RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO ANNO LIX – N. 3 LUGLIO-SETTEMBRE 2007 COMITATO SCIENTIFICO: Presidente: Glauco Nori. Componenti: Franco Coppi – Giuseppe Guarino Natalino Irti – Eugenio Picozza – Franco Gaetano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo – Condirettori: Giacomo Arena e Maurizio Borgo. COMITATO DI REDAZIONE: Vittorio Cesaroni – Lorenzo D’Ascia – Roberto de Felice – Maurizio Fiorilli Massimo Giannuzzi - Maria Vittoria Lumetti – Antonio Palatiello – Massimo Santoro – Carlo Sica – Mario Antonio Scino. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE FASCICOLO: Giuseppe Albenzio - David Astorre - Giuseppe Bianchi - Ignazio Francesco Caramazza - Roberto Collacchi - Filippo D'Angelo - Flavio Ferdani - Piero La Spina - Francesca Maellaro - Paolo Marchini - Emanuela Russiani - Valeria Santocchi - Maria Elena Scaramucci - Giuseppe Stuppia - Fabrizio Tigano - Cristiana Trombetta - Stefano Varone. 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Considerazioni generali sulla sua attività, sulla esecuzione delle sentenze nei confronti dello Stato italiano, sul patrocinio in giudizio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 19 Glauco Nori, L’art. 117, comma 1, Cost. e le norme CEDU secondo la Corte costituzionale (Corte Cost.le, sentt. 24 ottobre 2007 nn.348 e 349) . . . » 25 Giuseppe Bianchi, Filippo D’Angelo, L’efficacia dei trattati internazionali alla luce del nuovo testo dell’art. 117, primo comma, Cost.; note a margine delle sentenze nn. 348/07 e 349/07 della Corte costituzionale . . . . . . . . » 78 1.- Le decisioni Valeria Santocchi, Tre nuove condanne dell’Europa alla normativa italiana sull’ambiente (Corte di giustizia CE, sezione terza, sentt. 18 dicembre 2007 in C-194/05, C-195/05, C-263/05) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 100 CONTENZIOSO NAZIONALE Dossier 1. Maurizio Borgo, La declaratoria di incostituzionalità delle norme in materia di esproprio: - Relazione al Convegno nazionale “Articoli 5 bis, 1-2 d.l. 333/92 e 37 1-2 d.P.R. 327/01 incostituzionali. La nuova indennità di esproprio per le aree edificabili” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 145 - I nuovi criteri di determinazione dell’indennità di espropriazione per le aree edificabili. Brevi riflessioni, a caldo, sull’art. 37-bis del disegno di legge Finanziaria 2008 . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 153 Dossier 2. Stefano Varone, L’anzianità di servizio del personale A.T.A. transitato nella scuola statale (Cassaz., sez. lav., sent. 17 febbraio 2005 n. 3224; Corte cost., sent. 26 giugno 2007 n. 234; circolare A.G.S. n. 31/07; Cassaz., sent. 16 gennaio 2008 n. 677) . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 163 Dossier 3. Piero La Spina, Autorizzazioni paesaggistiche ed interessi generali del territorio (T.A.R. Sicilia, sez. II, sent. 4 febbraio 2005 n. 150; T.A.R. Sicilia, sez. I, sent. 19 gennaio 2006 n. 156; C.G.A. Sicilia, dec. 3 agosto 2007 n. 711; C.G.A. Sicilia, dec. 21 novembre 2007 n. 1058) . . . . . . » 195 Paolo Marchini, Nuove questioni di giurisdizione per le sanzioni nel settore del latte e dei prodotti caseari (Cassaz., SS.UU., sent. 12 dicembre 2006 n. 26435) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 215 Ancora in tema di inammissibilità del ricorso per cassazione (Cassaz., SS.UU., sent. 31 ottobre 2007 n. 23019) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 219 David Astorre, La prova della ricezione della notifica della sentenza ai fini della tempestività del ricorso per Cassazione (Cassaz., sez. trib., ord. 22 novembre-10 dicembre 2007 n. 25753). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 222 Francesca Maellaro, Il “difetto di giurisdizione temporaneo” nella procedura di liquidazione coatta amministrativa (Trib.civ. di Roma, sez. lav.- 1° grado, dec.15 novembre 2006 n. 10287) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 229 Maurizio Borgo, Il c.d. “fermo fiscale”, ancora alla ricerca del proprio giudice: nuovi contrasti giurisprudenziali dopo il c.d. “Decreto Bersani” (Comm. Trib. del Lazio, sent. 9 maggio-15 giugno 2007, n. 136; Trib. civ. di Roma, ord. 1 giugno 2007) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 235 Roberto Collacchi, Legittimità del provvedimento di reiterazione dei vincoli preordinati all’esproprio: obbligo di motivazione e di indennizzo (C.d.S., Ad. Plen., sent. 24 maggio 2007 n. 7) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 241 Maurizio Borgo, Il divieto di prove nuove nel giudizio amministrativo. Contrasti giurisprudenziali nell’ambito del Consiglio di Stato (C.d.S., sez. 6°, sentt. 4 giugno 2007 n. 2951; C.d.S., sez. 5°, sent. 11 settembre 2007, n. 4789; C.G.A. Sicilia, dec. 8 ottobre 2007 n. 933) . . . . . . . . . . . . . . . » 248 Cristiana Trombetta, L’esecuzione dei lavori da parte delle consorziate dei Consorzi di cooperative di produzione e lavoro. La recente interpretazione del Consiglio di Stato (C.d.S., sent. 22 giugno 2007 n. 3477) . . . . . . . . . . . » 259 Giuseppe Stuppia, La legittimazione passiva nelle impugnazioni delle ordinanze contingibili ed urgenti del Sindaco: recenti sviluppi giurisprudenziali (C.d.S., sez. V, sent. 13 agosto 2007 n. 4448) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 280 Maria Elena Scaramucci, In tema di alienazione, ai fini della rottamazione, dei veicoli custoditi presso le depositerie giudiziarie o amministrative (C.d.S, sez. 6°, sent. 9 ottobre 2007 n. 5306). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .». 290 I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 297 CONTRIBUTI DI DOTTRINA Flavio Ferdani, Metodi Adr: la conciliazione come strumento di risoluzione delle controversie. Profili generali della conciliazione, ruolo del conciliatore e procedimento. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 313 Fabrizio Tigano, Principio di tipicità e accordi procedimentali. . . . . . . . . . . . . » 330 INDICI SISTEMATICI. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 369 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Editoriale Le norme di attuazione degli statuti speciali: qualche osservazione di Glauco Nori(*) Recentemente sono insorte diverse questioni in cui sono rimaste coinvolte norme di attuazione degli statuti regionali speciali. Qualche osservazione in proposito può essere utile, non foss’altro per segnalare alcune questioni connesse che, a quanto risulta, non sono state ancora prese nella considerazione dovuta. Il procedimento per formazione delle norme di attuazione è, in gran parte, identico per tutti gli statuti. Su proposta di commissioni paritetiche, costituite appositamente, le norme vengono poi varate con decreti del Consiglio dei Ministri, che le norme statutarie classificano come decreti legislativi, promulgati dal Presidente della Repubblica. Non è previsto nessun passaggio parlamentare. Il procedimento è ben diverso da quello richiesto dall’art.76 Cost.. Nelle norme statutarie che lo disciplinano l’oggetto non è definito. Le norme di attuazione possono investire, pertanto, qualsiasi materia interessata dallo statuto. Il tempo non è limitato, ma soprattutto mancano i principi ed i criteri direttivi. Una volta che la commissione paritetica ha formulato la proposta, sentita la Regione interessata, il Consiglio dei Ministri delibera in conformità. Almeno sino ad oggi risulta che così si siano svolti i procedimenti. T E M I I S T I T U Z I O N A L I (*) Presidente del Comitato Scientifico della Rassegna Avvocatura dello Stato. Il contenuto del decreto legislativo finisce con l’essere determinato, di fatto, dalla commissione paritetica con il contributo eventuale della regione interessata. È difficile sostenere che l’art. 70 Cost. sia stato osservato. La funzione legislativa in questo caso sfugge alle Camere che non hanno nessun potere di determinazione del contenuto del decreto, nemmeno nei limiti dei principi e dei criteri direttivi. Secondo la Corte costituzionale, come noto, anche le leggi costituzionali, a certe condizioni, sono soggette alla verifica della loro legittimità costituzionale. “La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art.139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana” (1). Per ritenere costituzionalmente legittime le norme che negli statuti speciali disciplinano il procedimento di formazione delle norme di attuazione bisognerebbe escludere che l’art.70 Cost., insieme all’art. 76, rientri tra le norme di principio, e di principio supremo, secondo la terminologia adottata dalla Corte costituzionale, che oggi forse sarebbe definito come fondamentale. Nell’individuare la natura di una norma, se di principio o non, non si applicano criteri strettamente giuridici e non è nemmeno possibile costruire una vera motivazione. L’accertamento della natura degli artt. 70 e 76 Cost. è fondato su valutazioni di politica istituzionale che, come tutte le valutazioni politiche, inteso l’aggettivo politiche in senso aristotelico, sono fondate su criteri pregiuridici. Soprattutto in questi ultimi tempi si è sentita evocare ripetutamente la centralità del Parlamento. Questa centralità sarebbe seriamente pregiudicata se il Parlamento dovesse rimanere estraneo al procedimento di formazione di norme, come quelle di attuazione, che, secondo la Corte costituzionale, svolgono anche la funzione di norme intermedie nel giudizio di costituzionalità delle leggi. 2 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (1) Sent. n.1146/1888, dove poco dopo si legge (n.2.1): “Non si può… negare che questa Corte sia competente a giudicare sulla conformità delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali anche nei confronti dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale. Se così non fosse, del resto, si perverrebbe all’assurdo di considerare il sistema di garanzie giurisdizionali della Costituzione come difettoso o non effettivo proprio in relazione alle sue norme di più elevato valore”. Per stabilire se la centralità del Parlamento costituisca un principio supremo o fondamentale non tornano utili, pertanto, criteri strettamente giuridici, interni all’ordinamento, ma criteri esterni, attinenti alla visione politica di coloro che hanno delineato i profili fondamentali dello Stato. Per questo la risposta al quesito può essere secca, senza la possibilità di fondarla su di una motivazione che non abbia natura soltanto assertiva. In pratica, si può rispondere solo con un sì e con un no. Se anche si tentasse di darne una motivazione, non si potrebbe dire altro che la norma è di principio perché disciplina uno dei caratteri fondamentali della struttura statale, il che equivale a dire che è di principio perché … enuncia un principio. Una volta che si concordasse su questa premessa, le norme statutarie che disciplinano il procedimento di formazione delle norme intermedie, anche se non del tutto identiche tra di loro, sarebbero di costituzionalità quanto meno dubbia per aver escluso qualunque intervento parlamentare dal procedimento di formazione. Lo schema argomentativo può essere così delineato: – la norma statutaria, che qualifica come decreto legislativo l’atto con il quale vengono varate le norme di attuazione, è una norma di delega ai sensi dell’art.76 Cost. (anche a voler passare sopra alla sua formulazione, non sembra possibile definirla diversamente); – la norma non porta nessuno degli elementi richiesti dall’art.76 Cost; – l’art. 76 Cost. fissa uno dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale perché attiene all’esercizio dei poteri sovrani, attribuiti al Parlamento; – le nome statutarie, anche se di livello costituzionale, che violano quel principio sono soggette a verifica della loro legittimità costituzionale. Una volta che si fosse d’accordo su queste premesse, la conclusione sarebbe vincolata: le norme statutarie che disciplinano il procedimento di formazione delle norme attuazione andrebbero dichiarate costituzionalmente illegittime. Come alternativa, alle norme di attuazione potrebbe non essere più riconosciuto il livello legislativo per essere conservate come norme regolamentari, con tutte le conseguenze. In particolare non sarebbe più possibile prenderle in considerazione come norme intermedie. Può essere utile ricordare, per mettere la questione nella sua giusta prospettiva, come, di fatto, e con quali obiettivi siano state talvolta formate queste norme (2). Delle commissioni paritetiche raramente hanno fatto parte soggetti con responsabilità governative. In pratica il contenuto è stato determinato attraverso trattative con la regione interessata, condotte con criteri compromissori. TEMI ISTITUZIONALI 3 (2) Si è detto talvolta per non dire quasi mai perché per difficoltà, non difficili da comprendere, non è stato possibile fare un’indagine accurata. Dato il procedimento che di fatto si è seguito, non può sorprendere che talvolta attraverso quelle norme, piuttosto che attuare, si sia integrato o addirittura modificato lo statuto (3). 4 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (3) Si può fare l’esempio d.P.R. 26 marzo 1977, n. 235 con il quale sono state adottate le norme di attuazione dello statuto speciale della regione Trentino-Alto Adige in materia di energia. Nel comma 16 dell’art. 1-bis era previsto che “le concessioni di grande derivazione a scopo idroelettrico, ivi compresi i canoni demaniali di concessione, sono disciplinati con legge provinciale nel rispetto dei principi della legislazione statale e degli obblighi comunitari”, mentre l’art. 9, n. 9) dello Statuto attribuisce alla legislazione provinciale l’utilizzazione delle acque pubbliche “escluse le grandi derivazioni a scopo idroelettrico”. L’anomalia è superata a seguito dell’entrata in vigore delle nuove norme introdotte dal D.Lgs. 7 novembre 2006, n. 289 in attuazione dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001. Prime evoluzioni della giustizia amministrativa: contributi dell’Avvocatura erariale(*) di Ignazio Francesco Caramazza (**) ed Emanuela Russiani (***) 1. La legge 7 marzo 1907 n. 62. La ragione ispiratrice della legge istitutiva della V sezione, che costituisce la prima riforma del sistema di giustizia amministrativa creato dalle note leggi del 1889 e 1890, a parte la denunciata – e già da allora ricorrente – esigenza della accelerazione della risposta di giustizia e dello smaltimento dell’arretrato (1), fu quella, di assoluta modernità, del necessario “avvicinamento della giustizia amministrativa al diritto comune (2)”. Quale mezzo al fine, fu sancita la natura giurisdizionale delle decisioni rese dal Consiglio di Stato in sede contenziosa e la loro ricorribilità in Cassazione per assoluto difetto di giurisdizione, fu affermato il potere delle due sezioni di giudicare della propria competenza, fu ammesso il ricorso incidentale (e fin qui il legislatore operò legificando orientamenti giurisprudenziali prevalenti o comunque già emersi). Fu ripartita, poi, la competenza fra IV e V sezione per tipo di giudizi, conservando alla IV sezione la giurisdizione generale di legittimità ed attribuendo alla V sezione tutte le controversie deferite al Consiglio di Stato “anche per il merito” (3). TEMI ISTITUZIONALI 5 (*) Tratto da una relazione tenuta al Consiglio di Stato il 14 dicembre 2007, giornata di studio in occasione del centenario della V Sezione. (**) Vice Avvocato generale dello Stato. (***) Dottoranda di ricerca presso la Scuola dottorale in Diritto ed Economia “Tullio Ascarelli”, Università degli Studi Roma Tre; ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. (1) A. SALANDRA, Corso di Diritto Amministrativo, Napoli, 2^ ed., 1915, p. 255. (2) Relazione del senatore Guala, Atti Parlamentari del Senato del Regno, Relazione dell’Ufficio Centrale presentata il 27 novembre 1906. (3) La distinzione ratione materiae fu considerata, da parte della dottrina, un limite, un difetto della legge. Alle critiche sollevate su tale distinzione, Guala, presidente e relatore in Senato sul disegno di legge sul “Riordinamento degli Istituti per la Giustizia amministrativa”, rispose che “la distinzione che fa la legge per determinare le rispettive competenze delle due sezioni giurisdizionali fra affari di piena giurisdizione e quelli che non lo sono, pare tale criterio che non si saprebbe quale altro sostituirvi di più esatto. Che poi vi sia tanta sproporzione fra gli affari di piena giurisdizione commessi alla sezione V e gli altri che non lo sono, sì da gettare il massimo peso sulla sezione IV, è sospetto che non ha base in alcun dato statistico. Tuttavia non si vuole contendere che per numero gli affari che cadranno alla sezione IV supereranno e forse quelli della sezione V. Però devesi tener conto che ben più grave cosa e più indaginosa è il risolvere una questione in merito anziché decidere sopra la sola sua legalità”. Corollario di tale riparto fu la istituzione di una Adunanza plenaria per dirimere i conflitti di competenza fra le due sezioni, risolvere le questioni di diritto difformemente decise e l’attribuzione alla V sezione di poteri istruttori (4) più ampi, congruenti con i nuovi, più estesi, poteri cognitori e decisori. Come sempre accade per le leggi di riforma, i risultati della sua applicazione presentarono luci ed ombre, ma le prime prevalsero nettamente sulle seconde. Fra i risultati positivi sono sicuramente da annoverare il definitivo riconoscimento della natura di giudice al Consiglio di Stato, con tutti i corollari conseguenti, primo fra tutti quello di essere giudice della propria competenza. In precedenza, infatti, vigeva l’art. 20 della legge n. 5992 del 1889, in virtù del quale sollevata dalle parti o d’ufficio la incompetenza della autorità amministrativa, la sezione sospendeva ogni decisione e rinviava gli atti alla Corte di Cassazione per decidere della competenza. Norma che era sfruttabile (e nel concreto sfruttata) come comodo espediente dilatorio. Se la legge del 1907 risolse d’autorità la questione sulla natura delle funzioni del Consiglio di Stato e della Giunta Provinciale amministrativa, definendo giurisdizionali i due organi, ne suscitò per contro una nuova, quella dei rapporti tra la IV e la V sezione (5). Questione che fu risolta con la configurazione di due giurisdizioni separate ed indipendenti tra cui potevano sorgere veri e propri conflitti (6) (da dirimersi dall’Adunanza plenaria) con conseguente irricevibilità del ricorso proposto a sezione incompetente (7). Il che deve certo qualificarsi come risultato negativo, non rispondente ad una esigenza di giustizia sostanziale e che era però, in qualche modo, la conseguenza inevitabile dell’aver ripartito la competenza fra le due sezioni in funzione della legittimità e del merito, soprattutto ove si ponga mente al significato che si attribuiva, all’epoca alle due locuzioni. 6 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (4) L’art. 16 della legge n. 5992 del 1889, consentiva al Consiglio di Stato di chiedere all’Amministrazione nuovi schiarimenti, documenti e nuove verificazioni. L’art. 27 del R.D. n. 642 del 1907, invece, consentiva alla V sezione di assumere testimoni, eseguire ispezioni, ordinare perizie e fare tutte le altre indagini che potevano condurre alla scoperta della verità, con i poteri attribuiti al magistrato dal c.p.c. e con le relative sanzioni. (5) F. CELENTANO, La nuova legge sulla giustizia amministrativa, in La corte d’appello, 1925, n. 4-6. (6) La distinzione tra la competenza delle due sezioni, in realtà determinò assai di frequente la proposizione di ricorsi irregolarmente diretti. Anche per le persone più esperte in molti casi era incerto se una controversia seguisse la competenza di legittimità della IV sezione o quella di merito della V sezione. In tal senso, F. CAMMEO, La efficacia di un ricorso al consiglio di Stato diretto ad una sezione incompetente, in Giur. It., 1909, III, p. 172. L’autore sottolinea come fosse evidente questa difficoltà di individuazione della sezione competente, già dalle prime pronunce della V sezione. Vedi, Cons. Stato V. sez., 15 gennaio 1909, in Giur. It., 1909, III, p. 130, in tema di ricorsi per tasse comunali e Cons. Stato V. sez., 18 marzo 1909, in Giur. It., 1909, III, p. 134. (7) G. ZANOBINI, Corso di Diritto Amministrativo, VII ed., vol. II, 1936, p. 146. Contra, F. CAMMEO, op. cit., p. 173. Le ragioni che determinarono l’istituzione delle due sezioni separate risultano chiare dai lavori parlamentari. In primo luogo, si voleva che fosse noto da subito agli interessati il giudice designato, e venisse esclusa ogni perplessità inerente ad una assegnazione fatta dal presidente. In secondo luogo, si voleva evitare che da una competenza promiscua derivassero contraddizioni giurisprudenziali. Il legislatore del 1889, quando istituì la IV sezione del Consiglio di Stato, intese insediare un organo amministrativo di vertice con poteri giustiziali di annullamento (8) che si poneva, in un sistema di giustizia interno, rispetto a quelli sottordinati (superiore gerarchico o G.P.A. che avevano competenza estesa al merito) nella stessa posizione in cui si pone nel giudizio civile la Cassazione rispetto ai giudici di merito. Illuminante sul punto il discorso del senatore Auriti, pronunciato al Senato nella seduta del 22 marzo 1888, e nel quale così si distinguono le funzioni del Consiglio di Stato in sede di competenza (generale) di legittimità e competenza (speciale) di merito: “Nel primo caso, il Consiglio di Stato ha funzioni, non in tutto, ma in gran parte analoghe a quelle della Corte di Cassazione, e nel secondo caso funzioni simili a quelle del magistrato d’appello. Imperocché non essendo ammesso il ricorso al Consiglio di Stato in via contenziosa, se non quando la questione fu già dibattuta e risoluta in linea amministrativa colle vie ordinarie, ciò sarebbe come un primo grado, per risalire in secondo grado al Consiglio di Stato” (9). Il Costa, poi, relatore dell’Ufficio Centrale ed altro principale artefice della legge, nella stessa seduta affermava: “L’On. Auriti ha esattamente notato che, per le materie prevedute nell’art. 3, il Consiglio di Stato ha una giurisdizione assimilabile a quella della Corte di Cassazione, che investe il provvedimento per se stesso; mentre per le materie prevedute nell’art. 4 ha una giurisdizione di merito, assimilabile a quella che spetta alla magistratura giudiziaria di appello” (10). Tale concezione informava evidentemente ancora il legislatore del 1907, come risulta dalla stessa presentazione del disegno di legge governativo da parte del Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno Giolitti, che qualificava la competenza della IV sezione come “cassazione amministrativa” (11). TEMI ISTITUZIONALI 7 (8) L’art. 3 della legge n. 5992 del 1889, disponeva che alla IV sezione del Consiglio di Stato fossero attribuiti “i ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere e violazione di legge contro atti e provvedimenti di una autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbia per oggetto un interesse di individui o di enti morali giuridici, quando i ricorsi medesimi non siano di competenza dell’autorità giudiziaria né si tratti di materia spettante alla giurisdizione od alle attribuzioni contenziose di corpi o collegi speciali”. (9) Atti Parlamentari della Camera dei Senatori, Discussioni, Legislatura XVI Sessione 2^ seduta del 22 marzo 1888, p. 1211-1212. (10) Atti parlamentari, cit, p. 1216. Vedasi in proposito anche P.G. PONTICELLI, La giurisdizione di merito del Consiglio di Stato, Milano, 1958, p. 98-100. (11) Atti parlamentari del Senato del Regno, I Sessione 1904-1906, Disegni di legge e Relazioni, Tornata 27 novembre 1906, p. 4. Vedasi anche la Relazione sulle Avvocature erariali 1905-1907, p. 35. Più esplicito ancora l’intervento del Deputato De Nava, che nella Tornata 2 marzo 1907, testualmente dichiarava: “nelle materie contemplate dalla legge del 1890 sulla giustizia amministrativa, per le quali si ricorre alla Giunta provinciale amministrativa con piena giurisdizione, anche di merito, e precisamente in tutti quei casi che sono contemplati dall’articolo 1 della legge del 1890, compete contro le decisioni della Giunta provinciale amministrativa il ricorso al Consiglio di Stato, ma si può ricorrere soltanto per ragioni di legittimità. Nel disegno di legge che ora discutiamo, e precisamente al numero 21 che si aggiunge alla legge del 1890, è stabilito che i ricorsi al Consiglio di Stato, contro le decisioni della Giunta provinciale amministrativa che decidono il merito, possono abbracciare anche il merito della controversia. In verità, sebbene questa sia una maggior garanzia che si dà ai litiganti, io non vedo la ragione della estensione delle attribuzioni della quinta sezione del Consiglio di Stato; cioè a dire di attribuirle una competenza quasi di Corte di appello rispetto alle decisioni della Giunta provinciale amministrativa che abbiano deciso nel merito, moltiplicando così i giudizi” (12). Coerentemente con tale concezione furono, d’altronde, previsti particolari poteri istruttori per il giudice competente a decidere anche in merito, poteri congruenti con la concezione del giudizio di merito come giudice del fatto (13). Ancora nel 1937, d’altronde, la dottrina riconosceva la caratteristica principale della giurisdizione di merito nella potestà di “giudicare completamente dei fatti posti a substrato del provvedimento amministrativo” (14). La conoscibilità del fatto anche in sede di legittimità e la evoluzione del giudizio di merito in giudizio di opportunità e convenienza erano, quindi, ancora di là da venire (15). In tale quadro non stupisce, quindi, che la giurisprudenza del Consiglio di Stato sia stata ferma nel ritenere che IV e V sezione fossero due giurisdizioni distinte. 2. Il contributo dell’Avvocatura erariale. L’Avvocatura dello Stato può vantare qualche merito – diretto e indiretto – per aver contribuito così al processo storico che portò alla nascita del 8 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (12) Atti parlamentari della Camera dei Deputati, I sessione, Discussioni, Tornata 2 marzo 1907, p. 2513. (13) “Faccio solo notare, che l’aggiunta dell’art. 37 con la quale si ampliano i poteri istruttori della sezione chiamata a pronunciare anche sul merito, soddisfa ad un bisogno da lungo tempo sentito; essendo di palmare evidenza che un Collegio investito di piena giurisdizione deve essere messo in grado di raccogliere direttamente le prove richieste per la istruzione completa della causa; come avviene anche nei Collegi dell’ordine giudiziario chiamati a decidere sul diritto e sul fatto”. (Relazione Giolitti sopra cit. sub. 6). (14) C. VITTA, Diritto Amministrativo, Utet, 1937, Vol. I, p. 566. D’altronde, ancora oggi, vedasi G. BARBAGALLO, La giurisdizione del Consiglio di Stato dalle origini al 1923, in Il Consiglio di Stato nella storia d’Italia, a cura di G. MELIS, Giuffrè, Milano, 2006, p. 2312. (15) F. BENVENUTI, Giustizia Amministrativa, voce, in Enciclopedia del diritto, p. 608. giudice amministrativo in Italia come alle prime immediate evoluzioni del sistema di giustizia amministrativa così istituito, tra cui quella di cui alla legge istitutiva della V sezione del Consiglio di Stato. Naturalmente, come sempre accade quando si deve affrontare un tema di giustizia amministrativa, non si può che prendere l’avvio da quella che è tuttora la pietra miliare del nostro ordinamento di giustizia amministrativa, la legge abolitrice del contenzioso amministrativo del 1865, legge che, come è noto, soppresse i tribunali speciali del contenzioso, devolvendo al giudice ordinario tutte le sue cause, anche contro l’Amministrazione, in cui si facesse questione di un diritto civile o politico. L’unico limite posto al giudice ordinario nei confronti dell’Amministrazione fu il divieto di annullare l’atto amministrativo, che poteva essere soltanto disapplicato. Fu una scelta di civiltà liberale coraggiosissima, perché si modellò su quella che era l’esperienza inglese, mediata attraverso la Costituzione belga del 1831 (dei cui articoli 92, 93 e 107, gli articoli 2, 4 e 5 della legge italiana abolitrice del contenzioso amministrativo rappresentano la letterale traduzione). Si trattò però di una scelta probabilmente troppo in anticipo sui tempi, tanto vero che fiorì, immediatamente dopo l’approvazione della legge abolitrice, una giurisprudenza che, sulla falsariga di quella belga (già consolidatasi e destinata a dare pienezza di giustizia fin quasi alla metà del secolo scorso), concesse aperture estremamente allarmanti per la classe dirigente del tempo, inducendola a correre ai ripari con energiche controspinte conservatrici. Nell’anno 1876 era pacifica, infatti, una giurisprudenza delle Cassazioni italiane che consentiva a chi fosse stato danneggiato da un atto amministrativo (ad esempio un provvedimento prezzi) di chiedere il risarcimento del danno. Era un riconoscimento della risarcibilità dei danni da lesione di interesse legittimo ante litteram, che precorreva i tempi di ben 123 anni (16). Tutto questo avveniva, poi, nonostante l’arcigna guardia montata dal Consiglio di Stato, all’epoca incardinato nell’esecutivo e però contraddittoriamente eretto in giudice dei conflitti fra potere esecutivo e potere giudiziario. In sintomatica coincidenza con la concessione alla Corte di Cassazione romana della funzione di giudice dei conflitti, la classe politica ebbe il timo- TEMI ISTITUZIONALI 9 (16) Cass. Roma, 13 marzo 1876, in Foro it., 1876, I, 842, le cui massime recitano: “chiunque da un provvedimento generale regolamentare dell’autorità amministrativa riceva danno con offesa dei suoi diritti può domandare il risarcimento dinanzi all’autorità giudiziaria. Così può dimandarlo il prestinaio, che abbia ricevuto qualche pregiudizio da un provvedimento del Comune, con cui venne fissata una tariffa obbligatoria pel prezzo di vendita delle farine e del pane. L’autorità giudiziaria investita della dimanda, riconosciuta l’irregolarità di un provvedimento non deve revocarlo, ma soltanto dichiarare la responsabilità dell’autorità amministrativa, di fronte alla prova del danno. Fra i danni che i prestinai, nella specie suddetta, possono dimandare, si comprendono quelli per le pretese contravvenzioni, o dalle limitazioni apportate alla loro industria, o da altre circostanze”. La nota redazionale del Foro italiano commenta, poi, i principi affermati e massimati come espressione di indirizzo consolidato, citando, tutta una lunga serie di precedenti analoghi. re di spingersi troppo in là, considerata anche la larga apertura liberale già effettuata dalla giurisprudenza. Come controspinta ad una riforma troppo in anticipo sui tempi istituì, quindi, l’Avvocatura, allora chiamata erariale, e non a caso perché la riduttiva denominazione dava ragione di quella che sarebbe stata la linea di difesa commessa al nascente istituto. L’Avvocatura erariale si mosse, ovviamente, lungo la linea di contenere al massimo possibile l’ingerenza del giudiziario nei confronti dell’esecutivo. D’altra parte non dobbiamo dimenticare quale fosse all’epoca il rispettivo valore dei tre poteri tradizionali. Lo Stato liberal-borghese era nato con una supremazia del potere legislativo rispetto agli altri due. Era quella l’epoca delle grandi codificazioni, che realizzarono il sogno illuminista di una rete di regole generali ed astratte che imbrigliasse tutta la variegata dimensione dell’operare umano. In proposito aveva scritto Napoleone: Waterloo sarà dimenticata, ma il mio codice civile vivrà per sempre. Il potere esecutivo, forte nella sostanza, aveva però un campo di azione estremamente limitato: era quello il tempo dello “Stato gendarme”, che si limitava sostanzialmente a difendere le frontiere all’esterno e l’ordine pubblico all’interno. Il potere giudiziario, poi, era veramente figlio di un dio minore, perché dalla rivoluzione francese era nato un potere giudiziario guardato con sospetto e diffidenza, soprattutto quando veniva chiamato a sindacare l’esecutivo, perché era considerata verità di fede l’equazione: “giudicare l’Amministrazione equivale ad amministrare”. L’Avvocatura erariale del tempo, al fine di contenere i poteri del giudiziario nei confronti dell’esecutivo si mosse lungo tre direttrici: quella di negare la natura di diritti alle situazioni nascenti da leggi amministrative; quella di negare la possibilità per i giudici di disapplicare l’atto amministrativo che avesse direttamente recato un pregiudizio; infine, quella più grave, di negare giurisdizione al giudice quando l’Amministrazione avesse operato jure imperi. Ecco, quindi, perché l’Avvocatura si denominava erariale: perché lo Stato intendeva assoggettarsi al giudizio soltanto quando avesse operato nella sue veste di diritto privato. Quando avesse operato, invece, come autorità esso doveva ritenersi sottratto al sindacato giurisdizionale. La giurisprudenza accolse le tesi dell’Avvocatura e si giunse quindi al bizzarro paradosso che da una riforma liberale che equiordinava l’Amministrazione all’amministrato dinanzi al suo unico giudice, nasceva in realtà un’Amministrazione senza giudice (17). 10 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (17) La tesi della responsabilità storica dell’Avvocatura erariale nel determinare la linea interpretativa restrittiva di cui si è detto fu già enunciata, come dato di fatto, nell’infuocato dibattito parlamentare sulla legge istitutiva della IV sezione del Consiglio di Stato, dal senatore Pierantoni (genero del Mancini) il quale, opponendosi strenuamente al disegno, vedeva come unico vero rimedio alla insufficiente difesa degli amministrati una più esatta lettura, da parte del giudice ordinario italiano, della legge del 1865, una lettura conforme alla lettera della norma ed all’interpretazione datane dalla giurisprudenza belga di fronte ad analogo testo e, criticando la distinzione fra atti di gestione e atti di imperio, ammoniva gli onorevoli colleghi come tale interpretazione, fatta propria dal giudice italiano, fosse errata: Di qui il profondo scontento e le proteste della società civile e dei suoi più illuminati rappresentanti, fra i quali spiccava Silvio Spaventa, dalle cui iniziative nacque, nel 1889, la IV sezione del Consiglio di Stato. La relativa legge è nota anche come “controriforma Crispi” e va notato, però, che essa non nacque affatto in spirito controriformistico, perché si continuava a pensare che unico giudice, unica giurisdizione, fosse quella del giudice ordinario. La IV sezione del Consiglio di Stato veniva investita quindi, secondo le intenzioni del legislatore del tempo, di un compito amministrativo di giustizia interna all’Amministrazione, con la funzione di sindacare la legittimità degli atti amministrativi attraverso una valutazione di tipo esclusivamente cassatorio. L’Avvocatura erariale, per bocca del suo Avvocato Generale, fu tra i grandi sostenitori della legge Crispi (18) e per questo può parlarsi dell’Avvo- TEMI ISTITUZIONALI 11 “l’opera della Cassazione – precisò – fu spinta su questa via dall’Avvocatura Erariale, forte istituto, prevalente nell’opera del potere amministrativo e giudiziario” (Atti parlamentari del Senato del Regno, Discussioni, Tornata 20 marzo 1888, p. 1170). (18) Illuminante, per comprendere appieno la ratio che ispirò la politica difensiva dell’Avvocatura ed apprezzarne l’intima coerenza di condotta sull’intera problematica della giustizia amministrativa, è il seguente brano della relazione dell’Avvocato Generale per l’anno 1883: “Fino a che non si riconosca competenza se non al giudice del diritto, sarebbe non senza pericolo, per la indipendenza dei poteri, attribuirgli l’indagine della prudenza o della opportunità sulla misura o sull’atto amministrativo. Intanto che basta l’addentrarsi anche di poco nelle pratiche della giustizia amministrativa per accorgersi che nulla più ne offende, o disdice, quanto lo scompagnare nell’atto amministrativo l’esame della legittimità, dove ogni regola diventa pieghevole, dall’esame della giustizia, la quale non può tornare che di convenienza...E dunque, affrancati da ogni scrupolo commettasi al Consiglio di Stato, a questo Supremo Collegio dell’ordine amministrativo, l’esame di ogni atto amministrativo nel doppio aspetto di quella speciale legittimità e di quella speciale giustizia, che si comportano dalla giustizia amministrativa. “Lo possiamo col Consiglio di Stato, senza sospettare che ne restino trascesi i limiti, offesi i criteri, disdetti i fini della giustizia amministrativa, per astrazioni inutili se non pericolose, e con invece la istituzionale garanzia di riportarne sempre applicazioni concrete e rassicuranti”. Nella stessa relazione, peraltro, si contesta apertamente che la responsabilità politica possa configurarsi come sufficiente garanzia per la legalità nell’azione amministrativa: “Ma sono troppi o ben gravi gli interessi raccomandati alle autorità amministrative, i quali aspettano dalle nostre leggi l’ordinamento che ne tuteli serietà e verità, da non potersi aspettare da quella politica responsabilità la quale nel fatto e nell’opinione licenzia i ministri all’arbitrio più che non li esponga a rese dei conti. Questa responsabilità per nessuno si ha per vera e seria garanzia della retta, imparziale amministrazione della giustizia amministrativa; e anche per noi è tempo di mettere gli interessi che le sono raccomandati al coperto delle calunnie e contro le esagerazioni di ingerenza indebita, le quali pur sono il tarlo che più rode e corrode il Governo dei parlamenti”. Non è davvero difficile cogliere nei passi or ora trascritti la stessa convinta determinazione, nell’auspicare la piena ed effettiva affermazione della giustizia nell’Amministrazione (attraverso l’istituzione di un Giudice apposito, quale il Consiglio di Stato, incardinato nell’Amministrazione, ma da essa tradizionalmente indipendente), che connotò i discorsi dei più illuminati e vivaci propugnatori di essa, e primo fra tutti lo Spaventa. Altrettanto catura dello Stato come levatrice del giudice amministrativo. Con il formarsi della restrittiva giurisprudenza di cui si è detto, causata dalla vittoriosa linea difensiva dell’Avvocatura, si creò, infatti, la necessità della IV sezione del Consiglio di Stato come organo di giustizia interna all’Amministrazione. Fu, poi, ancora l’Avvocatura erariale, con un ricorso alle Sezioni Unite della Cassazione romana, a provocare, nel 1893, quella sentenza che riconobbe al Consiglio di Stato natura giurisdizionale, determinando, quindi, il passaggio, nell’arco di appena quattro anni, del Consiglio di Stato, da organo di giustizia interna, ad organo giurisdizionale (19). Questo, però, determinava anche una promozione dell’Avvocatura, che non era più soltanto il difensore della personalità patrimoniale dello Stato, ma diventava difensore del potere esecutivo e delle sue prerogative e quindi avvocato a tutto tondo “dello Stato” e non più soltanto dello Stato come persona privata. Il disegno, che si sarebbe completato negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso con l’unificazione della Cassazione a Roma, con l’incardinamento dell’Avvocatura dello Stato, del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti nella Presidenza del Consiglio, con l’istituzione del Foro erariale e con il mutamento, anche formale, della denominazione da Avvocatura erariale in Avvocatura dello Stato, era però già ben chiaro ai vertici dell’Istituto in tempi ben più remoti. Così come aveva promosso in via giurisprudenziale la tesi della natura giurisdizionale dell’attività contenziosa del Consiglio di Stato, l’Avvocatura caldeggiò l’approvazione del disegno della legge istitutiva della V sezione in tutti i suoi elementi più caratterizzanti, in particolare il conferimento del crisma legislativo alla natura giurisdizionale della funzione e la conseguente capacità del Consiglio di Stato di essere giudice della propria competenza (20). Caldeggiò anche la possibilità per il giudice amministrativo di conoscere di diritti soggettivi in via pregiudiziale o incidentale: tesi, quest’ultima, che dopo qualche parziale e timida apertura giurisprudenziale doveva trovare riconoscimento solo con la riforma del 1923 (21). 12 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO immediatamente può desumersi come l’indirizzo difensivo che l’Avvocatura erariale adottò in ordine all’interpretazione della legge abolitiva del contenzioso, piuttosto che essere animato da intenti di segno illiberale, fosse invece consapevolmente mirato a stimolare una chiara ed univoca definizione giurisprudenziale di quello che – esorbitando dai limiti della giurisdizione del giudice ordinario – avrebbe dovuto essere il “territorio” da riservare al giudice amministrativo di cui si invocava l’istituzione. (19) La Cassazione di Roma a Sezioni Unite, con sentenza 21 marzo 1893, n. 177, in Foro it., 1893, I, 294, statuiva che: “la IV Sezione del Consiglio di Stato è stata investita dalle leggi 31 marzo 1889 e 1° maggio 1890 di una vera e propria giurisdizione, la quale ha pure il carattere speciale di fronte a quelle generiche assegnate all’autorità giudiziaria, donde l’ammissibilità del ricorso per incompetenza o eccesso di potere anche contro le decisioni della IV Sezione” (la massima è tratta dalla relazione dell’Avvocato Generale per il 1898, 32). (20) Relazione dell’Avvocato Generale per gli anni 1889-1904, p. 49. (21) Relazione dell’Avvocato Generale per gli anni 1912-1925, p. 75. Naturalmente l’Avvocatura non seguiva tale strada solo per amor di “scienza e coscienza”, come suol dirsi di ogni avvocato, ma perseguiva ovviamente anche il disegno di ampliare le proprie funzioni e conquistare nuovi poteri, promuovendosi, come si è detto, dalle riduttive dimensioni dell’erario a quelle più generali dello Stato. Già nel 1906, infatti, l’Avvocato Generale Erariale presentava al Ministro dell’Interno (Capo dell’Amministrazione in cui allora era incardinato l’Istituto) un progetto di Regolamento che mutava la denominazione della Avvocatura da “erariale” in “dello Stato”(22), manifestando così un’aspirazione che doveva realizzarsi solo un quarto di secolo dopo. 3. L’opera della V Sezione. Non è facile sintetizzare il lavoro svolto dalla V sezione nel suo quindicennio di attività specialistica di giudice “anche nel merito”. Volendolo schematizzare per grandi linee possono individuarsi due filoni accomunati da una stessa ispirazione giustizialista. Il primo è quello relativo alla conoscibilità incidenter tantum dei diritti soggettivi in sede pregiudiziale ed incidentale, in cui la sezione – in questo sostenuta dall’Avvocatura erariale – ingaggiò un braccio di ferro con la Corte di Cassazione romana. Braccio di ferro che la vide dapprima soccombente (23), poi vittoriosa (24). Il secondo è quello relativo al primo timido approccio al giudizio di ottemperanza ed allo zoccolo duro della sua essenza come giudizio di opportunità. In proposito è noto che sono stati formulati giudizi assai negativi, come quello di Franco Gaetano Scoca, secondo cui, all’epoca, il ricorso in ottemperanza era ritenuto inammissibile ove l’Amministrazione avesse comunque adottato i nuovi provvedimenti o l’ottemperanza comportasse attività discrezionali, sicché il processo di ottemperanza “si presentava come un tronco improduttivo” (25). Giudizio come si vede, assai duro e probabilmente eccessivo, ove si ponga mente alle prime, ancorché timide, aperture “sostanzialistiche” che ben presto stemperarono, e non di poco, il primo atteggiamento di chiusura (26). TEMI ISTITUZIONALI 13 (22) Relazione dell’Avvocato Generale per l’anno 1909, p. 11. (23) Relazione dell’Avvocato Generale per l’anno 1911, p. 35. (24) Cass. Roma, SS.UU. 9 gennaio 1915, in Foro It., 1915, I, 257 e altre successive citate in Relazione dell’Avvocato Generale per gli anni 1912 – 1925, p. 76. (25) F. SCOCA, Modello tradizionale e trasformazione del processo amministrativo dopo il primo decennale di attività dei TT.AA.RR. in Dir. proc. amm.vo, 1985, I, 270. (26) A. CERRETO, L’Istituzione della V Sezione del Consiglio di Stato e le altre innovazioni introdotte dalla L. 7 marzo 1907 n. 62, con accenno alle questioni fondamentali emerse nella giurisprudenza della V sezione nel periodo 1907-1923. Comunicazione per la giornata di studio per il Centenario dell’istituzione della Quinta Sezione del Consiglio di Stato, in www.giustizia-amministrativa.it. Vedasi Cons. Stato, V sez., 30 dicembre 1910 che ammise un ricorso contro un atto di spoglio del possesso e Cons. Stato, V sez., 28 febbraio 1913, n. 86 in Giust. Amm.va, 1913, 46, che stabilì modalità di esecuzione di un obbligo. In realtà, la “politica giudiziaria” della V sezione fu ispirata da una fondamentale esigenza di giustizia sostanziale, nei limiti, naturalmente, che i tempi consentivano, quale, ad esempio, il rivendicato sindacato sui diritti in via pregiudiziale ed incidentale sopra ricordato, la sempre riaffermata esigenza della difesa come “diritto naturale e sacro” e la definizione della giurisdizione amministrativa come “quella che tra le ragioni di sua concezione ed esistenza autonoma e distinta dalla giurisdizione ordinaria ha quella precipua di contemperare entro congrui limiti i rigidi postulati del diritto con le plausibili esigenze dell’interesse pubblico” (27). Significativo sopra ogni altro è, comunque, il messaggio contenuto nel discorso inaugurale della V sezione (28), tenuto dal suo primo Presidente, Ottavio Serena di Lapigio, allievo di Silvio Spaventa, il cui cursus honorum lo vide più volte deputato, prefetto, sottosegretario all’Interno ed, infine, consigliere di Stato e senatore. In quel discorso, di brevità e densità tacitiane, egli seppe individuare l’errore di semplificazione contenuto nella definizione della competenza di merito come cognizione estesa al fatto. In realtà – egli puntualizzo – nella eterogenea serie di casi attribuiti alla giurisdizione di merito vi erano sia giudizi su rapporti, che comportavano la conoscenza tanto di diritti quanto di interessi, sia giudizi di opportunità, che postulavano l’applicazione da parte del giudice di regole metagiuridiche (29). Venivano così gettati i semi di due fondamentali sviluppi della giustizia amministrativa: l’istituzione della giurisdizione esclusiva e la estensione del giudizio di ottemperanza – come giudizio di opportunità – al giudicato amministrativo. Sviluppi non a caso caldeggiati dalla Commissione reale istituita nel 1910 per suggerire le ulteriori riforme (di cui il Serena faceva parte ed in cui sedevano Mortara, Scialoja, Orlando, Salandra). Riforme che dovevano poi essere introdotte, la prima, con la legislazione del 1923-1924 dopo l’intervallo della prima guerra mondiale, e la seconda in via giurisprudenziale. È noto, infatti, che, nel 1928, il Consiglio di Stato ritenne esperibile il ricorso in ottemperanza anche per decisioni della giurisdizione amministrativa (30). La decisione della IV sezione che affermò il principio viene genericamente tacciata di apoditticità, ed addirittura additata ad esempio di “bruta normazione giurisprudenziale” (31). 14 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (27) Cons. Stato, V sez., 25 gennaio 1909, n. 52. (28) In Annuario del Consiglio di Stato, 1908. (29) Vedasi in proposito G. FAGIOLARI, La giurisdizione di merito del Consiglio di Stato, in Studi in occasione del centenario del Consiglio di Stato, Poligrafico, Roma, 1932, p. 69. (30) Cons. Stato, IV sez., n. 181 e 182 del 9 marzo 1928, in Giur. It. 1928, III, p. 123. (31) M. NIGRO, Il giudicato amministrativo e il processo di ottemperanza, in Atti del XXVII congresso di studi di scienza dell’Amministrazione, Il giudizio di ottemperanza, Milano, 1983, p. 65. A ben leggerla pare, invece, che essa contenga una motivazione scarna ma di singolare modernità, in quanto equipara nella esigenza di tutela l’interesse legittimo fatto valere dinanzi al Consiglio di Stato al diritto soggettivo fatto valere dinnanzi al giudice ordinario. Si legge, infatti, nella decisione richiamata: “sempre sta fermo il principio che logico inscindibile contenuto della pronuncia di annullamento di atto amministrativo si è la pronuncia dichiarativa della lesione da parte dell’Amministrazione di un interesse del privato giuridicamente protetto e pertanto, dell’obbligo della Amministrazione alla restaurazione del medesimo”. Segue da tali premesse... “che se l’Amministrazione, di fronte al giudicato amministrativo si sia mantenuta in atteggiamento negativo poiché la perdurante omissione dell’Amministrazione sempre importa lesione di un legittimo interesse del privato, riconosciuto e dichiarato dal giudicato, bene è da ritenersi in tal caso ammissibile il ricorso del privato all’autorità giurisdizionale” (in sede di ottemperanza). In ultima analisi l’argomento usato dal Consiglio di Stato nel 1928 è lo stesso usato dalla Corte Costituzionale nel 2004 per ritenere legittima la somministrazione di tutela risarcitoria da parte del giudice degli interessi (32). Al di là della modernità dell’argomento, foriero di sviluppi nel lontano futuro, un importante risultato era stato comunque raggiunto: il giudizio di ottemperanza era stato esteso al giudicato amministrativo e la sua qualificazione come giudizio esteso al merito attribuiva al giudice dell’ottemperanza quei poteri sostitutivi che comportava la nuova accezione della contrapposizione legittimità-merito che nel frattempo era venuta maturando. Tali poteri sostitutivi erano stati fino allora poco o punto esercitati, ma di essi il giudice amministrativo, nei decenni a venire avrebbe dimostrato di saper far buon uso. 4. Considerazioni conclusive. Con il senno di poi può osservarsi che la riforma del 1907 fu una riforma sbagliata nella parte – pur importante – in cui individuò la competenza della neo istituita V sezione come competenza “anche in merito”, facendone un giudice speciale rispetto a quello generale di legittimità, rappresentato dalla IV sezione, e dunque istituendo due giurisdizioni amministrative (una di merito, l’altra di legittimità) con le conseguenze negative che si sono viste. Riprendendo la frase di un famoso teologo francese potremmo però ricordare che talvolta Dio scrive dritto su linee storte o dire, in chiave laica, che la Storia ricorre talvolta alle sue astuzie. Fatto si è che l’attività della V sezione seppe, nonostante tutto, innestare nel tronco della giustizia amministrativa dei germogli che dovevano dare nei decenni avvenire rigogliosa fioritura, grazie soprattutto all’impulso lungimi- TEMI ISTITUZIONALI 15 (32) Corte Cost. sent. n. 204 del 2004. rante del suo primo Presidente: quell’Ottavio Serena di Lapigio (33) di cui già si è detto. Né questo insistito riferimento sia preso come indulgenza al personalismo. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che quella di cui parliamo era l’Italia dei notabili. Le leggi sulla giustizia e gli indirizzi giurisprudenziali prima che negli uffici di governo, nelle aule parlamentari ed in quelle di giustizia nascevano dal dialogo fra gli uomini che sedevano ai vertici degli istituti e che contemporaneamente (o poco tempo prima o dopo) erano (o erano stati o sarebbero stati) uomini di Governo o autorevoli parlamentari. Il primo Presidente della V sezione incarna perfettamente il notabile lungimirante del tempo, ed il suo discorso d’insediamento precorre le due innovazioni cui l’attività della sezione doveva preparare l’humus di attecchimen- 16 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (33) Ottavio Serena Di Lapigio fu il primo magistrato chiamato a presiedere la V Sezione, di cui aprì i lavori il 4 novembre del 1907, affermando che la V sezione “attribuisce o nega i diritti, ed anche provvede, cioè fa quello che l’autorità amministrativa avrebbe dovuto fare, o rifà quello che essa ha mal fatto, surrogandosi all’autorità medesima. La IV fa sempre ufficio di giudice e non altro che di giudice. La V esercita anch’essa, da un punto di vista esclusivamente formale, ufficio di giudice; ma sostanzialmente fa pure ufficio di amministratore”. Si ricordano le sentenze di cui fu l’estensore per il loro stile elegante e la dettagliata ricostruzione dei fatti. I lavori della V sezione inizialmente riguardarono la risoluzione dei problemi legati alla ripartizione di competenze tra le due sezioni giurisdizionali. Ottavio Serena Di Lapigio presiedette la V sezione dal 1907 al 1912 e durante la sua presidenza, Giovanni Arnaldo Raimoldi, consigliere di V sezione dal 1907, fu apprezzato relatore di diverse decisioni, molte delle quali in contrasto con l’orientamento, della Corte di Cassazione, critico nei riguardi della funzione giurisdizionale del Consiglio di Stato. In una decisione del 15 novembre 1909 si affermò la competenza della V sezione a conoscere della questione pregiudiziale sulla natura giuridica delle istituzioni pubbliche di beneficenza. Carlo Sandrelli fu il successore di Serena; consigliere della V sezione dal 1908, nel 1912 ne fu il presidente. Durante la sua presidenza la V sezione si pronunciò su materie quali l’impiego pubblico (concorsi per assunzione nella pubblica amministrazione e licenziamenti), il concentramento delle opere pie, le spese per il mantenimento degli indigenti, la materia elettorale (questioni legate al regolare espletamento degli scrutini elettorali), l’attribuzione ai comuni delle spese di spedalità e assistenza. Nel corso di questa presidenza, Ernesto D’Agostino svolse la sua attività di consigliere. Si può ricordare una sua decisione in materia di competenza del sindaco ad occupare d’urgenza immobili per servizi sanitari, in occasione di un’epidemia. Con questa decisione fu riaffermata la centralità del ruolo del prefetto nell’adozione di provvedimenti d’urgenza straordinari. Gabriele Pincherle fu il presidente della V sezione dal 1917 al 1921 e relatore di pregevoli pronunce, specie in materia elettorale e tributaria. Succedette Alfredo Ghersi, che nel corso della sua carriera ricevette numerose onorificenze e fu ricordato da Santi Romano come un uomo “nutrito di studi severi e di larga cultura, anche letteraria; diritto ed onesto; semplice, schietto ed avveduto, Egli si è sempre fatto notare ed amare per profonda bontà d’animo, per costante benignità e cortesia di modi, per ritrosia ed invincibile modestia”. Alberto Pironti fu il suo successore. Sotto la sua presidenza furono esaminate soprattutto questioni relative ai regolamenti comunali, ai podestà, al pubblico impiego, al dazio di consumo, alle opere pie, ai maestri elementari. to: la giurisdizione esclusiva e l’estensione al giudicato amministrativo di quel giudizio di ottemperanza, che rappresenta di gran lunga la parte più importante e vitale della giurisdizione di merito (34). Orbene, è noto che giurisdizione esclusiva e ottemperanza costituiscono due dei più importanti – se non, con la sospensiva, i più importanti – istituti di cui si servì come grimaldello la giurisprudenza amministrativa nell’ultimo quarto del secolo scorso per scardinare lo scudo formale del processo sull’atto, facendo emergere dalla sua trasformazione una giustizia volta al soddisfacimento degli interessi sostanziali sottesi e tendenzialmente equiordinati a quelli civili sotto i profili istruttori, cognitori e decisori. Trasformazione che doveva completarsi a cavallo del passaggio di millennio con la legge 205/2000 e la sentenza della Corte Costituzionale 204/2004 (35). Si è realizzata così completamente, dopo un secolo, quell’esigenza di avvicinamento della giustizia amministrativa “al diritto comune” che, come si è visto, era stata la ratio ispiratrice della legge istitutiva della V sezione del Consiglio di Stato di cui si è quest’anno celebrato il centenario. TEMI ISTITUZIONALI 17 (34) C. CALABRÒ, Il giudizio di ottemperanza, in Studi per il centocinquantenario del Consiglio di Stato, H, Poligrafico, Roma, 1981, III, p. 2007. (35) I. F. CARAMAZZA, Da una amministrazione senza giudice verso una giustizia senza amministrazione?, in “Il diritto della Regione” del Veneto, n. 1-2/97; Le nuove frontiere della giurisdizione amministrativa, in Rass. Avv. Stato, 2004, p. 74. La Corte europea dei diritti dell’uomo. Considerazioni generali sulla sua attività, sulla esecuzione delle sentenze nei confronti dello Stato italiano, sul patrocinio in giudizio di Giuseppe Albenzio(*) 1. Il Trattato di Roma del 4 novembre 1950 e la legge di ratifica del 4 agosto 1955, n. 848. La Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – figlia della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni unite il 10 dicembre 1948 – è stata approvata con il Trattato internazionale di Roma del 4 novembre 1950 e ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848, successivamente emendata ed integrata con alcuni Protocolli (fra i quali ricordiamo il Protocollo addizionale firmato a Parigi il 20 marzo 1952 ed il Protocollo n. 11, ratificato dall’Italia con legge 28 agosto 1997, n. 296, ed entrato in vigore il 1° novembre 1998, mentre il Protocollo n. 14, stipulato a Strasburgo il 13 maggio 2004 e ratificato in Italia con legge 15 dicembre 2005, n. 280, contenente importanti modifiche al sistema di controllo e nuove norme di procedura per i giudizi dinanzi alla Corte, non è ancora entrato in vigore per la mancata ratifica da parte della Russia); la Convenzione riconosce ai cittadini degli Stati contraenti la tutela dei diritti e libertà fondamentali in essa indicati; condizione per l’adesione alla Convenzione è l’appartenenza al Consiglio d’Europa (art. 59); attualmente gli Stati membri di quest’ultimo sono 47, cioè tutti gli Stati europei ad eccezione della Bielorussia (che ha, al momento, un osservatore); l’adempimento e la corretta applicazione degli I L C O N T E N Z I O S O C O M U N I TA R I O E D I N T E R N A Z I O N A L E (*) Avvocato dello Stato. obblighi della Convenzione è assicurata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (art. 19) che è competente anche per la interpretazione delle clausole del trattato e dei suoi protocolli aggiuntivi (art. 32). Sia il Consiglio che la Corte hanno sede in Strasburgo; la Corte è composta di un giudice per ciascuno Stato contraente, eletto dall’Assemblea parlamentare del Consiglio. Dopo un primo periodo di attività piuttosto marginale (dovuta principalmente alla subordinazione dell’accesso alla accettazione preventiva del diritto al ricorso da parte dello Stato interessato), l’attività della Corte ha assunto un ruolo sempre più importante ed incisivo nella disciplina delle libertà e dei diritti fondamentali demandati alla sua tutela a partire dal 1998 (con l’entrata in vigore del Protocollo n. 11 e la eliminazione del filtro preventivo alla proposizione del ricorso). Alla Corte possono accedere direttamente i cittadini (e le organizzazioni non governative) con ricorso (art. 34), una volta esauriti i rimedi giurisdizionali nazionali ed entro sei mesi dal loro compimento (art. 35, cui il Protocollo n. 14 non ancora entrato in vigore, come già detto, aggiunge altre condizioni e, in particolare, la presenza di un pregiudizio significativo); possono accedervi anche i singoli Stati contraenti nei confronti di altri Stati (art. 33); largo spazio è dato alla composizione amichevole dei conflitti (art. 38). 2. La legge 9 gennaio 2006, n. 12, e il d.p.c.m. 1° febbraio 2007. L’incremento del contenzioso dopo la riforma del 1998 (i ricorsi presentati annualmente sono passati, nel decennio 1995-2006, da 11.200 a 50.500, e nel 2007 si è registrato un ulteriore incremento stimabile intorno al 6%, come riportato nella Relazione al Parlamento presentata dalla Presidenza del Consiglio per l’anno 2006) e la emanazione da parte della Corte di sentenze di condanna molto pesanti per lo Stato italiano (fra tutte, per numero, quelle sulla eccessiva durata dei processi prima della legge Pinto e, per l’entità delle somme da pagare, le note sentenze Scordino e le altre conseguenti a procedure di esproprio irregolari) hanno indotto il Parlamento ad affidare alla Presidenza del Consiglio (in considerazione della sua funzione di responsabile della politica estera dell’Esecutivo ed in materia di trattati internazionali, oltre che di rappresentante dello Stato italiano dinanzi alla Corte di Strasburgo) la competenza sulla adozione delle misure necessarie per la corretta ed esaustiva esecuzione della sentenze della Corte; con legge 9 gennaio 2006, n. 12, è stata aggiunta al comma 3 dell’art. 5 della legge 23 agosto, n. 400, la lettera a-bis) secondo la quale il Presidente del Consiglio dei Ministri (“direttamente o conferendone delega ad un ministro”): “promuove gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunzie della Corte europea dei diritti dell’uomo emanate nei confronti dello Stato italiano; comunica tempestivamente alle Camere le medesime pronunce ai fini dell’esame da parte delle competenti Commissioni parlamentari permanenti e presenta annualmente al Parlamento una relazione sullo stato di esecuzione delle suddette pronunce”. 20 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Alla legge è stata data esecuzione con il d.p.c.m. 1° febbraio 2007 (in G.U. 10 aprile 2007) che ha affidato al Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza la competenza nella materia. La esecuzione delle sentenze della Corte comporta, non solo, a) il pagamento delle somme riportate nel dispositivo di condanna (sia per restituito in integrum che a titolo di equa soddisfazione) ma, anche, l’adozione di tutte le misure amministrative e normative necessarie per evitare b) che nei confronti del ricorrente la situazione denunziata produca ulteriori pregiudizi e c) che le denunziate violazioni continuino a provocare danni alla generalità dei cittadini (in tal senso, si vedano la Raccomandazione del Comitato dei Ministri in data 19 gennaio 2000, n. R(2000)2, e le conclusioni e raccomandazioni del Comitato di esperti per il miglioramento delle procedure di protezione dei diritti dell’uomo – DH-PR presso il Comitato direttivo per i diritti dell’uomo – CD-DH, Segretariato Generale del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, che ha concluso i suoi lavori nel marzo 2008 in Strasburgo, con la partecipazione di delegati da tutti i Paesi contraenti). L’attribuzione alla Presidenza del Consiglio della competenza de qua è molto utile anche per la gestione della fase di componimento amichevole che la Convenzione e la Corte promuovono al fine di evitare, per quanto possibile, l’adozione di sentenze di condanna degli Stati. A tal fine, sia dopo la pronunzia di ricevibilità del ricorso (quando emessa separatamente dal merito) sia dopo la condanna sull’an (che accerta l’esistenza della violazione denunziata a carico dello Stato), su sollecitazione del Cancelliere (Greffier) della Corte o della parte privata o dello Stato riconosciuto responsabile, si apre una fase stragiudiziale tendente alla quantificazione concorde della somma riconosciuta a favore della parte ricorrente che, se accettata, comporta la cancellazione della causa dal ruolo; cancellazione che la Corte dispone anche quando l’offerta formulata dallo Stato viene ritenuta congrua, ancorché non accettata dalla parte: è evidente l’interesse dello Stato a pervenire alla cancellazione della causa dal ruolo piuttosto che ad una sentenza di condanna definitiva ed a tal fine l’intervento della Presidenza del Consiglio è molto importante non solo per la soluzione della singola controversia ma, soprattutto, per la salvaguardia dell’immagine internazionale del Paese. Alla Presidenza del Consiglio compete, altresì, promuovere l’azione di rivalsa nei confronti degli enti responsabili della irregolarità delle procedure (principalmente in materia di espropri per pubblica utilità) che hanno causato la condanna da parte della Corte, secondo la (complessa) procedura delineata dall’art. 1, commi 1217-1221, della legge 27 dicembre 2006, n. 296-legge finanziaria 2007, ove è anche stabilito che il Ministero dell’Economia e delle Finanze provvede al pagamento di tutti gli indennizzi dovuti in seguito a pronunzie di condanna della Corte EDU (oltre che della Corte di Giustizia CE). 3. Le sentenze della Corte Costituzionale n. 348 e 349 del 24 ottobre 2007. La Corte Costituzionale ha definito, con le sentenze 348 e 349 del 2007, la posizione delle norme della Convenzione e delle sentenze della CEDU rispetto alla nostra Carta costituzionale, in occasione della pronunzia di inco- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 21 stituzionalità di alcune disposizioni sulle espropriazioni per pubblica utilità (art. 5-bis, commi 1, 2 e 7-bis, d.l. 333/92, conv. in l. 359/92, e art. 37, commi 1 e 2, d.P.R. 327/01), più volte censurate dinanzi alla Corte europea ed ai giudici nazionali. Secondo la Corte Costituzionale (sent. 348), a differenza delle norme comunitarie che hanno efficacia diretta nel nostro ordinamento ai sensi dell’art. 11 Cost., “la Convenzione EDU, invece, non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa è configurabile come un trattato internazionale multilaterale … da cui derivano “obblighi” per gli Stati contraenti, ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, omisso medio, per tutte le autorità interne degli Stati membri” con la conseguenza che “il giudice comune non ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l’asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi”; con riferimento alle decisioni della Corte EDU la sentenza continua precisando che “tra gli obblighi internazionali assunti dall’Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione”; conclude la sentenza precisando che “quanto detto sinora non significa che le norme della CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, acquistano la forza delle norme costituzionali e sono perciò immuni dal controllo di legittimità costituzionale di questa Corte. Proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, è necessario che esse siano conformi a costituzione… Si deve peraltro escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione”. Nella coeva sentenza n. 349 la Corte Costituzionale ha ulteriormente chiarito che “questa Corte e la Corte di Strasburgo hanno in definitiva ruoli diversi, sia pure tesi al medesimo obiettivo di tutelare al meglio possibile i diritti fondamentali dell’uomo. L’interpretazione della Convenzione di Roma e dei Protocolli spetta alla Corte di Strasburgo… a questa Corte… spetta, invece, accertare il contrasto e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, garantiscano una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana”. L’importanza di queste pronunzie è di grande evidenza non solo per il nostro ordinamento ma, anche, per quello internazionale di competenza della 22 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Corte EDU e sarà interessante verificarne l’impatto sulle future pronunzie di quest’ultima: per vero, se le sentenze CEDU non tenessero conto del bilanciamento dei contrapposti interessi che la nostra Costituzione (come quelle di tutti gli altri Stati contraenti) statuiscono a fondamento dell’ordinamento, le condanne non sarebbero eseguibili in Italia nella misura in cui si discostassero da quel bilanciamento e, parallelamente, lo Stato italiano sarebbe passibile di censura dinanzi al Consiglio d’Europa per violazione dell’obbligo assunto di “conformarsi alla sentenza definitiva della Corte” (art. 46) – obbligo la cui attuazione è vigilata dal Comitato dei Ministri del Consiglio attraverso l’apposito Servizio incardinato presso il suo Segretariato – con l’alternativa della sospensione dello Stato da parte del Consiglio (con successivo invito al ritiro, ai sensi del combinato disposto degli art. 3 e 8 dello Statuto del Consiglio d’Europa stipulato a Londra il 5 maggio 1949) o della denunzia della Convenzione (art. 58) da parte dello Stato. Si tratta di scenari ai quali, auspicabilmente, non si perverrà ma il problema (che si pone, ovviamente, non in relazione ai principi della Convenzione EDU che sono comuni alla nostra Costituzione ma per la interpretazione degli stessi che ne dia la Corte) non è da sottovalutare, atteso che, sino ad oggi, la Corte EDU ha dato l’impressione di giudicare in un’ottica diversa da quella emergente dalle sentenze della Corte Costituzionale sopra riportate, prescindendo dagli ordinamenti costituzionali dei singoli Stati e prendendo in considerazione solo le norme della Convenzione come da essa interpretate (si vedano i risarcimenti “punitivi” liquidati per alcune procedure illegittime di espropriazione, come nel caso Scordino ove la restitutio in integrum è andata ben oltre il valore venale del terreno espropriato fino a pervenire, attraverso la attribuzione di un risarcimento commisurato al valore degli immobili ivi costruiti dalla pubblica amministrazione ed ai “danni morali”, alla iperbolica cifra di € 4.000.000,00 circa per un terreno agricolo nelle campagne di Reggio Calabria; si vedano i risarcimenti per l’eccessiva durata dei processi, ove la quantificazione dell’equa riparazione non tiene conto del tempo minimo necessario per l’espletamento di un processo, individuato recentemente anche dalle Sezioni Unite della nostra Cassazione in cinque anni per i giudizi civili, con sentenza 14 del 2008; si vedano le condanne pronunziate nonostante il relativo diritto fosse stato dichiarato prescritto con sentenza passata in giudicato dall’Autorità giudiziaria italiana, come nel caso Croci). 4. La rappresentanza e difesa dello Stato italiano dinanzi alla Corte. Dinanzi alla Corte di Strasburgo compare lo Stato (che è firmatario della Convenzione ) e non le singole amministrazioni cui sono riconducibili i fatti oggetto di censura; lo Stato, in persona dell’Agente designato, è assistito e patrocinato in giudizio da co-agenti insediati nella Rappresentanza permanente d’Italia presso il Consiglio d’Europa (attualmente due magistrati ordinari collocati fuori ruolo e che reggono tutto il contenzioso di Strasburgo). L’Avvocatura dello Stato non assume la difesa dello Stato in queste cause, salvo che in casi eccezionalissimi (praticamente un paio di volte ad IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 23 oggi) ma lo sviluppo del contenzioso sopra delineato e la crescente rilevanza dell’impegno economico che ne deriva dovranno portare ad un ripensamento della posizione, quale coerente completamento della riorganizzazione attuata con la legge n. 12 del 2006 e con la legge finanziaria 2007. La partecipazione dell’Avvocatura dello Stato ai giudizi dinanzi alla Corte di Strasburgo, in coordinamento con i co-agenti in loco, si rende ancor più indispensabile se si considera la opportunità di: a) prevenire pronunzie non conformi alla gerarchia delle fonti delineata dalle citate pronunzie della Corte Costituzionale e non rispettose della funzione di quest’ultima; b) evitare, per quanto possibile, pronunzie di condanna dell’Italia ed incrementare la definizione amichevole delle controversie; c) curare la corretta esecuzione delle sentenze di condanna presso i competenti organismi giudiziari ed amministrativi nazionali, anche in relazione al controllo operato dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ed alle ulteriori conseguenze di una eventuale inadempienza; d) assicurare la proponibilità delle azioni di rivalsa contro gli enti responsabili delle illegittimità all’origine della condanna. Non c’è bisogno di alcun intervento normativo per consentire all’Avvocatura di patrocinare lo Stato dinanzi alla Corte di Strasburgo, attese le competenze generali attribuite all’Istituto dall’art. 9 legge 3 aprile 1979, n. 103, e dall’art. 1 r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611; c’è bisogno solo di “risorse” di uomini e mezzi. 24 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 25 L’art. 117, comma 1, Cost. e le norme CEDU secondo la Corte costituzionale (Corte Costituzionale, sentenze 24 ottobre 2007 nn. 348 e 349) (*) 1. - Il primo comma dell’art. 117 Cost. è quello sinora meno esplorato. Le due sentenze della Corte costituzionale per la prima volta, a quanto risulta, ne hanno chiarito gli effetti sulle leggi in contrasto con gli obblighi internazionali. Non hanno ancora fatto altrettanto per la contrarietà ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, a proposito della quale le questioni non sono certamente meno complesse. La Corte si è trovata a coordinare il primo comma dell’art. 117 con l’art. 10 e, in parte, con l’art. 11 Cost. Le due sentenze investono, la n. 348, l’art. 5-bis, commi 1 e 2, del decreto- legge 11 luglio 1992, n. 333 e, la seconda (la n. 349), l’art. 5-bis, comma 7-bis, dello stesso testo normativo. Esse, in parte, si integrano perché in ciascuna si trovano conclusioni che si coordinano con la motivazione dell’altra, talvolta più articolata. Secondo la n. 348 tra gli obblighi internazionali “indubbiamente rientrano quelli derivanti dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo”. Nella n. 349 sono richiamati gli sviluppi nel tempo della giurisprudenza sulla rilevanza nell’ordinamento interno delle norme della CEDU per arrivare a mettere in evidenza i ruoli diversi della Corte costituzionale e della Corte di Strasburgo “sia pure tesi al medesimo obiettivo di tutelare al meglio possibile i diritti fondamentali dell’uomo”. La Corte ha ribadito che il Trattato CEDU non ha comportato una limitazione della sovranità dello Stato cosicché si è al di fuori della sfera normativa dell’art. 11 Cost., che ha trovato applicazione, invece, per il Trattato CEE (1). Ha escluso, pertanto, la possibilità di applicazione diretta come ha escluso che la CEDU possa essere ricondotta nell’ambito dell’art. 10 Cost. perché “la giurisprudenza di questa Corte… ha costantemente affermato che l’art. 10, primo comma, Cost., il quale sancisce l’adeguamento automatico dell’ordinamento interno alle norme di diritto internazionale generalmente ricono- (*) Per le ricadute delle sentenze sul contenzioso nazionale, si veda il Dossier 1, a cura di Maurizio Borgo. (1) “La distinzione tra le norme CEDU e le norme comunitarie deve essere ribadita nel presente procedimento nei termini stabiliti dalla pregressa giurisprudenza di questa Corte, nel senso che le prime… non producono effetti diretti nell’ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto” (v. sent. n. 348, n. 3.3 della motivazione in diritto). 26 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO sciute, concerne esclusivamente i principi generali e le norme di carattere consuetudinario… mentre non comprende le norme contenute in accordi internazionali che non riproducano i principi o norme consuetudinarie di diritto internazionale” (2). La soluzione è stata trovata nell’art. 117, primo comma, che sviluppa “la sua concreta operatività” solo se posta in stretto collegamento con altre norme, di carattere sub-costituzionale, destinate a dare contenuti ad un parametro che si limita ad enunciare in via generale una qualità che le leggi in esso richiamate devono possedere (3). Limite alla funzione delle norme richiamate è, secondo la Corte, la loro conformità alla Costituzione (4). 2. - La questione, sulla quale la Corte si è pronunciata, presentava la peculiarità che le norme richiamate sono soggette alla interpretazione della Corte di Strasburgo, vincolante per gli Stati aderenti. Rilevato che “le norme richiamate della CEDU vivono nell’interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea” la Corte costituzionale, per non incorrere in enunciazioni che lasciassero spazi troppo ampi alla normativa internazionale, ha precisato che “si deve peraltro escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali” (5). (2) Sent. n. 349, n. 6.1 della motivazione in diritto. (3) V. sent. n. 348, n. 4.5, sempre della motivazione in diritto. Nel numero seguente è poi sottolineato, a proposito della competenza interpretativa delle norme CEDU, attribuita alla Corte di Strasburgo: “Non si può parlare quindi di una competenza giurisdizionale che si sovrappone a quella degli organi giudiziari dello Stato italiano, ma di funzione interpretativa eminente che gli Stati contraenti hanno riconosciuto alla Corte europea, contribuendo con ciò a precisare i loro obblighi internazionali nella specifica materia”. (4) “La particolare natura delle stesse norme, diverse da quelle comunitarie sia da quelle concordatarie, fa sì che lo scrutinio di costituzionalità non possa limitarsi alla possibile lesione dei principi e diritti fondamentali… o dei principi supremi…, ma debba estendersi ad ogni profilo di contrasto tra le ‘norme interposte’ e quelle costituzionali. L’esigenza che le norme che integrano il parametro costituzionale siano esse stesse conformi alla Costituzione è assoluta ed inderogabile, per evitare il paradosso che una norma legislativa venga dichiarata incostituzionale in base ad un’altra norma sub-costituzionale, a sua volta in contrasto con la Costituzione. In occasione di ogni questione nascente da pretesi contrasti tra norme interposte e norme legislative interne, occorre verificare congiuntamente la conformità a Costituzione di entrambe e precisamente la compatibilità della norma interposta con la Costituzione e la legittimità della norma censurata rispetto alla norma interposta” (sent. n. 348, n. 4.7). (5) V. sent. n. 348, n. 4.7 che prosegue: “Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione. In sintesi, la completa operatività delle norme interposte deve superare il vaglio della loro compatibilità con l’ordinamento costituzionale italiano, che non può essere modificato da fonti esterne, specie se queste non derivano da organizzazioni internazionali rispetto alle quali siano state accettate limitazioni di sovranità come quelle previste dall’art. 11 della Costituzione”. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 27 Le motivazioni delle due sentenze possono essere così schematizzate: – alle norme della CEDU non può essere riconosciuto effetto diretto (6); – ad esse non sono applicabili né l’art. 10 né l’art. 11 Cost.; – “in mancanza di una specifica previsione costituzionale, le medesime, rese esecutive nell’ordinamento interno con legge ordinaria, ne acquistano il rango e quindi non si collocano a livello costituzionale” (7); – rilievo costituzionale hanno assunto solo attraverso l’art. 117, primo comma, Cost., rispetto al quale si collocano come “norme interposte”; – una volta verificata la legittimità costituzionale delle norme dalle quali derivano gli obblighi internazionali richiamati dall’art. 117, primo comma, le norme interne che li violano vanno dichiarate costituzionalmente illegittime. Le norme che erano sotto esame sono state dichiarate illegittime in quanto non conformi alle norme CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, ritenute, queste ultime, a loro volta conformi alla Costituzione. La Corte costituzionale ha attribuito alla CEDU una collocazione rispetto all’ordinamento italiano, che dovrebbe considerarsi ormai definitiva. Ha ribadito che la CEDU non ha comportato alcuna limitazione della sovranità nazionale, attenendosi ad un orientamento assunto da tempo. Nel suo precedente (sent. n. 188/1980) aveva escluso l’applicabilità dell’art. 11 Cost. “non essendo individuabile….alcuna limitazione della sovranità nazionale”, conclusione che, peraltro, non era particolarmente argomentata. Le argomentazioni possono essere desunte indirettamente dalla sentenza successiva, sulla natura del Trattato CEE (8). (6) “Le stesse sentenze della Corte di Strasburgo, anche quando è il singolo ad attivare il controllo giurisdizionale nei confronti dello Stato di appartenenza, si rivolgono allo Stato membro legislatore e da questo pretendono un determinato comportamento” (sent. n. 349 n. 6.1). (7) Sent. n. 349, n. 6.1. (8) È la nota sentenza Granital (n. 170/1984) con la quale la Corte costituzionale si è adeguata alla posizione che sin dall’inizio aveva assunto la Corte di Giustizia. Nella sentenza n. 349, dopo aver richiamato il suo precedente, la Corte ha rilevato che “i diritti fondamentali non possono essere considerati una ‘materia’ in relazione alla quale sia allo stato ipotizzabile, oltre all’attribuzione di competenza limitata all’interpretazione della Convenzione, anche una cessione di sovranità”. Secondo la Corte, dunque, non è individuabile una ’materia’ rispetto alla quale lo Stato italiano abbia ceduto alla CEDU ogni potere di intervento. La Convenzione ha solo imposto allo Stato una serie di doveri, ai quali deve far fronte provvedendo a tutti gli adempimenti interni necessari. Per questo è stata esclusa la possibilità di applicazione diretta della norme internazionali da parte dei giudici interni, eventualmente disapplicando le norme statali difformi. La Corte di cassazione sembra che nel frattempo si sia spinta più avanti della Corte costituzionale con la sentenza n. 32678 del 12 luglio 2006, Sez. I penale (la sentenza è stata commentata da GUAZZAROTTI e COSSIRI, L’efficacia in Italia delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo la prassi più recente, in questa Rassegna, 2006, n. 4, p. 15 e ss.). La sentenza non è stata richiamata o perché non ancora in grado di esprimere il diritto vivente o perché non conforme ad un orientamento precedente della Corte costituzionale. 3.- A seguito delle due sentenze sia l’indennità di espropriazione di aree edificabili sia il risarcimento dei danni per occupazione illegittima vanno commisurate al valore venale del bene, ma con criteri che talvolta possono avere una certa elasticità. Secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo l’indennizzo deve porsi in rapporto ragionevole con il valore del bene. Nel caso di “espropriazione isolata” solo una riparazione integrale può essere considerata in rapporto ragionevole. Un indennizzo inferiore, ma non troppo lontano dal valore venale, si giustifica quando gli obiettivi di pubblica utilità sono “di riforma economica o di giustizia sociale”. Prima che una nuova legge intervenga a porre una disciplina differenziata in questo senso, l’indennizzo deve corrispondere al valore venale in ogni caso. Il risarcimento per occupazione illegittima non può, invece, che essere commisurato all’intero danno subito dal proprietario. La Corte ha dovuto coordinare le sue nuove decisioni con uno dei suoi precedenti in materia (9), che aveva suscitato non poche perplessità nella dottrina. In quell’occasione la Corte aveva giustificato la legittimità costituzionale delle norme impugnate anche con la peculiarità della situazione economica del momento. Il nuovo parametro costituzionale, introdotto dall’art. 117, primo comma, Cost., ha reso necessaria la verifica della conformità delle norme impugnate ai principi fissati dalla Corte di Strasburgo. 28 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO “Non si può parlare quindi di una competenza giurisdizionale che si sovrappone a quella degli organi giudiziari dello Stato italiano, ma di una funzione interpretativa eminente che gli Stati contraenti hanno riconosciuto alla Corte europea, contribuendo con ciò a precisare i loro obblighi internazionali nella specifica materia” (sent. n. 348, n. 4.6). Un giudice unico internazionale era indispensabile per assicurare la uniformità di interpretazione per la quale non si poteva fare affidamento sui giudici nazionali, tanto è vero che in altre occasioni, per raggiungere lo stesso risultato si è fatto ricorso ad organi arbitrali, sempre internazionali. Non rimane del tutto chiaro quanto nella stessa sentenza si legge poco dopo (n. 4.7): “Si deve peraltro escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali”. Resta nel dubbio il coordinamento con quanto la Corte ha enunciato poco prima vale a dire che “le norme della CEDU vivono nell’interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea”. Va escluso, pertanto, che la Corte possa dare alle norme CEDU una interpretazione, eventualmente diversa da quella adottata dalla Corte di Strasburgo, per renderla conforme alla Costituzione. Probabilmente si è voluto dire che il carattere vincolante della interpretazione data dalla Corte di Strasburgo non sottrae le norme alla verifica di legittimità costituzionale per realizzare il “ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione”. (9) Sono le sentenze n. 283/1993, in materia di indennità di espropriazione, e n. 148/199, in materia di risarcimento del danno da occupazione acquisitiva. I criteri adottati in materia di indennità di espropriazione, da un punto di vista formale, erano tra loro coerenti perché entrambe le Corti ritenevano possibile discostarsi dal pieno valore venale del bene. La differenza era quantitativa. La difformità dei criteri era, invece, sostanziale a proposito del risarcimento del danno perché la Corte di Strasburgo escludeva che si consentisse all’autore di ricavare un beneficio da un suo atto illecito. La ragione per il superamento del suo precedente orientamento è stato trovato dalla Corte costituzionale nella “eccezionalità del caso, giustificata soprattutto dal carattere temporaneo della norma denunziata, nonché della esigenza di salvaguardare una ineludibile, e limitata nel tempo, manovra di risanamento della finanza pubblica” (10). Superato quel periodo, il criterio di valutazione andava mutato perché la diversa decisione del 1999 “è stata ancorata…anzitutto in riferimento ad un parametro diverso da quello evocato in questa sede. Inoltre, a tale conclusione questa Corte è pervenuta essenzialmente in considerazione della temporaneità della disciplina, nonché di esigenze congiunturali di carattere finanziario. E ancora sulla temporaneità pone l’accento la sentenza n. 24 del 2000”. 4. - Le due sentenze fanno sorgere alcune questioni, sulle quali la Corte non si è pronunciata perché estranee alla indagine che le era stata richiesta. Si faccia l’ipotesi (11) che una norma CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, sia dichiarata non conforme ai principi della Costituzione. La norma interna, in contrasto con essa, non sarebbe incostituzionale ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost. e continuerebbe legittimamente a produrre i suoi effetti. Ciò malgrado, costituirebbe ugualmente una violazione al Trattato CEDU? Verrebbe in discussione la legittimità costituzionale della legge di esecuzione, in quanto legge ordinaria, che avrebbe introdotto nell’ordinamento anche norme non compatibili con la Costituzione. Data la sua struttura, la legge di esecuzione verrebbe coinvolta soltanto parzialmente. Sarebbe interessata per alcuni dei suoi effetti, precisamente per aver dato esecuzione anche a norme in contrasto con la Costituzione (12). CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 29 (10) Sent. n. 349, n. 7.1. (11) L’ipotesi non è solo teorica. Tenuto conto degli sviluppi che la giurisprudenza internazionale sta assumendo, non può escludersi che qualche norma CEDU finisca col creare dubbi sulla sua conformità ai principi della Costituzione. (12) La legge di esecuzione di un Trattato internazionale, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, può essere sottoposta alla verifica di costituzionalità non di per sé, e nel suo complesso, ma come veicolo che ha introdotto nell’ordinamento italiano le norme portate dal Trattato che lo Stato si è obbligato ad adottare. In questi casi, pertanto, la norma soggetta a verifica è quella del Trattato internazionale, in quanto tradotta dalla legge di esecuzione come norma interna. La dichiarazione di illeL’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale nei limiti indicati escluderebbe la illegittimità costituzionale della norma interna, ma potrebbe rendere lo Stato italiano inadempiente sul piano internazionale per aver dato esecuzione al Trattato con un norma inadeguata. Che succederebbe se la norma CEDU, che non presentava profili di illegittimità costituzionale come intesa al momento in cui è stata varata la legge di esecuzione, li dovesse assumere a seguito della evoluzione nel tempo della giurisprudenza della Corte di Strasburgo? Potrebbe farsi valere una illegittimità costituzionale sopravvenuta? La Corte costituzionale, come si è rilevato, non si poteva porre il problema, ma non è escluso che la questione possa sorgere in seguito. 5. - La Corte ha applicato l’art. 117, primo comma, che richiama gli obblighi internazionali, senza esclusioni. Non per questo si può concludere che i principi enunciati nelle due sentenze vadano automaticamente considerati di applicazione generale. Le sentenze si sono espresse sull’art. 117, primo comma, Cost. per cui si potrebbe essere orientati a ritenere applicabili quei principi a tutti i casi nei quali resti inosservato qualsiasi obbligo internazionale. In proposito si dovrebbe procedere con una certa prudenza. L’art. 117, primo comma, Cost. è stato preso in esame attraverso norme interposte particolari, quali sono quelle della CEDU, che la Corte ha definito una “realtà giuridica, funzionale ed istituzionale” (13). Il trattato che l’ha costituita è plurilaterale e le sue norme operano “nell’ambito della tutela dei diritti fondamentali delle persone, e quindi si muo[veva]no nell’ambito della tutela dei diritti fondamentali delle persone, 30 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO gittimità costituzionale, pertanto, non colpisce la legge di esecuzione nel suo complesso, ma solo negli effetti di trasposizione che ha prodotto nei confronti della norma internazionale, oggetto di verifica. La Corte costituzionale ha avuto occasione di occuparsi ripetutamente sull’argomento. Tra le prime, le sentenze intervenute sulla legge n. 819/1929, che ha reso esecutivo il Concordato dove si trova precisato (n. 30/1971, n. 2) che “…la denuncia del Pretore di Torino, per quanto diretta espressamente contro taluni commi dell’art. 34 del Concordato tra la Santa Sede e l’Italia, reso esecutivo con la legge 27 maggio 1929, n. 810, deve ritenersi riferita a questa legge, nella relatio con le sopra indicate clausole del Concordato (in corsivo nel testo si trova solo la relatio). Sulla natura della legge di esecuzione restano sempre valide le osservazioni del MORELLI, Nozioni di diritto internazionale, Padova, 1967, p. 90: “La determinazione delle variazioni che l’ordine di esecuzione apporta all’ordinamento interno, cioè delle norme interne che mediante l’ordine di esecuzione vengono create ed abrogate, va fatta, in concreto, in base a due punti di riferimento: in primo luogo, alle norme internazionali contenute nel trattato e quindi agli obblighi ed alle facoltà che dal trattato derivano carico ed a favore dello Stato; in secondo luogo, alle norme che compongono l’ordinamento dello Stato al momento in cui l’ordine di esecuzione viene emanato”. V. anche GIULIANO, Diritto internazionale, I, Milano 1977, pp. 292-293. (13) Sent. n. 349/07, n. 6.1. e quindi integra[va]no l’attuazione di valori e principi fondamentali protetti dalla Costituzione italiana” (14). Come la Corte ha messo in evidenza, le nome CEDU, anche se non costituiscono un ordinamento, danno luogo ad un sistema complesso tale da creare una realtà giuridica, funzionale e istituzionale. Gli stessi principi non potrebbero trovare applicazione automatica per qualsiasi altra norma internazionale, in particolare per quelle inserite in trattati bilaterali il cui contenuto, come noto, è quanto mai vario. Le loro previsioni sono quasi sempre calibrate in base ai rapporti particolari con l’altro Stato contraente ed alle sue esigenze, che possono essere contingenti. Una legge interna, che non sia del tutto coordinata con una di queste norme, non per questo potrà dare luogo automaticamente a questioni di legittimità costituzionale, ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost.. Prima di tutto andrà verificato che da questi trattati derivino per lo Stato italiano effettivamente degli obblighi, intesi come doveri di comportamento, determinati e senza condizioni, nei confronti dell’altro Stato contraente. Si dovrà, poi, accertare se la norma interna abbia come risultato effettivo la violazione dell’obbligo internazionale. Andrebbero poi esclusi quegli obblighi di carattere speciale, assunti per le esigenze episodiche alle quali il trattato vuole far fronte, come andrebbero esclusi quegli obblighi per la violazione dei quali il trattato stesso ha previsto una sanzione apposita. Prevedendo quest’ultima, si deve presumere che gli Stati contraenti abbiano inteso rinunciare alla persistenza nel tempo della norma interna di esecuzione. Dovrà, naturalmente, tenersi anche conto del carattere speciale che assume la norma di esecuzione del trattato, come tale non interessata da norme generali interne successive (15). Non è prevedibile, infatti, che possa essere varata una norma interna, anche essa speciale, rivolta a neutralizzare proprio l’obbligo assunto nei confronti di quel certo Stato, parte di un trattato bilaterale. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 31 (14) Sent. n. 348/07 n. 4.3. (15) Nella sentenza n. 10/1993, richiamata nella sentenza n. 348 (n. 4.3), la Corte ha avuto occasione di rilevare la peculiarità delle norme di esecuzione: “Le norme internazionali appena ricordate sono state introdotte nell’ordinamento italiano con la forza di legge propria degli atti contenenti i relativi ordini di esecuzione… e sono tutt’ora vigenti, non potendo, certo, esser considerate abrogate dalle successive disposizione del codice di procedura penale, non tanto perché queste ultime sono vincolate alla direttiva contenuta nell’art. 2 della legge delega del 16 febbraio 1987, n. 81, quanto, piuttosto, perché si tratta di norme derivanti da una fonte riconducibile a una competenza atipica e, come tali, insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria”. Probabilmente per temperare questa affermazione, nella sentenza n. 348 è precisato che era “non seguita tuttavia da altre pronunce dello stesso tenore” (il corsivo non si trova nel testo). La questione di legittimità costituzionale, ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost., potrà sorgere per contrasto con trattati internazionali, in quanto tali particolarmente strutturati, e per quegli obblighi assunti con trattati bilaterali che, in via diretta o in diretta, possano essere in relazione con i primi. Data la gran quantità di vincoli internazionali di varia natura, che vanno sempre aumentando, la individuazione delle norme interposte, nella applicazione dell’art. 117, primo comma, andrà effettuata caso per caso e con prudenza particolare se non ci si vuole impigliare in una rete dalla quale sarebbe poi difficile districarsi. In definitiva, le due sentenze della Corte non potranno essere richiamate come precedenti specifici. Avv.Glauco Nori Corte Costituzionale, sentenza 24 ottobre 2007 n. 348 – Pres. F. Bile – Red. G. Silvestri – nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, promossi con ordinanze del 29 maggio e del 19 ottobre 2006 (nn. 2 ordd.) dalla Corte di cassazione, rispettivamente iscritte ai nn. 402 e 681 del registro ordinanze 2006 ed al n. 2 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 2006 e nn. 6 e 7, prima serie speciale, dell’anno 2007 – R.A. (avv.ti F. Cacace e F. Manzo), A.C. (Avv. N. Paoletti), M.T.G. (Avv. N. Paoletti e A. Mari) c/ Presidente del Consiglio dei ministri (Avv. dello Stato G. Palmieri). «Ritenuto in fatto 1. - Con ordinanza depositata il 29 maggio 2006 (r.o. n. 402 del 2006), la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, per violazione dell’art. 111, primo e secondo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) firmata a Roma il 4 novembre 1950, cui è stata data esecuzione con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), nonché dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al citato art. 6 CEDU ed all’art. 1 del primo Protocollo della Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, cui è stata data esecuzione con la medesima legge n. 848 del 1955. La norma è oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della determinazione dell’indennità di espropriazione dei suoli edificabili, prevede il criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale rivalutato, disponendone altresì l’applicazione ai giudizi in corso alla data dell’entrata in vigore della legge n. 359 del 1992. 1.1. - La Corte rimettente riferisce che nel giudizio principale la parte privata R.A., già proprietaria di suoli espropriati per l’attuazione di un programma di edilizia economica e 32 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO popolare nel Comune di Torre Annunziata, e firmataria di un atto di cessione volontaria in data 2 aprile 1982, ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli del 6 dicembre 2001 per censurare la liquidazione dell’indennità ivi effettuata, in quanto non adeguata al valore dei beni, anche con riferimento alla mancata rivalutazione della somma liquidata. Nel giudizio di legittimità si sono costituiti il Comune di Torre Annunziata, il quale ha proposto ricorso incidentale, e l’Istituto autonomo case popolari della Provincia di Napoli. Con memoria illustrativa la ricorrente R.A. ha eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, norma applicata ai fini della quantificazione dell’indennità, per contrasto con gli artt. 42, terzo comma, 24 e 102 Cost., in quanto il criterio ivi previsto non garantirebbe un serio ristoro ai proprietari dei suoli espropriati e la sua applicazione ai giudizi in corso costituirebbe una «indebita ingerenza del potere legislativo sull’esito del processo». A questo proposito si ricorda come la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia costantemente rilevato il contrasto del menzionato art. 5-bis con l’art. 1 del primo Protocollo della Convenzione europea. La censura della parte ricorrente è estesa all’art. 37 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), in quanto si tratta della disposizione, oggi vigente, che ha perpetuato il criterio di calcolo censurato. 1.2. - Il rimettente esclude la rilevanza della questione avente ad oggetto la norma citata da ultimo, in quanto applicabile solo ai procedimenti espropriativi iniziati a partire dal 1° luglio 2003, secondo la previsione contenuta nell’art. 57 del medesimo d.P.R. n. 327 del 2001. Nel caso di specie, invece, il giudizio è iniziato nel 1988. Al contempo, la Corte di cassazione ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma di cui all’art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992. 1.3. – In merito alla rilevanza della questione sollevata, il rimettente sottolinea come nella specie si tratti «indiscutibilmente» di suoli edificabili, ai quali è applicabile il citato art. 5-bis, commi 1 e 2. In particolare, si evidenzia come l’oggetto del contendere sia costituito dal «prezzo della cessione volontaria», rectius, «dal conguaglio dovuto rispetto a quanto a suo tempo convenuto, in applicazione della legge n. 385 del 1980». Il giudice a quo ricorda, in proposito, che il prezzo della cessione volontaria deve essere commisurato alla misura dell’indennità di espropriazione; da ciò consegue che nel giudizio principale è ancora in contestazione la determinazione dell’indennizzo espropriativo e che l’eventuale ius superveniens, costituito da un nuovo criterio di determinazione dell’indennità di espropriazione dei suoli edificabili, troverebbe senz’altro applicazione. 1.4. - Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte di cassazione ritiene di dover riformulare i termini della questione prospettata dalla parte privata ricorrente, individuando i parametri costituzionali di riferimento negli artt. 111 e 117 Cost. Il ragionamento è condotto alla luce dell’esame parallelo della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e di quella costituzionale in materia di indennizzo espropriativo. In relazione alla prima, sono richiamate in particolare le sentenze del 29 luglio 2004 e del 29 marzo 2006, entrambe emesse nella causa Scordino contro Italia, con le quali lo Stato italiano è stato condannato per violazione delle norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nella pronunzia del 2004, la Corte europea ha censurato l’applicazione, operata dai giudici nazionali, dell’art. 5-bis ai giudizi in corso, stigmatizzando la portata retroattiva della norma in parola, come tale lesiva della certezza e della trasparenza nella sistema- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 33 zione normativa degli istituti ablatori, oltre che del diritto della persona al rispetto dei propri beni. Infatti, l’applicazione di tale criterio ai giudizi in corso ha violato l’affidamento dei soggetti espropriati, i quali avevano agito in giudizio per essere indennizzati secondo il criterio del valore venale dei beni, previsto dall’art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per pubblica utilità), ripristinato a seguito della dichiarazione di incostituzionalità delle norme che commisuravano in generale l’indennizzo al valore agricolo dei terreni (sentenze n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983). Con la sentenza del 2006, invece, la Corte di Strasburgo ha rilevato la strutturale e sistematica violazione, da parte del legislatore italiano, dell’art. 1 del primo Protocollo della Convenzione europea, osservando che la quantificazione dell’indennità in modo irragionevole rispetto al valore del bene ha determinato, appunto, una situazione strutturale di violazione dei diritti dell’uomo. Nell’occasione la Corte di Strasburgo ha sottolineato come, ai sensi dell’art. 46 della Convenzione, lo Stato italiano abbia il dovere di porre fine a siffatti problemi strutturali attraverso l’adozione di appropriate misure legali, amministrative e finanziarie. Sul fronte interno, il giudice rimettente evidenzia come la norma oggetto di censura sia stata più volte scrutinata dalla Corte costituzionale, che l’ha ritenuta conforme all’art. 42, terzo comma, Cost., perché introduttiva di un criterio mediato che assicura un ristoro «non irrisorio» ai soggetti espropriati, nel rispetto della funzione sociale della proprietà (sentenze n. 283, n. 414 e n. 442 del 1993). Anche sotto il profilo dell’applicazione ai giudizi in corso, la Corte costituzionale ha respinto le censure affermando, in particolare nella sentenza n. 283 del 1993, che l’irretroattività delle leggi, pur costituendo un principio generale dell’ordinamento, non è elevato - fuori dalla materia penale - al rango di norma costituzionale. Nel caso di specie, attesa la situazione di carenza normativa che caratterizzava al tempo la materia (dopo gli interventi caducatori della stessa Corte, con le sentenze n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983) e la conseguente applicazione in via suppletiva del criterio del valore venale, la retroattività dell’intervento legislativo non poteva dirsi confliggente con il canone della ragionevolezza. In esito alla disamina risulterebbe evidente, a parere del giudice a quo, che la questione debba essere posta oggi in riferimento ai diversi parametri individuati negli artt. 111 e 117 Cost., secondo una prospettiva inedita che è quella del sopravvenuto contrasto della norma censurata con i principi del giusto processo e del rispetto degli obblighi internazionali assunti dallo Stato, attraverso il richiamo delle norme convenzionali contenute nell’art. 6 CEDU e nell’art. 1 del primo Protocollo, in funzione di parametri interposti. 1.5. - La Corte di cassazione svolge poi una serie di considerazioni per giustificare il ricorso all’incidente di costituzionalità, sottolineando come spetti al legislatore la predisposizione dei mezzi necessari per evitare la violazione strutturale e sistematica dei diritti dell’uomo, denunciata dalla Corte europea nella sentenza Scordino del 29 marzo 2006, richiamata poco sopra. In particolare, la stessa Corte rimettente esclude che il giudice nazionale possa disapplicare l’art. 5-bis, sostituendolo con un criterio frutto del proprio apprezzamento o facendo rivivere la disciplina previgente. L’impossibilità di disapplicare la norma interna in contrasto con quella della Convenzione deriverebbe, a dire della Corte, anche da altre considerazioni. In primo luogo, va escluso che, in riferimento alle norme CEDU, sia ravvisabile un meccanismo idoneo a stabilire la sottordinazione della fonte del diritto nazionale rispetto a quella internazionale, assimilabile alle limitazioni di sovranità consentite dall’art. 11 Cost., derivanti dalle fonti 34 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO normative dell’ordinamento comunitario. Non sembra infatti sostenibile la tesi dell’avvenuta «comunitarizzazione» della CEDU, ai sensi del par. 2 dell’art. 6 del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, in quanto il rispetto dei diritti fondamentali, riconosciuti dalla Convenzione, costituisce una direttiva per le istituzioni comunitarie e «non una norma comunitaria rivolta agli Stati membri». Aconferma di tale ricostruzione, il rimettente richiama il parere negativo espresso dalla Corte di giustizia allorché fu prospettata l’adesione della Comunità europea alla CEDU (parere 28 marzo 1996, n. 2/94). Il parere era fondato sul rilievo che l’adesione avrebbe comportato l’inserimento della Comunità in un sistema istituzionale distinto, nonché l’integrazione del complesso delle disposizioni della CEDU nell’ordinamento comunitario. Nella stessa direzione, la Corte del Lussemburgo ha dichiarato la propria incompetenza a fornire elementi interpretativi per la valutazione da parte del giudice nazionale della conformità della normativa interna ai diritti fondamentali, quali risultano dalla CEDU, e ciò «in quanto tale normativa riguarda una situazione che non rientra nel campo di applicazione del diritto comunitario» (Corte giustizia, 29 maggio 1998, causa C-299/95). Il giudice a quo richiama altresì il principio della soggezione dei giudici alla legge, sancito dall’art. 101 Cost., che impedirebbe di ritenere ammissibile un potere (a fortiori, un obbligo) di disapplicazione della normativa interna, atteso che ciò significherebbe attribuire al potere giudiziario una funzione di revisione legislativa del tutto estranea al nostro sistema costituzionale, nel quale l’abrogazione della legge statale rimane «legata alle ipotesi contemplate dagli artt. 15 disp. prel. cod. civ. e 136 Cost.», mentre il mancato rispetto della regola di conformazione si traduce nel vizio di violazione di legge, denunziabile dinanzi alla Corte di cassazione (è richiamata Cass., 26 gennaio 2004, n. 1340), anche se non mancano opinioni che attenuano ulteriormente l’efficacia vincolante delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cass., 26 aprile 2005, n. 8600, e 15 settembre 2005, n. 18249). A tutto concedere, secondo la Corte rimettente, un vincolo all’interpretazione del giudice nazionale sarebbe ravvisabile ove la norma interna costituisca, come nella disciplina dell’equa riparazione per irragionevole durata del processo, la riproduzione di norme convenzionali, per le quali i precedenti della Corte di Strasburgo costituiscono riferimento obbligato, ovvero quando la norma convenzionale sia immediatamente precettiva, e comunque di chiara interpretazione, e non emerga un conflitto interpretativo tra il giudice nazionale e quello europeo (è richiamata Cass., 19 luglio 2002, n. 10542). Diversamente, in caso di disapplicazione dell’art. 5-bis, si porrebbe il problema della sostituzione del criterio ivi indicato con quello previsto dalla normativa previgente, ovvero con un criterio rimesso all’apprezzamento del giudice. Al riguardo, il giudice a quo esprime perplessità circa l’incidenza, in ipotesi di disapplicazione dell’art. 5-bis, della norma suppletiva costituita dall’art. 39 della legge n. 2359 del 1865, che fa riferimento al valore venale dei beni e che è richiamata dalla sentenza 29 luglio 2004 della Corte di Strasburgo come criterio sul quale poggiava l’affidamento delle parti ricorrenti al momento dell’instaurazione del giudizio. Detta norma, infatti, non costituisce «regola tendenziale dell’ordinamento», in quanto non essenziale per la funzione sociale riconosciuta alla proprietà dalla Carta fondamentale, secondo l’affermazione costante della giurisprudenza costituzionale (sono richiamate le sentenze n. 61 del 1957, n. 231 del 1984, n. 173 del 1991, n. 138 del 1993 e n. 283 del 1993), mentre l’art. 5-bis, come già evidenziato, è stato ritenuto conforme a Costituzione anche sotto il profilo della efficacia retroattiva. In definitiva, in caso di disapplicazione della norma censurata, il giudice sarebbe chiamato ad individuare un criterio di determinazione dell’indennizzo che, pur non CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 35 essendo coincidente con il valore di mercato dei beni ablati, attesa la funzionalizzazione del diritto dominicale alla pubblica utilità, sia comunque idoneo ad assicurare un quid pluris rispetto al criterio contenuto nell’art. 5-bis, così compiendo un’operazione «palesemente ammantata da margini di discrezionalità che competono solo al legislatore», anche per la necessità di reperire i mezzi finanziari per farvi fronte. Il rimettente evidenzia come la stessa giurisprudenza CEDU non sia univoca con riferimento alla identificazione del valore venale dei beni quale unico criterio indennitario ammissibile alla luce dell’art. 1 del primo Protocollo. Infatti, mentre nella citata pronuncia del 29 marzo 2006 la Corte europea ha affermato che solo un indennizzo pari al valore del bene può essere ragionevolmente rapportato al sacrificio imposto, fatti salvi i casi riconducibili a situazioni eccezionali di mutamento del sistema costituzionale (è richiamata la sentenza 28 novembre 2002, ex re di Grecia e altro contro Grecia), la stessa Corte «di solito ha ammesso che il giusto equilibrio tra le esigenze di carattere generale e gli imperativi di salvaguardia dei diritti dell’individuo non comporta che l’indennizzo debba corrispondere al valore di mercato del bene espropriato» (sono richiamate le pronunce rese in causa James e altri contro Regno Unito, del 21 febbraio 1986; Les saint monasteres contro Grecia, del 9 dicembre 1994; la già citata sentenza Scordino del 29 luglio 2004). Quanto rilevato con riferimento all’art. 11 Cost., per negare la «comunitarizzazione» della CEDU e, quindi, la praticabilità della disapplicazione della norma interna, varrebbe altresì ad escludere l’utilizzo del predetto parametro ai fini dello scrutinio. Secondo il rimettente, il recupero del dictum della Corte europea non potrebbe avvenire neppure attraverso il richiamo all’obbligo di conformazione del diritto interno alle norme internazionali che, ai sensi dell’art. 10 Cost., impegna l’intero ordinamento; infatti, per un verso il parametro citato non ha per oggetto il diritto pattizio e, per altro verso, la commisurazione dell’indennizzo espropriativo al valore di mercato del bene non costituisce principio generalmente riconosciuto dagli Stati. L’intervento giudiziale, infine, secondo la Corte rimettente, non potrebbe trovare giustificazione nella finalità di supplire all’inerzia del legislatore, giacché quest’ultimo ha di recente reiterato il regime indennitario introdotto con l’art. 5-bis, avendolo trasfuso nell’attuale art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001. Aquesto proposito, il giudice a quo rammenta come, già nel 1993, la Corte costituzionale (con la sentenza n. 283) avesse invitato il legislatore ad elaborare una legge atta ad assicurare un serio ristoro, ritenendo l’art. 5-bis compatibile con la Costituzione in ragione del suo carattere urgente e provvisorio, desumibile anche dall’incipit della disposizione che recita: «fino all’emanazione di un’organica disciplina per tutte le espropriazioni». Dunque, l’«inadeguatezza in abstracto» del criterio indennitario contenuto nell’art. 5- bis a compensare la perdita della proprietà dei suoli edificabili per motivi di interesse pubblico, definitivamente sancita dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, unitamente alla acquisita definitività della disciplina, riproposta dal legislatore nel 2001, all’art. 37 del d.P.R. n. 327, renderebbe necessario un nuovo scrutinio di costituzionalità. Le argomentazioni che dimostrano l’impercorribilità della strada della disapplicazione da parte del giudice nazionale varrebbero, al tempo stesso, ad escludere che il contrasto possa essere composto in via interpretativa. 1.6. – Su questa premessa, il giudice a quo passa ad illustrare i motivi di contrasto della norma impugnata rispetto ai parametri costituzionali evocati. In particolare, richiamate ancora le pronunce della Corte costituzionale sul menzionato art. 5-bis, precisa che, per un verso, quest’ultimo non è stato scrutinato rispetto al parametro di cui all’art. 111 Cost., nel 36 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO testo modificato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell’art. 111 della Costituzione), e che, per altro verso, i contenuti della disposizione costituzionale in esame, avuto riguardo agli aspetti programmatici (primo e secondo comma), sarebbero in gran parte ancora da esplorare, così come sarebbe da chiarire il rapporto «di discendenza della nuova formulazione della norma costituzionale dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo». Seppure, come è noto, l’originario intento di “costituzionalizzare” l’art. 6 della Convenzione abbia subito modifiche nel corso dei lavori parlamentari, non di meno, a parere della Corte rimettente, andrebbe avallata la tesi secondo cui la ricostruzione dei nuovi precetti costituzionali debba essere condotta proprio alla luce della giurisprudenza della Corte europea. Pertanto, nel ricercare il significato precettivo del riformulato art. 111 Cost. si potrebbe utilmente fare ricorso all’interpretazione resa dalla Corte di Strasburgo dell’analoga disposizione contenuta nell’art. 6 della Convenzione. A questo proposito, le pronunce rese nella causa Scordino contro Italia, in materia di indennizzo espropriativo, hanno affermato che il principio della parità delle parti dinanzi al giudice implica l’impossibilità per il potere legislativo di intromettersi nell’amministrazione della giustizia, allo scopo di influire sulla risoluzione della singola causa o di una circoscritta e determinata categoria di controversie. Il giudice a quo evidenzia come la vicenda giudiziaria che ha dato luogo alle citate sentenze della Corte europea e quella che ha originato la presente questione di legittimità costituzionale risultino del tutto assimilabili: in entrambi i casi, infatti, i soggetti espropriati hanno agito in giudizio sul presupposto che, espunti dall’ordinamento (per effetto delle pronunce della Corte costituzionale n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983) i penalizzanti criteri di quantificazione dell’indennizzo previsti dalla legge 29 luglio 1980, n. 385 (Norme provvisorie sulla indennità di espropriazione di aree edificabili nonché modificazioni di termini previsti dalle leggi 28 gennaio 1977, n. 10, 5 agosto 1978, n. 457, e 15 febbraio 1980, n. 25), si fosse determinata la reviviscenza del criterio del valore venale, con la conseguente nullità dell’atto di cessione volontaria per indeterminatezza dell’oggetto e con l’insorgenza del diritto all’indennità commisurata al predetto valore. Il giudice di merito, invece, dovendo stabilire il «prezzo della cessione» da commisurare all’indennità di esproprio, ha dovuto fare applicazione del sopravvenuto art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, ed ha di conseguenza condannato il Comune espropriante al pagamento della differenza, a titolo di conguaglio della somma in precedenza corrisposta. Il risultato è stato che le proprietarie espropriate, «a giudizio iniziato», si sono viste ridurre del 50 per cento la somma per il conseguimento della quale si erano determinate ad agire. Per le ragioni suesposte la Corte di cassazione ritiene che la norma censurata sia in contrasto con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., anche alla luce dell’art. 6 CEDU, nella parte in cui, disponendo l’applicabilità ai giudizi in corso delle regole di determinazione dell’indennità di espropriazione in esso contenute, viola i principi del giusto processo, in particolare le condizioni di parità delle parti davanti al giudice. 1.7. – La Corte rimettente assume che il censurato art. 5-bis si ponga in contrasto anche con l’art. 117, primo comma, Cost., alla luce delle norme della Convenzione europea, come interpretate dalla Corte di Strasburgo. Infatti la nuova formulazione della norma costituzionale, introdotta dalla legge di riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, avrebbe colmato «una lacuna dell’ordinamento ». In tal senso, a detta della rimettente, la sedes materiae non risulterebbe decisi- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 37 va per «ridimensionare» l’effetto innovativo dell’art. 117, primo comma, Cost., circoscrivendolo al solo riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni. Al contrario, nella norma in esame «sembra doversi ravvisare il criterio ispiratore di tutta la funzione legislativa, anche di quella contemplata dal secondo comma, riguardante le competenze esclusive dello Stato, cui è riconducibile la normativa in tema di indennità di espropriazione». Dunque, secondo il giudice a quo, le norme della Convenzione europea, e specialmente l’art. 6 CEDU e l’art. 1 del primo Protocollo, diverrebbero, «attraverso l’autorevole interpretazione che ne ha reso la Corte di Strasburgo», norme interposte nel presente giudizio di costituzionalità. In particolare, la sopravvenuta incompatibilità dell’art. 5-bis con le norme CEDU e quindi con l’art. 117, primo comma, Cost., riguarderebbe i profili evidenziati dalla Corte europea, ovvero la «contrarietà ai principi del giusto processo» e l’«incongruità della misura indennitaria, nel rispetto che è dovuto al diritto di proprietà». 2. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate infondate. 2.1. – La difesa erariale individua il thema decidendum nei seguenti punti: a) «se, in caso di contrasto tra la giurisprudenza europea e la legge nazionale, prevalga la prima, e dunque quale sia il destino della seconda»; b) «se, in caso di risposta affermativa al primo quesito, la soluzione valga anche con riguardo alle norme costituzionali». Prima di rispondere ai quesiti indicati, a parere dell’Avvocatura generale, occorre stabilire se davvero la giurisprudenza della Corte europea possa, in via interpretativa, imporre agli Stati aderenti di considerare ridotte o espanse le norme convenzionali «in una sorta di diritto di esclusiva che farebbe premio sia sui procedimenti di formazione dei patti internazionali sia sulla diretta interpretazione del giudice nazionale, il quale pur si trova ad applicare le stesse norme [CEDU] in quanto recepite dalla legge nazionale 4 agosto 1955 n. 848». La difesa erariale contesta che tale potere, per quanto rivendicato dalla Corte europea, sia previsto da norme convenzionali. L’art. 32 del Protocollo n. 11 della Convenzione EDU, reso esecutivo in Italia con la legge 28 agosto 1997, n. 296 (Ratifica ed esecuzione del protocollo n. 11 alla convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, recante ristrutturazione del meccanismo di controllo stabilito dalla convenzione, fatto a Strasburgo l’11 maggio 1994), circoscrive la competenza della predetta Corte «a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli». Ad avviso dell’Avvocatura generale, si tratterebbe di una norma posta a garanzia dell’indipendenza dei giudici di Strasburgo, che «non può trasformarsi in una fonte di produzione normativa vincolante oltre il processo e, addirittura, limitativa dei poteri istituzionali dei Parlamenti nazionali o della nostra Corte di cassazione o perfino della Corte costituzionale». La pretesa della Corte di Strasburgo di produrre norme convenzionali vincolanti non sarebbe compatibile con l’ordinamento internazionale generale e ancor più con il sistema della Convenzione di Vienna, cui è stata data esecuzione con la legge 12 febbraio 1974, n. 112 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sul diritto dei trattati, con annesso, adottata a Vienna il 23 maggio 1969), secondo cui l’interpretazione di qualunque trattato deve essere testuale ed oggettiva. Pertanto, la difesa dello Stato evidenzia come le questioni odierne abbiano ragione d’essere soltanto se si riconosce alle norme di origine giurisprudenziale della Corte europea il valore di parametro interposto. Diversamente, non vi sarebbe motivo di dubitare che, ai sensi degli artt. 25 e 42 Cost., il legislatore nazionale possa introdurre norme di carattere retroattivo, operanti anche nei processi in corso, e conformare sistemi indennitari che con- 38 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO temperino il diritto dei singoli con le esigenze della collettività, così evitando che gli indennizzi degli espropri coincidano con il prezzo di mercato degli immobili. 2.2. – La difesa dello Stato contesta l’impostazione del ragionamento della Corte rimettente anche con riferimento ai parametri evocati. Secondo l’Avvocatura generale, l’art. 111 Cost., una volta depurato «da ogni suggestione di prevalenza degli “insegnamenti” CEDU sulla legislazione ordinaria e costituzionale o sulla giurisprudenza della Corte di cassazione e della stessa Corte costituzionale», non stabilisce affatto quello che il giudice a quo crede di leggervi. Il «giusto processo» non riguarda le prerogative del legislatore, in particolare non gli impedisce di intervenire sulla disciplina sostanziale con norme di carattere retroattivo, che il giudice è tenuto ad applicare in ossequio al disposto dell’art. 101 Cost. Del resto, osserva la difesa erariale, neppure l’art. 6 CEDU, che ha ispirato la novella dell’art. 111 Cost., contiene riferimenti al divieto di leggi retroattive in materia extrapenale; tale divieto esiste, quindi, soltanto nella giurisprudenza della Corte europea, la quale, peraltro, secondo gli argomenti già esposti, sarebbe priva di potere creativo di norme convenzionali. Discorso parzialmente analogo varrebbe per l’art. 117, primo comma, Cost., il quale impone il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, là dove, per l’appunto, le predette norme configurino limitazioni all’esercizio della potestà legislativa. La difesa erariale richiama in proposito l’art. 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), il quale stabilisce che costituiscono vincoli alla potestà legislativa dello Stato e delle Regioni «quelli derivanti […] da accordi di reciproca limitazione della sovranità, di cui all’art. 11 della Costituzione, dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali». Nulla di tutto ciò, secondo l’Avvocatura generale, è presente nella CEDU, sia con riferimento alla previsione di leggi retroattive di immediata applicazione ai processi in corso, e per le quali opera quindi la sola disciplina delle fonti di produzione nazionali, sia con riguardo ai diritti del proprietario espropriato. A tale proposito, l’interveniente rileva che l’art. 1 del primo Protocollo, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di Strasburgo, si limita ad affermare il principio per cui il sacrificio della proprietà privata è ammissibile solo per cause di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. La norma convenzionale richiamata non imporrebbe in alcun modo, quindi, che l’indennizzo dovuto al proprietario espropriato debba corrispondere al valore venale del bene. 2.3. – In conclusione, la difesa erariale evidenzia come il valore venale del terreno urbano non esista in rerum natura, ma sia direttamente collegato agli strumenti urbanistici e perciò determinato in funzione della utilizzabilità dell’area, con la conseguenza che un sistema indennitario che imponga una drastica riduzione del valore del bene non è così distante dalla realtà degli scambi economici. 3. – Si è costituita in giudizio R.A., ricorrente in via principale nel giudizio a quo, richiamando genericamente tutte le censure, eccezioni e deduzioni svolte nei diversi gradi del procedimento, ed in particolare l’eccezione di illegittimità costituzionale formulata nel giudizio di cassazione, con riserva di depositare successive memorie. 4. – In data 19 giugno 2007 la stessa parte privata ha depositato una memoria illustrativa con la quale insiste affinché la questione sia dichiarata fondata. 4.1. – In particolare, dopo aver riassunto l’intera vicenda giudiziaria dalla quale è originato il giudizio a quo, la difesa della parte rileva che la misura dell’indennizzo espropria- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 39 tivo prevista nella norma censurata, non presentando le caratteristiche del «serio ristoro», sarebbe tutt’ora censurabile sotto il profilo del contrasto con l’art. 42, terzo comma, Cost., nonostante l’esito dei precedenti scrutini (sentenze n. 283 e n. 442 del 1993). Infatti, nelle pronunzie richiamate, la Corte costituzionale aveva fatto salva la norma censurata solo perché caratterizzata da «provvisorietà ed eccezionalità». 4.2. – Con riferimento al profilo afferente l’applicazione della norma censurata ai giudizi in corso, la parte privata ritiene violati gli artt. 24 e 102 Cost. L’avvenuta modifica della norma sostanziale in corso di causa e la conseguente variazione della «dimensione qualitativa e quantitativa» del diritto azionato costituirebbero un’indebita ingerenza del potere legislativo sull’esito del processo, in violazione della riserva contenuta nell’art. 102 Cost. Non si tratterebbe, nel caso di specie, di mera retroattività, ma di vera e propria interferenza nell’esercizio della funzione giudiziaria da parte del legislatore, «allo scopo dichiarato di limitare l’onere (legittimo) a carico della pubblica amministrazione». Inoltre, la censura prospettata in riferimento all’art. 42, terzo comma, Cost. andrebbe estesa all’art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, nel quale è contenuto un criterio di calcolo dell’indennizzo espropriativo che conduce ad una riduzione di circa il 50 per cento rispetto al valore reale del bene. Tale norma, peraltro, non presenta i caratteri di provvisorietà e urgenza che avevano connotato l’art. 5-bis, trattandosi, con ogni evidenza, di disciplina definitiva. Da ultimo, sul rilievo che gli argomenti svolti dal giudice a quo per escludere la violazione degli ulteriori parametri indicati nell’eccezione di parte non assumono valore preclusivo, la parte auspica che la Corte costituzionale estenda il proprio scrutinio anche a tali parametri. 5. – Con ordinanza depositata il 19 ottobre 2006 (r.o. n. 681 del 2006), la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, per violazione dell’art. 111, primo e secondo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ed all’art. 1 del primo Protocollo della Convenzione stessa, nonché dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al citato art. 1 del primo Protocollo. La norma è oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della determinazione dell’indennità di espropriazione dei suoli edificabili, prevede il criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale rivalutato, disponendone altresì l’applicazione ai giudizi in corso alla data dell’entrata in vigore della legge n. 359 del 1992. 5.1. – La Corte rimettente riferisce che nel giudizio principale il Comune di Montello ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte d’appello di Brescia, la quale – dopo aver accertato che l’area di proprietà di A.C., occupata sin dal 21 maggio 1991 ed espropriata in data 8 maggio 1996, doveva considerarsi terreno edificabile da privati – aveva liquidato l’indennità di espropriazione ai sensi dell’art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992. Il Comune ricorrente lamenta l’erronea qualificazione dell’area espropriata come edificabile, e in subordine, la mancata applicazione della riduzione del 40 per cento, nonché l’insufficiente motivazione a sostegno del computo del valore dei manufatti preesistenti. La parte privata si è costituita ed ha proposto, a sua volta, ricorso incidentale nel quale censura la quantificazione dell’indennità di esproprio, nonché il mancato riconoscimento della rivalutazione monetaria degli importi liquidati; chiede altresì la disapplicazione dell’art. 5- bis, in quanto contrastante con l’art. 1 del primo Protocollo (che sarebbe stato “comunitarizzato” dall’art. 6 del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992), ed invoca un mutamento dell’orientamento giurisprudenziale in virtù del quale «l’indennità viene corrisposta come debi- 40 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO to pecuniario di valuta, con la conseguenza che nulla compete per la rivalutazione all’espropriato ». Con successiva memoria, la ricorrente incidentale ha formulato, subordinatamente al mancato accoglimento della richiesta di disapplicazione, eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, per violazione degli artt. 2, 10, 11, 42, 97, 111 e 117 Cost., in relazione all’art. 1 del primo Protocollo ed all’art. 6 CEDU. 5.2. – Preliminarmente, la Corte di cassazione richiama le argomentazioni sviluppate riguardo all’analoga questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto il menzionato art. 5-bis, sollevata dalla medesima Corte con ordinanza del 29 maggio 2006 (r.o. n. 402 del 2006), riservandosi soltanto di integrarne il contenuto «in rapporto al contrasto della norma interna con le citate norme della Convenzione europea». Il giudice a quo procede, quindi, all’esame della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, citata anche dalla parte ricorrente a sostegno sia della richiesta di disapplicazione della norme interna, sia dell’eccezione di illegittimità costituzionale. L’esame è condotto a partire dal contenuto della pronuncia resa il 28 luglio 2004, in causa Scordino contro Italia, alla quale è seguita, nella medesima controversia, la pronuncia definitiva resa dalla Grande chambre il 29 marzo 2006, sul ricorso proposto dal Governo italiano. Tanto premesso, la rimettente evidenzia l’analogia intercorrente tra la fattispecie oggetto del giudizio principale e quella che ha dato luogo alla richiamata pronuncia della Grande chambre: anche nel presente giudizio, infatti, il profilo della utilità pubblica risulterebbe di modesta rilevanza, essendo le aree espropriate destinate alla costruzione di un parcheggio e alla realizzazione di “verde attrezzato”. 5.3. – La Corte di cassazione procede, di seguito, a valutare il profilo riguardante la disapplicazione dell’art. 5-bis, espressamente richiesta dalla ricorrente incidentale, essendo tale delibazione presupposto di ammissibilità della presente questione di legittimità costituzionale. Il giudice a quo dà atto che la stessa Corte di cassazione, con la già citata ordinanza n. 12810 del 2006 (r.o. n. 402 del 2006) e con l’ordinanza del 20 maggio 2006, n. 11887 (r.o. n. 401 del 2006), che ha rimesso analoga questione per la parte riguardante l’entità del risarcimento danni da occupazione acquisitiva illecita (art. 5-bis, comma 7-bis), ha negato che, in mancanza di una disciplina specifica e precettiva in sede sopranazionale dei criteri di liquidazione, il giudice nazionale possa disapplicare la legge interna. Tale conclusione è condivisa dall’attuale rimettente, la quale rammenta che la sentenza della Corte europea del 29 marzo 2006, in causa Scordino contro Italia, ha rimesso allo Stato italiano l’adozione delle misure «legislative, amministrative e finanziarie» necessarie all’adeguamento del sistema interno alle norme sopranazionali (par. 237), così implicitamente chiarendo che la propria pronuncia non ha «effetti abrogativi». Quanto al carattere precettivo delle norme contenute nella Convenzione, il giudice a quo ritiene debbano essere distinti i diritti da essa protetti, «riconosciuti» dagli Stati contraenti come «fondamentali» anche nel diritto interno (art. 1), dai mezzi e dalle modalità di tutela di tali diritti, rimessi ai singoli Stati aderenti. In caso di violazione, anche da parte di soggetti che agiscono nell’esercizio di funzioni pubbliche, l’art. 13 della Convenzione prevede il ricorso alla magistratura interna di ciascuno Stato, salvo l’intervento sussidiario della Corte di Strasburgo sui ricorsi individuali ai sensi dell’art. 34 della stessa Convenzione, e la conseguente condanna dello Stato inadempiente all’equa riparazione di cui all’art. 41. Nello stesso senso deporrebbe la previsione contenuta nell’art. 46 della Convenzione, a mente del quale «le Alte Parti contraenti s’impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parti», escludendosi così ogni effetto immediatamente abrogativo di norme interne. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 41 La Corte rimettente evidenzia, inoltre, che la legge 9 gennaio 2006, n. 12 (Disposizioni in materia di esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo), ha individuato nel Governo e nel Parlamento gli organi ai quali devono essere trasmesse le sentenze della Corte europea, in quanto unici legittimati a dare esecuzione agli obblighi che da esse discendono. Sottolinea, infine, che il disposto dell’art. 56 della Convenzione ammette la possibilità che l’applicazione della stessa possa non essere uniforme in tutto il territorio degli Stati aderenti, a fronte di «necessità locali», con la conseguenza che nel sistema della Convenzione, pur essendo precettivo il riconoscimento dei diritti garantiti nell’accordo per tutti gli Stati aderenti, le modalità di tutela e di applicazione di quei principi nei territori dei singoli Stati sono rimesse alla legislazione interna di ciascuno. Risulterebbe chiara, pertanto, l’esclusione del potere di disapplicazione in capo ai singoli giudici; tanto più che nelle fattispecie riguardanti l’indennizzo espropriativo si porrebbe l’esigenza di assicurare copertura finanziaria alla modifica di sistema, conseguente alla scelta di un diverso criterio indennitario, stante la previsione dell’art. 81 Cost. Il giudice a quo ribadisce, riprendendo le precedenti ordinanze della stessa Corte di cassazione, la ritenuta impossibilità di assimilare le norme della Convenzione EDU ai regolamenti comunitari ai fini di applicazione immediata nell’ordinamento interno (sull’argomento è richiamata Cass. 19 luglio 2002, n. 10542). È condiviso anche l’assunto che il richiamo contenuto nell’art. 6, par. 2, del Trattato di Maastricht, al rispetto dei «diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea […] e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario », non esclude la diversità tra l’organo giurisdizionale preposto alla tutela di tali diritti (Corte di Strasburgo) e quello cui è invece demandata l’interpretazione delle norme comunitarie, cioè la Corte di giustizia del Lussemburgo, che ha negato la propria competenza in materia di diritti fondamentali (Corte di Giustizia, 29 maggio 1997, C. 199-95, Kremzow). Del resto, aggiunge il rimettente, la stessa Corte costituzionale, prima delle modifiche degli artt. 46 e 56 della CEDU, apportate con il Protocollo n. 11, reso esecutivo in Italia con la legge n. 296 del 1997, sembrava aver assunto orientamenti non incompatibili con la diretta applicabilità delle norme della Convenzione (sono richiamate le sentenze n. 373 del 1992 e n. 235 del 1993). Solo successivamente, anche a seguito della novella degli artt. 111 e 117 Cost., il giudice delle leggi si sarebbe orientato «a dare rilievo indiretto alle norme convenzionali, come fonti di obblighi cui l’Italia è da tali norme vincolata» (sono richiamate la sentenza n. 445 del 2002 e l’ordinanza n. 139 del 2005). In definitiva, il riconoscimento con carattere precettivo dei diritti tutelati dall’accordo sopranazionale non rileverebbe ai fini dell’abrogazione di norme interne contrastanti, fino a quando il legislatore interno non abbia specificato i rimedi a garanzia di detti diritti (è richiamata Cass. 12 gennaio 1999, n. 254). Nondimeno, prosegue il giudice a quo, i diritti tutelati dalla Convenzione EDU esistono sin dal momento della ratifica, o anche prima, se già garantiti dal diritto interno, sicché i successori degli originari titolari potranno chiederne la tutela al giudice nazionale una volta che sia stata modificata la disciplina interna. La Corte rimettente osserva infine che, se pure il giudice italiano disapplicasse l’art. 5- bis, non potrebbe imporre come giusto indennizzo quello corrispondente al valore venale del bene espropriato, e questo perché, mentre in sede sopranazionale tale criterio è stato più volte considerato «l’unico di regola applicabile», nell’ambito interno la Corte costituzionale ha ritenuto che la nozione di «serio ristoro» sia compatibile con una riduzione del prezzo pieno del bene ablato, come sacrificio individuale dovuto alla pubblica utilità. 42 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 5.4. – Esclusa la possibilità di disapplicare l’art. 5-bis, la Corte di cassazione procede alla delibazione delle questioni preliminari riguardanti la qualificazione delle aree espropriate come edificabili, discendendo da tale qualificazione la rilevanza della norma censurata per la fattispecie in esame. Riaffermata l’edificabilità delle aree espropriate, il giudice a quo ritiene «certamente rilevante» la questione di legittimità sollevata, dato che, nella espropriazione oggetto di causa, l’indennità è stata liquidata con i criteri di determinazione di cui all’art. 5-bis. La Corte di cassazione evidenzia come la parte privata si dolga del fatto che, pure in assenza della riduzione del 40 per cento, l’indennità riconosciutale in base alla norma censurata non costituisce un serio ristoro della perdita subita. All’opposto, il ricorrente Comune di Montello lamenta che la Corte di merito ha computato il valore del soprassuolo ai fini della determinazione dell’indennità. Ciò dimostra, ad avviso della rimettente, che il giudizio principale non può essere definito prescindendo dall’applicazione dell’art. 5-bis. 5.5. – Con riferimento alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo procede all’esame delle pronunce con le quali la Corte costituzionale ha definito i giudizi aventi ad oggetto il menzionato art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992. Sono richiamate, in particolare, le sentenze n. 283 e n. 442 del 1993, nelle quali è stata esclusa l’illegittimità dei criteri di determinazione dell’indennità di esproprio dei suoli edificabili, sulla base del loro «carattere dichiaratamente temporaneo, in attesa di un’organica disciplina dell’espropriazione per pubblica utilità» e giustificandoli per «la particolare urgenza e valenza degli “scopi” che […] il legislatore si propone di perseguire» nella congiuntura economica in cui versava il Paese (sentenza n. 283 del 1993). Come noto, il contenuto della norma è stato trasposto nell’art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, che ha reso “definitivi” quei criteri di liquidazione dell’indennizzo, sicché la “provvisorietà” degli stessi, che aveva sorretto il giudizio di non fondatezza, può dirsi venuta meno. Nella citata pronuncia n. 283 del 1993, la Corte costituzionale ha riconosciuto, a differenza della Corte europea, il carattere di principi e norme fondamentali di riforma economico- sociale alla disciplina dettata dal legislatore con l’art. 5-bis, e difatti ha ritenuto illegittima la norma in esame, per contrasto con gli artt. 3 e 42 Cost., soltanto nella parte in cui, per i procedimenti in corso, non prevedeva una «nuova offerta di indennità», la cui accettazione da parte dell’espropriato escludesse l’applicazione della riduzione del 40 per cento. Quanto alla applicazione retroattiva dell’art. 5-bis, il giudice delle leggi ha affermato che il principio dell’irretroattività delle leggi, contenuto nell’art. 11 disp. prel. cod. civ., non è recepito nella Costituzione, escludendo nel contempo il contrasto della norma censurata con l’art. 3 Cost. Diversamente oggi, a parere della rimettente, il principio del giusto processo, sancito dal novellato art. 111 Cost., garantirebbe anche la condizione di parità tra le parti, sicché appare necessario sottoporre la norma, anche per tale aspetto, ad un nuovo scrutinio di costituzionalità. Assume il giudice a quo che la norma censurata, incidendo sulla liquidazione delle indennità nei procedimenti in corso, «anteriormente alla futura opposizione alla stima ancora non proponibile per ragioni imputabili all’espropriante» (è richiamata la sentenza n. 67 del 1990 della Corte costituzionale), ha determinato una ingerenza del legislatore nel processo a sfavore dell’espropriato. Questi, infatti, in assenza della predetta norma, avrebbe potuto pretendere e ottenere una maggiore somma, se i procedimenti amministrativi o giurisdizionali in corso fossero stati conclusi prima della relativa entrata in vigore. Il rimettente richiama, in proposito, l’affermazione contenuta nella sentenza Scordino del 29 marzo 2006, secondo cui l’ingerenza del legislatore nei procedimenti in corso viola CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 43 l’art. 6 della Convenzione, in rapporto all’art. 1 del primo Protocollo, poiché la previsione della perdita di una parte dell’indennità con efficacia retroattiva non risulta giustificata da una rilevante causa di pubblica utilità. Quanto al merito del criterio di calcolo dell’indennità, contenuto nella norma censurata, il rimettente osserva come la Corte europea abbia ormai definitivamente affermato, con numerose pronunce, il contrasto con l’art. 1 del primo Protocollo dei ristori indennitari e risarcitori previsti per le acquisizioni lecite e illecite connesse a procedimenti espropriativi, con o senza causa di pubblica utilità. Ritiene la Corte rimettente, quindi, che la norma censurata debba essere nuovamente scrutinata alla luce del testo vigente del primo comma dell’art. 117 Cost., sul rilievo che l’intera normativa ordinaria, e dunque anche le norme previgenti alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), possa essere esaminata ed eventualmente dichiarata incostituzionale per contrasto “sopravvenuto” con i nuovi principi inseriti nella Carta fondamentale (è richiamata la sentenza n. 425 del 2004). 6. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la non fondatezza delle questioni, svolgendo considerazioni del tutto coincidenti con quelle sviluppate nel giudizio promosso con l’ordinanza del 29 maggio 2006 della Corte di cassazione (r.o. n. 402 del 2006). Pertanto, si richiama integralmente quanto sopra riportato al punto 2. 7. – Si è costituita in giudizio A.C., controricorrente e ricorrente in via incidentale nel giudizio a quo, la quale ha concluso per la declaratoria di inammissibilità delle questioni – dovendosi ritenere che spetti ai giudici nazionali disapplicare le norme interne in contrasto con quelle della Convenzione europea – ed in subordine per l’accoglimento delle questioni medesime. 7.1. – La parte privata ritiene che il contrasto tra norma interna e norma CEDU debba esser risolto con la disapplicazione della prima. In proposito è richiamato il Protocollo n. 11 della Convenzione, il quale ha riformulato il meccanismo di controllo istituito dalla stessa, stabilendo che i singoli cittadini degli Stati contraenti possano adire direttamente la Corte europea (art. 34 della Convenzione, come modificato dal Protocollo n. 11) e che «1. Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parti. 2. La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei ministri che ne sorveglia l’esecuzione» (art. 46 della Convenzione, come modificato dal Protocollo n. 11). La medesima parte privata ricorda come l’intero meccanismo di controllo si fondi sul principio di sussidiarietà, in virtù del quale la Corte europea «non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne» (art. 35 della Convenzione). Pertanto, i giudici nazionali sono tenuti ad applicare il diritto interno in modo conforme alla Convenzione, «spettando alla Corte europea, invece, in via sussidiaria e a seguito dell’esaurimento dei rimedi interni, verificare se il modo in cui il diritto interno è interpretato ed applicato produce effetti conformi ai principi della Convenzione». A questo proposito, la parte privata sottolinea come la Risoluzione 1226 (2000) dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa abbia affermato che gli Stati contraenti sono tenuti ad assicurare, tra l’altro, «l’applicazione diretta, da parte dei Giudici nazionali, della Convenzione e delle sentenze della Corte Europea che la interpretano e la applicano ». Nella stessa direzione si muovono anche la Risoluzione Res(2004)3 del 12 maggio 2004 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, relativa alle sentenze che accertano un problema strutturale sottostante alla violazione, la Raccomandazione Rec(2004)5, di pari 44 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO data, del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, relativa alla verifica di conformità dei progetti di legge, delle leggi vigenti e della prassi amministrativa agli standard stabiliti dalla Convenzione, nonché la Raccomandazione Rec(2004)6, di pari data, con cui il Comitato dei ministri ha ribadito che gli Stati contraenti, a seguito delle sentenze della Corte che individuano carenze di carattere strutturale o generale dell’ordinamento normativo o delle prassi nazionali applicative, sono tenuti a rivedere l’efficacia dei rimedi interni esistenti e, se necessario, ad instaurare validi rimedi, al fine di evitare che la Corte venga adita per casi ripetitivi. La parte privata richiama, inoltre, il contenuto della sentenza 29 marzo 2006 della Corte di Strasburgo in causa Scordino contro Italia, in riferimento sia alla inadeguatezza del criterio generale di cui all’art. 5-bis, applicato indipendentemente dalla tipologia dell’opera che deve essere realizzata, sia all’effetto di interferenza del potere legislativo sul potere giudiziario, che si è determinato con l’applicazione della predetta norma ai giudizi in corso. Secondo la Corte europea tale effetto non può trovare giustificazione nelle ragioni di natura finanziaria che il Governo italiano ha prospettato nel ricorso alla Grande chambre. È inoltre richiamato il passaggio della menzionata pronunzia, ove sono citate le sentenze n. 223 del 1983, n. 283 e n. 442 del 1993, con le quali la Corte costituzionale ha invitato il legislatore ad adottare una disciplina normativa che assicuri «un serio ristoro» al privato, ed ha escluso l’esistenza di un contrasto tra l’art. 5-bis e la Costituzione «in considerazione della sua natura urgente e temporanea». Peraltro, osserva l’interveniente, poiché il criterio contenuto nella norma citata è stato trasfuso nel testo unico in materia di espropriazioni (d.P.R. n. 327 del 2001), la Corte di Strasburgo non ha mancato di rilevare come sia agevolmente prefigurabile la proposizione di numerosi e fondati ricorsi. Tutto ciò premesso, se la conformità dell’ordinamento ai principi affermati nella sentenza citata deve essere assicurata dai giudici nazionali, come rilevato dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa nella richiamata Raccomandazione Rec(2004)5, e se la Corte europea ha accertato, con sentenza che costituisce «cosa giudicata interpretata», ai sensi dell’art. 46 della Convenzione, che la norma interna rilevante è causa di violazione strutturale di una o più norme della Convenzione medesima, allora tale norma, a parere della parte privata, deve essere «disapplicata» dal giudice nazionale. La disapplicazione della norma interna contrastante sarebbe conseguenza diretta ed immediata del principio di sussidiarietà dell’art. 46 della stessa Convenzione, sicché, in definitiva, con riferimento al sistema CEDU si deve giungere all’affermazione di principi analoghi a quelli che la Corte costituzionale ha enucleato in relazione al diritto comunitario nella sentenza n. 170 del 1984. La diversa conclusione cui è giunta la Corte rimettente contrasterebbe, tra l’altro, con l’assunto, affermato dalla medesima Corte, della vincolatività delle norme della Convenzione e della giurisprudenza della Corte europea. Sulla base delle considerazioni sopra svolte, la difesa di A.C. conclude sollecitando una dichiarazione di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale. 7.2. – In via subordinata, la parte privata insiste per la declaratoria di incostituzionalità della norma censurata per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., sviluppando argomentazioni analoghe a quelle contenute nell’ordinanza di rimessione. 8. – In data 20 giugno 2007 la parte privata A.C. ha depositato una memoria illustrativa con la quale insiste nelle conclusioni già formulate nell’atto di costituzione. 8.1. – In particolare, nella memoria si evidenzia come la posizione assunta dalla Presidenza del Consiglio dei ministri nel presente giudizio si ponga in contrasto con il «preciso obbligo dello Stato italiano di eseguire la sentenza Scordino [del 29 marzo 2006] adot- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 45 tando misure di carattere generale suscettibili di eliminare la violazione strutturale accertata dalla Corte europea, nonché, più in generale, con il solenne obbligo internazionale a suo tempo assunto dallo Stato italiano di cooperare efficacemente e lealmente con il Consiglio d’Europa per assicurare il funzionamento del meccanismo di tutela dei diritti umani che fa perno sulla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e sulla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo». Al riguardo, la parte privata sottolinea come l’art. 1 della legge n. 12 del 2006, introducendo la lettera a-bis), nel comma 3 dell’art. 5 della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri), abbia individuato proprio nella Presidenza del Consiglio dei ministri l’organo deputato non solo a promuovere «gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo emanate nei confronti dello Stato italiano», ma anche a comunicare «tempestivamente alle Camere le medesime pronunce ai fini dell’esame da parte delle competenti Commissioni parlamentari permanenti» ed a presentare «annualmente al Parlamento una relazione sullo stato di esecuzione delle suddette pronunce». Per le ragioni anzidette la parte privata reputa necessaria una pronunzia di illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, «che consenta all’Italia di assolvere i propri obblighi internazionali, di non uscire dalla legalità internazionale e di far recuperare unità all’ordinamento». 8.2. – In merito all’esistenza di un presunto contrasto tra la giurisprudenza della Corte europea e quella della Corte costituzionale, la difesa privata ritiene che si tratti di una divergenza soltanto apparente, determinata dalla diversità dei parametri di giudizio finora adottati dalle due Corti. Si tratterebbe, pertanto, di «interpretare (ed applicare) le norme rilevanti nel presente giudizio di costituzionalità con lo stesso parametro di tutela dei diritti umani utilizzato dalla Corte europea»; infatti – osserva la parte costituita – se il giudizio è condotto sulla base del parametro sopra indicato, l’esito non può non essere identico. Peraltro, le divergenze interpretative tra le Corti costituzionali degli Stati membri e la Corte di Strasburgo «non sono affatto inusuali, ma sono piuttosto connaturate allo stesso meccanismo di tutela dei diritti umani previsto dalla Convenzione ed ai principi di sussidiarietà e solidarietà sul quale è basata». 8.3. – La difesa della parte privata passa, poi, in rassegna la più recente giurisprudenza della Corte europea in tema di «violazioni strutturali», evidenziando le condizioni in presenza delle quali ricorre un «problema strutturale» e non una mera violazione «episodica» della Convenzione europea. In particolare, si rileva come finora siano state «per lo più proprio le Corti costituzionali degli Stati contraenti – in applicazione dei principi di sussidiarietà e solidarietà – a rimediare ai problemi strutturali evidenziati nelle sentenze della Corte europea». A questo proposito, sono richiamate numerose pronunzie della Corte europea, cui hanno fatto seguito svariate decisioni delle Corti costituzionali degli Stati contraenti, tendenti a far fronte ai problemi strutturali evidenziati dai giudici di Strasburgo. In alcuni casi, poi, l’accertamento dell’esistenza di una violazione strutturale della CEDU ha spinto lo Stato interessato a modificare la propria Carta costituzionale. Con specifico riferimento all’Italia, sono richiamati il caso Sejdovic (sentenza della Grande chambre del 1° marzo 2006), a seguito del quale si è resa necessaria la modifica dell’art. 175 del codice di procedura penale a seguito dell’accertamento di violazione strutturale ai sensi dell’art. 46 CEDU, la modifica dell’art. 111 Cost., attuata in relazione alle sentenze della Corte europea che avevano rilevato violazioni delle garanzie dell’equo processo, e infine le sentenze n. 152 e n. 371 del 1996 della Corte costituzionale, che hanno fatto 46 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO seguito, rispettivamente, alle sentenze CEDU Cantafio contro Italia del 20 novembre 1995 e Ferrantelli/Santangelo contro Italia del 7 agosto 1996. 8.4. – In merito all’odierna questione, la difesa della parte privata osserva che la tutela del diritto di proprietà prevista nell’art. 1 del primo Protocollo non differisce nel contenuto dalla tutela apprestata dall’art. 42 Cost., posto che entrambe le norme richiedono un giusto bilanciamento tra interessi del singolo e interesse della comunità. Secondo la parte costituita, la necessità di un «giusto equilibrio» porta alla conclusione per cui «ogni volta che venga sacrificato il diritto e l’interesse di un singolo per la realizzazione di una singola opera pubblica e/o di pubblica utilità, l’indennizzo deve essere pari al valore venale integrale del bene, mentre è soltanto nei casi eccezionali, in cui la privazione della proprietà riguardi una serie indeterminata di soggetti e sia volta ad attuare fondamentali riforme politiche, economiche e/o sociali, che l’indennizzo potrebbe, se del caso, essere inferiore all’integrale valore venale del bene, fermo restando che, anche in questi casi, l’indennizzo deve sempre e comunque essere in ragionevole collegamento con detto valore». Dunque, a parere della parte privata, l’integrale compensazione della perdita subita dal proprietario sarebbe perfettamente compatibile con il principio contenuto nell’art. 42 Cost., come dimostrerebbe la circostanza che il criterio seguito fino al 1992 è stato quello previsto dall’art. 39 della legge n. 2359 del 1865, che fa riferimento al valore di mercato, con l’unica eccezione costituita dalla legge 15 gennaio 1885, n. 2892 (Risanamento della città di Napoli). Peraltro, si sarebbe trattato di un’eccezione solo apparente, poiché la legge n. 2892 del 1885 riguardava essenzialmente l’espropriazione di edifici, sicché l’indennità era determinata «sulla media del valore venale e dei fitti coacervati dell’ultimo decennio, purché essi abbiano data certa corrispondente al rispettivo anno di locazione», ed era assistita da una logica legata alla contingente situazione della città di Napoli (fabbricati di scarso valore perché degradati, che però producevano un reddito alto per la condizione di sovraffollamento e di canoni elevati). Il criterio ivi previsto non conduceva, pertanto, a risultati penalizzanti per gli espropriati, i quali, se si fosse applicato il criterio generale del valore venale, avrebbero percepito un’indennità minore. Il criterio previsto nel censurato art. 5-bis, invece, non attuerebbe «il necessario ed imprescindibile giusto equilibrio tra il diritto umano del singolo e l’interesse della collettività », assumendo, pertanto, un «carattere sostanzialmente “punitivo”». 9. – Con ordinanza depositata il 19 ottobre 2006 (r.o. n. 2 del 2007), la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, per violazione dell’art. 111, primo e secondo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ed all’art. 1 del primo Protocollo della Convenzione stessa, nonché dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al citato art. 1 del primo Protocollo. La norma è oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della determinazione dell’indennità di espropriazione dei suoli edificabili, prevede il criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale rivalutato, disponendone altresì l’applicazione ai giudizi in corso alla data dell’entrata in vigore della legge n. 359 del 1992. 9.1. – Nel giudizio a quo, la parte privata M.T.G., già proprietaria di terreni siti nel comune di Ceprano, occupati nel 1980 ed espropriati nel 1984, ha proposto ricorso avverso la sentenza definitiva della Corte d’appello di Roma del 22 novembre-18 dicembre 2000, censurando la quantificazione dell’indennità di espropriazione, determinata ai sensi dell’art. 5-bis, nonché il rigetto della domanda di liquidazione degli interessi legali e della rivaluta- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 47 zione monetaria. La ricorrente chiede la disapplicazione del citato art. 5-bis, per contrasto con gli artt. 1 del primo Protocollo e 6 CEDU, oltre ad invocare il mutamento dell’orientamento giurisprudenziale nel senso della qualificazione dell’indennità di espropriazione come credito di valore anziché di valuta. Avverso la medesima sentenza ha proposto ricorso incidentale il Comune di Ceprano, il quale lamenta, in via principale ed assorbente, che la Corte di merito ha rideterminato l’indennità di espropriazione, in senso favorevole alla parte ricorrente, dopo che la stessa Corte, con la sentenza non definitiva del 28 gennaio 1991, aveva respinto la domanda di risarcimento danni per l’occupazione dei suoli e su tale rigetto si era formato il giudicato. Il ricorrente incidentale censura altresì la mancata applicazione dell’art. 16 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell’articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), in luogo dell’art. 5-bis, ai fini della determinazione dell’indennità di espropriazione. Con successiva memoria, la parte ricorrente in via principale ha formulato, subordinatamente al mancato accoglimento della richiesta di disapplicazione, eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, per violazione degli artt. 2, 10, 11, 42, 97, 111 e 117 Cost., in relazione all’art. 1 del primo Protocollo e all’art. 6 CEDU. 9.2. – Il giudice a quo procede preliminarmente alla delibazione del motivo di ricorso incidentale relativo all’inammissibilità della opposizione alla indennità, e ciò in quanto l’eventuale suo accoglimento comporterebbe l’inapplicabilità dell’art. 5-bis nel giudizio in corso. Superato il profilo preliminare, nel senso della infondatezza del motivo di impugnazione, è esaminata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, come eccepita dalla parte ricorrente. Il percorso argomentativo, in esito al quale la Cassazione solleva la questione nei termini indicati in premessa, è peraltro in tutto identico a quello sviluppato nell’ordinanza r.o. n. 681 del 2006, e dunque può rinviarsi a quanto esposto nel paragrafo 5. 9.3. – Avuto riguardo alla rilevanza della questione, il giudice a quo precisa che, essendo incontestata la natura edificabile delle aree espropriate, nel giudizio principale trova applicazione, ratione temporis, la norma contenuta nell’art. 5-bis, e non l’art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, pure richiamato dalla parte ricorrente, il quale risulta applicabile ai soli giudizi iniziati dopo il 1° luglio 2003. Il giudizio di opposizione alla stima è stato introdotto nel 1987, in esito al procedimento espropriativo iniziato nel 1980. Il riferimento temporale risulta decisivo, a parere della Corte rimettente, ai fini della rilevanza del denunciato contrasto dell’art. 5-bis con l’art. 111 Cost, in relazione all’art. 6 CEDU. L’applicazione retroattiva del relativo criterio di determinazione dell’indennità avrebbe comportato, nel caso di specie, l’alterazione della condizione di parità delle parti nel processo, a favore dell’espropriante, e dunque la lesione dell’affidamento della parte privata, la quale si era risolta a proporre il giudizio confidando nell’applicazione delle più favorevoli regole allora vigenti. 10. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la non fondatezza delle questioni, svolgendo considerazioni del tutto coincidenti con quelle sviluppate nei giudizi promossi con le ordinanze del 29 maggio 2006 (r.o. n. 402 del 2006) e del 19 ottobre 2006 (r.o. n. 681 del 2006) della Corte di cassazione. Si rinvia, pertanto, a quanto esposto nel paragrafo 2. 11. – Con memoria depositata il 25 gennaio 2007 si è costituita M.T.G., ricorrente principale nel giudizio a quo, la quale ha concluso per la declaratoria di inammissibilità delle questioni ed in subordine per l’accoglimento delle stesse, con conseguente declaratoria di illegittimità costituzionale della norma censurata. 48 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La memoria della parte privata è in tutto coincidente con quella depositata nel giudizio di cui al r.o. n. 681 del 2006, e pertanto si rinvia a quanto esposto nel paragrafo 7. 12. – In data 20 giugno 2007 la stessa M.T.G. ha depositato una memoria integrativa, con allegata documentazione. Nella memoria si contestano il contenuto dell’atto di costituzione della Presidenza del Consiglio dei ministri e le conclusioni ivi raggiunte, nel senso della infondatezza delle questioni poste dalla Corte rimettente, e sono svolti ulteriori argomenti a sostegno delle conclusioni già rassegnate nel proprio atto di costituzione. La memoria propone, in maniera pressoché identica, le argomentazioni svolte nell’omologo atto depositato dalla parte privata A.C. nel giudizio di cui al r.o. n. 681 del 2006, e pertanto si rinvia a quanto esposto nel paragrafo 8. Viene segnalata, inoltre, la sproporzione ancor più grave che si produrrebbe, a carico dei proprietari espropriati, per effetto dell’applicazione nel caso di specie del criterio indennitario contenuto nell’art. 5-bis, trattandosi di suoli espropriati per essere destinati a fini di edilizia residenziale pubblica. In virtù della legge 17 febbraio 1992, n. 179 (Norme per l’edilizia residenziale pubblica), antecedente all’introduzione dell’art. 5-bis, gli assegnatari di alloggi di edilizia residenziale pubblica possono liberamente cedere tali alloggi a terzi, a qualunque prezzo, dopo che siano trascorsi cinque anni dall’assegnazione. Ciò fa sì che il depauperamento subito dal proprietario del suolo oggetto di espropriazione vada a beneficio di altri privati, rientrando gli immobili ivi edificati nel mercato delle libere contrattazioni dopo cinque anni dall’assegnazione, con la conseguenza di rendere ancor più inaccettabile, perché ingiustificato, il criterio indennitario previsto dalla norma censurata. Considerato in diritto 1. – Con tre distinte ordinanze la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, per violazione dell’art. 111, primo e secondo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, cui è stata data esecuzione con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), ed all’art. 1 del primo Protocollo della Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, nonché dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai citati artt. 6 CEDU e 1 del primo Protocollo. La norma è oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della determinazione dell’indennità di espropriazione dei suoli edificabili, prevede il criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale rivalutato, disponendone altresì l’applicazione ai giudizi in corso alla data dell’entrata in vigore della legge n. 359 del 1992. 2. – I giudizi, per l’identità dell’oggetto e dei parametri costituzionali evocati, possono essere riuniti e decisi con la medesima sentenza. 3. – Preliminarmente, occorre valutare la ricostruzione, prospettata dalla parte privata A.C., dei rapporti tra sistema CEDU, obblighi derivanti dalle asserite violazioni strutturali accertate con sentenze definitive della Corte europea e giudici nazionali. 3.1. – Secondo la suddetta parte privata, il contrasto, ove accertato, tra norme interne e sistema CEDU dovrebbe essere risolto con la disapplicazione delle prime da parte del giu- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 49 dice comune. Viene richiamato, in proposito, il Protocollo n. 11 della Convenzione EDU, reso esecutivo in Italia con la legge 28 agosto 1997, n. 296 (Ratifica ed esecuzione del protocollo n. 11 alla convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, recante ristrutturazione del meccanismo di controllo stabilito dalla convenzione, fatto a Strasburgo l’11 maggio 1994). L’art. 34 di tale Protocollo prevede la possibilità di ricorsi individuali diretti alla Corte europea da parte dei cittadini degli Stati contraenti, mentre, con l’art. 46, gli stessi Stati si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie delle quali sono parti. Sono parimenti invocate la Risoluzione 1226 (2000) dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, con la quale le Alte Parti contraenti sono invitate ad adottare le misure necessarie per dare esecuzione alle sentenze definitive della Corte di Strasburgo, la Risoluzione Res(2004)3 del 12 maggio 2004 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, relativa alle sentenze che accertano un problema strutturale sottostante alla violazione, la Raccomandazione Rec(2004)5, di pari data, del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, relativa alla verifica di conformità dei progetti di legge, delle leggi vigenti e della prassi amministrativa agli standard stabiliti dalla Convenzione, nonché la Raccomandazione Rec(2004)6, di pari data, con cui il Comitato dei ministri ha ribadito che gli Stati contraenti, a seguito delle sentenze della Corte che individuano carenze di carattere strutturale o generale dell’ordinamento normativo o delle prassi nazionali applicative, sono tenuti a rivedere l’efficacia dei rimedi interni esistenti e, se necessario, ad instaurare validi rimedi, al fine di evitare che la Corte venga adita per casi ripetitivi. 3.2. – La prospettata ricostruzione funge da premessa alla richiesta, avanzata dalla predetta parte privata, che la questione sia dichiarata inammissibile, posto che i giudici comuni avrebbero il dovere di disapplicare le norme interne che la Corte europea abbia ritenuto essere causa di violazione strutturale della Convenzione. 3.3. – L’eccezione di inammissibilità non può essere accolta. Questa Corte ha chiarito come le norme comunitarie «debbano avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di leggi di ricezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in ogni Paese della Comunità, sì da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione eguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari» (sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984). Il fondamento costituzionale di tale efficacia diretta è stato individuato nell’art. 11 Cost., nella parte in cui consente le limitazioni della sovranità nazionale necessarie per promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni. Il riferito indirizzo giurisprudenziale non riguarda le norme CEDU, giacché questa Corte aveva escluso, già prima di sancire la diretta applicabilità delle norme comunitarie nell’ordinamento interno, che potesse venire in considerazione, a proposito delle prime, l’art. 11 Cost. «non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme pattizie in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale» (sentenza n. 188 del 1980). La distinzione tra le norme CEDU e le norme comunitarie deve essere ribadita nel presente procedimento nei termini stabiliti dalla pregressa giurisprudenza di questa Corte, nel senso che le prime, pur rivestendo grande rilevanza, in quanto tutelano e valorizzano i diritti e le libertà fondamentali delle persone, sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell’ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto. 50 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO L’art. 117, primo comma, Cost., nel testo introdotto nel 2001 con la riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, ha confermato il precitato orientamento giurisprudenziale di questa Corte. La disposizione costituzionale ora richiamata distingue infatti, in modo significativo, i vincoli derivanti dall’«ordinamento comunitario» da quelli riconducibili agli «obblighi internazionali». Si tratta di una differenza non soltanto terminologica, ma anche sostanziale. Con l’adesione ai Trattati comunitari, l’Italia è entrata a far parte di un “ordinamento” più ampio, di natura sopranazionale, cedendo parte della sua sovranità, anche in riferimento al potere legislativo, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi, con il solo limite dell’intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. La Convenzione EDU, invece, non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa è configurabile come un trattato internazionale multilaterale – pur con le caratteristiche peculiari che saranno esaminate più avanti – da cui derivano “obblighi” per gli Stati contraenti, ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, omisso medio, per tutte le autorità interne degli Stati membri. Correttamente il giudice a quo ha escluso di poter risolvere il dedotto contrasto della norma censurata con una norma CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, procedendo egli stesso a disapplicare la norma interna asseritamente non compatibile con la seconda. Le Risoluzioni e Raccomandazioni citate dalla parte interveniente si indirizzano agli Stati contraenti e non possono né vincolare questa Corte, né dare fondamento alla tesi della diretta applicabilità delle norme CEDU ai rapporti giuridici interni. 3.4. – Si condivide anche l’esclusione – argomentata nelle ordinanze di rimessione – delle norme CEDU, in quanto norme pattizie, dall’ambito di operatività dell’art. 10, primo comma, Cost., in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte sul punto. La citata disposizione costituzionale, con l’espressione «norme del diritto internazionale generalmente riconosciute», si riferisce soltanto alle norme consuetudinarie e dispone l’adattamento automatico, rispetto alle stesse, dell’ordinamento giuridico italiano. Le norme pattizie, ancorché generali, contenute in trattati internazionali bilaterali o multilaterali, esulano pertanto dalla portata normativa del suddetto art. 10. Di questa categoria fa parte la CEDU, con la conseguente «impossibilità di assumere le relative norme quali parametri del giudizio di legittimità costituzionale, di per sé sole (sentenza n. 188 del 1980), ovvero come norme interposte ex art. 10 della Costituzione» (ordinanza n. 143 del 1993; conformi, ex plurimis, sentenze n. 153 del 1987, n. 168 del 1994, n. 288 del 1997, n. 32 del 1999, ed ordinanza n. 464 del 2005). 4. – La questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., è fondata. 4.1. – La questione, così come proposta dal giudice rimettente, si incentra sul presunto contrasto tra la norma censurata e l’art. 1 del primo Protocollo della CEDU, quale interpretato dalla Corte europea per i diritti dell’uomo, in quanto i criteri di calcolo per determinare l’indennizzo dovuto ai proprietari di aree edificabili espropriate per motivi di pubblico interesse condurrebbero alla corresponsione di somme non congruamente proporzionate al valore dei beni oggetto di ablazione. Il parametro evocato negli atti introduttivi del presente giudizio è l’art. 117, primo comma, Cost., nel testo introdotto dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifi- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 51 che al titolo V della parte seconda della Costituzione). Il giudice rimettente ricorda infatti che la stessa norma ora censurata è già stata oggetto di scrutinio di costituzionalità da parte di questa Corte, che ha rigettato la questione di legittimità costituzionale, allora proposta in relazione agli artt. 3, 24, 42, 53, 71, 72, 113 e 117 Cost. (sentenza n. 283 del 1993). La sentenza citata è stata successivamente confermata da altre pronunce di questa Corte del medesimo tenore. Il rimettente non chiede oggi alla Corte costituzionale di modificare la propria consolidata giurisprudenza nella materia de qua, ma mette in rilievo che il testo riformato dell’art. 117, primo comma, Cost., renderebbe necessaria una nuova valutazione della norma censurata in relazione a questo parametro, non esistente nel periodo in cui la pregressa giurisprudenza costituzionale si è formata. 4.2. – Impostata in tal modo la questione da parte del rimettente, è in primo luogo necessario riconsiderare la posizione e il ruolo delle norme della CEDU, allo scopo di verificare, alla luce della nuova disposizione costituzionale, la loro incidenza sull’ordinamento giuridico italiano. L’art. 117, primo comma, Cost. condiziona l’esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto degli obblighi internazionali, tra i quali indubbiamente rientrano quelli derivanti dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo. Prima della sua introduzione, l’inserimento delle norme internazionali pattizie nel sistema delle fonti del diritto italiano era tradizionalmente affidato, dalla dottrina prevalente e dalla stessa Corte costituzionale, alla legge di adattamento, avente normalmente rango di legge ordinaria e quindi potenzialmente modificabile da altre leggi ordinarie successive. Da tale collocazione derivava, come naturale corollario, che le stesse norme non potevano essere assunte quali parametri del giudizio di legittimità costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 188 del 1980, n. 315 del 1990, n. 388 del 1999). 4.3. – Rimanevano notevoli margini di incertezza, dovuti alla difficile individuazione del rango delle norme CEDU, che da una parte si muovevano nell’ambito della tutela dei diritti fondamentali delle persone, e quindi integravano l’attuazione di valori e principi fondamentali protetti dalla stessa Costituzione italiana, ma dall’altra mantenevano la veste formale di semplici fonti di grado primario. Anche a voler escludere che il legislatore potesse modificarle o abrogarle a piacimento, in quanto fonti atipiche (secondo quanto affermato nella sentenza n. 10 del 1993 di questa Corte, non seguita tuttavia da altre pronunce dello stesso tenore), restava il problema degli effetti giuridici di una possibile disparità di contenuto tra le stesse ed una norma legislativa posteriore. Tale situazione di incertezza ha spinto alcuni giudici comuni a disapplicare direttamente le norme legislative in contrasto con quelle CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo. S’è fatta strada in talune pronunce dei giudici di merito, ma anche in parte della giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. I, sentenza n. 6672 del 1998; Cass., sezioni unite, sentenza n. 28507 del 2005), l’idea che la specifica antinomia possa essere eliminata con i normali criteri di composizione in sistema delle fonti del diritto. In altre parole, si è creduto di poter trarre da un asserito carattere sovraordinato della fonte CEDU la conseguenza che la norma interna successiva, modificativa o abrogativa di una norma prodotta da tale fonte, fosse inefficace, per la maggior forza passiva della stessa fonte CEDU, e che tale inefficacia potesse essere la base giustificativa della sua non applicazione da parte del giudice comune. Oggi questa Corte è chiamata a fare chiarezza su tale problematica normativa e istituzionale, avente rilevanti risvolti pratici nella prassi quotidiana degli operatori del diritto. Oltre alle considerazioni che sono state svolte nel paragrafo 3.3 (per più ampi svolgimenti si rinvia alla sentenza n. 349 del 2007), si deve aggiungere che il nuovo testo dell’art. 117, 52 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO primo comma, Cost, se da una parte rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive, dall’altra attrae le stesse nella sfera di competenza di questa Corte, poiché gli eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale. Il giudice comune non ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché l’asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi. Ogni argomentazione atta ad introdurre nella pratica, anche in modo indiretto, una sorta di “adattamento automatico”, sul modello dell’art. 10, primo comma, Cost., si pone comunque in contrasto con il sistema delineato dalla Costituzione italiana – di cui s’è detto al paragrafo 3.4 – e più volte ribadito da questa Corte, secondo cui l’effetto previsto nella citata norma costituzionale non riguarda le norme pattizie (ex plurimis, sentenze n. 32 del 1960, n. 323 del 1989, n. 15 del 1996). 4.4. – Escluso che l’art. 117, primo comma, Cost., nel nuovo testo, possa essere ritenuto una mera riproduzione in altra forma di norme costituzionali preesistenti (in particolare gli artt. 10 e 11), si deve pure escludere che lo stesso sia da considerarsi operante soltanto nell’ambito dei rapporti tra lo Stato e le Regioni. L’utilizzazione del criterio interpretativo sistematico, isolato dagli altri e soprattutto in contrasto con lo stesso enunciato normativo, non è sufficiente a circoscrivere l’effetto condizionante degli obblighi internazionali, rispetto alla legislazione statale, soltanto al sistema dei rapporti con la potestà legislativa regionale. Il dovere di rispettare gli obblighi internazionali incide globalmente e univocamente sul contenuto della legge statale; la validità di quest’ultima non può mutare a seconda che la si consideri ai fini della delimitazione delle sfere di competenza legislativa di Stato e Regioni o che invece la si prenda in esame nella sua potenzialità normativa generale. La legge – e le norme in essa contenute – è sempre la stessa e deve ricevere un’interpretazione uniforme, nei limiti in cui gli strumenti istituzionali predisposti per l’applicazione del diritto consentono di raggiungere tale obiettivo. Del resto, anche se si restringesse la portata normativa dell’art. 117, primo comma, Cost. esclusivamente all’interno del sistema dei rapporti tra potestà legislativa statale e regionale configurato dal titolo V della parte seconda della Costituzione, non si potrebbe negare che esso vale comunque a vincolare la potestà legislativa dello Stato sia nelle materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo, di competenza esclusiva statale, sia in quelle indicate dal terzo comma, di competenza concorrente. Poiché, dopo la riforma del titolo V, lo Stato possiede competenza legislativa esclusiva o concorrente soltanto nelle materie elencate dal secondo e dal terzo comma, rimanendo ricomprese tutte le altre nella competenza residuale delle Regioni, l’operatività del primo comma dell’art. 117, anche se considerata solo all’interno del titolo V, si estenderebbe ad ogni tipo di potestà legislativa, statale o regionale che sia, indipendentemente dalla sua collocazione. 4.5. – La struttura della norma costituzionale, rispetto alla quale è stata sollevata la presente questione, si presenta simile a quella di altre norme costituzionali, che sviluppano la loro concreta operatività solo se poste in stretto collegamento con altre norme, di rango subcostituzionale, destinate a dare contenuti ad un parametro che si limita ad enunciare in via generale una qualità che le leggi in esso richiamate devono possedere. Le norme necessarie a tale scopo sono di rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio tra questa e la legge ordinaria. A prescindere dall’utilizzazione, per indicare tale tipo di norme, dell’espressione CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 53 “fonti interposte”, ricorrente in dottrina ed in una nutrita serie di pronunce di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 101 del 1989, n. 85 del 1990, n. 4 del 2000, n. 533 del 2002, n. 108 del 2005, n. 12 del 2006, n. 269 del 2007), ma di cui viene talvolta contestata l’idoneità a designare una categoria unitaria, si deve riconoscere che il parametro costituito dall’art. 117, primo comma, Cost. diventa concretamente operativo solo se vengono determinati quali siano gli “obblighi internazionali” che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni. Nel caso specifico sottoposto alla valutazione di questa Corte, il parametro viene integrato e reso operativo dalle norme della CEDU, la cui funzione è quindi di concretizzare nella fattispecie la consistenza degli obblighi internazionali dello Stato. 4.6. – La CEDU presenta, rispetto agli altri trattati internazionali, la caratteristica peculiare di aver previsto la competenza di un organo giurisdizionale, la Corte europea per i diritti dell’uomo, cui è affidata la funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa. Difatti l’art. 32, paragrafo 1, stabilisce: «La competenza della Corte si estende a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa alle condizioni previste negli articoli 33, 34 e 47». Poiché le norme giuridiche vivono nell’interpretazione che ne danno gli operatori del diritto, i giudici in primo luogo, la naturale conseguenza che deriva dall’art. 32, paragrafo 1, della Convenzione è che tra gli obblighi internazionali assunti dall’Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione. Non si può parlare quindi di una competenza giurisdizionale che si sovrappone a quella degli organi giudiziari dello Stato italiano, ma di una funzione interpretativa eminente che gli Stati contraenti hanno riconosciuto alla Corte europea, contribuendo con ciò a precisare i loro obblighi internazionali nella specifica materia. 4.7. – Quanto detto sinora non significa che le norme della CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, acquistano la forza delle norme costituzionali e sono perciò immuni dal controllo di legittimità costituzionale di questa Corte. Proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, è necessario che esse siano conformi a Costituzione. La particolare natura delle stesse norme, diverse sia da quelle comunitarie sia da quelle concordatarie, fa sì che lo scrutinio di costituzionalità non possa limitarsi alla possibile lesione dei principi e dei diritti fondamentali (ex plurimis, sentenze n. 183 del 1973, n. 170 del 1984, n. 168 del 1991, n. 73 del 2001, n. 454 del 2006) o dei principi supremi (ex plurimis, sentenze n. 30 e n. 31 del 1971, n. 12 e n. 195 del 1972, n. 175 del 1973, n. 1 del 1977, n. 16 del 1978, n. 16 e n. 18 del 1982, n. 203 del 1989), ma debba estendersi ad ogni profilo di contrasto tra le “norme interposte” e quelle costituzionali. L’esigenza che le norme che integrano il parametro di costituzionalità siano esse stesse conformi alla Costituzione è assoluta e inderogabile, per evitare il paradosso che una norma legislativa venga dichiarata incostituzionale in base ad un’altra norma sub-costituzionale, a sua volta in contrasto con la Costituzione. In occasione di ogni questione nascente da pretesi contrasti tra norme interposte e norme legislative interne, occorre verificare congiuntamente la conformità a Costituzione di entrambe e precisamente la compatibilità della norma interposta con la Costituzione e la legittimità della norma censurata rispetto alla stessa norma interposta. Nell’ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con una norma costituzionale, questa Corte ha il dovere di dichiarare l’inidoneità della stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad espungerla dall’ordinamento giuridico italiano. 54 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Poiché, come chiarito sopra, le norme della CEDU vivono nell’interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea, la verifica di compatibilità costituzionale deve riguardare la norma come prodotto dell’interpretazione, non la disposizione in sé e per sé considerata. Si deve peraltro escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione. In sintesi, la completa operatività delle norme interposte deve superare il vaglio della loro compatibilità con l’ordinamento costituzionale italiano, che non può essere modificato da fonti esterne, specie se queste non derivano da organizzazioni internazionali rispetto alle quali siano state accettate limitazioni di sovranità come quelle previste dall’art. 11 della Costituzione. 5. – Alla luce dei principi metodologici illustrati sino a questo punto, lo scrutinio di legittimità costituzionale chiesto dalla Corte rimettente deve essere condotto in modo da verificare: a) se effettivamente vi sia contrasto non risolvibile in via interpretativa tra la norma censurata e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte europea ed assunte come fonti integratrici del parametro di costituzionalità di cui all’art. 117, primo comma, Cost.; b) se le norme della CEDU invocate come integrazione del parametro, nell’interpretazione ad esse data dalla medesima Corte, siano compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano. 5.1. – L’art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, prescrive, al primo comma, i criteri di calcolo dell’indennità di espropriazione per pubblica utilità delle aree edificabili, che consistono nell’applicazione dell’art. 13, terzo comma, della legge 15 gennaio 1885, n. 2892 (Risanamento della città di Napoli), «sostituendo in ogni caso ai fitti coacervati dell’ultimo decennio il reddito dominicale rivalutato di cui agli articoli 24 e seguenti del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917». L’importo così determinato è ridotto del 40 per cento. Il secondo comma aggiunge che, in caso di cessione volontaria del bene da parte dell’espropriato, non si applica la riduzione di cui sopra. La norma censurata è stata oggetto di questione di legittimità costituzionale, definita con la sentenza n. 283 del 1993. Nel dichiarare non fondata la questione, questa Corte ha richiamato la sua pregressa giurisprudenza, consolidatasi negli anni, sul concetto di «serio ristoro», particolarmente illustrato nella sentenza n. 5 del 1980. Quest’ultima pronuncia ha stabilito che «l’indennizzo assicurato all’espropriato dall’art. 42, comma terzo, Cost., se non deve costituire una integrale riparazione della perdita subita – in quanto occorre coordinare il diritto del privato con l’interesse generale che l’espropriazione mira a realizzare – non può essere, tuttavia, fissato in una misura irrisoria o meramente simbolica ma deve rappresentare un serio ristoro. Perché ciò possa realizzarsi, occorre far riferimento, per la determinazione dell’indennizzo, al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso, secondo legge. Solo in tal modo può assicurarsi la congruità del ristoro spettante all’espropriato ed evitare che esso sia meramente apparente o irrisorio rispetto al valore del bene». Il principio del serio ristoro è violato, secondo tale pronuncia, quando, «per la determinazione dell’indennità, non si considerino le caratteristiche del bene da espropriare ma si adotti un diverso criterio che prescinda dal valore di esso». CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 55 5.2. – L’effetto della sentenza da ultimo richiamata (e della successiva n. 223 del 1983) è stato quello di rendere nuovamente applicabile il criterio del valore venale, quale previsto dall’art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica) sino all’introduzione, nel 1992, della norma censurata. A proposito di quest’ultima, la Corte, con la già ricordata sentenza n. 283 del 1993, ha confermato il principio del serio ristoro, precisando che, da una parte, l’art. 42 Cost. «non garantisce all’espropriato il diritto ad un’indennità esattamente commisurata al valore venale del bene e, dall’altra, l’indennità stessa non può essere (in negativo) meramente simbolica od irrisoria, ma deve essere (in positivo) congrua, seria, adeguata». Posto che, in conformità all’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, deve essere esclusa «una valutazione del tutto astratta in quanto sganciata dalle caratteristiche essenziali del bene ablato», questa Corte ha ritenuto ammissibili criteri «mediati», lasciando alla discrezionalità del legislatore l’individuazione dei parametri concorrenti con quello del valore venale. La Corte stessa ha tenuto a precisare che la «mediazione tra l’interesse generale sotteso all’espropriazione e l’interesse privato, espresso dalla proprietà privata, non può fissarsi in un indefettibile e rigido criterio quantitativo, ma risente sia del contesto complessivo in cui storicamente si colloca, sia dello specifico che connota il procedimento espropriativo, non essendo il legislatore vincolato ad individuare un unico criterio di determinazione dell’indennità, valido in ogni fattispecie espropriativa». Come emerge chiaramente dalla citata pronuncia, questa Corte, accanto al criterio del serio ristoro – che esclude la pura e semplice identificazione dell’indennità espropriativa con il valore venale del bene – ha pure riconosciuto la relatività sincronica e diacronica dei criteri di determinazione adottabili dal legislatore. In altri termini, l’adeguatezza dei criteri di calcolo deve essere valutata nel contesto storico, istituzionale e giuridico esistente al momento del giudizio. Né il criterio del valore venale (pur rimasto in vigore dal 1983 al 1992), né alcuno dei criteri «mediati» prescelti dal legislatore possono avere i caratteri dell’assolutezza e della definitività. La loro collocazione nel sistema e la loro compatibilità con i parametri costituzionali subiscono variazioni legate al decorso del tempo o al mutamento del contesto istituzionale e normativo, che non possono restare senza conseguenze nello scrutinio di costituzionalità della norma che li contiene. La Corte ha concluso affermando: «anche un contesto complessivo che risulti caratterizzato da una sfavorevole congiuntura economica – che il legislatore mira a contrastare con un’ampia manovra economico-finanziaria – può conferire un diverso peso ai confliggenti interessi oggetto del bilanciamento legislativo. Questa essenziale relatività dei valori in giuoco impone una verifica settoriale e legata al contesto di riferimento nel momento in cui si pone il raffronto tra il risultato del bilanciamento operato dal legislatore con la scelta di un determinato criterio “mediato” ed il canone di adeguatezza dell’indennità ex art. 42, comma 3, della Costituzione». 5.3. – La Corte rimettente ha posto in evidenza proprio la relatività delle valutazioni, che richiede di verificare nel tempo e nello spazio normativo il punto di equilibrio tra i contrastanti interessi costituzionalmente protetti. Si impongono pertanto due distinti approfondimenti: a) l’incidenza del mutato quadro normativo sulla compatibilità della norma censurata con la tutela del diritto di proprietà; b) il legame tra la contingente situazione storica (economica e finanziaria) esistente al momento della sentenza n. 283 del 1993 e l’esito del giudizio di legittimità costituzionale sulla stessa norma. 5.4. – Sul primo punto, si deve rilevare che l’art. 1 del primo Protocollo della CEDU è stato oggetto di una progressiva focalizzazione interpretativa da parte della Corte di 56 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Strasburgo, che ha attribuito alla disposizione un contenuto ed una portata ritenuti dalla stessa Corte incompatibili con la disciplina italiana dell’indennità di espropriazione. In esito ad una lunga evoluzione giurisprudenziale, la Grande Chambre, con la decisione del 29 marzo 2006, nella causa Scordino contro Italia, ha fissato alcuni principi generali: a) un atto della autorità pubblica, che incide sul diritto di proprietà, deve realizzare un giusto equilibrio tra le esigenze dell’interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui (punto 93); b) nel controllare il rispetto di questo equilibrio, la Corte riconosce allo Stato «un ampio margine di apprezzamento», tanto per scegliere le modalità di attuazione, quanto per giudicare se le loro conseguenze trovano legittimazione, nell’interesse generale, dalla necessità di raggiungere l’obiettivo della legge che sta alla base dell’espropriazione (punto 94); c) l’indennizzo non è legittimo, se non consiste in una somma che si ponga «in rapporto ragionevole con il valore del bene»; se da una parte la mancanza totale di indennizzo è giustificabile solo in circostanze eccezionali, dall’altra non è sempre garantita dalla CEDU una riparazione integrale (punto 95); d) in caso di «espropriazione isolata», pur se a fini di pubblica utilità, solo una riparazione integrale può essere considerata in rapporto ragionevole con il valore del bene (punto 96); e) «obiettivi legittimi di utilità pubblica, come quelli perseguiti da misure di riforma economica o di giustizia sociale possono giustificare un indennizzo inferiore al valore di mercato effettivo» (punto 97). Poiché i criteri di calcolo dell’indennità di espropriazione previsti dalla legge italiana porterebbero alla corresponsione, in tutti i casi, di una somma largamente inferiore al valore di mercato (o venale), la Corte europea ha dichiarato che l’Italia ha il dovere di porre fine ad una violazione sistematica e strutturale dell’art. 1 del primo Protocollo della CEDU, anche allo scopo di evitare ulteriori condanne dello Stato italiano in un numero rilevante di controversie seriali pendenti davanti alla Corte medesima. 5.5. – Per stabilire se e in quale misura la suddetta pronuncia della Corte europea incide nell’ordinamento giuridico italiano, occorre esaminare analiticamente il criterio di calcolo dell’indennità di espropriazione previsto dalla norma censurata. L’indennità dovuta al proprietario espropriato, secondo la citata norma, è pari alla media del valore venale del bene e del reddito dominicale rivalutato riferito all’ultimo decennio, con un’ulteriore sottrazione del 40 per cento dalla cifra così ottenuta. Si deve, in primo luogo, osservare che è stato modificato l’originario criterio previsto dalla legge n. 2892 del 1885, che, essendo mirata al risanamento di una grande città, prevedeva coerentemente il ricorso, ai fini della media, alla somma risultante dai «fitti coacervati » dell’ultimo decennio. C’era l’evidente e dichiarata finalità di indennizzare i proprietari di fabbricati ricadenti nell’area urbana, tenendo conto che gli stessi erano per lo più degradati, ma densamente abitati da inquilini che pagavano alti canoni di locazione. Si intendeva, in tal modo, indennizzare i proprietari per il venir meno di un reddito concreto costituito dai fitti che gli stessi percepivano. L’indennizzo così calcolato poteva essere anche più alto del valore venale del bene in sé e per sé considerato. La sostituzione dei fitti coacervati con il reddito dominicale ha spostato verso il basso l’indennità rispetto a quella prevista dalla legge per il risanamento di Napoli, con il risultato pratico che, nella generalità dei casi, la somma ottenuta in base alla media prevista dalla legge è di circa il 50 per cento del valore venale del bene. Aciò si aggiunge l’ulteriore decurtazione del 40 per cento, evitabile solo con la cessione volontaria del bene. 5.6. – Sia la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana sia quella della Corte europea concordano nel ritenere che il punto di riferimento per determinare l’indennità di CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 57 58 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO espropriazione deve essere il valore di mercato (o venale) del bene ablato. V’è pure concordanza di principio – al di là delle diverse espressioni linguistiche impiegate – sulla non coincidenza necessaria tra valore di mercato e indennità espropriativa, alla luce del sacrificio che può essere imposto ai proprietari di aree edificabili in vista del raggiungimento di fini di pubblica utilità. Rispetto alla pregressa giurisprudenza di questa Corte, si deve rilevare un apparente contrasto tra le sentenze di rigetto (principalmente la n. 283 del 1993) sulle questioni riguardanti la norma oggi nuovamente censurata e la netta presa di posizione della Corte di Strasburgo circa l’incompatibilità dei criteri di computo previsti in tale norma e l’art. 1 del primo Protocollo della CEDU. In realtà, come rilevato, questa Corte – nel dichiarare non fondata la questione relativa all’art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992 – ha posto in rilievo il carattere transitorio di tale disciplina, giustificata dalla grave congiuntura economica che il Paese stava attraversando ed ha precisato – come s’è ricordato al paragrafo 5.2 – che la valutazione sull’adeguatezza dell’indennità deve essere condotta in termini relativi, avendo riguardo al quadro storico-economico ed al contesto istituzionale. Sotto il primo profilo, si deve notare che il criterio dichiaratamente provvisorio previsto dalla norma censurata è divenuto oggi definitivo, ad opera dell’art. 37 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità) – non censurato ratione temporis dal giudice rimettente –, che contiene una norma identica, conformemente, del resto, alla sua natura di atto normativo compilativo. È venuta meno, in tal modo, una delle condizioni che avevano indotto questa Corte a ritenere la norma censurata non incompatibile con la Costituzione. Né si può ritenere che una «sfavorevole congiuntura economica» possa andare avanti all’infinito, conferendo sine die alla legislazione una condizione di eccezionalità che, se troppo prolungata nel tempo, perde tale natura ed entra in contraddizione con la sua stessa premessa. Se problemi rilevanti di equilibrio della finanza pubblica permangono anche al giorno d’oggi – e non si prevede che potranno essere definitivamente risolti nel breve periodo – essi non hanno il carattere straordinario ed acuto della situazione dei conti pubblici verificatasi nel 1992, che indusse Parlamento e Governo ad adottare misure di salvataggio drastiche e successivamente non replicate. Un’indennità «congrua, seria ed adeguata» (come precisato dalla sentenza n. 283 del 1993) non può adottare il valore di mercato del bene come mero punto di partenza per calcoli successivi che si avvalgono di elementi del tutto sganciati da tale dato, concepiti in modo tale da lasciare alle spalle la valutazione iniziale, per attingere risultati marcatamente lontani da essa. Mentre il reddito dominicale mantiene un sia pur flebile legame con il valore di mercato (con il risultato pratico però di dimezzare, il più delle volte, l’indennità), l’ulteriore detrazione del 40 per cento è priva di qualsiasi riferimento, non puramente aritmetico, al valore del bene. D’altronde tale decurtazione viene esclusa in caso di cessione volontaria e quindi risulta essere non un criterio, per quanto “mediato”, di valutazione del bene, ma l’effetto di un comportamento dell’espropriato. 5.7. – Da quanto sinora detto si deve trarre la conclusione che la norma censurata – la quale prevede un’indennità oscillante, nella pratica, tra il 50 ed il 30 per cento del valore di mercato del bene – non supera il controllo di costituzionalità in rapporto al «ragionevole legame» con il valore venale, prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il «serio ristoro» richiesto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte. La suddetta indennità è inferiore alla soglia minima accettabile di riparazione dovuta ai proprietari espropriati, anche in considerazione del fatto che la pur ridotta somma spettante ai proprietari viene ulteriormente falcidiata dall’imposizione fiscale, la quale – come rileva il rimettente – si attesta su valori di circa il 20 per cento. Il legittimo sacrificio che può essere imposto in nome dell’interesse pubblico non può giungere sino alla pratica vanificazione dell’oggetto del diritto di proprietà. Non emergono, sulla base delle considerazioni fin qui svolte, profili di incompatibilità tra l’art. 1 del primo Protocollo della CEDU, quale interpretato dalla Corte di Strasburgo, e l’ordinamento costituzionale italiano, con particolare riferimento all’art. 42 Cost. Si deve tuttavia riaffermare che il legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato. L’art. 42 Cost. prescrive alla legge di riconoscere e garantire il diritto di proprietà, ma ne mette in risalto la «funzione sociale». Quest’ultima deve essere posta dal legislatore e dagli interpreti in stretta relazione all’art. 2 Cost., che richiede a tutti i cittadini l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale. Livelli troppo elevati di spesa per l’espropriazione di aree edificabili destinate ad essere utilizzate per fini di pubblico interesse potrebbero pregiudicare la tutela effettiva di diritti fondamentali previsti dalla Costituzione (salute, istruzione, casa, tra gli altri) e potrebbero essere di freno eccessivo alla realizzazione delle infrastrutture necessarie per un più efficiente esercizio dell’iniziativa economica privata. Valuterà il legislatore se l’equilibrio tra l’interesse individuale dei proprietari e la funzione sociale della proprietà debba essere fisso e uniforme, oppure, in conformità all’orientamento della Corte europea, debba essere realizzato in modo differenziato, in rapporto alla qualità dei fini di utilità pubblica perseguiti. Certamente non sono assimilabili singoli espropri per finalità limitate a piani di esproprio volti a rendere possibili interventi programmati di riforma economica o migliori condizioni di giustizia sociale. Infatti, l’eccessivo livello della spesa per espropriazioni renderebbe impossibili o troppo onerose iniziative di questo tipo; tale effetto non deriverebbe invece da una riparazione, ancorché più consistente, per gli «espropri isolati», di cui parla la Corte di Strasburgo. Esiste la possibilità di arrivare ad un giusto mezzo, che possa rientrare in quel «margine di apprezzamento», all’interno del quale è legittimo, secondo la costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che il singolo Stato si discosti dagli standard previsti in via generale dalle norme CEDU, così come interpretate dalle decisioni della stessa Corte. Ciò è conforme peraltro a quella «relatività dei valori» affermata, come ricordato sopra, dalla Corte costituzionale italiana. Criteri di calcolo fissi e indifferenziati rischiano di trattare allo stesso modo situazioni diverse, rispetto alle quali il bilanciamento deve essere operato dal legislatore avuto riguardo alla portata sociale delle finalità pubbliche che si vogliono perseguire, pur sempre definite e classificate dalla legge in via generale. È inoltre evidente che i criteri per la determinazione dell’indennità di espropriazione riguardante aree edificabili devono fondarsi sulla base di calcolo rappresentata dal valore del bene, quale emerge dal suo potenziale sfruttamento non in astratto, ma secondo le norme ed i vincoli degli strumenti urbanistici vigenti nei diversi territori. 6. – La dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., rende superflua ogni valutazione sul dedotto contrasto con l’art. 111 Cost., in rapporto all’applicabilità della stessa norma ai giudizi in corso al momento della sua entrata in vigore, poiché, ai sensi dell’art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, essa non potrà avere più applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione delle presente sentenza. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 59 7. – Ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dei commi 1 e 2 dell’art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, che contengono norme identiche a quelle dichiarate in contrasto con la Costituzione dalla presente sentenza. Per questi motivi la Corte Costituzionale riuniti i giudizi, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, commi 1 e 2, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359; dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell’art. 37, commi 1 e 2, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2007». Corte Costituzionale, sentenza 24 ottobre 2007 n. 349 – Pres. F.Bile – Rel. G. Tesauro, nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, introdotto dall’art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), promossi con ordinanza del 20 maggio 2006 dalla Corte di cassazione nei procedimenti civili riuniti vertenti tra il Comune di Avellino ed altri ed E. P. in proprio e n. q. di procuratore di G. P. e di D. P. ed altri e con ordinanza del 29 giugno 2006 dalla Corte d’appello di Palermo nel procedimento civile vertente tra A. G. ed altre e il Comune di Leonforte ed altro, iscritte ai nn. 401 e 557 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 42 e 49, prima serie speciale, dell’anno 2006. G. C. n. q. di erede di E. P. e di G. P. ed altri n. q. di eredi di D. P. (Avv. A. Barra) - CO.G.E.D.U. - Consulta europea dei diritti dell’uomo (Avv.ti M. de Stefano e A. G. Lana) c/ Presidente del Consiglio dei Ministri (Avv. dello Stato G. Palmieri). «Ritenuto in fatto 1. – La Corte di cassazione e la Corte d’appello di Palermo, con ordinanze del 20 maggio e del 29 giugno 2006, hanno sollevato, in riferimento all’art. 111, primo e secondo comma, della Costituzione, ed in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (di seguito, CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), nonché all’art. 117, primo comma, della Costituzione, ed in relazione all’art. 6 della CEDU ed all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 (infra, Protocollo), questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica) – convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359 – comma aggiunto dall’art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica). 60 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 2. – La Corte di cassazione premette che il giudizio principale ha ad oggetto una domanda proposta da alcuni privati nei confronti del Comune di Avellino e dell’Istituto autonomo case popolari (IACP) della stessa città, al fine di ottenerne la condanna al risarcimento del danno subito a causa della occupazione acquisitiva di alcuni terreni di loro proprietà, sui quali sono stati realizzati alloggi popolari ed opere di edilizia sociale, nonché al pagamento dell’indennità per l’occupazione temporanea degli stessi immobili. La stessa Corte, con sentenza del 14 gennaio 1998, n. 457, accogliendo il ricorso proposto dagli enti pubblici, aveva cassato con rinvio la pronuncia d’appello, ritenendo applicabile la norma censurata, la quale ha introdotto un criterio riduttivo per il computo del risarcimento del danno da occupazione acquisitiva. Riassunto il giudizio, il giudice del rinvio ha, quindi, liquidato l’indennità in base alla disposizione censurata; la pronuncia è stata impugnata dalle parti private, che, tra l’altro, hanno eccepito l’illegittimità costituzionale del citato art. 5-bis, comma 7-bis. 2.1. – La rimettente, dopo avere esposto le argomentazioni che inducono ad escludere l’abrogazione della norma denunciata ad opera dell’art. 111 Cost. – come modificato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei princìpi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione) – ovvero dalla legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), sintetizza le pronunce di questa Corte che hanno già scrutinato la norma censurata, in riferimento agli artt. 3, 28, 42, 53, 97 e 113 Cost. L’ordinanza esamina, quindi, l’orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo in ordine all’interpretazione dell’art. 1 del Protocollo, evolutosi nel senso di garantire una più intensa tutela del diritto di proprietà. In particolare, ricorda che la previsione di un’indennità equitable è stata limitata al caso della espropriazione legittima e che il carattere illecito dell’occupazione è stato ritenuto rilevante al fine della quantificazione dell’indennità, sicché, qualora non sia possibile la restituzione in natura del bene, all’espropriato è dovuta una somma corrispondente al valore venale. Secondo il rimettente, la Corte europea, in alcune sentenze, puntualmente indicate, ha ritenuto che l’occupazione acquisitiva si pone in contrasto con le citate norme convenzionali, tra l’altro, nella parte in cui non garantisce il diritto degli espropriati al risarcimento del danno in misura corrispondente al valore venale del bene, affermando analogo criterio di computo per il calcolo dell’indennità nel caso di espropriazione legittima. Infatti, detta indennità può non essere commisurata al «valore pieno ed intero dei beni» nei soli casi di espropriazioni dirette a conseguire legittimi obiettivi di pubblica utilità e, tuttavia, questi ultimi sono stati individuati in quelli coincidenti con misure di riforme economiche o di giustizia sociale, ovvero strumentali a provocare cambiamenti del sistema costituzionale. In seguito, la medesima Corte, con le sentenze indicate nell’ordinanza di rimessione, ha applicato questi princípi anche in riferimento al criterio stabilito dal censurato art. 5-bis e, ritenuta irrilevante la circostanza che questa norma era parte di una complessa manovra finanziaria, ha condannato lo Stato italiano al risarcimento commisurato alla differenza tra l’indennità percepita ed il valore venale del bene, reputando che l’espropriato, a causa del tempo trascorso, aveva visto leso il proprio affidamento ad un indennizzo calcolato in base a quest’ultimo parametro. In virtù delle sentenze di questa Corte n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983, il criterio di liquidazione per l’espropriazione delle aree edificabili avrebbe infatti dovuto essere quello del giusto prezzo in una libera contrattazione di compravendita (art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, recante «Espropriazioni per causa di utilità pubblica »); quindi, l’applicabilità del sopravvenuto art. 5-bis avrebbe leso il diritto della persona CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 61 al rispetto dei propri beni, anche perché la disciplina fiscale incide ulteriormente sulla somma concretamente percepita. Pertanto, secondo la Corte di Strasburgo, l’espropriazione indiretta o occupazione acquisitiva – riconosciuta dalla legislazione (art. 43 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità») e dalla giurisprudenza italiane – sarebbe incompatibile con l’art. l del Protocollo e la norma censurata violerebbe la regola della riparazione integrale del pregiudizio, realizzando una lesione aggravata dalla retroattività della disposizione e dalla sua applicabilità ai giudizi in corso. In definitiva, la norma censurata è stata giudicata in contrasto con l’art. 1 del Protocollo sotto i seguenti profili: in primo luogo, poiché al solo scopo di sopperire ad esigenze di bilancio, al di fuori di un contesto di riforme economiche o sociali, viola la regola della corresponsione di un valore pari al valore venale del bene; in secondo luogo, in quanto stabilisce un criterio riduttivo, fondato su di un parametro irragionevole anche nel caso di espropriazione legittima; in terzo luogo, poiché dispone l’applicabilità del criterio ai giudizi in corso, in violazione dell’art. 6 della CEDU; in quarto luogo, poiché viola il principio di legalità ed il diritto ad un processo equo, dato che la disposizione ha inciso sull’esito di giudizi in corso, nei quali erano parti amministrazioni pubbliche, obbligando il giudice ad adottare una decisione fondata su presupposti diversi rispetto a quelli sui quali la parte aveva legittimamente fatto affidamento all’atto dell’instaurazione della lite. 2.2. – Secondo la rimettente, benché la disposizione censurata si ponga in contrasto con le citate norme convenzionali, come interpretate dalla Corte europea, non sarebbe tuttavia ammissibile la sua “non applicazione”, mentre la Corte di cassazione talora ha affermato che il giudice nazionale è tenuto ad interpretare ed applicare il diritto interno, per quanto possibile, in modo conforme alla CEDU ed all’interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, talaltra ha attenuato l’efficacia vincolante delle sentenze della Corte europea. Asuo avviso, nella specie non sarebbe configurabile il potere del giudice comune di “non applicare” la norma interna, in quanto sussistente soltanto nel caso di contrasto con norme comunitarie e fondato sull’art. 11 Cost. Il paragrafo 2 dell’art. 6 del Trattato di Maastricht neppure permetterebbe di ritenere la avvenuta «comunitarizzazione» della CEDU, con la conseguenza che l’interpretazione della Convenzione non spetta alla Corte di giustizia delle Comunità europee, dichiaratasi incompetente a fornire elementi interpretativi per la valutazione da parte del giudice nazionale della conformità delle norme di diritto interno ai diritti fondamentali di cui essa garantisce l’osservanza (nel contesto comunitario), quali risultano dalla CEDU, quando «tale normativa riguarda una situazione che non rientra nel campo di applicazione del diritto comunitario» (sentenza 29 maggio 1997, causa C-299/1995). Peraltro, la teoria dei “controlimiti” potrebbe far ipotizzare un contrasto tra la regola che commisura l’indennità di espropriazione al valore venale del bene ed il principio costituzionale in virtù del quale il diritto di proprietà sarebbe recessivo rispetto all’interesse primario dell’utilità sociale. In ogni caso, siffatta regola non è suscettibile di diretta applicazione ai sensi dell’art. 10 Cost., sia in quanto tale norma costituzionale non concerne il diritto pattizio, sia in quanto essa neppure esprime un valore generalmente riconosciuto dagli Stati e, comunque, in quanto il giudice nazionale, se pure potesse direttamente recepire l’interpretazione della Corte europea, non avrebbe il potere di stabilire una disciplina indennitaria sostitutiva di quella prevista dalla norma denunciata. In conclusione, secondo la rimettente, il contrasto della norma interna con le norme convenzionali non può essere evitato attraverso un’interpretazione secundum constitutionem 62 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO della prima e, d’altro canto, il giudice nazionale non potrebbe disapplicare la norma interna, provvedendo, in luogo del legislatore, a coordinare le fonti e ad affermare la prevalenza della fonte convenzionale sulla fonte interna. 2.3. – L’ordinanza di rimessione osserva che questa Corte, benché abbia ritenuto non irragionevole la retroattività della norma censurata (sentenza n. 148 del 1999), non ha scrutinato tale norma in riferimento all’art. 111 Cost. Ad avviso del giudice a quo, il contenuto precettivo del parametro costituzionale evocato non sarebbe stato compiutamente approfondito e, sebbene l’intento del legislatore, di costituzionalizzare la disposizione convenzionale, sia stato accantonato nel corso dei lavori preparatori, ciò non esclude che la giurisprudenza della Corte europea possa contribuire alla sua corretta interpretazione, anche tenendo conto della circostanza che la collocazione della CEDU nella gerarchia delle fonti non è stata ancora chiarita. Pertanto, nella specie rileverebbe il fatto che la Corte di Strasburgo ha ritenuto la norma censurata in contrasto con l’art. 6 della CEDU, in quanto il principio della parità delle parti davanti al giudice vieta al legislatore di intervenire nella risoluzione di una singola causa, o di una determinata categoria di controversie. Le fattispecie decise dal giudice europeo sarebbero omologhe a quella oggetto del giudizio principale, nella quale i proprietari, espropriati nell’anno 1985 in forza della occupazione acquisitiva, hanno agito in giudizio per ottenere l’indennizzo di natura risarcitoria loro spettante in virtù dei principi enunciati dalla Corte regolatrice – fondati sull’art. 39 della legge n. 2359 del 1865 e sull’art. 3 della legge 27 ottobre 1988, n. 458 (Concorso dello Stato nella spesa degli enti locali in relazione ai pregressi maggiori oneri delle indennità di esproprio) – corrispondente al valore venale dei beni; il giudice di merito aveva accolto la domanda, applicando detto criterio; nel corso del giudizio innanzi alla Corte di cassazione è sopravvenuta la norma impugnata che ha diversamente commisurato l’indennizzo, disponendo l’applicabilità del nuovo criterio ai giudizi in corso non definiti con sentenza passata in giudicato, con il risultato di ridurre, a giudizio iniziato, l’indennizzo a poco meno del 50 per cento rispetto a quello in vista del quale i proprietari avevano instaurato il giudizio. 2.4. – Secondo la Corte di cassazione, la norma denunciata si porrebbe, inoltre, in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., che, nel testo novellato a seguito della riforma del titolo V della Costituzione, mira ad eliminare una lacuna del nostro ordinamento, determinata dal contenuto dell’art. 10 Cost., stabilendo una regola vincolante anche per il legislatore statale. La disposizione censurata violerebbe il principio del giusto processo ed il diritto di proprietà, quali risultano dagli artt. 6 della CEDU ed 1 del Protocollo, come interpretati dalla Corte europea, e, conseguentemente, il citato art. 5-bis, comma 7-bis, sarebbe costituzionalmente illegittimo, in quanto in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost. 3. – La Corte d’appello di Palermo espone di essere stata adita in sede di giudizio di rinvio avente ad oggetto le domande restitutorie e risarcitorie proposte da alcuni privati, i quali hanno dedotto che un suolo edificabile di loro proprietà ha costituito oggetto di un procedimento di espropriazione per la costruzione di alloggi di edilizia popolare ed è stato irreversibilmente trasformato, in difetto della adozione di regolare provvedimento di espropriazione; gli enti pubblici si sono costituiti nel giudizio contestando la fondatezza della domanda e chiedendo che siano applicate le norme recate dal d.P.R. n. 327 del 2001; è stata inoltre accertata l’irreversibile trasformazione del fondo. Secondo il giudice a quo, il principio di diritto enunciato nella sentenza di rinvio comporta che il decreto di espropriazione dell’immobile, in quanto adottato dopo la scadenza dei CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 63 termini di cui all’art. 13 della legge n. 2359 del 1865, è illegittimo e deve essere disapplicato. La fattispecie oggetto del giudizio va qualificata come occupazione acquisitiva, poiché la trasformazione del bene è stata realizzata in pendenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità, quindi, alla data di scadenza dei termini di cui all’art. 13 della legge n. 2359 del 1865, il bene è stato acquistato dagli enti pubblici, a titolo originario, e gli attori sono titolari del diritto ad ottenere il risarcimento del danno. Nella specie sarebbe applicabile il citato art. 5-bis, comma 7-bis, mentre, ad avviso del rimettente, alla data di instaurazione del giudizio di primo grado (12 aprile 1984), le parti private, in virtù dei princípi enunciati dalla sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 1464 del 1983 e di quanto previsto dall’art. 39 della legge n. 2359 del 1865, potevano fare affidamento sulla spettanza di un risarcimento del danno pari al valore venale del fondo, che invece la norma censurata ha dimezzato. La Corte d’appello di Palermo censura, quindi, la norma in esame in riferimento agli stessi parametri costituzionali indicati dalla Corte di cassazione e con argomentazioni sostanzialmente coincidenti con quelle svolte nella relativa ordinanza di rimessione, sopra sintetizzate. 4. – Nel giudizio promosso dalla Corte di cassazione è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato che, anche nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata. Secondo la difesa erariale, l’ordinanza di rimessione richiede di accertare: a) se, nel caso di contrasto di una norma interna con la giurisprudenza della Corte europea, prevalga la seconda; b) se l’eventuale prevalenza della giurisprudenza di detta Corte concerna anche le norme costituzionali. A suo avviso, deve anzitutto escludersi che la Corte di Strasburgo, in via interpretativa, possa ridurre o estendere il contenuto delle norme convenzionali; l’art. 32 del Protocollo n. 11 alla Convenzione, fatto a Strasburgo l’11 maggio 1994, ratificato e reso esecutivo con la legge 28 agosto 1997, n. 296 (Ratifica ed esecuzione del protocollo n. 11 alla convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, recante ristrutturazione del meccanismo di controllo stabilito dalla convenzione, fatto a Strasburgo l’11 maggio 1994), stabilisce che la competenza di detta Corte concerne tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli, senza affatto prevedere un potere creativo di norme convenzionali vincolanti, inesistente nel sistema della Convenzione di Vienna ratificata con la legge 12 febbraio 1974, n. 112 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sul diritto dei trattati, con annesso, adottata a Vienna il 23 maggio 1969), «che vuole testuale ed oggettiva l’interpretazione di qualunque trattato». Pertanto, se la Corte europea non ha titolo per dubitare della legittimità, nel diritto nazionale, della norma retroattiva e del sistema italiano di calcolo dell’indennizzo, non potrebbe essere censurata una disposizione conforme agli artt. 25 e 42 Cost.; inoltre, l’art. 111 Cost., contrariamente a quanto sostiene la rimettente, non concerne la disciplina sostanziale e, comunque, l’art. 6 della CEDU non stabilisce il divieto di retroattività della legge in materia diversa da quella penale. Secondo la difesa erariale, l’art. 117, primo comma, Cost., fa riferimento ai «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» che, come chiarisce l’art. 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), sono quelli derivanti da «accordi di reciproca limitazione della sovranità di cui all’art. 11 della Costituzione, dall’or- 64 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO dinamento comunitario e dai trattati internazionali» e «nulla di tutto ciò è nella Convenzione Europea dei diritti dell’uomo a proposito delle leggi retroattive di immediata applicazione ai processi in corso, per le quali opera, tutta e sola, la disciplina delle fonti di produzione nazionale ». Analogamente, l’art. 1 del Protocollo non disporrebbe, come invece ritiene la Corte EDU, che l’indennizzo per l’espropriazione debba coincidere con il valore venale del bene. Infine, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sarebbe inesatta anche perchè il valore venale del bene è dato dall’utilizzabilità dell’area per edificare, ma nessuno strumento urbanistico lascia la dimensione del terreno al lordo delle esigenze derivanti dalla pianificazione. Secondo l’interveniente, l’esperienza insegna «che su un terreno di X mq l’area edificabile al netto degli spazi che servono per le opere di urbanizzazione e per l’assetto del territorio, è pari ad X/2» e, quindi, non è irragionevole che la legge disponga in detti casi una drastica riduzione del valore per metro quadro. 4.1. – Nel giudizio di costituzionalità si sono costituiti, con separati atti, le parti del giudizio principale, chiedendo l’accoglimento della questione, anche sulla scorta di argomentazioni in larga misura coincidenti con quelle svolte nell’ordinanza di rimessione. Dopo avere esposto considerazioni storico-filosofiche a conforto del principio secondo il quale il diritto non può porsi in contrasto con il senso comune del giusto, le parti sostengono che non solo la norma censurata, ma anche l’art. 3 della legge n. 458 del 1988 e le sentenze di questa Corte n. 384 del 1990 e n. 486 del 1991, nonché alcune sentenze della Corte di cassazione, laddove negano il diritto di quanti hanno subito un’occupazione acquisitiva di conservare la proprietà del bene e di ottenere un risarcimento pari al valore venale del bene, si porrebbero in contrasto con l’art. 1 del Protocollo. La retroattività della norma denunciata è censurata anche attraverso richiami alla Costituzione francese del 1791, alla Costituzione degli Stati Uniti d’America e ad un ampio excursus storico, svolti per evidenziare il contrasto di detta norma con l’art. 1 del Protocollo, violato altresì dal riconoscimento dell’istituto dell’accessione invertita e dalla legittimazione di un’attività illecita quale fonte di acquisto del diritto di proprietà da parte della pubblica amministrazione. Pertanto, secondo le parti, la norma in esame, configurando un fatto illecito come fonte di estinzione del diritto di proprietà del privato, violerebbe l’art. 10, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1, secondo comma, del Protocollo, nonché l’art. 53 Cost.. Infine, la disposizione si porrebbe in contrasto con l’art. 10, primo comma, e con l’art. 111, secondo comma, Cost., anche in relazione all’art. 6, n. 1, della legge n. 848 del 1955, fermo restando l’obbligo di risarcire il danno conseguente dalla violazione del termine di durata ragionevole del processo (art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89). 4.2. – Nel giudizio è intervenuta una società a r.l., chiedendo l’accoglimento della questione e deducendo di essere titolare di un interesse che ne legittimerebbe l’intervento, in quanto parte di un altro processo avente anch’esso ad oggetto il risarcimento del danno da occupazione acquisitiva, sospeso sino all’esito del presente giudizio. 4.3. – Infine, ha spiegato intervento nel giudizio la Consulta per la Giustizia Europea dei Diritti dell’Uomo (CO.GE.DU.), in persona del legale rappresentante, la quale, anche nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, espone che non è parte del processo principale «e non sarebbe direttamente toccata dalla legislazione oggetto del giudizio presupposto », poiché non ha alcun interesse particolare che possa riguardare l’espropriazione per pubblica utilità. Tuttavia, la legittimazione all’intervento si fonderebbe sulla circostanza che l’esito del giudizio inciderebbe sul conseguimento dei suoi scopi statutari e sul suo interesse ad una pronuncia che riconosca alle norme della CEDU rango costituzionale. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 65 5. – Nel giudizio promosso dalla Corte d’appello di Palermo è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, svolgendo, nell’atto di intervento e nella memoria depositata in prossimità della camera di consiglio, deduzioni identiche a quelle contenute nell’atto di intervento concernente il giudizio promosso dalla Corte di cassazione e chiedendo che la Corte dichiari infondate le questioni. 5.1. – Nel giudizio promosso dalla Corte d’appello di Palermo si sono altresì costituite, con atto depositato fuori termine, le parti private del processo principale. Considerato in diritto 1. – Le questioni sollevate dalla Corte di cassazione e dalla Corte d’appello di Palermo investono l’art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica) – convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359 –, comma aggiunto dall’art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), il quale stabilisce: «In caso di occupazioni illegittime di suoli per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determinazione dell’indennità di cui al comma 1, con esclusione della riduzione del 40 per cento. In tal caso l’importo del risarcimento è altresì aumentato del 10 per cento. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato». Secondo le ordinanze di rimessione, la norma si porrebbe in contrasto con l’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (infra, CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), ed all’art. 1 del Protocollo addizionale, in quanto, disponendo l’applicabilità ai giudizi in corso della disciplina dalla stessa stabilita in tema di risarcimento del danno da occupazione illegittima e quantificando in misura incongrua il relativo indennizzo, violerebbe il principio del giusto processo ed il diritto di proprietà di cui rispettivamente ai citati artt. 6 ed 1, come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, quindi violerebbe i corrispondenti obblighi internazionali assunti dallo Stato. Inoltre, detta disposizione si porrebbe in contrasto anche con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU, poiché la previsione della sua applicabilità ai giudizi in corso violerebbe il principio del giusto processo, in particolare sotto il profilo della parità delle parti, da ritenersi leso da un intervento del legislatore diretto ad imporre una determinata soluzione ad una circoscritta e specifica categoria di controversie. 2. – I giudizi, avendo ad oggetto la stessa norma, censurata in riferimento agli stessi parametri costituzionali, per profili e con argomentazioni sostanzialmente coincidenti, devono essere riuniti e decisi con un’unica sentenza. 3. – Preliminarmente, deve essere ribadita l’inammissibilità degli interventi della Consulta per la Giustizia Europea dei Diritti dell’Uomo (CO.GE.DU.) e di A. C. fu G. s.r.l., dichiarata con ordinanza della quale è stata data lettura in udienza, allegata alla presente sentenza. Inoltre, va dichiarata l’inammissibilità della costituzione delle parti del giudizio pendente dinanzi alla Corte d’appello di Palermo, poiché avvenuta oltre il termine stabilito dall’art. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento 66 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO della Corte costituzionale), computato secondo quanto previsto dagli artt. 3 e 4 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, da ritenersi perentorio (per tutte, sentenza n. 190 del 2006). 4. – Le due ordinanze di rimessione hanno motivato non implausibilmente in ordine alle ragioni dell’applicabilità, in entrambi i giudizi, della norma censurata, anche a seguito della emanazione del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), nonché sulla circostanza che gli stessi hanno ad oggetto una fattispecie di occupazione acquisitiva, disciplinata appunto da detta norma. Inoltre, in virtù di un principio che va confermato, la questione di legittimità costituzionale può avere ad oggetto anche l’interpretazione risultante dal «principio di diritto» enunciato dalla Corte di cassazione (che vincola questa stessa nel giudizio di impugnazione della sentenza pronunciata in sede di rinvio), in quanto il regime delle preclusioni proprio del giudizio di rinvio non impedisce di censurare la norma dalla quale detto principio è stato tratto (sentenze n. 78 del 2007, n. 58 del 1995, n. 257 del 1994, n. 138 del 1993; ordinanza n. 501 del 2000) Le questioni sono, quindi, ammissibili. 5. – Le questioni vanno esaminate entro i limiti del thema decidendum individuato dalle ordinanze di rimessione, dato che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, non possono essere prese in considerazione le censure svolte dalle parti del giudizio principale, con riferimento a parametri costituzionali ed a profili non evocati dal giudice a quo (ex plurimis, sentenze n. 310 e n. 234 del 2006). 6. – La questione sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., è fondata. 6.1. – In considerazione del parametro costituzionale evocato dai giudici a quibus e delle argomentazioni svolte in entrambe le ordinanze di rimessione, il preliminare profilo da affrontare è quello delle conseguenze del prospettato contrasto della norma interna con «i vincoli derivanti […] dagli obblighi internazionali» e, in particolare, con gli obblighi imposti dalle evocate disposizioni della CEDU e del Protocollo addizionale. In generale, la giurisprudenza di questa Corte, nell’interpretare le disposizioni della Costituzione che fanno riferimento a norme e ad obblighi internazionali – per quanto qui interessa, gli artt. 7, 10 ed 11 Cost. – ha costantemente affermato che l’art. 10, primo comma, Cost., il quale sancisce l’adeguamento automatico dell’ordinamento interno alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, concerne esclusivamente i princìpi generali e le norme di carattere consuetudinario (per tutte, sentenze n. 73 del 2001, n. 15 del 1996, n. 168 del 1994), mentre non comprende le norme contenute in accordi internazionali che non riproducano princìpi o norme consuetudinarie del diritto internazionale. Per converso, l’art. 10, secondo comma, e l’art. 7 Cost. fanno riferimento a ben identificati accordi, concernenti rispettivamente la condizione giuridica dello straniero e i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica e pertanto non possono essere riferiti a norme convenzionali diverse da quelle espressamente menzionate. L’art. 11 Cost., il quale stabilisce, tra l’altro, che l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni», è invece la disposizione che ha permesso di riconoscere alle norme comunitarie efficacia obbligatoria nel nostro ordinamento (sentenze n. 284 del 2007; n. 170 del 1984). Con riguardo alle disposizioni della CEDU, questa Corte ha più volte affermato che, in mancanza di una specifica previsione costituzionale, le medesime, rese esecutive nell’ordi- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 67 namento interno con legge ordinaria, ne acquistano il rango e quindi non si collocano a livello costituzionale (tra le molte, per la continuità dell’orientamento, sentenze n. 388 del 1999, n. 315 del 1990, n. 188 del 1980; ordinanza n. 464 del 2005). Ed ha altresì ribadito l’esclusione delle norme meramente convenzionali dall’ambito di operatività dell’art. 10, primo comma, Cost. (oltre alle pronunce sopra richiamate, si vedano le sentenze n. 224 del 2005, n. 288 del 1997, n. 168 del 1994). L’inconferenza, in relazione alle norme della CEDU, e per quanto qui interessa, del parametro dell’art. 10, secondo comma, Cost., è resa chiara dal preciso contenuto di tale disposizione. Né depongono in senso diverso i precedenti di questa Corte in cui si è fatto riferimento anche a quel parametro, dato che ciò è accaduto essenzialmente in considerazione della coincidenza delle disposizioni della CEDU con le fonti convenzionali relative al trattamento dello straniero: ed è appunto questa la circostanza della quale le pronunce in questione si sono limitate a dare atto (sentenze n. 125 del 1977, n. 120 del 1967). In riferimento alla CEDU, questa Corte ha, inoltre, ritenuto che l’art. 11 Cost. «neppure può venire in considerazione non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme convenzionali in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale» (sentenza n. 188 del 1980), conclusione che si intende in questa sede ribadire. Va inoltre sottolineato che i diritti fondamentali non possono considerarsi una “materia” in relazione alla quale sia allo stato ipotizzabile, oltre che un’attribuzione di competenza limitata all’interpretazione della Convenzione, anche una cessione di sovranità. Né la rilevanza del parametro dell’art. 11 può farsi valere in maniera indiretta, per effetto della qualificazione, da parte della Corte di giustizia della Comunità europea, dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come princìpi generali del diritto comunitario. È vero, infatti, che una consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia, anche a seguito di prese di posizione delle Corti costituzionali di alcuni Paesi membri, ha fin dagli anni settanta affermato che i diritti fondamentali, in particolare quali risultano dalla CEDU, fanno parte dei princìpi generali di cui essa garantisce l’osservanza. È anche vero che tale giurisprudenza è stata recepita nell’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea e, estensivamente, nella Carta dei diritti fondamentali proclamata a Nizza da altre tre istituzioni comunitarie, atto formalmente ancora privo di valore giuridico ma di riconosciuto rilievo interpretativo (sentenza n. 393 del 2006). In primo luogo, tuttavia, il Consiglio d’Europa, cui afferiscono il sistema di tutela dei diritti dell’uomo disciplinato dalla CEDU e l’attività interpretativa di quest’ultima da parte della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, è una realtà giuridica, funzionale e istituzionale, distinta dalla Comunità europea creata con i Trattati di Roma del 1957 e dall’Unione europea oggetto del Trattato di Maastricht del 1992. In secondo luogo, la giurisprudenza è sì nel senso che i diritti fondamentali fanno parte integrante dei princìpi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario assicura il rispetto, ispirandosi alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri ed in particolare alla Convenzione di Roma (da ultimo, su rinvio pregiudiziale della Corte Costituzionale belga, sentenza 26 giugno 2007, causa C-305/05, Ordini avvocati c. Consiglio, punto 29). Tuttavia, tali princìpi rilevano esclusivamente rispetto a fattispecie alle quali tale diritto sia applicabile: in primis gli atti comunitari, poi gli atti nazionali di attuazione di normative comunitarie, infine le deroghe nazionali a norme comunitarie asseritamente giustificate dal rispetto dei diritti fondamentali (sentenza 18 giugno 1991, C-260/89, ERT). La Corte di giustizia ha infatti precisato che non ha tale competenza nei confronti di normative che non entrano nel campo di applicazione del diritto comunitario (sentenza 4 68 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO ottobre 1991, C-159/90, Society for the Protection of Unborn Children Ireland; sentenza 29 maggio 1998, C-299/95, Kremzow): ipotesi che si verifica precisamente nel caso di specie. In terzo luogo, anche a prescindere dalla circostanza che al momento l’Unione europea non è parte della CEDU, resta comunque il dato dell’appartenenza da tempo di tutti gli Stati membri dell’Unione al Consiglio d’Europa ed al sistema di tutela dei diritti fondamentali che vi afferisce, con la conseguenza che il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, non essendovi in questa materia una competenza comune attribuita alle (né esercitata dalle) istituzioni comunitarie, è un rapporto variamente ma saldamente disciplinato da ciascun ordinamento nazionale. Né, infine, le conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Bruxelles del 21 e 22 giugno 2007 e le modifiche dei trattati ivi prefigurate e demandate alla conferenza intergovernativa sono allo stato suscettibili di alterare il quadro giuridico appena richiamato. Altrettanto inesatto è sostenere che la incompatibilità della norma interna con la norma della CEDU possa trovare rimedio nella semplice non applicazione da parte del giudice comune. Escluso che ciò possa derivare dalla generale “comunitarizzazione” delle norme della CEDU, per le ragioni già precisate, resta da chiedersi se sia possibile attribuire a tali norme, ed in particolare all’art. 1 del Protocollo addizionale, l’effetto diretto, nel senso e con le implicazioni proprie delle norme comunitarie provviste di tale effetto, in particolare la possibilità per il giudice nazionale di applicarle direttamente in luogo delle norme interne con esse confliggenti. E la risposta è che, allo stato, nessun elemento relativo alla struttura e agli obiettivi della CEDU ovvero ai caratteri di determinate norme consente di ritenere che la posizione giuridica dei singoli possa esserne direttamente e immediatamente tributaria, indipendentemente dal tradizionale diaframma normativo dei rispettivi Stati di appartenenza, fino al punto da consentire al giudice la non applicazione della norma interna confliggente. Le stesse sentenze della Corte di Strasburgo, anche quando è il singolo ad attivare il controllo giurisdizionale nei confronti del proprio Stato di appartenenza, si rivolgono allo Stato membro legislatore e da questo pretendono un determinato comportamento. Ciò è tanto più evidente quando, come nella specie, si tratti di un contrasto “strutturale” tra la conferente normativa nazionale e le norme CEDU così come interpretate dal giudice di Strasburgo e si richieda allo Stato membro di trarne le necessarie conseguenze. 6.1.1. – Nella giurisprudenza di questa Corte sono individuabili pronunce le quali hanno ribadito che le norme della CEDU non si collocano come tali a livello costituzionale, non potendosi loro attribuire un rango diverso da quello dell’atto – legge ordinaria – che ne ha autorizzato la ratifica e le ha rese esecutive nel nostro ordinamento. Le stesse pronunce, d’altra parte, hanno anche escluso che, nei casi esaminati, la disposizione interna fosse difforme dalle norme convenzionali (sentenze n. 288 del 1997 e n. 315 del 1990), sottolineando la «sostanziale coincidenza» tra i princìpi dalle stesse stabiliti ed i princìpi costituzionali (sentenze n. 388 del 1999, n. 120 del 1967, n. 7 del 1967), ciò che rendeva «superfluo prendere in esame il problema […] del rango» delle disposizioni convenzionali (sentenza n. 123 del 1970). In altri casi, detta questione non è stata espressamente affrontata, ma, emblematicamente, è stata rimarcata la «significativa assonanza» della disciplina esaminata con quella stabilita dall’ordinamento internazionale (sentenza n. 342 del 1999; si vedano anche le sentenze n. 445 del 2002 e n. 376 del 2000). È stato talora osservato che le norme interne assicuravano «garanzie ancora più ampie» di quelle previste dalla CEDU (sentenza n. 1 del 1961), poiché «i diritti umani, garantiti anche da convenzioni universali o regionali sottoscritte dall’Italia, trovano espressione, e non meno intensa garanzia, nella Costituzione» (sentenze n. 388 del 1999, n. 399 del 1998). Così il diritto del singolo alla CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 69 tutela giurisdizionale è stato ricondotto nel novero dei diritti inviolabili dell’uomo, garantiti dall’art. 2 della Costituzione, argomentando «anche dalla considerazione che se ne è fatta nell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo» (sentenza n. 98 del 1965). In linea generale, è stato anche riconosciuto valore interpretativo alla CEDU, in relazione sia ai parametri costituzionali che alle norme censurate (sentenza n. 505 del 1995; ordinanza n. 305 del 2001), richiamando, per avvalorare una determinata esegesi, le «indicazioni normative, anche di natura sovranazionale» (sentenza n. 231 del 2004). Inoltre, in taluni casi, questa Corte, nel fare riferimento a norme della CEDU, ha svolto argomentazioni espressive di un’interpretazione conforme alla Convenzione (sentenze n. 376 del 2000 e n. 310 del 1996), ovvero ha richiamato dette norme, e la ratio ad esse sottesa, a conforto dell’esegesi accolta (sentenze n. 299 del 2005 e n. 29 del 2003), avvalorandola anche in considerazione della sua conformità con i «valori espressi» dalla Convenzione, «secondo l’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo» (sentenze n. 299 del 2005; n. 299 del 1998), nonché sottolineando come un diritto garantito da norme costituzionali sia «protetto anche dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti […] come applicato dalla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo» (sentenza n. 154 del 2004). È rimasto senza seguito il precedente secondo il quale le norme in esame deriverebbero da «una fonte riconducibile a una competenza atipica» e, come tali, sarebbero «insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria» (sentenza n. 10 del 1993). 6.1.2. – Dagli orientamenti della giurisprudenza di questa Corte è dunque possibile desumere un riconoscimento di principio della peculiare rilevanza delle norme della Convenzione, in considerazione del contenuto della medesima, tradottasi nell’intento di garantire, soprattutto mediante lo strumento interpretativo, la tendenziale coincidenza ed integrazione delle garanzie stabilite dalla CEDU e dalla Costituzione, che il legislatore ordinario è tenuto a rispettare e realizzare. La peculiare rilevanza degli obblighi internazionali assunti con l’adesione alla Convenzione in esame è stata ben presente al legislatore ordinario. Infatti, dopo il recepimento della nuova disciplina della Corte europea dei diritti dell’uomo, dichiaratamente diretta a «ristrutturare il meccanismo di controllo stabilito dalla Convenzione per mantenere e rafforzare l’efficacia della protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali prevista dalla Convenzione» (Preambolo al Protocollo n. 11, ratificato e reso esecutivo con la legge 28 agosto 1997, n. 296), si è provveduto a migliorare i meccanismi finalizzati ad assicurare l’adempimento delle pronunce della Corte europea (art. 1 della legge 9 gennaio 2006, n. 12), anche mediante norme volte a garantire che l’intero apparato pubblico cooperi nell’evitare violazioni che possono essere sanzionate (art. 1, comma 1217, della legge 27 dicembre 2006, n. 296). Infine, anche sotto il profilo organizzativo, da ultimo è stata disciplinata l’attività attribuita alla Presidenza del Consiglio dei ministri, stabilendo che gli adempimenti conseguenti alle pronunce della Corte di Strasburgo sono curati da un Dipartimento di detta Presidenza (d.P.C.m. 1° febbraio 2007 – Misure per l’esecuzione della legge 9 gennaio 2006, n. 12, recante disposizioni in materia di pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo). 6.2. – È dunque alla luce della complessiva disciplina stabilita dalla Costituzione, quale risulta anche dagli orientamenti di questa Corte, che deve essere preso in considerazione e sistematicamente interpretato l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto parametro rispetto al quale valutare la compatibilità della norma censurata con l’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, così come interpretato dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo. 70 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Il dato subito emergente è la lacuna esistente prima della sostituzione di detta norma da parte dell’art. 2 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), per il fatto che la conformità delle leggi ordinarie alle norme di diritto internazionale convenzionale era suscettibile di controllo da parte di questa Corte soltanto entro i limiti e nei casi sopra indicati al punto 6.1. La conseguenza era che la violazione di obblighi internazionali derivanti da norme di natura convenzionale non contemplate dall’art. 10 e dall’art. 11 Cost. da parte di leggi interne comportava l’incostituzionalità delle medesime solo con riferimento alla violazione diretta di norme costituzionali (sentenza n. 223 del 1996). E ciò si verificava a dispetto di uno degli elementi caratterizzanti dell’ordinamento giuridico fondato sulla Costituzione, costituito dalla forte apertura al rispetto del diritto internazionale e più in generale delle fonti esterne, ivi comprese quelle richiamate dalle norme di diritto internazionale privato; e nonostante l’espressa rilevanza della violazione delle norme internazionali oggetto di altri e specifici parametri costituzionali. Inoltre, tale violazione di obblighi internazionali non riusciva ad essere scongiurata adeguatamente dal solo strumento interpretativo, mentre, come sopra precisato, per le norme della CEDU neppure è ammissibile il ricorso alla “non applicazione” utilizzabile per il diritto comunitario. Non v’è dubbio, pertanto, alla luce del quadro complessivo delle norme costituzionali e degli orientamenti di questa Corte, che il nuovo testo dell’art. 117, primo comma, Cost., ha colmato una lacuna e che, in armonia con le Costituzioni di altri Paesi europei, si collega, a prescindere dalla sua collocazione sistematica nella Carta costituzionale, al quadro dei princìpi che espressamente già garantivano a livello primario l’osservanza di determinati obblighi internazionali assunti dallo Stato. Ciò non significa, beninteso, che con l’art. 117, primo comma, Cost., si possa attribuire rango costituzionale alle norme contenute in accordi internazionali, oggetto di una legge ordinaria di adattamento, com’è il caso delle norme della CEDU. Il parametro costituzionale in esame comporta, infatti, l’obbligo del legislatore ordinario di rispettare dette norme, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU e dunque con gli “obblighi internazionali” di cui all’art. 117, primo comma, viola per ciò stesso tale parametro costituzionale. Con l’art. 117, primo comma, si è realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata “norma interposta”; e che è soggetta a sua volta, come si dirà in seguito, ad una verifica di compatibilità con le norme della Costituzione. Ne consegue che al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale ‘interposta’, egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117, primo comma, come correttamente è stato fatto dai rimettenti in questa occasione. In relazione alla CEDU, inoltre, occorre tenere conto della sua peculiarità rispetto alla generalità degli accordi internazionali, peculiarità che consiste nel superamento del quadro di una semplice somma di diritti ed obblighi reciproci degli Stati contraenti. Questi ultimi hanno istituito un sistema di tutela uniforme dei diritti fondamentali. L’applicazione e l’interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battuta ai giudici degli Stati membri, cui compete il ruolo di giudici comuni della Convenzione. La definitiva uniformità di applicazione è invece garantita dall’interpretazione centralizzata della CEDU CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 71 attribuita alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, cui spetta la parola ultima e la cui competenza «si estende a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa nelle condizioni previste» dalla medesima (art. 32, comma 1, della CEDU). Gli stessi Stati membri, peraltro, hanno significativamente mantenuto la possibilità di esercitare il diritto di riserva relativamente a questa o quella disposizione in occasione della ratifica, così come il diritto di denuncia successiva, sì che, in difetto dell’una e dell’altra, risulta palese la totale e consapevole accettazione del sistema e delle sue implicazioni. In considerazione di questi caratteri della Convenzione, la rilevanza di quest’ultima, così come interpretata dal “suo” giudice, rispetto al diritto interno è certamente diversa rispetto a quella della generalità degli accordi internazionali, la cui interpretazione rimane in capo alle Parti contraenti, salvo, in caso di controversia, la composizione del contrasto mediante negoziato o arbitrato o comunque un meccanismo di conciliazione di tipo negoziale. Questa Corte e la Corte di Strasburgo hanno in definitiva ruoli diversi, sia pure tesi al medesimo obiettivo di tutelare al meglio possibile i diritti fondamentali dell’uomo. L’interpretazione della Convenzione di Roma e dei Protocolli spetta alla Corte di Strasburgo, ciò che solo garantisce l’applicazione del livello uniforme di tutela all’interno dell’insieme dei Paesi membri. A questa Corte, qualora sia sollevata una questione di legittimità costituzionale di una norma nazionale rispetto all’art. 117, primo comma, Cost. per contrasto – insanabile in via interpretativa – con una o più norme della CEDU, spetta invece accertare il contrasto e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscono una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana. Non si tratta, invero, di sindacare l’interpretazione della norma CEDU operata dalla Corte di Strasburgo, come infondatamente preteso dalla difesa erariale nel caso di specie, ma di verificare la compatibilità della norma CEDU, nell’interpretazione del giudice cui tale compito è stato espressamente attribuito dagli Stati membri, con le pertinenti norme della Costituzione. In tal modo, risulta realizzato un corretto bilanciamento tra l’esigenza di garantire il rispetto degli obblighi internazionali voluto dalla Costituzione e quella di evitare che ciò possa comportare per altro verso un vulnus alla Costituzione stessa. 7. – Premessa la lettura sistematica dell’art. 117, primo comma, Cost., invocato dai rimettenti, è opportuna una ricognizione dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale dell’occupazione acquisitiva, oggetto della norma denunciata. In origine (legge 25 giugno 1865, n. 2359, recante «Espropriazioni per causa di utilità pubblica»), fu prevista l’occupazione temporanea (artt. 64 e 70), senza alcun trasferimento di proprietà; e l’occupazione d’urgenza (artt. 71 e 73), inizialmente collegata ai casi contingenti di calamità naturali, fu poi generalizzata ai casi di occupazione per l’espletamento di lavori dichiarati urgenti dal Consiglio superiore dei lavori pubblici. Nella prassi, tuttavia, l’istituto dell’occupazione d’urgenza è divenuto un passaggio normale della procedura espropriativa, fino al punto che sovente l’opera pubblica era realizzata sul fondo occupato in via di urgenza, sulla base di una previa dichiarazione di pubblica utilità, senza che poi seguisse alcun valido provvedimento espropriativo. A tali casi si riferisce l’istituto, di origine giurisprudenziale, della c.d. «accessione invertita» o «occupazione appropriativa», consacrato dalla sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 1464 del 1983, più volte confermata negli anni successivi. Le sezioni unite, in particolare, sulla premessa della illegittimità dell’occupazione al di fuori di un compiuto procedimento espropriativo, della realizzazione di un’opera di interesse pubblico 72 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO e della impossibilità di far coesistere una proprietà del bene realizzato con una diversa proprietà del fondo, affermarono l’acquisto a titolo originario da parte della pubblica amministrazione a seguito e per effetto della trasformazione irreversibile del bene. Atale conclusione, il giudice di legittimità pervenne utilizzando quell’esigenza di bilanciamento di interessi che pure è presente nella disciplina dell’accessione (art. 934 e seguenti del codice civile) e che nell’ipotesi di specie faceva ritenere prevalenti le ragioni dell’amministrazione in quanto a soddisfazione di interessi pubblici. La ricaduta di tale pronuncia in termini patrimoniali, peraltro, è stata il diritto del proprietario non all’indennità di espropriazione, ma al risarcimento del danno da illecito, equivalente almeno al valore reale del bene, con prescrizione quinquennale dal momento della trasformazione irreversibile del bene. L’orientamento successivo della Cassazione, pur con qualche oscillazione di minor rilievo (ad esempio sul termine di prescrizione), sostanzialmente ha confermato i punti principali della sentenza del 1983: trasferimento in capo alla pubblica amministrazione della proprietà del bene e risarcimento del danno corrispondente al suo valore di mercato. La logica di tale orientamento era focalizzata soprattutto sull’aspetto civilistico, relativo al mutamento di titolarità del bene per ragioni di certezza delle situazioni giuridiche, mentre rimaneva pacifico il principio della responsabilità aquiliana e per ciò stesso la negazione di un’alternativa al ristoro del danno, corrispondente al valore reale del bene e con le somme accessorie di rito. 7.1 – Negli anni successivi, il legislatore ordinario non sempre ha mantenuto ferma la sopra precisata ricaduta patrimoniale dell’occupazione acquisitiva. E sono al riguardo da ricordare, ai fini che qui interessano, gli interventi di questa Corte. Inizialmente, la legge 27 ottobre 1988, n. 458, all’art. 3, aveva dato espressa base normativa all’istituto giurisprudenziale dell’occupazione acquisitiva, sia pure con riferimento ad una specifica tipologia di opere pubbliche; e confermato il principio del risarcimento integrale del danno subito dal titolare del bene, limitandosi a disciplinare l’ipotesi che il provvedimento espropriativo fosse dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato. Investita della questione di legittimità costituzionale di tale norma in riferimento all’art. 42, secondo e terzo comma, Cost., questa Corte l’ha dichiarata infondata, osservando, significativamente, che con essa il legislatore, «in una completa ed adeguata valutazione degli interessi in gioco, non si è limitato a corrispondere “l’indennizzo”, ma ha previsto l’integrale risarcimento del danno subito», con la conseguenza che «al mancato adempimento della pretesa restitutoria, imposto da preminenti ragioni di pubblico interesse, si sostituisce la tutela risarcitoria (art. 2043 cod. civ.), integralmente garantita» (sentenza n. 384 del 1990; le argomentazioni sono state ribadite dall’ordinanza n. 542 del 1990). La Corte ha poi dichiarato illegittima la stessa normativa appena evocata, nella parte in cui non si estendeva anche all’ipotesi in cui mancasse del tutto un provvedimento espropriativo, confermando il principio del risarcimento integrale del danno (sentenza 486 del 1991). La sentenza n. 188 del 1995 ha ribadito come questa disciplina fosse appunto «coerente alla connotazione illecita della vicenda», produttiva del «diritto al risarcimento e non all’indennità». Successivamente il legislatore, con la legge 28 dicembre 1995, n. 549, art. 5-bis, ha stabilito la parificazione tra ristoro del danno per occupazione acquisitiva ed indennizzo espropriativo. Questa Corte, con la sentenza n. 369 del 1996, ha censurato tale parificazione in riferimento all’art. 3 Cost., sottolineando che, «mentre la misura dell’indennizzo – obbligazione ex lege per atto legittimo – costituisce il punto di equilibrio tra interesse pubblico alla realizzazione dell’opera e interesse del privato alla conservazione del bene, la misura del risarcimento – obbligazione ex delicto – deve realizzare il diverso equilibrio tra l’interesse CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 73 pubblico al mantenimento dell’opera già realizzata e la reazione dell’ordinamento a tutela della legalità violata per effetto della manipolazione-distruzione illecita del bene privato». Dunque, ha rimarcato la pronuncia, «sotto il profilo della ragionevolezza intrinseca (ex art. 3 Costituzione), poiché nella occupazione appropriativa l’interesse pubblico è già essenzialmente soddisfatto dalla non restituibilità del bene e dalla conservazione dell’opera pubblica, la parificazione del quantum risarcitorio alla misura dell’indennità si prospetta come un di più che sbilancia eccessivamente il contemperamento tra i contrapposti interessi, pubblico e privato, in eccessivo favore del primo. Con le ulteriori negative incidenze, ben poste in luce dalle varie autorità rimettenti, che un tale “privilegio” a favore dell’amministrazione pubblica può comportare, anche sul piano del buon andamento e legalità dell’attività amministrativa e sul principio di responsabilità dei pubblici dipendenti per i danni arrecati al privato ». Infine, secondo detta pronuncia, la «perdita di garanzia che al diritto di proprietà deriva da una così affievolita risposta dell’ordinamento all’atto illecito compiuto in sua violazione », vulnerava anche l’art. 42, secondo comma, della Costituzione. Il principio desumibile dalla giurisprudenza di questa Corte è, pertanto, che l’accessione invertita «realizza un modo di acquisto della proprietà […] giustificato da un bilanciamento fra interesse pubblico (correlato alla conservazione dell’opera in tesi pubblica) e l’interesse privato (relativo alla riparazione del pregiudizio sofferto dal proprietario) la cui correttezza “costituzionale” è ulteriormente» confortata «dal suo porsi come concreta manifestazione, in definitiva, della funzione sociale della proprietà» (sentenza n. 188 del 1995, che richiama la sentenza n. 384 del 1990). E, tuttavia, essendo l’interesse pubblico già essenzialmente soddisfatto dalla non restituibilità del bene e dalla conservazione dell’opera pubblica, la misura della liquidazione del danno non può prescindere dalla adeguatezza della tutela risarcitoria che, nel quadro della conformazione datane dalla giurisprudenza di legittimità, comportava la liquidazione del danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma pari al valore venale del bene, con la rivalutazione per l’eventuale diminuzione del potere di acquisto della moneta fino al giorno della liquidazione. Successivamente, l’art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996 ha introdotto nell’art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, il comma 7-bis, secondo cui in caso di occupazione illegittima di suoli per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determinazione dell’indennità di cui al comma 1» (quella, cioè, prevista per l’espropriazione dei suoli edificatori: semisomma tra valore di mercato e reddito catastale rivalutato, decurtata del 40 per cento), con esclusione di tale riduzione e con la precisazione che «in tal caso l’importo del risarcimento è altresì aumentato del 10 per cento». Il profilo della misura della liquidazione del danno, con specifico riferimento alla norma appena ricordata, è stato esaminato dalla sentenza n. 148 del 1999, che va valutata al giusto. Essa ha dichiarato l’infondatezza delle censure riferite – per quanto qui interessa – agli artt. 3 e 42 Cost., essenzialmente in considerazione della mancanza di copertura costituzionale della regola della integralità della riparazione del danno e della equivalenza della medesima al pregiudizio cagionato, della «eccezionalità del caso», giustificata «soprattutto dal carattere temporaneo della norma denunziata», nonché della esigenza di salvaguardare una ineludibile, e limitata nel tempo, manovra di risanamento della finanza pubblica. La legittimità rispetto all’art. 42 Cost. di un ristoro inferiore (e di molto) al valore reale del bene, in definitiva, è stata ancorata dalla pronuncia del 1999 anzitutto in riferimento ad un parametro diverso da quello evocato in questa sede. Inoltre, a tale conclusione questa Corte è pervenuta essenzialmente in considerazione della temporaneità della disciplina, non- 74 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 75 ché di esigenze congiunturali di carattere finanziario. E ancora sulla temporaneità pone l’accento la sentenza n. 24 del 2000. 8. – Precisato il quadro normativo e giurisprudenziale in cui si colloca la normativa qui impugnata, va ora esaminata la censura con la quale si prospetta, per la prima volta, che la norma denunciata violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto si porrebbe in contrasto con le norme internazionali convenzionali e, anzitutto, con l’art. 1 del Protocollo addizionale della CEDU, nell’interpretazione offertane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Al riguardo, occorre premettere che entrambe le ordinanze di rimessione non sollevano il problema della compatibilità dell’istituto dell’occupazione acquisitiva in quanto tale con il citato art. 1, ma censurano la norma denunciata esclusivamente nella parte in cui ne disciplina la ricaduta patrimoniale. Pertanto, oggetto del thema decidendum posto dalla questione di costituzionalità è solo il profilo della compatibilità di tale ricaduta patrimoniale disciplinata dalla norma censurata con la disposizione convenzionale, ciò che impone di fare riferimento alle conferenti sentenze del giudice europeo di Strasburgo. L’art. 1 del Protocollo addizionale stabilisce: «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale». La Corte europea ha interpretato tale norma in numerose sentenze, puntualmente e diffusamente richiamate nell’ordinanza di rimessione della Corte di cassazione, dando vita ad un orientamento ormai consolidato, confermato dalla Grande Chambre della Corte (per tutte, Grande Chambre, sentenza 29 marzo 2006, Scordino, dove anche una completa ricostruzione dell’indirizzo confermato dalla pronuncia), formatosi anche in processi concernenti la disciplina ordinaria dell’indennità di espropriazione stabilita dal citato art. 5-bis (per più ampi svolgimenti v. sentenza n. 348 in pari data). In sintesi, relativamente alla misura dell’indennizzo, nella giurisprudenza della Corte europea è ormai costante l’affermazione secondo la quale, in virtù della norma convenzionale, «una misura che costituisce interferenza nel diritto al rispetto dei beni deve trovare il “giusto equilibrio” tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e le esigenze imperative di salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo». Pertanto, detta norma non garantisce in tutti i casi il diritto dell’espropriato al risarcimento integrale, in quanto «obiettivi legittimi di pubblica utilità, come quelli perseguiti dalle misure di riforma economica o di giustizia sociale, possono giustificare un rimborso inferiore al valore commerciale effettivo ». Per converso, proprio in riferimento alla disciplina stabilita dal richiamato art. 5-bis della legge qui in discussione, la Corte europea ha affermato che, quando si tratta di «esproprio isolato che non si situa in un contesto di riforma economica, sociale o politica e non è legato ad alcun altra circostanza particolare», non sussiste «alcun obiettivo legittimo di “pubblica utilità” che possa giustificare un rimborso inferiore al valore commerciale», osservando altresì che, al fine di escludere la violazione della norma convenzionale, occorre dunque «sopprimere qualsiasi ostacolo per l’ottenimento di un indennizzo avente un rapporto ragionevole con il valore del bene espropriato» (sentenza 29 marzo 2006, Scordino). La Corte europea, inoltre, nel considerare specificamente la disciplina dell’occupazione acquisitiva, ha anzitutto premesso e ribadito che l’ingerenza dello Stato nel caso di espropriazione deve sempre avvenire rispettando il «giusto equilibrio» tra le esigenze dell’interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo (Sporrong e Lönnroth c. Svezia del 23 settembre 1982, punto 69). Inoltre, con riferimento allo specifico profilo della congruità della disciplina qui censurata, la Corte europea ha rite76 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO nuto che la liquidazione del danno per l’occupazione acquisitiva stabilita in misura superiore a quella stabilita per l’indennità di espropriazione, ma in una percentuale non apprezzabilmente significativa, non permette di escludere la violazione del diritto di proprietà, così come è garantito dalla norma convenzionale (tra le molte, I Sezione, sentenza 23 febbraio 2006, Immobiliare Cerro s.a.s.; IV sezione, sentenza 17 maggio 2005, Scordino; IV Sezione, sentenza 17 maggio 2006, Pasculli); e ciò dopo aver da tempo affermato espressamente che il risarcimento del danno deve essere integrale e comprensivo di rivalutazione monetaria a far tempo dal provvedimento illegittimo (sentenza 7 agosto 1996, Zubani). Il bilanciamento svolto in passato con riferimento ad altri parametri costituzionali deve essere ora operato, pertanto, tenendo conto della sopra indicata rilevanza degli obblighi internazionali assunti dallo Stato, e cioè della regola stabilita dal citato art. 1 del Protocollo addizionale, così come attualmente interpretato dalla Corte europea. E sul punto va ancora sottolineato che, diversamente da quanto è accaduto per altre disposizioni della CEDU o dei Protocolli (ad esempio, in occasione della ratifica del Protocollo n. 4), non vi è stata alcuna riserva o denuncia da parte dell’Italia relativamente alla disposizione in questione e alla competenza della Corte di Strasburgo. In definitiva, essendosi consolidata l’affermazione della illegittimità nella fattispecie in esame di un ristoro economico che non corrisponda al valore reale del bene, la disciplina della liquidazione del danno stabilita dalla norma nazionale censurata si pone in contrasto, insanabile in via interpretativa, con l’art. 1 del Protocollo addizionale, nell’interpretazione datane dalla Corte europea; e per ciò stesso viola l’art. 117, primo comma, della Costituzione. D’altra parte, la norma internazionale convenzionale così come interpretata dalla Corte europea, non è in contrasto con le conferenti norme della nostra Costituzione. La temporaneità del criterio di computo stabilito dalla norma censurata, le congiunturali esigenze finanziarie che la sorreggono e l’astratta ammissibilità di una regola risarcitoria non ispirata al principio della integralità della riparazione del danno non costituiscono elementi sufficienti a far ritenere che, nel quadro dei princìpi costituzionali, la disposizione censurata realizzi un ragionevole componimento degli interessi a confronto, tale da contrastare utilmente la rilevanza della normativa CEDU. Questa è coerente con l’esigenza di garantire la legalità dell’azione amministrativa ed il principio di responsabilità dei pubblici dipendenti per i danni arrecati al privato. Per converso, alla luce delle conferenti norme costituzionali, principalmente dell’art. 42, non si può fare a meno di concludere che il giusto equilibrio tra interesse pubblico ed interesse privato non può ritenersi soddisfatto da una disciplina che permette alla pubblica amministrazione di acquisire un bene in difformità dallo schema legale e di conservare l’opera pubblica realizzata, senza che almeno il danno cagionato, corrispondente al valore di mercato del bene, sia integralmente risarcito. In conclusione, l’art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, introdotto dall’art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996, non prevedendo un ristoro integrale del danno subito per effetto dell’occupazione acquisitiva da parte della pubblica amministrazione, corrispondente al valore di mercato del bene occupato, è in contrasto con gli obblighi internazionali sanciti dall’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU e per ciò stesso viola l’art. 117, primo comma, della Costituzione. 9. – Restano assorbite le censure incentrate sugli ulteriori profili e parametri costituzionali invocati dai rimettenti. Per questi motivi la Corte Costituzionale riuniti i giudizi, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, introdotto dall’art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2007». CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 77 78 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO L’efficacia dei trattati internazionali alla luce del nuovo testo dell’art. 117, primo comma, Cost.: note a margine delle sentenze nn. 348/07 e 349/07 della Corte costituzionale di Giuseppe Bianchi (*)e Filippo D’Angelo (**) 1.- Dalla legge cost. n. 3/2001 alle sentenze nn. 348-349/07 della Corte Costituzionale: sei anni di teorie. L’art. 117 Cost. I comma, nella nuova formulazione introdotta con la L. cost. n. 3 /2001, dispone che l’esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni è condizionata dal rispetto degli obblighi internazionali: appare di immediata evidenza come la portata innovativa di tale disposizione non sia, a dispetto del dato meramente empirico della sua collocazione nel titolo V della Costituzione, limitata alla equiparazione della potestà legislativa regionale a quella statale, né all’introduzione di un esplicito riferimento all’ordinamento comunitario, ma, come anche subito avvertito dalla dottrina più attenta nonché dalla giurisprudenza, che aveva tuttavia abilmente tentato di aggirare quello che è immediatamente apparso essere problema interpretativo di peculiare rilievo (1), proprio l’introduzione del vincolo costituzionale, rivolto al legislatore ordinario, statale e regionale, del rispetto degli obblighi internazionali. (*)Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. (**)Dottore in Giurisprudenza. (1) Le due sentenze della Corte costituzionale sono state pronunciate a seguito di varie ordinanze con le quali la Corte di Cassazione ha sollevato, in via incidentale, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 bis L. n. 359 /92, in relazione agli artt. 1 e 6 della CEDU, nella considerazione che la decurtazione del 40% della indennità di esproprio, prevista da tale norma, appariva tale da violare il diritto dell’espropriato ad ottenere un indennizzo pari al valore venale del bene, in violazione del principio, di natura convenzionale internazionale, per cui la limitazione del diritto di proprietà richiede un indennizzo proporzionato al valore venale in discorso. È sintomatico rilevare come dopo la pronuncia di tali ordinanze, tutte datate al 2006, la Corte si sia medio tempore, in attesa della pronuncia della Consulta, astenuta dal prendere posizione sul problema dei rapporti tra norme interne e norme pattizie alla luce del nuovo dettato costituzionale. Chiamata a decidere un giudizio in punto di quantificazione di indennità di esproprio da erogare ad un cittadino tedesco, che invocava l’applicazione del trattato italo-tedesco contenente una previsione di favore per i cittadini della repubblica tedesca, dovendo risolvere il conflitto tra la disposizione interna e la norma patrizia, la Corte ha fatto ricorso al principio di specialità, sul rilievo che “la regolamentazione di un rapporto contenuta in un trattato internazionale ratificato da legge interna, trova fondamento nella Costituzione (artt. 10 e 117) e costituisce disciplina eccezionale, non applicabile se non nei casi previsti (art. 14 preleggi), in deroga alle previsioni normative sulla successione delle leggi nel tempo ” (Cass., sez. I, 5352/2007). CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 79 Senza voler ripercorrere il dibattito svoltosi in dottrina circa il contenuto e i limiti degli obblighi internazionali derivanti dai trattati internazionali, appare subito indispensabile sottolineare che la nuova norma, come sottolineato sia dalla Corte di cassazione che dalla Corte Costituzionale, ha colmato una vera e propria “lacuna” dell’ordinamento, atteso che gli obblighi internazionali, derivanti dal diritto pattizio, nel sistema precedente alla modifica del 117, non godevano di alcuna garanzia costituzionale. Prima della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, infatti la conformità delle leggi ordinarie alle norme di diritto internazionale convenzionale era suscettibile di controllo da parte della Corte costituzionale soltanto entro i limiti posti dagli artt. 7, 10 e 11 Costituzione (2). In dettaglio quindi solo qualora la norma oggetto di controllo fosse ricollocabile nella prospettiva di specifici accordi, quali quelli tra Stato e Chiesa (art. 7), ovvero relativi alla condizione giuridica dello straniero (art. 10 secondo comma) ovvero della consuetudine, intesa quale insieme di “norme di diritto internazionale generalmente riconosciute” (art. 10 primo comma), o infine del diritto comunitario, diritto peraltro ad ingresso automatico nell’ordinamento interno in forza dell’art. 11, secondo cui l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni ”. L’inconferenza della norma interna, se pure in tesi contrastante con il diritto internazionale alle materie sopra descritte, non consentiva tuttavia il controllo di costituzionalità della stessa alla stregua del parametro internazionale, potendosi tale controllo attuare solo in via diretta con la Costituzione stessa (sul punto cfr. Corte Cost. n. 223/1996): in altri termini l’opinione dominante era nel senso della irrilevanza costituzionale dell’obbligo derivante da un trattato, anche nell’ipotesi in cui fosse intervenuto il c.d. adattamento, e cioè il recepimento del trattato nel diritto interno mediante legge nazionale, quale unico strumento giuridico attraverso il quale il diritto internazionale viene introdotto nell’ordinamento interno. Così operando, appariva difficilmente ipotizzabile il giudizio di costituzionalità della norma interna per violazione di un obbligo internazionale, creando l’adattamento soltanto un rapporto di compatibilità – incompatibilità tra norme interne, aventi di solito lo stesso rango di legge ordinaria, nella considerazione che i trattati internazionali vengono in questo modo ad assumere nell’ordinamento interno il medesimo rango dell’atto che ha dato loro esecuzione. (2) L’inesistenza di una garanzia costituzionale per i trattati internazionali si ricavava, a contrario, dall’art. 10, primo comma Cost., norma che si riferisce al solo diritto consuetudinario. L’introduzione di tale garanzia rappresenterebbe “la vera novità dell’art. 117, 1° comma”, secondo F. SALERNO, Il neo-dualismo della Corte costituzionale nei rapporti tra diritto internazionale e diritto interno, in Rivista di diritto internazionale, 2006, p. 340. 80 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Tale orientamento, precedente alla riforma, era efficacemente sintetizzato dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui “quando l’esecuzione è avvenuta mediante legge ordinaria, [i trattati] acquistano la forza e il rango di legge ordinaria che può essere abrogata o modificata da una legge ordinaria successiva” (3). Logiche conseguenze erano che la legge di adattamento era potenzialmente modificabile da una legge ordinaria successiva, che gli eventuali contrasti erano risolvibili unicamente alla stregua dei principi regolatori della successione delle leggi nel tempo, e che, infine, la natura ordinaria della legge di adattamento ne precludeva la possibilità di essere assunta quale parametro del giudizio di legittimità costituzionale. La funzione peculiare dell’adattamento, in ultima analisi, era quella di costituire la condizione necessaria di efficacia nell’ordinamento interno del trattato (Cass., 26 luglio 1964, n. 2093, in Foro it., 1964, I, p. 2078; Cass., Sez. Un., 21 marzo 1967, n. 631). Atale conclusione si perveniva valorizzando il primo comma dell’art. 10 Cost., quale unica disposizione di carattere generale in tema di adattamento del diritto interno a quello internazionale, dal quale si inferiva, ragionando a contrario, l’intenzione del costituente di dotare di rilevanza costituzionale solo le norme di origine consuetudinaria e non quelle di diritto internazionale convenzionale. Tale impostazione sembrerebbe mutata per effetto dell’entrata in vigore del nuovo testo del primo comma dell’art. 117 Cost., a mente del quale “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto .. dei vincoli derivanti .. dagli obblighi internazionali”. Come già rilevato, numerosi problemi di ordine logico – interpretativo si sono subito posti, atteso che ad una affermazione programmatica di tale portata, certo non del tutto correttamente valutata nel suo effetto dirompente dal legislatore costituzionale, avrebbe dovuto corrispondere un altrettanto certo e indubbio ambito di applicazione. Portando infatti il ragionamento alle estreme conseguenze l’art. 117, almeno dalla analisi testuale, potrebbe addirittura leggersi quasi quale norma sovrapponibile all’art. 11, nel senso che mentre dalla seconda discende l’ingresso immediato e automatico nel diritto interno del diritto comunitario, la prima riconnette tale effetto al diritto internazionale pattizio, relativo agli ambiti non disciplinati dagli agli artt. 7,10 e 11 (circa la funzione dell’art. 11 Cost., cfr. Corte Cost. nn. 183/73 e 170/1984). Conclusione ovviamente non accettabile sic et simpliciter, se solo si consideri che manca comunque nel 117 alcun richiamo ad eventuali limitazioni (3) “L’adattamento alle norme internazionali pattizie avviene per ogni singolo trattato con un atto ad hoc consistente nell’ordine di esecuzione adottato di regola con legge ordinaria. Ne consegue che i trattati internazionali vengono ad assumere nell’ordinamento la medesima posizione dell’atto che ha dato loro esecuzione. Quando l’esecuzione è avvenuta mediante legge ordinaria essi acquistano pertanto la forza e il rango di legge ordinaria che può essere abrogata o modificata da una legge ordinaria successiva” ( Corte cost., 6 giugno 1989, n. 323). CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 81 di sovranità cui lo Stato italiano consenta, per cui in ogni caso le norme pattizie in discorso, se pure vincolanti non sarebbero idonee a produrre effetti diretti nell’ordinamento interno, e che soprattutto, il concetto di “obbligo internazionale” è comunque elastico, atteso che, pur nel rispetto del principio pacta sunt servanda, non appare ipotizzabile un vincolo diretto ed immediato discendente da un qualunque obbligo internazionale, laddove al contrario non è dubbio che l’obbligo internazionale vincolante per il legislatore debba essere tale da superare, esso stesso, il controllo di costituzionalità. La dottrina ha percepito come la norma abbia comunque inciso sul sistema delle fonti di produzione, imponendo al legislatore ordinario il rispetto non più solo dei vincoli derivanti dalle consuetudini, ex art. 10, comma 1, Cost., ma anche di quelli, di gran lunga più consistenti, che discendono dai trattati internazionali, tanto da ritenersi che il nuovo art. 117 abbia esteso alla generalità dei trattati la soluzione prevista dal secondo comma dell’art. 10 Cost. per gli accordi internazionali relativi alla condizione giuridica dello straniero (“la condizione giuridica dello straniero è dettata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali”) (4). In questa situazione di oggettivo impasse, per cui da un lato si avvertiva l’esigenza di valorizzare al massimo il disposto del nuovo art. 117, come limpidamente sottolineato dalla Corte costituzionale, secondo cui “uno degli elementi caratterizzanti dell’ordinamento giuridico fondato sulla Costituzione è costituito dalla forte apertura al rispetto del diritto internazionale e, più in generale, delle fonti esterne” (n. 349/07 cit.), e dall’altro quella, di segno opposto, di individuare comunque un limite oggettivo ed effettivo alla apertura sopra evidenziata, si è inserita la legge 5 giugno 2003, n. 131, intitolata “Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3” (c.d. legge “La Loggia”), il cui art. 1 sembra deporre nel senso della riconducibilità degli impegni assunti in via pattizia nell’ambito della nozione di “vincoli derivanti dagli obblighi internazionali”. Il primo comma dell’art. 1 dispone infatti che “costituiscono vincoli alla potestà legislativa dello Stato e delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, quelli derivanti dalle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute di cui all’art. 10 della Costituzione, da accordi di reciproca limitazione di sovranità di cui all’art. 11 della Costituzione, dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali”. Tuttavia, al di là della lineare terminologia adottata, neanche la legge applicativa ha avuto l’effetto di sciogliere le questioni interpretative ed applicative poste dall’art. 117, e soprattutto le due fondamentali relative : 1) al momento a partire dal quale gli obblighi internazionali ex art. 117 Cost. devono ritenersi vincolanti rispetto al potere legislativo interno; 2) alla individuazione e delimitazione del concetto di “ obbligo internazionale” vinco- (4) B. CONFORTI, Diritto internazionale, Napoli, 2002, p. 321. 82 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO lante per il legislatore, e, di seguito, della individuazione dei trattati rientranti nella sfera di applicazione del vincolo di prevalenza sancito dal primo comma dell’art. 117 Cost. 2.- I problemi dell’efficacia dei trattati internazionali nel diritto interno e del concetto di “obbligo internazionale”, dopo la legge La Loggia. Si è già rilevato che la legge di attuazione del nuovo art. 117 non ha chiarito i problemi relativi allo stesso, tanto che il dibattito successivo si è svolto in termini talvolta addirittura opposti. Così parte della dottrina ha affermato la tesi per cui il legislatore costituzionale avrebbe inteso creare un meccanismo di adattamento automatico del diritto interno al diritto internazionale pattizio analogo a quello tratteggiato dall’art. 10, primo comma, Cost. per le norme di diritto internazionale consuetudinario (5), quale interpretazione suffragata dal testo della norma, secondo cui il vincolo (inteso come obbligo di rispettare la norma internazionale) a carico del legislatore nazionale sorgerebbe per effetto del perfezionarsi dell’accordo sul piano internazionale, a prescindere dalla sua recezione nell’ordinamento interno (6). In quest’ottica si è evidenziato come la norma si riferisca testualmente agli obblighi internazionali, anziché alle relative norme interne di esecuzione, con la conseguenza che il trattato, e non la norma interna che lo recepisce, assurgerebbe al ruolo di parametro di legittimità costituzionale in qualità di norma interposta (7). La opposta interpretazione invece rileva che non può scorgersi nel nuovo 117, comma 1, Cost., il superamento del consolidato principio secondo cui, ai fini dell’efficacia nell’ordinamento interno dei trattati internazionali, si rende necessario un apposito atto di adattamento, nel rilievo che il legislatore costituzionale avrebbe inteso incidere non sulle modalità con cui la norma internazionale convenzionale entra a far parte dell’ordinamento interno, ma esclusi- (5) A. D’ATENA, La nuova disciplina costituzionale dei rapporti internazionali e con l’Unione europea, in Rass. parl., 2002, p. 924, ammette “la plausibilità della conclusione che la disposizione dia vita ad un dispositivo di adattamento automatico al diritto internazionale pattizio (analogamente a quanto già si verificava per il diritto internazionale generale)”. (6) In questo senso F. SORRENTINO, Nuovi profili costituzionali dei rapporti tra diritto interno e diritto comunitario, in Dir. pubbl. comp. ed europeo, 2002, p. 1355; secondo l’Autore “posto che l’obbligo internazionale si perfeziona con la stipulazione dell’accordo e con la ratifica del trattato, il suo rispetto prescinde sia dall’an come dal quando esso sia recepito nell’ordinamento interno e dalla stessa osservanza delle norme costituzionali relative ai procedimenti di formazione della volontà statale nei rapporti internazionali”. Inoltre tale dottrina ascrive alla nozione di obbligo internazionale una valenza duplice, intendendolo non solo come obbligo del legislatore di rispettare la norma internazionale, ma, ancor prima, di recepirla nel diritto interno. (7) F. GHERA, I vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali nei confronti della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni, in CARNEVALEMODUGNO, Trasformazioni della funzione legislativa, Milano, Giuffrè, 2003, p. 69. Analogamente F. SALERNO, op. loc. cit. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 83 vamente sulla forza che questa assume una volta immessa. Dunque nulla sarebbe cambiato quanto alle modalità di ricezione dei trattati nel diritto interno, rimanendo l’ordine di esecuzione la condizione di applicabilità delle norme internazionali pattizie nell’ordinamento nazionale (8). Tale seconda tesi, malgrado il tenore letterale della norma in esame, appare tuttavia prestare il fianco alla obiezione per cui il dato letterale non può, da solo, costituire valido supporto esegetico all’interprete, al quale resta comunque affidato il compito di ricercare, nella analisi della norma, la ratio della stessa secondo le intenzioni del legislatore. In questa prospettiva è innegabile che probabilmente lo scopo della norma, lungi dal voler creare un sistema di adattamento automatico, sia invece da rinvenire, in continuità con il sistema precedente secondo cui il perfezionarsi del procedimento di stipula del trattato (cioè la manifestazione del consenso ad obbligarsi da parte dell’Italia nel rispetto del diritto internazionale) non implica di per sé solo l’immissione delle norme in esso contenute nell’ordinamento interno, nel dato peculiare per cui tali norme, proprio per effetto del 117 Cost., una volta recepite, finiscono per collocarsi nel sistema delle fonti in una posizione intermedia tra norme costituzionali e norme legislative ordinarie, per assumere il valore di norme interposte nel giudizio di legittimità costituzionale della eventuale disposizione interna antinomica (9). Pertanto norme interne contrastanti con norme pattizie recepite sono da considerare illegittime per violazione della Costituzione, secondo il modello delle norme interposte. Ciò comporta che eventuali problemi di costituzionalità di leggi interne incompatibili possono sorgere solo una volta che il trattato sia stato reso esecutivo in Italia, attraverso la legge recante adattamento, secondo il procedimento ordinario ovvero attraverso quella ospitante l’ordine di esecuzione (10). Tale legge (e non la norma del trattato in via diretta), per effetto del nuovo art. 117 Cost., assume rango superlegislativo/subcostituzionale e qualità di norma interposta nel giudizio davanti alla Corte, tale da potere determinare l’illegittimità costituzionale di leggi interne con essa incompatibili. (8) B. CONFORTI, Sulle recenti modifiche della costituzione italiana in tema di rispetto degli obblighi internazionali e comunitari, in Foro it., 2002, p. 229; D. DI PAOLO, Esame dei vincoli alla potestà legislativa dello Stato e delle Regioni nella legge 5 giugno 2003, n. 131, in Regioni e comunità locali, 2005, III, p. 13; G. GERBASI, I vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali nel nuovo Titolo V: difficoltà interpretative tra continuità e discontinuità rispetto al precedente assetto, in G. GAMBINO, Il nuovo ordinamento regionale, Giuffré, 2003. (9) Sono quindi suscettibili di fungere da parametro interposto nel giudizio davanti alla Corte non le norme del trattato, ma la legge interna recante le norme di adattamento ad esso; in questo senso T. TREVES, Diritto internazionale problemi fondamentali, Giuffré, 2005, p. 692. (10) L’adattamento ai trattati internazionali può verificarsi secondo il procedimento ordinario, col quale la disciplina internazionale viene riformulata nel diritto interno, ovvero in caso di trattati suscettivi di self-executing, secondo il procedimento speciale, nel quale l’atto interno di recepimento (ordine di esecuzione) si limita a dare “piena ed intera esecuzione” al trattato, senza riprodurre la norma internazionale. 84 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Non può tralasciarsi di dare conto poi di ulteriori posizioni dottrinali che possono considerarsi intermedie tra le due esaminate: così si è sostenuto che non solo l’obbligo, sorto in dipendenza dell’adattamento formale, sortirebbe il vincolo di rispetto per il legislatore, obbligo negativo nel senso di esercitare la funzione legislativa non in contrasto con il diritto internazionale pattizio recepito, ma che, già prima della recezione, il perfezionarsi dell’accordo sul piano internazionale con la prestazione del consenso da parte dello Stato, produrrebbe l’obbligo positivo per il legislatore interno di dare esecuzione alla disciplina pattizia (11). La legge n. 231/2003 inoltre non sembra offrire spunti di chiarimento neanche in ordine al secondo aspetto problematico sopra prospettato, relativo alla individuazione dei trattati rientranti nella sfera di applicazione del vincolo di prevalenza sancito dal primo comma dell’art. 117 Cost., questione che peraltro, come si vedrà, non appare positivamente affrontata e risolta neanche dal giudice delle leggi, che, nelle sentenze 348 e 349/2007, ha evitato di affrontare tale argomento, se non nei limiti di un riferimento implicito (12). Peraltro la legge di attuazione della norma costituzionale in esame, c.d. “La Loggia”, non solo non aiuta a risolvere il problema, ma aggiunge ulteriore incertezza al tema della individuazione della natura delle norme convenzionali costitutive di obblighi internazionali, considerato che se è vero che la formulazione letterale dell’art. 1, comma 1, fa riferimento ai “trattati” tout court, senza ulteriori specificazioni, dall’esame dei lavori parlamentari emerge che il testo originario del comma 1 dell’art. 1 della legge n. 131 conteneva il riferimento ai “trattati internazionali ratificati a seguito di legge di autorizzazione”, riferimento poi cancellato, ma la cui iniziale presenza è il segno inequivocabile della esistenza di voci dissonanti anche all’interno dell’organo legislativo. In ogni caso, malgrado la norma costituzionale e la versione definitiva di quella attuativa appaiano riferirsi a qualunque obbligo internazionale, si è (11) P. IVALDI, L’adattamento del diritto interno al diritto internazionale, in Istituzioni di diritto internazionale, a cura di CARBONE, LUZZATTO, Santa Maria, Torino, 2006; secondo l’Autore, dall’art. 117 primo comma deriverebbe a carico del legislatore l’obbligo positivo di attuazione dei trattati internazionali in vigore per il nostro Paese. Secondo altra dottrina il trattato perfezionato dal punto di vista internazionale sarebbe immediatamente vincolante per il legislatore (in senso sia negativo che positivo) già prima dalla sua recezione nel diritto interno, ma non sarebbe efficace nei confronti di soggetti diversi dallo Stato a prescindere dall’adattamento, A. ANZON, I poteri delle Regioni dopo la riforma costituzionale, Torino, 2002, p. 224.; L. DE BERNARDIN, Gli obblighi internazionali come vincolo al legislatore: la “lezione” francese, in Dir. pubbl. comp. ed europeo, IV, p. 2039. Anche a voler ritenere, come tale dottrina, che la lettera della norma costituzionale imponga la lettura secondo cui il trattato una volta perfezionato sancisce un obbligo positivo di attuazione a carico dello Stato, va però aggiunto che il vincolo di prevalenza rispetto alla legge ordinaria sorge non quando lo Stato abbia manifestato il proprio consenso e il trattato sia in vigore sul piano internazionale, ma solo quando questo abbia ricevuto attuazione nell’ordinamento interno, mediante idonee misure di adattamento (ordinarie o speciali, in ogni caso, come si chiarirà, tramite legge). (12) Come sarà evidenziato infra. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 85 comunque osservato che l’analisi sistemica della Costituzione porta ad escludere che possano costituire un vincolo per il legislatore i c.d. trattati in forma semplificata conclusi dal Governo (13). Tanto perché trattasi di un genus che l’esecutivo (14) conclude senza previa autorizzazione parlamentare (ovvero dalle Regioni ai sensi dell’art. 117 Cost. u.c.), per cui sarebbe poi contraddittorio ritenerli idonei a condizionare l’esercizio della potestà legislativa. In realtà la lettura dell’art. 117 in combinato disposto con l’art. 80 Cost. dimostra che la garanzia costituzionale riconosciuta dalla prima norma concerne solo i trattati ratificati dal Capo dello Stato a seguito di previa legge di autorizzazione ai sensi dell’art. 80 Cost. Atale conclusione induce il rilievo che se la Costituzione richiede il preventivo assenso parlamentare per la conclusione di accordi internazionali, che comportano modificazioni di leggi (art. 80 Cost.), è logico ritenere che lo pretenda pure (e a maggior ragione) per la formazione di trattati che si traducono in un vincolo nei confronti della legge stessa (15). Ne deriva che, da un lato, perché possa crearsi il vincolo a carico della legge interna l’esegesi sistematica dell’art. 117 impone di considerare implicito il riferimento alla categoria di trattati di cui all’art. 80, e cioè quelli ratificati previa legge di autorizzazione parlamentare. Dall’altro è necessario che la norma convenzionale sia stata recepita (tipicamente per mezzo dell’ordine di esecuzione di norma contenuto nella stessa legge che autorizza la ratifica), conformemente al consolidato e intatto principio secondo il quale la norma del trattato è irrilevante nell’ordinamento interno finché non intervenga l’atto di adattamento. 3.- Le sentenze nn. 348 e 349/07 della Corte costituzionale. A distanza di circa 6 anni dalla modifica costituzionale, e nell’ambito di un panorama dottrinale e giurisprudenziale quanto mai disomogeneo, si (13) L. BARTOLOMEI, La garanzia costituzionale dei trattati alla luce della legge 5 giugno 2003, n. 231 contenente disposizioni per l’adeguamento alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale, 2003, p. 853; A. D’ATENA, op. loc. cit.; P. CAVALERI, Articolo 1, in CAVALERI, LAMARQUE, L’attuazione del nuovo titolo V, Commento alla legge “La Loggia”, Torino, Giappichelli, 2003, p. 6. (14) L’art. 87 Cost. attribuisce al Presidente della Repubblica il potere di ratificare i trattati internazionali (intendendosi per ratifica l’atto attraverso il quale lo Stato esprime il consenso a vincolarsi sul piano internazionale). Trattasi tuttavia di atto formalmente presidenziale ma sostanzialmente governativo, con la conseguenza che spettano all’esecutivo le decisioni in ordine alla negoziazione, conclusione e alla ratifica dei trattati. (15) A. D’ATENA, op. loc. cit.; T. TREVES, Diritto internazionale, Milano , 2006, p. 692; L. BARTOLOMEI, op.loc. cit.; P. CARETTI, Stato, Regioni, enti locali tra innovazione e continuità, Torino, 2003, p. 63; F. GHERA, op. loc. cit. p. 58; P. IVALDI, op. loc. cit.. Si discosta dalla dottrina unanime L. DE BERNARDIN, op. loc. cit., a giudizio della quale “non appare possibile ridurre in via interpretativa la portata del nuovo art. 117, c. 1”, con la conseguenza che sarebbero coperti dalla garanzia costituzionale anche gli accordi in forma semplificata conclusi dall’esecutivo, salvo il ruolo della Corte di garantire la corretta applicazione della norma costituzionale. 86 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO sono da ultimo inserite le attese pronunce della Corte costituzionale, chiamata, dalla stessa Corte di Cassazione, a chiarire i rapporti tra diritto interno e diritto pattizio: in dettaglio, in punto di costituzionalità del criterio di quantificazione dell’indennità di esproprio di cui all’art. 5 bis L. n. 359/92, in relazione all’art. 117, comma 1, Cost., all’art. 6 della CEDU e soprattutto dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa. Terreno, come già rilevato, in un certo senso semplificato dal dato per cui sia la CEDU, sia il Protocollo addizionale sono stati recepiti nell’ordinamento giuridico italiano in forza dell’art. 2 della legge 4 agosto 1955, n. 848, intitolata “Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952”, così che l’oggetto dell’indagine costituzionale poteva – e doveva – essere limitato alla analisi della conformità della norma interna in rapporto ad un obbligo internazionale contenuto in un trattato recepito nell’ordinamento con legge ordinaria. Vale subito anticipare che l’esito del percorso argomentativo sviluppato dalla Corte ha condotto alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, commi 1, 2 e 7-bis, del decreto legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359 (e in via consequenziale, dell’art. 37, commi 1 e 2, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327), per contrasto con la fonte interposta che integra il parametro di costituzionalità ai sensi dell’art. 117, comma 1. Dalla esegesi delle decisioni, limitatamente ai soli capi ove la Corte ha analizzato l’art. 117 Cost., si possono enucleare taluni principi ivi sostenuti. La Corte osserva in primo luogo che, a dispetto di una forte apertura della Carta costituzionale al rispetto del diritto internazionale (e, più in generale, delle fonti esterne), la violazione, da parte di leggi interne, degli obblighi derivanti da trattati, non riconducibili nell’ambito degli artt. 10 e 11 Cost., determinava (prima della riforma) l’incostituzionalità delle stesse solo con riferimento alla violazione diretta di norme costituzionali, per cui il nuovo art. 117, comma 1, interviene a colmare proprio tale “lacuna” del sistema, considerato che “l’art. 10, primo comma, Cost., concerne esclusivamente i principi generali e le norme di carattere consuetudinario (per tutte, sentenze n. 73 del 2001, n. 15 del 1996, n. 168 del 1994), mentre non comprende le norme contenute in accordi internazionali che non riproducano principi o norme consuetudinarie del diritto internazionale. Per converso, l’art. 10, secondo comma, e l’art. 7 Cost. fanno riferimento a ben identificati accordi, concernenti rispettivamente la condizione giuridica dello straniero e i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica e pertanto non possono essere riferiti a norme convenzionali diverse da quelle espressamente menzionate. L’art. 11 Cost., è invece la disposizione che ha permesso di riconoscere alle norme comunitarie efficacia obbligatoria nel nostro ordinamento (sentenze n. 284 del 2007; n. 170 del 1984)” (sentenza n. 349, punto 6.1). La Corte riconosce, in linea con talune posizioni accolte dalla dottrina successivamente alla riforma costituzionale, come la nuova norma abbia inciso sul sistema delle fonti del diritto, in particolare attraverso l’attribuzione CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 87 alle norme dei trattati (o meglio alle norme di adattamento agli stessi) di “una maggior forza di resistenza [all’abrogazione] rispetto a leggi ordinarie successive”: in altri termini è la capitolazione del principio secondo cui le norme convenzionali internazionali assumono nel nostro sistema lo stesso rango dell’atto (legislativo o amministrativo) che abbia dato loro esecuzione. Secondo il giudice delle leggi, la struttura della nuova norma costituzionale appare “simile a quella di altre norme costituzionali, le quali sviluppano la loro concreta operatività solo se poste in stretto collegamento con altre norme, di rango sub-costituzionale destinate a dare contenuti ad un parametro che si limita ad enunciare in via generale una qualità che le leggi in esso richiamate devono possedere. Le norme necessarie a tale scopo sono di rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio tra questa e la legge ordinaria…. Proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, è necessario che esse siano conformi a Costituzione. La particolare natura delle stesse norme, diverse sia da quelle comunitarie sia da quelle concordatarie, fa sì che lo scrutinio di costituzionalità non possa limitarsi alla possibile lesione dei principi e dei diritti fondamentali o dei principi supremi , ma debba estendersi ad ogni profilo di contrasto tra le ‘norme interposte’ e quelle costituzionali”. Ne consegue come “in occasione di ogni questione nascente da pretesi contrasti tra norme interposte e norme legislative interne, occorre verificare congiuntamente la conformità a Costituzione di entrambe e precisamente la compatibilità della norma interposta con la Costituzione e la legittimità della norma censurata rispetto alla stessa norma interposta” (testualmente Corte Cost. n. 348/2007). La Corte poi rivolge la sua attenzione al diritto dei trattati, osservando come “con riguardo alle disposizioni della CEDU, questa Corte ha più volte affermato che le medesime, rese esecutive nell’ordinamento interno con legge ordinaria, ne acquistano il rango”. Ciò in conformità al risalente orientamento, sopra esaminato, secondo cui “quando l’esecuzione è avvenuta mediante legge ordinaria [i trattati] acquistano la forza e il rango di legge ordinaria che può essere abrogata o modificata da una legge ordinaria successiva” (Corte cost., 6 giugno 1989, n. 323). Ma il principio fondamentale valorizzato dalla Consulta riguarda l’art. 117: nel nuovo sistema ogniqualvolta non sia possibile al giudice superare l’antinomia tra norma interna e norma pattizia in via interpretativa (16), tale incompatibilità “viola per ciò stesso” il parametro di cui al comma 1 dell’art. (16)“Al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale ‘interposta’, egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117, primo comma” (sent. 349/07, punto 6.2). 88 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 117, che è dunque la norma ponte alla stregua della quale deve essere condotto il giudizio di costituzionalità della norma interna censurata rispetto alla norma del trattato (oggetto di adattamento). Non può non sottolinearsi come tali considerazioni, nonostante siano state svolte dalla Corte in relazione alla CEDU, abbiano tuttavia una valenza più generale nella considerazione che anche la Convenzione dei diritti dell’uomo, malgrado le peculiarità che la caratterizzano (17), viene, ai fini della norma in esame, considerata rientrante nel genus “trattati internazionali”, atteso che la cessione di poteri giurisdizionali che si è verificata con la ratifica della CEDU, e l’attinenza della materia a valori considerati primari dalla Costituzione, non incidono sulla necessità di trattare, ai fini dell’applicazione del 117, tale convenzione come un qualsiasi altro trattato. Né diverso trattamento potrebbe spettare alle norme CEDU in virtù dell’assunta “comunitarizzazione” delle stesse, atteso che, ad avviso della Corte, rimane ferma la distinzione tra le norme della CEDU e le norme comunitarie (18). (17) La CEDU presenta due caratteristiche che la rendono diversa da un normale trattato internazionale: da un lato essa prevede la competenza di un organo giurisdizionale cui è affidata la funzione di interpretare le norme della convenzione stessa; dall’altro si tratta di norme che operano nell’ambito della tutela dei diritti fondamentali, e quindi integrano l’attuazione di principi e valori costituzionali. Valorizzando le peculiarità della CEDU la sentenza n. 10 del 1993 aveva affermato trattarsi di “fonte riconducibile a una competenza atipica insuscettibile di abrogazione da parte di disposizioni di legge ordinaria”. Tale precedente era rimasto tuttavia isolato a fronte dell’orientamento dominante che attribuiva alla CEDU il rango dell’atto – legge ordinaria – che la ha resa esecutiva nel nostro ordinamento. Nel pensiero della Corte le peculiarità della CEDU non rilevano tanto da attribuire alla stessa un diverso trattamento di fronte al 117, comma 1, rispetto a qualsiasi altro trattato. Tuttavia rimangono alcuni profili di specificità per i quali non può evidentemente valere l’assimilazione della CEDU a una normale norma di diritto internazionale pattizio. Infatti la Corte chiarisce che la norma della CEDU funziona da parametro così come essa stessa è stata interpretata dalla Corte di Strasburgo: “poiché le norme giuridiche vivono nell’interpretazione che ne danno gli operatori del diritto, i giudici in primo luogo, la naturale conseguenza che deriva dall’art. 32, paragrafo 1, della Convenzione è che tra gli obblighi internazionali assunti dall’Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione”; “poiché le norme della CEDU vivono nell’interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea, la verifica deve riguardare la norma come prodotto dell’interpretazione, non la disposizione in sé e per sé considerata”. (18)“La distinzione tra le norme CEDU e le norme comunitarie deve essere ribadita nel presente procedimento nei termini stabiliti dalla pregressa giurisprudenza di questa Corte, nel senso che le prime, pur rivestendo grande rilevanza, in quanto tutelano e valorizzano i diritti e le libertà fondamentali delle persone, sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell’ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto” (sentenza n. 348, punto 3.3). CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 89 4.- I problemi irrisolti. La vincolatività dell’obbligo internazionale. Si è già rilevato (supra sub 2 ), che neanche la legge “La Loggia” è sembrata agli interpreti idonea a chiarire i dubbi ermeneutici sollevati dall’art. 117 Cost. Dubbi in buona sostanza riconducibili alle due tematiche relative alla individuazione del momento a partire dal quale la norma internazionale diventa obbligo nei confronti del legislatore, e, di seguito, se essa stessa assuma il ruolo di fonte interposta nel giudizio di costituzionalità, e l’altra della natura del trattato idoneo a generare l’obbligo internazionale vincolante. In ordine alla prima questione il dibattito nell’ambito del quale si sono inserite le decisioni della Consulta si svolge mediante due diversi e opposti percorsi interpretativi: il perfezionarsi della convenzione sul piano internazionale determina il sorgere del vincolo a carico della legge interna a prescindere dal procedimento interno di adattamento, con la conseguenza che funge da norma interposta direttamente la norma del trattato e non quella interna di recepimento e, in senso contrario, la tesi per cui mai una norma internazionale pattizia può avere effetti nel nostro ordinamento senza che la stessa sia stata recepita, con la conseguenza che, almeno dal punto di vista formale, la norma interposta è costituita dall’atto interno di adattamento della norma internazionale e non da quest’ultima in via diretta. Le decisioni della Corte non sembrano, almeno in apparenza, comporre il contrasto, contenendo elementi sia a sostegno di una tesi che dell’altra, pur dovendosi ancora una volta sottolineare come nelle ipotesi sottoposte all’attenzione della Corte venivano in rilievo norme della CEDU, e cioè di un trattato regolarmente recepito nell’ordinamento interno con legge di adattamento. Il che ha consentito al giudice costituzionale di omettere l’esame della ipotizzabilità, e in che termini, di una efficacia dei trattati internazionali nel diritto interno a prescindere (o prima) dell’intervento dell’atto di adattamento. a) Il procedimento di adattamento: una tecnica superata? Si è già detto come la tecnica legislativa utilizzata, ante modifica dell’art. 117, al fine di conferire concreta effettività sul piano giuridico al trattato internazionale, fosse la cd. procedura di adattamento, cioè la ricezione del trattato, sul piano del diritto interno, mediante legge ordinaria. In tale situazione la legge interna diviene la fonte dell’obbligo di natura internazionale, obbligo qualificabile tale quindi solo dal momento della emanazione della legge di adattamento. Argomentando a contrario, la riforma dell’art. 117 Cost. potrebbe comportare la conseguenza per cui la effettività dell’adeguamento all’obbligo internazionale non passa attraverso la previa legge di adattamento, in quanto l’obbligo internazionale riceve immediato ingresso nel diritto interno in senso vincolante per il legislatore. E d’altra parte non può tacersi come la asserita persistenza della necessità del procedimento di ricezione appare da un lato comportare una interpretazione tacitamente abrogante del nuovo art. 117, atteso che non si vede, una volta confermata la necessità della legge di adattamento, che sarà per lo più una legge ordinaria, quale sia allora la fun90 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO zione della norma costituzionale il cui valore resterebbe unicamente confinato nell’ambito programmatico, e dunque non in quello immediatamente precettivo, dall’altro espressione di una lettura decisamente involutiva della Carta costituzionale, in contrasto con il precipuo connotato, sottolineato dalla Consulta, di apertura della stessa agli obblighi internazionali (19). Dall’esegesi delle due sentenze a favore di tale assunto depongono diversi elementi: la Corte infatti, nell’escludere decisamente che l’art. 117 realizzi una ipotesi di adattamento automatico, ha chiaramente affermato come l’art. 117 nuovo testo abbia colmato una “lacuna dell’ordinamento costituzionale e che, in armonia con le Costituzioni di altri Paesi europei, si collega .. al quadro dei principi che espressamente già garantivano a livello primario l’osservanza di determinati obblighi internazionali assunti dallo Stato” (sentenza n. 349/07). In questa prospettiva sembrerebbe che la Corte, tra le varie opzioni possibili, abbia accolto quella, peraltro già proposta da parte della dottrina e suffragata dal testo della norma, secondo cui il vincolo (inteso come obbligo di rispettare la norma internazionale) a carico del legislatore nazionale sorgerebbe per effetto del perfezionarsi dell’accordo sul piano internazionale, a prescindere dalla sua ricezione nell’ordinamento interno (20) e l’art. 117 Cost. si riferirebbe agli obblighi internazionali, anziché alle relative norme interne di esecuzione, con la conseguenza che il trattato, e non la norma interna che lo recepisce, assurgerebbe al ruolo di parametro di legittimità costituzionale in qualità di norma interposta. E proprio a tale meccanismo di concreta operatività della norma, sembra che intenda riferirsi la Corte, quando espressamente chiarisce che “si deve riconoscere che il parametro costituito dall’art. 117 1 co. diventa concretamente operativo solo se vengono determinati quali siano gli “ obblighi internazionali” che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle regioni … Le norme necessarie a tale scopo, indicate dalla espressione “ fonti interposte”, sono di rango subordinato alla costituzione, ma intermedio tra questa e la legge ordinaria, e la loro funzione è quella di concretizzare nella fattispecie la consistenza degli obblighi internazionali dello Stato” (cfr. n. 348/97 cit.). “Ciò non significa che con l’art. 117 si possa attribuire rango costituzionale alle norme contenute in accordi internazionali .. Il parametro costituzionale in esame comporta infatti l’obbligo del legislatore ordinario di rispettare dette norme, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma internazionale e dunque con gli “ obblighi internazionali” di cui all’art. 117 viola (19) La Corte ritiene che “uno degli elementi caratterizzanti dell’ordinamento giuridico fondato sulla Costituzione” sia “costituito dalla forte apertura al rispetto del diritto internazionale e più in generale delle fonti esterne”. (20) In questo senso, prima delle pronunce, F. SORRENTINO, Nuovi profili costituzionali dei rapporti tra diritto interno e diritto comunitario, in Dir. pubbl. comp. ed europeo, 2002, p. 1355. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 91 per ciò stesso tale parametro costituzionale. Con l’art. 117 si è realizzato in definitiva un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro , tanto da essere comunemente qualificata e che è soggetta a sua volta ad una verifica di compatibilità con le norme della Costituzione” (così sent. n. 349/07 cit.). Secondo questa prima lettura, la Corte sembra così approdare al superamento della tesi del necessario adattamento, nella considerazione che il meccanismo di tecnica legislativa, tale per cui l’art. 117 è qualificato quale norma che funge da tramite tra il diritto interno e il diritto pattizio, letto come “norma interposta”, appare idoneo a rendere superflua, per il perfezionarsi del procedimento di stipula del trattato (cioè la manifestazione del consenso ad obbligarsi da parte dell’Italia nel rispetto del diritto internazionale), l’emanazione della legge di adattamento, mentre il richiamo alla necessaria verifica di costituzionalità della stessa “norma interposta” sottolineerebbe come il 117 non abbia affatto introdotto una ipotesi di adattamento automatico simile a quella stabilita dall’art. 10 Cost.. Al contrario “spetta al giudice comune interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale “ interposta”, egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117 Cost […]. Si tratta pertanto di verificare la compatibilità della norma internazionale con le pertinenti norme della Costituzione. In tal modo risulta realizzato un corretto bilanciamento tra l’esigenza i garantire il rispetto degli obblighi internazionali voluto dalla costituzione, e quella di evitare che ciò possa comportare per altro verso un vulnus alla Costituzione stessa” (sent. n. 349/07 cit.). Non può poi non sottolinearsi l’ulteriore elemento che potrebbe addursi a conforto di tale tesi, contenuto nelle due recenti pronunce della Corte, che, nel chiarire la natura di norma di “rinvio mobile” dell’art. 117, tale da richiedere il suo completamento con la norma interposta, sembra abbandonare il tradizionale orientamento per concludere nel senso che le norme interne, contrastanti con norme pattizie, non sono da considerare illegittime per violazione indiretta della Costituzione , ma illegittime per violazione diretta dell’art. 117. b) Il principio dell’adattamento nell’ambito delle leggi “ di sistema”. Come si è sopra anticipato, a fronte di quella che potrebbe definirsi una interpretazione delle decisioni in commento “evolutiva” e di forte apertura del diritto interno al diritto internazionale pattizio (non consuetudinario), le stesse si prestano pure ad una esegesi di stampo tradizionale, per cui la protezione costituzionale offerta dall’art. 117 riguarderebbe sempre e solo “gli obblighi internazionali” cd. “di sistema”, tali perché recepiti nell’ordinamento con la legge di adattamento. 92 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Nella sentenza n. 348/07 la Corte, nel passaggio in cui esamina l’art. 117, chiarisce espressamente che “ogni argomentazione atta ad introdurre nella pratica, anche in modo indiretto, una sorta di “adattamento automatico”, sul modello dell’art. 10, primo comma, Cost., si pone comunque in contrasto con il sistema delineato dalla Costituzione italiana”. L’assunto sembra palesare che la Corte intenda aderire all’interpretazione, consolidata, secondo cui il legislatore costituzionale avrebbe inteso incidere non sulle modalità con cui la norma internazionale convenzionale entra a far parte dell’ordinamento interno, ma esclusivamente sulla forza che questa assume una volta immessa, nel rilievo tacito che, altrimenti opinando, e cioè ritenendo il trattato efficace a prescindere dall’adattamento formale, si finirebbe per parificare integralmente, almeno sotto il profilo del modo in cui la norma internazionale diventa efficace nell’ordinamento interno, la norma consuetudinaria e quella pattizia. Con la conseguenza, in contrasto con l’affermazione della Corte, sopra riportata, che espressamente esclude qualsiasi automatismo nel meccanismo di adattamento alle norme dei trattati, che, nell’attuale sistema costituzionale, sia la norma di diritto internazionale consuetudinario, sia la norma del trattato, una volta venute in essere secondo il diritto internazionale, sarebbero efficaci nel nostro ordinamento senza necessità di alcuna attività di ricezione nel diritto interno. Al contrario, l’inciso in cui la Corte respinge la tesi dell’adattamento automatico sembrerebbe avvalorare la tesi secondo cui nulla è cambiato quanto alle modalità di ricezione dei trattati nel diritto interno, rimanendo fermo il cementato principio secondo cui, ai fini dell’efficacia nell’ordinamento interno dei trattati internazionali, si rende necessario un apposito atto di adattamento. Se questa proposta sembra essere la corretta interpretazione delle decisioni in commento, il necessario corollario conduce all’esame del quesito se, nel pensiero della Corte, il parametro interposto introdotto dall’art. 117 sia costituito dalle disposizioni del trattato in via diretta oppure, almeno sul piano formale, dalla legge interna frutto del procedimento di adattamento. Dall’analisi delle sentenze gemelle sembra che la Corte ragioni nella logica del primo orientamento; difatti più volte si legge che “il parametro costituito dall’art. 117, primo comma, viene integrato e reso operativo dalle norme della CEDU”, e non, quindi, dalla legge interna che vi ha dato esecuzione (21). (21) “Il nuovo testo dell’art. 117, primo comma, Cost. rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive” (punto 4.3); “le norme della CEDU integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale” (punto 4.7); “lo scrutinio di legittimità costituzionale chiesto dalla Corte di Cassazione rimettente deve essere condotto in modo da verificare: a) se effettivamente vi sia contrasto non risolvibile in via interpretativa tra la norma censurata e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte europea ed assunte come fonti integratrici del parametro di costituzionalità di cui all’art. 117, primo comma, Cost.; b) se le norme della CEDU invocate come integrazione del parametro, nell’interpretazione ad esse data dalla medesima Corte, siano compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano” (punto 5, sentenza n. 348/07). CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 93 Occorre però considerare come, nel caso di specie, venisse in rilievo l’applicazione della CEDU, convenzione internazionale che nel 1955 è stata oggetto di adattamento secondo il cd. procedimento speciale, cui spesso si ricorre nella pratica. In dettaglio, in tale ipotesi il legislatore non formula norme complete ma si limita ad operare un mero rinvio alle norme del trattato, e cioè si limita ad ordinare l’osservanza delle norme pattizie così come esse sono state predisposte e finché vigono nell’ordinamento internazionale. Ciò è quanto è esattamente avvenuto per mezzo dell’art 2 della legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), a mente del quale “piena ed intera esecuzione è data alla Convenzione e Protocollo suddetti, a decorrere dalla data della loro entrata in vigore”. Risulta chiaro che in queste ipotesi, in cui l’ordine di esecuzione opera un rinvio mobile, la norma interposta dal punto di vista sostanziale è contenuta nell’atto internazionale, il quale risulta solo formalmente veicolato nell’ordinamento nazionale ad opera dell’atto interno di adattamento, che ordina l’osservanza delle norme del trattato. In altre parole nelle ipotesi di adattamento secondo il procedimento speciale, dal punto di vista dell’interprete, riferirsi all’atto interno che ospita il rinvio mobile (l’art. 2 della legge del 1955) rappresenterebbe un inutile formalismo, atteso che dal punto di vista sostanziale l’unica norma esistente coincide con quella internazionale. Ciò non toglie che dal punto di vista teorico, se si ritiene necessario il procedimento di adattamento, la norma interposta è costituita dall’atto di adattamento. Dunque la Corte, privilegiando l’aspetto sostanziale, sembra riferirsi all’incompatibilità della disposizione interna con la norma del trattato, anche se, sul piano formale, la norma del trattato rileva per il nostro diritto in quanto contenuta nella legge di recepimento. La necessità di tenere distinto l’aspetto formale (le norme CEDU entrano nel nostro ordinamento per effetto dell’ordine di esecuzione, e in questo senso sono in esse contenute) da quello sostanziale (l’interprete può conoscere la norma sostanziale solo leggendo direttamente il trattato, non certo attraverso la lettura dell’ordine di esecuzione) emerge da altro inciso della sentenza n. 348/07. La Corte infatti, dopo avere enunciato il principio secondo cui la norma interposta invocata deve preliminarmente essa stessa essere costituzionalmente legittima, afferma che “nell’ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con una norma costituzionale, questa Corte ha il dovere di dichiarare l’inidoneità della stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad espungerla dall’ordinamento giuridico italiano” (sentenza n. 348/07, punto 4.7). Il riferimento ai modi rituali di espunzione della norma interposta dall’ordinamento conferma come essa deve necessariamente essere costituita 94 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO dalla legge interna di adattamento e non dal trattato in via diretta, che non potrebbe ovviamente essere oggetto di espunzione ma al più di disapplicazione: ne deriva che il “modo rituale” di eliminazione della norma non potrà che essere la dichiarazione di illegittimità costituzionale, ad opera della Corte, dell’atto di adattamento (22). Aderendo alla tesi contraria, secondo cui i trattati internazionali, una volta stipulati dagli organi competenti, sarebbero efficaci a prescindere dal procedimento formale di adattamento, l’assunto accolto dalla Corte resterebbe privo di significato, essendo oggettivamente difficile comprendere mediante quale meccanismo giuridico potrebbe espungersi la norma internazionale dal diritto interno. La chiarificazione definitiva sulla questione è fornita comunque dalla decisione n. 349/07. Nel passaggio in cui affronta il tema della novità, costituita dal nuovo testo dell’art. 117 comma 1, la Corte descrive le norme qualificabili “interposte”, ai sensi della medesima norma, come “quelle contenute in accordi internazionali oggetto di una legge ordinaria di adattamento” (punto 6.2). L’inciso conferma in definitiva che l’impostazione di fondo accolta dalla Corte è quella secondo cui la norma internazionale pattizia, non consuetudinaria, non è mai efficace qualora prescinda dalla procedura di adattamento, con la conseguenza che eventuali questioni di legittimità costituzionale possono porsi solo dopo che sia intervenuto l’atto che recepisce nell’ordinamento interno la norma internazionale. In senso opposto è altresì confermato che il procedimento formale di adattamento non costituisce il presupposto di efficacia della norma internazionale nel diritto interno solo (23) in relazione alle norme di diritto generale consuetudinario, ai sensi dell’art. 10 Cost., ed a quelle comunitarie provviste di cd. “effetti diretti” ai sensi dell’art. 11 Cost., secondo l’interpretazione datane dalla stessa Corte nella sentenza n. 170 del 1984, la cui caratteristica risiede nel fatto che sono efficaci a prescin- (22) Secondo la diversa interpretazione dei primissimi commentatori, il riferimento ai “modi rituali” significherebbe che “occorre denunciare la Convenzione, nei termini e nei modi dalla stessa previsti, per sottrarsi agli obblighi dichiarati contrari alla Costituzione” e dunque occorrerebbe che ”lo Stato italiano si sottragga all’obbligo internazionale assunto“ (C. ZANGHI, La Corte costituzionale risolve un primo contrasto con la corte europea dei diritti dell’uomo ed interpreta l’art. 117 della Costituzione: le sentenze 348 e 349, in www.giurcost.org). Tale lettura appare tuttavia incompatibile con il messaggio che la Corte intendeva proporre. Infatti nella decisione si legge che “nell’ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con una norma costituzionale, questa Corte ha il dovere di dichiarare l’inidoneità della stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad espungerla dall’ordinamento giuridico italiano”. Dunque, nell’impostazione della Corte, spetta ad essa stessa il potere-dovere di eliminazione della norma internazionale incostituzionale dall’ordinamento, e non al Governo attraverso la liberazione dall’impegno nei modi previsti dal diritto internazionale. (23) In disparte le ipotesi di norme concordatarie e relative alla condizione giuridica dello straniero, che concernono casi specifici. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 95 dere dall’adattamento, atteso che l’operatività di queste norme non è condizionata nei tempi e nei modi dai meccanismi di adeguamento, trasposizione ed attuazione predisposti dal sistema costituzionale. Ma trattasi di eccezione che trova la propria giustificazione nella copertura fornita dall’art. 11 Cost. all’ordinamento comunitario, e non certo nella nuova versione dell’art 117, comma 1. Ciò non toglie che, anche nella prospettiva del diritto comunitario sia apprezzabile il principio del necessario adattamento, soprattutto qualora si consideri che, in fondo, “è ancora a mezzo degli strumenti costituzionali di adattamento ed attuazione degli Stati membri che viene instaurato e regolato il rapporto tra il diritto comunitario e il diritto interno” (24). Si vuole con ciò dire che il fondamento primo del potere degli organi comunitari di confezionare norme immediatamente efficaci, va ricondotto in ultima analisi alle norme di recepimento dei trattati comunitari. In conclusione sembra potersi affermare che, pur a fronte del dato testuale offerto dall’art. 117 Cost., la Corte Costituzionale non abbia inteso comunque discostarsi troppo dai principi consolidati in punto di efficacia dei trattati internazionali nel diritto interno, anche perché se l’adeguamento formale rappresenta ancora il mezzo cui ricondurre l’efficacia nel nostro ordinamento del diritto comunitario, a maggior ragione appare difficile prescindere da esso affinché gli obblighi internazionali pattizi sortiscano effetti nel nostro ordinamento. 5.- La tipologia di trattati oggetto della copertura costituzionale Si è già sopra evidenziato (sub1) come né l’art. 117 cost. né la legge di attuazione n. 131/2003 contengano elementi idonei a dare concreta soluzione al secondo quesito, relativo alla individuazione dei trattati rientranti nella sfera di applicazione del vincolo di prevalenza di cui all’art. 117, ed alle caratteristiche di formazione che deve avere (o meno) un trattato perché possa essere attratto nell’orbita applicativa della norma in esame. Tale questione non appare positivamente affrontata e risolta neanche dal giudice delle leggi, che, nelle sentenze 348 e 349/2007, ha evitato di esaminare l’ argomento, se non nei limiti di un riferimento implicito (25), probabilmente perché il terreno sul quale la Consulta si è mossa, nelle decisioni in esame, non appare di facile percorso, attesa la delicatezza della materia che attiene al tema, attualissimo, dei rapporti e degli obblighi di natura internazionale che in qualunque modo coinvolgono lo Stato italiano, il cui rilievo, non solo giuridico ma anche politico, impone la massima cautela. D’altra parte, è altresì vero che la questione di costituzionalità posta alla attenzione (24) G. TESAURO, Diritto comunitario, CEDAM, 2001, p. 169. Si consideri che si tratta del redattore della sentenza n. 349. (25) Come sarà evidenziato infra. 96 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO della Consulta aveva riguardo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, fisiologicamente immessa nell’ordinamento interno con la legge ordinaria di adattamento 4 agosto 1955 “Ratifica ed esecuzione della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”, tale da esonerare in sostanza la Corte dall’onere di affrontare tale problematica. Il giudice costituzionale, riferendosi alle norme di diritto internazionale che assurgono a parametro, in base al meccanismo delineato dall’art. 117, le definisce “norme contenute in accordi internazionali oggetto di una legge ordinaria di adattamento”: il riferimento espresso alla “legge ordinaria di adattamento” sembra palesare l’intento della Corte di aderire, sebbene in via assolutamente parentetica, alla impostazione dottrinale (cfr. par. 2) che considera la partecipazione del Parlamento, alla formazione del trattato, condizione inderogabilmente necessaria affinché possa sorgere l’obbligo internazionale ex art. 117 cost. a carico del legislatore ordinario stesso. Tanto perché sarebbero produttivi degli obblighi internazionali, ex art. 117 Cost., solo i trattati di cui all’art. 80 Cost., cioè quelli la cui ratifica sia preventivamente autorizzata con legge parlamentare, nella considerazione che se la Costituzione richiede il preventivo assenso parlamentare per la conclusione di accordi internazionali che comportano modificazioni di leggi, ne consegue come sia logico ritenere che lo pretenda pure (e a maggior ragione) per la formazione di trattati che si traducono in un vincolo nei confronti della legge stessa. Come detto la Corte non affronta la questione se non del tutto implicitamente; pertanto nulla può trarsi dalla analisi delle decisioni a sostegno o a detrimento della tesi secondo cui, ai fini del 117, rileverebbero esclusivamente i trattati (non solo recepiti con legge), ma la cui ratifica sia previamente autorizzata dal Parlamento. L’unico riferimento, in qualche modo positivamente apprezzabile al tema in esame, è dato dal richiamo alla “legge ordinaria di adattamento”, dal quale potrebbe indursi la necessità che il trattato, per costituire un vincolo a carico della potestà legislativa, debba essere recepito nell’ordinamento interno con atto avente rango primario. Sul punto, non può che ricordarsi come nel nostro sistema costituzionale la competenza a ratificare i trattati internazionali costituisce attribuzione del Presidente della Repubblica. Trattasi di atto cd. formalmente presidenziale ma sostanzialmente governativo, con la conseguenza che spettano all’esecutivo le decisioni in ordine alla negoziazione, conclusione e ratifica dei trattati. Leggere il nuovo primo comma dell’art. 117 quale volontà di affermare la prevalenza del diritto pattizio nel senso di essere svincolato dalla volontà parlamentare, significherebbe ammettere che il potere esecutivo possa, nell’esercizio del cd. “potere estero”, vincolare lo svolgimento della potestà legislativa; il che rappresenterebbe un paradosso nel nostro sistema giuridico, che, nel disegnare il circuito corpo elettorale – potere legislativo – governo, ha costruito il potere esecutivo come emanazione della (maggioranza della) assemblea parlamentare. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 97 6.- Diritto europeo e diritto internazionale L’analisi svolta impone di considerare da ultimo le differenze che concernono l’assetto dei rapporti del nostro sistema con l’ordinamento comunitario da un lato, e con il diritto internazionale pattizio dall’altro. Non può infatti non evidenziarsi come, in ogni caso, dal combinato disposto degli artt. 10, 11 e 117 Cost. emerge un assetto costituzionale che tratta in modo diverso il tema delle antinomie normative, a seconda che l’incompatibilità della legge interna riguardi norme comunitarie ad effetti diretti, ovvero la generalità degli obblighi internazionali inclusi quelli comunitari non aventi effetti diretti. Nel primo caso la prevalenza del diritto comunitario è assicurata dal meccanismo della disapplicazione della norma interna con lo stesso incompatibile operata dal giudice del caso concreto, mentre nella seconda ipotesi la prevalenza della norma internazionale transita, come già rilevato, attraverso il meccanismo della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma interna in conflitto da parte della Corte (26). Dalla nuova impostazione derivante dalla Carta costituzionale emerge che la garanzia sancita dal primo comma dell’art. 117, letta attraverso l’interpretazione congiunta dell’art. 11 Cost., opera in modo non uniforme rispetto ai vincoli comunitari e a quelli internazionali. Sul punto la Corte afferma che “l’art. 117. primo comma, Cost., nel testo introdotto nel 2001[ ...] distingue in modo significativo, i vincoli derivanti dall’«ordinamento comunitario» da quelli riconducibili agli «obblighi internazionali »” (sent. n. 348/07). Preme tuttavia rilevare che la differenza tra i due profili non sembra potersi fondare sul primo comma dell’art. 117, atteso che la struttura testuale della norma, in disparte l’uso di terminologie differenti (“ordinamento comunitario” – “obblighi internazionali”), pone comunque i due aspetti nella stessa posizione a fronte dell’esercizio della potestà legislativa (come è reso evidente dall’uso della congiunzione “e”). Sembrerebbe pertanto doversi concludere che, in realtà, il diverso atteggiarsi dell’ordinamento rispetto al diritto comunitario (ad effetti diretti) e al diritto internazionale convenzionale non può che trovare giustificazione sulla base dell’art. 11 Cost., come interpretato dalla giurisprudenza della Corte, norma che la Corte costituzionale ha da sempre posto alla base della cd. “primazia” del diritto comunitario rispetto alle fonti interne, e che costi- (26) Con riferimento agli obblighi internazionali si ripropone la tesi in passato sostenuta dalla stessa Corte con riferimento al diritto comunitario. Infatti secondo l’orientamento della giurisprudenza costituzionale, precedente a quello attuale (inaugurato dalla sentenza 8 giugno 1984, n. 170), l’incompatibilità della norma interna con il diritto comunitario si presentava come una questione di legittimità costituzionale, spettando alla Corte far prevalere la norma comunitaria mediante la dichiarazione di incostituzionalità della norma interna contrastante (sentenza 30 ottobre 1975 , n. 232). 98 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO tuisce l’addentellato costituzionale idoneo a giustificare una diversa reazione dell’ordinamento, a seconda che l’incompatibilità derivi dai diversi limiti rappresentati dal diritto comunitario avente effetti diretti o dagli obblighi internazionali pattizi. In questa prospettiva la speciale copertura costituzionale che l’art. 11 accorda alle norme comunitarie rende conto della diversa terminologia che il legislatore costituzionale ha adoperato. La stessa Corte evidenzia come la terminologia differente, “ordinamento comunitario/obblighi internazionali”, riflette la diversa natura dei trattati comunitari rispetto alla generalità dei trattati internazionali. Attraverso il richiamo all’art. 11 la Corte sottolinea che “con l’adesione ai Trattati comunitari, l’Italia è entrata a far parte di un ordinamento più ampio, di natura sopranazionale, cedendo parte della sua sovranità, anche in riferimento al potere legislativo, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi, con il solo limite dell’ intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione”. È allora chiaro come l’impatto nell’ordinamento di un normale trattato internazionale, per quanto “panciuto ” possa essere, non possa certo paragonarsi alle dimensioni proprie del fenomeno di penetrazione dell’ordinamento comunitario nel diritto interno. Tale (com)penetrazione infatti ha rappresentato un’autentica cessione di sovranità statale agli organi comunitari, che conosce il suo massimo esprimersi nell’esistenza di competenze esclusive dell’U.E., rispetto alle quali si pone la rinuncia dello Stato a legiferare. In queste materie, di cd. “competenza esclusiva”, allo Stato non solo è impedito di legiferare in maniera difforme, ma allo stesso non è dato legiferare in assoluto, essendosi esso spogliato della potestà legislativa a vantaggio dell’U.E. È proprio attraverso la rielaborazione in via interpretativa della clausola di cui all’art. 11 Cost., che la giurisprudenza della Corte è giunta a costruire il cd “effetto diretto” di alcune norme comunitarie e a riconoscere il conseguente potere del giudice di disapplicare la norma interna contrastante (Corte Cost., 5 giugno 1984, n. 170). Con riferimento al macrocosmo delle norme diverse da quelle comunitarie ad effetti diretti non è invece riscontrabile alcuna “limitazione della sovranità” nazionale tale da determinare, per via dell’art. 11, l’effetto diretto e consentire il potere diffuso di disapplicazione. In queste ipotesi l’unico strumento in mano al giudice è rappresentato dall’incidente di costituzionalità secondo il modello accentrato. Tali considerazioni inducono a porsi il problema se la legge interna, contrastante con il diritto comunitario, possa essere considerata non solo disapplicabile ex art. 11 Cost., ma anche e soprattutto illegittima per violazione diretta dell’art. 117, e pertanto suscettibile di dichiarazione di illegittimità costituzionale annullamento da parte della Corte. Si è osservato infatti che il primo comma dell’art. 117, sotto il profilo del vincolo a carico del legislatore, pone sullo stesso piano i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e quelli derivanti dagli obblighi internazionali. Tale dato rende pertanto difficile comprendere il motivo per cui il risultato di prevalenza possa essere assicurato tramite l’intervento caducatorio CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 99 della Corte solo laddove l’incompatibilità riguardi il diritto internazionale, e non anche quando si profili rispetto alle norme comunitarie ad effetti diretti. Conclusione questa che potrebbe essere di non scarsa utilità pratica, qualora si consideri che il meccanismo della disapplicazione non elimina definitivamente la norma illegittima dall’ordinamento ma solo ne neutralizza l’operare limitatamente alla singola controversia (27), con la conseguenza che la norma illegittima, non essendo incisa sul piano della validità, rimane formalmente in vigore, caratterizzata tuttavia dal paradosso che non potrà essere applicata da chi sia chiamato ad interpretarla. Al contrario il sistema della dichiarazione di illegittimità costituzionale, cancellando la norma illegittima dall’ordinamento con effetto ex tunc ed erga omnes, raggiunge un risultato senz’altro maggiore in termini di certezza del diritto e di non contraddizione dell’ordinamento giuridico. La soluzione che riconoscesse la ammissibilità del ricorso alla Corte a fronte del contrasto con la norma comunitaria, tuttavia imporrebbe notevoli difficoltà di applicazione nell’ambito del nostro sistema di giustizia costituzionale, nel quale appartiene al giudice del caso concreto il potere di proporre la questione “in via incidentale”, qualora ne sussistano i requisiti, e quindi si tratti di questione che si presenti come rilevante, nel senso di attenere ad una delle regole legislative applicabili nel giudizio a quo (28), e non sia “manifestamente infondata”. È proprio il primo presupposto che rende arduo per il giudice a quo motivare l’utilità e la rilevanza di un’eventuale annullamento della norma, considerato che l’ordinamento gli riconosce già il potere di disapplicarla, cioè di considerarla tanquam non esset ai fini della decisione, per cui la fictio iuris che la norma non esiste neutralizza la regola di giudizio, atteso che per il giudice è del tutto indifferente l’eventuale annullamento della stessa ad opera della Corte. È quindi il dato della necessaria incidentalità, intesa come necessaria pregiudizialità della questione rispetto al giudizio di origine, che costituisce l’ostacolo processuale all’applicazione della medesima soluzione ad entrambe le ipotesi considerate dall’art. 117, comma 1, ed il contrasto con il diritto comunitario potrà essere fatto valere come vizio di legittimità costituzionale solo nei limiti, e nel diverso contesto, del giudizio in via principale, restando a disposizione del giudice solo il potere di disapplicazione della norma anticomunitaria. (27) La sentenza n. 170/84, che ha inaugurato l’ultimo orientamento della Corte, ha affermato che la norma interna contrastante con quella comunitaria (provvista di effetto diretto) non può venire in rilievo per la disciplina concreta del rapporto da parte del singolo giudice: tale norma non è né nulla, né invalida, ma solo inapplicabile al rapporto controverso. (28) L PALADIN, Diritto costituzionale, CEDAM, 1998, p. 727. 100 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Tre nuove condanne dell’Europa alla normativa italiana sull’ambiente (Corte di Giustizia delle Comunità europee, terza sezione, sentenze 18 dicembre 2007 nelle cause C-194/05, C-195/05 e C-263/05) La Corte di Giustizia torna a condannare l’Italia per il mancato rispetto della direttiva 75/442/CEE sui rifiuti, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE. In questo caso sotto il mirino dei giudici di Lussemburgo finiscono le terre e rocce da scavo, i mangimi alimentari e gli scarti delle cucine destinati ai ricoveri per gli animali d’affezione e la nozione di rifiuto così come interpretata dall’art. 14 legge 178/2002. Le sentenze riconoscono l’esistenza nella normativa italiana di una serie di presunzioni generali di esclusione dalla normativa sui rifiuti che restringono l’ambito di applicazione della direttiva comunitaria. Il 18 dicembre 2007 sono state pubblicate dalla Corte di Giustizia tre sentenze che condannano nuovamente l’Italia per inadempimento alla direttiva 75/442/CEE sui rifiuti, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE. Le questioni affrontate nelle pronunce riguardano ancora una volta la nozione di rifiuto con riferimento all’interpretazione dell’art. 1 lett.a) della direttiva comunitaria che la contempla. In particolar modo nella prima pronuncia si qualificano in termini di rifiuto e, pertanto, si ritiene necessaria l’applicazione della relativa disciplina, le terre e rocce da scavo destinate all’effettivo riutilizzo per rinterri, riempimenti, rilevati e macinati. Nella seconda si definiscono rifiuti i materiali e i sottoprodotti, derivanti dal ciclo produttivo e commerciale agroalimentare, impiegati nell’alimentazione animale, nonché i residui, derivanti dalla preparazione nelle cucine di qualsiasi tipo di cibo e non entrati nel circuito distributivo di somministrazione, destinati alle strutture di ricovero per animali da affezione. Infine nella terza si riconducono alla definizione comunitaria di rifiuto i materiali o i beni, destinati ad attività di smaltimento o di recupero non elencate negli allegati B e C previsti dal decreto legislativo 22/97 (cd. decreto Ronchi), e le sostanze e i materiali residuali di produzione che possano e siano riutilizzati in un ciclo produttivo o di consumo o che siano sottoposte a interventi preventivi di trattamento, non rientranti tra le operazioni di recupero previste dall’allegato C del decreto Ronchi. Nonostante, quindi, tutto ruoti intorno alla definizione di rifiuto, l’esigenza di fornire un’analisi il più possibile puntuale spinge ad una disanima LE DECISIONI IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 101 individuale delle tre sentenze, al fine di individuare le questioni affrontate e le problematiche, eventuali, che si propongono. Nozione di rifiuti: terre e rocce da scavo. Causa C-194/05. La prima sentenza, come già anticipato, affronta la questione della violazione della disciplina comunitaria sui rifiuti ad opera della normativa italiana in materia di terre e rocce da scavo, antecedente al decreto legislativo del 3 aprile 2006 n. 152 (cd. Testo Unico Ambientale) (1). Aparere della Corte di Giustizia, attraverso l’art. 10 della legge n. 93 del 2001 e l’art. 1, commi 17 e 19, della legge 443 del 2001 (cd. legge Lunardi), nella misura in cui escludevano dalla disciplina nazionale dei rifiuti le terre e rocce da scavo destinate all’effettivo riutilizzo per rinterri, riempimenti, rilevati e macinati, ad eccezione dei materiali provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabiliti dalle norme vigenti, il legislatore italiano non avrebbe rispettato gli obblighi derivanti dall’art. 1 lett. a) della direttiva 75/445/CEE come modificata dalla direttiva 91/156/CEE. La ragione di tale presa di posizione risiede nel fatto che l’art. 1, lett. a) (2) della direttiva sui rifiuti non fornisce semplicemente la nozione di “rifiuto”, “ma determina altresì, congiuntamente al suo art. 2, n. 1, il campo di applicazione della direttiva. Infatti, l’art. 2, n. 1, indica quali tipi di rifiuti sono o possono essere esclusi dall’ambito di applicazione della direttiva e a quali condizioni, mentre, in linea di principio, vi rientrano tutti i rifiuti corrispondenti alla definizione in parola. Orbene, ogni norma nazionale che limita in modo generale la portata degli obblighi derivanti dalla direttiva oltre quanto consentito dall’art. 2, n. 1, di quest’ultima travisa necessariamente l’ambito di applicazione della direttiva…. pregiudicando in questo modo l’efficacia dell’art. 174 CE”. Sulla base di ciò si contesta allo Stato italiano di aver introdotto con le disposizioni censurate una presunzione iuris et de iure di esclusione dalla definizione di rifiuto che esula dall’ambito di applicazione dell’art. 2, n. 1, della direttiva. Più precisamente il giudice comunitario imputa alla normativa nazionale di aver introdotto la presunzione che, nelle situazioni da essa previste, le terre e rocce da scavo costituiscono sottoprodotti, i quali per il loro detentore, stante la volontà di riutilizzarli, presentino sempre un valore economico (1) In senso critico sul TUA F. GIAMPIETRO, Né Testo Unico Ambientale né Codice dell’ambiente…. Ma un unico contenitore per discipline differenziate, in Ambiente e Sviluppo, 2006, 5, 405; sulla formulazione dell’art. 186 T.U.A. alla luce proprio del procedimento contenzioso istaurato dalla Commissione A.L. DE CESARIS, Una nuova disciplina per l’ambiente?, in Giorn. dir.amm., 2007, 2, 123 ss., nota 35; sempre sull’art. 186 si veda S. DI ROSA e I. FATTORI, Sommersi da terre e rocce da scavo: uno smottamento del nuovo Testo Unico Ambientale,in www.giuristiambientali.it (2) Si ricorda per amor di cronaca che l’art. 1 lett. a) direttiva 75/442/CEE definisce rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”. 102 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO e, pertanto, meritino di non essere qualificati rifiuti. Una simile presunzione, con le conseguenze che ne derivano, provocherebbe l’evidente violazione del diritto comunitario nella misura in cui si prevede un’esclusione dalla definizione di rifiuto ulteriore rispetto a quelle consentite dall’art. 2 della suddetta direttiva. Per comprendere i motivi della condanna vale ricordare che la materia dei rifiuti è regolamentata a livello comunitario dallo strumento normativo della direttiva che, per definizione, non vincola in merito alle modalità di recepimento, ma solo in ragione delle finalità perseguite. Una simile scelta, accanto a una nozione di rifiuto “funzionale” e flessibile, tradisce la volontà del legislatore comunitario di lasciare un’ampia libertà agli Stati membri nella previsione di una disciplina comunque rispettosa delle finalità di tutela delle salute umana e dell’ambiente. Tuttavia questa libertà e flessibilità hanno comportato e comportano inevitabili problemi interpretativi. In questa prospettiva al fine di definire cosa sia rifiuto e in particolar modo il concetto di “disfarsi” è apparso necessario non solo attenersi alle finalità stesse della direttiva sui rifiuti ma anche a quelle prescritte dall’art. 174 n. 2 Trattato CE, spingendo per un’interpretazione restrittiva. Nell’evoluzione giurisprudenziale avutasi al riguardo la possibilità di escludere un bene o una materia dalla qualificazione di rifiuto è stata riconosciuta in presenza di due condizioni: la natura di “sottoprodotto”e il certo riutilizzo, da parte anche di diverso operatore economico (3). Nonostante la soluzione applicata al caso concreto dal giudice comunitario sia stata costruita in modo tale da apparire coerente con la consolidata giurisprudenza affermatasi in argomento e sia stata preannunciata dalla stessa dottrina nazionale (4), essa lascia in realtà perplessi in alcuni suoi punti. Il primo aspetto che suscita perplessità riguarda l’atteggiamento assunto, dapprima, dall’Avvocato generale nelle proprie conclusioni (5) e, successivamente, dall’organo giudicante in merito alla possibilità di estendere il giudizio a disposizioni ulteriori e successive rispetto a quelle individuate nel corso della fase precontenziosa dalla Commissione. Aquesto proposito viene evocata la ormai consolidata giurisprudenza comunitaria secondo la quale l’inadempimento di uno Stato membro deve essere constatato in riferimento alla legislazione presente al momento della scadenza del termine previsto nel (3) Sentenza 18 aprile 2002 causa C-9/00, Palin Granit Oy, punti 35 ss.; sentenza del 11 settembre 2003 causa C-114/01, Avesta Polarit Chrome Oy, punti 36-39 e 43; ordinanza 15 gennaio 2004 causa C-235/02, Saetti e Freudiani, punti 36-45; sentenza 8 settembre 2005 causa C-416/02, Commissione c/Spagna, punto 90. (4) Anticipano le conclusioni della Corte di Giustizia G. AMENDOLA, Rifiuti da scavo e tombamento di cave: un sonoro “schiaffo”all’Unione Europea, in Dir.pen. e processo, 2002, 1, 32 ss.; V. PAONE, La Corte di Giustizia e l’Avvocato Generale si pronunciano ancora una volta sulla nozione di rifiuto, in www.giuristiambientali.it (5) Le conclusioni sono state rese note il 22 marzo 2007 e sono reperibili all’indirizzo http://eurlex.europa.eu. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 103 parere motivato (6), risultando assolutamente ininfluenti le modifiche ad hoc introdotte da questo Stato dopo l’apertura della procedura d’infrazione, volte semplicemente ad evitare le conseguenze di una violazione del diritto comunitario. Una ricostruzione della normativa nazionale sembra a tal proposito utile oltre che necessaria. Come è noto il recepimento della direttiva 91/156/CEE, di modifica della direttiva 75/442/CEE, è intervenuto ad opera del decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22 il quale all’ art. 8, comma 2, lett. c) prevedeva l’esclusione dal novero dei rifiuti dei “materiali non pericolosi che derivano dall’attività di scavo”. A seguito dell’attivazione di una procedura di infrazione da parte della Commissione, tale disposizione è stata abrogata con il decreto legislativo 8 novembre 1997 n. 389 (7). Tuttavia rimaneva immutato l’art. 8, comma 1, che nell’escludere alcune sostanze e materiali dal campo di applicazione del relativo decreto contemplava espressamente alla lett. b) “i rifiuti risultanti dalla prospezione, dall’estrazione, dal trattamento, dall’ammasso di risorse minerali o dallo sfruttamento delle cave”. Ben presto l’art. 10 della legge 23 marzo 2001 n. 93 introdusse all’art. 8 una lett. f bis) con conseguente esclusione dalla disciplina dei rifiuti delle “terre e rocce da cavo destinate all’effettivo utilizzo per rinterri, riempimenti, rilevati e macinati, con esclusione di materiali provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabiliti dalle norme vigenti” (8). Successivamente la legge del 21 dicembre 2001 n. 443 all’art. 1, comma 17, precisava in ordine all’art. 8 lett. f bis) che “le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, non costituiscono rifiuti e sono, perciò, escluse dall’ambito di applicazione del medesimo decreto legislativo, anche quando contaminate, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione, sempre che la composizione (6) Ex multis sentenza 27 ottobre 2005, causa C-23/05, Commissione c/Lussemburgo, punto 9; sentenza 9 dicembre 2004, causa C-177/03, Commissione c/Francia, punto 19; sentenza 14 settembre 2004, causa C-168/03, Commissione c/Spagna, punto 24. (7) Sui dubbi interpretativi scaturiti da tale abrogazione relativamente alla qualificazione delle terre e rocce da scavo A. CIMELLARO e R. SARACENI, Terre rocce da scavo Un dilemma amletico: rifiuto o non rifiuto? Considerazioni dopo la l. 21 dicembre 2001 n. 443 e l’intervento della Unione Europea, in Dir. e giur. agraria e dell’ambiente, 2004, 3, 143. (8) Il rapporto tra la lett. b) e la lett. f bis) dell’art. 8 D.Lgs. 22/97 è stata analizzata da M. SERTORIO, Sulla delimitazione della nozione dei minerali oggetto di esclusione dalla disciplina sui rifiuti, in Riv. giur.amb., 2002, 1, 29 ss. Secondo l’A. la norma tiene “ distinta e separata la fattispecie “terre e rocce” rispetto a quella “minerali”, in quanto l’eventuale identità del carattere fisico-chimico tra i due “materiali” non consente l’assimilazione in unità delle due fattispecie: viene così ribadito che il “minerale” trova esclusione dai rifiuti per il suo carattere industriale e di commercializzazione (e che a monte è retto e disciplinato da atto di concessione per le miniere o da atto autorizzativo per le cave), mentre “terre e rocce” abbisognano dell’ulteriore requisito dell’utilizzo per “reinterri, riempimenti, rilevati e macinati”. 104 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO media dell’intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti” ; e inoltre all’art. 1, comma 19, si proseguiva : “ per i materiali di cui al comma 17 si intende per effettivo utilizzo per rinterri, riempimenti, rilevati e macinati anche la destinazione a differenti cicli di produzione industriale, ivi incluso il riempimento delle cave coltivate, nonché la ricollocazione in altro sito, a qualsiasi titolo autorizzata dall’autorità amministrativa competente, a condizione che siano rispettati i limiti di cui al comma 18 e la ricollocazione sia effettuata secondo modalità di rimodellazione ambientale del territorio interessato”. In ultimo va ricordato che tale normativa è stata sottoposta, dopo l’attivazione della procedura d’infrazione che ha portato alla condanna de qua, ad un ulteriore intervento modificativo con la legge comunitaria del 31 ottobre 2003 n. 306, secondo la quale le terre e rocce da scavo devono essere “utilizzate, senza trasformazioni preliminari, secondo le modalità previste nel progetto sottoposto a VIA ovvero, qualora non sottoposto a VIA, secondo le modalità previste nel progetto approvato dall’autorità amministrativa competente previo parere dell’ARPA”. Questo breve excursus mostra come la materia delle terre e rocce da scavo abbia subito nel corso degli anni continui cambiamenti, finalizzati a definire un quadro normativo il più possibile compatibile con il diritto comunitario e al tempo stesso attento alle esigenze nazionali. Da tali cambiamenti la Commissione, prima, e la Corte di Giustizia, poi, non potevano e non dovevano prescindere qualora avessero voluto condurre una lucida e completa ricostruzione del contesto normativo nazionale. Rafforza tale convinzione lo stesso operato della Commissione: il ricorso alla Corte è stato presentato dopo tre anni dall’apertura della procedura d’infrazione e non immediatamente, con lo spirare del termine di due mesi previsto nel parere motivato. Simile dato, apparentemente trascurabile, avrebbe dovuto, in realtà, spingere la Commissione ad una considerazione delle novità normative intervenute nel “discreto” lasso temporale, per vagliare l’opportunità di contestare la loro incompatibilità con il diritto comunitario. Inoltre non si può nascondere come il ragionamento seguito dallo stesso collegio presenti un lato oscuro. La scelta di trascurare l’esame dell’attuale disciplina pone, infatti, un interrogativo, circa l’effettiva possibilità per lo Stato italiano di adempiere alla condanna comunitaria dal momento che la normativa incriminata non è più in vigore. In sostanza come si può ottemperare al giudicato se le disposizioni sottoposte al vaglio della Corte sono state soppiantate da altra disciplina? Forse anche per tale ragione il lasso temporale intercorrente tra il procedimento precontenzioso e la proposizione del ricorso avrebbero dovuto spingere la Commissione ad una valutazione più ampia? In proposito appaiono significative le stesse parole della Corte di Giustizia che nella definizione di altro procedimento ha sostenuto: “Quando le pertinenti disposizioni nazionali sono cambiate sostanzialmente tra il momento in cui è scaduto il termine per ottemperare al parere motivato e quello in cui è stato proposto il ricorso per inadempimento, tale evoluzione può privare di una parte significativa della sua utilità la sentenza che la IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 105 Corte deve pronunciare. In una situazione del genere, sarebbe preferibile che la Commissione non presentasse un ricorso, bensì emettesse un nuovo parere motivato, precisando gli addebiti che intende mantenere alla luce delle circostanze modificate” (9). Certo è che la Commissione ha precisato che la legge comunitaria n. 306/2003 non introduce modifiche tali da rilevare un adeguamento della normativa nazionale alla direttiva, persistendo un’esclusione iuris et de iure delle terre e rocce da scavo dalla normativa rifiuti. In verità tale posizione suscita un certo scetticismo alla luce proprio del dato normativo. L’intervento dell’autorità amministrativa e, soprattutto, la presenza di un progetto, espressamente menzionato, di cui il riutilizzo delle terre e rocce da scavo è parte integrante, motivano un atteggiamento di cautela nei confronti di simili affermazioni. Se il certo riutilizzo rappresenta, insieme alla natura di sottoprodotto, la condizione richiesta dalla giurisprudenza comunitaria per giustificare l’esclusione della regolamentazione sui rifiuti, il reimpiego secondo le modalità previste dal progetto, sottoposto, per giunta, ad approvazione dell’autorità competente o a V.I.A. - Valutazione d’Impatto Ambientale - potrebbero apparire in linea con i canoni elaborati a livello comunitario. Il secondo aspetto della sentenza che desta perplessità riguarda la stessa analisi compiuta sulle disposizioni che sono state ritenute effettivamente oggetto di questo giudizio. L’attenzione viene focalizzata sull’incapacità dell’art. 1, comma 19, della legge Lunardi di garantire che l’effettivo riutilizzo avvenga in un periodo di tempo ristretto o quantomeno determinato. La mera possibilità di un impiego non immediato delle terre e rocce da scavo, lascia aperta la possibilità che l’operatore economico depositi a tempo indeterminato il relativo materiale, con i ben noti pericoli per l’ambiente, e introduce quella presunzione iuris et de iure di sottrazione alla qualifica di rifiuto Alla luce di queste conclusioni si può rilevare come il collegio abbia omesso di considerare il ruolo rivestito dai rinterri, riempimenti, rilevati e macinati, a cui sarebbe destinato l’effettivo riutilizzo delle terre e rocce da scavo, nell’esecuzione di un progetto per la realizzazione di un’opera. Infatti l’esclusione di cui all’art. 8 D.Lgs. 22/97 non opera automaticamente, apparendo necessaria la definizione dell’esatta funzione rivestita dalle terre e rocce da scavo all’interno del progetto per la cui realizzazione esse vengono prodotte; da ciò deriva che nel momento in cui l’imprenditore procede ad elaborare tale progetto, destinando i materiali in discussione a rinterro, riempimento etc…, non solo tale destinazione risulta fondamentale per la stessa realizzazione dell’opera, ma assicura inevitabilmente il certo reimpiego. In definitiva la sola presenza del progetto, nel quale sia previsto l’impiego delle terre e rocce da scavo, e il fatto che le stesse si producano all’interno di esso, appaiono adeguati ad escludere l’esistenza di una volontà di “disfarsi”e a differenziare tale situazione da quella in cui versa il detentore (9) Sentenza 9 dicembre 2004, causa C-177/03, Commissione c/Francia, punto 21. 106 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO di detriti derivanti dallo sfruttamento di una cava di pietra, depositati a tempo indeterminato in attesa di un possibile utilizzo (10). In questa prospettiva, inoltre, la durata di un eventuale deposito è determinabile sulla base dello stesso progetto e vede, ancora, quale unico responsabile della sua osservanza l’imprenditore (11). E sono soprattutto queste ultime considerazioni a sollevare dubbi sull’effettiva esistenza nel nostro ordinamento di una presunzione generale in base alla quale “le terre e rocce da scavo costituiscono sottoprodotti che presentano per il loro detentore, data la sua volontà di riutilizzarli, un vantaggio o un valore economico anziché un onere di cui egli cercherebbe di disfarsi” (punto 51 della sentenza). La giusta valorizzazione del ruolo rivestito dalla fase progettuale sembra in realtà sottolineare la necessità di verificare in concreto l’esistenza delle condizioni previste dalla legge attraverso l’esame del singolo elaborato tecnico predisposto in piena libertà dall’operatore economico. Spetta solo a quest’ultimo valutare il vantaggio tratto dal riutilizzo di certi materiali senza nessuna ingerenza o determinazione aprioristica del legislatore in violazione dell’art. 2 n. 1 della direttiva 75/442/CEE (12). Il pensiero della Corte di Giustizia appare discutibile anche sotto altro profilo. Secondo le risultanze della sentenza in esame le terre e rocce da scavo sarebbero rifiuto salva la possibilità di accertare in concreto l’esistenza delle condizioni che escludono la volontà da parte del detentore di disfarsi delle stesse. Da ciò deriva a sua volta la presunzione che la terra sia, a causa della attività di escavazione che ne garantisce il prelievo e la trasforma, appunto, in terra “da scavo”, riconducibile in linea generale alla nozione comunitaria di rifiuto. Più precisamente una tale presa di posizione com- (10) Sentenza 18 aprile 2002 causa C-9/00, Palin Granit Oy, punto 39 con nota A. GRATANI, La Corte di Giustizia vaglia nuovamente i criteri che presiedono ad una corretta qualificazione della “merce”come “rifiuto”, in Riv. giur. amb., 2003, 1, 90 ss. (11) Valorizzano il ruolo rivestito dalla fase progettuale A. CIMELLARO e R. SARACENI, Terre rocce da scavo. Un dilemma amletico, cit., 145, i quali, analizzando le disposizioni oggetto dell’allora procedura d’infrazione, affermavano: “Al riguardo, giova infatti rammentare che già in sede progettuale, via via con un livello crescente di dettaglio in relazione allo sviluppo del progetto, viene affrontato e debitamente risolto (non solo per le opere pubbliche ma anche per gli insediamenti privati) il problema della destinazione delle terre da scavo. In particolare in caso di interventi infrastrutturali, le modalità di utilizzazione dei materiali di scavo progettualmente previste sono sottoposte –come è noto – a valutazione e autorizzazione, sia da parte delle autorità ambientali nell’ambito della procedura di V.I.A., che da parte delle competenti amministrazioni territoriali locali, previo parere degli organi tecnici, e costituiscono di regola oggetto di apposite previsioni nell’ambito degli accordi procedimentali e di programma, stipulati in occasione dei procedimenti autorizzatori, che vincolano, prima della sua produzione, il realizzatore dell’opera all’utilizzazione del materiale secondo modalità prestabilite, in modo compatibile con le esigenze di tutela ambientale.” (12) Questa ricostruzione non è condivisa da P. MILOCCO, Terre da scavo e nozione comunitaria di rifiuto,in Riv. giur.amb., 2003, 5, 800 ss., il quale con riferimento alla legge 443/2001 ritiene ponga una valutazione di non pericolosità che preclude ogni valutazione concreta. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 107 porta che ogni qualvolta si proceda a prelevare terra da un sito per impiegarla nella realizzazione di qualunque opera (rinterri, riforestazione, massicciate, margini di fiumi etc...), si debba presuntivamente parlare di rifiuto, pur non sussistendone gli estremi a causa della mancanza ab origine della volontà di “disfarsi” di essa. Pertanto viene da chiedersi se la Corte abbia avuto effettivamente consapevolezza di tutti i risvolti della sua pronuncia, o se, al contrario, sia stata essa stessa vittima di un ragionamento presuntivo che tanto mirava a condannare. In buona sostanza la condanna con le sue motivazioni solleva numerose problematiche, non da ultimo l’incidenza che avrà sullo sviluppo di questo paese. È innegabile, infatti, che la qualificazione di rifiuto delle terre e rocce da scavo provocherà un inevitabile innalzamento dei costi di realizzazione delle opere, l’attenzione viene rivolta alle opere pubbliche, e, sebbene la Corte di Giustizia sottolinei che l’origine del problema sia imputabile alla normativa nazionale e non a quella comunitaria, si tratta di questione non trascurabile e che potrebbe avere serie conseguenze. Questo è tanto più vero se si pensa alla possibilità, invocata al punto 56, da parte dello stesso detentore dei rifiuti di procedere direttamente al recupero e allo smaltimento, perché ciò comporta la necessità di chi “produce” terra o roccia da scavo di munirsi dell’autorizzazione allo smaltimento. Un’ultima notazione non poteva che avere ad oggetto il D.Lgs. 152/2006 e le ripercussioni che la condanna in questione può avere sul dibattito in merito ad una sua modifica. Nonostante la presenza di un procedimento in seno alla Corte di Giustizia e gli intenti di conformazione al diritto comunitario (13), la scelta del legislatore delegato è stata quella di riproporre una disciplina ad hoc per quanto concerne le terre e rocce da scavo (art. 186). Una simile scelta è stata da una parte della dottrina qualificata come “grave” (14), mentre altri si sono concentrati sugli aspetti innovativi (15). A prescindere da ciò è certo che si tratta di materia controversa proprio alla (13) Nella Relazione illustrativa che ha accompagnato la bozza del D.Lgs. 152/2006 si precisa che la formulazione dell’art. 186 recepisce le indicazioni fornite dalla Commissione. (14) A.L. DE CESARIS, Una nuova disciplina per l’ambiente?, cit., 123 ss. (15) S. DI ROSA e I. FATTORI, Sommersi da terre e rocce da scavo, cit., i quali nell’analizzare il primo comma della nuova disposizione si soffermano sull’inciso “ove ciò sia espressamente previsto” con riferimento all’obbligo di presentazione di un progetto per l’utilizzo delle terre e rocce da scavo e alla conseguente autorizzazione dello stesso; più specificatamente gli A. ravvisano ipotesi nelle quali “le trascurabili quantità di materiale destinato ad essere utilizzato e/o per la provenienza e/o la destinazione dello stesso – oltre che per l’assenza di un obbligo normativamente previsto – qualsiasi complicanza burocratico/ tecnica risulterebbe scontatamente ridondante, divenendo una pretesa irragionevole e determinante un netto squilibrio del rapporto costi-benefici”, procedendo a giustificare la novità normativa in quanto “ imporre l’irragionevole necessità di autorizzazioni preventive anche per fattispecie ed operazioni di rilevanza minimale, avrebbe portato…ad un astratto ed illusorio controllo di tutte le realtà”. 108 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO luce dei risvolti comunitari presentati e sulla quale nel prossimo futuro, come del resto anticipato dal Ministro dell’Ambiente nel comunicato stampa relativo all’approvato decreto correttivo lo scorso 21 dicembre 2007 (16), interverranno nuove modifiche di adeguamento ai recenti orientamenti della giurisprudenza comunitaria. Sarà a questo punto interessante vedere come la disciplina in questione varierà anche se, non può nascondersi, l’impressione è che ancora una volta il nostro legislatore faccia “disfare” all’Europa ciò che è incapace di cambiare. Nozione di rifiuto: scarti alimentari. Causa C-195/05 Con la seconda sentenza si è deciso di condannare l’Italia per la violazione dell’art. 1 lett.a) della direttiva 75/442/CEE, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE, ad opera dell’art. 23 legge n. 179/2002 e di due circolari, una del Ministero dell’Ambiente del 28 giugno 1998 e l’altra del Ministero della Salute del 22 luglio 2002, nella misura in cui escludono dall’ambito di applicazione della disciplina sui rifiuti gli scarti dell’industria agro-alimentare, destinati alla produzione di mangimi per animali, e i residui, derivanti dalla preparazione nelle cucine di cibi, destinati alle strutture di ricovero per animali di affezione. È utile ricordare che l’art. 8, 1° comma, punto c, D.Lgs. 22/97 annovera le carogne, le materie fecali ed altre sostanze naturali non pericolose utilizzate nell’attività agricola tra le materie e le sostanze escluse dal novero dei rifiuti. Tale disposizione è stata arricchita di un ulteriore punto, il “c bis”, ad opera dell’art. 23, 1° comma, lett. b), legge 179/2002 il quale ha statuito l’esclusione dall’applicazione del decreto Ronchi de“i residui e le eccedenze derivanti dalle preparazioni nelle cucine di qualsiasi tipo di cibi solidi, cotti e crudi, non entrati nel circuito distributivo di somministrazione, destinati alle strutture di ricovero di animali di affezione di cui alla legge 14 agosto 1991, n. 281, e successive modificazioni, nel rispetto della vigente normativa”. Inoltre nell’ottica di facilitare l’applicazione della definizione di rifiuto è stato in un primo momento previsto dalla circolare del 1999 che “i materiali, le sostanze e gli oggetti originati dai cicli produttivi o di preconsumo, dei quali il detentore non si disfi, non abbia l’obbligo o l’intenzione di disfarsi e che quindi non conferisca a sistemi di raccolta o trasporto dei rifiuti, di gestione di rifiuti ai fini del recupero o dello smaltimento, purché abbiano le caratteristiche delle materie prime secondarie indicate dal D.M. 5 febbraio 1998 (…….) e siano direttamente destinati in modo oggettivo ed effettivo all’impiego in un ciclo produttivo, sono sottoposti al regime delle materie prime e non a quello dei rifiuti”, e, successivamente, dal comunicato del 2002 che “i materiali e i sottoprodotti derivanti dalle lavorazioni dell’industria agroalimentare sono “materie prime per mangimi” ove, in pre- (16) Per alcune osservazioni sul secondo decreto correttivo S. MAGLIA, Alcune considerazioni in merito al secondo decreto correttivo del TUA, in Ambiente e Sviluppo, 2007, 11, 969 ss. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 109 senza dei requisiti igenico-sanitari, esista la volontà del produttore di volerli utilizzare nel ciclo alimentare zootecnico”. In base a tale contesto normativo si imputa all’Italia l’introduzione di “una deroga troppo generale alla legislazione nazionale relativa ai rifiuti, che comporta l’esclusione automatica, e indebita, dei materiali in questione dalla sfera di applicazione delle disposizioni relative alla gestione dei rifiuti derivanti dalla direttiva”. A tal proposito la Corte richiama la necessità di un’interpretazione flessibile e non restrittiva della nozione di rifiuto e chiarisce come la presenza di un residuo di produzione o di consumo sia soltanto un indizio del fatto che il detentore se ne disfi, abbia deciso o l’obbligo di disfarsene. I criteri che consentono di confutare ogni dubbio sulla presenza o meno di un rifiuto sono individuati nella natura di sottoprodotto e nel certo riutilizzo dello stesso senza trasformazioni preliminari, che dimostrano la necessità di procedere ad una verifica “caso per caso”. Partendo da tali premesse, si arriva a considerare la normativa italiana in contrasto con quella comunitaria per aver la prima introdotto una presunzione secondo la quale, nelle situazioni in essa previste, i materiali o le sostanze rappresentano sempre un sottoprodotto, avente per il loro detentore un valore economico e non rappresentando un onere di cui cercherebbe di “disfarsi”. In realtà a giudizio del collegio non può esistere una presunzione generale di esclusione motivata dal fatto che il detentore trae maggior vantaggio dal riutilizzo dei rifiuti piuttosto che dal fatto che se ne possa disfare. Come si può notare, le argomentazioni a sostegno della condanna coincidono con quelle formulate nella sentenza relativa alle terre e rocce da scavo, in un’ottica quasi seriale, e sotto certi aspetti non convincono. È indubbiamente vero che la sola volontà di disfarsi di un materiale non rappresenta di per sé un elemento sufficiente ad escludere tale materiale dal novero dei rifiuti; tuttavia è altrettanto vero che laddove tale volontà si estrinseca nella conclusione di un contratto tra il detentore e l’utilizzatore, assolvendo alla funzione di documentare caso per caso la decisione di non disfarsi del materiale stesso, sia perfettamente rispettato il criterio di valutazione previsto dalla giurisprudenza comunitaria. In questo senso la normativa nazionale non fa che consentire una scelta che sarà sempre e comunque l’imprenditore a fare. Nell’ipotesi in cui decida di destinare gli scarti dell’industria agroalimentare alla produzione di mangimi animali o i residui di cibo alle strutture di ricovero per animali d’affezione, considerandoli sottoprodotti in luogo di rifiuti, si assumerà la responsabilità del certo riutilizzo (17). (17) In senso critico F. GIAMPIETRO, Rifiuti alimentari e non:linee guida del Ministero della Salute, in Cass. pen, 2003, 4, 1451 ss. “È, perciò, riproposto l’assunto che è la volontà del produttore a decidere della natura e della disciplina giuridica dello scarto. Egli ne autonomamente accerta la qualità igenico-sanitaria, almeno sino al momento in cui lo stesso scarto perviene ad un impresa, autorizzata alla produzione di mangimi composti ( ex art. 5 l. n. 281/63 e succ. modifiche) e sempre che quello scarto transiti per quest’impresa e non arrivi direttamente all’allevatore di animali ovvero non prenda altre strade”. 110 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Certo riutilizzo che vede nella conclusione di un contratto un mero indizio, il quale dovrà trovare conferma nei controlli svolti dall’Autorità. Si è, quindi, voluto introdurre una previsione di esclusione che per operare richiede sempre e comunque un accertamento concreto. Un altro aspetto di rilievo riguarda il rapporto tra la direttiva 75/442/CEE e la normativa regolamentare comunitaria che si occupa della produzione e commercializzazione dei mangimi (18), aspetto superficialmente affrontato nella sentenza (punto 55). Nel momento in cui il produttore decide e concretamente opera per destinare gli scarti alimentari alla produzione di mangimi, tale scelta dovrebbe comportare, a rigor di logica, la sottoposizione a diversa normativa, quella sui mangimi recante norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano, che impone al produttore un sistema di controlli, coerenti con quelli prescritti dalla direttiva 75/442/CE, pur non trattandosi di rifiuti, al fine di tutelare la salute degli animali, dell’uomo e dell’ambiente. Potrebbe in effetti ravvisarsi in tale disciplina un’ “altra normativa” secondo la previsione dell’art. 2 n. 1, lett. b, direttiva 75/442/CEE. Del resto affermare che “al di là delle ipotesi espressamente previste all’art. 2, n. 1, della direttiva, nulla poi in quest’ultima è tale da indicare che essa non si applicherebbe cumulativamente ad altre legislazioni”, significa prevedere la convivenza di discipline che se da una parte qualificano un determinato materiale come rifiuto, dall’altra lo destinano attraverso la produzione di mangimi animali alla filiera alimentare dell’uomo Inoltre la qualificazione degli scarti e i residui alimentari in termini di rifiuti comporta che gli stessi debbano essere trattati, in sede di trasporto, come tali e, pertanto, affidati a soggetti a tal proposito autorizzati che non forniscono idonee garanzie dal punto di vista dell’igiene. Parlare di problema, in quest’ultimo caso, solo italiano, dimostra scarsa sensibilità per lo stesso, poiché il pericolo che non vengano rispettate le necessarie norme igieniche nasce dalla qualificazione voluta dalla Corte e non dalla disciplina nazionale. Parlare di trasporto di rifiuti, dal punto di vista logico, farà sì che gli scarti o i residui di cibo saranno trattati come tali, compromettendo ogni possibilità di riutilizzo, tanto più per la produzione di mangimi. Nozione di rifiuto: sostanze e oggetti destinati alle operazioni di smaltimento o di recupero, nonché residui di produzione che possono essere riutilizzati. Causa C-263/05 Con l’ultima sentenza giunge ad epilogo la controversa questione della compatibilità con il diritto comunitario dell’art. 14 legge 178/2002 (19). (18) In particolare ci si riferisce al regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio n. 1774 del 3 ottobre 2002. (19) Prende atto delle critiche all’art. 14 l.178/2002 L. PRATI, L’interpretazione autentica della nozione di rifiuto nell’art. 14 della legge 178/2002 e l’intervento del giudice nazionale, in Riv. giur. amb., 2003, 1, 116 ss. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 111 La disposizione sottoposta al giudizio della Corte di Giustizia intendeva fornire un’interpretazione autentica della definizione di rifiuto, contenuta nell’art. 6, lett. a, D.Lgs. 22/97, provvedendo a specificare che cosa si dovesse intendere per “si disfi”, “abbia deciso” o “abbia l’obbligo di disfarsi”. In particolar modo il “si disfi” veniva concepito come “qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22/97”, l’“abbia deciso” si riferiva alla “volontà di destinare ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22/97, sostanze, materiali o beni”, infine la locuzione “abbia l’obbligo di disfarsi”doveva interpretarsi nel senso che esso indicava “l’obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazione di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza, e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell’elenco dei rifiuti pericolosi di cui all’allegato D del decreto legislativo n. 22/97”. Inoltre si provvedeva, nel 2° comma, ad escludere l’esistenza di una decisione o dell’obbligo di destinare ad operazioni di smaltimento o di recupero i beni, le sostanze e i materiali residuali di produzione o di consumo se “a) gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all’ambiente; b) gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell’allegato C del decreto legislativo n. 22/97”. I dubbi interpretativi, sorti nell’immediatezza della sua entrata in vigore, trovano, come anticipato, nella sentenza in commento una definitiva conferma. Nel panorama nazionale la dottrina (20) manifestava preoccupazioni circa la compatibilità dell’art. 14 cit. con il diritto comunitario e, soprattutto, con i più recenti orientamenti di questa Corte, e la giurisprudenza confermava tali preoccupazioni, assumendo, tuttavia, posizioni contrastanti e sostanzialmente incentrate sulla possibilità o meno di disapplicare la normativa nazionale in favore di quella comunitaria (21). (20) Si veda L. BUTTI, Dritto europeo e normativa italiana di fronte al problema della “definizione di rifiuto”, in Riv. giur. amb., 2003, 6, 996 ss. Cerca di dare una lettura della disposizione orientata ai principi comunitari E. POMINI, L’art. 14 nuovamente oggetto di valutazioni contrastanti da parte della giurisprudenza di merito e di legittimità, in Riv. giur. amb., 2004, 1, 70 ss; critico con la soluzione di disapplicare la norma nazionale adottata da parte della giurisprudenza A. BORZÌ, La nozione di rifiuto tra applicazione comunitaria e (dis)applicazione interna, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2004, 3-4, 756 ss. (21) Tra le sentenze che abbracciano la tesi della disapplicazione della norma nazionale per contrarietà al diritto comunitario si possono menzionare ad es., Cass. penale, sez. III, 112 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La questione, del resto, alla luce della procedura d’infrazione avviata dalla Commissione risultava tutt’altro che peregrina. In particolare le contestazioni mosse riguardavano il primo comma per aver limitato la nozione di rifiuto ai materiali oggetto delle operazioni di smaltimento e di recupero previste agli allegati B e C D.Lgs. 22/97, riproducenti gli allegati II A e II B della direttiva 75/442/CEE, con esclusione delle operazioni ivi non elencate e il secondo comma per aver escluso “tassativamente” dalla nozione di rifiuto le sostanze e gli oggetti che, ancorché riutilizzati o riutilizzabili in un ciclo produttivo e senza o con la necessità di effettuare un trattamento produttivo, non rechino pregiudizio all’ambiente e non si compia, nel caso di trattamento preventivo, alcuna delle operazione di recupero individuate nell’allegato C del decreto legislativo n. 22/97. Nell’accogliere le censure della Commissione il giudice comunitario ravvisa nella normativa nazionale considerata l’esistenza sostanzialmente di due presunzioni di esclusione che restringerebbero eccessivamente il campo di applicazione della direttiva di riferimento. Vediamo più nel dettaglio quali sono le motivazioni che consentono di arrivare a tale conclusione. Innanzitutto una presunzione è riscontrata nel primo comma dell’art. 14 cit.. Risulta pacifico, infatti, agli occhi della Corte che a causa della sua formulazione l’esistenza dell’atto, della decisione o dell’obbligo di “disfarsi” di una sostanza o di un materiale sia riscontrabile nel semplice compimento di una delle operazioni di smaltimento o di recupero menzionate negli allegati B e C del decreto Ronchi, i quali, a loro volta, riproducono testualmente gli allegati alla direttiva sui rifiuti. Proprio facendo leva sull’interpretazione che di tali allegati si è affermata, il collegio non manca di far notare come la semplice esecuzione di operazioni di recupero o smaltimento in essi menzionate non sia sufficiente a ravvisare l’esistenza di un rifiuto. A ciò viene aggiunto che dal tenore letterale della disposizione potrebbe derivare un’esclusione dalla nozione comunitaria di rifiuto di tutte quelle sostanze o materiali che siano sottoposti a operazioni diverse da quelle indicate negli elenchi riportati dagli allegati. Se, quindi, da una parte il riferimento per relationem agli allegati alla direttiva può provocare l’inclusione nella nozione di rifiuto di ciò che rifiu- 4 novembre 2005, n. 47269; Cass. penale, sez. III, 27 novembre 2002, n. 2125; Tribunale di Terni, Sez. penale, 20 novembre 2002; Tribunale di Udine, Uff. del G.I.P., Sez. penale, 16 ottobre 2002; Tribunale di Udine, Sez. penale, 14 giugno 2002. Contra Cass. penale, Sez. III, 13 novembre 2002, n. 1421; Cass. penale, Sez. III, 13 dicembre 2002, n. 8755. In particolare la Cass. penale, sez. III, nella sentenza del 25 giugno 2003 n. 37508, ha affermato: “l’elemento di novità apportato dall’art. 14, L. 178/2002, non è costituito dalla restrizione del concetto di rifiuto, ma dalla eliminazione degli elementi di incertezza derivanti da un eccesso di dilatazione della nozione medesima. La norma mira a favorire il riutilizzo, nel senso di escludere il concetto di rifiuto, allorché il soggetto economico interessato abbia deciso di non disfarsi di beni, sostanze e materiali di produzione e di consumo aventi ancora una valenza economica”. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 113 to non è, dall’altra tale riferimento può avere un effetto di segno opposto, consentendo di non qualificare rifiuto sostanze e materiali di cui il detentore si disfi, seguendo modalità diverse da quelle espressamente contemplate. Le conclusioni così formulate non fanno che riproporre quanto già sostenuto nella ormai famosa sentenza Niselli (22) e dimostrano, a giudizio della Corte, la scarsa chiarezza e precisione della disciplina nazionale. Sono proprio tali difetti, poi, a giustificare l’assunzione di una discutibile posizione in merito alla questione dell’abbandono di rifiuti. A parere dell’organo giudicante la possibile interpretazione, non compatibile con il diritto comunitario, a cui è esposto il dettato letterale della disposizione esaminata, può provocare un’incerta applicazione della direttiva, in quanto fattispecie quali l’abbandono dei rifiuti, non espressamente contemplate in termini di operazioni di smaltimento o recupero, verrebbero sottratte alla relativa disciplina. In verità sembra che la Corte arrivi ad una conclusione frettolosa e per giunta erronea, incurante del fatto che l’abbandono dei rifiuti nel nostro ordinamento non solo non è consentito, ma è addirittura passibile di sanzioni penali (art. 55 D.Lgs. 22/97 e art. 255 D.Lgs. 152/2006). Del resto anche laddove non si volesse ravvisare nell’abbandono una modalità indiretta di destinazione di una sostanza o un materiale allo smaltimento o al recupero, come sostenuto dalla difesa italiana (punto 24 della sentenza), è inequivocabile che lo stesso concetto di “abbandono” implichi una “volontà di disfarsi” di cui il legislatore italiano non poteva che prendere atto. In sostanza affermare che l’art. 14, 1° comma, potrebbe impedire l’applicazione della normativa sui rifiuti all’abbandono degli stessi, significa far dire alla disciplina italiana qualcosa che non poteva e voleva dire in quanto soluzione illogica e avvalora il convincimento che, contrariamente a quanto sostenuto in sentenza, non venga introdotta dal legislatore alcuna presunzione iuris et de iure. A quest’ultimo riguardo va sottolineato che sebbene la disposizione esaminata formalmente intendesse proporre un’interpretazione autentica della nozione di rifiuto contemplata dal decreto Ronchi, è da ritenere, in verità, che essa presenti un valore meramente indicativo, al fine di favorire l’applicazione dell’art. 6, lett. a. Una conferma di tale assunto si coglie proprio in quel richiamo agli allegati B e C D.Lgs. 22/97 e indirettamente agli allegati II A e II B della direttiva 75/442/CEE, intorno ai quali ruota tutto il pensiero della Corte. Affermare, come nella richiamata sentenza Niselli, che “dal fatto che su una sostanza venga eseguita un’operazione menzionata negli allegati II A o II B della direttiva 75/442 non discende necessariamente che (22) Sentenza 11 novembre 2004, causa C-457/02, Niselli, punti 36-39. Presupposto dell’iter argomentativo della Corte è la considerazione secondo la quale la definizione di rifiuto non può essere subordinata allo svolgimento di un’attività di smaltimento o di recupero di cui agli allegati II A e II B in quanto tali operazioni possono essere qualificate come smaltimento o recupero solo ove applicate ad un rifiuto. Pertanto se ne deve concludere l’assoluta incapacità di tale subordinazione a definire la nozione di rifiuto. 114 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO l’operazione consista nel disfarsene e che quindi tale sostanza vada considerata rifiuto”, conferma che vi può essere rifiuto al di là di qualunque elencazione che, pertanto, non può considerarsi esaustiva, carattere, quello della non esaustività, conseguentemente appartenente alla normativa nazionale in quanto mera trasposizione degli allegati alla direttiva. Si potrebbe, quindi, ipotizzare che, pur non accogliendosi una lettura sistematica della disposizione in commento, sia comunque necessaria un’interpretazione flessibile, tale da escludere ogni sorta di tassatività (23). Per quanto concerne la presunzione ravvisata nel secondo comma, si ritiene che, laddove la normativa nazionale esclude la decisione o l’obbligo di disfarsi (24) relativamente ai materiali di produzione o di consumo in presenza di determinate condizioni, abbia violato il diritto comunitario, poiché risulta aver introdotto una previsione di esclusione a carattere generale che prescinde dalle circostanze del caso concreto (25). Torna attraverso questa (23) Ad analoghe conclusioni giunge P. GIAMPIETRO, Interpretazione autentica della nozione di rifiuto: controdeduzioni ai rilievi della Commissione CE,in Ambiente, 2003, 2, 106;inoltre una lettura compatibile con il diritto comunitario dell’art. 14,1° comma, lett.a, viene avanzata da A. BORZÌ, La nozione di rifiuto, op. cit., 756 ss., il quale afferma: “In primo luogo, si può agevolmente notare che la menzione degli allegati del decreto Ronchi non compare alla lett. c) del comma 1 nella definizione di “abbia l’obbligo di disfarsi”, è ciò costituisce un primo elemento da cui desumere che, secondo il legislatore italiano, non è su tale rinvio che si incentra la qualificazione di rifiuto. Tale impostazione trova conferma nella lettura delle lett. a) e b) del comma 1 per cui il disfarsi e l’aver intenzione di disfarsi risultano, rispettivamente, dall’effettuazione ovvero dalla volontà di effettuare attività di smaltimento e di recupero “secondo gli allegati B e C”; cioè “sulla base degli allegati”, “secondo le indicazioni degli allegati” e non “di cui agli allegati” che, pertanto, non mutano la loro natura e continuano a contemplare elenchi aperti e non tassativi”. (24) È stato sottolineato da L. PRATI, I residui riutilizzabili nelle decisioni della Corte europea e l’interpretazione autentica dell’art. 14, legge 178/2002, in Riv. giur. amb., 2002, 6, 1000 ss., come letteralmente l’art. 14 opera solo con riferimento alla decisione o all’obbligo di disfarsi, comportando sul piano pratico “che beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo restano nel regime dei rifiuti (salvo non vi escano per altra via) quando siano avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo 22/1997.” (25) Critico con l’atteggiamento mostrato dalla Corte di Giustizia in ordine all’attività interpretativa della nozione di rifiuto è L. PRATI, I residui riutilizzabili nelle decisioni della Corte europea, op. cit., 1000 ss., nel senso di rimproverarle la mancata indicazione di criteri interpretativi uniformi che guidino l’interprete. Al contrario si preferisce una soluzione caso per caso, la quale se non sorretta da “da principi interpretativi condivisi, può però creare situazioni di particolare criticità in quegli ordinamenti dove, come in Italia, la normativa nazionale di recepimento delle direttive europee è assistita da sanzioni penali che impongono, per loro stessa natura, una lettura della norma ancorata ai criteri di tassatività e tipicità propri della fattispecie penale, che escludono quindi una attività di etero-integrazione del precetto ad opera dell’autorità giudiziaria”; esigenze di tassatività in materia penale a fronte della genericità dei criteri proposti dalla sentenza Niselli sono manifestate anche da N FURIN e E. DE NEGRI, Rifiuto e sottoprodotto: un nuovo intervento della Cassazione tra D.Lgs. 22/97 e D.Lgs. 152/2006, in Riv. giur. amb., 2006, 3-4. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 115 censura il problema della configurabilità di un rifiuto in presenza di un residuo di produzione e la Corte ripropone una posizione che ormai sembra costantemente affermata: la disposizione esaminata non garantirebbe il certo riutilizzo del prodotto. Benché la condanna fosse preannunciata (26), preme esaminare la formulazione legislativa nella quale l’attenzione viene catturata dall’espressione “possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati” (27). Quest’ultima ci rileva la reale intenzione del legislatore nazionale, rappresentata dalla volontà di chiarire che a determinate condizioni si potesse escludere la nozione di rifiuto. È chiaro, tuttavia, che tali condizioni, astrattamente contemplate, non potevano che richiedere una verifica concreta, finalizzata ad accertare l’esistenza delle stesse e, pertanto, dei presupposti per l’esclusione. La funzione assolta dal “possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati” è proprio quella di sottolineare la necessità di una certo reimpiego da parte dell’imprenditore al fine di fruire del beneficio della sottrazione dalla normativa sui rifiuti, anche se sicuramente sarebbe stata non solo opportuna ma necessaria una maggiore chiarezza (28). Conclusivamente, avendo cura di svolgere una valutazione complessiva delle sentenze, si possono effettuare due considerazioni. La prima attiene all’insistenza con la quale i giudici di Lussemburgo mettono in evidenza il criterio del certo riutilizzo. Si potrebbe, infatti, manifestare una certa perplessità in ordine alla scelta di rimettere al giudice a quo l’applicazione in concreto del criterio in questione, in quanto lo stesso concetto di “certo riutilizzo” è liberamente interpretabile e, dunque, può ingenerare una divergenza di soluzioni per analoghe situazioni, a detrimento di quei principi comunitari che si vorrebbero tutelati. La seconda consiste sostanzialmente nel costatare una difficoltà di comprensione dell’Europa relativamente ai problemi che avvincono l’Italia e che spingono il legislatore ad adottare soluzioni normative considerate non perfettamente in linea con il diritto e gli orientamenti emersi in sede comunitaria. La consapevolezza del cattivo funzionamento di un sistema di smaltimento dei rifiuti, originato anche dalla forte presenza di organizzazioni criminali che hanno fatto dei rifiuti una delle principali fonti di guadagno, spinge il legislatore a valorizzare la figura e il ruolo del produttore degli stessi come soggetto responsabile, in grado di subire le conseguenze derivanti da un mancato rispetto delle regole, e cercando in questo modo di arginare gli effetti negativi di un cattivo smaltimento. È una via che non convince i giudici della Comunità europea, per i quali l’assoggettamento di materiali alla (26) Sembra a tal proposito eloquente quanto affermato nella sentenza Niselli al punto 50. (27) Si sofferma in particolare sugli avverbi “effettivamente” e “oggettivamente” il Trib. di Macerata, ord. 16 ottobre 2002. (28) Dubbi sull’art. 14, 2° comma, lett.b, vengono mostrati da A. BORZÌ, La nozione di rifiuto, op. cit., 756 ss. 116 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO disciplina dei rifiuti rappresenta solo una garanzia e mai un handicap: basta chiedere ed ottenere la relativa autorizzazione… Dr.ssa Valeria Santocchi(*) Corte di Giustizia delle Comunità europee, sezione terza , sentenza 18 dicembre 2007 nella causa C-194/05 – Avv. Gen. J. Mazák – Rel. A. Ó Caoimh - Ricorso per inadempimento proposto il 2 maggio 2005 - Commissione delle Comunità europee (Avv. G. Bambara) c/ Repubblica italiana (Avv. dello Stato G. Fiengo). «1.- Con il suo ricorso, la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare che la Repubblica italiana, nella misura in cui l’art. l0 della legge 23 marzo 2001, n. 93, recante disposizioni in campo ambientale (G.U.R.I. n. 79 del 4 aprile 2001; in prosieguo: la «legge n. 93/2001»), e l’art. 1, commi 17 e 19, della legge 21 dicembre 2001, n. 443, Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive (Supplemento ordinario alla G.U.R.I. n. 299 del 27 dicembre 2001; in prosieguo: la «legge n. 443/2001»), hanno escluso dall’ambito di applicazione della disciplina nazionale sui rifiuti le terre e le rocce da scavo destinate all’effettivo riutilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, con esclusione di materiali provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabiliti dalle norme vigenti, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, sui rifiuti (G.U. L 194, pag. 39), come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE (G.U. L 78, pag. 32) (in prosieguo: la «direttiva»). CONTESTO NORMATIVO La normativa comunitaria 2.- L’art. 1, lett. a) e c), della direttiva stabilisce che, ai fini di quest’ultima, si deve intendere per: «a) “rifiuto”: qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi. La Commissione, conformemente alla procedura di cui all’articolo 18, preparerà, entro il 1° aprile 1993, un elenco dei rifiuti che rientrano nelle categorie di cui all’allegato I. Questo elenco sarà oggetto di un riesame periodico e, se necessario, sarà riveduto secondo la stessa procedura; (…) c) “detentore”: il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che li detiene». 3.- L’art. 1, lett. e) e f), della direttiva definisce le nozioni di smaltimento e di ricupero dei rifiuti nel senso che si riferiscono a tutte le operazioni previste, rispettivamente, negli allegati II A e II B a quest’ultima. 4.- L’art. 2 della direttiva così dispone: «1. Sono esclusi dal campo di applicazione della presente direttiva: (...) b) qualora già contemplati da altra normativa: (…) (*) Università di Roma - Tor Vergata; ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 117 ii) i rifiuti risultanti dalla prospezione, dall’estrazione, dal trattamento, dall’ammasso di risorse minerali o dallo sfruttamento delle cave; (…) 2. Disposizioni specifiche particolari o complementari a quelle della presente direttiva per disciplinare la gestione di determinate categorie di rifiuti possono essere fissate da direttive particolari». 5.- La Commissione ha adottato la decisione 20 dicembre 1993, 94/3/CE, che istituisce un elenco di rifiuti conformemente all’articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442 (G.U. 1994, L 5, pag. 15). Tale catalogo (in prosieguo: il «catalogo europeo dei rifiuti») è stato rinnovato con decisione della Commissione 3 maggio 2000, 2000/532/CE, che sostituisce la decisione 94/3 e la decisione 94/904/CE del Consiglio che istituisce un elenco di rifiuti pericolosi ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti pericolosi (G.U. L 226, pag. 3). Il catalogo europeo dei rifiuti istituito con la decisione 2000/532 è stato più volte modificato, da ultimo con decisione del Consiglio 23 luglio 2001, 2001/573/CE (G.U. L 203, pag. 18). Il catalogo contiene un capitolo 17, intitolato «Rifiuti delle operazioni di costruzione e demolizione (compreso il terreno proveniente da siti contaminati)», il quale contiene in particolare una sezione 17 05, intitolata «terra (compreso il terreno proveniente da siti contaminati), rocce e fanghi di dragaggio», nell’ambito della quale figurano le rubriche 17 05 03, «terra e rocce, contenenti sostanze pericolose», e 17 05 04, «terra e rocce, diverse da quelle di cui alla voce 17 05 03». La normativa nazionale 6.- L’art. 6, comma 1, lett. a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, recante attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio (Supplemento ordinario alla G.U.R.I. n. 38 del 15 febbraio 1997; in prosieguo: il «decreto legislativo n. 22/97»), recita: «Ai fini del presente decreto si intende per: a) rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi; (…)». 7 .- L’art. 8, comma 1, del decreto esclude dal suo campo di applicazione determinati materiali e sostanze in quanto disciplinati da specifiche disposizioni di legge, in particolare, al punto b), «i rifiuti risultanti dalla prospezione, dall’estrazione, dal trattamento, dall’ammasso di risorse minerali o dallo sfruttamento delle cave». 8.- L’art. 10 della legge n. 93/2001 ha aggiunto all’art. 8, comma 1, del decreto legislativo n. 22/97 un punto f bis), del seguente tenore: «Le terre e le rocce da scavo destinate all’effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, con esclusione di materiali provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabiliti dalle norme vigenti». 9.- L’art. 1, comma 17, della legge n. 443/2001 dispone che l’art. 8, comma 1, lett. f bis), del decreto legislativo n. 22/97 dev’essere interpretato «nel senso che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, non costituiscono rifiuti e sono, perciò, escluse dall’ambito di applicazione del medesimo decreto legislativo, anche quando contaminate durante il ciclo produttivo da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione, sempreché la composizione media dell’intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti». 10.- Inoltre, il comma 19 del medesimo articolo stabilisce che: 118 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO «Per i materiali di cui al comma 17 si intende per effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati anche la destinazione a differenti cicli di produzione industriale, ivi incluso il riempimento delle cave coltivate, nonché la ricollocazione in altro sito, a qualsiasi titolo autorizzata dall’autorità amministrativa competente, a condizione che siano rispettati i limiti di cui al comma 18 e la ricollocazione sia effettuata secondo modalità di rimodellazione ambientale del territorio interessato». 11.- Con l’art. 23 della legge 31 ottobre 2003, n. 306, recante disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee (G.U.R.I. n. 266 del 15 novembre 2003; in prosieguo: la «legge n. 306/2003»), il legislatore italiano ha modificato l’art. 1, commi 17 e 19, della legge n. 443/2001. PROCEDIMENTO PRECONTENZIOSO 12.- La Commissione, ritenendo che il combinato disposto dell’art. 10 della legge n. 93/2001 e dell’art. 1, commi 17 e 19, della legge n. 443/2001 (in prosieguo, congiuntamente: le «disposizioni controverse») violasse la direttiva, ha avviato il procedimento per inadempimento ex art. 226 CE. 13.- Poiché le autorità italiane non avevano risposto alla lettera di diffida del 27 giugno 2002, il 19 dicembre 2002 la Commissione emetteva un parere motivato, invitando la Repubblica italiana a prendere i provvedimenti necessari per conformarsi alla direttiva entro un termine di due mesi dal ricevimento del suddetto parere, che è avvenuto il giorno stesso. 14.- Nella loro risposta del 5 marzo 2003 al parere motivato, le autorità italiane inviavano alla Commissione un progetto di modifica della normativa nazionale in materia di terre da scavo. 15.- La Commissione faceva presente, nel corso di una riunione congiunta tenutasi il 25 giugno 2003, che tale progetto di legge continuava a prevedere un’interpretazione restrittiva del concetto di rifiuto ed era quindi contrario alla direttiva. 16.- Con lettera del 3 febbraio 2004, le autorità italiane presentavano alla Commissione copia del testo della legge n. 306/2003, integrante le modifiche annunciate con la menzionata lettera del 5 marzo 2003. 17.- La Commissione, ritenendo persistesse una situazione insoddisfacente, ha deciso di proporre il presente ricorso. SUL RICORSO Sulla ricevibilità 18.- Nel suo controricorso, la Repubblica italiana sostiene innanzi tutto che il presente ricorso è irricevibile, in quanto la Commissione non avrebbe preso in considerazione le modifiche introdotte con la legge n. 306/2003, adottata il 31 ottobre 2003 ed entrata in vigore il 30 novembre 2003, ossia prima che venisse proposto il presente ricorso per inadempimento. 19.- Aquesto proposito va ricordato che, da un lato, la Corte ha più volte dichiarato che l’esistenza di un inadempimento deve essere valutata in relazione alla situazione dello Stato membro quale si presentava alla scadenza del termine stabilito nel parere motivato e che la Corte non può tenere conto dei mutamenti successivi (v., in particolare, sentenze 14 settembre 2004, causa C-168/03, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-8227, punto 24, e 27 ottobre 2005, causa C-23/05, Commissione/Lussemburgo, Racc. pag. I-9535, punto 9). 20.- Dall’altro lato, l’oggetto di un ricorso per inadempimento proposto ai sensi dell’art. 226 CE è definito dal procedimento precontenzioso previsto in tale disposizione e, pertanto, il ricorso non può essere fondato su addebiti diversi da quelli formulati nel corso IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 119 del procedimento precontenzioso (v., in tal senso, sentenze 10 maggio 2001, causa C- 152/98, Commissione/Paesi Bassi, Racc. pag. I-3463, punto 23, e 22 settembre 2005, causa C-221/03, Commissione/Belgio, Racc. pag. I-8307, punto 38). 21.- Orbene, nel caso di specie le modifiche disposte con la legge n. 306/2003 sono state introdotte solo dopo la scadenza del termine fissato nel parere motivato. 22.- Se è vero che la Commissione reputa che tali modifiche non abbiano comportato l’adeguamento della normativa italiana alla direttiva, essa ha tuttavia sottolineato, nella sua replica e altresì in sede di udienza, che essa non intende impugnare tale legge nel contesto del presente ricorso. 23.- Pertanto, dal momento che l’oggetto del ricorso ex art. 226 CE non è fondato su censure diverse da quelle indicate nel corso del procedimento precontenzioso, l’eccezione di irricevibilità sollevata dalla Repubblica italiana dev’essere respinta. Nel merito Argomenti delle parti 24.- La Commissione sostiene che le disposizioni controverse escludono, a priori ed in via generale, le terre e rocce da scavo destinate a determinate operazioni di riutilizzo dall’ambito di applicazione della normativa nazionale sui rifiuti, con il conseguente effetto dell’inapplicabilità a tali materiali delle disposizioni della direttiva relative alla gestione dei rifiuti. 25.- Orbene, la Commissione ritiene che le terre e rocce da scavo, figuranti nel catalogo europeo dei rifiuti, siano materiali di cui il detentore vuole disfarsi e che rientrino nella definizione di rifiuto di cui all’art. 1, lett a), della direttiva. Le disposizioni controverse non limiterebbero l’esclusione dell’applicazione delle disposizioni dell’ordinamento nazionale derivanti dalla direttiva ai casi espressamente specificati dalla Corte ma, al contrario, prevedrebbero un’esclusione più generale. 26.- Secondo la Repubblica italiana, la nozione comunitaria di rifiuto è connotata da ragionevoli eccezioni nel caso di sottoprodotti di cui l’impresa non intenda «disfarsi» in quanto rifiuti. Infatti, da un’attenta lettura della giurisprudenza della Corte in materia emergerebbe che i presupposti indispensabili per la qualificazione di determinati residui in termini di sottoprodotto, piuttosto che di rifiuto, consistono non già nel reimpiego di questi materiali nel medesimo processo produttivo da cui sono derivati, bensì nella certezza del loro riutilizzo in assenza di trasformazioni preliminari. A questo proposito, la Commissione si fonderebbe su un’interpretazione erronea della sentenza 11 novembre 2004, causa C- 457/02, Niselli (Racc. pag. I-10853, punto 52), la quale si limiterebbe a negare la legittimità di esclusioni generali dalla categoria dei rifiuti allorché non sussiste una concreta verifica dell’effettivo riutilizzo dei materiali di cui si tratta. 27.- Tale Stato membro reputa che debbano qualificarsi come sottoprodotti i residui impiegati con certezza e senza trasformazioni preliminari in un processo produttivo diverso da quello da cui gli stessi sono derivati, ma comunque contemporaneo ad esso o almeno idoneo ad assicurarne un tempestivo riutilizzo, cioè prima che dal deposito dei residui possano derivare danni. 28.- La Repubblica italiana sottolinea il nesso esistente tra le disposizioni controverse e la realizzazione di un vasto progetto di opere pubbliche relativo alle vie di comunicazione nazionali, per le quali l’impiego di terre e rocce da scavo è indispensabile, costituendo forse la parte più importante di tale progetto, cosa che ne garantirebbe l’effettivo riutilizzo. Una siffatta garanzia discenderebbe parimenti dall’obbligo gravante sulle persone incaricate della realizzazione dei diversi elementi del progetto, di condurli a termine in tutti i loro aspetti. 120 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 29.- La Repubblica italiana sottolinea il rapporto esistente tra le disposizioni controverse e la realizzazione di un vasto progetto di lavori pubblici relativi alle vie di comunicazione del paese, per i quali l’utilizzo di terre e di rocce da scavo è indispensabile, la qual cosa ne garantirebbe l’effettivo riutilizzo. In tale contesto, lungi dal prevedere un’esclusione generalizzata, le disposizioni controverse circoscriverebbero, tramite il progetto stesso ed il controllo sull’esecuzione dei lavori di cui trattasi, le ipotesi nelle quali alle terre e alle rocce da scavo non è applicabile la normativa sui rifiuti, in quanto materiali riutilizzabili secondo un disegno organico, che valuta preventivamente e specificamente gli effetti sull’ambiente e sulla salute. Giudizio della Corte 30.- Con la sua argomentazione, la Commissione rileva sostanzialmente che le disposizioni controverse sono contrarie alla direttiva e, in particolare, al suo art. 1, lett. a), in quanto violano la nozione di «rifiuto» applicabile in forza della direttiva, escludendo infatti dall’ambito di applicazione della normativa nazionale recante attuazione delle disposizioni di quest’ultima relative alla gestione dei rifiuti le terre e le rocce da scavo destinate a determinate operazioni di riutilizzo. 31.- Ai sensi dell’art. 1, lett. a), comma 1, si intende per «rifiuto» «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I [alla direttiva] e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi». 32.- L’allegato I precisa e chiarisce tale definizione proponendo un elenco di sostanze e di oggetti qualificabili come rifiuti. Tale elenco, tuttavia, ha soltanto un valore indicativo, posto che la qualifica di rifiuto deriva anzitutto dal comportamento del detentore e dal significato del termine «disfarsi» (v., in tal senso, sentenze 18 dicembre 1997, causa C-129/96, Inter-Environnement Wallonie, Racc. pag. I-7411, punto 26; 7 settembre 2004, causa C- 1/03, Van de Walle e a., Racc. pag. I-7613, punto 42, nonché 10 maggio 2007, causa C- 252/05, Thames Water Utilities, Racc. pag. I-3883, punto 24). 33.- Il termine «disfarsi» deve essere interpretato non solo alla luce della finalità essenziale della direttiva la quale, stando al suo terzo ‘considerando’, è la «protezione della salute umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti», bensì anche dell’art. 174, n. 2, CE. Quest’ultimo dispone che «[l]a politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva (…)». Ne consegue che il termine «disfarsi», e pertanto la nozione di «rifiuto» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva, non possono essere interpretati in senso restrittivo (v., in tal senso, in particolare, sentenze 15 giugno 2000, cause riunite C-418/97 e C-419/97, ARCO Chemie Nederland e a., Racc. pag. I-4475, punti 36-40, nonché Thames Water Utilities, cit., punto 27). 34.- Alcune circostanze possono costituire indizi del fatto che il detentore della sostanza od oggetto «se ne disfi» ovvero abbia deciso o abbia l’obbligo di «disfarsene» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva (sentenza ARCO Chemie Nederland e a., cit., punto 83). Ciò si verifica in particolare se una sostanza è un residuo di produzione o di consumo, cioè un prodotto che non è stato ricercato in quanto tale (v., in tal senso, citate sentenze ARCO Chemie Nederland e a., punto 84, nonché Niselli, punto 43). 35.- Infatti, la Corte ha precisato che i detriti provenienti dall’attività estrattiva di una cava di granito, che non si configurano come produzione principale ricercata mediante tale sfruttamento, rientrano, in via di principio, nella categoria dei rifiuti (v., in tal senso, sentenIL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 121 za 18 aprile 2002, causa C-9/00, Palin Granit e Vehmassalon kansanterveystyön kuntayhtymän hallitus, Racc. pag. I-3533; in prosieguo: la sentenza «Palin Granit», punti 32 e 33). 36.- Del resto, il metodo di trasformazione o le modalità di utilizzo di una sostanza non sono determinanti per stabilire se si tratti o no di un rifiuto (v. sentenze ARCO Chemie Nederland e a., cit., punto 64, e 1° marzo 2007, causa C-176/05, KVZ retec, Racc. pag. I1721, punto 52). 37.- La Corte ha infatti precisato, da un lato, che l’esecuzione di una delle operazioni di smaltimento o di recupero di cui agli allegati II A o II B alla direttiva non consente di per sé di qualificare come rifiuto una sostanza o un oggetto trattato in tale operazione (v. in tal senso, in particolare, sentenza Niselli, cit., punti 36 e 37) e, dall’altro, che la nozione di rifiuti non esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica (v., in tal senso, in particolare, sentenza 25 giugno 1997, cause riunite C-304/94, C-330/94, C-342/94 e C-224/95, Tombesi e a., Racc. pag. I-3561, punti 47 e 48). Il sistema di sorveglianza e di gestione istituito dalla direttiva intende, infatti, riferirsi a tutti gli oggetti e le sostanze di cui il proprietario si disfa, anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale a fini di riciclo, di recupero o di riutilizzo (v., in particolare, sentenza Palin Granit, cit., punto 29). 38.- Tuttavia, emerge altresì dalla giurisprudenza della Corte che, in determinate situazioni, un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di estrazione o di fabbricazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale il detentore non cerca di «disfarsi» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva, ma che intende sfruttare o commercializzare – altresì eventualmente per il fabbisogno di operatori economici diversi da quello che l’ha prodotto – a condizioni ad esso favorevoli, in un processo successivo, a condizione che tale riutilizzo sia certo, non richieda una trasformazione preliminare e intervenga nel corso del processo di produzione o di utilizzazione (v., in tal senso, sentenze Palin Granit, cit., punti 34-36; 11 settembre 2003, causa C- 114/01, AvestaPolarit Chrome, Racc. pag. I-8725, punti 33-38; Niselli, cit., punto 47, nonché 8 settembre 2005, causa C-416/02, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-7487, punti 87 e 90, e causa C-121/03, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-7569, punti 58 e 61). 39.- Pertanto, oltre al criterio relativo alla natura o meno di residuo di produzione di una sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare, costituisce un criterio utile ai fini di valutare se tale sostanza sia o meno un rifiuto ai sensi della direttiva. Se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza di cui trattasi, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un’ipotesi del genere la sostanza in questione non può più essere considerata un onere di cui il detentore cerchi di «disfarsi», bensì un autentico prodotto (v. sentenze citate Palin Granit, punto 37, e Niselli, punto 46). 40.- Tuttavia, se per tale riutilizzo occorrono operazioni di deposito che possono avere una certa durata, e quindi rappresentare un onere per il detentore nonché essere potenzialmente fonte di quei danni per l’ambiente che la direttiva mira specificamente a limitare, esso non può essere definito certo ed è prevedibile solo a più o meno lungo termine, cosicché la sostanza di cui trattasi deve essere considerata, in linea di principio, come rifiuto (v., in tal senso, sentenze citate Palin Granit, punto 38, e AvestaPolarit Chrome, punto 39). 41.- L’effettiva esistenza di un rifiuto ai sensi della direttiva va pertanto accertata alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della finalità della direttiva e in modo da non pregiudicarne l’efficacia (v. citate sentenze ARCO Chemie Nederland e a., punto 88, e KVZ retec, punto 63, nonché ordinanza 15 gennaio 2004, causa C-235/02, Saetti e Frediani, Racc. pag. I-1005, punto 40). 122 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 42.- Nel caso di specie è assodato che le disposizioni controverse escludono dall’ambito di applicazione della normativa nazionale di recepimento della direttiva le terre e rocce da scavo, sempreché tali materiali non siano contaminati ai sensi delle medesime disposizioni e siano destinati ad effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, compresi «il riempimento delle cave coltivate, nonché la ricollocazione in altro sito, a qualsiasi titolo autorizzata». 43.- A questo proposito si deve ricordare anzitutto che, come emerge dai punti 5 e 31 della presente sentenza, le «terre e rocce» di cui al catalogo europeo dei rifiuti vanno qualificate come «rifiuti» ai sensi della direttiva se il detentore se ne disfa ovvero ha l’intenzione o l’obbligo di disfarsene. 44.- Atteso che la direttiva non suggerisce alcun criterio determinante per individuare la volontà del detentore di disfarsi di una determinata sostanza o di un determinato materiale, in mancanza di disposizioni comunitarie gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalità di prova dei diversi elementi definiti nelle direttive da essi recepite, purché ciò non pregiudichi l’efficacia del diritto comunitario (v. citate sentenze ARCO Chemie Nederland e a., punto 41, nonché Niselli, punto 34). Infatti, gli Stati membri possono, ad esempio, definire varie categorie di rifiuti, in particolare per facilitare l’organizzazione e il controllo della loro gestione, purché gli obblighi risultanti dalla direttiva o da altre disposizioni di diritto comunitario relative ai rifiuti in parola siano rispettati e l’eventuale esclusione di determinate categorie dall’ambito di applicazione delle misure adottate per recepire gli obblighi derivanti dalla direttiva si verifichi in conformità all’art. 2, n. 1, di quest’ultima (v., in tal senso, sentenza 16 dicembre 2004, causa C-62/03, Commissione/Regno Unito, non pubblicata nella Raccolta, punto 12). 45.- La Repubblica italiana sostiene essenzialmente che i materiali previsti dalle disposizioni controverse possono essere considerati, stando alla giurisprudenza della Corte, non già come residui provenienti da attività estrattive ma come sottoprodotti di cui il detentore, dato il suo intendimento che siano riutilizzati, non cerca di «disfarsi», ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva, sicché le disposizioni in parola non limitano gli obblighi in materia di gestione dei rifiuti derivanti dalla direttiva. 46.- Tuttavia, tenuto conto dell’obbligo, rammentato al punto 33 della presente sentenza, di interpretare in modo ampio la nozione di rifiuto e dei criteri della giurisprudenza indicata ai punti 34-40 della presente sentenza, la possibilità di ricorrere a un’argomentazione come quella formulata dal governo italiano, relativa ai sottoprodotti di cui il detentore non intende disfarsi, deve essere limitata alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima, altresì per il fabbisogno di operatori economici diversi da quello che l’ha prodotto, non è semplicemente eventuale bensì certo, non richiede una trasformazione preliminare e interviene nel corso del processo di produzione o di utilizzazione. 47.- Nel caso di specie, le disposizioni controverse, segnatamente l’art. 1, comma 19, della legge n. 443/2001, prevedono espressamente una grande varietà di situazioni, ivi compreso il caso di ricollocazione in altro sito delle terre e rocce da scavo. 48.- Inoltre non si può escludere, contrariamente a quanto suggerito, in sostanza, dalla Repubblica italiana, che l’«effettivo riutilizzo» previsto dalle disposizioni controverse avvenga solo dopo un periodo di tempo considerevole, se non addirittura indeterminato, rendendo quindi necessario il deposito a tempo indeterminato dei materiali in questione. Orbene, come risulta dal punto 40 della presente sentenza, operazioni del genere sono atte a configurare un onere per il detentore e sono potenzialmente fonte di quei danni per l’ambiente che la direttiva mira specificamente a limitare. 49.- Come emerge poi in particolare dai punti 36 e 37 della presente sentenza, la modalità di utilizzo di una sostanza non è determinante per qualificare o meno quest’ultima IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 123 come rifiuto. Di conseguenza, non si può desumere solo dalla circostanza per cui i materiali in questione saranno riutilizzati che essi non costituiscono «rifiuti» ai sensi della direttiva. 50.- Infatti, la destinazione futura di un oggetto o di una sostanza non è di per sé decisiva per quanto riguarda la sua eventuale natura di rifiuto definita, conformemente all’art. 1, lett. a), della direttiva, con riferimento al fatto che il detentore dell’oggetto o della sostanza in questione se ne disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsene (v., in tal senso, citate sentenze ARCO Chemie Nederland e a., punto 64, nonché KVZ retec, punto 52). 51.- Appare quindi evidente che le disposizioni controverse fanno sorgere in realtà la presunzione che, nelle situazioni da esse previste, le terre e rocce da scavo costituiscono sottoprodotti che presentano per il loro detentore, data la sua volontà di riutilizzarli, un vantaggio o un valore economico anziché un onere di cui egli cercherebbe di disfarsi. 52.- Orbene, anche se tale ipotesi in determinati casi può corrispondere alla realtà, non può esistere alcuna presunzione generale in base alla quale un detentore di terre e rocce da scavo tragga dal loro riutilizzo un vantaggio maggiore rispetto a quello derivante dal mero fatto di potersene disfare. 53.- Pertanto, anche supponendo che possa essere garantito che i materiali previsti dalle disposizioni controverse siano effettivamente riutilizzati per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati – e tuttavia la Repubblica italiana non ha accennato ad alcuna norma specifica a tal fine –, è giocoforza constatare che tali disposizioni finiscono per sottrarre alla qualifica di rifiuto, ai sensi dell’ordinamento italiano, taluni residui che invece corrispondono alla definizione sancita dall’art. 1, lett. a), della direttiva. 54.- Quest’ultima disposizione fornisce non solo la definizione della nozione di «rifiuto » ai sensi della direttiva, ma determina altresì, congiuntamente al suo art. 2, n. 1, il campo di applicazione della direttiva. Infatti, l’art. 2, n. 1, indica quali tipi di rifiuti sono o possono essere esclusi dall’ambito di applicazione della direttiva e a quali condizioni, mentre, in linea di principio, vi rientrano tutti i rifiuti corrispondenti alla definizione in parola. Orbene, ogni norma nazionale che limita in modo generale la portata degli obblighi derivanti dalla direttiva oltre quanto consentito dall’art. 2, n. 1, di quest’ultima travisa necessariamente l’ambito di applicazione della direttiva (v., in tal senso, sentenza Commissione/Regno Unito, cit., punto 11), pregiudicando in questo modo l’efficacia dell’art. 174 CE (v., in tal senso, ARCO Chemie Nederland e a., cit., punto 42). 55.- Nel presente caso, anche supponendo che, come ha osservato la Repubblica italiana in sede di udienza, le operazioni previste dalle disposizioni controverse siano altresì disciplinate dalla normativa nazionale relativa alla realizzazione dei lavori pubblici, come la costruzione di rilevati e di tunnel, basta osservare a tale proposito che questo tipo di lavori e i materiali in essi impiegati non rientrano, in via di principio, nell’eccezione all’ambito di applicazione della direttiva prevista dall’art. 2, n. 1, di quest’ultima. 56.- Infine, quanto all’argomento di tale Stato membro secondo il quale l’applicazione del regime dei rifiuti significherebbe che le imprese che garantiscono lo smaltimento dei rifiuti o quelle autorizzate a trasportarli o a raccoglierli dovrebbero partecipare alle attività in questione, il che potrebbe incrementarne notevolmente i costi, la Commissione ha sottolineato a buon diritto che l’origine di tale situazione è da ricercare nella normativa italiana e non nella direttiva. Nel rispetto degli obblighi relativi alla registrazione e, se del caso, alle autorizzazioni, il detentore dei rifiuti può semplicemente provvedere in proprio al recupero o allo smaltimento, in conformità alle disposizioni della direttiva. Aquesto proposito si deve aggiungere che la direttiva si applica non solo allo smaltimento e al ricupero dei rifiuti da parte delle imprese specializzate nel settore, ma del pari allo smaltimento e al ricupero di 124 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO rifiuti ad opera dell’impresa che li ha prodotti, nei luoghi di produzione (sentenza Inter- Environnement Wallonie, cit., punto 29). 57.- Pertanto, il ricorso della Commissione dev’essere accolto. 58.- Si deve dunque dichiarare che la Repubblica italiana, nella misura in cui le disposizioni controverse hanno escluso dall’ambito di applicazione della disciplina nazionale sui rifiuti le terre e le rocce da scavo destinate all’effettivo riutilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, con esclusione di quelli provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabiliti dalle norme vigenti, è venuta meno, in relazione ai summenzionati materiali, agli obblighi che le incombono in forza della direttiva. SULLE SPESE 59.- Ai sensi dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ne ha fatto domanda, la Repubblica italiana, rimasta soccombente, deve essere condannata alle spese. Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara e statuisce: 1) Nella misura in cui l’art. 10 della legge 23 marzo 2001, n. 93, recante disposizioni in campo ambientale, e l’art. 1, commi 17 e 19, della legge 21 dicembre 2001, n. 443, Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive, hanno escluso dall’ambito di applicazione della disciplina nazionale sui rifiuti le terre e le rocce da scavo destinate all’effettivo riutilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, con esclusione di quelli provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabiliti dalle norme vigenti, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, sui rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CE. 2) La Repubblica italiana è condannata alle spese». Corte di Giustizia delle Comunità europee, sezione terza, sentenza 18 dicembre 2007 nella causa C-195/05 – Avv. gen. J. Mazák - Rel. A. Ó Caoimh - Ricorso per inadempimento proposto il 2 maggio 2005 - Commissione delle Comunità europee (Avv. G. Bambara) c/ Repubblica italiana (Avv. dello Stato G. Fiengo). « (...) 1.- Con il presente ricorso, la Commissione delle Comunità europee chiede che la Corte voglia dichiarare che la Repubblica italiana, – avendo adottato indirizzi operativi validi su tutto il territorio nazionale, esplicitati in particolare per mezzo della circolare del Ministro dell’Ambiente 28 giugno 1999, recante chiarimenti interpretativi in materia di definizione di rifiuto (in prosieguo: la «circolare del giugno 1999»), e con comunicato del Ministero della Salute 22 luglio 2002, contenente linee guida relative alla disciplina igienico-sanitaria in materia di utilizzazione dei materiali e sottoprodotti derivanti dal ciclo produttivo e commerciale delle industrie agroalimentari nell’alimentazione animale (G.U.R.I. n. 180 del 2 agosto 2002, e rettifica, G.U.R.I. n. 245 del 18 ottobre 2002; in prosieguo: il «comunicato del 2002»), tali da escludere dall’ambito di applicazione della disciplina sui rifiuti gli scarti alimentari originati dall’industria agroalimentare destinati alla produzione di mangimi; e – avendo, per mezzo dell’art. 23 della legge 31 luglio 2002, n. 179, recante disposizioni in materia ambientale (G.U.R.I. n. 189 del 13 agosto 2002; in prosieguo: la «legge n. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 125 179/2002»), escluso dall’ambito di applicazione della normativa sui rifiuti i residui derivanti dalle preparazioni nelle cucine di qualsiasi tipo di cibi solidi, cotti e crudi, non entrati nel circuito distributivo di somministrazione, destinati alle strutture di ricovero per animali di affezione, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 1, lett. a), della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, sui rifiuti (G.U. L 194, pag. 39), come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE (G.U. L 78, pag. 32) (in prosieguo: la «direttiva»). CONTESTO NORMATIVO La normativa comunitaria 2.- Ai sensi dell’art. 1, lett. a) e c), della direttiva, si intende per: «a) “rifiuto”: qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi. La Commissione, conformemente alla procedura di cui all’articolo 18, preparerà, entro il 1° aprile 1993, un elenco dei rifiuti che rientrano nelle categorie di cui all’allegato I. Questo elenco sarà oggetto di un riesame periodico e, se necessario, sarà riveduto secondo la stessa procedura; (…) c) “detentore”: il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che li detiene». 3.- L’art. 1, lett. e) e f), della direttiva definisce le nozioni di smaltimento e di ricupero dei rifiuti come tutte le operazioni previste, rispettivamente, negli allegati II A e II B a quest’ultima. 4.- L’art. 2, n. 1, lett. b), della direttiva elenca i rifiuti che sono esclusi dall’ambito di applicazione di quest’ultima «qualora già contemplati da altra normativa». 5.- L’allegato I alla direttiva, intitolato «Categorie di rifiuti», ricomprende segnatamente le categorie Q 14, «Prodotti di cui il detentore non si serve più (ad esempio articoli messi fra gli scarti dall’agricoltura, dalle famiglie, dagli uffici, dai negozi, dalle officine, ecc.)», e Q 16, «Qualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle categorie sopra elencate». 6.- La Commissione ha adottato la decisione 20 dicembre 1993, 94/3/CE, che istituisce un elenco di rifiuti conformemente all’articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442 (G.U. 1994, L 5, pag. 15). Tale catalogo è stato rinnovato con decisione della Commissione 3 maggio 2000, 2000/532/CE, che sostituisce la decisione 94/3 e la decisione 94/904/CE del Consiglio che istituisce un elenco di rifiuti pericolosi ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti pericolosi (G.U. L 226, pag. 3). Il catalogo dei rifiuti istituito con la decisione 2000/532 è stato più volte modificato, da ultimo con decisione del Consiglio 23 luglio 2001, 2001/573/CE (G.U. L 203, pag. 18). Il catalogo in parola classifica i rifiuti in funzione della loro fonte. Il capitolo 2 è intitolato «Rifiuti prodotti da agricoltura, orticoltura, acquacoltura, silvicoltura, caccia e pesca, trattamento e preparazione di alimenti». La normativa nazionale 7.- L’art. 6, comma 1, lett. a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, recante attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio (Supplemento ordinario alla G.U.R.I. n. 38 del 15 febbraio 1997; in prosieguo: il «decreto legislativo n. 22/97») recita: «Ai fini del presente decreto si intende per: a) rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi; (…)». 126 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 8.- L’art. 8, comma 1, del citato decreto esclude dal campo di applicazione del medesimo determinati sostanze e materiali in quanto disciplinati da specifiche disposizioni di legge, segnatamente, al punto c), «le carogne ed i seguenti rifiuti agricoli: materie fecali ed altre sostanze naturali non pericolose utilizzate nell’attività agricola». 9.- L’art. 23, comma 1, lett. b), della legge n. 179/2002 ha inserito un nuovo punto c bis) all’art. 8, comma 1, del decreto legislativo n. 22/97, ai sensi del quale sono esclusi dall’ambito di applicazione di tale decreto «i residui e le eccedenze derivanti dalle preparazioni nelle cucine di qualsiasi tipo di cibi solidi, cotti e crudi, non entrati nel circuito distributivo di somministrazione, destinati alle strutture di ricovero di animali di affezione di cui alla legge 14 agosto 1991, n. 281, e successive modificazioni, nel rispetto della vigente normativa ». 10.- La circolare del giugno 1999 ha dato una definizione più precisa del termine «rifiuto » ai sensi dell’art. 6 del decreto legislativo n. 22/97 e, al suo ultimo capoverso, lett. b), indica quanto segue: «I materiali, le sostanze e gli oggetti originati dai cicli produttivi o di preconsumo, dei quali il detentore non si disfi, non abbia l’obbligo o l’intenzione di disfarsi e che quindi non conferisca a sistemi di raccolta o trasporto dei rifiuti, di gestione di rifiuti ai fini del recupero o dello smaltimento, purché abbiano le caratteristiche delle materie prime secondarie indicate dal D.M. 5.2.1998[, relativo all’individuazione dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di recupero ai sensi degli articoli 31 e 33 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22; supplemento ordinario alla G.U.R.I. n. 88 del 16 aprile 1998] e siano direttamente destinat[i] in modo oggettivo ed effettivo all’impiego in un ciclo produttivo, sono sottoposti al regime delle materie prime e non a quello dei rifiuti». 11.- Il comunicato del 2002 è così formulato: «(...) I materiali ed i sottoprodotti derivanti dalle lavorazioni dell’industria agroalimentare sono “materie prime per mangimi” ove, in presenza dei requisiti igienico-sanitari, esista la volontà del produttore di volerli utilizzare nel ciclo alimentare zootecnico. In tal caso i suddetti materiali non sono assoggettati alla normativa sui rifiuti, bensì alle disposizioni relative alla produzione e commercializzazione degli alimenti per animali e, nel caso di prodotti di origine animale o contenenti costituenti di origine animale, anche alle norme sanitarie vigenti in materia (...) In assenza delle suddette garanzie sull’effettiva destinazione all’alimentazione animale, i materiali ed i sottoprodotti derivanti dal ciclo produttivo e commerciale dell’industria agroalimentare dovranno essere sottoposti al regime giuridico dei rifiuti. (...)». PROCEDIMENTO PRECONTENZIOSO 12.- Con lettere in data 11 e 19 giugno, 28 agosto e 6 novembre 2001 nonché 10 aprile 2002, le autorità italiane hanno risposto a una lettera di diffida del 22 ottobre 1999 e a un primo parere motivato dell’11 aprile 2001 con i quali la Commissione aveva rilevato che la Repubblica italiana, avendo adottato indirizzi operativi vincolanti per l’attuazione della normativa italiana sui rifiuti i quali escludevano dall’ambito di applicazione di quest’ultima determinati residui ed eccedenze alimentari – provenienti dalle industrie agroalimentari, da mense o ristoranti, destinati ad essere utilizzati per l’alimentazione degli animali –, violava la direttiva. 13.- Alla luce delle informazioni comunicate dalle autorità italiane, la Commissione concludeva che l’adeguamento della legislazione italiana agli obblighi previsti da tale parere motivato necessitava di modifiche di carattere sostanziale. Per questo motivo, il 19 IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 127 dicembre 2002 la Commissione ha inviato una lettera di diffida, in merito alla quale le autorità italiane hanno preso posizione con lettera del 13 febbraio 2003. 14.- La Commissione ha successivamente emesso, l’11 luglio 2003, un ulteriore parere motivato, invitando la Repubblica italiana a conformarvisi entro un termine di due mesi dalla ricezione di tale parere. 15.- Dal momento che le autorità italiane, con lettera 4 novembre 2003, hanno insistito nel contestare la fondatezza della tesi della Commissione, quest’ultima ha deciso di proporre il presente ricorso. SUL RICORSO Argomenti delle parti 16.- Con il suo ricorso, la Commissione rileva che, sostanzialmente, la normativa nazionale controversa va al di là delle indicazioni risultanti dalla giurisprudenza della Corte per quanto riguarda le ipotesi in cui non occorre considerare come rifiuto un materiale risultante da un processo di fabbricazione, che non è destinato in via principale alla sua produzione. Sugli scarti alimentari provenienti dall’industria agroalimentare e destinati alla produzione di mangimi 17.- La Commissione osserva che gli indirizzi operativi formulati nella circolare del giugno 1999 e nel comunicato del 2002 equivalgono a escludere dal regime nazionale di gestione dei rifiuti gli scarti alimentari utilizzati per la produzione di mangimi in forza dell’osservanza di specifiche norme igienico-sanitarie. Stando a tali indirizzi, sarebbe sufficiente che un residuo dell’industria agroalimentare sia destinato alla produzione di mangimi per volontà manifesta del detentore affinché tale residuo sia sempre e comunque escluso dal regime dei rifiuti. 18.- Orbene, secondo la Commissione, il fatto che un residuo di produzione possa essere riutilizzato senza necessità di trattamento preventivo non può essere considerato decisivo al fine di escludere che il detentore di tale residuo se ne disfi o abbia l’intenzione oppure l’obbligo di disfarsene ai sensi della direttiva. 19.- La Commissione rileva che la Corte ha indubbiamente riconosciuto, per quanto riguarda i sottoprodotti, che, se il detentore ne ricava un vantaggio economico, si può concludere che quest’ultimo non «si disfa» del sottoprodotto, ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva. Tuttavia, dal momento che la nozione di rifiuto deve essere interpretata estensivamente, l’esclusione dell’ambito di applicazione della direttiva può essere ammessa solo se ricorrono alcune condizioni, che consentono di considerare che il riutilizzo non è semplicemente eventuale, ma certo, non richiede una trasformazione preliminare e interviene nel corso del processo di produzione. 20- Secondo la Commissione, sarebbe inoltre necessario valutare il grado di probabilità di riutilizzo di un materiale e, soprattutto, verificare che quest’ultimo sia riutilizzato nello stesso processo di produzione dal quale deriva. Orbene, contrariamente alla tesi propugnata dalla Repubblica italiana, non si può parlare di unico processo di produzione quando gli scarti alimentari sono effettivamente destinati all’utilizzo come mangimi. Il semplice fatto che tali scarti alimentari siano trasferiti dagli operatori che li producono a chi li utilizzerà comporta infatti una serie di operazioni (magazzinaggio, trasformazione e trasporto) che la direttiva mira proprio a controllare. 21.- La Repubblica italiana rileva che i materiali ed i sottoprodotti derivanti dai processi di produzione dell’industria agroalimentare sono «materie prime per mangimi», ai sensi del comunicato del 2002, ove esista la volontà del produttore di utilizzarli nel ciclo alimentare zootecnico, purché determinate condizioni igieniche e sanitarie siano rispettate. Tale volontà, associata al riutilizzo certo dei sottoprodotti stessi, costituirebbe una prova sufficiente del fatto che manca la volontà del detentore di «disfarsi» del materiale in questione, ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva. 22.- Per tale Stato membro, l’eccezione prevista dagli indirizzi operativi non costituisce affatto un’esclusione a priori dal regime nazionale dei rifiuti degli scarti alimentari provenienti dall’industria agroalimentare, poiché la detta esclusione è in realtà condizionata non solo dalla volontà manifesta del detentore di tali scarti di utilizzarli nel ciclo di produzione di mangimi, ma anche dal riutilizzo certo degli scarti. 23.- In tal caso, gli scarti di cui trattasi non sarebbero assoggettati alla normativa sui rifiuti, bensì alle disposizioni relative alla produzione e alla commercializzazione dei mangimi, in particolare al regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 28 gennaio 2002, n. 178, che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare (G.U. L 31, pag. 1), nonché, quando si tratti di sottoprodotti di origine animale, al regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 3 ottobre 2002, n. 1774, recante norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano (G.U. L 273, pag. 1). 24.- Sarebbero altresì applicabili le disposizioni «HACCP» [(«hazard analysis and critical control points» analisi dei rischi e punti critici di controllo)] previste: – dai regolamenti (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 29 aprile 2004, n. 852, sull’igiene dei prodotti alimentari (G.U. L 139, pag. 1), n. 853, che stabilisce norme specifiche in materia di igiene per gli alimenti di origine animale (G.U. L 139, pag. 55), e n. 854, che stabilisce norme specifiche per l’organizzazione di controlli ufficiali sui prodotti di origine animale destinati al consumo umano (G.U. L 139, pag. 206); – dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 12 gennaio 2005, n. 183, che stabilisce requisiti per l’igiene dei mangimi (G.U. L 35, pag. 1), nonché – dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 29 aprile 2004, n. 882, relativo ai controlli ufficiali intesi a verificare la conformità alla normativa in materia di mangimi e di alimenti e alle norme sulla salute e sul benessere degli animali (G.U. L 165, pag. 1). 25.- Il governo italiano rileva che tali regolamenti in materia di alimenti nonché le disposizioni dell’ordinamento nazionale ad essi relative, al pari della direttiva, mirerebbero a controllare le operazioni di magazzinaggio, di trasformazione nonché di trasporto e, pur garantendo un’adeguata tutela della salute, sarebbero altresì in grado di garantire la tutela dell’ambiente. 26.- A giudizio della Repubblica italiana, i controlli effettuati all’interno della filiera alimentare, diretti principalmente a garantire la tracciabilità dei prodotti e delle materie prime per la produzione di mangimi a partire dallo stabilimento di produzione, sono tali da indurre a considerare tale filiera equivalente ad un unico processo di produzione. Tale Stato membro ricorda inoltre che, in Italia, tutte le attività riguardanti il settore alimentare e mangimistico sono soggette ad autorizzazione, che viene rilasciata sulla base di idonea documentazione attestante che sia i soggetti che la richiedono sia le strutture e i mezzi di trasporto soddisfano i requisiti prescritti. 27.- Tale Stato membro ritiene che la Commissione voglia far prevalere la normativa sui rifiuti, che sarebbe generale ma residuale, sulle regole sostanziali e specifiche che disciplinano l’industria alimentare. 128 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 129 28.- Inoltre, l’approccio della Commissione impedirebbe l’utilizzo dei sottoprodotti alimentari per produrre mangimi, poiché la legislazione italiana in materia di derrate alimentari non consentirebbe che tali sottoprodotti, che devono essere inquadrati come rifiuti e di conseguenza trasportati con un mezzo autorizzato per i rifiuti, possano essere consegnati ad un’industria mangimistica. L’interpretazione della Commissione aumenterebbe pertanto la produzione e lo smaltimento di scarti alimentari, impedendone il riutilizzo come alimenti. Sui residui e le eccedenze provenienti da preparazioni nelle cucine destinati a strutture di ricovero per animali di affezione 29.- La Commissione sostiene che l’art. 23 della legge n. 179/2002 ha l’effetto di escludere dall’ambito di applicazione del decreto legislativo n. 22/97 «i residui e le eccedenze derivanti dalle preparazioni nelle cucine di qualsiasi tipo di cibi solidi, cotti e crudi, non entrati nel circuito distributivo di somministrazione, destinati alle strutture di ricovero di animali di affezione». Secondo la Commissione, non si può sostenere che tali rifiuti non siano l’oggetto di un’intenzione del detentore di disfarsene, come sarebbe comprovato dall’elencazione degli stessi all’art. 8 del citato decreto legislativo. 30.- La Repubblica italiana sostiene che, altresì nel contesto della disciplina su cui verte il secondo elemento del ricorso della Commissione, il detentore deve dimostrare la sua volontà di non disfarsi dei residui o delle eccedenze alimentari volendoli effettivamente destinare alle strutture di ricovero degli animali di affezione autorizzate dalla normativa nazionale. Peraltro, l’esclusione di cui alla disciplina sui rifiuti riguarderebbe sempre, in effetti, eccedenze alimentari e non «residui» di produzione, e sarebbe in corso di adozione una normativa che precisa tale aspetto. Giudizio della Corte 31.- È pacifico che la disciplina italiana su cui verte il ricorso in esame esclude, da una parte, gli scarti alimentari dell’industria agroalimentare e, dall’altra, i residui o le eccedenze derivanti dalla preparazione dei cibi nelle cucine, non entrati nel circuito distributivo (in prosieguo congiuntamente considerati: i «materiali in questione»), dall’ambito di applicazione della normativa nazionale che attua la direttiva, quando i materiali in questione sono destinati alla produzione di mangimi o, direttamente, utilizzati come alimenti nelle strutture di ricovero per animali di affezione. 32.- Con i due elementi del suo ricorso, che occorre esaminare congiuntamente, la Commissione sostiene, essenzialmente, che la citata normativa travisa quindi la nozione di rifiuti definita all’art. 1, lett. a), della direttiva, introducendo una deroga troppo generale alla legislazione nazionale relativa ai rifiuti, che comporta l’esclusione automatica, e indebita, dei materiali in questione dalla sfera di applicazione delle disposizioni relative alla gestione dei rifiuti derivanti dalla direttiva. 33.- La Repubblica italiana replica essenzialmente che, quando ricorrono le condizioni di applicazione della normativa su cui verte il ricorso, i materiali in questione non rientrano nella nozione di rifiuti ai sensi della direttiva, come interpretata dalla Corte. 34.- A questo proposito, l’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva definisce rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I [a tale direttiva] e di cui il detentore si disfi o abbia deciso (...) di disfarsi». L’allegato I precisa e chiarisce tale definizione proponendo un catalogo di sostanze e di oggetti qualificabili come rifiuti. Tale catalogo, tuttavia, ha soltanto un valore indicativo, posto che la qualifica di rifiuto discende anzitutto dal comportamento del detentore e dal significato del termine «disfarsi » (v., in tal senso, sentenze 18 dicembre 1997, causa C-129/96, Inter-Environnement 130 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Wallonie, Racc. pag. I-7411, punto 26; 7 settembre 2004, causa C-1/03, Van de Walle e a., Racc. pag. I-7613, punto 42, nonché 10 maggio 2007, causa C-252/05, Thames Water Utilities, Racc. pag. I-3883, punto 24). 35.- Il termine «disfarsi» deve essere interpretato non solo alla luce della finalità essenziale della direttiva che, stando al suo terzo ‘considerando’, è la «protezione della salute umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti», bensì anche dell’art. 174, n. 2, CE. Quest’ultimo dispone che «[l]a politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva (…)». Ne consegue che il termine «disfarsi», e pertanto la nozione di «rifiuto» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva, non possono essere interpretati in senso restrittivo (v., in tal senso, in particolare, sentenze 15 giugno 2000, cause riunite C-418/97 e C-419/97, ARCO Chemie Nederland e a., Racc. pag. I4475, punti 3640, nonché Thames Water Utilities, cit., punto 27). 36.- Alcune circostanze possono costituire indizi del fatto che il detentore della sostanza od oggetto se ne disfi ovvero abbia deciso o abbia l’obbligo di «disfarsene» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva (sentenza ARCO Chemie Nederland e a., cit., punto 83). Ciò si verifica in particolare se una sostanza è un residuo di produzione o di consumo, cioè un prodotto che non è stato ricercato in quanto tale (v., in tal senso, sentenza ARCO Chemie Nederland e a., cit., punto 84, nonché 11 novembre 2004, causa C-457/02, Niselli, Racc. pag. I-10853, punto 43). 37.- Del resto, il metodo di trasformazione o le modalità di utilizzo di una sostanza non sono determinanti per stabilire se si tratti o no di un rifiuto (v. sentenze ARCO Chemie Nederland e a., cit., punto 64, e 1° marzo 2007, causa C-76/05, KVZ retec, Racc. pag. I- 1721, punto 52). 38.- La Corte ha infatti precisato, da un lato, che l’esecuzione di una delle operazioni di smaltimento o di recupero di cui agli allegati II A o II B alla direttiva non consente di per sé di qualificare come rifiuto una sostanza o un oggetto trattato in tale operazione (v. in tal senso, in particolare, sentenza Niselli, cit., punti 36 e 37) e, dall’altro, che la nozione di rifiuti non deve intendersi nel senso che essa esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica (v., in tal senso, in particolare, sentenza 25 giugno 1997, cause riunite C-304/94, C-330/94, C-342/94 e C-24/95, Tombesi e a., Racc. pag. I-3561, punti 47 e 48). Il sistema di sorveglianza e di gestione istituito dalla direttiva intende infatti riferirsi a tutti gli oggetti e le sostanze di cui il proprietario si disfa, anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale a fini di riciclo, di recupero o di riutilizzo (v., in particolare, sentenza 18 aprile 2002, causa C-9/00, Palin Granit e Vehmassalon kansanterveystyön kuntayhtymän hallitus, Racc. pag. I-3533; in prosieguo: la sentenza «Palin Granit», punto 29). 39.- Tuttavia, emerge altresì dalla giurisprudenza della Corte che, in determinate situazioni, un bene, un materiale o una materia prima che deriva da un processo di estrazione o di fabbricazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale il detentore non cerca di «disfarsi» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva, ma che intende sfruttare o commercializzare – altresì eventualmente per il fabbisogno di operatori economici diversi da quello che l’ha prodotto – a condizioni ad esso favorevoli, in un processo successivo, a condizione che tale riutilizzo sia certo, non richieda una trasformazione preliminare e intervenga nel corso del processo di produzione o di utilizzazione (v., in tal senso, sentenze Palin Granit, cit., punti 34-6; 11 setIL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 131 tembre 2003, causa C-114/01, AvestaPolarit Chrome, Racc. pag. I-8725, punti 33-38; Niselli, cit., punto 47, nonché 8 settembre 2005, causa C-416/02, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-7487, punti 87 e 90, e causa C-121/03, Commissione/Spagna, Racc. pag. I- 7569, punti 58 e 61). 40.- Pertanto, oltre al criterio relativo alla natura o meno di residuo di produzione di una sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare, costituisce un secondo criterio utile ai fini di valutare se essa sia o meno un rifiuto ai sensi della direttiva. Se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza di cui trattasi, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un’ipotesi del genere la sostanza in questione non può più essere considerata un onere di cui il detentore cerchi di «disfarsi», bensì un autentico prodotto (v. citate sentenze Palin Granit, punto 37, e Niselli, punto 46). 41.- Tuttavia, se per tale riutilizzo occorrono operazioni di deposito che possono avere una certa durata, e quindi rappresentare un onere per il detentore ed essere potenzialmente fonte di quel danno per l’ambiente che la direttiva mira specificamente a limitare, esso non può essere considerato certo ed è prevedibile solo a più o meno lungo termine, cosicché la sostanza di cui trattasi deve essere considerata, in via di principio, come rifiuto (v., in tal senso, citate sentenze Palin Granit, punto 38, e AvestaPolarit Chrome, punto 39). 42.- L’effettiva esistenza di un «rifiuto» ai sensi della direttiva va pertanto accertata alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della finalità della direttiva e in modo da non pregiudicarne l’efficacia (v. citate sentenze ARCO Chemie Nederland e a., punto 88, e KVZ retec, punto 63, nonché ordinanza 15 gennaio 2004, causa C-235/02, Saetti e Frediani, Racc. pag. I-1005, punto 40). 43.- Atteso che la direttiva non suggerisce alcun criterio determinante per individuare la volontà del detentore di disfarsi di una determinata sostanza o di un determinato materiale, in mancanza di disposizioni comunitarie gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalità di prova dei diversi elementi definiti nelle direttive da essi recepite, purché ciò non pregiudichi l’efficacia del diritto comunitario (v. citate sentenze ARCO Chemie Nederland e a., punto 41, nonché Niselli, punto 34). Infatti, gli Stati membri possono, ad esempio, definire varie categorie di rifiuti, in particolare per facilitare l’organizzazione e il controllo della loro gestione, purché gli obblighi risultanti dalla direttiva o da altre disposizioni di diritto comunitario relative ai rifiuti in parola siano rispettati e l’eventuale esclusione di determinate categorie dall’ambito di applicazione delle misure adottate per recepire gli obblighi derivanti dalla direttiva si verifichi in conformità all’art. 2, n. 1, di quest’ultima (v., in tal senso, sentenza 16 dicembre 2004, causa C-62/03, Commissione/Regno Unito, non pubblicata nella Raccolta, punto 12). 44.- Nella presente fattispecie, la Repubblica italiana ritiene sostanzialmente che, dal momento che le eccezioni previste dalla normativa su cui verte il ricorso sono condizionate, a suo giudizio, non solo dalla volontà manifesta del detentore dei materiali in questione di utilizzarli nel ciclo di produzione di mangimi, ma anche dal riutilizzo certo dei materiali stessi, si applica la giurisprudenza citata ai punti 39 e 40 della presente sentenza, cosicché tali materiali potrebbero essere considerati non già come residui di produzione, ma come sottoprodotti di cui il detentore, data la sua manifesta volontà che siano riutilizzati, non cerca di «disfarsi» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva. Del resto, in ipotesi di tale natura, si applicherebbero anche altre normative, segnatamente quelle relativa alla sicurezza alimentare. Orbene, anche tali normative, secondo il governo italiano, mirano a controllare il magazzinaggio, la trasformazione e il trasporto dei materiali in questione e sono atte, 132 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO garantendo la tutela della salute, a proteggere l’ambiente in modo analogo alla direttiva. 45.- Va ricordato anzitutto a tale proposito che il catalogo delle categorie di rifiuti di cui all’allegato I alla direttiva e le operazioni di smaltimento e di ricupero enumerate agli allegati II A e II B alla stessa direttiva indicano che la nozione di rifiuto non esclude in via di principio alcun tipo di residui o di altri materiali derivanti da processi produttivi (v. sentenza Inter-Environnement Wallonie, cit., punto 28). 46.- Inoltre, tenuto conto dell’obbligo, ricordato al punto 35 della presente sentenza, di interpretare in modo ampio la nozione di rifiuto e i principi posti dalla giurisprudenza esposta supra, ai punti 36-41, il ricorso a un argomento come quello formulato dal governo italiano, relativo ai sottoprodotti di cui il detentore non intende disfarsi, deve essere limitato alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima, altresì per il fabbisogno di operatori economici diversi da quello che l’ha prodotto, non è solo eventuale bensì certo, non richiede una trasformazione preliminare e interviene nel corso del processo di produzione o di utilizzazione. 47.- Orbene, dalle spiegazioni della Repubblica italiana, esposte al punto 21 della presente sentenza, emerge che la normativa su cui verte il ricorso prevede la possibilità di escludere i materiali in questione dalla sfera di applicazione della legislazione nazionale relativa ai rifiuti anche quando i citati materiali sono sottoposti alle trasformazioni previste dalla normativa comunitaria o nazionale vigente. 48.- Peraltro, anche supponendo che sia possibile garantire che i materiali in questione siano effettivamente riutilizzati per la produzione di mangimi – e tuttavia la sola volontà di destinare tali materiali alla menzionata produzione, anche qualora sia previamente attestata in forma scritta, non è equiparabile al loro effettivo utilizzo a tale scopo –, risulta soprattutto dai punti 36 e 37 della presente sentenza che le modalità di utilizzo di una sostanza non sono determinanti per qualificare o meno quest’ultima come rifiuto. Pertanto, non si può inferire dalla sola circostanza che i materiali in questione saranno riutilizzati che essi non costituiscono «rifiuti» ai sensi della direttiva. 49.- Infatti, la destinazione futura di un oggetto o di una sostanza non è di per sé decisiva per quanto riguarda la sua eventuale natura di rifiuto definita, conformemente all’art. 1, lett. a), della direttiva, con riferimento al fatto che il detentore dell’oggetto o della sostanza se ne disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsene (v., in tal senso, sentenze citate ARCO Chemie Nederland e a., punto 64, nonché KVZ retec, punto 52). 50.- Appare quindi evidente che la normativa su cui verte il ricorso introduce, in realtà, una presunzione secondo la quale, nelle situazioni da essa previste, i materiali in questione costituiscono sottoprodotti che presentano per il loro detentore, dato il suo intendimento che siano riutilizzati, un vantaggio o un valore economico anziché un onere di cui egli cercherebbe di disfarsi. 51.- Orbene, anche se tale ipotesi in determinati casi può corrispondere alla realtà, non può esistere alcuna presunzione generale in base alla quale un detentore dei materiali in questione tragga dal loro riutilizzo un vantaggio maggiore rispetto a quello derivante dal mero fatto di potersene disfare. 52.- Di conseguenza, è giocoforza constatare che la citata normativa finisce per sottrarre alla qualifica di rifiuto, ai sensi dell’ordinamento italiano, taluni residui che corrispondono tuttavia alla definizione sancita dall’art. 1, lett. a), della direttiva. 53.- Tale disposizione fornisce non solo la definizione della nozione di «rifiuto» ai sensi della direttiva, ma determina altresì, congiuntamente al suo art. 2, n. 1, la sfera di applicazione di quest’ultima. Infatti, il citato art. 2, n. 1, indica quali tipi di rifiuti sono o IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 133 possono essere esclusi dall’ambito di applicazione della direttiva, e a quali condizioni, mentre, in linea di principio, vi rientrano tutti i rifiuti corrispondenti alla definizione in parola. Orbene, ogni norma nazionale che limita in modo generale la portata degli obblighi derivanti dalla direttiva oltre quanto consentito dal suo art. 2, n. 1, travisa necessariamente l’ambito di applicazione della direttiva (v., in tal senso, sentenza Commissione/Regno Unito, cit., punto 11), pregiudicando in questo modo l’efficacia dell’art. 174 CE (v., in tal senso, sentenza ARCO Chemie Nederland e a., cit., punto 42,). 54.- Quanto alle legislazioni comunitarie e nazionali menzionate supra, ai punti 2325, invocate dalla Repubblica italiana per sostenere, essenzialmente, che il contesto legislativo comunitario e nazionale complessivo relativo alle condizioni di sicurezza in materia di derrate alimentari e di mangimi rende impossibile qualificare i materiali in questione come rifiuti, basta osservare che tali materiali non si identificano, in linea di principio, con le sostanze e gli oggetti elencati all’art. 2, n. 1, della direttiva, sicché la deroga all’applicazione di quest’ultima prevista dalla citata disposizione non può riguardare i materiali in parola. Occorre ricordare inoltre che nessun elemento nella direttiva indica che essa non sia applicabile alle operazioni di smaltimento o di ricupero che fanno parte di un processo industriale, qualora esse non sembrino costituire un pericolo per la salute dell’uomo o per l’ambiente (sentenza Inter-Environnement Wallonie, cit., punto 30). 55.- Inoltre, contrariamente a quanto sostiene la Repubblica italiana, la direttiva non può essere considerata come di applicazione residuale rispetto alla legislazione comunitaria e nazionale in materia di sicurezza alimentare. Sebbene, infatti, gli scopi perseguiti da alcune disposizioni della citata legislazione possano parzialmente sovrapporsi a quelli della direttiva, essi rimangono tuttavia notevolmente diversi. Al di là delle ipotesi espressamente previste all’art. 2, n. 1, della direttiva, nulla poi in quest’ultima è tale da indicare che essa non si applicherebbe cumulativamente ad altre legislazioni. 56.- In ultimo, quanto all’argomento della Repubblica italiana secondo il quale l’applicazione della direttiva impedirebbe di riutilizzare residui alimentari per la produzione di mangimi, in quanto tali residui dovrebbero essere trasportati su mezzi autorizzati al trasporto di rifiuti che non rispondono ai necessari requisiti di igiene, la Commissione ha sottolineato a buon diritto che l’origine di tale situazione è da ricercare nella normativa italiana e non nella direttiva. 57.- Pertanto, il ricorso della Commissione dev’essere accolto. 58.- Si deve pertanto dichiarare che la Repubblica italiana, – avendo adottato indirizzi operativi validi su tutto il territorio nazionale, esplicitati in particolare con la circolare del giugno 1999 e con il comunicato del 2002, tali da escludere dall’ambito di applicazione della disciplina sui rifiuti gli scarti alimentari originati dall’industria agroalimentare destinati alla produzione di mangimi; e – avendo, per mezzo dell’art. 23 della legge n. 179/2002, escluso dall’ambito di applicazione della normativa sui rifiuti i residui derivanti dalle preparazioni nelle cucine di qualsiasi tipo di cibi solidi, cotti e crudi, non entrati nel circuito distributivo di somministrazione, destinati alle strutture di ricovero di animali di affezione, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 1, lett. a), della direttiva. SULLE SPESE 59.- A norma dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ne ha fatto domanda, la Repubblica italiana, rimasta soccombente, deve essere condannata alle spese. 134 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara e statuisce: 1) La Repubblica italiana, – avendo adottato indirizzi operativi validi su tutto il territorio nazionale, esplicitati in particolare per mezzo della circolare del Ministro dell’Ambiente 28 giugno 1999, recante chiarimenti interpretativi in materia di definizione di rifiuto, e con comunicato del Ministero della Salute 22 luglio 2002, contenente linee guida relative alla disciplina igienico-sanitaria in materia di utilizzazione dei materiali e sottoprodotti derivanti dal ciclo produttivo e commerciale delle industrie agroalimentari nell’alimentazione animale, tali da escludere dall’ambito di applicazione della disciplina sui rifiuti gli scarti alimentari originati dall’industria agroalimentare destinati alla produzione di mangimi; e – avendo, per mezzo dell’art. 23 della legge 31 luglio 2002, n. 179, recante disposizioni in materia ambientale, escluso dall’ambito di applicazione della normativa sui rifiuti i residui derivanti dalle preparazioni nelle cucine di qualsiasi tipo di cibi solidi, cotti e crudi, non entrati nel circuito distributivo di somministrazione, destinati alle strutture di ricovero per animali di affezione, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 1, lett. a), della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, sui rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE. 2) La Repubblica italiana è condannata alle spese>>. Corte di Giustizia delle Comunità europee, sezione terza, sentenza 18 dicembre 2007 nella causa C-263/05 - Avv. gen. Y. Bot - Rel. A. Ó Caoimh - Ricorso per inadempimento proposto il 23 giugno 2005 –- Commissione delle Comunità europee c/ Repubblica italiana (Avv. dello Stato G. Fiengo). « (...) 1.- Con il presente ricorso, la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare che la Repubblica italiana, avendo adottato e mantenuto in vigore l’art. 14 del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, relativo a interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell’economia anche nelle aree svantaggiate (G.U.R.I. n. 158 dell’8 luglio 2002), divenuto, in seguito a modifica, la legge 8 agosto 2002, n. 178 (Supplemento ordinario alla G.U.R.I. n. 187 del 10 agosto 2002), che esclude dall’ambito di applicazione del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, relativo all’attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio (Supplemento ordinario alla G.U.R.I. n. 38 del 15 febbraio 1997; in prosieguo: il «decreto legislativo n. 22/97»), da un lato, le sostanze, i materiali o i beni destinati alle operazioni di smaltimento o recupero di rifiuti non esplicitamente elencati agli allegati B e C a detto decreto e, dall’altro, le sostanze o materiali residuali di produzione dei quali il detentore abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi, qualora gli stessi possano essere e siano riutilizzati in un ciclo produttivo o di consumo, a condizione che non sia effettuato alcun intervento preventivo di trattamento e che gli stessi non rechino pregiudizio all’ambiente, oppure, anche qualora venga effettuato un intervento preventivo di trattamento, quando quest’ultimo non configuri un’operazione di recupero fra quelle individuate all’allegato C al medesimo decreto, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 1, lett. a), della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, sui rifiuti (G.U. L 194, pag. 39), come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE (G.U. L IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 135 78, pag. 32), e dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996, 96/350/CE (G.U. L 135, pag. 32) (in prosieguo: la «direttiva»). CONTESTO NORMATIVO La normativa comunitaria 2.- Ai fini della direttiva, l’art. 1, lett. a), primo comma, definisce la nozione di «rifiuto » come «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I [a tale direttiva] e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi». 3.- La Commissione ha adottato la decisione 20 dicembre 1993, 94/3/CE, che istituisce un elenco di rifiuti conformemente all’articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442 (G.U. 1994, L 5, pag. 15). Tale catalogo (in prosieguo: il «catalogo europeo dei rifiuti») è stato rinnovato con decisione della Commissione 3 maggio 2000, 2000/532/CE, che sostituisce la decisione 94/3 e la decisione 94/904/CE del Consiglio che istituisce un elenco di rifiuti, pericolosi ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti pericolosi (G.U. L 226, pag. 3). Il catalogo europeo dei rifiuti istituito con la decisione 2000/532 è stato più volte modificato, da ultimo con decisione del Consiglio 23 luglio 2001, 2001/573/CE (G.U. L 203, pag. 18). L’allegato alla decisione 2000/532, che contiene il catalogo europeo dei rifiuti, inizia con un’introduzione il cui punto 1 precisa che si tratta di un elenco armonizzato che verrà rivisto periodicamente. Il punto 1 chiarisce altresì che «l’inclusione di un determinato materiale nel [catalogo europeo dei rifiuti] non significa che tale materiale sia un rifiuto in ogni circostanza. La classificazione del materiale come rifiuto si applica solo se il materiale risponde alla definizione di cui all’articolo 1, lettera a), della direttiva (…)». 4.- L’art. 1, lett. e) e f), della direttiva definisce le nozioni di smaltimento e di recupero dei rifiuti come tutte le operazioni previste, rispettivamente, nell’allegato II Ae II B alla stessa direttiva. Tali allegati sono stati adattati al progresso scientifico e tecnico con la decisione 96/350. La normativa nazionale 5.- L’art. 6, comma 1, lett. a), del decreto legislativo n. 22/97 recita: «Ai fini del presente decreto si intende per: a) rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi; (…)». 6.- L’allegato A al decreto legislativo n. 22/97 riprende l’elenco delle categorie di rifiuti di cui all’allegato I alla direttiva. Inoltre, gli allegati B e C allo stesso decreto legislativo elencano rispettivamente le operazioni di smaltimento e di recupero dei rifiuti allo stesso modo degli allegati II A e II B alla direttiva. 7.- L’art. 14 della legge 8 agosto 2002, n. 178 (in prosieguo: la «disposizione controversa »), che ha sostituito, previa modifica, il decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, contiene un’«interpretazione autentica» della definizione di «rifiuto» di cui all’art. 6, comma 1, lett. a), del decreto legislativo n. 22/97, la quale precisa quanto segue: «1. Le parole: “si disfi”, “abbia deciso” o “abbia l’obbligo di disfarsi” (…) si interpretano come segue: a) “si disfi”: qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22[/97]; b) “abbia deciso”: la volontà di destinare ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22[/97], sostanze, materiali o beni; 136 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO c) “abbia l’obbligo di disfarsi”: l’obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell’elenco dei rifiuti pericolosi di cui all’allegato D del decreto legislativo n. 22[/97]. 2. Non ricorrono le fattispecie di cui alle lettere b) e c) del comma 1, per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni: a) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all’ambiente; b) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell’allegato C del decreto legislativo n. 22[/97]». PROCEDIMENTO PRECONTENZIOSO 8.- Ritenendo che le norme interpretative istituite con la disposizione controversa non fossero conformi alla direttiva, in particolare all’art. 1, lett. a), di questa, la Commissione avviava il procedimento per inadempimento previsto dall’art. 226 CE. 9.- Poiché le autorità italiane non avevano risposto entro il termine fissato alla lettera di diffida del 18 ottobre 2002, la Commissione, il 3 aprile 2003, emetteva un parere motivato con cui invitava la Repubblica italiana a conformarsi alla direttiva in un termine di due mesi a decorrere dalla ricezione dello stesso. 10.- Tuttavia, avendo le autorità italiane nel frattempo risposto – seppur oltre la scadenza del termine impartito – alla lettera di diffida del 18 ottobre 2002, la Commissione riteneva che tale parere motivato fosse, a questo punto, da considerarsi privo di effetti. 11.- Poiché considerava peraltro che questa risposta non fosse soddisfacente, la Commissione inviava alla Repubblica italiana un parere motivato complementare mediante lettera dell’11 luglio 2003, invitando lo Stato membro a conformarvisi entro un nuovo termine di due mesi dal ricevimento di tale parere. 12.- Dopo aver richiesto una proroga di due mesi del termine così impartito, il governo italiano replicava ai rilievi sollevati dalla Commissione in merito alla legislazione nazionale con note della Rappresentanza permanente 12 novembre 2003 e 19 dicembre 2003. 13.- Al fine di poter delineare con maggiore precisione le proprie conclusioni riguardo all’infrazione contestata, in particolare con riferimento alle conclusioni presentate dall’avvocato generale Kokott il 10 giugno 2004 nella causa Niselli (sentenza 11 novembre 2004, causa C-457/02, Racc. pag. I-10853), la Commissione emetteva un secondo parere motivato complementare, mediante lettera 9 luglio 2004, invitando nuovamente la Repubblica italiana a conformarvisi entro due mesi dal ricevimento di tale parere. 14.- Le autorità italiane rispondevano a tale ultimo parere motivato con nota 29 settembre 2004. 15.- Poiché riteneva che la situazione rimanesse insoddisfacente, la Commissione ha deciso di proporre il presente ricorso. SUL RICORSO Argomenti delle parti 16.- Con le due parti della sua censura, la Commissione sostiene che l’interpretazione autentica di cui all’art. 6, comma 1, lett. a), del decreto legislativo n. 22/97, fornita dal IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 137 legislatore italiano in merito ai commi 1 e 2 della disposizione controversa, è contraria all’art. 1, lett. a), della direttiva. 17.- Anzitutto, essendo i riferimenti contenuti nel testo delle lett. a) e b) del comma 1 della disposizione controversa, rispettivamente all’«attività di smaltimento o di recupero» e alle «operazioni di smaltimento e di recupero», seguiti in entrambe i casi dalla precisazione «secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22[/97]», essi introdurrebbero una distinzione tra, da un lato, le operazioni di smaltimento o di recupero generalmente considerate e, dall’altro, quelle tra esse che sono specificamente previste agli allegati B e C a tale decreto legislativo. Così, tutti i materiali, sostanze o beni interessati dall’allegato Aal decreto legislativo n. 22/97 che il detentore avvii, sottoponga o intenda destinare ad operazioni di smaltimento non elencate all’allegato B al decreto legislativo o ad operazioni di recupero non elencate nel suo allegato C resterebbero dunque esclusi dalla qualificazione di rifiuti e, di conseguenza, dall’assoggettabilità alla normativa sulla gestione dei rifiuti. 18.- Di conseguenza, tale disposizione avrebbe come effetto di circoscrivere illegittimamente la portata della nozione di rifiuto, e quindi l’ambito di applicazione della normativa italiana sulla gestione dei rifiuti. 19.- La Commissione sostiene, in secondo luogo, che l’esclusione da parte del comma 2 della disposizione controversa dei criteri interpretativi della nozione di rifiuto stabiliti al comma 1, lett. b) e c), della stessa disposizione, e quindi della qualifica di rifiuto, per ciò che riguarda taluni materiali residuali di produzione o di consumo secondo le condizioni specificate alle lett. a) e b) di tale comma 2, equivale, per il legislatore italiano, ad ammettere implicitamente che, nelle circostanze considerate, tali residui presentano caratteristiche di rifiuti, escludendo l’applicazione della legislazione sui rifiuti in funzione delle condizioni relative all’intervento di trattamento su tali residui. 20.- Orbene, secondo la Commissione, non sarebbe lecito escludere tassativamente dall’ambito di applicazione della direttiva le sostanze o gli oggetti dei quali il detentore abbia l’intenzione oppure l’obbligo di disfarsi, anche se riutilizzabili e riutilizzati in un ciclo produttivo o di consumo, con o senza necessità di effettuare un trattamento preventivo – alla sola condizione, nel primo caso, che ciò non faccia intervenire alcuna delle operazioni di recupero espressamente menzionate nel relativo allegato – e senza recare pregiudizio all’ambiente, nel caso in cui non venga effettuato alcun trattamento preventivo. 21.- In conclusione, contrariamente a quanto sostiene la Repubblica italiana, la disposizione controversa non si limiterebbe semplicemente a fornire i necessari criteri interpretativi volti ad accertare se sussistano le condizioni che determinano l’esistenza stessa di un rifiuto, ma avrebbe un impatto restrittivo per quanto riguarda la nozione di rifiuto e la sua applicabilità, escludendo in particolare gran parte dei rifiuti recuperabili dall’ambito di applicazione delle disposizioni nazionali di recepimento della direttiva. 22.- La Repubblica italiana considera che un materiale riutilizzato non costituisca un rifiuto anche quando il suo detentore intende destinarlo ad altri processi produttivi. Infatti, la giurisprudenza della Corte avrebbe esteso l’esclusione della nozione di rifiuti, nel rispetto di alcune condizioni, ai materiali che vengano effettivamente riutilizzati anche da parte di terzi. 23.- Secondo tale Stato membro, la disposizione controversa indicherebbe criteri per verificare se il detentore di un materiale se ne sia disfatto, abbia deciso di disfarsene o abbia l’obbligo di farlo. Tali criteri, estendendo il test a valle dell’utilizzazione effettiva ed oggettiva del materiale di cui trattasi, permetterebbero di rispettare due requisiti stabiliti dalla citata sentenza Niselli, ovvero la certezza del riutilizzo e l’inserimento dei materiali abbandonati nella nozione di rifiuto. 138 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 24.- Tale Stato membro sostiene che l’abbandono costituisce una maniera indiretta di destinare una sostanza o un oggetto ad un’operazione di smaltimento o di recupero, di modo che il fatto di abbandonare una sostanza o un oggetto rientrerebbe in realtà nell’ambito del comma 1, lett. a), della disposizione controversa. 25.- Secondo la Repubblica italiana, il comma 2 della disposizione controversa, in conformità ai principi sottesi alla giurisprudenza della Corte, esclude la qualificazione di rifiuto per i residui industriali che, pur non costituendo lo scopo della produzione principale, non possono essere considerati come rifiuti, poiché sarebbero riutilizzati tali e quali, senza alcuna operazione diretta a «disfarsene», vale a dire senza «trasformazioni preliminari » ovvero con trattamenti preliminari da non considerarsi recupero completo quali, in particolare, operazioni di cernita, selezione, separazione, compattamento o vagliatura. 26.- Con la disposizione controversa, la quale va letta nel suo insieme, il legislatore italiano avrebbe voluto fornire criteri di interpretazione positivi per l’inclusione tra i rifiuti di materiali di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi. Sarebbe necessario, attraverso criteri interpretativi certi, fornire una lista positiva dei rifiuti e non partire dal presupposto che tutto è rifiuto tranne la sostanza o l’oggetto di cui si possa dimostrare che il detentore non si disfi o non abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi. 27.- Secondo la Repubblica italiana, l’argomento della Commissione implicherebbe che ogni precisazione del termine «disfarsi» avrebbe inevitabilmente l’effetto di limitare l’ambito di applicazione della direttiva, il che impedirebbe la facoltà di cui dispongono gli Stati membri di definire le modalità di applicazione delle direttive. 28.- Infine, all’udienza, la Repubblica italiana ha sostenuto che, in Italia, l’attività di gestione dei rifiuti è a volte esercitata da persone che operano «al limite della legalità», cosicché tale Stato membro ha preferito fare affidamento sui produttori di rifiuti per assicurarne la gestione anziché lasciare che i produttori di rifiuti affidassero tale gestione ad enti terzi. Giudizio della Corte 29.- Con la prima parte della sua censura, la Commissione sostiene, nella sostanza, che l’interpretazione imposta al comma 1 della disposizione controversa ha l’effetto di circoscrivere illegittimamente la portata della nozione di rifiuto per l’applicazione della normativa italiana in materia, limitando tale nozione ai materiali che sono oggetto delle operazioni di smaltimento e di recupero previste agli allegati B e C del decreto legislativo n. 22/97 – i quali corrispondono testualmente, rispettivamente, agli allegati II A e II B alla direttiva –, ad esclusione di altre operazioni di smaltimento o di recupero, non elencate negli allegati B e C. 30.- Mediante la seconda parte di tale censura, la Commissione sostiene, in sostanza, che l’esclusione prevista al comma 2 della disposizione controversa ha anche come effetto di circoscrivere illegittimamente la citata nozione di rifiuto, nella parte in cui tale esclusione riguarderebbe i materiali residuali di produzione o di consumo ove gli stessi possano essere e siano riutilizzati nel medesimo, in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all’ambiente oppure, anche ove venga effettuato un intervento preventivo di trattamento, senza che per questo si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell’allegato C al decreto legislativo n. 22/97. 31.- Vista la posizione adottata dalla Repubblica italiana, che considera, in sostanza, che la disposizione controversa debba essere letta nel suo complesso e sia diretta a chiarire il contenuto della nozione di «rifiuto» come definita all’art. 1, lett. a), della direttiva, occorre, prima di esaminare insieme le due parti della censura della Commissione, ricordare la giurisprudenza della Corte relativa a tale nozione. 32.- A questo proposito, l’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva definisce rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I [a tale direttiva] e di cui il detentore si disfi o abbia deciso (...) di disfarsi». L’allegato I precisa e chiarisce tale definizione proponendo un elenco di sostanze e di oggetti qualificabili come rifiuti. Tale elenco, tuttavia, ha soltanto un valore indicativo, posto che la qualifica di rifiuto discende anzitutto dal comportamento del detentore e dal significato del termine «disfarsi » (v., in tal senso, sentenze 18 dicembre 1997, causa C-129/96, Inter-Environnement Wallonie, Racc. pag. I-7411, punto 26; 7 settembre 2004, causa C-1/03, Van de Walle e a., Racc. pag. I-7613, punto 42, nonché 10 maggio 2007, causa C-252/05, Thames Water Utilities, Racc. pag. I-3883, punto 24). 33.- Il termine «disfarsi» deve essere interpretato non solo alla luce della finalità essenziale della direttiva la quale, stando al suo terzo ‘considerando’, è la «protezione della salute umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti», bensì anche dell’art. 174, n. 2, CE. Quest’ultimo dispone che «[l]a politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva (…)». Ne consegue che il termine «disfarsi», e pertanto la nozione di «rifiuto» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva, non possono essere interpretati in senso restrittivo (v., in tal senso, in particolare, sentenze 15 giugno 2000, cause riunite C-418/97 e C-419/97, ARCO Chemie Nederland e a., Racc. pag. I-4475, punti 36-40, nonché Thames Water Utilities, cit., punto 27). 34.- Alcune circostanze possono costituire indizi del fatto che il detentore della sostanza od oggetto se ne disfi ovvero abbia deciso o abbia l’obbligo di «disfarsene» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva (sentenza ARCO Chemie Nederland e a., cit., punto 83). Ciò si verifica in particolare se una sostanza è un residuo di produzione o di consumo, cioè un prodotto che non è stato ricercato in quanto tale (v., in tal senso, sentenze citate ARCO Chemie Nederland e a., punto 84, nonché Niselli, punto 43). 35.- Del resto, il metodo di trasformazione o le modalità di utilizzo di una sostanza non sono determinanti per stabilire se si tratti o no di un rifiuto (v. sentenze ARCO Chemie Nederland e a., cit., punto 64, e 1° marzo 2007, causa C-176/05, KVZ retec, Racc. pag. I-1721, punto 52). 36.- La Corte ha infatti precisato, da un lato, che l’esecuzione di una delle operazioni di smaltimento o di recupero di cui agli allegati II A o II B alla direttiva non consente di per sé di qualificare come rifiuto una sostanza o un oggetto trattato in tale operazione (v., in tal senso, in particolare, sentenza Niselli, cit., punti 36 e 37) e, dall’altro, che la nozione di rifiuto non esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica (v., in tal senso, in particolare, sentenza 25 giugno 1997, cause riunite C-304/94, C-330/94, C-342/94 e C-24/95, Tombesi e a., Racc. pag. I-3561, punti 47 et 48). Il sistema di sorveglianza e di gestione istituito dalla direttiva intende riferirsi infatti a tutti gli oggetti e le sostanze di cui il proprietario si disfa, anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale a fini di riciclo, di recupero o di riutilizzo (v., in particolare, sentenza 18 aprile 2002, causa C-9/00, Palin Granit e Vehmassalon kansanterveystyön kuntayhtymän hallitus, Racc. pag. I-3533; in prosieguo: la sentenza «Palin Granit», punto 29). 37.- Tuttavia, emerge altresì dalla giurisprudenza della Corte che, in determinate situazioni, un bene, un materiale o una materia prima che deriva da un processo di estrazione o di fab- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 139 bricazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale il detentore non cerca di «disfarsi» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva, ma che intende sfruttare o commercializzare – altresì eventualmente per il fabbisogno di operatori economici diversi da quello che l’ha prodotto – a condizioni ad esso favorevoli, in un processo successivo, a condizione che tale riutilizzo sia certo, senza trasformazione preliminare e intervenga nel corso del processo di produzione o di utilizzazione (v., in tal senso, sentenze Palin Granit, citata, punti 34-36; 11 settembre 2003, causa C-114/01, AvestaPolarit Chrome, Racc. pag. I-8725, punti 33-38; Niselli, citata, punto 47, nonché 8 settembre 2005, causa C-416/02, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-7487, punti 87 e 90, e causa C-121/03, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-7569, punti 58 e 61). 38.- Pertanto, oltre al criterio relativo alla natura o meno di residuo di produzione di una sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare, costituisce un criterio utile ai fini di valutare se tale sostanza sia o meno un rifiuto ai sensi della direttiva. Se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza di cui trattasi, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un’ipotesi del genere la sostanza in questione non può più essere considerata un onere di cui il detentore cerchi di «disfarsi», bensì un autentico prodotto (v. sentenze citate Palin Granit, punto 37, e Niselli, punto 46). 39.- Tuttavia, se per tale riutilizzo occorrono operazioni di deposito che possono avere una certa durata, e quindi rappresentare un onere per il detentore nonché essere potenzialmente fonte di quei danni per l’ambiente che la direttiva mira specificamente a limitare, esso non può essere considerato certo ed è prevedibile solo a più o meno lungo termine, cosicché la sostanza di cui trattasi deve essere considerata, in linea di principio, come rifiuto (v., in tal senso, sentenze citate Palin Granit, punto 38, e AvestaPolarit Chrome, punto 39). 40.- L’effettiva esistenza di un «rifiuto» ai sensi della direttiva va pertanto accertata alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della finalità della stessa e in modo da non pregiudicarne l’efficacia (v. sentenze citate ARCO Chemie Nederland e a., punto 88, e KVZ retec, punto 63, nonché ordinanza 15 gennaio 2004, causa C-235/02, Saetti e Frediani, Racc. pag. I-1005, punto 40). 41.- Atteso che la direttiva non suggerisce alcun criterio determinante per individuare la volontà del detentore di disfarsi di una determinata sostanza o di un determinato materiale, in mancanza di disposizioni comunitarie gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalità di prova dei diversi elementi definiti nelle direttive da essi recepite, purché ciò non pregiudichi l’efficacia del diritto comunitario (v. sentenze citate ARCO Chemie Nederland e a., punto 41, nonché Niselli, punto 34). Infatti, gli Stati membri possono, ad esempio, definire varie categorie di rifiuti, in particolare per facilitare l’organizzazione e il controllo della loro gestione, purché gli obblighi risultanti dalla direttiva o da altre disposizioni di diritto comunitario relative a tali rifiuti siano rispettati e l’eventuale esclusione di determinate categorie dall’ambito di applicazione dei testi adottati per dare attuazione agli obblighi derivanti dalla direttiva si verifichi in conformità all’art. 2, n. 1, di quest’ultima (v., in tal senso, sentenza 16 dicembre 2004, causa C-62/03, Commissione/Regno Unito, non pubblicata nella Raccolta, punto 12). 42.- Nella fattispecie, è pacifico, da un lato, che, in virtù del comma 1 della disposizione controversa, viene considerato come manifestazione dell’atto, della decisione o dell’obbligo di «disfarsi» di una sostanza o di un oggetto, ai sensi dell’art. 1, lett. a), comma primo, della direttiva, solo il fatto che tale sostanza o tale oggetto sia destinato, direttamente o indirettamente, a operazioni di smaltimento o di recupero menzionate agli allegati B e 140 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO C al decreto legislativo n. 22/97 e, dall’altro, che tali allegati B e C corrispondono testualmente agli allegati II A e II B alla direttiva. 43.- Orbene, come è stato ricordato al punto 36 della presente sentenza, l’esecuzione di una delle operazioni di smaltimento o di recupero di cui agli allegati, rispettivamente, II A o II B alla direttiva non consente, di per sé, di qualificare come rifiuto una sostanza o un oggetto trattato in tale operazione. 44.- Infatti, da una parte, allorché definisce l’azione di disfarsi di una sostanza o di un materiale esclusivamente a partire dall’esecuzione di un’operazione di smaltimento o di recupero menzionata agli allegati B o C al decreto legislativo n. 22/97, l’interpretazione imposta dal comma 1 della disposizione controversa subordina la qualifica di rifiuto ad un’operazione che, a sua volta, può essere qualificata come smaltimento o recupero solo ove applicata ad un rifiuto, di modo che tale interpretazione non contribuisce in realtà minimamente a precisare la nozione di rifiuto. In effetti, secondo l’interpretazione di cui trattasi, ogni sostanza o materiale oggetto di uno dei tipi di operazioni menzionati agli allegati II A e II B alla direttiva deve essere qualificato come rifiuto, di modo che tale interpretazione condurrebbe a qualificare come tali sostanze e materiali che non lo sono ai sensi della direttiva (v., in tal senso, sentenza Niselli, citata, punti 36 e 37). 45.- D’altra parte, l’interpretazione esposta al punto 42 della presente sentenza comporta che una sostanza o un materiale di cui il detentore si disfi in un modo diverso da quelli menzionati negli allegati II A e II B alla direttiva non costituisce un rifiuto, e pertanto restringe anche la nozione di rifiuto quale risulta dall’art. 1, lett. a), della direttiva. Infatti, conformemente a questa interpretazione, una sostanza o un materiale non soggetti a obbligo di smaltimento o di recupero e di cui il detentore si disfi mediante semplice abbandono, senza sottoporre la sostanza o il materiale ad un’operazione del genere, non verrebbero qualificati come rifiuto, mentre lo sarebbero ai sensi della direttiva (v., in tal senso, sentenza Niselli, citata, punto 38). 46.- A tale riguardo, l’argomento della Repubblica italiana esposto al punto 24 della presente sentenza, secondo cui il fatto di abbandonare una sostanza o un oggetto rientrerebbe in realtà nell’ambito del comma 1, lett. a), della disposizione controversa, non può essere accolto. Infatti, anche se l’interpretazione di tale punto prevalesse nel diritto nazionale, la disposizione controversa, a causa della sua mancanza di chiarezza e di precisione a tale riguardo, non può assicurare la piena applicazione della direttiva. 47.- È anche pacifico che, secondo la precisazione contenuta al comma 2 della disposizione controversa, è sufficiente, affinché un materiale residuale di produzione o di consumo sfugga alla qualifica di rifiuto, che esso venga o possa essere riutilizzato in qualunque ciclo di produzione o di consumo, senza alcun intervento preventivo di trattamento e senza pregiudizio all’ambiente, o dopo aver subito un intervento preventivo di trattamento qualora non si tratti di una delle operazioni di smaltimento elencate all’allegato C al decreto legislativo n. 22/97, che corrisponde testualmente all’allegato II B alla direttiva. 48.- Orbene, tale enunciazione non è conforme ai principi della giurisprudenza ricordati ai punti 33-39 della presente sentenza. Infatti, essa conduce a escludere dalla qualifica di rifiuto materiali residuali di produzione o di consumo che pure corrispondono alla definizione della nozione di «rifiuto» di cui all’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva. 49.- In particolare, come risulta dai punti 34-36 della presente sentenza, il fatto che una sostanza sia un materiale residuale di produzione o di consumo costituisce un indizio che si tratti di un rifiuto e la sola circostanza che una sostanza sia destinata a essere riutilizzata, o possa esserlo, non può essere determinante per la sua qualifica o meno come rifiuto. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 141 142 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 50.- Peraltro, l’argomento della Repubblica italiana esposto al punto 25 della presente sentenza non può essere accolto. Infatti, tenuto conto dell’obbligo, ricordato al punto 33 della presente sentenza, di interpretare in senso lato la nozione di rifiuto e tenuto conto dei principi della giurisprudenza della Corte menzionati ai punti 34-39 della presente sentenza, un bene, un materiale o una materia prima risultante da un processo di fabbricazione che non è destinato a produrlo può essere considerato come un sottoprodotto di cui il detentore non desidera disfarsi solo se il suo riutilizzo, incluso quello per i bisogni di operatori economici diversi da colui che l’ha prodotto, è non semplicemente eventuale, ma certo, non necessita di trasformazione preliminare e interviene nel corso del processo di produzione o di utilizzazione. 51.- Infine, per ciò che riguarda le osservazioni espresse dalla Repubblica italiana all’udienza quanto al fatto che persone connotate come operanti «al limite della legalità» sarebbero attive nel settore della gestione dei rifiuti, è sufficiente rilevare che tale circostanza, anche supponendo che fosse provata, non può giustificare la violazione, da parte di tale Stato membro, degli obblighi ad esso incombenti in forza della direttiva. 52.- Alla luce di tutto quanto precede, il ricorso della Commissione dev’essere accolto. 53.- Occorre pertanto dichiarare che la Repubblica italiana, avendo adottato e mantenuto in vigore l’art. 14 del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, divenuto, in seguito a modifica, la legge 8 agosto 2002, n. 178, che esclude dall’ambito di applicazione del decreto legislativo n. 22/97, da un lato, le sostanze, i materiali o i beni destinati alle operazioni di smaltimento o di recupero non esplicitamente elencati agli allegati B e C a tale decreto e, dall’altro, le sostanze o i materiali residuali di produzione dei quali il detentore abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi, qualora gli stessi possano essere e siano riutilizzati in un ciclo produttivo o di consumo, a condizione che non sia effettuato alcun intervento preventivo di trattamento e che gli stessi non rechino pregiudizio all’ambiente, oppure, anche qualora venga effettuato un intervento preventivo di trattamento, quando quest’ultimo non configuri un’operazione di recupero fra quelle individuate all’allegato C al medesimo decreto, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 1, lett. a), della direttiva. SULLE SPESE 54.- A norma dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ne ha fatto domanda, la Repubblica italiana, rimasta soccombente, deve essere condannata alle spese. Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara e statuisce: 1) La Repubblica italiana, avendo adottato e mantenuto in vigore l’art. 14 del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, relativo a interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell’economia anche nelle aree svantaggiate, divenuto, in seguito a modifica, la legge 8 agosto 2002, n. 178, che esclude dall’ambito di applicazione del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, relativo all’attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio, da un lato, le sostanze, i materiali o i beni, destinati alle operazioni di smaltimento o di recupero non esplicitamente elencati agli allegati B e C a tale decreto e, dall’altro, le sostanze o i materiali residuali di produzione dei quali il detentore abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi, qualora gli stessi possano essere e siano riutilizzati in un ciclo produttivo o di consumo, a condizione che non sia effettuato alcun intervento preventivo di trattamento e che gli stessi non rechino pregiudizio all’ambiente, oppure, anche qualora venga effettuato un intervento preventivo di trattamento, quando queIL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - Le decisioni 143 st’ultimo non configuri un’operazione di recupero fra quelle individuate all’allegato C al medesimo decreto, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 1, lett. a), della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, sui rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE, e dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996, 96/350/CE. 2) La Repubblica italiana è condannata alle spese». Dossier 1 La declaratoria di incostituzionalità delle norme in materia di esproprio A) Regime transitorio – Come si inserisce la declaratoria di incostituzionalità dei primi due commi dell’articolo 5 bis D.L. 333/1992 e dell’articolo 37 d.P.R. 327/2001 nei procedimenti in corso amministrativi (con particolare riferimento all’avvenuta accettazione dell’indennità provvisoria o all’avvenuto trasferimento del diritto), alla luce del principio secondo cui le norme dichiarate incostituzionali non possono trovare applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione (*). Com’è noto, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 348 del 24 ottobre 2007 (pubblicata sulla G.U.R.I., 1° Serie speciale – Corte Costituzionale, n. 42 del 31 ottobre 2007), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme contenute nell’art. 5 bis, commi 1 e 2, del D.L.. n. 333/92 convertito con modificazioni in legge n. 359/92, nonché nell’art. 37, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 327/2001 e s.m.i.. In particolare, la predetta pronuncia della Consulta viene ad incidere sul criterio di calcolo della indennità di esproprio per le aree edificabili fino ad oggi attestatosi, come riconosce la stessa Corte, tra il 50 e 30 per cento del valore di mercato del bene, prescindendo peraltro dalla successiva imposizione fiscale (corrispondente al 20%). I L C O N T E N Z I O S O N A Z I O N A L E (*) Intervento dell’Avvocato dello Stato Maurizio Borgo al Convegno nazionale “Articoli 5-bis 1-2 D.L. 333/92 e 37 1-2 d.P.R. 327/01 incostituzionali. La nuova indennità di esproprio per le aree edificabili”, tenutosi a Montegrotto (PD) il 21 novembre 2007. 146 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Tale criterio di calcolo, difatti, è stato dichiarato incostituzionale in quanto in contrasto con il novellato art. 117, 1° comma, Cost. che, per quanto di interesse in questa sede, deve leggersi in combinato disposto con le norme della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (per come interpretate dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo) in base alle quali, nella materia de qua, ai soggetti incisi dalla procedura espropriativa, spetta un congruo ristoro del pregiudizio subito, non rinvenibile nell’applicazione dei criteri di legge, più sopra illustrati. Effetti della dichiarazione di incostituzionalità di una norma di legge o di un atto avente forza di legge Allorquando la Corte costituzionale dichiara l’incostituzionalità di una norma di legge, sia essa legge dello Stato oppure legge regionale (ovvero di un atto avente forza di legge), la predetta norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della pronuncia d’incostituzionalità nella Gazzetta Ufficiale (1). La dottrina si è posto il problema se la sentenza della Corte, dichiarativa dell’incostituzionalità di una norma, possa essere applicata retroattivamente ed ha affermato che questa retroattività opera quantomeno in collegamento con la lite giudiziaria instaurata, in costanza della quale un giudice abbia sollevato eccezione d’incostituzionalità di una norma di legge, norma indispensabile per la pronuncia giudiziaria in corso (2). Si afferma, infatti, che “ad evitare incongruenze inaccettabili, si deve ammettere che, almeno nel processo a quo, la legge dichiarata incostituzionale non possa più trovare applicazione” e che pertanto, “attraverso la disapplicazione, la dichiarazione di incostituzionalità si deve riflettere su fatti, situazioni e rapporti realizzatisi antecedentemente” (3). La Corte costituzionale (4) ha anche, in più occasioni, affermato che il principio che si suole esprimere con il brocardo “tempus regit actum”, ricavabile dall’art. 11 delle disposizioni preliminari al cod. civ. e dagli artt. 65 del R.D. 28 maggio 1931, n. 602 e 16 del d.P.R. 8 agosto 1955, n. 666, significa che la validità degli atti è e rimane regolata dalla legge vigente al momento (1) L’art. 136 Cost. dispone espressamente: “Quando la Corte dichiara la illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”; cfr., anche, l’art. 30, comma 3, della legge n. 87/53). (2) Cfr. per tutti G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Imola, 1988, pag. 262, il quale afferma che dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza della Corte sulla Gazzetta Ufficiale è fatto divieto di considerare efficace la legge e che si tratta di un divieto erga omnes che non ammette ignoranza, basata sulla presunzione di conoscenza che discende dalla pubblicazione predetta. (3) Sempre G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, cit., 264. V. anche F. PIERANDREI, Corte costituzionale, in Enc. del diritto, vol. X, Milano, 1962, 966. (4) Sentenza 2 aprile 1970, n. 49, in Giur. cost., 1970, 555. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 147 della loro formazione e perciò, lungi dall’escludere, postula al contrario che a tale legge gli operatori giuridici debbano fare riferimento quando siano da valutare atti anteriormente compiuti. Ed ha specificato che, se non fosse intervenuta pronuncia di illegittimità costituzionale di norme disciplinanti la formazione di determinati atti, proprio alla stregua di tali norme dovrebbe in prosieguo operarsi, se e quando tuttora possibile, la valutazione degli atti posti in essere nel tempo in cui quelle norme erano in vigore: ciò che, invece, è vietato dopo la pubblicazione della sentenza della Corte, che delle norme stesse ha sostanzialmente accertato erga omnes la incostituzionalità. Ma contemporaneamente è stato chiarito che occorreva stabilire i limiti della portata generale della sentenza d’incostituzionalità della norma, considerato che “la legge è entrata in vigore e si è imposta nell’ordinamento con la forza che le è propria, e che sulla sua base si sono venuti svolgendo i rapporti della vita sociale” (5). In definitiva, sembra che in questa materia si sia proceduto per gradi: dopo un primo periodo in cui si tendeva a valutare la pronuncia d’incostituzionalità alla stessa stregua della successione delle norme nel tempo, per cui si riteneva che la retroattività valesse esclusivamente per il processo che aveva dato causa all’eccezione d’incostituzionalità; successivamente si fa strada l’opinione che la retroattività valga in linea generale, per tutte le ipotesi, sul presupposto che l’incostituzionalità della legge debba essere ritenuta tale fin dal momento in cui la legge è stata promulgata. In questo modo si afferma solitamente (6) che “le leggi repubblicane dichiarate incostituzionali si considerano “annullate” e la sentenza di accoglimento della Corte costituzionale colpisce tali leggi sin dalla loro entrata in vigore”; mentre secondo questa dottrina “altrettanto pacifico è che a tale regola sfuggono i cosiddetti rapporti esauriti, vale a dire tutte quelle situazioni giuridiche che si sono definitivamente consolidate, vuoi per l’intervento di una sentenza passata in giudicato vuoi per lo spirare di termini di decadenza o di prescrizione o per altri motivi previsti nelle leggi dello Stato che valgano ad impedire la giustiziabilità del rapporto interessato dalla norma dichiarata incostituzionale”. Altra dottrina ha, infatti, chiarito che la decisione d’incostituzionalità esplica effetti retroattivi rispetto a situazioni e rapporti pendenti, cioè suscettibili di fornire materia per un giudizio (7); mentre hanno il connotato di rapporti esauriti i seguenti: passaggio in giudicato della sentenza; prescrizione nel diritto privato; decadenza nel diritto pubblico; preclusione nei rapporti di diritto processuale (8). (5) Cfr. F. PIERANDREI, Corte costituzionale, cit., 969. (6) Cfr. M. CARTABIA, Portata e limiti della retroattività delle sentenze della Corte costituzionale che incidono sugli status giuridici della persona. In margine ad alcune recenti sentenze della Corte di Cassazione in materia di cittadinanza, in Giur. cost., 1996, 3260. (7) V. G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, cit., 266. (8) Sempre G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, cit., 267. In definitiva, si può affermare che, sul punto della retroattività della pronuncia della Corte costituzionale che dichiari l’illegittimità costituzionale di una norma, la dottrina accolga le seguenti conclusioni: a) nessun dubbio che la retroattività operi per la lite giudiziaria che ha determinato l’eccezione di incostituzionalità: il giudice pertanto riterrà la norma mai operativa per il caso di specie, decidendo la lite senza tenerne conto; b) la retroattività, più in generale, si riferisce anche alle situazioni giuridiche precedenti, salvi i rapporti esauriti (9), i quali continueranno ad essere disciplinati dalla norma dichiarata incostituzionale. Le procedure espropriative in corso Appare evidente da quanto precede che la definitività dei rapporti che preclude alle sentenze della Corte Costituzionale di operare può essere traguardata anche dal lato dei procedimenti amministrativi (e non solo dei processi in sede giudiziaria) pur nella ovvia considerazione che non sussiste un unico tipo di procedimento analogamente a ciò che avviene nei processi giurisdizionali in cui i vari passaggi (le fasi) sono rigorosamente scanditi in via codicistica. In altri termini e così anche per quello di espropriazione per pubblica utilità, in ogni procedimento amministrativo non è sempre agevole individuare le parti, le fasi che possano attestare una definitività (totale o parziale) non suscettibile di riconsiderazione. Nello specifico del tema in esame, si osserva che la nuova disciplina dell’espropriazione, inaugurata dal d.P.R. n. 327/2001 e s.m.i., a far data dal 30 giugno 2003, individua (art. 8) in modo preciso – a differenza del passato – le fasi della procedura sembrando attribuire, tra le altre, valore autonomo alla determinazione dell’indennità provvisoria quasi formalizzando un principio già presente in talune pronunce della Cassazione (Sez. I, 20 aprile 1994, n. 3770; ma anche indirettamente, Sez. I, 10 febbraio 2005 n. 2859) secondo cui 148 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (9) Sul concetto di “rapporto esaurito” si rinvia anche alla pacifica giurisprudenza della Corte di legittimità secondo la quale le situazioni giuridiche possono dirsi ormai esaurite, consolidate ed intangibili, allorché i rapporti tra le parti siano stati già definiti anteriormente alla pronuncia di illegittimità costituzionale per effetto, sia di giudicato, sia di atti amministrativi non più impugnabili, sia di atti negoziali rilevanti sul piano sostanziale o processuale, nonostante l’inefficacia della norma dichiarata incostituzionale. La Cassazione ha, in particolare, chiarito che “se la dichiarazione di illegittimità costituzionale ha effetto retroattivo, nel senso che la disposizione dichiarata illegittima non può essere applicata né come norma per la disciplina dei rapporti ancora in corso o da costituire, né come regola di giudizio dei rapporti esauriti, tuttavia, la circostanza che quella disposizione abbia di fatto operato nell’ordinamento giuridico comporta che essa ha prodotto effetti irreversibili, perché essi hanno inciso su rapporti esauriti a causa della mancanza o della inutilizzabilità di strumenti idonei a rimetterli in discussione ovvero a causa della impossibilità giuridica o logica di valutare diversamente, a posteriori, comportamenti che devono essere esaminati alla stregua della situazione normativa esistente al momento in cui si verificano” (cfr. Cass. Civ., sez. I, 18 dicembre 1984, n. 6626, cui si farà riferimento anche nel prosieguo della relazione). tutto ciò che attiene alla determinazione dell’indennità provvisoria costituisce un sub-procedimento che si chiude con l’accettazione dell’indennità provvisoria “che resta così definitivamente fissata nella misura offerta ed accettata”. a) Il caso dell’accettazione dell’indennità provvisoria di esproprio Per quanto detto sopra, sembra doversi escludere che la sentenza n. 348/07 della Corte Costituzionale possa produrre un qualsivoglia effetto in relazione a quelle procedure espropriative in ordine alle quali l’espropriando abbia accettato l’indennità provvisoria in una data anteriore od almeno coincidente con quella (31 ottobre 2007) di pubblicazione della predetta sentenza sulla Gazzetta Ufficiale. Ed invero, in aggiunta alla giurisprudenza sopra richiamata, la predetta conclusione sembra trovare una decisiva conferma nella disciplina contenuta nel T.U. degli Espropri; il riferimento è, all’evidenza, alla disposizione contenuta nell’art. 20, comma 5, a tenore della quale l’accettazione dell’indennità provvisoria è irrevocabile; ovvero, ancora, alla previsione di cui al comma 6 del medesimo articolo ove si faculta l’Amministrazione ad una immissione in possesso anticipata nel bene espropriando, sulla base dell’intervenuta accettazione dell’indennità provvisoria da parte del soggetto passivo della procedura (una previsione, questa ultima, che attribuisce all’accettazione dell’indennità provvisoria quasi i connotati del decreto che autorizza l’occupazione d’urgenza). Pur tuttavia, occorre chiedersi, in chiave ovviamente problematica, se l’espropriando, che abbia accettato l’indennità provvisoria, calcolata sulla base dei criteri di legge, successivamente cadutati dalla pronuncia della Consulta, possa rimettere in discussione l’intervenuto accordo sul quantum dell’indennità, invocando il noto istituto della presupposizione (cfr., sul predetto istituto, tra le più recenti, Cass. Civ., sez. III, 24 marzo 2006, n. 6631); in altre parole, occorre porsi il problema del se l’accordo sull’indennità, al pari di qualsivoglia negozio giuridico, possa essere caducato (dichiarato nullo per mancanza di causa o risolto, secondo le formulazioni utilizzate dalla giurisprudenza civilistica) in quanto concluso sulla base di un presupposto oggettivo, comune ad entrambe le parti (espropriante ed espropriando) ma rimasto inespresso, costituito dall’esistenza di criteri legali di determinazione dell’indennità di esproprio per le aree edificabili, successivamente venuti meno per effetto della dichiarazione di incostituzionalità degli stessi. Al proposito, la, invero scarna, giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, rinvenuta sul tema, sembra pervenire a conclusioni negative in ordine alla predetta problematica. Per vero, la Cassazione, nelle occasioni in cui è stata chiamata a esprimersi, non si è pronunciata ex professo sulla predetta problematica atteso che le controversie, sottoposte al suo esame, non concernevano procedure espropriative bensì ipotesi in cui l’Amministrazione aveva optato, ai fini dell’acquisizione dell’area di sedime dell’opera, per il ricorso allo strumento privatistico della compravendita (cfr. Cass. Civ., sez. I, 11 marzo 2006, n. 5390 e Cass. Civ., sez. II, 4 luglio 1991, n. 7368). Maggiormente significativa sembra, invece, una risalente sentenza del Tribunale di Trieste che – chiamato a pronunciarsi sui riflessi della decisio- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 149 ne della Corte Costituzionale 19 luglio 1983, n. 223 su di una cessione volontaria, stipulata ai sensi dell’art. 12 della legge n. 865/71, nella quale erano state richiamate, ai fini della determinazione del corrispettivo, le norme della legge 29 luglio 1980, n. 385, dichiarate costituzionalmente illegittime con la predetta sentenza della Consulta – ha affermato che “Non può produrre la nullità di un contratto di cessione volontaria di beni soggetti alla procedura di espropriazione per pubblica utilità la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme sulla presupposizione delle quali il contratto fu concluso, sopravvenuta quando il rapporto si era già esaurito”. (cfr. Tribunale di Trieste, sentenza 24 luglio 1985, Pres. Fermo, Est. Mezzina, Cronos s.r.l. c/ Comune di Trieste, pubblicata su Giustizia Civile, 1986, Parte Prima, pag. 242 e ss., con nota di O. DANESE). I giudici triestini, dopo avere richiamato i principi generali, fissati dalla giurisprudenza in ordine all’efficacia retroattiva delle pronunce della Consulta, dichiarative dell’illegittimità costituzionale di determinate norme, hanno rilevato che “la possibilità da parte della società attrice di invocare la sopravvenuta incostituzionalità della legge 385 del 1980 per effetto della già citata sentenza n. 283 del 1983, quale ragione incidente sulla operatività del contratto di cessione stipulato con la p.a., secondo il principio della cosiddetta presupposizione…trova di per sé ostacolo nelle anzidette considerazioni circa i limiti di applicazione delle pronunce della Corte Costituzionale. Altrimenti, l’accertamento, nella specie, della rilevanza dell’invocata presupposizione porterebbe a riconoscere il diritto del privato di liberarsi dagli effetti di un atto negoziale del tutto esaurito, richiamando l’istituto della presupposizione, in ogni caso di sopravvenuto mutamento della situazione presupposta, con gravi conseguenze per la certezza del diritto e per la stabilità dei rapporti giuridici già conclusi” (cfr., nello stesso senso, Cass. Civ., 18 dicembre 1984, n. 6626, espressamente richiamata nella sentenza di merito, più sopra citata, nella quale si legge che “l’atto negoziale con il quale i ricorrenti hanno accettato l’indennità di espropriazione offerta conserva la sua validità, anche se è venuta meno la norma giuridica vigente nel momento in cui essi si erano determinati a compierlo”) (10). Sarà compito della giurisprudenza (che, con ogni probabilità per non dire certezza, sarà nuovamente chiamata a pronunciarsi sul punto) conferma- 150 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (10) Per completezza, si osserva che la società attrice, anziché chiedere la caducazione della cessione volontaria, avrebbe dovuto, invece, adire la Corte di Appello al fine di ottenere la determinazione giudiziale del conguaglio del prezzo di cessione volontaria, da calcolarsi ai sensi dell’art. 39 della legge n. 2359/1865. Si richiama, al proposito, la pacifica giurisprudenza della Corte di Cassazione secondo la quale l’art. 1 della legge n. 385/1980 prevedeva “che il prezzo della cessione doveva essere corrisposto in due quote, una prima, da calcolare in base ai criteri provvisori di cui alla citata legge del 1980, da ritenere illegittimi e una seconda, costituita dalla eventuale differenza ancora dovuta per effetto della liquidazione dell’indennità in base a criteri sostitutivi dei precedenti. La illegittimità costituzionale della L. 385/80 consentiva, dal giorno successivo alla data di pubblicazione della sentenza che l’aveva accertata n. 223/83, di chiedere la liquidazione delle somme dovute in re ovvero smentire le conclusioni di cui ai prefati risalenti precedenti giurisprudenziali. b) Il caso di mancata accettazione dell’indennità provvisoria di esproprio Argomentando implicitamente ed a contrario da quanto affermato con riferimento all’ipotesi sub a), si ricava che, se non vi è stata accettazione dell’indennità provvisoria, tale fase non potrebbe dirsi chiusa (con esaurimento del relativo rapporto giuridico) e l’indennità dovrebbe ancora ritenersi “provvisoria” (rectius: suscettibile di rideterminazione). Al riguardo, deve però rilevarsi che si parla da più parti di “definitività in via amministrativa” allorché, a seguito del rifiuto dell’indennità provvisoria, la determinazione della medesima venga affidata a organi terzi (tali dovendosi considerare, oggi, non solo la già nota Commissione Provinciale Espropri bensì anche i tecnici, componenti la relativa terna, ai quali il nuovo art. 21 del d.P.R. n. 327/01 affida, in alternativa alla Commissione predetta, la valutazione in parola), i quali provvedono ad elaborare una relazione sulla misura dell’indennità non accettata da comunicare successivamente agli interessati nei modi e termini di legge. Nel prosieguo dell’iter procedurale, dopo tale comunicazione, la nuova normativa sembrerebbe, a prima vista, atteggiarsi in modo diverso rispetto alla precedente (legge 865/71) la quale, tranne le ipotesi definite “anomale” dalla giurisprudenza, aveva previsto, in via ordinaria, nei casi di rifiuto, prima l’emanazione del decreto d’esproprio (art. 13) e poi la definizione della indennità in via amministrativa (art. 15), come peraltro esplicitato dalla successione cronologica degli articoli sopra indicati (cfr., in tale senso, Cass. Civ., Sez. I, 2 febbraio 2007, n. 2238 e ulteriori riferimenti giurisprudenziali ivi contenuti). Nel nuovo sistema, la situazione sembra essersi rovesciata poiché la disposizione che regola i casi di determinazione dell’indennità definitiva in via amministrativa (art. 21, ma anche art. 27 del d.P.R. n. 327/01) precede quelle disposizioni in cui si disciplinano l’emanazione e l’esecuzione del decreto d’esproprio (artt. 23 e 24). Viene così spontaneo all’operatore domandarsi se sia mutato l’indirizzo legislativo con l’attribuzione alla soluzione amministrativa dell’indennità di un carattere in qualche modo esaustivo ad ogni effetto di tale fase, quantomeno una volta decorsi i trenta giorni dall’avviso con il quale gli interessati hanno notizia dell’intervenuta relazione di stima da parte dell’organo a ciò deputato (C.P.E. o “collegio peritale”). Invero, una lettura più attenta delle norme sopraindicate, in combinazione con quelle contenute nell’art. 54 (disciplina dell’opposizione alla stima) IL CONTENZIOSO NAZIONALE 151 base al corrispettivo corrispondente al valore venale dell’area, di cui alla citata legge del 1865” (cfr., tra le tante, Cass. Civ., sez. I, 2 aprile 2007, n. 8217). ed alla luce delle considerazioni svolte dall’Adunanza Generale del Consiglio di Stato in sede di parere reso al governo sul nuovo T.U. espropri (parere 29 marzo 2001 n. 4), porta ad escludere che vi siano ragioni per ritenere mutato il sistema delineato in precedenza (e quindi valido ancora oggi). Si ricava, infatti, dall’articolazione dell’iter procedurale: – che nei trenta giorni dall’avviso di deposito della relazione di stima amministrativa dell’indennità, gli interessati possono prenderne visione e estrarne copia; – che nei trenta giorni successivi, gli stessi debbono manifestare espressamente l’accettazione della somma stabilita degli organismi di cui sopra (ed in tal caso soltanto, si dovrebbe considerare chiusa la vicenda indennitaria); oppure addivenire al rifiuto della somma in parola la quale, per l’eccedenza rispetto all’indennità provvisoria rifiutata, andrà depositata presso la Cassa DD.PP. (oggi, presso la competente sezione di Tesoreria Provinciale dello Stato). Ma è proprio dalla lettura dell’art. 54 T.U. che si può inferire che, in tale ultima ipotesi, non può considerarsi chiusa o “definitiva”, nel senso che qui viene in rilievo, la vicenda dell’indennità, esposta – in quanto, appunto, non definitiva – alle possibili azioni giudiziarie davanti alla Corte d’Appello (di cui viene confermata la competenza in unico grado) con un duplice termine di opposizione alla stima che il sopra richiamato parere n. 4/2001 del Consiglio di Stato ha voluto rimarcare: – come termine “dilatorio” (o meglio, facoltativo, ex art. 54, comma 1, atteso che chi ne abbia interesse “... può impugnare gli atti innanzi alla Corte d’Appello) entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della relazione di stima; – come termine perentorio (ovvero a pena di decadenza ex art. 54, 2° comma), entro trenta giorni dalla notifica del decreto d’esproprio ovvero entro trenta giorni dalla notifica della stima (peritale o della C.P.E.) nella ipotesi in cui la stima sia successiva al decreto d’esproprio. Se tale deve ritenersi l’assetto normativo recato dall’ordinamento odierno, sembra potersi considerare ancora contestabile ed assoggettabile a riconsiderazione, nei modi sopra delineati, la misura dell’indennità nelle fattispecie in cui l’espropriando, a fronte dell’offerta dell’indennità provvisoria, non la abbia condivisa e non abbia, neppure, accettato la stima amministrativa, effettuata dal “collegio peritale” ovvero dalla C.P.E. Una conclusione, questa ultima, che vale anche per l’ipotesi in cui sia già intervenuto il decreto di esproprio ma non sia stata ancora determinata (dal collegio peritale ovvero dalla C.P.E.) l’indennità definitiva. Il che sconfessa le, quantomeno frettolose, conclusioni cui sono pervenuti i primi commentatori all’indomani della pubblicazione sulle riviste (soprattutto su quelle on line) della sentenza n. 348/07 ovvero che la stessa non avrebbe potuto produrre effetti con riferimento alle procedure espropriative già concluse mercé l’emanazione del decreto ablatorio. Avv. Maurizio Borgo 152 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO IL CONTENZIOSO NAZIONALE 153 B) I nuovi criteri di determinazione dell’indennità di espropriazione per le aree edificabili. Brevi riflessioni, a caldo, sull’art. 37-bis (*) del disegno di legge Finanziaria 2008 Come era stato ampiamente previsto, sotto l’albero del Natale 2007 troveremo il “regalo” del nuovo, o meglio dei nuovi criteri di determinazione dell’indennità di espropriazione per le aree edificabili. Il Governo, raccogliendo l’invito, rivoltogli dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 348/07 e adempiendo all’impegno cui era stato vincolato dalla Risoluzione, adottata dalla Commissione VIII – Ambiente della Camera dei Deputati nella seduta del 14 novembre, ha, infatti, presentato un emendamento al disegno di legge finanziaria 2008 con il quale viene colmata la lacuna, apertasi nel panorama espropriativo a seguito della prefata sentenza della Consulta. Per amore di verità, come si avrà modo di evidenziare nella parte conclusiva del presente contributo, il Governo ha inteso, in qualche modo, “dare esecuzione” anche alla sentenza n. 349/07 della Corte Costituzionale. Ma andiamo con ordine e passiamo ad esaminare l’art. 37-bis del disegno di legge finanziaria 2008, non prima di avere osservato che non è molto felice la scelta di introdurre, tra le altre norme, i nuovi commi 1 e 2 dell’art. 37 del T.U. Espropri, con un articolo che porta il numero 37-bis della legge finanziaria. Alla lettera a) del comma 1 del predetto articolo, viene previsto che i commi 1 e 2 dell’art. 37 del T.U. (dichiarati incostituzionali dalla sentenza n. 348/07) siano sostituiti dalle seguenti disposizioni: “1. L’indennità di espropriazione di un’area edificabile è determinata nella misura pari al valore venale. Quando l’espropriazione è finalizzata ad attuare interventi di riforma economica-sociale, l’indennità è ridotta del 25 per cento. 2. Nei casi in cui è stato concluso l’accordo di cessione, o quando questo non è stato concluso per fatto non imputabile all’espropriato ovvero perché a questi è stata offerta un’indennità provvisoria che, attualizzata, risulta inferiore agli otto decimi di quella determinata in via definitiva, l’indennità è aumentata del dieci per cento”. Dall’esame delle disposizioni, sopra riprodotte, emerge, in primo luogo, che il Governo ha ritenuto (in ciò esercitando una facoltà che gli era stata riconosciuta dalla Consulta) di dovere diversificare i criteri di determinazione dell’indennità di esproprio per le aree edificabili, a seconda che ci si trovi in presenza di quello che la stessa Corte Costituzionale, mutuando una espressione utilizzata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, aveva defi- (*) Questo articolo corrisponde ora all’art. 2, commi 89 e 90, della legge 24 dicembre 2007 n. 244 (Legge finanziaria 2008), che si pubblicano a pag. 161. 154 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO nito un esproprio isolato ovvero di una espropriazione “finalizzata ad attuare interventi di riforma economica-sociale” (qui la terminologia, utilizzata dall’Esecutivo, diverge, come si avrà modo di evidenziare più avanti, dalle espressioni utilizzate dalla Consulta nella sentenza n. 348/07). La seconda considerazione che viene suscitata dalla lettura delle prefate disposizioni è che il Governo ha ritenuto, con riferimento agli espropri c.d. isolati, di dovere identificare l’indennizzo espropriativo con il valore venale ovvero il valore di mercato dell’area edificabile. Al proposito, va detto che tale scelta non era affatto obbligata alla luce delle statuizioni della sentenza costituzionale del 24 ottobre atteso che i giudici costituzionali, nella parte, per così dire propositiva, avevano rimesso al legislatore la decisione se commisurare perfettamente, o meno, l’indennizzo, dovuto per l’ablazione di un’area edificabile, al valore di mercato di questa ultima. Ma vi è di più! La scelta, operata dal Governo, sembra porsi in contrasto con le direttive ad esso rivolte dal Parlamento; il riferimento è alla Risoluzione della Commissione Ambiente della Camera dei Deputati, più sopra menzionata, nella quale si legge che “alla luce delle richiamate pronunce, si può constatare che sia la giurisprudenza della Corte costituzionale sia quella della Corte EDU concordano nel ritenere sia che il punto di riferimento per determinare l’indennità di espropriazione debba essere il valore di mercato (o venale) del bene ablato, sia la non coincidenza necessaria tra valore di mercato e indennità espropriativa, alla luce del sacrificio che può essere imposto ai proprietari di aree edificabili in vista del raggiungimento di fini di pubblica utilità”. A ciò si aggiunga che, come acutamente evidenziato dall’amico Paolo Loro nella relazione dallo stesso predisposta in occasione del recente Convegno nazionale, tenutosi a Montegrotto Terme in data 21 novembre, “l’esperienza pratica insegna che solo in casi di opere di modeste dimensioni incidenti in aree edificabili, casi che si possono ritenere complessivamente minoritari (ancorché prevalentemente concentrati in capo ai Comuni), il differenziale tra il valore venale e il criterio del cinque bis può mettere a rischio – come teorizza la Corte Costituzionale – la realizzazione stessa dell’opera in corso”. Il che impone la seguente riflessione: non era forse più opportuno prevedere uno scostamento dell’indennità di espropriazione delle aree edificabili dal valore di mercato delle stesse proprio con riferimento a quelle procedure espropriative che, sebbene “isolate”, vanno ad incidere su aree, per la quasi totalità edificabili, ed in ordine alle quali, ove l’articolato in esame dovesse diventare norma di legge, si registrerà un consistente aumento dei costi di esproprio con la concreta possibilità che le Amministrazioni locali si determinino nel senso di non realizzare più le opere pubbliche progettate? Un pericolo, questo ultimo, che sembra avere avuto ben presente la Commissione Ambiente della Camera laddove ha evidenziato che “è, dunque, evidente che la stessa giurisprudenza riconosce l’esigenza, avvertita anche a livello istituzionale, di non impedire, di fatto, agli enti locali di esercitare la potestà esproIL CONTENZIOSO NAZIONALE 155 priativa e di non porre tali enti in condizioni di vera e propria emergenza economico- finanziaria per la corresponsione della relativa indennità”. La scelta, operata dal Governo, va, invece, in una direzione opposta in quanto lo scostamento del 25% rispetto al valore di mercato viene previsto con riferimento all’indennità di espropriazione che dovrà essere corrisposta, ai proprietari delle aree edificabili, con riferimento ad una espropriazione “finalizzata ad attuare interventi di riforma economica-sociale”. Una espressione, questa ultima, che, oltre che divergere dalla terminologia utilizzata dalla Corte Costituzionale (per non dire della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, come noto, ha ammesso divergenze fra indennità di esproprio e valore venale solo con riferimento ad ipotesi di veri e propri mutamenti dell’ordinamento costituzionale ovvero di altri “eventi epocali”), si presenta alquanto criptica. Quali sarebbero, infatti, gli espropri finalizzati ad attuare le predette riforme? Gli espropri finalizzati all’attuazione di un PEEP o di un PIP, per esempio, possono ricondursi alla predetta eccezione alla regola del valore venale? E gli espropri finalizzati alla realizzazione di un’opera pubblica compresa negli elenchi della “legge obiettivo”? A questo ultimo proposito, l’amico Paolo Loro, nella relazione più sopra citata, ha espresso, in merito, delle perplessità che mi sento di condividere; a ciò aggiungo che la (forse voluta?) indeterminatezza dell’espressione “espropriazione finalizzata ad attuare interventi di riforma economicasociale” ingenererà sicuramente incertezze fra le autorità esproprianti e conseguentemente un prevedibile massiccio contenzioso sul punto (nuovo contenzioso del quale, sinceramente, non si avvertiva il bisogno). Passiamo adesso al nuovo secondo comma dell’art. 37 del T.U. Espropri che, in realtà, riecheggia, per gran tratta, la precedente formulazione, con la sola eccezione del “premio” che viene riconosciuto a chi accetterà l’indennità provvisoria di esproprio (ovvero sarà costretto a non accettarla a cagione di una offerta non congrua) che non consisterà più, come in passato, nella non applicazione della falcidia del 40% bensì nell’aumento dell’indennità di esproprio di un 10%. Devo confessare che, fin dalla prima lettura della predetta disposizione, sono rimasto perplesso; perplessità che non è scomparsa a seguito di una successiva, più meditata, lettura della norma. Il problema è il seguente: a quale ipotesi si riferisce la previsione premiale? Mi spiego meglio: l’aumento dell’indennità di esproprio del 10% riguarda tutte le ipotesi di esproprio di aree edificabili ovvero soltanto gli espropri per i quali l’indennità sarà pari al 75% del valore venale? Ed invero, ove si dovesse optare per la prima delle due alternative, sopra indicate, la conseguenza sarebbe che il soggetto espropriato di un’area edificabile, nel caso di accettazione ovvero di non accettazione “forzata” dell’indennità provvisoria (pari al valore di mercato del bene), percepirebbe il 110% del valore venale; il che si porrebbe in contrasto con il principio di contabilità pubblica, più volte richiamato, in passato, dalla Corte Costituzionale (cfr., per tutte, la sentenza n. 1022 del 1988) secondo il quale il valore venale costituisce il “tetto massimo” di qualsivoglia esborso in tema di indennità di esproprio. Sembra, pertanto, doversi preferire la seconda delle predette alternative ovvero che la previsione “premiale” riguardi soltanto le ipotesi in cui l’indennità di esproprio, per previsione di legge, diverge dal valore venale di un 25%; in altre parole, ove l’indennità di esproprio venga determinata, in futuro, dall’Autorità espropriante in una misura che, secondo l’espropriando, si discosta significativamente (lo scarto dovrà essere superiore ai due decimi) dal 75% del valore venale dell’area edificabile, questo ultimo ben potrà non accettare l’indennità offerta e, in sede di determinazione dell’indennità definitiva (sia essa operata dal collegio peritale, dalla Commissione Provinciale Espropri ovvero dalla Corte di Appello nel giudizio di opposizione alla stima), otterrà non più il 75% del valore di mercato bensì l’85%; lo stesso dicasi in caso di accettazione dell’indennità provvisoria. Non meritano particolari commenti le disposizioni di cui alle lettere b), c) e d) del comma 1 dell’art. 37-bis del disegno di legge finanziaria in quanto le stesse sono imposte, come riconosce la stessa relazione di accompagnamento all’emendamento, da mere esigenze di coordinamento di alcune disposizioni del T.U. espropri con i novellati commi 1 e 2 dell’art. 37 del predetto provvedimento. Qualche riflessione merita, invece, la lettera e) con la quale viene sostituito l’art. 55, comma 1, del T.U. espropri. Come più sopra anticipato, con la predetta novella, il Governo ha inteso “dare esecuzione” alla sentenza n. 349/07 della Corte Costituzionale che, come noto, ha dichiarato incostituzionale l’art. 5-bis, comma 7-bis, del D.L. n. 333/92 convertito in legge n. 359/92. Orbene, come sanno tutti coloro che hanno almeno letto la predetta pronuncia della Consulta, i giudici costituzionali, pur potendolo fare, non hanno ritenuto di estendere la declaratoria di illegittimità costituzionale anche all’art. 55, comma 1 del T.U. espropri. Si è trattato di dimenticanza? La risposta alla predetta domanda deve essere negativa in quanto, altrimenti, si offenderebbe l’intelligenza dei giudici costituzionali che, tra l’altro, con la sentenza n. 348/07 hanno esteso la pronuncia di incostituzionalità dei commi 1 e 2 dell’art. 5-bis, sopra menzionato, ai commi 1 e 2 dell’art. 37 del T.U. Espropri. La spiegazione al mancato esercizio della facoltà, riconosciuta alla Consulta dall’art. 27 della legge n. 87/53, potrebbe rinvenirsi nella circostanza che, richiamando, l’art. 55, comma 1, del T.U. Espropri, l’art. 37, la dichiarazione di incostituzionalità di questa ultima norma, disposta con la sentenza n. 348/07, esonerava la Corte dall’estendere gli effetti della sentenza successiva n. 349/07 all’art. 55. Ma la spiegazione potrebbe essere anche un’altra; ovvero che i giudici costituzionali abbiano voluto rimarcare la differenza esistente fra l’art. 5-bis, comma 7-bis, del D.L. n. 333/92 convertito in legge n. 359/92 rispetto all’art. 55 del T.U. espropri. 156 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Una differenza che, oltre che dal confronto fra la lettera delle predette disposizioni (nella prima, si parla di occupazioni illegittime anteriori al 30 settembre 1996, nella seconda, invece, di utilizzazione di un suolo edificabile per scopi di pubblica utilità, in assenza del valido ed efficace decreto di esproprio, anteriore al 30 settembre 1996), sembra emergere dal fatto che la prima delle disposizioni si riferiva chiaramente all’istituto, di creazione pretoria, della c.d. “occupazione acquisitiva” o “accessione invertita” che dir si voglia, mentre la seconda disposizione si riferisce chiaramente (lo testimonia la terminologia utilizzata) all’istituto della acquisizione coattiva sanante di cui all’art. 43 del T.U. Espropri. Il che potrebbe significare che la Consulta, consapevole della diversità esistente fra i predetti due istituti, abbia voluto limitare la propria pronuncia alle ricadute patrimoniali delle fattispecie di “occupazione acquisitiva”, perfezionatesi anteriormente al 30 settembre 1996, con ciò, sebbene implicitamente, escludendo che all’art. 43 del T.U. Espropri, contrariamente a quanto affermato dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (in ciò, però, contrastata dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione), possa riconoscersi efficacia retroattiva. La novella dell’art. 55 del T.U. Espropri, disposta con la norma in commento, sembrerebbe, invece, smentire la predetta conclusione e potrebbe essere interpretata nel senso di un avallo (non si sa quanto consapevole), da parte del legislatore, della tesi della retroattività dell’art. 43 del T.U. Espropri. Da ultimo, una breve riflessione sul comma 2 dell’art. 37-bis del disegno di legge finanziaria con il quale viene disciplinato il c.d. regime transitorio, prevedendosi l’applicazione delle nuove disposizioni anche alle procedure espropriative in corso, fatta eccezione per i casi in cui, anteriormente all’entrata in vigore della legge finanziaria 2008, vi sia stata condivisione dell’indennità provvisoria di esproprio, accettazione di quella definitiva ovvero sia, comunque, spirato il termine decadenziale, previsto dall’art. 54, comma 2, del T.U. espropri per la proposizione dell’opposizione alla stima davanti alla Corte di Appello. Trattasi di disposizione che, chi scrive, non può che salutare con favore atteso che la stessa conferma la bontà delle conclusioni cui il sottoscritto, con l’autorevole conforto del Cons. Stefano Benini, era pervenuto, in occasione del Convegno nazionale più sopra menzionato, in ordine alle ricadute della sentenza costituzionale n. 348/07 sulle procedure espropriative in corso alla data di pubblicazione della decisione della Consulta. Avv. Maurizio Borgo Emendamento alla Legge Finanziaria 2008 – A.C. 3256 – Indennità di espropriazione. Articolo 37-bis «(Modifiche al testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità, di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 327). 1.- Al testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità, di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 327, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’art. 37, i commi 1 e 2 sono sostituiti dai seguenti: “1. L’indennità di espropriazione di un’area edificabile è determinata nella misura pari IL CONTENZIOSO NAZIONALE 157 al valore venale del bene . Quando l’espropriazione è finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale, l’indennità è ridotta del 25 per cento. 2. Nei casi in cui è stato concluso l’accordo di cessione, o quando esso non è stato concluso per fatto non imputabile all’espropriato, ovvero perché a questi è stata offerta un’indennità provvisoria che, attualizzata, risulta inferiore agli otto decimi di quella determinata in via definitiva, l’indennità è aumentata del 10 per cento”; b) all’articolo 45, co. 2, lettera a), le parole: “senza la riduzione del 40 per cento” sono sostituite dalle seguenti: “con l’aumento del 10 per cento di cui al comma 2”; c) all’art. 20, comma 14, il secondo periodo è sostituito dal seguente: “L’autorità espropriante dispone il deposito, entro trenta giorni, presso la Cassa depositi e prestiti, della somma senza le maggiorazioni di cui all’art. 45”; d) all’art. 22, comma 3, le parole: “senza applicare la riduzione del quaranta per cento di cui all’art. 37, comma 1”, sono soppresse; e) all’art. 55, il comma 1 è sostituito dal seguente: “Nel caso di utilizzazione di un suolo edificabile per scopi di pubblica utilità, in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio alla data del 30 settembre 1996, il risarcimento del danno è liquidato in misura pari al valore venale del bene”. 2.- Le disposizioni di cui all’art. 37, commi 1 e 2, e quelle di cui all’art. 45, comma 2, lettera a), del citato testo unico di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 327, come sostituiti dal comma 1 del presente articolo, si applicano a tutti i procedimenti espropriativi in corso, salvo che la determinazione dell’indennità di espropriazione sia stata condivisa, ovvero accettata, o sia comunque divenuta irrevocabile». «Relazione – Con sentenza n. 348 del 2007 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 37, co. 1 e 2, del d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), nella parte in cui, ai fini della determinazione dell’indennità di espropriazione dei suoli edificabili, prevedono un criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore venale del bene ed il reddito dominicale rivalutato. Ad avviso della Corte tali norme violano l’art. 117, primo comma, della Costituzione (in relazione all’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, secondo l’interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo), in quanto le somme liquidate al proprietario del bene espropriato non sono adeguatamente proporzionate al valore di mercato del bene. L’emendamento in oggetto è finalizzato ad accogliere l’invito – rivolto dalla Corte costituzionale al legislatore – ad introdurre nuove norme che bilancino l’interesse individuale del proprietario del bene espropriato con la funzione sociale della proprietà, tenuto conto dei principi espressi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui l’equilibrio tra i contrapposti interessi può essere realizzato in modo differenziato, in base alla qualità dei fini di utilità pubblica di volta in volta perseguiti. All’uopo vengono disciplinati ex novo i criteri per la determinazione dell’indennità di esproprio, distinguendo i casi di espropriazione isolata di un singolo bene (nei quali l’indennizzo sarà determinato in misura corrispondente al suo valore venale) dai casi in cui l’espropriazione avvenga nell’ambito di iniziative aventi rilevante interesse economico- sociale (nei quali la misura dell’indennizzo, pur restando agganciata al parametro del valore venale del bene espropriato, verrà ridotta in funzione del peculiare fine di utilità sociale che l’espropriazione è diretta a realizzare). 158 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Esigenze di coordinamento con i novellati commi 1 e 2 dell’art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, impongono di modificare anche l’articolo 45 del testo unico (nella parte in cui disciplina la determinazione del corrispettivo spettante al proprietario nelle ipotesi di cessione volontaria del bene sottoposto al procedimento di espropriazione), l’art. 20, co. 14, (nella parte in cui disciplina il deposito dell’indennità provvisoria non condivisa dal proprietario del bene) e l’art. 22, co. 3 (nella parte in cui disciplina il pagamento dell’indennità provvisoria determinata nei casi d’urgenza). È stata infine prevista una disciplina transitoria che consente di applicare le nuove disposizioni anche nei procedimenti di espropriazione in corso, con esclusione dei casi in cui la determinazione dell’indennità di esproprio sia divenuta intangibile a seguito della condivisione dell’indennità provvisoria (art. 3, co. 4 del testo unico), a seguito dell’accettazione dell’indennità definitiva (art. 21, co. 12 del testo unico), o perché è comunque scaduto il termine per proporre opposizione alla stima definitiva (art. 54, co. 2, del testo unico). Con sentenza n. 349 del 2007 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale – per violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione – dell’art. 5 bis, co. 7 bis, del d.l. 11 luglio 1992, n. 333 (convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359), nella parte in cui non prevede un ristoro integrale del danno subito per effetto dell’occupazione acquisitiva da parte della Pubblica amministrazione, corrispondente al valore di mercato del bene occupato, ponendosi in tal modo in contrasto con gli obblighi internazionali sanciti dall’art. 1 del primo protocollo addizionale alla CEDU. La Corte non ha esteso la declaratoria di incostituzionalità all’art. 55 del testo unico in materia di espropriazione per pubblica utilità (che pure riproduce la norma dichiarata incostituzionale, disciplinando il regime risarcitorio del danno derivante dalle occupazioni illegittime anteriori al 30 settembre 1996). Sussiste pertanto la necessità di modificare l’art. 55, co. 1, del testo unico, adeguandolo alle indicazioni della Corte costituzionale, secondo cui la liquidazione del danno cagionato dall’occupazione acquisitiva deve essere commisurata al valore di mercato del bene». Camera dei Deputati, Commissione VIII – seduta 14 novembre 2007 – 7-00302 Realacci: Disciplina dei criteri di computo dell’indennità di espropriazione. «Risoluzione approvata dalla Commissione La VIII Commissione, premesso che: – la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU), con la sentenza Scordino c/ Italia del 29 marzo 2006, ha riconosciuto l’incompatibilità dei criteri di computo dell’indennità di espropriazione previsti dall’articolo 5-bis, commi 1 e 2, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 35, con l’articolo 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione europea per i Diritti dell’Uomo e le Libertà fondamentali (CEDU), recante disposizioni in materia di protezione della proprietà; – secondo la citata sentenza Scordino c/ Italia del 29 marzo 2006, i criteri di quantificazione dell’indennità di esproprio sostanziano violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1, per mancanza del necessario equilibrio che deve sussistere, in tema di proprietà, tra esigenze di carattere generale, direttamente a salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo, e imperativi di salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo, equilibrio che viene vulnerato quando l’indennizzo non sia ragionevolmente rapportabile al valore della proprietà espropriata; IL CONTENZIOSO NAZIONALE 159 – sulla materia si era espressa la Corte costituzionale che, con la sentenza n. 283 del 1993, nel dichiarare non fondata la questione relativa al citato articolo 5-bis del decretolegge n. 333 del 1992, aveva posto in rilievo il carattere transitorio di tale disciplina, giustificata dalla grave congiuntura economica che il Paese stava attraversando, precisando che la valutazione sull’adeguatezza dell’indennità doveva essere condotta in termini relativi, avendo riguardo al quadro storico-economico ed al contesto istituzionale; – la medesima Corte costituzionale, con la sentenza n. 348, depositata il 24 ottobre 2007, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del citato articolo 5-bis, da un lato constatando che il criterio dichiaratamente provvisorio previsto dallo stesso articolo era divenuto definitivo ad opera dell’articolo 37 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità) e, dall’altro, rilevando che la condizione della «sfavorevole congiuntura economica» che aveva indotto nel 1993 la stessa Corte a ritenere le suddette disposizioni non incompatibili con la Costituzione, non poteva protrarsi all’infinito, «conferendo sine die alla legislazione una condizione di eccezionalità che, se troppo prolungata nel tempo, perde tale natura ed entra in contraddizione con la sua stessa premessa»; – secondo la Corte costituzionale, un’indennità «congrua, seria ed adeguata» non può «adottare il valore di mercato del bene come mero punto di partenza per calcoli successivi che si avvalgono di elementi del tutto sganciati da tale dato, concepiti in modo tale da lasciare alle spalle la valutazione iniziale, per attingere risultati marcatamente lontani da essa», giungendo «sino alla pratica vanificazione dell’oggetto del diritto di proprietà»; – con la richiamata sentenza n. 348 del 2007, il «Giudice delle leggi» ha dichiarato anche l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell’articolo 37, commi 1 e 2, del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), poiché recanti norme identiche a quelle contenute nel citato articolo 5-bis e dichiarate in contrasto con la Costituzione con la medesima sentenza; – alla luce delle richiamate pronunce, si può constatare che sia la giurisprudenza della Corte costituzionale sia quella della Corte EDU concordano nel ritenere sia che il punto di riferimento per determinare l’indennità di espropriazione debba essere il valore di mercato (o venale) del bene ablato, sia la non coincidenza necessaria tra valore di mercato e indennità espropriativa, alla luce del sacrificio che può essere imposto ai proprietari di aree edificabili in vista del raggiungimento di fini di pubblica utilità; – è, dunque, evidente che la stessa giurisprudenza riconosce l’esigenza, avvertita anche a livello istituzionale, di non impedire, di fatto, agli enti locali di esercitare la potestà espropriativa e di non porre tali enti in condizioni di vera e propria emergenza economico-finanziaria per la corresponsione della relativa indennità; – sia la Corte EDU con il richiamato arresto del 29 marzo 2006 sia la Corte costituzionale con la sentenza n. 348 del 2007 evidenziano, peraltro, l’esigenza di un intervento del legislatore nella materia; – in proposito, si ricorda che la sentenza n. 348 del 2007 ha dettato i seguenti principi in materia di revisione dell’indennità di esproprio: a) «il legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato. L’articolo 42 Cost. prescrive alla legge di riconoscere e garantire il diritto di proprietà, ma ne mette in risalto la «funzione sociale»»; ciò comporta, dunque, che il valore dell’indennità corrisponda ad un equo e ragionevole indennizzo del danno prodotto e non all’integrale valore venale del bene; 160 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO b) «valuterà il legislatore se l’equilibrio tra l’interesse individuale dei proprietari e la funzione sociale della proprietà debba essere fisso e uniforme, oppure, in conformità all’orientamento della Corte europea, debba essere realizzato in modo differenziato, in rapporto alla qualità dei fini di utilità pubblica perseguiti», posto che secondo la Corte EDU vi è la possibilità di distinguere due tipologie di obiettivi di utilità sociale a cui possono essere preordinate le espropriazioni: da un lato, obiettivi di riforma economica o sociale o di mutamento del contesto politico istituzionale; dall’altro obiettivi di utilità sociale che non si inseriscono in una prospettiva di ampia riforma e che si realizzano attraverso «espropriazioni isolate»; mentre per la prima categoria di espropriazioni è compatibile con la CEDU un’indennità inferiore al valore venale del bene, per la seconda categoria non è giustificata un’indennità inferiore a tale valore; c) «criteri di calcolo fissi e indifferenziati rischiano di trattare allo stesso modo situazioni diverse, rispetto alle quali il bilanciamento deve essere operato dal legislatore avuto riguardo alla portata sociale delle finalità pubbliche che si vogliono perseguire, pur sempre definite e classificate dalla legge in via generale»; d) «i parametri per la determinazione dell’indennità di espropriazione riguardante aree edificabili devono fondarsi sulla base di calcolo rappresentata dal valore del bene, quale emerge dal suo potenziale sfruttamento non in astratto, ma secondo le norme ed i vincoli degli strumenti urbanistici vigenti nei diversi territori», impegna il Governo: – ad adottare ogni opportuna iniziativa finalizzata a pervenire ad una nuova disciplina legislativa dell’indennità di espropriazione, tenendo presenti i criteri individuati nella sentenza n. 348 del 2007 della Corte costituzionale, di cui in premessa; – a muoversi, in questo contesto e in coerenza con la giurisprudenza costituzionale, verso una commisurazione dell’indennità di espropriazione superiore a quella fissata dalla legislazione vigente, adottando tuttavia una logica che – non potendo garantire l’integrale applicazione del valore di mercato – miri ad assicurare una maggiore prossimità di tale indennità con il valore venale del bene ablato. (8-00099) – Realacci, Iannuzzi, Mariani, Bocci, Fasciani, Vichi, Marantelli, Stradella, Lupi, Osvaldo Napoli, Dussin, Camillo Piazza, Chianale, Galeazzi, Mereu, Foti». Legge 24 dicembre 2007 n. 244 - Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008). Pubblicata nel Supplemento Ordinario alla Gazzetta Ufficiale 28 dicembre 2007, n. 300 – Articolo 2, commi 89 e 90. «89. Al testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’articolo 37 (L), i commi 1 e 2 sono sostituiti dai seguenti: «1. L’indennità di espropriazione di un’area edificabile è determinata nella misura pari al valore venale del bene. Quando l’espropriazione è finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale, l’indennità è ridotta del 25 per cento. (L). 2. Nei casi in cui è stato concluso l’accordo di cessione, o quando esso non è stato concluso per fatto non imputabile all’espropriato ovvero perché a questi è stata offerta un’indennità provvisoria che, attualizzata, risulta inferiore agli otto decimi di quella determinata in via definitiva, l’indennità è aumentata del 10 per cento. (L)»; IL CONTENZIOSO NAZIONALE 161 b) all’articolo 45 (L), comma 2, lettera a), le parole: «senza la riduzione del quaranta per cento» sono sostituite dalle seguenti: «con l’aumento del dieci per cento di cui al comma 2 dell’articolo 37»; c) all’articolo 20 (L), comma 14, il secondo periodo è sostituito dal seguente: «L’autorità espropriante dispone il deposito, entro trenta giorni, presso la Cassa depositi e prestiti S.p.a., della somma senza le maggiorazioni di cui all’articolo 45»; d) all’articolo 22 (L), comma 3, le parole: «, senza applicare la riduzione del quaranta per cento di cui all’articolo 37, comma 1» sono soppresse; e) all’articolo 55 (L), il comma 1 è sostituito dal seguente: «1. Nel caso di utilizzazione di un suolo edificabile per scopi di pubblica utilità, in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio alla data del 30 settembre 1996, il risarcimento del danno è liquidato in misura pari al valore venale del bene. (L)». 90. Le disposizioni di cui all’articolo 37, commi 1 e 2, e quelle di cui all’articolo 45, comma 2, lettera a), del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, come modificati dal comma 89 del presente articolo, si applicano a tutti i procedimenti espropriativi in corso, salvo che la determinazione dell’indennità di espropriazione sia stata condivisa, ovvero accettata, o sia comunque divenuta irrevocabile». 162 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO IL CONTENZIOSO NAZIONALE 163 Dossier 2 L’anzianità di servizio del personale A.T.A. transitato nella scuola statale (Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenze 17 febbraio 2005 n. 3224 e 16 gennaio 2008 n. 677; Corte costituzionale, sentenza 26 giugno 2007 n. 234) Con la recente sentenza 16 gennaio 2008 n. 677 la Corte di Cassazione – a seguito dell’entrata in vigore della norma di interpretazione autentica di cui all’art. 1, comma 218, legge n. 266 del 2005 e dell’ordinanza della Corte Costituzionale n. 234 del 2007 – è tornata ad affrontare, auspicabilmente in via definitiva, la questione della regolamentazione giuridico-economica del trasferimento del personale degli enti locali nei ruoli del personale A.T.A. (amministrativo, tecnico, ausiliario) dello Stato. Con la pronuncia 26 giugno 2007, n. 234 la Corte Costituzionale aveva infatti dichiarato infondate le questioni di legittimità solevate in riferimento all’art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, ai sensi del quale “Il comma 2 dell’articolo 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124, si interpreta nel senso che il personale degli enti locali trasferito nei ruoli del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (A.T.A.) statale è inquadrato, nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali dei corrispondenti ruoli statali, sulla base del trattamento economico complessivo in godimento all’atto del trasferimento, con l’attribuzione della posizione stipendiale di importo pari o immediatamente inferiore al trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999 costituito dallo stipendio, dalla retribuzione individuale di anzianità nonché da eventuali indennità, ove spettanti, previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro del comparto degli enti locali, vigenti alla data dell’inquadramento. L’eventuale differenza tra l’importo della posizione stipendiale di inquadramento e il trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999, come sopra indicato, viene corrisposta ad personam e considerata utile, previa temporizzazione, ai fini del conseguimento della successiva posizione stipendiale”. Tale disposizione si era resa necessaria in quanto, dopo un iniziale contrasto giurisprudenziale, la Cassazione era giunta alla conclusione che il trasferimento del personale A.T.A. dagli enti locali allo Stato necessitava dell’adozione di atti di inquadramento rispettosi dei principi dettati dall’art. 2112 c.c., con attribuzione della qualifica corrispondente a quella posseduta con l’anzianità già maturata nell’ente di provenienza. In particolare, con le pronunce nn. 3224, 3225 e 3356 del 17-18 febbraio 2005, la Cassazione aveva affermato che, ai sensi dell’art. 8 comma 2 della legge 3 maggio 1999 n. 124, il trasferimento coattivo nel diverso comparto implica necessariamente il diritto del personale trasferito all’integrale computo dell’anzianità di servizio e che l’accordo OO.SS.-ARAN del 20 luglio 2000 recepito dal D.M. 5 aprile 2001 è inidoneo ad innovare l’ordinamento e a derogare a tale disposizione di legge. 164 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO In tale contesto interveniva pertanto il legislatore con la richiamata norma, inserita nel quadro della manovra finanziaria e diretta a fornire un’interpretazione autentica della normativa regolante la fattispecie. La disposizione era stata fatta oggetto da un lato di numerose censure di (in)costituzionalità, poi sfociate nelle ordinanze di remissione, dall’altro di divergenti letture da parte dei giudici di merito, sussistendo un (sia pur nettamente minoritario) indirizzo propenso a sostenere la natura innovativa del disposto e pertanto la sua inapplicabilità ai fatti pregressi. Esemplificativa a tal riguardo, la Corte di Appello di Brescia, sentenza 8 giugno 2007 n. 122, ove si affermava che “la disposizione, come fatto palese dalla formulazione letterale, si attribuisce natura interpretativa e solo per questa via, e conseguentemente, senza esplicitare una volontà legislativa ulteriore e diversa, si ‘attribuisce efficacia retroattiva. In altri termini, la retroattività non è esplicitamente prevista e non è statuita a prescindere dalla natura interpretativa della norma, a cui dovrebbe invece conseguire. Ne deriva immediatamente che, in assenza di una deroga al principio di cui all’art. 11 preleggi quale norma innovativa ad effetto retroattivo, la possibilità della disposizione di disciplinare i rapporti oggetto della presente controversia è indissolubilmente legata alla sua effettiva natura di norma interpretativa. Tutte le ragioni fin qui esposte portano però ad escludere categoricamente che il comma 218 dell’art. unico della legge finanziaria sia una norma interpretativa. In questo comma si è semplicemente trasfuso il decreto ministeriale ritenuto in contrasto con il comma 2 dell’art. 8, di cui si è fin qui discusso. Ma perché una disposizione possa essere considerata interpretativa è necessario che il suo tenore letterale consenta fra le più possibili anche l’opzione interpretativa prescelta. E come si è appena dimostrato ciò nella fattispecie non è possibile”. Proprio in ragione del persistere di tali prese di posizione ha assunto particolare significato la sentenza n. 234/2007 della Consulta che, nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento agli articoli 3, 24, 36, 42, 97, 101, 102, 103, 104 e 113 della Costituzione, ha preso espressamente posizione sulla natura di norma di interpretazione autentica ad efficacia retroattiva dell’art. 1, comma 218, della legge n. 266 del 2005, non senza aggiungere che “anche a voler escludere il carattere interpretativo della disposizione censurata e a volerne ammettere quello innovativo, ma con efficacia retroattiva, non potrebbe giungersi a conclusioni diverse sotto il profilo della ragionevolezza della disposizione stessa (punto 10 della motivazione)”. Certamente, trattandosi di pronuncia di rigetto, il relativo valore vincolante per il giudice di merito assumeva una portata ben circoscritta. Al riguardo è noto che le decisioni di rigetto della Corte costituzionale non hanno efficacia erga omnes a differenza di quelle dichiarative dell’illegittimità costituzionale sì che, anche in ipotesi di decisioni interpretative, quello che nasce è solo un vincolo negativo per il giudice del procedimento nel quale la relativa questione è stata sollevata, mentre negli altri procedimenti il giudice conserva il potere-dovere di interpretare in piena autonomia quella disposizione. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 165 In tal ottica risulta connaturata all’attuale sistema la possibilità di un “contrasto interpretativo” fra Cassazione e Corte Costituzionale in virtù della coesistenza, nelle rispettive sfere di attribuzioni, del potere di interpretazione della legge, riconosciuto dalla Costituzione ad entrambe le Corti: alla Corte costituzionale, quale organo deputato al sindacato di costituzionalità delle leggi e degli atti aventi forza di legge (art. 134 della Cost.), e alla Corte di Cassazione, quale “organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge” (Cass., S.U. penali, 31 marzo 2004, n. 23016 ove si sottolinea che la posizione di indipendenza della Cassazione “è accompagnata dal riconoscimento del “ruolo di supremo giudice di legittimità ad essa affidato dalla stessa Costituzione e dalla rilevanza costituzionale della funzione di nomofilachia, prevista dall’art. 65 del R.D. 30 gennaio 1941, n. 12”). Se ciò è indiscutibilmente vero, non si può comunque trascurare che la medesima Cassazione, anche di recente, ha ribadito che l’interpretazione di una norma sottoposta a scrutinio di costituzionalità, offerta dalla Corte costituzionale in una sentenza dichiarativa dell’infondatezza della questione, “pur non essendo vincolante per il giudice chiamato successivamente ad applicare quella norma, rappresenta, per l’autorevolezza della fonte da cui proviene, un fondamentale contributo ermeneutico, che non può essere disconosciuto senza valida ragione” (Cass. 12 marzo 2007, n. 5747; Cass. Sez. Unite, 2 dicembre 2004, n. 22601). Proprio quest’ultima sembra l’ottica in cui si colloca la recente sentenza 16 gennaio 2008 n. 677, i cui passaggi più significativi vanno ravvisati non solo nella dichiarata natura interpretativa (ed efficacia retroattiva) del citato comma 218, della legge n. 266 del 2005, ma anche e soprattutto nell’esplicita negazione della ricostruzione in precedenza operata dalle Sezioni Unite della Cassazione in tema di trasferimento del personale A.T.A. (premessa che per la Corte costituisce il presupposto logico per escludere che possa ritenersi integrata una violazione della normativa comunitaria in tema di trasferimento di impresa). Sotto il primo profilo la Cassazione, dopo aver ribadito la propria autonomia nello “stabilire con i consueti criteri interpretativi se la norma abbia natura innovativa e sia inapplicabile alla fattispecie in esame o al contrario sia effettivamente norma di interpretazione autentica o comunque dotata di effetto retroattivo” (par. 10) si sofferma sulla particolare struttura della fattispecie normativa de qua e procede nella verifica, culminata con esito positivo, “sul se la disposizione interpretata poteva, tra i vari significati plausibili secondo gli ordinari criteri ermeneutici, esprimere anche il dato precettivo successivamente meglio esplicitato dalla disposizione di interpretazione”, esito cui conduce tanto l’esame del dato letterale quanto la riscontrata presenza di dubbi e divergenze di opinioni sulla portata dell’originaria disposizione e, non ultimo, un criterio di interpretazione sistematico fondato sul principio di uniformità di trattamento del personale trasferito nei ruoli statali e di armonizzazione delle discipline. Sotto il secondo profilo è interessante notare come la Cassazione, interrogandosi sul potenziale contrasto fra la disciplina del “trasferimento” in questione e le direttive comunitarie (direttiva CE del Consiglio n. 77/187 e successive modifiche) in tema di mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese esclude, a seguito di una ricognizione della normativa comunitaria così come risultante dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, il contrasto, negando sia che “la vicenda considerata sia riconducibile ad un trasferimento ai sensi dell’art. 1. lett. b) della direttiva” sia che si configuri una violazione dell’art. 2112 c.c. (che come noto ha recepito i dettami della direttiva CE n. 98/50). Senza soffermarsi ulteriormente su tale pregevole passaggio della pronuncia, ove viene dettagliatamente analizzata sia la peculiarità del trasferimento “di attività” nell’ambito del rapporto di lavoro pubblico, sia il particolare regime delineato dalla legge 124/99, di cui si esclude la riconducibilità al campo di applicazione della direttive comunitarie sopra citate, va sottolineato come la Corte prenda consapevolmente le distanze dalla ricostruzione precedentemente operata nelle sentenze nn. 3224, 3325, e 3356 del 2005, ove la fattispecie era espressamente ricondotta nell’alveo dell’art. 2112 e della richiamata normazione comunitaria. Da ultimo, sul solco della più recente giurisprudenza costituzionale in tema di efficacia nell’ordinamento interno della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la Cassazione si sofferma ad analizzare il possibile contrasto della norma interpretativa più volte richiamata con le disposizioni della CEDU e segnatamente del relativo art. 6, nella parte in cui ha introdotto il diritto ad un giusto processo, stabilendo il diritto di ciascuno ad un equo processo dinanzi ad un Tribunale indipendente e imparziale costituito per legge. Si era infatti sostenuto, da alcuni ricorrenti, che con l’art. 1 comma 218 della legge 266/05 il legislatore sarebbe intervenuto allo scopo di vanificare i giudizi pendenti, non già per risolvere un’effettiva questione interpretativa, utilizzando la formula della legge interpretativa per imporre al giudice una soluzione da questo non condivisa, profilo che inciderebbe sul principio di terzietà ed indipendenza del giudice medesimo. Sotto tale aspetto la Cassazione ha buon gioco sia nel richiamare le plurime letture della pregressa normativa, che escludono si possa “ritenere la disposizione nazionale come esclusivamente diretta ad influire sulla soluzione delle controversie in corso”, sia nel ravvisare (sulla scorta del monito Corte cost. 24 ottobre 2007, n. 348) l’assenza di una sostanziale lesione ad una posta patrimoniale già acquisita dal privato “visto che la legge interpretativa garantisce in ogni caso i livelli retributivi già raggiunti”. Avv. Stefano Varone (*)· 166 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (*) Avvocato dello Stato. (doc. 1) Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza 17 febbraio 2005, n. 3224. «Svolgimento del processo La Corte di appello di Perugia ha rigettato l’appello dell’Amministrazione dell’istruzione pubblica, confermando la sentenza non definitiva del Tribunale di Orvieto, recante l’accertamento che R. C., facente parte del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (denominato A.T.A.) già dipendente di ente locale e passato alle dipendenze dell’amministrazione scolastica statale ai sensi dell’art. 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124, aveva diritto al riconoscimento integrale dell’anzianità di servizio posseduta al tempo del trasferimento del rapporto di lavoro e la condanna dell’amministrazione statale al pagamento delle conseguenti differenze retributive dal 1° gennaio 2000, oltre interessi e rivalutazione monetaria come per legge. A giudizio della Corte di Perugia, il disposto del comma 2 della legge indicata (a detto personale è riconosciuta ai fini giuridici ed economici l’anzianità maturata) obbligava l’amministrazione statale ad applicare, dal 1° gennaio 2000, il c.c.n.l. del comparto scuola al personale trasferito tenendo conto di tutta l’anzianità maturata alle dipendenze dell’ente locale, cosicché con era conforme al dettato della fonte primaria l’attuazione datane (mediante decreto interministeriale e accordo collettivo) con il collocamento del detto personale nella fascia stipendiale corrispondente alla retribuzione in godimento al 1^ dicembre 1999 (c.d. “maturato economico”) e non in quella corrispondente all’effettiva anzianità di servizio. La cassazione della sentenza è domandata dall’Amministrazione con ricorso per un motivo unico, contenente più censure, al quale resiste con controricorso R. C. Le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.. Motivi della decisione 1.- Con l’unico motivo del ricorso, è denunciata, in primo luogo, violazione dell’art. 8 legge 124/1999, perchè la decisione impugnata riconosceva un aumento della retribuzione per effetto del mutamento del soggetto datore di lavoro e dell’applicazione di un c.c.n.l. (comparto scuola) che dava rilievo all’anzianità di servizio ai fini stipendiali (diversamente dal contratto del comparto enti locali), mentre il legislatore aveva inteso unicamente garantire la conservazione delle posizioni acquisite, escludendo l’assunzione di oneri economici maggiori di quelli già gravanti sugli enti locali. 1.1.- Si afferma, inoltre, che la legge aveva espresso un principio, circa il riconoscimento dell’anzianità, necessitante di essere specificato dalla normazione secondaria, di cui si contemplava l’emanazione, e il decreto ministeriale, di recepimento dell’accordo stipulato tra l’Aran e le organizzazioni sindacali, aveva legittimamente disciplinato il sistema di allineamento degli istituti retributivi del comparto enti locali a quelli del comparto scuola, riconoscendo l’anzianità pregressa ai fini dell’inquadramento secondo il sistema del maturato economico. 1.2.- Si aggiunge, infine, con argomentazione svolta in via logicamente subordinata, che l’accordo sindacale 20 luglio 2000, relativo al sistema di inquadramento del personale A.T.A. secondo il criterio del maturato economico, aveva natura di vero e proprio contratto collettivo nazionale di lavoro – come desumibile anche dalle disposizioni contenute nel c.c.n.l. 8 marzo 2002 – ed era perciò abilitato a derogare anche a norme di legge, ai sensi dell’art. 2, comma 2, secondo periodo, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165. 2.- La Corte giudica il ricorso privo di fondamento in tutti i profili di censura, ancorché la motivazione della sentenza impugnata, il cui dispositivo è conforme al diritto, debba essere corretta e integrata (art. 384, comma secondo, c.p.c.). IL CONTENZIOSO NAZIONALE 167 3.- Si deve procedere, innanzi tutto, all’individuazione delle fonti della regola di giudizio, iniziando dal disposto del comma 1 dell’art. 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124: Il personale A.T.A. degli istituti e scuole statali di ogni ordine e grado è a carico dello Stato. Sono abrogate le disposizioni che prevedono la fornitura di tale personale da parte dei comuni e delle province. Si è, dunque, in presenza di fattispecie di trasferimento di attività, dalla competenza degli enti locali a quella dello Stato, cui si collega il trasferimento dei rapporti di lavoro. Il rilievo consente di ricondurre la detta fattispecie alla disciplina generale, in tema di passaggi di personale, contenuta nell’art. 34 del D.Lgs. n. 29 del 1993, come sostituito dall’art. 19 del D.Lgs. n. 80 del 1998 (ora art. 31 D.Lgs. 165/2001): fatte salve le disposizioni speciali, nel caso di trasferimento o conferimento di attività, svolte da pubbliche amministrazioni, enti pubblici o loro aziende o strutture, ad altri soggetti, pubblici o privati, al personale che passa alle dipendenze di tali soggetti si applicano l’articolo 2112 del codice civile e si osservano le procedure di informazione e di consultazione di cui all’articolo 47, commi da l a 4, della legge 29 dicembre 1990, n. 428. 3.1.- Ciò consente, da una parte, di ritenere che, per escludere la continuità giuridica ad ogni effetto del rapporto di lavoro del personale che transita alle dipendenze di un diverso soggetto, con la conservazione di tutti i diritti (che rappresenta il nucleo essenziale dell’art. 2112 c.c., le cui regole sono state così rese applicabili a fattispecie diverse dal “trasferimento di azienda”), è indispensabile che operino “disposizioni speciali” (naturalmente di rango primario, considerata la natura della fonte da derogare); dall’altra, che la contrattazione collettiva, certamente non è abilitata ad incidere sulla garanzia apprestata dall’art. 31 D.Lgs. 165/2001, come su tutte le norme inderogabili contenute in questo corpus normativo (art. 2, comma 2, dello stesso decreto). 4.- L’indagine va ora incentrata sulla normativa specifica regolante il trasferimento del personale A.T.A. dagli enti locali allo Stato. Il comma 2 dell’art. 8 legge 124/1999, dispone il trasferimento del personale degli enti locali nei ruoli del personale A.T.A. statale, con inquadramento nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali corrispondenti (in mancanza di corrispondenza, è prevista la possibilità di optare per il mantenimento in servizio presso l’ente locale), e sancisce testualmente: al detto personale vengono riconosciuti ai fini giuridici ed economici l’anzianità maturata presso l’ente locale di provenienza nonché il mantenimento della sede in fase di prima applicazione in presenza della relativa disponibilità del posto. 4.1.- Il comma 3 dello stesso articolo si occupa specificamente del personale di ruolo che riveste il profilo professionale di insegnante tecnico-pratico o di assistente di cattedra appartenente al sesto livello nell’ordinamento degli enti locali, in servizio nelle istituzioni scolastiche statali, il quale è analogamente trasferito alle dipendenze dello Stato ed è inquadrato nel ruolo degli insegnanti tecnico-pratici. 4.2.- Il comma 4 stabilisce che il trasferimento del personale di cui ai commi 2 e 3 avviene gradualmente, secondo tempi e modalità da stabilire con decreto del Ministro della pubblica istruzione, emanato di concerto con i Ministri dell’interno, del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e per la funzione pubblica, sentite l’Associazione nazionale comuni italiani (ANCI), l’Unione nazionale comuni, comunità ed enti montani (UNCEM) e l’Unione delle province d’Italia (UPI), tenendo conto delle eventuali disponibilità di personale statale conseguenti alla razionalizzazione della rete scolastica, nonché della revisione delle tabelle organiche del medesimo personale da effettuare ai sensi dell’art. 31, comma 1, lettera e), del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 e successive modifi- 168 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO cazioni; in relazione al graduale trasferimento nei ruoli statali sono stabiliti, ove non già previsti, i criteri per la determinazione degli organici delle categorie del personale trasferito. 4.3.- Il comma 5, infine, dispone che, a decorrere dall’anno in cui hanno effetto le disposizioni di cui ai commi 2, 3 e 4, si procede alla progressiva riduzione dei trasferimenti statali a favore degli enti locali in misura pari alle spese comunque sostenute dagli stessi enti nell’anno finanziario precedente a quello dell’effettivo trasferimento del personale. 4.4.- L’operata ricognizione dimostra l’assenza di “disposizioni speciali”, derogatorie dell’art. 31 D.Lgs. 165/2001. In particolare, il precetto secondo il quale al personale in questione è riconosciuta ai fini giuridici ed economici l’anzianità maturata presso l’ente locale di provenienza, risulta, per un verso, chiaramente confermativo della regola generale di cui all’art. 31 D.Lgs. 165/2001; per l’altro, la sua compiutezza esclude che sia stato demandato a fonti secondarie il compito di precisarlo ed integrarlo. Ed infatti, appare inequivocabile il tenore del comma 4, secondo il quale il passaggio del personale avviene “gradualmente”, secondo tempi e modalità da stabilire con decreto ministeriale, decreto che, dunque, è stato abilitato a determinare la concreta operatività dei trasferimenti, non certo a intervenire in relazione alla disciplina del riconoscimento dell’anzianità. 4.5.- Di fronte ai dati posti in evidenza, assai debole si manifesta l’obiezione che il legislatore avrebbe disciplinato la vicenda nel presupposto che il passaggio allo Stato non dovesse comportare, per nessuno dei dipendenti trasferiti, incrementi della retribuzione e che, di conseguenza, la normativa di settore andrebbe interpretata, anche nella prospettiva della sua conformità all’art. 81 Cost., nel senso che il riconoscimento dell’anzianità pregressa deve intendersi limitato, sul piano economico, alla garanzia dei livelli retribuiti raggiunti. La tesi si confuta osservando che il senso fatto palese dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse, e della intenzione del legislatore (volontà e coerenza dell’ordinamento, non intento degli autori), è esattamente opposto: riconoscimento dell’anzianità non solo ai fini giuridici ma anche economici; che non sono pertinenti al tema le disposizioni contenute nel comma 5 dello stesso art. 8 legge 124/1999, poiché la disposta riduzione dei trasferimenti statali agli enti locali in misura corrispondente all’effettivo risparmio di spesa conseguente alla cessazione degli oneri per il personale trasferito, non offre certo elementi per ritenere che l’onere di spesa dovesse permanere identico per l’amministrazione statale in relazione al singolo dipendente considerato; che il contrasto con l’art. 81, quarto comma, Cost. è ravvisabile solo quando sia sussistente un apprezzabile scostamento rispetto alle previsioni di spesa, senza alcuna ragionevole coerenza fra l’onere coperto ed i mezzi per farne fronte (cfr. Corte cost. n. 384 del 1991, n. 25 del 1993), non certo in relazione ai maggiori oneri a carico del bilancio statale eventualmente derivanti dall’interpretazione di una legge (vedi art. 61, comma 1-bis, D.Lgs. 165/2001, inserito dall’art. 1, comma 133, della legge 30 dicembre 2004, n. 311) e comunque nell’ambito di un sistema articolato in modo complesso rispetto alla copertura dei nuovi oneri per il personale (risparmi di spesa anche derivanti da operazioni di razionalizzazione). 5.- Con riferimento al precisato quadro legislativo, occorre a questo punto verificare come sia stato attuato dall’amministrazione statale. Con il Decreto Ministeriale 23 luglio 1999 (in Gazz. Uff., 21 gennaio, n. 16). – Trasferimento del personale A.T.A. dagli enti locali allo Stato, ai sensi dell’art. 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124 – viene dato atto, nel preambolo, di aver dato previa informazione alle organizzazioni sindacali; si dispone il trasferimento dei dipendenti degli enti locali in servizio alla data del 25 maggio 1999, nei ruoli del personale A.T.A. statale, con inquadra- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 169 mento dal 1° gennaio 2000 nelle qualifiche funzionali e nei profili corrispondenti per lo svolgimento dei compiti propri dei predetti profili; si demanda ad un successivo decreto del Ministro della pubblica istruzione, di concerto con i Ministri dell’interno, del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e per la funzione pubblica, la definizione dei criteri di inquadramento, nell’ambito del comparto scuola, finalizzati all’allineamento degli istituti retributivi del personale in questione a quelli del comparto medesimo, con riferimento alla retribuzione stipendiale, ai trattamenti accessori e al riconoscimento ai fini giuridici ed economici, nonché dell’incidenza sulle rispettive gestioni previdenziali, dell’anzianità maturata presso gli enti, previa contrattazione collettiva, da svolgersi entro il mese di ottobre 1999, fra l’ARAN e le organizzazioni sindacali rappresentative dei comparti scuola ed enti locali, ai sensi dell’art. 34 del decreto legislativo n. 29/1993 e dell’art. 47 della legge n. 428/1990. 5.1.- Il previsto, successivo, decreto del Ministero della pubblica istruzione (5 aprile 2001 (in Gazz. Uff., 14 luglio, n. 162) ha “recepito” l’accordo ARAN – Rappresentanti delle organizzazioni e confederazioni sindacali in data 20 luglio 2000, sui criteri di inquadramento del personale già dipendente degli enti locali e transitato nel comparto scuola, richiamando ancora, nel preambolo, l’art. 34 D.Lgs. 29/1993 e l’art. 47 legge 428/1990. 5.2.- Interessa la controversia la previsione dell’art. 3 dell’accordo sindacale (e del decreto), con la quale – secondo l’accertamento di fatto del giudice del merito, non oggetto di contestazioni – il personale A.T.A. doveva essere inquadrato nella progressione economica per posizioni stipendiali delle corrispondenti qualifiche professionali del comparto scuola, mediante attribuzione della posizione stipendiale d’importo pari o immediatamente inferiore al trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999, con l’ulteriore precisazione che l’eventuale differenza tra l’importo della posizione stipendiale di inquadramento e il trattamento annuo in godimento alla data indicata veniva corrisposta ad personam e considerata utile, previa temporizzazione, ai fini del conseguimento della successiva posizione stipendiale. 5.3.- È evidente, quindi, sempre secondo gli accertamenti di fatto compiuti nel giudizio di merito, che al nuovo inquadramento economico non si è proceduto sulla base dell’anzianità di servizio, ma è stato il complessivo livello retributivo a determinare il riconoscimento di una certa anzianità. Il passaggio dall’uno all’altro assetto è stato effettuato in base al criterio del c.d. “maturato economico”, il quale tiene conto unicamente del trattamento economico complessivo goduto al momento dell’inquadramento nei ruoli statali, prescindendo dall’anzianità effettiva. Questo comporta un chiaro vantaggio per il personale all’inizio della carriera, il quale beneficia immediatamente dei miglioramenti retributivi ed ha la prospettiva di beneficiarne a lungo per tutto lo svolgimento della prevista progressione economica, ma al tempo stesso provoca un appiattimento della posizione del personale con maggiore anzianità nell’ambito della medesima qualifica, il quale se vede conservato il proprio trattamento economico, può beneficiare del nuovo e più favorevole sistema retributivo per un periodo di tempo molto minore. 6.- Sul piano delle regole giuridiche, la descritta vicenda legittima le conclusioni a) ai menzionati decreti ministeriali va riconosciuta natura di atti generali con i quali il nuovo datore di lavoro – lo Stato – ha dato attuazione al trasferimento di personale previsto dalla legge, restando esclusa la natura normativa, e ciò sia per i riferimenti contenuti nei rispettivi preamboli e la mancata sottoposizione dei decreti al parere del Consiglio di Stato (come prescritto, per l’emanazione dei regolamenti di competenza ministeriale, dall’art. 17 legge 170 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO n. 400 del 1988, in relazione al disposto dell’art. 17, comma 25, lett. a), della legge 15 maggio 1997, n. 127), sia perchè totalmente privi, almeno in punto di riconoscimento dell’anzianità ai fini giuridici ed economici, di contenuti astratti e generali diretti ad innovare l’ordinamento giuridico, neppure sul piano della mera esecuzione del disposto normativo; b) in particolare, con il secondo dei decreti indicati, è stato “recepito” un accordo sindacale, il quale non può che essere inserito – come, del resto, espressamente si dice nel preambolo – nell’ambito del quadro normativo tracciato dall’art. 47 legge 428/1990, commi 1-4, che contempla esclusivamente obblighi di informazione e di consultazione nei confronti delle organizzazioni sindacali; c) di conseguenza, non può dubitarsi che l’accordo sindacale 20 luglio 2000 è privo di natura normativa, ma rappresenta semplicemente l’esito di consultazioni in ordine alle modalità – con valutatone concorde delle parti – di attuazione del trasferimento dei rapporti di lavoro, non risultando altrimenti spiegabile la “recezione” nel decreto ministeriale. 6.1.- È dimostrata così l’infondatezza delle tesi dell’amministrazione ricorrente che assumono a presupposto l’efficacia normativa dell’accordo collettivo, che sarebbe stato abilitato per questo ad incidere sulla disciplina dei rapporti di lavoro anche in deroga a disposizioni speciali di legge (art. 2, comma 2. D.Lgs. 165/2001). In realtà, l’accordo non è ascrivibile alla categoria descritta dall’art. 40, D.Lgs. 165/2001, né risulta stipulato secondo la speciale procedura prevista, e ciò rende anche superfluo riprendere il discorso, sopra accennato, circa i limiti all’autonomia collettiva derivanti dall’inderogabilità delle disposizioni dello stesso decreto 165/2001 (nella specie, art. 31). 7.- In definitiva, la risoluzione della controversia non richiede di disapplicare atti amministrativi presupposti, né di verificare la compatibilità con la legge di clausole di contratti collettivi, ma soltanto di verificare se l’amministrazione di destinazione, il nuovo datore di lavoro, abbia tenuto, mediante gli atti generali adottati con i decreti ministeriali e previa consultazione sindacale, un comportamento coerente con le regole dei rapporti di lavoro, ovvero se queste regole siano state violate, con conseguente inadempimento imputabile all’amministrazione statale. 7.1.- Si è già constatata l’inesistenza di “disposizioni speciali” rispetto alla disciplina di cui all’art. 2112 c.c. (art. 34 D.Lgs. 29/1993, nel testo novellato dal D.Lgs. 80/1998, e poi riprodotto dall’art. 31 D.Lgs. 165/2001), disciplina, al contrario, confermata e ribadita dall’art. 8 legge 124/1999. 7.2.- Non vi sono elementi, quindi, per ritenere che la legge da ultimo citata abbia inteso apportare una qualche deroga al disposto dell’art. 2112 c.c. – nel testo anteriore alle modificazioni introdotte dall’art. 1 D.Lgs. n. 18 del 2001 e dall’art. 32 D.Lgs. 276 del 2003 – nella parte in cui stabilisce la continuità giuridica dello stesso rapporto di lavoro e l’applicazione immediata del c.c.n.l. in vigore nel comparto di destinazione, ancorché la normativa sostitutiva possa comportare condizioni peggiorative (vedi Cass. 8 settembre 1999, n. 9545), in linea, del resto, con analoghe discipline del settore pubblico (cfr. art. 7, legge 20 marzo 1975, n. 70). 7.3.- Il riconoscimento dell’anzianità pregressa mediante il sistema del c.d. “maturato economico”, invece, per il carattere fortemente derogatorio rispetto agli effetti della continuità dei rapporti di lavoro, presuppone una specifica abilitazione legislativa, nella fattispecie assolutamente mancante. 8.- Pertanto, fermo restando il potere attribuito all’amministrazione dalla legge in ordine alla determinazione dei tempi ed altre modalità del trasferimento di personale, il trasferimento medesimo, una volta divenuto operativo, comporta l’adozione di atti di inquadra- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 171 mento rispettosi dei principi dettati dall’art. 2112 c.c.. e dalla conforme legislazione di settore, principi che implicano l’attribuzione della qualifica corrispondente a quella posseduta con l’anzianità già maturata. In altri termini, al dipendente A.T.A. già in servizio presso gli enti locali, vanno applicati i trattamenti economici e normativi stabiliti dal c.c.n.l. del comparto scuola, considerandolo come appartenente al detto comparto fin dalla costituzione del rapporto di lavoro con l’ente locale, e ciò a prescindere dal risultato retributivo finale (favorevole o svantaggioso). 9.- Sussistono giusti motivi, identificati nella novità e peculiarità delle questioni, per compensare interamente le spese del giudizio. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso; compensa interamente le spese del giudizio di Cassazione. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 25 gennaio 2005. Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2005». (doc. 2) Corte costituzionale, sentenza 26 giugno 2007, n. 234 – Pres. F. Bile – Red. A. Quaranta – L.B. ed altri c/ Presidente del Consiglio dei Ministri (Avv. dello Stato G. Fiengo) – Giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006) promossi, in riferimento, nel complesso, agli articoli 3, 24, 36, 42, 97, 101, 102, 103, 104 e 113 della Costituzione. « (...) Considerato in diritto 1.– Vengono all’esame della Corte più ordinanze di rimessione – la prima trattata nell’udienza pubblica dell’8 maggio 2007 e le altre nella camera di consiglio del successivo 9 maggio – con le quali il Tribunale di Milano (r.o. n. 461 del 2006), il Tribunale di Roma (r.o. n. 236 del 2006), il Tribunale di Lamezia Terme (r.o. n. 505 del 2006), il Tribunale di Ancona (r.o. numeri 532 e 701 del 2006), il Tribunale di Taranto (r.o. n. 574 del 2006), il Tribunale di Oristano (r.o. n. 617 del 2006), la Corte di Appello di L’Aquila (r.o. n. 669 del 2006) hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), prospettando diverse censure. 1.1.– In ragione della analogia delle questioni sollevate deve essere disposta la riunione dei giudizi, ai fini di un’unica trattazione e di un’unica pronuncia. 2.– La disposizione sottoposta al vaglio della Corte stabilisce che «il comma 2 dell’articolo 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124, si interpreta nel senso che il personale degli enti locali trasferito nei ruoli del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (A.T.A.) statale è inquadrato, nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali dei corrispondenti ruoli statali, sulla base del trattamento economico complessivo in godimento all’atto del trasferimento, con l’attribuzione della posizione stipendiale di importo pari o immediatamente inferiore al trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999 costituito dallo stipendio, dalla retribuzione individuale di anzianità nonché da eventuali indennità, ove spettanti, previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro del comparto degli enti locali, vigenti alla data dell’inquadramento. L’eventuale differenza tra l’importo della posizione stipendiale di inquadramento e il trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999, come sopra indicato, 172 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO viene corrisposta ad personam e considerata utile, previa temporizzazione, ai fini del conseguimento della successiva posizione stipendiale. È fatta salva l’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge». 3.– I rimettenti sospettano di illegittimità costituzionale tale disposizione, in quanto essa lederebbe, nel complesso, gli articoli 3, 24, 36, 42, 97, 101, 102, 103, 104 e 113 della Costituzione. Deducono, altresì, il suo contrasto con i principi del diritto comune del lavoro e della disciplina generale dei rapporti di lavoro, di ragionevolezza, di tutela del legittimo affidamento e di certezza delle situazioni giuridiche, e l’impossibilità di accedere ad una lettura conforme a Costituzione della disposizione medesima. 4.– Le censure prospettate nelle diverse ordinanze, formulate con argomentazioni che, pur non coincidendo, sostanzialmente si sovrappongono, possono essere ricondotte ai profili di illegittimità costituzionale di seguito esposti. I rimettenti dubitano, innanzitutto, della natura interpretativa della norma in esame e sottolineano, a questo riguardo, come, salvo che per la materia penale, il legislatore possa emanare norme con efficacia retroattiva – interpretative o innovative che siano – purché la retroattività, da un lato, trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza, dall’altro, non si ponga in contrasto con altri valori costituzionalmente protetti. Ricordano, quindi, come la legge 3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico), disponendo il trasferimento del personale A.T.A. dipendente dagli enti locali all’amministrazione statale, avrebbe stabilito il principio per cui lo stesso personale doveva essere assimilato – tenuto conto anche dell’identità delle mansioni svolte nei vari profili – al personale A.T.A. statale, attraverso il riconoscimento, ai fini giuridici ed economici, dell’anzianità maturata presso l’ente di provenienza. In contrasto con tale principio la disposizione censurata, innovando con efficacia retroattiva la disciplina di settore, determinerebbe, nella categoria del personale A.T.A., la coesistenza, pur a parità di mansioni e di anzianità, di tre diversi regimi giuridici, dando luogo, in tale modo, ad una illegittima disparità di trattamento. In ogni caso, la disposizione stessa, sarebbe viziata pur se le si riconoscesse carattere interpretativo, dal momento che essa, fin dall’origine, non avrebbe dato luogo a dubbi di interpretazione e introdurrebbe una irragionevole disparità di trattamento, lesiva del principio di uguaglianza. 4.1.– La norma in esame si contrapporrebbe, altresì, all’interpretazione, ormai consolidata, tanto da costituire diritto vivente, offerta dalla giurisprudenza formatasi in materia, si riverbererebbe sui giudizi in corso, incidendo sui principi di ragionevolezza, di tutela del legittimo affidamento e di certezza delle situazioni giuridiche, nonché (come prospettato, in particolare, dal Tribunale di Roma e dal Tribunale di Oristano) sui principi del diritto comune del lavoro e della disciplina dei rapporti di lavoro, e invaderebbe la sfera riservata al potere giudiziario, con la conseguente violazione dei principi costituzionali di cui agli artt. 24, 101, 102, 103, 104 e 113 della Costituzione. 5.– Sotto altro aspetto, la disposizione impugnata sarebbe lesiva degli artt. 36, 42 e 97 della Costituzione. In particolare, il Tribunale di Milano, nell’invocare l’art. 42 Cost., deduce che i diritti di carattere economico derivanti dall’applicazione dell’art. 8, comma 2, della legge n. 124 del 1999, al momento dell’entrata in vigore della norma di interpretazione autentica, sarebbero già acquisiti al patrimonio dei dipendenti trasferiti negli organici dello Stato, i quali, pertanto, sarebbero stati «espropriati in ragione della novella di cui alla legge n. 266 del 2005». IL CONTENZIOSO NAZIONALE 173 A loro volta, il Tribunale di Lamezia Terme e il Tribunale di Ancona lamentano la violazione dell’art. 36 Cost., in quanto la disposizione in esame lederebbe il diritto degli interessati ad una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato e, quindi, la pari dignità dei lavoratori. Sempre il Tribunale di Ancona deduce, infine, la violazione del principio di imparzialità della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 della Costituzione. 6.– Si sono costituite, tempestivamente, nel presente giudizio alcune delle parti private, ricorrenti nei giudizi a quibus, svolgendo argomentazioni difensive che sostanzialmente richiamano quelle prospettate dai giudici rimettenti, alle cui conclusioni le stesse aderiscono, e invocando anch’esse, quale ulteriore parametro per il vaglio di costituzionalità, l’art. 97 della Costituzione. In data 7 marzo 2007 si è costituita in giudizio anche la signora C.D.G., parte nel giudizio a quo di cui all’ordinanza n. 461 del 2006, che ha concluso negli stessi sensi sopra indicati. Nel giudizio relativo all’ordinanza del Tribunale di Roma (r.o. n. 236 del 2006) è intervenuta la signora P. G. 7.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, ritualmente intervenuto nei giudizi di costituzionalità relativi alle questioni sollevate con le ordinanze numeri 236, 461, 617, 669 e 701 del 2006, ha chiesto che le stesse siano dichiarate inammissibili o non fondate. 8.– In via preliminare, deve essere dichiarata inammissibile la prospettazione, ad opera di alcune delle parti private costituitesi nel giudizio relativo all’ordinanza n. 461 del 2006, della violazione di parametri costituzionali diversi da quelli evocati dal Tribunale rimettente; ciò, in particolare, con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 97 Cost., non richiamato affatto nell’ordinanza emessa dal Tribunale di Milano. Tale norma costituzionale costituisce, comunque, parametro di scrutinio della legittimità della disposizione ora sottoposta al vaglio di questa Corte, in quanto evocata dal Tribunale di Ancona (r.o. n. 701 del 2006). 8.1.– Del pari, deve essere dichiarata la inammissibilità della costituzione della signora C. D. G., che, pur essendo parte nel giudizio a quo, si è costituita oltre il termine stabilito dall’art. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87, computato secondo quanto previsto dall’art. 3 delle norme integrative per i giudizi davanti a questa Corte, essendo tale termine, per costante giurisprudenza, perentorio (si vedano, ex plurimis, le sentenze numeri 108 e 190 del 2006). 8.2.– È, altresì, inammissibile l’intervento della signora P.G., in quanto estranea al giudizio a quo, nel quale non riveste la qualità di parte. Costituisce, infatti, principio costantemente affermato da questa Corte, la necessaria corrispondenza tra le parti del giudizio principale e del giudizio incidentale (si vedano, tra le molte, la sentenza n. 190 del 2006 e l’ordinanza n. 352 del 2006). 9.– Nel merito, la questione non è fondata. I rimettenti, sostanzialmente, si dolgono del fatto che la norma censurata non avrebbe, in realtà, natura interpretativa della disposizione contenuta nell’art. 8, comma 2, della legge n. 124 del 1999, ma carattere innovativo con efficacia retroattiva; di qui, la violazione dei canoni di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione. In proposito, occorre ricordare, innanzitutto, che questa Corte (per tutte, si veda la sentenza n. 274 del 2006) ha più volte ribadito che «non è decisivo verificare se la norma censurata abbia carattere effettivamente interpretativo (e sia perciò retroattiva) ovvero sia innovativa con efficacia retroattiva. Infatti, il divieto di retroattività della legge – pur costituendo fondamentale valore di civiltà giuridica e principio generale dell’ordinamento, cui il 174 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO legislatore ordinario deve in principio attenersi – non è stato elevato a dignità costituzionale, salva per la materia penale la previsione dell’art. 25 della Costituzione». Con la stessa sentenza la Corte ha, altresì, affermato che «il legislatore, nel rispetto di tale previsione, può emanare sia disposizioni di “interpretazione autentica”, che determinano – chiarendola – la portata precettiva della norma interpretata fissandola in un contenuto plausibilmente già espresso dalla stessa, sia norme innovative con efficacia retroattiva, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasti con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti. Ed è, quindi, proprio sotto l’aspetto del controllo di ragionevolezza che rilevano, simmetricamente, la funzione di interpretazione autentica, che una disposizione sia in ipotesi chiamata a svolgere, ovvero l’idoneità di una disposizione innovativa a disciplinare con efficacia retroattiva anche situazioni pregresse in deroga al principio per cui la legge non dispone che per l’avvenire». È poi anche da sottolineare, in particolare, che è costante l’affermazione di questa Corte (sentenze numeri 39, 135 e 274 del 2006) nel senso che la norma contenuta nella legge di interpretazione autentica non può ritenersi irragionevole ove si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario. 10.– Ciò chiarito, va osservato che, nella specie, l’inquadramento stipendiale nei ruoli statali del personale A.T.A. in ragione del cosiddetto maturato economico e non della effettiva anzianità complessiva di servizio conseguita presso l’ente locale, ha costituito una delle possibili varianti di lettura della norma (avallata, tra l’altro, in sede di accordo siglato in data 20 luglio 2000 tra l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e i rappresentanti delle organizzazioni e confederazioni dei dipendenti), contenuta nei decreti ministeriali di attuazione dell’art. 8 della legge n. 124 del 1999 (decreti del Ministro della pubblica istruzione, di concerto con i Ministri dell’interno, del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e per la funzione pubblica, del 23 luglio 1999, che reca «Trasferimento del personale A.T.A. dagli enti locali allo Stato, ai sensi dell’art. 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124», e del 5 aprile 2001, che reca «Recepimento dell’accordo ARAN – Rappresentanti delle organizzazioni e confederazioni sindacali in data 20 luglio 2000, sui criteri di inquadramento del personale già dipendente degli enti locali e transitato nel comparto scuola»). Ciò, in particolare, ove si consideri che il principio del maturato economico era stato introdotto, con valenza generale, fin dalla legge 11 luglio 1980, n. 312, recante «Nuovo assetto retributivo-funzionale del personale civile e militare dello Stato». I giudici a quibus argomentano, a sostegno della mancanza di dubbi interpretativi, che, in ragione di un indirizzo ermeneutico univoco e costante, i principi affermati dalla Corte di cassazione, in primo luogo con la sentenza n. 3224 del 2005, seguita da analoghe pronunce, costituirebbero diritto vivente sull’applicazione dell’art. 8 della legge n. 124 del 1999, con la conseguenza che la norma ora censurata rivelerebbe il solo intento di incidere sui giudizi in corso, in tal modo violando, da un lato, i canoni costituzionali di ragionevolezza, di tutela del legittimo affidamento e di certezza delle situazioni giuridiche, e risultando, dall’altro, invasiva della sfera riservata al potere giudiziario, con lesione, pertanto, degli artt. 24, 101, 102, 103, 104 e 113 Cost. Tuttavia, diversamente da quanto emerge dalle ordinanze di rimessione, il contenuto fondamentale delle citate pronunce della Corte di cassazione si sostanzia, in definitiva, nell’affermazione che l’accordo del 20 luglio 2000 – recepito nel successivo decreto del 5 aprile 2001 – non può derogare a quanto stabilito dalla legge n. 124 del 1999, in quanto atto privo di efficacia normativa. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 175 Consegue che la tesi prospettata dai rimettenti si presenta viziata da una inesatta ricognizione del diritto vivente, sicché essa risulta basata su un erroneo presupposto interpretativo (ordinanza n. 332 del 2005). Né, come si è già osservato, può negarsi che si fosse determinata una situazione di oggettiva incertezza del dato normativo, in ragione delle diverse interpretazioni possibili, circa il riconoscimento della anzianità pregressa maturata dal personale ed in assenza, appunto, di un diritto vivente sulla inderogabilità dei criteri enunciati dall’art. 8 della legge n. 124 del 1999. Di conseguenza, deve ritenersi ragionevole il ricorso da parte del legislatore alla interpretazione autentica effettuata con l’art. 1, comma 218, della legge n. 266 del 2005, la cui efficacia retroattiva deve essere comunque valutata alla stregua delle ulteriori censure sollevate dai rimettenti. A ciò è da aggiungere che, anche a voler escludere il carattere interpretativo della disposizione censurata e a volerne ammettere quello innovativo, ma con efficacia retroattiva, non potrebbe giungersi a conclusioni diverse sotto il profilo della ragionevolezza della disposizione stessa. 11.– Al riguardo, occorre verificare se possa ritenersi sussistente la denunciata lesione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo del contrasto tra la norma denunciata ed il tertium comparationis costituito dai principi del diritto comune del lavoro, nonché della disciplina dei rapporti di lavoro, in forza dei quali i diritti e i trattamenti retributivi riconosciuti al lavoratore dalla legge o dalla contrattazione collettiva devono essere valutati nella loro interezza temporale e sostanziale. Secondo la prospettazione dei rimettenti, si sarebbe in presenza, infatti, di una irrazionale disparità di trattamento fra i lavoratori A.T.A., provenienti dagli enti locali, e i lavoratori A.T.A. inseriti fin dall’origine del loro rapporto di impiego nei ruoli dell’amministrazione dello Stato, nonché tra i lavoratori inseriti nell’ambito dello stesso comparto di contrattazione collettiva. Tale impostazione, da un lato, non tiene conto del fatto che il fluire del tempo – il quale costituisce di per sé un elemento diversificatore che consente di trattare in modo differenziato le stesse categorie di soggetti, atteso che la demarcazione temporale consegue come effetto naturale alla generalità delle leggi – non comporta, di per sé, una lesione del principio di parità di trattamento sancito dall’art. 3 della Costituzione e, dall’altro lato, non considera la specificità propria della disciplina normativa dei due comparti di contrattazione collettiva rappresentati, rispettivamente, da quello della scuola e da quello degli enti locali (si vedano, ex multis, la sentenza n. 276 del 2005 e l’ordinanza n. 190 del 2003). Sotto questo secondo aspetto, in particolare, occorre tenere presente la strutturale diversità esistente tra i sistemi di determinazione del trattamento economico fatti propri dalla contrattazione collettiva nei due distinti comparti e, quindi, del diverso ruolo svolto dall’anzianità di servizio maturata da ciascun dipendente. Né è senza significato che la norma oggetto di censura, la quale si ricollega, interpretandola, ad una disposizione a carattere transitorio, preserva il trattamento economico conseguito dagli interessati alla data del loro trasferimento di ruolo, anche grazie al meccanismo della eventuale corresponsione di un assegno ad personam, che debba tener conto della differenza tra l’importo della posizione stipendiale di inquadramento e il trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999. Detta differenza è, altresì, considerata utile, previa temporizzazione, ai fini del conseguimento della successiva posizione stipendiale. In realtà, la disciplina dettata dall’art. 8, comma 2, della legge n. 124 del 1999, come interpretata dal censurato art. 1, comma 218, della legge n. 266 del 2005, nasce dall’esi- 176 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO genza di armonizzare, con una normativa transitoria di primo inquadramento, il passaggio del personale in questione da un sistema retributivo disciplinato a regime ad un altro sistema retributivo ugualmente disciplinato a regime, salvaguardando, proprio per quanto attiene al profilo economico, i livelli retributivi maturati e attribuendo agli interessati, a partire dal nuovo inquadramento, i diritti riconosciuti al personale A.T.A. statale. Tutto ciò allo scopo di rendere, almeno tendenzialmente, omogeneo il sistema retributivo di tutti i dipendenti A.T.A., al di là delle rispettive provenienze e, comunque, salvaguardando il diritto di opzione per l’ente di appartenenza nel caso di mancata corrispondenza di qualifiche e profili. 12.– Sotto altro non meno rilevante aspetto, non si può omettere di osservare che l’operazione di trasferimento del personale A.T.A. proveniente dagli enti locali nei ruoli del personale A.T.A. fin dall’origine statale, è stata configurata dalla stessa legge n. 124 del 1999 sulla base del principio della invarianza della spesa; e di ciò si ha la conferma considerando che in detta legge non è stata prevista – a questo scopo – alcuna copertura finanziaria di maggiori oneri, come sarebbe stato doveroso, in relazione a quanto disposto dall’art. 81, quarto comma, Cost., se si fosse ipotizzata la possibilità di trattamenti retributivi più favorevoli di quelli posseduti dal personale interessato alla data del trasferimento da un ruolo ad un altro. Assume decisivo rilievo, a questo riguardo, la circostanza che il comma 5 del medesimo art. 8 della citata legge, in immediata prosecuzione di quanto disposto dal comma 2 (oggetto della contestata interpretazione autentica), ha previsto che «a decorrere dall’anno in cui hanno effetto le disposizioni di cui ai commi 2, 3 e 4 si procede alla progressiva riduzione dei trasferimenti statali a favore degli enti locali in misura pari alle spese comunque sostenute dagli stessi enti nell’anno finanziario precedente a quello dell’effettivo trasferimento del personale». Ed è proprio in funzione del contenuto della riportata disposizione circa l’invarianza della spesa che si comprende perché in sede di contrattazione collettiva sindacale (citato accordo ARAN del 20 luglio 2000) sia stata prevista l’adozione di un meccanismo di valutazione delle anzianità pregresse fondato sul maturato economico e che la suindicata disciplina contrattuale sia stata fatta propria e sia stata ribadita dall’art. 1, comma 218, della legge n. 266 del 2005, ora censurato dai rimettenti. 13.– Né è senza significato che dalla applicazione della norma contenuta nel comma 2 dell’art. 8 della legge n. 124 del 1999, secondo quanto prospettato dalla difesa delle parti private costituitesi nel presente giudizio, deriverebbero oneri aggiuntivi a carico del bilancio dello Stato, in netto contrasto con quanto disposto dal comma 5 del medesimo art. 8. 14.– Neppure può ritenersi che si sia determinata, sulla base della norma contenuta nel comma 2 del suddetto art. 8, una situazione di legittimo affidamento con riferimento al trattamento retributivo derivante dalla valutazione, ai fini giuridici ed economici, dell’intera anzianità maturata presso gli enti di provenienza; ciò anche in considerazione, da un lato, del tipo di interpretazione adottata in sede di contrattazione collettiva pressoché contestualmente all’entrata in vigore della citata legge, e, dall’altro, del richiamo, espresso nel medesimo art. 8, al principio sopra indicato dell’invarianza della spesa in sede di primo inquadramento del personale proveniente dagli enti locali. 15.– L’art. 3 della Costituzione è ritenuto, altresì, leso dai giudici rimettenti in ragione della disparità di trattamento, in materia di riconoscimento delle anzianità pregresse, nell’ipotesi di passaggio da un settore lavorativo ad un altro, tra la generalità dei lavoratori, sia del settore pubblico che del settore privato, e i lavoratori A.T.A. trasferiti nei ruoli statali, ai sensi dell’art. 8 della legge n. 124 del 1999, in base all’applicazione dell’istituto del maturato economico. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 177 La questione investe direttamente la legittimità del suddetto istituto, sul quale questa Corte, sia pure con riguardo a diverse discipline normative adottate sia dal legislatore regionale, che dal legislatore statale (si vedano le sentenze n. 296 del 1984, n. 618 del 1987, n. 624 del 1988, n. 219 del 1998 e n. 430 del 2004), ha già avuto modo di pronunciarsi. 15.1.– Come si è sopra accennato, esso è stato previsto nell’ordinamento statale, in modo generalizzato, fin dalla legge 11 luglio 1980, n. 312 (Nuovo assetto retributivo-funzionale del personale civile e militare dello Stato), che ha istituito le qualifiche funzionali e ha corrispondentemente disciplinato il passaggio dei dipendenti dello Stato dal preesistente ordinamento gerarchico delle carriere a quello, appunto, delle qualifiche funzionali. La Corte, con orientamento costante, ha ritenuto, in tema di utilizzazione da parte del legislatore dell’istituto in questione, che il passaggio da un sistema ad un altro di progressione economica del pubblico impiego, in quanto importa una riduzione ad omogeneità di elementi per se stessi non omogenei, implica una scelta di coefficienti da operare sulla base di numerose variabili, ivi comprese le disponibilità finanziarie, e quindi con ampia discrezionalità (sentenza n. 219 del 1998). E si è anche chiarito che non si può postulare l’illegittimità di qualsiasi regolamentazione transitoria che non si limiti «alla conservazione del trattamento precedente “ad esaurimento” o alla pura e semplice applicazione illimitatamente retroattiva del trattamento nuovo: soluzioni, certo, possibili, ma non imposte dal precetto costituzionale in argomento», cioè dall’art. 3 della Costituzione (sentenze numeri 618 del 1987 e 296 del 1984). In definitiva, la disposizione dell’art. 8, comma 2, della legge n. 124 del 1999, rappresentava una deroga al principio generale vigente all’epoca della sua entrata in vigore, rispetto alla quale la norma ora censurata si presenta come ripristino della regola generale. 15.2.– Non assumono rilievo, altresì, quali modelli opponibili al criterio del maturato economico, la cui lesione si riverbererebbe sulla ragionevolezza della norma sospettata di illegittimità costituzionale, le disposizioni di cui all’art. 31 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), e dell’art. 2112 del codice civile, dal primo richiamato. 16.– È, infine, da escludere che la disposizione censurata dia luogo ad una ulteriore disparità di trattamento, sotto il profilo che prevederebbe una diversa disciplina per coloro che, all’entrata in vigore della norma stessa, abbiano già ottenuto un giudicato favorevole rispetto alla disciplina applicabile per coloro che, all’epoca, fossero soltanto in attesa della formazione del giudicato sulla loro pretesa. In proposito, si deve osservare come questa Corte, in più occasioni, abbia avuto modo di chiarire che è soltanto l’intangibilità del giudicato a costituire uno dei limiti che il legislatore incontra nell’emanazione di leggi con efficacia retroattiva. Al legislatore è precluso – di regola – intervenire, con norme aventi portata retroattiva, per annullare l’efficacia del giudicato e non già a salvaguardarne gli effetti. D’altronde, «se vi fosse un’incidenza sul giudicato, la legge di interpretazione autentica non si limiterebbe a muovere, come ad essa è consentito, sul piano delle fonti normative, attraverso la precisazione della regola e del modello di decisione cui l’esercizio della potestà di giudicare deve attenersi, ma lederebbe i principi relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale e le disposizioni relative alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi» (così, la sentenza n. 282 del 2005). Nella specie, la norma censurata si limita, in modo che deve ritenersi legittimo, a far salve le posizioni, e soltanto queste, di coloro che – al momento della sua entrata in vigore – fossero già titolari di un giudicato favorevole. 17.– Quanto, ancora, agli ulteriori profili di censura prospettati dai rimettenti, in particolare con riferimento agli artt. 24, 36, 42, 97, 101, 102, 103, 104 e 113 della Costituzione, 178 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO a prescindere dalla circostanza della inconferenza dei parametri di cui agli artt. 36 e 42 Cost., atteso che la norma censurata – per il suo contenuto – è estranea alla operatività di entrambi, non si ravvisa, per effetto della norma contestata, alcuna compromissione dell’imparzialità della pubblica amministrazione, né dell’esercizio della funzione giurisdizionale, la quale opera su un piano diverso rispetto a quello del potere legislativo di interpretazione autentica (si vedano le sentenze numeri 341 e 26 del 2003). Non è configurabile, infatti, a favore del giudice, pur nel rispetto delle proprie prerogative, una esclusività dell’esercizio dell’attività ermeneutica che possa precludere quella spettante al legislatore, in quanto l’attribuzione per legge ad una norma di un determinato significato non lede la potestas iudicandi, ma definisce e delimita la fattispecie normativa che è oggetto della potestas medesima. 18.– In conclusione, poiché l’efficacia retroattiva della disposizione censurata dai rimettenti deve ritenersi ragionevole e non lesiva degli altri principi costituzionali evocati, le questioni di legittimità costituzionale prospettate nelle ordinanze in esame devono essere dichiarate non fondate, in riferimento a tutti i parametri nelle stesse dedotti. Per questi motivi la Corte Costituzionale riuniti i giudizi, dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006) sollevate, in riferimento, nel complesso, agli articoli 3, 24, 36, 42, 97, 101, 102, 103, 104 e 113 della Costituzione, dal Tribunale di Milano, dal Tribunale di Roma, dal Tribunale di Lamezia Terme, dal Tribunale di Ancona, dal Tribunale di Taranto, dal Tribunale di Oristano, dalla Corte di Appello di L’Aquila con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 giugno 2007». (doc. 3) A.G.S. – Circolare del 24 luglio 2007 n. 31 – Comunicazione di servizio n. 86/07. Controversie relative al personale A.T.A. transitato nei ruoli dello Stato ai sensi della legge 3 maggio 1999, n. 124. Sentenza della Corte Costituzionale 18 giugno 2007 n. 234. «Si segnala che con sentenza 18 giugno 2007 n. 234 la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondate, in riferimento agli articoli 3, 24, 36, 42, 97, 101, 102, 103, 104 e 113 della Costituzione, le questioni di legittimità dell’art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, disposizione ai sensi della quale “Il comma 2 dell’articolo 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124, si interpreta nel senso che il personale degli enti locali trasferito nei ruoli del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (A.T.A.) statale è inquadrato, nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali dei corrispondenti ruoli statali, sulla base del trattamento economico complessivo in godimento all’atto del trasferimento, con l’attribuzione della posizione stipendiale di importo pari o immediatamente inferiore al trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999 costituito dallo stipendio, dalla retribuzione individuale di anzianità nonché da eventuali indennità, ove spettanti, previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro del comparto degli enti locali, vigenti alla data dell’ inquadramento. L’eventuale differenza tra l’importo della posizione stipendiale di inquadramento e il trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999, come sopra indicato, viene corrisposta ad personam e considerata utile, previa temporizzazione, ai fini del conseguimento della successiva posizione stipendiale. L’Avvocato Generale dello Stato Oscar Fiumara». IL CONTENZIOSO NAZIONALE 179 (doc. 4) Corte di Cassazione, sentenza 16 gennaio 2008 n. 677 – Pres. G. Ianniruberto – Rel. F. Curcuruto. «(…) Svolgimento del processo 1.-Gli attuali intimati, appartenenti alla categoria del personale Amministrativo- Tecnico e Ausiliario (cd. A.T.A) già dipendenti di ente locale, sono stati trasferiti, a decorrere dal 1 gennaio 2000, in applicazione dell’art. 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124, alle dipendenze del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Il Ministero ha riconosciuto loro l’anzianità equivalente al solo trattamento economico maturato presso l’ente di provenienza (c.d. maturato economico). Per ciò che qui rileva, essi lo hanno pertanto convenuto in giudizio unitamente agli istituti scolastici di appartenenza, ed hanno chiesto la condanna dei convenuti al pagamento delle differenze retributive derivanti dal riconoscimento integrale dell’anzianità maturata presso l’ente locale di provenienza, invocando l’applicazione dell’art. 8, comma 2, della legge n. 124 del 1999, sopra cit., che di tale anzianità garantisce il riconoscimento “ai fini giuridici ed economici”. 2.- Il primo giudice ha accolto la domanda dichiarando il diritto degli odierni ricorrenti al riconoscimento dell’anzianità di servizio maturata alle dipendenze dell’ente di provenienza ai fini della progressione economica stipendiale del compatto scuola e condannando la pane convenuta al pagamento delle relative differenze a decorrere dal 1 gennaio 2000 oltre rivalutazione ed interessi. 3.- La Corte d’Appello di Milano, rigettando il gravame dell’amministrazione, ha confermato la sentenza impugnata. Nel pervenire a tale decisione la Corte di merito ha in sostanza ritenuto che il cit. comma 2, dell’art. 8 della legge n. 124 del 1999, non potesse esser validamente derogato in senso peggiorativo, dall’Accordo 20 luglio 2000 fra l’A.R.A.N. e le 00.SS., poi recepito nel decreto interministeriale 5 aprile 2001, il quale, come era incontroverso, riconosceva al personale già dipendente degli enti locali, transitato alle dipendenze dello Stato nel compatto scuola, il solo maturato economico, ossia l’anzianità equivalente al trattamento economico maturato presso l’ente di provenienza e non l’intera anzianità di servizio come invece stabilito dalla legge. 4.- Il Ministero e gli istituti convenuti nel giudizi di merito, negli indicati in epigrafe, chiedono la cassazione di questa sentenza con ricorso fondato su un unico articolato motivo. Gli intimati resistono con controricorso. Motivi della decisione 5.- Con l’unico motivo di ricorso i ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione dell’art. 8 della legge 124/99 del decreto interministeriale 184 del 23 luglio 1999, del decreto 5 aprile 2001, dell’art. 2 del d.lgs 165/2001 e del d.lgs. 80/98, unitamente a vizio di motivazione. 6.- Il ricorso merita accoglimento. 7.- La legge 3 maggio 1999, n.124 (recante “Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico”) per ciò che rileva ha stabilito nell’art. 8 (la cui rubrica è intitolata “Trasferimento di personale A.T.A. degli enti locali alle dipendenze dello Stato”) che: “1 . Il personale A.T.A. degli istituti e scuole statali di ogni ordine e grado è a carico dello Stato. Sono abrogate le disposizioni che prevedono la fornitura di tale personale da parte dei comuni e delle province. 180 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 2. Il personale di ruolo di cui al comma 1, dipendente dagli enti locali, in servizio nelle istituzioni scolastiche statali alla data di entrata in vigore della presente legge, è trasferito nei ruoli del personale A.T.A. statale ed è inquadrato nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali corrispondenti per lo svolgimento dei compiti propri dei predetti profili. Relativamente a qualifiche e profili che non trovino corrispondenza nei moli del personale A.T.A. statale è consentita l’opzione per l’ente di appartenenza, da esercitare comunque entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. A detto personale vengono riconosciuti ai fini giuridici ed economici l’anzianità maturata presso l’ente locale di provenienza nonché il mantenimento della sede in fase di prima applicazione in presenza della relativa disponibilità del posto”. 3. Il personale di ruolo che riveste il profilo professionale di insegnante tecnico-pratico o di assistente di cattedra appartenente al VI livello nell’ordinamento degli enti locali, in servizio nelle istituzioni scolastiche statali, è analogamente trasferito alle dipendenze dello Stato ed è inquadrato nel molo degli insegnanti tecnico-pratici. 4. Il trasferimento del personale di cui ai commi 2 e 3 avviene gradualmente, secondo tempi e modalità da stabilire con decreto del Ministro della pubblica istruzione, emanato di concerto con i Ministri dell’interno, del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e per la funzione pubblica, sentite l’Associazione nazionale comuni italiani (ANCI), l’Unione nazionale comuni, comunità ed enti montani (UNCEM) e l’Unione delle province d’Italia (UPI), tenendo conto delle eventuali disponibilità di personale statale conseguenti alla razionalizzazione della rete scolastica, nonché della revisione delle tabelle organiche del medesimo personale da effettuare ai sensi dell’articolo 31, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni; in relazione al graduale trasferimento nei ruoli statali sono stabiliti, ove non già previsti, i criteri per la determinazione degli organici delle categorie del personale trasferito. 5. A decorrere dall’anno in cui hanno effetto le disposizioni di cui ai commi 2, 3 e 4 si procede alla progressiva riduzione dei trasferimenti statali a favore degli enti locali in misura pari alle spese comunque sostenute dagli stessi enti nell’anno finanziario precedente a quello dell’effettivo trasferimento del personale; i criteri e le modalità per la determinazione degli oneri sostenuti dagli enti locali sono stabiliti con decreto del Ministro dell’interno, emanato entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, di concerto con i Ministri del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, della pubblica istruzione e per la funzione pubblica, sentite l’ANCI, 1’UNCEM e l’UPI”. 8.- Questa Corte con numerose pronunzie (fra le quali, Cass. 17 febbraio 2005, n. 3224; 18 febbraio 2005, n. 3356; 4 marzo 2005, n. 4722; 23 settembre 2005, n. 18652; 27 settembre 2005, n. 18829) sia pur con percorsi argomentativi diversi è pervenuta alla conclusione che la garanzia del riconoscimento ai fini giuridici, oltreché economici, dell’anzianità maturata presso gli enti locali, in favore dei dipendenti coinvolti nel passaggio dai ruoli di tali enti in quelli del personale statale, in quanto apprestata dalla legge non potesse essere ridotta, in forza di norme di rango inferiore, alla sola garanzia del riconoscimento economico dell’anzianità, e risolversi nell’attribuzione al dipendente del c.d. maturato economico, così come disposto nel decreto interministeriale 5 aprile 2001 conformemente ai contenuti dell’Accordo 20 luglio 2000 fra l’A.R.A.N. e le 00. SS. 9.- Il cit. comma 2 dell’art. 8 ha formato però oggetto, con l’art. 1, comma 218 della legge 23 dicembre 2005, n, 266, di una disposizione, autoqualificantesi di interpretazione autentica, dal seguente contenuto: “Il comma 2 dell’articolo 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124, si interpreta nel senso che il personale degli enti locali trasferito nei ruoli del personale amministrativo, tecnico ed IL CONTENZIOSO NAZIONALE 181 ausiliario (A.T.A.) statale è inquadrato, nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali dei corrispondenti ruoli statali, sulla base del trattamento economico complessivo in godimento all’atto del trasferimento, con l’attribuzione della posizione stipendiale di importo pari o immediatamente inferiore al trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999 costituito dallo stipendio, dalla retribuzione individuale di anzianità nonché da eventuali indennità, ove spettanti, previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro del comparto degli enti locali, vigenti alla data dell’inquadramento. L’eventuale differenza tra l’importo della posizione stipendiale di inquadramento e il trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999, come sopra indicato, viene corrisposta ad personam e considerata utile, previa temporizzazione, ai fini del conseguimento della successiva posizione stipendiale. È fatta salva l’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge.” 10.- La norma espressa da detta disposizione, che, per il grado della fonte da cui promana, è abilitata a modificare la precedente disciplina, impone quindi di considerare l’anzianità acquisita nel precedente rapporto per i soli effetti da essa prodotti sul piano retributivo sino al passaggio nei ruoli statali. D’altra parte, in relazione alla sua funzione di norma di interpretazione autentica (sulla quale si argomenterà in prosieguo) essa ha di per sé effetto retroattivo. In ogni caso, se si potesse dubitare di un siffatto carattere e la si volesse considerare norma innovativa si tratterebbe di norma con efficacia retroattiva. Tali sono infatti gli approdi cui è pervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza 26 giugno 2007, n. 234, che investita, sotto numerosi profili, della questione di costituzionalità della disposizione in esame ne ha confermato il carattere interpretativo, ribadendo peraltro che, ad ogni modo, la verifica di tale carattere non sarebbe stata decisiva, una volta che il legislatore, con scelta sindacabile solo sotto il profilo della ragionevolezza, previa verifica della sua compatibilità con altri valori e interessi costituzionalmente protetti, aveva comunque disposto la retroattività della norma espressa dall’art. 1 comma 218 della legge 266/2005. 11.- Le conclusioni del giudice delle leggi sul carattere interpretativo e sulla retroattività della norma in esame, in quanto espresse a sostegno di una sentenza di rigetto, richiedono tuttavia un ulteriore approfondimento. Spetta infatti a questa Corte – salvo il caso in cui l’interpretazione data dalla Corte cost. alla norma denunziata sia l’unica compatibile con il dettato costituzionale (v. in proposito, Cass. pen. Sez. un. 16 dicembre 1998, n. 25, Alagni) – di stabilire con i consueti criteri interpretativi se la norma abbia natura innovativa e sia inapplicabile alla fattispecie in esame o al contrario sia effettivamente norma di interpretazione autentica o comunque dotata di effetto retroattivo. 12.- È antico, ma non smentito, insegnamento giurisprudenziale che anche secondo la Costituzione vigente il legislatore possa, quando una legge abbia dato luogo ad incertezze interpretative, precisare in modo definitivo ed obbligatorio erga omnes il suo reale pensiero mediante l’emanazione di una apposita legge interpretativa, della quale il giudice, soggetto anche alle leggi di interpretazione autentica, deve prendere atto per applicarla (vedi, fra le pronunzie più lontane Cass. 22 gennaio 1957, n. 168; più recentemente, Cass. 23 giugno 1986, n. 4182; 23 agosto 1986, n. 5288). Si tratta di una attività della quale è riconosciuto comunemente il carattere eccezionale (il giudice delle leggi ammonisce a farvi “ricorso con attenta e responsabile moderazione”: Corte Cost. sent. 155/90) onde, talvolta, si è puntualizzato che essa richiede espressioni esplicite e inequivocabili, e non ricorre in assenza di formule che abbiano significato di precisazione e chiarimento di testi anteriori (v. Corte dei conti, 24 settembre 1974, n. 135; nello stesso senso Cons. giust. amm. Sicilia 1 ottobre 1996, n. 269). 182 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La norma di interpretazione autentica è di per se dotata di efficacia retroattiva, il che implica che un rapporto svoltosi anteriormente all’entrata in vigore della legge interpretativa dovrà essere disciplinato da quest’ultima, salvo che non si tratti di rapporti interamente esauriti, in particolare per effetto del giudicato (v. Cass. 6 maggio 1975, n. 1748; Cass, 12 marzo 1988, n. 2416). Per contro, l’esplicarsi di tale efficacia non trova ostacoli in atti e fasi di un rapporto privi di autonomia e rilevanza giuridica propria, per i quali possono vantarsi diritti acquisiti per decadenze e preclusioni solo a fronte di una legge autenticamente innovativa (così Cass. 4 giugno 1983, n. 3813). Benché alle norme di interpretazione autentica si assegni, come loro funzione normale, la soluzione di dubbi e divergenze di opinioni sorte a proposito della portata di precedenti disposizioni, o la prevenzione di incertezze o perplessità nella esegesi della norma, è sostanzialmente pacifico che l’esistenza di siffatte divergenze non configuri un presupposto necessario di siffatte norme e che quindi esse non siano sospettabili di illegittimità costituzionale in relazione all’art. 101 Cost. per la loro contrarietà all’unico indirizzo giurisprudenziale già formatosi al riguardo ( Cass. 12 novembre 1994, n. 9501, nello stesso senso v. anche Cass. 24 novembre 1979, n. 6149; 20 maggio 1982, n. 3119; 12 luglio 1986, n. 4526; 8 agosto 1986, n. 4994; 25 ottobre 1986, n. 6260; Corte Cost., 2 febbraio 1988, n. 123) benché come precisato dalla sentenza costituzionale 123/88, appena cit., l’esistenza di contrastanti indirizzi giurisprudenziali possa costituire un indice per attribuire alla legge carattere di interpretazione autentica e quindi efficacia retroattiva. Un ruolo fondamentale nella qualificazione di una legge come norma di interpretazione autentica svolge invece la particolare struttura della fattispecie normativa. È necessario a tal fine che la legge, in quanto rivolta ad imporre una data interpretazione di una precedente norma con efficacia retroattiva, non sia suscettibile di applicazione autonoma ma si integri con la norma interpretata, nel senso che la disciplina da applicarsi ai singoli casi concreti debba esser desunta cumulativamente da quest’ultima e dalla norma interpretativa (Cass. 29 luglio 1974, n. 2289; 25 ottobre 1986, n. 6260, cit.). Ma il carattere interpretativo o innovativo di una disposizione di legge dipende, secondo le indicazioni del giudice delle leggi, anche dalla verifica, con giudizio riflesso retrospettivamente e tenendo conto del contesto normativo di riferimento, diretta a stabilire se la disposizione interpretata poteva, tra i vari significati plausibili secondo gli ordinari criteri ermeneutici, esprimere anche il dato precettivo successivamente meglio esplicitato dalla disposizione di interpretazione (Corte Cost. 17 marzo 1995, n. 88 ).La norma di interpretazione autentica è tale, in altri termini, quando sia diretta a chiarire il senso di disposizioni preesistenti ovvero ad escludere o ad enucleare uno dei significati ragionevolmente ascrivibili alle statuizioni interpretate occorrendo comunque che la scelta assunta dal precetto interpretativo rientri fra le varianti di senso compatibili con il tenore letterale del testo interpretato (Corte Cost. 5 novembre 1996, n. 386). In ogni caso, il legislatore resta nei limiti delle sue funzioni quando, dettando norme dalla applicazione delle quali possono derivare effetti nei riguardi dei procedimenti giudiziari in corso, agisce sul piano astratto delle fonti normative e determina una indiretta incidenza generale su tutti i giudizi presenti e futuri senza far venir meno la potestas judicandi bensì semplicemente ridefinendo il modello di decisione cui l’esercizio di detta potestà deve attenersi. Supera invece tali limiti quando risulti l’intenzione della legge interpretativa di vincolare il giudice ad assumere una determinata decisione in controversie specifiche ed individuate, perché la funzione legislativa perde così la propria natura ed assume contenuto meramente provvedi mentale, come nel caso in cui il legislatore usando della sua prerogati- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 183 va di interprete d’autorità del diritto precluda al giudice la decisione di merito imponendogli di dichiarare l’estinzione dei giudizi pendenti (Corte Cost. 23 novembre 1994, n. 397). 13.- Ad avviso di questa Corte nella norma di cui all’art. 1 comma 218 della legge 266/2005 sono presenti tutti i requisiti di una norma di interpretazione autentica. Il testo della disposizione in commento (“Il comma 2 dell’articolo 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124, si interpreta nel senso che il personale degli enti locali trasferito nei ruoli del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (A.T.A.) statale è inquadrato etc.”) manifesta anzitutto nella sua formulazione un espresso intento di precisazione e chiarimento della portata della norma precedente e soddisfa quindi alla condizione che l’intervento interpretativo risulti palese ed esplicito. La presenza di dubbi e divergenze di opinioni sulla portata della disposizione precedente, non indispensabile per attribuire alla legge carattere di interpretazione autentica ma – come detto – indizio comunque di tale carattere, non può esser messa in discussione sia per la diversità degli orientamenti dei giudici di merito sulla questione sia per la stessa già segnalata varietà dei percorsi argomentativi seguiti da questa Corte nell’applicazione della legge oggetto di interpretazione. La fattispecie normativa è palesemente strutturata come intervento limitato a quella sola parte del comma 2 dell’art. 8 della legge 124/99 che aveva dato luogo ai problemi applicativi sopra ricordati. In essa il riferimento al personale “trasferito nei ruoli del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (A.T.A.) statale” trova ragion d’essere nella circostanza che la legge è intervenuta quando il trasferimento si è già realizzato, ma la norma riguarda esattamente lo stesso personale preso in considerazione dal comma 2 della legge anteriore. L’omissione del richiamo allo svolgimento dei compiti propri dei profili di inquadramento dipende dall’estraneità del tema rispetto agli obiettivi dell’intervento legislativo. Ancor più significativo sotto tale profilo è il mancato richiamo alla corrispondenza di qualifiche e profili nel vecchio e nel nuovo sistema e alla correlata opzione per l’ente di appartenenza nel caso in cui tale corrispondenza manchi. Anche in tal caso infatti la disposizione non riprodotta non entra in gioco, quantomeno direttamente, ai fini del profilo economico dell’inquadramento in relazione alla pregressa anzianità di servizio, e quindi, coerentemente, non viene toccata dall’intervento legislativo. Le precisazioni circa la base di computo del trattamento annuo in relazione al quale operare l’inquadramento rientrano “de plano” nella area del riconoscimento a fini economici e giuridici dell’anzianità maturata e sono oggettivamente idonee proprio a risolvere ogni dubbio su quale debba essere la base economica dell’inquadramento. Non meno rilevante è poi che il cit. comma 218 non contenga riferimento alcuno alla categoria del personale di ruolo che riveste il profilo professionale di insegnante tecnicopratico o di assistente di cattedra, cui invece si riferisce il comma 3 dell’art. 8 della legge 124/99. Per tale personale il comma appena cit. dispone infatti che esso è “analogamente trasferito alle dipendenze dello Stato ed è inquadrato nel ruolo degli insegnanti tecnico-pratici”, vale a dire che al suo trasferimento si deve provvedere nello stesso modo che per il personale cui si riferisce il comma 2 della legge. Anche tale mancata inclusione si spiega con la considerazione che, ritenendo di dover intervenire sulla norma del 1999 solo in relazione allo specifico problema delle modalità di riconoscimento del periodo trascorso dai lavoratori alle dipendenze dell’ente locale, il legislatore ha limitato il suo intervento a tale profilo lasciando alla disposizione precedente di operare nella parte non incisa dall’intervento, e quindi, nel caso di specie, mantenendo il 184 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO parallelismo stabilito dal comma 3 dell’art. 8 della legge 124/99 in relazione però alle modalità di inquadramento fissate dalla norma interpretativa. In definitiva, nel caso in esame, il contenuto precettivo della fattispecie va ricostruito in base tanto alla norma interpretata quanto alla norma di interpretazione, confermandosi anche sotto tale profilo l’effettivo carattere di intervento di interpretazione autentica proprio della disposizione in esame. Deve esser rimarcato, del resto, che la lettura del cit. comma 218 come norma interpretativa si lascia preferire anche sul piano sistematico, comportando una diversa ricostruzione della stessa disposizione in termini di norma innovativa lacune di disciplina e irragionevole rottura del principio dell’uniformità di trattamento del personale trasferito nei ruoli statali, in contrasto con uno dei criteri fondamentali dell’intervento legislativo in materia. Né una tale lettura trova serio ostacolo nell’esplicito riferimento contenuto nell’ultima parte della norma all’esecuzione dei giudicati formatisi alla data della sua entrata in vigore, considerato che la superfluità dell’indicazione di un limite intrinseco all’operatività di norme retroattive non somministra di per se argomenti contrari al riconoscimento della retroattività e va semmai interpretato come un sintomo dell’intenzione legislativa di eliminare ogni incertezza sulla portata dell’intervento normativo. Infine, non può esser seriamente revocato in dubbio che il contenuto normativo dell’art. 1 comma 218 della legge 266/2005 corrisponda ad uno dei possibili significati del comma 2 dell’art. 8 della legge 124/99. Vale anzitutto richiamare in proposito le considerazioni della sentenza costituzionale 234/07, laddove essa esattamente sottolinea come l’interpretazione poi adottata dal legislatore corrisponda da un lato alla concorde opinione delle parti collettive e dall’altro riproduca, con il criterio del cd. maturato economico, un principio di portata generale introdotto nell’ordinamento fin dalla legge 11 luglio 1980 n. 312 in sede di riassetto retributivo-funzionale dei dipendenti pubblici. Non va inoltre trascurata la funzione di armonizzazione che, come messo in luce anche nella sentenza cost. cit., sta a fondamento della disciplina dettata dall’art. 1 comma 218 della legge 266/2005. Il problema normativo posto dal trasferimento del personale A.T.A. dipendente dall’ente locale nei ruoli statali va infatti identificato nell’applicazione a tale personale di un diverso regime retributivo con salvaguardia per il passato dei livelli economici già acquisiti ma con attribuzione, a partire dalla data di inquadramento presso il nuovo datore, dei medesimi diritti dei dipendenti del comparto di destinazione. Cornice fondamentale di riferimento di tale operazione è la riduzione ad unitarietà del sistema retributivo per tutti i dipendenti, indipendentemente dalla rispettiva provenienza ed alla condizione, mantenuta anche dalla legge interpretativa (come già osservato e come confermato anche dalla Corte costituzionale) che l’inquadramento precedente trovi corrispondenza anche nel nuovo sistema di qualifiche e profili. In tale contesto, di fronte ad una lettura del sintagma “anzianità giuridica ed economica” utilizzato nel comma 2 dell’art. 8 della legge 124/99 coestensiva rispetto al significato letterale dei termini ivi utilizzati, il legislatore ha optato per una lettura nella quale, essenzialmente, gli effetti dell’anzianità giuridica sono limitati a quelli che essa abbia eventualmente già prodotto nel precedente rapporto. Si tratta quindi di una interpretazione restrittiva, come tale rientrante di pieno diritto negli strumenti ermeneutici, e in nessun modo impedita dal testo legislativo, che pure consentiva altre opzioni. Si tratta anche, come sottolineato dal giudice delle leggi, di una soluzione più coerente con le disposizioni dell’art. 5 della cit. legge 124/99, in materia di invarianza della spesa nella operazione di trasferimento, disposizioni la cui presenza, unitamente al già rimarcato atteggiamento delle pani collettive, induce ad escludere, anche qui in IL CONTENZIOSO NAZIONALE 185 sintonia con le condivisibili indicazioni della sentenza costituzionale 234/07 sul punto, che con riferimento al trattamento retributivo derivante dalla valutazione integrale a fini giuridici ed economici dell’anzianità maturata nel comparto di provenienza si sia determinata negli interessati una situazione di legittimo affidamento impeditiva dell’intervento del legislatore. Sulla base degli elementi fin qui messi in rilievo può dunque escludersi che la disposizione del comma 218 dell’art. 1 della legge 266/2005. esprima la mera intenzione legislativa di determinare l’esito di una o più controversie specifiche ed individuate, trattandosi invece della riscrittura di una regola di giudizio destinata ad operare in termini generali per le controversie già avviate come per quelle future, rispetto alle quali si profila anche un evidente scopo preventivo. 14.- A questo punto dell’indagine, una volta verificata dal giudice delle leggi la conformità a Costituzione della norma in esame quale norma con effetti retroattivi, con riguardo ai vari parametri richiamati dai giudici rimettenti, ed una volta confermata la sua natura interpretativa si dovrebbe ritenere che essa sia idonea a regolare la fattispecie ora in esame e che la sua applicazione comporti pertanto l’accoglimento del ricorso la cassazione della sentenza impugnata ed il rigetto nel merito della domanda, non essendovi necessità di ulteriori accertamenti di fatto. 15.- Peraltro, nell’esercizio di poteri ufficiosi di questa Corte, va accertato se sussistano eventuali dubbi di compatibilità fra la soluzione adottata dal legislatore e i principi propri del diritto comunitario, in particolare se si profili un contrasto fra la norma interpretativa e la direttiva CE del Consiglio n. 77/187 e successive modifiche in tema di mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese e se ricorrano quindi le condizioni per disapplicare la norma nazionale in favore di quella comunitaria o per rivolgersi alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 234 comma 3 del Trattato UE. A tal fine si deve allora accennare in primo luogo se la fattispecie in esame, in base alle norme dell’ordinamento giuridico italiano la cui interpretazione spetta al giudice nazionale – ricada nell’ambito di applicazione del diritto comunitario Solo in caso di risposta positiva si dovrà poi effettuare un confronto fra quest’ultimo e il diritto interno onde verificare se emerga un serio dubbio di difformità, non superabile mediante la tecnica dell’interpretazione conforme. 16.- La direttiva 77/187/CEE concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di pani di stabilimenti è stata modificata dalla direttiva 98/50/CE del Consiglio del 29 giugno 1998. Successivamente, con la Direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001 – come si legge nel n. 1 dei suoi “considerando”, a seguito delle modificazioni sostanziali intervenute, è stato ritenuto opportuno procedere alla codificazione della direttiva 77/187/CEE. 17.- In relazione alla data del 1 gennaio 2000, che è quella rilevante ai fini del decidere, rappresentando il momento del passaggio dei dipendenti dall’ente locale all’amministrazione statale, la direttiva comunitaria 77/187/CEE, a seguito delle modifiche introdottevi dalla direttiva 98/50/CE, disponeva, per ciò che rileva, quanto segue: “SEZIONE I – Ambito di applicazione e definizioni Articolo 1 1. a) La presente direttiva si applica ai trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti ad un nuovo imprenditore in seguito a cessione contrattuale o a fusione. b) Fatta salva la lettera a) e le disposizioni seguenti del presente articolo, è considera- 186 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO to come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un’entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria. c) La presente direttiva si applica alle imprese pubbliche o private che esercitano un’attività economica, che perseguano o meno uno scopo di lucro. Una riorganizzazione amministrativa di enti amministrativi pubblici o il trasferimento di funzioni amministrative tra enti amministrativi pubblici, non costituisce trasferimento ai sensi della presente direttiva. 2. La presente direttiva si applica se e nella misura in cui l’impresa, lo stabilimento o la parte di impresa o di stabilimento da trasferire si trovi nell’ambito d’applicazione territoriale del trattato. 3. La presente direttiva non si applica alle navi marittime”. 18.- Alla data sopraindicata, nell’ordinamento interno era in vigore il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, con le modifiche successivamente apportatevi, il cui art. 34, come sostituito dall’art. 19, comma c. 1, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, così recitava: “Art. 34 - Passaggio di dipendenti per effetto di trasferimento di attività 1. Fatte salve le disposizioni speciali, nel caso di trasferimento o conferimento di attività, svolte da pubbliche amministrazioni, enti pubblici o loro aziende o strutture, ad altri soggetti, pubblici o privati, al personale che passa alle dipendenze di tali soggetti si applica l’articolo 2112 del codice civile e si osservano le procedure di informazione e di consultazione di cui all’art. 47, commi da 1 a 4, della legge 29 dicembre 1990, n. 428”. 19.- A sua volta l’art. 2112 c.c., nel testo allora vigente – prima delle modifiche apportatevi dal D.Lgs. 2 febbraio 2001, n. 18, D.Lgs. 2 febbraio 2001, n. 18 al precipuo scopo di attuazione la direttiva 98/50/CE – aveva il seguente contenuto: “Art. 2112- Trasferimento dell’azienda. In caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con l’acquirente ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano. L’alienante e l’acquirente sono obbligati, in solido per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento. Con le procedure di cui agli articoli 410 e 411 del codice di procedura civile il lavoratore può consentire la liberazione dell’alienante dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro. L’acquirente è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi, previsti dai contratti collettivi anche aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa dell’acquirente Le disposizioni di questo articolo si applicano anche in caso di usufrutto o di affitto dell’azienda”. 20.- La giurisprudenza di questa Corte ha peraltro precisato che di detto articolo anche anteriormente alle modifiche apportatevi dal D.Lgs. n. 18 del 2001, va data una lettura, coerente con la giurisprudenza comunitaria formatasi in merito alla interpretazione della direttiva n. 187 del 1977 e con le esplicite indicazioni fornite dalla direttiva n. 50 del 1998, la quale permette di ricondurre, ai fini da esso considerati, alla cessione di azienda anche il trasferimento di un ramo della stessa, purché si tratti di un insieme di elementi produttivi organizzati dall’imprenditore per l’esercizio di un’attività, che si presentino prima del trasferimento come una entità dotata di autonoma ed unitaria organizzazione, idonea al perseguimento dei fini dell’impresa e che conservi nel trasferimento la propria identità (Cass. 10 gennaio 2004, n. 206). 21.- Resta dunque da verificare se la vicenda considerata sia riconducibile ad un trasferimento ai sensi dell’art. 1. lett. b) della direttiva, ed a tal fine assume un ruolo decisivo l’in- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 187 terpretazione della giurisprudenza comunitaria, vincolante al pari della direttiva stessa (come costantemente ribadito da questa Corte: v. ora per tutte Cass. 8 novembre 2004, n. 21248). 22.- Al riguardo e per quanto particolarmente rileva nella vicenda in esame, la Corte di Giustizia (sent. 26 settembre 2000 in causa 175-99), nello stabilire che l’art. 1, n. 1, della direttiva 77/187 trova applicazione in caso di ripresa ad opera di un comune – persona giuridica di diritto pubblico operante nell’ambito delle specifiche norme del diritto amministrativo - delle attività di pubblicità e informazione sui servizi da questo offerti al pubblico, e fino a quel momento esercitate nell’interesse di questo comune, da un’associazione senza scopo di lucro – persona giuridica di diritto privato ha ricordato, richiamando la propria giurisprudenza in argomento (sentenze 18 marzo 1986, causa 24/85, e 2 dicembre 1999, causa C- 234/98) che “la direttiva 77/187 mira a garantire la continuità dei rapporti di lavoro nell’ambito di un’entità economica, indipendentemente dal mutamento del titolare” e che “Il criterio decisivo per stabilire se si configuri un trasferimento ai sensi della direttiva 77/187 consiste nella circostanza che l’entità in questione conservi la propria identità, che risulta in particolare dal fatto che la sua gestione sia stata effettivamente proseguita o ripresa” . Essa ha poi escluso che “ la mera circostanza che l’attività esercitata dal precedente e dal nuovo imprenditore sia analoga autorizzi a concludere che si tratti di trasferimento di un’entità economica” puntualizzando che “ un’entità non può essere ridotta all’attività che le è affidata. La sua identità emerge anche da altri elementi quali il personale, la dirigenza, l’organizzazione del lavoro, i metodi di gestione nonché, se del caso, i mezzi di gestione a sua disposizione”. 23.- Qualche oscillazione sembra manifestarsi sulla questione se ai fini del trasferimento sia o no necessario il passaggio di elementi materiali significativi fra il primo e il secondo datore di lavoro. La sentenza 25 gennaio 2001, in causa C-172/99, ha precisato che la direttiva, applicabile anche in assenza di vincolo contrattuale fra i due, non lo è però in assenza di una cessione di elementi significativi. La successiva sentenza 24 gennaio 2002 in causa C-51/2000 (nel caso di un committente, che affidata per contratto la pulizia dei suoi locali a un primo imprenditore, il quale faceva a sua volta eseguire questi lavori da un subappaltatore, pone fine a questo contratto e conclude, al fine dell’esecuzione degli stessi lavori, un nuovo contratto con un secondo imprenditore) ha considerato applicabile la direttiva allorché l’operazione non è accompagnata da alcuna cessione di elementi patrimoniali, materiali o immateriali, tra il primo imprenditore o il subappaltatore e il nuovo imprenditore, ma il nuovo imprenditore riassume, in forza di un contratto collettivo di lavoro, una parte del personale del subappaltatore, a condizione però che la riassunzione del personale riguardi una parte essenziale, in termini di numero e di competenze, dei dipendenti che il subappaltatore destinava all’esecuzione dei lavori subappaltati. L’elemento personale, unitariamente considerato entra quindi in gioco, in tal caso, come precipuo fattore di individuazione della entità economica della quale, nell’avvicendarsi indipendente dei titolari, è ravvisabile l’identità. 24.- Su tali linee si è mossa anche la giurisprudenza di questa Corte. In base ad essa può infatti configurarsi un trasferimento aziendale che abbia ad oggetto anche solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, la cui capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare “know how” (o, comunque, dall’utilizzo di “copyright”, brevetti, marchi etc.), realizzandosi in tale ipotesi una successione legale di contratto non bisognevole del consenso del contraente ceduto, ex art. 1406 e seguenti cod. civ. ma requisito indefettibile della fattispecie legale tipica delineata dal diritto comunitario e dall’art. 2112 cod. civ. resta comunque, anche in siffatte ipotesi, l’elemento della organizzazione, intesa come legame funzionale che rende le attività dei dipendenti appartenenti al grup- 188 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO po interagenti tra di esse e capaci di tradursi in beni o servizi ben individuabili, configurandosi altrimenti la vicenda traslativa come cessione del contratto di lavoro, richiedente per il suo perfezionamento il consenso del contraente ceduto (Cass. 206/04 cit. in precedenza). D’altra parte per “ramo d’azienda” , ai sensi dell’art. 2112 cod. civ. (così come modificato dalla legge 2 febbraio 2001, n. 18 , in applicazione della direttiva CE n. 38/50), come tale suscettibile di autonomo trasferimento riconducibile alla disciplina dettata per la cessione di azienda, deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, il che presuppone una preesistente realtà produttiva autonoma e funzionalmente esistente, e non anche una struttura produttiva creata “ad hoc” in occasione del trasferimento, o come tale identificata dalle parti del negozio traslativo; tale nozione di ramo d’azienda è utilizzabile anche quando i fatti di causa – come nella specie – sono precedenti rispetto alle modifiche legislative introdotte in attuazione della direttiva n. 98/50, in quanto tale nozione costituiva già in precedenza espressione del “diritto comunitario vivente”, sviluppato da numerose sentenze interpretative della Corte di Giustizia CE, e come tale vincolante per il giudice nazionale, in virtù del principio di supremazia del diritto comunitario sul diritto nazionale, da cui deriva, per il giudice nazionale, l’obbligo di una interpretazione adeguatrice (Cass. 30 dicembre 2003, n. 19842). Né rileva, ai fini in discorso, che tale principio sia stato affermato in relazione al testo dell’art. 2112 c.c. anteriore alla modifica apportatavi dall’art. 32 del D.Lgs. 10 settembre 2003 n. 276, il quale fa peraltro salvi i diritti dei prestatori d’opera in caso di trasferimento d’azienda di cui alla normativa di recepimento delle direttive europee in materia. Infatti ciò che qui interessa è ancora una volta la identificabilità di un elemento della compagine produttiva rispetto alla quale muta solo il profilo soggettivo del rapporto. 25.- Le nozioni di trasferimento d’azienda risultano peraltro declinate in modo particolare nell’ambito del rapporto di lavoro pubblico e, come si desume dal testo l’art. 34 del D.Lgs. 29/93 sopra riportato ruotano intorno al concetto di conferimento o trasferimento di attività. Tuttavia anche tale concetto va reinterpretato alla luce delle fondamentali coordinate fornite dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale e dunque tenendo presente il criterio fondamentale della previa identificabilità di un elemento che pur presentando un rilevante grado di dematerializzazione rispetto al trasferimento di azienda (connotato presente tuttavia anche in quest’ultima come traspare dalla giurisprudenza sopramenzionata) non può mancare, e non può identificandosi senza residui nella solo vicenda del passaggio di un più o meno cospicuo gruppo di dipendenti. Occorre pertanto che questa vicenda sia effetto di altra vicenda, concettualmente, anche se non sempre temporalmente, distinta, costituita dall’assegnazione di una preesistente attività unitariamente considerata, di competenza di un determinato soggetto pubblico, ad un diverso soggetto. In tal caso l’assegnazione al nuovo soggetto dei rapporti di lavoro dei dipendenti impegnati nell’attività nasce quale effetto previsto e voluto dalla norma speciale tramite il richiamo dell’art. 2112 c.c. Il solo trasferimento dei rapporti di lavoro da un soggetto ad un altro ha invece carattere neutro e non può integrare di per sé la fattispecie del trasferimento di attività, essendo configurato dalla norma di riferimento come effetto di quest’ultima. 26.- Resta quindi da accertare se nella fattispecie in esame ci si trovi effettivamente alla presenza di un conferimento di attività ex art. 34 del D.Lgs. 29/93. Al riguardo, dovrebbe esser chiaro, ma è opportuno ribadirlo, che l’indagine va condotta sul piano strettamente giuridico, in particolare in base alle disposizioni di legge che hanno regolato la materia e che, pertanto potrà affermarsi di esser alla presenza di un trasferimento di attività qualora ciò emergesse da dette norme. È incontroverso infatti che nel caso IL CONTENZIOSO NAZIONALE 189 di specie l’ipotesi di un trasferimento di attività è riconducibile, in linea teorica, alle previsioni della legge 3 maggio 1999, n. 124, e non a fonti di rango inferiore. Non si vuol dire con ciò che l’applicazione dell’art. 2112 nel caso di conferimento o trasferimenti di attività a norma dell’art. 34 del D.Lgs. 29/93 (ora art. 31 del D.Lgs. 165/2001) presupponga sempre una normativa primaria essendo in linea generale, secondo gli ormai consolidati indirizzi in materia, irrilevante la natura giuridica dell’atto da cui il conferimento o trasferimento derivano. Si intende invece sottolineare che nello specifico caso in esame le disposizioni da cui deriverebbe l’eventuale trasferimento di attività sono quelle della cit. legge 124/99 che costituiscono, come meglio si vedrà il quadro di riferimento delle ulteriori regole fissate nelle vicenda da fonti di rango inferiore, fonti tenute per esplicita previsione legislativa ad attuare il contenuto della norma primaria. 27.- Ciò premesso, è agevole notare anzitutto come la legge 124/99 già dal suo titolo si presenta quale insieme di regole sulle vicende del personale scolastico, che sta al centro dell’intero corpus normativo. Senza che sia necessario ripercorrerne i dettagli può dirsi che essa è fondamentalmente diretta alla razionalizzazione dell’accesso nei ruoli del personale docente e non docente di vario ordine e qualifica (oltre a disposizioni che riguardano detto personale in genere, ve ne sono di specifiche ad es. per quello impiegato nei conservatori musicali, per gli insegnanti tecnico pratici, per gli insegnati di sostegno, e la legge si conclude – v. art. 11 – con una pluralità di disposizioni neppure unificabili sotto una comune rubrica, dirette a regolare prevalentemente le assunzioni in ruolo in riferimento a disparate situazioni di provenienza). 28.– In nessuna parte della legge in esame, per contro, è dato trovare disposizioni che si occupino di disciplinare le vicende del rapporto di lavoro come conseguenza di diversa vicenda estranea ad esso. In particolare, per quanto attiene alla disposizione di riferimento nel caso in esame, il comma 1 dell’art. 8 della legge esordisce disponendo che il personale A.T.A. ( amministrativo, tecnico e ausiliario) degli istituti scolastici di ogni ordine e grado è a carico dello Stato e che sono abrogate le disposizioni che prevedono la fornitura di tale personale da parte dei comuni e delle province. Il secondo comma dispone il trasferimento del personale A.T.A. dipendente dall’ente locale ma in servizio presso le istituzioni scolastiche statali nei ruoli del personale A.T.A. statale. Anche in tal caso, come dovrebbe esser evidente, la disciplina ha ad oggetto esclusivamente le vicende del rapporto e ben si inquadra nel segnalato obiettivo di razionalizzazione ove si consideri che il trasferimento concerne dipendenti dell’ente locale già impegnati a svolgere il loro servizio presso le istituzioni scolastiche statali. Poiché le disposizioni appena citate sono le uniche sulla base delle quali potrebbe ipotizzarsi un trasferimento di attività, va tenuto conto che il carattere eterogeneo dei compiti assegnati al personale trasferito rende difficile ipotizzare quale premessa del trasferimento la assunzione da parte dell’amministrazione statale di una specifica attività, salvo a voler ipotizzare che il passaggio del personale trovi presupposto nel passaggio di tutte le specifiche attività che ciascuna delle categorie, raccolte sotto la denominazione riassuntiva di personale A.T.A., è chiamata a svolgere. In definitiva, nel caso in esame non si potrebbe neppure far riferimento alle indicazioni giurisprudenziali sopra richiamate sulla configurabilità di un trasferimento avente ad oggetto gruppi limitati di dipendenti in possesso di particolari capacità operative conseguenti al possesso di conoscenze e abilità specificamente ritagliate rispetto alla residua compagine aziendale. 190 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Va ancora notato che in base al comma 4 del cit. art. 8 il trasferimento del personale, disposto in linea di principio dal primo comma, deve avvenire gradualmente in relazione fra l’altro alle disponibilità derivanti dai processi di razionalizzazione riguardanti l’omologo personale A.T.A. statale. Quindi se la vicenda fosse riconducibile ad un trasferimento di attività, quest’ultimo non sarebbe neppur collocabile in un preciso momento temporale a partire dal quale si determinerebbero poi gli effetti sul rapporto di lavoro ma in sostanza seguirebbe le vicende di quest’ultimo. Il che è l’esatto contrario dello schema normativo somministrato dall’art. 2112 c.c. È utile, infine, il confronto con talune recenti vicende legislative, per misurare la distanza fra il dettato della legge 124/99 e quello proprio di casi nei quali è indiscusso che ricorra trasferimento di attività. Così, per limitarsi a due ipotesi nelle quali il trasferimento ha coinvolto solo soggetti pubblici, l’art. 42 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 per realizzare, come si legge nella rubrica la “Confluenza dell’lNPDAI nell’INPS” ha disposto nel primo comma, con effetto dalla data della sua entrata in vigore che “l’Istituto nazionale di previdenza per i dirigenti di aziende industriali (INPDAI), costituito con legge 27 dicembre 1953, n. 967, è soppresso e tutte le strutture e le funzioni sono trasferite all’INPS, che succede nei relativi rapporti attivi e passivi” e nel quinto comma che “Il personale in servizio presso 1’INPDAI alla data di soppressione dello stesso è trasferito all’INPS e conserva il regime previdenziale vigente presso l’ente di provenienza, nonché il trattamento giuridico ed economico fruito, sino alla data di approvazione del nuovo contratto collettivo”. Ancora, con estrema chiarezza, l’art. 10 del decreto legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito in legge dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, ha stabilito nel primo comma per quanto rileva, che “1. L’Istituto nazionale della previdenza sociale (I.N.P.S.) subentra nell’esercizio delle funzioni residuate allo Stato in materia di invalidità civile, cecità civile, sordomutismo, handicap e disabilità, già di competenza del Ministero dell’economia e delle finanze” e nel comma secondo ha assegnato ad “uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, da emanare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto” il compito di stabilire “la data di effettivo esercizio da parte dell’INPS delle funzioni trasferite” e di individuare “le risorse, umane, strumentali e finanziarie da trasferire” regolando infine, nel comma terzo, i profili contrattuali del rapporto di lavoro del personale trasferito. 29.- In conclusione, poiché la vicenda del trasferimento del personale A.T.A. disposto dalla legge 124/99 non è riconducibile al campo di applicazione della direttive comunitarie in materia di trasferimento di azienda, più precisamente indicate in precedenza, la richiesta di rimessione alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 234 del Trattato non può essere accolta. 30.- La premessa di questa conclusione diverge dalle indicazioni che questa Corte ha fornito in talune sentenze (in particolare, fra le altre, nelle sentenze 3224, 3325, e 3356 /2005) rispetto alle quali deve pertanto esprimersi dissenso sulla base alla ricostruzione operata nei numeri che precedono. Va tuttavia aggiunto che al di là della diversa interpretazione della vicenda in esame come trasferimento di attività o come trasferimento di personale, fra le indicate sentenze (e quelle di analogo contenuto) e le altre pure emesse da questa Corte, con diverso percorso argomentativo ( v. Cass. 18652, 18657, 18829/2005 ed altre) vi è però una ratio decidendi comune, che, come bene ha messo in risalto la Corte Costituzionale nella cit. sentenza 234 del 2006 “si sostanzia in definitiva nell’affermazione che l’accordo del 20 luglio 2000 – recepito nel successivo decreto del 5 aprile 2001 – non può derogare a quanto stabilito dalla legge n. 124 del 1999, in quanto atto privo di efficacia normativa”. Quindi rispetto al “contenuto fondamentale” di dette decisioni (Corte Cost. cit.) la ricostruzione della vicenda in termini di trasferimento di attività o di trasferimento di personale può considerarsi, per così dire, questione di sfondo e non di primo piano. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 191 Ai fini della decisione attuale, per contro, lo stabilire se si tratti dell’una o dell’altra ipotesi diventa problema centrale per dare soluzione al quesito, qui posto dalle parti ma il cui esame dovrebbe comunque compiersi d’ufficio, circa la riconducibilità della fattispecie nel campo di applicazione delle pertinenti direttive comunitarie e, nel caso di risposta positiva, per l’ulteriore eventuale indagine circa la serietà del dubbio di non conformità a tali direttive della soluzione legislativa adottata con l’art. 1 comma 218 della legge 266/2005: il che giustifica la specifica indagine sin qui compiuta. 31.- In conclusione, manca la premessa per poter formulare, anche in via di ipotesi, un dubbio di inapplicabilità, per contrasto con il diritto comunitario, dell’art. 1, comma 218 della legge 23 dicembre 2005, n. 266, trattandosi di norma regolatrice di vicenda estranea all’ambito di applicazione delle direttive europee sopra richiamate. 32.- Vanno da ultimo esaminati i profili di costituzionalità della norma interpretativa, in relazione ai principi di cui all’art. 117, primo comma, Cost., a norma del quale la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto (anche) dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Secondo le recenti sentenze della Corte costituzionale n. 348 e 349 del 24 ottobre 2007, la norma costituzionale sopra cit. comporta infatti la possibile mediata incidenza, sulle valutazioni di costituzionalità delle leggi italiane, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (firmata a Roma il 4 novembre del 1950, ed alla quale è stata data esecuzione con la legge 4 agosto 1955, n. 848) e della relativa giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo. In particolare, deve essere verificato, nel caso di specie, l’eventuale rilievo, ai fini anzidetti, dei principi enunciati da detta Corte con la sentenza della Grande Chambre 29 marzo 2006, Affaire Scordino c. Italia, che ha ritenuto contrastante con l’art. 6, par. 1, della Convenzione – nella parte in cui prevede, nella materia civile, il diritto a un processo equo – gli effetti dell’applicazione, in un giudizio in corso, dell’art. 5-bis del decreto legge 11 luglio 1992, n. 333, introdotto dalla legge di conversione n. 359/1992, il quale, con efficacia retroattiva, aveva modificato in senso riduttivo i criteri di liquidazione delle indennità dovute nelle espropriazioni per pubblica utilità. Anche nel caso qui in esame infatti la normativa introdotta con l’art. 1 comma 218 della legge 266/2005, ha determinato, sia pure come conseguenza del suo carattere interpretativo, una regolazione retroattiva dell’anzianità giuridica ed economica riconosciuta al personale coinvolto nel trasferimento, in termini meno favorevoli di quelli precedentemente stabiliti. L’indagine deve muovere dall’osservazione che nella cit. sentenza la Corte europea ha anzitutto ribadito come in materia civile il legislatore, in linea generale, non incontri alcun divieto di disciplina retroattiva dei diritti anteriormente attribuiti. Tale principio soffre tuttavia una restrizione fondamentale nel senso che esso non consente al legislatore di esercitare un’ingerenza normativa finalizzata ad ottenere una determinata soluzione delle controversie in corso (come del resto ritiene anche la giurisprudenza italiana, costituzionale ed ordinaria). A sua volta tale restrizione non è priva di limiti, poiché essa non opera quando l’intervento retroattivo sia giustificato da motivi imperiosi di carattere generale. Non sembra, per contro, desumibile dalla giurisprudenza della Corte un principio secondo cui la necessaria incidenza delle norme retroattive sui procedimenti in corso si porrebbe automaticamente in contrasto con la Convenzione , quasi che quest’ultima assicurasse, anche nella materia civile, l’immutabilità della regola di giudizio per tutti i procedimenti pendenti in sede giudiziaria. Per quanto gravi fossero le ragioni della norma retroattiva, una siffatta garanzia renderebbe infatti insensibile ad essa qualsiasi situazione giuridica purché dedotta in giudizio e si 192 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO risolverebbe quindi in una rilevante limitazione del potere del legislatore, in contraddizione con la riconosciuta legittimità di un siffatto intervento sia pure nei limiti sopraindicati. Ma è agevole immaginare che la restrizione potrebbe trasformarsi in un vero e proprio ostacolo insuperabile all’esercizio di tale potere, essendo verosimile un fiorire di iniziative giudiziarie volte a rendere immodificabile, secondo il principio ipotizzato, la situazione di favore accordata dalle norme vigenti. Quindi alla lesione in concreto di un potere che la Convenzione non disconosce ma limita si accompagnerebbe verosimilmente un vulnus indiretto a principi fondamentali sulla durata dei processi, per effetto della loro moltiplicazione in funzione di preventiva tutela contro possibili modifiche del quadro normativo. Ciò precisato, vanno ora messe in luce le particolarità della fattispecie legislativa portata all’attenzione della Corte europea. Nel caso da essa preso in esame, infatti, l’art. 5 bis del decreto legge 11 luglio 1992, n. 333, è stato censurato essendosi ritenuto che esso avesse manifestamente quale oggetto, ed abbia avuto ad ogni modo quale effetto, la modifica peggiorativa del regime indennitario nell’espropriazione, anche in casi nei quali una delle parti della controversia fosse lo Stato. Ma la Corte ha anche indiscutibilmente escluso che l’applicazione della normativa sulla nuova misura degli indennizzi alle procedure in corso configuri di per sé una violazione della convenzione, ribadendo che il legislatore, nella materia civile, è libero di intervenire per modificare il diritto vigente per mezzo di leggi immediatamente applicabili. La Corte ha però constatato che la norma sopravvenuta aveva determinato la soppressione di una parte essenziale del credito indennitario, e che, per contro, l’indennità accordata, inferiore ai valori di mercato del bene espropriato, era inadeguata sotto il duplice profilo del suo scarso ammontare e dell’assenza di ragioni di pubblica utilità atte a giustificare l’intervento riduttivo. In proposito essa ha specificamente sottolineato che le considerazioni del Governo italiano sulle ragioni finanziarie dell’intervento normativo e sul disegno, ad esso sottostante, di rimodellare il sistema dell’espropriazione non erano state, nella specie, idonee a far emergere i profili di evidente e pressante interesse generale che in altri casi avevano condotto la stessa Corte ad avallare l’effetto retroattivo di nuove normative. Dal confronto fra i principi espressi dalla Corte europea e le caratteristiche della norma introdotta con l’art. 1 comma 218 della legge 266/2005 emerge con chiarezza che il legislatore nazionale è restato entro i limiti consentitigli dalla Convenzione europea. Come precedentemente illustrato non vi è infatti alcun elemento che induca a ritenere la disposizione nazionale come esclusivamente diretta ad influire sulla soluzione delle controversie in corso. Non si è trattato di una vicenda assimilabile a sostanziale diminuzione di una situazione patrimoniale già acquisita in precedenza, visto che la legge interpretativa garantisce in ogni caso i livelli retributivi già raggiunti. Traspare, per contro, nella norma, come pure s’è sottolineato, l’esigenza di armonizzare situazioni lavorative differenziate all’origine ma bisognose di regole unitarie, una volta determinatasi la confluenza dei lavoratori in un unico comparto, in conformità, del resto, al principio di parità di trattamento di situazioni analoghe nella disciplina dei rapporti di lavoro pubblico, dove tale principio ha un notevole rilievo teorico e pratico. È, inoltre, notoriamente cospicua la quantità dei lavoratori coinvolti nel trasferimento e di quelli appartenenti al comparto nella cui direzione il passaggio è avvenuto ed è pacifica la diversità dei rispettivi regimi contrattuali (la quale, come già rilevato ha reso necessario persino prevedere contrattualmente una opzione in favore di chi non possa essere convenientemente inquadrato nel nuovo sistema delle qualifiche). In definitiva, deve ritenersi che il legislatore abbia dovuto governare una operazione di riassetto organizzativo di ampia por- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 193 tata, sicché sono palesemente ravvisabili, nel caso di specie, le pressanti ragioni di interesse generale che abilitano, secondo la Corte europea, anche interventi retroattivi, tanto più quando questi non comportino vanificazione pressoché totale di crediti già sorti ma implichino una rimodulazione del diritto in una delle direzioni in astratto plausibili anche secondo la legge precedente. In conclusione, può affermarsi che la vicenda ora all’esame presenta elementi che la differenziano in maniera rilevante dalle situazioni rispetto a cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto la configurabilità della violazione del diritto ad un processo equo. Di conseguenza sono privi di fondamento i dubbi di costituzionalità dell’art. 1 comma 218 della legge 266/2005 per contrasto con l’art. 6 § 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, quale norma integrativa del parametro costituzionale, ex art. 117, primo comma, Cost. 33.- Il ricorso va pertanto accolto. La sentenza impugnata deve essere cassata e non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto la causa può esser decisa nel merito con rigetto della domanda proposta dalle parti intimate. La natura delle questioni trattate rende opportuna la compensazione delle spese di lite. P.Q.M. accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e compensa le spese del giudizio. Roma 15 novembre 2007 (…)». 194 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO IL CONTENZIOSO NAZIONALE 195 Dossier 3 Autorizzazioni paesaggistiche ed interessi generali del territorio (Tribunale Amministrativo Regionale della Sicilia, sede di Palermo, sezione seconda, sentenza 4 febbraio 2005 n. 150; sezione prima, sentenza 19 gennaio 2006 n. 156; Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, decisioni 3 agosto 2007 n. 711 e 21 novembre 2007 n. 1058) La questione affrontata nella pronuncia del Giudice amministrativo d’appello concerne l’oggetto della potestà autorizzatoria della Soprintendenza ai beni culturali (in Sicilia autorità regionale e non statale) in tema di installazione di impianti eolici in territorio paesisticamente protetto: potestà autorizzatoria che il T.A.R. vorrebbe ponesse a base non solo la valutazione dell’impatto sul paesaggio dei suddetti impianti, ma – in modo del tutto irragionevole e sproporzionato – una difficilissima attività di bilanciamento del paesaggio medesimo con beni del tutto estranei (l’economia, la salute e quant’altro). Ciò, in termini operativi, avrebbe reso del tutto impossibile l’esercizio dell’attività permissiva, in quanto ciascun procedimento, di complessità pressoché “ingovernabile” considerate le competenze della Sovrintendenza, si sarebbe concluso con il meccanismo del silenzio assenso (in Sicilia previsto dalla legge reg. 17/04, art. 16). Si sarebbe, inoltre, trasformata una fattispecie di attività a contenuto tecnico – discrezionale in attività a discrezionalità “pura”. Il C.g.a. ha assunto una posizione più equilibrata (accogliendo l’appello proposto dall’Avvocatura dello Stato), anche se del secondo argomento (basato appunto sulla tradizionale distinzione tra discrezionalità amministrativa e tecnica) non sembra avere tenuto conto. Avv. Pierfrancesco La Spina (*) (doc. 1) Tribunale Amministrativo Regionale della Sicilia, sede di Palermo, sezione seconda, sentenza 4 febbraio 2005 n. 150 – Pres. Calogero Adamo – Rel. G. Tulumello – E. G. P. s.p.a. (Avv.ti F. Schifino e C. Giuliano) c/ Regione Siciliana, Assessorato Reg.le BB.CC.AA. e P.I., Soprintendenza BB.CC. e AA. di Palermo (Avv. P. La Spina – Avvocatura Distrettuale dello Stato di Palermo). « (...) Fatto e diritto – Con il ricorso in esame, la società E. G. P. ha impugnato il provvedimento indicato in epigrafe, deducendone l’illegittimità. (*) Avvocato dello Stato. 196 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO In particolare, il ricorso risulta affidato alle seguenti censure: “Violazione per falsa o omessa applicazione dell’art. 146 capo IV D.Lgs. n. 42/2004 del 24 febbraio 2004 e dell’ex art. 151 D.Lgs. 490/99 – eccesso di potere per difetto e/o erroneità dei presupposti – travisamento dei fatti – carenza di istruttoria – sviamento della causa tipica – perplessità – contraddittorietà – illogicità – difetto di motivazione e per ciò violazione art. 3 legge 241/90 – violazione dell’art. 97 Cost. e di ogni altra norma e principio in tema di correttezza e razionalità dell’azione amministrativa. Violazione per falsa o omessa applicazione dell’art. 6 dir. 42/93/CEE art. 1 legge 10/91 violazione o omessa applicazione legge 120/02”. Il ricorso è fondato in relazione al profilo – assorbente – afferente la dedotta censura di violazione della norma attributiva del potere (art. 146, D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42), nonché la censura di eccesso di potere per sviamento dalla causa tipica. Il provvedimento impugnato, reiettivo di una istanza tendente ad ottenere il nulla osta per la realizzazione di un impianto per la produzione di energia eolica, è motivato nel seguente modo: “Il paesaggio siciliano seppur ormai abbia subito processi evolutivi di trasformazione territoriale mantiene ancora oggi frammenti a più vaste aree, come nel caso di specie, in cui l’integrità e l’omogeneità paesaggistica predominano in modo tale da far gravare su porzioni del territorio l’apposizione di specifici vincoli territoriali. Ciò al fine di tutelare globalmente o frammentariamente zone, in cui un inidoneo processo di antropizzazione, stravolgerebbe definitivamente un equilibrio del paesaggio e uno skyline di particolare bellezza. Nello specifico la sequenza di pali e di eliche si porrebbe come elemento rimarcante di un paesaggio che vive invece di dolci pendenze collinari e di sfumati sfondi costituiti dalle azzurrate montagne. Si stravolgerebbe lo straordinario contesto che coniuga le molli colline e le aspre montagne; inoltre la realizzazione del cavidotto e delle vie di accesso al cantiere e delle aree relative comporterebbe guasti irreparabili al contesto paesaggistico”. L’indicata motivazione è sintomatica di un uso del potere di valutazione della compatibilità paesaggistica degli interventi sul territorio, contrario al parametro legislativo e a quello costituzionale, legittimante l’esercizio di detto potere. Nella valutazione di siffatta compatibilità, infatti, in un sistema pluralistico quale quello introdotto dalla Costituzione repubblicana, l’amministrazione preposta alla tutela dei valori paesaggistici deve valutare la compatibilità dell’attività autorizzanda rispetto il vincolo, ponendo in comparazione detti valori con gli interessi antagonisti. Nel possibile conflitto fra le esigenze correlate all’esercizio dell’attività imprenditoriale, finalizzata alla produzione (con modalità non inquinanti) di energia elettrica, e quelle sottese alla tutela di valori non economici (come la tutela del paesaggio), l’amministrazione deve, in particolare, ricercare non già il totale sacrificio delle une e la preservazione delle altre secondo una logica meramente inibitoria, ma deve piuttosto, come indicato dalla sentenza della Corte costituzionale, 10 luglio 2002, n. 355, ricercare una soluzione necessariamente comparativa della dialettica fra le esigenze dell’impresa e quelle afferenti valori non economici, tutte rilevanti in sede di esercizio del potere amministrativo di autorizzazione alla realizzazione di attività imprenditoriali. Il che non esclude che l’esito finale del giudizio comparativo privilegi il valore paesaggistico: ma solo all’esito di una ragionevole ponderazione, alla stregua di un canone di proporzionalità (sul quale Consiglio di Stato, V, 18 febbraio 1992, n. 132) fra valore di tutela e intensità del vincolo (e della conseguente compressione dell’interesse antagonista) rispetto alla specifica attività considerata, e non già per una scontata prevalenza del primo. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 197 Il provvedimento impugnato, invece, ha del tutto omesso di considerare una simile prospettiva, limitandosi a riprodurre le caratteristiche morfologiche del territorio considerato, ed affermandone apoditticamente l’incompatibilità con l’insediamento di impianti eolici. Peraltro, poiché le indicate caratteristiche morfologiche sono talmente generiche, e perciò comuni alla gran parte del territorio siciliano (tanto che, del tutto coerentemente, la motivazione non propone localizzazioni alternative, tali da garantire il soddisfacimento di entrambe le contrapposte esigenze), il riconoscimento della legittimità dell’indicato percorso valutativo, posto a fondamento del provvedimento impugnato, potrebbe – ove portato alle sue estreme conseguenze – comportare l’esclusione della produzione di energia elettrica mediante impianti eolici sulla maggior parte, se non proprio sull’intero territorio regionale: il che è palesemente contrario all’indicata dialettica pluralistica che il sistema costituzionale imprime alla logica del procedimento amministrativo. Si tenga infatti presente che – in disparte il già esaminato profilo del bilanciamento fra iniziativa economica e paesaggio – la tutela del paesaggio non è l’unica forma di tutela territoriale costituzionalmente rilevante, affiancandosi alla tutela dell’ambiente, alla tutela della salute, al governo del territorio e ad altre ipotesi di poteri insistenti sul medesimo dato della realtà fisica, posti a presidio di altrettanti – distinti – interessi pubblici. L’amministrazione preposta alla tutela del paesaggio non può, in forza di una concezione totalizzante dell’interesse pubblico primario (di cui è attributaria), limitarsi ad affermarne la (generica) rilevanza assoluta, paralizzando ogni altra attività e sacrificando ogni altro interesse. Questa concezione monosettoriale della tutela dell’interesse pubblico è da ritenere incompatibile con il disegno costituzionale dell’esercizio del potere amministrativo nello Stato sociale. A fronte della limitatezza delle risorse naturali da un lato, e della contrapposta esigenza di garantire ai più vasti settori della collettività maggiori livelli di benessere sociale dall’altro, sorge la necessità di regolare la distribuzione di dette risorse in conseguenza della crescente domanda di beni e servizi. Il modello di Stato sociale fatto proprio dalla Costituzione repubblicana è infatti, come già accennato, un modello pluralista, che individua i vari, complessi interessi pubblici e privati, ne affida la cura a diversi centri d’imputazione (in funzione del nesso fra tali figure soggettive e le relative posizioni d’interesse), e ne disciplina i rapporti in chiave di confronto dialettico: confronto che non può che essere regolato da un’autorità in grado di ponderare – non più soltanto in chiave di scrutinio di conformità dell’istanza rispetto ad un unico parametro normativo (quello relativo allo specifico settore di attività considerato), come avveniva nella più lineare dialettica autorità/libertà propria dello Stato liberale – tutte le complesse implicazioni della scelta. La pluralità dei valori e degl’interessi assunti come primari dallo Stato (paesaggio, ambiente, salute, impresa, telecomunicazioni, urbanistica, ecc.), determina una complessità della regolazione giuridica nei rapporti interessati dal regime amministrativo. La singola amministrazione non è più semplicemente un centro d’imputazione attributario della cura di uno specifico e ben definito interesse, ma è sempre più spesso una figura soggettiva chiamata ad operare scelte dispositive (distributive) di risorse limitate, dopo aver condotto una propedeutica valutazione di compatibilità fra – plurimi – interessi pubblici, e fra questi e quelli dei privati, in relazione ai vari, possibili usi di tali risorse, ciascuno corrispondete ad un dato interesse. Esemplificativamente, è di palese evidenza che l’adozione di una logica valutativa quale quella posta a fondamento del provvedimento impugnato, escludendo genericamente da ogni area montuosa o collinare la possibilità di produrre energia elettrica mediante impianti eolici, determinerebbe, stante la primarietà del bene in questione e la conseguente necessità di produrlo altrimenti, la realizzazione di impianti produttivi che, oltre ad insistere comunque sul paesaggio (anche se in modo meno invasivo), risulterebbero sicuramente più inquinanti di quelli eolici, e dunque realizzerebbero la lesione delle ricordate forme di tutela territoriale (l’ambiente e la salute, su tutte), pure dotate di copertura costituzionale almeno pari a quella di cui gode la tutela paesaggistica. Si tratterebbe allora di valutare in che misura una ridotta incidenza sul paesaggio sia complessivamente compatibile con una maggiore produzione di esternalità ambientali e sanitarie. Un simile bilanciamento, alla stregua di una consapevole istruttoria, è del tutto estraneo al provvedimento impugnato. Il quale, inoltre, tralascia di considerare che la tutela paesaggistica, siccome garantita dall’art. 9 della Costituzione, si giustifica non per il dato fisico in sé, ma per i valori estetico- culturali di cui esso è portatore: e tra i fattori che incidono sulla evoluzione in tal senso assunta come rilevante dal testo costituzionale rientra, almeno a partire dal Congresso di geografia di Amsterdam del 1938, anche l’intervento umano. Proprio il richiamo, nella riportata motivazione, al sostantivo inglese “skyline”, impone di rammentare come la migliore dottrina giuridica, che già nella metà degli anni ottanta del secolo scorso ha indagato sulla evoluzione del concetto di amministrazione per la tutela dei beni culturali, abbia indicato, come esempio didascalico di evoluzione del paesaggio ad opera dell’uomo, il caso dei grattacieli statunitensi, divenuti emblema dell’identità esteticoculturale delle rispettive comunità territoriali. Quello “skyline” oggi non esisterebbe, se fosse stata inibita all’uomo, che lo ha plasmato, ogni forma di intervento modificativo del dato fisico-territoriale. Invero la motivazione in esame sembra ammettere esclusivamente “processi di antropizzazione” compatibili con l’attuale forma territoriale, ma non anche, sia pure per mera ipotesi, processi evolutivi dei valori estetico-culturali di cui si compone la tutela paesaggistica. In ogni caso, anche a voler accettare tale prospettiva, detta motivazione qualifica come “inidoneo”, sotto il profilo della compatibilità, l’intervento in questione, perché “stravolgerebbe definitivamente un equilibrio del paesaggio ed uno skyline di particolare bellezza”: ciò che appare come un giudizio soggettivo e meramente assertivo, piuttosto che una valutazione tecnico-discrezionale ancorata a precisi parametri, obiettivi e verificabili. Le superiori valutazioni, ancorate al dato costituzionale ed alla sua pacifica intepretazione giurisprudenziale, risultano altresì confermate dalla evoluzione della normativa primaria regolante l’attribuzione all’amministrazione del potere di che trattasi. Come è stato osservato in dottrina, l’evoluzione di tale istituto, dalla normativa di tutela del 1939 (concepita in epoca pre-costituzionale), al successivo T.U. del 1999, fino all’attuale disciplina posta dal citato art. 146 del D.Lgs. 42/2004, si segnala per il fatto di avere inciso sui contenuti e sulle funzioni dell’autorizzazione paesaggistica (in senso conforme all’indicato mutamento del ruolo dell’amministrazione indotto dalla trasformazione della forma di Stato). Il potere autorizzatorio, il cui esercizio costituisce l’atto di gestione del vincolo (sotto il profilo della richiamata valutazione di compatibilità rispetto ad esso dell’attività autorizzanda: Consiglio di Stato, A.P., 14 dicembre 2001, n. 9), va infatti esercitato, alla stregua della citata norma attributiva (art. 146, quinto comma, D.Lgs. 42/2004), non soltanto avuto riguardo a tale accertamento di compatibilità, bensì con riferimento anche al profilo della congruità con i criteri di gestione dell’immobile considerato. 198 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Si tratta dunque di una valutazione complessa, coerente con il disegno costituzionale delle tutele territoriali e delle libertà economiche, non legittimamente riducibile al mero riscontro delle caratteristiche morfologiche della realtà fisica. Il ricorso è pertanto, in relazione ai segnalati profili di censura, fondato, e come tale va accolto, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato. Vanno fatte salve, ovviamente, le ulteriori determinazioni di competenza dell’Amministrazione (...). P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale della Sicilia, Sezione seconda, definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso in epigrafe, e per l’effetto annulla il provvedimento impugnato, salvi gli ulteriori provvedimenti (...). Così deciso in Palermo, nella camera di consiglio del 14 gennaio 2005 (…)». (doc. 2) Tribunale Amministrativo Regionale della Sicilia, sezione prima, sentenza 19 gennaio 2006 n. 156 – Pres. G. Giallombardo – Est. A.A. Barone – A.H. s.p.a. (Avv.ti G. Pitruzzella e C. Comandè) c/ Soprintendenza per i Beni Culturali ed Ambientali di Palermo, Assessorato Regionale dei Beni Culturali ed Ambientali e della Pubblica Istruzione (Avv. dello Stato P. La Spina – Avvocatura distrettuale dello Stato di Palermo). «Fatto – La società A. H. s.p.a., nell’anno 2002 presentava al Comune di San Mauro Castelverde, all’Assessorato Regionale Territorio ed Ambiente ed alla Soprintendenza per i Beni Culturali ed Ambientali di Palermo, un progetto per la realizzazione di un impianto eolico in località (…) ubicate nel territorio del Comune di San Mauro Castelverde, chiedendo alla Regione Siciliana l’autorizzazione paesaggistica ex articolo 151 del D.Lgs. 29 ottobre 1999 n. 490. L’Assessorato Regionale per i Beni Culturali ed Ambientali in data 20 marzo 2003 richiedeva alla società ricorrente un’integrazione del progetto che tenesse conto della necessità che la disposizione dei pali eolici e la loro forma fosse studiata in relazione, oltre che delle esigenze tecnologiche, anche delle valenze ambientali del luogo, in modo da non alterare la qualità paesaggistica del sito interessato; a seguito di tale richiesta,la società A.H. provvedeva a modificare anche il progetto già depositato presso la Soprintendenza integrandolo con la nuova documentazione. La Soprintendenza, che in mancanza della suddetta documentazione integrativa, aveva già espresso parere contrario al rilascio del nulla osta (nota prot. n. 4080/N del 14 luglio 2003), reiterava il provvedimento di diniego anche nei confronti del nuovo progetto (nota prot. n. 7525/N del 21 ottobre 2003). Entrambi i provvedimenti summenzionati venivano impugnati innanzi a questo Tribunale, che con sentenza n. 2080 del 27 luglio 2004 accoglieva il ricorso e annullava i provvedimenti di diniego perché illegittimi per difetto di motivazione. La Soprintendenza per i Beni Culturali ed Ambientali con nota n. 1037/N del 8 febbraio 2005, nuovamente negava il rilascio del nulla osta al progetto presentato dalla società ricorrente motivando il provvedimento di diniego sulla base di una accurata descrizione geologica e morfologica dei luoghi e concludendo per l’incompatibilità dell’impianto eolico con il paesaggio circostante. La società A.H. s.p.a. , con il ricorso indicato in epigrafe, ha nuovamente adito questo Tribunale, chiedendo l’annullamento del provvedimento indicato in epigrafe, previa sospensione dell’efficacia, per i seguenti vizi: IL CONTENZIOSO NAZIONALE 199 1. Difetto di motivazione; il provvedimento di diniego non risulterebbe motivato in maniera completa ed esaustiva, in quanto carente di una adeguata valutazione degli interessi contrapposti e basato esclusivamente sulla prevalenza dei profili di tutela paesaggistica. 2. Violazione e falsa applicazione dell’articolo 146 del D.Lgs. 42/2004 ed eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento dalla causa tipica; il provvedimento impugnato risulterebbe difforme rispetto ai parametri legislativi che disciplinano l’esercizio del potere di valutazione della compatibilità paesaggistica degli intereventi sul territorio, poiché carente di qualsiasi profilo di comparazione tra i fini che il vincolo paesaggistico intende tutelare e gli interessi economici coinvolgenti il progetto da realizzare. 3. Violazione e falsa applicazione degli articoli 146 e 142 del D.Lgs. 42/2004 in relazione al decreto A.R.T.A. del 10 settembre 2003 inerente “Direttive per l’emissione dei provvedimenti relativi a progetti per la produzione di energia mediante lo sfruttamento del vento” ed eccesso di potere per erroneità dei presupposti di fatto e di diritto; le valutazioni operate dalla Soprintendenza per motivare il diniego sconfinerebbero in una competenza dell’Assessorato Regionale Territorio ed Ambiente in quanto non strettamente attinenti all’aspetto estetico dei beni tutelati. L’Avvocatura dello Stato si è costituita in giudizio, e con memoria scritta ha dedotto l’infondatezza del ricorso, chiedendone il rigetto. Con ordinanza n. 557 del 20 maggio 2005 di questa Sezione è stata accolta la domanda incidentale di sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato. Alla pubblica udienza del 2 dicembre 2005, presenti le parti come da verbale, il ricorso è stato trattenuto in decisione dal Collegio. Diritto – Il ricorso è fondato. Il provvedimento impugnato, emanato a seguito della sentenza n. 2080/2004 di questo Tribunale che aveva annullato i precedenti provvedimenti di diniego per vizio di motivazione, fornisce una descrizione completa ed articolata dello stato dei luoghi interessati dal progetto dell’odierna ricorrente, e fonda, sostanzialmente, il diniego di nulla osta sui seguenti motivi: a) l’intervento proposto ricade in un ambito di rilevante interesse paesaggisticoambientale e naturalistico, pressoché privo di qualsiasi intervento antropico; b) l’impianto eolico costituisce motivo di forte impatto ambientale a causa delle opere accessorie necessarie per la realizzazione dell’impianto (strade di accesso al cantiere, lavori di sbancamento, cavidotti). La motivazione del provvedimento di diniego ripropone – allargando l’oggetto dell’esame dai singoli elementi dell’impianto (installazione di pali ed eliche) alle opere accessorie necessarie per realizzarlo – le medesime valutazioni già espresse nei precedenti provvedimenti impugnati dalla società ricorrente, e annullati da questo Tribunale con la citata sentenza n. 2080/2004. Anche nella presente fattispecie, infatti, l’amministrazione mette in rilievo esclusivamente gli aspetti strutturali dell’impianto ai quali viene attribuito un “non trascurabile impatto percettivo” e una “pesante interferenza visiva”, con conseguente “forte deterioramento della qualità dell’ambiente”, senza compiere alcuna comparazione tra le necessarie esigenze di tutela del paesaggio ed i possibili vantaggi ricavabili dagli impianti eolici (soprattutto sottoforma di riduzione del “forte deterioramento della qualità dell’ambiente”), considerato che essi sfruttano una risorsa naturalmente rinnovabile e non producono emissioni nocive. 200 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Al riguardo, la normativa comunitaria pone precisi obblighi in materia di fonti di energia alternativa (Dir. 2001/77/CE del 27 settembre 2001 – art. 3 “Gli Stati membri adottano misure appropriate atte a promuovere l’aumento del consumo di elettricità prodotta da fonti energetiche rinnovabili perseguendo gli obiettivi indicativi nazionali di cui al paragrafo 2. Tali misure devono essere proporzionate all’obiettivo. Entro il 27 ottobre 2002, e successivamente ogni cinque anni, gli Stati membri adottano e pubblicano una relazione che stabilisce per i dieci anni successivi gli obiettivi indicativi nazionali di consumo futuro di elettricità prodotta da fonti energetiche rinnovabili in termini di percentuale del consumo di elettricità. Tale relazione delinea inoltre le misure adottate o previste a livello nazionale per conseguire tali obiettivi (…). Gli Stati membri pubblicano, per la prima volta entro il 27 ottobre 2003, e successivamente ogni due anni, una relazione che contiene un’analisi del raggiungimento degli obiettivi indicativi nazionali tenendo conto, in particolare, dei fattori climatici che potrebbero condizionare tale realizzazione, e che indica il grado di coerenza tra le misure adottate e gli impegni nazionali sui cambiamenti climatici. Sulla base delle relazioni degli Stati membri di cui ai paragrafi 2 e 3 la Commissione valuta in quale misura: – gli Stati membri hanno progredito verso i rispettivi obiettivi indicativi nazionali; – gli obiettivi indicativi nazionali sono compatibili con l’obiettivo indicativo globale del 12% del consumo interno lordo di energia entro il 2010 e in particolare con una quota indicativa del 22,1% di elettricità prodotta da fonti energetiche rinnovabili sul consumo totale di elettricità della Comunità entro il 2010”) con conseguente necessità, per l’Amministrazione, di bilanciare gli interessi sottesi all’ambiente ed al paesaggio con quelli concernenti lo sfruttamento energetico in via alternativa. Nel caso in esame, invece, la Soprintendenza dei Beni Culturali e Ambientali di Palermo, ritenendo gli impianti per la produzione di energia eolica, in modo apodittico ed assoluto, non inseribili nel contesto di una zona di rilevante interesse paesaggistico e ambientale, ha espresso una valutazione di incompatibilità, preordinata alla unilaterale chiusura verso qualsiasi installazione di impianti eolici. Questo Tribunale, peraltro, ha avuto già modo di affrontare la questione relativa alla compatibilità tra le esigenze di salvaguardia del paesaggio e l’installazione di impianti per lo sfruttamento di energia eolica, con le sentenze n. 1671/2005 della prima Sezione e n. 150/2005 della seconda Sezione, nelle quali vengono evidenziati ulteriori profili di tutela – diversi dalla tutela del paesaggio – che devono essere valutati dall’amministrazione procedente e che sono riconducibili: a) alla tutela della salute e della salubrità dell’ambiente, perseguibile anche attraverso lo sfruttamento di fonti di energia rinnovabile e non inquinante; b) alla libertà di iniziativa economica-imprenditoriale, in particolare quella finalizzata alla produzione e sfruttamento di energia “pulita”, che non può aprioristicamente essere considerata incompatibile con la tutela delle bellezze paesaggistiche. In particolare, “…nel possibile conflitto fra le esigenze correlate all’esercizio dell’attività imprenditoriale, finalizzata alla produzione (con modalità non inquinanti) di energia elettrica, e quelle sottese alla tutela di valori non economici (come la tutela del paesaggio), l’amministrazione deve, in particolare, ricercare non già il totale sacrificio delle une e la preservazione delle altre secondo una logica meramente inibitoria, ma deve piuttosto, come indicato dalla sentenza della Corte costituzionale, 10 luglio 2002, n. 355, ricercare una soluzione necessariamente comparativa della dialettica fra le esigenze dell’impresa e quelle afferenti valori non economici, tutte rilevanti in sede di esercizio del potere amministrativo di autorizzazione alla realizzazione di attività imprenditoriali. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 201 Il che non esclude che l’esito finale del giudizio comparativo privilegi il valore paesaggistico: ma solo all’esito di una ragionevole ponderazione, alla stregua di un canone di proporzionalità (sul quale Consiglio di Stato, V, 18 febbraio 1992, n. 132) fra valore di tutela e intensità del vincolo (e della conseguente compressione dell’interesse antagonista) rispetto alla specifica attività considerata, e non già per una scontata prevalenza del primo. (T.A.R. Palermo Sez. II, n. 150/2005 citata). Nel caso in esame, invece, l’Amministrazione, considerando come primario ed assoluto il solo bene della tutela del paesaggio, ha disposto – attraverso la reiterazione del provvedimento di diniego di nulla osta motivato unicamente sull’incompatibilità fisica dell’impianto con il paesaggio circostante – un divieto di carattere generale rispetto a tutte le installazioni in grado di alterare le caratteristiche dei luoghi. Al riguardo, il Collegio ritiene che l’amministrazione, pur nell’ambito della discrezionalità ampia di cui gode nello svolgimento della attività di salvaguardia del paesaggio, sia comunque tenuta ad esercitare il proprio potere in modo da bilanciare i diversi interessi posti alla sua attenzione ed in maniera da evidenziare le ragioni poste a fondamento delle scelte operate, e che, nel caso in esame, il giudizio di comparazione tenga conto non solo delle specifiche finalità perseguite dallo sfruttamento di energia eolica, ma anche degli interessi di natura costituzionale e di rilevanza comunitaria coinvolti. Invero, il provvedimento impugnato è carente del suddetto bilanciamento tra diversi i interessi in rilievo: tra questi, la tutela del paesaggio non può assumere un valore totalizzante e costituire un limite alle possibili forme di sfruttamento di forme di energia alternativa, ma deve garantire che il progetto rispetti le valenze paesaggistiche e panoramiche dei luoghi, anche attraverso la ricerca di forme e strutture che possano consentire un armonico inserimento dell’impianto eolico nell’ambiente circostante. Alla stregua delle superiori considerazioni, il ricorso risulta fondato sotto il profilo del difetto di motivazione, per cui, assorbiti gli ulteriori motivi di censura, va accolto con conseguente annullamento del provvedimento impugnato, salve le eventuali ulteriori determinazioni dell’Amministrazione (...). P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, Sezione prima, accoglie il ricorso in epigrafe e, per l’effetto, annulla il provvedimento impugnato (...). Così deciso in Palermo, nella Camera di Consiglio del 2 dicembre 2005 (…)». (doc. 3) Avvocatura distrettuale dello Stato di Palermo – Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana – Ricorso in appello per: Assessorato regionale ai Beni culturali ed ambientali e della Pubblica Istruzione – Soprintendenza ai Beni culturali di Palermo (ct. 5350/05, Avv. dello Stato P. La Spina) c/ A.H. s.p.a. (Avv.ti G. Pitruzzella e C. Comandè) nei confronti di Comune di San Mauro Castelverde – Pres. R.Virgilio – Est. P. G. Trovato. «Fatto – La presente vicenda processuale, introdotta con ricorso al tribunale Amministrativo notificato presso gli Uffici dell’Avvocatura distrettuale di Palermo in data 5 aprile 2005, costituisce l’effetto del prosieguo, in sede procedimentale, della domanda della A. H. s.p.a. volta ad ottenere i provvedimenti permissivi alla realizzazione di un impianto di energia eolica nel territorio che ricade nel Comune di San Mauro Castelverde. Nel precedente giudizio, il quale concerneva pure il parere negativo emesso dalla Soprintendenza dei Beni culturali ed ambientali di Palermo, il Giudice amministrativo di 202 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO primo grado aveva ritenuto che la motivazione non fosse idonea ad enunciare le ragioni in fatto ed in diritto rilevanti: il che, in tutta probabilità, trovava origine (anche, se non soprattutto) nel linguaggio indubbiamente anticonvenzionale utilizzato dall’Amministrazione (i riferimenti erano, in sintesi, al pericolo di trasformare un paesaggio “intonso” in uno scenario di “donchisciottiana” memoria). In ogni modo, attesi i motivi della prima sentenza di accoglimento – che lasciava pressoché intatta la potestà decisoria dell’Amministrazione, salva ovviamente la modifica della parte motiva – nessun appello veniva proposto. In ottemperanza alla predetta pronuncia, la Soprintendenza provvedeva in data 8 febbraio 2005; ma, ancora una volta, la società ricorrente non era convinta della esaustività della motivazione, censurata affermando che essa sarebbe consistita nella mera descrizione della morfologia dei luoghi, senza alcuno specifico riferimento all’impatto che su di esso avrebbero le opere realizzande. Si adombrava, poi, una sorta di “sconfinamento” della potestà assessorile in quella di altro ramo dell’Amministrazione (esattamente, l’Assessorato al Territorio ed all’Ambiente), affermando che la protezione del paesaggio dovrebbe limitarsi agli aspetti estetici del sito; mentre le valenze naturalistiche andrebbero tutelate – appunto – dall’Assessorato territorio ed ambiente medesimo. Questa Avvocatura, nel formulare la memoria difensiva nel giudizio di primo grado concluso con la sentenza gravata, aveva posto in luce come il provvedimento impugnato contenga una descrizione del sito di che trattasi assai accurata: oltre agli aspetti geologici, infatti, vengono partitamente indicate le specie botaniche che si trovano in esso, e viene vieppiù segnalata l’esistenza di un’area di interesse archeologico. Detta descrizione, che costituisce la doverosa premessa della determinazione finale, trovava poi piena corrispondenza nella parte decisoria dell’atto impugnato. La parte dispositiva del provvedimento, più precisamente, ha evidenziato come – in primo luogo – gli impianti eolici (nella misura di n. 76) verrebbero posizionati sui “crinali montani dell’ambito in esame”; come – in secondo luogo – ciò implicherebbe la necessaria realizzazione “di una serie di opere accessorie (strade di accesso al cantiere per circa 7,7 km, cavidotti, cabine di impianto, profondi sbancamenti per la posa in opera delle fondazioni delle torri) la cui incidenza sul territorio provocherebbe un non trascurabile impatto percettivo, una pesante interferenza visiva e un forte deterioramento della qualità dell’ambiente”; come – in terzo luogo – gli “interessi culturali e naturali emergenti” rinvenibili nel luogo in esame rappresentino valori “interdipendenti e inscindibili... di per sé meritevoli di attenta e puntuale tutela”. Nonostante l’analiticità delle considerazioni formulate dalla Soprintendenza (analiticità che aveva condotto questa Difesa a porre in luce che un eventuale accoglimento del ricorso avrebbe dato luogo a serissime difficoltà in sede di rinnovo dell’atto, proprio perché era difficilmente ipotizzabile una parte argomentativa dell’atto medesimo più completa), il Tribunale di primo grado emetteva – ancora una volta – una sentenza di annullamento. Della quale si sostiene la erroneità alla luce delle seguenti considerazioni in Diritto – Bisogna, in primo luogo, porre in luce sia pure brevemente la premessa sulla base della quale il Giudice di prime cure ha dichiarato invalido il parere dell’Amministrazione appellante. I Magistrati del T.A.R., più precisamente, muovendo dalla specificità dell’attività al cui esercizio mira parte appellata (consistente, è ovvio, nella produzione di energia pulita”) hanno ritenuto di adeguarsi a due loro precedenti specifici (le sentenze n. 150/2005 e la n. 1671 del medesimo anno). IL CONTENZIOSO NAZIONALE 203 Dette pronunce hanno, in sintesi, affermato il principio a tenore del quale – nella fattispecie che ci occupa – l’Amministrazione appellante dovrebbe bilanciare con l’interesse primario affidato alle sue cure (la protezione del paesaggio) ulteriori interessi, ed in particolare (si riporta il passaggio più significativo della sentenza gravata): “a) la tutela della salute e della salubrità dell’ambiente, perseguibile anche attraverso lo sfruttamento di fonti di energia rinnovabile e non inquinante; b) la libertà di iniziativa economica – imprenditoriale, in particolare quella finalizzata alla produzione e sfruttamento di energia “pulita”, che non può aprioristicamente essere considerata incompatibile con la tutela delle bellezze paesaggistiche”. Ora, la regola formulata dal Giudice di prime cure, il quale si richiama al disposto dell’art. 146 del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (codice dei beni culturali e del paesaggio), pare proprio in contrasto con la disposizione normativa della quale, pertanto, costituisce applicazione solo apparente. L’art. 146 appena menzionato, difatti, afferma che l’esame della domanda di autorizzazione richiede alla competente Autorità di verificare la compatibilità tra l’intervento cui aspira il privato e le prescrizioni contenute nei piani paesistici alla luce: 1) dei “valori paesaggistici riconosciuti dal vincolo”; 2) dei “criteri di gestione dell’immobile o dell’area”; 3) degli “obiettivi di qualità paesaggistica”. Che, insomma, la Soprintendenza debba compiere un’attività valutativa di grande complessità è certo fuori discussione; ma che detta attività comprenda, quali parametri di apprezzamento, anche la considerazione della salute dei singoli o, addirittura, della “libertà di iniziativa economica” dei medesimi par francamente del tutto escluso dal dato legislativo di riferimento. Dato legislativo che, d’altra parte, prende atto (valorizzandole) di quelle che sono le “competenze” specifiche dell’Autorità preposta alla tutela del paesaggio, sicuramente assai ampie; ma, altrettanto certamente, del tutto estranee a considerazioni di logica imprenditoriale o macroeconomica. In altre pronunce pure di primo grado, del resto, si è affermato che “l’attività finalizzata all’apposizione del vincolo paesaggistico ha natura essenzialmente ricognitiva di qualità preesistenti, anziché essere il luogo in cui si valutano e compongono, attraverso l’esercizio di un potere discrezionale in senso proprio, interessi confliggenti. Il contemperamento con l’interesse privato si può quindi realizzare unicamente nel rendere comunque possibili tutte le attività private compatibili con l’interesse protetto, attraverso la fissazione di criteri di gestione che non precludano attività compatibili con la valenza estetica della zona tutelata” (T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 16 ottobre 1997, n. 1796). E se, in altre parole, all’Amministrazione preposta alla tutela dell’ambiente non può chiedersi di valutare gli interessi in conflitto con quello affidato alle sue cure in via primaria neppure in sede di redazione del piano paesistico, è logico ritenere che – nella specie – ciò sia inesigibile alla luce del consolidatissimo argumentum a fortiori. È assai noto, in aggiunta, che l’ordinamento predispone uno strumento di carattere generalissimo in relazione a procedimenti che richiedano la contestuale disamina di interessi pubblici: esso è la conferenza di servizi. E – è pure assai noto – qualora sia necessario discutere in ordine all’avviso espresso dall’Autorità preposta alla tutela dell’ambiente che dà luogo a dissensi, l’unico rimedio a ciò deputato è costituito dall’art. 14 quater della legge 7 agosto 1990, n. 241. Questa Avvocatura, naturalmente, non vuole in questa sede sollevare il problema dell’applicabilità alla Regione Sicilia del predetto “meccanismo” (contemplato da una legge 204 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO dello Stato). Esso però consente, in via interpretativa, di individuare un sicuro parametro: e cioè che il contrasto tra interessi di segno diverso (uno dei quali sia costituito da quello afferente alla tutela del paesaggio) va composto in una sede diversa da quella dell’apprezzamento dell’Autorità paesistica, alla quale non può dunque “addossarsi” il gravosissimo onere ipotizzato dalla sentenza di primo grado. Infine, facendo un brevissimo riferimento alla situazione normativa in Sicilia, bisogna aggiungere quanto segue. Il decreto dell’Assessore territorio ed ambiente 28 aprile 2005, n. 10425 suddivide, in riferimento alla dislocazione degli impianti di energia eolica, il suolo siciliano in tre “zone”: escluse (in cui non è “consentita l’istallazione di impianti eolici”, ma solo di “alcune parti” di essi, quali cavi etc.); sensibili (in cui l’installazione sarà possibile unicamente previa valutazione “caso per caso”); consentite (“nelle quali l’installazione degli impianti eolici è consentita facendo particolare attenzione all’inserimento di detti impianti nel paesaggio e prescrivendo tutte le misure necessarie alla mitigazione degli impatti”). Orbene, è agevole rilevare che tanto nelle zone sensibili, quanto in quelle consentite, l’attività permissiva dell’Amministrazione è comunque esercitata tenendo conto unicamente dell’interesse tipicamente affidato alla di lei tutela: vale a dire, è naturale, il paesaggio (pur inteso nella consueta ampia accezione, comprensiva pertanto delle eventuali valenze archeologiche o faunistiche del sito). P.Q.M. voglia il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in accoglimento del presente gravame, annullare con qualunque statuizione la sentenza di prime cure meglio specificata in epigrafe, con il favore delle competenze e degli onorari del giudizio, salve le spese prenotate a debito da liquidarsi ad opera del competente Ufficio (...). Palermo 17 giugno 2006 – Avvocati dello Stato Fabio Caserta e Pierfrancesco La Spina». (doc. 4) Avvocatura distrettuale dello Stato di Palermo – Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana – Palermo – Udienza 9 novembre 2006 – Memoria per: Assessorato regionale ai Beni culturali ed ambientali e della Pubblica Istruzione – Soprintendenza ai Beni culturali di Palermo (ct. 5350/03, Avv. dello Stato P. La Spina) c/ A. H. s.p.a. (Avv.ti Pitruzzella e Comandé); nei confronti di Comune di San Mauro Castelverde «Fatto e diritto – In merito alla delicata – soprattutto negli aspetti di principio – vicenda che occupa codesto Ecc.mo Consiglio, questa Avvocatura ha avuto modo di esternare l’avviso dell’Amministrazione regionale in seno all’atto di appello (al cui contenuto ci si riporta integralmente). Nella presente memoria sembra opportuno evidenziare quanto segue. La pronuncia impugnata, in buona sostanza, attribuisce alla Soprintendenza una potestà assai ampia e gravosa: quella di “bilanciare” – in sede di procedimento per la emissione del provvedimento di permesso all’installazione degli impianti eolici – all’interesse primario affidato alle sue cure una congerie di interessi secondari. Tale compito – la cui inammissibilità la Scrivente ha già posto in luce sotto il profilo della violazione del generalissimo principio del riparto delle “competenze” – appare del tutto “esorbitante” anche sotto un’altra (e connessa) angolazione. Il punto di partenza, più esattamente, consiste nella consolidatissima affermazione a tenore della quale nell’attività autorizzatoria collegata alla tutela del bene paesaggio le valu- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 205 tazioni espresse dalle competenti Amministrazioni costituiscono esercizio di discrezionalità tecnica (ex plurimis, Cons. Stato, sez. VI, 22 marzo 2005, n. 1186). Ebbene, il giudizio posto a base di siffatto (particolare) apprezzamento attribuito all’Amministrazione, quand’anche si ricolleghi alla necessità di fare applicazione di concetti giuridici indeterminati, va sempre svolto alla luce di regole di natura tecnica o scientifica, non implicando la ponderazione tra interessi (pubblici e privati) di segno diverso, e non attribuendo facoltà – per logica implicazione – di optare a quale degli interessi medesimi attribuire prevalenza. Non è un caso, del resto, che allorché all’attività valutativa tecnica si ricolleghi anche il conferimento della potestà di ponderare esigenze di segno diverso (e di scegliere a quale di essere dare preferenza), tanto la migliore dottrina quanto la stessa giurisprudenza (ad esempio T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 3 ottobre 2005, n. 1557) si riferiscono al (distinto, seppure non del tutto autonomo) concetto di discrezionalità mista. Orbene, che la sentenza gravata abbia trasformato – si ripete, in applicazione solo apparente del dato normativo di riferimento – una fattispecie di discrezionalità tecnica in discrezionalità (non già mista, ma forse) amministrativa pura, pare a questa Difesa fuor di dubbio: come già evidenziato nell’atto di appello, ad esempio, a pag. 6 della parte motiva i Giudici si sono riferiti alla necessità della “comparazione tra le necessarie esigenze di tutela del paesaggio ed i possibili vantaggi ricavabili dagli impianti eolici” (tipico caso di ponderazione tra interessi pubblici di segno diverso); mentre, del tutto coerentemente (ma illegittimamente) a pag. 8 è stata inserita una serie di esigenze da valutare (la salute, la salubrità dell’ambiente, la libertà di iniziativa economica!) le quali non solo non potrebbero mai essere considerate nel più ristretto apprezzamento tecnico – discrezionale, ma che in aggiunta (lo si è posto in luce nell’atto di appello) esulano del tutto dalla possibilità di conoscenza degli Uffici della Soprintendenza ai beni culturali. La questione attribuita a codesto Ecc.mo Consiglio è, insomma, delicatissima tanto nelle sue implicazioni teoriche, quanto in quelle pratiche: si tratta, in definitiva, di chiarire se la concettuale distinzione tra le due tipologie di potestà discrezionale sia destinata ad essere superata (almeno nei casi concreti in cui “a monte” sia collocata la necessità di interpretare concetti indeterminati); e se, correlativamente, l’organizzazione delle Soprintendenze ai beni culturali (certamente allo stato del tutto inidonea al compimento di un’attività di tal genere) debba essere oggetto di radicale mutamento. Tale ultimo profilo merita una ulteriore specificazione: l’art. 46 della l. reg. sic. 28 dicembre 2004, n. 17 dispone, com’è noto, che “le autorizzazioni ad eseguire opere in zone soggette a vincolo paesistico o su immobili di interesse storico-artistico sono rilasciate o negate, ove non regolamentate da norme specifiche dalle competenti Soprintendenze entro il termine perentorio di 120 giorni”. Ebbene, la ristrettezza del suddetto termine consente di confermare – al di là della chiarezza dei dati normativi che riguardano l’autorizzazione in sé – la correttezza della tesi sostenuta da questa Avvocatura avvalendosi del criterio dell’interpretazione funzionale della norma giuridica; criterio, va posto in luce, inquadrato nella sua giusta prospettiva dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato in riferimento al (per quel che ci riguarda simile) “rito speciale” del silenzio rifiuto. Allorché venne introdotto il suddetto “rito speciale” riguardante i ricorsi avverso il silenzio dell’Amministrazione, più in dettaglio, è noto che parte della dottrina – e qualche isolata pronuncia dei Giudici di primo grado – ritenne che l’innovazione legislativa avesse ampliato lo spettro del sindacato giurisdizionale. 206 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Si affermò, in altre parole, che pur a fronte di un giudizio connotato da estrema celerità, il compito del Magistrato amministrativo comprendesse non solo la declaratoria del dovere dell’Autorità procedente di provvedere mediante provvedimento esplicito, ma anche quello di indicare il contenuto dell’emanando atto: e ciò senza distinguere tra atto discrezionale ed atto vincolato. Ora, il Consiglio di Stato, nella nota sentenza ad. plen. 9 gennaio 2002, n. 9, ha avuto modo di evidenziare che la soluzione adottata – la quale invece limita consapevolmente la pronuncia di merito alla sola declaratoria del dovere di provvedere perfino in fattispecie di procedimenti vincolati – trae fondamento anche dal modello processuale prescelto dal legislatore, “la cui configurazione è congrua se il giudizio si incentra sul silenzio, non anche se il giudice dovesse estendere la propria cognizione ad altri profili”. In buona sostanza il modus operandi di un Organo pubblico – ed il lasso temporale attribuito al medesimo – deve correlarsi necessariamente al contenuto dell’atto richiesto: ed il principio, francamente, pare avere natura generalissima, non potendosi limitare all’attività giurisdizionale, ma dovendo riguardare anche quella amministrativa. Orbene, e conclusivamente, l’erroneità dell’opzione ermeneutica prospettata dai Giudici di primo grado si apprezza anche alla luce di tale profilo: non si può, in altre parole, imporre all’Amministrazione un termine assai ristretto per provvedere e, nel contempo, obbligarla ad apprezzare – peraltro, come detto, completamente al di fuori di quelle che sono le sue “naturali attribuzioni” – una serie di elementi tale da rendere impossibile il rispetto del suddetto termine (che, in tal guisa, esulerebbe da qualsivoglia valutazione di congruità). P.Q.M. voglia l’ecc.mo Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana rigettare il ricorso di controparte, con il favore dei diritti ed onorari del giudizio, oltre alle spese prenotate a debito, da liquidarsi dal competente Ufficio. Palermo 17 ottobre 2006 Avvocato dello Stato Pierfrancesco La Spina» (doc. 5) Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana in sede giurisdizionale, decisione 3 agosto 2007 n. 711 – Assessorato regionale ai Beni culturali e ambientali e della Pubblica Istruzione e Soprintendenza ai Beni culturali di Palermo (Avvocatura distrettuale dello Stato di Palermo) c/ A.H. s.p.a. (Avv.ti G. Pitruzzella e C. Comandè) e nei confronti del Comune di San Mauro Castelverde (non costituito in giudizio). «Fatto – 1.- La società A.H. s.p.a., a suo tempo, presentò al Comune di San Mauro Castelverde, all’Assessorato regionale territorio ed ambiente ed alla Soprintendenza per i beni culturali ed ambientali di Palermo, un progetto per la realizzazione di un impianto eolico nelle località (…) tutte ubicate nel territorio del Comune di San Mauro Castelverde, chiedendo alla Regione Siciliana l’autorizzazione paesaggistica ex articolo 151 del D.Lgs. 29 ottobre 1999 n. 490. A seguito di richiesta dell’Assessorato regionale in data 20 marzo 2003 la società modificò il progetto già depositato presso la Soprintendenza integrandolo con nuova documentazione. La Soprintendenza, che in mancanza della suddetta documentazione integrativa, aveva già espresso parere contrario al rilascio del nulla osta (nota prot. n. 4080/N del 14 luglio 2003), reiterava il provvedimento di diniego anche sul nuovo progetto (nota prot. n. 7525/N del 21 ottobre 2003). Entrambi i provvedimenti erano impugnati innanzi al Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, Palermo, che con sentenza n. 2080 del 27 luglio 2004 accoglieva il ricorso e annullava i provvedimenti di diniego per difetto di motivazione. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 207 La Soprintendenza con nota n. 1037/N del 8 febbraio 2005, negava nuovamente il rilascio del nulla osta. La società A.H. s.p.a. ricorreva allora nuovamente al Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, Palermo per l’annullamento del sopravvenuto diniego. Deduceva: 1) violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge n. 241/1990 come recepito in Sicilia dalla legge regionale 30 aprile 191, n. 10; eccesso di potere sotto il profilo della carenza di motivazione; violazione dell’art. 97 Cost. sull’assunto che il provvedimento di diniego non era motivato in maniera completa ed esaustiva, in quanto basato esclusivamente sulla prevalenza dei profili di tutela paesaggistica e carente di una adeguata valutazione degli interessi contrapposti; il provvedimento impugnato ha omesso di considerare una simile prospettiva, limitandosi ad illustrare le caratteristiche geo-morfologiche dell’area di insediamento degli aerogeneratori, senza individuare in modo specifico i profili di disvalore di siffatte opere, e senza fare riferimento ad eventuali possibili accorgimenti o ridimensionamenti che ne consentirebbero un armonico inserimento nel contesto paesaggistico di riferimento; generico risultava anche il riferimento della esistenza (in precedenza non segnalata e comunque non determinante ai fini del diniego di nulla osta) di un’area archeologica all’interno del sito interessato; 2) violazione e falsa applicazione dell’articolo 146 del D.Lgs. 42/2004 (corrispondente all’art. 151 del d.lgs. n. 490/1999) ed eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento dalla causa tipica, sostenendosi che il provvedimento impugnato era difforme rispetto ai parametri legislativi che disciplinano l’esercizio del potere di valutazione della compatibilità paesaggistica degli interventi sul territorio, poiché carente di qualsiasi profilo di comparazione tra i fini che il vincolo paesaggistico intende tutelare e gli interessi economici coinvolgenti il progetto da realizzare. Inoltre in armonia con il protocollo di Kyoto sottoscritto in data 11 dicembre 1997 e poi ratificato con legge 1 giugno 2002, n. 120, la Regione siciliana in data 24 marzo 1999 aveva stipulato un protocollo di intenti, con il quale si era impegnata ad attivare tutti gli strumenti più adeguati al fine di consentire l’effettuazione degli investimenti della A.H. nell’interesse superiore dello sviluppo infrastrutturale della Regione e dell’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili; 3) violazione e falsa applicazione degli articoli 146 e 142, comma 1 lett. G) del D.Lgs. 42/2004 (corrispondenti agli artt. 151 e 146 comma 1 lett. G del D.Lgs. n. 490/1999); violazione e falsa applicazione del decreto A.R.T.A. del 10 settembre 2003 avente ad oggetto “Direttive per l’emissione dei provvedimenti relativi a progetti per la produzione di energia mediante lo sfruttamento del vento” ed eccesso di potere per erroneità dei presupposti di fatto e di diritto, rilevandosi che le valutazioni operate dalla Soprintendenza per motivare incidevano in competenze dell’Assessorato regionale territorio e ambiente in quanto non strettamente attinenti all’aspetto estetico dei beni tutelati. Tale Assessorato aveva espresso in data 9 dicembre 2004 (n. 1275) il proprio giudizio positivo circa la compatibilità ambientale del progetto della società A.H. ricadente in Comune di San Mauro Castelverde. Tale valutazione troverebbe riscontro nella relazione di sintesi redatta da professionisti e esperti della materia, incaricati dalla società in ordine alla valutazione di incidenza ambientale. L’atto della Soprintendenza non terrebbe conto delle modifiche apportate al progetto dalla società richiedente (minor numero di aerogeneratori e loro insediamento al di fuori delle aree boschive). 2.- Con sentenza n. 156, in data 19 gennaio 2006, ritenendo fondato e assorbente il primo motivo, il TAR accoglieva il ricorso e annullava l’atto impugnato, salvi gli eventuali ulteriori provvedimenti di competenza della Amministrazione. 208 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La sentenza è stata appellata dall’Assessorato regionale ai beni culturali e ambientali e della pubblica istruzione-Soprintendenza ai beni culturali di Palermo. Si è costituita in giudizio la A.H. s.p.a., che: – ha eccepito l’inammissibilità dell’appello per carenza di interesse, sostenendosi che la parte appellante non ha contestato puntualmente le argomentazioni svolte dal T.A.R. nell’accogliere il ricorso; l’appello infatti si limiterebbe a censurare un aspetto della motivazione della sentenza appellata (necessità di ponderazione e di contemperamento di tutti gli interessi interferenti) ma non anche quello concernente la assoluta carenza di motivazione; – ha controdedotto alle censure svolte nell’appello; – ha riproposto le censure assorbite dal TAR. 3.- Alla pubblica udienza del 9 novembre 2006, l’appello è passato in decisione. Diritto 1.- L’appello è fondato. 2.- Oggetto del contendere è l’atto n. 1037/N in data 8 febbraio 2005, con il quale la Soprintendenza ai beni culturali di Palermo ha ribadito il diniego di nulla osta al progetto presentato dalla A.H. s.p.a., per la realizzazione di un impianto eolico in Comune di San Mauro Castelverde. Il diniego si fonda sulla preliminare considerazione che l’impianto eolico se realizzato arrecherebbe nocumento ad un contesto che ancora oggi conserva condizioni di elevatissimo interesse naturalistico, paesaggistico, storico e archeologico. A tale considerazione segue una dettagliata descrizione delle caratteristiche della località interessata dall’impianto e un’analisi del progettato insediamento (complessivamente 76 aerogeneratori). Si sottolinea poi che contrariamente a quanto esposto nella relazione tecnica-descrittiva allegata al progetto, dalla documentazione cartografica e bibliografica esistente in Ufficio, si è riscontrato che parte degli interventi progettuali ricadrebbe all’interno di un Sito di Interesse Comunitario (S.I.C.) denominato Boschi di San Mauro Castelverde ITA 0020003, di particolare valenza naturalistica, ritenuto pertanto ad elevata vulnerabilità e come tale da tutelare da qualsiasi intervento possa determinare compromissione, secondo quanto disposto dalle direttive del superiore Assessorato regionale BB.CC.AA. per la tutela di habitat di particolare pregio paesaggistico, naturalistico e ambientale impartite con nota n. 2843 del 19 luglio 2000. Sulla base di tali premesse nel diniego la Soprintendenza conclude come segue: – considerato che le strutture necessarie alla realizzazione della centrale eolica (n. 76 aero generatori) verrebbero posizionate sui crinali montani dell’ambito in esame; – considerato che ciò comporterebbe la costruzione di una serie di opere accessorie (strade di accesso al cantiere per circa 7,7 km, cavidotti, cabine di impianto, profondi sbancamenti per la posa in opera delle fondazioni delle torri) la cui incidenza sul territorio provocherebbe un non trascurabile impatto percettivo, una pesante interferenza visiva e un forte deterioramento della qualità dell’ambiente; – considerato che gli interessi culturali e naturali emergenti nell’area in esame sopra evidenziati, risultano, negli aspetti con cui si manifestano, tra loro interdipendenti e inscindibili e rappresentano valori generali di per sé meritevoli di attenta e puntuale tutela; – si ritiene che il progetto sia incompatibile con la tutela paesaggistica e pertanto non può essere approvato. 3.- In accoglimento di ricorso della A. H. s.p.a., il T.A.R. con la sentenza appellata ha annullato l’atto sopra indicato, ritenendo fondato e assorbente il primo motivo, con il quale si IL CONTENZIOSO NAZIONALE 209 deduceva difetto di motivazione; sull’assunto che il provvedimento di diniego non era motivato in maniera completa ed esaustiva, in quanto basato esclusivamente sulla prevalenza dei profili di tutela paesaggistica e carente di un’adeguata valutazione degli interessi contrapposti. In relazione all’appello dell’Assessorato regionale ai beni culturali e ambientali e della pubblica istruzione e della Soprintendenza ai beni culturali di Palermo la società eccepisce che la parte appellante non ha contestato puntualmente le argomentazioni svolte dal T.A.R. nell’accogliere il ricorso e che pertanto l’appello dovrebbe ritenersi inammissibile. Più esattamente la resistente sostiene che la parte appellante contesta solo l’assunto del T.A.R., secondo cui la determinazione della Soprintendenza si sarebbe dovuta adottare con un bilanciamento tra l’interesse paesaggistico e i contrapposti interessi coinvolti. Il T.A.R. avrebbe invece formulato ulteriori considerazioni, ponendo in rilievo il palese difetto di motivazione in cui era incorsa la Soprintendenza sotto due distinti profili: da una parte per la mancanza di una specifica e dettagliata esposizione delle ragioni di effettiva incompatibilità paesaggistica, da valutarsi con specifico riferimento all’area interessata e alle caratteristiche degli aerogeneratori progettati dalla A. H. s.p.a., e dall’altra per la mancanza, nel provvedimento impugnato di qualsiasi considerazione in ordine alla possibilità di un bilanciamento tra l’interesse paesaggistico e il confliggente interesse alla salubrità ambientale. L’eccezione è infondata. In proposito il Collegio condivide l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui è dovere del giudice interpretare il gravame ed esaminare le censure ancorché (in ipotesi) non organicamente articolate, ricavandole dal contesto del ricorso, ivi comprese l’esposizione in fatto, e dal contesto della richiesta avanzata (Consiglio Stato, sez. IV, 7 giugno 2005, n. 2930; Consiglio Stato, sez. V, 24 ottobre 2001, n. 5599). Nel caso di specie le censure di appello svolte dalla Amministrazione appaiono idonee a confutare il ragionamento del T.A.R. È vero infatti che la contestazione riguarda principalmente la questione del bilanciamento tra interessi paesaggistici e altri interessi interferenti nella determinazione affidata, ma è altrettanto vero che da un lato l’appellante richiama le difese di primo grado e l’assunto circa l’analiticità delle considerazioni svolte dalla Soprintendenza (tali da rendere difficilmente ipotizzabile una parte argomentativa più completa) e che dall’altro la tesi svolta dall’appellante (per escludere la necessità di un bilanciamento con interessi estranei alla sfera di competenza della Soprintendenza) implica di per sé una censura alla tesi del T.A.R. circa la necessità sul punto di una specifica motivazione. 4.- Ciò premesso il Collegio ritiene che nella specie la ponderazione da parte della Soprintendenza degli interessi interferenti nella fattispecie sia congrua, in quanto fondata su una sufficiente ricostruzione e valutazione degli elementi in fatto rilevanti nella fattispecie (caratteristiche dell’impianto da insediare e dell’area interessata, nonché ragioni ostative al rilascio del nulla osta paesaggistico, alla stregua di ampie considerazioni sul pregio non solo paesaggistico, ma anche ambientale, storico e archeologico dell’area interessata). Quanto sopra appare utile a giustificare il provvedimento negativo, non rientrando nelle competenze della Soprintendenza, al di là di una attenta comparazione dell’interesse paesaggistico (rispetto agli interventi progettati), sacrificare il detto interesse per perseguire altri interessi non affidati alle sue cure (nella specie sviluppo delle fonti energetiche alternative e più in generale sviluppo economico della zona). Un tale risultato può se mai essere il frutto di procedure aperte al contributo di tutti gli organi interessati alla vicenda (in particolare attraverso le conferenze di servizi; cfr. art. 12 del D.Lgs. 29 dicembre 2003, n. 387). 210 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO D’altra parte il dato sulla valenza degli impianti in questione sotto il profilo della salute e dello sviluppo economico può ritenersi implicito in relazione alla caratteristiche degli impianti medesimi, ma non può sottrarre dette strutture dalla valutazione (sorretta, come nella specie da adeguata istruttoria, compreso un sopralluogo) delle incidenze sugli interessi primari sottostanti alla autorizzazione paesaggistica (arg. da Consiglio Stato Ad. plen., 14 dicembre 2001, n. 9; Consiglio Stato, sez. VI, 24 febbraio 2005, n. 680). Queste considerazioni, portano a disattendere anche i motivi non esaminati dal T.A.R. e riproposti dalla parte resistente. Si sostiene in particolare che: – in forza degli artt. 146 e 142 D.Lgs. n. 42/2004 la Soprintendenza non può assumere una posizione di assoluta e aprioristica chiusura nei confronti della realizzazione di interventi sulle aree vincolate, ma al contrario deve valutare in concreto se in relazione alle specifiche caratteristiche e dell’area e dell’intervento, l’installazione richiesta possa essere realizzata, e in che termini, senza nocumento per il paesaggio; – le competenze della Soprintendenza sono limitate alla espressione di un nulla osta in relazione all’aspetto estetico dei beni tutelati e non anche alla loro valenza più specificamente naturalistica ed ambientale; – esorbita dalle competenze della Soprintendenza (in relazione al decreto A.R.T.A. del 10 settembre 2003) il riferimento motivazionale alla circostanza che parte degli interventi progettuali ricadrebbero all’interno di un Sito di Interesse Comunitario (S.I.C.) denominato Boschi di San Mauro Castelverde ITA 0020003, di particolare valenza naturalistica; la relativa procedura mette capo esclusivamente all’Assessorato regionale territorio e ambiente; allo stato come evidenziato anche da uno studio commissionato dalla società, non esistono nella zona elementi di incompatibilità, ma al contrario una situazione di degrado dell’area interessata dall’impianto eolico e da questo non incisa in modo significativo dal punto di vista della visibilità e dell’impatto visivo; – il diniego di nulla osta è stato formulato sulla base della prima stesura del progetto e non sull’ultima (in particolare quanto alla dislocazione e al numero degli aerogeneratori). Tali argomentazioni sono superabili alla stregua del seguente rilievo: – in forza dell’art. 146 citato la Soprintendenza, pur dovendo secondo i principi generali perseguire l’interesse pubblico affidatole con il minor sacrificio possibile per gli interessi interferenti contrari, non è tenuta a sacrificare il pubblico interesse affidatole per valutazioni estranee alla sua sfera di competenza. Quanto sopra si desume ora anche dall’art. 146 citato s.m.i., laddove si stabilisce che 5. La domanda di autorizzazione dell’intervento indica lo stato attuale del bene interessato, gli elementi di valore paesaggistico presenti, gli impatti sul paesaggio delle trasformazioni proposte e gli elementi di mitigazione e di compensazione necessari. 6. L’amministrazione competente, nell’esaminare la domanda di autorizzazione, verifica la conformità dell’intervento alle prescrizioni contenute nei provvedimenti di dichiarazione di interesse pubblico e nei piani paesaggistici e ne accerta: a) la compatibilità rispetto ai valori paesaggistici riconosciuti dal vincolo ed alle finalità di tutela e miglioramento della qualità del paesaggio individuati dalla dichiarazione di notevole interesse pubblico e dal piano paesaggistico; b) la congruità con i criteri di gestione dell’immobile o dell’area indicati dalla dichiarazione e dal piano paesaggistico. – il nulla osta va quindi rilasciato sulla base della valutazione dell’interesse paesaggistico e degli interessi correlati, non risultando corretta la tesi secondo cui la relativa valutazione sarebbe limitata all’aspetto estetico; IL CONTENZIOSO NAZIONALE 211 – tanto trova conferma, quanto al caso di specie, nell’art. 142 secondo cui: 1. sono comunque sottoposti alle disposizioni di questo Titolo: per il loro interesse paesaggistico. f) i parchi e le riserve nazionali o regionali, nonché i territori di protezione esterna dei parchi; g) i territori coperti da foreste e da boschi, ancorché percorsi o danneggiati dal fuoco, e quelli sottoposti a vincolo di rimboschimento, come definiti dall’articolo 2, commi 2 e 6, del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 227; – le Soprintendenze devono tenere in adeguato conto le valenze naturalistico ambientali dei siti di importanza comunitaria e delle zone di protezione speciale in forza di direttiva assessorile (n. 2843, in data 19 luglio 2000); – allo stato degli atti l’impianto sembra incidere in zone boschive e comporta opere di indubbio impatto sull’area interessata sotto molteplici profili, che richiedono una valutazione complessiva degli organi interessati e che non può essere demandata alla sola Soprintendenza; – la proposta riduzione (da 76 a 65) degli aerogeneratori non sembra rilevare in modo determinante sull’impatto dell’opera e sulla lesione dell’interesse paesaggistico. 5.- Per le ragioni che precedono l’appello va accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, va respinto l’originario ricorso n. 977/2005 proposto dalla A. H. s.p.a. avanti al T.A.R. Sicilia, Palermo. Sussistono giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese dei due gradi di giudizio. P. Q. M. Il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana in sede giurisdizionale accoglie l’appello (...). Così deciso in Palermo, nelle camere di consiglio del 9 novembre e del 13 dicembre 2006 (...)». (doc. 6) Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in sede giurisdizionale, decisione 21 novembre 2007 n. 1058 – Pres. R. Virgilio – Rel. E. de Francisco – Soprintendenza ai beni culturali e ambientali e P.I. di Palermo e Assessorato regionale ai beni culturali e ambientali e della P.I. (Avv. dello Stato Tutino) c/ s.p.a. Enel Produzione (Avv.ti M. Cardi e S. Agrifoglio), per la riforma della sentenza del T.A.R. Sicilia, sede di Palermo (sez. int. II), n. 1398 del 5 giugno 2006. «(…) Fatto - Viene in decisione l’appello avverso la sentenza indicata in epigrafe che ha accolto il ricorso della società appellata per l’annullamento della nota prot. 474/P del 26 novembre 2005, con cui la Soprintendenza per i BB.CC.AA. di Palermo ha espresso parere contrario alla richiesta di E.G.P. di realizzare un impianto eolico (...). All’odierna udienza la causa è stata trattenuta in decisione. Diritto. 1. – Il giudice di prime cure ha ritenuto “il ricorso … fondato in relazione all’assorbente profilo afferente la dedotta censura di violazione dell’art. 146 del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, alla luce del condiviso orientamento giurisprudenziale, secondo il quale è illegittimo il diniego di nulla osta paesaggistico chiesto per la realizzazione di impianti finalizzati alla produzione di energia eolica, che sia stato motivato facendo genericamente riferimento alle caratteristiche morfologiche del territorio interessato ed affermando apoditticamente l’incompatibilità del territorio stesso con il loro insediamento”. 212 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Secondo la sentenza gravata, nella valutazione della compatibilità tra la tutela del paesaggio e l’installazione di impianti eolici “l’amministrazione preposta alla tutela dei valori paesaggistici deve valutare la compatibilità dell’attività autorizzanda rispetto al vincolo, ponendo in comparazione detti valori con gli interessi antagonisti”. E, “nel possibile conflitto fra le esigenze correlate all’esercizio dell’attività imprenditoriale, finalizzata alla produzione (con modalità non inquinanti) di energia elettrica, e quelle sottese alla tutela di valori non economici (come la tutela del paesaggio), l’amministrazione deve, in particolare, ricercare non già il totale sacrificio delle une e la preservazione delle altre secondo una logica meramente inibitoria, ma… una soluzione necessariamente comparativa della dialettica fra le esigenze dell’impresa e quelle afferenti valori non economici, tutte rilevanti in sede di esercizio del potere amministrativo di autorizzazione alla realizzazione di attività imprenditoriali”. Sicché “l’esito finale del giudizio comparativo” può privilegiare il valore paesaggistico “solo all’esito di una ragionevole ponderazione, alla stregua di un canone di proporzionalità … fra valore di tutela e intensità del vincolo (e della conseguente compressione dell’interesse antagonista) rispetto alla specifica attività considerata, e non già per una scontata prevalenza del primo”. Nella specie il provvedimento impugnato è stato ritenuto illegittimo perché motivato con generico riferimento alle caratteristiche morfologiche del territorio e con l’affermazione della incompatibilità di quest’ultimo con l’insediamento eolico, senza che fossero ponderati comparativamente tutti gli altri interessi coinvolti nella vicenda. 2. – L’appello – volto a sostenere che il surrichiamato art. 146 imponga alla Soprintendenza un’attività valutativa bensì complessa, ma non esulante la valutazione dei soli profili afferenti la tutela paesaggistica, con esclusione di altri e diversi interessi coinvolti – è fondato nel merito, secondo l’orientamento di questo Consiglio. Può pertanto prescindersi dall’esame degli ulteriori motivi di gravame, volti a sostenere l’inammissibilità del ricorso di prime cure. Si rileva, dunque, che questo Consesso – chiamato a pronunciarsi in una precedente occasione su una richiesta, non accolta, di nulla osta relativamente alla realizzazione di analogo impianto in altra località – ha già chiarito, con la decisione 3 agosto 2007, n. 711, che il diniego di avviso favorevole da parte della Soprintendenza è legittimamente fondato “su una sufficiente ricostruzione e valutazione degli elementi in fatto rilevanti nella fattispecie (caratteristiche dell’impianto da insediare e dell’area interessata, nonchè ragioni ostative al rilascio del nulla osta paesaggistico, alla stregua di ampie considerazioni sul pregio non solo paesaggistico, ma anche ambientale, storico e archeologico dell’area interessata)”. Detto Organo non è chiamato, dunque, a valutare ulteriori interessi d’altro genere – per il che neppure dispone delle competenze tecniche specificamente necessarie – “non rientrando nelle competenze della Soprintendenza, al di là di una attenta comparazione dell’interesse paesaggistico (rispetto agli interventi progettati), sacrificare il detto interesse per perseguire altri interessi non affidati alle sue cure (nella specie sviluppo delle fonti energetiche alternative e più in generale sviluppo economico della zona). Un tale risultato può se mai essere il frutto di procedure aperte al contributo di tutti gli organi interessati alla vicenda (in particolare attraverso le conferenze di servizi; cfr. art. 12 del D.Lgs. 29 dicembre 2003, n. 387)”. Alla stregua di siffatto orientamento esegetico – peraltro del tutto coerente con i contenuti del cit. art. 146 e, segnatamente, del relativo comma 6, e dal quale il Collegio non ravvisa motivo per discostarsi – l’appello risulta fondato e deve perciò essere accolto. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 213 3. – In conclusione, l’appello è fondato, e va perciò accolto (...). P.Q.M. Il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in sede giurisdizionale, accoglie l’appello e per l’effetto, in riforma della sentenza gravata, respinge il ricorso originario (…). Così deciso a Palermo il 21 giugno 2007 e il 6 settembre 2007 (…)». 214 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO IL CONTENZIOSO NAZIONALE 215 Nuove questioni di giurisdizione per le sanzioni nel settore del latte e dei prodotti caseari (Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 12 dicembre 2006 n. 26435) Le SS.UU. hanno escluso la giurisdizione del g.a. sul presupposto che la controversia riguarda provvedimenti sanzionatori in senso proprio che coinvolgono posizioni di diritto soggettivo e che non esprimono esercizio di potestà amministrativa degradatoria. Tale tesi non sembra condivisibile alla stregua del Decreto legge 26 aprile 2005, n. 63 (convertito) il cui art. 2-sexies (Controversie relative ai prodotti lattiero-caseari) recita: “A decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, le controversie relative all’applicazione del prelievo supplementare nel settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari sono devolute alla giurisdizione esclusiva dei giudici amministrativi competenti territorialmente”. Poiché la opposizione alla sanzione amministrativa sulla omessa trattenuta è controversia che verte sulla applicazione del prelievo supplementare (quasi sempre il produttore contesta di dovere il prelievo), ed anzi la sanzione amministrativa, ai sensi dell’art. 11 del Reg. CE n. 1392/2001 (ma si veda anche il 6° considerando del Reg. 595/2004 della Commissione), costituisce una misura necessaria di rafforzamento del versamento del prelievo, essa sembra appartenere alla giurisdizione esclusiva del g.a. Del resto, la scomposizione della posizione soggettiva operata dalle SS.UU. per discriminare la giurisdizione si mostra inutile a fronte dell’attribuzione operata dal legislatore di tutte le controversie sul prelievo, sia che involgano posizioni di interesse legittimo, sia che involgano diritti soggettivi, alla giurisdizione esclusiva del g.a. (anche tenuto conto del fatto che non si è in presenza di comportamenti della p.a., ma di esercizio di funzione amministrativa) la giurisdizione esclusiva anche sul potere sanzionatorio pare essere in linea con le sentenze della Corte Costituzionale nn. 204/2004 e 191/2006. Pertanto, appare opportuno coltivare nei giudizi in questione la eccezione di difetto di giurisdizione del g.o. e/o il regolamento preventivo di giurisdizione. Le sanzioni amministrative previste dall’art. 11, comma 2, della legge n. 468/92 colpiscono il mancato versamento del prelievo da parte dell’acquirente ed il cui obbligo è posto: – dall’art. 5, terzo comma, della legge n. 468/92 nei confronti dei produttori non associati; – dall’art. 5, ottavo comma della stessa legge per i produttori associati. L’omessa trattenuta nei confronti dei produttori associati è sanzionata dall’art. 11, secondo comma, che richiama l’obbligo di trattenuta di cui al comma 4° dell’art. 5 legge 468/92. Nel caso deciso dalle SS.UU. è stata sanzionata solo l’omessa trattenuta prima dell’omesso versamento ed in effetti non sembra che il terzo comma 216 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO dell’art. 2 del Reg. 3950/92 ponga un obbligo allorchè dispone che: “l’acquirente è autorizzato a trattenere”. Ne consegue che il richiamo delle SS.UU. alla sentenza della Corte di Giustizia 29 aprile 1999 può ritenersi corretto, anche se appare discutibile l’interpretazione offerta dalla stessa Corte di Giustizia: infatti il primo comma dell’art. 2 del Reg. CE 3950/92 sembra, al contrario, implicare un obbligo di trattenuta ( ed in tal senso si espressero Cass. sez. I n. 1236-2002 e Cass. sez. II, n. 17106/2006). Stante il valore vincolante delle sentenze della Corte di Giustizia, non si può sperare in un incidente pregiudiziale del g.o. che sollevi nuovamente alla Corte di Giustizia la stessa questione a favore dell’obbligatorietà della trattenuta. Ma la portata della sentenza delle SS.UU. non sembra applicabile alle mancate trattenute sulle consegne successive all’1 aprile 2004. Infatti, l’obbligo di trattenuta sul prezzo del latte a titolo di anticipo sul contributo del produttore al prelievo, secondo modalità determinate dallo Stato membro è stato rimesso a quest’ultimo dall’art. 11, comma terzo del Reg. CE Consiglio n. 1788/2003. Poiché il Reg. 1788 abroga il Reg. 3950/92 a decorrere dal 1 aprile 2004, si può sostenere che da tale data la sanzione amministrativa per omessa trattenuta è coperta dall’art. 5, comma 5°, del d.l. n. 49 del 2003, fin dalla sua emanazione e successive modifiche, che sanziona il mancato rispetto dell’obbligo di trattenuta previsto dal 1° comma dell’art. 5. In altri termini, a tutte le trattenute non effettuate sulle consegne dopo il 1° aprile 2004 deve essere irrogata la sanzione amministrativa. L’obbligo di trattenuta è stato ribadito dall’art. 6 del d.m. 31 luglio 2003 di attuazione della legge n. 119/2003. Il 6° considerando del Reg. 595/2004 della Commissione ha previsto che al fine di ripercuotere effettivamente il prelievo sui produttori responsabili del superamento dei q.r.n., occorre accertare il ruolo degli Stati membri per quanto attiene alle sanzioni che sono tenuti a predisporre per garantire la corretta riscossione dei contributi al pagamento del prelievo e ribadisce che sono necessarie sanzioni in caso di inosservanza del rispetto del regime da parte di tutti gli attori. Per i periodi anteriori all’1 aprile 2004 si può consigliare le Regioni di irrogare le sanzioni solo avverso il mancato versamento. Avv. Paolo Marchini (*) Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 12 dicembre 2006 n. 26435 – V.A. c/ Regione Lombardia. «(…) Svolgimento del processo. - La controversia è insorta con opposizione a sanzioni pecuniarie, che sono state irrogate il 17 marzo 2003 dalla Regione Lombardia a carico di V.A., titolare della ditta Caseificio A. V., per non aver effettuato, in relazione all’acquisto di *)Avvocato dello Stato. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 217 latte dai produttori, gli adempimenti contabili occorrenti per il riscontro dell’osservanza delle quote-latte da parte dei produttori medesimi, ed inoltre, ai sensi della legge 26 novembre 1992, n. 468, artt. 5, comma 3 e 4 ed artt. 11, comma 2, per non aver effettuato sui prezzi le trattenute dei prelievi supplementari dovuti dai venditori (in dipendenza di consegne eccedenti dette quote), ovvero acquisito altra idonea garanzia. L’opposizione è stata respinta dall’adito Tribunale di Lodi, con la sentenza dinanzi specificata. Il V., chiedendo la cassazione di tale sentenza con atto notificato il 4 novembre 2004, sostiene, anche sotto il profilo del difetto di giurisdizione del giudice ordinario per usurpazione di attribuzioni riservate ad altri giudici, che il Tribunale avrebbe dovuto riconoscere influenza alla circostanza che il provvedimento determinativo delle quote era stato sospeso dal giudice amministrativo, ed inoltre avrebbe dovuto rilevare il contrasto di detto art. 5 con l’art. 2, n. 2 del regolamento del Consiglio CE n. 3950 del 1992, evidenziato dalla sentenza resa dalla Corte di giustizia il 29 aprile 1999 in causa 288/97 tra il Consorzio dei caseifici dell’altopiano di Asiago e la Regione Veneto. La Regione Lombardia ha replicato con controricorso, poi illustrandolo con memoria. Motivi della decisione – La devoluzione al giudice ordinario della domanda del V. discende dai comuni canoni sul riparto della giurisdizione, in quanto la causa riguarda provvedimenti sanzionatori in senso proprio, che coinvolgono posizioni di diritto soggettivo e che non esprimono esercizio di potestà amministrativa idonea ad affievolire o degradare tali posizioni (a differenza dei provvedimenti inerenti alla determinazione delle quote-latte e dei prelievi supplementari per consegne eccedenti le quote stesse). Le questioni sollevate con il ricorso, al di là delle formali enunciazioni, non attengono alla giurisdizione, esaurendosi nella denuncia di violazioni di legge in cui sarebbe incorso il giudice ordinario nell’esercizio delle proprie attribuzioni. Esaminandosi le censure del ricorrente sotto tale diverso profilo, si ritiene fondata la deduzione, di carattere prioritario ed assorbente, sul contrasto fra le citate norme nazionali e comunitarie. La Corte di giustizia, con la sentenza dinanzi menzionata, ha affermato che l’art. 2, n. 2 del regolamento del Consiglio CE n. 3950 del 1992 deve essere interpretato nel senso che, pur avendo gli acquirenti la facoltà di trattenere il prelievo supplementare sul prezzo del latte e dei prodotti lattiero caseari, tuttavia tale disposizione, prevedendo una facoltà, non impone alcun obbligo agli acquirenti. La legge n. 468 del 1992, artt. 5 ed 11 ove traducono detta facoltà in un obbligo e ne sanzionano l’inosservanza con l’applicazione di pena pecuniaria, non sono compatibili con la norma comunitaria, nell’interpretazione vincolante resa dalla Corte di giustizia, e vanno pertanto disapplicati. Il principio, con il quale si dissente dall’orientamento espresso da Cass. sez. 1° n. 1236 del 30 gennaio 2002 (richiamato dalla sentenza impugnata e sostanzialmente condiviso da Cass. sez. 2° n. 17106 del 27 luglio 2006), discende dall’inequivoca contrapposizione, letterale, logica e funzionale, delle nozioni di facoltà di trattenuta sul prezzo dell’acquisto del latte e di obbligo della trattenuta stessa. Con la facoltà, si accorda all’acquirente, ove lo ritenga opportuno nel complessivo assetto dei rapporti contrattuali con il produttore, la possibilità di avvalersi di uno strumento di protezione dei propri interessi, in relazione al dovere di versare il prelievo supplementare che risulti dovuto dal produttore medesimo; con l’obbligo, si interviene autoritativamente su quei rapporti, a tutela in via esclusiva o comunque preminente del creditore. La chiara scelta della norma comunitaria, come interpretata dalla Corte di giustizia, non è superabile con il mero rilievo che l’obbligo della trattenuta vale ad assicurare e rendere certo il raggiungimento delle finalità perseguite dal regolamento n. 3950 del 1992; l’eventuale opportunità di quell’obbligo, rispetto a dette finalità, non può in sé autorizzare una diversa lettura della norma medesima. L’evidenziata incompatibilità non viene meno per il fatto che l’ordinamento interno consenta all’acquirente, in alternativa alla trattenuta, di convenire con il fornitore la costituzione di equipollenti forme di garanzia del creditore (D.M. 25 ottobre 1995, art. 1); l’introduzione di una modalità alternativa di adempimento non tocca la sussistenza dell’obbligazione, e, quindi, non evita la perdita della facoltatività della trattenuta, voluta dalla norma comunitaria come libera opzione dell’acquirente stesso. Per l’applicazione al caso concreto del principio dinanzi enunciato, si ravvisa l’esigenza di disporre, con l’accoglimento del ricorso nei sensi di cui in motivazione e con la cassazione della sentenza impugnata, la prosecuzione della causa in sede di rinvio, davanti allo stesso Tribunale di Lodi, in diversa composizione. Al Giudice di rinvio si affida anche la pronuncia sulle spese di questa fase processuale. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata, e rinvia la causa al Tribunale di Lodi, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione, il 16 novembre 2006 (…)». 218 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO IL CONTENZIOSO NAZIONALE 219 Ancora in tema di inammissibilità del ricorso per cassazione (Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 31 ottobre 2007 n. 23019) Una “pericolosa” sentenza delle Sezioni Unite afferma che è inammissibile il ricorso per cassazione nei cui motivi (non basta che ciò avvenga nella narrativa) non siano indicati specificamente i documenti e atti sui quali il ricorso si fonda. Non si capisce se si pretenda in coda al ricorso un’elencazione di tali atti e documenti; ma non sembrerebbe, perchè la sentenza collega l’indicazione specifica degli atti e dei documenti al motivo: questa indicazione specifica servirebbe infatti a rendere certi i confini del motivo e a garantire meglio il contraddittorio. Piuttosto, sembra ulteriormente “pericoloso” il passaggio in cui si dice che il giudice di legittimità non deve esorbitare dall’ambito dei quesiti, non dei motivi: che adesso l’oggetto della decisione sia diventato non il motivo ma il quesito? G.F. Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite civili, sentenza 31 ottobre 2007 n. 23019 – Primo Pres. f.f R.Corona – Pres. di Sez. S. Senese – Rel. U. Vitrone – P.M. ed altri (Avv.ti L. Manzi e I. Cacciavillani) c/ Comune di Udine ed altri. «(Omissis) Motivi della decisione. Va disposta preliminarmente la riunione dei ricorsi proposti contro la medesima sentenza. Il Comune di Udine ripropone con ricorso incidentale la questione della giurisdizione del giudice amministrativo ai sensi degli artt. 60 e 61 della legge 25 maggio 1865, n. 2359, e ciò ha comportato l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite. A sostegno della sua impugnazione deduce che nella specie è incontestata l’assenza di ogni contrasto tra le opere rientranti nello strumento attuativo e le previsioni del Piano Regolatore Generale del Comune. Va considerato al riguardo che il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito che investa questioni pregiudiziali processuali o preliminari di merito ha natura di ricorso condizionato, indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte, ma dev’essere esaminato con priorità solo se le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito rilevabili d’ufficio non siano state esaminate nel giudizio di merito poiché quando – come nella specie – le questioni siano state affrontate e decise dal giudice di merito esse cessano di essere rilevabili d’ufficio; ne consegue che il loro esame postula la proposizione di un’impugnazione che è ammissibile in presenza di un interesse della parte, interesse che sorge solo nell’ipotesi della fondatezza del ricorso principale; in caso contrario, infatti, il ricorrente incidentale manca di interesse alla pronuncia sulla propria impugnazione poiché il suo eventuale accoglimento non potrebbe procurargli un risultato più favorevole di quello derivante dal rigetto del ricorso principale (Cass. 6 agosto 2004, n. 15161; 26 gennaio 2006, n. 1690) e, anzi, comporterebbe il rischio del riesame della pronuncia favorevole ad opera del giudice amministrativo con esito incerto per il ricorrente. 220 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Passando all’esame del ricorso principale vanno prese in considerazione le eccezioni preliminari proposte da taluni controricorrenti. Le società A. e V. hanno sollevato una pluralità di eccezioni con le quali sostengono, rispettivamente, che C. M., pur essendo indicato tra i ricorrenti nell’epigrafe del ricorso, non ha conferito la procura ai difensori; che il P. M. si era già trasformato all’atto della proposizione del ricorso da società in accomandita semplice in società a responsabilità limitata e che il suo rappresentante legale non era G. M. bensì D. M.; che G. M. non ha proposto ricorso in proprio; che gli eredi M. non hanno dichiarato di agire nella predetta qualità. La mancata proposizione del ricorso da parte di C. M. per mancata sottoscrizione della procura e di G. M. per mancata indicazione del suo nome tra quelli dei ricorrenti menzionati nell’intestazione del ricorso è rimasta sanata per effetto dell’intervento da essi spiegato che ha reso superflua l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 331 cod. proc. civ., come sostengono gli interventori, o, più esattamente, la notificazione del ricorso ai sensi dell’art. 332 cod. proc. civ. per ordine del giudice nei confronti dei soggetti che non hanno proposto l’impugnazione nelle cause con pluralità di parti. Diversa è la posizione del P. M. poiché, premesso che la trasformazione di una società in un altro dei tipi previsti dalla legge non si traduce nell’estinzione di un soggetto e nella correlativa creazione di un diverso soggetto ma configura una vicenda meramente evolutivo- modificativa dello stesso soggetto (Cass. 13 agosto 2004, n. 15737), va considerato che la società ha proposto ricorso in persona diversa dal suo legale rappresentante all’epoca e, quindi, in difetto di capacità processuale ai sensi dall’art. 75 cod. proc. civ.: ne deriva che l’intervento in causa della società nella sua corretta veste di società a responsabilità limitata in persona del suo legale rappresentante non può valere a sanare il vizio originario del ricorso essendosi ormai consumato il diritto di impugnazione al quale si sarebbe potuto rimediare solo con la proposizione di un nuovo ricorso nei termini di legge ai sensi dell’art. 387 cod. proc. civ. (Cass. 19 gennaio 1985, n. 177). Irrilevante, infine, deve ritenersi la mancata specifica indicazione da parte dei ricorrenti persone fisiche della loro qualità di eredi di taluni degli eredi di N. R. M. in quanto tale qualità risultava già acquisita al processo di appello senza alcuna contestazione di controparte al riguardo. La società A. S. s.r.l. eccepisce, a sua volta, l’improcedibilità del ricorso a causa della mancata elencazione degli atti e documenti sui quali esso si fonda e di cui i ricorrenti intendono avvalersi; contesta, inoltre, il mancato esame da parte del giudice di appello delle eccezioni da essa formulate. Va precisato con riferimento alla prima eccezione che l’art. 5 del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, – che è applicabile ratione temporís al ricorso in esame – nel modificare il testo dell’art. 366 cod. proc. civ., ha stabilito che il ricorso per cassazione deve contenere a pena di inammissibilità la “specifica” indicazione degli atti processuali e dei documenti sui quali esso si fonda; ove tale prescrizione venga osservata è poi sanzionato con l’improcedibilità dal testo novellato dell’art. 369, n. 4, cod. proc. civ. il mancato deposito, insieme con il ricorso, degli atti e dei documenti anzidetti. La nuova disciplina del ricorso per cassazione è improntata a maggior rigore al fine di garantire la precisa individuazione dell’ambito della controversia devoluta al giudizio del giudice di legittimità con la imposizione, a pena di inammissibilità, sia della formulazione dei quesiti di diritto nei casi previsti dall’art. 360, nn. 1, 2, 3 e 4, e della chiara indicazione dei fatti controversi nel caso previsto dal n. 5 (art. 366 bis), sia della specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda (art. 369, n. 4). Mentre in precedenza era sufficiente a garantire l’autosufficienza del ricorso per cassazione che dal testo del ricorso si evincessero con sufficiente chiarezza le questioni sottoposte al giudice di legittimità in relazione agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte dei gradi di merito il cui mancato deposito non comportava peraltro, secondo l’interpretazione della giurisprudenza, la sanzione dell’improcedibilità nei casi in cui si fosse ritenuto non necessario ai fini del decidere l’esame degli atti e documenti ivi contenuti – e a quelli ulteriori, depositati nei limiti consentiti dall’art. 372, ora viene richiesta la “specifica” indicazione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso al fine di realizzare l’assoluta precisa delimitazione del thema decidendum, attraverso la preclusione per il giudice di legittimità di esorbitare dall’ambito dei quesiti che gli vengono sottoposti e di porre a fondamento della sua decisione risultanze diverse da quelle emergenti dagli atti e dai documenti specificamente indicati dal ricorrente. Il senso della riforma si completa con la disposizione introdotta nell’art. 384, co. 3, la quale prescrive che se la Corte ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio deve riservare la decisione e assegnare alle parti e al pubblico ministero un termine per il deposito di osservazioni sulla questione. Il processo di cassazione deve cioè garantire il pieno contraddittorio tra le parti nell’ambito dei quesiti formulati dal ricorrente e sulla base di atti e documenti specificamente indicati, con la conseguente esclusione di ogni discrezionalità del giudice di legittimità nella formazione del percorso logico posto a fondamento della sua decisione. Deve perciò ritenersi che alla mancanza di una indicazione specifica degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso non può sopperirsi con la menzione diretta o indiretta di essi nella narrativa che precede la formulazione dei motivi di ricorso poiché non può giustificarsi una interpretazione sostanzialmente abrogante della normativa introdotta con le precise finalità innanzi illustrate nella disciplina del ricorso per cassazione. In conclusione, il ricorso dev’essere dichiarato inammissibile nei confronti del P. M. per difetto di capacità processuale e nei confronti degli altri ricorrenti per mancata specifica indicazione dei documenti sui quali il ricorso si fonda, con la conseguente preclusione dell’esposizione e dell’esame delle ulteriori eccezioni e dei motivi del ricorso principale; l’inammissibilità del ricorso principale comporta, ai sensi dell’art. 334 cpv. cod. proc. civ., l’inefficacia del ricorso incidentale condizionato tardivo. Le spese giudiziali, in relazione alla novità delle questioni nascenti dalla riforma del processo di cassazione, restano interamente compensate tra le parti. P.Q.M. La Corte, pronunciando a sezioni unite, riunisce i ricorsi, dichiara inammissibile il ricorso principale, inefficace il ricorso incidentale e dispone la compensazione totale delle spese giudiziali. Così deciso in Roma, il 16 ottobre 2007 (…)». IL CONTENZIOSO NAZIONALE 221 222 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La prova della ricezione della notifica della sentenza ai fini della tempestività del ricorso per Cassazione (Corte di Cassazione, sezione tributaria, ordinanza 22 novembre-10 dicembre 2007 n. 25753) La Sezione Tributaria della Cassazione offre, con l’ordinanza riportata, una innovativa ma problematica pronuncia in tema di notifiche processuali e decorso del termine per l’impugnazione nel giudizio tributario. La decisione in commento trae origine da una controversia, intercorrente tra l’Agenzia delle Entrate ed una S.R.L., avente ad oggetto l’impugnazione di un avviso di rettifica IVA. La contribuente, presentando tempestivo ricorso, lamentava l’inapplicabilità dell’accertamento parametrico operato dall’Ufficio in considerazione del fatto che la contabilità ordinaria tenuta non poteva essere considerata inattendibile. Il ricorso veniva accolto dai giudici di prime cure ed anche la C.T.R. si esprimeva nello stesso senso. I giudici del gravame, in particolare, chiarivano che gli elementi offerti dall’Ufficio erano privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza che avrebbero autorizzato l’Amministrazione finanziaria a procedere all’accertamento parametrico. La contribuente notificava la sentenza d’appello all’Agenzia delle Entrate al fine di far decorrere il termine breve per la proposizione dell’impugnazione ai sensi dell’art. 326 c.p.c. In data 19 luglio 2005 la società notificante, infatti, consegnava l’atto all’Ufficiale giudiziario, il quale procedeva alla notificazione avvalendosi del servizio di spedizione postale ai sensi dell’art. 149 c.p.c. L’Agenzia delle Entrate presentava ricorso per cassazione in data 4 novembre 2005 asserendo, in premessa, di aver ricevuto la notifica della sentenza impugnata in data 20 luglio 2005 e articolando tre motivi di impugnazione, alla luce dei quali il P.G. della Suprema Corte chiedeva l’accoglimento del ricorso per manifesta fondatezza ai sensi dell’art. 375 c.p.c. Nel giudizio di Cassazione la società non presentava controricorso né partecipava alla discussione orale. L’assenza della contribuente, pertanto, comportava la mancata acquisizione agli atti di causa dell’avviso di ricevimento attestante la data di effettiva notifica della sentenza all’Ufficio fiscale. La Sezione Tributaria della Suprema Corte, prescindendo dall’esame del merito delle motivazioni addotte dall’Ufficio, ha dichiarato inammissibile il ricorso per la intempestività della sua notificazione. La circostanza che sia stata la medesima ricorrente ad indicare al 20 luglio 2005 la data di effettiva ricezione del plico postale – data che, è appena il caso di ricordare, rende inevitabilmente tardiva la presentazione del ricorso – è stata lasciata in secondo piano nella motivazione dell’ordinanza in commento. Il Giudice adito, tralasciando le particolarità del caso concreto, ha colto l’occasione per offrire un indirizzo generale in tema di decorso dei termini di impugnazione per il destinatario della notifica. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 223 La Cassazione ha ritenuto che, in assenza dell’avviso di ricevimento, il plico postale contenente la sentenza oggetto di notifica è da considerare ricevuto da parte del destinatario al momento dell’arrivo in posta dello stesso. Secondo il giudice di legittimità, pertanto, al fine di individuare il giorno dal quale far partire il computo del termine per l’impugnazione della sentenza, è necessario guardare alla data indicata dal timbro dell’Ufficio postale di arrivo (nel caso di specie il 20 luglio 2005). Al contrario la data di ricevimento del piego postale non può essere desunta dal timbro-datario apposto sul frontespizio della sentenza da parte dell’Ufficio delle Entrate, che, nel caso in esame, è diversa dalla data di arrivo in posta del plico (il timbro di protocollo riporta la data del 22 luglio 2005 da cui sarebbe derivata la tempestività del ricorso presentato dall’Ufficio). La soluzione proposta dalla Suprema Corte si basa sulla fondamentale premessa secondo cui la prova dell’effettiva consegna dell’atto al destinatario deve essere necessariamente desunta da elementi oggettivi e la protocollazione della sentenza da parte dell’Amministrazione finanziaria non può avere carattere oggettivo dato che l’Amministrazione è parte processuale. La Cassazione chiarisce, inoltre, che la qualità di parte processuale esclude, altresì, che per il timbro di protocollo apposto dall’Ufficio possa valere quanto affermato dalle Sezioni Unite in tema di notifica di ricorso per cassazione (1), secondo cui la prova della tempestiva consegna all’Ufficiale giudiziario dell’atto da notificare può essere fornita anche dal timbro-datario che lo stesso appone sull’atto. Infatti, la protocollazione dell’Ufficio fiscale – parte processuale, pur compiuta da pubblici funzionari, non può avere i caratteri di terzietà e neutralità che sono, invece, propri dell’attività svolta dall’Ufficiale giudiziario. A parere della Cassazione, pertanto, l’attività di registrazione della sentenza da parte dell’Amministrazione finanziaria ha un valore meramente interno e risponde ad esigenze organizzative dell’Amministrazione stessa che sono prive di rilevanza all’esterno. L’indirizzo proposto dalla Suprema Corte per i casi di mancanza dell’avviso di ricevimento sembra sottintendere la finalità di evitare che le eventuali lentezze burocratiche dell’Amministrazione possano avere effetti negativi sul regolare decorso del termine di impugnazione ovvero di impedire all’Amministrazione finanziaria di allungare arbitrariamente il tempo di impugnazione a disposizione attraverso una tardiva protocollazione della sentenza notificata. Nonostante le condivisibili preoccupazioni sottese alla pronuncia, l’orientamento espresso dalla Sezione Tributaria suscita non poche perplessità. Partendo dal presupposto che “la prova della consegna tempestiva di un atto non può essere desunta che da elementi oggettivi”, la Corte ritiene che, nel caso di specie, l’elemento oggettivo sia rappresentato dal timbro apposto dall’Ufficio postale di arrivo. In realtà questa attestazione assicura solamen- (1) Cfr. Cass., S.U., n. 14294/2007. 224 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO te che il piego sia arrivato all’Ufficio postale di destinazione ma nulla dimostra circa il momento dell’effettiva notificazione al destinatario. Seguendo l’indirizzo delineato nell’ordinanza si finirebbe per addossare al destinatario della notificazione i rischi connessi ad eventuali ritardi da parte del servizio postale comportando così una ingiustificata riduzione dei termini di impugnazione. A ben vedere, peraltro, l’ordinanza in commento non sembra neppure pienamente in linea con la richiamata pronuncia delle Sezioni Unite secondo cui “in mancanza di una disciplina la quale richieda un determinato tipo di prova legale in ordine alla tempestività della consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario, tale tempestività va valutata sulla base di elementi i quali offrano sufficienti garanzie di certezza”. L’affermazione riportata, seppure resa in tema di perfezionamento della notificazione per il notificante, esprime un principio validamente applicabile anche al caso in esame e sembra, così, doversi escludere che il timbro dell’Ufficio postale di arrivo offra “sufficienti garanzie di certezza” circa il momento dell’effettiva notificazione dell’atto al destinatario. La soluzione proposta nell’ordinanza sembra discostarsi anche da quell’orientamento, risalente alla fine degli anni novanta, secondo cui, in caso di mancata produzione dell’avviso di ricevimento, la notificazione della sentenza è inidonea a segnare il decorso del termine breve di impugnazione; ciò in quanto l’avviso di ricevimento rappresenta l’unico documento idoneo a provare sia l’effettiva consegna sia la precisa data di consegna e la mancata allegazione di esso comporta l’inesistenza della notificazione (2). L’orientamento richiamato, pur affermato in ipotesi in cui nonostante la costituzione di entrambe parti manca l’allegazione agli atti di causa dell’avviso di ricevimento, sembra applicabile anche al caso in esame. La contribuente, dopo aver proceduto alla notifica della sentenza d’appello, ben avrebbe potuto depositare ai sensi dell’art. 372 c.p.c., comma 2, l’avviso di ricevimento. Quest’ultimo, infatti, riguardando la notifica della sentenza e di conseguenza la decorrenza del termine breve per l’impugnazione, rientra pacificamente tra i documenti in grado di incidere sull’ammissibilità del ricorso. La produzione dell’avviso di ricevimento, pertanto, è certamente ammessa nel corso del giudizio di Cassazione anche a prescindere dalla presentazione del ricorso o del controricorso (3). (2) Cfr. Cass., nn. 1487/1990, 338/1995, 4547/87, 2572/1995. (3) Cfr. Cass., n. 2452/2007, nella quale si chiarisce, inoltre, che “in ordine alla tempestività di tale produzione, giova rilevare che l’art. 372 c.p.c. citato, comma 2 prevede che il deposito della documentazione relativa all’ammissibilità del ricorso possa avvenire indipendentemente dal deposito del ricorso e del controricorso, e perciò anche successivamente ad essi. È vero che in tal caso la norma citata prevede che la documentazione così prodotta venga notificata mediante elenco alle controparti, ma trattasi evidentemente di previsione intesa a garantire il contraddittorio sulla produzione di parte e perciò da ritenersi IL CONTENZIOSO NAZIONALE 225 L’impostazione proposta consente di eliminare le incertezze connesse al fatto di legare il decorso dei termini di impugnazione alla data indicata dal timbro dell’Ufficio postale, addossando un onere di minimo impegno alla parte che voglia far valere la tardiva costituzione avversaria. La contribuente, nel caso in analisi, se avesse voluto contestare la tempestiva presentazione del ricorso da parte dell’Agenzia avrebbe potuto, ad esempio, limitarsi a partecipare alla fase orale del giudizio producendo in udienza l’avviso di ricevimento attestante la data di effettiva notificazione al destinatario (simile svolgimento della vicenda processuale è riportato in Cass., sez. Trib., n. 2452/07 (4)). Tuttavia in assenza dell’avviso di ricevimento ed in mancanza di alcuna contestazione ad opera della parte controinteressata, sarebbe stato più corretto, a parere dello scrivente, ritenere la notificazione della sentenza non idonea a far decorrere il termine breve e considerare ammissibile il ricorso dell’Ufficio in quanto presentato entro il termine annuale previsto dall’art. 327 c.p.c. Oltre all’impostazione proposta sembra configurabile una ulteriore soluzione per la fattispecie in esame che offre analoghe garanzie circa il rispetto delle esigenze di certezza connesse al ricevimento dell’atto da parte del destinatario. Piuttosto che far decorrere il termine di impugnazione dalla data indicata con il timbro postale – circostanza che, come detto, non fornisce alcuna garanzia circa la data di effettiva ricezione dell’atto da parte del destinatario – sarebbe più opportuno ritenere valida la data indicata dal timbro di protocollo dell’Ufficio fiscale in tutti i casi in cui questa attestazione non risulti contestata dalla controparte. Anche in questo modo si assicurerebbe la piena certezza circa l’effettiva ricezione dell’atto da parte del destinatario lasciando alla parte controinteressata – indipendentemente dalla presentazione del controricorso e dalla partecipazione alla discussione orale – la possibilità di contestare facilmente, attraverso la produzione dell’avviso di ricevimento e la notifica dello stesso alla controparte, la veridicità della data indicata dall’Amministrazione finanziaria. Le impostazioni delineate poste a confronto con la soluzione offerta dalla Sezione Tributaria sembrano, peraltro, maggiormente rispettose del principio consolidato ma ribadito dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 477/2002 secondo cui il perfezionamento della notificazione per il destinatario si ha “solo alla data di ricezione dell’atto, attestata dall’avviso di ricevimento, con la conseguente decorrenza da quella stessa data di qualsiasi termine imposto al destinatario medesimo” (5). osservata ogni volta che sul punto il contraddittorio risulti essere stato comunque garantito, come ritenuto da questo giudice di legittimità che ha più volte avuto modo di affermare che nel giudizio davanti alla Corte di Cassazione la mancata notificazione del deposito di un documento relativo all’ammissibilità del ricorso, effettuato ai sensi dell’art. 372 c.p.c., comma 2, successivamente al deposito di tale atto, non preclude l’utilizzabilità del medesimo, se il contraddittorio al riguardo è assicurato dall’intervento all’udienza di discussione del difensore della controparte”. (4) V. nota precedente. (5) Cfr. Corte Cost., n. 477/2002. 226 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La soluzione adottata nell’ordinanza assicura, al contrario, una tutela eccessiva in favore del soggetto che dopo aver effettuato la notificazione della sentenza si disinteressa degli ulteriori sviluppi processuali restando completamente inerte, e sfavorisce indubbiamente il destinatario della notifica che vede iniziare il decorso del termine breve di impugnazione in un momento che potrebbe essere anteriore alla ricezione della sentenza. Dott. David Astorre (*) Corte di Cassazione, sezione tributaria, ordinanza 22 novembre – 10 dicembre 2007, n. 25753 – Pres. Paolini – Rel. Genovese – Agenzia delle Entrate. « (...) Rilevato che la cessata S.r.l. S. esercente il commercio delle carni, dopo aver proposto istanza di accertamento con adesione e non aver ricevuto alcuna convocazione, ha impugnato l’avviso di rettifica dell’Iva dichiarata nel corso dell’anno 1996, redatto anche in riferimento ad un accertamento parametrico ex art. 3, co. 181, legge n. 549 del 1995 e D.P.C.M. 29 gennaio 1996; che, secondo la società, l’accertamento parametrico era inapplicabile in quanto non si sarebbe verificata la condizione di inattendibilità della contabilità ordinaria, come indicata dall’Ufficio, perché la norma in esame riguarderebbe solo la mancata indicazione dei criteri per la rilevazione delle rimanenze, criteri regolarmente indicati nella nota integrativa del bilancio; che, in ogni caso, erano state allegate le distinte inventariali, rispettose dei criteri di cui all’art. 15 d.P.R. n. 600 del 1973, mentre non v’era obbligo di tenere/allegare le scritture di magazzino, per non essere stati superati i limiti di valore delle rimanenze; che, invece, secondo la prospettazione dell’Agenzia la mancata consegna, in uno con il libro degli inventari, delle distinte inventariali richieste dall’art. 15, comma 2, d.P.R. n. 600 del 1973 (che ne imporrebbe la messa a disposizione, in alternativa all’indicazione diretta nello stesso inventario, per categorie omogenee di beni), avrebbe reso i criteri di valutazione, ex d.P.R. n. 570 del 1996, incontrollabili e indimostrabili; che la C.T.P. ha accolto il ricorso, per indebita applicazione dei parametri, ritenendo sufficiente la sola indicazione dei criteri di valutazione seguiti; che l’appello dell’Ufficio, secondo cui vi erano forti segnali di inverosimiglianza nella contabilità aziendale, è stato respinto dalla C.T.R.; che la C.T.R. riteneva necessari all’accertamento parametrico, e mancanti nel caso di specie, i requisiti di gravità, precisione e concordanza degli elementi offerti dall’Ufficio; che avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate, affidato a tre motivi; che, con il primo motivo di ricorso (con il quale lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 3, comma 184, 1. n. 549 del 1995 e 39 d.P.R. n. 600 del 1973), la ricorrente deduce che la C.T.R. avrebbe erroneamente interpretato, ultra petita, la questione della (*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. assenza di gravità, precisione e concordanza degli elementi posti a base dell’accertamento parametrico e della sua mancata convocazione in sede procedimentale (di accertamento); che, essa, inoltre, lamenta la mancata pronuncia, da parte della C.T.P. e della C.T.R., in ordine alla mancata esibizione della contribuente, in risposta al questionario, delle distinte inventariali; che, con il secondo motivo, con il quale lamenta la violazione dell’art. 3, commi 125 e 184, legge n. 549 del 1995 e 1 d.P.R. n. 570 del 1996, 15 e 39 d.P.R. n. 600 del 1973 e vizi motivazionali, la ricorrente deduce che la C.T.R. – dando atto della produzione in appello della documentazione contabile – avrebbe affermato la regolarità del libro degli inventari e della relativa nota integrativa, ma senza pronunciarsi sulla documentazione relativa alle rimanenze; che, infatti, è proprio il controllo circa l’attendibilità dei criteri di valutazione delle rimanenze che presuppone la possibilità di controllare la tipologia delle medesime, quali emergono o dalla redazione del bilancio o dalle distinte inventariali, ai sensi dell’art. 15 d.P.R. n. 600 del 1973; che, in ogni caso, la tardiva produzione in giudizio delle distinte, renderebbe pienamente valido il ricorso all’accertamento parametrico; che, con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2697 c.c., per la rilevata discrepanza tra ricavi accertati e dichiarati a cui non si sarebbe dato un seguito nel corso del giudizio; che il P.G. ha chiesto l’accoglimento del ricorso per manifesta fondatezza ex art. 375 cod. proc. civile. Considerato che tale conclusione non può essere seguita; che, preliminarmente, infatti, deve affermarsi la intempestività del ricorso per cassazione proposto dall’Agenzia delle Entrate; che, devesi premettere, la ricorrente ha affermato, nel preambolo al ricorso, che la sentenza di appello, in questa sede impugnata, era stata notificata all’Ufficio delle Entrate di S. il 20 luglio 2005 (rispetto alla quale data il ricorso risulterebbe inesorabilmente intempestivo, essendo stato notificato, a sua volta il giorno 4 novembre 2005, come da timbro cronologico dell’Ufficiale giudiziario), mentre dalla consultazione del fascicolo processuale, ai cui documenti la Corte può accedere, data la natura del vizio rilevato, che sul frontespizio della sentenza risulta un timbro, apposto dallo stesso Ufficio delle Entrate di S., recante la data del 22 luglio 2005 e il numero di protocollo (11811); che la notificazione della sentenza di appello al detto Ufficio Fiscale è stata eseguita, a mezzo spedizione postale, dall’Ufficiale giudiziario, il 19 luglio 2005; che, tuttavia, ai fini della tempestività dell’impugnazione, rileva la data il cui destinatario ha ricevuto il piego postale; che tale data, non può essere ricavata dal timbro e dal numero di protocollo apposto sulla sentenza dell’Ufficio Fiscale (che risulta essere quella del 22 luglio, rispetto alla quale il ricorso per cassazione tempestivo); che essa, in mancanza di altri elementi, deve essere desunta dalla busta di spedizione (n. 13306 di cronologico, spedita il 19 luglio 2005) ove, sul retro, è apposta la data del 20 luglio 2005, di arrivo del plico a S.; che tale data (rispetto alla quale, come si è affermato in precedenza, il ricorso per cassazione risulta inesorabilmente intempestivo essendo stato notificato, a sua volta, solo il giorno 4 novembre 2005, come da timbro cronologico dell’Ufficiale giudiziario) trova conferma nello stesso preambolo del ricorso per cassazione a firma dell’Avvocatura generale dello Stato; IL CONTENZIOSO NAZIONALE 227 che la prova della consegna tempestiva di un atto non può essere desunta che da elementi oggettivi, non da attestazioni della parte, quale indubbiamente è, nell’ambito del processo tributario, l’Ufficio fiscale; che la protocollazione della sentenza da parte dell’Ufficio, infatti, ha valore interno all’Amministrazione o, più in generale, all’organizzazione interna dell’ente impositore, senza rivestire alcun valore ai fini dell’attività, terza e neutrale, propria dell’Ufficiale giudiziario; che, a tale ambito, infatti non si applica il principio affermato dalla Corte di cassazione a Sezioni unite (sentenza n. 14294 del 2007) secondo cui essa «può essere ricavata dal timbro apposto su tale atto recante il numero cronologico e la data» [e che «solo in caso di contestazione della conformità al vero di quanto da esso indirettamente risulta, l’interessato dovrà farsi carico di esibire idonea certificazione (nella specie: quella dell’ufficiale giudiziario), la quale, essendo diretta a provare l’ammissibilità del ricorso, potrà essere esibita secondo le previsioni dell’art. 372 c.p.c.»]; che, pur trattandosi di un atto ricevuto da un Ufficio pubblico, retto da pubblici funzionari, tale principio elaborato con riguardo agli Uffici Pubblici di Notificazione degli Atti processuali – non è ad esso applicabile, atteso che attesta il compimento di una attività interna all’ente destinatario dell’atto processuale, che corrisponde ad altre finalità, quali sono quelle organizzative non rilevanti all’esterno, proprie della formazione di una documentazione ad uso dell’Amministrazione (o dell’Ente impositore) e delle sue tempistiche; che, pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, perché tardivamente proposto (oltre il termine breve di sessanta giorni di cui all’art. 325, comma secondo, c.p.c); che non occorre provvedere sulle spese di questa fase, non avendo l’intimato svolto alcuna difesa in questa fase del giudizio. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso». 228 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO IL CONTENZIOSO NAZIONALE 229 Il “difetto di giurisdizione temporaneo” nella procedura di liquidazione coatta amministrativa (Tribunale civile di Roma, sezione lavoro – primo grado, sentenza 12 aprile 2005 – 15 novembre 2006 n. 10287) Con la pronuncia in rassegna il Tribunale Civile di Roma pone luce sulla questione legata alla proponibilità della domanda giudiziale per la condanna al pagamento di soggetto debitore sottoposto a procedura concorsuale, nella specie a liquidazione coatta amministrativa. Richiamandosi alla giurisprudenza di legittimità, che già in precedenza aveva affrontato il tema in questione, la sentenza chiarisce il concetto di difetto temporaneo di giurisdizione. Le più recenti posizioni della Cassazione (1) forniscono in proposito validi spunti interpretativi, ribadendo che il creditore non può agire giudizialmente prima della definizione della fase amministrativa di formazione e verifica del passivo davanti agli organi della procedura, dovendo in quella sede azionare il proprio credito, tutelabile in giudizio solo in via di opposizione allo stato passivo. L’art. 201, comma 1 R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare) estende alla liquidazione coatta amministrativa l’applicazione delle norme sugli effetti del fallimento per i creditori e per i rapporti giuridici preesistenti (titolo II, capo III, sezione II e III, LF), nonché quelle in materia di revocatoria fallimentare. Al secondo comma altresì dispone che si intendono sostituiti nei poteri del tribunale e del giudice delegato l’autorità amministrativa che vigila sulla liquidazione, nei poteri del curatore il commissario liquidatore e in quelli del comitato dei creditori il comitato di sorveglianza. È fatto pertanto richiamo al disposto dell’art. 52, comma 2 della legge fallimentare, che, nell’attuale formulazione, riproponendo il testo ante riforma, statuisce che ogni credito, anche se munito di prelazione, deve seguire la disciplina sull’accertamento del passivo (capo V), salva diversa disposizione di legge. Lo scopo di tale disciplina è stato individuato nell’esigenza di concentrare davanti all’organo identificato attraverso il procedimento tutte le azioni dirette a far valere diritti di credito sul patrimonio del “fallito”, imponendo così un contraddittorio tra i creditori a garanzia di una concorsualità anche in fase di cognizione. In giurisprudenza, peraltro estendendo questa disciplina anche ai crediti prededucibili, si è consolidato l’orientamento per il quale tutti i crediti, che devono essere soddisfatti sul patrimonio dell’imprenditore insolvente, vanno fatti valere e vanno accertati secondo le norme che ne disciplinano il concorso (2). Ne consegue che il creditore di (1) Cass., sent. 15 maggio 2001, n. 6659. (2) Cass. , 6 agosto 1998, n. 7704; 29 marzo 1996, n. 2912; 9 marzo 1996, n. 1893; 24 gennaio 1996, n. 532; 23 novembre 1994, n. 9888; 16 dicembre 1993, n. 12431; 16 febbraio 1993 n. 1923; 18 aprile 1988, n. 3034. 230 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO un’impresa soggetta a liquidazione coatta amministrativa, non può agire in giudizio prima della definizione della procedura amministrativa. Negli orientamenti più recenti si suole distinguere le ipotesi in cui la domanda formulata in sede di cognizione ordinaria sia proposta prima dell’inizio ovvero contestualmente alla procedura concorsuale. Nel primo caso la domanda sarà improcedibile, mentre nel secondo caso sarà temporaneamente improponibile. Attesa dunque l’inderogabilità della par condicio creditorum, l’improcedibilità deve essere rilevata d’ufficio in ogni stato e grado del processo, quindi anche nel giudizio di Cassazione. In presenza di procedure concorsuali infatti il citato principio della par condicio si atteggia in maniera alquanto peculiare. Come è noto, se nell’atto dell’adempimento ciò che maggiormente rileva è il comportamento del debitore, di fronte all’inadempimento è l’attività del creditore ad essere maggiormente considerata. L’art. 2741 c.c. pone una tutela in favore dei creditori, precisando come ciascuno di essi abbia diritto di soddisfarsi in egual misura sul patrimonio. Tale garanzia è suggellata dalla diligenza con cui gli stessi creditori provvedano ad azionare la tutela nei propri confronti. Non è un caso infatti se gli artt. 2913 e ss. c.c. nel disciplinare gli effetti del pignoramento dispongano come l’azione esecutiva, utilmente esperita da un creditore, giovi anche agli altri creditori, purché intervenuti nella procedura. In altre parole, solo la tempestiva promozione della tutela esecutiva, sia come iniziativa che come successivo intervento, consente ai creditori di attualizzare il disposto dell’art. 2741 e quindi di fruire di una parità di trattamento. Ciò ha valore tuttavia per le azioni esecutive che la dottrina suole definire come individuali e non anche per quelle collettive che si esauriscono in seno ad apposita procedura. Il caso delle procedure concorsuali si distingue in quanto non è più onere del creditore provvedere all’instaurazione di una tutela esecutiva per preservare la propria posizione paritetica rispetto agli altri creditori. Questo è già garantito dalla legge che predispone apposite procedure gestite da organi preposti all’accertamento del passivo ed alla liquidazione del patrimonio del soggetto insolvente. Di conseguenza, ogni azione individuale, che fuoriesca da tale sistema, costituisce un vulnus proprio per la par condicio che è già garantita a livello legislativo. In tal guisa il discorso condotto a proposito dell’azione esecutiva individuale viene interamente a ribaltarsi in riferimento all’azione esecutiva collettiva: nel primo caso infatti l’autonoma instaurazione di un giudizio per la realizzazione coattiva del credito è onere per il creditore che intenda godere della par condicio; nel secondo caso proprio l’azione individuale reca nocumento alla stessa par condicio, in quanto questa è già garantita dalle norme che disciplinano lo svolgimento della procedura concorsuale. È così a presidio di tale sistema che si è teorizzata l’improcedibilità temporanea dell’azione, la quale non inerisce alla oggettiva validità dell’atto di pignoramento in sé, quanto alla sua opponibilità alla procedura fallimentare (3). Se ciò cui mira il legislatore fallimentare è consentire che tutti i credito- (3) Cass. Civ. Sez. I, 3 dicembre 2002, n. 17109. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 231 ri trovino soddisfazioni all’interno della procedura nel rispetto della par condicio creditorum, allora è solo in riferimento alla procedura che l’esecuzione sarebbe insuscettibile di spiegare i propri effetti (4). Sulla scorta di questi orientamenti la sentenza in esame ha fornito ulteriore contributo interpretativo alla questione. Trattando di una domanda di condanna al versamento in favore dell’Inps della riserva matematica ex art. 13 legge 1338/62, avanzata da una lavoratrice in confronto di una società posta in liquidazione coatta amministrativa, il giudice di primo grado ha composto la controversia operando ulteriore classificazione delle domande giudiziali proposte contestualmente alla procedura concorsuale. Nella specie la ricorrente aveva fatto richiesta di condanna al pagamento di riserva matematica per la costituzione in seno all’Inps di rendita vitalizia reversibile, succedanea del mancato versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali da parte del datore di lavoro. La società datrice di lavoro è stata sottoposta a liquidazione coatta amministrativa conclusasi con concordato ove le passività sono state assunte dall’E.N.C.C. (Ente nazionale per la cellulosa e la carta), all’epoca del giudizio ancora sottoposto a procedura liquidativa. Le difese avanzate dall’Avvocatura generale dello Stato in favore del Ministero dell’Economia e delle Finanze,vertono appunto sulla temporanea carenza di giurisdizione dell’autorità giudiziaria, spettando al commissario liquidatore di provvedere, in via amministrativa, all’accertamento ed al pagamento dei crediti vantati verso la società di assicurazione in liquidazione coatta amministrativa. Sebbene parte della giurisprudenza (5) abbia escluso un difetto temporaneo di giurisdizione in conseguenza di una improcedibilità temporanea della domanda, il Tribunale, seguendo alla lettera le argomentazioni dell’Avvocatura, ha precisato quanto segue: quando la società è posta in liquidazione coatta amministrativa, occorre distinguere le domande che mirano a pronunce di mero accertamento da quelle costitutive e dirette alla condanna al pagamento di somme di danaro, anche se accompagnate da domande di accertamento aventi funzione strumentale. Pertanto, mentre per le prime persiste la competenza del giudice del lavoro, per le seconde si sancisce l’improcedibilità della domanda per difetto temporaneo di giurisdizione, sicché il credito va vantato dinanzi agli organi della procedura, ferma restando l’impugnabilità davanti al giudice del provvedimento attinente lo stato passivo. Ciononostante, il giudice ha ritenuto che nel caso di specie ricorre una domanda di accertamento di un rapporto di lavoro strumentale alla domanda di condanna al versamento della riserva matematica. Pertanto ha dichiarato l’inammissibilità della domanda in oggetto ritenendola riservata alla cognizione del Tribunale fallimentare. Con tale ragionamento la pro- (4) L. BACCAGLINI, Il divieto di azioni esecutive individuali, fra nullità ed inefficacia degli atti compiuti, in Il Fallimento n. 12/2003, p. 1270 ss. (5) Sul punto Cass. 29 aprile 1999, n. 4317; Cass. SS. UU. 19 dicembre 1997, n. 11471. nuncia ha trascurato quanto rilevato dalla Avvocatura generale con riferimento al diritto vivente formatosi in tema di costituzione di rendita vitalizia ai sensi dell’art. 13 della legge 1338/1962. Secondo recente giurisprudenza (6) infatti la norma appresta una triplice tutela: 1) facoltà per il lavoratore (pari a quella del datore di lavoro) di costituire una rendita vitalizia presso l’Inps con possibilità di successivo recupero della riserva matematica in sede di risarcimento danni ex art. 2116 c.c.; 2) diritto di credito restitutorio nei confronti del datore di lavoro una volta versata la riserva all’Inps; 3) diritto del lavoratore nei confronti del datore di lavoro alla costituzione della rendita vitalizia con conseguente possibilità di domandare in giudizio la condanna di quest’ultimo a versare la riserva matematica all’Inps. Posto che la tutela richiesta nel caso di specie è proprio la terza (cioè la condanna del datore di lavoro a versare la riserva matematica), si registra una incongruenza tra la decisione del giudice e le argomentazioni addotte. Se infatti la domanda è stata proposta proprio allo scopo di ottenere condanna al pagamento di somme di danaro (riserva matematica all’Inps), per stessa affermazione del giudice, occorre rilevare il difetto temporaneo di giurisdizione al fine di rimettere la questione agli organi della procedura fallimentare. Tra l’altro dalla motivazione si legge che tale regola trova applicazione anche nel caso in cui la domanda di accertamento è comunque strumentale alla condanna. Il giudice così appare contraddirsi quando conclude per una declaratoria di inammissibilità a sostegno della cognizione del giudice fallimentare, avendo qualificato la domanda di mero accertamento e non già di condanna, come invece prospettato negli atti difensivi. In definitiva, nonostante la giurisprudenza sul tema sia altalenante, ponendo rilievo ora sulla improcedibilità della domanda ora sul difetto temporaneo di giurisdizione, la questione viene posta comunque nel senso di preservare il sistema di garanzie creditorie tipico di una procedura concorsuale, paralizzando autonome iniziative di tutela. Dr.ssa Francesca Maellaro(*) Tribunale civile di Roma, sezione lavoro – primo grado, sentenza 12 aprile 2005 – 15 novembre 2006 n. 10287 – Giud. M. Pagliarini – A.A. (Avv.ti A. Ferretti e P. Boer) c/ E.N.C.C. (Ente Nazionale per la Cellulosa e per la Carta), Ministero dell’Economia e delle Finanze (Avv. dello Stato P. Marchini), I.N.P.S (Avv. G. Iandolo). «(…) Motivi della decisione. La domanda della A. è inammissibile per più motivi. A fronte del diniego oppostole dal Commissario liquidatore della Liquidazione Unificata Ente nazionale per la cellulosa e per la carta e società controllate (in relazione 232 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (6) Cass. Sez. Lav., 14680/99. (*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura generale dello Stato. all’istanza volta ad ottenere il versamento della riserva matematica per la costituzione della rendita vitalizia e al fine di regolarizzare la propria posizione contributiva per il periodo 1 gennaio 1970 – 28 febbraio 1972 in conseguenza del mancato versamento da parte della S. S.p.A. dei contributi dovuti per quel periodo), la A. ha proposto ricorso davanti al giudice del lavoro affinché – accertata la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso con la S. S.p.A. nel periodo predetto – il Commissario liquidatore della Liquidazione Unificata venisse condannato a versare all’Inps detta riserva matematica. Ebbene, dalla documentazione acquisita in atti emerge che con D.M. del 24 febbraio 1994 la S. S.p.A. (società controllata per il 99,9 % del capitale sociale dall’Ente nazionale per la cellulosa e la carta) veniva posta in liquidazione coatta amministrativa; successivamente detto Ente veniva soppresso e venivano unificate in capo al Commissario liquidatore dell’Ente le procedure liquidative dell’ente medesimo e delle società dallo stesso controllate (tra le quali la S. S.p.A.).Quindi, con sentenza del Tribunale di Roma del 6 ottobre 1998, veniva approvata la proposta di concordato presentata dalla S. S.p.A. a chiusura della propria procedura di liquidazione, che prevedeva, tra l’altro, l’intervento dell’Ente in qualità di assuntore di tutti i rapporti attivi e passivi facenti capo alla società. Infine, con decreto del Ragioniere generale dello Stato del 4 maggio 2000, veniva avocata al Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e affidata all’Ispettorato generale per la liquidazione degli enti disciolti la liquidazione unificata E.N.C.C. e società controllate. Ciò premesso va rilevato che secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, quando la società datrice di lavoro è posta in liquidazione coatta amministrativa si deve distinguere tra le domande del lavoratore che mirano a pronunce di mero accertamento (per esempio in ordine alla pregressa esistenza del rapporto di lavoro) oppure costitutive (per esempio di annullamento del licenziamento e reintegrazione nel posto di lavoro) e domande dirette alla condanna al pagamento di somme di denaro (anche se accompagnate da domande di accertamento aventi funzione strumentale). Atale riguardo la Corte di cassazione mentre per le prime riconosce la perdurante competenza del giudice del lavoro, per le seconde sancisce l’improcedibilità della domanda innanzi al tribunale ordinario in funzione di giudice del lavoro, per difetto temporaneo di giurisdizione, durante la fase amministrativa di accertamento dello stato passivo davanti ai competenti organi della procedura di liquidazione coatta, ferma restando l’assoggettabilità del provvedimento attinente allo stato passivo ad opposizione davanti al tribunale fallimentare (per tutte, Cass., 21 novembre 2000, n. 14998). Considerato pertanto che nel caso di specie la S. S.p.A., società datrice di lavoro, è stata sottoposta a liquidazione coatta amministrativa conclusasi con il concordato approvato il 6 ottobre 1998 dal Tribunale di Roma e che l’E.N.C.C., assuntore in sede di concordato delle passività della S. S.p.A., è tuttora sottoposto a procedura liquidativi, va dichiarata l’inammissibilità della domanda il cui oggetto, stante la situazione sopra descritta, è comunque riservato alla cognizione del Tribunale fallimentare (si tratta di accertamento di un rapporto di lavoro strumentale alla domanda di condanna al versamento della riserva matematica). D’altra parte, la ricorrente aveva già proposto davanti al Tribunale fallimentare di Roma la domanda oggetto del presente giudizio. In particolare l’A. aveva inizialmente convenuto la S. S.p.A. e tuttavia – poiché nelle more del giudizio la procedura di liquidazione coatta amministrativa cui era stata sottoposta la società convenuta si era conclusa per concordato in cui l’assuntore era l’ENCC (successivamente in gestione liquidatoria presso il Ministero dell’economia) – il giudizio si era interrotto ed era stato riassunto dall’A. nei confronti del citato Ministero. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 233 Il Tribunale fallimentare, sia pure con una motivazione non condivisibile, aveva rigettato la domanda presentata dall’A. con la sentenza del 25 ottobre 2002 che, non essendo stata impugnata, è passata in giudicato. Anche sotto tale profilo, dunque, l’odierna domanda della A. è inammissibile. Per completezza va comunque rilevata l’avvenuta prescrizione della pretesa fatta valere dalla ricorrente. Il diritto del lavoratore di vedersi costituire, a spese del datore di lavoro, la rendita vitalizia di cui all’art. 13, quinto comma, della legge 12 agosto 1962, n. 1338, per effetto del mancato versamento da parte di quest’ultimo dei contributi previdenziali, è soggetto al termine ordinario di prescrizione, che decorre dalla data di prescrizione del credito contributivo dell’Inps, senza che rilevi la conoscenza o meno, da parte del lavoratore, della omissione contributiva (cfr. Cassazione, 3 luglio 2004, n. 12213 e Cass. 13 marzo 2003, n. 3756). Nel caso di specie, la lamentata omissione contributiva si riferisce al periodo 1 gennaio 1970 – 28 febbraio 1972 e, pertanto, il credito contributivo dell’Inps si sarebbe prescritto (con termine decennale) nel periodo 1 gennaio 1980 – 28 febbraio 1982. Conseguentemente il diritto dell’A. a vedersi costituire la rendita vitalizia prevista dal citato art. 13, legge n. 1338/62 si è comunque prescritto nell’arco temporale 1 gennaio 1990 – 28 febbraio 1992. Stante la natura della controversia e il tenore della pronuncia sussistono giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese del giudizio. Tali i motivi della decisione in epigrafe. Roma, 12 aprile 2005 (...)». 234 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO IL CONTENZIOSO NAZIONALE 235 Il c.d. “fermo fiscale”, ancora alla ricerca del proprio giudice: nuovi contrasti giurisprudenziali dopo il c.d. “decreto Bersani” (Commissione Tributaria del Lazio, sezione ventesima, sentenza 9 maggio-15 giugno 2007, n. 136; Tribunale civile di Roma, sezione tredicesima, ordinanza 1 giugno 2007) Le due pronunce di seguito pubblicate dimostrano come, contrariamente a quanto ritenuto dai primi commentatori, le disposizioni, introdotte dalla legge di conversione del c.d. “Decreto Bersani” in materia di giurisdizione sul c.d. “fermo fiscale”, non abbiano, in realtà, eliminato i contrasti giurisprudenziali esistenti sul punto. Con l’ordinanza dell’1 giugno 2007, il Tribunale di Roma, in composizione collegiale, ha, in accoglimento dell’eccezione, formulata dalla Difesa Erariale, affermato il difetto di giurisdizione del giudice ordinario con riferimento ad un ricorso cautelare proposto avverso l’avviso di fermo amministrativo di un veicolo, riconoscendo la giurisdizione della Commissione Tributaria Provinciale di Roma. Come noto, in sede di conversione del D.L. n. 223/06 (meglio noto come “Decreto Bersani”) il Parlamento, con la legge 4 agosto 2006, n. 248, ha introdotto l’art. 35, comma 26-quinques che ha modificato il comma 1 dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/92, prevedendo, dopo la lettera e), due ulteriori ipotesi per le quali è proponibile ricorso dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale: “e-bis) l’iscrizione di ipoteca sugli immobili di cui all’art. 77 del d.P.R. n. 602/73; e-ter) il fermo dei beni mobili registrati di cui all’art. 86 del d.P.R. n. 602/73”. L’ordinanza in commento si segnala per avere espressamente affermato che “non sussistono ragioni apprezzabili per limitare la applicabilità della disposizione di cui all’art. 19…. alle sole controversie relative ad imposte o tasse in senso proprio, in quanto l’art. 12, comma 2 della legge 28 dicembre 2001 n. 448, modificando l’art. 2 del D.Lgs. n. 546/92, ha ampliato la sfera di cognizione delle Commissioni Tributarie a tutte le controversie aventi ad oggetto “i tributi di ogni genere e specie” e “le sanzioni amministrative, comunque irrogate da uffici finanziari”, ed ha adottato così, ai fini del riparto di tale giurisdizione da quelle ordinaria ed amministrativa, (anche) la riconducibilità della pretesa creditoria alla Amministrazione Finanziaria (e per essa, al concessionario del servizio di riscossione)”. In senso diametralmente opposto, si è espressa la Commissione Tributaria di Roma. Con la sentenza n. 136/2007, il giudice tributario capitolino ha affermato che il decreto-legge 4 luglio 2006 n. 223, convertito in legge 4 agosto 2006 n. 248 – il cui art. 35, comma 26-quinquies, ha disposto che “All’art. 19, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546, dopo la lettera e) sono inserite le seguenti: e-bis) l’iscrizione di ipoteca sugli immobili di cui all’art. 77 del Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 236 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 1973, n. 602, e successive modificazioni; e-ter) il fermo di beni mobili registrati di cui all’art. 86 del Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e successive modificazioni” – deve essere interpretato nel senso che “il fermo di beni mobili registrati di cui all’art. 86 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 602 è ora espressamente indicato fra gli atti impugnabili avanti agli organi della giurisdizione tributaria, e tuttavia non in assoluto (cioè quale che sia il titolo in relazione al quale il fermo è adottato) ma – è da ritenere – solo relativamente alle controversie in materia tributaria”. Alla luce del predetto principio, il giudice tributario della Capitale ha declinato la giurisdizione con riferimento ad un ricorso proposto avverso il preavviso di fermo di bene mobile registrato concernente la riscossione coattiva, da parte del Concessionario, di sanzioni amministrative pecuniarie irrogate per violazioni al Codice della Strada. Urge, sul punto, un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Avv. Maurizio Borgo Commissione Tributaria del Lazio, sezione ventesima, sentenza 9 maggio – 15 giugno 2007, n. 136 – Pres. Santoro – Rel. Cavazza – Ricorrente M.A. c/ Gerit S.p.a. «Fatto – Con ricorso depositato in data 7 marzo 2007 il Sig. M.A., ha impugnato il provvedimento di fermo di veicolo di sua proprietà indicato nell’atto emesso dalla Gerit S.p.a. – Gruppo Riscossione – Agente di Riscossione della Provincia di Roma ai sensi dell’art. 86, comma 1 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 602, fasc. n. 097.2006.000101999 deducendone la nullità per le seguenti ragioni: a) mancata notifica da parte degli Uffici di ogni comunicazione relativa agli importi ingiunti e la prescrizione delle somme richieste in pagamento; b) prescrizione della richiesta oltre i termini previsti. L’intimata Gerit non si è costituita in giudizio. Diritto – Pregiudizialmente la Commissione esaminato il preavviso di fermo del veicolo, rileva che la pretesa esattoriale si compone di richieste per Ici, e Tassa smaltimento rifiuti, nonché di sanzioni amministrative di polizia urbana. Ciò premesso si deve distinguere il predetto preavviso per la parte di competenza delle Commissioni Tributarie, dalla parte di competenza del Giudice Ordinario, la Suprema Corte di Cassazione ha recentemente avuto modo di affermare il principio secondo cui il provvedimento di fermo amministrativo n. 29 settembre 1973 n. 602, nel testo vigente dopo le modifiche recate con l’art. 16 del D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, secondo il quale il Concessionario può eseguirlo sui beni mobili registrati del debitore d’imposta mediante iscrizione del provvedimento che lo dispone nei registri mobiliari, è atto preordinato all’espropriazione forzata, atteso che il rimedio, disciplinato da norme collocate nel Titolo II sulla riscossione coattiva delle imposte, si inserisce nel processo di espropriazione forzata esattoriale quale mezzo di realizzazione del credito; ne consegue che la tutela giudiziaria esperibile nei confronti di fermo amministrativo deve realizzarsi davanti al giudice ordinario con le forme dell’opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi, restando esclusa non solo la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, giacché con la richiesta di registrazione nei registri mobiliari il concessionario non esercita alcun potere di supremazia in IL CONTENZIOSO NAZIONALE 237 materia di pubblici servizi, ma anche la giurisdizione speciale delle Commissioni Tributarie, in forza del disposto dell’art. 2, comma 1, del D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, come sostituito dall’art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001 n. 448, secondo cui “le controversie riguardanti gli atti dell’esecuzione tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento e, ove previsto, dell’avviso di cui all’art. 50 del d.P.R. n. 602 del 1973, per le quali continuano ad applicarsi le disposizioni del medesimo d.P.R. (Cassaz. Sez. Un. 2006/14701; 2006/2053). Successivamente alla sopra richiamata statuizione è intervenuto in materia il decretolegge 4 luglio 2006 n. 223, convertito in legge 4 agosto 2006 n. 248, il cui art. 35, comma 26-quinquies, ha disposto che “All’art. 19, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546, dopo la lettera e) sono inserite le seguenti: e-bis) l’iscrizione di ipoteca sugli immobili di cui all’art. 77 del Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e successive modificazioni; e-ter) il fermo di beni mobili registrati di cui all’art. 86 del Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e successive modificazioni”. Dunque il fermo di beni mobili registrati di cui all’art. 86 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 602 è ora espressamente indicato fra gli atti impugnabili avanti agli organi della giurisdizione tributaria, e tuttavia non in assoluto (cioè quale che sia il titolo in relazione al quale il fermo è adottato) ma – è da ritenere – solo relativamente alle controversie in materia tributaria. Infatti, ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, come sostituito dall’art. 12, comma 2 della legge 28 dicembre 2001 n. 448, la giurisdizione tributaria riguarda tutte le controversie aventi ad oggetto tributi di ogni genere e specie, senza che tale norma – che comunque riflette lo stesso fondamento costituzionale attribuita alle Commissioni Tributarie – risulti in quale modo incisa dal citato decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convert. legge 4 agosto 2006 n. 248. Del resto, nel riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo nel disposto con il D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46 applicabile – con estensione delle disposizioni del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 – alle entrate dello Stato, anche diverse dalle imposte sui redditi, e di quelle degli altri enti pubblici (cfr. artt. 17 e 18 D.Lgs. 26 febbraio 1999 n. 46), l’art. 29 del citato D.Lgs. n. 46 del 1999, con riferimento alle garanzie giurisdizionali in materia di riscossione, fa espressamente salva la competenza del giudice (diverso dalle Commissioni Tributarie) in relazione alle entrate non tributarie (cfr. art. 29 – Garanzie giurisdizionali per entrate non devolute alle Commissioni tributarie – “1. Per le entrate tributarie diverse da quelle elencate dall’articolo 2 del decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546, e per quelle non tributarie, il giudice competente a conoscere le controversie concernenti il ruolo può sospendere la riscossione se ricorrono gravi motivi. 2. Alle entrate indicate nel comma 1 non si applica la disposizione del comma 1 dell’art. 57 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 602, come sostituito dall’art. 16 del presente decreto e le opposizioni all’esecuzione ed agli atti esecutivi si propongono nelle forme ordinarie. 3. Ad esecuzione iniziata il giudice può sospendere la riscossione solo in presenza dei presupposti di cui all’art. 60 del Decreto del Presidente della repubblica 29 settembre 1973, n. 602, come sostituito dall’art. 16 del presente decreto”). Il ricorso (con il quale tra l’altro si eccepiscono violazioni relative alla formazione del titolo stesso e quindi alla corretta applicazione di procedimenti non tributari) va dunque dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione. Per quanto attiene le iscrizioni relative alle somme di competenza della Commissione Tributaria si osserva che l’Agente della Riscossione Gerit S.p.a. non ha offerto la prova delle avvenute notifiche delle singole iscrizioni, tant’è che anche ove fossero per la maggior parte rispondenti a quanto indicato nel preavviso di fermo, si deve rilevare che esiste la prescrizione per parte dei tributi richiesti in pagamento. Per gli altri non soggetti a prescrizione la mancata prova della notifica determina l’illegittimità dell’atto impugnato per carenza del presupposto impositivo. Tenuto conto che in calce all’atto impugnato la Gerit S.p.a. ha indicato “impropriamente” che le modalità ed i termini per la impugnazione debbono essere effettuati presso la Commissione Tributaria Provinciale di Roma, fuorviando così il ricorrente circa l’organo competente al giudizio, la Commissione ritiene che il ricorrente debba fruire del previsto termine di gg. 60 dalla notifica della presente decisione per riassumere il giudizio avanti il Tribunale ordinario competente. Sussistono giusti motivi, tenuto conto delle ragioni della decisione, per l’integrale compensazione delle spese di lite tra le parti. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso per difetto di giurisdizione per la parte relativa alle sanzioni amministrative relative al codice della strada e rimette il ricorrente in termini per presentare ricorso avanti il Tribunale ordinario competente, annulla ed ordina lo sgravio della pretesa esattoriale relative alle restanti somme poiché non precedute da regolare notifica». Tribunale civile di Roma, sezione tredicesima, ordinanza 1 giugno 2007 – Pres. F. Paone – Rel. M. Budetta – G.G. c/ Prefettura di Roma ed altri (ct. 8288/07, Avv. dello Stato M. Borgo). « (…) – rilevato che G.G. ha proposto reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. avverso l’ordinanza emessa dal Giudice Designato in data 22 marzo 2007, con la quale è stato respinto il ricorso proposto ex art. 700 c.p.c. per la sospensione dell’avviso di fermo amministrativo del veicolo di proprietà dell’istante, notificato da Gerit s.p.a nella qualità di Agente della riscossione per la Provincia di Roma, deducendone la erroneità e chiedendone la riforma, con l’accoglimento della istanza di sospensione della procedura di fermo amministrativo o analogo provvedimento non risultando dovuti gli importi richiesti dalla Gerit s.p.a, - rilevato che i resistenti, costituitisi, hanno chiesto il rigetto del reclamo, deducendone la infondatezza, e rilevando preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, osserva – il fermo amministrativo de quo viene espressamente previsto per la prima volta, nell’art. 86 del d.P.R. n. 602/73, il quale consente all’amministrazione finanziaria dello Stato creditrice, “qualora non sia possibile, per mancato reperimento del bene, eseguire il pignoramento dei beni mobili del debitore o dei coobbligati iscritti in pubblici registri”, di disporne il fermo. Ai sensi di detta disposizione, il fermo è disposto dalla Direzione Regionale delle Entrate e curato dal concessionario, e segue al mancato reperimento del bene che non ha reso possibile il pignoramento; il che presuppone che si sia tentato il pignoramento stesso, – l’istituto del fermo è stato completamente innovato dal D.L.vo 27 aprile 2001 n. 193, che ha modificato il comma 1 dell’art. 86 d.P.R. n. 602/73, stabilendo che decorso inutilmente il termine di cui all’art. 50 comma 1, il concessionario può disporre il fermo dei beni mobili del debitore o dei coobbligati iscritti in pubblici registri, dandone notizia alla direzione regionale delle entrate”, ed “alla regione di residenza”. Sicché, attualmente, il fermo non è più vincolato ad un mancato pignoramento, ma è solo subordinato all’inutile decorso dei sessanta giorni dalla notifica della cartella di pagamento previsto dall’art. 50 d.P.R.. n. 238 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 602/73; è direttamente eseguito dal concessionario che deve solo informare l’ufficio finanziario e la regione; è rimesso alla discrezionalità del concessionario che, nell’ambito del suo obbligo di eseguire l’esecuzione forzata sui beni del contribuente inadempiente, può scegliere fra il pignoramento mobiliare o l’esecuzione immobiliare, ovvero fare ricorso in via preventiva al fermo dei veicoli, – il c.d. preavviso di fermo poi (oggetto del procedimento in esame), non è un atto distinto e autonomo dal provvedimento di fermo, ma una comunicazione – prevista da disposizioni interne dell’amministrazione fiscale (nota Agenzia delle entrate n. 57413 del 29 aprile 2003) e non da norme di legge — con cui l’Agente della riscossione preavvisa ulteriormente il contribuente, a cui erano già state notificate le cartelle, che è stata aperta nei suoi confronti la particolare procedura di riscossione denominata “fermo di veicoli registrati”, – sulla natura del fermo amministrativo, si rileva che con sentenza Cass. S.U. 31 gennaio 2006 n. 2053, la Suprema Corte aveva statuito che “Il fermo amministrativo è atto funzionale all’espropriazione forzata e, quindi, mezzo di realizzazione del credito allo stesso modo con il quale la realizzazione del credito è agevolata dall’iscrizione ipotecaria ex articolo 77 del d.P.R. 602/73, per cui la tutela giudiziaria esperibile nei confronti del fermo amministrativo si deve realizzare davanti al giudice ordinario con le forme, consentite dal vigente articolo 57 del d.P.R. 602/73, dell’opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi”, – la citata statuizione giurisprudenziale appare tuttavia superata dalla successiva disposizione normativa di cui all’art. 35 co. 26 quinquies 1egge n. 248/2006 (di conversione del d.l. n. 233/2005), che, modificando l’art. 19 co. 1 decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546, sul procedimento dinanzi alle Commissioni Tributarie, ha aggiunto agli atti impugnabili dinanzi alle Commissioni Tributarie, elencati nel citato art. 19, anche “il fermo di beni mobili registrati di cui all’art. 86 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n. 602, e successive modificazioni”, e quindi il fermo amministrativo oggetto del procedimento in esame, – non sussistono ragioni apprezzabili per limitare la applicabilità della disposizione di cui all’art. 19 – che dispone la competenza delle Commissioni Tributarie sulle controversie relative al fermo amministrativo di cui all’art. 86 d.P.R. cit., senza alcuna distinzione – alle sole controversie relative ad imposte o tasse in senso proprio, in quanto l’art. 12 comma 2 della legge 28 dicembre 2001 n. 448, modificando l’art. 2 del D.Lgs. n. 546/92, ha ampliato la sfera di cognizione delle Commissioni Tributarie a tutte le controversie aventi ad oggetto “i tributi di ogni genere e specie e “le sanzioni amministrative, comunque irrogate da uffici finanziari “, ed ha adottato così, ai fini del riparto di tale giurisdizione da quelle ordinaria ed amministrativa, (anche) la riconducibilità della pretesa creditoria alla Amministrazione Finanziaria (e per essa, al concessionario del servizio di riscossione), – il citato criterio di riparto della giurisdizione è stato rilevato anche dalla Suprema Corte, che ha statuito, in una fattispecie avente ad oggetto la irrogazione di sanzioni amministrative non di natura tributaria, che la circostanza che la sanzione era irrogata dalla Agenzia delle Entrate determinava la giurisdizione della commissione tributaria, ai sensi dell’art. 2 del citato D.Lgs. n. 546 del 1992, in quanto esso “prevede che tale giurisdizione sussiste, in via residuale, anche con riferimento all’organo (Agenzia delle entrate) che applica una sanzione amministrativa in ordine ad infrazioni commesse in violazione di norme di svariato contenuto, non necessariamente attinenti a tributi (come nella specie), per quanto evidenziato dall’impiego del termine “comunque”, – nel caso di specie, si reputa quindi che la provenienza della pretesa creditoria dalla amministrazione finanziaria (art. 2 D.Lgs. 546/1992 cit.), unitamente alla espressa previsio- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 239 ne della impugnabilità del provvedimento di fermo amministrativo emesso ex art. 86 d.P.R. cit. (art. 19 D.Lgs. 546/1992), inducano a ritenere il provvedimento di fermo impugnabile dinanzi alle commissioni tributarie, – è poi opportuno precisare che il fermo amministrativo di cui all’art. 86 può essere relativo ad una pluralità di cartelle esattoriali riguardanti tributi erariali e locali, contributi previdenziali e sanzioni amministrative, e nessuna distinzione è stata fatta, riguardo all’oggetto del provvedimento, nella norma che ne attribuisce la competenza alle commissioni tributarie, quale giudice della riscossione delle entrate, onde può inferirsi l’intento del legislatore di attribuire alla giurisdizione delle commissioni tributarie tutti i provvedimenti di fermo amministrativo, senza alcuna distinzione sulla natura della violazione originaria, – tale intento appare vieppiù apprezzabile ove si reputi che di regola il medesimo atto di fermo (o preavviso di fermo) afferisce alla riscossione coattiva di crediti di varia natura (omesso pagamento di crediti tributari, di contravvenzioni stradali, di sanzioni amministrative di vario genere), onde neppure risulterebbe opportuna la attribuzione a diversi giudici (ordinario e tributario) della impugnazione del medesimo provvedimento, contenente, quale che ne sia la fonte originaria, un atto di riscossione coattiva da parte della amministrazione finanziaria, – non appare rilevante la circostanza che nella specie sia impugnato non il provvedimento di fermo amministrativo ma “l’avviso di fermo amministrativo”, in quanto la controversia che si introduce con la impugnazione di tale atto rientra “nelle controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie, ... le sanzioni amministrative, comunque irrogate da uffici finanziari, gli interessi e ogni altro accessorio”, di cui all’art. 2 d.P.R. cit., ed è provvedimento (equiparabile ad un “avviso di mora”) preliminare al fermo amministrativo impugnabile dinanzi alle commissioni tributarie ex art. 19 d.P.R. cit., che evidentemente provvederà a valutare anche la ammissibilità della impugnazione di tale atto prodromico, – tenuto conto che pertanto la materia esula dalla giurisdizione del giudice ordinario, e che per la natura controversa della questione in esame, e per le innovazioni legislative solo di recente introdotte, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del procedimento, ivi comprese quelle della prima fase, P.Q.M. in riforma dell’ordinanza impugnata emessa il 22 marzo 2007, dichiara il difetto di giurisdizione del giudice ordinario e compensa tra le parti le spese del procedimento. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della tredicesima sezione civile, addì 25 maggio 2007». 240 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO IL CONTENZIOSO NAZIONALE 241 Legittimità del provvedimento di reiterazione dei vincoli preordinati all’esproprio: obbligo di motivazione e di indennizzo (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, decisione 24 maggio 2007 n. 7) Un atto di pianificazione generale – tranne i casi di incidenza su posizioni consolidate da giudicati o da convenzioni di lottizzazione – non ha bisogno di una motivazione ulteriore rispetto a quella che si esprime con i principi posti a sua base. Il principio della spettanza di un indennizzo al proprietario nel caso di reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio – introdotto nell’ordinamento con la sentenza della Corte Costituzionale n. 179 del 1999 (omissis) – non rileva per la verifica della legittimità del provvedimento di primo grado, che ha disposto la reiterazione. Questi i principi espressi dal Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria in seguito al ricorso in appello presentato dal Comune di Roma contro la signora F. B. e la s.r.l. S. F. per la riforma della sentenza del T.A.R. per il Lazio, sez. I, 4 dicembre 1996, n. 2237. Infatti con la delibera n. 3622 del 4 giugno 1990, la giunta comunale di Roma ha adottato la variante generale al piano regolatore reiterando alcuni vincoli preordinati all’esproprio, al fine di reperire aree “per servizi e verde pubblico” (a seguito della decadenza dei precedenti vincoli previsti dal piano regolatore approvato dalla giunta della regione Lazio in data 6 marzo 1979, per il decorso del termine di cinque anni, previsto dall’art. 2 della legge n. 1187 del 1968). Col ricorso in primo grado n. 417 del 1991 la signora F. B. ha impugnato detta delibera e ne ha chiesto l’annullamento. Il T.A.R. con la sentenza n. 2237 del 1996, ha accolto il ricorso e ha annullato l’atto impugnato, nei limiti dell’interesse della ricorrente, ravvisando profili di eccesso di potere per inadeguata istruttoria ed insufficiente motivazione, nonché per la mancata previsione di piano finanziario per attuare il vincolo. Col successivo ricorso il Comune di Roma ha impugnato la sentenza del T.A.R. chiedendo in sua riforma che il ricorso di primo grado fosse interamente respinto. Con la decisione in oggetto il Consiglio di Stato, in accoglimento delle censure promosse dal Comune di Roma, ha ammesso che l’esercizio del potere di reiterazione del vincolo può essere esercitato solo sulla base di una idonea istruttoria e di una adeguata motivazione che faccia escludere un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti, occorrendo l’effettiva cura di un pubblico interesse ma ha rilevato che la motivazione è immune da profili di eccesso di potere poiché ha indicato il perdurare dell’interesse pubblico già posto alla base dell’originario vincolo preordinato all’esproprio. 242 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Il Consiglio di Stato ha altresì precisato che la giunta ha indicato le vicende che hanno preceduto la reiterazione, evidenziando l’insufficienza degli standard prescritti per le aree destinate a servizi pubblici e a verde pubblico non potendo allora configurarsi un’inidoneità dell’istruttoria posta alla base del provvedimento. I giudici non hanno ritenuto di accogliere nemmeno il secondo motivo di censura relativo all’assenza di una specifica previsione finanziaria sull’attuazione del vincolo preordinato all’esproprio. Infatti dai principi sul raccordo tra la pianificazione urbanistica e le previsioni del bilancio emerge che in sede di adozione di una variante allo strumento urbanistico – volta all’imposizione del vincolo preordinato all’esproprio – l’amministrazione non può impegnare somme di cui non è certa la spettanza in ordine all’an e al quantum, sia perché potrebbe non seguire l’approvazione regionale sia perché la quantificazione richiede complessi accertamenti su elementi di fatto che solo il proprietario può rappresentare al termine del procedimento di pianificazione. I profili attinenti al pagamento dell’indennizzo non attengono, dunque, alla legittimità del procedimento, ma riguardano questioni di carattere patrimoniale (che presuppongono la conclusione del procedimento di pianificazione), devolute alla cognizione della giurisdizione civile. Tale principio è stato esplicitato dall’articolo 39, comma 1, del testo unico sugli espropri, approvato col d.P.R. n. 327 del 2001, il quale ha previsto che – a seguito di reiterazione – il proprietario possa attivare un procedimento amministrativo nel corso del quale egli ha l’onere di provare “l’entità del danno effettivamente prodotto”, quale presupposto processuale necessario per poter agire innanzi alla Corte d’appello. In definitiva gli atti dei procedimenti di adozione e di approvazione di uno strumento urbanistico, contenente un vincolo preordinato all’esproprio, non devono prevedere la spettanza di un indennizzo, fermo restando il diritto del proprietario di ottenere – in presenza dei relativi presupposti – l’indennità commisurata all’entità del danno effettivamente prodotto. Dott. Roberto Collacchi (*) Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, decisione 24 maggio n. 7 – Pres. f.f. P. Salvatore – Cons. Rel. L. Maruotti – Comune di Roma (Avv. M. Martis) c/ F. B. (n.c.) e s.r.l. S. F. (Avv.ti B. Biscotto e L. Scognamiglio) «(omissis) Considerato in diritto 1.- A seguito della decadenza – per decorso del quinquennio – dei vincoli preordinati all’esproprio (previsti dal piano regolatore di Roma, approvato in data 6 marzo 1979 dalla giunta della Regione Lazio), con la delibera n. 3622 del 4 giugno 1990 la giunta comunale (*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura generale dello Stato. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 243 di Roma ha adottato la variante generale al piano regolatore ed ha reiterato i vincoli preordinati all’esproprio, tra cui quelli incidenti sui terreni di proprietà dell’appellata, destinati a servizi e a verde pubblico (‘zona N’). Con la sentenza n. 2237 del 1998, il T.A.R. per il Lazio ha accolto il ricorso di primo grado della appellata ed ha annullato la delibera n. 3622 del 1990 nei limiti del suo interesse, ravvisando profili di eccesso di potere per inadeguata istruttoria ed insufficiente motivazione, nonché per la mancata previsione dei mezzi finanziari per attuare il vincolo. Col gravame in esame, il Comune di Roma ha impugnato la sentenza del T.A.R., ha censurato le sue diverse rationes decidendi (richiamando i precedenti giurisprudenziali favorevoli alle proprie deduzioni) ed ha chiesto che, in sua riforma, il ricorso di primo grado sia respinto. (omissis) 6.- Nel passare all’esame delle censure dell’appello, va innanzitutto rilevato che la sentenza gravata ha annullato in parte qua la delibera n. 3622 del 1990 per distinti profili di eccesso di potere, poiché sarebbero mancate una adeguata istruttoria ed una sufficiente motivazione, in quanto la reiterazione del vincolo non sarebbe stata preceduta da ‘accertamenti puntuali e circostanziati’ sullo stato dei luoghi e sarebbe stata basata ‘unicamente su valutazioni di carattere generale’, senza una specifica ‘individuazione del soddisfacimento dell’interesse pubblico’. Avverso tali statuizioni, l’appellante Comune di Roma ha richiamato i principi affermati da precedenti decisioni di questo Consiglio sulla legittimità della medesima delibera n. 3622 del 1990 ed ha dedotto che la delibera si è basata: a) su una motivazione immune dai dedotti profili di eccesso di potere, poiché essa ha indicato il perdurare dell’interesse pubblico già posto a base dell’originario vincolo preordinato all’esproprio e nel frattempo decaduto, in assenza della necessità di prendere in considerazione la singola posizione della originaria ricorrente; b) su una idonea istruttoria, poiché la giunta ha indicato le vicende che hanno preceduto la reiterazione, evidenziando l’insufficienza degli standard prescritti per le aree destinate a servizi pubblici e a verde pubblico, neppure integralmente soddisfatti con quelli reiterati con la medesima delibera. 7.- Ritiene l’Adunanza Plenaria che tali censure siano fondate e vadano accolte, perché la gravata sentenza – pur avendo correttamente affermato la necessità di una adeguata motivazione degli atti di reiterazione dei vincoli preordinati all’esproprio – ha ravvisato profili di eccesso di potere che in realtà non sembrano sussistenti. 7.1.- Già con la decisione della Sez. IV n. 159 del 1994 (resa in un giudizio avente per oggetto la stessa delibera n. 3622 del 1990), tale principio della necessità della motivazione (poi espressamente disposto dall’art. 9, comma 4, del d.P.R. n. 327 del 2001) è stato affermato dalla giurisprudenza quale temperamento dell’altro principio (di cui non va esaminata l’attualità in questa sede) per il quale un atto di pianificazione generale – tranne i casi di incidenza su posizioni consolidate da giudicati o da convenzioni di lottizzazione – non ha bisogno di una motivazione ulteriore rispetto a quella che si esprime con i criteri posti a sua base. In base a tale temperamento, poiché l’art. 2 della legge n. 1187 del 1968 aveva previsto la decadenza del vincolo preordinato all’esproprio per il decorso del quinquennio in assenza della dichiarazione della pubblica utilità, si è ammesso che l’esercizio del potere di reiterazione del vincolo possa essere esercitato solo sulla base di una idonea istruttoria e di una adeguata motivazione che faccia escludere un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti, occorrendo l’effettiva cura di un pubblico interesse. Infatti, “l’Amministrazione deve indicare la ragione che la induce a scegliere nuovamente proprio l’area sulla quale la precedente scelta si era appuntata: la reiterazione del vincolo espropriativo, sic et simpliciter, non è dunque consentita, dovendo l’Amministrazione evidenziare l’attualità dell’interesse pubblico da soddisfare, in quanto si va ad incidere sulla sfera giuridica di un proprietario che già per un quinquennio è stato titolare di un bene suscettibile di dichiarazione di pubblica utilità e successivamente di esproprio” (Sez. IV, dec. n. 159 del 1994, cit., § 11). 7.2.- Quanto alla adeguatezza della motivazione, l’Adunanza Plenaria ritiene che essa vada valutata tenendo conto, tra le altre, delle seguenti circostanze: a) se la reiterazione riguardi o meno una pluralità di aree, nell’ambito della adozione di una variante generale o comunque riguardante una consistente parte del territorio comunale; b) se la reiterazione riguardi soltanto una parte delle aree già incise dai vincoli decaduti, mentre per l’altra parte non è disposta la reiterazione, perché ulteriori terreni sono individuati per il rispetto degli standard; c) se la reiterazione sia stata disposta per la prima volta sull’area in questione. Tali circostanze rilevano nel loro complesso, perché gli atti inoppugnabili che impongono i vincoli preordinati all’esproprio incidono sui valori di mercato delle aree prese in considerazione. Quanto al profilo sub a), vanno distinti i casi in cui la reiterazione del vincolo riguardi un’area ben specificata (per realizzare una singola opera pubblica o per soddisfare i prescritti standard sui servizi pubblici o sul verde pubblico), da quelli in cui la reiterazione riguardi una pluralità di aree per una consistente parte del territorio comunale, a seguito della decadenza di uno strumento urbanistico generale che abbia disposto una molteplicità di vincoli preordinati all’esproprio (necessari per l’adeguamento degli standard, a seguito della realizzazione di ulteriori manufatti). Infatti, quando sono reiterati ‘in blocco’ i vincoli decaduti già riguardanti una pluralità di aree, la sussistenza di un attuale specifico interesse pubblico risulta dalla perdurante constatata insufficienza delle aree destinate a standard (indispensabili per la vivibilità degli abitati), mentre l’assenza di un intento vessatorio si evince dalla parità di trattamento che hanno tutti i destinatari dei precedenti vincoli decaduti. Quanto al profilo sub b), va rimarcato come una anomalia della funzione pubblica possa essere ravvisata quando, dopo la decadenza ‘in blocco’ dei vincoli complessivamente previsti dallo strumento urbanistico generale, l’Autorità ne reiteri solo alcuni, individuando altre aree per soddisfare gli standard, in assenza di una adeguata istruttoria o motivazione. Tali scelte, infatti, devono fondarsi su una motivazione da cui emergano le relative ragioni di interesse pubblico, poiché avvantaggiano chi non è più coinvolto nelle determinazioni di reperimento degli standard, a scapito di chi lo diventa, pur non essendo stato destinatario di un precedente vincolo preordinato all’esproprio Quanto al profilo sub c), si deve tenere conto del fatto se il vincolo sia decaduto una o più volte. In linea di principio, può ritenersi giustificato il richiamo alle originarie valutazioni, quando vi è una prima reiterazione, ma – quando il rinnovato vincolo sia a sua volta decaduto – l’Autorità urbanistica deve procedere con una ponderata valutazione degli interessi coinvolti, esponendo le ragioni – riguardanti il rispetto degli standard, le esigenze della spesa, specifici accadimenti riguardanti le precedenti fasi procedimentali – che inducano ad escludere profili di eccesso di potere e ad ammettere l’attuale sussistenza dell’interesse pubblico. 244 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 7.3.- I sopra indicati profili sono particolarmente rilevanti nel presente giudizio, perché la contestata delibera n. 3622 del 1990 ha riguardato una consistente parte del territorio del Comune di Roma, ha reiterato ‘in blocco’ i vincoli preordinati all’esproprio (imposti con il piano approvato dalla giunta regionale in data 6 marzo 1979) ed ha disposto la reiterazione per la prima volta, senza comportare alcuna discriminazione (neppure ipotizzata nel ricorso di primo grado). Dalla sua motivazione e dalla relazione da essa richiamata, si evincono con chiarezza e precisione gli accertamenti effettuati e le finalità di interesse pubblico che la delibera ha inteso perseguire: – la relazione ha evidenziato che il piano regolatore approvato nel 1979 era stato per lo più eseguito per la sola parte che consentiva l’edificazione privata, ma non anche per la parte che prevedeva le infrastrutture, i servizi, le opere pubbliche, i parcheggi; – la delibera ha rilevato che, per questa ragione, risultava l’esigenza di soddisfare gli standard con aree aventi una complessiva superficie addirittura superiore a quella complessivamente determinata nel piano approvato nel 1979 (così evidenziando l’esigenza di porre in essere le prescritte misure volte allo sviluppo ordinato e armonico del territorio, per evitare irreversibili e definitivi stravolgimenti del territorio, in quanto tali estremamente difficili da rimuovere); – la relazione e la delibera hanno ribadito l’attualità degli interessi pubblici coinvolti, operando un chiaro richiamo alle valutazioni poste a base dello strumento urbanistico approvato nel 1979 (e fatte proprie dalla giunta comunale), sicché neppure era necessario un ulteriore ed analitico esame delle specifiche ragioni che avevano condotto alla imposizione dei singoli vincoli; – la stessa delibera ha sottolineato che ‘necessariamente’ le aree sottoposte alla reiterazione dei vincoli dovessero essere quelle già individuate dal medesimo piano approvato nel 1979. Quest’ultima circostanza, specificamente posta a base del Comune a fondamento delle proprie determinazioni, di per sé non è stata smentita nel corso del giudizio, risultando pacifico che vi sia la corrispondenza tra l’area di proprietà dell’appellata, presa in considerazione nella delibera n. 3622 del 1990, e quella già oggetto del vincolo previsto nel piano regolatore del 1979 (così come non è in discussione tale corrispondenza per le aree degli altri proprietari cui si è rivolta la delibera n. 3622 del 1990). 7.4.- L’adeguatezza della istruttoria e della motivazione – anche nella parte in cui la delibera ha rimarcato la scelta delle medesime aree già in precedenza vincolate – risulta altresì da considerazioni attinenti alle complesse vicende che hanno caratterizzato la stessa venuta ad esistenza della nozione di vincolo preordinato all’esproprio, nonché le problematiche connesse alla sua decadenza. Circa la nozione di vincolo preordinato all’esproprio, già la sopra richiamata relazione illustrativa dell’Adunanza Generale, di data 29 marzo 2001, ha evidenziato come essa abbia acquistato rilevanza giuridica con la sentenza della Corte Costituzionale n. 55 del 1968 e con l’attuativo art. 2 della legge n. 1187 del 1968. Circa le connesse problematiche, vanno richiamate le notevoli incertezze interpretative derivate dalle proroghe legislative del termine di cinque anni fissato dallo stesso art. 2, proroghe che fecero sorgere dispute (superate solo con le decisioni n. 7 e n. 10 del 1984 di questa Adunanza Plenaria) sulla sua natura di norma a regime e sulla disciplina urbanistica applicabile a seguito della decadenza. Sulla base del quadro normativo desumibile dalla richiamata sentenza della Corte Costituzionale n. 55 del 1968, dall’art. 2 della legge n. 1187 del 1968 e dai principi affer- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 245 mati da questa Adunanza Plenaria, non può non tenersi conto del fatto che il piano regolatore approvato nel 1979 – divenuto inoppugnabile – aveva contribuito a determinare i valori di mercato anche dei terreni sottoposti ai vincoli preordinati all’esproprio, poi decaduti. Risulta del tutto logica, dunque, la considerazione posta a base della delibera n. 3622 del 1990, secondo cui – in assenza della individuazione di ulteriori aree da sottoporre al vincolo e per la soddisfazione (sia pure parziale) degli standard – ‘necessariamente’ la scelta doveva ricadere ‘sugli stessi siti’ (così limitando l’impatto i suoi effetti sui valori di mercato). La delibera si è così pure uniformata ad una regola di buona amministrazione, in quanto volta a minimizzare l’impatto sul mercato delle scelte di pianificazione. Le considerazioni che precedono sono del resto conformi ai principi desumibili dal testo unico n. 327 del 2001. Esso – ispirato anche al principio della valorizzazione della partecipazione degli interessati – all’art. 11 ha previsto che la reiterazione di un vincolo preordinato all’esproprio, finalizzato ad uno specifico intervento, debba essere preceduto dall’avviso di avvio del procedimento, con connesso onere di una motivazione specifica, perché si va ad incidere su una posizione determinata. Quando invece si tratti di una qualsiasi altra reiterazione dei vincoli preordinati all’esproprio, anche se disposti ‘in blocco’ o per una consistente parte del territorio comunale, pur se non è richiesto l’avviso di avvio del procedimento (per il richiamo operato dall’art. 9, comma 6, alle disposizioni sulla adozione e sulla approvazione degli strumenti urbanistici), rilevano i principi previsti dall’art. 9, comma 4, che attribuisce rilievo decisivo alle ‘esigenze di soddisfacimento degli standard’ (in connessione all’art. 9 del testo unico sull’edilizia, approvato col d.P.R. n. 380 del 2001). 8.- Quanto precede evidenzia che la delibera impugnata in primo grado ha tenuto adeguatamente conto del quadro normativo e dei principi riguardanti l’adeguatezza dell’istruttoria e la congruità della motivazione, desumibili anche dalla sua relazione di accompagnamento e dagli atti da essa richiamati. 9.- Si deve pertanto passare all’esame della fondatezza della censura di primo grado, secondo cui la delibera n. 3622 del 1990 doveva contenere una specifica ‘previsione finanziaria’ sulla attuazione del contestato vincolo preordinato all’esproprio. 9.1.- La gravata sentenza, nell’accogliere la corrispondente censura di primo grado, si è limitata a richiamare l’ordinanza della Sez. IV di questo Consiglio n. 411 del 1995, che sottopose all’esame dell’Adunanza Plenaria la questione della sussistenza o meno del potere di reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio, in assenza della spettanza di un indennizzo. Ad avviso dell’appellante, in assenza di norme che imponessero la previsione finanziaria, i ragionevoli tempi di esecuzione dell’atto e le esigenze di tutela del proprietario sarebbero salvaguardati dalla disciplina sulla durata di cinque anni del vincolo preordinato all’esproprio. Nel corso della presente fase del giudizio, le parti hanno diffusamente commentato le vicende successive alla proposizione di tale questione, richiamando l’ordinanza di questa Adunanza Plenaria n. 20 del 1996 (di rimessione della questione alla Corte Costituzionale), la sentenza della Corte Costituzionale n. 179 del 1999 e la decisione di questa Adunanza Plenaria n. 24 del 1999, conclusiva di quel giudizio. 9.2.- Ritiene l’Adunanza Plenaria che anche sotto tale profilo vada accolto l’appello del Comune di Roma. Nel quadro normativo rilevante alla data di emanazione del provvedimento impugnato in primo grado, nessuna disposizione imponeva all’Autorità urbanistica di raccordare le proprie previsioni urbanistiche con quelle di carattere contabile. 246 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Tale raccordo, come sottolineato dalla già citata relazione dell’Adunanza Generale del 29 marzo 2001, al § 6.2., è stato per la prima volta disposto con l’art. 14 della legge n. 109 del 1994 (e successive modificazioni), attributiva del rilievo al bilancio preventivo dell’Amministrazione, al programma triennale e all’elenco annuale dei lavori, per razionalizzare le spese ed evitare l’episodicità delle scelte (anche in considerazione delle posizioni giuridiche coinvolte negli atti di pianificazione). Peraltro, il medesimo art. 14 – come si evinceva dai suoi commi 8 e 9 – neppure subordinava il potere di pianificazione alla previa compilazione dell’elenco annuale dei lavori, ma – al contrario – lasciava ferme le prescrizioni sulla emanazione degli ‘strumenti urbanistici vigenti o adottati’, con la regola per cui a questi strumenti doveva risultare la conformità dei progetti di lavori e l’elenco annuale dei lavori, approvato contestualmente al bilancio preventivo. Ciò comporta l’accoglimento del motivo d’appello, secondo il quale la delibera impugnata in primo grado non doveva essere preceduta dall’approvazione di un ‘piano finanziario’. 10.- La fondatezza dell’appello del Comune comporta l’esame della censura contenuta a pag. 6 del ricorso di primo grado (richiamata dalla società succeduta all’appellata a pag. 9 della sua memoria di data 31 maggio 2006, secondo cui la reiterazione del vincolo poteva avere luogo solo ‘a fronte di un indennizzo’. Al riguardo, la medesima società ha rilevato che tale principio – oltre ad essere desumibile dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 575 del 1989 – è stato affermato dalla successiva sentenza della Corte n. 179 del 1999. 11.- Ritiene la Sezione che tale censura vada respinta. Il principio della spettanza di un indennizzo al proprietario nel caso di reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio – introdotto nell’ordinamento con la sentenza della Corte Costituzionale n. 179 del 1999 e rilevante sul piano sostanziale per l’appellata per i suoi effetti ex tunc – non rileva per la verifica della legittimità del provvedimento di primo grado, che ha disposto la reiterazione. Infatti, dai principi sul raccordo tra la pianificazione urbanistica e le previsioni del bilancio emerge che in sede di adozione di una variante allo strumento urbanistico – volta all’imposizione del vincolo preordinato all’esproprio – l’amministrazione non può impegnare somme di cui non è certa la spettanza in ordine all’an e al quantum, sia perché potrebbe non seguire l’approvazione regionale, sia perché la quantificazione richiede complessi accertamenti su elementi di fatto che solo il proprietario può rappresentare al termine del procedimento di pianificazione (Sez. IV, dec. n. 7863 del 2006). I profili attinenti al pagamento dell’indennizzo non attengono, dunque, alla legittimità del procedimento, ma riguardano questioni di carattere patrimoniale (che presuppongono la conclusione del procedimento di pianificazione), devolute alla cognizione della giurisdizione civile. Tale principio è stato ora esplicitato dall’art. 39, comma 1, del testo unico sugli espropri, approvato col d.P.R. n. 327 del 2001, il quale ha previsto che – a seguito della reiterazione – il proprietario possa attivare un procedimento amministrativo nel corso del quale egli ha l’onere di provare “l’entità del danno effettivamente prodotto”, quale presupposto processuale necessario per poter agire innanzi alla corte d’appello. Nel quadro normativo vigente, dunque, continua a sussistere il principio per il quale gli atti dei procedimenti di adozione e di approvazione di uno strumento urbanistico, contenente un vincolo preordinato all’esproprio, non devono prevedere la spettanza di un indennizzo, fermo restando il diritto del proprietario di ottenere – in presenza dei relativi presupposti – l’indennità commisurata all’entità del danno effettivamente prodotto (…)». IL CONTENZIOSO NAZIONALE 247 248 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Il divieto di prove nuove nel giudizio amministrativo. Contrasti giurisprudenziali nell’ambito del Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, sezione sesta, decisione 4 giugno 2007 n. 2951; sezione quinta, decisione 11 settembre 2007, n.4789; Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, decisione 8 ottobre 2007 n.933). Le tre sentenze che seguono testimoniano l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale nell’ambito dello stesso Consiglio di Stato (ivi compresa la sua “sezione” siciliana) in ordine alla applicazione dell’art. 345 c.p.c. nel giudizio amministrativo. Con la prima sentenza, la Sezione sesta del Consiglio di Stato (relatore ed estensore l’ex collega Giovagnoli) ha affermato che “il divieto di produrre nuove prove in appello di cui all’art. 345 c.p.c., vale anche per le c.d. prove precostituite, come i documenti, la cui produzione, pertanto, è subordinata, al pari delle prove costituende, alla verifica della sussistenza di una causa non imputabile ovvero alla valutazione della loro indispensabilità. Debbono ritenersi “prove indispensabili” le “prove cruciali”, quelle cioè il cui esito possa denotare l’ingiustizia della prima sentenza e condurre a rovesciarne le statuizioni”. (Nella specie è stato ritenuto indispensabile il rapporto di ricezione del fax ai fini della decisione sulla tardività o meno del ricorso di primo grado). Con la seconda sentenza, la Sezione quinta del Consiglio di Stato ha rilevato che “la P.A. può comunque produrre nella fase di appello un documento non esibito e/o non depositato in primo grado, non operando la limitazione di cui all’articolo 345 c.p.c. nel processo amministrativo; tale previsione, infatti, non si applica, in generale, nel giudizio di legittimità, e, nell’ambito della giurisdizione esclusiva, il divieto di nuove prove in appello non riguarda le prove documentali precostituite”. Con la terza sentenza, il C.G.A. per la Regione siciliana ha statuito che “ai sensi dell’art. 345 c.p.c., applicabile anche al processo amministrativo, nel giudizio di appello è inammissibile l’acquisizione di nuove prove, né costituende né costituite, al di fuori dei casi eccezionali di cui al terzo comma della citata norma del codice di rito – c.m. dalla novella del 1990, applicabile nei giudizi introdotti in primo grado successivamente al 1 maggio 1995”. (Nella specie, pertanto, al fine di provare la tempestiva ricezione dell’offerta e contestare l’esclusione dalla gara per tardività della stessa, perché priva di timbro postale di consegna al destinatario entro il termine ultimo fissato dal bando, è inammissibile la produzione, per la prima volta in appello, della “distinta di recapito per utenti col registro personalizzato” dell’ufficio postale). Urge un intervento compositore dell’Adunanza Plenaria. Avv. Maurizio Borgo IL CONTENZIOSO NAZIONALE 249 Consiglio di Stato, sezione sesta, decisione 4 giugno 2007 n.2951 – Pres. G. Trotta – Cons. Est. R. Giovagnoli – Ricorsi in appello: a) Ministero dell’Interno (Avvocatura Generale dello Stato) c/ E. S.p.A. (Avv. F. Cardarelli) e nei confronti di S.I. S.P.A. e S.T. s.r.l. (Avv.ti A. Vischi, E. A. Raffaelli e V. Caputi Jambrenghi); b) S.I. S.P.A. e S.T. s.r.l. , in proprio ed in qualità, rispettivamente, di mandante e mandataria dell’R.T.I. tra le stesse costituito (Avv.ti A. Vischi, Enrico A. Raffaelli e V. Caputi Jambrenghi) c/ Ministero dell’Interno (Avvocatura Generale dello Stato), Ministero dell’Interno - Dipartimento per gli Affari Interni e Territoriali Direz. Centr. Ris. Fin. e Strum. Uff. IV S.I.A. (n.c.); e nei confronti di E. S.p.A. (Avv. F. Cardarelli) , per la riforma della sentenza del TAR Lazio – Roma, Sezione I ter n. 5362/2006 del 3 luglio 2006. «Fatto e diritto 1.- Vengono in decisione gli appelli n. 6118/2006 e n. 6330/2006 (già riuniti nella fase cautelare con l’ordinanza del 28 luglio 2006, n. 4026), proposti rispettivamente dal Ministero dell’Interno e da S.I. S.p.A. e S.T. s.r.l. (in proprio e in qualità rispettivamente di mandataria e mandante del R.T.I. tra le stesse costituito) per la riforma della sentenza del T.A.R. per il Lazio, sez. I ter, n. 5362/2006. 2.- La sentenza di primo grado ha accolto il ricorso proposto da E. S. p.a. e, per l’effetto, ha annullato l’aggiudicazione definitiva in favore della R.T.I. S.I. S.p.A. e S.T. s.r.l. della gara a procedura aperta per la “realizzazione e messa in esercizio del sistema informativo per la gestione del sistema sanzionatorio amministrativo per l’accertamento delle infrazioni al codice della strada per la Prefettura-Ufficio territoriale del Governo di Roma”. Il T.A.R., in particolare, rigettata l’eccezione pregiudiziale di irricevibilità sollevata dal Ministero e dall’R.T.I. aggiudicatario, ha accolto il motivo di ricorso con il quale la E. S.p.A. lamentava la mancata esclusione dell’aggiudicatario, esclusione che la stazione appaltante avrebbe invece dovuto disporre in quanto l’R.T.I. aggiudicatario ha presentato una polizza fideiussoria intestata solo alla capogruppo S.I. S.p.A. e non anche alla mandante S.T. s.r.l. Secondo il Giudice di primo grado, il raggruppamento aggiudicatario doveva essere escluso dall’Amministrazione alla luce dell’orientamento accolto dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 8/2005, in forza del quale la polizza fideiussoria deve essere intestata non solo alla società capogruppo, ma anche alle mandanti individualmente responsabili delle dichiarazioni rese per la partecipazione alle gare di loro comune interesse. 3.- Per ottenere la riforma di tale sentenza gli appellanti deducono: – in via pregiudiziale, che il T.A.R. avrebbe dovuto dichiarare irricevibile il ricorso atteso che il provvedimento di aggiudicazione a favore dell’R.T.I. S.I. e S.T. è stato comunicato via fax alla ricorrente in data 23 gennaio 2006, mentre il ricorso è stato proposto il 30 marzo 2006 e, dunque, dopo il termine di decadenza di sessanta giorni; – nel merito, che la cauzione provvisoria presentata dalla S.I. per partecipare alla gara doveva considerarsi valida in quanto è lo stesso bando a prevedere che la cauzione provvisoria in caso di R.T.I. debba essere presentata solo dall’impresa mandataria (o designata come mandataria). Né tale previsione del bando, peraltro non impugnata in primo grado, può considerarsi in contrasto con quanto affermato dall’Adunanza Plenaria n. 8/2005, atteso che, nel caso di specie, viene in considerazione un appalto di servizi, nell’ambito del quale la richiesta di presentazione di una cauzione provvisoria a corredo dell’offerta è del tutto facoltativa ai sensi dell’art. 4, lett. b) punto 11 d.lgs. n. 157/1995. Al contrario la deci250 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO sione della Plenaria si riferiva ad un appalto di lavori in cui la cauzione provvisoria è obbligatoria. 4.- Si è costituita in giudizio la E. S.p.A. chiedendo il rigetto degli appelli e riponendo, con appello incidentale, le censure, assorbite in primo grado. 4.1.- In primo luogo, secondo la E., il provvedimento di aggiudicazione sarebbe illegittimo anche perché l’Amministrazione, dopo aver richiesto nel disciplinare di gara, tra i prodotti hardware, una stampante digitale in grado di supportare, quanto al formato carta, “fino al formato A3 plus compreso”, avrebbe, successivamente, deciso di prescindere da tale requisito sull’erronea convinzione che nessuna delle offerte presentate fosse in grado di soddisfarlo; 4.2.- In secondo luogo, la E. lamenta la violazione del principio della pubblicità delle sedute di gara, sostenendo che la Commissione ha proceduto a valutare le offerte tecniche presentare senza dare atto in seduta pubblica del luogo e del momento dell’avvenuta apertura delle buste B che le contenevano, nonché del loro contenuto e della loro necessaria conformità a quanto prescritto nella disciplina di gara. Oltretutto, sostiene l’appellante incidentale, anche la specificazione dei criteri sarebbe avvenuta dopo l’apertura delle medesime buste B. 5.- All’udienza del 30 marzo 2007, su richiesta delle parti, la causa è stata trattenuta per la decisione e in data 2 aprile 2007 è stato pubblicato il dispositivo della decisione ai sensi dell’art. 23 bis, comma sesto, legge n. 1034/1971. 6.- L’appello è fondato. 7.- Deve essere accolta l’eccezione di irricevibilità del ricorso sollevata in primo grado dall’R.T.I. aggiudicatario e dal Ministero dell’Interno e dagli stessi riproposta con il ricorso in appello. Il T.A.R. ha rigettato tale eccezione ritenendo la comunicazione via fax dell’aggiudicazione non idonea a fare decorrere il termine decadenziale previsto dall’art. 21 legge n. 1034/1971. Il T.A.R., in particolare, pur riconoscendo che il fax fosse stato ricevuto dalla ricorrente, ha, tuttavia, considerato, tale strumento inidoneo a far decorrere il termine per impugnare. L’assunto non può essere condiviso. 7.1.- Innanzitutto, giova evidenziare che l’utilizzo del fax era previsto dalle norme di gara. L’allegato G punto n. 14 del disciplinare di gara prevedeva, infatti, l’inserimento nell’offerta presentata dalle imprese delle seguente dichiarazione: “Per la ricezione di ogni eventuale comunicazione inerente la gara in oggetto e/o richieste di chiarimento si elegge domicilio in …via … tel… fax…”. Adeguandosi a tale previsione, la E. ha indicato alla stazione appaltante il proprio numero di fax, proprio al fine di ricevere di “ogni comunicazione inerente la gara in oggetto”. Essendo l’uso del fax espressamente previsto dalla lex specialis di gara ed avendo la E. indicato all’Amministrazione il proprio numero di fax per la ricezione di comunicazioni inerenti la gara, non può esservi dubbio sul fatto che la conoscenza dell’aggiudicazione acquisita via fax fosse idonea a far decorrere il termine per impugnare. 7.2.- Inoltre, il fax rappresenta uno dei modi in cui può concretamente svolgersi la cooperazione tra i soggetti, in quanto essa viene attuata mediante l’utilizzo di un sistema basato su linee di trasmissione di dati ed apparecchiature che consentono di poter documentare sia la partenza del messaggio dall’apparato trasmittente che, attraverso il cosiddetto rapporto di trasmissione, la ricezione del medesimo in quello ricevente. Tali modalità, garantite da protocolli universalmente accettati, indubbiamente ne fanno uno strumento idoneo a garantire l’effetIL CONTENZIOSO NAZIONALE 251 tività della comunicazione. In tal senso, infatti, si muove la normativa più recente (d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445) che consente un uso generalizzato del fax nel corso dell’istruttoria, sia per la presentazione di istanze e dichiarazioni da parte dei privati (articolo 38, comma 1) che per l’acquisizione d’ufficio da parte dell’amministrazione di certezze giuridiche (articolo 43, comma 3). Tanto è vero che “i documenti trasmessi da chiunque ad una pubblica amministrazione tramite fax, o un altro mezzo telematico o informatico idoneo ad accertarne la fonte di provenienza, soddisfano il requisito della forma scritta e la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale.” (articolo 43, comma 6). Posto quindi che gli accorgimenti tecnici che caratterizzano il sistema garantiscono, in via generale, una sufficiente certezza circa la ricezione del messaggio, ne consegue non solo l’idoneità del mezzo a far decorrere termini perentori, ma anche che un fax deve presumersi giunto al destinatario quando il rapporto di trasmissione indica che questa è avvenuta regolarmente, senza che colui che ha inviato il messaggio debba fornire alcuna ulteriore prova. Semmai la prova contraria può solo concernere la funzionalità dell’apparecchio ricevente; ma questa non può che essere fornita da chi afferma la mancata ricezione del messaggio. (cfr. in tal senso Cons. Stato, sez. V, 24 aprile 2002, n. 2202). 7.3.- Né in senso contrario varrebbe richiamare Cons. Stato, sez. IV, 27 dicembre 2006, n. 7935: nel caso esaminato dalla quinta Sezione nella sentenza appena citata, l’affermazione in ordine alla inidoneità del fax a far decorrere il termine di impugnazione trovava la sua giustificazione nell’esistenza, nel bando di gara, di una clausola del seguente tenore “l’Amministrazione aggiudicatrice comunicherà a ciascun concorrente l’esito della gara a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento”. Nella fattispecie sottoposta al vaglio della quinta Sezione, dunque, non solo non vi era nel bando alcuna clausola che prevedesse il fax come strumento di comunicazione, ma, al contrario, tale strumento era espressamente escluso per la comunicazione dell’esito della gara, comunicazione per la quale il bando prescriveva la raccomandata con avviso di ricevimento. Ben diverso è il caso oggetto del presente giudizio in cui, come si è detto, la lex specialis della gara richiedeva alle imprese partecipanti di fornire all’Amministrazione anche il numero di fax al fine, appunto, di ricevere, tramite tale strumento, le comunicazioni inerenti al gara. 7.4.- Appurato che la comunicazione avvenuta via fax era strumento idoneo (anche alla luce delle previsioni del bando) a far decorrere il termine per impugnare, occorre ora verificare se possa ritenersi provata la ricezione del predetto fax da parte della E. Al quesito deve darsi risposta positiva. È stato prodotto in giudizio, infatti, il rapporto di trasmissione del fax da cui risulta che lo stesso è stato ricevuto in data 23 gennaio 2006. Come sopra ricordato, il fax deve presumersi giunto al destinatario quando il rapporto di trasmissione indica che questa è avvenuta regolarmente, senza che colui che ha inviato il messaggio debba fornire alcuna ulteriore prova, spettando semmai al destinarlo l’onere di provare la mancata ricezione del fax a causa di una difetto di funzionamento dell’apparecchio. Tale prova contraria nel caso di specie non è stata fornita, non potendosi ritenere a tal fine sufficiente la ricevuta di un intervento di manutenzione che sarebbe avvenuto (secondo la tesi della E.) “proprio nei giorni in cui si afferma essere inviata la comunicazione”. Tale documento, peraltro privo di data certa e proveniente da un soggetto di fiducia dell’E., non fornisce la richiesta prova contraria, perché non dimostra che l’apparecchio fosse guasto proprio nella giornata e nell’orario in cui è avvenuta la comunicazione. 7.5.- L’E. ha anche eccepito l’inammissibilità della produzione del rapporto di trasmissione in quanto avvenuta solo in appello. L’eccezione non è fondata. Il Collegio non ignora che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. Sez. Un. 20 aprile 2005, n. 8203), risolvendo il contrasto sorto circa l’applicabilità ai documenti del divieto di nuove prove di cui all’art. 345, comma 3, c.p.c., hanno optato per la tesi che nega la libera producibilità dei documenti in appello. Le Sezioni Unite hanno affermato che il divieto di produrre nuove prove in appello vale anche per le c.d. prove precostituite, come i documenti, la cui produzione, pertanto, è subordinata, al pari delle prove costituende, alla verifica della sussistenza di una causa non imputabile ovvero alla valutazione della loro indispensabilità. Nel caso di specie è proprio l’indispensabilità del documento a consentirne la produzione direttamente in appello. Il rapporto di ricezione è certamente una prova indispensabile in quanto si tratta di un documento determinante per la ricostruzione di una circostanza di fatto (il giorno in cui è avvenuta conoscenza del provvedimento impugnato) decisiva ai fini della decisione sulla tardività o meno del ricorso di primo grado. Anche a voler riconoscere che le prove indispensabili di cui all’art. 345, comma 3, c.p.c. siano soltanto quelle che abbiano una influenza causale più incisiva, quanto alla decisione della controversia, rispetto alle prove meramente rilevanti, non può, tuttavia, esservi dubbio sul fatto che, nella fattispecie, il carattere della indispensabilità debba certamente essere riconosciuto: il rapporto di trasmissione, infatti, dimostrando la tardività del ricorso, conduce ad un rovesciamento delle statuizioni contenute nella sentenza di primo grado. Ammettere, nel presente giudizio di appello, la produzione del rapporto di ricezione del fax è, pertanto, perfettamente coerente con la ratio dell’art. 345, comma 3, c.p.c., il quale, laddove prevede, in deroga al divieto dei nova in appello, l’ammissibilità della prove indispensabili, esprime un forte bisogno di aderenza al vero della decisione di gravame. In tale ottica, debbono ritenersi “prove indispensabili” senz’altro le “prove cruciali”, quelle cioè il cui esito possa, come nel caso in esame, denotare l’ingiustizia della prima sentenza e condurre a rovesciarne le statuizioni. 7.6.- Del resto, giova ancora rilevare che l’eccezione di tardività del ricorso di primo grado è una eccezione rilevabile d’ufficio, proponibile, come tale, anche direttamente in appello (cfr. art. 345, comma 2, c.p.c.). Si tratta di un dato non irrilevante ai fini di valutare l’ammissibilità della produzione documentale in contestazione. Il Collegio condivide, infatti, la tesi secondo cui l’ammissibilità in appello di una eccezione non può non comportare anche la possibilità di allegare – e, per quel che più conta in questa sede, di provare – i fatti ad essa sottostanti. Avrebbe poco senso, infatti, consentire la proposizione di nuove eccezioni, senza però dare alle parti la possibilità di provare i fatti su cui tali eccezioni si fondano (in tal senso, cfr. Cass. Sez. Un. 25 maggio 2001, n. 226). 7.7.- Alla luce delle considerazioni che precedono, deve ritenersi ammissibile la produzione in appello del rapporto di ricezione del fax inviato dal Ministero dell’Interno alla E. in data 23 gennaio 2006. Tale rapporto dimostra che l’E. ha avuto conoscenza del provvedimento di aggiudicazione definitiva a favore dell’R.T.I. appellante, in data 23 gennaio 2006. Ne consegue che il ricorso di primo grado, portato alla notifica in data 30 marzo 2006, deve ritenersi tardivo perché proposto oltre il termine di decadenza di sessanta giorni. 7.8.- L’appello va, pertanto, accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, il ricorso va dichiarato irricevibile. 252 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 8.- L’accoglimento del primo motivo di gravame comporta l’assorbimento degli altri motivi di appello. 9.- Al riguardo, va, tuttavia, precisato che la sentenza del T.A.R. è erronea anche laddove ha ritenuto che l’R.T.I. aggiudicatario, avendo presentato una polizza fideiussoria intestata solo alla capogruppo, doveva essere escluso 9.1.- Tale conclusione non considera che, nella fattispecie, era lo stesso disciplinare di gara a prevedere che la cauzione provvisoria dovesse essere presentata, in caso di R.T.I., solo dall’impresa mandataria (o designata tale). Né tale previsione di gara può essere considerata illegittima sulla base del principio espresso dall’Adunanza Plenaria con la decisione n. 8/2005 (in base al quale negli appalti di lavori la polizza fideiussoria deve essere intestata anche alle mandanti). Occorre considerare, infatti, che nel caso oggetto del presente giudizio viene, in considerazione un appalto (non di lavori ma) di servizi, il che implica che la stazione appaltante avesse la mera facoltà e non l’obbligo di chiedere ai concorrenti la presentazione di una cauzione provvisoria a corredo dell’offerta. Se, dunque, in materia di appalti di servizi è certamente consentito (a differenza che negli appalti di lavori) alla stazione appaltante di non richiedere alcuna cauzione provvisoria ai concorrenti, deve ritenersi consentita, a fortiori, la richiesta di una cauzione provvisoria alla sola mandataria di un R.T.I. Anche sotto questo profilo, quindi, la sentenza di primo grado giunge a conclusioni errate. 10.- Infondate sono, invece, le censure proposte dalla E. con l’appello incidentale. 10.1.- La decisione dell’Amministrazione di prescindere, per la stampante, dal requisito del formato di carta “A3 Plus” è motivata in ragione del fatto che il formato “A3 Plus” non è uno standard riconosciuto a livello internazionale, ma un semplice nome commerciale il cui significato, peraltro, non è univoco (con l’espressione “A3 plus” vengano indicati, infatti, formati di carta di diverse dimensioni). È appena il caso di aggiungere che il formato di carta che la stampante offerta dai concorrenti è in grado di supportare rappresenta un elemento marginale nella valutazione delle offerte, alla luce del ben più ampio oggetto dell’appalto, concernente la “realizzazione e messa in esercizio del sistema informativo per la gestione del sistema sanzionatorio amministrativo per l’accertamento delle infrazioni al codice della strada per la Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo di Roma”. 10.2.- Del tutto sfornito di prova è, infine, il motivo di appello incidentale con cui si denuncia la violazione del principio di pubblicità delle sedute di gara e la fissazione dei criteri di valutazione dopo l’aperture delle buste B concernenti le offerte tecniche. Anche se non fosse stato tardivo, quindi, il ricorso di primo grado, avrebbe dovuto essere rigettato nel merito. 11.- Quanto alle spese, il Collegio ritiene che sussistano giusti motivi per disporre la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. - Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sui ricorsi in epigrafe li accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata dichiara irricevibile il ricorso di primo grado. Spese compensate. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa. Così deciso in Roma, dal Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale – Sez. VI – nella Camera di Consiglio del 30 marzo 2007». IL CONTENZIOSO NAZIONALE 253 254 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Consiglio di Stato, sezione quinta, decisione 11 settembre 2007 n. 4789 – Pres. R. Iannotta – Est. M. Lipari – R.C. (Avv. P.M. Piccirillo) c/ Comune di Napoli (Avv.ti G. Tarallo, E. Barone e B. Ricci). «Fatto 1.- La sentenza impugnata ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal Sig. R. C., attuale appellante, contro il silenzio maturato sulle richieste di cui all’atto stragiudiziale in data 24 febbraio 1995, nonché contro la nota n. 9695, a firma del dirigente della gestione giuridica del personale del comune di Napoli. 2.- L’appellante contesta la decisione del tribunale, riproponendo le censure articolate in primo grado. 3.- Il comune resiste al gravame. Diritto 1.- L’appellante, ricorrente in primo grado, espone di essere impiegato di ruolo del comune di Napoli, con la qualifica di sottoufficiale dei Vigili Urbani, in seguito al trasferimento dal comune di Torino. 2.- Con atto del 3 febbraio 1995, nonché con successiva diffida stragiudiziale ai sensi dell’articolo 25 del testo unico n. 3/1957, l’interessato chiese all’amministrazione il riconoscimento dell’anzianità di servizio nel grado di vigile urbano a far tempo dal 31 gennaio 1978 e nel grado di sottufficiale a far tempo dal 28 febbraio 1979. 3.- Con il ricorso di primo grado, l’appellante ha censurato il silenzio sulla diffida e altri atti adottati dall’amministrazione. Ha chiesto, inoltre, l’accertamento dell’anzianità di servizio e del diritto alle correlate differenze retributive. 4.- Nelle more del giudizio di primo grado, la giunta municipale di Napoli ha annullato i provvedimenti riguardanti il trasferimento dell’interessato dal comune di Torino al comune di Napoli. 5.- Con sentenza n. 3555/1997, il Tar per la Campania, Sezione Quinta, ha annullato il provvedimento di autotutela, dichiarando efficace e pienamente operativo il trasferimento dell’interessato al comune di Napoli e ritenendo inammissibile la domanda relativa al riconoscimento della pregressa anzianità di servizio. 6.- Con la sentenza appellata, il tribunale ha dichiarato inammissibile il ricorso, in quanto l’interessato non ha impugnato tempestivamente il provvedimento n. 7 del 15 maggio 1998, del dirigente del Servizio Organizzazione e relazioni sindacali del Comune di Napoli, che, in esecuzione della sentenza n. 3555/1997, aveva disposto il reinquadramento dell’appellante nella qualifica di “Sottufficiale dei Vigili Urbani”, VI livello retributivo, con decorrenza dal 1 luglio 1988. 7.- Con un primo mezzo di gravame, l’appellante lamenta che la pronuncia di primo grado si sia basata su un documento prodotto dall’amministrazione comunale all’udienza di discussione, nonostante l’opposizione della difesa del ricorrente. 8.- Pertanto, a suo dire, il documento dovrebbe essere “stralciato” dagli atti da esaminare e non avrebbe potuto costituire il presupposto centrale della decisione di inammissibilità. 9.- Il motivo è infondato. 10.- L’articolo 23, comma quarto, della legge n. 1034/1971 prevede che le parti possano produrre documenti fino a venti giorni liberi anteriori al giorno fissato per l’udienza e presentare memorie fino a dieci giorni. 11.- L’orientamento prevalente sostiene che entrambi i termini svolgono la duplice funzione di garantire la pienezza del contraddittorio e l’ordinato svolgimento del giudizio. 12.- La norma, tuttavia, non qualifica espressamente i termini come perentori, né afferma che essi siano stabiliti a pena di decadenza, affidando all’interprete il compito di definire le conseguenze derivanti dalla loro inosservanza. Pertanto, applicando il principio espresso dall’articolo 152 del codice di procedura civile, secondo il quale “i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori”, la giurisprudenza ha seguito un indirizzo interpretativo articolato e complesso, volto ad individuare le conseguenze del mancato rispetto degli indicati termini. In tale prospettiva si è distinto tra termini per le memorie e termini per le produzioni documentali. Inoltre, si è talvolta posta l’attenzione sulla rilevanza del documento in relazione all’oggetto del giudizio e alla circostanza che esso sia effettivamente collegato con gli atti del procedimento sostanziale all’origine della specifica controversia. 13.- Con particolare riguardo ai documenti prodotti dall’amministrazione, purché direttamente connessi con l’oggetto della domanda, si è correttamente osservato che non avrebbe alcun senso precluderne l’esibizione dopo lo spirare del termine previsto dall’articolo 23 (o anche il giorno stesso dell’udienza), dal momento che il deposito di tali documenti costituisce addirittura un obbligo (e non un mero potere difensivo) gravante sul soggetto pubblico, indipendentemente dalla circostanza che esso si sia costituito in giudizio per resistere alla domanda. 14.- Il dovere di produzione documentale, che, oltretutto, potrebbe essere sollecitato d’ufficio dal giudice, resta intatto anche nei casi in cui gli atti esibiti possano risultare oggettivamente favorevoli all’amministrazione stessa. 15.- Si deve sottolineare, poi, che l’amministrazione potrebbe comunque produrre il documento anche in grado di appello, non operando la limitazione di cui all’articolo 345 del codice di procedura civile nel giudizio amministrativo. Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, infatti, tale previsione non si applica, in generale nel giudizio di legittimità, e nell’ambito della giurisdizione esclusiva il divieto di nuove prove in appello non riguarda le prove documentali precostituite. 16.- È appena il caso di osservare, poi, che il potere istruttorio di ufficio potrebbe essere esercitato anche in grado di appello. Pertanto, l’appellante non avrebbe alcun concreto interesse a dedurre l’irritualità della produzione documentale effettuata in primo grado, perché tale atto potrebbe comunque essere acquisito dal giudice, anche in mancanza di apposita istanza, se ritenuto rilevante ai fini della decisione. 17.- Quindi, a fronte della produzione documentale effettuata dall’amministrazione, sia pure dopo la scadenza del termine previsto dall’articolo 23, la mera opposizione del ricorrente, ancorché esplicitata, non assume alcun valore preclusivo, spettando al giudice il compito di verificare l’utilità del documento ai fini istruttori. 18.- In tali circostanze si pone, semmai, solo il diverso problema dell’opportuno coordinamento con il principio di rispetto del contraddittorio e con la necessità di assicurare un congruo spazio temporale di difesa del soggetto interessato. 19.- Ma questa esigenza deve essere valutata in concreto e non in astratto, tenendo conto di una pluralità di circostanze, quali la maggiore o minore complessità del materiale istruttorio esibito dall’amministrazione, la dimostrazione (o la probabilità) che il documento sia conosciuto dall’interessato, l’univocità degli effetti (sostanziali o processuali) derivanti dall’atto in questione. 20.- In tale prospettiva, allora, il giudice, nell’esercizio dei propri poteri di governo del processo conserva la facoltà di decidere quando sia preferibile (o necessario) stabilire un breve differimento dell’udienza di discussione, per consentire a tutte le parti di valutare il documento e sviluppare le rispettive difese. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 255 256 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 21.- Tale potere diventa un vero e proprio obbligo quando la parte interessata chieda espressamente un termine a difesa per la proposizione di motivi aggiunti o per assumere altre iniziative processuali che trovano la loro base giustificativa esclusiva nel nuovo documento. 22.- In tali eventualità, allora, spetta alla parte interessata l’onere di rappresentare le ragioni che possono giustificare non già lo stralcio del documento ma, piuttosto, il differimento dell’udienza. 23.- In mancanza di tale richiesta, la scelta del tribunale di acquisire il documento e trattenere la causa per la decisione risulta, quindi, pienamente legittima. 24.- Del resto, il motivo di gravame proposto si incentra tutto sulla mera irritualità dell’acquisizione del documento, senza proporre alcuna censura diretta a lamentare la mancata concessione dei termini a difesa. 25.- Con un secondo mezzo, l’appellante afferma che la sentenza impugnata avrebbe anche errato nell’interpretazione dell’effettiva portata della determina dirigenziale n. 7/1998. 26.- Anche tale motivo è privo di pregio. 27.- È indiscutibile che il provvedimento dirigenziale, nel dare esecuzione alla sentenza n. 3555/1997, abbia definito anche la decorrenza dell’anzianità di servizio dell’interessato e abbia stabilito, di conseguenza, il trattamento economico spettante. 28.- Questa determinazione, seppure originata dalla pronuncia del tribunale, di annullamento del precedente provvedimento di autotutela, ha stabilito in modo puntuale l’inquadramento dell’interessato, superando il precedente silenzio e le correlate determinazioni interne e meramente interlocutorie. 29.- Ogni contestazione dell’inquadramento disposto, in relazione al calcolo dell’anzianità maturata alle dipendenze del comune di Torino sarebbe dovuta essere proposta mediante il tempestivo ricorso contro l’atto di inquadramento, che è ormai diventato inoppugnabile. 30.- È vero, infatti, che la nuova determinazione dirigenziale non valuta espressamente la precedente istanza diretta al calcolo esatto dell’anzianità maturata. Tuttavia, l’atto di inquadramento, per la sua natura autoritativa, assume portata immediatamente lesiva delle posizioni del dipendente, anche in relazione alle pretese omissioni o inesattezze in cui sia incorsa l’amministrazione durante l’effettuazione delle operazioni di ricostruzione della carriera o di calcolo dell’anzianità di servizio. 31.- In definitiva, quindi, l’appello deve essere rigettato. 32.- Le spese possono essere compensate. P.Q.M. il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, respinge l’appello, compensando le spese; ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 6 febbraio 2007» . Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, decisione 8 ottobre 2007 n. 933 – Pres. Riccardo Virgilio - Est. E. de Francisco D.C.M.R. (Avv. G. Rubino) c/ Comune di Canicattì (Avv. M. Di Benedetto) e Soc. Coop. a r.l. L.P. (Avv. V. Avanzato), per la riforma della sentenza del T.A.R. della Sicilia, sede di Palermo (sez. int. III), n. 2364 del 25 ottobre 2006. «Fatto Viene in decisione l’appello avverso la sentenza indicata in epigrafe che ha respinto il ricorso dell’odierna appellante per l’annullamento degli atti per cui la stessa è stata esclusa IL CONTENZIOSO NAZIONALE 257 dalla gara per l’affidamento in concessione quinquennale del servizio “Asili nido” del Comune di Canicattì, aggiudicato invece alla controinteressata. All’odierna udienza la causa è stata trattenuta in decisione. Diritto 1. – L’appello censura la sentenza gravata per non aver ritenuto tempestiva, a tenore dell’art. 7 del bando di gara, l’offerta della ricorrente, perché priva di timbro postale di consegna al destinatario entro il termine del 30 aprile 2006 fissato dal bando. Il gravame è infondato. È assodato, in punto di fatto, che: 1) ai sensi dell’art. 7 del bando di gara, rubricato “Termine ultimo per il ricevimento delle offerte”, “a pena di esclusione, i plichi contenenti le offerte e la documentazione di gara … dovranno pervenire entro il giorno 30 aprile 2006 (fa fede la data del timbro postale) presso la sede del Municipio”; 2) la busta contenente l’offerta della ricorrente è stata spedita, mediante raccomandata inoltrata presso un ufficio postale di Canicattì, in data 29 aprile 2006 (con timbro di spedizione in pari data); 3) non consta che su tale busta sia stato apposto alcun ulteriore timbro postale attestante la data di ricezione da parte del destinatario; 4) l’Amministrazione comunale ha attestato nel verbale di gara che la busta in questione “come timbro di ricevimento da parte dell’Ufficio protocollo porta la data del 3 maggio 2006”; 5) per la prima volta in appello, l’interessata ha prodotto una “distinta di recapito per utenti con registro personalizzato” dell’ufficio postale di Canicattì centro del 2 maggio 2006, in cui è indicata la raccomandata contente l’offerta indirizzata al Comune. 2. – Ciò chiarito, il Collegio rileva da un lato che la prova di tempestiva ricezione dell’offerta avrebbe dovuto risultare, per il bando di gara, da un timbro postale di consegna (cioè quello apposto all’atto della consegna del plico al destinatario), in difetto del quale correttamente la commissione ha assunto per buona la data risultante dal timbro apposto dall’ufficio protocollo del Comune medesimo. 3. – Sotto altro ed assorbente profilo, il Collegio rileva altresì l’inammissibilità della produzione, per la prima volta in appello, dei docc. n. 7 e n. 8 allegati al gravame in esame (distinta di recapito e dichirazione del direttore dell’ufficio postale di Canicattì), perché anche nel processo amministrativo, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., non sono ammissibili in grado di appello nuove prove, né costituende né costituite, al di fuori dei casi eccezionali – nella specie non ricorrenti – di cui al terzo comma della citata norma del codice di rito, nel testo risultante dalla novella del 1990 che trova applicazione nei giudizi introdotti in primo grado successivamente al 1 maggio 1995. C.d.S., IV, 14 aprile 2006, n. 2107, ha da ultimo ribadito – in conformità, peraltro, al più generale insegnamento di C.d.S., A.P., 29 dicembre 2004, n. 14 – che, “ai sensi dell’art. 345 c.p.c., applicabile anche al processo amministrativo, nel giudizio di appello è inammissibile l’acquisizione di nuove prove documentali, a meno che gravi ed eccezionali motivi non ne abbiano consentito la produzione in primo grado” (conforme, altresì, C.d.S., IV, 6 marzo 2000, n. 1122). A tale orientamento – che, per le sole prove precostituite, è posto in dubbio da alcune decisioni pur recenti (tra cui, da ultima, C.d.S., V, 22 dicembre 2005, n. 7343), ma che esprimono un orientamento cui non può più aderirsi dopo che Cass., Sez. Un., 20 aprile 2005, n. 8203, ha ben chiarito che il divieto di nuove prove in appello si estende anche alle prove documentali – il Collegio convintamente aderisce. Sono dunque inconferenti, anche perché anteriori alla citata decisione dell’adunanza plenaria, i contrari richiami giurisprudenziali operati dall’appellante (C.d.S., V, 2 marzo 1999, n. 222, definiva peraltro un giudizio che era iniziato in primo grado anteriormente al 1995). 4. – Dovendosi dichiarare inammissibili le produzioni documentali testé richiamate, la reiezione del gravame è del tutto conseguenziale: sicché non rilevano né la presentabilità a mani del plico contentente l’offerta entro il termine del 30 aprile 2006 fissato dal bando; né la sua ritenuta prorogabilità al primo giorno successivo non festivo, pur non trattandosi di un termine processuale cui fosse direttamente riferibile la previsione dell’art. 155 c.p.c.. 5. – In conclusione, l’appello è infondato e va perciò disatteso. Si ravvisa, comunque, la sussistenza di giusti motivi per disporre la compensazione integrale delle spese del giudizio tra le parti costituite. P. Q. M. Il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in sede giurisdizionale, respinge l’appello. Spese del secondo grado compensate. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa. Così deciso a Palermo il 18 aprile 2007 dal Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in sede giurisdizionale, riunito in camera di consiglio”. 258 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO L’esecuzione dei lavori da parte delle consorziate dei Consorzi di cooperative di produzione e lavoro. La recente interpretazione del Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 22 giugno 2007 n. 3477) Introduzione La vigente normativa in materia di lavori pubblici contempla tra i soggetti che possono partecipare alle relative procedure di affidamento i Consorzi fra società cooperative di produzione e lavoro costituiti ai sensi della legge 25 giugno 1909, n. 422 e del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577. Tenuto conto della peculiare natura dei soggetti di che trattasi e della specifica disciplina dettata per la partecipazione dei medesimi alle gare per l’affidamento di contratti pubblici, sussistono alcuni dubbi interpretativi per quanto concerne le modalità con cui tali Consorzi, una volta divenuti aggiudicatari, possono procedere alla esecuzione dei lavori loro affidati. In particolare, non appare del tutto chiaro se ed entro quali limiti tale esecuzione possa essere effettuata ad opera delle società cooperative facenti parte del Consorzio. Consorzi di cooperative di produzione e lavoro nell’attuale disciplina in materia di lavori pubblici L’art. 34 del D.Lgs. n. 163/2006 (recante il “Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture”), nell’elencare la tipologia di soggetti ammessi a partecipare alle procedure di affidamento di lavori pubblici, prevede alla lettera b), i Consorzi fra società cooperative di produzione e lavoro costituiti a norma della legge 422/1909 (analoga previsione era contenuta, antecedentemente alla entrata in vigore del Codice dei contratti, nell’art. 10, comma 1, lett. b) della legge n. 109/1994). Quanto alle modalità di partecipazione di tale tipologia di Consorzi alle gare, il successivo art. 37, comma 7, seconda parte, del D.Lgs. n. 163/2006 (così come il previgente art. 13, comma 4 della legge n. 109/94) prevede che i Consorzi stessi sono tenuti ad indicare, in sede di offerta, per quali consorziati il consorzio concorre, precisando altresì che “a questi ultimi è fatto divieto di partecipare, in qualsiasi altra forma, alla medesima gara”. Al fine di meglio comprendere la portata delle disposizioni appena menzionate occorre rammentare che le medesime sono state introdotte dalla legge n. 415/1998 (c.d. Merloni ter) che ha modificato il testo originario del citato art. 13, comma 4 della legge n. 109/1994; il testo originario dell’art. 13, comma 4, nel disciplinare la partecipazione dei concorrenti riuniti alle gare, conteneva infatti esclusivamente una previsione di carattere generale in virtù della quale veniva disposto il divieto“ai concorrenti di partecipare alla gara in più di un’associazione temporanea o consorzio di cui al comma 1 CONTENZIOSO NAZIONALE 259 ovvero di partecipare alla gara anche in forma individuale qualora abbia partecipato alla gara medesima in associazione o consorzio”. Con le disposizioni citate il legislatore ha inteso evidentemente scongiurare l’eventualità che un medesimo soggetto partecipi alla procedura di affidamento a doppio titolo, ossia, singolarmente ed al contempo insieme alla struttura organizzativa collettiva di cui fa parte. Come precedentemente rilevato, la legge n. 415/1998 ha aggiunto la seconda parte dell’art. 13, comma 4 della legge n. 109/1994 (oggi art. 37, comma 7, del D.Lgs. n. 163/2006), esplicitamente riferita ai soli Consorzi stabili ed ai Consorzi di cooperative di produzione e lavoro, la quale dispone appunto che i medesimi “sono tenuti ad indicare, in sede di offerta, per quali consorziati il consorzio concorre; a questi ultimi è fatto divieto di partecipare, in qualsiasi altra forma, alla medesima gara”. Tale modifica appare evidentemente ispirata alla esigenza di limitare, in relazione alle associazioni caratterizzate da stabilità (quali il Consorzio stabile ed il Consorzio di cooperative di produzione e lavoro), il suddetto divieto di partecipazione plurima alle sole consorziate per le quali il Consorzio dichiara di concorrere alla gara. La partecipazione contestuale, con diverse offerte, del consorzio e della consorziata sarebbe infatti idonea a determinare una violazione del principio di trasparenza e di segretezza delle offerte, alterando così la par condicio tra i concorrenti. La medesima ratio è peraltro alla base della disposizione che espressamente vieta la partecipazione alla stessa gara di imprese che si trovino tra di loro in una situazione di controllo tra società (o tra imprese individuali: cfr. Cons.Giust. Amm. Reg. Sicilia, 27 luglio 2005, n. 470) ai sensi dell’art. 2359 c.c. Un ulteriore profilo da analizzare ai fini della analisi della questione oggetto del presente approfondimento attiene alle modalità con cui il Consorzio si qualifica in sede di partecipazione alla gara. Sotto tale profilo, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che i requisiti di carattere tecnico-organizzativo richiesti per la partecipazione alla gara (ossia il possesso della qualificazione SOA ai sensi del d.P.R. n. 34/2000) devono essere posseduti dal consorzio, quale unico soggetto che partecipa alla gara ed assume il vincolo contrattuale, e non anche dalle consorziate; viceversa, per quanto attiene ai requisiti di carattere soggettivo, tali requisiti devono essere valutati sia in capo al consorzio sia in capo alle singole consorziate dal medesimo indicate in offerta quali esecutrici dei lavori: “In tema di requisiti di ammissione dei consorzi di cooperative ex lege n. 422/1909 occorre distinguere tra requisiti di idoneità tecnica e finanziaria, desumibili dall’art. 18 del d.P.R. 25 gennaio 2000, n. 34 e s.m., il cui possesso è richiesto esclusivamente in capo al consorzio (fruendo, al riguardo, le singole cooperative consorziate del rilevante beneficio di poter sommare i rispettivi requisiti, in ipotesi insufficienti, ai fini del raggiungimento delle soglie minime richieste dalla lex specialis della gara) e requisiti di natura generale, di ordine pubblico e di moralità, desumibili ex art. 17 del medesimo d.P.R. n. 34/2000 e s.m., che vanno invece accertati anche in capo alle 260 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO singole imprese consorziate indicate quali esecutrici dei lavori. (Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, 20 luglio 2005, n. 448; cfr ex plurimis C.G.A. 3 agosto 2007, n. 712; Cons. di Stato, sez. IV, 27 giugno 2007, n. 3765; C.G.A. 20 luglio 2005, n. 448; Cons. Stato, Sez. VI, 29 aprile 2003, n. 2183; Sez. V, 20 gennaio 2002, n. 507). La necessaria verifica dei requisiti inerenti la moralità e l’ordine pubblico economico dei consorziati concretamente coinvolti nella commessa pubblica viene giustificata sulla base del presupposto per cui “diversamente si consentirebbe agli operatori sprovvisti di requisiti di aggirare inderogabili prescrizioni fondamentali per le procedure ad evidenza pubblica” (T.A.R. Lazio, sez. I, 25 luglio 2006, n. 6372). Dal quadro normativo che precede può quindi affermarsi, quanto alle modalità di partecipazione dei consorzi di che trattasi alle gare, che: – la qualificazione tecnico economica viene valutata esclusivamente in capo al Consorzio; – i requisiti di carattere soggettivo devono essere verificati sia in capo al Consorzio che in capo alle consorziate, ma solo quelle per le quali il consorzio dichiara di concorrere; – il divieto di partecipazione alla medesima gara è limitato esclusivamente alle consorziate indicate dal consorzio in sede di offerta e non anche alle altre cooperative facenti parte del consorzio; – il consorzio, in caso di aggiudicazione, potrà eseguire i lavori tramite la consorziata per conto della quale ha dichiarato di prendere parte alla competizione, a prescindere dalla circostanza che la medesima risulti qualificata ad eseguire i relativi lavori. L’esecuzione dei lavori da parte di una consorziata diversa da quella indicata in offerta. Tenuto conto del quadro normativo sopra delineato si può procedere ad analizzare la questione concernente la possibilità per il Consorzio di eseguire le lavorazioni oggetto di affidamento tramite una consorziata diversa da quella indicata in gara. a) Atale proposito, atteso che la normativa vigente non detta alcuna esplicita indicazione in merito, sono prospettabili due opposte interpretazioni. Secondo un primo orientamento potrebbe ritenersi che tale fattispecie, configurando una modifica alla composizione soggettiva del consorzio rispetto all’assetto dichiarato in sede di gara, ricada nel divieto previsto dall’art. 37 comma 9 del D.Lgs. n. 163/2006 (precedentemente contenuto nell’art. 13, comma 5-bis, della legge n. 109/1994) con riferimento alle associazioni temporanee di imprese ed ai consorzi di concorrenti di cui all’art. 2602 cod. civ. La citata disposizione prevede che “Salvo quanto disposto ai commi 18 e 19, è vietata qualsiasi modificazione alla composizione dei raggruppamenti temporanei e dei consorzi ordinari di concorrenti rispetto a quella risultante dall’impegno presentato in sede di offerta.” La norma, nel vietare eventuali modificazioni della compagine dei soggetti concorrenti, mira a prevenire eventuali fenomeni elusivi del principio CONTENZIOSO NAZIONALE 261 di trasparenza nell’ambito dei pubblici affidamenti ed altresì a tutelare l’ulteriore principio di contestualità e simultaneità della valutazione da parte della stazione appaltante delle imprese concorrenti (si veda, Consiglio di Stato, sezione IV, 28 maggio 1988, n. 478; T.A.R. Toscana, sezione II, 14 luglio 1998, n. 662; T.A.R. Lazio, sezione II, 19 novembre 1990, n. 2061; T.A.R. Abruzzo, 23 giugno 1992, n. 260). Sulla base di tale disposizione, pertanto, il raggruppamento concorrente deve cristallizzare la propria composizione al momento dell’offerta; il suddetto divieto di modificazione soggettiva del concorrente a partire dalla fase di offerta risulta temperato dalla esplicita eccezione dettata dai commi 18 e 19 del medesimo art. 37 (antecedentemente contenuta nell’art. 94 del d.P.R. 554/99) i quali prevedono che in caso di fallimento dell’impresa mandataria o della mandante – ovvero in caso di morte, interdizione, inabilitazione o fallimento del titolare se si tratta di impresa individuale – la stazione appaltante ha la facoltà di proseguire il proprio rapporto con un’altra impresa, che sia in possesso di requisiti di qualificazione adeguati. Tale norma è stata peraltro interpretata dall’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici in maniera restrittiva; in particolare, ad un quesito avente ad oggetto la possibilità per un’associazione temporanea di imprese aggiudicataria di addivenire alla sostituzione di una impresa mandante, l’Autorità ha risposto negativamente affermando che “la disposizione di cui all’articolo 94 del d.P.R. 554/99, stante il suo carattere di norma eccezionale, consente di derogare al principio generale del divieto di qualsiasi modificazione alla composizione delle associazioni temporanee di imprese rispetto a quelle risultanti dall’impegno presentato in sede di offerta, soltanto nel caso di fallimento dell’impresa mandataria o di un’impresa mandante e, qualora la mandataria o la mandante sia una impresa individuale, anche in casi di morte, interdizione, inabilitazione del suo titolare” (determinazione n. 15/2001). Ciò posto potrebbe ritenersi che, seppur espressamente riferita esclusivamente alle associazioni temporanee di imprese ed ai consorzi ex art. 2602 c.c., la previsione di cui al citato art. 37, comma 9 sia espressione di un più generale principio di immodificabilità dell’assetto soggettivo risultante dall’offerta dei concorrenti che, in quanto tale, troverebbe applicazione anche ai consorzi di cooperative di produzione e lavoro. In tale ottica, la dichiarazione effettuata dal Consorzio in sede di offerta, relativamente al soggetto per cui il Consorzio concorre, sarebbe finalizzata a consentire alla stazione appaltante, da un lato, di verificare con immediatezza eventuali incompatibilità di taluni soggetti a partecipare alla medesima gara, dall’altro di verificare in capo all’impresa indicata come esecutrice la sussistenza degli occorrenti requisiti di carattere soggettivo. La medesima dichiarazione sarebbe pertanto vincolante per il Consorzio nel senso che, una volta divenuto aggiudicatario, lo stesso sarebbe tenuto ad eseguire i lavori oggetto del contratto esclusivamente tramite la consorziata indicata, non potendo procedere, successivamente alla aggiudicazione della gara, alla modifica o sostituzione della medesima. 262 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO In tal senso vale fare menzione di alcune pronunce giurisprudenziali nelle quali è stato affermato che: “La conoscenza della composizione della struttura consortile, anche per i consorzi di cui alle lett. b) e c) dell’art. 10, è finalizzata alla verifica del divieto di partecipazione congiunta di cui agli art. 12 e 13 l. n. 109 del 1994 (e successive modifiche) oltre che all’accertamento di requisiti specifici ai sensi dell’art. 11 della stessa legge, e dei requisiti di ordine pubblico che devono essere posseduti sia dal consorzio che da tutti i soggetti consorziati” (C. Stato, sez. VI, 15 maggio 2003, n. 2646); ed ancora: “La prescrizione di cui all’art. 13, comma 4, della legge 11 febbraio 1994, n. 109 e s.m., che impone ai consorzi tra imprese artigiane di indicare per quali consorziati il consorzio intende concorrere, non solo ha il fine di consentire il controllo del divieto di partecipazione, sotto altra forma, alla medesima gara dei consorziati, ma risponde al generale principio dell’immodificabilità dei partecipanti alla gara nonché all’esigenza dell’amministrazione di esperire le verifiche del possesso dei requisiti richiesti in capo a tutti i soggetti coinvolti, con l’urgenza connaturata ordinariamente alle procedure di esecuzione dei pubblici appalti” (T.A.R. Valle d’Aosta, 17 marzo 2004 n. 30; nella specie è stato ritenuto illegittimo il provvedimento di aggiudicazione a seguito di modificazione del soggetto indicato in sede di gara dal Consorzio quale materiale esecutore delle opere). Ove si aderisca a tale impostazione, che estenderebbe al Consorzio di cooperative il suddetto principio di immodificabilità sancito dal legislatore in materia di ATI, dovrebbe altresì ritenersi che eventuali modifiche della consorziata indicata in sede di offerta sarebbero ammissibili esclusivamente nell’ipotesi considerata dai citati commi 18 e 19 dell’art. 37, D.Lgs. n. 163/2006, ossia nell’ipotesi di fallimento dell’impresa indicata in gara quale esecutrice dei lavori. b) A diversa conclusione potrebbe tuttavia addivenirsi ove si ponga in rilievo la peculiare natura del Consorzio di cooperative e le modalità che conseguentemente caratterizzano la partecipazione del medesimo alle gare. In proposito la giurisprudenza ritiene che il Consorzio di cooperative, in quanto soggetto dotato di personalità giuridica, sia l’unico soggetto che partecipa alla gara ed in capo al quale si costituisce l’aggiudicazione; sul medesimo soggetto ricade, in quanto titolare del rapporto, ogni responsabilità nei confronti del committente, laddove la consorziata indicata in sede di gara è esclusivamente deputata alla esecuzione dei lavori sulla base di un rapporto organico e, quindi, prevalentemente, interno con il Consorzio stesso. Tale circostanza varrebbe a differenziare la posizione assunta nei confronti della committenza dal Consorzio e dalla consorziata per la quale il medesimo concorre rispetto a quella in cui si trovano le singole imprese facenti parte di un’associazione temporanea di imprese, le quali, viceversa, possono ritenersi tutte concorrenti e titolari del relativo rapporto giuridico. Non a caso, come si è avuto modo di osservare, nel caso di Consorzio di cooperative è esclusivamente in capo al medesimo e non alle singole consorziate che dovranno essere verificati, in sede di gara, i requisiti minimi di capacità tecnico-organizzativa. CONTENZIOSO NAZIONALE 263 In una recente pronuncia il Consiglio di Stato ha precisato tali concetti affermando che “il consorzio fra società di cooperative di produzione e di lavoro costituito a norma della legge 25 giugno 1909, n. 422, può partecipare alla procedura di gara utilizzando i requisiti suoi propri e, nel novero di questi, facendo valere i mezzi nella disponibilità delle cooperative che costituiscono, ai fini che qui rilevano, articolazioni organiche del soggetto collettivo, ossia suoi interna corporis; il rapporto organico che lega le cooperative consorziate, ivi compresa quella incaricata dell’esecuzione dei lavori, è in sostanza non dissimile, mutatis mutandis, da quello che avvince i singoli soci ad una società, è tale che l’attività compiuta dalle consorziate è imputata organicamente al consorzio, come unico ed autonomo centro di imputazione e di riferimento di interessi, e che, per conseguenza, diversamente da quanto accade in tema di associazioni temporanee e di consorzi stabili, la responsabilità per inadempimento degli obblighi contrattuali nei confronti della p.a. si appunta esclusivamente in capo al consorzio senza estendersi, in via solidale, alla cooperativa incaricata dell’esecuzione” (Cons. di Stato, sez. VI, 22 giugno 2007, n. 3477). Sulla base di tali considerazioni non potrebbe operarsi sic et simpliciter una trasposizione in capo al Consorzio di cooperative della disciplina dettata in materia di associazioni temporanee di imprese e di consorzi ex art. 2602 c.c. ed, in particolare, della disposizione di cui all’art. 37, comma 9 del D.Lgs. n. 163/2006, che prevede il divieto di modificazione soggettiva dopo la presentazione dell’offerta, né le conseguenti eccezioni a tale divieto stabilite dai commi 18 e 19 dell’art. 37. Al contrario, proprio dalla circostanza per cui detta norma si riferisce espressamente ai soli “raggruppamenti temporanei” ed ai “consorzi ordinari” omettendo ogni riferimento ai Consorzi di cooperative potrebbe trarsi la conclusione per cui per questi ultimi un siffatto divieto non sarebbe previsto. In tale ottica la norma che prevede l’indicazione da parte del Consorzio di cooperative, delle consorziate per le quali il medesimo concorre potrebbe ritenersi esclusivamente finalizzata a garantire che nell’ambito della medesima gara sia scongiurato il rischio che possano essere esaminate dall’amministrazione una pluralità di offerte provenienti da uno stesso soggetto in veste diversa (in tal senso T.A.R. Campania, Sez. I, 3 marzo 2004 n. 2589); l’indicazione fornita in sede di offerta avrebbe pertanto quale unico effetto quello di consentire alla stazione appaltante una verifica in ordine ad eventuali incompatibilità dei concorrenti a partecipare alla gara, mentre la medesima non sarebbe altresì idonea a determinare un vincolo immodificabile in capo al Consorzio di cooperative nei confronti del committente in ordine al soggetto che, in caso di aggiudicazione in capo al Consorzio, potrà eseguire i lavori per conto dello stesso. Sotto tale profilo non può farsi a meno evidenziare la peculiare collocazione sistematica della norma che prevede l’obbligo per i consorzi di cooperative di dichiarare in sede di offerta per quali consorziati il Consorzio concorre; tale previsione, come precedentemente evidenziato, è contenuta all’interno dello stesso comma che prevede il più generale divieto dei concorren- 264 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO ti di partecipare alla medesima gara in diverse forme (art. 37, comma 7, legge n. 109/1994) ed, in tal senso, appare finalizzata non tanto a regolamentare la fase di esecuzione dei lavori ponendo un vincolo in capo al Consorzio relativamente al soggetto che materialmente vi provvederà, quanto piuttosto a regolamentare la fase di gara ponendo un limite afferente i soggetti che vi possono partecipare. L’orientamento dell’Autorità di Vigilanza Della questione si è occupata l’Autorità di vigilanza, alla quale è stato sottoposto un quesito attinente alla possibilità per un Consorzio di cooperative di produzione e lavoro di far eseguire i lavori ad una consorziata diversa da quella indicata in sede di gara in caso di difficoltà operative e finanziarie di quest’ultima tali da far ritenere alla stazione appaltante che la medesima non sia più in grado di adempiere alle prestazioni contrattuali. In tale ipotesi, l’Autorità ha sviluppato alcune delle argomentazioni cui si è precedentemente fatto cenno, addivenendo ad una soluzione che, pur tenendo conto dei principi generali stabiliti dalla normativa del settore, conferisce la dovuta rilevanza alla peculiare natura del Consorzio di cooperative. In particolare l’Autorità, nella deliberazione n. 263 dell’11 luglio 2001, ha affermato che “il riconoscimento della personalità giuridica e la qualificazione del consorzio ex legge 422/1909 come autonomo soggetto, distinto dai consorziati, comporta l’instaurazione tra consorzio e consorziati di un rapporto organico; ne discende che l’attività posta in essere dalla singola cooperativa in qualità di consorziata è imputabile al soggetto consorzio, in quanto la cooperativa stessa è inserita nel consorzio con un rapporto di immedesimazione organica, e i suoi intenti si identificano integralmente con quelli del consorzio stesso. Infatti è sul soggetto consorzio che ricade, nella sua qualità di formale titolare del rapporto esterno, ogni responsabilità nei confronti del committente. È il Consorzio in quanto tale a partecipare alla gara attraverso l’impresa indicata”. Sulla scorta di tali argomentazioni l’Autorità ha pertanto concluso che “in un appalto di lavori pubblici aggiudicato ad un consorzio di cooperative di produzione e lavoro costituito a norma della legge 422/1909 e s.m.i., di cui all’articolo 10, comma 1, lettera b) della legge 109/94, è conforme alla normativa, in caso di oggettiva impossibilità valutata dalla stazione appaltante, alla prosecuzione dei lavori da parte dell’originaria impresa designata, incaricare altra consociata per l’esecuzione dei lavori residui alle medesime condizioni economiche di cui all’offerta, ancorché non sia stata espressamente indicata in sede di gara quale cooperativa interessata all’appalto, e la S.A. abbia proceduto alla verifica che l’impresa subentrante non abbia partecipato autonomamente alla gara e risulti in possesso dei requisiti di carattere generale”. Nella predetta determinazione pertanto l’Autorità, da un lato, ha ammesso la possibilità che i lavori aggiudicati in capo al Consorzio di cooperative possano essere eseguiti da un consorziato diverso da quello indicato in sede di gara; dall’altro, ha tuttavia limitato tale ipotesi al caso in cui vi sia una CONTENZIOSO NAZIONALE 265 “oggettiva impossibilità” valutata dalla stazione appaltante alla prosecuzione dei lavori da parte dell’originaria impresa designata, semprechè l’impresa subentrante non abbia a suo tempo partecipato in via autonoma alla gara. In una successiva determinazione, sia pure resa in materia di Consorzi stabili (i quali, per quanto riguarda la previsione di cui all’art. 37 comma 7 del D.Lgs. n. 163/2006, vengono sottoposti alla medesima disciplina prevista per i Consorzi di cooperative di produzione e lavoro), l’Autorità ha avuto modo di rilevare che “Il vincolo in base al quale le imprese consorziate eseguono i lavori deriva dall’assegnazione fatta dal consorzio; assegnazione che non è un contratto di appalto e nemmeno un subappalto bensì un atto unilaterale ricettizio del consorzio medesimo. Il vincolo per l’impresa assegnataria deriva dallo stesso rapporto consortile in forza del quale i consorziati conferiscono alla struttura consortile l’incarico di stipulare contratti d’appalto per loro conto ed in nome del consorzio e di indicare, di volta in volta, a quale tra loro assegnare e far eseguire i lavori. Non vi è, pertanto, una duplicità di contratti di appalto (un appalto della stazione appaltante al consorzio ed un subappalto del consorzio alle imprese consorziate) ma un unico contratto che il consorzio stipula in nome proprio ma per conto delle imprese consorziate (T.A.R. Lombardia, 4 febbraio 1988, n. 71). Queste considerazioni conducono ad affermare che gli atti mediante i quali i consorzi stabili organizzano l’esecuzione mediante l’assegnazione ad uno o più dei consorziati non hanno rilevanza esterna. Riconosciuto tale assunto, non può non riconoscersi anche quello inverso, per il quale il consorzio può procedere, ad esempio in caso di inadempimento del consorziato, alla revoca dell’assegnazione originaria ed alla assegnazione ad un altro consorziato, che non abbia però partecipato autonomamente alla gara, oppure all’imputazione a se stesso dei lavori, senza che ciò comporti modificazione dell’offerta” (determinazione n. 11 del 9 giugno 2004). In proposito non può tuttavia sottacersi l’esistenza di una successiva determinazione (n. 18 del 29 ottobre 2003) nella quale l’Autorità di Vigilanza, sia pure in una fattispecie parzialmente difforme da quella in esame, ha avuto modo di formulare una affermazione apparentemente contraria al precedente orientamento. In particolare, la determinazione in questione, resa dall’Autorità in materia di Consorzi stabili, concerne una ipotesi in cui il Consorzio stabile avrebbe affidato i lavori aggiudicati in capo al medesimo ad una impresa che aveva partecipato in via autonoma alla gara e che era divenuta successivamente socia del Consorzio stabile; in tale circostanza l’Autorità ha negato la legittimità di tale attribuzione, non già fondando tale illegittimità sulla circostanza della partecipazione in via autonoma della impresa di che trattasi alla medesima gara aggiudicata in capo al Consorzio stabile, bensì affermando esplicitamente che “è da ritenersi inammissibile che un’impresa divenuta socia del consorzio solo in epoca successiva all’espletamento di una gara possa poi eseguire i lavori aggiudicati al consorzio stesso, in quanto dalla disposizione di cui all’art. 13, comma 4, della legge n. 109/94 e s.m., che prevede che i consorzi di cui all’art. 10, comma 1, lettere b) e c) sono tenu- 266 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO ti ad indicare, in sede di offerta, per quali consorziati concorrono, si evince che i consorziati esecutori potranno essere solo quelli indicati in sede di partecipazione alla gara”. La sentenza del Consiglio di Stato 22 giugno 2007, n. 3477. L’affidamento “a cascata”. In tale incerto contesto si è inserita la recente pronuncia nella quale il Consiglio di Stato (sentenza n. 3477 del 22 giugno 2007), sulla base di una attenta ricostruzione della natura del Consorzio di cooperative e del rapporto organico che lega il medesimo alle cooperative consorziate, ha espressamente ammesso la possibilità che un Consorzio di cooperative di produzione e lavoro possa provvedere alla esecuzione dei lavori anche mediante una cooperativa diversa da quella indicata in gara; in particolare si legge nella predetta sentenza che “l’autonoma soggettività del consorzio consente anche la possibilità di designare una nuova cooperativa come esecutrice ove, per motivi sopravvenuti, la prima designata non sia in condizione di svolgere compiutamente la prestazione”. Anche in tal caso, seppure i giudici del Supremo consesso ammettono espressamente la possibilità di addivenire ad una modificazione della consorziata esecutrice, sembra tuttavia che i medesimi – analogamente a quanto affermato dall’Autorità di vigilanza – richiedano la sussistenza di un ulteriore presupposto, ossia del verificarsi di circostanze sopravvenute che non consentano alla impresa designata di svolgere compiutamente i lavori. La sentenza in parola appare tuttavia particolarmente interessante in quanto, oltre alla questione fin qui affrontata, prende in considerazione la disciplina della esecuzione dei lavori da parte del Consorzio di cooperative anche sotto un ulteriore profilo: ossia la possibilità che la consorziata designata quale esecutrice proceda, a sua volta, alla ulteriore assegnazione dei lavori in capo ad una impresa associata alla medesima (c.d. affidamento a cascata). La medesima questione è stata già analizzata dall’Autorità di vigilanza nella deliberazione n. 1 del 10 gennaio 2007; in particolare, è stato richiesto all’Autorità di valutare “se è conforme all’art. 13, comma 4 della legge n. 109/1994 (n.d.r.: attualmente art. 37, comma 7, D.Lgs. n. 163/2006) che un consorzio di cooperative designi, quale esecutore dei lavori, un proprio consorziato, che sia a sua volta un consorzio, il quale ultimo individua l’impresa esecutrice,determinandosi in tal modo una sorta “di affidamento a cascata”. L’Autorità, nel presupposto per cui l’imputazione della responsabilità relativamente al contratto rimarrebbe in ogni caso in capo al Consorzio di cooperative che ha stipulato il medesimo in nome proprio e per conto delle consorziate, ha ritenuto che “non sembrano sussistere impedimenti alla individuazione da parte di un consorzio partecipante ad una gara di appalto di un proprio consorziato, a sua volta consorzio, che per l’esecuzione dell’appalto ha individuato una impresa ad esso associata.”; tuttavia, l’Autorità ha altresì ritenuto che in tal caso, al fine di consentire il rispetto delle disposizioni in materia di evidenza pubblica, “in sede di partecipazione alla gara, il consorzio offerente (…) indichi sia il consorziato per il quale intende con- CONTENZIOSO NAZIONALE 267 correre sia l’impresa che quest’ultimo designa quale esecutrice dei lavori. Se infatti, la scelta ricade su un consorziato che a sua volta, è esso stesso un consorzio, sarà necessario che nell’offerta venga indicato anche il nominativo dell’affidatario finale dei lavori, per consentire alla S.A. di effettuare le necessarie verifiche sull’affidabilità morale e quelle relative all’antimafia.” Nella citata sentenza il Consiglio di Stato esprime invece un contrario avviso; la fattispecie sottoposta all’analisi del Consiglio di Stato concerneva una ipotesi in cui un Consorzio di cooperative – divenuto aggiudicatario all’esito della procedura concorsuale – aveva indicato in sede di offerta una società cooperativa allo stesso associata; tale società non aveva provveduto alla diretta esecuzione dei lavori ma li aveva affidati a sua volta ad una società in nome collettivo alla stessa associata, la quale peraltro non risultava in possesso della qualificazione adeguata ad eseguire i lavori. Il Consiglio di Stato, dopo una diffusa analisi della natura dei consorzi di cooperative e della peculiare disciplina cui i medesimi sono sottoposti, ha negato la legittimità di tale ultimo affidamento. Secondo il Supremo consesso, i consorzi di cooperative sarebbero assistiti da una peculiare disciplina normativa che – in ragione del favor accordato dall’ordinamento allo scopo mutualistico – consente al Consorzio concorrente ed aggiudicatario di avvalersi delle prestazioni di un’impresa cooperativa in esso associata e specificamente designata in sede di gara; in tal caso, peraltro, l’impresa indicata ed associata al Consorzio di cooperative può eseguire i lavori pur essendo priva degli occorrenti requisiti di qualificazione tecnica i quali – come precedentemente rilevato – devono essere valutati esclusivamente in capo al Consorzio. La disciplina appena descritta tuttavia, in considerazione del carattere speciale della medesima, sarebbe – secondo il ragionamento del Consiglio di Stato – da considerarsi di stretta interpretazione, in quanto volta a salvaguardare una specifica categoria di imprese consortili cui il legislatore ha ritenuto di accordare eccezionalmente una particolare tutela legata, come detto, alla incentivazione della mutualità. Sulla scorta di tale principio, i giudici hanno ritenuto che “con tali previsioni normative (…) si è inteso assegnare rilievo funzionale solo al rapporto organico che lega il Consorzio concorrente alla gara alle imprese o altri consorzi in esso direttamente consorziati e che ne costituiscono, come detto, una sorta di interna corporis (sicché l’attività compiuta dai soggetti consorziati è imputata organicamente al Consorzio concorrente, come unico ed autonomo centro di imputazione e di riferimento di interessi); ma non anche al rapporto, di secondo grado, che finirebbe per collegare il Consorzio aggiudicatario ad un soggetto terzo (ancorché preventivamente designato, in sede di gara, dalla società chiamata ad eseguire i lavori dal Consorzio concorrente, poi risultato aggiudicatario), che con il primo ha solo un rapporto mediato dall’azione di un altro soggetto, associato a quello risultato aggiudicatario”. Ove infatti si consentisse l’ulteriore affidamento “a cascata” “la potestà assegnata dal legislatore al Consorzio concorrente di designare, sulla base 268 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO di un ordinario rapporto di fiducia, l’impresa – ad esso consorziata – quale materiale esecutrice delle opere verrebbe a trasferirsi sul soggetto a tal fine designato dal Consorzio concorrente; ciò che il legislatore non ha inteso consentire allorché, con il citato art. 13, comma 4, della legge n. 109/1994, ha eccezionalmente previsto che i Consorzi di cui si tratta indichino, nell’offerta, per quali loro consorziati essi concorrano e non ha, invece, esteso anche ai soggetti (eventualmente costituiti in forma consortile) così designati di indicare, a loro volta, a cascata, i propri consorziati chiamati ad eseguire i lavori stessi.”. Peraltro, nel negare la suddetta possibilità, il Consiglio di Stato giunge ad affermare che, considerata la terzietà del soggetto esecutore dei lavori rispetto al Consorzio aggiudicatario, l’affidamento dei lavori a tale soggetto integrerebbe una ipotesi di subappalto che, non solo dovrebbe essere autorizzato dall’amministrazione, ma sarebbe integralmente soggetto ai limiti qualitativi e quantitativi previsti dalla normativa vigente. Nel caso di specie, inoltre, il Consiglio di Stato conclude affermando che, pur essendo il secondo affidamento (ossia quello effettuato dalla cooperativa consorziata alla società esecutrice) non conforme a legge, tale circostanza non è in ogni caso idonea a determinare l’annullamento della aggiudicazione a suo tempo operata in favore del consorzio di cooperative. Pertanto, mantenendo validità il contratto in questione l’esecuzione dei lavori potrà essere effettuata a mezzo dell’impresa consortile designata in gara “o, nel caso in cui questa fosse risultata materialmente non in grado di eseguirli,” vi sarebbe “la possibilità, per il Consorzio aggiudicatario medesimo, di indicare, quale esecutore, un’ulteriore propria consorziata, conformemente a quanto sopra già ricordato circa il fatto che l’autonoma soggettività del consorzio consente anche, a quest’ultimo, di designare una nuova cooperativa come esecutrice ove, per motivi sopravvenuti, la prima designata non sia in condizione di svolgere compiutamente la prestazione”. In estrema sintesi, la sentenza n. 3477/2007, da un lato, nega l’ammissibilità di un affidamento “a cascata” dal Consorzio di cooperative alla cooperativa consorziata e da questa ad una società alla stessa associata (in proposito deve tuttavia osservarsi che, seppure tale aspetto non costituisce il fondamento dell’iter motivazionale della sentenza in questione, la società designata esecutrice dalla cooperativa consorziata non risultava in possesso della qualificazione occorrente ad eseguire i lavori); dall’altro, ammette la possibilità per il Consorzio di cooperative di procedere alla individuazione di una consorziata diversa da quella indicata in offerta quale esecutrice dei lavori ove, per motivi sopravvenuti, la prima designata non sia in condizione di svolgere compiutamente la prestazione. Avv. Cristiana Trombetta (*) CONTENZIOSO NAZIONALE 269 (*) Avvocato del Libero Foro. Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 22 giugno 2007 n. 3477 – Pres. C. Varrone – Est. P. Buonvino – Soc. A. s.r.l. – Impresa Costruzioni – in proprio e quale mandataria in ATI con la società C. T. (Avv.ti G. Carta, I. Militerni e F. e R. Titomanlio) c/ l’Università degli Studi di Cagliari (Avvocatura dello Stato) e Consorzio C. ed altri, per la riforma della sentenza del T.A.R. della Sardegna, Sezione prima, n. 319 del 17 marzo 2006. «(…) Fatto e diritto 1.- Con la sentenza appellata il T.A.R. ha respinto il ricorso proposto dall’A.T.I. odierna appellante per l’annullamento: – della nota prot. n. 11397 del 6 settembre 2005, con la quale l’Università intimata ha comunicato all’A.T.I. stessa che non era risultata aggiudicataria dell’appalto concorso di cui avanti; – del provvedimento sulla base del quale era stata effettuata la comunicazione n. 11397; – dell’atto con il quale l’organo deliberante dell’Università ha fatto propri i risultati dell’attività della Commissione giudicatrice; – dell’atto con il quale l’organo deliberante dell’Università ha disposto l’aggiudicazione definitiva al Consorzio C.; – dell’atto di ammissione alla gara del C. e delle imprese designate; – dell’attività preliminare compiuta dalla Commissione giudicatrice prima dell’esame delle offerte; – dei verbali della Commissione di gara; – della graduatoria pubblicata sul sito http://esia. Unica.it/appalti; – del bando di gara e della lettera di invito; – di tutti gli atti preparatori e presupposti, compresa la delibera di contrattare e di approvazione del bando; – di tutti gli atti connessi, compresa l’eventuale decisione di stipulare il contratto; – dello stesso contratto eventualmente stipulato e del provvedimento di approvazione dello stesso; – nonché, con i motivi aggiunti, della delibera del Consiglio di Amministrazione dell’Università degli Studi di Cagliari n. 47/05 C in data 7 ottobre 2005. Preliminarmente il T.A.R. ha osservato che la ricorrente non aveva riproposto espressamente tutte le censure avanzate con i motivi aggiunti per cui, poiché l’intervento dell’aggiudicazione definitiva rendeva improcedibile il ricorso avverso quella provvisoria, poteva essere posto in dubbio se tutti i motivi originariamente proposti rientrassero ancora nella materia del contendere; i primi giudici superavano, peraltro, la questione in considerazione dell’infondatezza del ricorso nel merito. In particolare, ha ritenuto, il T.A.R., che la mancata previsione di una cabina elettrica da parte della controinteressata (che ha previsto la collocazione delle necessarie apparecchiature elettriche in una cabina già esistente) non fosse inibita dalla lex specialis della gara. Il T.A.R. ha, poi, ritenuto anche l’infondatezza delle ulteriori argomentazioni, con le quali la ricorrente aveva contestato la mancata prefissione, da parte della commissione aggiudicatrice, dei criteri per l’attribuzione dei punteggi ed il difetto di motivazione; la commissione, infatti, ad avviso del Tribunale sardo, sarebbe stata tenuta a fissare autonomi parametri di valutazione solo quando quelli stabiliti dal bando non fossero stati sufficientemente precisi; nel caso di specie, poi, la riconosciuta unicità del progetto del controinteressato rendeva evidente anche il presupposto della valutazione attribuitagli. 270 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Il T.A.R. ha, poi, rigettato la censura volta a contestare il fatto che, nonostante l’elevatissimo ribasso (51%) proposto dall’aggiudicataria, non di meno la Commissione valutatrice non abbia ritenuto di sottoporne l’offerta alla verifica dell’anomalia, in quanto tale scelta appariva giustificata dalla particolarità del progetto, che consentiva un notevole risparmio di spesa. I primi giudici hanno, quindi, respinto le successive censure nei termini che seguono: – alcune voci dell’elenco prezzi sarebbero state descritte in modo sintetico: la censura è stata disattesa in quanto non spiegava perché la descrizione delle voci in questione non avrebbe consentito la corretta valutazione dell’offerta; – nel computo metrico estimativo dell’aggiudicataria sarebbero mancate la fornitura e la posa in opera degli intonaci e delle pitture murali: al riguardo era da condividere la spiegazione offerta dalla controinteressata di aver previsto l’utilizzo di pareti mobili prefabbricate, che evidentemente non necessitavano di intonaci e pitture, e tale affermazione non è contestata; – la superficie del controsoffitto sarebbe stata sottostimata: anche tale censura è stata ritenuta priva di fondatezza perché, al riguardo, era rimasta priva di contestazione l’affermazione della resistente secondo la quale il controsoffitto era richiesto solo negli anditi; – il piano della sicurezza non sarebbe stato firmato da un professionista abilitato: il T.A.R. ha respinto il motivo avendo ritenuto che la sottoscrizione era apposta sulla copertina e costituiva adeguata assunzione di responsabilità; – alcuni aspetti del progetto dell’aggiudicataria non avrebbero consentito di ottenere il certificato di prevenzione incendi: anche in questo caso il T.A.R. ha rilevato come fosse rimasta priva di contestazione l’affermazione dell’aggiudicataria secondo la quale il progetto era conforme al capitolato ed al progetto di massima, per cui eventuali manchevolezze erano essere ricondotte a questi ultimi. Il T.A.R. ha, infine, ritenuto infondata anche la censura con la quale la ricorrente aveva sostenuto che i lavori sarebbero stati eseguiti un’da impresa non qualificata a norma di legge (il Consorzio controinteressato, infatti, non avrebbe eseguito direttamente i lavori, che avrebbero dovuto essere affidati ad un altro Consorzio ad esso associato; e quest’ultimo avrebbe indicato, a sua volta, in una sua associata, la cooperativa che avrebbe dovuto eseguire in concreto i lavori). 2.- Per l’appellante la sentenza sarebbe erronea in quanto, contrariamente a quanto ritenuto dai primi giudici: – la lex specialis relativa all’appalto concorso di cui si tratta avrebbe comportato la necessaria esclusione dalla gara del Consorzio aggiudicatario, il quale, nel proprio progetto, anziché progettare la realizzazione di un nuovo manufatto (la cabina elettrica espressamente prevista dal Capitolato Prestazionale), si sarebbe limitata a fornire un impianto elettrico MT, tramite una cabina di trasformazione già esistente; sarebbe spettato, invero, alla stazione appaltante dire che il manufatto preesistente avrebbe potuto essere utilizzato in luogo della realizzazione di una apposita cabina elettrica; ciò non avendo previsto la disciplina di gara, l’aggiudicataria ne avrebbe dovuto essere logicamente e doverosamente esclusa; né spettava alla deducente esprimere giudizio alcuno sulla bontà o meno della scelta tecnica operata dalla controinteressata e illegittimamente avallata dall’amministrazione; – il T.A.R. avrebbe errato anche nel ritenere che i criteri valutativi utilizzati dalla commissione sarebbero stati sufficienti a consentire una corretta e comprensibile attribuzione dei punteggi, laddove, invece, i criteri offerti dal bando, attesa la loro latitudine e la mancata definizione di appositi sottocriteri, avrebbero portato all’assegnazione di punteggi non intelligibili, in quanto neppure accompagnati da apposita, specifica motivazione; CONTENZIOSO NAZIONALE 271 – contrariamente, poi, all’assunto dei primi giudici, la Commissione valutatrice, attesa l’abnormità del ribasso offerto dalla controinteressata (51%), non avrebbe potuto non sottoporre la relativa offerta alla verifica dell’anomalia; – i primi giudici avrebbero errato, infine, anche nel disattendere la censura che si appuntava avverso la designazione dell’impresa esecutrice dei lavori, in quanto priva dei necessari requisiti di partecipazione, all’uopo non apparendo condivisibili gli apprezzamenti operati al riguardo. Resiste l’università appellata, che insiste per il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza impugnata. L’appello è fondato per le ragioni che vanno a indicarsi. 3.- Al riguardo, ritiene la Sezione che sia priva di consistenza la prima delle censure formulate con il presente gravame. Il Capitolato Prestazionale collocava la realizzazione di una cabina elettrica non tra le opere murarie, bensì tra gli impianti elettrici; la stessa, quindi, ben avrebbe potuto essere realizzata, come previsto dal Consorzio aggiudicatario, in un locale preesistente, a condizione, naturalmente, che questo si prestasse a tale specifica funzione per ciò che attiene agli impianti elettrici e tecnologici presenti, alla funzionalità dei locali e al rispetto delle norme tecniche e di sicurezza previste per la realizzazione di impianti siffatti; ciò che rileva, infatti, ai fini di cui si tratta, è la funzionalità dell’impianto elettrico, non la realizzazione delle relative opere murarie, non necessarie (né espressamente previste dalla lex specialis di gara) laddove, come nella specie, preesistevano manufatti edilizi che consentivano la valida realizzazione in essi, nel pieno rispetto delle norme tecniche e di sicurezza, dell’impianto in parola. Per l’effetto, dovendosi escludere che la realizzazione della cabina elettrica quale autonoma opera muraria fosse prevista a pena di esclusione, deve ritenersi che correttamente la stessa appellata non sia stata esclusa, per tale motivo, dalla gara, avendo presentato, del resto, un progetto ritenuto non solo conforme alle prescrizioni di gara, ma anche più economico. 4.- Può ora passarsi, in ordine logico, all’esame della censura con la quale l’appellante deduce l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che non ricorressero i presupposti per l’esclusione dalla gara del Consorzio poi risultato aggiudicatario. La censura è stata svolta, in primo grado, in sede di ricorso introduttivo, in forma dubitativa la ricorrente non essendo in possesso, all’epoca della proposizione del gravame, di elementi documentali sufficienti. Ha, in quella sede, rilevato che nessuno dei due soggetti chiamati da C. ad eseguire i lavori sarebbe stato consorziato in detto Consorzio; solo uno di essi (T.) sarebbe stato, poi, in possesso di qualifica SOA (“ma sembrerebbe incaricata di compiere attività diverse”). Donde, sotto il primo profilo, l’esigenza di escludere dalla gara il Consorzio poi risultato aggiudicatario per violazione dell’art. 13, comma 4, della legge n. 109/1994 (in quanto i soggetti designati per l’esecuzione dei lavori non sarebbero stati consorziati in C., sicché questo non avrebbe potuto essere ammesso a presentare offerta). Inoltre, una delle due imprese designate sarebbe stata priva di SOA o di iscrizione all’Albo regionale, donde la violazione del disposto di cui all’art. 8, comma 1, della legge n. 109/1994, del d.P.R. n. 34 del 2000 e della legge regionale sarda, che prescrivono che l’esecutore dei lavori sia un soggetto idoneo e, quindi, munito di SOA o di iscrizione all’Albo regionale. Non potendo – secondo l’originaria ricorrente – la qualificazione ad eseguire i lavori essere verificata in capo al Consorzio (la qualificazione del quale sarebbe valsa solo ai fini della partecipazione alla gara), questo avrebbe dovuto essere escluso. 272 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Tali censure sono state riprese e meglio puntualizzate in sede di motivi aggiunti di primo grado, svolti a seguito della produzione documentale da parte dell’Amministrazione. È stato osservato, in particolare, dall’originaria ricorrente, che C. non avrebbe designato una cooperativa esecutrice dei lavori, ma avrebbe indicato un consorzio di cooperative; soggetto, questo, privo di alcuna qualificazione per eseguire lavori pubblici (e ciò conformemente alla sua natura consortile che, in quanto basata su causa mutualistica, non lo legittimerebbe, per statuto, ad organizzare i fattori produttivi in funzione dell’esecuzione dei lavori). E tanto questo sarebbe vero che il soggetto designato da C. – il C.I.S. – ha dovuto, a sua volta, designare, quale esecutrice dei lavori, un’impresa terza (l’associata T.); sicché né C., né il C.I.S. sarebbero stati in grado, in quanto consorzi, di eseguire i lavori. E quel che più rileverebbe sarebbe il fatto che la società T., chiamata ad eseguirli, neppure sarebbe risultata associata al Consorzio aggiudicatario, donde l’illegittimità delle operazioni concorsuali e della conseguente aggiudicazione della gara, dal momento che il C. avrebbe dovuto essere da questa escluso non avendo individuato una propria consorziata quale esecutrice dei lavori. Né il rapporto tra C. e T. potrebbe essere rivisto alla stregua di un rapporto di subappalto, di questo non ricorrendo, nella specie, i necessari presupposti di legge. Infine, l’Università avrebbe illegittimamente accettato come esecutore dei lavori un soggetto, T., privo dei necessari requisiti di qualificazione. 5.- Al riguardo, i primi giudici hanno ritenuto che l’art. 10, comma 1, lett. b), della legge 11 febbraio 1994, n. 109, ammette i consorzi fra società cooperative di produzione e lavoro, costituiti a norma della legge 25 giugno 1909, n. 422, e successive modificazioni (categoria alla quale appartiene il controinteressato Consorzio aggiudicatario della gara) alle procedure di affidamento dei lavori pubblici; il successivo art. 11 della medesima legge n. 109 del 1994 ammette i consorzi di cui al richiamato art. 10, lett. b), a dimostrare i requisiti di idoneità tecnica e finanziaria cumulativamente in capo ai medesimi, ancorché posseduti dalle singole imprese consorziate; l’art. 13, disciplinando la partecipazione alle gare in questione di associazioni temporanee di imprese e di consorzi di cui all’art. 10, lett. d) ed e), impone alla capogruppo o mandataria, nonché agli altri partecipanti, di dotarsi dei requisiti di qualificazione, accertati ed attestati ai sensi dell’art. 8, implicitamente escludendo da tale obbligo i consorzi di cui alle lettera b) dell’art. 10; per cui, in conclusione, nonostante la modifica del richiamato art. 11, di cui all’art. 9, ventunesimo comma, della legge 18 novembre 1998, n. 415, i consorzi di cui all’art. 10, lett. b) (nonché lett. c) dimostrano la propria capacità tecnica mediante la qualificazione dell’intero consorzio, fermo restando che le imprese consorziate, se chiamate all’esecuzione dei lavori, devono dimostrare la propria legittimazione morale, mentre si avvalgono della qualificazione del consorzio per dimostrare la propria capacità tecnica (in termini sono richiamante, dal T.A.R., le decisioni del C.G.A.R.S. 20 settembre 2002, n. 569; 17 luglio 2000, n. 342; C.di St., Sezione V, 29 novembre 2004, n. 7765; Sezione VI, 15 maggio 2003, n. 2646). 6.- Ritiene la Sezione che tali conclusioni non possano essere condivise tenuto conto delle peculiarità della presente fattispecie. Il Collegio prende le mosse, invero, dai propri precedenti in materia e, in particolare, dalla decisione n. 2183 del 2003, in cui è stato osservato, tra l’altro, che il consorzio fra società di cooperative di produzione e di lavoro costituito a norma della legge 25 giugno 1909, n. 422, può partecipare alla procedura di gara utilizzando i requisiti suoi propri e, nel novero di questi, facendo valere i mezzi nella disponibilità delle cooperative che costituisco- CONTENZIOSO NAZIONALE 273 no, ai fini che qui rilevano, articolazioni organiche del soggetto collettivo, ossia suoi interna corporis; e che il rapporto organico che lega le cooperative consorziate, ivi compresa quella incaricata dell’esecuzione dei lavori, in sostanza non dissimile, mutatis mutandis, da quello che avvince i singoli soci ad una società, è tale che l’attività compiuta dalle consorziate è imputata organicamente al consorzio, come unico ed autonomo centro di imputazione e di riferimento di interessi, e che, per conseguenza, diversamente da quanto accade in tema di associazioni temporanee e di consorzi stabili, la responsabilità per inadempimento degli obblighi contrattuali nei confronti della p.a. si appunta esclusivamente in capo al consorzio senza estendersi, in via solidale, alla cooperativa incaricata dell’esecuzione; e che, inoltre, l’autonoma soggettività del consorzio consente anche la possibilità di designare una nuova cooperativa come esecutrice ove, per motivi sopravvenuti, la prima designata non sia in condizione di svolgere compiutamente la prestazione. D’altronde, ha pure rilevato la Sezione nella decisione ora detta, una diversa opzione ermeneutica che, in assenza di qualsiasi referente normativo in tale direzione, richiedesse il possesso dei requisiti speciali da parte delle singole imprese deputate all’esecuzione concreta dell’appalto per conto del consorzio, si porrebbe in chiara distonia con la ratio che sorregge la costituzione di detti consorzi e che spiega il favore del legislatore, alla luce dell’incentivazione della mutualità, dato dall’esigenza di consentire, grazie alla sommatoria dei requisiti posseduti della singole imprese, la partecipazione a procedure di gara di cooperative che, isolatamente considerate, non sono in possesso dei requisiti richiesti o, comunque, non appaiono munite di effettive chances competitive. 7.- Sennonché, la fattispecie qui in esame è caratterizzata dal fatto che il Consorzio risultato aggiudicatario – che ha partecipato nella qualità di “impresa singola” – ha, conformemente a quanto indicato nella propria offerta, assegnato l’esecuzione delle opere ad un altro soggetto giuridico ad esso associato e, precisamente, al “CIS” (di cui neppure risulta, in atti, se si tratti o meno di società cooperativa di produzione e lavoro). Il soggetto così designato, peraltro, non si è fatto carico della diretta esecuzione dei lavori stessi, ma li ha affidati, a sua volta, ad una società in nome collettivo, in esso associata, priva, di per sé, dei requisiti di qualificazione tecnica prescritti ai fini della partecipazione alla gara e, in particolare, delle previste categorie di iscrizione (iscrizione che, almeno stando agli atti del giudizio, non risulta posseduta neppure dalla predetta CIS, designata dall’aggiudicatario C., il quale ultimo ne era, invece, dotato). In particolare, il Consorzio aggiudicatario della gara, con delibera del Consiglio d’Amministrazione del 6 luglio 2005, ha assegnato – secondo quanto precisato nella propria offerta – l’esecuzione dei lavori al ripetuto CIS (che non ha direttamente partecipato alla gara). Quest’ultima società cooperativa, peraltro, come risulta dalla nota 30 novembre 2004 diretta all’Università di Cagliari e da questa prodotta in giudizio, aveva dichiarato di concorrere alla gara di cui si tratta per l’associata T.. s.n.c., anziché assumere in proprio l’esecuzione dei lavori quale società cooperativa associata nel Consorzio C., direttamente designata da quest’ultimo a fornire le relative prestazioni; la stessa cooperativa CIS ha comunicato, poi, al Consorzio aggiudicatario C. che, in data 25 luglio 2005, il proprio Consiglio d’Amministrazione aveva deliberato l’affidamento dei lavori stessi alla predetta T. s.n.c. (impresa non cooperativa, socia della medesima società cooperativa “CIS.”; ma in relazione alla natura societaria della T. s.n.c. non sono state mosse specifiche contestazioni). Per l’effetto, i lavori relativi all’appalto di cui si tratta sono stati affidati non direttamente ad un’impresa cooperativa consorziata nel consorzio di cooperative di produzione e 274 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO lavoro risultato aggiudicatario e da questo designata (impresa cooperativa che, in base alle norme eccezionali anzidette, tenuto anche conto della succitata elaborazione giurisprudenziale in materia, poteva fruire dei requisiti tecnici di qualificazione posseduti dallo stesso Consorzio aggiudicatario), bensì, in prima battuta, ad una seconda società cooperativa, associata al predetto Consorzio aggiudicatario (e, cioè, la società cooperativa “CIS”), e, quindi, per designazione da parte di quest’ultima, ad un’ulteriore impresa in questa associata, con una sorta di sub-affidamento che il legislatore non ha previsto né disciplinato. È vero, infatti, che in base all’art. 10 della legge n. 109/1994 (applicabile al momento di svolgimento della gara), tra i soggetti ammessi alle gare sono ricompresi (comma 1, lett. b) i consorzi fra società cooperative di produzione e lavoro costituiti a norma della legge 25 giugno 1909, n. 422, e successive modificazioni, e i consorzi tra imprese artigiane di cui alla legge 8 agosto 1985, n. 443, sulla base delle disposizioni di cui agli articoli 8 e 9 della presente legge”; e che, ai sensi del successivo art. 11, “i requisiti di idoneità tecnica e finanziaria per l’ammissione alle procedure di affidamento dei lavori ai soggetti di cui all’articolo 10, comma 1, lettere b) e c), devono essere posseduti e comprovati dagli stessi secondo quanto previsto dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 10 gennaio 1991, n. 55, o dal regolamento di cui all’articolo 8, comma 2, della presente legge, salvo che per i requisiti relativi alla disponibilità delle attrezzature e dei mezzi d’opera, nonché all’organico medio annuo, che sono computati cumulativamente in capo al consorzio ancorché posseduti dalle singole imprese consorziate”; e, infine, che l’art. 13 della stessa legge, al comma 4, prevede che “i consorzi di cui all’articolo 10, comma 1, lettere b) e c), sono tenuti ad indicare, in sede di offerta, per quali consorziati il consorzio concorre; a questi ultimi è fatto divieto di partecipare, in qualsiasi altra forma, alla medesima gara”. Ma con tali previsioni normative, peraltro, di carattere speciale e di stretta interpretazione (in quanto volte a salvaguardare una specifica categoria di imprese consortili cui il legislatore ha ritenuto di accordare eccezionalmente una particolare tutela legata, come detto, alla incentivazione della mutualità) si è inteso assegnare rilievo funzionale solo al rapporto organico che lega il Consorzio concorrente alla gara (quando concorra, come nella specie, quale “impresa singola”) alle imprese o altri consorzi in esso direttamente consorziati e che ne costituiscono, come detto, una sorta di interna corporis (sicché l’attività compiuta dai soggetti consorziati è imputata organicamente al Consorzio concorrente, come unico ed autonomo centro di imputazione e di riferimento di interessi); ma non anche al rapporto, di secondo grado, che finirebbe per collegare il Consorzio aggiudicatario ad un soggetto terzo (ancorché preventivamente designato, in sede di gara, dalla società chiamata ad eseguire i lavori dal Consorzio concorrente, poi risultato aggiudicatario), che con il primo ha solo un rapporto mediato dall’azione di un altro soggetto (che, tra l’altro, come si ripete, neppure risulta dotato, nella specie, almeno stando a quanto emerge dagli atti versati in giudizio, delle prescritte categorie d’iscrizione), associato a quello risultato aggiudicatario. In tal modo il Consorzio aggiudicatario finirebbe per avvalersi, invero, dell’attività svolta da un soggetto terzo rispetto al medesimo e non da esso direttamente designato come esecutore dei lavori. Di fatto, la potestà assegnata dal legislatore al Consorzio concorrente di designare, sulla base di un ordinario rapporto di fiducia, l’impresa – ad esso consorziata – quale materiale esecutrice delle opere verrebbe a trasferirsi sul soggetto a tal fine designato dal Consorzio concorrente; ciò che il legislatore non ha inteso consentire allorché, con il citato art. 13, comma 4, della legge n. 109/1994, ha eccezionalmente previsto che i Consorzi di cui si tratta indichino, nell’offerta, per quali loro consorziati essi concorrano e non ha, invece, CONTENZIOSO NAZIONALE 275 esteso anche ai soggetti (eventualmente costituiti in forma consortile) così designati di indicare, a loro volta, a cascata, i propri consorziati chiamati ad eseguire i lavori stessi. E ciò non senza considerare – nel silenzio della legge – i possibili dubbi in merito all’applicabilità o meno, nei confronti del soggetto designato, in via mediata, quale materiale esecutore dei lavori da parte dell’impresa o consorzio indicato dal Consorzio aggiudicatario, del divieto contenuto nella seconda parte del citato art. 13, comma 4, della ripetuta “legge quadro”. Trattandosi, inoltre, di situazione eccezionale, non direttamente disciplinata dal legislatore, la stessa amministrazione, nel silenzio della norma, verrebbe a trovarsi in una situazione di obiettiva incertezza in merito all’esercizio delle proprie potestà operative nei confronti del soggetto beneficiario dell’affidamento di secondo grado di cui si tratta e, in particolare, in ordine alla verifica di sussistenza o meno, in capo ad essa impresa sub-designata, di tutti i requisiti di legge che legittimano l’applicabilità della disciplina speciale e di favore di cui si è detto. Questa consente, in definitiva, al Consorzio concorrente ed aggiudicatario di avvalersi delle prestazioni di un’impresa cooperativa in esso associata e specificamente designata in sede di gara; e, in tal caso, l’impresa indicata può eseguire i lavori pur essendo priva, per le ragioni dianzi indicate, dei requisiti di qualificazione tecnica (donde l’infondatezza delle censure volte a contestare il fatto che i lavori possano essere eseguiti da soggetti designati dal Consorzio aggiudicatario privi dei requisiti stessi); ma non anche, a quest’ultima, di avvalersi di un’ulteriore impresa – a sua volta, in essa associata – altrimenti potendosi innescare un meccanismo di designazioni a catena destinato a beneficiare non (secondo la ratio legis) il Consorzio concorrente e le imprese cooperative in esso associate, ma, in ipotesi (come nel caso di specie) anche soggetti terzi, non concorrenti direttamente alla gara, né in questa puntualmente designati, secundum legem, dal concorrente risultato aggiudicatario, quali materiali esecutori dei lavori. Deve, pertanto, escludersi che l’esecuzione delle opere oggetto di gara possa, dal soggetto designato dall’aggiudicatario, essere affidata, puramente e semplicemente, a detto soggetto terzo, in quanto, a ben vedere, si verserebbe di fatto, in tal caso, in un’ipotesi di subappalto che non solo dovrebbe essere autorizzato dall’amministrazione, ma che, soprattutto, dovrebbe rispondere ai requisiti di legge e, in particolare, a quelli di cui all’art. 18 della legge 19 marzo 1990, n. 55 (ora, art. 118 del D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163), e alle relative formalità; ciò che nella specie non si è verificato, in quanto, tra l’altro, T. – in contrasto con il disposto di cui ai commi 1 e 2 della norma ora detta – è stata chiamata a realizzare le opere nella loro interezza e non nel limite massimo del 30% in detta norma prescritto; né, nel caso in esame, sussistono i requisiti per l’avvalimento di cui agli articoli 47, 48 e 54 della direttiva 2004/18 CE. Da quanto precede consegue l’accoglimento della censura in esame per ciò che attiene alla illegittima indicazione, da parte del soggetto indicato dal Consorzio aggiudicatario quale esecutore dei lavori, dell’affidatario materiale dei lavori stessi. 8.- Si tratta, peraltro, a questo punto di verificare se tale sub-designazione, già presente nell’offerta del Consorzio aggiudicatario, sia tale da comportare o meno la necessaria esclusione dello stesso dalla gara. Ritiene la Sezione che tale eventualità – contrariamente all’assunto dell’appellante – sia da escludere. È da ritenere, infatti, che l’indicazione di una sub-affidataria dei lavori vitiatur sed non vitiat, nel senso che la stessa non è da ritenere ammissibile, ma che ciò che rileva è che, da 276 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO parte del Consorzio concorrente, avvenga l’indicazione dell’impresa chiamata alla specifica esecuzione dei lavori stessi; e, nella specie, tale designazione è, comunque, regolarmente intervenuta, essendo stata indicata la società cooperativa CIS; con la conseguenza che l’ulteriore designazione da questa operata è da ritenere non conforme a legge; ma ciò non impedisce, di per sé, l’effettuazione dei lavori a mezzo dell’impresa consortile da ultimo detta, quale impresa direttamente designata dal Consorzio concorrente alla gara e aggiudicatario della stessa o, nel caso in cui questa fosse risultata materialmente non in grado di eseguirli, la possibilità, per il Consorzio aggiudicatario medesimo, di indicare, quale esecutore, un’ulteriore propria consorziata, conformemente a quanto sopra già ricordato circa il fatto che l’autonoma soggettività del consorzio consente anche, a quest’ultimo, di designare una nuova cooperativa come esecutrice ove, per motivi sopravvenuti, la prima designata non sia in condizione di svolgere compiutamente la prestazione. Con la conseguenza che l’intervenuta – nella specie – esecuzione dei lavori deve, comunque, far ritenere che le chances per l’appellante di vedersi affidare, anche solo in via di astratta e virtuale ipotesi, i lavori di cui si tratta quale seconda classificata sarebbero state, comunque, molto esigue, in quanto il Consorzio aggiudicatario avrebbe potuto pur sempre pretendere, dal soggetto da esso designato, che i lavori fossero da esso direttamente realizzati, ovvero avrebbe potuto affidarli ad altra società cooperativa associata ed in grado di eseguirli materialmente. Tali chances, è dato ritenere, non avrebbero potuto, comunque, assumere, sotto il profilo probabilistico, consistenza maggiore di quelle correlabili all’annullamento delle operazioni valutative per le ragioni che si andranno a precisare nel prosieguo della trattazione (con la conseguenza che la liquidazione del richiesto risarcimento del danno in favore della deducente può essere direttamente correlata, come ora si dirà, all’annullamento delle operazioni stesse). 9.- Al riguardo, appare, invero, da condividere il secondo motivo dell’appello, con il quale viene dedotta l’erroneità della sentenza impugnata laddove ha rigettato le censure di primo grado (terzo motivo dell’originario ricorso) volte a contestare le modalità di assegnazione dei punteggi da parte della commissione valutatrice. Il bando di gara e il Capitolato Prestazionale prevedevano espressamente che la valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa sarebbe stata effettuata attraverso l’applicazione del metodo aggregativo-compensatore di cui all’allegato B) al d.P.R. n. 554/1999. Tale disciplina è del seguente tenore: Metodo aggregativo-compensatore L’offerta economicamente più vantaggiosa è effettuata con la seguente formula: C(a) = n Wi V(a) i dove: C(a) = indice di valutazione dell’offerta (a); n=numero totale dei requisiti; Wi=peso o punteggio attribuito al requisito (i); V(a) i = coefficiente della prestazione dell’offerta (a) rispetto al requisito (i) variabile tra zero ed uno; n= sommatoria. I coefficienti V(a) i sono determinati a) per quanto riguarda gli elementi di valutazione di natura qualitativa quali il valore tecnico ed estetico delle opere progettate, le modalità di gestione attraverso: la media dei coefficienti, variabili tra zero ed uno, calcolati dai singoli commissari mediante il «confron- CONTENZIOSO NAZIONALE 277 to a coppie», seguendo, a loro scelta, le linee guida di cui all’allegato A, oppure il criterio fondato sul calcolo dell’autovettore principale della matrice dei suddetti confronti a coppie; ovvero: la media dei coefficienti, variabili tra zero ed uno, attribuiti discrezionalmente dai singoli commissari; ovvero: un metodo di determinazione dei coefficienti, variabili tra zero ed uno, adottato autonomamente dalla commissione prima dell’apertura dei plichi”. Ebbene, dai verbali di gara emerge solo che la Commissione, in sede di esame dei progetti- offerta, dopo avere preso in esame ciascuno di essi e dopo averne operato una accurata rappresentazione con l’indicazione delle rispettive principali caratteristiche di funzionalità e portata, si è limitata ad attribuire alle concorrenti dei punteggi variabili tra 12 e 17,50, senza, peraltro, in alcun modo specificare quale criterio tra quelli anzidetti avrebbe in concreto utilizzato e quali specifici elementi delle offerte avrebbe tenuto in puntuale considerazione; né fattori di chiarimento possono ricollegarsi alle modalità di attribuzione dei punteggi, dal momento che la Commissione stessa si è limitata ad assegnare, ad ogni offerta, un semplice punteggio unitario, senza tenere conto né di singoli elementi oggetto di valutazione, né chiarendo le ragioni poste a specifico supporto dei punteggi che i commissari avrebbero singolarmente espresso in rapporto ad essi. È stata effettuata, in altre parole, un’operazione essenzialmente descrittiva dei contenuti delle offerte, ma priva di ogni valido ragguaglio a puntuali criteri valutativi di riferimento, così come imposto, invece, dalla disciplina normativa dianzi richiamata. Le considerazioni che precedono inducono, quindi, a ritenere illegittimi lo svolgimento e l’esito della gara, con il conseguente annullamento della disposta aggiudicazione. L’accoglimento di tale censura porta, poi, ad assorbire quella relativa al mancato esame dell’asserita anomalia dell’offerta, trattandosi di una fase che si pone, comunque, a valle dei giudizi valutativi ora detti. 10.- Alla fondatezza della censura ora esaminata ed al conseguente annullamento – in accoglimento dell’originario ricorso – delle operazioni valutative (non rinnovabili, nella specie, in una situazione in cui le offerte sono, ormai, conosciute in tutti i loro contenuti) si ricollega, poi, il diritto dell’ATI appellante al risarcimento per equivalente (i lavori risultando, ormai, ultimati), il vizio sopra rilevato implicando una manifesta colpa da parte dell’amministrazione, ravvisabile nella mancata preventiva determinazione – in contrasto con la specifica disciplina di gara e con quella normativa dianzi indicata e richiamata nella stessa lex specialis – di idonei criteri di apprezzamento dei contenuti delle offerte e nella correlata formulazione di giudizi valutativi inidonei. Sussiste anche il prescritto nesso di causalità, in quanto la corretta condotta da parte dell’amministrazione ben avrebbe potuto condurre, in astratta ipotesi, ad un risultato favorevole all’odierna appellante. Poiché, peraltro, l’accoglimento della censura in questione investe tutti i partecipanti alla gara, ne consegue che il risarcimento richiesto con il ricorso di primo grado va determinato nei limiti della perdita di chances. Dal momento che cinque erano i concorrenti in gara, ne consegue che la deducente ha diritto a vedersi rifondere un importo pari 10% del valore dell’offerta da essa formulata, diviso per cinque; e poiché tale offerta era pari ad € 1.990.000 e il 10% è pari a circa € 199.000, ciò che spetta all’appellante è la quinta parte di tale ultimo importo (con i soli interessi nella misura legale dal momento della domanda). 278 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Quanto ad altri oneri e spese, specie di progettazione, qui fatti valere, gli stessi (normalmente non rimborsabili in caso di mancata aggiudicazione della gara e rientranti nel normale rischio di impresa) debbono ritenersi soddisfatti attraverso la liquidazione del danno anzidetta; in ogni caso, non potrebbero essere riconosciuti come spettanti in quanto neppure sufficientemente documentati. Al riguardo, l’appellante ha prodotto un nota del 17 febbraio 2004 dell’ing. P. F., una dell’ing. M. M. del 18 febbraio 2004, nonché due ordini di fornitura in data 26 maggio 2004; trattandosi di documentazione tutta in data antecedente rispetto alla data di pubblicazione del bando di gara, che è del 22 luglio del 2004 (inviato all’Ufficio Pubblicazioni delle Comunità Europee in data 22 luglio 2004), nonché della lettera d’invito del 7 settembre 2004, la stessa non può essere riferita con certezza alla gara di cui si tratta, in quanto temporalmente antecedente allo stesso atto indittivo ed alla definizione della concreta lex specialis della stessa ed, in particolare, del Capitolato Prestazionale richiamato nel bando e nella lettera d’invito medesimi. Quanto alle prodotte fatture dell’ing. F. n. 27 in data 24 novembre 2004 e n. 29 del 9 dicembre 2004, le stesse attengono, genericamente: – la prima, a “progetto esecutivo relativo al fabbricato presso la Cittadella Universitaria in M.: adeguamento alla normativa di sicurezza ed antincendio; progetto impianto antincendio” etc.; – la seconda a “progetto esecutivo relativo al fabbricato presso la Cittadella Universitaria in M.: impianto condizionamento”. In tal caso, l’assoluta genericità dei dati offerti (“fabbricato presso la Cittadella Universitaria in M.”) non consente di ricondurre con certezza le somme indicate in dette fatture al progetto di cui si tratta. Circa le richieste “spese generali”, le stesse sono rapportate, dall’appellante, direttamente agli oneri di progettazione anzidetti e, quindi, non possono, per le stesse ragioni dianzi indicate, essere ritenute spettanti. Quanto all’asserito pregiudizio patito dalle “imprese associate” (in realtà, una sola) “per non aver potuto maturare i requisiti che sarebbero entrati nel loro patrimonio aziendale per effetto dell’esecuzione del contratto”, si tratta di pretesa patrimoniale strettamente quanto direttamente inerente l’impresa asseritamente danneggiata, che, quindi, avrebbe dovuto avanzare apposita domanda in prima persona, proponendo anch’essa l’originario ricorso e l’appello, non potendo valere, ai peculiari fini di cui si tratta, la circostanza che essa è mandante nell’ATI costituita con l’odierna appellante. 11.- Per tali motivi va accolto l’appello in epigrafe e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata ed in accoglimento del ricorso di primo grado, vanno annullati gli atti impugnati e va condannata l’amministrazione appellata al risarcimento del danno nei termini di cui in motivazione. Le spese del doppio grado posso essere integralmente compensate tra le parti. P.Q.M. il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, accoglie l’appello e, per l’effetto, in accoglimento del ricorso di primo grado, annulla gli atti impugnati e condanna l’amministrazione appellata al risarcimento del danno nei termini di cui in motivazione (…). Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 20 marzo 2007 (..)». CONTENZIOSO NAZIONALE 279 280 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La legittimazione passiva nelle impugnazioni delle ordinanze contingibili ed urgenti del Sindaco: recenti sviluppi giurisprudenziali (Consiglio di Stato, sezione quinta, sentenza 13 agosto 2007 n. 4448) Con la sentenza n. 4448 del 13 agosto 2007 il Consiglio di Stato ha riaffermato, con vigore, il suo precedente orientamento in materia di legittimazione passiva nelle impugnazioni delle ordinanze contingibili e urgenti emanate dal Sindaco a norma dell’art. 54 del Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli Enti locali (1), facendo leva su nuovi argomenti e rafforzando quelli utilizzati in precedenza, soprattutto in conseguenza delle recenti modifiche normative (2). Il Consiglio di Stato ha individuato come legittimato passivo solamente l’Amministrazione Statale che dovrebbe essere citata in giudizio in ogni affare che riguardi l’impugnazione delle ordinanze contingibili ed urgenti. La soluzione si accosta a quelle posizioni che vedono come paradossale la circostanza per cui l’Amministrazione, tenuta a risarcire il danno derivante dall’illegittimità dell’atto, non possa partecipare al giudizio sull’annullamento dell’ordinanza, che rimane essere premessa indefettibile al risarcimento (3). Il giudice di primo grado aveva qualificato il Sindaco nell’esercizio delle funzioni di ufficiale di governo, quale organo dello Stato coadiuvato dagli uffici comunali come apparato servente. In sostanza si era rifatto ad un meccanismo analogo a quello delineato del vecchio testo dell’art. 118 della Costituzione, laddove disponeva la possibilità per la Regione di esercitare le sue funzioni amministrative “avvalendosi degli uffici comunali”. A questo punto è interessante notare e descrivere il percorso logico e sistematico seguito dal Consiglio di Stato nel pronunciare la sua decisione. Infatti, l’interrogativo chiave a cui bisogna rispondere sta nello stabilire se il ricorso per l’annullamento delle ordinanze contingibili e urgenti sindacali sia correttamente proposto mediante la notifica dell’atto introduttivo del giudizio al solo Comune, o sia indispensabile notificarlo anche all’Amministrazione Statale, alla luce dei poteri del Sindaco quale “ufficiale del Governo”. Ma si chiede l’Alto Consesso: «possiamo far rientrare il potere di emanazione delle ordinanze contingibili e urgenti nella funzione di “ufficiale di governo”?» Individua a sostegno di questa tesi due ragioni essenziali. La (1) Decreto Legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (2) Legge n. 205/2000, Riforma del Titolo V della Costituzione (3) In senso favorevole alla c.d. pregiudizialità amministrativa si veda Cons.Stato n. 2136/2007 e n. 954/2007. In senso contrario si veda Cons.Stato n. 2922/2007 e C.G.A. n. 368/2007, nonché Cass.SS.UU. n. 1369/2006 e Cass.SS.UU. n. 16660/2006. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 281 prima risiede nel bisogno di trovare una giustificazione razionale delle caratteristiche proprie del potere di ordinanza; la seconda, un po’ più datata, deriverebbe dalla consapevolezza che il sistema delle autonomie locali trova il suo quid nell’apparato statale. Queste due ragioni sopravvivono anche alla riforma del Titolo V ed alla conseguente evoluzione delle autonomie locali, risultando “addirittura rafforzate dalla complessiva evoluzione del sistema”. Alla luce del nuovo quadro normativo delineato dal modificato assetto costituzionale, il Consiglio afferma la legittimazione passiva del Comune in caso di impugnazione di un provvedimento contingibile e urgente, escludendo la necessità di notifica anche nei confronti del Ministero dell’Interno. Tuttavia, in caso di richiesta risarcitoria contemporanea o successiva all’azione di annullamento, il ricorso va notificato anche al Ministero dell’Interno per evitare che lo Stato venga chiamato a rispondere dei danni senza aver potuto difendersi. L’Alto Consesso fa leva sull’assunto che il Sindaco in occasione di adempimento di funzioni di Ufficiale di Governo rimane incardinato nel complesso organizzativo dell’ente locale, anche se gli effetti degli atti emanati in esercizio delle suddette funzioni vengano imputati giuridicamente allo Stato. “Nemmeno l’esercizio da parte del Sindaco, organo di vertice di un ente locale di funzioni di Ufficiale di Governo” dice il Consiglio, “è sufficiente perché risultino applicabili le norme di cui al R.d. 30 ottobre 1933 n. 1611…” in materia di rappresentanza in giudizio delle Amministrazioni Statali. Il Consiglio di Stato critica altresì la tesi della Cassazione poiché non adeguatasi ai profondi mutamenti normativi e giurisprudenziali della disciplina degli enti locali registratisi negli ultimi anni. Ricordiamo che la Cassazione ha sempre sostenuto e continua a sostenere l’esclusiva legittimazione passiva dello Stato in materia. Uno dei punti deboli, riconosciuti dallo stesso Consiglio di Stato, sta nel fatto che, in relazione ad una unitaria vicenda sostanziale, cioè l’illegittimità di un’ordinanza sindacale contingibile e urgente, possa aversi una differente legittimazione passiva, a seconda della presenza o meno dell’azione risarcitoria. L’Alto Consesso non prende una posizione netta nel caso di azione risarcitoria, avanzando dei dubbi sulla stessa legittimazione passiva dello Stato e lascia aperta la questione, non potendosi escludere a priori la legittimazione passiva dell’Amministrazione in merito a danni derivanti da un’ordinanza contingibile e urgente per le ragioni sopra esposte. Da quanto detto emerge chiaramente il differente orientamento fra la Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato e conseguentemente, l’esistenza di due distinti filoni giurisprudenziali. La giurisprudenza amministrativa ha più volte sostenuto che la legittimazione passiva spetti al Comune; quindi anche quando il Sindaco, come nel caso delle ordinanze contingibili e urgenti, agisce nella veste di ufficiale di governo, non può essere considerato organo dello Stato poiché rimane “incardinato nel complesso organizzativo dell’ente locale”; è necessario 282 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO allora notificare il ricorso presso la casa comunale e non presso l’Avvocatura dello Stato (4). La giurisprudenza civile, invece, è stata sempre compattamente orientata nel ritenere che la legittimazione passiva spetti allo Stato, poiché gli atti posti in essere dal Sindaco, quale ufficiale di governo, sono sempre espressione di un potere che va ricondotto necessariamente allo Stato. Vi sono state numerose pronunce, soprattutto della Suprema Corte di Cassazione (5), in cui si rinviene una chiara valutazione dell’operato del Sindaco quale ufficiale di governo, come espressione di un potere appartenente allo Stato anche quando siano implicati interessi locali, dovendo lo Stato rispondere dei danni derivanti dall’esercizio di questo potere. Tuttavia, in alcune occasioni, sia i Tribunali Amministrativi Regionali, che il Consiglio di Stato hanno avuto modo di condividere l’ipotesi prospettata dalla giurisprudenza civile configurando il potere del Sindaco come di natura strettamente statuale; quindi il ricorso avverso le ordinanze contingibili e urgenti va notificato sia al Comune, che all’Amministrazione Statale interessata a seconda dell’interesse pubblico rilevante nel caso concreto (6). Anche le Sezioni Unite hanno in alcune occasioni contemperato la loro posizione ammettendo la legittimazione passiva del Comune nei casi in cui siano interessati i soli abitanti del Comune e per la tutela di interessi esclusivamente locali (7) . Questa situazione è stata complicata dalla legge 205 del 2000 che ha fornito il lasciapassare al giudice amministrativo per conoscere del risarcimento del danno derivante da atto amministrativo illegittimo. L’art. 7 della suddetta legge ha infatti assegnato alla giurisdizione del giudice amministrativo le pretese risarcitorie derivanti da atti amministrativi illegittimi rientranti sia nella giurisdizione esclusiva, che in quella ordinaria di legittimità (8). (4) Su questa linea interpretativa Tribunale Superiore Acque, 19 maggio 2005 n. 56; Cons.Stato, Sez. V, 27 ottobre 1986 n. 568; Cons.Stato, Sez.V 27 novembre1987 n. 736; Cons.Stato, Sez. IV, 28 marzo 1994 n. 291. (5) Cass. III, 31 luglio 2002, n. 11356; Cass. I, 14 febbraio 2000 n. 1599; Cass. I, 11 gennaio 1999 n. 182, Cass. I, 7 agosto 1997 n. 7291; Cass. I, 29 gennaio1998 n. 902; Cass. III, 21 novembre 1994 n. 9847. (6) Si veda TAR Campania Sez. II, 14 febbraio 1986 n. 27; TAR Liguria, 02 febbraio 1985, n. 19; Cons.Stato, Sez. IV, 13 dicembre 1999 n. 1844. (7) Si veda Cass. SS.UU. 23 aprile 1999 n. 254; Cass. I, 21 agosto 1997 n. 7810 (8) La Corte Costituzionale nella sentenza 204/2004 ha precisato che il risarcimento del danno nei confronti della P.A. previsto dall’art. 7 della L. n. 205 del 2000 non costituisce una nuova materia di giurisdizione esclusiva attribuita alla cognizione di quest’ultimo ma costituisce “...uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione”. L’azione risarcitoria ex art. 7 L. n. 205 del 2000 è, quindi, anche nella interpretazione del giudice delle leggi, strumento di completamento di quella tutela che il giudice amministrativo appresta, in via principale, mediante l’annullamento del provvedimento impugnato. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 283 Di conseguenza “in un quadro normativo mutato, nel quale l’azione impugnatoria e quella risarcitoria confluiscono dinanzi al medesimo giudice, la problematica non può avere che una soluzione unitaria”. La giurisprudenza futura dovrà cercare di coordinare queste differenze interpretative, soprattutto alla luce del mutato assetto costituzionale e delle recenti disposizioni normative sulla giurisdizione del giudice amministrativo in materia di risarcimento del danno, che vede ancora presenti percorsi interpretativi differenti sul tema della cd. pregiudizialità amministrativa e sulla competenza in materia di risarcimento del danno; la Corte Costituzionale con la sentenza 204/2004 ha fornito una guida sull’interpretazione dell’art. 7 della 205/2000, ma a tutt’oggi rileviamo delle importanti differenze fra la Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato ed anche in seno al Consiglio stesso. Possiamo rilevare l’impulso senz’altro positivo derivante dalle novità in tema di risarcimento del danno che hanno spinto il Consiglio di Stato a trattare la questione sulla legittimazione passiva in tema di danni conseguenti dall’illegittimità di ordinanze contingibili e urgenti; finora infatti, i due filoni giurisprudenziali, quelli del Consiglio di Stato e della Cassazione, non avevano avuto ragione di confrontarsi e di collidere, poiché non veniva tendenzialmente riconosciuta la possibilità per il giudice amministrativo di conoscere del risarcimento del danno. Tirando le fila del discorso, con la sentenza n. 4448/2007 il Consiglio di Stato ha voluto confermare il proprio precedente orientamento riconoscendo la legittimazione passiva del solo Comune in tema di annullamento di ordinanze sindacali contingibili e urgenti, affermando inoltre, in caso di azione risarcitoria, la necessità di chiamare in causa anche il Ministero dell’Interno. Su quest’ultimo punto, tuttavia, il Consiglio stesso nutre dei dubbi, che speriamo possano essere dissipati dalla giurisprudenza futura. Dott. Giuseppe Stuppia (*) Consiglio di Stato, sezione quinta, sentenza 13 agosto 2007 n. 4448 – Pres. S. Santoro – M. Lipari – L. R. A. S.r.l. , F. A. di A. F. e C. s.a.s., L. C. e A. s.r.l., L. Imm.re s.r.l., q.le avente causa di F.A., [ed altri] (Avv. C. Orlandi) c/ Comune di Mandello del Lario, in persona del sindaco in carica (Avv.ti M. Riva e A. Police) e Regione Lombardia, in persona del Presidente in carica (Avv.ti M. Cederle, P.D. Vivone e G. M. Pompa) – M. E., Imm.re F. M.s.r.l.., P. C. e A. s.r.l., R. F. (n.c.). «(Omissis) Diritto (Omissis) 3.- Ora, è indubbio che le ordinanze impugnate in questa sede, dichiaratamente emesse dal Sindaco a tutela della pubblica incolumità, minacciata dal pericolo di frane e smotta- (*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. 284 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO menti di un versante montuoso instabile, incombente sulla strada statale sottostante, riguardano non solo la comunità locale, ma la generalità delle persone, attengono cioè ad un interesse generale non circoscritto localmente. La necessità di un intervento pubblico a tutela di tale interesse è stata del resto posta in luce dal Tribunale di Lecco (cfr. sentenza 19 giugno 2000 n. 550), che, nel giudizio civile in cui una delle odierne ricorrenti, denunciando il grave pericolo di frane e smottamenti, chiedeva la condanna delle proprietà finitime a interventi riparatori, ha respinto la domanda, previa consulenza tecnica d’ufficio, riconoscendo l’esistenza – non solo per le proprietà fondiarie, ma per l’incolumità pubblica – di un pericolo non ovviabile che con interventi radicali dell’autorità amministrativa. In questa prospettiva assume rilevanza la questione sollevata dalla difesa comunale (e comunque rilevabile d’ufficio) circa l’identificazione del soggetto – pubblica amministrazione – passivamente legittimato rispetto alle azioni di annullamento e di risarcimento del danno proposte in questa sede. Se è vero infatti che i ricorrenti contestano l’esistenza dei presupposti per l’emanazione di ordinanze necessitate, tale motivo di contestazione attiene alla legittimità dell’ordinanza, non alla legittimazione a contraddire, che va individuata ex ante mediante identificazione del soggetto (pubblica amministrazione) tenuto a sopportare le conseguenze dell’annullamento. Ebbene, poiché ricorsi e motivi aggiunti sono stati notificati al Comune ed al Sindaco (quale organo del Comune), e dacché a questi, in via solidale o disgiuntiva, è rivolta altresì la domanda risarcitoria, si tratta di vedere se Comune e Sindaco siano stati correttamente evocati in giudizio, o se la legittimazione passiva spetti ad altra Amministrazione. 4.- Sulla questione si registrano due distinti filoni giurisprudenziali. Secondo un consistente indirizzo della giurisprudenza amministrativa, la legittimazione a resistere nei giudizi impugnatori aventi ad oggetto atti adottati dal sindaco in qualità di ufficiale del governo spetta al comune, in quanto ente designato dall’ordinamento a porre la propria organizzazione al servizio del sindaco stesso quando agisce come organo periferico dell’amministrazione statale (Trib. sup. acque, 19 maggio 2000 n. 56). Anche nella veste di ufficiale del governo, infatti, il sindaco, restando incardinato nel complesso organizzativo dell’ente locale, non potrebbe essere considerato organo dello Stato, con conseguente ritualità della notifica del ricorso giurisdizionale effettuata presso la sede comunale anziché presso l’Avvocatura dello Stato (Cons. Stato IV, 28 marzo 1994 n. 291; V, 27 ottobre 86 n. 568; V, 27 novembre 1987 n. 736). Non mancano peraltro, nella stessa giurisprudenza amministrativa, più antica e più recente, voci di diverso tenore. Si rinvengono infatti pronunce secondo le quali il ricorso contro un’ordinanza di necessità adottata dal sindaco nella veste di ufficiale del governo è inammissibile, per mancata instaurazione del contraddittorio, nel caso in cui venga notificato al solo comune anziché all’autorità emanante nel domicilio legale della stessa presso l’avvocatura distrettuale dello Stato (TAR Campania Sez. II, 14 febbraio 1986 n. 27; TAR Liguria 2 febbraio 1985 n. 19). E più recentemente si è statuito (Cons. St. IV, 13 dicembre 1999 n. 1844) che il potere di ordinanza attribuito al sindaco quale ufficiale del Governo, pur richiedendo eccezionalmente l’intervento di organi incardinati presso enti diversi dallo Stato, mantiene la propria natura statale, così comportando l’attrazione funzionale dell’organo dell’Ente locale nell’organizzazione dello Stato; con la conseguenza che il ricorso contro l’ordinanza contingibile e urgente emessa dal sindaco va notificato al sindaco stesso – in veste di ufficiale del Governo – e all’Amministrazione statale di settore di volta in volta interessata alla cura dell’interesse pubblico in evidenza. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 285 In questo senso appare univocamente orientata – per venire all’altro filone giurisprudenziale – la giurisprudenza civile. In ambito civilistico è statuizione costante che l’ordinanza contingibile e urgente emessa dal sindaco quale ufficiale del governo è espressione di un potere che appartiene allo Stato, titolare della massima potestà pubblica, ancorché nel provvedimento siano implicati interessi locali; ne consegue che lo Stato, non già il Comune, deve rispondere dei danni derivanti dall’esercizio (o dal mancato esercizio) di tale potere da parte del sindaco, anche con riguardo all’operato di organi comunali che gli sono di supporto [cfr. Cass. III, 31 luglio 2002 n. 11356, relativa a ordinanza di sgombero di un edificio commerciale lesionato; Cass. I, 14 febbraio 2000 n. 1599, secondo la quale nella tenuta dei registri dello stato civile il sindaco agisce quale organo dello stato in posizione di dipendenza gerarchica anche rispetto agli organi statali centrali (Ministero della Giustizia) e locali di grado superiore (Procuratore della Repubblica); Cass. I, 11 gennaio 1999 n. 182 in tema di requisizione di alloggi; Cass. I, 7 agosto 1997 n. 7291 in tema di calamità naturali; Cass. SS.UU. 18 novembre 1992 n. 12316 e 14 marzo 1991 n. 2726, in tema di incolumità e sicurezza dei cittadini; Cass. I, 29 gennaio 1998 n. 902 in tema di indennità di occupazione di suoli in aree colpite da sisma; Cass. III, 21 novembre 1994 n. 9847, per tutti i casi in cui il sindaco assumendo funzioni di ufficiale del governo emani atti quale organo dello Stato). Non incrinano sostanzialmente questo quadro – né comunque rilevano nella fattispecie in esame – quelle pronunce che collegano l’imputazione della responsabilità all’appartenenza dell’interesse pubblico perseguito, confinando la legittimazione passiva del comune ai soli casi in cui il sindaco agisca, sia pure come ufficiale del governo, a beneficio dei soli abitanti del comune e per la tutela di interessi esclusivamente locali (Cass. SS.UU. 23 aprile 1999 n. 254; Cass. I, 21 agosto 1997 n. 7810, 18 maggio 1996 n. 4604); l’interesse alla sicurezza pubblica è infatti di natura tale da trascendere, sia in astratto, sia – come si è già avuto modo di osservare – nel caso di specie, l’ambito locale. 5.- Questi filoni giurisprudenziali, ciascuno ristretto al proprio ambito di giurisdizione, non avevano ragione di confrontarsi (e di collidere) fino a che le azioni di annullamento e di risarcimento erano devolute a ordini giurisdizionali distinti. Ma in un quadro normativo mutato, nel quale l’azione impugnatoria e quella risarcitoria confluiscono dinanzi al medesimo giudice, la problematica non può avere che una soluzione unitaria. Se la premessa indefettibile dell’azione risarcitoria è l’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo (Ad. plen. 26 marzo 2003 n. 4) non è ammissibile che l’Amministrazione tenuta a risarcire il danno derivante dall’illegittimità dell’ordinanza necessitata resti estranea al giudizio di annullamento. Alla luce del quadro normativo richiamato al punto 5, reputa il Collegio che gli atti emessi dal Sindaco come ufficiale del governo, attenendo a servizi di competenza statale, siano imputabili all’Amministrazione statale, agendo in tal caso il sindaco come organo dello Stato e gli uffici comunali come apparato servente (secondo un meccanismo analogo a quello delineato dal vecchio testo dell’art. 118, terzo comma, della Costituzione, laddove disponeva la possibilità per la Regione di esercitare le sue funzioni amministrative “avvalendosi” degli uffici comunali). La notificazione del ricorso e dei motivi aggiunti effettuata presso la casa comunale al Comune e al Sindaco (neppure come ufficiale del governo ma quale rappresentante dell’ente locale) non è pertanto idonea a coinvolgere nel giudizio l’unico soggetto passivamente legittimato, identificabile, per le ragioni esposte, nell’Amministrazione statale. A questa il ricorso doveva essere notificato presso l’Avvocatura dello Stato, giacché la regola stabilita dall’art. 21, primo comma, della legge 6 dicembre 1971 n. 1034 (che prevede la notifica del ricorso “all’organo che ha emesso l’atto impugnato”) è derogata dal combinato disposto della legge 25 marzo 1958 n. 260 e dell’art. 10, terzo comma, della legge 3 aprile 1979 n. 103 (che prescrive la notifica presso l’Avvocatura dello Stato in persona del Ministro competente) ogni qualvolta il giudizio debba essere promosso nei confronti delle amministrazioni statali (Ad. plen. 9 gennaio 1990 n. 5). L’impugnativa delle ordinanze contingibili ed urgenti va pertanto dichiarata inammissibile per carenza di legittimazione passiva del Comune (e del Sindaco quale autorità locale). (Omissis) 18.- Dunque, una volta riconosciuto che si tratta effettivamente di ordinanze contingibili e urgenti sindacali, occorre stabilire se il ricorso per il loro annullamento sia correttamente proposto mediante la notifica dell’atto introduttivo del giudizio al solo comune, o se non sia indispensabile costituire tempestivamente il contraddittorio, a pena di inammissibilità, anche nei confronti dell’amministrazione statale, considerando che, per espressa previsione legislativa, il sindaco, all’atto dell’adozione dell’ordinanza contingibile e urgente, agisce quale “ufficiale del Governo”. 19.- La Sezione è consapevole delle difficoltà teoriche generali, concernenti l’esatto inquadramento sistematico del potere sindacale di ordinanza contingibile e urgente. Le notevoli incertezze sostanziali sulla ricostruzione sul fondamento del potere e sui suoi limiti si riflettono, fra l’altro, sulla corretta individuazione delle parti pubbliche necessarie del giudizio proposto per l’annullamento delle ordinanze contingibili. 20.- All’origine della tradizionale previsione normativa, secondo cui la funzione esercitata si collega alla qualifica di Ufficiale del Governo attribuita al Sindaco, si possono indicare due ragioni essenziali. 21.- La prima, di carattere oggettivo e funzionale, intende stabilire una giustificazione razionale della profondità e ampiezza del potere di ordinanza, che (secondo una certa impostazione) può comportare anche deroghe all’ordinamento vigente. Si afferma, allora, che un potere di questo tipo, idoneo a superare precetti di rango legislativo e regolamentare (seppure nei rigorosi limiti tracciati dalla Corte costituzionale e dalla giurisprudenza di legittimità), potrebbe essere ammesso dall’ordinamento solo se ricondotto alla categoria generale del “potere di Governo”, inteso, in senso lato, come cura degli interessi indifferibili ed essenziali della comunità. 22.- La seconda ragione, di carattere strutturale e soggettivo, muove dalla antica idea secondo cui tutto il sistema delle autonomie locali troverebbe la propria base organizzativa unitaria nell’apparato statale, nel quadro complessivo dell’ordinamento giuridico. Il sindaco esercita poteri tipicamente riconducibili all’autonomia riconosciuta alla comunità territoriale, ma svolge anche compiti spettanti, in origine, allo Stato centrale. 23.- L’avvento del “federalismo amministrativo”, prima, e della riforma costituzionale del Titolo Quinto, dopo, non avrebbero cancellato del tutto la rilevanza di questi due argomenti tradizionali. Infatti, il rafforzamento delle autonomie locali, si accompagnerebbe, pur sempre, all’affermazione dei principi di sussidiarietà verticale e di indispensabile garanzia dell’unità dell’ordinamento giuridico nazionale. 24.- Senza approfondire ulteriormente le questioni riguardanti la natura sostanziale del potere di ordinanza sindacale nel contesto del nuovo assetto costituzionale, sembra ragionevole affermare, tuttavia, che il nuovo Titolo Quinto attenui notevolmente il rilievo soggettivo e strutturale della qualifica del sindaco quale “ufficiale del Governo”. Questa posizione 286 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO assume, ormai, una rilevanza essenzialmente funzionale, riflettendosi anche sulla dibattuta questione della legittimazione soggettiva nei giudizi proposti per l’annullamento dell’ordinanza contingibile e urgente. 25.- Va sottolineato, comunque, che l’orientamento nettamente prevalente del Consiglio di Stato (oltre che dei TAR), volto a riconoscere l’esclusiva legittimazione soggettiva del comune, si è basato su diversi argomenti logici e sistematici, elaborati in epoca anteriore alla riforma del Titolo Quinto e alla stessa prima riforma delle autonomie locali del 1990. 26.- Si tratta, quindi, di ragioni che non solo resistono, ma addirittura risultano rafforzate dalla complessiva evoluzione normativa del sistema. 27.- Si è esattamente rilevato che il fenomeno della imputazione degli effetti giuridici ad un soggetto pubblico diverso da quello che adotta un determinato provvedimento non implica affatto un’attrazione dell’autore dell’atto nella struttura soggettiva di una diversa amministrazione. 28.- Il tribunale cita una pronuncia della Quarta Sezione del Consiglio di Stato (a quanto risulta rimasta isolata), secondo cui il ricorso andrebbe notificato sia al comune che all’amministrazione statale competente nel settore interessato dal provvedimento (Cons. Stato, IV Sez., 13 dicembre 1999, n. 1844). 29.- Ma è opportuno sottolineare che la decisione citata sembra riferirsi ad una ipotesi in cui era in discussione un’ordinanza destinata a spiegare effetti al di là del territorio comunale. Inoltre, in quella vicenda, la questione della legittimazione passiva era stata originata dalla richiesta dell’amministrazione statale, tempestivamente evocata in giudizio, di essere estromessa dalla lite. 30.- Secondo l’indirizzo assolutamente dominante di questo Consiglio, comunque, in caso di impugnazione di un provvedimento contingibile e urgente, adottato dal Sindaco quale ufficiale di Governo, è escluso che il relativo ricorso, se proposto solo per l’annullamento di atti, debba essere notificato anche al Ministero dell’interno, mentre diversamente deve essere ritenuto nel caso di contemporanea o successiva azione risarcitoria, affinché lo Stato non venga chiamato a rispondere dei danni senza aver potuto tempestivamente difendersi. 31.- Pertanto, deve ritenersi ammissibile il ricorso avverso ordinanze contingibili e urgenti nel caso in cui l’instaurazione del processo sia avvenuta con notifica al comune, in quanto, nel caso di adempimento di funzioni di ufficiale di governo da parte del sindaco, l’ordinamento disciplina un fenomeno di imputazione giuridica allo Stato degli effetti di atti di un organo del comune, nel senso che il sindaco non diventa un organo di un’amministrazione dello Stato ma resta incardinato nel complesso organizzativo dell’ente locale. Secondo questo indirizzo, la notificazione dell’impugnazione di atti adottati dall’amministrazione comunale deve essere effettuata al sindaco presso la sede del comune, anziché presso l’Avvocatura dello Stato, poiché nemmeno l’esercizio da parte del sindaco, organo di vertice di un ente locale territoriale, di funzioni di Ufficiale di governo è sufficiente perché risultino applicabili le norme di cui al r.d. 30 ottobre 1933 n. 1611 (sulla rappresentanza in giudizio dello Stato) e successive modificazioni, che attribuiscono all’Avvocatura dello Stato (ai sensi dell’art. 11, citato r.d., anche domiciliataria “ex lege”) la rappresentanza in giudizio delle amministrazioni statali e di quelle ulteriori specificamente indicate da disposizioni di legge, tra le quali non rientra la figura del sindaco , nemmeno quale ufficiale di governo. 32.- In particolare, il collegio ritiene di aderire all’orientamento (Consiglio Stato , sez. VI, 12 novembre 2003 , n. 7266), secondo cui la legittimazione passiva del comune vada affermata in base ai seguenti argomenti: – l’art. 1 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611 (modifi- IL CONTENZIOSO NAZIONALE 287 cato dall’art. 1 della legge 25 marzo 1958, n. 260, e reso espressamente applicabile ai giudizi amministrativi dall’art. 10, terzo comma, della legge 3 aprile 1979, n. 103) attribuisce all’Avvocatura dello Stato la rappresentanza, il patrocinio e l’assistenza in giudizio delle “Amministrazioni dello Stato, anche se organizzate ad ordinamento autonomo”, e si riferisce alle Amministrazioni dello Stato nel senso proprio dell’espressione, ossia agli uffici o complessi di uffici facenti parte della struttura organica delle Amministrazioni statali; – quando il Sindaco, nell’adempimento delle sue funzioni, agisce quale ufficiale di governo, l’ordinamento disciplina un fenomeno di imputazione giuridica allo Stato degli effetti dell’atto dell’organo del Comune, nel senso che il Sindaco non diventa un “organo” di un’Amministrazione dello Stato, ma resta incardinato nel complesso organizzativo dell’ente locale, senza che il suo status sia modificato (Sez. IV, 28 marzo 1994, n. 291; Sez. V, 27 novembre 1987, n. 736; Sez. V, 27 ottobre 1986, n. 568; cfr. Trib. Sup. acque pubbliche, 19 maggio 2000, n. 56); – l’esigenza che la notifica del ricorso giurisdizionale abbia luogo nei confronti del Sindaco, presso la sede comunale, è coerente con le caratteristiche del procedimento amministrativo che si conclude con l’atto sindacale, che è istruito, redatto ed emesso dagli uffici dell’Amministrazione comunale, alla quale compete anche di valutare, secondo le normali regole, il comportamento da tenere nel caso di impugnazione dell’atto in sede giurisdizionale (Sez. IV, 28 marzo 1994, n. 291; Sez. V, 27 ottobre 1986, n. 568). 33.- La sentenza appellata, comunque, pone l’accento sulla circostanza che la giurisprudenza della Cassazione, a Sezioni Unite, è da tempo assestata sull’orientamento secondo cui lo Stato (e non il Comune) sia l’unico soggetto legittimato passivo dell’azione risarcitoria proposta per il ristoro dei danni derivanti dall’esecuzione delle ordinanze contingibili e urgenti adottate dal sindaco. 34.- L’argomento, pur cogliendo acutamente una possibile aporia dell’ordinamento, nella sua effettiva dinamica applicativa, non pare determinante per giustificare le conclusioni cui è pervenuto il tribunale. 35.- In linea generale, la tesi della Cassazione continua a basarsi su una affermazione tralaticia, la quale non sembra tenere conto dei profondi mutamenti della disciplina degli enti locali, della loro più spiccata autonomia, dei nuovi principi costituzionali che definiscono il rapporto tra i diversi livelli di governo territoriale, del significato assunto dalla regola di sussidiarietà sancita dalla Costituzione. 36.- Nessuna delle sentenze citate dalla pronuncia appellata si fa carico di verificare se la tesi tradizionale sia ancora compatibile con il nuovo sistema delle autonomie locali e con la riforma del Titolo Quinto. 37.- È anche possibile convenire con il tribunale, secondo il quale potrebbe apparire contraddittorio riconoscere la legittimazione passiva dello Stato quando, in relazione ad una unitaria vicenda sostanziale, correlata alla lesione lamentata per effetto dell’adozione dell’ordinanza contingibile ed urgente, si propone l’azione risarcitoria e la legittimazione passiva del comune quando si propone l’azione di annullamento. Ma dovendosi pervenire ad una soluzione unitaria del problema riguardante l’individuazione della parte necessaria del giudizio, sembrerebbe più corretto applicare il principio di accessorietà dell’azione risarcitoria: il soggetto passivo dell’azione risarcitoria andrebbe determinato all’esito della identificazione del soggetto passivo della domanda di annullamento. 38.- A ben vedere, è proprio la tesi della legittimazione passiva dello Stato per l’azione risarcitoria a risultare poco persuasiva, mentre la teoria della legittimazione passiva del comune per l’azione di annullamento continua ad essere basata su argomenti convincenti e persuasivi. 288 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 39.- Tuttavia, non si deve trascurare che i criteri di imputazione della responsabilità risarcitoria potrebbero anche risultare più complessi. Pertanto, non si potrebbe escludere, a priori, una responsabilità dello Stato per i danni cagionati dall’esercizio del potere di ordinanza sindacale, basata su un titolo diverso da quello dell’imputazione soggettiva dell’atto. 40.- Peraltro, ai fini del presente giudizio, la questione non richiede ulteriori approfondimenti, dal momento che, in concreto, le parti interessate non hanno proposto alcuna domanda risarcitoria. 41.- Ne deriva, quindi, che i ricorsi proposti contro le ordinanze sindacali impugnate in primo grado devono considerarsi ammissibili. (Omissis)»”. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 289 290 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO In tema di alienazione, ai fini della rottamazione, dei veicoli custoditi presso le depositerie giudiziarie o amministrative (Consiglio di Stato, sezione sesta, decisione 9 ottobre 2007 n. 5306) Con la decisione n. 5306/2007 il Consiglio di Stato ha respinto definitivamente il ricorso proposto dall’Associazione nazionale centri di soccorso autoveicoli e dall’Associazione soccorritori stradali italiani, oltre che da alcuni custodi giudiziari ed amministrativi di veicoli, avverso il decreto interdirigenziale in data 30 marzo 2004 del Ministero dell’Interno, dell’Economia e delle Finanze, altrochè dell’Agenzia del Demanio, riguardante le modalità di svolgimento dell’alienazione obbligatoria, disposta dall’art. 38, II comma, del D.L. n. 269/2003, convertito in legge n. 326/2003, anche ai soli fini della rottamazione, dei veicoli giacenti presso le depositerie autorizzate a seguito dell’applicazione di misure di sequestro e sanzioni accessorie previste dal Codice della Strada, ovvero di quelli non alienati per mancanza di acquirenti, purché immatricolati per la prima volta da oltre cinque anni e privi di interesse storico e collezionistico, comunque custoditi da oltre due anni alla data del 30 settembre 2003. Il Giudice di appello ha rilevato come il decreto interministeriale impugnato, dovendosi limitare a regolamentare l’attività volta all’attuazione della legge sopra citata, non avrebbe potuto stravolgere la volontà del legislatore, condizionando il perfezionarsi dell’alienazione al consenso dell’acquirente. Premesso, inoltre, che l’iniziativa legislativa aveva come scopo primario la semplificazione e la razionalizzazione de futuro della procedura di custodia dei veicoli suindicati, e la eliminazione di tutti i veicoli giacenti, in considerazione sia del degrado ambientale causato dal protrarsi nel tempo della custodia, sia dei riflessi negativi sulla gestione finanziaria dello Stato, costretto a ingenti esborsi per la liquidazione delle rilevanti indennità di custodia, riteneva manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma in questione per contrasto con gli artt. 3, 41 e 42 della Costituzione, sussistendo evidenti ragioni in base alle quali il legislatore era legittimato a scegliere, nella sua discrezionalità, le soluzioni necessarie. Avv. Maria Elena Scaramucci (*) Consiglio di Stato, sezione sesta, decisione 9 ottobre 2007 n. 5306 – Pres. C. Varrone – Est. D. Cafini – Ministero dell’Interno, Ministero dell’Economia e finanze (ct. 3261/07, Avv. dello Stato M. E. Scaramucci) c/ ANCSA (Associazione nazionale cen- (*) Avvocato dello Stato. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 291 tri soccorso autoveicoli) e Autofficina C. (Avv. G. Altieri) ed altri, per l’annullamento, previa sospensione dell’esecuzione, della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Roma, sezione I ter, n. 6898/06 in data 2 agosto 2006, resa inter partes. «Fatto. 1.- Con ricorso proposto innanzi al T.A.R. per il Lazio (n. 454/2004), gli odierni appellati, tutti custodi giudiziari e amministrativi di veicoli, impugnavano il decreto dirigenziale in data 30 marzo 2004 - pubblicato sulla G.U. n. 92 del 20 aprile 2004) ed avente ad oggetto le modalità di svolgimento dell’alienazione e delle attività ad esse connesse di cui all’art. 38, comma 3, del D.L. 30 settembre 2003, n. 269/2003, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326” - emanato di concerto dal Capo del Dipartimento per gli affari interni e territoriali del Ministero dell’Interno e dal Direttore dell’Agenzia del demanio, nella parte in cui aveva dettato la disciplina relativa al “procedimento di alienazione, anche ai soli fini della rottamazione dei veicoli individuati dall’art. 38, comma 2, del D.L. n. 269/2003”. Nel chiedere l’annullamento, in parte qua, di detto decreto, i ricorrenti formulavano, a sostegno del gravame, i seguenti motivi di diritto: a) violazione e falsa applicazione art. 38 D.L. n. 269/2003; violazione e falsa applicazione art. 2 del d.P.R. n. 189/2001; violazione e falsa applicazione artt. 3 e 42 della Costituzione; eccesso di potere; difetto assoluto di motivazione; contraddittorietà; ingiustizia manifesta; perplessità; illogicità; sviamento; b) violazione e falsa applicazione art. 38 D.L. n. 269/2003; violazione e falsa applicazione art. 2 del d.P.R. n. 189/2001; violazione e falsa applicazione artt. 3 e 42 della Costituzione; eccesso di potere; difetto assoluto di motivazione; contraddittorietà; ingiustizia manifesta; perplessità; illogicità; sviamento; c) illegittimità costituzionale art. 38 D.L. n. 269/2003 per violazione degli artt. 3, 41 e 42 della Costituzione. Nel giudizio si costituivano le Amministrazioni intimate che controdeducevano al ricorso con successiva memoria. 2.- Con la sentenza in epigrafe specificata, l’adito T.A.R., prescindendo dalle questioni di legittimità costituzionale sollevate, accoglieva il ricorso, ritenendo, in particolare, che le Amministrazioni intimate, nell’adottare il menzionato provvedimento, avrebbero dovuto specificare in maniera più compiuta e dettagliata le modalità dell’alienazione e statuendo, di conseguenza, l’illegittimità del disposto di cui all’art. 6 del D.M. in data 30 marzo 2004, laddove non faceva menzione del consenso degli interessati al procedimento in questione. 3.- Contro tale sentenza è stato interposto l’appello odierno, con il quale le Amministrazioni ricorrenti, nel contestare la statuizione anzidetta, hanno dedotto quanto segue: A) inammissibilità del ricorso originario, non potendo essere autonomamente impugnato il decreto dirigenziale di attuazione dell’art. 38, comma 3 cit., trattandosi di atto generale non avente carattere immediatamente lesivo (che andava impugnato, quindi, contestualmente all’atto successivo di applicazione); B) infondatezza del ricorso stesso, avendo stabilito il decreto impugnato in prime cure le modalità di alienazione dei veicoli e dello svolgimento delle attività connesse in maniera del tutto conforme al dettato legislativo. Nelle conclusioni, le Amministrazioni appellanti hanno chiesto, pertanto, l’annullamento, previa sospensione dell’esecuzione, della sentenza impugnata. 292 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Ricostituitosi il contraddittorio nella presente fase di giudizio, l’ANCSA e l’Autofficina C. hanno replicato alle censure ex adverso prospettate, con apposite articolate memorie, rilevando in sintesi, da un parte, che il provvedimento impugnato in prime cure era in grado di incidere direttamente e negativamente sulle situazioni giuridiche individuali dei ricorrenti e, dall’altra, in relazione alla eccepita infondatezza del ricorso di primo grado, che il principio che emergeva dal contesto del censurato decreto non risultava conforme alle norme civilistiche che regolano l’istituto della compravendita e che, comunque, nella disciplina relativa non si prescinde affatto dalla volontà dell’acquirente del bene oggetto di alienazione; hanno chiesto, infine, le appellate la reiezione del ricorso, dopo avere nuovamente prospettato, in via subordinata, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 38 del D.L. n. 269/2003, nella parte in cui si dovesse ritenere che al comma 2 e seguenti sia stata introdotta una disciplina della destinazione dei veicoli giacenti presso le depositerie con alienazione a favore del custode ex lege ed a prescindere da ogni manifestazione di volontà dell’acquirente. Con ordinanza n. 6654 in data 19 dicembre 2006, questa Sezione ha accolto la domanda incidentale di sospensione, ritenendo “che, nelle more della definizione del merito, si appalesa prevalente l’interesse pubblico alla definizione della procedura di alienazione rispetto ad un interesse della parte in primo grado ricorrente che non subisce un pregiudizio grave ed attuale”. In prossimità dell’udienza di trattazione del ricorso in appello, si è costituito altresì l’Associazione soccorritori stradali italiani (ASSI) - con atto di intervento ad adiuvandum proposto contro le Amministrazioni appellanti ed in favore di ANCSA e Autofficina C. - prospettando censure e richieste sostanzialmente analoghe a quelle da quest’ultime dedotte e concludendo per il rigetto dell’appello, previa occorrendo rimessione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’art. 38 più volte citato. 4.- All’udienza pubblica del 12 giugno 2007 la causa è stata, infine, trattenuta in decisione, su concorde richiesta delle parti. Diritto 1.- Viene riproposta, con l’odierno appello dei Ministeri dell’Interno e dell’Economia e delle Finanze oltre che dell’Agenzia del Demanio, la questione relativa alla legittimità del decreto interdirigenziale in data 30 marzo 2004 - riguardante le modalità di svolgimento dell’alienazione e delle attività ad esse connesse di cui all’art. 38, comma 3, del D.L. 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, emanato di concerto dal Capo del Dipartimento per gli affari interni e territoriali del Ministero dell’Interno e dal Direttore dell’Agenzia del demanio, nella parte in cui ha dettato la disciplina relativa al “procedimento di alienazione, anche ai soli fini della rottamazione dei veicoli individuati dall’art. 38, comma 2, del D.L. citato - questione già risolta in senso favorevole alle tesi dei ricorrenti dalla sentenza in epigrafe specificata, che viene, però, contestata ora dalle Amministrazioni predette per l’inammissibilità e l’infondatezza del gravame originario. Prima di esaminare i motivi dell’appello, occorre fare cenno - per comprendere meglio la vicenda oggetto della controversia - al quadro normativo di riferimento e, in particolare, al menzionato decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, con cui sono state dettate, nell’art. 38, norme di semplificazione in materia di sequestro, fermo, confisca e alienazione dei veicoli, prevedendosi, tra l’altro: IL CONTENZIOSO NAZIONALE 293 - che “ai fini del trasferimento della proprietà, ai sensi degli articoli 213, comma 2-quater, e 214, comma 1, ultimo periodo, dei veicoli sottoposti a sequestro amministrativo o a fermo, nonché dell’alienazione dei veicoli confiscati a seguito di sequestro amministrativo, l’individuazione del custode-acquirente avviene, secondo criteri oggettivi riferibili al luogo o alla data di esecuzione del sequestro o del fermo, nell’ambito dei soggetti che hanno stipulato apposita convenzione con il Ministero dell’interno e con l’Agenzia del demanio all’esito dello svolgimento di gare ristrette, ciascuna relativa ad ambiti territoriali infraregionali” (comma 1); - che “i veicoli giacenti presso le depositerie autorizzate a seguito dell’applicazione di misure di sequestro e sanzioni accessorie previste dal decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni, ovvero quelli non alienati per mancanza di acquirenti, purché immatricolati per la prima volta da oltre cinque anni e privi di interesse storico e collezionistico, comunque custoditi da oltre due anni alla data del 30 settembre 2003, anche se non confiscati, sono alienati, anche ai soli fini della rottamazione, mediante cessione al soggetto titolare del deposito. La cessione è disposta sulla base di elenchi di veicoli predisposti dal prefetto anche senza documentazione dello stato di conservazione” (comma 2); - che “all’alienazione ed alle attività ad essa funzionali e connesse procedono congiuntamente il Ministero dell’interno e l’Agenzia del demanio, secondo modalità stabilite con decreto dirigenziale di concerto tra le due Amministrazioni” (comma 3); - che “l’alienazione del veicolo si perfeziona con la notifica al depositario-acquirente del provvedimento dal quale risulta la determinazione all’alienazione da parte dell’Amministrazione procedente, anche relativamente ad elenchi di veicoli. Il provvedimento notificato è comunicato al pubblico registro automobilistico competente per l’aggiornamento delle iscrizioni, senza oneri” (comma 5). 2.- In relazione a tale normativa primaria e per conformarsi, nei propri contenuti, alla stessa, il decreto interdirigenziale impugnato in prime cure, ha dettato, in conseguenza, le norme necessarie per disciplinare, come prescritto, il procedimento di alienazione, anche ai soli fini della rottamazione, dei veicoli individuati dall’art. 38, comma 2, del D.L. n. 269/2003, convertito nella legge n. 326/2003, dopo avere considerato che nel sistema previsto sono state stabilite due diverse procedure di alienazione degli autoveicoli: la prima, ai sensi dell’art. 38, comma 1 cit., nella quale il trasferimento dipende da un consenso, espresso in via preventiva, con apposita convenzione ai sensi dell’art. 214-bis del codice della strada, del depositario acquirente; la seconda, disciplinata ai sensi dell’art. 38, comma 2 cit., che non richiede invece il consenso dell’acquirente, imponendo un comportamento sostanzialmente vincolato all’Amministrazione per non avere essa discrezionalità alcuna sull’opportunità della vendita dei veicoli in questione (da trasferire forzosamente al depositario una volta decorso il biennio di custodia alla data del 30 settembre 2003). Peraltro, l’anzidetto decreto ha previsto l’istituzione di una Commissione per l’espletamento delle attività di cui al citato art. 38 al fine della predisposizione degli elenchi dei veicoli da alienare a favore di ogni singolo custode, individuando prioritariamente quelli destinati alla rottamazione, e loro valutazione (cfr., artt. 2, 3 e 4 del D.M. 30 marzo 2004); l’attribuzione ai titolari delle depositerie del compito di indicare i veicoli in custodia che si trovano nelle condizioni di cui all’art. 38, comma 2 (cfr., art. 3, comma 2, del D.M. 30 marzo 2004); l’alienazione dei veicoli al custode-acquirente (cfr. art. 4), precisando, testualmente - al comma 2 - che “i veicoli immatricolati per la prima volta da oltre 10 anni alla data del 30 settembre 2003 e non dichiarati di interesse storico e collezionistico sono alienati ai soli fini della rottamazione”; e, infine, che “il Prefetto adotta il provvedimento di alienazione, distinto in relazione a ciascun custode, previa approvazione dell’elenco dei veicoli da alienare e l’alienazione si perfeziona con la notifica del provvedimento al depositario acquirente” (art. 6). Con il menzionato decreto interdirigenziale, adottato ai sensi dell’art. 38, comma 3, le Amministrazioni statali, odierne appellanti, hanno dettato, dunque, solo disposizioni in relazione alla fase istruttoria del procedimento di alienazione degli autoveicoli (artt. 2-6), non potendo modificare alcunché delle prescrizioni di legge circa i soggetti destinatari, nei confronti dei quali, invero, è stato lo stesso Legislatore che nella sostanza ha previsto la cessione dei veicoli stessi come una operazione da eseguire in via obbligatoria. Infatti, come evidenziato dalla difesa erariale, tra le disposizioni del menzionato decreto impugnato in prime cure, l’art. 6 ripete letteralmente il comma 5 dell’art. 38 sopra riportato, disponendo che, per i veicoli che si trovano nella particolare condizione indicata nel precedente comma 2, sussiste l’obbligo a vendere da parte delle Amministrazioni e contemporaneamente l’obbligo ad acquistare da parte del custode, tant’è vero che l’alienazione viene perfezionata con la semplice notifica al depositario-acquirente del provvedimento dal quale risulta la “determinazione all’alienazione da parte dell’Amministrazione procedente, anche relativamente ad elenchi di veicoli”. 3.- Il decreto interdirigenziale come sopra adottato è stato considerato, tuttavia, illegittimo, in accoglimento delle tesi della parte ricorrente, dal T.A.R. per il Lazio che - partendo dal presupposto che non poteva configurarsi un legittimo perfezionamento dell’alienazione con la sola notifica del provvedimento all’acquirente e senza che da questi fosse espressa la volontà di accettazione o rifiuto - ha ritenuto che le Amministrazioni procedenti, nell’assumere il detto decreto interministeriale, avrebbero potuto risolvere il problema, specificando in maniera più compiuta e dettagliata le modalità di alienazione ed ha quindi annullato, per illegittimità, il disposto di cui all’art. 6 del decreto interministeriale di cui trattasi, nella parte in cui non faceva menzione del consenso degli interessati al procedimento in questione. 4.- Tale statuizione viene ora criticata dalle Amministrazioni appellanti, che in proposito deducono, nel ricorso in esame, da una parte, l’inammissibilità del ricorso originario – per non essere consentita l’impugnazione autonoma del decreto interministeriale di attuazione dell’art. 38, comma 3 cit., trattandosi di atto amministrativo generale non avente carattere immediatamente lesivo - e dall’altra, l’infondatezza del gravame originario, per avere stabilito il decreto anzidetto, in modo del tutto conforme a quanto prescritto dalla legge, le modalità di alienazione dei veicoli e dello svolgimento delle attività connesse. 4.1.- Al riguardo il Collegio ritiene che, quanto alla censura relativa alla eccepita inammissibilità del ricorso di prime cure, che essa debba essere disattesa, in quanto, pur essendo vero il fatto che gli atti amministrativi generali non siano sempre in grado di arrecare un pregiudizio diretto ed immediato proprio perché rivolti ad una pluralità di soggetti, nel caso in esame, tuttavia, la prescrizione censurata di cui all’art. 6 cit., appare in grado, nella sua formulazione sopra specificamente riportata, di arrecare un pregiudizio diretto ed immediato alla parte ricorrente. Ne deriva che nella specie doveva reputarsi consentita la sua autonoma impugnazione innanzi al T.A.R. adito, senza che fosse stato necessario attendere, quindi, l’adozione dell’atto applicativo, diversamente da quanto sostenuto appunto dalle Amministrazioni ricorrenti. 4.2.- Quanto al secondo motivo, riferito alla ritenuta infondatezza del ricorso di primo originario, la Sezione deve ritenere, invece, che esso sia fondato e che sia, di conseguenza, erronea la statuizione di primi giudici che ha ritenuto illegittimo l’art. 6 del contestato decreto. 294 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Infatti, posto che è stato il Legislatore, come sopra accennato, a disciplinare le modalità della alienazione di cui trattasi e che non possono dedursi, quindi, rilievi circa il procedimento in questione se non contestando la scelta operata dal Legislatore stesso, il Collegio deve osservare che il decreto interministeriale in questione ha in effetti il contenuto di un atto amministrativo generale, che non contiene alcuna disposizione aggiuntiva di quelle indicate dalla legge e si limita a stabilire modalità ed indicazioni circa l’organizzazione dell’attività volta all’attuazione della legge citata; dal che discende che il decreto impugnato in prime cure ha stabilito in effetti le modalità di alienazione dei veicoli e dello svolgimento delle attività connesse in modo del tutto conforme al chiaro dettato legislativo, che altrimenti - secondo quanto correttamente evidenziato dalla difesa erariale - verrebbe ad essere, con l’annullamento del decreto di attuazione, di fatto disapplicato, sostituendosi così il Giudice amministrativo al Giudice delle leggi; mentre, di converso, lo stesso decreto sarebbe risultato illegittimo per violazione di legge, qualora avesse condizionato il perfezionarsi dell’alienazione al consenso dell’acquirente, come sostenuto appunto nella gravata pronuncia. In particolare, come sopra sottolineato dalle Amministrazioni ricorrenti, l’art. 6 del decreto censurato in primo grado “ripete letteralmente” il comma 5 dell’art. 38 del D.L. n. 269/2003, convertito dalla legge n. 326/2003, stabilendo, per i veicoli nella condizione specificata nel precedente comma 2, che le Amministrazioni stesse sono tenute ad alienare e, nello stesso tempo, i custodi ad acquistare e che l’alienazione si perfeziona con la sola notifica al depositario-acquirente dell’atto dal quale risulta la “determinazione all’alienazione da parte dell’Amministrazione procedente, anche relativamente ad elenchi di veicoli”. Alla stregua delle considerazioni che precedono, il motivo ora esaminato va dunque accolto, non essendo inficiata di illegittimità, nei sensi precisati nella sentenza impugnata, la disposizione di cui all’art. 6. cit.. 5.- Osserva, infine, la Sezione che nella specie non sussistono i presupposti perché sia dichiarata non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni di riferimento della legge n. 326/2003, di conversione del D.L. n. 269/2003, per contrasto con gli artt. 3, 41 e 42 della Costituzione, secondo quanto eccepito appunto dalle parti appellate. Deve ritenersi, infatti, che la scelta operata nel caso in esame sia stata effettuata nell’ambito di una valutazione discrezionale del Governo, poi ratificata in sede parlamentare, in relazione al grave problema della custodia dei veicoli sottoposti a sequestro e fermo, problema che determina, come evidenziato nell’atto di appello, notevoli riflessi negativi sulla gestione finanziaria dello Stato, per effetto degli esborsi ingenti di risorse utilizzate per liquidare le rilevanti indennità di custodia, e che influisce anche sul degrado ambientale derivato dalla protrazione della custodia, con pregiudizio talvolta alla salute stessa. Appare, pertanto, indubbio che sussistevano nel caso in esame evidenti ragioni in base alle quali il legislatore era legittimato a scegliere nella sua discrezionalità le soluzioni ritenute necessarie e che, rispetto a tale scelta, non possa considerarsi ammissibile la questione di legittimità costituzionale, come sopra prospettata, delle disposizioni di riferimento della legge n. 326/2003, per l’asserito contrasto con gli artt. 3, 41 e 42 della Costituzione. 6.- In conclusione, alla stregua di quanto sopra considerato, il ricorso in appello deve essere accolto, e per l’effetto, deve essere annullata la sentenza impugnata, con conseguente reiezione del ricorso di primo grado. Sussistono, peraltro, giustificate ragioni per disporre, tra le parti in causa, l’integrale compensazione delle spese di giudizio. IL CONTENZIOSO NAZIONALE 295 P.Q.M. Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale (Sezione sesta), definitivamente pronunciando sul ricorso in appello in epigrafe specificato, lo accoglie, e, per l’effetto, annulla la sentenza impugnata, con conseguente rigetto del ricorso di primo grado. Spese compensate. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa. Così deciso in Roma, il 12 giugno 2007 dal Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale – Sezione sesta – nella Camera di Consiglio». 296 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO A.G.S. – Parere del 21 aprile 2007 n. 49678. Comunicazione prevista dall’art. 3 del d.P.R. n. 252/1998 (consultivo 34587/06, avvocato F. Fedeli). «(…) codesta Prefettura ha chiesto di conoscere se l’intervenuta estinzione del reato per il quale sia stata patteggiata la pena (ex art. 445 comma 2° c.p.p.) possa giustificare una comunicazione ex art. 3 del d.P.R. n. 252/1998 e art. 10 legge n. 575/1965 di contenuto negativo. Nel caso in esame l’Albo Nazionale delle imprese che effettuano la gestione dei rifiuti, sezione regionale per la Sardegna, ha interpellato codesta Prefettura in merito alla sussistenza di una causa ostativa ai sensi dell’art. 3 del d.P.R. 3 giugno 1998 n. 252 in relazione all’art. 10 della legge 31 maggio 1965 n. 575, sul conto del sig. (…) a carico del quale risulta dal certificato del Casellario giudiziale, in data 28 aprile 1998, una condanna a pena patteggiata ex art. 444 c.p.p., per il reato di estorsione continuata in concorso. Risulta, altresì, che il Tribunale di Sassari, con ordinanza dell’1 giugno 2004, ha dichiarato l’estinzione del reato a norma dell’art. 445 c.p.p. Ad avviso della Scrivente, l’estinzione del reato per il quale sia stata emessa sentenza di condanna all’esito del “patteggiamento”, non consente di adottare un’informativa antimafia interdittiva, ai sensi dell’art. 10 commi 1- 7 lett. a) del d.P.R. n. 252/1998, fermo restando che l’effetto estintivo del reato, a norma dell’art. 445 comma 2 c.p.p., non si realizza ipso iure, con il semplice decorso di cinque anni dalla sentenza di condanna senza che sia stato commesso un delitto della stessa indole, ma richiede una formale pronuncia ricognitiva da parte del Giudice dell’esecuzione (Cass. Pen., sez. IV, 21 marzo 2002 n. 11560; T.A.R. Sicilia, sez. I, Palermo, 9 marzo 2006 n. 561; T.A.R. Emilia Romagna, sez. Parma, 26 gennaio 2005 n. 23; T.A.R. Veneto, sez. III, 2 novembre 2004 n. 3836; T.A.R. Lazio, sez. III, 24 giugno 2004 n. 6174; T.A.R. Emilia Romagna, sez. I di Bologna, 7 gennaio 2004 n. 2; T.A.R. Toscana, sez. I, 17 dicembre 2003 n. 6101), in assenza della quale l’interessato non può invocare l’estinzione del reato ascrittogli. I P A R E R I D E L C O M I T A T O C O N S U LT I V O Secondo la più recente giurisprudenza della Cassazione penale, non si può porre in dubbio la pienezza degli effetti estintivi che consegue al decorso di cinque anni dalla sentenza di patteggiamento, qualora non sia stato commesso un delitto della stessa indole, rispetto all’estinzione degli effetti penali che deriva dalla riabilitazione. L’art. 178 c.p., statuisce espressamente che “la riabilitazione estingue le pene accessorie e ogni altro effetto penale della condanna”, esprimendo un contenuto dispositivo sostanzialmente analogo a quello dell’art. 445 comma 2, ultima parte, c.p.p., che, dopo aver previsto l’estinzione del reato se nel termine di cinque anni (in caso di delitto) o di due anni (in caso di contravvenzione) dalla sentenza di patteggiamento, l’imputato non commette un delitto o una contravvenzione della stessa indole, dispone: “In questo caso si estingue ogni effetto penale...”, senza neppure la limitazione indicata dall’art. 178 c.p. “salvo che la legge disponga altrimenti”. L’eliminazione di ogni effetto penale della condanna, che consegue alla riabilitazione, insomma, è perfettamente equivalente a quell’estinzione di ogni effetto penale che consegue all’avvenuta estinzione del reato nel termine di legge in caso di applicazione della pena su richiesta delle parti (Cass. Pen., sez. I, 10 maggio 2006 n. 16026). La riabilitazione estingue, altresì, le pene accessorie, che peraltro non possono essere comminate con la sentenza applicativa della pena concordata (art. 445 comma 1 c.p.p.). La riabilitazione nulla aggiunge, dunque, sul piano formale e sostanziale ai benefici che conseguono all’avvenuto decorso dei termini per l’estinzione del reato nel procedimento speciale disciplinato dall’art. 444 c.p.p. (così Cass. Pen., sez. IV, 3 marzo 2000 n. 584; Cass., Sez. 1°, 19 febbraio 1999, n. 534, Martellini, secondo cui “la riabilitazione non opera quando la pena sia stata applicata a seguito di sentenza di patteggiamento, perchè l’eliminazione di ogni effetto penale che ad essa consegue è in tutto equivalente a quella conseguente all’estinzione del reato nel termine di legge in caso di applicazione della pena su richiesta delle parti”). La Corte di Cassazione, attualmente, tende a riconoscere l’interesse del condannato con sentenza di patteggiamento ad ottenere la riabilitazione, non a motivo della diversa ampiezza degli effetti estintivi che derivano dai due istituti, quanto piuttosto in relazione al termine (più breve per la riabilitazione) entro il quale può essere domandata l’estinzione degli effetti penali. Ciò significa che, in presenza di una sentenza di patteggiamento, sussiste un interesse del condannato a chiedere la riabilitazione prima che sia decorso il termine previsto dall’art. 445 comma 2 c.p.p., per l’estinzione del delitto, che è di cinque anni. Occorre, infatti, tenere presente che, ai sensi dell’art. 179 c.p., così come modificato dalla legge n. 145 del 2004, art. 3, comma 1, lett. a), il termine minimo per chiedere la riabilitazione è di almeno tre anni decorrenti dal giorno in cui la pena principale sia stata eseguita o sia in altro modo estinta. Ne consegue che, pur in presenza di una sentenza di patteggiamento, il condannato potrebbe avere interesse ad ottenere la riabilitazione prima che maturi il termine di cinque anni previsto dall’art. 445 comma 2 c.p.p., per l’estinzione del delitto (Cass. Pen. sez. I, 10 maggio 2006 n. 16026; sez. I, 1 marzo 2006 n. 7379). 298 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Alla stregua di quanto precede, si può dunque affermare che l’estinzione del reato per il quale sia stata emessa sentenza di patteggiamento, purché dichiarata da parte del Giudice dell’esecuzione, impedisce che possa tenersi conto della condanna ai fini delle interdittive antimafia tipizzate (art. 10 commi 1-7 lett. a] d.P.R. n. 252/1998), attesa la pienezza degli effetti estintivi penali, che consegue alla previsione di cui all’art. 445 comma 2 c.p.p., in tutto equiparabili a quelli che derivano dalla riabilitazione. Qualora si ritenesse che l’estinzione del reato, per il quale è stata pronunciata condanna a pena patteggiata, continui a giustificare le gravi conseguenze che derivano da un’informativa interdittiva, si perverrebbe a risultati che si pongono in contrasto con il finalismo rieducativo della pena (art. 27 comma 3 della Costituzione). Inoltre, se del reato estinto ai sensi dell’art. 445 comma 2 c.p.p. non può tenersi conto ai fini dell’applicazione della recidiva, della dichiarazione di delinquenza abituale o professionale (art. 106 c.p.), oppure ad altri effetti penali, non sarebbe logico trarne conseguenze sul piano puramente amministrativo della prevenzione. A conclusioni diverse non si ritiene di poter giungere in considerazione della circostanza che l’estinzione del reato, in caso di sentenza di patteggiamento, conseguente al decorso dei termini e delle condizioni previste dall’art. 445 c.p.p., non comporta anche l’eliminazione dell’iscrizione della sentenza nel casellario giudiziale (dal momento che l’art. 5 del d.P.R. 14 novembre 2002 n. 313 prevede l’eliminazione delle iscrizioni nel casellario, a distanza di alcuni anni, solo per i reati di competenza del Giudice di Pace, Cass. pen., Sez. III, 20 dicembre 2004, n. 4868), in quanto l’iscrizione nel casellario giudiziale (di cui si esclude la natura di effetto penale della condanna e l’attitudine ad incidere in modo diretto su rapporti di diritto penale, Cass. pen., sez. III, 28 febbraio 2003 n. 22490; Cass. pen., sez. I, 1 ottobre 2002 n. 38405; Cass. pen., sez. VI, 4 novembre 1997 n. 4315) assolve ad una finalità informativa e conoscitiva del tutto neutra ai fini in esame, essendovi annotate, fra l’altro, anche le ordinanze che dichiarano l’estinzione del reato a norma dell’art. 445 comma 2 c.p.p. Giova, tuttavia, precisare che, stante l’ampia potestà discrezionale della valutazione prefettizia, per sua stessa natura preventiva, la quale non richiede la prova di un fatto, ma solo la presenza di elementi in base ai quali non sia illogico o inattendibile ritenere la sussistenza di un collegamento dell’impresa con organizzazioni di stampo mafioso ed un condizionamento da parte di queste, l’adozione di una interdittiva antimafia, se deve pur sempre fondarsi su elementi di fatto che denotino il pericolo di collegamenti tra l’impresa e la criminalità organizzata, neppure presuppone per quei fatti l’accertamento della responsabilità penale (donde l’irrilevanza, anche, di certificati da cui risulti l’assenza di procedimenti e di precedenti penali), essendo sufficiente che i fatti medesimi presentino carattere sintomatico e indiziante del pericolo in senso oggettivo, ovvero della ipotizzabilità della sussistenza di tale collegamento (Cons. di Stato, sez. IV, 5 ottobre 2006 n. 5935). Da ciò consegue che, sebbene la sentenza di condanna a pena patteggiata per il I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 299 delitto di estorsione non possa costituire, successivamente alla declaratoria di estinzione del reato, motivo di per sé solo sufficiente per giustificare l’emissione di un’informativa antimafia “tipizzata” ai sensi della lett. a) dell’art. 10 comma 7 del d.P.R. n. 252/1998, ciò non toglie che il Prefetto possa desumere “elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa” dalle circostanze di fatto che emergono dalla vicenda processuale (in particolare, dagli atti delle indagini preliminari condotte da parte del Pubblico Ministero) le quali, unitamente agli elementi emersi dagli accertamenti disposti ai sensi dell’art. 10 commi 2 e 7 lett. c) del d.P.R. n. 252/1998, possono giustificare una certificazione prefettizia attestante la sussistenza, sulla base degli elementi di fatto acquisiti, di tentativi di infiltrazione o di condizionamento mafioso nei confronti dell’impresa appaltatrice. (…)». A.G.S. – Parere del 5 giugno 2007 n. 65965. Decreto Ministeriale 29 marzo 1994 come modificato dal D.M. 27 settembre 1995 recanti modalità di applicazione dell’aliquota ridotta di accisa sui carburanti consumati per l’azionamento delle autovetture pubbliche da piazza (consultivo 10571/07, avvocato G. Albenzio). «Codesta Agenzia [delle Dogane] chiede il parere di questa Avvocatura sulla interpretazione ed applicazione del combinato disposto dall’art. 1 D.M. 29 marzo 1994 e del punto 12 della Tab. Adel D.Lgs. 504/95 circa l’attribuzione del beneficio fiscale dell’aliquota ridotta di accisa sui carburanti per le autovetture pubbliche di piazza; in particolare, si fa rilevare che l’art. 6, comma 1, lett. d) della legge 248/06 di conversione del D.L. 223/06 (c.d. Legge Bersani) ha innovato la disciplina dell’attività di esercizio dei taxi e del servizio di noleggio con conducente, consentendo l’uso di autovetture “aggiuntive”. Il dubbio sollevato circa la possibilità di riconoscere il beneficio in esame anche per il carburante destinato all’autovettura “aggiuntiva”, consentita nell’ambito dell’ultima licenza, non ha ragion d’essere, ad avviso della Scrivente, perché la fonte normativa della riduzione dell’accisa, costituita dall’art. 24 e dal punto 12 Tab. A D.Lgs. 504/95, e dall’art. 20 d.l. 331/93, individua gli oli di minerali ed i quantitativi ammessi al beneficio in relazione al loro uso e per ciascuna autovettura, senza porre limitazioni sul numero di veicoli, mentre la fonte regolamentare secondaria costituita dal D.M. 29 marzo 1994 deve essere letta alla luce della nuova disciplina introdotta dalla legge 248/06 (in deroga all’originario divieto imposto dall’art. 8, comma 2, legge 21/92). In conclusione, il beneficio dell’accisa ridotta sul carburante dovrà essere riconosciuto a favore di tutte le autovetture utilizzate dal soggetto titolare della “licenza” e che siano state autorizzate in adempimento di quanto disposto dalla nuova disciplina del settore. Il presente parere è stato sottoposto al Comitato Consultivo di questa Avvocatura Generale che si è espresso in conformità e viene inoltrato, per conoscenza, al Ministero dell’Economia e delle Finanze perché valuti l’opportunità di modificare il D.M. 29 marzo 1994 per coordinano con la nuova disciplina legislativa di settore.». 300 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO A.G.S. – Parere del 21 giugno 2007 n. 72177. IRAP – Imposta Regionale sulle Attività Produttive – Natura privilegiata o meno del credito (consultivo 14596/07, avvocato M. Santoro). «(…) si è chiesto l’avviso di questa Avvocatura Generale in ordine alla fondatezza della tesi secondo cui l’IRAP – Imposta Regionale sulle Attività Produttive – sarebbe assistita dal privilegio generale sui mobili previsto per “i tributi diretti dello Stato, per imposta sul valore aggiunto e per tributi degli enti locali” dall’art. 2752 cod. civ. . Il parere è funzionale alla decisione di proporre o meno appello avverso alcune recenti sentenze del Tribunale di Verbania, con le quali sono state rigettate le istanze di insinuazione al passivo fallimentare di crediti dello Stato a titolo di IRAP, avanzate dal concessionario per la riscossione delle imposte, nella parte in cui si chiedeva il riconoscimento del privilegio generale sui mobili di cui all’art. 2752 cod. civ.. La richiesta di riconoscimento del privilegio generale era stata formulata in aderenza alla risoluzione n. 41/E/2005 della Direzione Centrale Accertamento dell’Agenzia delle Entrate, con la quale era stato affermato che “in base ad una interpretazione estensiva dell’art. 2752 cod. civ., anche il credito dello Stato per IRAP è assistito da privilegio generale sui mobili del debitore”, e di conseguenza era stato disposto che “i concessionari della riscossione devono richiedere l’ammissione al passivo del credito IRAP iscritto a ruolo in via privilegiata, ai sensi del citato art. 2752 del Codice Civile e, qualora tale collocazione non venga riconosciuta, devono proporre opposizione ai sensi dell’art. 98 del R.D. n. 267/1942, ovvero insistere nella richiesta nel caso che la contestazione avvenga in sede di insinuazione tardiva ai sensi dell’art. 101 del R.D. n. 267/1942”. Dall’esame delle sentenze del Tribunale di Verbania allegate alla richiesta di parere emerge, peraltro, che l’Ufficio ha chiesto l’ammissione privilegiata del credito talvolta ai sensi del primo comma dell’art. 2752 cod. civ, altre volte ai sensi dell’ultimo comma dello stesso articolo. Il Tribunale ha rigettato le istanze dell’Ufficio rilevando, con riferimento a quelle formulate ai sensi del primo comma della citata disposizione, che: - il privilegio previsto dall’art. 2752 cod. civ. si riferisce solo alle imposte ivi nominativamente richiamate, le quali sono diverse dall’IRAP per struttura e base imponibile; - in ragione di tale diversità, il privilegio di cui alla norma citata – la quale pone una regola di carattere eccezionale, non suscettibile di analogia – non può essere applicato in via interpretativa anche all’IRAP; - né soccorre a tal fine una presunta continuità strutturale dell’IRAP con la soppressa ILOR, che era invece assistita dal privilegio in esame, atteso che quest’ultima era un’imposta sul reddito, mentre l’IRAP non è un’imposta sul reddito, ma colpisce il valore aggiunto prodotto da un’attività autonomamente organizzata, anche nei casi in cui non venga realizzato alcun reddito imponibile. Con riferimento alle istanze formulate ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 2752 cod. civ., il Tribunale ha rilevato che il privilegio ivi previsto si I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 301 riferisce solo alle imposte comunali e provinciali, e non anche a quelle statali, tra le quali rientra l’IRAP, e ne ha pertanto escluso l’applicabilità. Le motivazioni poste a sostegno delle decisioni del Tribunale di Verbania non sono certamente trascurabili. L’art. 2752 cod. civ., rubricato “Crediti per tributi diretti dello Stato per l’imposta sul valore aggiunto e per i tributi degli enti locali”, al primo comma così dispone: “Hanno privilegio generale sui mobili del debitore i crediti dello Stato per l’imposta sul reddito delle persone fisiche, per l’imposta sul reddito delle persone giuridiche e per l’imposta locale sui redditi, diversi da quelli indicati nel primo comma dell’art. 2771, iscritti nei ruoli resi esecutivi nell’anno in cui il concessionario del servizio di riscossione procede o interviene nell’esecuzione e nell’anno precedente”. L’ultimo comma dell’art. 2752 dispone inoltre: “Hanno lo stesso privilegio, subordinatamente a quello dello Stato, i crediti per le imposte, tasse e tributi dei comuni e delle province previsti dalla legge per la finanza locale e dalle norme relative all’imposta comunale sulla pubblicità e ai diritti sulle pubbliche affissioni”. Poiché deroga al principio generale della par condicio creditorum, posto dall’art. 2741 cod. civ., l’art. 2752 cod. civ. deve essere considerato, al pari delle altre che introducono cause di prelazione, norma di carattere eccezionale. È opinione condivisa che le norme eccezionali sono suscettibili di interpretazione estensiva, ma non analogica. La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 7309/2006 in materia di interpretazione del privilegio di cui all’art. 2752 cod. civ., ha ribadito – richiamando la propria consolidata giurisprudenza (SS. UU. 5246/93) – che “il regime dei privilegi, per il contenuto limitativo che esso presenta nei confronti del debitore (e, in particolare, di quello d’imposta) non può essere interpretato, in caso di mancata previsione espressa, in via analogica”. La formulazione letterale del primo comma dell’art. 2752 cod. civ. sembra indicare che il legislatore abbia voluto attribuire il privilegio generale in esame solo ai crediti nascenti dalle imposte sul reddito ivi nominativamente indicate. La formulazione della rubrica, tributi diretti dello Stato, trova la sua corrispondenza nella portata della norma al momento dell’entrata in vigore del codice civile, che attribuiva il privilegio ai “crediti dello Stato per ogni tributo diretto, eccettuato quello fondiario, iscritti nel ruolo principale dell’anno in cui l’esattore procede o interviene nell’esecuzione e nel ruolo dell’anno precedente”. Il riconoscimento del privilegio richiedeva, pertanto, la verifica della natura diretta dell’imposta. Oggi la norma sembra avere un contenuto diverso. Le imposte interessate non sono più individuate attraverso la loro natura comune di imposte dirette, ma vengono indicate nominativamente, cosicché la rubrica della norma non è più coordinata con il contenuto. L’art. 2752 cod. civ., peraltro, è stato modificato in epoca successiva alla introduzione dell’IRAP, sicché deve ritenersi che ove il legislatore avesse voluto attribuire natura privilegiata anche ai crediti nascenti da tale imposta l’avrebbe esplicitamente previsto. 302 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Né pare agevolmente sostenibile – sulla base di una supposta successione tra le due imposte, che avrebbero una identità strutturale – la tesi secondo cui i crediti nascenti dall’IRAP sarebbero assistiti da privilegio in quanto l’art. 2752 cod. civ. lo accorda ai crediti nascenti da ILOR. ILOR ed IRAP sono infatti imposte del tutto distinte. L’ILOR, soppressa sin dal primo gennaio 1998, si configurava come imposta sul reddito a carattere reale. L’IRAP, così come affermato anche dalla Corte Costituzionale n. 156/2001, non sembra essere un’imposta sul reddito, ma colpisce una diversa base imponibile, rappresentata dal “valore della produzione netta”, derivante dall’attività esercitata nel territorio della Regione, che corrisponde alla differenza tra il valore della produzione e i costi della produzione, senza tenere conto, tuttavia, dei costi per i lavoratori dipendenti, collaboratori coordinati e continuativi e lavoratori autonomi occasionali, né degli oneri finanziari. L’ILOR è stata soppressa contestualmente all’entrata in vigore dell’IRAP; assieme all’ILOR, sono stati soppressi anche altri tributi, tra cui i contributi al SSN, l’ICIAP e l’imposta sul patrimonio netto delle imprese. La ratio sottesa alla contestuale eliminazione dell’ILOR e degli altri tributi suddetti con la instaurazione dell’IRAP non è però rinvenibile nella identità o continuità strutturale tra quest’ultima imposta e i tributi soppressi; piuttosto, tale ratio è identificabile nell’esigenza di semplificare gli adempimenti tributari, assicurando, tuttavia, la continuità del gettito fiscale. Con specifico riferimento al disposto dell’ultimo comma dell’art. 2752 cod. civ., la norma si riferisce ai tributi provinciali e comunali, mentre l’IRAP, anche se il relativo gettito è destinato alle regioni, ha natura di tributo statale e non locale, sicché il relativo credito è un credito fiscale dello Stato (v. Corte Costituzionale n. 296/2003). Da quanto esposto discendono delle forti perplessità in ordine alla possibilità di applicare, anche in via di interpretazione analogica, il privilegio di cui all’art. 2752 cod. civ. ai crediti dello Stato nascenti da IRAP. Ciò nondimeno, se si tiene conto dell’intenzione del legislatore, secondo quanto dispone l’art. 11 delle preleggi, l’orientamento interpretativo dell’art. 2752 cod. civ. può anche finire per essere diverso da quello sin qui illustrato. Dalla rubrica della norma si desume che con l’art. 2572 cod. civ. si è voluto rendere più sicura la riscossione delle imposte dirette, secondo la classificazione del tempo, prevedendo per le imposte indirette una disciplina apposita (art. 2758 cod. civ.) per la diversa struttura che il privilegio poteva avere. La elencazione che oggi si trova riportata nella norma, a seguito delle modifiche che ha subito, potrebbe essere intesa nel senso che il legislatore ha voluto indicare le singole imposte che potevano essere considerate dirette. L’IRAP è stata definita come imposta diretta dalla Corte Costituzionale con la sentenza già richiamata ed essa oggi svolge una funzione finanziaria analoga a quella dell’ILOR. L’ILOR era assistita da privilegio non per il suo presupposto e per la sua struttura, ma per la funzione finanziaria che svolgeva. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 303 Una volta soppressa l’ILOR, l’IRAP è stata istituita per svolgere una funzione analoga, se non addirittura più rilevante, in quanto destinata a costituire la base della finanza regionale, pur rimanendo imposta statale. L’applicazione del privilegio anche a quest’ultima non andrebbe, pertanto, al di là della interpretazione estensiva dell’art. 2752 cod. civ., consentita, come si è visto, anche per le norme eccezionali. Una diversa interpretazione si potrebbe giustificare solo ritenendo che il legislatore abbia voluto rendere meno tutelata la riscossione di un’imposta che, dal punto di vista finanziario, svolge una funzione certo non meno rilevante di quella soppressa, munita di privilegio. Interpretazione che provocherebbe qualche dubbio di costituzionalità sotto il profilo della ragionevolezza. Un ulteriore argomento a favore della estensione del privilegio in esame anche ai crediti per IRAP può rinvenirsi nel rinvio operato dalla normativa che regola la riscossione dell’IRAP a quella che disciplina la riscossione delle imposte dirette. Potrebbe infatti ritenersi che, nel rinvio operato dagli articoli 25 e 30 del D.Lgs. n. 446/97 alle norme che disciplinano la riscossione delle imposte dirette, il legislatore abbia voluto richiamare anche l’art. 2752 cod. civ., atteso che il privilegio connota il credito proprio nella fase della sua realizzazione e quindi, della sua riscossione. Ciò posto, in considerazione della complessità del quadro normativo, e del fatto che cause analoghe a quelle sulle quali si è pronunciato il Tribunale di Verbania potrebbero interessare anche altri Tribunali, diffusi sull’intero territorio nazionale, e dare luogo a pronunce discordanti, si ritiene opportuno coltivare i giudizi in grado d’appello. Questo anche al fine di valutare, in caso di esito sfavorevole del secondo grado di merito, se provocare un intervento chiarificatore della Corte di Cassazione. In ogni caso, stanti le perplessità che l’esegesi della norma solleva, non parrebbe inopportuno stimolare sul punto un intervento normativo, anche in chiave di interpretazione autentica, del legislatore. (…)» . A.G.S. – Parere del 22 ottobre 2007 n. 112562. Affrancazione di usi civici. Trattamento tributario delle formalità catastali. Tasse ipotecarie e tributi speciali catastali (consultivo 2749/02, avvocato M. Mari). «(…) questa Avvocatura Generale, riesaminata la questione di cui al punto 3 del precedente parere – reso con nota in data 15 gennaio 2004 n. 5177 (*) – esprime l’avviso che non possa esser ritenuta condivisibile, in 304 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (*) A.G.S. - Parere del 15 gennaio 2004 prot. 5177. Affrancazione di usi civici – Forma dei relativi atti – Eseguibilità delle formalità catastali e ipotecarie – Trattamento tributario (consultivo 2749/02, avvocato M. Mari). relazione al regime tributario da seguirsi per l’atto di affrancazione dei canoni relativi a terreni gravati da usi civici, l’interpretazione restrittiva dell’art. 2 della legge 692/1981 nel senso che l’esenzione in tale norma prevista “... da tasse di bollo e di registro e da altre imposte” riguarderebbe unicamente tali tasse, con conseguente esclusione dall’esenzione delle tasse ipotecarie e dei tributi speciali catastali, così come di ogni altra tassa. Sembrano ostare a tale interpretazione le argomentazioni, già svolte nel precedente parere in data 15 gennaio 2004, punto 3, relative all’uso da parte del legislatore nel citato art. 2 del termine “imposte” non nella sua accezione tecnica che le distingue all’interno del genus “tributi” dalle “tasse”, ma come ter- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 305 «(…) Codesta Agenzia [del Territorio] ha richiesto il parere della Scrivente su alcune problematiche connesse alla affrancazione dei canoni relativi a terreni gravati da usi civici (ai sensi della legge Regione Abruzzo 14 settembre 1999, n. 68), nonché al relativo trattamento tributario. Premesso che si tratta comunque di fondi che già appartenevano ad altri comuni o altre collettività, la cui occupazione da parte di soggetti abusivi è stata a suo tempo legittimata (ai sensi degli articoli 9 e 10 della legge 16 giugno 1927, n. 1766) con l’imposizione di un canone enfiteutico, la procedura seguita dalle amministrazioni comunali può essere così riassunta: la parte interessata (c.d. legittimaria) presenta al Comune la richiesta di affrancazione, successivamente, la Giunta comunale, mediante delibera, aderisce alla richiesta, individua l’importo corrispondente alla capitalizzazione, precisando “che tutte le spese necessarie per l’atto di affranco e la voltura catastale e successive saranno a totale carico dell’utente…”. Sulla base della delibera della Giunta, infine, il Comune procede al riconoscimento dell’affrancazione attraverso l’emanazione di una determinazione del direttore generale, in base alla quale viene poi richiesta all’Ufficio provinciale del territorio competente, la relativa voltura. Le problematiche evidenziate concernono i seguenti quesiti: 1. con l’affrancazione ex art. 3, comma 3, legge 68/99, gli occupanti dei fondi, già proprietari degli stessi in virtù del provvedimento di legittimazione (Corte Cass. SS.UU. 8 agosto 1995, n. 8673) “espandono” semplicemente il loro diritto venendo meno l’onere dei canoni. Tuttavia, sul presupposto della natura contrattuale dell’affrancazione e trattandosi di atto in cui è parte il Comune, codesta Agenzia ritiene che il contratto debba “essere stipulato in forma pubblica amministrativa, dallo stesso Segretario comunale”. Ne conseguirebbe che la determinazione dirigenziale con cui gli enti comunali procedono all’affrancazione dei canoni imposti con i provvedimenti di legittimazione, in quanto atto a contenuto provvedimentale e non negoziale, non potrebbe essere considerata titolo idoneo per l’affrancazione e per il conseguimento degli “effetti espansivi” del diritto di proprietà ad essa correlati. Così pure, la medesima determinazione, non potrebbe essere considerata titolo idoneo per la domanda di voltura o per l’eventuale trascrizione da eseguirsi ex art. 2643 n. 7 c.c.; 2. ad ogni modo codesta Agenzia sottolinea che la trascrizione dell’affrancazione non dovrebbe essere considerata necessaria per l’opponibilità a terzi, in quanto a tale fine sarebbe sufficiente la trascrizione del provvedimento di legittimazione, con annotazione in margine dell’avvenuta affrancazione; mine onnicomprensivo per indicare ogni forma di imposizione fiscale, e al rilievo che solo in questa ottica si conferisce un significato all’aggettivo “altre” riferito nella norma al termine “imposte” che rende palese che con l’accessione “altre imposte” il legislatore, non facendo espresso riferimento, per quel che concerne l’esenzione, unicamente alle “tasse di bollo e di registro”, non può che aver inteso ogni altro tributo, oltre a quelli specificamente indicati. A tali argomentazioni, che appaiono difficilmente confutabili sul piano di una corretta interpretazione letterale e logica intesa a conferire significato a quanto dettato dal legislatore, sembra opportuno aggiungere ulteriori considerazioni rafforzative sul piano ermeneutico che tengano anche conto di quanto codesta Agenzia ha ritenuto di aggiungere nel sottoporre nuovamente la problematica all’esame di questo Organo Legale, “prima di adottare determinazioni di carattere generale sul tema”. Non sembra utile ai fini di una ricostruzione “storica” della portata della citata norma rammentare che il disposto della legge 16 giugno 1927 n. 1766 riguardante il riordinamento degli usi civici, all’art. 40, 1° comma, prevedeva che “tutti gli atti di procedura eseguiti d’ufficio” fossero esenti da “tasse di bollo e di registro”, non estendendo il regime agevolativo alle “tasse ipotecarie e ai tributi speciali catastali”. Sembra, infatti, che la normativa introdotta dall’art. 2 della legge 692/1981, prevedendo anche l’esenzione da “altre imposte”, abbia inteso, in 306 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 3. per quanto attiene, infine, al regime fiscale, codesta Agenzia fa presente che gli enti comunali interessati sostengono la spettanza dell’esenzione tributaria degli atti di legittimazione ricollegandosi all’art. 2 legge 692/81 il quale prevede che: “…sentenze, ordinanze e decreti di restituzione delle terre a comuni o associazioni agrarie, scioglimenti di promiscuità tra detti enti, liquidazioni di usi civici, legittimazioni, assegnazioni di terre e atti dei procedimenti previsti dalla legge 16 giugno 1927, n. 1766, e relativo regolamento esecuzione… sono esenti da tasse di bollo e registro e da altre imposte… Dal momento che l’istituto della affrancazione dai canoni per le terre di uso civico è regolato dalla legge 1766/27, nonché, in parte, dal capo II del regolamento di esecuzione R.D. 322/28, codesta Agenzia assume che la suddetta esenzione possa essere riconosciuta anche agli atti di affrancazione stipulati a conclusione del relativo procedimento ma che debbano essere escluse da tale esenzione le tasse ipotecarie e i tributi speciali catastali, così come ogni altra tassa, dato che la norma fa riferimento esclusivamente ad altre imposte”. In relazione alle sopra enunciate questioni si esprime il seguente avviso: 1. quanto alla procedura seguita dai Comuni, sembra non condivisibile l’assunto che l’affrancazione dai canoni debba conseguire ad un accordo tra le parti. Ciò in quanto, in mancanza di una specifica indicazione di legge e anche in considerazione dei ridotti effetti di tale affrancazione rispetto a quella ex art. 971 c.c. (infatti, nel caso che ne occupa non si trasferisce la proprietà del fondo ma si fa venir meno semplicemente la debenza dei canoni), la determinazione dirigenziale, da considerarsi “atto dovuto”, con la quale i Comuni prendono atto della domanda dell’occupante legittimato e ne fanno scaturire gli effetti propri (interruzione del pagamento del canone ed eventuale richiesta di voltura al catasto terreni), sembra essere di per sé idonea a conseguire gli effetti di cui all’art. 3 comma 3 legge 68/1999. modo inequivoco, estendere l’ambito dell’agevolazione già prevista in modo circoscritto nella disciplina dettata dall’art. 40 citato. Non sembra sussistere sul piano della materia disciplinata un razionale e significativo parallelismo del regime agevolativo di cui si tratta con analoghe norme quali quelle a favore della piccola proprietà contadina di cui alla legge 604/1954 che nulla prevedono circa l’esenzione da tasse ipotecarie e tributi speciali catastali dovuti, pertanto, nella misura ordinaria. Ciò in quanto gli atti contemplati ai fini della esenzione nell’art. 1 della legge 604/1954 hanno valore di atti di trasferimento della proprietà “per la formazione o l’arrotondamento della piccola proprietà contadina”, mentre nel caso di affrancazione di usi civici il trasferimento – come già evidenziato nel precedente parere, punto 1– “è già avvenuto con il provvedimento di legittimazione in modo che con l’affrancazione si ha solo l’effetto di espandere il diritto dell’occupante “legittimato” con il venir meno dell’obbligo del pagamento del canone”. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 307 2. Per quanto poi concerne la necessità della trascrizione dell’atto di affrancazione ai sensi dell’art. 2643 n. 7 c.c. per la pubblicità immobiliare, sembrano doversi condividere le perplessità espresse da codesta Agenzia in relazione alla peculiarità dell’atto in esame. In effetti l’affrancazione cui fa riferimento la norma da ultimo citata è quella prevista nell’art. 971 c.c. che, come già detto, assume valore di atto di trasferimento di proprietà dal concedente all’enfiteuta. Nel caso di cui si tratta, invece, tale trasferimento è già avvenuto con il provvedimento di legittimazione, di modo che con l’affrancazione si ha solo l’effetto di espandere il diritto dell’occupante “legittimato” con il venir meno dell’obbligo di pagamento dei canoni. Situazione, invero, simile a quella della devoluzione del fondo, con cui il concedente, in determinate situazioni di colpa dell’enfiteuta, espande il suo diritto di proprietario ai sensi dell’art. 972 c.c. Da quanto detto consegue che la pubblicità immobiliare dovrebbe riguardare (come correttamente asserito nella nota a riscontro) non già la trascrizione dell’atto di affrancazione, ma la trascrizione dell’atto di legittimazione del fondo, che ne trasferisce la proprietà. Trascrizione quest’ultima che, se già avvenuta, dovrebbe essere integrata con l’annotazione dell’affrancazione in margine come previsto dall’art. 2655 co. 2c.c. per l’annotazione della sentenza di devoluzione in margine alla domanda. 3. In relazione, da ultimo, al regime tributario da seguirsi per l’atto di affrancazione ex art. 3, co. 3, legge 68/99, non sembra potersi dubitare dell’applicabilità dell’esenzione fiscale prevista dall’art. 2 della legge 1 dicembre 1981, n. 692, rientrando il provvedimento in questione tra gli atti dei procedimenti previsti dalla legge 1766/1927 nonché dal relativo regolamento di esecuzione. Tuttavia si ritiene di non condividere l’interpretazione restrittiva dell’art. 2 della legge 692/81 che limiterebbe l’applicazione dell’esenzione alle sole imposte. Il legislatore, infatti, in tale norma ha usato il termine imposte non nella sua accezione tecnica che le distingue all’interno del genus “tributi” dalle tasse, ma come termine onnicomprensivo per indicare, in genere, ogni forma di imposizione fiscale. Del resto solo in questa ottica si può comprendere il significato dell’aggettivo indefinito altre, riferito nella norma da ultimo citata al termine imposte, posto che il legislatore, non facendo riferimento per quel che concerne l’esenzione se non alle “tasse di bollo e registro”, rende così palese che con “altre imposte” debba essere ogni altro tributo, oltre a quelli espressamente indicati». Comunque, sul piano letterale, manca nella norma di cui al citato art. 1 della legge 604/1954 ogni riferimento alla esenzione da “altre imposte”, significativamente presente, invece, nella norma di cui all’art. 2 della legge 692/1981. Nessun argomento a favore di una interpretazione restrittiva della norma in questione è desumibile dai lavori preparatori della legge 692/1981 che (v. Relazione Sognana comunicata alla Presidenza del Senato il 7 novembre 1981 con riferimento al disegno di legge “Conversione in legge del decretolegge 2 ottobre 1981 n. 546”) che, v. pag. 5 della Relazione, con riferimento alle agevolazioni fiscali su atti connessi ad operazioni e sentenze in materia di usi civici in precedenza espunte, si limita a menzionare un articolo “aggiuntivo” che reintroduce nella normativa tali agevolazioni. Sotto il profilo della coerenza del sistema si ritiene, infine, di dover rammentare quanto previsto nella Circolare n. 12/2005 di codesta Agenzia, in adesione al parere reso – sentito il Comitato Consultivo – da questa Avvocatura Generale (cs. 50705/04, parere in data 5 novembre 2005) e con riferimento all’applicabilità o meno alla riscossione dei tributi speciali catastali del termine triennale di decadenza previsto dall’art. 76 del d.P.R. 26 aprile 1986 n. 131, in virtù del rinvio operato dall’art. 13 del D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347, e all’individuazione del termine di decadenza dell’azione della finanza in materia di cui all’art. 19 del D.Lgs. citato e relative tabelle allegate. In tale circolare “in ossequio all’ineludibile esigenza di assicurare unicità ed organicità alla disciplina complessiva riguardante uno stesso tributo”, si è ritenuto, in modo specifico, sul piano interpretativo che nell’ambito dell’art. 17, comma 20, del D.Lgs. 347/1990 l’uso del termine generico “imposte” nella forma plurale (v. pag. 4 della Circolare) avesse lo scopo di “individuare non tanto una particolare tipologia del tributo, quanto l’insieme dei tributi da corrispondere all’ufficio dei registri immobiliari in sede di esecuzione delle formalità ipotecarie”. Si può conclusivamente affermare che il presente parere, pur riguardando una diversa problematica, è anch’esso ispirato all’esigenza di assicurare l’organicità della disciplina dei tributi in questione, in un orientamento prospettico inteso a salvaguardare sia la specificità della disciplina stessa sia la coerenza del sistema nel quale essa si inserisce. (…)». A.G.S. – Parere dell’8 novembre 2007 n. 119530. Pubblico impiego -Mansioni superiori – Funzionari con qualifica C3 – Reggenza di Uffici dirigenziali – C.C.N.L. 16 febbraio 1999 (consultivo 36817/06, avvocato A. Grumetto). «(…) codesta Amministrazione (*) ha richiesto l’avviso della Scrivente sul comportamento da assumere in relazione alle controversie promosse dinanzi ai Tribunali del Lavoro di diverse regioni da vari dipendenti con qualifica C3, con le quali, in sostanza, si reclama la retribuzione per le mansio- 308 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (*) Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale. ni superiori svolte in vari periodi in qualità di “reggente” di Uffici periferici di codesta Amministrazione. Espone codesta Amministrazione che tali Uffici periferici (Direzioni Regionali e Direzioni Provinciali del Lavoro) possono essere diretti da un solo dirigente ovvero da tre dirigenti, di cui uno con funzioni di preposto, ovvero di coordinatore. Rappresenta che, finora, nelle controversie conclusesi con pronuncia definitiva del grado, l’Amministrazione è risultata soccombente, fatta eccezione per un caso in cui è emerso che il ricorrente non aveva esercitato le funzioni dirigenziali in piena autonomia. Osserva al riguardo la Scrivente quanto segue. 1.- Come puntualmente ricorda codesta Amministrazione, sulla questione è intervenuta la decisione della Corte di cassazione, sez. lavoro, n. 5892 del 17 marzo 2005 con la quale è stato affermato che: 1.1) “Nella specie si controverte sulla interpretazione della declaratoria della Posizione economica C3 di cui all’Allegato A al C.C.N.L. del Comparto Ministeri del 16 febbraio 1999 (in G.U. Supp. Ord. n. 46 del 25 febbraio 1999) ed in particolare se in detto profilo rientri o meno la reggenza della superiore posizione lavorativa dirigenziale. 1.2) La clausola contrattuale così dispone: “Specifiche professionali: Elevate conoscenze, capacità ed esperienze consolidate; direzione e controllo di unità organiche con assunzione diretta di responsabilità e risultati; relazioni esterne. Caratteristiche professionali di base: Lavoratori che, per le specifiche professionalità, assumono temporaneamente funzioni dirigenziali in assenza del dirigente titolare; Dirigono o coordinano attività di vari settori e strutture di livello non dirigenziale, svolgono attività ispettive o di valutazione di particolare rilevanza, ovvero per l’elevato livello professionale collaborano ad attività specialistiche; 1.3) Dalla lettura della clausola risulta evidente che la reggenza del superiore ufficio dirigenziale non è espressamente prevista tra le mansioni della qualifica in esame. 1.4) Il mancato riferimento alla reggenza è tanto più evidente se si pone a raffronto la declaratoria della posizione economica C3 con la declaratoria della corrispondente declaratoria della 9° qualifica funzionale contenuta nell’art. 20 del d.P.R. 8 maggio 1987 n. 266 (ora dichiarato inapplicabile dall’art. 39 del CCNL), secondo cui il personale della 9° qualifica “sostituisce il dirigente in caso di assenza od impedimento” ed “assume la reggenza dell’ufficio in attesa della destinazione del dirigente titolare”. 1.5) Il silenzio della norma contrattuale in esame sulla reggenza non può essere superato facendo rientrare la “reggenza” nella “sostituzione”; quest’ultima espressamente prevista dalla declaratoria, trattandosi di istituti diversi, in quanto la reggenza presuppone la vacanza della titolarità dell’ufficio dirigenziale, mentre la sostituzione è prevista solo temporaneamente per il caso di assenza o impedimento del titolare dell’ufficio superiore. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 309 2.- Successivamente alla pronuncia in precedenza ricordata è intervenuta la decisione n. 8529 del 2006 della Corte di Cassazione, sez. lavoro, che nel pronunciarsi sulla medesima questione, ha rigettato il ricorso proposto dal dipendente avverso la decisione di secondo grado favorevole all’Amministrazione solo perché nella fattispecie era mancata la prova dell’esercizio in concreto delle mansioni superiori esercitate, mediante l’indicazione “dei dati relativi all’impegno, in termini qualitativi e quantitativi, che tale mansione aveva in concreto comportato”. 3.- Con la recente decisione n. 9130 del 2007, la Corte di Cassazione si è pronunciata nuovamente sulla questione relativa al diritto alla superiore retribuzione del dipendente con qualifica C3 che abbia svolto funzioni di reggenza di un posto di livello dirigenziale. 3.1.- Con tale arresto, la Corte di Cassazione ha statuito che il d.P.R. 8 maggio 1987, n. 266, art. 20, interpretato in conformità al canone di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e ai principi di tutela del lavoro (artt. 35 e 36 Cost.; art. 2103 c.c.; D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52), va inteso nel senso che l’ipotesi della reggenza costituisce una specificazione dei compiti di sostituzione del titolare assente o impedito, contrassegnata anch’essa dalla straordinarietà e temporaneità, come reso palese dall’espressione “in attesa della destinazione del dirigente titolare”; e che, di conseguenza, la reggenza dell’ufficio è consentita, senza dare luogo agli effetti collegati allo svolgimento di mansioni superiori, solo allorquando sia stato aperto il procedimento di copertura del posto vacante e nei limiti di tempo ordinariamente previsti per tale copertura. Al di fuori di questa specifica ipotesi contemplata dalla norma regolamentare, pertanto, la reggenza dell’ufficio concreta svolgimento di mansioni dirigenziali. 3.2.- Aggiunge, poi, la Corte che la situazione non è mutata per effetto della nuova classificazione del personale attuata dal C.C.N.L. del comparto ministeri 16 febbraio 1999 (all. A), le cui disposizioni erano già state interpretate da questa Corte nel senso che non sono ricomprese tra le mansioni proprie del profilo lavorativo relativo alla posizione economica “C3” le funzioni di reggenza della posizione lavorativa dirigenziale (v. Cass. 5892/ 2005). 4.- Allo stato attuale, ritiene la Scrivente che, salvo eventuali specifiche diverse regolamentazioni, non sia da contrastare la pretesa al riconoscimento della retribuzione avanzata dal personale di codesta Amministrazione con qualifica C3 che abbia ricoperto l’incarico di reggente di uffici dirigenziali, qualora ciò non sia avvenuto in relazione alle aperture del procedimento di copertura del posto vacante e nei limiti di tempo ordinariamente previsti per tale copertura. 5.- La motivazione della decisione n. 9130 del 2007 della Corte di cassazione, infine, supera l’argomentazione contraria esposta nel parere formulato dall’A.R.A.N., su richiesta della Scrivente, con la nota n. 4068/07 del 13 aprile 2007. Ad avviso dell’A.R.A.N. il C.C.N.L. del 16 febbraio 1999 si sarebbe limitato ad individuare nell’allegato A la declaratoria di area, rinviando alla contrattazione integrativa di amministrazione il compito della definizione dei profili professionali; ragion per cui l’obiettivo del C.C.N.L. 310 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO “non è stato quello di modificare o ridurre i contenuti della prestazione lavorativa già previsti nel quadro normativo preesistente”. 5.1.- In contrario va osservato che secondo l’opzione ermeneutica fatta propria dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 9130 del 2007, anche prima del C.C.N.L. del 16 febbraio 1999, la reggenza di posti riservati alla dirigenza rientrava nei compiti del personale di qualifica inferiore, senza per ciò dare luogo agli effetti collegati allo svolgimento di mansioni superiori, solo allorquando fosse stato aperto il procedimento di copertura del posto vacante e nei limiti di tempo ordinariamente previsti per tale copertura. 6.- Alle argomentazioni della Corte di cassazione svolte nel predetto arresto, di per sé decisive, vanno aggiunte anche le perspicue considerazioni formulate nella nota del 2 luglio 2007 n. 27019 dal Dipartimento della Funzione Pubblica e che militano nel senso della non riconducibilità della “reggenza” al profilo C3. 6.1.- Nella nota citata, il Dipartimento della Funzione Pubblica adduce in favore della interpretazione restrittiva delle attribuzione del profilo C3 le seguenti circostanze: a) l’art. 61 del CCNL relativo all’area dirigenziale I del 21 aprile 2006 (ndr: per quanto successivo ai fatti oggetto dei contenziosi già promossi), secondo cui la reggenza di incarichi dirigenziali è attribuita ad altro dirigente con incarico espresso e remunerato; b) l’art. 17 bis della legge n. 145 del 2002, nella parte in cui ha previsto l’ipotesi di delega di funzioni dirigenziali ai funzionari apicali “per un periodo di tempo determinato”, escludendosi così ipotesi di reggenza da parte di funzionari del profilo C3 senza limiti di tempo; c) ancora l’art. 17 e l’art. 17 bis della legge n. 145 del 2002, nella parte in cui hanno introdotto l’area della “vicedirigenza”, qualificata come area “separata” (v. D.L. n. 115 del 2005, conv. con legge n. 168 del 2005) interposta tra quella della dirigenza e quella non dirigenziale, ed hanno previsto la possibilità di delega di alcune delle competenze dirigenziali agli appartenenti a tale area senza che ciò debba necessariamente avvenire “a tempo determinato”. 7.- Come è noto a codesta Amministrazione, infine, il presupposto per l’attribuzione di tale diritto è peraltro definito dal terzo comma dello stesso D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, secondo cui “si considera svolgimento di mansioni superiori, ai fini del presente articolo, soltanto l’attribuzione in modo prevalente, sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei compiti propri di dette mansioni”; ragion per cui, nella definizione transattiva delle controversie, come giustamente nota codesta Amministrazione, si dovrà puntualmente accertare la sussistenza in concreto dell’esercizio delle mansioni superiori, ovviamente con onere probatorio a carico dell’interessato. 8.- Da ultimo va rammentato che, in base al C.C.N.I. (di cui è stato trasmesso uno stralcio su richiesta della Scrivente), è prevista una indennità di £. 20.000 al giorno per l’incarico di reggente di una Direzione Regionale o di una Direzione Provinciale del Lavoro (art. 19), sicché di tali somme, in quanto già percepite per lo stesso titolo, si dovrà tenere conto in sede di composizione bonaria delle controversie. (...)». I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 311 Metodi Adr: la conciliazione come strumento di risoluzione delle controversie. Profili generali della conciliazione, ruolo del conciliatore e procedimento di Flavio Ferdani(*) SOMMARIO: 1. Premessa.- 2. Strumenti autonomi di risoluzione delle controversie e strumenti eteronomi di risoluzione delle controversie.- 3. La conciliazione.- 4. Tipi di controversie che possono costituire oggetto di conciliazione.- 5. Le classificazioni della conciliazione: diverse tipologie.- 5.1 La conciliazione giudiziale - 5.2. La conciliazione stragiudiziale - 6. Il ruolo del conciliatore.- 7. Procedimento della conciliazione stragiudiziale “di diritto comune”.- 8 Fasi del procedimento conciliativo.- 9. Vantaggi della conciliazione. 1. Premessa L’ Alternative Dispute Resolution, di seguito Adr, nate negli anni ‘70 in U.S.A, si sono poi sviluppate in Europa con le due raccomandazioni approvate dalla Commissione europea in tema di risoluzione consensuale delle controversie in materia di consumo; a sua volta il legislatore italiano, in linea con le raccomandazioni comunitarie, ha valorizzato dal punto di vista legislativo l’ADR, per le difficoltà dello Stato di fornire risposte adeguate soprattutto sulle controversie di valore patrimoniale medio – basso dove i tempi del processo, uniti ai costi della difesa tecnica, non sono compensati dai benefici del provvedimento giurisdizionale pur favorevole al consumatore, che è spesso indotto a rinunciare ai propri diritti (1). D O T T R I N A (*)· Vice Prefetto presso la Prefettura – Ufficio territoriale del Governo di Genova. (1) Cfr. BUONFRATE-LEOGRANDE, La giustizia civile in Italia tra ADR e conciliazione in Riv.arb., 1999, p. 375 ss. Il maggior ricorso all’Adr dipende anche dalla crisi fiscale e burocratica dello Stato, che determina una progressiva inefficienza nell’amministrazione della giustizia civile, dall’impossibilità di gestire in modo adeguato il costante aumento delle controversie da parte di una giustizia statale sempre più in affanno, con una eccessiva durata dei procedimenti che produce una forma di denegata giustizia, con lo sviluppo del movimento culturale ed ideologico che, esaltando il ruolo del mercato e delle privatizzazioni, si aspetta che anche la giustizia venga in parte sottratta al monopolio dello Stato (2). 2. Strumenti autonomi di risoluzione delle controversie e strumenti eteronomi di risoluzione delle controversie. Negli strumenti autonomi sono gli stessi destinatari ad individuare le regole di condotta in modo per loro vincolante, risolvendo in tal modo la controversia con un atto negoziale, più precisamente un contratto. Negli strumenti eteronomi è un terzo che risolve la controversia con un atto vincolante per le parti: o il giudice che ha il potere di vincolare le parti mediante la sua posizione istituzionale o l’arbitro che vincola le parti in virtù della volontà delle parti stesse. Il vantaggio della risoluzione autonoma delle controversie rispetto a quella eteronoma deriva dal fatto che nella prima, il contenuto dell’ atto risolutivo è essenzialmente atipico, cioè le parti possono risolvere la controversia scegliendo tra un’infinita gamma di soluzioni, mentre nel caso di soluzione eteronoma della controversia, l’ atto risolutivo è essenzialmente tipico nel senso che è una soluzione a binari prefissati dalla legge (3). 3. La conciliazione. Tipico esempio di risoluzione autonoma della controversia è la conciliazione definibile come un procedimento extragiurisdizionale, finalizzato alla composizione negoziale di una controversia con l’intervento di un terzo che agevola la conclusione di un accordo. La peculiarità della conciliazione è di tener conto degli effettivi interessi economici delle parti, cercando di giungere alla soluzione più opportuna considerando anche la componente psicologica, al fine di stabilire punti di contatto tra le parti ed evitare rotture dei rapporti che, soprattutto nelle relazioni commerciali, possono essere, talvolta, irreparabili. Le caratteristiche fondamentali dell’istituto conciliativo sono: la volontarietà, la riservatezza, l’informalità, la rapidità e l’economicità (4). 314 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (2) Cfr. in proposito: CHIARLONI, Brevi note sulla conciliazione stragiudiziale (e contro l’obbligatorietà del tentativo), in Giur.it., 2000, p. 209; CHIARLONI, Stato attuale e prospettive della conciliazione stragiudiziale, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2000, p. 447 ss. (3) Cfr. LUISO, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti in rivista telematica www. judicium. it., 2003. (4) Cfr. DI ROCCO-SANTI, La conciliazione. Profili teorici ed analisi degli aspetti normativi e procedurali del metodo conciliativo, Milano, 2003, p. 91 ss. La conciliazione è, infatti, un procedimento a connotazione privatistica poiché non si svolge di fronte ad un organo giurisdizionale e tale peculiarità vale anche nell’ipotesi di conciliazione giudiziale, dove il terzo, pur essendo un soggetto incardinato nell’ordinamento giudiziario, quando svolge il ruolo di conciliatore, non esercita alcuna funzione giurisdizionale. La conciliazione si caratterizza per la volontarietà nelle diverse fasi del procedimento conciliativo e non viene meno neppure nel caso di imposizione, ad opera del legislatore, del tentativo obbligatorio. Infatti il soggetto può essere costretto a esperire preventivamente una conciliazione, ma non potrà mai essere costretto a subirne alcun effetto se da lui non voluto, per cui le parti saranno sempre libere di abbandonare la procedura in qualsiasi momento, di decidere liberamente il contenuto dell’accordo conciliativo e di sottoscriverlo o meno. Mentre la conciliazione ha nella consensualità il suo connotato fondamentale, la giurisdizione si caratterizza per l’ obbligatorietà poiché le parti devono comparire di fronte ad un giudice e subirne la decisione. La conciliazione si connota poi per la sua informalità, non essendo previste né regole di diritto che dettano una precisa sequenza delle fasi dell’iter conciliativo, né disposizioni che vincolano il conciliatore a rispettare una determinata procedura. Tale informalità, consente non solo al terzo, che svolge il ruolo di conciliatore, la più ampia discrezionalità nella gestione della delicata attività di interposizione e mediazione tra le parti, ma evita altresì il ricorso all’istruttoria in senso tecnico, come invece accade per il giudizio ordinario. Ovviamente nulla impedisce al conciliatore di esaminare la documentazione, ma ciò non gli è imposto. Altro connotato è la libera scelta, riconosciuta alle parti, del soggetto terzo a cui affidarsi per la conciliazione, contrariamente a quanto avviene nel processo, dove la causa viene assegnata d’ufficio ad un determinato giudice. Per lo più, la scelta delle parti è effettuata nella clausola di conciliazione con nomina diretta del conciliatore o delegandola ad un terzo o ad una camera di conciliazione; unica eccezione a questo principio si ricava nei tentativi obbligatori di conciliazione, in quanto in tali casi il conciliatore sarà imposto dall’istituzione di riferimento indicata ex lege. Va detto poi che la conciliazione, in caso di esito positivo, si conclude con un accordo di natura negoziale, che in generale, non costituisce un titolo esecutivo ed è, pertanto, vincolante per le parti come un qualsiasi contratto; la valenza contrattuale dell’ accordo conciliativo subisce invece una eccezione in tutti i casi in cui la legge riconosce la natura esecutiva del verbale di conciliazione, ad esempio in materia di lavoro ex art. 411 c.p.c. o nel caso di conciliazione giudiziale contenziosa ex art. 185 c.p.c., o nella conciliazione stragiudiziale societaria ai sensi dell’ art. 40, ottavo comma del D.Lgs. 17 gennaio 2003 n. 5. La conciliazione poi rispetto alla giurisdizione si caratterizza per la non obbligatorietà della difesa tecnica, per cui, a parte la conciliazione giudiziale dove la parte è assistita da un proprio difensore, mancano previsioni che generalizzano l’obbligo dell’assistenza di un professionista. Altro requisito cardine della conciliazione, è la riservatezza, per cui lo svolgimento, l’esito e il contenuto della procedura non possono essere divulgati e pubblicizzati e DOTTRINA 315 ciò rappresenta un notevole incentivo per coloro che vogliono evitare la divulgazione di notizie riguardanti i propri affari. 4. Tipi di controversie che possono costituire oggetto di conciliazione. La conciliazione si fonda sulla concreta volontà delle parti di comporre amichevolmente la controversia, ma la sua natura consensuale ne limita l’ applicabilità, poiché il nostro ordinamento sottrae alcune materie alla libera disponibilità delle parti. Quindi, se la materia è indisponibile le parti non hanno, per definizione, il potere di autocomporre la controversia pena la nullità dell’atto negoziale stipulato, per cui l’ ambito di applicazione della conciliazione trova il suo limite nei diritti indisponibili ricavabile indirettamente dalla disciplina della transazione, unico contratto tipico che ha come causa la risoluzione della controversia. L’art. 1966 cod. civ. in materia di transazione, ne contiene già un’indicazione nella rubrica, intitolata “Capacità a transigere e disponibilità dei diritti”, ed il cui primo comma dispone che per transigere, quindi per poter risolvere la controversia in modo autonomo, le parti devono avere la capacità di disporre dei diritti che formano oggetto della lite, aggiungendo inoltre nel secondo comma, come diretto corollario del disposto precedente, che la transazione è nulla se tali diritti, per loro natura o per espressa disposizione di legge, sono sottratti alla disponibilità delle parti. Tale norma, pertanto, traccia i confini dell’attività conciliativa nella “indisponibilità sostanziale del rapporto controverso”. Circa le materie conciliabili, un aspetto assolutamente peculiare concerne i rapporti di lavoro di cui all’ art. 409 c.p.c. In tal caso il legislatore ha sancito all’art. 2113 c.c., in materia di rinunzie e transazioni, l’annullabilità delle rinunzie e delle transazioni che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e della contrattazione collettiva, fatto salvo l’art. 2113 comma 4, che ammette la conciliazione in sede giurisdizionale e di fronte alle commissioni di conciliazione in base agli artt. 410 e 411 c.p.c. Questo perché le sedi, giudiziale o sindacale, costituiscono una maggiore garanzia per il lavoratore, che attenua il rischio di una soluzione imposta al soggetto debole del rapporto. Per concludere il discorso relativo alle materie oggetto di conciliazione, è opportuno fare un’analisi sulle tipologie di controversie più facilmente conciliabili in via stragiudiziale, che per Chiarloni riguardano tre diversi settori: i rapporti tra imprese, i rapporti tra imprese e lavoratori, i rapporti tra imprese e consumatori. Nei rapporti tra imprese, la conciliazione può essere esperita con maggior successo soprattutto nel settore delle piccole e medie imprese dove si riscontra più facilmente quella “omogeneità di forze” tra i contendenti che può indurli ad una composizione amichevole delle controversie con l’aiuto di un terzo. Quindi il ricorso ad una forma di “giustizia coesistenziale”, che permette, tra l’altro, di non pregiudicare quella fitta e sostanziosa rete di rapporti tra le imprese. Va detto che anche le grandi imprese possono essere 316 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO interessate alla conciliazione, ma in tale contesto non vi è da aspettarsi un gran successo degli istituti conciliativi. Nei rapporti tra imprese e lavoratori, gli istituti conciliativi rappresentano da molto tempo un campo di elezione per le relative controversie, soprattutto per il fatto che il singolo conflitto si inserisce molto spesso in un contesto che interessa la contrattazione collettiva e dunque le relazioni sindacali. Infine, circa i rapporti tra imprese e consumatori, dato che per definizione il consumatore è un “soggetto debole”, si manifesta qualche perplessità su una stabile applicazione degli istituti conciliativi. 5. Le classificazioni della conciliazione: diverse tipologie. Le classificazioni all’interno dell’istituto conciliativo non sono codificate ma sono soltanto frutto di un’elaborazione che tiene conto delle varie forme in cui, in concreto, si è manifestato il fenomeno conciliativo, e per alcuni autori, se ne possono distinguere tre classificazioni: giudiziale o stragiudiziale, facoltativa o obbligatoria, preventiva o successiva (5). 5.1.La conciliazione giudiziale. La conciliazione giudiziale è la procedura più antica e conosciuta nel nostro Paese, e si svolge nanti un soggetto incardinato nell’apparato giudiziario, il quale, nel momento in cui agisce come conciliatore, non esercita alcuna funzione di carattere giurisdizionale. La conciliazione giudiziale preventiva che precede l’eventuale instaurazione del giudizio ordinario disciplinata dall’ art. 322 c.p.c. è un vero e proprio procedimento di conciliazione dinanzi al giudice di pace che tenta, su richiesta della parte ricorrente, la composizione non contenziosa delle controversie. Tale disposizione, rubricata “conciliazione in sede non contenziosa” prevede, infatti, che l’istanza per la conciliazione sia proposta anche verbalmente al giudice di pace, e che il verbale di conciliazione costituisca titolo esecutivo, soltanto se la controversia rientra nei limiti di competenza del giudice di pace. La procedura conciliativa è naturalmente facoltativa e del tutto svincolata dal processo ordinario e si svolge con semplicità di forme davanti al giudice, che opera non come giudice ma come amichevole compositore per la risoluzione non contenziosa di controversie tra privati. Circa la competenza territoriale del giudice di pace, va precisato che tale competenza ex art. 322 c.p.c., è rilevante ai fini dell’efficacia del verbale di conciliazione in sede non contenziosa a cui è riconosciuto il valore di titolo esecutivo solo se la controversia rientra nella competenza del giudice di pace; in tutti gli altri casi il verbale di conciliazione ha solo valore di scrittura privata riconosciuta in giudizio. Invece, per quanto riguarda la competenza per valore della citata procedura non sono previste limitazioni davanti al giudi- DOTTRINA 317 (5) In questo senso, NICOSIA, La tutela extragiudiziale degli interessi, Piacenza, 2002, p. 102 ss. ce di pace, anche se, in realtà, la scarsa propensione dei privati verso questo istituto limitano il ricorso a questa procedura solo alle questioni di modesto valore. Il legislatore ha mantenuto anche una forma di conciliazione giudiziale successiva dinanzi allo stesso organo che sarà chiamato a pronunciarsi sulla controversia in sede giurisdizionale che è disciplinata dall’ art. 183 del c.p.c., ovvero la conciliazione di fronte al giudice togato in sede contenziosa che può esplicarsi in una fase successiva all’instaurazione del giudizio. In questo caso la conciliazione è su impulso del giudice ordinario, che agisce come conciliatore esplicando una funzione conciliativa per risolvere la controversia non mediante una propria decisione ma con l’accordo delle parti. L’art. 183 co. 1 del c.p.c. dispone, che nella prima udienza di trattazione il giudice istruttore interroga liberamente le parti presenti e, quando la natura della causa lo consente, tenta la conciliazione. Si tratta di un adempimento doveroso per il giudice, anche se non è prescritto né a pena di nullità, né a pena di improcedibilità. In ogni caso, il tentativo deve essere esperito tenendo conto della natura della causa e pertanto deve essere escluso in presenza di diritti indisponibili. Sul ruolo del giudice, nell’ambito di questa procedura conciliativa in sede contenziosa, l’art. 183 comma 1 c.p.c., dispone che “il giudice tenta la conciliazione” e quindi assume il ruolo attivo del conciliatore svolgendo, pertanto, un’attività di mediazione fra le contrapposte posizioni delle parti allo scopo di avvicinarle, guidandole verso l’accordo conclusivo. Quindi, riassumendo, nell’ordinario processo civile, il giudice che tratta la causa può cercare, nella prima udienza, di conciliare le parti. Il tentativo di conciliazione, secondo quanto disposto dall’art. 185 comma 2 del c.p.c., può essere rinnovato in qualunque momento dell’istruzione ed in tal caso il giudice assume autonomamente l’iniziativa dell’esperimento conciliativo. Anche in questo caso, come avviene nella conciliazione giudiziale preventiva, l’attività del giudice e delle parti, nel corso del procedimento conciliativo, non presenta differenze rispetto all’attività svolta in altre sedi conciliative: anche qui si risolve nel colloquio, nella mediazione e nella persuasione. Comunque è da osservare che l’effettiva realizzazione di un contatto diretto delle parti tra loro e col giudice dipende esclusivamente dalla volontà delle parti, mancando disposizioni che inducono o incentivano ad essere presenti all’udienza nella quale si tenta di comporre amichevolmente la controversia. Nella conciliazione giudiziale in sede contenziosa, il giudice, previa la piena conoscenza della materia oggetto del processo, procede all’interrogatorio libero delle parti che la dottrina ritiene abbia punti di contatto essenziali con la conciliazione (6). Infatti l’interrogatorio libero ha sia una finalità processuale in senso stretto di conoscenza dei fatti, che una finalità strumentale che viene in rilievo in sede di conciliazione. L’interrogatorio libero, inoltre, in 318 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (6) CONVERSO, L’interrogatorio libero e il tentativo di conciliazione, in Giur.it., 2001, p. 635 ss. quanto affidato interamente al giudice, implica, per una migliore riuscita, una adeguata competenza giuridica e psicologica del giudice stesso; quindi la medesima competenza e professionalità che è richiesta al giudice nel caso di esperimento del tentativo di conciliazione. Dopo l’interrogatorio il Giudice è in grado di formulare le proposte per tentare la conciliazione e raggiunto il consenso delle parti redige il verbale di conciliazione che, ex art. 185 comma 2 c.p.c., costituisce titolo esecutivo. La conciliazione giudiziale, qualunque sia la sede e la fase giudiziale in cui si svolge, non si è dimostrata efficace come evidenziato dalla dottrina (7), poiché in via preventiva rispetto al giudizio, non vi è alcun incentivo per i contendenti nel ricorrere alla procedura non contenziosa del giudice di pace e in via successiva, le parti non hanno alcun interesse a conciliare di fronte al giudice ritenuto non un conciliatore ideale, nel senso che è difficile far convivere, nello stesso soggetto, l’atteggiamento del conciliatore che mira a favorire l’accordo tra le parti e quello di giudice che deve decidere sulla controversia. Quindi la scarsa efficacia ed utilizzabilità della conciliazione giudiziale imputabile alla scarsa disponibilità di tempo e di mezzi degli organi giudiziari, i rischi ai quali si espongono le parti nell’esperire il tentativo di conciliazione di fronte alla stessa persona fisica, alla quale sarà rimessa la decisione della causa in caso di fallimento della composizione negoziale, fa sì che i contendenti non saranno mai liberi di svelare le loro reali posizioni, con l’ovvia conseguenza che la procedura è destinata a fallire. 5.2. La conciliazione stragiudiziale, è la procedura conciliativa che si instaura di fronte a qualsiasi soggetto, privato o pubblico, individuale o collegiale, non incardinato negli apparati della giurisdizione statuale. La predilezione del legislatore per la conciliazione stragiudiziale è riscontrabile in determinati settori ad alto tasso di litigiosità e comunque connotati dalla presenza di una parte contrattualmente più debole, ad esempio in materia di lavoro. Nella conciliazione stragiudiziale si può distinguere la conciliazione “endoprocessuale”, che è la conciliazione che ha un collegamento con il giudizio ordinario, e la conciliazione “extraprocessuale”, che è la conciliazione che è completamente svincolata dal processo (8). Nella conciliazione endoprocessuale, la connessione del procedimento conciliativo con il processo consente, a sua volta, di distinguere le forme preventive che si collocano prima dell’inizio del giudizio vero e proprio e le forme successive che si svolgono all’interno del processo come una sorta di parentesi conciliativa che si apre nel corso di una fase giudiziale. DOTTRINA 319 (7) In tal senso, CAPONI, La conciliazione stragiudiziale come metodo di ADR (Alternative Dispute Resolution), in Foro. it., 2003, V, p. 165 ss. (8) Cfr. DI ROCCO-SANTI, La conciliazione. Profili teorici ed analisi degli aspetti normativi e procedurali nel metodo conciliativo, Milano, 2003, p. 113 ss. La peculiarità della conciliazione endoprocessuale preventiva è proprio lo stretto legame con il processo. Infatti, sebbene devono essere esperite in via anticipata, queste conciliazioni si pongono come condizioni di procedibilità, non di ammissibilità, dell’azione, la quale può essere proposta ma non può essere proseguita fino a che non è stata esperita la procedura conciliativa. Quindi, sotto questo profilo, il collegamento con il processo è tale che ne condiziona lo svolgimento ma non il suo avvio, come, infatti, avviene in materia di controversie di lavoro dove l’art. 412-bis del c.p.c sancisce l’improcedibilità della domanda per mancato esperimento del tentativo di conciliazione. È evidente che si sta parlando dei tentativi obbligatori di conciliazione, introdotti nel nostro ordinamento in diversi settori per porre dei filtri di accesso alla giustizia togata e favoriti dal nostro legislatore in una fase precedente il processo, soprattutto in tema di rapporti di lavoro. Va detto che la pur breve esperienza applicativa di tali procedure ha già dimostrato l’inutilità dei tentativi obbligatori di conciliazione, che si configurano come dei passaggi “sterili” in attesa di poter procedere con il ricorso giudiziale, a cui si aggiunge, in taluni casi, l’incapacità delle strutture, delegate dalla legge, a svolgere le procedure conciliative in maniera seria ed efficace. Quindi, contrariamente alle intenzioni del legislatore mirate ad approntare un rapido sistema di definizione delle controversie, i tentativi obbligatori si sono rilevati nella pratica inefficaci in quanto percepiti, il più delle volte, come mere formalità necessarie al fine di adire l’autorità giudiziaria. Nel dettaglio, nel procedimento conciliativo preventivo in materia di lavoro, disciplinato dagli art. 410 e seguenti del c.p.c., che costituisce lo stereotipo dei filtri conciliativi, la scelta del legislatore è quella per cui l’espletamento del tentativo obbligatorio è condizione di procedibilità della domanda giudiziale, con la precisazione che l’ espletamento del tentativo deve avvenire entro un certo termine, decorso il quale si considera comunque esperito, cessando, pertanto, l’impedimento all’esercizio dell’azione. La richiesta del tentativo di conciliazione, che produce sostanzialmente gli effetti della domanda giudiziale, può essere proposta direttamente dall’interessato o tramite un’associazione sindacale, e deve consentire la precisa individuazione della controparte e prevedere una sommaria identificazione dei termini della controversia. Il tentativo si svolge dinanzi a una commissione presieduta dal direttore dell’Ufficio provinciale del lavoro, e composta da rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori. Il procedimento di fronte alla commissione è caratterizzato da assoluta semplicità e libertà di forme e si attiva, appunto, con la richiesta della parte indirizzata alla commissione. Se la conciliazione riesce, ovvero nel caso in cui si realizza l’ amichevole composizione del conflitto o la parziale soluzione della controversia sulla quale le parti concordano, si redige un verbale di conciliazione che racchiude in sé i termini della conciliazione totale o parziale e deve essere sottoscritto, oltre che dalle parti, anche dal presidente della commissione e poi può essere depositato nella cancelleria del tribunale. Il giudice, dopo averne accertato la regolarità formale, emana il decreto di omologazione che conferisce al verbale efficacia esecutiva. Se la concilia- 320 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO zione non riesce, la legge prevede che le ragioni del mancato accordo, messe a verbale, possano influire sulla decisione relativa alle spese del successivo giudizio, come previsto dall’art. 412 c.p.c.. La conciliazione endoprocessuale successiva, è una forma di conciliazione che si svolge all’interno del processo come una sorta di parentesi conciliativa, che si identifica con la procedura delegata dal giudice, nel corso del processo, presso un organismo, privato o pubblico, estraneo all’ordinamento giudiziario. Adottata in molte Corti federali degli USA, in Italia di tale forma non si riscontra alcuna traccia. La conciliazione stragiudiziale extraprocessuale, è completamente svincolata dal processo trattandosi di tentativi di conciliazione facoltativi non obbligatori ed assolutamente volontari. Le parti scelgono il procedimento conciliativo con la convinzione che sia più conveniente rispetto alla giustizia ordinaria e che consenta una migliore soddisfazione dei propri interessi. Questo convincimento spinge la parte alla conciliazione, per giungere alla conclusione dell’accordo che pone fine alla controversia; è proprio la consensualità a rappresentare uno dei pilastri su cui si fonda la conciliazione. La facoltatività del tentativo di conciliazione è essenziale per garantire il successo della procedura stessa, in quanto le parti giungeranno ad un accordo conciliativo solo se vi consentono e vi cooperano, e non nel caso in cui siano costrette. La conciliazione amministrata o istituzionalizzata che ricorre quando le parti ne affidano la gestione ad una istituzione permanente, aderendo al regolamento conciliativo predisposto dalla stessa, ha incontrato il crescente favore del legislatore. Il progetto di diffusione della conciliazione amministrata prende le mosse dalla legge n. 580/93, che ha attribuita alle Camere di commercio la possibilità di istituire commissioni conciliative per la risoluzione di controversie. Tale tipo si distingue dalla conciliazione ad hoc, che viene regolata dalle stesse parti e in cui lo svolgimento del tentativo è sorretto da una struttura elementare creata volta per volta (9). Quindi la conciliazione amministrata si differenzia dalla conciliazione ad hoc, in quanto non è lasciata totalmente all’iniziativa degli interessati ma è una procedura che si inserisce nell’ambito di un servizio, fornito e regolato da un’istituzione. La conciliazione ad hoc offre garanzie di imparzialità, economicità ed efficacia minori rispetto al procedimento amministrato dove molteplici sono le garanzie fornite dai regolamenti degli enti che amministrano le controversie, tra le quali, si può subito ricordare la professionalità dei conciliatori, iscritti in apposite liste solo dopo specifici programmi di formazione, nel corso dei quali acquisiscono le necessarie tecniche di composizione delle controversie. Fra i principali servizi offerti dalla camera di conciliazione si DOTTRINA 321 (9) Cfr. BUONFRATE-LEOGRANDE, La giustizia civile in Italia tra ADR e conciliazione, in Riv. arb., 1999, p. 382. 322 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO possono ricordare la nomina e l’eventuale sostituzione del conciliatore, la riscossione degli anticipi dalle parti per le spese del procedimento, la determinazione e la corresponsione del compenso e del rimborso spese al conciliatore, gli adempimenti di segreteria (10). Inoltre il conciliatore, nella sede amministrata è tenuto a comunicare ogni circostanza che possa inficiare la propria indipendenza e imparzialità, o creare nelle parti una sensazione di mancanza di neutralità. Nella procedura amministrata è posto in risalto l’aspetto della riservatezza dell’intero procedimento, in quanto la quasi totalità dei regolamenti prevede che tutti coloro che intervengono alla procedura sono tenuti a impegnarsi a non divulgare a terzi i fatti e le informazioni apprese nel corso della procedura e a non utilizzarle nel corso di eventuali successivi procedimenti contenziosi promossi dalle stesse parti. Un’ulteriore garanzia della procedura amministrata è data dalla predeterminazione delle spese in base ad un apposito tariffario predisposto dall’istituzione che deve determinare i tempi di svolgimento e i costi delle procedure conciliative. Di regola, il verbale di conciliazione ha valore squisitamente negoziale con efficacia vincolante per le stesse al pari di un contratto, e non costituisce titolo esecutivo, salvo che in materia societaria. Tra le ipotesi di conciliazione amministrata si possono menzionare la procedura conciliativa in materia di telecomunicazione ossia la conciliazione Telecom Italia e quella che riguarda l’ Ombudsman bancario, che rappresentano due importanti procedure conciliative amministrate in materia di consumo. 6. Il ruolo del conciliatore. Un ruolo fondamentale nella procedura conciliativa è ricoperto dalla figura del conciliatore (11), il cui operato deve essere indefettibile e indipendente, imparziale, neutrale, competente, esperto e riservato. Il conciliatore non decide la controversia ma ha esclusivamente il compito di aiutare le parti a trovare un accordo soddisfacente per entrambe, incoraggiandole a sviluppare nuove prospettive di considerazione della questione, cercando di avvicinare le contrapposte posizioni, adoperandosi per consentire alle parti di giungere ad un accordo duraturo e accettabile. Quindi, il conciliatore è imparziale, autorevole e competente in modo che le parti in contrasto acquistino fiducia in lui e accettino il suo intervento e la sua assistenza. Tale ruolo, in quanto il conciliatore è imparziale, deve essere svolto senza predilezione per alcuna delle parti e in assenza di legami con le medesime, cioè non deve avere alcun tipo di interesse in comune con nessuna delle due parti. (10) Cfr. CAPONI, La conciliazione stragiudiziale come metodo di ADR (Alternative Dispute Resolution), in Foro. it., 2003, V, p. 169; MINERVINI, Le camere di commercio e la conciliazione delle controversie, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, p. 939 ss. (11) Cfr. NICOSIA, La tutela extragiudiziale degli interessi, Piacenza, 2002, p. 185 ss.; CAFARO, Le procedure arbitrali e di ADR (casi pratici, regolamenti, e tariffe degli organismi arbitrali e delle società di ADR), Padova, 2005, p. 120 ss. DOTTRINA 323 Importanti sono, poi, gli aspetti comunicativi del conciliatore che deve avere la capacità di porre domande, chiedere chiarimenti e delucidazioni, offrire anche risposte su eventuali dubbi delle parti e requisito indispensabile per il buon esito della procedura, è garantire la riservatezza sia verso l’esterno sia verso l’altra parte. Solo garantendo la riservatezza, le parti acquistano fiducia nel conciliatore in modo da esporre apertamente le loro ragioni, i loro problemi, le loro aspettative. Si possono individuare due diversi modelli di conciliazione: la conciliazione facilitativa e la conciliazione aggiudicativa o valutativa (12) che rispecchiano il diverso modo del conciliatore di svolgere il proprio ruolo nell’ambito della procedura conciliativa. Nella conciliazione valutativa il conciliatore deve valutare la fondatezza delle pretese delle parti al fine di formulare una proposta di accordo il cui contenuto si basa sull’opinione che il conciliatore ha maturato circa le posizioni delle parti, che hanno previamente affermato le proprie pretese e gli argomenti utili per dimostrarne la fondatezza, in modo da ottenere la proposta più favorevole. Il conciliatore valuterà le posizioni delle parti e cercherà di formulare la soluzione della controversia. La proposta del conciliatore si basa su una valutazione di convenienza, di opportunità in rapporto all’idea che ha maturato sulla fondatezza delle rispettive pretese. Al contrario, nella conciliazione facilitativa non è rilevante la fondatezza delle pretese ma la soddisfazione degli interessi concreti, giuridicamente irrilevanti, che variano da soggetto a soggetto. In questo modello conciliativo si cerca di individuare quali sono i veri interessi delle parti, gli interessi concreti sottostanti alle pretese formalizzate ed astratte che si pongono in sede giuridica. Se tali interessi sono disomogenei, allora possono essere ambedue soddisfatti: pertanto la controversia è risolta in modo tale da soddisfare ambedue gli interessi sottostanti. In questo caso, quindi, il conciliatore non cerca la soluzione “giusta” come nel caso di conciliazione valutativa, ma cerca la soluzione più “conveniente” (13). La dottrina (14) ha, poi, evidenziato un paio di corollari che sono diretta conseguenza della distinzione tra i due modelli conciliativi. Nella conciliazione facilitativa il conciliatore può effettuare una serie di colloqui separati con ciascuna parte, senza rivelare alla controparte le informazioni apprese in separata sede, al contrario nella conciliazione valutativa il sapere del (12) Cfr. LUISO, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, in rivista telematica www. judicium. it., 2003; CAPONI, La conciliazione stragiudiziale come metodo di ADR (Alternative Dispute Resolution), in Foro. it., 2003, V, p. 167. (13) LUISO, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, in rivista telematica www. judicium. it., 2003. (14) CAPONI, La conciliazione stragiudiziale come metodo di ADR (Alternative Dispute Resolution), in Foro. it., 2003, V, p. 174. 324 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO conciliatore deve formarsi nel contraddittorio con le parti; nella conciliazione facilitativa le ragioni del mancato accordo non hanno nessun peso ed effetto nel successivo processo giurisdizionale, mentre in quella valutativa le posizioni assunte dalle parti rispetto alla proposta di accordo formulata dal conciliatore, di regola sono valutate dal giudice ai fini della decisione sulle spese processuali, fermo restando che, comunque, ciò che accade nell’ambito della procedura conciliativa non deve essere utilizzato successivamente come elemento di prova. 7. Procedimento della conciliazione stragiudiziale “di diritto comune”. Nell’attuale esperienza italiana quindi esistono svariate ipotesi di procedimenti conciliativi: taluni facoltativi, altri obbligatori; taluni disciplinati sommariamente, altri disciplinati dettagliatamente con una precisa normativa. A questo punto si tratta di soffermare l’attenzione sulle differenze che sussistono tra le forme di conciliazione stragiudiziale disciplinate dalla legge rispetto alla conciliazione stragiudiziale “di diritto comune”, intendendo per tale la risoluzione convenzionale della controversia, raggiunta dalle parti interessate attraverso l’intervento catalizzatore del terzo, al di fuori di ogni specifica previsione normativa (15). Prima di parlare del procedimento della conciliazione stragiudiziale “di diritto comune”, è utile una breve premessa sui due modelli più importanti di conciliazione stragiudiziale disciplinati normativamente che sono il procedimento conciliativo obbligatorio in materia di lavoro, che si pone come condizione per l’accesso alla tutela giurisdizionale ed è disciplinato dagli artt. 410 e segg. del c.p.c., e il procedimento conciliativo facoltativo in materia societaria regolato dagli artt. 38, 39, 40 del D.Lgs. 17 gennaio 2003 n. 5. Il legislatore disciplina espressamente questi due procedimenti conciliativi, ma la funzione della regolamentazione della conciliazione obbligatoria è diversa dalla funzione della regolamentazione della conciliazione facoltativa. Per quanto riguarda la conciliazione obbligatoria in materia di lavoro, la ragione per cui il legislatore introduce e regolamenta tale tentativo ha natura essenzialmente deflattiva dell’accesso alla giurisdizione. Comunque, in relazione ai tentativi obbligatori di conciliazione, molti sono i dubbi e le perplessità sollevate dalla dottrina sull’opportunità dell’obbligatorietà del tentativo e sui rapporti fra tentativo obbligatorio di conciliazione e principi costituzionali, su tutti l’art. 24 della Costituzione. Secondo Sergio Chiarloni (16), se è vero che introdurre come condizione di procedibilità della domanda l’esperimento di un tentativo di conciliazione non viola la disposizione costituzionale sul diritto di azione, trattandosi di un caso di giurisdizione condizio- (15) LUISO, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, in rivista telematica www. judicium. it., 2003. (16) CHIARLONI, Brevi note sulla conciliazione stragiudiziale (e contro l’obbligatorietà del tentativo), in Giur.it., 2000, p. 210, 211. DOTTRINA 325 nata che non rende troppo difficile l’accesso alla tutela giurisdizionale, è altrettanto vero che si tratta di una scelta estremamente inopportuna: rendere obbligatorio il tentativo di conciliazione si ritorce proprio contro lo scopo che il legislatore intendeva perseguire, cioè una drastica deflazione del contenzioso ordinario, ottenendo meno conciliazioni di quelle che si ottenevano quando il tentativo era facoltativo. Circa poi, la conciliazione facoltativa in materia societaria, si deve capire perché il legislatore ha voluto conferire al procedimento conciliativo in materia societaria delle caratteristiche diverse da quelle proprie della conciliazione facoltativa “di diritto comune”, ossia di quella non normativamente regolamentata. La ratio, per la quale il legislatore disciplina normativamente il tentativo facoltativo in materia societaria, è diversa da quella per la quale è disciplinato il tentativo di conciliazione obbligatoria. Infatti, questa ratio consiste non nella deflazione del ricorso alla giurisdizione, ma nella incentivazione verso la soluzione negoziale mediante la previsione di una disciplina speciale, e derogatoria rispetto alla disciplina di diritto comune. Comunque, è utile precisare che la conciliazione non è né può essere un’attività riservata, e pertanto essa può essere svolta da chiunque, nei modi che questi ritiene più opportuni, producendo le conseguenze “di diritto comune” (17). Chiunque, pertanto, rimane libero di organizzare ed esperire forme di conciliazione stragiudiziale per la risoluzione delle controversie societarie, ma la conciliazione che si svolge di fronte a soggetti diversi da quelli previsti dal legislatore non ha le peculiarità proprie del tentativo di conciliazione normativamente regolato. Tali peculiarità si concretizzano solo se la conciliazione si svolge di fronte ad un organismo di conciliazione, ossia ad un soggetto abilitato a condurre il tentativo di conciliazione in virtù di una previsione legislativa. Viceversa, se la conciliazione si basa esclusivamente sull’autonomia contrattuale delle parti, allora si applicano solo le norme di diritto comune che disciplinano in via generale lo svolgimento di un’attività conciliativa e la soluzione negoziale della controversia. Occorre ora soffermarsi sui tratti essenziali e caratteristici del procedimento della conciliazione stragiudiziale “di diritto comune” ed in primo luogo si devono illustrare ed evidenziare le finalità del procedimento conciliativo (18). La conciliazione è tesa alla ricerca di un diverso modo di gestire le controversie, di un valido compromesso per ambo le parti e non è, come più (17) In tal senso: LUISO, Il futuro della conciliazione: la conciliazione nel diritto societario e nella riforma del codice di procedura civile, in La via della conciliazione, a cura di Giacomelli, IPSOA, 2003, p. 229 ss. (18) In tal senso: NICOSIA, La tutela extragiudiziale degli interessi, Piacenza, 2002, p. 191 ss.; CAFARO, Le procedure arbitrali e di ADR (Casi pratici, regolamenti e tariffe degli organismi arbitrali e delle società di ADR), Padova, 2005, p. 116 ss. 326 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO volte detto, una procedura contenziosa in quanto l’aspetto fondamentale è rappresentato dalla contemporanea convenienza di entrambe le parti nel raggiungere una soluzione negoziale della loro controversia. Nel mondo commerciale, la conciliazione è sicuramente un ottimo strumento di regolazione delle relazioni, che permette agli operatori economici di accedere ad un rapido metodo di risoluzione delle controversie, conservando le relazioni commerciali tra loro esistenti e mantenendo la riservatezza. Comunque, l’esperienza comparatistica ci insegna che la conciliazione è un metodo valido anche in ambito civile, in particolare per risolvere le controversie nate da problemi di vicinato. La conciliazione si basa, pertanto, sul soddisfacimento degli interessi sostanziali delle parti; è una procedura assolutamente informale e, soprattutto, garantisce la riservatezza dell’esito e dello svolgimento della stessa. Alla base della procedura conciliativa deve esserci un clima di cooperazione e di fiducia tra le parti e il conciliatore. La conciliazione, infatti, si pone come una procedura cooperativa, per ottenere una soluzione dei problemi e rafforzare le relazioni tra le parti in base al principio della negoziazione collaborativa. Con la conciliazione si vuole individuare la soluzione ottimale della controversia, indirizzando le parti verso un accordo vantaggioso per entrambe. Dunque, la conciliazione è una procedura di risoluzione delle controversie, dove il conciliatore, terzo imparziale, assiste le parti in conflitto guidando la loro negoziazione, orientandole verso la ricerca di accordi reciprocamente soddisfacenti, senza lasciare nulla di intentato e valutando il grado di conoscenza e di consapevolezza delle parti in lite e facendosi, inoltre, un’idea dei punti di forza e di debolezza di ciascuna parte. Dovrà altresì far accantonare gli obiettivi palesemente irrealizzabili e, al contrario, stimolare gli obiettivi auspicabili, possibili, perfino ideali ma realizzabili. Va sottolineata, poi, la rapidità della procedura conciliativa; infatti, rispetto ad un giudizio civile ordinario che si protrae per anni, il tentativo di conciliazione può portare alla risoluzione della controversia anche in tempi molto brevi, addirittura in una sola seduta. Inoltre la conciliazione garantisce la massima riservatezza, poiché nulla di ciò che emerge dalle udienze di conciliazione può essere divulgato, né dal conciliatore né dalle parti, l’economicità, dato che si pagano solo gli onorari del conciliatore, che hanno un costo fisso, mentre non sono dovute né tasse giudiziarie, né perizie, né altri costi addizionali. Se le parti non giungono ad un accordo, non perdono alcun diritto e possono rivolgersi alla giustizia ordinaria. Se, invece, la conciliazione si conclude con un accordo, totale o parziale, questo ha valore di contratto e le parti si impegnano ad eseguirlo nei termini da loro stesse stabiliti. Formalmente, la decisione finale è di totale competenza delle parti, e l’atto da esse prodotto è di natura negoziale con valore vincolante per le parti al pari di un contratto. 8. Fasi del procedimento conciliativo. L’esame, in dettaglio, del procedimento della conciliazione stragiudiziale “di diritto comune”, ovvero, è bene ribadirlo, della conciliazione stragiuDOTTRINA 327 diziale priva di regolamentazione normativa, fa riferimento al modello elaborato da alcuni autori, in particolare da Paolo S. Nicosia (19), secondo il quale la conciliazione è un procedimento suddiviso in tre fasi: la fase introduttiva, la fase centrale e la fase conclusiva. La fase introduttiva: il conciliatore, in primo luogo, deve verificare il requisito essenziale della volontà delle parti a negoziare pacificamente la soluzione della controversia, creando un clima di cooperazione e di fiducia, sottolineando alle parti l’aspetto, già di per sé positivo, di essersi volute incontrare per tentare una soluzione pacifica e negoziale della controversia. Il conciliatore deve, altresì, ricordare che la sua funzione non è imporre una decisione, ma facilitare ed assistere le parti nella ricerca di una soluzione amichevole, congiunta, negoziale, che sarà raggiunta solo con un accordo che soddisfa realmente gli interessi in gioco. Il valore di tale accordo è quello di un contratto, salvo che la legge non preveda la possibilità di fargli acquisire l’efficacia di titolo esecutivo. La fase centrale: compito del conciliatore è di far tenere separate, il più possibile, le questioni oggettive dalle questioni soggettive rappresentate dal rapporto personale che inevitabilmente tende a intrecciarsi con il problema oggettivo, non consentendo, il più delle volte, alle parti di muoversi e di abbandonare le posizioni iniziali più intransigenti; deve quindi cercare di instaurare tra le parti una relazione basata sulla credibilità e sulla reciproca fiducia, e finalizzata ad una composizione amichevole della controversia Le cause oggettive della controversia costituiscono il primo aspetto da valutare, per cui il conciliatore sollecita le parti a indicare e a sottolineare, nel modo più chiaro possibile, gli interessi in gioco e gli obiettivi che esse intendono raggiungere. A tal fine può essere utile, dopo aver sentito le parti congiuntamente, udirle singolarmente in separati incontri, per consentire ad ognuna di esprimere senza indugi e timori, i propri interessi e le proprie aspettative. Diverse sono le motivazioni soggettive che emergono dai colloqui separati dove ciascuno può esprimere i propri problemi personali; il conciliatore, per avere un quadro il più possibile esaustivo della situazione, deve tenerne conto non confondendole però con le questioni oggettive, che sono quelle risolvibili con un contratto. Il conciliatore consiglia alle parti di abbandonare le prese di posizione espressione della propria visione della situazione, ma non corrispondenti affatto ai reali interessi in gioco e agli obiettivi che le parti stesse intendono raggiungere. L’importante, in questa fase, è che siano individuati e specificati i reali interessi in gioco per entrambe le parti, in modo da valutare l’omogeneità o disomogeneità di tali interessi, con la possibilità di procedere a scambi di interessi compatibili e coerenti, o di consolidare quelli eventualmente coincidenti. (19) NICOSIA, La tutela extragiudiziale degli interessi, Piacenza, 2002, p. 194 ss. 328 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Quando tutte le questioni oggettive sono state esaminate e sono stati chiariti i punti controversi, subentra la fiducia tra le parti avendo, ormai, superato incertezze e incomprensioni. Si giunge, così, al momento della procedura in cui si può iniziare a tentare una vera e propria trattativa. È bene precisare che il conciliatore, comunque, continua a chiedere ulteriori approfondimenti e chiarimenti, al fine di rendere tutto più esplicito atteso che proprio con domande pertinenti e coerenti si può attirare l’attenzione dell’interlocutore, ottenere ulteriori informazioni ed, eventualmente, anche accelerare la conclusione. Essenziale è poi che le parti e il conciliatore sappiano ascoltare, per poter apprendere nuovi elementi, per evitare incomprensioni, per fare domande pertinenti al problema, per individuare le esigenze altrui, per acquistare stima e fiducia, per capire e valutare accuratamente, per evitare inutili sprechi di tempo, per essere in grado di fornire risposte adeguate e così via. La fase conclusiva: il conciliatore ritiene che ormai è giunto il momento per sviluppare le opzioni dell’accordo. In tale fase si darà spazio in riunioni sia congiunte che separate a ciascuno di esprimere liberamente le proprie opinioni, dalle quali possono scaturire diverse ipotesi di soluzione e proporre, così, le prime proposte di accordo. Quindi, se le trattative sono mature, una parte o lo stesso conciliatore possono avanzare una proposta di accordo, tale da risolvere la controversia e regolare i successivi rapporti. La migliore soluzione è quella meno costosa, più veloce e più vantaggiosa per gli interessi delle parti, ossia quella che le fa “vincere entrambe”. Per la stesura dell’accordo, si deve seguire uno schema di tipo contrattuale, poiché, essendo la decisione finale di totale competenza delle parti, l’atto da esse prodotto è di natura negoziale, con valore vincolante per le stesse al pari di un contratto. Pertanto all’accordo conciliativo conclusivo del procedimento, in quanto contratto, si applicano le disposizioni che disciplinano i negozi giuridici di natura contrattuale e, tra queste, si può ricordare, a titolo esemplificativo, l’art. 1418 del cod. civ., che sancisce la nullità del contratto quando questo è contrario a norme imperative, e l’art. 1346 del cod. civ. che, oltre che prescrivere la liceità dell’oggetto, dispone che il medesimo deve essere determinato o determinabile. Quindi, di regola, salve eventuali eccezioni previste espressamente dalla legge in taluni casi, l’accordo conclusivo della conciliazione stragiudiziale è, a tutti gli effetti, un contratto e non costituisce un titolo esecutivo. Per quanto concerne il contenuto dell’accordo conclusivo, esso racchiude al proprio interno tutti i punti della soluzione e non solo gli aspetti generali della stessa; è, inoltre, necessario che ci sia chiarezza ed intesa sul significato delle parole per evitare incomprensioni future. 9. Vantaggi della conciliazione. I motivi principali del successo della conciliazione sono sia di ordine quantitativo, quale la significativa riduzione dei costi e dei tempi, che di ordine “qualitativo”. In primis la possibilità di gestire autonomamente il procedimento di risoluzione della controversia, mantenendo il controllo sia sullo svolgimento della procedura che sui suoi risultati. Il procedimento conciliativo ha inizio nei tempi voluti dalle parti, si svolge secondo modalità dalle stesse concordate, e la sua durata, così come i risultati, dipendono essenzialmente dalla loro volontà e dalla loro capacità negoziale. Altro vantaggio importante della conciliazione è il carattere riservato e confidenziale, in base al quale l’esito e lo svolgimento della procedura rimangono segreti. Infatti tutte le parti, compreso il conciliatore, non devono rivelare alcuna informazione ottenuta nel corso della procedura così come il conciliatore non può divulgare le informazioni ottenute confidenzialmente da una parte all’altra, a meno che non sia stato altrimenti pattuito. Da ultimo, occorre sottolineare che tale procedura ha successo quando le parti, agendo in buona fede a tutela dei propri interessi, perseguono volontariamente almeno uno dei seguenti obiettivi: risolvere la controversia negozialmente, tenere riservata la procedura e l’esito di questa, limitare il tempo e i costi, mantenere rapporti con la controparte in futuro. DOTTRINA 329 330 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Principio di tipicità e accordi procedimentali di Fabrizio Tigano (*) SOMMARIO: 1. – Premesse: impostazione dell’indagine. 2. – Lo speciale regime degli accordi sostitutivi nella originaria formulazione dell’art. 11 della legge 7 agosto 1990 n. 241: le ragioni di un equivoco. 3. – La “liberalizzazione” degli accordi sostitutivi operata dalla legge n. 15 del 2005. 4. – La reductio ad unum delle fattispecie previste dall’art. 11 riformato e l’individuazione della categoria degli accordi procedimentali. Sue conseguenze. 5. – Legalità, tipicità e nominatività dei provvedimenti amministrativi. 6. – Profili di differenziazione tra la tipicità dei contratti e dei provvedimenti. 7. – I rapporti tra le categorie del provvedimento amministrativo e dell’accordo procedimentale. Conferma della appartenenza degli accordi al campo del diritto pubblico. 8. – Conclusioni: alternatività dello strumento consensuale rispetto a quello unilaterale. 1. Premesse: impostazione dell’indagine. Tra le numerose novità introdotte dalla legge 7 agosto 1990 n. 241 vi è, all’art. 11, la disciplina dei c.d. “accordi procedimentali” (1). A mezzo di tale norma si prevede che, in accoglimento delle osservazioni e delle proposte avanzate dai partecipanti al procedimento ai sensi dell’art. 10 lett. b), sia possibile stipulare, tra amministrazione procedente e soggetti partecipanti, accordi preliminari (detti anche “integrativi”) o sostitutivi di provvedimento (2). (*) Professore associato di Diritto amministrativo presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Catania. (1) Per “accordi procedimentali”, d’ora in poi, si intenderanno entrambe le fattispecie consensuali contemplate dall’art. 11 della già menzionata legge n. 241 del 1990. Tale precisazione si rende necessaria in quanto, talora, siffatta denominazione è stata riservata solo a quelli “preliminari/integrativi” di provvedimento. La ragione della preferenza muove dal rilievo che entrambe le tipologie di accordo sono il frutto di un rapporto procedimentale, peraltro, secondo la giurisprudenza, presupposto fondamentale e ineludibile per addivenire alla loro stipula. In proposito, cfr., esemplificativamente, Cons. Stato, VI, 15 maggio 2002 n. 2636: “L’accordo rivela un nesso strettissimo con la partecipazione procedimentale, tanto che può dirsi che non vi può essere accordo senza che vi sia stato avvio del procedimento, per cui può senz’altro dirsi che non possono concludersi accordi al di fuori e prima dell’avvio del procedimento e che non siano espressione della partecipazione procedimentale tesa a stabilire nel caso concreto quale sia l’interesse pubblico”. (2) Vale la pena di ricordare fin d’ora che “parti necessarie” dell’accordo sono i “diretti interessati”, ovvero coloro i quali hanno la disponibilità giuridica della res dedotta in negozio; cfr. PERICU G. – GOLA M., L’attività consensuale dell’Amministrazione pubblica, in AA.VV., Diritto Amministrativo, Bologna 2005, 318: “L’accordo sostitutivo di provvedimento, in via normale, intercorre tra l’Amministrazione ed il destinatario del provvedimento finale, cioè il soggetto nei cui confronti il provvedimento è destinato a produrre effetti diretti. L’ipotesi che l’accordo intervenga invece tra Amministrazione e soggetti che, ai sensi dell’art. 9, hanno facoltà di intervenire nel procedimento pare da escludersi; in effetti, riesce difficile comprendere come si possa definire un accordo che ha la capacità giuriDOTTRINA 331 Si tratta di due fattispecie il cui inquadramento complessivo è risultato subito problematico in ragione delle peculiarità che le contraddistinguono reciprocamente. Di esse, infatti, è stata talora proposta in dottrina una lettura diversificata, con l’esito di riconoscere, prevalentemente, natura contrattuale ai soli accordi sostitutivi, marcando, così una differenza che relega, tra l’altro, quelli preliminari quasi ad “incidente procedimentale” (3). Invero, l’aspetto che sembra, a prima vista, condurre a simili conclusioni è di carattere “strutturale”; e infatti, mentre gli accordi preliminari predispongono una parte del (o l’intero) contenuto discrezionale del provvedimento – dunque, non concludono il procedimento – quelli sostitutivi lo definiscono, eliminando alla radice la necessità di una ulteriore attività amministrativa decisionale, autonoma o “di mera esecuzione” (ossia, l’emanazione di un provvedimento contenente i termini dell’accordo). Anche per quel che concerne gli “effetti”, le due fattispecie mostrano motivi di divergenza: gli accordi preliminari producono un effetto obbligatorio inter partes che si concretizza: per l’amministrazione, nel vincolo ad adottare un provvedimento conforme alla statuizione convenuta, per la parte privata, nella impossibilità di contestare tale provvedimento, almeno con riferimento ai punti “concordati”, prestandovi una sorta di “acquiescenza preventiva”; gli accordi sostitutivi, invece, non producono effetti obbligatori nella stessa misura e qualità perché sono essi stessi la fonte ultima e definitiva delle obbligazioni che nascono inter partes (4). dica di produrre gli stessi effetti del provvedimento finale senza coinvolgere il soggetto destinatario in via diretta degli effetti stessi. È ben vero che l’art. 11 cit. fa salvi i diritti dei terzi …, ma tale limitazione sembra riguardare i soggetti terzi rispetto a quelli direttamente interessati, nei cui confronti si perviene alla definizione dell’accordo, e non invece i soggetti che terzi non sono, in quanto destinatari diretti degli effetti del provvedimento”. Per una analisi della legittimazione alla stipula anche degli accordi preliminari (rispetto ai quali vale la medesima regola), sia consentito rinviare, in ragione anche dei riferimenti bibliografici, al nostro Gli accordi procedimentali, Torino 2002, 126 ss. (3) La dottrina si è subito divisa non solo tra “contratualisti” e “anticontrattualisti”, ma anche tra coloro che proponevano una lettura tendenzialmente unitaria e diversificatrice delle fattispecie previste dall’art. 11. Tra gli altri, si vedano: GRECO G., Accordi amministrativi tra provvedimento e contratto, Torino 2003; BRUTI LIBERATI E., Consenso e funzione nei contratti di diritto pubblico tra amministrazione e privati, Milano 1996; CIVITARESE M. S., Contributo allo studio del principio contrattuale nell’attività amministrativa, Torino 1997; STICCHI DAMIANI E., Attività amministrativa consensuale e accordi di programma, Milano 1992; FRACCHIA F., L’accordo sostitutivo (Studio sul consenso disciplinato dal diritto amministrativo in funzione sostitutiva rispetto agli strumenti unilaterali di esercizio del potere), Padova 1998; DUGATO M., Atipicità e funzionalizzazione nell’attività amministrativa per contratti, Milano 1996; SCOCA F.G., La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla legge sul procedimento, in Dir. amm., 1995, 1 ss. (4) Ma, come si diceva, ciò non elimina la possibilità che da esso derivino specifiche obbligazioni per l’amministrazione. Interessanti e particolarmente raffinate, al proposito, le riflessioni di FALCON G.D., Le convenzioni pubblicistiche, Milano 1984, 257, secondo il quale, peraltro, l’atto di adesione all’accordo in nulla differirebbe da un ordinario provvedi332 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Stante quanto appena premesso, si intendono qui formulare alcune considerazioni che, in tesi, intenderebbero affermare la unitarietà della categoria degli “accordi procedimentali”, prendendo come spunto l’esame del loro aspetto “funzionale” e, nel contempo, a ribadirne la natura eminentemente “pubblicistica”, non ritenendo di potere aderire all’orientamento di chi riconosce ad essi (o ad alcuno di essi) natura contrattuale (5). Si è consapevoli che si tratta di un tema già posto e tuttora problematico in dottrina, non tanto e non solo per la utilità in sé di un genus unico all’interno del quale ascrivere le species consensuali previste dall’art. 11, ma anche perché la sua positiva risoluzione consentirebbe di affrontare, senza troppi condizionamenti dovuti alla intrinseca eterogeneità delle fattispecie di accordi, il tema – sicuramente più rilevante sul piano sistematico – dei rapporti di questi ultimi con la categoria dei provvedimenti amministrativi. All’evidenza, infatti, la effettiva quaestio che si agita intorno alla ammissibilità di strumenti decisionali consensuali è legata al fatto che essi – per la loro derivazione latamente negoziale – sembrino introdurre, nella “cittadella” del potere autoritativo, una novità che si pone in contrasto con il sistema c.d. “a diritto amministrativo” e alcuni suoi essenziali caratteri (6). La bipartizione fondamentale tra ramo pubblicistico e privatistico dell’ordinamento, del resto, è notoriamente andata cristallizzandosi (invero, più nella dottrina pubblicistica che in quella privatistica (7)) verso una netta mento amministrativo, del quale conserva il regime ed i caratteri fondamentali, facendo salva la particolarità che “esso non è né vuole essere, per sé solo, produttivo degli effetti giuridici cui mira”. (5) L’adesione a tale opzione teorica non sarà qui sviluppata compiutamente per evidenti ragioni di economia, rinviando – anche per l’esame delle diverse posizioni della dottrina in proposito – al nostro Gli accordi procedimentali, cit., passim; per ulteriori approfondimenti (e opportuni richiami bibliografici) si rinvia, altresì, ai lavori di: FRACCHIA F., Gli accordi sostitutivi, cit.; BRUTI LIBERATI E., Consenso e funzione nei contratti di diritto pubblico (tra amministrazione e privati), cit.; STICCHI DAMIANI E., Attività amministrativa consensuale e accordi di programma, cit.; CANDIAN A. – GAMBARO A., Le convenzioni urbanistiche, Milano 1992; per un richiamo alla dottrina anteriore alla legge n. 241 del 1990, nel mare magnum di un dibattito ancora aperto, si vedano: D’ALBERTI M., Le concessioni amministrative, Napoli 1981; FALCON G., Le convenzioni pubblicistiche, cit.,; MASUCCI A., Trasformazioni dell’amministrazione e moduli convenzionali. Il contratto di diritto pubblico, Napoli 1988; MAZZARELLI V., Le convenzioni urbanistiche, Bologna 1979; LEDDA F., Il problema del contratto nel diritto amministrativo, Torino s.d., ma 1965; BODDA P., La causa giuridica della manifestazione di volontà del diritto amministrativo, Torino 1933; ROMANELLI V., L’annullamento degli atti amministrativi, Milano 1939; CAMMEO F., La volontà individuale e i rapporti di diritto pubblico (Contratti di diritto pubblico), in Giur. it., LII (1900), IV, 3. (6) Circa i caratteri tipici dell’ordinamento amministrativo, si rinvia a OTTAVIANO V., Sulla nozione di ordinamento amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1958, 825 ss. ; una attenta analisi critica delle differenze fondamentali tra la decisione provvedimentale e quella consensuale si trova in LEDDA F., Il problema del contratto…, cit., passim. (7) Si vedano, ad esempio, le equilibrate trattazioni di: PUGLIATTI S., Diritto pubblico e diritto privato, in E.d.D., XII, Milano 1964, 6969 ss.; GIORGIANNI, Il diritto privato ed i DOTTRINA 333 separazione dettata dai differenti principi e regole che li caratterizzano (8), dimenticando, tuttavia, come il “respiro” dell’ordinamento abbia, nel tempo, quasi indifferentemente privilegiato l’una o l’altra sua declinazione (9). Il presente contributo intende affrontare il tema traendo spunto altresì dalla abrogazione, ad opera della legge n. 15 del 2005, della discussa disposizione dell’art. 11 della legge sul procedimento amministrativo ove si riservava la possibilità di stipulare accordi sostitutivi “nei casi previsti dalla legge”. suoi attuali confini, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1961, 391 ss.; NICOLÒ R., Diritto Civile, in E.d.D., XII, Milano 1964, 904 ss., dalle quali emergono alcuni dati essenziali: 1) la indubbia contaminatio esistente nell’ordinamento tra strumenti giuridici al di là della loro qualificazione come privatistica (o pubblicistica); 2) la “mobilità” dei confini reciproci, dipendendo la qualificazione in termini pubblicistici o privatistici di un istituto o di una fattispecie principalmente dalla volontà del legislatore; 3) la non prevalenza dell’uno (ordinamento) rispetto all’altro. (8) Tale differenziazione è sintetizzata da LEDDA F., in Il problema del contratto, cit., come segue: “In definitiva, la qualificazione del negozio, o meglio la stessa scelta operata dal legislatore tra negozio e provvedimento, dipende da valutazioni politiche ed economiche, storicamente variabili e necessariamente connesse alla natura dell’affare (non già alla natura degl’interessi in giuoco)” (pp. 50-51). Ed ancora: “L’antitesi provvedimento-contratto non risulta soltanto da una diversità d’ordine strutturale, ma anche e soprattutto dal diverso potere del soggetto: nel contratto si esprime un potere giuridico di autonomia, al quale è inerente un momento insopprimibile di libertà; il provvedimento è invece manifestazione dell’imperium, ed espressione puntuale di un’attività dovuta” (p. 60); su questo aspetto, cfr. AMORTH A., Osservazioni sui limiti dell’attività amministrativa di diritto privato, in Arch. Dir. pubbl., 1938, 455 ss. (ora in Scritti giuridici, I, Milano 1999, 271 ss.), il quale riconosce alla distinzione tra attività pubblica e privata un carattere “meramente formale”, che, cioè, mostra il dato oggettivo della “coesistenza di due diversi ordinamenti giuridici che reggono l’operare delle pubbliche amministrazioni” (p. 279). (9) Cfr., ad es., MARZUOLI C., Principio di legalità e attività di diritto privato della pubblica amministrazione, Milano 1982, il quale, ricavando il fondamento del principio di legalità dell’azione amministrativa dall’art. 97 della Costituzione, giunge, attraverso un articolato ragionamento, a “configurare il problema della pertinenza e applicazione del principio di legalità all’attività di diritto privato della pubblica amministrazione” (p. 45). E ciò perché – secondo tale A. – “il principio di legalità … non si esaurisce nel profilo garantistico ed opera, nel vigente ordinamento costituzionale, come indispensabile strumento di collegamento … fra la volontà del popolo e l’attività dell’amministrazione. Posta questa premessa, non c’è dubbio sulla pertinenza, in via generale e di massima, del principio di legalità anche a quella parte dell’attività dell’amministrazione che si svolge con le forme del diritto privato” (p. 46); di diverso avviso è SATTA F., Principio di legalità e pubblica amministrazione nello Stato democratico, Padova 1969, 249 ss., il quale afferma che l’art. 97 cost. riserva alla legge la sola organizzazione dell’amministrazione, sottolineando “che a proposito dell’attività amministrativa il costituente della legge non ha parlato”, sicché “la legge non è necessaria alla disciplina dell’amministrazione, se non quando sia positivamente prescritta … in altra direzione vanno ricercati i principi che presiedono all’azione dell’apparato”; autore di una versione garantistica del principio di legalità è Silvio Spaventa, a proposito del quale, si veda MAROTTA L., Stato di diritto e pubblica amministrazione nel pensiero di Silvio Spaventa, Napoli 1979; SCOCA F.G., Attività…, cit., 93 ss., ove si fa notare che “è sempre stato patrimonio comune della dottrina il ritenere che l’attività dell’amministrazione, anche se retta dal diritto privato, sia comunque necessariamente diretta alla soddisfazione di interessi pubblici: sia cioè non libera, bensì finalisticamente vincolata”. 334 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Vale la pena di ricordare fin d’ora – salvo quanto appresso si dirà – come, nella specie, si trattasse di una disposizione che – pur avversata da gran parte della dottrina che si era occupata dell’argomento, ora rilevandone la ultroneità, ora sottolineandone il valore “politico”, ora, addirittura, considerandola deleteria per l’effettivo utilizzo delle fattispecie consensuali, venendo meno ogni spinta verso di esse (10) – sembrava segnare più di ogni altra un tratto di netta diversificazione tra accordi preliminari e sostitutivi, impedendone una lettura d’insieme e la classificazione all’interno di un medesimo genus (11). Da tale divaricazione non discendeva soltanto l’impossibilità (o, comunque, la notevole difficoltà) di procedere ad un inquadramento sistematico complessivo delle fattispecie di accordi procedimentali, ma anche – a maggior ragione – quella di impostare il rapporto con i provvedimenti amministrativi ponendo i termini di un confronto che sembrava – stando così le cose – del tutto improponibile. Siffatta modifica in seno all’art. 11 è, indubbiamente, l’occasione per tornare su un tema – quello del rapporto tra provvedimento e accordo (12) – (10) In proposito si rinvia alle puntuali osservazioni di GIACCHETTI S., Gli accordi dell’art. 11 della legge n. 241 del 1990 tra realtà virtuale e realtà reale, in Procedimenti e accordi nell’amministrazione locale, Atti del XLII Convegno di Studi di Scienza dell’amministrazione, Milano 1997, 111 ss.; non sono mancati, in dottrina, tentativi di “aggirare l’ostacolo”, reinterpretando la disposizione in esame; tra gli altri: CORSO G. – TERESI F., Procedimento amministrativo e accesso ai documenti, Rimini 1991, 71, i quali fanno richiamo alla autonomia privata dell’ente pubblico per concludere che “… vale il principio per cui l’amministrazione pubblica può concludere contratti (o accordi) laddove non sussista un implicito divieto: e non, come si desumerebbe dalla lettera dell’art. 11, solo quando la legge espressamente le autorizzi. Non quindi un divieto generale con riserva di permesso, come dicono i tedeschi: ma, all’opposto, un permesso generale con riserva di divieto”; impostazione simile, seppure non coincidente, è quella di STICCHI DAMIANI E., Attività amministrativa consensuale e accordi di programma, Milano 1992, 56 ss., il quale supera l’ostacolo osservando che “anche al di fuori di tali casi, rimane consentita la possibilità di determinazione concordata del contenuto del provvedimento”; anche MERUSI F. (Il coordinamento e la collaborazione degli interessi pubblici e privati dopo le recenti riforme, in Dir. amm., 1993, 21 ss.), supera il limite della disposizione attraverso il richiamo alle norme che consentono specifiche forme di contrattazione. (11) Esemplificative, da questo punto di vista, le considerazioni di PERICU G. – GOLA M., L’attività consensuale…, cit., Bologna 2005, 319: “Il fatto che l’accordo sostitutivo di provvedimento si riscontri solo in presenza di specifiche indicazioni legislative che lo prevedano chiarisce il significato dell’art. 11 cit.: con questa disposizione, in effetti, non si dà vita ad una nuova figura di accordi tra Amministrazione pubblica e privati; in altri termini, la norma in esame non consente all’Amministrazione pubblica ed ai privati di stipulare ogni qual volta lo ritengano opportuno accordi che abbiano lo stesso effetto giuridico di un provvedimento amministrativo ma detta per tali accordi una disciplina unitaria destinata a valere indipendentemente e in aggiunta alla regolamentazione specifica dettata dalla singola legge che l’accordo stesso preveda”. (12) Sempre PERICU G. – GOLA M., op. ult.cit., 320, in proposito, osservano: “Con l’introduzione della modifica riportata l’istituto dell’accordo sostitutivo può diventare da un lato potenzialmente del tutto alternativo all’atto provvedimentale di cui prende il posto nel DOTTRINA 335 caso concreto, dall’altro proprio per questa ragione ne risulta anche rafforzata la componente di diritto amministrativo, speciale, accanto a quella negoziale, conservando quindi le medesime garanzie che l’ordinamento aveva prestato agli interessi coinvolti attraverso la disciplina procedimentale di cui prende il posto l’attività consensuale”. (13) In proposito, si veda la relazione di GRECO G., Il principio di legalità e gli accordi pubblici, tenuta il 22 settembre 2007 al 53° Convegno di Studi Amministrativi di Varenna (20- 22 settembre 2007) su “Il principio di legalità nel diritto amministrativo che cambia” (pag. 1 della elaborazione provvisoria): “La predicabilità del principio di legalità agli accordi amministrativi dipende – è quasi superfluo precisarlo – dalla natura di tale controverso istituto, che trova nell’art. 11 della legge 241/90 e s.m.i. la norma base della sua cittadinanza nel nostro ordinamento. Perché se di tale istituto si dovesse fornire una interpretazione integralmente pubblicistica, è chiaro che il principio di legalità dovrebbe applicarsi a tutto il suo complesso contenuto e a tutte le sue articolazioni, anche procedimentali. Viceversa se si accogliesse – come pure è stato prospettato in dottrina – una interpretazione integralmente privatistica, non avrebbe senso parlare del principio di legalità, risultando l’istituto espressione dell’autonomia privata delle parti contraenti e, dunque, di un ambito di libertà incompatibile con i limiti ed i vincoli di una rigorosa predeterminazione normativa della fattispecie”. (14) Per un contributo al tema, si veda, BASSI N., Principio di legalità e poteri amministrativi impliciti, Milano 2001, cui si rinvia anche per la copiosa bibliografia; per una lettura del principio di legalità non nella sola chiave di legalità-garanzia, ancora MARZUOLI C.¸ op. ult. cit., 25 ss.; SCOCA F.G., Attività…, cit., 89 osserva come il principio di legalità si presenti, oggi, in una “fisionomia aggiornata”; infatti, “nel corso del tempo, l’attività amministrativa è andata perdendo il suo connotato tradizionale (connesso con l’idea di funzione sovrana) di essere esercizio di poteri (autoritativi), mentre è andata assumendo sempre più chiaramente la fisionomia di attività diretta al conseguimento di interessi pubblici (delle collettività di riferimento)”. rispetto al quale la riflessione della dottrina non ha prodotto risultati definitivi anche per la difficoltà di procedere, preliminarmente, ad una ricostruzione unitaria della categoria degli accordi procedimentali, fortemente minata proprio dalla disposizione recentemente abrogata. Il menzionato intervento riformatore, quindi, potrebbe consentire di affrontare nuovamente questo tema su basi più solide, con il conforto, cioè, del diritto positivo e senza il condizionamento di una disposizione in grado di pregiudicare a monte una possibile lettura sistematica votata al riconoscimento della categoria unitaria degli accordi procedimentali. Ammesso, poi, che il suddetto inquadramento teorico complessivo sia oggi proponibile con argomenti di maggiore tenuta – quanto meno perché avallati per tabulas dallo stesso legislatore – dal suo esito potrebbe dipendere anche la possibilità di verificare i termini del rapporto con il provvedimento. Si tratta di una analisi che, invero, non ammette “zone grigie”: o gli accordi sono soggetti ai principi dei provvedimenti o non lo sono, il che equivale a chiedersi se essi, nella sostanza, appartengano al campo del diritto pubblico o a quello del diritto privato (13). Nel contempo, occorre segnalare la necessità di operare con le dovute cautele, giacché il principio di tipicità, espressione del più generale principio di legalità, è strettamente connesso ad esigenze di garanzia proprie dei destinatari dell’attività amministrativa (14); il suo venir meno, dunque, potrebbe 336 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO segnare la definitiva prevalenza dell’ottica “efficientistica” su quella tradizionale ancorata al vaglio di legittimità, con conseguenze che meritano di essere valutate con particolare attenzione (15). Si badi, ciascuna soluzione è astrattamente dotata di argomenti a sostegno, seppure in varia misura: d’altro canto, non vi è dubbio che la possibilità di attingere al campo della “atipicità”, nel quale lo strumento contrattuale ha trovato motivi di sviluppo e di modernità, potrebbe aprire scenari del tutto nuovi forse anche maggiormente inclini ad assecondare la crescente richiesta di economicità dell’azione amministrativa. Non è ben chiaro, d’altro canto, quale fosse la interpretazione più corretta della già ricordata disposizione. Essa invero, avrebbe potuto essere intesa alla stregua di un richiamo al generale principio di legalità, per comune acquisizione ritenuto applicabile all’azione della p.a. di rango pubblicistico come a quella di stampo privatistico (16). Si sarebbe trattato, in questo caso, di una mera precisazione del legislatore – frutto, come noto, di un suggerimento dell’Adunanza Generale del Consiglio di Stato in sede di parere al disegno di legge (17) – utile ad evi- (15) In proposito, si vedano le osservazioni di MARINO I.M., Giudice amministrativo, motivazione degli atti e «potere» dell’amministrazione, in Foro amm., TAR, 2003, 361 ss.; lucidamente, sul punto, anche SCOCA F.G., op. ult. cit., 100 ss., per il quale “la valutazione di risultato non confligge … con la valutazione di legittimità; si tratta di due modi distinti e concorrenti, anzi in qualche modo intrecciati, di valutazione dell’attività amministrativa”. (16) L’espressione “nei casi previsti dalla legge” poteva, cioè, non necessariamente essere interpretata alla stregua del rinvio a norme apposite, bensì ai limiti previsti legislativamente, ossia come richiamo al principio di legalità. D’altro canto, come si dirà subito, detta disposizione (come altre contenute nell’art. 11) denuncia(no) una formulazione se non ambigua, certamente “incompleta”, perché frutto del contrasto tra la reale voluntas del relatore al disegno di legge ed il parere reso dal Consiglio di Stato. (17) L’esplicita ammissione del principio di contrattualità, prevista dall’originario disegno di legge licenziato dalla Commissione Nigro è stata infatti espunta in virtù del parere del Consiglio di Stato dalla stesura finale dell’art. 11. L’art. 5 del titolo I del disegno di legge dettava “Disposizioni dirette a migliorare i rapporti fra cittadino e pubblica amministrazione nello svolgimento dell’attività amministrativa” e prevedeva l’introduzione del principio di contrattualità nei seguenti termini: “Allo scopo di accelerare lo svolgimento dell’azione amministrativa e disciplinare con maggiore stabilità e precisione i comportamenti propri e dei privati oltre che i diritti e doveri reciproci, l’amministrazione favorirà la conclusione di accordi fra di essa e gli interessati, senza pregiudizio dei diritti dei terzi”. Al successivo art. 12 era prevista la disciplina degli accordi, ma, una volta espunto l’art. 5, anche l’art. 12 ha subito rilevanti modifiche che, tuttavia, secondo LEDDA F. (Appunti per uno studio sugli accordi preparatori di provvedimenti amministrativi, in Dir. Amm., 1996, 392 ss.), non sembrano “avere preoccupato molto l’illustre giurista scomparso (Nigro, n.d.s.)...; anche nello schema l’enunciazione del medesimo «principio», del resto, si riferiva più genericamente a figure di «accordo » preordinate «allo scopo di accelerare lo svolgimento dell’azione amministrativa e disciplinare con maggiore stabilità e precisione i comportamenti propri e dei privati oltre che i diritti e doveri reciproci». Il legislatore patrio non pretendeva di risolvere d’autorità una questione dogmatica di notevole interesse, e questo suo atteggiamento - che lascia aperto un largo spazio all’opera della giurisprudenza pratica e teorica - merita certamente approvazione”. DOTTRINA 337 tare che gli accordi sostitutivi sfuggissero ad ogni “controllo”, consentendo inopinatamente di dar luogo ad una amministrazione “concordata” non ben circoscritta e quindi in grado, in potenza, di obliterare i principi ed i valori funzionali che connaturano il potere amministrativo. La realtà, però – ancorché fortemente discutibile per le ragioni già accennate (e per quanto si dirà meglio infra) (18) – era obiettivamente differente: la disposizione è stata frutto di una precisa scelta “limitativa” adottata in sede parlamentare, intesa a fare in modo che gli accordi sostitutivi fossero conclusi solo in presenza di norme speciali che li prevedessero con disciplina più o meno di dettaglio, integrata, per quanto di utilità, dal regime disegnato dall’art. 11 della legge n. 241 del 1990. Ma non si è tardato a comprendere come questa scelta “conservativa” fosse del tutto ingiustificata. È stato, infatti, progressivamente osservato che gli accordi procedimentali possiedono poliedriche qualità che si traducono in sensibili vantaggi a favore dell’attività amministrativa. Non solo, infatti, consentono di adeguare il calibro rispetto alla situazione concreta – e, dunque, ad un ottimale perseguimento dell’interesse pubblico – ma, nel contempo, proprio perché frutto della convergenza delle singole volontà verso un certo programma condiviso, danno luogo a situazioni tendenzialmente stabili e definitive (19) rispetto alle quali il contenzioso può derivare dall’inadempimento alle obbligazioni nascenti dal pactum o – come si ricorderà più avanti – dall’iniziativa dei terzi che abbiano in varia misura subito un pregiudizio. In senso più generale, gli accordi meritano attenzione perché antesignani e forse persino archetipi di un processo di cambiamento nel modus operandi della pubblica amministrazione, frutto della accresciuta consapevolezza circa la complessità e la frammentazione degli interessi, sia pubblici sia privati, il cui esame, talora, è talmente impegnativo da richiedere soluzioni anche di compromesso (20). (18) L’argomento sarà ripreso e, in parte, ribadito infra, allorché ciò risulti utile alla analisi che si intende condurre. (19) Almeno inter partes (e fatte salve le questioni relative al corretto “adempimento” delle rispettive obbligazioni), mentre lo stesso non può dirsi per quel che concerne eventuali soggetti “terzi” che potrebbero ritenersi lesi dall’accordo stipulato dall’amministrazione con altri contraenti. (20) Si tratta di rilievi oggi ben noti, per tempo osservati, tuttavia, da FALCON G., in Le convenzioni pubblicistiche, cit., passim, spec. 253; più di recente, si veda ROMANO TASSONE A., Giudice amministrativo e interesse legittimo, in Dir. amm., 2006, 273 ss., il quale, in particolare, ricorda gli effetti che tale complessità produce rispetto alla rilevanza giuridica degli interessi: “l’avvento della c.d. «società complessa», per il solo fatto di moltiplicare a dismisura gli interessi socialmente rilevanti e dunque le reciproche interazioni tra di essi, ne preclude l’esauriente previsione, ed impedisce che ad ogni fattispecie venga assegnata una soluzione sostanziale dirimente” (p. 284). 338 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Le resistenze opposte da più parti al loro utilizzo ne hanno tuttavia finora pregiudicato anche lo sviluppo teorico (21); tra i nodi irrisolti vi è quello relativo alla collocazione che essi meritano all’interno del sistema decisionale, nonché del rapporto con i provvedimenti e con i principi che li regolano e presiedono alla loro adozione. 2. Lo speciale regime degli accordi sostitutivi nella originaria formulazione dell’art. 11 della legge 7 agosto 1990 n. 241: le ragioni di un equivoco. È stato appena ricordato come l’art. 11 della legge n. 241 del 1990, nella sua originaria formulazione, disegnasse un regime speciale per gli accordi sostitutivi, ammettendo la loro stipulazione solo “nei casi previsti dalla legge”; la medesima norma, con disposizione rimasta immutata, richiede, altresì, che essi vengano sottoposti ai medesimi controlli previsti dall’ordinamento per i provvedimenti amministrativi “sostituiti”. Dalla lettura del parere reso dal Consiglio di Stato sul disegno di legge emergono in modo chiaro (22) le ragioni dell’iniziale vincolo di “tipicità speciale” (23); esse sono da ricollegare anzitutto alla affermata e volutamente (21) Sembra ancora il caso di richiamare quanto recentemente affermato a Varenna da GRECO G., Il principio di legalità…, cit., 4, secondo il quale, almeno sul piano della elaborazione giurisprudenziale, gli accordi conoscano oggi una stagione di progressiva crescita ed emancipazione dal “limbo” nel quale, per lungo tempo, erano precipitati: “Gli accordi, dunque, non sono più una figura virtuale, concepita da un legislatore privo di senso pratico. Sono viceversa un modulo d’azione sempre più spesso usato e ampiamente sperimentato, come dimostra la rassegna giurisprudenziale testé succintamente e lacunosamente esposta. La quale è tanto più significativa, se si considera che l’istituto raramente si presta a risvolti giurisdizionali, essendo precipuamente diretto ad evitare il contenzioso”. (22) Nel parere reso dall’Adunanza Generale del Consiglio di Stato il 19 febbraio 1987 n. 7 si legge: “In sostanza si contempla che l’assetto di interessi affidato alla competenza unilaterale dell’autorità amministrativa (e, perciò, da esprimere attraverso il provvedimento), possa ottenere, prima della sua emanazione e, di regola, dopo un confronto tra p.a. e privato, il consenso di quest’ultimo. Sembra, peraltro, che il consenso preventivo del privato al provvedimento (unilaterale) che l’amministrazione si propone di emanare non dispieghi altro effetto fuor di quello di privare l’interessato che ha «accettato» della possibilità di avanzare, poi, contestazioni nei riguardi del futuro provvedimento e di vincolare l’amministrazione (in via di autolimitazione?) alla adozione del provvedimento con il contenuto «concordato». Stante il carattere di questo c.d. accordo, si sarebbe perciò dubbiosi in ordine alla applicabilità allo stesso del secondo, terzo, quarto comma dell’art. 12 ...”; per quel che concerne, in particolare, gli accordi sostitutivi, così prosegue l’A.G.: “: “Gli accordi sostitutivi - caratterizzati dalla presenza di volontà che non sono sullo stesso piano, risentono, necessariamente del contenuto e delle finalità del provvedimento che vanno a sostituire sicché è logico che la legge assicuri all’amministrazione una qualche posizione di supremazia in relazione al contesto pubblicistico in cui l’accordo viene ad inserirsi”. (23) Nel senso della attinenza e diretta rispondenza ad una fattispecie tipizzata in una apposita norma, indubbiamente “speciale” rispetto a quella “generale” contenuta nella legge sul procedimento amministrativo. DOTTRINA 339 ribadita esigenza di non valicare, attraverso forme decisionali concordate, gli ordinari limiti cui soggiace il potere amministrativo, segnati, in termini generali (e fondamentali) dalla vigenza del principio di legalità, variamente declinato nelle forme della tipicità e della nominatività e, in ultima analisi, dal vincolo della funzione (24). Gli accordi sostitutivi, infatti, per le loro enormi e imprevedibili potenzialità applicative ove frutto di autonomia negoziale tout court, vengono circoscritti a singole fattispecie tassativamente previste dalla legge e assoggettati ai medesimi controlli propri dei provvedimenti semplicemente per impedire che, a loro mezzo si dia luogo a fattispecie “atipiche” e ad effetti “innominati”. I limiti posti agli accordi sostitutivi, dunque, sembravano (e sembrano ancor più oggi, alla luce delle riforme del 2005) piuttosto dettati dal timore che l’avvento dello strumento consensuale intaccasse principi e valori fondamentali e soprattutto la necessità assoluta che la decisione non venisse condizionata nel suo aspetto funzionale. In questa impostazione di base non era esente la sottolineatura del profilo di garanzia come uno dei valori essenziali propri del principio di legalità (25). È di palmare evidenza che la sua obliterazione sia suscettibile di portare con sé, tra l’altro, anche il rischio proprio di ogni “negoziazione”, ossia che l’interesse di una parte prevalga in modo significativo (e immotivato) su quello dell’altra, segnando, così, la sorte dell’interesse pubblico (26). In una contrattazione “libera”, infatti, non vi è dubbio che siano astrattamente aperte tutte le opzioni, compreso un uso distorto del potere amministrativo a disca- (24) In proposito, ex pluribus, DE ROBERTO A., La legge sul procedimento amministrativo: ambito di operatività e contenuti della nuova disciplina, in AA.VV., Procedimento amministrativo e diritto di accesso (Legge 7 agosto 1990 n. 241), Napoli 1991, 28. L’A., infatti, rileva come l’unica differenza tra le due tipologie di accordi possa essere individuata nel fatto che gli accordi sostitutivi non presuppongono alcun recepimento ex post in un provvedimento; sicché, “il limite (suggerito dal Consiglio di Stato nel suo parere) trova, forse, la sua origine (non la sua giustificazione) nel dubbio in ordine alla «licenza» accordata dalla citata norma per il passaggio al regime privatistico”. (25) Come si dirà meglio infra, quello di garanzia non è l’unico valore fondante il principio di legalità, sebbene sia quello che, almeno inizialmente, emerge in modo significativo rispetto agli altri. Uno dei politici e studiosi che si è posto il problema della funzione di garanzia del principio di legalità inteso anche come separazione tra funzione legislativa e amministrativa è, notoriamente, SPAVENTA S., per il quale si veda La politica della destra, Bari 1910. (26) MIELE G., La manifestazione di volontà del privato nel diritto amministrativo, Roma 1931, passim; ID., Funzione pubblica, in Noviss. dig. it., VII, Torino 1961, 687 ss.; MERUSI F., Il coordinamento e la collaborazione degli interessi pubblici e privati dopo le recenti riforme, in Dir. amm., 1992, 21 ss.; CERULLI IRELLI V., Lineamenti del diritto amministrativo, Torino 2006, 272 ss.; ID., Note in tema di discrezionalità amministrativa e sindacato di legittimità, in Dir. proc. amm., 1983, 373 ss.; SCOCA F.G., Attività…, cit., passim; LEDDA F., L’attività amministrativa, in AA.VV., Diritto amministrativo degli anni ’80, Atti del XXX Convegno di Studi di scienza dell’amministrazione, Milano 1987, 83 ss. 340 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO pito del privato (che non sarebbe comunque giustificato dal conseguimento eventuale del presunto obiettivo di pubblico interesse), o anche una contaminatio dell’interesse pubblico in ragione di indebite pressioni del privato (27). Ne emergeva un quadro problematico, ove la possibilità di stipulare ad libitum accordi sostitutivi di provvedimento avrebbe richiesto di legittimare decisioni che, per altra via, analoga patente non avrebbero potuto vantare, divenendo, nella sostanza, un comodo strumento per aggirare i vincoli posti dalla legge o comunque un’occasione per consentire al privato di realizzare le proprie finalità (legittimamente) “egoistiche” a scapito del pubblico interesse. Se questi erano – e non ve ne è dubbio – i timori del legislatore (e del Consiglio di Stato), occorre dire che essi sembrano tanto condivisibili in astratto quanto, in fondo, sorprendentemente ingenui nella loro traduzione normativa. È vero, infatti, che la istituzione generalizzata di una struttura decisionale consensuale bilaterale tra cittadino e amministrazione pubblica realmente alternativa a quella provvedimentale avrebbe potuto essere, in potenza, in grado di produrre i rischi paventati; è altrettanto vero, tuttavia, che, nella specie, l’accordo è inserito all’interno di un contesto procedimentale, laddove l’esercizio del potere autoritativo può eventualmente essere vicariato da quello consensuale solo per raggiungere in misura più rapida gli obiettivi prestabiliti senza, con questo, venir meno al rispetto dei medesimi principi. La disposizione “limitativa” in esame, mostrava, comunque, una certa ingenuità perché, tra l’altro, non considerava che, in questo modo, si perdeva l’occasione per “formalizzare” i rapporti ufficiosi da sempre esistiti tra amministrazione e cittadino, e dunque di acquisire maggiore trasparenza, mantenendo l’antecedente status quo fatto di riunioni informali e, a volte, di procedure e decisioni più o meno ad personam sotto le mentite spoglie del provvedimento unilaterale. 3. La “liberalizzazione” degli accordi sostitutivi operata dalla legge n. 15 del 2005. Posto il quadro problematico antecedente all’intervento riformatore del 2005, sembra adesso possibile analizzare l’impatto della modifica apportata all’art. 11 della legge n. 241 del 1990 sul regime degli accordi sostitutivi (e sul rapporto di questi ultimi con quelli preliminari). Come si è anticipato, le interpretazioni possibili della disposizione “limitativa” alla stipula degli accordi sostitutivi erano due. (27) Si intende dire che il vincolo finalistico risulta pregiudicato sia quando l’abuso di una posizione dominante (rectius: di potere) sia operato dall’amministrazione, sia quando questo derivi dalla controparte (pubblica o privata). Infatti, il limite di ogni negoziazione posta in essere dalla pubblica amministrazione è la prioritaria realizzazione dell’interesse pubblico, prefigurando, per l’intanto, uno scenario ad esso confacente. DOTTRINA 341 A) L’espressione “nei casi previsti dalla legge” poteva, in primo luogo, essere intesa alla stregua di un rinvio a norme “speciali”, sicché la conclusione di accordi sostitutivi era da ritenersi consentita (rectius: legittima) solo in presenza di una apposita legittimazione normativa. Questa interpretazione non trovava avallo nei lavori della Commissione Nigro, quanto – come si è già ricordato – nelle modifiche apportate, in ultimo, al disegno di legge (che era, invece, ispirato alla fattispecie del “contratto di diritto pubblico” contenuta nel § 54 della legge federale tedesca del 1976 (28)), in ossequio al parere del Consiglio di Stato, che, invece, aveva suggerito di limitare l’operatività degli accordi sostitutivi ai soli casi previsti dalla legge (29). Pur tenendo conto del fatto che il legislatore avesse, in fondo, accolto acriticamente i suggerimenti del Consiglio di Stato, egualmente, a ben guardare, l’interpretazione “restrittiva” non si faceva preferire. Essa rivelava, alla prova dei fatti, di essere la conseguenza del timor – diremmo, persino: “istintivo” – verso l’ingresso del principio di consensualità in ambito autoritativo, piuttosto che di una approfondita analisi delle sue conseguenze sul piano logico-giuridico. D’altro canto si trattava di un tema – quello del c.d. “contratto di diritto pubblico” – che aveva impegnato da sempre (30) la dottrina amministrativa e, che, peraltro, aveva segnato una prima tappa fondamentale, alla fine degli anni ’60, soprattutto in conseguenza di un noto lavoro di Ledda (31) secondo cui vi era incompatibilità di principio tra il regime pubblicistico e l’adozione di uno strumento decisionale consensuale (32). (28) Anche qui, solo per brevità, sia consentito rinviare al nostro Gli accordi procedimentali, cit., 68 ss., non senza sottolineare che le fattispecie di contratto nel diritto pubblico costituiscono un leit motiv di molte discipline sul procedimento amministrativo. (29) Lo si è detto supra; cfr. nota 22. (30) Si pensi, ad esempio, ai lavori di CAMMEO F., La volontà individuale e i rapporti di diritto pubblico, cit., 3, BODDA P., La causa giuridica della manifestazione di volontà del diritto amministrativo, cit., passim e FORTI U., Natura giuridica delle concessioni amministrative, in Giur. It., 1900, in Studi di diritto pubblico, I, Roma 1937, 361 ss.; lo sviluppo problematico della dottrina è ricostruito, con particolare cura, da FALCON G.D., Le convenzioni pubblicistiche, cit., passim, cui si rinvia per ogni ulteriore indicazione bibliografica. (31) LEDDA F., Il problema del contratto nel diritto amministrativo, cit., passim. (32) Il tema, poi, è stato variamente ripreso tra gli anni ’70 e ’80 da numerosi autori, a dimostrazione della sua vitalità e anche in conseguenza della emanazione, nel 1976, della legge federale tedesca sul procedimento amministrativo, dove, invece, apertamente si parlava di contratto di diritto pubblico. Si rinvia, a titolo meramente esemplificativo a: BERTI G., Il principio contrattuale nell’attività amministrativa, in Studi in onore di M.S. Giannini, II, Milano 1988, 47 ss.; CHITI M., Partecipazione popolare e pubblica amministrazione, Pisa 1977; D’ALBERTI M., Le concessioni amministrative, Napoli 1981; PUGLIESE F.P., Il procedimento amministrativo tra autorità e «contrattazione», in Riv. trim. dir. pubbl., 1971, 1471 ss.; MASUCCI A., Trasformazioni dell’amministrazione…, cit.; FALCON G.D., op. ult. cit.; MAZZARELLI V., Le convenzioni urbanistiche, Bologna 1979; PASTORI G., L’amministrazione per accordi nella recente prospettazione legislativa, in Atti del Convegno Messina- Taormina, 25-26 febbraio 1988, Milano 1990, 77 ss. 342 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Autorevole dottrina, nel contempo, aveva posto le basi di una teorica che consentiva pacificamente l’ingresso di fattispecie “contrattuali” in ambito pubblicistico (si pensi, per tutte, al c.d. “contratto ad oggetto pubblico”), pur ribadendo la non negoziabilità del potere e la difficoltà di conciliare il principio contrattuale pacta sunt servanda con la clausola rebus sic stantibus insita in ogni decisione amministrativa (33). Anche questi ulteriori dubbi erano, invero, stati superati sul piano teorico (o, comunque, vi era stato un indubbio sforzo ricostruttivo in tal senso) con le c.d. “concessioni-contratto” – la cui matrice è da ricondurre alla Zweistufentheorie o “teoria del doppio grado” (34) – ossia proponendo una separazione tra il livello negoziale e quello squisitamente unilaterale. Non attingendo ad alcuno di questi profili teorici, la limitazione posta dal legislatore null’altro faceva se non relegare sul piano episodico, frutto di apposite norme (super)speciali, un fenomeno sul quale, si era da tempo misurata la dottrina, sforzandosi di trovare solide basi ricostruttive, al punto da richiedere esplicitamente la codificazione di una apposita norma che consentisse di costruire il “sistema” della amministrazione consensuale in termini, peraltro, ben diversi da quelli propri delle “norme integrative o modificative del regime ordinario, come quelle che si hanno, in misura cospicua, per i contratti «di diritto privato» dell’amministrazione” (35). (33) Problema, invece, risolto con il potere di revoca (rectius recesso) dall’accordo da parte dell’amministrazione in nome dell’interesse pubblico – ma solo per i fatti sopravvenuti e non melius re perpensa – facendo salvo l’eventuale indennizzo per i possibili “pregiudizi in danno” sofferti dal privato. Sul punto, basti rinviare alle brillanti analisi di: SALA G., Accordi sul contenuto discrezionale del provvedimento e tutela delle situazioni soggettive, in Dir. proc. amm., 1992, 206 ss.; IMMORDINO M., Legge sul procedimento amministrativo, accordi e contratti di diritto pubblico, in Dir. amm., 1997, 103 ss.; ID., Revoca degli atti amministrativi e tutela dell’affidamento, Torino 1999; CERULLI IRELLI V., Corso di diritto amministrativo, III, Torino 1991 (e succ. ediz.), al quale si deve il rinvio al concetto di “autotutela legata” (34) IPSEN H.P., Offentlicher Subventionierung Privater, Berlin, 61 ss.; MAURER H., Allgemeines Verwaltungsrecht, München, 1986, 350; MASUCCI A., Trasformazioni dell’amministrazione e moduli consensuali, cit., 51 ss.; LEDDA F., Il problema del contratto…., cit..; D’ALBERTI M., Le concessioni amministrative, Napoli, 1981, 187 ss.; FALCON G., Le convenzioni pubblicistiche, cit., 154. (35) In terminis, LEDDA F., Il problema…, cit., 56-57, il quale ritiene che “un problema di qualificazione dei contratti ha ragione d’essere posto solo se, ed in quanto, nel campo del diritto pubblico sia dato riscontrare una norma-base distinta da quella che attribuisce rilevanza al contratto fra privati, o quanto meno un complesso di regole diverse ordinabili in sistema”; sulla necessità di una norma-base per potere procedere alla costruzione della fattispecie del «contratto di diritto pubblico», PERICU G., L’attività consensuale della pubblica amministrazione, in AA.VV., Diritto Amministrativo, Bologna 1993, 1309, per il quale “si tratta di sapere se il legislatore ha previsto fattispecie, da un lato, non riconducibili al provvedimento amministrativo in quanto caratterizzate da un accordo bilaterale in sé produttivo di effetti giuridici tra le parti e, dall’altro, diverse rispetto al contratto così come disciplinato dal c.c.”; in precedenza, si era già espresso nello stesso ordine di idee GIANNINI M.S., Diritto amministrativo, cit., 862: “... per ammettere che esista un contratto di diritto pubblico occorre che le norme positive diano ad esso dei caratteri propri, tali da distinguerlo dal contratto di diritto privato. Or nel nostro diritto positivo ciò non avviene”. DOTTRINA 343 B) Per questa ragione, anche prima dell’intervento riformatore non sembrava fuor di luogo proporre una interpretazione – fors’anche de jure condendo – che intendesse l’espressione “nei casi previsti dalla legge” in una prospettiva meno (inutilmente) “soffocante”, ossia come riferentesi alla vigenza del principio di legalità, con i corollari (rispetto della tipicità e nominatività degli effetti giuridici, anzitutto) già sopra evidenziati (36). Una siffatta interpretazione “estensiva” aveva dalla sua il merito di “liberare” le fattispecie di accordi sostitutivi dal giogo della “necessaria specialità”, prefigurando, nel contempo, un sistema compiuto all’interno del quale potessero collocarsi, senza particolari difficoltà, entrambe le fattispecie descritte dall’art. 11. Non vi è dubbio che l’intervento del legislatore del 2005 si collochi in antitesi con la prima ricostruzione, o meglio, apporti una necessaria correzione alla precedente “svista” dettata con ogni probabilità da fattori contingenti e non da una attenta riflessione, il cui effetto è stato quello di consentire il perpetuarsi delle tradizionali modalità unilaterali di definizione del procedimento (37). Dunque, la “seconda” tesi – quella secondo la quale fosse possibile una interpretazione più ampia della disposizione “limitativa” – sembra attualmente registrare un forte avallo, perché, a ben guardare, l’intervento riformatore si spiega solo in questo senso, ossia con la volontà di consentire all’amministrazione di ricorrere all’accordo ogni qual volta esso risulti più utile rispetto allo strumento unilaterale in termini di economicità ed efficienza della decisione in un certo contesto (38). Vale la pena di aggiungere che proprio in quest’ottica si spiega il limite del rispetto dei terzi, che dimostra ulteriormente come il regime degli accordi procedimentali sia essenzialmente pubblicistico. Mentre, infatti, nel diritto privato è regola fondamentale la inopponibilità del contratto rispetto ai terzi, nel diritto amministrativo gli effetti del prov- (36) Sia consentito un ulteriore rinvio al nostro Gli accordi procedimentali, cit., 161 ss., ove tale proposta teorica veniva formulata. (37) Scrive, infatti, nel suo più recente manuale (invero, ribadendo concetti già espressi nelle precedenti edizioni del suo Corso di diritto amministrativo, Torino, ed. 1991, 1997, 2002) CERULLI IRELLI V., Lineamenti…, cit., Torino 2006, 391 ss.: “Successivamente alla modifica introdotta al citato art. 11 dalla legge n. 15/2005 …. La conclusione negoziata del procedimento diviene modalità ordinaria della fase decisoria. In tal modo la norma, la cui applicazione, in ordine agli accordi sostitutivi (e integrativi) è stata finora così scarsa, potrà acquistare ampia possibilità di applicazione sempre che le Amministrazioni saranno indotte a superare la costante difficoltà che hanno sinora manifestato (si dirette anzitutto per ragioni culturali) nell’utilizzo dello strumento negoziale”. (38) Tale scelta, tuttavia, va debitamente motivata perché discende da una valutazione che deve essere di costo-beneficio alla luce dei principi posti dall’art. 1 della legge sul procedimento amministrativo, al punto che il legislatore del 2005 ha richiesto che essa venga formalizzata in un apposito atto reso dall’autorità che sarebbe stata competente per l’adozione del provvedimento finale. 344 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO vedimento si propagano, direttamente o indirettamente, in un’«area» di interessi anche più vasta di quella prevedibile ex ante (39). 4. La reductio ad unum delle fattispecie previste dall’art. 11 riformato e l’individuazione della categoria degli accordi procedimentali. Sue conseguenze. Quanto detto consente di (ri)proporre una lettura in chiave unitaria delle due tipologie di accordi, superando le differenze “strutturali” che essi presentano. Il “minimo comune denominatore” in grado di consentire un simile inquadramento complessivo sembra doversi ricercare nel profilo funzionale. Le fattispecie disegnate dall’art. 11, infatti, si pongono in una identica prospettiva finalistica non essendovi (o non essendovi più) tra esse tratti di differenziazione tali da renderle reciprocamente disomogenee. A ben guardare, tuttavia, vi è di più. Una volta ammesso sul piano del diritto positivo, infatti, lo strumento consensuale diviene una alternativa, da valutare preliminarmente, riguardo allo strumento decisionale che si intende adottare. La prima (e più ovvia) conseguenza è il venir meno dell’unicità del provvedimento unilaterale come epilogo “naturale” del procedimento; sicché, la decisione che l’amministrazione assumerà si presenterà ora con le forme del provvedimento ora con quelle dell’accordo a seconda della maggiore o (39) In proposito, GIANNINI M.S., Inefficacia, in E.d.D., XXI, Milano 1971, 375 ss.; sui possibili riflessi in sede processuale, per tutti v. CORLETTO D., La tutela dei terzi nel processo amministrativo, Padova 1992. Invero, è anche per questa ragione che il combinato disposto degli artt. 7 e 9 della legge n. 241 del 1990 disegna una legittimazione alla partecipazione procedimentale estremamente ampia, seppure variamente graduata. Infatti, la comunicazione di avvio del procedimento va inviata: 1) ai diretti interessati (e a coloro che devono intervenire ex lege) “ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento”; 2) ai soggetti individuati o facilmente individuabili diversi dai diretti interessati “ove parimenti non sussistano le ragioni di impedimento predette” (ossia le “particolari esigenze di celerità del procedimento”) e questi siano “individuati o facilmente individuabili”. L’art. 9, inoltre, prevede una facoltà di intervento nel procedimento che comprende una schiera molto ampia di soggetti, ossia tutti coloro in qualche modo interessati perché ad essi “possa derivare un pregiudizio dal provvedimento”. Lo scopo evidente è quello di consentire una decisione estremamente ponderata e, nel contempo, una rappresentazione il più completa possibile degli interessi. L’accordo può, quindi, essere più “utile” rispetto al provvedimento: ma la sua utilità “effettiva” è legata alla capacità di non lasciare aperte situazioni di conflitto in grado di proiettarsi nella sede giurisdizionale esattamente come avverrebbe in presenza di un provvedimento. I terzi, inoltre, possono proporre le azioni a tutela delle loro posizioni, ma solo nell’ambito della giurisdizione di legittimità, essendo la giurisdizione esclusiva riservata alle controversie “insorte tra le parti che abbiano stipulato l’accordo” (Tar Lombardia, Bs, 29 settembre 2005, n. 903). DOTTRINA 345 minore “convenienza” degli effetti che si intende produrre in funzione dell’interesse pubblico perseguito (40). Da questo punto di vista, non è inutile ricordare che lo strumento consensuale, pur non presentando nella identica misura del provvedimento i tratti del potere autoritativo – che, anzi, all’interno del pactum ne esce un po’ “annacquato” – rispetto a quest’ultimo è decisamente più duttile: è in grado, infatti, di determinare, attraverso la “negoziazione”, assetti di interessi più equilibrati e stabili (diremmo, forse: “ragionevoli”) in contesti frammentati ove l’ordinario strumento unilaterale risulterebbe palesemente inadatto. Occorre, pertanto, pragmaticamente riconoscere che la loro ragion d’essere non è da riportare esclusivamente ai (pur rilevanti) profili teorici che essi implicano; lo strumento consensuale costituisce soprattutto una alternativa a quello unilaterale nella misura in cui “semplifica” il procedimento (lo abbrevia, anzitutto, determinando un assetto concordato inter partes, ove è presumibile e probabilmente ineliminabile una matrice transattiva) e rende più efficace e stabile la decisione (il privato, infatti, come si è detto, non può impugnare gli effetti prodotti da un provvedimento emanato in esecuzione di un accordo preliminare o da un accordo sostitutivo), contribuendo ad una migliore realizzazione dell’interesse pubblico sul piano concreto (41). È, in altri termini, uno dei veicoli della efficienza ed economicità dell’azione amministrativa, che, come è noto, si serve di uno strumentario all’interno del quale si trovano ulteriori casi di legittimazione all’azione ammini- (40) Ma non è una novità. In proposito, basti rinviare, ex pluribus, a: SORDI B., Pubblica amministrazione, negozio, contratto: universi e categorie ottocentesche a confronto, in Dir. amm., 1995, 483 ss., (spec. 500); GIANNINI M.S., Il pubblico potere. Stati e amministrazioni pubbliche, Bologna 1986; ID., L’attività amministrativa, Roma 1962; ID., Profili storici della scienza del diritto amministrativo, in Studi Sassaresi, XVIII, fasc. II-III, Sassari 1940 (ora in Scritti giuridici, I, Milano 2000), 81 ss.; CERULLI IRELLI V., Innovazioni del diritto amministrativo e riforme dell’Amministrazione, in Giust. Amm., 2002, 245 ss.; NIGRO M., L’azione dei pubblici poteri, in Manuale di diritto pubblico, a cura G. Amato e A. Barbera, Bologna 1986, 801 ss.; ID., Studi sulla funzione organizzativa della Pubblica Amministrazione, Milano 1966; OTTAVIANO V., Appunti in tema di amministrazione e cittadino nello Stato democratico, in Scritti in onore di M.S. Giannini, II, Milano 1988, 367 ss.; PIZZORUSSO A., Interesse pubblico e interessi pubblici, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1971, 57 ss.; PUBUSA A., Procedimento amministrativo e interessi sociali, Torino 1988; ROMANO ALB., Interesse legittimo e ordinamento amministrativo, in Atti del Convegno celebrativo del 150° anniversario della istituzione del Consiglio di Stato, Milano 1983, 95 ss.; SCOCA F.G., Contributo allo studio della fattispecie precettiva, Perugia 1979; ID., Interessi protetti, in Enc. Giur. Treccani, XVII, Roma 1989; STELLA RICHTER P., Atti e poteri amministrativi (tipologia), in Dizionario Amministrativo, Milano 1983, I, 357 ss.; VIRGA P., Il provvedimento amministrativo, Milano 1968. (41) Si rinvia, in proposito, a VACIRCA G., Incremento della tutela del privato?, in Autorità e consenso nell’attività amministrativa, Milano 2002, 189 ss. 346 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO strativa consensuale, ivi compresi gli accordi di programma ed altre variegate fattispecie in materia urbanistica (42). Lo scopo di tutti questi strumenti non è, ovviamente, quello di bypassare i principi dell’azione amministrativa, ma di coniugarli nella prospettiva propria della c.d. “amministrazione di risultato”. Il che, invero, equivale a dire che, anche quando l’art. 11 prevedeva che gli accordi sostitutivi potessero essere conclusi solo nei casi previsti dalla legge, l’interpretazione logico-sistematica della disposizione non poteva portare a ritenere che tali accordi potessero concludersi solo in presenza di una apposita norma “legittimante”. Affermare, infatti, che gli accordi sostitutivi potessero stipularsi solo in presenza di norme “speciali” significava privare la disposizione dell’art. 11 della sua forza di legge, ossia della sua capacità di costituirsi quale fonte dell’ordinamento, giacché la sua operatività si sarebbe limitata a quella di norma di principio priva di alcuna produzione di effetti giuridici, che, invece, sarebbero derivati direttamente e quasi esclusivamente dalla normativa “apposita”, di volta in volta, posta dal legislatore. Era, invece, ragionevole pensare che l’art. 11 ponesse fattispecie attinenti al principio di “consensualità” all’interno dei rapporti tra amministrazione e cittadino, ma che ciò si risolvesse in primo luogo nella possibilità di utilizzare strumenti “nuovi”, in grado di attagliare i contenuti della decisione sulla realtà concreta. In tale contesto trovava agevole sede il principio di tipicità alla stessa stregua di quanto previsto per i provvedimenti amministrativi: l’accordo sostitutivo, cioè, non doveva dar luogo ad una fattispecie “atipica”. Come si è già sopra rilevato, ne era conferma il fatto che l’accordo dovesse essere sottoposto agli stessi controlli previsti per il provvedimento sostituito, lasciando, cioè, (42) Aspetto evidenziato, per tempo, da CONTIERI A., La programmazione negoziata (la consensualità per lo sviluppo. I principi), Napoli 2000, 139 ss.; si veda, in proposito, la recente proposta di legge d’iniziativa dei deputati Mantini e Iannuzzi presentata il 27 giugno 2006 intitolata “Principi fondamentali in materia di governo del territorio”, ove, all’art. 8, verrebbero disciplinati gli accordi tra amministrazione e privati nella materia urbanistica. Nella presentazione del disegno di legge si afferma che “l’urbanistica «negoziata» o «consensuale » è parte innegabile dell’attuale esperienza dell’administration …: ma essa deve svolgersi nel contesto di principi di rango costituzionale e di competenza statale, quali la concorrenzialità, la par condicio, l’imparzialità amministrativa, la pubblicità delle scelte (con la conseguente partecipazione dei cittadini uti cives)”. Sono state fatte rientrare nell’alveo degli accordi amministrativi le seguenti fattispecie in materia urbanistica e edilizia: le convenzioni accessive nell’ambito dei piani di insediamenti produttivi (PIP), per cui, di recente, cfr. TAR Lombardia, Milano, sent. n. 6485/2004; le convenzioni edilizie, intese come accordo integrativo funzionale al permesso di costruire (cfr., tra le altre, TAR Toscana, I, 11 luglio 2000 n. 1627); le convenzioni di lottizzazione, intese, invece, come accordi sostitutivi (per cui si vedano: Cons. Stato, IV, 31 gennaio 2005 n. 222 e Cass., SS.UU., 17 gennaio 2005 n. 732); gli accordi (integrativi) al provvedimento di assegnazione p.e.e.p. (Cons. Stato, IV, 3 novembre 1999 n. 1657) e alcune altre (es. accordo accessivo a provvedimento di imposizione del vincolo diretto). DOTTRINA 347 intendere che, al di là dello strumento utilizzato (unilaterale o consensuale), la sostanza rimaneva la medesima. D’altro canto, analogo discorso avrebbe potuto essere condotto anche per gli accordi preliminari (o integrativi). I limiti apparentemente propri degli accordi sostitutivi, infatti, erano sostanzialmente ad essi connaturati: per quel che riguarda il regime dei controlli (ancorché oggi, fortemente ridimensionati in numero e in estensione), è chiaro che essi avrebbero avuto ad oggetto anche la parte di contenuto discrezionale concordata nel momento dell’adozione del provvedimento “recettivo” finale. La norma in esame, superando di slancio i noti problemi teorici affrontati soprattutto dalla dottrina circa l’ammissibilità o meno del “famigerato” contratto di diritto pubblico, ha, in definitiva, fornito una alternativa all’epilogo provvedimentale del procedimento. Un profilo fondamentale riguarda l’effetto deflattivo sul piano del contenzioso, peraltro, ormai ritenuto tipico delle fattispecie consensuali in ambito pubblicistico (43), che serve all’amministrazione per definire le questioni senza lasciare spazio a future liti in sede giudiziaria. Il limite fondamentale sembra, perciò, essere costituito dal principio di legalità. Esso opererebbe, in tesi, in sede unilaterale/autoritativa quanto in quella bilaterale/consensuale, consentendo all’amministrazione di agire in modo più efficiente ed efficace senza obliterare i principi fondamentali cui essa è, giuridicamente, legata. Nel contempo, ne discenderebbe coerentemente che gli accordi amministrativi debbano prefigurare uno scenario tipico con effetti “nominati” a pena di invalidità; e ciò perché non solo l’art. 11 pone il vincolo della realizzazione del pubblico interesse, ma anche perché il rapporto stesso che viene impostato nei confronti dei provvedimenti “esecutivi” o “sostituiti” appare chiaramente di biunivoca corrispondenza. 5. Legalità, tipicità e nominatività dei provvedimenti amministrativi. Dall’analisi fin qui svolta emerge la possibilità di considerare in modo unitario la categoria degli accordi procedimentali – permanendo, tra essi, soltanto una differenza strutturale e relativa ai “tempi” di operatività – in presenza di un tratto funzionale assolutamente omogeneo. Ma poiché tale “unificazione” spinge fatalmente a porre il confronto con lo strumento unilaterale, sembra il caso di sottoporre quanto appena affermato a verifiche più pregnanti e, in particolare, di far cenno ai principi di riferimento fondamentali dei provvedimenti amministrativi testé richiamati. (43) Soprattutto in ambito tributario il tema è oggetto attuale di un dibattito estremamente ricco. Per dare un’idea basti segnalare che ad esso sono stati dedicati due recentissimi convegni: il primo a Catania, il 14 e 15 settembre 2007 (“Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario”); il secondo a Pescara, il 5 ottobre, ponendo a confronto amministrativisti e tributaristi. 348 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Da questo punto di vista è anzitutto necessario chiedersi cosa si intenda quando ci si riferisce al principio di tipicità, ancora oggi (nonostante alcune voci dissenzienti (44)) ritenuto (ancora) proprio dei provvedimenti amministrativi e diretta propaggine del principio di legalità (45) – senza, tuttavia, che ciò determini tra essi identità reciproca (46) – che si esprime (44) In particolare, si veda CAVALLO B., Accordi e procedimento amministrativo, in Procedimento Amministrativo e diritto di accesso (Legge 7 agosto 1990 n. 241), Napoli 1991, 78. “... la negoziazione dell’interesse pubblico confluisce in un assetto pattizio espressione di una contrattazione tra le parti: decadenza e caduta del mito della tipicità del provvedimento amministrativo, che tradizionalmente aveva impedito, tra l’altro, la libera introduzione degli elementi accidentali, considerati ammissibili solo in quanto non ostativi all’affermazione, anche nel caso concreto, della tipicità dell’atto autoritativo”. (45) SATTA F., Principio di legalità e pubblica amministrazione nello Stato democratico, cit.; LEDDA F., La concezione dell’atto amministrativo e dei suoi caratteri, in Diritto amministrativo e giustizia amministrativa nel bilancio di un decennio di giurisprudenza, a cura di U. Allegretti – A. Orsi Battaglini – D. Sorace, Rimini 1987, 799: “La tipicità è strettamente correlata all’autorità dell’atto: e sembra corretto ricondurla al principio di legalità, secondo l’ordine di idee più largamente accolto in giurisprudenza e in dottrina”; sulle possibili declinazioni del principio di legalità, CERULLI IRELLI V, Lineamenti del diritto amministrativo, cit., 244, osserva che esso “si articola a sua volta in due principi, il principio della predeterminazione normativa del potere e delle modalità del suo esercizio (tipicità, legalità in senso stretto) e il principio del vincolo del fine”; GUASTINI R., Legalità (principio di), in Dig. disc. pubbl., IX, Torino 1994, 85 ss. distingue, a sua volta, con differente terminologia (ma in senso concettualmente equivalente) tra la legittimità e la legalità in senso stretto, intesa, quest’ultima, come “il precetto che esige che l’azione amministrativa imperativa sia fondata su di un idoneo titolo giuridico (su di una norma attributiva del potere)”. Quanto alla conformità alla legge, secondo lo stesso A., esso può assumere diverse carature: a) in senso “debolissimo” allorché concerne la compatibilità con la legge dell’atto; b) in senso “debole”, allorché l’atto medesimo sia dalla legge autorizzato; c) in senso “forte”, allorché l’atto abbia forma e contenuto predeterminati dalla legge; sul punto, BASSI N., Principio di legalità e poteri amministrativi impliciti, Milano 2001, 388 secondo cui “tipizzazione del potere amministrativo significa dunque tipizzazione da parte della legge di una certa risoluzione data in astratto ad un contrasto fra interessi individuali e interessi della collettività: contrasto che solo al ricorrere puntuale delle esigenze pubbliche cui è stata accordata preferenza potrà essere sciolto mediante una decisione unilaterale e imperativa da parte dell’Amministrazione e che viceversa, quando ciò non accada, dovrà inevitabilmente reperire altre – e meno traumatiche – forme di superamento”. (46) SAITTA F., Il potere cautelare della pubblica amministrazione. Tra principio di tipicità ed esigenze di tempestività dell’azione amministrativa, Torino 2003, 62-63: “Invero, il principio di tipicità viene sovente sovrapposto dalla dottrina a quello di nominatività ed al principio stesso di legalità, ancorché non possa porsi in dubbio che l’ampiezza prescrittiva di quest’ultimo implichi la tipizzazione del potere nei suoi elementi contenutistici”; secondo BASSI N. (Principio di legalità e poteri amministrativi impliciti, cit., 388) “tipizzazione del potere amministrativo significa dunque tipizzazione da parte della legge di una certa risoluzione data in astratto ad un contrasto fra interessi individuali e interessi della collettività: contrasto che solo al ricorrere puntuale delle esigenze pubbliche cui è stata accordata preferenza potrà essere sciolto mediante una decisione unilaterale e imperativa da parte dell’Amministrazione e che viceversa, quando ciò non accada, dovrà inevitabilmente reperire altre – e meno traumatiche – forme di superamento”. DOTTRINA 349 “nel senso di imporre la corrispondenza tra potere amministrativo e provvedimento” (47). Aquesta definizione corrispondono due corollari: il primo, che i provvedimenti sono tipici nel senso che sono soltanto quelli previsti dall’ordinamento e funzionali, a loro volta, alla realizzazione di un determinato interesse pubblico; il secondo, che ogni provvedimento tipico produce effetti nominati, creando una corrispondenza biunivoca ed ineludibile tra interesse da realizzare e “tipo” di atto da adottare a tal fine (48). Autorevole dottrina, al proposito, segnala come ciò non costituisca un limite rispetto all’attività, la quale, invece, è per sua intrinseca qualità “strutturata” in tal senso e a tale limite, peraltro, connaturata (49), dal che discenderebbero importanti conseguenze circa i margini e gli ambiti di discrezionalità (50). La legge, infatti, stabilisce “il tipo della statuizione”, “il tipo d’interesse che deve perseguirsi”, ma anche “concorre a individuare alcuni dati del problema – ed a fissare quindi alcune premesse della decisione – attraverso l’indicazione dei c.d. presupposti” (51). Spetta in primo luogo alla legge regolare i diversi schemi degli atti “determinandone praticamente gli elementi, così come vengono regolati diversamen- (47) MATTARELLA B.G., Il provvedimento, in Trattato di diritto amministrativo, I, Diritto amministrativo generale, Milano 2000, 716; BERGONZINI G., L’atto amministrativo, in Diritto amministrativo, Bologna 2005, 786: “Ai (soli) provvedimenti amministrativi la dottrina tuttora prevalente ritiene attribuibile il carattere della tipicità. Si intende con tale locuzione evidenziare che la pubblica autorità può produrre soltanto i tipi di vicende previste dalla legge; ciò in diretta derivazione dalla circostanza che, ancor prima, all’Amministrazione sono conferiti poteri tipici, ciascuno rispondente ad una funzione specifica, e non già un potere innominato di disporre”. (48) SANDULLI A.M., Diritto amministrativo, XV ed., Napoli 1989, 616: “I provvedimenti amministrativi sono … atti tipici. I tipi sono quelli previsti dall’ordinamento, e quelli soltanto; e ciascuno di essi è caratterizzato dalla funzione peculiare assegnatagli dall’ordinamento: la realizzazione dell’interesse pubblico specifico cui è preordinato … Quanto si è detto importa anche la nominatività dei provvedimenti amministrativi: a ciascun interesse pubblico particolare da realizzare corrisponde un tipo di atto perfettamente definito (esplicitamente o per implicito) dalla legge. L’azione amministrativa autoritativa si estrinseca cioè attraverso schemi tipici tassativi, scientificamente determinabili (e classificabili) in base all’ordinamento, i quali sono i vari tipi … di provvedimenti”. (49) GIANNINI M.S., L’interpretazione dell’atto amministrativo, Milano 1939, 262-263: “… la necessità di attuare un pubblico interesse non è mai un limite all’attività, ma il suo stesso contenuto; si tratta di una di quelle espressioni eufemistiche di cui abbonda il diritto amministrativo. Di fronte all’atto ciò ha importanza, perché il fine di pubblico interesse specifico, condizionando l’attività dell’organo, lega indirettamente anche l’atto, in quanto viene a determinare … un motivo dell’atto stesso”. (50) GIANNINI M.S., op. ult. cit., 264-265: “Ogni atto amministrativo risulta pertanto legato sempre nella competenza, nello scopo giuridico, e in uno scopo o motivo ultimo espresso in un pubblico interesse specifico. Gli altri elementi possono essere o no determinati dalla legge. Ciò che ha grande importanza è che la discrezionalità, in ogni caso, non esiste mai per tutti gli elementi dell’atto”. (51) LEDDA F., op. ult. loc. cit. 350 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO te il fine di pubblico interesse specifico dell’organo, i procedimenti e le situazioni giuridiche”(52). Attraverso il principio di tipicità, dunque, si determina non solo la figura di ciascun provvedimento amministrativo, ma anche gli stessi elementi che lo compongono, sicché il contenuto di ciascuno è ben delimitato (53). Si tratta, pertanto, di un principio la cui matrice di garanzia è ineludibile in quanto fondata sul rispetto dei diritti di libertà, che, a loro volta, tollerano di essere più o meno ridimensionati in vista di un interesse superiore della collettività, secondo, peraltro, una regola classica dei sistemi “a diritto amministrativo”. Tali diritti di libertà vengono garantiti, solitamente, a livello costituzionale, attraverso apposite riserve di legge o mediante la legge stessa nello specifico, il che costituisce la fonte della tipicità degli atti amministrativi e dei loro effetti nominati (54). Il principio di tipicità conosce, altresì, un aspetto “mediale” nel c.d. “principio di articolazione”, che è “la regola per cui deve esser possibile la conoscenza dei singoli momenti della formazione del provvedimento”, oggi, peraltro, garantito attraverso la disciplina del procedimento amministrativo (55). Proprio alla testé segnalata declinazione del principio di tipicità si collegano i valori che al procedimento si riconoscono, primo fra tutti, quello di consentire una decisione “ponderata” (rectius: “non aggravata” (56)), ossia “celere ed adeguata” (57). Non sembra, peraltro, superfluo osservare come ciò abbia determinato una differente lettura dello stesso principio di buon andamento (58), la cui (52) GIANNINI M.S., op. ult. cit., 268. (53) GIANNINI M.S., Atto amministrativo, in E.d.D., IV, Milano 1959, 165: “Il principio di tipicità ha per contenuto non solamente la predeterminazione normativa delle figure di ciascun provvedimento amministrativo, ma anche e principalmente la predeterminazione degli elementi che lo compongono, con la conseguente delimitazione positiva del contenuto di ciascuno di essi”. (54) GIANNINI M.S., op. ult. loc. cit.; BASSI N., op. ult. cit. (55) GIANNINI M.S., op. ult. loc. cit. (56) La lettura “sostanziale” del principio di non aggravamento di cui all’art. 1 u.c. della legge n. 241 del 1990 porta a ritenere non consentite le attività istruttorie obiettivamente ultronee e nel contempo a richiedere quelle che si rendessero necessarie, anche a scapito della efficienza sub specie di “rapidità” della decisione. Il principio, peraltro, non è, a nostro sommesso avviso, in contrasto con la nuova disciplina di cui all’art. 10-bis (“preavviso di rigetto”) in quanto il valore di “trasparenza” che viene assegnato alla “funzione procedimentale” in termini di conoscibilità della decisione e della sua completa ricostruibilità in termini logico- giuridici deve ritenersi sempre prevalente su quello della “efficienza” della decisione. (57) Cfr. art. 6 lett.b) della legge n. 241 del 1990, che tale compito attribuisce al responsabile del procedimento; AA.VV., L’analisi della pubblica amministrazione. Teorie, concetti e metodi, I, La Pubblica amministrazione e la sua scienza, a cura di R. D’Amico, Milano 2004; AA.VV., L’efficienza della pubblica amministrazione. Misure e parametri, a cura di M.V. Lupò Avagliano, Milano 2001. (58) AA.VV. (CARETTI-PINELLI-POTOTSCHNIG-LONG-BORRE’), La pubblica Amministrazione (Commentario della Costituzione, fondato da G. Branca e continuato da A. Pizzorusso: artt. 97-98), Bologna 1994. DOTTRINA 351 violazione costituisce una sicura fonte di responsabilità amministrativa e, nel contempo, di invalidità della decisione per quel che concerne il sindacato del giudice amministrativo sull’uso del potere discrezionale (59). Ne è discesa la creazione di un complesso “dualismo” tra legalità ed efficienza, ponendo all’attenzione degli studiosi una equazione risolta, infine, con l’espressione convenzionale di “amministrazione di risultato”, intesa come quella amministrazione che, nell’esercitare il potere, debba considerare, oltre ai profili della legalità in senso stretto e della legittimità, anche quelli relativi ai tempi, ai costi ed, in ultima analisi, ai risultati della decisione stessa, talora, ritenuti persino prevalenti (60). Nel contempo, la dottrina (61) ha segnalato in modo sempre più marcato la crisi della “legalità” e della legge (62) come fonte primaria (63), sia per ragioni intrinseche alle modalità, ai contenuti ed alla contingenza della più recente produzione legislativa (64), sia, in termini più generali, per la crescita di un diverso modus administrandi tenuto conto anche dell’avvento di uno smisurato “pluralismo” delle organizzazioni pubbliche e dell’esercizio di poteri amministrativi da parte di soggetti privati anche (e soprattutto) per quel che concerne i servizi pubblici (65). (59) In proposito, AA.VV., Il procedimento amministrativo fra riforme legislative e trasformazioni dell’amministrazione, Atti del Convegno Messina-Taormina, 25-26 febbraio 1988, a cura di F. Trimarchi, Milano 1990. (60) CAIANIELLO V., Principio di legalità e ruolo della Corte dei conti, in Dir. pubb., 1999, 920. (61) SCOCA F.G., Attività amministrativa, cit., 87 ss. (62) MARINO I.M., Profili interpretativi dell’autonomia comunale, in Aspetti della recente evoluzione del diritto degli enti locali, Palermo 2002, 67: “La legge … non può più assolvere il ruolo che ha assolto in passato, anzitutto come «principio di legalità», inteso secondo i suoi tradizionali significati. La tendenza non è, infatti, come pure si è sostenuto, all’ampliamento del principio di legalità, quanto piuttosto, a una sua riconsiderazione in senso restrittivo, particolarmente qualora lo si riconduca ancora esclusivamente alla legge”; in senso critico sulla c.d. “crisi della legalità”, ancora BASSI N., op. ult. cit. (63) CAPOTOSTI P.A., Verso una nuova configurazione del principio di legalità?, in AA.VV., Democrazia e amministrazione (in ricordo di V. Bachelet), Milano 1992, 133 ss., ove la crisi della “classica concezione garantistica del principio di legalità” viene letta, tra l’altro, in un’ottica di più ampio respiro; secondo l’A., infatti, “questa fenomenologia … non si può ritenere esclusiva dell’area dell’amministrazione pubblica, ma ha una portata molto più ampia, perché sembra investire l’intero ordinamento, se è vero che è facilmente una tendenza sempre più accentuata alla formazione negoziale del diritto. Con l’avvento del «Welfare State» è andato infatti emergendo un modello «neocontrattualistico», nel quale il diritto sembra operare, anziché come tecnica di controllo e di direzione ab externo dei comportamenti sociali, piuttosto come modello di agevolazione dei processi di regolazione consensuale dei conflitti sociali” (p. 134). (64) BERTI G., Diffusione della normatività e nuovo disordine delle fonti del diritto, in Riv. dir. priv., 2003, 5 ss. (65) Il dibattito sul ruolo dei servizi pubblici in seno all’ordinamento è ripreso, di recente, da MARINO I.M., Effettività dei servizi pubblici ed evoluzione dei sistemi «a diritto amministrativo», in Diritto e processo amministrativo, n. 1/2007, 35 ss., secondo il quale, 352 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Viene infatti, in proposito, di recente osservato come l’apprezzamento dei profili sostanziali dell’azione amministrativa in proiezione funzionale non conduca solo alla valorizzazione di aspetti attinenti al risultato, ma anche di ciò che lo precede in termini di scopo pubblico e di concreta sua realizzazione (66). La “svolta”, per così dire, è la crescente consapevolezza che i profili dell’efficienza amministrativa e dell’economicità delle scelte passano attraverso un diverso modo di amministrare (67), non più legato ai tradizionali canoni della “legalità”, intesa come potere trascendente ed in grado di imporsi dall’alto, forte del ruolo di (unico) interprete dell’«effettivo» interesse pubblico, bensì proiettato in ambiti (più o meno) contrattualistici e/o consensuali, dai quali è disceso un differente modo di intendere il principio di effettività (68). 6. Profili di differenziazione tra la tipicità dei contratti e dei provvedimenti. Sulla scorta di quanto appena rilevato sembra adesso il caso di procedere ad alcune precisazioni e considerazioni. “la crescita progressiva dell’agire amministrativo per servizi, per le nuove funzioni amministrative qualificate come utilità da rendere alla collettività, si è tradotta in termini giuridici, non soltanto nella trasformazione del potere discrezionale in dovere discrezionale, ma anche in mezzi espressivi dell’amministrazione secondo forme pari ordinate ai diritti dei cittadini” (p. 44). (66) MARINO I.M., op. ult. cit., 57: “In sintesi, il diritto apprezza, oggi, diversamente che nel passato, gli aspetti sostanziali dell’agire nell’interesse pubblico e ciò si traduce non soltanto nell’apprezzamento giuridico del risultato, ma anche nell’apprezzamento giuridico di ciò che precede il risultato: dovere di coltivare lo scopo pubblico (missione di servizio pubblico o funzione) ed, altresì, in ciò che concretizza il risultato: qualità giuridica degli obblighi assunti nei confronti dell’utenza, in modo da conseguire effettivamente ed efficacemente il risultato”. (67) ROMANO TASSONE A., Sulla formula «amministrazione per risultati», in Studi in onore di Elio Casetta, Napoli, 2001, 813 ss.; IANNOTTA L., Principio di legalità e amministrazione di risultato, in Amministrazione e legalità, a cura di C. Pinelli, Milano 2000, 37 ss. (68) In proposito, tra gli altri, CAPOTOSTI P.A., op. ult. cit., 135-136: “La crisi del principio di legalità sembra dunque derivare dall’affermarsi di un contrapposto principio di effettività, scaturente dalla progressiva espansione del modello «neocontrattualistico», che rende comprensibile la graduale erosione del momento autoritativa nel processo di formazione del diritto …. La tendenza alla «procedimentalizzazione» dell’attività amministrativa può essere uno degli indicatori del mutamento strutturale di certi atti dei pubblici poteri da atti a struttura sostanzialmente unilaterale ad atti a struttura sostanzialmente bilaterale, in quanto «concordati» con gli interessati”; MARINO I.M., Profili interpretativi…, cit., 68: “Il principio di legalità, nella sua evoluzione storica correlata al principio di democraticità, ha finito con l’assicurare la funzionalizzazione agli scopi ed agli interessi pubblici di ogni momento autoritativa e di supremazia previsto dall’Ordinamento. Il principio viene battuto in breccia dalla sempre più percepibile e vasta tendenza alla pari ordinazione fra pubblico e privato, dall’evoluzione dell’azione amministrativa, che si caratterizza per trasferire progressivamente la tradizionale centralità dell’atto provvedimentale, prima al procedimento e quindi all’attività, alla gestione, al risultato”. DOTTRINA 353 Anzitutto, occorre ricordare che il concetto di atipicità presenta un carattere necessariamente relazionale, risolvendosi, in ultima analisi, in un giudizio di conformità rispetto ad una fattispecie prevista dalla legge: ne consegue che è tipico quell’atto giuridico, il quale, pur frutto della volontà di uno o più soggetti dell’ordinamento, trovi un punto di corrispondenza, una matrice indissolubile diremmo, in una norma giuridica di rango legislativo. Se questo è il tratto essenziale del concetto di tipicità (riferibilità, in senso lato, alla legge come “modello”), non appare fuor di luogo osservare come esso si presenti con latitudini e sfumature diverse ove riportato specificamente al campo del diritto privato e a quello del diritto amministrativo. Nella “versione privatistica”, vige la regola della “atipicità” rispetto al modello legale; quest’ultimo, cioè, funge da punto di riferimento fondamentale (69), ma non vincola le scelte dei singoli contraenti e la loro “comune intenzione” riguardo ad un determinato assetto di interessi da riversare in un negozio vincolante inter partes (c.d. “funzione normativa dell’autonomia privata”) (70). L’esercizio della c.d. “autonomia negoziale”, pertanto, si esprime sia nell’adesione al modello tipico sia nel suo abbandono in tutto o in parte (71). La semplice difformità dal modello di riferimento previsto dalla legge (o, più specificamente, dal codice civile (72)) non determina ex se la invalidità dell’atto giuridico prodotto dalla volontà dei soggetti interessati, che, invece, discende da una valutazione dei fini che l’atto stesso si propone di conseguire. Il contratto di diritto privato, in definitiva, ancorché “atipico” perché non inquadrabile in fattispecie già previste e regolate, è egualmente valido laddove diretto a “realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamen- (69) GAZZONI F., Manuale di diritto privato, Napoli, 1994, 763: “In sostanza il legislatore appronta una serie di tipi contrattuali che non sono, come è stato osservato, inventati a tavolino ma sono la continuazione dei tipi romani a cui si sono aggiunti una serie di tipi nati dalla pratica commerciale. Il tipo legale, pertanto, corrisponde o intende corrispondere all’id quod plerumque accidit, a ciò che di regola accade, senza alcuna pretesa di racchiudere in sé la sintesi degli interessi socialmente utili”. (70) TRABUCCHI A., Istituzioni di diritto civile, Padova 1998, 640: “Le parti possono seguire uno degli schemi previsti e regolati dalla legge (contratti nominati o tipici), e la funzione della volontà privata è quella di adeguare la fattispecie allo schema della norma; ma possono anche concludere contratti che non trovano un’espressa disciplina nella legge (contratti innominati o atipici) e più netta si vede la funzione normativa dell’autonomia privata”. (71) TRABUCCHI A., op. ult. cit., 641: “I contratti innominati sono sottoposti alla disciplina dei contratti analoghi ove esista la eadem legis ratio. Alle volte però i contratti che non riproducono lo schema di un contratto nominato rappresentano la riunione in un unico atto di elementi di più tipi contrattuali, volendo le parti perseguire insieme le cause di diversi contratti nominati; si parla in tale ipotesi di contratto misto”. (72) GAZZONI F., op. ult. loc. cit.: “Il tipo legale altro non è se non un astratto schema regolamentare che racchiude in sé la rappresentazione di una operazione economica ricorrente nella pratica commerciale”. 354 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO to giuridico”, quando presenti, in definitiva, una causa lecita ex art. 1343 del codice civile (73). Questa sorta di “doppio vaglio” (giudizio di conformità rispetto al modello tipico e di meritevolezza degli interessi perseguiti (74)), dal quale dipende la possibile invalidità del contratto atipico, è, invece, sconosciuto in ambito pubblicistico, dove la semplice difformità dal modello legale è già, di regola, causa di invalidità del provvedimento amministrativo. Ciò consente di affermare, anzitutto, che la relazione tra il modello legale tipico e la fattispecie concreta deve rivelare una corrispondenza effettiva e inderogabile: il provvedimento, infatti, è frutto di un procedimento le cui forme – salve le eccezioni di cui all’art. 21-octies (75) – vanno sempre osservate, presenta un contenuto che è in tutto o in parte predeterminato (a seconda che il potere sia vincolato o discrezionale (76)) e deve essere coerente con (73) MESSINEO F., Contratto (dir. priv.), in E.d.D., IX, Milano 1961, 784 ss.,: “L’elemento «causa» è presente nel contratto, perché ve lo introduce il diritto positivo (art. 1325, n. 2 e 1343-44 c.c.), ancorché senza fornirne il concetto: con la conseguenza che, in difetto di causa, il contratto è nullo, come si ricava dal comma 2 dell’art. 1418 c.c. Il che porta a qualificare la causa, come elemento essenziale del contratto” (p. 825-826); TORRENTE A. – SCHLESINGER P., Manuale di diritto privato, Milano 1985, 508: “…. Le parti possono anche concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare (si parla in tal caso di contratti «atipici» o «innominati» …), purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”; fondamentale è, da questo punto di vista l’esigenza di una causa lecita ex art. 1343 c.c., che per i contratti atipici o innominati “deve riguardare non solo il contenuto concreto dell’accordo, ma pure lo stesso schema generico della pattuizione”; TRABUCCHI A., Istituzioni di diritto civile, XXXVIII, Padova 1998, 640: “Le parti possono seguire uno degli schemi previsti e regolati dalla legge (contratti nominati o tipici), e la funzione della volontà privata è quella di adeguare la fattispecie allo schema della norma; ma possono anche concludere contratti che non trovano un’espressa disciplina nella legge (contratti innominati o atipici), e più netta si vede la funzione normativa dell’autonomia privata”; BIANCA C.M., Diritto Civile, III, Il contratto, Milano 1998, 449-450: “Il contratto innominato è il contratto che non rientra in un dato tipo legale. La possibilità di stipulare contratti innominati è espressamente prevista in sede di riconoscimento normativo dell’autonomia contrattuale. Nell’esercizio di tale autonomia le parti possono infatti stipulare contratti che non rientrano nei tipi legali purché diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”; GAZZONI F., op. cit., 766 ss. (74) TRABUCCHI A., op. ult. cit., 640: “L’interesse perseguito dalle persone che concludono un contratto atipico dev’essere meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Al generale requisito della causa del contratto nominato corrisponde appunto, nei contratti innominati, la presenza della meritevolezza degli interessi perseguiti”. (75) Ci si riferisce – è appena il caso di precisarlo – alla norma contenuta nel nuovo capo IV-bis della legge n. 241/1990, introdotto dall’art. 14 della legge 11 febbraio 2005 n. 15. (76) In proposito è appena il caso di rinviare alle risalenti e tuttora validissime riflessioni di OTTAVIANO V., in Studi sul merito degli atti amministrativi, in Annuario di diritto comparato e di studi legislativi, XXII, fasc. 3, Roma 1947, ora in Scritti giuridici, I, Milano 1992, 270: “Libertà nel campo del diritto non può significare altro che indifferenza dell’ordinamento giuridico per il contenuto di una data azione .. ora, è impossibile parlare di una DOTTRINA 355 il vincolo della funzione e, più specificatamente, degli effetti per i quali la legge ha costituito il modello tipico. Non si tratta, però, di un sistema ove è assente il giudizio di meritevolezza degli interessi perseguiti, nel senso che, una volta accertata la conformità dell’atto amministrativo al modello, non sia possibile che questo, egualmente, risulti invalido ove il suddetto giudizio dia esito negativo. Il vincolo della funzione fa sì che, al di là del modello tipizzato, la produzione di effetti giuridici si traduca nella realizzazione, secondo ragionevolezza, degli interessi pubblici (77). Di regola, non è possibile ottenere la realizzazione dell’interesse pubblico attraverso un atto atipico, perché, ancor prima del giudizio di meritevolezza sull’interesse, diventa decisiva la difformità dal modello previsto dalla legge. Diversamente che nel diritto privato, dove la regola è quella della autonomia negoziale frutto della generale capacità giuridica, nel diritto amministrativo la tipicità del modello è, infatti, strettamente collegata alla attribuzione di potestà ed, in ultima analisi, ai poteri che l’amministrazione può esercitare nei confronti degli altri soggetti dell’ordinamento. Esiste – lo si è appena ricordato – anche in campo pubblicistico una valutazione di meritevolezza dell’interesse effettivamente perseguito, ma questo presuppone – a differenza dell’ambito privatistico – in ogni caso la conformità al modello tipico dell’atto giuridico posto in essere e una stretta correlazione con gli effetti prodotti. Nella moderna accezione di “legalità in senso sostanziale” – connessa alla elaborazione del vizio di eccesso di potere – non è, infatti, sufficiente la tipicità dell’atto a garantirne la immunità da vizi invalidanti (in questo caso sub specie di annullabilità), giacché, laddove l’interesse effettivamente realizzato non sia corrispondente perché contrastante con le finalità pubbliche connesse alla attribuzione del potere, l’atto stesso sarà invalido. In estrema sintesi sembra possibile affermare che la differenza nella rilevanza, sul piano della validità dell’atto giuridico, del concetto di tipicità in ambito privatistico e pubblicistico, stia nella sua valicabilità nel primo caso, con il solo limite della liceità della causa, e nella sua invalicabilità nel secondo. sfera di libertà, così intesa, degli organi della pubblica Amministrazione. È evidente, come si è di già notato, che ogni organo amministrativo deve svolgere una attività che corrisponda alla funzione assegnatagli in seno all’organizzazione amministrativa”. (77) È la versione più nota del principio di imparzialità con il correttivo del principio di proporzionalità di matrice comunitaria, che, di fatto, richiede all’amministrazione di essere in grado di considerare nel complesso tutti gli interessi pubblici e privati presenti in un determinato contesto, per poi trovare ad essi un assetto compatibile con il vincolo della funzione. Ciò determina due conseguenze fondamentali, ossia: a) per quel che riguarda il rapporto interesse pubblico/interesse privato, la possibilità di realizzare i primi tenendo conto della compresenza dei secondi, che, dunque, non possono essere sacrificati al di là dello stretto necessario; b) per quel che riguarda il rapporto fra gli interessi pubblici, essi devono essere anzitutto coordinati con strumenti di semplificazione primo fra tutti la conferenza dei servizi, per poi essere, ove possibile, classificati in primari, secondari, eccetera. 356 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Questa differenza di fondo discende essenzialmente dal fatto che il diritto privato muove dal principio della intangibilità della volontà negoziale e della tutela dei contraenti, i quali – in astratto – stanno su un piano di parità (78). Al contrario, nel diritto amministrativo, il principio di legalità, con i suoi corollari della tipicità e della nominatività, contempera l’interesse prioritario di livello pubblicistico con quello dei soggetti destinatari dell’attività amministrativa, riequilibrando, almeno parzialmente, un rapporto che, invece, è fisiologicamente squilibrato (79). Ogni difformità dallo schema legislativo viene, così, ritenuta potenzialmente capace tanto di violare i diritti di libertà del soggetto privato, quanto di mettere a repentaglio la finalità pubblica che giustifica l’esercizio del potere amministrativo in via autoritativa. Alla base di questa differenza vi è, con sufficiente probabilità, anche la diversa caratura delle situazioni giuridiche soggettive coinvolte dall’atto giuridico posto in essere. (78) MESSINEO F., Contratto (dir. priv.), cit., 805: “Dal dato che il contratto è istituto giuridico privatistico, discende il principio della pariteticità (o parità) fra i contraenti; non si concepisce che fra soggetti, i quali perseguono tutti finalità di ordine particolare, uno di essi fruisca di una situazione giuridica di poziorità, ossia di privilegio, così da poter prevalere sull’altro”. Da ciò discendono conseguenze fondamentali, ossia: 1) tutti i contraenti sono soggetti alla medesima disciplina; 2) nessuno può imporre unilateralmente all’altro (o agli altri) una certa disposizione; 3) l’inadempiente è esposto ad esecuzione forzata solo ove la controparte (o le controparti) abbia(no) dato corso alle proprie obbligazioni. L’A., osserva, poi, che, di regola, alla parità giuridica si accompagna anche quella economica “nel senso che quando il contratto sia a titolo oneroso .., il sacrificio dell’uno deve pareggiare quello dell’altro contraente” (c.d. “equilibrio contrattuale”). (79) Meritano, su questo argomento, di essere brevemente ricordati alcuni spunti di riflessione di BIANCA C.M., Relazione di sintesi, in I comportamenti della pubblica amministrazione, Atti del Convegno di Catania, 17 e 18 novembre 2006, a cura di A. Cariola, G. D’Allura e F. Florio, Torino 2007, 223; l’illustre studioso, infatti, ricorda che, nell’ambito del diritto privato è centrale la figura della «persona» “non solo nei suoi diritti fondamentali , ma anche nei suoi diritti soggettivi. Questa è l’essenza del diritto privato. Un diritto che viene chiamato, ed è, un diritto dei comuni rapporti giuridici, ma che garantisce proprio per questo una normazione basata sul principio di eguaglianza. Questa eguaglianza è compatibile con la posizione di supremazia della pubblica amministrazione? … i privilegi vantati dalla pubblica amministrazione, in tanto sono giustificati in quanto siano funzionali al conseguimento della finalità dell’interesse pubblico, non invece quando questa finalità può essere perseguita senza il ricorso a posizioni di supremazia. Se il perseguimento di queste finalità richiede l’esercizio di poteri autoritari, evidentemente il diritto privato arretra”. Dalle superiori riflessioni si ricavano, in essenza, le ragioni della divaricazione di disciplina tra le due fondamentali branche dell’ordinamento giuridico: mentre nel primo caso il rapporto si instaura in ragione ed in funzione dell’eguaglianza tra le parti, nel secondo, laddove vi è la presenza di interessi pubblici, il loro raggiungimento si manifesta all’amministrazione in termini di doverosità con una impellenza che legittima la modifica unilaterale delle singole sfere giuridiche soggettive dei destinatari dell’esercizio del potere funzionalizzato; il che nel diritto privato è totalmente inammissibile se non in casi del tutto eccezionali, comunque non comparabili. DOTTRINA 357 In ambito privatistico campeggia la figura del diritto soggettivo, la cui ricchezza di contenuti (e la indiscussa risarcibilità) hanno fatto sì che assumesse rilevanza fondamentale il controllo di liceità. Analogo problema non può dirsi si ponga con riferimento all’interesse legittimo, situazione giuridica soggettiva (tuttora) (80) controversa che corrisponde e, in un certo qual modo, si genera dal rapporto con il potere autoritativo, che si risolve, concettualmente, in una pretesa giuridicamente protetta alla legittimità dell’azione amministrativa (81) la cui caratura sostanziale è desumibile dalla norma attributiva e regolativa del potere (82). L’imbarazzo che ha fatto seguito alla ammessa risarcibilità dell’interesse legittimo ed il connesso problema della c.d. “pregiudizialità” deriva, infatti (al di là della sua attuale progressiva risoluzione (83)), proprio dalla diffi- (80) ROMANO TASSONE A., Situazioni giuridiche soggettive (Diritto amministrativo), in E.d.D., Agg. II, Milano 1998, 966 ss.; più di recente, in relazione anche alla riforma del procedimento del 2005, lo stesso A. evidenzia il venire in essere di una prospettiva relazionale multi-laterale (e non più bi-laterale) attraverso la quale “sembra di poter superare la tesi secondo cui diritto soggettivo e interesse legittimo, in quanto consentono la realizzazione di pretese diverse, non possono avere ad oggetto il medesimo interesse, ma debbono necessariamente attenere l’uno all’interesse materiale di base di cui il cittadino è portatore, e l’altro ad un diverso interesse collegato strumentalmente al primo”, dal che ne discende che “la realizzazione dell’interesse considerato non è dunque più indispensabile perché esso risulti oggetto di diretta protezione giuridica, ma è sufficiente, per questo, che essa sia solo possibile, e sottoposta alla condizione che l’interesse in questione risulti in concreto da premiare nel confronto … con gli altri interessi contemplati dall’ordinamento” (cfr. Giudice amministrativo e interesse legittimo, cit., 284). (81) CANNADA-BARTOLI E., La tutela giudiziaria del cittadino verso la pubblica amministrazione, Milano 1964, 44 ss., spec. 68: “Configurare l’interesse legittimo come interesse alla legittimità significa rifiutare le suggestioni provenienti dal diritto soggettivo e che, in quanto inducono a costruire l’interesse legittimo come interesse ad un bene sostanziale diverso dalla legittimità, favoriscono un eccessivo avvicinamento dell’interesse de quo al diritto soggettivo con la conseguenza di restringere l’ambito dell’interesse stesso”. Si osservi come tale prospettiva “tradizionale” venga oggi rivisitata (cfr. nota precedente) in un’ottica che porta ROMANO TASSONE A., op. ult. cit., a parlare, infine, di una “situazione giuridica soggettiva fondamentale (definibile, se si vuole, come «interesse legittimo in senso ampio»), che si riscontra ogni qual volta l’ordinamento non determina la soluzione sostantiva del conflitto sociale, ma si limita a predisporre i congegni per la sua soluzione” (p. 285). (82) NIGRO M., Giustizia amministrativa, Bologna, 1983, cap. IV, spec. 141 ss.: “Se l’interesse legittimo è un interesse incluso nella norma organizzativa insieme con l’interesse pubblico alla cui soddisfazione è rivolto il potere, ed è protetto al pari di tale interesse, la individuazione dell’interesse legittimo dev’essere compiuta esclusivamente alla luce della norma regolativa del potere e delle altre norme che ad essa si collegano… il procedimento amministrativo è il luogo ideale di emersione degli interessi legittimi, i quali in esso si rivelano e prendono le distanze dall’interesse pubblico, ed è, corrispondentemente, la fonte migliore di individuazione di tali interessi”. (83) Da ultimo, si veda VILLATA R., Pregiudizialità amministrativa nell’azione risarcitoria per responsabilità da provvedimento?, in Dir. proc. amm., 2007, 271 ss., al quale si rinvia anche per gli opportuni richiami bibliografici e giurisprudenziali. 358 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO coltà di riportare in un ambito di liceità ciò che è sempre stato visto in termini di legittimità. Questa chiave consente anche di spiegare le ragioni della non annullabilità (seppure in via d’eccezione), dell’atto invalido affetto da vizi di forma ai sensi del comma 2 dell’art. 21-octies. La scissione tra la invalidità in virtù della difformità dal modello legale (in termini di forma e di contenuto) e la “effettiva” annullabilità – ossia la potenziale esposizione all’azione di annullamento del provvedimento e la concreta possibilità di una pronuncia giudiziale costitutiva in tal senso – in ragione dei riscontrati vizi di legittimità è connessa a due presupposti: da un lato, il raggiungimento dello scopo, dall’altra, la assenza di un interesse contrapposto, meritevole di protezione e, dunque, di tutela nella sede processuale. 7. I rapporti tra le categorie del provvedimento amministrativo e dell’accordo procedimentale. Conferma della appartenenza degli accordi al campo del diritto pubblico. Quanto sopra fornisce ulteriore argomento (84) per ribadire l’idea che, pur essendovi, sul piano delle forme e della struttura degli accordi procedimentali, un indubbio richiamo allo schema contrattuale, tale schema sia altresì con altrettanta evidenza innestato in un contesto di caratterizzante portata pubblicistica. In premessa, è stato osservato come il problema della tipicità/atipicità sia strettamente collegato a quello della appartenenza al diritto pubblico o privato. Si tratta, quindi, di comprendere cosa si intenda per “tipicità” in questo specifico caso, poiché si è visto chiaramente che il modello adottato a parametro (contratto/provvedimento) diventa immediatamente decisivo per il regime da applicare. Ove si volesse adottare una prospettiva privatistica – astrattamente concepibile in ragione del richiamo “integrativo” alla disciplina contrattuale contenuto nella norma che si esamina – occorrerebbe, coerentemente, prendere in considerazione i principi in materia di obbligazioni e contratti, con la conclusione che la tipicità/atipicità degli accordi contenuti nell’art. 11 della legge n. 241 del 1990 andrebbe “misurata” rispetto alle specifiche fattispecie contrattuali previste dalla legge o dal codice civile, ponendo il solo limite di liceità della causa. Una siffatta costruzione, tuttavia, non troverebbe collocazione alcuna alla disposizione (imperativa) che richiede il perseguimento dell’interesse pubblico; in secondo luogo, sarebbe ben strano che si imponesse alle parti quello che appare evidentemente un vincolo finalistico funzionale, tale da creare uno squilibrio tra gli interessi che è voluto dalla norma stessa – al punto da consentire il recesso unilaterale, seppure per sopravvenuti motivi di (84) Per altre riflessioni circa la natura degli accordi procedimentali – come si è già detto – si rinvia, per brevità, al nostro Gli accordi procedimentali, cit., passim. DOTTRINA 359 pubblico interesse – e che è, invece, “giustificabile” solo in un’ottica pubblicistica, dove questa “disuguaglianza” – come si è visto in precedenza – è un fatto ordinario (ancorché, se si vuole, discutibile (85)). Per questa ragione non appare eccessivo ritenere che tale vincolo permei l’accordo ed in particolare la sua causa, tanto se per essa vogliamo intendere la funzione obiettiva che allo strumento consensuale viene affidata dall’ordinamento quanto (e, forse, soprattutto) la “ragione concreta del contratto” (86). Si potrebbe, in alternativa, sostenere che la necessità di perseguire l’interesse pubblico non debba essere riportata all’elemento causale. L’impostazione che sembra più convincente da questo punto di vista muove dal riconoscimento agli accordi della natura pubblicistica: essi, ciononostante, presenterebbero una matrice transattiva – dalla quale discenderebbe l’assegnazione di una causa come funzione economica-sociale del contratto – alla quale si accompagnano, in senso aggiuntivo e non sostitutivo, le ordinarie regole di esercizio del potere di cui il vincolo funzionale costituisce la “causa” (87). (85) MARINO I.M., Effettività dei servizi pubblici…, cit., 61: “In realtà ci si è attardati sino al limite del buon senso in un diritto amministrativo costruito sui moduli autoritari e unilaterali del secolo scorso: nel diritto amministrativo dello Stato monoclasse, dello Stato borghese, dello Stato di diritto elitario ed indifferente ai bisogni della gran parte della propria collettività. Non mi pare più il caso di esprimersi con eufemismi per contrastare con forza i tentativi di riproporre tralatiziamente i simulacri del diritto amministrativo dell’800, come pure per contrastare con forza i tentativi, ben più suggestivi e pericolosi, di costruire un nuovo simulacro di diritto amministrativo sul piedistallo delle nuove «autorità»: del mercato, dell’aziendalizzazione, del nuovo centralismo, delle nuove èlites, delle lobbies”. (86) BIANCA C.M., Diritto Civile, III, Il contratto, Milano 1998, 425: “… la nozione di causa quale funzione pratica del contratto può avere una sua rilevanza solo in quanto si accerti la funzione che il singolo contratto è diretto ad attuare …. Ricercare la funzione pratica del contratto vuol dire, precisamente, ricercare l’interesse concretamente perseguito. Non basta, cioè, verificare se lo schema usato dalle parti sia compatibile con uno dei modelli contrattuali ma occorre ricercare il significato pratico dell’operazione con riguardo a tutte le finalità che – sia pure tacitamente – sono entrate nel contratto”. (87) GRECO G., Il principio di legalità…., cit.: “Ma se l’accordo assume una funzione transattiva, si potrebbe pensare che risulti violato lo schema legale, che impone che nell’esercizio del potere l’Amministrazione debba perseguire sempre e comunque l’interesse pubblico ad esso correlato, come del resto è ribadito anche dal 1° comma dell’art. 11. E tale deroga risulterebbe evidente se si seguisse la diffusa opinione, secondo la quale l’interesse pubblico costituisce anche la causa dell’accordo ex art. 11: la funzione transattiva, seppure non incompatibile con l’interesse pubblico primario connesso alla intestazione di ciascun potere amministrativo, è indubbiamente qualcosa di ben diverso dall’interesse pubblico medesimo, né certo si esaurisce in esso. Sicché si potrebbe pensare, alternativamente, o che gli accordi transattivi non siano consentiti, ovvero che essi siano consentiti, a patto che si ammetta una deroga o un adattamento dell’interesse pubblico, facendolo coincidere con lo scopo transattivo. Ma in realtà né l’una né l’altra implicazione sono necessarie. Infatti non è affatto vero che l’interesse pubblico, pur normativamente previsto ai fini della validità e ai fini della persistente efficacia – in quanto gli accordi possono essere superati da un recesso “per sopravvenuti motivi di interesse pubblico” (art. 11, c. 4) – costituisca la causa del360 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La “scissione” dell’interesse pubblico dalla causa dell’accordo, pur suggestiva e proposta autorevolmente, è, tuttavia, più apparente che reale, nel senso che essa serve a distinguere, all’interno delle fattispecie in esame – certamente ibride comunque le si osservi (si è detto, infatti, che vi è certamente una commistione tra schema contrattuale ed esercizio di potere amministrativo) – il profilo interno (quello legato alla “effettiva” volontà delle parti) da quello esterno (il “quadro” pubblicistico nel quale gli accordi vanno ad inserirsi). A ben vedere, è però difficile immaginare che la “comune intenzione” delle parti possa davvero esprimersi in termini di autonomia contrattuale, condizionata com’è da un vincolo che stabilisce i confini stessi della negoziazione (88). Aprescindere, se si vuole, dall’innesto, all’interno della causa, dell’interesse pubblico, resta, cioè, evidente la abnormità e certamente anche l’anomalìa di un contratto che muove da un imperativo categorico, da un dover essere che impone uno sbilanciamento a favore dell’interesse rappresentato dalla parte pubblica, il quale deve essere ineludibilmente realizzato. Astrattamente è possibile sostenere, dunque, che la causa sia quella propria del contratto e che l’interesse pubblico, in varia misura, resti esterno a questo profilo, con l’ulteriore divaricazione tra chi fa derivare da questa impostazione la natura giuridica “privatistica” dell’accordo e chi invece, lo inquadra egualmente in un’ottica pubblicistica. La differenza tra queste due ulteriori divaricazioni è, in effetti, meno netta di quanto possa apparire a prima vista: entrambe, cioè, scindono il profilo “pubblicistico” (recesso, tutela dei terzi, ecc.) da quello “privatistico”, sottolineando in misura più o meno marcata la prevalenza dell’uno o dell’altro. Il problema nasce – come si diceva – dalla natura ibrida degli accordi, a metà strada tra provvedimento e contratto: non sono paragonabili ai primi l’accordo. E ciò per la saliente ragione che la “causa” – intesa come funzione economicasociale del contratto – non può che essere comune alle parti e pertanto non può consistere nell’interesse pubblico, di cui è portatrice la sola amministrazione e, dunque, una soltanto delle parti. Ne deriva che non sussistono ostacoli a che gli accordi possano assumere funzione transattiva e che questa – e non l’interesse pubblico – sia la vera causa, in senso giuridico, degli accordi medesimi. Il che non significa affatto che l’interesse pubblico sia irrilevante. Se, infatti, si condivide quanto sopra riferito – e, cioè, che negli accordi l’Amministrazione conserva i canoni propri dell’esercizio del potere – si dovrà anche convenire che l’interesse pubblico conserva il suo consueto ruolo di “causa del potere” – con tutte le conseguenze invalidanti, in caso di sviamento, mancata considerazione degli interessi secondati, ecc. – e rileverà come tale e non come “causa dell’accordo”, che va, determinata in modo autonomo e che costituisce un canone (civilistico) aggiuntivo e non sostitutivo del primo”. (88) Come ricorda GAZZONI F., op. ult. cit., 763, anche nei contratti “tipici” esiste una parte derogabile ed una inderogabile “a seconda che l’ordinamento ritenga necessario tutelare alcuni o altri aspetti della vicenda anche contro la volontà dei contraenti ovvero presuma che una data disciplina sia conforme al loro interesse, ammettendo così, in caso contrario, la possibilità che essi dettino una regola difforme”. DOTTRINA 361 perché la volontà non è unilaterale (e nemmeno autoritativa), non appartengono ai secondi, perché l’autonomia negoziale – al di là della causa – è soggetta ad una serie di limiti (culminanti con il vincolo dell’interesse pubblico che sembra riassumerli tutti) tali da pregiudicarne l’effettivo esercizio. Per “salvare”, in particolare, l’impostazione “privatistica”, si deve non solo espungere l’interesse pubblico dalla causa, ma lo si deve porre su un piano strettamente attinente all’esercizio del potere, ossia “preliminare” all’atto amministrativo di adesione. Se così fosse, però, la disposizione dell’art. 11 che tale vincolo funzionale pone sarebbe del tutto ultronea: persino quando l’attività amministrativa è di tipo non autoritativo e/o di stampo privatistico, non vi è alcuno che dubiti del fatto che essa debba rivolgersi ad un fine pubblico. La verità è che la disposizione in esame non si limita ad un richiamo di principio, ma pone una regola normativa che, da questo punto di vista integra e, ove necessario, sostituisce, la funzione (anch’essa, come è noto, normativa) dell’autonomia negoziale. Dunque, la comune intenzione delle parti non può prescindere dal vincolo funzionale a pena di mettere a repentaglio l’intero accordo: da un lato, infatti, l’amministrazione non potrebbe accedervi; dall’altro, le parti sarebbero colpite dalla sua invalidità. Tutto ciò per tacere del fatto, più generale e ab initio evidenziato, che l’accordo non è pensato affatto per regolare i rapporti economici tra le parti (89) , ma per meglio perseguire l’interesse pubblico in alternativa al provvedimento. Se, invece, si trattasse di una transazione (o di un contratto di compravendita, ad es., come si è ritenuto nel caso della cessione volontaria del bene espropriando), l’accordo null’altro sarebbe che una duplicazione – e forse anche una “complicazione” – di un già esistente schema contrattuale, cui l’amministrazione, per comune e condivisa opinione, può accedere (e dove il vincolo funzionale resta esterno rispetto alla causa). La prospettiva civilistica, inoltre, comporterebbe che il modello di riferimento, nel caso degli accordi preliminari, non potrebbe essere il provvedimento “esecutivo”, mentre, per quanto concerne gli accordi sostitutivi, ne discenderebbe un indubbio sganciamento dal provvedimento “sostituito” rispetto al quale valutare la possibile soggezione a controllo. Tale valutazione, ove non potesse individuarsi un provvedimento “sostituito”, potrebbe anche mancare. In realtà, è lo stesso art. 11, a prefigurare, per gli accordi preliminari come per quelli sostitutivi, un rapporto diretto con il provvedimento e non con lo schema contrattuale. (89) Mentre, per quel che concerne il contratto, osserva GAZZONI F., op. cit., 763: “Il legislatore si preoccupa di dettare regole che siano …. adeguate alle esigenze dei traffici, si preoccupa, cioè, di predisporre una regolamentazione uguale per tutti gli operatori economici e tale da costituire un punto di riferimento per le contrattazioni”. 362 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Nel primo caso, infatti, il “programma di interessi” concordato va riversato nella decisione amministrativa, determinandone, in varia misura il contenuto, l’oggetto e gli effetti. Nel secondo caso, la consecutio accordo/provvedimento discende dalla lettera della norma, la quale assoggetta l’accordo ai medesimi controlli cui sarebbe stato soggetto il provvedimento sostituito. Il “modello” utile per valutare la tipicità dell’accordo non è, dunque, quello contrattuale, ma è, per sua natura, quello provvedimentale. Ne discende l’assoggettamento ad un regime sostanzialmente equivalente, con la differenza che in esso viene cristallizzato (ex ante o “in tempo reale”) un certo assetto di interessi talmente condiviso inter partes da essere stato formalizzato in un accordo. Non vi è dubbio che in questa fase – in quella, cioè, genetica – si registri, anche in modo significativo, l’apporto dei “principi in materia di obbligazioni e contratti” (90) ; essi, però (anche qui per espressa disposizione di legge) operano in via integrativa e facendone salva la compatibilità con lo schema previsto dall’art. 11 (91). Stando così le cose, si può affermare che l’accordo preliminare e quello sostitutivo dovranno essere “costruiti” tenendo conto del modello di riferimento provvedimentale (e non contrattuale (92)) in quanto effettivamente alternativi rispetto ai provvedimenti amministrativi; per essi si pone necessariamente il problema della inclusione in schemi tipici i cui effetti sono predeterminati. E poiché non è pensabile la conclusione di accordi che prevedano la emanazione di provvedimenti illegittimi per la forma o per gli effetti, ne deriva che, anche per essi valga – a pena di “improcedibilità” – il limite previsto per questi (93). La soggezione ai principi di tipicità e nominatività propri dei provvedimenti amministrativi, in definitiva, vale per gli accordi negli stessi termini, sostanzialmente perché questi ultimi sono previsti (e immaginati) dal legi- (90) Altrettanto avviene per quel che riguarda le conseguenze dell’inadempimento. (91) Il che lascia supporre, tra l’altro, che vi sia un problema non tanto di insufficienza (che si ha quando si pone un problema di integrazione) della disciplina normativa contenuta nell’art. 11, quanto, di differente caratura rispetto alla disciplina di diritto privato (che determina, dunque, un problema di compatibilità tra principi e regole relative). (92) Se proprio si volesse operare un riferimento agli schemi privatistici dovrebbe ipotizzarsi una equivalenza accordo/contratto preliminare. Sennonché, in questo caso, ad essere stravolte sarebbero le regole della già ampiamente problematica figura del contratto preliminare, dovendosi, peraltro, ipotizzare che il provvedimento finale tenga luogo dell’atto pubblico. (93) L’accordo preliminare, che prefigurasse un provvedimento atipico e/o effetti innominati, sarebbe cioè ineseguibile, così come un accordo sostitutivo, che non prevedesse un modello provvedimentale di riferimento, non solo verrebbe meno alla sua intrinseca natura, ma, ove soggetto a controllo, non potrebbe in alcun modo pervenire ad un esito positivo. DOTTRINA 363 slatore come fattispecie consensuali integralmente alternative (94) a quelle unilaterali, che dunque, alle regole fondamentali di queste ultime devono sottostare. A quanto appena rilevato si potrebbe, ancora, obiettare che, in fondo, l’atto giuridico concordato, in sé, non sia invalido ove non “pensato” in una prospettiva “dinamica”, ossia in relazione al provvedimento recettivo/sostituito. A tacer d’altro (95), questa obiezione sarebbe agevolmente superabile, perché porterebbe a considerare l’accordo in una prospettiva eminentemente “statica”, mentre la sua ragion d’essere si giustifica in un’ottica finalistica, in rapporto all’obiettivo concreto perseguito e al risultato ottenuto: alle ragioni, in estrema sintesi, per cui si è ritenuto “conveniente” utilizzare lo strumento consensuale. È vero, invece, esattamente il contrario: e cioè che l’accordo ha un senso se considerato nella dinamicità propria dell’attività amministrativa, come conferma, sul piano dei principi, proprio il richiamo al vincolo funzionale contenuto nell’art. 11, qui agevolmente collocabile in un’ottica di sistema. Se, infatti, il fine pubblico è – quanto meno nelle sue linee essenziali (seppur astratte) – stabilito dalla legge (a prescindere se espresso, implicito, frutto della dialettica procedimentale, ecc.), per successiva approssimazione ne discende che gli accordi sono strumenti propri della funzione pubblica, alle cui regole di base sono, pertanto, soggetti (96). 8. Conclusioni: alternatività dello strumento consensuale rispetto a quello unilaterale. Le argomentazioni fin qui svolte depongono per impostare una alternatività “funzionale” tra accordo e provvedimento, nel senso che entrambe le fattispecie decisionali, pur presentando ciascuna le proprie peculiarità, non sfuggono ad un unico inquadramento sotto l’egida del principio di legalità, inteso come espressione del vincolo teleologico garantito dalla vigenza dei principi di tipicità e nominatività. Per giungere a simili conclusioni si è, infatti, osservato come, al di là delle differenze di regime giuridico e di disciplina di dettaglio tra accordi preliminari (o integrativi) e sostitutivi, si possa pervenire, preliminarmente, ad una reductio ad unum della categoria degli “accordi procedimentali”. (94) Ciò vale per gli accordi preliminari quanto per quelli sostitutivi: l’accordo preliminare è, nella sostanza, “sostitutivo” di una parte del contenuto discrezionale del provvedimento finale. (95) In realtà, ove l’accordo prefigurasse un provvedimento atipico o, addirittura, non ne sostituisca alcuno sarebbe comunque invalido: mentre nel secondo caso ciò risulterebbe di maggiore evidenza, nel primo la invalidità discenderebbe dall’assunzione di un obbligo di “esecuzione” sicuramente illegittimo. (96) Si ricordi che ci si trova in ambito autoritativo. Per quel che concerne l’attività non autoritativa il discorso, in parte, cambierebbe. 364 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Si è potuto, così, verificare che i principi che presiedono alla loro adozione coincidono con quelli dei provvedimenti amministrativi, rispetto ai quali l’unica effettiva differenza è riscontrabile nella “forma” della decisione e, in particolare, nell’apporto dei singoli soggetti che partecipano al procedimento. In caso di decisione unilaterale, i soggetti che partecipano sotto varie vesti (diretti interessati, controinteressati, intervenienti) svolgono comunque – come è, peraltro, ampiamente noto – una funzione di impulso che si concretizza in sollecitazioni, apporti istruttori sul piano delle acquisizioni dei fatti e della proposizione di argomenti di diritto, istanze d’accesso endoprocedimentale, memorie e proposte ai sensi dell’art. 10 lett. b) della legge n. 241 del 1990. Non è questa la sede per approfondire la caratura degli “interessi partecipativi” che, sul piano delle situazioni giuridiche soggettive, sorreggono tali facoltà: non vi è dubbio, quale che sia la loro qualificazione (diritti, interessi o tertium genus) che essi svolgano una funzione ben precisa all’interno della procedura decisionale; questa, peraltro, da essi viene anche “orientata” tutte le volte che obbliga l’amministrazione a prendere atto di determinati fatti o ad ammettere o confutare determinate argomentazioni giuridiche. Quando il procedimento si conclude attraverso la emanazione di un provvedimento unilaterale, l’apporto dei soggetti che partecipano al procedimento amministrativo può essere rilevante, fino ad essere persino determinante (97), poiché la decisione, pur “formalmente” unilaterale, potrebbe essere (è anzi molto probabile che lo sia) più o meno “contaminata” dagli effetti della partecipazione. Attraverso gli accordi tali effetti raggiungono il loro apice, nel senso che l’apporto partecipativo si innesta a tal punto all’interno della decisione da divenire parte integrante di essa (98). (97) Si pensi al caso “di scuola” del procedimento basato su una notitia viziata da un errore nella individuazione del soggetto effettivamente “interessato” (es., il proprietario di un immobile anziché il suo inquilino o l’alienante di un immobile rispetto all’acquirente), come anche riguardo alla considerazione di elementi di fatto fondamentali (es., la corretta indicazione della particella interessata da un procedimento espropriativo, l’erronea indicazione nella targa di un autoveicolo). (98) Molto chiara, in proposito, la decisione del Cons. Stato, V, 20 ottobre 2005 n. 5884: “L’accordo preliminare mira alla prevenzione del contenzioso e realizza una posizione mediana fra posizioni altrimenti inconciliabili, aventi ad oggetto il contenuto del provvedimento (l’accordo, invero, si deve rivelare essenziale al fine di raggiungere un equilibrio sull’assetto degli interessi altrimenti non raggiungibile per via autoritativa). L’accordo procedimentale rivela la sua peculiare funzione non nella semplice determinazione dell’esito favorevole o sfavorevole dell’istanza del privato, ma nella determinazione del contenuto del provvedimento, nei casi in cui detto contenuto sia controverso o controvertibile, o contenga clausole che, in difetto di accordo, non sarebbero facilmente accettate dal privato. Di qui anche la peculiare collocazione dell’art. 11 nel Capo III della legge che disciplina le forme DOTTRINA 365 Ne deriva che la stipulazione di un accordo (preliminare o sostitutivo, poco importa da questo punto di vista) sarà frutto di una serie di variabili: a) la convenienza e/o l’utilità di determinare una parte del contenuto discrezionale, ma di mantenere, per il resto, il carattere unilaterale della decisione; b) la convenienza e/o l’utilità di definire compiutamente una intera vicenda con un assetto stabile e definitivo senza la necessità di “riservarsi” l’adozione del provvedimento finale. La scelta discende essenzialmente da ragioni di opportunità in funzione della economicità, efficienza ed efficacia della decisione, in nome di una sorta di “discrezionalità preliminare”. Ciò apre, invero, scenari interessanti sul piano della possibile impugnativa dell’atto con il quale l’amministrazione accetti o proponga di dar luogo alla stipulazione di un accordo, ancorché sembri alquanto improbabile che i termini di un simile atto possano essere lesivi per alcuno (99). Non è immaginabile, invero, che l’emanazione di un provvedimento anziché accedere ad una – seppur astrattamente conveniente – proposta d’accordo possa essere, di per sé, in grado di menomare illegittimamente le posizioni di diritto o d’interesse in capo ad alcun soggetto destinatario dello stesso provvedimento. Semmai – ma anche questo è da considerarsi jus receptum – la inefficienza di una simile decisione potrà essere fatta valere in sede di responsabilità amministrativo-contabile, laddove ciò abbia determinato un costo ulteriore e dunque un danno (ricorrendo, però, tutti gli altri presupposti richiesti dalla legge per configurare la detta responsabilità). della partecipazione procedimentale (….) ed i suoi possibili esiti tanto che può dirsi che l’esito negoziale è un possibile epilogo di una vicenda partecipativa e comunque di un procedimento già iniziato. L’accordo, pertanto, rivela un nesso strettissimo con la partecipazione procedimentale, tanto che può dirsi che non vi può essere accordo senza che vi sia stato avvio del procedimento; non possono concludersi accordi al di fuori e prima dell’avvio del procedimento e che non siano espressione della partecipazione procedimentale tesa a stabilire nel caso concreto quale sia l’interesse pubblico”; in terminis, peraltro, già sez. VI, 15 maggio 2002 n. 2636, ove, però, viene ricordato come “rispetto a quanto originariamente previsto nei lavori preparatori che enunciavano il principio di contrattualità dell’azione amministrativa allo «scopo» di accelerare lo svolgimento dell’azione amministrativa e disciplinare con maggiore stabilità e precisione i comportamenti propri e dei privati oltre che i diritti e doveri reciproci …., nella formulazione definitiva della legge n. 241/1990 (anche sulla scorta di quanto suggerito dal parere dell’Adunanza Generale del 19 febbraio 1987) non v’è traccia del principio del favor per la conclusione del contratto ad oggetto pubblico e l’esito negoziale viene ammesso nei soli casi di accordi procedimentali e di accordi sostitutivi”, osservando, conseguentemente che “l’atto autoritativo non è più il solo strumento della cura di interessi pubblici, essenziale è il fine pubblico, fungibili sono gli strumenti attraverso cui perseguirlo”. (99) Questa osservazione non è in contraddizione con quanto sopra osservato rispetto alla posizione dei terzi, perché si sta trattando degli effetti lesivi derivanti dalla scelta circa l’utilizzo dello strumento (unilaterale o consensuale) e non di quelli che essi – una volta operata la scelta – producono. 366 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO In questo contesto si inserisce coerentemente l’intervento del legislatore del 2005, dalle cui norme viene rafforzata la tesi di una piena alternatività tra lo strumento unilaterale e quello consensuale (100). A parte la già più volte ricordata eliminazione della clausola del numerus clausus degli accordi sostitutivi, a mezzo della legge n. 15 è stata prevista la necessità di una apposita deliberazione con la quale l’amministrazione “formalizza” la propria intenzione di stipulare un accordo secondo certi termini e condizioni. Vi è, inoltre, un evidente rafforzamento della fase partecipativa, come può agevolmente desumersi dalla lettura della disciplina del c.d. “preavviso di rigetto” (art. 10-bis) e della annullabilità (art. 21-octies), donde si ricava un dato essenziale, ossia che la partecipazione è un valore fondamentale del procedimento amministrativo (solo (101)) in quanto funzionale alla corretta esplicazione del diritto alla difesa del cittadino (“anticipata” rispetto al processo, secondo la tradizionale equivalenza procedimento/processo risalente alla dottrina “germanica” (102)) di fronte alla pubblica amministrazione procedente. Per quanto concerne, in particolare, lo speciale regime di non annullabilità nei casi previsti dall’art. 21-octies (c. 2), va sottolineato che l’accordo può trovare spazio solo ove l’esercizio delle facoltà partecipative avrebbe potuto determinare esiti decisionali differenti. Dunque, l’omesso invio della comunicazione di avvio del procedimento – ove si traduca in una effettiva menomazione della partecipazione – è, in sé, grave perché elimina la possibilità dell’alternativa. Allorchè il risultato non avrebbe potuto che essere uno, non vi è ragione di “imporre” la partecipazione poiché manca anche il (100) Rispetto al quale, nella misura in cui resti sul piano descrittivo, la definizione di “contratto di diritto pubblico” o “ad oggetto pubblico”, sembra obiettivamente secondaria. Del primo avviso è, peraltro, CERULLI IRELLI V., op. ult. cit., 391: “Si deve ritenere che la norma abbia introdotto nel nostro ordinamento la figura, precedentemente negata, del contratto (o accordo) di diritto pubblico, sia pure con ambito applicativo più limitato di quello che l’analoga figura possiede nell’ordinamento tedesco”; di differente avviso, confutando – invero, un po’ sbrigativamente – le ragioni di chi è dell’avviso di Cerulli Irelli (compreso lo scrivente), SORACE D., Diritto delle amministrazioni pubbliche. Una introduzione, Bologna, 2007, 344-345, (ri)propone, nella specie, la figura del “contratto ad oggetto pubblico”; in proposito, è appena il caso di rinviare a GIANNINI M.S., Diritto Amministrativo, Milano 1988, 857 ss., il quale osserva: “… essi hanno un «oggetto pubblico», di cui solo l’amministrazione pubblica dispone, perché oggetto di potestà amministrativa pubblica. Per il resto essi sono contratti come ogni altro” (pp. 862-863). (101) Il comma 2 dell’art. 21-octies qualifica come non annullabile il provvedimento che abbia obliterato taluna garanzia procedimentale (in caso di attività vincolata) o sia stato adottato in assenza di comunicazione di avvio del procedimento (in caso di attività discrezionale) senza che da ciò sia discesa una effettiva deviazione dal suo “naturale” (id est: “obbligato” sul piano logico-giuridico) epilogo. (102) Secondo l’espressione di SANDULLI A.M., Il procedimento amministrativo, Milano 1940, passim. DOTTRINA 367 margine di valutazione che può favorire la conclusione di un accordo (103). Ciò dimostra chiaramente il valore di una alternativa, che si pone solo laddove abbia senso: in tutti gli altri casi vi è, invece, la “preferenza” per lo strumento provvedimentale, non essendo necessaria o utile la composizione degli interessi che presuppone la partecipazione e che può culminare nella stipula dell’accordo. (103) In questo caso, cioè, non vi è alternativa allo strumento unilaterale perché l’esito del procedimento appare scontato. Non si intende dire che il provvedimento si abbia solo quando il potere sia vincolato o la decisione – pur discrezionale – di fatto logicamente prevedibile. L’assenza di margini decisionali elimina l’alternativa in quanto non in grado di determinare assetti migliori o, in definitiva, di incidere sui contenuti della decisione stessa. 1. ARTICOLI, NOTE, DOTTRINA, RECENSIONI GIUSEPPE ALBENZIO, La Corte europea dei diritti dell’uomo. Considerazioni generali sulla sua attività, sulla esecuzione delle sentenze nei confronti dello Stato italiano, sul patrocinio in giudizio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 19 Ancora in tema di inammissibilità del ricorso per cassazione . . . . . . . . . . . . . . . . » 219 DAVID ASTORRE, La prova della ricezione della notifica della sentenza ai fini della tempestività del ricorso per Cassazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 222 GIUSEPPE BIANCHI, FILIPPO D’ANGELO, L’efficacia dei trattati internazionali alla luce del nuovo testo dell’art. 117, primo comma, Cost.; note a margine delle sentenze nn. 348/07 e 349/07 della Corte costituzionale . . . . . . . . . . » 78 MAURIZIO BORGO, Il c.d. “fermo fiscale”, ancora alla ricerca del proprio giudice: nuovi contrasti giurisprudenziali dopo il c.d. “Decreto Bersani” . . . . . » 235 MAURIZIO BORGO, Il divieto di prove nuove nel giudizio amministrativo. Contrasti giurisprudenziali nell’ambito del Consiglio di Stato . . . . . . . . . . . » 248 MAURIZIO BORGO, I nuovi criteri di determinazione dell’indennità di espropriazione per le aree edificabili. Brevi riflessioni, a caldo, sull’art. 37-bis del disegno di legge Finanziaria 2008, nel dossier: La declaratoria di incostituzionalità delle norme in materia di esproprio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 153 MAURIZIO BORGO, Relazione al Convegno nazionale “Articoli 5 bis, 1-2 d.l. 333/92 e 37 1-2 d.P.R. 327/01 incostituzionali. La nuova indennità di esproprio per le aree edificabili”, nel dossier: La declaratoria di incostituzionalità delle norme in materia di esproprio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 145 IGNAZIO FRANCESCO CARAMAZZA, EMANUELA RUSSIANI, Prime evoluzioni della giustizia amministrativa: contributi dell’Avvocatura erariale . . . . . . . » 5 ROBERTO COLLACCHI, Legittimità del provvedimento di reiterazione dei vincoli preordinati all’esproprio: obbligo di motivazione e di indennizzo. . . . . . . . » 241 I N D I C I S I S T E M A T I C I FLAVIO FERDANI, Metodi Adr: la conciliazione come strumento di risoluzione delle controversie. Profili generali della conciliazione, ruolo del conciliatore e procedimento. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 313 PIERO LA SPINA, dossier: Autorizzazioni paesaggistiche ed interessi generali del territorio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 195 FRANCESCAMAELLARO, Il “difetto di giurisdizione temporaneo” nella procedura di liquidazione coatta amministrativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 229 PAOLO MARCHINI, Nuove questioni di giurisdizione per le sanzioni nel settore del latte e dei prodotti caseari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 215 GLAUCO NORI, L’art. 117, comma 1, Cost. e le norme CEDU secondo la Corte costituzionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 25 GLAUCO NORI, Le norme di attuazione degli statuti speciali: qualche osservazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 1 VALERIA SANTOCCHI, Tre nuove condanne dell’Europa alla normativa italiana sull’ambiente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 100 MARIA ELENA SCARAMUCCI, In tema di alienazione, ai fini della rottamazione, dei veicoli custoditi presso le depositerie giudiziarie o amministrative . . . . . » 290 GIUSEPPE STUPPIA, La legittimazione passiva nelle impugnazioni delle ordinanze contingibili ed urgenti del Sindaco: recenti sviluppi giurisprudenziali . . . . . » 280 FABRIZIO TIGANO, Principio di tipicità e accordi procedimentali . . . . . . . . . . . . . » 330 CRISTIANA TROMBETTA, L’esecuzione dei lavori da parte delle consorziate dei Consorzi di cooperative di produzione e lavoro. La recente interpretazione del Consiglio di Stato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 259 STEFANO VARONE, dossier: L’anzianità di servizio del personale A.T.A. transitato nella scuola statale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 163 2. INDICE DELLE SENTENZE CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITÀ EUROPEE Sez. III, sent. 18 dicembre 2007 nella causa C-194/05 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 116 Sez. III, sent. 18 dicembre 2007 nella causa C-195/05 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 124 Sez. III, sent. 18 dicembre 2007 nella causa C- 263/05 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 134 CORTE COSTITUZIONALE Sent. 26 giugno 2007 n. 234 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 172 Sent. 24 ottobre 2007 n.348 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 32 Sent. 24 ottobre 2007 n. 349. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 60 370 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO CORTE DI CASSAZIONE Sez. lav., sent. 17 febbraio 2005 n. 3224 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 167 SS.UU., sent. 12 dicembre 2006 n. 26435 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 216 SS.UU., sent. 31 ottobre 2007 n. 23019 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 219 Sez. trib., ord. 22 novembre – 10 dicembre 2007 n. 25753 . . . . . . . . . . . . . . . . . » 226 Sent. 16 gennaio 2008 n.677 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 180 TRIBUNALE CIVILE DI ROMA Sez. lav., sent. 12 aprile 2005 - 15 novembre 2006 n.10287. . . . . . . . . . . . . . . . » 232 Sez. 13°, ord. 1 giugno 2007 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 238 CONSIGLIO DI STATO Ad. Plen., dec. 24 maggio 2007 n.7 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 242 Sez. 6°, dec. 4 giugno 2007 n. 2951 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 249 Sez. 6°, sent. 22 giugno 2007 n. 3477 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 270 Sez. 5°, sent. 13 agosto 2007 n. 4448 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 283 Sez. 5°, dec. 11 settembre 2007 n. 4789 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 254 Sez. 6°, dec. 9 ottobre 2007 n. 5306 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 290 CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIA Dec. 3 agosto 2007 n.711 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 207 Dec. 21 novembre 2007 n.1058 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 212 Dec. 8 ottobre 2007 n.933 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 256 TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER LA SICILIA Sede di Palermo, sez. 2°, sent. 4 febbraio 2005 n. 150 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 195 Sez. 1°, sent. 19 gennaio 2006, n.156 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 199 COMMISSIONE TRIBUTARIA PER IL LAZIO Sez. 20°, sent. 9 maggio-15 giugno 2007, n.136 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 236 3. INDICE DEGLI ARGOMENTI AMBIENTE E TERRITORIO – Energia eolica – Nulla osta paesaggistico richiesto per impianto di produzione – Diniego motivato esclusivamente con riferimento a ragioni ambientali – Legittimità – Valutazione dell’interesse paesaggistico e degli interessi correlati – Sufficienza ex art. 146 D.Lgs. n.42/04 . . . . » 207 AMBIENTE E TERRITORIO – Vincoli paesaggistici – Nulla osta per impianti di produzione di energia eolica – Diniego di rilascio – Riferimento agli elementi in fatto rilevanti nella fattispecie – Sufficienza – Valutazione degli altri interessi coinvolti (quali quelli relativi al risparmio energetico) – Non occorre – Fattispecie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 212 APPALTI – Termine di impugnazione della delibera di aggiudicazione - Dies a quo - Data di ricezione del fax – Sussistenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 249 INDICI SISTEMATICI 371 APPALTI E FORNITURE P.A. – Consorzi - Differenza tra subappalto e designazione da parte del Consorzio aggiudicatario dell’impresa che materialmente effettuerà i lavori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 270 BENI CULTURALI E AMBIENTALI – Vincolo paesaggistico – Valutazione di compatibilità paesaggistica – Comparazione con gli altri interessi costituzionalmente rilevanti – Necessità – Fattispecie: impianto eolico . . . . . . . . . . . . . . . » 195 COMMISSIONE TRIBUTARIA – Fermo fiscale di beni mobili – Giurisdizione – Contrasti – Decreto Bersani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 236 COMUNE E PROVINCIA – Sindaco – Ordinanze contingintibili ed urgenti – Emesse quale ufficiale del Governo – Impugnativa in s.g. – Notificazione del ricorso al solo Comune – Nel caso in cui non sia stato anche chiesto il risarcimento dei danni – Ammissibilità – Ragioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 283 COMUNE E PROVINCIA – Sindaco – Ordinanze contingintibili ed urgenti – Emesse quale ufficiale del Governo – Impugnativa in s.g. – Notificazione del ricorso – Va effettuata presso la Casa comunale – Notifica presso la sede dell’Avvocatura distrettuale dello Stato – Inammissibilità . . . . . . . . . . . » 283 COMUNITÀ EUROPEE – Inadempimento di uno Stato – Ambiente – Direttive 75/442/CEE e 91/156/CEE – Nozione di “rifiuti” – Scarti alimentari originati dall’industria agroalimentare destinati alla produzione di mangimi – Residui derivanti dalle preparazioni nelle cucine di cibi destinati alle strutture di ricovero per animali di affezione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 124 COMUNITÀ EUROPEE – Inadempimento di uno Stato – Ambiente – Direttive 75/442/CEE e 91/156/CEE – Nozione di “rifiuti” – Sostanze o oggetti destinati alle operazioni di smaltimento o di recupero – Residui di produzione che possono essere riutilizzati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 134 COMUNITÀ EUROPEE – Inadempimento di uno Stato – Ambiente – Direttive 75/442/CEE e 91/156/CEE – Nozione di “rifiuti” – Terre e rocce da scavo destinate ad essere riutilizzate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 116 CORTE COSTITUZIONALE – Espropriazione per pubblico interesse - Indennità di esproprio - Criteri di determinazione - Illegittimità costituzionale dell´art. 5-bis, commi 1 e 2, del d.l. 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), conv., con modif., dalla L. 8 agosto 1992, n. 359 - Illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell´art. 37, co.1 e 2, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (T.u. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità) . . . . » 32 CORTE COSTITUZIONALE – Trasferimento del personale degli Enti locali nei ruoli del personale A.T.A. statale – Riconoscimento dell’anzianità di servizio maturata negli Enti di provenienza – Legittimità del comma 218 della Legge Finanziaria 2006 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 172 372 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO ESPROPRIAZIONI – Espropriazione per pubblico interesse - Atti procedimentali che disciplinano l’esproprio – Reiterazione del vincolo espropriativo – Assenza di riferimento all’indennizzo – Legittimità – Sussistenza . . . . . . . . pag. 242 GIURISDIZIONE del g.a. – Controversie – Provvedimenti sanzionatori – Settore dei prodotti lattiero-caseari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 216 LAVORO PUBBLICO - Trasferimento e mobilità – Trasferimento del personale A.T.A. – Norma di interpretazione autentica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 167 LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA – Procedura – Difetto di giurisdizione temporaneo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 232 PROCESSO AMMINISTRATIVO – Documentazione – Pubblica Amministrazione – Deposito fuori termine – Legittimità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 254 PROCESSO CIVILE - Art. 366 nuovo testo c.p.c. – Onere della specifica indicazione di atti e documenti – Carenza – Ricorso per cassazione – Inammissibilità – Fattispecie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 219 PROCESSO CIVILE – Notifiche processuali - A mezzo posta – Decorso del termine per l’impugnazione delle sentenze nel giudizio tributario . . . . . . . . . . . » 226 PROCESSO CIVILE – Questioni affrontate e decise dal giudice di merito – Ricorso incidentale – Limiti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 219 VEICOLI custoditi presso le depositerie giudiziarie o amministrative – Alienazione ai fini della rottamazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 290 4. PARERI, COMUNICAZIONI, CIRCOLARI A.G.S. – Parere del 15 gennaio 2004 prot. 5177. Affrancazione di usi civici – Forma dei relativi atti – Eseguibilità delle formalità catastali e ipotecarie – Trattamento tributario (consultivo 2749/09, avvocato M. Mari) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 304 A.G.S. – Parere del 21 aprile 2007 n. 49678. Comunicazione prevista dall’art. 3 del d.P.R. n. 252/1998 (consultivo 34587/06, avvocato F. Fedeli) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 298 A.G.S. – Parere del 5 giugno 2007 n. 65965. Decreto Ministeriale 29 marzo 1994 come modificato dal D.M. 27 settembre 1995 recanti modalità di applicazione dell’aliquota ridotta di accisa sui carburanti consumati per l’azionamento delle autovetture pubbliche da piazza (consultivo 10571/07, avvocato G. Albenzio) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 300 INDICI SISTEMATICI 373 A.G.S. – Parere del 21 giugno 2007 n. 72177. IRAP – Imposta Regionale sulle Attività Produttive – Natura privilegiata o meno del credito (consultivo 14596/07, avvocato M. Santoro) . . . . . . . . . . pag. 301 A.G.S. – Circolare del 24 luglio 2007 n. 31 – Comunicazione di servizio n. 86/07 Controversie relative al personale A.T.A. transitato nei ruoli dello Stato ai sensi della legge 3 maggio 1999, n. 124. Sentenza della Corte Costituzionale 18 giugno 2007 n. 234 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 179 A.G.S. – Parere del 22 ottobre 2007 n. 112562. Affrancazione di usi civici. Trattamento tributario delle formalità catastali. Tasse ipotecarie e tributi speciali catastali (consultivo 2749/02, avvocato M. Mari) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 304 A.G.S. – Parere dell’8 novembre 2007 n. 119530. Pubblico impiego -Mansioni superiori – Funzionari con qualifica C3 – Reggenza di Uffici dirigenziali – C.C.N.L. 16 febbraio 1999 (consultivo 36817/06, avvocato A. Grumetto) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 308 374 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Finito di stampare nel mese di marzo 2008 Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A. Via Roberto Malatesta n. 296 - Roma