ANNO LXX - N. 3 LUGLIO - SETTEMBRE 2018 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO COMITATO SCIENTIfICO: Presidente: Michele Dipace. Componenti: Franco Coppi - Giuseppe Guarino - Natalino Irti - Eugenio Picozza - Franco Gaetano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo - CONDIRETTORI: Maurizio Borgo, Danilo Del Gaizo e Stefano Varone. COMITATO DI REDAZIONE: Giacomo Aiello - Lorenzo D’Ascia - Gianni De Bellis - Francesco De Luca - Wally Ferrante - Sergio Fiorentino - Paolo Gentili - Maria Vittoria Lumetti - Francesco Meloncelli - Marina Russo. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Andrea Michele Caridi - Stefano Maria Cerillo - Pierfrancesco La Spina - Marco Meloni - Maria Assunta Mercati - Alfonso Mezzotero - Riccardo Montagnoli - Domenico Mutino - Nicola Parri - Adele Quattrone - Pietro Vitullo. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE fASCICOLO: Claudio Boccia, Carla Colelli, Claudio Contessa, Enrico De Giovanni, Michele Gerardo, Antonio Grumetto, Massimo Massella Ducci Teri, Antonio Mitrotti, Francesca Muccio, Alessio Muciaccia, Gaetana Natale, Fabio Ratto Trabucco, Daniele Atanasio Sisca. Email giuseppe.fiengo@avvocaturastato.it maurizio.borgo@avvocaturastato.it danilodelgaizo@avvocaturastato.it stefanovarone@avvocaturastato.it ABBONAMENTO ANNUO ..............................................................................€ 40,00 UN NUMERO .............................................................................................. € 12,00 Per abbonamenti ed acquisti inviare copia della quietanza di versamento di bonifico bancario o postale a favore della Tesoreria dello Stato specificando codice IBAN: IT 42Q 01000 03245 348 0 10 2368 05, causale di versamento, indirizzo ove effettuare la spedizione, codice fiscale del versante. I destinatari della rivista sono pregati di comunicare eventuali variazioni di indirizzo AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA - Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 indice - sommario L’Avv. Aldo Stigliano Messuti nel ricordo di una collega . . . . . . . . . . . . TEMI ISTITUZIONALI Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato, Avv. Massimo Massella Ducci Teri, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2019. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Corte europea dei diritti dell’uomo: le funzioni di agente del Governo a difesa dello Stato italiano, Comunicato A.G. del 4 dicembre 2018 . . . . . Rappresentanza e difesa della Banca Centrale Europea, Comunicato A.G. del 10 gennaio 2019 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Protocollo di intesa tra Avvocatura dello Stato e ANAC, in data 9 novembre 2018 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Definizione delle liti tributarie pendenti, prevista dall’art. 6 del D.L. 23 ottobre 2008 n. 119, pubblicato nella G.U. del 23 ottobre 2018 n. 247. Prime istruzioni, Circolare A.G. del 28 novembre 2018 prot. 611501 n. 45 CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Danilo Del Gaizo, Marchio commerciale contrario all’ordine pubblico. Il controricorso per la Repubblica Italiana nella causa La Mafia Franchises c. Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale (Trib. UE, sent. 15 marzo 2018, T-1/17). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Marina Russo, La presa in carico da parte del Servizio Sanitario Nazionale dell’uso di farmaci “off-label” in presenza di alternativa terapeutica. La sentenza della CGUE (C. Giust. UE, Sez. I, sent. 21 novembre 2018, C-29/17) Carla Colelli, La Corte di Giustizia UE si pronuncia sulla legittimazione all’impugnazione del bando da parte di operatori economici che non hanno partecipato alla gara (C. Giust. UE, Sez. III, sent. 28 novembre 2018, C-328/17) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTENZIOSO NAZIONALE Gaetana Natale, “Compensatio lucri cum damno” (Cass. civ., Sez. Un., sent. 22 maggio 2018 n. 12565) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Wally ferrante, Il diritto all’oblio. Codice della privacy e trattamento dei dati per finalità di polizia (Cass. civ., Sez. I, ord. 29 agosto 2018 n. 21362) Wally ferrante, La notifica va fatta all’Avvocatura dello Stato in caso di giudizio di impugnazione del preavviso di fermo amministrativo (art. 86, d.P.R. 602/1973) (Cass. civ., Sez. III, sent. 8 novembre 2018 n. 28528) . . Antonio Grumetto, Sulla valutazione dei presupposti della responsabilità dell’Amministrazione in materia di protezione della salute nel commento alla sentenza del Tribunale di Roma n. 9561 del 2018 (Trib. Roma, Sez. II civ., sent. 11 maggio 20108 n. 9561) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1 ›› 4 ›› 5 ›› 6 ›› 10 ›› 15 ›› 39 ›› 56 ›› 67 ›› 88 ›› 95 ›› 101 francesca Muccio, Procedura semplificata di autorizzazione di impianti di produzione di energie rinnovabili - c.d. “minieolico” - e tutela indiretta della aree c.d. contermini a beni paesaggistici vincolati (Cons. St., Sez. IV, sent. 4 settembre 2018 n. 5181) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Marina Russo, Sulla ammissibilità di nuove produzioni documentali in un giudizio di appello al Consiglio di Stato (Cons. St., Sez. III, sent. 24 ottobre 2018 n. 6057) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Marina Russo, Un esauriente excursus normativo sul prezzo dei farmaci generici (Cons. St., Sez. III, sent. 27 novembre 2018 n. 6716) . . . . . . . . LEGISLAZIONE ED ATTUALITà Enrico De Giovanni, Il codice dell’Amministrazione digitale: genesi, evoluzione, principi costituzionali e linee generali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . fabio Ratto Trabucco, I dinieghi grossolani per l’accesso ai documenti amministrativi: esperienze applicative nell’epoca della trasparenza . . . Daniele Atanasio Sisca, Sullo stato di emergenza del settore sanitario calabrese. Ancora numerose sentenze emesse dal T.a.r. Calabria. . . . . . . . Alessio Muciaccia, Una breve rassegna della giurisprudenza in tema di sosta di ingombro degli autoveicoli e risvolti penali (il reato di violenza privata ex art. 610 c.p.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTRIBUTI DI DOTTRINA Michele Gerardo, Il rimborso delle spese di patrocinio legale nei giudizi di responsabilità nei confronti di dipendenti pubblici ai sensi dell’art. 18 del D.L. 25 marzo 1997 n. 67 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Gaetana Natale, Sistemi integrati di composizione delle liti delle Pubbliche Amministrazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Antonio Mitrotti, Brevi considerazioni sui caratteri comuni alle attività secretate nell’ordinamento costituzionale italiano, anche alla luce del contemperamento (rectius bilanciamento) con la libertà di manifestazione del pensiero. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . RECENSIONI Claudio Boccia, Claudio Contessa, Enrico De Giovanni, Codice dell’Amministrazione digitale, La Tribuna, Piacenza, 2018 . . . . . . . . . . . . . . . . Claudio Boccia, Il nuovo Codice dell’Amministrazione digitale e l’apporto del Consiglio di Stato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Claudio Contessa, Il Codice dell’Amministrazione digitale: la modernizzazione della P.A. e gli impulsi degli Ordinamenti sovranazionali pag. 124 ›› 142 ›› 149 ›› 155 ›› 172 ›› 185 ›› 198 ›› 207 ›› 237 ›› 272 ›› 293 ›› 294 ›› 303 COMUNICATO DELL'AVVOCATO GENERALE (*) Con profonda tristezza, comunico che sabato 23 febbraio è deceduto il collega ed amico avvocato Aldo Stigliano Messuti, già Avvocato Distrettuale di Catanzaro e papà del collega Marco. I funerali sono stati celebrati ieri a Catanzaro. Nell’esprimere le più sentite condoglianze alla famiglia, anche a nome dei colleghi e di tutto il personale dell’Avvocatura, ne ho ricordato la nobile figura di avvocato dello Stato e di uomo che, nel corso della sua esemplare carriera, ha dato sempre lustro all’Istituto. Massimo Massella Ducci Teri L’avvocato Aldo Stigliano Messuti nel ricordo di una collega «Credo che l’Avvocatura tutta debba, nell’occasione della Sua dipartita, tributare un sentito ringraziamento ad Aldo Stigliano Messuti per la Sua opera di impulso all’affermazione di una cultura della gestione condivisa e collegiale dei processi decisionali, che ha significativamente contribuito alla modernizzazione del nostro Istituto. Al modello indicato da Aldo Stigliano, da Nino Freni e dagli altri Colleghi “ visionari”, padri della legge 103/1979, credo dovremmo ispirarci anche tutti noi, oggi, trovandoci a vivere una contingenza storica in cui, più che mai, senza una visione non potrà esserci futuro». Roberta Guizzi (*) Email Segreteria Particolare - lunedì 25 febbraio 2019 12:52. TEMI ISTITUZIONALI CERIMONIA DI INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO 2019 Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato Avv. Massimo Massella Ducci Teri Signor Presidente della Repubblica, Autorità, Signor Primo Presidente della Corte di Cassazione, Signor Procuratore Generale, Signore e Signori È con vivo piacere che, anche quest’anno, prendo la parola in questa solenne Cerimonia di inaugurazione per porgere il saluto dell’Istituto che ho l’onore di dirigere. Nella sua approfondita e ampia relazione il Primo Presidente ha riferito in modo analitico sui risultati raggiunti dalla Suprema Corte nell’anno 2018. Essi sono il frutto del grandissimo impegno profuso dai Magistrati e da tutto il personale amministrativo in servizio presso di essa, cui vanno il nostro più sentito apprezzamento e la nostra più viva gratitudine. 1. Anche nel corso dell’anno 2018 sono continuati il dialogo e la collaborazione tra la Suprema Corte e l’Avvocatura, privata e pubblica, per fornire risposte sempre più adeguate alla legittima domanda del Paese per un “sistema giustizia” efficiente e tempestivo, presupposti ineludibili, questi, perché lo stesso possa essere qualificato anche equo ed efficace. Nell’anno appena trascorso l’Avvocatura dello Stato, insieme al Consiglio Nazionale Forense, hanno coltivato il proficuo dialogo con la Suprema Corte e la Procura Generale per l’attuazione del disegno riformistico, delineato in questi ultimi anni, per l’implementazione dei connessi protocolli d’intesa che abbiamo sottoscritto e per la riduzione dei giudizi pendenti. L’impegno della Corte in questo ambito è ben noto e l’Avvocatura dello Stato è consapevole che la gran parte dell’arretrato, nel settore civile, grava sulla sezione tributaria ove essa è direttamente coinvolta. RASSEGNA AvvoCAtURA 2 DELLo StAto - N. 3/2018 In questa situazione, abbiamo seguito la prassi di segnalare alla Corte questioni di massima sulle quali è parsa opportuna una sollecita ed unitaria trattazione, al fine di ottenere tempestivi ed univoci orientamenti, atti a risolvere ampi e diffusi contenziosi, pendenti avanti i Giudici di merito. In questa stessa prospettiva, inoltre, ha svolto una funzione positiva l’orientamento della Corte di fissare specifiche udienze tematiche per definire questioni tra loro omogenee. Il problema dell’arretrato tributario, tuttavia, non è ancora risolto. Sono convinto, però, che il 2019, possa costituire un anno importante in questo specifico ambito. I recenti provvedimenti diretti alla definizione delle liti fiscali pendenti contengono, infatti, condizioni particolarmente favorevoli che rendono prevedibile una massiccia definizione dei giudizi: in particolar modo di quelli in cui è l’Agenzia delle Entrate ad aver proposto il ricorso per cassazione. 2. Un altro ambito nel quale l’Avvocatura dello Stato sta offrendo il proprio contributo è quello dell’implementazione del processo civile telematico avanti la Corte di Cassazione, il cui avvio andrà a costituire un ulteriore e fondamentale passaggio nel processo di digitalizzazione della giustizia italiana. È un settore in cui l’Istituto sta maturando una propria esperienza, acquisita nell’ambito del processo telematico già consolidatosi avanti alla Magistratura ordinaria di 1° e 2° grado e avanti la Magistratura Amministrativa. Ed esso è strettamente connesso al processo di dematerializzazione dell’attività professionale e di quella amministrativa di supporto che, pur con qualche difficoltà, è in corso di sviluppo nell’ambito dell’Istituto. Proprio nel corso del 2018, grazie ai finanziamenti concessi dal Governo, si è potuto avviare il progetto “Avvocatura 2020”. È un progetto ambizioso e impegnativo, volto a ripensare l’organizzazione del lavoro e gli strumenti informatici, in una logica evoluta, integrata, orientata alla massima automazione possibile ed al trasferimento sui supporti informatici del carico del lavoro ripetitivo. 3. Questa spinta innovativa è sicuramente favorita dal consistente ricambio del personale togato ed è legata anche all’evoluzione della attività istituzionale. In particolare, nello scorso anno, con l’assunzione della funzione di Agente del Governo avanti la C.E.D.U. si è ulteriormente istituzionalizzato il ruolo dell’Avvocatura dello Stato nell’assistenza della Repubblica italiana dinanzi alle Corti permanenti e ai tribunali arbitrali internazionali. Nel corso del 2018, inoltre, è stato affidato all’Avvocatura il patrocinio di ulteriori importanti enti e istituzioni, nazionali e sovranazionali. La quantità dei nuovi affari trattati dall’Istituto permane elevata. Per la prima volta, nel corso del 2018, è stata registrata una flessione degli affari contenziosi; ad essa, peraltro, ha fatto riscontro un incremento degli affari consultivi. Una prima analisi del dato segnalato induce a ritenere, innanzitutto, che tEMI IStItUzIoNALI 3 l’intensificarsi del dialogo tra l’Avvocatura e le Amministrazioni patrocinate, perseguito da entrambe le parti, favorisca la soluzione in via stragiudiziale delle potenziali vertenze e l'abbandono di quelle nelle quali non risulta costruttivo continuare a coltivare la fase giudiziale (nel solo ambito tributario, i ricorsi per cassazione sono diminuiti di oltre il 15%). La riduzione del contenzioso trova poi spiegazione anche in importanti riforme intervenute negli scorsi anni e delle quali hanno cominciato a prodursi gli effetti deflattivi. Mi riferisco innanzitutto alle novità che hanno riguardato i giudizi in materia di equa riparazione per eccessiva durata dei processi che hanno portato ad una drastica riduzione delle fasi contenziose di tali giudizi. Mi riferisco, inoltre, al contenzioso in materia di immigrazione. Le novità introdotte hanno comportato sicuramente una riduzione dell’impegno degli avvocati dello Stato in sede di merito, essendo stata ammessa in alcuni ambiti la difesa diretta dell’Amministrazione da parte dei suoi funzionari. Per contro, non può sottacersi che dette novità hanno comportato un notevole aumento dei relativi giudizi in Corte di Cassazione, essendo stato escluso il reclamo o l’appello avverso i provvedimenti di primo grado. 4. In conclusione non posso non ricordare - ed esprimere, al contempo, il sincero e grato riconoscimento di tutto l’Istituto e mio personale - che il Governo e il Parlamento hanno accompagnato le nuove misure in favore dell’Avvocatura dello Stato con significativi interventi sulla organizzazione dell’Istituto. Accanto ad un incremento delle dotazioni organiche degli Avvocati dello Stato e dei Procuratori dello Stato di 20 unità, non posso non richiamare la misura a favore del personale amministrativo, sostanziatosi nell’aumento della relativa dotazione organica e nella introduzione del ruolo della dirigenza amministrativa, da lungo tempo attesa. Questi interventi, insieme all’attribuzione dei nuovi rilevanti compiti prima citati, hanno costituito importanti e significativi segni di attenzione e di fiducia verso l’Istituto dei quali siamo tutti molto grati. Anche quest’anno concludo questo mio intervento certo di poterLe confermare, Signor Presidente della Repubblica, che l’Avvocatura dello Stato e tutti i suoi componenti continueranno a profondere il massimo impegno per essere all’altezza delle rilevanti funzioni loro assegnate, e per non deludere la fiducia che quotidianamente continua ad essere riposta in loro. Grazie, Signor Presidente della Repubblica, grazie Signor Primo Presidente e grazie a tutti per l’attenzione che avete prestato alle mie parole. Roma, 25 gennaio 2019 Palazzo di Giustizia, Aula Magna RASSEGNA AvvoCAtURA 4 DELLo StAto - N. 3/2018 CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO: LE FUNZIONI DI AGENTE DEL GOVERNO A DIFESA DELLO STATO ITALIANO CoMuniCAto dell’AvvoCAto GeneRAle (*) Comunico che in data odierna è entrata in vigore la legge 1 dicembre 2018, n. 132, di conversione del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113. In sede di conversione, è stato inserito, nell’art. 15 del decreto-legge, il comma 01, secondo il quale «le funzioni di agente del Governo a difesa dello Stato italiano dinanzi alla Corte europea dei diritti dell'uomo sono svolte dall’Avvocato generale dello Stato, che può delegare un avvocato dello Stato». viene, così, rafforzato il ruolo dell’Avvocatura nella difesa della Repubblica italiana dinnanzi alle Corti permanenti e ai tribunali arbitrali internazionali. Sono certo che, con il contributo di tutti i Colleghi, l’Avvocatura dello Stato saprà essere all’altezza di questa importante funzione, che si va ad affiancare a quella, già rivestita, di Agente di Governo dinnanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Ritengo che tale disposizione costituisca una ulteriore conferma della fiducia riposta nell’Istituto e dell’apprezzamento per l’attività fino ad oggi svolta da tutti i suoi componenti. Massimo Massella Ducci teri (*) E-mail da Segreteria Particolare, martedì 4 dicembre 2018. tEMI IStItUzIoNALI 5 RAPPRESENTANZA E DIFESA DELLA BANCA CENTRALE EUROPEA CoMuniCAto dell’AvvoCAto GeneRAle (*) Comunico che, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri in data 7 dicembre 2018, registrato dalla Corte dei Conti in data 4 gennaio 2019, l’Avvocatura dello Stato è stata autorizzata ad assumere la rappresentanza e la difesa della Banca Centrale Europea, nei giudizi attivi e passivi avanti le autorità giudiziarie, i collegi arbitrali, le giurisdizioni amministrative e speciali. Massimo Massella Ducci teri (*) E-mail da Segreteria Particolare, giovedì 10 gennaio 2019. RASSEGNA AvvoCAtURA 6 DELLo StAto - N. 3/2018 PROTOCOLLO D’INTESA TRA AVVOCATURA DELLO STATO E ANAC (*) Si rende noto che sul sito web istituzionale è stato pubblicato il protocollo di intesa stipulato tra l’Avvocatura dello Stato e l’ANAC in data 9 novembre 2018, con il quale sono state disciplinate le eventuali ipotesi di conflitto tra Amministrazioni ed Enti che si avvalgono del patrocinio erariale in sede di applicazione dell’art. 211 del Codice dei Contratti pubblici, disposizione che attribuisce all’ANAC la legittimazione ad impugnare i bandi, gli altri atti generali e i provvedimenti relativi a contratti di rilevante impatto, emessi da qualsiasi stazione appaltante, qualora ritenga che essi violino le norme in materia di contratti pubblici. IL SEGREtARIo GENERALE avv. Paolo Grasso PROTOCOLLO D'INTESA TRA AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO E AUTORITÀ NAZIONALE ANTICORRUZIONE L'Avvocatura Generale dello Stato (di seguito denominata Avvocatura), in persona dell'Avvocato Generale dello Stato Massimo Massella Ducci teri E L'Autorità Nazionale Anticorruzione (di seguito denominata ANAC), in persona del Presidente, dott. Raffaele Cantone VISTI a) il Regio Decreto 30 ottobre 1933, n. 1611 - Approvazione del t.U. delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull'ordinamento dell'Avvocatura dello Stato e successive modifiche ed interazioni; b) la Legge 3 aprile 1979, n. 103 - Modifiche dell'ordinamento dell'Avvocatura dello Stato; c) il decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, come modificato ed integrato dal decreto legislativo 19 aprile 2017, n. 56, recante "Attuzione delle direttive 2014/23/ue, 2014/24/ue e 2014/25/ue sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture"; d) in particolare l'articolo 211, comma 1-bis, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 e successive modifiche ed integrazioni, che prevede la legittimazione ad agire in giudizio dell'ANAC per l'impugnazione dei bandi, degli altri atti generali e dei provvedimenti relativi a contratti di rilevante impatto, emessi da qualsiasi stazione appaltante, qualora ritenga (*) E-mail da Segreteria generale, lunedì 31 dicembre 2018. tEMI IStItUzIoNALI 7 che essi violino le norme in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture; e) l'articolo 211, comma 1-ter, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 e successive modifiche ed integrazioni, che prevede che l'ANAC, se ritiene che una stazione appaltante abbia adottato un provvedimento viziato da gravi violazioni del Codice dei contratti pubblici, emette, entro sessanta giorni dalla notifica della violazione, un parere motivato nel quale indica specificatamente i vizi di legittimità, trasmettendolo alla stazione appaltante; se quest'ultima non vi si conforma entro il termine assegnato, comunque non superiore a sessanta giorni dalla trasmissione, l'ANAC può presentare ricorso, entro i successivi trenta giorni, innanzi al giudice amministrativo; f) il Regolamento di ANAC del 13 giugno 2018 sull'esercizio dei poteri di cui all'articolo 211, commi 1-bis e 1-ter, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 e successive modifiche ed integrazioni; Considerato - che, ai sensi dell'art. 1 del Regio Decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, spetta all'Avvocatura la rappresentanza, il patrocinio e l'assistenza in giudizio dell'ANAC; - che, ai sensi dell'art. 43 del succitato Regio Decreto, l'Avvocatura può assumere la rappresentanza e la difesa di Amministrazioni non statali ed Enti sovvenzionati, purché sia autorizzata da disposizione di legge, di regolamento o altro provvedimento; in tali casi, la rappresentanza e la difesa sono assunte dall'Avvocatura in via organica ed esclusiva, eccettuati i casi di conflitto di interesse con lo Stato o con le Regioni. Salve le ipotesi di conflitto, ove tali Amministrazioni ed Enti intendano in casi speciali non avvalersi dell'Avvocatura dello Stato, debbono adottare apposita motivata delibera da sottoporre agli organi di vigilanza; - che, ai sensi dell'art. 10 della Legge 3 aprile 1979, n. 103, le funzioni dell'Avvocatura nei riguardi dell'Amministrazione statale sono estese alle Regioni a statuto ordinario, che decidano di avvalersene con apposita delibera del Consiglio regionale; in tal caso possono tuttavia, in particolari casi e con provvedimento motivato, avvalersi di avvocati del libero Foro; - che è opportuno disciplinare le eventuali ipotesi di conflitto tra Amministrazioni ed Enti che si avvalgono del patrocinio erariale in sede di applicazione dell'art. 211 del Codice dei Contratti pubblici, anche in considerazione del breve termine previsto ex lege per l'impugnazione; CONVENGONO QUANTO SEGUE Art. 1 (Finalità) Con il presente Protocollo le Parti intendono individuare in via preventiva e generale i casi in cui, con riferimento al potere di legittimazione attiva previsto dall'art. 211 del D.Lgs. n. 50/2016, l'Avvocatura dello Stato assume la rappresentanza, il patrocinio e l'assistenza in giudizio dell'ANAC; Art. 2 (Patrocinio dell’Avvocatura dello Stato) L'Avvocatura assume la rappresentanza, il patrocinio e l'assistenza in giudizio dell'ANAC in tutti i casi in cui intenda procedere all'impugnazione dei bandi, degli altri atti generali e dei RASSEGNA AvvoCAtURA 8 DELLo StAto - N. 3/2018 provvedimenti relativi a contratti di rilevante impatto, di cui al comma 1-bis dell'art. 211 del decreto legislativo succitato, nonché degli atti previsti dal comma 1-ter del medesimo articolo, ad eccezione dei casi in cui gli atti da impugnare siano stati adottati da: a) Presidenza della Repubblica; b) Camera dei Deputati e Senato della Repubblica; e) Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministeri e strutture governative; d) altre Amministrazioni o Enti che abbiano, in precedenza, interessato l'Avvocatura con specifico riferimento agli atti che l'ANAC intende impugnare. Nei casi di cui alla lettera d) l'Avvocatura darà pronta comunicazione all'ANAC delle ipotesi di conflitto di interessi. Art. 3 (Comunicazioni) L'ANAC provvederà ad interessare gli Uffici dell'Avvocatura Generale e delle Avvocature Distrettuali competenti con congruo anticipo rispetto al termine di scadenza dell'impugnazione, inoltrando la richiesta di impugnazione, oltre che con le modalità ordinarie, all'indirizzo di posta elettronica della Segreteria particolare dell'Avvocato Generale o dell'Avvocato Distrettuale competente. Nei casi di competenza delle Avvocature Distrettuali la richiesta verrà inviata per conoscenza anche all'Avvocatura Generale, ai fini di raccordo. Art. 4 (Modalità attuative) Le Parti predispongono e diramano istruzioni operative per i propri Uffici al fine di garantire la massima collaborazione reciproca. L'Anac e l'Avvocatura possono individuare al proprio interno i membri, quali componenti di un gruppo di lavoro congiunto, per la realizzazione del presente accordo. È. facoltà delle Parti procedere alla sostituzione dei propri rappresentanti dandone tempestiva comunicazione all'altra Parte. Art. 5 (Referenti per la collaborazione) I Referenti per l'attuazione del presente Accordo sono: a. Per 1'ANAC: (1) sul piano programmatico: il Presidente (2) sul piano operativo: il Segretario Generale; b. Per l'Avvocatura (1) sul piano programmatico: L'Avvocato Generale (2) sul piano operativo: il Segretario Generale Art. 6 (Comunicazione) Le Parti confermano la reciproca disponibilità a promuovere congiuntamente, anche attraverso comunicato stampa o pubblicazione sui rispettivi siti istituzionali, la conoscenza dell'iniziativa e dei risultati conseguiti in esecuzione del presente Protocollo. Art. 7 (integrazioni, modifiche ed efficacia dell'accordo) Il presente Accordo ha una validità di anni due a decorrere dalla data della sottoscrizione e potrà essere rinnovato previa richiesta scritta di una delle parti ed adesione dell'altra, 30 giorni prima della scadenza, ovvero integrato o modificato di comune accordo prima della scadenza. tEMI IStItUzIoNALI 9 In caso di firma digitale, il termine di durata decorre dalla data di trasmissione, tramite posta elettronica certificata, dell'originale dell'atto munito di firma digitale, ad opera della parte che per ultima ha apposto la sottoscrizione. Art. 8 (oneri finanziari) Il presente Accordo non comporta alcun onere finanziario, atteso che le attività previste rientrano nei compiti istituzionali delle Parti contraenti. Non possono essere espletate attività aggiuntive istituzionali comportanti oneri di spesa Art. 9 (norme finali) Il presente accordo è esente dall'imposta di registrazione (salvo in caso d'uso) ai sensi dell'articolo 5 del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131. Per l'Avvocatura Generale dello Stato Per l'Autorità Nazionale Anticorruzione L'Avvocato Generale Il Presidente Massimo Massella ducci teri Raffaele Cantone RASSEGNA AvvoCAtURA 10 DELLo StAto - N. 3/2018 Avvocatura Generale dello Stato CIRCOLARE N. 45/2018 Oggetto: Definizione delle liti tributarie pendenti, prevista dall’art. 6 del D.L. 23 ottobre 2018 n. 119, pubblicato nella G.U. del 23 ottobre 2018 n. 247. Prime istruzioni. Il 24 ottobre 2018 è entrato in vigore il D.L. n. 119/2018, recante "disposizioni urgenti in materia fiscale e finanziaria". Il decreto, all'art. 6, ha previsto una "definizione agevolata delle controversie tributarie" in cui è parte l'Agenzia delle entrate. tale disposizione prevede che le controversie tributarie possano essere definite "a domanda del soggetto che ha proposto l'atto introduttivo del giudizio o di chi vi è subentrato o ne ha la legittimazione, con il pagamento di un importo pari al valore della controversia", mediante cioè il pagamento dell'intero tributo, con esclusione di interessi e sanzioni. tale importo si riduce alla metà ovvero ad un quinto, nei casi in cui l'Agenzia delle Entrate è stata soccombente rispettivamente nel primo ovvero nel secondo grado di giudizio. Per le sanzioni "non collegate al tributo" l'importo della definizione è fissato nel 40% del valore della causa ovvero nel 15% se l’Agenzia delle Entrate è stata soccombente nell'ultima decisione. Le sanzioni "collegate al tributo" non sono dovute anche quando sono oggetto di separata contestazione, sempreché il tributo sia stato definito ai sensi del medesimo art. 6, ovvero "anche con modalità diverse". In tali casi è comunque necessaria la presentazione della domanda di definizione (comma 6 ultimo periodo). Il comma 8 prevede che "Per controversia autonoma si intende quella relativa a ciascun atto impugnato". Ne consegue che la definizione può riguardare anche solo uno o più atti impositivi oggetto della medesima controversia. Requisiti soggettivi (comma 1) Sono definibili le sole controversie in cui è parte l'Agenzia delle Entrate, ivi comprese quelle dell'ex Agenzia del territorio (incorporata nell'Agenzia delle Entrate in forza dell'art. 23 quater del D.L. n. 95/2012) (1). La domanda di definizione può essere presentata dal "soggetto che ha proposto l'atto introduttivo del giudizio o di chi vi è subentrato o ne ha la legittimazione". Requisiti oggettivi (commi 1 e 4) Sono astrattamente definibili tutte le controversie, senza limiti di valore, "attribuite alla giurisdizione tributaria in cui è parte l'Agenzia delle entrate, aventi ad oggetto atti impositivi, pendenti in ogni stato e grado del giudizio, compreso quello in Cassazione e anche a seguito di rinvio" (comma 1), nelle quali "il ricorso in primo grado è stato notificato alla controparte entro la data di entrata in vigore del presente decreto" (comma 4). Non sono definibili le controversie "per le quali alla data di presentazione della do- (1) Sempreché ovviamente abbiano ad oggetto un atto impositivo. tEMI IStItUzIoNALI 11 manda" (che deve essere presentata entro il 31 maggio 2019) risulti emessa una "pronuncia definitiva", cioè passata in giudicato (comma 4). A differenza del precedente condono ex art. 11 del D.L. n. 50/2017 che faceva riferimento "all'atto impugnato", la disposizione attuale individua le controversie definibili come quelle "aventi ad oggetto atti impositivi". Devono pertanto ritenersi escluse dalla definizione le controversie avverso atti di mera riscossione (es. cartelle di pagamento precedute da un avviso di accertamento ovvero emesse per la riscossione di imposte dichiarate e non versate; avvisi di liquidazione emessi sulla base di dichiarazioni del contribuente ecc.). Controversie escluse (comma 5) Sono espressamente escluse dalla definizione le controversie concernenti "anche solo in parte": a) le risorse proprie tradizionali previste dall'articolo 2, paragrafo 1, lettera a), delle decisioni 2007/436/Ce, euratom del Consiglio, del 7 giugno 2007, e 2014/335/ue, euratom del Consiglio, del 26 maggio 2014, e l'imposta sul valore aggiunto riscossa all'importazione; b) le somme dovute a titolo di recupero di aiuti di Stato ai sensi dell'articolo 16 del regolamento (ue) 2015/1589 del Consiglio, del 13 luglio 2015. Sono pertanto da ritenersi definibili le controversie in materia di IvA (non all'importazione). Sono invece da ritenersi logicamente escluse dalla definizione le controversie aventi ad oggetto: a) istanze di rimborso (anche a seguito di diniego espresso), in quanto non relative ad un "atto impugnato" portante una pretesa del fisco; b) atti che non contengono una pretesa fiscale quantificata (es. i ricorsi contro provvedimenti di attribuzione di rendita catastale, di cancellazione dal registro delle oNLUS, di diniego di benefici o agevolazioni fiscali ecc.); c) atti di riscossione di somme per precedenti condoni; d) atti di mera riscossione non qualificabili come "atti impositivi". Perfezionamento della definizione (commi 6 e 9) Il comma 6 prevede che la definizione si perfeziona con il pagamento della prima (o dell'unica) rata, da effettuarsi entro il 31 maggio 2019, scomputando le somme eventualmente versate "a qualsiasi titolo in pendenza di giudizio" (comma 9; l'eventuale eccedenza tuttavia non può comunque essere rimborsata). Ne consegue che il mancato versamento delle rate successive alla prima, non farà venir meno la definizione e la successiva estinzione del giudizio (e l'Amministrazione dovrà ovviamente procedere alla riscossione coattiva delle somme ancora dovute). Il medesimo comma 6 prevede che "Qualora non ci siano importi da versare, la definizione si perfeziona con la sola presentazione della domanda". Ciò può accadere, ad esempio, allorché in sede di riscossione graduale in corso di causa sia già stata corrisposta una somma pari o superiore a quella prevista per la definizione. Sospensione dei giudizi in corso (comma 10) Il comma 10 che prevede che le controversie suscettibili di definizione "non sono sospese, salvo che il contribuente faccia apposita richiesta al giudice, dichiarando di volersi avvalere delle disposizioni del presente articolo. in tal caso il processo è sospeso fino al 10 RASSEGNA AvvoCAtURA 12 DELLo StAto - N. 3/2018 giugno 2019. Se entro tale data il contribuente deposita presso l'organo giurisdizionale innanzi al quale pende la controversia copia della domanda di definizione e del versamento degli importi dovuti o della prima rata, il processo resta sospeso fino al 31 dicembre 2020". Pertanto nelle udienze davanti alla Corte di Cassazione non ci si potrà opporre a richieste di sospensione formulate dal contribuente, semprechè ovviamente la controversia sia astrattamente definibile. Sospensione dei termini (comma 11) Il comma 11 prevede che per le controversie suscettibili di definizione "sono sospesi per nove mesi i termini di impugnazione, anche incidentale, delle pronunce giurisdizionali e di riassunzione, nonché per la proposizione del controricorso in Cassazione che scadono tra la data di entrata in vigore del presente decreto e il 31 luglio 2019". Ne consegue che - ancorchè le cause siano condonabili - non devono ritenersi sospesi: a) i termini per il deposito delle controdeduzioni (in CtP e CtR); b) il termine per il deposito dei ricorsi (e controricorsi) eventualmente notificati; c) il termine lungo di impugnazione (di norma semestrale) delle sentenze depositate dal 1° febbraio 2019 in poi, in quanto verrebbe a scadere in data successiva al 31 luglio 2019. In relazione a questa ultima categoria di cause, è opportuno precisare che una eventuale notifica della sentenza durante il periodo di sospensione non sarebbe idonea né ad abbreviare il citato termine lungo (qualora il termine breve ricadesse comunque nel periodo soggetto a sospensione), né ad allungarlo (in base al noto principio secondo cui il termine di decadenza matura con lo scadere del termine lungo e non può essere posticipato da quello breve che eventualmente lo superi: Cass. SS.UU. n. 21197/2009; 27286/2011). Si precisa che trattandosi di un termine di sospensione (e non di proroga), nel termine di nove mesi deve ritenersi assorbito il termine di sospensione feriale (cfr. da ultimo, Cass. n. 9438/2017) (2). Diniego di definizione (comma 12) Il comma 12 prevede che "l'eventuale diniego della definizione va notificato entro il 31 luglio 2020 con le modalità previste per la notificazione degli atti processuali" (in mancanza, la definizione deve ritenersi valida) e che avverso tale atto è possibile proporre ricorso "entro sessanta giorni dinanzi all'organo giurisdizionale presso il quale pende la controversia. nel caso in cui la definizione della controversia è richiesta in pendenza del termine per impugnare, la pronuncia giurisdizionale può essere impugnata dal contribuente unitamente al diniego della definizione entro sessanta giorni dalla notifica di quest'ultimo ovvero dalla controparte nel medesimo termine". La norma prevede quindi che l'eventuale diniego va impugnato davanti allo stesso giudice presso il quale pende la controversia (e pertanto anche davanti alla Corte di Cassazione) per consentire evidentemente una trattazione congiunta con la causa principale. L'ultimo periodo prevede invece la possibilità per entrambe le parti, in caso di diniego emesso su istanza di definizione presentata tra un grado e l'altro di giudizio, di impugnare (2) Per effetto di tale meccanismo tutti i termini che vengono originariamente a scadere nel periodo ricompreso tra il 1° novembre e il 1° dicembre 2018, per effetto della sospensione di 9 mesi verranno tutti a scadere il giorno 1° settembre 2019. tEMI IStItUzIoNALI 13 l'ultima decisione anche oltre i termini ordinari, purché entro 60 giorni dalla notifica del diniego di definizione. Estinzione automatica dei giudizi (comma 13) Il comma 13 prevede che "in mancanza di istanza di trattazione presentata entro il 31 dicembre 2020 dalla parte interessata, il processo è dichiarato estinto, con decreto del Presidente. l'impugnazione della pronuncia giurisdizionale e del diniego, qualora la controversia risulti non definibile, valgono anche come istanza di trattazione. le spese del processo estinto restano a carico della parte che le ha anticipate". La disposizione sembrerebbe applicabile ai soli procedimenti sospesi ai sensi del comma 10 ultimo periodo ed appare finalizzata a provocare l'estinzione automatica delle cause definite, senza necessità di apposita istanza. Mancando tuttavia un richiamo espresso al comma 10, si riservano ulteriori istruzioni all'esito della conversione del D.L. 119/2018. Effetti verso i condebitori solidali (comma 14) Il comma 14 prevede che "la definizione perfezionata dal coobbligato giova in favore degli altri, inclusi quelli per i quali la controversia non sia più pendente, fatte salve le disposizioni del secondo periodo del comma 8" (il riferimento al secondo periodo del comma 8 sembra essere l'effetto di un refuso, in quanto è presumibile che - analogamente a quanto era disposto nel precedente condono ex art. 11 del D.L. n. 50/2017 - si volesse richiamare il comma 9, che prevede il divieto di restituzione delle somme già versate, ancorchè eccedenti). Gestione del contenzioso Alla luce di quanto sopra esposto, gli Avvocati e Procuratori assegnatari di affari tributari avranno cura di verificare le controversie per le quali non opera la sospensione dei termini, e di rimodulare (per le altre) le nuove scadenze (rispetto a quelle risultanti da NSSI). Come si è detto, dovranno ritenersi non sospesi: - i termini di impugnazione nelle cause non definibili; - in via cautelativa i termini di impugnazione nelle cause aventi ad oggetto cartelle di pagamento o avvisi di liquidazione (nel dubbio sulla loro qualificabilità come atti impositivi o di mera riscossione); - i termini per le controdeduzioni (nei giudizi tributari di merito) nonché per l'iscrizione a ruolo (anche in Cassazione). Qualora nella stessa causa siano impugnati più atti, uno solo dei quali suscettibile di definizione, la sospensione dei termini prevista per quest'ultimo dovrebbe comportare la sospensione dei termini per l'intera causa (Cass. n. 5038/2017). tuttavia un simile effetto sembra da escludersi nel caso di controversie concernenti gli atti espressamente esclusi dalla definizione (comma 5), la cui presenza appare ostativa in toto alla definibilità della controversia (i cui termini pertanto devono cautelativamente ritenersi non sospesi). La valutazione in ordine alla opportunità o meno di proporre comunque ricorso per cassazione nelle cause, il cui termine è sospeso, è rimessa a ciascun titolare dell'affare (3). oc- (3) Si ricorda che dalla Scrivania dell'Avvocato, nella sezione SCADENzE, è posbile inserire manualmente - tramite il tasto AGGIUNGI - un nuovo scadenziere su NNSI con la data di effettiva scadenza. RASSEGNA AvvoCAtURA 14 DELLo StAto - N. 3/2018 correrà tuttavia tenere conto che una volta venuta meno la sospensione dei termini, le originarie scadenze si sommeranno a quelle "ordinarie" medio tempore sopravvenute. È opportuno inoltre che in qualsiasi atto che venga redatto usufruendo del periodo di sospensione previsto dalla legge, sia chiaramente indicata nel frontespizio la disposizione (art. 6 comma 11) in base alla quale l'atto deve ritenersi tempestivo (onde evitare il rischio di pronunce di inammissibilità a distanza di tempo dalla disposta sospensione). Si fa riserva di ulteriori chiarimenti anche all'esito delle eventuali modifiche che potranno essere apportate in sede di conversione in legge del decreto. L'AvvoCAto GENERALE Massimo MASSELLA DUCCI tERI ContenzIoso CoMunItaRIo ed InteRnazIonale Marchio commerciale contrario all’ordine pubblico. Il controricorso della Repubblica Italiana nella causa La Mafia Franchises c. Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale Tribunale dell’unione europea, Sezione nona, SenTenza 15 marzo 2018, T-1/17 TRIBUNALE DELL'UNIONE EUROPEA CONTRORICORSO per la REPUBBLICA ITALIANA, in persona dell'Agente designato per il presente giudizio, assistito dal sottoscritto Avvocato dello Stato, domiciliato presso l'Ambasciata d'Italia in Lussemburgo nella causa T-1/17 La Mafia Franchises, SL v European Union Intellectual Property Office *** introduzione. 1. In data 23 luglio 2015, la Repubblica Italiana presentava all'Ufficio europeo per la proprietà intellettuale (EUIPO) domanda di nullità del MUE n. 5510921 (all. 1). Il marchio in questione è composto dalla scritta bianca "la mafia se sienta a la mesa", posta sullo sfondo di un quadrato nero ed accompagnata da una rosa rossa: all'interno di tale scritta le parole "La Mafia" sono molto più grandi delle restanti, ed occupano buona parte del marchio. Tale marchio è stato registrato, e viene impiegato quale segno distintivo, da una catena (franchise) di ristoranti, presenti in Spagna e Portogallo, che propongono ai loro clienti piatti della cucina italiana (1) in un contesto dichiaratamente ispirato (1) Più precisamente, tali ristoranti si qualificano espressamente quali "Ristoranti Italiani": si veda, a ti RASSEgNA AvvOCATURA 16 DELLO STATO - N. 3/2018 al mondo della Mafia (al quale si rifanno, exempli gratia, le scene raffigurate nei quadri appesi alle pareti, le livree dei camerieri, i nomi dei piatti e perfino le sedie, sulle quali sono impressi i nomi di boss mafiosi). 2. La decisione di avanzare la citata domanda di nullità era nata in seguito a numerose segnalazioni proveniente da comuni cittadini, giornalisti, membri del Parlamento Italiano ed Europeo e figure istituzionali (fra cui la Presidente della Commissione Parlamentare d'Inchiesta sul Fenomeno della Mafia), profondamente turbati sia dalla rappresentazione allegra e conviviale della Mafia che viene veicolata dal marchio in questione, sia dall'associazione tra la Mafia e l'Italia nascente dai prodotti e servizi per i quali il marchio in questione è stato registrato (2). 3. La domanda di nullità veniva presentata ai sensi degli artt. 52, co. 1, lett. a) e 7, co. 1, lett. f) RMUE, ed era supportata da copiosa documentazione concernente: i) gli strumenti normativi di cui si è progressivamente dotato l'ordinamento italiano per combattere la Mafia, grazie all'introduzione di fattispecie di reato tipiche (art. 416bis del Codice Penale italiano) e di strutture specificamente dedicate alla lotta a tale organizzazione (Direzione Nazionale Anti-Mafia, Direzioni Distrettuali Anti-Mafia, Direzione Investigativa Anti-Mafia) e al monitoraggio della stessa (Commissione Parlamentare d'Inchiesta sul Fenomeno della Mafia); ii) le numerose organizzazioni e iniziative della società civile volte a preservare il ricordo delle vittime della Mafia; iii) le modalità operative della Mafia, caratterizzate dalla brutalità dei delitti dalla stessa perpetrati e dalla spregiudicatezza nel colpire i rappresentanti dello Stato che si frappongano ai suoi interessi; iv) la pericolosità dell'azione mafiosa per le società democratiche, estesa ben al di là dei soli confini italiani; v) la profonda negatività del termine "Mafia" e derivati alle orecchie di persone di lingua italiana o spagnola e, più in generale, di ogni soggetto consapevole del portato simbolico di tale temine, nonché l'inaccettabilità dell'associazione tra tale termine e la cucina italiana, da un lato, e tra tale termine e una situazione di convivialità dall' altro (3). tolo di esempio, il recente post presente sul sito webufficiale del franchise in questione: http://lamafia.es/5-razones-por-las-que-comer-en-un-restaurante-italiano/ (2) Oltre ad offrire piatti della tradizione culinaria italiana, i ristoranti in questione sarebbero, secondo i proprietari del franchise in questione, decorati con uno stile (ispirato al mondo della Mafia, come si è visto) che permette di "spostarsi in Italia senza muoversi dalla propria città": http://la mafia.es/cenaren- un-restaurante-italiano-o-pedis-comida-italiana-domicilio/ (3) La domanda di nullità presentata dalla Repubblica Italiana di fronte all'EUIPO (allegata al presente controricorso come all. 1), è completa di allegati alla stessa, al fine di offrire una panoramica piena della documentazione cui ivi si accenna. CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 17 4. La Divisione di Annullamento dell'EUIPO accoglieva le tesi avanzate dalla Repubblica Italiana, con decisione del 3 marzo 2016 (all. 2), nella quale, in particolar modo, si evidenziava che: i) il marchio è chiaramente offensivo in quanto banalizza la minaccia che deriva da un'organizzazione criminale, dipingendola come un commensale; ii) tale banalizzazione è offensiva non soltanto per le vittime della Mafia, ma anche per chiunque sia consapevole del carattere violento delle organizzazioni mafiose; iii) il portato simbolico negativo del termine "Mafia" è minimizzato dall'accostamento dello stesso ad una rosa rossa e al sottotesto "si siede a tavola", che suggeriscono un'aura di convivialità; iv) l'esistenza di un trend teso a "romanticizzare" il fenomeno mafioso non impone all'EUIPO di tutelare gli interessi delle imprese che vogliano sfruttare detto trend; v) il contenuto semantico del marchio è compreso sia dai soggetti di lingua spagnola che da larga parte del pubblico italiano; vi) in ogni caso il pubblico rilevante, da considerare ai fini di cui all'art. 7, co. 1, lett. f), non è soltanto quello delle famiglie spagnole che vogliano cenare in un ristorante italiano, come sostenuto dalla Proprietà del marchio, ma anche quello composto dai cittadini italiani in Spagna (ivi residenti ovvero presenti per qualsivoglia ragione) che si imbattono nel marchio in questione. 5. Tale decisione veniva impugnata dalla Proprietà del marchio, con atto del 29 aprile 2016, innanzi alla Commissione di Ricorso EUIPO. Tale organo, con decisione del 27 ottobre 2016 (all. 3), adottata a conclusione della causa R 803/2016-1, confermava le statuizioni della divisione annullamento, in particolar modo evidenziando che: i) le pubbliche amministrazioni non devono prestare assistenza a quelle imprese che intendano promuovere i propri fini commerciali attraverso marchi che violino i valori fondamentali di una società civile; ii) l'esistenza dei presupposti di cui all'art. 7, co. 1, lett. f) deve essere valutata sulla base dei criteri esposti in tale norma, interpretati facendo riferimento al pubblico rilevante dell'Unione Europea, ovvero di una parte di esso; iii) l'ordine pubblico è l'insieme delle regole giuridiche necessarie per il funzionamento di una società democratica e dello stato di diritto; i marchi pertanto non devono promuovere attività manifestamente contrarie a tale insieme di regole, quali quelle di natura criminale e terroristica; iv) la normativa nazionale e la prassi amministrativa di uno Stato membro possono essere tenute in considerazione per valutare, con riferimento alla violazione dell'ordine pubblico, come siano percepite determinate categorie di simboli all'interno di quello Stato; RASSEgNA AvvOCATURA 18 DELLO STATO - N. 3/2018 v) il marchio contestato è "dominato" dal sostantivo "La Mafia", un'organizzazione notoriamente criminale, per contrastare la quale il governo Italiano ha speso considerevoli energie, e sulla cui pericolosità esiste pieno consenso a livello di Unione Europea; quest'ultima, peraltro, ha sviluppato una chiara policy di lotta al crimine organizzato ed ha approvato numerosi testi normativi e iniziative volti a combattere tale fenomeno; vi) il marchio contestato, promuovendo il nome di un'organizzazione criminale, è da ritenersi contrario all'ordine pubblico; vii) il marchio contestato offre altresì una raffigurazione conviviale del fenomeno mafioso, così banalizzando la minaccia che da esso promana; viii) tale marchio provoca forte turbamento nel pubblico italiano; in ogni caso, l'eventuale assenza di lamentele (pure smentita) in relazione al marchio, è irrilevante al fine di valutare la contrarietà dello stesso all'art. 7, co. 1, lett. f), così come irrilevanti sono le intenzioni del proprietario del marchio rispetto alla sua lesività dei beni enunciati all'art. 7, co. 1, lett. f). ix) l'esistenza di altri marchi contenenti il termine MAFIA è pure irrilevante, considerando che la contrarietà di un marchio all'ordine pubblico ed al buon costume deve essere valutata facendo esclusivo riferimento al RMUE come interpretato dalla giurisprudenza europea. 6. Avverso tale decisione ha proposto ricorso la Proprietà del marchio, sostenendo l'insussistenza dei presupposti per dichiarare la nullità del marchio, ai sensi degli artt. 52.1, lett. a), 3 7.1, lett. f), RMUE, e fondando il proprio ricorso sui seguenti argomenti: I) una determinata ricostruzione dei concetti di ordine pubblico e buon costume; II) la necessità di considerare il marchio nel suo complesso; III) la conseguente non contrarietà del marchio all'ordine pubblico e al buon costume, argomentata sulla base dei seguenti punti: a) l'esistenza di altri marchi contenenti il termine Mafia; b) il tipo di prodotti e servizi per i quali il marchio è registrato; c) la percezione del pubblico rilevante. 7. I suddetti argomenti costituiscono, in larga parte, mera riproposizione di quanto già sostenuto avanti all'EUIPO e dallo stesso puntualmente confutato; è, tuttavia, interesse della Repubblica Italiana, in quanto proponente della domanda di nullità sopra citata, contestare integralmente gli stessi, al fine di vedere confermata la decisione della Commissione di Ricorso EUIPO in merito alla nullità del marchio contestato. A tal fine, si procede ad esaminare, di seguito, gli argomenti poc'anzi riassunti, dimostrandone contestualmente l'infondatezza sia in fatto che in diritto. CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 19 I. definizioni di "ordine pubblico" e "buon costume" contenute nelle linee guida euIPo (paragrafi 12-21 del ricorso de la Mafia Franchises). 8. La ricorrente riporta alcuni passaggi, tratti dalle linee guida EUIPO per l'esame dei marchi, relativi ai concetti di "ordine pubblico" e "buon costume", limitandosi a sottolineare alcune frasi degli stessi, senza tuttavia specificamente spiegare ove l'EUIPO si sarebbe discostata dall'applicazione di tali concetti nella propria decisione relativa al marchio contestato (con l'unica eccezione di un riferimento alla mancata inclusione della Mafia tra le organizzazioni terroristiche). 9. Sotto tale profilo, il ricorso deve, innanzi tutto, ritenersi irricevibile in parte qua. Secondo la costante giurisprudenza del Tribunale, infatti, "in forza dell'articolo 21, primo comma, dello Statuto della Corte di giustizia dell'unione europea, applicabile al procedimento dinanzi al Tribunale conformemente all'articolo 53, primo comma, del medesimo Statuto, e dell'articolo 76, lettera d), del regolamento di procedura del Tribunale, l'atto introduttivo del ricorso deve indicare, tra l'altro, l'oggetto della controversia e un'esposizione sommaria dei motivi dedotti. Tali indicazioni devono essere sufficientemente chiare e precise per consentire alla parte convenuta di predisporre la propria difesa e al Tribunale di pronunciarsi sul ricorso, eventualmente senza ulteriori informazioni. nella prospettiva di garantire la certezza del diritto e una buona amministrazione della giustizia, affinché un ricorso sia considerato ricevibile, è necessario che gli elementi essenziali di fatto e di diritto sui quali esso si fonda emergano, anche sommariamente, purché in modo coerente e comprensibile, dal testo dell'atto introduttivo stesso" (ord. 19 settembre 2016, causa T-5/16, Gregis/euipo, quinto par. e giurisprudenza ivi citata). 10. Tanto premesso, nel merito, la Repubblica italiana sottolinea, innanzitutto, che, come chiarito da diffusa giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale sul punto (per tutte si vedano le sentenze: alcon/oHmi, n. C-412/05 P, p. 65, e Sadas/oHmi - lTJ diffusion, n. T-346/04, p. 71), la validità di un MUE deve essere giudicata esclusivamente con riferimento al RMUE, come interpretato dal Tribunale e dalla Corte di giustizia dell'Unione Europea, e non alla prassi decisionale dell’EUIPO: di per sé quindi, un'eventuale discrasia tra le linee guida dell'EUIPO e la decisione di tale organo non proverebbe nulla in merito alla validità del marchio impugnato. 11. In ogni caso, le menzionate linee guida, ad una lettura completa, lungi dal corroborare la posizione della ricorrente, delineano un quadro dei due concetti contenuti all'art. 7, co. 1, lett. f), pienamente rispondente alle tesi sostenute dalla Repubblica Italiana nella propria domanda di nullità. 12. Con riferimento all'ordine pubblico, esse affermano che: "nell'ambito dell'articolo 7, paragrafo 1, lettera f), rmue, «ordine pubblico» si riferisce al corpus giuridico dell'unione applicabile in un determinato settore, nonché all'ordinamento giuridico e allo Stato di diritto definiti dai trattati RASSEgNA AvvOCATURA 20 DELLO STATO - N. 3/2018 e dalla normativa derivata dell'unione, che riflettono una comprensione comune di alcuni principi e valori fondamentali, come i diritti umani. il seguente elenco, non esaustivo, comprende esempi di casi in cui i segni rientreranno in tale divieto: - I marchi contrari ai principi e ai valori fondamentali dell'ordine politico e sociale europeo e, in particolare, ai valori universali sui quali si fonda l'Unione europea, come la dignità umana, la libertà, l'uguaglianza e la solidarietà e al principio di democrazia e dello stato di diritto, sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'unione europea (Gu C 83/389, 30 marzo 2010) ". 13. Come si è già accennato, la Mafia è radicalmente ed intrinsecamente incompatibile con qualsiasi organizzazione politica e giuridica che basi la propria azione sul principio di legalità e sul rispetto delle vite dei propri consociati; l'Unione Europea nasce con obiettivi opposti e incompatibili rispetto a quelli delle organizzazioni mafiose, che costituiscono quindi una minaccia esiziale per la sopravvivenza dell'Unione Europea; la Mafia e l'ordine pubblico europeo, come sopra definito, sono, in altri termini, inconciliabili, e un marchio che neghi questa incompatibilità, presentando la Mafia come un fenomeno inoffensivo se non addirittura apprezzabile (elevandola a commensale), è, per logica conclusione, contrario all'ordine pubblico. 14. Tale conclusione è rafforzata dalle stesse linee guida (Parte B, Sezione 4) che, nell'elencare degli esempi di marchi ritenuti contrari all'ordine pubblico, indicano il marchio contenente la scritta "mechanical apartheid": è evidente, dall'analisi di un simile marchio, che la scritta in sé non incita al compimento di azioni rivolte contro l'ordine pubblico o comunque capaci di infrangere quei valori che, come si è visto, sono alla base dell'ordine pubblico stesso; il marchio è stato ritenuto dall'EUIPO contrario all'ordine pubblico perché contenente un riferimento ad un regime nel quale detti valori erano sistematicamente calpestati. 15. Un'applicazione coerente di tale criterio non può non imporre di ritenere contrario all'ordine pubblico anche un marchio, quale quello oggetto del presente giudizio, contenente un esplicito riferimento positivo (o comunque neutro) a un sistema di potere, quello mafioso per l'appunto, che nega proprio quei valori e quei diritti che sono alla base dell'ordine pubblico europeo. 16. Anche la decisione di negare la registrazione del marchio contenente la scritta "bin ladin", pure riportata nelle citate linee guida (ibidem), conforta la tesi testé espressa: detto marchio è stato infatti rigettato perché il nome Bin Ladin è indissolubilmente connesso a crimini contrari all'ordine pubblico; giova, peraltro, evidenziare che il marchio in questione traeva origine dal nome proprio del titolare dell'impresa che avrebbe prodotto i beni per i quali il marchio era pensato: il rifiuto della registrazione è stato quindi basato sulla circostanza oggettiva della connessione del nome Bin Ladin con crimini contrari all'ordine pubblico. Ribadendo ancora una volta che i crimini mafiosi attentano al cuore dell'ordine pubblico, come sopra definito, è giocoforza ritenere con CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 21 trari all'ordiné pubblico quei marchi che utilizzino a scopo commerciale la parola Mafia, privandola dei connotati negativi che le sono propri. 17. Discende, altresì, da quanto osservato, l'assoluta irrilevanza della mancata inclusione della Mafia tra le organizzazioni terroristiche di cui alla posizione comune 2001/931/PESC del Consiglio dell'Unione europea (paragrafo 18 del ricorso de La Mafia Franchises), a cui pure la ricorrente annette tanta importanza: innanzitutto, come si è visto, la lista contenuta nelle linee guida è espressamente definita "non esaustiva"; in secondo luogo, per le ragioni indicate al punto 12, i marchi contenenti riferimenti "apologetici" alla Mafia ricadono nel punto n. 1 della citata lista; da ultimo, occorre sottolineare che la posizione comune, sopra menzionata, ha un valore ricognitivo, e non certo definitorio: sarebbe illogico pensare che un'organizzazione non possa essere ritenuta terroristica dall'EUIPO, fintanto che non sia inserita nella citata lista; è, semmai, vero il contrario, ossia che un'organizzazione ivi inserita non potrà non essere ritenuta terroristica; è, tuttavia, facile argomentare che la mancata inclusione della Mafia nella lista si spiega in ragione del carattere settoriale della stessa, finalizzato appunto esclusivamente ad individuare organizzazioni di natura terroristica, laddove la Mafia ha, in maniera preponderante, carattere e finalità criminali; ciò non toglie in alcun modo che tali profili rendano la Mafia incompatibile con l'ordine pubblico, dovendosi altrimenti ritenere, come pare fare la ricorrente, che solo le organizzazioni terroristiche possano essere ritenute contrarie all'ordine pubblico (il che, come reso evidente dalla decisione relativa al marchio "mechanical apartheid", non è). 18. Per mero scrupolo difensivo, nella denegata ipotesi in cui il Tribunale dovesse accedere a una definizione più ristretta del concetto di ordine pubblico, ovverosia quale complesso di specifiche norme del diritto positivo vigenti ad un dato momento, la Repubblica Italiana espressamente rimanda alle argomentazioni svolte nei precedenti gradi di giudizio (in particolar modo nella propria opposizione all'appello proposto dalla Proprietà del marchio, all. 4), laddove ha evidenziato che esistono specifiche previsioni, sia nel diritto spagnolo, che in quello italiano ed europeo, che rendono il marchio incompatibile anche con una definizione più ristretta di ordine pubblico, qui di seguito sintetizzate: i) art. 416bis del Codice Penale italiano relativo alle associazioni di tipo mafioso; ii) decreto legge 367/91 che istituisce la Direzione Nazionale Anti-Mafia e le Direzioni Distrettuali Anti-Mafia; iii) decreto legge 345/91 che istituisce la Direzione Investigativa Anti-Mafia; iv) legge 509/96 che istituisce una Commissione Parlarmentare di inchiesta sul fenomeno mafioso; v) decreto legge 7/2015 che attribuisce alla Direzione Investigativa Anti- Mafia il compito di coordinare a livello nazionale le indagini relative al terrorismo; RASSEgNA AvvOCATURA 22 DELLO STATO - N. 3/2018 vi) art. 578.1 del Codice Penale spagnolo che punisce l'apologia o la giustificazione dei delitti di natura terroristica ovvero degli esecutori degli stessi e gli atti volti ad umiliare ovvero gettare discredito sulle vittime dei delitti terroristici ovvero sui familiari delle stesse; vii) gli artt. 10 e 18.1 della Costituzione spagnola, come interpretati dalla sentenza n. 846/2015 del 30 dicembre 2015 della Corte Suprema spagnola in relazione agli atti che umilino ovvero offendano le vittime di terrorismo; viii) la direttiva UE n. 2012/29, relativa agli standard minimi da assicurare nel supporto alle vittime di crimini, che espressamente associa, all'art. 22.3, le vittime di terrorismo alle vittime del crimine organizzato. 19. Per quel che concerne il buon costume, le linee guida affermano: "11 concetto di buon costume di cui all'articolo 7, paragrafo 1, lettera f), rmue non riguarda il cattivo gusto o la protezione di sentimenti personali. per violare l'articolo 7, paragrafo 1, lettera f), rmue, un marchio deve essere percepito dal pubblico di riferimento, o almeno da una sua parte importante, come rivolto direttamente contro le norme morali fondamentali della società. (...) La normativa nazionale e la prassi degli Stati membri sono elementi da tenere in considerazione al fine di valutare la percezione di talune categorie di segni da parte del pubblico di riferimento negli Stati membri interessati". 20. Come si è ampiamente argomentato e dimostrato nella fase di contestazione dinanzi all'EUIPO, e come si avrà modo di meglio precisare in seguito, la Mafia è un fenomeno intrinsecamente connesso a morte e violenza. Seppur particolarmente sentito, per ovvie ragioni, in Italia, il fenomeno mafioso è capace di suscitare sentimenti di paura, disgusto, e rigetto in una vasta fascia del pubblico di consumatori europei consapevoli dei crimini di cui tale organizzazione si macchia. 21. Una società che accetti di convivere con la Mafia non può sopravvivere come società democratica: essa sarà divorata dall'interno dal germe mafioso che imporrà i propri "valori" carichi di sangue ed oppressione. Non è difficile, quindi, capire perché la Repubblica Italiana insista nel ribadire che l'assoluta estraneità e l'aperto rigetto di qualsivoglia espressione del potere mafioso sono uno dei cardini di una società propriamente democratica, norma morale fondamentale della stessa. 22. Un marchio che neghi la necessità di tale rigetto e, al contrario, suggerisca la possibilità di una convivialità con i mafiosi, si pone in diretto contrasto con tale norma fondamentale. giova, a questo proposito, ricordare che il fenomeno mafioso è ritenuto talmente inaccettabile dalla società italiana che il diritto penale di tale paese ha elaborato la figura della "partecipazione" ad associazioni di tipo mafioso, punita in quanto tale, senza la necessità che ad essa consegua la commissione di ulteriori reati (4). Sempre con riferimento alle norme morali (4) Art. 416bis del Codice Penale Italiano, sopra citato. CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 23 fondamentali che reggono la società europea, non può non annoverarsi, tra le stesse, il rispetto per chi ha sacrificato la propria vita combattendo il fenomeno mafioso, ovvero l'ha persa perché risultava d'intralcio alla Mafia. 23. Il marchio contestato, nel presentare in chiave conviviale la Mafia, viola anche questa ulteriore norma morale fondamentale, rivelandosi fonte di profondo turbamento per chi, conscio della reale natura della Mafia, veda tale nome adornato da una rosa, proposto come commensale, ed associato ad un luogo di svago e piacere quale un ristorante. II. le decisioni "MaFIa II" e "ContRa-Bando" (paragrafo 22 del ricorso de la Mafia Franchises). 24. La ricorrente allega al proprio ricorso due decisioni delle Commissioni di Ricorso EUIPO che definisce "analoghe" al caso odierno, con le quali è stata ritenuta legittima la registrazione dei marchi "MAFIA II" e "CONTRA-BANDO". 25. Ribadendo quanto già osservato al punto 10, con riferimento alla irrilevanza delle prassi seguite dall'EUIPO per stabilire la validità di un MUE, la Repubblica italiana evidenzia che, da tali decisioni, emergono con chiarezza elementi che confermano la correttezza della decisione della Commissione di Ricorso EUIPO nel confermare la dichiarazione di nullità del marchio oggetto del presente giudizio. 26. Con riferimento alla decisione relativa al marchio "MAFIA II", la Commissione di Ricorso ha, infatti, precisato che: "i beni per i quali il marchio viene richiesto sono essenzialmente giochi per pc e videogiochi, libri, e servizi televisivi o d'intrattenimento. Per tali beni, il crimine è un argomento di riferimento frequente e comune. (...). È certamente vero che i marchi non devono appoggiare attività manifestamente rivolte contro l'ordine pubblico, come quelle di natura terroristica (decisione del 29 settembre 2004, r 176/2004-2, 'bin ladin) o criminale. Tuttavia, il messaggio semantico, se ve n'è uno, del simbolo in questione deve essere analizzato. 1l mero riferimento al nome di un gruppo di persone che si presume commettano crimini non è una dichiarazione di supporto al crimine. Tanto meno in relazione ai beni e servizi per cui si chiede la registrazione, per i quali l'interpretazione più logica e lineare è che in tali libri o giochi, il crimine organizzato viene combattuto, in modo del tutto fittizio" (5). (5) "The claimed goods are essentially computer and video games, books, and entertainment or television services. For them, crime as a subject-matter is freguent and common. (...) it is certainly true that trade marks must not endorse activities that are manifestly directed against the public order, such as of a terrorist (decision of 29 September 2004, r 176/2004-2, 'bin ladin') or criminal nature. However, the semantic message, if there is one, of the sign in issue must be analysed. The mere reference to the name of a group of people who are supposed to commit crimes is not a statement to support crime. all the less this is so in conjunction with the claimed goods and services, where the more logical and straighforward interpretation would be that in those books or games, organised crime is fought, on a purely fictional basis". RASSEgNA AvvOCATURA 24 DELLO STATO - N. 3/2018 27. La Commissione di Ricorso, quindi, ha ritenuto, nel caso di specie, registrabile il marchio, in quanto lo stesso conteneva un "mero riferimento" alla Mafia, privo di qualsiasi apprezzamento; il marchio, in altre parole, tratta la Mafia per quello che è, ossia un pericoloso fenomeno criminale, che infatti dà origine alle lotte cruente che sono alla base del videogioco. Altrettanto non può dirsi del marchio oggetto del presente giudizio, il quale, come si è più volte ripetuto, menziona la Mafia quale possibile commensale e banalizza la portata criminale della sua essenza. 28. Per quel che concerne la decisione relativa al marchio "CONTRA-BANDO", appare estremamente labile l'asserita analogia col caso odierno. Il marchio appena citato, infatti, è stato ritenuto valido, in tale decisione, innanzitutto in ragione della separazione del termine "contrabando" in due distinte parole, "contra" e "bando", circostanza che evidentemente non ricorre, nemmeno per analogia, nel caso odierno; in secondo luogo, l'uso di un marchio comunque allusivo ad un'attività illegale è stato, nel predetto caso, giustificato sulla base dei prodotti per i quali il marchio era registrato (prodotti alcolici) e del pubblico a cui gli stessi si rivolgevano (costituito esclusivamente da adulti): nessuna di tali circostanze ricorre nel caso di specie, concernente un marchio utilizzato per ristoranti, nei quali oltretutto sono specificamente presenti delle aree per bambini, come ammesso dalla stessa ricorrente nel proprio atto; strettamente connessa a quanto appena osservato è la considerazione per cui il marchio "CONTRA-BANDO" è valido, pur contenendo un "simbolo discutibile" in quanto allusivo ad un'immagine trasgressiva e ribelle: neppure tale circostanza ricorre nel caso dei ristoranti aventi marchio "la mafia se sienta a la mesa". III. necessità di considerare il marchio nel suo complesso (paragrafi 23- 27 del ricorso de la Mafia Franchises). 29. La ricorrente sostiene che il marchio vada considerato nel suo complesso, in tutti gli elementi costitutivi dello stesso, che non si riducono all'espressione "La Mafia". Tale considerazione complessiva, sembra di capire, "salverebbe" il marchio dalla dichiarazione di nullità: la ricorrente tuttavia omette completamente di spiegare in che modo gli altri elementi che compongono il marchio siano in grado, specificamente, di ridurre la lesività dello stesso rispetto alla previsione di cui al menzionato art. 7, co. 1, lett. f). In realtà, le considerazioni che la ricorrente svolge con tale argomento a difesa del marchio, sono in parte infondate ed in parte controproducenti. 30. Dette considerazioni sono infondate, laddove tentano di sminuire la rilevanza del termine "La Mafia" all'interno del marchio. Dall'osservazione del marchio in questione emerge, infatti, ictu oculi che "La Mafia" è l'elemento assolutamente preponderante all'interno del marchio; esso, peraltro, è, per stessa ammissione della ricorrente, il filo conduttore dell'idea commerciale posta alla base del marchio, ovverosia una catena di ristoranti a tema mafioso CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 25 (che, molto significativamente, ha registrato il proprio sito web all'indirizzo www.lamafia.es). 31. Proprio la necessità di considerare il marchio unitamente ai prodotti per i quali viene registrato, che a detta della ricorrente eviterebbe di far incorrere il marchio nella dichiarazione di nullità, conduce invece a concludere che l'associazione tra il termine "La Mafia", anche singolarmente considerato (precisazione, questa, necessaria al fine di evitare future contestazioni sul punto) e dei ristoranti, ancora più laddove di cucina italiana, sia lesiva dei parametri fissati dall'art. 7, co. 1, lett. f), per i motivi sopra esposti, nonché per la natura offensiva dell'accostamento tra la cucina italiana (e, più in generale, la tradizione e l'immagine del Paese che la stessa rappresenta ovunque nel mondo (6)) e il fenomeno mafioso. 32. Dando per assodato che il termine "La Mafia", singolarmente considerato, sarebbe di per sé lesivo dell'art. 7, co. 1, lett. f), se associato a dei ristoranti, le predette considerazioni sono altresì controproducenti perché, nell'elencare gli elementi costitutivi del marchio contestato, delineano un'immagine accattivante, glamour, in cui il termine "La Mafia", pure preponderante, viene, per così dire, stemperato su uno sfondo elegante ed invitante, nel quale il termine, di per sé evocativo di violenza e morte, viene, invece, associato ad elementi piacevoli (dirimente, in tal senso, il più volte evidenziato "se sienta a la mesa"). 33. Anche in tal caso, peraltro, la considerazione del marchio unìtamente ai prodotti per i quali è registrato non giova allo stesso, in quanto tale immagine, così accattivante, è associata a dei ristoranti dichiaratamente ispirati al rituale mafioso, raccontato nel libro "la mafia se sienta a la mesa", consistente nel ritrovarsi a tavola per pianìficare delitti. Il contenuto semantico del marchio quindi (La Mafia se sienta a la mesa), evocativo di episodi macabri, viene associato ad una grafica invitante e a dei prodotti conviviali, piacevoli (7). IV. Percezione del consumatore ragionevole ed esistenza di altri marchi contenenti la parola Mafia (paragrafi 28-36 del ricorso de la Mafia Franchises). 34. La ricorrente, partendo dal presupposto per cui la Mafia è stata utilizzata in diversi libri e film (paragrafo 31 del ricorso), giunge a sostenere, in modo del tutto apodittico, che il "pubblico generale", non percepisce il termine Mafia, usato in connessione con certi prodotti o servizi, come qualcosa che promuova o supporti un'organizzazione criminale ovvero attività criminale. 35. In proposito si osserva, innanzitutto, che le numerose segnalazioni che (6) L'associazione tra Mafia, cucina italiana e Italia, peraltro, è fatta dalla Proprietà del marchio stesso, che sulle pagine del proprio sito web. (7) v. all. 4 all'opposizione della Repubblica italiana al Ricorso presso la Commissione di ricorso (all. 4), pag. 82. RASSEgNA AvvOCATURA 26 DELLO STATO - N. 3/2018 hanno determinato la presentazione della domanda di nullità del MUE da parte della Repubblica italiana smentiscono seccamente le asserzioni di controparte in merito alla percezione del pubblico generale: l'azione volta ad ottenere la dichiarazione di nullità del marchio è nata proprio dallo stupore e dalla rabbia suscitati dal marchio in questione tra rappresentanti delle istituzioni e tra il pubblico in generale. 36. In ogni caso, anche a voler ritenere che il marchio in questione possa non essere visto come una forma di apprezzamento per un'organizzazione criminale, esso rimane comunque lesivo dell'art. 7, co. 1, lett. f), posto che accosta palesemente la suddetta organizzazione criminale a concetti positivi. 37. La ricorrente segnala l'esistenza di numerosi altri marchi contenenti la parola Mafia, e da questa osservazione deduce che il pubblico generale, incluso quello italiano, ritiene accettabile l'associazione tra il termine Mafia e i prodotti commerciali e che il proprio marchio sarebbe stato oggetto di un trattamento di sfavore da parte della Repubblica italiana nel momento in cui la stessa ha deciso di chiederne l'annullamento. 38. Sul punto si segnala, in via preliminare, che l'esistenza di altri marchi è del tutto irrilevante rispetto alla validità del marchio contestato, in quanto la stessa, come già osservato al punto 10, deve essere valutata solo in base all'interpretazione del RMUE fornita dalla giurisprudenza (sul punto è illuminante il caso Couture Tech ltd/uami, di cui alla causa T-232/10, deciso dal Tribunale con sentenza del 20 settembre 2011, nella quale viene chiarito - p. 80 - che neppure la previa registrazione, per un marchio diverso, del medesimo segno da parte dello stesso proprietario è sufficiente per garantire che il secondo non sia dichiarato invalido, se ritenuto contrario all'ordine pubblico e al buon costume). 39. venendo al merito delle censure mosse dalla ricorrente all'iniziativa della Repubblica Italiana, occorre precisare che la decisione di domandare l'annullamento del marchio in questione non nasce da un'operazione sistematica di scansione dei marchi esistenti, in esito alla quale lo Stato italiano procede a domandare l'invalidità di tutti quelli che ritenga contrari all'ordine pubblico o al buon costume, bensì, come si è detto, dalla spontanea iniziativa di coloro che si sono dovuti, loro malgrado, confrontare col marchio stesso e lo hanno trovato inaccettabile. L'origine "spontanea" dell'iniziativa della Repubblica italiana è, quindi, di per sé sola, sufficiente a spiegare anche l'esistenza di tanti marchi contenenti l'espressione mafia: la stragrande maggioranza dei marchi citati dalla ricorrente (e anche quelli non citati ma reperibili sul motore di ricerca TMview (8)) sono infatti, sostanzialmente, sconosciuti, e non hanno quindi raggiunto un numero di consumatori sufficiente a scatenare una reazione paragonabile a quella che può causare una catena di 37 ristoranti. (8) https://www. tmdn.org/tmview/welcome CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 27 40. Fatte queste dovute premesse, occorre, tuttavia, segnalare che, dall'analisi dei marchi che la ricorrente elenca a sostegno della propria tesi, si ricava una notevole superficialità nell'interpretazione degli stessi, e conseguentemente dell'accettabilità degli stessi per il grande pubblico, e un'incomprensione di fondo relativa all'utilizzo del termine Mafia. Nell'ordine: - i marchi relativi al videogioco "Mafia Wars" sono ripetuti più volte, sotto classi diverse, e in parte anche nel marchio "Mafia Wars Made", connesso al primo; tali marchi, peraltro, sono del tutto simili al marchio "Mafia II" (che pure viene citato nell'elenco), rispetto al quale si rinvia a quanto osservato sopra); - anche il marchio "goodgame Mafia" ed il marchio "gewinnspiel Mafia Bei Uns Ist gück Noch Ehrensache" risultano registrati da compagnie di giochi; - due dei marchi indicati (Al Capone e Meyer Lansky's) sono registrati per prodotti alcolici e tabacco, ed anche in questo caso si rimanda a quanto osservato in merito al marchio CONTRA-BANDO; - il marchio Spinach Mafia è connesso ad una linea di vestiti nei quali la parola Mafia non compare mai, restando per l'appunto relegata al marchio; - i marchi "Swedish house Mafia" e "House Mafia" sono intestati allo stesso proprietario e il secondo ha evidentemente lo scopo di evitare imitazioni servili del primo; - il marchio Mafia Free è, evidentemente, estraneo all'elenco in questione, indicando letteralmente prodotti "liberi dalla mafia", ed è quindi sorprendente che la ricorrente accusi l'Italia di non aver, colpevolmente, richiesto la sua cancellazione. 41. Posto quindi che l'elenco in questione è ben più snello di quanto appaia dalla rappresentazione fattane dalla ricorrente (anche in considerazione del fatto che per molti di questi marchi non è possibile trovare prodotti attualmente in commercio e l'effettiva assimilabilità degli stessi al marchio della ricorrente non può quindi essere provata), si rileva che in nessuno è presente l'espressione "La Mafia", e che al contrario la stragrande maggioranza antepone al termine "Mafia" una qualche specificazione. 42. L'osservazione è rilevante ai fini del presente giudizio in quanto, nei marchi così composti (termine "Mafia" preceduto da una specificazione), è possibile rinvenire l'utilizzo del termine "Mafia" nel senso di "organizzazione poco trasparente", già rilevato dallo stesso EUIPO nella propria decisione relativa al marchio "MAFIA II", sopra citata. Tale utilizzo, che evidentemente si ispira soltanto all'originario fenomeno criminale (rectius: alle strutture alla base dello stesso), è spesso ironico e innocuo: esso, tuttavia, presuppone, necessaria RASSEgNA AvvOCATURA 28 DELLO STATO - N. 3/2018 mente, l'utilizzo di un articolo indeterminativo prima del termine "Mafia", ovvero una specificazione (come nel caso del marchio, contenuto nell'elenco della ricorrente, "The fresh food mafia"). In netto contrasto a tale utilizzo, nel marchio dell'odierna ricorrente il soggetto che "si siede a tavola" non è un'organizzazione qualsiasi, bensì "La Mafia", inequivocabilmente identificata con un articolo determinativo. V. natura non comunicativa dei prodotti e servizi per i quali il marchio è registrato (paragrafi 37-40 del ricorso de la Mafia Franchises). 43. La ricorrente sostiene che la natura non "comunicativa" dei prodotti e servizi per i quali il marchio è registrato indica chiaramente che il marchio non è stato registrato con l'intento di essere offensivo, scioccante o violento. 44. Premesso che è difficile comprendere appieno il concetto di "bene comunicativo" accennato dalla ricorrente, si evidenzia innanzitutto che, tra i prodotti per i quali il marchio è registrato, figurano "servizi di pubblicità" (che pare legittimo includere tra i prodotti aventi natura comunicativa) e svariati capi di abbigliamento (grazie ai quali il marchio verrebbe, evidentemente, esposto a un pubblico ancora più vasto di quello che può imbattersi nelle insegne dei ristoranti). La distinzione tra prodotti comunicativi e non comunicativi, oltre che poco chiara, appare peraltro labile, in ragione della capillare diffusione del marchio in questione sui social network, attraverso la realizzazione di singole pagine dedicate ai ristoranti della catena. 45. In ogni caso tale distinzione avrebbe rilevanza solo ove avesse rilevanza la (asseritamente assente) volontà di offendere, scioccare o intimidire il consumatore: sennonché la giurisprudenza ha chiarito che tale volontà è assolutamente ininfluente rispetto alla validità del marchio stesso, essendo sufficiente, ai fini della dichiarazione di nullità, il fatto che il marchio possa essere visto come offensivo, scioccante etc. (sentenza 5 ottobre 2011, causa T-526/09, paKi logistics GmbH/uami, p. 16). VI. Concetto ispiratore della catena di ristoranti ed esistenza di altri ristoranti ispirati al medesimo concetto (paragrafi 41-47 del ricorso de la Mafia Franchises). 46. La ricorrente afferma che il "concetto" sottostante la propria catena di ristoranti non è la criminalità organizzata bensì il film "Il padrino", e che il marchio sarebbe percepito come una parodia, ovvero una riproduzione, dello scenario generale presente in tale film. 47. Tale distinzione, sulla quale è lecito dubitare stante la perfetta coincidenza tra il titolo del libro sopra citato e la scritta contenuta nel marchio, è del tutto irrilevante in riferimento alla validità del marchio, nel quale non compare alcun riferimento al film in questione e non può quindi essere valutato sulla base di un presunto "concetto" dallo stesso del tutto assente. È, in ogni caso, CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 29 opportuno ricordare che il film in questione concerne fatti di mafia, di cui il marchio contestato, come ribadito, non solo non fa una parodia, ma offre una palese banalizzazione. 48. Similmente, l'esistenza di altri ristoranti a tematica "malavitosa" non prova nulla rispetto alla validità del marchio, che deve essere valutata esclusivamente in relazione al marchio stesso ed eventualmente in associazione ai prodotti per i quali esso è registrato, ma non certo in relazione ad altri prodotti. 49. Per quel che concerne l'esistenza di un ristorante denominato "La mafia de la pizza nostra", e di un simile marchio, si ribadisce quanto già osservato in relazione all'esistenza di altri marchi contenenti la parola "Mafia" (ovverosia che marchi eventualmente invalidi che non siano stati dichiarati tali non sono di per sé sufficienti a rendere valido un marchio nullo), altresì sottolineando che anche in questo caso siamo di fronte ad un uso della parola "Mafia" seguita da una specificazione; il marchio in questione, in altre parole, precisa di far riferimento ad una specifica mafia, quella della pizza. VII. assenza di supporto delle organizzazioni criminali da parte degli avventori de "La Mafia se sienta a la mesa"; presenza di merchandising connesso alla mafia (paragrafi 48-55 del ricorso de la Mafia Franchises). 50. La ricorrente ribadisce che il marchio contestato non è stato creato al fine di minimizzare la serietà del fenomeno mafioso e afferma che non ha senso che un marchio che fa riferimento a un'organizzazione criminale sia diventato una delle catene di ristoranti più popolari in Spagna. 51. In merito al primo punto la Repubblica italiana si limita a richiamare quanto già precisato in relazione all'irrilevanza della volontà di registrare un marchio offensivo, scioccante, etc. 52. In merito al secondo punto si contesta l'individuazione, fatta dalla ricorrente, del pubblico rilevante per la valutazione di cui all'art. 7, co. 1, lett. f). Come chiarito dalla giurisprudenza, infatti, il pubblico da tenere in considerazione, allorché si valuta l'eventuale contrarietà di un marchio all'ordine pubblico e al buon costume, può anche coincidere con il pubblico presente in un singolo paese dell'Unione (9), ma soprattutto non coincide necessariamente con i consumatori del prodotto per cui il marchio è registrato, bensì con chiunque possa venire a contatto con lo stesso (10). 53. Infine la ricorrente segnala l'esistenza di merchandising connesso al mondo della malavita e reitera che vi sarebbe una disparità di trattamento tra l'accettazione, da un lato, di un simile commercio e la volontà, dall'altro, di cancellare il marchio contestato. (9) Sent. 20 settembre 2011 cit. al punto 38 (pp. 22-23). (10) Sent. 9 marzo 2012, T-417/10, Federico Cortés del Valle lópez/uami, p. 14; sent. 26 settembre 2014, T-266/13, brainlab aG/uami, p. 20; sent. 5 ottobre 2011, paKi logistics, cit., p. 18. RASSEgNA AvvOCATURA 30 DELLO STATO - N. 3/2018 54. Senza entrare nel dettaglio dei prodotti che la ricorrente accomuna sotto la definizione di merchandising (del tutto impropria rispetto ad alcuni di essi), si evidenzia che l’oggetto del presente giudizio non è la possibilità di utilizzare determinate immagini, decorazioni etc. (possibilità che, leggendo il ricorso di controparte, verrebbe meno a seguito della cancellazione del marchio: paragrafo 52 del ricorso), bensì la possibilità che una certa combinazione di immagini sia investita della dignità di marchio (come chiarito dallo stesso EUIPO nella decisione del 6 luglio 2006, conclusiva del procedimento R 0495/2005- g, SCreW You, paragrafo 13). 55. Lo scopo delle previsioni contenute nell'art. 7, co. 1, lett. f), non è quello di impedire ad ogni costo l'uso di una certa raffigurazione, bensì quello di evitare che raffigurazioni contrarie all'ordine pubblico ed al buon costume ricevano una protezione ed un riconoscimento ufficiali. gli oggetti citati dalla ricorrente quale merchandising non sono e non raffigurano marchi e non possono pertanto essere portati ad esempio di una tendenza generalizzata ad accettare marchi che minimizzino il carattere violento delle organizzazioni mafiose; in ogni caso, si ribadisce, quindi, nuovamente che, nella remota ipotesi in cui detti oggetti fossero, ovvero rappresentassero, marchi di tal fatta, la loro esistenza non sarebbe un argomento valido per impedire la cancellazione di altri marchi effettivamente contrari all'ordine pubblico o al buon costume. ConClusIonI 56. Alla luce delle suesposte ragioni, stante la palese inammissibilità del ricorso ex adverso proposto, nonché l'infondatezza dello stesso nel merito e nei suoi presupposti in diritto, si chiede l'integrale reiezione dello stesso, con contestuale conferma della decisione della Commissione di Ricorso EUIPO indicata in epigrafe e conseguente condanna della controparte alle spese del presente procedimento. **** Si allegano i seguenti documenti: 1. Domanda di nullità del MUE n. 5510921 2. Decisione della Divisione Annullamento EUIPO del 3 marzo 2016 3. Decisione della Commissione di Ricorso EUIPO del 27 ottobre 2016 4. Opposizione della Repubblica italiana all'appello dinanzi alla Commissione di Ricorso EUIPO. Roma, 6 aprile 2017 Danilo Del Gaizo Avvocato dello Stato (omissis) CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 31 tribunale dell’uunione europea, sentenza 15 marzo 2018 in causa t-1/17 - pres. S. gervasoni, rel. R. da Silva Passos - La Mafia Franchises / EUIPO - Italia (La Mafia SE SIENTA A LA MESA). «Marchio dell’Unione europea - Procedimento di dichiarazione di nullità - Marchio figurativo dell’Unione europea La Mafia SE SIENTA A LA MESA - Impedimento assoluto alla registrazione - Contrarietà all’ordine pubblico o al buon costume - Articolo 7, paragrafo 1, lettera f), del regolamento (CE) n. 207/2009 [divenuto articolo 7, paragrafo 1, lettera f), del regolamento (UE) 2017/1001]» Fatti 1 Il 30 novembre 2006 La Honorable Hermandad, SL, alla quale è succeduta La Mafia Franchises, SL, ricorrente, ha presentato una domanda di registrazione di marchio dell’Unione europea all’Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale (EUIPO), ai sensi del regolamento (CE) n. 40/94 del Consiglio, del 20 dicembre 1993, sul marchio comunitario (gU 1994, L 11, pag. 1), come modificato [sostituito dal regolamento (CE) n. 207/2009 del Consiglio, del 26 febbraio 2009, sul marchio dell’Unione europea (gU 2009, L 78, pag. 1), come modificato, a sua volta sostituito dal regolamento (UE) 2017/1001 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 giugno 2017, sul marchio dell’Unione europea (gU 2017, L 154, pag. 1)]. 2 Il marchio di cui è stata chiesta la registrazione è il seguente marchio figurativo: (...) 3 I prodotti e i servizi per i quali è stata chiesta la registrazione rientrano nelle classi 25, 35 e 43 ai sensi dell’Accordo di Nizza, del 15 giugno 1957, relativo alla classificazione internazionale dei prodotti e dei servizi ai fini della registrazione dei marchi, come riveduto e modificato, e corrispondono per ciascuna di dette classi alla seguente descrizione: – Classe 25: «Calzature (tranne quelle ortopediche), indumenti, t-shirt, berretti»; – classe 35: «Servizi di consulenza per la direzione e l’organizzazione commerciale; assistenza nella direzione degli affari; consultazioni per la direzione degli affari; consultazioni per la direzione degli affari; assistenza nella gestione di imprese commerciali che operano in franchising; servizi di pubblicità; emissione di contratti in franchising inerenti la ristorazione (alimentazione) e i bar-ristoranti»; – classe 43: «Servizi di ristorazione (alimentazione), bar, caffetterie, bar-ristoranti». 4 La domanda di marchio è stata pubblicata nel bollettino dei marchi comunitari n. 24/2007 dell’11 giugno 2007. Il marchio contestato è stato registrato il 20 dicembre 2007 con il numero 5510921. 5 Il 23 luglio 2015 la Repubblica italiana ha depositato presso l’EUIPO una domanda volta a far dichiarare la nullità del marchio controverso per tutti i prodotti e i servizi per i quali era stato registrato. 6 Il motivo di nullità dedotto a sostegno di tale domanda era quello indicato all’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), del regolamento n. 207/2009 [divenuto articolo 7, paragrafo 1, lettera f), del regolamento n. 2017/1001]. La Repubblica italiana ha ritenuto, in sostanza, che il marchio contestato fosse contrario all’ordine pubblico e al buon costume, dal momento che l’elemento verbale «mafia» rinviava ad un’organizzazione criminale e che l’uso che ne era fatto nel suddetto marchio al fine di designare la catena di ristoranti della ricorrente, oltre a suscitare sentimenti profondamente negativi, aveva come effetto RASSEgNA AvvOCATURA 32 DELLO STATO - N. 3/2018 di «manipolare» l’immagine positiva della gastronomia italiana e banalizzare il senso negativo di tale elemento. 7 Con decisione del 3 marzo 2016, la divisione di annullamento ha accolto la domanda di dichiarazione di nullità. 8 Il 29 aprile 2016 la ricorrente ha proposto un ricorso avverso la decisione della divisione di annullamento. 9 Con decisione del 27 ottobre 2016 (in prosieguo: la «decisione impugnata»), la prima commissione di ricorso dell’EUIPO ha confermato che il marchio contestato era contrario all’ordine pubblico e ha respinto il ricorso. 10 La commissione di ricorso ha precisato, in via preliminare, che la contrarietà all’ordine pubblico del marchio contestato doveva essere valutata alla luce della percezione del pubblico di riferimento situato nel territorio dell’Unione europea o in una parte di tale territorio, fermo restando che una registrazione di un marchio dell’Unione europea doveva essere annullata se un motivo di annullamento esisteva solo in una parte dell’Unione. 11 La commissione di ricorso ha poi considerato che, tenuto conto della sua dimensione e posizione nel marchio contestato, l’elemento verbale «la mafia» dominava tale marchio. La commissione di ricorso ha sottolineato che la Mafia è un’organizzazione criminale che il governo italiano combatte mediante una legislazione e misure di attuazione specifiche. Inoltre, la commissione di ricorso ha rammentato che la lotta contro la criminalità organizzata è parimenti un obiettivo principale delle istituzioni dell’Unione. La commissione di ricorso ha poi precisato che l’EUIPO, in quanto organismo dell’Unione europea, deve mantenere una posizione rigorosa nei casi che trasgrediscono i principi e i valori di base della società europea, tanto che ha il compito di negare la registrazione, per violazione dell’ordine pubblico, di ogni marchio dell’Unione europea che può essere considerato a sostegno o a profitto di un’organizzazione criminale. Al termine di tale esame, la commissione di ricorso ha considerato, da un lato, che il marchio contestato promuoveva manifestamente l’organizzazione criminale conosciuta con il nome di Mafia e, dall’altro, che l’insieme degli elementi verbali del marchio contestato trasmetteva un messaggio di convivialità e banalizzazione dell’elemento verbale «mafia», deformando così la serietà veicolata dallo stesso. 12 Infine, la commissione di ricorso ha confermato che il marchio contestato non doveva essere protetto dall’EUIPO e che tale conclusione non era influenzata né dal fatto che l’elemento verbale «mafia» è spesso stato impiegato nella letteratura e nel cinema né dal fatto che altri marchi dell’Unione europea che contengono tale elemento sono stati registrati dall’EUIPO. Conclusioni delle parti 13 La ricorrente chiede che il Tribunale voglia: – annullare la decisione impugnata; – dichiarare valido il marchio contestato; – condannare l’EUIPO alle spese. 14 L’EUIPO e la Repubblica italiana chiedono che il Tribunale voglia: – respingere il ricorso; – condannare la ricorrente alle spese. In diritto Sulla ricevibilità degli elementi presentati per la prima volta dinanzi al Tribunale CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 33 15 L’EUIPO contesta la ricevibilità degli allegati A.7, A.8 e A.9 del ricorso nonché la ricevibilità delle immagini e dei link di cui ai punti 44, 46 e 54 del suddetto ricorso e che rinviano a siti Internet. Infatti, tali elementi non sarebbero stati prodotti in nessuna fase del procedimento dinanzi all’EUIPO. 16 A tale riguardo, occorre rilevare che, tenuto conto dell’oggetto del ricorso previsto all’articolo 65 del regolamento n. 207/2009 (divenuto articolo 72 del regolamento 2017/1001), la funzione del Tribunale non è quella di riesaminare nell’ambito di un tale ricorso le circostanze di fatto alla luce dei documenti presentati dinanzi ad esso per la prima volta [v., in tal senso, sentenze del 24 novembre 2005, Sadas/UAMI - LTJ Diffusion (ARTHUR ET FELICIE), T-346/04, EU:T:2005:420, punto 19, e del 9 febbraio 2017, International gaming Projects/EUIPO - adp gauselmann (TRIPLE EvOLUTION), T-82/16, non pubblicata, EU:T:2017:66, punto 16]. 17 Nel caso di specie, e come ha riconosciuto la ricorrente in udienza, gli elementi di cui al punto 15 supra sono stati presentati per la prima volta nell’ambito del ricorso dinanzi al Tribunale. Occorre pertanto respingere tali elementi in quanto irricevibili senza che sia necessario esaminare il loro valore probatorio. Nel merito 18 A sostegno del ricorso, la ricorrente invoca un unico motivo vertente sulla violazione dell’articolo 52, paragrafo 1, lettera a), del regolamento n. 207/2009 [divenuto articolo 59, paragrafo 1, lettera a), del regolamento 2017/1001], in combinato disposto con l’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), di detto regolamento. 19 Mediante tale motivo, innanzitutto, la ricorrente fa valere che né l’organizzazione conosciuta con il nome Mafia né i suoi membri figurano nell’elenco di persone e di gruppi terroristici allegato alla posizione comune 2001/931/PESC del Consiglio, del 27 dicembre 2001, relativa all’applicazione di misure specifiche per la lotta al terrorismo (gU 2001, L 344, pag. 93), alla quale le direttive d’esame dell’EUIPO fanno riferimento al fine di illustrare il divieto di registrazione dei marchi dell’Unione europea contrari all’ordine pubblico di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), del regolamento n. 207/2009. 20 In seguito, la ricorrente ritiene che, secondo la prassi dell’EUIPO e la giurisprudenza, un marchio dell’Unione europea debba essere analizzato nel suo insieme. Orbene, il riferimento contenuto nel marchio contestato all’elemento verbale «mafia» non sarebbe sufficiente a concludere che lo stesso è percepito dal consumatore medio come volto a promuovere o a sostenere tale organizzazione criminale. Al contrario, gli altri elementi che compongono tale marchio implicherebbero piuttosto che lo stesso sia percepito come una forma di parodia o di riferimento ai film della saga il padrino. 21 Per di più, la ricorrente fa valere che i prodotti e i servizi designati dal marchio contestato non sono servizi «comunicativi», vale a dire servizi destinati ad essere utilizzati per trasmettere un messaggio. Pertanto, il marchio contestato non sarebbe stato registrato con l’intento di essere offensivo, scioccante o violento. Il pubblico in generale comprenderebbe, al contrario, che il marchio contestato è stato registrato per designare una catena di ristoranti, il cui «concetto» non rinvia ad un’organizzazione criminale, ma ai film della saga il padrino, e, in particolare, ai valori della famiglia e del corporativismo che tali film mettono in scena. 22 Infine, la ricorrente sostiene che molti marchi dell’Unione europea e italiani che contengono la parola «mafia» sono stati debitamente registrati e producono i loro effetti. La ricorrente cita, in particolare, al fine di illustrare tale punto, due decisioni della com RASSEgNA AvvOCATURA 34 DELLO STATO - N. 3/2018 missione di ricorso dell’EUIPO che, secondo la ricorrente medesima, presentano analogie con la presente causa, vale a dire la decisione del 13 gennaio 2012 nel procedimento R 1224/2011-4, relativa alla domanda di marchio dell’Unione europea MAFIA II, e la decisione del 7 maggio 2015 nel procedimento R 2822/2014-5, relativa alla domanda di marchio dell’Unione europea CONTRA-BANDO. 23 L’EUIPO e la Repubblica italiana contestano ciascuno di tali argomenti. 24 In via preliminare, occorre ricordare che, secondo l’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), del regolamento n. 207/2009, in combinato disposto con l’articolo 52, paragrafo 1, lettera a), del medesimo regolamento, i marchi contrari all’ordine pubblico o al buon costume sono dichiarati nulli. 25 L’interesse generale sotteso all’impedimento assoluto alla registrazione è di evitare la registrazione di segni che pregiudicherebbero l’ordine pubblico o il buon costume al momento del loro utilizzo nel territorio dell’Unione [sentenze del 20 settembre 2011, Couture Tech/UAMI (Raffigurazione dello stemma sovietico), T-232/10, EU:T:2011:498, punto 29, e del 26 settembre 2014, Brainlab/UAMI (Curve), T-266/13, non pubblicata, EU:T:2014:836, punto 13]. La registrazione di un marchio come marchio dell’Unione europea si scontra con tale impedimento assoluto alla registrazione in particolare se è gravemente offensivo [v., in tal senso, sentenza del 5 ottobre 2011, PAKI Logistics/UAMI (PAKI), T-526/09, non pubblicata, EU:T:2011:564, punto 12]. 26 La valutazione dell’esistenza dell’impedimento alla registrazione di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), del regolamento n. 207/2009 non può basarsi né sulla percezione della parte del pubblico di riferimento imperturbabile né, del resto, sulla percezione della parte del pubblico che si offende facilmente, ma deve essere effettuata sulla base di criteri di una persona ragionevole, di normale sensibilità e tolleranza [v., in tal senso, sentenze del 5 ottobre 2011, PAKI, T-526/09, non pubblicata, EU:T:2011:564, punto 12; del 9 marzo 2012, Cortés del valle López/UAMI (¡Que buenu ye! HIJOPUTA), T-417/10, non pubblicata, EU:T:2012:120, punto 21, e del 14 novembre 2013, Efag Trade Mark Company/UAMI (FICKEN LIQUORS), T-54/13, non pubblicata, EU:T:2013:593, punto 21]. 27 Inoltre, il pubblico di riferimento non può essere circoscritto, ai fini dell’esame dell’impedimento alla registrazione di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), del regolamento n. 207/2009, al pubblico al quale sono direttamente destinati i prodotti e i servizi per i quali la registrazione è richiesta. Occorre, infatti, tener conto del fatto che i segni oggetto di tale impedimento alla registrazione scioccherebbero non solo il pubblico al quale i prodotti e i servizi designati dal segno sono rivolti, ma parimenti altre persone che, senza essere interessate a tali prodotti e servizi, si troveranno accidentalmente di fronte a tale segno nella loro vita quotidiana [v. sentenze del 14 novembre 2013, Efag Trade Mark Company/ UAMI (FICKEN), T-52/13, non pubblicata, EU:T:2013:596, punto 19 e giurisprudenza ivi citata, e del 26 settembre 2014, Curve, T-266/13, non pubblicata, EU:T:2014:836, punto 19 e giurisprudenza ivi citata]. 28 Si deve parimenti rammentare che il pubblico di riferimento situato nel territorio dell’Unione è, per definizione, situato nel territorio di uno Stato membro e che i segni percepibili dal pubblico come contrari all’ordine pubblico o al buon costume non sono gli stessi in tutti gli Stati membri, in particolare per ragioni linguistiche, storiche, sociali o culturali (v., in tal senso, sentenza del 20 settembre 2011, Raffigurazione dello stemma sovietico, T-232/10, EU:T:2011:498, punti da 31 a 33). CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 35 29 Ne consegue che, per l’applicazione dell’impedimento assoluto alla registrazione di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), del regolamento n. 207/2009, occorre prendere in considerazione tanto le circostanze comuni a tutti gli Stati membri dell’Unione quanto le circostanze proprie di taluni Stati membri singolarmente considerati, che possono influenzare la percezione del pubblico di riferimento situato nel territorio di tali Stati (sentenza del 20 settembre 2011, Raffigurazione dello stemma sovietico, T-232/10, EU:T:2011:498, punto 34). 30 Nel caso di specie, in primo luogo, occorre rilevare, come ha fatto la commissione di ricorso al punto 24 della decisione impugnata, che il marchio contestato è un marchio complesso composto da un fondo nero a forma di quadrato all’interno del quale sono contenuti gli elementi verbali «la mafia» e «se sienta a la mesa», scritti in bianco con, sullo sfondo, la raffigurazione di una rosa rossa. 31 L’elemento verbale «la mafia», sia per lo spazio che occupa sia per la sua posizione centrale nel marchio contestato, si distacca dagli altri elementi. Pertanto, l’altro elemento verbale «se sienta a la mesa» riveste un’importanza secondaria, dal momento che è posto sotto l’elemento verbale «la mafia» e appare in caratteri ben più piccoli. Lo stesso vale per la rosa rossa sullo sfondo dell’elemento verbale «la mafia». 32 La commissione di ricorso ha, pertanto, correttamente indicato, al punto 25 della decisione impugnata, che l’elemento verbale «la mafia» era dominante nel marchio contestato. 33 In secondo luogo, occorre, innanzi tutto, respingere l’argomento della ricorrente relativo al fatto che la Mafia non figura tra le organizzazioni terroristiche menzionate nella posizione comune 2001/931, alla quale fanno riferimento le direttive d’esame dell’EUIPO (parte B, sezione 4). 34 Infatti, emerge dall’articolo 1 della posizione comune 2001/931 che l’elenco contenuto nell’allegato menziona unicamente persone, gruppi e entità coinvolti in atti terroristici. Tale elenco non ha lo scopo di enumerare le persone, i gruppi e le entità coinvolti in altri tipi di attività criminale, il cui riferimento in un marchio richiesto è parimenti idoneo a giustificare l’applicazione dell’impedimento assoluto alla registrazione di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), del regolamento n. 207/2009. Del resto, emerge dal testo stesso del passo delle direttive d’esame dell’EUIPO che fa riferimento alla posizione comune 2001/931 che l’EUIPO si è premurato di evidenziare la natura non esaustiva delle spiegazioni fornite da tali direttive circa l’impedimento assoluto alla registrazione di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettera f) del regolamento n. 207/2009. 35 Occorre poi rilevare che l’elemento verbale «la mafia» è globalmente inteso come facente riferimento ad un’organizzazione criminale con origini in Italia e le cui attività si sono estese a Stati diversi dalla Repubblica italiana, in particolare all’interno dell’Unione. È noto, del resto, come ha constatato la commissione di ricorso al punto 26 della decisione impugnata, che tale organizzazione criminale ha fatto ricorso all’intimidazione, alla violenza fisica e all’omicidio al fine di svolgere le sue attività, che comprendono segnatamente il traffico illecito di droghe, il traffico illecito di armi, il riciclaggio di denaro e la corruzione. 36 Il Tribunale ritiene che simili attività criminali violino i valori stessi sui quali si fonda l’Unione, in particolare, i valori del rispetto della dignità umana e della libertà, come previsti all’articolo 2 TUE e agli articoli 2, 3 e 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Tali valori sono indivisibili e costituiscono il patrimonio spirituale e morale dell’Unione. Inoltre, la criminalità organizzata e le attività menzionate al punto RASSEgNA AvvOCATURA 36 DELLO STATO - N. 3/2018 35 supra costituiscono sfere di criminalità particolarmente gravi che presentano una dimensione transnazionale nelle quali si prevede l’intervento del legislatore dell’Unione ai sensi dell’articolo 83 TFUE. Pertanto, come sottolineano l’EUIPO e la Repubblica italiana, per lottare contro la Mafia sono impiegate considerevoli energie e risorse non soltanto dal governo italiano, ma anche a livello dell’Unione, giacché la criminalità organizzata rappresenta una minaccia seria per la sicurezza in tutto il suo territorio. 37 Infine, l’elemento verbale «la mafia» è percepito in modo profondamente negativo in Italia, a causa dei gravi attacchi perpetrati da molti decenni da tale organizzazione criminale nei confronti della sicurezza di detto Stato membro. L’importanza che riveste la lotta contro la Mafia in Italia è dimostrata dalle norme repressive in vigore in tale Stato membro, alle quali fanno riferimento l’EUIPO e la Repubblica italiana, relative in particolare all’appartenenza o al sostegno a tale organizzazione. L’importanza della lotta contro la Mafia in Italia è inoltre corroborata dalla presenza nel territorio di detto Stato di molteplici organismi pubblici specificamente investiti del compito di perseguire e reprimere le attività illecite della Mafia e dalla presenza di associazioni private che sostengono le vittime di tale organizzazione. 38 Pertanto, la commissione di ricorso ha correttamente ritenuto che l’elemento verbale «la mafia» del marchio contestato evocherebbe palesemente presso il pubblico di riferimento il nome di un’organizzazione criminale responsabile di attacchi particolarmente gravi all’ordine pubblico. 39 In terzo luogo, la ricorrente fa valere, in sostanza, che il pubblico di riferimento non percepisce nel marchio contestato una qualsivoglia valorizzazione dell’azione criminale della Mafia, poiché quest’ultima è stata all’origine di molte opere sia letterarie sia cinematografiche. La ricorrente aggiunge che la registrazione del marchio contestato non ha l’obiettivo di scioccare o offendere, poiché i prodotti e i servizi designati non sono destinati a trasmettere un messaggio, ma esclusivamente a evocare la saga cinematografica il padrino. La stessa precisa che il concetto dei suoi ristoranti è a tema e collegato a tale saga e che il marchio contestato ha acquisito notorietà in Spagna. 40 A tale riguardo, occorre, innanzitutto, sottolineare che, qualora un segno sia particolarmente scioccante o offensivo, lo stesso deve essere considerato contrario all’ordine pubblico o al buon costume, qualsiasi siano i prodotti e i servizi per i quali è registrato (v., in tal senso, sentenza del 5 ottobre 2011, PAKI, T-526/09, non pubblicata, EU:T:2011:564, punto 15). Risulta, inoltre, dalla lettura complessiva dei vari commi dell’articolo 7, paragrafo 1, del regolamento n. 207/2009 (divenuto articolo 7, paragrafo 1, del regolamento 2017/1001), che questi ultimi si riferiscono alle caratteristiche intrinseche del marchio in causa e non a circostanze relative al comportamento del soggetto richiedente il marchio [sentenze del 9 aprile 2003, Durferrit/UAMI - Kolene (NU-TRIDE), T-224/01, EU:T:2003:107, punto 76, e del 13 settembre 2005, Sportwetten/ UAMI - Intertops Sportwetten (INTERTOPS), T-140/02, EU:T:2005:312, punto 28]. 41 Pertanto, da un lato, il fatto che la registrazione del marchio contestato non avrebbe avuto l’obiettivo di scioccare o di offendere, ma esclusivamente di evocare la saga cinematografica il padrino non ha nessuna incidenza sulla percezione negativa di tale marchio da parte del pubblico di riferimento. Del resto, nessun elemento del marchio contestato evoca direttamente tale saga. 42 Dall’altro lato, la notorietà acquisita dal marchio contestato e il concetto dei ristoranti a tema della ricorrente, collegati alla saga cinematografica il padrino, non costituiscono CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 37 qualità intrinseche del marchio contestato e sono quindi parimenti privi di pertinenza al fine di valutare se il marchio contestato sia contrario all’ordine pubblico. 43 È poi comune che opere letterarie o cinematografiche sciocchino o offendano il pubblico o una parte dello stesso, attraverso l’utilizzo e la messa in scena dei temi che trattano (v., in tal senso, sentenza del 14 novembre 2013, FICKEN LIQUORS, T-54/13, non pubblicata, EU:T:2013:593, punto 33). Il fatto che esistano molti libri e film che si riferiscono alla Mafia non è quindi assolutamente in grado di alterare la percezione degli atti illeciti commessi da tale organizzazione. 44 Infine, come sottolinea in sostanza l’EUIPO nel controricorso, la rosa rossa raffigurata nel marchio contestato potrà essere percepita da un’ampia parte del pubblico di riferimento come simbolo dell’amore o della concordia, in contrasto con la violenza che caratterizza le azioni della Mafia. 45 Tale contrasto è accentuato dalla presenza, nel marchio contestato, della frase «se sienta a la mesa». Infatti, tale frase significa in spagnolo «si siede a tavola» e può essere percepita da un’ampia parte del pubblico che comprende tale lingua come evocativa della condivisione di un pasto. Così, l’associazione della Mafia alle idee di convivialità e di svago veicolate dalla condivisione di un pasto contribuisce alla banalizzazione delle attività illecite di tale organizzazione criminale. 46 Pertanto, come sostengono l’EUIPO e la Repubblica italiana, l’associazione dell’elemento verbale «la mafia» alle altre immagini del marchio contestato è di natura tale da dare un’immagine globalmente positiva delle azioni della Mafia e, in tal modo, banalizzare la percezione delle attività criminali di tale organizzazione. 47 Risulta da quanto precede che il marchio contestato, considerato complessivamente, rinvia ad un’organizzazione criminale, trasmette un’immagine globalmente positiva di tale organizzazione e, pertanto, banalizza i gravi attacchi sferrati da detta organizzazione ai valori fondamentali dell’Unione menzionati al punto 36 supra. Il marchio contestato è pertanto di natura tale da scioccare o offendere, non solo le vittime di detta organizzazione criminale e le loro famiglie, ma anche chiunque, nel territorio dell’Unione, si trovi di fronte detto marchio e abbia un normale grado di sensibilità e tolleranza. 48 La commissione di ricorso ha quindi correttamente concluso che il marchio contestato era contrario all’ordine pubblico, ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), del regolamento n. 207/2009, e ha pertanto confermato che tale marchio doveva essere dichiarato nullo ai sensi all’articolo 52, paragrafo 1, lettera a), del suddetto regolamento. 49 Tale conclusione non è messa in discussione dal fatto che la ricorrente faccia riferimento a molti marchi dell’Unione europea che includono l’elemento verbale «mafia» nonché alle decisioni MAFIA II e CONTRA-BANDO al fine di dimostrare che il marchio contestato non è contrario all’ordine pubblico. Infatti, occorre rammentare che, secondo giurisprudenza costante, le decisioni che le commissioni di ricorso dell’EUIPO devono adottare, in forza del regolamento n. 207/2009, relativamente alla registrazione di un segno come marchio dell’Unione europea, rientrano nell’esercizio di una competenza vincolata e non di un potere discrezionale. Pertanto, la legittimità di dette decisioni deve essere valutata unicamente sulla base di tale regolamento e non sulla base di una prassi decisionale precedente a queste ultime [sentenze del 26 aprile 2007, Alcon/UAMI, C-412/05 P, EU:C:2007:252, punto 65; del 24 novembre 2005, ARTHUR ET FELICIE, T-346/04, EU:T:2005:420, punto 71, e del 6 aprile 2017, Nanu-Nana Joachim Hoepp/EUIPO - Fink (NANA FINK), T-39/16, EU:T:2017:263, punto 84]. Ne consegue RASSEgNA AvvOCATURA 38 DELLO STATO - N. 3/2018 che né le decisioni dell’EUIPO dedotte dalla ricorrente né la registrazione da parte dello stesso di marchi diversi dal marchio contestato e del pari contenenti l’elemento verbale «mafia» sono di natura tale da mettere in discussione la decisione impugnata. 50 Lo stesso dicasi quanto alla circostanza, sottolineata dalla ricorrente, che molti marchi contenenti l’elemento verbale «mafia» sono stati registrati in Italia. Infatti, il regime dei marchi comunitari è un sistema autonomo, costituto da un complesso di regole e che persegue obiettivi che sono ad esso specifici e la cui applicazione è indipendente da ogni sistema nazionale. Di conseguenza, la possibilità di registrare un segno come marchio dell’Unione europea deve essere valutata solo sulla base della normativa pertinente. L’EUIPO e, se del caso, il giudice dell’Unione non sono quindi vincolati, anche se possono prenderle in considerazione, da decisioni emanate a livello degli Stati membri, anche nel caso in cui dette decisioni siano state adottate in applicazione di una normativa nazionale armonizzata a livello dell’Unione [v., in tal senso, sentenze del 14 novembre 2013, FICKEN LIQUORS, T-54/13, non pubblicata, EU:T:2013:593, punto 46; del 15 luglio 2015, Australian gold/UAMI - Effect Management & Holding (HOT), T-611/13, EU:T:2015:492, punto 60 e giurisprudenza ivi citata, e del 27 giugno 2017, Jiménez gasalla/ EUIPO (B2B SOLUTIONS), T-685/16, non pubblicata, EU:T:2017:438, punto 41 e giurisprudenza ivi citata]. Ne consegue che né l’EUIPO né il giudice dell’Unione possono essere vincolati da decisioni nazionali relative alle registrazioni, come quelle alle quali si riferisce la ricorrente, cosicché non è necessario esaminarle [v., in tal senso, sentenze del 12 febbraio 2015, Compagnie des montres Longines, Francillon/UAMI - Cheng (B), T-505/12, EU:T:2015:95, punto 86 e giurisprudenza ivi citata, e del 27 giugno 2017, B2B SOLUTIONS, T-685/16, non pubblicata, EU:T:2017:438, punto 41 e giurisprudenza ivi citata]. 51 Ne consegue che il ricorso deve essere respinto in quanto infondato, senza che sia necessario pronunciarsi, da un lato, sull’eccezione di irricevibilità di tutto il ricorso sollevata dalla Repubblica italiana e, dall’altro, sull’eccezione di irricevibilità del secondo capo delle conclusioni volto a far dichiarare valido il marchio contestato, sollevata dall’EUIPO. sulle spese 52 Ai sensi dell’articolo 134, paragrafo 1, del regolamento di procedura del Tribunale, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. La ricorrente, poiché è rimasta soccombente, dev’essere condannata a sopportare le spese, conformemente alla domanda dell’EUIPO e della Repubblica italiana. Per questi motivi, IL TRIBUNALE (Nona Sezione) dichiara e statuisce: 1) Il ricorso è respinto. 2) la Mafia Franchises, sl è condannata alle spese. CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 39 la presa in carico da parte del servizio sanitario nazionale dell’uso di farmaci “off-label” in presenza di alternativa terapeutica. la sentenza della CGue (*) CorTe di GiuSTizia dell’unione europea, Sezione prima, SenTenza 21 noVembre 2018, C-29/17 Con la sentenza in rassegna, la CgUE risolve i dubbi del Consiglio di Stato in merito alla compatibilità del D.L. n. 36/2014 (c.d. “Decreto Lorenzin”) con la normativa europea, nella parte in cui lo stesso - introducendo il comma 4-bis all'art. 1 del D.L. 536/1996 conv. in l. 648 del 1996 - ha ampliato la possibilità di rimborso da parte del Servizio Sanitario Nazionale dei farmaci prescritti per indicazioni terapeutiche diverse da quelle per le quali è stata concessa l’autorizzazione all’immissione in commercio (c.d. uso “off label”). Tale possibilità, in precedenza prevista solo in mancanza di un’alternativa terapeutica nell'ambito dei medicinali autorizzati, viene estesa ora al caso in cui esista già sul mercato un farmaco debitamente autorizzato per la specifica indicazione. Si risponde così all’esigenza di consentire un ampliamento delle possibilità di cura, a fronte dell’inesistenza di alcun potere dell’autorità di farmacovigilanza che le permetta di imporre alle aziende farmaceutiche le indicazioni da autorizzare per i farmaci di cui sono titolari. La norma in questione subordina l’inserimento di medicinali per uso offlabel nell'elenco di cui al comma 4 dell’art. 1 del D.L. 536/1996 (c.d. “lista 648”, vale a dire l’elenco dei farmaci rimborsabili del SSN per un uso “offlabel”), alla previa valutazione dell'Agenzia italiana del farmaco (AIFA), nonché al fatto che l’indicazione terapeutica off-label sia nota e conforme a ricerche condotte nell'ambito della comunità medico-scientifica nazionale e internazionale, secondo parametri di economicità e appropriatezza. Secondo la CgUE, la normativa europea di settore non osta alle misure nazionali di cui sopra, e non preclude né lo svolgimento di un’attività di monitoraggio sui farmaci prescritti con tali modalità da parte dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), né l’adozione - da parte della stessa - di provvedimenti intesi alla salvaguardia della sicurezza dei pazienti. La sentenza si segnala sia per la sua rilevanza di principio, sia per i concreti positivi riflessi in termini di risparmio di spesa farmaceutica e conseguente miglior realizzazione del principio di universalità delle cure. marina russo (**) (*) v. osservazioni del Governo italiano in rass. avv. Stato, 2018, I, pp. 57-76. (**) Avvocato dello Stato. RASSEgNA AvvOCATURA 40 DELLO STATO - N. 3/2018 Corte di Giustizia dell’unione europea, Prima sezione, sentenza 21 novembre 2018 nella causa C-29/17 - pres. ff. R. Silva de Lapuerta, rel. C.g. Fernlund - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Consiglio di Stato (Italia) - Novartis Farma SpA c. Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) e a. «Rinvio pregiudiziale - Medicinali per uso umano - Direttiva 2001/83/CE - Articolo 3, punto 1 - Articolo 6 - Direttiva 89/105/CEE - Regolamento (CE) n. 726/2004 - Articoli 3, 25 e 26 - Riconfezionamento di un medicinale ai fini del suo impiego per un trattamento non coperto dall’autorizzazione all’immissione in commercio (“off-label”) - Erogazione a carico del regime nazionale di assicurazione malattia» 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 3, punto 1, nonché degli articoli 5 e 6 della direttiva 2001/83/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 6 novembre 2001, recante un codice comunitario relativo ai medicinali per uso umano (gU 2001, L 311, pag. 67), come modificata dalla direttiva 2012/26/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012 (gU 2012, L 299, pag. 1) (in prosieguo: la «direttiva 2001/83»), degli articoli 3, 25 e 26 nonché dell’allegato del regolamento (CE) n. 726/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, che istituisce procedure comunitarie per l’autorizzazione e la sorveglianza dei medicinali per uso umano e veterinario, e che istituisce l’agenzia europea per i medicinali (gU 2004, L 136, pag. 1), come modificato dal regolamento (UE) n. 1027/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012 (gU 2012, L 316, pag. 38) (in prosieguo: il «regolamento n. 726/2004»), nonché dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/105/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1988, riguardante la trasparenza delle misure che regolano la fissazione dei prezzi delle specialità medicinali per uso umano e la loro inclusione nei regimi nazionali di assicurazione malattia (gU 1989, L 40, pag. 8). 2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra, da un lato, la Novartis Farma Spa e, dall’altro, l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), la Roche Italia SpA e il Consiglio Superiore di Sanità (Italia; in prosieguo: il «CSS») in merito all’iscrizione di un medicinale, impiegato per un uso non coperto dall’autorizzazione all’immissione in commercio (in prosieguo: l’«AIC») (uso «off-label»), ai fini del trattamento di patologie oculari, nell’elenco dei medicinali erogati a carico del Servizio Sanitario Nazionale (Italia; in prosieguo: il «SSN»). Contesto normativo Diritto dell’Unione direttiva 2001/83 3 La direttiva 2001/83 enuncia, ai suoi considerando 2 e 35: «(2) Lo scopo principale delle norme relative alla produzione, alla distribuzione e all’uso di medicinali deve essere quello di assicurare la tutela della sanità pubblica. (…) (35) È opportuno esercitare un controllo su tutta la catena di distribuzione dei medicinali, dalla loro fabbricazione o importazione nella Comunità fino alla fornitura al pubblico, così da garantire che i medicinali stessi siano conservati, trasportati e manipolati in condizioni adeguate; (…)». 4 L’articolo 2, paragrafo 1, della direttiva 2001/83 prevede quanto segue: «La presente direttiva si applica ai medicinali per uso umano destinati ad essere immessi CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 41 in commercio negli Stati membri, preparati industrialmente o nella cui fabbricazione interviene un processo industriale». 5 Ai sensi dell’articolo 3, punti 1 e 2, di detta direttiva: «La presente direttiva non si applica a quanto segue: 1) ai medicinali preparati in farmacia in base ad una prescrizione medica destinata ad un determinato paziente (detti formula magistrale); 2) ai medicinali preparati in farmacia in base alle indicazioni di una farmacopea e destinat[ i] ad essere fornit[i] direttamente ai pazienti che si servono in tale farmacia (detti formula officinale)». 6 L’articolo 4, paragrafo 3, della suddetta direttiva è così formulato: «La presente direttiva si applica ferme restando le competenze delle autorità degli Stati membri sia in materia di fissazione dei prezzi dei medicinali sia per quanto concerne la loro inclusione nel campo d’applicazione dei sistemi nazionali di assicurazione malattia, sulla base di condizioni sanitarie, economiche e sociali». 7 L’articolo 5, paragrafo 1, della direttiva 2001/83 dispone quanto segue: «Uno Stato membro può, conformemente alla legislazione in vigore e per rispondere ad esigenze speciali, escludere dall’ambito di applicazione della presente direttiva i medicinali forniti per rispondere ad un’ordinazione leale e non sollecitata, elaborati conformemente alle prescrizioni di un operatore sanitario autorizzato e destinati ad un determinato paziente sotto la sua personale e diretta responsabilità». 8 Ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, della suddetta direttiva: «Nessun medicinale può essere immesso in commercio in uno Stato membro senza un’[AIC] delle autorità competenti di detto Stato membro rilasciata a norma della presente direttiva oppure senza un’autorizzazione a norma del regolamento (CE) n. 726/2004 in combinato disposto con il regolamento (CE) n. 1901/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativo ai medicinali per uso pediatrico [(gU 2006, L 378, pag. 1)] e con il regolamento (CE) n. 1394/2007 [del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 novembre 2007, sui medicinali per terapie avanzate recante modifica della direttiva 2001/83/CE e del regolamento (CE) n. 726/2004 (gU 2007, L 324, pag. 121)]. Quando per un medicinale è stata rilasciata una [AIC] iniziale (...) ai sensi del primo comma, ogni ulteriore dosaggio, forma farmaceutica, via di somministrazione e presentazione, nonché le variazioni ed estensioni sono parimenti autorizzati ai sensi del primo comma o sono inclusi nell’[AIC] iniziale. Tutte le [AIC] in questione sono considerate facenti parte della stessa autorizzazione all’immissione in commercio globale (...)». 9 L’articolo 23, paragrafo 2, della citata direttiva stabilisce quanto segue: «Il titolare dell’[AIC] fornisce immediatamente all’autorità competente tutte le informazioni nuove che possano implicare modifiche delle informazioni o dei documenti di cui agli articoli 8, paragrafo 3, agli articoli 10, 10 bis, 10 ter e 11 o all’articolo 32, paragrafo 5, o all’allegato I. In particolare, il titolare dell’[AIC] comunica immediatamente all’autorità nazionale competente i divieti o le restrizioni imposti dalle autorità competenti di qualsiasi paese nel quale il medicinale è immesso in commercio e qualsiasi altro nuovo dato che possa influenzare la valutazione dei benefici e dei rischi del medicinale interessato. Le informazioni comprendono i risultati positivi e negativi degli studi clinici o di altri studi per tutte le indicazioni e per tutti i gruppi di pazienti, presenti o non presenti nell’[AIC], nonché i dati relativi a usi del medicinale non conformi alle indicazioni contenute nell’[AIC]». RASSEgNA AvvOCATURA 42 DELLO STATO - N. 3/2018 10 A termini dell’articolo 40, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2001/83: «1. gli Stati membri prendono tutte le opportune disposizioni affinché la fabbricazione dei medicinali sul loro territorio sia subordinata al possesso di un’autorizzazione. L’autorizzazione deve essere richiesta anche se i medicinali fabbricati sono destinati all’esportazione. 2. L’autorizzazione di cui al paragrafo 1 è richiesta sia per la fabbricazione totale o parziale sia per le operazioni di divisione, di confezionamento o di presentazione. Tale autorizzazione non è richiesta per le preparazioni, le divisioni, i cambiamenti di confezione o di presentazione, eseguiti soltanto per la fornitura al dettaglio, da farmacisti in farmacia, o da altre persone legalmente autorizzate negli Stati membri ad eseguire dette operazioni». 11 L’articolo 101, paragrafo 1, di tale direttiva così dispone: «gli Stati membri gestiscono un sistema di farmacovigilanza per svolgere le loro funzioni in tale ambito e per partecipare alle attività di farmacovigilanza nell’Unione. Il sistema di farmacovigilanza va utilizzato per raccogliere informazioni sui rischi dei medicinali in relazione alla salute dei pazienti o alla salute pubblica. Le informazioni si riferiscono in particolare agli effetti collaterali negativi negli esseri umani, derivanti dall’utilizzo del medicinale conformemente alle indicazioni contenute nell’[AIC] e dall’uso al di fuori delle indicazioni in questione, e agli effetti collaterali negativi associati all’esposizione per motivi professionali». direttiva 89/105 12 L’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/105 prevede quanto segue: «Nessun elemento della presente direttiva consente la commercializzazione di una specialità medicinale per cui non è stata rilasciata l’autorizzazione di cui all’articolo [6] della direttiva [2001/83]». regolamento n. 726/2004 13 L’articolo 1, secondo comma, del regolamento n. 726/2004 è redatto come segue: «Le disposizioni del presente regolamento non pregiudicano le competenze delle autorità degli Stati membri in materia di fissazione dei prezzi dei medicinali o di inclusione dei medesimi nell’ambito d’applicazione dei regimi nazionali d’assicurazione contro le malattie o dei regimi di sicurezza sociale, in base a determinate condizioni sanitarie, economiche e sociali. In particolare, gli Stati membri possono scegliere fra gli elementi presenti nell’[AIC], le indicazioni terapeutiche e gli imballaggi che rientrano nei rispettivi regimi di previdenza e sicurezza sociale». 14 Ai sensi dell’articolo 3, comma 1, del suddetto regolamento: «Nessun medicinale contemplato nell’allegato può essere immesso in commercio nella Comunità senza un’[AIC] rilasciata dalla Comunità secondo il disposto del presente regolamento ». 15 L’articolo 4 del regolamento in parola dispone che le domande di AIC sono presentate all’Agenzia europea per i medicinali (EMA). Le condizioni di presentazione e di esame di tali domande sono disciplinate dagli articoli da 5 a 15 del medesimo regolamento. 16 gli articoli 25, 25 bis e 26 del regolamento n. 726/2004 sono formulati nei seguenti termini: «articolo 25 L’agenzia predispone, in collaborazione con gli Stati membri, modelli di schede strutturate per la segnalazione tramite Internet di sospetti effetti collaterali negativi da parte degli CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 43 operatori sanitari e dei pazienti ai sensi delle disposizioni di cui all’articolo 107 bis della direttiva 2001/83/CE. articolo 25 bis L’agenzia, in collaborazione con le competenti autorità nazionali e la Commissione, predispone e custodisce un archivio per i rapporti periodici di aggiornamento (in prosieguo l’“archivio”) e le corrispondenti relazioni di valutazione cosicché essi siano pienamente e costantemente accessibili per la Commissione, le competenti autorità nazionali, il comitato di valutazione dei rischi per la farmacovigilanza, il comitato per i medicinali per uso umano e il gruppo di coordinamento di cui all’articolo 27 della direttiva 2001/83/CE (in prosieguo il “gruppo di coordinamento”). L’agenzia, in collaborazione con le competenti autorità nazionali e la Commissione, previa consultazione del comitato di valutazione dei rischi per la farmacovigilanza, redige le specifiche funzionali per l’archivio. Il consiglio di amministrazione dell’agenzia, sulla base di una relazione di audit indipendente che tiene conto delle raccomandazioni del comitato di valutazione dei rischi per la farmacovigilanza, conferma e rende pubblica la piena funzionalità dell’archivio e la conformità dello stesso alle specifiche funzionali redatte a norma del secondo comma. Ogni cambiamento sostanziale dell’archivio e delle specifiche funzionali tiene sempre conto delle raccomandazioni del comitato di valutazione dei rischi per la farmacovigilanza. articolo 26 1. L’agenzia, in collaborazione con gli Stati membri e con la Commissione, crea e gestisce un portale web europeo dei medicinali per la diffusione di informazioni sui medicinali autorizzati nell’Unione. Tramite questo portale, l’agenzia rende pubbliche almeno le seguenti informazioni: a) i nomi dei membri dei comitati di cui all’articolo 56, paragrafo 1, lettere a) e a bis), del presente regolamento e dei membri del gruppo di coordinamento, le loro qualifiche professionali e le dichiarazioni di cui all’articolo 63, paragrafo 2, del presente regolamento; b) ordini del giorno e processi verbali di ogni riunione dei comitati di cui all’articolo 56, paragrafo 1, lettere a) e a bis), del presente regolamento e del gruppo di coordinamento per quanto riguarda le attività di farmacovigilanza; c) una sintesi dei piani di gestione dei rischi per i medicinali autorizzati ai sensi del presente regolamento; d) l’elenco dei medicinali di cui all’articolo 23 del presente regolamento; e) un elenco dei luoghi nell’Unione in cui sono conservati i documenti di riferimento del sistema di farmacovigilanza e le coordinate delle persone a cui rivolgersi per informazioni, per tutti i medicinali autorizzati nell’Unione; f) informazioni su come segnalare alle competenti autorità nazionali i sospetti effetti collaterali negativi di medicinali (...); g) le date di riferimento per l’Unione e la frequenza di presentazione dei rapporti periodici di aggiornamento sulla sicurezza, stabilite ai sensi dell’articolo 107 quater della direttiva 2001/83/CE; h) protocolli e sintesi dei risultati degli studi sulla sicurezza dopo l’autorizzazione accessibili al pubblico (...); i) l’avvio della procedura di cui agli articoli da 107 decies a 107 duodecies della direttiva 2001/83/CE (...); RASSEgNA AvvOCATURA 44 DELLO STATO - N. 3/2018 j) conclusioni delle valutazioni, raccomandazioni, pareri, approvazioni e decisioni adottati dai comitati di cui all’articolo 56, paragrafo 1, lettere a) e a bis), del presente regolamento (...). 2. Prima del lancio del portale, e durante le revisioni successive, l’agenzia consulta le parti interessate, inclusi associazioni di pazienti e di consumatori, operatori sanitari e rappresentanti dell’industria». Diritto italiano 17 Dalle informazioni fornite dal giudice del rinvio risulta che l’articolo 1 del decreto legge 21 ottobre 1996, n. 536, recante «Misure per il contenimento della spesa farmaceutica e la rideterminazione del tetto di spesa per l'anno 1996», convertito dalla legge del 23 dicembre 1996, n. 648 (gURI n. 11, del 15 gennaio 1997), come modificato dal decreto legge del 20 marzo 2014, n. 36, convertito dalla legge del 16 maggio 2014, n. 79 (gURI n. 115, del 20 maggio 2014) (in prosieguo: il «decreto legge n. 536/96»), dispone quanto segue: «4. Qualora non esista valida alternativa terapeutica, sono erogabili a totale carico del Servizio sanitario nazionale, a partire dal 1° gennaio 1997, i medicinali innovativi la cui commercializzazione è autorizzata in altri Stati ma non sul territorio nazionale, i medicinali non ancora autorizzati ma sottoposti a sperimentazione clinica e i medicinali da impiegare per un’indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata, inseriti in apposito elenco predisposto e periodicamente aggiornato dalla Commissione unica del farmaco conformemente alle procedure ed ai criteri adottati dalla stessa. L’onere derivante dal presente comma, quantificato in lire 30 miliardi per anno, resta a carico del Servizio sanitario nazionale nell’ambito del tetto di spesa programmato per l’assistenza farmaceutica. 4 bis Anche se sussista altra alternativa terapeutica nell’ambito dei medicinali autorizzati, previa valutazione dell’[AIFA], sono inseriti nell’elenco di cui al comma 4, con conseguente erogazione a carico del [SSN], i medicinali che possono essere utilizzati per un’indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata, purché tale indicazione sia nota e conforme a ricerche condotte nell’ambito della comunità medico-scientifica nazionale e internazionale, secondo parametri di economicità e appropriatezza. In tal caso l’AIFA attiva idonei strumenti di monitoraggio a tutela della sicurezza dei pazienti e assume tempestivamente le necessarie determinazioni». Procedimento principale e questioni pregiudiziali 18 Il Lucentis e l’Avastin sono medicinali biotecnologici soggetti alla procedura centralizzata di AIC prevista dal regolamento n. 726/2004. 19 L’AIC dell’Avastin, rilasciata nell’anno 2005, verte esclusivamente su indicazioni terapeutiche in oncologia. Il titolare di tale AIC è una società del gruppo farmaceutico Roche. 20 L’AIC del Lucentis è stata emessa nel 2007. Essa riguarda il trattamento di patologie oculari, in particolare la degenerazione maculare correlata all’età. Il titolare di detta AIC è una società del gruppo farmaceutico Novartis, di cui fa parte la Novartis Farma. 21 Dalle precisazioni fornite dal giudice del rinvio risulta che tali medicinali differiscono dal punto di vista strutturale e farmacologico, nonché per il loro confezionamento e il loro prezzo unitario. Benché fondati sulla stessa tecnologia, tali medicinali contengono principi attivi differenti, denominati «ranibizumab» per il Lucentis e «bevacizumab» per l’Avastin. Quest’ultimo è commercializzato in fiale da 4 millilitri (ml). Il Lucentis è venduto sotto forma di soluzione iniettabile [2,3 milligrammi (mg) per 0,23 ml di soluzione] utilizzabile mediante iniezione diretta nell’occhio (in prosieguo: «uso intravitreale»), una sola volta e al dosaggio di 0,5 mg al mese. CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 45 22 L’Avastin è sovente prescritto per il trattamento di patologie oculari che non sono indicate nell’AIC (uso «off-label»). Per poter essere utilizzato a tal fine, l’Avastin deve essere estratto dalla fiala di origine e frazionato in siringhe monouso, da 0,1 ml ciascuna, per iniezione intravitreale. L’Avastin in tal modo riconfezionato ai fini dell’uso oftalmico costa al SSN EUR 82 per dose, il Lucentis, EUR 902. 23 Con decisione n. 24823 del 27 febbraio 2014, l’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato (Italia) ha sanzionato le società Roche e Novartis per violazione delle norme sulla concorrenza. A seguito di un ricorso diretto contro tale decisione, il Consiglio di Stato (Italia) ha sottoposto alla Corte talune questioni pregiudiziali, alle quali la Corte ha risposto con sentenza del 23 gennaio 2018, F. Hoffmann-La Roche e a. (C-179/16, EU:C:2018:25). 24 Il 15 aprile 2014, il CSS ha emesso un parere sull’impiego dell’Avastin in ambito oftalmologico, nel quale si afferma, tra l’altro, che la preparazione di tale medicinale «per uso intravitreale è una preparazione galenica magistrale sterile». 25 In base a tale parere del CSS, l’AIFA, mediante determina n. 622 del 24 giugno 2014 (in prosieguo: la «determina n. 622/2014»), ha inserito l’impiego dell’Avastin per il trattamento della degenerazione maculare correlata all’età nell’elenco dei medicinali erogati a carico del SSN, ai sensi dell’articolo 1, comma 4 bis, del decreto legge n. 536/1996. 26 L’articolo 2 della determina n. 622/2014 dispone quanto segue: «1. L’erogazione del medicinale bevacizumab - (Avastin) deve essere effettuata secondo le seguenti condizioni, finalizzate alla tutela del paziente nell’uso del suddetto farmaco per un’indicazione non registrata: a) allo scopo di garantire la sterilità, il confezionamento in monodose del farmaco bevacizumab per l’uso intravitreale dovrà essere effettuato esclusivamente da parte di farmacie ospedaliere in possesso dei necessari requisiti, nel rispetto delle norme di buona preparazione; b) la somministrazione del bevacizumab per uso intravitreale dovrà essere riservata a centri oculistici ad alta specializzazione presso ospedali pubblici individuati dalle Regioni; c) la somministrazione del farmaco potrà avvenire solo previa sottoscrizione da parte del paziente del consenso informato che contenga le motivazioni scientifiche accompagnate da adeguate informazioni sull’esistenza di alternative terapeutiche approvate seppur ad un costo più elevato a carico del SSN; d) attivazione di un registro di monitoraggio al quale sia allegata la scheda di segnalazione delle reazioni avverse». 27 Ai sensi dell’articolo 3 della determina n. 622/2014: «La prescrizione del farmaco, a carico del Servizio Sanitario Nazionale, da parte dei centri utilizzatori deve essere effettuata per singolo paziente mediante la compilazione della scheda di prescrizione informatizzata, secondo le indicazioni sul sito https://www.agenziafarmaco. gov.it/registri/, che costituiscono parte integrante della presente determinazione ». 28 L’articolo 4 della determina n. 622/2014, relativo alla «[r]ivalutazione delle condizioni», dispone quanto segue: «L’AIFA si riserva di assumere ogni diversa valutazione e ogni più opportuna determinazione a tutela della sicurezza dei pazienti, in applicazione dell’articolo 1, comma 4-bis [del decreto legge n. 536/1996], a seguito dell’analisi dei dati raccolti attraverso il suddetto monitoraggio o di ogni ulteriore evidenza scientifica che dovesse rendersi disponibile». 29 La determina n. 79 dell’AIFA, del 30 gennaio 2015, è collegata alla determina n. 622/2014 RASSEgNA AvvOCATURA 46 DELLO STATO - N. 3/2018 e si limita a modificare talune indicazioni relative ai soggetti che possono somministrare l’Avastin per uso oftalmico. 30 La Novartis Farma ha proposto ricorso dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (Italia) avverso il parere del CSS del 15 aprile 2014 nonché le determine dell’AIFA n. 622/2014 e n. 79 del 30 gennaio 2015. 31 In seguito alla sentenza di rigetto di tale ricorso, la Novartis Farma ha proposto appello avverso detta sentenza dinanzi al Consiglio di Stato. Nell’ambito di tale procedimento, essa sostiene che il fatto di aver consentito che l’uso in ambito oftalmico dell’Avastin sia posto a carico finanziario del SSN, in conformità dell’articolo 1, comma 4 bis, del decreto legge n. 536/96, è incompatibile con la normativa dell’Unione in materia farmaceutica. 32 La Novartis Farma afferma in tal senso che l’articolo 1, comma 4 bis, del decreto legge n. 536/96 generalizza la possibilità di utilizzare un farmaco al di là delle condizioni previste dall’AIC, pur in presenza di un’alternativa terapeutica, e ciò per ragioni esclusivamente finanziarie, senza che l’uso su vasta scala del medicinale di prezzo inferiore sia stato preceduto da un’analisi dell’inefficacia dei medicinali disponibili. Tale disposizione contrasterebbe con il carattere imperativo dell’AIC, derivante dall’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2001/83 e sarebbe incompatibile con la direttiva 89/105. 33 La Novartis Farma deduce altresì che l’articolo 1, comma 4 bis, del decreto legge n. 536/96, nell’attribuire all’AIFA la competenza ad «[attivare] idonei strumenti di monitoraggio a tutela della sicurezza dei pazienti e [ad assumere] tempestivamente le necessarie determinazioni», rischia di indurre tale autorità nazionale ad interferire con gli ambiti di attività che il regolamento n. 726/2004 riserva all’EMA. 34 La Novartis Farma asserisce che il riconfezionamento dell’Avastin non è conforme alle condizioni previste dalla normativa farmaceutica dell’Unione per beneficiare dell’esenzione accordata ai medicinali preparati in farmacia dall’articolo 3, punto 1, della direttiva 2001/83. 35 L’AIFA sostiene che la direttiva 2001/83 non è intesa a disciplinare una situazione come quella oggetto del procedimento principale. Infatti, le disposizioni dell’articolo 1, comma 4 bis, del decreto legge n. 536/96 non riguarderebbero l’AIC di un medicinale, bensì le condizioni per la sua erogazione a carico del SSN. La situazione di cui trattasi nel procedimento principale non rientrerebbe nell’ambito di applicazione della direttiva 2001/83, conformemente al disposto dell’articolo 5 della medesima. 36 Ad avviso dell’AIFA, la direttiva 2001/83 sarebbe inapplicabile alla preparazione dell’Avastin ai fini del suo impiego per il trattamento di patologie oculari, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, e dell’articolo 3, punto 1, della direttiva 2001/83. Inoltre, la Corte avrebbe già dichiarato, nella sentenza dell’11 aprile 2013, Novartis Pharma (C-535/11, EU:C:2013:226), che il riconfezionamento dell’Avastin ai fini del suo uso intravitreale non necessita di autorizzazione di fabbricazione ai sensi dell’articolo 40, paragrafo 2, della direttiva 2001/83. 37 L’AIFA afferma inoltre che l’articolo 1, comma 4 bis, del decreto legge n. 536/96 non pregiudica le prerogative conferite all’EMA dal regolamento n. 726/2004. 38 Il giudice del rinvio esprime dubbi alla luce della sentenza del 16 luglio 2015, Abcur (C-544/13 e C-545/13, EU:C:2015:481), relativa all’interpretazione dell’articolo 3, punto 1, della direttiva 2001/83. 39 In tale contesto, il Consiglio di Stato ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 47 «1) Se le disposizioni di cui alla direttiva [2001/83], e segnatamente gli articoli 5 e 6, in relazione anche al secondo considerando della direttiva stessa, ostino all’applicazione di una legge nazionale (…) che, al fine di perseguire finalità di contenimento di spesa, incentivi, attraverso l’inclusione nella lista dei medicinali rimborsabili dal [SSN], l’utilizzazione di un farmaco al di fuori della indicazione terapeutica autorizzata nei confronti della generalità dei pazienti, indipendentemente da qualsiasi considerazione delle esigenze terapeutiche del singolo paziente e nonostante l’esistenza e la disponibilità sul mercato di farmaci autorizzati per la specifica indicazione terapeutica; 2) se l’articolo 3, n. 1, della direttiva [2001/83] possa applicarsi nel caso in cui la preparazione del prodotto farmaceutico, benché eseguita in farmacia sulla base di una prescrizione medica destinata ad un singolo paziente, sia comunque effettuata serialmente, in modo eguale e ripetuto, senza tener conto delle specifiche esigenze del singolo paziente, con dispensazione del prodotto alla struttura ospedaliera e non al paziente (tenuto conto che il farmaco è classificato in classe H-OSP [medicinali utilizzabili esclusivamente in strutture ospedaliere]), e con utilizzazione in una struttura anche diversa da quella in cui è stato operato il confezionamento; 3) se le disposizioni di cui al regolamento [n. 726/2004], e segnatamente gli articoli 3, 25 e 26, nonché l’allegato, che assegnano all’Agenzia (...) la competenza esclusiva a valutare i profili di qualità, sicurezza ed efficacia dei medicinali aventi come indicazione terapeutica il trattamento di patologie oncologiche, sia nell’ambito della procedura di rilascio dell’[AIC] (procedura centralizzata obbligatoria), sia al fine del monitoraggio e del coordinamento delle azioni di farmacovigilanza successive all’immissione del farmaco sul mercato, ostino all’applicazione di una legge nazionale che riservi all’[AIFA] la competenza ad assumere determinazioni in merito ai profili di sicurezza dei medicinali, connessi al loro uso off-label, la cui autorizzazione rientra nella competenza esclusiva della Commissione europea, in considerazione delle valutazioni tecnico scientifiche effettuate dall’[EMA]; 4) se le disposizioni di cui alla direttiva [89/105], e segnatamente l’articolo 1, paragrafo 3, ostino all’applicazione di una legge nazionale che consenta allo Stato membro, nell’ambito delle proprie decisioni in materia di rimborsabilità delle spese sanitarie sostenute dall’assistito, di prevedere la rimborsabilità di un farmaco utilizzato al di fuori delle indicazioni terapeutiche precisate nell’[AIC] rilasciata dalla Commissione europea, o da un’Agenzia specializzata europea, all’esito di una procedura di valutazione centralizzata, senza che ricorrano i requisiti previsti dagli articoli 3 e 5 della direttiva [2001/83]». sulla ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale 40 Il governo italiano sostiene che le questioni pregiudiziali esulano dall’ambito di applicazione del diritto dell’Unione e non sono necessarie ai fini della soluzione della controversia nel procedimento principale. Poiché l’uso «off-label» di un medicinale non sarebbe disciplinato dal diritto dell’Unione, le questioni sottoposte alla Corte sarebbero manifestamente irricevibili. 41 L’Irlanda ritiene che le questioni sollevate siano irricevibili in considerazione del loro carattere ipotetico. Le spiegazioni fornite dal giudice del rinvio in merito ai fatti di causa ed alla rilevanza delle questioni sollevate per la soluzione della controversia nel procedimento principale sarebbero insufficienti. 42 La Regione Emilia-Romagna (Italia) nonché la Società Oftalmologica Italiana (SOI) - Associazione Medici Oculisti Italiani (AMOI) sostengono che la prima questione pregiu RASSEgNA AvvOCATURA 48 DELLO STATO - N. 3/2018 diziale è irricevibile, poiché irrilevante ai fini della soluzione della controversia nel procedimento principale. La Regione Emilia-Romagna afferma che, per lo stesso motivo, anche la seconda questione pregiudiziale è irricevibile. 43 A tal riguardo, si deve ricordare che, nell’ambito della cooperazione tra la Corte e i giudici nazionali istituita dall’articolo 267 TFUE, spetta esclusivamente al giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolari circostanze di ciascuna causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di emettere la propria sentenza, sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte. Di conseguenza, se le questioni sollevate dal giudice nazionale riguardano l’interpretazione del diritto dell’Unione, la Corte, in via di principio, è tenuta a statuire (sentenza del 6 settembre 2016, Petruhhin, C-182/15, EU:C:2016:630, punto 19 e giurisprudenza ivi citata). 44 Ne consegue che le questioni relative all’interpretazione del diritto dell’Unione sollevate dal giudice nazionale nel contesto normativo e fattuale che egli definisce sotto la propria responsabilità, e del quale non spetta alla Corte verificare l’esattezza, godono di una presunzione di rilevanza. Il rifiuto della Corte di statuire su una domanda presentata da un giudice nazionale è possibile solo qualora risulti in maniera manifesta che la richiesta interpretazione del diritto dell’Unione non ha alcun rapporto con la realtà effettiva o con l’oggetto del procedimento principale, qualora il problema sia di natura ipotetica, oppure quando la Corte non disponga degli elementi di fatto e di diritto necessari per fornire una soluzione utile alle questioni che le sono sottoposte (sentenza del 26 luglio 2017, Persidera, C-112/16, EU:C:2017:597, punto 24 e giurisprudenza ivi citata). 45 Orbene, nella presente causa, le questioni sollevate, che vertono sull’interpretazione della direttiva 89/105, nonché della direttiva 2001/83 e del regolamento n. 726/2004, si collocano nell’ambito di una controversia avente ad oggetto la conformità con tali norme di diritto dell’Unione di misure nazionali destinate a consentire l’impiego dell’Avastin per indicazioni non coperte dall’AIC del medesimo. Pertanto, tali questioni presentano un nesso diretto con l’oggetto della controversia principale e non sono ipotetiche. 46 Di conseguenza, le questioni pregiudiziali sono ricevibili. sulle questioni pregiudiziali Osservazioni preliminari 47 Con le sue questioni, il giudice del rinvio mira, in sostanza, a stabilire se le misure nazionali di cui trattasi nel procedimento principale - che fissano le condizioni alle quali l’Avastin riconfezionato ai fini della sua somministrazione a pazienti per indicazioni terapeutiche in ambito oftalmico non coperte dalla sua AIC viene erogato, per motivi economici, a carico del regime nazionale di assicurazione malattia - arrechino pregiudizio all’effetto utile della direttiva 89/105 e della direttiva 2001/83 nonché alle competenze attribuite all’Unione nell’ambito della procedura centralizzata istituita dal regolamento n. 726/2004. 48 Occorre ricordare che, conformemente all’articolo 168, paragrafo 7, TFUE, il diritto dell’Unione non pregiudica la competenza degli Stati membri ad impostare i loro sistemi di previdenza sociale e ad adottare, in particolare, norme miranti a disciplinare il consumo dei prodotti farmaceutici salvaguardando l’equilibrio finanziario dei loro sistemi sanitari (sentenza del 22 aprile 2010, Association of the British Pharmaceutical Industry, C-62/09, EU:C:2010:219, punto 36). 49 L’organizzazione e la gestione dei servizi sanitari, come pure l’assegnazione delle risorse CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 49 loro destinate, rientrano nella sfera di competenza degli Stati membri. In tal senso, l’articolo 4, paragrafo 3, della direttiva 2001/83 e l’articolo 1, secondo comma, del regolamento n. 726/2004 sottolineano che le disposizioni di tali strumenti non pregiudicano le competenze delle autorità degli Stati membri in materia di fissazione dei prezzi dei medicinali né quelle relative all’inclusione dei medesimi nell'ambito d'applicazione dei regimi nazionali d'assicurazione contro le malattie, in base a determinate condizioni sanitarie, economiche e sociali. 50 Tuttavia, sebbene il diritto dell’Unione, nella fattispecie la direttiva 89/105, non pregiudichi la competenza degli Stati membri in subiecta materia, resta il fatto che, nell’esercizio di tale competenza, gli Stati membri devono rispettare il diritto dell’Unione (sentenza del 2 aprile 2009, A. Menarini Industrie Farmaceutiche Riunite e a., da C-352/07 a C-356/07, da C-365/07 a C-367/07 e C-400/07, EU:C:2009:217, punti 19 e 20). 51 Inoltre, la normativa dell’Unione in materia di prodotti farmaceutici non vieta né la prescrizione di un medicinale «off-label» né il suo riconfezionamento ai fini di tale uso, ma subordina dette operazioni al rispetto di condizioni stabilite da tale normativa (sentenza del 23 gennaio 2018, F. Hoffmann-La Roche e a., C-179/16, EU:C:2018:25, punto 59). 52 Alla luce di tali considerazioni, al fine di valutare se le condizioni stabilite da detta normativa ostino a misure nazionali come quelle di cui trattasi nel procedimento principale, occorre esaminare, in primo luogo, la seconda questione pregiudiziale, riguardante la delimitazione dell’ambito di applicazione della direttiva 2001/83, poi, in successione, la prima, la quarta e la terza questione pregiudiziale. Sulla seconda questione 53 Con la seconda questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 3, punto 1, della direttiva 2001/83 debba essere interpretato nel senso che l’Avastin, dopo essere stato riconfezionato in base alle condizioni stabilite dalle misure nazionali in causa nel procedimento principale, rientra nell’ambito di applicazione di tale direttiva. 54 Nel procedimento principale, l’applicazione della direttiva 2001/83 all’Avastin non è messa in dubbio. Per contro, il giudice del rinvio si chiede se le trasformazioni subite da detto medicinale durante il suo riconfezionamento ai fini dell’impiego per il trattamento di patologie oculari non coperte dalla sua AIC, in condizioni conformi alle misure nazionali la cui legittimità è contestata, possano rientrare nell’articolo 3, punto 1, di tale direttiva e, di conseguenza, sottrarre l’Avastin così modificato all’ambito di applicazione di tale direttiva. 55 Per rispondere a tale questione, si deve ricordare che l’ambito di applicazione della direttiva 2001/83 è stabilito, in modo positivo, al suo articolo 2, paragrafo 1, a termini del quale tale direttiva si applica ai medicinali per uso umano destinati ad essere immessi in commercio negli Stati membri, preparati industrialmente o nella cui fabbricazione intervenga un processo industriale. L’articolo 3, punti 1 e 2, della suddetta direttiva prevede alcune deroghe all’applicazione della medesima riguardo ai medicinali preparati in farmacia, vuoi in base ad una prescrizione medica destinata ad un determinato paziente, vuoi in base alle indicazioni di una farmacopea e destinati ad essere forniti direttamente ai pazienti che si servono presso tale farmacia. Ne consegue che, per poter ricadere nell’ambito di applicazione della direttiva 2001/83, il prodotto di cui trattasi deve, da un lato, rispondere ai requisiti fissati dall’articolo 2, paragrafo 1, di tale direttiva, e, dall’altro, non ricadere in una delle deroghe espressamente previste dall’articolo 3 della menzionata direttiva (sentenza del 16 luglio 2015, Abcur, C-544/13 e C-545/13, EU:C:2015:481, punti 38 e 39). RASSEgNA AvvOCATURA 50 DELLO STATO - N. 3/2018 56 Pertanto, è il carattere industriale del modo di produzione di un medicinale che determina se esso ricada nell’ambito di applicazione della direttiva 2001/83, fermo restando che il legislatore dell’Unione si è premurato di precisare che i medicinali preparati in farmacia alle condizioni di cui all’articolo 3 di tale direttiva sono specificamente esclusi dall’ambito di applicazione della stessa. 57 Si deve constatare che l’esclusione dall’ambito di applicazione della direttiva 2001/83 prevista dall’articolo 3 della stessa riguarda esclusivamente i medicinali «preparati» in farmacia, vale a dire quelli prodotti in farmacia, cioè le formule magistrali e le formule officinali. Orbene, il medicinale Avastin non rientra in alcuna di tali categorie. Esso è prodotto non già in farmacie aperte al pubblico oppure ospedaliere, bensì in modo industriale nei laboratori della società Roche, titolare della sua AIC. 58 Risulta inoltre dal fascicolo presentato alla Corte che le operazioni di riconfezionamento dell’Avastin effettuate conformemente alle misure nazionali in causa nel procedimento principale non modificano in modo sostanziale la composizione, la forma o altri elementi essenziali di tale medicinale. Tali operazioni di riconfezionamento non sono equiparabili alla «preparazione» di un nuovo medicinale derivato dall’Avastin attraverso una formula magistrale oppure una formula officinale. Di conseguenza, esse non possono ricadere nell’ambito di applicazione dell’articolo 3 della direttiva 2001/83. 59 Si deve aggiungere che un’interpretazione dell’articolo 3 della direttiva 2001/83 tale da escludere dall’ambito di applicazione di tutte le sue disposizioni l’Avastin che abbia subito le operazioni di riconfezionamento oggetto delle misure nazionali in causa nel procedimento principale comporterebbe l’interruzione del controllo istituito da tale direttiva su tutta la catena di distribuzione del medicinale. 60 A tal riguardo, occorre ricordare che, conformemente agli obiettivi essenziali della direttiva 2001/83, in particolare quello di assicurare la tutela della sanità pubblica, il considerando 35 di quest’ultima enuncia che tale direttiva mira ad «esercitare un controllo su tutta la catena di distribuzione dei medicinali, dalla loro fabbricazione o importazione nel[l’Unione] fino alla fornitura al pubblico, così da garantire che i medicinali stessi siano conservati, trasportati e manipolati in condizioni adeguate». Come ha ricordato l’avvocato generale al paragrafo 63 delle conclusioni, sarebbe manifestamente contrario a tale obiettivo il fatto che un’operazione di riconfezionamento effettuata successivamente all’immissione in commercio di un medicinale possa avere la conseguenza di sottrarre quest’ultimo all’ambito di applicazione della direttiva 2001/83 in cui esso rientrava fino a quel momento. 61 L’applicazione dell’articolo 3 della direttiva 2001/83 in una situazione come quella oggetto del procedimento principale priverebbe di ogni effetto utile numerose disposizioni di tale direttiva destinate a garantire il controllo dei medicinali lungo l’intera catena di distribuzione. In tal senso, l’articolo 6, paragrafo 1, secondo comma, di quest’ultima stabilisce espressamente che «[q]uando per un medicinale è stata rilasciata [un’AIC] iniziale (...), ogni ulteriore dosaggio, forma farmaceutica, via di somministrazione e presentazione, nonché le variazioni ed estensioni sono parimenti autorizzati (...) o sono inclusi nell’[AIC] iniziale. Tutte le [AIC] in questione sono considerate facenti parte della stessa [AIC] globale». 62 Allo stesso modo, l’articolo 40, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2001/83 prevede che l’autorizzazione di fabbricazione, richiesta sia per la fabbricazione totale o parziale sia per le operazioni di divisione, di confezionamento o di presentazione di un medicinale, non è richiesta qualora dette operazioni siano «eseguit[e] soltanto per la for CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 51 nitura al dettaglio, da farmacisti in farmacia, o da altre persone legalmente autorizzate negli Stati membri ad eseguire dette operazioni». 63 Questa disposizione derogatoria sarebbe dunque superflua laddove l’articolo 3 della direttiva 2001/83 dovesse comportare l’esclusione dall’ambito di applicazione di tale direttiva e, quindi, dall’obbligo di ottenere un’AIC e un’autorizzazione di fabbricazione, di un medicinale che, dopo essere stato immesso in commercio e fabbricato conformemente alle prescrizioni della direttiva medesima, sia stato riconfezionato a condizioni rispondenti ai criteri di cui all’articolo 40, paragrafo 2, secondo comma, della medesima direttiva. 64 Per quanto riguarda il sistema di farmacovigilanza, si deve ancora sottolineare che, ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, secondo comma, della direttiva 2001/83, «[detto sistema] va utilizzato per raccogliere informazioni sui rischi dei medicinali in relazione alla salute dei pazienti o alla salute pubblica. Le informazioni si riferiscono in particolare agli effetti collaterali negativi negli esseri umani, derivanti dall’utilizzo del medicinale conformemente alle indicazioni contenute nell’[AIC] e dall’uso al di fuori delle indicazioni in questione, e agli effetti collaterali negativi associati all’esposizione per motivi professionali». Questa disposizione sarebbe privata di effetto utile se l’articolo 3 della direttiva 2001/83 potesse essere applicato ad un’operazione di riconfezionamento diretta a consentire l’uso «off-label» dell’Avastin alle condizioni previste dalle misure nazionali in causa nel procedimento principale, in tal modo sottraendo siffatto uso all’ambito di applicazione della direttiva stessa, incluse le sue disposizioni in materia di farmacovigilanza. 65 Di conseguenza, alla seconda questione occorre rispondere dichiarando che l’articolo 3, punto 1, della direttiva 2001/83 deve essere interpretato nel senso che l’Avastin, dopo essere stato riconfezionato alle condizioni stabilite dalle misure nazionali in causa nel procedimento principale, rientra nell’ambito di applicazione di tale direttiva. Sulla prima questione 66 Con la prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 6 della direttiva 2001/83 debba essere interpretato nel senso che esso osta a misure nazionali come quelle in causa nel procedimento principale, che stabiliscono le condizioni alle quali l’Avastin può essere riconfezionato ai fini del suo impiego per indicazioni terapeutiche in ambito oftalmico non coperte dalla sua AIC e, in caso affermativo, se l’articolo 5 di tale direttiva debba essere interpretato nel senso che esso consente, a titolo derogatorio, di giustificare misure di questo tipo. 67 Come è stato ricordato al punto 51 della presente sentenza, la normativa dell’Unione in materia di prodotti farmaceutici non vieta né la prescrizione di un medicinale «off-label» né il suo riconfezionamento ai fini di tale uso, ma subordina dette operazioni al rispetto di condizioni stabilite dalla normativa medesima. 68 Tra tali condizioni figura l’obbligo di possedere un’AIC nonché un’autorizzazione di fabbricazione, autorizzazioni che sono oggetto, rispettivamente, degli articoli 6 e 40 della direttiva 2001/83. Al fine di fornire una risposta utile al giudice del rinvio, che gli permetta di risolvere la controversia di cui è investito, la Corte ritiene che si debba procedere altresì all’interpretazione dell’articolo 40 di detta direttiva, ancorché tale disposizione non sia espressamente menzionata nelle questioni pregiudiziali che le sono sottoposte (sentenza dell’11 aprile 2013, Berger, C-636/11, EU:C:2013:227, punto 31). 69 Per quanto riguarda l’immissione in commercio di un medicinale, l’articolo 6, paragrafo RASSEgNA AvvOCATURA 52 DELLO STATO - N. 3/2018 1, primo comma, della direttiva 2001/83 prevede che nessun medicinale possa essere immesso in commercio in uno Stato membro senza che un’AIC sia stata rilasciata dall’autorità competente di detto Stato membro in conformità a tale direttiva, oppure senza che un’autorizzazione sia stata rilasciata in conformità alla procedura centralizzata prevista dal regolamento n. 726/2004 per i medicinali contemplati nell’allegato di quest’ultimo (sentenze del 23 gennaio 2018, F. Hoffmann-La Roche e a., C-179/16, EU:C:2018:25, punto 53, nonché del 29 marzo 2012, Commissione/Polonia, C-185/10, EU:C:2012:181, punto 26). 70 Tale principio dell’AIC obbligatoria si applica anche, ai sensi del secondo comma della citata disposizione, quando per un medicinale è stata rilasciata un’AIC iniziale ai sensi del primo comma, dato che, in tal caso, ogni ulteriore dosaggio, forma farmaceutica, via di somministrazione e presentazione, nonché ogni variazione ed estensione devono parimenti essere autorizzati ai sensi del primo comma oppure essere inclusi nell’AIC iniziale. 71 In forza di tale principio, la Corte ha quindi dichiarato che, quando un medicinale è stato oggetto di due distinte AIC centralizzate relative, rispettivamente, ad una confezione da cinque fiale e ad una confezione da dieci fiale, la normativa farmaceutica dell’Unione osta a che detto medicinale venga commercializzato con una confezione costituita da due scatole da cinque fiale, unite e rietichettate, senza disporre di un’AIC specifica a tal riguardo, con la motivazione che le prescrizioni specifiche e dettagliate relative alla confezione dei medicinali oggetto di un’AIC centralizzata hanno lo scopo di evitare che i consumatori siano indotti in errore e in tal modo tutelano la salute (sentenza del 19 settembre 2002, Aventis, C-433/00, EU:C:2002:510, punto 25). 72 In una fattispecie analoga a quella del procedimento principale, la Corte ha dichiarato che il riconfezionamento dell’Avastin ai fini del suo uso «off-label» per il trattamento di patologie oculari non necessita di una nuova AIC, purché tale operazione non determini una modifica del medicinale e sia effettuata unicamente sulla base di ricette mediche individuali che prescrivano una siffatta operazione (sentenza dell’11 aprile 2013, Novartis Pharma, C-535/11, EU:C:2013:226, punto 42). 73 Questa soluzione si spiega con il fatto che, a differenza della fattispecie oggetto della causa definita con la sentenza del 19 settembre 2002, Aventis (C-433/00, EU:C:2002:510), l’operazione di riconfezionamento dell’Avastin si colloca a valle dell’immissione in commercio del medicinale, dopo che un medico ne ha prescritto l’impiego in tali condizioni ad un paziente, mediante una ricetta individuale. 74 La Corte ha quindi sottolineato che le operazioni di prelievo delle sostanze medicinali liquide contenute nelle fiale originali e di travaso di tali prelievi, senza modificare tali sostanze, in siringhe pronte all’uso corrispondono in realtà agli atti che, senza l’intervento di una società terza, potrebbero essere o avrebbero potuto essere altrimenti effettuati, sotto la loro responsabilità, dai medici che hanno prescritto i medicinali o dalle stesse farmacie nei loro laboratori o, ancora, negli istituti ospedalieri (sentenza dell’11 aprile 2013, Novartis Pharma, C-535/11, EU:C:2013:226, punti 42 e 43). 75 Fatti salvi gli accertamenti in punto di fatto a cui è tenuto il giudice del rinvio, il riconfezionamento dell’Avastin alle condizioni previste dalle misure nazionali in causa nel procedimento principale non necessita dunque di un’AIC allorché tale operazione è prescritta da un medico mediante una ricetta individuale ed è effettuata da farmacisti ai fini della somministrazione di tale medicinale in ambito ospedaliero. 76 Per quanto riguarda la fabbricazione di un medicinale, se è vero che, in forza dell’articolo CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 53 40, paragrafo 1, della direttiva 2001/83, essa è soggetta, in linea di principio, all’obbligo di detenere un’autorizzazione, il paragrafo 2, secondo comma, del medesimo articolo 40 prevede che l’autorizzazione di fabbricazione non è richiesta per le preparazioni, le divisioni, i cambiamenti di confezione o di presentazione, eseguiti soltanto ai fini della fornitura al dettaglio dei medicinali, da farmacisti in farmacia o da altre persone legalmente autorizzate negli Stati membri ad eseguire dette operazioni. Ne consegue che, qualora le medesime operazioni di fabbricazione non siano eseguite a tali fini, i farmacisti non sono dispensati dall’obbligo di detenere detta autorizzazione di fabbricazione (sentenze del 28 giugno 2012, Caronna, C-7/11, EU:C:2012:396, punto 35, e dell’11 aprile 2013, Novartis Pharma, C-535/11, EU:C:2013:226, punti 51 e 52). 77 Come evidenziato dall’avvocato generale al paragrafo 79 delle conclusioni, quand’anche venisse accertato dinanzi al giudice del rinvio che le farmacie abilitate a procedere al riconfezionamento dell’Avastin in forza delle misure nazionali in causa nel procedimento principale non detengono l’autorizzazione richiesta ai sensi dell’articolo 40, paragrafo 1, della direttiva 2001/83, esse potrebbero nondimeno rientrare nella deroga prevista dall’articolo 40, paragrafo 2, secondo comma, di tale direttiva. Fatti salvi gli accertamenti in punto di fatto a cui è tenuto il giudice del rinvio, si deve considerare che, qualora venisse accertato che, conformemente alle misure nazionali in causa nel procedimento principale, l’Avastin è, sulla base di una ricetta individuale, riconfezionato ai fini del suo uso «off-label» per il trattamento di patologie oculari, da parte di una farmacia a ciò debitamente abilitata, in vista della sua somministrazione in ambito ospedaliero, una siffatta operazione rientrerebbe nella deroga prevista dalla disposizione da ultimo citata e non necessiterebbe di un’autorizzazione di fabbricazione. 78 Di conseguenza, dato che le operazioni di riconfezionamento dell’Avastin oggetto delle decisioni dell’AIFA di cui trattasi nel procedimento principale non necessitano di un’AIC ai sensi dell’articolo 6 della direttiva 2001/83 né di un’autorizzazione di fabbricazione ai sensi dell’articolo 40 di detta direttiva, non occorre rispondere alla prima questione nella parte in cui essa si riferisce all’interpretazione dell’articolo 5 della medesima direttiva. 79 In considerazione di tutto quanto precede, alla prima questione occorre rispondere dichiarando che l’articolo 6 della direttiva 2001/83 deve essere interpretato nel senso che esso non osta a misure nazionali come quelle in causa nel procedimento principale, che stabiliscono le condizioni alle quali l’Avastin può essere riconfezionato ai fini del suo impiego per indicazioni terapeutiche in ambito oftalmico non coperte dalla sua AIC. Sulla quarta questione 80 Con la quarta questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/105, secondo il quale nessun elemento di tale direttiva consente la commercializzazione di un medicinale per il quale non sia stata rilasciata l’AIC prevista all’articolo 6 della direttiva 2001/83, debba essere interpretato nel senso che esso osta a misure nazionali come quelle in causa nel procedimento principale. 81 Tenuto conto della risposta fornita alla prima questione, non vi è luogo a rispondere a tale questione. Sulla terza questione 82 Con la terza questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se gli articoli 3, 25 e 26 del regolamento n. 726/2004 debbano essere interpretati nel senso che essi ostano ad una misura nazionale che, come quella risultante dall’articolo 1, comma 4 bis, del decreto legge n. 536/96, autorizza l’AIFA a monitorare medicinali come l’Avastin, il cui impiego RASSEgNA AvvOCATURA 54 DELLO STATO - N. 3/2018 per un uso «off-label» è posto a carico finanziario del SSN e, se del caso, ad adottare provvedimenti necessari alla tutela della sicurezza dei pazienti, per il motivo che essa lede le competenze esclusive dell’EMA relative ai medicinali soggetti alla procedura centralizzata. 83 È vero che il regolamento n. 726/2004, in particolare agli articoli da 5 a 9, conferisce all’EMA una competenza esclusiva a procedere all’esame delle domande di AIC nell’ambito della procedura centralizzata. Tuttavia, come risulta dalla risposta data alla prima questione, il riconfezionamento dell’Avastin alle condizioni stabilite dalle misure nazionali in causa nel procedimento principale non necessita dell’ottenimento di un’AIC. Di conseguenza, tali misure, non diversamente dall’articolo 1, comma 4 bis, del decreto legge n. 536/96, non possono ledere la competenza esclusiva conferita all’EMA per l’esame delle domande di AIC nell’ambito della procedura centralizzata. 84 Per quanto riguarda il sistema di farmacovigilanza dei medicinali immessi in commercio nell’Unione, si deve ricordare che, conformemente all’articolo 23, paragrafo 2, e all’articolo 101, paragrafo 1, della direttiva 2001/83, detto sistema si estende anche a qualsiasi uso di un medicinale non conforme ai termini della sua AIC. Per quanto riguarda i medicinali soggetti alla procedura centralizzata, il capitolo 3 del titolo II del regolamento n. 726/2004, in particolare agli articoli 25 e 26, istituisce taluni meccanismi di farmacovigilanza che associano le autorità nazionali competenti all’EMA, la quale ne assicura il coordinamento. 85 Detti articoli non ostano pertanto a una misura nazionale come l’articolo 1, comma 4 bis, del decreto legge n. 536/96, ai sensi del quale l’AIFA attiva idonei strumenti di monitoraggio a tutela della sicurezza dei pazienti e assume tempestivamente le necessarie determinazioni, a condizione che la loro attuazione completi o rafforzi il sistema di farmacovigilanza istituito dal regolamento n. 726/2004. 86 In considerazione di tutto quanto precede, alla terza questione occorre rispondere dichiarando che gli articoli 3, 25 e 26 del regolamento n. 726/2004 devono essere interpretati nel senso che essi non ostano ad una misura nazionale che, come quella risultante dall’articolo 1, comma 4 bis, del decreto legge n. 536/96, autorizza l’AIFA a monitorare medicinali come l’Avastin, il cui impiego per un uso «off-label» è posto a carico finanziario del SSN e, se del caso, ad adottare provvedimenti necessari alla salvaguardia della sicurezza dei pazienti. sulle spese 87 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara: 1) l’articolo 3, punto 1, della direttiva 2001/83/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, del 6 novembre 2001, recante un codice comunitario relativo ai medicinali per uso umano, come modificata dalla direttiva 2012/26/ue del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, deve essere interpretato nel senso che l’avastin, dopo essere stato riconfezionato alle condizioni stabilite dalle misure nazionali in causa nel procedimento principale, rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 2001/83, come modificata dalla direttiva 2012/26. 2) l’articolo 6 della direttiva 2001/83, come modificata dalla direttiva 2012/26, deve CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 55 essere interpretato nel senso che esso non osta a misure nazionali come quelle in causa nel procedimento principale, che stabiliscono le condizioni alle quali l’avastin può essere riconfezionato ai fini del suo impiego per indicazioni terapeutiche in ambito oftalmico non coperte dalla sua autorizzazione all’immissione in commercio. 3) Gli articoli 3, 25 e 26 del regolamento (Ce) n. 726/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, che istituisce procedure comunitarie per l’autorizzazione e la sorveglianza dei medicinali per uso umano e veterinario, e che istituisce l’agenzia europea per i medicinali, come modificato dal regolamento (ue) n. 1027/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano ad una misura nazionale che - come quella risultante dall’articolo 1, comma 4 bis, del decreto legge 21 ottobre 1996, n. 536, recante « Misure per il contenimento della spesa farmaceutica e la rideterminazione del tetto di spesa per l'anno 1996 », convertito dalla legge del 23 dicembre 1996, n. 648, come modificato dal decreto legge del 20 marzo 2014, n. 36, convertito dalla legge del 16 maggio 2014, n. 79 - autorizza l’agenzia Italiana del Farmaco (aIFa) a monitorare medicinali come l’avastin, il cui impiego per un uso non coperto dall’autorizzazione all’immissione in commercio («off-label») è posto a carico finanziario del servizio sanitario nazionale (Italia) e, se del caso, ad adottare provvedimenti necessari alla salvaguardia della sicurezza dei pazienti. RASSEgNA AvvOCATURA 56 DELLO STATO - N. 3/2018 la Corte di Giustizia ue si pronuncia sulla legittimazione all’impugnazione del bando da parte di operatori economici che non hanno partecipato alla gara CorTe di GiuSTizia dell’unione europea, Sezione Terza, SenTenza 28 noVembre 2018, C-328/17 In rassegna la sentenza della Corte di giustizia, resa su rinvio del TAR Liguria, in materia di legittimazione a impugnare il bando da parte degli operatori economici che non hanno presentato domanda di partecipazione alla gara. La Corte - pur avendo rimesso al giudice di rinvio la verifica circa l'eventuale lesione del principio di effettività della tutela giurisdizionale nel caso concreto - ha affermato che il diritto dell'Unione non osta a una normativa nazionale (e alla relativa interpretazione giurisprudenziale) secondo cui non sono legittimati a proporre ricorso avverso il bando gli operatori economici che non hanno presentato domanda di partecipazione alla gara in quanto la lex specialis rendeva "molto improbabile" (ma non impossibile) che la stessa fosse loro aggiudicata. La Corte ha, quindi, ritenuto che il "decalogo" dei casi nei quali la giurisprudenza interna ammette l'impugnazione immediata del bando nella suddetta ipotesi sia idoneo a garantire il rispetto dei principi eurounitari in materia di tutela giurisdizionale. Carla Colelli (*) Corte di Giustizia dell’unione europea, sezione terza, sentenza 28 novembre 2018 nella causa C-328/07 - pres. f.f. M. vilaras, rel. D. Šváby- Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale Amministrativo Regionale della Liguria (Italia) il 31 maggio 2017 - Amt Azienda Trasporti e Mobilità SpA e a. / Atpl Liguria - Agenzia regionale per il trasporto pubblico locale SpA, Regione Liguria. «Rinvio pregiudiziale - Appalti pubblici - Procedure di ricorso - Direttiva 89/665/CEE - Articolo 1, paragrafo 3 - Direttiva 92/13/CEE - Articolo 1, paragrafo 3 - Diritto di proporre ricorso subordinato alla condizione di aver presentato un’offerta nell’ambito della procedura di aggiudicazione dell’appalto» 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 1, paragrafi da 1 a 3, e dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori (gU 1989, L 395, pag. 33), come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2007 (gU 2007, L 335, pag. 31) (in prosieguo: la «direttiva 89/665»). (*) Avvocato dello Stato. CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 57 2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra, da un lato, la Amt Azienda Trasporti e Mobilità SpA, la Atc Esercizio SpA, la Atp Esercizio Srl, la Riviera Trasporti SpA e la Tpl Linea Srl (in prosieguo: «Amt e a.») e, dall’altro, l’Agenzia regionale per il trasporto pubblico locale SpA (Italia; in prosieguo: l’«Agenzia») relativamente alla decisione di quest’ultima di indire una procedura di gara informale per l’affidamento del servizio di trasporto pubblico locale nel territorio della Regione Liguria (Italia; in prosieguo: la «Regione»). Contesto normativo Diritto dell’Unione direttiva 89/665 3 L’articolo 1 della direttiva 89/665, intitolato «Ambito di applicazione e accessibilità delle procedure di ricorso» dispone quanto segue: «1. La presente direttiva si applica agli appalti di cui alla direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi [(gU 2004, L 134, pag. 114)], a meno che tali appalti siano esclusi a norma degli articoli da 10 a 18 di tale direttiva. (...) gli Stati membri adottano i provvedimenti necessari per garantire che, per quanto riguarda gli appalti disciplinati dalla direttiva [2004/18], le decisioni prese dalle amministrazioni aggiudicatrici possano essere oggetto di un ricorso efficace e, in particolare, quanto più rapido possibile, secondo le condizioni previste negli articoli da 2 a 2 septies della presente direttiva, sulla base del fatto che hanno violato il diritto [dell’Unione] in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici o le norme nazionali che lo recepiscono. 2. gli Stati membri garantiscono che non vi sia alcuna discriminazione tra le imprese suscettibili di far valere un pregiudizio nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto, a motivo della distinzione effettuata dalla presente direttiva tra le norme nazionali che recepiscono il diritto [dell’Unione] e le altre norme nazionali. 3. gli Stati membri provvedono a rendere accessibili le procedure di ricorso, secondo modalità che gli Stati membri possono determinare, a chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione. (...)». 4 L’articolo 2, paragrafo 1, di tale direttiva, che disciplina i «[r]equisiti per le procedure di ricorso», così prevede: «gli Stati membri provvedono affinché i provvedimenti presi in merito alle procedure di ricorso di cui all’articolo 1 prevedano i poteri che consentono di: (...) b) annullare o far annullare le decisioni illegittime, compresa la soppressione delle specifiche tecniche, economiche o finanziarie discriminatorie figuranti nell’invito a presentare l’offerta, nei capitolati d’oneri o in ogni altro documento connesso con la procedura di aggiudicazione dell’appalto in questione; (...)». direttiva 92/13 5 Intitolato «Ambito di applicazione e accessibilità delle procedure di ricorso», l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13/CEE del Consiglio, del 25 febbraio 1992, che coordina RASSEgNA AvvOCATURA 58 DELLO STATO - N. 3/2018 le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle norme comunitarie in materia di procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia e degli enti che forniscono servizi di trasporto nonché degli enti che operano nel settore delle telecomunicazioni (gU 1992, L 76, pag. 14), come modificata dalla direttiva 2007/66 (in prosieguo: la «direttiva 92/13»), prevede quanto segue: «gli Stati membri provvedono a rendere accessibili le procedure di ricorso, secondo modalità che gli Stati membri possono determinare, a chiunque abbia o abbia avuto interesse ad ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione». direttiva 2004/17 6 L’articolo 1 della direttiva 2004/17/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, che coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali, dedicato alle «[d]efinizioni», al suo paragrafo 3, lettera b), così disponeva: «[l]a “concessione di servizi” è un contratto che presenta le stesse caratteristiche di un appalto di servizi, ad eccezione del fatto che il corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente nel diritto di gestire i servizi o in tale diritto accompagnato da un prezzo». 7 Intitolato «Servizi di trasporto», l’articolo 5, paragrafo 1, di tale direttiva prevedeva, in particolare, quanto segue: «La presente direttiva si applica alle attività relative alla messa a disposizione o alla gestione di reti destinate a fornire un servizio al pubblico nel campo del trasporto ferroviario, tranviario, filoviario, mediante autobus, sistemi automatici o cavo. (...)». 8 L’articolo 18 della suddetta direttiva, rubricato «Concessioni di lavori e di servizi», così disponeva: «La presente direttiva non si applica alle concessioni di lavori e di servizi rilasciate da enti aggiudicatori che esercitano una o più attività di cui agli articoli da 3 a 7, quando la concessione ha per oggetto l’esercizio di dette attività». regolamento n. 1370/2007 9 L’articolo 5 del regolamento (CE) n. 1370/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2007, relativo ai servizi pubblici di trasporto di passeggeri su strada e per ferrovia e che abroga i regolamenti del Consiglio (CEE) n. 1191/69 e (CEE) n. 1107/70 del Consiglio (gU 2007, L 315, pag. 1), articolo intitolato «Aggiudicazione di contratti di servizio pubblico», è redatto nei seguenti termini: «1. I contratti di servizio pubblico sono aggiudicati conformemente alle norme previste nel presente regolamento. Tuttavia, i contratti di servizio o i contratti di servizio pubblico di cui alle direttive [2004/17] o [2004/18] per la fornitura di servizi di trasporto di passeggeri con autobus o tram sono aggiudicati secondo le procedure di cui a dette direttive, qualora tali contratti non assumano la forma di contratti di concessione di servizi quali definiti in dette direttive. Se i contratti devono essere aggiudicati a norma delle direttive [2004/17] o [2004/18], le disposizioni dei paragrafi da 2 a 6 del presente articolo non si applicano. (...) 7. gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che le decisioni adottate a norma dei paragrafi da 2 a 6 possano essere verificate con efficacia e rapidità, su richiesta di qualsiasi persona che sia o fosse interessata a ottenere un contratto particolare e che CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 59 sia stata o rischi di essere danneggiata da una presunta infrazione, motivata dal fatto che tali decisioni hanno violato il diritto [dell’Unione] o le leggi nazionali che applicano tale diritto. (...)». Diritto italiano 10 L’articolo 100 del codice di procedura civile, nella sua versione applicabile al procedimento principale, dispone che «[p]er proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse». 11 Ai sensi dell’articolo 39, paragrafo 1, dell’allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (gURI n. 156 del 7 luglio 2010) - Codice del processo amministrativo, «[p]er quanto non disciplinato dal presente codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali». 12 L’articolo 3 bis del decreto-legge del 13 agosto 2011, n. 138 (gURI n. 188, del 13 agosto 2011), convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148 (in prosieguo: il «decreto-legge n. 138/2011») dispone che, di norma, i servizi pubblici locali debbano essere svolti in un ambito territoriale provinciale. 13 A norma dell’articolo 9, paragrafo 1, e dell’articolo 14, paragrafo 1, della legge regionale 7 novembre 2013, n. 33 (Riforma delsistema del trasporto pubblico regionale e locale), (in prosieguo: la «legge regionale n. 33/2013»), l’affidamento del servizio di trasporto pubblico nel territorio della Regione doveva essere realizzato attraverso l’individuazione di un lotto unico relativo all’intero territorio regionale e con possibile estensione anche al trasporto ferroviario. 14 In vigore dal 12 agosto 2016, la legge regionale 9 agosto 2016, n. 19, recante «Modifiche alla legge regionale [n. 33/2013]», (in prosieguo: la «legge regionale n. 19/2016») ha modificato gli articoli 9 e 14 della legge regionale n. 33/2013. Tale legge prevede che i terreni e i servizi di trasporto terrestre e marittimo non debbano più essere aggiudicati in un lotto unico che copre l’intero territorio regionale, bensì in quattro lotti relativi a quattro ambiti territoriali omogenei. Procedimento principale e questione pregiudiziale 15 Amt e a. hanno adito il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria (Italia), chiedendo l’annullamento di diversi atti con cui l’Agenzia ha indetto una procedura di gara informale per l’affidamento del servizio di trasporto pubblico nel territorio regionale. 16 Tali società, fino ad allora gestrici di servizi di trasporto pubblico locale a livello provinciale o sub provinciale, contestano in radice le modalità di indizione e di svolgimento della procedura di gara. Il loro ricorso è rivolto in maniera specifica contro il bando inteso a selezionare gli operatori economici. In esso, l’Agenzia avrebbe indicato che il servizio di trasporto pubblico regionale sarebbe stato affidato in un unico lotto, relativo all’intero territorio regionale. 17 Ritenendo di non essere in grado di fornire, ciascuna individualmente, il servizio di trasporto pubblico a livello regionale, Amt e a. non hanno presentato alcuna offerta. Tuttavia, esse hanno adito il giudice del rinvio, contestando la decisione dell’Agenzia di affidare, nella sua qualità di amministrazione aggiudicatrice, l’appalto di cui trattasi nel procedimento principale in un unico lotto, relativo all’intero territorio regionale. Esse ritengono infatti che tale decisione violi l’articolo 3 bis del decreto-legge n. 138/2011, ai sensi del quale, in linea di principio, i servizi pubblici locali devono essere gestiti a livello provinciale, ma anche diversi articoli della Costituzione italiana, nonché gli articoli 49 e 56 TFUE. RASSEgNA AvvOCATURA 60 DELLO STATO - N. 3/2018 18 A sostegno del loro ricorso, Amt e a. sostengono che un operatore economico che contesta in radice i termini di una gara d’appalto alla quale non ha partecipato ha un diritto di proporre ricorso ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 3, e dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 89/665, qualora, in base alle norme che disciplinano l’offerta, è certo o altamente probabile che gli sarà impossibile ottenere l’aggiudicazione dell’appalto. 19 Secondo il giudice del rinvio, in un ambito territoriale determinato a livello provinciale, Amt e a. avrebbero avuto ottime possibilità che venisse loro aggiudicato l’appalto in questione, in quanto esse garantivano il servizio di trasporto pubblico regionale quando, prima dell’avvio della procedura di gara di cui al procedimento principale, esso era organizzato a livello provinciale. Invece, prevedendo che la gara di cui trattasi comportasse solo un unico lotto che copriva l’intero territorio regionale, il bando di gara avrebbe in pratica azzerato la probabilità che fosse selezionata una delle ricorrenti nel procedimento principale. 20 Ritenendo pertanto che un diritto di proporre ricorso dovesse essere loro riconosciuto, il giudice del rinvio, con ordinanza n. 95 del 21 gennaio 2016, ha chiesto alla Corte costituzionale (Italia) di pronunciarsi sulla costituzionalità dell’articolo 9, paragrafo 1, e dell’articolo 14, paragrafo 1, della legge regionale n. 33/2013. 21 Tuttavia, prima che la Corte costituzionale si pronunciasse, la Regione ha adottato la legge regionale n. 19/2016. Tale legge ha modificato le disposizioni la cui costituzionalità era contestata e prevede che i servizi di trasporto terrestre e marittimo non debbano più essere aggiudicati in un lotto unico che copre l’intero territorio regionale, bensì in quattro lotti corrispondenti a quattro ambiti territoriali omogenei. Inoltre, i lotti da aggiudicare devono essere definiti in modo tale da garantire la massima partecipazione possibile alla gara. Secondo il giudice del rinvio, con l’adozione della legge n. 19/2016 il legislatore regionale ha reagito alle doglianze espresse da Amt e a. 22 Nonostante la modifica degli articoli 9 e 14 della legge regionale n. 33/2013, la Corte costituzionale ha esaminato la loro costituzionalità, conformemente al principio tempus regit actum. 23 Nella sua sentenza n. 245 del 22 novembre 2016, essa ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dopo aver, in particolare, constatato che «[l]a giurisprudenza amministrativa è consolidata nel ritenere che l’impresa che non partecipi alla gara non può contestare la relativa procedura e l’aggiudicazione in favore di imprese terze, perché la sua posizione giuridica sostanziale non è sufficientemente differenziata ma riconducibile a un mero interesse di fatto (...)». 24 A tale regola fanno tuttavia eccezione le ipotesi in cui l’impresa ricorrente contesta, in particolare, clausole del bando immediatamente escludenti oppure clausole che impongono oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati o che rendono impossibile la stessa formulazione dell’offerta. 25 Nella sua sentenza n. 245, la Corte costituzionale ha considerato quanto segue: «[c]he il caso all’esame del giudice a quo non rientri in queste ipotesi eccezionali emerge dalla stessa motivazione dell’ordinanza di rimessione, laddove si afferma che le clausole impugnate inciderebbero sulle chanches di aggiudicazione delle ricorrenti che “si ridurrebbero fin quasi ad azzerarsi”, mentre, in presenza di una gara dimensionata su base provinciale e suddivisa in lotti, esse “avrebbero moltissime probabilità di aggiudicarsi il servizio, non foss’altro per effetto del vantaggio di essere state le precedenti gestrici dello stesso”. Da tale motivazione non si ricava alcun impedimento certo e attuale alla parte CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 61 cipazione alla gara, bensì la prospettazione di una lesione solo eventuale, denunziabile da parte di chi abbia partecipato alla procedura ed esclusivamente all’esito della stessa, in caso di mancata aggiudicazione». 26 Il giudice del rinvio rileva che, secondo l’interpretazione del requisito procedurale dell’interesse ad agire accolta in tale sentenza della Corte costituzionale, sarebbe inammissibile il ricorso proposto dall’impresa che non ha partecipato alla gara quando non fosse assolutamente certo ma soltanto altamente probabile che, per effetto della strutturazione della gara, in particolare della divisione in lotti, o per effetto della normativa di gara applicabile, l’impresa non potrebbe conseguire l’aggiudicazione dell’appalto in questione. Detto giudice ne deduce che la possibilità di accedere alla tutela giurisdizionale sarebbe così, quasi sistematicamente, condizionata alla partecipazione alla gara, partecipazione che comporta di per sé rilevanti oneri, e ciò anche nel caso in cui l’impresa intendesse contestarne la legittimità per essere la gara stessa eccessivamente restrittiva della concorrenza. 27 Nonostante la decisione dell’Agenzia di non dar seguito alla gara dopo l’adozione della legge n. 19/2016, il giudice del rinvio intende chiedere alla Corte se l’articolo 1, paragrafo 3, e l’articolo 2, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 89/665 debbano essere interpretati nel senso che essi conferiscono, in circostanze come quelle del procedimento principale, il diritto di proporre ricorso a un operatore economico che si è astenuto dal presentare un’offerta, in quanto era certo o assai probabile che l’appalto in questione non avrebbe potuto essergli aggiudicato. 28 La risposta della Corte sarebbe dirimente ai fini dell’ammissibilità dell’originario ricorso, con conseguenti ripercussioni in ordine alla statuizione sulle spese del giudizio. 29 In tale contesto, il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se [l’articolo] 1, [paragrafi] 1, 2 e 3, e [l’articolo] 2, [paragrafo] 1, [lettera] b), della direttiva [89/665] ostino ad una normativa nazionale che riconosca la possibilità di impugnare gli atti di una procedura di gara ai soli operatori economici che abbiano presentato domanda di partecipazione alla gara stessa, anche qualora la domanda giudiziale sia volta a sindacare in radice la procedura, derivando dalla disciplina della gara un’altissima probabilità di non conseguire l’aggiudicazione». sulla questione pregiudiziale Sulla ricevibilità 30 Nelle loro osservazioni scritte, sia i governi italiano e spagnolo sia la Commissione europea hanno sostenuto che la domanda di pronuncia pregiudiziale era irricevibile, in quanto la questione sollevata era ipotetica, dal momento che la controversia principale è divenuta priva di oggetto dopo che l’amministrazione aggiudicatrice ha dichiarato che l’appalto non avrebbe avuto seguito. Il governo italiano ha inoltre eccepito l’irricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale per il fatto che sussistono dubbi in merito alla natura del contratto che l’Agenzia intendeva concludere con la controparte all’esito della gara che non ha poi avuto seguito. Sul carattere ipotetico della questione pregiudiziale 31 Occorre ricordare che, secondo una costante giurisprudenza della Corte, nell’ambito della ripartizione delle funzioni giurisdizionali tra i giudici nazionali e la Corte, ripartizione stabilita dall’articolo 267 TFUE, il giudice nazionale, che è l’unico ad avere conoscenza diretta dei fatti della causa di cui è adito come pure delle argomentazioni delle parti, e RASSEgNA AvvOCATURA 62 DELLO STATO - N. 3/2018 che dovrà assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giudiziaria, è nella situazione più idonea per valutare, alla luce delle particolari circostanze di ciascuna controversia e con piena cognizione di causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di emettere la propria sentenza sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte (v. segnatamente, in tal senso, sentenze del 22 giugno 2000, Marca Mode, C-425/98, EU:C:2000:339, punto 21, e del 1° aprile 2008, gouvernement de la Communauté française e gouvernement wallon, C-212/06, EU:C:2008:178, punto 28). 32 Pertanto, poiché tali questioni riguardano l’interpretazione del diritto dell’Unione, la Corte in via di principio è tenuta a statuire (sentenza del 17 aprile 2007, AgM-COS.MET, C-470/03, EU:C:2007:213, punto 44). 33 Ne consegue che la presunzione di pertinenza inerente alle questioni proposte in via pregiudiziale dai giudici nazionali può essere esclusa solo in casi eccezionali, in particolare qualora risulti manifestamente che la sollecitata interpretazione delle disposizioni del diritto dell’Unione considerate in tali questioni non abbia alcun rapporto con la realtà o con l’oggetto del procedimento principale (v., segnatamente, sentenze del 15 dicembre 1995, Bosman, C-415/93, EU:C:1995:463, punto 61; del 7 settembre 1999, Beck e Bergdorf, C-355/97, EU:C:1999:391, punto 22, e del 1° aprile 2008, gouvernement de la Communauté française e gouvernement wallon, C-212/06, EU:C:2008:178, punto 29). 34 Infatti, il rigetto di una domanda formulata da un giudice nazionale è possibile solo se risulti che con il procedimento ai sensi dell’articolo 267 TFUE, in contrasto con il suo scopo, si intenda in realtà indurre la Corte a pronunciarsi per il tramite di una controversia fittizia oppure sia manifesto che il diritto dell’Unione non può essere applicato, né direttamente né indirettamente, alle circostanze del caso di specie (v., in tal senso, sentenze del 18 ottobre 1990, Dzodzi, C-297/88 e C-197/89, EU:C:1990:360, punto 40, e del 17 luglio 1997, Leur-Bloem, C-28/95, EU:C:1997:369, punto 26). 35 Nel caso di specie, è innegabile che la questione se le ricorrenti nel procedimento principale disponessero, in base al diritto dell’Unione, del diritto di proporre un ricorso contro il bando pubblicato dall’Agenzia deve condizionare l’ammissibilità del ricorso proposto dinanzi al giudice nazionale. vero è che, a causa della decisione dell’Agenzia di non dar seguito al bando dopo l’adozione della legge n. 19/2016, l’oggetto principale del ricorso è venuto meno. 36 Tuttavia, a differenza delle circostanze della causa che ha dato luogo all’ordinanza della Corte del 14 ottobre 2010, Reinke (C-336/08, non pubblicata, EU:C:2010:604), la controversia principale non è stata risolta nel merito. 37 Infine, sebbene l’esame della questione se, nelle circostanze del procedimento principale, operatori economici che avevano deliberatamente deciso di non partecipare a una gara d’appalto disponessero di un diritto di proporre ricorso ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 o dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13, sia solo intesa a consentire al giudice del rinvio di pronunciarsi sulla ripartizione delle spese nel procedimento principale, non vi è dubbio che si tratta di una questione relativa all’interpretazione del diritto dell’Unione, alla quale la Corte deve rispondere al fine di preservare l’uniformità di applicazione del medesimo 38 Sotto tale profilo, occorre dichiarare ricevibile la domanda di pronuncia pregiudiziale. Sulla mancata identificazione della natura del contratto di cui al procedimento principale 39 vero è che, come sostiene il governo italiano nelle sue osservazioni scritte, l’ordinanza CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 63 di rinvio non consente di determinare con certezza se la gara d’appalto indetta dall’Agenzia riguardasse l’aggiudicazione di una concessione di servizi di trasporto o di un appalto pubblico di servizi. Nel primo caso, l’interesse ad agire delle ricorrenti nel procedimento principale dovrebbe essere esaminato tenendo conto dell’articolo 5, paragrafo 7, del regolamento (CE) n. 1370/2007, mentre, nel secondo caso, dovrebbe essere valutato alla luce dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13. 40 Tuttavia, senza che sia necessario cercare di determinare la natura di detto contratto, compito che spetta al giudice del rinvio, è sufficiente constatare, al pari dell’avvocato generale al paragrafo 63 delle sue conclusioni, che l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13 e l’articolo 5, paragrafo 7, del regolamento n. 1370/2007 stabiliscono regimi di ricorso analoghi a quello corrispondente della direttiva 89/665, su cui verte la domanda posta dal giudice del rinvio. 41 In tali circostanze, dal momento che il diritto a una tutela giurisdizionale è oggetto di una tutela equivalente nei tre testi di diritto derivato menzionati al punto precedente, la risposta della Corte alla questione sollevata non può variare a seconda della qualificazione del contratto di cui trattasi nel procedimento principale. 42 Occorre pertanto, anche sotto questo profilo, dichiarare ricevibile la domanda di pronuncia pregiudiziale. Nel merito 43 Con la sua questione, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se sia l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 sia l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13 ostino a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che non consente agli operatori economici di proporre un ricorso contro le decisioni dell’amministrazione aggiudicatrice relative a una procedura d’appalto alla quale essi hanno deciso di non partecipare poiché la normativa applicabile a tale procedura rendeva molto improbabile che fosse loro aggiudicato l’appalto pubblico di cui trattasi. 44 Ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665, gli Stati membri sono tenuti a garantire che le procedure di ricorso previste da tale direttiva siano accessibili «per lo meno» a chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto pubblico e che sia stato o rischi di essere leso a causa di una violazione denunciata del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici o delle disposizioni nazionali che attuano tale diritto (v., in tal senso, sentenze del 12 febbraio 2004, grossmann Air Service, C-230/02, EU:C:2004:93, punto 25, e del 5 aprile 2016, PFE, C-689/13, EU:C:2016:199, punto 23). 45 gli Stati membri non sono dunque tenuti a rendere dette procedure di ricorso accessibili a chiunque voglia ottenere l’aggiudicazione di un appalto pubblico, ma hanno facoltà di esigere che la persona interessata sia stata o rischi di essere lesa dalla violazione da essa denunciata (v., in tal senso, sentenze del 19 giugno 2003, Hackermüller, C-249/01, EU:C:2003:359, punto 18 e del 12 febbraio 2004, grossmann Air Service, C-230/02, EU:C:2004:93, punto 26). 46 La partecipazione a un procedimento di aggiudicazione di un appalto può, in linea di principio, validamente costituire, riguardo all’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665, una condizione che deve essere soddisfatta per dimostrare che il soggetto coinvolto ha interesse all’aggiudicazione dell’appalto di cui trattasi o rischia di subire un danno a causa dell’asserita illegittimità della decisione di aggiudicazione di detto appalto. Se non ha presentato un’offerta, tale soggetto può difficilmente dimostrare di avere inte RASSEgNA AvvOCATURA 64 DELLO STATO - N. 3/2018 resse a opporsi a detta decisione o di essere leso o rischiare di esserlo dall’aggiudicazione di cui trattasi (sentenza del 12 febbraio 2004, grossmann Air Service, C-230/02, EU:C:2004:93, punto 27). 47 Nell’ipotesi in cui un’impresa non abbia presentato un’offerta a causa della presenza di specifiche che asserisce discriminatorie nei documenti relativi al bando di gara o nel disciplinare, le quali le avrebbero per l’appunto impedito di essere in grado di fornire l’insieme delle prestazioni richieste, sarebbe tuttavia eccessivo esigere che tale impresa, prima di poter utilizzare le procedure di ricorso previste dalla direttiva 89/665 contro tali specifiche, presenti un’offerta nell’ambito del procedimento di aggiudicazione dell’appalto di cui trattasi, quando le probabilità che le venga aggiudicato tale appalto sarebbero nulle a causa dell’esistenza di dette specifiche (v., in tal senso, sentenza del 12 febbraio 2004, grossmann Air Service, C-230/02, EU:C:2004:93, punti 28 e 29). 48 Nella sentenza del 12 febbraio 2004, grossmann Air Service (C-230/02, EU:C:2004:93), la considerazione in base alla quale le possibilità per la grossmann Air Service di aggiudicarsi l’appalto erano nulle era legata al fatto, ricordato al punto 17 di tale sentenza, che essa non disponeva di aerei di grandi dimensioni, per cui non era, per definizione, in grado di fornire tutte le prestazioni richieste dall’amministrazione aggiudicatrice. 49 gli insegnamenti della sentenza del 12 febbraio 2004, grossmann Air Service (C-230/02, EU:C:2004:93), sono applicabili, mutatis mutandis, nel caso di specie. 50 Sia dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (Italia) sia dalla sentenza n. 245/2016 della Corte costituzionale risulta infatti che un interesse ad agire può essere eccezionalmente riconosciuto a un operatore economico che non ha presentato alcuna offerta, nelle «ipotesi in cui si contesti che la gara sia mancata o, specularmente, che sia stata indetta o, ancora, si impugnino clausole del bando immediatamente escludenti, o, infine, clausole che impongano oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati o che rendano impossibile la stessa formulazione dell’offerta». 51 Si deve pertanto constatare che i requisiti sia dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 sia dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13 sono soddisfatti se un operatore che non ha formulato alcuna offerta dispone, in particolare, di un diritto di proporre ricorso qualora ritenga che talune specifiche contenute nella documentazione di gara rendano impossibile la formulazione stessa di un’offerta. 52 Tuttavia, occorre ricordare che un ricorso siffatto non può, a pena di violare gli obiettivi di rapidità ed efficacia previsti sia dalla direttiva 89/665 sia dalla direttiva 92/13, essere presentato dopo che la decisione di aggiudicazione dell’appalto è stata adottata dall’amministrazione aggiudicatrice (v., in tal senso, sentenza del 12 febbraio 2004, grossmann Air Service, C-230/02, EU:C:2004:93, punto 37). 53 Inoltre, poiché è solo in via eccezionale che un diritto di proporre ricorso può essere riconosciuto a un operatore che non ha presentato alcuna offerta, non si può considerare eccessiva la richiesta che quest’ultimo dimostri che le clausole del bando rendevano impossibile la formulazione stessa di un’offerta. 54 Nondimeno, benché il grado di esigenza della prova non sia di per sé contrario al diritto dell’Unione sugli appalti pubblici, non si può escludere che, tenuto conto delle circostanze specifiche del procedimento principale, la sua applicazione possa comportare una violazione del diritto di proporre ricorso che le ricorrenti nel procedimento principale derivano sia dall’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 sia dall’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13. CONTENzIOSO COMUNITARIO ED INTERNAzIONALE 65 55 A tale riguardo, spetta al giudice del rinvio valutare in modo circostanziato, tenendo onto di tutti gli elementi pertinenti che caratterizzano il contesto della controversia di cui è investito, se l’applicazione concreta della normativa italiana relativa alla capacità di agire in giudizio, come interpretata dal Consiglio di Stato e dalla Corte costituzionale, sia tale da poter ledere il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva delle ricorrenti nel procedimento principale. 56 Tuttavia, sulla base degli elementi che figurano nel fascicolo a sua disposizione, la Corte può fornire al giudice del rinvio indicazioni utili per la valutazione che spetta a quest’ultimo effettuare. 57 A tale proposito, si deve anzitutto tener conto del fatto che Amt e a. hanno garantito il servizio di trasporto pubblico regionale prima che l’amministrazione aggiudicatrice indicesse la procedura di appalto e decidesse poi di non dare seguito alla medesima. Inoltre, dal momento che la legge regionale n. 33/2013 specificava che il servizio di trasporto pubblico regionale da quel momento in poi sarebbe stato attribuito in un unico lotto che copriva l’intero territorio regionale, mentre l’articolo 3 bis del decreto-legge n. 138/2011 prevede che, in linea di principio, i servizi pubblici locali devono essere gestiti a livello provinciale, spetta al giudice del rinvio esaminare se il legislatore regionale ha esposto le ragioni per cui aveva ritenuto preferibile organizzare il futuro servizio di trasporto a livello regionale e non più a livello provinciale. Infine, vista la libertà dell’amministrazione aggiudicatrice nel valutare le proprie necessità, non può essere escluso a priori che la scelta della Regione di organizzare i servizi di trasporto a livello regionale fosse legittima, in quanto, ad esempio, rispondeva a considerazioni di carattere economico, quali la volontà di realizzare economie di scala. 58 Alla luce delle suesposte considerazioni, occorre rispondere alla questione sollevata dichiarando che sia l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 sia l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13 devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che non consente agli operatori economici di proporre un ricorso contro le decisioni dell’amministrazione aggiudicatrice relative a una procedura d’appalto alla quale essi hanno deciso di non partecipare poiché la normativa applicabile a tale procedura rendeva molto improbabile che fosse loro aggiudicato l’appalto in questione. Tuttavia, spetta al giudice nazionale competente valutare in modo circostanziato, tenendo conto di tutti gli elementi pertinenti che caratterizzano il contesto della controversia di cui è investito, se l’applicazione concreta di tale normativa non sia tale da poter ledere il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva degli operatori economici interessati. sulle spese 59 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara: sia l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665/Cee del Consiglio, del 21 dicembre 1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2007, sia l’articolo 1, pa RASSEgNA AvvOCATURA 66 DELLO STATO - N. 3/2018 ragrafo 3, della direttiva 92/13/Cee del Consiglio, del 25 febbraio 1992, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle norme comunitarie in materia di procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia e degli enti che forniscono servizi di trasporto nonché degli enti che operano nel settore delle telecomunicazioni, come modificata dalla direttiva 2007/66, devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che non consente agli operatori economici di proporre un ricorso contro le decisioni dell’amministrazione aggiudicatrice relative a una procedura d’appalto alla quale essi hanno deciso di non partecipare poiché la normativa applicabile a tale procedura rendeva molto improbabile che fosse loro aggiudicato l’appalto in questione. tuttavia, spetta al giudice nazionale competente valutare in modo circostanziato, tenendo conto di tutti gli elementi pertinenti che caratterizzano il contesto della controversia di cui è investito, se l’applicazione concreta di tale normativa non sia tale da poter ledere il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva degli operatori economici interessati. Contenzioso nazionale “Compensatio lucri cum damno” Cassazione Civile, sezioni Unite, sentenza 22 maggio 2018 n. 12565 Gaetana Natale* Il tema della compensatio lucri cum damno pone sia i giudici che gli avvocati di fronte ad un problema basilare nell’ambito della tematica della responsabilità civile, ossia quello di definire cosa è effettivamente il “danno risarcibile”. Il principio della compensatio lucri cum damno o dell’aliunde perceptum (principio non previsto nelle fonti romane, ma elaborato per la prima volta in una glossa di Bartolo e poi dalla pandettistica) non è sancito espressamente in uno specifico articolo del codice civile italiano del 1942 (contrariamente al codice tedesco, § 249 BGB “Schadensersatz”), ma risponde ex art. 1223 c.c. ad una logica redistributiva degli effetti positivi e negativi scaturente non solo dal fatto illecito produttivo del danno ma anche dall’inadempimento qualificato in tema di responsabilità contrattuale. Occorre allora chiedersi in una prospettiva valoriale se la compensatio sia un principio generale o se sia solo una regola operazionale, ossia una tecnica di liquidazione del danno. Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione con ben quattro sentenze nn. 12564, 12565, 12566, 12567 pubblicate il 22 maggio 2018 hanno cercato di chiarire in quali casi e in che termini sia possibile o meno sottrarre (*) Avvocato dello Stato. Lo studio riprende - e qui ampiamente sviluppa alla luce della sentenza n. 12565/2018 resa dalle Sez. Un. della Cassazione - la questione o meglio “la individuazione della attuale portata del principio” della compensatio lucri cum damno già affrontata dall’Autrice nell’intervento al convegno “Per un osservatorio del contenzioso come strumento di qualità normativa. Contenimento della spesa pubblica e sviluppo economico” tenutosi in Roma, Avvocatura Generale dello Stato, 24 maggio 2018. RASSeGNA AvvOCAtURA 68 deLLO StAtO - N. 3/2018 dal complessivo importo dovuto al danneggiato a titolo di risarcimento del danno gli emolumenti di carattere indennitario versati dagli assicuratori privati o sociali ovvero da enti pubblici, specie previdenziali. In particolare con la sentenza n. 12565/2018 la Suprema Corte di Cassazione ha affrontato la seguente questione specifica: se, nella liquidazione del danno da fatto illecito, dal computo del pregiudizio sofferto dalla compagnia aerea titolare del velivolo abbattuto nel disastro aviatorio di Ustica, andava defalcato quanto essa avesse ottenuto a titolo di indennizzo assicurativo per la perdita dell’aereoplano. Nella motivazione della suddetta sentenza la Suprema Corte di legittimità ripercorre i precedenti orientamenti giurisprudenziali: < secondo un primo indirizzo indennità assicurativa e risarcimento del danno sono cumulabili se l’assicuratore non esercita la surrogazione: poiché la surrogazione, ai sensi dell’art. 1916 c.c., non è un effetto automatico del pagamento dell’indennità, ma una facoltà il cui esercizio dipende dall’assicuratore, qualora costui non si avvalga di tale facoltà, il danneggiato può agire per il risarcimento del danno nei confronti del terzo responsabile senza che questi, estraneo al rapporto di assicurazione, possa opporgli l’avvenuta riscossione dell’indennità assicurativa …… secondo tale orientamento, il cumulo di indennizzo e risarcimento non è precluso dal principio della compensatio lucri cum damno, destinato a trovare applicazione solo nel caso in cui il vantaggio ed il danno siano entrambi conseguenza immediata e diretta del fatto illecito, quali suoi effetti contrapposti, e, quindi, non operante allorchè l’assicurato riceva dall’assicuratore contro i danni il relativo indennizzo a causa del fatto illecito del terzo. tale prestazione ripete, infatti, la sua fonte e la sua ragione giuridica dal contratto di assicurazione e cioè da un titolo diverso ed indipendente dall’illecito stesso, il quale costituisce soltanto la condizione, perché questo titolo spieghi la sua efficacia, senza che il correlativo effetto di incremento patrimoniale eventualmente conseguito dall’assicurato possa incidere sul quantum del risarcimento dovuto dal danneggiante … secondo un opposto orientamento-espresso da Cass. sez. iii, 11 giugno 2014 n. 13233, in un caso di assicurazione contro gli infortuni non mortali - indennità assicurativa e risarcimento del danno assolvono ad un’identica funzione risarcitoria e non possono cumulativamente convivere: la percezione dell’indennizzo, da parte del danneggiato, elide in misura corrispondente il suo credito risarcitorio nei confronti del danneggiante, che pertanto si estingue e non può essere più preteso, né azionato. Come l’assicuratore può legittimamente rifiutare il pagamento dell’indennizzo, ove l’assicurato abbia già ottenuto l’integrale risarcimento del danno dal responsabile, così il responsabile del danno può legittimamente rifiutare il pagamento del risarcimento allorchè l’assicurato abbia già ottenuto il pagamento dell’indennità dal proprio assicuratore privato contro i danni>. CONteNzIOSO NAzIONALe 69 dalla lettura della motivazione si evince che la Suprema Corte di Cassazione ha sentito la necessità di esporre in maniera analitica le due tesi che tra loro si contrappongono, ossia quella dell’unicità causale e quella della regolarità causale ex artt. 40 e 41 c.p. L’orientamento tradizionale (e maggioritario) della Suprema Corte di Cassazione - al quale ha sostanzialmente aderito il Giudice Amministrativo (Consiglio di Stato Ad. Plen. n. 1/2018) - aveva dato una rigorosa interpretazione del requisito dell’unità (ovvero identità) della causa. Secondo cass. civ. sez. III 30 settembre 2014 n. 20548 “in tema di risarcimento del danno da illecito, il principio della compensatio lucri cum damno trova applicazione unicamente quando sia il pregiudizio che l’incremento patrimoniale siano conseguenza del medesimo fatto illecito, sicché non può essere detratto quando già percepito dal danneggiato a titolo di pensione di inabilità o di reversibilità, ovvero a titolo di assegni, di equo indennizzo o di qualsiasi altra speciale erogazione connesso alla morte o all’invalidità, trattandosi di attribuzioni che si fondano su un titolo diverso dall’atto illecito e non hanno finalità risarcitoria”. Aveva ancora affermato Cass. civ., Sez. III, 2 marzo 2010 n. 4950 che “il principio della compensatio lucri cum damno trova applicazione solo quando il lucro sia conseguenza immediata e diretta dello stesso fatto illecito che ha prodotto il danno non potendo il lucro compensarsi con il danno se trae la sua fonte da titolo diverso”: in applicazione di tale principio la Corte aveva cassato la sentenza impugnata nella parte in cui, ai fini della liquidazione del danno alla persona derivante da un sinistro stradale, aveva detratto dall’importo dovuto la somma versata al danneggiato dal suo datore di lavoro, in aggiunta al trattamento di fine rapporto, quale incentivo di natura contrattuale per anticipare le dimissioni, giacchè, secondo i Giudici della legittimità, tale importo trae titolo dal rapporto di lavoro e non dal fatto illecito causativo del danno. In conclusione, secondo questa impostazione esegetica, affinché possa richiamarsi il principio della compensatio lucri cum damno il vantaggio deve derivare direttamente dal fatto illecito e non da fattori causativi distinti ed ulteriori, pur se questi a loro volta conseguono ope legis (ovvero ex contractu) al dato materiale del pregiudizio subito dal danneggiato: il nesso che lega illecito e vantaggio deve, quindi, essere anche materialisticamente immediato e non tollera intermediazioni eziologiche di alcun genere. Un secondo orientamento aveva, invece, sostenuto che l’indennizzo eventualmente già corrisposto al danneggiato può essere interamente scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno (compensatio lucri cum damno), venendo altrimenti la vittima a godere di un ingiustificato arricchimento consistente nel porre a carico di un medesimo soggetto due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo (Cass. civ., Sez. III, 14 marzo 2013, n. 6573; id. Sez. vI, 24 settembre 2014 n. 20111). Questo orientamento rappresenta l’applicazione pratica del principio della indifferenza o del cd. teorema della “terza” (in dottrina Pardolesi, RASSeGNA AvvOCAtURA 70 deLLO StAtO - N. 3/2018 Franzoni), ossia il principio secondo il quale dopo il risarcimento il patrimonio del danneggiato non deve subire mutamenti: in altri termini il risarcimento deve ricostituire il patrimonio del danneggiato nella sua configurazione originaria e non costituire arricchimento. Più precisamente con “teorema della terza” si fa riferimento a quella elaborazione dottrinaria che propone una rilettura dell’art. 2043 c.c. nei seguenti termini: . Alla base di tale conclusione è, tra l’altro, l’assunto che laddove il danno sia anche elemento costitutivo di una fattispecie, di fonte normativa o negoziale, costitutiva di una provvidenza a favore del danneggiato, non può essere negato che, alla luce dell’unitaria teoria della causalità accolta nel nostro ordinamento (artt. 40 e ss. c.p.), siffatta provvidenza sia un effetto giuridico “immediato e diretto” della condotta che quel danno ha provocato, giacché da esso deriva secondo un processo di lineare regolarità causale. Si è aggiunto (Cass. civ., Sez. I, 16 maggio 2016 n. 9978) che l’eventuale somma percepita dal danneggiato a titolo indennitario esclude comunque funditus la sussistenza stessa, in parte qua, di un danno: un danno indennizzato, infatti, non è più, per la parte indennizzata, tale, almeno nell’orbita di un sistema di responsabilità civile come il nostro che, salvo spunti di carattere (ancora) settoriale, rifugge da intenti punitivi, sanzionatori o, comunque, latu sensu afflittivi per il danneggiante (appannaggio di altre branche dell’ordinamento) e si pone il solo scopo di rimediare, mediante la ricostruzione (in forma specifica o per equivalente monetario) del patrimonio del danneggiato, ad un’alterazione patrimoniale o patrimonialmente valutabile della sua sfera giuridica occorsa non iure e contra ius. del resto, il cumulo di benefici di carattere indennitario, da un lato, e del risarcimento del danno, dall’altro, determinerebbe una locupletazione del danneggiato (il cui patrimonio, dopo l’evento di danno, risulterebbe addirittura incrementato rispetto a prima), strutturalmente incompatibile con la richiamata natura meramente reintegratoria della responsabilità civile. In conclusione, la diversità dei presupposti fra le varie provvidenze indennitarie previste dal contratto o dalla legge ed il risarcimento del danno da illecito civile (sia esso contrattuale od extracontrattuale) non giustifica quanto affermato dall’orientamento tradizionale: l’oggettiva identità del pregiudizio, che ambedue gli istituti vanno a riparare, si sostiene, ne esclude la cumulabilità ed impone, di contro, di defalcare dalla somma dovuta a titolo di risarcimento l’eventuale importo riconosciuto al danneggiato in via indennitaria, che, in quanto avvinto al fatto illecito da un nesso (di carattere normativo o negoziale) di regolarità causale, né è, agli affetti giuridici, conseguenza “immediata e diretta” nell’accezione che di essa dà il diritto vivente. CONteNzIOSO NAzIONALe 71 La particolare attenzione rivolta alle problematiche della compensatio da parte della dottrina e della giurisprudenza è dovuta al fatto che oggi più che mai la responsabilità civile è una parte consistente del sistema economico- sociale di allocazione dei costi e delle risorse secondo l’analisi economica del diritto. Si pensi alla teoria della loss distribution della dottrina nord-Americana di Coleman e Fleming e alla necessità di individuare il c.d. e il , o anche alla teoria di shavell, teorie secondo le quali occorre che il risarcimento del danno, secondo una logica non solo di compensazione, ma anche di deterrente, riporti i costi sociali sulla curva di indifferenza, intesa come punto di equo contemperamento tra costi sociali e risorse economiche. La prassi delle assicurazioni contro gli infortuni ha da tempo adattato le clausole di rinuncia al diritto di surrogazione ex art. 1916 c.c. che consente il cumulo, importante driver commerciale delle polizze assicurative (vedi anche art. 142 Iv comma cod. ass. private d.lgs n. 205/09) . tutto ciò induce a considerare la compensatio una regola operazionale di liquidazione del danno (comprensivo di lucro cessante e danno emergente) che non può non tenere conto dell’aliunde perceptum in una logica di correlatività stretta fra esternalità negative e positive, volendo usare un linguaggio più economico che giuridico. La compensatio deve basarsi sull’unicità, omogeneità del titolo giuridico. Il problema è definire tale unicità: occorre considerare l’unicità della radice causale o l’omogeneità degli effetti? La risposta dipende dalla concezione che si ha della responsabilità civile: 1) compensativa, volta cioè al ripristino dello status quo ante, principio dell’indifferenza; 2) sanzionatoria, punitiva, secondo quanto statuito in tema di punitive damages dalla sentenza SS.UU. 5 luglio 2017 n. 16601 che ha affermato una “nuova” natura polifunzionale della responsabilità civile. Certamente assumono un rilievo decisivo l’unicità del soggetto erogatore, del risarcimento e dell’eventuale indennizzo e la natura dell’obbligazione volontaria o sociale. L’elemento catalizzatore di tutte le fattispecie di compensatio è senz’altro il principio indennitario ex artt. 1909 c.c. e 1910 c.c. tali articoli declinano in norme positive il c.d. “principio dell’indifferenza” del risarcimento: in altri termini il risarcimento del danno non può rendere la vittima dell’illecito né più ricca né più povera di quanto non fosse prima della commissione dell’illecito. tale principio indennitario si desume anche dall’art. 1223 c.c. (secondo cui il risarcimento deve includere solo la perdita subita e il mancato guadagno); dall’art. 1149 c.c. (che prevede la compensazione tra il diritto del proprietario alla restituzione dei frutti e l’obbligo di rifondere al possessore le spese per produrli); dall’art. 1479 c.c. (che nel caso di vendita di cosa altrui prevede la compensazione tra il minor valore della RASSeGNA AvvOCAtURA 72 deLLO StAtO - N. 3/2018 cosa e il rimborso del prezzo); art. 1592 c.c. (che prevede la compensazione del credito del locatore per i danni alla cosa con il valore dei miglioramenti). Il principio della compensatio si rinviene anche in alcune norme speciali: art. 1 comma 1 bis della l. n. 20 del 1994 (compensazione del danno causato dal pubblico impiegato con i vantaggi conseguiti dalla pubblica amministrazione), o il d.P.R. n. 327 del 2011, art. 33, comma 2 (il quale in tema di espropriazione per pubblica utilità prevede la compensabilità del credito per l’indennità espropriativa col vantaggio arrecato al fondo). da tali previsioni discende la considerazione che il risarcimento non può creare in favore del danneggiato una situazione migliore di quella in cui si sarebbe trovato se il fatto dannoso non fosse avvenuto, immettendo nel suo patrimonio un valore economico maggiore della differenza patrimoniale negativa indotta dall’illecito. Secondo, dunque, i sostenitori del principio dell’indifferenza, il risarcimento spettante alla vittima dell’illecito andrà ridotto in tutti i casi in cui, senza l’illecito, la percezione del vantaggio patrimoniale sarebbe stata impossibile. tale condizione ricorre anche in tutti i casi in cui il vantaggio dovuto alla vittima è previsto da una norma di legge che fa dell’illecito, ovvero del danno che ne è derivato, uno dei presupposti di legge per l’erogazione del beneficio. tale requisito sussisterà, dunque, di norma: a) Rispetto al credito risarcitorio per danno biologico, quando la vittima di lesioni personali abbia percepito dall’INAIL l’indennizzo del danno biologico, ai sensi del d.lgs 23 febbraio 2000 n. 38 art. 13; b) Rispetto al credito risarcitorio per danno patrimoniale da incapacità lavorativa, quando la vittima di lesioni personali, avendo patito postumi permanenti superiori al 16%, abbia percepito dall’INAIL una rendita maggiorata, e limitatamente a tale maggiorazione; c) Rispetto al credito risarcitorio per danno patrimoniale da incapacità lavorativa, quando la vittima di lesioni personali abbia percepito dall’INPS la pensione di invalidità (L. n. 118/71); d) Rispetto al credito risarcitorio per danno patrimoniale da spese mediche e d’assistenza, quando la vittima di lesioni personali abbia percepito dall’INPS l’indennità di accompagnamento (l. n. 18/1980); e) Rispetto al credito risarcitorio per danno patrimoniale da perdita delle elargizioni ricevute da un parente deceduto, quando il superstite abbia percepito dall’INAIL la rendita di cui al d.P.R. 30 giugno 1965 n. 124, art. 66, comma 1, n° 4, ovvero una pensione di reversibilità. f) Rispetto al credito risarcitorio vantato nei confronti del Ministero della Salute per danni patrimoniali e non patrimoniali scaturenti da emotrasfusioni quando il danneggiato abbia percepito dalle Regioni l’indennizzo ex L. 210/92. Si precisa che in tal caso il Ministero della Salute, trovandosi spesso nella difficoltà di conoscere l’esatto importo del suddetto indennizzo erogato da un altro soggetto pubblico (ASL - Regioni), nell’eccepire la compensazione, si CONteNzIOSO NAzIONALe 73 trova nella necessità di chiedere al giudice in via istruttoria l’ordine di esibizione documentale ex art. 210 c.p.c. I casi sopracitati sono quelli menzionati nell’ordinanza n. 15534 del 22 giugno 2017 della III Sez. della Cass. Civ., la quale ha precisato che “Ciò vale, ovviamente, anche nel caso di assicurazione contro i danni, dove il beneficio (indennizzo) ha natura contrattuale, essendo però la legge (artt. 1904 c.c. e ss.) a tipizzare il contratto in funzione del "danno sofferto dall'assicurato in conseguenza del sinistro" (principio indennitario), limite coessenziale alla funzione stessa del contratto assicurativo, e rimosso il quale quest'ultimo degenererebbe in una scommessa”. La suddetta ordinanza, dopo aver precisato che sul piano processuale la compensatio non è un’eccezione in senso stretto, ma è rilevabile d’ufficio (Cass. S.U. 7 maggio 2013 n. 10531), sebbene non sotratta ad un onere di allegazione (Cass. 24 settembre 2014 n. 20111 e Cass. 10 maggio 2016 n. 9434) attraverso un approccio multilivello, ha chiarito che: < la regola secondo cui la stima del danno deve tener conto dei vantaggi realizzati dalla vittima, che siano conseguenza dell’illecito, risulta: a) condivisa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, la quale ha affermato che in un giudizio di responsabilità l’eccezione di compensatio “non si può, in via di principio, considerare infondata” (Corte gius. Ce 4 ottobre 1979, Deutsche getreideverwertung in cause riunite C-241/78 ed altre); b) recepita dai principi europei di diritto della responsabilità (Principles of european tort law - Petl art. 10:103, i quali ovviamente non hanno valore normativo ma costituiscono pur sempre un utile criterio guida per l’interprete>. Queste considerazioni vengono riprese nella sentenza n. 12565/2018 dove si legge testualmente: . Nel prosieguo della motivazione della sentenza n. 12565/2018 la Corte richiama le conclusioni del pubblico ministero secondo il quale sono . L’obiezione che viene mossa all’applicazione della compensatio attiene al pagamento dei premi assicurativi. Si obietta infatti che, avendo l’assicurato pagato i premi, egli avrebbe comunque diritto all’indennizzo in aggiunta al risarcimento, altrimenti il pagamento dei premi sarebbe sine causa. Ma il pagamento del premio è in sinallagma col trasferimento del rischio e non con il pagamento dell’indennizzo, altrimenti il contratto d’assicurazione si trasformerebbe in una scommessa, venendo meno il requisito strutturale-funzionale del rischio che, ai sensi dell’art. 1895 c.c. deve configurarsi come la possibilità di un avveramento di un evento futuro, incerto, dannoso e non voluto. La prospettiva non è quella della coincidenza formale dei titoli, ma quella del collegamento funzionale tra la causa dell’attribuzione patrimoniale e l’obbligazione risarcitoria. Le Sezioni Unite, affermando per il caso Ustica il principio di diritto, secondo il quale , delineano nel contempo la necessità di adottare una tecnica casistica che si basi, in un’ottica valoriale e solidaristica ex art. 2 Cost., sul “the purpose of the benefit” (richiamato dai Principles of european tort Law-PetL art. 10:103), ossia sullo scopo o “ragione giustificatrice del beneficio” per settori di disciplina e per classi omogenee di beni/interessi giuridici protetti, al fine di approdare ad un risarcimento che rappresenti un equo ristoro delle conseguenze dannose subite dal danneggiato, ma non occasione di ingiustificato arricchimento. CONteNzIOSO NAzIONALe 75 Cassazione civile, sezioni Unite, sentenza 22 maggio 2018 n. 12565 - Pres. G. Mammone, Rel. A. Giusti - Ministero della difesa e Ministero delle infrastrutture e dei trasporti (avv. gen. Stato) c. Aerolinee Itavia S.p.A. (avv. G. Alessi). RAGIONI deLLA deCISIONe (...) 4. - Sulla questione se dall'ammontare dei danni risarcibili dal danneggiante debba essere detratta l'indennità assicurativa derivante dall'assicurazione contro i danni che il danneggiato abbia percepito in conseguenza del fatto illecito, si confrontano due orientamenti. 4.1. - Secondo un primo indirizzo, indennità assicurativa e risarcimento del danno sono cumulabili se l'assicuratore non esercita la surrogazione: poichè la surrogazione ai sensi dell'art. 1916 c.c. non è un effetto automatico del pagamento dell'indennità, ma una facoltà il cui esercizio dipende dall'assicuratore, qualora costui non si avvalga di tale facoltà, il danneggiato può agire per il risarcimento del danno nei confronti del terzo responsabile senza che questi, estraneo al rapporto di assicurazione, possa opporgli l'avvenuta riscossione dell'indennità assicurativa. L'orientamento si fonda sul rilievo che il meccanismo surrogatorio ex art. 1916 c.c. - peculiare forma di successione a titolo particolare e di carattere derivativo dell'assicuratore nel diritto di credito del danneggiato - non opera automaticamente, cioè come conseguenza del fatto puro e semplice del pagamento dell'indennità assicurativa, ma solo se e nel momento in cui l'assicuratore, dopo averla corrisposta all'assicurato-danneggiato ed avvalendosi della facoltà concessagli dal codice, comunica al terzo responsabile del danno l'avvenuta solutio e manifesta contestualmente la volontà di surrogarsi nei diritti dell'assicurato verso il terzo, al fine appunto di rivalersi su questo della somma pagata a quello. Prima della comunicazione al responsabile del danno, da parte dell'assicuratore, della volontà di avvalersi del diritto di surrogazione, non si verifica, per effetto della corresponsione dell'indennità, alcuna sostituzione nel diritto di credito del danneggiato, il quale, ancorchè abbia già riscosso l'indennizzo, può dunque agire nei confronti del responsabile del danno e per i ristoro integrale di esso. Soltanto se l'assicurato si avvale della facoltà di surrogarsi nei diritti del danneggiato si ha la conseguenza che, da tale momento e per la somma corrispondente alla riscossa indennità, l'assicurato non è più legittimato a pretendere dal terzo il risarcimento del danno, essendosi la relativa legittimazione trasferita, nei limiti derivanti dalla surrogazione, all'assicuratore. Secondo tale orientamento, il cumulo di indennizzo e risarcimento non è precluso dal principio della compensatio lucri cum damno, destinato a trovare applicazione solo nel caso in cui il vantaggio ed il danno siano entrambi conseguenza immediata e diretta del fatto illecito, quali suoi effetti contrapposti, e, quindi, non operante allorchè l'assicurato riceva dall'assicuratore contro i danni il relativo indennizzo a causa del fatto illecito del terzo. tale prestazione ripete infatti la sua fonte e la sua ragione giuridica dal contratto di assicurazione e cioè da un titolo diverso ed indipendente dall'illecito stesso, il quale costituisce soltanto la condizione perchè questo titolo spieghi la sua efficacia, senza che il correlativo effetto di incremento patrimoniale eventualmente conseguito dall'assicurato possa incidere sul quantum del risarcimento dovuto dal danneggiante. Questo indirizzo, tradizionalmente seguito nella giurisprudenza di questa Corte, ha avuto per lungo tempo applicazione incontrastata (Cass., Sez. I, 23 ottobre 1954, n. 4019; Cass., Sez. III, 29 marzo 1968, n. 971; Cass., Sez. III, 7 aprile 1970, n. 961; Cass., Sez. III, 8 settembre 1970, n. 1347; Cass., Sez. I, 9 dicembre 1971, n. 3562; Cass., Sez. III, 21 agosto 1985, RASSeGNA AvvOCAtURA 76 deLLO StAtO - N. 3/2018 n. 4473; Cass., Sez. III, 26 febbraio 1988, n. 2051; Cass., Sez. III, 10 febbraio 1999, n. 1135; Cass., Sez. III, 23 dicembre 2003, n. 19766). esso ha ricevuto l'avallo delle Sezioni Unite: le quali - chiamate a risolvere la questione se sia di valore o di valuta il credito fatto valere dall'assicuratore ai sensi dell'art. 1916 c.c. - con la sentenza 13 marzo 1987, n. 2639, hanno incidentalmente riconosciuto come assolutamente univoco l'indirizzo a favore del cumulo della posta risarcitoria per il danneggiato-assicurato che abbia già riscosso l'indennizzo assicurativo, e ciò sino a quando il diritto potestativo di surroga non sia stato fatto valere dall'assicuratore. 4.2. - Secondo un opposto orientamento - espresso da Cass., Sez. III, 11 giugno 2014, n. 13233, in un caso di assicurazione contro gli infortuni non mortali - indennità assicurativa e risarcimento del danno assolvono ad un'identica funzione risarcitoria e non possono cumulativamente convivere: la percezione dell'indennizzo, da parte del danneggiato, elide in misura corrispondente il suo credito risarcitorio nei confronti del danneggiante, che pertanto si estingue e non può essere più preteso, nè azionato. Come l'assicuratore può legittimamente rifiutare il pagamento dell'indennizzo ove l'assicurato abbia già ottenuto l'integrale risarcimento del danno dal responsabile, così il responsabile del danno può legittimamente rifiutare il pagamento del risarcimento allorchè l'assicurato abbia già ottenuto il pagamento dell'indennità dal proprio assicuratore privato contro i danni. L'indirizzo muove dalla premessa che la diversità dei titoli in base ai quali l'assicuratodanneggiato può vantare da un lato l'indennizzo e dall'altro il risarcimento, non consente di superare il principio indennitario, e dal rilievo che con il cumulo di indennizzo e risarcimento, non giustificato dal pagamento del premio, l'assicurato verrebbe ad avere un interesse positivo all'avverarsi del sinistro. Secondo questa linea ricostruttiva, per effetto del pagamento dell'indennizzo assicurativo, il diritto al risarcimento si trasferisce dall'assicurato-danneggiato all'assicuratore, con la conseguenza che, a seguito della surrogazione, l'assicurato non è più titolare del credito risarcitorio e non può esigerne il pagamento dal terzo danneggiante. L'impossibilità, per l'assicurato, di cumulare indennizzo e risarcimento poggia inoltre sul principio di integralità del risarcimento, in virtù del quale il danneggiato non può, dopo il risarcimento, trovarsi in una condizione patrimoniale più favorevole rispetto a quella in cui si trovava prima di restare vittima del fatto illecito: sicchè, nell'ipotesi in cui il danneggiato percepisca l'indennizzo assicurativo prima del risarcimento del danno, l'obbligo risarcitorio del terzo responsabile viene meno in quanto l'intervento dell'assicuratore ha eliso (in tutto o in parte) il pregiudizio patito dal danneggiato stesso, e non si può pretendere il risarcimento di un danno che non c'è più. In base a questo orientamento, la surrogazione dell'assicuratore non interferisce in alcun modo con il problema dell'esistenza del danno, e quindi con il principio indennitario: abbia o non abbia l'assicuratore rinunciato alla surroga, non può essere risarcito il danno inesistente ab origine o non più esistente, ed il danno indennizzato dall'assicuratore è un danno che ha cessato di esistere dal punto di vista giuridico dal momento in cui la vittima ha percepito l'indennizzo e fino all'ammontare di questo. 4.2.1. - Il Collegio della terza Sezione rimettente prospetta come preferibile il più recente indirizzo. Il Collegio rimettente dichiara di auspicare che il problema interpretativo che sta alla base della questione sia risolto secondo i seguenti principi: (a) alla vittima d'un fatto illecito spetta il risarcimento del danno esistente nel suo patrimonio al momento della liquidazione; (b) nella CONteNzIOSO NAzIONALe 77 stima di questo danno occorre tenere conto dei vantaggi che, prima della liquidazione, siano pervenuti o certamente perverranno alla vittima, a condizione che il vantaggio possa dirsi causato dal fatto illecito; (c) per stabilire se il vantaggio sia stato causato dal fatto illecito deve applicarsi la stessa regola di causalità utilizzata per accertare se il danno sia conseguenza dell'illecito. Ad avviso del Collegio rimettente, a pretendere la medesimezza del titolo per il danno e per il lucro ai fini dell'operatività della compensatio anche nelle fattispecie che si caratterizzano per la presenza di rapporti giuridici trilaterali, si finirebbe per negare di fatto qualsiasi spazio all'istituto, essendo assai raro (se non impossibile) che un fatto illecito possa provocare da sè solo, ossia senza il concorso di nessun altro fattore umano o giuridico, sia una perdita, sia un guadagno. Si tratterebbe invece unicamente di stabilire se il lucro costituisca o meno una conseguenza immediata e diretta del fatto illecito ai sensi dell'art. 1223 c.c. Qualificare d'altra parte molti vantaggi come occasionati e non causati dal fatto illecito sarebbe incoerente con la moderna nozione di causalità giuridica: pertanto, allorquando il fatto di danno sia anche coelemento di una fattispecie, di fonte normativa o negoziale, costitutiva di una provvidenza indennitaria a favore del danneggiato, pure siffatta provvidenza - si sostiene - rappresenta un effetto giuridico immediato e diretto della condotta che quel danno ha provocato, giacchè da essa deriva secondo un processo di lineare regolarità causale. Secondo la lettura proposta nell'ordinanza di rimessione, il cumulo dei benefici, rispettivamente di carattere indennitario e risarcitorio, determinerebbe nei fatti una locupletazione del danneggiato, strutturalmente incompatibile con la natura meramente reintegratoria della responsabilità civile, tenuto conto che il risarcimento non può creare in favore del danneggiato una situazione migliore di quella in cui si sarebbe trovato se il fatto dannoso non fosse avvenuto, immettendo nel suo patrimonio un valore economico maggiore della differenza patrimoniale negativa indotta dall'illecito. Con particolare riferimento allo specifico quesito concernente la cumulabilità o meno dell'indennità assicurativa, l'ordinanza interlocutoria osserva che nel caso di assicurazione contro i danni, dove il beneficio (indennizzo) ha natura contrattuale, è però la legge (artt. 1904 c.c. e ss.) a tipizzare il contratto in funzione del danno sofferto dall'assicurato in conseguenza del sinistro; e precisa che l'estinzione del diritto al risarcimento in capo all'assicurato avviene per effetto del solo pagamento dell'indennità assicurativa e non in conseguenza della surrogazione, "la quale, semmai, è un effetto dell'estinzione e non la causa di essa". 5. - Come correttamente rileva l'ordinanza interlocutoria della terza Sezione, la soluzione della specifica questione rimessa all'esame delle Sezioni Unite coinvolge un tema di carattere più generale, che attiene alla individuazione della attuale portata del principio della compensatio lucri cum damno e sollecita una risposta all'interrogativo se e a quali condizioni, nella determinazione del risarcimento del danno da fatto illecito, accanto alla poste negative si debbano considerare, operando una somma algebrica, le poste positive che, successivamente al fatto illecito, si presentano nel patrimonio del danneggiato. L'ordinanza di rimessione pone questo tema a oggetto di un quesito di portata più ampia di quello riguardante la detraibilità o meno dell'indennità di assicurazione: se la compensatio "possa operare come regola generale del diritto civile ovvero in relazione soltanto a determinate fattispecie"; "se nella liquidazione del danno debba tenersi conto del vantaggio che la vittima abbia comunque ottenuto in conseguenza del fatto illecito", percependo emolumenti versatigli non solo da assicuratori privati (come nella specie), bensì anche "da assicuratori sociali, da enti di previdenza, ovvero anche da terzi, ma comunque in virtù di atti indipendenti dalla volontà del danneggiante". RASSeGNA AvvOCAtURA 78 deLLO StAtO - N. 3/2018 tale interrogativo, al quale è sottesa una richiesta indistinta e omologante di tutte le possibili evenienze legate al sopravvenire, al fatto illecito produttivo di conseguenze dannose, di benefici collaterali al danneggiato, viene esaminato dalle Sezioni Unite nei limiti della sua rilevanza: fino al punto, cioè, in cui esso rappresenta un presupposto o una premessa sistematica indispensabile per l'enunciazione, a risoluzione del contrasto di giurisprudenza, di un principio di diritto legato all'orizzonte di attesa della fattispecie concreta. Questa delimitazione di ambito e di prospettiva non è frutto di una scelta discrezionale del Collegio decidente, ma conseguenza che si ricollega alle funzioni ordinamentali e alle attribuzioni processuali delle Sezioni Unite, alle quali è affidata, non l'enunciazione di principi generali e astratti o di verità dogmatiche sul diritto, ma la soluzione di questioni di principio di valenza nomofilattica pur sempre riferibili alle specificità del singolo caso della vita. Se ne ha una conferma nella stessa previsione dell'art. 363 c.p.c., perchè anche là dove la Corte di cassazione è chiamata ad enunciare un principio di diritto nell'interesse della legge, si tratta tuttavia del principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi nella risoluzione della specifica controversia. 5.1. - L'esistenza dell'istituto della compensatio, inteso come regola di evidenza operativa per la stima e la liquidazione del danno, non è controversa nella giurisprudenza di questa Corte, trovando il proprio fondamento nella idea del danno risarcibile quale risultato di una valutazione globale degli effetti prodotti dall'atto dannoso. Se l'atto dannoso porta, accanto al danno, un vantaggio, quest'ultimo deve essere calcolato in diminuzione dell'entità del risarcimento: infatti, il danno non deve essere fonte di lucro e la misura del risarcimento non deve superare quella dell'interesse leso o condurre a sua volta ad un arricchimento ingiustificato del danneggiato. Questo principio è desumibile dall'art. 1223 c.c., il quale stabilisce che il risarcimento del danno deve comprendere così la perdita subita dal danneggiato come il mancato guadagno, in quanto siano conseguenza immediata e diretta del fatto illecito. tale norma implica, in linea logica, che l'accertamento conclusivo degli effetti pregiudizievoli tenga anche conto degli eventuali vantaggi collegati all'illecito in applicazione della regola della causalità giuridica. Se così non fosse - se, cioè, nella fase di valutazione delle conseguenze economiche negative, dirette ed immediate, dell'illecito non si considerassero anche le poste positive derivate dal fatto dannoso - il danneggiato ne trarrebbe un ingiusto profitto, oltre i limiti del risarcimento riconosciuto dall'ordinamento giuridico (Cass., Sez. III, 11 luglio 1978, n. 3507). In altri termini, il risarcimento deve coprire tutto il danno cagionato, ma non può oltrepassarlo, non potendo costituire fonte di arricchimento del danneggiato, il quale deve invece essere collocato nella stessa curva di indifferenza in cui si sarebbe trovato se non avesse subito l'illecito: come l'ammontare del risarcimento non può superare quello del danno effettivamente prodotto, così occorre tener conto degli eventuali effetti vantaggiosi che il fatto dannoso ha provocato a favore del danneggiato, calcolando le poste positive in diminuzione del risarcimento. 5.2. - Controversi sono piuttosto la portata e l'ambito di operatività della figura, ossia i limiti entro i quali la compensatio può trovare applicazione, soprattutto là dove il vantaggio acquisito al patrimonio del danneggiato in connessione con il fatto illecito derivi da un titolo diverso e vi siano due soggetti obbligati, appunto sulla base di fonti differenti. È la situazione che si verifica quando, accanto al rapporto tra il danneggiato e chi è chiamato a rispondere civilmente dell'evento dannoso, si profila un rapporto tra lo stesso danneggiato ed un soggetto diverso, a sua volta obbligato, per legge o per contratto, ad erogare al primo un beneficio collaterale: si pensi all'assicurazione privata contro i danni, nella quale CONteNzIOSO NAzIONALe 79 l'assicuratore, verso il pagamento di un premio, si obbliga a rivalere l'assicurato, entro i limiti convenuti, del danno ad esso prodotto da un sinistro; si considerino i benefici della sicurezza e dell'assistenza sociale, da quelli legati al rapporto di lavoro (e scaturenti dalla tutela contro gli infortuni e le malattie professionali) a quelli rivolti ad assicurare ad ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari per vivere una tutela assistenziale; si pensi, ancora, alle numerose previsioni di legge che contemplano indennizzi o speciali elargizioni che lo Stato corrisponde, per ragioni di solidarietà, a coloro che subiscono un danno in occasione di disastri o tragedie e alle vittime del terrorismo o della criminalità organizzata. La vicenda concreta all'esame delle Sezioni Unite si colloca in quest'ambito. Sussistendo la responsabilità del terzo per il danno prodotto da un sinistro per il cui rischio il danneggiato si era in precedenza assicurato, a quest'ultimo spettano distinti diritti di credito: da un lato, il credito di risarcimento nei confronti del responsabile e, dall'altro, il credito di indennizzo nei confronti dell'assicuratore. Il duplice rapporto bilaterale è quindi rappresentato, per un verso, dalla relazione creata dal fatto illecito, permeata dalla disciplina della responsabilità civile, e, per l'altro verso, dal rapporto discendente dal contratto di assicurazione. In questa ed in altre fattispecie similari si tratta di stabilire se l'incremento patrimoniale realizzatosi in connessione con l'evento dannoso per effetto del beneficio collaterale avente un proprio titolo e una relazione causale con un diverso soggetto tenuto per legge o per contratto ad erogare quella provvidenza, debba restare nel patrimonio del danneggiato cumulandosi con il risarcimento del danno o debba essere considerato ai fini della corrispondente diminuzione dell'ammontare del risarcimento. 5.3. - Restano fuori dal quesito rivolto alle Sezioni Unite le ipotesi in cui, pur in presenza di titoli differenti, vi sia unicità del soggetto responsabile del fatto illecito fonte di danni ed al contempo obbligato a corrispondere al danneggiato una provvidenza indennitaria. In queste ipotesi vale la regola del diffalco, dall'ammontare del risarcimento del danno, della posta indennitaria avente una cospirante finalità compensativa. La compensatio opera cioè in tutti i casi in cui sussista una coincidenza tra il soggetto autore dell'illecito tenuto al risarcimento e quello chiamato per legge ad erogare il beneficio, con l'effetto di assicurare al danneggiato una reintegra del suo patrimonio completa e senza duplicazioni. Questa Corte, anche a Sezioni Unite, ha infatti affermato che l'indennizzo corrisposto al danneggiato, ai sensi della L. 25 febbraio 1992, n. 210, a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto deve essere integralmente scomputato dalle somme spettanti a titolo di risarcimento del danno, venendo altrimenti la vittima a godere di un ingiustificato arricchimento consistente nel porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero della salute) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo (Cass., Sez. U., 11 gennaio 2008, n. 584; Cass., Sez. III, 14 marzo 2013, n. 6573). Alla medesima conclusione è pervenuta la giurisprudenza amministrativa. Chiamato a stabilire, nell'espressione nomofilattica dell'Adunanza Plenaria, se la somma dovuta dal datore di lavoro pubblico ad un proprio dipendente per lesione della salute conseguente alla esalazione di amianto nei luoghi di lavoro sia cumulabile con l'indennizzo percepito a seguito del riconoscimento della dipendenza dell'infermità da causa di servizio ovvero se tale indennizzo debba essere decurtato dal risarcimento del danno, il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 1 del 2018, ha enunciato il principio di diritto secondo cui "la presenza di un'unica condotta responsabile, che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito in capo al medesimo soggetto derivanti da titoli diversi aventi la medesima finalità compensativa del pre RASSeGNA AvvOCAtURA 80 deLLO StAtO - N. 3/2018 giudizio subito dallo stesso bene giuridico protetto, determina la costituzione di un rapporto obbligatorio sostanzialmente unitario che giustifica, in applicazione della regola della causalità giuridica e in coerenza con la funzione compensativa e non punitiva della responsabilità, il divieto del cumulo con conseguente necessità di detrarre dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo indennitario". Preme qui sottolineare i fondamentali passaggi attraverso i quali si snoda l'argomentazione che sostiene la decisione del giudice amministrativo: (a) "l'applicazione delle regole della causalità giuridica impone che venga liquidato soltanto il danno effettivamente subito dal danneggiato"; (b) "il riconoscimento del cumulo implicherebbe l'attribuzione alla responsabilità contrattuale di una funzione punitiva", giacchè l'esistenza "di un solo soggetto responsabile e obbligato comporterebbe per esso l'obbligo di corrispondere una somma superiore a quella necessaria per reintegrare la sfera del danneggiato con ingiustificata locupletazione da parte di quest'ultimo": risultato, questo, non ammissibile, difettando "una espressa previsione legislativa che contempli un illecito punitivo e dunque autorizzi un rimedio sovracompensativo", non essendo nemmeno configurabile "una duplice causa dell'attribuzione patrimoniale"; (c) "nella fattispecie in esame l'accertata finalità compensativa di entrambi i titoli delle obbligazioni concorrenti e del conseguente meccanismo risarcitorio, nonchè la semplicità del rapporto che evita le possibili complicazioni ricostruttive connesse al funzionamento della surrogazione, impedisce che possa operare il cumulo tra danno e indennità". 5.4. - tornando all'ambito operativo della compensatio in presenza di una duplicità di posizioni pretensive di un soggetto verso due soggetti diversi tenuti, ciascuno, in base ad un differente titolo, occorre rilevare che la prevalente giurisprudenza di questa Corte ritiene che per le fattispecie rientranti in questa categoria valga la soluzione del cumulo del vantaggio conseguente all'illecito, non quella del diffalco. Si afferma, in particolare, che la compensatio è operante solo quando il pregiudizio e l'incremento discendano entrambi, con rapporto immediato e diretto, dallo stesso fatto, sicchè se ad alleviare le conseguenze dannose subentra un beneficio che trae origine da un titolo diverso ed indipendente dal fatto illecito generatore di danno, di tale beneficio non può tenersi conto nella liquidazione del danno, profilandosi in tal caso un rapporto di mera occasionalità che non può giustificare alcun diffalco. In altri termini, la detrazione può trovare applicazione solo nel caso in cui il vantaggio ed il danno siano entrambi conseguenza immediata e diretta del fatto illecito, quali suoi effetti contrapposti; essa invece non opera quando il vantaggio derivi da un titolo diverso ed indipendente dall'illecito stesso, il quale costituisce soltanto la condizione perché il diverso titolo spieghi la sua efficacia (Cass., Sez. III, 15 aprile 1993, n. 4475; Cass., Sez. III, 28 luglio 2005, n. 15822). Secondo questa prospettiva, la diversità dei titoli delle obbligazioni - il fatto illecito, da un lato; la norma di legge (ad esempio, nel caso di percezione di benefici da parte di enti previdenziali, assicuratori sociali, pubbliche amministrazioni) o il contratto (ad esempio, nel caso di percezione di indennizzi assicurativi), dall'altro - costituisce una idonea causa di giustificazione delle differenti attribuzioni patrimoniali: conseguentemente, la condotta illecita rappresenta, non la causa del beneficio collaterale, ma la mera occasione di esso. 5.5. - L'ordinanza di rimessione esattamente constata che è assai raro che le poste attive e passive abbiano entrambe titolo nel fatto illecito. Richiamando la nozione di causalità che si è venuta sviluppando nella giurisprudenza di questa Corte, la quale ha da tempo abbandonato la distinzione scolastica tra causa remota, causa prossima ed occasione, sostituendola con la nozione di regolarità causale (Cass., Sez. III, 13 settembre 2000, n. 12103), l'ordinanza pro CONteNzIOSO NAzIONALe 81 pone di superare l'inconveniente di una interpretazione "asimmetrica" dell'art. 1223 c.c.: una interpretazione che, quando si tratta di accertare il danno, ritiene che il rapporto fra illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato (Cass., Sez. III, 21 dicembre 2001, n. 16163; Cass., Sez. III, 4 luglio 2006, n. 15274), mentre esige al contrario che lo sia, quando passa ad accertare il vantaggio per avventura originato dal medesimo fatto illecito. 5.6. - Le Sezioni Unite ritengono che la sollecitazione a compiere la verifica in tema di assorbimento del beneficio nel danno in base a un test eziologico unitario, secondo il medesimo criterio causale prescelto per dire risarcibili le poste dannose, non possa spingersi fino al punto di attribuire rilevanza a ogni vantaggio indiretto o mediato, perchè ciò condurrebbe ad un'eccessiva dilatazione delle poste imputabili al risarcimento, finendo con il considerare il verificarsi stesso del vantaggio un merito da riconoscere al danneggiante. Così, non possono rientrare nel raggio di operatività della compensatio i casi in cui il vantaggio si presenta come il frutto di scelte autonome e del sacrificio del danneggiato, come avviene nell'ipotesi della nuova prestazione lavorativa da parte del superstite, prima non occupato, in conseguenza della morte del congiunto. Allo stesso modo, nel determinare il risarcimento del danno, non sono computabili gli effetti favorevoli derivanti dall'acquisto dell'eredità da parte degli eredi della vittima: la successione ereditaria, infatti, è legata non già al fatto di quella morte, bensì al fatto della morte in generale, che si sarebbe verificata (anche se in un momento successivo) in ogni caso, a prescindere dall'illecito. Si tratta di un esito interpretativo che discende pianamente dall'insegnamento della dottrina, la quale ha evidenziato che le conseguenze vantaggiose, come quelle dannose, possono computarsi solo finchè rientrino nella serie causale dell'illecito, da determinarsi secondo un criterio adeguato di causalità, sicchè il beneficio non è computabile in detrazione con l'applicazione della compensatio allorchè trovi altrove la sua fonte e nell'illecito solo un coefficiente causale. 5.7. - Nei casi appena indicati il criterio del nesso causale funge realmente da argine all'operare dello scomputo da compensatio. Più in generale, il Collegio ritiene che affidare il criterio di selezione tra i casi in cui ammettere o negare il cumulo all'asettico utilizzo delle medesime regole anche per il vantaggio, finisca per ridurre la quantificazione del danno, e l'accertamento della sua stessa esistenza, ad una mera operazione contabile, trascurando così la doverosa indagine sulla ragione giustificatrice dell'attribuzione patrimoniale entrata nel patrimonio del danneggiato. Invece, ai fini della delineazione di quel criterio di selezione, proprio da tale indagine occorre muovere, guardando alla funzione di cui il beneficio collaterale si rivela essere espressione, per accertare se esso sia compatibile o meno con una imputazione al risarcimento. È un approccio ermeneutico, questo, che da tempo la scienza giuridica offre alla comunità interpretante, rilevando che la determinazione del vantaggio computabile richiede che il vantaggio sia causalmente giustificato in funzione di rimozione dell'effetto dannoso dell'illecito: sicchè in tanto le prestazioni del terzo incidono sul danno in quanto siano erogate in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dal danneggiato. La prospettiva non è quindi quella della coincidenza formale dei titoli, ma quella del collegamento funzionale tra la causa dell'attribuzione patrimoniale e l'obbligazione risarcitoria. ed è una linea d'indagine tanto più ineludibile oggi, in vista di un'apertura al confronto con l'elaborazione della dottrina civilistica europea. Infatti, i Principles of european tort law, all'art. 10:103, prevedono che, nel determinare l'ammontare dei danni, i vantaggi ottenuti dal danneggiato a causa dell'evento dannoso devono RASSeGNA AvvOCAtURA 82 deLLO StAtO - N. 3/2018 essere presi in considerazione, salvo che ciò non sia conciliabile con lo scopo dei vantaggi (unless this cannot be reconciled with the purpose of the benefit). Analoga è la direttiva seguita dal Draft Common Frame of Reference. Secondo l'art. 6:103 del libro 6, dedicato alla equalisation of benefits, i vantaggi derivanti al soggetto che abbia sofferto un danno giuridicamente rilevante in conseguenza dell'evento dannoso non debbono essere presi in considerazione nel quantificare il danno, a meno che sia giusto e ragionevole farlo, avuto riguardo al tipo di danno sofferto, alla natura della responsabilità addebitata alla persona che ha causato il danno e, quando il beneficio sia erogato da un terzo, allo scopo perseguito conferendo il beneficio. Nell'una e nell'altra prospettiva, pertanto, si è ben lontani dal suggerire una regola categoriale destinata ad operare in modo "bilancistico": c'è, piuttosto, l'invito ad instaurare un confronto tra il danno e il vantaggio che di volta in volta viene in rilievo, alla ricerca della ragione giustificatrice del beneficio collaterale e, quindi, di una ragionevole applicazione del diffalco. La selezione tra i casi in cui ammettere o negare il diffalco deve essere fatta, dunque, per classi di casi, passando attraverso il filtro di quella che è stata definita la "giustizia" del beneficio e, in questo ambito, considerando la funzione specifica svolta dal vantaggio. Così, nel caso di assicurazione sulla vita, l'indennità si cumula con il risarcimento, perchè si è di fronte ad una forma di risparmio posta in essere dall'assicurato sopportando l'onere dei premi, e l'indennità, vera e propria contropartita di quei premi, svolge una funzione diversa da quella risarcitoria ed è corrisposta per un interesse che non è quello di beneficiare il danneggiante. 5.8. - Una verifica per classi di casi si impone anche per accertare se l'ordinamento abbia coordinato le diverse risposte istituzionali, del danno da una parte e del beneficio dall'altra, prevedendo un meccanismo di surroga o di rivalsa, capace di valorizzare l'indifferenza del risarcimento, ma nello stesso tempo di evitare che quanto erogato dal terzo al danneggiato si traduca in un vantaggio inaspettato per l'autore dell'illecito. Solo attraverso la predisposizione di quel meccanismo, teso ad assicurare che il danneggiante rimanga esposto all'azione di "recupero" ad opera del terzo da cui il danneggiato ha ricevuto il beneficio collaterale, potrà aversi detrazione della posta positiva dal risarcimento. Se così non fosse, se cioè il responsabile dell'illecito, attraverso il non-cumulo, potesse vedere alleggerita la propria posizione debitoria per il solo fatto che il danneggiato ha ricevuto, in connessione con l'evento dannoso, una provvidenza indennitaria grazie all'intervento del terzo, e ciò anche quando difetti la previsione di uno strumento di riequilibrio e di riallineamento delle poste, si avrebbe una sofferenza del sistema, finendosi con il premiare, senza merito specifico, chi si è comportato in modo negligente. Non corrisponde infatti al principio di razionalità-equità, e non è coerente con la poliedricità delle funzioni della responsabilità civile (cfr. Cass., Sez. U., 5 luglio 2017, n. 16601), che la sottrazione del vantaggio sia consentita in tutte quelle vicende in cui l'elisione del danno con il beneficio pubblico o privato corrisposto al danneggiato a seguito del fatto illecito finisca per avvantaggiare esclusivamente il danneggiante, apparendo preferibile in tali evenienze favorire chi senza colpa ha subito l'illecito rispetto a chi colpevolmente lo ha causato. e stabilire quando accompagnare la previsione del beneficio con l'introduzione di tale meccanismo di surrogazione o di rivalsa, il quale consente al terzo di recuperare le risorse impiegate per erogare una provvidenza che non rinviene il proprio titolo nella responsabilità risarcitoria, è una scelta che spetta al legislatore. Ad esso soltanto compete, in definitiva, trasformare quel duplice, ma separato, rapporto bilaterale in una relazione trilaterale, così apprestando le condizioni per il dispiegamento dell'operazione di scomputo. CONteNzIOSO NAzIONALe 83 È, questa, l'indicazione di sistema che giunge anche dal rappresentante dell'Ufficio del pubblico ministero, il quale, nel rifiutare la prospettiva "totalizzante" del computo nella stima del danno di vantaggi che, prima della liquidazione, siano pervenuti o certamente perverranno alla vittima, ha delineato "i due presupposti essenziali per poter svolgere la decurtazione del vantaggio": accanto al contenuto, "per classi omogenee o per ragioni giustificatrici", del vantaggio, la previsione, appunto, di un meccanismo di surroga, di rivalsa o di recupero, che "instaura la correlazione tra classi attributive altrimenti disomogenee". Così, in tutti i casi in cui sia una norma legislativa ad attribuire, "senza regolare l'eventuale rapporto con il tema risarcitorio", un vantaggio collaterale (si pensi agli interventi, in nome della solidarietà nazionale, con provvidenze ed elargizioni, in favore di individui e comunità a fronte di eventi catastrofici o disastri suscettibili di essere ascritti a condotte non iure e contra ius di soggetti terzi), il giudice della responsabilità civile non potrebbe procedere, tout court, ad effettuare l'operazione compensativa o di defalco. Se così facesse, egli vanificherebbe il senso più profondo della previsione normativa costituente il titolo dell'attribuzione, che risiede nell'assunzione da parte della generalità del carico di determinati svantaggi subiti dal o dai soggetti danneggiati, non nella volontà di premiare chi si è comportato in modo negligente o di alleggerire la sua posizione debitoria. 6. - date queste premesse e venendo, dunque, alla specifica questione oggetto del contrasto, occorre innanzitutto considerare che, nell'assicurazione contro i danni, l'indennità assicurativa è erogata in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dall'assicurato in conseguenza del verificarsi dell'evento dannoso: essa soddisfa, neutralizzandola in tutto o in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo autore del fatto illecito. Quando si verifica un sinistro per il quale sussiste la responsabilità di un terzo, al danneggiato che si era assicurato per tale eventualità, competono due distinti diritti di credito che, pur avendo fonte e titolo diversi, tendono ad un medesimo fine: il risarcimento del danno provocato dal sinistro all'assicurato-danneggiato. 6.1. - tali diritti sono però concorrenti, giacchè - come è stato rilevato in dottrina - ciascuno di essi rappresenta, sotto il profilo funzionale, un mezzo idoneo alla realizzazione del medesimo interesse, che è quello dell'eliminazione del danno causato nel patrimonio dell'assicurato- danneggiato per effetto della verificazione del sinistro, sicchè l'assicurato-danneggiato non può pretendere dal terzo responsabile e dall'assicuratore degli indennizzi che nel totale superino i danni che il suo patrimonio ha subito. Infatti, dato il carattere sussidiario dell'obbligazione assicurativa, quando il danneggiato, prima di percepire l'indennizzo assicurativo, ottiene il risarcimento integrale da parte del responsabile, cessa l'obbligo di indennizzo dell'assicuratore (Cass., Sez. II, 25 ottobre 1966, n. 2595); se invece è l'assicuratore a indennizzare per primo l'assicurato, quando il risarcimento da parte del terzo responsabile non ha ancora avuto luogo, allora, ai sensi dell'art. 1916 c.c., l'assicuratore è surrogato, fino alla concorrenza dell'ammontare dell'indennità corrisposta, nel diritto dell'assicurato verso il terzo medesimo. Benchè il rapporto assicurativo nascente dal contratto ed il rapporto di danneggiamento derivante dal fatto illecito si collochino su piani diversi, tuttavia rispetto ad essi la surrogazione ex art. 1916 funge da meccanismo di raccordo, in quanto instaura ex novo una relazione diretta tra l'assicuratore che ha pagato l'indennità ed il responsabile del danno, sebbene il primo sia estraneo alla responsabilità civile derivante dall'illecito extracontrattuale, ed il secondo sia estraneo al contratto di assicurazione. La surrogazione, infatti, mentre consente all'assicuratore RASSeGNA AvvOCAtURA 84 deLLO StAtO - N. 3/2018 di recuperare aliunde quanto ha pagato all'assicurato-danneggiato, impedisce a costui di cumulare, per lo stesso danno, la somma già riscossa a titolo di indennità assicurativa con quella ancora dovutagli dal terzo responsabile a titolo di risarcimento, e di conseguire così due volte la riparazione del pregiudizio subito. Senza la surrogazione, l'assicurato danneggiato conserverebbe l'azione di risarcimento contro il terzo autore del fatto illecito anche per l'ammontare corrispondente all'indennità assicurativa ricevuta: ma l'art. 1916 gliela toglie, perchè la trasmette all'assicuratore. Il risarcimento resta tuttavia dovuto dal danneggiante per l'intero, essendo questi tenuto a rimborsare all'assicuratore l'indennità assicurativa e a risarcire l'eventuale maggior danno al danneggiato: la riscossione dell'indennità da parte dell'assicurato-danneggiato in conseguenza dell'evento dannoso non ha quindi alcuna incidenza sulla prestazione del terzo responsabile, il quale dovrà risarcire, in ogni caso, l'intero danno. 6.2. - La dottrina presenta unanimità di accenti nell'individuare nella surrogazione ai sensi dell'art. 1916 c.c. - quale strumento semplificatorio della definizione dei rapporti intercorrenti, su piani diversi, tra assicuratore, assicurato e terzo responsabile - una duplice e concorrente finalità: (a) anzitutto, la salvaguardia del principio indennitario (desumibile dagli artt. 1882, 1904 e 1905 c.c., art. 1908 c.c., comma 1, art. 1909 c.c., art. 1910 c.c., comma 3), per cui la prestazione assicurativa non può mai trasformarsi in una fonte di arricchimento per l'assicurato e determinare, in suo favore, una situazione economica più vantaggiosa di quella in cui egli verserebbe se l'evento dannoso non si fosse verificato; (b) in secondo luogo, la conservazione del principio di responsabilità (artt. 1218 e 2043 c.c.), per cui l'autore del danno è in ogni caso tenuto all'obbligazione risarcitoria, senza possibilità di vedere elisa o ridotta l'entità della relativa prestazione per effetto di una assicurazione non da lui, o per lui, stipulata. A queste finalità ne viene aggiunta spesso una terza, quella di consentire all'ente assicuratore, attraverso il recupero della perdita costituita dalla somma erogata a titolo di indennità, una riduzione dei costi di gestione del ramo e quindi, tendenzialmente, un contenimento del livello dei premi nei limiti in cui l'assicuratore sia in grado di recuperare dai terzi responsabili quanto erogato in forza dei propri impegni contrattuali. Si tratta di una impostazione condivisa dalla giurisprudenza di questa Corte, la quale, nell'evidenziare che il congegno della surrogazione dell'assicuratore nei diritti dell'assicurato verso i terzi responsabili costituisce applicazione del principio indennitario, sottolinea che, in forza di tale principio, un sinistro non può diventare fonte di lucro per chi lo subisce, neppure quando l'indennizzo gli spetti a duplice titolo e da parte di soggetti diversi, e cioè dall'assicuratore e dall'autore del danno, l'eventualità del doppio indennizzo per lo stesso danno essendo appunto scongiurata dalla surrogazione legale dell'assicuratore che ha pagato l'indennità, fino a concorrenza di essa, nei diritti dell'assicurato verso i terzi responsabili (Cass., Sez. III, 29 gennaio 1973, n. 293; Cass., Sez. III, 7 giugno 1977, n. 2341; Cass., Sez. III, 7 maggio 1979, n. 2595). 6.3. - La giurisprudenza che ammette la cumulabilità, in capo all'assicurato che ha riscosso l'indennità dalla propria compagnia, dell'intero ammontare del risarcimento del danno dovuto dal terzo responsabile, muove dall'idea che, per perfezionare la vicenda successoria della surrogazione e sancire la perdita del diritto al risarcimento in capo all'assicurato, non basti il fatto oggettivo del pagamento dell'indennità, ma debba ricorrere anche il presupposto soggettivo della comunicazione, indirizzata dall'assicuratore al terzo responsabile, di avere pagato e di volersi surrogare al proprio assicurato. La surrogazione opererebbe solo se e nel momento in cui l'assicuratore comunichi al terzo responsabile l'avvenuta solutio e manifesti contestualmente la volontà di surrogarsi nei diritti dell'assicurato verso il medesimo terzo, al fine appunto CONteNzIOSO NAzIONALe 85 di rivalersi su questo della somma pagata a quello. Affinchè, da potenziale che era, divenga attuale e operante, il diritto di surrogazione dell'assicuratore richiederebbe questa manifestazione di volontà ad hoc da parte dell'assicuratore, perchè è alla sua iniziativa e disponibilità che la legge rimetterebbe il perfezionamento della successione a titolo derivativo nel diritto di credito. È appunto da una tale configurazione (la surrogazione dell'assicuratore intesa, non come effetto automatico del pagamento dell'indennità, ma come facoltà il cui esercizio dipende dall'assicuratore solvens) che discende il corollario per cui, qualora l'assicuratore non si avvalga di tale facoltà, il pagamento dell'indennizzo lascerebbe immutato il diritto dell'assicurato di agire per ottenere l'intero risarcimento del danno nei confronti del terzo responsabile senza che questi possa opporgli in sottrazione - essendo diverso il titolo di responsabilità aquiliana rispetto alla fonte del debito indennitario gravante sull'assicuratore - l'avvenuta riscossione dell'indennità assicurativa. 6.4. - È una lettura, questa, che, benchè invalsa nella giurisprudenza di questa Corte e non priva di riscontri a livello dottrinale, le Sezioni Unite ritengono di non poter ulteriormente convalidare. L'art. 1916 c.c., comma 1, nel disporre che "l'assicuratore che ha pagato l'indennità è surrogato, fino alla concorrenza dell'ammontare di essa, nei diritti dell'assicurato verso i terzi responsabili", collega infatti il prodursi della vicenda successoria, automaticamente, al pagamento dell'indennità assicurativa. Come emerge dal chiaro tenore testuale della disposizione, il codice condiziona il subingresso al semplice fatto del pagamento dell'indennità per quel danno di cui è responsabile il terzo, senza richiedere, a tal fine, la previa comunicazione da parte dell'assicuratore della sua intenzione di succedere nei diritti dell'assicurato verso il terzo responsabile. Il subentro non è rimesso all'apprezzamento dell'assicuratore solvens. La perdita del diritto verso il terzo responsabile da parte dell'assicurato e l'acquisto da parte dell'assicuratore sono - come è stato rilevato in dottrina - effetti interdipendenti e contemporanei basati sul medesimo fatto giuridico previsto dalla legge: il pagamento dell'indennità assicurativa. Questa interpretazione è confermata dall'analisi dell'art. 1203 c.c., il quale, attraverso l'ampio rinvio del n. 5 ("negli altri casi stabiliti dalla legge"), è suscettibile di comprendere nell'ambito della surrogazione legale, operante di diritto, anche questa peculiare di successione a titolo particolare nel credito, nella quale la prestazione dell'assicuratore è diretta ad estinguere un rapporto diverso da quello surrogato (cfr. Cass., Sez. U., 29 settembre 1997, n. 9554). e si tratta di soluzione maggiormente in linea con la ratio della surrogazione dell'assicuratore, essendo ragionevole ritenere che, attraverso l'automaticità, il legislatore, in ossequio al principio indennitario, abbia voluto impedire proprio la possibilità per l'assicurato-danneggiato, una volta ricevuto l'indennizzo dall'assicuratore, di agire per l'intero nei confronti del terzo responsabile; laddove questo principio verrebbe incrinato se l'inerzia dell'assicuratore bastasse a determinare la permanenza, nell'assicurato indennizzato, della titolarità del credito di risarcimento nei confronti del terzo anche per la parte corrispondente alla riscossa indennità, consentendogli di reclamare un risarcimento superiore al danno effettivamente sofferto. dunque, poichè nel sistema dell'art. 1916 c.c. è con il pagamento dell'indennità assicurativa che i diritti contro il terzo si trasferiscono, ope legis, all'assicuratore, deve escludersi un ritrasferimento o un rimbalzo di tali diritti all'assicurato per il solo fatto che l'assicuratore si astenga dall'esercitarli. d'altra parte, la permanenza del credito nel patrimonio dell'assicurato che abbia conseguito l'indennità assicurativa, abilitando il danneggiato a disporre del credito stesso e a realizzarlo, RASSeGNA AvvOCAtURA 86 deLLO StAtO - N. 3/2018 si tradurrebbe in un possibile pregiudizio dell'interesse che giustifica nella legge l'assunzione dell'esclusiva titolarità del credito verso il terzo responsabile. Nè l'opposta tesi - che ammette la reclamabilità dell'intero risarcimento del danno in aggiunta al già conseguito indennizzo assicurativo - si lascia preferire per il fatto che l'assicurato ha versato all'assicuratore dei regolari premi, che sarebbero altrimenti sine causa. È una tesi, pervero, la quale ha trovato sostegno nella requisitoria del pubblico ministero, il quale, proprio soffermandosi sull'ipotesi del mancato esercizio della surroga da parte dell'assicuratore, ha giustificato l'"arricchimento" della vittima in ragione del "rapporto oneroso di assicurazione", essendo "irragionevole trattare allo stesso modo, sul piano risarcitorio, chi abbia e chi non abbia stipulato un rapporto assicurativo, con relativi oneri di pagamento del premio". Ad avviso del Collegio, si tratta di conclusione non condivisibile, giacchè nella assicurazione contro i danni la prestazione dell'indennità non è in rapporto di sinallagmaticità funzionale con la corresponsione dei premi da parte dell'assicurato, essendo l'obbligo fondamentale dell'assicuratore quello dell'assunzione e della sopportazione del rischio a fronte della obiettiva incertezza circa il verificarsi del sinistro e la solvibilità del terzo responsabile. Il pagamento dei premi, in altri termini, è in sinallagma con il trasferimento del rischio, non con il pagamento dell'indennizzo. d'altra parte, se davvero l'indennità costituisse il corrispettivo del versamento all'assicuratore di regolari premi, si dovrebbe anche ammettere che, avvenuto il sinistro, l'assicurato abbia comunque titolo a reclamare l'indennità, pur quando il danno sia stato integralmente risarcito dal terzo responsabile: soluzione, questa, evidentemente non sostenibile, posto che nel caso di danno già risarcito dal terzo cessa l'obbligo di indennizzo dell'assicuratore. 6.5. - Anche l'indagine comparatistica conferma la preferibilità della soluzione interpretativa nel senso del non-cumulo. Pronunciandosi sulla portata della L. 13 luglio 1930, art. 36, poi divenuto l'art. 121-21 del code des assurances, che reca una disposizione analoga al nostro art. 1916 c.c. ("l'assureur qui a payè l'indemnitè d'assurance est subrogè, jusqùà concurrence de cette indemnitè, dans les droits et actions de l'assurè contre les tiers qui, par leur fait, ont causè le dommage ayant donnè lieu à la responsabilitè de l'assureur"), la Corte di cassazione francese, con la sentenza in data 29 aprile 1975, ha infatti stabilito che, poichè in forza della legge e senza alcuna formalità i diritti dell'assicurato contro il terzo responsabile sono di pieno diritto, nella misura dell'indennizzo, trasferiti all'assicuratore, l'assicurato, una volta tacitato dall'assicuratore, non può più, in tale misura, esercitare contro il terzo responsabile del danno i diritti nei quali l'assicuratore si trova surrogato ("l'assurè, desinteressè par l'assureur en vertu du contrat d'assurance, ne peut plus, dans cette mesure, exercer contre le tiers responsable du dommage les droits dans lesquels l'assureur se trouve subrogè"). 6.6. - Una ulteriore conferma della preferibilità di questa conclusione si trae dall'art. 1589 c.c. Nel caso in cui il locatore è assicurato per l'incendio della casa locata, tale disposizione limita infatti la responsabilità del conduttore verso il locatore "alla differenza tra l'indennizzo corrisposto dall'assicuratore e il danno effettivo", facendo "salve in ogni caso le norme concernenti il diritto di surrogazione dell'assicuratore": ne consegue che il locatore, una volta ricevuto l'indennizzo dal proprio assicuratore, non può agire contro il conduttore responsabile dell'incendio se non per la differenza, ma il conduttore non è affatto liberato perchè egli, in forza della disciplina sulla surrogazione, dovrà prestare il risarcimento all'assicuratore e non al locatore. 7. - Conclusivamente, a risoluzione del contrasto di giurisprudenza, va enunciato il seguente principio di diritto: "Il danno da fatto illecito deve essere liquidato sottraendo dall'ammontare del danno risarcibile l'importo dell'indennità assicurativa derivante da assicurazione contro i danni che il danneggiato-assicurato abbia riscosso in conseguenza di quel fatto". CONteNzIOSO NAzIONALe 87 8. - A tale principio si è attenuta la Corte d'appello di Roma con la sentenza qui impugnata. essa ha infatti correttamente escluso che Itavia - che nel 1980 è stata integralmente tacitata dal proprio assicuratore, avendo incassato da Assitalia, per la perdita dell'aeromobile, un'indennità assicurativa di lire 3.800.000.000, importo superiore al valore corrente dell'aeromobile al momento del disastro, stimato dal c.t.u. in lire 1.586.510.540 - possa poi cumulare, per lo stesso danno, la somma già riscossa a titolo di indennità assicurativa con l'ammontare del risarcimento dovuto dai terzi responsabili, a nulla rilevando che Assitalia non abbia mai esercitato la surroga nei confronti dei Ministeri. Infatti, una volta che abbia riscosso l'indennizzo dal proprio assicuratore, il danneggiato non può agire contro il responsabile se non per la differenza, non essendovi spazio per una doppia liquidazione a fronte di un pregiudizio identico. e poichè nella specie tale indennità è superiore al valore corrente dell'aeromobile al momento del disastro, essa, in assenza di prova della sua insufficienza rispetto al danno effettivo, ha effettivamente eliso, secondo l'incensurabile apprezzamento dei giudici del merito, il danno, e con esso il diritto di Itavia di ottenere, da parte delle Amministrazioni convenute, il risarcimento per la perdita dell'aeromobile. Anche il primo motivo del ricorso incidentale va, quindi, rigettato. 9. - Il primo motivo del ricorso principale dei Ministeri è dichiarato inammissibile e il primo motivo del ricorso incidentale di Itavia è rigettato. L'esame degli altri motivi del ricorso principale e del ricorso incidentale va rimesso alla terza Sezione civile. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il primo motivo del ricorso principale e rigetta il primo motivo del ricorso incidentale; rimette la decisione degli altri motivi del ricorso principale e del ricorso incidentale alla terza Sezione civile. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 aprile 2018. RASSeGNA AvvOCAtURA 88 deLLO StAtO - N. 3/2018 il diritto all’oblio. Codice della privacy e trattamento dei dati per finalità di polizia Cassazione Civile, sezione PRima, oRDinanza 29 agosto 2018 n. 21362 L’ordinanza della Corte di cassazione del 29 agosto 2018, n. 21362 ricostruisce il quadro normativo vigente in tema di trattamento e conservazione dei dati personali e di diritto all’oblio alla luce dei principi dell’Unione europea di pertinenza e di non eccedenza nonché della sopravvenuta disciplina regolamentare per l’attuazione del Codice della privacy relativamente al trattamento dei dati per finalità di polizia (d.P.R. 15 gennaio 2018, n. 15). In particolare, la Corte di cassazione, in assenza di un termine massimo di conservazione dei dati sulla base della normativa previgente, ha ritenuto di applicare il sopravvenuto art. 10, comma terzo, lett. f) del citato d.P.R. n. 15 del 2018 - la cui natura sostanziale consente di estenderne l’ambito applicativo anche alla fattispecie esaminata - che, per le informazioni relative ad attività di polizia giudiziaria conclusasi con provvedimento di archiviazione, fissa in venti anni dall’emissione di tale provvedimento il termine per la conservazione dei dati, nella specie ancora non decorso. Wally Ferrante (*) Cassazione civile, sezione Prima, ordinanza 29 agosto 2018 n. 21362 - Pres. G. Bisogni, Rel. G. Mercolino - (omissis) (avv. d. Comito) c. Ministero dell’Interno (avv. gen. Stato). FAttI dI CAUSA 1. OMISSIS convenne in giudizio il Ministero dell'interno, chiedendo la cancellazione dei suoi dati personali dagli archivi del Centro elaborazione dati Interforze istituito presso il dipartimento della Pubblica Sicurezza, direzione Centrale della Polizia Criminale, ed in subordine la trasformazione dei dati in forma anonima. A sostegno della domanda, espose che l'iscrizione, avvenuta a seguito della sua sottoposizione ad indagini penali, non era stata rimossa, con conseguente pregiudizio alla sua immagine professionale, nonostante la sua posizione fosse stata ben presto stralciata, essendo stata accertata la sua estraneità ai reati ascrittigli. Si costituì il Ministero, e resistette alla domanda, chiedendone il rigetto. 1.1. Con sentenza del 24 marzo 2014, il tribunale di Roma ha rigettato la domanda. Premesso che, ai sensi degli artt. 6, primo comma, lett. a), e 7, primo comma, della legge 1° aprile 1981, n. 121, negli archivi magnetici del Ced sono conservati i dati e le informazioni ricavati da indagini di polizia o risultanti da documenti della Pubblica Amministrazione o da sentenze o provvedimenti dell'Autorità giudiziaria, e precisato che, ai sensi dell'art. 9 della medesima legge, l'accesso a tali dati è consentito solo per gli accertamenti necessari per i procedimenti in corso e nei limiti stabiliti dalle vigenti leggi processuali, il tribunale ha affermato (*) Avvocato dello Stato. CONteNzIOSO NAzIONALe 89 che la cancellazione può essere ordinata soltanto nell'ipotesi in cui si tratti di dati inesatti o illegittimamente acquisiti, mentre laddove gli stessi risultino incompleti, come nel caso in cui non si sia provveduto all'annotazione del provvedimento di archiviazione o proscioglimento, può disporsene soltanto l'integrazione. tanto premesso, e rilevato che nella specie i dati erano stati legittimamente acquisiti, ha dato atto che, a seguito della richiesta di aggiornamento inoltrata dall'attore, il Ministero aveva prontamente proceduto all'aggiornamento dell'iscrizione, mediante l'annotazione del provvedimento di archiviazione adottato dal Giudice per le indagini preliminari del tribunale di Roma il 2 aprile 2007. 2. Avverso la predetta sentenza il OMISSIS ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un solo motivo, illustrato anche con memoria. II Ministero ha resistito con controricorso. RAGIONI deLLA deCISIONe (...) 2.Con l'unico motivo d'impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione di principi e norme di diritto, nonché l'omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, osservando che, nel ritenere sufficiente l'aggiornamento dell'iscrizione con l'annotazione dell'esito delle indagini, la sentenza impugnata non ha considerato che tale adempimento risulta inidoneo ad impedire che, in occasione di ogni legittimo accesso alla banca dati per fini investigativi, il suo nominativo venga associato a quello degli altri indagati, con conseguente lesione del suo diritto alla riservatezza, oltre che della sua immagine personale e professionale. Premesso che, non essendo state emanate le disposizioni di attuazione previste dall'art. 57 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, spetta all'interprete supplire alla mancata indicazione di un termine massimo di conservazione dei dati, mediante un'interpretazione costituzionalmente orientata, rileva che la conservazione del suo nominativo a tempo indeterminato non risponde ad alcuna funzione di prevenzione o repressione dei reati, ma accresce soltanto il danno alla sua reputazione ed alla sua credibilità, essendo l'accesso consentito ai soggetti operanti nel suo stesso settore di attività; aggiunge che la conservazione dei suoi dati personali si pone in contrasto con l'art. 54 del d.lgs. n. 196 cit., risultando eccedente e non più pertinente ai fini investigativi, per essere venute, meno, a seguito dell'archiviazione, le ragioni di prevenzione e sicurezza sottese all'avvio delle indagini. 2.1. tanto premesso, si osserva innanzitutto che l'omessa precisazione in rubrica delle norme e dei principi giuridici di cui il ricorrente lamenta la violazione non comporta l'inammissibilità dell'impugnazione, non trattandosi di un requisito autonomo ed imprescindibile del ricorso, ma di un'indicazione volta a chiarirne il contenuto e ad identificare i limiti delle censure proposte, la cui mancanza può incidere sull'ammissibilità delle singole doglianze soltanto se gli argomenti addotti dal ricorrente non consentano d'individuare le norme ed i principi asseritamente trasgrediti (cfr. Cass., Sez. v, 20/09/ 2017, n. 21819; Cass., Sez. III, 7/11/2013, n. 25044; 16/03/2012, n. 4233). Nella specie, questi ultimi sono agevolmente identificabili in base alla illustrazione delle censure, a sostegno delle quali il ricorrente richiama la disciplina dettata dall'art. 54 del d.lgs. n. 196 del 2003 per il trattamento dei dati da parte delle forze di polizia ed i principi di pertinenza e non eccedenza ai quali la stessa s'ispira, nonché i criteri previsti dall'art. 57 del medesimo decreto per la definizione delle modalità di attuazione dei predetti principi, dei quali invoca l'applicazione, nonostante la mancata adozione del relativo provvedimento. 2.2. II motivo non merita peraltro accoglimento, pur dovendosi procedere, ai sensi dell'art. 384, ultimo comma, cod. proc. civ., alla correzione della motivazione della sentenza impugnata, il cui dispositivo risulta comunque conforme al diritto, avuto riguardo alle modificazioni normative intervenute nel corso del giudizio. RASSeGNA AvvOCAtURA 90 deLLO StAtO - N. 3/2018 Il trattamento dei dati personali da parte delle forze di polizia è disciplinato dal Capo I del titolo II del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, il quale, nel precisare che «si intendono effettuati per finalità di polizia i trattamenti di dati personali direttamente correlati all'esercizio dei compiti di polizia di prevenzione dei reati, di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica, nonchè di polizia giudiziaria, svolti, ai sensi del codice di procedura penale, per la prevenzione e repressione dei reati», dispone, all'art. 53, che ai trattamenti di dati personali effettuati dal Ced del dipartimento della pubblica sicurezza o da forze di polizia sui dati destinati a confluirvi non si applicano gli artt. 9 e 10 (modalità di esercizio dei diritti dell'interessato), 12 (codici di deontologia), 13 (informativa), 16 (cessazione del trattamento), da 18 a 22 (trattamenti effettuati dai soggetti pubblici), 37, 38, commi da 1 a 5 (notificazione del trattamento), da 39 a 45 (comunicazione, autorizzazione e trasferimento di dati verso altri Stati) e da 145 a 151 (ricorso al Garante) del codice della privacy. L'art. 54 prevede poi che i dati trattati per le finalità di cui all'art. 53 sono conservati separatamente da quelli registrati per finalità amministrative che non richiedono il loro utilizzo (comma secondo), aggiungendo che il Ced assicura l'aggiornamento periodico e la pertinenza e non eccedenza dei dati personali trattati (comma terzo), mentre l'art. 57 demanda a un decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'interno e di concerto con il Ministro della giustizia, l'individuazione delle modalità di attuazione dei principi del d.lgs. n. 163 relativamente al trattamento dei dati effettuato dal Ced e da organi, uffici o comandi di polizia, anche ad integrazione e modifica del d.P.R. 3 maggio 1982, n. 378, e in attuazione della Raccomandazione R (87) 15 del Consiglio d'europa del 17 settembre 1987, e successive modificazioni. La tutela dell'interessato è invece disciplinata dall'art. 56 con rinvio alle disposizioni dell'art. 10, commi terzo, quarto e quinto, della legge 10 aprile 1981, n. 121, i quali consentono alla persona alla quale si riferiscono i dati di chiedere alla direzione centrale della polizia criminale la conferma dell'esistenza dei dati che la riguardano, la loro comunicazione in forma intellegibile e, se i dati risultano trattati in violazione di vigenti disposizioni di legge o di regolamento, la loro rettifica, integrazione, cancellazione o trasformazione in forma anonima. tali disposizioni, come correttamente rilevato dalla sentenza impugnata, non stabilivano alcun termine per la conservazione dei dati acquisiti dalle forze di polizia e confluiti negli archivi del Ced, limitandosi a prevederne la rettifica, l'integrazione, la cancellazione o la trasformazione in forma anonima nei soli casi in cui gli stessi risultassero inesatti o incompleti ovvero acquisiti o trattati illegittimamente. In tal senso era orientato anche il d.P.R. n. 378 del 1982, che, nel disciplinare l'acquisizione ed il trattamento delle informazioni e dei dati da parte del Ced e le modalità di accesso agli stessi da parte delle forze di polizia, dell'Autorità giudiziaria e di altri soggetti specificamente individuati, ne prevedeva la rettifica, l'integrazione o la cancellazione in caso di violazione dell'art. 7 della legge n. 121 cit. oppure in caso di erroneità o incompletezza (artt. 18 e ss.), senza nulla disporre in ordine alla durata della conservazione, ma limitandosi a demandare alla Commissione tecnica prevista dall'art. 8, terzo comma, della medesima legge n. 121 la fissazione dei termini per la conservazione dei documenti contenenti le informazioni e dati immessi negli archivi magnetici del Ced (art. 4), nonché l'individuazione dei criteri e delle modalità tecniche per il controllo e la conservazione dei dati e delle informazioni. Alla stregua di queste ultime disposizioni, questa Corte, pronunciandosi in sede penale, aveva escluso la possibilità di disporre la cancellazione o l'integrazione dei dati nel caso in cui fosse stato accertato che gli stessi erano esatti e completi nel contenuto, nonché, al momento della raccolta, di provenienza legittima e rapportati agli scopi del Ced, e quindi atti CONteNzIOSO NAzIONALe 91 nenti all'attività di polizia di sicurezza e giudiziaria, precisando che al proprio sindacato restava estranea ogni valutazione inerente alle vicende successive all'acquisizione dei dati (cfr. Cass. pen., Sez. III, 5/04/1989, Barresi). La legittimità dell'acquisizione era stata ritenuta idonea a giustificare il diniego della cancellazione anche nell'ipotesi in cui, come nella specie, le informazioni si riferissero a procedimenti penali o di prevenzione conclusisi con decisioni giudiziarie favorevoli all'interessato, riconoscendosi a quest'ultimo, in tal caso, soltanto il diritto ad ottenere l'integrazione dei dati con l'annotazione della decisione, ove non si fosse provveduto alla stessa (cfr. Cass. Pen., Sez. III, 25/09/1997, n. 3000, Fontana; Cass. pen., Sez. I, 26/02/ 1996, n. 1232, Somma). La cancellazione era stata ritenuta infine illegittima nel caso di assoluzione con formula dubitativa intervenuta in epoca anteriore all'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, con la precisazione che neppure la sopravvenienza dell'art. 530 di quest'ultimo, che ha soppresso la formula assolutoria per insufficienza di prove, poteva considerarsi idonea a giustificare l'accoglimento della relativa istanza, avuto riguardo alla legittima acquisizione del dato (cfr. Cass. pen., Sez. II, 11/02/1994, Moretti). In una prospettiva più ampia, si era poi negata la stessa configurabilità di una lesione del diritto alla riservatezza in riferimento al trattamento delle informazioni da parte di banche dati gestite da soggetti pubblici, a meno che non sussistesse il pericolo che terzi non autorizzati ne venissero a conoscenza: in ordine ai dati raccolti dal Ced del Ministero dell'interno, si era quindi affermato che, poiché il rischio di divulgazione all'esterno era limitato all'eventualità che le altre parti di un procedimento giurisdizionale o amministrativo venissero in contatto con gli stessi, soltanto in tal caso poteva riconoscersi all'interessato una tutela giurisdizionale in via ordinaria, destinata ad aggiungersi a quella amministrativa (cfr. Cass. pen., 15/ 11/1990, dello Jacono); e si era conseguentemente limitata la proponibilità dell'istanza di integrazione o cancellazione ai dati suscettibili di utilizzazione a carico dell'interessato nell'ambito di procedimenti giurisdizionali o amministrativi ancora in corso, escludendosene invece l'ammissibilità allorquando, come nel caso in esame, potesse ritenersi esaurita la potenziale incidenza del dato sul procedimento, risultando quest'ultimo ormai definito (cfr. Cass., pen., Sez. v1, 14/07/1994, Menoncello; Cass. pen., Sez. v, 22/10/1985, Carè; contra, peraltro, Cass. pen., Sez. I, 14/04/1986, Mussini). L'ottica ispiratrice di tali orientamenti ha peraltro subìto rilevanti modificazioni per effetto delle norme comunitarie in tema di trattamento dei dati personali (cfr. direttiva n. 95/46/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 24 ottobre 1995, direttiva n. 2002/58/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 luglio 2002), nonché dell'entrata in vigore dapprima della legge 31 dicembre 1996, n. 675 ed in seguito del d.lgs. n. 196 del 2003, che vi hanno dato attuazione nell'ordinamento interno: tali disposizioni, imponendo rigorosi limiti all'acquisizione ed alla conservazione dei dati, sotto il profilo non solo della pertinenza e non eccedenza degli stessi rispetto alle finalità del trattamento, ma anche della persistenza del relativo interesse, hanno infatti contribuito a far emergere la figura del C.d. diritto all'oblio, inteso come interesse della persona ad evitare la divulgazione di informazioni che la riguardano, ove la relativa conoscenza da parte di terzi non possa ritenersi ulteriormente giustificata da un interesse attuale, avuto riguardo alla rilevanza pubblica o privata della vicenda cui i dati si riferiscono, al tempo dello svolgimento dei fatti ed al ruolo che l'interessato vi ha svolto, nonché alla posizione dallo stesso rivestita all'epoca dei fatti ed all'attualità (cfr. tra le più recenti, Corte di giustizia Ue, 13/05/2014, C-131/12, Google Spain c. Agencia española de Protecciòn de datos; Cass. pen., 7/07/2016, n. 39452; Cass., Sez. I, 24/06/2016, n. 13161; Cass., Sez. III, 26/06/2013, n. 16111; 5/04/2012, n. 5525). RASSeGNA AvvOCAtURA 92 deLLO StAtO - N. 3/2018 Nell'ordinamento dell'Unione europea, il predetto diritto ha trovato definitiva consacrazione nell'art. 17 del regolamento Ue n. 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, il quale riconosce all'interessato la facoltà di ottenere senza ingiustificato ritardo la cancellazione dei dati che lo riguardano non solo in caso di revoca del consenso, opposizione, trattamento illecito, offerta ai minori di servizi d'informazione o esistenza di obblighi previsti dal diritto comunitario o interno, ma anche nel caso in cui i dati stessi non siano più necessari per le finalità per le quali sono stati raccolti o trattati. Nell'ordinamento interno, la medesima facoltà è invece desumibile dai principi di pertinenza e non eccedenza sanciti dapprima nell'art. 9 della legge n. 675 del 1996 ed attualmente nell'art. 11, comma primo, lett. d) ed e), del d.lgs. n. 196 del 2003, secondo cui i dati personali oggetto di trattamento devono essere «pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati», nonché «conservati in una forma che consenta l'identificazione dell'interessato per un periodo di tempo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali essi sono stati raccolti o successivamente trattati». tale disposizione si applica anche al trattamento per finalità di polizia, in riferimento al quale, come si è detto, l'art. 57 del codice demanda ad un apposito decreto del Presidente della Repubblica l'individuazione delle modalità di attuazione dei predetti principi, indicando, tra i criteri ispiratori di tale operazione, a) l'esigenza che la raccolta dei dati sia correlata alla specifica finalità perseguita, in relazione alla prevenzione di un pericolo concreto o alla repressione di reati, b) l'aggiornamento periodico dei dati, c) l'individuazione di specifici termini di conservazione dei dati in relazione alla natura degli stessi o agli strumenti utilizzati per il loro trattamento, nonché alla tipologia dei procedimenti nell'ambito dei quali essi sono trattati o i provvedimenti sono adottati, d) alla comunicazione ad altri soggetti e e) all'uso di particolari tecniche di elaborazione e di ricerca delle informazioni. La determinazione delle predette modalità, a lungo attesa, ha avuto luogo, in epoca successiva alla proposizione del ricorso per cassazione, con il d.P.R. 15 gennaio 2018, n. 15, recante il regolamento per l'attuazione dei principi del codice della privacy relativamente al trattamento dei dati effettuato per finalità di polizia: nel recepire i criteri dettati dal d.lgs. n. 196 del 2003 e dalla Raccomandazione n. R (87) 15 del Consiglio d'europa del 17 settembre 1987, esso ha ribadito i principi di completezza, pertinenza, non eccedenza ed aggiornamento dei dati (art. 4), regolando le modalità di acquisizione, trattamento e accesso (artt. 5-9, 26 e ss.), imponendo l'adozione di misure di sicurezza volte a ridurre i rischi di perdita, accesso non autorizzato o trattamento non consentito (art. 25), stabilendo limiti alla diffusione, nonché alla comunicazione a soggetti pubblici ed anche nei rapporti tra organi di polizia (artt. 12-15), disciplinandone il trasferimento tra gli Stati (artt. 16-21) e, da ultimo, introducendo un'articolata regolamentazione dei termini per la loro conservazione (art. 10). tale disciplina, ispirata al principio secondo cui i dati oggetto di trattamento «sono conservati per un periodo di tempo non superiore a quello necessario per il conseguimento delle finalità di polizia» (comma primo), è imperniata, per i dati soggetti a trattamento automatizzato, sulla fissazione di termini massimi correlati alla natura dei provvedimenti o dette attività alle quali si riferiscono (comma terzo), ed aumentati di due terzi in casi specificamente previsti (comma quarto); per i dati non soggetti a trattamento automatizzato, la norma rinvia invece ai termini previsti dalle disposizioni sullo scarto dei documenti d'archivio delle pubbliche amministrazioni, se superiori (comma sesto); essa precisa infine che i dati personali soggetti a trattamento automatizzato, trascorsa la metà del tempo massimo di conservazione, se uguale o superiore a quindici anni, sono accessibili ai soli operatori a ciò abilitati e designati, incaricati del trattamento secondo CONteNzIOSO NAzIONALe 93 profili di autorizzazione predefiniti in base alle indicazioni del capo dell'ufficio o del comandante del reparto e in relazione a specifiche attività informative, di sicurezza o di indagine di polizia giudiziaria (comma secondo). Le norme citate costituiscono il risultato di un difficile bilanciamento tra l’interesse collettivo all'esercizio dei compiti di prevenzione e repressione dei reati e di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica, sotteso all'acquisizione ed al trattamento di informazioni da parte delle forze di polizia, e quello individuale alla tutela della propria sfera di riservatezza, che, come sopra ricordato, trova espressione non solo nell'esigenza di garantire la correttezza, la completezza e l'aggiornamento dei dati trattati, nonché di assicurare che l'acquisizione, la comunicazione e la diffusione degli stessi abbiano luogo conformemente alle finalità del trattamento, ma anche nella possibilità di ottenerne la cancellazione allorchè debbano ritenersi venute meno le finalità che ne giustificano la conservazione. La lunghezza dei termini a tal fine previsti, in ordine alla quale il Garante per la protezione dei dati personali ha ripetutamente manifestato perplessità (cfr. pareri n. 86 del 2 marzo 2017 e n. 337 del 26 luglio 2017), trova infatti uno specifico temperamento nelle restrizioni imposte all'accessibilità delle informazioni, ove sia trascorsa la metà del tempo prescritto, e nelle precauzioni da adottarsi in via generale per la conservazione dei dati e per la loro comunicazione anche tra soggetti pubblici, prima fra tutte quella prevista dall'art. 1 del regolamento, che, conformemente a quanto prescritto dall'art. 54, comma secondo, del d.lgs. n. 196, dispone la conservazione separata dei dati trattati per finalità di polizia rispetto a quelli acquisiti per finalità amministrative che non richiedono la loro utilizzazione. L'insieme di tali cautele, posto anche in relazione con la rigorosa definizione delle finalità del trattamento, con il controllo demandato al Garante (art. 29) e con la possibilità di chiedere l'intervento dell'Autorità giudiziaria (art. 28), fornisce un quadro di garanzie che consente di ritenere sostanzialmente rispettati i vincoli derivanti dalla normativa sovranazionale ed internazionale: l'art. 8 della CedU, nell'escludere l'ingerenza della pubblica autorità nella vita privata, fa infatti salvo espressamente il caso in cui «tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, l'ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui»; il regolamento Ue n. 2016/679, dopo aver riconosciuto al diritto dell'Unione ed agli Stati membri la possibilità d'imporre limitazioni a specifici principi e diritti, ivi compreso quello alla cancellazione dei dati, «ove ciò sia necessario e proporzionato in una società democratica per la salvaguardia della sicurezza pubblica, ivi comprese [ .. ] le attività di prevenzione, indagine e perseguirnento di reati o l'esecuzione di sanzioni penali, incluse la salvaguardia contro e la prevenzione di minacce alla sicurezza pubblica» (settantatreeesimo considerando), esclude invece espressamente dal proprio ambito di applicazione materiale i trattamenti di dati personali «effettuati dalle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento o perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, incluse la salvaguardia contro minacce alla sicurezza pubblica e la prevenzione delle stesse» (art. 2, comma secondo, lett. d). Nell'ambito del d.P.R. n. 15 del 2018, l'art. 10, comma terzo, lett. f), si occupa specificamente delle informazioni relative ad attività di polizia giudiziaria conclusasi con provvedimento di archiviazione, fissando in venti anni dall'emissione di tale provvedimento il termine per la conservazione dei dati: tale disposizione, la cui natura sostanziale consente di estenderne l'ambito applicativo anche a fattispecie come quella in esame, in cui l'acquisizione dei dati e la proposizione dell'istanza di cancellazione hanno avuto luogo in epoca anteriore all'entrata RASSeGNA AvvOCAtURA 94 deLLO StAtO - N. 3/2018 in vigore del regolamento, impedisce di ritenere sussistenti i presupposti per l'accoglimento della domanda. Considerato infatti che, come accertato dalla sentenza impugnata, il procedimento al quale si riferiscono i dati dei quali è stata chiesta la cancellazione è stato archiviato con provvedimento del 2 aprile 2007, non risulta ancora decorso il ventennio prescritto dalla predetta disposizione, ma solo la metà del predetto periodo, con la conseguenza che la tutela dell'interessato rimane allo stato affidata, ai sensi del comma secondo dell'art. 10, all'accessibilità dei dati da parte dei soli operatori a ciò abilitati. 2. Il ricorso va pertanto rigettato. La novità della questione, mai precedentemente affrontata in riferimento al quadro normativo vigente e risolta sulla base della disciplina regolamentare sopravvenuta, giustifica peraltro la compensazione delle spese processuali tra le parti. P.Q.M. rigetta il ricorso. Compensa integralmente le spese processuali. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall'art. 1, comma 17, della l. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13. dispone che, in caso di utilizzazione della presente ordinanza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi del ricorrente riportati nell'ordinanza. Così deciso in Roma il 29/05/2018. CONteNzIOSO NAzIONALe 95 la notifica va fatta all’avvocatura dello stato in caso di giudizio di impugnazione del preavviso di fermo amministrativo (art. 86, d.P.R. 602/1973) Cassazione Civile, sezione teRza, sentenza 8 novembRe 2018 n. 28528 La sentenza in rassegna, in accoglimento del ricorso incidentale proposto dall’Avvocatura dello Stato, ha affermato il seguente principio di diritto: “l’impugnazione del preavviso di fermo amministrativo previsto dall'art. 86 del d.P.R. n. 602 del 1973, avendo natura di ordinaria azione di accertamento negativo della pretesa creditoria, segue le regole generali del rito ordinario di cognizione, con la conseguenza che ad essa è applicabile la previsione di cui al combinato disposto dell'art. 144, primo comma, cod. proc. civ. e dell'art. 11, primo comma, del r.d. n. 1611 del 1933, in forza del quale l'atto introduttivo del giudizio nei confronti di un'amministrazione dello stato deve essere notificato presso l'ufficio dell'avvocatura dello stato nel cui distretto ha sede l'autorità giudiziaria competente, con esclusione della deroga prevista dagli artt. 6, comma 9, e 7, comma 8, del d.lgs. n. 150 del 2011, valevole solamente per i giudizi di opposizione ad ordinanza-ingiunzione e di opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice della strada". In applicazione di tale principio, la Corte di cassazione ha dichiarato la nullità della notificazione dell'atto di citazione nei confronti del Ministero dell'interno, effettuata presso le articolazioni territoriali delle Prefetture di Messina e Reggio Calabria, in un caso diverso da quelli previsti dagli artt. 6 e 7 del d.lgs. n. 150 del 2011. In particolare, la Suprema Corte ha affermato che nel giudizio di impugnazione del preavviso di fermo amministrativo il prefetto non può stare in giudizio personalmente o tramite funzionario delegato, essendo tale facoltà ristretta alle sole ipotesi testé menzionate. Conseguentemente, il soggetto legittimato passivo doveva essere individuato nel Ministero dell'interno (e non nella singola prefettura, che di tale Ministero costituisce una semplice articolazione territoriale) e la notificazione dell'atto di citazione doveva essere effettuata presso le Avvocature distrettuali dello Stato di Messina e Reggio Calabria. L'amministrazione non si è costituita e non ha sanato il vizio, né la notificazione è stata mai ritualmente rinnovata. Pertanto la Corte di cassazione ha cassato la sentenza impugnata e, riscontrata la sussistenza di una nullità del giudizio di primo grado per la quale il giudice d'appello avrebbe dovuto rimettere le parti al primo giudice, ha rinviato la causa ai sensi dell'art. 383, terzo comma, cod. proc. civ., al Giudice di pace di Patti. Wally Ferrante (*) (*) Avvocato dello Stato. RASSeGNA AvvOCAtURA 96 deLLO StAtO - N. 3/2018 Cassazione civile, sezione terza, sentenza 8 novembre 2018 n. 28528 - Pres. F. de Stefano, Rel. C. d’Arrigo - Riscossione Sicilia s.p.a. (avv. G. Pavone) c. Ministero interno - Ufficio territoriale del governo di Messina, Ufficio territoriale del governo di Reggio Calabria (avv. gen. Stato); C.A. (avv. Attilio Scarcella); ed altri. FAttI dI CAUSA A.C., con atto di citazione notificato il 14 ottobre 2010 all'agente di riscossione Serit Sicilia S.p.A. (ora Riscossione Sicilia S.p.A.), nonché ai Comuni di Milazzo, Barcellona Pozzo di Gotto e Palermo e alle Prefetture di Messina e Reggio Calabria, opponeva, ai sensi dell'art. 615 cod. proc. civ., il preavviso di fermo amministrativo di beni mobili registrati n. 29520100000662850 fondato su sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada, deducendo l'omessa notifica dell'atto e, comunque, la prescrizione dei crediti. Si costituivano in giudizio l'agente di riscossione, i Comuni di Barcellona P.G. e di Milazzo e la Polizia Municipale di Palermo. Rimanevano invece contumaci il Comune di Palermo e le Prefetture di Messina e Reggio Calabria. Il Giudice di pace di Patti accoglieva l'opposizione, accertando l'illegittimità del procedimento di fermo amministrativo e annullando, conseguentemente, il relativo preavviso. La sentenza veniva appellata dalla Serit Sicilia S.p.A. Nel giudizio di appello si costituivano A.C. e i Comuni di Milazzo e Barcellona P.G. Nessuna attività difensiva veniva svolta dal Comune di Palermo e dalle Prefetture di Messina e Reggio Calabria. Il tribunale di Patti, in funzione di giudice d'appello, rigettava il gravame e condannava l'appellante alla refusione delle spese. La decisione è stata fatta oggetto di ricorso per cassazione da parte della Riscossione Sicilia S.p.A. (già Serit Sicilia S.p.A.), per cinque motivi. La sentenza è stata impugnata in via incidentale, con unico ricorso e un solo motivo, dall'Avvocatura dello Stato, quale difensore ex lege del Ministero dell'Interno e delle sue articolazioni territoriali costituite dalle Prefetture di Messina e Reggio Calabria. Hanno resistito con controricorso A.C. e il Comune di Barcellona P.G. Nessuna attività difensiva è stata svolta in questa sede dagli ulteriori intimati. RAGIONI deLLA deCISIONe 1.va esaminato anzitutto il ricorso incidentale, giacché l'accoglimento del motivo ivi dedotto determinerebbe la nullità delle sentenze di entrambi i gradi del giudizio di merito, con conseguente assorbimento delle censure proposte in via principale avverso la sentenza d'appello. In particolare, con l'unico motivo in cui si articola il ricorso incidentale, il Ministero dell'Interno e le Prefetture di Messina e Reggio Calabria lamentano la nullità della notificazione dell'atto di citazione introduttivo del giudizio, nonché del successivo atto di appello, poiché questi sono stati entrambi notificati direttamente presso le amministrazioni periferiche e non invece presso l'Avvocatura distrettuale dello Stato, presso cui dette amministrazioni sono domiciliate ex lege, ai sensi dell'art. 144 cod. proc. civ. Solamente il ricorso per cassazione è stato invece notificato al Ministero dell'Interno presso l'Avvocatura dello Stato, oltre che alle due prefetture. Il motivo è fondato e deve essere accolto. 2. L'esame della censura deve prendere le mosse dalla qualificazione della natura dell'opposizione proposta dal C. che, secondo quanto ricostruito dal tribunale con statuizione non impugnata sul punto, ha ad oggetto un preavviso di fermo amministrativo. tale natura dipende, a sua volta, da quella che si voglia attribuire all'atto opposto. In proposito occorre richiamare quanto ritenuto dalle Sezioni unite che, componendo il CONteNzIOSO NAzIONALe 97 contrasto sorto in sede di regolamento di competenza, hanno concluso nel senso che il fermo amministrativo di beni mobili registrati ha natura non di atto di espropriazione forzata, bensì di misura puramente afflittiva volta ad indurre il debitore all'adempimento; con la conseguenza che la sua impugnativa, sostanziandosi in un'azione di accertamento negativo della pretesa creditoria, segue le regole generali del rito ordinario di cognizione in tema di riparto della competenza per materia e per valore (Sez. U, Ordinanza n. 15354 del 22/07/2015, Rv. 635989). In particolare, le Sezioni unite hanno puntualizzato che il fermo amministrativo «deve ritenersi impugnabile secondo le regole del rito ordinario di cognizione e nel rispetto delle norme generali in tema di riparto di competenza per materia e per valore, configurandosi, la corrispondente iniziativa giudiziaria, come un'azione di accertamento negativo della pretesa dell'esattore di eseguire il fermo, in cui al giudice adito sarà devoluta la cognizione sia della misura che del merito della pretesa creditoria». Recentemente, sempre in sede di regolamento di competenza, le Sezioni unite sono tornate ad occuparsi della materia, affermando che l'impugnativa del preavviso di fermo, in quanto azione di accertamento negativo, è soggetta agli stessi criteri di competenza che valgono per l'opposizione a verbale di accertamento e per l'opposizione ad ordinanza-ingiunzione (Sez. U, Sentenza n. 10261 del 27/04/2018, Rv. 648267). Per quanto riguarda il caso in esame, è importante sottolineare che pure in questa occasione, in continuità con la pronuncia precedente, le Sezioni unite hanno ribadito che il preavviso di fermo amministrativo è «impugnabile secondo le regole del rito ordinario di cognizione», trattandosi di un'azione di accertamento negativo, la cui natura «resta ferma, pertanto, sia che l'accertamento si estenda al merito della pretesa creditoria, sia che riguardi l'esistenza del diritto dell'agente di procedere alla iscrizione, sia che si contesti l'iscrizione di fermo dal punto di vista della regolarità formale dell'atto» (conclusioni affermate in ordine sia all'opposizione a fermo amministrativo, sia all'opposizione al preavviso di iscrizione ipotecaria). 3. Sebbene i due precedenti siano stati pronunciati nell'ambito di ricorsi per la regolazione della competenza, il principio affermato in ordine alla qualificazione della natura del giudizio di impugnazione del preavviso di fermo amministrativo è stato declinato in termini talmente ampi da avere ricadute non solo sull'individuazione del giudice competente, ma anche sul piano della disciplina generale dell'azione e, quindi, della legittimazione e della rappresentanza processuali. Si tratta, peraltro, di principio non più contrastato nei successivi arresti della giurisprudenza di questa Corte (v. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 15143 del 22/07/2016, Rv. 641695; Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 23564 del 18/11/2016, Rv. 641677). Anzi, la Corte di cassazione si è spinta oltre e - in relazione all'impugnazione tanto dell'ipoteca iscritta ai sensi dell'art. 77 del d.P.R. n. 602 del 1973, quanto del fermo di beni mobili registrati di cui al successivo art. 86 - richiamando i princìpi sopra illustrati (nonché quello posto da Sez. U, Sentenza n. 19667 del 18/09/2014, Rv. 632587, in tema di ipoteca iscritta dall'agente di riscossione), ha tratto il corollario che né l'una, né l'altro vanno contestati con i rimedi delle opposizioni esecutive, sicché all'iniziativa giudiziaria si applicano tutte le regole del processo ordinario di cognizione riferibili ad un'azione di accertamento negativo (Sez. 3, Sentenza n. 24234 del 27/11/2015, Rv. 637764). Quest'ultima decisione, a differenza delle altre già citate, si pone oltre l'ambito specifico del regolamento di competenza ed affronta, sulle basi delle riferite premesse, il problema dell'appellabilità della sentenza pronunciata in esito al giudizio di accertamento negativo: la non riconducibilità dell'azione alla fattispecie di cui all'art. 617 cod. proc. civ., neppure quando RASSeGNA AvvOCAtURA 98 deLLO StAtO - N. 3/2018 con la stessa si contesta la regolarità formale dell'atto impugnato, esclude l'applicabilità del regime processuale speciale dell'inappellabilità dettato dall'art. 618, secondo e terzo comma, cod. proc. civ. per i giudizi di opposizione agli atti esecutivi. 4. La questione che viene ora in rilievo ha consistenza diversa da quelle finora affrontate da questa Corte. Qui non si pone un problema di competenza, né di appellabilità della sentenza. Il punto controverso è se l'atto introduttivo del giudizio (erroneamente intestato come opposizione all'esecuzione, ma contenente, nella sostanza, una domanda di accertamento negativo) potesse essere notificato agli uffici di prefettura di Messina e Reggio Calabria o dovesse essere notificato, in osservanza di quanto disposto dall'art. 144 cod. proc. civ., alla competente Avvocatura distrettuale dello Stato. 5. va ricordato che l'art. 144 cod. proc. civ. va integrato con l'art. 11, primo comma, del r.d. 30 ottobre 1933, n. 611, come modificato dall'art. 1 della legge 25 marzo 1958, n. 260, che così dispone: «tutte le citazioni, i ricorsi e qualsiasi atto di opposizione giudiziale, devono essere notificati alle amministrazioni dello stato presso l'ufficio dell'avvocatura dello stato nel cui distretto ha sede l'autorità giudiziaria dinanzi alla quale è portata la causa, nella persona del ministro competente»; il successivo secondo comma aggiunge: «ogni altro atto giudiziale e le sentenze devono essere notificati presso l'ufficio dell'avvocatura dello stato nel cui distretto ha sede l'autorità giudiziaria presso cui pende la causa o che ha pronunciato la sentenza». Questa Corte ha osservato che le disposizioni in commento utilizzano espressioni di contenuto inequivoco, tali da far intendere che nelle ipotesi ivi considerate la notificazione presso l'Avvocatura dello Stato è la sola praticabile (Sez. L, Sentenza n. 7315 del 16/04/2004, Rv. 572138). Sicché alla stessa è possibile sottrarsi solo nelle ipotesi particolari in cui il legislatore ha inteso espressamente derogare alla regola generale posta dall'art. 11 del r.d. n. 611 del 1933. Soltanto in tali evenienze, pertanto, troverà applicazione la previsione sussidiaria contenuta nell'art. 144, secondo comma, cod. proc. civ., che contempla le modalità di notificazione dell'atto direttamente all'amministrazione destinataria. Conseguentemente è stato affermato che la notificazione dell'atto introduttivo di un giudizio eseguita direttamente all'Amministrazione dello Stato e non presso l'Avvocatura distrettuale dello Stato, nei casi nei quali non vi è deroga alla regola di cui all'art. 11 r.d. n. 1611 del 1933, non può ritenersi affetta da mera irregolarità, ma, secondo quanto espressamente previsto da tale disposizione, da nullità, ma non anche da inesistenza. essa è quindi suscettibile di rinnovazione ai sensi dell'art. 291 cod. proc. civ., ovvero di sanatoria, qualora l'Amministrazione si costituisca (Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 21574 del 2017, non massimata). 6. Un'eccezione alla regola generale dell'obbligo di difesa - ed alla conseguente domiciliazione ex lege - delle amministrazioni statali riservata all'Avvocatura dello Stato è rinvenibile nel giudizio di opposizione a ordinanza-ingiunzione e a sanzione amministrativa già regolato dagli artt. 22 ss. della legge 24 novembre 1981, n. 689, e ora regolamentato dagli artt. 6 e 7 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150. In particolare, l'art. 6, commi 8 e 9, del d.lgs. n. 150 del 2011, stabilisce che il decreto di fissazione dell'udienza di comparizione delle parti deve essere notificato dalla cancelleria, unitamente al ricorso introduttivo, all'opponente ed all'autorità che ha emesso l'ordinanza impugnata, e che tali parti possono stare in giudizio personalmente, potendo l'autorità opposta avvalersi di funzionari appositamente delegati allorquando detta autorità sia un'amministrazione dello Stato. Ciò comporta, quindi, una deroga all'art. 11, comma primo, del r.d. n. 1611 del 1933 sull'obbligatorietà della notificazione all'Avvocatura dello Stato degli atti introduttivi CONteNzIOSO NAzIONALe 99 di un giudizio contro le amministrazioni erariali; inoltre, allorquando l'autorità opposta sia rimasta contumace ovvero si sia costituita personalmente (o tramite funzionario delegato), è derogato anche il secondo comma del suddetto art. 11, che prevede la notificazione degli altri atti giudiziari e delle sentenze presso la stessa Avvocatura (Sez. U, Sentenza n. 599 del 24/08/1999, Rv. 529423; Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 25080 del 07/11/2013, Rv. 628694; Sez. 2, Sentenza n. 14279 del 19/06/2007, Rv. 597909). 7. tali deroghe, tuttavia, non possono trovare applicazione nel caso in esame. Infatti, poiché l'azione dell'impugnazione del preavviso di fermo deve essere qualificata come azione di accertamento negativo, e non già quale opposizione ad ordinanza-ingiunzione, la stessa non è inquadrabile nell'alveo degli artt. 6 e 7 del d.lgs. n. 150 del 2011. Poiché la deroga all'art. 11, primo comma, del r.d. n. 1611 del 1933 è prevista dalla legge solamente per tale specie di giudizi oppositivi, l'impugnazione del preavviso di fermo amministrativo, per qualsiasi ragione sia stata proposta, resta soggetta alla regola generale di cui all'art. 144, primo comma, cod. proc. civ. del resto, come si è già detto, il dubbio su cui ha dibattuto questa Corte - poi definitivamente risolto dagli arresti delle Sezioni unite sopra citati, sopravvenuti durante la pendenza dei gradi di merito - riguardava l'alternativa fra la domanda di accertamento negativo e l'opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi. L'eventualità che l'opposizione al preavviso di fermo amministrativo potesse essere ricondotta nell'alveo dei giudizi oppositivi regolati dagli artt. 6 e 7 del d.lgs. n. 150 del 2011 non è stata mai sostenuta da nessuno, né gli attuali scritti difensivi offrono alcuno spunto per pervenire a tale diversa conclusione. Pertanto, quand'anche si fosse invece optato per la qualificazione della domanda come di opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi, ciò non avrebbe avuto alcuna ricaduta diretta sulla questione del patrocinio e della domiciliazione obbligatoria dell'amministrazione statale presso l'Avvocatura dello Stato, incidendo semmai sul profilo dell'ammissibilità dell'appello. 8. In conclusione, va affermato il seguente principio di diritto: "l'impugnazione del preavviso di fermo amministrativo previsto dall'art. 86 del d.P.R. n. 602 del 1973, avendo natura di ordinaria azione di accertamento negativo della pretesa creditoria, segue le regole generali del rito ordinario di cognizione, con la conseguenza che ad essa è applicabile la previsione di cui al combinato disposto dell'art. 144, primo comma, cod. proc. civ. e dell'art. 11, primo comma, del r.d. n. 1611 del 1933, in forza del quale l'atto introduttivo del giudizio nei confronti di un'amministrazione dello stato deve essere notificato presso l'ufficio dell'avvocatura dello stato nel cui distretto ha sede l'autorità giudiziaria competente, con esclusione della deroga prevista dagli artt. 6, comma 9, e 7, comma 8, del d.lgs. n. 150 del 2011, valevole solamente per í giudizi di opposizione ad ordinanza-ingiunzione e di opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice della strada". 9. In applicazione di tale principio, nel caso in esame si ha che la notificazione dell'atto di citazione nei confronti del Ministero dell'interno è nulla. La stessa, infatti, è stata effettuata presso le articolazioni territoriali delle Prefetture di Messina e Reggio Calabria, in un caso diverso da quelli previsti dagli artt. 6 e 7 del d.lgs. n. 150 del 2011. In particolare, nel giudizio di impugnazione del preavviso di fermo amministrativo il prefetto non può stare in giudizio personalmente o tramite funzionario delegato, essendo tale facoltà ristretta alle sole ipotesi testé menzionate. Conseguentemente, il soggetto legittimato passivo doveva essere individuato nel Ministero dell'interno (e non nella singola prefettura, che di tale Ministero costituisce una semplice articolazione territoriale) e la notificazione dell'atto di citazione doveva essere effettuata presso le Avvocature distrettuali dello Stato di Messina e Reggio Calabria. RASSeGNA AvvOCAtURA 100 deLLO StAtO - N. 3/2018 L'amministrazione non si è costituita e non ha sanato il vizio, né la notificazione è stata mai ritualmente rinnovata. Consegue che la sentenza impugnata deve essere cassata. essendo stata riscontrata la sussistenza di una nullità del giudizio di primo grado per la quale il giudice d'appello avrebbe dovuto rimettere le parti al primo giudice, la causa deve essere rinviata, ai sensi dell'art. 383, terzo comma, cod. proc. civ., al Giudice di pace di Patti, che provvederà anche sulle spese dell'intero giudizio, compreso quello di legittimità. Ovviamente, nel prosieguo del giudizio gli atti dovranno essere notificati nell'osservanza del principio di diritto dapprima illustrato. tale esito determina l'assorbimento del ricorso principale, contenente censure nei confronti della sola sentenza di appello. P.Q.M. accoglie il ricorso incidentale nei termini di cui in motivazione, assorbito quello principale; cassa la sentenza impugnata; dichiara la nullità della sentenza di primo grado e rinvia al Giudice di pace di Patti, cui demanda di provvedere sulle spese dell’intero giudizio, compreso quello di legittimità. Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2018. CONteNzIOSO NAzIONALe 101 sulla valutazione dei presupposti della responsabilità della amministrazione in materia di protezione della salute nel commento alla sentenza del tribunale di Roma n. 9561 del 2018 tRibUnale Di Roma, sezione seConDa Civile, sentenza 11 maggio 2018 n. 9561 Antonio Grumetto* Partendo dall’esame di un caso deciso di recente dal Tribunale capitolino, l’Autore si propone di dare un quadro generale su risultati raggiunti dall’elaborazione giurisprudenziale in materia di nesso di causalità, sia nel campo del diritto penale che in quello del diritto civile, ponendo in luce gli aspetti ancora problematici di tale fondamentale istituto giuridico. Passando poi ad esaminare la fattispecie concreta decisa dal Tribunale di Roma vengono messe in luce alcune criticità che ancora caratterizzano la giurisprudenza di merito, quando dal piano delle teorie sul nesso di causalità si passa a quello della applicazione concreta ai casi specifici. sommaRio: 1. l’importanza del nesso causale - 2. la sentenza del tribunale di Roma n. 9561 del 2018 - 3. il nesso di causalità nel diritto penale - 4. il nesso di causalità nel diritto civile - 5. l'onere della prova - 6. la motivazione della sentenza del tribunale di Roma. 1. l’importanza del nesso causale. Il tema del nesso causale rappresenta uno degli aspetti più dibattuti nell’ambito della responsabilità. Sia nel diritto penale che nel diritto civile (1), il “nesso di causalità” ha un ruolo centrale e nevralgico, al punto da costituire un vero e proprio indice di evoluzione sistemica degli ordinamenti giuridici. Nel sistema del Common Law, ad esempio, la centralità del criterio del nesso causale è espressa attraverso la frase “causation is a peg on which the (*) Avvocato dello Stato. (1) La letteratura in materia è davvero sterminata. A titolo esemplificativo, per la loro importanza, possono essere citati: F. ANtOLISeI, il rapporto di causalità nel diritto penale, Padova, 1934; M. SINISCALCO, voce Causalità (rapporto di), in enc. dir., vol. vI, Milano, 1960, 639 ss.; F. ReALMONte, il problema del rapporto di causalità nel risarcimento del danno, Milano, 1967; P. tRIMARCHI, Causalità e danno, Milano, 1967; F. SteLLA, leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1975; F. SteLLA, la nozione penalmente rilevante di causa: la condizione necessaria, in Riv. it. dir. proc. pen, 1988, 1217 ss.; F. SteLLA, Rapporto di causalità, in enc. giur., Roma, vol. XXIv, 1991, 16; M. tARUFFO, la prova dei fatti giuridici, in AA.vv., trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da A. CICU e F. MeSSINeO, continuato da L. MeNGONI, vol. III, t. 2, sez. I, Milano, 1992, 190; B.v. FROSINI, le prove statistiche nel processo civile nel processo penale, Milano, 2002; G. CANzIO, Prova scientifica, ragionamento probatorio e libero convincimento del giudice nel processo penale, in Dir. pen. proc., 2003, 1193 ss.; A. PAGLIARO, Causalità (rapporto di), in enc. dir., vol. Annali I, Milano, 2007, 153 ss.; R. BLAIOttA, Causalità e colpa: diritto civile e diritto penale si confrontano, in Resp. civ., 2009, 3; R.F. IANNONe, nesso causale: alla ricerca di un modello unitario (rilievi critici), in Resp. civ., 2010, 8-9; G. ALeSSANdRO, Causa umana e causa naturale in concorso: nuovi possibili scenari dopo le sentenze della Cassazione, in Danno e resp., 2013, 11, 1041 ss.; d.M. FReNdA, Quel che resta dell'accertamento del nesso causale, in nuova giur. civ., 2015, 12, 11157 ss. RASSeGNA AvvOCAtURA 102 deLLO StAtO - N. 3/2018 judge can hang any decision he likes” (2), che può essere liberamente tradotta in italiano come “la causalità è un perno intorno al quale il giudice può far ruotare la decisione che ritiene più opportuna”. Anche nel nostro sistema di Civil Law il rapporto di causalità è fondamentale nell’esercizio dell’attività giurisdizionale. Basti pensare, per quanto riguarda il diritto penale, alla funzione tipizzante che il nesso di causalità svolge nelle fattispecie causalmente orientate, in cui il compito di selezione della condotta rilevante e perciò delimitativa dell’area dell’illecito penale, è appunto affidata dal Legislatore all’individuazione della causa di un determinato evento. In questi casi il rispetto del principio di legalità, e del suo corollario relativo alla determinatezza della fattispecie astratta, è assicurato dal solo principio di causalità. Ma anche nel campo del diritto civile il principio di causalità svolge un’analoga funzione di selezione dei comportamenti illeciti: sia con riferimento al cd. criterio della causalità materiale, che è richiesto per la sussistenza dell’elemento oggettivo dell’illecito civile; sia con riferimento al cd. criterio della causalità giuridica, che è richiesto per i danni risarcibili in conseguenza di tale illecito. A fronte della indubbia importanza del principio di causalità, non si registra nella giurisprudenza, soprattutto di merito, un’analoga attenzione ed un costante rispetto dei risultati raggiunti dall’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale su tale istituto. 2. la sentenza del tribunale di Roma n. 9561 del 2018. Ne è una dimostrazione la sentenza in esame, con la quale il tribunale di Roma, pur pervenendo ad un esito, ad avviso di chi scrive, corretto, si segnala per una motivazione caratterizzata da alcune criticità che si avrà modo di mettere in rilievo. Prima di scendere nel dettaglio, è bene allora riepilogare quale era il caso sottoposto al tribunale di Roma. La controversia è stata proposta da un militare per fatti accaduti nel 1997 presso il Poligono di Salto di Quirra. Secondo l’attore, durante lo svolgimento del servizio di leva e nello svolgimento delle mansioni di elettricista allo stesso assegnate, sarebbe entrato in contatto con materiale militare contenente uranio impoverito senza l’utilizzo delle necessarie protezioni richieste per la prevenzione dei rischi connessi alla esposizione ai residui delle esplosioni di munizioni all’uranio effettuate nel poligono. A seguito della scoperta, diversi anni dopo il servizio e precisamente nel 2010, di essere affetto da linfoma di Hodgkin, successivamente asportato dalla regione sotto mandibolare con un intervento chirurgico e curato attraverso svariati cicli di chemioterapia e di radioterapia, citava in giudizio il Ministero (2) H.L.A. HARt, t. HONORé, Causation in the law, 2 nd ed., Oxford: Clarendon, 1985, 465. CONteNzIOSO NAzIONALe 103 della difesa, chiedendo il risarcimento del danno subito per la lesione del diritto alla salute. Ribadita da parte della Corte di cassazione, adita con regolamento preventivo di giurisdizione da parte della difesa della Amministrazione, la giurisdizione del Giudice ordinario per la controversia in esame, con la sentenza in esame il tribunale di Roma rigettava la domanda. dopo aver riportato ampiamente gli esiti delle indagini svolte dalla Commissione parlamentare d’inchiesta, nominata dal Ministero della difesa nel 2000 con l’incarico di accertare la possibile incidenza dell’utilizzo di munizionamento all’uranio impoverito nelle aree di conflitto militare, la motivazione della sentenza si sofferma sui due aspetti costituiti “dalla dimostrazione della stessa esistenza - nel caso concreto - della specifica sostanza che nella prospettazione attorea, avrebbe causato l’insorgenza della malattia (il linfoma di Hodgkin) ossia l’uranio impoverito, e, successivamente nell’ordine logico delle questioni (…) [dal]la prova dell’esistenza di un nesso di causalità diretto tra l’esposizione agli agenti inquinanti presenti nel Poligono di tiro di salto di Quirra e l’insorgere del linfoma…”. Prima di esporre quelle che, ad avviso di chi scrive, costituiscono incertezze della sentenza in esame sulla telematica del nesso di causalità, è opportuno riepilogare quale sia l’aquis in materia di accertamento del nesso di causalità a cui attualmente è pervenuta la giurisprudenza sia civile che penale sulla scorta delle elaborazioni dottrinali. 3. il nesso di causalità nel diritto penale. Punto di partenza per ogni discussione sul nesso di causalità, sia nel campo del diritto civile come nel campo del diritto penale, è la storica sentenza Franzese della Cassazione penale a SS.UU. n. 30328 del 2002 (3). Come è noto, nel sistema del diritto civile non sono previste norme che disciplinano specificamente i criteri di accertamento del nesso di causalità. La disposizione dell’articolo 1223 c.c., infatti, riguarda la cosiddetta “causalità giuridica”, vale a dire l’ambito di delimitazione dei danni risarcibili in caso di illecito civile. essa presuppone, pertanto, che sia stato già risolto il problema della sussistenza del nesso di causalità fra il fatto illecito (contrattuale o extra contrattuale (4)) e il danno evento (vale a dire la lesione dell’interesse pro- (3) La sentenza risulta ampiamente commentata nelle Riviste giuridiche italiane, tra le quali si citano Riv. Pen., 2002, 885; Foro it., 2002, II, 601 con nota di dI GIOvINe; Riv. Pen., 2003, 247 nota di IAdeCOLA; Riv. Pen., 2007, 9, 896 con nota di POtettI. (4) tale disposizione viene richiamata dall’articolo 2056 c.c. in materia di responsabilità extracontrattuale, insieme all’articolo 1226 c.c. (valutazione equitativa) e dall’articolo 1227 c.c. (concorso del fatto colposo del creditore). Non viene richiamato, invece, l’articolo 1225 c.c. che vale solo per la responsabilità contrattuale e delimita il risarcimento al solo danno che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l’obbligazione. RASSeGNA AvvOCAtURA 104 deLLO StAtO - N. 3/2018 tetto dall’ordinamento di cui è titolare il soggetto danneggiato) e ha il compito di stabilire quali delle conseguenze di tale lesione siano risarcibili quali dannoconseguenza (e ciò sia a titolo di danno emergente che di lucro cessante) (5). di conseguenza è comunemente condivisa l’affermazione secondo cui, anche nel diritto civile, la disciplina del nesso di causalità giuridico si rinviene negli artt. 40 e 41 del c.p. La sentenza “Franzese” trae le mosse dall’affermazione che nel sistema del diritto penale è assolutamente dominante l’interpretazione degli artt. 40 e 41 del codice penale come fonti della cd. teoria condizionalistica o dell’equivalenza causale (soltanto attenuata dalla rilevanza delle sedi causali sopravvenute autonome e indipendenti da sole sufficienti a determinare l’evento, di cui all’art. 41 cpv c.p.). Per tale teoria, come è noto, è causa dell’evento qualsiasi condotta umana, attiva o omissiva, che si pone come condizione necessaria nella catena degli antecedenti e senza la quale l’evento non si sarebbe verificato. L’accertamento del nesso causale, quindi, richiede un giudizio “controfattuale”, in base al quale vi è il nesso causale se eliminata la condotta (attiva o omissiva) l’evento non si sarebbe verificato. Ovviamente tale giudizio “controfattuale” è possibile purché si sappia già da prima che da una determinata condotta scaturisce o non un determinato evento. Ciò significa che l’accertamento di questa relazione, su cui si basa il giudizio controfattuale, deve essere operato con riferimento all’evento specifico del caso concreto: 1. sulla base dell’esperienza tratta da attendibili risultati di generalizzazione del senso comune; 2. ovvero facendo ricorso alla sussunzione del singolo evento, opportunamente ridescritto nelle sue modalità tipiche irripetibili, sotto leggi scientifiche di copertura. Sulla base di tale giudizio, di carattere inferenziale e non deduttivo, un evento può dirsi conseguenza di una determinata condotta solo se, valutato alla luce delle sue caratteristiche tipiche e ripetibili, rientra nel novero di quelli che, sulla base di una regola di esperienza o di una legge dotata di validità (5) v. Cass. Sez. U., 11 gennaio 2008, n. 581, in C.e.D. Cass., n. 600914: “a questo secondo momento va riferita la regola dell'art. 1223 c.c., (richiamato dall'art. 2056 c.c.), per il quale il risarcimento deve comprendere le perdite "che siano conseguenza immediata e diretta" del fatto lesivo (ed. causalità giuridica), per cui esattamente si è dubitato che la norma attenga al nesso causale e non piuttosto alla determinazione del quantum del risarcimento, selezionando le conseguenze dannose risarcibili. secondo l'opinione assolutamente prevalente, occorre distinguere nettamente, da un lato, il nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento perchè possa configurarsi, a monte, una responsabilità "strutturale" (Haftungsbegrundende Kausalitat) e, dall'altro, il nesso che, collegando l'evento al danno, consente l'individuazione delle singole conseguenze dannose, con la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (già accertata) responsabilità risarcitoria (Haftungsausfullende Kausalitat)”. CONteNzIOSO NAzIONALe 105 scientifica (valida in un determinato periodo storico), sono causati da quella determinata condotta. Almeno da quando è stata formulata la teoria quantistica della materia, tuttavia, anche le leggi scientifiche ritenute universali sono considerate leggi statistiche, in quanto è un dato comune che le stesse leggi scientifiche universali non si riferiscono a conoscenze assolutamente certe, posto che esse sono tratte da un numero di esperienze che, per quanto elevato, è pur sempre limitato ed è inevitabilmente condizionato dal risultato raggiunto dal livello di conoscenza in un particolare momento storico. Sicché la distinzione tra leggi scientifiche e le leggi statistiche è una distinzione puramente empirica che serve nell’esperienza della vita comune, ma che non ha nessun reale fondamento scientifico. Ciò non significa, secondo la sentenza “Franzese”, che vada accolta l’idea che, dato il carattere statistico e non universale delle leggi scientifiche di copertura o la stessa possibilità di ricorrere a generalizzazioni del senso comune, ci si possa accontentare di un grado di probabilità semplicemente apprezzabile nell’accertamento della causa. Un tale criterio, infatti, appare indeterminato, mutevole e manipolabile dall’interprete, tale da determinare una sovrapposizione dell’elemento soggettivo all’accertamento del nesso causale e foriero di ingiustificati giudizi di valore sul comportamento dell’agente. Le SS.UU. affermano, viceversa, la necessità di un criterio rigoroso di accertamento del nesso di causalità e che la semplice difficoltà dell’attività di prova di tale nesso non può incidere sull’essenza dell’istituto, favorendo una nozione debole di causalità che finirebbe per coincidere con la teoria dell’aumento del rischio e porre sullo stesso piano l’accertamento della colpa e quello della causalità. d’altra parte non può neanche pretendersi una certezza assoluta nella verifica del nesso di causalità. Nella ricostruzione del fatto nell’accertamento del rapporto di causalità, infatti, il giudice non segue un argomento deduttivo, in quanto non sono note tutte le circostanze che caratterizzano il singolo fatto: quest’ultimo ricorre ad una serie di assunzioni tacite, presupponendo come presenti determinate condizioni iniziali o di contorno non conosciute o soltanto congetturali e sulla base delle quali, certeris paribus, mantiene validità all’impiego della legge scientifica. Soprattutto nel campo della medicina e della biologia, in cui appare estremamente complesso l’accertamento degli antecedenti causali sui quali si innesta la condotta illecita (si pensi alla condizione patologica del paziente nelle cause di malpractice in campo medico), un criterio di imputazione che richiedesse la certezza della sussistenza del nesso di causalità finirebbe per allargare eccessivamente l’area della non punibilità e per frustrare le esigenze di repressione dell’illecito. tutto ciò significa che la certezza, che si può pretendere nell’ambito dell’accertamento del rapporto di causalità nel campo del diritto penale, non è RASSeGNA AvvOCAtURA 106 deLLO StAtO - N. 3/2018 una certezza assoluta bensì una certezza processuale, caratterizzata, all’esito di un ragionamento probatorio di tipo largamente induttivo e da un giudizio di responsabilità caratterizzato da un alto grado di credibilità razionale (ovvero elevata probabilità logica o probabilità prossima alla certezza). In questa chiave anche coefficienti medio-bassi di probabilità (rivelati da alcune leggi statistiche o ancora di più dalle generalizzazioni del senso comune o da rilevazioni epidemiologiche) possono essere posti alla base dell’accertamento del nesso di causalità purché corroborati dal positivo riscontro probatorio della non incidenza di altri fattori interagenti in via alternativa. viceversa elevati coefficienti di probabilità statistica (o addirittura la sussistenza di leggi di carattere universale) non escludono la necessità che il giudice accerti effettivamente la sussistenza del nesso eziologico e l’assenza di compatibilità del verificarsi del fenomeno con ipotesi ricostruttive diverse. In altri termini il criterio dell’elevata credibilità razionale presuppone due momenti dell’accertamento: 1. l’accertamento della sussistenza di una legge scientifica di copertura o di una regola di esperienza dettata dal buon senso o da rilevazioni epidemiologiche che consenta di spiegare un fatto come la conseguenza di un altro fatto; 2. la verifica di tale risultato astratto alla luce delle caratteristiche del caso concreto, non essendo consentito dedurre automaticamente e proporzionalmente dal coefficiente di probabilità statistica, espresso dalla legge del criterio di copertura, la conferma dell’esistenza o dell’inesistenza del rapporto. Il criterio è allora diverso da quello della “probabilità statistica”, dovendo il giudice ricorrere alla “probabilità logica” cioè alla verifica della connessione evidenziata dalla legge scientifica di copertura o dalla regola di esperienza alla luce dell’incidenza processuale disponibile in relazione al singolo evento. 3. il nesso di causalità nel diritto civile. Passando alla elaborazione sul nesso di causalità nel sistema del diritto civile, fondamentali sono alcune decisioni emesse dalla Corte di cassazione a SS.UU. nel 2008 e che vengono sovente richiamate (6), ancorché non sempre in maniera fedele, dalla giurisprudenza successiva della Suprema Corte. In questo settore, ferma la distinzione tra causalità materiale (artt. 2043 e 1227 primo comma c.c.) e causalità giuridica (1223, 1225, 1226, 1227 secondo comma), il criterio condizionale è mitigato dalla irrilevanza delle condotte atipiche (criterio della “causalità adeguata”), secondo il quale devono essere escluse dall’interno della serie causale i fattori che appaiono del tutto inverosimili ovvero atipici ovvero imprevedibili. (6) v. Cass. Sez. U., 11 gennaio 2008, n. 581, in C.e.D. Cass., n. 600914; Cass. Sez. U., 11 gennaio 2008, n. 582, in C.e.D. Cass., n. 600915; Cass. Sez. U., 11 gennaio 2008, n. 576, in C.e.D. Cass., n. 600899. CONteNzIOSO NAzIONALe 107 La valutazione della prevedibilità obiettiva imposta dal criterio delle causalità adeguata deve farsi ex ante, cioè nel momento in cui la condotta è stata posta in essere, escludendosi la sussistenza del nesso di causalità quando, nel momento in cui è stata posta in essere la condotta, era del tutto imprevedibile che ne sarebbe potuta discendere una data conseguenza. L’adesione alla teoria della causalità adeguata, tuttavia, non comporta il pericolo di confusione del nesso di causalità con l’elemento soggettivo: ciò in quanto il metodo di valutazione da adottare non è quello della conoscenza dell’uomo medio ma la conoscenza scientifica, sicché ne è esclusa qualsiasi sovrapposizione tra l’elemento oggettivo causale e quello soggettivo della colpevolezza. Non vi è alcuna differenza tra il diritto penale ed il diritto civile in ordine ai criteri di accertamento del nesso causale. differenze possono aversi soltanto in relazione ai criteri probatori adottati in sede giudiziaria, ma si tratta, come è evidente, di un momento successivo a quello di avveramento del fatto dannoso. Inoltre, anche quando il diritto civile ricorre a criteri di imputazione diversi da quello della sussistenza dell’elemento psicologico dell’autore del fatto (come si verifica, ad esempio, nell’ipotesi del danno da cosa in custodia ex art. 2051 c.c.), perché possa sussistere una responsabilità del custode è sempre necessario che si accerti un nesso di derivazione causale del danno dalla cosa, con la conseguenza che anche in questa ipotesi, pertanto, l’accertamento del nesso causale è centrale. Anche nel campo del diritto civile, pertanto, in mancanza di norme specifiche che regolino il rapporto causale, al fine di individuare criteri di accertamento del rapporto causale occorre fare riferimento ai principi generali di cui agli articoli 40 e 41 c.p., sia pure avendo riguardo allo specifico criterio di imputazione dell’evento dannoso previsto nel caso di specie. A differenza che nel diritto penale, nel sistema del diritto civile la regola probatoria non può, tuttavia, essere quella dell’“oltre ogni ragionevole dubbio”, considerata la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa e la essenziale parità delle parti nel processo civile tra i due contendenti. Nel diritto civile, il criterio di accertamento deve essere quello “del più probabile che non”. Ciò non significa che l’accertamento del nesso causale risponda ad un criterio quantitativo-statistico delle frequenze di classe di eventi (probabilità quantitativa o pascaliana), ma va verificato riconducendo il grado di fondatezza dall’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di fattori alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (cosiddetta probabilità logica o baconiana). 4. l’onere della prova. L’orientamento tradizionale della giurisprudenza di legittimità (7) ha sem RASSeGNA AvvOCAtURA 108 deLLO StAtO - N. 3/2018 pre posto l’onere della prova del nesso di causalità materiale a carico del danneggiato e ciò sia quando si tratti di responsabilità extracontrattuale che quando si tratti di responsabilità contrattuale. Ma mentre nell’ambito della interpretazione dell’articolo 2043 c.c. questo principio è stato costantemente rispettato dalla giurisprudenza successiva, il problema dell’onere della prova nella responsabilità contrattuale ha subito l’interferenza del criterio di riparto tra debitore e creditore in materia di prova dell’inadempimento. Il fondamentale arresto della Corte di cassazione SS.UU. n. 13533 del 2001, infatti, ha introdotto il principio per cui, tanto in caso di inadempimento quanto in caso di inesatto adempimento, il principio della presunzione della persistenza di diritto, desumibile dall’articolo 2697 c.c., comporta che qualunque sia l’azione proposta in giudizio dal creditore (di adempimento, di risoluzione per inadempimento ovvero di risarcimento del danno per inadempimento) questi ha soltanto l’onere di allegare il titolo (atto negoziale o altro fatto costitutivo dell’obbligazione in conformità dell’ordinamento) da cui deriva l’obbligazione non adempiuta o non esattamente adempiuta, mentre il debitore sarà tenuto a dimostrare che l’inadempimento ovvero l’inesatto adempimento non sussiste o che esso, se sussiste, è dovuto a causa non imputabile al debitore. Senonché questo principio è stato a volte interpretato nella pratica in maniera non fedele rispetto alla sua originaria formulazione. Prendendo le mosse dalla sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 577 del 2008, in cui è stato affermato il principio che il creditore ha l’onere di allegare un inadempimento qualificato (cioè assolutamente efficiente alla produzione del danno) laddove spetta al debitore dimostrare che tale adempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno, si è sviluppata nella giurisprudenza successiva della Corte di cassazione, specie con riferimento alla responsabilità da errore professionale in campo medico, un filone interpretativo che ha finito per addossare al debitore la prova dell’inesistenza del nesso causale e, quando tale prova non era stata raggiunta, la c.d. causa ignota. Secondo questo orientamento, pertanto, in presenza della mera allegazione di un inadempimento qualificato, graverebbe sul debitore la prova dell’assenza del nesso causale, con la conseguenza che, quando non sia possibile provare la assenza del nesso causale, il debitore risponderebbe delle conseguenze dannose subite dal creditore anche quando non sia certa la causa del danno e quindi anche nell’eventualità di “causa ignota” (8). Una recente decisione della Corte di cassazione (9) ha, tuttavia, ribadito (7) Cass. Sez. III, 18 marzo 2005, n. 5960, in C.e.D. Cass., n. 580853; Cass. Sez. III, 18 aprile 2005, n. 2044, in C.e.D. Cass., n. 582983. (8) Cfr. Cass. Sez. III, 30 settembre 2014, n. 20547, in C.e.D. Cass., n. 632891. CONteNzIOSO NAzIONALe 109 l’orientamento tradizionale in materia di onere della prova del nesso di causalità. tale decisione afferma che “sia nei giudizi di risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale, sia in quelli di risarcimento del danno da fatto illecito, la condotta colposa del responsabile del nesso di causa da questa e il danno costituiscono oggetto di due accertamenti concettualmente distinti; la sussistenza della prima non dimostra, di per sé, anche la sussistenza del secondo, e viceversa; l’articolo 1218 c.c. solleva il creditore dell’obbligazione che si afferma adempiuta dall’onere di provare la colpa del debitore inadempiente, ma non dall’onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno di cui domanda di risarcimento”. tale decisione è stata ribadita anche da una successiva decisione della medesima sezione (10), con la quale si è precisato che: 1. l’articolo 1218 c.c. trova giustificazione nell’opportunità di far gravare sulla parte che si assume inadempiente o non esattamente adempiente l’onere di fornire la prova positiva dell’avvenuto adempimento o dell’esattezza dell’adempimento sulla base del criterio della vicinanza della prova (viene richiamata Cassazione Sezioni Unite n. 13533 del 2001); 2. tale ragione non sussiste in relazione al nesso causale, sicché non può che valere in relazione alla prova di tale nesso la regola generale di quell’articolo 2697 c.c. e ciò sia per la responsabilità extracontrattuale che per la responsabilità contrattuale; 3. l’onere della prova a carico del danneggiato vale sia per il nesso causale materiale sia per il nesso causale giuridico; 4. laddove l’articolo 1218 c.c. fa riferimento alla causa non imputabile (con onere della prova a carico del debitore) ciò si riferisce non al nesso di causalità (materiale o giuridico) quanto alla “non imputabilità dell’impossibilità di adempiere” che si colloca nell’ambito delle cause istintive dell’obbligazione (11); 5. ciò comporta che la causa ignota resta a carico del danneggiato. Ci si chiede (12), però, se porre l’onere della prova del nesso causale a carico del creditore non significhi anche porre a carico di quest’ultimo la prova dell’inadempimento: dovendo provare l’esistenza di un nesso tra il fatto e l’evento è giocoforza ritenere che il presupposto di questa prova sia non solo l’allegazione, ma anche la dimostrazione del fatto causa prima dell’evento e quindi nell’ipotesi della responsabilità contrattuale anche l’inadempimento del debitore. Si tratta allora di verificare se siano ancora validi i principi posti dalla Cassazione Sezioni Unite 30 ottobre 2001 n. 13533, laddove pur equiparando (9) Cass. Sez. III, 14 novembre 2017 n. 26824, in Foro it., 2018, I, 557, con nota di tASSONe. (10) Cass. Sez. III, 7 dicembre 2017 n. 29315, in C.e.D. Cass., n. 646653. (11) viene richiamata Cass. Sez. III, 26 luglio 2017, n. 18392, in C.e.D. Cass., n. 646653. (12) Così G. d’AMICO, la prova del nesso di causalità «materiale» e il rischio della c.d. «causa ignota» nella responsabilità medica, in Foro it. Anno 2018, parte I, col. 1348. RASSeGNA AvvOCAtURA 110 deLLO StAtO - N. 3/2018 il meccanismo di ripartizione dell’onere della prova in materia di responsabilità contrattuale e di responsabilità extracontrattuale, asserisce che il creditore non deve provare l’inadempimento, ma solo l’esistenza della fonte negoziale o legale del credito e se previsto il termine di scadenza. tuttavia, le recenti decisioni della Corte di cassazione non sono in contrasto con l’orientamento tradizionale sul riparto dell’onere della prova in materia di responsabilità contrattuale. È vero che il creditore ha soltanto l’onere di allegare la fonte legale o negoziale dell’obbligazione rimasta non adempiuta o non esattamente adempiuta, ma ciò implica anche la necessità di allegare l’obbligazione cui si riferisce l’inadempimento. tale allegazione non può poi avere ad oggetto un qualsiasi inadempimento o inesatto adempimento, ma deve riguardare un inadempimento c.d. “qualificato”, vale a dire astrattamente idoneo a determinare la produzione del danno lamentato. Ciò consente l’operare delle presunzioni semplici in materia di prova del nesso causale, con la conseguenza che, in presenza dell’allegazione di un inadempimento qualificato, il creditore avrà assolto anche all’onere di dare la prova della sussistenza del nesso causale, sia pure attraverso il ricorso alle presunzioni semplici; mentre sarà onere del debitore, per effetto del principio della circolazione dell’onere probatorio, dare la prova dell’assenza del nesso causale. 5. la motivazione della sentenza del tribunale di Roma. La sentenza in esame non si cimenta, innanzitutto, con il problema della natura della responsabilità che può gravare sull’Amministrazione della difesa nei casi di esposizione di un militare alle radiazioni derivanti dall’uranio impoverito. e ciò nonostante nel corso del giudizio, come si ricava dalla motivazione della decisione, la difesa della Amministrazione avesse dedotto che, nonostante il richiamo da parte dell’attore all’articolo 2043 c.c., nel caso di specie potesse semmai discutersi di una responsabilità contrattuale del Ministero. Il silenzio della motivazione della sentenza si spiega con la irrilevanza nel caso di specie del problema dell’esatta qualificazione giuridica di un’eventuale responsabilità dell’Amministrazione. In primo luogo, la qualificazione del rapporto dedotto in giudizio come mero rapporto di servizio e non come rapporto di impiego ha comportato la irrilevanza del tradizionale criterio di riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo basato sulla natura della responsabilità che l’attore fa valere in giudizio. Com’è noto, infatti, solo per i giudizi aventi ad oggetto una responsabilità dell’amministrazione nei confronti di soggetti legati ad essa da un rapporto di impiego trova applicazione il tradizionale criterio di riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, in base al quale spetta al primo la cognizione delle controversie relative ad una responsabilità extracontrattuale dell’amministrazione ed al secondo la competenza a conoscere delle ipotesi CONteNzIOSO NAzIONALe 111 di responsabilità contrattuale dell’amministrazione. tuttavia, poiché nel caso di specie, il rapporto con la Amministrazione del militare di leva è stato qualificato come un rapporto di servizio e non un rapporto di impiego, tale criterio di riparto della giurisdizione non poteva venire in considerazione. e poiché l’ordinamento non prevede un criterio di attribuzione della giurisdizione per materia nel caso di danni asseritamente subiti da un militare di leva, il criterio di riparto applicabile non poteva che essere quello basato sulla natura giuridica della situazione soggettiva dedotta in giudizio; sicché trattandosi di un’azione di risarcimento del danno per violazione del diritto alla salute derivante da un comportamento (omissivo) dell’Amministrazione, la competenza non poteva che spettare al giudice ordinario. Quanto poi al merito delle questioni dedotte in giudizio, il silenzio della motivazione della sentenza sulla natura della responsabilità che grava sulla Amministrazione in casi di esposizione di militare di leva all’uranio impoverito si spiega, altresì, con la irrilevanza, nel caso deciso dal tribunale, delle principali differenze che si pongono tra il regime della responsabilità extracontrattuale e quello della responsabilità contrattuale. Com’è noto, infatti, le differenze tra i due tipi di responsabilità riguardano il regime della prescrizione (decennale o quinquennale), l’ambito dei danni risarcibili (esteso nel caso della responsabilità contrattuale a quelli imprevedibili solo in caso di dolo) e la possibilità per il debitore di liberarsi dalla responsabilità provando che l’inadempimento è dovuto a causa a lui non imputabile. Nel caso di specie, dalla sintetica illustrazione dello svolgimento del giudizio che si può leggere nella sentenza, non sembra che la difesa della Amministrazione avesse sollevato una eccezione preliminare di merito di prescrizione del diritto dedotto in giudizio. Così come il rigetto della domanda fondato sulla mancata dimostrazione della stessa esposizione del militare all’uranio impoverito ha reso irrilevante sia l’aspetto relativo all’ambito dei danni risarcibili sia quello della possibilità del debitore di dimostrare che l’inadempimento è dovuto a causa a lui non imputabile. La questione del corretto inquadramento della responsabilità della Amministrazione resta pertanto, ai fini del presente scritto, una questione priva di rilevanza pratica. tuttavia, a parere di chi scrive, sembra più corretto inquadrare tale responsabilità nella figura della responsabilità contrattuale per violazione dell’obbligo di protezione. Come è dato leggere nella motivazione della sentenza annotata, tale era stata, in primo luogo, la qualificazione che alla responsabilità aveva attribuito la difesa della Amministrazione, perché, a quanto pare, al solo scopo di attribuire la giurisdizione al giudice amministrativo. La qualificazione della responsabilità dell’amministrazione come ricadente nello schema dell’articolo 1218 c.c. trova oggi una conferma nel codice RASSeGNA AvvOCAtURA 112 deLLO StAtO - N. 3/2018 dell’ordinamento militare e nel relativo regolamento di esecuzione. Gli articoli 603, 1907 e 2185 (13) del codice dell’ordinamento militare, infatti, prevedono un indennizzo in favore del personale militare e del personale civile che abbiano contratto infermità o patologie tumorali “a causa di servizio”. Orbene poiché la nozione di “causa di servizio” richiede che l’infermità o la patologia tumorale sia stata causata dal servizio ovvero che abbia trovato in quest’ultimo una sua concausa efficiente e determinante, la stretta connessione che deve sussistere tra la infermità o la patologia tumorale ed il servizio inducono a ritenere configurabile, nel concorso di tutti gli elementi dell’illecito, una responsabilità contrattuale dell’amministrazione piuttosto che una responsabilità extracontrattuale. In altri termini, la responsabilità dell’amministrazione trova la sua fonte dagli obblighi di protezione che sorgono nell’ambito di un rapporto giuridico specifico, in cui l’adempimento di una prestazione (nel caso di specie la prestazione di servizio militare di leva) comporti l’esposizione ad un pericolo di lesione dei diritti di una delle parti del rapporto. In tali casi sorge per la parte del rapporto non esposta al pericolo l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie ad evitare che la parte esposta al rischio possa subire pregiudizi in occasione dell’attuazione del rapporto giuridico. Generalmente il dovere di non ledere la persona e i beni altrui con un comportamento negligente, imprudente e imperito, rileva sul piano dei doveri di astensione la cui inosservanza fa sorgere una responsabilità extracontrattuale (articolo 2043 c.c.), ma ciò non significa che, qualora il comportamento esecutivo di una delle parti esponga l’altrui o la propria sfera giuridica al rischio di un danno, il debitore o il creditore non sia tenuto ad osservare un comportamento prudente anche sul piano del rapporto obbligatorio. Si tratta di doveri che hanno carattere essenzialmente bilaterale o reciproca, ossia gravano sul debitore e sul creditore, non essendovi un motivo ragionevole per distinguere fra i due quando si tratti di tutelare la sfera giuridica di coloro che entrano in contatto per dare attuazione al rapporto obbligatorio. Così inquadrata la responsabilità dell’amministrazione nel caso di esposizione di un militare all’uranio impoverito, è parere di chi scrive che correttamente la sentenza annotata abbia escluso qualsiasi rimprovero nei confronti del Ministero della difesa. Il tribunale evidenzia, correttamente, che qualsiasi questione relativa alla sussistenza di una responsabilità dell’amministrazione presuppone, in questi casi, la dimostrazione “dell’esistenza stessa - nel caso concreto - della speci- (13) Articolo 2185 del codice dell’ordinamento militare, inoltre, estende tali indennizzi anche ai cittadini italiani che si trovino in teatri di conflitto o impiegati nei poligoni di tiro, nonché ai residenti nelle zone adiacenti alle basi militari sul territorio nazionale presso le quale è conservato munizionamento pesante o esplosivo o ai poligoni di tiro. CONteNzIOSO NAzIONALe 113 fica sostanza che, nella prospettazione attorea, avrebbe causato l’insorgenza della malattia (il linfoma di Hodgkin) ossia all’uranio impoverito, e, successivamente nell’ordine logico delle questioni (…) la prova dell’esistenza di un nesso di causalità diretto tra l’esposizione agli agenti inquinanti…. e l’insorgere del linfoma”. Il relatore della sentenza, pertanto, pone esattamente su piani distinti la prova dell’inadempimento da parte dell’Amministrazione all’obbligo di protezione del militare di leva e quella della sussistenza del nesso di causalità tra l’esposizione all’uranio impoverito e la patologia tumorale contratta dallo stesso. Come si è visto nella parte introduttiva del presente scritto, si tratta di due elementi della responsabilità (contrattuale) della Amministrazione la cui prova resta a carico della parte danneggiata. Il corretto adempimento di quest’onere, pertanto, comporta innanzitutto che il danneggiato alleghi l’inadempimento della Amministrazione all’obbligo di protezione. Ma per far ciò è necessario che dimostri il titolo (vale a dire il fatto giuridico) dal quale sorge tale obbligo. esso non consiste esclusivamente nella sussistenza del rapporto di servizio costituito dalla prestazione del servizio militare di leva, ma si completa con il fatto storico dell’esposizione alle radiazioni provenienti da munizioni all’uranio impoverito: è la prova di tale circostanza, infatti, che determina il sorgere per l’amministrazione dell’obbligo di proteggere la salute del militare, sicché non basta dimostrare di aver prestato servizio (di leva o non), ma occorre allegare e dimostrare il fatto costitutivo dell’obbligo di protezione. Solo in tal modo il debitore esaurisce il proprio onere di dare la prova e può limitarsi ad allegare l’inadempimento da parte della Amministrazione della difesa, sostenendo che in quelle date circostanze ed in presenza di un obbligo di protezione, l’amministrazione militare non ha adempiuto al proprio obbligo di protezione adottando tutte le misure necessarie ad evitare il rischio di contrarre una patologia tumorale per effetto dell’esposizione all’uranio impoverito. Nel caso di specie il tribunale di Roma ha escluso che l’attore avesse dato prova di tale esposizione. Si legge nella motivazione della sentenza che: “il teste ascoltato, compagno d’armi del g., ha poi riferito modalità e condizioni dello svolgimento delle mansioni demandate all’attore e anche di contatti con le testate missilistiche, ma ovviamente non ha potuto attestare nella presenza delle stesse di uranio impoverito…”. Una volta esclusa la prova della sussistenza del fatto costitutivo dell’obbligo di protezione, pertanto, il tribunale avrebbe potuto ritenere assolto il suo obbligo di giudicare nel caso di specie con il rigetto della domanda fondato sul mancato adempimento dell’onere di dare la prova della sussistenza di un tale obbligo in capo alla Amministrazione militare. Le ulteriori considerazioni che si leggono nella motivazione della sentenza annotata, relative alla mancata dimostrazione della sussistenza di un nesso causale tra l’esposizione all’uranio impoverito e la patologia tumorale RASSeGNA AvvOCAtURA 114 deLLO StAtO - N. 3/2018 contratta dall’attore, sono, pertanto, un argomento ulteriore che il tribunale svolge ad abundantiam rispetto a quello precedente: una volta esclusa la sussistenza di un obbligo di protezione in capo al Ministero della difesa non era più necessario indagare se nel caso di specie il danneggiato avesse adempiuto al proprio onere di dare la prova della sussistenza del nesso causale. Anche sotto questo secondo aspetto, tuttavia, la sentenza del tribunale, pur essendo corretta nella soluzione che dà alla questione, presenta alcune criticità nella sua impostazione teorica. Perplessità desta la parte della motivazione relativa alla precisazione metodologica che il tribunale fa a proposito del nesso di causalità. Innanzitutto è da escludersi che, nel caso di specie possa, parlarsi di una legge di copertura di carattere scientifico (o più correttamente di contenuto probabilistico). La formulazione di una tale legge scientifica di copertura, infatti, presupporrebbe, come riconosce lo stesso tribunale, l’effettuazione di un certo numero di test e la discussione degli esiti di tali esperimenti da parte della comunità scientifica mondiale. tuttavia, la materia di indagine scientifica nel caso di specie è costituita dalla possibile relazione tra l’esposizione all’uranio impoverito e la insorgenza di patologie tumorali; sicché in casi del genere deve ritenersi esclusa a priori qualsiasi possibilità di formulazione di una legge scientifica di copertura per la semplice ragione che non sarebbe eticamente corretto sottoporre soggetti sani alla esposizione di agenti costituiti dall’uranio impoverito per verificare l’esistenza di una correlazione scientifica con l’insorgenza di patologie tumorali. La sentenza del tribunale di Roma è, viceversa, corretta laddove ricorda che anche l’assenza di leggi scientifiche di copertura non esclude la possibilità di individuare la sussistenza di un nesso causale quando vi siano dati epidemiologici sufficienti dai quali trarre elementi di giudizio ai fini di tale accertamento. In questi casi la legge di copertura non è data da una legge scientifica, bensì dall’osservazione di casi aventi le stesse caratteristiche e che, valutati nei loro elementi tipici e confrontati con i dati della fattispecie concreta sottoposta a giudizio, consentono di pervenire all’accertamento di un nesso di causalità sulla base della regola, propria del diritto civile, del “più probabile che non”. ed è appunto questo il percorso logico che l’autore della sentenza fa per escludere la sussistenza, anche alla luce di dati statistici epidemiologici, tra il linfoma Hodgkin e l’esposizione all’uranio impoverito. Richiamando, infatti, i precedenti di altri tribunali che hanno accolto domande di risarcimento in fattispecie simili, il tribunale di Roma mette in luce come nei casi in cui era stata individuata una correlazione causale vi erano degli elementi di diversità rispetto alla fattispecie sottoposta a giudizio, costituiti dalla esposizione dei militari durante missioni in aree di conflitto internazionale della possibile incidenza, nella causazione della infermità, di vaccinazioni multiple imposte ai militari impegnati in tali missioni. CONteNzIOSO NAzIONALe 115 In tal modo il tribunale applica correttamente il criterio della probabilità logica o baconiana nell’accertamento del nesso di causalità, andando al di là della semplice inferenza da casi tipici di carattere statistico della sussistenza del collegamento causale e analizzando gli elementi che possono trarsi da tali dati epidemiologici alla luce delle particolarità del caso concreto. Le differenze individuate fra le serie statistiche acclarate in altri giudizi e le particolarità del caso di specie consentono al Giudicante di pervenire correttamente ad un giudizio di esclusione della sussistenza nesso causale e al rigetto della domanda dell’attore. tribunale di Roma, seconda sezione Civile, sentenza 11 maggio 2018 n. 9561 - giud. e. Favara - M.G. (avv. ti P. Frisani, A. Nardi) c. Ministero della difesa (avv. gen. Stato). Fatto e diritto Con atto di citazione ritualmente notificato l'attore conveniva innanzi l'intestato tribunale il Ministero della difesa onde vederlo condannare al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale dallo stesso subito a seguito della illegittima esposizione a metalli pesanti avvenuta durante la prestazione del servizio di leva in qualità di elettricista presso il Poligono di Salto di Quirra in Sardegna. esponeva l'attore di aver prestato servizio di leva obbligatoria presso la scuola Reclute dell'Aereonautica Militare di taranto (12°mo scaglione 1996, 283° corso) e di essere stato inviato, al termine del periodo d'addestramento, presso il Poligono Sperimentale Interforze del Salto di Quirra (NU). Riferiva che, trascorso un breve periodo di circa venti giorni all'interno del c.d. "poligono a terra" di Perdasdefogu, egli era stato trasferito, con l'incarico di elettricista (in quanto esperto perito elettro-tecnico), presso il vicinissimo distaccamento (circa 15 km) di Capo San Lorenzo a villaputzu (CA) - sempre facente parte del Poligono Interforze del Salto di Quirra - dedito alla sperimentazione di tutti i tipi di armamento leggero e missilistico e perciò comunemente indicato come il c.d. "poligono a mare"; che, per tutta la durata del servizio militare prestato presso la base del Salto di Quirra, terminato nel mese di novembre 2007 (e dunque per circa un anno), il sig. G. era chiamato ad intervenire pressoché giornalmente anche nei locali ovviamente interdetti al personale non qualificato - dove i missili venivano caricati sulle rampe pronti ad essere esplosi; che ciò avveniva nella più totale assenza di qualsiasi dotazione di sicurezza e dunque senza alcun tipo di protezione atta a garantire l'incolumità del soggetto esposto. L'attore rappresentava altresì di non essere mai stato reso edotto sui reali rischi dallo stesso corsi in tutta la durata del servizio militare. Riferiva che, accanto alle mansioni di elettricista, l'odierno attore aveva svolto tutte le normali attività di ogni militare e pertanto era stato più volte direttamente impegnato in prima persona anche al poligono di tiro; che nel mese di Novembre 1997 egli aveva terminato il servizio militare e veniva congedato con "ottimo rendimento" e con "alto grado di Aviere Scelto". Riferiva che nel mese di luglio 2010 gli veniva diagnosticato Linfoma di Hodgkin, tumore maligno del sistema linfatico, asportato dalla regione sottomandibolare destra a seguito di intervento chirurgico eseguito presso l'ospedale San Carlo di Milano. Successivamente alla sco RASSeGNA AvvOCAtURA 116 deLLO StAtO - N. 3/2018 perta della terribile patologia il sig. G. veniva sottoposto a svariati cicli di chemioterapia tipo ABvd, nonché di radioterapia. Secondo l'attore, sussisteva una responsabilità da parte del Ministero della difesa per le gravissime lesioni alla salute riportate in conseguenza all'illegittima esposizione all'uranio impoverito e ad altre sostanze nocive durante lo svolgimento del servizio militare, per cui egli conveniva l'amministrazione statale avanti al tribunale di Roma per chiedere il risarcimento dei danni subiti. La prima udienza di comparizione veniva fissata per l'11 gennaio 2013 ed il Ministero si costituiva con comparsa depositata il 10 gennaio 2013, nella quale eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in favore del giudice amministrativo, trattandosi di domanda del risarcimento del danno avanzata da un militare nei confronti della propria amministrazione di appartenenza e dunque, ai sensi dell'att. 63 d.lgs. 165/2001, vertendosi in ambito di giurisdizione esclusiva del tAR poiché il personale militare era rimasto in regime di diritto pubblico. deduceva inoltre il Ministero che il dipendente pubblico poteva far valere sia la responsabilità contrattuale che extracontrattuale del proprio datore di lavoro, sussistendo la giurisdizione amministrativa nel primo caso e quella ordinaria nel secondo, e che era a tal fine irrilevante la prospettazione delle parti, dovendo porsi in rilievo il petitum sostanziale ai fini dell'individuazione del giudice competente; nella fattispecie in esame, secondo controparte, il sig. G. aveva evidentemente fatto valere la responsabilità contrattuale del Ministero, nonostante l'inefficace richiamo all'art. 2043 c.c., di talché si verteva in ambito di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, donde la necessità di dichiarare il difetto di giurisdizione. Contestava altresì la domanda attorea nel merito. Il Giudice concedeva termine alla difesa di parte attrice fino a 10 giorni prima della successiva udienza, fissata per il 5 marzo 2013, per il deposito di memorie di replica in ordine all'eccepito difetto di giurisdizione. A seguito del deposito della memoria autorizzata il Giudice concedeva termine per memorie ex art. 183, vI comma c.p.c. Nelle more della decisione relativa alle istanze istruttorie il Ministero della difesa proponeva regolamento di giurisdizione avanti la Suprema Corte di Cassazione, procedimento nel quale il sig. G. si costituiva con controricorso; l'Amministrazione chiedeva inoltre la sospensione del giudizio di merito stante la pendenza del regolamento di giurisdizione, richiesta che veniva rigettata con ordinanza del 27 settembre 2013 che ammetteva le prove per testi richieste dall'attore rinviando all'udienza dell'8 aprile 2014. A detta udienza veniva sentito il teste sig. S.C., con rinvio all'udienza del 28 ottobre 2014 per la prosecuzione dell'istruttoria. In data 5 maggio 2014 veniva depositata l'ordinanza n. 9572/2014 della Corte di cassazione, che dichiarava la giurisdizione del giudice ordinario e rimetteva le parti, anche per le spese del regolamento, avanti al tribunale di Roma. Successivamente veniva accolta l'istanza di ordine di esibizione richiesta dalla difesa attrice e veniva disposta CtU. veniva depositata una prima relazione di consulenza tecnica nella quale il collegio peritale concludeva concordemente per l'insussistenza del nesso di causalità tra l'esposizione ad uranio impoverito denunciato e l'insorgenza della patologia lamentata dall'attore. A seguito della sostituzione dei primi consulenti nominati - per avere una seconda valutazione più aderente alle circostanze del caso e non condizionata dalla risaputa mancanza di dimostrazione scientifica del possibile nesso tra esposizione ad uranio impoverito e insorgenza del linfoma di Hodgkin, veniva nominato CONteNzIOSO NAzIONALe 117 il dr. Germano Aronica che prestava giuramento all'udienza del 15 settembre 2015. A seguito del deposito della seconda relazione di CtU la difesa dell'attore chiedeva integrazione della stessa per la quantificazione del danno subito dal sig. G., e quindi veniva concesso nuovo termine al CtU per detto incombente. All'udienza del 18 aprile 2017 il procuratore dell'attore dava atto della mancata ottemperanza all'ordine di esibizione da parte dell'amministrazione convenuta e la causa veniva rinviata al 30 ottobre 2017 per precisazione delle conclusioni. A detta udienza i procuratori delle parti precisavano le conclusioni. La causa veniva trattenuta in decisione con assegnazione dei termini di legge per il deposito di comparse conclusionali e note di replica. In diritto. Preliminarmente deve dichiararsi la giurisdizione ordinaria, affermata, con efficacia di giudicato interno, con la pronuncia della Corte di cassazione, l'ordinanza n. 9572/2014 con la quale la Suprema Corte ha affermato tale giurisdizione nel caso in esame. Nel merito, nell'affrontare l'esame della domanda di risarcimento proposta, alla luce delle prove raccolte e, segnatamente, della prova per testi e della documentazione allegata, con l'ausilio conoscitivo delle relazioni di CtU disposte - la prima delle quali collegiale - occorre evidenziare come, con tutta evidenza, il passaggio più critico e delicato delle varie questioni sollevate nel presente giudizio è costituito, prima ancora che dalla dimostrazione dell'elemento soggettivo, ossia della possibile colpevolezza del Ministero della difesa, connessa al rispetto delle più elementari norme di prudenza nella condotta - omissiva - di non dotare i militari presenti nel Poligono di strumenti e dispositivi di prevenzione dai rischi connessi all'esposizione ai residui delle esplosioni effettuate nel poligono, dalla dimostrazione della stessa esistenza - nel caso concreto - della specifica sostanza che, nella prospettazione attorea, avrebbe causato l'insorgere della malattia (il linfoma di Hodgkin) ossia l'uranio impoverito, e, successivamente nell'ordine logico delle questioni (e dunque a voler ritenere dimostrata la prova dell'esistenza dell'agente inquinante, o sufficiente la dimostrazione di altri agenti), la prova dell'esistenza di un nesso di causalità diretto tra l'esposizione agli agenti inquinanti presenti nel Poligono di tiro di Salto di Quirra e l'insorgere del Linfoma, in un contesto medico scientifico nel quale, allo stato, ancora non è emersa una dimostrazione scientifica accreditata della possibile eziologia del linfoma quale conseguenza dell'esposizione ad uranio impoverito. Quanto al primo aspetto critico, infatti, i periti del Collegio hanno così argomentato: «Per tale aspetto, oltre alle notizie che possono trarsi Commissione Parlamentare di inchiesta, si è fatto ricorso, come disposto dal sig. Giudice, alle informazioni scientifiche derivanti dalle perizie di parte espletate nell'ambito dell'indagine penale in corso e, in particolare, della relazione del Prof. Chim. M. Mariani, datata 3 giugno 2014, condotta a seguito dell'incarico ricevuto nell'udienza dell'11 marzo 2013, relativa al Procedimento Penale n. 452/12 RG, GIP - tribunale di Lanusei - Ogliastra. In sintesi, tutte le informazioni disponibili - ed alquanto complesse - su questo elaborato peritale non consentono, allo stato attuale, di provare od escludere la presenza di contaminanti ambientali nell'area del PISQ. La tematica è stata oggetto, inevitabilmente, dei lavori della Commissione Parlamentare di inchiesta: il prof. M. zucchetti, professore ordinario di impianti nucleari al Politecnico di torino, ha individuato vari inquinanti chimico-tossici presenti nell'area del Poligono Interforze di Salto di Quirra: tra questi compare l'uranio impoverito, che sarebbe stato reperito nelle ossa di un agnello nato malformato27. Altri contributi in tal senso sono stati forniti, sempre nella stessa sede: - dal prof. Lodi Rizzini, che aveva effettuato, su disposizione della Procura della Repubblica RASSeGNA AvvOCAtURA 118 deLLO StAtO - N. 3/2018 di Lanusei, accertamenti su quindici salme di pastori dell'area del salto di Quirra, evidenziando la presenza di torio (altro elemento radioattivo) nelle tibie28; - dal capitano P. Minervini, consulente balistico incaricato dalla Commissione stessa, che, effettuati sopralluoghi presso il PISQ, a seguito dei quali "l'analisi radiometrica dei residuati bellici non ha evidenziato alcuna presenza, anche minima di uranio impoverito"29. Sulla base di tali rilievi la Commissione Parlamentare di inchiesta ha ritenuto di trarre le seguenti conclusioni: "1) Gli studi e le indagini scientifiche realizzate sino ad oggi non hanno rilevato la presenza sul territorio, nelle aree interessate da attività esercitativa, addestrativa e sperimentale o nei pressi di esse, di contaminazione da uranio impoverito, come residuo di manufatti ad uso militare, né sono state reperite tracce di esso nelle numerose analisi effettuate anche con strumentazioni sofisticate sui tessuti patologici di militari affetti da tumori o da altre malattie invalidanti. d'altra parte, su questo specifico profilo, la Commissione, che aveva già avuto assicurazioni in tal senso dal Segretario generale della difesa - direttore nazionale degli armamenti, generale Claudio debertolis, nel corso dell'audizione del 10 ottobre 2012, non può che prendere atto della dichiarazione del Ministro della difesa, ammiraglio Giampaolo di Paola, il quale, nell'audizione del 19 dicembre 2012, ha affermato che le Forze Armate italiane non hanno mai impiegato munizionamento all'uranio impoverito sia in attività addestrative, per lo svolgimento delle quali ha assicurato il pieno rispetto delle normative vigenti, sia fuori dai confini nazionali. L'utilizzo del munizionamento all'uranio impoverito - ha inoltre precisato il Ministro - non è consentito nei poligoni in uso alle Forze Armate italiane e anche i paesi alleati o amici che utilizzano tali installazioni sono vincolati all'osservanza dei regolamenti d'uso, in cui sono elencati sia la tipologia di armamento che il munizionamento impiegabile; 2) Non è risultato dalle indagini della Commissione che tali munizionamenti siano stati utilizzati presso i poligoni di tiro insediati sul territorio nazionale: l'unico indizio in senso contrario, rilevato dal professor zucchetti con riferimento all'area di Salto di Quirra, ovvero i residui di uranio impoverito individuati nelle ossa di un agnello nato malforme, non appare sufficiente a documentare la presenza e l'uso di armamenti siffatti, come lo stesso professor zucchetti ha chiarito, e, non costituendo prova definitiva, dovrebbe essere seguito da ulteriori ricerche. È peraltro significativo, a tale proposito, che le analisi condotte dal professor evandro Lodi Rizzini sulle salme di diciotto pastori deceduti per patologie tumorali non abbiano fornito alcun riscontro circa la presenza di uranio impoverito"30. tale conclusione è peraltro confermata dalla stessa commissione più avanti: - laddove si analizza il problema degli effetti stocastici sui militari impiegati nella missioni all'estero: "In considerazione degli effetti stocastici dell'esposizione all'uranio impoverito, per i quali si ipotizza una relazione dose-probabilità, ma non si indica alcuna soglia di dose, laddove vi sia la possibilità che il personale militare italiano entri in contatto a qualsiasi titolo con munizionamento all'uranio impoverito (il che, al momento, sembrerebbe ipotizzabile solo nel caso di missioni estere), le autorità militari, i comandi e le autorità sanitarie sono comunque tenute ad applicare integralmente il principio di precauzione"31; - quando si prendono in esame le risultanze delle relazioni tecniche disposte: "Nel dettaglio dei singoli lotti, la Relazione tecnica, con riferimento al lotto 1 (verifica della radioattività aerodispersa), metteva in particolare rilievo la circostanza per cui dall'analisi isotopica risultante da 238 campioni si evidenziava la presenza di uranio naturale, con esclusione della presenza di uranio impoverito, mentre, relativamente alla presenza di nanoparticelle, in assenza di una metodica di misurazione accettata internazionalmente e di comune utilizzazione, l'analisi eseguita dai laboratori coinvolti nel Progetto aveva presentato conclusioni non sempre collimanti, tali CONteNzIOSO NAzIONALe 119 però da accertare l'esistenza di nanoparticelle di provenienza naturale e di nanoparticelle di forma sferica, di origine antropica. Le polveri fini nelle due aree oggetto di osservazione, di Perdasdefogu e di Capo San Lorenzo, presentavano inoltre caratteristiche analoghe nella composizione chimica, con un arricchimento in alluminio, contenuto nei combustibili solidi, riconducibile alle attività addestrative svolte con lancio di missili e prova dei motori zefiro"32"». Quanto al secondo aspetto critico, deve tuttavia escludersi che, in base alle conclusioni condivisibili raggiunte dai periti sulla esistenza di una correlazione tra esposizione ad uranio e linfoma, tale correlazione eziologica sia scientificamente dimostrata. Così riferiscono i periti: «Il linfoma di Hodgkin è raro, costituendo poco più dell'l% di tutte le neoplasie diagnosticate nei Paesi dell'emisfero occidentale. La sua frequenza non è in aumento e si manifesta, in circa la metà dei casi tra i 20 ed i 40 anni. L'eziologia e la patogenesi del linfoma di Hodgkin sono da sempre oggetto di discussione, restando un mistero l'origine della malattia. di certo il quadro biologico è rappresentato da un disturbo cronico del sistema immunitario, in cui uno stimolo mitogeno ripetuto induce riarrangiamenti genici di tipo clonale, modificazioni cromosomiche di tipo strutturale e la comparsa di cellule giganti (cellule di Reed-Sternberg). È stata ipotizzata la presenza di un agente vitale a bassa infettività, almeno per quanto riguarda bambini e giovani adulti, con particolare riferimento al virus di epstein-Barr (eBv). tuttavia va chiarito come il ruolo del virus debba considerarsi limitato a quello di promotore o di cofattore, essendo necessaria, per lo sviluppo della patologia tumorale, una condizione deficitaria della risposta immunitaria e/o la concomitante esposizione ad altri fattori di natura tossica. In sintesi, ad oggi si ritiene che il linfoma di Hodgkin rappresenti la risposta finale comune a diversi eventi patologici, quali alcune infezioni virali, alcuni agenti ambientali, e reazioni geneticamente determinate dell'ospite meccanismi patogenetici con i quali si sviluppa la neoplasia, in maggior misura rispetto ad altre forme tumorali, risultano mediati da processi immunologici. In europa il problema cominciò a porsi sul finire dell'anno 2000, quando, nei Paesi dell'alleanza NAtO, emerse la preoccupazione che personale impiegato in missioni di pace nei paesi balcanici presentasse un significativo aumento del rischio di contrarre malattie neoplastiche ed in particolar modo leucemie e linfomi. L'allarme crebbe rapidamente, anche per la difficoltà di controllare e vagliare le notizie in merito che, giorno dopo giorno, venivano fornite dai mass-media. Nello stesso tempo i militari della Forza di Intervento NAtO erano ancora presenti in aree in cui erano stati usati armamenti contenenti uranio depleto, da subito correlato con l'insorgenza delle patologie tumorali. In Italia, le preoccupazioni generate dall'eventuale aumento di tale patologia tra il personale militare che avesse svolto attività operativa in Bosnia e Kosovo indussero il Ministero della difesa ad istituire, il 22 dicembre 2000, una Commissione, presieduta dal Prof. Franco Mandelli, con l'incarico di accertare tutti gli aspetti scientifici dei casi venuti all'attenzione e di verificarne la possibile correlazione con il munizionamento all'uranio impoverito impiegato nell'area del conflitto. La Commissione ha pubblicato il suo ultimo rapporto l'11 giugno 2002, dopo aver raccolto tutti i dati riguardanti i militari che hanno svolto attività di peacekeeping ed aver verificato la diagnosi delle neoplasie maligne verificatesi. L'incidenza dei casi di neoplasie maligne con diagnosi confermata è aggiornata al 31 dicembre 2001 ed è stata confrontata con i dati di dodici Registri tumori italiani; inoltre è stato effettuato un confronto tra i linfomi di Hodgkin (LH) diagnosticati, rispettivamente, nella popolazione RASSeGNA AvvOCAtURA 120 deLLO StAtO - N. 3/2018 in esame e nella totalità dei Carabinieri in servizio durante il periodo 1996-2000 e mai impegnati in missioni all'estero. Le conclusioni possono essere così sintetizzate: - per le neoplasie maligne (ematologiche e non), globalmente considerate, emerge un numero di casi inferiore a quello atteso. tale risultato può essere dovuto in parte alla selezione per idoneità fisica alla quale sono stati sottoposti i militari ed in parte al fatto che gli attesi sono stati calcolati in base a Registri tumori che provengono soprattutto dal nord dell'Italia, dove l'incidenza dei tumori, nel complesso, è più elevata rispetto al sud (zona da dove proviene la stragrande maggioranza dei militari impegnati nelle missioni); - esiste un eccesso, statisticamente significativo, di casi di LH e tale eccesso è presente anche nei riguardi della popolazione di controllo rappresentata dai Carabinieri non inviati in missione; - i risultati dell'indagine a campione svolta sui militari italiani impiegati in Bosnia e Kosovo non hanno evidenziato la presenza di contaminazione da uranio impoverito; - non è possibile individuare le cause dell'eccesso di LH35. Proprio la necessità di chiarire meglio tale circostanza ispirò il varo di uno strumento legislativo inteso a monitorizzare il personale (militare e civile) impegnato nelle missioni di pace e potenzialmente esposto. L'art. 4-bis del decreto legge 29 dicembre 2000, convertito nella legge n. 27 del 28 febbraio 2001, ha individuato organismi competenti e procedure che consentissero di avere a disposizione elementi epidemiologici oggettivi e sicuri. Successivamente sono stati attivati altri studi, che hanno preso in considerazione le possibili differenze tra incidenza di neoplasie nel personale militare impiegato in missioni fuori area, in quello non utilizzato al di fuori del contesto nazionale, in quello in servizio nei poligoni di tiro, nella popolazione generale. Pur nella consapevolezza della difficoltà di tali studi, anche a ragione di una carenza nella raccolta sistematica dei dati, ad oggi non possono individuarsi elementi che dimostrino diversi profili di rischio per patologia tumorale nei diversi gruppi indagati. Il progetto SIGNUM (Studio di impatto genotossico sulle unità militari), finanziato con la legge 12 marzo 2004, n. 68 e con la legge 15 dicembre 2004, n. 308, è nato per dare seguito alle raccomandazioni della Commissione Mandelli, al fine di ampliare il campo delle ricerche ed effettuare maggiori approfondimenti sulle possibili cause delle neoplasie esaminate dalla Commissione Mandelli stessa e di promuovere un ulteriore studio su tali fenomeni patologici. tale studio è stato condotto su un campione della popolazione militare (982 soggetti) impegnata nell'operazione "Antica Babilonia", in Iraq. Come spiegato nella relazione conclusiva del 17 gennaio 2011, tale area è stata scelta in considerazione dell'impiego significativo di munizionamento all'uranio impoverito (non meno di 300 tonnellate secondo le fonti ufficiali) nel corso della Guerra del Golfo del 1991. I risultati del progetto SIGNUM suggeriscono che "l'esposizione ai genotossici ambientali non sembra aver rappresentato un fattore di rischio prioritario per i militari partecipanti allo studio: la ricerca riguardante il dosaggio degli xenoelementi (uranio ed altri), che consente di misurarne la quantità presente all'interno dell'organismo umano, ha evidenziato una significativa riduzione della concentrazione totale di uranio campionata nel siero e nelle urine dei campioni raccolti al termine della missione, rispetto a quelli raccolti prima della partenza per l'Iraq. I livelli di concentrazione totale dell'uranio misurati nel gruppo di studio sono risultati estremamente ridotti e non supportano l'ipotesi di ingestione di uranio nel periodo di missione preso in esame".36 Al tempo stesso il progetto SIGNUM "solleva quindi degli interrogativi importanti sugli effetti del carico vaccinale, soprattutto se associato ad attività operative caratterizzate da un elevato livello di stress"37.». CONteNzIOSO NAzIONALe 121 A questo punto corre l'obbligo di effettuare una precisazione metodologica. L'insussistenza di una prova scientifica certa della normale correlazione epistemologica tra esposizione a uranio depleto e insorgenza di malattie quali il linfoma di Hodgkin non è di per sé ragione sufficiente per escludere che, nel caso in esame, non sia emersa la prova che il morbo da cui è affetto il sig. G. non sia stato causato proprio da tale esposizione. Specialmente in un ambito processuale, quale quello del processo civile, nel quale la regola di giudizio della dimostrazione di tale nesso, fondandosi sul criterio del "più probabile che non", prescinde dalla dimostrazione rigorosa della stessa esistenza di un nesso di causalità diretto e costante qual è quello derivante dalla prova scientifica, e si fonda invece in una relazione sostanzialmente probabilistica tra la condotta e l'evento. d'altra parte, la prova scientifica, qual è quella che viene riconosciuta tale in seguito ad un sistema si ritiene raggiunta, com'è noto, in seguito alla conferma sperimentale di un'ipotesi teorica. L'attendibilità e il rigore scientifico dell'ipotesi teorica e la correttezza e affidabilità degli esperimenti dimostrativi sono oggetto di valutazione da parte di un dato numero di pubblicazioni sulle riviste più prestigiose riconosciute dalla comunità scientifica mondiale e sulla base della fortuna di tali pubblicazioni si fonda massimamente la consacrazione della predetta teoria come verità scientifica dimostrata. Ovviamente il riconoscimento in ambito scientifico dell'esistenza di un nesso causale costante semplifica la dimostrazione dell'esistenza in concreto di tale nesso in un determinato caso giudiziario. Nulla esclude, tuttavia, in linea di principio, che nell'ambito di un giudizio civile possa giungersi alla dimostrazione, che, in una data occasione, vi sia stata una diretta imputazione causale tra un agente ed un evento, anche se manca - o manca ancora - la prova scientifica di una correlazione costante tra essi. Certamente, non deve trascurarsi che il grado di attendibilità e verificabilità di un esperimento di laboratorio, in ambito controllato, sia in linea di principio molto maggiore rispetto a quello conseguente ad una ricostruzione ex post, tipica di un giudizio, specie se condotta con la regola di giudizio probabilistica propria di un giudizio civile (1). tuttavia, il fatto che la ricorrenza statistica di una determinata sequenza causale non venga riconosciuta dalla comunità scientifica, al punto che non si possa ritenere dimostrata scienti- (1) La prova raggiunta in giudizio costituisce, notoriamente, una verità "processuale" e non assoluta, è condizionata dalle peculiarietà della regola di giudizio e ha un valore relativo, ma - fatta la tara dei possibili errori giudiziari - costituisce il frutto della valutazione indipendente di prove raccolte nel contraddittorio e relative ad un caso specifico, il cui valore individuale non può essere trascurato ma deve essere considerato e adeguatamente valutato. In linea teorica, non deve sottovalutarsi il valore statistico per gli scienziati del dato oggettivo della reiterata affermazione giurisdizionale di una correlazione causale tra due fattori anche in casi in cui detta correlazione non possa ritenersi scientificamente accreditata. La ricorrente affermazione giudiziaria di un nesso causale, emessa nell'ambito di un sistema giurisdizionale garantito e indipendente qual è quello italiano, e sulla base di ricostruzioni avallate da consulenti tecnici iscritti in albi soggetti a controlli preventivi, non solo ha - se frutto di un'adeguata istruttoria e di una valutazione oggettiva ed equanime - piena valenza come verità processuale (correttamente raggiunta anche in assenza di prova scientifica), ma, pur non potendo ovviamente essere posta a base di una prova scientifica, costituisce spia dell'esistenza di una simile prova, dato che la probabilità che tali affermazioni giudiziarie costituiscano tutte il frutto di errori sono tanto minori quanto maggiore è il numero di tali pronunce. RASSeGNA AvvOCAtURA 122 deLLO StAtO - N. 3/2018 ficamente, non esclude che, in un dato caso, quale emerso in un determinato giudizio, tale correlazione non possa ritenersi dimostrata. Per fare un esempio aderente al caso in esame, il fatto che non sia emersa la prova scientifica che l'esposizione a uranio impoverito possa determinare l'insorgere del linfoma di Hodgkin non esclude che nel caso del G. tale esposizione sia stata l'unica causa determinante tale malattia. Ciò, ad esempio, presupporrebbe la dimostrazione di una costante esposizione a tale elemento, dell'assenza di altre possibili cause, di un'evidente concatenazione, anche temporale, dei sintomi, accertati diagnosticamente, e la dimostrazione della presenza di sostanza nell'organismo del G. Il fatto che non possa ritenersi ancora dimostrata scientificamente una determinata correlazione causale non esclude che in un caso determinato possa emergere la prova concreta dell'esistenza della stessa. È solo nell'ipotesi in cui possa ritenersi positivamente provata, con certezza scientifica, l'impossibilità di una concatenazione causale che può escludersi la possibile formazione della prova di una simile connessione. Al contrario, la mera mancanza di una prova scientifica positiva di una correlazione causale non esclude a livello logico che le prove di tale connessione possano emergere in un caso particolare, e dunque anche in un ambito giurisdizionale (2). Ciò premesso, in linea di principio (anche per motivare la scelta di un collegio di periti per l'effettuazione della prima CtU e della sua reiterazione con affidamento ad altro Consulente tecnico), in coerenza con le premesse svolte, deve tuttavia escludersi che nel presente giudizio, sulla base dei mezzi istruttori offerti dall'attore (prova per testi e documenti) e all'esito di tali approfondimenti tecnici, sia stata fornita o sia comunque emersa - neppure a livello probabilistico - la dimostrazione concreta della sussistenza di un nesso di causalità tra l'esposizione ad uranio impoverito lamentata - e neppure provata - dal G., e l'insorgere della sua grave patologia. ed invero, come esaurientemente illustrato nella prima relazione collegiale, a prescindere dalla insussistente dimostrazione scientifica della correlazione tra esposizione ad uranio impoverito e linfoma di Hodgkin, non v'è alcun elemento che corrobori che il G. abbia contratto il proprio morbo in seguito al servizio militare espletato nel Poligono interforze di Salto di Quirra. Al contrario, lo stesso dr. Aronica, nominato proprio al fine di verificare la prima CtU, ha affermato la mera possibilità che il linfoma sia stato causato durante il servizio di leva nel poligono, ma non per effetto della (indimostrata) presenza di uranio deplèto, ma unicamente in conseguenza della esposizione ad altre sostanze inquinanti che neppure l'attore aveva messo in relazione con la propria patologia. (2) d'altronde, le stesse prove scientifiche si fondano sulla rigorosa valutazione di una ricorrenza statistica di una data correlazione in ambito sperimentale; e neppure le prove raggiunte con il metodo sperimentale sono considerabili di valore assoluto, essendo le stesse fondate su giudizi di natura probabilistica: l'osservazione controllata, propria del metodo scientifico di Galileo, è causa di una modificazione del comportamento spontaneo delle sequenze causali, per cui i risultati degli esperimenti scientifici sono condizionati proprio dall'esistenza di un osservatore (principio di indeterminazione di W.K. Heiseneberg). d'altra parte, i risultati del lavoro sperimentale degli scienziati vengono pubblicati, letti e valutati sulle riviste scientifiche più prestigiose, e la selezione, dalle stesse effettuate, degli articoli meritevoli di stampa, si fonda su un sistema di crediti provenienti dalla stessa comunità scientifica (ossia da altri scienziati a loro volta accreditati per aver ricevuto altri giudizi favorevoli). ebbene, tale sistema costituisce un metodo di avvicinamento alla verità che, pur essendo il più rigoroso tra quelli conosciuti, in taluni ambiti, non offre sempre adeguate garanzie di indipendenza rispetto agli enormi interessi economici in gioco. CONteNzIOSO NAzIONALe 123 Il teste ascoltato, compagno d'armi del G., ha poi riferito modalità e condizioni dello svolgimento delle mansioni demandate all'attore e anche di contatti con le testate missilistiche, ma ovviamente non ha potuto attestare né la presenza nelle stesse di uranio impoverito, né ovviamente della possibile relazione causale tra tali presunti contatti - o quelli conseguenti alle esplosioni - e l'insorgenza della malattia. ed ha bensì riferito della mancata predisposizione da parte dei responsabili militari delle stesse misure di prevenzione invece attuate per il personale statunitense, ma non ha potuto affermare se tali precauzioni fossero davvero indispensabili e comunque se la loro mancata predisposizione abbia causato l'insorgenza della malattia. Infine, sempre in relazione alla prova del nesso di causalità, non può neppure attribuirsi eccessivo credito alle pur ricorrenti pronunce di accoglimento che anche questo tribunale ha emesso in relazione a casi di linfomi di Hodgkin riportati da militari inviati nella missione "Antica babilonia" in Iraq e alla possibile loro esposizione alle esplosioni di proiettili costruiti con uranio deplèto. A indebolire il valore statistico di tali pronunce, e la loro possibile influenza anche nell'ambito del presente giudizio (nel quale, pur ipotizzandosi un esposizione in diverso contesto ambientale, pur sempre si invoca una correlazione causale tra uranio e linfoma) occorre prendere atto che, come si legge per brevi cenni nella relazione collegiale, l'imputazione causale del linfoma all'uranio impoverito è resa ancor più problematica (e dunque meno "probabile che non") dalle recenti indagini sulla possibile correlazione tra tali malattie e le vaccinazioni multiple imposte ai militari e che, atteso l'elevatissimo carico di metalli pesanti in esse contenute, si pongono come possibile fattore causale alternativo di ben altra pregnanza e con maggiore probabilità scientifica. Non essendo stata fornita la necessaria prova del nesso causale, neppure in base alle larghe maglie di un giudizio probabilistico, la domanda di risarcimento deve essere rigettata integralmente. L'esistenza di pronunce che hanno affermato il nesso tra uranio e linfoma, anche di questo tribunale, e la complessità della materia, giustificano l'integrale compensazione tra le parti delle spese di lite, ivi comprese le spese di CtU, che vengono poste a carico di entrambe le parti nella misura del 50% ciascuna. P.Q.M. Il tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone: dichiara la giurisdizione della AGO. Rigetta la domanda e compensa interamente tra le parti le spese di lite. Roma, 11 maggio 2018. RASSeGNA AvvOCAtURA 124 deLLO StAtO - N. 3/2018 Procedura semplificata di autorizzazione di impianti di produzione di energie rinnovabili - c.d. “minieolico” - e tutela indiretta delle aree c.d. contermini a beni paesaggistici vincolati nota a Consiglio Di stato, sezione iv, sentenza 4 settembRe 2018 n. 5181 Francesca Muccio* 1. Premessa. Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 5181/2018 in commento, ha sciolto un nodo fondamentale nell’ambito della Procedura abilitativa semplificata di cui all’art. 6 d.lgs. 28/2011. Più in particolare, tale pronunciamento ha chiarito come la suddetta semplificazione si riferisca ai soli aspetti urbanistici (non anche, dunque, a quelli paesaggistici) e di introduzione del relativo procedimento. Conseguentemente, ha, altresì, chiarito l’applicabilità, alla P.A.S., delle Linee Guida Nazionali in tema di autorizzazione unica ex art. 12 d.lgs. 387/2003, approvate con d.M. 10 settembre 2010, questione su cui gli orientamenti giurisprudenziali paiono oscillanti (1). Ciò, a seguito della pretermissione, nella sua sede naturale di espressione, ossia la Conferenza di Servizi, del parere dell’Amministrazione BACt sull’istallazione di un impianto di produzione di energie rinnovabili - c.d. minieolico - in un’area c.d. “contermine” ad un’altra, tutelata, al livello paesaggistico, ex lege. 2. la questione controversa. La questione di cui si tratta trae origine dall’impugnativa, con ricorso straordinario al Capo dello Stato, della determinazione dirigenziale n. 189 del 15 gennaio 2015, con cui il Comune di Sant’elia a Pianisi (CB) ha rilasciato (*) dottore in Giurisprudenza, già praticante forense presso l’Avvocatura dello Stato. (1) vedasi, da ultimo, tar Campania, sent. n. 748/2018, propendente per l’inapplicabilità, alla P.A.S., delle medesime Linee Guida Nazionali: “Deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso, sollevata dall’amministrazione comunale resistente, per violazione dell’art. 40, comma 1, c.p.a. giacché dal tenore dell’impugnativa e dal provvedimento oggetto di gravame sono individuabili le amministrazioni avverso le quali quest’ultimo è rivolto. nel merito il ricorso è fondato e meritevole di accoglimento per le seguenti ragioni. Con la prima censura il ricorrente si duole dell’illegittimità del provvedimento di diniego e del parere negativo dell’asl benevento 1 presupposto in quanto lo stesso si fonderebbe erroneamente sulle previsioni del D.m. 10.9.2010 e della l.R. 4/2015 che sarebbero inapplicabili alla fattispecie in esame non versandosi in un’ipotesi di impianto industriale soggetto all’autorizzazione di cui all’art. 12 del D.lgs. n. 387/2003, ma trattandosi di impianto realizzabile previo rilascio di una mera D.i.a. attraverso l’attivazione della procedura abilitativa semplificata ex art. 6 del D.lgs. n. 28/2011. la censura è fondata e va accolta”. CONteNzIOSO NAzIONALe 125 ad un’azienda agricola l’autorizzazione alla realizzazione di un impianto di produzione di energia. Più in particolare, la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici del Molise ha chiesto la declaratoria di nullità o l’annullamento, previa sospensione, della predetta autorizzazione, per non essere stata coinvolta nel relativo procedimento, nonostante la turbina di tipo minieolico fosse posta ad una distanza di circa 400 metri da un sistema boschivo c.d. “SIC” (Sito di Interesse Comunitario). In altre parole, nella prospettiva dell’Amministrazione BACt, la localizzazione in area “contermine” (ossia posta a distanza pari a 50 volte l’altezza del manufatto da realizzare rispetto al bene oggetto di vincolo) avrebbe dovuto comportare il suo coinvolgimento, ai sensi dell’art. 152 d.lgs. 42/2004 (2) e delle Linee Guida Nazionali in tema di autorizzazione unica ex art. 12 d.lgs. 387/2003, approvate con d.M. 10 settembre 2010. Queste ultime, all’art. 14.9, lett. c), riproposto dalle corrispondenti Linee Guida Regionali, approvate dalla Regione Molise con delibera G.R. n. 621/2011, prevedono che “il ministero [BACt] (…) partecipa (…) c) al procedimento per l’autorizzazione di impianti alimentati da fonti rinnovabili localizzati in aree contermini a quelle sottoposte a tutela ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, (…) il ministero esercita unicamente in quella sede i poteri previsti dall’articolo 152 di detto decreto”. In buona sostanza, qualora la Soprintendenza avesse partecipato al procedimento autorizzatorio, avrebbe emesso il parere vincolante (di dissenso) di cui all’art. 152 d.lgs. 42/2004, data la sottoposizione di Bosco Cerreto alla tutela di cui all’art. 142, comma 1, lett. g), d.lgs. 42/2004 (3). Invece, non essendo stata coinvolta, sarebbe venuta a conoscenza dello stato dei luoghi solo successivamente, conseguentemente emanando un ordine di sospensione dei lavori (4), peraltro impugnato dall’azienda agricola medesima innanzi al tar Molise. (2) Ai sensi dell’art. 152 d.lgs. 42/2004: “nel caso di aperture di strade e di cave, di posa di condotte per impianti industriali e civili e di palificazioni nell'ambito e in vista delle aree indicate alle lettere c) e d) del comma 1 dell'articolo 136 ovvero in prossimità degli immobili indicati alle lettere a) e b) del comma 1 dello stesso articolo, l'amministrazione competente, su parere vincolante, salvo quanto previsto dall'articolo 146, comma 5, del soprintendente, o il ministero, tenuto conto della funzione economica delle opere già realizzate o da realizzare, hanno facoltà di prescrivere le distanze, le misure e le varianti ai progetti in corso d'esecuzione, idonee comunque ad assicurare la conservazione dei valori espressi dai beni protetti ai sensi delle disposizioni del presente titolo. Decorsi inutilmente i termini previsti dall'articolo 146, comma 8, senza che sia stato reso il prescritto parere, l'amministrazione competente procede ai sensi del comma 9 del medesimo articolo 146”. (3) Stabilisce l’art. 142, comma 1, lett. g), d.lgs. 42/2004: “sono comunque di interesse paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni di questo titolo: (…) g) i territori coperti da foreste e da boschi, ancorché percorsi o danneggiati dal fuoco, e quelli sottoposti a vincolo di rimboschimento, come definiti dall'articolo 2, commi 2 e 6, del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 227”. RASSeGNA AvvOCAtURA 126 deLLO StAtO - N. 3/2018 3. i motivi del ricorso della soprintendenza. Prima di addentrarsi nei motivi del ricorso al Capo dello Stato, si ritiene opportuno inquadrare l’impugnata autorizzazione nell’ambito della Procedura abilitativa semplificata (o “PAS”) di cui all’art. 6 d.lgs. 28/2011 (5). Orbene, il Comune, non interpellando la Soprintendenza, non avrebbe acquisito, in sede conferenziale, un parere, obbligatorio e vincolante ex art. 146, commi 4, 5, 7, 8 d.lgs. 42/2004 (6), e sempre secondo l’impostazione dell’Amministrazione BACt, avrebbe rilasciato un provvedimento mancante di un elemento essenziale, in quanto tale nullo ex art. 21-septies L. 241/1990. Invero, le Linee Guida, sia Nazionali che Regionali, attribuiscono alla suddetta Amministrazione non solo il potere di esprimere il proprio parere vincolante, ma anche di dettare prescrizioni inerenti alle distanze e agli altri accorgimenti utili alla tutela dei valori paesaggistico-culturali del contesto in cui l’impianto deve essere inserito. Il tar Molise, in analoghi casi concernenti aree contermini, ha riconosciuto tale potere con diverse ordinanze, anche richiamanti univoche decisioni del Consiglio di Stato, indipendentemente dal fatto che le Linee Guida Nazionali fossero già entrate in vigore al momento dell’adozione del titolo abilitativo. eloquente, sul punto, l’ordinanza n. 85/2015, con cui il tar ha affermato che “l’applicabilità dell’art. 152 del d.lgs. 42/2004 a fattispecie simile a quella controversa è già stata affermata da Cons. stato, v, n. 1144/2014, a prescindere e quindi anche prima dell’entrata in vigore delle linee guida nazionali approvate con D.m. 10 settembre 2010 che al punto 14.9 lettera c) hanno espressamente riconosciuto la facoltà di esercitare i poteri previsti dall’art. 152 anche quando l’intervento ricada in aree contermini a quelle espressamente vincolate ex lege ai sensi dell’art. 142 d.lgs. n. 42/2004. non rileva per- (4) Cfr. t.A.R. Campania SA, sez. I, 24 ottobre 2012, n. 1426: “l’adozione di misure inibitorie e cautelari, quali quelle in esame, costituisce, invero, la naturale ed ordinaria attività provvedimentale conseguente all’avvenuto riscontro della violazione di norme regolatrici della materia, finalizzata al ripristino dell’equilibrio violato” (Sost. conf. t.A.R. Molise, 25 marzo 2016, n. 160). (5) La “PAS” (Procedura Abilitativa Semplificata) è preordinata alla realizzazione ed esercizio degli impianti alimentati da fonte rinnovabile indicati nei paragrafi 11 e 12 delle “linee guida per l’autorizzazione di impianti a fonti rinnovabili” recate dal d.M. 10 settembre 2010. Almeno trenta giorni prima dell’inizio effettivo dei lavori, colui che intenda realizzare un impianto di tal specie deve indirizzare al Comune una dichiarazione accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e degli opportuni elaborati progettuali, attestanti la compatibilità del progetto con gli strumenti urbanistici ed i regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico sanitarie. Alla dichiarazione sono, altresì, allegati gli elaborati tecnici per la connessione redatti dal gestore della rete. Nel caso in cui siano dovuti atti di assenso, pareri, nulla osta e assensi da parte delle preposte Autorità, e tali atti non siano allegati alla dichiarazione, il Comune deve provvedere alla loro acquisizione, a tal fine sospendendo i termini per l’inizio dei lavori. (6) tale norma, disciplinante l’emissione, da parte della competente Autorità, dell’autorizzazione paesaggistica, prevede che quest’ultima non possa essere rilasciata successivamente alla realizzazione, anche parziale degli interventi, salvi i casi di cui all’art. 167, commi 4 e 5. CONteNzIOSO NAzIONALe 127 tanto l’anteriorità del permesso di costruire rispetto alla data di adozione delle predette linee guida nazionali”. Quanto al potere di sospensione dei lavori esercitabile da parte dell’Amministrazione BACt, il cui parere venga pretermesso in un procedimento autorizzatorio, il tar Molise ha rievocato “Cons. stato vi, 23 maggio 2012, n. 3039, [che] ha riconosciuto ampia portata al potere cautelare inibitorio previsto dall’art. 155 del d.lgs. n. 42/2004 anche a prescindere dall’avvio del procedimento di imposizione di dichiarazione di notevole interesse pubblico” concludendo circa “l’irrilevanza del dedotto vizio di violazione dell’art. 21 quater, comma 2 della legge 241 del 1990, essendo l’art. 155 norma speciale che non incide sugli effetti di provvedimenti previamente adottati ma esplica efficacia preclusiva rispetto alle conseguenti attività materiali di trasformazione dei luoghi” (7). da quanto riportato è dato evincere che, indipendentemente dall’apposizione diretta di un vincolo (ex lege o per il tramite di dichiarazione di pubblico interesse), la Soprintendenza può sospendere l’attività intrapresa in area contermine, qualora pretermessa nel relativo procedimento autorizzatorio; ciò in quanto quello che, in virtù dell’articolo 152 d.lgs. 42/2004, si valorizza è l’ “effetto di irradiamento” (8) della tutela paesaggistica, di cui all’art. 142 d.lgs. 42/2004, nelle aree contermini medesime. Nel proprio ricorso, la Soprintendenza ha, pertanto, affermato la sussistenza delle condizioni per la piena applicazione dei principi stabiliti dal tar Molise e dal Consiglio di Stato, al fine di evitare lo sviluppo di procedure segnate da carenza di potere per difetto di attribuzioni in capo ai Comuni, avocanti a sé un potere autorizzatorio in realtà da condividere con l’Amministrazione BACt (9). (7) Sost. conf. Consiglio di Stato, sent. n. 365/2015, in cui è dato evincere che “diversamente dalla discrezionalità amministrativa, la discrezionalità tecnica non può dar luogo ad alcuna forma di comparazione e valutazione eterogenea. nell’esercizio della funzione di tutela spettante al mibaC, l’interesse che va preso in considerazione è solo quello circa la tutela paesaggistica, il quale non può essere aprioristicamente sacrificato dal mibaC stesso, nella formulazione del suo parere, in considerazione di altri interessi pubblici la cui cura esula dalle sue attribuzioni”. (8) Cfr. Corte Costituzionale, sent. n. 378/2007: “quando vengono in rilievo opere infrastrutturali di grande impatto visivo … il paesaggio, quale bene potenzialmente pregiudicato dalla realizzazione di opere di rilevante impatto ambientale, si manifesta in una proiezione spaziale più ampia di quella riveniente dalla sua semplice perimetrazione fisica consentita dalle indicazioni contenute nel decreto di vincolo. in altri termini, il paesaggio si manifesta in tali casi quale componente qualificata ed essenziale dell'ambiente, nella lata accezione che di tale bene giuridico ha fornito l'evoluzione giurisprudenziale, anche di matrice costituzionale”. (9) Cfr., in analoga fattispecie, in cui l’Amministrazione procedente, nell’ambito della procedura di cui all’art. 12 d.lgs. 387/2003, pone in non cale il parere dell’Amministrazione statuale, Consiglio di Stato, sent. n. 7306/2018: “essa [ossia l’Amministrazione procedente] non può ritenere attribuite a se stessa, in presenza di dissenso qualificato statale, potestà provvedimentali volte a porre l’amministrazione statale in una situazione di soggezione ipotizzabile con altre amministrazioni ‘dissenzienti’, portatrici di interessi non di rango primario costituzionale”. RASSeGNA AvvOCAtURA 128 deLLO StAtO - N. 3/2018 La Soprintendenza ha, invero, anche affermato l’applicabilità dell’art. 152 d.lgs. 42/2004 sia agli impianti eolici “ordinari”, sia a quelli minieolici, sia a quelli aventi capacità di generazione inferiore a quella di cui al d.lgs. 387/2003; capacità, per l’eolico fissata a 60Kw, introdotta dall’art. 161, comma 2, L. 244/2007 (o “Legge finanziaria 2008”). tanto risulta evincibile anche dal succitato pronunciamento del Consiglio di Stato n. 1144/2014 (10). Inoltre, la medesima Amministrazione ha lamentato la violazione delle Linee Guida nella parte in cui impongono la dimostrazione e complessiva valutazione dell’“effetto cumulo” degli impianti (11), oltre che il rispetto di distanze minime - pari a 5 volte il loro diametro ex art 16.1., lett. d) delle Linee Guida - anche tra le macchine. La prospettiva da cui ha preso le mosse il ricorso della Soprintendenza e le relative argomentazioni in esso sviluppate è stata, dunque, quella della valenza costituzionale, dunque incondizionata ed assoluta, del bene paesaggio, ex art. 9 Cost. (12). 4. la decisione n. 85/2017 del tar molise. Sulla questione, a seguito di trasposizione del ricorso in sede giurisdizionale, ha deciso il tar Molise, con sentenza n. 85/2017. Il tar, riconosciuta la potenza non superiore a 60Kw dell’impianto, ha, tuttavia, rigettato il ricorso della Soprintendenza, sostenendo la sostituibilità, da parte dell’art. 6 d.lgs. 28/2011, dell’art. 12 d.lgs. 387/2003, “con la conse- (10) Consiglio di Stato, sent. n. 1144/2014: “già nell’ordinanza n. 416 del 2013, resa nell’ambito di questo giudizio in sede di appello cautelare, questo Consiglio aveva sinteticamente richiamato il particolare effetto di ‘irradiamento’ del regime vincolistico che assiste i beni paesaggistici allorquando, come nella specie, vengono in rilievo opere infrastrutturali di rilevante impatto sul paesaggio”. (11) Secondo Corte di Giustizia, causa C-481/04 del 23 novembre 2006, “l’effetto cumulo deve essere valutato anche se i progetti appartengono a categorie diverse se gli effetti derivanti dalla loro realizzazione possono cumularsi”. (12) Cfr. tar Molise, sent. n. 100/2011: “la tutela del paesaggio costituisce un valore di rango superiore (o almeno pari) rispetto all’ambiente e alla libertà di iniziativa economica. se, nella previsione costituzionale, il principio di protezione ambientale è pretermesso, a mente dell’art. 41 della Costituzione, l’iniziativa economica è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale. viceversa, per l’art. 9 secondo comma, la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione, senza limitazioni, condizioni o vincoli teleologici. mentre la tutela del paesaggio e dei beni culturali è incondizionata e assoluta, la garanzia della libertà economica è subordinata alla sua ‘funzione sociale’, rientrando sicuramente nella generale accezione della funzionalizzazione anche la salvaguardia delle bellezze naturali, del patrimonio pubblico e dei beni destinati alla fruizione collettiva. Pertanto, la disciplina costituzionale del paesaggio erige il valore estetico-culturale a principio primario dell’ordinamento (Cons. stato v, 12 giugno 2009 n. 3770), mentre la limitazione della libertà di iniziativa economica per ragioni di utilità sociale appare giustificata non solo nell’ottica costituzionale, ma anche in quella di cui all’art. 6 C.e.d.u. (Convenzione europea dei diritti) e dell’art. 1 del relativo Protocollo addizionale, poiché, in essi, la garanzia dell’autonomia privata non è incompatibile con la prefissione di limiti a tutela dell’interesse generale (cfr. Corte Cost. 22 maggio 2009 n. 162)”. CONteNzIOSO NAzIONALe 129 guenza di rendere non applicabile alle fattispecie in questione la disciplina dettata da tale ultimo articolo e dalle linee guida che ne costituiscono ex professo applicazione”. In altre parole, per i Giudici di primo grado, l’art. 6 d.lgs. 28/2011 avrebbe stabilito un autonomo regime, non implicante l’applicazione delle Linee Guida e non contemplante alcun potere ministeriale con riguardo alle aree contermini, stante il minor impatto paesaggistico del minieolico rispetto agli impianti alimentati ad eolico. Inoltre, tale autonomo regime sarebbe disceso dal bilanciamento degli interessi in gioco, con prevalenza di quelli produttivi rispetto a quelli di tutela ambientale. Il tar ha, altresì, ritenuto non bastevole il richiamo dei poteri ministeriali di cui al punto 14.9 delle Linee Guida, giudicando, invece, necessario uno specifico addentellato normativo per il loro esercizio. Ciò, sul presupposto che la procedura semplificata, ispirata al principio di liberalizzazione secondo il modello della SCIA, non avrebbe ammesso un controllo ex post - quale quello di cui all’art. 152 d.lgs. 42/2004 - estrinsecantesi in un parere obbligatorio e vincolante dell’Amministrazione BACt, fermi, comunque, restando i poteri interdittivi e di controllo esercitabili una volta avvenuto l’intervento. Il Giudice di primo grado ha, così, valorizzato il principio di autoresponsabilità, asseritamente riconnesso ad un istituto ispirato al principio di liberalizzazione, quale sarebbe la Procedura abilitativa semplificata di cui all’art. 6 d.lgs. 28/2011. Ha, altresì, respinto la doglianza di parte ricorrente concernente la necessità di una complessiva valutazione dell’impatto paesaggistico dei diversi impianti, sul presupposto della loro configurabilità come iniziative distinte; iniziative, in altri termini, “da considerarsi autonome, in quanto promananti da soggetti giuridicamente diversi e come tali non valutabili unitariamente, se non per profili di interferenza”. La novità della questione ha, infine, indotto alla compensazione delle spese. 5. Commento sulla normativa vigente. Avverso la sentenza del tar Molise, l’Amministrazione BACt ha esperito appello, censurando l’asserita estraneità del minieolico alle prescrizioni contenute nelle Linee Guida Nazionali, approvate con d.M. 10 settembre 2010, sol perché l’opera ricadeva in area contermini. Per la Soprintendenza, l’art. 6 d.lgs. 28/2011 non avrebbe introdotto alcuna deroga al procedimento disciplinato dall’art. 12 d.lgs. 387/2003 (e, conseguentemente, dalle Linee Guida, Nazionali e Regionali), finalizzata a pretermettere il parere del MIBACt, dal momento che la “semplificazione” riguarderebbe la sola introduzione dell’iter autorizzatorio e la competenza. RASSeGNA AvvOCAtURA 130 deLLO StAtO - N. 3/2018 Il carattere non derogatorio dell’art. 6 d.lgs. 28/2011 rispetto all’art. 12 d.lgs. 387/2003 sarebbe, d’altronde, testimoniato dal richiamo delle Linee Guida ad opera dell’art. 6 d.lgs. 28/2011 (13), che indurrebbe alla necessaria acquisizione di ogni altro parere, intesa, nulla osta o assenso ove previsto (si rammenta che, secondo il comma 5, seconda parte: “Qualora l’attività di costruzione e di esercizio degli impianti di cui al comma 1 sia sottoposta ad atti di assenso di competenza di amministrazioni diverse da quella comunale, e tali atti non siano allegati alla dichiarazione, l’amministrazione comunale provvede ad acquisirli d’ufficio ovvero convoca, entro venti giorni dalla presentazione della dichiarazione, una conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241 e successive modificazioni”). Ai sensi del suddetto articolo, la necessaria acquisizione del parere ove previsto implica, peraltro, la sospensione del termine di 30 giorni per l’avvio dei lavori; termine decorrente dalla data di presentazione della dichiarazione medesima. Si osserva che le Linee Guida Nazionali prevedono che “per gli impianti di cui al paragrafo 12 (14), l’autorità competente non può richiedere l’attivazione del procedimento unico di cui all’art. 12, comma 4, del decreto legislativo n. 387 del 2003”; invero, il paragrafo 12.5 statuisce che “i seguenti interventi sono considerati attività ad edilizia libera e sono realizzati previa comunicazione secondo quanto disposto dai punti 11.9 e 11.10, anche per via telematica, dell’inizio dei lavori da parte dell’interessato all’amministrazione comunale: a) impianti eolici aventi tutte le seguenti caratteristiche (ai sensi dell’articolo 11, comma 3 del decreto legislativo 30 maggio 2008, n. 115): i. installati sui tetti degli edifici esistenti di singoli generatori eolici con altezza complessiva non superiore a 1,5 metri e diametro non superiore a 1 metro; ii. gli interventi non ricadono nel campo di applicazione del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e s.m.i. recante Codice dei beni culturali e del paesaggio, nei casi previsti dall’art. 11, comma 3, del decreto legislativo n. 115 del 2008. (…) 12.6. sono realizzabili mediante denuncia di inizio attività: a) impianti eolici non ricadenti fra quelli di cui alla lettera a) ed aventi capacità di generazione inferiore alle soglie indicate alla tabella a allegata al d.lgs. 387 del 2003, come introdotta dall’articolo 2, comma 161, della legge n 244 del 2007. b) (…)”. (13) Ai sensi dell’art. 6 d.lgs. 28/2011, “Ferme restando le disposizioni … per l’attività di costruzione ed esercizio degli impianti alimentati da fonti rinnovabili di cui ai paragrafi 11 e 12 delle linee guida, adottate ai sensi dell’art. 12, comma 10 del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387…”. (14) Si tratta degli interventi soggetti a denuncia di inizio attività e degli interventi di attività ad edilizia libera, con dettaglio per tipologia di impianto. CONteNzIOSO NAzIONALe 131 Pertanto, dalla lettera della norma emergerebbe la mancata necessità di un’autorizzazione unica, ex art. 12 d.lgs. 387/2003, per gli impianti ricadenti in aree - direttamente o indirettamente - non soggette a vincolo paesaggistico, in quanto rientranti nell’attività c.d. libera, desumendosi, invece, la necessità di una denuncia di inizio attività per gli impianti, di potenza comunque non superiore a 60Kw, insistenti su area vincolata ai sensi del d.lgs. 42/2004 (ex lege ovvero tramite dichiarazione di pubblico interesse ovvero “contermine”). Al riguardo, va, altresì, sottolineato, che al paragrafo 11.2 delle Linee Guida è stabilita la necessaria allegazione alla denuncia di inizio attività delle autorizzazioni, anche paesaggistiche, ove previste, salva diretta acquisizione, da parte del Comune, per quanto di sua competenza (“nel caso di interventi soggetti a Dia, in relazione ai quali sia necessario acquisire concessioni di deviazioni ad uso idroelettrico, autorizzazioni ambientali, paesaggistiche, di tutela del patrimonio storico-artistico, della salute o della pubblica incolumità, le stesse sono acquisite e allegate alla Dia, salvo che il Comune provveda direttamente per gli atti di sua competenza”). di qui la sostanziale coincidenza delle su richiamate disposizioni contenute nelle Linee Guida con l’art. 6 d.lgs. n. 28/2011, introduttivo della “P.A.S.”; disposizioni, pertanto, non incidenti, in termini di pretermissione, sui poteri dell’Autorità preposta alla tutela del paesaggio. va detto, altresì, che, nell’ambito degli interventi soggetti a denuncia di inizio attività (o ex d.I.A.), in favore dell’espressione del parere vincolante da parte della Soprintendenza, milita il paragrafo 14.9 delle Linee Guida, ove si statuisce che: “ [il Ministero per i beni e le attività culturali partecipa] c) al procedimento per l’autorizzazione di impianti alimentati da fonti rinnovabili localizzati in aree contermini a quelle sottoposte a tutela ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante il codice dei beni culturali e del paesaggio; in queste ipotesi il ministero esercita unicamente in quella sede i poteri previsti dall’art. 152 di detto decreto; si considerano localizzati in aree contermini gli impianti eolici ricadenti nell’ambito distanziale di cui al punto b) del paragrafo 3.1 e al punto e) del paragrafo 3.2 dell’allegato 4; per gli altri impianti l’ambito distanziale viene calcolato, con le stesse modalità dei predetti paragrafi, sulla base della massima altezza da terra dell’impianto”. Inoltre, sempre per interventi sottoposti a d.I.A., il paragrafo 15.9 avrebbe espressamente imposto il coinvolgimento del MIBACt qualora si fosse resa applicabile la parte II del Codice del Paesaggio (ivi compreso l’art. 152 di quest’ultimo). Se ne desumerebbe, dunque, l’impossibilità di escludere (ovvero di considerare eventuale o ex post) il parere - vincolante - della Soprintendenza nell’ambito della procedura autorizzatoria de quo. Nel suo appello al Consiglio di Stato, l’Amministrazione BACt ha, pertanto, censurato la mancata considerazione, da parte del tar Molise, dell’“ef RASSeGNA AvvOCAtURA 132 deLLO StAtO - N. 3/2018 fetto di irradiamento” della tutela dei beni vincolati direttamente, pur in assenza di una specifica deroga nel caso di specie. tanto più che, venendo in gioco procedimenti abilitativi in senso lato e non delimitato, non sarebbe stato possibile applicare alcuna restrizione per tipo (ossia, escludere il minieolico per una presunta minore incidenza paesaggistica dello stesso). Infine, nell’ottica della Soprintendenza, non sarebbe stato correttamente considerato, dai Giudici di primo grado, il suo parere nell’ambito del procedimento di cui all’art. 6 d.lgs. 28/2011, il quale, ben lungi dall’essere posteriore ed eventuale, avrebbe dovuto intendersi quale atto di assenso vincolante e preventivo. 5. la sentenza n. 5181/2018 della Quarta sezione del Consiglio di stato. definitivamente pronunciando sulla questione, la Quarta Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza n. 5181/2018, ha stabilito che l’art. 6 d.lgs. 28/2011, “lungi dall’escludere la necessità dell’intervento del ministero per i beni culturali ed ambientali, prevede che l’interessato (proprietario o altro soggetto avente la disponibilità del bene sul quale realizzare l’impianto alimentato da fonti rinnovabili) alleghi l’ “atto di assenso” dell’amministrazione competente per la tutela del patrimonio culturale e paesaggistico”. Ciò, secondo i Giudici di Palazzo Spada, è evincibile dal richiamo, nell’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 6 alle materie di cui all’art. 20, comma 4, L. 241/1990, tra cui la tutela del patrimonio culturale e paesaggistico (sottratta all’istituto del silenzio-assenso). Pertanto, nel caso di mancata acquisizione dell’assenso dell’Amministrazione statuale da parte del privato, il Comune deve acquisirlo d’ufficio ovvero indire una conferenza di servizi, con conseguente sospensione del termine di 30 giorni per l’avvio dei lavori, decorrente dalla presentazione della dichiarazione. Con ciò, il Consiglio di Stato ha sconfessato l’assunto dei Giudici di primo grado, secondo cui l’emanazione di un parere da parte dell’Autorità preposta alla tutela paesaggistica avrebbe snaturato il principio di autoresponsabilità del privato asseritamente fondante un istituto di liberalizzazione qual è stata ritenuta la procedura semplificata, alla stessa stregua di una SCIA. Per il Consiglio di Stato, i compiti di tutela trovano espressione proprio nella resa del predetto parere vincolante, non solo con riguardo alle aree di cui all’art. 136 d.lgs. 152/2006, ma anche con riguardo alle aree contermini, ossia prossime a quelle di cui al citato articolo. Il che è parso in linea ad una maggiore coerenza ed obiettività dell’azione amministrativa, ex art. 97 Cost., in quanto, nell’impostazione dei Giudici di secondo grado, non è la potenza dell’impianto a rilevare, bensì “le concrete caratteristiche fisiche e l’ingombro del medesimo e la sua incidenza sul bene paesaggistico che si intende tutelare”. CONteNzIOSO NAzIONALe 133 6. Conclusioni. da quanto detto risulta evidente che la “semplificazione” di cui all’art. 6 d.lgs. 28/2011 riguardi, oltre che l’introduzione del procedimento, il solo aspetto urbanistico, considerata l’attestazione che, per il tramite di specifici allegati, il privato deve rendere al Comune in ordine alla conformità dell’intervento agli strumenti urbanistico-edilizi in vigore. In altri termini, tale semplificazione non è riconducibile all’ambito della tutela paesaggistica, e men che meno sono ravvisabili incidenze sul parere che le preposte Autorità sono chiamate ad emettere sulla compatibilità dell’intervento con i valori paesaggistico-culturali dei luoghi oggetto di tutela. Al riguardo, non può eludersi un riferimento alla non comprimibilità della tutela paesaggistica, anche quando vengono in gioco aspetti urbanistico-edilizi degli ambiti in cui gli interventi vanno a ricadere. d’altronde, la preminenza da accordare alla disciplina di tutela paesistica rispetto alle prescrizioni regolanti l’attività urbanistico-edilizia si ricava dall’art. 1 d.P.R. n. 380/2001, il quale, al comma 2, testualmente stabilisce che: “Restano ferme le disposizioni in materia di tutela dei beni culturali e ambientali contenute nel decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 [antecedente normativo del d.Lgs. n. 42/2004] … aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia” (v., sul punto, anche tA.R. Molise, ord. n. 47/2015; id., sent. 8 marzo 2011, n. 100: “la tutela del paesaggio [ha] comunque portata generale e speciale considerazione di valore, rispetto a ogni forma di pianificazione degli interventi urbanistici, economici e infrastrutturali sul territorio, costituendo necessario presupposto per essi (cfr.: Cons. stato iv, 5 luglio 2010 n. 4244; idem v, 12 giugno 2009 n. 3770)”. del medesimo tenore anche t.A.R. Lazio RM, Sez. II quater, 14 dicembre 2010 n. 36581: “la tutela paesaggistica, lungi dall’essere subordinata alla pianificazione urbanistica comunale, deve precedere ed orientare le scelte urbanistico - edilizie locali. Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni paesaggistiche ‘… sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette (cfr. Corte costituzionale, 30 maggio 2008, n. 180)’”. Se ne desume che, nel caso in esame, la pretermissione del qualificato parere della Soprintendenza avrebbe di fatto comportato il disconoscimento della natura “sensibile” dell’interesse paesaggistico, costituzionalmente rilevante ex art. 9 Cost. Peraltro, la giurisprudenza è oramai consolidata sulla necessità dell’espressione del parere della medesima Amministrazione BACt (15), nella (15) Cfr., quanto al sindacato giurisdizionale del G.A. sul suddetto parere, Consiglio di Stato, RASSeGNA AvvOCAtURA 134 deLLO StAtO - N. 3/2018 conferenza di servizi appositamente celebrata, nell’ambito del procedimento autorizzatorio di cui all’art. 12 d.lgs. 387/2003; principio dal quale, nel “procedimento semplificato” di cui all’art. 6 d.lgs. 28/2011, per tutto quanto suesposto, non pare possibile scostarsi. In conclusione, si cita, sul punto, Cons. Stato, sez. v, 17 dicembre 2015, nn. 5748-50 e 5752, in cui si dà lucidamente conto del “ del carattere imprescindibile dell’apporto istruttorio di competenza delle amministrazioni preposte alla tutela di beni sensibili di rilievo costituzionale (quali il paesaggio, come nel caso di specie) nei confronti di provvedimenti autorizzativi di opere aventi un impatto sulla collettività, nonché, laddove queste siano sovraordinate rispetto all’amministrazione procedente, dell’effetto impeditivo della decisione finale sull’istanza da parte di quest’ultima e conseguente devoluzione dell’affare al vertice dell’organizzazione amministrativa nazionale” (16). Consiglio di stato, sez. iV, sentenza 4 settembre 2018 n. 5181 - Pres. Filippo Patroni Griffi, est. Oberdan Forlenza - Ministero dei beni e delle attività culturali (avv. gen. Stato) c. Azienda Agricola B.P.L. (avv. S. di Pardo). FAttO 1.1.Con l’appello in esame, il Ministero per i beni e le attività culturali impugna la sentenza 15 marzo 2017 n. 85, con la quale il tAR per il Molise, sez. I, ha respinto il ricorso proposto avverso l’autorizzazione rilasciata dal Comune di Sant’elia, in favore della parte appellata, per la realizzazione di un impianto di produzione di energia elettrica da fonte eolica, senza la previa acquisizione del parere della amministrazione dei beni culturali (da questa ritenuto di natura obbligatoria e vincolante). Il ricorso giurisdizionale risulta proposto innanzi al tAR Molise per effetto della trasposizione di precedente ricorso straordinario al Capo dello Stato, richiesta dalla controparte privata. Come precisato dalla sentenza impugnata, la controversia oggetto del presente giudizio ha ad oggetto il provvedimento con il quale il Comune di Sant’elia a Pianisi ha rilasciato il nulla osta alla realizzazione dell’impianto cd. minieolico in un’area non sottoposta a vincoli paesaggistici, ma che l’amministrazione ricorrente ritiene situata in zona contermine rispetto ad un bene paesaggistico sottoposto a vincolo ex lege. Posto che, ai sensi del punto 14.9 d.M. 10 settembre 2010 (recante le linee guida nazionali in tema di autorizzazione unica ex art. 12 d. lgs. n. 387/2003), per “zona contermine” deve intendersi l’area sulla quale si intende collocare l’impianto posta a distanza pari a cinquanta sent. n. 132/2018: “il parere reso è frutto di esercizio di discrezionalità tecnico amministrativa che il giudice, in sede di giudizio di legittimità, può sindacare solo nei limiti in cui le valutazioni espresse appaiono palesemente immotivate, ovvero irragionevoli od illogiche, occorrendo evitare di invadere il ‘merito’ delle valutazioni dell’amministrazione”. (16) Il riferimento è alla devoluzione della questione al Consiglio dei Ministri che, ex art. 14- quater L. 241/1990, l’Autorità procedente deve effettuare, qualora non ritenga di uniformarsi al qualificato parere emesso dalla Soprintendenza, e non intenda esperire impugnativa, in sede giurisdizionale, del dissenziente parere medesimo. Il Consiglio dei Ministri ha un termine di 60 giorni per esprimersi. CONteNzIOSO NAzIONALe 135 volte l’altezza del manufatto da realizzare rispetto al bene oggetto di vincolo, l’amministrazione ritiene che i poteri di cui all’art. 152 d.lgs. n. 142/2004 devono essere esercitati sia nel caso di impianti eolici ordinari, sia nel caso di quelli cd. “minieolici”, come definiti al punto 12.6 delle predette Linee guida, e per i quali si applica la procedura autorizzatoria semplificata di cui all’art. 6 d. lgs. n. 28/2011. 1.2. La sentenza impugnata afferma, in particolare: - “l’art. 6 d.lgs. n. 28/2011 detta il procedimento semplificato per la realizzazione degli impianti cd. minieolici, indicando gli adempimenti che gli interessati devono porre in essere per conseguire il titolo abilitativo, con una formulazione di tipo esaustivo e sostitutivo rispetto alle previsioni dettate dall’art. 12 del d. lgs. n. 387/2003, con la conseguenza di rendere non applicabile alle fattispecie in questione la disciplina dettata da tale ultimo articolo e dalle Linee Guida che ne costituiscono ex professo applicazione”; - “il d.lgs. n. 28/2011 non contiene una deroga alla disciplina dell’autorizzazione unica . . . ma detta un regime autonomo che non richiama l’applicazione delle Linee guida e che quindi non contempla nemmeno l’estensione dei poteri ministeriali con riguardo alle aree contermini, non previste nel regime semplificato (e previste invece all’art. 14.9 delle Linee guida), con ciò esprimendo una scelta sul piano sostanziale coerente con l’impatto paesaggistico, certamente minore, data la limitata potenza di siffatti impianti di produzione di energia”; - in particolare, l’art. 6 d.lgs. n. 28/2011 non ha “portata solo procedimentale” e “un’eventuale estensione del potere ministeriale anche agli impianti in discorso dovrebbe trovare un espresso addentellato normativo, non bastando a tal fine la previsione di cui all’art. 14.9 delle Linee guida, esplicitamente applicabili alla sola autorizzazione unica di cui all’art. 12 del d. lgs. n. 387/2003”: - peraltro, posto che “la procedura semplificata (è) istituto ispirato al principio di liberalizzazione secondo il modello della SCIA . . . prevedere, in assenza di vincolo paesaggistico, la necessità del preventivo rilascio di un parere equivale sostanzialmente a riprocedimentalizzare un istituto di liberalizzazione fondato sul diverso principio di autoresponsabilità del privato”. 1.3. Avverso tale decisione vengono proposti i seguenti motivi di appello (come desunti dalle pagg. 6-10 del ricorso): a) error in iudicando, violazione art. 6 d.lgs. n. 28/2011, poiché tale disposizione si limita “a introdurre elementi di semplificazione procedimentale quanto all’introduzione dell’iter e alla competenza”, prevedendo espressamente (co. 2) che “nel caso in cui siano richiesti atti di assenso nelle materie di cui al co. 4 dell’art. 20 della l. 7 agosto 1990 n. 241, e tali atti non siano allegati alla dichiarazione, . . . si applica il co. 5”. Quest’ultimo dispone che l’amministrazione comunale provvede ad acquisire di ufficio eventuali atti di assenso di competenza di amministrazioni diverse da quella comunale, ovvero procede a convocare una conferenza di servizi. In definitiva, “l’interessato deve allegare alla dichiarazione o agli elaborati tecnici l’autorizzazione paesaggistica . . . o, in mancanza di allegazione, il Comune deve acquisire l’autorizzazione di ufficio o convocare una conferenza di servizi”; b) error in iudicando, poiché la ratio della tutela delle aree contermini è ravvisabile nel cd. “effetto di irradiamento della tutela dei beni vincolati direttamente sia ex lege che con apposita dichiarazione di interesse pubblico paesaggistico; ratio che non può non valere anche nella materia specifica, in difetto di esplicita deroga”; peraltro, “non è prevista alcuna restrizione per tipo (pretesa esclusione del minieolico), poiché si fa riferimento a procedimenti abilitativi in senso lato e non delimitato”; c) error in iudicando, poiché la sentenza “sostanzialmente disapplica le norme indicate e ritiene eventuale ed ex post il giudizio tecnico che esprime l’amministrazione”, la quale è invece RASSeGNA AvvOCAtURA 136 deLLO StAtO - N. 3/2018 chiamata a rendere “un atto di assenso qualificato espressamente dalla norma in termini di parere vincolante e preventivo”. 1.4. Si è costituita in giudizio l’Azienda Agricola, che ha preliminarmente eccepito: - l’inammissibilità dell’appello, poiché il ricorso straordinario sarebbe stato notificato all’attuale appellata ad un indirizzo errato; - l’irricevibilità dell’appello in conseguenza della tardività del ricorso straordinario, poiché proposto oltre il termine di 120 giorni, prescritto dall’art. 9 dPR n. 1199/1971; infatti, “l’atto impugnato, definito impropriamente dall’amministrazione determina dirigenziale, ma che in realtà è un atto comunicativo del Comune di verifica positiva della d.i.a. all’esito dell’acquisizione di tutti i pareri favorevoli, riporta la data del 15 gennaio 2015”, mentre il ricorso straordinario è stato proposto solo il 13 gennaio 2016; - l’inammissibilità dell’appello, per effetto dell’irricevibilità del ricorso instaurativo del giudizio di I grado, poiché “la costituzione innanzi al tAR è stata tardivamente depositata”, in violazione degli artt. 48 e 119 Cpa, “che prevedono i termini dimezzati per il deposito dell’atto di costituzione in giudizio del ricorrente in sede di trasposizione di ricorso straordinario al Capo dello Stato, conseguente ad opposizione del controinteressato”. La parte appellata ha comunque concluso richiedendo il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza. All’udienza pubblica di trattazione, la causa è stata riservata in decisione. dIRIttO 2. Preliminarmente, occorre rigettare le eccezioni proposte dalla parte appellata, stante la loro infondatezza. 2.1. Quanto alla prima di esse, fondata su un difetto di notificazione del ricorso straordinario, giova osservare che la correttezza della notificazione degli atti processuali è strumentale ad assicurare il diritto di difesa della parte cui gli stessi sono rivolti; di modo che, laddove risulti che l’atto, nonostante difetti e/o irregolarità della notificazione attuata, abbia comunque raggiunto il suo scopo, i predetti vizi della notificazione non possono assumere rilevo (ex art. 156 cpc). Nel caso di specie, la parte appellata ha avuto comunque contezza del ricorso straordinario, del quale ha richiesto la trasposizione in sede giurisdizionale, costituendosi anche in tale sede. Appare, quindi, pienamente raggiunto lo scopo della notificazione, stante l’effetto “sanante” dell’attività processuale svolta dalla parte, tale da dimostrare come non sia intervenuta alcuna compromissione del suo diritto di difesa (da ultimo, Cass. Civ., sez. v, 27 aprile 2018 n. 10242; sez. lav., 28 marzo 2018 n. 7703; sez. vI, 9 febbraio 2018 n. 3240). 2.2. Quanto alla eccezione di irricevibilità dell’appello in conseguenza della tardività del ricorso straordinario, occorre osservare che la parte appellata non fornisce alcuna prova certa in ordine alla piena conoscenza sia dell’atto sia della d.i.a., in data antecedente di 120 giorni rispetto alla proposizione del ricorso straordinario. difatti, come peraltro sottolinea la stessa parte eccipiente, la propria attività si è svolta in base a d.i.a e, quindi, l’amministrazione appellante non poteva avere contezza della tipologia dell’attività da intraprendersi, né delle iniziative eventualmente assunte dall’amministrazione comunale, se non per il tramite di accertamenti all’uopo richiesti al Comando provinciale del Corpo forestale dello Stato, e ricevuti solo in data 17 settembre 2015 (dies a quo in relazione al quale il ricorso straordinario risulta tempestivo). In difetto di diverse e più probanti allegazioni, non può farsi risalire la piena conoscenza del Ministero ricorrente né alla data di adozione dell’atto (successivamente impugnato) da parte del Comune di Sant’elia a Pianisi, né alla data della richiesta di accertamenti rivolta al Corpo CONteNzIOSO NAzIONALe 137 Forestale (che, in quanto tale, semmai prova il difetto - e non la sussistenza - di conoscenza). d’altra parte, se l’art. 19, co. 6-ter l. n. 241/1990 afferma che la Scia, la denuncia e la d.i.a. non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili, ma, avverso gli stessi, “gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione, e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31” del Cpa (ricorso avverso il silenzio), appare evidente come non possa farsi decorrere un termine di impugnazione né dal mero avvio dell’attività, né dalla data di adozione di un atto da parte dell’autorità comunale competente, a meno che, in questo caso, non si dimostri l’intervenuta piena conoscenza del medesimo da data tale da determinare la decadenza dal potere di impugnazione. 2.3. Anche la terza eccezione di inammissibilità dell’appello è infondata. La parte sostiene la propria eccezione di inammissibilità, affermando che vi sarebbe irricevibilità del ricorso instaurativo del giudizio di I grado, poiché “la costituzione innanzi al tAR è stata tardivamente depositata”, in violazione degli artt. 48 e 119 Cpa. Orbene, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte appellata, la realizzazione di opere in base ad autorizzazione semplificata, di cui all’art. 8, d.lgs. 3 marzo 2011 n. 28, non rientra tra le ipotesi per le quali trova applicazione l’art. 119, co. 1, lett. f) Cpa, e la dimidiazione dei termini processuali ivi prevista. ed infatti, l’ipotesi di cui al citato art. 8 d. lgs. n. 28/2011 è diversa da quella disciplinata dall’art. 12 d. lgs. n. 387/2003, in ordine alla quale la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (sez. v, 28 febbraio 2013 n. 1218) ha affermato l’applicazione del citato art. 119, co. 1, lett. f) e della connessa dimidiazione dei termini processuali, Nelle ipotesi di cui all’art. 12 d.lgs. 28 dicembre 2003 n. 387, “le opere per la realizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, nonché le opere connesse e le infrastrutture indispensabili alla costruzione e all'esercizio degli stessi impianti” soggette ad autorizzazione unica regionale ai sensi del co. 3, “sono di pubblica utilità ed indifferibili ed urgenti” (co. 1). Si tratta di opere oggetto di un provvedimento che abilita il destinatario a realizzare l’impianto, anche in deroga agli strumenti urbanistici e che costituisce presupposto per l’imposizione del vincolo espropriativo (non a caso, il provvedimento oggetto della citata sentenza n. 1218/2013 era stato emanato anche ai sensi dell’art. 10 dPR n. 327/2001). Ne consegue, a tutta evidenza, la riconducibilità di tale ipotesi all’ambito disciplinato dal più volte citato art. 119 Cpa., tutte le volte in cui alla autorizzazione unica sia riconosciuta una “valenza” nell’ambito delle procedure lato sensu espropriative. Al contrario, l’ipotesi disciplinata dall’art. 6 d.lgs. n. 28/2011 concerne la realizzazione di particolari impianti alimentati da fonti rinnovabili in base ad una “procedura abilitativa semplificata”, attivata dal “proprietario dell’immobile” ovvero da “chi abbia la disponibilità sugli immobili interessati dall’impianto e dalle opere connesse”. In questo caso, dunque, attesa la disponibilità dell’immobile (in regime di proprietà o ad altro titolo) non vi è alcuna procedura espropriativa o di previa occupazione di urgenza da attuare, né alcun vincolo espropriativo da imporre. da ciò consegue, a tutta evidenza, l’inapplicabilità della dimidiazione dei termini processuali, di cui all’art. 119, co. 1, lett. f) Cpa,, stante l’estraneità del caso alla materia ivi disciplinata, e, quindi, il rigetto della proposta eccezione di inammissibilità. 3. L’appello è fondato e deve essere, pertanto, accolto, con conseguente riforma della sentenza impugnata. 3.1. Come si è detto, l’art. 6 d.lgs. 3 marzo 2011 n. 28 prevede una procedura semplificata per la realizzazione di particolari impianti alimentati da fonti rinnovabili. RASSeGNA AvvOCAtURA 138 deLLO StAtO - N. 3/2018 Per quel che interessa nella presente sede, l’art. 6 dispone: “1. Ferme restando le disposizioni tributarie in materia di accisa sull'energia elettrica, per l'attività di costruzione ed esercizio degli impianti alimentati da fonti rinnovabili di cui ai paragrafi 11 e 12 delle linee guida, adottate ai sensi dell'articolo 12, comma 10 del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 si applica la procedura abilitativa semplificata di cui ai commi seguenti. 2. Il proprietario dell'immobile o chi abbia la disponibilità sugli immobili interessati dall'impianto e dalle opere connesse presenta al Comune, mediante mezzo cartaceo o in via telematica, almeno trenta giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori, una dichiarazione accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che attesti la compatibilità del progetto con gli strumenti urbanistici approvati e i regolamenti edilizi vigenti e la non contrarietà agli strumenti urbanistici adottati, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie. Alla dichiarazione sono allegati gli elaborati tecnici per la connessione redatti dal gestore della rete. Nel caso in cui siano richiesti atti di assenso nelle materie di cui al comma 4 dell'articolo 20 della legge 7 agosto 1990, n. 241, e tali atti non siano allegati alla dichiarazione, devono essere allegati gli elaborati tecnici richiesti dalle norme di settore e si applica il comma 5. . . . 4. Il Comune, ove entro il termine indicato al comma 2 sia riscontrata l'assenza di una o più delle condizioni stabilite al medesimo comma, notifica all'interessato l'ordine motivato di non effettuare il previsto intervento e, in caso di falsa attestazione del professionista abilitato, informa l'autorità giudiziaria e il consiglio dell'ordine di appartenenza; è comunque salva la facoltà di ripresentare la dichiarazione, con le modifiche o le integrazioni necessarie per renderla conforme alla normativa urbanistica ed edilizia. Se il Comune non procede ai sensi del periodo precedente, decorso il termine di trenta giorni dalla data di ricezione della dichiarazione di cui comma 2, l'attività di costruzione deve ritenersi assentita. 5. Qualora siano necessari atti di assenso, di cui all'ultimo periodo del comma 2, che rientrino nella competenza comunale e non siano allegati alla dichiarazione, il Comune provvede a renderli tempestivamente e, in ogni caso, entro il termine per la conclusione del relativo procedimento fissato ai sensi dell'articolo 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni. Se gli atti di assenso non sono resi entro il termine di cui al periodo precedente, l'interessato può adire i rimedi di tutela di cui all'articolo 117 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104. Qualora l'attività di costruzione e di esercizio degli impianti di cui al comma 1 sia sottoposta ad atti di assenso di competenza di amministrazioni diverse da quella comunale, e tali atti non siano allegati alla dichiarazione, l'amministrazione comunale provvede ad acquisirli d'ufficio ovvero convoca, entro venti giorni dalla presentazione della dichiarazione, una conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241 e successive modificazioni. Il termine di trenta giorni di cui al comma 2 è sospeso fino alla acquisizione degli atti di assenso ovvero fino all'adozione della determinazione motivata di conclusione del procedimento ai sensi dell'articolo 14-ter, comma 6-bis, o all'esercizio del potere sostitutivo ai sensi dell'articolo 14-quater, comma 3, della medesima legge 7 agosto 1990, n. 241”. 3.2. Come si evince dalla lettura delle disposizioni innanzi riportate, la speciale procedura di cui all’art. 6 cit., lungi dall’escludere la necessità dell’intervento del Ministero per i beni culturali ed ambientali, prevede che l’interessato (proprietario o altro soggetto avente la disponibilità del bene sul quale realizzare l’impianto alimentato da fonti rinnovabili) alleghi l’“atto di assenso” dell’amministrazione competente per la tutela del patrimonio culturale e paesaggistico. Ciò si evince dall’espresso richiamo, contenuto nell’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 6 CONteNzIOSO NAzIONALe 139 alle materie indicate dall’art. 20, co. 4, l. n. 241/1990, tra le quali rientra, appunto, quella della tutela del patrimonio culturale e paesaggistico (che, nella norma richiamata, viene sottratta, unitamente alle altre materie indicate, all’istituto del silenzio-assenso). Qualora l’interessato non provveda ad acquisire in proprio l’atto di assenso dell’Amministrazione dei beni culturali, allegandolo alla dichiarazione inviata al Comune (co. 2), quest’ultimo, ai sensi del comma 5 (cui espressamente rinvia il co. 2) provvede ad acquisirlo d’ufficio ovvero convoca a tal fine una apposita conferenza di servizi (co. 5, terzo periodo), restando, nelle more, sospeso il termine di trenta giorni previsto dal comma 2 (cioè il termine per l’avvio concreto dei lavori, decorrente dalla data di presentazione della dichiarazione). In definitiva, non può essere condivisa la sentenza impugnata laddove essa afferma che “la procedura semplificata (è) istituto ispirato al principio di liberalizzazione secondo il modello della SCIA . . . prevedere, in assenza di vincolo paesaggistico, la necessità del preventivo rilascio di un parere equivale sostanzialmente a riprocedimentalizzare un istituto di liberalizzazione fondato sul diverso principio di autoresponsabilità del privato”. Come si è avuto modo di osservare (in ciò condividendo quanto affermato dall’appellante), è la stessa disciplina della procedura semplificata a prevedere l’intervento dell’amministrazione dei beni culturali, disponendo - proprio perché si tratta di attività deprocedimentalizzata - che sia innanzi tutto lo stesso soggetto che invia la dichiarazione ad acquisirne l’atto di assenso prima dell’invio della dichiarazione medesima. 3.3. Acclarato che l’art. 6 d. lgs. n. 28/2011 non esclude l’intervento dell’Amministrazione dei beni culturali in funzione di tutela del vincolo paesaggistico anche nei casi di procedura semplificata per la realizzazione di impianti alimentati da fonti rinnovabili, occorre verificare: - se tale potere di tutela del paesaggio possa riferirsi, oltre che ai beni direttamente oggetto di vincolo paesaggistico, anche alle cd. “aree contermini” ai medesimi; - in caso positivo, se, ai fini dell’esercizio di detto potere nelle ipotesi di cui all’art. 6 d.lgs. n. 28/2011, possa essere fatta applicazione di quanto previsto dal punto 14.9 del d.M. 10 settembre 2010, Giova, a tali fini, ricordare che l’art. 152 d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) dispone in merito ad “interventi soggetti a particolari prescrizioni”, prevedendo: “1. Nel caso di aperture di strade e di cave, di posa di condotte per impianti industriali e civili e di palificazioni nell'ambito e in vista delle aree indicate alle lettere c) e d) del comma 1 dell'articolo 136 ovvero in prossimità degli immobili indicati alle lettere a) e b) del comma 1 dello stesso articolo, l'amministrazione competente, su parere vincolante, salvo quanto previsto dall'articolo 146, comma 5, del soprintendente, o il Ministero, tenuto conto della funzione economica delle opere già realizzate o da realizzare, hanno facoltà di prescrivere le distanze, le misure e le varianti ai progetti in corso d'esecuzione, idonee comunque ad assicurare la conservazione dei valori espressi dai beni protetti ai sensi delle disposizioni del presente titolo. decorsi inutilmente i termini previsti dall'articolo 146, comma 8, senza che sia stato reso il prescritto parere, l'amministrazione competente procede ai sensi del comma 9 del medesimo articolo 146.” Oggetto dei compiti di tutela dell’Amministrazione dei beni culturali, sono i procedimenti autorizzatori (e, per effetto del rinvio previsto dall’art. 6 d. lgs. n. 28/2011, anche le “procedure semplificate” ivi previste) concernenti gli interventi descritti dalla norma, sia che si intenda realizzare gli stessi “nell’ambito” delle aree indicate dall’art. 136, sia che tali interventi si intendano realizzare “in vista” delle aree o “in prossimità” degli immobili indicati dal medesimo RASSeGNA AvvOCAtURA 140 deLLO StAtO - N. 3/2018 art. 136, ai quali occorre aggiungere anche i beni “tutelati per legge”, di cui all’art. 142 t.U. Come ha affermato questo Consiglio di Stato (Sez. vI, 10 marzo 2014 n. 1144), “sarebbe illogico che tale sistema di ulteriore protezione (indiretta) dei beni paesaggistici assistesse unicamente quelli sottoposti a dichiarazione di notevole interesse pubblico ( le cui categorie sono contemplate dall'art. 136 del Codice dei beni culturali e del paesaggio) e non invece i beni paesaggistici previsti dalla legge (art. 142), in cui il valore paesaggistico compendiato nel vincolo ex lege che li assiste è una qualità correlata originariamente al bene, non suscettibile di una protezione giuridica di minore intensità”. Si è altresì affermato che “quando vengono in rilievo opere infrastrutturali di grande impatto visivo . . . il paesaggio, quale bene potenzialmente pregiudicato dalla realizzazione di opere di rilevante impatto ambientale, si manifesta in una proiezione spaziale più ampia di quella riveniente dalla sua semplice perimetrazione fisica consentita dalle indicazioni contenute nel decreto di vincolo. In altri termini, il paesaggio si manifesta in tali casi quale componente qualificata ed essenziale dell'ambiente, nella lata accezione che di tale bene giuridico ha fornito l'evoluzione giurisprudenziale, anche di matrice costituzionale (tra le tante, Corte Cost. 14 novembre 2007, n. 378)”. ed in tal senso, la giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, sez. vI, n. 1144/2014 cit; sez. vI, ord. n. 416/2013) riconosce un “particolare effetto di irradiamento del regime vincolistico che assiste i beni paesaggistici allorquando . . . vengono in rilievo opere infrastrutturali di rilevante impatto sul paesaggio”. Appare, dunque, evidente (così fornendo risposta alla prima delle due domande innanzi formulate), come il potere di tutela del paesaggio si riferisca certamente, ai sensi dell’art. 152 d.lgs. n. 42/2004, anche alle cd. “aree contermini” ai beni soggetti a vincolo paesaggistico. Ciò significa che l’Amministrazione dei beni culturali ben può (anzi deve) intervenire per la tutela delle aree contermini a quelle oggetto di vincolo paesaggistico, anche nelle ipotesi di “procedura semplificata” di cui all’art. 6 d.lgs. n. 28/2011, e ciò per effetto delle già citate disposizioni generali (e, quindi, anche se si ritenesse che le Linee guida di cui al d.M. 10 settembre 2010 non siano applicabili a tali procedure). Peraltro, l’Amministrazione dei beni culturali ben può fare applicazione delle Linee guida (ed in particolare di quanto previsto al punto 14.9 delle medesime), in merito alle aree contermini a quelle vincolate, nel senso che essa ben può utilizzare, al fine di definire cosa si intenda per detto tipo di area, le indicazioni di cui al punto in esame, sub lett. c). Quest’ultimo prevede che “si considerano localizzati in aree contermini gli impianti eolici ricadenti nell'ambito distanziale di cui al punto b) del paragrafo 3.1 e al punto e) del paragrafo 3.2 dell'allegato 4; per gli altri impianti l'ambito distanziale viene calcolato, con le stesse modalità dei predetti paragrafi, sulla base della massima altezza da terra dell'impianto”. In particolare, il punto e) del par. 3.2 dispone che “si dovrà esaminare l'effetto visivo provocato da un'alta densità di aerogeneratori relativi ad un singolo parco eolico o a parchi eolici adiacenti; tale effetto deve essere in particolare esaminato e attenuato rispetto ai punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, di cui all'articolo 136, comma 1, lettera d), del Codice, distanti in linea d'aria non meno di 50 volte l'altezza massima del più vicino aerogeneratore”. Orbene, anche se il d.M. 10 settembre 2010, definisce le disposizioni di cui al proprio allegato come “Linee guida per il procedimento d cui all’art. 12 del decreto legislativo 29 dicembre 2003 n. 387” (né avrebbe potuto essere altrimenti, atteso che la “procedura semplificata” è stata introdotta da fonte successiva), è del tutto ragionevole che l’Amministrazione dei beni culturali - dovendosi pronunciare, ai sensi degli artt. 152 d.lgs. n. 42/2004 e 6 d.lgs. n. 28/2011, CONteNzIOSO NAzIONALe 141 sulla compatibilità di un impianto da localizzarsi in area contermine ad altra oggetto di vincolo paesaggistico - utilizzi, nell’esercizio del proprio potere tecnico-discrezionale, parametri di identificazione dell’“area contermine” già previamente definiti. Il che, lungi dall’essere illegittimo o irragionevole, appare coerente con una maggiore trasparenza ed obiettività dell’azione amministrativa, in attuazione del principio di imparzialità di cui all’art. 97 Cost. Né può, infine, condividersi la sentenza impugnata, laddove essa afferma che nelle ipotesi di cui alla procedura semplificata vi sarebbe un “impatto paesaggistico, certamente minore, data la limitata potenza di siffatti impianti di produzione di energia”. difatti, come ben può desumersi dalla lettura delle disposizioni del d.M. 10 settembre 2010 sopra richiamate, ciò che rileva, ai fini delle valutazioni dei competenti organi del Ministero per i beni e le attività culturali non è la potenza dell’impianto, bensì le concrete caratteristiche fisiche e l’ingombro del medesimo e la sua incidenza sul bene paesaggistico che si intende tutelare. 4. Per tutte le ragioni sin qui esposte, l’appello deve essere accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve essere accolto il ricorso instaurativo del giudizio di I grado, con conseguente annullamento degli atti con il medesimo impugnati. Stante la natura e complessità delle questioni trattate, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti spese ed onorari del presente giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello proposto dal Ministero per i beni e le attività culturali (n. 399/2017 r.g.), lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso instaurativo del giudizio di I grado, con conseguente annullamento degli atti con il medesimo impugnati. Compensa tra le parti spese ed onorari del giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 marzo 2018. RASSeGNA AvvOCAtURA 142 deLLO StAtO - N. 3/2018 sulla ammissibilità di nuove produzioni documentali in un giudizio di appello al Consiglio di stato Consiglio Di stato, sezione teRza, sentenza 24 ottobRe 2018 n. 6057 In rassegna la sentenza del Consiglio di Stato n. 6057/18 con la quale è stata confermata la decisione di primo grado, di rigetto della domanda di condanna del Ministero della Salute al risarcimento dei danni da attività provvedimentale illegittima accertata con sentenza passata in giudicato, quantificati in circa 40 milioni di euro. La sentenza - motivata in fatto sotto l’assorbente profilo del mancato raggiungimento della prova del nesso causale fra attività provvedimentale illegittima e pregiudizio lamentato - contiene un’interessante sintesi dei principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa in tema di limiti all’ammissibilità di nuove produzioni documentali in appello, consentite solo se meramente integrative di altra documentazione, già legittimamente presente agli atti del giudizio di primo grado, e tali - dunque - da non alterare il thema decidendum già offerto al primo giudice, ovvero se costituiscano prova indispensabile ai fini della decisione della causa, per tale intendendo quella inerente non già alla "mera rilevanza dei fatti dedotti", bensì alla "verificata impossibilità di acquisire la conoscenza di quei fatti con altri mezzi che la parte avesse l'onere di fornire nelle forme e nei tempi stabiliti dalla legge processuale". marina Russo (*) Consiglio di stato, sezione terza, sentenza 24 ottobre 2018 n. 6057 - Pres. F. Frattini, est. G. Pescatore - Fondazione Centro San Raffaele del Monte tabor in Liquidazione e c.p. (avv. C. Comandé) c. Ministero della Salute (avv. gen. Stato). FAttO 1. La Fondazione Centro San Raffaele del Monte tabor, con sede in Milano, è un ente riconosciuto come Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS), ai sensi dell’art. 48 del d.P.R. 617/1980. 2. tale norma, per quanto qui interessa, prevede che “Il carattere scientifico è attribuito, per gli enti che ne faranno istanza ai sensi del presente decreto, con specifico ed esclusivo riferimento al presidio sanitario, presso il quale sono svolte prestazioni di cura e ricovero connesse ad atti di ricerca scientifica biomedica. Il riconoscimento ha valore limitatamente alla sede o struttura indicate nel relativo decreto”. 3. In seguito all’entrata in vigore del d.lgs. n. 269/1993 (recante norme di Riordinamento degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, a norma dell'art. 1, comma 1, lettera h), della (*) Avvocato dello Stato. CONteNzIOSO NAzIONALe 143 L. 23 ottobre 1992, n. 421), la Fondazione ha ritenuto che, per effetto di quanto previsto all’art. 1 commi 1 e 3 ("Gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico sono enti nazionali ..." e "Le strutture ed i presidi ospedalieri degli istituti sono qualificati ospedali di rilievo nazionale …") il riconoscimento originariamente concessole per la sede di Milano dovesse intendersi automaticamente esteso anche alla struttura romana, medio tempore realizzata, denominata San Raffaele di Roma s.r.l. 4. diverso è stato l’avviso del Ministero, il quale non ha ravvisato nella sopravvenuta modifica normativa la possibilità di un simile automatismo e, pertanto, con nota del 9 dicembre 1997 ha escluso la possibilità di procedere al riconoscimento della struttura romana “San Raffaele” così come richiesto dalla Fondazione. L’Amministrazione ha in sostanza ritenuto che la norma di cui all’art. 1 comma 3 non presentasse carattere innovativo, bensì meramente ricognitivo di un dato (quale la rilevanza nazionale degli IRCCS) ormai acquisito anche dalla giurisprudenza costituzionale; e, inoltre, che da detta disposizione non potesse direttamente discendere la conseguenza voluta dalla Fondazione, ostandovi il regime transitorio dettato dallo stesso d.lgs. n. 269/1993, che non consentiva di farne immediata applicazione ma imponeva di attendere l’entrata in vigore dei relativi regolamenti di attuazione. 5. La nota ministeriale del 9 dicembre 1997 è stata impugnata dalla Fondazione con ricorso al tAR Lazio, accolto con sentenza n. 2361 del 20 ottobre 1999. Il conseguente giudizio di appello non è invece giunto a definizione perché dichiarato perento, con decreto n. 7944 del 2 dicembre 2003, a seguito del mancato deposito dell’istanza di fissazione dell’udienza. 6. Nella pendenza del giudizio di primo grado, la Fondazione ha avviato trattative per la cessione della struttura, dapprima con il Ministero della Salute, con il quale non è stata raggiunta una intesa sul prezzo di vendita; dipoi con il gruppo tosinvest, con il quale essa è addivenuta in data 11 giugno 1999 ad un accordo di compravendita per un importo complessivo di 270 miliardi di lire (pari ad un incasso effettivo di 256,6 miliardi di lire). 7. Pochi mesi dopo, la medesima struttura è stata rilevata dal Ministero della Salute dietro il corrispettivo, versato a tosinvest, di 320 miliardi di lire. 8. Con un ulteriore ricorso al tAR del Lazio notificato in data 7 gennaio 2011, la Fondazione Centro San Raffaele del Monte tabor ha quindi agito per ottenere la condanna del Ministero della Salute al risarcimento dei danni che le sarebbero stati procurati dall’illegittima attività provvedimentale dell’Amministrazione, accertata con la sentenza n. 2361/1999. Più precisamente, la richiesta risarcitoria è stata rapportata alla perdita patrimoniale patita per effetto della vendita dell’immobile ad un prezzo inferiore a quello che lo stesso avrebbe assunto a seguito del provvedimento di formale riconoscimento della qualifica di IRCCS; ed alla perdita gestionale per la mancata possibilità di avvio a regime del presidio, per il quale erano stati effettuati tutti gli investimenti necessari al raggiungimento di standards qualitativi e di requisiti sostanziali conformi a quelli propri di un IRCCS. 9. Con sentenza n. 629/2017, il tAR ha rigettato il ricorso. dopo aver rilevato che già nei mesi di febbraio e marzo del 1999 la Fondazione aveva conferito a professionisti del settore un incarico di stima degli immobili ai fini di una loro cessione e che, in data 11 giugno 1999, quindi sempre in data precedente alla sentenza del tar, la stessa Fondazione aveva concluso un contratto preliminare di compravendita con tosinvest Immobiliare s.r.l. per l’ammontare di 257 miliardi di lire - il giudice di prime cure ha escluso la sussistenza dell’elemento soggettivo della responsabilità aquiliana in capo all’Amministrazione “ .. atteso che la decisione RASSeGNA AvvOCAtURA 144 deLLO StAtO - N. 3/2018 di alienare la struttura da parte della Fondazione interessata appare il frutto di una libera determinazione imprenditoriale piuttosto che dovuta al mancato riconoscimento dello stato di IRCCS alla struttura di Roma, essendo intervenuta quando ancora pendeva il ricorso...”. Il medesimo giudice di primo grado ha inoltre escluso la dipendenza causale del preteso danno dall’attività provvedimentale dell’Amministrazione concretizzatasi nel diniego di riconoscimento quale IRCCS, evidenziando che “.. se un danno esisteva, siccome basato sul mancato riconoscimento della natura di IRCCS … ben avrebbe parte ricorrente potuto attendere la discussione del ricorso avvenuta pochi giorni dopo ..., nella considerazione inoltre che con la sentenza n. 2361 del 1999 il TAR ha offerto una interpretazione che ben avrebbe potuto giustificare la domanda risarcitoria, siccome fondata sul detto mancato riconoscimento”. 10. La Fondazione qui appellante censura la sentenza impugnata osservando che: - difformemente da quanto statuito in prime cure, la cessione della struttura romana, lungi dall’avere rappresentato “il frutto di una libera determinazione imprenditoriale”, ha piuttosto costituito una scelta necessitata e imposta dall’esigenza di fare fronte alla grave condizione economica in cui la Fondazione versava proprio a cagione dell’illegittima e negligente condotta posta in essere dall’Amministrazione odierna appellata; - detta critica situazione finanziaria si era venuta a creare in seguito al mancato riconoscimento della natura di IRCCS della struttura laziale, come si desume dalla Relazione dei Commissari Giudiziali redatta ex art. 172 della Legge Fallimentare; - ed, infatti, il riconoscimento della natura di IRCCS avrebbe consentito di qualificare la struttura laziale del San Raffaele come “ospedale di rilievo nazionale e di alta specializzazione ed assoggettata alla disciplina per questi prevista”, con ogni relativa conseguenza favorevole in termini di regime finanziario e gestionale ad esso applicabile; - in virtù di tale qualificazione, la Fondazione avrebbe potuto accedere ad appositi finanziamenti propri delle omologhe “aziende” ai sensi degli artt. 4 e 12, comma 2 del d.lgs. n. 502/1992, e dell’art. 6 del d.lgs. n. 269/1993; - quanto alla tempistica della vendita, nel momento in cui ha deciso di procedere alla cessione della struttura laziale accettando la proposta di acquisto formulata da tosinvest, la Fondazione non era (né avrebbe potuto essere) a conoscenza del futuro esito positivo del giudizio illo tempore pendente dinanzi al tar Lazio, né tanto meno poteva serbare alcuna certezza in ordine alla tempistica di deposito della decisione; - neppure l’intervenuta fissazione della udienza pubblica di discussione al 21 giugno 1999 poteva fornire alcuna sicurezza in merito alla data di deposito della sentenza e di tanto costituirebbe riprova il fatto che la pronuncia n. 2361/1999 del tAR Lazio è stata depositata solo in data 20 ottobre 1999, ossia ben quattro mesi dopo la data in cui il giudizio era stato trattenuto in decisione. 11. Il Ministero della Salute si è ritualmente costituito in giudizio, controdeducendo alle argomentazioni avversarie e avanzando appello incidentale condizionato avverso la parte della sentenza di primo grado in cui afferma che “con la sentenza n. 2361 del 1999 il taR ha offerto una interpretazione che ben avrebbe potuto giustificare la domanda risarcitoria, siccome fondata sul detto mancato riconoscimento”. Nel merito, la difesa erariale, oltre a replicare alle deduzioni avversarie, ha eccepito la prescrizione del credito risarcitorio, per intervenuto decorso del quinquennio dalla data della vendita (1999), individuata come eventus damni; e ha negato il carattere colposo della propria condotta, in quanto escluso dalla complessità del quadro normativo che aveva orientato la soluzione interpretativa, del tutto plausibile, posta a base del diniego. CONteNzIOSO NAzIONALe 145 Secondo l’amministrazione resistente, inoltre, l’illegittimità del provvedimento a cui viene ricollegata eziologicamente la richiesta risarcitoria non vale a dimostrare che la diversa conclusione interpretativa cui era giunto il Ministero fosse viziata da negligenza o superficialità; e, comunque, un eventuale riconoscimento della qualifica di IRCCS non avrebbe garantito il rilascio degli ulteriori provvedimenti ampliativi auspicati dalla Fondazione quali l’autorizzazione all’ampliamento dei posti letto, l’accreditamento della struttura e la stipula di apposita convenzione con il SSN, trattandosi di scelte non automatiche e soggette a valutazione tecnico discrezionale dell’amministrazione. 12. In assenza di istanze cautelari, la causa è stata discussa e posta in decisione all’udienza pubblica del 18 ottobre 2018. dIRIttO 1. L’appello non si presta ad un favorevole apprezzamento, sotto una serie di profili - qui di seguito illustrati - che valgono a completare le argomentazioni articolate dal giudice di primo grado. 2. Nell’affrontare gli elementi oggettivi della fattispecie aquiliana di danno, la Fondazione assume la sussistenza di una consecuzione causale che porrebbe il pregiudizio dedotto in linea di stretta derivazione eziologica rispetto al provvedimento ministeriale del 9 dicembre 1997 - recante il diniego del riconoscimento quale IRCCS della struttura romana “San Raffaele”. 2.1. Ciò che si sostiene è che la nota ministeriale in questione avrebbe innescato una crisi finanziaria di proporzione tale da rendere improcrastinabile la vendita della struttura e non ulteriormente tollerabile l’attesa della definizione del giudizio avente ad oggetto il predetto provvedimento di diniego. 2.2. La descritta relazione di regolarità causale imporrebbe, dunque, che risultassero verificate tre concomitanti condizioni fattuali: un dissesto finanziario imputabile al provvedimento di diniego ministeriale (i); una stringente esigenza di vendita del complesso immobiliare, non altrimenti differibile neppure per il tempo di attesa della definizione del giudizio pendente (ii); una urgenza talmente impellente da giustificare la cessione della struttura anche a prezzi inferiori a quelli di mercato (iii). 2.3. A ben vedere, di nessuna delle due condizioni l’appellante offre una adeguata dimostrazione. 2.3.1. Quanto alla prima evenienza (argomentata per la prima volta solo nel secondo grado di giudizio), l’unico elemento degno di nota è rinvenibile nel richiamo alla Relazione dei Commissari Giudiziali redatta ex art. 172 Legge Fallimentare, in seno alla quale si legge che “i problemi suesposti sono stati certamente aggravati dal fatto (espressamente dedotto nel ricorso introduttivo del procedimento di concordato) che Fondazione abbia subito una notevolissima perdita “straordinaria” alla fine degli anni novanta del secolo scorso con l’operazione “ospedale san Raffaele Roma”, la cui cessione in difetto di accreditamento ha generato una significativa minusvalenza”. Occorre tuttavia rilevare che la documentazione in oggetto (alla pari dei documenti 8 e 9 depositati il 7 luglio 2017) non risulta allegata in primo grado (come eccepito dalla parte resistente a pag. 27 della memoria 1 luglio 2017) e come tale essa è inammissibile, non potendo essere qualificata né come meramente integrativa di altra documentazione già legittimamente presente agli atti del giudizio di primo grado (cfr. Cons. Stato, Iv, n. 5509/2014), e tale dunque da non alterare il thema decidendum già offerto al primo giudice; né come "prova indispensabile ai fini della decisione della causa" (art. 104, comma 2, c.p.a.). ed invero, tale declaratoria di "indispensabilità" deve conseguire ad una valutazione non già RASSeGNA AvvOCAtURA 146 deLLO StAtO - N. 3/2018 relativa alla "mera rilevanza dei fatti dedotti", ma alla "verificata impossibilità di acquisire la conoscenza di quei fatti con altri mezzi che la parte avesse l'onere di fornire nelle forme e nei tempi stabiliti dalla legge processuale" (cfr. Cons. Stato, sez. v, 26 settembre 2013, n. 4793 e 19 giugno 2013, n. 3339). Solo in questo modo si rende infatti possibile conciliare il potere riconosciuto al giudice dall'art. 63, comma 1, con i divieti, coerenti con il principio dispositivo, di cui all'art. 104, cod. proc. amm. (cfr. Cons. Stato, sez. Iv, 3 agosto 2016, n. 3509). Anche se esaminata nei suoi contenuti, la documentazione in oggetto non apporta significativi contributi alla tesi della parte appellante. Il passaggio evidenziato dalla parte appellante è quello, innanzi riportato, in cui si afferma che la cessione dell’Ospedale ha aggravato la situazione finanziaria generando una minusvalenza. tuttavia, tale asserzione si pone a valle dell’analisi di un arco temporale successivo al 2000 e fa quindi riferimento ad una fase temporale non rilevante ai fini della tematica oggetto di causa (posto che la vendita a tosinvest è intervenuta nel corso del 1999). In altri termini, il dato qualificante di cui l’appellante avrebbe dovuto offrire dimostrazione si colloca nella fase antecedente alla vendita del complesso e riguarda la relazione tra il mancato accreditamento ed il prodursi della situazione di crisi della Fondazione. Proprio dal documento menzionato dalla parte appellante si evince che negli anni 2000-2010 sono state poste in essere numerose operazioni finanziarie, poi rivelatesi infruttuose e tali da determinare il dissesto dell’ente (cfr. pagg. 143 - 146, 183 e ss.); ma proprio il fatto che l’analisi dei bilanci posta a base della ricostruzione delle origini della crisi prenda in esame i conti economici del periodo 2000-2010, quindi un lasso temporale successivo al 1999 (data di vendita della struttura laziale), rende tale documento non pertinente ai fini della dimostrazione della tesi sostenuta in appello. Quanto alle cause “determinanti” il dissesto finanziario, nella relazione in esame si spiega, in sintesi, che “la causa primaria del dissesto di Fondazione pare essere legata prevalentemente alla politica di espansione e sviluppo nell’ambito dell’attività ospedaliera, perseguita con ostinazione e indipendentemente dalle capacità patrimoniali e finanziarie di Fondazione e delle associazioni di riferimento”. dunque, non solo il mancato riconoscimento come IRCCS del presidio romano non viene menzionato tra i fattori determinanti il dissesto (analiticamente indicati alle pagg. 143 – 146, 183 e ss. del documento), ma appare scarsamente significativo anche il riferimento al mancato accesso al regime e ai benefici finanziari tipici delle IRCCS cui l’Ospedale, una volta riconosciuto come tale, avrebbe potuto ambire: dette utilità economiche si sarebbero realizzati a valle del provvedimento di riconoscimento sicché la loro mancata erogazione non assume rilevanza nella relazione consequenziale che si assume sussistere, a monte, tra il provvedimento del Ministero della Salute e la crisi finanziaria della Fondazione. 2.3.2. Anche il secondo profilo causale evidenziato in premessa non appare esaustivamente esplorato dalle deduzioni della parte appellante. Che la situazione di crisi economica fosse già in atto nel 1999 e di proporzioni tali da rendere impellente la necessità di vendere il complesso immobiliare laziale, è circostanza riferita in atti ma non riscontrabile sulla base di elementi economici o fattuali. A suo riscontro, infatti, non vengono fornite prove concludenti, indicative dell’insostenibilità economica di un’attesa commisurata ai tempi processuali di definizione della controversia instaurata innanzi al tar. Anzi, l’insieme di dati ricavabili dalla consistenza del fatturato riferito all’anno 2000 (pag. 150 della relazione cit.), nonché dalla entità delle plusvalenze e dei ricavi straordinari realizzati dal 2000 al 2002 (pag. 160 e ss.) oltre che delle immobilizzazioni materiali e immateriali incre CONteNzIOSO NAzIONALe 147 mentate dal 2000 al 2009 (pag. 166), induce a ritenere che l’azienda disponesse ancora, nel 1999, di una apprezzabile capacità operativa e finanziaria, e di tanto si ricava conferma dalla stessa Relazione dei Commissari Giudiziali nella parte in cui vi si afferma che “la necessità di un riequilibrio finanziario .. era ben conosciuta dal Cda, così come il fatto che sarebbe stato indispensabile il contenimento dei costi di gestione e la limitazione degli investimenti. tuttavia, la storia dell’ultimo decennio evidenzia con chiarezza che a tali propositi non è stato dato alcun seguito nella realtà, tanto che il livello degli investimenti e delle spese sostenute, anche in attività non core, è cresciuto fino ad andare fuori controllo” (pag. 170). Anche i documenti allegati sub. 8 e 9 - verbali del Cda del 3 maggio e 11 giugno 1999 (depositati il 7 luglio 2017), pur processualmente inammissibili in quanto prodotti per la prima volta in grado di appello, non contengono elementi concludenti in senso favorevole alla tesi della parte appellante, non ricavandosi dagli stessi indicazioni univoche circa la stretta indifferibilità della vendita e l’impossibilità di attendere il deposito della sentenza del tar. 2.3.3. Risulta, infine, del tutto indimostrato che il provvedimento ministeriale abbia reso necessaria la vendita della struttura immobiliare anche a prezzi inferiori al suo reale valore di mercato. Ammesso e non concesso (per quanto sin qui esposto) che possa statuirsi una relazione di causalità tra il provvedimento ministeriale e il dissesto finanziario della Fondazione, sarebbe stato onere della parte appellante fornire dimostrazione di una condizione di indilazionabile urgenza del tutto incompatibile anche con un tempo di attesa che, una volta fissata l’udienza di discussione innanzi al tar, poteva ritenersi incerto ma ragionevolmente contenuto. A ciò aggiungasi (come correttamente eccepito dalla difesa erariale) che, nel momento stesso della vendita, la qualifica di IRCCS si sarebbe persa, in quanto essa non si trasferisce con la vendita della singola struttura, bensì resta in capo all’ente nel suo complesso. Come anche affermato dalla sentenza tar n. 2361/1999 (alle pagg. 10 e 11), il riconoscimento del carattere scientifico, secondo l’innovazione contenuta nell’art. 1 del d.lgs. 269/93, riguarda infatti l’ente come tale e non le singole strutture e i presidi ospedalieri che da esso dipendono. Né vale sostenere, in senso contrario, che la presenza di detto status già al tempo della vendita ne avrebbe resa verosimile la concessione anche in favore dell’acquirente, inducendo quest’ultimo ad offrire comunque un prezzo proporzionalmente più alto. La prospettiva di un nuovo riconoscimento in favore dell’acquirente assume la consistenza di una mera possibilità di fatto, la cui aleatorietà si riflette anche sull’incidenza, assai incerta, che la stessa avrebbe potuto assumere sulla quantificazione del prezzo che l’acquirente medesimo sarebbe stato disponibile a corrispondere. Non può mancarsi di considerare, inoltre, che per preservare l’elemento di valorizzazione dell’immobile conseguente all’eventuale acquisizione della qualifica IRCCS, la Fondazione avrebbe potuto tutelarsi - se non attendendo l’ormai imminente conclusione del giudizio di primo grado - quantomeno inserendo nel contratto di vendita una clausola di revisione del prezzo od una analoga salvaguardia per l’ipotesi di esito del giudizio a sé favorevole. La mancata adozione di questa residuale cautela indebolisce ulteriormente la complessiva prospettazione fattuale e causale posta a base della richiesta risarcitoria. 2.3.4. Per tutto quanto esposto, le valutazioni espresse dal tar in merito alla insussistenza del nesso causale trovano conferma anche in questo grado di giudizio e valgono a giustificare la reiezione della domanda risarcitoria. 3. Per concludere occorre rilevare che in alcuni passaggi delle argomentazioni difensive della parte appellante si assume che “... la colposa negligenza della P.a. ... è rinvenibile, oltre che nell’illegittimo diniego posto alla richiesta di qualificazione della sede romana dell’istituto RASSeGNA AvvOCAtURA 148 deLLO StAtO - N. 3/2018 ... anche nella condotta dalla stessa tenuta nelle more dello svolgimento del relativo giudizio ... con particolare riferimento alle trattative instaurate con la Fondazione per l’acquisto dello stabilimento romano ...”, condotta poi definita “... ai limiti della negligenza e della mala fede ...” (pagg. 3 e 4 della memoria 17 settembre 2018). In un successivo passaggio argomentativo la Fondazione appellante imputa all’Amministrazione di aver svolto strumentali trattative “al ribasso”, condotte offrendo un prezzo inadeguato al vero valore dell’immobile, e di avere utilizzato il diniego di accreditamento come “una leva … per giustificare la propria incongrua offerta” e costringere la Fondazione ad alienare precipitosamente l’immobile. Si tratta tuttavia di deduzioni inammissibili, perché del tutto incoerenti con il fatto costitutivo della fattispecie risarcitoria originariamente posto a base del giudizio, ovvero l’illegittimità del provvedimento amministrativo di diniego del riconoscimento come IRCCS, giudizialmente accertata. L’ipotesi di una condotta dell’amministrazione preordinata all’avvio di trattative al ribasso e finalizzata ad una operazione di mercato speculativa, prefigura, dunque, una tipologia di responsabilità “da comportamento” del tutto inedita rispetto a quella “da atto illegittimo” originariamente dedotta e comporta, pertanto, una inammissibile variazione dei fatti costitutivi e della causa petendi posta a base dell’azione risarcitoria. 4. Per le decisive ragioni sin qui esposte, che consentono di prescindere dalle ulteriori eccezioni sollevate dalla difesa erariale, l’appello principale non può trovare accoglimento, mentre l’appello incidentale condizionato proposto dal Ministero della Salute deve essere dichiarato inammissibile. 5. Le spese di lite seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. dichiara inammissibile l’appello incidentale. Condanna la parte appellante a rifondere in favore della parte appellata le spese del presente grado di giudizio che liquida in complessivi €. 3.000,00, oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 ottobre 2018. CONteNzIOSO NAzIONALe 149 Un esauriente excursus normativo sul prezzo dei farmaci generici Consiglio Di stato, sezione teRza, sentenza 27 novembRe 2011 n. 6716 Con la sentenza in rassegna, il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso in appello proposto da AIFA, offrendo un’esaustiva ricostruzione del quadro normativo che regola la materia della contrattazione del prezzo dei farmaci generici, e confermando la vigenza della norma (art. 3, comma 130, l. 549/1995), che condiziona la concessione al generico della medesima classificazione dell’originatore all’offerta di un ribasso di prezzo pari almeno al 20% rispetto a quello praticato dall’originatore. La sentenza si segnala per le rilevanti implicazioni in termini di contenimento della spesa pubblica: quanto più consistente è, infatti, il ribasso del prezzo offerto dal titolare dell’AIC del farmaco generico, tanto più alto sarà il margine di risparmio per il Servizio sanitario nazionale: per effetto della previsione di cui all’art. 7, comma 1, d.L. 347/2001 convertito dalla legge 16 novembre 2001, n. 405, infatti, “i medicinali, aventi uguale composizione in princìpi attivi, nonché forma farmaceutica, via di somministrazione, modalità di rilascio, numero di unità posologiche e dosi unitarie uguali, sono rimborsati al farmacista dal servizio sanitario nazionale fino alla concorrenza del prezzo più basso del corrispondente prodotto disponibile nel normale ciclo distributivo regionale ...”. marina Russo (*) Consiglio di stato, sezione terza, sentenza 27 novembre 2018 n. 6716 - Pres. Franco Frattini, est. Giulia Ferrari - Agenzia italiana del farmaco - Aifa (avv. gen. Stato) c. eg s.p.a. (avv. Claudio Marrapese). FAttO 1. Con ricorso notificato il 13 ottobre 2017 e depositato al tar Lazio il successivo 17 ottobre, la eg s.p.a. ha impugnato la determinazione del direttore generale dell'Aifa del 19 luglio 2017, nella parte in cui il medicinale Clonazepam eG, nella nuova confezione “2,5 mg/ml gocce orali soluzione” (1 flacone), è stato autorizzato per la commercializzazione in fascia C/RR. In fase istruttoria, infatti, non era stato raggiunto un accordo tra il Comitato tecnico dell’Aifa e la società. All’offerta iniziale della eg di un prezzo al pubblico più basso del 10%, rispetto a quello della similare confezione già presente sul mercato in classe A (e cioè in fascia di rimborso a carico del Servizio sanitario nazionale), l’Aifa aveva replicato chiedendo una maggiore riduzione del prezzo fino al 20%, mentre la società si era detta disponibile a un ribasso massimo del 15%, ogni ulteriore aumento della percentuale incidendo sul prezzo ex factory. La società ha censurato la classificazione del suddetto medicinale in classe C, quale conse- (*) Avvocato dello Stato. RASSeGNA AvvOCAtURA 150 deLLO StAtO - N. 3/2018 guenza del mancato accordo tra le parti sul prezzo al pubblico necessario ai fini del collocamento in classe A: ad avviso della eg, l’offerta di un prezzo al pubblico più basso del 10% rispetto a quello della confezione Branded già presente sul mercato in classe A, successivamente ridotto di un ulteriore 5% in occasione della riunione tenutasi in data 30 marzo 2017 dinnanzi al Comitato Prezzi e Rimborso (“CPR”), avrebbe dovuto essere considerata sufficiente ai fini della classificazione in “A”. 2. dinanzi al tar Lazio, sede di Roma, si è costituita in giudizio l’Aifa, sostenendo l’infondatezza del ricorso sul rilievo che l’art. 3, comma 130, l. 28 dicembre 1995, n. 549, come modificato dalla l. 8 agosto 1996, n. 425, stabilisce che il prezzo dei generici deve essere inferiore almeno del 20% al prezzo del relativo originator: “Se è offerto ad un prezzo almeno del 20 per cento inferiore a quello della corrispondente specialità medicinale a base dello stesso principio attivo con uguale dosaggio e via di somministrazione, già classificata nelle classi a) o b) di cui all’art. 8, comma 10, l. 24 dicembre 1993, n. 537, il medicinale generico ottiene dalla Commissione unica del farmaco la medesima classificazione di detta specialità medicinale”. 3. Con sentenza 21 febbraio 2018, n. 1980, la sez. III quater del tar Lazio, sede di Roma, ha accolto il ricorso, ritenendo non applicabile il comma 130 dell’art. 3, l. n. 549 del 1995, il quale prevede che, ove il prezzo offerto per un medicinale generico sia inferiore almeno del 20% rispetto a quello praticato dall’originator, esso ottiene la medesima classificazione di detta specialità medicinale; detta norma, in palese conflitto con il sistema normativo successivamente assestatosi, va considerata oggi tacitamente abrogata. 4. Con appello notificato il 23 aprile 2018 e depositato il successivo 8 maggio l’Aifa ha impugnato la predetta sentenza n. 1980 del 21 febbraio 2018 del tar Lazio, affermando che il giudice di primo grado avrebbe errato nel sostenere l’intervenuta abrogazione del d.m. 4 aprile 2013 e l’inapplicabilità dell’art. 3, comma 130, l. n. 549 del 1995. Per dimostrare la correttezza del proprio assunto l’Aifa ha ricostruito il contesto normativo di riferimento con la relativa evoluzione cronologica, interamente volto ad introdurre un criterio di negoziazione del prezzo dei farmaci, ai fini della loro rimborsabilità da parte del SSN, che si basa sulla convenienza per lo stesso Servizio sanitario, che si esplica nel raggiungimento del massimo risparmio. L’Aifa ha quindi concluso nel senso che: a) un farmaco generico può ottenere la medesima classificazione dell’originator purché sia offerto un prezzo almeno del 20% inferiore a quello del farmaco originatore; b) i nuovi farmaci, che non comportano un vantaggio terapeutico rispetto a quelli già in commercio (tra cui non possono rientrare i farmaci generici), possono essere autorizzati ed immessi sul mercato esclusivamente nel caso in cui il loro prezzo è inferiore o uguale al prezzo più basso dei medicinali di quelli della medesima categoria terapeutica omogenea; c) alcune categorie di farmaci (generici, biosimilari e di medicinali di importazione parallela) possono essere collocati automaticamente nella classe di rimborso cui appartiene il farmaco di riferimento, qualora l’azienda titolare proponga un prezzo di vendita di evidente convenienza per il SSN; prezzo che è tale laddove sia individuato secondo i ribassi previsti dal “decreto scaglioni”. Con precipuo riferimento al “decreto scaglioni” l’Aifa ha ricordato che le sentenze del tar Lazio (n. 3803 del 2014 e n. 11899 del 2014), che avevano annullato il d.m. 4 aprile 2013 (cd. decreto scaglioni), adottato ai sensi dell’art. 12, d.l. n. 158 del 2012, sono state riformate dalla sez. III del Consiglio di Stato (sentenze nn. 629 e 630 del 30 gennaio 2018). Ne deriva che le soglie minime di ribasso ivi stabilite (pari al 30% rispetto al prezzo delle confezioni in classe H e al 45% rispetto al prezzo delle confezioni in classe A) sono ad oggi CONteNzIOSO NAzIONALe 151 vigenti e sono state stabilite in tal misura proprio in considerazione dello sconto minimo di partenza del 20%, già previsto dall’art. 3, comma 130, l. n. 549 del 1995. da tali premesse consegue che il prezzo dei medicinali generici deve certamente garantire un risparmio al SSN rispetto al prezzo del medicinale di riferimento. Ha aggiunto l’Aifa che l'art. 48, comma 5, lett. e) d.l. n. 269 del 2003 – richiamato dal tar Lazio a supporto della conclusioni cui è pervenuto – a mente del quale, ai fini del rilascio della richiesta fascia di rimborsabilità, è necessario e sufficiente il fatto che il prezzo del medesimo medicinale sia inferiore o uguale al prezzo più basso dei medicinali per la relativa categoria terapeutica omogenea, vale solo per i nuovi farmaci non comportanti vantaggio terapeutico, e non anche per i medicinali generici-equivalenti di un medicinale di riferimento autorizzato all’immissione in commercio in Italia, indipendentemente dal dosaggio di quest’ultimo. Ai medicinali generici-equivalenti si applica, invece, l’art. 3, comma 130, l. n. 549 del 1995, che vi si riferisce espressamente, in correlazione con le disposizioni dell’art. 48, comma 33, d.l. n. 326 del 2003 e della delibera CIPe n. 3 del 2001. 5. Si è costituita in giudizio la eg s.p.a., sostenendo l’infondatezza dell’appello. 6. Alla pubblica udienza del 15 novembre 2018 la causa è stata trattenuta per la decisione. dIRIttO 1. Come esposito in narrativa la eg s.p.a., società operante nel settore della commercializzazione dei farmaci generici, ha impugnato la sentenza del tar Lazio, sede di Roma, sez. III quater, 21 febbraio 2018, n. 1980, che ha accolto il ricorso proposto avverso la determinazione del direttore generale dell'Aifa – Agenzia Italiana del Farmaco del 19 luglio 2017, nella parte in cui il medicinale Clonazepam eG (principio attivo: clonazepam, indicato per le forme cliniche epilettiche nel neonato e nel bambino) nella nuova confezione “2,5 mg/ml gocce orali soluzione” (1 flacone) è stato autorizzato per la commercializzazione in classe C anziché, come richiesto dalla eg – unica produttrice del generico del relativo originator – in classe A (e cioè in fascia di rimborso a carico del Servizio sanitario nazionale). La questione, che il Collegio è chiamato a risolvere, è la vigenza o meno del comma 130 dell’art. 3, l. 28 dicembre 1995, n. 549, che dispone che un farmaco generico può ottenere la medesima classificazione dell’originator purché offra un prezzo almeno del 20% inferiore a quello del farmaco originatore, vigenza affermata da Aifa, che ha ritenuto tale norma applicabile alla richiesta di eg s.p.a. di inserire il proprio farmaco in fascia A, pur avendo offerto un prezzo al pubblico più basso del 10% (per poi arrivare al 15%) rispetto a quello della similare confezione già presente sul mercato in classe A; negata, invece, da eg (e dal tar Lazio nell’impugnata sentenza n. 1980 del 2018) sul presupposto che la stessa fosse stata tacitamente abrogata (perché di fatto superata) dall’art. 48, comma 33, lett. e), d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla l. 24 novembre 2003, n. 326, che ha introdotto la contrattazione del prezzo del farmaco tra Aifa e società produttrice, e dal precedente comma 5, il quale ha disposto che ottengono l’AIC e la relativa collocazione in fascia A i medicinali generici per i quali l’azienda propone un prezzo “inferiore o uguale al prezzo più basso”, praticato al pubblico al momento della richiesta. Abrogazione, infine, esclusa da Aifa in ragione del diverso campo applicativo; essendo l’art. 48, comma 5, lett. e), l. n. 269 del 2003 riferito ai nuovi farmaci non implicanti vantaggio terapeutico, non può riguardare i medicinali generici, i quali non possono definirsi “nuovi farmaci”, essendo equivalenti di un medicinale di riferimento, già presente sul mercato. Così inquadrata la vicenda contenziosa appare evidente che, come afferma l’Aifa nella memoria di replica depositata il 25 ottobre 2018, la questione che il Collegio è chiamato a deci RASSeGNA AvvOCAtURA 152 deLLO StAtO - N. 3/2018 dere ha carattere di principio, con la conseguenza che non assumono alcuna rilevanza gli effetti applicativi di una o l’altra soluzione nel caso in esame. 2. L’appello è fondato. Appare necessario, al fine del decidere, ripercorrere brevemente il complesso tessuto normativo, così come già descritto dal giudice di primo grado e puntualmente richiamato dalle parti in causa, sebbene con una lettura delle illustrate disposizioni contrastante. tale breve excursus consentirà di accertare la norma attualmente applicabile per determinare il prezzo dei farmaci generici. L’art. 3, comma 130, l. n. 549 del 1995 ha previsto che un farmaco generico può ottenere la medesima classificazione dell’originator purché sia offerto un prezzo almeno del 20% inferiore a quello del farmaco originatore. Con l’art. 7, d.l. 18 settembre 2001, n. 347 è entrato nel nostro ordinamento un nuovo sistema vincolato di rimborso del prezzo al pubblico dei farmaci di classe A, basato sul prezzo di riferimento per cui il Servizio sanitario nazionale rimborsa fino alla concorrenza del prezzo più basso del corrispondente prodotto disponibile sul mercato. A tal fine il farmacista, salvo eccezioni, è obbligato a sostituire il farmaco indicato in ricetta rossa con quello equivalente in fascia di rimborso al prezzo più economico presente nello stesso canale distributivo. L’art. 48, comma 5, d.l. n. 269 del 2003, nell’individuare i poteri in capo all’Agenzia italiana del farmaco, ha disposto (lett. e) che la stessa possa provvedere alla immissione di “nuovi” farmaci non comportanti un vantaggio terapeutico solo se il prezzo del medesimo medicinale è inferiore o uguale al prezzo più basso dei medicinali per la relativa categoria terapeutica omogenea. Il successivo comma 33 ha invece introdotto, dall’1 gennaio 2004, la “contrattazione”, tra Agenzia e Produttori, dei prezzi dei prodotti rimborsati dal Servizio sanitario nazionale, secondo le modalità indicate nella delibera Cipe 1 febbraio 2001, n. 3, che individua criteri oggettivi per la contrattazione del prezzo, legati ai costi sostenuti, al rapporto costi efficacia, ai prezzi esteri, al fatturato dell’impresa e agli investimenti. tale delibera Cipe, al punto 3, ha indicato i criteri per la richiesta di contrattazione, facendo sempre riferimento ai caratteri che il “nuovo” medicinale deve avere: deve essere utile per la prevenzione o il trattamento di patologie o di sintomi rilevanti nei confronti dei quali non esiste alcuna terapia efficace o nei confronti dei quali i medicinali già disponibili forniscono una risposta inadeguata; deve avere un rapporto rischio/beneficio più favorevole rispetto a medicinali già disponibili in Prontuario per la stessa indicazione; deve avere una superiorità clinica significativa rispetto a prodotti già disponibili. tutti caratteri, dunque, che non possono che riferirsi a farmaci “nuovi”, e tali non sono i generici. Successivamente l’art. 11, comma 9, d.l. 31 maggio 2010, n. 78 ha previsto che “a decorrere dall’anno 2011, per l’erogazione a carico del Servizio sanitario nazionale dei medicinali equivalenti di cui all’art. 7, comma 1, d.l. 18 settembre 2001, n. 347, convertito, con modificazioni, dalla legge 16 novembre 2001, n. 405, e successive modificazioni, collocati in classe A ai fini della rimborsabilità, l’Aifa, sulla base di una ricognizione dei prezzi vigenti nei paesi dell’Unione europea, fissa un prezzo massimo di rimborso per confezione, a parità di principio attivo, di dosaggio, di forma farmaceutica, di modalità di rilascio e di unità posologiche. La dispensazione, da parte dei farmacisti, di medicinali aventi le medesime caratteristiche e prezzo di vendita al pubblico più alto di quello di rimborso, è possibile solo su espressa richiesta dell'assistito e previa corresponsione da parte dell’assistito della differenza tra il prezzo di vendita e quello di rimborso. I prezzi massimi di rimborso sono stabiliti in misura idonea a realizzare un risparmio di spesa non inferiore a 600 milioni di euro annui, che restano nelle disponibilità regionali”. CONteNzIOSO NAzIONALe 153 da ultimo il comma 5 dell’art. 12 del decreto Balduzzi, approvato con d.l. 13 settembre 2012, n. 158, all’ultimo alinea ha disposto – con precipuo riferimento ai farmaci generici – che ciascun medicinale, che abbia tali caratteristiche, è automaticamente collocato, senza contrattazione del prezzo, nella classe di rimborso a cui appartiene il medicinale di riferimento qualora l'azienda titolare proponga un prezzo di vendita di evidente convenienza per il Servizio sanitario nazionale. e' considerato tale il prezzo che, rispetto a quello del medicinale di riferimento, presenta un ribasso almeno pari a quello stabilito con decreto adottato dal Ministro della salute, su proposta dell'Aifa, in rapporto ai volumi di vendita previsti. dunque il decreto Balduzzi per i farmaci generici ha escluso la contrattazione del prezzo nel caso in cui l’Azienda produttrice indichi un prezzo “conveniente”, secondo i parametri indicati dal decreto del Ministero della salute, adottato ai sensi del citato comma 5, il quale prevede, come ribassi percentuali rispetto al prezzo delle confezioni in classe A, gli scaglioni del 45%; 47,5%; 50%; 55%; 60%; 65%; 70% e 75% nonché, come ribassi percentuali rispetto al prezzo delle confezioni in classe H, gli scaglioni del 30%; 31,7%; 33,3%; 36,7%; 40%; 43,3%; 46,7% e 50%. tale ultimo decreto (c.d. decreto scaglioni), approvato dal Ministro della salute il 4 aprile 2013, è stato oggetto di contenzioso dinanzi al giudice amministrativo, attivato proprio dall’attuale appellata eg s.p.a.. Contrariamente a quanto assunto dal giudice di primo grado nell’impugnata sentenza il d.m. 4 aprile 2013 è pienamente efficace, atteso che il contenzioso si è concluso con le sentenze della sez. III del Consiglio di Stato nn. 629 e 630 del 30 gennaio 2018 che - in riforma delle sentenze della sez. III quater del tar Lazio 8 aprile 2014, n. 3803 e 27 novembre 2014, n. 11899, che tale decreto avevano annullato - hanno accolto l’appello dell’Aifa. Il d.m. 4 aprile 2013, al comma 4 dell’art. 1 rinvia nuovamente alla negoziazione ove il titolare dell'autorizzazione all'immissione in commercio del medicinale generico proponga un prezzo superiore a quello di evidente convenienza per il Servizio sanitario nazionale, secondo la procedura dettata dalla delibera del Comitato interministeriale per la programmazione economica 1° febbraio 2001, n. 3. da questo breve, ma complesso excursus può evincersi che l’art. 12, comma 5, d.l. n. 158 del 2012 ha escluso la contrattazione per i prezzi dei farmaci generici solo per l’ipotesi in cui l’Azienda produttrice indichi un prezzo “conveniente”. Si fa invece ricorso alla contrattazione se il prezzo proposto per il generico è superiore alle percentuali introdotte dal cd. decreto scaglioni, applicando i criteri dettati dalla delibera Cipe n. 3 del 2001. Il d.l. n. 158 recupera pertanto la contrattazione introdotta dalla norma generale del 2003 per “calmierare” il prezzo del medicinale, se quello offerto non è conveniente. Resta però fermo il limite di un prezzo che sia almeno del 20% inferiore a quello del farmaco originatore, previsto dalla norma speciale sui generici, introdotta dal comma 130 dell’art. 3, l. n. 549 del 1995. Si tratta di conclusione peraltro coerente con la differenza intrinseca che sussiste tra farmaco generico e originator. Il prezzo dei medicinali generici deve certamente garantire un risparmio al SSN rispetto al prezzo del medicinale di riferimento, il quale sconta il maggiore costo affrontato dal produttore per il brevetto. In conclusione, come condivisibilmente afferma l’Aifa, l’art. 48, d.l. n. 269 del 2006 disciplina la diversa fattispecie dei farmaci “nuovi” e non può aver abrogato tacitamente il comma 130 dell’art. 3, l. n. 549 del 1995, norma speciale che attiene al diverso ambito dei farmaci generici. Né è possibile ritenere che la legge del 1995 sia stata superata dal decreto Balduzzi e dal decreto ministeriale, adottato in applicazione del primo. L’abrogazione tacita presupporrebbe, infatti, una incompatibilità tra la predetta previsione e quella successiva intervenuta sempre RASSeGNA AvvOCAtURA 154 deLLO StAtO - N. 3/2018 per disciplinare il prezzo dei farmaci generici. tale incompatibilità non è però per nulla ravvisabile. ed invero, il ricorso alla contrattazione per i prezzi dei farmaci generici è previsto per l’ipotesi in cui l’Azienda produttrice indichi un prezzo non “conveniente”, ma resta fermo il ribasso di almeno il 20% rispetto al prezzo del farmaco originatore. Se è offerto ad un prezzo inferiore almeno del 20 % a quello della corrispondente specialità medicinale a base dello stesso principio attivo con uguale dosaggio e via di somministrazione, il medicinale generico otterrà la medesima classificazione del farmaco originator. 3. L’appello deve quindi essere accolto, con conseguente riforma della sentenza del tar Lazio, sede di Roma, sez. III quater, 21 febbraio 2018, n. 1980. La complessità della vicenda contenziosa giustifica la compensazione delle spese e degli onorari del giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza del tar Lazio, sede di Roma, sez. III quater, 21 febbraio 2018, n. 1980, respinge il ricorso di primo grado. Compensa tra le parti in causa le spese e gli onorari del presente grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 novembre 2018. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ Il Codice dell’Amministrazione digitale: genesi, evoluzione, principi costituzionali e linee generali Enrico De Giovanni* Come è ben noto fin dai primi anni ‘90 i vari governi succedutisi alla guida del Paese hanno dato impulso, con sempre crescenti impegno ed attenzione, all’opera di modernizzazione della Pubblica Amministrazione statale, ed altrettanto hanno fatto gli amministratori regionali e locali. Questo processo si è sviluppato attraverso il perseguimento di vari obiettivi quali, ad esempio, la semplificazione amministrativa e normativa, le riforme del pubblico impiego, la ridefinizione di strutture e relative competenze di vari settori dello Stato: ma uno degli strumenti essenziali del processo è stato senz’altro l’impulso all’utilizzo delle nuove tecnologie; in questo quadro, all’inizio degli anni 2000 si è ritenuto che il processo di digitalizzazione dell’attività amministrativa non potesse prescindere dalla creazione di un idoneo quadro normativo; da questa convinzione è scaturito il Codice dell’amministrazione digitale. Senza dubbio, come è stato posto ripetutamente in luce anche dalla dottrina giuridica, “negli ultimi anni… l’evoluzione tecnologica ha rivoluzionato le modalità di produzione, conservazione e trasmissione delle conoscenze”, ed è “ormai costante idea che l’introduzione dell’informatica nell’amministrazione non sia un fine in sé, ma un mezzo per attuare i principi della buona amministrazione”. Da queste considerazioni è scaturita l’idea di un codice che raccogliesse e riordinasse in modo organico le principali norme in materia di utilizzo delle (*) Avvocato dello Stato, già Capo dell’Ufficio legislativo del Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il presente contributo è tratto da C. BOCCIA, C. CONTESSA, E. DE GIOVANNI, Codice dell’Amministrazione digitale, La Tribuna, Piacenza, 2018. rASSegnA AvvoCAtUrA 156 DeLLo StAto - n. 3/2018 tecnologie dell’informazione e della comunicazione nell’ambito della pubblica amministrazione, nonché quelle concernenti il valore giuridico del documento informatico e delle firme elettroniche anche nei rapporti tra privati, introducendo da un lato nella normativa vigente le modifiche e le integrazione utili ed opportune, ma che nello stesso tempo non inducesse discontinuità traumatiche nell’ordinamento; dunque un testo che, pragmaticamente, favorisse, nell’ambito di una sostanziale continuità, l’implementazione ed il miglioramento del processo di modernizzazione della P.A. e promuovesse in modo sempre più sicuro ed efficace l’uso, con rilevanza giuridica, delle nuove tecnologie nei rapporti tra privati e tra questi e l’Amministrazione. In sostanza, proseguita e rafforzata sulla base di opportuni investimenti l’opera di promozione di iniziative concrete ed operative per l’effettiva realizzazione dei progetti di e-government (già avviata nelle ultime legislature del ‘900, come già ricordato) si è avvertita la necessità di creare un nuovo contesto normativo, idoneo ad accogliere e sostenere, e talvolta addirittura imporre, questa sorta di rivoluzione silenziosa, che ha ormai cambiato la Pubblica amministrazione ed il volto stesso della nostra società. La redazione di un corpus normativo volto a raccogliere, coordinare, innovare e integrare le principali disposizioni in materia di informatica fu, in particolare, voluta nel 2003 dall’allora Ministro per l’innovazione e le tecnologie Lucio Stanca. Come lo stesso Stanca ricorda nella prefazione al suo volume “L’Italia vista da fuori e da dentro”, egli nel 2001 entrò “a far parte del governo italiano come ministro tecnico… La delega che mi fu assegnata, come Ministro senza portafoglio, era l’innovazione tecnologica, con particolare riferimento a quella digitale… con una particolare attenzione all’introduzione delle tecnologie digitali nella Pubblica Amministrazione”. Il Ministro, alla luce dell’esperienza dei primissimi anni di governo, ritenne utile l’introduzione nel nostro ordinamento di un unitario quadro legislativo, all’epoca mancante poiché le varie norme, primarie e secondarie, esistenti erano distribuite in modo disorganico in diverse fonti ed apparivano incomplete e, talvolta, disomogenee; si procedette quindi ad un ampio lavoro di rilettura critica della legislazione vigente, elaborando nuove strategie di approccio al problema normativo in questa delicata materia. Si intraprese quindi (chi scrive ne è diretto testimone poiché, in qualità di capo dell’Ufficio legislativo del Ministro, fu all’epoca officiato del difficile compito) un’opera di ricognizione delle disposizioni esistenti, di coordinamento e razionalizzazione delle stesse, di adeguamento alle normative europee nel frattempo emanate e di redazione di nuove norme laddove ve ne fosse necessità. Apparve subito chiaro che l’operazione avrebbe richiesto il concorso di diverse culture e professionalità, giacché i profili spiccatamente tecnico-informatici della normativa imponevano una stretta collaborazione tra giuristi e, ap LegISLAzIone eD AttUALItà 157 punto, informatici; a ciò si aggiunga che i profili legati in particolare alla formazione e conservazione del documento informatico imponevano anche l’acquisizione di contributi da parte di esperti di archivistica. Sotto altro profilo, considerati gli indubbi riflessi che la disciplina avrebbe avuto sugli utenti degli strumenti digitali e sulle imprese del settore, si ritenne utile acquisire, nel corso dei lavori, anche i punti di vista dei rappresentanti delle predette categorie. È stato grazie a questi apporti, ed in particolare a quello offerto dai valenti tecnici in servizio all’epoca presso il CnIPA (l’ex AIPA), ora divenuta AgID, ente pubblico operante nel settore dell’informatica, che il testo ebbe luce. Stanti le peculiari caratteristiche del redigendo testo si ritenne necessario provvedere a mezzo di un decreto legislativo, dunque previa legge di delega; ed in effetti il testo fu redatto in attuazione della delega contenuta nell’articolo 10 della legge 29 luglio 2003, n. 229 (“Interventi in materia di qualità della regolazione, riassetto normativo e codificazione - legge di semplificazione 2001”). Fu così svolto un lungo e complesso lavoro di redazione del primo testo del Codice dell'amministrazione digitale - per brevità d'ora in poi CAD - poi emanato a mezzo del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, predisposto di concerto dagli uffici del Ministro per l’innovazione e le tecnologie d’intesa con gli altri Ministeri interessati. nonostante l’intervenuta pubblicazione in gazzetta Ufficiale fin dal marzo 2005 si ritenne di procrastinare l’entrata in vigore del testo al 1° gennaio del 2006 nella convinzione (rivelatasi poi assai ottimistica) che le PP.AA., nei mesi intercorrenti tra la pubblicazione e l’entrata in vigore, avrebbero predisposto gli interventi necessari alla piena attuazione del testo; attuazione che invece, a tutt’oggi, è solo parziale. Due fondamentali idee ressero la redazione del Codice: il principio dell’esaustività del testo e quello della inevitabile necessità di un frequente futuro aggiornamento delle singole disposizioni. Il primo principio (opportunamente posto in luce dal Consiglio di Stato nel parere Ad. gen. 25 ottobre 2004, n. 10548) risponde all’esigenza di disporre di un testo che, sulla base di un insieme di disposizioni coerenti, complete e connesse, consenta a chiunque di rinvenire in modo agevole le norme che disciplinano l’uso degli strumenti digitali, facendo riferimento ad un unico articolato normativo; siffatto obiettivo è esplicitato nell’art. 73 del Codice medesimo (“Aggiornamenti”), il quale stabilisce che “la Presidenza del Consiglio dei ministri adotta gli opportuni atti di indirizzo e di coordinamento per assicurare che i successivi interventi normativi, incidenti sulle materie oggetto di riordino siano attuati esclusivamente mediante la modifica o l’integrazione delle disposizioni contenute nel presente Codice”. Il secondo deriva dalla consapevolezza dell’impetuoso e continuo progresso tecnologico, che rende in breve tempo obsolete o comunque superate le soluzioni tecniche precedenti, imponendo così al legislatore di adattare ci rASSegnA AvvoCAtUrA 158 DeLLo StAto - n. 3/2018 clicamente l’ordinamento alle nuove realtà: sotto questo profilo il CAD è stato concepito come un “work in progress”, un testo che, in relazione alla materia disciplinata, avrebbe richiesto aggiornamenti frequenti. nella dialettica fra la tendenziale staticità della legge e l’incessante dinamismo della tecnologia era quest’ultimo a dover prevalere; per la medesima ragione si è cercato un delicato equilibrio tra fonti normative di diverso rango, affidando quindi al CAD i principi generali e delegando a fonti secondarie, come disciplinate dall’art. 71, la regolazione tecnica; si vedrà poi come lo stesso articolo 71 abbia ricevuto significative riscritture nel tempo, miranti a garantire l’esistenza di uno strumento agile e flessibile di regolazione secondaria, idoneo a recepire nell’ordinamento gli effetti dell’evoluzione tecnologica. Ancora qualche osservazione sul momento di genesi del CAD; la norma di delega prevedeva la possibilità di un intervento integrativo e correttivo del legislatore delegato, che fu poi effettivamente esercitato; la delega prevedeva inoltre l’emanazione di disposizioni volte a consentire l’istituzione del Sistema Pubblico di Connettività (S.P.C.), cioè di una rete telematica, improntata ai principi di interconnessione, interoperabilità e cooperazione applicativa, che collegasse tutte le Amministrazioni Pubbliche italiane, a superamento della preesistente rete Unitaria delle Pubbliche Amministrazioni (r.U.P.A.) che coinvolgeva solo le Amministrazioni statali. Le relative norme furono emanate con autonomo decreto delegato (d.lgs. 28 febbraio 2005 n. 42), allo scopo di consentirne la tempestiva entrata in vigore (nel corso dello stesso anno 2005, senza attendere il 2006, anno cui entrò in vigore il CAD) e la conseguente sollecita realizzazione. Stante, tuttavia, la tendenziale esaustività del CAD, il testo del d.lgs. 42/2005 fu poi unificato al d.lgs. 82/2005 in sede di decreto integrativo e correttivo, salva poi la successiva abrogazione, negli anni seguenti, di numerosi articoli che avevano ormai esaurito la propria funzione. Dunque, come si è già segnalato, il CAD fu emanato nell’esercizio della delega volta al “riassetto in materia di società dell'informazione” contenuta nell’art. 10 della legge 29 luglio 2003, n. 229. In attuazione della delega furono promulgati 3 provvedimenti: nell’ordine il decreto legislativo 28 febbraio 2005, n. 42, recante l’istituzione del Sistema Pubblico di Connettività e della rete internazionale delle pubbliche amministrazioni; il decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, recante il “Codice dell’amministrazione digitale”; il decreto legislativo 4 aprile 2006, n. 159, recante integrazioni e correzioni al decreto legislativo n. 82 del 2005, con cui, fra l’altro fu integrato nel testo originario del decreto legislativo n. 82 del 2005 anche il citato d.lgs. 42 del 2005. Prima di illustrare sinteticamente il susseguirsi dei vari interventi di riforma del CAD (che, lungi dal comprovarne l’obsolescenza ne dimostrano, invece, il dinamismo e l’utilità), è opportuno fornire un quadro dell’ordina LegISLAzIone eD AttUALItà 159 mento prima della pubblicazione del testo originario, giacché attraverso questa ricostruzione è possibile comprendere meglio alcuni rilevanti profili del codice e formarsi un quadro più completo sulle ragioni e le finalità del testo e sulla sua struttura. 1. L’evoluzione normativa. Si ripercorrerà in estrema sintesi l’evoluzione della disciplina positiva dell’uso delle tecnologie informatiche nel nostro ordinamento, evoluzione nella quale assume una particolare rilevanza la normativa in materia di documento informatico; a questo proposito si dirà subito che il CAD, pur denominandosi “Codice dell’amministrazione digitale” (ma attenzione, il termine amministrazione si riferisce all’agire amministrativo e non al soggetto P.A.) non è diretto solo a soggetti pubblici, cioè non contiene solo norme dirette a disciplinare l’organizzazione delle pubbliche Amministrazioni e l’utilizzo degli strumenti informatici da parte di quest’ultima, ma reca anche varie importanti discipline applicabili anche ai privati (e fra queste di particolare rilevanza sono quelle inerenti al documento informatico), secondo quanto espressamente chiarito dall’art. 2 del Codice. La presenza di norme di natura civilistica nell’ambito di un testo normativo in buona parte diretto a porre regole per le PP.AA. non è casuale e trova una precisa origine storico-normativa. Le norme sul documento informatico sono state infatti introdotte nell’ordinamento italiano nell’ambito di discipline pubblicistiche; il fondamentale riconoscimento della piena rilevanza giuridica del documento informatico si ebbe con l’articolo 15, comma 2, della legge 15 marzo 1997, n. 59, recante “Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa” pubblicata sulla g.U. n. 63 del 17 marzo 1997, una delle più importanti fra le cosiddette “leggi Bassanini”. La disposizione, tuttora in vigore poiché mai abrogata e pienamente compatibile con la successiva produzione legislativa, così recita: “gli atti, dati e documenti formati dalla pubblica amministrazione e dai privati con strumenti informatici… sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge”. Da allora il legislatore italiano, in particolare nel CAD, ha disciplinato alcuni importanti profili civilistici in contesti normativi essenzialmente pubblicistici, e ciò anche in ossequio al segnalato principio di omnicomprensività e agevole leggibilità della disciplina legislativa che ha ispirato il CAD. In merito al ricordato art. 15, comma 2, va osservato che esso, a rigore, non appariva indispensabile stante il generale principio di libertà delle forme vigente nel nostro ordinamento; dunque, probabilmente, la solenne affermazione della validità e rilevanza a tutti gli effetti di legge del documento informatico fu inutile sul piano meramente normativo; tuttavia essa fu di capitale importanza sul piano rASSegnA AvvoCAtUrA 160 DeLLo StAto - n. 3/2018 concreto e, per così dire, psicologico, poiché spazzò via ogni dubbio (pur se infondato) sull’idoneità delle nuove tecnologie a dare vita e sostanza ad un’attività giuridicamente rilevante e dunque costituì una pietra miliare nello sviluppo dell’utilizzo delle I.C.t. nei rapporti giuridici pubblicistici e privatistici nonché momento fondamentale nel formarsi delle relative regole giuridiche. Dunque ecco il primo esempio della caratteristica che tuttora connota la nostra produzione normativa: l’articolo 15, comma 2 si occupa, insieme, dei “documenti formati dalla pubblica amministrazione e dai privati”; dunque una legge, quale la 59/97, nel suo complesso esplicitamente destinata ad incidere sulla Pubblica Amministrazione e sull’azione amministrativa, nel momento in cui si occupa di informatica detta, in realtà, esplicitamente regole di diritto comune, valide per l’intero ordinamento ed applicabili anche ai rapporti tra privati. ecco che si manifesta l’orientamento del legislatore italiano, tuttora solidamente seguito, ad affidare a normative essenzialmente destinate a regolare l’organizzazione e l’azione della Pubblica Amministrazione anche la disciplina civilistica dell’utilizzo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Siffatto orientamento, pur se discutibile sul piano meramente astratto, trova la sua ragion d’essere in considerazioni pragmatiche ed ordinamentali: in effetti non vi è ragione per prevedere un diverso regime giuridico a seconda del fatto che l’uso dell’informatica sia realizzato da un soggetto pubblico o da un soggetto privato e dunque è ovvio che le medesime regole siano generalmente applicabili. Dunque non avrebbe ragion d’essere una frantumazione della disciplina in diverse fonti, con oggetto di natura privatistica o pubblicistica, che determinerebbe una dannosa frammentarietà ed una complessa conoscibilità dell’ordinamento. Per tali ragioni anche nella successiva produzione normativa si è seguito l’orientamento descritto, affidando ad un testo destinato in larga misura alla pubblica amministrazione (appunto il “Codice dell’amministrazione digitale”) la disciplina di aspetti squisitamente privatistici, quali quelli del documento informatico, della sua conservazione e trasmissione e delle firme elettroniche. Altro aspetto caratterizzante dell’art. 15, comma 2 in esame è il rinvio della disciplina degli aspetti applicativi ad una norma sottordinata, nel caso di specie di rango regolamentare, scelta che, anch’essa, come sopra osservato, caratterizza tuttora la produzione normativa italiana nel settore. Si ritenne fin da allora, opportunamente, che la norma primaria dovesse contenere i principi generali, quelli che improntano ed orientano l’ordinamento di settore, lasciando la regolazione puntuale e tecnica a strumenti che più agilmente possono essere adeguati alla rapida evoluzione tecnologica. In attuazione dell’art. 15 fu infatti emanato il fondamentale decreto del Presidente della repubblica 10 novembre 1997, n. 513, che introdusse per la prima volta in Italia una disciplina organica del documento informatico, rin LegISLAzIone eD AttUALItà 161 viando, secondo il disposto dell’art. 3, ad un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri per la formulazione delle regole tecniche, decreto che fu emanato con la data dell’8 febbraio 1999. Il decreto disciplinava, nell’allegato tecnico, innanzi tutto, nel titolo I le regole tecniche per la formazione, la trasmissione, la conservazione, la duplicazione, la riproduzione e la validazione, anche temporale, dei documenti informatici. In tale parte del provvedimento era contenuta, in particolare, la disciplina delle firme digitali, soluzione tecnica a cui il legislatore italiano attribuiva rilevanza giuridica nettamente prevalente rispetto ad altri tipi di firma, e ciò anche al fine di garantire l’autenticità e l’immodificabilità del documento. nel titolo II si disciplinavano le “regole tecniche per la certificazione delle chiavi”, con puntuali disposizioni sui certificatori, cioè sui soggetti che rilasciano gli strumenti di sottoscrizione; il titolo III recava le “regole per la validazione temporale e per la protezione dei documenti informatici”; il titolo Iv dettava le “regole tecniche per le pubbliche amministrazioni”. va ricordato il contenuto di tali provvedimenti poiché le materie ivi disciplinate sono tuttora oggetto di disposizioni del CAD; le disposizioni sul documento informatico e sulle firme elettroniche confluirono poi, infatti, nel “Testo Unico sulla documentazione amministrativa”, di cui al decreto del Presidente della repubblica n. 445 del 2000; trattandosi di testo Unico c.d. “misto” fu possibile mantenere alle singole disposizioni “traghettate” nel corpus normativo unitario il rango, primario o secondario, che rivestivano nelle fonti di provenienza. Il totale recepimento del DPr 513/1997 determinò, fra l’altro, l’alterazione della struttura del regolamento, con modifica della successione originale degli articoli, il che tuttavia, non ne modificò la portata precettiva. Successivamente, come si vedrà, siffatte disposizioni costituirono parte essenziale del CAD, ove furono trasferite. nel frattempo, tuttavia, era stata emanata la direttiva europea 1999/93/Ce relativa ad un “quadro comunitario per le firme elettroniche”; direttiva che impattava direttamente e fortemente sulla disciplina del documento e delle firme elettronici presente nel DPr 445/2000, imponendo al legislatore italiano di attribuire una seppur graduata rilevanza giuridica anche a firme elettroniche non digitali; la direttiva fu recepita per la parte di livello legislativo con il decreto legislativo 23 gennaio 2002, n. 10, e per le norme regolamentari con successivo decreto del Presidente della repubblica: entrambi i provvedimenti hanno, in sostanza, operato con la tecnica della novellazione del t.U. 445/2000, sostituendo le norme (primarie e secondarie) superate dalla direttiva europea. Su quest’ultima fonte è intervenuto, sostanzialmente, il decreto legislativo n. 82 del 2005, cioè il Codice dell’amministrazione digitale, che ha depauperato, per quanto concerne gli aspetti informatici, il corpus normativo formato dal t.U. 445/2000, scorporando, appunto, le disposizioni sul documento informatico e sulle firme elettroniche, sulla base della considerazione che esse rASSegnA AvvoCAtUrA 162 DeLLo StAto - n. 3/2018 meglio figurano in un contesto normativo destinato a regolare l’uso, da parte delle PP.AA., dello strumento operativo costituito dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, contesto che vede siffatti strumenti non più sotto il profilo statico della “documentazione” ma li colloca in quello dinamico dell’organizzazione e del funzionamento. Le ricordate disposizioni sul documento informatico non sono, tuttavia, gli unici precedenti normativi del CAD. In particolare la vicenda relativa alla disciplina dell’uso delle tecnologie informatiche nell’azione amministrativa e tra i privati nelle sue forme più significative ed esplicite ha inizio nel 1990, con l’approvazione della legge 7 agosto 1990, n. 241, recante “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”, ove si rinviene un primo riconoscimento dell’uso dei prodotti dell’evoluzione tecnologica nello svolgimento di attività giuridicamente rilevante, appunto relativa in particolare all’attività amministrativa; esplicitamente nell’art. 22 si considera documento amministrativo anche ogni “rappresentazione … elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni, formati dalla pubblica amministrazione o, comunque, utilizzati ai fini dell’attività amministrativa”; l’articolo in parola è stato poi modificato dall’art. 15 della legge 11 febbraio 2005, n. 15, ma la definizione sopra ricordata, contenuta in particolare nel comma 1, lettera d), è tuttora presente. giova qui rilevare che, come è stato già rilevato in dottrina, il legislatore ha utilizzato, nel tempo, una terminologia molto varia per indicare strumenti o prodotti riconducibili a quelle che oggi definiamo tecnologie digitali; si sono così usati i termini “elettromagnetico”, “elettrico”, “magnetico”, “ottico”, “informatico”, “telematico”, “digitale”; e ciò a prescindere dal puntuale significato tecnico che ciascuno di questi vocaboli assume. L’interprete, a nostro giudizio, deve astrarsi, nel caso di specie, da una puntuale ricostruzione del significato della singola espressione utilizzata, considerandole tutte come sostanziali sinonimi, volti ad indicare, appunto, strumenti, servizi o prodotti dell’ICt. Accanto alla l. 241/90 va qui rammentato il fondamentale decreto legislativo 12 febbraio 1993, n. 39, recante “Norme in materia di sistemi informativi automatizzati delle amministrazioni pubbliche a norma dell’articolo 2, comma 1, lettera mm), della legge 23 ottobre 1992, n. 421”. Il decreto, tuttora in piccola parte in vigore, art. 3, comma 2, disciplinava, come recita l’articolo 1, “la progettazione, lo sviluppo e la gestione dei sistemi informativi automatizzati delle amministrazioni dello Stato”; fin da allora gli obiettivi del legislatore erano i seguenti: “a) miglioramento dei servizi; b) trasparenza dell’azione amministrativa; c) potenziamento dei supporti conoscitivi per le decisioni pubbliche; d) contenimento dei costi dell’azione amministrativa”. Per il raggiungimento di questi scopi la normativa stabiliva, tra l’altro, LegISLAzIone eD AttUALItà 163 che “gli atti amministrativi adottati da tutte le pubbliche amministrazioni sono di norma predisposti tramite i sistemi informativi automatizzati” (art. 3) e che “ogni amministrazione, nell’ambito delle proprie dotazioni organiche individua… un dirigente… quale responsabile per i sistemi informativi automatizzati” (art. 10). e soprattutto istituiva l’Autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione (A.I.P.A.) - dalle cui successive riforme discende l’odierna Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) - con vari e rilevanti compiti, descritti in particolare negli articoli 7, 8 e 9 del decreto. Fra i compiti più importanti vanno segnalati quelli consistenti nel dettare norme tecniche e criteri sulla progettazione, realizzazione e gestione dei sistemi informativi delle PP.AA.; la redazione del piano triennale dei relativi progetti intersettoriali; la composizione di contenuti operativi tra amministrazioni (art. 7); l’espressione di pareri obbligatori di congruità tecnico-economica sugli schemi; dei contratti per l’acquisizione di beni e servizi informatici di valore elevato (art. 8). L’emanazione di siffatto decreto costituisce la prima occasione in cui il legislatore italiano ha dedicato all’informatica (nel caso di specie, pubblica) un’attenzione ampia, puntuale e specifica, dettando un insieme articolato ed organico di norme, pur se esclusivamente rivolto alla diffusione dei “sistemi informativi informatizzati” presso le PP.AA. Il decreto legislativo 39/93 ha subito varie modifiche fino a giungere all’abrogazione quasi integrale: le modifiche più rilevanti sono state realizzate dal decreto legislativo n. 196 del 2003 che ha trasformato l’A.I.P.A. in C.n.I.P.A.; poi dal d.lgs. 177 del 2009, che ha ulteriormente trasformato il CnIPA in DigitPA, ente pubblico non economico, abrogando espressamente la gran parte delle disposizioni del d.lgs. 39/93; da ultimo, con l'articolo 19 del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, DigitPA è stata trasformata nella ricordata AgID, a cui sono destinate numerose disposizione del più recente decreto correttivo del CAD. Dopo il d.lgs. 39/93 vanno anche rammentati la l. 537/93, che ha previsto l’archiviazione su supporto ottico dei documenti per finalità amministrative e probatorie, nonché il D.P.r. 367/94 che ha statuito la validità del mandato informatico di pagamento. tornando all’evoluzione legislativa va ricordato che l’emanazione dell’originario decreto legislativo n. 82 del 2005 era stata preceduta dalla pubblicazione in gazzetta Ufficiale di un’altra importante legge caratterizzata da forte finalità sociale: si tratta della legge 9 gennaio 2004. n. 4, recante disposizioni per favorire l’accesso dei disabili agli strumenti informatici. La legge, approvata all’unanimità da entrambi i rami del Parlamento, reca varie disposizioni dirette alle Pubbliche Amministrazioni ed è tuttora in vigore. Altre disposizioni di notevole rilievo nella nostra materia sono contenute nel decreto del Presidente della repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, che ha istituito il sistema della posta elettronica certificata, attraverso cui è possibile rASSegnA AvvoCAtUrA 164 DeLLo StAto - n. 3/2018 attribuire alle e-mail trasmesse con particolari soluzione tecniche un valore legale analogo alle raccomandate con avviso di ricevimento cartacee. numerosi sono stati i successivi interventi del legislatore; alcuni di modifica del CAD, altri volti ad introdurre disposizioni extravaganti (talvolta inopportunamente al di fuori dell’unitario quadro normativo costituito dallo stesso Codice). Le principali modifiche al CAD sono state introdotte dalle seguenti norme: il già ricordato primo decreto correttivo e integrativo d.lgs. 4 aprile 2006, n. 159; la legge 28 gennaio 2009, n. 2; la legge 18 giugno 2009, n. 69, che conteneva anche la delega legislativa in base alla quale è intervenuta la significativa riforma del CAD promossa dal ministro Brunetta con il d.lgs. 30 dicembre 2010, n. 235, (Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, recante Codice dell'amministrazione digitale, a norma dell'articolo 33 della legge 18 giugno 2009, n. 69, Pubblicato nella gazz. Uff. 10 gennaio 2011, n. 6); il D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 convertito, con modificazioni, dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221; il d.lgs. 26 agosto 2016, n. 179 e, da ultimo, d.lgs. 13 dicembre 2017, n. 2017. Accanto alla descritta produzione di norme legislative e regolamentari si è posto l’esercizio della funzione di regolazione tecnica svolta dall’A.I.P.A. prima, poi dal C.n.I.P.A., da DigitPA ed oggi da AgID, funzione peraltro fortemente accentuata dalla riformulazione nell’ultimo correttivo dell’art. 71, che sostanzialmente ha affidato all’emanazione di Linee guida da parte di AgID l’intera regolazione tecnica e di dettaglio. Questo è dunque il quadro normativo, descritto nel suo formarsi cronologico, che si presenta oggi all’interprete ed all’operatore; un quadro ampio, certamente non ancora perfettamente compiuto ed equilibrato, che richiede ulteriori integrazioni ed affinamenti da parte di un legislatore competente e lungimirante, ma che certamente già offre un idoneo insieme di strumenti operativi ed indirizzi strategici e, dal punto di vista scientifico, costituisce un oggetto organico ed autonomo di conoscenza tale da potersi configurare come “diritto pubblico dell’informatica”, branca della più ampia scienza del “diritto dell’informatica”. 2. Il quadro dei principi costituzionali. Prima di affrontare l’analisi dei singoli articoli va tuttavia rappresentato in sintesi il quadro costituzionale in cui si muove il legislatore. Il CAD ha innanzi tutto mirato ad attuare la norma generale che disciplina l’azione amministrativa contenuta nell’articolo 97 Cost., che individua nei principi del buon andamento e dell’imparzialità i cardini essenziali dell’agire pubblico; con specifico riferimento all’informatica va poi tenuto presente l’art. 117, comma secondo, lettera r), che affida alla competenza legislativa dello Stato la disciplina del coordinamento informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale; un altro principio di essenziale ed ineludibile rilevanza è quello LegISLAzIone eD AttUALItà 165 dell’autonomia di autorganizzazione spettante, ai sensi della lettera g) del medesimo articolo, primo e quarto comma, allo Stato ed anche alle Amministrazioni regionali e locali: si ricorda, al riguardo, la massima della Corte Costituzionale secondo la quale deve essere “conservata alle Regioni quella discrezionalità organizzativa che deve essere ad esse riconosciuta con riferimento alle materie ed alle funzioni di cui all’articolo 117, primo comma, della Costituzione”. riconduce di nuovo alla competenza statale, invece, il principio di cui alla lettera m) del comma secondo dell’art. 117, secondo cui lo Stato fissa i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti in tutto il territorio nazionale. Per quanto concerne, poi, la competenza legislativa sulle norme relativa alla disciplina dell’uso dell’informatica fra privati va fatto riferimento all’art. 117, comma secondo lettera l), che attribuisce allo Stato la facoltà di disciplinare “l’ordinamento civile”, nonché, per quanto concerne l’azionabilità di alcune posizioni nei confronti delle PP.AA., alla medesima disposizione costituzionale ove si riferisce alla “giurisdizione” ed alla “giustizia amministrativa”. Il principio del buon andamento e dell’imparzialità dell’azione amministrativa, di cui all’art. 97 della Costituzione, trova nell’opzione del “migliore e più esteso utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione” (art. 15 del Codice) un’attuazione nuova, piena e moderna. numerose norme del codice, in genere di natura programmatica e generale e talvolta più puntualmente prescrittive, affermano proprio il concetto per cui il buon andamento dell’azione amministrativa non può prescindere, ormai, dall’utilizzo di strumenti in linea con l’evoluzione tecnologica. In tal senso deve ormai ritenersi che questo utilizzo, nei termini delineati dal Codice e dalle altre leggi in materia, sia divenuto ormai uno dei paradigmi per valutare l’effettivo raggiungimento dell’obiettivo del buon andamento ed anche un efficace strumento per assicurare l’imparzialità, tenuto conto degli effetti dell’adozione delle nuove tecnologie sulla trasparenza dell’azione amministrativa, sulla comunicazione istituzionale e sull’accesso ai servizi resi dalle PP.AA. e dai concessionari di pubblici servizi. Appaiono puntualmente riconducibili ad una diretta attuazione dell’art. 97 Cost. vari articoli del Capo primo del Codice: nella sezione prima l’art. 2, comma 1, si riallaccia sia al concetto dell’imparzialità che del buon andamento, laddove impone che venga assicurata “la disponibilità, la gestione, l’accesso, la trasmissione, la conservazione, e la fruibilità dell’informazione in modalità digitale” e che le PP.AA. “si organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più appropriate le tecnologie dell’informazione e della comunicazione”; appare opportuno ricordare, al riguardo, il forte impulso alla trasparenza dell’azione amministrativa dato dal d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, recante “Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”, oggi ridenominato rASSegnA AvvoCAtUrA 166 DeLLo StAto - n. 3/2018 “Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni” ai sensi del d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97. nella sezione terza del capo primo del CAD, l’art. 12 reca una sorta di declinazione dei concetti di buon andamento e di imparzialità; infatti le PP.AA. “nell’organizzare autonomamente la propria attività utilizzano le tecnologie dell’informazione e della comunicazione per la realizzazione degli obiettivi di efficienza, efficacia, economicità, imparzialità, trasparenza, semplificazione e partecipazione”; l’uso delle nuove tecnologie viene quindi esplicitamente indicato come strumento idoneo al raggiungimento delle ricordate finalità, anzi potrebbe dirsi come strumento “fisiologico” a quei fini, ma nello stesso tempo si riafferma che siffatto uso non è fine a se stesso, non costituisce, cioè un valore assoluto, giuridicizzato in quanto tale, ma assume rilevanza giuridica ed efficacia vincolante per l’Amministrazione in quanto effettivamente idoneo alla piena attuazione del principio costituzionale. rilevante appare poi il corollario che da quel principio viene tratto dal successivo art. 15: “la riorganizzazione strutturale e gestionale delle pubbliche amministrazioni … avviene anche attraverso il migliore e più esteso utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nell’ambito di una coordinata strategia che garantisca il coerente sviluppo del processo di digitalizzazione”. In sostanza deve ritenersi che l’intero codice, per quanto concerne le disposizioni sulla pubblica amministrazione, costituisca un’attuazione dei principi costituzionali recati dall’art. 97, in una prospettiva moderna e dinamica e dunque le norme in esso contenute, se appaiono talvolta di natura programmatica, hanno tuttavia sempre e comunque un effetto prescrittivo e vincolante sull’organizzazione e sull’azione amministrativa, poiché di quei principi si dovrà tenere conto sia a livello politico in sede di emanazione delle direttive annuali dell’organo di direzione politica previste dall’art. 14 del decreto legislativo n. 165 del 2001, come statuito dall’art. 12, comma 1 bis del codice, sia, a livello esecutivo, da tutti coloro, i dirigenti innanzi tutto ma comunque da tutti gli operatori, che attuano le ricordate direttive nel quotidiano esercizio della funzione amministrativa. Il rispetto di quei principi, dunque, diviene canone di valutazione anche dell’opportunità e dell’efficacia dell’azione dell’organo politico e dei dirigenti, idoneo ad incidere sulla valutazione (di volta in volta politica o amministrativa) dei medesimi, con evidenti riflessi sulla responsabilità dirigenziale. Pertanto tutti gli attori della complessa macchina amministrativa sono chiamati, nei rispettivi ruoli, all’attuazione dei nuovi principi, che nella riconducibilità al dettato costituzionale trovano forza e rilevanza incontrovertibile. Il secondo principio costituzionale che si è ricordato all’inizio del paragrafo è quello più specificamente riconducibile alla materia dell’informatica: esso è stato introdotto dalla legge costituzionale 12 ottobre 2001, n. 1, che, LegISLAzIone eD AttUALItà 167 nel riformare il titolo v, Parte II della Costituzione ed in particolare nel modificare le competenze legislative dello Stato e delle regioni, ha affrontato, anche se in modo sintetico, la nuova realtà tecnologica, nell’ambito di una disposizione (art. 117, comma secondo lettera r)) che si occupa anche di diversi fenomeni, come quello statistico. La norma affida alla competenza dello Stato “il coordinamento... informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale”; siffatta disposizione va analizzata nella ratio, giacché da una corretta ricostruzione del suo significato possono discendere conseguenze non trascurabili sul piano interpretativo ed applicativo. giova al riguardo ricordare che la Corte Costituzionale si è occupata specificamente della questione, fornendo sintetiche ma preziose precisazioni nella sentenza 10/17 gennaio 2004, n. 17, resa su ricorso della regione Basilicata avverso la disposizione secondo la quale “il Ministro per l’innovazione e le tecnologie definisce indirizzi per l’impiego ottimale dell’informatizzazione nelle pubbliche amministrazioni”, contenuta nell’art. 29, comma 7, lettera a) della legge 28 dicembre 2001, n. 448. Secondo la regione la norma impugnata consentiva al governo di disciplinare l’organizzazione di regioni ed enti locali, mentre la lettera r) citata consente solo di dettare indirizzi di natura strettamente tecnica; la Presidenza del Consiglio deduceva, invece, il pieno rispetto del dettato costituzionale poiché la disposizione, rettamente interpretata, era riconducibile proprio alla citata lettera r). La Corte respingeva il ricorso rilevando che il coordinamento statale riguarda anche “i profili della qualità dei servizi e della razionalizzazione della spesa in materia informatica, in quanto necessari a garantire la omogeneità nella elaborazione e trasmissione dei dati”; tuttavia la Corte precisava ulteriormente che il coordinamento è “meramente tecnico, per assicurare una comunanza di linguaggi di procedure e di standard omogenei, in modo da permettere la comunicabilità tra i sistemi informatici della pubblica amministrazione”. Dunque secondo la Corte proprio in virtù della ricordata previsione della lettera r) del secondo comma dell’art. 117, il governo può perseguire l’obiettivo della “comunicabilità” (concetto che in un linguaggio informatico più appropriato può definirsi con le espressioni interoperabilità e cooperazione applicativa) non solo dettando regole strettamente inerenti agli strumenti informatici in quanto tali, ma anche ad altri profili “necessari a garantire la omogeneità nella elaborazione e trasmissione di dati”, individuandoli, nel caso di specie, nella qualità dei servizi e nella razionalizzazione della spesa; in tal modo la Corte ha fornito una perimetrazione elastica e comprensiva dell’ambito oggettivo entro cui può estrinsecarsi il potere statale di coordinamento, ma nel contempo ha precisato che la potestà legislativa dello Stato va intesa nel senso che in essa rientra solo la disciplina meramente tecnica, limitando così in modo rigoroso il possibile contenuto degli interventi statali. rASSegnA AvvoCAtUrA 168 DeLLo StAto - n. 3/2018 In sostanza la Corte ha ricondotto l’esercizio della potestà legislativa alla necessità di adottare soluzioni tecniche che assicurino effettivamente e sotto tutti profili necessari la possibilità per i diversi livelli istituzionali di realizzare lo “scambio informatico dei dati”, escludendo però, attraverso la limitazione agli aspetti tecnici, la possibilità che lo Stato legiferi incidendo immediatamente sul potere di autoorganizzazione di regioni ed enti locali; la conclusione a cui è pervenuta la Corte appare effettivamente del tutto condivisibile. A ben veder potrebbero affacciarsi dei dubbi sulla effettiva compatibilità fra la funzione di coordinamento tecnico informatico dello Stato e la potestà di autoorganizzazione di regioni ed autonomie; sembra in realtà trattarsi di una situazione in cui sussiste una concorrenza fra interessi in qualche misura contrastanti che la Carta costituzionale mira contemperare con una soluzione che consente, per quanto possibile, il minor sacrificio possibile ad entrambi gli interessi. In effetti la disposizione si pone come un vero e proprio temperamento del principio di autoorganizzazione a tutela di altri principi espressamente o implicitamente costituzionali, quali il buon andamento dell’azione amministrativa e la leale collaborazione tra Stato, regioni ed enti locali. Peraltro le considerazioni sopra esposte, e lo stesso dictum della Corte, non appaiono del tutto sufficienti a chiarire la portata della disposizione in esame, pur se la citata sentenza costituisce una chiara e forte indicazione, poiché va approfondito ulteriormente, nel solco tracciato dalla sentenza, l’ambito su cui le regole tecniche dettate dallo Stato possono incidere, senza ledere le autonomie. In questo senso appare necessario svolgere talune considerazioni circa il valore da attribuire all’espressione “coordinamento informatico dei dati”, poiché un’interpretazione restrittiva rischierebbe di vanificare o, quanto meno, di ridurre grandemente la portata della norma. Il coordinamento informatico dei dati non può essere inteso con riferimento alla mera trasmissione dei dati medesimi; infatti, la possibilità di una effettiva collaborazione tra diversi soggetti mediante l’uso delle nuove tecnologie richiede soluzioni che garantiscano l’interoperabilità e la cooperazione applicativa dei sistemi. In questo quadro è evidente che le regole tecniche non possono incidere solo sulla fase dello scambio di dati, poiché lo stesso scambio non sarebbe possibile, oppure non sarebbe possibile un effettivo utilizzo dei dati scambiati, se a monte non vi fosse l’adozione di sistemi compatibili ed in grado di cooperare. Poiché molteplici possono essere le soluzioni tecniche adottabili, saggiamente il legislatore costituzionale ha ritenuto di individuare un unico soggetto (che, ovviamente non poteva essere che lo Stato) abilitato a dettare gli standard, vincolanti per tutti, da adottare per assicurare l’obiettivo della più ampia ed efficiente collaborazione mediante l’uso dell’informatica e della telematica tra i diversi livelli istituzionali. Dunque il disposto della lettera r) in esame va inteso in senso puntuale LegISLAzIone eD AttUALItà 169 per quanto riguarda la natura delle norme che lo Stato è chiamato ad adottare (norme tecniche), ma in termine elastici e comprensivi per quanto concerne l’ambito che tali disposizioni tecniche possono riguardare, che potrebbero toccare anche aree non strettamente riconducibili a quelle individuate dalla sentenza della Corte costituzionale con riferimento al caso di specie, cioè la qualità dei servizi e la razionalizzazione della spesa. Proprio tenendo presenti i principi testé descritti il CAD ha distinto in modo puntuale l’applicabilità delle proprie disposizioni in relazione al contenuto delle medesime: l’art. 2 (“Finalità ed ambito di applicazione”) nel comma 2 precisa che le singole norme si applicano a tutte le PP.AA. salvo che sia diversamente stabilito e comunque nel rispetto della loro autonomia organizzativa e del riparto di competenze di cui all’art. 117 della Costituzione. ovviamente nel corpo del codice si è espressamente prevista l’inapplicabilità di singole disposizioni qualora le medesime incidano sull’autonomia organizzativa di regioni ed autonomie. Il testo del CAD, sul punto, è stato ritenuto conforme alla Costituzione da tutti gli organi chiamati ad esprimersi nel corso dell’iter di approvazione del decreto legislativo, ivi compresa la Conferenza unificata per i rapporti fra Stato, regioni ed autonomie. va peraltro ancora sottolineato il principio contenuto nella lettera m) del secondo comma dell’art. 117: lo Stato può determinare per legge i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire sull’intero territorio nazionale; fra le prestazioni rientrano certamente i servizi che le diverse pubbliche amministrazioni forniscono ai cittadini ed alle imprese ed è evidente che l’erogazione di un servizio tramite le tecnologie dell’informazione e della comunicazione costituisce oggi una modalità di essenziale rilievo, in difetto della quale è la stessa prestazione, talvolta, ad essere resa difficile se non impossibile. In un certo senso l’utilizzo stesso delle nuove tecnologie nei rapporti tra cittadini e Pubbliche Amministrazioni costituisce, in sé, un servizio, un valore fondante sul piano dell’efficienza dei servizi spettanti agli amministrati; dal lato degli utenti, poi, va ricordato il principio della parità di accesso agli strumenti informatici e dunque anche ai servizi resi per via telematica in applicazione del principio di cui all’articolo 3 della Costituzione ed in particolare dell’obbligo, da parte della repubblica, di rimozione degli ostacoli alla libertà dell’uguaglianza, allo sviluppo della persona umana ed alla effettiva partecipazione. Proprio sull’affermazione di tali principi è peraltro basata la già ricordata legge 9 gennaio 2004, n. 4, volta a favorire l’accesso dei disabili agli strumenti informatici che nel CAD è richiamata sia nelle premesse sia in singoli articoli (cfr. art. 17, comma 1, lett. d)). 3. I principali criteri ispiratori del CAD. In questo quadro costituzionale, dunque, si è proceduto alla redazione del rASSegnA AvvoCAtUrA 170 DeLLo StAto - n. 3/2018 CAD e alle successive riforme, effettuando, ovviamente, una serie complessa di scelte sia per quanto riguarda gli oggetti da disciplinare, sia per quanto riguarda le soluzioni da adottare. In effetti varie opzioni politiche sono poste a base del testo: se ne segnalano alcune fra le più significative. Innanzi tutto il Codice afferma per la prima volta in modo esplicito ed organico, come già segnalato, l’idea che le moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione costituiscono, oggi, lo strumento più idoneo a garantire l’efficienza e l’economicità dell’azione amministrativa (e dunque in tal senso va applicato l’articolo 97 Cost.); poi, la necessità di sviluppare il processo di digitalizzazione secondo una strategia organica e complessiva; in terzo luogo la necessità di promuovere la massima interazione fra i vari livelli istituzionali, secondo i canoni della leale collaborazione e con l’obiettivo di una cooperazione efficiente. ed ancora fra i criteri ispiratori del Codice si segnalano i seguenti: la necessità di incidere profondamente sul back office delle PP.AA., rideterminando strutture e procedimenti alla stregua delle possibilità operative offerte dalle nuove tecnologie; l’investimento nella formazione all’uso dell’I.C.t., e ciò sia rispetto ai pubblici dipendenti sia rispetto ai cittadini, con l’impegno ad affrontare il problema della prevenzione e superamento del digital divide; l’idea di una P.A. amica ed efficiente, realmente al servizio, attraverso lo strumento tecnologico, degli “utenti” cittadini ed imprese; l’elevazione a vero e proprio diritto, azionabile in giudizio, dell’interesse di questi ultimi ad ottenere l’uso delle nuove tecnologie da parte della P.A. in determinate circostanze; l’uso delle medesime tecnologie per garantire la trasparenza dell’azione amministrativa; la neutralità tecnologica della legge, che rimette alla valutazione puntuale e concreta delle PP.AA. la scelta delle soluzioni tecniche da adottare. Molti altri sono i principi esplicitati o sottesi al CAD, ma già questi possono fornire un quadro della complessità ed articolazione delle scelte effettuate. All’interno del quadro complessivo disegnato dal CAD è poi opportuno porre fin d’ora un particolare accento su alcuni specifici aspetti concernenti in modo più puntuale l’organizzazione e lo svolgimento dell’attività amministrativa che appaiono particolarmente significativi. Per quanto concerne il c.d. “front office”, cioè il momento in cui l’amministrazione entra in rapporto con l’esterno, innanzi tutto vanno sottolineati gli obiettivi che si tradurranno in benefici immediati per il cittadino e l’impresa. Dell’argomento si tratterà nel fare riferimento ai diritti riconosciuti ai cittadini ed alle imprese: si ricorderà qui che essi potranno ottenere dalle PP.AA. i servizi in linea, accessibili in modo semplice e diretto dal computer attraverso la rete: si pensi alla possibilità di prenotare una visita medica, effettuare un pagamento, presentare un’istanza o una dichiarazione, richiedere un documento e via dicendo, evitando faticose e costose code nei pubblici uffici, sostituite da operazioni svolte da casa o attraverso dispositivi mobili con un click LegISLAzIone eD AttUALItà 171 e sulla base di procedure semplici e comprensibili. gli utenti che lo vorranno potranno poi chiedere di esercitare il proprio diritto di partecipare ai procedimenti amministrativi che li riguardano attraverso la rete: essi verranno così avvertiti dell’avvio del procedimento e potranno esercitare l’accesso e conferire documenti (diritti previsti dalla legge 241 del 1990), per via telematica. va poi ricordata la messa a disposizione del pubblico del patrimonio informativo della P.A., salve, ovviamente, le esigenze di riservatezza: il CAD, infatti, prevedeva fin dalla prima stesura che tutte le Amministrazioni si dotassero di siti web, accessibili liberamente, contenenti una serie di informazioni utili, ad esempio sull’organizzazione della stessa P.A. e sulla sua attività, ovvero le norme principali che la riguardano e molti altri dati di generale interesse; la disposizione, contenuta originariamente in un solo articolo, ha assunto rilevanza tale da essere sostituita da apposito e articolato decreto delegato, il già citato d.lgs. 33/2013. Anche per le imprese il beneficio ottenuto dall’attuazione del codice è notevole: infatti ormai esse hanno la possibilità di svolgere tutti i propri adempimenti on-line, e possono, inoltre, beneficiare di un vero e proprio sistema informatico destinato a fornire servizi. Sono stati poi introdotti, fin dal primo testo, anche i concetti di qualità dei servizi resi e di soddisfazione dell’utenza (art. 7): “le pubbliche amministrazioni centrali provvedono alla riorganizzazione ed aggiornamento dei servizi resi; a tal fine sviluppano l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, sulla base di una preventiva analisi delle reali esigenze dei cittadini e delle imprese, anche utilizzando strumenti per la valutazione del grado di soddisfazione degli utenti”. Infatti, come già segnalato, l’idea alla base del CAD è quella dell’amministrazione come soggetto che rende efficienti servizi al cittadino, in modo da soddisfare l’utente; proprio a tal fine, sono stati introdotti meccanismi di acquisizione di notizie e di valutazioni sul grado di soddisfazione delle utenze. Ma anche per il back office, cioè per l’organizzazione interna delle PP.AA., sono state introdotte grandi innovazioni; esse devono organizzare il proprio lavoro, infatti, sulla base dell’utilizzo di atti e provvedimenti digitali e di fascicoli virtuali che raccolgono i documenti informatici; la corrispondenza va scambiata esclusivamente attraverso la posta elettronica e la conservazione documentale avviene in modalità digitale, il tutto con evidenti e grandissimi vantaggi di efficienza, rapidità ed economicità. Dunque l’obiettivo del CAD, cioè una Pubblica Amministrazione efficiente e trasparente, è stato perseguito con una serie di misure normative complessa ed articolata; ma è chiaro che per il successo dell’operazione le norme devono essere tradotte in realtà e non può nascondersi il fatto che, a oltre 12 anni dall’entrata in vigore del CAD, accanto a numerose concrete realizzazioni delle norme ivi previste, alcuni aspetti sono ancora parzialmente irrealizzati. rASSegnA AvvoCAtUrA 172 DeLLo StAto - n. 3/2018 I dinieghi grossolani per l’accesso ai documenti amministrativi: esperienze applicative nell’epoca della trasparenza La libertà può esistere solo laddove c’è conoscenza. Senza l’apprendimento, gli uomini sono incapaci di conoscere i loro diritti, e dove l’apprendimento è limitato a poche persone, la libertà non può essere né eguale né universale. Benjamin rush Fabio Ratto Trabucco* SoMMARIo: 1. Il diritto di accesso ai documenti amministrativi fra dinieghi grossolani e pretestuosi - 2. L’epoca della trasparenza fra informazioni al consumatore, diritto di accesso documentale e civico nonché mancata responsabilità del pubblico dipendente per diniego abnorme. 1. Il diritto di accesso ai documenti amministrativi fra dinieghi grossolani e pretestuosi. Il diritto di accesso agli atti amministrativi costituisce una vera e propria conquista riconosciuta al cittadino in funzione dei rapporti con lo Stato e la pubblica amministrazione generalmente intesa onde garantire in particolare la trasparenza di quest’ultima. In Italia è notoriamente stato introdotto, per la prima volta nell’ordinamento giuridico italiano, dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, vigente dal 2 settembre 1990. La disciplina e la sua effettiva implementazione è stata stabilita da apposito regolamento per l’accesso, dapprima il d.P.r. 27 giugno 1992, n. 352, vigente dal 13 agosto 1992 quale data che ha segnato la formale e storica entrata in vigore della normativa in materia d’accesso agli atti in favore dell’utente: regolamento poi successivamente abrogato e sostituito dal d.P.r. 12 aprile 2006, n. 184. tecnicamente, il diritto di accesso documentale (1), in Italia, è sempre (*) Professore a contratto, Università di venezia - Ist. diritto pubblico. (1) In tema d’accesso documentale, senza pretesa d’esaustività, cfr.: A. gIreLLA, F. gIreLLA, L’accesso ai documenti amministrativi nel comparto sicurezza, orvieto, Intermedia, 2017; g. BAUSILIo, Il diritto di accesso ai documenti amministrativi: profili giurisprudenziali, vicalvi, Key, 2016; J. SChwArze, Access to documents under European Union law, in «rivista italiana di diritto pubblico comunitario », 2015, 2, 335-344; L. CALIFAno, C. CoLAPIetro, Le nuove frontiere della trasparenza nella dimensione costituzionale, napoli, editoriale Scientifica, 2014; D. gIAnnInI, L’accesso ai documenti, Milano, giuffrè, 2013; C. CoLAPIetro (cur.), Il diritto di accesso e la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi a vent’anni dalla legge n. 241 del 1990, napoli, editoriale Scientifica, 2012; P. BUrLA, g. FrACCAStoro, Il diritto di accesso ai documenti della pubblica amministrazione, roma, Laurus, 2006; r. ProIettI, L’accesso ai documenti amministrativi, Milano, giuffrè, 2004. LegISLAzIone eD AttUALItà 173 stato legato al possesso di una situazione legittimante (che, nel testo originario della L. 241/1990 è estrinsecato con il possesso di una «situazione giuridicamente rilevante») e va tenuto nettamente distinto dal cd. diritto di accesso civico (2), più recentemente previsto dal d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33 (successivamente modificato dal d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97, noto come il Freedom of Information Act, FoA, italiano in rapporto all’omologa legge statunitense del 4 luglio 1966), che ha inteso assicurare a tutti i cittadini la più ampia accessibilità alle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle amministrazioni pubbliche (3). Appare evidente che nel panorama giuridico italiano il diritto di accesso ai documenti amministrativi costituisce un punto fermo per il cittadino e l’utente, generalmente inteso, nei rapporti con la pubblica amministrazione che s’è però formalmente realizzato a distanza di oltre quarant’anni dal varo della Costituzione repubblicana. Infatti, il diritto di accesso, per espressa previsione del legislatore, costituisce uno strumento messo a disposizione dei cittadini per conoscere i documenti formati o comunque in possesso di una pubblica amministrazione, in una logica di sistema complessiva e preordinata al perseguimento di una maggiore trasparenza dell’agire amministrativo. Indi, dopo decenni di attività amministrativa pubblica connotata basicamente dai principi della segretezza e della non ostensione degli atti al soggetto interessato, e dopo i dovuti tempi di attuazione della norma primaria, occorre attendere l’agosto del 1992 affinché tale diritto entri finalmente nelle mani dei soggetti passivi dell’amministrazione pubblica impersonata da suoi burocrati e travet vari, più o meno efficienti e preparati in punto d’accesso agli atti. non a caso, sarà l’attività, tanto perseverante quanto inesorabile, della sapiente giurisprudenza amministrativa a plasmare e sancire definitivamente tale fondamentale diritto del cittadino unitamente all’azione della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi (CADA) costituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e dei Difensori civici regionali nonché locali sino alla loro soppressione avvenuta a fine 2011. (2) In materia d’accesso civico, cfr.: C. De BeneDettI, Diritto di accesso agli atti “ex lege” 241/90 e “nuovo” accesso civico “generalizzato” ex d.lgs. 97/16: qualche criticità nella sovrapposizione dei procedimenti, in «giustAmm.it», 2017, 9, 1-22; M. LUCCA, Il diritto di accesso civico, generalizzato e documentale alla luce delle Linee guida ANAC n. 1309/2016, in «Comuni d’Italia», 2017, 1-3, 26-40; C. CoLAPIetro, La terza generazione della trasparenza amministrativa dall’accesso documentale all'accesso generalizzato, passando per l'accesso civico, napoli, editoriale Scientifica, 2016; M. D’ArIenzo, Diritto alla trasparenza e tutela dei dati personali nel d.lgs. n. 33/2013, con particolare riferimento alla disciplina dell’accesso civico, in «Diritto e processo amministrativo», 2015, 1, 123-164; M.r. SPASIAno, Riflessioni in tema di trasparenza anche alla luce del diritto di accesso civico, in «nuove autonomie», 2015, 1, 63-79; v. torAno, Il diritto di accesso civico come azione popolare, in «Diritto amministrativo», 2013, 4, 789-840. (3) Cfr. M. LUnArDeLLI, The reform of legislative Decree n. 33/2013 in Italy: a double track for transparency, «Journal of Public Law», 2017, 1, 1-46. rASSegnA AvvoCAtUrA 174 DeLLo StAto - n. 3/2018 Alla soglia del trentennio dalla legge sul procedimento amministrativo, il diritto di accesso costituisce un cardine ineludibile dell’ordinamento amministrativo italiano, per quanto ancora non difettano contenziosi in materia, a fronte di peculiari atti assoggettati all’ostensione ovvero stante la presenza di interpretazioni restrittive ovvero pretestuose da parte di alcuni uffici pubblici e dei relativi funzionari che li impersonano. Particolarmente in questa s’intende esaminare sino a che punto, nelle casistiche concrete, il diniego d’accesso ai documenti amministrativi è stato oggetto di dinieghi strumentali, pretestuosi, inconferenti e quindi con motivazioni manifestamente illegittime da parte delle pubbliche amministrazioni al fine dell’ostensione del documento richiesto. Anzitutto, rileva l’ipotesi in cui l’ente di turno eccepisca un aggravio dell’attività d’ufficio in forza del ricevimento d’istanze d’accesso onerose in termini di tempo e risorse per la loro gestione e così opponendo un diniego, anche per ragioni economiche. Per converso, l’ipotesi che l’istanza d’accesso possa essere insinuata a meri scopi emulativi e quindi financo essere potenziale causa di responsabilità erariale per l’istante, di talché tale motivazione possa essere sussunta dall’amministrazione onde non corrispondere all’istanza d’accesso. tuttavia, e condivisibilmente, la giurisprudenza è apparsa ferma nel valutare come «l’esistenza di situazioni idonee ad escludere il rilascio di copie di un atto va valutata con particolare severità, evitando di mettere, a fondamento di un sostanziale diniego dell’accesso, dei meri profili di sostenibilità economica dei costi relativi; costi che peraltro sono comunque riversati sul soggetto richiedente, giusta l’art. 25, primo comma, della legge n. 241/1990» (4). Indi, evidente che i limiti organizzativi e di struttura non sono da considerare limiti oggettivi all’ostensione come nel caso di accesso di soggetto privato ad elaborati grafici di dimensioni tali non fotocopiabili dall’ente con mezzi propri. Similmente, non può costituire valida ragione di diniego, l’asserita sussistenza di una «pratica e obiettiva impossibilità di eseguire materialmente tale incombenza», essendo lapalissiano obbligo dell’amministrazione di dotarsi di un apparato burocratico in grado di soddisfare gli adempimenti di propria competenza (5). Così, per il caso dell’accesso dei consiglieri comunali, gli enti locali, al pari di tutte le restanti pubbliche amministrazioni, sono tenuti a curare tutti gli atti a loro carico e, quindi, a dotarsi degli integrali mezzi (personale, strumentazioni tecniche e materiali vari) necessari all’assolvimento dei loro compiti (6). nell’ambito di amministrazioni locali minori era pure invalsa l’argomentazione per cui l’onere economico da sopportare per l’ufficio sarebbe ingente (4) Cons. Stato, sez. Iv, 10 aprile 2009, n. 2243. (5) tAr Sardegna, sez. I, 29 aprile 2003, n. 495. (6) Cons. Stato, sez. v, 4 maggio 2004, n. 2716. LegISLAzIone eD AttUALItà 175 con riferimento alla «riproduzione di disegni, tavole e progetti», rappresentando, inoltre, il possibile «rallentamento delle normali e quotidiane attività» collegato alle difficoltà di individuazione di ogni singolo atto e per le ricerche d’archivio. Senonché gli uffici comunali non possono opporre il diniego all’accesso neppure con riferimento all’impossibilità di rilasciare l’eccessiva documentazione richiesta, in forza dell’obbligo dell’amministrazione di dotarsi di mezzi e risorse in grado di soddisfare gli adempimenti di propria competenza (7). Circa il diniego dell’accesso nella forma della riproduzione fotostatica, in quanto costituirebbe ingiustificato aggravio della normale attività amministrativa dell’ufficio, deve ritenersi l’illegittimità del diniego medesimo, posto che la notevole mole della documentazione da consegnare può, nel caso, giustificare il differimento con la distribuzione nel tempo del rilascio delle copie richieste (8). Inoltre, qualora l’ostensione degli atti della richiesta d’accesso possa essere di una certa gravosità, potrebbe la stessa essere resa secondo i tempi necessari per non determinare interruzione alle altre attività comunali di tipo corrente. In questo processo applicativo è risultato illegittimo il provvedimento con il quale è stato negato di ottenere l’elenco delle concessioni edilizie rilasciate nell’ambito di un ampio lasso di tempo pluriennale (nella specie: dal giugno 2002 al settembre 2005), nonché l’elenco delle opere pubbliche appaltate nello stesso periodo. L’interruzione dell’attività degli uffici può pertanto rappresentare una motivazione valida per differire il rilascio di copia ad un momento successivo, ma non certo per opporre il diniego all’accesso (9). Infine, è stato chiarito che l’eventuale rilevante numero di richieste di accesso avanzate dai consiglieri locali nei confronti dell’ente di appartenenza non può costituire un legittimo limite o peggio ancora un impedimento all’esercizio del diritto di accesso, fermo restando soltanto la necessità di contemperare nel modo più ragionevole e adeguato possibile dette richieste, finalizzate all’espletamento del mandato politico, con le esigenze di funzionamento degli uffici (10). tuttavia, il diniego grossolano ovvero pretestuoso all’accesso documentale ordinario dev’essere tenuto nettamente distinto dal caso in cui sia adottato un provvedimento con il quale l’ente adito ha espresso un formale diniego in merito ad un’istanza di accesso civico generalizzato, ai sensi dell’art. 5, secondo comma, d.lgs. n. 33/2013, come modificato dal d.lgs. n. 97/2016, avente ad oggetto tutte le determinazioni dirigenziali, con relativi allegati, adottate dai responsabili dei servizi in un certo anno. trattasi, infatti, per come propo- (7) tAr emilia-romagna, Bologna, sez. II, 29 gennaio 2004, n. 140. (8) tAr Sardegna, sez. II, 12 gennaio 2007, n. 29. (9) Cons. Stato, sez. Iv, 21 agosto 2006, n. 4855. (10) Cons. Stato, sez. v, 17 settembre 2010, n. 6963. rASSegnA AvvoCAtUrA 176 DeLLo StAto - n. 3/2018 sta, di una richiesta indiscriminata, sovrabbondante, “massiva”, pervasiva ed in ultima analisi contraria alla buona fede insita nell’istituto dell’accesso generalizzato e configurante una vera e propria ipotesi d’abuso del diritto (11). In materia, se è stata riconosciuta la vigenza, nel nostro sistema, di un generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva, divieto che, ai sensi dell’art. 2, Cost., e dell’art. 1175 c.c., permea le condotte sostanziali al pari dei comportamenti processuali di esercizio del diritto (12), questo non significa debba comunque sempre valere per il deposito di plurime e defatiganti istanze d’accesso. Infatti, gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto, ricostruiti attraverso l’apporto dottrinario e giurisprudenziale (13), sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. Del resto la presenza di una potenziale attività dall’esclusivo sapore emulativo e di controllo generalizzato, in quanto tale non permessa dall’ordinamento, onde recare molestia e intralcio al funzionamento degli uffici pubblici con l’uso spropositato e dispendioso delle risorse umane e strumentali, costituisce una remotissima ipotesi che allorquando effettiva farebbe sorgere l’obbligo di denuncia al Procuratore regionale della Corte dei conti, che è l’organo pubblico al quale l’ordinamento affida poteri istruttori per l’accertamento dei fatti causativi di danno patrimoniale alla pubblica amministrazione ad opera di dipendenti od amministratori pubblici ai fini dell’eventuale esercizio dell’azione di responsabilità amministrativa (14). e qui va rammentato che per “danno patrimoniale” in senso giuscontabile deve intendersi non una qualsiasi diminuzione del patrimonio dell’ente, ma un evento economicamente lesivo che si riveli oggettivamente “ingiusto” per l’amministrazione. Così, il “danno ingiusto” potrebbe essere un costo che per un verso risulti oggettivamente privo, in tutto o in parte, di corrispondente utilità per l’ente o per la collettività amministrata e per altro verso si ponga in (11) tAr Lombardia, Milano, sez. III, 11 ottobre 2017, n. 1951. (12) Cons. Stato, ad. plen., 23 marzo 2011, n. 3 e Cass. civ., sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726. (13) Cass., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106, in materia di esercizio abusivo del diritto di recesso ad nutum e Cons. Stato, sez. v, 7 febbraio 2012, n. 656. (14) Cfr. r.M. MerLo De FornASArI, La richiesta di accesso agli atti non si atteggia a ispezione popolare e non è funzionalizzata a verificare in proprio la regolarità dell'attività di controllo effettuata dalla P.A., in «nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza», 2009, 10, 1296-1300. LegISLAzIone eD AttUALItà 177 relazione causale con una condotta antigiuridica (violazione dolosa o gravemente colposa di doveri di servizio). La latitudine del diritto di accesso ai documenti amministrativi induce a far basicamente presumere che la richiesta di atti sia effettivamente strumentale ad una finalità che sovente coincide con la tutela delle proprie posizioni soggettive, anche in sede giurisdizionale. Una tale presunzione potrebbe essere vinta solamente da prove certe in senso contrario: una situazione di “danno patrimoniale ingiusto” potrebbe, cioè, sussistere ove risultasse effettivamente dimostrato che il diritto pretensivo dell’accedente sia stato esercitato o consentito in modo non corretto in contrasto con la finalità della legge, così che i documenti acquisiti in copia non sono risultati utili né per le addotte situazioni giuridiche soggettive, né per le finalità di queste. non sembra potersi dubitare, infatti, che la questione, in quanto involge un problema di costi a carico della finanza pubblica ed in quanto tende ad acclarare se tali costi rappresentino o meno “un danno patrimoniale per l’ente”, sia concettualmente inquadrabile nelle materie di contabilità pubblica. Questa è notoriamente intesa come un complesso sistema di norme e di principi che presiede alla gestione finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli altri enti pubblici e che è destinato a regolare in particolare i rapporti relativi alla gestione delle entrate e del pubblico denaro, traendo fondamento da precetti di ordine costituzionale (15). D’altronde, come obliterare che in sede di giurisdizione contabile è stata affermata la responsabilità del capo di un’amministrazione locale per l’illegittimo diniego opposto alla richiesta di accesso, dal quale era derivata condanna del Comune al pagamento delle spese di giudizio (16), a dimostrazione di come non vi sia spazio per pretestuosi dinieghi d’accesso da parte dell’apatico ed indolente funzionario pubblico. e se questi sono gli indirizzi maturati nella giurisprudenza, appare estremamente arduo ipotizzare danni di natura patrimoniale in relazione ai “costi” che gravano sull’amministrazione per l’estrazione di copie di atti effettuata a richiesta di un accedente per finalità difensive. 2. L’epoca della trasparenza fra informazioni al consumatore, diritto di accesso documentale e civico nonché mancata responsabilità del pubblico dipendente per diniego abnorme. Il periodo storico nel quale viviamo, indicato sovente come un’autentica “era della trasparenza”, sta ad indicare come l’esigenza di trasparenza permea non soltanto la relazione fra gli amministrati ed i titolari di pubblici poteri, (15) Corte conti, sez. I, 13 maggio 1987, n. 91; Cass. civ., sez. un., 2 marzo 1982, n. 1282. (16) Corte conti, sez. giur. Umbria, 5 giugno 1997, n. 284. rASSegnA AvvoCAtUrA 178 DeLLo StAto - n. 3/2018 nella delicata contrapposizione autorità/libertà, all’interno dello Stato democratico, ma si estende ai rapporti di diritto privato, finendo con l’investire tutte le relazioni caratterizzate da asimmetria informativa. In definitiva, all’interno di tutti gli ambiti delle relazioni, di diritto amministrativo o di diritto privato, l’ordinamento democratico - sotto la spinta, anche delle indicazioni che provengono dall’Unione europea - ritiene di dover apporre un limite al potere di sfruttamento del vantaggio informativo di una delle parti del rapporto, ponendo l’obbligo di rendere edotta la parte più debole del rapporto delle circostanze da lui sconosciute. Senza volere approfondire in questa sede il discorso relativo a nozioni ed istituti privatistici, ci si limiterà a ricordare il Codice del consumatore di cui al d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, ed i principi di trasparenza da esso enucleabili. non si può, infatti, prescindere di annotare che - più ancora che a valori immanenti reperiti direttamente e immediatamente dalla Carta costituzionale - la spinta dell’ordinamento interno verso una crescente applicazione di criteri, metodi e strumenti intesi a realizzare la trasparenza nella e delle pubbliche amministrazioni, sia venuta dall’aspirazione di governance partecipata e trasparente che s’è imposta per il tramite dell’appartenenza all’Unione europea. L’europa era partita ponendo la propria attenzione al tema della disuguaglianza nelle informazioni e la spinta iniziale è stata (probabilmente, come per la generalità delle iniziative assunte dalla Comunità agli albori della sua istituzione) funzionale all’efficienza dell’economia di mercato. tale impressione sembra trovare conferma nella crescente attenzione che, dagli anni ottanta del secolo scorso, è stata posta all’esigenza di tutela del contraente più debole, in quanto “disinformato”, per ciò che concerne le relazioni di diritto comune, sulla base di un obiettivo trainante di tutela del consumatore al quale devono essere rese quante più informazioni possibili dalla controparte (generalmente, un imprenditore o un commerciante che si trova in posizione privilegiata), e nel proliferare, a partire da tale data, di normative interne indirizzate appunto ad eliminare o attenuare i disequilibri nell’ambito delle informazioni negoziali. Il passaggio ulteriore verso una differente funzionalizzazione della tutela è coevo all’idea di trasparenza delle e nelle istituzioni comunitarie e nazionali, che si rinviene nel trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, in cui vengono enunciati sia il tema della trasparenza, con un primo richiamo ufficiale nel senso della predisposizione di misure intese ad accrescere la possibilità per il pubblico di accedere alle informazioni di cui le istituzioni dispongono, sia quello della tutela del consumatore (artt. 153 e 255). In materia basti evocare il nodo delle informazioni sugli alimenti ai consumatori in base al quale l’indicazione del Paese d’origine o del luogo di provenienza delle materie prime dovrebbe essere fornita in modo da non trarre in inganno il consumatore affinché comprenda meglio le informazioni relative. LegISLAzIone eD AttUALItà 179 Da ultimo, nel febbraio 2018, è stato il caso dei decreti che impongono l’indicazione dell’origine del grano duro e della semola (17) nonché del riso (18), come è già accaduto per il latte e i prodotti lattiero-caseari dall’aprile 2017 (19), sulla scia d’analoghe normative adottate in Francia pur molto discutibilmente criticate in quanto l’obbligo della menzione d’origine contribuirebbe alla frammentazione del mercato interno dell’Unione europea (20). Del resto, e non a caso, la giustizia amministrativa ha avuto gioco facile a rigettare la richiesta di sospensione dell’efficacia del decreto insinuata dalle lobbies del grano e suoi lavorati, laddove il tAr del Lazio ha ritenuto prevalente l’interesse pubblico volto a tutelare l’informazione dei consumatori, considerato anche e soprattutto l’esito di una consultazione pubblica ad hoc condotta on line, a cui hanno partecipato circa 26 mila utenti, sull’importanza attribuita dai consumatori italiani alla conoscenza del Paese d’origine e/o del luogo di provenienza dell’alimento e dell’ingrediente primario (21). orbene, tali consultazioni pubbliche in materia d’informazioni relative ai prodotti alimentari sono state espressamente previste dalla normativa primaria italiana sin dal giugno 2014 onde valutare quanto sia percepita come significativa l’indicazione relativa al luogo di origine o di provenienza dei prodotti alimentari e della materia prima agricola utilizzata nella preparazione o nella produzione degli stessi e quando l’omissione delle medesime indicazioni sia ritenuta ingannevole (22). Infatti, la latitanza in materia della Commissione europea che non ha ancora adottato gli atti esecutivi per i ridetti obblighi d’informazione al consumatore, ai sensi dell’art. 26, par. 8, del regolamento n. 1169/2011, non preclude allo Stato membro di dettare, nelle more, una disciplina nazionale (23), corredata - come nel caso - dalla clausola di cedevolezza (art. 7, secondo comma, decreti citati). traguardando il punto delle informazioni al consumatore, l’idea di una (17) Decreto del Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali del 26 luglio 2017, recante: «Indicazione dell’origine, in etichetta, del grano duro per paste di semola di grano duro», con obbligo vigente dal 17 febbraio 2018. (18) Decreto del Ministro delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali del 26 luglio 2017, recante «Indicazione dell’origine in etichetta del riso», con obbligo vigente dal 17 febbraio 2018. (19) Decreto del Ministero Delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali del 9 dicembre 2016, recante «Indicazione dell’origine in etichetta della materia prima per il latte e i prodotti lattieri caseari, in attuazione del regolamento (Ue) n. 1169/2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori», con obbligo vigente dal 19 aprile 2017. (20) Cfr. L.g. vAQUé, L’indicazione d’origine dei prodotti alimentari: una rivoluzione francese neo-protezionista?, in «Il Diritto comunitario e degli scambi internazionali», 2016, 4, 629-639. (21) ord. tAr Lazio, roma, sez. II-ter, 22 novembre 2017, n. 6194. (22) Art. 4, comma 4-bis, l. 3 febbraio 2011, n. 4, quale introdotto dall’art. 3, terzo comma, lett. b), d.l. 24 giugno 2014, n. 91, conv., con modificazioni, dalla l. 11 agosto 2014, n. 116, recante interventi per il sostegno del Made in Italy. (23) Cfr. C. tALLIA, L. FornABAIo, The new decrees regarding mandatory origin labelling in France and Italy: some guidelines, in «Diritto agroalimentare», 2017, 1, 109-123. rASSegnA AvvoCAtUrA 180 DeLLo StAto - n. 3/2018 rilevanza ordinamentale della trasparenza amministrativa collegata alla prima introduzione di una legge generale del procedimento amministrativo, espressa da ultimo dal Consiglio di Stato, deve essere però condivisa, tenendo nel debito conto che categorie e concetti giuridici sono destinati ad evolversi e ciò tanto più rapidamente quanto più premono in questo senso le relazioni esterne ed i processi di globalizzazione. L’Italia è istituzionalmente astretta dai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (art. 117, primo comma, Cost.), e ciò assume particolare rilievo nel contesto in esame. È più che evidente, infatti, che l’evoluzione interna dell’ideale di trasparenza è andato incrementandosi di valori e convincimenti provenienti dagli uni e dagli altri, così come la penetrazione, nell’ordinamento italiano di istituti propri degli ordinamenti di common law, e così di provenienza anglosassone è l’istituto del cd. accesso civico, di recente introduzione nel nostro ordinamento. Mentre è di matrice statunitense il già citato Freedom of Information Act (FoA) del 1966, che attiene alla pubblicazione di atti dell’esecutivo federale nordamericano. La Convenzione di Aarhus del 25 giugno 1998, ha anche determinato l’introduzione dell’istituto del cd. accesso civico, anticipatamente, nella materia ambientale. Al riguardo va sottolineata la particolare pertinenza dell’accesso civico con la cd. freedom of information. L’istituto ha, infatti, permesso, il passaggio da un regime fondato sull’accesso dei soggetti legittimati e sull’obbligo di pubblicazione ad un regime nuovo, che consente a chiunque la piena conoscenza degli atti amministrativi (cd. full disclosure) (24). Con il d.lgs. n. 33/2013, il legislatore ha inteso procedere al riordino della disciplina volta ad assicurare a tutti i cittadini la più ampia accessibilità alle informazioni, concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, al fine di attuare il principio democratico e i principi costituzionali di eguaglianza, imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche, nonché per la realizzazione di un’amministrazione aperta, al servizio del cittadino. La normativa riveste dichiarate finalità di contrasto della corruzione e della cattiva amministrazione ed intende anche attuare la funzione di coordinamento informativo, statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera r), Cost. (25). tali finalità vengono perseguite per il tramite della pubblicazione obbligatoria di una serie di documenti nei siti istituzionali delle amministrazioni, con diritto di chiunque di accedere a tali siti direttamente ed immediatamente, senza autenticazione ed identificazione. In caso omessa pubblicazione può es- (24) Cfr. A. SIMonAtI, L’accesso civico come strumento di trasparenza amministrativa: luci, ombre e prospettive future (anche per gli Enti locali), in «Istituzioni del federalismo», 2016, 3, 725-752. (25) Cons. Stato, sez. vI, 20 novembre 2013, n. 5515. LegISLAzIone eD AttUALItà 181 sere esercitato, ai sensi dell’art. 5, d.lgs. 33/2013, il cd. accesso civico, consistente in una richiesta - che non deve essere motivata - di effettuare tale adempimento, mentre il d.lgs. 97/2016 è pervenuto a prevedere l’accesso civico generalizzato a prescindere dagli obblighi di pubblicazione (26). L’accesso ai documenti amministrativi, disciplinato dagli artt. 22 e ss. della l. 241/1990, è riferito, invece, al diritto degli interessati - che abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso - di prendere visione ed estrarre copia di documenti. In funzione di tale interesse la domanda di accesso deve essere opportunamente motivata. In definitiva, può concludersi che il cd. accesso civico sia incompatibile con l’accesso della l. 241/1990, trovandosi i due istituti in un rapporto di reciproca esclusione. Così, ove c’è l’accesso civico, ex d.lgs. 33/2013, non c’è l’accesso ordinario, ex l. 241/1990, in quanto quest’ultimo istituto presuppone che l’atto non debba essere sottoposto agli obblighi di pubblicazione di cui al regime della trasparenza (27). Quanto sopra è sufficiente per argomentare che si tratta di una stagione di grande fermento normativo nell’ordinamento italiano, tale per cui già l’introduzione generalizzata del diritto di accesso con la l. 241/1990 sul procedimento amministrativo fu percepita come una profonda innovazione, ancorché non mancassero leggi che, in determinati settori, prevedevano già l’accesso ad atti amministrativi (come l’art. 25, primo comma, l. 27 dicembre 1985, n. 816, che riconosceva il diritto di tutti i cittadini a prendere visione dei provvedimenti degli enti locali, rinviando alle singole amministrazioni di stabilire, con proprio regolamento, la disciplina dell’esercizio di tale diritto). Si è trattato di una prima tappa verso un’evoluzione sempre più incisiva di un ordinamento contrassegnato, in passato, da un’impostazione prevalentemente imperniata sulla regola della segretezza. oggi, al contrario, la trasparenza costituisce, nell’ordinamento italiano, uno dei criteri fondamentali che - come detto - devono permeare l’attività amministrativa. Secondo il parere del Consiglio di Stato, sez. cons. atti normativi, 18 febbraio 2016 (28), il disegno, che, in sede legislativa, prende le mosse, dalla ri- (26) Cfr. M. ALBAn, Disciplina dell’accesso civico e generalizzato, in «Comuni d’Italia», 2017, 1-3, 77-90; e. FUrIoSI, L’accesso civico “generalizzato”, alla luce delle Linee Guida ANAC, in «giustAmm. it», 2017, 4, 1-21. (27) Cfr.: M. AvvISAtI, Accesso procedimentale “versus” accesso civico nel dialogo fra le fonti: il caso FoIA, in «osservatorio sulle fonti», 2017, 2, 1-13; M. BInDA, Accesso civico e accesso disciplinato dalla legge n. 241 del 1990, in «temi romana», 2014, 4, 47-56. (28) Parere sullo schema di decreto legislativo recante «revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza, correttivo della legge 6 novembre 2012, n. 190, e del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ai sensi dell’articolo 7 della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche». rASSegnA AvvoCAtUrA 182 DeLLo StAto - n. 3/2018 forma del 2005 della legge generale sul procedimento amministrativo n. 241/1990, è, invero, omnicomprensivo: investe gli ambiti delle relazioni amministrazione/ amministrati, in tutte le sue sfaccettature, e tende ad assicurare conoscenza e partecipazione ad interessi individuali e collettivi di natura, dimensioni e portata sempre più vasta. La trasparenza, non soltanto dei processi decisionali in senso proprio, ma, in linea generale, di tutti gli aspetti della gestione del bene pubblico (anche dunque con riferimento all’attività posta in essere da soggetti privati e nelle forme tipiche dell’attività privatistica) viene vista come lo strumento essenziale per il rafforzamento della democrazia partecipativa. La trasparenza è un valore chiave essenziale per coniugare garanzia ed efficienza nello svolgimento dell’azione amministrativa, un valore immanente all’ordinamento, alla stregua di modo d’essere tendenziale dell’organizzazione dei pubblici poteri, ovvero, anche parametro cui commisurare l’azione delle figure soggettive pubbliche, che consenta di trovare - appunto - il giusto punto di raccordo tra le esigenze di garanzia e d’efficienza nello svolgimento dell’azione amministrativa. In quest’ottica, il Consiglio di Stato assegna alla trasparenza, la funzione di costituire «un ‘punto di confluenza’ dei principi giuridici, costituzionalmente posti, dell’azione amministrativa (dal buon andamento all’imparzialità, al rispetto del cd. ‘principio di legalità sostanziale’, al metodo di partecipazione democratica), dal quale derivano istituti giuridici, di tipo trasversale, che possono essere considerati come volti a realizzare la trasparenza (si pensi non solo a quelli di cui al presente decreto ma ai molteplici meccanismi partecipativi introdotti o riformati dalla legge n. 124)». Sul punto, peraltro, si rinvia a quanto più volte affermato a riguardo dal Presidente dell’Autorità nazionale Anticorruzione (AnAC) nonché al rapporto AnAC-oCSe ad esito dell’esperienza delle verifiche sugli appalti di expo Milano 2015 che hanno generato innumerevoli indagini e rinvii a giudizio per reati contro la pubblica amministrazione di politici, funzionari pubblici ed imprenditori. In conclusione, anche le letture ermeneutiche più ampie della giurisprudenza, come nel caso esaminato, trovano la loro ragion d’essere, proprio in questo generale mutato assetto (voluto anche dal legislatore), in cui è riconosciuta agli interessati la possibilità di conoscere appieno anche i percorsi attraverso cui si è formata la scelta decisionale dell’amministrazione in termini di ampliamento delle dinamiche partecipative e di tutela del principio di buon andamento della pubblica amministrazione. La glasnost dell’amministrazione italiana - per dirla con il termine russo che sin dall’ottocento indicava la pubblicità delle decisioni giuridiche e poi in voga alla fine degli anni ottanta del secolo scorso per definire le riforme nel senso della trasparenza del socialismo “dal volto umano” - non lascia LegISLAzIone eD AttUALItà 183 quindi spazio a beceri, patetici e ridicoli dinieghi all’accesso, sistematicamente sconfessati dalla Commissione per l’accesso ovvero dal giudice amministrativo. In forza di quanto sopra l’auspicio è che la Commissione per l’accesso ed il giudice amministrativo possano spingersi oltre l’accertamento dell’illegittimità del diniego di accesso con l’esercizio di veri e propri poteri sanzionatori al pari di quanto avviene da parte delle Autorità amministrative indipendenti nei settori di rispettiva competenza. Il riferimento è alla previsione della facoltà d’irrogare sanzioni amministrative pecuniarie nei confronti delle amministrazioni colpevoli di pretestuosi ed abnormi dinieghi all’accesso pacificamente contrari alla normativa e consolidata giurisprudenza, con relativa obbligatoria segnalazione di danno erariale alla competente Procura regionale della Corte dei conti, affinché siano così direttamente puniti i dipendenti pubblici responsabili della grave violazione di un diritto soggettivo del cittadino quale costituito dall’accesso ai documenti amministrativi. Parimenti l’illegittimo e pretestuoso diniego all’ostensione di documenti amministrativi, pacificamente esclusi dal novero delle esclusioni, dovrebbe normativamente essere configurato quale violazione dei doveri d’ufficio, al pari, per esempio, di quanto previsto dall’art. 76 del d.P.r. 28 dicembre 2000, n. 445, recante il «testo Unico sulla documentazione amministrativa», nel caso della mancata accettazione delle dichiarazioni sostitutive di certificazioni o dell’atto di notorietà, basilare fondamento della semplificazione amministrativa nel senso di consentire al cittadino l’autodichiarazione in luogo della produzione dei certificati. Per conseguenza ne deriverebbe l’ineluttabile responsabilità disciplinare del pubblico dipendente colpevole per il mancato adempimento in punto di diritto di accesso ai documenti amministrativi e quindi doverosamente sanzionabile dall’ente di appartenenza previo procedimento disciplinare gestito dal dirigente responsabile ovvero dall’apposito Ufficio Procedimenti Disciplinari costituito presso ogni pubblica amministrazione. L’ostensione dei documenti amministrativi costituisce quindi l’assoluta regola mentre il diniego deve ritenersi una mera eventuale rara eccezione, per cui il rigetto dovrà essere sempre congruamente motivato e non ridursi a mera dichiarazione “di stile” come avviene da parte di quei pubblici dipendenti che si ergono così a secretare illegittimamente atti dell’amministrazione di appartenenza. trattasi dei moderni censori della pubblica amministrazione. Il risultato è impedire la conoscenza di documenti amministrativi all’accedente da cui la finalistica grave lesione del non avere contezza dei propri stessi diritti, come uno dei Padri Costituenti degli U.S.A., Benjamin rush, ben già aveva annotato a fine Settecento nel suo programma del 1786 per la creazione di scuole pubbliche in Pennsylvania e per sviluppare l’educazione in sinergia con il governo repubblicano del nuovo Stato federato, con l’acuta affermazione rASSegnA AvvoCAtUrA 184 DeLLo StAto - n. 3/2018 per cui: «La libertà può esistere solo laddove c’è conoscenza. Senza l’apprendimento, gli uomini sono incapaci di conoscere i loro diritti, e dove l’apprendimento è limitato a poche persone, la libertà non può essere né eguale né universale» (29). (29) «Freedom can exist only in the society of knowledge. without learning, men are incapable of knowing their rights and where learning is confined to a few people, liberty can be neither equal nor universal», in: B. rUSh, Essays, literary, moral and philosophical, Philadelphia, Bradford, 1798, 1, nonché si veda F. rUDoLPh (cur.), Essays on Education in the Early Republic, Cambridge, Belknap, 1965, contenente saggi e scritti pubblicati tra il 1786 e il 1799 da Benjamin rush, noah webster, robert Coram, Simeon Doggett, Samuel harrison Smith, Amable-Louis-rose de Lafitte du Courteil e Samuel Knox, che rappresentano il primo tentativo formale di definire le responsabilità, capacità e prospettive dell’educazione americana nel periodo iniziale della storia repubblicana statunitense. LegISLAzIone eD AttUALItà 185 Sullo stato di emergenza del settore sanitario calabrese. Ancora numerose sentenze emesse dal T.A.R. Calabria Daniele Atanasio Sisca* SoMMARIo: 1. Lo stato emergenziale del settore sanitario calabrese. L’attività giurisdizionale del T.A.R. Calabria - 2. Ci sono elementi di novità rispetto agli indirizzi consolidati?! - 2.1 Sulla riduzione dei tetti di spesa per l’acquisto di prestazioni da soggetti privati accreditati - 2.2 Sull’approvazione del nomenclatore tariffario provvisorio regionale delle prestazioni di specialistica ambulatoriale e di laboratorio - 2.3. Sulla convenzione stipulata tra il Commissario ad acta e l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (Age.na.s.) - 4. Conclusioni. 1. Lo stato emergenziale del settore sanitario calabrese. L’attività giurisdizionale del T.A.R. Calabria. Lo stato emergenziale nel settore sanitario rappresenta una realtà per quasi la metà delle regioni italiane; ben otto sono infatti sottoposte al Piano di rientro dai disavanzi (1). La gestione commissariale in tale settore rinviene il suo fondamento nell’art. 120, comma 2, Cost. (2) nonché - per quanto concerne segnatamente il deficit sanitario regionale - nel d.l. 1 ottobre 2007, n. 159, convertito in l. 29 novembre 2007, n. 222. La Calabria è senza dubbio una delle regioni con maggiore deficit nel settore sanitario: risulta infatti sottoposta al Piano di rientro dal 23 dicembre 2009. gli interventi posti in essere dalla struttura commissariale sono svariati; tra i più significativi figurano l’adozione del provvedimento di riassetto della rete ospedaliera, quello di riassetto della rete dell’emergenza urgenza e della rete di assistenza territoriale (in coerenza con quanto specificatamente previsto dal Patto per la salute 2014-2016 (3)), la razionalizzazione e il contenimento della (*) Avvocato del libero foro, già praticante forense presso l’Avvocatura dello Stato. (1) Per un maggiore approfondimento sulla natura del Piano di rientro e sulle funzioni del Commissario ad acta, sia consentito rimandare a Mezzotero-SISCA, Il Commissario ad acta per il superamento dell’emergenza sanitaria nel territorio della Regione Calabria. Analisi ragionata e sistematica delle tipologie di ricorsi esaminati dal T.A.R. Calabria, in Rass. Avv. Stato n. 1/2017, pp. 191 ss. (2) Ai sensi del quale “Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l'incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione”. (3) ll Patto per la Salute è un accordo finanziario e programmatico tra il governo e le regioni, di valenza triennale, in merito alla spesa e alla programmazione del Servizio Sanitario nazionale, finalizzato a migliorare la qualità dei servizi, a promuovere l’appropriatezza delle prestazioni e a garantire l’unitarietà del sistema. rASSegnA AvvoCAtUrA 186 DeLLo StAto - n. 3/2018 spesa per il personale e per l’acquisto di beni e servizi, gli interventi sulla spesa farmaceutica convenzionata ed ospedaliera (al fine di garantire il rispetto dei vigenti tetti di spesa previsti dalla normativa nazionale), la definizione dei contratti con gli erogatori privati accreditati e dei tetti di spesa delle relative prestazioni, il completamento del riassetto della rete laboratoristica e di assistenza specialistica ambulatoriale nonchè l’attuazione della normativa statale in materia di autorizzazioni e accreditamenti istituzionali. tali interventi - seppur finalizzati ad una riduzione del deficit nel settore sanitario - hanno tuttavia prodotto una serie di oneri e limitazioni per le strutture che operano in regime di accreditamento con il Sistema Sanitario regionale. Si pensi soprattutto alla riduzione dei tetti di spesa per l’acquisto di prestazioni da soggetti privati accreditati, alla riorganizzazione della rete laboratoristica (la quale prevedeva l’accorpamento tra i laboratori che non avrebbero raggiunto una soglia minima di prestazioni annue) ovvero - anche se rilevante dal punto di vista collettivo e non dei singoli soggetti accreditati - la riorganizzazione della rete ospedaliera (con la chiusura e/o l’accorpamento di presidi ospedalieri presenti sul territorio calabrese). ed è proprio per tali ragioni che il t.A.r. Calabria si è trovato (e si trova tutt’ora) a vagliare numerosi ricorsi aventi ad oggetto i provvedimenti attuativi di tali interventi. Le prime pronunce risalgono agli inizi del 2016 ed hanno ad oggetto l’approvazione - da parte della struttura commissariale - dello schema di accordo contrattuale con gli erogatori privati accreditati (4) nonchè la determinazione dei tetti di spesa per l’acquisto di prestazioni da parte delle medesime strutture (5). Successive pronunce hanno invece ad oggetto provvedimenti di determinazione dei tetti di spesa sulla base del c.d. “criterio storico” ed altre ancora la riorganizzazione della rete laboratoristica e ospedaliera pubblica e privata. In maniera pressochè unanime, i ricorrenti lamenta[va]no la limitazione della loro attività derivante, da un lato, da obblighi contrattuali impartiti - a (4) Si trattava del decreto del Commissario ad acta n. 78/2015, il quale veniva impugnato nella parte in cui prevedeva che “sono considerate inammissibili … riserve in ordine alla proposta contrattuale così come formulata dall’ASP competente per territorio” e nella parte in cui stabiliva che “in caso di contestazioni manifestate successivamente alla stipula del contratto, sarà avviata nei confronti dell’erogatore interessato la procedura di sospensione dell’accreditamento in applicazione dell’art. 8, comma 2-quinques, d. lgs. n. 502/1992”. Con decreto presidenziale emesso ai sensi dell’art. 56 c.p.a., a seguito dei primi ricorsi presentati, il D.C.A. n. 78/2015 il provvedimento veniva sospeso nella parte in cui disponeva l’inammissibilità di riserve in ordine alla proposta contrattuali formulata dall’ASP. A seguito di tale sospensione, il Commissario ad acta emanava il D.C.A. n. 92/2015 con cui disponeva la sostituzione dello schema contratto/accordo e l’espunzione, nella parte dispositiva del D.C.A. n. 78/2015, dei periodi sopra riportati. (5) I decreti commissariali di interesse sono il n. 80/2015 (inerente le prestazioni di assistenza ospedaliera) e il n. 85 (inerente le prestazioni di assistenza specialistica) in riferimento all’anno 2015, mentre, il n. 25 (inerente le prestazioni di assistenza specialistica) e il n. 27 (inerente le prestazioni di assistenza ospedaliera) in riferimento all’anno 2016. LegISLAzIone eD AttUALItà 187 loro dire - in maniera irragionevole e arbitraria, dall’altro, dalla riduzione ingiustificata dei tetti di spesa per le prestazioni acquistate dal Sistema Sanitario regionale. Sin da subito il t.A.r. ha cercato di delimitare il campo d’azione del Commissario ad acta stabilendo - alla luce dei principi regolanti la normativa sullo stato di emergenza - la tipologia e la portata degli interventi che quest’ultimo avrebbe potuto porre in essere. L’assunto dal quale si è mosso il Collegio è quello secondo cui la normativa disciplinante i Piani di rientro è una disciplina emergenziale che può derogare alla normativa ordinaria (6) con la relativa conseguenza che il carattere vincolante dei provvedimenti attuativi del Piano di rientro e la loro natura di provvedimenti generali di programmazione finanziaria implicano la derogabilità (per effetto della “prevalente” normativa emergenziale) delle procedure previste dalla legislazione regionale e nazionale. Da ciò deriverebbe la natura ampiamente discrezionale delle scelte poste in essere dal Commissario ad acta e la limitazione del sindacato giurisdizionale ai soli profili di evidente illogicità, contraddittorietà, ingiustizia manifesta, arbitrarietà e irragionevolezza (7) da valutarsi di volta in volta in maniera concreta e obiettiva. Da questo assunto - filo conduttore di tutte le sentenze - ne è derivata la circostanza secondo cui solo in limitati casi l’attività del Commissario ad acta può ritenersi censurabile. Si tratta dei casi in cui le scelte siano manifestamente contrastanti con i principi posti alla base del nostro ordinamento oltre che, come accennato pocanzi, inficiate da manifesta illogicità, contraddittorietà e irragionevolezza. tali elementi, di converso, sono stati riscontrati nei provvedimenti aventi (6) Si veda, a proposto, Cons. St., n. 1244/2016 cit., punti 8.2, 8.3, 8.4 e 8.5, nella quale viene esplicitato in maniera chiara l’evolversi della disciplina inerente l’attuazione del Piano di rientro. Si afferma, in particolare, che “Rispetto alla preesistente legislazione la normativa in tema di piano di rientro comporta precisi e ulteriori effetti giuridici nel rendere vincolanti gli obiettivi di contenimento finanziario e nell’imporre alla Regione di adottare prioritariamente i provvedimenti adeguati ad ottenere il contenimento delle spese in essere nella misura richiesta, salvo il rispetto dei livelli essenziali di assistenza e secondo i fondamentali criteri di ragionevolezza, logicità e non travisamento dei fatti nel bilanciamento degli interessi. Di conseguenza cambiano in misura determinante la natura, l’oggetto e la principale finalità dei provvedimenti. La introduzione di obiettivi prioritari e vincolanti condiziona e orienta verso le finalità indicate lo svolgimento delle preesistenti procedure, modificando anche le modalità istruttorie e il tipo di motivazione che i provvedimenti risultanti richiedono, come di seguito precisato. Va pertanto pregiudizialmente esaminata - per poi trarne successivamente le conseguenze in ordine al caso in esame - la disciplina normativa che regola obiettivi e vincoli del piano di rientro e la giurisprudenza che ne ha ricavato un principio di prevalenza rispetto alle esigenze di mantenimento di volumi di attività o livelli di tariffe già acquisiti degli operatori privati nei limiti di seguito precisati”. (7) Irragionevolezza che (come affermato in t.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. I, 19 dicembre 2016, n. 2511, in www.giustizia-amministrativa.it) non può desumersi dalla scelta del Commissario di attribuire, per l’anno 2015, più risorse alle prestazioni di acuzie anziché a quelle di riabilitazione, né tanto meno dall’impossibilità di utilizzare tutti i 30 posti letto accreditati (nella fattispecie esaminata dalla richiamata sentenza). rASSegnA AvvoCAtUrA 188 DeLLo StAto - n. 3/2018 ad oggetto la ripartizione dei tetti di spesa secondo il c.d. “criterio storico” (8) nonchè in quelli aventi ad oggetto la riorganizzazione della rete laboratoristica attraverso l’aggregazione dei laboratori privati minori (9). nei primi si faceva riferimento - ai fini del calcolo del budget da attribuire alle strutture sanitarie - al budget già attribuito l’anno precedente senza la valutazione di alcun altro criterio oggettivo e soggettivo riferito all’anno in corso. In questo caso, il t.A.r. (10) ha osservato che l’utilizzo di tale criterio di ripartizione attribuisce ai soggetti privati accreditati indebiti e ingiustificati vantaggi concorrenziali. Ciò in ossequio al dettato dell’art. 106 t.F.U.e., il quale stabilisce che “gli Stati membri non emanano né mantengono, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura contraria alle norme dei Trattati, specialmente quelle contemplate dagli artt. 18 (divieto di discriminazione) e da 101 a 109 inclusi (divieto di intese restrittive della concorrenza; divieto dell’abuso di posizione dominante; divieto di aiuti di Stato)”. L’utilizzo di tale criterio, effettivamente, cristallizzerebbe le posizioni in passato acquisite sul mercato dai singoli operatori sanitari privati, disincentivando il perseguimento dell’efficienza nell’erogazione dei servizi sanitari e vanificando la concorrenza tra le varie strutture (11). La seconda tipologia di provvedimenti prevedeva, invece, che i laboratori con meno di 200.000 prestazioni annue avrebbero avuto l’obbligo di aggregarsi tra loro in rete, pena la decadenza dell’accreditamento e l’impossibilità di sottoscrivere contratti per l’erogazione di prestazioni a carico del servizio sanitario regionale (12). In questo secondo caso il Collegio (13) ha ritenuto che la previsione di soglie quantitative minime di produzione analitica (aggiungendosi ai requisiti per l’autorizzazione all’esercizio delle attività sanitarie) avrebbe finito con l’integrare un ulteriore requisito per l’accreditamento non previsto da alcuna intesa con la Conferenza Stato-regioni. Ciò in palese contrasto con quanto (8) Avvenuta con D.C.A. n. 68/2014 avente ad oggetto “Determinazione dei tetti di spesa per le prestazioni di assistenza specialistica da privato. Anno 2014. Azione 7.7.1.1”. (9) Si trattava del D.C.A. n. 84/2015 recante “Riequilibrio ospedale-territorio. Riorganizzazione della rete dei laboratori pubblici e privati”. (10) Con sentenza t.A.r. Calabria, Catanzaro, 29 giugno 2016, 1373, in www.giustizia-amministrativa. it. (11) tale questione è stata richiamata nella relazione introduttiva in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2017 del t.A.r. Calabria, Catanzaro, in www.giustizia-amministrativa.it. (12) Ciò avrebbe determinato, come sostenuto dalle ricorrenti, la conversione dei laboratori mediopiccoli in meri punti di prelievo oltre che un’ingiusta causa di perdita dell’accreditamento non disciplinata da alcuna fonte normativa. tale circostanza avrebbe leso l’interesse pubblico e collettivo in quanto implica lo smantellamento di un servizio sanitario di prossimità al paziente, capillare ed efficiente su tutto il territorio. (13) t.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. I, 21 novembre 2016, n. 2262, in www.giustizia-amministrativa. it. LegISLAzIone eD AttUALItà 189 disposto dall’art. 8, comma 4, d.lgs. n. 502/1992 (ai sensi del quale “Ferma restando la competenza delle regioni in materia di autorizzazione e vigilanza sulle istituzioni sanitarie private, a norma dell’art. 43 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, con atto di indirizzo e coordinamento, emanato d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome, sentito il Consiglio superiore di sanità, sono definiti i requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi minimi richiesti per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private e la periodicità dei controlli sulla permanenza dei requisiti stessi”). Il provvedimento sarebbe quindi privo di adeguato supporto normativo, oltreché non rispondente ai parametri di logicità e ragionevolezza previsti dalla normativa in materia. 2. Ci sono elementi di novità rispetto agli indirizzi consolidati?! In disparte a tali due tipologie di provvedimenti - in cui il t.A.r. sin da subito ha voluto ravvisare elementi contrastanti con i canoni della legittimità amministrativa - per le altre tipologie di provvedimenti (in buona parte costituiti dai provvedimenti inerenti la determinazione dei tetti di spesa per l’acquisto di prestazione da privato accreditato) non sono stati rinvenuti - se non con qualche eccezione che a breve esamineremo - elementi tali da indurre a ritenere illegittimi i provvedimenti impugnati. Per quanto concerne la determinazione (in diminuzione) dei tetti di spesa, il Collegio ha ritenuto legittimo l’operato della struttura commissariale “purchè l’esercizio del potere autoritativo [n.d.r. con cui viene effettuata la ripartizione] si dispieghi nell’alveo di una seria ed effettiva programmazione finanziaria, in funzionamento del fondamentale obiettivo di contenimento della spesa ed entro il corretto svolgimento delle procedure contrattuali previste dalla legge” (14). Pertanto, quasi tutti i ricorsi sono stati rigettati in quanto le censure dedotte non erano idonee a qualificare come “irragionevole” la concreta assegnazione (anche se in misura ridotta) dei budget effettuata dal Commissario. tuttavia in alcune recenti pronunce inerenti la medesima questione (esaminate nel paragrafo successivo) lo stesso t.A.r. sembra prima facie aver adottato un metodo di valutazione meno rigido nell’interpretazione della normativa emergenziale. Analogo discorso potrebbe svolgersi (come si vedrà meglio al par. 2.2.) (14) In questo senso hanno concluso tutte le sentenze aventi ad oggetto l’impugnativa avverso i provvedimenti di determinazione dei tetti di spese. In particolare, si vedano t.A.r. Calabria, Catanzaro, 16 giugno 2016, n. 1253, id. n. 1259; id., n. 1261; id., n. 1262; id., n. 1264; id., 21 luglio 2016, n. 1569, id. 25 agosto 2017, n. 1366; id. 23 aprile 2018, n. 948; id. n. 949; id. 950; id. 1 marzo 2018, n. 536; id. 17 maggio 2018, n. 1060; id.18 maggio 2018, n. 1076; id. 3 luglio 2018, n. 1323, tutte in www.giustizia- amministrativa.it. rASSegnA AvvoCAtUrA 190 DeLLo StAto - n. 3/2018 per le pronunce aventi ad oggetto l’annullamento del nomenclatore tariffario provvisorio regionale delle prestazioni di specialistica ambulatoriale e di laboratorio. In particolare occorre capire se, alla luce di queste nuove pronunce, vi sia stato o meno un mutamento rispetto al consolidato orientamento giurisprudenziale come sinora esposto. 2.1 Sulla riduzione dei tetti di spesa per l’acquisto di prestazioni da soggetti privati accreditati. In una prima pronuncia (15) il Collegio - pur osservando in linea generale che “in materia di determinazione di tetti di spesa e ripartizione di risorse in ambito sanitario la p.a. è dotata di un potere ampiamente discrezionale, il cui esercizio deve individuare un punto di sintesi in esito alla comparazione di contrapposti interessi, quali il contenimento della spesa pubblica, il diritto dei cittadini alla fruizione di adeguate prestazioni sanitarie, le aspettative degli operatori privati orientati dalla logica imprenditoriale e l’efficienza delle strutture pubbliche sanitarie” - ha ritenuto opportuno, nel caso di specie, annullare il provvedimento impugnato (16) in quanto risulta priva di giustificazione la diminuzione, in capo alla struttura ricorrente, del budget previsto per l’anno 2018. In particolare, il collegio sostiene che il Commissario non ha fornito elementi da cui evincere le ragioni della sensibile contrazione delle risorse assegnate alla ricorrente per le prestazioni ospedaliere post acuzie rispetto a quelle riconosciute invece ad altra struttura analoga. nel dettaglio, nella sentenza si legge che “I puntuali rilievi della deducente evidenziano infatti una non comprensibile disparità di trattamento nei confronti della citata struttura, che ha ottenuto […] un budget superiore rispetto a quello riconosciuto [omissis]. Pertanto, seppur esigenze di contenimento del tetto della spesa pubblica - particolarmente stringenti in Calabria, attesa al situazione emergenziale che affligge la sanità - giustifichino la progressiva riduzione delle risorse disponibili per l’acquisto di prestazioni sanitarie da strutture accreditate, ciò non esclude che le scelte operate dal Commissario ad acta - laddove incidenti negativamente nella sfera giuridica della singola Casa di cura - debbano estrinsecare in modo coerente ed intellegibile le ragioni sottese alla determinazione adottata. Il tutto in aderenza al principio secondo cui più esteso è il potere valutativo ascrivibile al soggetto (15) t.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. II, 26 settembre 2018, n. 1636, in www.giustizia-amministrativa. it. (16) D.C.A. n. 87/2018 di “Definizione dei livelli massimi di finanziamento per le strutture private accreditate erogatrici di prestazioni ospedaliere per acuti e post acuti, con onere a carico del Servizio Sanitario Regionale, nonché per il finanziamento delle funzioni assistenziali-ospedaliere ai sensi dell'art. 8-sexies, comma 2, del d .lgs. n. 502/1992 e s.m.i. anno 2018”. LegISLAzIone eD AttUALItà 191 pubblico, maggiore è l’onere di esternare l’iter logico giuridico che ha orientato la p.a. nell’azione amministrativa”. Si tratterebbe principalmente della violazione del principio di non discriminazione dal quale sarebbe derivata una disparità di trattamento tra la ricorrente e altre due case di cura controinteressate. Invero, occorre dare atto che effettivamente la violazione del principio di non discriminazione rispetto alle due strutture in questione appare evidente e incontestabile. Ciò lascia intendere che non vi è alcun un cambio di direzione rispetto alla linea direttrice da sempre seguita dal collegio giudicante. A conferma di ciò vi è anche la circostanza secondo cui il medesimo ricorso è stato rigettato nella parte in cui lamentava l’illegittima attribuzione di un budget superiore ad altra struttura sanitaria. In parte qua il t.A.r. sostiene che “la scelta dell’organo commissariale di aumentare in misura fissa il budget per alcune strutture non è irragionevole, poiché tali strutture, tutte monospecialistiche, hanno ottenuto più posti letto con il D.C.A. n. 64/2016, al precipuo fine di essere implementate rispetto a quelle generaliste, giustificando ciò un conseguenziale aumento di risorse”. In questo caso la discriminazione risultava soltanto apparente in quanto era concretamente giustificata da un aumento di posti letto in capo alle strutture controinteressate. vi è poi un ulteriore pronuncia (17) con la quale il t.A.r. Calabria ha accolto parzialmente un ulteriore ricorso avverso la determinazione dei tetti di spesa. Il provvedimento in questione è il D.C.A. n. 27/2016 (“Definizione del livello massimo di finanziamento per l’anno 2016 alle strutture erogatrici di prestazioni di assistenza ospedaliera con oneri a carico del S.S.R.”) il quale assegna la somma di complessivi euro 976.660,30 (provenienti dalla somma residua accantonata dal finanziamento per l’acquisto di prestazioni di assistenza ospedaliera da erogatori privati accreditati per l’anno 2015) unicamente a tre strutture private (ritenute “performanti”), senza fornire alcuna motivazione circa l’esclusione, dalla ripartizione di tale somma, della struttura sanitaria ricorrente. Invero, il t.A.r., prima di giungere alla declaratoria di nullità ha cercato di ottenere i dovuti chiarimenti in merito a tali scelte effettuate dalla struttura commissariale. Difatti, con un’ordinanza interlocutoria (18) i giudici hanno rilevato che - limitatamente alla parte del decreto n. 27/2016 con cui è stata erogata la somma di euro 976.660,30 ad alcuni operatori - era “necessario ottenere chia- (17) t.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. I, 23 novembre 2017, n. 1875, in www.giustizia-amministrativa. it. (18) Cfr. t.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. I, ord. 15 dicembre 2016, n. 128, in www.giustizia-amministrativa. it. rASSegnA AvvoCAtUrA 192 DeLLo StAto - n. 3/2018 rimenti dalla struttura commissariale atti ad illustrare il riferimento alla rimodulazione dei tetti di spesa assegnati per l’anno 2015 alle strutture private accreditate sopra indicate per le quali era stata effettuata una riduzione di spesa rispetto a quello assegnato nell’anno 2014 relativamente alle prestazioni post-acuzie”. Il Collegio ha ritenuto chiedere chiarimenti proprio in considerazione della natura tecnico-discrezionale delle questioni oggetto di esame, al fine di comprendere, nello specifico, i criteri predeterminati per l’individuazione delle strutture da “premiare” con la ripartizione delle somme accantonate. tuttavia, non pervenendo alcun riscontro da parte della struttura commissariale, il medesimo collegio ha ritenuto di valutare tale comportamento inerte quale argomento di prova ex art. 64 co. 4, c.p.a. (19) a sfavore di parte resistente. Ciò in quanto, si legge nella sentenza: “a) i fatti oggetto di esame rientrano nella piena disponibilità dell’amministrazione, accentuandosi in questo settore, per la peculiarità tecnica dei criteri seguiti nella specifica ripartizione del budget alle strutture accreditate, la “asimmetria conoscitiva” che giustifica il principio probatorio del “temperamento” dell’onere probatorio incombente sull’attore con il “metodo acquisitivo” (20) ex art. 64 commi 1 e 3, c.p.a.); b) a fronte delle allegazioni specifiche fornite da parte contraente, circa la mancanza di una sufficiente motivazione che escludesse il sospetto di “arbitrio” nella ripartizione concreta della somma complessiva di euro 976.660,30 per l’anno 2016, non sono stati apportati dall’amministrazione costituita elementi istruttori in senso contrario, pertanto la conclusione istruttoria fondata sull’art. 64 co. 4 c.p.a. non si pone in contrasto con le emergenze documentali; c) il comportamento omissivo dell’amministrazione non ha consentito peraltro neanche di verificare se, nel lungo tempo trascorso tra l’introduzione del giudizio e l’udienza di discussione, siano stati adottati provvedimenti commissariali sopravvenuti che abbiano avuto comunque incidenza anche sulla parte del decreto 27/2016 oggetto di specifica contestazione”. Come evincibile, l’annullamento del decreto in questione è conseguenza di un preciso percorso istruttorio che non ha fornito al collegio elementi utili a giustificare la scelta effettuata dal Commissario e censurata dalla struttura interessata. Anche in tal caso, similmente a quanto visto pocanzi, la disparità di trattamento tra le strutture sanitarie interessate risultava manifestamente ingiustificata tanto da indurre il t.A.r. - che ha inteso comunque tenere in considerazione l’ampia discrezionalità che connota il Commissario ad acta in questa tipologia (19) Ai sensi del quale “Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento e può desumere argomenti di prova dal comportamento tenuto dalle parti nel corso del processo”. (20) Cfr., a contrario e da ultimo, trattandosi di un principio consolidato, Cons. St., Ad. Plen. 2/2017, in www.giustizia-amministrativa.it. LegISLAzIone eD AttUALItà 193 di scelte (21) - ad annullare il provvedimento impugnato per quanto concerne la ridistribuzione della somma accantonata dall’annualità precedente. Alla luce di quanto esposto può quindi affermarsi che in tali sentenze - seppur prima face sembra esserci un cambio di rotta rispetto al consolidato orientamento giurisprudenziale - in realtà non sono rinvenibili elementi difformi rispetto alle numerose precedenti pronunce ma soltanto una più attenta applicazione dei principi già in precedenza enucleati. 2.2 Sull’approvazione del nomenclatore tariffario provvisorio regionale delle prestazioni di specialistica ambulatoriale e di laboratorio. Altri elementi di novità rispetto all’orientamento già consolidato sono rinvenibili nelle pronunce inerenti l’approvazione del nuovo nomenclatore tariffario provvisorio regionale delle prestazioni di specialistica ambulatoriale e di laboratorio (trattasi del D.C.A. n. 84/2011 (22)). Invero si tratta più che altro di una fattispecie nuova, finora non ancora vagliata - nonostante trattasi di provvedimenti del 2011 - dal t.A.r. calabrese. In tal caso parte ricorrente lamentava la circostanza secondo cui il richiamo - da parte del Commissario ad acta - al criterio di parametrazione delle tariffe a tariffari adottati in altre realtà regionali (senza alcuno specifico criterio al costo standard) non sarebbe stato sufficiente al fine di disvelare il percorso motivazionale seguito. In pratica, il Commissario si sarebbe limitato a richiamare genericamente analisi comparative su un campione di prestazioni senza specificare quali siano esattamente e senza precisare quali regioni siano state prese come parametro di riferimento. Il provvedimento sarebbe inficiato, quindi, da vizio motivazionale e di omessa istruttoria. Il t.A.r., con due diverse pronunce (23) ha accolto tali censure annullando il provvedimento impugnato e facendo leva proprio sul difetto di motivazione. Si legge, infatti, nella sentenza che “Nell’ambito dei criteri di parametrazione individuati dal legislatore, e anche tenendo conto delle esigenze di contenimento dei costi, particolarmente stringenti nelle Regioni oggetto di commissariamento ex art. 120 co. 2 Cost., e a regime di “sostituzione straordinaria” appare legittimo, in astratto, il richiamo a tariffari già adottati in altre regioni affini, a condizione che però siano evincibili da parte degli ope- (21) nella sentenza si lascia chiaramente intendere che la decisione del collegio di annullare il provvedimento impugnato ha in ogni caso tenuto “in debita considerazione la peculiarità del contesto emergenziale e le conseguenti verosimili disfunzioni organizzative che connotano la struttura emergenziale facente capo al Commissario ad acta per l’attuazione del piano di rientro”. (22) Il Commissario ad acta, all’epoca dell’emissione del decreto, era il Presidente della giunta della regione Calabria. (23) t.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. I, 14 luglio 2018, n. 1428; id. n. 1430, in www.giustizia-amministrativa. it. rASSegnA AvvoCAtUrA 194 DeLLo StAto - n. 3/2018 ratori destinatari i criteri di selezione giustificativi della valutazione di “comparabilità” tra realtà regionali. Poiché il provvedimento impugnato è difettoso sul punto, esso si rivela illegittimo e pertanto meritevole dell’annullamento richiesto”. Pertanto, la scelta di tariffari già adottati da altre regioni senza la specificazione dei criteri che hanno indotto a tale scelta non può sorreggere l’impianto motivazionale del provvedimento. In tal caso, a nulla sono valse le controdeduzioni fornite dalla struttura commissariale atte a giustificare una deroga ai principi dell’ordinamento inerenti l’assetto motivazionale del provvedimento amministrativo. In particolare, quest’ultima ha dedotto in giudizio che l’atto impugnato sarebbe stato adottato nell’ambito della “gravissima situazione di deficit strutturale del settore sanitario e come tale non soggetto ad ulteriori obblighi di più pregnante motivazione ex art. 3 L. 241/90, soprattutto in forza della natura vincolante del piano di rientro approvato e della natura derogatoria delle norme emergenziali”. In tal caso il collegio ha inteso svolgere un bilanciamento tra le specifiche esigenze sottese al Piano di rientro da un lato, e la tutela degli operatori sanitari dall’altro. Questi ultimi, infatti, devono esser posti nella condizione di poter valutare e comprendere le ragioni poste alla base delle scelte amministrative. 2.3. Sulla convenzione stipulata tra il Commissario ad acta e l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (Age.na.s.). nell’ambito dell’imponente contenzioso che ha coinvolto il Commissario ad acta, degna di nota è la pronuncia con cui il t.A.r. Calabria ha definito l’annosa questione inerente la convenzione stipulata tra lo stesso Commissario e l’Agenzia nazionale per i Servizi Sanitari regionali (Age.na.s.) (24). tale convenzione (approvata con D.C.A. n. 46/2016) aveva ad oggetto la realizzazione di attività di supporto tecnico-operativo e di affiancamento alla struttura commissariale ai fini dell’attuazione del Piano di rientro. Il provvedimento veniva impugnato dalla regione Calabria nella parte in cui prevedeva un corrispettivo per tale attività pari a € 200.000,00 annui. Quest’ultima riteneva, infatti, irragionevole e ingiusto l’attribuzione a titolo oneroso di funzioni che sarebbero già attribuite ex lege alla stessa Agenzia e, soprattutto, già retribuite dal Ministero della Salute (tale importo, inoltre, sarebbe gravato sul bilancio regionale, producendo così una doppia lesione nei confronti della stessa regione). La difesa del Commissario ad acta, di contro, sosteneva che la centralità del ruolo riconosciuto a quest’ultimo (il quale si sostituisce in toto agli enti ordinariamente competenti) prevede che lo stesso goda di amplissimi poteri fi- (24) Per un approfondimento dettagliato della questione si veda Mezzotero-SISCA, op. cit., pag. 212. LegISLAzIone eD AttUALItà 195 nalizzati ad una efficace e concreta attuazione del programma, tra cui anche quella di concedere incarichi (non importa se a titolo gratuito o oneroso) per la corretta e sostanziale attuazione del Piano di rientro e la convenzione in questione, a suo dire, non era altro che esercizio di tali poteri ad esso conferiti. tale giudizio, invero, ha subito un percorso abbastanza travagliato. Difatti, la prima pronuncia del t.A.r. (trattasi dell’ordinanza n. 270/2016 (25) di rigetto delle misure cautelari richieste dalla regione Calabria) veniva prontamente capovolta dal Consiglio di Stato in sede di gravame. Il supremo consesso di giustizia amministrativa ha infatti sospeso il provvedimento impugnato sostenendo che il quadro normativo vigente non sembra attribuire ad Age.na.s. la facoltà di stipulare convenzioni a titolo oneroso per lo svolgimento di attività di supporto delle regioni sottoposte a Piano di rientro, “essendo tali attività ricomprese nel novero delle competenze, dei compiti e degli obblighi assegnatile dalla legislazione relativa ai Piani di rientro dai disavanzi del settore sanitario” (26). nel frattempo veniva emanato dal Commissario ad acta il decreto n. 58/2016 con il quale veniva rettificato il precedente D.C.A. n. 46/2016 sia nella sua parte motiva (la convenzione veniva integrata con riferimenti legislativi e normativi a sostegno dell’adozione del provvedimento) che nella sua parte dispositiva (la rubrica dell’art. 6 veniva modificata da “Corrispettivo” a “Contributo”). tali modifiche, tuttavia, non sono bastate a “salvare” il provvedimento in questione. A porre fine alla travagliata vicenda è occorsa la sentenza 14 maggio 2018, n. 1009, con la quale il t.A.r. Calabria - chiamato a pronunciarsi sulla vicenda in sede di merito e conformandosi al percorso già tracciato dal Consiglio di Stato - ha definitivamente annullato il provvedimento impugnato. Il collegio fa notare come dall’esame della normativa che istituisce e assegna i compiti all’Age.na.s (nonché dello statuto di quest’ultima) emerge la sostanziale corrispondenza tra l’incarico oneroso che costituisce oggetto della convenzione e le funzioni già istituzionalmente attribuite al medesimo ente (27). Più nel dettaglio, si legge in sentenza, che “la previsione di un corrispet- (25) In tale ordinanza viene affermato che “La nomina di un Commissario ad acta per l’attuazione del piano di rientro dal disavanzo sanitario, previamente concordato tra lo Stato e la Regione interessata, sopraggiunge all’esito di una persistente inerzia degli organi regionali, essendosi questi ultimi sottratti ad un’attività che pure è imposta dalle esigenze di finanza pubblica … che detta attività è volta a soddisfare la necessità di assicurare la tutela dell’unità economica della Repubblica, oltre che i livelli essenziali delle prestazioni concernenti un diritto fondamentale (art. 32 Cost.) qual è quello alla salute … che in questo quadro, le funzioni amministrative del commissario, ovviamente fino all’esaurimento dei suoi compiti di attuazione del piano di rientro, devono essere poste al riparo da ogni interferenza degli organi regionali, senza che possa essere evocato il rischio di fare di esso l’unico soggetto cui spetti di provvedere per il superamento della situazione di emergenza sanitaria in ambito regionale”. (26) Cons. St., sez. III, ord. 1 settembre 2016, n. 3618, in www.giustizia-amministrativa.it. rASSegnA AvvoCAtUrA 196 DeLLo StAto - n. 3/2018 tivo per lo svolgimento di attività istituzionali che sono invece già attribuite per legge all’ente ausiliario non trova alcun fondamento normativo, si pone in contrasto con il quadro normativo di riferimento in forza del quale le medesime attività oggetto di convenzione onerosa sono già enucleabili tra quelle attribuite all’Agenzia a favore anche delle Regioni, già coinvolte di dissesti finanziari nel settore sanitario”. 4. Conclusioni. Alla stregua delle osservazioni che precedono è facilmente constatabile la delicatezza e la complessità delle questioni poste all’attenzione del t.A.r. Calabria. In tale contesto, quest’ultimo, ha dovuto necessariamente svolgere un importante e non facile bilanciamento tra interessi diversi e spesse volte contrastanti: all’esigenza di contenimento della spesa pubblica e di razionalizzazione del sistema sanitario si contrappone, infatti, l’esigenza di rafforzamento della tutela sanitaria, della libertà di concorrenza e della tutela del diritto alla salute (28). Alla complessità intrinseca delle questioni deve poi aggiungersi l’enorme quantità di ricorsi giunti al vaglio del t.A.r. di Catanzaro: nel 2016 ben 80 sono state le sentenze di merito emesse in seguito alla discussione in diverse udienze tematiche fissate per la trattazione congiunta dei ricorsi; 52 sentenze nel 2017; circa 20 sentenze nel primo semestre del 2018, mentre diversi giudizi sono tutt’ora ancora pendenti (29). Il ruolo svolto dagli organi giudicanti risulta quindi di particolare importanza soprattutto alla luce dell’ampia discrezionalità che connota il Commissario ad acta e dalla quale derivano parametri fumosi e di difficile interpretazione da parte di coloro che sono chiamati a valutare - in sede giurisdizionale - la legittimità delle scelte commissariali. (27) Si fa riferimento, nella sentenza, all’art. 5, d.lgs. 30 giugno 1993 n. 266 istitutivo dell’Agenzia, con cui vengono assegnate a tale ente la funzione di supporto delle attività regionali, di valutazione comparativa dei costi e dei rendimenti resi ai cittadini, di segnalazione delle disfunzioni e sprechi nella gestione delle risorse personali e materiali e nelle forniture, di trasferimento dell’innovazione e delle sperimentazioni in materia sanitaria e all’art. 1 co. 579 della l 28 dicembre 2015 n. 208 (Legge di Stabilità 2016), secondo cui il Ministero della Salute, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, “avvalendosi dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, assicura su richiesta della regione interessata, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, il necessario supporto agli enti interessati dai piani di rientro di cui ai commi 528 e 536 e mette a disposizione, se necessario, strumenti operativi per la presentazione del piano e il perseguimento dei suoi obiettivi, nonché per l’affiancamento, da parte dell’AGENAS con oneri a carico del bilancio della medesima agenzia degli enti del servizio sanitario nazionale per tutta la durata dei piani di rientro”. (28) Sul tema si veda D. AnDrACChIo, La programmazione sanitaria del Commissario ad acta nella Regione Calabria. Il difficile equilibrio tra libertà di concorrenza, libertà di scelta del luogo di cura ed esigenza di contenimento della spesa pubblica. Nota a sentenza T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, 16 maggio 2016, n. 1041, in Giurisprudenza Commentata n. 2/2017. (29) I dati sono estrapolati dalle relazioni dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del t.A.r. Calabria, sede di Catanzaro, in riferimento agli anni giudiziari 2016 e 2017. LegISLAzIone eD AttUALItà 197 D’altronde, che il Piano di rientro sia caratterizzato da vincoli e sacrifici per gli operatori pubblici e privati del settore sanitario è cosa ben nota (e, soprattutto, necessaria), ma tali sacrifici non devono eccedere il limite della ragionevolezza, logicità, arbitrarietà e razionalità. tale limite, pertanto, può essere individuato solo con una corretta attività ermeneutica nonché di raffronto e di bilanciamento tra il contesto normativo di riferimento e la situazione fattuale (emergenziale) persistente. trattasi di un compito arduo che, finora, sembra essersi svolto nel modo più logico e razionale possibile e, soprattutto, in conformità ai principi sottesi ad una situazione oltre modo emergenziale. giova evidenziare, inoltre, che i principi rinvenibili nelle pronunce in questa sede esaminate sono stati rafforzati da numerose pronunce della Corte Costituzionale. Quest’ultima, ha sempre confermato la piena legittimità delle norme che stabiliscono vincoli e limiti all’autonomia regionale in quanto giustificati dal fattore “emergenza”. nella sentenza più importante (30) (tra l’altro riassuntiva di altre precedenti pronunce trattanti la medesima questione (31)) la Corte afferma che “le norme statali che fissano limiti alla spesa di enti pubblici regionali sono espressione della finalità di coordinamento finanziario, per cui il legislatore statale può legittimamente imporre alle Regioni vincoli alla spesa corrente per assicurare l’equilibrio unitario della finanza pubblica complessiva, in connessione con il perseguimento di obbiettivi nazionali, condizionati anche da obblighi comunitari”. (30) Corte Cost., 12 maggio 2011, n. 163, in www.cortecostituzionale.it. (31) In particolare Corte Cost., 18 febbraio 2010, n. 52; id. 17 marzo 2010, n. 100; id. 23 aprile 2010, n. 141; id. 11 aprile 2011, n. 123; id. 25 aprile 2012, n. 131; id. 19 luglio 2013, n. 219, id. 5 maggio 2014, n. 110, tutte in www.cortecostituzionale.it. rASSegnA AvvoCAtUrA 198 DeLLo StAto - n. 3/2018 Una breve rassegna della giurisprudenza in tema di sosta d’ingombro degli autoveicoli e risvolti penali (il reato di violenza privata ex art. 610 c.p.). Alessio Muciaccia* Il Codice della strada (1) vigente distingue espressamente all’art. 157 (2) tra la fermata e la sosta dei veicoli: la fermata è la temporanea sospensione della marcia, ad esempio per consentire la salita o la discesa delle persone dal veicolo o per altre esigenze di brevissima durata, non deve essere d’intralcio alla circolazione ed è connotata dalla presenza a bordo del conducente che deve essere pronto a riprendere la marcia; la sosta invece è connotata dalla sospensione della marcia protratta nel tempo, con la conseguente possibilità per il conducente di allontanarsi dal veicolo. (*) Dottore in giurisprudenza. (1) nuovo Codice della Strada. Decreto Legislativo del 30 aprile 1992, n. 285. Pubblicato in G.U. del 18 maggio 1992, n. 114. (2) “Arresto fermata e sosta dei veicoli” - art. 157 C.d.S. 1. Agli effetti delle presenti norme: a) per arresto si intende l'interruzione della marcia del veicolo dovuta ad esigenze della circolazione; b) per fermata si intende la temporanea sospensione della marcia anche se in area ove non sia ammessa la sosta, per consentire la salita o la discesa delle persone, ovvero per altre esigenze di brevissima durata. Durante la fermata, che non deve comunque arrecare intralcio alla circolazione, il conducente deve essere presente e pronto a riprendere la marcia; c) per sosta si intende la sospensione della marcia del veicolo protratta nel tempo, con possibilità di allontanamento da parte del conducente; d) per sosta di emergenza si intende l'interruzione della marcia nel caso in cui il veicolo è inutilizzabile per avaria ovvero deve arrestarsi per malessere fisico del conducente o di un passeggero. 2. Salvo diversa segnalazione, ovvero nel caso previsto dal comma 4, in caso di fermata o di sosta il veicolo deve essere collocato il più vicino possibile al margine destro della carreggiata, parallelamente ad esso e secondo il senso di marcia. Qualora non esista marciapiede rialzato, deve essere lasciato uno spazio sufficiente per il transito dei pedoni, comunque non inferiore ad un metro. Durante la sosta, il veicolo deve avere il motore spento. 3. Fuori dei centri abitati, i veicoli in sosta o in fermata devono essere collocati fuori della carreggiata, ma non sulle piste per velocipedi né, salvo che sia appositamente segnalato, sulle banchine. In caso di impossibilità, la fermata e la sosta devono essere effettuate il più vicino possibile al margine destro della carreggiata, parallelamente ad esso e secondo il senso di marcia. Sulle carreggiate delle strade con precedenza la sosta è vietata. 4. Nelle strade urbane a senso unico di marcia la sosta è consentita anche lungo il margine sinistro della carreggiata, purché rimanga spazio sufficiente al transito almeno di una fila di veicoli e comunque non inferiore a tre metri di larghezza. 5. Nelle zone di sosta all'uopo predisposte i veicoli devono essere collocati nel modo prescritto dalla segnaletica. 6. Nei luoghi ove la sosta è permessa per un tempo limitato è fatto obbligo ai conducenti di segnalare, in modo chiaramente visibile, l'orario in cui la sosta ha avuto inizio. ove esiste il dispositivo di controllo della durata della sosta è fatto obbligo di porlo in funzione. 7. È fatto divieto a chiunque di aprire le porte di un veicolo, di discendere dallo stesso, nonché di lasciare aperte le porte, senza essersi assicurato che ciò non costituisca pericolo o intralcio per gli altri utenti della strada. 7-bis. È fatto divieto di tenere il motore acceso, durante la sosta del veicolo, allo scopo di mantenere in funzione l'impianto di condizionamento d'aria nel veicolo stesso; dalla violazione consegue la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 218 a euro 435. 8. Fatto salvo quanto disposto dal comma 7-bis, chiunque viola le disposizioni di cui al presente articolo è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 41 a euro 169. LegISLAzIone eD AttUALItà 199 Il codice, disciplina anche come posizionare il veicolo per la fermata e la sosta all’interno e fuori del centro abitato: nei centri abitati, durante la fermata o la sosta il veicolo va collocato il più vicino possibile al margine destro della carreggiata, parallelamente a esso e secondo il senso di marcia, salvo diversa segnalazione. Se non esiste il marciapiede, bisogna lasciare uno spazio sufficiente per il passaggio dei pedoni comunque non inferiore a 1 metro; nelle strade a senso unico si può sostare anche lungo il margine sinistro, purché rimanga spazio sufficiente al passaggio almeno di una fila di veicoli e comunque non inferiore a 3 metri di larghezza; fuori dei centri abitati, invece, bisogna fermarsi o sostare fuori della carreggiata. In caso di impossibilità, è necessario fermarsi o sostare il più vicino possibile al margine destro della carreggiata, parallelamente ad esso e secondo il senso di marcia. Quando poi esiste l’apposita segnaletica orizzontale il veicolo va collocato con l’inclinazione prescritta. vengono, altresì, elencati anche una serie di obblighi e cautele che il conducente deve adottare durante la fermata e la sosta, così riassumibili: spegnere il motore, anche se la sosta è di breve durata; utilizzare, se presente, il cavalletto centrale (per ciclomotori e motocicli); azionare il freno di stazionamento (se il veicolo ne è dotato); inserire il rapporto più basso del cambio di velocità (se il veicolo ne è dotato). Su strada in pendenza: se il veicolo è a due ruote, si lascia sul cavalletto centrale con la ruota anteriore rivolta verso la salita; se il veicolo ha più di due ruote, si sterzano le ruote verso l’esterno della strada. Durante la sosta e la fermata il conducente deve adottare tutte le cautele per evitare incidenti e impedire l’uso del veicolo senza il suo consenso, come ad esempio aprire le porte di un veicolo, discendere dallo stesso, nonché lasciare aperte le porte, senza essersi assicurati che ciò non costituisca pericolo o intralcio per gli altri utenti della strada. tali manovre devono essere sempre eseguite nel tempo strettamente necessario, in relazione alle condizioni del traffico, in modo da assicurare la sicurezza per gli altri. Al successivo art. 158 (3) “Divieto di fermata e sosta dei veicoli” è spe- (3) “Divieto di fermata e sosta dei veicoli ”- art. 158 C.d.S. 1. La fermata e la sosta sono vietate: a) in corrispondenza o in prossimità dei passaggi a livello e sui binari di linee ferroviarie o tranviarie o così vicino ad essi da intralciarne la marcia; b) nelle gallerie, nei sottovia, sotto i sovrapassaggi, sotto i fornici e i portici, salvo diversa segnalazione; c) sui dossi e nelle curve e, fuori dei centri abitati e sulle strade urbane di scorrimento, anche in loro prossimità; d) in prossimità e in corrispondenza di segnali stradali verticali e semaforici in modo da occultarne la vista, nonché in corrispondenza dei segnali orizzontali di preselezione e lungo le corsie di canalizzazione; e) fuori dei centri abitati, sulla corrispondenza e in prossimità delle aree di intersezione; f) nei centri abitati, sulla corrispondenza delle aree di intersezione e in prossimità delle stesse a meno di 5 m dal prolungamento del bordo più vicino della carreggiata trasversale, salvo diversa segnalazione; g) sui passaggi e attraversamenti pedonali e sui passaggi per ciclisti, nonché sulle piste ciclabili e agli sbocchi delle medesime; h) sui mar rASSegnA AvvoCAtUrA 200 DeLLo StAto - n. 3/2018 cificato analiticamente dove la fermata e la sosta sono invece vietate, precisando anche la misura delle sanzioni pecuniarie applicabili in caso di violazione. Infine, l’art. 159 (4) “Rimozione e blocco dei veicoli”, stabilisce che è ciapiedi, salvo diversa segnalazione. 2. La sosta di un veicolo è inoltre vietata: a) allo sbocco dei passi carrabili; b) dovunque venga impedito di accedere ad un altro veicolo regolarmente in sosta, oppure lo spostamento di veicoli in sosta; c) in seconda fila, salvo che si tratti di veicoli a due ruote, due ciclomotori a due ruote o due motocicli; d) negli spazi riservati allo stazionamento e alla fermata degli autobus, dei filobus e dei veicoli circolanti su rotaia e, ove questi non siano delimitati, a una distanza dal segnale di fermata inferiore a 15 m, nonché negli spazi riservati allo stazionamento dei veicoli in servizio di piazza; e) sulle aree destinate al mercato e ai veicoli per il carico e lo scarico di cose, nelle ore stabilite; f) sulle banchine, salvo diversa segnalazione; g) negli spazi riservati alla fermata o alla sosta dei veicoli per persone invalide di cui all'art. 188 e in corrispondenza degli scivoli o dei raccordi tra i marciapiedi, rampe o corridoi di transito e la carreggiata utilizzati dagli stessi veicoli; h) nelle corsie o carreggiate riservate ai mezzi pubblici; i) nelle aree pedonali urbane; l) nelle zone a traffico limitato per i veicoli non autorizzati; m) negli spazi asserviti ad impianti o attrezzature destinate a servizi di emergenza o di igiene pubblica indicati dalla apposita segnaletica; n) davanti ai cassonetti dei rifiuti urbani o contenitori analoghi; o) limitatamente alle ore di esercizio, in corrispondenza dei distributori di carburante ubicati sulla sede stradale ed in loro prossimità sino a 5 m prima e dopo le installazioni destinate all'erogazione. 3. Nei centri abitati è vietata la sosta dei rimorchi quando siano staccati dal veicolo trainante, salvo diversa segnalazione. 4. Durante la sosta e la fermata il conducente deve adottare le opportune cautele atte a evitare incidenti ed impedire l'uso del veicolo senza il suo consenso. 5. Chiunque viola le disposizioni del comma 1 e delle lettere d), g) e h) del comma 2 è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 40 a euro 164 per i ciclomotori e i motoveicoli a due ruote e da euro 84 a euro 338 per i restanti veicoli. 6. Chiunque viola le altre disposizioni del presente articolo è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 24 a euro 98 per i ciclomotori e i motoveicoli a due ruote e da euro 41 a euro 169 per i restanti veicoli. 7. Le sanzioni di cui al presente articolo si applicano per ciascun giorno di calendario per il quale si protrae la violazione. (4) “Rimozione e blocco dei veicoli” - art. 159 C.d.S. 1. Gli organi di polizia, di cui all'art. 12, dispongono la rimozione dei veicoli: a) nelle strade e nei tratti di esse in cui con ordinanza dell'ente proprietario della strada sia stabilito che la sosta dei veicoli costituisce grave intralcio o pericolo per la circolazione stradale e il segnale di divieto di sosta sia integrato dall'apposito pannello aggiuntivo; b) nei casi di cui agli articoli 157, comma 4 e 158, commi 1, 2 e 3; c) in tutti gli altri casi in cui la sosta sia vietata e costituisca pericolo o grave intralcio alla circolazione; d) quando il veicolo sia lasciato in sosta in violazione alle disposizioni emanate dall'ente proprietario della strada per motivi di manutenzione o pulizia delle strade e del relativo arredo. 2. Gli enti proprietari della strada sono autorizzati a concedere il servizio della rimozione dei veicoli stabilendone le modalità nel rispetto delle norme regolamentari. I veicoli adibiti alla rimozione devono avere le caratteristiche prescritte nel regolamento. Con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti può provvedersi all'aggiornamento delle caratteristiche costruttive funzionali dei veicoli adibiti alla rimozione, in relazione ad esigenze determinate dall'evoluzione della tecnica di realizzazione dei veicoli o di sicurezza della circolazione. 3. In alternativa alla rimozione è consentito, anche previo spostamento del veicolo, il blocco dello stesso con attrezzo a chiave applicato alle ruote, senza onere di custodia, le cui caratteristiche tecniche e modalità di applicazione saranno stabilite nel regolamento. L'applicazione di detto attrezzo non è consentita ogni qual volta il veicolo in posizione irregolare costituisca intralcio o pericolo alla circolazione. 4. La rimozione dei veicoli o il blocco degli stessi costituiscono sanzione amministrativa accessoria alle sanzioni amministrative pecuniarie previste per la violazione dei comportamenti di cui al comma 1, ai sensi delle norme del capo I, sezione II, del titolo VI. 5. Gli organi di polizia possono, altresì, procedere alla rimozione dei veicoli in sosta, ove per il loro stato o per altro fondato motivo si possa ritenere che siano stati abbandonati. Alla rimozione può provvedere anche l'ente proprietario della strada, sentiti preven LegISLAzIone eD AttUALItà 201 consentita la rimozione forzata dei veicoli qualora la sosta vietata costituisca pericolo o grave intralcio alla circolazione. Premessa questa breve panoramica sulla regolamentazione operata dal Codice della Strada circa la fermata e sosta dei veicoli, si esaminano le conseguenze sanzionatorie per la sosta in doppia fila. nella vita frenetica di tutti i giorni risiede la cattiva abitudine della sosta in doppia fila ove vietato ed anche se momentanea: comportamento che presenta dei risvolti sia penali che civili secondo la giurisprudenza di legittimità, che potrebbero costare al trasgressore più di una contravvenzione ed una rimozione forzata dell’autovettura. L’art. 158, comma 2, lett. c) del Codice della Strada, infatti, vieta la sosta in seconda fila (salvo che si tratti di veicoli a due ruote, due ciclomotori a due ruote o due motocicli) prevedendo una sanzione amministrativa da euro 24 a euro 97 per i ciclomotori e i motoveicoli a due ruote e da euro 41 a euro 168 per i restanti veicoli. L’art. 159 co. 1 lett. c), invece, autorizza la rimozione forzata dei veicoli nel caso in cui la sosta vietata costituisca pericolo o grave intralcio alla circolazione. Secondo la giurisprudenza di legittimità, inoltre, chi parcheggia l’auto in doppia fila bloccando la manovra alle altre autovetture regolamentate parcheggiate, è idoneo a integrare il reato di violenza privata (art. 610 c.p.), così come qualunque atteggiamento di ostacolo all’accesso o all’uscita provocato dal “parcheggio selvaggio” del veicolo. Infatti la suprema Corte già nel 2005, aveva precisato che il reato previsto dall’art. 610 c.p. doveva ritenersi integrato in base ad “ogni condotta idonea a costituire una coazione della parte offesa” (5). nel caso di specie, la Corte aveva confermato la condanna di un soggetto che aveva parcheggiato la propria autovettura dietro quella della persona offesa bloccandola e, opponendo un rifiuto all’invito di quest’ultimo di spostarla per potersi allontanare, costringendo di fatto la parte offesa ad un comportamento non liberamente voluto. ebbene, analizziamo brevemente i presupposti del reato di violenza privata. Secondo l’art. 610 c.p., esso si configura quando “chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa”. La pena prevista è la reclusione fino a quattro anni, aumentata se concorrono le circostanze aggravanti di cui all’art. 339 c.p., se la violenza o la minaccia sono commesse con armi, da persone travisate, da più persone riunite, con scritto anonimo, in modo simbolico o valendosi della forza intimidatrice derivante da associazioni segrete, esistenti o supposte. tivamente gli organi di polizia. Si applica in tal caso l'art. 15 del decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1982, n. 915. 5-bis. Nelle aree portuali e marittime come definite dalla legge 28 gennaio 1994, n. 84, è autorizzato il sequestro conservativo degli automezzi in sosta vietata che ostacolano la regolare circolazione viaria e ferroviaria o l'operatività delle strutture portuali. (5) Cass. pen., sez. I, sent. 4 luglio 2005 n. 24614. rASSegnA AvvoCAtUrA 202 DeLLo StAto - n. 3/2018 Si osserva quindi come nel reato di violenza privata il requisito della violazione “ai fini della configurabilità del delitto, si identifica con qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente della libertà di determinazione e di azione l’offeso il quale sia, pertanto, costretto a fare, tollerare od omettere qualcosa contro la propria volontà” (6). nel caso di specie, l’imputato aveva parcheggiato in modo da intralciare il passaggio, precisando di non avere alcuna intenzione di rimuovere la sua autovettura. In conclusione, la suprema Corte confermava la condanna, e stabiliva che “se è del tutto condivisibile che costituisca il reato in esame la condotta di chi effettui il parcheggio di un’autovettura in modo tale da impedire intenzionalmente a un’altra automobile di spostarsi per accedere alla pubblica via e accompagnato dal rifiuto reiterato alla richiesta della parte offesa di liberare l’accesso sarebbe irragionevole non ritenere reato anche soltanto la seconda parte della condotta appena descritta nella quale la costrizione, con violenza, della altrui volontà è determinata dal mantenimento della vettura nella posizione irregolare in cui è stata messa dallo stesso agente: mantenimento capace di determinare la costrizione psicologica della persona offesa né più e né meno dell’intenzionale parcheggio ostruttivo”. ritiene quindi che, se da un lato è pacifico che costituisce il reato di violenza privata la condotta di chi effettua il parcheggio della propria autovettura in modo tale da impedire intenzionalmente a un’altra persona di uscire dal parcheggio comune, accompagnato dal reiterato rifiuto alla richiesta della parte offesa di liberare l’accesso, dall’altro è ragionevole ritenere reato anche il rifiuto di spostare l’auto. In quest’ultima condotta la costrizione con violenza dell’altrui volontà è determinata dal mantenimento della vettura nella posizione irregolare. Pertanto, è chiaro come per integrare il reato di violenza privata basti la consapevolezza del parcheggio eseguito in modo da bloccare eventuali altri automobilisti. Ancora la suprema Corte (7) ha ritenuto come la condotta di chi parcheggia la propria autovettura nel cortile condominiale in modo da impedire l’uscita del veicolo altrui configura il reato di violenza privata, previsto e punito dall’articolo 610 c.p., a nulla rilevando, come giustificazione e/o esimente, l’asserito smarrimento delle chiavi dell’automobile, anche laddove noto alla persona offesa per il tramite di altre persone presenti nell’area di sosta dei veicoli. Al riguardo, una recente decisione della Suprema Corte ha precisato che “Sul punto, occorre ricordare la giurisprudenza di questa Corte di legittimità laddove ha più volte affermato che l’elemento della violenza nella fattispecie criminosa di violenza privata si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo con- (6) Cass. pen., sez. v, sent. 12 gennaio 2012 n. 603. (7) Cass. pen., sez. v, sent. 28 febbraio 2011 n. 7592. LegISLAzIone eD AttUALItà 203 sistere anche in una violenza “impropria”, che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione (Cass., sez. 5, 22 ottobre 2010, n. 11907, Cavaleri). Ed invero, più precisamente è stato anche affermato che integra il delitto di violenza privata la condotta di colui che parcheggi la propria autovettura dinanzi ad un fabbricato in modo tale da bloccare il passaggio impedendo l’accesso alla parte lesa, considerato che, ai fini della configurabilità del reato in questione, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione (Cass., sez. 5, del 20 novembre 2013 n. 8425, dep. 21/02/2014, Iovino)” (8). Pertanto, parcheggiare un autoveicolo in sosta d’intralcio, può configurare la fattispecie di delitto di violenza privata previsto dall’art. 610 c.p., se blocca il passaggio alle altre autovetture. Ad esempio, in un’altra pronuncia è stata sanzionata l’intenzione dell’imputato di mantenere il proprio veicolo parcheggiato irregolarmente in un’area condominiale alla quale non aveva diritto di accedere “in modo tale da impedire alla persona offesa di transitare con il proprio veicolo per uscire sulla pubblica via, rifiutando reiteratamente di liberare l’accesso, pretendendo «con evidente protervia ed arroganza» che la persona offesa attendesse secondo proprie necessità la “discesa” della sorella”, e tanto basta, ha sostenuto la Corte, per integrare la violenza quale normativamente prevista (9). Sempre in tema di sosta d’intralcio di un veicolo all’interno di in uno spazio condominiale la Corte ha sostenuto che “la condotta materiale posta in essere da taluno dei condomini, la quale si concretizzi nel parcheggio di una autovettura dolosamente preordinato ad impedire il passaggio di un mezzo o comunque di privare una persona della propria libertà di determinazione od azione, integra un delitto di violenza privata, specie ove non sia giustificabile, a monte, con una pretesa meritevole di apprezzamento giuridico” (10). e ancora in un caso analogo ma connotato anche dalla rimozione di un ciclomotore lasciato in divieto di sosta in un cortile condominiale, la Corte (11) si è espressa in maniera identica. nello specifico, il Condominio aveva incaricato una società privata di provvedere alla rimozione dal portico condominiale di un ciclomotore abusivamente parcheggiato nonostante la presenza di appositi cartelli con l’indicazione “divieto di sosta” e con l’avvertimento che i motoveicoli sarebbero stati rimossi a spese dei trasgressori. Il proprietario del ciclomotore rimosso adiva il giudice di Pace di Bologna, che rigettava la domanda costringendo il ricorrente a ricorrere alla suprema Corte che confer- (8) Cass. pen., sez. v, sent. 7 dicembre 2015 n. 48346. (9) Cass. pen., sez. v, sent. 16 maggio 2006 n. 16571. (10) Cass. pen., sez. v, sent. 17 maggio 2006 n. 21779. (11) Cass. pen., sez. III, sent. 9 gennaio 2007 n. 196. rASSegnA AvvoCAtUrA 204 DeLLo StAto - n. 3/2018 mava la sentenza impugnata ribadendo che “la sentenza ha solo fatto applicazione del principio dell’autotutela o difesa privata del possesso e del principio stabilito nell’art. 2043 c.c, per il quale colui che col proprio fatto doloso o colposo cagiona ad altri un danno ingiusto è obbligato al risarcimento. Ha cioè ritenuto che il possessore, molestato nel possesso, possa, personalmente o a mezzo di un terzo cui abbia all’uopo affidato il relativo incarico, far cessare la molestia in atto rimuovendo la cosa con la quale l’offesa viene esercitata ed abbia altresì diritto al rimborso delle spese dovute al terzo per la rimozione, in quanto causate dal fatto illecito del molestatore”. In un’altra sentenza (12), ha ritenuto integrato con il reato di omicidio colposo il comportamento di un automobilista che lasciando la propria auto in doppia fila con lo sportello aperto provocava un incidente stradale mortale. La Corte ha considerato esistente il nesso causale tra la macchina lasciata in doppia fila e la morte del conducente del ciclomotore. nonostante il reato fosse prescritto, la Corte ha ritenuto di dover condannare l’imputato per omicidio colposo derivante oltre che dalla violazione degli artt. 157 co. 7 e 158 co. 2 lett. c) del C.d.S., anche dalla condotta colposa di aver lasciato la propria autovettura in doppia fila con lo sportello leggermente aperto determinando così l’evento morte del motociclista sopraggiunto. L’indirizzo giurisprudenziale consolidato e costante formatosi in materia di cd. atti emulativi della strada è stato confermato anche dalle sezioni unite della Corte di Cassazione nel 2013 (13). Infatti, le sezioni unite hanno confermato l’indirizzo già espresso dalle numerose precedenti pronunce delle sezioni semplici, ritenendo passibile di denuncia per il reato appunto di violenza privata, con condanna alla reclusione e risarcimento, il caso di ostruzione dell’ingresso al garage altrui. Il grave illecito penale può infatti lecitamente comminarsi nei confronti degli automobilisti che, parcheggiando la propria auto in una maniera da ostruire l’ingresso al garage condominiale, si rifiutano anche di rimuoverla. Le sezioni unite, dunque, non hanno fatto altro che confermare un indirizzo già ampiamente consolidato dalle precedenti sentenze n. 21779/06 e n. 603/11, con le quali si affermava che “integra il reato di violenza privata, di cui all’art. 610 c.p., la condotta di colui che, avendo parcheggiato l’auto in maniera da ostruire l’ingresso al garage condominiale, si rifiuti di rimuoverla nonostante la richiesta della persona offesa”. nella pronuncia in questione, la suprema Corte, confermando in toto la sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro, che ribaltava l’assoluzione concessa dal tribunale di Lamezia terme, va anche oltre il principio già ribadito, considerando il caso di un piccolo trattore che l’imputato solitamente parcheg- (12) Cass. pen., sez. III, sent. 1 dicembre 2010 n. 42498. (13) Cass. pen., sez. un., sent. 12 marzo 2013 n. 28487. LegISLAzIone eD AttUALItà 205 giava in area opposta a quella ove insisteva un passo carrabile, ma che, visto l’ingombro del mezzo, ostruiva l’utilizzo dell’altrui garage. La sentenza, che all’apparenza può sembrare discutibile, si basa sul requisito della “violenza”, un elemento che, in alternativa alla “minaccia”, risulta indispensabile per la configurazione del reato, in quanto nella “condotta di colui che parcheggia la propria autovettura in modo tale da bloccare il passaggio impedendo alla parte lesa di muoversi (…) il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione ed azione”. Il principio secondo il quale l’auto parcheggiata in modo da impedire l’uscita da un parcheggio integra il reato di violenza privata, è stato oggetto anche di un ulteriore pronuncia (14). Secondo la Corte, commette reato di violenza privata colui che “ostruisce con il proprio veicolo l’unica via di uscita” da un fondo, e più precisamente con l’intento (dolo) di impedire la libera uscita dallo stesso. Da qui la condanna, nei confronti dell’automobilista che aveva bloccato con il proprio fuoristrada l’unico passaggio che permetteva di uscire da un fondo di sua proprietà un soggetto che secondo l’imputato, lo stava arando illecitamente. Dello stesso avviso la pronuncia che ha sanzionato la condotta di un automobilista che aveva parcheggiato innanzi a un fabbricato, bloccando alle altre autovetture ogni via d’uscita. Per la Corte, “l’elemento della violenza nella fattispecie criminosa di violenza privata si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l'offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere anche in una violenza "impropria", che si attua attraverso l'uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione” (15). I suddetti principi stabiliti dalla suprema Corte e cristallizzati dalla pronuncia delle sezioni unite del 2013 citata hanno trovato applicazione in numerose pronunce di merito. tra le tante si riporta quella del tribunale di taranto (16) che ha confermato la condanna ex art. 610 c.p. nei confronti di un condomino che, a seguito di liti con altri proprietari, aveva “dimenticato” la propria vettura per ben due giorni innanzi al garage di un altro inquilino impedendogli il libero utilizzo della sua proprietà privata. Quella del giudice di Pace di roma (17), che ha condannato un conducente, per aver parcheggiato in seconda fila sulla strada pubblica, in maniera tale da impedire l’uscita dal parcheggio di un altro conducente, regolarmente (14) Cass. pen., sez. v, sent. 23 luglio 2014 n. 32720. (15) Cass. pen., sez. v, sent. 7 dicembre 2015 n. 48346. (16) trib. pen. di taranto, sez. I, sent. 6 ottobre 2014 n. 2006. (17) g.d.P. di roma, sez. vI, sent. 26 luglio 2013 n. 27962. rASSegnA AvvoCAtUrA 206 DeLLo StAto - n. 3/2018 posizionato sulle strisce a bordo carreggiata. Con la condanna è stato disposto un risarcimento danni per la perdita di tempo procurata al titolare del veicolo. e infine si riporta quella della Corte d’Appello di Palermo (18), che ha confermato la condanna nei confronti di un uomo, che aveva più volte “parcheggiato la propria autovettura nell’unica stradina di accesso” impedendo alla parte offesa di raggiungere la propria abitazione. I giudici d’appello, hanno ritenuto provato il delitto di violenza privata, poiché trattandosi di reato istantaneo per la sua configurabilità, non è necessario, che la condotta criminosa si protragga nel tempo. Alla luce del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, a cui sono succedute le pronunce dei giudici di merito, appare evidente come colui che sosta il proprio autoveicolo in sosta d’intralcio anche in area condominiale rischia concretamente oltre la sanzione pecuniaria e la rimozione forzata del mezzo la condanna per la fattispecie di reato previsto ex art. 610 c.p. (18) C.d.A. Palermo, sez. III, sent. 22 febbraio 2016 n. 648. contrIbutI DI DottrIna Il rimborso delle spese di patrocinio legale nei giudizi di responsabilità nei confronti di dipendenti pubblici ai sensi dell’art. 18 del D.L. 25 marzo 1997 n. 67 Michele Gerardo* Sommario: 1. aspetti generali - 2. Disciplina normativa - 3. ratio dell’art. 18 del d.l. 2 marzo 1997, n. 67 - 4. Natura giuridica della pretesa al rimborso delle spese e termini della sua azionabilità - 5. Giurisdizione sulla pretesa al rimborso delle spese di lite - 6. Natura giuridica ed ambito del giudizio di congruità del parere espresso dall'avvocatura dello Stato - 7. Contesto nel quale germina la spesa che dà diritto al rimborso - 8. Condizioni del diritto al rimborso: a) giudizio promosso nei confronti del (e non dal) dipendente pubblico, nel quale non è parte l’amministrazione di appartenenza - 9. (Segue) B) il titolare della pretesa deve avere la qualifica di dipendente di amministrazione statale - 10. (Segue) C) connessione dei fatti contestati con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali - 11. (Segue) D) sentenza o provvedimento che abbia escluso la responsabilità - 12. (Segue) D) sentenza o provvedimento che abbia escluso la responsabilità: i) all’esito di giudizio di responsabilità civile verso terzi - 13. (Segue) D) sentenza o provvedimento che abbia escluso la responsabilità: ii) all’esito di giudizio di responsabilità penale - 14. (Segue) D) sentenza o provvedimento che abbia escluso la responsabilità: iii) all’esito di giudizio di responsabilità amministrativa - 15. (Segue) assenza di conflitto di interesse? - 16. anticipazione del rimborso - 17. modalità di liquidazione. 1. aspetti generali. Il pubblico dipendente può essere coinvolto in una controversia trovante causa nell’esercizio delle funzioni svolte. Il dirigente del Comune, ad esempio, viene citato in giudizio per asseriti danni collegati all’adozione di un provvedimento di esproprio. Il detto dirigente si difende in giudizio con un avvocato. (*) Avvocato dello Stato. RASSegNA AVVoCATuRA 208 DeLLo STATo - N. 3/2018 Alla fine del giudizio l’azione risulta infondata, con pronuncia di un provvedimento che esclude la responsabilità del dipendente. Intanto questi ha sopportato delle spese per la difesa in giudizio a mezzo di un difensore. Discorso analogo vale per un dipendente di un datore di lavoro privato. Si pone quindi un problema: le spese sopportate per la difesa in giudizio vanno ristorate dal Comune, dalla P.A. nel cui interesse è stata prestata l’attività che ha occasionato la lite? A tale interrogativo, il sistema normativo o la specifica regolamentazione negoziale inter partes collettiva o individuale, spesso, rispondono con varie disposizioni puntuali dirette a sovvenire il dipendente per gli oneri difensivi. Ciò sulla base del rilievo che la controversia è stata occasionata dalle funzioni svolte. Le disposizioni puntuali prevedono, di solito, due modalità di sollievo. La P.A. provvede a: a) rimborsare le spese legali sopportate per la difesa a mezzo di avvocato nominato dal dipendente o, in alternativa, stipulare polizza assicurativa con la quale assicurare i propri dipendenti contro i rischi conseguenti all'espletamento dei loro compiti; b) mettere a disposizione un difensore, che agisce nella controversia nell’interesse del dipendente. Disposizioni del genere sono numerose in varie tipologie di rapporto di pubblico impiego. In assenza di disposizioni puntuali dirette a rilevare il dipendente per gli oneri difensivi, si discute se esista un principio generale in virtù del quale il datore di lavoro è tenuto a manlevare il dipendente per i detti oneri. Parte della giurisprudenza risponde positivamente al quesito (1). Sintomatici del principio affermativo sarebbero le numerose disposizioni puntuali sulla materia - di contenuto, quindi ricognitivo e non innovativo - ed altresì la regola civilistica generale di cui all'art. 1720, comma 2, c.c., dettata in tema (1) TAR Campania Napoli, Sez. VI, 30 marzo 2018, n. 2055, per il quale - in una lite coinvolgente un dipendente della Polizia di Stato - “anche prima dell'entrata in vigore della suddetta disposizione [ossia l'art. 18 del D.L. n. 67/1997] esisteva, tuttavia, un principio generale di rimborsabilità delle spese legali sopportate dal dipendente assolto da un qualsivoglia giudizio di responsabilità occorsogli per ragioni di servizio, anche in ossequio alla regola civilistica generale di cui all'art. 1720 comma 2 del cod. civ., […] quest'ultima disposizione declina e traduce, a sua volta, un principio generale dell'ordinamento quale il divieto di locupletatio cum aliena iactura (così Cons. St., Comm. Spec., 6 maggio 1996, n. 4); […] quest'ultimo principio era, peraltro, espresso da diverse disposizioni, in particolari settori del pubblico impiego (ad es. l'art. 41 del d.p.r. 20 maggio 1987 n. 270 riguardante il personale del servizio sanitario nazionale; l'art. 19 del d.p.r. 16 ottobre 1979 n. 509 relativo al personale degli enti pubblici di cui alla legge 20 marzo 1975 n. 70; l'art. 20 del d.p.r. 4 agosto 1990 n. 335 concernente il personale del comparto delle aziende e delle amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo), che prevedevano, in vario modo, l'assunzione da parte dell'amministrazione delle spese per il patrocinio legale del dipendente ovvero il loro rimborso, per cause connesse all'espletamento dei doveri d'ufficio”. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 209 di rapporti fra mandante e mandatario (secondo la quale il mandatario ha diritto ad esigere dal mandante il risarcimento dei danni subiti a causa dell'incarico), e quella di cui all’art. 2041 c.c. sul divieto di arricchimento senza causa. L'art. 18 avrebbe, quindi, la stessa ratio della regola civilistica generale di cui all'art. 1720, comma 2, c.c. in tema di rapporti tra mandante e mandatario, ossia quella di ripristinare la situazione di esposizione economica in cui viene a trovarsi il dipendente di una Pubblica amministrazione a causa di giudizi in cui lo stesso sia stato ingiustamente coinvolto per fatti o atti connessi con l'espletamento del servizio e nell'ambito dell'assolvimento di obblighi istituzionali. Diversamente dall’indicato orientamento, deve ritenersi che, in assenza di disposizioni puntuali - normative o negoziali - dirette a rilevare il dipendente per gli oneri difensivi, nulla spetta a questo (2). L’unico rimedio per il ristoro dei detti oneri trova sede nel giudizio per responsabilità civile, penale e amministrativa, che occasiona le dette spese. ossia, ove il giudizio escluda la responsabilità del dipendente convenuto, il giudice nel rigettare la domanda giudiziaria, in applicazione delle regole sul governo delle spese (principio di soccombenza) condannerà l’attore al pagamento delle spese di giudizio. Vuol dirsi che il rimedio è interamente endoprocessuale, costituito dalla pronuncia accessoria (capo regolante il governo delle spese) rispetto a quella principale (capo regolante la responsabilità del dipendente evocata nella lite). Ciò, beninteso, nei giudizi - come quello civile e contabile - che prevedano la regola della soccombenza. All’evidenza non è invocabile il principio generale di cui all’art. 1720, comma 2 c.c., atteso che il rapporto di pubblico impiego non è riconducibile al contratto di mandato. Inoltre non vi è identità tra la disciplina di cui all’art. 18 e quella dell’art. 1720 c.c.: l'adattamento alla funzione pubblica dell'amministrazione di un istituto tipico della sfera di cooperazione giuridica nei rapporti tra privati, qual è il mandato, è forzato; il che appare evidente se solo si consideri la radicale incompatibilità con la suddetta funzione pubblica, improntata ad autonomia e responsabilità anche politico - istituzionale, delle tipiche modalità di svolgimento del mandato privatistico. Si richiamano, tra l’altro, gli obblighi del mandatario di attenersi alle direttive del mandante; di comunicargli le circostanze sopravvenute suscettibili di determinare la revoca o la modificazione dell'incarico; di presentare il rendiconto del proprio operato (3). Non invocabile altresì è l’azione generale di arricchimento senza causa, per piana assenza dei presupposti dell’azione. (2) In tal senso anche: M. gARgANo, rimborso spese legali a dipendenti ed amministratori di enti locali, tratto da M. MoRDeNTI, P. MoNeA, M. CRISTALLo, rapporto di lavoro e gestione del personale nelle regioni e negli Enti locali, III edizione, Maggioli, 2018. (3) In tal senso: Cass. civ., Sez. III, Sent., 25 settembre 2014, n. 20193. RASSegNA AVVoCATuRA 210 DeLLo STATo - N. 3/2018 2. Disciplina normativa. Constatata l’assenza di un principio generale in materia, si passa all’esame di puntuali disposizioni normative regolanti il rimborso delle spese legali, con attenzione rivolta ai dipendenti di amministrazioni statali. Attuativa della fattispecie descritta alla lettera a) del paragrafo precedente è l’art. 18 - rubricato “rimborso delle spese di patrocinio legale” - del D.L. 25 marzo 1997, n. 67, convertito, con modificazioni, nella L. 23 maggio 1997, n. 135, che al primo comma recita: “Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall'avvocatura dello Stato. Le amministrazioni interessate, sentita l'avvocatura dello Stato, possono concedere anticipazioni del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità”. Peculiare è la disciplina delle spese legali relative a giudizi per responsabilità amministrativa dinanzi alla Corte dei conti, ove l’evoluzione della normativa - art. 10-bis, comma 10, D.L. 30 settembre 2005, n. 203 (4) ed art. 31, commi 1 e 2 del Codice di giustizia contabile, c.g.c. (D.L.vo 26 agosto 2016, n. 174) (5) - ha condotto, come si dirà, alla estrapolazione della disciplina relativa contenuta nell’art. 18 citato. All’esito della detta evoluzione deve ritenersi che, nei giudizi per responsabilità amministrativa, tra l’altro, è venuto meno il parere dell’Avvocatura dello Stato secondo la disciplina dell’art. 18 cit. (4) L’art. 10-bis, comma 10, D.L. 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla L. 2 dicembre 2005, n. 248, come modificato dall'art. 17, comma 30-quinquies, D.L. 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla L. 3 agosto 2009, n. 102, ha interpretato il comma 1 dell’art. 18 cit. (ed altresì le disposizioni dell'articolo 3, comma 2-bis, del decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 dicembre 1996, n. 639, a termini del quale “in caso di definitivo proscioglimento ai sensi di quanto previsto dal comma 1 dell'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, come modificato dal comma 1 del presente articolo, le spese legali sostenute dai soggetti sottoposti al giudizio della Corte dei conti sono rimborsate dall'amministrazione di appartenenza”) “nel senso che il giudice contabile, in caso di proscioglimento nel merito, e con la sentenza che definisce il giudizio, ai sensi e con le modalità di cui all'articolo 91 del codice di procedura civile, non può disporre la compensazione delle spese del giudizio e liquida l'ammontare degli onorari e diritti spettanti alla difesa del prosciolto, fermo restando il parere di congruità dell'avvocatura dello Stato da esprimere sulle richieste di rimborso avanzate all'amministrazione di appartenenza”. (5) L’art. 31, commi 1 e 2, del Codice di giustizia contabile dispone: “1. il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa. 2. Con la sentenza che esclude definitivamente la responsabilità amministrativa per accertata insussistenza del danno, ovvero, della violazione di obblighi di servizio, del nesso di causalità, del dolo o della colpa grave, il giudice non può disporre la compensazione delle spese del giudizio e liquida, a carico dell'amministrazione di appartenenza, l'ammontare degli onorari e dei diritti spettanti alla difesa”. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 211 Attuativa della fattispecie descritta alla lettera b) del paragrafo precedente è l’art. 44 del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611 statuente “L'avvocatura dello Stato assume la rappresentanza e la difesa degli impiegati e agenti delle amministrazioni dello Stato o delle amministrazioni o degli enti di cui all'art. 43 [amministrazioni pubbliche non statali ed enti sovvenzionati, sottoposti a tutela od anche a sola vigilanza dello Stato] nei giudizi civili e penali che li interessano per fatti e cause di servizio, qualora le amministrazioni o gli enti ne facciano richiesta, e l'avvocato generale dello Stato ne riconosca la opportunità”. Nel riconoscere l’opportunità della difesa, l’Avvocato generale valuta la sussistenza delle condizioni per concedere il patrocinio; condizioni coincidenti - in sostanza - con quelle del rimborso delle spese legali ex art. 18 cit. e che di seguito si specificheranno. oltre alle fattispecie generali ora delineate vi sono altresì discipline speciali, come ad esempio quella contenuta nell’art. 32 L. 22 maggio 1975, n. 152, secondo cui: “Nei procedimenti a carico di ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria o dei militari in servizio di pubblica sicurezza per fatti compiuti in servizio e relativi all'uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica, la difesa può essere assunta a richiesta dell'interessato dall'avvocatura dello Stato o da libero professionista di fiducia dell'interessato medesimo. in questo secondo caso le spese di difesa sono a carico del ministero dell'interno salva rivalsa se vi è responsabilità dell'imputato per fatto doloso. Le disposizioni dei commi precedenti si applicano a favore di qualsiasi persona che, legalmente richiesta dall'appartenente alle forze di polizia, gli presti assistenza”. La specialità della fattispecie consiste nel fatto che la manleva opera anche nei casi il dipendente sia responsabile, purché a titolo non doloso. Per il personale delle regioni e degli enti locali viene in rilievo l’art. 28 (rubricato “Patrocinio legale”) del C.C.N.L. del 14 settembre 2000 del Comparto delle Regioni e delle Autonomie Locali per il quale “1. L'ente, anche a tutela dei propri diritti ed interessi, ove si verifichi l'apertura di un procedimento di responsabilità civile o penale nei confronti di un suo dipendente per fatti o atti direttamente connessi all'espletamento del servizio e all'adempimento dei compiti d'ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione che non sussista conflitto di interessi, ogni onere di difesa sin dall'apertura del procedimento facendo assistere il dipendente da un legale di comune gradimento. 2. in caso di sentenza di condanna esecutiva per fatti commessi con dolo o colpa grave, l’ente ripeterà dal dipendente tutti gli oneri sostenuti per la sua difesa in ogni stato e grado del giudizio. 3. La disciplina del presente articolo non si applica ai dipendenti assicurati ai sensi dell’art. 43, comma 1” (tale disposizione traspone l’art. 67, comma 1 del D.P.R. 13 maggio 1987, n. 26; D.P.R. abrogato, a decorrere dal 6 giugno 2012, dall'art. 62, comma 1, e dalla tabella A allegata al D.L. 9 febbraio 2012, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla L. 4 aprile 2012, n. 35). RASSegNA AVVoCATuRA 212 DeLLo STATo - N. 3/2018 Per gli amministratori degli enti locali viene in rilievo altresì l’art. 86, comma 5, D.L.vo 18 agosto 2000, n. 267, secondo cui “Gli enti locali di cui all'articolo 2 del presente testo unico, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, possono assicurare i propri amministratori contro i rischi conseguenti all'espletamento del loro mandato. il rimborso delle spese legali per gli amministratori locali è ammissibile, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, nel limite massimo dei parametri stabiliti dal decreto di cui all'articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247, nel caso di conclusione del procedimento con sentenza di assoluzione o di emanazione di un provvedimento di archiviazione, in presenza dei seguenti requisiti: a) assenza di conflitto di interessi con l'ente amministrato; b) presenza di nesso causale tra funzioni esercitate e fatti giuridicamente rilevanti; c) assenza di dolo o colpa grave”. Di seguito si esporrà la disciplina del rimborso delle spese di patrocinio legale nei giudizi di responsabilità nei confronti di dipendenti pubblici ai sensi dell’art. 18 del D.L. 25 marzo 1997, n. 67. 3. ratio dell’art. 18 del d.l. 25 marzo 1997, n. 67. Lo scopo della norma è quello di sollevare i funzionari pubblici dal timore di eventuali conseguenze giudiziarie connesse all'espletamento del servizio e tenere perciò indenni i soggetti che abbiano agito in nome, per conto e nell'interesse dell'Amministrazione dalle spese legali sostenute per difendersi dalle accuse di responsabilità, poi rivelatesi infondate (6). Ciò sul rilievo che la mera disciplina del governo delle spese con il principio di soccombenza, nei giudizi di responsabilità civile ed amministrativa, è insufficiente allo scopo. Peraltro, il dipendente - beneficiario di statuizione di condanna della controparte soccombente nel giudizio di responsabilità al pagamento delle spese - potrebbe conseguire un ristoro solo parziale rispetto alle spese legali effettivamente sostenute con il proprio difensore di fiducia. Per i principi, tra il cliente e l’avvocato si instaura un contratto d’opera professionale oneroso nel quale il compenso viene liberamente negoziato tra le parti. Il rimborso delle spese statuito dal giudice, all’esito del giudizio, in favore del vincitore della lite ha ad oggetto un quantum risultante da parametri normativi standard (7), che spesso non copre il compenso pattuito in favore del difensore (spese non liquidate dal giudice perché eccessive o superflue; pattuizione di compensi molto elevati; difesa congiunta di più avvocati in cause di non speciali difficoltà). Corollario di quanto detto: nell’ipotesi che (6) Ex plurimis: Cons. Stato, Sez. IV, 26 febbraio 2013, n. 1190; Cons. Stato, Sez. IV, 7 marzo 2005 n. 913; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 23 marzo 2010 n. 1572. (7) D.M. 10 marzo 2014, n. 55 (Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense). CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 213 con la condanna dell’attore nel giudizio di responsabilità civile, definito con rigetto delle pretese attoree, il dipendente convenuto veda ristorate in via integrale le spese sopportate per soddisfare il proprio difensore, nulla spetta a titolo di rimborso ex art. 18. Peraltro nel giudizio penale, ove rigettata l’azione del pubblico ministero, non vi è condanna dell’attore pubblico alla rifusione delle spese in favore dell’indagato e/o imputato andato esente da responsabilità, sicché quest’ultimo è tenuto a sopportare l’integrale carico delle spese legali. È prevista solo la condanna del querelante alla rifusione delle spese, oltre al risarcimento del danno, in favore dell’imputato nel caso di sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non l’ha commesso. Ciò nei reati perseguibili a querela della persona offesa (artt. 427 e 542 c.p.p.). Quella della condanna del querelante è, all’evidenza, una ipotesi marginale. La disciplina del governo nel giudizio penale è peraltro asimmetrica. Difatti, nel caso di condanna penale dell’imputato, la sentenza pone a carico del condannato il pagamento delle spese processuali (art. 535 c.p.p.). Atteso che l’applicazione del principio di soccombenza nel governo delle spese può costituire una tecnica per rivalere, in tutto o in parte, il convenuto andato esente da responsabilità dalle spese sopportate per difendersi, intuitivamente la sopradescritta disciplina delle spese del processo penale contrasta con i principi costituzionali, quali il diritto inviolabile di difesa (art. 24, comma 2, Cost.) e quello alla parità delle armi (art. 111, comma 2, Cost.). 4. Natura giuridica della pretesa al rimborso delle spese e termini della sua azionabilità. La pretesa dell'impiegato dell’Amministrazione dello Stato al rimborso delle spese legali sostenute per difendersi nel giudizio in cui è stata esclusa la sua responsabilità ha la natura di diritto soggettivo, atteso che la stessa è condizionata esclusivamente all’accertamento delle condizioni normativamente previste nell’art. 18 cit., dal quale non risulta una sfera di discrezionalità in capo alla P.A. (8). Si precisa in giurisprudenza che la detta pretesa è di interesse legittimo per quanto concerne il quantum (9). (8) Conf. Cons. Stato, Sez. IV, 11 aprile 2007, n. 1681 e Cons. Stato, Sez. VI, 2 agosto 2004, n. 5367. (9) In tal senso TAR Campania Napoli, Sez. VI, 30 marzo 2018, n. 2055: “La costante giurisprudenza ha affermato che la posizione dell'impiegato dello Stato che chiede il rimborso delle spese legali sostenute per difendersi in giudizio in cui è stata esclusa la sua responsabilità è di diritto soggettivo quanto all'an, dal momento che esse, per espressa disposizione di legge, "sono rimborsate all'impiegato stesso, mentre è di interesse legittimo per quanto concerne il quantum, posto che l'art. 18 D.L. n. 67 del 1997 dispone che il rimborso avviene "nei limiti riconosciuti congrui dall'avvocatura dello Stato", risultando quindi il riconoscimento dell'ammontare del rimborso subordinato al discrezionale vaglio tecnico di congruità dell'avvocatura dello Stato, […] (cfr. T.a.r. Lazio, roma, sez. i, 4 luglio 2011, n. 5836)”. RASSegNA AVVoCATuRA 214 DeLLo STATo - N. 3/2018 Venendo in rilievo un diritto soggettivo il termine entro cui farlo valere, per i principi generali ex art. 2934 c.c., ha natura prescrizionale. Viene in rilievo un diritto una tantum (non riconducibile alla fattispecie della prescrizione breve ex art. 2948, n. 4 c.c.) ed il termine di prescrizione è quello ordinario ex art. 2946 c.c. (10). Di conseguenza la domanda per il riconoscimento del diritto al rimborso delle spese legali sostenute per difendersi in giudizio può essere proposta nei termini di prescrizione decennale con azione di accertamento e di condanna (11). 5. Giurisdizione sulla pretesa al rimborso delle spese di lite. Le pretese al rimborso delle spese legali sostenute a causa di fatti connessi allo svolgimento di pubbliche funzioni vengono esercitate da persone legate alla Pubblica Amministrazione da un rapporto di pubblico impiego. Il detto rapporto costituisce il necessario presupposto della situazione soggettiva dedotta in giudizio, sicché la giurisdizione spetta al giudice competente ex art. 63 D.L.vo 30 marzo 2001, n. 165 in via esclusiva nelle controversie di pubblico impiego, vale a dire al giudice ordinario in funzione del giudice del lavoro (12), tranne che nelle materie escluse dalla detta giurisdizione, ossia i rapporti riconducibili all’art. 3 del D.L.vo 30 marzo 2001, n.165 nei quali la cognizione della controversia spetta al giudice amministrativo (13). Nel caso di pretese al rimborso di spese legali sostenute a causa di fatti connessi allo svolgimento di pubbliche funzioni da persone legate alla P.A. da un rapporto onorario, la giurisdizione deve essere ripartita in base alle norme del diritto comune, ossia attribuendo al giudice ordinario le liti su diritti soggettivi ed al giudice amministrativo quelle su interessi legittimi (14). Di con- (10) Sulla prescrizione ordinaria: M. geRARDo, A. MuTAReLLI, Prescrizione e decadenza nel diritto civile, giappichelli, 2015, pp. 243-268. (11) Conf. TAR Campania Napoli, Sez. VI, 30 marzo 2018, n. 2055 (lite coinvolgente un dipendente della Polizia di Stato), il quale precisa che il ricorso che contesti l'ammontare della somma riconosciuta va proposto - nei casi in cui la giurisdizione spetti al giudice amministrativo - nel termine di decadenza nell'ambito del giudizio di legittimità, impedendo il testo dell'art. 18 citato al giudice amministrativo una determinazione diretta dell'ammontare del relativo credito del dipendente. Quanto precisato dal giudice amministrativo non si ritiene condivisibile, in quanto involgente un aspetto non pertinente. (12) Conf. Cass. civ., Sez. unite, 13 gennaio 2006, n. 478. In dottrina: M. geRARDo, A. MuTAReLLI, il processo nelle controversie di lavoro pubblico, giuffré, 2012, p. 48. (13) Conf. TAR Abruzzo Pescara, 5 maggio 2014, n. 210 (militari); TAR Campania Napoli, Sez. VI, 22 novembre 2011, n. 5450 (dipendente della Polizia di Stato). (14) Conf. Cass. civ., Sez. unite, 13 gennaio 2006, n. 478; nel caso all’esame del giudice di legittimità la pretesa viene esercitata in giudizio dall'assessore e vicesindaco di un Comune ossia da persona fisica che presta la propria opera per conto dell'ente pubblico non a titolo di lavoro subordinato (come il pubblico impiegato) bensì quale rappresentante politico ossia a titolo onorario. Si enuncia testualmente “che, per quanto riguarda i funzionari onorari del Comune, in mancanza di una disposizione specifica che regoli i rapporti patrimoniali con l'ente rappresentato, la pretesa di rimborso delle spese CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 215 seguenza, venendo in rilievo un diritto soggettivo, la cognizione della lite spetta al giudice ordinario. 6. Natura giuridica ed ambito del giudizio di congruità del parere espresso dall'avvocatura dello Stato. Ai sensi dell’art. 18 cit. le spese de qua “sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall'avvocatura dello Stato”. La funzione consultiva dell’Avvocatura dello Stato, come regola generale, è facoltativa e, in casi specifici, obbligatoria (art. 13 R.D. n. 1611/1933) (15). ossia l’amministrazione ausiliata ha facoltà di chiedere un parere e, in dati casi (es. atti di transazione), ha l’obbligo di richiederlo. In ambedue i casi: - il parere deve essere reso entro venti giorni dalla richiesta (art. 16 L. 7 agosto 1990, n. 241); - il parere non è vincolante, perché l’amministrazione è “comunque libera di disattenderli, assumendone la responsabilità e fornendo una adeguata giustificazione del dissenso” (16). Nel caso in esame, l’Avvocatura dello Stato è chiamata, nel procedimento liquidatorio, nell’esercizio della funzione consultiva a rendere un parere non solo obbligatorio, ma anche vincolante. gli elementi di fatto del parere sono costituiti dalle prestazioni defensionali, dalle quali germina il diritto a spese ed onorari. gli elementi di diritto sono costituiti dai parametri del compenso contenuti nelle Tariffe in materia. Il parere è connotato da - utilizzando una categoria propria del provvedimento amministrativo - discrezionalità tecnica, venendo in rilievo non un mero accertamento, bensì un giudizio su fatti suscettibili di diversificata valutazione. Il giudizio di congruità espresso dall'Avvocatura dello Stato riveste una natura tipicamente tecnico-discrezionale, sicché non può essere sindacato in sede di scrutinio di legittimità se non per errori di fatto percepibili ictu oculi processuali non può che essere esercitata, ammesso che esista una lacuna normativa ai sensi dell'art. 12 disp. prel. cod. civ., comma 2, in base ad una disposizione di legge da applicare in via analogica e non può che assumere la consistenza del diritto soggettivo perfetto: il Consiglio di Stato ha assimilato sindaco ed assessori al mandatario, riconducendo così, ma solo in via di astratta ipotesi, la pretesa in questione all'art. 1720 cod. civ. (Cons. Stato, Sez. 5^, 14 aprile 2000 n. 2242; Sez. 3^, parere 16 marzo 2004 n. 792)”. Su tali aspetti: M. geRARDo, A. MuTAReLLI, il processo nelle controversie di lavoro pubblico, cit., pp. 49-51. (15) Su tali aspetti l’articolo (senza indicazione dell’autore) “La funzione consultiva dell’avvocatura dello Stato” in rassegna dell’avvocatura dello Stato, 1948, nn. 11-12, pp. 1-7; AA.VV., L’avvocatura dello Stato. Studio storico giuridico per le celebrazioni del centenario, Istituto Poligrafico dello Stato, 1976, pp. 457-465. (16) Così: V. CeSARoNI, voce avvocatura dello Stato, in il diritto. Enciclopedia giuridica del Sole 24 ore, II volume, 2007, p. 312. RASSegNA AVVoCATuRA 216 DeLLo STATo - N. 3/2018 ovvero per palese illogicità, carenza di motivazione, incoerenza, irrazionalità ovvero per violazione delle norme che ne regolano l'espressione, ferma restando la necessità di una motivazione logica e coerente, che, in modo sintetico, consenta di comprendere la scelta operata nel delineare il quantum debeatur (17). Circa l’ambito del giudizio di congruità, il parere espresso dall'Avvocatura dello Stato riguarda non solo la determinazione del quantum da rimborsare, ma anche i presupposti giuridici della pretesa al rimborso nell'ambito dell'intera vicenda processuale che ha interessato il dipendente, pur nel suo collegamento con le funzioni esercitate presso l'amministrazione di appartenenza (18). Difatti la congruità delle spese non può non riguardare anche i presupposti delle stesse, ossia le condizioni integranti gli elementi costitutivi del diritto. La pretesa al rimborso in una fattispecie nella quale difetta la condizione dell’assenza di responsabilità, prima che essere incongrua è illegittima. Anche il Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato conferma gli aspetti evidenziati. Con parere prot. 173747 del 18 aprile 2012 (19), è stato precisato che “all’avvocatura dello Stato non è preclusa la verifica della ricorrenza dei necessari presupposti di legge per la concessione del rimborso. La legittimazione della Scrivente a pronunciarsi sull’an debeatur si fonda, infatti, sulla sua istituzionale funzione di organo di consulenza legale delle amministrazioni dello Stato e degli altri Enti ad esse equiparati, ai sensi della piu` generale norma contenuta nell'art. 13 del r.D. 30 ottobre 1933 n. 1611”. La norma attribuisce all'Avvocatura dello Stato la funzione di esprimere un parere obbligatorio e vincolante riguardo al quantum del rimborso. Nel valutare la congruità del dovuto, il riconoscimento del quantum da liquidare a titolo di rimborso è limitato a quanto strettamente necessario, venendo in rilievo l’erogazione di risorse pubbliche. utile parametro a tale riguardo può essere la circostanza che le spese non siano eccessive o superflue (arg. ex art. 92, comma 1, c.p.c.) (20). A tale stregua, legittimamente può essere negato il rimborso delle spese per un secondo difensore, in un incarico congiunto, in una controversia non connotata da particolare complessità. Il parere de qua attiene solamente alla determinazione del rimborso do- (17) Conf. TAR Sicilia Palermo, Sez. I, 3 luglio 2018, n. 1544. (18) Conf. TAR Marche Ancona, Sez. I, 8 marzo 2018, n. 183; TAR Liguria genova, Sez. II, Sent., 1 febbraio 2012, n. 227. (19) In rassegna dell’avvocatura dello Stato, 2012, 2, pp. 245-246. (20) In tal senso anche Cass. civ., Sez. lavoro, 23 gennaio 2007, n. 1418, la quale precisa che “il dipendente, ingiustamente accusato di abuso d'ufficio, ha diritto al rimborso da parte della amministrazione di appartenenza delle spese sopportate per la sua difesa, ma entro il limite di quanto strettamente necessario (trattandosi di erogazioni che gravano sulla finanza pubblica e devono quindi essere contenute al massimo) secondo il parere di un organo tecnico altamente qualificato per valutare sia le necessità difensive del funzionario, in relazione alle accuse che gli vengono mosse ed ai rischi del giudizio penale, e sia la conformità della parcella presentata dal difensore alla tariffa professionale”. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 217 vuto al dipendente, non a quella del compenso dovuto dalla parte al difensore (21). È esclusa, quindi, la coincidenza tra il diritto al rimborso delle spese legali con quanto effettivamente pagato dal dipendente, trattandosi di un diritto da soddisfare e liquidare nei termini riconosciuti congrui dall'Avvocatura dello Stato in base all'utilizzo di precisi criteri di congruità, che garantiscono contestualmente il rispetto dei valori costituzionali dell'affidamento, della ragionevolezza e della tutela effettiva dei diritti, adeguatamente bilanciandolo con l'esigenza di contenimento della spesa (22). 7. Contesto nel quale germina la spesa che dà diritto al rimborso. Il rimborso ai pubblici dipendenti delle spese legali effettivamente sostenute è dovuto, secondo il chiaro testo dell’art. 18 cit. nei “giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali”. È esclusa, quindi, la possibilità di una interpretazione analogica della suddetta norma, che possa portare al riconoscimento del diritto al rimborso delle spese legali al di là dei giudizi pendenti innanzi a un giudice (23). A tale stregua non spetta il rimborso delle spese legali sostenute dal dipendente per la difesa nell'ambito di procedimento disciplinare promosso a suo carico, atteso che in base all'art. 18 del D.L. 25 marzo 1997, n. 67, applicabile ratione materiae, il diritto al rimborso è limitato alle spese sostenute in giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, mentre il procedimento disciplinare ha natura non giurisdizionale (24). 8. Condizioni del diritto al rimborso: a) giudizio promosso nei confronti del (e non dal) dipendente pubblico, nel quale non è parte l’amministrazione di appartenenza. Il dipendente deve essere convenuto in giudizio e non, invece essere attore, come si evince dal dato testuale della norma, che descrive un procedimento nei “confronti” di un dipendente. A tale stregua ove il dipendente - a fronte di una pretesa stragiudiziale di un asserito danneggiato ex art. 2043 c.c. (diverso dalla amministrazione di appartenenza) - instauri un giudizio di mero (21) Conf. Cons. Stato, Sez. III, 26 aprile 2017, n. 1925. (22) Su tali aspetti il parere prot. n. 59779 del 9 febbraio 2016 del Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato, in rassegna dell’avvocatura dello Stato, 2016, 1, pp. 211-217. (23) opinione pacifica in giurisprudenza. Ex plurimis: Cass. civ., Sez. lav., 24 novembre 2008, n. 27871; Cons. Stato, Sez. IV, 11 aprile 2007, n. 1681; TAR Lazio Latina, 19 maggio 2009, n. 486. (24) Conf. TAR Piemonte Torino, Sez. I, Sent., 25 marzo 2011, n. 276; TAR emilia-Romagna bologna, Sez. II, Sent., 26 febbraio 2010, n. 1676. Sulla problematica: R. SQuegLIA, Non rimborsabilita' delle spese legali sostenute in relazione al procedimento disciplinare: riflessioni de jure condendo, in Lavoro nella Giur., 2011, 12, 1250. La Corte costituzionale (sentenza 4 dicembre 1998, n. 394) ha - condivisibilmente - escluso la natura giurisdizionale del procedimento disciplinare. RASSegNA AVVoCATuRA 218 DeLLo STATo - N. 3/2018 accertamento negativo che si concluda con l’accertamento dell’assenza di responsabilità, nulla potrà pretendere a titolo di rimborso delle spese di lite. La disposizione in esame, ragionevolmente, sovviene il dipendente a fronte di un pregiudizio certo (essere convenuto, contro la propria volontà, in un giudizio), ma non anche nell’ipotesi di un pregiudizio eventuale. L’art. 18 non è applicabile nel caso in cui la disciplina delle spese legali costituisce una statuizione giurisdizionale, all’esito di un giudizio tra il dipendente e l’amministrazione di appartenenza. Difatti, nei giudizi tra l'Amministrazione statale e il proprio dipendente, involgenti aspetti di responsabilità di quest’ultimo, la disciplina e la regolamentazione delle relative spese legali è data per intero nel sistema processuale del governo delle spese di lite, con la regola della soccombenza (art. 91 c.p.c., art. 31 c.g.c.). onde, sarà il giudice a decidere se e in quale misura le spese legali vadano rimborsate dall'Amministrazione al proprio dipendente (25). 9. (Segue) B) il titolare della pretesa deve avere la qualifica di dipendente di amministrazione statale. Circa l'esatta estensione del requisito di “dipendente di Amministrazione statale”, necessario per godere del diritto al rimborso delle spese legali ex art. 18, si osserva che l'interpretazione letterale del citato art. 18 ed altresì gli obiettivi di contenimento della spesa pubblica espressi dall'art. 20, comma 2, dello stesso D.L. n. 67/1997 indurrebbero a ritenere ricompreso nel concetto di “dipendente di amministrazione statale” esclusivamente il personale che abbia stipulato un contratto di lavoro dipendente con la P.A. L’interpretazione sistematica della disposizione conduce, invece, ad una interpretazione estensiva, ossia che il titolare del diritto al rimborso è, oltre a colui che è dipendente (rectius: titolare di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato o a tempo determinato), anche chi agisce nell’interesse, per conto dello Stato (rectius: titolare di un rapporto di lavoro autonomo e/o parasubordinato, come un rapporto onorario). Nell’indicato senso militano, come detto, ragioni sistematiche. A tal fine notevole rilievo euristico riveste il disposto del sopracitato art. 44 del R.D. n. 1611/1933, che nell’individuare - tra le risorse umane delle Amministrazioni dello Stato - i beneficiari della difesa diretta nei giudizi civili e penali che li coinvolgano per fatti e cause di servizio, si riferisce agli “impiegati e agenti”. Si utilizza, quindi, una nozione lata: chiunque collabora con la P.A. orbene, come visto nel paragrafo 1, la difesa diretta dell’Avvocatura dello Stato ex art. 44 cit., costituisce una delle due modalità (l’altra è il ristoro delle spese di lite sopportate con un avvocato privato) con le quali l’ordinamento (25) Conf. il parere del 12 aprile 2005, n. 50308 del Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato, in rassegna dell’avvocatura dello Stato, 2005, 1, p. 301. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 219 giuridico italiano sovviene la risorsa umana statale ingiustamente coinvolta in un giudizio per fatti di servizio. Vengono in rilievo modalità alternative, reversibili, fungibili, sicché non può non essere identico l’ambito di operatività dei beneficiari. Alla stregua di quanto evidenziato il rimborso delle spese legali sostenute spetta non solo a chi è pubblico dipendente, ma anche ad un pubblico funzionario onorario. È riconoscibile il rimborso, quindi, tra gli altri, al componente di Commissione di collaudo in corso d'opera (26) e ad un Ministro (27), titolari di un rapporto di lavoro onorario. Non spetta, invece, il rimborso spese legali ex art. 18 D.L. n. 67/1997 - per l’esercizio di funzioni parlamentari, quali le opinioni espresse ai sensi dell’art. 68 Cost. Ciò in quanto la ratio della normativa in esame è indirizzata alla tutela dei pubblici dipendenti e dei funzionari dell’Amministrazione - cui può assimilarsi, a talune condizioni, la posizione degli organi di vertice - purché nell’esercizio di funzioni afferenti al potere esecutivo, ma non riguarda la posizione dei membri del Parlamento, che esercitano un diverso potere dello Stato (28); - al personale delle università degli Studi, atteso il testuale riferimento della previsione normativa di cui all'art. 18 d.l. n. 67 del 1997 ai dipendenti statali. Tale riferimento esclude, pertanto, la possibilità di estendere in via analogica il rimborso delle spese legali a soggetti legati da un rapporto professionale con un soggetto pubblico dotato ormai pacificamente di autonomia rispetto allo Stato, quale va considerata l'università alla stregua del vigente ordinamento (29). (26) Conf.: il parere del 25 ottobre 2011 prot. 335080 del Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato, in rassegna dell’avvocatura dello Stato, 2011, 4, pp. 264-265, secondo cui “è ben possibile che il richiamato art. 18, nella parte in cui si riferisce a “dipendenti di amministrazioni statali”, sia oggetto di interpretazione estensiva, “soprattutto ove letto in combinato disposto con gli artt. 43 e 44 del noto r.d. 1611/1933” (cfr. il parere reso nell'affare CS 47936/07, su conforme avviso del Comitato consultivo)”. (27) Conf.: il parere del 18 dicembre 2006, n. 145248 del Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato, in rassegna dell’avvocatura dello Stato, 2006, 4, pp. 257-260, il quale rileva che “la giurisprudenza è da tempo orientata nel senso della estensione alle persone investite di […] incarico nel Governo nazionale l’applicabilità delle disposizioni di legge (statale o regionale) e di contratto collettivo le quali riconoscono ai sottoordinati “dipendenti” il ristoro delle spese per il patrocinio legale, ovviamente purché ricorrano tutti i presupposti oggettivi richiesti da dette disposizioni (cfr. tra altre, Corte conti, sez. reg. controllo Lazio, delibera n. 14/c del 2004, Corte conti, sez. riunite, 5 aprile 1991 n. 707, Cass., i, 13 dicembre 2000 n. 15724)” (nel caso di specie veniva in rilievo la riconoscibilità in capo ad un ex Ministro). (28) In tal senso il Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato parere del 6 ottobre 2014 410058, in rassegna dell’avvocatura dello Stato, 2014, 3, pp. 228-231. (29) Conf.: TAR Liguria, Sez. I, 24 giugno 2002, n. 709. Contra: TAR Sicilia Palermo, Sez. I, 10 dicembre 2007, n. 3348. RASSegNA AVVoCATuRA 220 DeLLo STATo - N. 3/2018 10. (Segue) C) connessione dei fatti contestati con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali. La connessione dei fatti con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali va intesa nel senso che tali atti e fatti devono essere riconducibili all'attività funzionale del dipendente stesso in un rapporto di stretta dipendenza con l'adempimento dei propri obblighi, dovendo trattarsi di attività che necessariamente si ricollegano all'esercizio diligente della pubblica funzione, nonché occorre che vi sia un nesso di strumentalità tra l'adempimento del dovere e il compimento dell'atto, nel senso che il dipendente non avrebbe assolto ai suoi compiti se non compiendo quel determinato atto o condotta. Non può, invece, darsi rilevanza ad una connessione con il fatto di reato di tipo soggettivo ed indiretto in quanto lo spazio di applicazione della tutela legale si dilaterebbe eccessivamente, ben oltre i confini segnati dal predetto art. 18 (30). Il giudizio di connessione tra la condotta attribuita al dipendente e l'assolvimento, da parte sua, dei compiti istituzionali, va effettuato in concreto, facendo riferimento al giudizio di fatto formulato dall'organo giudicante che ha emanato il provvedimento conclusivo del giudizio (31). 11. (Segue) D) sentenza o provvedimento che abbia escluso la responsabilità. L’art. 18 è inequivoco nell'affermare che il rimborso delle spese legali è subordinato alla pronuncia di una sentenza o di un provvedimento che "escluda" la responsabilità del dipendente. Ne consegue che, non qualsiasi esito processuale distinto dal riconoscimento della assenza di responsabilità consente la rimborsabilità delle spese legali, ma solo quello implicante il riconoscimento nel merito dell'infondatezza dell'ipotesi accusatoria (32). Inidonea sarebbe, quindi, una sentenza di mero rito (come si esporrà di seguito) o una ordinanza dichiarativa della estinzione del giudizio per rinuncia agli atti o per inattività. La sentenza o il provvedimento devono essere adottati all’esito di un procedimento implicante una data responsabilità del dipendente, nel quale - come detto sopra alla lettera A) - non è parte l’Amministrazione di appartenenza. La sentenza o il provvedimento, inoltre, devono essere connotati da stabilità, ossia non più impugnabili secondo il loro particolare regime giuridico. una sentenza caducabile, provvisoria, ancora suscettibile di impugnazione ordinaria non è idonea allo scopo di conseguire un rimborso. Ciò per concorrenti ragioni: (30) Cons. Stato, Sez. III, 10 dicembre 2013, n. 5919. (31) TAR Lazio Latina, Sez. I, 12 marzo 2014, n. 195. (32) TAR Toscana Firenze, Sez. I, 20 giugno 2013, n. 982. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 221 - ratio della norma, che è quella di sovvenire il dipendente allorché sia stata esclusa la sua responsabilità. Ma la detta responsabilità non è esclusa se la sentenza, accertante provvisoriamente l’assenza di responsabilità, può essere rimessa in gioco all’esito di impugnazioni; - per i principi generali, l’efficacia di accertamento della sentenza - quale è nel caso di specie l’accertamento della esclusione della responsabilità - è collegata alla maturazione del giudicato, della incontrovertibilità (art. 2909 c.c.); - la specifica disciplina sull’acconto del rimborso (art. 18, comma 1, ultimo periodo D.L. n. 67/1997: “Le amministrazioni interessate, sentita l'avvocatura dello Stato, possono concedere anticipazioni del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità”) evidenzia che la definitività del diritto è collegata alla pronuncia della sentenza passata in giudicato. Sicché, ad esempio, ove il giudizio si estingue l’anticipazione del rimborso andrà restituito. In ordine alla maturazione della stabilità della sentenza o del provvedimento si osserva quanto segue. Nell’ipotesi di sentenza del giudice civile o contabile la stabilità si consegue con il giudicato, che matura allorché la sentenza non è più soggetta a mezzi di impugnazione ordinaria (art. 324 c.p.c.; art. 177 c.g.c.). Nell’ipotesi di provvedimento di archiviazione del giudice delle indagini preliminari, la stabilità si consegue quando lo stesso non è più soggetto a reclamo ex art. 410-bis c.p.p. Nel caso di sentenza di non luogo a procedere del giudice dell’udienza preliminare, la stabilità si consegue quando la stessa non è più soggetta ad appello ex art. 428 c.p.p. Infine, una volta pronunciata la sentenza in giudizio penale la stabilità si consegue con la irrevocabilità, che matura allorché la stessa non è più soggetta a mezzi di impugnazione diversi dalla revisione (art. 649 c.p.p.). Per i principi generali, l'inosservanza delle obbligazioni assunte con la stipulazione del contratto di lavoro comporta le conseguenze, rectius: le responsabilità normativamente stabilite. A seconda della natura degli interessi coinvolti saranno configurabili varie specie di responsabilità: civile, penale, amministrativa e - ove il dipendente abbia la qualifica di dirigente - manageriale. Responsabilità, quest’ultima, disciplinata nell’art. 21 D.L.vo 30 marzo 2001, n. 165. La responsabilità dirigenziale o manageriale, è collegata al mancato raggiungimento degli obiettivi o all’inosservanza di direttive e non richiede la colpa. Nel caso in cui il dirigente impugni le determinazioni dell’Amministrazione con le quali viene fatta valere la responsabilità manageriale (mancato rinnovo dell’incarico dirigenziale, revoca dell’incarico, recesso dal rapporto di lavoro), non è applicabile il precetto dell’art. 18 in esame, atteso che sarà la sentenza definitoria del procedimento - nel contraddittorio con l’Amministrazione di appartenenza - a regolare il rimborso delle spese di RASSegNA AVVoCATuRA 222 DeLLo STATo - N. 3/2018 lite, in applicazione dell’art. 91 c.p.c., o art. 26 D.L.vo 2 luglio 2010, n. 104, Codice del processo amministrativo (in quest’ultima ipotesi, ove la controversia afferisca alle speciali materie ex art. 3 D.L.vo n. 165/2001). 12. (Segue) D) sentenza o provvedimento che abbia escluso la responsabilità: i) all’esito di giudizio di responsabilità civile verso terzi. Il dipendente risponde ex art. 2043 c.c. dei danni ingiusti conseguenza di qualunque fatto doloso o colposo nell'esercizio delle incombenze connesse alla carica, arrecati a terzi, ossia a soggetti diversi dall’ente di appartenenza. Ciò in conformità ai principi generali adattati con le disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato in materia di responsabilità verso i terzi di cui agli artt. 22-23 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, in forza delle quali “È danno ingiusto, agli effetti previsti dall'art. 22, quello derivante da ogni violazione dei diritti dei terzi che l'impiegato abbia commesso per dolo o per colpa grave (33). restano salve le responsabilità più gravi previste dalle leggi vigenti” (art. 23, comma 1, d.P.R. n. 3/1957). Di conseguenza il dipendente è responsabile civilmente verso terzi a titolo di dolo o colpa grave (ma non lieve). La cognizione della lite in materia di responsabilità civile verso terzi spetta all'Autorità giudiziaria ordinaria. Il danneggiato può agire, oltreché nei confronti del dipendente responsabile, anche nei confronti dell'ente di appartenenza, alla luce della relazione di immedesimazione organica tra il primo ed il secondo (art. 28 Costituzione; art. 2049 cc.). La P.A. risponde per dolo o colpa anche lieve. All’evidenza il diritto al rimborso è invocabile allorché il giudizio di responsabilità civile verso terzi si conclude con sentenza di rigetto nel merito dell’azione di responsabilità. Non spetta il diritto al rimborso nell’ipotesi che il giudizio si concluda con sentenza definitiva dichiarativa di una questione pregiudiziale di rito (sui presupposti processuali (34), sulle condizioni dell’azione (35), su nullità processuali) o su un questione preliminare di merito (prescrizione o sull’ammissibilità dell’intervento). (33) La colpa grave consiste nella violazione della diligenza minima (mentre integra la colpa lieve la violazione della ordinaria diligenza): C.M. bIANCA, Diritto Civile, vol. V, II edizione, giuffrè, 2012, p. 582. La diligenza consiste nell’impiego normalmente adeguato di energie e dei mezzi utili al soddisfacimento dell’interesse del creditore (C.M. bIANCA, Diritto civile, vol. V, cit., p. 8). La colpa grave esclude la volontarietà, ma non si esaurisce solo - come la colpa c.d. lieve - nella negligenza, imprudenza o imperizia, dovendo le stesse esser elevate, macroscopiche. Si deve trattare, insomma, di violazioni grossolane del dovere di diligenza, di prudenza e perizia (non intelligere quod omnes intelligunt). (34) Quali la giurisdizione, la competenza, la capacità processuale e la capacità di stare in giudizio. I presupposti processuali sono quei requisiti che devono esistere prima della proposizione della domanda giudiziaria, affinché il processo possa definirsi con una pronuncia sul merito. Su tali aspetti, ex plurimis: C. MANDRIoLI, A. CARRATTA, Diritto processuale civile, I, XXV edizione, giappichelli,2016, pp. 41-45. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 223 13. (Segue) D) sentenza o provvedimento che abbia escluso la responsabilità: ii) all’esito di giudizio di responsabilità penale. Il dipendente nell'esercizio delle incombenze connesse alla carica può violare norme penali e, pertanto essere sottoposto a procedimento penale. In specie, ove rivesta la qualità di pubblico ufficiale, secondo la nozione di cui all'art. 357 c.p. (36) la trasgressione dei doveri inerenti alla carica può determinare, l'incriminazione per delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (artt. 314 - 335 c.p.), tra i quali il peculato (artt. 314 e 316 c.p.), la concussione (art. 317 c.p.), la corruzione (artt. 318 - 322 c.p.), l’abuso d'ufficio (art. 323 c.p.), il rifiuto di atti d'ufficio e l’omissione (art. 328 c.p.). In ordine al diritto al rimborso nel giudizio penale va fatta una precisazione in relazione alle fasi del procedimento ed al contenuto del provvedimento definitorio dello stesso. All’evidenza un provvedimento che pronunci sul merito dell’azione penale (e nel senso di escludere la responsabilità penale) costituisce idonea condizione del diritto, laddove un provvedimento che non pronunci sul merito (su una condizione di procedibilità, sul rito, sulla prescrizione), ossia un provvedimento meramente processuale, non è utile allo scopo. a) definizione del procedimento penale nella fase delle indagini preliminari. ove non venga presentata la richiesta di rinvio a giudizio, con la prosecuzione del procedimento dinanzi al giudice dell’udienza preliminare, le indagini preliminari si concludono con il provvedimento di archiviazione del g.I.P. su richiesta del P.M.. Il diritto al rimborso dipende dal contenuto del provvedimento di archiviazione. Il provvedimento di archiviazione per infondatezza della notizia di reato (artt. 408-410 c.p.p.) (37) o perché il fatto non è previsto dalla legge come reato (411 c.p.p.) (38) costituisce titolo del diritto al rimborso. Invece, il provvedimento di archiviazione ex art. 411 c.p.p. per mancanza (35) Quali la legittimazione ad agire e l’interesse ad agire. Le condizioni dell’azione sono quei requisiti intrinseci della domanda giudiziaria affinché il processo possa definirsi con una pronuncia sul merito. Su tali aspetti, ex plurimis: C. MANDRIoLI, A. CARRATTA, Diritto processuale civile, I, cit., pp. 49-51. (36) ossia di soggetto che esercita una pubblica funzione amministrativa, “caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione delle volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi”. Su tali aspetti: g. FIANDACA, e. MuSCo, Diritto Penale, Parte speciale, vol. 1, Zanichelli editore, III edizione, 2002, pp. 170 e ss. (37) L’archiviazione per infondatezza della notizia di reato viene disposta quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio (art. 125 disp. att. c.p.p.). (38) Ricorre tale formula allorché l’accusa non corrisponda ad alcuna fattispecie legale (ad esempio per essere intervenuta una abolitio criminis): g. CoNSo, V. gReVI, M. bARgIS, Compendio di procedura penale, VI edizione, CeDAM, 2012, p. 845. RASSegNA AVVoCATuRA 224 DeLLo STATo - N. 3/2018 di una condizione di procedibilità (39), perché la persona sottoposta alle indagini non è punibile ai sensi dell'articolo 131-bis c.p. per particolare tenuità del fatto (40), perché il reato è estinto (41), non costituisce titolo del diritto al rimborso. Nella ipotesi che vengano ex art. 414 c.p.p. riaperte le indagini e venga accertata la responsabilità dell’indagato, l’Amm.ne - intuitivamente - potrà chiedere il rimborso delle somme erogate. b) definizione del procedimento penale nella fase della udienza preliminare. ove non venga pronunciato il decreto che dispone il giudizio, con la prosecuzione del procedimento dinanzi al giudice del dibattimento, l’iter processuale si chiude con la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. secondo cui: “1. Se sussiste una causa che estingue il reato o per la quale l'azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita, se il fatto non è previsto dalla legge come reato ovvero quando risulta che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o che si tratta di persona non punibile per qualsiasi causa, il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere, indicandone la causa nel dispositivo. […] 3. il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l'accusa in giudizio. […]”. Non spetta il rimborso nell’ipotesi di sentenza di non luogo a procedere per mancanza di una condizione di procedibilità (“l'azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita”). Viene in rilievo una pronuncia (39) Le condizioni di procedibilità sono costituite da fatti giuridici - elementi materiali o manifestazioni di volontà - la cui realizzazione influisce sull'attivazione del processo penale ovvero sulla sua prosecuzione. Costituiscono condizioni di procedibilità tipiche: la querela, l’istanza, la richiesta e l’autorizzazione a procedere (artt. 336-346 c.p.p.). In dottrina: g. CoNSo, V. gReVI, M. bARgIS, Compendio di procedura penale, cit., pp. 517-528. (40) Il primo comma dell’art. 131 bis c.p. recita “Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'articolo 133, primo comma, l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”. La non punibilità per particolare tenuità del fatto integra una causa di non punibilità, nella quale pur a fronte di un fatto di reato, antigiuridico e colpevole, si consente al giudice, per la sua scarsa rilevanza offensiva, di escludere la punibilità del soggetto agente. Su tali aspetti: A. MARANDoLA, Particolare tenuità del fatto (dir. proc. pen.), in Digesto (Penale), 2016. (41) Le cause di estinzione del reato incidono sulla punibilità in astratto, estinguendo la potestà statale di applicare la pena minacciata ed operano antecedentemente all’intervento di una sentenza definitiva di condanna. La dichiarazione della causa di estinzione del reato non esclude la responsabilità dell’imputato (arg. ex art. 129, comma 2, c.p.p. ed art. 198 c.p.). Costituiscono cause di estinzione del reato: la morte del reo; la remissione della querela; l'amnistia propria; la prescrizione; l'oblazione; la sospensione condizionale della pena; il perdono giudiziale per i minorenni; la sentenza di patteggiamento e la messa alla prova per l'imputato minorenne. In dottrina: g. FIANDACA, e. MuSCo, Diritto penale. Parte generale, IV edizione, Zanichelli, 2004, pp. 754-756. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 225 di natura meramente processuale, essendo precluso al giudicante, per difetto del presupposto per l'esercizio dell'azione penale, la verifica della fondatezza o meno del reato contestato (42). Analogo discorso vale - per le sentenza dichiarativa della estinzione il reato - per la sentenza dichiarativa di qualsiasi causa di non punibilità dell’imputato (43). Spetta il rimborso nell’ipotesi di sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non è previsto dalla legge come reato o che il fatto non costituisce reato (44). Spetta il rimborso delle spese legali a fronte di sentenze penali di non luogo a procedere emesse ex art. 425, comma 3, del c.p.p. (“quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l'accusa in giudizio”) dal giudice dell’udienza preliminare. Anche in questa evenienza viene in rilievo una sentenza che esclude la responsabilità dell’imputato. La norma in parola deve necessariamente essere interpretata ed applicata alla luce dell’art. 27, secondo comma, della Costituzione, in virtù del quale “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Secondo il condivisibile orientamento del Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato “La presunzione di innocenza si riverbera dunque sul significato e valore da attribuire alla decisione di non doversi procedere ex art. 425, comma 3; poiché o si è innocenti o colpevoli (dopo la condanna definitiva), la circostanza che venga meno la pendenza di un giudizio penale poiché non vi sono elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio non può che determinare la conseguenza che il prosciolto debba essere considerato innocente, il che significa che tale decisione è idonea ad escludere la responsabilità dell’agente concretandosi, così, il presupposto richiesto dall’art. 18 D.L. 67/97 per la concessione del rimborso delle spese legali” (45). Nella ipotesi che ex art. 434 c.p.p. venga revocata la sentenza di non luogo a procedere e venga accertata la responsabilità dell’imputato, l’Amm.ne potrà chiedere il rimborso delle somme erogate. (42) In termini: parere del 22 marzo 2001 n. 38467 del Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato, in rassegna dell’avvocatura dello Stato, 2002, 1, p. 292 (nel caso di specie veniva in rilievo la mancanza di querela). (43) Le cause di non punibilità sono quelle che escludono la punibilità dell’imputato fin dall’origine. Sono tali: le immunità di diritto pubblico interno, le immunità di diritto internazionale e la qualità di congiunto del soggetto attivo rispetto alla vittima nei delitti contro il patrimonio (art. 649 c.p.). Tutte le cause personali di non punibilità non escludono la illiceità del fatto commesso. Su tali aspetti: F. PALAZZo, Corso di diritto penale, VI edizione, giappichelli, 2016, pp. 616-617. (44) Ricorre la formula del fatto che non costituisce reato quando il fatto stesso sussiste ed è stato commesso dall’imputato, ma manca uno degli elementi della fattispecie (come l'elemento psicologico), ovvero risulta presente una causa di giustificazione: g. CoNSo, V. gReVI, M. bARgIS, Compendio di procedura penale, cit., p. 845. (45) Parere del 12 ottobre 2010 prot. 311287, in rassegna dell’avvocatura dello Stato, 2010, 4, pp. 176-181. RASSegNA AVVoCATuRA 226 DeLLo STATo - N. 3/2018 c) definizione del procedimento penale nella fase del dibattimento. ove non venga pronunciata la sentenza di condanna, il dibattimento si chiude con la sentenza di proscioglimento con le seguenti specificazioni: - di non doversi procedere ex art. 529 c.p.p. (“1. Se l'azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita, il giudice pronuncia sentenza di non doversi procedere indicandone la causa nel dispositivo. 2. il giudice provvede nello stesso modo quando la prova dell'esistenza di una condizione di procedibilità è insufficiente o contraddittoria”); - di assoluzione ex art. 530 c.p.p. (“1. Se il fatto non sussiste, se l'imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero se il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per un'altra ragione, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione indicandone la causa nel dispositivo. 2. il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l'imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile. 3. Se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità ovvero vi è dubbio sull'esistenza delle stesse, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione a norma del comma 1. […]”); - di estinzione del reato ex art. 531 c.p.p. (“1. Salvo quanto disposto dall'articolo 129 comma 2, il giudice, se il reato è estinto, pronuncia sentenza di non doversi procedere enunciandone la causa nel dispositivo. 2. il giudice provvede nello stesso modo quando vi è dubbio sull'esistenza di una causa di estinzione del reato”). Spetta il rimborso nell’ipotesi di sentenza di proscioglimento per motivi di merito, ossia perché: - il fatto non sussiste; - l'imputato non lo ha commesso; - il fatto non costituisce reato (46); - il fatto non è previsto dalla legge come reato; - il reato è stato commesso da persona non imputabile (47). (46) Conf.: TAR Puglia bari, 18 marzo 2004, n. 1390, la quale precisa che nel caso di specie “ci si trovi in presenza di una condotta del soggetto che il giudice ha ritenuto indifferente all’ordinamento penale; per la quale ipotesi, lo stesso art. 43 c.p. esclude categoricamente la sussistenza del dolo e/o della colpa. La mancanza dell’elemento psicologico, confermata dalla circostanza che non è più prevista nel nostro ordinamento la formula dubitativa, inducono a concludere nel senso che l’art. 530 c.p.p. contempli un’ipotesi di assoluzione piena. Tale assoluzione, invero, non esclude la rilevanza del fatto (esistente nella sua materialità) ad altri fini (disciplinari o civili o amministrativi). Ciò che conta, però, è che la sentenza, incidendo risolutivamente sulla persistenza del rapporto processuale, riconosce l’inesistenza del rilievo penale della condotta dunque l’assenza di profili di responsabilità penale; così rimuovendo gli ostacoli che precludono l’accesso al rimborso delle spese legali sostenute dal dipendente a causa del particolare, specifico giudizio al quale, egli, non aveva dato impulso processuale”. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 227 Non spetta il rimborso nell’ipotesi di sentenza di proscioglimento per motivi di rito, ossia: - per mancanza delle condizioni di procedibilità e di proseguibilità; - perché il reato è stato commesso da persona non punibile; - perché il reato è estinto (48). Spetta il rimborso delle spese legali richiesto da dipendenti di Amministrazioni statali ex art. 18 D.L. n. 67 del 1997 a fronte di sentenze penali di assoluzione con formula ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p. (“quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile”). Difatti, l’ipotesi assolutoria di cui al secondo comma, come quella del primo comma, esclude ogni responsabilità agli effetti penali, in esito a giudizio valutativo e di graduazione delle prove assunte, nel loro concorso, in negativo o in positivo, a qualificare la responsabilità dell'imputato (49). Analogo rilievo vale per l’ipotesi assolutoria di cui al terzo comma dell’art. 530 c.p.p. relativa al fatto commesso in presenza di una causa di giustificazione. Sul punto vale quanto sopra argomentato a proposito della analoga formula della sentenza di non luogo a procedere emessa ex art. 425, comma 3, del c.p.p. È vero che la formula assolutoria di cui sopra non corrisponderebbe ad un effettivo e totale esonero da responsabilità, in quanto essa lascerebbe aperta la possibilità di future azioni volte a fare valere per gli stessi fatti la responsabilità civile o amministrativa del dipendente. Tuttavia nel caso di specie non è possibile negare la richiesta di rimborso. Questa, infatti, è direttamente connessa all’attività difensiva che ha portato nel corso di quel dato giudizio alla (47) Perché incapace di intendere o di volere. (48) Con riferimento alle sentenze di proscioglimento con formule meramente processuali non liberatorie (es. prescrizione), la giurisprudenza amministrativa è concorde nel ritenere non spettante il rimborso delle spese legali. In tal senso, Cons. St., Sez. V, 14 aprile 2009, n. 2242; da ultimo, Cons. St., Sez. VI, 2 luglio 2004, n. 7660. Fra le fattispecie di estinzione, molto rilevante, per la frequenza, è la sentenza con cui il giudice penale dichiara, ai sensi dell'art. 531 c.p.p., la prescrizione del reato. La detta sentenza proprio perché contiene l'accertamento della sussistenza di una causa di estinzione del reato (tale essendo la natura della prescrizione, come risulta dalla collocazione sistematica degli articoli 157, 158, 159, 160 e 161 c.p., che concernono tale istituto, nel Capo I del Titolo VI, del Libro I del codice penale, intitolato all'estinzione del reato), non è un provvedimento esclusivo della responsabilità del prevenuto in relazione al fatto ascrittogli. Ciò in quanto il rimborso delle spese legali relative al giudizio penale cui sia stato sottoposto il dipendente, è dovuto solo qualora la sentenza conclusiva escluda la sua responsabilità nell'occorso, pertanto, avendo egli la facoltà e l'onere di rinunciare alla prescrizione o comunque di impugnare la sentenza che dichiari per l'effetto estinto il reato, al fine di addivenire ad una pronuncia pienamente assolutoria nel merito, il rimborso non spetta nel caso in cui egli sia stato prosciolto per intervenuta prescrizione. Conf.: Cass. civ., Sez. I, 16 aprile 2008, n. 10052; Cons. Stato, Sez. VI, 29 aprile 2005, n. 2041. In senso analogo anche il parere dell'11 novembre 2000 n. 115247 del Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato, in rassegna dell’avvocatura dello Stato, 2002, 1, p. 258. (49) Cons. St., Sez. VI, 21 marzo 2011, n. 1713. RASSegNA AVVoCATuRA 228 DeLLo STATo - N. 3/2018 negazione di quella data responsabilità. La decisione, del resto, si ricollega al profilo valutativo che l’ordinamento effettua di un determinato fatto; per cui ben può aversi una situazione da cui scaturiscono diversi giudizi (es. penali, civili, contabili ecc. ) che operano su piani diversi, per cui per uno di essi quel dato atto o fatto non ha alcuna rilevanza, di tal che non sembra possano sussistere ostacoli per la responsabilità delle spese sostenute per la difesa, difesa che appunto ha portato all’esclusione di responsabilità per quel tipo di procedimento (50). 14. (Segue) D) sentenza o provvedimento che abbia escluso la responsabilità: iii) all’esito di giudizio di responsabilità amministrativa. Nell'evenienza che il danno sia stato arrecato direttamente all'Amministrazione di appartenenza, la responsabilità civile assume connotati particolari e speciali, ricorrendo la fattispecie della responsabilità amministrativa, attribuita alla giurisdizione della Corte dei Conti (51). I funzionari, gli impiegati, gli agenti, anche militari, che nell'esercizio delle loro funzioni, per errore ed omissione imputabili anche solo a colpa o negligenza cagionino danno allo Stato e ad altra P.A. dalla quale dipendono sono, infatti, sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti nei casi e modi previsti dalla legge sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato e da leggi speciali (in tal senso art. 52 R.d. 12 luglio 1934 n. 1214). La Corte, valutate le singole responsabilità, può porre a carico del responsabile tutto o parte del danno arrecato o del valore perduto. Regole analoghe sono sparse in varie disposizioni (es. art. 83 R.d. 18 novembre 1923 n. 2440 e art. 18 d.P.R 10 gennaio 1957, n. 3). gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa possono così sinteticamente individuarsi: rapporto di servizio. Il primo elemento che deve sussistere perché sia configurabile la responsabilità amministrativa è l’esistenza di un rapporto di servizio, che leghi a vario titolo il soggetto ritenuto responsabile alla pubblica amministrazione, costituendo in capo al primo l’esistenza di specifici doveri correlati allo svolgimento da parte dell’Amministrazione dei compiti ad essa attribuiti. Dalla ricognizione delle disposizioni in materia emerge un’ampia (50) In tali termini il Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato con il parere del 26 ottobre 2006, n. 121593 (richiamante il proprio precedente parere del 9 giugno 1998, prot. 70620), in rassegna dell’avvocatura dello Stato, 2006, 4, pp. 246-248. (51) Sulla responsabilità amministrativa: M. SCIASCIA, Diritto delle gestioni pubbliche, II edizione, giuffré, 2013, pp. 796-822; P. SANToRo, manuale di contabilità e finanza pubblica, V edizione, Maggioli, 2012, pp. 687-714; M. geRARDo, A. MuTAReLLI, il processo nelle controversie di lavoro pubblico, cit., pp. 100-105; C.e. gALLo, M. gIuSTI, g. LADu, M.V. AVAgLIANo, L. SAMbuCCI, M.L. SeguITI, Contabilità di Stato e degli enti pubblici, V edizione, giappichelli, 2011, pp. 145-189; S. buSCeMA, A. bu- SCeMA, Contabilità di Stato e degli enti pubblici, IV edizione, giuffré, 2005, pp. 294-309. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 229 latitudine dell’ambito soggettivo, atteso che tale rapporto concerne sia i lavoratori dipendenti con rapporto di lavoro privatistico che quelli in regime di diritto pubblico (art. 3 D.L.vo n. 165/2001), sia i dipendenti con rapporto di pubblico impiego volontariamente costituito che quelli con rapporto costituito in modo coattivo (es. militari), sia i lavoratori professionali con rapporto a tempo determinato indeterminato che quelli onorari, sia infine, i lavoratori autonomi. Comportamento dannoso. Il danno, per poter comportare responsabilità amministrativa deve essere conseguenza di un comportamento - azione (provvedimentale o materiale) od omissione - posto in essere nell’esercizio di un’attività non discrezionale, ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali, sempreché rispettose dei limiti posti dall’ordinamento (pertanto la discrezionalità è sindacabile sotto il profilo dell’eccesso di potere). Tale comportamento deve essere imputabile all’agente, a titolo di responsabilità personale (art. 1, comma 1, L. 14 gennaio 1994 n. 20). Elemento psicologico. La responsabilità è circoscritta ai fatti e alle omissioni commessi con dolo o colpa grave. La colpa grave implica una condotta che sia posta in essere senza l’osservanza di un livello di diligenza, prudenza e perizia in relazione al tipo di attività concretamente richiesta all’agente ed alla sua particolare preparazione professionale nel settore della attività amministrativa al quale è preposto. Tale attività si caratterizza, quindi, per un atteggiamento di estremo disinteresse nell’espletamento delle proprie funzioni, di negligenza massima, di deviazione dal modello di condotta connesso ai propri compiti, senza il rispetto delle comuni regole di comportamento (52). In ogni caso è esclusa la gravità della colpa quando il fatto dannoso tragga origine dall’emanazione di un atto vistato e registrato in sede di controllo preventivo di legittimità, limitatamente ai profili presi in considerazione nell’esercizio del controllo (art. 1, comma 1, L. n. 20/1994). L’illustrato regime normativo esonera da responsabilità il dipendente che versa in colpa lieve nell’evidente obiettivo di non gravare il dipendente di preoccupazioni eccessive in ordine alle conseguenze patrimoniali della propria condotta. Preoccupazioni che (in particolare in una fase storica legislativamente dinamica in cui la P.A. si trova a operare in una realtà normativa estremamente complessa e talvolta disarticolata) condurrebbero fatalmente all’inerzia e alla paralisi amministrativa. Nesso causale. È ovviamente richiesta la sussistenza di un rapporto di causalità tra comportamento osservato dal dipendente (e ritenuto fonte del danno) ed il danno lamentato dall’amministrazione. Il nesso eziologico deve essere valutato secondo il criterio della causalità adeguata, verificando, cioè, (52) Ex plurimis: Corte Conti, Sez. giur. Abruzzo, 27 marzo 2007, n. 372. RASSegNA AVVoCATuRA 230 DeLLo STATo - N. 3/2018 con una valutazione ex ante, se il comportamento del dipendente sia stato idoneo a produrre l’evento. In tale valutazione non si dovrà tenere conto degli eventuali e imprevedibili effetti straordinari o atipici della condotta tenuta. Nell’ipotesi di concorso di più persone nel comportamento causativo del danno, la Corte dei Conti, valutate le singole responsabilità, è tenuta a condannare ciascuno in relazione al proprio contributo causale. È altresì prevista la responsabilità solidale dei soli concorrenti che abbiano conseguito un illecito arricchimento o abbiano agito con dolo (art. 1, comma quater e quinquies L. n. 20/1994). Danno. Il danno è costituito dalla diminuzione patrimoniale o dal mancato guadagno causato direttamente dall’attività dell’agente. La Corte dei Conti nel giudizio di responsabilità, fermo restando il potere di riduzione, deve tenere conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione di appartenenza, da altra amministrazione o dalla comunità amministrata in relazione al comportamento degli amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità (art. 1, comma 1 bis, l. n. 20/1994). Il giudizio di responsabilità viene instaurato da un attore pubblico (il Procuratore Regionale presso la Sezione giurisdizionale della Corte dei Conti) il quale agisce nell’interesse della comunità intera, assorbendo, perciò nella sua funzione anche la difesa della P.A. danneggiata. Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso nel termine di cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso (comprensivo dell’effetto lesivo dell’eventus damni), ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta (art. 1, comma 2, L. n. 20/1994). Nel giudizio contabile, come in quello civile, il diritto al rimborso spetta allorché il processo si concluda con sentenza di rigetto nel merito dell’azione di responsabilità. Non spetta il diritto al rimborso nell’ipotesi che il giudizio si concluda con sentenza definitiva dichiarativa di una questione pregiudiziale di rito (sui presupposti processuali, sulle condizioni dell’azione, su nullità processuali) o su un questione preliminare di merito (prescrizione o sull’ammissibilità dell’intervento). Di conseguenza, nella ricorrente ipotesi del proscioglimento per prescrizione, non vi è luogo a liquidazione degli onorari, dei diritti e delle spese relativi alla difesa del convenuto prosciolto, non avendo lo stesso titolo al relativo rimborso. All’evidenza tale pronuncia non esclude la responsabilità per danno erariale, all'esito di una valutazione, nel merito, dei fatti asseritamene produttivi di un danno erariale contestati al convenuto. L’accertamento dell'intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento del danno erariale, preclude al giudice contabile l'esame della fondatezza dell'addebito contestato al convenuto (53). Come anticipato sopra, in conseguenza della disciplina contenuta nell’art. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 231 10 bis, comma decimo, del D.L. 30 settembre 2005 n. 203, conv. in legge 2 dicembre 2005, n. 248 (54) e nell’art. 31, commi 1 e 2 del Codice di giustizia contabile (55) soprariportati, deve ritenersi che, nei giudizi per responsabilità amministrativa, è venuto meno la disciplina contenuta nell’art. 18 cit., ivi compreso il parere dell’Avvocatura dello Stato obbligatorio e vincolante. Il giudice, infatti, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa. Il giudicato, anche sul punto del governo delle spese, vincola il dipendente e l’amministrazione di appartenenza per le regole generali contenute nell’art. 2909 c.c. sui limiti oggettivi e soggettivi (56). L’amministrazione di apparte- (53) Corte dei Conti, Sez. giurisdiz., Sent., 26 febbraio 2007, n. 136; Corte dei Conti, Sez. III App., 14 dicembre 2006, n. 475 che precisa: “ritiene il Collegio che in caso di mancato accoglimento della domanda introduttiva del giudizio per intervenuta prescrizione - ovvero di accoglimento dell'appello della parte privata per lo stesso motivo - detta liquidazione non possa aver luogo, non essendo venuto a maturazione il presupposto prescritto dalla legge e, cioè, "il proscioglimento nel merito". La finalità perseguita dal legislatore, infatti, è quella di riconoscere in favore del soggetto evocato in giudizio, nella sua posizione di convenuto o appellante, nei cui confronti sia accertata la carenza di uno degli elementi essenziali per configurare la responsabilità amministrativa, il diritto a renderlo indenne da un esborso economico che, altrimenti, non avrebbe affrontato. La declaratoria di intervenuta prescrizione, peraltro, incide su un momento preliminare all'accertamento del merito della controversia, senza che sia vagliata la posizione sostanziale del convenuto (o appellante). Sotto altro profilo non può sottacersi che l'espressione utilizzata dal legislatore "proscioglimento nel merito", corrobora l'indicato processo ermeneutico. inoltre, se la finalità del legislatore fosse stata più ampia, tale da ricomprendervi anche fattispecie come quella oggetto del presente appello, sarebbe stato sufficiente correlare la liquidazione degli onorari e diritti della difesa al mero proscioglimento e non anche al "proscioglimento nel merito" ”; Corte dei Conti, Sez. III App., 8 novembre 2006, n. 452; Corte dei Conti Puglia, Sez. giurisdiz., 23 ottobre 2006, n. 899; Corte dei Conti Campania, Sez. giurisdiz., 21 marzo 2006, n. 425. In senso contrario Corte dei Conti Sicilia, Sez. App., Sent., 9 maggio 2007, n. 151, secondo cui nel giudizio contabile, deve essere affermato il diritto al rimborso delle spese legali sostenute dal convenuto assolto per prescrizione, trattandosi di proscioglimento nel merito. (54) Che ancora prevedeva il parere di congruità dell'Avvocatura dello Stato. Sul citato art. 10 bis comma 10 D.L. 248/2005 si è pronunciato il Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato, con il parere n. 13436 del 13 gennaio 2016, in rassegna dell’avvocatura dello Stato, 2016, 1, pp. 3-5, che ha rilevato: “Questa avvocatura, nell’attuale quadro normativo e giurisprudenziale, in attesa di un eventuale ulteriore intervento chiarificatore del legislatore, ritiene, con esclusivo riferimento alla particolare ipotesi di proscioglimento nel giudizio davanti alla Corte dei Conti, che il parere dell’avvocatura dello Stato abbia una funzione c.d. formale atteso che il legislatore, con la norma interpretativa del 2005, così come interpretata dalla citata giurisprudenza di legittimità, ha inteso demandare direttamente all’organo giurisdizionale (il giudice contabile) l’attività di liquidazione e commisurazione delle spese legali. il parere di congruità dell’avvocatura, comunque contemplato dalle richiamate disposizioni, appare nella fattispecie, ridimensionato al ruolo di riscontro formale, sul piano amministrativo, della conformità della richiesta di rimborso rispetto alla misura liquidata in sentenza, nonché, eventualmente, per valutare la congruità degli oneri accessori non espressamente indicati nella sentenza (rimborso forfettario, iva, Cpa), ovvero la rimborsabilità di spese strettamente connesse alla difesa nel giudizio, ma sostenute successivamente. […] in sintesi, in mancanza di impugnazione del relativo capo della decisione, la liquidazione del giudice contabile rappresenta ex lege la misura del diritto al rimborso delle spese legali da parte dell’amministrazione”. (55) Che, tra l’altro, non prevede più il parere di congruità dell'Avvocatura dello Stato. RASSegNA AVVoCATuRA 232 DeLLo STATo - N. 3/2018 nenza è vincolata in virtù del ruolo rivestito dal Procuratore contabile, il quale oltrecché rivestire il ruolo di pubblico ministero è anche il rappresentante processuale dell’amministrazione (57). Il Procuratore Regionale presso la Sezione giurisdizionale della Corte dei Conti agisce nell’interesse generale della comunità intera (58), assorbendo, nella sua funzione anche la difesa della P.A. danneggiata. Nel caso di specie non vi è spazio per applicare la disciplina contenuta nell’art. 18 in esame. Diversamente opinando vi sarebbe una disciplina in contrasto con un giudicato. Sicché si deve escludere la possibilità per l’Amministrazione di sostituirsi al giudice contabile nella valutazione delle spese legali rimborsabili riconoscendo al dipendente somme diverse o ulteriori rispetto a quelle liquidate in sentenza (59). L’art. 31 del Codice di giustizia contabile ha determinato, all’evidenza, l’abrogazione parziale dell’art. 18 citato (nella parte in cui disciplina il rimborso delle spese sopportate nel giudizio di responsabilità amministrativa) e l’abrogazione totale dell’art. 10-bis, comma 10, D.L. 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla L. 2 dicembre 2005, n. 248, come modificato dall'art. 17, comma 30-quinquies, D.L. 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla L. 3 agosto 2009, n. 102 (60). In specie, le indicate disposizioni sono venute meno, ex art. 15 delle preleggi - applicativo del criterio cronologico per la risoluzione delle antinomie (lex posterior derogat priori ) - sia per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti, sia perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore. (56) Sul giudicato ed i suoi limiti, ex plurimis: C. MANDRIoLI, A. CARRATTA, Diritto processuale civile, I, cit., pp. 167-197. (57) In tal senso anche M. SCIASCIA, manuale di diritto processuale contabile, VI edizione, giuffré, 2018, pp. 108-109. (58) Ex plurimis: M. SCIASCIA, Diritto delle gestioni pubbliche, cit., p.780; P. SANToRo, manuale di contabilità e finanza pubblica, cit., p. 687; C.e. gALLo, M. gIuSTI, g. LADu, M.V. AVAgLIANo, L. SAMbuCCI, M. L. SeguITI, Contabilità di Stato e degli enti pubblici, cit., p. 184; S. buSCeMA, A. bu- SCeMA, Contabilità di Stato e degli enti pubblici, cit., p. 297. Sulla figura del Procuratore della Corte dei Conti (parte in senso formale, parte anche in senso sostanziale, sostituto processuale): A. beNNATI, manuale di contabilità di Stato, XII edizione, Jovene, 1990, pp. 864-867. (59) già dopo l'entrata in vigore dell'art. 10 bis, comma decimo, del d.1. 30 settembre 2005 n. 203, conv. in legge 2 dicembre 2005, n. 248 si è enunciato, dal giudice di legittimità, che in caso di proscioglimento nel merito del convenuto in giudizio per responsabilità amministrativo-contabile innanzi alla Corte dei conti, spetta esclusivamente a detto giudice, con la sentenza che definisce il giudizio, liquidare - ai sensi e con le modalità di cui all'art. 91 cod. proc. civ. ed a carico dell'amministrazione di appartenenza - l'ammontare delle spese di difesa del prosciolto, senza successiva possibilità per quest'ultimo di chiedere in separata sede, all'amministrazione medesima, la liquidazione di dette spese, neppure in via integrativa della liquidazione operata dal giudice contabile (Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., 19 agosto 2013, n. 19195). Tesi rafforzata con l’entrata in vigore del codice del processo contabile. (60) In tal senso anche A. VeTRo, il rimborso delle spese legali per i convenuti assolti nei giudizi di responsabilità dinanzi alla Corte dei conti, in www.contabilita-pubblica.it CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 233 Corollario di quanto ricostruito è il venire meno - nel procedimento per la liquidazione delle pretese di rimborso delle spese all’esito del giudizio di responsabilità amministrativa - del parere dell’Avvocatura dello Stato secondo la peculiare disciplina dell’art. 18 (parere obbligatorio e vincolante). Residua, ovviamente, l’ordinario parere ex art. 13 R.D. n. 1611/1933 (parere facoltativo), che non potrà andare in contrasto con il giudicato contabile relativo al capo liquidante le spese di lite. Parere che, ove richiesto, conterrà l’accertamento della conformità della richiesta di rimborso rispetto alla misura liquidata in sentenza, nonché, eventualmente, la valutazione della congruità degli oneri accessori non espressamente indicati nella sentenza (rimborso forfettario, Iva, Cpa), o della rimborsabilità di spese strettamente connesse alla difesa nel giudizio sostenute successivamente al giudicato (61). 15. (Segue) assenza di conflitto di interesse? Il requisito dell’assenza di conflitto di interesse è espressamente richiesto per il diritto al rimborso richiesto nei confronti di regioni ed enti locali (art. 28 del C.C.N.L. del 14 settembre 2000) (62). L’assenza di conflitto di interesse costituisce anche un requisito del diritto nei confronti di amministrazioni statali, in aggiunta a quelli sopraindicati? In varie sentenze, si afferma non vi debba essere un conflitto di interesse per godere del rimborso delle spese nei confronti di amministrazioni statali. Il corollario di tale affermazione è che condizione per la spettanza del rimborso delle spese in un giudizio che abbia escluso la responsabilità civile o la responsabilità penale o la responsabilità amministrativa è l’assenza di qualsivoglia responsabilità in capo al dipendente. Sicché, ad esempio, andrebbe negato il diritto al rimborso nonostante l’assoluzione nel merito in sede penale (specie con le formule di cui al secondo comma dell’art. 530 c.p.p.), ove residui una diversa altra fattispecie di responsabilità. La tesi richiedente il requisito dell’assenza di conflitto di interessi in aggiunta a quelli sopraindicati, con il corollario che ne consegue, non è accoglibile. Tale requisito non è richiesto dall’art. 18, diversamente da quanto valevole per regioni ed enti locali. Come già evidenziato nel precedente paragrafo 13, la richiesta di rimborso è direttamente connessa all’attività difensiva (61) Su tale contenuto: il citato parere del Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato n. 13436 del 13 gennaio 2016. (62) Conferma di tale requisito negativo si ha in Cass. civ., Sez. lavoro, 17 settembre 2002, n. 13624 (in una pretesa di un dipendente di un Comune si è ritenuto che non può essere riconosciuto il diritto del dipendente al rimborso delle spese legali sostenute, allorquando, quest'ultima si sia costituita parte civile nei confronti del dipendente e abbia assunto una iniziativa disciplinare, indipendentemente da ogni valutazione attinente l'esito del procedimento penale e l'accertamento della responsabilità disciplinare del dipendente, essendo del tutto evidente, in tale ipotesi, il conflitto di interessi tra l'ente e il dipendente) e in Cass. civ., Sez. lavoro, 30 ottobre 2018, n. 27674. RASSegNA AVVoCATuRA 234 DeLLo STATo - N. 3/2018 che ha portato nel corso di quel dato giudizio alla negazione di quella data responsabilità. La decisione si ricollega al profilo valutativo che l’ordinamento effettua di un determinato fatto; per cui ben può aversi una situazione da cui scaturiscono diversi giudizi (es. penali, civili, contabili ecc. ) che operano su piani diversi, per cui per uno di essi quel dato atto o fatto non ha alcuna rilevanza, di tal che non sembra possano sussistere ostacoli per la spettanza delle spese sostenute per la difesa, difesa che appunto ha portato all’esclusione di responsabilità per quel tipo di procedimento. La potenziale rilevanza della condotta, oggetto ad esempio di un giudizio di responsabilità penale, in termini di responsabilità civile, disciplinare, amministrativa - sia che venga poi accertata in concreto nelle sedi opportune, sia che rimanga a livello solo ipotetico - non vale a superare il rilievo che il titolo (in base al quale il dipendente è chiamato nel giudizio penale a rispondere) ed i relativi presupposti sono autonomi e distinti, come pure lo sono i procedimenti accertativi e le spese sostenute per i giudizi di responsabilità civile, disciplinare, amministrativa (63). Di conseguenza, riprendendo il precedente esempio, non può negarsi il diritto al rimborso nel caso di assoluzione nel merito in sede penale (specie con le formule di cui al secondo comma dell’art. 530 c.p.p.), in presenza di altra (potenziale o certa) fattispecie di responsabilità. Va tuttavia rilevato che, spesso, l’enunciazione secondo cui per il riconoscimento del diritto al rimborso è necessaria l’assenza di conflitto di interesse tra dipendente ed amministrazione statale viene fatta nella giurisprudenza, in sede di esame delle condizioni “C) connessione dei fatti contestati con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali” e “D) sentenza o provvedimento che abbia escluso la responsabilità”. All’evidenza, in tale evenienza, il concetto di assenza di conflitto di interesse è meramente descrittivo e non costituisce una condizione aggiuntiva per godere del diritto al rimorso (64). (63) In tali termini il Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato con il già citato parere del 26 ottobre 2006, n. 121593. (64) È il caso di TAR Abruzzo Pescara, Sez. I, 5 maggio 2014, n. 210 (avente ad oggetto una pretesa di un dipendente del Ministero della difesa) dove, in sostanza la presenza di un conflitto di interessi è un obiter in sede di esame della connessione dei fatti con i doveri d’ufficio e della pronuncia escludente una responsabilità. Analoghe osservazioni vanno mosse a TAR Campania Napoli, Sez. VI, 25 gennaio 2011, n. 436 (“il rimborso delle spese legali sostenute dal dipendente, [del Ministero dell’economia e delle Finanze], è subordinato alla ricorrenza di due presupposti e precisamente: che il giudizio di responsabilità sia stato promosso in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio e con l'assolvimento degli obblighi istituzionali e che esso si sia concluso con sentenza od altro provvedimento che abbia escluso la responsabilità dell'istante. il giudizio di responsabilità si considera promosso in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento degli obblighi istituzionali solo nei casi in cui l'imputazione riguardi un'attività svolta in diretta connessione con i fini dell'ente […]. in sostanza, affinchè l'impiegato della p.a. possa ottenere, ai sensi dell'art. 18 CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 235 16. anticipazione del rimborso. L’art. 18, comma 1, ultimo periodo, D.L. n. 67/1997 (“Le amministrazioni interessate, sentita l'avvocatura dello Stato, possono concedere anticipazioni del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità”) consente la concessione di un acconto del rimborso delle spese legali. L’acconto è una frazione del carico presuntivo delle spese. L’amministrazione concederà l’acconto, intuitamente, ove reputi che il dipendente non abbia responsabilità sui fatti rilevanti e che quindi il giudizio dovrebbe concludersi - in base ad una valutazione prognostica - con rigetto dell’azione di responsabilità. Ciò ferme le altre condizioni del diritto al rimborso (giudizio promosso nei confronti del dipendente pubblico, nel quale non è parte l’Amministrazione di appartenenza; il titolare della pretesa deve avere la qualifica di dipendente di amministrazione statale; connessione dei fatti contestati con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali). La valutazione dell’amministrazione è la stessa che viene fatta dall’Avvocato generale nell’esaminare le condizioni per concedere il patrocinio ex art. 44 del R.D. n. 1611/1933. Al fine della concessione dell’acconto, quindi, tra l’altro deve essere pendente il giudizio. L’acconto è una misura provvisoria, che risente dell’esito del giudizio: - si consolida, con diritto alla differenza rispetto al quantum definitivamente dovuto, con la pronuncia della sentenza o del provvedimento connotati da stabilità, ossia non più impugnabili secondo il loro particolare regime giuridico, che escludano la responsabilità del dipendente; - va restituito nel caso di pronuncia della sentenza definitiva che accerti la responsabilità. All’evidenza, la definitività del diritto è collegata alla pronuncia della sentenza passata in giudicato. Nell’evenienza che il giudizio non pervenga ad una pronuncia sul merito, ma - ad esempio - si estingua, l’anticipazione del rimborso andrà restituito. Ciò per il carattere di mera anticipazione dell’acconto. Tale situazione implica che il convenuto nel giudizio di responsabilità che abbia ricevuto un acconto, ha l’onere di attivarsi al fine di addivenire ad un pronuncia sul merito e di evitare l’estinzione del giudizio. Sicchè non dovrà accettare una eventuale rinuncia al giudizio della controparte e dovrà compiere atti del processo onde evitare l’estinzione per inattività. d.l. 25 marzo 1997 n. 67, conv. in l. 23 maggio 1997 n. 135, il rimborso delle spese legali sostenute per la propria difesa nell'ambito di un giudizio penale in ragione dell'esercizio delle sue funzioni non deve esserci conflitto di interessi tra dipendente ed amministrazione né devono emergere estremi di natura disciplinare ed amministrativa per mancanze attinenti al compimento dei doveri d'ufficio”). RASSegNA AVVoCATuRA 236 DeLLo STATo - N. 3/2018 16. modalità di liquidazione. Al fine di conseguire il rimborso delle spese o la loro anticipazione è necessario che il dipendente abbia pagato gli onorari al suo legale e chieda pertanto la relativa liquidazione, dando prova del pagamento, ossia l’esibizione della fattura di quanto pagato. Non è pertanto ammesso il pagamento diretto in favore del legale del dipendente. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 237 Sistemi integrati di composizione delle liti delle Pubbliche amministrazioni (rELazioNE DEL 18 GENNaio 2018, SCuoLa SuPEriorE DELLa maGiSTraTura) Gaetana Natale Avvocato dello Stato introduzione. Con l’espressione “metodi alternativi per la risoluzione delle controversie” (alternative Dispute resolution, cd. aDr) si fa riferimento, in senso generale, ad una serie numerosa ed eterogenea di procedure dirette a risolvere le controversie in via stragiudiziale, a metodi alternativi alla giurisdizione che realizzano la cd. multi Door Court House, ossia l’accesso differenziato alla giustizia. Queste procedure, che mirano in primo luogo a soddisfare esigenze di economia processuale, permettono inoltre di raggiungere una soluzione convenzionale delle controversie, realizzando quella che ormai viene definita da più parti “giustizia contrattuale” nell’ambito della c.d. “giurisdizione condizionata”. Le tecniche di risoluzione delle controversie alternative o complementari alla giurisdizione ordinaria hanno cominciato a diffondersi in diversi settori, sia sotto forma di procedure obbligatorie, previste dalla legge, sia sotto forma di procedure volontarie. I soggetti interessati dalle ADR sono molteplici, riguardando per la parte dei titolari degli interessi incisi i singoli privati, le associazioni di consumatori e risparmiatori, le imprese e gli operatori economici in generale, mentre per la parte dei soggetti che le amministrano, gli organismi di mediazione e conciliazione costituiti ai sensi della L. n. 28 del 2010, gli enti creati da ordini professionali, gli enti appositamente creati per determinati settori (i c.d. ordinamenti Sezionati) come i rapporti riguardanti l’energia (ad opera dell’Autorità competente), le Comunicazioni (ad opera dell’Autorità competente e delle Regioni), i rapporti bancari (ACF), i rapporti finanziari (ACF). Diversi sono gli interventi con direttive e regolamenti emanati dall’unione europea, prevalentemente dedicati alla soluzione dei conflitti tra consumatori e imprese, alle small claims e alle tecniche svolte mediante internet (oDR). gli ADR sono ormai penetrati in tutte le branche del diritto e sono stati oggetto “di numerosi interventi legislativi al fine di incrementare la capacità deflattiva del contenzioso dei predetti strumenti, di contenere, al contempo, i costi delle liti e, per altro verso di favorire la formazione e lo sviluppo di una cultura della conciliazione” (1). (1) CoMMISSIoNe “ALPA”, Proposte normative e note illustrative, Ministero della giustizia, 2017, www.mondoadr.it, p. 5. RASSegNA AVVoCATuRA 238 DeLLo STATo - N. 3/2018 oggi il problema è rappresentato dalla mancanza di una legge “cornice” generale e organica per le controversie civilistiche e, soprattutto, di una disciplina specifica per le controversie che riguardano le Pubbliche Amministrazioni. Numerose sono infatti le leggi settoriali ma non è ancora previsto un inquadramento sistematico. Il contesto normativo attuale si presenta dunque frammentato e eterogeno. Per tale motivo, partendo dalla necessità di enucleare una riforma organica degli ADR, con il D.M. 7 marzo 2016 è stata costituita la “Commissione di studio per l’elaborazione di ipotesi di organica disciplina e riforma degli strumenti di degiurisdizionalizzazione, con particolare riguardo alla mediazione, alla negoziazione assistita e all’arbitrato”. L’obiettivo della suddetta Commissione è stato quello di “prevedere un’ipotesi di riforma organica degli strumenti stragiudiziali di risoluzione delle controversie”. Così come si legge nella relazione finale della Commissione Alpa, il contesto normativo attuale “sviluppa forme eterogenee di strumenti negoziali di risoluzione alternativa delle controversie e comprende: l’intervento organico, derivante dall’attuazione del diritto dell’unione europea, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali di cui al decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28; il decreto legislativo 6 agosto 2015, n. 130 in tema di risoluzione extragiudiziale delle controversie dei consumatori; le misure urgenti in materia di trasferimento alla sede arbitrale di procedimenti pendenti dinnanzi all’autorità giudiziaria e in materia di negoziazione assistita dagli avvocati di cui al decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132; le forme di mediazione e conciliazione facoltative o obbligatorie nei diversi ambiti settoriali, come le controversie del lavoro, la materia agraria, le controversie tributarie; la disciplina dell’arbitrato” (2). Da ultimo si pensi ancora agli accordi bonari, transazioni, pareri di precontenzioso dell’ANAC previsti negli artt. 205-211 del nuovo Codice dei Contratti Pubblici (D.lgs. n. 50/2016, modificato dal correttivo n. 56/2017), all’accertamento tecnico preventivo art. 696 bis previsto nell’art. 8 della legge sulla responsabilità sanitaria gelli-bianco n. 24/2017, alla mediazione ambientale o anche da ultimo alla riforma della crisi d’impresa e dell’insolvenza in relazione alla quale il Parlamento ha approvato recentemente la legge delega al governo del 19 ottobre 2017 n. 155, (G.u. 30 ottobre 2017 n. 254). Tale legge prevede, dopo la riforma della legge fallimentare susseguitesi a far data dal 2005 fino alla legge 132/2015, le c.d. “procedure di allerta” e di composizione assistita della crisi di impresa, di natura non giudiziale e confidenziale. Il meccanismo prescelto prevede l’istituzione presso la Camera di commercio di un organismo cui il (2) ibidem. Cfr. anche ALPAg., AMADeo F., AMoRoSo g., AuLeTTA F., bReggIA L., bRIgugLIoA., CARDoSI A., CINTIoLI F., CIRIeLLo A., gIuSTI A., MARCheSIeLLo M., MARoTTA g.g., RAguSo g., Te- NeLLA SILLANI C., (a cura di), un progetto di riforma delle aDr, Pubblicazione del Dipartimento di Scienze giuridiche dell'università degli Studi di Roma "La Sapienza", Jovene editore, Napoli 2017. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 239 debitore affida con apposita istanza il compito di addivenire a una soluzione concordata della crisi con i creditori entro un congruo termine, comunque non superiore a sei mesi (art. 4, comma 1, lett. b). La linea evolutiva della legislazione è, dunque, nel senso di introdurre con notevole vis espansiva varie forme di ADR da modulare e declinare nelle variegate branche del diritto. occorre, però, avere piena consapevolezza che il diritto, alla stregua di quanto osservato dalla dottrina più autorevole (3) non è chiuso in un sistema di leggi considerate nella loro fissità e datità, non esiste nell'astrattezza dei suoi enunciati; all'opposto è mutevole, cangiante, in quanto vive nello spazio e nel tempo. L'ordinamento non è dunque il presupposto, bensì un risultato, di modo che l'interpretazione diviene momento fondamentale ai fini dell'elaborazione della regola. L’attuale sistema ha dunque bisogno di essere ricondotto ad unità, di essere armonizzato e razionalizzato. Tale esigenza di armonizzazione e razionalizzazione si pone in maniera più pregnante per le controversie che riguardano le Pubbliche Amministrazioni, considerato anche che il Trattato di Lisbona delinea una nozione ampia, dinamica e funzionale sia di “organo giurisdizionale” sia di “pubblica amministrazione”, concepita ora in senso lato come “organismo di diritto pubblico”. Terminata la fase di sperimentazione e introdotti ormai in via definitiva nel nostro ordinamento con il Decreto Legge 24 aprile 2017 n. 50 (c.d. manovrina), convertito in L. 21 giugno 2017 n. 96, gli ADR riguardanti le controversie pubblicistiche devono essere sottoposti ad una sorta di “ortopedia interpretativa”, in quanto le relative discipline risultano modellate sulla falsariga dei rapporti privatistici e non tengono spesso conto della peculiarità soggettiva ed oggettiva delle Pubbliche Amministrazioni sia nella loro attività iure imperii sia in quella iure privatorum. Tale processo interpretativo delle norme riguardanti gli ADR, da sviluppare attraverso un confronto operativo tra avvocature pubbliche, magistrati e avvocati del libero foro, risulta necessario per elaborare le c.d. “regole operazionali”, ossia regole pratiche che consentano, attraverso la comprensione reciproca delle rispettive difficoltà e l’analisi dei formanti giurisprudenziali e legislativi, di rendere realmente efficaci i rimedi alternativi alla giurisdizione nelle controversie riguardanti le pubbliche amministrazioni. a) La normativa vigente, correttamente, ritiene percorribile la strada della mediazione limitatamente ai soli diritti disponibili. Con riferimento ai soggetti pubblici, ciò si traduce in una limitazione per tutta una serie di vicende che, ratione materiae, non sono suscettibili di ac- (3) LIPARI N., il diritto civile tra legge e giudizio, Milano 2017, pp. 21 ss. RASSegNA AVVoCATuRA 240 DeLLo STATo - N. 3/2018 cordo. Considerato anche il testuale riferimento alle “controversie civili e commerciali”, si deve dunque escludere che possano essere oggetto di mediazione (perché non possono essere oggetto di accordo): - le controversie in materia di diritto amministrativo, laddove cioè l’Amministrazione abbia esercitato o debba esercitare potestà pubbliche; - le controversie tributarie (evidentemente comprese quelle in materia doganale); - le controversie in tema di responsabilità dello Stato per atti compiuti iure imperii. Tra queste devono ritenersi evidentemente rientrare le (non transigibili) controversie in materia di responsabilità per l’eccessiva durata del processo (c.d. “legge Pinto”); - le pretese civili azionate a mezzo della costituzione di parte civile nel procedimento penale; - le controversie relative a diritti reali “pubblici” (si pensi a vicende involgenti la demanialità o la natura patrimoniale indisponibile di un bene). In tutti questi casi, è evidente (e deve essere compreso dalle stesse controparti e dai giudici) che l’opposizione di un rifiuto alla mediazione/negoziazione discende da un preciso obbligo di legge e non da un aprioristico rifiuto della Pubblica Amministrazione, timorosa di incorrere in responsabilità erariale. b) Ma a queste ipotesi devono affiancarsene logicamente altre, pur vertenti in materia “civile e commerciale”, nelle quali l’Amministrazione non può logicamente addivenire ad accordo alcuno, poiché in realtà la atipicità del suo operare non consente di ricomprendere la controversia, se non attraverso una lettura superficiale, in tale novero. Si pensi, così, ai casi in cui vi sia stretta commistione tra la materia civilistica e quella pubblicistica, laddove cioè l’Amministrazione si trovi ad agire sì, formalmente, sul piano privatistico, ma attraverso una commistione con attività e strumenti di altra natura. Agevoli esempi di casi simili, nei quali non appare possibile ricorrere agli strumenti deflattivi considerati, sono costituiti: - dalla necessaria parallela adozione di atti organizzativi; - laddove si sia in presenza di rapporti contrattuali “speciali” nei quali, in considerazione della natura pubblica di uno dei contraenti, siano inseriti nel contratto clausole imposte dalla legge (il che accade, a titolo meramente esemplificativo, per talune tipologie di locazioni); - quando sia in ogni caso necessaria l’adozione di altri atti amministrativi (si pensi alle “transazioni” regolate da legge e da regolamenti in materia di danno da emotrasfusione); - più in generale, laddove si sia in presenza di atti amministrativi presupposti, sui quali evidentemente l’Amministrazione non può incidere direttamente in via pattizia (si pensi ai contratti accessivi a concessioni). CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 241 c) Non si può infine trascurare l’esistenza di controversie per le quali, in ragione delle loro peculiari connotazioni, la via dei rimedi alternativi come definiti dalla normativa in discorso non risulta in sostanza adeguata, finendo con il costituire una superfetazione superflua/inutile che finisce proprio col comportare una situazione dilatoria contraria alla stessa finalità degli ADR. È ben noto, ed evidente, che i rimedi alternativi al contenzioso giudiziale sono stati pensati principalmente per il contenzioso tra privati: è in questo campo che hanno le maggiori possibilità di essere realmente incisivi, abbattendo il contenzioso. Il contenzioso delle Amministrazioni pubbliche involge spesso materie di particolare delicatezza e complessità giuridica, non di rado di elevatissimo valore, nei quali si confrontano con l’Amministrazione soggetti privati (imprenditori di grandi dimensioni, multinazionali, ecc.) che hanno a loro volta strutture legali particolarmente specializzate e agguerrite. Anche laddove non siano normativamente previsti procedimenti speciali volti alla definizione (ma si pensi, in primo luogo, ai rimedi alternativi alla tutela giurisdizionale previsti dal Capo II del Titolo I della Parte VI del nuovo Codice dei contratti pubblici, D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, artt. 205 e seguenti), è evidente, da un lato, che i legali delle parti, prima di accedere al contenzioso giudiziale, avranno tentato di percorrere ogni strada idonea alla risoluzione bonaria della controversia, in analogia con il procedimento di negoziazione assistita; d’altro canto, è lecito dubitare che un mediatore, pur dotato di grande abilità dialettica e di capacità di “smussare gli angoli” tra le parti private, possa fornire un effettivo contributo ad una soluzione pre-giudiziale della vicenda. In questi casi, se mai, potrebbe essere solo il giudice, cognita causa, a suggerire alle parti una via conciliativa sulla base del (principio di) convincimento che si fosse in lui formato in sede di esame della causa sottopostagli. Parimenti da escludere appare l’utilità concreta di un tentativo di composizione alternativo per il contenzioso seriale che spesso vede coinvolte le Amministrazioni pubbliche (non diversamente da quanto accade, per vero, ad altri soggetti quali Assicurazioni, banche, Finanziarie, ecc.). È in questi casi evidente che non è possibile risolvere la singola controversia, anche se di valore non particolarmente elevato, se non passando attraverso una soluzione di carattere più generale, per la quale deve ravvisarsi una competenza ai massimi livelli decisionali, anche a tutela di fondamentali principi costituzionali quali la parità di trattamento tra le parti e il buon andamento dell’Amministrazione. In tutti questi casi sembra giustificato e comprensibile il rifiuto dell’Amministrazione di anche solo avviare o partecipare ad un ADR che finirebbe, come detto, col comportare unicamente una dilazione superflua rispetto all’accesso alla giustizia. Nel quadro così sommariamente delineato resta da comprendere quale debba essere il ruolo del difensore pubblico, e, in particolare, dell’Avvocatura RASSegNA AVVoCATuRA 242 DeLLo STATo - N. 3/2018 dello Stato: ruolo che, va detto subito, non può che essere fondamentale nell’affiancare e assistere l’Amministrazione patrocinata favorendo la finalità, da tutti condivisa, di una riduzione del contenzioso, sgombrando però il campo dell’errato e dal superfluo e concentrando l’intervento su quei casi nei quali vi sia effettiva, concreta possibilità di definizione. È di piena evidenza che, proprio per la sua posizione istituzionale di difensore della parte, ma anche di pubblico ufficiale, l’Avvocato dello Stato, ben prima della nascita degli strumenti deflattivi di cui si discorre, si è sempre inserito nella dialettica processuale come garante della legittimità dell’azione amministrativa. In quest’ottica svolge un ruolo fondamentale la funzione consultiva dell’Avvocatura, che può consentire all’Amministrazione, per un verso, di prevenire un contenzioso inutile o dannoso, e, per l’altro, di definire ove possibile in tempi ragionevoli il contenzioso con una soluzione accettabile per entrambe le parti in contesa. Non può tacersi, per contro, che gli adempimenti necessari per fronteggiare un crescente accesso da parte del privato ai rimedi alternativi di cui si tratta costituiscano per l’Avvocatura dello Stato un aggravio consistente in termini di carico di lavoro, richiedendosi in materia una attività giuridica e soprattutto una presenza “fisica” in luoghi diversi, spesso oggettivamente inconciliabili con i concomitanti impegni professionali degli Avvocati dello Stato. Per accennare a uno solo tra i tanti problemi (che il Legislatore non sembra a suo tempo essersi posto), per l’ente pubblico che intenda agire in una materia per la quale è prevista la mediazione obbligatoria si pone il problema della scelta della struttura cui rivolgersi: scelta che comporta l’impegno di fondi pubblici e impone quindi obblighi contabili che potrebbero giungere addirittura alla necessità dello svolgimento di una procedura selettiva per l’individuazione della struttura. Sembra tuttavia che, anche alla luce di quanto fin qui esposto, sia possibile una ragionevole lettura delle disposizioni che regolano gli ADR in modo tale da contemperare le varie esigenze presenti, riducendo l’intervento concreto dell’Avvocatura alle sole ipotesi in cui lo stesso sia effettivamente utile, ferma restando una costante e generale attività di assistenza dell’amministrazione, in linea peraltro con la funzione consultiva sempre svolta. Come si accennava (cfr. le lettere a), b) e c) che precedono), vi sono dei casi nei quali il rimedio alternativo non è giuridicamente praticabile, o è comunque sostanzialmente privo di utilità perché evidentemente destinato al fallimento. Ragioni di economia nell’attività dei soggetti pubblici suggeriscono in questi casi che l’amministrazione (sempre “sentita l’Avvocatura”) provveda direttamente, e chiarisca con una motivata risposta all’invito alla mediazione o alla negoziazione, eventualmente intervenendo direttamente in sede di primo CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 243 incontro di mediazione, le ragioni che sono di radicale ostacolo al percorso conciliativo. Deve essere altresì possibile per l’Amministrazione intervenire direttamente (ed esclusivamente) nel procedimento in tutti i casi in cui la normativa le consenta di presenziare da sola anche in sede giurisdizionale (si pensi, a titolo esemplificativo, alla previsione degli artt. 2 e 3 del T.u. n. 1611/1933 e di altre disposizioni similari; a non diversa soluzione sembra potersi giungere nelle ipotesi di Amministrazioni che abbiano uffici legali interni e che si avvalgano del patrocinio c.d. “autorizzato” dell’Avvocatura). Sarebbe, in effetti, del tutto irrazionale pretendere l’intervento dell’Avvocatura pubblica in una fase pre-contenziosa laddove poi l’Amministrazione possa difendersi in giudizio da sola. In questi casi la mediazione e la negoziazione assistita non possono che essere per l'Avvocatura dello Stato, sulla base dell'art. 13 del R.D. 1611/1933, strumenti di natura valutativa e non facilitativa, usando una terminologia enucleata dal diritto collaborativo americano (4). un intervento dell'avvocato dello Stato, quale avvocato del processo, così come configurato dal proprio ordinamento interno (R.D. 1611/1933, L. 109/1975), è ipotizzabile nei casi di mediazione e negoziazione delegata dal giudice, quale nuova ipotesi di giurisdizione condizionata (vedi sentenza del 7 luglio 2016 n. 162 della Corte Costituzionale) e di c.d. «giustizia contrattuale », (che non si sottrae, però, al controllo giudiziario), ipotesi che si è profilata con la «convention de procedure participative», nell'ambito dei c.d. MARC (modes alternatifs de reglement des conflits), introdotta dalla legge francese n. 1609 del 22 dicembre 2010 c.d. Loi Beteille, legge a cui si è ispirato il legislatore italiano. Infatti, in tutte le ipotesi di atti successivi all'atto introduttivo del giudizio, ad esempio domanda riconvenzionale, chiamata in causa del terzo, intervento del terzo volontario c.d. principale ex art. 105 c.p.c. primo comma, opposizione a decreto ingiuntivo, essendo già iniziato il giudizio e avendo l'Avvocatura dello Stato già assunto il patrocinio e svolte le proprie difese, nel corso del processo, qualora il giudice rilevi il mancato avveramento della condizione di procedibilità, sarà più agevolata a partecipare alle procedure alternative alla giurisdizione, avendo già assunto una propria linea difensiva nel giudizio pendente. L'Avvocatura dello Stato potrà senz'altro intervenire in grado di appello, essendo tassative le ipotesi di rimessione al giudice di primo grado ex artt. 353 c.p.c. e 354 c.p.c. Infatti, qualora il giudice di appello constati che il giudice di primo grado abbia errato nel non ritenere la questione sottoposta alla procedura di mediazione o di negoziazione assistita, oppure constati che abbia (4) Si pensi all'ADR Movement e alla teoria della cd. multi-door court house, ossia la teoria dell'accesso differenziato alla giustizia, elaborata dal prof. Frank e.A. Sander. RASSegNA AVVoCATuRA 244 DeLLo STATo - N. 3/2018 errato il giudice di primo grado nell'aver respinto l'eccezione di improcedibilità sollevata da una parte in ordine al mancato esperimento delle suddette procedure, dovrà disporre che in tale sede le parti pongano in essere quell'attività di mediazione o di negoziazione assistita mai esperita sino a quel momento. Questo perché il legislatore italiano nel disciplinare gli strumenti alternativi alla giurisdizione ha profilato un certo collegamento tra ADR e processo. Si pensi, ad esempio all'art. 3 comma 4 della legge sulla convenzione di negoziazione assistita n. 162/2014 (cosi come nell'art. 5, comma 3, del D.lgs. 28/2010 in tema di mediazione) che testualmente recita: “l'esperimento del procedimento di negoziazione assistita (o della mediazione) non preclude la concessione di provvedimenti urgenti e cautelari né la trascrizione della domanda giudiziale”. A tal riguardo si è posto il problema dell’operatività della condizione di procedibilità quando sia richiesto un provvedimento cautelare non ad effetti anticipatori, ma conservativi (ad es. un sequestro) che necessita per la vigenza della sua efficacia dell’introduzione del giudizio di merito ex art. 669 octies. Ci si è chiesti se la proposizione della domanda di mediazione o l’invito a stipulare una convenzione di negoziazione assistita precluda la declaratoria di inefficacia del provvedimento cautelare richiesto. Su questa problematica mi soffermerò nel prosieguo della mia relazione prospettando le diverse soluzioni che sono state avanzate. L’Avvocatura dello Stato parteciperà invece certamente all’ADR (oltre che nei casi in cui occorre promuovere la procedura di mediazione obbligatoria) laddove si delineino per la mediazione o la negoziazione concrete possibilità di successo: nel qual caso, oltre a svolgere la normale attività di consulenza per l’Amministrazione, l’Avvocatura si darà carico di intervenire partecipando a quanto necessario per il successo del procedimento, e in primo luogo alla stesura dell’accordo transattivo. occorre rilevare, però, che il campo di elezione dell’attività consultiva dell’Avvocatura dello Stato è rappresentato dai Contratti Pubblici in materia di appalti e concessioni di beni e servizi, i cui strumenti ADR sono disciplinati negli artt. 205-211 del Nuove Codice dei Contratti Pubblici D.lgs. n. 50/2016, modificato dal Correttivo D.lgs. 56/2017. Tali strumenti (abolito l’istituto del Collegio Consultivo Tecnico dopo il parere fornito dalla Commissione Speciale del Consiglio di Stato del 21 marzo 2016 e il parere n. 855 dell’1 aprile 2016) si sostanziano nella figura dell’accordo bonario, della transazione (colpita da notevole disfavore dal legislatore con l’art. 208, in quanto sarà possibile transigere solo a condizione che non siano percorribili le altre strade di risoluzione alternativa della controversia), dell’arbitrato e dei pareri di precontenzioso dell’anac. Mi soffermerò dapprima sulle problematiche poste dall’accordo bonario e dalla transazione che sono di maggiore interesse per i giudici civili, attenendo alla fase dell’esecuzione dei contratti pubblici, per poi affrontare nel prosieguo CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 245 della mia relazione l’istituto dell’arbitrato amministrato e dei pareri di precontenzioso dell’ANAC attinenti alla fase dell’aggiudicazione solo per ragioni di completezza espositiva. Secondo l’art. 205 del D.lgs. n. 50/2016 il ricorso all’accordo bonario, (la cui attivazione è obbligatoria, mentre il previgente art. 240, comma 14, del D.lgs. 163/2016, dopo la legge Merloni bis lo preveda solo come possibilità) per i lavori pubblici (ad esclusione degli appalti nei settori speciali) affidati da Amministrazioni pubbliche o dai concessionari (e lo stesso strumento è previsto, in quanto compatibile, dall’articolo 206 del Nuovo Codice per i contratti di fornitura di beni di natura continuativa o periodica e di servizi) è consentito nel caso in cui vengano iscritte riserve nei documenti contabili per effetto delle quali l’importo economico dell’opera può variare tra il 5% e il 15%. L’accordo bonario non trova spazio in maniera indiscriminata per tutte le variazioni registrate nel corso di esecuzione dei lavori, ma solo per quelle che assumono un rilievo significativo che il legislatore fissa tra il 5% e il 15% dell’importo contrattuale, così da evitare evidentemente un uso distorto dell’istituto, in quanto l’appaltatore potrebbe recuperare artatamente in tale fase il ribasso offerto in sede di gara. L’art. 205 introduce l’obbligatorietà dell’accordo bonario prima della approvazione del certificato di collaudo, di verifica di conformità e di regolare esecuzione, ma vieta la riproposizione di riserve inerenti ad aspetti progettuali che siano stati già verificati, ai sensi dell’art. 26 del Codice (ad esempio completezza della progettazione, appaltabilità della soluzione progettuale prescelta, conformità degli elaborati alla normativa vigente, adeguatezza dei prezzi unitari realizzati, sicurezza delle maestranze e degli utilizzatori, coerenza e completezza del quadro economico in tutti i suoi aspetti). Aver sottratto gli aspetti progettuali alla possibilità di esperire l’accordo bonario riposa su un duplice ordine di ragione. Da un lato l’esigenza di richiamare il Rup alle proprie responsabilità, giacchè egli già nella fase anteriore a quella di aggiudicazione in contraddittorio con il progettista, assevera la validità del progetto, su cui, quindi, verrà stabilito l’importo da porre a base d’asta; sicchè poi risulterebbe incoerente che in fase esecutiva il medesimo Rup ritorni su quegli stessi aspetti per accordare surplus economici all’aggiudicatario. Dall’altro la necessità di garantire la par condicio tra operatori e l’immutabilità delle condizioni contrattuali, sulle quali tutti i partecipanti hanno basato le rispettive offerte economiche, essendo evidente che laddove i predetti aspetti progettuali già verificati potessero originare maggiori pretese dell’aggiudicatario nella fase esecutiva, egli potrebbe in via surrettizia recuperare il proprio ribasso per il quale (anche) l’Amministrazione lo ha prescelto. Il raggiungimento del range tra il 5% e il 15% è richiesto come condizione quantitativa per l’avvio del procedimento in itinere, perché nella fase finale dell’esecuzione, ossia prima dell’approvazione del certificato di collaudo, ovvero di verifica di conformità o del certificato di regolare esecuzione, RASSegNA AVVoCATuRA 246 DeLLo STATo - N. 3/2018 a prescindere dall’importo delle riserve, il Rup deve, comunque, attivarlo, così da tentare di comporre la questione ed evitare azioni giudiziarie. Il ruolo consultivo dell’Avvocatura dello Stato in questa fase è determinante, in quanto deve farsi parte attiva nel segnalare all’Amministrazione il doveroso rispetto della tempistica disciplinata in modo non chiara dall’art. 205 sopracitato. Tale articolo prevede che il Direttore dei lavori, ai fini dell’avvio del procedimento, deve darne immediata comunicazione al Rup, trasmettendo nel più breve tempo possibile una propria relazione riservata. Il Codice non definisce esattamente la tempistica: l’art. 205 prescrive che il direttore esponga le sue motivazioni entro 15 giorni dall’annotazione delle riserve e che il Rup entro 15 giorni dall’annotazione delle riserve (quindi non dall’acquisizione della relazione riservata del direttore, ma dall’adempimento che la precede), dia corso all’iter per l’accordo bonario. Con ciò significando che in ogni caso il termine per il suo avvio è di 15 giorni dalla comunicazione delle riserve, di guisa che più tempo impiegherà il Direttore per elaborare e trasmettere la sua relazione riservata al Rup, meno tempo avrà quest’ultimo per valutarla, avendo entrambi a disposizione un arco temporale di 15 giorni complessivi. In tale contesto, però, varranno i cogenti canoni di buona fede e diligenza nell’esecuzione del contratto che astringe il Direttore alla stazione appaltante ex artt. 1176 c.c. e 1375 c.c., nonché il potere direttivo e sollecitatorio del Rup nei suoi confronti, sicchè è auspicabile una reciproca collaborazione che ripartisca il tempo tra l’uno e l’altro organo, tenendo conto della complessità delle riserve su cui in concreto pronunciarsi. benchè tale termine non sia qualificato dal legislatore come perentorio, quindi ordinatorio, privo di effetti preclusivi e decadenziali, di carattere sanzionatorio, non di meno l’immanente principio di certezza del diritto e delle reciproche posizioni giuridiche, oltre che del diritto di difesa, impongono anche alla stazione appaltante di esercitare il suo diritto/obbligo di apprezzamento delle riserve al fine del bonario componimento nei termini prescritti dal Codice, potendo la sua inerzia indurre l’impresa a ricorrere avverso il silenzio-inadempimento, con inevitabili esposizioni erariali foriere di altrettante responsabilità valutabili e sanzionabili in termini amministrativi e disciplinari. Il ruolo consultivo dell’Avvocatura dello Stato si sostanzierà nel fornire al Rup i seguenti suggerimenti operativi: verificare con particolare attenzione l’ammissibilità delle riserve (dopo l’adempimento di tutti gli obblighi contabili previsti dagli artt. 190 e 191 del DPR 5 ottobre 2010 n. 207 recante il Regolamento di esecuzione ed attuazione del previgente Codice del 2006, non ancora abrogato in parte qua dal D.lgs. 50/2016 nelle more della adozione dei suoi regolamenti attuativi), denegando quelle tardive o formulate in maniera generica, immotivata o non quantificate nel corrispondente importo economico. Questo perché, il riconoscimento di riserve rispetto alle quali l’esecutore risulti ex lege decaduto, comporta responsabilità erariale per il pagamento di CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 247 un debito estinto, la cui somma, peraltro, non è più ripetibile, trattandosi di obbligazione naturale. Del pari, la difesa erariale, condotta negli eventuali successivi giudizi arbitrali o di cognizione ordinaria, dovrà tempestivamente eccepire la decadenza che, ai sensi dell’art. 2965 c.c., incombe sulla parte interessata, non potendo essere sollevata dal giudice, non trattandosi di materia sottratta alla loro disponibilità. Il Rup può optare per la devoluzione della questione ad un esperto, e, in tale ipotesi richiede alla Camera arbitrale l’indicazione di una lista di 5 esperti aventi competenza specifica in relazione all’oggetto del contratto. Tra costoro, egli per la stazione appaltante e il soggetto che ha formulato le riserve per l’aggiudicatario, designano colui che avrà il compito di stendere la proposta motivata di accordo bonario. La piattaforma dell’accordo è formulata dall’esperto entro 90 giorni dalla nomina. Quanto alla natura dell’apporto del terzo, a fronte di coloro che la reputano assimilabile all’arbitrato irrituale, è preferibile la sua assimilazione all’arbitraggio o c.d. biancosegno, ossia alla concorde devoluzione della determinazione del contenuto del contratto dalle parti ad un terzo. Soluzione che esclude l’applicazione dell’art. 808-ter c.p.c. in tema di annullabilità del lodo arbitrale e che restringe la possibilità di impugnazione dell’accordo bonario, ai casi di manifesta iniquità o erroneità, ai sensi dell’art. 1349 c.c., salvo la malafede del terzo. Quanto alla natura dell’atto di arbitraggio, superate le tesi di quella negoziale del mandato con rappresentanza e di quella meramente fattuale, deve reputarsi prevalente quella dell’atto giuridico, avente ad oggetto, appunto, la determinazione di un altrui contratto e che, pertanto, incide non sul contratto stipulato dalle parti, perfettamente valido, ma solo sul rapporto determinandone la prestazione dovuta. Per la predisposizione della piattaforma negoziale sia che a tanto provveda il Rup da sè sia che vi proceda il terzo, il Codice prescrive il rispetto dei principi del contraddittorio, sicchè le riserve andranno verificate e valutate alla presenza di colui che le ha iscritte e del Rup come pure andranno acquisiti da ambo le parti interessate la documentazione, i pareri, i dati ed ogni ulteriore informazione o atto utile a formulare l’accordo, la cui proposta viene trasmessa al dirigente competente della stazione appaltante e all’appaltatore che ha sottoscritto le riserve, affinchè valutino se aderirvi o meno. Nel primo caso entro 45 giorni dalla sua ricezione l’accordo bonario viene concluso e di esso viene redatto apposito processo verbale sottoscritto da entrambi le parti, che ha natura di transazione, con la conseguente applicabilità della disciplina dettata dal successivo articolo 208 del Codice. Quindi: la forma scritta ad substantiam dell’accordo a pena di nullità e la sua sottoposizione a parere obbligatorio del’Avvocatura dello Stato o dell’Avvocatura interna dell’Amministrazione non centrale, qualora l’importo delle concessioni / rinunce superi euro 100.000 o 200.000 in caso di lavori pubblici. RASSegNA AVVoCATuRA 248 DeLLo STATo - N. 3/2018 Decorsi 60 giorni dall’accettazione dell’accordo (quindi dalla adozione della relativa delibera e non dalla sottoscrizione dell’accordo tra le parti che avviene in un successivo momento) devono essere corrisposti gli interessi legali. Nel secondo caso, invece, cui il Codice equipara l’inutile decorso del termine di 45 giorni senza che l’accordo sia concluso, l’appaltatore può adire gli arbitri o il giudice ordinario. Il correttivo ha inserito il comma 6-bis nell’art. 205 che prevede un termine decadenziale unilaterale a carico dell’impresa. Tale comma prevede espressamente che l’impresa, in caso di rifiuto della proposta di accordo bonario ovvero di inutile decorso del termine per l’accettazione, può instaurare un contenzioso giudiziario entri i successivi 60 giorni, termine previsto a pena di decadenza. Il legislatore omette di specificare, tuttavia, quale sia la reale portata della disposizione e, soprattutto, quale sia l’effetto processuale dell’eventuale mancanza del “previo esperimento del tentativo di accordo bonario”, ovvero della proposizione immediata dell’azione giudiziaria senza attendere il decorso del termine prefissato. In altri termini l’art. 205 non qualifica espressamente l’accordo bonario come condizione di procedibilità. Se si volesse optare per la cogenza del rimedio alternativo e per la sua natura di implicita condizione di procedibilità della domanda, sarebbe evidente l’obbligo del Rup di avviare l’iter per l’accordo bonario altrimenti privandosi l’appaltatore di un’adeguata forma di tutela delle sue possibili ragioni. L’ultimo coma dell’art. 205, infatti, non equipara al mancato accordo l’inutile decorso del termine di avvio e conclusione del procedimento a cura del Rup e/o dell’esperto, ma solo l’inutile decorso del termine di 45 giorni per la sottoscrizione dello stesso, di talchè il reale problema è quello di stabilire quale sia la forma di tutela accordata all’appaltatore in caso di inerzia ed omesso input dell’iter di cui trattasi, considerato che anche il nuovo Codice omette di fissare alla stazione appaltante un termine spirato inutilmente il quale, l’operatore economico possa comunque adire l’autorità giudiziaria o compromettere la questione in arbitrato. benchè, infatti, trattasi di rapporti iure privatorum che dovrebbero indurre ad escludere prerogative pubblicistiche in favore della Pubblica Amministrazione, non di meno l’assenza di un termine finale, decorso il quale, anche in mancanza di avvio della procedura, l’appaltatore possa adire l’autorità giudiziaria, ne pregiudica non poco la tutela, aggravata anche dall’assenza di un termine entro il quale la Camera Arbitrale è tenuta a riscontrare la richiesta di invio della lista di 5 esperti da parte del Rup. Pertanto, nella vistosa lacuna legislativa, potrebbe ripiegarsi: o sulla impugnazione del silenzio serbato sull’obbligo di provvedere ad avviare il procedimento di accordo bonario imposto al Rup o di formulare entro 90 giorni in proprio la proposta transattiva; ovvero sulla procedibilità della domanda CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 249 giudiziaria, decorso il termine di 15 giorni senza che il Rup abbia o richiesto alla Camera arbitrale la lista di 5 esperti, tra i quali designare il terzo che provveda ad elaborare il testo dell’accordo, ovvero a tutto voler concedere entro i 90 giorni dalla comunicazione delle riserve senza che il Rup abbia articolato una piattaforma negoziale per il componimento consensuale della questione. La prima tesi la prevalenza al potere autoritativo della stazione appaltante che permane anche nella fase esecutiva quante volte origini dalla necessità di tutelare gli interessi pubblici (in tal caso erariali). La seconda risulta più aderente alla natura iure privatorum della gestione del contratto. Quale che sia l’opzione prescelta, resta ferma la responsabilità del Rup sotto il profilo amministrativo, disciplinare ed erariale per i maggiori danni derivanti dalla mancanta attivazione del procedimento di accordo bonario, in termini non solo di mancato risparmio in ipotesi di transazione, ma anche di lievitazione degli interessi medio tempore maturati dalla sorte capitale oltre che di specie giudiziarie. L’analisi tecnica della procedura di accordo bonario (istituto che ha superato, comunque, la parabola poco felice dell’art. 243 bis del vecchio Codice appalti, ossia l’informativa dell’intento di proporre ricorso) costituisce un chiaro esempio delle difficoltà operative che incontra l’Avvocatura pubblica nel voler suggerire alla P.A., nell’ambito di un’intricata commistione tra disciplina privatistica e disciplina pubblicistica della materia in esame, la c.d. Procedimentalizzazione degli strumenti alternativi alla giurisdizione. Sembra che una lettura “elastica” e costruttiva delle disposizioni sui rimedi alternativi per la definizione delle controversie quale quella suggerita nelle pagine che precedono con riferimento alla partecipazione agli stessi delle Amministrazioni pubbliche e dei loro difensori sia pienamente conforme allo spirito delle norme, e possa contribuire, con la collaborazione di tutte le parti coinvolte, all’auspicato risultato di una riduzione del contenzioso. A ciò l’Avvocatura pubblica intende contribuire pienamente, rendendosi fattivo protagonista per tendere agli obiettivi posti nella Carta fondamentale per una giustizia più celere ed efficace. Volendo svolgere un’analisi comparatistica, ci si rende conto che gli altri paesi europei nella fase di implementazione della direttiva n. 52/2008 non hanno fatto espresso riferimento alle Avvocature Pubbliche. Nelle controversie pubblicistiche è sempre presente un vaglio giurisdizionale condotto da un giudice che ha esclusivi poteri conciliativi (si pensi alla legge federale tedesca del 2012 la “mediation gesetz”), ed anche quando sono previste delle Commissioni Amministrative Indipendenti (si pensi all’art. 771 “c.d. Commissioni urbanistiche” del codice di giustizia amministrativa francese) le loro decisioni non sono mai vincolanti per la pubblica amministrazione, ma devono essere trasfuse per così dire in un provvedimento amministrativo o in un accordo di diritto pubblico. Ciò comprova che risulta immanente un profilo autoritativo nell’ambito delle controversie che investono interessi pubblici. RASSegNA AVVoCATuRA 250 DeLLo STATo - N. 3/2018 Ma procediamo con ordine. Per compiere una proficua analisi comparativa occorre partire dalle origini culturali degli ADR. origini. “Le moderne teorie sui modelli alternativi di definizione del contenzioso sono nate negli Stati uniti negli anni 50 per propagarsi in tutti i sistemi giuridici occidentali, e proprio negli Stati uniti e` stata coniata l’espressione Alternative Dispute Resolution (ADR)” (5). Storicamente l'ADR movement ha preso l'avvio negli Stati uniti di America per una “combinazione di elementi politici, culturali, antropologici e una propensione alla definizione conciliativa decisamente favorita sia dalla legislazione sostanziale sia dalla struttura del processo e dalla funzione, in particolare, della fase pre trial volta al raggiungimento, per quanto possibile, di un Settlement onde non pervenire al trial” (6) ed evitare così la Litigation explosion. Il momento determinante è da individuare nella c.d. Pound Conference, svoltasi nel 1976 a Saint Paul (Minnesota) e organizzata dall'American bar Association, dalla Judicial Conference degli Stati uniti e dalla Conference of Chief Justices, durante la quale furono formulate alcune proposte volte a soddisfare la necessità di un cambiamento nel sistema giudiziario, tra cui quella elaborata da Frank e.A. Sander il quale “introdusse il concetto della Multidoor Courthouse ossia l’idea, già consolidata nella prassi, di una pluralità di soluzioni o strumenti che possono essere utilizzati per gestire una lite” (7). egli propose “di ripensare completamente il rapporto tra processo e ADR, non in termini di subordinazione dei secondi al primo, ma di alternatività in base alla specifica domanda di giustizia. e, dunque, propose di guardare al processo non come l'unica risposta, comunque non necessariamente la più adeguata, rappresentando esso una delle tante ‘porte’, accanto agli ADR. La teoria della c.d. Multi-door Court house (mediazione, arbitrato, processo e così via) aprì definitivamente le porte all'accettazione dell'idea di un accesso alla giustizia diversificato e all'affermazione del valore dell'autodeterminazione delle parti nella gestione del conflitto” (8). L'istituzionalizzazione dell'ADR movement si ebbe con il Civil Justice Reform Act del 1990 (c.d. biden bill) e l'Alternative Dispute Resolution Act del 1998, in seguito ai quali vennero elaborati e si diffusero vari modelli di ADR. L’efficacia ordinamentale e la preoccupazione di assicurare al cittadino (5) CARLIA., i metodi alternativi di risoluzione delle controversie, l’arbitro bancario finanziario, tesi dottorato, università degli studi di Padova, 2011 p. 8. (6) DALFINo D., mediazione civile e commerciale, Zanichelli, bologna 2016, p. 8. (7) CAPuTI g., MANTINI P., Contenzioso dinanzi al giudice amministrativo e rimedi alternativi al ricorso giurisdizionale, in italiappalti.it, 2016. (8) DALFINo D., mediazione civile e commerciale, Zanichelli, bologna 2016, p. 11. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 251 una più rapida tutela sono state le motivazioni principali che la dottrina nordamericana ha adottato per sostenere l’introduzione degli ADR. Anche a livello europeo, a partire dagli anni Novanta, si è guardato con favore all’introduzione di tali strumenti deflattivi del contenzioso (9) e si è presto sentita la necessità di intervenire per garantire la risoluzione delle controversie in modo ampio ed efficace. I primi approcci delle istituzioni europee al tema degli ADR hanno riguardato normative di settore, ed in particolare, sin dagli anni 70, il settore della tutela dei consumatori. Tuttavia, a livello europeo, al di là degli interventi normativi settoriali, due dei principali fattori di sensibilizzazione degli Stati membri al tema delle ADR sono stati il Consiglio europeo di Tampere nel 1999 (10) e, in seguito, l’adozione del Libro Verde del 19 aprile 2002, della Commissione europea sui “modi alternativi di risoluzione delle controversie di diritto civile e commerciale”. Con tale documento viene attribuito al termine statunitense ADR un significato generale e universale indicante ogni procedura alternativa di risoluzione delle controversie. Nella premessa si legge infatti: “I modi alternativi di risoluzione delle controversie saranno pertanto designati in appresso con l’acronimo che tende ad imporsi universalmente nella pratica: ‘ADR’, che sta per ‘Alternative Dispute Resolution”. Il Libro Verde riconosce nello sviluppo degli ADR una priorità politica “per le istituzioni dell’unione europea cui spetta il compito di promuovere tali metodi alternativi, di garantire il miglior contesto possibile per il loro sviluppo, e di cercare di garantirne la qualità”. Nel punto 9 del medesimo testo viene inoltre specificato che: “l’aDr svolge un ruolo complementare rispetto ai procedimenti giurisdizionali, in quanto i metodi adottati nell’aDr spesso sono più adatti alla natura delle controversie. L’aDr può cosi` permettere alle parti d’instaurare un dialogo, che sarebbe altrimenti stato impossibile, e di valutare esse stesse l’opportunità di fare ricorso al giudice”. Tra i vari interventi che hanno seguito l’adozione di tale Libro, si ricorda la Direttiva 2008/52/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, con la quale si corona “la priorità politica di incentivare la giustizia ‘alternativa’ e di garantire il miglior contesto possibile per il suo sviluppo” (11). La Direttiva si riferisce espressamente alla mediazione in materia civile e commerciale ed ha, come riportato al considerando n. 2, lo scopo di agevolare un miglior accesso alla giustizia in attuazione alle deliberazioni adottate nella riunione di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999. L’obiettivo della Direttiva è delineato chiaramente dall’art. 1, secondo (9) CAPuTI g., MANTINI P., Contenzioso dinanzi al giudice amministrativo e rimedi alternativi al ricorso giurisdizionale, in italiappalti.it, 2016. (10) In questa occasione si auspicava che gli stati membri predisponessero procedure extragiudiziali alternative. (11) DALFINo D., mediazione civile e commerciale, Zanichelli, bologna 2016, p. 26. RASSegNA AVVoCATuRA 252 DeLLo STATo - N. 3/2018 cui “La presente direttiva ha l’obiettivo di facilitare l’accesso alla risoluzione alternativa delle controversie e di promuovere la composizione amichevole delle medesime incoraggiando il ricorso alla mediazione e garantendo un’equilibrata relazione tra mediazione e procedimento giudiziario”. regno unito Nel Regno unito, soprattutto dopo l'entrata in vigore delle Civil Procedure Rules nel 1999 è chiaro il favor nei confronti delle soluzioni di tipo conciliativo, particolarmente in Inghilterra e galles (12). “In effetti, le CPR guardano al processo, e alla sentenza in particolare, come residual resort, denotando una conseguente forte propensione verso forme di composizione consensuale della lite, in particolare, attraverso l'intervento stimolatorio del giudice, che può manifestarsi sia direttamente, sotto forma di «invito» alla instaurazione di un percorso conciliativo sia, indirettamente, sotto forma di fissazione di udienze apposite nelle quali vagliare l'atteggiamento collaborativo delle parti verso la soluzione concordata del caso” (13). Nel Regno unito a seguito della riforma del 1999 si è sensibilmente ridotto il tasso di litigiosità ed anche il numero di cause decise (14). Francia Anche in Francia l'uso dello strumento conciliativo-mediativo ha avuto uno sviluppo notevole che ha portato poi a distinguere varie forme di composizione delle controversie all’interno dello stesso modello alternativo. Nell'ambito dei modes alternatifs de reglement des conflits (cd. MARC, acronimo corrispondente a quello di matrice anglosassone ADR) si distinguono la conciliation e la mediation, e l'istituto che si avvicina di più alla negoziazione assistita e che ha ispirato la legge italiana è la c.d. Convention de procedure participative, introdotta dall'art. 37 legge 1609 del 22 dicembre 2010 (c.d. Loi beteille), chiaro esempio di «giustizia contrattuale», che non prescinde, però, dal controllo giudiziario. Germania In germania, già prima del recepimento della direttiva 2008/52/Ce (15), sussisteva, nel modello mediativo-conciliativo, “la classica dicotomia tra giu- (12) Cfr. De LuCA, La mediazione in Europa. una questione di cultura e non di regole, in riv. dir. civ., 2013, 1478. (13) DALFINo D., mediazione civile e commerciale, Zanichelli, bologna 2016, p. 45. (14) La direttiva 2008/52/Ce è stata recepita in Inghilterra con gli Amendments del 2011 alle Civil Procedure Rules, nonchè con le Cross-border Mediation (euDirective) Regulations 2011(88/2011). (15) La direttiva 2008/52/Ce è stata attuata con la legge in vigore dal 26 luglio 2012 (Mediationgesetz). CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 253 diziale e stragiudiziale con peculiari e importanti varianti” (16). Ad esempio, nell'ambito della mediazione giudiziale si distinguono una mediazione condotta direttamente dal giudice (integrierte mediation), ed un’altra “demandata sì ad un giudice, ma con esclusive funzioni conciliative e quindi privo dei poteri decisori in ordine alla controversia in atto (gerichtsinterne mediation in senso stretto)” (17). essendo già presente la figura del giudice conciliatore, si è discusso se tale figura andava conservata o se andava invece considerata sostituita dalla figura del mediatore in senso stretto zertifizierter mediator. Tra la proposta del governo (favorevole non soltanto alla sua semplice sopravvivenza, ma anche alla sua regolamentazione) e quella del rechtsausschuss des Bundestags (volta alla sua soppressione) ha prevalso la prima posizione. Questo a dimostrazione che occorre comunque, dare prevalenza al controllo giudiziario. Spagna In Spagna, fino alla legge 15/2005, l'interesse verteva principalmente sulla mediazione familiare. Tale legge ha rappresentato il primo tentativo di risistemazione dell’istituto, anche se sempre nell’ambito della separazione e del divorzio. In seguito “progressivamente è maturata l'idea che la mediazione potesse rappresentare un metodo efficace di risoluzione delle controversie ed entrare a pieno titolo nel novero degli ADR. Di questo processo di maturazione e affermazione danno senz'altro conferma il c.d. Plan Estrategico de modernizaciòn de la Justicia 2009-2012, ma soprattutto il Real Decreto-Ley 5/2012 e la successiva Ley 5/2012 del 6 de julio («de mediacion en asuntos civiles y mercantiles»), in vigore dal 27 luglio 2012, abrogativa del precedente Real Decreto-Ley, che insieme rappresentano i due steps di recepimento della direttiva 2008/52/Ce, avvenuto non soltanto con l'introduzione di una normativa ad hoc, ma anche attraverso la modifica della Ley 1/2000 de 7 de enero, de enjuinciamiento Civil” (18). In Spagna, per quanto riguarda la mediazione, è fermo il principio della indefettibilità del diritto di «accesso alle corti» (19) e vige il principio della volontarietà della procedura e delle libertà delle parti di scegliere se seguire e se proseguire la via della mediazione. L'unica forma di obbligatorietà prevista dalla Ley 5/2012 è quella che le parti possono istituire sottoscrivendo clausole contrattuali di mediazione con le quali si obbligano, in caso di controversia, a non adire il giudice prima di aver sperimentato la via di composizione stragiudiziale (art. 6, comma 2, legge cit.). (16) DALFINo D., mediazione civile e commerciale, Zanichelli, bologna 2016, p. 62. (17) ibidem. (18) ivi, p. 71. (19) Cfr. art. 47 Carta di Nizza e art. 6 CeDu. RASSegNA AVVoCATuRA 254 DeLLo STATo - N. 3/2018 italia In Italia “il sistema della giustizia si è andato costruendo nel tempo e definendo nel 2010 intorno a tre pilastri che sembrano connotarlo ormai in un modo che appare stabile e definitivo. Per la soluzione delle controversie nell'area dei diritti disponibili il sistema giustizia si presenta oggi - in una coraggiosa e competitiva sinergia tra apparati pubblici e organismi privati - come insieme di alternative interscambiabili caratterizzate ciascuna da differenti fattori di appetibilità e di fattibilità” (20). PRIMo PILASTRo Mediazione e negoziazione assistita: Decisione consensuale su diritti disponibili. SeCoNDo PILASTRo Risoluzione arbitrale: Decisione delegata su diritti disponibili. TeRZo PILASTRo giurisdizione: Decisione contenziosa su diritti indisponibili o disponibili (21). Il primo pilastro è costituito oggi dalla mediazione civile e commerciale e dalla negoziazione assistita e dunque si caratterizza per la decisione consensuale sui diritti disponibili. Il D.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, ha esteso in modo molto significativo alla maggior parte delle controversie civili e commerciali relative a diritti disponibili l’ambito di applicazione della mediazione, fino a quel momento praticata soprattutto in ampi settori delle relazioni commerciali e industriali. “Si tratta di un pilastro rinvenibile nell'esperienza giuridica di molti altri Paesi e che ha raggiunto nell'ambito della giustizia una propria dignità di sistema consensuale a prescindere ed oltre le esigenze di deflazione del carico giurisdizionale. La potenzialità deflattiva di questo sistema di risoluzione alternativa dei conflitti non è più, dunque, considerata la sua funzione primaria che va, invece, rintracciata nel suo ruolo parallelo di sistema di giustizia basato sul consenso e non sulla coazione. il termine “conciliazione”, che prima di oggi connotava da solo nel linguaggio comune sia la procedura tesa alla soluzione consensuale di una controversia sia l'atto in sé dell'accordo, è stato molto opportunamente sostituito da quello di “mediazione finalizzata alla conciliazione (20) DoSI g., La mediazione e l'arbitrato irrituale nelle riforme del 2010, Contratto e impr., 2011, 1, 226 ss. (21) Schema ripreso da DoSI g., La negoziazione assistita da avvocati, giappichelli, Torino 2016, p. 19. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 255 della controversia” o di negoziazione assistita da avvocati, che riesce a dare meglio l'idea della circostanza che per giungere a risolvere una controversia è necessario un percorso di avvicinamento che, sia pure senza particolari formalismi, deve pur sempre avere un proprio setting senza il quale perderebbe la propria plausibilità” (22). L'arbitrato è il secondo pilastro della giustizia, nelle forme sia del tradizionale arbitrato rituale sia di quello irrituale previsto nell'art. 808-ter c.p.c. (23). Il terzo pilastro resta quello della giurisdizione, nel rispetto irrinunciabile del diritto di chiunque di agire in giudizio per la tutela contenziosa dei propri interessi e dei propri diritti, disponibili e non disponibili (24). Delineati tali brevi riferimenti comparatistici per comprenderne la portata culturale, occorre ora analizzare nello specifico i singoli istituti e delinearne gli aspetti problematici. Tipologie di aDr: La convenzione di negoziazione assistita. L’istituto della negoziazione assistita, disciplinato dal d.l. n. 132/2014, convertito nella l. n. 162/2014, consiste in un accordo, detto convenzione di negoziazione, mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole una controversia, intendendo con ‘in via amichevole’ che il “setting della negoziazione non deve essere quello antagonista e formale che caratterizza il contesto giudiziario” (25). La matrice culturale di tale procedura è il diritto collaborativo, nato negli Stati uniti per disciplinare le cause di separazione e praticato in Italia soprattutto dagli avvocati che fanno riferimento all'Associazione italiana degli avvocati di diritto collaborativo e all'Istituto italiano di diritto collaborativo. La negoziazione è una procedura pensata in origine per i conflitti familiari ma oggi, con il d.l. 132/2014, è stata prevista per tutte le controversie riguardanti diritti disponibili (26). (22) DoSI g., La negoziazione assistita da avvocati, giappichelli, Torino 2016, p. 15. (23) L’arbitrato irrituale è stato introdotto dal D.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 ed è previsto dall’art. 808 ter c.p.c. dove si legge che “le parti possono [...] stabilire che la controversia sia definita dagli arbitri mediante determinazione contrattuale”. (24) DoSI g., La negoziazione assistita da avvocati, giappichelli, Torino 2016, p. 18, “Il nostro sistema processuale civile, pur soffrendo di rigidità tali che pensare di modificarlo con qualche ritocco è utopistico, continua ad apprestare faticosamente tutele nei tradizionali settori della cognizione, dell'esecuzione e delle garanzie cautelari, nei quali si sono sovrapposte negli ultimi anni insieme a riforme coraggiose, spesso retromarce veloci e molte promesse di semplificazione. Considerate le dimensioni dello sforzo riformatore necessario e l'intasamento delle aule di giustizia, non si può escludere che, ove il trend in tema di procedure alternative riuscisse ad incoraggiare riforme più radicali, il contenuto della giurisdizione possa circoscriversi un giorno alla tutela dei soli diritti indisponibili e al controllo sulle decisioni rese nell'ambito dei sistemi alternativi”. (25) DoSI g., La negoziazione assistita da avvocati, giappichelli, Torino 2016, p. 19. RASSegNA AVVoCATuRA 256 DeLLo STATo - N. 3/2018 Anche se nella maggior parte dei casi la negoziazione assistita è un rimedio alternativo facoltativo, in alcuni casi è condizione di procedibilità dell’azione giudiziaria, che deve dunque essere necessariamente preceduta da un invito alla negoziazione assistita. In questi casi il tentativo di conciliazione da facoltativo diventa obbligatorio. È dunque possibile individuare 3 tipi di negoziazione assistita: 1) negoziazione assistita obbligatoria come condizione di procedibilità della eventuale domanda giudiziale nel senso che è obbligatorio il tentativo di negoziazione nei due casi di: a) risarcimento dei danni dalla circolazione di veicoli; b) pagamento a qualsiasi titolo di somme di denaro il cui importo non è superiore complessivamente a 50.000 euro (fuori dalla prima ipotesi e dai casi di invito obbligatorio alla mediazione civile); 2) negoziazione assistita delegata dal giudice tutte le volte in cui egli rilevi non oltre la prima udienza che l'invito alla negoziazione assistita, nei casi di condizione di procedibilità, non sia stata esperita. A differenza di quanto prevede per la mediazione civile, il comma 2 dell'art. 5 del D.lgs. 28/2010, il giudice non ha il potere al di fuori della ipotesi indicata di disporre in altri momenti del processo la negoziazione assistita; 3) negoziazione assistita facoltativa per tutte le altre controversie su diritti disponibili con la precisazione importante che alla negoziazione facoltativa le parti potrebbero accedere anche nel corso del processo già avviato, esattamente come possibile anche in sede di mediazione facoltativa. La negoziazione assistita obbligatoria è stata oggetto del giudizio della Corte Costituzionale poiché ha affrontato la questione di una eventuale sovrapposizione tra condizioni di procedibilità della domanda giudiziale (in particolare la sovrapposizione tra il nuovo istituto della negoziazione assistita ed altre procedure stragiudiziali già previste in forma obbligatoria) (27). La questione riguardava la possibilità che in tali casi le parti fossero obbligate, prima di poter accedere al processo, ad esperire due procedimenti finalizzati alla risoluzione stragiudiziale delle controversie. La Corte Costituzionale si è espressa a riguardo con la sentenza n. 162 del 7 luglio 2016, con la quale ha ritenuto infondata la questione di legittimità dell’art. 3, comma 1, d.l. 132/2014, sollevata dal giudice di pace di Vietri di Potenza con ordinanza del 27 luglio 2015 nel corso di un procedimento civile avente ad oggetto il risarcimento di danni causati da circolazione stradale, richiesti dal danneggiato nei confronti della propria impresa assicuratrice, ai (26) L’art. 2 comma 2 lett. b stabilisce che la convenzione di negoziazione deve precisare l'oggetto della controversia, che non deve riguardare diritti indisponibili. (27) Per esempio la mediazione obbligatoria prevista dall’art. 5, comma 1-bis, D.lgs. n. 28/2010, ma anche la procedura stragiudiziale obbligatoria prevista dall’art. 145, D.lgs. n. 209/2005 (Codice delle assicurazioni private), e quella prevista, nel settore delle telecomunicazioni, ex art. 1, comma 11, l. n. 249/1997. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 257 sensi dell'art. 149 del D.lgs. 7 settembre 2005 n. 209 (Codice delle assicurazioni private) (28). L'azione era stata introdotta senza che l'attore avesse esperito il procedimento di negoziazione assistita prescritta quale "condizione di procedibilità della domanda giudiziale" dall'art. 3, comma 1, d.l. 12 settembre 2014 n. 132 convertito con modificazioni, dalla L. 10 novembre 2014 n. 162 e il giudice aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale. La Corte Costituzionale ha ritenuto infondata nel merito la questione, affermando che sbaglia il giudice a quo “nel ritenere che la negoziazione assistita sia un "inutile doppione" della cosiddetta "messa in mora" di cui agli artt. 145, 148 e 149 del D.lgs. 209/2005 (Codice delle assicurazioni private), e che, di conseguenza, essa irragionevolmente arrechi un vulnus al diritto di difesa con il "rinviare sine die" la tutela risarcitoria di soggetti danneggiati da circolazione di veicoli e natanti”. gli articoli 145, 148 e 149 del D.lgs. 209/2005 “attengono ad una fase stragiudiziale che si svolge direttamente tra le parti e che il legislatore del 2005 ha previsto nella prospettiva di rendere, già in tale momento, una anticipata e satisfattiva tutela del danneggiato. Diversa, invece, è la finalità (e differenti sono la natura e le modalità) della "negoziazione assistita" introdotta dall'art. 2 del d.l. n. 132/2014 che il successivo art. 3 ha reso obbligatoria per le controversie in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti. una tale "negoziazione" presuppone che (nel contesto della procedura di messa in mora) l'offerta risarcitoria non sia stata ritenuta satisfattiva dal danneggiato, ovvero che non sia stata neppure formulata dall'assicuratore. È a questo punto, infatti, che si inserisce il meccanismo predisposto dalla normativa denunciata” (29). Con riferimento specifico alla negoziazione, i profili di incompatibilità di tale procedura con le controversie che interessano l’Avvocatura dello Stato sono diversi: in primo luogo basti pensare che l’art. 2 comma 1 bis della legge recita espressamente: «È fatto obbligo per le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165, di affidare la convenzione di negoziazione alla propria avvocatura, ove presente». orbene, che l’Avvocatura dello Stato esista e sia presente, è un fatto innegabile e è altrettanto innegabile che prima di tale legge l’Avvocatura dello Stato avesse il patrocinio obbligatorio delle Amministrazioni statali. Se tale norma si riferisse all’Avvocatura dello Stato sarebbe, pertanto, una norma superflua. (28) Il giudice a quo denunciava che l’introduzione di una ulteriore condizione di procedibilità, che si sovrappone alla condizione di proponibilità già prevista dagli artt. 145 e segg., del D.lgs. 209/2005, in tema di azioni risarcitorie del danno da circolazione di veicoli, risulti essere “del tutto irragionevole oltre che inutile” avendo “il solo fine di rinviare sine die l’inizio del contenzioso”, con ciò appunto violando gli artt. 3 e 24 Cost. (29) Corte Cost. sentenza n. 162 del 7 luglio 2016, par. 3.1. RASSegNA AVVoCATuRA 258 DeLLo STATo - N. 3/2018 La norma, invece, sembra riferirsi con la locuzione “ove presente” alle Avvocature Pubbliche incardinate all’interno della Pubblica Amministrazione o, comunque, agli uffici Legali delle Amministrazioni Pubbliche. L’Avvocatura dello Stato è, invece, un istituto autonomo, non incardinato all’interno della Pubblica Amministrazione. L'autonomia dell'Istituto è stata prevista per consentire una maggiore oggettività nella funzione consultiva volta ad orientare l’attività amministrativa. un ulteriore dato relativo alla convenzione di negoziazione assistita che pone delle difficoltà all'Avvocatura dello Stato è quello relativo alla matrice culturale di tale procedura, il cui setting deriva dal c.d. diritto collaborativo, nato, come già accennato, nel contesto delle cause di separazione negli Stati uniti e praticato nel nostro paese dagli avvocati che fanno soprattutto riferimento all'Associazione italiana degli avvocati di diritto collaborativo e all'Istituto italiano di diritto collaborativo. Ma è noto che questo tipo di cause non coinvolgono l'Avvocatura dello Stato. ed ancora, se si prendono in considerazione quelle norme che, prevedendo obblighi di informazione che il difensore deve fornire alle parti o richiedendo l’iscrizione dello stesso ad un albo professionale, lasciano facilmente intuire che siano inapplicabili alle parti pubbliche ed ai loro difensori. Ad esempio il comma 6 dell’art. 2 della legge 10 novembre 2014 n. 162 recita espressamente: «Gli avvocati certificano l’autografia delle sottoscrizioni apposte alla convenzione sotto la propria responsabilità professionale». Sappiamo però che gli avvocati dello Stato non hanno il potere di certificazione delle sottoscrizioni da parte del proprio cliente, che non è una persona fisica ma è costituito da una parte pubblica. La norma sembra presupporre un potere di certificazione (ex art. 83, comma 3 c.p.c.) che preesiste alla disciplina della convenzione di negoziazione assistita e che è propria dell’avvocato libero professionista, così come negli altri paesi europei. Nei paesi di common law, ad esempio, tale potere di certificazione delle firme spetta alla figura del lawyer (avvocato del libero foro che in tali sistemi può certificare anche atti di compravendita immobiliare), ma non certo a quella del Public attorney (avvocato pubblico). A riprova di quanto sopra affermato, basti ricordare che tale potere di certificazione viene previsto anche nell’art. 4 “Non accettazione dell’invito e mancato accordo”. I poteri di certificazione a cui fa riferimento l’art. 4, ai commi 2 e 3, e l’art. 5, non rientrano nelle competenze dell’Avvocato dello Stato. Appare arduo ritenere, infatti, che l'Avvocato dello Stato debba certificare la firma del Direttore generale di un Ministero o di un funzionario delegato a rappresentare l'Amministrazione nella procedura di negoziazione assistita oppure se conduce la negoziazione senza il legale della parte privata (ipotesi contemplata dalla suddetta legge) debba poi certificare la firma della stessa. Nell’ambito della negoziazione un altro profilo di incompatibilità riguarda l’art. 11 “raccolta dei dati”. ed invero il comma 1 del suddetto articolo pre CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 259 vede che «i difensori che sottoscrivono l’accordo raggiunto dalle parti a seguito della convenzione sono tenuti a trasmetterne copia al consiglio dell’ordine circondariale del luogo ove l’accordo è stato raggiunto, ovvero al consiglio dell’ordine presso cui è iscritto uno degli avvocati». Appare evidente in questa disposizione l’assoluta incompatibilità della disciplina in esame con la figura dell’Avvocato dello Stato, in quanto quest’ultimo non è iscritto in nessun albo professionale. Dunque, poiché, come già sottolineato, gli Avvocati che fanno parte dell’Avvocatura dello Stato non risultano iscritti a nessun albo professione, e poiché la negoziazione è “un accordo mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza di avvocati iscritti all’albo”, per le cause di incidenti stradali, (cosi come per le cause concernenti il pagamento di una somma fino a 50.00 euro), per le quali è prevista la negoziazione obbligatoria, l'Avvocatura potrà porre in essere una negoziazione assistita esclusivamente di tipo valutativo e non facilitativo, in base all'art. 13 del R.D. 1611/1933 che prevede una sua ampia funzione consultiva per l'attività della Pubblica Amministrazione. In altri termini, in caso di attività svolta iure privatorum e non in via autoritativa, l'invito alla negoziazione dovrà essere inoltrato direttamente all'Amministrazione che con i propri funzionari facenti parte degli uffici legali dei vari Ministeri e/o enti (legittimati a porre in essere procedure conciliative in base agli articoli 2 e 3 del R.D. 1611/1933) potrà iniziare delle trattative con la controparte e predisporre una bozza di convenzione di negoziazione assistita da sottoporre all'esame e alla valutazione dell'Avvocatura dello Stato. Ciò si sta verificando, ad esempio per le convenzioni di negoziazioni assistite relative alle depositerie giudiziarie. È ragionevole inoltre sostenere che l'Avvocato dello Stato, quale avvocato del processo così come configurato dal proprio ordinamento interno (R.D. 1611/1933, L. 109/1975), potrà intervenire nella negoziazione assistita delegata, quale nuova ipotesi di giurisdizione condizionata. È possibile, altresì, profilare un intervento dell'Avvocatura dello Stato nella negoziazione assistita e nella mediazione in tutte le ipotesi di atti successivi all'atto introduttivo del giudizio, ad esempio la domanda riconvenzionale (30), la chiamata in causa del terzo (31), l’intervento del terzo volontario (30) Cfr. Tribunale Verona, ordinanza del 12 maggio 2016, così massimata: “Anche le domande spiegate in via riconvenzionale, qualora incidano su una delle materie elencate dall'art. 5, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 28/2010, sono sottoposte al tentativo obbligatorio di mediazione civile e commerciale; ne consegue che, qualora il procedimento sia già stato esperito, ma con riferimento alle sole domande principali, il giudice dovrà assegnare un termine per la sua rinnovazione” (Quotidiano Giuridico, 2016). A sostegno della tesi secondo cui l’obbligo di mediazione per le materie di cui all’art. 5, D.lgs. 28/2010 non si limita alle sole domande proposte dall’attore negli atti introduttivi, si riporta anche l’ordinanza del Trib. Como, sez. di Cantù, 2 febbraio 2012, nella quale si legge: “l’esclusione della mediazione per RASSegNA AVVoCATuRA 260 DeLLo STATo - N. 3/2018 c.d. principale, ai sensi dell'art. 105, primo comma, (nessuna questione è invece destinata a porsi in caso di intervento adesivo dipendente, ai sensi dell'art. 105 II comma c.p.c., posto che l'interventore non propone alcuna domanda nuova e dunque non allarga l'ambito oggettivo del processo), e l’opposizione a decreto ingiuntivo. Relativamente a quest’ultima, la Cassazione con la sentenza del 3 dicembre 2015 n. 24629 ha chiarito che l'onere della mediazione obbligatoria incombe sull'ingiunto opponente con conseguente improcedibilità dell'opposizione e passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo in caso di inosservanza. Fino a tale intervento la giurisprudenza si era dimostrata ondivaga e faceva ricadere tale onere talvolta sull’opposto, talvolta sull’opponente. L’intervento chiarificatore è intervenuto dunque con la sentenza della Corte di Cassazione che ha stabilito che “È dunque sull'opponente che deve gravare l'onere della mediazione obbligatoria perché è l’opponente che intende precludere la via breve per percorrere la via lunga. La diversa soluzione sarebbe palesemente irrazionale perché premierebbe la passività dell'opponente e accrescerebbe gli oneri della parte creditrice” (32). Quanto detto è stato confermato dalla recente giurisprudenza di merito (33), anche se non mancano decisioni in contrasto con la suddetta sentenza (34). In tutti i casi sopraesposti, essendo già iniziato il giudizio e avendo l'Avvocatura dello Stato già assunto il patrocinio e svolte le proprie difese, nel corso del processo, qualora il giudice rilevi il mancato avveramento della condizione di procedibilità, sarà più agevolata a partecipare alla procedura di negoziazione assistita e mediazione, avendo già assunto una propria linea difensiva nel giudizio pendente. Resta il dubbio se debba esperirsi il procedimento della mediazione o negoziazione assistita nel caso in cui l'attore scelga di proporre la domanda attraverso le forme di cui agli art. 702 bis e segg. del codice di procedura civile (procedimenti sommari di cognizione) (35). la domanda riconvenzionale determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento fra l’attore - il quale solo sarebbe tenuto a proporre la mediazione sulla sua domanda e a differire la sua tutela giurisdizionale - e il convenuto - sul quale non graverebbe alcun onere preventivo, con attribuzione di un privilegio contrastante con il principio di eguaglianza ex art. 3 Cost.”. (31) Il Trib. Verona, sez. III, con l’ord. 18 dicembre 2015 dopo aver ribadito che “è alquanto controverso, sia in dottrina che in giurisprudenza, (…) se la mediazione sia condizione di procedibilità anche delle domande fatte valere nel corso del processo dal convenuto, dai terzi intervenienti volontari o su chiamata”, si dimostra favorevole alla tesi positiva ed assegna alle parti un termine per presentare istanza di mediazione. A sostegno della tesi contraria vedi Trib. Palermo, ord. del 27 febbraio 2016, secondo cui “la mediazione obbligatoria non si estenda alle domande nei riguardi di terzi chiamati in causa”. (32) Cass. civ., sez. III, sent. 3 dicembre 2015, n. 24629. (33) Cfr. Trib. Ravenna, sent. 20 settembre 2017; Trib. Vasto, 30 maggio 2016; Trib. Trento, 23 febbraio 2016 n. 177; Trib. Monza, sez. I, 21 gennaio 2016 n. 156. (34) Cfr. Trib. Firenze, sez. III, ord. 17 gennaio 2016; Trib. busto Arsizio, sez. III, 3 febbraio 2016 n. 199. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 261 L'Avvocatura dello Stato potrà inoltre senz'altro intervenire in grado di appello. essendo, infatti, tassative le ipotesi di rimessione al giudice di primo grado ex artt. 353 c.p.c. e 354 c.p.c., qualora il giudice di appello constati che il giudice di primo grado abbia errato nel non ritenere la questione sottoposta alla procedura di mediazione o di negoziazione assistita, oppure constati che abbia errato il giudice di primo grado nell'aver respinto l'eccezione di improcedibilità sollevata da una parte in ordine al mancato esperimento delle suddette procedure, dovrà disporre che in tale sede le parti procedano a recuperare l'attività di mediazione o di negoziazione assistita mai svolta sino a quel momento (36). Tornando ai profili di incompatibilità, esistono poi controversie che coinvolgono le Amministrazioni e che fanno parte del contenzioso seriale, nelle quali risulterebbe inutile il tentativo di composizione alternativa del contenzioso poiché si tratta di controversie che richiedono una soluzione con carattere generale e proveniente da organi con competenza ai massimi livelli decisionali. In questo caso il ricorso agli ADR, oltre che avere poca utilità, invece che abbattere il contenzioso finirebbe con il comportare unicamente una dilazione superflua rispetto all’accesso alla giustizia. un’ulteriore riprova del fatto che la normativa riguardante l'ADR è stata modellata sulla figura dell'avvocato del libero foro si rinviene nella recente istituzione degli organismi di risoluzione alternativa delle controversie e delle camere arbitrali. In data 16 febbraio 2017 il Ministro della giustizia orlando ha, infatti, firmato la versione finale del regolamento che, come previsto dal nuovo ordinamento forense, permetterà adesso ai consigli dell'ordine di costituire enti per affrontare le controversie al di fuori del consueto circuito giudiziario. Il testo, con misure che si applicheranno anche agli enti già esistenti, prevede la costituzione di un consiglio direttivo con il compito di amministrazione della camera o dell'organismo. Il consiglio direttivo è composto da un numero di componenti, nominati con delibera del Consiglio dell'ordine. L'Avvocatura dello Stato non può costituire organismi di mediazione al suo interno. Infine, un ulteriore elemento che induce ad escludere la partecipazione dell'Avvocatura dello Stato a tali procedure si evince da alcune raccomandazioni adottate dalla Commissione europea (37) nelle quali sono indicati i principi per (35) A favore, Trib. Torino, sez. III, ord. 23 marzo 2015 così massimata: “L'azione esperita nelle forme del rito sommario di cognizione non esclude la previa instaurazione del procedimento di mediazione, non essendo il rito a determinare l'obbligatorietà del procedimento conciliativo, bensì la natura della controversia” (Giur. it., 2015, 10, 2121). (36) Corte di Appello di Milano con l’ordinanza del 22 marzo 2016 stabilisce che anche il giudice in fase di appello può disporre l'esperimento del processo di mediazione “a prescindere dalla obbligatorietà o meno della mediazione ante causam o della vigenza o meno della norma prima dell'introduzione della controversia” e assegna dunque un termine di “quindici giorni per promuovere il procedimento di mediazione innanzi all’organismo che ritengono più idoneo per trattare la controversia commerciale in oggetto, a far tempo dalla comunicazione della presente ordinanza”. (37) La n. 98/257 del 30 marzo 1998 e la n. 2001/310 del 4 aprile 2001. RASSegNA AVVoCATuRA 262 DeLLo STATo - N. 3/2018 il funzionamento dei sistemi ADR, tra i quali vengono citati l'indipendenza e l'imparzialità del terzo che facilita l'accordo. Inoltre, anche dai rilievi comparatistici sopra esposti (38) risulta che negli altri paesi europei non vi è stato un netto coinvolgimento delle Avvocature pubbliche, a riprova del fatto che il loro ruolo è del tutto peculiare e può essere adattato all'espletamento delle procedure alternative della giurisdizione solo con opportuni correttivi interpretativi. Appare evidente che molti sono i profili problematici relativi all'applicazione degli ADR. occorre quindi, un'attività di collaborazione tra giudici e avvocati pubblici e del libero foro con reciproca comprensione delle proprie difficoltà operative, affinché sulla base di una visione ampiamente condivisa degli ADR in generale, si possa migliorare insieme il sistema della giustizia civile e realizzare quella che da più parti viene definita la “giurisdizione condivisa”. La mediazione. La definizione di mediazione è rinvenibile nell’art. 1 del D.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 (che ha dato attuazione alla delega legislativa contenuta nell'art. 60 della L. 18 giugno 2009, n. 69) (39) che stabilisce che la mediazione è “l'attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa” e la conciliazione come “la composizione di una controversia a seguito dello svolgimento della mediazione”. In Italia la mediazione era, fino al recepimento della direttiva 2008/52/Ce, un istituto “riferito agli specifici ambiti familiare e penale, funzionalmente volto al riavvicinamento delle parti, al ripristino di una comunicazione interrotta, alla ricomposizione di un conflitto” e aveva dunque una funzione soprattutto sociale (40). Il recepimento della direttiva di cui sopra ha portato la mediazione ad acquisire un ruolo nuovo e importante all’interno degli strumenti alternativi di risoluzione presenti in Italia. La principale novità della riforma del 2010 “è quella di avere generalizzato la regola e reso possibile a chiunque l'accesso a procedure finalizzate alla conciliazione di controversie praticamente in ogni settore della vita civile e commerciale secondo il modello procedimentale (…) affidato nella sua gestione ad appositi organismi di mediazione istituiti da enti pubblici o da privati” (41). (38) I riferimenti comparatistici richiamati sono stati enucleati dal testo di DALFINo D., mediazione civile e commerciale, Zanichelli 2016. (39) Il decreto legislativo, pubblicato sulla G.u. n. 53 del 5 marzo 2010, è entrato in vigore il 20 marzo 2010 (ad eccezione delle disposizioni relative al meccanismo della mediazione come condizione di procedibilità della domanda giudiziale la cui data di entrata in vigore è il 20 marzo 2011). (40) DALFINo D., mediazione civile e commerciale, Zanichelli, bologna 2016, p. 85. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 263 L’art. 2 stabilisce infatti che “chiunque può accedere alla mediazione per la conciliazione di una controversia civile e commerciale vertente su diritti disponibili”. un’altra importante novità della riforma consiste nel considerare la mediazione come una condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle ipotesi tassativamente indicate nell'art. 5 del D.lgs. n. 28 del 2010. Dunque, come già detto in relazione alla negoziazione assistita, anche la normativa sulla mediazione civile e commerciale prevede dei casi in cui, chi intenda promuovere una causa, ha l’obbligo preventivo di invito alla mediazione civile. esistono tre tipi di mediazione: 1) la mediazione facoltativa e` possibile in ogni controversia relativa a diritti disponibili. Il difensore ha l’obbligo di informare il cliente di tale possibilità in relazione alla controversia che decide di instaurare e l’inottemperanza a tale obbligo è sanzionata con l’annullabilità del contratto d’opera fra l’avvocato e il cliente (art. 4, terzo comma, D.lgs. n. 28 del 2010); 2) la mediazione è obbligatoria, ai sensi dell’art. 5, primo comma, del D.lgs. n. 28 del 2010 in determinate controversie (42) e dunque la domanda giudiziale non preceduta dal procedimento di mediazione è improcedibile; 3) la mediazione delegata è prevista dal secondo comma dell’art. 5 del D.lgs. n. 28 del 2010. Viene disposta dal giudice, valutata «la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti», in primo grado o anche in appello, prima della precisazione delle conclusioni o, se non questa non è prevista, prima della discussione della causa. Quanto alla mediazione obbligatoria, la sentenza n. 272 del 6 dicembre 2012 della Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 del D.lgs. 28/2010, comma 1. In seguito a tale pronuncia il d.l. 21 giugno 2013, n. 69, recante “Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia”, convertito nella legge 9 agosto 2013, n. 98, ha reintrodotto l’obbligatorietà della mediazione nei casi tassativamente previsti. Quanto al rapporto delle procedure di negoziazione con le procedure di mediazione, si deve osservare che nelle controversie in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti il previo obbligo di invito alla negoziazione sostituisce del tutto l'invito alla mediazione. Pertanto questo tipo di controversie diventano tutte obbligatoriamente soggette alla negoziazione e non più alla mediazione (da cui erano state escluse in ogni caso con la riforma del 2013 - d.l. 21 giugno 2013 n. 69 convertito con modificazioni nella (41) DoSI g., La mediazione e l'arbitrato irrituale nelle riforme del 2010, in Contratto e impr., 2011, 1, 226 ss. (42) Controversie in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari. RASSegNA AVVoCATuRA 264 DeLLo STATo - N. 3/2018 l. 9 agosto 2013 n. 98 - che aveva fatto seguito alla sentenza della Corte Costituzionale 6 dicembre 2012 n. 272 che aveva cancellato il comma 1 dell'art. 5 e altri del D.lgs n. 28/2010 per eccesso di delega). Viceversa nelle controversie relative al pagamento di somme di denaro non superiori a 50.000 euro l'invito alla negoziazione è obbligatorio solo allorché la domanda di pagamento non concerna una delle ipotesi di mediazione obbligatoria previste nell'art. 5, comma 1-bis, D.lgs. n. 28/2010. Lo si desume chiaramente dal comma 1 dell'art. 3 del d.l. n. 132/2014. Al di fuori di questi settori il rapporto tra la negoziazione assistita e la mediazione è di facoltatività nel senso che gli interessati possono liberamente scegliere di attivare l'una o l'altra procedura o anche entrambe se una delle due non porta all'accordo. Il quinto comma dell'art. 3 del d.l. 132/2014 prevede infine che “restano ferme le disposizioni che prevedono speciali procedimenti obbligatori di conciliazione e mediazione, comunque denominati”. Questo significa che l'interessato in questi casi dovrà azionare la procedura speciale di conciliazione o mediazione obbligatoria e non potrà optare per la negoziazione assistita. occorre infine soffermarsi sullo stretto collegamento tra processo e mediazione/ negoziazione assistita che si evince dall’impianto legge 162/2014. Tale collegamento è dimostrato dall' art. 3 comma 4 della suddetta legge (così come nell'art. 5, comma 3 del D.lgs. 28/2010 in tema di mediazione) che testualmente recita “l’esperimento del procedimento di negoziazione assistita nei casi di cui al comma 1 non preclude la concessione di provvedimenti urgenti e cautelari, né la trascrizione della domanda giudiziale”. Per quanto riguarda la concessione di provvedimenti cautelari, non è dunque necessario esperire preliminarmente il procedimento di mediazione o di negoziazione assistita tutte le volte che si intenda proporre istanza cautelare per l'ottenimento di una misura cautelare prevista dal codice di rito o di altre leggi speciali. La disposizione non chiarisce però quale sia la disciplina applicabile nei casi in cui sia richiesta ante causam una misura cautelare a carattere conservativo (ad esempio, un sequestro), che, a differenza di quel che si verifica per le misure cautelari a carattere anticipatorio, deve essere necessariamente seguita dal giudizio di merito per non perdere efficacia, ai sensi dell'art. 669-octies, primo comma c.p.c. bisogna dunque comprendere se, una volta ottenuta la misura in relazione a una controversia rientrante nell'ambito di applicazione della negoziazione assistita o della mediazione, la declaratoria di inefficacia possa essere evitata attraverso la proposizione della domanda di mediazione o dell'invito a stipulare una convenzione di negoziazione assistita. A tal proposito si fa riferimento all'art. 8 della Legge 162/2014 (che trova un suo corrispondente nell'art. 5, comma 6 del D.lgs. 28/2010) rubricato "interruzione della prescrizione e della decadenza", secondo cui dal momento dell'invito a concludere una convenzione di negoziazione assistita (o dal momento della co CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 265 municazione della domanda di mediazione alle altre parti) è impedita la decadenza (per una sola volta), senza necessità di instaurare il giudizio di merito, se non dopo l'espletamento della procedura di negoziazione assistita o di mediazione. La norma non precisa se la decadenza così impedita sia soltanto quella relativa al diritto sostanziale oppure quella riguardante eventuali termini di natura processuale. Proprio per questa ragione, non sembra affatto irragionevole sostenere che possa riferirsi al termine di cui all'art. 669-octies, primo comma, c.p.c, e che quindi la proposizione della domanda di mediazione o dell'invito a concludere una convenzione di negoziazione assistita sia idonea ad evitare la declaratoria di inefficacia del provvedimento cautelare (43). Lo stretto collegamento tra processo e negoziazione assistita (e/o mediazione) è dimostrato, inoltre, dal fatto che la proposizione di tali procedure alternative alla giurisdizione non impedisce la trascrizione della domanda giudiziale. Questo suscita alcuni problemi poiché il fatto che una domanda giudiziale possa essere trascritta vuol dire che un giudizio può essere instaurato, e ciò può indurre la controparte a maturare il convincimento che non vi sia una reale volontà di conciliare. Inoltre, la non perfetta coincidenza tra il contenuto della convenzione della negoziazione assistita o della mediazione e il contenuto della domanda giudiziale può non rendere concreto l'effetto prenotativo della trascrizione ex artt. 2652 e 2653 c.c. L’arbitrato. L’arbitrato è un altro mezzo alternativo di risoluzione delle controversie ed è caratterizzato dal deferimento del giudizio ad uno o più arbitri affinché decidano con un lodo, che ha effetti analoghi a quelli di una sentenza. L’arbitrato è regolato nel codice di procedura civile dagli artt. 806-832. Ai sensi del primo comma dell'art. 806 c.p.c. (controversie arbitrabili), riformato nel 2006, “le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte che non abbiano per oggetto diritti indisponibili, salvo espresso divieto di legge”. Il secondo comma precisa che: “Le controversie di cui all'art. 409 possono essere decise da arbitri solo se previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi di lavoro”. Le parti possono dunque decidere di affidare la risoluzione delle controversie ad uno o più arbitri mediante la c.d. convenzione di arbitrato che può assumere due forme: il compromesso, se la lite è già insorta (art. 807 c.p.c.) o la clausola compromissoria, in via preventiva inserendo la clausola compromissoria all'interno del testo negoziale o in un atto separato (art. 808 c.p.c.) (44). (43) Sull’argomento cfr. Trib. brindisi Francavilla Fontana, ord. 9 gennaio 2012; Trib. Reggio emilia, sent. 13 ottobre 2012. (44) L’art. 807 c.p.c. prevede: “Il compromesso deve, a pena di nullità, essere fatto per iscritto e determinare l'oggetto della controversia. La forma scritta s'intende rispettata anche quando la volontà RASSegNA AVVoCATuRA 266 DeLLo STATo - N. 3/2018 Accanto a questo tipo di arbitrato ne è previsto un altro, c.d. irrituale, a cui è stata data piena legittimazione e autonomia con la riforma del 2006. ed invero una “consistente novità introdotta dal D.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 è (…) l'art. 808-ter (arbitrato irrituale) in cui si legge che: “Le parti possono, con disposizione espressa per iscritto, stabilire che, in deroga a quanto disposto dall'art. 824-bis, la controversia sia definita dagli arbitri mediante determinazione contrattuale. altrimenti si applicano le disposizioni del presente titolo” (45). Quanto alle analogie e differenze tra i due tipi di arbitrati (46) anche la giurisprudenza è chiara nell’affermare che “posto che sia l'arbitrato rituale che quello irrituale hanno natura privata, la differenza tra l'uno e l'altro tipo di arbitrato non può imperniarsi sul rilievo che con il primo le parti abbiano demandato agli arbitri una funzione sostitutiva di quella del giudice, ma va ravvisata nel fatto che, nell'arbitrato rituale, le parti vogliono che si pervenga ad un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all'art. 825 cod. proc. civ., con l'osservanza delle regole del procedimento arbitrale, mentre nell'arbitrato irrituale esse intendono affidare all'arbitro (o agli arbitri) la soluzione di controversie (insorte o che possano insorgere in relazione a determinati rapporti giuridici) soltanto attraverso lo strumento negoziale, mediante una composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibile alla volontà delle parti stesse, le quali si impegnano a considerare la decisione degli arbitri come espressione della loro volontà” (Cass. civ., sez. I, sent. 2 dicembre 2015, n. 24558) (47). L’arbitrato si distingue, però, dagli altri strumenti ADR, in quanto si profila come strumento di tipo aggiudicativo, nel senso che giunge sempre ad una soluzione del conflitto. Nell’ambito delle controversie pubblicistiche, ammesso ormai il principio dell’arbitrabilità delle controversie vertenti in materia di risarcimento per lesione degli interessi legittimi, l’istituto dell’arbitrato ha posto il problema se delle parti è espressa per telegrafo, telescrivente, telefacsimile o messaggio telematico nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la trasmissione e la ricezione dei documenti teletrasmessi”. L’art. 808 c.p.c. prevede: “Le parti, nel contratto che stipulano o in un atto separato, possono stabilire che le controversie nascenti dal contratto medesimo siano decise da arbitri, purché si tratti di controversie che possono formare oggetto di convenzione d'arbitrato. La clausola compromissoria deve risultare da atto avente la forma richiesta per il compromesso dall'articolo 807 c.p.c. La validità della clausola compromissoria deve essere valutata in modo autonomo rispetto al contratto al quale si riferisce; tuttavia, il potere di stipulare il contratto comprende il potere di convenire la clausola compromissoria”. (45) DoSI g., La mediazione e l’arbitrato irrituale nelle riforme del 2010, «Contratto e impr.», 2011, 1, 226 e ss. (46) Per un esame delle differenze e analogie tra le due forme di arbitrato vedi DoSI g., La mediazione e l’arbitrato irrituale nelle riforme del 2010, cit.; CNDCeC, L’arbitrato, 2016, (on line). (47) Cfr. anche Cass. civ., sez. I, 1 aprile 2011, n. 7574; Cass. civ., sez. I, sent. 2 luglio 2007, n. 14972; Cass. civ., sez. I, 10 novembre 2006, n. 24059; Cass. civ., sez. II, 12 ottobre 2009, n. 21585; Cass. civ., sez. I, 20 luglio 2006, n. 16718. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 267 sia o meno ammissibile affermare e in che termini una certa “disponibilità del potere pubblico”. È innegabile che anche nelle controversie pubblicistiche il diritto stia evolvendo in un’ottica sempre più consensuale e meno autoritativa. Si pensi all’art. 12 del codice del processo amministrativo in base al quale tutte le controversie concernenti diritti soggettivi devoluti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo possono essere oggetto di arbitrato rituale ex art. 806 e ss. c.p.c., alle convenzioni di lottizzazione e alla c.d. perequazione urbanistica, agli accordi di diritto pubblico ex art. 11 L. 241/2010, agli accordi organizzativi, ai ricorsi gerarchici impropri, agli accordi di programma. In tale contesto ci si chiede se gli ADR, oltre a costituire uno strumento deflattivo, siano anche portatori di un valore aggiunto, ossia se rappresentino una nuova modalità di esercizio del potere pubblico. Il problema pratico più rilevante si è posto soprattutto in ordine all’assenza dei poteri cautelari degli arbitri, laddove la tutela pubblicistica è essenzialmente una tutela cautelare. Stante il divieto contenuto nell’art. 818 c.p.c., ma la possibilità ormai riconosciuta agli arbitri di sollevare eccezioni di illegittimità costituzionale, la Commissione Alpa ha proposto un’estensione agli arbitri dei poteri cautelari, atteso che, ai sensi dell’art. 669 quinquies, se la controversia è oggetto di clausola compromissoria o è compromessa in arbitrati anche non rituali o se è pendente il giudizio arbitrale, la domanda cautelare si propone al giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito, con evidente aggravio per la parte che chiede tutela in via d’urgenza. Nel Nuovo Codice dei Contratti pubblici la novità più rilevante è rappresentata dalla soppressione del vecchio binario: arbitrato libero e arbitrato amministrato. Nelle materie degli appalti pubblici è prevalso il principio della concentrazione e della pubblicità del procedimento arbitrale, luogo di eteronomia e di controllo da parte della Camera Arbitrale incardinata all’interno dell’ANAC. L’art. 12 c.p.a., come sopra detto, sulla scia dellart. 6, comma 2, della L. 205/2000, ha previsto la possibilità di devolvere ad arbitrato rituale di diritto, le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo. Ci si è chiesti se si debba far riferimento ai diritti soggettivi in senso stretto o possono essere investiti anche i profili relativi al risarcimento per lesione di interessi legittimi, se si debba restringere il campo alla sola giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo o se si possono ritenere compromettibili anche le controversie relative a diritti riconducibili alla giurisdizione generale di legittimità. Certamente nell’ambito del diritto amministrativo, essendo ancora intangibile il dogma della “indisponibilità del potere pubblico”, è ancora fermo il principio secondo il quale gli arbitri non possono decidere controversie concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo neppure quando le controversie rientrano in quelle particolari materie indicate dalla legge che costituiscono l’ambito della RASSegNA AVVoCATuRA 268 DeLLo STATo - N. 3/2018 giurisdizione esclusiva. Il riconoscimento nello specifico settore dei giudizi aventi ad oggetto contratti pubblici, di particolari effetti sospensivi alla proposizione del ricorso ex artt. 120 e 121 c.p.c. e di particolari poteri al giudice amministrativo che vanno dalla caducazione totale o solo parziale del contratto viziato nella aggiudicazione (c.d. inefficacia a geometria variabile) alla irrogazione di sanzioni non sembra assolutamente prospettabile con riguardo al giudizio arbitrale. Nell’art. 209, commi 1 e 2, è stato riprodotto il meccanismo di formazione della convenzione di arbitrato in precedenza descritto dall’art. 241, commi 1 e 1 bis del vecchio Codice dei Contratti. In particolare: < la stazione appaltante indica nel bando o nell’avviso con cui indice la gara, ovvero per le procedure senza bando nell’invito, se il contratto conterrà o meno la clausola compromissoria; l’indicazione che il contratto conterrà la clausola compromissoria, è possibile, però, solo a patto che vi sia un’apposita autorizzazione motivata dell’organo di governo della amministrazione aggiudicatrice; se manca l’autorizzazione, l’art. 209, comma 3, prima parte, prevede che <è nulla la clausola compromissoria inserita senza autorizzazione nel bando o nell’avviso con cui è indetta la gara, ovvero nella procedura senza bando nell’invito>. Come in passato nulla è espressamente previsto riguardo alla sorta della clausola compromissoria eventualmente inserita nel contratto in mancanza della relativa indicazione del bando, avviso o invito, previamente autorizzata. entrambe le opzioni interpretative possibili sono ancora praticabili: mera nullità della clausola compromissoria con applicazione della disciplina di cui agli art. 817, comma 2, art. 829 comma 1 n. 1 c.p.c. o non arbitrabilità delle controversie. Nel nuovo codice non figura più, invece, la previsione dell’art. 241 seconda parte che sanzionava con la nullità non solo , ma anche . Questa mancanza elimina alla radice l’equivoco nel quale la lettera di quella disposizione poteva indurre a cadere cioè che per aversi giudizio arbitrale occorresse non solo una clausola compromissoria previamente autorizzata, ma anche un successivo avvio del giudizio arbitrale previamente autorizzato. Vi è, però, da chiedersi se la mancata riproduzione di quella disposizione non abbia altre conseguenze. Non si deve dimenticare, infatti, che proprio quella previsione costituiva un elemento letterale a favore della tesi secondo la quale sarebbe stata possibile un’autorizzazione conferita successivamente rispetto ad una indicazione nel bando, avviso o invito non previamente autorizzata. La seconda parte dell’art. 209 del Codice dei Contratti pubblici prevede che l’arbitrato, ai sensi dell’art. 1 comma 20 della legge 190/2012, si applica anche alle controversie relative a concessioni, appalti pubblici di opere, servizi forniture in cui sia parte una società a partecipazione pubblica ovvero una so CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 269 cietà controllata o collegata a partecipazione pubblica, ai sensi dell’art. 2359 c.c. o che, comunque, abbiano ad oggetto opere o forniture con risorse a carico dello Stato. È una previsione significativa se pensiamo che in altri paesi come la Francia se vengono in rilievo risorse pubbliche non è proprio possibile far ricorso all’arbitrato, sebbene tale istituto abbia avuto una notevole diffusione. Dopo la sentenza della Corte di giustizia Eco Swiss c. Benetton 1 giugno 1999 nella causa C-126/97 si è senz’altro consolidata l’opinione che anche le controversie nascenti da contratti potenzialmente nulli, ai sensi della normativa antitrust, possono essere sottoposte a giudizio arbitrale. In tema di proprietà industriale, fermo restando l’esclusiva dello Stato nel concedere marchi e brevetti, il nuovo Codice della Proprietà industriale prevede l’applicazione degli artt. 35 e 36 del D.lgs. 17 gennaio 2003 n. 5 che disciplinano gli arbitrati in materia di società. Il suddetto decreto legislativo ha esteso l’arbitrato all’azione sociale di responsabilità, all’impugnativa delle delibere di approvazione del bilancio e alle controversie relative alle cessioni di quote o azioni. Si è fatto spesso riferimento al diritto societario, in particolare all’art. 2358 n. 4 c.p.c. come modello di “soluzione gestionale” della lite applicabile anche alla Pubblica Amministrazione. Ma è chiaro, per quanto sopra detto, che, se vengono in rilievo risorse pubbliche, non si può prescindere dal provvedimento di autorizzazione della P.A. tesa sempre alla tutela dell’interesse pubblico. Non è un caso che il legislatore sia stato molto cauto nel prevedere strumenti ADR quando vengono in rilievo solo interessi legittimi. Ne sono un esempio lampante i pareri di precontenzioso dell’Anac previsti dall’art. 211 del Nuovo Codice dei Contratti pubblici, pareri facoltativi ad efficacia soggettiva limitata, impugnabili innanzi al TAR che possono essere rilasciati nella fase di aggiudicazione. È, infatti, previsto che su iniziativa della stazione appaltante o di una o più delle altre parti, l’ANAC esprima un parere, previo contraddittorio, relativamente a questioni insorte durante lo svolgimento della procedure di gara, entro 30 giorni dalla richiesta. Il parere obbliga le partii che vi abbiano preventivamente acconsentito ad attenersi a quanto in esso stabilito. Il parere vincolante è impugnabile, ai sensi dell’art. 120 c.p.a. entro 30 giorni. In caso di rigetto del ricorso contro il parere vincolante, il giudice valuta il comportamento della parte ricorrente, ai sensi e per gli effetti dell’art. 26 c.p.a. Volendo trarre una conclusione da questa relazione che comprende in sé sia una parte destruens, ma anche una parte costruens, questa non può che sintetizzarsi nella seguente considerazione: gli strumenti ADR rappresentano una evoluzione in senso positivo del diritto, sono strumenti con grandi potenzialità che, però, non possono che assumere un carattere di specialità quando si decide di applicarli alle controversie pubblicistiche. L’interprete deve tenere sempre presente che tali strumenti non possono, comunque, rendere più gravoso l’accesso alla tutela giurisdizionale. La Corte di giustizia dell’unione europea, (sebbene le direttive in materia lascino agli Sati membri la libertà di sta RASSegNA AVVoCATuRA 270 DeLLo STATo - N. 3/2018 bilire il tipo di enforcement da attribuire agli strumenti ADR), lo ha ricordato molto chiaramente con la recente sentenza emessa nella causa C-75/16 del 27 giugno 2017 Livio menini, maria antonia rampanelli c. Banca Popolare Società Cooperativa in tema di tutela del consumatore. Con tale pronunzia la Corte ha statuito il seguente principio: “La Direttiva 2013/11/uE del Parlamento europea e del consiglio del 21 maggio 2013, sulla risoluzione alternativa delle controversie dei consumatori che modifica il regolamento (CE) n. 2006/2004 e la direttiva 2009/22/CE (direttiva aDr per i consumatori), deve essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che prevede il ricorso a una procedura di mediazione, nelle controversie indicate all’articolo 2, paragrafo 1, di tale direttiva, come condizione di procedibilità della domanda giudiziale relativa a queste medesime controversie, purchè un requisito siffatto non impedisca alle parti di esercitare il loro diritto di accesso al sistema giudiziario”. bibliografia ALPA g., AMADeo F., AMoRoSo g., AuLeTTA F., … (a cura di), un progetto di riforma delle aDr, Pubblicazione del Dipartimento di Scienze giuridiche dell'università degli Studi di Roma "La Sapienza", Jovene editore, Napoli 2017. 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Torino, sez. III civ., ord. 23 marzo 2015. Trib. Verona, sez. III, ord. 18 dicembre 2015. Trib. Firenze, sez. III, ord. 17 gennaio 2016. Trib. Palermo, ord. 27 febbraio 2016. Trib. Verona, ord. 12 maggio 2016. Trib. Ravenna, sent. 20 settembre 2017. RASSegNA AVVoCATuRA 272 DeLLo STATo - N. 3/2018 brevi riflessioni sui caratteri comuni alle attività secretate nell’ordinamento costituzionale italiano, anche alla luce del contemperamento (rectius bilanciamento) con la libertà di manifestazione del pensiero Antonio Mitrotti* Il «Governo della democrazia» - sosteneva, autorevolmente, Noberto bobbio - è il «Governo del potere pubblico in pubblico» (1). Non per questo, tuttavia, il vigente ordinamento costituzionale esclude la legittimità di fondamentali istituti connotati di un elevato ‘tasso’ di segretezza: si pensi - soltanto per un esempio (e primo fra tutti) - all’istituto del segreto di Stato ma, a tal riguardo, si potrebbero benissimo richiamare, qui, anche altri preziosi istituti per l’ordinamento italiano, come il segreto d’ufficio oppure, ancora, il segreto investigativo nonché - fra gli altri - la stessa segretezza sottesa alle Commissioni d’inchiesta parlamentari. Interessante, pertanto, sarebbe, in quest’ottica, compiere un’analisi di quali siano esattamente le condizioni di legittimità costituzionale giustificatrici di una corretta (e legittima, appunto) attività di segretazione, alla luce dei basilari principi liberal-democratici propri della nostra forma di Stato costituzional- democratica (2). Anzitutto, giova puntualizzare come delle regole diametralmente opposte vigano circa il segreto nella sfera pubblica e la segretezza nel privato (3). In un sistema democratico si ha, infatti, per regola generale del diritto pubblico il principio della trasparenza e della pubblicità, mentre il segreto ne costituisce soltanto una mera e circoscritta eccezione: con la dovuta, e preliminare, puntualizzazione per cui la prevalente, e più sensibile, dottrina (4) (*) già praticante forense presso l’Avvocatura dello Stato, Dottorando di ricerca in Diritto pubblico comparato presso l’università degli Studi di Teramo, abilitato all’esercizio della professione forense. (1) N. bobbIo, La democrazia e il potere invisibile, in rivista italiana di scienza politica, n. 2/1980, p. 181; sul tema si veda altresì N. bobbIo, La strage, l'atto di accusa dei giudici di Bologna, Roma, 1986. (2) Nell’ampia letteratura in dottrina, appare prezioso il riferimento, ex multis, a C. PINeLLI, Forme di Stato e forme di governo, Napoli, 2006, p. 119 ss. (3) P. bARILe, Democrazia e segreto, in Quaderni costituzionali, n. 1/1987, pp. 29-50. (4) R. MARRAMA, La Pubblica amministrazione tra trasparenza e riservatezza nell'organizzazione e nel procedimento amministrativo, in Dir. proc. amm., n. 3/1989, pp. 416-452; g. AReNA, La trasparenza amministrativa e democrazia, in Studi Parlamentari e di Politica Costituzionale, nn. 3-4/1992, pp. 25- 38; A. SANDuLLI, Procedimento amministrativo e trasparenza, in S. CASSeSe e C. FRANChINI (a cura di), L’amministrazione pubblica italiana. un profilo, bologna, 1994, pp. 101-115; R. ChIePPA, i principi generali dell'azione amministrativa nella legge n. 241 del 1990 modificata dalle leggi n. 15 e n. 80 del 1995 (la trasparenza come regola della pubblica amministrazione), in Diritto e formazione, Vol. 5, n. 12/2005, pp. 1557-1574; e. CARLoNI, Nuove prospettive della trasparenza amministrativa: dall'accesso CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 273 tenga, comunque, a mantenere ben distinte (sebbene sicuramente correlate) le due nozioni di pubblicità e di trasparenza, posto che per pubblicità si evidenzia debba alludersi al risultante 'stato di fatto' proprio di un determinato atto dell'Amministrazione, nonché del relativo procedimento posto in essere, ovvero - ancora più in generale - dell'organizzazione amministrativa concretamente predisposta per l'esercizio dei pubblici poteri; laddove, invece, per trasparenza si precisa debba riferirsi, più propriamente, ai caratteri di chiarezza e di comprensibilità che dovrebbero esser propri, così connotandola, dell'azione amministrativa. esempio classico è - nel senso della suindicata distinzione - quello tipico dell'atto/provvedimento regolarmente pubblicato sull'albo ovvero sul sito internet dell'Amministrazione (e quindi pubblico) ma, tuttavia, redatto in una maniera tale da risultare alquanto oscuro, equivocabile ovvero poco comprensibile (e, come tale, carente di trasparenza). Sommariamente premesso quanto s'impone per la sfera pubblica, è, d'altro canto, incontrovertibile che per quanto attiene alla sfera dei rapporti privati nell'ordinamento costituzionale i diritti costituzionalmente riconosciuti e garantiti al soggetto privato siano piuttosto (e salvo le rare, e dovute, eccezioni, come per il caso della disciplina contemplata all'art. 18 Cost.), caratterizzati, per regola, proprio dalla segretezza - e riservatezza - e solo per eccezione dalla loro, relativa, pubblicità. Nel “privato” la segretezza, anziché porsi come un’eccezione, si pone, quindi, quale vera e propria regola generale, significativamente posta a tutela dei soggetti privati nell’ambito del godimento di libertà loro costituzionalmente riconosciute e garantite in un sistema democratico (5). Tipici esempi di segretezza nel privato possono rinvenirsi nelle seguenti situazioni giuridiche soggettive: • nel diritto alla riservatezza. Si tratta di un peculiare tipo di diritto, da taluni definito come a sé stante (6), benché sicuramente rientrante nel novero dei diritti costituzionalmente garantiti all’individuo. Non v’è, al riguardo, una puntuale disciplina in Costituzione. La Corte costituzionale ha più volte fatto riferimento all’articolo 2 della Costituzione (7), nonché agli articoli 8 CeDu e all’art. 12 della Dichiaai documenti alla disponibilità delle informazioni, in Diritto Pubblico, n. 2/2005, pp. 573-600; A. SANDuLLI, La casa dai vetri oscurati. i nuovi ostacoli all'accesso ai documenti, in Giornale di diritto amministrativo, n. 6/2007, pp. 669-672; F. MANgANARo, L'evoluzione del principio di trasparenza amministrativa, in www.astrid-online.it ; D.P. TRIoLo, il procedimento amministrativo, Vicalvi, 2017, pp. 11-22. (5) P. bARILe, Diritti dell'uomo e libertà fondamentali, bologna, 1984, pp. 61-62, nonché, specialmente, p. 235 ss. (6) P. bARILe, Democrazia e segreto, in Quaderni costituzionali, n. 1/1987, p. 32. (7) Si veda, ex multis, una risalente quanto consolidata decisione, C. cost., sent. 12 aprile 1973, n. 38, parr. 2 e 5 del Considerato in diritto. In questa pronuncia, preme sottolineare, la Consulta riconobbe per la prima volta la dignità costituzionale RASSegNA AVVoCATuRA 274 DeLLo STATo - N. 3/2018 razione universale dei diritti dell’uomo. Definire cosa esattamente si intenda per il diritto alla riservatezza non è cosa semplicissima; lo stesso Codice sulla protezione dei dati personali, disciplinato dal D.lgs. 196/2003 (8), ha rinunciato ad una sua precipua definizione, preferendo incentrare la propria attenzione sui meccanismi di protezione dei dati personali. Autorevole dottrina (9) ha rimarcato le notevoli difficoltà definitorie del diritto di riservatezza, puntualizzando proprio come: «l’enunciazione delle diversità terminologiche, adottate dalla dottrina per classificare il fenomeno studiato, evidenzia l’incertezza che ha caratterizzato la ricerca nella individuazione dei contenuti della situazione giuridica che si è inteso definire». Si può, comunque, azzardare, sulla scorta di altra autorevole parte della dottrina (10), una sommaria definizione, concependo il diritto alla riservatezza come una "zona buia", in cui non è consentito ad altri di penetrarvi e far luce sul segreto, una zona posta al riparo dall’ingerenza altrui; risolvendosi, perciò, in una vera e propria libertà ‘passiva’ oppure ancora, sotto di un profilo attivo, come il potere di decidere e sapere quali e quante delle informazioni che ci riguardano possano circolare pubblicamente, tutelando, così, la sfera dell’ambito del privato. Sviluppando codesta impostazione, finiremmo, così, con il poter identificare la riservatezza come una sorta di spatium deliberandi, il luogo morale, cioè, dove poter sviluppare la propria autonomia, con il compimento delle proprie scelte personali nonché della propria intimità. • Nel segreto industriale; trattasi di una situazione giuridica soggettiva oltrepassante la sfera della pura riservatezza, investendo la protezione dell’impresa, a tutela della quale è invocato l’art. 41, I comma, della Costituzione. Con il segreto industriale è garantita la piena libertà di destinare a segretazione l’invenzione industriale o il know-how, estendendone gli effetti alla stessa attività necessaria per l’attuazione delle decisioni all’interno dell’impresa, nondella tutela del diritto alla riservatezza, riconducibile sotto l’alveo dei diritti inviolabili dell’uomo nonché alla sfera del pieno sviluppo della persona, proprio ai sensi degli artt. 2, 3 e 13 Cost. In questo senso anche le successive C. cost., sentt. 11 marzo 1993, n. 81, par. 4 del Considerato in diritto - in cui venne dichiarato dalla Corte che esiste un diritto più ampio che protegge «lo spazio vitale che circonda la persona » - 9 luglio 1996, n. 238, par. 2 del Considerato in diritto; 7 luglio 2005, n. 271, parr. 2 e 3 del Considerato in diritto. In dottrina, per una più recente ricostruzione del tema, si vedano, ex multis, L. CuRICCIATTI, Diritto alla riservatezza e sicurezza nella giurisprudenza delle Corti costituzionali e sovrastatali europee. il caso della Data retention Directive, in Democrazia e sicurezza, n. 2/2017, pp. 89-124. (8) Il 4 maggio 2016 è stato - come sarà ben noto - pubblicato sulla gazzetta ufficiale dell’unione europea il nuovo Regolamento generale sulla protezione dei dati personali (gDPR, General Data Protection regulation ue 2016/679), entrato in vigore a partire dal 25 maggio 2018, e, pertanto, direttamente applicabile, anche rispetto ad eventuali norme confliggenti contemplate dal nostro codice della privacy. (9) g. gIACobbe, il diritto alla riservatezza in italia, in Diritto e Società, n. 4/1974, p. 694. (10) g. FAMIgLIeTTI, il diritto alla riservatezza o la riservatezza come diritto. appunti in tema di riservatezza ed intimidad sulla scorta della giurisprudenza della Corte costituzionale e del Tribunal Constitucional, in Bio-tecnologie e valori costituzionali. il contributo della giustizia costituzionale, Torino, 2005, pp. 299-324. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 275 ché - come conseguenza - ai rapporti con il personale stesso e con i collaboratori esterni alla medesima attività d’impresa (11). • Nel segreto bancario. Permangono opinioni discordanti in merito al concetto, al fondamento ed ai limiti del segreto bancario. Pur in presenza di sparsi riferimenti normativi è, infatti, assente una vera e propria definizione legislativa, tanto da poter addirittura dubitare della effettiva esistenza di una specifica e legittima disciplina dell’istituto. La definizione corrente vede nel segreto bancario un particolare tipo di vincolo imposto agli istituti di credito, consistente nel dovere di mantenere uno specifico riserbo intorno agli affari inerenti alla propria clientela. L’istituto rinverrebbe, oggi, il proprio fondamento costituzionale nell’art. 47 della Costituzione, quale implicito riconoscimento di favore per tutti gli istituti e gli strumenti in grado di poter sostenere l’attività creditizia. Di contro v’è stato chi ha sostenuto come il segreto bancario costituirebbe, più propriamente, una espressione del principio di libera iniziativa economica e che tutt’altra che dimostrata sarebbe l’incidenza sul livello degli investimenti e dei risparmi (12). • Nel segreto professionale; un segreto - è scritto all’art. 622 del codice penale - conosciuto «per ragione […] della propria professione o arte». ebbene, il legislatore non ha voluto scientemente definire in maniera rigida quali esattamente fossero le professioni od arti soggette all’obbligo del segreto professionale, nella consapevolezza che la dinamica della vita sociale avrebbe proposto, comunque, nuove professioni meritevoli di essere prese in considerazione. In ogni caso - quando ci si riferisce al segreto di una res conosciuta per ragione della propria professione od arte - la professione e l’arte debbono andare intese come delle fattispecie ricomprendenti ogni tipo d’attività dal carattere prevalentemente intellettuale o manuale, esercitate professionalmente al servizio ed in favore di chi ne faccia richiesta o ne abbia bisogno, nonché principalmente al fine di lucro (13); benché giova, qui, evidenziare, in proposito, come un’autorevole parte della dottrina (14) abbia efficacemente precisato che l'interesse individuale vada in questi casi a coniugarsi con quello pubblico, (11) P. bARILe, Democrazia e segreto, in Quaderni costituzionali, n. 1/1987, p. 33. (12) u. RuFFoLo, Segreto bancario, in Enciclopedia del Diritto, Vol. XLI, Varese, 1989, pp. 1026- 1027. (13) g. FIANDACA - e. MuSCo, Diritto penale, Parte speciale, Vol. I, bologna, 2007, p. 275. È qui, per altro, sottolineato come la norma incriminante la violazione del c.d. segreto professionale abbia la propria ratio nell’interesse a mantenere la segretezza in ordine ai rapporti professionali, dalla natura particolarmente delicata. In questo senso F. ANToLISeI, manuale di diritto penale: Parte speciale, Volume I, Milano, 2008, pp. 270-272. L’autore sottolinea la delicatezza del rapporto professionale ed il conseguente obbligo di fedeltà derivante dal dover mantenere il segreto a fronte del fatto che il cittadino, in determinate circostanze, sia nella cogente necessità di ricorrere al professionista, per provvedere ai propri interessi o alla propria salute. (14) F. SAJA, il segreto professionale, in AA.VV., il segreto nella realtà giuridica italiana, Atti del Convegno nazionale, (Roma, 26-28 ottobre 1981), Padova, 1983, pp. 439-440. RASSegNA AVVoCATuRA 276 DeLLo STATo - N. 3/2018 stante la (potenziale) natura di un servizio di pubblica utilità propria dell’esercizio di una professione (15); tanto è vero che, in questo senso, la ratio legis dell’introduzione nell'ordinamento dell’istituto del gratuito patrocinio nell’esercizio della professione forense muove, anche (ma non unicamente), da questa peculiare posizione della dottrina. • Nel segreto di corrispondenza. Si tratta di un diritto di libertà solennemente garantito dall’articolo 15 della Costituzione, che ne sancisce l’inviolabilità. Il legislatore costituente, in particolare, è voluto andare ben oltre la mera garanzia della libertà e segretezza della corrispondenza epistolare, spingendosi sino alla pregnante garanzia di “ogni altra forma di comunicazione”, pervenendo ad una generale disciplina ‘sostanziale’ di alcune forme "particolari" d’espressione di pensiero e, comunque, diversificate rispetto a quelle disciplinate dallo stesso art. 21 della Costituzione. Se l’articolo 21 della Carta costituzionale disciplina e tutela le espressioni del pensiero che il soggetto intende e vuole «manifestare» e «diffondere», rendendole in tal modo pubbliche, l’articolo 15 Cost. garantisce la segretezza di tutte quelle espressioni che, oltre ad essere indirizzate a soggetti scientemente determinati ed individuati, siano state, al contempo, sottratte alla conoscibilità dei terzi, con tutte le normali ed ordinarie cautele poste a disposizione del mittente. In altri termini, una cosa è l’espressione del pensiero che, pur essendo rivolta ad un soggetto determinato, venisse resa con modalità tali da poter essere conoscibile dai terzi - e che non costituirebbe una vera e propria «corrispondenza », bensì una «manifestazione di pensiero» (e sarebbe dunque l’articolo 21 (16) e non la disposizione di cui all’art. 15 a dover trovare un’applicazione) - altra cosa è la situazione giuridica soggettiva garantita in Costituzione dall’art. 15, trattandosi, piuttosto, di: «una speciale forma di manifestazione del pensiero di una persona nei suoi esclusivi rapporti con un'altra persona» (17). Non si trascuri, naturalmente, che il processo di convergenza tra tecniche di telecomunicazione, nuovi strumenti informatici e cosiddette multimedialità ha sicuramente aperto uno scenario inedito nel quadro di esercizio del diritto di libertà di corrispondenza: nulla questio, ovviamente, che le fondamentali garanzie costituzionali debbano intendersi estese anche a queste nuove forme di comunicazione (tanto è vero che l'articolo 15 Cost. fa esplicito riferimento ad "ogni altra forma di comunicazione"), con l'avvertenza tuttavia - per altro (15) P. bARILe, Democrazia e segreto, op. cit., p. 33. (16) Per una recentissima e preziosa disamina sulle relazioni intercorrenti tra la libertà di informazione e le dinamiche del 'nuovo mondo di internet' si rinvia a g. PITRuZZeLLA, La libertà di informazione nell'era di internet, in media Laws. rivista di diritto dei media, n. 1/2018, pp. 1-28. (17) A. PACe, Contenuto e oggetto della libertà di comunicazione, in g. bRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, voce articolo 13, bologna, 1977, pp. 80-87. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 277 diffusamente avvertita in dottrina - che la tutela costituzionale potrà continuare evolutivamente e concretamente ad esplicare i propri effetti soltanto allorché le 'nuove comunicazioni' siano assistite da idonee garanzie di autenticazione ed autenticabilità (18), tali, cioè, da poter essere destinate a rimanere "effettivamente" e soggettivamente segrete; il che tanto nell'intenzione personale degli autori di ogni comunicazione che, nondimeno, avuto riguardo all'adeguatezza delle modalità telematiche di trasmissione e ricezione delle comunicazioni da parte dei destinatari (19). • Nel segreto di voto; situazione giuridica soggettiva funzionale alla libertà del voto, nonché ad una libertà-riservatezza delle proprie opinioni politiche (20). In termini generali, se un soggetto privato è, per definizione, ‘libero’ di segretare e mantenere segreti i propri fatti che lo riguardano personalmente ed esclusivamente, nel settore pubblico, invece, i titolari di un pubblico ufficio, al contrario, non si muovono, come è logico, nell’esercizio di un diritto di libertà, bensì, piuttosto, di pubbliche funzioni, in adempimento di doveri discendenti dalla Carta costituzionale, in primis, e dalle leggi (21), in secondo luogo. Ciò nonostante, a ben riflettere, è identica la ratio legittimante i presupposti della segretezza: «il segreto è [infatti] da ritenere accettabile soltanto qualora esso costituisca una protezione o una proiezione di interessi costituzionalmente rilevanti» (22), di interessi, vale a dire, tra quelli che siano dalla Costituzione stessa riconosciuti e garantiti, nonché tutelati al livello legislativo. Con la dovuta puntualizzazione per cui nel settore pubblico il segreto-eccezione andrebbe saggiato caso per caso, nella sua legittimità costituzionale, mentre nel settore privato, invece, la possibilità del segreto si giustifica già a priori, in quanto, nelle diverse situazioni giuridiche soggettive, la segretezza verrebbe a poter essere configurata come uno ‘schermo’ di protezione che la stessa Carta costituzionale riconoscerebbe quale facoltà in favore del libero ed effettivo esercizio e godimento dei diritti di libertà fondamentali (23). (18) Più diffusamente, sul punto, g. FINoCChIARo - F. DeLFINI (a cura di), Diritto dell'informatica, Torino, 2014. (19) Per utili approfondimenti sul punto appare significativo il rinvio a P. CoSTANZo, Le nuove forme di comunicazione in rete: internet, in R. ZACCARIA (a cura di), informazione e telecomunicazione, Padova, 1999. Più di recente si veda, ex multis, in dottrina (e senza, naturalmente, pretese alcune di esaustività) e. gIANFRANCeSCo, Profili ricostruttivi della libertà e segretezza di corrispondenza, in Diritto e Società, n. 2/2008, pp. 219-249; C. CARuSo, La libertà e la segretezza delle comunicazioni nell'ordinamento costituzionale, in Forum di Quaderni Costituzionali, n. 10/2013; P. PASSAgLIA, internet nella Costituzione italiana: considerazioni introduttive, inM. NISTICò - P. PASSAgLIA (a cura di), internet e Costituzione, Torino, 2014. (20) P. bARILe, Democrazia e segreto, in Quaderni costituzionali, n. 1/1987, pp. 31-32. (21) g. AMATo - A. bARbeRA, manuale di diritto pubblico, Vol. III, bologna, 1997, p. 19. (22) P. bARILe, Democrazia e segreto, in Quaderni costituzionali, n. 1/1987, p. 29. (23) P. bARILe, Democrazia e segreto, in Quaderni costituzionali, n. 1/1987, p. 29; si veda, altresì, quanto ricostruito sempre in P. bARILe, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, bologna, 1984, pp. 61- 62 ed anche pp. 235 ss. RASSegNA AVVoCATuRA 278 DeLLo STATo - N. 3/2018 In ogni caso, a ben riflettere, si tratta di una disciplina (tanto nel pubblico quanto nel privato) che necessita di essere la più prudente possibile, attese le estese finalità di pubblico interesse sottese all’oggetto di tutela della segretezza (pubblica o privata che sia), nonché le rispettive intrinseche potenziali capacità delle attività segretate di interferire con i più svariati settori ordinamentali, il che specialmente onde evitare che si realizzi indiscriminatamente: «la lesione di principi, diritti o attribuzioni che siano al lor volta costituzionalmente garantiti » (24). ebbene, dal costante insegnamento della Corte costituzionale (25), come pure dal condiviso orientamento della prevalente dottrina, si ricava, anzitutto, un principio fondamentale: diversi interessi tra loro confliggenti debbono essere interpretati secondo criteri di armonica composizione e di reciproco coordinamento, senza mai precipitosamente giungere, perciò, a quel totale sacrificio di alcuni a beneficio di altri. Soltanto nell’ipotesi in cui il fruttuoso ricorso all’utilizzo di simili criteri non sia possibile dovrà allora porsi come necessario il procedere - con tutte le cautele del caso e con i supporti costituzionali che siano i più precisi possibili - ad un giudizio di prevalenza, impegnandosi, comunque, nel cercare di limitare al massimo la compressione degli interessi che si ritengano indispensabili sacrificare; in ossequio, del resto, al principio di proporzionalità. Sotto questo profilo, ovvero in punto di analisi su quali possano essere gli interessi costituzionalmente confliggenti con quelli preordinati a legittimare la segretezza nel settore pubblico (ma ciò vale anche nel privato) appare particolarmente rilevante la libertà di manifestazione del pensiero, disciplinata - come noto - dalla disposizione di cui all’articolo 21 della Costituzione italiana. (24) g. AMATo, L’ispezione politica del parlamento, Milano, 1968, p. 67; appare altresì prezioso il riferimento a quanto sempre brillantemente sviluppato in g. AMATo, un altro mondo è possibile?, Milano, 2006, pp. 7 ss.; per una serrata critica ai sistemi di controllo in democrazia, visti come un chiaro indicatore di arretramento della cultura dei diritti e caratterizzati da un'enfasi sproporzionata e strumentale del bisogno di sicurezza, si veda S. RoDoTà, Le due Torri, l’uso della forza e le nostre fragili democrazie, in La repubblica, 13 dicembre 2003. (25) Si veda, fra le tante, C. cost., sent. 22 dicembre 1988, n. 1130, par. 2 del Considerato in diritto. In quell’occasione la Consulta introdusse per la prima volta l’esplicito riferimento ad una “proporzionalità in senso stretto” nei rapporti tra diritti fondamentali. Per ulteriori sviluppi, più recenti, si confrontino anche C. cost., sent. 28 novembre 2012, n. 264 e, soprattutto, sent. 9 maggio 2013, n. 85. Quest’ultima, in particolare, concerneva un noto hard case, ovvero il celebre caso ILVA. un giudizio in cui la Corte, a fronte dell’interruzione dei lavori delle acciaierie ILVA di Taranto, fu chiamata a doversi pronunciare sull’esigenza di preservare un’attività economica di grande impatto nella società italiana ed europea, in specie per l’enorme mole di posti di lavoro messi a rischio dagli effetti irreversibili dello spegnimento dell’alto forno. ebbene, la Corte costituzionale puntualizzò il fatto che la tutela dei diritti fondamentali dovesse essere necessariamente “sistemica e non frazionata” (sul punto si veda il par. 9 del Considerato in diritto), sottolineando, segnatamente, che il giudice delle leggi - nell’ambito della propria attività ermeneutica - sia chiamato a dover far uso, nel proprio giudizio di bilanciamento, dei fondamentali criteri di ragionevolezza e proporzionalità, secondo una valutazione in cui non potrebbe mai pressoché esserci quel totale sacrificio di un interesse a completo scapito dell’altro. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 279 Trattasi di un diritto di libertà che autorevole parte della dottrina ha riconosciuto essere come un diritto dalla natura ‘squisitamente individuale’, in antitesi, perciò, a certe altre impostazioni che ne avrebbero, al più, semplicisticamente individuato la ratio nella natura di un diritto ‘oggettivamente funzionale all'individuo’. In particolare si deve a Carlo esposito una delle più approfondite analisi in materia (26). esposito, in base a diverse e persuasive argomentazioni - quali quelle fondate sulla collocazione dell'articolo 21 nel Titolo relativo ai rapporti civili, sull'attribuzione di questo diritto «a tutti» e non soltanto ai cittadini, sulla completa mancanza di ogni accenno a qualsivoglia funzione sociale o politica (contrariamente alle esplicite formulazioni presenti per altri tipi di diritti costituzionalmente garantiti), nonché sulla base delle stesse indicazioni offerteci dai Padri costituenti nei lavori preparatori della Costituzione - ha proceduto ad una vera e propria ‘ricostruzione’ della natura del diritto di libertà di manifestazione del pensiero, ravvisandone il carattere di un diritto ‘individuale’, riferibile, cioè, al novero di quei diritti inviolabili dell'uomo che la Repubblica riconosce e garantisce sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolga la sua personalità. ora, sempre esposito ha tenuto, in ogni caso, a puntualizzare che, indubbiamente, dalla affermata natura ‘individuale’ di un diritto di libertà non si voglia, e non si possa, assolutamente farne discendere i caratteri di un diritto a sé stante, che una volta riconosciuto dalla comunità statuale venga poi ad esercitarsi ed esplicarsi al di fuori dell'ambito della comunità statuale stessa - ovvero di un diritto riconosciuto dall'ordinamento al singolo isolato e fuori dall'ordinamento stesso - bensì che «alcuni diritti sono attribuiti all'uomo come tale e a vantaggio dell'uomo, al singolo per ciò che essi rappresentano per esso singolo nelle sue qualità universali o per l'appagamento egoistico dei suoi bisogni e desideri individuali» (27); altri diritti, all’opposto, giungerebbero ad essere attribuiti all’individuo nella propria qualità ‘specifica’ di membro - ovverosia di partecipe - di una comunità statale e per le funzioni che in essa sia chiamato concretamente a dover esplicare, sicché la partecipazione alla comunità finirebbe, in questi casi, per determinarne i contenuti ed i limiti stessi di quel diritto (così come accade per il diritto di voto, ad esempio). Quando, invece, si proclama che la Costituzione garantisce il diritto della libera manifestazione del pensiero, si intende attribuirne la garanzia costitu- (26) C. eSPoSITo, La libertà di manifestazione del pensiero nell'ordinamento italiano, Milano, 1958, pp. 7 ss. (27) C. eSPoSITo, La libertà di manifestazione del pensiero nell'ordinamento italiano, Milano, 1958, p. 8. RASSegNA AVVoCATuRA 280 DeLLo STATo - N. 3/2018 zionale del suo esercizio al singolo come tale ed indipendentemente da qualsiasi vantaggio o dagli svantaggi che allo Stato possa derivarne. Ne discende che l'esercizio del diritto di libertà di manifestazione del pensiero (sia esso relativo a tematiche afferenti allo Stato quanto a qualsiasi altro concreto ed attuale problema politico) non si troverà mai ad essere riconosciuto in una misura differente a seconda del tipo di manifestazione esternata, potendo, perciò, attenere ai più possibili e disparati oggetti; per questo motivo ogni limitazione all'esercizio della libertà di pensiero - quand’anche potenzialmente incidente sullo stesso svolgimento della vita statuale - dovrà necessariamente trovare il proprio fondamento in precise e ben determinate disposizioni costituzionali che ne giustifichino l'affermazione della relativa ‘compressione’. Il che, del resto, dovrebbe far riflettere su come siano errati tutti i diffusi tentativi in dottrina di ‘configurare’ questo diritto come esclusivamente diretto a garantire ai singoli l’effettiva, e principale, possibilità di concorrere alla vita politica nazionale; se non altro, perché: «non la democraticità dello Stato ha per conseguenza il riconoscimento di questa libertà ma le ragioni ideali del riconoscimento di quella libertà portano, tra le tante conseguenze, anche alla affermazione dello Stato democratico» (28). esiste, comunque, un nesso inscindibile tra la proclamazione della democraticità dello Stato e la libertà di manifestazione del pensiero, ossia che: «quella libertà nella sua pienezza e con i soli limiti che ad essa siano specificamente imposti da particolari disposizioni costituzionali è ritenuta incontrovertibilmente utile allo svolgimento di una vita democratica, e che la dichiarazione che lo Stato è democratico, niente aggiunge e niente toglie alla solenne e specifica proclamazione di libertà» (29). Tra le righe può facilmente intendersi che ogni limitazione al diritto di libera manifestazione del pensiero debba - in qualsiasi caso, come anche in quello particolare di un’attività secretata - riposare su individuabili e ben determinate disposizioni costituzionali giustificatrici. Da qui l’inevitabile contemperamento del riconoscimento del diritto di libera manifestazione del pensiero con la garanzia di altri diritti fondamentali, nonché di altri interessi, pure essi consacrati dalla Costituzione (30). Più in particolare, e per quanto qui interessa il possibile rapporto intercorrente tra le limitazioni alla libertà di manifestazione del pensiero e gli antitetici interessi costituzionalmente idonei a legittimare la segretezza, sarebbe opportuno focalizzare l’analisi sui limiti (oggettivi) frapposti alla disciplina dell’articolo 21 della Carta costituzionale. (28) C. eSPoSITo, La libertà di manifestazione del pensiero nell'ordinamento italiano, Milano, 1958, p. 12. (29) C. eSPoSITo, op. cit., p. 12. (30) C. eSPoSITo, op. cit., pp. 27 ss. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 281 La libertà di manifestazione del pensiero - sebbene fondamentale diritto individuale, costituzionalmente garantito - non gode, infatti, di una tutela assoluta ed illimitata. Dei limiti oggettivi sussistono, per esempio, allorché si escluda dal relativo ambito di tutela e garanzia ogni manifestazione del pensiero che non sia effettivamente rispondente alle interiori persuasioni ed all'interiore convincimento dell'autore: segnatamente per tutti quei tipi di affermazione o negazione esternate bensì non corrispondenti alle effettive convinzioni e valutazioni interiori sarebbe consentito al legislatore ordinario di vietare e punire il subiettivamente falso, la menzogna, la reticenza, il dolo, l'inganno, il raggiro e la frode in vantaggio della fede pubblica - in generale - come pure di altri interessi costituzionalmente preposti a tutelare i ‘prevalenti’ valori dei singoli ovvero della collettività; il che, naturalmente, ove sia raggiunta la tangibile prova di una effettiva divergenza dell'espressione manifestata dall'interiore pensiero dell’autore (31). Si rende, tuttavia, doverosa una puntualizzazione, anche al fine, fra l’altro, di una migliore distinzione tra la definizione del concetto di reticenza, da un lato, e l’ambito oggettivo del diritto di libertà di manifestazione di pensiero, dall’altro, nonché per una più chiara esposizione dei rapporti intercorrenti tra la reticenza e l’obbligo impositivo della segretezza. I limiti oggettivi alla libertà di manifestazione del pensiero si rapportano non solo ad una libertà “positiva” (libertà di manifestare con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione, il proprio pensiero), bensì anche ad una sua dimensione “negativa”, intesa quale diritto costituzionalmente garantito a poter liberamente astenersi dal manifestare quanto in oggetto di un proprio pensiero. Codesta estensione oggettiva, tuttavia, ben potrebbe essere soggetta a restringimenti in tutti i casi in cui si veda ridimensionata da esplicite od implicite deroghe che sia la Costituzione stessa a poter ammettere, in rapporto alla tutela di finalità ritenute, cioè, preminenti. È per questo che, in taluni casi costituzionalmente garantiti, resterebbero escluse dall’ambito di tutela ex articolo 21 quelle manifestazioni del pensiero non rispondenti alle interiori persuasioni od all’interiore pensiero dell’autore, quelle affermazioni o negazioni, cioè, non effettivamente corrispondenti alle reali convinzioni e valutazioni interne; in questi casi, infatti, altri interessi costituzionalmente tutelati verrebbero in rilievo, quali la fede pubblica nonché, soprattutto, la fondamentale garanzia della potestà di accertamento ed inchiesta riconosciute tanto alle Autorità giudiziarie quanto, per altro, in casi particolari - come quelli delle procedure di inchiesta parlamentari - non giudiziarie. (31) C. eSPoSITo, La libertà di manifestazione del pensiero nell'ordinamento italiano, Milano, 1958, pp. 36 ss. RASSegNA AVVoCATuRA 282 DeLLo STATo - N. 3/2018 La fede pubblica e la garanzia di accertamento ed inchiesta processuale, infatti, rischierebbero di rimanere del tutto frustrate ed irrealizzate se non vi fosse la "costituzionalmente garantita" impossibilità di divergenza tra quanto oggettivamente manifestato e quanto subiettivamente conosciuto (32). ed è per questa pregnante motivazione che resta esclusa, in tali casi, la garanzia di libertà ex art. 21 Cost. Più semplicemente è ben possibile che la libertà negativa di manifestazione del pensiero - quale diritto ad astenersi dal manifestare quanto in oggetto di propria coscienza e conoscenza - ceda il passo ad interessi costituzionalmente ritenuti superiori, quali - nel caso della tutela della potestà di accertamento ed inchiesta dell'autorità giudiziaria - il buon andamento della giustizia e la ricerca della verità dei fatti (33). In questi casi, l’originaria libertà ‘negativa’ di manifestazione del pensiero verrebbe a tramutarsi, sulla base di una differente valutazione costituzionale degli interessi in gioco, nell'altra sua faccia della medaglia, ossia nella reticenza, quale tipica condotta omissiva caratterizzata da un pregnante e particolare tipo di disvalore giuridico, consistente nella propria interiore volontà di sottrarre il personale e peculiare apporto collaborativo necessario al fine della preziosa realizzazione del buon andamento e, soprattutto, del regolare funzionamento dell'amministrazione della giustizia e del buon andamento dell’attività giudiziaria (34). ebbene, tale ricostruzione - fermo restando la necessaria distinzione tra la libertà di manifestazione del pensiero nella propria accezione negativa e la reticenza - mi era cara affinché poter procedere ad un’ulteriore - fondamentale - differenziazione giuridica, intercorrente tra la reticenza, da un lato, e l’adempimento di un obbligo di segretezza discendente dall’esercizio dei poteri di un pubblico ufficio, dall’altro lato. Si tratta di una situazione, invero, peculiare, nella misura in cui il pubblico ufficiale sia vincolato all’obbligo di segretezza sebbene soggettivamente legittimato all'esercizio della prerogativa costituzionale di libera manifestazione del pensiero (il che sia sotto l’accezione positiva che sotto quella negativa): in chiaro ed ‘apparente’ contrasto con lo spirito della disposizione dell'articolo (32) C. eSPoSITo, La libertà di manifestazione del pensiero nell'ordinamento italiano, Milano, 1958, p. 35. (33) Analoghe argomentazioni, mutatis mutandis, si pongono, per altro, alla base delle limitazioni al cosiddetto diritto di cronaca giornalistico. In dottrina, ex multis, A. ToRReNTe - P. SChLeSINgeR, manuale di Diritto privato, Milano, 2017, pp. 141-142. (34) giova, in proposito, riportare il contenuto dell’art. 372 del codice penale. «Chiunque, deponendo come testimone innanzi all’autorità giudiziaria, afferma il falso o nega il vero, ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali è interrogato, è punito con la reclusione da due a sei anni». Circa l’interpretazione del bene giuridico tutelato si veda, per tutti, g. FIANDACA - e. MuSCo, Diritto penale, Parte speciale, Volume I, bologna, 2007, pp. 373-382. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 283 21; giacché nel caso in cui intendesse manifestare "positivamente" la libertà del proprio pensiero (con la parola, lo scritto e qualsiasi altro mezzo di diffusione) in merito ad un oggetto segretato sarebbe obbligato a 'non dire', mentre nel caso in cui volesse astenersi "negativamente" dal comunicare ciò che è in oggetto di propria conoscenza - acquisita per il tramite di informazioni pervenutegli mediante un’attività connessa, per esempio, con l’apposizione del segreto di Stato - sarà comunque vincolato (e senza possibilità di scelta) a 'dover non dire' (si pensi, ad esempio, al caso dei funzionari del Sistema di Informazione per la Sicurezza della Repubblica imputati per la commissione di un reato legato alla propria attività informativa). ebbene, codeste logiche considerazioni, in termini puramente astratti, costituiscono la naturale premessa che conduce ad interrogarci sul perché, nel particolar caso concreto, sia possibile un legittimo obbligo impositivo della segretezza, interrogandosi sulla concreta motivazione giuridica in base alla quale si verrebbe a poter essere legittimamente esclusi dall’ambito della garanzia di un diritto fondamentale come la libertà di manifestazione del pensiero; ponendosi, in particolare, al di sotto dell’angolazione visuale di colui il quale venisse a conoscenza di un segreto in quanto l’oggetto di quel segreto fosse strumentale rispetto all’esercizio delle proprie funzioni istituzionali, espletate in adempimento di precise prescrizioni contemplate dalla Costituzione e dalle leggi. ora, escluse dall’ambito oggettivo della garanzia ex art. 21 devono ritenersi - oltre alle manifestazioni non corrispondenti alle interiori persuasioni dell’autore e comunicate sotto forma di reticenza, dolo o inganno - l’insieme di quelle diffusioni di pensiero e di notizie che, secondo forma e sostanza, fossero considerabili come giuridicamente altrui, sicché «la diffusione è 'riservata' ad altro soggetto o sottoposta all’altrui consenso» (35). Qui, e solo qui, a ben riflettere, può avere, ad esempio, fondamento la tutela della proprietà letteraria, quivi non possono che trovare una sicura giustificazione - rispetto alla loro contrarietà con l’art. 21 - le norme impositive dell’obbligo di segretezza nei confronti di un pubblico ufficiale; visto, è bene ripeterlo, al di sotto dell’angolazione visuale di una sussistenza del legame intercorrente tra un fatto (ma ben potrebbe essere un’informazione, un documento, un atto od una attività ) ed un soggetto investito dell’esercizio di funzioni pubbliche finalizzate alla cura di quel fatto, sicché al titolare di codeste funzioni ben potrebbe venire ad essere "riservato" di ricevere e dare notizia del fatto stesso. Detto in altre parole, sarebbe proprio la relazione sussistente tra la titolarità di un ufficio pubblico e le notizie ed informazioni afferenti all’esercizio (35) C. eSPoSITo, La libertà di manifestazione del pensiero nell'ordinamento italiano, Milano, 1958, pp. 37-38. RASSegNA AVVoCATuRA 284 DeLLo STATo - N. 3/2018 delle funzioni di quell’ufficio (36) (espressione del cosiddetto rapporto d’ufficio (37)) a dover giustificare l’imposizione del segreto e la relativa ‘compressione’ del diritto di libertà ex art. 21, trattandosi di fatti o di notizie acquisite dalla persona come titolare di quell’ufficio, in veste funzionale, avendo riguardo, cioè, ad un oggetto di scienza appartenente non in proprio a quella persona, bensì all’ufficio di cui la stessa è, per l’appunto, titolare (38). Sarebbero queste, pertanto, alcune delle inevitabili premesse da anteporre in ogni caso in cui si volesse, poi, affrontare l’ulteriore discorso degli strumenti di tutela penale preposti in favore della garanzia dei vincoli derivanti dal segreto di Stato o d’ufficio, se non altro per poter arrivare a cogliere la ratio e il perché, dunque, di una limitazione ad una libertà così fondamentale come quella di libera manifestazione del pensiero. In ogni caso, può pacificamente sostenersi - più in generale - che qualsiasi obbligo impositivo dei vincoli di segretezza sarebbe indiscutibilmente, e radicalmente, illegittimo in assenza di altrettante disposizioni costituzionali (39) che - esplicitamente o implicitamente - lo sorreggessero; il che a necessario bilanciamento, se non altro, della garanzia di altre fondamentali disposizioni costituzionali, tra le quali, come appena visto, spicca, in particolare, la generale tutela della libertà fondamentale di manifestazione del pensiero (40). È pur vero che ben pochi siano gli interessi generali non ricompresi al di sotto delle enunciazioni, esplicite od implicite, contemplate nel testo della Carta costituzionale, sicché, oltre ad affermarsi la necessarietà d’una giustificazione della segretezza alla luce della sussistenza di un interesse costituzionalmente apprezzabile, sarebbe altresì indispensabile il verificare, caso per caso, che l’interesse “a cuore” sia anche identificabile: «come fattore reale e non meramente potenziale» (41); ciò al fine decisivo di poter risultare prevalente in un eventuale giudizio di bilanciamento. (36) Sui caratteri propri dell’‘immedesimazione organica’ si vedano, ex multis, S. bATTINI, il personale, in S. CASSeSe (a cura di), istituzioni di Diritto amministrativo, Milano, 2012, pp. 131-193; più di recente, S. TARuLLo, manuale di Diritto amministrativo, bologna, 2017, pp. 135-138. (37) Sul rapporto d’ufficio, ex multis, S. bATTINI, rapporto di ufficio e rapporto di servizio, in S. CASSeSe (a cura di), istituzioni di Diritto amministrativo, Milano, 2012, pp. 131-132. (38) C. eSPoSITo, La libertà di manifestazione del pensiero nell'ordinamento italiano, Milano, 1958, p. 39. (39) C. eSPoSITo, La libertà di manifestazione del pensiero nell'ordinamento italiano, Milano, 1958, p. 27 e pp. 35 ss. (40) Ex multis, in dottrina, A. gIuLIANI, osservazioni sul diritto all'informazione, in Studi in memoria di Domenico Pettiti, II, Milano, 1973, pp. 713-726; V. oNIDA, i principi fondamentali della Costituzione, in g. AMATo - A. bARbeRA (a cura di), manuale di Diritto pubblico, bologna, 1984, p. 119. In particolare, secondo quanto autorevolmente e incisivamente ricostruito in dottrina, se il principio di pubblicità è funzionale - fra le altre cose - alla capacità di «sviluppare una propria visione del mondo, sulla base della quale assumere decisioni, formulare scelte [di partecipazione politica]» allora essa «costituisce [...] l'altra faccia della libertà di manifestazione del pensiero», g. AReNA, Trasparenza, in S. CASSeSe (a cura di), Dizionario di Diritto Pubblico, Milano, 2006, p. 5949. (41) g. PALoZZI, La tutela processuale del segreto di Stato, Milano, 1983, pp. 89-91. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 285 Tutte considerazioni queste che non possono che circoscrivere nella maniera più stringente la segretezza nel settore pubblico, che da eccezione alla regola non può - e non deve - far venir meno la regola generale stessa; così da andare ad escludere a priori - per logica conseguenza - ogni forma di segretezza illimitata nel tempo. Autorevole parte della dottrina, sul punto, ha, non casualmente, evidenziato proprio che poiché il potere sovrano è conferito ed esercitato nell'interesse e per conto del popolo, quello stesso potere dovrà poter essere controllato dal popolo (42) e dal popolo sempre riconoscibile; da qui, pertanto, l’ammissibilità del solo segreto «provvisorio» e «parziale», da ammettere, in via di eccezione, in rapporto alle: «specifiche finalità giustificanti» (43). Invero, nella nostra forma di Stato costituzional-democratica, appunto, il principio della pubblicità costituisce la regola del diritto pubblico nonché, per altro, uno degli elementi essenziali e supremi dell’ordinamento costituzionale (44), posto che, ex art. 1 Cost., “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”: ed è indubbio che la forma paradigmatica di esercizio della sovranità prescelta sia quella propria di una democrazia rappresentativa (pur con tutti i suoi limiti, appunto (45)) in cui, (42) Sulla nevralgica centralità che assume il «controllo del popolo sui governanti» nell'ordinamento democratico, nonché sulle pregnanti esigenze di visibilità (pubblicità) del potere che ne conseguono si confronti, particolarmente, g.u. ReSCIgNo, La responsabilità politica, Milano, 1967, pp. 132 ss. (43) u. SCARPeLLI, La democrazia e il segreto, in il segreto nella realtà giuridica italiana, Atti del Convegno nazionale (Roma, ottobre 1981), Padova, 1983, p. 625 nonché, specialmente, pp. 638- 648. (44) In particolare, sui principi supremi dell’ordinamento costituzionale - da intendersi quali peculiari limiti impliciti frapposti al potere di revisione costituzionale, in quanto vera e propria espressione di un nucleo intangibile della Carta costituzionale - si veda, ex multis, in dottrina g. MoRbIDeLLI - L. PeRgoRARo - A. RePoSo - M. VoLPI, Diritto Pubblico comparato, Torino, 2009, pp. 80-84. In giurisprudenza appare significativo richiamare una celeberrima pronuncia sul punto: C. cost., sent. 29 dicembre 1988, n. 1146, par. 2.1 del Considerato in diritto. (45) Laddove - come può ben intuirsi - il riferimento ai ‘limiti’ viene qui utilizzato in modo del tutto ambiguo ed ambivalente: volendo alludere sia ai limiti (‘oggettivi’) costituzionalmente contemplati per l’esercizio della nostra forma di sovranità popolare di carattere rappresentativo (con la disciplina di pochi istituti di democrazia diretta, che, invero, nella maggioranza degli ordinamenti democratici restano, ancora, del tutto eccezionali e di carattere integrativo rispetto all’attività degli organi rappresentativi) che, dall’altra parte, a quel genere di ‘limiti’ (o, meglio, di limitazioni di natura fisiologica/patologica) che ben potremmo, quasi, definire come ‘soggettivamente’ e potenzialmente tipici di ogni democrazia rappresentativa. Sugli istituti di democrazia diretta si confronti, ex multis, g. MoRbIDeLLI - L. PeRgoRARo - A. RePoSo - M. VoLPI, Diritto Pubblico comparato, Torino, 2009, pp. 371-379. Il dibattito recente in merito ai limiti nonché alle concrete problematiche sottese alla rappresentanza parlamentare è stato molto acceso e nutrito, si confrontino, ex multis, senza pretese di esaustività, A. MoReLLI, La democrazia rappresentativa. Declino di un modello?, Milano, 2015; L. buFFoNI, La rappresentazione del Parlamento, in osservatorio sulle fonti, n. 3/2016, pp. 1-17; M. FRAu, L’attualità del parlamentarismo razionalizzato, in Nomos. Le attualità nel diritto, n. 3/2016; C. MeoLI, Sulla crisi della rappresentanza parlamentare e il transfughismo, in Giustamm., n. 9/2016; P. bILANCIA, Crisi nella democrazia rappresentativa e aperture a nuove istanze di partecipazione democratica, in Federalismi.it, n. 1/2017; g. CAVAggIoN, La democrazia rappresentativa e le sfide della società multiculturale, in Fe RASSegNA AVVoCATuRA 286 DeLLo STATo - N. 3/2018 vale a dire, la pubblicità costituisce un indefettibile prius logico necessario per permettere di verificare che la ‘delega del potere popolare’ sia correttamente esercitata (46). Il che se può apparire come un incontrovertibile assioma non postula, di per sé, che il principio di pubblicità sia (o debba essere) assoluto. Da nessuna parte, infatti, è scritto o è disposto che la segretezza debba essere bandita o completamente esclusa, al contrario: «[…] la segretezza può essere opportuna in relazione a certe discussioni delle Commissioni Parlamentari, a certi atti di procedimenti penali, ad alcune politiche monetarie che si basano sull’effetto “sorpresa”, per non parlare di molte azioni di politica internazionale e diplomatica e di molte operazioni degli apparati di intelligence tese a tutelare la sicurezza dei cittadini» (47). È la stessa Costituzione ad ammettere le (opportune) limitazioni al principio di pubblicità allorché lo esiga, ad esempio, il corretto ed indipendente funzionamento delle attività parlamentari (come può chiaramente desumersi dagli articoli 64, comma 2, e 82 Cost.) (48) nonché nei casi in cui si renda necessario garantire l’effettività e l’efficienza delle indagini investigative dell’Autorità giudiziaria (come ben si può serenamente interpretare ex artt. 82, 111 e 112 Cost.) (49) ovvero nelle peculiari ipotesi di tutela della fondamentale ed imprescindibile salus rei pubblicae (ex artt. 1, 5, 52, 126 e 139 Cost.) (50). In altre parole, il principio fondamentale di: «pubblicità, pur essendo regola di base della convivenza democratica, non assurge in nessun ordinamento costituzionale al rango di valore assoluto» (51), tanto è vero che: «il segreto […] può […] [ben] essere [comunque] lo strumento per limitare la cognizione di certe informazioni in nome della tutela di [controbilanciati] valori costituzionali di alto rilievo (come la salvaguardia dello Stato democratico) ovvero di principi fondamentali (ad es. la dignità della persona umana) […]. Tuttavia più che parlare di segreto bisognerebbe [a stretto rigore] parlare di segreti, (es. il segreto d’ufficio, il segreto industriale, il segreto professionale, il segreto processuale, il segreto bancario, il segreto postale, ecc.) ognuno dei quali è deralismi.it, n. 1/2017; L. VIoLANTe, Democrazie senza memoria, Torino, 2017; S. CASSeSe, La democrazia e i suoi limiti, Milano, 2017; I. DIAMANTI, alla periferia della crisi. il populismo e il disagio della democrazia rappresentativa, in Stato e mercato, n. 1/2018, pp. 117-126. (46) Appare utile sul punto il rimando al recente contributo di M.g. LoSANo, Trasparenza e segreto: una convivenza difficile nello Stato democratico, in Diritto Pubblico, n. 3/2017, pp. 657-682. (47) A. MuTTI, Trasparenza e segretezza nei sistemi democratici, in il mulino, n. 2/2015, p. 347. (48) Appare utile, sul punto, il rimando a quanto ricostruito in L. buFFoNI, La rappresentazione del Parlamento, in osservatorio sulle fonti, n. 3/2016, pp. 1-17. (49) Ex multis, g. boNgIoRNo, il divieto di pubblicare atti del processo penale: dalla tutela dei giurati alla tutela del segreto investigativo, in Foro it., n. 9/1995, pt. 2, pp. 525-532. (50) M. LuCIANI, il segreto di Stato nell’ordinamento nazionale, in AA. VV., il segreto di Stato. Evoluzioni normative e giurisprudenziali, Quaderno di intelligence-Gnosis, novembre 2011, pp. 9-27. (51) P. SILVeSTRI, La trasparenza amministrativa ed il segreto di Stato: la regola e l’eccezione, in A. ToRRe (a cura di), Costituzioni e sicurezza dello Stato, Santarcangelo di Romagna, 2013, p. 1147. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 287 normativamente previsto e regolato nel nostro ordinamento con una specifica disciplina che individua il titolo di legittimazione e le tecniche di tutela, ovvero determina il suo [potenziale ed elastico] grado di resistenza di fronte ad altri interessi egualmente meritevoli di tutela e con esso confliggenti». gli istituti connotati di segretezza, per tutto ciò, si pongono nel diritto pubblico come delle forme peculiari di esercizio di potestà dal carattere ‘eccezionale’, precisamente funzionali, da un lato, rispetto alla tutela di un determinato soggetto giuridicamente legittimato e, dall’altro, finalizzati alla ‘delicata’ realizzazione di interessi pubblici costituzionalmente garantiti ed ‘astrattamente’ controbilanciati rispetto al generale principio di pubblicità (52) (poiché sul piano concreto s’imporrà, comunque, sempre come necessario l’irrinunciabile garanzia dell’osservanza - tanto da parte del legislatore, in primis, che dello stesso giudice delle leggi, in fase di ultima istanza contenziosa, in secondo luogo - degli imprescindibili principi di ragionevolezza e proporzionalità) (53). Il che si snoda secondo uno schema pressoché ricorrente, costituito su due elementi imprescindibili: in primo luogo sull’elemento tipico della ‘funzionalizzazione dell'attività di segretazione’ rispetto agli interessi di un soggetto pubblico, il quale viene, perciò, a rivestire la natura di destinatario e di beneficiario della funzione di segretazione; in secondo luogo assume pregnante rilevanza la ‘finalità pubblica’ concretamente oggetto di soddisfacimento delle attività di segretazione, una finalità costituzionalmente garantita e funzionalizzata, appunto, alla tutela degli interessi di un soggetto pubblico. Non sarebbe un caso che lo schema qui proposto si ripeta proprio nei principali tipi di segreto nel pubblico: così ad esempio, nel segreto d’indagine, anche noto come segreto investigativo. Qui l'attività di segretazione è preordinata prevalentemente allo scopo di una garanzia del buon andamento della giustizia (54), un interesse sicuramente meritevole d’una tutela costituzionale, (52) In dottrina è stato proprio efficacemente approfondito e studiato il carattere di "strumentalità" proprio della pubblicità, nonché, per converso, dell'opposta segretezza, si confrontino, ex multis, F. MeRLoNI, Trasparenza delle istituzioni e principio democratico, in F. MeRLoNI (a cura di), La trasparenza amministrativa, Milano, 2008, pp. 7 ss.; e. CARLoNI, L'amministrazione aperta. regole, strumenti, limiti dell'open government, Rimini, 2014, pp. 33 ss. (53) Per degli utili approfondimenti sul punto appare significativo il rimandare a quanto preziosamente ricostruito in g. PITRuZZeLLA, voce Segreto, i) Profili costituzionali, in Enciclopedia giuridica Treccani, Vol. XXXVIII, Roma, Istituto della enciclopedia Italiana, 1992, pp. 1 ss.; A. MoRRoNe, voce Bilanciamento (giustizia costituzionale), in Enciclopedia del diritto, Annali, Vol. 2, tomo II, Milano, 2008, pp. 185-204; ancora più di recente si confronti altresì A. MoRRoNe, il bilanciamento nello Stato costituzionale. Teorie e prassi delle tecniche di giudizio nei conflitti tra diritti e interessi costituzionali, Torino, 2014. (54) P. bARILe, Democrazia e segreto, in Quaderni costituzionali, n. 1/1987, pp. 32-33; sul tema inerente alle interrelazioni del segreto investigativo con la connessa problematica della garanzia del diritto di libera informazione si confronti, ex multis, M. ChIAVARIo, Diritto Processuale Penale, Torino, 2013, pp. 464-465. RASSegNA AVVoCATuRA 288 DeLLo STATo - N. 3/2018 così come astrattamente desumibile, ad oggi, dal dettato dell'articolo 111 della Costituzione. Soggetto pubblico destinatario e beneficiario dell'attività secretata non potrebbe che essere, qui, l'Autorità giudiziaria che venga a poter avvalersi del relativo segreto. Sul segreto d'ufficio, invece, se la dottrina più recente ne rinverrebbe il fondamento nel dovere di fedeltà alla Repubblica - di cui all'articolo 54 della Costituzione - altra parte della dottrina richiamerebbe, piuttosto, ulteriori interessi costituzionalmente garantiti, quali, per esempio, la sicurezza pubblica e la riservatezza (55). Di certo è che il segreto d’ufficio è il segreto proprio dell’attività degli apparati amministrativi (56). un segreto che, stando ad una tesi oramai ‘classica’, consisterebbe in una “scoperta specifica” della moderna democrazia, costituendo uno strumento mediante il quale l’Amministrazione - monopolizzando il proprio sapere professionale - verrebbe a poter accrescere ed a consolidare la propria posizione di potenza (57). Invero dall’insieme dei principi caratterizzanti la nostra Carta costituzionale è ricavabile una tendenza verso un cambiamento radicale. La proclamazione del principio democratico (ex artt. 1 e 49 Cost.), l’affermazione dell’eguaglianza sostanziale (art. 3, c. 2 Cost.), l’introduzione di una forma di Stato democratica, sociale e pluralista comportano, per logica conseguenza, che l’attività degli apparati della Pubblica Amministrazione sia fisiologicamente ispirata ad un opposto principio di trasparenza (58), il che per altro non potrebbe realizzarsi se non in armonia con il principio basilare del buon andamento e dell’imparzialità dell’Amministrazione Pubblica (59). Del resto, in questo senso, tanto la disciplina del diritto di accesso procedimentale quanto, soprattutto, il più recente istituto del diritto di ‘accesso civico’ hanno fatto, fin qui, scuola (60). In ogni caso, il soggetto pubblico beneficiario e destinatario dell'attività del segreto d’ufficio resta la P.A., a tutela, negli specifici casi contemplati oggi dalla legge, di plurimi e delicati interessi - in ogni caso coperti da una salda garanzia costituzionale - quali la sicurezza dello Stato, la tutela degli interessi di politica monetaria e valutaria, la cura delle relazioni internazionali sino a giungere alla tutela della vita privata ed alla riservatezza dei terzi. Quanto ai vincoli di segretezza caratterizzanti il funzionamento dell’atti- (55) P. bARILe, Democrazia e segreto, in Quaderni costituzionali, n. 1/1987, specialmente pp. 34- 35. (56) A. ANZoN, Vi) voce segreto d'ufficio - Dir. amm., in Enciclopedia giuridica Treccani, Vol. XXVIII, Roma, 1992, pp. 1-2. (57) A. ANZoN, op. cit., pp. 1-2. (58) A. ANZoN, op. cit., p. 2. (59) S. CASSeSe, istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 2012, pp. 279-284. (60) Più diffusamente sul tema si veda in dottrina, ex multis, S. TARuLLo, manuale di Diritto amministrativo, bologna, 2017, pp. 529-567. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 289 vità delle Camere parlamentari, poi, occorre sottolineare, sul punto, come il segreto abbia possibilità di dispiegarsi secondo diverse modalità. In primo luogo, è contemplato un peculiare tipo di attività secretata in tutti i casi in cui, ex art. 64 Cost., ciascuna Camera deliberi d’adunarsi in seduta segreta. In questa ipotesi la segretazione sarebbe preordinata ad assicurare il miglior conseguimento possibile delle finalità sottese ai lavori dell’attività parlamentare (61). In secondo luogo, di segretezza parlamentare ben può parlarsi in ogni caso in cui sia prevista la possibilità di esercizio del voto a scrutinio segreto, che le disposizioni dei regolamenti parlamentari assicurano in relazione all’oggetto di peculiari e determinate deliberazioni (62), in funzione, qui, per una migliore tutela della libertà di opinione ed indipendenza dei singoli parlamentari. Da ultimo, di segretezza delle attività parlamentari si ha sicuramente modo di poter parlare in merito alle procedure di inchiesta disciplinate dall'art. 82 della Costituzione, che, come noto, dispone puntualmente che: «Ciascuna Camera può disporre inchieste su materie di pubblico interesse. a tale scopo nomina fra i propri componenti una commissione formata in modo da rispecchiare la proporzione dei vari Gruppi. La commissione d’inchiesta procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria». Ad oggi le inchieste parlamentari hanno sempre avuto ad oggetto situazioni fortemente caratterizzate sotto il profilo dell’importanza politica o sociale (tra le tante, basterebbe citare le inchieste sulla mafia, sul delitto Moro, sulla loggia massonica P2, sul terrorismo e sulle stragi ecc.), il che con il prezioso fine di garantire le funzioni ispettive e conoscitive tipiche di ciascuna Camera (63). Funzioni che - così come, del resto, lo stesso articolo 82 precisa - debbono vertere, per le indagini espletate dalle Commissioni parlamentari d’inchiesta, su materie di pubblico interesse. In ognuna delle situazioni di segretezza parlamentare, il segreto rimane sempre preordinato a tutelare finalità realizzatrici di fondamentali interessi pubblici, esplicitamente o implicitamente contemplati in Costituzione, a garanzia - quale beneficiario e peculiare destinatario delle attività di segretazione - del Parlamento, nella propria qualità di organo costituzionale, indubbio soggetto pubblico. Da ultimo, non può non menzionarsi l’istituto del segreto di Stato. Se la dottrina si è per lungo tempo divisa in merito all’individuazione (per altro frutto di una non semplice attività ermeneutica della Carta costitu- (61) S.M. CICCoNeTTI, Diritto Parlamentare, Torino, 2010, p. 113. (62) S.M. CICCoNeTTI, op. cit., p. 119. (63) S.M. CICCoNeTTI, op. cit., p. 218. RASSegNA AVVoCATuRA 290 DeLLo STATo - N. 3/2018 zionale) dell’esatto fondamento costituzionale del vincolo del segreto di Stato - dividendosi, il largo ventaglio interpretativo, fra chi si è appellato, per esempio, all’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (ex art. 2 cost) (64) e chi ha, piuttosto, fatto richiamo agli articoli 52 e 54 (65) - la pressoché consolidata giurisprudenza della Consulta ha chiarito (66) - e senza, del resto, mai discostarsene - come l’atto appositivo del vincolo di segretezza sia preordinato alla cura dell’imprescindibile sicurezza dello Stato-comunità e rinvenga il proprio fondamento giuridico nella formula solenne dell’articolo 52 Cost. - che, come sarà noto, afferma essere sacro dovere del cittadino la difesa della Patria - posto, per altro, in relazione dinamica con l’effettiva tutela dell’indipendenza nazionale, con la cura del principio di unità ed indivisibilità della Repubblica, nonché con i peculiari caratteri essenziali dello Stato, sottesi alla formula di “Repubblica democratica” (ex art. 1 Cost.) (67). Anche per i vincoli di segretezza derivanti dall’istituto del segreto di Stato, dunque, si tratta di una potenziale compressione della disposizione di cui all’articolo 21 Cost. - così come, del resto, di altri fondamentali diritti costituzionalmente garantiti (68) - finalizzata, però, alla cura di un controbilanciato interesse costituzionalmente riconosciuto e garantito, posto in precisa funzione della migliore tutela degli interessi del soggetto pubblico per antonomasia, e vale a dire lo Stato. Appare, perciò, più che evidente - anche in forza di questa brevissima rassegna - come ogni vincolo di segretezza nel diritto pubblico sia connaturato e (64) P. PISA, il segreto di Stato. Profili penali, Milano, 1977, pp. 203-207. (65) Per una più diffusa ricostruzione sulla tematica si veda, in maniera particolare, C. MoSCA - g. SCANDoNe - S. gAMbACuRTA - M. VALeNTINI, i Servizi di informazione e il segreto di Stato, Milano, 2008, p. 457. (66) La giurisprudenza costituzionale in tema di segreto di Stato si è sostanzialmente sviluppata senza alcuna soluzione di continuità: dirimenti sono state anzitutto due risalenti decisioni - che hanno costituito la vera e propria pietra miliare per ogni successiva sentenza in materia - C. cost., sentt., 14 aprile 1976, n. 82 e 24 maggio 1977, n. 86; nel solco di queste si sono poste, più recentemente, il celebre caso abu omar (C. cost., sent., 3 aprile 2009, n. 106) e altre due ravvicinate, quanto rilevanti, decisioni, C. cost., sentt., 23 febbraio 2012, n. 40 e 13 febbraio 2014, n. 24. (67) La letteratura in dottrina sul tema del segreto di Stato è davvero ampia per poter essere richiamata con completezza, sia consentito soltanto - e senza alcuna pretesa di esaustività - il rinvio a T.F. gIuPPoNI, Le dimensioni costituzionali della sicurezza, bologna, 2008; M. LuCIANI, il segreto di Stato nell’ordinamento nazionale, in AA.VV., il segreto di Stato. Evoluzioni normative e giurisprudenziali, Quaderno di intelligence-Gnosis, novembre 2011, pp. 9-25; A. SoI, L’intelligence italiana a sette anni dalla riforma, in Forum di Quaderni Costituzionali, n. 8/2014; e. RINALDI, arcana imperii, il segreto di Stato nella forma di governo italiana, Napoli, 2016; A. MITRoTTI, Brevi considerazioni sulla disciplina del segreto di Stato, in osservatorio aiC, n. 2/2018 nonché, da ultimo, A. MITRoTTI, Sulla controversa natura dell’atto appositivo del segreto di Stato: atto politico o formale provvedimento amministrativo?, in astrid rassegna, n. 8/2018. (68) Si pensi, solo per un esempio, al menomato diritto di difesa potenzialmente esercitabile in giudizio (e tutelato in via generale ex artt. 24 e 113 Cost.) da parte del funzionario vincolato all’obbligo di segretezza. CoNTRIbuTI DI DoTTRINA 291 contraddistinto da un identico e ricorrente schema, preciso e piuttosto semplice. Se, infatti, nel settore privato la segretezza si pone come regola, quale facoltà costituzionalmente concessa in favore del libero ed effettivo esercizio e godimento dei diritti di libertà riconosciuti e garantiti all’uomo (69); nel settore pubblico, all’opposto, il segreto costituisce l'eccezione, sebbene si tratti - ogni puntuale volta - di una eccezione costituzionalmente riconosciuta e debitamente bilanciata con le opposte ragioni del principio di pubblicità e degli altri diritti potenzialmente confliggenti. Il che accade sempre secondo una prospettiva funzionale alla cura di una rilevante (e preminente) finalità pubblica, costituzionalmente garantita, del cui soddisfacimento concreto beneficiano gli interessi tutelati dai soggetti pubblici istituzionalmente preposti - dalla Carta costituzionale e dalle leggi attuative - all’esercizio del potere sovrano appartenente al popolo: ossia la Presidenza del Consiglio dei Ministri nel caso del segreto di Stato, la Pubblica Amministrazione nei casi di segreto d’ufficio, l’Autorità giudiziaria per le ipotesi coperte dal segreto investigativo d’indagine, nonché, da ultimo, le Camere parlamentari per i peculiari casi d’adunanza in seduta segreta, di esercizio del voto a scrutinio segreto come, pure, nel caso di espletamento delle stesse inchieste d’indagine parlamentare. (69) Salvo, naturalmente, le dovute eccezioni (a conferma della regola), posto che, ad esempio, per un fondamentale diritto di libertà costituzionalmente riconosciuto vige, all’opposto, il principio della pubblicità: trattasi, come sarà ben noto, del diritto di associarsi liberamente, ex art. 18 Cost., che non ammette, appunto, alcuna possibilità del suo esercizio segreto, vietando, così, l’esistenza di associazioni segrete nonché di quelle perseguenti, anche indirettamente, degli scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare. RECENSIONI CLAUDIO BOCCIA, CLAUDIO CONTESSA, ENRICO DE GIOVANNI (*), Codice dell’Amministrazione digitale (D.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 commentato e annotato per articolo. Aggiornato al D.lgs. 13 settembre 2017, n. 217). La Tribuna, Piacenza, 2018, PP. 412 L’Opera viene data alle stampe all’esito della rilevante manovra di correzione e aggiornamento che, in base alle previsioni della legge Madia n. 124 del 2015, ha interessato il Codice fra il 2016 e il 2017. Ebbene, quest’Opera (in una sorta di ideale simmetria con il testo oggetto di commento) mira a coniugare la chiarezza dell’esposizione con la completezza dei contenuti, senza superare i caratteri propri di un volume snello e fruibile anche per i meno esperti. Per quanto riguarda l’impostazione generale del Volume, si è scelto di non limitarsi al solo commento agli articoli (il quale rappresenta pur sempre una sua parte del tutto centrale), ma di arricchirla con una breve guida introduttiva a firma dei suoi Curatori i quali si sono concentrati su alcuni dei principali e più attuali aspetti della materia oggetto di esame (1). Venendo invece alla struttura del commento ai singoli articoli, si è optato (conformemente all’impostazione generale della Collana nel cui ambito il volume si inserisce) nel senso di tenere distinti i commenti agli articoli e di suddividere ciascuno di essi in tre parti: (*) Claudio Boccia, Consigliere di Stato, già Vice Segretario generale della Camera dei Deputati. Claudio Contessa, Consigliere di Stato, Consigliere giuridico dell’AGCom. Enrico De Giovanni, Avvocato dello Stato, già Capo dell’Ufficio legislativo del Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie della Presidenza del Consiglio dei Ministri. (1) Di seguito si pubblicano gli articoli introduttivi al volume dei Consiglieri Claudio Boccia e Claudio Contessa. rASSEGNA AVVOCATUrA 294 DELLO STATO - N. 3/2018 - il primo dedicato alla genesi e alla ratio della disposizione oggetto di commento; - il secondo dedicato alla descrizione e all’analisi dell’articolato stesso; - il terzo dedicato alle questioni problematiche o ancora irrisolte. Completa il testo un utile indice analitico-alfabetico. Il nuovo Codice dell’Amministrazione digitale e l’apporto del Consiglio di Stato Il Codice dell'Amministrazione digitale - d'ora in avanti CAD - di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, predisposto in attuazione della delega contenuta nell’articolo 10 della legge 29 luglio 2003, n. 229 (“interventi in materia di qualità della regolazione, riassetto normativo e codificazione - legge di semplificazione 2001”), costituisce una delle più recenti iniziative di codificazione posta in essere dagli organi legislativi ed esecutivi nazionali. La peculiarità del CAD, invero, risiede nella circostanza che tramite quest'ultimo si è portata avanti una complessiva opera di codificazione - sorretta pertanto dai generali principi dell'esaustività, della sistematicità e della tendenziale intangibilità del testo - volta a garantire l’unità e la coerenza complessiva di una disciplina, quella dell'amministrazione digitale, che risulta per sua natura particolarmente sensibile ai mutamenti tecnologici ed al rapido sviluppo del settore dell'informatica. Ne è derivato un testo che ha subito, nel corso del successivo decennio, numerose modifiche ed integrazioni, anche molto articolate, volte ad allineare le previsioni del CAD ai progressi ottenuti nel campo dell'informatica. Tale sviluppo, non del tutto lineare, della normativa in esame è stato costantemente accompagnato dall'apporto “collaborativo” del Consiglio di Stato, particolarmente rilevante in una materia nella quale il contributo degli organi di giustizia, in sede di contenzioso, non assume un rilievo centrale, atteso che le disposizioni del CAD - salvo quanto verrà più puntualmente evidenziato nel prosieguo della presente trattazione - si rivolgono in via prioritaria alle Pubbliche Amministrazioni. Sin dal parere concernente l'adozione del Codice, infatti, la Sezione atti normativi del Consiglio di Stato ha posto una particolare attenzione al CAD, evidenziando la sussistenza di numerose problematiche connesse sia con la delicatezza della materia - che si inserisce nel contesto, assai stratificato, delle disposizioni concernenti il procedimento amministrativo ed il rapporto tra la P.A. e la cittadinanza - sia con lo strumento utilizzato per procedere al riordino delle disposizioni in materia di amministrazione digitale. rECENSIONI 295 Passando, dunque, all'esame dell'apporto del Consiglio di Stato nella stesura e nel successivo sviluppo del CAD, deve evidenziarsi come il filo conduttore che lega i numerosi pareri che la Sezione atti normativi - e le Commissioni speciali all'uopo istituite - hanno reso nella presente materia può essere individuato in due questioni d’ordine generale che, a vario titolo, ricorrono nella maggior parte di tali pronunce, ovvero, da un lato, il profilo relativo alla coerenza interna del Codice ed alla necessaria sistematicità ed intelligibilità delle norme ivi recate e, da un altro lato, il profilo concernente la necessità di inserire le previsioni del Codice nel più ampio contesto della Pubblica Amministrazione, in cui assumono particolare rilevanza, ai fini della concreta attuazione della normativa codicistica, gli aspetti economico-finanziari. Per ciò che concerne il primo dei suesposti profili - ovvero quello normativo, di stretta competenza dei giudici di Palazzo Spada - il Consiglio di Stato ha sin da subito evidenziato come uno dei punti nodali del processo di codificazione delle disposizioni in materia di amministrazione digitale consista nella necessità di creare un corpus normativo che sia completo e organico e, contestualmente, di facile consultazione per l’utenza, destinataria delle disposizioni ivi recate. A tal fine, con il parere relativo all’introduzione del Codice - ovvero il parere n. 11995/04 del 7 febbraio 2005 - la Sezione atti normativi del Consiglio di Stato aveva invitato l’Amministrazione a procedere ad una complessiva rielaborazione dello schema di Codice sottoposto al suo esame, per renderlo “più completo e leggibile”, sia attraverso una incorporazione nel testo delle normative sul sistema pubblico di connettività e sulla posta elettronica certificata, sia affiancando alle enunciazioni programmatiche e di principio, contenute in varie parti del testo, anche norme precettive volte all’effettivo perseguimento delle finalità della delega, sia, infine, per il tramite dell’adozione di una “raccolta di norme regolamentari”, parallela al Codice, recante le disposizioni di ordine secondario concernenti il procedimento amministrativo telematico, che avrebbe dovuto assorbire, o quantomeno affiancarsi, al Testo Unico sulla documentazione amministrativa (d. P.r. n. 445 del 28 dicembre 2000). Come evidenziato dalla stessa Sezione atti normativi - per il tramite del parere concernente il correttivo al d.lgs. n. 82 del 2005 - gli iniziali rilievi formulati sotto il profilo normativo in relazione alla prima stesura del CAD hanno trovato un accoglimento soltanto parziale da parte dell’Amministrazione. Da un lato, infatti, l’Amministrazione, proprio in sede di correttivo, aveva proceduto a recepire i rilievi relativi alla necessità di una maggior chiarezza del testo codicistico, in particolar modo per quanto concerneva le disposizioni centrali relative all’amministrazione digitale e, da un altro lato, non aveva dato sostanziale riscontro alle ulteriori osservazioni formulate in sede consultiva, concernenti sia la richiesta di evitare una consistente “rilegificazione” della materia - atteso che l’Amministrazione non aveva (e non ha) proceduto a pre rASSEGNA AVVOCATUrA 296 DELLO STATO - N. 3/2018 disporre una vera e propria raccolta delle norme regolamentari vigenti nella materia de qua, tutt’ora ripartite tra il Testo Unico sulla documentazione amministrativa, l’articolato del Codice e la normativa d’attuazione di quest’ultimo, con particolare riferimento alle regole tecniche - sia la necessità di superare l’originaria impostazione di fondo del CAD, imperniata su enunciazioni programmatiche e di principio prive di effettiva cogenza, in particolar modo in relazione al processo di implementazione del procedimento amministrativo informatico. L’Amministrazione, tuttavia, ha proceduto a superare almeno in parte i rilievi mossi nei confronti della natura prettamente di principio delle disposizioni del CAD per il tramite della riforma del 2010 (d.lgs. n. 235 del 30 dicembre 2010) esplicitamente finalizzata, tra l'altro, a rendere vincolanti per le Pubbliche Amministrazioni le disposizioni concernenti l’utilizzo delle procedure informatiche, a sanzionare i comportamenti delle Amministrazioni in contrasto con lo sviluppo dell’amministrazione digitale e a premiare le migliori pratiche del settore, in ossequio ai criteri direttivi recati dalle lettere m) ed n) dell'art. 33 della legge di delega n. 69 del 18 giugno 2009. In particolare, tramite tale riforma, l'Amministrazione - oltre ad aver previsto l’istituzione di meccanismi premiali e sanzionatori connessi con l’attuazione delle disposizioni del CAD, che il Consiglio di Stato ha ritenuto adeguati al fine di coniugare “in modo razionale le esigenze di rafforzamento e di sviluppo del sistema” - ha altresì introdotto regole più stringenti per la concreta attuazione della digitalizzazione della P.A., ad esempio in materia di utilizzo delle tecnologie informatiche per le comunicazioni tra le imprese e l’Amministrazione, demandando alle disposizioni attuative del Codice (regolamenti, regole tecniche, decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri e relativi atti applicativi) l’effettiva individuazione delle concrete modalità con cui procedere ad implementare le disposizioni - rimaste sostanzialmente di principio - del CAD. Peraltro, in relazione a quanto precede, il Consiglio di Stato non ha potuto far altro che limitarsi, tramite il parere da ultimo citato, ad auspicare che l’Amministrazione, in sede di adozione della normativa applicativa di cui si è in precedenza detto, debba tenere in “debita considerazione la tempistica della concreta realizzazione degli interventi … al fine di assicurare non solo una compiuta fattibilità, ma l’effettivo progresso del sistema” amministrativo digitale. Inoltre, il profilo della cosiddetta better regulation - benché abbia assunto, come testé evidenziato, un rilievo non centrale nell’ambito del parere concernente la riforma del Codice del 2010 - è stato poi ampiamente ripreso dai pareri delle Commissioni speciali nominate per procedere all’esame della più recente riforma del Codice, prevista nell’ambito degli articolati interventi di cui alla cosiddetta “riforma Madia della Pubblica amministrazione” (legge n. 124 del 7 agosto 2015). rECENSIONI 297 Più nel dettaglio, in relazione alle articolate modifiche di cui al d.lgs. n. 179 del 26 agosto 2016, la Commissione Speciale all’uopo costituita ha evidenziato - sia in termini generali che relativamente alle singole disposizioni sottoposte al suo esame - la necessità di utilizzare un “linguaggio normativo più chiaro”, non soltanto per ragioni d’ordine redazionale ma anche in considerazione del fatto che “le norme del caD si rivolgono ad una collettività non sempre munita delle necessarie conoscenze tecnico-informatiche”, con la conseguenza che “la non facile comprensione delle norme potrebbe limitare, seppur indirettamente, l’esercizio dei diritti digitali dei cittadini e delle imprese”. La stessa Commissione speciale ha, altresì, evidenziato - ricollegandosi indirettamente ai rilievi formulati dal Consiglio di Stato sin dal parere del 2005, di cui si è in precedenza detto - la necessità che il CAD rispetti i generali principi dell'esaustività e della sistematicità del Codice stesso, sottolineando come l’articolato ad essa trasmesso appariva “privo degli opportuni riferimenti alle discipline sostanziali dei vari procedimenti collegati alle disposizioni in esso contenute, quali ad esempio quelle relative al processo telematico, al diritto di accesso e alla trasparenza dell’azione amministrativa” ed invitando, conseguentemente, l’Amministrazione a superare tale lacuna di fondo. I precitati rilievi sono stati, poi, successivamente ripresi dal più recente dei pareri del Consiglio di Stato nella presente materia, ovvero il parere della Commissione Speciale n. 2122 del 10 ottobre 2017, relativo al correttivo del 2017 (d.lgs. n. 217 del 13 dicembre 2017) adottato ai sensi dell’art. 1, comma 3 della già citata legge n. 124 del 2015. In particolare, il Consiglio di Stato - nel dare atto all’Amministrazione di aver proceduto, sia in sede di stesura definitiva della riforma del 2016 sia tramite il successivo correttivo, a portare avanti un’opera di “razionalizzazione” e di “semplificazione” delle norme del CAD che, come evidenziato dalla stessa Amministrazione, costituisce una delle “linee portanti” dell’intervento normativo del 2017 - ha tuttavia rilevato come sarebbe stato necessario, proprio al fine di “agevolare il raggiungimento dei condivisibili obiettivi di razionalizzazione enucleati dall’amministrazione”, sia procedere ad una “compiuta opera di riorganizzazione delle disposizioni del caD”, volta a dare evidenza, in primo luogo, alle disposizioni riguardanti i diritti digitali per poi disciplinare i rapporti fra il cittadino e l’Amministrazione e regolare, da ultimo, i profili più strettamente organizzativi, sia “operare un complessivo coordinamento formale del novellato testo del caD”, tramite l’introduzione di un indice delle disposizioni ivi recate che andrebbero, altresì, rinumerate al fine di favorire la loro consultazione da parte dei soggetti cui è destinato il Codice stesso. D’altronde, come evidenziato dal succitato parere, tali modifiche appaiono vieppiù necessarie nel presente contesto normativo, tenendo conto, da un lato, del fatto che il CAD, nel corso dell’ultimo decennio, ha subito numerose modifiche che hanno minato la sua complessiva coerenza e sistematicità e, rASSEGNA AVVOCATUrA 298 DELLO STATO - N. 3/2018 dall’altro, del fatto che, con la riforma del 2016, la stessa Amministrazione ha inteso superare una concezione prettamente “burocratica” del Codice, quale corpus rivolto in via prioritaria alle Pubbliche Amministrazioni, optando per la costruzione di un “diverso rapporto” tra cittadini e P.A., incentrato sui cosiddetti “nuovi diritti digitali” ed esplicitando quindi “con chiarezza la volontà di passare dalla disciplina del processo di digitalizzazione a quella dei diritti digitali di cittadini e imprese” [si vedano, al riguardo, i menzionati pareri del Consiglio di Stato relativi alla riforma del 2016 ed al correttivo del 2017 ma anche la documentazione istruttoria predisposta dall’Amministrazione in relazione a tali interventi normativi, disponibile sul sito web istituzionale della Camera dei Deputati]. Si tratta, invero, di rilievi che - anche in considerazione dell’esiguità del termine previsto dalla legge di delega per l’adozione del correttivo - non hanno ancora trovato favorevole accoglimento da parte dell’Amministrazione ma che dimostrano come il processo di completa codificazione delle disposizioni concernenti l'Amministrazione digitale non possa ancora ritenersi del tutto compiuto, nonostante il ruolo di continuo stimolo svolto dal Consiglio di Stato sin dal 2005. Il secondo filo conduttore che lega tra loro i pareri del CdS nella presente materia è costituito, come in precedenza evidenziato, dai rilievi concernenti le questioni economico-finanziarie relative all’implementazione delle disposizioni del CAD. A differenza dei rilievi formulati dal Consiglio di Stato relativamente ai profili normativi - che, come in precedenza evidenziato, mostrano alcune discontinuità connesse con le peculiarità di ciascun intervento normativo in materia di amministrazione digitale - le osservazioni concernenti i profili economici, formulate tramite i medesimi pareri sin qui richiamati, appaiono invece più omogenee, incentrandosi principalmente su due questioni d’ordine generale costituite, in primis, dalla necessità che le disposizioni del CAD siano accompagnate dal reperimento di risorse economiche adeguate al fine di attuare concretamente il processo di digitalizzazione del Paese e della Pubblica Amministrazione e, in secundis, dall’opportunità di accompagnare le innovazioni previste dal Codice con programmi di sperimentazione, formazione e graduale “messa a regime” di queste ultime, al fine di evitare che le medesime rimangano sostanzialmente inattuate e prive di effetti nei confronti della cittadinanza. In proposito deve rilevarsi come la circostanza che il Consiglio di Stato abbia evidenziato in maniera pressoché costante nel corso dell'ultimo decennio la necessità di accompagnare la normativa in esame con interventi concreti sul versante economico ed organizzativo discende, principalmente, dalla mancata previsione di incisivi interventi sotto questo versante, tendenza quest'ultima che sembra, tuttavia, aver subito una inversione di rotta proprio attraverso il più recente degli interventi concernenti il CAD, ovvero il correttivo di cui al d.lgs. n. 217 del 13 dicembre 2017. rECENSIONI 299 In particolare, come evidenziato con il parere relativo al correttivo del 2017, quest'ultimo prevede esplicitamente, all'articolo 66 (“Disposizioni di coordinamento e finali”), il ricorso a specifiche risorse finanziarie destinate all'attuazione delle disposizioni del CAD, pari a “11 milioni di euro per l'anno 2017” e “20 milioni di euro per l'anno 2018”, scelta quest'ultima che è stata accolta “con favore” dal Consiglio di Stato, richiamando peraltro i rilievi formulati, sotto tale profilo, con i pareri adottati in relazione alle precedenti modifiche del CAD. Nell’ambito del citato parere, tuttavia, il Consiglio di Stato non si è limitato a prendere atto della decisione assunta dall’Amministrazione ma, cambiando in un certo senso il proprio angolo visuale, ha evidenziato come il correttivo abbia proceduto anche ad ampliare i compiti demandati all’Agenzia per l’Italia digitale (AgID), assegnando a quest’ultima funzioni centrali sia nell’ambito dei rapporti con la cittadinanza sia relativamente ai rapporti con le Pubbliche Amministrazioni, come, in via esemplificativa, la predisposizione delle linee guida tecniche, l’adozione di “pareri tecnici, obbligatori e vincolanti” sugli elementi essenziali delle procedure di gara bandite da Consip e concernenti l'acquisizione di beni e servizi relativi a sistemi informativi automatizzati nonché la previsione di un ufficio unico nazionale del difensore civico digitale, incardinato presso l’Agenzia. In relazione a tali nuove competenze la Commissione speciale ha, quindi, ritenuto necessario invitare l’Amministrazione a valutare “l’adeguatezza dell’attuale organizzazione di tale ente … procedendo agli opportuni cambiamenti qualora emerga che tale organizzazione non sia del tutto idonea ad assolvere ai complessi compiti” ad essa assegnati. In altri termini, anche a seguito della rilevata inversione di tendenza per quanto concerne le misure economiche necessarie ad implementare le disposizioni del CAD, il Consiglio di Stato ha ritenuto opportuno evidenziare come le problematiche di ordine economico-organizzativo sottese al processo di digitalizzazione del Paese e della P.A. non possano ancora ritenersi del tutto superate: si tratta, com’è evidente, di un processo tutt'ora in fieri sul quale il Consiglio di Stato ha posto una particolare attenzione, ritenendo che in assenza di sufficienti finanziamenti le previsioni del CAD potrebbero non trovare un’adeguata attuazione. Parallelamente alle due linee direttrici che connotano l’apporto del Consiglio di Stato nella presente materia vi è poi un terzo profilo che ha assunto un rilievo centrale nell’ambito del rapporto collaborativo tra Consiglio di Stato e legislatore delegato, ovvero quello relativo alle questioni d’ordine tecnicogiuridico, sulle quali, peraltro, si sono soffermati con particolare attenzione i più recenti pareri del Consiglio di Stato nella presente materia, ovvero quelli relativi agli interventi riformatori del 2016 e del 2017. Esemplificativo al riguardo appare il profilo relativo al documento informatico sottoscritto con firma elettronica (qualificata o meno) ed al valore pro rASSEGNA AVVOCATUrA 300 DELLO STATO - N. 3/2018 batorio di tali documenti: si tratta, infatti, di una tematica affrontata, con un certo grado di approfondimento, sia dal parere relativo al Codice del 2005 sia dal successivo parere concernente il correttivo del 2006 ma che ha continuato, nel corso degli anni successivi, ad impegnare il Consiglio di Stato in una densa interlocuzione con il legislatore delegato. Infatti, nell'ambito della riforma di cui al d.lgs. n. 179 del 2016 il Governo aveva inizialmente proposto una modifica del valore probatorio dei documenti informatici in base alla quale questi ultimi, qualora sottoscritti con firma digitale, qualificata o avanzata, o con firma semplice, dovevano ritenersi idonei a fini probatori ed ai medesimi doveva essere riconosciuta l’efficacia di cui all’art. 2702 (“efficacia della scrittura privata”) del Codice civile. Con il parere n. 785 del 23 marzo 2016, tuttavia, il Consiglio di Stato ha evidenziato come la firma elettronica può assumere modalità profondamente diverse fra loro, articolandosi fra una semplice password - che, di per se stessa, potrebbe non fornire la certezza che il documento provenga da colui il cui nominativo è usato per la sottoscrizione - e l’utilizzo di avanzati sistemi biometrici, con “conseguente variabilità del sistema di sicurezza”, ed ha pertanto invitato l’Amministrazione ad espungere tale novella dall’articolato. In sede di stesura definitiva del d.lgs. n. 179 del 2016, quindi, l’Amministrazione ha deciso di tornare al previgente testo della disposizione, stralciando la succitata proposta di modifica. Successivamente, in sede di correttivo del 2017, l’Amministrazione ha proceduto a modificare il regime del valore probatorio dei documenti informatici, introducendo una sorta di graduazione del valore probatorio dei medesimi sulla base delle modalità tecniche di sottoscrizione degli stessi, prevedendo che il documento informatico soddisfi il requisito della forma scritta e abbia l’efficacia di cui all’art. 2702 c.c. qualora sia sottoscritto con una firma digitale, qualificata o avanzata, o, nel caso di documenti sottoscritti con firme elettroniche differenti, qualora rispetti gli standard tecnici che saranno individuati dall’AgID con le linee guida previste dall'art. 71 del CAD mentre, nei restanti casi, il valore probatorio del documento informatico è rimesso al libero giudizio degli organi giudicanti. Si tratta di una modifica che ha trovato “favorevole accoglimento” da parte del Consiglio di Stato che, con il parere n. 2122 del 10 ottobre 2017, ha ritenuto “sostanzialmente in linea” con i rilievi formulati nel corso del 2016 la scelta di “graduare” l'efficacia probatoria dei documenti sulla base delle modalità tecniche della loro sottoscrizione. Accanto ai rilievi concernenti il valore probatorio dei documenti informatici - che, come evidenziato, costituiscono una sorta di costante nell'ambito dei rapporti tra legislatore delegato e Consiglio di Stato nella presente materia - vi sono poi ulteriori profili tecnico-giuridici che, in particolare a far data dalla riforma del 2016, hanno assunto una maggiore centralità nell’ambito dei pareri consultivi del Consiglio di Stato. rECENSIONI 301 Ci si riferisce, in via esemplificativa - atteso l’ampio numero di rilievi formulati dal Consiglio di Stato sotto il profilo in esame, come quelli relativi al “disaster recovery”, alla conservazione dei documenti informatici ed al raccordo con la disciplina del processo telematico - alla questione relativa ai requisiti per l’accreditamento dei soggetti che intendono svolgere l’attività di prestatore di servizi fiduciari qualificati, di gestore di posta elettronica certificata, di gestore dell'identità digitale o di conservatore di documenti informatici, in relazione alla quale il Governo, nel predisporre lo schema del d.lgs. n. 179 del 2016, aveva inizialmente previsto una soglia di capitale sociale minimo particolarmente elevata, pari a 5 milioni di euro. La Commissione speciale preposta all’esame di tale schema aveva, al proposito, evidenziato - richiamando la sentenza del Consiglio di Stato n. 1214 del 24 marzo 2016, con la quale era stata confermata la sentenza del Tar per il Lazio n. 9951 del 21 luglio 2015, recante l’annullamento dell’art. 10, comma 3, lett. a) del d. P.C.M. 24 ottobre 2014, nella parte in cui prevedeva un requisito di capitale sociale minimo identico a quello proposto dall’Amministrazione nel caso de quo - la necessità di individuare “un punto di equilibro fra l’esigenza di selezionare aziende che, anche tramite una adeguata capitalizzazione societaria, assicurino un servizio conforme agli standard individuati dall’amministrazione stessa e quella di non escludere dal mercato società che, pur in possesso di accertati requisiti di affidabilità, non dispongano di tale capitale societario”. Conseguentemente l’Amministrazione ha dapprima previsto una graduazione del menzionato requisito - per il tramite della stesura definitiva del citato d.lgs. n. 179 del 2016 - e, in sede di correttivo del 2017, ha assunto la decisione di demandare l’effettiva individuazione del medesimo requisito ad una fonte subprimaria, scelta di cui il Consiglio di Stato, con il parere n. 2122 del 2017, non ha potuto che prendere atto, in attesa della concreta individuazione della soglia di capitale sociale che sarà stabilita solo in un secondo momento. Da ultimo, di particolare interesse risulta anche la tematica concernente l’individuazione dei passaggi necessari per completare la transizione verso l’attuazione del principio “digital first”, con conseguente superamento delle modalità cartacee di comunicazione tra privati e P.A., alla quale il Consiglio di Stato ha rivolto la propria attenzione sin dal 2005, evidenziando, in relazione alla prima stesura del CAD, l’assenza sia di “norme transitorie e di raccordo che assicurino la continuità di azione pubblica e scongiurino possibili momenti di impasse nel passaggio da un sistema” basato sui documenti cartacei ad uno incentrato sugli strumenti informatici sia di misure volte a bilanciare tale “radicale innovazione” con le problematiche connesse al cosiddetto “digital divide”, al fine di evitare che un rilevante numero di cittadini, all’epoca non ancora in possesso di una adeguata “alfabetizzazione informatica”, potessero risultare discriminati a seguito del passaggio ad un’amministrazione esclusivamente digitale. rASSEGNA AVVOCATUrA 302 DELLO STATO - N. 3/2018 Tale tematica è stata, poi, nuovamente affrontata dal Consiglio di Stato a seguito dell’adozione del correttivo del 2017, in un’ottica che ha tenuto in considerazione il lungo lasso di tempo decorso dall’adozione del Codice del 2005. La Commissione speciale, infatti, con il già citato parere n. 2122 del 2017, ha evidenziato come il più recente degli interventi normativi relativi al CAD abbia demandato ad uno specifico decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri l’individuazione della data di decorrenza per il passaggio alla modalità esclusivamente informatica di interrelazione tra PA e cittadinanza sia l’indicazione delle modalità attraverso cui consegnare a chi non può accedere ai domicili digitali le comunicazioni provenienti dall’Amministrazione, sottolineando in proposito l’opportunità di portare avanti il processo di completa informatizzazione della P.A. “con una adeguata sollecitudine”, tenendo conto del fatto che il medesimo, come testé rilevato, “è iniziato già da tempo”. Il Consiglio di Stato, conseguentemente, ha ritenuto condivisibile la scelta di prevedere “un periodo transitorio prima del completo passaggio, nelle comunicazioni tra pubbliche amministrazioni e cittadinanza, alla modalità informatica” - e ciò in considerazione della necessità, già emersa nel 2005 e mai del tutto superata, di “evitare ricadute negative su quella parte della cittadinanza che ancora non dispone di mezzi tecnologici in linea con gli sviluppi del settore, atteso che il cosiddetto digital divide costituisce un fenomeno diffuso in relazione a specifiche aree geografiche e classi di età della popolazione italiana” - auspicando tuttavia che la presenza di tale regime transitorio “non costituisca un fattore di rallentamento del percorso verso l’obiettivo della piena informatizzazione dei rapporti tra cittadini e Pubblica amministrazione”. In conclusione, l’apporto del Consiglio di Stato nell’ambito della normativa concernente l’amministrazione digitale ha orientato e stimolato il legislatore, nel corso dell’ultimo decennio, verso l’adozione di soluzioni volte a ricercare un corretto equilibrio tra l’esigenza di garantire una coerenza interna del sistema, quella di innovare radicalmente le modalità di funzionamento del sistema amministrativo e quella, apparentemente contrapposta, di tutelare una collettività in cui le problematiche connesse al cosiddetto digital divide appaiono ancora oggi di estrema attualità. Si tratta, come già rilevato, di un percorso ancora in fieri e lungi dall’essere concluso, tenendo peraltro conto del fatto che il CAD, anche a seguito dei più recenti interventi di riforma, costituisce tuttora un corpus normativo sostanzialmente di principio, che demanda alle fonti subprimarie [tra le quali possiamo ricordare, in via esemplificativa, le linee guida dell’AgID di cui all’art. 71 del CAD e i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui si è in precedenza detto, tra cui spicca quello previsto dall’art. 3-bis, comma 3- bis, definito dal Consiglio di Stato come “centrale” per lo sviluppo del sistema rECENSIONI 303 amministrativo digitale] l’individuazione sia delle modalità tecniche sia delle tempistiche di attuazione delle disposizioni codicistiche. Tale percorso tuttavia dimostra, a sommesso avviso di chi scrive, come la costante interlocuzione tra organi di governo, legislativi e giudicanti costituisca un’imprescindibile risorsa al fine di raggiungere i condivisi obiettivi della modernizzazione e della completa informatizzazione della Pubblica Amministrazione e, più in generale, del Paese. claudio boccia Il Codice dell’Amministrazione digitale: la modernizzazione della P.A. e gli impulsi degli Ordinamenti sovranazionali È ormai chiaro da molti anni al decision maker nazionale che un più elevato livello di digitalizzazione dell’amministrazione pubblica costituisca un aspetto fondamentale per qualunque tentativo di riforma volto a migliorare la qualità dei servizi resi ai cittadini e agli utenti. Si tratta di una consapevolezza che ha ispirato - almeno nelle intenzioni iniziali - praticamente tutti i tentativi organici di riforma dell’amministrazione susseguitisi nel corso degli ultimi decenni (fino alla recente iniziativa di cui alla ‘legge Madia’ n. 124 del 2015), anche se spesso tali tentativi si sono sviluppati in modo episodico e disorganico, finendo inevitabilmente per conseguire risultati solo parziali. Pur nella parziale incertezza che ancora oggi accompagna la nozione stessa di eGovernment, i tentativi di introdurre nell’esperienza italiana modelli decisionali e forme gestionali ad esso ispirati sono stati esaminati in modo approfondito nel corso degli anni e lo stesso Codice dell’amministrazione digitale ha rappresentato per la pubblicistica nazionale una straordinaria fonte di dibattito e di confronto. Probabilmente meno approfondito è invece risultato l’esame dei rapporti fra gli impulsi europei alla più ampia digitalizzazione dell’attività amministrativa e gli esiti prodotti nell’Ordinamento interno. Sotto alcuni aspetti, infatti, può affermarsi che in Italia si sia affermata una sorta di via interna alla digitalizzazione dell’attività delle amministrazioni pubbliche (si pensi alle vicende relative all’evoluzione in tema di firme elettroniche) e che la stessa genesi del Codice dell’amministrazione digitale del 2005 costituisca in larga parte il frutto di uno sviluppo marcatamente autonomo del tema in esame. Per altro verso, è comunque innegabile che gli impulsi provenienti dal rASSEGNA AVVOCATUrA 304 DELLO STATO - N. 3/2018 l’Ordinamento UE (e, più in generale, dalle istanze sovranazionali) abbiano sortito - in specie, negli anni più recenti - un’influenza determinante sullo sviluppo del tema, riorientando spesso l’agenda del Legislatore nazionale, dettando nuove priorità e imponendo di rivedere alcune delle scelte di fondo che avevano ispirato l’intervento di codificazione del 2005. Non a caso, la stessa legge di delega n. 124 del 2015, nel dettare i princìpi e criteri direttivi che hanno ispirato la revisione di cui al decreto legislativo n. 179 del 2016 (e, in seguito, l’intervento correttivo di cui al decreto legislativo n. 217 del 2017) ha imposto al Governo di «adeguare il testo delle disposizioni vigenti alle disposizioni adottate al livello europeo», in tal modo dettando le linee di fondo di una sorta di ri-comunitarizzazione dell’intera disciplina della digitalizzazione dell’attività amministrativa e della stessa cittadinanza digitale. L’intervento del Legislatore del 2015-17 non sembra soltanto rivolto al passato (i.e.: all’adeguamento della pregressa disciplina nazionale alle nuove acquisizioni dell’Ordinamento europeo - come quelle in materia di firme elettroniche di cui al regolamento eIDAS -), ma anche - e soprattutto - al futuro, attraverso una sorta di permanente vincolo di conformazione della disciplina nazionale a quella eurounitaria (la quale, peraltro, negli anni più recenti ha notevolmente esteso il proprio campo di applicazione). Oltretutto, nell’ambito delle prescrizioni generali della legge delega, si rinvengono due ulteriori e puntuali vincoli di conformazione alla disciplina europea, rispettivamente in tema - di disponibilità di connettività a banda larga e ultralarga e di accesso alla rete internet presso gli uffici pubblici (articolo 1, comma 1, lettera c)), nonché - di identificazione elettronica e servizi fiduciari per le transazioni elettroniche (articolo 1, comma 1, lettera p)). E l’introduzione a regìme di un tale autovincolo risulta tanto più rilevante se solo si consideri - ad esempio - che l’Agenda Digitale Europea ha fissato obiettivi quanto mai ambiziosi in tema di istituzione del Digital Single Market, attraverso un livello di dettaglio idoneo a vincolare in modo notevole le scelte degli Ordinamenti nazionali. Non a caso, nel fissare gli assi strategici dell’Agenda Digitale Italiana del 2012, la Cabina di regia ha individuato obiettivi e finalità in larga parte armonizzati con quelli di cui all’omologa Agenda europea (sia pur profondendo evidenti sforzi nel tentativo di coniugare tali obiettivi con le peculiarità della situazione italiana). Qui di seguito, quindi, si esamineranno (naturalmente, senza pretesa alcuna di esaustività) alcuni fra i principali ambiti in relazione ai quali gli atti normativi e di indirizzo dell’UE hanno influenzato in tempi recenti l’evoluzione della disciplina nazionale in tema di digitalizzazione dell’attività amministrativa. rECENSIONI 305 Si passerà poi ad esaminare (in modo altrettanto sintetico) alcuni atti di fonte sovranazionale che hanno parimenti influenzato lo sviluppo del dibattito interno sul tema. Infine si svolgeranno alcune considerazioni conclusive circa le relazioni fra l’ambito disciplinare nazionale e quelli sovranazionali in tema di sviluppo della digitalizzazione dell’attività delle amministrazioni pubbliche. Un primo rilevante impulso alla (almeno parziale) armonizzazione fra la disciplina nazionale e quella eurounitaria in tema di digitalizzazione dell’attività delle amministrazioni pubbliche è stato impresso dalla Direttiva 1999/93/CE, istitutiva di un quadro comunitario per le firme elettroniche. Come è noto, l’attuazione della direttiva in parola ha alimentato un vivace dibattito circa la diversità della ratio che aveva ispirato - (da un lato) la disciplina in tema di firma digitale di cui alla c.d. ‘legge Bassanini’ n. 59 del 1997 - e di cui al d.P.r. 513 del 1997 - (la cui finalità ultima era quella di assicurare specifici effetti giuridici ai documenti informatici) e - (dall’altro) la disciplina eurounitaria del 1999, la quale mirava all’obiettivo - in parte diverso - di fissare regole comuni per garantire la libera circolazione delle merci, dei servizi e dei capitali. Non è qui possibile esaminare le ragioni e gli esiti di quel dibattito (che oggi può comunque dirsi in larga parte risolto a seguito dell’entrata in vigore del regolamento eIDAS e delle recenti modifiche al Codice). Ciò che invece preme qui sottolineare è che la Direttiva del 1999 ha fissato per la prima volta in via generale nel settore in esame il principio della neutralità tecnologica (un principio evidentemente finalizzato ad assicurare la massima espansione delle libertà del Trattato e di cui è evidente la forza espansiva extrasettoriale a tutti i settori caratterizzati da elevati contenuti tecnologici). Passando alla cruciale tematica del rapporto fra digitalizzazione dell’attività delle pubbliche amministrazioni e rispetto della disciplina in tema di dati personali, è del tutto evidente che la tematica risulti incisa in modo notevole dall’entrata in vigore del regolamento generale europeo in materia di Privacy, n. 679/2016 (25 maggio 2018). Ora, nonostante la generica clausola di salvaguardia e rinvio di cui all’articolo 2, comma 5 del Codice (secondo cui «le disposizioni del presente codice si applicano nel rispetto della disciplina in materia di trattamento dei dati personali e, in particolare, delle disposizioni del codice in materia di protezione dei dati personali approvato con decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196»), sono del tutto evidenti le numerose e rilevanti aree di intersezione fra i due ambiti disciplinari. Di tanto è stato evidentemente consapevole il Legislatore nazionale il quale, con i più recenti interventi correttivi al Codice del 2005 ha adeguato alcune rilevanti previsioni alla più recente disciplina eurounitaria (si pensi, rASSEGNA AVVOCATUrA 306 DELLO STATO - N. 3/2018 solo a mo’ di esempio, alle modifiche apportate all’articolo 44 in tema di requisiti per la gestione e conservazione dei documenti informatici). rilevanti obblighi di conformazione per l’Ordinamento interno - e per l’attività amministrativa in generale - sono stati inoltre fissati anche dalla Direttiva 2014/61/CE (recepita in Italia con il Decreto legislativo n. 33 del 2016) recante misure volte a ridurre i costi dell’installazione di reti di comunicazione elettronica ad alta velocità. In particolare, la Direttiva in questione ha dettato specifiche misure finalizzate a migliorare il grado di connettività nei luoghi e negli uffici pubblici. Dal canto suo, il decreto delegato (articolo 4) ha demandato al Ministero dello sviluppo economico la definizione delle regole tecniche per la definizione del contenuto del Sistema informativo nazionale federato delle infrastrutture (SINFI), nonché «[delle] modalità di prima costituzione, di raccolta, di inserimento e di consultazione dei dati, nonché [delle] regole per il successivo aggiornamento, lo scambio e la pubblicità dei dati territoriali detenuti dalle singole amministrazioni competenti, dagli altri operatori di rete e da ogni proprietario o gestore di infrastrutture fisiche funzionali ad ospitare reti di comunicazione elettronica». È stato altresì previsto che i dati in tal modo ricavati siano resi disponibili in formato di tipo aperto e interoperabile, ai sensi dell'articolo 68, comma 3, del Codice e che essi siano elaborabili elettronicamente e georeferenziati, «senza compromettere il carattere riservato dei dati sensibili». Di notevole interesse sistematico per l’operatività delle amministrazioni pubbliche è anche la Direttiva 2016/2102/UE, relativa all'accessibilità dei siti web e delle applicazioni mobili degli enti pubblici (il cui recepimento nell’Ordinamento interno è stato previsto - con fissazione di criteri specifici di delega - dall’articolo 14 della legge di delegazione europea 2016-2017, n. 163 del 2017). Fra i principali aspetti di interesse connessi all’attuazione della direttiva in parola (che dovrà avvenire entro il 23 settembre 2018) si segnala la prevista emanazione di apposite linee guida nazionali volte a individuare i casi in cui un ente pubblico può ragionevolmente limitare l'accessibilità di uno specifico contenuto. Ciò sarà consentito, in particolare, laddove la piena accessibilità determini in capo all’ente un ‘onere sproporzionato’ (i.e.: comporti l’adozione di «misure che generano in capo a un ente pubblico un onere organizzativo o finanziario eccessivo, o mettono a rischio la sua capacità di adempiere allo scopo prefissato o di pubblicare le informazioni necessarie o pertinenti per i suoi compiti e servizi, pur tenendo conto del probabile beneficio o danno che ne deriverebbe per le persone con disabilità (…)»). È evidente che l’adozione da parte delle amministrazioni nazionali di misure volte a limitare il principio di piena accessibilità sarà riguardata secondo rECENSIONI 307 un’ottica restrittiva ed eccettuale, facendo rigorosa applicazione del generale canone di proporzionalità. Ma le ricadute di maggior rilievo sistematico sull’operatività delle amministrazioni pubbliche nazionali per ciò che attiene lo sviluppo delle metodiche digitali saranno certamente sortite dalla piena attuazione dell’Agenda Digitale Europea del 2010 (la quale, come è noto, rappresenta una delle sette iniziative faro della strategia Europa 2020) . Fra i numerosissimi aspetti di intersezione con l’operatività delle amministrazioni pubbliche ci si limita qui a richiamare quelli connessi all’attuazione del Sesto Pilastro (relativo alla alfabetizzazione digitale), il quale contempla - fra le altre - specifici obiettivi e azioni volti ad assicurare la piena accessibilità dei siti web da parte delle PP.AA. e ad implementare politiche di alfabetizzazione digitale, intese anche quale mezzo di inclusione sociale. La Cabina di regia dell’Agenda digitale italiana, nell’individuare gli assi strategici di intervento volti a conseguire le finalità di cui al richiamato Pillar VI, ha individuato quale obiettivo prioritario quello della promozione dell’uso delle TLC nei vari settori professionali del mondo del lavoro pubblico e privato. Si tratta di obiettivi i quali (al di là di una certa polisemicità) sottendono comunque notevoli ambizioni di fondo e la cui piena implementazione dovrà essere misurata con difficoltà attuative di ordine organizzativo, culturale e finanziario. Appare comunque necessario incrementare al livello nazionale gli sforzi per superare le criticità stigmatizzate nel documento eGovernment benchmark 2016 dalla Commissione europea , la quale ha concluso lapidariamente nel senso che “digital in not yet in the Dna of governments”. Venendo ora assai sinteticamente agli impulsi che, in tema di digitalizzazione dell’attività delle amministrazioni pubbliche, provengono dagli Organismi sovranazionali non-UE, vanno senz’altro richiamate le previsioni della Carta Internazionale dei Dati Aperti (Open Data charter, Città del Messico, 2015), di cui l’Italia è uno dei primi (nove) Paesi firmatari. La Carta del 2015 (che ha ispirato numerose fra le innovazioni introdotte nell’ultimo biennio nell’ambito del CAD) risulta di centrale importanza in quanto stabilisce che i dati in possesso delle amministrazioni pubbliche e dalle stesse rilasciati devono essere “aperti per principio” e in quanto fissa a carico dei soggetti pubblici detentori di tali dati specifici obblighi in tema di accessibilità, usabilità, comparabilità e interoperabilità. La piena attuazione degli obblighi derivanti dall’Open Data charter presenta aspetti di intersezione sistematica con le previsioni di cui al decreto legislativo n. 33 del 2013 (c.d. ‘Decreto trasparenza’). Ed infatti - se (per un verso) non può affermarsi che le informazioni di cui al Decreto trasparenza del 2013 siano di per sé qualificabili come open data rASSEGNA AVVOCATUrA 308 DELLO STATO - N. 3/2018 - per altro verso, come sottolineato dall’AgID, è innegabile che “esistono dati delle pubbliche amministrazioni che assumono un ruolo importante nell'ecosistema degli Open Data e nella creazione di nuove forme di partecipazione (e.g. edifici, farmacie, musei, turismo, etc.) ma che non risultano nell'elenco dei dati obbligatori da pubblicare ai sensi del d.lgs. n. 33/2013” . Concludendo questa (necessariamente breve) panoramica su alcuni fra i principali impulsi che gli Ordinamenti sovranazionali hanno esercitato sullo sviluppo nazionale del tema della digitalizzazione delle amministrazioni pubbliche, può affermarsi che la via nazionale e quella sovranazionale non abbiano mai smesso di dialogare fra loro. In alcune fasi storiche (come al tempo dell’adozione del Codice dell’amministrazione digitale nella sua formulazione iniziale) l’Ordinamento nazionale ha ricercato in modo più evidente una via autonoma allo sviluppo della digitalizzazione delle amministrazioni. In altre fasi (come all’indomani dell’adozione dell’Agenda Digitale Europea del 2010 e del regolamento eIDAS del 2014) i due percorsi si sono sviluppati secondo nuove e più accentuate convergenze. È tuttavia evidente che non sia possibile pervenire a una piena e definitiva prevalenza di un ambito rispetto all’altro, dal momento che il processo di modernizzazione delle amministrazioni postula necessariamente una pluralità di piani operativi e l’integrazione delle sue componenti. Sotto alcuni aspetti è semplicemente impensabile che gli Ordinamenti nazionali possano perseguire percorsi marcatamente autonomi nell’iter che dovrebbe condurre alla piena instaurazione di un Mercato Digitale Unico al livello UE. Per altro verso è necessario che l’attuazione dell’Agenda Digitale di ciascuno Stato Membro tenga adeguatamente conto (e nei consueti limiti della ragionevolezza e della proporzionalità) delle peculiarità dei sistemi amministrativi nazionali. claudio contessa Finito di stampare nel mese di marzo 2019 Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A. Vicolo della Guardiola n. 22 - 00186 Roma