decisione già assunta sulla questione di massima equivale ad affermare che la regola di giudizio cui egli deve attenersi è somministrata dalla legge nel significato attribuitole dalle Sezioni Riunite. Il giudice di appello quindi non perde affatto la potestas judicandi ma deve esercitarla valutando la fattispecie sottoposta al suo esame secondo il criterio giuridico così fissato. Perciò l’eventuale inosservanza del principio di diritto espresso dalle Sezioni Riunite configura una violazione delle regole processuali che disciplinano i rapporti fra due organi della stessa giurisdizione, e si colloca interamente all’interno di questa. Del resto – con riguardo a fattispecie simili a quella in esame – non potrebbe seriamente mettersi in dubbio che, pur facendo un uso scorretto dei suoi poteri, non superi i limiti esterni della propria giurisdizione il giudice di rinvio che disattenda il principio di diritto stabilito nella sentenza di annullamento (art. 384 c.p.c.) o il giudice del lavoro che non si uniformi all’interpretazione del contratto collettivo fornitagli da questa Corte a norma del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 64, o dell’art. 420 bis c.p.c., o la sezione di questa Corte che, non condividendo il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite, decida il ricorso anziché rimetterne a queste la decisione con ordinanza motivata (art. 374 c.p.c., comma 3). 9.5. Considerazioni analoghe devono esser fatte riguardo alla richiesta del Procuratore generale di nuova rimessione alle Sezioni Riunite, cui – come nella specie – abbia fatto seguito la fissazione dell’udienza da parte di queste ultime. Si tratta, infatti, di verificare quali conseguenze ne derivino sul processo pendente dinanzi al giudice di appello, e, in particolare, di accertare se operi o no il disposto dell’art. 295 c.p.c., e se, inoltre, il detto giudice, richiestone dalle Sezioni Riunite, sia tenuto a trasmettere ad esse il fascicolo processuale. Anche in tal caso, la risposta a questi interrogativi va quindi ricercata nelle norme sul processo dinanzi al giudice contabile, la eventuale violazione delle quali non determina, come messo in luce dalla giurisprudenza (in particolare, sull’insindacabilità del potere di sospendere il giudizio a norma dell’art. 295 c.p.c., v. Sez. Un. 22887/2004 cit.) alcun superamento dei limiti esterni della giurisdizione della Corte dei conti. 264 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 05 dascia.qxp 06/04/2009 14.34 Pagina 264 9.6. Il ricorso va quindi dichiarato inammissibile in quanto: “Il sindacato delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sulle decisioni della Corte dei conti in sede giurisdizionale non si estende alla violazione della legge processuale, che attiene al modo di esercizio e non ai limiti esterni della giurisdizione, e non può, quindi, avere ad oggetto censure relative all’inosservanza, da parte di una sezione giurisdizionale di appello della Corte dei conti, del principio di diritto formulato dalle Sezioni Riunite della stessa Corte nel decidere la questione di massima loro deferita dal giudice di primo grado, ovvero concernenti la mancata sospensione del giudizio di appello in attesa della nuova decisione sulla questione di massima, richiesta dal Procuratore generale della stessa Corte, e la mancata trasmissione del fascicolo processuale alle Sezioni Riunite in vista di tale decisione”. 10. Dichiarato inammissibile il ricorso, questa Corte ritiene tuttavia che la questione presenti uno specifico profilo di particolare importanza, e che quindi, a norma dell’art. 363 c.p.c., comma 3, così come novellato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, vada pronunziato d’ufficio il principio di diritto sul punto, nell’interesse della legge. 11. Il D.L. 15 novembre 1993, n. 453, art. 1, comma 7, sopra richiamato, nel disporre che “Le sezioni Riunite della Corte dei conti decidono ... sulle questioni di massima deferite dalle sezioni giurisdizionali centrali o regionali, ovvero a richiesta del Procuratore generale” attribuisce a quest’ultimo il potere di provocare una pronunzia delle Sezioni Riunite, senza condizionarne l’esercizio ad alcuna previa decisione del giudice dinanzi al quale pende la causa. La giurisprudenza del giudice contabile, con particolare riferimento al giudizio pensionistico, quale quello in esame, ha avuto modo di puntualizzare che, in coerenza ai principi sistematici in base ai quali nel giudizio pensionistico trovano composizione insieme a quelli privati interessi generali dell’ordinamento ad un equilibrato adeguamento dei sistemi previdenziali, il Procuratore generale può e deve intervenire anche attraverso la proposizione di una questione di massima allorché rilevi un interesse generale che, ove non ben individuato o trascurato, rimarrebbe privo di tutela non essendo necessario al riguardo il previo consenso delle parti (Corte dei conti Sez. Riunite 24 settembre 1998, n. 219). Lo stesso giudice contabile ha precisato, d’altra parte, che poiché la soluzione di questioni di massima non deve avere carattere astratto ma deve concernere, in un rapporto di pregiudizialità e connessione, l’ambito di cognizione di giudizi pendenti nei quali la decisione delle Sezioni Riunite sia destinata a produrre direttamente effetto, la pronuncia del giudice rimettente intervenuta nelle more della decisione sulla questione di massima deferita rende improcedibile il relativo giudizio per sopravvenuta carenza di interesse, non potendo la pronuncia medesima avere più effetto di giudicato sul punto controverso (Corte dei conti Sez. Riunite, 8 novembre 2007, n. 9; v. anche id. 18 gennaio 1999, n. 2). Alla luce di tale quadro normativo e giurisprudenziale la decisione della Sezione d’appello di non trasmettere il fascicolo processuale alle Sezioni Riunite e di decidere la controversia ha avuto dunque l’effetto di impedire definitivamente sia al Procuratore generale presso la Corte dei conti che alle Sezioni Riunite della stessa Corte l’esercizio di un potere loro assegnato dalla legge processuale. La decisione della Sezione d’appello che ha determinato tali conseguenze è tuttavia priva di fondamento giuridico. Infatti, diversamente da quanto ritenuto dalla sentenza impugnata – che, nella sostanza, ha formulato un giudizio di ammissibilità del ricorso del Procuratore generale, sottolineando come in materia pensionistica la Procura possa agire solo nell’interesse della legge – la valutazione dei presupposti per la proposizione da parte del Procuratore generale della questione di massima e la stessa esatta qualificazione giuridica dell’iniziativa assunta, in man- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 265 03 cont naz 05 dascia.qxp 06/04/2009 14.34 Pagina 265 canza di diversa previsione di legge, non poteva spettare che alle stesse Sezioni Riunite, cui la questione era stata nuovamente deferita. Inoltre, per il carattere non meramente consultivo ma di decisione vincolante nel giudizio in corso (ancorché con un ruolo di indicazione ermeneutica a valenza generale) proprio delle pronunce in sede di risoluzione di questione di massima (v. Corte dei conti Sez. Riunite 17 novembre 1999 n. 25) l’instaurazione del giudizio dinanzi alle Sezioni Riunite, ove non si voglia vanificarne la funzione, comporta che a tale organo sia attribuito il potere di decidere la questione di massima, previa verifica della sua ammissibilità e dunque anche della sua rilevanza (v. Corte dei conti Sez. Riunite 25/1999 cit.) prima della decisione da parte del giudice dinanzi al quale pende la controversia che ha dato origine alla rimessione. 12. Può quindi essere enunciato a norma dell’art. 363 c.p.c., nell’interesse della legge, il seguente principio di diritto: “Qualora il Procuratore generale presso la Corte dei conti richieda alle Sezioni Riunite della stessa Corte la soluzione di una questione di massima, il giudice della causa in relazione alla quale la questione è sollevata non può rifiutare la trasmissione del fascicolo processuale alle Sezioni Riunite che gliene abbiano fatto richiesta e non può decidere senza attendere la pronunzia di detto organo”. 13. La natura della questione rende opportuno compensare le spese del giudizio. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso. A norma dell’art. 363 c.p.c., comma 3, pronuncia nell’interesse della legge il principio di diritto di cui in motivazione. Compensa le spese del giudizio. Così deciso in Roma, il 7 ottobre 2008 (…)». 266 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 05 dascia.qxp 06/04/2009 14.34 Pagina 266 L’elemento soggettivo nella responsabilità da illegittimo esercizio della funzione pubblica (Consiglio di Stato, sezione quarta, decisione 31 luglio 2008 n. 3823) La vicenda processuale su cui incide la decisione del Consiglio di Stato attiene al complesso tema del risarcimento danni derivanti da un provvedimento amministrativo illegittimo. La nostra riflessione si concentra in particolare sugli elementi riguardanti il profilo soggettivo della responsabilità da illegittimo esercizio della funzione pubblica e sugli adattamenti che lo schema aquiliano di cui all’articolo 2043 c.c., in cui ricondurre la responsabilità della P.A. da lesione dell’interesse legittimo, deve subire per allinearsi alle caratteristiche dell’oggetto attuale del processo amministrativo. Il Consiglio di Stato, nel riconoscere la sussistenza della condotta colposa della Amministrazione che nel caso di specie aveva agito revocando il provvedimento di concessione per l’apertura delle sale Bingo, stante la asserita sussistenza di condizioni di inidoneità soggettiva dipese da condanne a carico dell’amministratore delegato delle società concessionarie per fatti poi derubricati dal decreto legislativo 74 del 2000, ha ritenuto che fosse non rispondente ai canoni del buon andamento e della corretta amministrazione l’azione dei Monopoli di Stato che avevano operato sulla base di una erronea interpretazione ed applicazione della normativa di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 17 marzo 1995 n. 157, richiamato dall’articolo 13, lettera b del bando di gara, nonostante le note informative pervenute dalla Intendenza della Guardia di Finanza, dall’Ufficio Territoriale del Governo di Bari, dell’Avvocatura Generale dello Stato fossero orientate nel senso di riconoscere la legittimità dei poteri di autotutela esercitati dall’amministrazione. Separati i giudizi tesi ad accertare in primo luogo l’illegittimità del provvedimento di revoca e, in un separato giudizio, la fondatezza della domanda di risarcimento presentata dalle concessionarie, il Consiglio di Stato, riconosciuta dapprima l’illegittimità della revoca della concessione per l’apertura delle sale da gioco, in riferimento alla questione risarcitoria, oggetto di cognizione in prima battuta da parte del T.A.R. Marche, ha stabilito quanto segue. La colpa della amministrazione va ravvisata “non già nella mera illegittimità dei provvedimenti di esclusione delle società appellate dalle graduatorie provinciali per l’assegnazione delle concessioni per l’attivazione delle sale per il gioco, quanto nell’erronea interpretazione della normativa citata, erronea interpretazione non ascrivibile ad incertezze contenutistiche e interpretative della norma stessa, ma riconducibile ad una inescusabile superficialità circa l’individuazione del suo ambito di applicazione con riferimento alla situazione di fatto correttamente accertata, ricollegabile ad un non corretto esercizio del potere discrezionale di cui l’amministrazione era titolare per il raggiungimento dell’interesse pubblico sotteso al bando di gara” (1). IL CONTENZIOSO NAZIONALE 267 03 cont naz 06 scittarelli.qxp 06/04/2009 14.40 Pagina 267 Diversamente da quanto affermato nella decisione del T.A.R. delle Marche in primo grado, il Consiglio di Stato ritiene che l’inottemperanza alla precedente ordinanza cautelare n. 207 del 6 giugno 2002 costituisce non già elemento che integra ex se il profilo soggettivo dell’illecito, quanto piuttosto un fatto sintomatico della condotta colposa tenuta dalla amministrazione, violativa dei principi di correttezza, buon andamento e imparzialità (2). La definizione degli elementi costitutivi di una condotta colposa della amministrazione passa necessariamente per la chiarificazione degli assi portanti di quella che nella pronuncia n. 500 del 1999 della Cassazione si definisce colpa dell’apparato. Con tale locuzione si intende ricondurre l’illecito derivante da illegittimo esercizio della funzione pubblica al complesso delle funzioni che la legge attribuisce alla amministrazione o, al più, al cattivo funzionamento delle stesse (3). Appare evidente che nella ricostruzione propo- 268 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 (1) La decisione sopra riportata si pone in evidente contrasto con la sentenza n. 3537/2002 del Consiglio di Stato che in una controversia simile, circa la valutazione da darsi alle disposizioni di cui all’articolo 12, comma 1, lett. b) del D.Lgs. 17 marzo 1995 n. 157 ha ritenuto che “evidente finalità della disposizione è quella di evitare che soggetti i quali, per la commissione di determinati reati, abbiano dato prova di scarsa affidabilità morale e professionale possano partecipare alle procedure ad evidenza pubblica e che, in tal modo, possano perseguire, o nella fase di formazione del contratto o nel corso dell’eventuale successivo rapporto con la Pubblica Amministrazione, risultati confliggenti con l’interesse pubblico. La causa di esclusione dalle gare di cui trattasi si configura pertanto quale misura a salvaguardia del buon andamento dell’azione amministrativa, volta ad impedire in concreto che l’Amministrazione entri in rapporto con i soggetti in questione”. (2)Il T.A.R. Marche nel giudizio d primo grado relativo alla domanda di risarcimento presentata dalle concessionarie del gioco Bingo, in relazione al profilo della colpa dell’A.A.M.S, ha stabilito quanto segue: “ Nel caso in esame l’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato ha dato avvio ai procedimenti di esclusione delle società ricorrenti risultate affidatarie della gestione delle sale destiate al gioco del Bingo a causa della mancanza del requisito di cui al punto 13 del bando di gara, il quale prevedeva l’insussistenza dei motivi di esclusione di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 157 del 1995, come modificato dal decreto legislativo n. 65 del 2000, cioè l’emissione di sentenza di condanna passata in giudicato, ovvero di sentenza di cui all’articolo 444 c.p.p., per qualsiasi reato incidente sulla moralità professionale o per delitti finanziari, omettendo tuttavia di considerare che con i decreti legislativi n. 74 del 2000 e n. 507 del 1999 si era verificata la depenalizzazione delle fattispecie di reato ostative alla partecipazione alla gara per l’affidamento delle concessioni. La stessa Amministrazione era stata messa sull’avviso dell’erroneità delle proprie determinazioni che assumevano come presupposti fatti non costituenti più reato all’epoca dell’emanazione del bando, come indicato anche nel parere pro veritate espresso dal prof. Fabrizio Lemme inviato all’A.A.M.S. dal legale rappresentante delle ricorrenti in data 4 aprile 20002. A seguito di richiesta cautelare avanzata dalle ricorrenti, il Tribunale ha ingiunto all’A.A.M.S. di portare a compimento i procedimenti di esclusione, il cui avvio veniva comunicato con le note del 21 marzo /20002, e di adottare il provvedimento conclusivo, avuto riguardo ai motivi di gravame proposti dalle ricorrenti. A tale ingiunzione hanno fatto seguito i provvedimenti finali di esclusione dalle graduatorie, confermando la motivazione contenuta nella comunicazione di avvio del procedimento”. (3) F.G. SCOCA, Per una Amministrazione responsabile, in Giur. Cost., 1999, p. 4045 e ss. 03 cont naz 06 scittarelli.qxp 06/04/2009 14.40 Pagina 268 sta si prescinde dalla connotazione tipicamente soggettiva di colpa, intesa quale stato psicologico di coscienza e volontà dell’agente, chiaramente non riferibile ad una persona giuridica. L’impossibilità di far discendere automaticamente una condotta illecita della amministrazione, sotto il profilo della colpa, dall’accertata illegittimità del provvedimento amministrativo, una volta superato il concetto della colpa in re ipsa, dominante prima della sentenza delle SS.UU. del 1999, induce l’interprete a rinvenire ulteriori indici sintomatici di una negligenza del potere pubblico in elementi che, obiettivamente percepibili, in una con l’illegittimità del provvedimento, conducano ad una effettiva disfunzione dell’azione pubblica. L’esistenza di una violazione grave e manifesta di norme di legge, il consolidarsi di una giurisprudenza chiara e piana sul punto controverso, la partecipazione dei privati e l’apporto collaborativo manifestato da questi nel procedimento, il carattere vincolato dall’azione amministrativa, l’univocità della normativa di riferimento si pongono quali sintomi di una condotta negligente o, quanto meno, non corretta del potere pubblico, venendo poi onerata l’amministrazione dell’allegazione degli elementi ascrivibili allo schema dell’errore scusabile. Pare quindi introdursi una sorta di interversione dell’onere della prova, trasferendo in capo alla amministrazione l’onere della prova dell’errore scusabile in presenza di un provvedimento illegittimo (4). Gli ultimi approdi della giurisprudenza (5) sembrano tuttavia ricomporre il principio dell’onere della prova in capo al soggetto danneggiato, secondo lo schema dell’articolo 2043, nella misura in cui, sia pur in un’ottica di semplificazione, gravano il privato dell’allegazione di elementi, indiziari, da cui emerga una condotta colposa della amministrazione, spettando poi alla stessa amministrazione di indicare profili da cui far discendere l’esistenza di un errore scusabile. Sullo sfondo, in conformità alla pronuncia delle SS.UU., resta il libero apprezzamento del giudice al quale spetta la parola definitiva in ordine alla esistenza o meno di una condotta colpevole della amministrazione (6). Orbene, l’attribuzione di un potere siffatto al singolo giudice implica evidentemente l’ammissibilità di una serie di pronunce difformi degli organi giudicanti investiti delle questioni risarcitorie derivanti dall’illegittimo esercizio della funzione pubblica, essendo pacifico che l’accertamento di condotte colpevoli della amministrazione intesa come apparato sia connotato da un margine di non univocità derivante preliminarmente dalla non univocità della natura dei criteri suddetti. Coglie nel segno al riguardo quella dottrina che riconosce che l’utilizzo di criteri siffatti, in particolare per quanto riguarda l’interpretazione della normativa di riferimento, produce, come conseguenza logica, il potenziale conflitto delle pronunce dei collegi chiamati ad accerta- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 269 (4) F.G. SCOCA, Giustizia amministrativa, p. 89 e ss., Torino. (5) Da Consiglio di Stato n. 3169/2001e ss.., Giustamm.it . (6) Consiglio di Stato n. 2763/2008 da Giustamm.it . 03 cont naz 06 scittarelli.qxp 06/04/2009 14.40 Pagina 269 re le responsabilità civili delle amministrazioni, essendo ogni organo giudicante caratterizzato dalla propria particolare sensibilità giuridica (7). Ed allora la necessità di gravare l’interprete di una indagine ulteriore rispetto al momento dell’accertamento dell’illegittimità del provvedimento amministrativo, ravvisandosi la colpa della amministrazione nella lesione di principi di correttezza e buona amministrazione, limiti esterni alla discrezionalità amministrativa, sembra riecheggiare gli estremi del sindacato sulla funzione amministrativa che concentra la sanzione del giudice sul momento di sviamento nell’esercizio del potere, allorquando emergano indici sintomatici dell’eccesso di potere che a ben guardare rappresentano proprio la violazione dei principi summenzionati (8). Sul punto si può richiamare la nota sentenza n. 4239/2001 del Consiglio di Stato che ha sottolineato appunto come i criteri enunciati dalla Cassazione, nella loro sicura autonomia, presentano tuttavia alcune evidenti analogie con i tradizionali “vizi” del provvedimento amministrativo (9). La violazione della regola dell’imparzialità si sovrappone, in larga misura, al vizio di eccesso di potere, la trasgressione del principio di buon andamento ha significativi punti di contatto con la violazione di legge, intesa come mancato rispetto delle norme che specificano i contenuti e le modalità di esercizio del potere amministrativo. In particolare, per ciò che concerne il vizio di eccesso di potere, lo stesso assurge a vizio della funzione, legato alla nozione di irragionevolezza dell’operato dell’amministrazione, alla luce delle cd. figure sintomatiche dell’assenza di motivazione, della contraddittorietà intraprocedimentale, della contraddittorietà fra provvedimenti, della illogicità manifesta del provvedimento. Spesso l’eccesso di potere si manifesta per il contrasto dell’azione amministrativa con principi di natura sostanziale, quali l’imparzialità dell’agire, la disparità di trattamento, la violazione dell’istruttoria. In questi casi il vizio è intimamente connesso al risultato finale dell’operato dell’amministrazione. La stessa nozione di apparato, quanto mai rilevante nel caso in controversia, potrebbe ricomprendere tanto l’ente competente per l’adozione del provvedimento finale quanto il complesso degli organismi amministrativi che concorrano, anche e solo nella fase istruttoria o consultiva, all’adozione del provvedimento finale. Nella decisione che qui si annota l’errata interpretazione della normativa di riferimento, che avrebbe integrato gli estremi di una condotta colposa dell’amministrazione, nasce anche dalle relazioni formulate dalle amministrazioni deputate a rendere pareri in merito alla questione controversa, le quali adempiono ad una funzione che lo stesso Consiglio di Stato qualifica come idonea a fornire gli elementi indispensabili in fatto e in diritto affinché l’amministrazione procedente addivenga ad una decisione corretta. 270 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 (7) A. ZITO, Il danno da illegittimo esercizio della funzione amministrativa. Riflessioni sulla tutela dell’interesse legittimo, p. 102 e ss., Napoli 2003. (8) S. TARULLO, Colpa dell’amministrazione e diligenza professionale, in Giustamm.it (9) MARIO PAGLIARULO e GUGLIELMO SAPORITO, L’amministrazione paga se c’è colpa, in Giustamm.it . 03 cont naz 06 scittarelli.qxp 06/04/2009 14.40 Pagina 270 Nella decisione del Consiglio di Stato la violazione da parte della amministrazione dei principi di imparzialità e correttezza andrebbe rinvenuta in una condotta che, attenta al semplice rispetto formale ed esteriore degli atti che hanno contribuito alla definizione della volontà della amministrazione, non è stata orientata allo svolgimento delle opportune valutazioni in ordine alle norma da applicare, palesandosi tale comportamento superficiale e negligente. Superficialità e negligenza che hanno connotato l’agire della Amministrazione dei Monopoli di Stato, nonostante la stessa, come sopra ribadito, si sia specificatamente attenuta alle indicazioni degli organi deputati a fornire indicazioni al riguardo, indicazioni che lo stesso Consiglio di Stato definisce indispensabili per adottare la giusta decisione. Ecco allora che emerge la difficoltà di ricostruire una responsabilità della amministrazione sulla base di quei criteri non univoci che la giurisprudenza ha adottato nel momento in cui si doveva accertare la imputabilità a titolo di dolo o colpa dei danni derivanti dall’illegittimo esercizio della funzione pubblica, criteri la cui perplessità può determinare conseguenze imponderabili in tema di certezza del diritto e tutela delle stesse posizioni dei cittadini chiamati a confrontarsi, oggi più di ieri, con la necessità e gli effetti del corretto esercizio della azione pubblica. Dott. Francesco Scittarelli(*) Consiglio di Stato, sezione quarta, decisione 31 luglio 2008 n. 3823 – Pres. L. Cossu – Est. C. Saltelli – Ministero dell’Economia e delle Finanze e Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (Avv. dello Stato M. Mari, ct 110272/03) c/ D.P. s.r.l., B.P. s.r.l., e ... s.r.l. (Avv. V. Biagetti). «(…) Fatto Il Tribunale amministrativo regionale delle Marche con la sentenza n. 1542 del 6 dicembre 2002, non definitivamente pronunciando sulle domande proposte dalle società D.P. s.r.l., B.P. s.r.l. e G.G.S. s.r.l. per l’annullamento delle determinazioni dell’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato in data 21 marzo 2002, prot. n. 04/120670, 04/121987 e 04/121988, recanti la comunicazione di avvio del procedimento di esclusione dalle graduatorie per la concessione della gestione del gioco del Bingo (ricorso notificato il 20 maggio 2002), e dei successivi provvedimenti direttoriali della stessa amministrazione, prot. n. 04/123911, 04/123912 e 04/123913, di esclusione dalle predette graduatorie provinciali per le gestione del gioco del Bingo (di cui ai motivi aggiunti notificati il 26 giugno 2002), nonché per il conseguente risarcimento del danno, annullava tutti i provvedimenti impugnati, rinviando ad altra udienza la trattazione della domanda risarcitoria. Il Consiglio di Stato, sezione IV, con la decisione n. 3185 del 18 maggio 2004, respingendo l’appello proposto dal Ministero dell’economia e delle finanze e dall’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato, confermava la illegittimità dei provvedimenti impugnati per violazione ed errata applicazione dell’articolo 12 del decreto legislativo 17 marzo IL CONTENZIOSO NAZIONALE 271 (*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. 03 cont naz 06 scittarelli.qxp 06/04/2009 14.40 Pagina 271 1997, n. 157, richiamato dall’articolo 13, lett. b), del bando di gara, in quanto, per un verso, i precedenti penali a carico dell’amministratore delegato delle società ricorrenti si riferivano “…a reati depenalizzati dopo le sentenze irrevocabili di condanna (per effetto del D.Lgs. n. 74 del 10 marzo 2000 e del D.Lgs. n. 507 del 30 dicembre 1999), ma da data anteriore all’emanazione del bando di gara, risalente al 28 dicembre 2000)”, mentre, per altro verso, la ricordata disposizione contenuta nell’articolo 12, primo comma, lett. e), del citato decreto legislativo n. 157 del 1995 (concernente l’esclusione dei soggetti non in regola con gli obblighi relativi al pagamento delle imposte e delle tasse) doveva essere riferita “alle situazioni in atto al momento della domanda e non a situazioni pregresse”. Con la sentenza n. 1260 del 5 settembre 2007 il Tribunale amministrativo regionale per le Marche, sez. I, pronunciando sulla domanda risarcitoria proposta dalle predette società D.P. s.r.l., B.P. s.r.l. e G.G.S. s.r.l., conseguente alla (già accertata) illegittimità dei ricordati provvedimenti di esclusione dalle graduatorie provinciali, ha riconosciuto la responsabilità delle amministrazioni intimate a titolo di colpa e le ha condannate genericamente al risarcimento del danno, fissando per la relativa determinazione specifici criteri, in relazione ai quali, “prima di disporre un’eventuale consulenza tecnica o di procedere alla diretta determinazione, anche in via equitativa” ha invitato l’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato a formulare entro sei mesi una puntuale proposta; ha quindi ulteriormente rinviato la trattazione della causa alla pubblica udienza del 3 dicembre 2008. Il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato, con atto di appello notificato il 1° febbraio 2008, hanno chiesto la riforma di tale statuizione, deducendone l’erroneità sia con riferimento alla declaratoria di responsabilità dell’amministrazione, sia con riferimento al danno riconosciuto. Esse hanno innanzitutto lamentato che inammissibilmente i primi giudici avrebbero fatto discendere automaticamente la loro responsabilità (con conseguente riconoscimento del diritto al risarcimento del danno in favore della società ricorrenti) dalla mera accertata illegittimità dei provvedimenti di esclusione dalle graduatorie provinciali per l’assegnazione delle concessioni del gioco del Bingo, senza tener conto che, come risultava dalla stessa documentazione di causa, nessun addebito di colpa, per imprudenza, negligenza e/o imperizia, poteva esser loro ascritto, avendo esse agito nell’assoluto rispetto dei canoni di imparzialità, correttezza e buona fede. Al riguardo le amministrazioni appellanti hanno sottolineato che era del tutto ultroneo ed ingiustificato, sul piano del fatto oltre che del diritto, il richiamo operato dai primi giudici alla presunta violazione dell’ordinanza cautelare n. 207 del 6 giugno 2002 (che aveva ordinato all’amministrazione di concludere l’avviato procedimento di esclusione dalle graduatorie provinciali tenendo conto degli spiegati motivi di ricorso), giacché i provvedimenti impugnati (ancorché dichiarati definitivamente illegittimi) trovavano adeguata giustificazione nel rapporto informativo del Comando generale della Guardia di Finanza del 5 aprile 2002, nel parere del Ministero dell’Interno in data 29 marzo 2002 ed ancora nel parere dell’Avvocatura generale dello Stato del maggio 2002, nonché nella pacifica circostanza che il decreto legislativo n. 74 del 2000 non aveva giammai modificato, né tanto meno abrogato il contenuto precettivo del decreto legislativo n. 157 del 1995; tutti elementi che costituivano sicuri indici della correttezza del comportamento tenuto dell’amministrazione, con la conseguenza che il danno asseritamente subito dalle società per effetto dell’annullamento dei provvedimenti impugnati non poteva essere considerato iniustum, ma iure datum. Quanto alla effettiva esistenza e consistenza del danno, le amministrazioni appellanti hanno osservato che inopinatamente la domanda risarcitoria era stata accolta, atteso che essa 272 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 06 scittarelli.qxp 06/04/2009 14.40 Pagina 272 era assolutamente priva di qualsiasi elemento di prova (tant’è che gli stessi primi giudici – contraddicendosi – avevano inopinatamente invitato l’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato a formulare una concreta proposta risarcitoria, precisando essi stessi che la quantificazione delle singoli voci di danno doveva essere ancorata a prove certe, rigorose e documentali da fornirsi dalle stesse società istanti), così che essa andava respinta. Con specifico riferimento al quantum del detrimento patrimoniale asseritamente risentito dalle società appellate, le amministrazioni appellanti hanno rilevato in punto di fatto che, come risultava dalla documentazione in atti: a) le ricorrenti non erano pronte ad iniziare l’attività di gioco, dall’inizio del mese di gennaio 2002; b) l’inizio dell’attività presupponeva l’esito positivo del collaudo delle sale da gioco che sarebbe reso possibile solo in data successiva al 13 marzo 2002; c) erano errate ed infondate, in quanto prive di qualsiasi supporto probatorio, le singole voci di danno, individuate come spettanti nella sentenza impugnata, a titolo di danno emergente, quali i canoni di locazione degli immobili, i costi sopportati per il mantenimento delle sale, i costi generali di struttura ulteriori rispetto a quelli di mantenimento, il costo del personale mantenuto in servizio nel periodo dal 21 marzo al 10 luglio 2002, i costi per l’asserita doppia ricerca, selezione e formazione del personale da impiegare nelle sale da gioco, le penali contrattuali, gli interessi di mora relativi ai contratti di finanziamento, le maggiori penali (addirittura non corrisposte per una concessione), voci per le quali non si era neppure tenuto conto della proroga che le stesse società ricorrenti avevano richiesto per l’effettivo allestimento delle sale necessarie per dare inizio all’attività di gioco; d) ugualmente sproporzionato, oltre che anch’essa privo di qualsiasi prova, era il riconoscimento di voci di danno a titolo di lucro cessante, che non poteva coincidere sic et simpliciter con il mancato guadagno, senza tener conto della incidenza dei costi variabili correlati all’attività intrapresa dalle stesse società ricorrenti (sia con riferimento al periodo intercorrente dal gennaio 2002 fino all’effettivo rilascio delle concessioni, sia con riferimento a quello intercorrente dall’apertura delle sale alla pubblicazione della decisione del Consiglio di Stato n. 3185 del 2004). Con atto notificato il 22/25 febbraio 2008 le società D.P. s.r.l., B.P. s.r.l. e G.G.S. s.r.l., costituendosi in giudizio, dopo aver dedotto preliminarmente la irricevibilità e/o l’inammissibilità dell’avverso gravame per violazione dell’articolo 23 bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, ne hanno chiesto il rigetto, spiegando, in via subordinata, anche appello incidentale relativamente ai capi della sentenza con cui era state in parte respinte alcune richieste risarcitorie. Le parti hanno poi illustrato ampiamente con apposite memorie le proprie tesi difensive, ribadendole nella pubblica udienza di discussione della causa. Diritto (...) III. Passando all’esame dell’appello principale proposto dal Ministero dell’economia e delle finanze e dall’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato, la Sezione è dell’avviso che esso sia infondato e che debba essere pertanto respinto, alla stregua delle seguenti osservazioni. III.1. Secondo le amministrazioni appellanti l’annullamento dei provvedimenti di esclusione dalla gara (e dalle graduatorie provinciali) per l’assegnazione delle concessioni per la gestione di sale destinate al gioco del Bingo (di cui alla sentenza n. 1542 del 6 dicembre 2002 del Tribunale amministrativo regionale delle Marche, confermata dalla decisione n. 3185 del 18 maggio 2004 della IV Sezione di questo Consiglio di Stato) non costituirebbe di per sé prova della loro responsabilità, nemmeno a titolo di colpa, atteso che il loro operato, IL CONTENZIOSO NAZIONALE 273 03 cont naz 06 scittarelli.qxp 06/04/2009 14.40 Pagina 273 così come del resto emergerebbe dalla documentazione in atti, sarebbe stato improntato al massimo rigoroso rispetto dei canoni di correttezza, imparzialità e buon andamento. Sebbene possa convenirsi che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, l’accertata illegittimità dei provvedimenti adottati dall’amministrazione non integra di per sé gli estremi di una condotta colposa, cui possa collegarsi automaticamente l’obbligo risarcitorio nei confronti del destinatario dei provvedimenti stessi, dovendo a tal fine prendersi in considerazione il comportamento complessivo degli organi che sono intervenuti nel procedimento, il quadro delle norme rilevanti ai fini dell’adozione della statuizione finale, la presenza di possibili incertezze interpretative in relazione al contenuto prescrittivo delle disposizioni medesime, onde apprezzare se l’organo procedente sia incorso in violazione delle comuni regole di buona amministrazione, di correttezza, di imparzialità e buon andamento (ex pluribus, C.d.S., sez. VI, 21 febbraio 2008; sez. IV, 10 agosto 2004, n. 5500; 19 dicembre 2003, n. 8363), tuttavia l’applicazione di tali principi al caso di specie non conduce alla tesi propugnata dalle amministrazioni appellanti, risultando per vero ragionevoli ed immuni da censure le differenti conclusioni cui è pervenuta la sentenza di primo grado. Giova al riguardo rilevare che, come si ricava dalla lettura della sentenza del Tribunale amministrativo regionale delle Marche n. 1542 del 6 dicembre 2002 e dalla decisione della IV Sezione del Consiglio di Stato n. 3185 del 18 maggio 2004, l’annullamento dei provvedimenti di esclusione delle società D.P. s.r.l., B.P. s.r.l. e G.G.S. s.r.l. dalle graduatorie provinciali per l’assegnazione delle concessioni per la gestione delle sale destinate al gioco del bingo è stata determinata dall’erronea applicazione dell’articolo 12 del decreto legislativo 17 marzo 1997, n. 157, richiamato dall’articolo 13, lett. b), del bando di gara: infatti, per un verso, i precedenti penali risultati a carico dell’amministratore delegato delle società ricorrenti riguardavano reati depenalizzati dopo le sentenze irrevocabili di condanna (per effetto del D.Lgs. n. 74 del 10 marzo 2000 e del D.Lgs. n. 507 del 30 dicembre 1999), ma da data anteriore all’emanazione del bando di gara, risalente al 28 dicembre 2000), mentre, per altro verso, la disposizione contenuta nell’articolo 12, primo comma, lett. e), del ricordato decreto legislativo n. 157 del 1995 (che sanciva l’esclusione dei soggetti non in regola con gli obblighi relativi al pagamento delle imposte e delle tasse) doveva essere riferita alle situazioni in atto al momento della domanda e non a situazioni pregresse. Nella già citata decisione n. 3185 del 18 maggio 2004 la IV Sezione del Consiglio di Stato, confermando la correttezza della decisione di annullamento dei primi giudici, ha espressamente sottolineato che “…appare arduo sostenere, come vorrebbe l’Amministrazione, una ultrattività degli effetti delle condanne subite dall’A., ai fini di cui si discute (esclusione dalla graduatoria dei soggetti concessionari per la gestione del gioco Bingo). Come ha, invero, affermato la Corte di Cassazione penale a sezioni unite, nella sentenza n. 35 del 2001, dopo l’abolizione del principio di ultrattività delle leggi penali tributarie ad opera dell’art. 24, primo comma, del D.Lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, ed in assenza di norme disciplinanti il regime transitorio tra la vecchia e la nuova normativa, il problema dell’individuazione della norma incriminatrice ai fatti anteriormente commessi deve essere rivolto alla stregua delle regole fondamentali del diritto intertemporale in materia penale affermato dall’art. 2 c.p…”; inoltre, sempre secondo la ricordata decisione, “…Tali rilievi sono determinanti anche al fine della soluzione della questione oggetto del decidere, in quanto se è vero che il legislatore nel riformare il sistema penale tributario, assumendo come obiettivo strategico quello di limitare la repressione penale ai soli fatti direttamente correlati alla lesione degli interessi fiscali, con rinuncia alla criminalizzazione delle violazioni meramente formali e preparatorie (cfr. Relazione governativa al D.Lgs. n. 74/2000), ha segnato 274 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 06 scittarelli.qxp 06/04/2009 14.40 Pagina 274 una frattura fra la previdente e l’attuale normativa, tale circostanza diviene ostativa alla tesi dell’ultrattività degli effetti penali delle condanne anche per quel che riguarda i profili considerati dall’art. 12 del D.Lgs. n. 157/95, apparendo non più dubitabile che per le fattispecie criminose oggetto delle condanne riportate sia venuto meno definitivamente il requisito del disvalore sociale del fatto, che costituisce il fondamento applicativo dell’art. 2 c.p.”. La ragione dell’annullamento dei provvedimenti impugnati, in definitiva, trova fondamento non già in un difetto di motivazione ovvero nell’erroneo accertamento ed apprezzamento dei fatti costituenti il substrato materiale su cui si innestato l’esercizio della funzione pubblica, quanto piuttosto nella erronea interpretazione di una norma giuridica ed in particolare dell’applicazione del principio di ultrattività delle leggi penali tributarie, abolito per effetto dell’articolo 24, primo comma, del D.Lgs., 30 dicembre 1999, n. 507 e dunque nel cattivo esercizio del potere amministrativo nella individuazione delle cause che avrebbero potuto determinare per i concorrenti il venir meno della moralità professionale. Al riguardo le amministrazioni non hanno fornito alcun elemento di prova circa la scusabilità di tale errore (scusabilità da ricollegare, secondo il ricordato indirizzo giurisprudenziale, all’esistenza di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma, della sua incerta formulazione, sulla complessità del fatto o sulla eventuale influenza determinante di comportamenti di altri soggetti), né hanno dedotto che nel caso di specie, in relazione ai fatti emersi dall’attività istruttoria, i provvedimenti impugnati non potevano avere altro contenuto di quello poi ritenuto illegittimo, non potendo ammettersi alcuna automaticità tra le informative ottenute e gli adottati provvedimenti di esclusione, atteso che le prime dovevano costituire oggetto di una puntuale ed attenta motivazione volta ad enucleare eventualmente le ragioni per le quali le sentenze penali definitive, per altro per reati che successivamente il legislatore non aveva più considerato tali, incidessero effettivamente sulla moralità professionale. In realtà, i principi di correttezza, imparzialità e buon andamento, idonei ad escludere una responsabilità risarcitoria dell’amministrazione, non possono ritenersi garantiti col mero rispetto formale ed esteriore degli atti che hanno contribuito alla formazione della volontà dell’amministrazione: in particolare, la circostanza che i provvedimenti di esclusione siano stati adottati sulla scorta di informazioni e pareri resi dall’Ufficio Territoriale del Governo di Bari, dal Comando provinciale della Guardia di Finanza di Bari e dall’Avvocatura generale dello Stato, non è di per sé sufficiente al escludere l’imputabilità soggettiva del loro annullamento alle amministrazioni appellanti, tanto più che tali informazioni e pareri avevano solo lo scopo di fornire all’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato gli elementi di fatto e/o di diritto indispensabili per adottare la giusta decisione, senza con ciò esimere l’amministrazione stessa dal dovere giuridico di svolgere le necessarie ed opportune valutazioni in ordine alle norme da applicare ed alla loro corretta interpretazione (giungendo eventualmente anche a conclusioni diverse da quelle suggerite nelle predette informazioni e nei pareri, assolutamente non vincolanti). La colpa dell’amministrazione (e per essa dell’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato) è stata quindi correttamente individuata dai primi giudici non già nella mera accertata illegittimità dei provvedimenti di esclusione delle società appellate dalle graduatorie provinciali per l’assegnazione delle concessioni per l’attivazione delle sale per il gioco Bingo, quanto nel fatto che tale annullamento è dipeso da un’erronea interpretazione ed applicazione della normativa di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 157 (richiamato dall’articolo 13, lett. b, del bando di gara), erronea interpretazione non ascrivibile ad incertezze contenutistiche e/o interpretative della norma stessa, ed in definitiva da una inescusabile superficialità circa il suo ambito di applicazione con riferimento alla IL CONTENZIOSO NAZIONALE 275 03 cont naz 06 scittarelli.qxp 06/04/2009 14.40 Pagina 275 situazione di fatto correttamente accertata (e dunque ricollegabile ad un non corretto esercizio del potere discrezionale di cui l’amministrazione era titolare per il raggiungimento dell’interesse pubblico sotteso al bando di gara). In questa ottica il richiamo operato dalla sentenza alla (violazione della) precedente ordinanza cautelare n. 207 del 6 giugno 2002 costituisce non già l’elemento che integra ex se il profilo soggettivo dell’illecito, quanto piuttosto un fatto sintomatico della condotta colposa tenuta dall’amministrazione; per altro proprio la omessa valutazione di tali elementi costituisce un ulteriore elemento a riscontro dell’infondatezza della tesi dell’asserito rigoroso rispetto dei principi di correttezza, buon andamento ed imparzialità. P.Q.M. Il Consiglio di Stato, sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull’appello principale proposto dal Ministero dell’economia e delle finanze e dall’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato, nonché sull’appello incidentale spiegato dalle società D.P. s.r.l., B.P. s.r.l. e G.G.S. s.r.l., avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per le Marche, sez. I, n. 1260 del 5 settembre 2007, respinge l’appello principale ed accoglie quello incidentale nei sensi di cui in motivazione. Dichiara interamente compensate tra le parti le spese del presente grado di giudizio. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 13 maggio 2008 (…)». 276 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 06 scittarelli.qxp 06/04/2009 14.40 Pagina 276 Le informative prefettizie antimafia: natura, tipologie ed effetti interdittivi (Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, sezione prima, decisione 9 luglio 2008 n. 6487) SOMMARIO: 1.- I fatti. 2.- Le tipologie di informative prefettizie antimafia: la disciplina positiva e l’evoluzione giurisprudenziale in subiecta materia. 3.- L’informativa tipica: la discrezionalità dell’Autorità prefettizia e il sindacato giurisdizionale. 4.- L’informativa c.d. atipica. 5.- Le garanzie procedimentali in materia di informative prefettizie antimafia. 6.- L’informativa prefettizia antimafia e il riparto di giurisdizione alla luce dei recenti arresti delle Sezioni Unite. 7.- Brevi considerazioni su alcune forme di “elusione” delle finalità della normativa in materia di informative prefettizie antimafia: la segregazione di quote societarie in trust. La prima sezione del T.A.R. del Lazio delinea le differenze sostanziali tra le diverse tipologie di informative prefettizie, ribadendo il principio, affermato da univoco orientamento giurisprudenziale, per cui, da un lato, l’informativa antimafia tipica, adottata ai sensi dell’art. 10, d.P.R. n. 252/1998, determina in capo alla parte privata (sia essa persona fisica o giuridica) una situazione generalizzata di incapacità a contrarre nei confronti di qualsiasi pubblica amministrazione, tanto da esaurire la discrezionalità della medesima amministrazione destinataria; mentre, dall’altro lato, l’informativa c.d. atipica di cui all’art. 1-septies, d.l. n. 629/1982 ha un valore meramente endoprocedimentale, circoscritto all’azione amministrativa della pubblica amministrazione destinataria. In tali ultime ipotesi, l’amministrazione destinataria rimane, quindi, titolare di un potere discrezionale in merito alla valutazione delle informazioni ricevute ai fini dell’affidamento dell’appalto (ovvero della prosecuzione del rapporto contrattuale). Ne consegue che l’efficacia interdittiva costituisce conseguenza automatica e diretta solo dell’informativa prefettizia tipica. Diversamente, a fronte di un’informativa c.d. atipica o supplementare, l’interdizione dev’essere autonomamente valutata dalla pubblica amministrazione destinataria. La pronuncia in esame evidenzia, inoltre, che nella valutazione degli elementi e delle circostanze inerenti i tentativi di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 10, comma 7, lett. c), d.P.R. n. 252/1998 la discrezionalità dell’autorità prefettizia è più spiccata che nelle altre ipotesi, atteso che le “infiltrazioni” possono essere dedotte anche da parametri non predeterminati dalla normativa di settore. La valutazione del Prefetto – precisa il T.A.R. del Lazio – configura un tipico esercizio di discrezionalità tecnica, in ragione delle peculiari caratteristiche di tecnica investigativa e poliziesca. Ciò nonostante, il Collegio puntualizza che, per evitare il travalicamento in uno “stato di polizia” e salvaguardare i principi di legalità e di certezza del diritto, le informative prefettizie devono fondarsi, non sul semplice sospetto o su mere congetture prive di riscontro fattuale, ma su idonei e spe- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 277 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 277 cifici elementi di fatto che rivelino obiettivamente i sintomi di effettive connessioni o collegamenti tra l’impresa e le associazioni criminali. Da qui, il Tribunale Amministrativo conclude che il mero rapporto di parentela, in assenza di ulteriori specificazioni, non è di per sé solo idoneo a dare conto del tentativo di infiltrazione mafiosa. In ogni caso, ribadendo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, il Collegio osserva che l’informativa antimafia può essere sindacata in sede giurisdizionale solo per vizi logici e di congruità delle notizie assunte e poste a fondamento della medesima informativa. Tutti questi profili saranno esaminati nel commento che segue, nel tentativo di far luce sulle complesse problematiche del sistema normativo delle informative antimafia prefettizie, connotato da diverse oscillazioni interpretative e incertezze definitorie, addebitabili per lo più all’uso di espressioni con valenza sociologica più che giuridica. 1.- I fatti. Il Prefetto di Palermo trasmetteva al Comune di Palermo l’informativa antimafia del 26 luglio 2006, adottata ai sensi art. 1-septies, d.l. n. 629/1982, ravvisando in ordine alle Società C. S.r.l. ed E. S.r.l. tentativi di infiltrazioni mafiose. In proposito, il Comitato Tecnico Scientifico dell’Ufficio Emergenza Traffico e Mobilità del Comune evidenziava che l’informativa prefettizia ex art. 1-septies cit. giustifica(va) ampiamente un provvedimento di diniego dell’affidamento dell’appalto, in ragione delle peculiari problematiche antimafia che interessano la città di Palermo. Di seguito, il Sindaco, nella sua veste di Commissario delegato all’emergenza traffico, invitava l’Ufficio contratti ad escludere dalla gara ad evidenza pubblica (indetta per l’appalto di “completamento dei lavori di costruzione del raddoppio della Circonvallazione di Palermo – II stralcio – lotto B – da via Altofonte a via Belgio. Progetto dello svincolo di via Perpignano – Sovrappasso pedonale”) le Società C. S.r.l. ed E. S.r.l. Pertanto, la Commissione di gara procedeva all’esclusione di dette Società, rilevando, ulteriormente, la mancanza del requisito della regolarità contributiva di una delle Società al momento della presentazione dell’offerta. L’appalto veniva poi aggiudicato ad altra concorrente, l’A. S.p.A. – M.s. c. r.l. Le Società escluse dalla gara ricorrevano al Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio per l’annullamento, previa sospensiva, di tutti gli atti amministrativi sfavorevoli adottati dal Comune e dalla Prefettura di Palermo, deducendo a sostegno del proposto gravame molteplici motivi di illegittimità, concernenti sia l’informativa prefettizia che l’ulteriore motivo di esclusione inerente la regolarità contributiva. L’istanza cautelare avanzata dalle Società veniva poi respinta sia dal Tribunale Amministrativo adito che, in sede di appello, dal Consiglio di Stato. In seguito, ad integrazione delle informazioni già inoltrate all’Ente locale, l’Autorità prefettizia adottava un’ulteriore informativa antimafia ai sensi dell’art. 10, d.P.R. n. 252/98, affermando espressamente che “pur nulla figurando a carico degli amministratori e dei direttori tecnici delle predette società, risul- 278 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 278 tano sussistenti elementi e circostanze oggettive che inducono a ritenere fondatamente le società medesime condizionate dalla mafia”. Avverso tale nota prefettizia, le parti private proponevano ricorso per motivi aggiunti. Con la decisione in commento la prima sezione del T.A.R. del Lazio ha preliminarmente rigettato l’eccezione di incompetenza territoriale sollevata dal Comune di Palermo, in ragione della mancata notifica della relativa istanza a tutte le parti in causa ai sensi dell’art. 31, comma 3, legge n. 1034/1971. Il Collegio ha ritenuto, altresì, infondata l’ulteriore eccezione di inammissibilità dei ricorsi, principale e per motivi aggiunti, atteso il loro tempestivo deposito. Sotto altro profilo, il Collegio ha rilevato l’improcedibilità, per sopravvenuta carenza di interesse, del ricorso principale, già proposto avverso la prima delle informative antimafia adottate dal Prefetto di Palermo, chiarendo, sul punto, che il rapporto giuridico controverso dedotto in giudizio è (rectius: era) strettamente connesso alla seconda delle informative antimafia (adottata ai sensi art. 10, d.P.R. n. 252/98). Altrimenti detto, l’eventuale accoglimento del ricorso principale non avrebbe potuto determinare alcuna utilità alle Società ricorrenti, e ciò con maggior riguardo all’impugnazione proposta avverso l’informativa prefettizia c.d. atipica. Tuttavia, il Collegio ha ritenuto che, nell’ipotesi di accoglimento del ricorso proposto per motivi aggiunti avverso la successiva informativa prefettizia ex art. 10, d.P.R. 252/98, residuerebbe in capo alle ricorrenti un interesse all’esame del ricorso introduttivo del giudizio, seppur circoscritto alla censura afferente l’esclusione dalla gara per mancanza del requisito della regolarità contributiva di una delle Imprese al momento dell’offerta. Il Tribunale Amministrativo ha, in conclusione, rigettato il ricorso proposto per motivi aggiunti, affermando la congruità della motivazione posta a base dell’informativa antimafia adottata ai sensi dell’art. 10 cit. L’elemento parentale, dal quale il Prefetto ha desunto il tentativo di infiltrazione mafiosa nelle imprese, di per sé solo non giustificativo dell’informativa interdittiva, è stato supportato – in punto di fatto – da ulteriori specifici indizi e circostanze dai quali può desumersi, ragionevolmente, il tentativo di ingerenze malavitose nelle Imprese ricorrenti. È questa la parte della decisione che verrà esaminata nel presente lavoro, offrendo la stessa spunti di riflessione in ordine al vigente sistema delle informative antimafia prefettizie, argomento particolarmente carico di implicazioni che necessitano di un’attenta messa a punto. 2.- Le tipologie di informative prefettizie antimafia: la disciplina positiva e l’evoluzione giurisprudenziale in subiecta materia Il sistema delle informative antimafia è disciplinato dal D.Lgs. 8 agosto 1994, n. 490(1), recante Disposizioni attuative della legge 17 gennaio 1994, IL CONTENZIOSO NAZIONALE 279 (1) C.d. decreto Maroni, emanato in attuazione della delega conferita al Governo dalla legge 17 gennaio 1994, n. 47. Sulle novità introdotte dal D.Lgs. n. 490/1994, si veda 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 279 COLOMBO-MAGISTRO, La legislazione antimafia, Milano, 1994; FANELLI, La certificazione antimafia, in Riv. amm., 1996, 469; FORLENZA, La nuova certificazione antimafia, in Giornale dir. amm., 1995, 36 ss.; GRAZIANO, Appalti pubblici: il nuovo regime delle certificazioni “antimafia” dopo il D.Lgs. 8 agosto 1994, n. 490, in Riv. trim. app., 1996, 455; INFANTE - MENICHELLI, Origini ed evoluzione della certificazione antimafia, in Dir. pen. e proc., 1997, 1525; TITOMANLIO, La certificazione antimafia, in Cons. Stato, 1995, II, 793. (2) In ordine all’evoluzione legislativa in materia di informative antimafia, si veda CNEL, Le norme antimafia dal Regno d’Italia al Codice dei Contratti Pubblici, cap. III, 29 ss., in Rapporto su Il contrasto dei fenomeni di illegalità e della penetrazione mafiosa nel ciclo del contratto pubblico (Assemblea 26 giugno 2008), in www.portalecnel.it; già, CNEL, Rapporto su Subappalto: legislazione antimafia e politiche di prevenzione (Assemblea 18 luglio 2002), loc. ult. cit.; altresì, CARINGELLA, Legislazione antimafia e appalti pubblici, in Urb. e app., 1997, 369; ID., L’assetto delegificato della normativa antimafia e la nuova disciplina del subappalto, in www.giustamm.it; CARINGELLA - DEMARZO, La normativa antimafia, in La nuova disciplina dei lavori pubblici, Milano, 2003; FRATTASI, Relazione al convegno organizzato dall’I.G.I. in data 10 luglio 2008 sul tema I tentativi di infiltrazione mafiosa, le informative tipiche e quelle atipiche o supplementari: il punto della situazione e le prospettive, in www.igitalia.it; MUTTONI, Informazioni prefettizie antimafia e appalti. Testi, contesti e Costituzione, in I contratti dello Stato e degli Enti pubblici, 2008, n. 2, 161 ss., ove ulteriori riferimenti; SUPPA - FURCINITI, Gli appalti pubblici nella legislazione penale e antimafia, Cacucci Editore, 2001. (3) Sulla portata dell’art. 247 del Codice sia consentito rinviare a MEZZOTERO, Le disposizioni di coordinamento finali e transitorie e le abrogazioni, in Il nuovo codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture. Commentario sistematico a cura di F. SAITTA, Padova, 2008, 1329 s. (4) Ci si riferisce all’art. 38, che, nel riprodurre l’art. 75, d.P.R. 554/1999, stabilisce i requisiti d’ordine generale per la partecipazione alle procedure di affidamento di appalti pub- 280 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 n. 47, in materia di comunicazioni e certificazioni previste dalla normativa antimafia (successivamente modificato ed integrato dal d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252), il quale ha fortemente innovato la previgente normativa di settore. La certificazione prodotta dal concorrente è stata sostituita con la trasmissione diretta alla stazione appaltante, a cura della Prefettura competente per territorio, della documentazione e delle notizie rilevanti(2). Il D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (c.d. Codice degli appalti pubblici) non ha apportato alcuna modifica alla normativa già vigente, disponendo l’art. 247 (normativa antimafia) del Codice che “Restano ferme le vigenti disposizioni in materia di prevenzione della delinquenza di stampo mafioso e di comunicazioni e informazioni antimafia”(3). Così come formulata, la disposizione potrebbe in effetti apparire superflua. Volendo attribuire un senso proprio alla disposizione normativa, altrimenti riproduttiva di un principio generale indiscusso – quello della specialità della normativa antimafia – il quale, pertanto, avrebbe comunque trovato piena applicazione nel settore degli appalti pubblici, si potrebbe ritenere che l’espressa ed incondizionata salvezza della normativa antimafia non incorporata nel Codice sia stata posta per escludere che le disposizioni in materia di prevenzione del fenomeno mafioso contenute nel Codice stesso(4) possano avere carattere sostitutivo anziché unicamente integrativo delle disposizioni 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 280 blici, prevedendo quali cause interdittive, per quanto rileva ai fini della c.d. prevenzione antimafia, quelle connesse alle misure di prevenzione ed alle condanne penali (rispettivamente, lett. b e c dell’art. 38). (5) Si veda, a tal proposito, CHINÈ, Le cause di esclusione dalle gare: condanne penali e informative interdittive. Relazione al convegno organizzato dall’I.G.I. in data 10 giugno 2008, sul tema Codice dei contratti: problemi applicativi dell’art. 38 (cause di esclusione) e degli articoli 45 (elenchi) e 232 (albi di fiducia). Le soluzioni prospettate nel commentario di Garofoli e Ferrari, in www.igitalia.it; LILLI, Informativa antimafia atipica: per l’esclusione serve la motivazione, in Diritto e pratica amministrativa, 2009, 1, 47; in giurisprudenza: Cons. St., sez. VI, 25 novembre 2008, n. 5780, in www.lexitalia.it. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 281 generali in materia di prevenzione della delinquenza di stampo mafioso e di comunicazioni e informazioni antimafia. Per tale ragione, quindi, il legislatore ha avvertito la necessità di dettare una disposizione di chiusura, prevedendo l’espressa salvezza delle vigenti disposizioni in materia di prevenzione antimafia e di informative prefettizie e, dunque, anche dell’art. 10, comma 7, lett. c), d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252, relativo agli accertamenti disposti dall’autorità prefettizia al fine di verificare l’eventuale sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa nella struttura societaria. Con l’art. 247, dunque, il legislatore ha inteso ribadire nella sedes materiae più consona (un testo normativo appositamente dettato per la disciplina degli appalti pubblici) un principio generalissimo: la perdurante applicabilità delle specifiche disposizioni in materia di prevenzione della criminalità organizzata e di comunicazioni e certificazioni antimafia, al fine di escludere dal mercato dei pubblici appalti l’imprenditore che sia sospettato di legami o condizionamenti mafiosi, mantenendo così un atteggiamento intransigente contro rischi di infiltrazione mafiosa per contrastare un eventuale utilizzo distorto delle risorse pubbliche. In ogni caso, è opinione comune che la normativa inerente la disciplina delle informative antimafia, alla quale l’art. 247 del Codice dei contratti pubblici compie generale rinvio, si inserisce nel più ampio contesto normativo delle cause di esclusione dei concorrenti dalle procedure ad evidenza pubblica di cui all’art. 38 del Codice stesso(5). L’art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 490/1994 dispone testualmente che “le pubbliche amministrazioni, gli enti pubblici e gli altri soggetti di cui all’art. 1 devono acquisire le informazioni di cui al successivo comma 4, prima di stipulare, approvare o autorizzare i contratti e subcontratti ovvero prima di rilasciare o consentire le concessioni o erogazioni indicati nell’allegato 3”. Il successivo comma 4 sancisce, poi, che “il Prefetto trasmette alle amministrazioni richiedenti le informazioni concernenti la sussistenza o meno, a carico di uno dei soggetti indicati nelle lettere d) ed e) dell’allegato 4, delle cause di divieto o di sospensione dei procedimenti indicate nell’allegato 1, nonché le informazioni relative ad eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”. In proposito, l’allegato 1 elenca le cause di divieto, di sospensione e di decadenza tassativamente previste dall’art. 10, legge n. 575/1965 (Disposizioni contro la mafia). 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 281 Il comma 6 dell’art. 4 cit. prevede, inoltre, che “quando, a seguito delle verifiche disposte a norma del comma 4, emergono elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa nelle società o imprese interessate, le amministrazioni cui sono fornite le relative informazioni prefettizie non possono stipulare, approvare o autorizzare i contratti o subcontratti, né autorizzare, rilasciare o comunque consentire le concessioni e le erogazioni”. Analoghe disposizioni sono, inoltre, contenute nell’art. 10, comma 2, d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252 (Regolamento recante norme per la semplificazione dei procedimenti relativi al rilascio delle comunicazioni e delle informazioni antimafia), che ha accorpato in una specie di testo unico regolamentare le disposizioni in materia di certificazione e documentazione antimafia contenute in diversi testi, tra cui, in particolare, il citato D.Lgs. n. 490/1994(6). In particolare, il successivo comma 7 dell’art. 10, d.P.R. 252/98 dispone che le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa sono desunte: a) dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluno dei delitti di cui agli artt. 629, 644, 648 bis e 648 ter del codice penale, o dall’art. 51, comma 3 bis, del codice di procedura penale; b) dalla proposta o dal provvedimento di applicazione di taluna delle misure di cui agli artt. 2-bis, 2-ter, 3-bis e 3-quater, l. n. 575/1965; c) dagli accertamenti disposti dal Prefetto anche avvalendosi dei poteri di accesso e di accertamento delegati dal Ministro dell’interno, ovvero richiesti ai Prefetti competenti per quelli da effettuarsi in altra provincia. È evidente che, con il sistema delle informative antimafia, il legislatore ha inteso accostare alle misure di prevenzione antimafia un altro significativo strumento di contrasto della criminalità organizzata, consistente nell’esclusione dell’imprenditore, che sia sospettato di legami o condizionamenti da infiltrazioni mafiose, dal mercato dei pubblici appalti e, più in generale, dalla stipula di tutti quei contratti (e dell’accesso ai finanziamenti) che presuppongono la partecipazione di un soggetto pubblico e l’utilizzo di risorse della collettività. Si tratta, quindi, di un’azione preventiva che vale ad estromettere in via definitiva le associazioni a delinquere da un intero settore della 282 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 (6) Per un commento alla disciplina regolamentare, si veda, in particolare, ZGAGLIARDICH - MENGOTTI, La nuova certificazione antimafia. Il d.P.R. 252/98 e la nuova disciplina vigente dal 28 settembre 1998, Milano, 1998; in argomento, ARSÌ, La semplificazione delle comunicazioni e delle informazioni antimafia (commento al d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252), in Giornale dir. amm., 1998, 922; INFANTE - MENICHELLI, Le più recenti vicende della certificazione antimafia, in Dir. pen. e proc., 1998, 108. (7) Per approfondimenti, all’attualità, sul fenomeno mafioso, si vedano le relazioni semestrali al Parlamento della Direzione Investigativa Antimafia, in www.interno.it. In ordine all’evoluzione sociologica del fenomeno mafioso, con particolare riguardo alla ‘ndrangheta, si veda, per tutti, GRATTERI - NICASO, Fratelli di sangue, Pellegrini Editore, 2007; con riguardo ai fatti di mafia in Sicilia ed emersi nel corso dei noti processi contro cosa nostra, STAJANO, Mafia - L’atto d’accusa dei giudici di Palermo, Editori Riuniti, 1986. In ordine al volume di affari degli investimenti dello Stato attraverso gli appalti di opere pubbliche, 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 282 vita economica del Paese(7). Il divieto di contrarre (inteso nel senso lato appena accennato) costituisce una misura cautelare di tipo spiccatamente preventivo, che mira a contrastare l’azione del crimine organizzato, colpendo gli interessi economici delle associazioni, anche a prescindere dal concreto accertamento in sede penale di uno o più reati che vi siano direttamente connessi, come in seguito si dirà. In particolare, dal quadro normativo appena tratteggiato, è dato desumere che l’art. 4, D.Lgs. n. 490 del 1994 sancisce il divieto di contrattazione con la p.a., esplicitato anche nella formula del divieto di approvazione o autorizzazione dei contratti, ove sia maturata a carico dell’impresa una delle due seguenti circostanze: a) quando l’informazione prefettizia comunichi la sussistenza a carico dei soggetti responsabili dell’impresa (così come puntualmente identificati dalla legge) delle cause di divieto o di sospensione dei procedimenti indicate nell’allegato 1, D.Lgs. n. 490 del 1994 (ossia le cause di divieto, di sospensione o di decadenza previste dall’art. 10, legge 31 maggio 1965, n. 575, che, a sua volta, si riferisce all’applicazione di misure di prevenzione ovvero all’applicazione provvisoria di provvedimenti giudiziali interdittivi nel corso del procedimento aperto per l’applicazione delle dette misure); b) quando la Prefettura trasmetta (alla stazione appaltante) “informazioni relative ad eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa” tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società od imprese interessate. I tentativi di infiltrazione mafiosa possono essere desunti da: – provvedimenti o proposte di provvedimenti, come indicato nelle lett. a) e b) dell’art. 10, comma 7, d.P.R. n. 252/1998; – accertamenti prefettizi, come indicato nella successiva lett. c). La prassi amministrativa sviluppatasi sull’esegesi della normativa contenuta nel D.Lgs. n. 490/1994 e nel d.P.R. n. 252/1998, e supportata dalla costante riflessione giurisprudenziale(8), ha delineato tre categorie di infor- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 283 anche a fini statistici, GIAMPAOLINO, Presentazione della Relazione annuale (2007) al Parlamento, Camera dei Deputati - 9 luglio 2008, in www.autoritalavoripubblici.it. (8) In ordine alla distinzione fra le tre tipologie di informative antimafia, si vedano, in giurisprudenza, Cons. Stato, Sez. VI, 21 ottobre 2005, n. 5952, in Foro amm. CdS, 2005, 10, 3031; Cons. St., sez. IV, 15 novembre 2004, n. 7362, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., sez. IV, 25 luglio 2001, n. 4065, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., sez. IV, 1 marzo 2001, n. 1148, ivi; Sez. V, 24 ottobre 2000, n. 5710, ivi; C.G.A., 16 settembre 2002, n. 543, ivi; più di recente, con estrema chiarezza, C.G.A., 28 dicembre 2006, n. 873, in www.lexitalia.it; Cons. St., sez. VI, 3 maggio 2007, n. 1948, in Urb. e app., 2007, 975 ss.; Cons. St., sez. VI, 25 novembre 2008, n. 5780, cit. In dottrina, in argomento, BOTTO, Antimafia e contratti pubblici: il punto della situazione e le prospettive. Relazione al convegno organizzato dall’I.G.I. in data 10 luglio 2008 sul tema I tentativi di infiltrazione mafiosa, le informative tipiche e quelle atipiche o supplementari: il punto della situazione e le prospettive, in www.igitalia.it; CACACE, Tutela antimafia e grandi opere, Contenzioso e giurisprudenza, in www.giustizia-amministrativa.it.; CHINÈ, op. cit.; CIMINI, La nuova documentazione antimafia: le “informazioni” del Prefetto, in Foro it., 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 283 mative prefettizie: 1.- la prima, ricognitiva di cause di divieto, di per sé interdittive, ai sensi dell’art. 4, comma 4, D.Lgs. n. 490/1994, che nel sistema del d.P.R. n. 252/1998 possono identificarsi con “le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa” desunte dalle lett. a) e b) del comma 7 dell’art. 10(9); 2.- la seconda, relativa ad eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o delle imprese interessate, la cui efficacia interdittiva discende da una valutazione del Prefetto e che nel sistema del d.P.R. n. 252/1998 possono identificarsi negli elementi emersi dagli accertamenti di cui alla lett. c), comma 7, dell’art. 10, d.P.R. cit.; tale informativa ha carattere accertativo-costitutivo di elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa nella società interessata; 3.- la terza, relativa alle informazioni cd. atipiche o supplementari (o aggiuntive), il cui effetto interdittivo è rimesso ad una valutazione autonoma e discrezionale dell’amministrazione destinataria dell’informativa, prevista dall’art. 1-septies(10), d.l. 6 settembre 1982, n. 629, convertito con modificazioni dalla l. 12 ottobre 1982, n. 726 (articolo aggiunto dall’art. 2, legge 15 novembre 1988, n. 486, e richiamato dall’art. 10, comma 9, d.P.R. n. 252/1998), fondata sull’accertamento di elementi e circostanze che “pur denotando il pericolo di collegamento fra imprese e la criminalità organizzata non raggiungono la soglia di gravità prevista dall’art. 4, D.Lgs. 490/1994, vuoi perché carenti di alcuni requisiti soggettivi o oggettivi perti- 284 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 2002, III, c. 291 ss.; DE GIOIA, L’informativa prefettizia antimafia: per l’atipica l’effetto interdittivo non è automatico, nota a Cons. St., sez. VI, 3 maggio 2007, n. 1948, in Urb. e app., 2007, 8, 975 ss.; FILIPPETTI, Le informative antimafia atipiche: l’inderogabile esercizio della discrezionalità amministrativa, in Il Corriere del Merito, 2006, 10, 1197, ove ulteriori riferimenti giurisprudenziali; MUTTONI, op. cit. (9) Osserva, BOTTO, op. cit., che “la natura ricognitiva di tale informativa prefettizia si evince con estrema chiarezza dalla presenza di provvedimento lato sensu giudiziari, dei quali il Prefetto si limita a dare notizia alla stazione appaltante richiedente”. (10) La norma dispone, testualmente, che “L’Alto commissario [per la lotta contro la delinquenza mafiosa] può comunicare alle autorità competenti al rilascio di licenze, autorizzazioni, concessioni in materia di armi ed esplosivi e per lo svolgimento di attività economiche, nonché di titoli abilitativi alla conduzione di mezzi ed al trasporto di persone o cose, elementi di fatto ed altre indicazioni utili alla valutazione, nell’ambito della discrezionalità ammessa dalla legge, dei requisiti soggettivi richiesti per il rilascio, il rinnovo, la sospensione o la revoca delle licenze, autorizzazioni, concessioni e degli altri titoli menzionati”. In ordine all’applicazione ratione temporis della norma si veda T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 21 gennaio 2001, n. 21, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo cui “Venuta a cessare la figura dell’Alto Commissario, le cui competenze sono passate dal 1 gennaio 1993 al Ministro dell’Interno e per sua delega ai Prefetti (art. 2, secondo comma quater d.l. 29 ottobre 1991 n. 345 convertito dalla legge n. 410 del 1991), questi ultimi risultano oggi investiti di un’ulteriore competenza in tema di informativa antimafia, che si aggiunge alle altre due già considerate. Rispetto a queste, tale terzo ordine di competenze si differenzia per la natura meramente partecipativa delle notizie e delle indicazioni, i cui effetti sono rimessi esclusivamente alle valutazioni discrezionali dell’Amministrazione interessata”. 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 284 nenti alle cause di divieto o sospensione, vuoi perché non integranti del tutto il tentativo di infiltrazione”(11). Ciò in applicazione del più generale principio di collaborazione tra le pubbliche amministrazioni. Tuttavia, in forza dell’art. 113, R.d. n. 827/1924 (Regolamento per l’amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato), tale informativa, anche se priva di efficacia interdittiva automatica, “consente l’attivazione degli ordinari poteri discrezionali di ritiro del contratto da parte della stazione appaltante”(12). Occorre precisare che, ai sensi dell’art. 1, lett. e), d.P.R. n. 252/1998, la documentazione relativa ai requisiti antimafia di un soggetto non è richiesta dall’Amministrazione per provvedimenti e contratti di valore inferiore a trecento milioni delle vecchie lire, pari ad €. 154.937,07. In buona sostanza, l’acquisizione dell’informativa antimafia sub 1) e 2) – nell’ambito della disciplina dettata dal D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 – è obbligatoria per i contratti sopra soglia comunitaria (fissata dall’art. 28, comma 1, lett. c), D.Lgs. n. 163/2006, in €. 5.278.000,00), mentre sussiste un potere discrezionale per le stazioni appaltanti di richiedere alla Prefettura l’informativa antimafia, di cui all’art. 10, d.P.R. n. 252/1998, anche nel caso di gara d’appalto di importo inferiore alla soglia comunitaria, ma non inferiore a trecento milioni delle vecchie lire (pari ad €. 154.937,07), limite espressamente previsto dal cit. art. 1, lett. e)(13). 3.- L’informativa tipica: la discrezionalità dell’Autorità prefettizia e il sindacato giurisdizionale. Come già avvertito, le informative antimafia tipiche – sub 1) e 2) – adottate ai sensi dell’art. 10, d.P.R. n. 252/1998, determinano una situazione IL CONTENZIOSO NAZIONALE 285 (11) Cfr., Cons. St., sez. VI, 16 aprile 2003, n. 1979, in Appalti Urbanistica Edilizia, 2004, 212 e in www.giustamm.it. (12) Cfr., Cons. St., sez. VI, 16 aprile 2003, n. 1979 cit.; Cons. St., sez. VI, 14 gennaio 2002, n. 149, in Foro amm. CdS, 2002, 145; Cons. St., sez. V, 24 ottobre 2000, n. 5710, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo cui l’applicazione dell’art. 1-septies cit. ai contratti ad evidenza pubblica trova riscontro nell’art. 113 R.d. n. 827/1924, a tenore del quale: “per gravi motivi di interesse pubblico o dello Stato, il Ministro o l’autorità delegata … può negare l’approvazione dei contratti anche se riconosciuti regolari”. (13) Si veda, in proposito, Cons. St., sez. VI, 29 gennaio 2008, n. 240, in Guida al diritto, 2008, n. 9, 72, con nota di GIUNTA, Riconosciuto da giudici di Palazzo Spada il potere discrezionale dell’amministrazione; da ultimo, Cons. St., sez. V, 19 settembre 2008, n. 4533, in www.giustamm.it, secondo cui: “Il d.P.R. n. 252/1998 impone, da un lato, l’obbligo assoluto di acquisire l’informativa antimafia qualora l’importo della gara di appalto superi la soglia comunitaria (art. 10); dall’altro, esclude la richiesta di tale informativa nel caso di appalti di importo inferiore a Lire 300 milioni (art. 1 lett. e). Al di là di questi due valori (da £. 300 milioni alla soglia comunitaria), la normativa non dà alcuna specifica indicazione (se debba valere il solo certificato camerale antimafia ovvero se sia ammessa, in aggiunta a questo, la possibilità di richiedere informazioni), per cui, in questa zona non regolamentata, non può escludersi l’esercizio della discrezionalità della stazione appaltante, nel senso che la stessa è legittimata a richiedere le informazioni antimafia, e che, una volta formulata la richiesta, il Prefetto sia tenuto a dare seguito a tale richiesta”. 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 285 generalizzata di incapacità a contrarre nei confronti di qualsiasi pubblica amministrazione, in capo alla quale non residua alcun potere discrezionale in ordine all’apprezzamento della medesima informativa. In tali ipotesi, l’esclusione dell’impresa deriva direttamente dall’atto prefettizio. Sicchè, deve ritenersi che l’informativa prefettizia tipica è un atto immediatamente lesivo, che – a differenza dell’informativa c.d. atipica – può essere autonomamente impugnato in sede giurisdizionale, indipendentemente dall’esito della specifica gara in cui tale informativa sia intervenuta, non dovendosi attendere il consequenziale provvedimento sfavorevole adottato dall’amministrazione sulla base dell’informazione (ad esempio, l’esclusione del privato dalla procedura, la negazione della stipulazione del contratto, l’atto di revoca o recesso dal contratto o l’atto con il quale si prevede il recupero delle somme erogate o delle agevolazioni concesse)(14). Del pari, viene ritenuto immediatamente lesivo e direttamente impugnabile il provvedimento reiettivo dell’istanza di aggiornamento delle informative, proposta ai sensi dell’art. 10, comma 8, seconda alinea, d.P.R. n. 252/98, trattandosi di un procedimento di secondo grado che presuppone l’esercizio di una discrezionalità tecnica volta alla rivalutazione di una precedente determinazione in materia di antimafia e che si caratterizza per la natura obbligatoria della funzione: non costituisce, infatti, propriamente una manifestazione di autotutela decisoria, essendo principalmente volto alla salvaguardia dell’interesse di un’impresa a poter instaurare e conservare rapporti economici e commerciali con le amministrazioni pubbliche(15). In casi eccezionali, tuttavia, è consentito alla stazione appaltante, a seguito del ricevimento di un’informativa antimafia tipica, mantenere il rapporto contrattuale; si tratta di fattispecie straordinarie, nelle quali la cura dell’interesse pubblico impone di non recedere dal contratto ovvero di situazioni di emergenza, delle quali dovrà essere data circostanziata prova nella motivazione dell’atto dell’amministrazione appaltante. Tali eccezionali casi sono, in genere, ricondotti dalla giurisprudenza all’ipotesi in cui il rapporto contrattuale sia in corso di esecuzione già da un cospicuo lasso di tempo e sussistano concrete ragioni che rendano del tutto sconveniente per l’amministrazio- 286 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 (14) In tal senso, da ultimo, Cons. St., sez. VI 19 agosto 2008, n. 3958, in www.lexitalia. it, ove il Collegio ha osservato che “l’informativa antimafia ex art. 10, d.P.R. n. 252/1998 non è parte integrante delle procedure di gara, ai sensi e per gli effetti dell’art. 23 bis, l. n. 1034/71, ma resta provvedimento autonomamente lesivo, in quanto incidente sulla capacità contrattuale e sulla produttività dell’impresa destinataria, interessata alla relativa impugnazione anche indipendentemente dall’esito della gara stessa, quanto meno sotto il residuale profilo risarcitorio. L’impugnazione del provvedimento in questione, pertanto, resta sottratta al regime dell’art. 23 bis, l. n. 1034/71, con particolare riguardo alla dimidiazione dei termini processuali prevista per i procedimenti abbreviati, dimidiazione che è applicabile solo agli atti inerenti alla procedura di gara”; nello stesso senso, in motivazione, Cons. St., sez. VI, 17 luglio 2008, n. 3603, in loc. ult. cit. (15) In tal senso, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 30 dicembre 2005, n. 20719, in Foro amm. Tar, 2005, 12, 4060. 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 286 ne l’interruzione della fornitura, del servizio o dei lavori che formano l’oggetto del contratto revocando, ad esempio per la difficoltà di trovare un nuovo contraente o in ragione dell’avanzato stato di esecuzione dei lavori( 16). Ne deriva che, come detto, la motivazione dovrà essere ampia a supporto di dette circostanze, diversamente dall’opposto caso in cui, in assenza di queste ultime, non vi siano ragioni per vanificare la portata dell’informazione interdittiva. In quest’ultimo caso, invero, a giustificare l’adozione del provvedimento è sufficiente il rinvio alla stessa. Il fondamento normativo di tale eccezionale potere è generalmente rinvenuto dalla giurisprudenza nel disposto di cui all’art. 11, comma 3, d.P.R. n. 252/98, il quale prevede il potere di non revocare l’appalto, sebbene il collegamento dell’impresa con organizzazioni malavitose sia stato accertato, al fine di tutelare l’interesse pubblico. In ogni caso, rispetto all’eventualità di proseguire comunque un rapporto con un’impresa sospettata di essere soggetta ad infiltrazioni mafiose, risulta senz’altro prevalente, come corollario del fondamentale principio di imparzialità e buona amministrazione, l’opposta esigenza di salvaguardare l’ordine e la sicurezza pubblica, nonché di serbare un atteggiamento di favore per quelle imprese che operano sul mercato in condizioni di assoluta trasparenza. Il che impone di circoscrivere l’esercizio di tale facoltà alle suindicate eccezionali ipotesi individuate dalla giurisprudenza (17). IL CONTENZIOSO NAZIONALE 287 (16) In questi termini, C.G.A., 28 dicembre 2006, n. 873, in www.lexitalia.it; Cons. St., sez. V, 27 giugno 2006, n. 4135, in Foro amm. CdS, 2006, 6, 1819; Cons. St., sez. VI, 30 dicembre 2005, n. 7619, ivi, 2005, 12, 3727; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 4 maggio 2007, n. 4730, in www.neldiritto.it; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 29 gennaio 2004, n. 919, in www.giustizia-amministrativa.it. (17) In proposito, si veda T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 13 giugno 2005, n. 7811, in Foro amm. Tar, 2005, 6, 2110, ove si sottolinea che il potere riconosciuto in capo alla stazione appaltante di decidere di proseguire il rapporto con un’impresa sospettata di essere soggetta ad infiltrazioni mafiose è legittimamente esercitabile solo nell’eventualità, debitamente dimostrata, di gravi ragioni di interesse pubblico che impediscano la cessazione del contratto e che legittimino, per l’esistenza di obiettive circostanze di fatto, il sacrificio di un interesse pubblico fondamentale, quale quello tutelato dalla disciplina antimafia, alla salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica; nello stesso senso, da ultimo, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 17 novembre 2008, n. 19674, in www.giustamm.it, ha evidenziato come il potere discrezionale riconosciuto alla stazione appaltante in presenza di informative antimafia - con particolare riguardo alle fattispecie tipiche di natura successiva ed a quelle supplementari atipiche - sia estremamente ridotto, trattandosi di un potere esercitabile solo in presenza di situazioni che, pur sussistendo controindicazioni antimafia, inducano comunque ad instaurare o proseguire il rapporto contrattuale o concessorio; le ragioni di tale orientamento - precisa il Collegio - muovono proprio dalla natura dell’accertamento antimafia e dall’esigenza di tutelare in via preferenziale, anche tramite l’operatività di meccanismi di tipo indiziario, la trasparenza e l’immunità del settore dei pubblici appalti da fenomeni invasivi, anche interposti, da parte della criminalità organizzata. A fungere da contraltare a tale rigido meccanismo inibitorio v’è la facoltà - posta anche a tutela dell’impresa, ma comunque pur sempre nell’ottica del perseguimento del pubblico interesse - di non inibire il vincolo esistente, e ciò a presidio di interessi contingenti che inducono a ritenere la prevalenza di questo sulle esigenze di tutela antimafia; è in tal senso che s’impone all’Amministrazione di 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 287 Il potere di accertamento delle cause interdittive è demandato, in via esclusiva, alla Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo(18), la cui attività amministrativa è vincolata sia in ordine all’adozione dell’atto che in merito all’accertamento dei presupposti in presenza di cause interdittive specificamente previste dalla legge (indicate nell’allegato 1 al D.Lgs. 490/1994), mentre è, comunque, vincolata nell’adozione dell’atto, ma è discrezionale nella valutazione dei presupposti, quando la causa interdittiva consiste nella presenza di tentativi di infiltrazione mafiosa desunti da provvedimenti o proposte di provvedimenti ai sensi dell’art. 10, comma 7, lett. a) e b), ovvero dagli accertamenti prefettizi effettuati ai sensi dell’art. 10, comma 7, lett. c), d.P.R. n. 252/1998. 288 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 giustificare una scelta siffatta, che, andando in direzione opposta ad esigenze che il legislatore ha voluto tutelare nella massima forma di anticipazione compatibile con i valori costituzionali di riferimento, si caratterizza per la sua natura eccezionale, richiedendo all’uopo una puntuale motivazione, laddove, invece, nella logica di un suo ordinario sviluppo, l’azione amministrativa imporrebbe l’adozione della misura inibitoria. (18) In ordine alla competenza territoriale dell’Autorità prefettizia, si veda, in particolare, T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 4 aprile 2008, n. 493, in www.giustizia-amministrativa. it, ove il Collegio afferma che “È illegittima la risoluzione del contratto d’appalto fondata su una informativa antimafia adottata da un Prefetto diverso da quello della provincia in cui ha sede la società interessata dalla nota prefettizia”; in senso conforme, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 13 giugno 2006, n. 6940, in D&G - Dir. e giust., 2006, f. 30, 81, con nota di FILIPPETTI, Asl e contratti: così si vigila contro i clan; Cons. St., sez. VI, 11 settembre 2001, n. 4724, in Foro it., 2002, III, 290, con nota di CIMINI, cit.; in particolare, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 14 luglio 2006, n. 7506, in Foro amm. Tar, 2006, 7-8, 2583, ha avuto modo di chiarire che “nell’individuare la competenza del Prefetto del luogo ove l’impresa, l’associazione, la società o il consorzio hanno la sede, devono intendersi per tale la sede principale e quella secondaria risultanti dai registri (registro delle persone giuridiche; registro delle imprese) ovvero anche la sede effettiva, se diversa da quelle; cosicché la competenza del Prefetto è radicata non solo dal criterio del luogo formalmente indicato quale sede dell’impresa, associazione, società o consorzio, ma anche dal dato sostanziale, ancorché in ipotesi divergente, del luogo dove quel soggetto ha la sede reale, vale a dire il centro dell’attività direttiva ed amministrativa, purché di tale circostanza sia data congrua dimostrazione”; nello stesso senso, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 17 novembre 2008, n. 19674, in www.giustamm.it e in www.altalex.it. con nota di FILIPPETTI, ove il Collegio ha osservato che “per quanto quello della sede dell’impresa (previsto dall’art. 10, quinto comma del d.P.R. 3 giugno 1998 n. 252), costituisca il criterio generale di competenza in materia di rilascio di informative antimafia, l’art. 12 del medesimo decreto, in tema di lavori pubblici, prevede, al quarto comma che «il Prefetto della provincia interessata all’esecuzione delle opere e dei lavori pubblici di cui all’art. 4, comma 1, lettera a) del D.Lgs. n. 490/94, è tempestivamente informato dalla stazione appaltante della pubblicazione del bando di gara e svolge gli accertamenti preliminari sulle imprese locali per le quali il rischio di tentativi di infiltrazione mafiosa, nel caso di partecipazione ai lavori, è ritenuto maggiore. L’accertamento di una delle situazioni indicate dall’art. 10, comma settimo, comporta il divieto dell’appalto o della concessione dell’opera pubblica, nonché del subappalto, degli altri subcontratti, delle cessioni o dei cottimi, comunque denominati, indipendentemente dal valore delle opere o dei lavori». Si tratta, quindi, di una norma speciale che aggiunge, senza tuttavia sostituirlo, al criterio generale di competenza territoriale per sede, quello, altrettanto territoriale, del luogo di svolgimento dei lavori”. 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 288 Notevole interesse ha, in particolare, suscitato – in dottrina come in giurisprudenza – l’informativa afferente tentativi di infiltrazione desunti ai sensi della lett. c), comma 7, dell’art. 10 cit., il quale prevede che le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa sono desunte (anche) “dagli accertamenti disposti dal Prefetto anche avvalendosi dei poteri di accesso e di accertamento delegati dal Ministero dell’Interno, ovvero richiesti ai prefetti competenti per quelli da effettuarsi in altra provincia”. Quest’ultima disposizione attribuisce al Prefetto un potere generale di investigazione non tipizzato che si aggiunge alle fonti tipiche previste nelle prime due fattispecie (lettere a) e b) del comma 7, cit.). A conferma di ciò si pone, peraltro, la disposizione di cui al successivo comma 8 dell’art. 10, il quale prevede che gli accertamenti prefettizi possono essere compiuti dall’Autorità prefettizia competente anche nei confronti di soggetti residenti nel territorio dello Stato e diversi dall’interessato, che risultano poter determinare in qualche modo le scelte o gli indirizzi dell’impresa. Secondo consolidato indirizzo giurisprudenziale, quando i tentativi di infiltrazione sono desunti ai sensi della lett. c), la discrezionalità dell’Autorità prefettizia è di latitudine maggiore rispetto ai riscontri effettuati ai sensi della lett. a) e b), comma 7, art. 10 cit. Si tratta di un’informativa antimafia tipica che ha ad oggetto tentativi di ingerenza mafiosa desunti sulla base di fatti e circostanze non preventivamente individuabili nella loro tipicità. L’ipotesi delle informative prefettizie di cui all’art. 10, comma 7, lett. c) d.P.R. n. 252/98 è stata, infatti, introdotta dal legislatore proprio allo scopo di prevenire possibili tentativi di infiltrazione mafiosa anche in quelle situazioni in cui non sussistano ancora, o non sussistano più, provvedimenti significativi (di condanna, cautelari o di prevenzione) del tipo di quelli contemplati alle lett. a) e b) del comma 7 citato, a carico degli organi o dei soggetti indicati nell’art. 2, d.P.R. n. 252/1998(19). In tal modo, il legislatore ha attribuito all’Amministrazione prefettizia un ruolo di massima anticipazione dell’azione di prevenzione, inerente alla funzione di polizia e di sicurezza, rispetto a cui assumono rilievo, per legge, fatti e vicende solo sintomatici e indiziari del pericolo di infiltrazione mafiosa, in ragione della preminente esigenza di tutelare, anche nella fase istruttoria, l’interesse generale all’ordine ed alla sicurezza pubblica, con particolare riguardo al settore dei contratti tra mondo imprenditoriale e Pubblica Amministrazione(20). Invero, il concetto di “tentativo di infiltrazione mafiosa”, in quanto di matrice sociologica e non giuridica, si presenta estremamente sfumato e differenziato rispetto all’accertamento operato dal giudice penale, “signore del fatto”. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 289 (19) Cfr., in proposito, T.A.R. Lazio, Roma, sez. I-ter, 1 febbraio 2005, n. 854, in Appalti Urbanistica Edilizia, 2006, 5, 274. (20) Così, T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 22 febbraio 2003, n. 1171, in www.giustizia- amministrativa.it; Cons. St., sez. VI, 11 settembre 2001, n. 4724, cit.; da ultimo, Cons. St., sez. V, 27 maggio 2008, n. 2512 e T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 1 luglio 2008, 6348, entrambe in www.lexitalia.it, nonché - con diffusa motivazione - T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II, 12 febbraio 2007, n. 38, in www.neldiritto.it, con annotazione; in dottrina, per tutti, CACACE, op. cit. 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 289 Da tale enunciazione normativa si desume che il tentativo può corrispondere a una forma di penetrazione criminale che non presuppone necessariamente che soggetti con pregiudizi penali o di prevenzione con connotazione mafiosa siano assurti a cariche sociali di vertice o direttive, abbiano, cioè, assunto il diretto controllo della compagine societaria, ma che nei confronti di una società vengano poste in essere ab externo pressioni influenti, tali da determinarne un effettivo condizionamento. Attraverso la previsione del tentativo di infiltrazione l’ordinamento si contrappone insomma al fatto che l’impresa possa essere divenuta strumentale rispetto ad interessi di consorterie criminali locali, obiettivamente agevolandone il raggiungimento degli scopi illeciti per il fatto di essere entrate nella loro orbita di influenza. La figura sintomatica di tale situazione di pericolo è per eccellenza quella rappresentata dalla presenza di un socio occulto o socio di fatto. Nell’esperienza giurisprudenziale, tuttavia, non sono mancate esemplificazioni concrete che ravvisano la sussistenza del tentativo di infiltrazione anche in altre ipotesi e perfino nel caso in cui l’impresa sia stata vittima di delitti da parte di un’organizzazione criminale, ad esempio subendone la pressione estorsiva fino al punto di essere costretta a conformarsi ai voleri del clan che ne ha il controllo, avendo, dunque, perduto, ovvero risultando fortemente compromessa, la sua capacità di autodeterminazione. In queste ipotesi è stata elaborata la figura sintomatica della contiguità soggiacente, che, sebbene ontologicamente distinguibile da quella, più grave, consistente nella volontaria sottomissione, indicata come contiguità compiacente, non è meno rilevante dal punto di vista degli speciali accertamenti del Prefetto, che può appunto concludersi con l’adozione di un’informazione interdittiva tipica. Sovente, infatti, la sussistenza del tentativo di infiltrazione prescinde dall’accertamento della sua genesi, risolvendosi nel mero riscontro del fatto che l’impresa costituisca comunque uno strumento, anche per interposta persona, di ingerenza da parte di organizzazioni criminali in specifici rapporti con l’Amministrazione Pubblica. Sicché, in ragione del ruolo di “avanguardia” nella prevenzione di pericoli di inquinamento mafioso dell’economia nazionale attribuito allo strumento dell’informativa, come ritenuto dal T.A.R. del Lazio nella decisione in commento, l’emissione di una comunicazione prefettizia ostativa ai sensi del d.P.R. n. 252/98 prescinde dal concreto accertamento in sede penale di uno o più reati riconducibili ad una consorteria mafiosa da parte dell’impresa che intenda contrattare con la P.A., in quanto gli istituti de quibus si basano su un accertamento di grado inferiore e ben diverso da quello richiesto per l’applicazione della sanzione penale(21). 290 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 (21) Orientamento pacifico: si vedano, ex pluribus, Cons. St., sez. VI, 1 febbraio 2007, n. 413, in Foro amm. CdS, 2007, 2, 586; Cons. St., sez. VI, 7 novembre 2006, n. 6555, ivi, 2006, 11, 3081; Cons. St., sez. IV, 2 ottobre 2006, n. 5753, in www.lexitalia.it; Cons. St., sez. VI, 29 novembre 2005, ivi, 2005, 11, 3399; Cons. St., sez. IV, 4 maggio 2004, n. 2783, ivi, 2004, 1354; Cons. St., sez. IV, 23 marzo 2004, n. 1507, ivi, 2004, 790; Cons. St., sez. VI, 14 gennaio 2002, n. 149, in Appalti Urbanistica Edilizia, 2002, 232; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 22 febbraio 2003, n. 1171, in Foro amm. Tar, 2003, 701; Cons. St., sez. VI, 11 set- 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 290 È pacifico, infatti, che per l’adozione dell’informativa antimafia non occorre né la prova di fatti di reato, né la prova dell’effettiva infiltrazione mafiosa nell’impresa, né la prova del reale condizionamento delle scelte dell’impresa da parte di associazioni o soggetti mafiosi, essendo sufficiente il “tentativo di infiltrazione” avente lo scopo di condizionare le scelte dell’impresa, anche se ciò non si è in concreto realizzato(22). Tale scelta legislativa è coerente con le caratteristiche fattuali e sociologiche del fenomeno mafioso, che non necessariamente si concreta in fatti univocamente illeciti, potendo fermarsi alla soglia della intimidazione, della influenza e del condizionamento latente di attività economiche formalmente lecite( 23). Ne consegue, quale logico corollario, che la valutazione del Prefetto circa la sussistenza di situazioni di infiltrazione mafiosa (ai sensi dell’art. 4, comma 4, D.Lgs. n. 490/1994 e dell’art. 10, d.P.R. n. 252/1998) non richiede la piena prova dell’intervenuta infiltrazione, essendo questo un quid pluris non richiesto dalla norma, ma deve fondarsi su fatti e vicende aventi valore sintomatico e indiziario sufficienti a dare contezza dell’esistenza di elementi dai quali sia deducibile il tentativo di ingerenza mafiosa(24). In altri termini, l’informativa prefettizia dev’essere sufficientemente motivata, in modo tale da dimostrare la sussistenza di elementi dai quali possa dedursi, con ogni logica conseguenza, il tentativo di ingerenza della malavita nell’impresa. Tanto è vero – come ritenuto dal T.A.R. del Lazio nella decisione in esame – che il mancato raggiungimento della prova in sede penale non esclude un quadro indiziario significativo, rimesso al prudente apprezzamento dell’Autorità prefettizia(25). IL CONTENZIOSO NAZIONALE 291 tembre 2001, n. 4724; da ultimo, chiaramente: Cons. St., sez. VI, 19 agosto 2008, n. 3958, in www.lexitalia.it; Cons. St., sez. V, 27 maggio 2008, n. 2512, in Foro amm. CdS, 2008, 5, 1481; Cons. St., sez. VI, 29 febbraio 2008, n. 756, ivi, 2008, 2, 572. (22) Oltre a T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 9 luglio 2008, n. 6487, in commento, in questo senso: T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 1 luglio 2008, n. 6348, in www.lexitalia.it; Cons. St., sez. VI, 29 febbraio 2008, n. 756, cit., Cons. St., sez. V, 27 maggio 2008, n. 2512, cit.; Cons. St., sez. VI, 3 maggio 2007, 1948, in Foro amm. CdS, 2007, 5, 1548; Cons. St., sez. IV, 16 marzo 2004, n. 2783, cit.; T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II, 12 febbraio 2007, n. 38, cit.; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 22 febbraio 2003, n. 1171, cit.; Cons. St., sez. IV, 14 gennaio 2002, n. 149, cit.; Cons. St., sez. V, 24 ottobre 2000, n. 5710, cit. (23) Così, espressamente, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 28 febbraio 2007, n. 1278, in www.giustizia-amministrativa.it. (24) Si veda, tra le tante, Cons. St., sez. VI, 23 agosto 2006, n. 4737, in Foro amm. CdS, 2006, 7-8, 2269. (25) In tal senso, ex pluribus, Cons. St., sez. VI, 12 novembre 2008, n. 5665, in www.giustamm.it; T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 1 luglio 2008, 6348, cit.; Cons. St., sez. VI, 19 agosto 2008, n. 3958, in www.lexitalia.it; Cons. St., sez. V, 27 maggio 2008, n. 2512, cit.; Cons. St., sez. VI, 1 febbraio 2007, n. 413, cit.; Cons. St., sez. IV, 2 ottobre 2006, n. 5753, in www.lexitalia.it; Cons. St., sez. IV, 30 maggio 2005, n. 2796, loc. ult. cit.; Cons. St., sez. IV, 23 marzo 2004, n. 1507, cit.; T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II, 12 febbraio 2007, n. 38, cit.; si veda, altresì, T.A.R. Lazio, Roma, sez. III-ter, 21 aprile 2008, n. 3332, in Urb. e app., 2008, 782 ss., secondo cui “I fatti oggetto di un processo penale, anche in caso di proscioglimento, non perdono la loro idoneità a fungere da validi elementi di sostegno per un’informativa antimafia sfavorevole. Infatti, gli elementi che denotano il pericolo di collegamen- 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 291 In particolare, riguardo alla sussistenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società interessate, la valutazione rimessa all’autorità prefettizia è connotata dall’utilizzo di peculiari cognizioni di tecnica investigativa e poliziesca, tanto da definirsi tipico esercizio di discrezionalità tecnica, trattandosi di fare applicazione di regole tecniche e di indagine secondo competenza e correttezza, che esitano in un atto preordinato ad attribuire certezza legale a determinati fatti(26). Proprio in quanto la valutazione prefettizia costituisce espressione di discrezionalità tecnica, si esclude la possibilità per il giudice amministrativo di svolgere un sindacato pieno e assoluto, non essendo, comunque, impedito all’autorità giudiziaria di formulare un giudizio di logicità e congruità delle informazioni assunte e di poter eventualmente rilevare se ictu oculi i fatti riferiti dal Prefetto configurino o meno la fattispecie prevista dalla norma(27). In senso riduttivo dello spettro del sindacato giurisdizionale, in talune occasioni la giurisprudenza, allo scopo di tutelare da qualsiasi sospetto di infiltrazioni mafiose l’attività della pubblica amministrazione, ha precisato che rimane estraneo a tale ambito l’accertamento della sussistenza dei fatti assunti a base del provvedimento(28). Tale tesi, tuttavia, oltre a destare fondati dubbi di costituzionalità, costituendo una siffatta impossibilità di accesso al fatto un irragionevole vulnus al diritto di difesa per il privato, che rimane sprovvisto di qualsiasi garanzia di giustiziabilità dell’operato prefettizio in ordine alla stessa correttezza ed esattezza in fatto degli accertamenti disposti a suo carico dell’amministrazione, si pone in contrasto con il principio, ormai acquisito e legislativamente canonizzato, per cui “la piena cognizione del fatto costituisce attributo proprio di ogni giudice (amministrativo): sia nella giurisdizione di legittimità, sia in quella esclusiva”(29). 292 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 to fra l’impresa e la criminalità organizzata, oggetto dell’informativa antimafia, hanno un mero valore sintomatico ed indiziario, non dovendo necessariamente assurgere a livello di prova, anche indiretta”; in quest’ultimo senso, si veda Cons. St., sez. IV, 29 aprile 2004, n. 2615, in Foro amm. CdS, 2004, 1110; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 18 maggio 2005, n. 6504, in Foro amm. Tar, 2005, 5, 1630. (26) Così, BOTTO, op. cit., il quale qualifica il potere prefettizio in termini di discrezionalità, in quanto tale sindacabile esteriormente sotto il profilo del rispetto dei canoni di logicità, coerenza, proporzionalità e ragionevolezza. (27) Cfr., in tal senso, T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 4 aprile 2002, n. 1861, in www.giustizia-amministrativa.it. (28) In tal senso, Cons. St., sez. VI, 11 settembre 2001, n. 4724, ove si precisa che “riguardo alla sussistenza dei presupposti di fatto assunti a base delle determinazioni, nonché della loro valutazione ai fini del giudizio sfavorevole formulato, il sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell’informativa antimafia non si confonde con un giudizio di accertamento della sussistenza dei fatti - anche di rilievo penale - assunti a base del provvedimento”. (29) In questi termini, POLICE, Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo. Contributo alla teoria dell’azione nella giurisdizione esclusiva, Padova, 2001, II, 16, il quale compiutamente dimostra come l’accertamento del fatto, o dei fatti controversi, 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 292 In ogni caso, è opinione consolidata che le valutazioni dell’autorità prefettizia rientrano in un ambito di alta discrezionalità (tecnica e non amministrativa) ed, in quanto tali, non assoggettabili a sindacato giurisdizionale, se non quando appaiono viziate da manifesta illogicità ed irragionevolezza(30). Sul fronte della motivazione della informativa, la giurisprudenza ha chiarito che, al fine di salvaguardare i principi di legalità e di certezza del diritto ed evitare il travalicamento in uno “stato di polizia”, non possono reputarsi sufficienti fattispecie fondate sul semplice sospetto o su mere congetture prive di riscontro fattuale, occorrendo altresì l’individuazione di idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o collegamenti con le associazioni mafiose. In buona sostanza, il tentativo di infiltrazione – di per sé solo sufficiente a giustificare la misura interdittiva – non può essere desunto dalla sola verifica di attendibilità di un singolo elemento di fatto pervenuto dalle fonti di informazione, ma deve, al contrario, desumersi dal quadro complessivo degli elementi segnalati e va valutato in una visione globale ed unitaria nella situazione del caso concreto( 31). Nell’ambito di tale sindacato, la verifica in ordine alla logicità e all’esatta percezione dei fatti posti a base della determinazione amministrativa dev’essere, quindi, compiuta in modo complessivo e non frammentario ed atomistico, tantoché la valutazione prefettizia deve apparire come il logico risultato sintetico di un esame globale di tutti gli accertamenti compiuti(32). La motivazione dell’informativa prefettizia deve, dunque, essere esternata con rigore logico alla luce di specifici elementi indiziari esitati dall’istruttoria compiuta, onde fugare ogni dubbio di ragionevolezza e di logicità dell’azione amministrativa(33), sebbene la giurisprudenza non escluda la legit- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 293 costituisce punto centrale nella dinamica del giudizio di giurisdizione piena, ciò anche in conseguenza dell’ampliamento dei mezzi di prova ammissibili ex art. 44, T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato di al R.d. 26 giugno 1924, n. 1054 e, dunque, a seguito dell’estensione dei poteri istruttori e decisori del giudice amministrativo. (30) Ex pluribus, Cons. St., sez. IV, 4 maggio 2004, n. 2783, in Foro amm. CdS, 2004, 1354; Cons. St., sez. VI, 5 giugno 2006, n. 3337, ivi, 2006, 6, 1861; Cons. St., sez. V, 27 giugno 2006, n. 4135, ivi, 2006, 6, 1819; Cons. St., sez. VI, 7 novembre 2006, n. 6555, ivi, 2006, 11; Cons. St., sez. VI, 1 febbraio 2007, n. 413, ivi, 2007, 2, 586; Cons. St., sez. VI, 7 marzo 2007, n. 1056, ivi, 2007, 3, 379; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 10 luglio 2003, n. 8138 e 12 giugno 2002, n. 3403, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.; da ultimo, Cons. St., sez. V, 27 maggio 2008, n. 2512 e Cons. St., sez. VI, 19 agosto 2008, n. 3958, entrambe in www.lexitalia.it. (31) Così Cons. St., sez. V, 27 maggio 2008, n. 2512, cit.; Cons. St., sez. VI, 6 maggio 2008, n. 2014, in Urb. e app., 2008, 8, 981 s., con nota di SARTORIO, Il sindacato del g.a. sulla informativa antimafia atipica nei pubblici appalti; T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 1 luglio 2008, n. 6348, cit.; Cons. St., sez. V, 3 maggio 2007, 1948, cit.; Cons. St., sez. IV, 16 marzo 2004, n. 2783, cit.; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 22 febbraio 2003, n. 1171, cit.; Cons. St., sez. IV, 14 gennaio 2002, n. 149; Cons. St., sez. V, 24 ottobre 2000, n. 5710, cit. (32) In questo senso, ex multis, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 13 giugno 2005, n. 7811, in Foro amm. Tar, 2005, 6, 2110. (33) Si veda, a tal proposito, Cons. St., sez. VI, 9 settembre 2008, n. 4306, in www.lexitalia. it, secondo cui “Anche se è vero infatti che il giudizio penale, anche quando nettamen- 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 293 timità di un’informazione prefettizia che richiami genericamente gli atti di indagine e, più in generale, l’attività istruttoria disposta dalla Prefettura(34), la quale – come si dirà – è sottratta all’accesso e che, dunque, transita nella piena disponibilità del privato solo a seguito della instaurazione del giudizio amministrativo. La valutazione prefettizia consiste, in particolare, in un giudizio che, prendendo le mosse dalla specificità degli eventi accertati ed evidenziati, pervenga logicamente a dimostrare il nesso tra quei fatti sintomatici e l’esistenza (o anche il mero pericolo) del condizionamento mafioso. L’informativa, quindi, deve fondarsi su di un quadro fattuale di elementi che, pur non dovendo assurgere necessariamente a livello di prova (anche indiretta), siano tali da far ritenere ragionevolmente, secondo l’id quod plerumque accidit, l’esistenza di elementi (anche non penalmente rilevanti) che sconsigliano l’instaurazione di un rapporto con la pubblica amministrazione (ovvero la sua prosecuzione)( 35), denotando, nel loro insieme, una oggettiva esposizione dell’impresa a tentativi di condizionamento mafioso. Sulla base di tali premesse, la giurisprudenza ha chiarito che il rapporto di parentela, seppur significativo (come quello tra padre e figlio), non è di per sé solo idoneo a dare conto (automaticamente) del tentativo di infiltrazione, ma deve essere supportato da ulteriori specifici elementi atti a riscontrare la presunta infiltrazione(36). Infatti, nel verificare se la sussistenza di un rap- 294 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 te formulato in senso contrario, non esclude che l’Amministrazione possa individuare elementi di sospetto a carico dell’interessato, l’Amministrazione stessa ha in ogni caso il dovere - essendo il giudice penale signore del fatto - di motivare con il massimo rigore la sua valutazione sul pericolo di condizionamento mafioso”. In dottrina, sul punto, si veda SARTORIO, Il sindacato del g.a. sulla informativa antimafia atipica nei pubblici appalti, cit. (34) In tal senso, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 30 maggio 2000, n. 1700, in Urb. e app., 2000, 10, 1137; Cons. St., sez. VI, 11 settembre 2001, n. 4724, cit.; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 29 gennaio 2004, n. 919 e 25 marzo 2004, nn. 3218 e 3219, in www.giustiziaamministrativa. it; T.A.R. Lazio, Roma, sez. I-ter, 1 febbraio 2005, n. 854, ivi; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 24 marzo 2005, n. 2478, ivi; Cons. St., sez. VI, 17 maggio 2006, n. 2882, cit.; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 10 luglio 2006, n. 7386, in Foro amm. Tar, 2006, 7-8, 2606; da ultimo, con riferimento ad un’istanza di aggiornamento delle informative formulata ai sensi dell’art. 10, comma 8, seconda alinea, d.P.R. n. 252/98, T.A.R. Lazio, Roma, sez. I-ter, 4 settembre 2008, n. 8050, in www.giustizia-amministrativa.it. (35) Cfr., Cons. St., sez. VI, 29 febbraio 2008, n. 756, cit. (36) In merito alle informative inerenti tentativi di infiltrazione mafiosa desunti dall’elemento parentale, si veda, oltre alla decisione in commento, Cons. St., sez. VI, 12 novembre 2008, n. 5665, cit.; Cons. St., sez. VI, 19 agosto 2008, n. 3958, cit., ove si precisa che “è legittima una informativa antimafia, secondo la quale sussistono tentativi di infiltrazione della criminalità organizzata, motivata facendo riferimento: 1) al fatto che il titolare dell’impresa risulta “gravitare nell’ambito di influenza di nota cosca mafiosa”, essendo stato deferito all’Autorità Giudiziaria per “estorsione, danneggiamento, violazione della legge sulle armi, associazione mafiosa ed altro”, a nulla rilevando che con sentenza del Tribunale - ufficio del Giudice per le indagini preliminari - sia stato prosciolto; 2) agli stretti rapporti di parentela (nella specie il riferimento era al padre ed al cognato), atteso che spesso nel settore in questione - secondo dati di comune esperienza - esistono veri e propri sodalizi 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 294 porto di parentela con associati mafiosi possa costituire giustificazione esclusiva o prevalente dell’informativa prefettizia di cui all’art. 4, D.Lgs. 490/94, occorre considerare che, sebbene valga la massima d’esperienza secondo cui detto vincolo di sangue espone il soggetto all’influsso dell’organizzazione, l’attendibilità dell’inferenza dipende, altresì, da una serie di circostanze che qualificano il rapporto di parentela, quali, in particolare, l’intensità del vincolo ed il contesto in cui si inserisce(37). 4.- L’informativa c.d. atipica. Accanto alle due sopra menzionate tipologie di informative tipiche, aventi effetti immediatamente preclusivi, la prassi amministrativa, sostenuta da una giurisprudenza estremamente attenta alle ragioni della prevenzione di infiltrazioni di tipo mafioso, ammette un terzo tipo di informativa prefettizia rivolta alla pubblica amministrazione: la informativa c.d. atipica o supplementare (od aggiuntiva). Come accennato, tale tipo di informativa è fondato sull’accertamento di elementi che, pur denotanti il pericolo di collegamenti tra l’impresa e la criminalità mafiosa, non raggiungono la soglia di gravità prevista dal citato art. 4, comma 4, D.Lgs. n. 490/1994, sia perché privi di alcuni requisiti soggettivi od oggettivi pertinenti alle cause di divieto o sospensione, sia perché non integranti appieno il tentativo di infiltrazione, che rinviene il suo fondamento nel principio generale di collaborazione tra pubbliche amministrazioni. Si tratta, com’è evidente, di una tipologia di informativa prefettizia accomunata a quella di cui alla lett. c), comma 7, dell’art. 10, d.P.R. n. 252/98 sotto il profilo della natura non ricognitiva delle fonti da cui desumere la sussistenza (ovvero il mero pericolo) di condizionamenti mafiosi, non preventivamente individuabili nella loro tipicità, rispetto alla quale costituisce, tuttavia, un minor sul versante degli effetti, non riconnettendosi a questo tipo di informativa un effetto automaticamente impeditivo, rimanendo la stazione appaltante arbitra di procedere alla sottoscrizione del contratto o meno, pur con adegua- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 295 familiari, tali da rendere non irrilevante - sul piano presuntivo - tali circostanze”; Cons. St., sez. VI, 2 maggio 2007, n. 1916, in www.neldiritto.it, ove si è affermato che: “L’informativa prefettizia antimafia non può trarre valida giustificazione dal solo riferimento ai rapporti di parentela intercorrenti tra amministratori della società aggiudicataria dell’appalto e criminalità, qualora tale circostanza non risulti suffragata da riscontri oggettivi che comprovino l’esistenza in concreto di comportamenti e situazioni dai quali possa desumersi il condizionamento mafioso”; Cons. St., sez. VI, 7 marzo 2007, n. 1056, in www.lexitalia.it, secondo cui: “È illegittima una informativa prefettizia antimafia di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 490/1994 che, al fine di provare il tentativo di infiltrazione mafiosa nell’impresa, faccia riferimento alla circostanza che il titolare della impresa è imparentato (tramite la moglie) con esponenti della camorra; tale circostanza, infatti, non può essere di per sé prova sufficiente di infiltrazione mafiosa nella gestione dell’impresa ove al dato anagrafico non si accompagni una acclarata frequentazione e comunanza di interessi con ambienti della criminalità organizzata”. (37) Cons. St., sez. VI, 12 novembre 2008, n. 5665, cit. 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 295 ta ed idonea motivazione (con evidenti rischi di comportamenti contradditori o, comunque, non omogenei, da parte delle varie stazioni appaltanti)(38). Il profilo più problematico concernente le informazioni atipiche attiene alla fragilità degli elementi che sono in genere rimessi al vaglio delle Amministrazioni, nel senso che essi appaiono talora incerti, inconcludenti, riferiti a circostanze accadute in tempi troppo lontani dal rilascio dell’informativa e, per giunta, non attualizzati. In alcuni casi sono stati rassegnati elementi inconferenti, in quanto riferiti a vicende estranee o marginali rispetto al rischio di infiltrazione mafiosa, ancorché venute ad interessare la giustizia penale. Viene, inoltre, imputata a siffatta tipologia di informative una ontologica debolezza, che si appunta nella circostanza di rimettere alla stazione appaltante decisioni delicate ed impegnative sulle quali la stessa Autorità di pubblica sicurezza ha dovuto, in fondo, glissare, in mancanza di una certa significatività degli elementi (si suppone che, altrimenti, avrebbe potuto emettere un’informazione interdittiva, e dunque tipica)(39). La giurisprudenza ha tentato di sciogliere tali nodi problematici, facendosi carico di enucleare gli indici sintomatici di concludenza delle informative atipiche, al fine di presidiare nella giusta misura la garanzia di difesa giurisdizionale delle imprese a fronte di uno strumento così potente, poiché in grado di estromettere in via tendenzialmente definitiva l’impresa dal dialogo con l’amministrazione; profilo, quest’ultimo, che impone una interpretazione della normativa in esame improntata a necessaria cautela, con riguardo all’accertamento dei tentativi di infiltrazione mafiosa(40), anche allo scopo di non esporre l’amministrazione a fondate pretese risarcitorie da parte dell’impresa illegittimamente interdetta(41). 296 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 (38) Cons. St., sez. VI, 16 aprile 2003, n. 1979, cit., ove si rimarca l’estrema labilità del confine tra l’informativa tipica, che accerta il tentativo di infiltrazione mafiosa, e l’informativa atipica o di tertium genus. (39) Estremamente critico in ordine alla legittimità delle informative prefettizie atipiche è BOTTO, op. cit., il quale evidenzia che tale figura non può trovare alcuno spazio, oltreché per ragioni d’interpretazione letterale, anche e soprattutto per la totale mancanza di alcun aggancio al principio di tipicità. (40) In questo senso, Cons. St., sez. V, 27 giugno 2006, n. 4135, in Foro amm. CdS, 2006, 6, 1819; Cons. St., sez. IV, 4 maggio 2004, n. 2783, cit.; più di recente, Cons. St., sez. VI, 7 marzo 2007, n. 1056, cit.; Cons. St., sez. V, 31 maggio 2007, n. 2828, in Foro amm. CdS, 2007, 5, 1532. (41) In proposito, Cons. St., sez. V, 12 febbraio 2008, n. 491, cit., ove il Collegio ha ritenuto che, in sede di risarcimento dei danni derivanti dall’illegittima risoluzione di un contratto di appalto, disposta a seguito di una informativa antimafia riguardante una società, va liquidato, a prescindere dalla esecuzione in forma specifica, oltre che al danno per lucro cessante a titolo di perdita di chance, anche il c.d. danno esistenziale (nella fattispecie, il diritto al risarcimento per lesione all’immagine è stato ritenuto sussistente, sia facendo riferimento all’informativa antimafia atipica, la quale risultava irragionevolmente adottata senza alcun riferimento alle opposte valutazioni provenienti dalla sede penale, sia facendo riferimento alla revoca dell’appalto, che su quell’informativa si era “appiattita”); Cons. St., sez. V, 28 marzo 2008, n. 1310, in www.lexitalia.it., ove il Collegio ha ritenuto legittima la condanna al risarcimento dei danni della Stazione appaltante, in solido con la Prefettura, nel caso in cui 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 296 In particolare, l’elaborazione giurisprudenziale ha chiarito che una tale situazione, cui non consegue – come detto – un effetto legale di divieto a contrarre, può ravvisarsi allorquando difettano alcuni dei requisiti oggettivi e soggettivi dei provvedimenti che costituiscono ex se cause di interdizione dalla contrattazione ovvero quanto non sussistano gli estremi dei tentativi di infiltrazione. L’assenza dei predetti elementi specifici non esclude la rilevanza di altri elementi pur idonei a denotare l’infiltrazione mafiosa, ma valutabili, per la loro aspecificità, discrezionalmente dall’Amministrazione in ossequio alle generali esigenze di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa(42). In ogni caso, in sede di emissione di informativa antimafia atipica, se non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, non possono tuttavia ritenersi sufficienti fattispecie fondate sul semplice sospetto o su mere congetture prive di riscontro fattuale, essendo pur sempre richiesta l’indicazione di circostanze obiettivamente sintomatiche di connessioni o collegamenti con le predette associazioni. Il parametro valutativo, quindi, non è quello della “certezza”, ma quello della “qualificata probabilità”(43). La comunicazione, pertanto, non produce il divieto automatico di contrarre (né la revoca del provvedimento ed il recesso dal contratto, ai sensi del comma 6 dell’art. 10, d.P.R. 252/98), ma si limita a fornire all’amministrazione interessata elementi utili per l’esercizio di ogni eventuale potere discrezionale, in particolare in vista del successivo ritiro del contratto da parte della stazione appaltante, ai sensi dell’art. 113, R.d. 23 maggio 1924, n. 827, che regola un potere discrezionale affatto estraneo al novero delle cause automaticamente preclusive dell’aggiudicazione di un appalto(44). Questo potere, secondo parte della dottrina(45), trova fondamento normativo nell’art. 10, comma 9, d.P.R. n. 252/1998, che richiama l’art. 1-septies, d.l. 6 settembre 1982, n. 629, convertito in legge, con modificazioni, con l’art. 1, legge 12 ottobre 1982, n. 726, successivamente integrato dalla legge 15 novembre 1988, n. 486, ai sensi del quale l’Alto commissario antimafia (le cui competenze, come accennato, sono state nelle more devolute ai Prefetti) può comunicare alle autorità competenti al rilascio di licenze, autorizzazioni, concessioni in materia di armi ed esplosivi e per lo svolgimento di attività economiche elementi di fatto ed altre indicazioni utili alla valutazione, nell’ambito della discrezionalità ammessa dalla legge, dei requisiti IL CONTENZIOSO NAZIONALE 297 sia stato illegittimamente interrotta la prosecuzione di un appalto sulla base di una informativa antimafia atipica, in relazione alla quale la decisione di interrompere la prosecuzione dell’appalto in essere va ascritta anche alla volontà della Stazione appaltante. (42) In proposito, da ultimo, Cons. St., sez. VI, 6 maggio 2008, n. 2014, cit. (43) Così, Cons. St., sez. VI, 25 novembre 2008, n. 5780, in www.lexitalia.it. (44) Cfr., in tal senso, Cons. St., sez. VI, 16 aprile 2003, n. 1979, cit.; Cons. St., sez. VI, 14 gennaio 2002, n. 149, cit.; Cons. St., sez. V, 24 ottobre 2000, n. 5710, cit. (45) BOTTO, op. cit. 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 297 soggettivi richiesti per il rilascio, il rinnovo, la sospensione o la revoca delle licenze, autorizzazioni e degli altri titoli menzionati(46). Ad ogni modo, occorre precisare che siffatto potere-dovere di informazione non può dirsi unicamente fondato sul citato art. 1-septies del d.l. 629 del 1982, dovendo ritenersi espressione di un principio generale, che prevede una collaborazione reciproca, con correlati obblighi di trasmissione di conoscenze, tra le diverse amministrazioni pubbliche: la collaborazione reciproca deve ispirare i rapporti tra lo Stato e gli enti locali e gli altri enti pubblici, soprattutto quando vengono in gioco informazioni collegate alla tutela della pubblica sicurezza e di preminenti interessi, come quelli incentrati nella prevenzione e repressione del crimine mafioso. L’applicazione dell’art. 1-septies cit. ai contratti ad evidenza pubblica rinviene poi un preciso elemento di riscontro nell’art. 113, R.d. n. 827/1924, ai sensi del quale “per gravi motivi di interesse pubblico o dello Stato, il ministro o l’autorità delegata per l’approvazione può negare l’approvazione ai contratti anche se riconosciuti regolari”(47). In sostanza, la c.d. informazione supplementare, pur se non preclude automaticamente ed inderogabilmente la stipula del contratto con l’aggiudicatario, consente all’amministrazione appaltante di attivare gli ordinari strumenti di discrezionalità nel valutare l’avvio o il prosieguo dei rapporti contrattuali alla luce dell’idoneità morale del partecipante alla gara di assumere la posizione di contraente con la p.a., fino a negare l’approvazione del contratto per ragioni di pubblico interesse desunte da quanto riferito dal Prefetto(48). Per questa ragione, l’informativa atipica non necessita di un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso e si basa su indizi ottenuti con l’ausilio di particolari indagini che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo perché riguardano la valutazione sull’idoneità morale del concorrente e non producono l’esclusione automatica dalla gara(49). È pacifico, dunque, che l’informativa c.d. atipica – sub 3) – ex art. 1-septies, d.l. n. 629/1982, ha un valore meramente endoprocedimentale, circoscritto all’amministrazione cui è indirizzata; per tale ragione, è un atto privo di autonoma efficacia lesiva, in quanto non comporta effetti preclusivi immediatamente incidenti nella sfera giuridica dell’impresa, essendo unicamente diretta a fornire all’amministrazione indicazioni utili alla valutazione, nell’ambito della discrezionalità e nell’esercizio dei poteri di autotutela previsti 298 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 (46) Cfr., in proposito, T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 12 gennaio 2001, n. 21, in www.giustizia-amministrativa.it. (47) Si veda, al riguardo, T.A.R. Lazio, sez. III, 6 giugno 1997, n. 1248, in T.A.R., 1997, I, 2280. (48) In questi termini, Cons. St., sez. VI, 25 novembre 2008, n. 5780, cit. (49) Cons. St., sez. VI, 25 novembre 2008, n. 5780, cit.; Cons. St., sez. V, 31 dicembre 2007, n. 6902, in Guida al diritto, 2008, 3, 97; Cons. St., sez. IV, 1 marzo 2001, n. 1148, in Giur. it., 2001, 1515. 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 298 dalla legge, dei requisiti soggettivi per l’adozione di determinazioni a vari fini, comprese quelle concernenti l’affidamento di lavori pubblici. Per cui ad essa è stato riconosciuto carattere di “atipicità”, proprio in quanto dall’adozione della misura non consegue alcun effetto interdittivo automatico, a differenza di quanto si verifica per le altre due misure “tipiche” di cui all’art 4, D.Lgs. n. 490/1994 ed anche in considerazione della molteplicità delle situazioni che possono dar luogo ad un giudizio negativo(50). Tale funzione meramente sollecitatoria dell’informativa atipica comporta che questa assume natura di mero atto interno di un subprocedimento che potrà eventualmente concludersi con un provvedimento finale della stazione appaltante di esclusione dalla gara dell’impresa cui si riferisce; ed è dunque solo a quest’ultimo provvedimento che deve aversi riguardo per l’individuazione tanto dell’interesse a ricorrere quanto dell’Amministrazione, destinataria della notifica del ricorso innanzi al giudice amministrativo(51). A fronte di un’informativa atipica, l’amministrazione destinataria dell’informativa rimane titolare di un potere discrezionale in merito alla valutazione delle informazioni ricevute ai fini della prosecuzione o meno del rapporto negoziale instaurato con la parte privata. Invero, l’amministrazione conserva una potestà discrezionale, tanto da dover autonomamente valutare le informazioni prefettizie ricevute senza recedere automaticamente dal contratto stipulato con la parte privata, con la conseguenza che i provvedimenti di mantenimento o di risoluzione del rapporto sono comunque il frutto di una scelta motivata dell’amministrazione contraente attraverso i suoi poteri ordinari( 52). Tuttavia, nella valutazione dell’informativa ricevuta, l’amministra- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 299 (50) Occorre, tuttavia, segnalare che in taluni casi la giurisprudenza ritiene che anche a fronte di un’informativa atipica la scelta dell’amministrazione sia “fortemente condizionata (anzi quasi determinata)”: in proposito, si veda Cons. St., sez. VI, 17 maggio 2006, n. 2882, in www.giustizia-amministrativa.it. (51) In proposito, si segnala T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 11 ottobre 2006, n. 9222, ove il Collegio ha chiaramente definito l’informazione antimafia supplementare come “mero atto interno di sub procedimento”, avente “funzione meramente notiziale” ed ha escluso anche la sussistenza di un autonomo interesse “di natura morale” a ricorrere contro la sola informativa prefettizia “atteso il carattere strettamente riservato dell’informativa prefettizia, cui si aggiunge la sua efficacia meramente informativa”; nello stesso senso, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 6 marzo 2006, n. 2618, in Foro amm. Tar, 2006, 3, 1044; Cons. St., sez. VI, 6 giugno 2003, n. 3163, in Riv. giur. edilizia, 2004, I, 313. (52) In tal senso, in aggiunta a T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 9 luglio 2008, n. 6487 in commento, si vedano, tra le più recenti, quanto alla giurisprudenza del Supremo Consesso di giustizia amministrativa, Cons. St., sez. V, 28 marzo 2008, n. 1310, in www.lexitalia.it; Cons. St., sez. V, 12 febbraio 2008, n. 491, loc. ult. cit.; Cons. St., sez. VI, 22 giugno 2007, n. 3484, loc. ult. cit.; Cons. St., sez. VI, 3 maggio 2007, n. 1948, cit.; da ultimo, Cons. St., sez. VI, 25 novembre 2008, n. 5780, cit.; nella giurisprudenza di primo grado, si veda T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 30 ottobre 2006, n. 9222, in www.giustamm.it, secondo cui l’informativa prefettizia atipica “è un atto che non ha autonoma efficacia lesiva, in quanto non comporta effetti preclusivi immediatamente incidenti nella sfera giuridica dell’impresa, ma è unicamente diretta a fornire all’amministrazione indicazioni utili alla valutazione, nell’ambito della discrezionalità e nell’esercizio dei poteri di autotutela previsti dalla legge, dei requisi- 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 299 zione destinataria non può apprezzare i fatti e le circostanze già assunti dall’Autorità prefettizia, ma deve valutare in via autonoma le condotte descritte nell’informativa atipica tanto da esternare e rendere chiaro l’iter logico-motivazionale che ha condotto al provvedimento di esclusione(53). 5.- Le garanzie procedimentali in materia di informative prefettizie antimafia. La giurisprudenza riconosce uno spazio alquanto ristretto alla partecipazione del privato in seno al procedimento culminante nell’informativa prefettizia antimafia; ciò è testimoniato dalle molteplici decisioni che escludono la necessità della comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7, legge n. 241/1990 nel caso di adozione di una informativa antimafia e del successivo provvedimento di revoca del contratto(54), in quanto trattasi di procedimento iniziato con la domanda dell’impresa di partecipazione alla gara. Invero, sembra più idoneo a supportare la tesi dell’esonero della fattispecie procedimentale all’esame dall’adempimento in questione il richiamo, compiuto da una parte della giurisprudenza, alle esigenze di celerità tipiche della informativa antimafia, che sono in re ipsa, con la conseguenza che è legittimamente esclusa la partecipazione del privato al procedimento amministrativo di cui si tratta (55). 300 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 ti soggettivi per l’adozione di determinazioni a vari fini, comprese quelle concernenti l’affidamento di lavori pubblici; all’istituto è stato riconosciuto carattere di “atipicità”, proprio in quanto dall’adozione della misura non consegue alcun effetto interdittivo automatico, a differenza di quanto si verifica per la misura “tipica” di cui all’art 4 del D.Lgs. 490/94. Tale funzione meramente notiziale dell’informativa atipica comporta che questa assume natura di mero atto interno di un subprocedimento che si conclude con un provvedimento finale di esclusione dalla gara dell’impresa cui si riferisce; ed è dunque solo a quest’ultimo provvedimento che deve aversi riguardo per l’individuazione dell’interesse a ricorrere”; conformi, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 6 marzo 2006, n. 2618 e T.A.R. Campania, Napoli, sez. VI, 6 giugno 2006, n. 3163, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it. (53) Cfr., Cons. St. sez. VI, 25 novembre 2008, n. 5780, cit. (54) Cfr., ex pluribus, Cons. St., sez. IV, 11 febbraio 1999, n. 150, in Cons. Stato, 1999, I, 255; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 30 maggio 2000, n. 1700, in Urb. e app., 2000, 1137; Cons. St., sez. VI, 11 settembre 2001, n. 4724, cit.; Cons. St., sez. VI, 14 gennaio 2002, n. 149, cit.; Cons. St., sez. V, 28 febbraio 2006, n. 851, in Foro amm. CdS, 2006, 2, 479; Cons. St., sez. VI, 5 giugno 2006, n. 3337, cit.; è rimasta isolata l’opinione espressa da Cons. St., sez. V, 24 ottobre 2000, n. 5710, cit., ove si è affermato che anche la revoca dell’aggiudicazione di un appalto di opere pubbliche per infiltrazioni mafiose dev’essere preceduta dall’avviso di avvio del procedimento ex art. 7 cit. In dottrina, per approfondimenti, si rinvia a CACACE, op. cit.; CIMINI, op. cit.; MUTTONI, op. cit. (55) Si veda, in tal senso, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 27 settembre 2004, n. 12586, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo cui l’adozione del provvedimento di revoca di una aggiudicazione o comunque di un incarico di svolgimento di pubblico servizio, in presenza di un’informativa prefettizia antimafia sfavorevole, configura un provvedimento non soltanto fortemente caratterizzato nel profilo contenutistico, ma anche connotato dall’urgenza del provvedere e coinnestato in un procedimento asseritamene finalizzato alla verifica dei presupposti per accedere alla contrattazione con gli enti pubblici, con la conseguenza che non è dovuto l’invio della comunicazione di avvio del procedimento nei confronti della 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 300 IL CONTENZIOSO NAZIONALE 301 L’obbligo della comunicazione di avvio del procedimento è escluso dalla giurisprudenza anche con riferimento al procedimento di aggiornamento delle informative di cui all’art. 10, comma 8, seconda alinea, d.P.R. n. 252/98, sul rilievo che nel caso di specie viene in considerazione un procedimento attivato non d’ufficio, ma su iniziativa di parte, con la conseguenza che è precluso alla parte istante lamentarsi della mancata comunicazione dell’avvio di un procedimento cui essa stessa, con la propria iniziativa, ha dato impulso (56). Del pari consolidata in giurisprudenza è l’affermazione secondo cui, in relazione alle informative antimafia, non sussiste l’obbligo di garantire (non solo la partecipazione, ma anche) la trasparenza, considerate, per un verso, le esigenze cautelari tipiche di questo procedimento e, per altro verso, le esigenze di segretezza degli accertamenti di polizia che in siffatto procedimento trovano collocazione (57). Tale tesi, quanto all’ostensibilità degli atti di indagini sui quali si fonda l’informativa, trova, peraltro, fondamento positivo nella previsione recata dall’art. 3, D.M. 10 maggio 1994, n. 415 (in Gazz. Uff., n. 150 del 29 giugno 1994 – recante il Regolamento per la disciplina delle categorie di documenti sottratti al diritto di accesso ai documenti amministrativi, in attuazione dell’art. 24, comma 4, della legge 7 agosto 1990, n. 241, recante nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), che, per motivi di riservatezza, sottrae all’accesso le verifiche antimafia. Pacifica è, dunque, la non ostensibilità delle risultanze istruttorie a monte dell’informativa, cui ha attinto l’Autorità prefettizia per pervenire al giudizio sfavorevole formulato a carico dell’impresa, essendo l’accesso escluso per tutte le parti della documentazione in possesso dell’Amministrazione coperte da segreto istruttorio, in quanto afferenti a indagini preliminari o procedimenti penali in corso, o in quanto coinvolgenti, a qualunque titolo, terzi soggetti interessati dalle informative di polizia di sicurezza; ovvero, ancora, società destinataria; nello stesso senso, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 8 aprile 2005, n. 3577, in Foro amm. Tar, 2005, 4, 1156 e, più di recente, Cons. St., sez. V, 28 febbraio 2006, n. 851, cit., ove, per escludere l’obbligo della previa comunicazione di avvio del procedimento, il Collegio richiama il carattere spiccatamente cautelare della misura, nella quale esso sfocia, e che fa rilevare quelle esigenze di celerità, che, nell’esplicita premessa dell’art. 7, comma 1, rendono giustificata l’omissione della notizia partecipativa altrimenti prescritta; Cons. St., sez. VI, 7 novembre 2006, n. 6555, cit., ove il Collegio ha esonerato l’amministrazione dall’onere di comunicazione di avvio del procedimento, osservando che il procedimento in materia di tutela antimafia è “caratterizzato da riservatezza ed urgenza”. (56) In questi termini, T.A.R. Lazio, Roma, sez. I-ter, 4 settembre 2008, n. 8050, cit. (57) In questi termini, T.A.R. Lazio, Roma, sez. I-ter, 1 febbraio 2005, n. 854, cit.; nello stesso senso, Cons. St., sez. VI, 11 settembre 2001, n. 4724, cit.; Cons. St., sez. IV, 13 settembre 2001, n. 4780, in Foro amm., 2001, 2312; Cons. St., sez. VI, 14 gennaio 2002, n. 149, cit.; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 23 ottobre 2003, n. 13601, in D&G - Dir. e giust., 2004, 1, 94, con nota di ALESIO, Limiti e contenuto del sindacato di legittimità sul certificato antimafia; T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 28 marzo 2003, n. 279, in Foro amm. Tar, 2003, 1087. 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 301 adducendo specifici motivi ostativi riconducibili ad imprescindibili esigenze di tutela di accertamenti di polizia di sicurezza e di contrasto alla delinquenza organizzata. Di contro, non v’è unanimità di opinioni in ordine all’accessibilità della nota informativa antimafia, generalmente, consistente nella formula rituale con la quale il Prefetto, sulla base delle risultanze in suo possesso (di regola non esposte al soggetto appaltante), afferma la sussistenza di elementi interdittivi a carico dell’impresa. Infatti, una parte della giurisprudenza estende l’inostensibilità alla stessa nota informativa prefettizia, che viene qualificata come “riservata amministrativa”, sottratta all’ostensione documentale, in quanto documentazione concernente, ai sensi dell’art. 24, comma 6, lett. c), legge n. 241/90, l’ordine pubblico e la prevenzione e repressione della criminalità, tantoché non è neppure necessario che l’amministrazione debba motivare l’opposto diniego di accesso(58). Secondo un opposto orientamento, la nota informativa prefettizia non rientra nella categoria dei documenti inaccessibili (per motivi attinenti alla sicurezza) di cui all’art. 2, D.M. 10 maggio 1994, n. 415, in ragione dell’assunto che il suddetto decreto ministeriale sottrae all’accesso non già la nota prefettizia in sé bensì gli atti istruttori che hanno fornito le informazioni di polizia poste a base del giudizio negativo, di regola non enunciate nella nota prefettizia di comunicazione all’ente appaltante. Sono quest’ultimi, infatti, a contenere materiale coperto da segreto istruttorio perché afferente a procedimenti penali in corso ovvero ad accertamenti di polizia di sicurezza(59). La nota prefettizia, invece, limitandosi ad indicare la mera sussistenza di elementi interdittivi a carico dell’impresa risulta, secondo tale tesi, pienamente ostensibile. Si tratta, invero, di un’opinione non condivisibile, non persuadendo la distinzione tra l’accesso alla nota prefettizia e gli altri atti che a monte hanno determinato la trasmissione dell’informativa antimafia negativa. Sovente, infatti, la nota di trasmissione dell’informativa antimafia contiene circostanze utili ai fini della prevenzione e repressione della criminalità organizzata, tanto da poter compromettere le indagini e vanificare l’operato della polizia giudiziaria. Pertanto, in forza dell’art. 3, D.M. cit. e dell’art. 24, comma 6, lett. c), legge n. 241/90, si ritiene preferibile aderire all’orientamento che 302 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 (58) In questi termini, T.A.R. Lazio, Roma, sez. III-ter, 21 aprile 2008, n. 3332, cit.; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 28 febbraio 2005, n. 1319, in www.giustizia-amministrativa. it; nello stesso senso, Cons. St., sez. IV, 29 maggio 2001, n. 2968 e T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, 28 maggio 2001, nn. 857 e 858, ivi. (59) In questi termini, T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, 26 febbraio 2008, n. 175, in www.giustizia-amministrativa.it.; già nello stesso senso, T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, 21 giugno 2007, n. 838 e T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 10 luglio 2007, n. 818, ivi; T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 15 settembre 2005, n. 14543, ivi, aderendo alla tesi esposta nel testo, ha ritenuto il D.M. 10 maggio 1994, n. 415 in parte qua disapplicabile, ove illegittimamente compressivo del diritto di accesso statuito ex lege. 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 302 nega l’accessibilità dell’informativa prefettizia antimafia, quale atto amministrativo di massima anticipazione di prevenzione e repressione della criminalità organizzata. 6. L’informativa prefettizia antimafia e il riparto di giurisdizione alla luce dei recenti arresti delle Sezioni Unite. Per principio generale, l’avvenuta stipulazione del contratto e la sua esecuzione non risultano ostative alla emanazione della informativa interdittiva. Infatti, dall’art. 11, d.P.R. n. 252/1998 si evince chiaramente la possibilità per l’Amministrazione di stipulare il contratto anche prima di aver ricevuto le informazioni prefettizie, fatto salvo il potere, in caso di emersione dalla successiva informativa di elementi relativi ai tentativi di infiltrazione mafiosa, di “revocare le autorizzazioni e le concessioni o recedere dai contratti” (comma 2)(60), potere, questo, che il successivo comma 3 estende a qualsiasi caso di accertamento di elementi siffatti “successivamente alla stipula del contratto, alla concessione dei lavori o all’autorizzazione del subcontratto”. Tale disciplina trova, peraltro, riscontro nel disposto di cui all’art. 113, R.d. n. 827/1924. A seguito della intervenuta stipulazione del contratto è consentito alla P.A. sia di agire in autotutela sugli atti della fase procedimentale (ad esempio, annullando o revocando l’aggiudicazione) e, quindi, di fatto recedere dal contratto, sia di intervenire direttamente sul contratto recedendo da esso, sulla base del citato art. 11, d.P.R. n. 252/1998. Nel caso in cui l’Amministrazione decida di intervenire in autotutela sull’aggiudicazione, l’impresa pregiudicata potrà tutelarsi davanti al giudice amministrativo, nei prescritti termini di decadenza, impugnando il provvedimento di autotutela e nel contempo l’informativa interdittiva che ne costituisce presupposto. In tal caso, il relativo ricorso, andrà notificato anche all’autorità prefettizia, presso la sede della competente Avvocatura dello Stato, qualora l’impresa (come generalmente avviene) intenda contestare le conclusioni cui è pervenuta tale autorità nella nota informativa negativa(61). Più complesso è il tema della individuazione dell’organo giurisdizionale dotato di giurisdizione nel caso in cui la stazione appaltante decida di non IL CONTENZIOSO NAZIONALE 303 (60) In riferimento ai rapporti contrattuali già in essere al momento in cui sopraggiunga l’informativa prefettizia negativa, osserva la giurisprudenza che, benché l’art. 11, comma 3, d.P.R. n. 252/98, sotto il profilo letterale, configuri la revoca in termini di facoltà, tale potere si caratterizza in termini di obbligatorietà per l’amministrazione, la quale non dispone della facoltà di sindacare il contenuto dell’informazione prefettizia, poiché la legge demanda al Prefetto in via esclusiva la raccolta degli elementi e la valutazione circa la sussistenza del tentativo di infiltrazione mafiosa, cfr.: Cons. St., sez. V, 27 giugno 2006, n. 4135, in www.giustamm.it; Cons. St., sez. VI, 30 dicembre 2005, n. 7619, in www.giustizia-amministrativa. it; T.A.R. Lazio, Roma, sez. I-ter, 1 febbraio 2005, n. 854, cit.; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 30 gennaio 2005, n. 574, in www.lexitalia.it. (61) In tal senso, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 31 marzo 2008, n. 1644, in Il merito, 2008, 71. 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 303 intervenire sugli atti del procedimento di evidenza pubblica, ponendo in essere direttamente un atto di recesso dal contratto. Rispetto all’esercizio di siffatto potere di recesso dal contratto, in quanto incidente sulla fase esecutiva del rapporto, si potrebbe in tesi prospettare la giurisdizione dell’a.g.o., conformemente ai principi generali consolidati che presiedono al riparto di giurisdizione tra giudice ordinario ed amministrativo, atteso che, generalmente, si ritengono attribuite al giudice amministrativo le contestazioni relative ad un atto del procedimento di evidenza pubblica (ad esempio, esclusione dalla gara, aggiudicazione, annullamento e revoca dell’aggiudicazione), presupposto di un contratto di diritto privato, ed al giudice ordinario le controversie aventi ad oggetto direttamente il contratto stipulato all’esito del relativo procedimento, con riferimento non solo alle vicende relative all’esecuzione del contratto, ma anche alle patologie ed all’inefficacia della fattispecie negoziale pur se derivanti da irregolarità/illegittimità del relativo procedimento(62). Infatti, è costante affermazione della giurisprudenza della Suprema Corte che “appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, quale giudice dei diritti, le controversie nascenti dall’esecuzione di contratti di appalto di opere pubbliche, atteso che tali controversie hanno ad oggetto posizioni di diritto soggettivo inerenti a rapporti contrattuali di natura privatistica, nelle quali non hanno incidenza i poteri discrezionali ed autoritativi della P.A., anche quando quest’ultima si sia avvalsa della facoltà, conferitale dalla legge, di recedere dal rapporto e pure nel caso in cui la decisione dell’autorità amministrativa in ordine al rapporto sia stata adottata nelle forme dell’atto amministrativo, il quale, per questo suo connotato, non ha natura provvedimentale e non cessa di operare nell’ambito delle paritetiche posizioni contrattuali delle parti”(63). 304 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 (62) Secondo l’orientamento, condiviso da entrambi i massimi organi giurisdizionali, spetta al giudice ordinario la giurisdizione sulla domanda volta ad ottenere tanto la dichiarazione di nullità quanto quella di inefficacia o l’annullamento del contratto di appalto, a seguito dell’annullamento della delibera di scelta dell’altro contraente, adottata all’esito di una procedura ad evidenza pubblica. Invero, in ciascuno di questi casi la controversia non ha ad oggetto i provvedimenti riguardanti la scelta suddetta, ma il successivo rapporto di esecuzione che si concreta nella stipulazione del contratto di appalto, del quale i soggetti interessati chiedono di accertare un aspetto patologico, al fine di impedirne l’adempimento. In tali casi le situazioni giuridiche soggettive delle quali si chiede l’accertamento negativo hanno consistenza di diritti soggettivi pieni ed il giudice è comunque chiamato a verificare la conformità alla normativa positiva delle regole attraverso cui l’atto negoziale è sorto, ovvero è destinato a produrre i suoi effetti (in tal senso, Cass. civ., sez. un., 28 dicembre 2007, n. 27169, in www.giustamm.it; Cass. civ., sez. un., 18 luglio 2008, n. 19805, in www.lexitalia.it; Cons. St., ad. pl., 30 luglio 2008, n. 9, ivi, sia pure con temperamenti con riferimento al giudizio di ottemperanza). (63) In questi termini, Cass. civ., sez. un., ord. 22 febbraio 2007, n. 4116, in www.lexitalia. it, ove ulteriori riferimenti, nonché, ex pluribus, 20 dicembre 2006, n. 27170, in Giust. civ. Mass., 2006, f. 12, che riconduce l’esercizio da parte della p.a. del potere di sospendere in via cautelare gli effetti di un contratto di fornitura ad evidenza pubblica - fondato sul presupposto che dalla sua esecuzione possano essere pregiudicate le finalità pubblicistiche - al 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 304 Astretto rigore, dunque, il recesso dal contratto per effetto di una informativa interdittiva incide sull’esecuzione del rapporto, con conseguente giurisdizione civile sulla relativa controversia. Ed in tal senso pareva, inizialmente, orientata la giurisprudenza amministrativa, sia pur in modo non uniforme(64). Di recente, tuttavia, la Suprema Corte ha concluso per l’affermazione della giurisdizione amministrativa in ordine alla controversia nascente dalla deliberazione dell’ente di recedere dal contratto a seguito di informativa antimafia negativa, ritenendo che siffatta deliberazione, pur avendo formalmente ad oggetto l’esercizio del potere di recesso dal contratto, è espressione di un potere autoritativo di valutazione dei requisiti soggettivi del contraente, il cui esercizio è consentito anche nella fase di esecuzione del contratto, ai sensi dell’art. 11, comma 2, d.P.R. n. 252/1998(65). Secondo la Cassazione, il menzionato potere di recesso dal contratto di appalto non trova fondamento in inadempienze verificatesi nella fase di esecuzione del contratto, ma è consequenziale all’informativa del Prefetto ai sensi dell’art. 10, d.P.R. n. 252/1998 e, quindi, costituisce espressione di un potere di valutazione di natura pubblicistica diretto a soddisfare l’esigenza di evitare la costituzione o il mantenimento di rapporti contrattuali fra i soggetti indicati nell’art. 1, d..P.R. cit., e imprese nei cui confronti emergono sospetti di collegamenti con la criminalità organizzata. Sicché deve ritenersi che la posizione dell’appaltatore è di interesse legittimo sia nei confronti del potere di recesso o di revoca previsto dall’art. 11, comma 2, d.P.R. n. 252 del 1998, sia in relazione all’eventuale provvedimento cautelare di sospensione dei lavori in funzione della definitiva decisione sui presupposti del recesso. E poiché il recesso comporta che l’amministrazione sia tenuta esclusivamente al pagamento delle opere già realizzate, oltre al rimborso delle spese nei limi- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 305 catalogo dell’autotutela privata, la quale, in caso di inesatto adempimento, legittima, ai sensi dell’art. 1460 c.c., alla sospensione del pagamento del prezzo, con la conseguenza che le contestazioni che investono l’esercizio di tale forma di autotutela sono sottratte alla giurisdizione del giudice amministrativo, restando devolute a quella del g.o. (64) Cfr., Cons. St., sez. VI, 26 ottobre 2005, n. 5981, in Foro amm. CdS, 2005, 10, 3035, ove il Collegio ha sostenuto che il recesso dal contratto, a seguito di un’informativa prefettizia, non costituisce un provvedimento a carattere autoritativo, incidente su una procedura di evidenza pubblica, ma si tratta di atto di natura privatistica incidente su rapporti contrattuali, sempre privatistici, assoggettati alla disciplina antimafia e in cui vi era una specifica clausola risolutiva per la perdita dei requisiti antimafia. (65) In tal senso, Cass. civ., sez. un., 29 agosto 2008, n. 21928, in www.lexitalia.it; da ultimo, Cass. civ., sez. un., 28 novembre 2008, n. 28345, ivi; in dottrina, per approfondimenti, si rinvia a CERRETO, Recesso della p.a. da un contratto di appalto di lavori pubblici per effetto di informativa antimafia e riparto di giurisdizione tra giudice ordinario ed amministrativo, con osservazioni alla sentenza Cass. S.U. 29 agosto 2008 n. 21928 e spiragli di razionalizzazione del sistema di riparto sulla sorte del contratto, in www.giustamm.it., il quale, tuttavia, qualifica il potere di recesso dal contratto non già quale esercizio di una potestà, ma come un diritto potestativo nei confronti del contraente privato, che eccezionalmente il legislatore concede all’Amministrazione per prevalenti esigenze di interesse pubblico, in presenza di un’informativa interdittiva. 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 305 ti dell’arricchimento dell’appaltante, ne consegue che l’intera controversia sui rapporti tra le parti deve essere devoluta al Giudice amministrativo. In tal senso, dunque, la Corte di Cassazione fa applicazione del principio per cui la posizione giuridica soggettiva del contraente privato (beneficiario del finanziamento o appaltatore), che – una volta individuato quale contraente della p.a. – è di diritto soggettivo, torna ad essere di interesse legittimo tutte le volte in cui la “revoca” del finanziamento o dell’affidamento dell’appalto dipenda dall’esercizio di poteri di autotutela dell’Amministrazione, la quale intende annullare il provvedimento di concessione del contributo pubblico o di affidamento dell’appalto in ragione dei vizi di legittimità per contrasto originario con il pubblico interesse, quale quello in ipotesi di tutela dell’ordine pubblico nell’ambito della legislazione antimafia. Sicché, in ragione del preminente interesse pubblico sotteso all’azione amministrativa volta a contrastare il crimine organizzato, trova giustificazione l’ascrizione, compiuta dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, alla giurisdizione amministrativa delle controversie concernenti i conseguenti atti di ritiro disposti dalla stazione appaltante, benché adottati nel corso dell’esecuzione del rapporto negoziale. La determinazione di recedere dal contratto, assunta successivamente alla sua stipulazione, non ha connotazione privatistica, ma si tratta di un atto che la P.A. adotta nell’esercizio di poteri di supremazia relativi alla fase della scelta del contraente e non nell’ambito della gestione paritetica del rapporto contrattuale(66). Conclusione, questa, che appare in linea con il consolidato principio giurisprudenziale, secondo cui la qualificazione del provvedimento amministrativo deve prescindere dal nomen juris attribuitogli dall’Ammini-strazione (revoca, annullamento, recesso, ecc.), dovendo essere effettuata sulla base della corretta esegesi del potere da essa in concreto esercitato, tenuto conto dei presupposti fattuali e normativi dell’atto, del suo contenuto, nonché del procedimento seguito dalla p.a.(67). Tanto che va qualificato come annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione, piuttosto che revoca dell’affidamento dell’appalto, il provvedimento con il quale la p.a. appaltante, sia pure dopo la stipula del contratto di appalto, ha annullato l’aggiudicazione della gara facendo ricorso al suo potere di autotutela per l’asseriti vizi di legittimità nella fase di scelta del contraente. Prima dei recenti arresti delle Sezioni Unite, la giurisprudenza amministrativa (sia pure in modo non univoco, per quanto in precedenza detto), sia pur in modo non univoco, già riconduceva alla propria giurisdizione le controversie relative ai provvedimenti di revoca di un contratto di appalto adottati a seguito di una informativa antimafia e che si incentrano sulla legittimità o meno di quest’ultimo provvedimento, atto dotato di autonoma efficacia lesi- 306 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 (66) T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 29 dicembre 2008, 6171, in www.lexitalia.it, con specifico riguardo all’annullamento d’ufficio dell’affidamento dell’appalto, disposto dall’amministrazione appaltante per anomalia dell’offerta. (67) Così, chiaramente, T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 29 dicembre 2008, n. 6171, cit.; nello stesso senso, si vedano, Cons. St., sez. IV, 16 ottobre 2001, n. 5468, in Foro amm., 2001, 2733; Cons. St., sez. IV, 31 ottobre 1996, n. 1183, in Cons. Stato, 1997, II,1869. 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 306 va e funzionalmente distinto rispetto alla determinazione di recedere dal contratto, incidente sulla serie privatistica, come tale da devolvere alla giurisdizione del giudice amministrativo in ossequio al generale principio della causa petendi di cui all’art. 103, Cost.(68). Sotto altro profilo, a sostegno della giurisdizione amministrativa, analogamente a quanto successivamente affermato dalle Sezioni Unite, si è sostenuto che la dichiarazione di risoluzione del contratto di appalto pronunciata dalla stazione appaltante a seguito di informativa antimafia non costituisce applicazione di una clausola (risolutiva) negoziale, quanto piuttosto esercizio di un potere di revoca ex art. 4, comma 4, D.Lgs. n. 490/1994, necessitato dal carattere interdittivo della informativa antimafia, che, incidendo sulla capacità a contrarre con la P.A., non può che operare sostanzialmente nello stesso modo sia che intervenga a monte che a valle della stipula del contratto. Da ciò l’affermata appartenenza dell’intera controversia alla giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo(69). 7. Brevi considerazioni su alcune forme di “elusione” delle finalità della normativa in materia di informative prefettizie antimafia: la segregazione di quote societarie in trust. Recentemente, la prassi sta registrando delle iniziative tendenti ad aggirare i divieti imposti dal sistema delle informative antimafia, per lo più caratterizzate dall’utilizzazione dello strumento della c.d. segregazione patrimoniale (c.d. gestione fiduciaria o trust) da parte di soggetti, a vario titolo collegati ad interessi di sodalizi mafiosi, appartenenti alla compagine societaria. L’indagine, che presuppone la disamina dei profili di compatibilità-interferenza tra la disciplina delle informative antimafia ed il trust, va condotta con riguardo alla descrizione della struttura fiduciaria del trust, onde acclarare se – nonostante la segregazione in trust delle partecipazioni societarie del socio colpito da informativa antimafia – permanga, di fatto, l’ingerenza dello stesso nella gestione sociale dell’impresa. Il trust ha avuto ingresso nel nostro ordinamento attraverso la Convenzione dell’Aja, approvata l’1 luglio 1985 dalla Conférence de La Haye de droit international privé, ratificata dall’Italia con la legge n. 364/1989 ed entrata in vigore nel gennaio del 1992(70). L’istituto nasce nell’ambito dell’evoluzione giurisprudenziale dell’equity, propria dei sistemi giuridici (anglosassoni) di common law, la quale costituisce un insieme di principi di IL CONTENZIOSO NAZIONALE 307 (68) In tal senso, Cons. St., sez. V, 17 luglio 2008, n. 3603, in www.lexitalia.it. (69) In tal senso, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 4 maggio 2007, n. 4730, cit. (70) In argomento, per approfondimenti, tra i tanti contributi della dottrina, si segnala, in particolare: LUPOI, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, Padova, 2008; ID., Trusts, Milano, 2008; si veda, altresì, ANELLI, Fiducia e trust, in Trattato del contratto, a cura di ROPPO, vol. III, 736 ss., Milano, 2006; BARTOLI, Prime riflessioni sull’art. 2645 ter c.c. e sul rapporto fra negozio di destinazione di diritto interno e trust, in Il Corriere del merito, 2006, 6, 697 ss.; D’AMBROSIO, Trust interno: così la validità in Italia, in D&G. - Diritto e Giustizia, 2005, f. 38, 37 ss.; LOPILATO, I trusts interni, in Questioni attuali sul con- 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 307 diritto che intervengono, in via suppletiva, ogniqualvolta l’applicazione dello stretto diritto risulti in concreto iniqua, operando come criterio di giustizia che tiene conto delle particolarità del caso di specie e delle correlate circostanze umane, al fine di realizzare la cd. “giustizia del caso concreto”. Come segnalato dalla dottrina(71), il trust è una figura giuridica atipica molto controversa, suscettibile di essere adattata ad una molteplicità di rapporti, certamente di natura patrimoniale. Il punto di arrivo del complesso dibattito dottrinale intorno a tale istituto è rappresentato dalla sua qualificazione come negozio atipico traslativo di diritti (reali, di natura obbligatoria o di aspettativa), la cui costituzione è ritenuta ammissibile a condizione che esso sia sorretto da una causa giustificatrice e sia finalizzato a perseguire scopi meritevoli di tutela alla stregua del nostro ordinamento(72). Dal punto di vista strutturale, il trust consiste in un rapporto giuridico tra più soggetti: il settlor (o disponente), il trustee e i beneficiaries. Così che il settlor dispone di una massa di beni a favore del trustee, il quale ne acquista la piena proprietà formale (trust property), mentre il trustee si vincola al perseguimento di un fine a lui soggettivamente estraneo (c.d. trust di scopo) e che può assumere i contenuti più vari (per lo più, nella prassi, volto a beneficiare soggetti terzi: beneficiaries o cestuis que trust; in tal caso si parla di trust a beneficiari determinati). I beneficiaries vantano, pertanto, un diritto di credito nei confronti del trustee(73), avente ad oggetto: a) il rendiconto della gestione ad opera del trustee in conformità degli obblighi fiduciari indicati nell’atto istitutivo del trust; b) il trasferimento dei beni alla cessazione del trust(74). Secondo la ricostruzione che dell’istituto fornisce la dottrina maggioritaria, il trust non può identificarsi né con un contratto né con una persona giuridica né con un ente autonomo, ritenendosi, altresì, che è da rifiutare una ricostruzione del trust incentrata: a) sulla presunta scissione del diritto di proprietà in una proprietà formale in capo al trustee e in una proprietà sostanziale in capo ai beneficiari (c.d. equitable ownership); b) sulla coesistenza in ordine ai beni costituiti in trust di più diritti reali di contenuto diverso(75). 308 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 tratto, approfondimenti tematici e giurisprudenza annotata, Milano, 2004, 383 ss., ove ulteriori riferimenti dottrinali e rassegna della giurisprudenza pronunciatasi in materia; MAZZAMUTO, Il trust, in Manuale di diritto privato europeo (Parte VII, Cap. XXXII), a cura di CASTRONOVO e MAZZAMUTO, Milano, 2007. (71) Si veda, per tutti, MAZZAMUTO, op. cit. (72) In tal senso, LUPOI, Il trust, Milano, 2001, 265-267; in giurisprudenza, Trib. Velletri, ord. 29 giugno 2005, n. 11, in Corr. giur., 5, 2006. Si esclude, poi, che il trust abbia natura contrattuale: in tal senso, Trib. Napoli, 1 ottobre 2003, in D.&G., Diritto e Giustizia, 2004, f. 8, 92. (73) In dottrina, LUPOI, op. ult. cit. (74) Di ciò ha preso atto il Legislatore tributario individuando, ai fini dell’imposizione sui redditi, due principali categorie di trust: a) trust con beneficiari individuati, i cui redditi vengono imputati per trasparenza ai beneficiari stessi; b) trust senza beneficiari individuati, i cui redditi vengono tassati direttamente in capo al trust (si veda, a tal proposito, la disciplina dettata dalla Legge finanziaria per il 2007, art. 1, comma 74 e ss.). 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 308 Invero, il diritto dei beneficiari nei sistemi di diritto civile (civil law) non è un diritto reale, ma personale verso il trustee(76). Il settlor affida la proprietà (formale ed esclusiva) dei beni conferiti in trust al trustee, al quale è demandata la gestione del patrimonio segregato allo scopo prefigurato dal medesimo disponente. Così, il trustee, dal canto suo, non è un rappresentante né un mandatario del settlor, o del beneficiario o del trust(77). I beni conferiti in trust non si confondono con il patrimonio personale del trustee, costituendo piuttosto un patrimonio separato (c.d. effetto segregativo), tantochè il patrimonio segregato in trust non può essere aggredito dai creditori (né dagli aventi causa) personali del disponente e/o del trustee, formando così una massa separata e distinta(78). Pertanto, dopo la costituzione del trust, il settlor non è più titolare di un interesse giuridicamente rilevante, almeno in via formale, sui beni conferiti in trust. E ciò in ragione del fatto che il patrimonio segregato entra a far parte della sfera giuridica del trustee. Sicchè, in linea di principio, il disponente non può influenzare le scelte amministrative del trustee, salvo il caso in cui lo stesso disponente si sia riservato dei diritti nella qualità di beneficiario. La posizione del disponente si caratterizza, dunque, per la perdita definitiva del controllo (formale) sui beni costituiti in trust, nonché per la mancanza di qualsiasi strumento di tutela azionabile nei confronti del trustee, qualora questi impieghi i beni per una finalità diversa da quella indicata dallo stesso disponente. Invero, il trustee gode di discrezionalità nell’esercizio dei suoi compiti, ma è vincolato al rispetto degli obblighi di carattere fiduciario, volti alla salvaguardia dell’interesse dei beneficiari. Il vincolo funzionale che caratterizza la posizione del trustee giustifica la limitazione all’esercizio del diritto formalmente trasferitogli (ammesso che di un vero e proprio trasferimento si possa parlare), con l’ulteriore conseguenza di non poter distrarre a proprio favore le utilità derivate dai beni, che devono essere destinate a favore dei beneficiari o della finalità programmata. Il disponente può, comunque, nominare un protector per garantirsi un controllo pregnante sull’operato del trustee. Infatti, il protector è una persona (fisica o giuridica) di fiducia del settlor, con il compito di vigilare e verificare che le indicazioni contenute nell’atto istitutivo del trust siano rispettate. A tal fine, lo stesso protector ha il potere/dovere di sostituire il trustee, qualora questi si rendesse inadempiente(79). Oltre che per mezzo del protector, il disponente può influenzare la gestione del trust anche attraverso le cd. letters of wishes, ossia le cd. lettere IL CONTENZIOSO NAZIONALE 309 (75) Cfr., testualmente, MAZZAMUTO, op. cit. (76) Così, Corte Giust. CE, 17 maggio 1992, in causa C-294/92, caso Webb v. Webb. (77) Cfr., Corte Giust. CE, 17 maggio 1992, C-294/92, cit. (78) In tal senso, si pone l’art. 1, comma 74 e segg., l. 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007), riconoscendo al trust un’autonoma soggettività tributaria rilevante ai fini dell’imposta tipica delle società (IRES), degli enti commerciali e non commerciali (sull’interpretazione di tale norma, si veda la circolare dell’Agenzia delle Entrate, Direzione Centrale Normativa e Contenzioso, 6 agosto 2007, n. 48/E). (79) In merito, la dottrina ha precisato che attraverso la figura del protector, istituito dal disponente nell’atto costitutivo del trust ovvero anche in un momento successivo, è possibi- 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 309 di desiderio, con cui il medesimo disponente può manifestare al trustee le proprie considerazioni in ordine alla gestione del patrimonio segregato(80). Se, da un lato, le cd. letters of wishes non sono vincolanti per l’amministrazione di scopo affidata al trustee, dall’altro lato, non può dubitarsi che il disponente è legittimato a fare conoscere la propria volontà al trustee nel corso del trust. La dottrina ha osservato che il disponente può, infatti, instaurare con il trustee un rapporto di consultazione, anche permanente. Invero, pur non essendo titolare di rimedi giuridici contro il trustee, il disponente è legato al medesimo trustee dal rapporto di affidamento (trust), caratterizzato – per le sue peculiarità – dall’elemento fiduciario(81). Ne deriva che, il disponente – di fatto ovvero per interposta persona di fiducia (protector o trustee) – può influenzare la gestione del patrimonio conferito in trust, tanto che la segregazione di partecipazioni societarie in trust può in concreto, per come congegnato il relativo atto istitutivo, risultare idonea ad eludere la disciplina sulle informative antimafia e la finalità, cautelare e preventiva, di estromissione dal circuito economico di operatori economici “in odore di mafia”. Invero, come già segnalato, il concetto inerente il tentativo di infiltrazione mafiosa si presenta tanto sfumato da adattarsi a tutte quelle situazioni, come quella in esame, in cui sia intangibile il vero contatto (anche giuridico) tra l’impresa e la criminalità organizzata. È questo, dunque, il nuovo fronte sul quale il legislatore è chiamato ad intervenire, in vista della massima garanzia di trasparenza negli affidamenti degli appalti pubblici (82). Avv. Alfonso Mezzotero(*) 310 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 le controllare la gestione fiduciaria e vigilare sulla fedeltà e sulla diligenza del trustee; per un’ampia analisi della figura del protector, si rinvia a TARISSI DE JACOBIS, Il Guardiano e la sua successione, in Trust e attività fiduciaria, 2000, 1, 123 ss.; da ultimo, LUPOI, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, Padova, 2008, 126 ss., secondo cui: “Il guardiano può svolgere tre distinte tipologie di funzioni: esercitare direttamente poteri dispositivi o gestionali; prestare o meno il proprio consenso a decisioni assunte dal trustee; impartire direttive o istruzioni al trustee circa il compimento di specifici atti …. Sono poteri dispositivi, in via di esempio: revoca e nomina di trustee, nomina o esclusione di beneficiari, distribuzione anticipata di capitale, individuazione dei beneficiati ai quali corrispondere reddito …. Alcune leggi considerano i poteri di revoca e nomina del trustee come tipicamente inerenti le funzioni del guardiano”. (80) Cfr., in ordine alle cd. lettere di desiderio, LUPOI, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, cit., 69, ove l’A. rileva che oltretutto “Il disponente può riservare a se stesso, nell’atto istitutivo, qualsiasi potere sul fondo in trust che egli desideri (in inglese: “riserve powers”), ma il limite da rispettare è quello dell’affidamento del compito al trustee”. (81) In ordine al rapporto di affidamento tra disponente e trustee, si veda LUPOI, op. ult. cit., 69. (82) In argomento, da ultimo, LUPOI, Viaggio nella prassi professionale fra virtuosismi, errori, fatti e misfatti, in AA.VV., I provessionisti ed il trust, IPSOA, 2008, cap. V, 279 e ss., ove l’A. analizza alcune concrete fattispecie di trusts elusive della normativa sulle informative antimafia. (*) Avvocato dello Stato. con la collaborazione del dott. Aurelio Schiavone. 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 310 Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, sezione prima, decisione 9 luglio 2008 n. 6487 – Pres. Amodio – Est. Caponigro – C.M.S. S.r.l., E. S.r.l. ed altri (Avv.ti Bonanno, Calandra, G. Immordino) c/ Ministero dell’Interno, Ufficio Territoriale del Governo di Palermo, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Sindaco di Palermo quale Commissario Delegato all’Ufficio Emergenza Traffico (Avvocatura Generale dello Stato), Comune di Palermo (Avv. Impinna), C. S. G. S.p.A., in proprio e nella qualità di capogruppo dell’AT.I. con la M. I. S.c.a.r.l. (Avv. Gallo), M. I. S.c.a.r.l. 1.- L’informativa antimafia adottata ai sensi dell’art. 10, d.P.R. n. 252/1998 determina una situazione generalizzata di incapacità a contrarre nei confronti di qualsiasi pubblica amministrazione, contrariamente all’informativa c.d. atipica, di cui all’art. 1 septies d.l. n. 629/1982, che ha un valore meramente endoprocedimentale, circoscritto all’amministrazione cui è indirizzata, la quale rimane titolare di un potere discrezionale circa la valutazione delle informazioni ricevute ai fini dell’affidamento dell’appalto. 2.- Mentre nell’informativa prefettizia antimafia c.d. atipica ex art. 1 septies, l. n. 629/1982, l’efficacia interdittiva può scaturire da una valutazione autonoma e discrezionale dell’amministrazione destinataria, nella informativa antimafia ex art. 10, d.P.R. 252/1998 l’efficacia interdittiva discende direttamente dalla valutazione del Prefetto, per cui la stazione appaltante, nel caso dell’informativa atipica, conserva una potestà discrezionale e deve autonomamente valutare le informazioni ricevute senza procedere automaticamente all’esclusione dell’impresa, laddove, nel caso dell’informativa antimafia ex art. 10, d.P.R. n. 252/1998, la stazione appaltante non ha alcun potere discrezionale atteso che l’esclusione dell’impresa deriva direttamente dall’atto prefettizio(1). 3.- La stipulazione, l’approvazione o l’autorizzazione di contratti o subcontratti ovvero la concessione di contributi pubblici per lo svolgimento di attività di natura imprenditoriale sono impedite da: cause di divieto o di sospensione tassativamente indicate nell’allegato 1 al D.Lgs. n. 490/1994; tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate. 4.- I tentativi di infiltrazione mafiosa possono essere desunti da: 1) provvedimenti o proposte di provvedimenti, come indicato nelle lett. a) e b) dell’art. 10, comma 7, d.P.R. n. 252/1998; 2) accertamenti prefettizi, come indicato nella successiva lett. c). 5.- La discrezionalità nella valutazione dei presupposti a base dell’atto, peraltro, è di latitudine maggiore nell’ipotesi ex art. 10, comma 7, lett. c), d.P.R. n. 252/1998 in quanto le “infiltrazioni” possono essere dedotte anche da parametri non predeterminati normativamente. In tal caso, infatti, rientra nel potere discrezionale del Prefetto ogni valutazione dei fatti e delle circostanze emergenti dall’attività investigativa demandata agli organi di polizia. 6.- La fase istruttoria del procedimento finalizzato a rendere la certificazione antimafia e, quindi, anche a comunicare la presenza di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi di un’impresa si concreta essenzialmente nell’acquisizione di tutte le informazioni di cui le autorità di pubblica sicurezza sono in possesso al fine di effettuare, sulla base di tali risultanze, una obiettiva valutazione sulla possibilità di un eventuale utilizzo distorto del danaro pubblico che la normativa di settore mira ad evitare e IL CONTENZIOSO NAZIONALE 311 (1) Cfr., fra le tante, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 31 marzo 2008, n. 1644. 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 311 di compiere la conseguente scelta sulla sussistenza o meno dei presupposti previsti dalla legge per l’adozione della misura inibitoria. 7.- Il collegamento con la disciplina delle misure di prevenzione – che partecipano alla medesima ratio di quelle in esame, intesa a combattere le associazioni mafiose con l’efficace aggressione dei loro interessi economici – testimonia il fatto che le preclusioni dettate dalle richiamate norme di legge costituiscono una difesa molto avanzata dell’autorità pubblica contro il fenomeno mafioso in quanto gli istituti de quibus si basano su un accertamento di grado inferiore e ben diverso da quello richiesto per l’applicazione della sanzione penale. 8. La cautela antimafia non mira all’accertamento di responsabilità, ma si colloca come la forma di massima anticipazione dell’azione di prevenzione, inerente alla funzione di polizia e di sicurezza, rispetto a cui assumono rilievo, per legge, fatti e vicende solo sintomatici e indiziari, al di là dell’individuazione di responsabilità penali(2). In altri termini, le informative prefettizie in materia di lotta antimafia possono essere fondate su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e mirano alla prevenzione di infiltrazioni mafiose e criminali nel tessuto economico imprenditoriale, anche a prescindere dal concreto accertamento in sede penale di reati(3). Il divieto di contrarre e di rilasciare concessioni o erogazioni, in definitiva, ha una funzione spiccatamente cautelare ed in quanto tale prescinde dal concreto accertamento in sede penale di uno o più reati che vi siano direttamente connessi(4). 9. Il delicato equilibrio tra gli opposti interessi che fanno capo, da un lato, alla presunzione di innocenza di cui all’art. 27 Cost. ed alla libertà d’impresa costituzionalmente garantita e, dall’altro, alla efficace repressione della criminalità organizzata ed alla conseguente neutralizzazione delle imprese infiltrate dal crimine organizzato, dà atto che l’interpretazione della normativa in esame dev’essere improntata ad una particolare analisi soprattutto per l’accertamento degli eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte, che richiede l’utilizzo di concetti indeterminati e rimessi alla valutazione discrezionale dell’autorità prefettizia. 10. Attesa l’autonomia del procedimento amministrativo rispetto a quello giurisdizionale penale, se, da un lato, non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, dall’altro, per evitare il travalicamento in uno “stato di polizia” e salvaguardare i principi di legalità e di certezza del diritto, non possono ritenersi sufficienti fattispecie fondate sul semplice sospetto o su mere congetture prive di riscontro fattuale, mentre occorre che siano individuati idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o collegamenti con le predette associazioni(5). 11. La valutazione rimessa all’autorità prefettizia dalla normativa di riferimento per quanto attiene alla sussistenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società interessate, per la specifica natura del giudi- 312 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 (2) In senso conforme, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 12 giugno 2002 n. 3403; Cons. St., sez. VI, 11 settembre 2001, n. 4724. (3) Ex pluribus, da ultimo, Cons. St., sez. VI, 29 febbraio 2008, n. 756. (4) Cfr., altresì, Cons. St., sez. IV, 25 luglio 2001, n. 4065. (5) In tal senso T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 12 ottobre 2001, n. 4553; T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 23 novembre 2000, n. 1957; T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II, 12 febbraio 2007, n. 38. 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 312 zio formulato, è connotata dall’utilizzo di peculiari cognizioni di tecnica investigativa e poliziesca e, pertanto, può definirsi tipico esercizio di discrezionalità tecnica, che esclude la possibilità per il giudice amministrativo di svolgere un sindacato pieno e assoluto, ma non impedisce allo stesso di formulare un giudizio di logica e congruità delle informazioni assunte e di poter eventualmente rilevare se ictu oculi i fatti riferiti dal Prefetto configurino o meno la fattispecie prevista dalla norma(6). 12. La valutazione rimessa all’autorità prefettizia dalla normativa di riferimento, per la specifica natura del giudizio formulato, è sindacabile dal giudice amministrativo solo se emergano manifesti vizi logici e di congruità con riguardo alle informazioni assunte o alle deduzioni che da esse sono state tratte(7). 13. Il mero rapporto di parentela, in assenza di ulteriori specificazioni, non è di per sé solo idoneo a dare conto del tentativo di infiltrazione in quanto, a prescindere dall’eventuale partecipazione del genitore ad organizzazioni di stampo mafioso, non può ritenersi sussistente un vero e proprio automatismo tra un legame familiare, sia pure tra padre e figlio, e l’inequivoca volontà dell’organizzazione criminosa di condizionare le scelte e gli indirizzi sociali e, d’altra parte, se l’eventuale attività pregiudizievole posta in essere da un genitore dovesse riverberarsi sic et simpliciter sull’attività imprenditoriale di un figlio, quest’ultimo sarebbe, senza sua colpa, nell’impossibilità di potere svolgere attività costituzionalmente tutelate(8). 14. Ad ogni modo, quando si tratta di vincoli particolarmente significativi (come quello esistente tra padre e figlio) dev’essere attentamente valutato ogni ulteriore elemento dai quali è ragionevole dedurre che sussistano collegamenti tra i soggetti sul cui conto l’autorità prefettizia ha individuato dei pregiudizi e le società. «(…) Fatto Il Sindaco del Comune di Palermo nella qualità di Commissario delegato all’emergenza traffico, con nota del 18 ottobre 2006, in riferimento alla procedura di appalto per il “completamento dei lavori di costruzione del raddoppio della Circonvallazione di Palermo – II stralcio – lotto B – da via Altofonte a via Belgio. Progetto dello svincolo di via Perpignano – Sovrappasso pedonale”, ha invitato l’Ufficio Contratti dello stesso Comune ad escludere l’impresa aggiudicataria e ad invitare la seconda classificata a produrre la documentazione di rito necessaria per la stipula del contratto. La determinazione è stata adottata in quanto il Comitato Tecnico Scientifico dell’Ufficio Emergenza Traffico e Mobilità ha espresso il convincimento che anche l’informativa prefettizia ai sensi dell’art. 1 septies L. 726/1982 giustifica ampiamente, nell’ambito del potere discrezionale attribuito dalla legge alle pubbliche amministrazioni, un provvedimento di diniego dell’affidamento dell’appalto, stante la peculiare rilevanza che la problematica antimafia riveste nella città di Palermo. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 313 (6) Cfr., T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 4 aprile 2002, n. 1861. (7) Cfr., T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 19 settembre 2007, n. 7875; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 4 maggio 2007, n. 4739. (8) Cfr., T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 22 febbraio 2003, n. 1171. In ordine all’individuazione del tentativo di infiltrazione desunto dal rapporto parentale, da ultimo, Cons. St., sez. VI, 19 agosto 2008, n. 3958. 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 313 La Commissione di gara, con verbale in data 25 ottobre 2006, ha quindi aggiudicato i lavori alla ATI (…) S.p.a. di C. (ME) e M.I. s.c. r.l. di Salerno evidenziando altresì l’esistenza di un ulteriore motivo di esclusione dalla gara per l’ATI ricorrente, per mancanza del requisito della regolarità contributiva al momento dell’offerta di una delle ditte mandanti. Di talché, le ricorrenti hanno proposto il presente ricorso, articolato nei seguenti motivi: – Violazione e falsa applicazione dell’art. 1 septies L. 726/1982 come aggiunto dall’art. 2 L. 486/1988, dell’art. 10, co. 9, d.P.R. 252/1998 nonché delle circolari del Ministero dell’Interno 14 dicembre 1994 e 8 gennaio 1996 in materia di informative prefettizie supplementari. Violazione dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa. Eccesso di potere sotto i profili della carenza dei presupposti, del travisamento dei fatti, del difetto o dell’insufficienza della motivazione e dello sviamento. La determinazione sindacale impugnata si sarebbe limitata a recepire acriticamente le indicazioni del Comitato Tecnico assumendo la fisionomia di atto meramente applicativo di una precedente manifestazione di volontà resa in sede consultiva. Gli elementi di fatto e le indicazioni trasmesse dalla Prefettura di Palermo in ordine alla società C. ed al suo amministratore se, da un lato, escludevano la sussistenza di cause di decadenza, dall’altro, non avrebbero potuto legittimamente giustificare una valutazione negativa dell’impresa. L’amministrazione avrebbe del tutto omesso di evidenziare le ragioni di pubblico interesse a base della propria scelta discrezionale, finendo con il riconoscere alla informativa prefettizia atipica un’efficacia preclusiva automatica che il legislatore ha voluto evitare. L’esercizio del potere di autotutela avrebbe dovuto seguire la regola generale secondo cui l’amministrazione deve esplicitare con motivazione ampia, congrua e ragionevole il pubblico interesse concreto ed attuale al ritiro dell’atto. – Violazione e falsa applicazione, sotto altro profilo, del combinato disposto dell’art. 1 septies L. 726/1982 e dell’art. 10, co. 9, d.P.R. 252/1998. Eccesso di potere sotto i profili della carenza dei presupposti, del travisamento dei fatti, del difetto di motivazione e dello sviamento. L’informativa antimafia atipica non potrebbe avere ad oggetto le informazioni di cui all’art. 10 d.P.R. 252/1998, relative a probabili tentativi di infiltrazione mafiosa, ma altri e diversi elementi o indicazioni utili alla valutazione, nell’ambito della discrezionalità ammessa dalla legge, dei requisiti soggettivi. Il Comune di Palermo avrebbe omesso di esprimere una propria autonoma valutazione degli elementi di fatto forniti dalla Prefettura. – Violazione dell’art. 7, in combinato disposto con l’art. 21 octies L. 241/1990 e successive modifiche ed integrazioni. Eccesso di potere sotto i profili del difetto di presupposti e dello sviamento. L’amministrazione avrebbe denegato l’affidamento dell’appalto senza previamente avvisare le società destinatarie e senza avere previamente consentito la relativa partecipazione procedimentale. – Violazione e falsa applicazione, sotto ulteriore profilo, dell’art. 1 septies L. 726/1982. Eccesso di potere sotto i profili del travisamento dei fatti, del difetto di motivazione e dello sviamento. La Prefettura avrebbe trasmesso solo parzialmente i dati in suo possesso, non trasmettendo anche gli elementi a favore degli imprenditori C. e V. V. – Violazione e falsa applicazione dell’art. 75, lett. e), d.P.R. 554/1999 in relazione all’art. 3, lett. a), del disciplinare di gara. Carenza di motivazione. Assenza di valutazione della gravità dell’infrazione. 314 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 314 Nessuna norma del bando di gara o del disciplinare avrebbe imposto ai concorrenti di dichiarare di essere in regola al momento della gara con l’INPS, l’INAIL o la Cassa Edile né il possesso di tale requisito. La documentazione acquisita dal Comune avrebbe confermato che la ricorrente era in regola al momento dell’aggiudicazione e che, al momento della gara aveva un insoluto di appena un giorno, non quantificato nell’importo, nei confronti dell’INPS; l’amministrazione non avrebbe effettuato una valutazione della gravità della presunta infrazione. Con successivo atto dell’8 novembre 2006, la Prefettura di Palermo, in relazione alle circostanze richiamate nell’atto stesso e tenuto conto che le informazioni ex art. 10 d.P.R. 252/1998 sono da considerare strumenti di prevenzione delle possibili infiltrazioni mafiose nei pubblici appalti, ha informato il Comune di Palermo che sussistono concreti, concordanti elementi comprovanti il condizionamento mafioso delle ditte C. ed E. Le ricorrenti hanno esteso l’impugnativa a tale atto, proponendo i seguenti motivi aggiunti: – Violazione e falsa applicazione degli artt. 10, co. 2 e 7, d.P.R. 252/1998 e 4, co. 4 e 6, D.Lgs. 490/1994 anche in relazione alla circolare del Ministero dell’Interno – Dipartimento della pubblica sicurezza – Direzione centrale per gli affari generali n. 559/LEG/240.517.8 del 18 dicembre 1998. Eccesso di potere per travisamento dei fatti, difetto dei presupposti e di motivazione. L’informativa prefettizia riterrebbe le due società ricorrenti permeabili al condizionamento mafioso soltanto perché gli attuali amministratori sono figli o nipoti dei sigg.ri C. e V. V., più volte interessati da procedimenti penali, che però, per quanto riguarda la C., non rivestirebbero più cariche sociali sin dal 18 gennaio 1996 e non sarebbero più neanche soci dal 4 maggio 2004 e, per quanto riguarda la E. non avrebbero più alcun rapporto già da diversi anni. L’unico motivo della presunta permeabilità delle società verrebbe indicato nel fatto, del tutto asintomatico, del mero rapporto familiare tra i sigg.ri C. e V. V. con i figli, attuali amministratori delle due società, senza alcuna ipotesi sulla permeabilità dell’attività concreta delle società ricorrenti a condizionamenti mafiosi. Al di là del mero rapporto di parentela, non vi sarebbe alcun elemento volto a suffragare il rischio della permeabilità delle imprese. Le risultanze investigative e processuali sarebbero elencate in forma parziale e non darebbero conto né dell’esito processuale delle stesse né dell’assenza di condanna per alcuno dei reati contestati nell’informativa. La Prefettura non potrebbe rassegnare circostanze negative senza poi dare conto dell’esito definitivo delle stesse. I sigg.ri V., inoltre, avrebbero inoltrato decine di denunce alle Forze dell’Ordine per respingere tentativi di condizionamento da parte di organizzazioni criminali. L’Avvocatura dello Stato ha innanzitutto evidenziato che, a seguito dell’emanazione dell’informativa antimafia tipica, dovrebbe ritenersi l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse in quanto dall’eventuale annullamento dell’informativa supplementare atipica le società ricorrenti non potrebbero conseguire alcuna utilità pratica e, nel merito, ha contestato la fondatezza delle censure dedotte concludendo per il rigetto del ricorso. Il Comune di Palermo ha anch’esso sostenuto che la nota della Prefettura di Palermo dell’8 novembre 2006 priva di interesse attuale e concreto l’impugnativa proposta avverso l’informativa antimafia atipica. In rito, ha anche dubitato della tempestività del deposito del ricorso ed ha altresì eccepito l’incompetenza territoriale del T.A.R. Lazio indicando come IL CONTENZIOSO NAZIONALE 315 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 315 competente il T.A.R. Sicilia, Sede di Palermo. Nel merito, ha contestato la fondatezza delle censure dedotte concludendo per il rigetto del ricorso. La C.S.G. S.p.A. ha contestato la fondatezza delle censure dedotte concludendo per il rigetto del ricorso. Le Società ricorrenti hanno depositato ulteriore memoria a sostegno delle proprie ragioni. L’istanza cautelare è stata respinta con ordinanza n. 1585 pronunciata da questa Sezione nella camera di consiglio del 4 aprile 2007; il relativo appello è stato respinto con ordinanza n. 3155 pronunciata dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato nella camera di consiglio del 19 giugno 2007. All’udienza pubblica del 4 giugno 2008, la causa è stata trattenuta per la decisione. Diritto 1. L’eccezione di incompetenza territoriale del T.A.R. Lazio sollevata dal Comune di Palermo è inammissibile in quanto la relativa istanza non è stata notificata a tutte le parti in causa ai sensi dell’art. 31, co. 3, L. 1034/1971. 2. L’eccezione di inammissibilità per tardività del deposito è infondata in quanto risultano tempestivamente depositati sia il ricorso introduttivo del giudizio sia i motivi aggiunti. 3. L’impugnativa proposta con il ricorso introduttivo del giudizio avverso l’informativa antimafia c.d. atipica è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse. L’informativa antimafia adottata ai sensi dell’art. 10 d.P.R. 252/1998, infatti, determina una situazione generalizzata di incapacità a contrarre nei confronti di qualsiasi pubblica amministrazione, contrariamente all’informativa c.d. atipica, di cui all’art. 1 septies D.L. 629/1982 che ha un valore meramente endoprocedimentale, circoscritto all’amministrazione cui è indirizzata che rimane titolare di un potere discrezionale circa la valutazione delle informazioni ricevute ai fini dell’affidamento dell’appalto. In altri termini, mentre nell’informativa prefettizia antimafia c.d. atipica ex art. 1 septies L. 629/1982, l’efficacia interdittiva può scaturire da una valutazione autonoma e discrezionale dell’amministrazione destinataria, nella informativa antimafia ex art. 10 d.P.R. 252/1998 l’efficacia interdittiva discende direttamente dalla valutazione del Prefetto, per cui la stazione appaltante, nel caso dell’informativa atipica, conserva una potestà discrezionale e deve autonomamente valutare le informazioni ricevute senza procedere automaticamente all’esclusione dell’impresa, laddove, nel caso dell’informativa antimafia ex art. 10 d.P.R. 252/1998, la stazione appaltante non ha alcun potere discrezionale atteso che l’esclusione dell’impresa deriva direttamente dall’atto prefettizio. Va da sé, allora, che, essendo intervenuto a regolare il rapporto tra l’ATI costituenda originaria aggiudicataria dell’appalto ed il Comune di Palermo l’informativa prefettizia ex art. 10 d.P.R. 252/1998 emanata dalla Prefettura di Palermo in data 8 novembre 2006, l’eventuale accoglimento del ricorso introduttivo del giudizio, nella parte in cui è impugnata l’informativa c.d. atipica, non potrebbe determinare per le ricorrenti alcuna utilità. Viceversa, ove dovesse risultare fondata l’impugnativa proposta con motivi aggiunti avverso l’informativa antimafia ex art. 10 d.P.R. 252/1998, residuerebbe in capo alle ricorrenti un interesse all’esame del ricorso introduttivo del giudizio limitatamente alla censura con cui è contestato l’ulteriore motivo di esclusione dalla gara per mancanza del requisito della regolarità contributiva al momento dell’offerta di una delle ditte mandanti. 4. I motivi aggiunti sono infondati e vanno di conseguenza respinti. L’impugnata nota prefettizia, in esito alle acquisizioni informative da parte degli organi di polizia, ha informato che, pur nulla figurando a carico degli amministratori e dei diret- 316 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 316 tori tecnici delle società C.(...) ed E. S.r.l. (…), risultano sussistenti elementi e circostanze oggettive che inducono a ritenere fondatamente le società medesime condizionate dalla mafia. In effetti, soggiunge la Prefettura, le società C. ed E. sono riconducibili alla famiglia di imprenditori V. (…) che compartecipa in numerose altre società ed attività imprenditoriali, composta dai fratelli V. V., F., C. e dai loro figli. Le predette hanno subito nel tempo le seguenti trasformazioni societarie: - Società E.S.r.l. con sede in (…). La società è stata costituita il 12 marzo 1996 con sede a (…) da V. V., S. V. (di V.) e G. V. (nipote di V.). Amministratore e Direttore tecnico V. V. Nel 2003, il capitale sociale era ripartito esclusivamente tra i precitati V. e S. con amministratore V. Direttore tecnico G. V., di C. Dal 2005 ad oggi, le quote della società risultano ripartite tra il già citato S. V. (di V.) e G. V. (di C.). Amministratore unico G. V. - Società C. S.r.l. di Palermo. La società è stata costituita il 30 dicembre 1980 a Palermo dai fratelli V., F. e C. V., Amministratore unico C. fino all’anno 1996, successivamente è subentrato come amministratore C. P. Il 17 marzo 1998, F. V. ha ceduto le proprie quote ai due fratelli C. e V. Dall’ottobre 2000 Amministratore unico è G. V. di V. Nell’anno 2002, il capitale sociale viene ripartito tra C. V. e V.V. Dall’aprile 2005, è amministratore unico R. T., mentre le quote societarie sono attualmente ripartite tra S. V. (di C.) e G. V. (di V.) a seguito di donazione del 4 maggio 2004 da parte dei rispettivi genitori. Ciò posto, la Prefettura di Palermo ha fatto presente che, ai fini delle richieste di informazioni ex art. 10, rileva la circostanza che a carico dei componenti della famiglia V., C., F., V. e G., risultano gravi pregiudizi per mafia ed è stata accertata una contiguità dei medesimi con l’organizzazione criminale mafiosa denominata Cosa Nostra. Lo stesso rapporto di cointeressenze parentali, prosegue l’autorità prefettizia, appare tanto più significativo ove si consideri, ad esempio, che la C., costituita dai tre fratelli V., successivamente alla cessione delle proprie quote da parte di F. ai propri germani (1998), è rimasta nella esclusiva formale proprietà di C. e V. V. fino alla donazione delle loro quote sociali ai rispettivi figli e nipoti (2004); passaggio di proprietà che può ragionevolmente ritenersi essere stato motivato dall’esigenza di evitare ogni possibile riferimento a chi era oggetto di attenzione da parte degli organi investigativi. Né può essere sottovalutato in proposito che già nel 2001 la Prefettura aveva reso informazioni interdittive nei confronti della E. e della Calcestruzzi S.C. (A quella data infatti C. V. deteneva unitamente al fratello V. quote pari al 50% del capitale sociale della calcestruzzi S. C., di cui era amministratore unico S. V., figlio di V. C. e V. erano anche intestatari delle quote sociali di E., di cui V. V. era amministratore unico e G. V. di F. consigliere). A chiarimento di quanto esplicitato, la Prefettura di Palermo ha indicato le cariche rivestite da C., V., F. e G. V. ed i pregiudizi risultanti sul loro conto. Con i motivi aggiunti, le ricorrenti hanno essenzialmente dedotto che il solo motivo della presunta permeabilità delle società verrebbe indicato nel fatto, del tutto asintomatico, del mero rapporto familiare tra i sigg.ri C. e V. V. con i figli, attuali amministratori delle due società, mentre, al di là del mero rapporto di parentela, non vi sarebbe alcun elemento volto a suffragare il rischio della permeabilità delle imprese; le risultanze investigative e processuali, inoltre, sarebbero elencate in forma parziale e non darebbero conto né dell’esito processuale delle stesse né dell’assenza di condanna per alcuno dei reati contestati nell’informa- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 317 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 317 tiva e, anzi, i sigg.ri V. avrebbero inoltrato decine di denunce alle Forze dell’Ordine per respingere tentativi di condizionamento da parte di organizzazioni criminali. Il Collegio osserva in via preliminare che l’art. 4, co. 1, del D.Lgs. 490/1994 – recante disposizioni attuative della L. 47/1994, in materia di comunicazioni e certificazioni previste dalla normativa antimafia – dispone che le pubbliche amministrazioni, gli enti pubblici e gli altri soggetti di cui all’art. 1 devono acquisire le informazioni di cui al successivo comma 4 prima di stipulare, approvare o autorizzare i contratti e subcontratti ovvero prima di rilasciare o consentire le concessioni o erogazioni indicati nell’allegato 3, il cui valore sia superiore a determinate soglie. L’art. 4, co. 4, del D.Lgs. 490/1994 a sua volta dispone che il Prefetto trasmette alle amministrazioni richiedenti le informazioni concernenti la sussistenza o meno, a carico di uno dei soggetti indicati nelle lettere d) ed e) dell’allegato 4, delle cause di divieto o di sospensione dei procedimenti indicate nell’allegato 1, nonché le informazioni relative ad eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate. Il richiamato allegato 1 elenca poi le cause di divieto, di sospensione e di decadenza tassativamente previste dall’art. 10 della L. 575/1965. L’art. 4, co. 6, del decreto legislativo citato stabilisce ancora che quando, a seguito delle verifiche disposte a norma del comma 4, emergono elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa nelle società o imprese interessate, le amministrazioni cui sono fornite le relative informazioni prefettizie non possono stipulare, approvare o autorizzare i contratti o subcontratti, né autorizzare, rilasciare o comunque consentire le concessioni e le erogazioni. Tale previsione è ripetuta nell’art. 10, co. 2, d.P.R. 252/1998 – regolamento recante norme per la semplificazione dei procedimenti relativi al rilascio delle comunicazioni e delle informazioni antimafia – che, al successivo comma 7, sancisce come le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa sono desunte: a) dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluno dei delitti di cui agli artt. 629, 644, 648 bis e 648 ter del codice penale, o dall’art. 51, comma 3 bis, del codice di procedura penale; b) dalla proposta o dal provvedimento di applicazione di taluna delle misure di cui agli artt. 2 bis, 2 ter, 3 bis e 3 quater della L. 575/1965; c) dagli accertamenti disposti dal Prefetto anche avvalendosi dei poteri di accesso e di accertamento delegati dal Ministro dell’interno, ovvero richiesti ai Prefetti competenti per quelli da effettuarsi in altra provincia. Di talché, la stipulazione, l’approvazione o l’autorizzazione di contratti o subcontratti ovvero la concessione di contributi pubblici per lo svolgimento di attività di natura imprenditoriale sono impedite da: 1. cause di divieto o di sospensione tassativamente indicate nell’allegato 1 al D.Lgs. 490/1994; 2. tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate. I tentativi di infiltrazione mafiosa possono essere desunti da: - provvedimenti o proposte di provvedimenti, come indicato nelle lett. a) e b) dell’art. 10, co. 7, d.P.R. 252/1998; - accertamenti prefettizi, come indicato nella successiva lett. c). L’attività amministrativa, quindi, è vincolata non soltanto in relazione all’adozione dell’atto ma anche per quanto attiene all’accertamento dei presupposti quando la stipulazione del contratto o l’erogazione del contributo è negata per la sussistenza di cause interdittive 318 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 318 specificamente previste dalla legge e cioè per la presenza di cause di divieto o di sospensione espressamente indicate nell’allegato 1 al D.Lgs. 490/1994, mentre è comunque vincolata nell’adozione dell’atto ma è discrezionale nella valutazione dei presupposti quando la causa interdittiva consiste nella presenza di tentativi di infiltrazione mafiosa desunti da provvedimenti o proposte di provvedimenti ai sensi dell’art. 10, co. 7, lett. a) e b), ovvero da accertamenti prefettizi ex art. 10, co. 7, lett. c), d.P.R. 252/1998. La discrezionalità nella valutazione dei presupposti a base dell’atto, peraltro, è di latitudine maggiore in tale ultima ipotesi in quanto le “infiltrazioni” possono essere dedotte anche da parametri non predeterminati normativamente. In tal caso, infatti, rientra nel potere discrezionale del Prefetto ogni valutazione dei fatti e delle circostanze emergenti dall’attività investigativa demandata agli organi di polizia. L’intento del legislatore nella materia de qua è quello di accostare alle misure di prevenzione antimafia un altro significativo strumento di contrasto della criminalità organizzata, consistente nell’esclusione dell’imprenditore, che sia sospettato di legami o condizionamento da infiltrazioni mafiose, dal mercato dei pubblici appalti e, più in generale, dalla stipula di tutti quei contratti e dalla fruizione di tutti quei benefici che presuppongono la partecipazione di un soggetto pubblico e l’utilizzo di risorse della collettività (ex multis: Cons. Stato, VI, 24 ottobre 2000, n. 5710). Ne consegue che la fase istruttoria del procedimento finalizzato a rendere la certificazione antimafia e, quindi, anche a comunicare la presenza di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi di un’impresa si concreta essenzialmente nell’acquisizione di tutte le informazioni di cui le autorità di pubblica sicurezza sono in possesso al fine di effettuare, sulla base di tali risultanze, una obiettiva valutazione sulla possibilità di un eventuale utilizzo distorto del danaro pubblico che la normativa di settore mira ad evitare e di compiere la conseguente scelta sulla sussistenza o meno dei presupposti previsti dalla legge per l’adozione della misura inibitoria. In particolare, il collegamento con la disciplina delle misure di prevenzione – che, come detto, partecipano della medesima ratio di quelle in esame, intesa a combattere le associazioni mafiose con l’efficace aggressione dei loro interessi economici – testimonia del fatto che le preclusioni dettate dalle richiamate norme di legge costituiscono una difesa molto avanzata dell’autorità pubblica contro il fenomeno mafioso in quanto gli istituti de quibus si basano su un accertamento di grado inferiore e ben diverso da quello richiesto per l’applicazione della sanzione penale. È stato chiarito, in sostanza, che la cautela antimafia non mira all’accertamento di responsabilità, ma si colloca come la forma di massima anticipazione dell’azione di prevenzione, inerente alla funzione di polizia e di sicurezza, rispetto a cui assumono rilievo, per legge, fatti e vicende solo sintomatici e indiziari, al di là dell’individuazione di responsabilità penali (T.A.R. Campania, Napoli, I, 12 giugno 2002 n. 3403; Cons. Stato, VI, 11 settembre 2001 n. 4724). In altri termini, le informative prefettizie in materia di lotta antimafia possono essere fondate su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e mirano alla prevenzione di infiltrazioni mafiose e criminali nel tessuto economico imprenditoriale, anche a prescindere dal concreto accertamento in sede penale di reati (Cons. Stato, VI, 29 febbraio 2008, n. 756). Il divieto di contrarre e di rilasciare concessioni o erogazioni, in definitiva, ha una funzione spiccatamente cautelare ed in quanto tale prescinde dal concreto accertamento in sede penale di uno o più reati che vi siano direttamente connessi (Cons. Stato, IV, 25 luglio 2001 n. 4065). IL CONTENZIOSO NAZIONALE 319 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 319 Peraltro, il delicato equilibrio tra gli opposti interessi che fanno capo, da un lato, alla presunzione di innocenza di cui all’art. 27 Cost. ed alla libertà d’impresa costituzionalmente garantita e, dall’altro, alla efficace repressione della criminalità organizzata ed alla conseguente neutralizzazione delle imprese infiltrate dal crimine organizzato, dà atto che l’interpretazione della normativa in esame deve essere improntata ad una particolare analisi soprattutto per l’accertamento degli eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte, che richiede l’utilizzo di concetti indeterminati e rimessi, come detto, alla valutazione discrezionale dell’amministrazione prefettizia. Di talché, attesa l’autonomia del procedimento amministrativo rispetto a quello giurisdizionale penale, se, da un lato, non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, dall’altro, per evitare il travalicamento in uno “stato di polizia” e salvaguardare i principi di legalità e di certezza del diritto, non possono ritenersi sufficienti fattispecie fondate sul semplice sospetto o su mere congetture prive di riscontro fattuale, mentre occorre che siano individuati idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o collegamenti con le predette associazioni (T.A.R. Campania, Napoli, III, 12 ottobre 2001 n. 4553; T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 23 novembre 2000, n. 1957). L’informativa antimafia, quindi, deve fondarsi su di un quadro fattuale di elementi che, pur non dovendo assurgere necessariamente a livello di prova (anche indiretta), siano tali da far ritenere ragionevolmente, secondo l’id quod plerumque accidit, l’esistenza di elementi che sconsigliano l’instaurazione di un rapporto con la pubblica amministrazione (Cons. Stato, VI, 29 febbraio 2008, n. 756). La valutazione rimessa all’autorità prefettizia dalla normativa di riferimento per quanto attiene alla sussistenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società interessate, per la specifica natura del giudizio formulato, è peraltro connotata dall’utilizzo di peculiari cognizioni di tecnica investigativa e poliziesca e, pertanto, può definirsi tipico esercizio di discrezionalità tecnica, che esclude la possibilità per il giudice amministrativo di svolgere un sindacato pieno e assoluto, ma non impedisce allo stesso di formulare un giudizio di logica e congruità delle informazioni assunte e di poter eventualmente rilevare se ictu oculi i fatti riferiti dal Prefetto configurino o meno la fattispecie prevista dalla norma (T.A.R. Campania, Napoli, III, 4 aprile 2002 n. 1861). Pertanto, la valutazione rimessa all’autorità prefettizia dalla normativa di riferimento, per la specifica natura del giudizio formulato, è sindacabile dal giudice amministrativo solo se emergano manifesti vizi logici e di congruità con riguardo alle informazioni assunte o alle deduzioni che da esse sono state tratte (T.A.R. Campania, Napoli, III, 19 settembre 2007, n. 7875). La ragione per la quale l’amministrazione ritiene sussistenti concreti e concordanti elementi comprovanti il condizionamento mafioso delle imprese C. ed E. può essere riassunta nel fatto che le dette società sono riconducibili alla famiglia di imprenditori V. di (…) e che a carico di C., V., F. e G. V. risultano gravi pregiudizi per mafia nonché una contiguità con l’organizzazione criminale mafiosa denominata Cosa Nostra. La situazione descritta appare idonea a configurare in concreto la fattispecie astratta prevista dalla norma. In primo luogo, occorre considerare che il mero rapporto di parentela, in assenza di ulteriori specificazioni, non è di per sé solo idoneo a dare conto del tentativo di infiltrazione in quanto, a prescindere dall’eventuale partecipazione del genitore ad organizzazioni di stampo mafioso, non può ritenersi sussistente un vero e proprio automatismo tra un legame familiare, 320 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 320 sia pure tra padre e figlio, e l’inequivoca volontà dell’organizzazione criminosa di condizionare le scelte e gli indirizzi sociali e, d’altra parte, se l’eventuale attività pregiudizievole posta in essere da un genitore dovesse riverberarsi sic et simpliciter sull’attività imprenditoriale di un figlio, quest’ultimo sarebbe, senza sua colpa, nell’impossibilità di potere svolgere attività costituzionalmente tutelate (T.A.R. Campania, Napoli, III, 22 febbraio 2003, n. 1171). Purtuttavia, quando si tratta di vincoli particolarmente significativi (come quello esistente tra padre e figlio) deve essere attentamente valutato ogni ulteriore elemento e, nel caso di specie, accanto all’elemento parentale vi sono altri elementi dai quali è ragionevole dedurre che sussistano collegamenti tra i soggetti sul cui conto l’autorità prefettizia ha individuato dei pregiudizi e le due società. In particolare: per quanto concerne E. S.r.l., la Società risulta costituita nel 1996 da V. V., il figlio S. ed il nipote G., nel 2003 il capitale sociale era ripartito tra V. e S. V. e dal 2005 le quote sono ripartite tra S. (di V.) V. e G. (di C.) V.; per quanto concerne C., la società è stata costituita nel 1980 da V., F. e C.V., nell’anno 2002 il capitale sociale è ripartito tra C. e V. V. ed attualmente le quote societarie sono ripartite tra S. (di C.) e G. (di V.) V. a seguito di donazione del 4 maggio 2004 da parte dei rispettivi genitori. Da tale quadro fattuale, è possibile evincere la presenza “storica” in entrambe le società di V. V. e, in specie in relazione a C., di C.V. e la circostanza che attualmente i predetti non siano più titolari di quote societarie, ripartite in epoca molto recente tra loro figli e, per quanto riguarda C., a seguito di donazione da parte dei genitori, non può portare logicamente ad escludere che il loro collegamento con le società sia ancora attuale e persistente. La questione centrale della controversia, allora, riguarda la sussistenza o meno di elementi pregiudizievoli sul conto di V. e C. V., tali da giustificare l’adozione dell’interdittiva antimafia ai sensi dell’art. 10 d.P.R. 252/1998. Le censure avanzate dalle ricorrenti sono indubbiamente corpose in quanto mirano a dimostrare che i pregiudizi ai quali l’informativa antimafia fa riferimento sono in realtà privi di significato essendo stati i procedimenti a carico di C. e V. V. archiviati o comunque definiti in modo tale da non accertare loro responsabilità. Sotto tale profilo, le doglianze sono pertinenti e congrue in quanto danno anche conto del fatto che l’informativa in parte qua non si presenta aggiornata; esse, tuttavia, si rivelano insufficienti a rendere irragionevole e illogica o anche viziata per travisamento dei fatti la determinazione assunta dall’autorità prefettizia. In primo luogo, occorre osservare – sebbene tale considerazione di per sé sola non sarebbe sufficiente a dare conto di specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni con la criminalità organizzata – che i predetti soggetti, pur preso atto che i relativi procedimenti non si sono conclusi con l’accertamento di responsabilità, sono stati comunque coinvolti in una molteplicità di vicende anche in relazione a fatti di tipo associativo ed ai sensi della normativa antimafia. Nel caso di specie, però, assumono fondamentale rilievo, al fine di integrare la fattispecie astratta prevista dalla norma e di determinare il passaggio della valutazione compiuta dalla Prefettura dalla semplice congettura ad un’ipotesi ragionevole di interdizione antimafia poiché basata su specifici elementi fattuali sintomatici, le dichiarazioni rese da taluni collaboratori di giustizia. In particolare: dalle dichiarazioni rese da S.G.B. alla Procura della Repubblica di Palermo il 5 maggio 1995 “… Era presente alla discussione anche il V. C. che mi fu ritualmente presentato come uomo d’onore dal P. in altra occasione e che era dal S. per una sua gara. Preciso che il V. potè assistere alla discussione proprio perché uomo d’onore e dunque per lui non c’erano segreti …”; IL CONTENZIOSO NAZIONALE 321 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 321 dalle dichiarazioni rese da P.L.C. alla D.D.A. Procura Repubblica Palermo: il 22 luglio 1996 “… Conosco V. C. quale imprenditore di sicuro riferimento; ricordo che mi rivolsi al V. per avere “protezione” per un lavoro a C. S. Il V. parlò con chi di competenza e successivamente ho saputo che il mio socio B.ha pagato circa lire 5 milioni”; in data 8 agosto 1996 “… Quando Cosa Nostra decise di gestire gli appalti pubblici, il V. era stato candidato a tale operazione, prima del S. Vorrei precisare che questo episodio me lo ha raccontato direttamente lui, una volta quando ci venne a trovare in via S. Addirittura in quell’occasione mi raccontò anche che il V. C. aveva un terreno vicino a quello di Totò Riina, che conosceva personalmente, e secondo me lui è uno dei pochi che può vantare tale conoscenza, e tale conoscenza si può comprendere dal fatto che il V. si permette di andare a fare lavori in tutta la Sicilia con i suoi mezzi senza avere nemmeno la preoccupazione di avere incidenti. Ricordo anche che gli S., che avevano una vera e propria adorazione per il V., lo avevano soprannominato il “Papà” e sono stati proprio loro a presentarmelo quando io non avevo ancora la mia attività d’impresa”. “(…) Il V. conosce tutti, tutti e tutto – tutti e tutto dell’ambiente mafioso, del gotha mafioso di (…)” Il V. era un soggetto che aveva rapporti con mafiosi, ma non dal calibro, di piccolo calibro, perché C.V. per la sua posizione era forse uno dei pochi che conosceva secondo me Totò Riina, cioè è uno dei pochi che ha avuto rapporti con personaggi molto più in alto di quelli che potevo avere io, o chiunque altro. “Ha avuto la possibilità di conoscere questi personaggi che era difficile conoscere nel mondo imprenditoriale, non era facile, cioè il massimo che potevano arrivare ogni imprenditore era o il mafioso del luogo o … massimo S., ma arrivare ai vertici di Brusca, di Riina, arrivavano solo pochi ristretti e uno di questi era V., che aveva questo rapporto, che aveva con questi grossi personaggi mafiosi.”; in data 15 dicembre 1998 “ (…) Dei fratelli V. il più intraprendente è senz’altro C. con il quale peraltro avevo un rapporto particolarmente stretto, al punto che egli non esitava a confidarmi che la sua impresa disponeva la diretta protezione della fazione dei corleonesi di Cosa Nostra e dello stesso Salvatore Riina (…)”. Il provvedimento prefettizio di interdizione antimafia soggiunge che anche A. S. ha dichiarato di avere più volte incontrato C. V. – una volta in compagnia dell’allora latitante Giovanni Brusca – in quanto faceva parte di quel gruppo di ditte che si aggiudicavano lavori con l’avallo di “Cosa Nostra” e che il V. era stato accreditato presso l’Organizzazione (dalla quale non era ben visto in un primo momento), grazie all’intervento del noto F. Pastoia … (già uomo di fiducia di Bernardo Provenzano), successivamente suicidatosi in carcere. Sulla base di tali convergenti dichiarazioni – tenuto anche conto della eccezionale delicatezza della situazione ambientale in cui si innesta la fattispecie – la valutazione effettuata dall’autorità amministrativa circa la sussistenza di concreti e concordanti elementi comprovanti il condizionamento mafioso delle Società non può dirsi irragionevole o illogica. Né può sminuire il valore indiziario delle richiamate dichiarazioni dei collaboratori di giustizia la circostanza, sostenuta con i motivi aggiunti, che al sig. V. tali dichiarazioni non sono mai state contestate e che egli non è mai stato imputato di reati ex art. 416 bis c.p. atteso che, come più volte evidenziato, la cautela antimafia non mira all’accertamento di responsabilità, ma rappresenta la forma di massima anticipazione dell’azione di prevenzione, rispetto alla quale assumono rilievo, per legge, fatti e vicende solo sintomatici e indiziari, al di là dell’individuazione di responsabilità penali. L’argomentazione secondo cui i sigg.ri V. avrebbero inoltrato decine di denunce alle Forze dell’Ordine per respingere tentativi di condizionamento da parte di organizzazioni criminali, infine, non può viziare la logicità e la congruenza della determinazione adottata in quanto, a prescindere dall’esame del contenuto delle stesse, non sono comunque idonee a 322 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 322 IL CONTENZIOSO NAZIONALE 323 porre nel nulla gli elementi indiziari sulla cui base l’interdizione antimafia è stata adottata. 5. Di qui, l’infondatezza dell’impugnativa proposta con motivi aggiunti cui segue l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse dell’impugnativa proposta con il ricorso introduttivo del giudizio, non potendo le ricorrenti trarre alcun vantaggio dall’eventuale accoglimento della stessa anche relativamente alla censura con cui è contestato l’ulteriore motivo di esclusione dalla gara, vale a dire la mancanza del requisito della regolarità contributiva al momento dell’offerta di una delle ditte mandanti. 6. Sussistono giuste ragioni, considerata la peculiarità della fattispecie, per disporre la compensazione delle spese del giudizio tra le parti. P.Q.M. il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Prima Sezione di Roma, dichiara improcedibile l’impugnativa proposta con il ricorso introduttivo del giudizio e respinge l’impugnativa proposta con i motivi aggiunti. Dispone la compensazione delle spese di giudizio tra le parti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 4 giugno 2008 (…)». 03 cont naz 07 mezzotero.qxp 06/04/2009 14.44 Pagina 323 324 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 Il concetto di atto politico non “giustiziabile” (Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, sezione prima, sentenza 31 dicembre 2008 n. 12539) Con la sentenza in rassegna, il T.A.R., nel condividere l’eccezione in rito sollevata dall’Avvocatura dello Stato, ha dichiarato inammissibile il ricorso di controparte (l’Unione degli atei ed agnostici razionalisti, sedicente “confessione religiosa di segno “negativo”) , ritenendo che il provvedimento impugnato (nella specie la deliberazione del 27 novembre 2003 con la quale il Consiglio dei Ministri si era rifiutato di avviare le trattative finalizzate alla stipula dell’intesa di cui all’art. 8, comma 3, Cost.) rientri nella categoria degli “atti politici” sottratti in assoluto al sindacato giurisdizionale ex art. 31 R.D. 26 giugno 1924, n. 1054, sul rilievo che il Governo è libero di assumere le più ampie determinazioni nella materia dei rapporti con le confessioni religiose (materia che la Costituzione innalza al rango di elemento fondativo della collettività), salva la responsabilità politica nei confronti del Parlamento e, in ultima analisi, del corpo elettorale, con la conseguenza che la confessione religiosa che aspiri alla stipula dell’intesa è titolare non già di una situazione soggettiva qualificata, e dunque di una pretesa “giustiziabile” alla conclusione dell’intesa, bensì di un’aspirazione di mero fatto; pertanto una sentenza impositiva (attraverso l’effetto conformativo del giudicato) dell’obbligo di intraprendere una trattativa preordinata alla stipulazione di un’intesa ovvero, nel caso estremo, di stipulare l’intesa stessa, contrasterebbe con l’assetto dei poteri delineato dalla Carta Fondamentale”. Avv. Giovanni Palatiello(*) Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, sezione prima, sentenza 31 dicembre 2008 n. 12539 – Pres. G. Giovannini – Rel. M. A. di Nezza – Unione degli atei ed agnostici razionalisti (Uaar) (Avv. F. Leurini) c/ Consiglio dei ministri e Presidenza del Consiglio dei Ministri (ct. 8073/04, Avv. dello Stato G. Palatiello) e nei confronti di Tavola Valdese, Assemblee di Dio in Italia, Unione delle chiese cristiane avventiste del settimo giorno, Unione delle comunità ebraiche italiane,Unione cristiana evangelica battista in Italia, Chiesa evangelica luterana in Italia, Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova, Unione buddhista in Italia. «(…) Fatto e diritto Con ricorso notificato il 3 febbraio 2004, ritualmente depositato, l’Unione degli atei ed agnostici razionalisti (UAAR), esponendo di essere un’associazione privata costituita tra atei ed agnostici per il raggiungimento di una serie di scopi (indicati dall’art. 2 dello statuto) – quali la “promozione della conoscenza delle teorie atee e agnostiche e di ogni concezione razionale del mondo della vita e dell’uomo”; il “sostegno alle istanze pluralistiche nella divulgazione delle diverse concezioni del mondo e nel confronto fra di esse, opponendosi (*)Avvocato dello Stato. 03 cont naz 08 palatiello.qxp 06/04/2009 14.46 Pagina 324 all’intolleranza, alla discriminazione e alla prevaricazione”; il “superamento del principio della libertà di religione in favore del principio del pari trattamento da parte degli stati e delle loro articolazioni di tutte le scelte filosofiche e concezioni del mondo, comprese […] quelle non religiose”; la riaffermazione, nella concreta situazione italiana, della completa laicità dello Stato lottando contro le discriminazioni giuridiche e di fatto, aperte e subdole, contro atei ed agnostici, pretendendo l’abolizione di ogni privilegio accordato alla religione cattolica e promuovendo la stessa abrogazione dell’articolo 7 della Costituzione che fa propri i Patti lateranensi fra Stato italiano e Vaticano” – e di far parte delle associazioni Internazional Humanist and Ethical Union e Fédération Humaniste Européenne, riconosciute a livello internazionale (da Onu, Unisco, Unicef, ecc.), premettendo altresì di aver più volte domandato allo Stato italiano di stipulare un’intesa ai sensi dell’art. 8, 3° comma, della Costituzione, ha chiesto l’annullamento della deliberazione del 27 novembre 2003, con cui il Consiglio dei ministri si è rifiutato di intraprendere le trattative propedeutiche a detta stipulazione, sul rilievo dell’impossibilità di applicare l’invocata norma costituzionale a fattispecie nelle quali non venisse in considerazione una “confessione religiosa”. Asostegno del gravame la ricorrente – ricordata la vicenda del precedente annullamento, a seguito di ricorso straordinario deciso con d.P.R. 1 febbraio 2001, di una determinazione di analogo tenore assunta da un organo reputato incompetente (il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio) e vantata la titolarità di una posizione di interesse legittimo all’inizio delle trattative – si è anzitutto soffermata sulla propria natura di “confessione religiosa”. Tale carattere discenderebbe direttamente dalla protezione accordata ad ateismo e agnosticismo dall’art. 19 Cost. sulla tutela della libertà religiosa e dalle finalità perseguite da essa istante, soggetto collettivo “che raggruppa persone che condividono un medesimo credo – di segno negativo – in materia di religione e che si sono associate allo scopo di diffondere le proprie convinzioni religiose e di difenderle di fronte a prassi o a provvedimenti discriminatori”. Sarebbe in particolare errata l’opinione del Governo di considerare l’ “ateismo organizzato” estraneo all’ambito applicativo dell’art. 8 Cost., disposizione che sarebbe incentrata su un “fatto di fede” e su un “contenuto religioso di tipo positivo”, laddove l’ateismo e l’agnosticismo sarebbero rispettivamente, nella loro essenza, “negazione della religione” e “indifferenza al fenomeno religioso”. E tanto alla luce di una serie di elementi, quali: a) l’equivalenza di tipo logico ancor prima che giuridico, dal punto di vista dello Stato laico, del convincimento di chi afferma e di chi al contrario nega l’esistenza di un Essere trascendente; b) la portata del principio di eguaglianza formale espresso dall’art. 3 Cost. e del conseguente divieto di porre in essere trattamenti discriminatori (come sarebbe quello di impedire la fruizione della posizione di favore riconosciuta alle confessioni stipulatarie di intese); c) il contenuto concreto delle intese raggiunte con alcune confessioni acattoliche, posto che anche un’associazione di atei ed agnostici sarebbe pienamente legittimata, alla stessa stregua di una confessione religiosa, a insegnare nelle scuole la propria concezione del mondo, a rendere conforto umanistico in strutture ospedaliere o carcerarie (humanist counselling), ad accedere al sistema dell’informazione; d) l’esperienza di altri paesi, come ad esempio il Belgio, ove esisterebbero rapporti di collaborazione tra Stato e associazioni umanitarie; e) i principi enunciati da atti internazionali, aventi una valenza quantomeno sul piano interpretativo, come la dichiarazione n.11 annessa al Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997. La ricorrente ha pertanto contestato l’interpretazione restrittiva data dal Consiglio dei Ministri all’art. 8 Cost., dolendosi della mancata verifica della sussistenza, in concreto, di quell’unità ideologica e organizzativa idonea a qualificare in senso tecnico una qualsiasi confessione religiosa. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 325 03 cont naz 08 palatiello.qxp 06/04/2009 14.46 Pagina 325 In aggiunta a tali rilievi – partitamene ripresi nei motivi prospettanti i vizi di eccesso di potere per travisamento dei fatti (n. 5 ric.), per difetto di istruttoria, non risultando acquisiti né il parere del ministero dell’Interno, previsto dalla prassi, né quello della Commissione consultiva sulla libertà religiosa istituita dal d.P.C.M. 14 marzo 1997 (n. 6 ric.) e per sviamento (n. 11 ric.), nonché la violazione dei principi costituzionali di eguaglianza (n. 9 ric.) e di laicità dello Stato (n. 10 ric.) – , essa si è ancora doluta della violazione così dell’art. 1, comma 1, lett. ii, legge 12 gennaio 1001, n. 13, stante la mancata approvazione del diniego con decreto del Presidente della Repubblica (n. 4 ric.), come dell’art. 3 legge 241 del 1990, in ragione del rinvio per relationem al parere, asseritamene tautologico, dell’Avvocatura erariale (n. 7), come pure degli artt. 2, 3, comma 1, e 18 Cost., coincidendo la negazione della specifica identità della ricorrente con il disconoscimento della causa associativa del gruppo sociale e dunque con la lesione della libertà di associazione (n. 8 ric.). Si è costituita in resistenza l’amministrazione, che, difesasi anche nel merito, ha tuttavia eccepito in limine il difetto assoluto di giurisdizione ai sensi dell’art. 31 r.d. 26 giugno 1924, n. 1054: l’impugnativa riguarderebbe infatti una determinazione rientrante nella categoria degli “atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico”, presentandone entrambi i requisiti, soggettivo (in quanto adottato dall’organo cui compete la funzione di indirizzo politico e di direzione della cosa pubblica) e oggettivo (le “intese” non potrebbero essere assimilate a accordi di tipo negoziale, suscettibili di scrutinio sotto il profilo della conformità a preesistenti regole giuridiche o a principi di buona amministrazione, ma sarebbero atti riconducibili esclusivamente alla sfera di libertà riconosciuta al Governo in materia religiosa). Successivamente, depositata dalla ricorrente una memoria di replica alle argomentazioni della difesa erariale, alla suindicata udienza di discussione la causa è stata trattenuta in decisione. 2.Il ricorso è inammissibile, apparendo meritevole di condivisione l’eccezione in rito sollevata dalla difesa erariale. 2.1.Valga in proposito rammentare che nel definire la portata applicativa dell’art. 31 r.d. 26 giugno 1924, n. 1054 (“il ricorso al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale non è ammesso se trattasi di atti o provvedimenti adottati dal Governo nell’esercizio del potere politico”), la giurisprudenza amministrativa ha chiarito come gli “atti politici” costituiscano “espressione della libertà (politica) commessa dalla Costituzione ai supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione di esigenze unitarie ed indivisibili a questo inerenti”, essendo parimenti “liberi nella scelta dei fini” (a differenza dei provvedimenti amministrativi, i quali, “anche quando sono espressione di ampia discrezionalità, sono comunque legati ai fini posti dalla legge”), e ha precisato come essi siano “caratterizzati da due profili: l’uno soggettivo, dovendo provenire l’atto da organo di pubblica amministrazione, seppure preposto in modo funzionale e, nella specifica vicenda, all’indirizzo e alla direzione al massimo livello della cosa pubblica, e l’altro oggettivo, dovendo riguardare la costituzione, la salvaguardia e il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione” (Cons. Stato, sez. V, 23 gennaio 2007, n. 209). In sintesi, secondo questo orientamento non sono soggetti a controllo giurisdizionale “solo un numero estremamente ristretto di atti in cui si realizzano scelte di specifico rilievo costituzionale e politico; atti che non sarebbe corretto qualificare come amministrativi e in ordine ai quali l’intervento del Giudice determinerebbe un’interferenza del potere giudiziario nell’ambito di altri poteri” (così Cons. Stato, sez. IV, n. 209/2007 cit.; v. anche Cons. Stato, sez. VI, 22 gennaio 2002, n. 360, sez. IV, 12 marzo 2001, n. 1397, nonché, da ultimo, 326 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 08 palatiello.qxp 06/04/2009 14.46 Pagina 326 sez. IV, 13 marzo 2008, n. 1053, sull’inammissibilità dell’impugnazione dei provvedimenti governativi, assunti successivamente all’emanazione del decreto del Presidente della Repubblica di scioglimento delle Camere e della delibera del Consiglio dei ministri di fissazione della data delle elezioni, volti a disciplinare il procedimento delle operazioni elettorali, sul rilievo che tali atti, costituenti adempimenti conseguenti al decreto di indizione dei comizi elettorali, vadano appunto qualificati alla stregua di atti politici). Riguardata dallo speculare punto di vista della posizione legittimante (scil. all’accesso alla tutela giurisdizionale), di fronte ad atti politici non insorge, in capo ad eventuali interessati, alcuna situazione giuridica soggettiva tutelabile, ciò che si traduce, in termini processualistici, in difetto assoluto di giurisdizione. 2.2. Venendo al caso concreto, l’art. 8 della Costituzione, enunciato al 1° comma il principio che “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge” e riconosciuto alle “confessioni religiose diverse dalla cattolica” il “diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano” (2° comma), stabilisce al successivo 3° comma, oggi in rilievo, che “i loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”. In una delle sue prime sentenze la Corte costituzionale ebbe ad operare la distinzione “fra la libertà di esercizio dei culti acattolici come pura manifestazione di fede religiosa, e la organizzazione delle varie confessioni nei loro rapporti con lo Stato”, distinzione che, “evidente dal punto di vista logico, trova nettamente fissato il suo positivo fondamento giuridico negli artt. 8 e 19 della Costituzione” (la prima, inserita nei “principi fondamentali” e l’altra nel titolo dei rapporti civili e, più specificamente, nella parte relativa ai diritti di libertà). La Corte, ritenuto in particolare che a fronte della dichiarazione di libertà di esercizio del culto in quanto tale (art. 19) il legislatore costituente “non ha mancato di considerare le confessioni religiose anche dal punto di vista, che è del tutto diverso, della loro organizzazione secondo propri statuti e della disciplina dei loro rapporti giuridici con lo Stato” (art. 8) attraverso “intese con le relative rappresentanze”, ha chiarito che “la istituzione di tali rapporti, essendo diretta ad assicurare effetti civili agli atti dei ministri del culto, oltre che agevolazioni di vario genere, riveste, per ciò stesso, carattere di facoltà e non di obbligo”, non potendosi escludere “che si abbia il caso di una confessione religiosa che tali rapporti con lo Stato non intenda promuovere, rinunziando a tutto ciò che a suo favore ne conseguirebbe, e limitandosi al libero esercizio del culto quale è garantito dalla Costituzione” ovvero occorrendo considerare “più concretamente, il caso di rapporti che si intenda ma che, per una ragione qualsiasi, non si riesca a regolare” (sent. n. 59 del 24 novembre 1958). Tali affermazioni (al di là della terminologia adoperata, derivando il riferimento ai “culti acattolici” dalle norme oggetto di quel giudizio, come segnalato da Corte cost. n. 195 del 1993) sono ancora attuali, valendo a definire i limiti del potere giurisdizionale nel senso che, come esattamente rilevato dalla difesa erariale, il Governo (cui la 1. n. 400 del 1988 ha intestato l’attribuzione in disamina) è libero di assumere le più ampie determinazioni nella materia dei rapporti con le confessioni religiose, salva la responsabilità politica nei confronti del Parlamento e, in ultima analisi, del corpo elettorale, con la conseguenza che la confessione religiosa che aspiri alla stipula dell’intesa è titolare non già di una situazione soggettiva qualificata, e dunque di una pretesa “giustiziabile” alla conclusione dell’intesa, sibbene di un’aspirazione di mero fatto. In buona sostanza, una decisione giurisdizionale impositiva (attraverso l’effetto conformativo del giudicato) dell’obbligo di intraprendere una trattativa finalizzata alla stipulazio- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 327 03 cont naz 08 palatiello.qxp 06/04/2009 14.46 Pagina 327 ne di un’intesa ovvero, nel caso estremo, di stipulare l’intesa stessa, contrasterebbe con l’assetto dei poteri delineato dalla Costituzione, a nulla valendo opporre in contrario (v. mem. 24 ottobre 2008 ric.): a) il difetto di presupposto oggettivo per la configurabilità nella specie di un atto politico, poiché, al contrario, è proprio la Costituzione che prende in considerazione il fenomeno religioso in tutte le sue espressioni, anche di segno negativo, e in tal modo lo innalza al rango di elemento fondativo della collettività; b) né il collegamento con un iter legislativo finalizzato al recepimento ex latere publico dell’intesa, trattandosi di argomentazione accessoria insuscettibile di incidere sulle conclusioni innanzi esposte; c) né infine, men che meno, la pretesa lesione dell’interesse religioso delle minoranze (alla tutela del quale sarebbe preordinata la norma costituzionale in disamina), stante il fondamentale e inviolabile diritto di libertà religiosa garantito dalla Costituzione stessa. Giova osservare, a quest’ultimo riguardo, che il principio di laicità dello Stato non è certo vulnerato dalla mancata stipulazione di un’intesa, tenuto conto della giurisprudenza costituzionale che riconosce alle confessioni acattoliche il diritto di fruire anche di benefici derivanti dalla legislazione statale allorquando essi siano finalizzati ad agevolare l’effettivo godimento del ridetto diritto di libertà religiosa. Significativa in tal senso è la decisione della Corte costituzionale n. 195 del 1993, secondo cui, rispetto all’assegnazione di benefici di tal genere, ciascuna confessione religiosa – che tale risulti non in base a mera autoqualificazione, ma a precedenti riconoscimenti, allo statuto o almeno alla comune considerazione – è idonea a rappresentare gli interessi religiosi dei suoi appartenenti, indipendentemente dal suo status e senza possibilità di discriminazione, stante l’eguale libertà di tutte le confessioni davanti alla legge (nella specie si trattava dell’attribuzione, con legge regionale, di aree riservate e di contributi finanziari per la realizzazione di edifici di culto, attribuzione reputata ragionevolmente condizionata e proporzionata alla presenza nel territorio comunale della confessione che richiedeva i benefici, ma che non poteva essere negata alle confessioni acattoliche che non avessero ancora stipulato l’intesa con lo Stato o che fossero prive di statuto organizzativo ai sensi del 2° comma dell’articolo 8 Cost.). Risulta pertanto come l’iniziativa della ricorrente si sia collocata nell’ambito di un procedimento di natura politica, non già di natura amministrativa, con conseguente insussistenza di situazioni giuridiche soggettive individuali azionabili in sede giurisdizionale. 2.3.Da quanto detto sortisce la palese ininfluenza tanto delle deduzioni dell’UAAR circa la propria natura confessionale quanto delle doglianze di tipo procedurale parimenti proposte con l’atto introduttivo della controversia, non potendo in particolare trarsi argomenti, a sostegno della tesi dell’associazione istante, dall’esito del ricorso straordinario (l’annullamento per incompetenza postulando, nell’ottica della ricorrente, un implicito riconoscimento della giurisdizione), alla luce dell’insuscettibilità del decreto decisorio di divenire res iudicata. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 31 r.d.n. 1054 del 1924. La peculiarità della questione consente peraltro di ravvisare giusti motivi per disporre l’integrale compensazione delle spese di lite tra le parti. P.Q.M. Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione prima, definitivamente pronunciando, dichiara il ricorso inammissibile. (…) Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 5 novembre 2008». 328 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 08 palatiello.qxp 06/04/2009 14.46 Pagina 328 Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, sezione prima, udienza del 5 novembre 2008 – Memoria nell’interesse della Presidenza del Consiglio dei Ministri con l’Avvocatura Generale dello Stato (ct. 8073/04, Avv. dello Stato G. Palatiello) nel giudizio promosso da Unione degli Atei ed Agnostici Razionalisti – UAAR. «(…) Fatto e svolgimento del processo Con il ricorso in trattazione, l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (d’ora in poi UAAR), associazione non riconosciuta di “atei ed agnostici” costituita con atto notarile del 13 marzo 1991, chiede l’annullamento della delibera del Consiglio dei Ministri in data 27 novembre 2003 (e della conseguente nota del Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio in data 5 dicembre 2003), con la quale il Governo, recependo e facendo proprio il parere reso dall’Avvocatura Generale dello Stato, ha deciso di non avviare le trattative finalizzate alla conclusione dell’intesa ai sensi dell’art. 8, comma 3, della Costituzione, ritenendo, in sostanza, che la professione dell’ateismo non possa essere assimilata ad una “confessione religiosa” nell’accezione recepita dal legislatore costituente. A sostegno del gravame l’UAAR deduce violazione dell’art. 1, comma 1, lett. ii) della Legge 12 gennaio 1991, n. 13 poiché l’impugnato diniego sarebbe stato esternato con mera nota del Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio e non invece con decreto del Presidente della Repubblica, che sarebbe, invece, richiesto per tutti gli atti per i quali è intervenuta la deliberazione del Consiglio dei Ministri. Nel merito si sostiene che, contrariamente a quanto opinato dalla Presidenza del Consiglio, l’UAAR avrebbe natura di vera e propria confessione religiosa ex art. 8, comma 3, della Costituzione. Dall’erronea interpretazione del disposto costituzionale sarebbe poi conseguita l’omissione dell’istruttoria circa l’idoneità della richiedente a stipulare l’intesa con lo Stato. In particolare, i prescritti pareri della Direzione Generale Affari di Culto presso il Ministero dell’Interno e della Commissione Consultiva sulla libertà religiosa, istituita presso la Presidenza del Consiglio sarebbero stati illegittimamente “surrogati”, in via del tutto “anomala” dal parere dell’Avvocatura dello Stato, organo diverso da quelli normalmente coinvolti nel procedimento di intesa. Gli atti impugnati non motiverebbero autonomamente la decisione di non dare corso alla trattativa finalizzata all’intesa, limitandosi a rinviare al parere reso dall’Avvocatura dello Stato. La negazione della specifica identità “confessionale” dell’UAAR si tradurrebbe nella violazione del diritto di associarsi liberamente; risulterebbero, altresì, violati il principio di uguaglianza di cui agli artt. 3, comma 1, ed 8, comma 1, Cost. rispetto alle altre confessioni religiose, nonché il principio costituzionale di laicità dello Stato. La discussione del ricorso è stata fissata per l’udienza pubblica del 5 novembre 2008. Il ricorso è inammissibile e, comunque, infondato per le seguenti ragioni in punto di Diritto 1) In via pregiudiziale: difetto assoluto di giurisdizione ex art. 31 r.d. 26 giugno 1924, n. 1054. L’impugnata delibera con la quale il Consiglio dei Ministri ha deciso di non avviare le trattative per la stipula dell’intesa ex art. 8, comma 3, Cost. è un atto politico sottratto al sindacato giurisdizionale ex art. 31 r.d. 26 giugno 1924, n. 1054. 1.1) Al riguardo si osserva, innanzitutto, che la questione della insindacabilità della decisione del Governo di non stipulare l’intesa di cui all’art. 8, comma 3, Cost. non è affat- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 329 03 cont naz 08 palatiello.qxp 06/04/2009 14.46 Pagina 329 to preclusa dal d.P.R. 1 febbraio 2001 con il quale il Presidente della Repubblica, in accoglimento del ricorso straordinario presentato dall’UAAR in data 18 giugno 1996, ha annullato (esclusivamente sotto il profilo dell’incompetenza) il precedente diniego del 20 febbraio 1996 adottato con nota del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, senza la previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, richiesta dall’art. 2, comma 3, lett. l) della Legge n. 400/1988 per “gli atti concernenti i rapporti previsti dall’art. 8 della Costituzione”. Ed invero, il decreto decisorio del ricorso al Capo dello Stato – non avendo natura di sentenza (cfr., ex multis; Cons. St., VI, 4 aprile 2008, n. 1440; Cons. St. IV, n. 2320 dell’11 maggio 2007; V, n. 641 del 15 febbraio 2007; VI, n. 5393 del 22 settembre 2003;: Corte di Cassazione 1012 del 28 gennaio 2002)– non è neppure idoneo ad impedire il riesame in sede giurisdizionale di questioni di rito eventualmente già delibate, per implicito, dall’autorità decidente in sede straordinaria tra le stesse parti; tale effetto preclusivo è, infatti, proprio esclusivamente del giudicato in senso sostanziale ex artt. 2909 c.c. ed artt. 324, 329, 337, e 395 c.p.c., e non anche, quindi, del decreto decisorio del ricorso al Presidente della Repubblica, che non ha natura di giudicato, ma di mero provvedimento amministrativo. Peraltro, il d.P.R. 1 febbraio 2001 ha riguardato il precedente diniego adottato in data 20 febbraio 1996 dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e, dunque, non può, in ogni caso, spiegare alcuna efficacia preclusiva ex judicato nella presente controversia, avente ad oggetto un atto nuovo e del tutto diverso, appunto la delibera del Consiglio dei Ministri del 27 novembre 2003. 1.2) Ciò chiarito, va rammentato che l’art. 31 r.d. 26 giugno 1924 n. 1054 esclude l’impugnabilità in sede giurisdizionale degli atti politici, definiti dalla stessa legge come quegli “atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico”. Perché un determinato atto possa essere considerato “politico” deve, dunque, rispondere a due requisiti, uno soggettivo e l’altro oggettivo. È cioè necessario che l’atto o il provvedimento sia emanato dal “Governo”, ossia dall’Autorità amministrativa cui compete la funzione di indirizzo politico e di direzione, al massimo livello, della cosa pubblica, nell’esercizio nel potere per sua natura politico, anziché nell’esercizio di attività meramente amministrativa” (così, T.A.R. Lazio, sez. III, 16 novembre 2007, n. 11271). Con riguardo al requisito oggettivo è stato precisato che gli atti politici costituiscono espressione della libertà (politica) commessa dalla Costituzione ai supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione di esigenze unitarie ed indivisibili a questo inerenti (si veda la decisione del Consiglio di Stato, sez. IV, 14 aprile 2001, n. 340, nonché Cons. Stato, sez. V, 23 gennaio 2007, n. 209) e che essi sono liberi nella scelta dei fini, mentre gli atti amministrativi, anche quando sono espressione di ampia discrezionalità, sono comunque legati ai fini posti dalla legge (cfr. Cass., S.U., 25 giugno 1993, n. 7075; id., 13 novembre 2000, n. 1170). Rimangono, quindi, sottratti al controllo giurisdizionale tutti gli atti con cui si realizzano scelte di specifico rilievo costituzionale e politico; atti che non sarebbe corretto qualificare come amministrativi e in ordine ai quali l’intervento del giudice determinerebbe un’interferenza del potere giudiziario nell’ambito di altri poteri (in termini v. Cass. S.U., 18 maggio 2006 n. 11623). 1.3.) Nella fattispecie, il provvedimento impugnato presenta tutti i caratteri dell’atto politico “non giustiziabile” ex art. 31 r.d. 26 giugno 1924 n. 1054.. 1.3.1.) Quanto al profilo soggettivo, esso è stato adottato dal Consiglio dei Ministri al quale compete la funzione di indirizzo politico e di direzione, al massimo livello, della cosa pubblica (v. art. 95 Cost.). 330 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 08 palatiello.qxp 06/04/2009 14.46 Pagina 330 1.3.2) Sul versante oggettivo, giova rammentare che l’art. 8, comma 3, Cost. (a mente del quale i rapporti delle confessioni religiose “con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze) è norma sulla produzione giuridica, cioè una norma sulle fonti, parallela a quella prevista dall’art. 7 cpv. Cost. per le modifiche della legge di esecuzione dei Patti Lateranensi (Balladore Pallieri; Mortati; A. Ravà; d’Avack). Le intese, perciò, sono, rispetto alla legge di cui costituiscono il fondamento, una “condizione di legittimità costituzionale”, “un presupposto autorizzativo” diretto “a “togliere un limite all’esercizio del potere legislativo” (Finocchiaro). Se, dunque, le intese sono dirette all’emanazione di una legge, esse non sono negozi che debbano essere valutati sotto il profilo della conformità a preesistenti regole giuridiche o a principi di buona amministrazione, come accadrebbe se fossero accordi stipulati a livello burocratico, ma sono accordi che possono (e devono) essere valutati esclusivamente sotto il profilo dell’opportunità politica (Finocchiaro). Ne consegue che, il Governo ben potrebbe rifiutarsi di addivenire alle intese, così come, dopo averle raggiunte, ben potrebbe astenersi dall’esercitare l’iniziativa occorrente per l’emanazione della legge. Il Governo (salva l’eventuale responsabilità politica nei confronti del Parlamento) è libero di determinarsi come meglio crede nella materia dei rapporti con le confessioni regionali (o sedicenti tali) e la Costituzione, al fine di salvaguardare la sfera di libertà dell’Esecutivo, non consente a nessun altro potere di sindacare le sue scelte in tale materia. La norma costituzionale, infatti, non prevede l’assoluta necessità di una legislazione sulle confessioni religiose; questa interviene solo se il Governo valuti positivamente l’opportunità delle intese, se le intese effettivamente si raggiungano e se, infine, il Parlamento, condividendo l’opportunità della regolamentazione per legge dei rapporti e condividendo il merito delle intese raggiunte, recepisca queste in una legge. La confessione religiosa che aspiri alla stipula dell’intesa (e, tramite essa, alla regolamentazione per legge dei suoi rapporti con lo Stato) non è, dunque, portatrice di alcuna situazione soggettiva giuridicamente qualificata, ma, tutt’al più, di un’aspirazione di mero fatto, a cui l’ordinamento non appresta alcuna protezione; così come accade nel caso di qualunque altro cittadino che auspichi un dato intervento legislativo: non può certo dirsi che questi sia titolare di una pretesa “giustiziabile” a che il Governo eserciti il potere di iniziativa legislativa in una certa direzione e con riguardo ad una certa materia; ebbene la stessa regola vale per le confessioni religiose acattoliche: esse hanno certamente il diritto di organizzarsi secondo i propri statuti (art. 8. comma 2, Cost.), ma il carattere religioso non conferisce loro alcuna pretesa giustiziabile alla stipula dell’intesa (e alla adozione della legge di recepimento) di cui al terzo comma dell’art. 8; e ciò proprio in ragione del supremo principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., che impedisce allo Stato, tanto più se laico, di apprestare trattamenti di favore alle confessioni rispetto agli altri soggetti che reclamino l’esercizio dell’iniziativa legislativa in un dato settore della vita sociale, diverso da quello “religioso”. L’impugnato rifiuto di addivenire alla stipula dell’intesa ex art. 8, comma 3, Cost. è, dunque, anche sul piano oggettivo, un “atto politico”, un atto, cioè, palesemente estraneo alla funzione amministrativa, costituente, invece, espressione di quella libertà (politica) che la Costituzione repubblicana riconosce al Governo nella materia religiosa. Tale libertà (in quanto costituzionalmente garantita) non tollera interferenze da parte del potere giudiziario: sarebbe, invero, abnorme la sentenza che “annullasse” il diniego di stipula dell’intesa ex art. 8, comma 3, Cost.; imponendo, in virtù del c.d. effetto conformativo del giudicato, al Governo di riesaminare la questione o, peggio, di concludere l’intesa con una data confessione religiosa. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 331 03 cont naz 08 palatiello.qxp 06/04/2009 14.46 Pagina 331 Di qui la manifesta inammissibilità del ricorso per difetto assoluto di giurisdizione ex art. 31 r.d. 1054/1924. 1.3.3) Né a diversa conclusione potrebbe pervenirsi nell’ipotesi in cui si ritenesse che la presente controversia – avendo ad oggetto questioni inerenti diritti fondamentali, insuscettibili di “degradazione” da parte dei pubblici poteri (cfr., ex multis, Cass. S.U., 8 novembre 2006, n. 23735) – sia devoluta alla cognizione dell’A.G.O., tradizionalmente giudice dei diritti, vieppiù se costituzionalmente garantiti. L’insindacabilità degli atti politici di cui all’art. 31 r.d. 1054/1924 presenta, infatti, carattere assoluto e vale, quindi, tanto nei confronti del G.A. quanto nei confronti dell’A.G.O.. L’eventuale devoluzione della presente controversia al Tribunale ordinario non potrebbe, di certo, comportare un diverso trattamento processuale rispetto a quello previsto dalla legge per il caso in cui a decidere la causa fosse l’adito T.A.R. 2) Il ricorso è comunque infondato nel merito. 2.1) L’UAAR deduce, innanzitutto, violazione dell’art. 1, comma 1, lett. ii) della Legge 12 gennaio 1991, n. 13 poiché l’impugnato diniego sarebbe stato esternato con mera nota del Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio e non invece con decreto del Presidente della Repubblica, che sarebbe, invece, richiesto per tutti gli atti per i quali è intervenuta la deliberazione del Consiglio dei Ministri. La censura è priva di pregio. 2.1.1) Come si desume dalla rubrica della legge n. 13/1991, e come, del resto, è confermato dall’esame delle tipologie provvedimentali richiamate nell’art. 1 legge cit., l’emanazione mediante decreto del Presidente della Repubblica è prevista esclusivamente per “gli atti amministrativi”, e non invece, per gli atti oggettivamente politici, come quello in esame, tradizionalmente connotati da un’assoluta libertà di forme. È vero che nella specie vi è stata la deliberazione del Consiglio dei Ministri (ciò, peraltro, era necessario, stante la natura politica della questione) ma è parimenti incontestabile che il diniego di stipula dell’intesa ex art. 8, comma 3, rimane sottratto alla formalità della emanazione mediante d.P.R., richiesta dalla legge n. 13/1991 soltanto per gli atti oggettivamente amministrativi. 2.1.2) Sotto altro profilo, giova evidenziare che, nell’attuale assetto dei pubblici poteri, la c.d. “emanazione” è atto di competenza del Presidente della Repubblica, connotato da una funzione di controllo dell’opportunità politica e, lato sensu, della legittimità costituzionale dei provvedimenti dell’Esecutivo. Sennonché, nella specie il Consiglio dei Ministri ha assunto una “determinazione negativa”; ha, cioè, deliberato di non stipulare alcuna intesa ex art. 8, comma 3, Cost. con l’UAAR . A fronte di siffatta decisione di segno negativo (con cui il Governo, si ripete, non ha contratto alcun vincolo, sia pure solo sul piano politico, nei confronti di alcuno) non era affatto necessaria la formalità dell’emanazione mediante decreto del Presidente della Repubblica, per la semplice ragione che non v’era alcuna determinazione da sottoporre al previo vaglio presidenziale; né è sostenibile che il Presidente della Repubblica, se coinvolto nel procedimento, avrebbe potuto sollevare obiezioni sulla mancata stipula dell’intesa ex art. 8, comma 3, Cost.: la decisione se stipulare o meno è, infatti, riservata dalla Costituzione al Governo ed il Presidente della Repubblica non può interloquire al riguardo; egli deve essere consultato solo in merito all’intesa eventualmente già stipulata dall’Esecutivo. Del resto, con riguardo agli accordi internazionali (fenomeno giuridico, per certi versi, simile alle intese con le confessioni acattoliche che la Costituzione mostra di collocare in una 332 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 08 palatiello.qxp 06/04/2009 14.46 Pagina 332 sfera giuridica che non è quella dell’ordinamento statuale, ma è quella di un ordinamento che viene creato, di volta in volta, dall’incontro della volontà dello Stato e delle comunità acattoliche) nessuno ha mai sostenuto che la ratifica presidenziale ex art. 87, comma 8, Cost. (ed eventualmente quella Parlamentare ex art. 80 Cost.) sia richiesta anche per la decisione del Governo di non stipulare alcun trattato; solo quando si addivenga alla stipula di un trattato internazionale, occorre il coinvolgimento del Presidente della Repubblica (ed, eventualmente delle Camere); se non è stato concluso alcun accordo la ratifica presidenziale non serve. Gli stessi principi non possono non valere per le intese ex art. 8, comma 3, Cost. (che, come gli accordi internazionali, si inseriscono in un ordinamento esterno a quello statuale): il vaglio del Presidente della Repubblica è necessario solo se il Consiglio dei Ministri abbia stipulato l’intesa; se il Governo non ha stipulato alcunché, il controllo presidenziale non ha senso alcuno. 3) Al di là dei descritti aspetti formali, nel ricorso si sostiene, poi, che, contrariamente a quanto opinato dalla Presidenza del Consiglio, l’UAAR avrebbe natura di vera e propria confessione religiosa ex art. 8, comma 3, della Costituzione. In sostanza, l’UAAR sostiene la tesi della “piena parità di diritti tra coloro che professano una religione e coloro che non la professano, con la conseguenza che la libertà di culto includerebbe anche la libertà di professarsi atei o agnostici”. Sulla prima parte di siffatta affermazione può senz’altro convenirsi, rinvenendo essa radice nei principi fondamentali di cui agli articoli 3, 19 e 21 della Costituzione, in particolare per quanto attiene alla libertà di coscienza e di scelta religiosa. Non vi è dubbio, infatti, – e lo conferma la giurisprudenza della Corte costituzionale di cui alle sentt. 59 del 1958 e 195 del 1993, nonché soprattutto n. 117 del 1979 – che nel diritto inviolabile di libertà religiosa deve farsi rientrare anche la corrispondente “libertà negativa” di non credere, e che tale libertà debba trovare possibilità di esplicazione al pari della libertà di fede religiosa. Simile conclusione, in effetti, può trovare giustificazione anche sul diverso fondamento della libertà di manifestazione del pensiero ex art. 21 Cost., che indubbiamente ricomprende anche la libertà di opinione religiosa del non credente. Per contro, non appare condivisibile la conseguenza a cui giunge l’associazione de qua muovendo da tale premessa, e cioè che anche il principio di libertà di culto possa ritenersi connotato da uguale ampiezza in senso “negativo”, al punto da ammettersi l’applicabilità – in via estensiva – dell’art. 8 della Costituzione anche in relazione ad entità non qualificabili come “confessioni religiose” in senso tradizionale La possibilità, ivi contemplata, di addivenire ad una regolamentazione bilaterale dei rapporti mediante la conclusione di “intese” è infatti espressamente riservata alle “confessioni religiose diverse dalla cattolica”. Orbene, pacificamente per “confessione religiosa”, singolarmente considerata, va inteso un fatto di fede rivolto al divino e vissuto in comune tra più persone che lo rendono manifesto nella società umana tramite una propria particolare struttura istituzionale (così PEYROT, in Novissimo Digesto delle Discipline Pubblicistiche, voce “Confessioni religiose diverse dalla cattolica”). Del resto “religione”, nel senso che il fenomeno ha acquisito nel corso dei secoli, è quel complesso di dottrine e di riti costruito intorno al presupposto dell’esistenza di un Essere trascendente, che sia in rapporto con gli uomini, al quale è dovuto rispetto, obbedienza ed anche, secondo talune di queste dottrine, amore. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 333 03 cont naz 08 palatiello.qxp 06/04/2009 14.46 Pagina 333 La definizione di “confessioni religiose” rilevante sul piano giuridico è, allora, quella di comunità sociali stabili, dotate di organizzazione e normazione proprie (sia pur minime) e aventi una propria ed originale concezione del mondo, basata sull’esistenza di un Essere trascendente, in rapporto con gli uomini, al quale si deve deferenza ed ossequio. La connotazione oggettiva voluta dal Costituente nel quadro dell’art. 8, comma 2, è dunque chiaramente individuata da un contenuto religioso di tipo positivo, di per sé ontologicamente riconducibile ad una species autonoma e diversificata, se non addirittura opposta, a quella della negazione della religione, che contraddistingue l’ateismo, ovvero a quella di indifferenza al fenomeno religioso, tipica dell’agnosticismo. Non a caso, del resto, la Corte costituzionale, sia pur esprimendosi a proposito del diverso tema delle formule di giuramento (sent. n. 58 del 1960) ha precisato che “l’ateismo comincia là dove finisce la vita religiosa”. In altre parole, dunque, la professione dell’ateismo o dell’agnosticismo – seppur certamente da ammettersi al pari di quella religiosa quanto al diritto di libero esercizio in qualsiasi forma, individuale o associata, purché non integrante riti contrari al buon costume (così si esprimeva l’Assemblea Costituente – pag. 2773 e segg. – a proposito della libertà di esercizio del culto religioso) – non può, per definizione, essere regolata in modo analogo a quanto esplicitamente disposto dalla fonte costituzionale per le sole “confessioni religiose”. I circoli ateistici (come il ricorrente) che mirano ad affermare una concezione del mondo senza Dio non sono, dunque, una “confessione religiosa”; con riguardo al dettato costituzionale, si tratta di un fenomeno del tutto estraneo alle norme dell’articolo 8 Cost., ricadente, semmai, nell’ambito delle previsioni degli artt.. 18, 19 e 21 Cost. Simile conclusione, proprio perché fondata sul rilievo di una differenziazione oggettiva tra le fattispecie in discorso, non comporta profili di disparità di trattamento, essendo ovviamente ragionevole una disciplina diversa in riferimento a situazioni effettivamente tutt’altro che coincidenti. La conclusione stessa trova conforto in una precisazione contenuta nell’ordinanza n. 15 del 1961 della Corte costituzionale, secondo la quale l’art. 8 della Cost. “in nessun modo può essere messo in relazione con la pretesa del singolo rivolta al riconoscimento del diritto della propria libertà di coscienza e di fede”: altro dunque è la libertà di scelta di una fede religiosa ovvero dell’ateismo (parimenti tutelata), altro è invece la disciplina che la Costituzione stessa ha previsto per i rapporti con le sole “confessioni religiose”, in ragione di un particolare rilievo oggettivo delle stesse nel quadro dei principi costituzionali. Al risultato di ritenere esclusa dalla sfera applicativa dell’art. 8 Cost. la fattispecie che qui interessa si perviene anche, del resto, tenendo conto che proprio la Corte costituzionale, nella propria giurisprudenza in subiecta materia, si è sempre limitata (cfr. sent. n. 195 del 1993) ad affermare la difformità alla Costituzione delle possibili discriminazioni “in danno dell’una o dell’altra fede religiosa”, siccome contrastanti con il diritto di libertà e con il principio di uguaglianza: con ciò dunque presupponendo, a monte di ogni eventuale discriminazione, la ricorrenza di quel connotato positivo di “confessione religiosa” da parte del soggetto giuridico discriminato che per il caso dell’associazione propugnatrice di ateismo od agnosticismo non può mai sussistere. A quanto sin qui esposto deve aggiungersi, infine, che la richiedente UAAR si autodefinisce (cfr. “Statuto” e “Tesi” in www.uaar.it) “organizzazione filosofica non confessionale”, che “si propone di rappresentare le concezioni del mondo razionaliste, atee o agnostiche, come le organizzazioni filosofiche confessionali rappresentano le concezioni del mondo di carattere religioso”: con ciò autoqualificandosi essa stessa al di fuori dell’ambito delle confessioni religiose. 334 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 08 palatiello.qxp 06/04/2009 14.46 Pagina 334 IL CONTENZIOSO NAZIONALE 335 Rispetto a queste ultime, del resto, la UAAR, in quanto associazione composita che raccoglie aderenti tanto alle teorie atee che a quelle agnostiche, difetta di quel requisito di unicità ideologica ed organizzativa che caratterizza in senso tecnico qualsiasi confessione religiosa. 4.) Alla luce delle considerazioni che precedono risultano prive di pregio anche le censure sub 6) ed 11) dell’atto introduttivo, formulate sul presupposto, del tutto erroneo, che l’associazione ricorrente sia una “confessione religiosa”. 5.) Del pari infondato è il motivo sub 7) con cui si denuncia un presunto vizio di motivazione. Contrariamente a quanto ex adverso sostenuto, gli atti impugnati illustrano in modo compiuto ed esauriente l’iter logico giuridico seguito dal Governo per addivenire alle determinazioni censurate, come, del resto, dimostrato dalle ampie argomentazioni spese in ricorso dall’UAAR.. Quanto al rinvio al parere dell’Avvocatura Generale dello Stato, è appena il caso di evidenziare che la motivazione per relationem è pienamente legittima quando l’atto richiamato sia reso disponibile alla parte (v. art. 3, comma 3, legge 241/1990). Nella specie, l’UAAR, a seguito di istanza di accesso in data 5 novembre 2003, ha ricevuto copia, tra gli altri atti, anche del parere reso sulla questione dalla Scrivente (v. pagg. 6 e 7 del ricorso). Di qui la manifesta infondatezza della censura in esame. 6.) La censura sub 8) è decisamente fuor d’opera poiché il diniego di stipula dell’intesa ex art. 8, comma 3, Cost. non tocca minimamente il diritto di associarsi liberamente ex art. 18 Cost. che rimane impregiudicato, così come è pacifico che all’UAAR spettano le garanzie di cui agli artt. 19 e 21 Cost., che nulla hanno a che fare con le intese ex art. 8, comma 3, Cost. 7.) Del pari non conferenti sono le doglianze sub 9) e 10). La negazione della presunta identità “confessionale” dell’UAAR non comporta profili di disparità di trattamento, essendo ovviamente ragionevole una disciplina diversa in riferimento a situazioni effettivamente tutt’altro che coincidenti. Anche il principio di laicità dello Stato è invocato a sproposito: esso riguarda i rapporti tra confessioni religiose e lo Stato e, dunque, non ha alcuna attinenza con i circoli ateisti che non sono confessioni religiose. Per tali ragioni, si conclude affinché, contrariis reiectis, il ricorso sia dichiarato inammissibile, ovvero, in subordine, infondato. Con ogni statuizione consequenziale, anche in ordine alle spese di lite. Roma, 17 ottobre 2008 – L’Avvocato dello Stato Giovanni Palatiello». 03 cont naz 08 palatiello.qxp 06/04/2009 14.46 Pagina 335 336 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 Verso un’intensificazione dei profili di responsabilità penale per falso del progettista “abilitato” in materia di D.i.a. (Corte di Cassazione penale, sezione terza, sentenza 21 ottobre 2008-19 gennaio 2009, n. 1818) Con la sentenza in commento la Terza Sezione della Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che il progettista abilitato, che nella relazione di accompagnamento alla D.i.a. affermi falsamente la conformità delle opere da eseguire ai vigenti strumenti urbanistici, commette il delitto di falsità ideologica in certificati punito dall’art. 481 c.p. (1). A tale conclusione il Supremo Collegio è giunto attraverso un complesso (ma esaustivo) iter argomentativo, fondato sostanzialmente sul riconoscimento, da un lato, della qualifica di persona esercente un servizio pubblica necessità in capo al progettista abilitato e, dall’altro, della natura di “certificato” (e dunque di atto fidefacente) della relazione tecnica di accompagnamento alla D.i.a. . L’annotata pronuncia assume quindi particolare interesse in quanto, affrontando le tematiche sopra evidenziate, consente di analizzare i più recenti orientamenti giurisprudenziali inerenti alla rilevanza penale delle condotte di “falsa asseverazione” poste in essere dal cd. “progettista abilitato”. La vicenda I fatti oggetto della sentenza in commento prendono le mosse dalla condotta di un tecnico, il quale – in qualità progettista di lavori edili da effettuare su immobile situato nel centro storico di un Comune dell’Alta Italia – aveva affermato, nella sua relazione tecnica di accompagnamento alla D.i.a., che le opere da eseguire fossero conformi agli strumenti urbanistici all’epoca vigenti. A seguito di controlli effettuati dalla Pubblica Amministrazione, si riscontrava però che le affermazioni contenute nella predetta relazione di asseveramento fossero non conformi al vero. Sulla base di tali elementi fattuali, veniva dunque richiesto dalla Procura della Repubblica il rinvio a giudizio del progettista per rispondere del reato previsto dall’art. 481 c.p. in relazione ai doveri fissati dall’art. 29 del d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 in tema di “responsabilità del progettista per le opere subordinate a denunzia di inizio attività”. (1) Ai sensi dell’art. 481 c.p. è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 51 a euro 516, chiunque, nell’esercizio di una professione sanitaria o forense, o di un altro servizio di pubblica necessità, attesti falsamente, in un certificato, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità. 03 cont naz 09 salamone.qxp 06/04/2009 14.48 Pagina 336 Sia il Tribunale, prima, che la Corte d’Appello, successivamente, ritenendo fondata l’accusa mossa al progettista, condannavano quest’ultimo alla pena di un mese di reclusione. Avverso la sentenza del Giudice di secondo grado, l’imputato proponeva ricorso per Cassazione per erronea applicazione della legge, deducendo, fra l’altro, l’errata applicazione dell’art. 29 d.P.R. 380/01. In particolare, il ricorrente lamentava l’irrilevanza penale delle eventuali falsità contenute nella relazione di accompagnamento alla D.i.a. in virtù dell’impossibilità di ricomprendere tale atto fra i “certificati” o comunque fra gli atti fidefacenti, non essendo la predetta relazione documento destinato a provare l’oggettiva verità di ciò che in esso era affermato ma solo una manifestazione di intenzione e di giudizio da parte del suo autore. La Corte di Cassazione tuttavia, esaminato il ricorso, lo rigettava, ritenendo priva di censure la motivazione della Corte territoriale. Le motivazioni della sentenza della Cassazione e la qualifica del progettista abilitato L’annotata sentenza, come sottolineato in apertura, appare pregevole in quanto ribadisce con precisione taluni significativi aspetti inerenti all’attività svolta dal progettista in sede di presentazione di una D.i.a. In primo luogo, infatti, il giudice di legittimità sembrerebbe aver confermato l’orientamento giurisprudenziale dominante secondo cui il progettista assume, all’interno del procedimento in esame, la qualifica di persona esercente un servizio di pubblica necessità ex art. 359 c.p. . Ed invero, tale precisazione da parte della Corte è da ritenersi tutt’altro che priva di risvolti sul piano della sussistenza della responsabilità penale del progettista. L’art. 481 c.p. punisce difatti esclusivamente colui il quale ponga in essere una falsità ideologica in certificati commessa nell’esercizio di una professione forense, sanitaria o (come nel caso di specie) di altro servizio di pubblica necessità. Pertanto, solo ove si riconosca al progettista la qualifica di persona “esercente un servizio di pubblica necessità”, potrà ritenersi integrato, in presenza degli altri elementi previsti dalla norma, il reato punito dall’art. 481 c.p. . Viceversa, in mancanza di tale qualifica soggettiva, il falso commesso dal progettista esulerebbe dal raggio d’azione della fattispecie delittuosa in esame. Al riguardo, si osserva che la giurisprudenza della Corte di Cassazione, anche di recente, ha ribadito che il progettista o, comunque, il tecnico tenuto a predisporre la documentazione attestante la conformità degli interventi edilizi ai vigenti strumenti urbanistici (fra i quali certamente rientra anche la relazione di accompagnamento alla D.i.a.) rivestano la qualifica di soggetti esercenti un servizio di pubblica necessità. Posto difatti che, ai sensi dell’art. 359 c.p., sono persone esercenti un servizio di pubblica necessità anche coloro i quali svolgono professioni il cui esercizio sia per legge vietato senza una speciale abilitazione dello Stato, quando IL CONTENZIOSO NAZIONALE 337 03 cont naz 09 salamone.qxp 06/04/2009 14.48 Pagina 337 338 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 dell’opera di essi il privato sia per legge obbligato a valersi (come nel caso del progettista in materia di D.i.a.), ne deriva che il progettista debba considerarsi un soggetto esercente un servizio di pubblica necessità proprio in considerazione del fatto che sia il progetto sia la relazione presentata dal tecnico sono atti professionali che, per legge, richiedono un titolo di abilitazione e che sono vietati a chi non sia autorizzato all’esercizio della professione specifica (2). Alla stessa conclusione, del resto, è possibile pervenire sulla base della semplice interpretazione letterale del testo dell’art. 29 del d.P.R. 380/01. Difatti, come ribadito anche dalle condivisibili motivazioni della sentenza in commento, il terzo comma del citato art. 29 (dal cui esame secondo la Corte non è possibile prescindere) prevede espressamente che “per le opere realizzate dietro presentazione di denuncia di inizio attività, il progettista assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità ai sensi degli articoli 359 e 481 del codice penale”. A nostro avviso, sulla base di quanto sinora osservato, pare dunque agevole poter concludere sul punto sostenendo che il progettista abilitato o comunque il tecnico tenuto a predisporre la documentazione di accompagnamento alla D.i.a. possa pacificamente essere considerato un soggetto esercente un servizio di pubblica necessità e, quindi, un soggetto al quale è astrattamente ascrivibile il reato di cui all’art. 481 c.p. . (segue) La natura giuridica della relazione tecnica di accompagnamento della D.i.a. Chiarito l’aspetto concernente l’individuazione della qualifica da attribuire al progettista abilitato, rimane comunque il non facile compito di individuare se la relazione di accompagnamento alla D.i.a. abbia o meno natura di “certificato”. Difatti, solo nel caso in cui si ritenga che la relazione di accompagnamento sia ricompresa all’interno della categoria dei certificati, l’eventuale assenza di veridicità delle affermazioni in essa contenute configurerebbe un’ipotesi di falsità punita dall’art. 481 c.p. . La norma penale prevede infatti che la falsa attestazione di fatti dei quali l’atto sia destinato a provare la verità sia contenuta all’interno di un certificato. Ebbene, tale problematica risulta, ad oggi, tanto rilevante quanto – purtroppo – ancora aperta e priva di una risoluzione definitiva. Dalla disamina della giurisprudenza degli ultimi vent’anni si evince difatti chiaramente l’esistenza di un’ampia varietà di posizioni in merito all’individuazione dell’esatta natura della relazione di accompagnamento della D.i.a. . Ed invero, secondo un primo (e per la verità minoritario) orientamento giurisprudenziale, sarebbe da escludersi che la relazione di accompagnamento alla D.i.a. predisposta dal progettista possa avere natura di certificato, ossia di atto contenente una “dichiarazione di scienza”, intendendosi con tale espressione l’attestazione di fatti e dati che sono noti all’esercente un servi- (2) In tal senso, Cass. pen., 9 marzo 2006, n. 8303, in CED Cass. pen. 233564. O ancora, in passato, Cass. pen., 7 maggio 1986, n. 9821, in Cass. Pen., 1988, p. 1416. 03 cont naz 09 salamone.qxp 06/04/2009 14.48 Pagina 338 IL CONTENZIOSO NAZIONALE 339 zio di pubblica necessità in quanto provenienti da altri documenti o dalle sue conoscenze tecniche. In particolare, a sostegno di tale opinione, si argomenta che la relazione allegata alla D.i.a. rifletterebbe, per la parte progettuale, non una realtà oggettiva ma una semplice intenzione e, per quanto riguarda l’eventuale attestazione dell’assenza di vincoli, solamente un giudizio espresso dall’agente, quindi non necessariamente fondato su dati di fatto certi e sicuri. In altri termini, la relazione allegata alla denuncia di inizio di attività edilizia non avrebbe natura di “certificato” in quanto, a differenza di quest’ultimo, non sarebbe destinata a provare l’oggettiva verità di ciò che in essa è affermato ma esclusivamente – come già detto – a manifestare, per la sua parte progettuale, un’intenzione e non una realtà oggettiva, mentre, per ciò che concerne l’eventuale attestazione di assenza di vincoli, solo un giudizio dell’agente (3). Seguendo tale impostazione, la relazione costituirebbe, dunque, un atto avente non la funzione di attestare una verità storica o scientifica ma solo quella rendere nota alla P.A. l’intenzione, da parte del dichiarante, di realizzare le opere in essa descritte ed ancora inesistenti (4). Ne discende pertanto che, sulla base di tali “benevole” e penalisticamente “più miti” premesse, il professionista che, nella suddetta relazione di corredo, si renda responsabile di una falsa asseverazione non risponderà del delitto previsto dall’art. 481 c.p. . Tuttavia, a nostro avviso (come del resto anche della sentenza in commento), il succitato orientamento pare non esente da critiche. È infatti da ritenersi ragionevole (se non addirittura doveroso) prendere le mosse, ai fini di un corretto inquadramento della problematica in esame, da una preliminare disamina della normativa di riferimento, costituita, nel caso di specie, dai commi primo e sesto dell’art. 23 d.P.R. 380/01 e dal comma terzo dell’art. 29 dello stesso testo di legge. Ed invero, ai sensi dell’art. 23 è previsto, da un lato, che la D.i.a. sia accompagnata “da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti” (I com.), mentre dall’altro, che “il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale…in caso di falsa attestazione del professionista abilitato, informi l’autorità giudiziaria e il consiglio dell’ordine di appartenenza” (VI com.). L’art. 29, al terzo comma, prevede invece che “per le opere realizzate dietro presentazione di denuncia di inizio attività, il progettista assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità ai sensi degli articoli 359 e 481 del codice penale”. Ebbene, dalla lettura coordinata delle norme testé indicate, possono formularsi talune considerazioni. (3) Cass. pen., 26 aprile 2005, n. 23668, in Cass. Pen., 2006, p. 1463. Nello stesso senso, in passato, Cass. pen., 2 ottobre 1978, n. 11565. (4) Cass. pen., 3 maggio 2005, n. 24562, in Cass. Pen., 2006, p. 3676. 03 cont naz 09 salamone.qxp 06/04/2009 14.48 Pagina 339 340 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 Dall’impianto normativo in esame emergerebbe infatti, secondo il Supremo Collegio, un “sostanziale affidamento” riposto dall’ordinamento sulla relazione tecnica che accompagna il progetto e sulla sua veridicità, atteso che – come evidenziato anche dalla pronuncia in commento – “quella relazione si sostituisce, in via ordinaria, ai controlli dell’ente territoriale ed offre le garanzie di legalità e correttezza dell’intervento”. Ed è proprio partendo da questo “affidamento” che la condotta del professionista abilitato finirebbe per assumere la rilevanza pubblicistica di cui al terzo comma dell’art. 29, che – inevitabilmente – si ripercuote anche su altre disposizioni normative quali quelle di cui al primo ed al sesto comma dell’art. 23 del d.P.R. 380/01. In particolare, con specifico riferimento alla disposizione contenuta nel sesto comma dell’art. 23, secondo la quale – in caso di “falsa attestazione” del professionista – la P.A. competente è tenuta ad inoltrare segnalazione di reato all’autorità giudiziaria, il Supremo Collegio ha avuto modo di argomentare nel senso che tale previsione normativa conferirebbe ulteriore valore alla relazione del progettista, che finirebbe pertanto per essere un atto non solo idoneo ad integrare la dichiarazione di inizio attività, ma anche atto dotato di piena autonomia e di valore pubblicistico. Difatti, parafrasando il complesso apparato motivazionale sviluppato in sentenza, proprio la costruzione della D.i.a. come atto a controllo successivo ai sensi del combinato disposto dei citati artt. 23 e 29, intensificando la delega di potestà pubblica a soggetti qualificati (come il progettista abilitato), rafforzerebbe anche il valore fidefacente della relazione del progettista, che – così ragionando – assumerebbe addirittura “valore sostitutivo e quindi certificativo”. Del resto, a conferma della correttezza di tale impostazione, basti considerare che solo un atto definitivo e in sé compiuto (come la relazione di “asseverazione” della D.i.a.) può originare la responsabilità penale per chi la esegua in difformità. Sarebbe infatti assai strano e soprattutto in controtendenza rispetto al cd. “principio di materialità del diritto penale”, riassunto nel brocardo latino “cogitationis poenam nemo patitur”, ricollegare una sanzione penale ad un comportamento o ad un atto non ancora definitivo o comunque non ancora pienamente efficace e, dunque, non ancora percepibile nel mondo esterno come autonomo e completo. Pertanto, riepilogando sul punto, sembrerebbe non sussistere alcun dubbio circa il riconoscimento alla relazione di accompagnamento della D.i.a. della natura di “certificato”, con tutte le conseguenze di tipo penalistico legate ad un’eventuale falsificazione di tale atto. Ne deriverebbe dunque, in adesione alle conclusioni sviluppate della Corte che il progettista, che ponga in essere un’asseverazione falsa, potrà essere ritenuto responsabile del reato di “falsità ideologica in certificati”, previsto e punito dall’art. 481 c.p. (5). (5) Cfr., anche, Cass. pen., 6 maggio 2004, n. 21639, in CED 229184; Cass. pen., 8 marzo 2000, Bonvecchio; Cass. pen., 23 aprile 1993, n. 5298, in Cass. pen., 1995, p. 54. 03 cont naz 09 salamone.qxp 06/04/2009 14.48 Pagina 340 IL CONTENZIOSO NAZIONALE 341 A favore di tale conclusione sembra peraltro militare anche l’utilizzo, da parte del Legislatore, di determinati termini, come il verbo “asseverare” di cui al terzo comma dell’art. 23 del d.P.R. 380/01. Nella lingua italiana, infatti, “asseverare” vuol dire letteralmente “affermare con solennità”, e cioè porre in essere una dichiarazione di particolare rilevanza formale e di particolare valore nei confronti dei terzi quanto a verità e/o ad affidabilità del contenuto. A conferma della fondatezza delle tesi qui sostenute depone anche un’altra recente pronuncia del Supremo Collegio. In tale occasione, la Corte, decidendo in tema di concessione edilizia, ha difatti statuito che “trattandosi di concessione edilizia e non di D.i.a., la documentazione e la eventuale relazione presentata dai tecnici progettisti non aveva valore probante e fidefacente assoluto, in quanto si tratta di documentazione finalizzata soltanto ad illustrare e chiarire i termini tecnici fattuali della richiesta medesima” (6). Il citato passaggio motivazionale, pur se stringato, appare comunque privo di perplessità nel ritenere, per un verso, privi di valore di certificazione (prima del vaglio positivo dell’ente pubblico) i documenti e le attestazioni allegate alla domanda di concessione, mentre, per altro verso, dotata di autonoma efficacia (e quindi di valore certificativo) la documentazione allegata alla domanda di inizio attività. In altre parole, solo la relazione allegata alla D.i.a. e non anche quella allegata alla richiesta di concessione edilizia (oggi, permesso di costruire) assume la veste di “certificato”. Ne discende dunque che, in presenza dei succitati riscontri di carattere normativo e giurisprudenziale, sembra evidente l’esistenza di una serie di elementi interpretativi sulla cui base è possibile desumere la volontà del Legislatore di ricomprendere la relazione di accompagnamento alla D.i.a. nel novero dei “certificati”, ovvero di quegli atti destinati a provare l’oggettiva verità di ciò che in essi è affermato, con tutte le suesposte conseguenze sotto il profilo penalistico. Conclusioni Dall’esame della giurisprudenza di legittimità degli ultimi due decenni emerge, come visto, una varietà di posizioni. Da un lato, infatti, la giurisprudenza maggioritaria, sulla cui scia si colloca anche la sentenza in commento, afferma con decisione che la relazione in oggetto rientri nel novero dei “certificati”, ovvero di quei documenti attestanti fatti e dati che sono noti all’esercente un servizio di pubblica necessità in quanto provenienti da altri documenti o dalle sue conoscenze tecniche (7). Dall’altro lato, invece, non mancano alcune pronunce tendenti ad escludere che la relazione di accompagnamento alla D.i.a. presenti natura di “cer- (6) Cass. pen., 24 gennaio 2008, n. 9118. (7) Cass. pen., 6 maggio 2004, n. 21639, in CED 229184. 03 cont naz 09 salamone.qxp 06/04/2009 14.48 Pagina 341 342 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 tificato”, trattandosi di atto diretto esclusivamente a manifestare un’intenzione e non una realtà oggettiva (8). Al riguardo, giova tuttavia considerare che la presenza di alcuni elementi, come il tenore letterale delle norme di riferimento; l’utilizzo di determinati termini in sede normativa (vedi, ad es., l’uso del verbo “asseverare”); una lettura coordinata e sistematica degli artt. 23 e 29 del d.P.R. 380/01; la comparazione fra l’istituto della D.i.a. e quello della concessione edilizia (ora, permesso di costruire); nonché la costruzione della D.i.a. come atto a controllo successivo da parte della P.A., costituisce un valido supporto a sostegno della tesi, a nostro avviso condivisibile, secondo la quale la relazione di accompagnamento alla D.i.a. rappresenti a tutti gli effetti un atto riconducibile nel novero dei “certificati”. Ne deriva, pertanto che, seguendo tale maggioritario orientamento, la falsa attestazione realizzata in sede di relazione di “asseverazione” della D.i.a. dal progettista abilitato (soggetto pacificamente esercente un servizio di pubblica necessità) possa ben integrare gli estremi del reato di cui all’art. 481 c.p. . È utile infine rilevare che il conferimento alla relazione allegata alla D.i.a. della natura di “certificato”, accrescendo in tal modo la “natura pubblicistica” di tale strumento di pianificazione del territorio, rappresenta un ulteriore passo in avanti verso una “recessione”, sempre crescente, del ruolo dello Stato in materia urbanistica. Il riconoscimento alla D.i.a. della natura di atto fidefacente a prescindere dal controllo della P.A. (contrariamente a quanto previsto in materia di concessione edilizia) rafforza infatti quel concetto di “delega di potestà pubblica” in favore di determinati soggetti qualificati che ha connotato negli ultimi anni, in maniera crescente, la figura della denunzia di inizio attività. Delega che comunque, a nostro avviso, se, da un lato, costituisce un tassello importante verso la realizzazione di quella che potremmo definire “liberalizzazione urbanistica”, dall’altro lato, invece, conferendo maggiore potere al privato cittadino e maggiore valore agli atti da lui predisposti, richiede parallelamente una maggiore tutela, anche sotto il profilo penalistico, contro la falsificazione di tali atti, dotati di propria autonomia ed efficacia a prescindere dal controllo da parte della Pubblica Amministrazione. Dott. Francesco Emanuele Salamone(*) Corte di Cassazione penale, sezione terza, sentenza 21 ottobre 2008 – 19 gennaio 2009, n. 1818 – Pres. Grassi – Rel. Marini – P.M. Montagna. «(Omissis) Avverso la sentenza emessa in data 19 marzo 2008 dalla Corte di Appello di Trento, che, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Trento del 16 maggio 2007, ha appli- (8) Cass. pen., 26 aprile 2005, n. 23668, in Cass. Pen., 2006, p. 1463. (*) Cultore di Diritto dell’Economia nell’Università di Modena e Reggio Emilia, Associate Lemme Avvocati Associati. 03 cont naz 09 salamone.qxp 06/04/2009 14.48 Pagina 342 cato al Sig. B. le circostanze attenuanti generiche e ridotto a venti giorni di reclusione la pena inflitta in primo grado per il reato previsto dagli artt. 481 c.p. e 29 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, con sospensione condizionale della pena, non menzione della condanna, e revoca del beneficio dell’indulto. Fatto di reato commesso il 24 gennaio 2006. (Omissis) Rileva Il Sig. B., quale progettista di lavori edili da effettuare su immobile situato nel centro storico del Comune di Lasino, ha sottoscritto la relazione tecnica di asseverazione che accompagna la D.i.a., in essa affermando che le opere da eseguire erano conformi ai vigenti strumenti urbanistici. Tale affermazione è stata ritenuta non conforme al vero, ed il Pubblico ministero ha disposto il rinvio a giudizio del progettista per rispondere del reato previsto dall’art. 481 c.p. in relazione ai doveri fissati dall’art. 29 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380. (Omissis) Ricorre per cassazione la Difesa del Sig. B. Con unico e articolato motivo lamenta violazione dell’art. 606, lett. b) c.p.p. in relazione agli artt. 481 c.p. e 29 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, nonché violazione dell’art. 606, lett. e) c.p.p. per manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione. Tali violazioni atterrebbero a plurimi profili: a) erronea non applicazione dei principi fissati dalla sentenza Giordano della Quinta Sezione Penale. Non solo la sentenza oggi impugnata utilizzerebbe in modo non coerente i termini “asseverazione”, “dichiarazione di scienza”, “attestazione”, ma si sarebbe distaccata in modo superficiale e non convincente dai principi interpretativi affermati con la citata decisione della Corte di cassazione. (Omissis) Osserva A) La disciplina fondamentale, che viene richiamata nelle decisioni assunte nel caso in esame e che si pone a fondamento di parte della giurisprudenza richiamata anche dal ricorrente, è rappresentata dagli artt. 23 e 29 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380. In particolare, l’art. 23 (così sostituito dal D.Lgs. n. 301 del 2002) ha ad oggetto la “Disciplina della denuncia di inizio attività” e, nei commi che qui rilevano, stabilisce quanto segue: “1. Il proprietario dell’immobile o chi abbia titolo per presentare la denuncia di inizio attività, almeno trenta giorni prima dell’effettivo inizio dei lavori, presenta allo sportello unico la denuncia, accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie. “2,... “3. Qualora l’immobile oggetto dell’intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia favorevole, la denuncia è priva di effetti. “4”. ..... “5. La sussistenza del titolo è provata con la copia della denuncia di inizio attività da cui risulti la data di ricevimento della denuncia, l’elenco di quanto presentato a corredo del progetto, l’attestazione del professionista abilitato, nonché gli atti di assenso eventualmente necessari. “6. Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, ove entro il termine indicato al comma 1 sia riscontrata l’assenza di una o più delle condizioni stabilite, notifi- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 343 03 cont naz 09 salamone.qxp 06/04/2009 14.48 Pagina 343 ca all’interessato l’ordine motivato di non effettuare il previsto intervento e, in caso di falsa attestazione del professionista abilitato, informa l’autorità giudiziaria e il consiglio dell’ordine di appartenenza.. È comunque salva la .facoltà di ripresentare la denuncia di inizio attività, con le modifiche o le integrazioni necessarie per renderla conforme alla normativa urbanistica ed edilizia. “7. Ultimato l’intervento, il progettista o un tecnico abilitato rilascia un certificato di collaudo finale, che va presentato allo sportello unico, con il quale si attesta la conformità dell’opera al progetto presentato con la denuncia di inizio attività”. Osserva la Corte che la disposizione in parola non lascia dubbi, nel suo significato letterale, oltre che, come si dirà, nella sua “ratio”, che il professionista “abilitato” abbia un duplice obbligo: a) formare una relazione preventiva in cui si assume l’onere di “asseverare”: la conformità delle opere agli strumenti urbanistici approvati e la mancanza di contrasto con quelli adottati e con i regolamenti edilizi, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie; b) rilasciare al termine dei lavori (ove non lo faccia altro tecnico che se ne assume la responsabilità) un certificato di collaudo circa la conformità di quanto realizzato al progetto iniziale. Osserva poi la Corte che il termine “asseverare” ha nel vocabolario della Lingua italiana il significato di “affermare con solennità”, e cioè di porre in essere una dichiarazione di particolare rilevanza formale e di particolare valore nei confronti dei terzi quanto a verità/affidabilità del contenuto. Il successivo art. 29, che titola “Responsabilità del titolare del permesso di costruire, del committente, del costruttore e del direttore dei lavori, nonché anche del progettista per le opere subordinate a denuncia di inizio attività”, nella parte che qui interessa prevede: “1. Il titolare del permesso di costruire , il committente e il costruttore... “2. Il direttore dei lavori... “3. Per le opere realizzate dietro presentazione di denuncia di inizio attività, il progettista assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità ai sensi degli articoli 359 e 481 del codice penale. In caso di dichiarazioni non veritiere nella relazione di cui all’articolo 23, comma 1, l’amministrazione ne dà comunicazione al competente ordine professionale per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari”. Osserva la Corte che la disciplina prevista dal comma terzo dell’art. 29 non può, non essere letta in coerenza con l’art. 23 sopra ricordato e che in tale contesto assume valore decisivo la circostanza che al progettista abilitato venga attribuita la qualità di “persona esercente un servizio di pubblica necessità”, ai sensi degli artt. 359 e 481 c.p. B) La lettura coordinata delle due norme consente così di giungere ad alcune conclusioni essenziali: a) la decisione del committente e del suo professionista di non sollecitare mediante richiesta di permesso di costruire il preventivo controllo dell’ente pubblico, e di procedere piuttosto con D.i.a. porta con sé una particolare assunzione di responsabilità del progettista stesso; b) tale responsabilità trova fondamento nel particolare affidamento che l’ordinamento pone sulla relazione tecnica che accompagna il progetto e sulla sua veridicità, atteso che quella relazione si sostituisce, in via ordinaria, ai controlli dell’ente territoriale ed offre le garanzie di legalità e correttezza dell’intervento; c) muovendo da quell’affidamento, la condotta del professionista abilitato assume una specifica rilevanza pubblicistica (art. 29, comma terzo) che incide sulle previsioni dei commi primo e sesto dell’art. 23 che precede. In particolare, merita qui richiamare la disposizione contenuta nel sesto comma dell’art. 23, che in caso di “falsa attestazione” del professionista stesso prevede l’obbligo per l’ente territoriale di inoltrare segnalazione di reato all’autorità giudiziaria; 344 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 09 salamone.qxp 06/04/2009 14.48 Pagina 344 d) non vi è dubbio che la “falsa attestazione” in parola, riferita dal comma sesto alle “condizioni stabilite”, è quella prevista dal primo comma del medesimo art. 23; e) la previsione della segnalazione all’autorità giudiziaria va letta anche con riferimento alle disposizioni contenute nel comma settimo dell’art. 23 e nel comma secondo dell’art. 29, in quanto la responsabilità del direttore dei lavori per la difformità delle opere edificate rispetto a quelle contenute nel progetto iniziale allegato alla D.i.a rafforza il valore della relazione del progettista, che integra la dichiarazione stessa di inizio attività, come atto dotato di piena autonomia e di valore pubblicistico: solo un atto definitivo e in sé compiuto può originare la responsabilità penale per chi esegue in difformità; f) in altri termini, la costruzione della D.i.a. come atto a controllo successivo rafforza concetto di delega di potestà pubblica al soggetto qualificato, con dichiarazione del progettista che assume valore sostitutivo e quindi “certificativo”; g) tale carattere della dichiarazione del progettista trova conferma e non smentita nella circostanza che in presenza di “vincolo” ulteriore rispetto agli ordinari strumenti urbanistici il termine di trenta giorni previsto dal primo comma inizia a decorrere dal rilascio dell’atto di assenso da parte dell’amministrazione comunale; h) l’insieme delle disposizioni fin qui ricordate, ed in particolare il chiaro dettato del comma sesto dell’art. 23, impone di considerare che l’intervento dell’ente amministrativo che prevenga l’effettuazione dei lavori mediante un tempestivo controllo seguito da immediato ordine di non procedere non esclude la rilevanza penale della condotta di falsa attestazione posta in essere dal progettista. C) Così esaminato il testo degli artt. 23 e 29 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e ricostruita la “ratio” delle disposizioni in esse contenute, la Corte deve rilevare che alcune delle decisioni di legittimità che sono state richiamate nell’ambito del presente procedimento o che appaiono assumere rilievo ai fini della presente decisione risultano, in realtà, riferite a situazioni di fatto diverse da quella oggi in evidenza e a questa non rapportabili. È il caso della sentenza della Seconda Sezione Penale n. 3628/2006, Pinto (rv 235934), che ha affermato la non rilevanza penale, ai fini del contestato art. 481 c.p., di quelle parti delle attestazioni del privato che contengono giudizi e convincimenti soggettivi; tale valutazione si riferisce a documenti che, al di là della qualificazione loro attribuita, in realtà costituivano meri “studi di fattibilità” ed erano privi del supporto documentale che era richiesto dalla normativa in vigore. È poi il caso della sentenza di questa Sezione n. 8303/2006, Cardini e altro (rv 233564), che, nell’affermare la qualità di esercente un servizio di pubblica necessità del professionista, ha affrontato il caso di dichiarazione di conformità delle opere già eseguite in base a concessione edilizia. È, ancora, il caso della sentenza della Quinta Sezione Penale, n. 21639/2004, P.G. in proc. Pizzini (rv 229184), che ha affrontato il caso di presentazione della D.i.a. per opere in realtà già realizzate ma prospettate come ancora da avviare. D) Vanno così esaminate due sentenze di segno non coincidente che contengono motivazioni rilevanti ai fini della presente decisione. La prima è la più volte citata sentenza Giordano (Sezione Quinta Penale, n. 23668 del 26 aprile-23 giugno 2005, rv 231906) e la seconda è la sentenza di questa Sezione n. 9118 del 24 gennaio-28 febbraio 2008, Masucci e altri, rv 238999. D.1) La sentenza Giordano era chiamata ad intervenire su una contestazione di “falsa attestazione” del professionista in sede di relazione che accompagnava la D.i.a., con riferimento alla tipologia delle opere da realizzare, alla conformità delle stesse agli strumenti IL CONTENZIOSO NAZIONALE 345 03 cont naz 09 salamone.qxp 06/04/2009 14.48 Pagina 345 urbanistici, all’assenza di vincoli. Richiamata una precedente e assai risalente decisione conforme della medesima Sezione (n. 11565 del 28 giugno-2 ottobre 1978, Ortenzi), la sentenza esclude che l’attestazione del professionista abbia natura di “certificato”. La motivazione non affronta l’esegesi delle disposizioni contenute nel d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 ed afferma che non può avere natura certificativa la relazione allegata alla denuncia di inizio attività “riflettendo essa, per la parte progettuale, non una realtà oggettiva ma una semplice intenzione e, per quanto riguarda l’eventuale attestazione dell’assenza di vincoli, un giudizio espresso dall’agente, non necessariamente fondato su dati di fatto certi e sicuri (che, in quanto tali, dovrebbero già essere, tuttavia, nella disponibilità della pubblica amministrazione competente), ma suscettibile di derivare soltanto – come verificatosi nella specie – da un convincimento puramente oggettivo, poco importa, ai fini penalistici, se dovuto o meno a difetto di diligenza nella effettuazione delle opportune verifiche fattuali e normative”. Questa Corte ritiene che la motivazione si fondi su un basilare fraintendimento della normativa specifica in materia edilizia, come dimostra il passaggio in cui opera un riferimento, incluso tra parentesi, alla circostanza che la pubblica amministrazione già dovrebbe possedere le informazioni che il professionista le fornisce. Tale inciso dimostra che non si è compresa la fondamentale differenza tra richiesta di concessione – ora permesso di costruire – e D.i.a., e non si è avuto riguardo alle conseguenza che solo per questa seconda forma di domanda la legge riconduce alla falsa attestazione; conseguenze che sono definite in modo chiaro dagli artt. 23, comma sesto e 29, comma terzo d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 con esplicito riferimento all’obbligo per l’ente pubblico di inoltrare segnalazione di reato all’autorità giudiziaria. La decisione in parola sembra, a parere di questa Corte, non solo contrastare con le citate disposizioni del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, ma incorrere in un vizio logico allorché confonde la esistenza dei presupposti del reato con quello che è soltanto un tema probatorio: la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato in presenza di attestazioni che contengono una parte di valutazione. D.2) Il principio posto a fondamento della sentenza Giordano, che questa Corte non condivide per le ragioni appena esposte, sembra essere superato dalla più recente giurisprudenza, come dimostra, con ragionamento “a contrario” la richiamata sentenza n. 9918/2008, Masucci e altri di questa Sezione. Decidendo in tema di accusa di falsa attestazione contenuta nella relazione tecnica del progettista ad una domanda di concessione edilizia, la sentenza afferma (pag. 3): “trattandosi di concessione edilizia e non di Dia, la documentazione e la eventuale relazione presentata dai tecnici progettisti non aveva valore probante e fidefacente assoluto...”. Pur nella sua sinteticità il passaggio motivazionale e indiscutibile nel ritenere che non hanno valore di certificazione i documenti e le attestazioni allegate alla domanda di concessione, che non assume efficacia se non dopo il vaglio positivo dell’ente pubblico, mentre a diverse conclusioni deve giungersi per la domanda di inizio attività, dotata di autonoma efficacia. (Omissis) Alla luce delle considerazioni che precedono tutti i motivi di ricorso appaiono infondati. Alla reiezione del ricorso consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma il 21 ottobre 2008 (…)». 346 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 03 cont naz 09 salamone.qxp 06/04/2009 14.48 Pagina 346 A.G.S. – Parere dell’11 novembre 2008 n. 130954. Tributi speciali catastali. Soggettività passive degli enti locali (consultivo 2905/08, avvocato A.L. Caputi Iambrenghi). «(…) codesta Agenzia chiede di conoscere se, anche ai tributi speciali catastali di recente introduzione e relativi ai seguenti servizi: presentazione in catasto dei tipi mappali (art. 8 L. n. 679/1969); dichiarazione di nuova costruzione (art. 28 R.D.L. n. 652/1939); dichiarazione di variazione (art. 20 R.D.L. n. 652/1939), si possa estendere la esenzione già prevista in favore delle Regioni, Province, Comuni ed Enti di beneficenza dall’articolo unico della Legge n. 228 del 15 maggio 1954. Riferisce codesta Agenzia che, sulla base di una prassi pluridecennale, la esenzione contenuta nell’articolo unico della legge citata, è stata applicata a tutti i servizi esistenti alla data di entrata in vigore della legge n. 228/1954 e, più precisamente, ai diritti ed ai compensi di cui alla legge 17 luglio 1951, n. 575 e successive disposizioni di proroga. Per gli adempimenti sopra indicati non era previsto alcun pagamento diritti o compensi. Le perplessità attengono, quindi, alla estensione della esenzione a fattispecie che, si ripete, sono state introdotte da successive disposizioni legislative. Sul quesito formulato, questa Avvocatura Generale osserva. 1.- I tributi speciali catastali acquistano siffatta denominazione con l’entrata in vigore del D.L. 31 luglio 1954 n. 533, convertito, con modificazioni, dalla Legge 26 settembre 1954, n. 869. Prima dell’entrata in vigore del citato Decreto, detti tributi rientravano nella generale categoria dei diritti, proventi e compensi posti a carico dei cittadini per l’erogazione, da parte delle Amministrazioni dello Stato o di altri Enti Pubblici, di servizi di varia natura. In particolare, con riguardo alla materia catastale, la normativa di riferimento era contenuta nella legge 17 luglio 1951, n. 575 e successive disposizioni di proroga. Orbene, l’art. 1, comma 1, del D.L. n. 533/1954 testualmente recita: “Tutti i diritti, proventi e compensi, comunque denominati, istituiti a carico dei cittadini o di enti per essere erogati ai dipendenti delle Amministrazioni P A R E R I D E L C O M I T A T O C O N S U L T I V O 04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 347 dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, sono soppressi, ad eccezione di quelli previsti dalle allegate tabelle”. Il successivo art. 2 recita ancora: “Tutti i diritti proventi e compensi che in base all’articolo precedente sono mantenuti in vigore, assumono la denominazione di tributi speciali e sono versati entro 30 giorni dalla loro riscossione in apposito capitolo da istituirsi nel bilancio delle Entrate con la denominazione “tributi speciali, diritti e compensi”. Per quanto di rilievo in questa sede, con riferimento ai tributi speciali catastali, le norme citate attuano un intervento che è al tempo stesso di mantenimento in vigore e di recepimento normativo, sicché può sostenersi che vi sia continuità se non addirittura identità tra “... i diritti e compensi di cui alla legge 17 luglio 1951 n. 575 e successive disposizioni di proroga” (secondo la formulazione dell’art. unico della Legge esonerativa 228/1954) ed i tributi speciali istituiti dal D.L. n. 533/1954. In altri termini, nella categoria dei tributi speciali il legislatore del 1954 innesta la pregressa normativa di cui alla legge 575/1951, che, pertanto, rimane in vigore, con la relativa esenzione, in quanto i servizi catastali ed i connessi diritti, (di cui alla ridetta Legge n. 575/1951), risultano ora specificamente elencati nella tabella A allegata al D.L. n. 533/1954. 2.- Il problema dell’ estensione della esenzione ai servizi di nuova istituzione, non può che essere risolto nell’ambito di tale quadro normativo di riferimento. L’introduzione di nuovi servizi è avvenuta con l’art. 1, comma 13 della D.L. n. 323/1996 che così recita: “Il titolo III della tabella A allegata al Decreto P.R. 26 ottobre 1972 n. 648, è sostituito dalla tabella B allegata al presente decreto”. Il tenore e la ratio della disposizione non sembrano ostativi ad una estensione della esenzione di cui alla ridetta Legge 228/1954, la quale risulta infatti compatibile con una lettura delle nuove norme tanto di natura esegetica, quanto logico-sistematica. Per un verso, infatti, il D.L. n. 323/1996 si è limitato ad implementare il titolo III della Tabella A allegata al d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 648, che, a sua volta, ha sostituito la tabella A allegata al D.L. 533/1954. Si registra, pertanto, ancora una volta, una indiscutibile continuità normativa, ponendosi il citato D.L. 323/1996, a valle dell’originario intervento istitutivo dei tributi speciali. Ne discende che, se la normativa di cui Legge 575/1951 e la relativa esenzione sono state innestate nel D.L. n. 533/1954, non si vede la ragione per escludere dall’esenzione i servizi catastali di più recente istituzione, ma di identica natura giuridica, in quanto costituiscono, si ripete, mere implementazioni della originaria tabella A allegata al più volte citato D.L. 533/1954. Le considerazioni che precedono consentono di prescindere dalla precedente consultazione resa da questa Avvocatura Generale, avente n. 11185/03 e citata da codesta Agenzia nella nota a riscontro, anche in considerazione del diverso contesto emergenziale (eventi sismici del novembre 1980, febbraio 1981 e marzo 1982 e relativi territori interessati) che la stessa presupponeva (…)». 348 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 348 A.G.S. – Parere del 9 dicembre 2008 n. 143108. Tenuta informatizzata dei registri da parte dei depositari autorizzati di prodotti energetici e di bevande alcoliche (consultivo 29951/08, avvocato G. Albenzio). « 1.- (…) codesta Agenzia chiede parere in merito alla possibilità di rendere obbligatoria la tenuta informatizzata dei registri da parte dei depositari autorizzati di prodotti energetici e di bevande alcoliche, perché coerente con la trasmissione telematica dei dati contabili ormai riconosciuta dalla L. n. 59 del 1997 (art. 15) e perché renderebbe i sistemi di controllo più efficaci ed agevoli (soprattutto con riguardo al settore fiscale). Si riferisce che sono state adottate dal Direttore dell’Agenzia le determinazioni, datate 26 settembre 2007, con le quali sono stati stabiliti tempi e modalità per la presentazione esclusivamente in forma telematica dei dati relativi alla contabilità degli operatori, qualificati come depositari autorizzati, con decorrenza per il settore dei prodotti energetici dal 1° giugno 2008 e per il settore degli alcoli dal 1° ottobre 2008; per i prodotti energetici le scritturazioni contabili sono quelle indicate dalla circolare 335 del 1992, per le bevande alcoliche i registri sono individuati dal D.M. 27 marzo 2001, n. 153, ai sensi dell’art. 26, comma 3, del regolamento n. 153 del 2001: “….con provvedimento del Direttore dell’Agenzia da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale vengono rideterminate e aggiornate le modalità tecniche di accertamento e di contabilizzazione dei prodotti alcolici sottoposti al regime delle accise o a vigilanza fiscale”. 2.- Per rispondere al quesito posto, questa Avvocatura Generale ritiene utile partire da un’analisi ricostruttiva delle disposizioni del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, noto anche come “Codice dell’Amministrazione digitale”, per poterne in tale direzione, comprendere l’eventuale applicabilità ai registri sopraindicati. Il menzionato Codice ha ad oggetto i documenti informatici, definiti all’art. 20 come “rappresentazioni informatiche di atti, fatti, o dati giuridicamente rilevanti” e la gestione informatica degli stessi, vale a dire “l’insieme delle attività finalizzate alla registrazione e segnatura di protocollo, nonché alla classificazione, organizzazione, assegnazione, reperimento e conservazione dei documenti amministrativi formati o acquisiti dalle amministrazioni, nell’ambito del sistema di classificazione d’archivio adottato, effettuate mediante sistemi informatici”. L’idea-guida del legislatore è quella di trasformare atti e documenti cartacei in virtuali. Tant’è vero che le pubbliche amministrazioni sono tenute ad organizzare la propria attività utilizzando le tecnologie dell’informazione e della comunicazione per realizzare, da una parte, quegli obiettivi di efficienza, efficacia, economicità, imparzialità, trasparenza, semplificazione e partecipazione che devono ispirare l’attività della P.A., e dall’altra, una vera e propria interazione tra le pubbliche amministrazioni e i privati. L’articolo 43, di conseguenza, disciplina dettagliatamente la riproduzione e la conservazione dei documenti: “I documenti degli archivi, le scritture I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 349 04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 349 contabili, la corrispondenza ed ogni atto, dato o documento di cui è prescritta la conservazione per legge o regolamento, ove riprodotti su supporti informatici sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge, se la riproduzione sia effettuata in modo da garantire la conformità dei documenti agli originali e la loro conservazione nel tempo, nel rispetto delle regole tecniche di cui all’art. 71”. (Quanto sancito non compromette in nessun modo la validità di tutti quei documenti già conservati mediante riproduzione su supporto fotografico, su supporto ottico o con altro processo idoneo a garantire la conformità dei documenti agli originali). La conservazione dei documenti informatici, quindi, pienamente riconosciuta a livello normativo, garantisce non solo l’identificazione certa del soggetto che ha formato il documento e l’integrità del documento, ma anche la leggibilità e l’agevole reperibilità dei documenti e delle informazioni identificative, inclusi i dati di registrazione e di classificazione originari. La tenuta in modalità informatica dei documenti è poi riconosciuta come pienamente valida anche dall’art. 15 della L. n. 59 del 1997: “gli atti, i dati e i documenti formati dalla pubblica amministrazione e dai privati con strumenti informatici o telematici…..nonché la loro archiviazione e trasmissione con strumenti informatici sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge”. I documenti informatici, però, dovranno essere custoditi e controllati con modalità tali da ridurre al minimo i rischi di distruzione, perdita, accesso non autorizzato o non consentito o non conforme alle finalità della raccolta. L’adozione di tale forma di detenzione dei registri, dunque, è prevista dalla normativa di riferimento e perciò, può ben parlarsi di una sua concreta utilizzazione, in alternativa alle attuali modalità di tenuta delle scritturazioni contabili. L’eventuale “obbligatorietà” della tenuta informatizzata dei registri potrà essere prevista solo con un espresso intervento legislativo dell’autorità competente, mancando allo stato attuale una disposizione che ne preveda l’applicabilità. 3.- Per quanto riguarda, infine, il problema dello strumento giuridico, attraverso il quale regolamentare il regime della tenuta informatizzata, si potrebbe procedere - con riguardo sia al settore dei prodotti energetici che a quello delle bevande alcoliche -, ai sensi dell’art. 21, comma 5, del D.Lgs. n. 82 del 2005 (“Gli obblighi fiscali relativi ai documenti informatici ed alla loro riproduzione su diversi tipi di supporto sono assolti secondo le modalità definite con uno o più decreti del Ministro dell’economia e delle finanze, sentito il Ministro delegato per l’innovazione e le tecnologie”), con un decreto del Ministero dell’economia e delle finanze che disciplini l’emissione, la conservazione ed esibizione dei documenti sotto forma di documenti informatici rilevanti ai fini delle accise e delle imposte di consumo (…)». A.G.S.- Parere dell’11 dicembre 2008 n. 144804. Art. 12 comma 9 del D.Lgs. n. 42 del 2004 – Applicabilità ai beni già appartenenti ad Ente pubblico economico trasformato in società con apposito atto normativo in vigenza del D.Lgs. n. 490 del 1999 (consultivo 13373/08, avvocato P. Palmieri). 350 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 350 «Con riferimento alla questione sottoposta alla Scrivente (…) e successivamente acquisita la documentazione richiesta ai fini di una più compiuta valutazione, si espongono le seguenti considerazioni. Dagli atti esaminati emerge che la società [X] s.r.l. – costituita ex lege con D.Lgs. 79/99 in seno al gruppo Enel s.p.a. e titolare del diritto di proprietà su di un immobile sito in Palermo – ad essa conferito dalla stessa Enel e già a quest’ultima appartenente sin dal periodo precedente alla sua trasformazione in società per azioni – ha sollevato contestazioni circa la giuridica sussistenza di un preteso obbligo – affermato dall’Assessorato regionale per i Beni Culturali – in capo alla stessa di attivarsi per la verifica della sussistenza dell’interesse culturale del citato immobile, ai sensi dell’art. 12 comma 2 D.Lgs. 42/04, obbligo che le deriverebbe, a parere della riferita Amministrazione, sia dalla circostanza che il bene risultava vincolato ope legis ai sensi dell’art. 4 della legge 1089/1939, ora art. 10 comma 1 D.Lgs. 42/2004 (cfr. nota Assessorato BB. CC. AA. Regione Siciliana prot. 3674/A del 24 ottobre 2006), sia, correlativamente, dalla ritenuta operatività delle norma di cui all’art. 12 comma 9 D.Lgs. 42/04, la quale fa salva l’applicazione delle disposizioni di tutela culturale “anche qualora i soggetti cui i beni appartengano mutino in qualunque modo la loro natura giuridica”. La società [X] dopo avere manifestato contrario avviso rispetto alle deduzioni formulate dalla Soprintendenza di Palermo, si è poi sottoposta spontaneamente alla procedura di verifica ex art. 12 del Codice Urbani. L’Avvocatura Distrettuale ha comunque sottoposto la questione all’attenzione di questo G.U. sottolineando l’opportunità di un chiarimento sul punto e sollecitando una rimeditazione della soluzione già accolta dall’Ufficio Legislativo del Ministero con parere in data 13 febbraio 2006 con riferimento al caso di una compravendita di un bene già appartenuto alle Ferrovie dello Stato (con cui si conclude che le SS.PP.AA, acquistando la soggettività giuridica per effetto del perfezionamento del procedimento costitutivo senza che rilevi alcun intervento concessorio da parte dello Stato si collocano nella sfera di libertà e di autonomia dei soggetti privati e, dunque, non possono essere assimilate, in via interpretativa ai soggetti di cui all’art. 4 della legge del 1939 (oggi artt. 10 comma 1 e 12 comma 1 del Codice e, in ogni caso per l’inefficacia ratione temporis della normativa in esame rispetto alle trasformazioni già attuate in data antecedente al D.Lgs. n. 42 del 2004). L’Ufficio Legislativo, interpellato sul punto, non ha inviato osservazioni scritte pur facendo presente, per le vie brevi, la generale rilevanza e l’attualità della questione anche con riferimento al caso di altri enti privatizzati. Con riferimento al caso concreto prospettato dall’Assessorato in indirizzo non può che rilevarsi l’intervenuta cessazione della materia del contendere tenuto conto che la società [X] si è sottoposta spontaneamente alla procedura di verifica. Il contenzioso, pertanto, potrebbe eventualmente sorgere nel caso in cui, all’esito della procedura di verifica la società de qua contesti il valore culturale del bene immobile de quo. Peraltro, tenuto conto degli aspetti generali sollevati dall’Avvocatura di Palermo si ritiene opportuno formulare alcune considerazioni data la rilevanza della soluzione della questione delineata, volta a chiarire il regime giuri- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 351 04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 351 dico applicabile ad immobili già appartenenti ad enti pubblici, che siano stati sottoposti a privatizzazione in data anteriore all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 42 del 2004, ovvero ad immobili conferiti dalle società risultanti dalla privatizzazione, a società a queste collegate. Giova premettere, in linea generale, che nel sistema delineato dalla legge Bottai (legge n. 1089 del 1934) il bene culturale era assoggettato al regime di vincolo per il solo fatto di rivestire certe caratteristiche nonché in ragione dell’appartenenza a soggetto pubblico. Vigente tale normativa i beni immobili di proprietà dello Stato e degli enti territoriali, in caso di presenza di un interesse storico-artistico, fanno parte del demanio pubblico rispettivamente ex art. 822 e 824 c.c. Analogamente, gli immobili di proprietà degli enti pubblici non territoriali o degli “enti o istituti legalmente riconosciuti” fanno parte del loro patrimonio e sono soggetti a vincolo ope legis per il solo fatto di presentare interesse storico artistico ecc. (ex art. 4 della l. n. 1089 del 1939). Anche con il successivo Testo Unico delle disposizioni in materia di beni culturali e ambientali approvato con il D.Lgs. n. 490 del 1999 la presunzione ex lege (art. 5) sopravvive per le medesime tipologie di beni (questa volta indicati nell’art. 2 comma 1) lett. a). Muta peraltro, l’indicazione soggettiva degli enti i cui beni sono assoggettati a presunzione ope legis, indicati questa volta oltre alle “regioni, province, comuni” nonché negli “altri enti pubblici e persone giuridiche private senza fini di lucro”. L’appartenenza del bene a soggetto pubblico o privato senza fine di lucro o, invece privato con fine di lucro, dunque, si riflette immediatamente sulla individuazione delle modalità di sottoposizione a vincolo che, nei due casi, segue modalità diverse e ne rappresenta il tratto discriminante. Se, come si è visto poc’anzi, per i soggetti definiti pubblici l’assoggettamento a tutela avviene ex lege, per i privati (in senso stretto), occorre un provvedimento ad hoc dell’Amministrazione: i beni appartenenti a questi ultimi, infatti, sono sottoposti a regime di tutela solo se presentano un interesse particolarmente importante e previa notifica del provvedimento di dichiarazione avente carattere costitutivo a quel fine. In ogni caso, tanto nel vigore della legge del ‘39 quanto del successivo D.Lgs n. 490 del 1999 (che, all’art. 5 recepisce nella sostanza il contenuto dell’art. 4 della legge n. 1089 del 1939), l’attributo culturale non è una caratteristica attribuita al bene da un provvedimento dell’Amministrazione bensì una connotazione intrinseca del bene che presenta una delle tipologie di interesse indicate dalla legge . Peraltro, attraverso l’obbligo di fornire l’elenco descrittivo dei beni di loro appartenenza, tali soggetti concorrono all’identificazione dei beni culturali compito al quale, nel caso di beni appartenenti a soggetti privati o società commerciali, provvede il solo Ministero mediante lo strumento della dichiarazione. Sia nel sistema delineato dall’art. 4 della legge Bottai che di quello disciplinato dal D.Lgs. n. 490 del 1999 continua, invero, ad affermarsi il principio del carattere meramente dichiarativo dell’elenco descrittivo (che avrebbe dovuto essere fornito al Ministero ex art. 5 D.Lgs. n. 490 del 1999 ed 352 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 352 ancor prima, ex art. 4 legge 1089 del 1939) e della non necessità di una ricognizione del valore costitutivo delle qualità storico-artistiche del bene. La non inclusione del bene nell’elenco ovvero nei successivi aggiornamenti, dunque, secondo tale sistema, non costituisce ostacolo all’applicazione della disciplina di tutela sempreché le cose – appartenenti ai soggetti individuati come pubblici o a persone giuridiche private senza fine di lucro – siano di autore non più vivente e risalenti ad oltre cinquanta anni (ex art. 5 comma 5 e art. 2 comma 6, D.Lgs. n. 490/99). Il sistema, peraltro, era fonte di non poche incertezze sul piano fattuale sia per la sottrazione all’obbligo dell’inserimento in elenchi delle cose mobili o immobili di proprietà dello Stato o degli enti territoriali – per i quali non era previsto alcun meccanismo di individuazione quanto meno fino all’entrata in vigore del d.P.R. 283 del 2000 – sia per la generale inosservanza dell’obbligo ex art. 5 T.U. sopra richiamato, da parte di molti enti pubblici. Pertanto, riprendendo quanto affermato dalla relazione di accompagnamento al Codice vigeva una “presunzione generale di culturalità” solo in parte attenuata dagli atti di declaratoria , recanti la dichiarazione di interesse storico, artistico, ecc. talvolta emessi dall’Amministrazione. A ciò si aggiunga anche l’incertezza giurisprudenziale riferita al carattere presuntivo della sussistenza di un interesse culturale ritenuto meritevole di tutela ex lege, non mancando pronunce volte ad affermare anche in relazione ai beni pubblici, la necessità di un atto costitutivo di riconoscimento statale del carattere culturalmente pregiato ai sensi dell’art. 1 della legge 1089/1934 (v. in particolare: Cons. di St. 1479 del 1998 con cui si afferma che il valore storico ed artistico diretto su un bene demaniale, imposto ex lege n. 1089 del 1939, non scaturisce automaticamente in forza di legge ma richiede, per la sua configurabilità, la preventiva adozione di un atto formale avente valore costitutivo; e Cons. di St. 678 del 2000 ove si chiarisce che l’art. 4 della legge del 1939 (poi riprodotto nel successivo art. 5 e disciplinante la assoggettabilità ex lege al regime di tutela), da un lato, fissa una autonomia della tutela vincolistica dei beni rispetto alla loro inclusione negli elenchi, dei quali si ribadisce la natura dichiarativa, dall’altro, non esclude la necessità di un provvedimento costitutivo nel limitato significato del carattere pregiato del bene pubblico, con conseguente sottoposizione del bene al regime protettivo; ma contra v. Cass. Sez. I n. 6522 del 2003 secondo cui, nella vigenza della legge n. 1089 del 1939, l’interesse storico-artistico di un bene di proprietà dello Stato la cui presenza ne determina l’inclusione nel demanio pubblico e l’assoluta inalienabilità non postula formali e specifici provvedimenti dell’Amministrazione ed è riscontrabile pure in assenza di tali provvedimenti, sulla scorta delle intrinseche qualità e caratteristiche del bene evincibili, peraltro, anche dagli atti e comportamenti posti in essere dall’autorità amministrativa nella gestione dello stesso). Di qui l’affermata necessità di procedere ad accertamento dell’interesse culturale non solo in relazione ai beni privati ma anche con riferimento ai beni appartenenti ad enti pubblici. Ciò anche in maggiore armonia con quanto indicato dallo stesso codice civile che all’art. 822 c.c. che ricomprende nel demanio pubblico, oltre agli immobili di proprietà statale, anche quelli di I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 353 04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 353 proprietà degli enti territoriali che siano stati “riconosciuti” di interesse storico e artistico. Si fa strada, dunque, l’idea dell’utilità di un atto di riconoscimento – sia pure dal carattere meno pregnante della dichiarazione che precede la ricognizione costitutiva del carattere di interesse del bene di proprietà privata – ma che, tuttavia, da un lato risponda alla esigenza dell’ente proprietario di gestire correttamente il bene de quo e, dall’altro, consenta la percezione del regime vincolistico da parte del privato che entri in contatto con tali beni . L’introduzione dell’obbligo di verifica ad opera del Testo unico più recente sembra dunque, volto proprio al fine di porre fine a tali incertezze obbligando i soggetti pubblici a procedere ad una effettiva ricognizione del loro patrimonio culturale, e d’altro canto, sottoponendo detti beni a tutela fino alla effettiva ricognizione dell’interesse culturale del bene ovvero fino alla sua declassificazione nel caso di esito negativo della verifica. Prima con l’art. 27 del D.L. 269 del 2003 e immediatamente dopo con l’art. 12 del Codice Urbani (D.Lgs. n. 42 del 2004) viene, dunque, fissato un nuovo procedimento diretto a verificare – in modo certo e definitivo – l’interesse culturale del patrimonio culturale pubblico. Nel nuovo regime normativo sono sottoposti automaticamente al regime di tutela i beni ultracinquantennali di autore non più vivente appartenenti agli enti pubblici (territoriali e non) e alle persone giuridiche private senza scopo di lucro, ma la situazione di vincolo è sempre a carattere interinale in attesa che venga effettuata una apposita verifica (d’ufficio o su istanza di parte), all’esito della quale o si rileverà in modo espresso il carattere culturale del bene sottoposto al particolare regime di tutela (in particolare all’autorizzazione alla vendita) ovvero si considererà il bene sottratto a tale regime con la conseguente disponibilità e libera alienabilità da parte del soggetto proprietario. Nelle more, le cose appartenenti ai soggetti di cui al comma 1 dell’art. 10 (ovvero enti pubblici in genere e enti privati senza scopo di lucro) sono inalienabili fino alla conclusione della procedura di verifica e, per quel che qui più interessa, è sottoposta al regime dell’autorizzazione ex art. 56 comma 1 lett. b) l’alienazione dei beni culturali appartenenti a soggetti pubblici non territoriali o a persone giuridiche private senza scopi di lucro. Come già disponeva la legge del 1939 così anche il testo unico del 1999 contemplava due regimi di tutela a seconda della natura pubblica o privata del bene culturale ma nulla prevedeva con riferimento ai beni appartenenti agli enti privatizzati . A fronte del processo sempre più intenso di privatizzazione degli enti pubblici, già nel corso della XIII legislatura, il Governo aveva presentato un disegno di legge volto alla sottoposizione dei beni appartenenti a società nascenti da privatizzazione al regime proprio dei soggetti privati ma con contestuale imposizione dei diretti vincoli di tutela, quanto meno per un periodo temporalmente limitato (quattro anni) onde consentire, medio tempore, l’intervento dell’Amministrazione. Anche se il disegno di legge non completò il suo iter, i principi innovativi dello stesso sono fatti propri con il D.Lgs n. 42 del 2004, il cui art. 12 comma 9 stabilisce che le disposizioni del presente articolo si applicano alle cose di 354 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 354 cui al comma 1 (cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente e istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro), anche qualora i soggetti cui esse appartengono “mutino in qualunque modo la loro natura giuridica”. La disposizione, dunque, pur risolvendo ogni dubbio per il caso di trasformazione successiva all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 42 del 2004 (1 maggio 2004), presenta dubbi interpretativi in relazione ai casi di enti pubblici già trasformati in società commerciali al momento dell’entrata in vigore del Codice Urbani. Alla luce delle premesse suesposte, al fine di individuare una possibile soluzione, a parere di questo G.U. merita più attenta riflessione il profilo relativo alla qualificazione soggettiva dell’Ente del cui mutamento di natura si tratti, anche a fronte dell’argomento volto a sottrarre alla procedura di verifica ex art. 12 D.Lgs. n. 42 /04 le società di diritto privato. In effetti, riflettendo sul dato testuale del decreto Urbani, l’art. 12 D.Lgs. n. 42 /2004 assoggetta alla procedura di verifica le cose immobili e mobili indicate nell’art. 10 comma 1 ovvero, come detto sopra, appartenenti allo Stato alle regioni agli altri enti territoriali, nonché ad ogni altro ente o istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro in tal modo implicitamente escludendo – anche attraverso il mancato richiamo del comma 3 dell’art. 10 – i soggetti privati con fini di lucro, ovvero, le società commerciali. Si osserva che la tesi fondata sul dato formale della natura giuridica del soggetto sottoposto a verifica troverebbe conforto – oltre che nel dato letterale della disposizione – proprio nel già menzionato precedente parere reso, su analoga fattispecie, dall’Ufficio Legislativo del Ministero per i Beni e le attività culturali (prot. 3933 del 13 febbraio 2006) con cui si escludeva l’applicabilità degli obblighi inerenti la verifica a società collegata al gruppo FF.SS. proprio in ragione della natura ormai privata della società cui il bene risultava conferito. L’orientamento espresso in quella sede da detto Ufficio, siccome recepito e sviluppato per il caso di specie dalla Enel s.p.a. (v. nota Assessorato BB.CC.AA. Regione siciliana prot. 59665 del 18 giugno 2007), si fonda sul precedente reso in materia dal Consiglio di Stato con riferimento al caso delle banche di interesse nazionale (Cons. di St. Sez. VI del 20 febbraio 1998 n. 176), nonché sulla considerazione che l’assimilazione di taluni soggetti privati alle istituzioni pubbliche discende dal fatto che detti enti ripetono la loro personalità giuridica da un atto costitutivo dello Stato, a differenza, pertanto, delle società per azioni, la cui soggettività è acquisita per effetto diretto del loro procedimento costitutivo. Si osserva, al riguardo, che, con riferimento in particolare al caso di enti pubblici privatizzati, l’argomentazione utilizzata dalla giurisprudenza richiamata dal predetto parere sembra piuttosto andare a favore della tesi opposta, tenuto conto che le società nascenti da detti enti sono costituite quali SS.PP.AA. non certo dalla volontà dei soci bensì, direttamente, in virtù di un atto normativo. Non vi è dubbio, peraltro, che il riferimento alla natura giuridica dell’ente assoggettato a verifica deve intendersi in senso sostanziale e non mera- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 355 04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 355 mente formale, come del resto si arguisce dallo stesso parere UL sopra menzionato. Occorre cioè verificare, di volta in volta, se dietro la veste formale di società commerciale vi sia un soggetto che, operando secondo rilevanti deroghe rispetto al modello codicistico abbia natura sostanzialmente pubblica. Con riferimento al caso dell’Enel si osserva al riguardo che, dapprima configurato quale ente pubblico economico, l’ Enel S.p.a. ha assunto forma societaria con il D.L. 11 luglio 1992 n. 333 ovvero attraverso un provvedimento normativo, al di fuori di uno specifico atto di autonomia negoziale nonché in assenza di pluralità di soci. Il Decreto legge istitutivo pone vincoli incompatibili con i poteri tipici degli associati privati stabilendo le regole cui deve attenersi l’azionista pubblico e subordinandolo alle direttive del Presidente del Consiglio (v. art. 15 comma 3 del 333 del 1992). E’ noto che dopo le prime oscillazioni giurisprudenziali tra la tesi privatistica delle società per azioni a capitale pubblico (SS.UU. 4989 del 1995) e la tesi pubblicistica, è prevalso l’orientamento volto ad escludere che la veste formale di società per azioni sia idonea a trasformare la natura pubblica di soggetti che, in mano al controllo maggioritario dell’azionista pubblico, siano comunque affidatari di rilevanti interessi pubblici. Giova, a tale riguardo, il richiamo a Corte cost. n. 466 del 1993 ove si sottolinea il progressivo attenuarsi della dicotomia Ente pubblico-società privata in relazione sia all’impiego crescente dello strumento della S.p.a. per il perseguimento di fini pubblici che agli orientamenti emersi in sede comunitaria, favorevoli ad una nozione sostanziale di società di diritto pubblico. La Corte ha altresì sottolineato come la natura societaria sia in realtà una forma “neutra” non necessariamente determinante ai fini della identificazione della natura pubblica o privata di un determinato ente e che, pertanto, detta forma così come il perseguimento di uno scopo pubblicistico non è in contraddizione con il fine societario lucrativo, come descritto dall’art. 2247 c.c. (in tal senso anche sia pure con riferimento alla distinta materia dei pubblici appalti: sentenza del Consiglio di stato n. 4711 del 2002, proprio con riferimento al caso di Enel S.p.a. e delle società da essa controllate ha concluso per la persistente natura pubblicistica di Enel S.p.a. – nonché delle società dalla medesime controllate sulla base dei penetranti poteri di controllo mantenuti dallo Stato su detta società concludendo per la sussistenza di tutti e tre gli indici richiesti dalla nota giurisprudenza comunitaria nella definizione di organismo pubblico; v. anche Cass. Penale sent. n. 3132 del 1995; Corte dei Conti sez. Lombardia, 22 febbraio 2006 n. 114; v. anche parere A.G.S. del 21 aprile 1987 a firma dell’Avvocato Generale, previa consultazione del Comitato Consultivo, con cui si affermava la necessità, per le banche di interesse nazionale, di fornire gli elenchi dei beni, di loro appartenenza, che presentassero interesse storico, artistico ecc. ai sensi della legge del 1939 proprio facendo leva sulla presenza di rilevanti controlli e condizionamenti da parte dell’Autorità statale incompatibili con la veste formale (SS.PP.A.) di dette banche). A parere di questo G.U. dunque, è possibile ritenere che, finché lo Stato attraverso l’espressa previsione di poteri in favore del Ministro del Tesoro 356 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 356 abbia mantenuto poteri di controllo sulla gestione della società condizionandone la gestione ed indirizzandola verso obiettivi di interesse generale, la stessa non può non considerarsi quale soggetto assimilabile ad un ente pubblico. Tale regime, per quanto concerne Enel S.p.a., può ritenersi in esistenza quanto meno fino all’attuazione dell’art. 2 comma 1 del D.L. n. 332 del 1994 con cui si dispone che negli statuti delle società controllate direttamente o indirettamente dallo Stato anche nel settore delle fonti energetiche sia prevista, prima di ogni altro atto che determini la perdita del controllo, una clausola che attribuisca al Ministero del tesoro la titolarità di poteri speciali . Segna, dunque, la perdita formale del controllo il D.P.C.M. del 17 settembre 1999 con cui viene individuata la stessa Enel S.p.a. tra le società di cui all’art. 2 D.L. 332 del 1994. Ad analoghe conclusioni si dovrebbe pervenire per tutte le società costituite da Enel S.p.a. per le finalità indicate nel D.L. n. 79 del 1999 – Decreto Bersani (tra le quali, peraltro, sulla base di ricerche effettuate dalla Scrivente, non sembrerebbe potersi ricomprendere la [X] trattandosi di mera società immobiliare di diritto privato attualmente compartecipata da Enel S.p.a.). In ogni caso, quanto meno con riferimento al caso dell’Enel S.p.a., non vi è dubbio che, pur accogliendo la tesi sostanzialistica del mutamento di natura dell’ente, tale evenienza si sia verificata in ogni caso in data antecedente l’entrata in vigore dell’ art. 12 del D.Lgs. n. 42 del 2004. Ciò pone un problema di efficacia temporale della disposizione in esame che, per quanto sopra accennato, potrebbe intendersi come riferita ai soli casi di mutamento intervenuto in data successiva al 1 maggio 2004 (entrata in vigore del codice Urbani). Quanto al primo comma dell’art. 12, il riferimento alle cose di cui all’art. 10 comma 1 ovvero appartenenti ai soli soggetti ivi indicati (con esclusione, dunque, delle cose appartenenti a privati, indicate nella diversa disposizione di cui all’art. 10 comma 3), fa sì che gli enti o istituti pubblici già trasformati in S.p.a. alla data di entrata in vigore del Codice Urbani si sottraggono all’applicazione diretta della procedura di verifica. Anche il ricorso ad una tesi sostanzialistica di tale trasformazione rende non percorribile, quanto meno per il caso di Enel S.p.a., la tesi fondata sull’assimilazione di detto ente ai soggetti indicati nell’art 10 comma 1 e, di conseguenza, l’ipotesi della diretta applicabilità della procedura di verifica, tenuto conto che, come sopra esposto, la perdita di poteri maggioritari di controllo da parte del Ministero del Tesoro è antecedente all’entrata in vigore delle norme in esame. La conclusione peraltro, dovrebbe essere diversa per quegli enti trasformati in S.p.a. in cui lo Stato conservi ancora un controllo maggioritario e che, pertanto, potrebbero ancora oggi ritenersi assimilabili alle categorie di cui all’art. 10 comma 1, in quanto privatizzati in senso formale e non sostanziale. Tornando al caso in esame, pur non potendosi procedere ad una diretta assimilazione tra Enel S.p.a. ed enti pubblici assoggettati a procedura di verifica, tuttavia, occorre tenere conto dei principi di fondo che hanno ispirato costantemente anche a fronte dell’art. 9 Cost. la normativa dei beni culturali. Da un lato, dunque, occorre osservare – secondo le considerazioni della stessa Avvocatura richiedente – che la normativa statale di tutela del patrimo- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 357 04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 357 nio culturale assume ad oggetto elettivo ed esclusivo della propria disciplina il bene culturale, nella sua intrinseca ed oggettiva essenza, più che il dato soggettivo della sua appartenenza. A parere della Scrivente il vincolo ex lege che – come si è potuto constatare attraverso l’esame delle normative di tutela succedutesi nel tempo – assisteva il bene fin da epoca anteriore alla trasformazione dell’ente pubblico in soggetto privato non può essere vanificato dalla vicenda della privatizzazione. Non può cioè ritenersi che il bene, già considerato di interesse culturale ed assistito, al momento dell’appartenenza all’ente pubblico, da una presunzione ope legis di culturalità, perda tale connotazione e, per effetto di specifici provvedimenti normativi (nel caso in esame la legge 359 del 1992 che ha costituito l’Enel in S.p.a. o il successivo D.Lgs. 79/99) dettati da specifiche esigenze di politica economica, finisca per l’essere assimilato ad un mero bene di carattere economico, strumentale agli scopi sociali dell’impresa, liberamente alienabile e svincolato da ogni regime di tutela (se non ove intervenga un provvedimento dichiarativo da parte della competente Autorità). Aderire a tale soluzione significherebbe, in definitiva, accettare l’idea che alla privatizzazione dell’ente pubblico corrisponda, sul piano della tutela dei beni culturali, una lacuna del sistema vincolistico dei beni facenti parte del patrimonio di quell’ente. Una volta sottratti al vincolo operante ex lege detti beni sarebbero, pertanto, lasciati nella piena disponibilità dei privati proprietari sino alla successiva eventuale dichiarazione di interesse da parte della P.A., con ogni evidente nocumento per l’integrità del patrimonio artistico e culturale nazionale. Occorre piuttosto considerare, anche alla luce della interpretazione fornita dalla più autorevole giurisprudenza formatasi negli anni intorno a tali norme che lo spirito della normativa di tutela del patrimonio culturale – tanto nella legge del 1939 quanto nei successivi testi unici – è sempre stato orientato ad offrire il più alto grado di protezione ai beni mobili e immobili di proprietà pubblica, che rivestano un interesse culturale rilevante, sancendone quanto più possibile il regime vincolato ex lege. Anche in aderenza al dettato costituzionale di cui all’art. 9 Cost., dunque, le connotazioni del bene dovrebbero rimanere insite nel bene culturale in quanto tale ovvero in quanto segnato ab origine dalle caratteristiche proprie descritte dalle normative succedutesi nel tempo. Ciò tanto più ove si tenga conto che il sistema era completato e reso funzionale – data la vastità dei beni presi a riferimento – da un lato, proprio dal potere-dovere sostitutivo degli enti non territoriali, chiamati a fornire gli elenchi dei beni aventi le caratteristiche volute dalla normativa di riferimento e che sono rimasti per lo più inadempienti a detto obbligo; dall’altro, come sopra evidenziato, dalla “presunzione di culturalità” ovvero dal valore meramente dichiarativo dell’elenco, il vincolo operando comunque in ragione dell’appartenenza all’ ente pubblico inteso in senso più ampio (nel concetto di enti e istituti legalmente riconosciuti di cui all’art. 4 della legge 1 giugno 1939 n. 1089 essendosi sempre ricompresi anche quelli pubblici economici (tra i quali, prima della privatizzazione, lo stesso Enel) siccome enti “ che, pur svolgendo vera e propria attività imprenditoriale, hanno natura pubbli- 358 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 358 cistica e come tali sono tenuti ad indirizzare la propria condotta alla salvaguardia dei primari interessi della collettività, tra cui quello relativo alla tutela dei beni di interesse storico ed artistico, non meno degli altri enti pubblici” (Cons. Stato, VI, n. 640/1995). I beni in questione, del resto, non sono mai stati sottoposti a procedura di declassificazione né sembra potersi ricavare tale conseguenza dalle normative che hanno determinato la privatizzazione di determinati enti. Se, come è noto, il provvedimento di declassificazione è considerato atto di stretta competenza ministeriale – essendo frutto della discrezionalità tecnica del Ministero valutare in un determinato momento storico se, un certo bene, non risponde più al prevalente interesse pubblico alla tutela del patrimonio culturale – non si vede come si possa ritenere tale volontà implicitamente espressa, sia pure in sede legislativa, in provvedimenti normativi improntati ad evidenti finalità di carattere politico economico che nulla dispongono in ordine al regime dei beni appartenenti a detti soggetti. Pertanto, se da un lato il tenore letterale delle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 42/2004 porta con difficoltà a ritenere Enel S.p.a. o le società da essa integralmente controllate e dedicate alle finalità previste dal decreto n. 79/99 direttamente assoggettate alla procedura di verifica ex art. 12 comma 1 e 10 comma 1, dall’altro, tuttavia, quanto sopra considerato rende altrettanto inaccettabile l’opposta tesi di considerare la S.p.a. nascente da una vicenda di privatizzazione svincolata da qualsivoglia normativa di tutela sul bene fino alla dichiarazione di interesse culturale operata dall’Amministrazione. Tra le tesi contrapposte, dunque, si potrebbe concludere – come sembra fare il parere dell’U.L. già menzionato – nel senso che i beni in questione, ove in possesso delle loro caratteristiche di bene culturale, le conservino anche con il passaggio al patrimonio della neo-istituita S.p.a. ma siano pur sempre assoggettati al regime proprio dei beni culturali appartenenti a soggetti privati (quindi al mero obbligo di denuncia ai fini della prelazione) oppure, come sembra preferibile date le suesposte premesse, accogliere una posizione che, ancorandosi sia al dato obiettivo della valenza culturale del bene sia al fatto della sottoposizione di Enel al regime pubblicistico dei beni ad esso appartenenti in data anteriore alla sua privatizzazione, ritenga estensibile a tali situazioni il regime di tutela di cui all’art. 12 comma 9, ovvero consideri assoggettabili a verifica tutti i beni di proprietà di società commerciali già costituenti soggetti pubblici sottoposti alla disciplina di tutela in data antecedente l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 490 del 1999. Tale ultima tesi appare alla Scrivente più conforme al sistema ed in armonia con il rilievo costituzionale attribuito alla materia in esame dall’art. 9 Cost. L’espressione utilizzata dall’art. 12 comma 9 nel disciplinare le conseguenze del mutamento giuridico dei soggetti cui le cose appartengono non sembra essere di ostacolo alla tesi qui esposta. In effetti, se da un lato l’art. 12 delinea una nuova procedura di verifica tuttavia è possibile affermare che il comma 9 della medesima disposizione, nel far salvi i mutamenti soggettivi dei proprietari di beni di interesse culturale, ai fini del mantenimento ope legis del regime vincolistico si riferisca – quale espressione di un principio già insito nel sistema – a tutti i casi di muta- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 359 04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 359 mento del regime giuridico del soggetto proprietario di beni culturali anche se già verificatosi alla data di entrata in vigore del Codice Urbani. Il comma 9 della disposizione in argomento, dunque, non farebbe che chiarire definitivamente un principio già insito nel sistema facendo sì che le caratteristiche intrinseche del bene non si perdano nel passaggio dall’una all’altra normativa. Si è pienamente consapevoli che una conclusione siffatta, che dà valenza retroattiva alle specifiche disposizioni transitorie di cui all’art. 12 comma 9 D.Lgs. n. 42 del 2004, appartenga ad una possibile ricostruzione interpretativa che, in caso di controversia sul punto – possibile anche in relazione a questioni di validità di atti traslativi dei beni in questione medio tempore compiuti – potrebbe trovare una possibile smentita sulla base del tenore letterale della disposizione (che, dicendo “mutino in qualunque modo la loro natura giuridica” sembra voler escludere gli enti che tale natura abbiano già mutato) e dare luogo ad un inevitabile contenzioso con gli enti interessati dagli esiti assai incerti, nel caso in cui codesta Amministrazione intenda portarla a compimento attraverso ulteriori atti ed iniziative. D’altra parte, non sembra possibile ignorare la spontanea sottoposizione alla procedura di verifica da parte delle società interessate che sembra deporre a favore della bontà degli argomenti utilizzati considerando altresì, sul piano dell’opportunità e dell’interesse pubblico, che detta soluzione consentirebbe all’Amministrazione di sottoporre a verifica – e, in tal modo di recuperare nell’alveo della protezione – beni di significativa importanza culturale chiarendo una volta per tutte, attraverso l’attivazione della procedura di verifica, l’effettivo interesse del patrimonio immobiliare di detti enti. Quanto alle successive determinazioni eventualmente assumibili da codesta P.A. in conseguenza dei principi suesposti, si rimette alla valutazione del Ministero – anche nella consapevolezza della linea interpretativa finora seguita in ossequio al più volte menzionato parere dell’Ufficio Legislativo ed al rispetto del principio della tutela dell’affidamento dei terzi in buona fede – se, in concreto, limitare tali ulteriori determinazioni (eventualmente inerenti possibili declaratorie per nullità degli atti di vendita effettuati da società solo formalmente privatizzate, in deroga all’effettivo regime di tutela), ai casi di particolare rilevanza culturale del bene risultante quanto meno comprovata da dichiarazioni del Ministero ovvero delle competenti Sovrintendenze. Ciò anche in considerazione del sopra richiamato indirizzo della giurisprudenza amministrativa, diretto a rileggere la presunzione di culturalità dei beni appartenenti ad enti pubblici (ex art. 4 legge 1089/ 1934 ovvero ex art. 5 D.Lgs. n. 490/99) come non escludente la necessità di un provvedimento “costitutivo” (sia pure nel limitato significato del carattere pregiato del bene pubblico) (…)». 360 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 04 pareri a vers 7:Layout 1 06/04/2009 14.52 Pagina 360 ALESSANDRO D’ADDA, «Nullità parziale e tecniche di adattamento del contratto», Cedam, Padova 2008. Plasmare il più possibile le potenzialità funzionali delle regole in materia di nullità parziale del contratto, adeguandone gli effetti alle nuove esigenze della realtà socio-economica: è questo lo scopo che si propone Alessandro D’Adda (docente associato di Istituzioni di diritto privato all’Università Cattolica del Sacro Cuore) nella sua indagine sulla nullità parziale come possibile strumento di adattamento del contratto. L’autore, in altri termini, si propone di fornire un’interpretazione evolutiva delle norme sulla nullità per fornire una convincente risposta al fenomeno, sempre più frequente, degli squilibri contrattuali ai danni delle “parti deboli”. Data l’inidoneità dei mezzi tradizionali (rescissione, risoluzione, annullamento), l’esegeta deve preoccuparsi di rendere funzionali le disposizioni vigenti alla nuove frontiere teleologiche dell’invalidità negoziale, rimedio sempre più “preoccupato della ricostruzione e non della distruzione del negozio; pensato, più che per negare…per conformare il contenuto del contratto”. L’opera si divide in sei capitoli, in un coerente percorso che parte dal problema e tenta di offrire delle soluzioni, non sempre appaganti. Convincenti sono le premesse che l’autore pone nel capitolo introduttivo: “Il problema: conformazione del contratto e nullità parziale”. Segue, nei capitoli II e III (“Giudizio di nullità parziale e struttura del contratto”; “Tra volontà delle parti e comparazione obiettiva di interessi”), l’indispensabile e pregiudiziale analisi sulle letture tradizionali dell’art. 1419 c.c.. “solo una volta accertato secondo quali canoni si moduli il giudizio di nullità parziale si potrà valutare il grado di compatibilità tra il regime ordinario di nullità parziale e le nuove nullità”. L’elaborazione dottrinale si trasforma in un lungo salto nel passato: si susseguono le elencazioni classificatorie, con profili comparativi (vedi riferimenti alla Blue pencil rule inglese e alla nullità parziale nel BGB) e con i consueti problemi irrisolti, vecchi tre quarti di secolo: cosa si intende per clausola? Il giudizio di “sufficienza del resto” deve riguardarsi in modo soggettivo o oggettivo? Tale giudizio va inteso in senso strutturale o con riguardo agli interessi delle parti? R E C E N S I O N I 05 recensioni.qxp 06/04/2009 15.17 Pagina 361 D’Adda suggerisce un “frazionamento del giudizio di invalidità parziale”: ad una prima fase demolitoria farebbe seguito l’adattamento del contratto, risultante dalla caducazione, ad un nuovo equilibrio negoziale degli interessi che sia rispettoso di quello originario; “Invero non mancano nel sistema norme che si preoccupano del venir meno dell’equilibrio negoziale e di ripristinarlo” (il riferimento è all’art. 1464 c.c.), con lo scopo di ridisegnare il contenuto negoziale non già in modo giusto, bensì conforme al disegno delle parti. Uno scopo, però, frustrato dall’alternativa secca imposta dall’art. 1419: caducazione dell’intero contratto o conservazione del residuo senza modifiche. L’autore è tornato al punto di partenza e sembra quasi rassegnarsi: non vi sono altre strade rispetto al giudizio sulla perdurante utilità del contratto ad onta dell’eliminazione di una parte del suo contenuto: “Se senza clausola il contratto non regge, la sua sorte ne verrà irrimediabilmente segnata”. Né barlumi di speranza provengono dalla antica teoria dell’ “inefficacia in senso stretto”: i patti abusivi, quando non sono nulli per espressa previsione del legislatore, lo sono per contrarietà a norme imperative di protezione. Nullità di protezione testuali e virtuali sono dunque accomunate dal problema di svincolarsi dalla “roulette russa” dell’art. 1419, quando all’invalidità di un patto abusivo conseguano carenze strutturali. È questo il cuore dell’opera, in cui D’Adda si sofferma sulla presunta impossibilità di ricostruire una disciplina efficace per tutte le invalidità di protezione, confutando l’asserita necessità di “adeguare il regime della nullità agli scopi che l’invalidità commina”: in fondo tutte le norme imperative di protezione, pur rispondendo a rationes diverse, hanno caratteri dogmatici comuni “poiché sottraggono alle parti la disponibilità di un regolamento disapprovato in quanto squilibrato”. Un’intuizione, questa, che consente all’autore di superare il primo gradino della sua scalata. E così, dopo una divagazione sul rapporto tra “Regole di trasparenza ed invalidità del contratto” (capitolo V), si torna sul tema principale del libro: alla comminazione della nullità di patti essenziali può conseguire una correzione del contratto che tuteli in modo adeguato il contraente debole? L’indagine perviene finalmente alle sue conclusioni: “la scelta del legislatore di imporre la salvezza del contratto depurato dalla clausola invalida – oggi riaffermata dall’art. 36 del codice del consumo, non sempre assicura la conservazione del contratto”. E allora si impone un’alternativa: non quella dell’applicazione analogica dell’art. 1339 c.c.., come pure taluno sostiene, perché ciò produrrebbe un allargamento a dismisura delle fonti eteronome del regolamento contrattuale, in totale spregio della sacra autonomia negoziale delle parti. Né, per legittimare la sostituzione, basta invocare l’art. 1374 c.c., che dispone un’integrazione del regolamento negoziale per sua natura inapplicabile alle parti predisposte dai contraenti. La tecnica di adattamento del contratto suggerita dall’autore è quella della “sostituzione dispositiva”: essa consiste nell’applicare al contratto proprio quelle regole dispositive che sono state abusivamente derogate. Ciò alla stregua di quanto avveniva, ad esempio, nella previgente disciplina sul contratto usurario. 362 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 05 recensioni.qxp 06/04/2009 15.17 Pagina 362 L’autore, in fine, sembra voler dire: l’ordinamento concede ai privati uno spazio in cui esplicare la propria autonomia; una volta che essi esorbitano da questo spazio derogando “in malo modo” alle norme dispositive, ecco che queste ultime tornano in vita. Soluzione ardita, che lo stesso D’Adda ammette non essere applicabile in tutti i concreti casi di patto abusivo. Ma al libro resta il merito di aver approfondito una tematica “calda”, quella dello “svecchiamento” della nullità e della sua disciplina normativa. Dott. Alessandro Nastri(*) RECENSIONI 363 (*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. 05 recensioni.qxp 06/04/2009 15.17 Pagina 363 05 recensioni.qxp 06/04/2009 15.17 Pagina 364 UNIVERSITÀ DI PISA E UNIVERSITÀ DI FERRARA Esperimenti di giustizia costituzionale: il processo simulato sull’aggravante dell’immigrazione clandestina a cura di Emanuela Brugiotti(*) Introduzione In collaborazione fra il Dottorato di ricerca in Tutela dei diritti e Giustizia costituzionale dell’Università di Pisa ed il Dottorato di ricerca in Diritto costituzionale dell’Università di Ferrara, si è ripetuto nel corso del 2008 il felice esperimento didattico della simulazione di un giudizio di costituzionalità. Quest’anno l’argomento della simulazione è stato la cd. aggravante di clandestinità, prevista all’art. 1, comma 1 lett. f), del recente Decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica. Tale disposizione modifica il Codice penale, inserendovi all’art. 61, comma 1, il numero 11-bis, a tenore del quale il reato è da considerarsi aggravato «se il fatto è commesso da soggetto che si trovi illegalmente sul territorio nazionale». I rispettivi dottorandi delle due facoltà, previamente suddivisi nei diversi ruoli di giudice remittente, parte privata, parte civile, Avvocatura dello Stato e Corte costituzionale, hanno affrontato le diverse questioni che la suddetta modifica legislativa ha posto all’attenzione non solo degli studiosi, ma della stessa opinione pubblica. Con questa breve introduzione si illustreranno i punti fondamentali che sono stati trattati nel corso del processo simulato per darne un quadro sintetico, così da facilitare la lettura degli atti processuali per l’approfondimento delle diverse questioni. D O T T R I N A (*)Avvocato, Dottoranda in Giustizia costituzionale – Università di Pisa. 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 365 Con ordinanza depositata il 20 settembre 2008 il Tribunale di Pisa- Ferrara (all.1), sezione prima penale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, co. 1, n. 11-bis c.p., come introdotto dall’art. 1, co. 1, lett. f), del D.L. 23 maggio 2008 n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla L. 24 luglio 2008 n. 125, per violazione degli artt. 3, 10 co. 2, 13, 25 co. 2, 27 co. 1 e 3, 35 co. 4, 77 e 117 co. 1 della Costituzione. In particolare, sulla rilevanza il giudice a quo ha osservato, innanzitutto, come l’art. 61, co. 1, n. 11-bis c.p. preveda una circostanza aggravante comune, inerente alla persona del colpevole, che trova, quindi, applicazione per tutti i reati, compresi quelli colposi, una volta che ne sia accertata la sussistenza. Il Tribunale rimettente ha precisato, inoltre, che anche in presenza di eventuali circostanze attenuanti, «per operare il bilanciamento ed il conseguente giudizio di equivalenza o prevalenza [il giudice] dovrebbe preliminarmente e pregiudizialmente valutare la sussistenza dell’aggravante contestata e quindi applicare la disposizione di dubbia costituzionalità». Infine, è stato evidenziato come ulteriore effetto dell’aggravante sarebbe l’inapplicabilità della sospensione dell’esecuzione della pena, secondo quanto previsto dall’art. 656, co. 9, lett. a), c.p.p. e come «secondo la prevalente interpretazione giurisprudenziale (Cass., Sez. I, 6 luglio 2005, Posada Suescun), perché operi l’accennato effetto preclusivo è sufficiente il giudizio di sussistenza dell’aggravante, anche se gli effetti di questa, quanto all’aggravamento di pena, siano poi neutralizzati in ragione del bilanciamento con le attenuanti». In via preliminare, il Tribunale Pisa-Ferrara ha poi eccepito che la disposizione oggetto del giudizio violerebbe l’art. 77, co. 2, Cost., in quanto adottata dal Governo con decreto-legge (poi convertito in legge) in difetto dei requisiti di cui al suddetto parametro costituzionale. Infatti, da un lato non sarebbe ravvisabile collegamento alcuno, in punto di straordinarietà, necessità e urgenza, tra le premesse di cui all’epigrafe e al preambolo del provvedimento e la previsione dell’aggravante di cui alla disposizione denunciata – relativa a reati già presenti nell’ordinamento – e, dall’altro, le circostanze indicate nel preambolo stesso non potrebbero obiettivamente ritenersi “casi straordinari di necessità e urgenza”. Nel merito, il giudice a quo ha ritenuto che la circostanza aggravante comune prevista dalla disposizione impugnata sia di natura soggettiva, legata ad uno status amministrativo – quello di straniero non regolarmente presente sul territorio dello Stato – e, quindi, in alcun modo in connessione obiettiva con la fattispecie di reato. Pertanto, lo stesso Tribunale ha reputato che la circostanza di cui all’art. 3 della Costituzione, in quanto farebbe derivare da una mera condizione soggettiva l’applicazione automatica di effetti penali, «a prescindere dall’apprezzamento giurisdizionale circa la concreta pericolosità sociale del soggetto». Inoltre, la disposizione in oggetto violerebbe l’art. 3 della Costituzione anche perché «finisce con il prevedere irragionevolmente un diverso trattamento per i cittadini italiani e stranieri presenti regolarmente sul territorio 366 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 366 italiano rispetto ai cosiddetti clandestini o “irregolari”, a prescindere dalle loro concrete condotte criminali e/o dalle modalità di esecuzione delle stesse » introducendo, in questo modo, una «sorta di diversa qualità dell’azione a seconda di chi la commetta», in palese violazione del principio costituzionale d’eguaglianza, che «non tollera discriminazioni fra la posizione del cittadino e quella dello straniero» (sentenza n. 62 del 1994). Ulteriori profili di incostituzionalità della disposizione in oggetto sono stati rinvenuti nella violazione dell’art. 13 Cost., in quanto l’aumento di pena fino ad un terzo rispetto alla pena del reato base comprime eccessivamente e irragionevolmente la libertà personale; dell’art. 25, co. 2, Cost., che «nel sancire un legame indissolubile tra la sanzione penale e la commissione di un fatto impedisce che possa punirsi la mera pericolosità sociale presunta»; dell’art. 27, commi 1 e 3, Cost., «ponendosi in contrasto con il principio di personalità della responsabilità penale, il quale esclude che la pena possa essere aggravata solo per soddisfare esigenze di prevenzione generale o di difesa sociale, indipendentemente dalla valutazione della effettiva personalità del condannato; con il principio di proporzionalità della pena, il quale postula la congruità della risposta punitiva rispetto alla gravità concreta del fatto; oltrechè con le finalità rieducative della pena, che verrebbe frustrata dalla irrogazione di pene eccessivamente severe in rapporto all’effettiva entità del reato commesso e della reale tendenza a delinquere». Nell’ordinanza di rimessione sono stati sollevati, inoltre, dubbi sulla legittimità costituzionale anche in riferimento agli artt. 10, co. 2, e 117, co. 1, della Costituzione. La disparità di trattamento introdotta da detta disposizione, infatti, si risolverebbe in una «irragionevole discriminazione tra persone in base alla loro origine nazionale e condizione personale, in violazione di molteplici disposizioni e trattati internazionali». Infine, il giudice a quo ha valutato la disposizione denunciata in violazione dell’art. 35 della Costituzione, configurando essa una discriminazione tra cittadini italiani e cittadini stranieri. L’art. 35 Cost. tutelerebbe, infatti, l’emigrazione in generale, quindi, tanto dei cittadini italiani all’estero, quanto dei cittadini stranieri in Italia. Così delimitato l’oggetto del giudizio costituzionale nel processo simulato, i dottorandi, rispettivamente nei ruoli dell’Avvocatura dello Stato, della parte civile e della parte privata, hanno redatto gli atti di intervento e successivamente le memorie conclusionali ai fini di confutare o sostenere quanto argomentato dal Tribunale (simulato) di Pisa e Ferrara. In particolare, l’Avvocatura dello Stato (all. 2) ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata. La difesa erariale, infatti, ha evidenziato in via preliminare ed assorbente come la questione sia manifestamente inammissibile per difetto di motivazione «posto che il giudice a quo non ha dato conto di avere operato alcun tentativo di pervenire a un’interpretazione conforme alla Costituzione della normativa di riferimento», secondo quanto richiesto dalla consolidata giurisprudenza costituzionale sul punto ai sensi della quale, in particolare, il sindacato di costituzionalità potrebbe essere esperito solo se «fosse rimasto risolvere la controversia al suo esame sulla base della disciplina vigente, in DOTTRINA 367 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 367 conformità alla interpretazione che di questa dà la giurisprudenza costituzionale e quella della Corte di Cassazione» (ordinanza n. 129 del 2007). Secondo l’Avvocatura dello Stato, inoltre, non solo il tentativo di interpretazione della norma conforme a costituzione era doveroso, ma vieppiù possibile. Nell’atto di costituzione, infatti, si è sostenuto che «anche per le aggravanti comuni l’automaticità dell’applicazione dell’aumento di pena è subordinata e condizionata a un’interpretazione della norma che consente al giudice un accertamento in ordine al maggior disvalore del fatto circostanziato o a una maggiore pericolosità del soggetto agente» (così sarebbe ad esempio nel caso della circostanza aggravante prevista dall’art. 61, co. 1, n. 9 c.p.) e che in tale ottica si sarebbe dovuto muovere il giudice a quo nell’interpretare la disposizione denunciata. La stessa difesa erariale, inoltre, ha prospettato un’interpretazione conforme della norma impugnata. In base ad una lettura sistematica dell’aggravante, alla luce della distinzione tra soggetti e stranieri e tra immigrati irregolari e immigrati illegali, prevista dal T.U. sull’immigrazione e dalle regole comunitarie concernenti il libero transito dei cittadini comunitari, si è dedotto che la condizione di illegalità sul territorio nazionale di cui alla disposizione denunciata si estenderebbe a tutti i soggetti non cittadini e che questa sarebbe «subordinata al fatto di essere già stati colpiti, al momento della commissione del reato aggravato dalla circostanza in esame, da un provvedimento di espulsione ministeriale, prefettizia o giudiziaria, da un foglio di via obbligatorio, da un ordine di allontanamento o da un altro provvedimento amministrativo o giudiziario previsto dalla legge che imponga il loro allontanamento dal territorio nazionale». Così interpretata, la nuova circostanza aggravante, da un lato, non intenderebbe punire lo status di clandestino dell’autore del reato, ma «la sua volontaria disobbedienza ad un ordine di allontanamento impostogli nel rispetto della legge, a tutela dell’interesse generale» e, dall’altro, sarebbe frutto di una «scelta politica legislativa non irragionevole né discriminatoria, operando un contemperamento fra i diversi interessi in conflitto». La difesa erariale ha reputato, inoltre, infondata la questione sollevata con riferimento anche agli altri parametri indicati nell’ordinanza di remissione del Giudice a quo. In particolare, in riferimento all’art. 77 Cost. si è osservato che, alla luce della giurisprudenza costituzionale, da un lato il vizio invocato può reputarsi sussistente soltanto qualora risulti evidente e, dall’altro, per valutare l’esistenza dei casi straordinari di necessità e urgenza previsti dalla Costituzione quali requisiti per l’adozione di decreti legge «è necessario tener conto degli «indici intrinseci ed estrinseci alla 6 disposizione impugnata». Ciò premesso, risulta evidente per l’Avvocatura dello Stato come nella fattispecie in oggetto il vizio di legittimità costituzionale denunciato sia insussistente. Quanto al merito, la difesa erariale ha ricordato che secondo la costante e consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, l’art. 25, co. 2, Cost., «demanda in via esclusiva al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena, delle sanzioni loro applicabili e del complessivo trattamento sanzionatorio», scelta che potrebbe essere sindacata in punto di legittimità costituzionale solo 368 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 368 se manifestamente irragionevole, poiché altrimenti il controllo si tradurrebbe in una «inammissibile ingerenza nelle scelte politiche del legislatore». Tuttavia, secondo la stessa difesa non può essere mosso un sindacato di ragionevolezza nei confronti della norma impugnata per diverse ragioni. In primo luogo, infatti, non è apparso possibile «invocare genericamente delle alternative alla scelta attuata dal legislatore, poiché, così facendo, si invade il campo della discrezionalità riservata ad esso»; inoltre, non è sembrato sufficiente richiamare la sentenza n. 78 del 2007 della Corte costituzionale per sostenere che le funzioni retributiva, preventiva e rieducativa della pena non possano trovare bilanciamenti e graduazioni diverse a seconda che il legislatore persegua il prioritario obiettivo della difesa sociale o piuttosto quello della risocializzazione del reo, quando siano rispettati i diritti fondamentali. Inoltre, non solo l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 61, co. 1, n. 11-bis, avanzata dalla stessa Avvocatura, non farebbe derivare effetti penali sulla base di una mera condizione soggettiva, secondo quanto al contrario sostenuto dal giudice a quo, ma lo stesso codice penale accoglierebbe il principio, fatto salvo dalla giurisprudenza costituzionale, in virtù del quale «alla determinazione della pena concorrono non solo considerazioni relative alla gravità del reato (ex art. 133, co. 1, c.p.), espressive del disvalore della condotta, bensì anche valutazioni non immediatamente legate al “fatto”, inerenti alla personalità del reo (ex art. 133, co. 2, c.p.)». Infine, non potrebbe essere considerata manifestamente irragionevole «la scelta del legislatore di prevedere una più intensa sanzione in ragione del disvalore sociale riconosciuto alla condotta di cui all’art. 61 n. 11-bis c.p.», in considerazione del fatto che, in ragione dell’imponente fenomeno dei flussi migratori degli ultimi anni, l’opzione legislativa è stata il frutto di una risposta politica «a fronte dell’aumentata percezione sociale della pericolosità del fenomeno in questione, ferma restando la garanzia del controllo del giudice sull’esistenza dei presupposti per l’applicazione della misura». La difesa erariale ha concluso ritenendo, da un lato, infondate le censure relative agli artt. 10, co. 2, e 117, co. 1, Cost., in quanto «non viene introdotta dalla disposizione in oggetto un’“aggravante d’autore” né tanto meno si crea un’irragionevole discriminazione tra persone in base alla loro origine nazionale e condizione sociale», e, dall’altro, inconferente quella relativa all’art. 13 Cost., perché sostenuta in relazione all’art. 656, co. 9, lett. a) c.p.p., disposizione sulla quale non è stato sollevato dal Tribunale remittente dubbio alcuno di legittimità costituzionale. La parte privata, costituitasi in giudizio (all. 3), ha condiviso pienamente le argomentazioni dell’ordinanza di rimessione, chiedendo, quindi, che la norma denunciata venga dichiarata costituzionalmente illegittima. In particolare, secondo la suddetta difesa la nuova circostanza aggravante violerebbe gli artt. 25, co. 2, e 3 Cost. in quanto l’eventuale aumento di pena «venendo a dipendere non già dalla gravità oggettiva del fatto o da considerazioni sulla concreta pericolosità sociale del condannato, quanto dal mero status soggettivo di clandestinità del reo, poggia sull’infondato ed irragionevole assunto criminologico secondo il quale l’immigrato clandestino sarebbe, per ciò solo, spiccatamente propenso a delinquere». DOTTRINA 369 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 369 La norma impugnata, pertanto, sarebbe in evidente contrasto con i principi di materialità e offensività di cui all’art. 25, co. 2, Cost. L’applicazione della nuova circostanza aggravante sarebbe poi in palese violazione del principio d’eguaglianza poiché produrrebbe necessariamente un irragionevole diverso trattamento sanzionatorio, venendo la medesima condotta diversamente punita «a seconda che l’autore del reato si trovi in territorio nazionale regolarmente o irregolarmente». Sempre secondo la difesa dell’imputato, inoltre, l’art. 61, co. 1, n. 11-bis c.p. violerebbe l’art. 27, co. 3, Cost., in quanto in contrasto «sia con le finalità costituzionali della pena, sia con il principio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto, che della funzione risocializzante rappresenta un implicito corollario». Infine, la disposizione denunciata comprimerebbe eccessivamente il diritto alla libertà personale di cui all’art. 13 Cost., dal momento che «almeno nel suo nucleo irriducibile [esso] deve essere garantito anche a coloro che non sono forniti di un regolare permesso di soggiorno». A sua volta costituitasi in giudizio, la parte civile (all. 4) nel giudizio a quo, ha chiesto che la questione venga dichiarata inammissibile o comunque infondata. La stessa ha sostenuto, infatti, in primo luogo, come il Tribunale remittente non abbia sufficientemente motivato in punto di rilevanza, dal momento che il giudizio di sussistenza dell’aggravante è un giudizio discrezionale del giudice del dibattimento, «il quale può ben valutare che la circostanza de qua non assurga in realtà ad aggravante del reato, non essendo invero necessario pensare che l’esistenza della condizione di straniero “illegale” si configuri sempre e comunque come circostanza che determina la maggiore gravità del fatto imputato e potendosi, invece, alle volte ritenere che la detta circostanza non incida in alcun modo sulla gravità del reato». In secondo luogo, si è osservato che tutti i profili di illegittimità addotti sarebbero in realtà collegati in quanto tutti derivanti «dall’erroneo presupposto interpretativo secondo cui l’art. 61, n. 11-bis c.p. troverebbe automatica ed indiscriminata applicazione a carico degli stranieri irregolari che abbiano commesso un reato, “a prescindere dall’apprezzamento giurisdizionale circa la concreta pericolosità sociale del soggetto”». Al contrario, mediante una interpretazione costituzionalmente orientata, il giudice a quo avrebbe dovuto ritenere, anche in considerazione di quanto stabilito dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 192 del 2007 in materia di recidiva reiterata, che la disposizione oggetto del giudizio impone al giudice, «un’analisi in concreto circa le modalità con cui lo straniero ha perpetrato l’illegittima permanenza nello Stato, in modo da applicare l’aggravamento di pena ogni qual volta la condotta risulti sintomatica di una pericolosa indifferenza ai beni protetti se non addirittura di sprezzo per l’ordinamento ». Il fatto che il giudice a quo abbia omesso di valutare tale opzione ermeneutica è sufficiente, a parere della parte civile, perché la Corte dichiari inammissibile la questione. Infine, come l’Avvocatura dello Stato, anche la parte civile ha ritenuto non fondate le eccezioni di incostituzionalità in riferimento all’art. 77 Cost. 370 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 370 Successivamente, come di rito, le parti hanno depositato le rispettive memorie conclusionali. Con il suddetto atto, la difesa erariale ha contestato quanto sostenuto dalla parte privata in relazione alla supposta violazione del principio d’eguaglianza, per il fatto di produrre l’aggravante un irragionevole diverso trattamento sanzionatorio tra soggetti che pongono in essere la medesima condotta materiale, poiché ragionando in tal senso si finirebbe per «mettere in discussione l’esistenza stessa delle aggravanti». Parimenti infondata sarebbe la censura sotto il profilo della ragionevolezza, laddove si rimprovera all’aggravante in questione l’inidoneità nel raggiungimento del fine di contenere l’immigrazione clandestina, in quanto in tal modo si opererebbe un sindacato nel merito di una scelta politica del legislatore. L’Avvocatura dello Stato ha poi ribadito che, stante l’interpretazione conforme a Costituzione proposta nel proprio atto di intervento, l’aggravante prevista dalla disposizione denunciata non sanziona assolutamente lo status di clandestino bensì, diversamente, la disobbedienza ad un ordine legale di allontanamento dal territorio nazionale. La parte privata, invece, ha reputato innanzitutto prive di fondamento le osservazioni della parte civile sulla rilevanza, dal momento che «la legge impone al giudice, una volta sussistenti gli elementi costitutivi della circostanza, di applicare quest’ultima, non prevedendo spazio alcuno di discrezionalità valutativa». Sempre secondo la parte privata sarebbero prive di fondamento sia l’eccezione riguardante il mancato tentativo di interpretazione conforme da parte del giudice a quo, in quanto la circostanza aggravante in oggetto non darebbe spazio per alcuna «discrezionalità valutativa» sia le possibili interpretazioni conformi della normativa in oggetto prospettate dalla parte civile e dall’Avvocatura dello Stato, in quanto « o erroneamente estendono in via analogica quanto stabilito da questa Corte in materia di recidiva reiterata o perché basate su una insussistente distinzione, che sarebbe posta dal T.U. in materia di immigrazione, tra stranieri irregolari e stranieri illegali». La parte civile, infine, ha insistito sull’errata interpretazione della norma impugnata operata dal giudice a quo e sul mancato tentativo di interpretazione conforme da parte dei quest’ultimo. In particolare, si è evidenziato che l’eventuale aggravamento di pena non deriverebbe dal mero status di clandestino, bensì dal fatto che il soggetto avrebbe già dimostrato «disprezzo per le regole giuridiche del nostro ordinamento non rispettando le norme in materia di ingresso e in materia di soggiorno sul nostro territorio nazionale». Da questa breve introduzione agli atti del processo simulato in oggetto si evince come la questione sia di particolare interesse in quanto coinvolgente argomenti di sicura rilevanza nel nostro ordinamento giuridico, tra l’altro sempre più predisposto ad aprirsi alle influenze della giurisprudenza delle Corti europee, soprattutto in tema di tutela dei diritti fondamentali. Il bilanciamento fra la discrezionalità del legislatore, il principio di ragionevolezza, il diritto di uguaglianza ed il dovere di interpretazione conforme in capo al giudice a quo, sono i nodi fondamentali attraverso cui si snodano le diverse argomentazioni delle parti nonché la motivazione della decisione della Corte costituzionale similata (all. 5). DOTTRINA 371 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 371 La stessa, infatti, in via preliminare ha ritenuto non fondata la censura mossa dal giudice remittente in merito all’art. 77 in quanto, come più volte affermato «il sindacato sull’esistenza dei presupposti della necessità e dell’urgenza, che legittimano il Governo ad emanare decreti-legge – e il Parlamento a convertirli – può essere esercitato solo in caso di evidente mancanza dei presupposti stessi. Nella specie, alla stregua di indici intrinseci ed estrinseci alla disposizione impugnata deve ritenersi non sussistente il denunciato vizio». Successivamente ha ritenuto la questione ammissibile riguardo al mancato tentativo di interpretazione conforme. Secondo la Corte costituzionale, invero, «pur in mancanza di una esplicita indicazione dell’esperimento di detto tentativo, a voler leggere correttamente l’ordinanza di promovimento non si può che osservare come il Tribunale rimettente abbia in verità tentato di dare alla disposizione impugnata una lettura costituzionalmente orientata». Viene, quindi, rilevanza ad una sorta di “interpretazione conforme implicita” compiuta dal giudice a quo nell’ordinanza di rimessione della questione alla Corte costituzionale. Si tenga presente, inoltre, che l’assunto argomentativo del giudice remittente parte tutto dal presupposto interpretativo che il termine “soggetto” ed il termine “illegalmente” siano da intendersi esclusivamente come “extracomunitario” e “irregolarmente”. I Giudici della Consulta non hanno ritenuto, invece, condivisibili, i tentativi di interpretazione conforme proposti dall’Avvocatura dello Stato e dalla parte civile. In primo luogo, alla Corte non è parso estensibile quanto dalla stessa sostenuto nella sentenza n. 192 del 2007, merito alla recidiva reiterata: a parere della Corte simulata «la discrezionalità, per il giudice, nell’applicare o meno l’aumento di pena nel caso della recidiva reiterata» – infatti – «si è potuta riconoscere riconducendo tale istituto alla figura generale della recidiva prevista dall’art. 99, co. 1, c.p., il che implica, di conseguenza, che «la struttura della recidiva resti quella – indubbiamente facoltativa – ivi contemplata ». «Diversamente, l’art. 61 c.p., nel disciplinare le circostanze aggravanti comuni, tra le quali è stata ora inserita quella di cui alla disposizione oggetto del presente giudizio, non lascia al giudice alcuna possibilità di operare valutazioni discrezionali sul “se” applicare l’aggravante, essendo questi libero solamente nello stabilire la misura dell’aumento di pena» In secondo luogo, i Giudici hanno respinto l’interpretazione dell’aggravante in oggetto, dedotta dalla difesa erariale, in quanto «i sensi degli artt. 235 e 312 c.p. e degli artt. 13, co. 13 e 13-bis, e 14, co. 5-ter e 5-quater, del T.U. in materia di disciplina dell’immigrazione, lo straniero che viola un provvedimento d’allontanamento dal territorio nazionale commette un illecito penale. Di conseguenza, la condotta che secondo l’interpretazione prospettata dall’Avvocatura integrerebbe la condizione d’illegalità prevista dalla disposizione oggetto del presente giudizio integrerebbe altresì, a seconda di quale tipo di provvedimento d’allontanamento sia stato violato, le diverse fattispecie di reato cui si è fatto riferimento. Poiché, però, ai sensi dell’art. 61, co. 1, c.p. le circostanze aggravanti comuni possono aggravare il reato solo quando non ne siano elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali, se si seguisse l’interpretazio- 372 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 372 ne proposta dalla difesa erariale l’art. 61, co. 1, n. 11-bis non potrebbe mai essere applicato, dovendosi se del caso contestare uno dei suddetti reati». Tuttavia, pur condividendone il risultato, si osserva che la Corte non abbia forse dato conto nella propria motivazione anche dell’altro presupposto posto a fondamento dell’interpretazione prospettata dall’Avvocatura, ovvero il termine “soggetto”, «utilizzato dal legislatore in luogo di quello di “straniero”, previsto invece dal testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione giuridica dello straniero». Secondo la difesa erariale, infatti, « la scelta non è ovviamente casuale, dato che l’art. 1 T.U. indica con il termine straniero sia il cittadino di Stato non appartenente all’Unione Europea (extra-comunitario), sia la persona priva di cittadinanza (apolide). Con il sostantivo “soggetto”, perciò, secondo la difesa erariale il legislatore avrebbe voluto estendere l’ambito di applicabilità della disposizione non solo agli extracomunitari ed agli apolidi, ma anche a tutte le altre persone che non hanno cittadinanza italiana». In tal modo, se ai sensi dell’art. 61, co. 1, c.p. la circostanza in oggetto non sarebbe applicabile agli extracomunitari e agli apolidi, in quanto il fatto previsto dalla norma costituisce autonoma figura di reato ai sensi degli artt. 235 e 312 c.p. e degli artt. 13, co. 13 e 13-bis, e 14, co. 5-ter e 5-quater, del T.U. in materia di disciplina dell’immigrazione, lo stesso sarebbe, invece, applicabile ai cittadini comunitari. Si verrebbe, quindi, a configurare probabilmente un rapporto di specialità / sussidiarietà fra norme penali. La Corte ha proseguito, quindi, rinvenendo «il vizio di illegittimità costituzionale per mancanza di ragionevolezza [della norma in oggetto] poiché assumendo a sintomo di pericolosità sociale la presenza irregolare sul territorio nazionale – «grave problema sociale, umanitario ed economico che implica valutazioni di politica legislativa non riconducibili a mere esigenze generali di ordine e sicurezza pubblica né sovrapponibili o assimilabili a problematiche diverse, legate alla pericolosità di alcuni soggetti e di alcuni comportamenti che nulla hanno a che fare con il fenomeno dell’immigrazione» lo ha definito questa Corte nella recente sentenza n. 22 del 2007 – si stabilisce una norma assolutamente eccentrica rispetto alla logica del sistema delle circostanze, che impone al giudice un aumento di pena in presenza di un fatto assolutamente privo di una maggiore carica offensiva». Inoltre, secondo i Giudici la norma «si pone in contrasto innanzitutto con il principio d’eguaglianza – poiché fatti aventi lo stesso disvalore penale sono puniti irragionevolmente in maniera diversa – e, poi,con la funzione rieducativa della pena». Quest’ultima, in particolare, sarebbe “obliterata” nella norma in esame «da una palese eccedenza del sacrificio della libertà personale in proporzione all’offesa recata dalla condotta punibile». La Corte costituzionale simulata, è giunta, così, ad accogliere l’eccezione di costituzionalità sottoposta al suo giudizio, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 61, co. 1, n. 11-bis c.p., come introdotto dall’art. 1, co. 1, lett. f) del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125. DOTTRINA 373 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 373 Inoltre, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, i Giudici costituzionali hanno dichiarato l’illegittimità in via consenguenziale, anche all’art. 656, co. 9, lett. a), c.p.p., come modificato dall’art. 2, lett. m), della legge 24 luglio 2008, n. 125, « limitatamente alle parole «e per i delitti in cui ricorre l’aggravante di cui all’articolo 61, primo comma, 11-bis), del medesimo codice» perché, una volta caducata la disposizione oggetto del presente giudizio, questa non ha alcuna autonomia applicativa (cfr. sentenza n. 24 del 2004)». ALLEGATI: 1.- Repubblica italiana – Tribunale di Pisa-Ferrara, sezione prima penale – Procedimento n. 1234/2008 Registro Generale Notizie di Reato – n. 567/2008 Registro Generale Tribunale. 2.- Avvocatura Generale dello Stato – Corte costituzionale – Atto di intervento per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. 3.- Corte costituzionale – R.G. 1/2008 – Udienza 4 novembre 2008 – Memoria illustrativa. parte privata 4.- Corte costituzionale Atto di costituzione ai sensi dell’art. 25, II co., l. 11 marzo 1953, n. 87, e dell’art. 3, norme integrative parte civile. 5.- Corte costituzionale, sentenza 1 dicembre 2008 n. 411. (All.1) Repubblica italiana – Tribunale di Pisa-Ferrara, sezione prima penale – Procedimento n. 1234/2008 Registro Generale Notizie di Reato – n. 567/2008 Registro Generale Tribunale – nei confronti di: 1) Mohamed Vucumbrè, nato in Senegal il 5 gennaio 1983, domiciliato in Pisa-Ferrara, Via Buia, 56 (Avv.ti Viviana Zanetti, Costanza Bianchi, Alberto Randazzo); 2) Carmine Sfruttatori, nato a Bergamo il 20 marzo 1954, residente in Pisa-Ferrara, Via De Destinis, 64 (Avv.ti Michele Ghedini e Rolando Bossi). Imputati A) del delitto previsto e punito dagli artt. 113, 589 c.p. perché, in cooperazione tra loro, per colpa, cagionavano la morte di Gerolamo Sfortunati; in particolare Mohamed Vucumbrè, nell’eseguire alcuni lavori di giardinaggio per conto di Carmine Sfruttatori, impiegava una falciatrice elettrica con cavo logoro e non munito di congruo isolamento quale tubo o guaina, posizionando detto cavo, per un tratto, anche sulla pubblica via; Carmine Sfruttatori consentiva al Mohamed l’impiego di detto utensile pericoloso e l’allaccio al proprio impianto elettrico, privo di interruttore differenziale e non rispondente a numerose altre prescrizioni antinfortunistiche per il settore degli impianti elettrici negli edifici civili; Gerolamo Sfortunati, transitando per la via De Destinis, veniva accidentalmente in contatto con il cavo elettrico in tensione, rimanendo folgorato. B) Per il solo Mohamed Vucumbrè con l’aggravante di cui all’art. 61 n. 11-bis c.p. per aver commesso il fatto mentre si trovava illegalmente sul territorio nazionale, in quanto cittadino straniero in possesso di un permesso di soggiorno scaduto. In Pisa-Ferrara, il 20 agosto 2008. Parti civili costituite Addolorata Rossi in Sfortunati, Elena Sfortunati, Francesco Sfortunati, rappresentate e difese dagli Avvocati Donato Messineo e Marco Croce. «Il Tribunale in composizione monocratica riunito in camera di consiglio nella persona del Giudice Dott.ssa Chiara Testafine ha pronunziato la seguente ordinanza 374 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 374 Premesso in fatto: - che Mohamed Vucumbrè e Carmine Sfruttatori erano rinviati a giudizio per il reato indicato in epigrafe; - che Addolorata Rossi in Sfortunati, Elena Sfortunati, Francesco Sfortunati (rispettivamente moglie e figli di Gerolamo Sfortunati) si costituivano tempestivamente parti civili, per il ristoro dei danni subiti; - che Mohamed Vucumbrè ha reso dichiarazioni di contenuto confessorio; - che il Pubblico Ministero ha ritualmente contestato a Mohamed Vucumbrè l’aggravante di cui all’art. 61 n. 11-bis c.p., come introdotta dall’art. 1, lett. f), del D.L. 23 maggio 2008 n. 92, convertito con modificazioni dalla L. 24 luglio 2008 n. 125; - che Mohamed Vucumbrè risulta in effetti privo del necessario permesso di soggiorno e quindi, al momento del fatto, si trovava “illegalmente sul territorio nazionale”, in quanto entrato in Italia con permesso di soggiorno annuale per motivi di lavoro scaduto in data 11 ottobre 2007 e non rinnovato; - che Mohamed Vucumbrè è stato identificato con certezza in base ai documenti dallo stesso esibiti ed ai rilievi foto-segnaletici eseguiti; - che Mohamed Vucumbrè, pur essendo di fatto presente da un periodo apprezzabile nel territorio italiano (vedi deposizione dei testi Don Gino Findibene e del Maresciallo Carlo Vigilante), non risulta avere riportato alcuna condanna, né risultano pendenti a suo carico procedimenti penali; non è stato destinatario di alcun provvedimento di espulsione (vedi informazioni della Questura) e si mantiene svolgendo lavori quali giardiniere, facchino, muratore; - che questo tribunale dubita della legittimità costituzionale dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 11-bis c.p., come introdotta dall’art. 1, lett. f), del D.L. 23 maggio 2008 n. 92, convertito con modificazioni dalla L. 24 luglio 2008 n. 125, in relazione agli articoli 3; 10, comma secondo; 13; 25, comma secondo; 27, commi primo e terzo; 35, comma quarto; 77 e 117, comma primo, della Costituzione; Ritenuto, quanto alla rilevanza: - che, come esposto, all’imputato Mohamed Vucumbrè è stata ritualmente contestata l’aggravante di cui all’art. 61 n. 11-bis c.p., come introdotta dall’art. 1, lett. f), del D.L. 23 maggio 2008 n. 92, convertito con modificazioni dalla L. 24 luglio 2008 n. 125; - che Mohamed Vucumbrè risulta in effetti privo del necessario permesso di soggiorno e quindi, al momento del fatto, si trovava “illegalmente sul territorio nazionale”; - che, trattandosi di “circostanza aggravante comune”, “inerente alla persona del colpevole”, trova applicazione, ex artt. 61 e 118 c.p., per tutti i reati, compresi quelli colposi e, in caso di concorso o cooperazione colposa, deve essere valutata “soltanto riguardo alla persona cui si riferisce”; - che, in sede di esecuzione della pena, troverebbe altresì applicazione l’articolo 656, comma 9, lett. a), c.p.p. secondo cui, dopo la novella introdotta dall’art. 2, lett. m), della già accennata L. 24 luglio 2008 n. 125, “la sospensione dell’esecuzione di cui al comma 5 non può essere disposta: a) nei confronti di condannati [...] per i delitti in cui ricorre l’aggravante di cui all’articolo 61, primo comma, 11-bis), del medesimo codice [ndr, c.p.]”; - che l’eventuale mancata applicazione dell’aumento di pena in virtù della concessione delle attenuanti, in particolare quelle di cui all’art. 62-bis c.p., impone, comunque, ai fini di un corretto svolgimento del giudizio di bilanciamento previsto dall’art. 69 c.p., di considerare nel computo la citata aggravante ex art. 61, n. 11-bis, c.p.; DOTTRINA 375 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 375 - che quindi, anche in presenza di eventuali circostanze attenuanti, questo giudice, per operare il bilanciamento ed il conseguente giudizio di equivalenza o prevalenza, dovrebbe preliminarmente e pregiudizialmente valutare la sussistenza dell’aggravante contestata e quindi applicare la disposizione di dubbia costituzionalità; - che l’effetto dell’aggravante de qua è rappresentato non solo dall’aumento della pena (che, come si è detto, potrebbe essere eventualmente neutralizzabile in sede di giudizio di bilanciamento), ma anche dalla conseguente inapplicabilità della sospensione dell’esecuzione della pena, in applicazione del “nuovo” testo dell’articolo 656, comma 9, lett. a), c.p.p.; - che, secondo la prevalente interpretazione giurisprudenziale (Cass., Sez. I, 6 luglio 2005, Posada Suescun), perché operi l’accennato effetto preclusivo è sufficiente il giudizio di sussistenza dell’aggravante, anche se gli effetti di questa, quanto all’aggravamento di pena, siano poi neutralizzati in ragione del bilanciamento con le attenuanti; - che la disposizione di dubbia costituzionalità, in relazione alla rituale contestazione dell’aggravante operata dal Pubblico Ministero ed alle risultanze di fatto come esposte in premessa, trova applicazione nel presente giudizio, ha incidenza nel suo esito e l’eventuale accoglimento della questione di costituzionalità determinerebbe un mutamento nel quadro normativo di riferimento; - che, quindi, il giudizio “non può essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale”. Ritenuto, quanto alla non manifesta infondatezza: In via preliminare - che l’aggravante di cui all’art. 61 n. 11-bis c.p., introdotta dall’art. 1, lett. f), del D.L. 23 maggio 2008 n. 92, convertito con modificazioni dalla L. 24 luglio 2008 n. 125, viola l’art. 77, secondo comma, Cost. il quale dispone che solo in casi straordinari di necessità e d’urgenza il Governo può adottare, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, da presentare il giorno stesso alle Camere per la conversione; - che in riferimento alla decretazione d’urgenza la Corte ha infatti affermato il principio secondo cui il difetto, in capo al decreto legge, dei requisiti della straordinarietà, necessità e urgenza di cui al citato art. 77, secondo comma, Cost., una volta intervenuta la conversione, si traduce in un vizio in procedendo della relativa legge, escludendo con ciò, l’eventuale efficacia sanante di quest’ultima, dal momento che “affermare che tale legge di conversione sana in ogni caso i vizi del decreto, significherebbe attribuire in concreto al legislatore ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del Governo quanto alla produzione delle fonti primarie” (sentenze nn. 29 del 1995, 171 del 2007 e 128 del 2008); - che, infatti, nonostante l’epigrafe del provvedimento reciti “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica” e il preambolo chiarisca che si è “Ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di introdurre disposizioni volte ad apprestare un quadro normativo più efficiente per contrastare fenomeni di illegalità diffusa collegati all’immigrazione illegale e alla criminalità organizzata”, nessun collegamento, in punto di straordinarietà, necessità e urgenza, è tuttavia ravvisabile tra tali premesse e la previsione dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 11-bis c.p. relativa a reati già presenti nell’ordinamento, ed il cui collegamento con il fenomeno della immigrazione illegale non è oggettivo ma esclusivamente legato allo status del reo; - che a tal proposito la Corte costituzionale, nella sentenza 2 febbraio 2007, n. 22, con riferimento al problema della immigrazione clandestina, ha affermato che “si tratta di un 376 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 376 grave problema sociale, umanitario ed economico che implica valutazioni di politica legislativa non riconducibili a mere esigenze generali di ordine e sicurezza pubblica né sovrapponibili o assimilabili a problematiche diverse, legate alla pericolosità di alcuni soggetti e di alcuni comportamenti che nulla hanno a che fare con il fenomeno dell’immigrazione”; - che, peraltro, le circostanze indicate nel preambolo del decreto non possono obiettivamente ritenersi “casi straordinari di necessità e urgenza”, e anzi – a tacersi della generale disomogeneità dell’intero provvedimento – lo stesso preambolo addirittura contrasta con la ratio che ispira il resto delle misure adottate. Ritenuto inoltre: - che l’art. 61, n. 11-bis, c.p., come introdotto dal D.L. 23 maggio 2008 n. 92, convertito con modificazioni dalla L. 24 luglio 2008 n. 125, introduce un aggravante comune (applicabile alla generalità dei reati, compresi quelli colposi), di natura soggettiva, legata ad uno status amministrativo (straniero non regolarmente presente sul territorio dello Stato); - che nel caso di specie, considerata la natura colposa del reato, le concrete modalità del fatto, la condotta processuale pienamente collaborativa del Vucumbrè, l’assenza di precedenti penali od anche solo di altri procedimenti pendenti, lo svolgimento di attività lavorativa, non può formularsi, in concreto, una prognosi di pericolosità sociale; - che la condizione soggettiva di straniero presente illegalmente sul territorio nazionale (e, quindi la violazione delle relative prescrizioni di carattere amministrativo) non risulta essere in alcun modo in connessione obbiettiva con la fattispecie di reato (come invece avviene, ad esempio, per le aggravanti ex 589, comma secondo, c.p., relative alla violazioni delle norme sulla circolazione stradale o sugli infortuni sul lavoro); - che l’imputato Vucumbrè, pur avendo avuto nella causazione dell’evento una responsabilità pari, se non minore, del concorrente Sfruttatori può, all’esito del giudizio, essere condannato ad una pena maggiore per effetto della contestata aggravante (con l’ulteriore, deteriore, conseguenza di non poter fruire, a differenza del coimputato, della sospensione dell’ordine di esecuzione ex 656, comma nono, lettera a) c.p.p.); - che l’aggravante contestata all’imputato Mohamed Vucumbrè è dovuta al solo fatto che è uno straniero illegalmente presente nel territorio nazionale e quindi l’aggravamento della pena è collegato al solo status amministrativo (straniero senza permesso di soggiorno), a prescindere dal nesso esistente tra lo status amministrativo e la condotta penale; - che l’aggravante di cui all’art. 61 n. 11-bis c.p. viola quindi il principio di ragionevolezza sancito dall’art. 3 della Costituzione in quanto fa conseguire da una mera condizione soggettiva l’automatica applicazione di effetti penalmente rilevanti, a prescindere dall’apprezzamento giurisdizionale circa la concreta pericolosità sociale del soggetto; - che questa applicazione automatica di effetti penali denota una presunzione di pericolosità sganciata da un parametro obiettivo di riferimento, che dovrebbe essere offerto, come già detto, quantomeno da un accertamento giudiziale eventualmente rivelatore dell’inclinazione a delinquere; - che al riguardo, la Corte costituzionale, nella già citata sentenza 2 febbraio 2007, n. 22, ha rilevato che la condizione di straniero irregolare in quanto tale non può essere associata a una presunzione di pericolosità e con questo il giudice delle leggi evidenzia l’impossibilità di far conseguire da una mera condizione soggettiva l’automatica applicazione di effetti penalmente rilevanti, a prescindere dall’apprezzamento giurisdizionale circa la concreta pericolosità sociale del soggetto; - che la “condizione soggettiva” del “mancato possesso di un titolo abilitativo alla permanenza nel territorio dello Stato […] di per sé, non è univocamente sintomatica [...] di una par- DOTTRINA 377 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 377 ticolare pericolosità sociale” (così, testualmente, Corte cost. 16 marzo 2007 n. 78, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 47, 48 e 50 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), ove interpretati nel senso che allo straniero extracomunitario, entrato illegalmente nel territorio dello Stato o privo del permesso di soggiorno, sia in ogni caso precluso l’accesso alle misure alternative da essi previste, osservando in motivazione che: “un simile divieto contrasta con gli stessi principi ispiratori dell’ordinamento penitenziario che, sulla scorta dei principi costituzionali della uguale dignità delle persone e della funzione rieducativa della pena (artt. 2, 3 e 27, terzo comma, della Costituzione), non opera alcuna discriminazione in merito al trattamento sulla base della liceità della presenza del soggetto nel territorio nazionale”); - che, anche con riferimento alla recidiva reiterata (e, quindi alla accertata commissione di plurimi precedenti reati) la Corte costituzionale ha chiarito che l’aumento di pena è in ogni caso facoltativo escludendo, con una interpretazione costituzionalmente orientata, ogni automatismo o presunzione assoluta di pericolosità sociale ed evidenziando che “il giudice applicherà l’aumento di pena previsto per la recidiva reiterata solo qualora ritenga il nuovo episodio delittuoso concretamente significativo – in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. – sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo” (vedi Corte Cost. 14 giugno 2007 n. 192); di conseguenza, allorché la recidiva reiterata concorra con una o più attenuanti, è possibile sostenere che il giudice debba procedere al giudizio di bilanciamento – soggetto al regime limitativo di cui all’articolo 69, quarto comma, c.p. – unicamente quando, sulla base dei criteri dianzi ricordati, ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea ad influire, di per sé, sul trattamento sanzionatorio del fatto per cui si procede; mentre, in caso contrario, non vi sarà luogo ad alcun giudizio di comparazione: rimanendo con ciò esclusa la censurata elisione automatica delle circostanze attenuanti; - che è evidente che in questo caso si è ritenuto che il divieto di prevalenza delle attenuanti non può operare automaticamente per effetto della sola commissione del reato da parte di chi era recidivo, ma che esso deve essere subordinato alla concreta contestazione dell’aggravante operata discrezionalmente dal giudice; - che con riguardo al caso oggetto della presente ordinanza, l’aggravante della condizione di straniero che si trova illegalmente sul territorio nazionale, come la recidiva, è circostanza fondata su uno status soggettivo del reo; tuttavia, a differenza dell’aggravante della recidiva reiterata, l’ipotesi di cui all’art. 61 n. 11-bis c.p. non postula la commissione di un reato, ma una situazione costituente una mera violazione di legge; in altri termini, il fatto che il reo già in passato abbia commesso un reato può certo deporre in alcuni casi per una accresciuta pericolosità dello stesso, rafforzando talora il disvalore penale della condotta posta successivamente in essere, ma lo stesso non può affermarsi con riguardo all’aggravante di cui all’art. 61 n. 11-bis c.p., dato che la condizione di straniero che si trova illegalmente sul territorio nazionale è una circostanza tendenzialmente irrilevante ai fini del disvalore dell’azione, desunta dagli elementi della gravità del reato e della capacità a delinquere del reo; - che l’aggravante in questione viola l’art. 3 della Costituzione anche sotto un ulteriore profilo in quanto finisce con il prevedere irragionevolmente un diverso trattamento per i cittadini italiani e stranieri presenti regolarmente sul territorio italiano rispetto ai cosiddetti clandestini o “irregolari”, a prescindere dalle loro concrete condotte criminali e/o dalle modalità di esecuzione delle stesse, introducendo una sorta di diversa qualità dell’azione a seconda di chi le commetta, e per il solo fatto che tale soggetto sia anche autore di un illecito amministrativo totalmente slegato dalla condotta criminale; 378 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 378 - che questa differenza di trattamento è infatti unicamente imperniata sulle qualità personali dell’autore del fatto, cioè su elementi soggettivi che mal si attagliano ad un diritto penale imperniato sul disvalore oggettivo del fatto; - che, come è stato già chiarito, “per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica ma in quanto esseri umani” (sul punto vedi Corte Cost. sentenza 10 aprile 2001, n. 105, paragrafo 4 della parte motiva); - che la Corte costituzionale con sentenza 24 febbraio 1994, n. 62, ha altresì affermato che: “quando venga riferito al godimento dei diritti inviolabili dell’uomo, qual è nel caso la libertà personale, il principio costituzionale di eguaglianza in generale non tollera discriminazioni fra la posizione del cittadino e quella dello straniero”; come del resto, espressamente affermato anche nell’art. 2 del D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, il quale prevede che: “Allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai princìpi di diritto internazionale generalmente riconosciuti”; - che da ultimo, in motivazione, la Corte costituzionale, con sentenza 16 maggio 2008, n. 148, ha inoltre affermato che: “lo straniero è anche titolare di tutti i diritti fondamentali che la Costituzione riconosce spettanti alla persona (si vedano, per tutte, le sentenze n. 203 del 1997, n. 252 del 2001, n. 432 del 2005 e n. 324 del 2006). In particolare, per quanto qui interessa, ciò comporta il rispetto, da parte del legislatore, del canone della ragionevolezza, espressione del principio di eguaglianza, che, in linea generale, informa il godimento di tutte le posizioni soggettive. Peraltro, come questa Corte ha più volte affermato, «la regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale è collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l’ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione e tale ponderazione spetta in via primaria al legislatore ordinario, il quale possiede in materia un’ampia discrezionalità, limitata, sotto il profilo della conformità a Costituzione, soltanto dal vincolo che le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli » (si vedano, per tutte, la sentenza n. 206 del 2006 e, da ultimo, l’ordinanza n. 361 del 2007)” ; - che il carattere irragionevole di questa differenziazione si fonda altresì sul dato che la pena più severa prevista per i reati commessi dagli stranieri che si trovano illegalmente sul territorio nazionale non trova alcuna apprezzabile giustificazione nel quadro dei valori e principi di una democrazia personal-solidaristica e non è nemmeno ravvisabile in ragione di una presunta maggiore lesività dei fatti o, quantomeno, di una connessione con le ragioni costitutive dell’offesa al bene giuridico tutelato dalla norma che incrimina il reato-base; - che, quand’anche lo status di irregolare sul territorio nazionale sia apprezzato come dimostrativo di una maggiore intensità della “ribellione” all’ordinamento da parte del soggetto, esso, per non dare luogo ad aumenti di pena irragionevoli, irrazionali, e sproporzionati, andrebbe almeno diversamente valutato a seconda che discenda (seguendo la tipizzazione di cui all’art. 13, comma secondo, del D.lgs. 286/1998, “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”) da: a) DOTTRINA 379 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 379 ingresso nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera; b) soggiorno nel territorio dello Stato senza aver richiesto il relativo permesso nei termini prescritti; c) mancato rinnovo del permesso di soggiorno, ovvero riguardi un cittadino comunitario le cui condizioni di ingresso e soggiorno sono regolate dal D.Lgs. 6 febbraio 2007, n. 30, “Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri”; - che quindi la disposizione, sancendo un aumento di pena per qualsiasi reato commesso dal soggetto che genericamente si trovi “illegalmente” sul territorio dello Stato equipara situazioni obbiettive assai diverse, rivelandosi intrinsecamente irragionevole; - che, in sintesi, se anche ammettessimo che lo status amministrativo di irregolare denotasse una condizione di “pericolosità”, essa dovrebbe essere valutata caso per caso in riferimento a ciascuna delle tre citate situazioni non assimilabili tra loro, pena la mancanza di ragionevolezza e proporzionalità di un’aggravante che, concepita per attribuire maggiore gravità ad un fatto in ragione della maggiore pericolosità del soggetto, finirebbe, in caso di applicazione automatica, con il prescindere completamente dalla valutazione circa la concreta pericolosità di detto soggetto; - che pertanto, in stretta connessione con quanto sopra affermato, l’aggravante in questione si pone in contrasto anche con l’art. 13 della Costituzione, in quanto l’aumento di pena fino ad un terzo rispetto alla pena del reato base, in uno con l’irragionevole e irrazionale impossibilità, giusto il “nuovo” art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p., di accedere alla sospensione dell’esecuzione della pena, senza che vi possa essere un qualsiasi discrezionale apprezzamento da parte dell’organo giurisdizionale, comprime eccessivamente, ed in modo irragionevole e irrazionale, la libertà personale; - che, infatti, nella stigmatizzazione punitiva della irregolarità del soggiorno in sé, tale aggravante distorce la funzione dello strumento penale, piegato a sottolineare irragionevolmente disvalori soggettivi anziché la maggiore rilevanza negativa di forme di aggressione a beni giuridici, tale da giustificare una più intensa compressione del diritto alla libertà personale; - che l’aumento di pena previsto nell’art. 61 n. 11-bis c.p. viola anche l’art. 25, comma secondo, Cost., che sancisce un legame indissolubile tra la sanzione penale e la commissione di un fatto, impedendo così che si punisca la mera pericolosità sociale presunta o l’atteggiamento interiore del reo; - che l’aggravante in questione sposta infatti il fulcro del giudizio penale dal fatto all’autore, dato che, rispetto alle aggravanti comuni si deve accertare se esse rispondono o meno al principio di offensività (v. sentenze nn. 265 del 2005 e 519 del 2000 della Corte costituzionale); - che, infatti, per una evenienza del tutto estranea al fatto di reato e di per sé non rivelatrice di pericolosità sociale si stabilisce un aumento di pena, con previsione di una “aggravante di autore”, in violazione del principio di offensività, “desumibile dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione, nel suo legame sistematico con l’insieme dei valori connessi alla dignità umana” e limite alla discrezionalità legislativa in materia penale (sul punto vedi Corte cost. 10 luglio 2002, n. 354); - che infatti il giudice delle leggi ha evidenziato l’indissolubile legame che deve sussistere tra sanzione penale e commissione di un fatto offensivo nella sentenza 18 luglio 1989, n. 409, laddove afferma che: “il legislatore non è sostanzialmente arbitro delle sue scelte criminalizzatrici ma deve, oltre che ancorare ogni previsione di reato ad una reale dannosità sociale, circoscrivere, per quanto possibile, tenuto conto del rango costituzionale della (con la pena sacrificata) libertà personale l’ambito del penalmente rilevante”; 380 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 380 - che l’aggravante in questione viola altresì l’articolo 27, commi primo e terzo, della Costituzione, ponendosi in contrasto con il principio di personalità della responsabilità penale, il quale esclude che la pena possa essere aggravata solo per soddisfare esigenze di prevenzione generale o di difesa sociale, indipendentemente dalla valutazione della effettiva personalità del condannato; con il principio di proporzionalità della pena, il quale postula la congruità della risposta punitiva rispetto alla gravità concreta del fatto; oltreché con la finalità rieducativa della pena, che verrebbe frustrata dalla irrogazione di pene eccessivamente severe in rapporto all’effettiva entità del reato commesso e della reale tendenza a delinquere; - che questa recrudescenza sanzionatoria non trae infatti fondamento da una ipotetica peculiare, e più intensa, capacità a delinquere del reo, da ragioni cioè che potrebbero giustificare il più grave regime punitivo nell’ottica di maggiori bisogni rieducativi dell’autore; - che, anzi, questo irragionevole inasprimento sanzionatorio si scontra frontalmente con il monito espresso dalla Corte costituzionale nella già citata sentenza 2 febbraio 2007, n. 22, secondo cui: “Occorre tuttavia riconoscere che il quadro normativo in materia di sanzioni penali per l’illecito ingresso o trattenimento di stranieri nel territorio nazionale, risultante dalle modificazioni che si sono succedute negli ultimi anni, anche per interventi legislativi successivi a pronunce di questa Corte, presenta squilibri, sproporzioni e disarmonie, tali da rendere problematica la verifica di compatibilità con i principi costituzionali di uguaglianza e di proporzionalità della pena e con la finalità rieducativa della stessa”; - che, come già esposto, la mera carenza del titolo giustificativo del soggiorno sul territorio nazionale è circostanza di per sé irrilevante ai fini della gravità del fatto e della capacità a delinquere; - che la medesima condotta materiale è punita diversamente a seconda di una condizione soggettiva che viene elevata senza ragionevole motivo a presunzione legale astratta ed automatica di pericolosità sociale, e che la detta aggravante non lascia emergere alcun nesso tra l’indistinta massa dei reati che una persona che si trova illegalmente sul territorio nazionale può commettere e il sottostante giudizio di maggiore pericolosità presunta, a cui è affidata la funzione di giustificare una pena più severa; - che tale aggravante si pone altresì in contrasto con numerose disposizioni internazionali violando conseguentemente l’articolo 10, comma secondo, della Costituzione, il quale dispone che “la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali”, e l’art. 117, comma primo, della Costituzione, il quale prevede che la potestà legislativa sia esercitata dallo Stato e dalle Regioni “nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”; - che, infatti, la disparità di trattamento introdotta con tale “aggravante d’autore”, proprio perché priva di qualsiasi collegamento con il fatto di reato e non ancorata ad un concreto giudizio di pericolosità, si risolve in una irragionevole discriminazione tra persone in base alla loro origine nazionale e condizione personale, in violazione di molteplici disposizioni e trattati internazionali, tra i quali in particolare: - l’art. 2 della Dichiarazione universale del diritti dell’uomo adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 il quale afferma che: “Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del Paese o del territorio cui una persona appartiene”; DOTTRINA 381 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 381 - l’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, ratificata dalla legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), il quale prevede che: “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione”; - l’art. 2, comma primo, del Patto internazionale sui diritti civili e politici, ratificato con legge 25 ottobre 1977, n. 881 (ratifica ed esecuzione del patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, nonché del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, con protocollo facoltativo, adottati e aperti alla firma a New York rispettivamente il 16 e il 19 dicembre 1966), nel quale si afferma che: “Ciascuno degli Stati parti del presente Patto si impegna a rispettare ed a garantire a tutti gli individui che si trovino sul suo territorio e siano sottoposti alla sua giurisdizione i diritti riconosciuti nel presente Patto, senza distinzione alcuna, sia essa fondata sulla razza, il colore, il sesso, la religione, l’opinione politica o qualsiasi altra opinione, l’origine nazionale o sociale, la condizione economica, la nascita o qualsiasi altra condizione”, nonché l’art. 25, comma secondo, del medesimo patto il quale prevede che: “Tutti gli individui sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. A questo riguardo, la legge deve proibire qualsiasi discriminazione e garantire a tutti gli individui una tutela eguale ed effettiva contro ogni discriminazione, sia essa fondata sulla razza, il colore, il sesso la lingua, la religione, l’opinione politica o qualsiasi altra opinione, l’origine nazionale o sociale, la condizione economica, la nascita o qualsiasi altra condizione”; - che il novellato art. 61 n. 11-bis c.p. viola più in generale anche l’art. 35 della Costituzione il quale “riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse generale”; - che secondo una lettura aggiornata della Costituzione, confermata anche da autorevole dottrina, l’art. 35 tutela l’emigrazione in generale, e cioè sia l’emigrazione dei cittadini italiani all’estero, sia l’emigrazione dei cittadini stranieri in Italia; - che tale aggravante configurandosi come discriminatoria limita quindi anche la libertà di circolazione e soggiorno dei lavoratori stranieri sul territorio nazionale, e quindi la libertà di emigrazione dei cittadini stranieri in Italia; - che in definitiva, dunque, questo Tribunale ritiene rilevante e non manifestamente infondata in riferimento agli articoli 3; 13; 10, comma secondo; 25, comma secondo; 27, commi primo e terzo; 35, comma quarto, 77 e 117, comma primo, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 61 n. 11-bis c.p., come introdotto dall’art. 1, lett. f), del D.L. 23 maggio 2008 n. 92, convertito con modificazioni dalla L. 24 luglio 2008 n. 125. P. Q. M. Visto l’art. 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87. Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 61 n. 11-bis c.p., come introdotto dall’art. 1, lett. f), del D.L. 23 maggio 2008 n. 92, convertito con modificazioni dalla L. 24 luglio 2008 n. 125, in riferimento agli 3; 13; 10, comma secondo; 25, comma secondo; 27, commi primo e terzo; 35, comma quarto, 77 e 117, comma primo, della Costituzione. Ordina la sospensione del procedimento in attesa della decisione. 382 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 382 Ordina l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Ordina che la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri e che essa venga comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti. Pisa-Ferrara, 20 settembre 2008 - Il Giudice Dott.ssa Chiara Testafine». (dottorandi Francesca Biondi, Nicola Grigoletto, Luigi Nannipieri, Rodrigo Brito). (All. 2) Avvocatura Generale dello Stato – Ecc.ma Corte costituzionale – Atto di intervento per la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente pro tempore, (Avvocatura generale dello Stato), nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale introdotto dal Tribunale di Pisa-Ferrara con l’ordinanza emessa il 20 settembre 2008, nel procedimento penale n. 568/2008 a carico di Mohamed Vucumbrè e Carmine Sfruttatori. «Fatto e Diritto 1. (Omissis) La questione è inammissibile e, nel merito, manifestamente infondata. 2. In via preliminare e assorbente, questa Avvocatura evidenzia che la questione risulta prima facie manifestamente inammissibile per difetto di motivazione, posto che il giudice a quo non ha dato conto di avere operato alcun tentativo di pervenire a un’interpretazione conforme alla Costituzione della normativa di riferimento. Secondo giurisprudenza costante di codesta Ecc.ma Corte, il giudice investito del giudizio principale, «prima di rimettere gli atti alla Corte, ha il dovere di tentare di individuare una interpretazione conforme alla Costituzione della norma denunciata» (ordinanza n. 427 del 2005, che si pone in continuità con precedenti pronunce, tra cui, ex aliis, le n. 356 del 1996 e n. 301 del 2003). In ossequio al principio di conservazione degli atti giuridici, infatti, nessuna disposizione di legge può essere dichiarata costituzionalmente illegittima solo perché suscettibile di essere interpretata in contrasto con precetti costituzionali, ma deve esserlo soltanto quando non sia possibile attribuirle un significato che la renda conforme a Costituzione (cfr., tra le più recenti, le ordinanze nn. 89 e 115 del 2005, 85 e 464 del 2007). Il giudice remittente, invece, si è sottratto a tale obbligo, non avendo verificato la percorribilità di una soluzione ermeneutica differente ed essendosi limitato a formulare le proprie censure senza fornire un’adeguata motivazione dell’iter logico-giuridico seguito, soprattutto con riferimento ai possibili significati ulteriori della norma (sul punto si vedano, tra le altre, le ordinanze n. 372 del 1999 e n. 456 del 1992). Il sindacato di costituzionalità in relazione al merito della questione potrebbe essere esperito solo se fosse «rimasto infruttuoso il doveroso tentativo del giudice remittente di risolvere la controversia al suo esame sulla base della disciplina vigente, in conformità alla interpretazione che di questa dà la giurisprudenza costituzionale e quella della Corte di cassazione » (così l’ordinanza n. 129 del 2007). Alla luce di quanto esposto e in relazione alla costante e monolitica giurisprudenza di codesta Ecc.ma Corte, lo scrutinio nel merito delle questioni sollevate risulta indubbiamente precluso, a causa dell’omessa attività ermeneutica del giudice. 3. Nella denegata ipotesi in cui codesta Ecc.ma Corte dovesse, invece, in contrasto con la giurisprudenza pregressa, ritenere la questione ammissibile, questa difesa osserva come essa risulti manifestamente infondata per le ragioni che si espongono di seguito. DOTTRINA 383 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 383 Innanzitutto, pur ritenendo assorbenti gli esposti rilievi di inammissibilità, la scrivente Avvocatura sottolinea come fosse nel concreto possibile, oltre che doveroso, il tentativo di interpretazione conforme a Costituzione del testo normativo oggetto del presente giudizio. Quella che il giudice remittente dà per scontata non rappresenta, infatti, l’unica lettura possibile del vigente quadro normativo. Proprio i principi e i valori che vengono richiamati nell’atto di promovimento e che ormai senza dubbio alcuno permeano il nostro ordinamento giuridico, ancor prima che l’ambito penale, avrebbero dovuto spingere il giudice a quo ad interpretare la disposizione in considerazione degli stessi, così come è stato fatto dalla giurisprudenza di legittimità nonché da quella di codesta Ecc.ma Corte in considerazione di altre circostanze aggravanti, che per la loro formulazione letterale avrebbero potuto porsi in contrasto con il dettato costituzionale. Anche per le aggravanti comuni l’automaticità dell’applicazione dell’aumento di pena è subordinata e condizionata a un’interpretazione della norma che consente al giudice un accertamento in ordine al maggior disvalore del fatto circostanziato o a una maggiore pericolosità del soggetto agente. Ad esempio, nel caso dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 9 c. p. («l’avere commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, ovvero alla qualità di ministro di un culto») – qualificata come aggravante comune soggettiva perché concerne la qualità personale del colpevole (Cass. Pen. 8/5/1981 su Rep. Foro It. 1981, 391) – non basta che il soggetto possieda la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio o di ministro di culto, ma occorre che il giudice accerti anche “l’abuso” e l’intenzionalità dell’agente di usare il potere oltre i limiti legali. La ratio dell’aggravante risiede nell’esigenza di tutela del corretto svolgimento dell’attività, a rilevanza pubblica, da parte di alcuni soggetti. Inoltre, proprio l’interpretazione data da codesta Ecc.ma Corte in merito alla circostanza aggravante della recidiva reiterata avrebbe dovuto costituire per il giudice a quo uno spunto tale da spingerlo alla ricerca di una diversa interpretazione della norma in oggetto. La recidiva, infatti, è circostanza personale ed “estrinseca”, ovvero indipendente dalla condotta sanzionata dal nuovo reato. Anche per la recidiva reiterata si è posto il problema della sua compatibilità costituzionale laddove se ne fosse prevista l’obbligatoria ed automatica applicazione in riferimento all’art. 69 c. 4 c.p., come sostituito dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui – nel disciplinare il concorso di circostanze eterogenee – vieta al giudice di ritenere le circostanze attenuanti prevalenti sull’aggravante della recidiva reiterata, prevista dall’art. 99 c. 4 c.p. Questo perché «la norma denunciata avrebbe introdotto una indebita limitazione del potere-dovere del giudice di adeguamento della pena al caso concreto – adeguamento funzionale alla realizzazione dei principi di eguaglianza, di necessaria offensività del reato, di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena – introducendo un “automatismo sanzionatorio”, correlato ad una presunzione iuris et de iure di pericolosità sociale del recidivo reiterato». In realtà la corretta interpretazione della norma ha consentito a codesta Ecc.ma Corte di affermare che «il giudice applicherà l’aumento di pena previsto per la recidiva reiterata solo qualora ritenga il nuovo episodio delittuoso concretamente significativo – in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. – sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo. Di conseguenza, allorché la recidiva reiterata concorra con una o più attenuanti, è possibile sostenere che il giudice debba procedere al giudizio di bilanciamento – soggetto al regime limitativo di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen. – unicamente quando, sulla base 384 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 384 dei criteri dianzi ricordati, ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea ad influire, di per sé, sul trattamento sanzionatorio del fatto per cui si procede; mentre, in caso contrario, non vi sarà luogo ad alcun giudizio di comparazione: rimanendo con ciò esclusa la censurata elisione automatica delle circostanze attenuanti» (cfr. la sentenza n. 192 del 2007). Si tenga altresì presente che la disciplina dell’imputazione delle circostanze aggravanti (art. 59 c.p.) ha subito con la legge n. 19 del 1990 una profonda modifica. Il legislatore è, infatti, intervenuto sull’art. 59 c.p., trasformando il regime d’imputazione da oggettivo in soggettivo, facendo in modo che le circostanze aggravanti, per essere imputabili, devono essere volute o quanto meno la loro esistenza deve essere ignorata per colpa o ritenuta inesistente per errore determinato da colpa. Per effetto di questa modifica, il principio “nulla poena sine culpa” è stato esteso anche alle circostanze aggravanti; per far sì che queste possano essere applicate, dunque, occorre un coefficiente soggettivo, costituito dalla loro conoscenza o almeno dalla loro colpevole ignoranza. Deve, quindi, potersi muovere un rimprovero, nei termini specificati, all’autore del reato circostanziato. Si deve, a questo punto, esaminare la circostanza aggravante introdotta all’art. 61 c. 1 n. 11-bis c.p.: «se il fatto è commesso da un soggetto che si trova illegalmente sul territorio italiano». Per circoscrivere e meglio definire la portata della norma in esame, è necessario partire dal termine “soggetto”, utilizzato dal legislatore in luogo di quello di “straniero”, previsto invece dal testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione giuridica dello straniero. La scelta non è ovviamente casuale, dato che l’art. 1 t.u. indica con il termine straniero sia il cittadino di Stato non appartenente all’Unione Europea (extra-comunitario), sia la persona priva di cittadinanza (apolide). Con il sostantivo “soggetto”, perciò, il legislatore ha voluto estendere l’ambito di applicabilità della disposizione non solo agli extracomunitari ed agli apolidi, ma anche a tutte le altre persone che non hanno cittadinanza italiana. Occorre inoltre stabilire l’esatto significato dell’avverbio “illegalmente”, che è ben diverso da quello “irregolarmente” usato con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 12 c. 5-bis del t.u. Tale articolo, infatti,utilizza espressioni quali “ingresso illegale” (c. 3) e “condizione di illegalità” per indicare ogni attività diretta a favorire l’ingresso o la permanenza degli stranieri commessa “in violazione delle norme del presente testo unico”. Le norme del testo unico, tuttavia, non trovano applicazione nei confronti dei cittadini comunitari, se non in quanto ad essi più favorevoli, per espressa previsione dell’art. 1 c. 2 dello stesso t.u. Ed allora, l’avverbio “illegalmente” di cui all’art. 61 c.p. non assume qui lo stesso significato di quello utilizzato con riferimento al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, proprio in quanto inapplicabile ai cittadini comunitari, i quali invece sono ricompresi nella previsione della circostanza aggravante de qua. Del resto, i cittadini comunitari godono del diritto al libero transito all’interno della stessa UE e ben possono entrare in Italia attraverso le frontiere interne, senza essere sottoposti a controlli e senza avere specifici titoli autorizzativi del Paese ospitante. La loro presenza fisica sul suolo statuale, dunque, è sempre regolare, a meno che non intervenga nei loro confronti uno specifico provvedimento di allontanamento da parte delle autorità amministrative (ad esempio da parte del Prefetto nei casi di pericolosità del cittadino comunitario) o giudiziarie (ad esempio ex art. 235 o 312 c.p., come modificati dall’art. 1 del d.l. n. 92 del 2008). DOTTRINA 385 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 385 La condizione di illegalità sul territorio nazionale da parte di un cittadino comunitario dipende, quindi, dall’esistenza al momento del fatto-reato di un provvedimento di allontanamento già adottato nei suoi confronti a norma della legge. Applicando questo stesso principio con riferimento agli stranieri, si può affermare anche per essi che la condizione di illegalità è subordinata al fatto di essere già stati colpiti, al momento della commissione del reato aggravato dalla circostanza in esame, da un provvedimento di espulsione ministeriale, prefettizia o giudiziaria, da un foglio di via obbligatorio, da un ordine di allontanamento o da un altro provvedimento amministrativo o giudiziario previsto dalla legge che imponga il loro allontanamento dal territorio nazionale. Così interpretata, la circostanza aggravante non potrà essere contestata allo straniero che, sebbene irregolarmente soggiornante (ad esempio perché privo di permesso di soggiorno), non sia stato comunque raggiunto da un provvedimento, legalmente dato, con il quale gli si ordinava di allontanarsi dal suolo statale. In altri termini, ciò che la norma punisce non è lo status di clandestino dell’autore del reato, ma la sua volontaria disobbedienza ad un ordine di allontanamento impostogli nel rispetto della legge, a tutela dell’interesse generale. Questa Avvocatura evidenzia, inoltre, come lo stesso interesse generale sia posto espressamente dal legislatore costituzionale come limite alla libertà di emigrazione dall’art. 35 della Costituzione. Tale interpretazione della norma oggetto del presente giudizio consente di ritenerla fondata su una scelta di politica legislativa non irragionevole né discriminatoria, operando un contemperamento fra i diversi interessi in conflitto. Così come affermato da questa Corte è richiesto «il rispetto, da parte del legislatore, del canone della ragionevolezza, espressione del principio di eguaglianza, che, in linea generale, informa il godimento di tutte le posizioni soggettive. Peraltro, come questa Corte ha più volte affermato, “la regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale è collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l’ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione e tale ponderazione spetta in via primaria al legislatore ordinario, il quale possiede in materia un’ampia discrezionalità, limitata, sotto il profilo della conformità a Costituzione, soltanto dal vincolo che le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli” (si vedano, per tutte, la sentenza n. 206 del 2006 e, da ultimo, l’ordinanza n. 361 del 2007)» (così la sentenza n. 148 del 2008). Peraltro, questa Avvocatura sottolinea nuovamente come ciò sia un’ulteriore riprova che un’interpretazione conforme a Costituzione della norma in oggetto non solo era doverosa da parte del giudice a quo, ma vieppiù possibile. 4. In secondo luogo, è certamente infondata l’affermazione dell’insussistenza dei requisiti prescritti dall’art. 77 Cost. perché sulla materia potesse legiferarsi mediante lo strumento della decretazione d’urgenza. Sulla base dell’indirizzo giurisprudenziale di codesta Ecc.ma Corte, inaugurato con la sentenza n. 29 del 1995 e recentemente confermato dalla sentenza n. 171 del 2007, sarà sussistente il vizio invocato qualora «risulti evidente» il difetto dei presupposti di legittimità della decretazione d’urgenza (che, una volta intervenuta la conversione, si traduce in un vizio in procedendo della relativa legge), tanto da menomare «l’assetto delle fonti normative». La richiamata giurisprudenza ha affermato che, per valutare la sussistenza del requisito della straordinarietà del caso di necessità e di urgenza di provvedere, è necessario tener conto degli «indici intrinseci ed estrinseci alla disposizione impugnata», valutando se né dall’epi- 386 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 386 grafe, né dal preambolo, né dal contenuto degli articoli risulti alcunché che «abbia attinenza » con il contenuto della disposizione impugnata. In tal senso occorre rilevare, quanto ai requisiti intrinseci, che il decreto legge reca l’epigrafe «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica»; nel preambolo si legge, fra l’altro, «Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre disposizioni volte ad apprestare un quadro normativo più efficiente per contrastare fenomeni di illegalità diffusa collegati all’immigrazione illegale…». Quanto ai requisiti estrinseci, occorre, anzitutto, evidenziare che, con provvedimento del 25 luglio scorso, il Consiglio dei Ministri ha deliberato l’estensione all’intero territorio nazionale della dichiarazione dello stato di emergenza derivante dal persistente ed eccezionale afflusso di cittadini extracomunitari, al fine di potenziare le attività di contrasto e di gestione del fenomeno. Tale estensione è stata ritenuta necessaria in quanto i centri di accoglienza delle tre Regioni Sicilia, Calabria e Puglia, oggetto della precedente delibera di stato di emergenza (D.P.C.M. del 14 febbraio 2008), erano ormai insufficienti a contenere l’alto numero di arrivi. Nel primo semestre del 2008, secondo i dati del Ministero degli Interni, i clandestini sbarcati in Sicilia, Puglia, Calabria e Sardegna sono stati 10.611, mentre nello stesso periodo del 2007 erano stati 5.380. I dati complessivi riferiti al 20 luglio scorso registrano arrivi per 13.102 unità. Se il trend manifestato nel primo semestre dovesse permanere nei prossimi mesi, si possono prevedere, per la fine dell’anno, arrivi complessivi per circa 30.000 persone. La ricettività dei centri di identificazione ed espulsione risulta, al 28 luglio di quest’anno, pari a 1.191 posti, con un’attuale presenza nelle strutture di 765 persone ed una restante disponibilità di 426. Inoltre, presso i CDA e i CARA risultano disponibili, al 28 luglio, 6.655 posti, ai quali si devono aggiungere i 762 di Lampedusa che portano la capienza massima a 7.417 posti. Appare evidente la situazione di eccezionale pressione migratoria che giustifica l’utilizzo della decretazione d’urgenza. Le disposizioni oggetto del presente giudizio sono altresì inquadrate in un più ampio disegno di politica di sicurezza, il cd. “pacchetto sicurezza”, che, fra l’altro, ha previsto l’utilizzo di 3.000 militari in servizi di ordine e sicurezza pubblica. Per tali motivi, attesa la sussistenza dei requisiti previsti dall’art. 77 Cost., si ritengono infondate le motivazioni addotte a supporto della denunciata illegittimità del provvedimento in oggetto, che è stato adottato per rispondere ad una situazione di emergenza sociale diffusa. 5. Inoltre, va presa in considerazione la costante e consolidata giurisprudenza di codesta Ecc.ma Corte, confermata finanche nella recentissima sentenza n. 324 del 2008, secondo cui il principio della riserva di legge sancito dall’art. 25 c. 2 Cost. – in base al quale «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso» – «demanda in via esclusiva al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena, delle sanzioni loro applicabili e del complessivo trattamento sanzionatorio» (ex plurimis, tra le ultime, si vedano le sentenze n. 161 del 2004, n. 49 del 2002 e n. 508 del 2000; e le ordinanze n. 164 del 2007, n. 187 del 2005, n. 580 del 2000 e n. 392 del 1998). Rientrando il processo di selezione dei beni da tutelare nell’ambito della discrezionalità valutativa del legislatore penale, un controllo della Corte che entrasse troppo nel merito delle opzioni di tutela compiute da quest’ultimo rischierebbe di tradursi in una inammissibile ingerenza nelle scelte politiche del legislatore. A tale riguardo va preliminarmente rammentato che, a norma dell’art. 28 della legge n. 87 del 1953, «il controllo di legittimità della Corte costituzionale (…) esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso DOTTRINA 387 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 387 del potere discrezionale del Parlamento»: questi limiti di sindacato, ovviamente, non possono non valere anche in materia penale. Pertanto, le particolari esigenze di tutela della collettività vengono apprezzate dal legislatore in rapporto ad una serie molteplice di elementi, storicamente mutevoli e frutto di scelte di politica criminale non censurabili in sede di controllo di legittimità costituzionale delle leggi, a meno che non si tratti di opzioni manifestamente irragionevoli. Sulla base della giurisprudenza di codesta Ecc.ma Corte, egualmente consolidata e costante, la manifesta irragionevolezza può essere rilevata o a seguito di confronto con tertia comparationis omogenei o in esito alla constatazione di una contraddizione intrinseca della norma censurata. Nella fattispecie oggetto del presente giudizio, secondo questa difesa erariale, non ricorre né la prima né la seconda ipotesi. Sotto il primo aspetto, per muovere un sindacato sulla ragionevolezza dell’esercizio della discrezionalità legislativa non appare possibile invocare genericamente delle alternative alla scelta attuata dal legislatore, poiché, così facendo, si invade il campo della discrezionalità riservata ad esso; occorre, invece, dimostrare che detta scelta è incoerente rispetto al sistema in cui si inserisce (ex aliis, sent. n. 161 del 2004). Alla luce di tale premessa, non può non risultare di sicura evidenza l’assoluta carenza di motivazione dell’ordinanza di rimessione in ordine alla mancata indicazione di tertia comparationis da cui far discendere l’acclaramento dell’invocata irragionevolezza della scelta legislativa. Viene omessa, innanzitutto, una valutazione sistematica delle norme che prevedono sanzioni penali per violazioni di provvedimenti amministrativi in materia di sicurezza pubblica. Anzi, argomenti a suffragio della coerenza della norma impugnata rispetto al settore ordinamentale in cui la stessa è inserita sono ravvisabili nel quadro normativo in materia di sanzioni penali per l’illecito ingresso o trattenimento di stranieri nel territorio nazionale, come risultante dalle modificazioni che si sono succedute negli ultimi anni e, in particolare, per le novità introdotte dallo stesso d.l. n. 92 del 2008, convertito in legge n. 125 del 2008: da una simile valutazione complessiva non è difficile cogliere una generale tendenza all’inasprimento del regime sanzionatorio per una pluralità di condotte penalmente rilevanti ascrivibili al fenomeno dell’immigrazione clandestina, espressivo di un disvalore sociale il cui unico interprete è il legislatore penale. In assenza di univoche indicazioni normative utilizzabili quali tertia comparationis, non supplisce il richiamo operato dall’ordinanza di rimessione alla sentenza di codesta Ecc.ma Corte n. 78 del 2007, nella quale veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 47, 48 e 50 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), ove interpretati nel senso che allo straniero extracomunitario, entrato illegalmente nel territorio dello Stato o privo del permesso di soggiorno, sia in ogni caso precluso l’accesso alle misure alternative da essi previste, per contrasto con i principi costituzionali della uguale dignità delle persone e della funzione rieducativa della pena. In particolare, il richiamo a tale pronuncia non vale a dimostrare l’esistenza di un quadro normativo rispetto al quale il nuovo art. 61 n. 11-bis c.p. verrebbe a porsi come scelta discrezionale macroscopicamente incoerente laddove si pongano in evidenza le diversità esistenti fra il sistema legislativo di individuazione delle figure criminose sanzionate e l’ordinamento penitenziario in ordine alle finalità perseguite. Sebbene esista un’insopprimibile comunanza di principi ispiratori, non può sostenersi che funzione retributiva, funzione pre- 388 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 388 ventiva e funzione rieducativa non possano trovare bilanciamenti e graduazioni diverse a seconda che il legislatore persegua il prioritario obiettivo della difesa sociale o piuttosto quello della risocializzazione del reo, pur nell’imprescindibile rispetto dei diritti fondamentali riconosciuti e tutelati non solo dal nostro ordinamento, ma anche da quello comunitario e internazionale. Quanto alla contestazione mossa dal rimettente secondo la quale l’irragionevolezza dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 11-bis c.p. deriverebbe dall’applicazione di effetti penali sulla base di una mera condizione soggettiva del soggetto, di una presunzione di pericolosità sganciata da una valutazione di parametri obiettivi, questa difesa erariale eccepisce, oltre a ciò che è stato in precedenza esposto, quanto segue. La constatazione non tiene conto del noto principio accolto dal nostro codice penale, e fatto salvo dalla giurisprudenza di codesta Ecc.ma Corte, in virtù del quale alla determinazione della pena concorrono non solo considerazioni relative alla gravità del reato (ex art. 133 c. 1 c.p.), espressive del disvalore della condotta, ma anche valutazioni non immediatamente legate al “fatto”, inerenti alla personalità del reo (ex art. 133 c. 2) quali, fra gli altri, il carattere del reo, la condotta e la vita del reo antecedenti al reato, l’abitualità a delinquere, nonché le sue condizioni di vita individuale, familiare e sociale. La previsione espressa di questi ulteriori indici, volta ad estendere la valutazione giudiziale del fatto oggettivo alla personalità del reo ed alla sua capacità a delinquere, non svolge soltanto una funzione prognostica, diretta ad accertare la potenzialità criminosa del soggetto in una prospettiva di prevenzione sociale, ma, nell’ambito di una rilettura costituzionalmente orientata, risponde al tempo stesso ad una funzione di graduazione della colpevolezza e di rieducazione del reo. In particolare, consolidati orientamenti giurisprudenziali, costituenti un vero e proprio diritto vivente, riconducono al criterio legislativo relativo alla vita ed alla condotta del reo, antecedenti al reato, valutazioni in merito alla carriera scolastica o a manifestazioni genericamente devianti, come l’uso di droghe, l’alcolismo o il rifiuto dell’attività lavorativa. Un contrasto con la Costituzione, tutt’al più, sarebbe ravvisabile laddove il legislatore, nel fondare la colpevolezza, si riferisse in misura preponderante al complesso dei comportamenti antecedenti al fatto attraverso i quali il soggetto avrebbe colpevolmente plasmato la propria personalità (cd. colpevolezza per la condotta di vita) o al carattere dell’agente (cd. colpevolezza per carattere), subordinandovi la valutazione del fatto commesso; ipotesi, questa, che risulta esclusa per la norma impugnata, in quanto, come in precedenza evidenziato al punto 3 del presente atto, ciò che la norma punisce non è lo status di clandestino dell’autore del reato, ma la sua volontaria disobbedienza ad un ordine di allontanamento impostogli nel rispetto della legge, a tutela dell’interesse generale. Né ha valore decisivo, ai fini della declaratoria di incostituzionalità della norma in questione, la considerazione del remittente secondo cui l’aggravante di cui all’art. 61 n. 11-bis c.p., per il solo fatto di determinare una disparità di trattamento fra gli autori dello stesso reato in ragione della qualità di straniero che si trova illegalmente sul territorio dello Stato, sarebbe per ciò stesso contraria al canone della ragionevolezza, ben potendo accadere nell’attuale sistema penale – proprio in ragione dell’art. 133 c. 2. c.p. e della disciplina delle aggravanti che si riferiscono alla persona del reo – che ad una stessa condotta criminale tenuta da più soggetti corrisponda un diverso disvalore e, pertanto, un diverso trattamento sanzionatorio. Passando ad una valutazione che investa la ragionevolezza intrinseca della norma impugnata, e dunque la coerenza tra il contenuto della norma e la finalità perseguita attraverso la sua previsione, la disposizione in esame si presenta immune dal denunciato vizio di costituzionalità. DOTTRINA 389 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 389 Deve ritenersi, infatti, non manifestamente irragionevole la scelta del legislatore di prevedere una più intensa sanzione in ragione del disvalore sociale riconosciuto alla condotta di cui all’art. 61 n. 11-bis c.p. Orbene, un’ingiustificata sproporzione fra l’entità della sanzione (aumento di un terzo della pena principale) e l’illegale presenza dello straniero è esclusa dalla ratio stessa della norma impugnata, dal momento che le pressanti esigenze di difesa sociale ed ordine pubblico connesse all’imponente fenomeno dei flussi migratori dell’epoca presente postulano necessariamente una complessa opera di bilanciamento dei valori in gioco. La sicurezza si configura senza dubbio come una delle condizioni per il pieno ed effettivo svolgimento delle fondamentali libertà costituzionali (libertà personale, libertà di manifestazione del pensiero, etc.) e costituisce uno dei valori fondamentali riconosciuti anche nell’ambito del diritto comunitario e della CEDU. Pertanto, la stessa si inserisce a pieno titolo in un’operazione di bilanciamento fra valori ed interessi costituzionalmente riconosciuti. Non può, quindi, risultare macroscopicamente irrazionale la scelta legislativa in questione ove si consideri il collegamento ad una risposta politica che il legislatore ha ritenuto di attuare, in questo come in altri casi, a fronte dell’aumentata percezione sociale della pericolosità del fenomeno in questione, ferma restando la garanzia del controllo del giudice sull’esistenza dei presupposti per l’applicazione della misura (si veda, a tal proposito, la sentenza n. 236 del 2008), Pertanto, non si può certo chiedere a codesta Ecc.ma Corte di «esprimere valutazioni sull’efficacia della risposta repressiva penale rispetto a comportamenti antigiuridici che si manifestino nell’ambito del fenomeno imponente dei flussi migratori dell’epoca presente, che pone gravi problemi di natura sociale, umanitaria e di sicurezza» (sentenza n. 236 del 2008). In particolare, codesta Ecc.ma Corte si è espressa nel senso di dover escludere di poter procedere, nella specifica materia dell’illecito ingresso o trattenimento di stranieri nel territorio nazionale, ad impostare «un nuovo assetto delle sanzioni penali stabilite dal legislatore » anche in ragione della mancanza, nell’attuale quadro normativo in subiecta materia di «precisi punti di riferimento che possano condurre a sostituzioni costituzionalmente obbligate » (sentenza n. 22 del 2007). Quanto finora esposto al fine di escludere la manifesta irragionevolezza della norma impugnata risulta, inoltre, assorbente in merito alle censure mosse dal remittente in ordine alla presunta lesione dei principi di offensività, personalità della responsabilità penale e funzione rieducativa della pena, anche in considerazione della possibilità di dare alla normativa in esame una lettura conforme a Costituzione, come già esposto da questa Avvocatura al punto 3 del presente intervento. 6. Si rivelano conseguentemente infondati i richiami alle norme internazionali ai sensi degli artt. 10 c. 2 e 117 c. 1 Cost., in quanto, come ampiamente evidenziato, non viene introdotta dalla disposizione in oggetto un’“aggravante d’autore” né tanto meno si crea un’irragionevole discriminazione tra persone in base alla loro origine nazionale e condizione sociale. In particolare, discutibile appare il richiamo all’art. 2 della Dichiarazione universale del diritti dell’uomo, il quale genericamente afferma il principio di eguaglianza formale in relazione ai «diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione». L’art. 3 della medesima fonte tutela altresì il diritto alla libertà e alla sicurezza della persona, riconoscendolo come un valore sicuramente rilevante nell’ambito dell’ordinamento internazionale. Peraltro, l’art. 29 della stessa Dichiarazione ammette limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà, purché siano stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e della libertà degli altri, nonché l’ordine pubblico e il benessere generale in una società democratica. Anche con riferimento all’articolo richiamato, non può non rinvenirsi l’importanza 390 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 390 delle esigenze alla base delle misure la cui legittimità viene vagliata in questa sede, le quali costituiscono il frutto di un complesso bilanciamento tra i valori in gioco. Analoghe argomentazioni valgono con riferimento all’invocato art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, che sancisce il divieto di discriminazione, ma contestualmente riconosce e tutela, all’art. 5, il diritto alla libertà ed alla sicurezza. Risulta altresì infondata la censura basata sul Patto internazionale sui diritti civili e politici, il quale, all’art. 9, riconosce ad ogni individuo il diritto alla sicurezza e all’art. 12 sancisce che «ogni individuo che si trovi legalmente nel territorio di uno Stato ha diritto alla libertà di movimento e alla libertà di scelta della residenza in quel territorio» e, al successivo art. 13, che «uno straniero che si trovi legalmente nel territorio di uno Stato parte del presente Patto non può esserne espulso se non in base a una decisione presa in conformità della legge». Le disposizioni appena menzionate rappresentano un’ulteriore dimostrazione di come, anche a livello internazionale, sia possibile, a determinati fini, distinguere tra la situazione giuridica di chi si trova in uno Stato legalmente e di chi, al contrario, vi si trova illegalmente e giustifica un differente trattamento delle due situazioni, pur nel rispetto dei diritti fondamentali riconosciuti a ciascun individuo. È d’uopo, peraltro, rilevare che tutte le disposizioni internazionali richiamate dal giudice remittente fanno riferimento all’ingiustificato conculcamento di diritti fondamentali, quasi ad intendere che l’immigrazione clandestina debba essere considerata alla stregua dei diritti fondamentali tutelati dalle fonti menzionate. Si tenga conto, infine, del fatto che il diritto alla sicurezza è espressamente richiamato da tutte le Carte internazionali dei diritti, tra cui l’art. 5 della CEDU, che lo contempla esplicitamente e lo pone quale fondamento di limitazioni ex lege ad alcuni diritti in essa affermati. Anche di recente, la Corte di Strasburgo, nella decisione Bagarella c. Italia del 15 gennaio 2008, ha fornito un esempio di come, in determinate ipotesi, sia imprescindibile bilanciare i valori coinvolti, tenendo in considerazione anche la sicurezza pubblica, la difesa dell’ordine e la prevenzione dei reati. In tal senso, dunque, tutti i dubbi di costituzionalità basati sull’art. 10 c. 2 e sull’art. 117 c. 1 Cost. risultano infondati, immotivati e carenti di interpretazione sistematica. 7. In conclusione, è inconferente la censura di incostituzionalità basata sull’invocato parametro dell’art. 13 Cost., essendo la stessa sostenuta in relazione a una norma che non è oggetto del presente giudizio: l’argomentazione si riferisce, infatti, esclusivamente all’art. 656 c. 9 lett. a) c.p.p., sul quale non è stato sollevato dal remittente dubbio alcuno di legittimità costituzionale. P.Q.M. si chiede che la questione di illegittimità costituzionale come indicata in epigrafe sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata. Roma, 11 ottobre 2008 – Avvocato dello Stato Gianluca Belfiore – Avvocato dello Stato Emanuela Brugiotti – Avvocato dello Stato Giuseppe Marino - Avvocato dello Stato Sabrina Ragone». (All.3) Ecc.ma Corte costituzionale – R.G. 1/2008 – Udienza 4 novembre 2008 – Memoria illustrativa del Sig. Mohamed Vucumbrè, nato in Senegal il 5 gennaio 1983, residente a Pisa-Ferrara in via Buia n. 56, elettivamente domiciliato a Roma, in via Azzeccagarbugli n. DOTTRINA 391 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 391 15, presso lo studio degli Avv.ti Alberto Randazzo e Viviana Zanetti che lo rappresentano e difendono come da procura speciale a margine del presente atto nel giudizio di legittimità costituzionale promosso dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pisa-Ferrara nella persona della Procuratore della Repubblica, Dott.ssa Chiara Testafine, con ordinanza depositata il 20 settembre 2008 «PARTE PRIMA In fatto (omissis) PARTE SECONDA In diritto La questione sollevata dal giudice rimettente è rilevante. Essendo stato accertato, da un lato, che la condotta penalmente rilevante è stata posta in essere in vigenza del decreto-legge n. 92 del 2008 e, dall’altro, che il Sig. Mohamed Vucumbrè – al momento del fatto – si trovava illegalmente sul territorio italiano, il giudice remittente, nel procedimento di definizione sia della responsabilità penale che del quantum della pena, è tenuto ad applicare l’aggravante di cui all’art. 61, n. 11-bis c.p. La determinazione della sanzione da irrogare in concreto risulta, infatti, subordinata al bilanciamento, ex art. 69 c.p., delle possibili circostanze attenuanti con l’aggravante di clandestinità oggetto di questo giudizio. Inoltre, non sarebbe in grado di incidere sulla sussistenza della rilevanza nemmeno l’eventuale mancata applicazione dell’aumento di pena derivante da un giudizio di prevalenza o equivalenza delle circostanze attenuanti rispetto l’aggravante, in quanto l’inasprimento della sanzione rappresenta solo uno degli effetti penalmente rilevanti della misura introdotta dal decreto-legge n. 92 del 2008. In applicazione del nuovo articolo 656, nono comma, lett. a) c.p.p., infatti, al semplice giudizio di sussistenza della circostanza di clandestinità consegue, per il condannato, l’automatico effetto processuale della esclusione dall’istituto della sospensione dell’esecuzione della pena. Ne deriva, quindi, che il giudizio penale che vede imputato il Sig. Vucumbrè non può proseguire senza che venga risolta da codesta Corte la questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, n. 11-bis c.p., come introdotto dall’art. 1, lett. f), del D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modificazioni dalla L. 24 luglio 2008, n. 125. In via preliminare, si eccepisce la violazione dell’art. 77 Cost. per la evidente mancanza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza atti a giustificare l’adozione da parte del Governo di provvedimenti normativi aventi valore di legge. Anche volendo ritenere che la necessità ed urgenza siano da individuare nell’aumento dei fenomeni di illegalità diffusa, appare opinabile la riconduzione di questi ultimi all’immigrazione clandestina. L’inserimento in via d’urgenza nel corpo dell’art. 61 c.p. della c.d. “aggravante di clandestinità” sarebbe giustificabile soltanto nell’ipotesi in cui fosse possibile dimostrare, come in un’equazione perfetta, che all’aumentare dei clandestini sul territorio italiano siano – come diretta conseguenza – accresciuti i reati. L’urgenza potrebbe ammettersi solo provando che il soprannumero di reati rispetto al passato sia dovuto all’aumentare dei soggetti privi di regolare permesso di soggiorno sul territorio della Repubblica e che la condizione di clandestinità abbia – in questi casi – abbia stimolato a tenere una condotta penalmente rilevante. Tuttavia, l’aumento di entrambi i fenomeni (reati ed immigrazione, appunto) non appare in qualche modo (o, comunque, sempre) collegato: si tratterebbe piuttosto di due elementi da considerare autonomi e indipendenti l’uno dall’altro e, quindi, da disciplinare in modo altrettanto autonomo e indipendente. 392 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 392 Pertanto, che l’aggravante prevista nel decreto-legge in parola appare non idonea al raggiungimento dello scopo (e, per questo aspetto, l’atto legislativo appare viziato da irragionevolezza) anche qualora quest’ultimo fosse, puramente e semplicemente, quello di voler contrastare (e voler efficacemente sanzionare) l’aumento di fenomeni di rilevanza penale (a prescindere dallo status dei soggetti attivi). In ogni caso, nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione si evince che “il fine specifico” del provvedimento è quello “di affrontare in via di urgenza taluni problemi di ordine e sicurezza pubblica, beni primari purtroppo pregiudicati da taluni gravissimi fenomeni in continua espansione”, tra cui “la spinta criminogena di una immigrazione irregolare senza controlli adeguati in ordine alla sussistenza dei requisiti per ottenere un soggiorno legale nel territorio dello Stato”. Inoltre, pur con la consapevolezza che lo strumento del decreto-legge non possa “risolvere tutti i problemi dianzi evidenziati”, gli autori dello stesso specificano che esso “viene utilizzato a cagione della straordinaria necessità e urgenza di arginare le difficoltà più significative, in attesa di una più compiuta rivisitazione della normativa regolante i fenomeni sopra brevemente riportati, da funzionalizzare con disegni di legge di iniziativa governativa di prossima presentazione”. Alla luce di quanto detto, non si ritiene sufficientemente motivata la presenza dei suddetti requisiti di necessità e urgenza in riferimento allo stretto legame che si adduce tra il verificarsi di eventi criminogeni e la presenza dei clandestini sul territorio italiano; come è noto, la carenza di giustificazione in relazione alle circostanze di fatto è sufficiente a determinare un difetto di legittimità costituzionale di un decreto legge (da ultimo, sent. n. 128 del 2008). Quanto al merito, aderendo in toto a quanto ottimamente prospettato dal giudice rimettente circa l’incompatibilità costituzionale dell’art. 61, n. 11-bis c.p., come introdotto dall’art. 1, lett. f), del D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modificazioni dalla L. 24 luglio 2008, n. 125, questa memoria intende soffermarsi ed approfondire solamente alcuni dei profili di incostituzionalità che costituiscono il thema decidendum eccepiti nell’ordinanza e – in particolare – le argomentazioni riguardanti la violazione degli artt. 3, 13, 25, secondo comma e 27, terzo comma, della Costituzione. 1. La nuova circostanza aggravante víola sia il diritto di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. sia i princìpi di materialità ed offensività del fatto prescritti dall’art. 25, secondo comma, Cost. L’eventuale aumento di pena, venendo a dipendere non già dalla gravità oggettiva del fatto o da considerazioni sulla concreta pericolosità sociale del condannato, quanto dal mero status soggettivo di clandestinità del reo, poggia sull’infondato ed irragionevole assunto criminologico secondo il quale l’immigrato clandestino sarebbe, per ciò solo, spiccatamente propenso a delinquere. Si tratta, quindi, di una presunzione di “maggiore rischio” che si pone in tensione innanzitutto rispetto all’art. 25, secondo comma, Cost. che, circoscrivendo l’esercizio della potestà sanzionatoria dello Stato al solo verificarsi di fatti criminosi, ovvero a quei comportamenti umani percepibili esteriormente, esclude la punibilità per “modi di essere” del soggetto (il c.d. diritto penale d’autore). Appare di tutta evidenza come la circostanza aggravante in oggetto, applicandosi a prescindere da qualsiasi collegamento con il fatto e a prescindere da qualsiasi valutazione concreta circa la natura delinquenziale del reo, faccia leva unicamente su di un modo di essere del condannato (lo status amministrativo di immigrato irregolare da cui il legislatore fa discendere, in modo pressoché automatico, la sua maggiore pericolosità sociale) determinando, in palese violazione dei principi di materialità e di offensività (sentt. nn. 519 del 2000, 354 del 2002, 265 del 2005), effetti penali rilevanti. Si tratta, quindi, di una aggravante infor- DOTTRINA 393 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 393 mata a canoni propri non solo del “diritto penale d’autore” ma anche del tristemente famoso “diritto penale del nemico”, in quanto la disposizione in esame – perseguendo esclusivamente finalità di “difesa sociale” – di fatto mira alla neutralizzazione del diverso, del nemico, la cui pericolosità viene presunta sulla base della sua sola appartenenza etnico-razziale. Una supposizione che in passato questa Corte ha fermamente rifiutato quando ha asserito che la condizione di clandestinità, derivante dal mancato possesso di un titolo abilitativo alla permanenza nel territorio dello Stato o dall’inosservanza dell’ordine di allontanamento dato dal questore, non è di per sé univocamente sintomatica di una particolare pericolosità sociale (sent. 78 del 2007; in tal senso questa Corte si è espressa anche nella sent. n. 22 del 2007). Ciò premesso, l’aggravante di cui all’art. 61, n. 11-bis c.p., mostra rilevantissimi profili di incompatibilità con l’art. 3 Cost. nella misura in cui la sua applicazione finisce necessariamente per produrre – a parità di condotta materiale – un irragionevole diverso trattamento sanzionatorio tra immigrati clandestini e cittadini italiani-immigrati con permesso di soggiorno. Il medesimo comportamento criminale, infatti, viene ad essere punito in modo diverso a seconda che l’autore del reato si trovi in territorio nazionale regolarmente o irregolarmente. Da tutto ciò, ne deriva che la disposizione in esame, operando una discriminazione legata ad una mera appartenenza razziale, víola palesemente il diritto all’uguaglianza davanti alla legge (art. 3 Cost.) la cui titolarità appartiene a tutti gli esseri umani – cittadini o stranieri che siano – senza alcuna possibilità di distinzione (sentt. nn. 62 del 1994, 105 del 2001 e 148 del 2008). L’aggravante di clandestinità rivela, poi, ulteriori aspetti di incompatibilità con l’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza. A tal proposito non si comprende quale sia lo scopo della previsione del decreto-legge di cui si discute, non essendo possibile, infatti, instaurare una correlazione diretta tra la condizione di clandestino e la commissione di un reato. Qualora, poi, lo scopo del decreto-legge fosse quello di arginare il fenomeno della immigrazione clandestina, appare evidente come la previsione normativa dell’art. 61, comma 11-bis, non possa utilmente raggiungere il suddetto – opinabile – obiettivo. L’ordinamento italiano, prevedendo una aggravante per la clandestinità, consente la commisurazione di una pena sproporzionata nel contesto del sistema giuridico penale italiano e non è invece in grado di svolgere una funzione di deterrente (della quale peraltro non se ne intravede la necessità) al fine di ostacolare il fenomeno migratorio; un soggetto extracomunitario, infatti, non è tenuto – né presumibilmente potrebbe agevolmente riuscirci, qualora anche lo volesse – a conoscere la legislazione italiana. L’eccessivo carico di pena derivante dallo status di clandestino víola, inoltre, anche l’intangibile valore della dignità umana, nella misura in cui si presuma che i clandestini siano, per loro natura e per il solo fatto di essere tali, dei malfattori degni di punizione più severa rispetto a chi clandestino non è. Come autorevole dottrina sostiene, la dignità è da intendere come meta-valore insuscettibile di costituire oggetto di bilanciamento, essendo esso stesso criterio di bilanciamento tra valori in gioco. 2. L’aggravante di cui all’art. 61, n. 11-bis c.p., così come modificato a seguito degli interventi legislativi già citati, víola l’art. 27, terzo comma, Cost. in quanto si pone in contrasto sia con le finalità costituzionali della pena sia con il principio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto, che della funzione risocializzante rappresenta un implicito corollario. Con giurisprudenza costante, questa Corte ha avuto modo di precisare che, sebbene la valutazione della congruenza fra reati e pene rientri nel potere discrezionale del legislatore (sentt. nn. 29 del 1979, 102 del 1985, 341 del 1994, 287 del 2002), tuttavia il Parlamento non è arbitro assoluto delle sue scelte criminalizzatrici: esse, infatti, possono essere censurate da 394 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 394 questa Corte per violazione del criterio di ragionevolezza e per indebita compressione del diritto fondamentale di libertà costituzionalmente riconosciuto (sent. n. 409 del 1989; similmente sentt. nn. 343 e 422 del 1993). Lo scrutinio di costituzionalità, quindi, può investire il merito delle scelte del Parlamento qualora l’opzione legislativa vada a contrastare con il principio di eguaglianza sotto il profilo dell’arbitrarietà o della manifesta irragionevolezza (sentt. nn. 287 del 2002, 531 e 508 del 2000). La previsione di una circostanza aggravante legata esclusivamente allo status soggettivo del reo (l’essere un immigrato clandestino) rappresenta una previsione normativa intrinsecamente irragionevole per incongruità del mezzo rispetto al fine e, quindi, censurabile da questa Corte in riferimento al combinato disposto degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. La legittimità dell’aggravante di clandestinità deve essere verificata rispetto alle diverse funzioni che la Costituzione assegna alla pena. Sebbene, infatti, “in uno Stato evoluto” la finalità risocializzante rappresenti “una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano [la pena] nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue”, lo scopo della sanzione penale non si esaurisce esclusivamente in una mera tensione rieducativa del condannato (sent. 313 del 1990). Detta finalità, infatti, deve “contemperarsi con le altre funzioni che la Costituzione assegna alla pena medesima”, ovvero la prevenzione generale, la difesa sociale e la prevenzione speciale (sent. 78 del 2007 che richiama le sentt. nn. 257 del 2006 e 306 del 1993; anche sent. n. 264 del 1974). Si tratta di una “armonica coesistenza” tra le funzioni che determina l’impossibilità di stabilire a priori “una gerarchia statica ed assoluta” tra tutte le finalità della pena costituzionalmente protette “che valga una volta per tutte ed in ogni condizione” (sentt. nn. 306 del 1993 e 257 del 2006). A parere di questa Corte, infatti, le “differenti contingenze, storicamente mutevoli, che condizionano la dinamica dei fenomeni delinquenziali, comportano logicamente la variabilità delle corrispondenti scelte di politica criminale che il legislatore è chiamato a compiere: così da dar vita ad un sistema normativamente «flessibile», proprio perché potenzialmente idoneo a plasmare i singoli istituti in funzione delle diverse esigenze che quelle scelte per loro natura coinvolgono. Da qui l’impossibilità di stabilire, ex ante, un punto di equilibrio dogmaticamente «cristallizzato» tra le diverse funzioni che il sistema penale, nel suo complesso, è chiamato a soddisfare nel quadro dei valori costituzionali” (sent. n. 257 del 2006). E, sempre secondo la giurisprudenza di questa Corte, può concretamente parlarsi di una sostanziale non elusione delle funzioni costituzionali della pena solamente allorquando “il sacrificio dell’una sia il «minimo indispensabile» per realizzare il soddisfacimento dell’altra, giacché soltanto nel quadro di un sistema informato ai paradigmi della «adeguatezza e proporzionalità» delle misure (…) è possibile sindacare la razionalità intrinseca (e, quindi, la compatibilità costituzionale) degli equilibri normativi prescelti dal legislatore”. Ne deriva, quindi, che il “legislatore può – nei limiti della ragionevolezza – far tendenzialmente prevalere, di volta in volta, l’una o l’altra finalità della pena, ma a patto che nessuna di esse ne risulti obliterata” (sentt. nn. 257 del 2006 e 306 del 1993). Ciò premesso, l’aggravante di clandestinità, innanzitutto, manca nel soddisfare la finalità rieducativa espressamente richiamata dall’art. 27, terzo comma, Cost. in quanto un aumento di pena – non ancorato al maggiore disvalore del fatto o alla più accentuata pericolosità del soggetto – finisce per frustrare qualsiasi intento di risocializzazione del reo. A parere di questa Corte, infatti, “la palese sproporzione del sacrificio della libertà personale «provocata dalla previsione di una sanzione penale manifestamente eccessiva rispetto al disvalore dell’illecito» produce ... una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall’art. 27, terzo comma, della DOTTRINA 395 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 395 Costituzione, che di quella libertà costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione” (sentt. nn. 343 del 1993, 409 del 1989, 341 del 1994 e 22 del 2007). L’irrogazione di una pena più severa come conseguenza dell’applicazione di una aggravante legata alla condizione personale dell’autore ed indipendente da un più elevato coefficiente di offensività del fatto – e che comporta l’automatico effetto preclusivo alla sospensione condizionale della pena – non soddisfa nemmeno la finalità special-preventiva della punizione. Una sanzione sproporzionata per eccesso rispetto alla colpevolezza finisce, infatti, per essere vissuta come un “sopruso” dal condannato, come un meccanismo persecutorio di “neutralizzazione” diretto all’immigrato clandestino in quanto nemico della società, ostacolandone non solo la rieducazione ma anche l’adesione ai valori sottesi alla norma penale violata. L’aggravante di cui all’art. 61, n. 11-bis c.p., poi, non riesce a raggiungere alcun risultato apprezzabile nemmeno sul piano della prevenzione generale. Se è vero che l’effetto dissuasivo della comminatoria penale non deriva tanto dalla minaccia di una sanzione esemplare, quanto piuttosto dalla certezza e prontezza della pena, l’applicazione di una punizione “aggravata” e sproporzionata rispetto all’illecito non produrrà gli effetti deterrenti sperati, ma l’esito controproducente di generare, da un lato, ostilità nei confronti del sistema di giustizia penale e dell’ordinamento positivo e, dall’altro, sentimenti di solidarietà verso i condannati. Per quanto attiene, invece, alla difesa sociale, non vi è dubbio che la circostanza aggravante in oggetto assolva pienamente a tale funzione mirando, di fatto, a salvaguardare la collettività da una classe di soggetti, gli immigrati clandestini, che la legge presume essere socialmente pericolosi. Quella introdotta nell’art. 61, n. 11 c.p. è, infatti, una presunzione di pericolosità che, discriminando – come abbiamo già evidenziato – sulla base della sola appartenenza etnico-razziale, ottempera alla finalità più negativa della pena, ovvero quella della neutralizzazione e della deterrenza in vista della difesa sociale. In conclusione, quindi, se l’esercizio della discrezionalità legislativa in materia penale deve ispirarsi al principio di armonica coesistenza, secondo cui le “scelte risulteranno non irragionevoli e rispettose del precetto dell’art. 27, terzo comma, della Costituzione, allorquando, pur privilegiando l’una o l’altra delle suddette finalità, il sacrificio che si arreca ad una di esse risulti assolutamente necessario per il soddisfacimento dell’altra e, comunque, purché nessuna ne risulti obliterata” (sent. n. 78 del 2007), allora la circostanza aggravante legata allo status di clandestinità del reo risulta viziata per irrazionalità ed irragionevolezza in quanto, nel soddisfare una delle funzione della pena che la Costituzione protegge (quella della difesa sociale), finisce per annichilire ed obliterare le rimanenti (la risocializzazione, la special-prevenzione e la general-prevenzione). 3. In relazione all’art. 13 Cost., occorre rilevare come, rientrando la libertà personale nell’alveo dei diritti inviolabili dell’uomo, sia da riconoscere un “nucleo irriducibile di tutela” in capo a ciascun individuo, a prescindere da qualsivoglia condizione personale a quest’ultimo riconducibile. A dimostrazione della necessità di offrire un livello minimo di protezione dei diritti fondamentali (la cui tutela non può soffrire limitazioni di carattere prettamente amministrativo quale, appunto, l’assenza di un regolare permesso di soggiorno), è possibile ricordare quanto la Corte ha avuto modo di affermare nella sent. n. 252 del 2001 in riferimento alla salvaguardia del bene-salute. Secondo quanto si legge nella decisione richiamata, “la legge prevede … un sistema articolato di assistenza sanitaria per gli stranieri, nel quale viene in ogni caso assicurato a tutti, quindi anche a coloro che si trovano senza titolo legittimo sul territorio dello Stato, il «nucleo irriducibile» del diritto alla salute garantito dall’art. 32 Cost.”; pertanto, “lo straniero presente, anche irregolarmente, nello Stato ha diritto di fruire di tutte le prestazioni che risultino indifferibili e urgenti, secondo i criteri indicati dall’art. 35, comma 3 citato, trat- 396 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 396 tandosi di un diritto fondamentale della persona che deve essere garantito” (sul punto si veda anche la sent. n. 432 del 2005, ove si afferma che “sullo specifico versante del diritto alla salute, questa Corte ha reiteratamente puntualizzato che «il diritto ai trattamenti sanitari necessari per la tutela della salute è “costituzionalmente condizionato” dalle esigenze di bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, salva, comunque, la garanzia di “un nucleo irrinunciabile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l’attuazione di quel diritto” [….] Questo “nucleo irriducibile” di tutela della salute quale diritto della persona deve perciò essere riconosciuto anche agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme che regolano l’ingresso ed il soggiorno nello Stato, pur potendo il legislatore prevedere diverse modalità di esercizio dello stesso »”). Com’è noto, i diritti fondamentali sono da collocare tutti su un medesimo piano, non essendo configurabile un diritto che sia – come dire – “più fondamentale” di un altro; applicando tale ragionamento al caso in esame, è possibile ritenere come il comma 11-bis che si vuole aggiungere all’art. 61 possa comportare un’eccessiva compressione del bene-libertà personale che, come detto, almeno nel suo nucleo irriducibile, deve essere garantito anche a coloro che non sono forniti di un regolare permesso di soggiorno (peraltro, come si legge nella sent. n. 432 del 2005, “secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il principio costituzionale di uguaglianza non tollera discriminazioni fra la posizione del cittadino e quella dello straniero solo quando venga riferito al godimento dei diritti inviolabili dell’uomo (v., fra le tante, la sentenza n. 62 del 1994): così da rendere legittimo, per il legislatore ordinario, introdurre norme applicabili soltanto nei confronti di chi sia in possesso del requisito della cittadinanza – o all’inverso ne sia privo – purché tali da non compromettere l’esercizio di quei fondamentali diritti”). Inoltre, sembra presumersi che la pericolosità di un soggetto possa astrattamente apprezzarsi solo in riferimento alla presenza, o meno, di un titolo legale che autorizzi il soggetto stesso a permanere sul territorio italiano; a tal proposito, considerare lo status di soggetto clandestino (rilevante solo sul piano prettamente amministrativo) quale elemento che, aprioristicamente e in mancanza di una verifica caso per caso, possa attestare la pericolosità sociale di un individuo appare palesemente contrario ai principi che informano il nostro ordinamento (tra cui quello della presunzione di non colpevolezza; è utile, a tal proposito, riportare quanto dalla Corte affermato nella sent. n. 62 del 1994: “Per quanto sia opportuno ribadire ancora una volta che, quando venga riferito al godimento dei diritti inviolabili dell’uomo, quale è nel caso la libertà personale, il principio costituzionale di eguaglianza in generale non tollera discriminazioni fra la posizione del cittadino e quella dello straniero, va tuttavia precisato che inerisce al controllo di costituzionalità sotto il profilo della disparità di trattamento considerare le posizioni messe a confronto, non già in astratto, bensì in relazione alla concreta fattispecie oggetto della disciplina normativa contestata”). Conclusioni Voglia questa Ecc.ma Corte costituzionale, per i motivi di cui in narrativa e per le diverse ed ulteriori ragioni prospettate dal giudice remittente nell’ordinanza depositata il 20 ottobre 2008, accogliere la questione di legittimità costituzionale sollevata e dichiarare l’illegittimità dell’art. 61, n. 11-bis c.p., come introdotto dall’art. 1, lett. f), del D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modificazioni dalla L. 24 luglio 2008, n. 125. Con riserva di ulteriori e successive difese, all’esito dell’instaurazione del contraddittorio con le parti che la Corte riterrà legittimate all’intervento nel presente giudizio. Pisa-Ferrara, 11 ottobre 2008 - Alberto Randazzo, Viviana Zanetti». DOTTRINA 397 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 397 (All.4) Corte costituzionale – Roma - Atto di costituzione ai sensi dell’art. 25, II co., l. 11 marzo 1953, n. 87, e dell’art. 3, norme integrative – dei signori Addolorata Rossi in Sfortunati, Elena Sfortunati, Francesco Sfortunati, rappresentati e difesi, anche disgiuntamente, dagli avv. Marco Croce, Donato Messineo e Valentina Petri, per mandato speciale in calce al presente atto, elettivamente domiciliati in Roma presso lo studio dei medesimi, sito in Via degli Orfanelli n. 3, 00100 Roma, nel procedimento per la risoluzione della questione di legittimità costituzionale dell’art. 61 n. 11-bis, c.p., come introdotto dall’art. 1, lett. f), d.l. 23 maggio 2008 n. 92, convertito con modificazioni dalla l. 24 luglio 2008 n. 125, in riferimento agli 3; 13; 10, comma secondo; 25, comma secondo; 27, commi primo e terzo; 35, comma quarto; 77; e 117, comma primo, della Costituzione. « (Omissis) Con ordinanza del 20 settembre 2008, n. 567, il Tribunale di Pisa-Ferrara, sez. I penale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, n. 11-bis, c.p., come introdotto dall’art. 1, lett. f), del d.l. 23 maggio 2008 n. 92, convertito con modificazioni dalla l. 24 luglio 2008 n. 125, ai cui sensi il reato è aggravato “se il fatto è commesso da soggetto che si trovi illegalmente sul territorio nazionale”. L’atto di rimessione ha addotto vari profili, quali la mancanza dei presupposti per la decretazione d’urgenza, l’introduzione di un automatismo legislativo sanzionatorio in materia penale legato al mero status amministrativo di taluni soggetti, l’irragionevole discriminazione determinata a carico degli stranieri cc.dd. “irregolari”, l’arbitraria compressione della libertà personale di costoro, l’introduzione di un’aggravante “d’autore” slegata da precise offese a beni giuridici tutelati, il contrasto con il carattere personale della responsabilità penale (necessariamente connessa alla gravità del fatto commesso ed alla capacità a delinquere del reo), la violazione di obblighi internazionali in tema di condizione giuridica dello straniero, la violazione di un preteso diritto costituzionale all’immigrazione. Invero, la questione di legittimità costituzionale sollevata appare manifestamente inammissibile, e comunque nel merito risulta infondata. A) Sulla manifesta inammissibilità. A .1. Sull’assenza di rilevanza Preliminarmente sembra opportuno effettuare alcune considerazioni in merito alla rilevanza della questione nel giudizio a quo che non sembra essere stata sufficientemente motivata dal giudice rimettente. Secondo quanto sostenuto dal Tribunale di Pisa-Ferrara la questione va ritenuta rilevante per una serie di ragioni. In particolare, la norma di cui all’art. 61, comma 11 bis si configurerebbe come una “circostanza aggravante comune” perciò applicabile a tutti i reati, compresi quelli colposi; inoltre, secondo il giudice rimettente, in sede di esecuzione della pena troverebbe necessariamente applicazione il disposto dell’art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p. così come modificato dall’art. 2, lett. m) della citata l. 125/2008, in forza del quale si produce un effetto preclusivo alla fruibilità del beneficio della sospensione della pena previsto dal comma 5 del medesimo art. 656 c.p.p. in considerazione dell’inapplicabilità del suddetto beneficio ai delitti in cui ricorre l’aggravante di cui all’art. 61, comma 11 bis c.p. Secondo l’impostazione fatta propria dal giudice a quo, inoltre, anche qualora non si facesse luogo alle circostanze aggravanti, in ragione del giudizio di prevalenza delle attenuanti consentito dall’art. 69 c.p., il giudice sarebbe comunque tenuto a valutare la sussistenza dell’aggravante di clandestinità e quindi costretto ad applicare la norma impugnata. 398 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 398 In ultimo luogo, poi, la necessità di applicazione della norma in oggetto sarebbe determinata anche dall’impossibilità di fruire della sospensione della pena prevista dall’art. 656, comma 5, c.p.p., in ragione del fatto che, secondo una certa giurisprudenza, l’effetto preclusivo determinato dal comma 9 del citato articolo 656 c.p.p. si configura come diretta conseguenza del giudizio di sussistenza dell’aggravante, anche qualora «gli effetti di questa, quanto all’aggravamento di pena, siano poi neutralizzati in ragione del bilanciamento con le attenuanti» (Si v. pag. 4 dell’ordinanza). Ebbene, le ragioni esposte dal giudice rimettente a sostegno della rilevanza della questione non sembrano invero fondate. In primo luogo, infatti, va osservato che il giudizio di sussistenza dell’aggravante è un giudizio discrezionale del giudice del dibattimento (si v., in proposito Cass., sez. II, 182081/1989, secondo cui «il giudizio di comparazione delle circostanze è rimesso alla discrezionalità del giudice…»), il quale può ben valutare che la circostanza de qua non assurga in realtà ad aggravante del reato, non essendo invero necessario pensare che l’esistenza della condizione di straniero “illegale” si configuri sempre e comunque come circostanza che determina la maggiore gravità del fatto imputato e potendosi, invece, alle volte, ritenere che la detta circostanza non incida in alcun modo sulla gravità del reato. Quanto fin qui osservato comporta la possibilità che in alcuni giudizi la sussistenza della circostanza possa esser ritenuta rilevante, ma non invece che lo sia indipendentemente dalla valutazione della sua configurabilità come elemento di maggior gravità del delitto. Se così è, dunque, il giudice rimettente non ha specificato di ritenere la detta condizione, sicuramente posseduta dall’imputato, come elemento in grado di aggravare la fattispecie delittuosa, non motivando quindi la rilevanza della questione oggetto del sindacato di codesta Corte per il caso al suo esame. Detto ciò, va altresì considerato che anche la rilevanza dovuta all’applicabilità della norma preclusiva del beneficio di sospensione della pena non appare adeguatamente motivata dall’ordinanza di rimessione. Perché si determini l’effetto preclusivo di cui all’art. 656, comma 9, c.p.p., infatti, è necessario che il giudice valuti l’effettiva ricorrenza della circostanza aggravante generica, non essendo invece sufficiente il semplice possesso della qualità di “immigrato illegale”. In altre parole, per determinare l’operatività del divieto di cui al citato art. 656 c.p.p., risulta condizione prodromica e imprescindibile che il giudice abbia materialmente valutato la sussistenza dell’aggravante, la quale, quindi, in quanto concretamente operante, deve aver prodotto conseguenze sulla pena irrogata. Questa interpretazione discende dal fatto che, seppur con riguardo alla recidiva – ossia ad una circostanza personale ed “estrinseca” e indipendente dalla condotta sanzionata dal reato e quindi paragonabile alla situazione de qua – la giurisprudenza ha affermato che «il divieto di sospendere l’esecuzione delle pene detentive brevi in caso di recidiva è subordinato non già alla qualità di “recidivo” del condannato, bensì alla circostanza che la recidiva (…) sia stata “applicata”, cioè effettivamente valutata in quanto circostanza aggravante soggettiva ed abbia perciò prodotto conseguenze concrete sulla pena irrogata» (così, ex multis, Cass., sez. IV, 26 giugno 2007; nonché Cass. Sez. I, 16 novembre 2006). Ancora con riguardo alla medesima circostanza, inoltre, la giurisprudenza ha precisato inequivocabilmente che «in tema di sospensione dell’esecuzione della pena (…) deve escludersi l’operatività della nuova disciplina restrittiva introdotta dall’art. 9 l. 5 dicembre 2005 n. 251 in mancanza dell’espressa contestazione (…) nel giudizio di cognizione e del suo riconoscimento in tale sede ovvero quando la recidiva (…) non sia stata applicata perché, nel giudizio di comparazione, sono state dichiarate prevalenti le circostanze attenuanti» (così Cass., sez. I, 28 settembre 2006). DOTTRINA 399 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 399 Come già accennato, la giurisprudenza citata si riferisce ad una circostanza aggravante in tutto simile a quella menzionata dall’art. 61, comma 11 bis, ossia ad una circostanza estrinseca e indipendente dalla condotta del reo, con la conseguenza di rendere ragionevole la necessità di una sua applicazione analogica anche all’aggravante dovuta alla qualità di immigrato illegale. Da quanto detto emerge chiaramente, quindi, che l’esistenza della qualità di immigrato irregolare in capo all’imputato non comporta l’automatica necessità che tale circostanza agisca come aggravante del delitto, con la conseguenza che, ove la circostanza non abbia aggravato il reato, anche il divieto di sospensione della pena di cui al 656, comma 9, lett. a) c.p.p non possa ritenersi operante. Conseguentemente, stante l’assenza di motivazione dell’ordinanza di rimessione sul punto, deve ritenersi che la medesima ordinanza sia priva di una necessaria condizione di procedibilità del giudizio di costituzionalità e che la questione con la stessa sollevata debba esser dichiarata inammissibile. A.2. Sull’omesso tentativo di interpretazione adeguatrice. 1. In disparte l’asserita violazione dell’art. 77 Cost., i restanti profili di illegittimità addotti, pur numerosi, sembrano intimamente collegati: essi, infatti, derivano tutti dall’erroneo presupposto interpretativo secondo cui l’art. 61, n. 11-bis, c.p. troverebbe automatica ed indiscriminata applicazione a carico degli stranieri irregolari che abbiano commesso un reato, “a prescindere dall’apprezzamento giurisdizionale circa la concreta pericolosità sociale del soggetto”. Ed infatti, il Tribunale ha ritenuto che il legislatore del 2008 abbia introdotto una presunzione assoluta di pericolosità sociale, legata al mero accertamento dell’illegittima presenza di taluni soggetti sul territorio italiano. Secondo il rimettente, a fronte di tale accertamento, effettuato alla stregua di dati obiettivi, non residuerebbero margini di discrezionalità giudiziaria nell’applicazione dell’aggravante. Ricostruita in questi termini, la disciplina di cui all’art. 61, n. 11-bis, c.p. è stata considerata in contrasto con l’esigenza, costituzionalmente imposta, che (l’an ed il quantum del)la sanzione penale trovi(no) collegamento con il disvalore oggettivo della condotta lesiva di beni giuridici tutelati. Il rischio di discriminazioni irragionevoli sarebbe in re ipsa, poiché l’applicazione del precetto opererebbe – per così dire – ‘meccanicamente’, a prescindere dalle peculiarità delle concrete vicende. Inoltre, l’automatismo sanzionatorio, ricollegandosi ad una condizione soggettiva del reo, finirebbe per punire una cerchia di persone in quanto tali, per la mera appartenenza ad un determinato genus, secondo le suggestioni di un diritto penale basato sul “tipo di autore”, affatto incompatibile con il carattere pluralista del vigente ordinamento costituzionale. Del pari, le limitazioni apportate alle libertà fondamentali – vere (art. 13 Cost.) o presunte (libertà di “immigrazione” ex art. 35 Cost.) – degli stranieri irregolari non troverebbero giustificazione nell’esigenza di perseguire contro-interessi rilevanti, poiché per definizione la concreta sussistenza di tali contro-interessi (neutralizzazione della pericolosità sociale dei rei attraverso la rieducazione) sarebbe sottratta al sindacato del giudice. Il filo rosso che lega le sintetizzate censure è costituito dalla tesi per cui l’applicazione dell’aggravante opererebbe alla stregua di una “presunzione legale astratta ed automatica di pericolosità sociale” che non ammette prova contraria. Come anticipato, però, è proprio tale comune presupposto argomentativo che si appalesa erroneo, di modo che, caduto questo, necessariamente vengono meno tutti i profili addotti. Invero, la tesi che l’aggravante c.d. “di clandestinità” di cui all’art. 61, n. 11-bis, c.p. avrebbe introdotto un automatismo sanzionatorio costituisce il frutto di una singolare inver- 400 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 400 sione metodologica. Il significato da attribuire alla disposizione di recente introduzione, dettata per un’ipotesi particolare, è stato ricostruito dal Tribunale in modo del tutto avulso dal contesto, senza tener conto del tessuto normativo circostante, ed in specie dei principi generali dell’ordinamento penale, taluni dei quali dotati di copertura costituzionale. Invero, tali principi sono stati chiamati in causa dal rimettente solo in un secondo momento, quale parametro di legittimità costituzionale, senza prima apprezzare la loro idoneità a conformare il regime applicativo dell’aggravante che ci occupa, in modo da armonizzarla coerentemente nel sistema. Le innovazioni legislative non cadono mai in uno spazio vuoto di diritto, ma si inseriscono in una struttura preesistente, e si lasciano conformare dalle sue linee portanti. La realtà è che il Tribunale avrebbe potuto e dovuto prendere in considerare proprio quelle stesse norme costituzionali che esso ha richiamato, ma non già per rivolgersi alla Corte, bensì – in un momento logicamente preliminare – per offrire un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’aggravante de qua. Il principio di conservazione dei valori giuridici fonda un vero e proprio dovere dell’autorità giudiziaria di attribuire alla legge, fra quelli possibili, un significato compatibile con la Costituzione, e nella giurisprudenza costituzionale è ormai consolidato il principio che le questioni proposte vanno dichiarate inammissibili se il giudice a quo ha omesso il tentativo di interpretazione adeguatrice delle disposizioni sospettate di incostituzionalità. Tale soluzione, giustificata da Corte cost. n. 356 del 1996 con il rilievo che “in linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali”, è stata successivamente applicata dalla medesima Corte con crescente regolarità (v. ad esempio, di recente, le ordd. nn. 34, 35, 57, 64, 94, 125, 143, 187, 193, 244 e 272 del 2006, e la sent. n. 103 del 2007). Il rilievo meriterebbe di essere considerato anche nella presente controversia: paradossalmente, in tal senso depone proprio la giurisprudenza costituzionale richiamata dal rimettente a supporto della tesi dell’illegittimità costituzionale dell’aggravante in commento. Ed infatti – come si vedrà in dettaglio più avanti – l’ordinanza del giudice a quo ha richiamato varie sentenze in cui la Corte avrebbe esercitato il proprio sindacato su discipline simili a quella recata dall’art. 61 n. 11-bis, c.p.: ora, dal punto di vista sostanziale, i confronti proposti dal Tribunale appaiono spesso pertinenti, epperò essi inducono a conclusioni diverse, tanto è vero che le sentenze richiamate dal Tribunale hanno per lo più dichiarato (non la fondatezza, ma) l’inammissibilità delle questioni sottoposte alla Corte (v. ad esempio quanto si dirà più avanti circa la disciplina della recidiva c.d. “reiterata”). 2. La corretta impostazione della questione richiede una breve premessa di ordine sistematico. L’art. 61, n. 11-bis, c.p., come introdotto dal d.l. 23 maggio 2008 n. 92, convertito con modificazioni dalla L. 24 luglio 2008 n. 125, ha introdotto un’aggravante comune (applicabile alla generalità dei reati, compresi quelli colposi) di natura soggettiva, legata allo status amministrativo di straniero non regolarmente presente sul territorio dello Stato. In generale, è dato notorio, oggetto di diffuso accoglimento, che lo sforzo di tipizzazione della fattispecie penale, grazie alla previsione di elementi accessori del fatto, abbia lo scopo di realizzare l’adeguamento della pena al caso concreto. Se tale è la ragion d’essere dell’istituto delle circostanze, è chiaro che, in fase applicativa, si rende necessario il filtro del giudice, che verifichi, nel caso concreto, la rispondenza del caso della vita al giudizio di disvalore astrattamente tipizzato dal legislatore nel prevedere la particolare circostanza aggravante. Tale operazione non è mai neutra e non può esaurirsi in un riscontro di tipo notarile, ma implica sempre la verifica in concreto da parte del giudice che la circostanza indicata dalla norma abbia effettivamente aggravato la condotta. DOTTRINA 401 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 401 Invero, l’applicazione dell’aggravamento di pena presuppone sempre la valutazione del giudice sul maggiore disvalore espresso dal fatto di reato siccome circostanziato dagli elementi astrattamente tipizzati dalla norma. Schematicamente, può dirsi che la comminazione dell’aggravamento di pena costituisce l’esito di un’operazione scandita in due fasi: in primo luogo, il giudice deve accertare che il caso della vita rientri nella circostanza tipizzata dalla norma; successivamente il giudice stesso deve verificare la possibilità di formulare in concreto il giudizio di disvalore necessario per l’aggravamento della pena. Tale duplice articolazione dell’intervento giudiziario risulta talora scolpita in modo particolarmente evidente alla stregua dello stesso dato testuale: è questo il caso dell’art. 61, n. 9, c.p. (“l’avere commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, ovvero alla qualità di ministro di un culto”), poiché al giudice si richiede espressamente di accertare – oltre alla sussistenza della qualifica soggettiva – anche “l’abuso” e l’intenzionalità dell’agente di usare il potere oltre i limiti legali. Allo stesso modo, nel caso dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 11, c.p. (“l’avere commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione, o di ospitalità”), anch’essa qualificata come aggravante comune soggettiva, è lo stesso tenore letterale ad indicare il versus dell’indagine richiesta al giudice, trattandosi di accertare in concreto non solo la qualità personale dell’agente ma anche l’abuso della stessa e i rapporti tra colpevole e offeso. Per contro, in tutta una serie di casi il legislatore non ha esplicitato la direzione verso cui deve muoversi l’analisi del giudice circa il modo in cui la condizione soggettiva tipizzata abbia – eventualmente – aggravato la condotta. In questi casi, il giudice dovrà attingere alle risorse dell’interpretazione logico-sistematica per individuare i criteri onde condurre l’accertamento richiesto: a tal fine, egli dovrà prendere le mosse dalla particolare ratio dell’aggravante che di volta in volta viene in considerazione, e verificarne la ricorrenza nel caso di specie. Si consideri, a titolo di esempio, il regime della recidiva reiterata, di cui all’art. 99, c. 4 c.p., quale risulta a seguito della riforma apportata dalla l. n. 251 del 2005. La disposizione prevede oggi che “se il recidivo commette un altro delitto non colposo, l’aumento della pena, nel caso di cui al primo comma, è della metà e, nei casi previsti dal secondo comma, è di due terzi”. La lettera della disposizione presenta dunque una decisa somiglianza con l’art. 61, n. 11-bis, c.p.: in ambo i casi, non si offre al giudice alcun criterio per valutare se ed in che misura il fatto indicato dal legislatore esprima un disvalore tale da giustificare l’aggravamento della pena. Solo apparentemente tale dato potrebbe indurre a ritenere che gli aggravamenti di pena previsti, rispettivamente, nell’art. 61, n. 11-bis e nell’art. 99, c. 4, c.p. siano automatici ed obbligatori. In tal senso depongono, del resto, alcune affermazioni del giudice delle leggi, che ha già avuto modo di pronunciarsi a proposito della recidiva reiterata – ma con argomenti, lo si vedrà, facilmente estensibili anche all’aggravante di clandestinità. Corte cost. n. 192 del 2007, nel definire una più complessa questione, avente ad oggetto taluni limiti legislativi al (giudizio di bilanciamento nel) concorso di circostanze eterogenee, ha dichiarato inammissibili i dubbi di legittimità costituzionale prospettati da alcuni giudici – sia pure in relazione ad un’altra disposizione (art. 69, c. 4, c.p.) – poiché i rimettenti, nel sottoporre la particolare questione alla Corte, avevano preso le mosse dal presupposto argomentativo che l’aggravamento di pena previsto dall’art. 99, c. 4, c.p. andasse applicato in ogni caso, senza tener conto delle “peculiarità del caso concreto”. Appare significativo rilevare che la Corte, nell’occasione, ha alluso alla possibilità che l’applicazione dell’aggravante sia “discrezionalmente esclusa dal giudice – quantomeno agli 402 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 402 effetti della commisurazione della pena”. Quanto agli elementi che potrebbero giustificare tale “esclusione”, la Corte ha fatto riferimento a “precedenti penali remoti, non gravi e scarsamente significativi in rapporto alla natura del nuovo delitto”. L’affermazione della Corte, ben al di là del suo specifico oggetto, risulta densa di implicazioni sistematiche, poiché suggerisce di escludere l’illegittimità costituzionale delle aggravanti cc.dd. ‘soggettive’ fin tanto che il fatto menzionato dalla norma sia sintomatico di una maggiore pericolosità sociale del reo anche solo potenziale, e la portata delle norma medesima possa essere circoscritta dal sindacato in concreto del giudice. Ora, poiché la sent. n. 192 del 2007 è stata richiamata dal Tribunale di Pisa-Ferrara nell’ordinanza di rimessione della presente questione alla Corte, a supporto della censura di irragionevolezza dell’aggravante di clandestinità, merita richiamarne ampiamente il passaggio conclusivo. Il giudice delle leggi vi ha rilevato che “l’assenza di indirizzi consolidati sulle tematiche dianzi evidenziate (facoltatività o meno della “nuova” recidiva reiterata; conseguenze della facoltatività sul giudizio di bilanciamento) – assenza del tutto ovvia alla data delle ordinanze di rimessione (in quanto di poco posteriori all’entrata in vigore della novella) – è riscontrabile anche allo stato attuale, essendosi la Corte di cassazione espressa in modo contrastante nelle prime decisioni in materia. Pertanto, la mancata verifica preliminare – da parte dei giudici rimettenti, nell’esercizio dei poteri ermeneutici loro riconosciuti dalla legge – della praticabilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base dei dubbi di costituzionalità ipotizzati, e tale da determinare il possibile superamento di detti dubbi (o da renderli comunque non rilevanti nei casi di specie), comporta – in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, tra le ultime, ordinanze n. 32 del 2007, n. 244, n. 64 e n. 34 del 2006) – l’inammissibilità delle questioni sollevate”. Tale precedente offre indicazioni estremamente utili per la definizione dell’odierna vicenda. Ed infatti, i riportati rilievi sono stati formulati dal giudice delle leggi in relazione ad una situazione normativa in tutto e per tutto simile a quella qui esaminata. Anche nel caso di specie la Corte è chiamata a decidere una questione avente ad oggetto una disciplina di recentissima introduzione, passibile di diverse interpretazioni, sulla quale, per forza di cose, manca un “diritto vivente”; ed anche nel caso di specie appare opportuno consentire che l’esercizio della funzione giurisdizionale approdi a soluzioni interpretative in grado di ‘accogliere’ la novità legislativa e razionalizzarne le implicazioni in armonia con i principi generali del sistema – mentre la più traumatica soluzione costituita dalla declaratoria di illegittimità costituzionale dovrebbe essere presa in considerazione solo in via successiva ed eventuale, per il caso in cui si affermi un “diritto vivente” in contrasto con il parametro costituzionale. Ciò appare maggiormente da ritenere se si segue l’orientamento affermato dal giudice costituzionale nella sent. n. 355 del 2006, secondo cui il dovere del giudice di sperimentare la possibilità di un’interpretazione conforme alla Costituzione (a pena di inammissibilità della questione) “impone di fondarsi non già esclusivamente su una singola – peraltro non univoca – espressione verbale ma sulla trasparente ratio dell’intera disciplina per verificare se quella espressione sia tale da impedire una lettura sistematica, che sia rispettosa dei valori costituzionali”. 3. Le superiori conclusioni sembrano corroborate dall’esame delle vicende che condussero la Corte costituzionale a dichiarare nella sent. n. 58 del 1995 “l’illegittimità dell’art. 86, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui obbliga[va] il giudice a emettere, senza l’accertamento della sussistenza in concreto della pericolosità DOTTRINA 403 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 403 sociale, contestualmente alla condanna, l’ordine di espulsione, eseguibile a pena espiata, nei confronti dello straniero condannato per uno dei reati previsti dagli artt. 73, 74, 79 e 82, commi 2 e 3, del medesimo testo unico”. La disposizione che costituì allora oggetto della richiamata additiva, pur esulando dalla materia delle circostanze del reato, presenta indubbi addentellati con la questione qui esaminata: nella sua formulazione originaria, infatti, l’art. 86, d.p.R. n. 309 del 1990, si limitava a disporre l’espulsione dello straniero condannato per reati in materia di stupefacenti, una volta scontata la pena, senza ulteriori precisazioni. Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, talvolta abbracciato dalla stessa Corte di Cassazione (v. ad esempio sent. 10 luglio 1993, n. 319, Medrano, in Riv. dir. int., 1994, 530 ss.), la formulazione letterale della disposizione non ostava all’applicazione della disciplina generale prevista dall’art. 31, c. 2, l. n. 663 del 1986, alla cui stregua “tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa”. Tale orientamento non riconosceva rilievo decisivo all’omessa previsione, nel cit. art. 86, di una concreta verifica dell’esito della rieducazione: la portata espansiva dei principi generali era ritenuta tale da colmare occasionali silenzi del legislatore. Tuttavia, la giurisprudenza maggioritaria era orientata nel senso che il ridetto art. 86 derogasse alla disciplina generale ed imponesse al giudice l’applicazione automatica dell’ordine di espulsione, senza un concreto giudizio di pericolosità sociale del condannato. La Corte costituzionale ha dedicato attenzione a siffatto contrasto giurisprudenziale, tanto che l’intervento additivo si è reso necessario proprio in ragione della mancata affermazione di un “diritto vivente” conforme a Costituzione: nella sent. n. 58 del 1995 è stato, infatti, notato che “il giudice rimettente contesta la legittimità costituzionale di un “principio di diritto” enunciato dalla Corte di cassazione in una sentenza di annullamento, con rinvio, di una precedente decisione dello stesso Tribunale di Roma, con la quale a un cittadino marocchino, condannato per cessione di sostanza stupefacente, era stata concessa la sospensione condizionale della pena. Ponendosi in una posizione contraria rispetto ad altre decisioni della stessa Corte di cassazione, per le quali l’applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione prevista dall’art. 86, primo comma, del d.P.R. n. 309 del 1990 comporta l’accertamento giudiziale della pericolosità sociale del condannato, la sentenza di annullamento con rinvio enuncia il “principio di diritto” secondo il quale la predetta misura di sicurezza dell’espulsione, eseguibile a pena espiata, dev’essere ordinata con la sentenza di condanna come conseguenza automatica della commissione del reato di cui all’art. 73 dello stesso testo unico, con l’effetto di costituire giuridico ostacolo, per l’art. 164, secondo comma, n. 2, c.p., alla concessione della sospensione condizionale della pena. Così interpretato, il citato art. 86, primo comma, si pone in contrasto con l’art. 3 della Costituzione”. La precisazione della Corte, secondo cui la disposizione oggetto del giudizio si poneva in contrasto con la Costituzione (non già in sé e per sé, ma solo perché) “così interpretat[a]” fa emergere chiaramente come il giudice delle leggi si sia risolto ad intervenire sul testo, per così dire, in via ‘sussidiaria’, solo a fronte della mancata affermazione nella giurisprudenza di legittimità di una diversa interpretazione compatibile con la Costituzione, evidentemente reputata dalla Consulta praticabile e più corretta. La somiglianza della disciplina normativa allora sottoposta al vaglio della Corte con quella che forma oggetto del presente giudizio induce a ritenere che per l’art. 61, n. 11-bis, c.p. debbano valere analoghi rilievi, sino a ritenere che la questione sollevata vada dichiarata inammissibile per non avere il giudice a quo verificato la possibilità di un’interpretazione adeguatrice, tesa ad espandere l’applicazione dei principi generali alla richiamata aggravante. 404 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 404 4. L’ordinamento costituzionale non tollererebbe una presunzione assoluta di pericolosità sociale dello straniero illegittimamente presente nel territorio statale; per contro, nulla osta a che il legislatore prescriva che tale elemento sia preso in considerazione ai fini della valutazione della pericolosità sociale di colui che, nel momento in cui ha delinquito, versava già in una situazione – per così dire – di ‘conflitto’ con l’ordinamento. Da questo punto di vista, occorre notare che l’aggravante di clandestinità non risulta affatto un corpo estraneo rispetto alle logiche del sistema codicistico, ed anzi, per certi versi, sembra dare coerente sviluppo a consolidate tendenze. Si consideri, infatti, che anche in altri casi il legislatore non irragionevolmente assume a sintomo di spiccata pericolosità sociale il fatto che il reo al momento della consumazione dell’illecito penale stesse già sottraendosi al potere coercitivo dello Stato, perciò stesso ponendosi in una condizione di (doppia) illegalità: così, ad esempio, l’art. 61, n. 6, c.p. ha riguardo al caso di chi abbia “commesso il reato durante il tempo, in cui si è sottratto volontariamente alla esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione, spedito per un precedete reato”; e l’art. 7, l. n. 575 del 1965 (come sostituito dall’art. 6, d.l. n. 152 del 1991, conv. in l. n. 203 del 1991, e successivamente modificato dall’art. 7, l. n. 228 del 2003 e dall’art. 14, l. n. 146 del 2006) dispone che “le pene stabilite per i delitti previsti dagli articoli 336, 338, 353, 377, terzo comma, 378, 379, 416, 416-bis , 424, 435, 513-bis , 575, 600, 601 , 602, 605, 610, 611, 612, 628, 629, 630, 632, 633, 634, 635, 636, 637, 638, 640-bis , 648- bis, 648-ter, del codice penale sono aumentate da un terzo alla metà e quelle stabilite per le contravvenzioni di cui agli articoli 695, primo comma, 696, 697, 698, 699 del codice penale sono aumentate nella misura di cui al secondo comma dell’articolo 99 del codice penale se il fatto è commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l’esecuzione”. L’art. 61, n. 11-bis, se adeguatamente interpretato, si inserisce dunque armonicamente nell’impianto del codice ed esprime una disciplina dotata di intima di razionalità, poiché impone al giudice di condurre un’analisi in concreto circa le modalità con cui lo straniero ha perpetrato l’illegittima permanenza nello Stato, in modo da applicare l’aggravamento di pena ogni qual volta la condotta risulti sintomatica di una pericolosa indifferenza ai beni protetti se non addirittura di sprezzo per l’ordinamento. In definitiva, il fatto che il giudice a quo non abbia valutato tale opzione ermeneutica, che appare idonea a frustrare i surriferiti dubbi di legittimità, preclude l’esame nel merito della questione. B) Sulla non manifesta infondatezza Per ciò che attiene alla denunciata mancanza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza che hanno portato all’emanazione tramite decreto legge della disciplina di cui ci si occupa, basterà qui richiamarsi succintamente alla ormai consolidata giurisprudenza di codesta eccellentissima Corte: a partire dalla sentenza n. 29/1995 il sindacato su tali presupposti è sì possibile, ma nella misura del controllo “dell’evidente mancanza” degli stessi. Una verifica, quindi, per linee esterne, che non può giungere sino a sindacare il merito della scelta governativa, cosa espressamente vietata, peraltro, dall’art. 27 della legge n. 87 del 1953. Ebbene, considerando l’attuale situazione del nostro paese è ben evidente come la scelta normativa effettuata rientri pienamente nell’ambito della legittima gamma delle possibilità di apprezzamento discrezionale dell’organo che procede alla normazione: i continui sbarchi di migranti che proprio in questo periodo hanno subito un incremento notevole, il problema del sovraffollamento nei centri di accoglienza, l’aumento – corroborato dalle statisti- DOTTRINA 405 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 405 che dell’ISTAT – dell’immigrazione clandestina, la diffusa percezione di insicurezza dei cittadini, consentono sicuramente di considerare come scelta politica legittima quella di provare a disinnescare il fenomeno anche per il tramite dell’aggravante in questione, pure attraverso la decretazione d’urgenza. Anche da un punto di vista per così dire oggettivo, la disposizione censurata si inserisce in un contesto di azione coerente, che ha visto l’estensione dello stato di emergenza all’intero territorio nazionale attraverso la deliberazione del Consiglio dei Ministri del 25/7/2008 proprio per il persistente ed eccezionale afflusso di cittadini extracomunitari. Dal punto di vista formale, cioè quello degli indici intrinseci ed estrinseci della straordinaria necessità e urgenza dei casi che consentono l’adozione per decreto legge della disposizione impugnata, è possibile con certezza asserire che il provvedimento non presentava alcun vizio, recando nell’epigrafe “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica” e nel preambolo l’inciso “Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre disposizioni volte ad apprestare un quadro normativo più efficiente per contrastare fenomeni di illegalità diffusa collegati all’immigrazione illegale”, dimostrando così una coerenza che rende assolutamente legittima costituzionalmente la scelta di intervenire sulla materia tramite decretazione d’urgenza. Per ciò che attiene invece alla violazione dell’art. 3 della Costituzione sotto il profilo della ragionevolezza, il rimettente denuncia il fatto che la disposizione censurata farebbe conseguire “da una mera condizione soggettiva l’automatica applicazione di effetti penalmente rilevanti, a prescindere dall’apprezzamento giurisdizionale circa la concreta pericolosità sociale del soggetto” (pag. 7 dell’ordinanza). Ebbene, posto quanto argomentato in relazione alla manifesta inammissibilità della questione, che qui si richiama integralmente, l’interpretazione conforme a Costituzione suggerita consente di considerare costituzionalmente non illegittima l’aggravante sancita dall’art. 61, n. 11-bis c.p. Inoltre, anche qualora si considerasse che la disposizione impugnata non sia suscettibile di altre interpretazioni costituzionalmente orientate, essa non sarebbe comunque incostituzionale dal momento che quanto argomentato a proposito dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza consentirebbe comunque di pervenire al rigetto della questione: il sindacato di ragionevolezza è comunque un sindacato di legittimità, che si deve arrestare laddove la scelta appaia comunque riconducibile alla discrezionalità del Legislatore (nel caso di specie del Governo esercitante la sua potestà normativa d’urgenza, nonché del Legislatore “di conversione”) nel valutare la diversità di situazioni, anche personali, che legittimano la diversità di trattamento. Sembrerebbe questo uno dei casi paradigmatici in cui un sindacato di legittimità verrebbe a trasformarsi in uno di merito: la valutazione e dei requisiti che hanno richiesto l’intervento e della forma stessa dell’intervento è in realtà una valutazione che deve essere lasciata agli organi titolari dell’indirizzo politico, potendo essere sindacata solo in caso di manifesta irragionevolezza. Gli indici formali e sostanziali richiamati in precedenza, in particolare l’entità del fenomeno migratorio e la percezione di insicurezza che da tale fenomeno il cittadino trae, consentono di considerare quella di cui si dibatte una political question, risolvibile in una pluralità di modi diversi purché tali modi non urtino con assoluta evidenza contro i “paletti” costituzionali. L’apprezzamento discrezionale operato, in ragione della diversità di situazione che caratterizza il soggetto presente illegalmente sul territorio, può essere dunque considerato, alla luce della situazione che legittima l’intervento per il tramite della decretazione d’urgenza, costituzionalmente non illegittimo. Sono da considerarsi manifestamente infondate anche le censure che si basano sugli art. 25, comma 2, e 27, commi 1 e 3, Cost.: ciò si dimostra, in primo luogo, accedendo all’inter- 406 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 406 pretazione proposta in sede di contestazione dell’inammissibilità della questione che qui si richiama integralmente; in secondo luogo, anche qualora tale interpretazione non fosse consentita dalla lettera della disposizione, la stessa non sarebbe incostituzionale, essendo libero il Legislatore di apprezzare come maggiormente pericoloso e maggiormente meritevole di sanzione penale un soggetto che non rispetta le regole inerenti la permanenza sul territorio nazionale, cosa che potrebbe ragionevolmente essere utilizzata come indice per dimostrare l’ostilità dello stesso verso le regole dell’ordinamento giuridico italiano. Passando all’esame degli altri motivi di incostituzionalità segnalati, non pertinente appare il richiamo come parametro dell’art. 13 Cost., dal momento che la libertà personale viene limitata non già per la presenza illegale sul territorio, ma a causa della commissione di un reato, così come avviene per tutti gli altri soggetti presenti sul territorio nazionale. Non si vede quindi che cosa il succinto richiamo, peraltro quasi immotivato, del parametro indicato vorrebbe dimostrare. Anche da questo punto di vista la questione appare dunque manifestamente infondata. Nessun pregio può poi essere attribuito al richiamo come parametro del giudizio degli artt. 10, comma 2, e 117 comma 1, Cost.: a parere del rimettente, infatti, la disparità di trattamento introdotta con tale “aggravante d’autore”, proprio perché priva di qualsiasi collegamento con il fatto di reato e non ancorata ad un concreto giudizio di pericolosità, si risolverebbe in una irragionevole discriminazione tra persone in base alla loro origine nazionale e condizione personale, in violazione di molteplici disposizioni e trattati internazionali (v. pag. 13 dell’ordinanza di rimessione). Ebbene, queste censure si dimostrano assolutamente prive di fondamento giacché, come si è ampiamente dimostrato in sede di contestazione della manifesta inammissibilità della questione, richiamando qui integralmente quanto già dedotto, il legislatore non ha introdotto alcuna aggravante d’autore. Per tacere del fatto che la giurisprudenza costituzionale inaugurata dalle sentenze 348 e 349 del 2007 non autorizza a considerare automatica l’estensione ad ogni trattato della “dignità” di norma interposta: sul punto l’ordinanza di rimessione tace del tutto, non spiegando perché i trattati richiamati vadano a integrare il “blocco di costituzionalità” (tale assenza potrebbe fors’anche essere apprezzata come vizio della motivazione). Appare infine del tutto non pertinente il richiamo all’art. 35 della Costituzione, disposizione che è chiaramente volta a disciplinare la libertà di emigrazione dei cittadini italiani verso gli altri Stati, emigrazione possibile “salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse generale”, non già un generico (e inimmaginabile) diritto all’emigrazione di ciascun individuo verso lo Stato italiano che, a voler essere rigorosi, dovrebbe allora poter essere azionato dal migrante anche nei confronti dello Stato di origine che non gli permettesse l’emigrazione, con ciò dimostrandosi l’assurdità dell’asserzione contenuta nell’ordinanza di rimessione. Per questi motivi Voglia codesta ecc.ma Corte dichiarare manifestamente inammissibile, ovvero, in subordine, dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata dall’ord. n. 567 del 2008 del Tribunale di Pisa-Ferrara. Catania-Pisa-Roma, 11 ottobre 2008. Avv. Marco Croce, Avv. Donato Messineo, Avv. Valentina Petri Mi rappresentino e difendano, anche disgiuntamente, davanti alla Corte Costituzionale, nel procedimento di legittimità costituzionale sollevato dall’ordinanza n. 567 del 2008 del Tribunale di Pisa-Ferrara, con ogni più ampia facoltà di legge, gli avv. Marco Croce, Donato DOTTRINA 407 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 407 Messineo, Valentina Petri, presso il cui studio sito in Via degli Orfanelli n. 3, 00100 Roma, eleggo domicilio. Addolorata Rossi in Sfortunati – Elena Sfortunati – Francesco Sfortunati Vere ed autentiche le superiori firme – Avv. Donato Messineo». (All.5) Corte costituzionale, sentenza 1 dicembre 2008 n. 411 – Pres. Giulia Vaccari – Giudici: Elena Innocenti, Alberto Evangelisti, Matteo Motroni, Sara Lorenzon, Alessandro Giaconia, Daniele Chinni, Pietro Faraguna, Elisabetta Lanza, Peter Lewis Geti, Elisabetta Di Stefano – nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 61, co. 1, n.11-bis c.p., come introdotto dall’art. 1, co. 1, lett. f), del D.L. 23 maggio 2008 n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla L. 24 luglio 2008 n. 125, promosso dal Tribunale di Pisa-Ferrara, sezione prima penale, con ordinanza del 20 settembre 2008, iscritta al n. 209 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 2008. «Visti gli atti di costituzione di M.V., di A.R. ed altri nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri; udito nell’udienza pubblica del 4 novembre 2008 il Giudice relatore Peter Lewis Geti, sostituito per la redazione della sentenza dal Giudice Daniele Chinni; uditi gli avvocati Viviana Zanetti e Alberto Randazzo per M.V., Valentina Petri per A.R. ed altri e l’avvocato dello Stato Emanuela Brugiotti per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto (omissis) Considerato in diritto 1. - Il Tribunale di Pisa-Ferrara, sezione prima penale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, co. 1, n. 11-bis c.p., come introdotto dall’art. 1, co. 1, lett. f), del D.L. 23 maggio 2008 n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla L. 24 luglio 2008 n. 125, per violazione degli artt. 3, 10 co. 2, 13, 25 co. 2, 27 co. 1 e 3, 35 co. 4, 77 e 117 co. 1 della Costituzione. 2.- In via preliminare occorre affrontare la censura mossa dal giudice rimettente in relazione all’art. 77 Cost., essendo vizio relativo alla fonte utilizzata. La questione non è fondata. La giurisprudenza di questa Corte (ex aliis, sentenze n. 128 del 2008, n. 171 del 2007 e n. 29 del 1995) ha più volte affermato che il sindacato sull’esistenza dei presupposti della necessità e dell’urgenza, che legittimano il Governo ad emanare decreti-legge 11 – e il Parlamento a convertirli – può essere esercitato solo in caso di evidente mancanza dei presupposti stessi. Nella specie, alla stregua di indici intrinseci ed estrinseci alla disposizione impugnata deve ritenersi non sussistente il denunciato vizio. La norma censurata non si connota, infatti, per l’evidente estraneità rispetto alle ragioni di necessità ed urgenza di cui all’intestazione del decreto («Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica»), al preambolo dello stesso («Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre disposizioni volte ad apprestare un quadro normativo più efficiente per contrastare fenomeni di illegalità diffusa collegati all’immigrazione illegale e alla criminalità organizzata») nonché alla relazione d’accompagnamento della legge di conversione, in specie laddove il Governo afferma che «il fine specifico» del provvedimento è quello «di 408 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 408 affrontare in via di urgenza taluni problemi di ordine e sicurezza pubblica, beni primari purtroppo pregiudicati da taluni gravissimi fenomeni in continua espansione», tra cui «la spinta criminogena di una immigrazione irregolare senza controlli adeguati in ordine alla sussistenza dei requisiti per ottenere un soggiorno legale nel territorio dello Stato» e che lo strumento del decreto-legge «viene utilizzato a cagione della straordinaria necessità e urgenza di arginare le difficoltà più significative, in attesa di una più compiuta rivisitazione della normativa regolante i fenomeni sopra brevemente riportati, da funzionalizzare con disegni di legge di iniziativa governativa di prossima presentazione». Nella consapevolezza che l’esercizio del sindacato di questa Corte «non sostituisce e non si sovrappone a quello iniziale del Governo e a quello successivo del Parlamento in sede di conversione – in cui le valutazioni politiche potrebbero essere prevalenti – ma deve svolgersi su un piano diverso» (sentenza n. 171 del 2007), deve osservarsi che la non evidente mancanza dei presupposti è suffragata anche dagli indici estrinseci, avendo fatto riferimento la difesa erariale, nella memoria conclusiva, all’eccezionalità del flusso migratorio e ai dati del Ministero dell’Interno sulla connessione fra immigrazione illegale ed aumento dei fenomeni criminosi, i quali, se non valgono per ciò solo a rendere costituzionalmente legittima la norma adottata dal Governo, possono però essere ritenuti sufficienti per l’adozione di provvedimenti ex art. 77 Cost. 3.– La questione è ammissibile, nonostante le eccezioni proposte dall’Avvocatura dello Stato e dalla parte civile in relazione al supposto mancato esperimento del tentativo di interpretazione conforme da parte del giudice a quo. 3.1.– Pur in mancanza di una esplicita indicazione dell’esperimento di detto tentativo, a voler leggere correttamente l’ordinanza di promovimento non si può che osservare come il Tribunale rimettente abbia in verità tentato di dare alla disposizione impugnata una lettura costituzionalmente orientata. In tal senso devono leggersi le riflessioni compiute dal giudice a quo laddove tenta infruttuosamente di estendere in via analogica 12 alla circostanza di cui all’art. 61, co. 1, n. 11-bis c.p. le indicazioni interpretative fornite dalla giurisprudenza costituzionale in materia di recidiva reiterata, per poi procedere ad un tentativo di interpretazione che permetta di distinguere le diverse ipotesi, previste dalla normativa, di illegittima presenza sul territorio da parte di cittadini stranieri. In merito il giudice a quo rileva come «quand’anche lo status di irregolare sul territorio nazionale sia apprezzato come dimostrativo di una maggiore intensità della “ribellione” all’ordinamento da parte del soggetto, esso, per non dare luogo ad aumenti di pena irragionevoli, irrazionali, e sproporzionati, andrebbe almeno diversamente valutato a seconda che discenda (seguendo la tipizzazione di cui all’art. 13, comma secondo, del D.lgs. 286/1998, “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”) da: a) ingresso nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera; b) soggiorno nel territorio dello Stato senza aver richiesto il relativo permesso nei termini prescritti; c) mancato rinnovo del permesso di soggiorno, ovvero riguardi un cittadino comunitario le cui condizioni di ingresso e soggiorno sono regolate dal D.Lgs. 6 febbraio 2007, n. 30, “Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri”». Il Tribunale di Pisa-Ferrara ha ritenuto, pertanto, che a voler ammettere che lo status di irregolare sul territorio nazionale possa essere legittimamente assunto dal legislatore come elemento dimostrativo di una maggiore pericolosità sociale ciò dovrebbe accadere, per non violare il principio d’eguaglianza, tenendo distinte le varie ipotesi dalle quali detto status DOTTRINA 409 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 409 discende. È di tutta evidenza che tale condizioni non potessero essere ricavate dalla disposizione denunciata utilizzando i consueti canoni interpretativi e, pertanto, era scelta obbligata per il giudice rimettente, in presenza di un dubbio di costituzionalità, sollevare la questione dinanzi a questa Corte. 4.– Proprio i tentativi esperiti confermano come in questo caso sia la stessa lettera della disposizione ad opporsi «ad un’esegesi di tale disposizione condotta secondo i canoni dell’interpretazione costituzionalmente conforme: tale circostanza segna il confine, in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale » (sentenza n. 219 del 2008). Non sono condivisibili, infatti, le supposte interpretazioni costituzionalmente orientate prospettate dall’Avvocatura dello Stato e dalla parte civile, perché prive di fondamento giuridico. 4.1.– Non è, innanzitutto, estensibile in via analogica alla disposizione oggetto del presente giudizio quanto questa Corte ha avuto modo di sostenere nella sentenza n. 192 del 2007. In quella occasione questa Corte aveva potuto escludere l’automatismo applicativo della recidiva reiterata, cui prima facie condurrebbe l’avvenuta utilizzazione nell’art. 99, co. 4, c.p., «con riferimento al previsto aumento di pena, del verbo essere all’indicativo presente («è») – in luogo della voce verbale «può», che compariva nel testo precedente [alla modifica legislativa apportata dall’art. 4 della l. n. 251 del 2005], e che figura tuttora nei primi due commi dello stesso art. 99 c.p., con riferimento alla recidiva semplice e alla recidiva aggravata» facendo leva sul fatto che la nuova formulazione normativa può essere letta «anche nel diverso senso che l’indicativo presente «è» si riferisca, nella sua imperatività, esclusivamente alla misura dell’aumento di pena conseguente alla recidiva pluriaggravata e reiterata – aumento che, a differenza che per l’ipotesi della recidiva aggravata, di cui al secondo comma dell’art. 99 cod. pen., il legislatore del 2005 ha voluto rendere fisso, anziché variabile tra un minimo e un massimo – lasciando viceversa inalterato il potere discrezionale del giudice di applicare o meno l’aumento stesso». La discrezionalità, per il giudice, nell’applicare o meno l’aumento di pena nel caso della recidiva reiterata, pertanto, si è potuta riconoscere riconducendo tale istituto alla figura generale della recidiva prevista dall’art. 99, co. 1, c.p., il che implica, di conseguenza, che «la struttura della recidiva resti quella – indubbiamente facoltativa – ivi contemplata». Diversamente, l’art. 61 c.p., nel disciplinare le circostanze aggravanti comuni, tra le quali è stata ora inserita quella di cui alla disposizione oggetto del presente giudizio, non lascia al giudice alcuna possibilità di operare valutazioni discrezionali sul “se” applicare l’aggravante, essendo questi libero solamente nello stabilire la misura dell’aumento di pena. Pertanto, il giudice rimettente ha correttamente ritenuto che, una volta accertata la presenza illegale dello straniero sul territorio nazionale al tempo della commissione del fatto, l’aggravante prevista dall’art. 61, co. 1, n. 11-bis c.p. doveva obbligatoriamente essere contestata e, se del caso, applicata. Quanto ora detto vale, peraltro, anche a superare l’eccezione d’inammissibilità della questione per carente motivazione in punto di rilevanza mossa dalla parte civile. 4.2.– Analogamente, la disposizione denunciata non è suscettibile di essere interpretata secondo quanto proposto dall’Avvocatura dello Stato, secondo la quale la condizione di illegalità sul territorio nazionale di cui all’art. 61, co. 1, n. 11-bis c.p. «è subordinata al fatto di essere già stati colpiti, al momento della commissione del reato aggravato dalla circostanza in esame, da un provvedimento di espulsione ministeriale, prefettizia o giudiziaria, da un foglio di via obbligatorio, da un ordine di allontanamento o da un altro provvedimento amministrativo o giudiziario previsto dalla legge che imponga il loro allontanamento dal territorio nazionale». 410 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 410 Ai sensi degli artt. 235 e 312 c.p. e degli artt. 13, co. 13 e 13-bis, e 14, co. 5-ter e 5- quater, del T.U. in materia di disciplina dell’immigrazione, lo straniero che viola un provvedimento d’allontanamento dal territorio nazionale commette un illecito penale. Di conseguenza, la condotta che secondo l’interpretazione prospettata dall’Avvocatura integrerebbe la condizione d’illegalità prevista dalla disposizione oggetto del presente giudizio integrerebbe altresì, a seconda di quale tipo di provvedimento d’allontanamento sia stato violato, le diverse fattispecie di reato cui si è fatto riferimento. Poiché, però, ai sensi dell’art. 61, co. 1, c.p. le circostanze aggravanti comuni possono aggravare il reato solo quando non ne siano elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali, se si seguisse l’interpretazione proposta dalla difesa erariale l’art. 61, co. 1, n. 11-bis non potrebbe mai essere applicato, dovendosi se del caso contestare uno dei suddetti reati. Si deve allora osservare che, poiché nell’interpretazione di una disposizione è necessario attribuirvi un significato che, prima ancora che costituzionalmente conforme, sia coerente con l’ordinamento – ciò che certo non sarebbe seguendo la lettura della difesa erariale, giacché sarebbe presente nell’ordinamento una norma insuscettibile di qualsivoglia applicazione - non può che affermarsi che la disposizione oggetto del presente giudizio non può essere interpretata secondo quanto proposto dall’Avvocatura. 5.– È allora evidente che la disposizione denunciata deve interpretarsi nel senso di cui all’ordinanza di promovimento, e cioè nel senso che l’aggravante vada riferita indistintamente a tutti gli stranieri che siano clandestini al momento della commissione del fatto criminoso. È questa pertanto la norma sulla quale questa Corte è chiamata a pronunciarsi. 6.– Così definita, la questione è fondata. 6.1.– L’aggravante di cui alla disposizione oggetto del presente giudizio ha i caratteri di aggravante comune, in quanto applicabile a qualsiasi reato, sia esso doloso o colposo, e , ai sensi dell’art. 70 c.p., soggettiva, in quanto contestabile a chi al momento del fatto era presente sul territorio nazionale pur in mancanza di un titolo abilitativo all’ingresso o al soggiorno. Le circostanze incidono sulla gravità del reato o rilevano come indici della capacità a delinquere del soggetto, comportando una modificazione, quantitativa o qualitativa, della pena. Esse si inquadrano nella struttura della norma giuridica penale, integrandosi con gli elementi costitutivi del reato e così determinando la configurazione della fattispecie del reato circostanziato, normativamente autonoma: in questo modo le circostanze consentono una migliore tipizzazione della fattispecie penale e parimenti una migliore indicazione legale del disvalore del fatto, con conseguente ampliamento della cornice di pena edittale entro cui il giudice può muoversi nella commisurazione giudiziale della stessa. 6.2.– Questa Corte ha già precisato che «l’art. 25 Cost., quale risulta dalla lettura sistematica a cui fanno da sfondo […] l’insieme dei valori connessi alla dignità umana, postula un ininterrotto operare del principio di offensività dal momento della astratta predisposizione normativa a quello della applicazione concreta da parte del giudice […]» (sentenza n. 263 del 2000) di modo che, appunto, «il principio di offensività opera su due piani, rispettivamente della previsione normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo di un bene o interesse oggetto della tutela penale (“offensività in astratto”) e dell’applicazione giurisprudenziale (“offensività in concreto”) quale criterio interpretativoapplicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato» (sentenza n. 265 del 2005). Ne consegue che, da un lato, la fattispecie di reato deve essere espressiva, già nell’astratta previsione legale, dell’offesa a un bene giuridico penalmente tutelato e che, dall’al- DOTTRINA 411 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 411 tro, un aggravamento della pena può essere giustificato solamente da una maggiore offesa al bene giuridico stesso. Al riguardo la Corte, sin dalla sentenza n. 26 del 1979, ha con giurisprudenza costante affermato che «la configurazione delle fattispecie criminose e le valutazioni sulla congruenza fra i reati e le pene appartengono alla politica legislativa; salvo però il sindacato giurisdizionale sugli arbitrii del legislatore, cioè sulle sperequazioni che assumano una tale gravità da risultare radicalmente ingiustificate» (v. anche, tra le decisioni più recenti, sentenze n. 313 del 1995, n. 217 del 1996 e n. 287 del 2001, nonché ordinanze nn. 110 e 323 del 2002, n. 172 del 2003 e n. 158 del 2004). 6.3.– Questo é appunto il caso della norma impugnata che, nello stabilire una circostanza aggravante comune, di tipo soggettivo, irragionevolmente reputa di maggior gravità l’offesa arrecata ad un bene giuridico qualora il fatto sia commesso da un soggetto che si trovi illegalmente sul territorio nazionale. 6.3.1.– Il codice penale, come detto, prevede più d’una circostanza di tipo soggettivo. Tuttavia, il legislatore legittimamente assume queste circostanze come elementi che aggravano l’offensività del reato o perché si pongono in un nesso di strumentalità rispetto alla commissione dello stesso, come nel caso delle circostanze di cui all’art. 61, nn. 9 e 11, c.p., o perché considerate espressione di una maggiore pericolosità sociale del reo, come nel caso dell’istituto della recidiva ex art. 99 c.p. È di tutta evidenza che la disposizione oggetto del presente giudizio è affatto assimilabile alle circostanze soggettive del primo tipo, poiché il mero fatto di trovarsi illegalmente sul territorio nazionale non ha alcuna connessione contenutistica o teleologica con la condotta punita, di talché non può certo sostenersi che sia in grado di aumentare il disvalore penale del fatto, in rispetto del principio di offensività. Una qualche analogia è riscontrabile con l’istituto della recidiva, poiché in tal caso la situazione soggettiva dell’autore del reato è presa in considerazione in quanto tale, a prescindere da qualsivoglia nesso funzionale o contenutistico con la condotta che si intende punire. Ma al riguardo, oltre a quanto si è già detto circa la facoltatività, per il giudice, di comminare l’aumento di pena in caso di recidiva – discrezionalità che invece non viene riconosciuta, come nel caso in esame, quando si tratti di circostanze aggravanti comuni – deve osservarsi che l’art. 99 c.p. fonda la valutazione di pericolosità sul riferimento al compimento di atti che abbiano concretamente leso o messo in pericolo beni protetti dall’ordinamento penale e di cui sia stata accertata giudizialmente la relativa responsabilità. La disposizione oggetto del presente giudizio, invece, comporta obbligatoriamente l’aumento di pena in ragione della commissione di un mero illecito amministrativo, anche non formalmente accertato o contestato. È sotto quest’ultimo aspetto che si profila il vizio di illegittimità costituzionale per mancanza di ragionevolezza poiché assumendo a sintomo di pericolosità sociale la presenza irregolare sul territorio nazionale – «grave problema sociale, umanitario ed economico che implica valutazioni di politica legislativa non riconducibili a mere esigenze generali di ordine e sicurezza pubblica né sovrapponibili o assimilabili a problematiche diverse, legate alla pericolosità di alcuni soggetti e di alcuni comportamenti che nulla hanno a che fare con il fenomeno dell’immigrazione» lo ha definito questa Corte nella recente sentenza n. 22 del 2007 – si stabilisce una norma assolutamente eccentrica rispetto alla logica del sistema delle circostanze, che impone al giudice un aumento di pena in presenza di un fatto assolutamente privo di una maggiore carica offensiva. 6.3.2.– Deve osservarsi, inoltre, che insieme alla violazione del combinato disposto degli artt. 25, co. 2, e 3 Cost., la disposizione oggetto del presente giudizio, proprio in ragione di quanto si è sinora detto, si pone in contrasto innanzitutto con il principio d’eguaglian- 412 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 412 za – poiché fatti aventi lo stesso disvalore penale sono puniti irragionevolmente in maniera diversa – e, poi, con la funzione rieducativa della pena. La giurisprudenza di questa Corte, infatti, ha già avuto modo di evidenziare come il legislatore possa, nel determinare la quantità della pena, tener conto delle finalità di prevenzione generale e di difesa sociale della stessa anche, se del caso, facendo prevalere l’una piuttosto che l’altra, purché, però, «nessuna ne risulti obliterata» (sentenza n. 78 del 2007). È ciò che, invece, accade con la previsione dell’aggravante in esame, poiché la funzione rieducativa della pena «viene pregiudicata da una palese eccedenza del sacrificio della libertà personale in proporzione all’offesa recata dalla condotta punibile» (sentenza n. 22 del 2007; v. anche sentenze n. 343 del 1993 e n. 313 del 1990). 7.– Per tutte queste ragioni, la questione è fondata in riferimento agli artt. 3, 25, co. 2, Cost., e 27, co. 3, Cost. Restano assorbiti gli altri profili di illegittimità costituzionale prospettati nell’ordinanza introduttiva del presente giudizio. 8.– In via consequenziale ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la dichiarazione di illegittimità costituzionale deve estendersi anche all’art. 656, co. 9, lett. a), c.p.p., come modificato dall’art. 2, lett. m), della legge 24 luglio 2008, n. 125, limitatamente alle parole «e per i delitti in cui ricorre l’aggravante di cui all’articolo 61, primo comma, 11- bis), del medesimo codice» perché, una volta caducata la disposizione oggetto del presente giudizio, questa non ha alcuna autonomia applicativa (cfr. sentenza n. 24 del 2004). Per questi motivi la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 61, co. 1, n. 11-bis c.p., come introdotto dall’art. 1, co. 1, lett. f) del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125. Dichiara ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale consequenziale dell’art. 656, co. 9, lett. a), c.p.p., come modificato dall’art. 2, lett. m), della legge 24 luglio 2008, n. 125, limitatamente alle parole «e per i delitti in cui ricorre l’aggravante di cui all’articolo 61, primo comma, 11-bis), del medesimo codice». dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, co. 1, n. 11- bis c.p., come introdotto dall’art. 1, co. 1, lett. f) del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, in riferimento all’art. 77 Cost. Così deciso in Pisa-Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Sapienza- Consulta, il 4 novembre 2008. F.to:Giulia Vaccari, Presidente; Daniele Chinni, Redattore; Paola Di Giuseppe, Cancelliere. Depositata in cancelleria il 1° dicembre 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: Di Giuseppe». DOTTRINA 413 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 413 06 dott 01 brugiotti.qxp 07/04/2009 16.39 Pagina 414 1. ARTICOLI, NOTE, DOTTRINA, RECENSIONI ROBERTO ANTILLO, Considerazioni critiche e spunti di riflessione sul sistema delle notifiche a mezzo posta (art. 7 della legge 20 novembre 1982 n. 890, come modificato dall’art.36, co.2-quater e 2-quinques della legge 28 febbraio 2008 n.31) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. III,275 DIEGO AROCCHI, Applicabilità della normativa della regione Friuli Venezia Giulia in materia di lavori pubblici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,159 GIUSEPPE ARPAIA, Clausola compromissoria nulla per contrasto con norme imperative ed inserzione automatica di clausole . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,281 MASSIMO BACHETTI, ALESSANDRABRUNI, TULLIOMATTEO RUBERA, Le forze multinazionali all’estero e l’ immunità penale dei militari: il caso “Calipari”. . . . » III,184 MAILA BEVILACQUA, La responsabilità ambientale da cosa in custodia . . . . . . . » I,347 ROBERTO BIN, La leale collaborazione nel nuovo Titolo V della Costituzione (intervento al Convegno “Gli strumenti di politica economica nel nuovo Titolo V della Costituzione”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,34 MAURIZIO BORGO, Il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato è compatibile con le regole comunitarie sugli appalti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,5 BENEDETTO BRANCOLI BUSDRAGHI, Diritto comunitario e lavoratori distaccati: dopo Ruffert, l’accento è sui servizi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,178 EMANUELA BRUGIOTTI, Il processo simulato. Esperimenti di giustizia costituzionale: l’aggravante della clandestinità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,365 VALERIA CAMILLI , La natura giuridica degli enti fiera . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . » III,214 VALERIA CAMILLI, RITA TUCCIO, dossier: Ingresso - soggiorno dello straniero e tutela dell’ordine pubblico: il problema dell’effetto delle precedenti condanne penali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,133 I N D I C I S I S T E M A T I C I A N N U A L I 06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 415 FLORIANA CERNIGLIA, Le vicende e le prospettive del federalismo fiscale in Italia (relazione per il Convegno “Gli strumenti di politica economica nel nuovo Titolo V della Costituzione”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,64 MARIA ANTONIA CHIECO, Violazione alla concorrenza - Imputazione responsabilità in caso di successione di imprese: il caso tabacchi italiani. . . . . . . . » I,114 CINZIA F. CODUTI, La centralità del rischio nella concessione di servizio pubblico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,298 ROBERTO COLLACCHI, Annotazione dei dati nel casellario imprese: disapplicazione della delibera di esclusione dalla gara di appalto.. . . . . . . . . . . . . . » I,289 SARA D’AMARIO, Appalti pubblici: tutela delle informazioni riservate e diritto ad un equo processo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,203 LORENZO D’ASCIA, Il particolare meccanismo di decisione preventiva delle questioni di massima nella giustizia contabile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,261 FEDERICO DINELLI, Ancora “organi dello Stato con personalità giuridica”?. . . » I,188 AURELIANA DI MATTEO, Sull’affidamento diretto di servizi di trasporto sanitario, ad associazioni di volontariato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,162 PIERLUIGI DI PALMA, L’illegittimità costituzionale della Legge regionale della Lombardia n. 29/07 sul trasporto aereo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,234 CHIARA DI SERI, Sul principio di non discriminazione uomo-donna in materia di benefici fiscali di incentivo all’esodo dei lavoratori . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,60 FABRIZIO FEDELI, La sussidiarietà nell’articolo 118 della Costituzione (intervento al Convegno “Gli strumenti di politica economica nel nuovo Titolo V della Costituzione”). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,41 WALLY FERRANTE, Condanna dell’Italia per la differente età pensionabile tra uomini e donne pubblici dipendenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,50 WALLY FERRANTE, Sufficienza del voto alfanumerico negli esami di abilitazione: un’unica via interpretativa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,248 GIUSEPPE FIENGO, Limiti alla capacità giuridica per le imprese pubbliche che gestiscono servizi pubblici locali. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,167 MAURIZIO FIORILLI, Sentenze rese dalla Corte di giustizia nell’anno 2007, cause che hanno interessato l’Italia. Breve sintesi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,15 OSCAR FIUMARA, Discorso dell’Avvocato Generale dello Stato in occasione della Cerimonia di inaugurazione dell’ anno giudiziario. Corte Suprema di Cassazione, 25 gennaio 2008. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,1 416 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 416 OSCAR FIUMARA, Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2009. Corte di Cassazione, 30 gennaio 2009. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. IV,1 OSCAR FIUMARA, Saluto dell’Avvocato Generale dello Stato al Presidente uscente della Corte costituzionale Franco Bile e al nuovo giudice Giuseppe Frigo. Corte costituzionale, udienza del 4 novembre 2008 . . . . . . » III,1 OSCAR FIUMARA, Saluto dell’Avvocato Generale dello Stato al nuovo Presidente della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick e al nuovo giudice Alessandro Criscuolo. Corte costituzionale, udienza del 18 novembre 2008 . . . » III,4 OSCAR FIUMARA, PAOLO GENTILI, Aspetti giuridici del multilinguismo - Intervento dell’Avvocato Generale al convegno “Per il multilinguismo nell’Unione europea – La parità delle lingue nell’Unione europea”, tenutosi nella sede della Accademia della Crusca. Firenze, 10 maggio 2008. . . . » I,11 RICCARDO GAI, Alcune riflessioni sulla tutela giurisdizionale nei confronti delle Autorità amministrative indipendenti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,364 FLAMINIA GIOVAGNOLI, Applicazione del principio “Chi inquina paga”. L’onere finanziario dello smaltimento dei rifiuti causati dal naufragio di una petroliera. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,96 DAVIDE GIOVANNELLI, Lex est araneae tela: l’esercizio della giurisdizione U.S.A. e l’accertamento delle violazioni dello ius in bello. . . . . . . . . . . . . . . » I,262 CAROLINA LAYEK, Appalti pubblici: legittimazione ad agire singulatim da parte di imprese membri di una associazione temporanea . . . . . . . . . . . . . . » III,86 CAROLINA LAYEK, Il diritto di accesso ai documenti delle Istituzioni europee . . » IV, 68 DIMITRIS LIAKOPOULOS, GIUSEPPE MANCINI, La direttiva n. 2005/56/CE e la nuova disciplina comunitaria delle fusioni transfrontaliere di società di capitali. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,7 DIMITRIS LIAKOPOULOS, MAURO ROMANI, La pubblicità ingannevole nel diritto internazione e comunitario. Aspetti giuridici ed evoluzione della disciplina. . . » IV, 9 GREGORIO MATTERA, Intermediazione finanziaria e violazione degli obblighi di informazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,378 ALFONSO MEZZOTERO, Le informative prefettizie antimafia: natura, tipologie ed effetti interdittivi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,277 ALFONSO MEZZOTERO, GIUSEPPE ZUCCARO, La notificazione delle sentenze di primo grado all’amministrazione statale costituita personalmente ex art. 417 bis c.p.c.: la Cassazione non persuade. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,208 INDICI SISTEMATICI 417 06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 417 GIULIAMICIO, Valutazione di impatto ambientale di progetti pubblici e privati. . pag. IV,90 ANDREA MORRONE, Gli strumenti di politica economica nel nuovo Titolo V della Costituzione (intervento al Convegno “Gli strumenti di politica economica nel nuovo Titolo V della Costituzione”). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,9 ADOLFO MUTARELLI, MICHELE GERARDO, dossier: Operatività della prescrizione in tema di ricorso per il ristoro della irragionevole durata del processo (cd. Legge Pinto) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,175 ALESSANDRO NASTRI, Inderogabilità del foro erariale (anche a fronte di una eccezione incompleta). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,181 ALESSANDRO NASTRI, Obbligo di motivazione sulla valutazione delle prove di concorso: il punteggio alfanumerico non basta. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,226 ALESSANDRO NASTRI, Recensione ad: Alessandro D’Adda, Nullità parziale e tecniche di adattamento del contratto, Cedam, Padova 2008. . . . . . . . . . . . . » IV,361 GLAUCO NORI, Parzialità della contestazione nella condanna dell’Italia sul condono IVA. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,151 GLAUCO NORI, Presentazione al Convegno “Gli strumenti di politica economica nel nuovo Titolo V della Costituzione”. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,1 GIOVANNI PALATIELLO, Il concetto di atto politico non “giustiziabile” . . . . . . . . » IV, 324 SARA PALERMO, Qualità dell’aria: diritto di un terzo vittima di danni alla salute alla predisposizione di un piano d’azione. . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . » IV,117 MARIAELENA PANACCI, Gli studi di settore dalla Finanziaria del 2007 a quella del 2008: quali novità?. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,287 FLAVIA PIQUÈ, I reati ambientali: le problematiche emerse di recente in materia di sequestro. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,244 MAURO PRINZIVALLI, EMANUELA PAZZANO, L’accertamento del nesso causale e la conseguente responsabilità del Ministero passa attraverso un giudizio controfattuale: “L’azione ipotizzata ed omessa avrebbe impedito l’evento?” La Corte d’appello di Torino sottopone a critica i recenti indirizzi giurisprudenziali maturati in seno alle S.U. in tema di danno da emotrasfusione . . » II,296 ALBERTO QUADRIO CURZIO, Riflessioni sul principio di sussidiarietà per lo sviluppo italiano (relazione per il Convegno “Gli strumenti di politica economica nel nuovo Titolo V della Costituzione”). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,93 DANIELE ROSATO, Concessioni e appalti di servizi tra diritto comunitario e diritto nazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,107 418 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 418 DANIELE ROSATO, I servizi pubblici locali alla luce della recente riforma: un passo avanti verso la concorrenza? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. III,71 FRANCESCO EMANUELE SALAMONE, Verso un’intensificazione dei profili di responsabilità penale per falso del progettista “abilitato” in materia di D.i.a. (Cassaz., sez. III, sent. 21 ottobre 2008-19 gennaio 2009, n. 1818) . . . . » IV,336 VALERIA SANTOCCHI, dossier: L’autorizzazione del Prefetto agli Istituti di vigilanza » I,77 FRANCESCO SCITTARELLI, L’elemento soggettivo nella responsabilità da illegittimo esercizio della funzione pubblica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,267 SUSANNA SCREPANTI, Il sindacato del Giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche e sui poteri sanzionatori dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,393 GIUSEPPE STUPPIA, L’inammissibilità del regolamento preventivo di giurisdizione nei procedimenti cautelari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,184 LILIANA TESSAROLI, dossier: Nuove aperture negli appalti in house e nelle società miste. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,32 STEFANO VARONE, Sul recupero dei benefici previdenziali post-sisma . . . . . . . . » IV,212 ALESSANDRO ZUCCARO, Dalla procedura d’ infrazione al terzo decreto correttivo del Codice dei contratti. Verso un project financing di quinta generazione. . » II,319 2. SENTENZE CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITÀ EUROPEE Sent. 4 ottobre 2007 nella causa C-492/06 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,90 Sent. 29 novembre 2007 nella causa C-119/06 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,168 Sent. 11 dicembre 2007 nella causa C-280/06 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,124 Sent. 13 dicembre 2007 nella causa C-465/05 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,84 Ord. 16 gennaio 2008 nelle cause riunite da C-128/07 a C-131/07 . . . . . . . . . . » IV, 62 Sent. 14 febbraio 2008 nella causa C-450/06 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,207 Sent. 3 aprile 2008 nella causa C-346/06 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,194 Sent. 24 giugno 2008 nella causa C-188/07 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,102 Sent. 1° luglio 2008 nelle cause riunite C-39/05 P e C-52/05 P . . . . . . . . . . . . . » IV,76 Ord. 10 luglio 2008 nella causa C-156/07 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,91 Sent. 17 luglio 2008 nella causa C-371/05 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,65 Sent. 17 luglio 2008 nella causa C-132/06 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,153 Sent. 25 luglio 2008 nella causa C-237/07 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,121 Sent. 13 novembre 2008 nella causa C-46/07 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,52 GIUDIZI IN CORSO Causa C-445/06, Libera circolazione delle merci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,216 Causa C-226/07, Fiscalità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,225 INDICI SISTEMATICI 419 06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 419 Causa C-275/07, Risorse proprie delle Counità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. II,228 Causa C-317/07, Ambiente e consumatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,235 Causa C-343/07, Agricoltura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,94 Causa C-375/07, Unione doganale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,239 Causa C-415/07, Aiuti di Stato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,101 Causa C-444/07, spazio di libertà, sicurezza e giustizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,105 Causa C-446/07, Agricoltura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,130 Causa C-509/07, Ravvicinamento delle legislazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,243 Causa C-509/07, Ravvicinamento delle legislazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,134 Causa C-523/07, Spazio di libertà, sicurezza e giustizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,246 Causa C-538/07, Diritto delle imprese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,250 Causa C-561/07, Ravvicinamento delle legislazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,138 Cause riunite C-570/07 e C-571/07, Libertà di stabilimento . . . . . . . . . . . . . . . » II,254 Causa C-573/07, Diritto delle imprese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,59 Causa C-14/08, Spazio di libertà, sicurezza e giustizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,259 Cause C-69/08, Politica sociale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,143 Causa C-138/08, Libera prestazione dei servizi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,108 Causa C-141/08 Politica commerciale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,151 Causa riunite C-155/08 e C-157/08, Libera prestazione dei servizi. . . . . . . . . . . . » IV,157 Causa C-158/08, Libera circolazione delle merci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,116 Cause riunite da C-175/08 a C-179/08, Giustizia e affari interni . . . . . . . . . . . . . . » III,123 Causa C-196/08, Libera prestazione dei servizi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,131 Causa C-218/08, Ambiente e consumatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,134 Causa C-261/08, Spazio di libertà, sicurezza e giustizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,138 Causa C-297/08, Ambiente e consumatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,142 Causa C-334/08, Risorse proprie delle Comunità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,164 Causa T-53/08, Aiuti di Stato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,156 CORTE COSTITUZIONALE Sent. 23 novembre 2007 n. 401 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,166 Sent. 14 dicembre 2007 n. 431 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,181 Sent. 1 agosto 2008 n. 325 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,212 Sent. 1 agosto 2008 n. 326 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,168 Sent. 24 ottobre 2008 n. 351 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,247 Sent. 30 gennaio 2009 n. 18 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,234 Sent. 30 gennaio 2009 n.20 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,248 CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Sez. I penale, sent. 8 settembre 2006 n. 29855 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,256 Sez. III penale, sent. 12 giugno 2007 n. 22826 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,258 SS.UU., ord. 20 giugno 2007 n. 14293 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I, 186 SS.UU., sent. 8 febbraio 2008 n. 3004 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,205 Sez. lav., sent. 22 febbraio 2008 n. 4690 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,234 Sez. I penale, sent. 24 luglio 2008 n. 31171 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,200 Sez. III civ., ord. 7 agosto 2008 n. 21413 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,182 SS.UU., sent. 3 dicembre 2008 n. 28653 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,261 420 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 420 CORTE D’ASSISE DI ROMA Sez. III, sent. 25 ottobre 2007 – 3 gennaio 2008 n.21 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. I,269 Sez. III, sent. 25 ottobre 2007 n. 21(*) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» III,200 ARBITRO UNICO Lodo Napoli 24-26 novembre 2007 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,282 CORTE D’APPELLO DI CAMPOBASSO Sent. 28 marzo 2008 n.74 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,212 CONSIGLIO DI STATO Sez.VI, dec. 27 giugno 2007 n.3704 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,291 Sez. IV, sent. 5 settembre 2007 n. 4647 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,100 Sez.V, sent. 15 gennaio 2008 n. 36 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,299 Sez. VI, sent. 8 febbraio 2008 n. 415 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,151 Ad. Plen., sent. 3 marzo 2008 n.1 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,42 Sez. VI, sent. 13 marzo 2008 n. 1031 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,154 Sez. IV, sent. 31 luglio 2008 n. 3823 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,267 TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER LA CAMPANIA Napoli, sez. V, sent. 2 settembre 2008, n. 9992 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,227 TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL LAZIO Roma, sez. III ter, sent. 1 aprile 2008 n. 2779 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,215 Roma, sez. I, sent. 9 luglio 2008 n. 6487 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,277 Roma, sez. I, sent. 31 dicembre 2008 n. 12539 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,324 TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER L’UMBRIA Perugia, sez. I, sent. 6 giugno 2007 n. 505 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,156 3. ARGOMENTI AMBIENTE E CONSUMATORI – Reati ambientali – Sequestro di siti inquinati – Effetti sul decorso della prescrizione del diritto al risarcimento del danno ambientale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,258 AMBIENTE E CONSUMATORI – Reati ambientali – Sequestro di siti inquinati – Incidenza sulla cessazione della permanenza del reato di omessa bonifica . . » I,258 AMBIENTE E CONSUMATORI – Reati ambientali – Sequestro di siti inquinati – Incidenza sulla cessazione della permanenza del reato di omessa bonifica – Responsabilità dello Stato italiano di fronte alla Comunità europea . . . . . . » I,258 (*)Già pubblicata in questa Rassegna, 2008, n. 1, p. 262, con nota di DAVIDE GIOVANNELLI, Lex est araneae tela: l’esercizio della giurisdizione U.S.A. e l’accertamento delle violazioni nello ius in bello. INDICI SISTEMATICI 421 06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 421 AIUTI DI STATO – Calamità pubbliche e protezione civile – Provvidenze adottate a seguito degli eventi sismici nella Regione Molise tra i mesi di ottobre e novembre 1992 – Sospensione del versamento dei contributi previdenziali – Limitazione, con norma autoqualificata interpretativa, del beneficio ai soli datori di lavoro privati – Conseguente esclusione del beneficio per i lavoratori dipendenti – Non fondatezza – Inammissibilità – Manifesta inammissibilità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. IV,212 CLAUSOLA COMPROMISSORIA – Arbitrato – Collegialità dell’organo giudicante – Inserimento di diritto della parola “arbitrato” in luogo di “arbitro unico” nella clausola compromissoria – Artt. 1419, 2° co., e 1339, c.c. – Principio di conservazione del negozio giuridico . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . » I,282 COMUNITÀ EUROPEE – Appalti pubblici – Direttiva 89/665/CEE – Procedura di ricorso in materia di aggiudicazione di appalti pubblici – Soggetti ammessi ad accedere alle procedure di ricorso – Associazione temporanea offerente – Diritto di ciascuno dei membri di una associazione temporanea di proporre ricorso a titolo individuale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,90 COMUNITÀ EUROPEE – Appalti pubblici – Ricorso – Direttiva 89/665/CEE – Ricorso efficace – Nozione – Equilibrio tra il principio del contraddittorio e il diritto al rispetto dei segreti commerciali – Tutela, da parte dell’organo responsabile dei ricorsi, della riservatezza delle informazioni fornite dagli operatori economici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,207 COMUNITÀ EUROPEE – Direttiva 75/442/CEE – Gestione dei rifiuti – Nozione di rifiuti – Principio “chi inquina paga” – Detentore – Precedenti detentori – Produttore del prodotto causa dei rifiuti – Idrocarburi e olio pesante – Naufragio – Convenzione sulla responsabilità civile per i danni dovuti a inquinamento da idrocarburi – FIPOL . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,96 COMUNITÀ EUROPEE – Direttiva 76/207/CEE – Parità di trattamento tra uomini e donne – Indennità di esodo – Agevolazione fiscale concessa ad un’età differente a seconda del sesso dei lavoratori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,60 COMUNITÀ EUROPEE – Direttiva 96/62/CE – Valutazione e gestione della qualità dell’aria ambiente – Fissazione dei valori limite – Diritto di un terzo vittima di danni alla salute alla predisposizione di un piano d’azione . . . . . . .» IV,117 COMUNITÀ EUROPEE – Fusioni transfrontaliere delle società di capitali – Direttiva 2005/56/CE – Fusione di imprese – Registrazione di società – Partecipazione dei lavoratori – Regime fiscale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,7 COMUNITÀ EUROPEE – Impugnazione – Accesso ai documenti delle istituzioni – Regolamento (CE) n. 1049/2001 – Pareri giuridici . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,68 COMUNITÀ EUROPEE – Inadempimento di uno Stato - Art. 10 CE – Sesta direttiva IVA – Obblighi in regime interno – Controllo delle operazioni imponibili – Condono . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,153 422 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 422 COMUNITÀ EUROPEE – Inadempimento di uno Stato – Art. 141 CE – Politica sociale – Parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile – Nozione di “retribuzione” – Regime pensionistico dei dipendenti pubblici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. IV,50 COMUNITÀ EUROPEE – Inadempimento di uno Stato – Direttiva 92/50/CEE – Artt. 11 e 15, n. 2 – Appalti pubblici di servizi – Aggiudicazione dei servizi informatici del Comune di Mantova – Aggiudicazione diretta senza previa pubblicazione di un bando di gara . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,65 COMUNITÀ EUROPEE – Inadempimento di uno Stato – Violazione della direttiva 92/50/CEE che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi – Aggiudicazione di un appalto senza bando di gara – Aggiudicazione dei servizi di trasporto sanitario in Toscana . . . . . . . . . . . . » II,168 COMUNITÀ EUROPEE – Libera prestazione dei servizi – Art. 49 CE –– Restrizioni – Direttiva 96/71/CE – Distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi – Procedure di aggiudicazione di appalti pubblici di lavori – Tutela previdenziale dei lavoratori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,194 COMUNITÀ EUROPEE – Pubblicità abusiva – Ravvicinamento delle legislazioni – Concorrenza – Restrizione alla concorrenza – Pubblicità comparativa – Protezione del consumatore – Azione giudiziaria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,9 COMUNITÀ EUROPEE – Rinvio pregiudiziale – Direttiva 85/337/CEE – Valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati – Realizzazione di una strada a Milano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,90 COMUNITÀ EUROPEE – Servizio di interesse generale e servizio di interesse economico generale – Servizio pubblico – Competitività – Coesione economica e sociale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,71 CONCORRENZA – Appalti pubblici – Competenze Stato–Regioni – Principio leale collaborazione – Violazione – Insussistenza – Tutela della concorrenza – Competenza statale – Competenza regionale – Limiti . . . . . . . . . . . . . . » I,166 CONCORRENZA – Appalti pubblici – Esecuzione di contratto di appalto di lavori di opere pubbliche – Risoluzione di controversia devoluta ad arbitro unico – Nullità della clausola compromissoria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,282 CONCORRENZA – Appalti pubblici – Leggi regionali – Illegittimità costituzionale – Sussistenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,181 CONCORRENZA – Applicazione di sanzioni in caso di successione di imprese – Principio della responsabilità personale – Enti dipendenti dalla stessa autorità pubblica – Diritto nazionale che qualifica come fonte di interpretazione il diritto comunitario della concorrenza – Questioni pregiudiziali – Competenza della Corte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,124 INDICI SISTEMATICI 423 06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 423 CORTE COSTITUZIONALE - Giudizio di legittimità costituzionale in via principale – Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale e per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica di cui al d.l. n. 223 del 2006, sia nel testo originario sia in quello risultante dalle modifiche apportate in sede di conversione – Ricorso delle Regioni Veneto, Sicilia, Friuli- Venezia Giulia e Valle d’Aosta – Trattazione separata delle questioni concernenti l’art. 13 – Riserva a separate pronunce della decisione sulle altre questioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. III,168 CORTE COSTITUZIONALE – Partecipazioni pubbliche – Società a capitale pubblico o misto costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali o locali per la produzione di beni e servizi strumentali – Obbligo di operare esclusivamente con gli enti pubblici costituenti o partecipanti e correlativo divieto di operare nel libero mercato – Ricorso delle Regioni Veneto e Friuli-Venezia Giulia – Questione sollevata in riferimento all’art. 119 Cost. - Prospettazioni generiche in quanto prive di autonome argomentazioni – Inammissibilità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,168 GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Avvocato e procuratore – Esami di abilitazione all’esercizio della professione – Obbligo di motivazione del voto verbalizzato in termini alfanumerici – Esclusione in base al “diritto vivente”. (Art. 22, c. 9°, del regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito in legge 22 novembre 1934, n. 36; artt. 17 bis, 22, 23 e 24, c. 1°, del regio decreto 22 gennaio 1934, n. 37). Non fondatezza. . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 248 GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Enti pubblici – Destinazione della pubblicità - Natura giuridica degli enti fiera – Esclusione della natura pubblicistica dell’ente – Non soggezione all’art. 41 del d.lgs. 177/05 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,215 GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Fermo amministrativo – Carenza di potere di AGEA – Questione di giurisdizione - Natura di amministrazione statale di AGEA – Limiti interni della giurisdizione – Inammissibilità . . . . . . . . . . . . » I,205 GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Giurisdizione – Procedimenti cautelari – Regolamento preventivo di giurisdizione – Inammissibilità del ricorso . . . . . . . . . . » I,186 GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Giustizia amministrativa – Disapplicazione – Dati casellario imprese – Annotazione – Impugnazione – Giudizio di annullamento – Doppia impugnativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,291 GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Giustizia contabile – Risoluzione preventiva delle questioni di massima – La statuizione delle SS.UU. è vincolante – Art.363, co.3, c.p.c. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,261 GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Procedimento penale – Reato commesso fuori dal territorio – Giurisdizione italiana – Carenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,269 424 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 424 GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Procedimento penale – Reato commesso fuori dal territorio – Giurisdizione italiana – Carenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. III,200 GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Pubblica amministrazione – Concorsi – Motivazione degli atti concorsuali di valutazione delle prove orali o scritte. . . . . . . . . » III,227 GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Pubblica amministrazione – Questioni processuali – Rappresentanza in giudizio in primo grado a mezzo di dipendente della P.A. – Conferimento all’amministrazione pubblica della difesa diretta – Notifica della sentenza di primo grado direttamente allo stesso dipendente – Decorrenza del termine breve per la proposizione dell’appello - Mancanza della sede dell’amministrazione nella circoscrizione del giudice adito – Mancata elezione del domicilio in detta circoscrizione da parte del dipendente – Possibilità di notifica della sentenza di primo grado presso la cancelleria del giudice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,234 GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Rapporti tra Governo e “confessioni religiose” – Rifiuto di avvio di trattative volte alla stipula dell’intesa di cui all’art.8, co.3, Cost. – Difetto di giurisdizione ai sensi dell’art. 31 R.D. 1054/24 – Atto di natura politica e non amministrativa – Inammissibilità . . . . . . . . . . . . » .IV, 324 GIUSTIZIA E AFFARI INTERNI – Regolamento di competenza – Competenza territoriale per foro erariale – Irrilevanza dell’incompletezza della relativa eccezione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,182 LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE PERSONE - Stranieri – Ingresso-soggiorno – Tutela dell’ordine pubblico – Permesso di soggiorno – Diniego del rinnovo per condanna penale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,151 LIBERA PRESTAZIONE DEI SERVIZI – Avvocatura dello Stato – Patrocinio erariale – Affidamento dei servizi legali – Compatibilità con la normativa comunitaria – Istituto Poligrafico dello Stato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,5 LIBERA PRESTAZIONE DEI SERVIZI – Concessione di servizio pubblico – Procedura di affidamento – Patrimonio stradale – Servizio di gestione, manutenzione e sorveglianza – Centralità del rischio di gestione . . . . . . . . . . » I,299 LIBERA PRESTAZIONE DEI SERVIZI – Inadempimento di uno Stato – Diritto di stabilimento – Professione di operatore della vigilanza – Servizi di vigilanza privata – Giuramento di fedeltà alla Repubblica italiana – Autorizzazione prefettizia – Sede operativa – Numero minimo di personale – Versamento di una cauzione – Controllo amministrativo dei prezzi dei servizi forniti . . . . » I,84 PROCEDURA – Informative prefettizie antimafia – Tipica e c.d. supplementare atipica (o aggiuntiva) – Differenze – Effetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV, 277 PROCEDURA – Irragionevole durata del processo (L.Pinto) – Operatività della prescrizione dei ricorsi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,175 INDICI SISTEMATICI 425 06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 425 PROCEDURA – Processo amministrativo – Pubblica amministrazione – Responsabilità da illegittimo esercizio della funzione pubblica . . . . . . . . . . . . pag. IV, 267 TRASPORTI – Norme della Regione Lombardia – Trasporto aereo – Previsione di un rappresentante nominato dalla Regione nel comitato di coordinamento degli aeroporti, in contrasto con le norme comunitarie che non inseriscono tra i soggetti ammessi a partecipare a tale organo consultivo i rappresentanti dei governi regionali; coordinamento aeroportuale – Attribuzione alla Regione del compito di concorrere a definire i parametri di coordinamento, in contrasto con le norme comunitarie che attribuiscono tale ruolo allo Stato membro e con le norme statali sulla istituzione e le competenze dell’E.N.A.C.; concessioni di gestione aeroportuale – Attribuzione alla Regione del potere di emanare direttive relative alle nuove convenzioni sottoscritte fra gestore aeroportuale ed ENAC, aventi valore di linee guida vincolanti – Contrasto con il Codice della navigazione che attribuisce le competenze medesime al Ministero dei trasporti e all’ENAC e prevede un ruolo solo consultivo delle Regioni.(Artt. 3, 4 e 9 della legge della Regione Lombardia 9 novembre 2007, n. 29). Illegittimità costituzionale . . . . . . . . . » IV,234 4. PARERI, COMUNICAZIONI, CIRCOLARI A.G.S. – Parere del 5 novembre 2005 n. 146882. Soggetti passivi dei tributi speciali catastali – Natura del termine per l’azione di accertamento in tema di tributi speciali catastali e tasse ipotecarie (consultivo 50705/04, avvocato G. Albenzio) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,309 A.G.S. – Parere del 21 gennaio 2008 n. 8612. Utilizzo improprio di gasolio agricolo ad uso agevolato. Provvedimento di confisca degli autoveicoli (consultivo 28129/07, avvocato G. Albenzio) . . . . . . » I,311 A.G.S. – Parere del 21 gennaio 2008 n. 8694. Causa contro Ministero dell’Economia e delle Finanze e Ministero delle Comunicazioni. Decisione Consiglio di Stato del 16 ottobre 2007, n. 5413/07 (contenzioso 21860/00, avvocato A. De Stefano) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,313 A.G.S. – Parere del 28 gennaio 2008 n. 11867. D.Lgs. 18 settembre 2006, n. 267: “Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione Sardegna concernente modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 19 maggio 1949, n. 250 in materia di demanio e patrimonio” – Trasferimento all’Ente Parco Nazionale dell’Arcipelago di La Maddalena di beni immobili dismessi dallo Stato (consultivo 25855/06, avvocato M. Fiorilli). . » I,316 A.G.S. – Parere del 5 febbraio 2008 n. 16175. Applicazione interessi sui debiti delle società concessionarie di autostrade nei confronti dello Stato in conseguenza della operatività della garanzia statale in favore delle società medesime per il pagamento delle rate di mutui e di 426 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 426 obbligazioni diverse effettuato dal soppresso Fondo Centrale di Garanzia (consultivo 41464/07, avvocato C. Linda) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. I,320 A.G.S. – Parere del 19 febbraio 2008 n. 22979. Riscossione coattiva dei tributi comunali mediante ingiunzione fiscale ai sensi del Regio decreto 14 aprile 1910 n. 639. Possibilità di iscrizione di ipoteca legale ai sensi dell’art. 77 del d.P.R. 602/1973 e trattamento tributario (consultivo 13635/07, avvocato C. Colelli) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,323 A.G.S. – Parere del 19 febbraio 2008 n. 23172. Contenzioso in materia di invalidità civile – Nuove problematiche sorte in relazione ai giudizi incardinati in data successiva al 1 aprile 2007 (consultivo 47758/07, avvocato M.Russo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,5 Ministero dell’Interno – Circolare del 29 febbraio 2008 n. 557/PAS/ 2731/10089.d(1) Corte di Giustizia delle Comunità europee – Sent. 13 dicembre 2007 nella causa C-465/05 (Commissione c/ Repubblica italiana), concernente l’ordinamento della sicurezza privata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,103 A.G.S. – Parere del 17 marzo 2008 n. 35666. Legge 27 dicembre 2006, n. 296: “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato”, art. 1, commi da 250 a 258 recanti nuove norme in materia di demanio marittimo (consultivo 2566/08, avvocato C. Colelli) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,325 A.G.S. – Parere del 20 marzo 2008 n. 37023. Utilizzo della garanzia nelle operazioni di transito comunitario (consultivo 2571/08, avvocato G. Albenzio) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,329 A.G.S. – Parere del 9 aprile 2008 n. 45266. Mutui erogati da Enti, Istituti, fondi e casse previdenziali per l’acquisto di case di abitazione – Applicabilità degli artt. 15,17 e 18 del d.P.R. n. 601/1973 – Art. 2, comma 1 bis del DL n. 220/2004, convertito con modificazioni dalla L. n. 257/2004 (consultivo 40285/07, avvocato A.L. Caputi Iambrenghi) . . . . . » I,330 A.G.S. – Parere del 10 aprile 2008 n. 46819. Apparecchiature semaforiche (consultivo 3330/08, avvocato F.M. Patierno) » I,331 A.G.S. – Parere del 14 aprile 2008 n. 48170. Assegnazione ore di sostegno scolastico per situazione di handicap (contenzioso 43171/07, avvocato S. Varone) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,334 A.G.S. - Comunicazione di servizio del 23 aprile 2008 n. 48, prot. 54340 – Circolare del 23 aprile 2008 n. 19, prot. 54346. Contenzioso in materia di invalidità civile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,5 INDICI SISTEMATICI 427 06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 427 A. G. S. – Parere del 9 maggio 2008 n. 62026. Fondo per il soddisfacimento dei debiti dei partiti e movimenti politici in attuazione dell’art. 6 bis della legge 3 giugno 1999, n. 157 (consultivo 27769/07, avvocato G. Palmieri) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. I,337 A.G.S. – Parere del 14 maggio 2008 n. 65178. Applicazione della sanzione della confisca dei motocicli o ciclomotori utilizzati per commettere reati, introdotta con l’art. 5 bis L. 17 agosto 2005, n. 168 (consultivo 5255/08, Procuratore dello Stato A.Vitale) . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,339 A.G.S. – Parere del 26 maggio 2008 n. 70457. Liquidazione degli usi civici su terre private gravate (consultivo 16254/08, avvocato F. Lettera) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » I,344 A.G.S. – Parere del 7 giugno 2008 n. 75402. Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro (ISPESL) – Registrazione e utilizzo da parte di una società privata di un marchio suscettibile di ingenerare confusione (ISPESL) – Possibilità di instaurazione di azioni a tutela del marchio e di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c. (consultivo 9940/08, avvocato G. d’Elia) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,265 A.G.S. – Parere del 19 giugno 2008 n. 80615. Art. 14, co.3, D.Lgs. n. 252 del 5 dicembre 2005 (consultivo 14850/08, avvocato A. Grumetto) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,269 A.G.S. – Parere del 26 giugno 2008 n. 83419. Trattamento dati sensibili attinenti lo stato di salute dell’interessato – Sospensione o revoca della patente militare e/o della patente civile (consultivo 40716/07, avvocato M. Greco) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,273 A.G.S. – Parere del 3 luglio 2008 n. 86285. Liquidazione enti disciolti – Art. 1, c. 91 legge 23 dicembre 2005, n. 266 come sostituito dall’art. 1, c. 486 legge 27 dicembre 2006 n. 296. Accordo con l’INPDAP (consultivo 13463/08, avvocato A. Grumetto) . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,276 A.G.S. – Parere del 29 luglio 2008 n. 95295. Fondo Immobili Pubblici - Esclusione dal conferimento di porzioni immobiliari ai sensi dell’art. 4 del D.L. 351/2001 (consultivo 47020/07, avvocato A.L. Caputi Iambrenghi) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,278 A.G.S. – Parere del 6 agosto 2008 n. 97937. Accordo di Cooperazione ed Unione Doganale CEE/San Marino. Potere di accertamento e sanzionatorio nei confronti della Repubblica di San Marino (consultivo 14909/08, avvocato G. Albenzio) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » II,282 A.G.S. – Parere del 26 agosto 2008 n. 102376. Applicabilità dell’art. 12, comma 5, prima parte, del D.Lgs. n. 472/97 alle c.d. imposte istantanee (consultivo 12265/08, avvocato G. Albenzio) . . . . . . . . . » III,233 428 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 428 A.G.S. – Parere del 22 settembre 2008 n. 110090. Art. 36 legge 31/08. Disposizioni in materia di riscossione (consultivo 21110/08, avvocato G. Albenzio) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. III,238 A.G.S. – Parere del 24 settembre 2008 n. 111007. Interpretazione dell’art. 7, 6° co. D.L. 248/07 convertito in legge 31/08 (consultivo 25247/08, avvocato A. Palatiello) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,241 A.G.S. – Parere del 24 settembre 2008 n. 111028. Richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione in materia di decadenza dall’incarico dirigenziale di livello generale ex art. 3 comma 7 l. 145/2002 – Ricorso al Tribunale Civile di Roma, sez. lavoro, in materia di decadenza dall’incarico dirigenziale di livello generale ex art. 3 comma 7 legge 145/2002. Richiesta patrocinio proposta transattivi (consultivo 43615/07, avvocato G. Fiengo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,243 Avvocatura distrettuale dello Stato di Catanzaro – Parere del 2 ottobre 2008 n. 24046 (reso dall’Avvocatura distrettuale di Catanzaro in via ordinaria). Istanza di aggiornamento informative antimafia ex art. 10, comma 8, d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252 (consultivo 6845/08, avvocato A. Mezzotero) . . . . . . . . . . . » III,251 A.G.S. – Parere del 13 ottobre 2008 nn. 118846 – 118848 (reso dall’Avvocatura Generale in via ordinaria). Istanza di aggiornamento di informative antimafia ex art. 10, comma 8, d.P.R. 3 giugno 1998 n. 252 (consultivo 36675/08, avvocato M. Borgo) . . . . . . . » III,264 A.G.S. – Parere del 14 ottobre 2008 (reso dall’Avvocatura Generale in via ordinaria). Portata applicativa dell’art. 802 codice navigazione (consultivo 7657/08, avvocato P. Di Palma) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,265 A.G.S. – Parere del 20 ottobre 2008 n. 121176. Spettanza dell’indennizzo ex lege 210/92 in caso di patologia non ascrivibile a categoria tabellare (consultivo 34657/08, avvocato M. Russo) . . . . . . . . . . » III,270 A.G.S. – Parere del 23 ottobre 2008 n. 123287. Riparazione per ingiusta detenzione. Spettanza o meno degli interessi per il tardivo pagamento di quanto dovuto a titolo di indennizzo per effetto dell’ordinanza n. 232/2005 della Corte di Appello – Sezione Penale di Roma (contenzioso 14372/05, avvocato M. Borgo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,271 Comunicazione di servizio n. 117 – Circolare del 28 ottobre 2008 n. 44, prot. 124807 e 124812. Condanna dell’Amministrazione e criteri di calcolo di interessi legali e rivalutazione monetaria sul capitale dovuto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » III,273 A.G.S. – Parere dell’11 novembre 2008 n. 130954. Tributi speciali catastali. Soggettività passive degli enti locali (consultivo 2905/08, avvocato A.L.Caputi Iambrenghi) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,347 INDICI SISTEMATICI 429 06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 429 A.G.S. – Parere del 9 dicembre 2008 n. 143108. Tenuta informatizzata dei registri da parte dei depositari autorizzati di prodotti energetici e di bevande alcoliche (consultivo 29951/08, avvocato G. Albenzio) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. IV,349 A.G.S. – Parere dell’11 dicembre 2008 n. 144804. Art.12 co.9 D.Lgs. n.42 del 2004 – Applicabilità ai beni già appartenenti ad Ente pubblico economico trasformato in società con apposito atto normativo in vigenza del D.Lgs. 490 del 1999 (consultivo 13373/08, avvocato P. Palmieri) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » IV,350 430 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – N. 4/2008 06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 430 06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 431 Finito di stampare nel mese di aprile 2009 Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A. Via Roberto Malatesta n. 296 - Roma 06 indici sistematici 04 2008.qxp 07/04/2009 17.56 Pagina 432